Leon Battista Alberti
DEIFIRA
PROLOGUS
Leggetemi, amanti, e riconoscendo qui meco i vostri errori, diventerete o più
dotti ad amare o molto più prudenti a fuggire amore. E se leggendo forse
qualche sospiro o lacrima vi tiene, siavi conforto poi che altrui ancora
pruova quel che voi leggete. Né sia chi stimi conoscere amore, se può tutto
leggermi senza qualche poco sospirare; ancora sarà chi me leggerà lacrimando.
Ma provate, amanti, e meco scorgete quanto in voi possa amore. E credo
imparerete qualche utilità a vivere amati e pregiati da' vostri cittadini.
DEIFIRA
PALLIMACRO. E quanto stimi tu sedere dentro a me grave quel dolore, el quale
ancora tanto prema chi da lungi il mira? Quello incendio certo conviene sia
pur grandissimo, il quale dentro a più muri inchiuso ancora nuoce a' prossimi
edifici. E non volere, Filarco mio, da me ora quello che la fortuna mia tanto
iniqua mi vieta ch'io possa. A me conviene avvezzare me stessi a quello in che
omai, mentre che io viva, sarà necessario continuo essercitarmi, acciò che
questo uso in me renda meno aspro quel che ora troppo m'è acerbo. Fuggono i
sospiri miei altrove che ivi sempre essere ove in me arde il mio dolore; e le
mie lacrime cadendo pel seno tornano onde furono premute al cuore. E questo
mio dolore come cosa feroce e troppo mordace, quanto più dentro al mio petto
starà rinchiuso e in oscuro nascoso, tanto forse dismetterà suo impeto e
rabbia.
FILARCO. Io, vedendo te così solo errare fra queste selve tanto afflitto, non
potea, Pallimacro mio, non maravigliarmi molto, disiderando sapere onde in
questo fronte tuo, sempre in altro tempo lietissimo, ora subito così fosse
tanto indizio di superchio dolore. Tu giovine, bello, ricco, gentile, destro,
virtuoso, e più che qualunque altro di tua età e fortuna amato da tutti e
riverito; cognoscoti prudente, studioso, e in ogni laude e gentilezza tale,
che io in me mai saprei desiderare felicità altra che questa, quale a te ave o
la fortuna o la virtù tua concesso e acquistato. So quanto me stimi fra tuoi
fidatissimi amici. Per questo a me parse o debito o licito richiedere da te
che tu a me, come ad amico, imponessi parte di questi tuoi incarchi, quali
così te atterrano in tristezza e miseria. Ed emmi teco intervenuto qual suole
chi appresso il fabro ben dubitava quel ferro fussi inceso, ma per più
certificarsi il prese e molto si cosse la mano. Così a me: ove io pure stimava
in te essere qualche non piccola molestia e ardentissima cura d'animo, ora io
la sento in questa tua risposta tale ch'ella troppo mi cuoce, e quanto ella
sia maggiore, tanto più a te desidero levarla. Non è solo utile, ma più virtù
levarsi dall'animo le cose moleste; e dove il dolore superchi le nostre forze,
se gli vuol cedere, poiché così solo il dolore si vince fuggendo. E tu stima
quanto giovi non tenere il corso a quella ruota, sotto la quale stia il piede
tuo premuto. Ma poiché a te mai fu cosa sì cara della quale negassi me
esserne, quanto io volessi, participe, qui, se questo tuo dolore a te pare
caro, fanne, qual suogli, a me, come ad amico, parte. E se t'è molesto, non
dubitare che forse noi due insieme potremo quello che tu solo non puoi. Per
certo io ti sarò in aiuto o a consiglio da qualche parte utile a vincere
l'avversità o a sofferirla.
PALLIMACRO. Ohimè, Filarco! Né oro né gemme né qual si sia grandissima
ricchezza possono a' mortali rilevare il dolore. E resta, Filarco, resta meco
fare come a chi cade l'anello di mano in quello pelago, quale quanto più si
trassina, più si intorbida e meno si scorge a ritrovarlo. Quanto più cercherai
conoscere le mie profonde miserie, tanto più a me rimescolerai l'animo, e meno
da me le potrai discernere. Né cercare qui essermi utile in altro che in
aiutarmi piangere, poiché la fortuna così di me dispone.
FILARCO. Ohimè, Pallimacro! Non piangere più. Rammentati in quanti modi tu hai
altrove vinta la fortuna con animo virile e fortissimo. E che giova tanto
dolersi de' casi avversi, se non ad aggravare e fare maggiore quel che troppo
ti spiace? Lascia questo officio alle femmine, le quali solo sanno fingere e
lacrimare. Vedi una minima ferita non governata quanto non rado diventi
mortale, e qual si sia ferita profonda con aiuto e studio altrui spesso si
sani. Io sento in sue avversità gli altri, per onestare il dolore suo e non
parere d'animo enervato o femminile, accusare o la iniquità di suoi nimici, o
la perfidia di chi si sia, o la ingiuria della fortuna, e molto avere caro che
più e più persone sappino quanto e' sieno indegni di tanta calamità, e in quel
modo sfogano le fiamme della sua incesa ira e cocente dolore. Tu ora da chi ti
chiami tu offeso? Quale ingiuria ti sta qui tanto molesta? Quale stimolo te
tanto punge ad urtare te stesso con sì ostinato dispiacere e acerbità d'animo?
PALLIMACRO. Misero me! Misero me! Quanto i miei pensieri in me sono gravi,
tanto più stanno profondi e meno li posso risollevare. L'onda che surge fuori
del sasso, discopre e muove le piccole petroline; le grandi stanno, e quanto
maggiore onda sopraggiugne, tanto più si coprono di minuta ghiaia. Tu con
questo argumentare, quanto maggiore fiume d'eloquenza effunderai, tanto più mi
darai materia da ricoprire quello ch'io né voglio né posso discoprirti.
FILARCO. E qual sarà in te cosa da non poterla comunicare con chi t'ama? E
quale segreto sarà sì dubbio che non si debbi aprire all'amico? Abbi ch'io
potrò riputarti non amico, se tu mosterrai poco fidarti di me. Chi non si fida
teme essere ingannato, né si può amare colui in cui tu tema essere perfidia. E
chi non ama per certo non può essere amato. Il seme dell'amicizia sempre fu
amare, onde poi si prende frutto quando pari te senti essere amato. E chi
conosce sé, quanto da me ti senti, molto amato, per certo erra non si porgendo
amico e aperto a chi l'ama. L'amicizia vuole fede e merito. Non manchi in te
fede, tu mai da me arai che desiderare cosa quale io per te possa. Sempre me
arai pronto a meritare da te benivolenza e grazia. Ora o piacciati o
dispiacciati, io voglio sapere che doglia ti prema. Benché all'infermo
dispiaccia quello che lo sana, pure si vuole prima sodisfare alla ragione che
al suo giudicio e falso gusto.
PALLIMACRO. Io amo, Filarco. Io ardo, Filarco. Io spasimo amando.
FILARCO. Ora bene in tutto scorgo io vero quel che si dice, che uomo si trova
mai tanto felice, in cui non sia molta e molta parte di miseria. In te ogni
cosa concorre a molto adornarti di felicità: patria, parenti, amici,
ricchezze, grazia, e fra queste vedi in che modo la fortuna immetta quel che
disturbi ogni tua dolce vita e riposo d'animo, e fa in te un minimo pensiere
tanto essere grave e molesto, che soprapesa, né lascia te gustare parte alcuna
della tua grande felicità. E quale errore ti teneva a non volere ch'io sapessi
quello che ora gioverà avermi detto? Ma sempre fu il primo comune errore, in
quale peccano tutti gli amanti poco prudenti, che quello che e' cercano più
occultare, quel medesimo con loro guardi e sospiri a tutti discoprono sempre
ove non giova, e dove gioverebbe discoprirsi, ivi fuggono fidarsi di chi loro
può essere molto utile. Né so come a chi ama tacendo pare dolce il suo dolore.
L'amore in uno giovane non si biasima. Anzi come a' nostri corpi umani sono
vaiuoli, rosolie e simili mali comuni tanto e dovuti, che quasi troverai niuno
invecchiato sanza averli in sé provati, così pare a me sia all'animo destinata
questa una infermità gravissima certo e molestissima, quale possa niuno quando
che sia non sentire. E beato chi pruova le forze d'amore in età giovinile
sanza perdere le sue magnifiche imprese e ottimi principiati studi. Beato chi
ne' teneri anni provando impara fuggire amore. Sogliono e' vaiuoli più nuocere
agli occhi annosi che a' fanciulleschi. Così per lo amore più pare s'accechino
le menti ferme e virili che le puerili e leggieri. Una medesima fiamma incende
un tronco annoso, quale a pena abronza uno ramo verzoso. E si vuole in questa
età amando discoprirsi onesto amante, poiché amore mai fu chi potesse tenere
ascoso. Né si truova chi cerchi sapere le cose palesi. Vero, ma ciascuno quasi
da natura disidera più investigare quello che sia occulto. Né giova in sé
d'ogni minima cosa sospettare, però che alle grandi imprese poco nuoceno i
piccoli impacci. E benché forse da qualche parte sia da sospettare, mai però
si vuole mostrarsi sospettoso, però che il tuo sospetto insegna sospettare
altrui. Sempre fu il sospetto indizio di mala mente. Mostrare d'amare dolce e
onesto mai fu nocivo e mai dispiacque, ma mostrarsi vinto da troppo amore
sempre fu dannoso, non tanto appresso gli altri suoi, quanto appresso di chi
tu ami. Questo costume troverai in ogni femmina, che mai amerà chi troppo ami
lei. Stimano le femmine servo, non amante, chi troppo loro stia suggetto, e
godono non della molta affezione di chi loro sia troppo ubidiente, ma del
servigio, e per non perdere il servigio, mai sofferano lo infelice amante esca
di tormento. Anzi per bene averlo suggetto, ogni dì porgono nuovo dolore. Ma
dimmi, questa quale tu ami, merita ella essere amata da te, però che sarebbe
troppo biasimo amare persona di che tu avessi arrossirti quand'ella ti fussi
in presenza lodata?
PALLIMACRO. Oh felice chi può amare e non amare a sua posta! Io né potei fare
ch'io non amassi, né posso restare di dolermi amando. Non, Deifira mia, non,
Deifira, non meriti essere amata da me. Tu bella, tu gentile, tu leggiadra,
sì, ma troppo sdegnosa, troppo ostinata, troppo sospettosa, poco pietosa. Uno
piccolo ghiaccio in una preziosissima gemma la 'nvilisce, e un atto sdegnoso
disonesta ogni bel volto. E benché tu così mi sia inimica, oh Deifira mia, tu
pure mi se' cara. E bench'io mi dolga esserti con mie lacrime gioco, pur mi
piace contentarti d'ogni mio male. Tu così vuoi, e io tanto posso sofferire
dolore quanto a te piace. Così amore m'ha insegnato offerirmi a qualunque
oltraggio. Quando che sia, piangerai tu, Deifira mia, quando che sia,
piangerai avere straziato me, in chi tu conoscerai fede e amore più che in
persona qual mai fossi, qual sia, qual mai possi essere. Mai fu, Deifira mia,
mai fu, mai sarà chi tanto e con sì ferma fede ami quanto io amo te, e
amerotti certo mentre ch'io viva; ancora e morto ti seguirò amando. Ma tu
tardi piangerai esser tanto tempo indarno da me stata amata. Ohimè, con quante
lacrime desidererai il dolce perduto tempo e sollazzo!
FILARCO. E questo altro errore mi pare non piccolo in chi ama, che mai restano
tra se stessi pregare, lodare e dolersi a chi non l'ode, e poi in presenza
dimenticano se stessi, stupefanno, diventano muti, o solo dicono cose di che
poi s'adolorano averle dette. E si vuole fra sé prima pensare che atti, che
guardi, che parole, in che modo ogni minima cosa sia meglio e più utile a te e
più accetto a chi tu ami, e mai esserli in cosa alcuna ben minima se non grato
e giocondo: tacere non troppo, parlare non superbo, chiedere gentile,
ascoltare grazioso, rimirare dolce, motteggiare festivo, sollazzare vezzoso, e
in ogni cosa usare facilità, costume e leggiadra maniera, e piacerli in
qualunque virtù di te possi mostrarli, profferirteli tale ch'ella non ti
sdegni, partirsi tale ch'ella ti disideri, ritornare ch'ella s'allegri
vederti, udirti, e rimirarti, sempre lasciarli che pensare di te cosa pur
lieta e amorosa, e così sempre seguire pascendo amore di dolci e giocondi
ragionamenti. Ma dimmi, Pallimacro, in che modo cadesti tu in questo amore?
Cercasti tu il male tuo, com'io vedo fanno molti, che per tutto porgono gli
occhi a qualche nuova ferita?
PALLIMACRO. Io né cercava né mi piaceva intrare sotto questa servitù, quale
ora pruovo e prima da te avea udito troppo era grandissima. Ma certo i nostri
animi qualche volta non sono nostri, e qualche volta ci conviene volere cosa
che ci duole. Quanto io, affermo questo, che sforzato mi convenne amare. Amai
contro a mia volontà, volli quello che mi dispiacea, e dispiacevami quello che
al continuo pronto facea e dicea. Né però io restava di seguire dove la
fortuna mia me conduceva in tanta miseria in quanta ora mi truovo. Qui m'ha
condotto la fortuna mia. Ma quale uomo fussi sì duro, il quale non amassi
sentendo sé essere amato, quanto certo io in molti modi conobbi me molto
essere amato?
FILARCO. E qui ancora peccano i giovani, i quali stimandosi degni d'essere
amati, subito giudicano ogni minimo sguardo venire da grande amore. Sono e'
segni di vero amore cangiare colore, rimirare fiso cadendo col sguardo dolce a
terra, raccorsi sospirando.
PALLIMACRO. Molto più che questi erano certi segni d'amore quegli e' quali mi
vinsero ad amare. Oh Deifira mia, a te ogni mio atto, ogni parola, ogni cosa
mia piaceva. Tu fra le genti con gli occhi mi ricercavi da lungi; tu mai eri
sazia di lodarmi a tutti e proferirmi; tu, quanto io era dove tu fussi, mai ti
pareva se non poco guardarmi in fronte ridendo e ragionarti meco. E quanto
spesso, tristo me, vidi te rimanere addolorata, ove io da te mi dipartia. E
quante cagioni non raro fingesti per ritrovarti dove io fossi. E quanto
sospirando spesso accusasti me, che sì tardo fussi ad amarti. E io, misero me,
misero me, non so quale allora presagio di miei ch'ora soffero mali
m'impauriva, onde forse giudicasti che io fuggissi te, Deifira mia, il quale
ora ti seguo piangendo. Oh infelice me! Io dandoti più scuse, Deifira mia,
così t'insegnai quanto ora sai troppo straziarmi. Oh Pallimacro sfortunato!
Che sciagura fu la tua fabbricare e porre in mano l'arme a questa spiatata,
con che ora ella mai si senta sazia d'accorarti! Questi qual soffero, tutti
sono miei colpi; queste piaghe mortali sono in me da' primi miei errori.
Imparate, amanti: non ubidite amore men che vi chiegga. Più che gli altri
piace quel destriere qual corre sanza troppe spronate. E chi fa quel che non
vuole, soffera due mali: quanto s'afatica, e quanto gli dispiace. Ma tu,
Deifira mia, sai bene ch'io da te merito se non pietate. Io mai fuggii
d'amarti; anzi cercai che l'amore nostro durassi sanza averci a pentire di
cosa alcuna.
FILARCO. Certo questi erano segni di vero amore, ed era villania la tua,
vedendoti amare, se non accettavi aperto quel che tanto a te era proferto. Ma
sempre pare, non in amare solo ma in ogni cosa, che i doni troppo proferiti
fastidiano, e i dinegati diletti sollecitano a farsi disiderare. Amando, a me
né molto piacerebbe chi mi saziassi; e certo arei in odio chi mi si porgessi
troppo acerba.
PALLIMACRO. Ahimè, Filarco! Beato chi può d'ogni suo pensiero avere ragione.
Stima che grande cagione in questo mi facea così essere restio. Quel medesimo
sole, quale tu fiso miravi stamani quando e' surgeva, ora fra 'l dì in alto
cresciuto abaglia chi lo guarda. Così io da primo scorsi il mio male quando e'
nasceva, quale medesimo fatto grande acceca ogni mia ragione e consiglio. Né
mi ritenni salire quella erta, onde ora stracco posso né scendere né
affermarmi.
FILARCO. E che adunque non fuggivi tu in tutto quel che tu tanto prevedevi
essere dannoso?
PALLIMACRO. Previdi, sì, Deifira mia, tutto conobbi, tutto da lungi scorsi, e
in parte prima ne feci te certa di quel che poi m'è teco intervenuto. Ma se
tu, Filarco mio, hai di me ora, quanto certo hai, compassione vedendomi,
perché io ami altrui, sì penoso, come potevo io non avere piatà di chi amando
me ardeva?
FILARCO. Sempre fu debito d'umanità amare chi ami te. Ma dicesi officio ancora
di prudenza in ogni cosa aversi tale che a nulla sia troppo.
PALLIMACRO. Sai tu come uno grande e grave sasso con più fatica e tardezza si
volge, ma poi che comincia a rotolare alla china fracassando, a nulla si
ritiene. Uno piccolo e leggiero sassetto, poca cosa lo muove e poco cespuglio
il ferma. Così gli animi nostri, quanto più sono grandi e gravi, tanto, benché
tardi mossi, meno si possono in suo corso contenere. Non però rimase da me con
ogni astuzia e argumento storli dall'animo quello furore quale, io provo, non
è in nostra libertà potere se non ubidirli. E poiché io al tutto provai ogni
mia industria ivi essere perduta, Deifira mai tu sai, quant'io conoscea, tanto
m'ingegnava che tu amassi con modo e ragione. Ohimè, che ancora io non sapea
quanto amando mai si possa in sé tenere ragione alcuna. E come il nocchiero,
se mai vento superchio lo urteggia, per non correre con quello impeto in
qualche scoglio, suole accomandare a poppa qualche peso, quale trainato
ritenga il troppo furioso corso della nave, così io a te, Deifira mia, non per
darti, qual mi dolea così darti, affanno, ma per raffrenare il tuo disciolto
amore, ora con metterti uno e un altro pure utile sospetto, ora con mostrarti
uno e un altro pericolo, ritardava il troppo ardito tuo correre ad amarmi. Tu
vedi ch'io soffero il mio male sanza tuo sconcio, ma del sinistro tuo caso
troppo mi sarebbe doluto. E per rendere in te meno ardente quelle fiamme, le
quali ora consumano me, io ti profersi fare e dire, quanto poi sempre feci,
qualunque cosa a te piacessi.
FILARCO. Oh pazzo Pallimacro! Tu adunque sì poco stimasti la libertà tua? Tu
stolto così te facesti servo d'una femmina? Tu in tutto sì matto stimasti
pietà fare a te uno umile servo essere signore? Non è pietà così nuocere a sé
per compiacere altrui. Non sapevi tu che le cose promesse non sono più di chi
le promise? Non dando quello che tu prometti, acquisti odio; e dove il dai,
non però a te cresce grazia. Tu adunque in un tratto perdesti quello di che
più volte a te ne sarebbe, donandolo, stata referita grazia.
PALLIMACRO. Perdetti sì, Deifira mia. Se tu così perseveri verso di me essere
ingrata, e se in queste bellezze sta sì grande impietà, certo in te commise il
cielo grande errore ponendo fra tanti beni un male sì grande. Ma io pure
conobbi il danno mio, e savio e prudente entrai sotto 'l giogo. Ma così parse
a me officio d'animo nobile, ove diliberai amare, ivi non porre altro termine
all'amore se non, quanto facea, tanto amare te quanto io potea.
FILARCO. Tu adunque stimasti debito a chi ama, diventare servo?
PALLIMACRO. Oh infelici amanti, imparate da me. Non sia chi amando cerchi di
sé avere libertate alcuna. Chi non può servire, non sa amare. Convienti spesso
ripregare benché spregiato, e spesso partirti con repulsa benché ingiusta, e
spesso picchiarti la faccia e 'l petto per troppe ingiurie benché sanza
ragione e cagione ricevute, e non raro piangere e' tuoi e gli altrui errori. E
intervienci, oh miseri amanti, come in la targa: quanto lo strale la truova
più doppia e dura, tanto più vi si ferma e affigge e con più fatica si sferra.
Così l'amore quanto più truova l'animo fermo e ostinato a repugnarli, tanto
più vi si assiede e insiste. Non adunque sia chi insuperbisca contro amore,
però ch'amore sa più severo aspreggiare e più tardi licenziare i contumaci,
che chi umile il segue a ubbidirlo. Ubbidite, amanti, ubbidite allo amore, né
più combattete con amore e con voi stessi, non fate le piaghe vostre più
profonde, aggravandovi in sul ferro che vi impiaga. Piacciavi piuttosto donare
voi stessi a chi v'assedia, che perdere combattuti ogni bene. Grandissimo dono
acquista poca grazia, quando tu mal volentieri il dia. Uno lieto e pronto
servigio aspetta due premi, de' quali non sarà minore quello che si riferisca
alla volontà, che quello che si renda all'opera.
FILARCO. Né qui a me piace lasciare te e gli altri amanti errare, e' quali
poco conoscendo il costume delle femmine, subito se li fanno servi. Sono le
femmine, come ciascuno palese vede, di natura troppo gareggiosa, e in ogni
cosa troppo godono contrapporsi e soprastare contendendo. Di qui nasce quello
antico proverbio appresso i comici poeti qual si dice: "Ove tu vuoi, ella non
vuole; se tu non vuoi, ella in pruova ti si profferisce", e questo certo non
per donarti grazia di sé alcuna, ma per teco vincere concertando. Adunque
giova sapere, non dico spregiarle né isvilirle, però che la femmina offesa mai
si ricorda dimenticarsi la ingiuria o grande o piccola cagione che la muova;
ma ben giova, mostrandosi d'animo libero e a maggiori cose occupato, farsi
richiedere. E rammentivi, amanti, che piglierà più facile e più numero
d'uccelli chi sa allettarli, che chi sa perseguirli. Conviensi co' be'
costumi, con ogni virtù e gentilezza allettarle a prendere piacere di spesso
vederti, onde a poco a poco s'incenda e acresca in loro amore. E ivi, amanti,
fate qual suole l'uccellatore dietro alle coturnici, seguendole con modo e
bellamente, ché assai viene presto il termine quale sia certo; e contenete voi
stessi, acciò che la troppo seguita amata non lievi sé in superbia, ove poi
quanto più la seguite servendo, ella tanto più vi fugga. E se pure, o vostra
disaventura o loro instabile natura, come femmine sempre apparecchiate a nuove
gare, forse accennano di levarsi, tiratevi adrieto, amanti, e lasciatele bene
prima consigliarsi. Cosa per vile ch'ella sia, pure duole a chi la perde, e
niuna sarà tanto stolta, la quale non pregi uno amante fra le prime carissime
cose. Onde avviene che chi prima si parte, prima è richiesto. E se pure, loro
superbia e stoltizia, elle saliscono in fastidirvi, voi, fermatevi e
lasciatele straccarsi, dibattendosi co' suoi leggieri e volatili pensieri,
tanto ch'elle scendano d'ogni alterigia e superbo sdegno; e così in loro
subito vederete mancato lo sdegno, ritornato l'amore.
PALLIMACRO. Tutti questi e simili altri documenti are' io saputo insegnare ad
altri. Ma che giova sapere schermire a chi abbi legate le mani? Io così ora mi
truovo, infelice, legato in questa servitù, in quale solo m'è licito piangere
la miseria mia. E felice chi può il suo male piangere palese.
FILARCO. Reputi tu miseria servire chi, quanto tu dicevi, ami te! Ogni servitù
certo fu sempre con dispiacere, ma ubbidire a chi t'ama, pare officio di
liberalità e cortesia piuttosto che di servitù. E beato colui el quale, quanto
egli ama, tanto sente sé essere amato. Né vuolsi d'ogni minimo sinistro caso
tanto attristarsi. Voi amanti, se chi voi amate forse si mostra verso di voi
meno facile che l'usato, subito v'adolorate. Stolti amatori, se non stimate
ogni astuzia e arte delle femmine essercitarsi solo per essere guardate da
molti e lodate. Né sa amare chi non può patire due ciglia crucciose in uno bel
viso.
PALLIMACRO. Ohimè! Sfortunato me! Meschino me! Niuno caso avverso, niuna
infelicità, niuno dolore può avenire a uno amante quale non sia intervenuto a
me, e quale, misero me, non abbi troppo sofferto. Ma tanto mi si conviene,
poiché ogni cosa mal volentieri principiata mal si finisce.
FILARCO. Mai fu amante che non si dolessi; mai fu amore non pieno di sospiri e
lacrime. Comune vizio di chi ama, che sempre interpetra ditti, atti e fatti
pure in piggiore parte, e sempre argumenta pure contro a sé, e le più volte
crede quel che non è, e di quello che certo sia, sempre dubita. Sete, voi
amanti, con la volontà troppo arditi, con l'opera troppo timidi, col pensiero
troppo astuti, con l'astuzia troppo sospettosi, col sospetto troppo creduli,
col credere troppo ostinati. E si vuole del passato solo ridursi a memoria le
cose felici e liete, e al presente prendere quanto el tempo ti concede, e di
dì in dì sperare meglio e sanza troppa sollecitudine bene aspettare.
PALLIMACRO. O Filarco, chi può quanto e' vuole nell'amore, non ama. Conviensi
volere quel che si può. E come posso io del passato non dolermi, poich'a si
gran torto mi truovo avere perduto quel tutto che me faceva amando esser
felice? E come poss'io testé non piangere, se ora il mio servire acquista
nulla altro che ingratitudine? Cosa si truova niuna tanto molesta e penosa,
quanto servire e non essere gradito. E ora quale speranza a me qui può mai
rilevare una minima parte de' miei mali, poich'e' tempi, quali con tanto
desiderio aspettavamo a noi, Deifira mia, pieni di piaceri e sollazzi, que'
medesimi a me sono con tanta tristezza e dispiacere passati? Oh fortuna mia
acerbissima! Que' luoghi, quali io mi fidava fussono a' nostri diletti più
apparecchiati e atti, que' medesimi sono a me stati e chiusi e pieni di
repulsa. Ehimè, Pallimacro infelice! E quelle persone, quali io mi pensava
fussero alle nostre espettazioni e disideri, quanto doveano, pronte e utili,
tristo me, ohi tristo me, quelle medesime sono state cagione d'ogni mia
calamità. Ora, oh dolore mio acerbissimo, da chi poss'io sperare più mai aiuto
alcuno, poiché di chi io più mi fido, più mi nuoce. Oh Iddio, e quanto amore
fugge in piccol tempo!
FILARCO. Tristo Pallimacro! Quella tua Deifira, quale tanto amava te, non ama
ella più quanto solea?
PALLIMACRO. Non ami più, no, Deifira mia, non ami me, no. Ed èmmi teco
intervenuto come spesso si vede chi da lungi tiene il toro allacciato,
seguendolo se forse fugge, e gittandosi a terra se gli si rivolge, e se si
ferma, in molti modi lo incita a muoversi, e così lo infesta perfino che volge
la fune a qualche fermo luogo, onde poi, scostatosi, ride vedendo el toro
legato solo nuocere a se stesso, ora cozzando al vento, ora apparecchiandosi
indarno a nuovi combattimenti. Così tu a me, Deifira mia; e poiché me stessi
ebbi avolto a quelle ferme promesse, quali fino a ora mi tengono a te
suggetto, tu subito cominciasti a riderti e pigliare giuoco d'ogni mia pena;
tu subito cominciasti a sdegnarmi. Tu, Deifira mia, qual prima tanto eri lieta
vedendomi, qual prima, temendo stare qualche giorni sanza spesso rivedermi,
lacrimasti, tu ora in pruova mi fuggi e me hai sanza cagione alcuna in
fastidio troppo e in odio. Tu, quando mi vedi, troppo ti turbi; tu ancora,
ohimè, non raro a gran torto mi bestemmi. Oh Pallimacro sfortunato! Quella
nostra Deifira, quale vidi lacrimare, dolendosi se forse, quanto certo dovea,
prendevo a ingiuria una e un'altra sua sdegnosa parola, quella medesima,
quella Deifira tanto da noi amata, quella Deifira che tanto me amava, testé
mai si sazia d'acrescermi ogni dì più e più dolore.
FILARCO. Pallimacro, nella vita de' mortali nulla si truova a chi non stia
apparecchiato il suo fine. Troia fu grande e alta, Babillonia fu ricca e
possente, furono Atene ornatissime e famosissime, e Roma fu temuta, riverita e
ubbidita, quanto tempo il cielo e sua sorte a ciascuna permise. Né tu adunque
pensa se non dovuto, se uno animo volubile e femminile verso di te non è quel
che solea. Pazzo, più volte pazzo chi crede in femmina mai essere costanza
alcuna. E certo, quando bene in questa una fussi ogni fermezza, pure al vostro
amore, quando che sia, si conveniva il suo fine. E stima, Pallimacro mio, che
mai lungo amore fu sanza molta copia di sospiri, lacrime e vario dolore. E
qualunque avverso caso nello amore, quanto più vien tardi, tanto segue con
ruina maggiore. E vuolsi riputare in buona parte, se qui sia il fine de' tuoi
mali, libero d'ogni altro, quali talora vengono fra curucciati amanti
grandissimi scandali e calamità. E certo sempre mi parse vero che l'amore sia
fatto come il latte, quale tanto piace quanto egli è ben fresco; poi
soprastando piglia troppi vizi. Così in amare, quanto gli amanti studiano
porgersi accetti e benveduti, tanto lieti vivono, pieni di sollazzo, giuoco e
festivi ragionamenti. Poi fermato l'amore, subito vi surgono sospetti, e dai
sospetti le gelosie, e dalle gelosie nascono sdegni, e di qui crescono il
vendicarsi e le inimicizie. E solo le inimicizie degli amanti si pruovano
essere acerbissime. E sono le femmine, quanto di meno consiglio e ragione,
tanto più che gli uomini troppo sfidate, sospettose e dispettose, onde per
minima cosa si truovano adirate, e poi, per mostrarsi giustamente crucciate,
perseverano e crescono ad inimistà. Né troverai inimico sì capitale, che non
forse qualche volta con una tua parola si muova a pietà; solo il cuore della
femmina sdegnato indura per lacrime di chi l'ama, e a pena col sangue cancella
uno suo conceputo sdegno. Però si vuole non mai scoprirsi amante, se non
quando vedi potere subito prima satisfarti che l'amore pigli suo' vizi. E
conviensi col tempo ardire molto più che chiedere. Natura delle femmine che
d'ogni cosa in che possa uscirne rossore, loro molto giova potere dire "io non
volea"; e godono vinte una e un'altra volta dare quello che più elle negano.
PALLIMACRO. Oh Filarco mio, e chi non sa quanto poco si possa qualunque cosa
troppo disideri?
FILARCO. Ahimè, non piangere più, Pallimacro mio, non piangere più. E dimmi
qual grandissima cagione mai fu quella che in lei spegnessi sì ardente amore?
Sogliono le fiamme amorose spesso abbagliare, sì, ma non sanza grandissima
ruina amorzarsi. Piacciati narrarmi ogni cosa. Non fare quale fanno questi
altri amanti, i quali, afflitti e mesti, subito si richiudono in solitudine,
donde col troppo ripensare stracchi escono sanza aver pensato a nulla. Agli
animi affannati nuoce ogni solitudine, e troppo giova appresso gli amici
ragionando posare la gravezza delle sue cure. E che fai, Pallimacro, che pur
miri a terra fiso e muto? Rispondi, pregoti, e ragionando dimenticherai in
parte il tuo male. Fue tuo o pure suo errore cagione di tanta vostra
discordia?
PALLIMACRO. Non fu mio, no, né in tutto tuo errore, Deifira mia, no. Anzi la
iniqua mia fortuna così fa te verso di me essere ombrosa e schifa. E bene
presentii e predissi questa ruina, quale ora mi tiene soppresso in tanta
calamità. Ma puossi mai chiudere tutte le vie al male che de' venire? E come
all'acqua, quanti più rivi gli otturi, tanto con più impeto rompe in altro
corso, così l'avversa fortuna, quanto più te le contraponi, tanto più si carca
e irrompe ove mai aresti dubitato, e a uno tempo qui ne viene con quella furia
quale in più rami prima si sfogava.
FILARCO. Niuna iniqua fortuna, niuno caso avverso mai valse rapire la
benivolenza di chi veramente ami. Né qui sia in argomento altri che te stesso,
il quale soffrendo tanto dolore, pure seguiti amando. E quella tua Deifira
così verso di te sarebbe certo il simile, se in lei fusse quanto in te fede e
fermo amore. Ma qual caso fu questo vostro, tanto da maladirlo?
PALLIMACRO. Certo sì da maladirlo. Parsegli, Filarco mio, che una e un'altra
forse più bella di lei troppo a me si proferisse, quale essa in parte ad altri
si proferiva. Parsegli, tristo me, ingiuria del nostro amore, se altri
accendeva i suoi lumi al nostro fuoco. Ohimè, quanto son brievi e molto
fallaci i dolci spassi d'amore. Parseti, Deifira mia, da credere a chi ti
confermava ogni tuo sospetto. Oh miseri amanti, imparate da me, credete a me,
il quale molte lacrime e molti dolori hanno in questo già fatto essere
maestro. Fuggite tanto male. Tenete e' gaudi vostri amorosi drento a' vostri
petti ascosi, acciò che invidia alcuna non ve li possa perturbare. E stieno
gli occhi vostri sempre volti non altrove se non dove l'animo risiede. Né mai
movete l'usato seggio al già fermo amore. Sia in voi uno solo pensiere, uno
solo servire, uno solo amore, se non volete poi com'io adolorati piagnere il
vostro errore. E s'io così piango, non avendo errato in altro che solo in non
provedere a ogni altrui sospetto, quanta sarà punizione in colui, el quale del
suo peccato arà niuna scusa!
FILARCO. E questo ancora sarà non poco errore in chi ama, se e' forse stimerà
perfidia non aversi al tutto dedicato a chi verso di lui serva né fede né
pietà. Stolto chi tende tutti i lacci suoi a uno solo varco. Vuolsi avere più
porti dove ridursi da' contrari venti. E in amare mi piace avere chi me riceva
se altri forse mi commiata, Né può correre se non lento chi non arà con chi e'
gareggi. E vedi quanta utilità qui sarebbe a te, se chi ti si profferiva,
avessi da serbare caro la sua parte del tuo amore. Prima tu con arte aresti
quegli amori guidati, quanto quello di Deifira, tanto bene e occulto, onde
sospetto in lei mai sarebbe fermo; e poi aresti con chi ora giucando
dimenticarti ogni altra ricevuta ingiuria. Ma poiché la fortuna tua qui t'ha
condutto, misero Pallimacro, resta, quando che sia, essere a te stessi
inimico, e giudica perduto quello che sia perduto. Assai vedesti più e più
giorni nel tuo amore lieti e felici. Tu allora andavi e stavi dove Deifira
voleva; ivi si faceva e diceva cose giocose e liete, quanto a lei piacea, e a
te non dispiacea. E così certo furono que' dì pure chiari e sereni. Ora ella
turbata ti fastidia, sanza ragione e cagione alcuna ti sdegna. Adunque tu,
Pallimacro mio, con molta ragione non seguire avendo tanto in odio la tua
libertà, che tu pur doni te stessi a chi ti sdegna. Se a lei non duole perdere
uno fedele amante, né a te pari dolga uscire di tanta servitù. Parmi ingiuria
pur servire a chi non voglia essere servito. Non può se non dolerti una e
un'altra volta così lasciare quello che a te solea essere grato e caro. Ma
vinci te stesso, e vincerai amore. Non curare vedere chi te mira con dispetto.
Non salutare chi drento a sé ti bestemmia. Non essere servo a chi non ti sa
essere umano signore. Resta omai essere giuoco a chi gode d'ogni tuo dolore e
miseria.
PALLIMACRO. Che vuoi tu ch'io faccia, Filarco? Io mai potrei indurmi
nell'animo fare o dire cosa che a costei dispiacessi: ed èmmi tormento vederla
se non lieta e contenta. S'ell'è ingiusta verso di me, quando che sia, se ne
pentirà e doleralli. Intanto io fra me mai abbandonerò d'amarla, e in
qualunque modo molto servarli onore.
FILARCO. Lodoti Pallimacro, e certo in questo mostri quanto in te sia
gentilezza e costume. E troppo ti biasimerei, se tu, come questi altri villani
e dispettosi amanti, non secondandoli tutte le cose quanto bestiali troppo
chiedono, subito con sdegno e minacci vendicandosi, non si vergognano rendere
misere e afflitte le infelici amate, quali pure testé loro tanto erano care;
né li pare peccato adoperare ad ingiuria quello che gli sia stato donato per
amore e cortesia. Troppo certo sarà contrario a ogni nobile e buona natura, se
dello amore nasce inimistà. Lascino e' gentili amanti usare dispetti e sdegni
a' puri villani, poiché gentilezza sempre fu piena d'umanità e facilità.
Gentilezza non serba sdegno, e ogni sdegno verso chi te ami sente d'ingiuria.
Ma bene ti conforto, oh Pallimacro mio: quello che tu vedi esserti dalla
iniqua fortuna tua vietato, quello che tu pruovi quanto chi facile può, non
vuole usare teco pietate alcuna, quel che tu conosci esserti da' tempi, da'
luoghi e da tutte le cose vietato, nollo volere; delibera, quando che sia,
averti libero. Oh che beata cosa vivere a se stesso vacuo d'ogni cura!
PALLIMACRO. Ohimè, Filarco mio, che poss'io di me, ov'io tutto sono d'altrui?
Tuo sono io, Deifira mia, e tuo voglio essere. Tu, quanto di me vuoi, tanto
sia. O piacciati provare la pazienza mia vendicandoti, se mai fui non quanto
doveo, presto ad amarti, o piacciati gloriarti d'avere amante chi per niuno
oltraggio resta di servirti, io non però mai mi dimenticherò le tue molte meco
gentilezze. Stannomi scritti drento al mio petto e' tuoi vezzosi sguardi,
dolci atti e dolci parole, colle quali mi vincesti ad amarti. Io sempre verso
di te sarò fedele, qual sempre fui. Tale sarà l'ultimo mio dì nel nostro
amore, quale stati sono tutti gli altri, quanto vorrai, offiziosi e pronti.
Una ora medesima finirà in me vita e amore.
FILARCO. E quanta bene troppo mi pare gentilezza, di porto chiamarti in nave e
poi lasciarti solo in alto e tempestoso mare, e sé ridursi al sicuro; ove,
s'ella così fa per vendicarsi, certo poco merita essere amata. Amore non vuole
vendetta. Vendetta viene da nimistà. S'ella così sanza cagione ti strazia,
certo ella molto merita essere odiata. Chi sanza ragione ingiuria un suo qual
sia forse inimico, costui usa tirannia. Pertanto nuocere a chi te ami,
verrebbe troppo da crudelità e bestialità. Ma giudica tu di Deifira, non dico
quanto da lei pruovi, ma quanto a te piace. E qui dimmi: quale a te sarebbe
più caro, o uscire in libertà o vivere in questi tormenti? Non sarebbono
ubbiditi i signori, se non potessino dare e torre a' suoi dimolti beni. A te
può Deifira torre nulla che tuo sia. Chi resta d'amare, perde l'amore, non el
toglie ad altrui. E tu adunque, se così vuoi, quanto si conviene, libertà e
quiete, disponi non volere da costei cosa ch'ella ti possa dare, e sarai
libero. Resta di volere e sarai libero. E poca ti sarà fatica non voler quel
che tu già non puoi avere. E vero costei, che potrebb'ella mai darti cosa
degna alle tue virtù? Non onore, non ricchezza, non fama, non grado o
dignitate alcuna, quali tutte con minore fatiche molto acquisteresti, se tu a
quelle tuo tempo e ingegno tanto consumassi. El tempo e la fatica indarno
spesa si può chiamare gittata via. E caro a te, se tu da questa tua Deifira
non ricevessi pure infiniti dispiaceri. Ché se forse ti piace vedere un bel
viso, molti più be' visi che il suo spesso ti s'aprono lieti e dolci, quando
la tua Deifira superba si chiude in troppo sdegno. Se t'è piacere uno grazioso
sguardo, molto più vezzosi e angelichi occhi tutto il dì bello t'accolgono,
quando la tua Deifira dispettosa ti schifa. Se t'è piacere uno festivo
motteggiare, molte più giocose e cortese che lei ti chiamano spesso a
ragionarti e ridersi teco, quando la tua Deifira ostinata o solo tace muta o
risponde cose che t'adolorano. Ma io veggio l'errore tuo, in che ancora
peccano tutti gli amanti, che tengono a viltà non seguire lungo l'amorosa
impresa. Stolti amanti, stolti, se pure terrete stretto in mano cosa quale,
dove più la stringete, più vi pugne. Forse ancora tu, sciocco Pallimacro, ti
credi da costei essere amato. Credimi, Pallimacro, a Deifira, amando te,
dorrebbono le pene tue, s'ella non avessi te troppo a odio. Ella certo non
potrebbe non piangere vedendoti tanto afflitto. Se questa tua Deifira,
Pallimacro mio, fussi d'animo verso te non molto inimicissimo, ella, non
dubitare, mai goderebbe così straziarti. Pigliane argumento da te stesso.
Perché tu vero ami lei, troppo ti duole mirarla se non lieta e contenta.
Adunque s'ella poco ama te, s'ella tanto t'è inimica, tu qui omai esci di
tanta servitù; prendi virile animo di te e buon partito. Una sola volta ti
dolerà tagliare quel membro quale al continuo troppo ti tormenta. So io, sì, a
te parerà aspro lasciare quanto hai in uso quella e quell'altra ora vederla e
salutarla. Ma stima che niuno incarco in amore sta sì grave, el quale non sia
molto leggiero a chi lo voglia sopportare; e incarco per sconcio e smisurato
che sia, diventa leggiero a chi el depone. L'amore cresce per uso, e per
disuso scema, né si può, no, un lungo amore perdere in un dì. Ma quella via
sarà prestissima quale sia sicura. Conviensi posare lo incarco amoroso destro
in terra, se esso male te prieme, e non gittarlo in modo che si rompa in su'
piedi tuoi in vendetta e nimistà. Comincia adunque a interlasciare una ora,
poi intermetti un dì, e così accresci ogni dì più il dimenticarla, persino che
tu stesso aùsi te a stare più e più e dì e ancora mesi sanza vedere chi t'è
inimica.
PALLIMACRO. Ohimè, Deifira mia, come ti crederò io mai essere a Pallimacro tuo
inimica? Tu da me mai non in detti, non in fatti offesa; tu sempre da me
onorata e adorata. Io mai a te fui grave o importuno se non forse in troppo
amarti con fede e mirabile pazienza. E che più poss'io? Che vuoi tu da me,
Deifira mia, che vuoi tu da me?
FILARCO. Dicotelo io. Ella così vorrebbe mai ricordarsi di te se non quanto ti
vede, e te vorrebbe sempre stare adolorato consumandoti e spasimando per
troppo amore. E tanto ti rammento, Pallimacro, che la femmina sa solo o amare
o troppo odiare. Presto s'incende uno cuore femminile ad amore; molto più
s'infiamma presto di crucci e odio, né in altro serba costanza alcuna la
femmina se non in mantenere gare e crucci. E rammentoti, Pallimacro, che alla
femmina, quando ama, sempre piace qualunque cosa faccia e dica chi ella ama, e
da lui accetta ogni cosa sempre in migliore parte. Vero e così sempre sdegna e
riceve a dispetto e interpetra pure in male tutto ciò che facci chi già gli
sia in odio. Tu adunque, quante più cose farai per piacerli, tante più gliene
dispiaceranno, e più te ne inimicherà.
PALLIMACRO. Sarà mai tanta avversità nel nostro amore che io possa credere te
essere a me, Deifira mia, nimica. E che vita sarà la mia misera e dolorosa?
FILARCO. Anzi sarà libera d'ogni cura e sollicitudine la tua, non amerai; e
sarà misera vita a Deifira, quando in lei ardono suoi crucci e suoi sdegni
PALLIMACRO. E potrò io, che, mai rimanere d'amarti, Deifira mia?
FILARCO. Mal si sa quel che si può, se non si pruova.
PALLIMACRO. Ahimè, Filarco mio, a me interviene come a chi ne porta in petto
fitto il ferro, onde con esso vive morendo in dolore, né dubita che subito
sanza esso cadrebbe in morte. Te, Deifira mia, porto io drento al mio petto;
teco dì e notte fra me mi ragiono; te sola veggo negli occhi e fronte di
qualunque altra bella; tu una guidi me e mia vita; tu, Deifira, mi consumi a
morte; sanza te né voglio né posso vivere.
FILARCO. Serbare ostinato il male suo viene da furore. E sogliono i prudenti
fra' primi rimedi a questo male così ricordare, che le faccende maggiori
dimenticano gli ozi dell'amore.
PALLIMACRO. Ehi, Filarco, parti poca faccenda contentare una femmina? Parti
poca faccenda contentare se stesso amando?
FILARCO. Hau! Anzi una sola femmina a me pare molto e molto male per più
uomini che per dodici. Ma pure a levare dall'animo tanti tuoi pensieri
acerbissimi e amarissimi, giova pigliare altra faccenda e scostarti dall'animo
queste fiamme quali te si consumano. Vorrei io vederti co' tuoi amici in villa
seguitare o 'lupo o l'orso, e così fuggire quest'altra molto più bestiale
bestia, non dico femmina, ma amore.
PALLIMACRO. Questo conosco io per pruova, Filarco, che quanto più scosti la
corda dall'arco teso, tanto più ti stracca a contenerla, e tanto con più
impeto ritorna qual prima era.
FILARCO. E dove questo nulla giovassi, a me pare poca prudenza fuggire tutti
gli altri diletti. Sarebbeti utile così al continuo darti tra molti
sollazzevoli amici, appresso i quali tu insieme lieto dimenticassi chi t'è
molesto.
PALLIMACRO. Che credi, Filarco, per metter margherite e gemme in uno vaso pien
d'acqua, che e' manco forse traboccassi? In uno animo pieno di tanta tristezza
quanto è il mio, nulla più vi si può immettere che non facci sopratraboccare
il dolore.
FILARCO. Sia così, né io però mi scoprirei tanto addolorato; e questo per non
essere grave a chi me ama, e per non fare contento chi del mio male godessi. E
si vuol fingere non curare quel che altri in dispetto fa perché tu molto curi.
Così fallito il suo pensiero, resterà d'esserti in quella parte molesto.
Sempre fu utile in oscuro tendere le suo rete.
PALLIMACRO. Part'egli forse meglio vestirsi d'ortica che mostrarsi nudo?
FILARCO. Pare a me certo meglio mostrarsi cruccioso verso chi te ingiuri che
addolorato. E parmi cosa troppo servile contro la ingiuria avere nulla se
nonne il dolersene. E alcuni incendi sono quali meglio si spengono con ruina
che con acqua. E quanto io, offeso a torto, certo a ragione mosterrei mio
sdegno per non dare di me licenza ad altri più che a me stessi.
PALLIMACRO. Non credere che giovi, Filarco, no, portare in mano accese le
braci per più scaldare altrui: e col mio cruccio infiammare l'ira a chi può in
me quanto e' vuole, sarebbe uno accrescermi tormento.
FILARCO. E per meno sentire questi tormenti, poiché si dice l'uno chiodo
caccia l'altro, che non accetti tu qual si sia una di tante bellissime e
leggiadrissime donne, quali così tutto il dì a te molto si profferiscono? E'
nuovi piaceri discacceranno i tristi antichi tuoi pensieri.
PALLIMACRO. Io non so donde a me tanto sia nato uno incredibile fastidio verso
tutte le femmine, che non posso sanza grave stomaco mirarne alcuna. Solo tu,
Deifira mia, non mi dispiaci. Sola Deifira viene agli occhi miei non ingrata.
FILARCO. E beato a te, se quanto l'altre tutte meno a te piacciono che
Deifira, così tanto più che l'altre a te quest'una Deifira dispiacesse, ché
aresti l'animo tuo libero a maggiori tue e molto eterne lode. Ma poiché qui
non dài luogo ad altri più facili rimedi, uno solo ci resta, el quale te possa
restituire in libertà. Fuggi, Pallimacro, lungi, dove tu né vegga né oda
ricordare Deifira, né madre né sorelle né de' suoi alcuno. Quanto più te
scosterai, tanto più si straccherà l'amore a perseguitarti. L'amore non molto
nutrito in ozio di lieti sguardi e dolci ragionamenti perisce.
PALLIMACRO. Misero Pallimacro, tu adunque fuggirai la patria tua, parenti,
amici tuoi. E qual tuo vizio tanto te priva di così tue carissime e gratissime
cose? Ohimè, amare troppo altri più che me stessi così d'ogni mio male mi sta
cagione. E tu adunque, Pallimacro, in istrani paesi fuggirai errando solo e
molto piangendo la tua miseria. Sfortunato, troppo sfortunato, e qual tuo
peccato a te qui mai a te retribuisce tanta infelicità? Ohimè, servire con
troppa fede a chi m'è ingrata fa me così troppo essere infelice. Ehi, meschino
Pallimacro, tu adunque in essilio starai soffrendo in te pene della
ingiustizia d'altrui. E questi nostri, Deifira mia, fra noi lietissimi risi e
copertissimi motteggi ora, tua ingiuria, così a me fruttano aperte lacrime e
dolore. E da quelle antiche tra noi dolcissime e vere dolcissime piacevolezze
ora così per tua impietà mi truovo caduto in tanta miseria. Oh Iddio! Gli
altri amando ricevono di loro fede qualche grazia, benivolenza e cortesia. A
me solo, più che gli altri fedelissimo, in premio è dato sdegno, odio ed
essilio. Addio, patria mia, addio, amici miei. Pallimacro, troppo fedele e
troppo suggetto amante, fugge in terre strane a vivere piangendo in essilio. E
tu, Deifira mia, ora sanza me che vita sarà la tua? Chi verrà a salutarti? Chi
tornerà spesso a farti lieta? Chi seguirà te molto amando? A chi ti porgerai
tu ornata? Chi ti loderà? Chi quanto io mai ti renderà onore? Tu, giovinetta e
bella, sederai fra l'altre sanza avere chi molto pregi le tue bellezze, o te
piacerà donare a nuovi amanti, poiché tu così hai a torto escluso e gittato
chi te più che se stesso amava, ama e sempre amerà. Addio, Deifira mia. Io ne
vo in essilio, né so del tornare.
APPENDICE A DEIFIRA.
Se a me fosse licito, valerosa ed accorta mia donna, palesemente cridare e
piangere in questa mia crudele partita, siate certa che li stridi di Vulcano
né di Cariddi, né li gridi della dolorosa Dido, foro mai sì grandi, che li mei
non fossero molto maiori. Ma cognosco veramente, speranza dell'anima mia, la
quale se notrica per voi ne lo amoroso foco, che 'l cridare e piangere è più
presto da animo feminile che verile. Resta solo, unico mio bene, fra me stesso
condolermi con grave pene, e lamentareme della iniqua e perfida fortuna e
crudel mio destino che me ha condotto, non possendo scusarla. Ve supplico,
regina del mio cuore, che non ve adirate de questa mia partita, ma pregate Dio
che me riduca alla vostra grazia, ché senza la quale al mondo non voria stare.
Fà che non manchi l'amorosa voglia,
el ben voler, el desiderio antico;
considra quel ch'io dico,
ninfa mia bella e pace del mio cuore;
abbi mercé al mïo gran dolore.
Vidi fortuna a quel che m'ha condutto.
Qual serà mio redutto,
se non la morte agli aspri martiri?
Pöi che mi convien<e> pur partire,
superna Diana, stella de orïente,
fà che 'l caro servente
abbi nel petto con devoto cuore.