Ludovico Ariosto
L'Orlando Furioso
Canti XI-XX
CANTO UNDICESIMO
Quantunque
debil freno a mezzo il corso
animoso
destrier spesso raccolga,
raro
è però che di ragione il morso
libidinosa
furia a dietro volga,
quando
il piacere ha in pronto; a guisa d'orso
che
dal mel non sì tosto si distolga,
poi
che gli n'è venuto odore al naso,
o
qualche stilla ne gustò sul vaso.
Qual
ragion fia che il buon Ruggier raffrene,
sì
che non voglia ora pigliar diletto
d'Angelica
gentil che nuda tiene
nel
solitario e commodo boschetto?
Di
Bradamante più non gli soviene,
che
tanto aver solea fissa nel petto:
e
se gli ne sovien pur come prima,
pazzo
è se questa ancor non prezza e stima;
con
la qual non saria stato quel crudo
Zenocrate
di lui più continente.
Gittato
avea Ruggier l'asta e lo scudo,
e
si traea l'altre arme impaziente;
quando
abbassando pel bel corpo ignudo
la
donna gli occhi vergognosamente,
si
vide in dito il prezioso annello
che
già le tolse ad Albracca Brunello.
Questo
è l'annel che ella portò già in Francia
la
prima volta che fe' quel camino
col
fratel suo, che v'arrecò la lancia,
la
qual fu poi d'Astolfo paladino.
Con
questo fe' gli incanti uscire in ciancia
di
Malagigi al petron di Merlino;
con
questo Orlando ed altri una matina
tolse
di servitù di Dragontina;
con
questo uscì invisibil de la torre
dove
l'avea richiusa un vecchio rio.
A
che voglio io tutte sue prove accorre,
se
le sapete voi così come io?
Brunel
sin nel giron lel venne a torre;
che
Agramante d'averlo ebbe disio.
Da
indi in qua sempre Fortuna a sdegno
ebbe
costei, fin che le tolse il regno.
Or
che sel vede, come ho detto, in mano,
sì
di stupore e d'allegrezza è piena,
che
quasi dubbia di sognarsi invano,
agli
occhi, alla man sua dà fede a pena.
Del
dito se lo leva, e a mano a mano
sel
chiude in bocca: e in men che non balena,
così
dagli occhi di Ruggier si cela,
come
fa il sol quando la nube il vela.
Ruggier
pur d'ogn'intorno riguardava,
e
s'aggirava a cerco come un matto;
ma
poi che de l'annel si ricordava,
scornato
vi rimase e stupefatto:
e
la sua inavvertenza bestemiava,
e
la donna accusava di quello atto
ingrato
e discortese, che renduto
in
ricompensa gli era del suo aiuto.
-
Ingrata damigella, è questo quello
guiderdone
(dicea), che tu mi rendi?
che
più tosto involar vogli l'annello,
che
averlo in don? Perché da me nol prendi?
Non
pur quel, ma lo scudo e il destrier snello
e
me ti dono, e come vuoi mi spendi;
sol
che il bel viso tuo non mi nascondi.
Io
so, crudel, che m'odi, e non rispondi. -
Così
dicendo, intorno alla fontana
brancolando
n'andava come cieco.
Oh
quante volte abbracciò l'aria vana,
sperando
la donzella abbracciar seco!
Quella,
che s'era già fatta lontana,
mai
non cessò d'andar, che giunse a un speco
che
sotto un monte era capace e grande,
dove
al bisogno suo trovò vivande.
Quivi
un vecchio pastor, che di cavalle
un
grande armento avea, facea soggiorno.
Le
iumente pascean giù per la valle
le
tenere erbe ai freschi rivi intorno.
Di
qua di là da l'antro erano stalle,
dove
fuggìano il sol del mezzo giorno.
Angelica
quel dì lunga dimora
là
dentro fece, e non fu vista ancora.
E
circa il vespro, poi che rifrescossi,
e
le fu aviso esser posata assai,
in
certi drappi rozzi aviluppossi,
dissimil
troppo ai portamenti gai,
che
verdi, gialli, persi, azzurri e rossi
ebbe,
e di quante fogge furon mai.
Non
le può tor però tanto umil gonna,
che
bella non rassembri e nobil donna.
Taccia
chi loda Fillide, o Neera,
o
Amarilli, o Galatea fugace;
che
d'esse alcuna sì bella non era,
Titiro
e Melibeo, con vostra pace.
La
bella donna tra' fuor de la schiera
de
le iumente una che più le piace.
Allora
allora se le fece inante
un
pensier di tornarsene in Levante.
Ruggiero
intanto, poi che ebbe gran pezzo
indarno
atteso s'ella si scopriva,
e
che s'avide del suo error da sezzo,
che
non era vicina e non l'udiva;
dove
lasciato avea il cavallo, avezzo
in
cielo e in terra, a rimontar veniva:
e
ritrovò che s'avea tratto il morso,
e
salia in aria a più libero corso.
Fu
grave e mala aggiunta all'altro danno
vedersi
anco restar senza l'augello.
Questo,
non men che il feminile inganno,
gli
preme al cor; ma più che questo e quello,
gli
preme e fa sentir noioso affanno
l'aver
perduto il prezioso annello;
per
le virtù non tanto che in lui sono,
quanto
che fu de la sua donna dono.
Oltremodo
dolente si ripose
indosso
l'arme, e lo scudo alle spalle;
dal
mar slungossi, e per le piaggie erbose
prese
il camin verso una larga valle,
dove
per mezzo all'alte selve ombrose
vide
il più largo e il più segnato calle.
Non
molto va, che a destra, ove più folta
è
quella selva, un gran strepito ascolta.
Strepito
ascolta e spaventevol suono
d'arme
percosse insieme; onde s'affretta
tra
pianta e pianta, e trova dui, che sono
a
gran battaglia in poca piazza e stretta.
Non
s'hanno alcun riguardo né perdono,
per
far, non so di che, dura vendetta.
L'uno
è gigante, alla sembianza fiero;
ardito
l'altro e franco cavalliero.
E
questo con lo scudo e con la spada,
di
qua di là saltando, si difende,
perché
la mazza sopra non gli cada,
con
che il gigante a due man sempre offende.
Giace
morto il cavallo in su la strada.
Ruggier
si ferma, e alla battaglia attende;
e
tosto inchina l'animo, e disia
che
vincitore il cavallier ne sia.
Non
che per questo gli dia alcun aiuto;
ma
si tira da parte, e sta a vedere.
Ecco
col baston grave il più membruto
sopra
l'elmo a due man del minor fere.
De
la percossa è il cavallier caduto:
l'altro,
che il vide attonito giacere,
per
dargli morte l'elmo gli dislaccia;
e
fa sì che Ruggier lo vede in faccia.
Vede
Ruggier de la sua dolce e bella
e
carissima donna Bradamante
scoperto
il viso; e lei vede esser quella
a
cui dar morte vuol l'empio gigante:
sì
che a battaglia subito l'appella,
e
con la spada nuda si fa inante:
na
quel, che nuova pugna non attende,
la
donna tramortita in braccio prende;
e
se l'arreca in spalla, e via la porta,
come
lupo talor piccolo agnello,
o
l'aquila portar ne l'ugna torta
suole
o colombo o simile altro augello.
Vede
Ruggier quanto il suo aiuto importa,
e
vien correndo a più poter; ma quello
con
tanta fretta i lunghi passi mena,
che
con gli occhi Ruggier lo segue a pena.
Così
correndo l'uno, e seguitando
l'altro,
per un sentiero ombroso e fosco,
che
sempre si venìa più dilatando,
in
un gran prato uscir fuor di quel bosco.
Non
più di questo; che io ritorno a Orlando,
che
il fulgur che portò già il re Cimosco,
avea
gittato in mar nel maggior fondo,
acciò
mai più non si trovasse al mondo.
Ma
poco ci giovò: che il nimico empio
de
l'umana natura, il qual del telo
fu
l'inventor, che ebbe da quel l'esempio,
che
apre le nubi e in terra vien dal cielo;
con
quasi non minor di quello scempio
che
ci diè quando Eva ingannò col melo,
lo
fece ritrovar da un negromante,
al
tempo de' nostri avi, o poco inante.
La
machina infernal, di più di cento
passi
d'acqua ove stè ascosa molt'anni,
al
sommo tratta per incantamento,
prima
portata fu tra gli Alamanni;
li
quali uno ed un altro esperimento
facendone,
e il demonio a' nostri danni
assuttigliando
lor via più la mente,
ne
ritrovaro l'uso finalmente.
Italia
e Francia e tutte l'altre bande
del
mondo han poi la crudele arte appresa.
Alcuno
il bronzo in cave forme spande,
che
liquefatto ha la fornace accesa;
bùgia
altri il ferro; e chi picciol, chi grande
il
vaso forma, che più e meno pesa:
e
qual bombarda e qual nomina scoppio,
qual
semplice cannon, qual cannon doppio;
qual
sagra, qual falcon, qual colubrina
sento
nomar, come al suo autor più agrada;
che
il ferro spezza, e i marmi apre e ruina,
e
ovunque passa si fa dar la strada.
Rendi,
miser soldato, alla fucina
per
tutte l'arme c'hai, fin alla spada;
e
in spalla un scoppio o un arcobugio prendi;
che
senza, io so, non toccherai stipendi.
Come
trovasti, o scelerata e brutta
invenzion,
mai loco in uman core?
Per
te la militar gloria è distrutta,
per
te il mestier de l'arme è senza onore;
per
te è il valore e la virtù ridutta,
che
spesso par del buono il rio migliore:
non
più la gagliardia, non più l'ardire
per
te può in campo al paragon venire.
Per
te son giti ed anderan sotterra
tanti
signori e cavallieri tanti,
prima
che sia finita questa guerra,
che
il mondo, ma più Italia ha messo in pianti;
che
s'io v'ho detto, il detto mio non erra,
che
ben fu il più crudele e il più di quanti
mai
furo al mondo ingegni empi e maligni,
che
imaginò sì abominosi ordigni.
E
crederò che Dio, perché vendetta
ne
sia in eterno, nel profondo chiuda
del
cieco abisso quella maladetta
anima,
appresso al maladetto Giuda.
Ma
seguitiamo il cavallier che in fretta
brama
trovarsi all'isola d'Ebuda,
dove
le belle donne e delicate
son
per vivanda a un marin mostro date.
Ma
quanto avea più fretta il paladino,
tanto
parea che men l'avesse il vento.
Spiri
o dal lato destro o dal mancino,
o
ne le poppe, sempre è così lento,
che
si può far con lui poco camino;
e
rimanea talvolta in tutto spento:
soffia
talor sì averso, che gli è forza
o
di tornare, o d'ir girando all'orza.
Fu
volontà di Dio che non venisse
prima
che il re d'Ibernia in quella parte,
acciò
con più facilità seguisse
quel
che udir vi farò fra poche carte.
Sopra
l'isola sorti, Orlando disse
al
suo nochiero: - Or qui potrai fermarte,
e
il battel darmi; che portar mi voglio
senz'altra
compagnia sopra lo scoglio.
E
voglio la maggior gomona meco,
e
l'ancora maggior che abbi sul legno:
io
ti farò veder perché l'arreco,
se
con quel mostro ad affrontar mi vegno. -
Gittar
fe' in mare il palischermo seco,
con
tutto quel che era atto al suo disegno.
Tutte
l'arme lasciò, fuor che la spada;
e
vêr lo scoglio, sol, prese la strada.
Si
tira i remi al petto, e tien le spalle
volte
alla parte ove discender vuole;
a
guisa che del mare o de la valle
uscendo
al lito, il salso granchio suole.
Era
ne l'ora che le chiome gialle
la
bella Aurora avea spiegate al Sole,
mezzo
scoperto ancora e mezzo ascoso,
non
senza sdegno di Titon geloso.
Fattosi
appresso al nudo scoglio, quanto
potria
gagliarda man gittare un sasso,
gli
pare udire e non udire un pianto;
sì
all'orecchie gli vien debole e lasso.
Tutto
si volta sul sinistro canto;
e
posto gli occhi appresso all'onde al basso,
vede
una donna, nuda come nacque,
legata
a un tronco; e i piè le bagnan l'acque.
Perché
gli è ancor lontana, e perché china
la
faccia tien, non ben chi sia discerne.
Tira
in fretta ambi i remi, e s'avicina
con
gran disio di plù notizia averne.
Ma
muggiar sente in questo la marina,
e
rimbombar le selve e le caverne:
gonfiansi
l'onde; ed ecco il mostro appare,
che
sotto il petto ha quasi ascoso il mare.
Come
d'oscura valle umida ascende
nube
di pioggia e di tempesta pregna,
che
più che cieca notte si distende
per
tutto il mondo, e par che il giorno spegna;
così
nuota la fera, e del mar prende
tanto,
che si può dir che tutto il tegna:
fremono
l'onde. Orlando in sé raccolto,
la
mira altier, né cangia cor né volto.
E
come quel che avea il pensier ben fermo
di
quanto volea far, si mosse ratto;
e
perché alla donzella essere schermo,
e
la fera assalir potesse a un tratto,
entrò
fra l'orca e lei col palischermo,
nel
fodero lasciando il brando piatto:
l'ancora
con la gomona in man prese;
poi
con gran cor l'orribil mostro attese.
Tosto
che l'orca s'accostò, e scoperse
nel
schifo Orlando con poco intervallo,
per
ingiottirlo tanta bocca aperse,
che
entrato un uomo vi saria a cavallo.
Si
spinse Orlando inanzi, e se gli immerse
con
quella ancora in gola, e s'io non fallo,
col
battello anco; e l'ancora attaccolle
e
nel palato e ne la lingua molle:
sì
che né più si puon calar di sopra,
né
alzar di sotto le mascelle orrende.
Così
chi ne le mine il ferro adopra,
la
terra, ovunque si fa via, suspende,
che
subita ruina non lo cuopra,
mentre
malcauto al suo lavoro intende.
Da
un amo all'altro l'ancora è tanto alta,
che
non v'arriva Orlando, se non salta.
Messo
il puntello, e fattosi sicuro
che
il mostro più serrar non può la bocca,
stringe
la spada, e per quel antro oscuro
di
qua e di là con tagli e punte tocca.
Come
si può, poi che son dentro al muro
giunti
i nimici, ben difender rocca;
così
difender l'orca si potea
dal
paladin che ne la gola avea.
Dal
dolor vinta, or sopra il mar si lancia,
e
mostra i fianchi e le scagliose schene;
or
dentro vi s'attuffa, e con la pancia
muove
dal fondo e fa salir l'arene.
Sentendo
l'acqua il cavallier di Francia,
che
troppo abonda, a nuoto fuor ne viene:
lascia
l'ancora fitta, e in mano prende
la
fune che da l'ancora depende.
E
con quella ne vien nuotando in fretta
verso
lo scoglio; ove fermato il piede,
tira
l'ancora a sé, che in bocca stretta
con
le due punte il brutto mostro fiede.
L'orca
a seguire il canape è costretta
da
quella forza che ogni forza eccede,
da
quella forza che più in una scossa
tira,
che in dieci un argano far possa.
Come
toro selvatico che al corno
gittar
si senta un improvviso laccio,
salta
di qua di là, s'aggira intorno,
si
colca e lieva, e non può uscir d'impaccio;
così
fuor del suo antico almo soggiorno
l'orca
tratta per forza di quel braccio,
con
mille guizzi e mille strane ruote
segue
la fune, e scior non se ne puote.
Di
bocca il sangue in tanta copia fonde,
che
questo oggi il mar Rosso si può dire,
dove
in tal guisa ella percuote l'onde,
che
insino al fondo le vedreste aprire;
ed
or ne bagna il cielo, e il lume asconde
del
chiaro sol: tanto le fa salire.
Rimbombano
al rumor che intorno s'ode,
le
selve, i monti e le lontane prode.
Fuor
de la grotta il vecchio Proteo, quando
ode
tanto rumor, sopra il mare esce;
e
visto entrare e uscir de l'orca Orlando,
e
al lito trar sì smisurato pesce,
fugge
per l'alto oceano, obliando
lo
sparso gregge: e sì il tumulto cresce,
che
fatto al carro i suoi delfini porre,
quel
dì Nettuno in Etiopia corre.
Con
Melicerta in collo Ino piangendo,
e
le Nereide coi capelli sparsi,
Glauci
e Tritoni, e gli altri, non sappiendo
dove,
chi qua chi là van per salvarsi.
Orlando
al lito trasse il pesce orrendo,
col
qual non bisognò più affaticarsi;
che
pel travaglio e per l'avuta pena,
prima
morì, che fosse in su l'arena.
De
l'isola non pochi erano corsi
a
riguardar quella battaglia strana;
i
quai da vana religion rimorsi,
così
sant'opra riputar profana:
e
dicean che sarebbe un nuovo torsi
Proteo
nimico, e attizzar l'ira insana,
da
farli porre il marin gregge in terra,
e
tutta rinovar l'antica guerra;
e
che meglio sarà di chieder pace
prima
all'offeso dio, che peggio accada;
e
questo si farà, quando l'audace
gittato
in mare a placar Proteo vada.
Come
dà fuoco l'una a l'altra face,
e
tosto alluma tutta una contrada,
così
d'un cor ne l'altro si difonde
l'ira
che Orlando vuol gittar ne l'onde.
Chi
d'una fromba e chi d'un arco armato,
chi
d'asta, chi di spada, al lito scende;
e
dinanzi e di dietro e d'ogni lato,
lontano
e appresso, a più poter l'offende.
Di
sì bestiale insulto e troppo ingrato
gran
meraviglia il paladin si prende:
pel
mostro ucciso ingiuria far si vede,
dove
aver ne sperò gloria e mercede.
Ma
come l'orso suol, che per le fiere
menato
sia da Rusci o da Lituani,
passando
per la via, poco temere
l'importuno
abbaiar di picciol cani,
che
pur non se li degna di vedere;
così
poco temea di quei villani
il
paladin, che con un soffio solo
ne
potrà fracassar tutto lo stuolo.
E
ben si fece far subito piazza
che
lor si volse, e Durindana prese.
S'avea
creduto quella gente pazza
che
le dovesse far poche contese,
quando
né indosso gli vedea corazza,
né
scudo in braccio, né alcun altro arnese;
ma
non sapea che dal capo alle piante
dura
la pelle avea più che diamante.
Quel
che d'Orlando agli altri far non lece,
di
far degli altri a lui già non è tolto.
Trenta
n'uccise, e furo in tutto diece
botte,
o se più, non le passò di molto.
Tosto
intorno sgombrar l'arena fece;
e
per slegar la donna era già volto,
quando
nuovo tumulto e nuovo grido
fe'
risuonar da un'altra parte il lido.
Mentre
avea il paladin da questa banda
così
tenuto i barbari impediti,
eran
senza contrasto quei d'Irlanda
da
più parte ne l'isola saliti;
e
spenta ogni pietà, strage nefanda
di
quel popul facean per tutti i liti:
fosse
iustizia, o fosse crudeltade,
né
sesso riguardavano né etade.
Nessun
ripar fan gli isolani, o poco;
parte,
che accolti son troppo improviso,
parte,
che poca gente ha il picciol loco,
e
quella poca è di nessun aviso.
L'aver
fu messo a sacco; messo fuoco
fu
ne le case: il populo fu ucciso:
le
mura fur tutte adeguate al suolo:
non
fu lasciato vivo un capo solo.
Orlando,
come gli appertenga nulla
l'alto
rumor, le strida e la ruina,
viene
a colei che su la pietra brulla
avea
da divorar l'orca marina.
Guarda,
e gli par conoscer la fanciulla;
e
più gli pare, e più che s'avicina:
gli
pare Olimpia: ed era Olimpia certo,
che
di sua fede ebbe sì iniquo merto.
Misera
Olimpia! a cui dopo lo scorno
che
gli fe' Amore, anco Fortuna cruda
mandò
i corsari (e fu il medesmo giorno),
che
la portaro all'isola d'Ebuda.
Riconosce
ella Orlando nel ritorno
che
fa allo scoglio: ma perche ella è nuda,
tien
basso il capo; e non che non gli parli,
ma
gli occhi non ardisce al viso alzarli.
Orlando
domandò che iniqua sorte
l'avesse
fatta all'isola venire
di
là dove lasciata col consorte
lieta
l'avea, quanto si può più dire.
-
Non so (disse ella) s'io v'ho, che la morte
voi
mi schivaste, grazie a riferire,
o
da dolermi che per voi non sia
oggi
finita la miseria mia.
Io
v'ho da ringraziar che una maniera
di
morir mi schivaste troppo enorme;
che
troppo saria enorme, se la fera
nel
brutto ventre avesse avuto a porme.
Ma
già non vi ringrazio che io non pera;
che
morte sol può di miseria torme:
ben
vi ringrazierò, se da voi darmi
quella
vedrò, che d'ogni duol può trarmi. -
Poi
con gran pianto seguitò, dicendo
come
lo sposo suo l'avea tradita;
che
la lasciò su l'isola dormendo,
donde
ella poi fu dai corsar rapita.
E
mentre ella parlava, rivolgendo
s'andava
in quella guisa che scolpita
o
dipinta è Diana ne la fonte,
che
getta l'acqua ad Ateone in fronte;
che,
quanto può, nasconde il petto e il ventre,
più
liberal dei fianchi e de le rene.
Brama
Orlando che in porto il suo legno entre;
che
lei, che sciolta avea da le catene,
vorria
coprir d'alcuna veste. Or mentre
che
a questo è intento, Oberto sopraviene,
Oberto
il re d'Ibernia, che avea inteso
che
il marin mostro era sul lito steso;
E
che nuotando un cavallier era ito
a
porgli in gola un'ancora assai grave;
e
che l'avea così tirato al lito,
come
si suol tirar contr'acqua nave.
Oberto,
per veder se riferito
colui
da chi l'ha inteso, il vero gli have,
se
ne vien quivi; e la sua gente intanto
arde
e distrugge Ebuda in ogni canto.
Il
re d'Ibernia, ancor che fosse Orlando,
di
sangue tinto, e d'acqua molle e brutto,
brutto
del sangue che si trasse quando
uscì
de l'orca in che era entrato tutto,
pel
conte l'andò pur raffigurando;
tanto
più che ne l'animo avea indutto,
tosto
che del valor sentì la nuova,
che
altri che Orlando non faria tal pruova.
Lo
conoscea, perche era stato infante
d'onore
in Francia, e se n'era partito
per
pigliar la corona, l'anno inante,
del
padre suo che era di vita uscito.
Tante
volte veduto, e tante e tante
gli
avea parlato, che era in infinito.
Lo
corse ad abbracciare e a fargli festa,
trattasi
la celata che avea in testa.
Non
meno Orlando di veder contento
si
mostrò il re, che il re di veder lui.
Poi
che furo a iterar l'abbracciamento
una
o due volte tornati amendui,
narrò
ad Oberto Orlando il tradimento
che
fu fatto alla giovane, e da cui
fatto
le fu; dal perfido Bireno,
che
via d'ogn'altro lo dovea far meno.
Le
prove gli narrò, che tante volte
ella
d'amarlo dimostrato avea:
come
i parenti e le sustanze tolte
le
furo, e al fin per lui morir volea;
e
che esso testimonio era di molte,
e
renderne buon conto ne potea.
Mentre
parlava, i begli occhi sereni
de
la donna di lagrime eran pieni.
Era
il bel viso suo, quale esser suole
da
primavera alcuna volta il cielo,
quando
la pioggia cade, e a un tempo il sole
si
sgombra intorno il nubiloso velo.
E
come il rosignuol dolci carole
mena
nei rami alor del verde stelo,
così
alle belle lagrime le piume
si
bagna Amore, e gode al chiaro lume.
E
ne la face de' begli occhi accende
l'aurato
strale, e nel ruscello amorza,
che
tra vermigli e bianchi fiori scende:
e
temprato che l'ha, tira di forza
contra
il garzon, che né scudo difende,
né
maglia doppia, né ferrigna scorza;
che
mentre sta a mirar gli occhi e le chiome,
si
sente il cor ferito, e non sa come.
Le
bellezze d'Olimpia eran di quelle
che
son più rare: e non la fronte sola,
gli
occhi e le guance e le chiome avea belle,
la
bocca, il naso, gli omeri e la gola;
ma
discendendo giù da le mammelle,
le
parti che solea coprir la stola,
fur
di tanta eccellenza, che anteporse
a
quante n'avea il mondo potean forse.
Vinceano
di candor le nievi intatte,
ed
eran più che avorio a toccar molli:
le
poppe ritondette parean latte
che
fuor dei giunchi allora allora tolli.
Spazio
fra lor tal discendea, qual fatte
esser
veggiàn fra picciolini colli
l'ombrose
valli, in sua stagione amene,
che
il verno abbia di nieve allora piene.
I
rilevati fianchi e le belle anche,
e
netto più che specchio il ventre piano,
pareano
fatti, e quelle coscie bianche,
da
Fidia a torno, o da più dotta mano.
Di
quelle parti debbovi dir anche,
che
pur celare ella bramava invano?
Dirò
insomma, che in lei dal capo al piede,
quant'esser
può beltà, tutta si vede.
Se
fosse stata ne le valli Idee
vista
dal Pastor frigio, io non so quanto
Vener,
sebben vincea quell'altre dee,
portato
avesse di bellezza il vanto:
né
forso ito saria ne le Amiclee
contrade
esso a violar l'ospizio santo;
ma
detto avria: - Con Menelao ti resta,
Elena
pur; che altra io non vo' che questa. -
E
se fosse costei stata a Crotone,
quando
Zeusi l'imagine far volse,
che
por dovea nel tempio di Iunone,
e
tante belle nude insieme accolse;
e
che, per una farne in perfezione,
da
chi una parte e da chi un'altra tolse:
non
avea da torre altra che costei;
che
tutte le bellezze erano in lei.
Io
non credo che mai Bireno, nudo
vedesse
quel bel corpo; che io son certo
che
stato non saria mai così crudo,
che
l'avesse lasciata in quel deserto.
Che
Oberto se n'accende, io vi concludo,
tanto
che il fuoco non può star coperto.
Si
studia consolarla, e darle speme
che
uscirà in bene il mal che ora la preme:
e
le promette andar seco in Olanda;
né
fin che ne lo stato la rimetta,
e
che abbia fatto iusta e memoranda
di
quel periuro e traditor vendetta,
non
cesserà con ciò che possa Irlanda,
e
lo farà quanto potrà più in fretta.
Cercare
intanto in quelle case e in queste
facea
di gonne e di feminee veste.
Bisogno
non sarà, per trovar gonne,
che
a cercar fuor de l'isola si mande;
che
ogni dì se n'avea da quelle donne
che
de l'avido mostro eran vivande.
Non
fe' molto cercar, che ritrovonne
di
varie fogge Oberto copia grande;
e
fe' vestir Olimpia, e ben gli increbbe
non
la poter vestir come vorrebbe.
Ma
né sì bella seta o sì fin'oro
mai
Fiorentini industri tesser fenno;
né
chi ricama fece mai lavoro,
postovi
tempo, diligenza e senno,
che
potesse a costui parer decoro,
se
lo fêsse Minerva o il dio di Lenno,
e
degno di coprir sì belle membre,
che
forza è ad or ad or se ne rimembre.
Per
più rispetti il paladino molto
si
dimostrò di questo amor contento:
che
oltre che il re non lascerebbe asciolto
Bireno
andar di tanto tradimento,
sarebbe
anche esso per tal mezzo tolto
di
grave e di noioso impedimento,
quivi
non per Olimpia, ma venuto
per
dar, se v'era, alla sua donna aiuto.
Che
ella non v'era si chiarì di corto,
ma
già non si chiarì se v'era stata;
perché
ogn'uomo ne l'isola era morto,
né
un sol rimaso di sì gran brigata.
Il
dì seguente si partir del porto,
e
tutti insieme andaro in una armata.
Con
loro andò in Irlanda il paladino;
che
fu per gire in Francia il suo camino.
A
pena un giorno si fermò in Irlanda;
non
valser preghi a far che più vi stesse:
Amor,
che dietro alla sua donna il manda,
di
fermarvisi più non gli concesse.
Quindi
si parte; e prima raccomanda
Olimpia
al re, che servi le promesse:
ben
che non bisognasse; che gli attenne
molto
più, che di far non si convenne.
Così
fra pochi dì gente raccolse;
e
fatto lega col re d'Inghilterra
e
con l'altro di Scozia, gli ritolse
Olanda,
e in Frisa non gli lasciò terra;
ed
a ribellione anco gli volse
la
sua Selandia: e non finì la guerra,
che
gli diè morte; né però fu tale
la
pena, che al delitto andasse eguale.
Olimpia
Oberto si pigliò per moglie,
e
di contessa la fe' gran regina.
Ma
ritorniamo al paladin che scioglie
nel
mar le vele, e notte e dì camina;
poi
nel medesmo porto le raccoglie,
donde
pria le spiegò ne la marina:
e
sul suo Brigliadoro armato salse,
e
lasciò dietro i venti e l'onde salse.
Credo
che il resto di quel verno cose
facesse
degne di tenerne conto;
ma
fur sin a quel tempo sì nascose,
che
non è colpa mia s'or non le conto;
perché
Orlando a far l'opre virtuose,
più
che a narrarle poi, sempre era pronto:
né
mai fu alcun de li suoi fatti espresso,
se
non quando ebbe i testimoni appresso.
Passò
il resto del verno così cheto,
che
di lui non si seppe cosa vera:
ma
poi che il sol ne l'animal discreto
che
portò Friso, illuminò la sfera,
e
Zefiro tornò soave e lieto
a
rimenar la dolce primavera;
d'Orlando
usciron le mirabil pruove
coi
vaghi fiori e con l'erbette nuove.
Di
piano in monte, e di campagna in lido,
pien
di travaglio e di dolor ne gìa;
quando
all'entrar d'un bosco, un lungo grido,
un
alto duol l'orecchie gli ferìa.
Spinge
il cavallo, e piglia il brando fido,
e
donde viene il suon, ratto s'invia:
ma
diferisco un'altra volta a dire
quel
che seguì, se mi vorrete udire.
CANTO
DODICESIMO.
Cerere,
poi che da la madre Idea
tornando
in fretta alla solinga valle,
là
dove calca la montagna Etnea
al
fulminato Encelado le spalle,
la
figlia non trovò dove l'avea
lasciata
fuor d'ogni segnato calle;
fatto
che ebbe alle guance, al petto, ai crini
e
agli occhi danno, al fin svelse duo pini;
e
nel fuoco gli accese di Vulcano,
e
diè lor non potere esser mai spenti:
e
portandosi questi uno per mano
sul
carro che tiravan dui serpenti,
cercò
le selve, i campi, il monte, il piano,
le
valli, i fiumi, li stagni, i torrenti,
la
terra e il mare; e poi che tutto il mondo
cercò
di sopra, andò al tartareo fondo.
S'in
poter fosse stato Orlando pare
all'Eleusina
dea, come in disio,
non
avria, per Angelica cercare,
lasciato
o selva o campo o stagno o rio
o
valle o monte o piano o terra o mare,
il
cielo e il fondo de l'eterno oblio;
ma
poi che il carro e i draghi non avea,
la
gìa cercando al meglio che potea.
L'ha
cercata per Francia: or s'apparecchia
per
Italia cercarla e per Lamagna,
per
la nuova Castiglia e per la vecchia,
e
poi passare in Libia il mar di Spagna.
Mentre
pensa così, sente all'orecchia
una
voce venir, che par che piagna:
si
spinge inanzi; e sopra un gran destriero
trottar
si vede innanzi un cavalliero,
che
porta in braccio e su l'arcion davante
per
forza una mestissima donzella.
Piange
ella, e si dibatte, e fa sembiante
di
gran dolore; ed in soccorso appella
il
valoroso principe d'Anglante;
che
come mira alla giovane bella,
gli
par colei, per cui la notte e il giorno
cercato
Francia avea dentro e d'intorno.
Non
dico che ella fosse, ma parea
Angelica
gentil che egli tant'ama.
Egli,
che la sua donna e la sua dea
vede
portar sì addolorata e grama,
spinto
da l'ira e da la furia rea,
con
voce orrenda il cavallier richiama;
richiama
il cavalliero e gli minaccia,
e
Brigliadoro a tutta briglia caccia.
Non
resta quel fellon, né gli risponde,
all'alta
preda, al gran guadagno intento,
e
sì ratto ne va per quelle fronde,
che
saria tardo a seguitarlo il vento.
L'un
fugge, e l'altro caccia; e le profonde
selve
s'odon sonar d'alto lamento.
Correndo
usciro in un gran prato; e quello
avea
nel mezzo un grande e ricco ostello.
Di
vari marmi con suttil lavoro
edificato
era il palazzo altiero.
Corse
dentro alla porta messa d'oro
con
la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo
non molto giunse Brigliadoro,
che
porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando,
come è dentro, gli occhi gira;
né
più il guerrier, né la donzella mira.
Subito
smonta, e fulminando passa
dove
più dentro il bel tetto s'alloggia:
corre
di qua, corre di là, né lassa
che
non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi
che i segreti d'ogni stanza bassa
ha
cerco invan, su per le scale poggia;
e
non men perde anco a cercar di sopra,
che
perdessi di sotto, il tempo e l'opra.
D'oro
e di seta i letti ornati vede:
nulla
de muri appar né de pareti;
che
quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son
da cortine ascose e da tapeti.
Di
su di giù va il conte Orlando e riede;
né
per questo può far gli occhi mai lieti
che
riveggiano Angelica, o quel ladro
che
n'ha portato il bel viso leggiadro.
E
mentre or quinci or quindi invano il passo
movea,
pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù,
Brandimarte e il re Gradasso,
re
Sacripante ed altri cavallieri
vi
ritrovò, che andavano alto e basso,
né
men facean di lui vani sentieri;
e
si ramaricavan del malvagio
invisibil
signor di quel palagio.
Tutti
cercando il van, tutti gli dànno
colpa
di furto alcun che lor fatt'abbia:
del
destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
che
abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri
d'altro l'accusa: e così stanno,
che
non si san partir di quella gabbia;
e
vi son molti, a questo inganno presi,
stati
le settimane intiere e i mesi.
Orlando,
poi che quattro volte e sei
tutto
cercato ebbe il palazzo strano,
disse
fra sé: - Qui dimorar potrei,
gittare
il tempo e la fatica invano:
e
potria il ladro aver tratta costei
da
un'altra uscita, e molto esser lontano. -
Con
tal pensiero uscì nel verde prato,
dal
qual tutto il palazzo era aggirato.
Mentre
circonda la casa silvestra,
tenendo
pur a terra il viso chino,
per
veder s'orma appare, o da man destra
o
da sinistra, di nuovo camino;
si
sente richiamar da una finestra:
e
leva gli occhi; e quel parlar divino
gli
pare udire, e par che miri il viso,
che
l'ha da quel che fu, tanto diviso.
Pargli
Angelica udir, che supplicando
e
piangendo gli dica: - Aita, aita!
la
mia virginità ti raccomando
più
che l'anima mia, più che la vita.
Dunque
in presenza del mio caro Orlando
da
questo ladro mi sarà rapita?
più
tosto di tua man dammi la morte,
che
venir lasci a sì infelice sorte. -
Queste
parole una ed un'altra volta
fanno
Orlando tornar per ogni stanza,
con
passione e con fatica molta,
ma
temperata pur d'alta speranza.
Talor
si ferma, ed una voce ascolta,
che
di quella d'Angelica ha sembianza
(e
s'egli è da una parte, suona altronde),
che
chieggia aiuto; e non sa trovar donde.
Ma
tornando a Ruggier, che io lasciai quando
dissi
che per sentiero ombroso e fosco
il
gigante e la donna seguitando,
in
un gran prato uscito era del bosco;
io
dico che arrivò qui dove Orlando
dianzi
arrivò, se il loco riconosco.
Dentro
la porta il gran gigante passa:
Ruggier
gli è appresso, e di seguir non lassa.
Tosto
che pon dentro alla soglia il piede,
per
la gran corte e per le logge mira;
né
più il gigante né la donna vede,
e
gli occhi indarno or quinci or quindi aggira.
Di
su di giù va molte volte e riede;
né
gli succede mai quel che desira:
né
si sa imaginar dove sì tosto
con
la donna il fellon si sia nascosto.
Poi
che revisto ha quattro volte e cinque
di
su di giù camere e logge e sale,
pur
di nuovo ritorna, e non relinque
che
non ne cerchi fin sotto le scale.
Con
speme al fin che sian ne le propinque
selve,
si parte: ma una voce, quale
richiamò
Orlando, lui chiamò non manco;
e
nel palazzo il fe' ritornar anco.
Una
voce medesma, una persona
che
paruta era Angelica ad Orlando,
parve
a Ruggier la donna di Dordona,
che
lo tenea di sé medesmo in bando.
Se
con Gradasso o con alcun ragiona
di
quei che andavan nel palazzo errando,
a
tutti par che quella cosa sia,
che
più ciascun per sé brama e desia.
Questo
era un nuovo e disusato incanto
che
avea composto Atlante di Carena,
perché
Ruggier fosse occupato tanto
in
quel travaglio, in quella dolce pena,
che
il mal'influsso n'andasse da canto,
l'influsso
che a morir giovene il mena.
Dopo
il castel d'acciar, che nulla giova,
e
dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova.
Non
pur costui, ma tutti gli altri ancora,
che
di valore in Francia han maggior fama,
acciò
che di lor man Ruggier non mora,
condurre
Atlante in questo incanto trama.
E
mentre fa lor far quivi dimora,
perché
di cibo non patischin brama,
sì
ben fornito avea tutto il palagio,
che
donne e cavallier vi stanno ad agio.
Ma
torniamo ad Angelica, che seco
avendo
quell'annel mirabil tanto,
che
in bocca a veder lei fa l'occhio cieco,
nel
dito, l'assicura da l'incanto;
e
ritrovato nel montano speco
cibo
avendo e cavalla e veste e quanto
le
fu bisogno, avea fatto disegno
di
ritornare in India al suo bel regno.
Orlando
volentieri o Sacripante
voluto
avrebbe in compania: non che ella
più
caro avesse l'un che l'altro amante;
anzi
di par fu a' lor disii ribella:
ma
dovendo, per girsene in Levante,
passar
tante città, tante castella,
di
compagnia bisogno avea e di guida,
né
potea aver con altri la più fida.
Or
l'uno or l'altro andò molto cercando,
prima
che indizio ne trovasse o spia,
quando
in cittade, e quando in ville, e quando
in
alti boschi, e quando in altra via.
Fortuna
al fin là dove il conte Orlando,
Ferraù
e Sacripante era, la invia,
con
Ruggier, con Gradasso ed altri molti
che
v'avea Atlante in strano intrico avolti.
Quivi
entra, che veder non la può il mago,
e
cerca il tutto, ascosa dal suo annello;
e
trova Orlando e Sacripante vago
di
lei cercare invan per quello ostello.
Vede
come, fingendo la sua immago,
Atlante
usa gran fraude a questo e a quello.
Chi
tor debba di lor, molto rivolve
nel
suo pensier, né ben se ne risolve.
Non
sa stimar chi sia per lei migliore,
il
conte Orlando o il re dei fier Circassi.
Orlando
la potrà con più valore
meglio
salvar nei perigliosi passi:
ma
se sua guida il fa, sel fa signore;
che
ella non vede come poi l'abbassi,
qualunque
volta, di lui sazia, farlo
voglia
minore, o in Francia rimandarlo.
Ma
il Circasso depor, quando le piaccia,
potrà,
se ben l'avesse posto in cielo.
Questa
sola cagion vuol che ella il faccia
sua
scorta, e mostri avergli fede e zelo.
L'annel
trasse di bocca, e di sua faccia
levò
dagli occhi a Sacripante il velo.
Credette
a lui sol dimostrarsi, e avenne
che
Orlando e Ferraù le sopravenne.
Le
sopravenne Ferraù ed Orlando;
che
l'uno e l'altro parimente giva
di
su di giù, dentro e di fuor cercando
del
gran palazzo lei, che era lor diva.
Corser
di par tutti alla donna, quando
nessuno
incantamento gli impediva:
perché
l'annel che ella si pose in mano,
fece
d'Atlante ogni disegno vano.
L'usbergo
indosso aveano e l'elmo in testa
dui
di questi guerrier, dei quali io canto;
né
notte o dì, dopo che entraro in questa
stanza,
l'aveano mai messi da canto;
che
facile a portar, come la vesta,
era
lor, perché in uso l'avean tanto.
Ferraù
il terzo era anco armato, eccetto
che
non avea né volea avere elmetto,
fin
che quel non avea, che il paladino
tolse
Orlando al fratel del re Troiano;
che
allora lo giurò, che l'elmo fino
cercò
de l'Argalia nel fiume invano:
e
se ben quivi Orlando ebbe vicino,
né
però Ferraù pose in lui mano;
avenne,
che conoscersi tra loro
non
si poter, mentre là dentro foro.
Era
così incantato quello albergo,
che
insieme riconoscer non poteansi.
Né
notte mai né dì, spada né usbergo
né
scudo pur dal braccio rimoveansi.
I
lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo
i morsi da l'arcion, pasceansi
in
una stanza, che presso all'uscita,
d'orzo
e di paglia sempre era fornita.
Atlante
riparar non sa né puote,
che
in sella non rimontino i guerrieri
per
correr dietro alle vermiglie gote,
all'auree
chiome ed a' begli occhi neri
de
la donzella, che in fuga percuote
la
sua iumenta, perché volentieri
non
vede li tre amanti in compagnia,
che
forse tolti un dopo l'altro avria.
E
poi che dilungati dal palagio
gli
ebbe sì, che temer più non dovea
che
contra lor l'incantator malvagio
potesse
oprar la sua fallacia rea;
l'annel
che le schivò più d'un disagio,
tra
le rosate labra si chiudea:
donde
lor sparve subito dagli occhi,
e
gli lasciò come insensati e sciocchi.
Come
che fosse il suo primier disegno
di
voler seco Orlando o Sacripante,
che
a ritornar l'avessero nel regno
di
Galafron ne l'ultimo Levante;
le
vennero amendua subito a sdegno,
e
si mutò di voglia in uno istante:
e
senza più obligarsi o a questo o a quello,
pensò
bastar per amendua il suo annello.
Volgon
pel bosco or quinci or quindi in fretta
quelli
scherniti la stupida faccia;
come
il cane talor, se gli è intercetta
o
lepre o volpe, a cui dava la caccia,
che
d'improviso in qualche tana stretta
o
in folta macchia o in un fosso si caccia.
Di
lor si ride Angelica proterva,
che
non è vista, e i lor progressi osserva.
Per
mezzo il bosco appar sol una strada:
credono
i cavallier che la donzella
inanzi
a lor per quella se ne vada;
che
non se ne può andar, se non per quella.
Orlando
corre, e Ferraù non bada,
né
Sacripante men sprona e puntella.
Angelica
la briglia più ritiene,
e
dietro lor con minor fretta viene.
Giunti
che fur, correndo, ove i sentieri
a
perder si venian ne la foresta,
e
cominciar per l'erba i cavallieri
a
riguardar se vi trovavan pesta;
Ferraù,
che potea fra quanti altieri
mai
fosser, gir con la corona in testa,
si
volse con mal viso agli altri dui,
e
gridò lor: - Dove venite vui?
Tornate
a dietro, o pigliate altra via,
se
non volete rimaner qui morti:
né
in amar né in seguir la donna mia
si
creda alcun, che compagnia comporti. -
Disse
Orlando al Circasso: - Che potria
più
dir costui, s'ambi ci avesse scorti
per
le più vili e timide puttane
che
da conocchie mai traesser lane?
Poi
volto a Ferraù, disse: - Uom bestiale,
s'io
non guardassi che senza elmo sei,
di
quel c'hai detto, s'hai ben detto o male,
senz'altra
indugia accorger ti farei. -
Disse
il Spagnuol: - Di quel che a me non cale,
perché
pigliarne tu cura ti dei?
Io
sol contra ambidui per far son buono
quel
che detto ho, senza elmo come sono. -
-
Deh (disse Orlando al re di Circassia),
in
mio servigio a costui l'elmo presta,
tanto
che io gli abbia tratta la pazzia;
che
altra non vidi mai simile a questa. -
Rispose
il re: - Chi più pazzo saria?
Ma
se ti par pur la domanda onesta,
prestagli
il tuo; che io non sarò men atto,
che
tu sia forse, a castigare un matto. -
Soggiunse
Ferraù: - Sciocchi voi, quasi
che,
se mi fosse il portar elmo a grado,
voi
senza non ne fosse già rimasi;
che
tolti i vostri avrei, vostro mal grado.
Ma
per narrarvi in parte li miei casi,
per
voto così senza me ne vado,
ed
anderò, fin che io non ho quel fino
che
porta in capo Orlando paladino. -
-
Dunque (rispose sorridente il conte)
ti
pensi a capo nudo esser bastante
far
ad Orlando quel che in Aspramonte
egli
già fece al figlio d'Agolante?
Anzi
credo io, se tel vedessi a fronte,
ne
tremeresti dal capo alle piante;
non
che volessi l'elmo, ma daresti
l'altre
arme a lui di patto, che tu vesti. -
Il
vantator Spagnuol disse: - Già molte
fiate
e molte ho così Orlando astretto,
che
facilmente l'arme gli avrei tolte,
quante
indosso n'avea, non che l'elmetto;
e
s'io nol feci, occorrono alle volte
pensier
che prima non s'aveano in petto:
non
n'ebbi, già fu, voglia; or l'aggio, e spero
che
mi potrà succeder di leggiero. -
Non
potè aver più pazienza Orlando
e
gridò: - Mentitor, brutto marrano,
in
che paese ti trovasti, e quando,
a
poter più di me con l'arme in mano?
Quel
paladin, di che ti vai vantando,
son
io, che ti pensavi esser lontano.
Or
vedi se tu puoi l'elmo levarme,
o
s'io son buon per torre a te l'altre arme.
Né
da te voglio un minimo vantaggio. -
Così
dicendo, l'elmo si disciolse,
e
lo suspese a un ramuscel di faggio;
e
quasi a un tempo Durindana tolse.
Ferraù
non perdè di ciò il coraggio:
trasse
la spada, e in atto si raccolse,
onde
con essa e col levato scudo
potesse
ricoprirsi il capo nudo.
Così
li duo guerrieri incominciaro,
lor
cavalli aggirando, a volteggiarsi;
e
dove l'arme si giungeano, e raro
era
più il ferro, col ferro a tentarsi.
Non
era in tutto il mondo un altro paro
che
più di questo avessi ad accoppiarsi:
pari
eran di vigor, pari d'ardire;
né
l'un né l'altro si potea ferire.
Che
abbiate, Signor mio, già inteso estimo,
che
Ferraù per tutto era fatato,
fuor
che là dove l'alimento primo
piglia
il bambin nel ventre ancor serrato:
e
fin che del sepolcro il tetro limo
la
faccia gli coperse, il luogo armato
usò
portar, dove era il dubbio, sempre
di
sette piastre fatte a buone tempre.
Era
ugualmente il principe d'Anglante
tutto
fatato, fuor che in una parte:
ferito
esser potea sotto le piante;
ma
le guardò con ogni studio ed arte.
Duro
era il resto lor più che diamante
(se
la fama dal ver non si diparte);
e
l'uno e l'altro andò, più per ornato
che
per bisogno, alle sue imprese armato.
S'incrudelisce
e inaspra la battaglia,
d'orrore
in vista e di spavento piena.
Ferraù,
quando punge e quando taglia,
né
mena botta che non vada piena:
ogni
colpo d'Orlando o piastra o maglia
e
schioda e rompe ed apre e a straccio mena.
Angelica
invisibile lor pon mente,
sola
a tanto spettacolo presente.
Intanto
il re di Circassia, stimando
che
poco inanzi Angelica corresse,
poi
che attaccati Ferraù ed Orlando
vide
restar, per quella via si messe,
che
si credea che la donzella, quando
da
lor disparve, seguitata avesse:
sì
che a quella battaglia la figliuola
di
Galafron fu testimonia sola.
Poi
che, orribil come era e spaventosa,
l'ebbe
da parte ella mirata alquanto,
e
che le parve assai pericolosa
così
da l'un come da l'altro canto;
di
veder novità voluntarosa,
disegnò
l'elmo tor, per mirar quanto
fariano
i duo guerrier, vistosel tolto;
ben
con pensier di non tenerlo molto.
Ha
ben di darlo al conte intenzione;
na
se ne vuole in prima pigliar gioco.
L'elmo
dispicca, e in grembio se lo pone,
e
sta a mirare i cavallieri un poco.
Di
poi si parte, e non fa lor sermone;
e
lontana era un pezzo da quel loco,
prima
che alcun di lor v'avesse mente:
sì
l'uno e l'altro era ne l'ira ardente.
Ma
Ferraù, che prima v'ebbe gli occhi,
si
dispiccò da Orlando, e disse a lui:
-
Deh come n'ha da male accorti e sciocchi
trattati
il cavallier che era con nui!
Che
premio fia che al vincitor più tocchi,
se
il bel elmo involato n'ha costui? -
Ritrassi
Orlando, e gli occhi al ramo gira:
non
vede l'elmo, e tutto avampa d'ira.
E
nel parer di Ferraù concorse,
che
il cavallier che dianzi era con loro
se
lo portasse; onde la briglia torse,
e
fe' sentir gli sproni a Brigliadoro.
Ferraù
che del campo il vide torse,
gli
venne dietro; e poi che giunti foro
dove
ne l'erba appar l'orma novella
che
avea fatto il Circasso e la donzella,
prese
la strada alla sinistra il conte
verso
una valle, ove il Circasso era ito:
si
tenne Ferraù più presso al monte,
dove
il sentiero Angelica avea trito.
Angelica
in quel mezzo ad una fonte
giunta
era, ombrosa e di giocondo sito,
che
ognun che passa, alle fresche ombre invita,
né,
senza ber, mai lascia far partita.
Angelica
si ferma alle chiare onde,
non
pensando che alcun le sopravegna;
e
per lo sacro annel che la nasconde,
non
può temer che caso rio le avegna.
A
prima giunta in su l'erbose sponde
del
rivo l'elmo a un ramuscel consegna;
poi
cerca, ove nel bosco è miglior frasca,
la
iumenta legar, perché si pasca.
Il
cavallier di Spagna, che venuto
era
per l'orme, alla fontana giunge.
Non
l'ha sì tosto Angelica veduto,
che
gli dispare, e la cavalla punge.
L'elmo,
che sopra l'erba era caduto,
ritor
non può, che troppo resta lunge.
Come
il pagan d'Angelica s'accorse,
tosto
vêr lei pien di letizia corse.
Gli
sparve, come io dico, ella davante,
come
fantasma al dipartir del sonno.
Cercando
egli la va per quelle piante
né
i miseri occhi più veder la ponno.
Bestemiando
Macone e Trivigante,
e
di sua legge ogni maestro e donno,
ritornò
Ferraù verso la fonte,
u'
ne l'erba giacea l'elmo del conte.
Lo
riconobbe, tosto che mirollo,
per
lettere che avea scritte ne l'orlo;
che
dicean dove Orlando guadagnollo,
e
come e quando, ed a chi fe' deporlo.
Armossene
il pagano il capo e il collo,
che
non lasciò, pel duol che avea, di torlo;
pel
duol che avea di quella che gli sparve,
come
sparir soglion notturne larve.
Poi
che allacciato s'ha il buon elmo in testa,
aviso
gli è, che a contentarsi a pieno,
sol
ritrovare Angelica gli resta,
che
gli appar e dispar come baleno.
Per
lei tutta cercò l'alta foresta:
e
poi che ogni speranza venne meno
di
più poterne ritrovar vestigi,
tornò
al campo spagnuol verso Parigi;
temperando
il dolor che gli ardea il petto,
di
non aver sì gran disir sfogato,
col
refrigerio di portar l'elmetto
che
fu d'Orlando, come avea giurato.
Dal
conte, poi che il certo gli fu detto,
fu
lungamente Ferraù cercato;
né
fin quel dì dal capo gli lo sciolse,
che
fra duo ponti la vita gli tolse.
Angelica
invisibile e soletta
via
se ne va, ma con turbata fronte;
che
de l'elmo le duol, che troppa fretta
le
avea fatto lasciar presso alla fonte.
-
Per voler far quel che a me far non spetta
(tra
sé dicea), levato ho l'elmo al conte:
questo,
pel primo merito, è assai buono
di
quanto a lui pur ubligata sono.
Con
buona intenzione (e sallo Idio),
ben
che diverso e tristo effetto segua,
io
levai l'elmo: e solo il pensier mio
fu
di ridur quella battaglia a triegua;
e
non che per mio mezzo il suo disio
questo
brutto Spagnuol oggi consegua. -
Così
di sé s'andava lamentando
d'aver
de l'elmo suo privato Orlando.
Sdegnata
e malcontenta la via prese,
che
le parea miglior, verso Oriente.
Più
volte ascosa andò, talor palese,
secondo
era oportuno, infra la gente.
Dopo
molto veder molto paese,
giunse
in un bosco, dove iniquamente
fra
duo compagni morti un giovinetto
trovò,
che era ferito in mezzo il petto.
Ma
non dirò d'Angelica or più inante;
che
molte cose ho da narrarvi prima:
né
sono a Ferraù né a Sacripante,
sin
a gran pezzo per donar più rima.
Da
lor mi leva il principe d'Anglante,
che
di sé vuol che inanzi agli altri esprima
le
fatiche e gli affanni che sostenne
nel
gran disio, di che a fin mai non venne.
Alla
prima città che egli ritruova
(perché
d'andare occulto avea gran cura)
si
pone in capo una barbuta nuova,
senza
mirar s'ha debil tempra o dura:
sia
qual si vuol, poco gli nuoce o giova;
sì
ne la fatagion si rassicura.
Così
coperto seguita l'inchiesta;
né
notte, o giorno, o pioggia, o sol l'arresta.
Era
ne l'ora, che trae i cavalli
Febo
del mar con rugiadoso pelo,
e
l'Aurora di fior vermigli e gialli
venìa
spargendo d'ogn'intorno il cielo;
e
lasciato le stelle aveano i balli,
e
per partirsi postosi già il velo:
quando
appresso a Parigi un dì passando,
mostrò
di sua virtù gran segno Orlando.
In
dua squadre incontrossi: e Manilardo
ne
reggea l'una, il Saracin canuto,
re
di Norizia, già fiero e gagliardo,
or
miglior di consiglio che d'aiuto;
guidava
l'altra sotto il suo stendardo
il
re di Tremisen, che era tenuto
tra
gli Africani cavallier perfetto:
Alzirdo
fu, da chi il conobbe, detto.
Questi
con l'altro esercito pagano
quella
invernata avean fatto soggiorno,
chi
presso alla città, chi più lontano,
tutti
alle ville o alle castella intorno:
che
avendo speso il re Agramante invano,
per
espugnar Parigi, più d'un giorno,
volse
tentar l'assedio finalmente,
poi
che pigliar non lo potea altrimente.
E
per far questo avea gente infinita;
che
oltre a quella che con lui giunt'era,
e
quella che di Spagna avea seguita
del
re Marsilio la real bandiera
molta
di Francia n'avea al soldo unita;
che
da Parigi insino alla riviera
d'Arli,
con parte di Guascogna (eccetto
alcune
rocche) avea tutto suggetto.
Or
cominciando i trepidi ruscelli
a
sciorre il freddo giaccio in tiepide onde,
e
i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli
a
rivestirsi di tenera fronde;
ragunò
il re Agramante tutti quelli
che
seguian le fortune sue seconde,
per
farsi rassegnar l'armata torma;
indi
alle cose sue dar miglior forma.
A
questo effetto il re di Tremisenne
con
quel de la Norizia ne venìa,
per
là giungere a tempo, ove si tenne
poi
conto d'ogni squadra o buona o ria.
Orlando
a caso ad incontrar si venne
(come
io v'ho detto) in questa compagnia,
cercando
pur colei, come egli era uso,
che
nel carcer d'Amor lo tenea chiuso.
Come
Alzirdo appressar vide quel conte
che
di valor non avea pari al mondo,
in
tal sembiante, in sì superba fronte,
che
il dio de l'arme a lui parea secondo;
restò
stupito alle fattezze conte,
al
fiero sguardo, al viso furibondo:
e
lo stimò guerrier d'alta prodezza;
ma
ebbe del provar troppa vaghezza.
Era
giovane Alzirdo, ed arrogante
per
molta forza, e per gran cor pregiato.
Per
giostrar spinse il suo cavallo inante:
meglio
per lui, se fosse in schiera stato;
che
ne lo scontro il principe d'Anglante
lo
fe' cader per mezzo il cor passato.
Giva
in fuga il destrier di timor pieno,
che
su non v'era chi reggesse il freno.
Levasi
un grido subito ed orrendo,
che
d'ogn'intorno n'ha l'aria ripiena,
come
si vede il giovene, cadendo,
spicciar
il sangue di sì larga vena.
La
turba verso il conte vien fremendo
disordinata,
e tagli e punte mena;
ma
quella è più, che con pennuti dardi
tempesta
il fior dei cavallier gagliardi.
Con
qual rumor la setolosa frotta
correr
da monti suole o da campagne,
se
il lupo uscito di nascosa grotta,
o
l'orso sceso alle minor montagne,
un
tener porco preso abbia talotta,
che
con grugnito e gran stridor si lagne;
con
tal lo stuol barbarico era mosso
verso
il conte, gridando: - Addosso, addosso! -
Lance,
saette e spade ebbe l'usbergo
a
un tempo mille, e lo scudo altretante:
chi
gli percuote con la mazza il tergo,
chi
minaccia da lato, e chi davante.
Ma
quel, che al timor mai non diede albergo,
estima
la vil turba e l'arme tante,
quel
che dentro alla mandra, all'aer cupo,
il
numer de l'agnelle estimi il lupo.
Nuda
avea in man quella fulminea spada
che
posti ha tanti Saracini a morte:
dunque
chi vuol di quanta turba cada
tenere
il conto, ha impresa dura e forte.
Rossa
di sangue già correa la strada,
capace
a pena a tante genti morte;
perché
né targa né capel difende
la
fatal Durindana, ove discende,
né
vesta piena di cotone, o tele
che
circondino il capo in mille vòlti.
Non
pur per l'aria gemiti e querele,
ma
volan braccia e spalle e capi sciolti.
Pel
campo errando va Morte crudele
in
molti, vari, e tutti orribil volti;
e
tra sé dice: - In man d'Orlando valci
Durindana
per cento de mie falci. -
Una
percossa a pena l'altra aspetta.
Ben
tosto cominciar tutti a fuggire;
e
quando prima ne veniano in fretta
(perche
era sol, credeanselo inghiottire),
non
è chi per levarsi de la stretta
l'amico
aspetti, e cerchi insieme gire:
chi
fugge a piedi in qua, chi colà sprona;
nessun
domanda se la strada è buona.
Virtude
andava intorno con lo speglio
che
fa veder ne l'anima ogni ruga:
nessun
vi si mirò, se non un veglio
a
cui il sangue l'età, non l'ardir, sciuga.
Vide
costui quanto il morir sia meglio,
che
con suo disonor mettersi in fuga:
dico
il re di Norizia; onde la lancia
arrestò
contra il paladin di Francia.
E
la roppe alla penna de lo scudo
del
fiero conte, che nulla si mosse.
Egli
che avea alla posta il brando nudo,
re
Manilardo al trapassar percosse.
Fortuna
l'aiutò; che il ferro crudo
in
man d'Orlando al venir giù voltosse:
tirare
i colpi a filo ognor non lece;
ma
pur di sella stramazzar lo fece.
Stordito
de l'arcion quel re stramazza:
non
si rivolge Orlando a rivederlo;
che
gli altri taglia, tronca, fende, amazza;
a
tutti pare in su le spalle averlo.
Come
per l'aria, ove han sì larga piazza,
fuggon
li storni da l'audace smerlo,
così
di quella squadra ormai disfatta
altri
cade, altri fugge, altri s'appiatta.
Non
cessò pria la sanguinosa spada,
che
fu di viva gente il campo voto.
Orlando
è in dubbio a ripigliar la strada,
ben
che gli sia tutto il paese noto.
O
da man destra o da sinistra vada,
il
pensier da l'andar sempre è remoto:
d'Angelica
cercar, fuor che ove sia,
teme,
e di far sempre contraria via.
Il
suo camin (di lei chiedendo spesso)
or
per li campi or per le selve tenne:
e
sì come era uscito di se stesso,
uscì
di strada; e a piè d'un monte venne,
dove
la notte fuor d'un sasso fesso
lontan
vide un splendor batter le penne.
Orlando
al sasso per veder s'accosta,
se
quivi fosse Angelica reposta.
Come
nel bosco de l'umil ginepre,
o
ne la stoppia alla campagna aperta,
quando
si cerca la paurosa lepre
per
traversati solchi e per via incerta,
si
va ad ogni cespuglio, ad ogni vepre,
se
per ventura vi fosse coperta;
così
cercava Orlando con gran pena
la
donna sua, dove speranza il mena.
Verso
quel raggio andando in fretta il conte,
giunse
ove ne la selva si diffonde
da
l'angusto spiraglio di quel monte,
che
una capace grotta in sé nasconde;
e
trova inanzi ne la prima fronte
spine
e virgulti, come mura e sponde,
per
celar quei che ne la grotta stanno,
da
chi far lor cercasse oltraggio e danno.
Di
giorno ritrovata non sarebbe,
ma
la facea di notte il lume aperta.
Orlando
pensa ben quel che esser debbe;
pur
vuol saper la cosa anco più certa.
Poi
che legato fuor Brigliadoro ebbe,
tacito
viene alla grotta coperta:
e
fra li spessi rami ne la buca
entra,
senza chiamar chi l'introduca.
Scende
la tomba molti gradi al basso,
dove
la viva gente sta sepolta.
Era
non poco spazioso il sasso
tagliato
a punte di scarpelli in volta;
né
di luce diurna in tutto casso,
ben
che l'entrata non ne dava molta;
ma
ve ne venìa assai da una finestra
che
sporgea in un pertugio da man destra.
In
mezzo la spelonca, appresso a un fuoco,
era
una donna di giocondo viso;
quindici
anni passar dovea di poco,
quanto
fu al conte, al primo sguardo, aviso:
ed
era bella sì, che facea il loco
salvatico
parere un paradiso;
ben
che avea gli occhi di lacrime pregni,
del
cor dolente manifesti segni.
V'era
una vecchia; e facean gran contese
(come
uso feminil spesso esser suole),
ma
come il conte ne la grotta scese,
finiron
le dispùte e le parole.
Orlando
a salutarle fu cortese
(come
con donne sempre esser si vuole),
ed
elle si levaro immantinente,
e
lui risalutar benignamente.
Gli
è ver che si smarriro in faccia alquanto,
come
improviso udiron quella voce,
e
insieme entrare armato tutto quanto
vider
là dentro un uom tanto feroce.
Orlando
domandò qual fosse tanto
scortese,
ingiusto, barbaro ed atroce,
che
ne la grotta tenesse sepolto
un
sì gentile ed amoroso volto.
La
vergine a fatica gli rispose,
interrotta
da fervidi signiozzi,
che
dai coralli e da le preziose
perle
uscir fanno i dolci accenti mozzi.
Le
lacrime scendean tra gigli e rose,
là
dove avien che alcuna se n'inghiozzi.
Piacciavi
udir ne l'altro canto il resto,
Signor,
che tempo è ormai di finir questo.
CANTO
TREDICESIMO.
Ben
furo aventurosi i cavallieri
che
erano a quella età, che nei valloni,
ne
le scure spelonche e boschi fieri,
tane
di serpi, d'orsi e di leoni,
trovavan
quel che nei palazzi altieri
a
pena or trovar puon giudici buoni:
donne,
che ne la lor più fresca etade
sien
degne d'aver titol di beltade.
Di
sopra vi narrai che ne la grotta
avea
trovato Orlando una donzella,
e
che la dimandò che ivi condotta
l'avesse:
or seguitando, dico che ella,
poi
che più d'un signiozzo l'ha interrotta,
con
dolce e suavissima favella
al
conte fa le sue sciagure note,
con
quella brevità che meglio puote.
-
Ben che io sia certa (dice), o cavalliero,
che
io porterò del mio parlar supplizio,
perché
a colui che qui m'ha chiusa, spero
che
costei ne darà subito indizio;
pur
son disposta non celarti il vero,
e
vada la mia vita in precipizio.
E
che aspettar poss'io da lui più gioia,
che
il si disponga un dì voler che io muoia?
Isabella
sono io, che figlia fui
del
re mal fortunato di Gallizia.
Ben
dissi fui; che or non son più di lui,
ma
di dolor, d'affanno e di mestizia.
Colpa
d'Amor; che io non saprei di cui
dolermi
più che de la sua nequizia,
che
dolcemente nei principi applaude,
e
tesse di nascosto inganno e fraude.
Già
mi vivea di mia sorte felice,
gentil,
giovane, ricca, onesta e bella:
vile
e povera or sono, or infelice;
e
s'altra è peggior sorte, io sono in quella.
Ma
voglio sappi la prima radice
che
produsse quel mal che mi flagella;
e
ben che aiuto poi da te non esca,
poco
non mi parrà, che te n'incresca.
Mio
patre fe' in Baiona alcune giostre,
esser
denno oggimai dodici mesi.
Trasse
la fama ne le terre nostre
cavallieri
a giostrar di più paesi.
Fra
gli altri (o sia che Amor così mi mostre,
o
che virtù pur se stessa palesi)
mi
parve da lodar Zerbino solo,
che
del gran re di Scozia era figliuolo.
Il
qual poi che far pruove in campo vidi
miracolose
di cavalleria,
fui
presa del suo amore; e non m'avidi,
che
io mi conobbi più non esser mia.
E
pur, ben che il suo amor così mi guidi,
mi
giova sempre avere in fantasia
che
io non misi il mio core in luogo immondo,
ma
nel più degno e bel che oggi sia al mondo.
Zerbino
di bellezza e di valore
sopra
tutti i signori era eminente.
Mostrammi,
e credo mi portasse amore,
e
che di me non fosse meno ardente.
Non
ci mancò chi del commune ardore
interprete
fra noi fosse sovente,
poi
che di vista ancor fummo disgiunti;
che
gli animi restar sempre congiunti.
Però
che dato fine alla gran festa,
Il
mio Zerbino in Scozia fe' ritorno.
Se
sai che cosa è amor, ben sai che mesta
restai,
di lui pensando notte e giorno;
ed
era certa che non men molesta
fiamma
intorno al suo cor facea soggiorno.
Egli
non fece al suo disio più schermi,
se
non che cercò via di seco avermi.
E
perché vieta la diversa fede
(essendo
egli cristiano, io saracina)
che
al mio padre per moglie non mi chiede,
per
furto indi levarmi si destina.
Fuor
de la ricca mia patria, che siede
tra
verdi campi allato alla marina,
aveva
un bel giardin sopra una riva,
che
colli intorno e tutto il mar scopriva.
Gli
parve il luogo a fornir ciò disposto,
che
la diversa religion ci vieta;
e
mi fa saper l'ordine che posto
avea
di far la nostra vita lieta.
Appresso
a Santa Marta avea nascosto
con
gente armata una galea secreta,
in
guardia d'Odorico di Biscaglia,
in
mare e in terra mastro di battaglia.
Né
potendo in persona far l'effetto,
perche
egli allora era dal padre antico
a
dar soccorso al re di Framcia astretto,
manderia
in vece sua questo Odorico,
che
fra tutti i fedeli amici eletto
s'avea
pel più fedele e pel più amico:
e
bene esser dovea, se i benefici
sempre
hanno forza d'acquistar gli amici.
Verria
costui sopra un navilio armato,
al
terminato tempo indi a levarmi.
E
così venne il giorno disiato,
che
dentro il mio giardin lasciai trovarmi.
Odorico
la notte, accompagnato
di
gente valorosa all'acqua e all'armi,
smontò
ad un fiume alla città vicino,
e
venne chetamente al mio giardino.
Quindi
fui tratta alla galea spalmata,
prima
che la città n'avesse avisi.
De
la famiglia ignuda e disarmata
altri
fuggiro, altri restaro uccisi,
parte
captiva meco fu menata.
Così
da la mia terra io mi divisi,
con
quanto gaudio non ti potrei dire,
sperando
in breve il mio Zerbin fruire.
Voltati
sopra Mongia eramo a pena,
quando
ci assalse alla sinistra sponda
un
vento che turbò l'aria serena,
e
turbò il mare, e al ciel gli levò l'onda.
Salta
un maestro che a traverso mena,
e
cresce ad ora ad ora, e soprabonda;
e
cresce e soprabonda con tal forza,
che
val poco alternar poggia con orza.
Non
giova calar vele, e l'arbor sopra
corsia
legar, né ruinar castella;
che
ci veggian mal grado portar sopra
acuti
scogli, appresso alla Rocella.
Se
non ci aiuta quel che sta di sopra,
ci
spinge in terra la crudel procella.
Il
vento rio ne caccia in maggior fretta,
che
d'arco mai non si aventò saetta.
Vide
il periglio il Biscaglino, e a quello
usò
un rimedio che fallir suol spesso:
ebbe
ricorso subito al battello;
calossi,
e me calar fece con esso.
Sceser
dui altri, e ne scendea un drappello,
se
i primi scesi l'avesser concesso;
ma
con le spade li tenner discosto,
tagliar
la fune, e ci allargammo tosto.
Fummo
gittati a salvamento al lito
noi
che nel palischermo eramo scesi;
periron
gli altri col legno sdrucito;
in
preda al mare andar tutti gli arnesi.
All'eterna
Bontade, all'infinito
Amor,
rendendo grazie, le man stesi,
che
non m'avessi dal furor marino
lasciato
tor di riveder Zerbino.
Come
che io avessi sopra il legno e vesti
lasciato
e gioie e l'altre cose care,
pur
che la speme di Zerbin mi resti,
contenta
son che s'abbi il resto il mare.
Non
sono, ove scendemo, i liti pesti
d'alcun
sentier, né intorno albergo appare;
ma
solo il monte, al qual mai sempre fiede
l'ombroso
capo il vento, e il mare il piede.
Quivi
il crudo tiranno Amor, che sempre
d'ogni
promessa sua fu disleale,
e
sempre guarda come involva e stempre
ogni
nostro disegno razionale,
mutò
con triste e disoneste tempre
mio
conforto in dolor, mio bene in male;
che
quell'amico, in chi Zerbin si crede,
di
desire arse, ed agghiacciò di fede.
O
che m'avesse in mar bramata ancora,
né
fosse stato a dimostrarlo ardito,
o
cominciassi il desiderio allora
che
l'agio v'ebbe dal solingo lito;
disegnò
quivi senza più dimora
condurre
a fin l'ingordo suo appetito;
ma
prima da sé torre un de li dui
che
nel battel campati eran con nui.
Quell'era
omo di Scozia, Almonio detto,
che
mostrava a Zerbin portar gran fede;
e
commendato per guerrier perfetto
da
lui fu, quando ad Odorico il diede.
Disse
a costui, che biasmo era e difetto,
se
mi traeano alla Rocella a piede;
e
lo pregò che inanti volesse ire
a
farmi incontra alcun ronzin venire.
Almonio,
che di ciò nulla temea,
immantinente
inanzi il camin piglia
alla
città che il bosco ci ascondea,
e
non era lontana oltra sei miglia.
Odorico
scoprir sua voglia rea
all'altro
finalmente si consiglia;
sì
perché tor non se lo sa d'appresso,
sì
perché avea gran confidenza in esso.
Era
Corebo di Bilbao nomato
quel
di che io parlo, che con noi rimase;
che
da fanciullo picciolo allevato
s'era
con lui ne le medesme case.
Poter
con lui communicar l'ingrato
pensiero
il traditor si persuase,
sperando
che ad amar saria più presto
il
piacer de l'amico, che l'onesto.
Corebo,
che gentile era e cortese,
non
lo potè ascoltar senza gran sdegno:
lo
chiamò traditore, e gli contese
con
parole e con fatti il rio disegno.
Grande
ira all'uno e all'altro il core accese,
e
con le spade nude ne fer segno.
Al
trar de' ferri, io fui da la paura
volta
a fuggir per l'alta selva oscura.
Odorico,
che maestro era di guerra,
in
pochi colpi a tal vantaggio venne,
che
per morto lasciò Corebo in terra,
e
per le mie vestigie il camin tenne.
Prestògli
Amor (se il mio creder non erra),
acciò
potesse giungermi, le penne;
e
gli insegnò molte lusinghe e prieghi,
con
che ad amarlo e compiacer mi pieghi.
Ma
tutto è indarno; che fermata e certa
più
tosto era a morir, che a satisfarli.
Poi
che ogni priego, ogni lusinga esperta
ebbe
e minacce, e non potean giovarli,
si
ridusse alla forza a faccia aperta.
Nulla
mi val che supplicando parli
de
la fé che avea in lui Zerbino avuta,
e
che io ne le sue man m'era creduta.
Poi
che gittar mi vidi i prieghi invano,
né
mi sperare altronde altro soccorso,
e
che più sempre cupido e villano
a
me venìa, come famelico orso;
io
mi difesi con piedi e con mano,
ed
adopra'vi sin a l'ugne e il morso:
pela'gli
il mento, e gli graffiai la pelle,
con
stridi che n'andavano alle stelle.
Non
so se fosse caso, o li miei gridi
che
si doveano udir lungi una lega,
o
pur che usati sian correre ai lidi
quando
navilio alcun si rompe o anniega;
sopra
il monte una turba apparir vidi,
e
questa al mare e verso noi si piega.
Come
la vede il Biscaglin venire,
lascia
l'impresa, e voltasi a fuggire.
Contra
quel disleal mi fu adiutrice
questa
turba, signor; ma a quella image
che
sovente in proverbio il vulgo dice:
cader
de la padella ne le brage.
Gli
è ver che io non son stata sì infelice,
né
le lor menti ancor tanto malvage,
che
abbino violata mia persona:
non
che sia in lor virtù, né cosa buona.
Ma
perché se mi serban, come io sono,
vergine,
speran vendermi più molto.
Finito
è il mese ottavo e viene il nono,
che
fu il mio vivo corpo qui sepolto.
Del
mio Zerbino ogni speme abbandono;
che
già, per quanto ho da lor detti accolto,
m'han
promessa e venduta a un mercadante,
che
portare al soldan mi de' in Levante. -
Così
parlava la gentil donzella;
e
spesso con signiozzi e con sospiri
interrompea
l'angelica favella,
da
muovere a pietade aspidi e tiri.
Mentre
sua doglia così rinovella,
o
forse disacerba i suoi martiri,
da
venti uomini entrar ne la spelonca,
armati
chi di spiedo e chi di ronca.
Il
primo d'essi, uom di spietato viso,
ha
solo un occhio, e sguardo scuro e bieco;
l'altro,
d'un colpo che gli avea reciso
il
naso e la mascella, è fatto cieco.
Costui
vedendo il cavalliero assiso
con
la vergine bella entro allo speco,
volto
a' compagni, disse: - Ecco augel nuovo,
a
cui non tesi, e ne la rete il truovo. -
Poi
disse al conte: - Uomo non vidi mai
più
commodo di te, né più opportuno.
Non
so se ti se' apposto, o se lo sai
perché
te l'abbia forse detto alcuno,
che
sì bell'arme io desiava assai,
e
questo tuo leggiadro abito bruno.
Venuto
a tempo veramente sei,
per
riparare agli bisogni miei. -
Sorrise
amaramente, in piè salito,
Orlando,
e fe' risposta al mascalzone:
-
Io ti venderò l'arme ad un partito
che
non ha mercadante in sua ragione. -
Del
fuoco, che avea appresso, indi rapito
pien
di fuoco e di fumo uno stizzone,
trasse,
e percosse il malandrino a caso,
dove
confina con le ciglia il naso.
Lo
stizzone ambe le palpebre colse,
ma
maggior danno fe' ne la sinistra;
che
quella parte misera gli tolse,
che
de la luce sola, era ministra.
Né
d'acciecarlo contentar si volse
il
colpo fier, s'ancor non lo registra
tra
quelli spirti che con suoi compagni
fa
star Chiron dentro ai bollenti stagni.
Ne
la spelonca una gran mensa siede
grossa
duo palmi, e spaziosa in quadro,
che
sopra un mal pulito e grosso piede,
cape
con tutta la famiglia il ladro.
Con
quell'agevolezza che si vede
gittar
la canna lo Spagnuol leggiadro,
Orlando
il grave desco da sé scaglia
dove
ristretta insieme è la canaglia.
A
chiil petto, a chiil ventre, a chi la testa,
a
chi rompe le gambe, a chi le braccia;
di
che altri muore, altri storpiato resta:
chi
meno è offeso, di fuggir procaccia.
Così
talvolta un grave sasso pesta
e
fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia,
gittato
sopra un gran drapel di biscie,
che
dopo il verno al sol si goda e liscie.
Nascono
casi, e non saprei dir quanti:
una
muore, una parte senza coda,
un'altra
non si può muover davanti,
e
il deretano indarno aggira e snoda;
un'altra,
che ebbe più propizi i santi,
striscia
fra l'erbe, e va serpendo a proda.
Il
colpo orribil fu, ma non mirando,
poi
che lo fece il valoroso Orlando.
Quei
che la mensa o nulla o poco offese
(e
Turpin scrive a punto che fur sette),
ai
piedi raccomandan sue difese:
ma
ne l'uscita il paladin si mette;
e
poi che presi gli ha senza contese,
le
man lor lega con la fune istrette,
con
una fune al suo bisogno destra,
che
ritrovò ne la casa silvestra.
Poi
li trascina fuor de la spelonca,
dove
facea grande ombra un vecchio sorbo.
Orlando
con la spada i rami tronca,
e
quelli attacca per vivanda al corbo.
Non
bisognò catena in capo adonca;
che
per purgare il mondo di quel morbo,
l'arbor
medesmo gli uncini prestolli,
con
che pel mento Orlando ivi attaccolli.
La
donna vecchia, amica a' malandrini,
poi
che restar tutti li vide estinti,
fuggì
piangendo e con le mani ai crini,
per
selve e boscherecci labirinti.
Dopo
aspri e malagevoli camini,
a
gravi passi e dal timor sospinti,
in
ripa un fiume in un guerrier scontrosse;
ma
diferisco a ricontar chi fosse:
e
torno all'altra, che si raccomanda
al
paladin che non la lasci sola;
e
dice di seguirlo in ogni banda.
Cortesemente
Orlando la consola;
e
quindi, poi che uscì con la ghirlanda
di
rose adorna e di purpurea stola
la
bianca Aurora al solito camino,
partì
con Isabella il paladino.
Senza
trovar cosa che degna sia
d'istoria,
molti giorni insieme andaro;
e
finalmente un cavallier per via,
che
prigione era tratto, riscontraro.
chi
fosse, dirò poi; che or me ne svia
tal,
di chi udir non vi sarà men caro:
la
figliuola d'Amon, la qual lasciai
languida
dianzi in amorosi guai.
La
bella donna, disiando invano
che
a lei facesse il suo Ruggier ritorno,
stava
a Marsilia, ove allo stuol pagano
dava
da travagliar quasi ogni giorno;
il
qual scorrea, rubando in monte e in piano,
per
Linguadoca e per Provenza intorno:
ed
ella ben facea l'ufficio vero
di
savio duca e d'ottimo guerriero.
Standosi
quivi, e di gran spazio essendo
passato
il tempo che tornare a lei
il
suo Ruggier dovea, né lo vedendo,
vivea
in timor di mille casi rei.
Un
dì fra gli altri, che di ciò piangendo
stava
solinga, le arrivò colei
che
portò ne l'annel la medicina
che
sanò il cor che avea ferito Alcina.
Come
a sé ritornar senza il suo amante,
dopo
si lungo termine, la vede,
resta
pallida e smorta, e sì tremante,
che
non ha forza di tenersi in piede:
ma
la maga gentil le va davante
ridendo,
poi che del timor s'avede;
e
con viso giocondo la conforta,
qual
aver suol chi buone nuove apporta.
-
Non temer (disse) di Ruggier, donzella,
che
è vivo e sano, e come suol, t'adora;
ma
non è già in sua libertà; che quella
pur
gli ha levata il tuo nemico ancora:
ed
è bisogno che tu monti in sella,
se
brami averlo, e che mi segui or ora;
che
se mi segui, io t'aprirò la via
donde
per te Ruggier libero fia. -
E
seguitò, narrandole di quello
magico
error che gli avea ordito Atlante:
che
simulando d'essa il viso bello,
che
captiva parea del rio gigante,
tratto
l'avea ne l'incantato ostello,
dove
sparito poi gli era davante;
e
come tarda con simile inganno
le
donne e i cavallier che di là vanno.
A
tutti par, l'incantator mirando,
mirar
quel che per sé brama ciascuno,
donna,
scudier, compagno, amico; quando
il
desiderio uman non è tutto uno.
Quindi
il palagio van tutti cercando
con
lungo affanno, senza frutto alcuno;
e
tanta è la speranza e il gran disire
del
ritrovar, che non ne san partire.
Come
tu giungi (disse) in quella parte
che
giace presso all'incantata stanza,
verrà
l'incantatore a ritrovarte,
che
terrà di Ruggiero ogni sembianza;
e
ti farà parer con sua mal'arte,
che
ivi lo vinca alcun di più possanza,
acciò
che tu per aiutarlo vada
dove
con gli altri poi ti tenga a bada.
Acciò
l'inganni, in che son tanti e tanti
caduti,
non ti colgan, sie avertita,
che
se ben di Ruggier viso e sembianti
ti
parrà di veder, che chieggia aita,
non
gli dar fede tu; ma, come avanti
ti
vien, fagli lasciar l'indegna vita:
né
dubitar perciò che Ruggier muoia,
ma
ben colui che ti dà tanta noia.
Ti
parrà duro assai, ben lo conosco,
uccidere
un che sembri il tuo Ruggiero:
pur
non dar fede all'occhio tuo, che losco
farà
l'incanto, e celeragli il vero.
Fermati,
pria che io ti conduca al bosco,
sì
che poi non si cangi il tuo pensiero;
che
sempre di Ruggier rimarrai priva,
se
lasci per viltà che il mago viva. -
La
valorosa giovane, con questa
intenzion
che il fraudolente uccida,
a
pigliar l'arme ed a seguire è presta
Melissa;
che sa ben quanto l'è fida.
Quella,
or per terren culto, or per foresta,
a
gran giornate e in gran fretta la guida,
cercando
alleviarle tuttavia
con
parlar grato la noiosa via.
E
più di tutti i bei ragionamenti,
spesso
le ripetea che uscir di lei
e
di Ruggier doveano gli eccellenti
principi
e gloriosi semidei.
Come
a Melissa fossino presenti
tutti
i secreti degli eterni dei,
tutte
le cose ella sapea predire,
che
avean per molti seculi a venire.
-
Deh, come, o prudentissima mia scorta
(dicea
a la maga l'inclita donzella),
molti
anni prima tu m'hai fatta accorta
di
tanta mia viril progenie bella;
così
d'alcuna donna mi conforta,
che
di mia stirpe sia, s'alcuna in quella
metter
si può tra belle e virtuose. -
E
la cortese maga le rispose:
-
Da te uscir veggio le pudiche donne,
madri
d'imperatori e di gran regi,
reparatrici
e solide colonne
di
case illustri e di domìni egregi;
che
men degne non son ne le lor gonne,
che
in arme i cavallier, di sommi pregi,
di
pietà, di gran cor, di gran prudenza,
di
somma e incomparabil continenza.
E
s'io avrò da narrarti di ciascuna
che
ne la stirpe tua sia d'onor degna,
troppo
sarà; che io non ne veggio alcuna
che
passar con silenzio mi convegna.
Ma
ti farò, tra mille, scelta d'una
o
di due coppie, acciò che a fin ne vegna.
Ne
la spelonca perché nol dicesti?
che
l'imagini ancor vedute avresti.
De
la tua chiara stirpe uscirà quella
d'opere
illustri e di bei studi amica,
che
io non so ben se più leggiadra e bella
mi
debba dire, o più saggia e pudica,
liberale
e magnanima Isabella,
che
del bel lume suo dì e notte aprica
farà
la terra che sul Menzo siede,
a
cui la madre d'Ocno il nome diede:
dove
onorato e splendido certame
avrà
col suo dignissimo consorte,
chi
di lor più le virtù prezzi ed ame,
e
chi meglio apra a cortesia le porte.
S'un
narrerà che al Taro e nel Reame
fu
a liberar da' Galli Italia forte;
l'altra
dirà: - Sol perché casta visse
Penelope,
non fu minor d'Ulisse. -
Gran
cose e molte in brevi detti accolgo
di
questa donna e più dietro ne lasso,
che
in quelli dì che io mi levai dal volgo,
mi
fe' chiare Merlin dal cavo sasso.
E
s'in questo gran mar la vela sciolgo,
di
lunga Tifi in navigar trapasso.
Conchiudo
in somma, che ella avrà, per dono,
de
la virtù e del ciel, ciò che è di buono.
Seco
avrà la sorella Beatrice,
a
cui si converrà tal nome a punto:
che
essa non sol del ben che qua giù lice,
per
quel che viverà, toccherà il punto;
ma
avrà forza di far seco felice,
fra
tutti i ricchi duci, il suo congiunto,
il
qual, come ella poi lascerà il mondo,
così
de l'infelici andrà nel fondo.
E
Moro e Sforza e Viscontei colubri,
lei
viva, formidabili saranno
da
l'iperboree nievi ai lidi rubri,
da
l'Indo ai monti che al tuo mar via danno:
lei
morta, andran col regno degli Insubri,
e
con grave di tutta Italia danno,
in
servitute; e fia stimata, senza
costei,
ventura la somma prudenza.
Vi
saranno altre ancor, che avranno il nome
medesmo,
e nasceran molt'anni prima:
di
che una s'ornerà le sacre chiome
de
la corona di Pannonia opima;
un'altra,
poi che le terrene some
lasciate
avrà, fia ne l'ausonio clima
collocata
nel numer de le dive,
ed
avrà incensi e imagini votive.
De
l'altre tacerò; che, come ho detto,
lungo
sarebbe a ragionar di tante;
ben
che per sé ciascuna abbia suggetto
degno,
che eroica e chiara tuba cante.
Le
Bianche, le Lucrezie io terrò in petto,
e
le Costanze e l'altre, che di quante
splendide
case Italia reggeranno,
reparatrici
e madri ad esser hanno.
Più
che altre fosser mai, le tue famiglie
saran
ne le lor donne aventurose;
non
dico in quella più de le lor figlie,
che
ne l'alta onestà de le lor spose.
E
acciò da te notizia anco si piglie
di
questa parte che Merlin mi espose,
forse
perche io il dovessi a te ridire,
ho
di parlarne non poco desire.
E
dirò prima di Ricciarda, degno
esempio
di fortezza e d'onestade:
vedova
rimarrà, giovane, a sdegno
di
Fortuna; il che spesso ai buoni accade.
I
figli, privi del paterno regno,
esuli
andar vedrà in strane contrade,
fanciulli
in man degli aversari loro;
ma
infine avrà il suo male amplo ristoro.
De
l'alta stirpe d'Aragone antica
non
tacerò la splendida regina,
di
cui né saggia sì, né sì pudica
veggio
istoria lodar greca o latina,
né
a cui Fortuna più si mostri amica:
poi
che sarà da la Bontà divina
elletta
madre a parturir la bella
progenie,
Alfonso, Ippolito e Isabella.
Costei
sarà la saggia Leonora,
che
nel tuo felice arbore s'inesta.
Che
ti dirò de la seconda nuora,
succeditrice
prossima di questa?
Lucrezia
Borgia, di cui d'ora in ora
le
beltà, la virtù, la fama onesta
e
la fortuna crescerà, non meno
che
giovin pianta in morbido terreno.
Qual
lo stagno all'argento, il rame all'oro,
il
campestre papavero alla rosa,
pallido
salce al sempre verde alloro,
dipinto
vetro a gemma preziosa;
tal
a costei, che ancor non nata onoro,
sarà
ciascuna insino a qui famosa
di
singular beltà, di gran prudenza,
e
d'ogni altra lodevole eccellenza.
E
sopra tutti gli altri incliti pregi
che
le saranno e a viva e a morta dati,
si
loderà che di costumi regi
Ercole
e gli altri figli avrà dotati,
e
dato gran principio ai ricchi fregi
di
che poi s'orneranno in toga e armati;
perché
l'odor non se ne va sì in fretta,
che
in nuovo vaso, o buono o rio, si metta.
Non
voglio che in silenzio anco Renata
di
Francia, nuora di costei, rimagna,
di
Luigi il duodecimo re nata,
e
de l'eterna gloria di Bretagna.
Ogni
virtù che in donna mai sia stata,
di
poi che il fuoco scalda e l'acqua bagna,
e
gira intorno il cielo, insieme tutta
per
Renata adornar veggio ridutta.
Lungo
sarà che d'Alda di Sansogna
narri,
o de la contessa di Celano,
o
di Bianca Maria di Catalogna,
o
de la figlia del re sicigliano,
o
de la bella Lippa da Bologna,
e
d'altre; che s'io vo' di mano in mano
venirtene
dicendo le gran lode,
entro
in un alto mar che non ha prode. -
Poi
che le raccontò la maggior parte
de
la futura stirpe a suo grand'agio,
più
volte e più le replicò de l'arte
che
avea tratto Ruggier dentro al palagio.
Melissa
si fermò, poi che fu in parte
vicina
al luogo del vecchio malvagio;
e
non le parve di venir più inante,
acciò
veduta non fosse da Atlante.
E
la donzella di nuovo consiglia
di
quel che mille volte ormai l'ha detto.
La
lascia sola; e quella oltre a dua miglia
non
cavalcò per un sentiero istretto,
che
vide quel che al suo Ruggier simiglia;
e
dui giganti di crudele aspetto
intorno
avea, che lo stringean sì forte,
che
era vicino esser condotto a morte.
Come
la donna in tal periglio vede
colui
che di Ruggiero ha tutti i segni,
subito
cangia in sospizion la fede,
subito
oblia tutti i suoi bei disegni.
Che
sia in odio a Melissa Ruggier crede,
per
nuova ingiuria e non intesi sdegni,
e
cerchi far con disusata trama
che
sia morto da lei che così l'ama.
Seco
dicea: - Non è Ruggier costui,
che
col cor sempre, ed or con gli occhi veggio?
e
s'or non veggio e non conosco lui,
che
mai veder o mai conoscer deggio?
perché
voglio io de la credenza altrui
che
la veduta mia giudichi peggio?
Che
senza gli occhi ancor, sol per se stesso
può
il cor sentir se gli è lontano o appresso. -
Mentre
che così pensa, ode la voce
che
le par di Ruggier, chieder soccorso;
e
vede quello a un tempo, che veloce
sprona
il cavallo e gli ralenta il morso,
e
l'un nemico e l'altro suo feroce,
che
lo segue e lo caccia a tutto corso.
Di
lor seguir la donna non rimase,
che
si condusse all'incantate case.
De
le quai non più tosto entrò le porte,
che
fu sommersa nel commune errore.
Lo
cercò tutto per vie dritte e torte
invan
di su e di giù, dentro e di fuore;
né
cessa notte o dì, tanto era forte
l'incanto:
e fatto avea l'incantatore,
che
Ruggier vede sempre e gli favella,
né
Ruggier lei, né lui riconosce ella.
Ma
lasciàn Bradamante, e non v'incresca
udir
che così resti in quello incanto;
che
quando sarà il tempo che ella n'esca,
la
farò uscire, e Ruggiero altretanto.
Come
raccende il gusto il mutar esca,
così
mi par che la mia istoria, quanto
or
qua or là più variata sia,
meno
a chi l'udirà noiosa fia.
Di
molte fila esser bisogno parme
a
condur la gran tela che io lavoro.
E
però non vi spiaccia d'ascoltarme,
come
fuor de le stanze il popul Moro
davanti
al re Agramante ha preso l'arme,
che,
molto minacciando ai Gigli d'oro,
lo
fa assembrare ad una mostra nuova,
per
saper quanta gente si ritruova.
Perche
oltre i cavallieri, oltre i pedoni
che
al numero sottratti erano in copia,
mancavan
capitani, e pur de' buoni,
e
di Spagna e di Libia e d'Etiopia,
e
le diverse squadre e le nazioni
givano
errando senza guida propia;
per
dare e capo ed ordine a ciascuna,
tutto
il campo alla mostra si raguna.
In
supplimento de le turbe uccise
ne
le battaglie e ne' fieri conflitti,
l'un
signore in Ispagna, e l'altro mise
in
Africa, ove molti n'eran scritti;
e
tutti alli lor ordini divise,
e
sotto i duci lor gli ebbe diritti.
Differirò,
Signor, con grazia vostra,
ne
l'altro canto l'ordine e la mostra.
CANTO
QUATTORDICESIMO.
Nei
molti assalti e nei crudel conflitti,
che
avuti avea con Francia, Africa e Spagna,
morti
erano infiniti, e derelitti
al
lupo, al corvo, all'aquila griffagna;
e
ben che i Franchi fossero più afflitti,
che
tutta avean perduta la campagna;
più
si doleano i Saracin, per molti
principi
e gran baron che eran lor tolti.
Ebbon
vittorie così sanguinose,
che
lor poco avanzò di che allegrarsi.
E
se alle antique le moderne cose,
invitto
Alfonso, denno assimigliarsi;
la
gran vittoria, onde alle virtuose
opere
vostre può la gloria darsi,
di
che aver sempre lacrimose ciglia
Ravenna
debbe, a queste s'assimiglia:
quando
cedendo Morini e Picardi,
l'esercito
normando e l'aquitano,
voi
nel mezzo assaliste gli stendardi
del
quasi vincitor nimico ispano,
seguendo
voi quei gioveni gagliardi,
che
meritar con valorosa mano
quel
dì da voi, per onorati doni,
l'else
indorate e gli indorati sproni.
Con
sì animosi petti che vi foro
vicini
o poco lungi al gran periglio,
crollaste
sì le ricche Giande d'oro,
sì
rompeste il baston giallo e vermiglio,
che
a voi si deve il trionfale alloro,
che
non fu guasto né sfiorato il Giglio.
D'un'altra
fronde v'orna anco la chioma
l'aver
serbato il suo Fabrizio a Roma.
La
gran Colonna del nome romano,
che
voi prendeste, e che servaste intera,
vi
dà più onor che se di vostra mano
fosse
caduta la milizia fiera,
quanta
n'ingrassa il campo ravegnano,
e
quanta se n'andò senza bandiera
d'Aragon,
di Castiglia e di Navarra,
veduto
non giovar spiedi né carra.
Quella
vittoria fu più di conforto,
che
d'allegrezza; perché troppo pesa
contra
la gioia nostra il veder morto
il
capitan di Francia e de l'impresa;
e
seco avere una procella absorto
tanti
principi illustri, che a difesa
dei
regni lor, dei lor confederati,
di
qua da le fredd'Alpi eran passati.
Nostra
salute, nostra vita in questa
vittoria
suscitata si conosce,
che
difende che il verno e la tempesta
di
Giove irato sopra noi non crosce:
ma
né goder potiam, né farne festa,
sentendo
i gran ramarichi e l'angosce,
che
in veste bruna e lacrimosa guancia
le
vedovelle fan per tutta Francia.
Bisogna
che proveggia il re Luigi
di
nuovi capitani alle sue squadre,
che
per onor de l'aurea Fiordaligi
castighino
le man rapaci e ladre,
che
suore, e frati e bianchi e neri e bigi
violato
hanno, e sposa e figlia e madre;
gittato
in terra Cristo in sacramento,
per
torgli un tabernaculo d'argento.
O
misera Ravenna, t'era meglio
che
al vincitor non fêssi resistenza;
far
che a te fosse inanzi Brescia speglio,
che
tu lo fossi a Arimino e a Faenza.
Manda,
Luigi, il buon Traulcio veglio,
che
insegni a questi tuoi più continenza,
e
conti lor quanti per simil torti
stati
ne sian per tutta Italia morti.
Come
di capitani bisogna ora
che
il re di Francia al campo suo proveggia,
così
Marsilio ed Agramante allora,
per
dar buon reggimento alla sua greggia,
dai
lochi dove il verno fe' dimora,
vuol
che in campagna all'ordine si veggia;
perché
vedendo ove bisogno sia,
guida
e governo ad ogni schiera dia.
Marsilio
prima, e poi fece Agramante
passar
la gente sua schiera per schiera.
I
Catalani a tutti gli altri inante
di
Dorifebo van con la bandiera.
Dopo
vien, senza il suo re Folvirante,
che
per man di Rinaldo già morto era,
la
gente di Navarra; e lo re ispano
halle
dato Isolier per capitano.
Balugante
del popul di Leone,
Grandonio
cura degli Algarbi piglia;
il
fratel di Marsilio, Falsirone,
ha
seco armata la minor Castiglia.
Seguon
di Madarasso il gonfalone
quei
che lasciato han Malaga e Siviglia,
dal
mar di Gade a Cordova feconda
le
verdi ripe ovunque il Beti inonda.
Stordilano
e Tesira e Baricondo,
l'un
dopo l'altro, mostra la sua gente:
Granata
al primo, Ulisbona al secondo,
e
Maiorica al terzo è ubidiente.
Fu
d'Ulisbona re (tolto dal mondo
Larbin)
Tesira, di Larbin parente.
Poi
vien Galizia, che sua guida, in vece
di
Maricoldo, Serpentino fece.
Quei
di Tolledo e quei di Calatrava,
di
che ebbe Sinagon già la bandiera,
con
tutta quella gente che si lava
in
Guadiana e bee de la riviera,
l'audace
Matalista governava;
Bianzardin
quei d'Asturga in una schiera
con
quei di Salamanca e di Piagenza,
d'Avila,
di Zamora e di Palenza.
Di
quei di Saragosa e de la corte
del
re Marsilio ha Ferraù il governo:
tutta
la gente è ben armata e forte.
In
questi è Malgarino, Balinverno,
Malzarise
e Morgante, che una sorte
avea
fatto abitar paese esterno;
che,
poi che i regni lor lor furon tolti,
gli
avea Marsilio in corte sua raccolti.
In
questa è di Marsilio il gran bastardo,
Follicon
d'Almeria, con Doriconte,
Bavarte
e Largalifa ed Analardo,
ed
Archidante il sagontino conte,
e
Lamirante e Langhiran gagliardo,
e
Malagur che avea l'astuzie pronte,
ed
altri ed altri, di quai penso, dove
tempo
sarà, di far veder le pruove.
Poi
che passò l'esercito di Spagna
con
bella mostra inanzi al re Agramante,
con
la sua squadra apparve alla campagna
il
re d'Oran, che quasi era gigante.
L'altra
che vien, per Martasin si lagna,
il
qual morto le fu da Bradamante;
e
si duol che una femina si vanti
d'aver
ucciso il re de' Garamanti.
Segue
la terza schiera di Marmonda,
che
Argosto morto abbandonò in Guascogna:
a
questa un capo, come alla seconda
e
come anco alla quarta, dar bisogna.
Quantunque
il re Agramante non abonda
di
capitani, pur ne finge e sogna:
dunque
Buraldo, Ormida, Arganio elesse,
e
dove uopo ne fu, guida li messe.
Diede
ad Arganio quei di Libicana,
che
piangean morto il negro Dudrinasso.
Guida
Brunello i suoi di Tingitana,
con
viso nubiloso e ciglio basso;
che,
poi che ne la selva non lontana
dal
castel che ebbe Atlante in cima al sasso,
gli
fu tolto l'annel da Bradamante,
caduto
era in disgrazia al re Agramante:
e
se il fratel di Ferraù, Isoliero,
che
a l'arbore legato ritrovollo,
non
facea fede inanzi al re del vero,
avrebbe
dato in su le forche un crollo.
Mutò,
a' prieghi di molti, il re pensiero,
già
avendo fatto porgli il laccio al collo:
gli
lo fece levar, ma riserbarlo
pel
primo error; che poi giurò impiccarlo:
sì
che avea causa di venir Brunello
col
viso mesto e con la testa china.
Seguia
poi Farurante, e dietro a quello
eran
cavalli e fanti di Maurina.
Venìa
Libanio appresso, il re novello:
la
gente era con lui di Constantina;
però
che la corona e il baston d'oro
gli
ha dato il re, che fu di Pinadoro.
Con
la gente d'Esperia Soridano,
e
Dorilon ne vien con quei di Setta;
ne
vien coi Nasamoni Puliano.
Quelli
d'Amonia il re Agricalte affretta;
Malabuferso
quelli di Fizano.
Da
Finadurro è l'altra squadra retta,
che
di Canaria viene e di Marocco;
Balastro
ha quei che fur del re Tardocco.
Due
squadre, una di Mulga, una d'Arzilla,
seguono:
e questa ha il suo signore antico;
quella
n'è priva; e però il re sortilla,
e
diella a Corineo suo fido amico.
E
così de la gente d'Almansilla,
che
ebbe Tanfirion, fe' re Caico;
diè
quella di Getulia a Rimedonte.
Poi
vien con quei di Cosca Balinfronte.
Quell'altra
schiera è la gente di Bolga:
suo
re è Clarindo, e già fu Mirabaldo.
Vien
Baliverzo, il qual vuò che tu tolga
di
tutto il gregge pel maggior ribaldo.
Non
credo in tutto il campo si disciolga
bandiera
che abbia esercito più saldo
de
l'altra, con che segue il re Sobrino,
né
più di lui prudente Saracino.
Quei
di Bellamarina, che Gualciotto
solea
guidare, or guida il re d'Algieri
Rodomonte,
e di Sarza, che condotto
di
nuovo avea pedoni e cavallieri;
che
mentre il sol fu nubiloso sotto
il
gran centauro e i corni orridi e fieri,
fu
in Africa mandato da Agramante,
onde
venuto era tre giorni inante.
Non
avea il campo d'Africa più forte,
né
Saracin più audace di costui:
e
più temean le parigine porte,
ed
avean più cagion di temer lui,
che
Marsilio, Agramante e la gran corte
che
avea seguito in Francia questi dui:
e
più d'ogni altro che facesse mostra,
era
nimico de la fede nostra.
Vien
Prusione, il re de l'Alvaracchie;
poi
quel de la Zumara, Dardinello.
Non
so s'abbiano o nottole o cornacchie,
o
altro manco ed importuno augello,
il
qual dai tetti e da le fronde gracchie
futuro
mal, predetto a questo e a quello,
che
fissa in ciel nel dì seguente è l'ora
che
l'uno e l'altro in quella pugna muora.
In
campo non aveano altri a venire,
che
quei di Tremisenne e di Norizia;
né
si vedea alla mostra comparire
il
segno lor, né dar di sé notizia.
Non
sapendo Agramante che si dire,
né
che pensar di questa lor pigrizia,
uno
scudiero al fin gli fu condutto
del
re di Tremisen, che narrò il tutto.
E
gli narrò che Alzirdo e Manilardo
con
molti altri de' suoi giaceano al campo.
-
Signor (diss'egli), il cavallier gagliardo
che
ucciso ha i nostri, ucciso avria il tuo campo,
se
fosse stato a torsi via più tardo
di
me, che a pena ancor così ne scampo.
Fa
quel de' cavallieri e de' pedoni,
che
il lupo fa di capre e di montoni. -
Era
venuto pochi giorni avante
nel
campo del re d'Africa un signore;
né
in Ponente era, né in tutto Levante,
di
più forza di lui, né di più core.
Gli
facea grande onore il re Agramante,
per
esser costui figlio e successore
in
Tartaria del re Agrican gagliardo:
suo
nome era il feroce Mandricardo.
Per
molti chiari gesti era famoso,
e
di sua fama tutto il mondo empìa;
ma
lo facea più d'altro glorioso,
che
al castel de la fata di Soria
l'usbergo
avea acquistato luminoso
che
Ettor troian portò mille anni pria,
per
strana e formidabile aventura,
che
il ragionarne pur mette paura.
Trovandosi
costui dunque presente
a
quel parlar, alzò l'ardita faccia;
e
si dispose andare immantinente,
per
trovar quel guerrier, dietro alla traccia.
Ritenne
occulto il suo pensiero in mente,
o
sia perché d'alcun stima non faccia,
o
perché tema, se il pensier palesa,
che
un altro inanzi a lui pigli l'impresa.
Allo
scudier fe' dimandar come era
la
sopravesta di quel cavalliero.
Colui
rispose: - Quella è tutta nera,
lo
scudo nero, e non ha alcun cimiero. -
E
fu, Signor, la sua risposta vera,
perché
lasciato Orlando avea il quartiero;
che
come dentro l'animo era in doglia,
così
imbrunir di fuor volse la spoglia.
Marsilio
a Mandricardo avea donato
un
destrier baio a scorza di castagna,
con
gambe e chiome nere; ed era nato
di
frisa madre e d'un villan di Spagna.
Sopra
vi salta Mandricardo armato,
e
galoppando va per la campagna;
e
giura non tornare a quelle schiere
se
non truova il campion da l'arme nere.
Molta
incontrò de la paurosa gente
che
da le man d'Orlando era fuggita,
chi
del figliuol, chi del fratel dolente,
che
inanzi agli occhi suoi perdè la vita.
Ancora
la codarda e trista mente
ne
la pallida faccia era sculpita;
ancor,
per la paura che avuta hanno,
pallidi,
muti ed insensati vanno.
Non
fe' lungo camin, che venne dove
crudel
spettaculo ebbe ed inumano,
ma
testimonio alle mirabil pruove
che
fur raconte inanzi al re africano.
Or
mira questi, or quelli morti, e muove,
e
vuol le piaghe misurar con mano,
mosso
da strana invidia che egli porta
al
cavallier che avea la gente morta.
Come
lupo o mastin che ultimo giugne
al
bue lasciato morto da' villani,
che
truova sol le corna, l'ossa e l'ugne,
del
resto son sfamati augelli e cani;
riguarda
invano il teschio che non ugne:
così
fa il crudel barbaro in que' piani.
Per
duol bestemmia, e mostra invidia immensa,
che
venne tardi e così ricca mensa.
Quel
giorno e mezzo l'altro segue incerto
il
cavallier dal negro, e ne domanda.
Ecco
vede un pratel d'ombre coperto,
che
sì d'un alto fiume si ghirlanda,
che
lascia a pena un breve spazio aperto,
dove
l'acqua si torce ad altra banda.
Un
simil luogo con girevol onda
sotto
Ocricoli il Tevere circonda.
Dove
entrar si potea, con l'arme indosso
stavano
molti cavallieri armati.
Chiede
il pagan, chi gli avea in stuol sì grosso,
ed
a che effetto insieme ivi adunati.
Gli
fe' risposta il capitano, mosso
dal
signoril sembiante e da' fregiati
d'oro
e di gemme arnesi di gran pregio,
che
lo mostravan cavalliero egregio.
-
Dal nostro re siàn (disse) di Granata
chiamati
in compagnia de la figliuola,
la
quale al re di Sarza ha maritata,
ben
che di ciò la fama ancor non vola.
Come
appresso la sera racchetata
la
cicaletta sia, che or s'ode sola,
avanti
al padre fra l'ispane torme
la
condurremo: intanto ella si dorme. -
Colui,
che tutto il mondo vilipende,
disegna
di veder tosto la pruova,
se
quella gente o bene o mal difende
la
donna, alla cui guardia si ritruova.
Disse:
- Costei, per quanto se n'intende,
è
bella; e di saperlo ora mi giova.
A
lei mi mena, o falla qui venire;
che
altrove mi convien subito gire. -
-
Esser per certo dei pazzo solenne, -
rispose
il Granatin, né più gli disse.
Ma
il Tartaro a ferir tosto lo venne
con
l'asta bassa, e il petto gli trafisse;
che
la corazza il colpo non sostenne,
e
forza fu che morto in terra gisse.
L'asta
ricovra il figlio d'Agricane,
perché
altro da ferir non gli rimane.
Non
porta spada né baston; che quando
l'arme
acquistò, che fu d'Ettor troiano,
perché
trovò che lor mancava il brando,
gli
convenne giurar (né giurò invano)
che
fin che non togliea quella d'Orlando,
mai
non porrebbe ad altra spada mano:
Durindana
che Almonte ebbe in gran stima,
e
Orlando or porta, Ettor portava prima.
Grande
è l'ardir del Tartaro, che vada
con
disvantaggio tal contra coloro,
gridando:
- Chi mi vuol vietar la strada? -
E
con la lancia si cacciò tra loro.
Chi
l'asta abbassa, e chi tra' fuor la spada;
e
d'ogn'intorno subito gli foro.
Egli
ne fece morir una frotta,
prima
che quella lancia fosse rotta.
Rotta
che se la vede, il gran troncone
che
resta intero, ad ambe mani afferra;
e
fa morir con quel tante persone,
che
non fu vista mai più crudel guerra.
Come
tra' Filistei l'ebreo Sansone
con
la mascella che levò di terra,
scudi
spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso
spenge
i cavalli ai cavallieri appresso.
Correno
a morte que' miseri a gara,
né
perché cada l'un, l'altro andar cessa;
che
la maniera del morire, amara
lor
par più assai che non è morte istessa.
Patir
non ponno che la vita cara
tolta
lor sia da un pezzo d'asta fessa,
e
sieno sotto alle picchiate strane
a
morir giunti, come biscie o rane.
Ma
poi che a spese lor si furo accorti
che
male in ogni guisa era morire,
sendo
già presso alli duo terzi morti,
tutto
l'avanzo cominciò a fuggire.
Come
del proprio aver via se gli porti,
il
Saracin crudel non può patire
che
alcun di quella turba sbigottita
da
lui partir si debba con la vita.
Come
in palude asciutta dura poco
stridula
canna, o in campo àrrida stoppia
contra
il soffio di borea e contra il fuoco
che
il cauto agricultore insieme accoppia,
quando
la vaga fiamma occupa il loco,
e
scorre per li solchi, e stride e scoppia;
così
costor contra la furia accesa
di
Mandricardo fan poca difesa.
Poscia
che egli restar vede l'entrata,
che
mal guardata fu, senza custode;
per
la via che di nuovo era segnata
ne
l'erba, e al suono dei ramarchi che ode,
viene
a veder la donna di Granata,
se
di bellezze è pari alle sue lode:
passa
tra i corpi de la gente morta,
dove
gli dà, torcendo, il fiume porta.
E
Doralice in mezzo il prato vede
(che
così nome la donzella avea),
la
qual, suffolta da l'antico piede
d'un
frassino silvestre, si dolea.
Il
pianto, come un rivo che succede
di
viva vena, nel bel sen cadea;
e
nel bel viso si vedea che insieme
de
l'altrui mal si duole, e del suo teme.
Crebbe
il timor, come venir lo vide
di
sangue brutto e con faccia empia e oscura,
eil
grido sin al ciel l'aria divide,
di
sé e de la sua gente per paura;
che,
oltre i cavallier, v'erano guide,
che
de la bella infante aveano cura,
maturi
vecchi, e assai donne e donzelle
del
regno di Granata, e le più belle.
Come
il Tartaro vede quel bel viso
che
non ha paragone in tutta Spagna,
e
c'ha nel pianto (or che esser de' nel riso?)
tesa
d'Amor l'inestricabil ragna;
non
sa se vive in terra o in paradiso:
né
de la sua vittoria altro guadagna,
se
non che in man de la sua prigioniera
si
dà prigione, e non sa in qual maniera.
A
lei però non si concede tanto,
che
del travaglio suo le doni il frutto;
ben
che piangendo ella dimostri, quanto
possa
donna mostrar, dolore e lutto.
Egli,
sperando volgerle quel pianto
in
sommo gaudio, era disposto al tutto
menarla
seco; e sopra un bianco ubino
montar
la fece, e tornò al suo camino.
Donne
e donzelle e vecchi ed altra gente,
che
eran con lei venuti di Granata,
tutti
licenziò benignamente,
dicendo:
- Assai da me fia accompagnata;
io
mastro, io balia, io le sarò sergente
in
tutti i suoi bisogni: a Dio brigata. -
Così,
non gli possendo far riparo,
piangendo
e sospirando se n'andaro;
tra
lor dicendo: - Quanto doloroso
ne
sarà il padre, come il caso intenda!
quanta
ira, quanto duol ne avrà il suo sposo!
oh
come ne farà vendetta orrenda!
Deh,
perché a tempo tanto bisognoso
non
è qui presso a far che costui renda
il
sangue illustre del re Stordilano,
prima
che se lo porti più lontano? -
De
la gran preda il Tartaro contento,
che
fortuna e valor gli ha posta inanzi,
di
trovar quel dal negro vestimento
non
par che abbia la fretta che avea dianzi.
Correva
dianzi: or viene adagio e lento;
e
pensa tuttavia dove si stanzi,
dove
ritruovi alcun commodo loco,
per
esalar tanto amoroso foco.
Tuttavolta
conforta Doralice,
che
avea di pianto e gli occhi e il viso molle:
compone
e finge molte cose, e dice
che
per fama gran tempo ben le volle;
e
che la patria, e il suo regno felice
che
il nome di grandezza agli altri tolle,
lasciò,
non per vedere o Spagna o Francia,
ma
sol per contemplar sua bella guancia.
-
Se per amar, l'uom debbe essere amato,
merito
il vostro amor; che v'ho amat'io:
se
per stirpe, di me chi è meglio nato?
cheil
possente Agrican fu il padre mio:
se
per ricchezza, chi ha di me più stato?
che
di dominio io cedo solo a Dio:
se
per valor, credo oggi aver esperto
che
esser amato per valore io merto. -
Queste
parole ed altre assai, che Amore
a
Mandricardo di sua bocca ditta,
van
dolcemente a consolar il core
de
la donzella di paura afflitta.
Il
timor cessa, e poi cessa il dolore
che
le avea quasi l'anima trafitta.
Ella
comincia con più pazienza
a
dar più grata al nuovo amante udienza;
poi
con risposte più benigne molto
a
mostrarsegli affabile e cortese,
e
non negargli di fermar nel volto
talor
le luci di pietade accese:
onde
il pagan, che da lo stral fu colto
altre
volte d'Amor, certezza prese,
non
che speranza, che la donna bella
non
saria a' suo' desir sempre ribella.
Con
questa compagnia lieto e gioioso,
che
sì gli satisfà, sì gli diletta,
essendo
presso all'ora che a riposo
la
fredda notte ogni animale alletta,
vedendo
il sol già basso e mezzo ascoso,
comminciò
a cavalcar con maggior fretta;
tanto
che udì sonar zuffoli e canne,
e
vide poi fumar ville e capanne.
Erano
pastorali alloggiamenti,
miglior
stanza e più commoda, che bella.
Quivi
il guardian cortese degli armenti
onorò
il cavalliero e la donzella,
tanto
che si chiamar da lui contenti;
che
non pur per cittadi e per castella,
ma
per tuguri ancora e per fenili
spesso
si trovan gli uomini gentili.
Quel
che fosse dipoi fatto all'oscuro
tra
Doralice e il figlio d'Agricane,
a
punto racontar non m'assicuro;
sì
che al giudicio di ciascun rimane.
Creder
si può che ben d'accordo furo;
che
si levar più allegri la dimane,
e
Doralice ringraziò il pastore,
che
nel suo albergo le avea fatto onore.
Indi
d'uno in un altro luogo errando,
si
ritrovaro al fin sopra un bel fiume
che
con silenzio al mar va declinando,
e
se vada o se stia, mal si prosume;
limpido
e chiaro sì, che in lui mirando,
senza
contesa al fondo porta il lume.
In
ripa a quello, a una fresca ombra e bella,
trovar
dui cavallieri e una donzella.
Or
l'alta fantasia, che un sentier solo
non
vuol che iosegua ognor, quindi mi guida,
e
mi ritorna ove il moresco stuolo
assorda
di rumor Francia e di grida,
d'intorno
il padiglione ove il figliuolo
del
re Troiano il santo Impero sfida,
e
Rodomonte audace se gli vanta
arder
Parigi e spianar Roma santa.
Venuto
ad Agramante era all'orecchio,
che
già l'Inglesi avean passato il mare:
però
Marsilio e il re del Garbo vecchio
e
gli altri capitan fece chiamare.
Consiglian
tutti a far grande apparecchio,
sì
che Parigi possino espugnare.
Ponno
esser certi che più non s'espugna,
se
nol fan prima che l'aiuto giugna.
Già
scale innumerabili per questo
da'
luoghi intorno avea fatto raccorre,
ed
asse e travi, e vimine contesto,
che
lo poteano a diversi usi porre;
e
navi e ponti: e più facea che il resto,
il
primo e il secondo ordine disporre
a
dar l'assalto; ed egli vuol venire
tra
quei che la città denno assalire.
L'imperatore
il dì che il dì precesse
de
la battaglia, fe' dentro a Parigi
per
tutto celebrare uffici e messe
a
preti, a frati bianchi, neri e bigi;
e
le gente che dianzi eran confesse,
e
di man tolte agli inimici stigi,
tutti
communicar, non altramente
che
avessino a morir il dì seguente.
Ed
egli tra baroni e paladini,
principi
ed oratori, al maggior tempio
con
molta religione a quei divini
atti
intervenne, e ne diè agli altri esempio.
Con
le man giunte e gli occhi al ciel supini,
disse:
- Signor, ben che io sia iniquo ed empio,
non
voglia tua bontà, pel mio fallire,
che
il tuo popul fedele abbia a patire.
E
se gli è tuo voler che egli patisca,
e
che abbia il nostro error degni supplici,
almeno
la punizion si differisca
sì,
che per man non sia de' tuoi nemici;
che
quando lor d'uccider noi sortisca,
che
nome avemo pur d'esser tuo' amici,
i
pagani diran che nulla puoi,
che
perir lasci i partigiani tuoi.
E
per un che ti sia fatto ribelle,
cento
ti si faran per tutto il mondo;
tal
che la legge falsa di Babelle
caccerà
la tua fede e porrà al fondo.
Difendi
queste genti, che son quelle
che
il tuo sepulcro hanno purgato e mondo
da'
brutti cani, e la tua santa Chiesa
con
li vicari suoi spesso difesa.
So
che i meriti nostri atti non sono
a
satisfare al debito d'un'oncia;
né
devemo sperar da te perdono,
se
riguardiamo a nostra vita sconcia:
ma
se vi aggiugni di tua grazia il dono,
nostra
ragion fia ragguagliata e concia;
né
del tuo aiuto disperar possiamo,
qualor
di tua pietà ci ricordiamo. -
Così
dicea l'imperator devoto,
con
umiltade e contrizion di core.
Giunse
altri prieghi e convenevol voto
al
gran bisogno e all'alto suo splendore.
Non
fu il caldo pregar d'effetto voto;
però
che il genio suo, l'angel migliore,
i
prieghi tolse e spiegò al ciel le penne,
ed
a narrare al Salvator li venne.
E
furo altri infiniti in quello instante
da
tali messagger portati a Dio;
che
come gli ascoltar l'anime sante,
dipinte
di pietade il viso pio,
tutte
miraro il sempiterno Amante,
e
gli mostraro il commun lor disio,
che
la giusta orazion fosse esaudita
del
populo cristian che chiede aita.
E
la Bontà ineffabile, che invano
non
fu pregata mai da cor fedele,
leva
gli occhi pietosi, e fa con mano
cenno
che venga a sé l'angel Michele.
-
Va (gli disse) all'esercito cristiano
che
dianzi in Picardia calò le vele,
e
al muro di Parigi l'appresenta
sì,
che il campo nimico non lo senta.
Truova
prima il Silenzio, e da mia parte
gli
dio che teco a questa impresa venga;
che
egli ben proveder con ottima arte
saprà
di quanto proveder convenga.
Fornito
questo, subito va in parte
dove
il suo seggio la Discordia tenga:
dille
che l'esca e il fucil seco prenda,
e
nel campo de' Mori il fuoco accenda;
e
tra quei che vi son detti più forti
sparga
tante zizzanie e tante liti,
che
combattano insieme; ed altri morti,
altri
ne sieno presi, altri feriti,
e
fuor del campo altri lo sdegno porti
sì
che il lor re poco di lor s'aiti. -
Non
replica a tal detto altra parola
il
benedetto augel, ma dal ciel vola.
Dovunque
drizza Michel angel l'ale,
fuggon
le nubi, e torna il ciel sereno.
Gli
gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiàn
di notte lampeggiar baleno.
Seco
pensa tra via, dove si cale
il
celeste corrier per fallir meno
a
trovar quel nimico di parole,
a
cui la prima commission far vuole.
Vien
scorrendo ov'egli abiti, ov'egli usi;
e
se accordaro infin tutti i pensieri,
che
de frati e de monachi rinchiusi
lo
può trovare in chiese e in monasteri,
dove
sono i parlari in modo esclusi,
che
il Silenzio, ove cantano i salteri,
ove
dormeno, ove hanno la piatanza,
e
finalmente è scritto in ogni stanza.
Credendo
quivi ritrovarlo, mosse
con
maggior fretta le dorate penne;
e
di veder che ancor Pace vi fosse,
Quiete
e Carità, sicuro tenne.
Ma
da la opinion sua ritrovosse
tosto
ingannato, che nel chiostro venne:
non
è Silenzio quivi; e gli fu ditto
che
non v'abita più, fuor che in iscritto.
Né
Pietà, né Quiete, né Umiltade,
né
quivi Amor, né quivi Pace mira.
Ben
vi fur già, ma ne l'antiqua etade;
che
le cacciar Gola, Avarizia ed Ira,
Superbia,
Invidia, Inerzia e Crudeltade.
Di
tanta novità l'angel si ammira:
andò
guardando quella brutta schiera,
e
vide che anco la Discordia v'era.
Quella
che gli avea detto il Padre eterno,
dopo
il Silenzio, che trovar dovesse.
Pensato
avea di far la via d'Averno,
che
si credea che tra' dannati stesse;
e
ritrovolla in questo nuovo inferno
(che
il crederia?) tra santi uffici e messe.
Par
di strano a Michel che ella vi sia,
che
per trovar credea di far gran via.
La
conobbe al vestir di color cento,
fatto
a liste inequali ed infinite,
che
or la cuoprono or no; che i passi e il vento
le
giano aprendo, che erano sdrucite.
I
crini avea qual d'oro e qual d'argento,
e
neri e bigi, e aver pareano lite;
altri
in treccia, altri in nastro eran raccolti,
molti
alle spalle, alcuni al petto sciolti.
Di
citatorie piene e di libelli,
d'esamine
e di carte di procure
avea
le mani e il seno, e gran fastelli
di
chiose, di consigli e di letture;
per
cui le facultà de' poverelli
non
sono mai ne le città sicure.
Aveva
dietro e dinanzi e d'ambi i lati,
notai,
procuratori ed avocati.
La
chiama a sé Michele, e le commanda
che
tra i più forti Saracini scenda,
e
cagion truovi, che con memoranda
ruina
insieme a guerreggiar gli accenda.
Poi
del Silenzio nuova le domanda:
facilmente
esser può che essa n'intenda,
sì
come quella che accendendo fochi
di
qua e di là, va per diversi lochi.
Rispose
la Discordia: - Io non ho a mente
in
alcun loco averlo mai veduto:
udito
l'ho ben nominar sovente,
e
molto commendarlo per astuto.
Ma
la Fraude, una qui di nostra gente,
che
compagnia talvolta gli ha tenuto,
penso
che dir te ne saprà novella; -
e
verso una alzò il dito, e disse: - È quella. -
Avea
piacevol viso, abito onesto,
un
umil volger d'occhi, un andar grave,
un
parlar sì benigno e sì modesto,
che
parea Gabriel che dicesse: Ave.
Era
brutta e deforme in tutto il resto:
ma
nascondea queste fattezze prave
con
lungo abito e largo; e sotto quello,
attosicato
avea sempre il coltello.
Domanda
a costei l'angelo, che via
debba
tener, sì che il Silenzio truove.
Disse
la Fraude: - Già costui solia
fra
virtudi abitare, e non altrove,
con
Benedetto e con quelli d'Elia
ne
le badie, quando erano ancor nuove:
fe'
ne le scuole assai de la sua vita
al
tempo di Pitagora e d'Archita.
Mancati
quei filosofi e quei santi
che
lo solean tener pel camin ritto,
dagli
onesti costumi che avea inanti,
fece
alle sceleraggini tragitto.
Cominciò
andar la notte con gli amanti,
indi
coi ladri, e fare ogni delitto.
Molto
col Tradimento egli dimora:
veduto
l'ho con l'Omicidio ancora.
Con
quei che falsan le monete ha usanza
di
ripararsi in qualche buca scura.
Così
spesso compagni muta e stanza,
che
il ritrovarlo ti saria ventura;
ma
pur ho d'insegnartelo speranza:
se
d'arrivare a mezza notte hai cura
alla
casa del Sonno, senza fallo
potrai
(che quivi dorme) ritrovallo. -
Ben
che soglia la Fraude esser bugiarda,
pur
è tanto il suo dir simile al vero,
che
l'angelo le crede; indi non tarda
a
volarsene fuor del monastero.
Tempra
il batter de l'ale, e studia e guarda
giungere
in tempo al fin del suo sentiero,
che
alla casa del Sonno, che ben dove
era
sapea, questo Silenzio truove.
Giace
in Arabia una valletta amena,
lontana
da cittadi e da villaggi,
che
all'ombra di duo monti è tutta piena
d'antiqui
abeti e di robusti faggi.
Il
sole indarno il chiaro dì vi mena;
che
non vi può mai penetrar coi raggi,
sì
gli è la via da folti rami tronca:
e
quivi entra sotterra una spelonca.
Sotto
la negra selva una capace
e
spaziosa grotta entra nel sasso,
di
cui la fronte l'edera seguace
tutta
aggirando va con storto passo.
In
questo albergo il grave Sonno giace;
l'Ozio
da un canto corpulento e grasso,
da
l'altro la Pigrizia in terra siede,
che
non può andare, e mal reggersi in piede.
Lo
smemorato Oblio sta su la porta:
non
lascia entrar, né riconosce alcuno;
non
ascolta imbasciata, né riporta;
e
parimente tien cacciato ognuno.
Il
Silenzio va intorno, e fa la scorta:
ha
le scarpe di feltro, e il mantel bruno;
ed
a quanti n'incontra, di lontano,
che
non debban venir, cenna con mano.
Se
gli accosta all'orecchio e pianamente
l'angel
gli dice: - Dio vuol che tu guidi
a
Parigi Rinaldo con la gente
che
per dar, mena, al suo signor sussidi:
ma
che lo facci tanto chetamente,
che
alcun de' Saracin non oda i gridi;
sì
che più tosto che ritruovi il calle
la
Fama d'avisar, gli abbia alle spalle. -
Altrimente
il Silenzio non rispose,
che
col capo accennando che faria;
e
dietro ubidiente se gli pose;
e
furo al primo volo in Picardia.
Michel
mosse le squadre coraggiose,
e
fe' lor breve un gran tratto di via;
sì
che in un dì a Parigi le condusse,
né
alcun s'avide che miracol fusse.
Discorreva
il Silenzio, e tuttavolta,
e
dinanzi alle squadre e d'ogn'intorno
facea
girare un'alta nebbia in volta,
ed
avea chiaro ogn'altra parte il giorno;
e
non lasciava questa nebbia folta,
che
s'udisse di fuor tromba né corno:
poi
n'andò tra' pagani, e menò seco
un
non so che, che ognun fe' sordo e cieco.
Mentre
Rinaldo in tal fretta venìa,
che
ben parea da l'angelo condotto,
e
con silenzio tal, che non s'udia
nel
campo saracin farsene motto;
il
re Agramante avea la fanteria
messo
ne' borghi di Parigi, e sotto
le
minacciate mura in su la fossa,
per
far quel dì l'estremo di sua possa.
Chi
può contar l'esercito che mosso
questo
dì contro Carlo ha il re Agramante,
conterà
ancora in su l'ombroso dosso
del
silvoso Apennin tutte le piante;
dirà
quante onde, quando è il mar più grosso,
bagnano
i piedi al mauritano Atlante;
e
per quanti occhi il ciel le furtive opre
degli
amatori a mezza notte scuopre.
Le
campane si sentono a martello
di
spessi colpi e spaventosi tocche;
si
vede molto, in questo tempio e in quello,
alzar
di mano e dimenar di bocche.
Se
il tesoro paresse a Dio sì bello,
come
alle nostre openioni sciocche,
questo
era il dì che il santo consistoro
fatto
avria in terra ogni sua statua d'oro.
S'odon
ramaricare i vecchi giusti,
che
s'erano serbati in quelli affanni,
e
nominar felici i sacri busti
composti
in terra già molti e molt'anni.
Ma
gli animosi gioveni robusti
che
miran poco i lor propinqui danni,
sprezzando
le ragion de' più maturi,
di
qua di là vanno correndo a' muri.
Quivi
erano baroni e paladini,
re,
duci, cavallier, marchesi e conti,
soldati
forestieri e cittadini,
per
Cristo e pel suo onore a morir pronti;
che
per uscire adosso ai Saracini,
pregan
l'imperator che abbassi i ponti.
Gode
egli di veder l'animo audace,
ma
di lasciarli uscir non li compiace.
E
li dispone in oportuni lochi,
per
impedire ai barbari la via:
là
si contenta che ne vadan pochi,
qua
non basta una grossa compagnia;
alcuni
han cura maneggiare i fuochi,
le
machine altri, ove bisogno sia.
Carlo
di qua di là non sta mai fermo:
va
soccorrendo, e fa per tutto schermo.
Siede
Parigi in una gran pianura,
ne
l'ombilico a Francia, anzi nel core;
gli
passa la riviera entro le mura,
e
corre, ed esce in altra parte fuore.
Ma
fa un'isola prima, e v'assicura
de
la città una parte, e la migliore;
l'altre
due (che in tre parti è la gran terra)
di
fuor la fossa, e dentro il fiume serra.
Alla
città, che molte miglia gira,
da
molte parti si può dar battaglia:
ma
perché sol da un canto assalir mira,
né
volentier l'esercito sbarraglia,
oltre
il fiume Agramante si ritira
verso
ponente, acciò che quindi assaglia;
però
che né cittade né campagna
ha
dietro, se non sua, fin alla Spagna.
Dovunque
intorno il gran muro circonda,
gran
munizioni avea già Carlo fatte,
fortificando
d'argine ogni sponda
con
scannafossi dentro e case matte;
onde
entra ne la terra, onde esce l'onda,
grossissime
catene aveva tratte;
ma
fece, più che altrove, provedere
là
dove avea più causa di temere.
Con
occhi d'Argo il figlio di Pipino
previde
ove assalir dovea Agramante;
e
non fece disegno il Saracino,
a
cui non fosse riparato inante.
Con
Ferraù, Isoliero, Serpentino,
Grandonio,
Falsirone e Balugante,
e
con ciò che di Spagna avea menato,
restò
Marsilio alla campagna armato.
Sobrin
gli era a man manca in ripa a Senna,
con
Pulian, con Dardinel d'Almonte,
col
re d'Oran, che esser gigante accenna,
lungo
sei braccia dai piedi alla fronte.
Deh
perché a muover men son io la penna,
che
quelle genti a muover l'arme pronte?
che
il re di Sarza, pien d'ira e di sdegno,
grida
e bestemmia e non può star più a segno.
Come
assalire o vasi pastorali,
o
le dolci reliquie de' convivi
soglion
con rauco suon di stridule ali
le
impronte mosche a' caldi giorni estivi;
come
li storni a rosseggianti pali
vanno
de mature uve: così quivi,
empiendo
il ciel di grida e di rumori,
veniano
a dare il fiero assalto i Mori.
L'esercito
cristian sopra le mura
con
lance, spade e scure e pietre e fuoco
difende
la città senza paura,
e
il barbarico orgoglio estima poco;
e
dove Morte uno ed un altro fura,
non
è chi per viltà ricusi il loco.
Tornano
i Saracin giù ne le fosse
a
furia di ferite e di percosse.
Non
ferro solamente vi s'adopra,
ma
grossi massi, e merli integri e saldi,
e
muri dispiccati con molt'opra,
tetti
di torri, e gran pezzi di spaldi.
L'acque
bollenti che vengon di sopra,
portano
a' Mori insupportabil caldi;
e
male a questa pioggia si resiste,
che
entra per gli elmi, e fa acciecar le viste.
E
questa più nocea che il ferro quasi:
or
che de' far la nebbia di calcine?
or
che doveano far li ardenti vasi
con
olio e zolfo e peci e trementine?
I
cerchi in munizion non son rimasi,
che
d'ogn'intorno hanno di fiamma il crine:
questi,
scagliati per diverse bande,
mettono
a' Saracini aspre ghirlande.
Intanto
il re di Sarza avea cacciato
sotto
le mura la schiera seconda,
da
Buraldo, da Ormida accompagnato,
quel
Garamante, e questo di Marmonda.
Clarindo
e Soridan gli sono allato,
né
par che il re di Setta si nasconda;
segue
il re di Marocco e quel di Cosca,
ciascun
perché il valor suo si conosca.
Ne
la bandiera, che è tutta vermiglia,
Rodomonte
di Sarza il leon spiega,
che
la feroce bocca ad una briglia
che
gli pon la sua donna, aprir non niega.
Al
leon sé medesimo assimiglia;
e
per la donna che lo frena e lega,
la
bella Doralice ha figurata,
figlia
di Stordilan re di Granata:
quella
che tolto avea, come io narrava,
re
Mandricardo, e dissi dove e a cui.
Era
costei che Rodomonte amava
più
cheil suo regno e più che gli occhi sui;
e
cortesia e valor per lei mostrava,
non
già sapendo che era in forza altrui:
se
saputo l'avesse, allora allora
fatto
avria quel che fe' quel giorno ancora.
Sono
appoggiate a un tempo mille scale,
che
non han men di dua per ogni grado.
Spinge
il secondo quel che inanzi sale;
che
il terzo lui montar fa suo mal grado.
Chi
per virtù, chi per paura vale:
convien
che ognun per forza entri nel guado;
che
qualunche s'adagia, il re d'Algiere,
Rodomonte
crudele, uccide o fere.
Ognun
dunque si sforza di salire
tra
il fuoco e le ruine in su le mura.
Ma
tutti gli altri guardano, se aprire
veggiano
passo ove sia poca cura:
sol
Rodomonte sprezza di venire,
se
non dove la via meno è sicura.
Dove
nel caso disperato e rio
gli
altri fan voti, egli bestemmia Dio.
Armato
era d'un forte duro usbergo,
che
fu di drago una scagliosa pelle.
Di
questo già si cinse il petto e il tergo
quello
avol suo che edificò Babelle,
e
si pensò cacciar de l'aureo albergo,
e
torre a Dio il governo de le stelle:
l'elmo
e lo scudo fece far perfetto,
e
il brando insieme; e solo a questo effetto.
Rodomonte
non già men di Nembrotte
indomito,
superbo e furibondo,
che
d'ire al ciel non tarderebbe a notte,
quando
la strada si trovasse al mondo,
quivi
non sta a mirar s'intere o rotte
sieno
le mura, o s'abbia l'acqua fondo:
passa
la fossa, anzi la corre e vola,
ne
l'acqua e nel pantan fin alla gola.
Di
fango brutto, e molle d'acqua vanne
tra
il foco e i sassi e gli archi e le balestre,
come
andar suol tra le palustri canne
de
la nostra Mallea porco silvestre,
che
col petto, col grifo e con le zanne
fa,
dovunque si volge, ample finestre.
Con
lo scudo alto il Saracin sicuro
ne
vien sprezzando il ciel, non che quel muro.
Non
sì tosto all'asciutto è Rodomonte,
che
giunto si sentì su le bertresche,
che
dentro alla muraglia facean ponte
capace
e largo alle squadre francesche.
Or
si vede spezzar più d'una fronte,
far
chieriche maggior de le fratesche,
braccia
e capi volare; e ne la fossa
cader
da' muri una fiumana rossa.
Getta
il pagan lo scudo, e a duo man prende
la
crudel spada, e giunge il duca Arnolfo.
Costui
venìa di là dove discende
l'acqua
del Reno nel salato golfo.
Quel
miser contra lui non si difende
meglio
che faccia contra il fuoco il zolfo;
e
cade in terra, e dà l'ultimo crollo,
dal
capo fesso un palmo sotto il collo.
Uccide
di rovescio in una volta
Anselmo,
Oldrado, Spineloccio e Prando:
il
luogo stretto e la gran turba folta
fece
girar sì pienamente il brando.
Fu
la prima metade a Fiandra tolta,
l'altra
scemata al populo normando.
Divise
appresso da la fronte al petto,
ed
indi al ventre, il maganzese Orghetto.
Getta
da' merli Andropono e Moschino
giù
ne la fossa: il primo è sacerdote;
non
adora il secondo altro che il vino,
e
le bigonce a un sorso n'ha già vuote.
Come
veneno e sangue viperino
l'acque
fuggia quanto fuggir si puote:
or
quivi muore; e quel che più l'annoia,
è
il sentir che nell'acqua se ne muoia.
Tagliò
in due parti il provenzal Luigi,
e
passò il petto al tolosano Arnaldo.
Di
Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi
mandar
lo spirto fuor col sangue caldo;
e
presso a questi, quattro da Parigi,
Gualtiero,
Satallone, Odo ed Ambaldo,
ed
altri molti: ed io non saprei come
di
tutti nominar la patria e il nome.
La
turba dietro a Rodomonte presta
le
scale appoggia, e monta in più d'un loco.
Quivi
non fanno i Parigin più testa;
che
la prima difesa lor val poco.
San
ben che agli nemici assai più resta
dentro
da fare, e non l'avran da gioco;
perché
tra il muro e l'argine secondo
discende
il fosso orribile e profondo.
Oltra
che i nostri facciano difesa
dal
basso all'alto, e mostrino valore;
nuova
gente succede alla contesa
sopra
l'erta pendice interiore,
che
fa con lance e con saette offesa
alla
gran moltitudine di fuore,
che
credo ben, che saria stata meno,
se
non v'era il figliuol del re Ulieno.
Egli
questi conforta, e quei riprende,
e
lor mal grado inanzi se gli caccia:
ad
altri il petto, ad altri il capo fende,
che
per fuggir veggia voltar la faccia.
Molti
ne spinge ed urta; alcuni prende
pei
capelli, pel collo e per le braccia:
e
sozzopra là giù tanti ne getta,
che
quella fossa a capir tutti è stretta.
Mentre
lo stuol de' barbari si cala,
anzi
trabocca al periglioso fondo,
ed
indi cerca per diversa scala
di
salir sopra l'argine secondo;
il
re di Sarza (come avesse un'ala
per
ciascun de' suoi membri) levò il pondo
di
sì gran corpo e con tant'arme indosso,
e
netto si lanciò di là dal fosso.
Poco
era men di trenta piedi, o tanto,
ed
egli il passò destro come un veltro,
e
fece nel cader strepito, quanto
avesse
avuto sotto i piedi il feltro:
ed
a questo ed a quello affrappa il manto,
come
sien l'arme di tenero peltro,
e
non di ferro, anzi pur sien di scorza:
tal
la sua spada, e tanta è la sua forza!
In
questo tempo i nostri, da chi tese
l'insidie
son ne la cava profonda,
che
v'han scope e fascine in copia stese,
intorno
a quai di molta pece abonda
(né
però alcuna si vede palese,
ben
che n'è piena l'una e l'altra sponda
dal
fondo cupo insino all'orlo quasi),
e
senza fin v'hanno appiattati vasi,
qual
con salnitro, qual con oglio, quale
con
zolfo, qual con altra simil esca;
i
nostri in questo tempo, perché male
ai
Saracini il folle ardir riesca,
che
eran nel fosso, e per diverse scale
credean
montar su l'ultima bertresca;
udito
il segno da oportuni lochi,
di
qua e di là fenno avampare i fochi.
Tornò
la fiamma sparsa tutta in una,
che
tra una ripa e l'altra ha il tutto pieno;
e
tanto ascende in alto, che alla luna
può
d'appresso asciugar l'umido seno.
Sopra
si volve oscura nebbia e bruna,
che
il sole adombra, e spegne ogni sereno.
Sentesi
un scoppio in un perpetuo suono,
simile
a un grande e spaventoso tuono.
Aspro
concento, orribile armonia
d'alte
querele, d'ululi e di strida
de
la misera gente che peria
nel
fondo per cagion de la sua guida,
istranamente
concordar s'udia
col
fiero suon de la fiamma omicida.
Non
più, Signor, non più di questo canto;
che
io son già rauco e vo' posarmi alquanto.
CANTO
QUINDICESIMO.
Fu
il vincer sempremai laudabil cosa,
vincasi
o per fortuna o per ingegno:
gli
è ver che la vittoria sanguinosa
spesso
far suole il capitan men degno;
e
quella eternamente è gloriosa,
e
dei divini onori arriva al segno,
quando
servando i suoi senza alcun danno,
si
fa che gli inimici in rotta vanno.
La
vostra, Signor mio, fu degna loda,
quando
al Leone, in mar tanto feroce,
che
avea occupata l'una e l'altra proda
del
Po, da Francolin sin alla foce,
faceste
sì, che ancor che ruggir l'oda,
s'io
vedrò voi, non tremerò alla voce.
Come
vincer si de', ne dimostraste;
che
uccideste i nemici, e noi salvaste.
Questo
il pagan, troppo in suo danno audace,
non
seppe far; che i suoi nel fosso spinse,
dove
la fiamma subita e vorace
non
perdonò ad alcun, ma tutti estinse.
A
tanti non saria stato capace
tutto
il gran fosso, ma il fuoco restrinse,
restrinse
i corpi e in polve li ridusse,
acciò
che abile a tutti il luogo fusse.
Undicimila
ed otto sopra venti
si
ritrovar ne l'affocata buca,
che
v'erano discesi malcontenti;
ma
così volle il poco saggio duca.
Quivi
fra tanto lume or sono spenti,
e
la vorace fiamma li manuca:
e
Rodomonte, causa del mal loro,
se
ne va esente da tanto martoro:
che
tra' nemici alla ripa più interna
era
passato d'un mirabil salto.
Se
con gli altri scendea ne la caverna,
questo
era ben il fin d'ogni suo assalto.
Rivolge
gli occhi a quella valle inferna;
e
quando vede il fuoco andar tant'alto,
e
di sua gente il pianto ode e lo strido,
bestemmia
il ciel con spaventoso grido.
Intanto
il re Agramante mosso avea
impetuoso
assalto ad una porta;
che,
mentre la crudel battaglia ardea
quivi
ove è tanta gente afflitta e morta,
quella
sprovista forse esser credea
di
guardia, che bastasse alla sua scorta.
Seco
era il re d'Arzilla Bambirago,
e
Baliverzo, d'ogni vizio vago;
e
Corineo di Mulga, e Prusione,
il
ricco re dell'Isole beate;
Malabuferso
che la regione
tien
di Fizan, sotto continua estate;
altri
signori, ed altre assai persone
esperte
ne la guerra e bene armate;
e
molti ancor senza valore e nudi,
che
il cor non s'armerian con mille scudi.
Trovò
tutto il contrario al suo pensiero
in
questa parte il re de' Saracini:
perché
in persona il capo de l'Impero
v'era,
re Carlo, e de' suoi paladini,
re
Salamone ed il danese Ugiero,
ed
ambo i Guidi ed ambo gli Angelini,
e
il duca di Bavera e Ganelone,
e
Berlengier e Avolio e Avino e Otone;
gente
infinita poi di minor conto,
de'
Franchi, de' Tedeschi e de' Lombardi,
presente
il suo signor, ciascuno pronto
a
farsi riputar fra i più gagliardi.
Di
questo altrove io vo' rendervi conto;
che
ad un gran duca è forza che io riguardi,
il
qual mi grida, e di lontano accenna,
e
priega che io nol lasci ne la penna.
Gli
è tempo che io ritorni ove lasciai
l'aventuroso
Astolfo d'Inghilterra,
che
il lungo esilio avendo in odio ormai,
di
desiderio ardea de la sua terra;
come
gli n'avea data pur assai
speme
colei che Alcina vinse in guerra.
Ella
di rimandarvilo avea cura
per
la via più espedita e più sicura.
E
così una galea fu apparechiata,
di
che miglior mai non solcò marina;
e
perché ha dubbio per tutta fiata,
che
non gli turbi il suo viaggio Alcina,
vuol
Logistilla che con forte armata
Andronica
ne vada e Sofrosina,
tanto
che nel mar d'Arabi, o nel golfo
de'
Persi, giunga a salvamento Astolfo.
Più
tosto vuol che volteggiando rada
gli
Sciti e gli Indi e i regni nabatei,
e
torni poi per così lunga strada
a
ritrovar i Persi e gli Eritrei;
che
per quel boreal pelago vada,
che
turban sempre iniqui venti e rei,
e
sì, qualche stagion, pover di sole,
che
starne senza alcuni mesi suole.
La
fata, poi che vide acconcio il tutto,
diede
licenza al duca di partire,
avendol
prima ammaestrato e istrutto
di
cose assai, che fôra lungo a dire;
e
per schivar che non sia più ridutto
per
arte maga, onde non possa uscire,
un
bello ed util libro gli avea dato,
che
per suo amore avesse ognora allato.
Come
l'uom riparar debba agli incanti
mostra
il libretto che costei gli diede:
dove
ne tratta o più dietro o più inanti,
per
rubrica e per indice si vede.
Un
altro don gli fece ancor, che quanti
doni
fur mai, di gran vantaggio eccede:
e
questo fu d'orribil suono un corno,
che
fa fugire ognun che l'ode intorno.
Dico
che il corno è di sì orribil suono,
che
ovunque s'oda, fa fuggir la gente:
non
può trovarsi al mondo un cor sì buono,
che
possa non fuggir come lo sente:
rumor
di vento e di termuoto, e il tuono,
a
par del suon di questo, era niente.
Con
molto riferir di grazie, prese
da
la fata licenza il buono Inglese.
Lasciando
il porto e l'onde più tranquille,
con
felice aura che alla poppa spira,
sopra
le ricche e populose ville
de
l'odorifera India il duca gira,
scoprendo
a destra ed a sinistra mille
isole
sparse; e tanto va, che mira
la
terra di Tomaso, onde il nocchiero
più
a tramontana poi volge il sentiero.
Quasi
radendo l'aurea Chersonesso,
la
bella armata il gran pelago frange:
e
costeggiando i ricchi liti, spesso
vede
come nel mar biancheggi il Gange;
e
Traprobane vede e Cori appresso;
e
vede il mar che fra i duo liti s'ange.
Dopo
gran via furo a Cochino, e quindi
usciro
fuor dei termini degli Indi.
Scorrendo
il duca il mar con sì fedele
e
sì sicura scorta, intender vuole,
e
ne domanda Andronica, se de le
parti
c'han nome dal cader del sole,
mai
legno alcun che vada a remi e a vele,
nel
mare orientale apparir suole;
e
s'andar può senza toccar mai terra,
chi
d'India scioglia, in Francia o in Inghilterra.
-
Tu déi sapere (Andronica risponde)
che
d'ogn'intorno il mar la terra abbraccia;
e
van l'una ne l'altra tutte l'onde,
sia
dove bolle o dove il mar s'aggiaccia;
ma
perché qui davante si difonde,
e
sotto il mezzodì molto si caccia
la
terra d'Etiopia, alcuno ha detto
che
a Nettuno ir più inanzi ivi è interdetto.
Per
questo del nostro indico levante
nave
non è che per Europa scioglia;
né
si muove d'Europa navigante
che
in queste nostre parti arrivar voglia.
Il
ritrovarsi questa terra avante,
e
questi e quelli al ritornare invoglia;
che
credono, veggendola sì lunga,
che
con l'altro emisperio si congiunga.
Ma
volgendosi gli anni, io veggio uscire
da
l'estreme contrade di ponente
nuovi
Argonauti e nuovi Tifi, e aprire
la
strada ignota infin al dì presente:
altri
volteggiar l'Africa, e seguire
tanto
la costa de la negra gente,
che
passino quel segno onde ritorno
fa
il sole a noi, lasciando il Capricorno;
e
ritrovar del lungo tratto il fine,
che
questo fa parer dui mar diversi;
e
scorrer tutti i liti e le vicine
isole
d'Indi, d'Arabi e di Persi:
altri
lasciar le destre e le mancine
rive
che due per opra Erculea fersi;
e
del sole imitando il camin tondo,
ritrovar
nuove terre e nuovo mondo.
Veggio
la santa croce, e veggio i segni
imperial
nel verde lito eretti:
veggio
altri a guardia dei battuti legni,
altri
all'acquisto del paese eletti:
veggio
da dieci cacciar mille, e i regni
di
là da l'India ad Aragon suggetti;
e
veggio i capitan di Carlo quinto,
dovunque
vanno, aver per tutto vinto.
Dio
vuol che ascosa antiquamente questa
strada
sia stata, e ancor gran tempo stia;
né
che prima si sappia, che la sesta
e
la settima età passata sia:
e
serba a farla al tempo manifesta,
che
vorrà porre il mondo a monarchia,
sotto
il più saggio imperatore e giusto,
che
sia stato o sarà mai dopo Augusto.
Del
sangue d'Austria e d'Aragon io veggio
nascer
sul Reno alla sinistra riva
un
principe, al valor del qual pareggio
nessun
valor, di cui si parli o scriva.
Astrea
veggio per lui riposta in seggio,
anzi
di morta ritornata viva;
e
le virtù che cacciò il mondo, quando
lei
cacciò ancora, uscir per lui di bando.
Per
questi merti la Bontà suprema
non
solamente di quel grande impero
ha
disegnato che abbia diadema
che
ebbe Augusto, Traian, Marco e Severo;
ma
d'ogni terra e quinci e quindi estrema,
che
mai né al sol né all'anno apre il sentiero:
e
vuol che sotto a questo imperatore
solo
un ovile sia, solo un pastore.
E
perche abbian più facile successo
gli
ordini in cielo eternamente scritti,
gli
pon la somma Providenza appresso
in
mare e in terra capitani invitti.
Veggio
Hernando Cortese, il qualo ha messo
nuove
città sotto i cesarei editti,
e
regni in Oriente sì remoti,
che
a noi, che siamo in India, non son noti.
Veggio
Prosper Colonna, e di Pescara
veggio
un marchese, e veggio dopo loro
un
giovene del Vasto, che fan cara
parer
la bella Italia ai Gigli d'oro:
veggio
che entrare inanzi si prepara
quel
terzo agli altri a guadagnar l'alloro:
come
buon corridor che ultimo lassa
le
mosse, e giunge, e inanzi a tutti passa.
Veggio
tanto il valor, veggio la fede
tanta
d'Alfonso (che il suo nome è questo),
che
in così acerba età, che non eccede
dopo
il vigesimo anno ancora il sesto,
l'imperator
l'esercito gli crede,
il
qual salvando, salvar non che il resto,
ma
farsi tutto il mondo ubidiente
con
questo capitan sarà possente.
Come
con questi, ovunque andar per terra
si
possa, accrescerà l'imperio antico;
così
per tutto il mar, che in mezzo serra
di
là l'Europa e di qua l'Afro aprico,
sarà
vittorioso in ogni guerra,
poi
che Andrea Doria s'avrà fatto amico.
Questo
è quel Doria che fa dai pirati
sicuro
il vostro mar per tutti i lati.
Non
fu Pompeio a par di costui degno,
se
ben vinse e cacciò tutti i corsari;
Però
che quelli al più possente regno
che
fosse mai, non poteano esser pari:
ma
questo Doria, sol col proprio ingegno
e
proprie forze purgherà quei mari;
sì
che da Calpe al Nilo, ovunque s'oda
il
nome suo, tremar veggio ogni proda.
Sotto
la fede entrar, sotto la scorta
di
questo capitan di che io ti parlo,
veggio
in Italia, ove da lui la porta
gli
sarà aperta, alla corona Carlo.
Veggio
che il premio che di ciò riporta,
non
tien per sé, ma fa alla patria darlo:
con
prieghi ottien che in libertà la metta,
dove
altri a sé l'avria forse suggetta.
Questa
pietà, che egli alla patria mostra,
è
degna di più onor d'ogni battaglia
che
in Francia o in Spagna o ne la terra vostra
vincesse
Iulio, o in Africa o in Tessaglia.
Né
il grande Ottavio, né chi seco giostra
di
par, Antonio, in più onoranza saglia
pei
gesti suoi; che ogni lor laude amorza
l'avere
usato alla lor patria forza.
Questi
ed ogn'altro che la patria tenta
di
libera far serva, si arrosisca;
né
dove il nome d'Andrea Doria senta,
di
levar gli occhi in viso d'uomo ardisca.
Veggio
Carlo che il premio gli augumenta;
che
oltre quel che in commun vuol che fruisca,
gli
dà la ricca terra che ai Normandi
sarà
principio a farli in Puglia grandi.
A
questo capitan non pur cortese
il
magnanimo Carlo ha da mostrarsi,
ma
a quanti avrà ne le cesaree imprese
del
sangue lor non ritrovati scarsi.
D'aver
città, d'aver tutto un paese
donato
a un suo fedel, più ralegrarsi
lo
veggio, e a tutti quei che ne son degni,
che
d'acquistar nuov'altri imperi e regni. -
Così
de le vittorie, le qual, poi
che
un gran numero d'anni sarà corso,
daranno
a Carlo i capitani suoi,
facea
col duca Andronica discorso:
e
la compagna intanto ai venti eoi
viene
allentando e raccogliendo il morso;
e
fa che or questo or quel propizio l'esce,
e
come vuol li minuisce e cresce.
Veduto
aveano intanto il mar de' Persi
come
in sì largo spazio si dilaghi;
onde
vicini in pochi giorni fersi
al
golfo che nomar gli antiqui Maghi.
Quivi
pigliaro il porto, e fur conversi
con
la poppa alla ripa i legni vaghi;
quindi
sicur d'Alcina e di sua guerra,
Astolfo
il suo camin prese per terra.
Passò
per più d'un campo e più d'un bosco,
per
più d'un monte e per più d'una valle;
ove
ebbe spesso, all'aer chiaro e al fosco,
i
ladroni or inanzi or alle spalle.
Vide
leoni, e draghi pien di tosco,
ed
altre fere attraversarsi il calle;
ma
non sì tosto avea la bocca al corno,
che
spaventati gli fuggian d'intorno.
Vien
per l'Arabia che è detta Felice,
ricca
di mirra e d'odorato incenso,
che
per suo albergo l'unica fenice
eletto
s'ha di tutto il mondo immenso;
fin
che l'onda trovò vendicatrice
già
d'Israel, che per divin consenso
Faraone
sommerse e tutti i suoi:
e
poi venne alla terra degli Eroi.
Lungo
il fiume Traiano egli cavalca
su
quel destrier che al mondo è senza pare,
che
tanto leggiermente e corre e valca,
che
ne l'arena l'orma non n'appare:
l'erba
non pur, non pur la nieve calca;
coi
piedi asciutti andar potria sul mare;
e
sì si stende al corso, e sì s'affretta,
che
passa e vento e folgore e saetta.
Questo
è il destrier che fu de l'Argalia,
che
di fiamma e di vento era concetto;
e
senza fieno e biada, si nutria
de
l'aria pura, e Rabican fu detto.
Venne,
suguendo il Duca la sua via,
dove
dà il Nilo a quel fiume ricetto;
e
prima che giugnesse in su la foce,
vide
un legno venire a sé veloce.
Naviga
in su la poppa uno eremita
con
bianca barba, a mezzo il petto lunga,
che
sopra il legno il paladino invita,
e:
- Figliuol mio (gli grida da la lunga),
se
non t'è in odio la tua propria vita,
se
non brami che morte oggi ti giunga,
venir
ti piaccia su quest'altra arena;
che
a morir quella via dritto ti mena.
Tu
non andrai più che sei miglia inante,
che
troverai la saguinosa stanza
dove
s'alberga un orribil gigante
che
d'otto piedi ogni statura avanza.
Non
abbia cavallier né viandante
di
partirsi da lui, vivo, speranza:
che
altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia,
molti
ne squarta, e vivo alcun ne 'ngoia.
Piacer,
fra tanta crudeltà, si prende
d'una
rete che egli ha, molto ben fatta:
poco
lontana al tetto suo la tende,
e
ne la trita polve in modo appiatta,
che
chi prima nol sa, non la comprende,
tanto
è sottil, tanto egli ben l'adatta:
e
con tai gridi i peregrin minaccia,
che
spaventati dentro ve li caccia.
E
con gran risa, aviluppati in quella
se
li strascina sotto il suo coperto;
né
cavallier riguarda né donzella,
o
sia di grande o sia di picciol merto:
e
mangiata la carne, e la cervella
succhiate
e il sangue, dà l'ossa al deserto;
e
de l'umane pelli intorno intorno
fa
il suo palazzo orribilmente adorno.
Prendi
quest'altra via, prendila, figlio,
che
fin al mar ti fia tutta sicura. -
-
Io ti ringrazio, padre, del consiglio
(rispose
il cavallier senza paura),
ma
non istimo per l'onor periglio,
di
che assai più che de la vita ho cura.
Per
far che io passi, invan tu parli meco;
anzi
vo al dritto a ritrovar lo speco.
Fuggendo,
posso con disnor salvarmi;
ma
tal salute ho più che morte a schivo.
S'io
vi vo, al peggio che potrà incontrarmi,
fra
molti resterò di vita privo;
ma
quando Dio così mi drizzi l'armi,
che
colui morto, ed io rimanga vivo,
sicura
a mille renderò la via:
sì
che l'util maggior che il danno fia.
Metto
all'incontro la morte d'un solo
alla
salute di gente infinita. -
-
Vattene in pace (rispose), figliuolo;
Dio
mandi in difension de la tua vita
l'arcangelo
Michel dal sommo polo: -
e
benedillo il semplice eremita.
Astolfo
lungo il Nil tenne la strada,
sperando
più nel suon che ne la spada.
Giace
tra l'alto fiume e la palude
picciol
sentier nell'arenosa riva:
la
solitaria casa lo richiude,
d'umanitade
e di commercio priva.
Son
fisse intorno teste e membra nude
de
l'infelice gente che v'arriva.
Non
v'è finestra, non v'è merlo alcuno,
onde
penderne almen non si veggia uno.
Qual
ne le alpine ville o ne' castelli
suol
cacciator che gran perigli ha scorsi,
su
le porte attaccar l'irsute pelli,
l'orride
zampe e i grossi capi d'orsi;
tal
dimostrava il fier gigante quelli
che
di maggior virtù gli erano occorsi.
D'altri
infiniti sparse appaion l'ossa;
ed
è di sangue uman piena ogni fossa.
Stassi
Caligorante in su la porta;
che
così ha nome il dispietato mostro
che
orna la sua magion di gente morta,
come
alcun suol di panni d'oro o d'ostro.
Costui
per gaudio a pena si comporta,
come
il duca lontan se gli è dimostro;
che
eran duo mesi, e il terzo ne venìa,
che
non fu cavallier per quella via.
Vêr
la palude, che era scura e folta
di
verdi canne, in gran fretta ne viene;
che
disegnato avea correre in volta,
e
uscir al paladin dietro alle schene;
che
ne la rete, che tenea sepolta
sotto
la polve, di cacciarlo ha spene,
come
avea fatto gli altri peregrini
che
quivi tratto avean lor rei destini.
Come
venire il paladin lo vede,
ferma
il destrier, non senza gran sospetto
che
vada in quelli lacci a dar del piede,
di
che il buon vecchiarel gli avea predetto.
Quivi
il soccorso del suo corno chiede,
e
quel sonando fa l'usato effetto:
nel
cor fere il gigante che l'ascolta,
di
tal timor, che a dietro i passi volta.
Astolfo
suona, e tuttavolta bada;
che
gli par sempre che la rete scocchi.
Fugge
il fellon, né vede ove si vada;
che,
come il core, avea perduti gli occhi.
Tanta
è la tema, che non sa far strada,
che
ne li propri aguati non trabocchi:
va
ne la rete; e quella si disserra,
tutto
l'annoda, e lo distende in terra.
Astolfo,
che andar giù vede il gran peso,
già
sicuro per sé, v'accorre in fretta;
e
con la spada in man, d'arcion disceso,
va
per far di mill'anime vendetta.
Poi
gli par che s'uccide un che sia preso,
viltà,
più che virtù, ne sarà detta;
che
legate le braccia, i piedi e il collo
gli
vede sì, che non può dare un crollo.
Avea
la rete già fatta Vulcano
di
sottil fil d'acciar, ma con tal arte,
che
saria stata ogni fatica invano
per
ismagliarne la più debol parte;
ed
era quella che già piedi e mano
avea
legate a Venere ed a Marte.
La
fe' il geloso, e non ad altro effetto,
che
per pigliarli insieme ambi nel letto.
Mercurio
al fabbro poi la rete invola;
che
Cloride pigliar con essa vuole,
Cloride
bella che per l'aria vola
dietro
all'Aurora, all'apparir del sole,
e
dal raccolto lembo de la stola
gigli
spargendo va, rose e viole.
Mercurio
tanto questa ninfa attese,
che
con la rete in aria un dì la prese.
Dove
entra in mare il gran fiume etiopo,
par
che la dea presa volando fosse.
Poi
nei tempio d'Anubide a Canopo
la
rete molti seculi serbosse.
Caligorante
tremila anni dopo,
di
là, dove era sacra, la rimosse:
se
ne portò la rete il ladrone empio,
ed
arse la cittade, e rubò il tempio.
Quivi
adattolla in modo in su l'arena,
che
tutti quei che avean da lui la caccia
vi
davan dentro; ed era tocca a pena,
che
lor legava e collo e piedi e braccia.
Di
questa levò Astolfo una catena,
e
le man dietro a quel fellon n'allaccia;
le
braccia e il petto in guisa gli ne fascia,
che
non può sciorsi: indi levar lo lascia,
dagli
altri nodi avendol sciolto prima,
che
era tornato uman più che donzella.
Di
trarlo seco e di mostrarlo stima
per
ville, per cittadi e per castella.
Vuol
la rete anco aver, di che né lima
né
martel fece mai cosa più bella:
ne
fa somier colui che alla catena
con
pompa trionfal dietro si mena.
L'elmo
e lo scudo anche a portar gli diede,
come
a valletto, e seguitò il camino,
di
gaudio empiendo, ovunque metta il piede,
che
ir possa ormai sicuro il peregrino.
Astolfo
se ne va tanto, che vede
che
ai sepolcri di Memfi è già vicino,
Memfi
per le piramidi famoso:
vede
all'incontro il Cairo populoso.
Tutto
il popul correndo si traea
per
vedere il gigante smisurato.
-
Come è possibil (l'un l'altro dicea)
che
quel piccolo il grande abbia legato? -
Astolfo
a pena inanzi andar potea,
tanto
la calca il preme da ogni lato:
e
come cavallier d'alto valore
ognun
l'ammira, e gli fa grande onore.
Non
era grande il Cairo così allora,
come
se ne ragiona a nostra etade:
che
il populo capir, che vi dimora,
non
puon diciottomila gran contrade;
e
che le case hanno tre palchi, e ancora
ne
dormono infiniti in su le strade;
e
che il soldano v'abita un castello
mirabil
di grandezza, e ricco e bello;
e
che quindicimila suoi vasalli,
che
son cristiani rinegati tutti,
con
mogli, con famiglie e con cavalli
ha
sotto un tetto sol quivi ridutti.
Astolfo
veder vuole ove s'avalli,
e
quanto il Nilo entri nei salsi flutti
a
Damiata; che avea quivi inteso,
qualunque
passa restar morto o preso.
Però
che in ripa al Nilo in su la foce
si
ripara un ladron dentro una torre,
che
a paesani e a peregrini nuoce,
e
fin al Cairo, ognun rubando scorre.
Non
gli può alcun resistere; ed ha voce
che
l'uom gli cerca invan la vita torre:
centomila
ferite egli ha già avuto,
né
ucciderlo però mai s'è potuto.
Per
veder se può far rompere il filo
alla
Parca di lui, sì che non viva,
Astolfo
viene a ritrovare Orrilo
(così
avea nome), e a Damiata arriva;
ed
indi passa ove entra in mare il Nilo,
e
vede la gran torre in su la riva,
dove
s'alberga l'anima incantata
che
d'un folletto nacque e d'una fata.
Quivi
ritruova che crudel battaglia
era
tra Orrilo e dui guerrieri accesa.
Orrilo
è solo; e sì que' dui travaglia,
che
a gran fatica gli puon far difesa:
e
quando in arme l'uno e l'altro vaglia,
a
tutto il mondo la fama palesa.
Questi
erano i dui figli d'Oliviero,
Grifone
il bianco ed Aquilante il nero.
Gli
è ver che il negromante venuto era
alla
battaglia con vantaggio grande;
che
seco tratto in campo avea una fera,
la
qual si truova solo in quelle bande:
vive
sul lito e dentro alla rivera;
e
i corpi umani son le sue vivande,
de
le persone misere ed incaute
de
viandanti e d'infelici naute.
La
bestia ne l'arena appresso al porto
per
man dei duo fratei morta giacea;
e
per questo ad Orril non si fa torto,
s'a
un tempo l'uno e l'altro gli nocea.
Più
volte l'han smembrato e non mai morto,
né,
per smembrarlo, uccider si potea;
che
se tagliato o mano o gamba gli era,
la
rapiccava, che parea di cera.
Or
fin a' denti il capo gli divide
Grifone,
or Aquilante fin al petto.
Egli
dei colpi lor sempre si ride:
s'adiran
essi, che non hanno effetto.
Chi
mai d'alto cader l'argento vide,
che
gli alchimisti hanno mercurio detto,
e
sparger e raccor tutti i suo' membri,
sentendo
di costui, se ne rimembri.
Se
gli spiccano il capo, Orrilo scende,
né
cessa brancolar fin che lo truovi;
ed
or pel crine ed or pel naso il prende,
lo
salda al collo, e non so con che chiovi.
Piglial
talor Grifone, e il braccio stende,
nel
fiume il getta, e non par che anco giovi;
che
nuota Orrilo al fondo come un pesce,
e
col suo capo salvo alla ripa esce.
Due
belle donne onestamente ornate,
l'una
vestita a bianco e l'altra a nero,
che
de la pugna causa erano state,
stavano
a riguardar l'assalto fiero.
Queste
eran quelle due benigne fate
che
avean notriti i figli d'Oliviero,
poi
che li trasson teneri citelli
dai
curvi artigli di duo grandi augelli,
che
rapiti gli avevano a Gismonda,
e
portati lontan dal suo paese.
Ma
non bisogna in ciò che io mi diffonda,
che
a tutto il mondo è l'istoria palese;
ben
che l'autor nel padre si confonda,
che
un per un altro (io non so come) prese.
Or
la battaglia i duo gioveni fanno,
che
le due donne ambi pregati n'hanno.
Era
in quel clima già sparito il giorno,
all'isole
ancor alto di Fortuna;
l'ombre
avean tolto ogni vedere a torno
sotto
l'incerta e mal compresa luna;
quando
alla rocca Orril fece ritorno,
poi
che alla bianca e alla sorella bruna
piacque
di differir l'aspra battaglia
fin
che il sol nuovo all'orizzonte saglia.
Astolfo,
che Grifone ed Aquilante,
ed
all'insegne e più al ferir gagliardo,
riconosciuto
avea gran pezzo inante,
lor
non fu altiero a salutar né tardo.
Essi
vedendo che quel che il gigante
traea
legato, era il baron dal pardo
(che
così in corte era quel duca detto),
raccolser
lui con non minore affetto.
Le
donne a riposare i cavallieri
menaro
a un lor palagio indi vicino.
Donzelle
incontra vennero e scudieri
con
torchi accesi, a mezzo del camino.
Diero
a chi n'ebbe cura i lor destrieri,
trassonsi
l'arme; e dentro un bel giardino
trovar
che apparechiata era la cena
ad
una fonte limpida ed amena.
Fan
legare il gigante alla verdura
Con
un'altra catena molto grossa
ad
una quercia di molt'anni dura,
che
non si romperà per una scossa;
e
da dieci sergenti averne cura,
che
la notte discior non se ne possa,
ed
assalirli, e forse far lor danno,
mentre
sicuri e senza guardia stanno.
All'abondante
e sontuosa mensa,
dove
il manco piacer fur le vivande,
del
ragionar gran parte si dispensa
sopra
d'Orrilo e del miracol grande,
che
quasi par un sogno a chi vi pensa,
che
or capo or braccio a terra se gli mande,
ed
egli lo raccolga e lo raggiugna,
e
più feroce ognor torni alla pugna.
Astolfo
nel suo libro avea già letto
(quel
che agli incanti riparare insegna)
che
ad Orril non trarrà l'alma del petto
fin
che un crine fatal nel capo tegna;
ma,
se lo svelle o tronca, fia costretto
che
suo mal grado fuor l'alma ne vegna.
Questo
ne dice il libro; ma non come
conosca
il crine in così folte chiome.
Non
men de la vittoria si godea,
che
se n'avesse Astolfo già la palma;
come
chi speme in pochi colpi avea
svellere
il crine al negromante e l'alma.
Però
di quella impresa promettea
tor
su gli omeri suoi tutta la salma:
Orril
farà morir, quando non spiaccia
ai
duo fratei, che egli la pugna faccia.
Ma
quei gli danno volentier l'impresa,
certi
che debbia affaticarsi invano.
Era
già l'altra aurora in cielo ascesa,
quando
calò dai muri Orrilo al piano.
Tra
il duca e lui fu la battaglia accesa:
la
mazza l'un, l'altro ha la spada in mano.
Di
mille attende Astolfo un colpo trarne,
che
lo spirto gli sciolga da la carne.
Or
cader gli fa il pugno con la mazza,
or
l'uno or l'altro braccio con la mano;
quando
taglia a traverso la corazza,
e
quando il va troncando a brano a brano:
ma
ricogliendo sempre de la piazza
va
le sue membra Orrilo, e si fa sano.
S'in
cento pezzi ben l'avesse fatto,
redintegrarsi
il vedea Astolfo a un tratto.
Al
fin di mille colpi un gli ne colse
sopra
le spalle ai termini del mento:
la
testa e l'elmo dal capo gli tolse,
né
fu d'Orrilo a dismontar più lento.
La
sanguinosa chioma in man s'avolse,
e
risalse a cavallo in un momento;
e
la portò correndo incontra il Nilo,
che
riaver non la potesse Orrilo.
Quel
sciocco, che del fatto non s'accorse,
per
la polve cercando iva la testa:
ma
come intese il corridor via torse,
portare
il capo suo per la foresta;
immantinente
al suo destrier ricorse,
sopra
vi sale, e di seguir non resta.
Volea
gridare: - Aspetta, volta, volta! -
ma
gli avea il duca già la bocca tolta.
Pur,
che non gli ha tolto anco le calcagna
si
riconforta, e segue a tutta briglia.
Dietro
il lascia gran spazio di campagna
quel
Rabican che corre a maraviglia.
Astolfo
intanto per la cuticagna
va
da la nuca fin sopra le ciglia
cercando
in fretta, se il crine fatale
conoscer
può, che Orril tiene immortale.
Fra
tanti e innumerabili capelli,
un
più de l'altro non si stende o torce:
qual
dunque Astolfo sceglierà di quelli,
che
per dar morte al rio ladron raccorce?
-
Meglio è (disse) che tutti io tagli o svelli: -
né
si trovando aver rasoi né force,
ricorse
immantinente alla sua spada,
che
taglia sì, che si può dir che rada.
E
tenendo quel capo per lo naso,
dietro
e dinanzi lo dischioma tutto.
Trovò
fra gli altri quel fatale a caso:
si
fece il viso allor pallido e brutto,
travolse
gli occhi, e dimostrò all'occaso,
per
manifesti segni, esser condutto;
e
il busto che seguia troncato al collo,
di
sella cadde, e diè l'ultimo crollo.
Astolfo,
ove le donne e i cavallieri
lasciato
avea, tornò col capo in mano,
che
tutti avea di morte i segni veri,
e
mostrò il tronco ove giacea lontano.
Non
so ben se lo vider volentieri,
ancor
che gli mostrasser viso umano;
che
la intercetta lor vittoria forse
d'invidia
ai duo germani il petto morse.
Né
che tal fin quella battuglia avesse,
credo
più fosse alle due donne grato.
Queste,
perché più in lungo si traesse
de'
duo fratelli il doloroso fato
che
in Francia par che in breve esser dovesse,
con
loro Orrilo avean quivi azzuffato,
con
speme di tenerli tanto a bada,
che
la trista influenza se ne vada.
Tosto
che il castellan di Damiata
certificossi
che era morto Orrilo,
la
columba lasciò, che avea legata
sotto
l'ala la lettera col filo.
Quella
andò al Cairo; ed indi fu lasciata
un'altra
altrove, come quivi è stilo:
sì
che in pochissime ore andò l'aviso
per
tutto Egitto, che era Orrilo ucciso.
Il
duca, come al fin trasse l'impresa,
confortò
molto i nobili garzoni,
ben
che da sé v'avean la voglia intesa,
né
bisognavan stimuli né sproni,
che
per difender de la santa Chiesa
e
del romano Imperio le ragioni,
lasciasser
le battaglie d'Oriente,
e
cercassino onor ne la lor gente.
Così
Grifone ed Aquilante tolse
ciascuno
da la sua donna licenza;
le
quali, ancor che lor ne 'ncrebbe e dolse,
non
vi seppon però far resistenza.
Con
essi Astolfo a man destra si volse;
che
si deliberar far riverenza
ai
santi luoghi ove Dio in carne visse,
prima
che verso Francia si venisse.
Potuto
avrian pigliar la via mancina,
che
era più dilettevole e più piana,
e
mai non si scostar da la marina;
ma
per la destra andaro orrida e strana,
perché
l'alta città di Palestina
per
questa sei giornate è men lontana.
Acqua
si truova ed erba in questa via:
di
tutti gli altri ben v'è carestia.
Sì
che prima che entrassero in viaggio,
ciò
che lor bisognò, fecion raccorre,
e
carcar sul gigante il carriaggio,
che
avria portato in collo anco una torre.
Al
finir del camino aspro e selvaggio,
da
l'alto monte alla lor vista occorre
la
santa terra, ove il superno Amore
lavò
col proprio sangue il nostro errore.
Trovano
in su l'entrar de la cittade
un
giovene gentil, lor conoscente,
Sansonetto
da Meca, oltre l'etade,
che
era nel primo fior, molto prudente;
d'alta
cavalleria, d'alta bontade
famoso,
e riverito fra la gente.
Orlando
lo converse a nostra fede,
e
di sua man battesmo anco gli diede.
Quivi
lo trovan che disegna a fronte
del
calife d'Egitto una fortezza;
e
circondar vuole il Calvario monte
di
muro di duo miglia di lunghezza.
Da
lui raccolti fur con quella fronte
che
può d'interno amor dar più chiarezza,
e
dentro accompagnati, e con grande agio
fatti
alloggiar nel suo real palagio.
Avea
in governo egli la terra, e in vece
di
Carlo vi reggea l'imperio giusto.
Il
duca Astolfo a costui dono fece
di
quel sì grande e smisurato busto,
che
a portar pesi gli varrà per diece
bestie
da soma, tanto era robusto.
Diegli
Astolfo il gigante, e diegli appresso
la
rete che in sua forza l'avea messo.
Sansonetto
all'incontro al duca diede
per
la spada una cinta ricca e bella;
e
diede spron per l'uno e l'altro piede,
che
d'oro avean la fibbia e la girella;
che
esser del cavallier stati si crede,
che
liberò dal drago la donzella:
al
Zaffo avuti con molt'altro arnese
Sansonetto
gli avea, quando lo prese.
Purgati
de lor colpe a un monasterio
che
dava di sé odor di buoni esempi,
de
la passion di Cristo ogni misterio
contemplando
n'andar per tutti i tempi
che
or con eterno obbrobrio e vituperio
agli
cristiani usurpano i Mori empi.
L'Europa
è in arme, e di far guerra agogna
in
ogni parte, fuor che ove bisogna.
Mentre
avean quivi l'animo divoto,
a
perdonanze e a cerimonie intenti,
un
peregrin di Grecia, a Grifon noto,
novelle
gli arrecò gravi e pungenti,
dal
suo primo disegno e lungo voto
troppo
diverse e troppo differenti;
e
quelle il petto gli infiammaron tanto,
che
gli scacciar l'orazion da canto.
Amava
il cavallier, per sua sciagura,
una
donna che avea nome Orrigille:
di
più bel volto e di miglior statura
non
se ne sceglierebbe una fra mille;
ma
disleale e di sì rea natura,
che
potresti cercar cittadi e ville,
la
terra ferma e l'isole del mare,
né
credo che una le trovassi pare.
Ne
la città di Costantin lasciata
grave
l'avea di febbre acuta e fiera.
Or
quando rivederla alla tornata
più
che mai bella, e di goderla spera,
ode
il meschin, che in Antiochia andata
dietro
un suo nuovo amante ella se n'era,
non
le parendo ormai di più patire
che
abbia in sì fresca età sola a dormire.
Da
indi in qua che ebbe la trista nuova,
sospirava
Grifon notte e dì sempre.
Ogni
piacer che agli altri aggrada e giova,
par
che a costui più l'animo distempre:
pensilo
ognun, ne li cui danni pruova
Amor,
se li suoi strali han buone tempre.
Ed
era grave sopra ogni martire,
che
il mal che avea si vergognava a dire.
Questo,
perché mille fiate inante
già
ripreso l'avea di quello amore,
di
lui più saggio, il fratello Aquilante,
e
cercato colei trargli del core,
colei
che al suo giudicio era di quante
femine
rie si trovin la peggiore.
Grifon
l'escusa, se il fratel la danna;
e
le più volte il parer proprio inganna.
Però
fece pensier, senza parlarne
con
Aquilante, girsene soletto
sin
dentro d'Antiochia, e quindi trarne
colei
che tratto il cor gli avea del petto;
trovar
colui che gli l'ha tolta, e farne
vendetta
tal, che ne sia sempre detto.
Dirò,
come ad effetto il pensier messe,
nell'altro
canto, e ciò che ne successe.
CANTO
SEDICESIMO.
Gravi
pene in amor si provan molte,
di
che patito io n'ho la maggior parte,
e
quelle in danno mio sì ben raccolte,
che
io ne posso parlar come per arte.
Però
s'io dico e s'ho detto altre volte,
e
quando in voce e quando in vive carte,
che
un mal sia lieve, un altro acerbo e fiero,
date
credenza al mio giudicio vero.
Io
dico e dissi, e dirò fin che io viva,
che
chi si truova in degno laccio preso,
se
ben di sé vede sua donna schiva,
se
in tutto aversa al suo desire acceso;
se
bene Amor d'ogni mercede il priva,
poscia
che il tempo e la fatica ha speso;
pur
che altamente abbia locato il core,
pianger
non de', se ben languisce e muore.
Pianger
de' quel che già sia fatto servo
di
duo vaghi occhi e d'una bella treccia,
sotto
cui si nasconda un cor protervo,
che
poco puro abbia con molta feccia.
Vorria
il miser fuggire; e come cervo
ferito,
ovunque va, porta la freccia:
ha
di se stesso e del suo amor vergogna,
né
l'osa dire, e invan sanarsi agogna.
In
questo caso è il giovene Grifone,
che
non si può emendare, e il suo error vede,
vede
quanto vilmente il suo cor pone
in
Orrigille iniqua e senza fede;
pur
dal mal uso è vinta la ragione,
e
pur l'arbitrio all'appetito cede:
perfida
sia quantunque, ingrata e ria,
sforzato
è di cercar dove ella sia.
Dico,
la bella istoria ripigliando,
che
uscì de la città secretamente,
né
parlarne s'ardì col fratel, quando
ripreso
invan da lui ne fu sovente.
Verso
Rama, a sinistra declinando,
prese
la via più piana e più corrente.
Fu
in sei giorni a Damasco di Soria;
indi
verso Antiochia se ne gìa.
Scontrò
presso a Damasco il cavalliero
a
cui donato aveva Orrigille il core:
e
convenian di rei costumi in vero,
come
ben si convien l'erba col fiore;
che
l'uno e l'altro era di cor leggiero,
perfido
l'uno e l'altro e traditore;
e
copria l'uno e l'altro il suo difetto,
con
danno altrui, sotto cortese aspetto.
Come
io vi dico, il cavallier venìa
s'un
gran destrier con molta pompa armato:
la
perfida Orrigille in compagnia,
in
un vestire azzur d'oro fregiato,
e
duo valletti, donde si servia
a
portar elmo e scudo, aveva allato;
come
quel che volea con bella mostra
comparire
in Damasco ad una giostra.
Una
splendida festa che bandire
fece
il re di Damasco in quelli giorni,
era
cagion di far quivi venire
i
cavallier quanto potean più adorni.
Tosto
che la puttana comparire
vede
Grifon, ne teme oltraggi e scorni:
sa
che l'amante suo non è sì forte,
che
contra lui l'abbia a campar da morte.
Ma
sì come audacissima e scaltrita,
ancor
che tutta di paura trema,
s'acconcia
il viso, e sì la voce aita,
che
non appar in lei segno di tema.
Col
drudo avendo già l'astuzia ordita,
corre,
e fingendo una letizia estrema,
verso
Grifon l'aperte braccia tende,
lo
stringe al collo, e gran pezzo ne pende.
Dopo,
accordando affettuosi gesti
alla
suavità de le parole,
dicea
piangendo: - Signor mio, son questi
debiti
premi a chi t'adora e cole?
che
sola senza te già un anno resti,
e
va per l'altro, e ancor non te ne duole?
E
s'io stava aspettare il suo ritorno,
non
so se mai veduto avrei quel giorno!
Quando
aspettava che di Nicosia,
dove
tu te n'andasti alla gran corte,
tornassi
a me che con la febbre ria
lasciata
avevi in dubbio de la morte,
intesi
che passato eri in Soria:
il
che a patir mi fu sì duro e forte,
che
non sapendo come io ti seguissi,
quasi
il cor di man propria mi traffissi.
Ma
Fortuna di me con doppio dono
mostra
d'aver, quel che non hai tu, cura:
mandommi
il fratel mio, col quale io sono
sin
qui venuta del mio onor sicura;
ed
or mi manda questo incontro buono
di
te, che io stimo sopra ogni aventura:
e
bene a tempo il fa; che più tardando,
morta
sarei, te, signor mio, bramando. -
E
seguitò la donna fraudolente,
di
cui l'opere fur più che di volpe,
la
sua querela così astutamente,
che
riversò in Grifon tutte le colpe.
Gli
fa stimar colui, non che parente,
ma
che d'un padre seco abbia ossa e polpe:
e
con tal modo sa tesser gli inganni,
che
men verace par Luca e Giovanni.
Non
pur di sua perfidia non riprende
Grifon
la donna iniqua più che bella;
non
pur vendetta di colui non prende,
che
fatto s'era adultero di quella:
ma
gli par far assai, se si difende
che
tutto il biasmo in lui non riversi ella;
e
come fosse suo cognato vero,
d'accarezzar
non cessa il cavalliero.
E
con lui se ne vien verso le porte
di
Damasco, e da lui sente tra via,
che
là dentro dovea splendida corte
tenere
il ricco re de la Soria;
e
che ognun quivi, di qualunque sorte,
o
sia cristiano, o d'altra legge sia,
dentro
e di fuori ha la città sicura
per
tutto il tempo che la festa dura.
Non
però son di seguitar sì intento
l'istoria
de la perfida Orrigille,
che
a' giorni suoi non pur un tradimento
fatto
agli amanti avea, ma mille e mille;
che
io non ritorni a riveder dugento
mila
persone, o più de le scintille
del
fuoco stuzzicato, ove alle mura
di
Parigi facean danno e paura.
Io
vi lasciai, come assaltato avea
Agramante
una porta de la terra,
che
trovar senza guardia si credea:
né
più riparo altrove il passo serra;
perché
in persona Carlo la tenea,
ed
avea seco i mastri de la guerra,
duo
Guidi, duo Angelini; uno Angeliero,
Avino,
Avolio, Otone e Berlingiero.
Inanzi
a Carlo, inanzi al re Agramante
l'un
stuolo e l'altro si vuol far vedere,
ove
gran loda, ove mercé abondante
si
può acquistar, facendo il suo dovere.
I
Mori non però fer pruove tante,
che
par ristoro al danno abbiano avere;
perché
ve ne restar morti parecchi,
che
agli altri fur di folle audacia specchi.
Grandine
sembran le spesse saette
dal
muro sopra gli nimici sparte.
Il
grido insin al ciel paura mette,
che
fa la nostra e la contraria parte.
Ma
Carlo un poco ed Agramante aspette;
che
io vo' cantar de l'africano Marte,
Rodomonte
terribile ed orrendo,
che
va per mezzo la città correndo.
Non
so, Signor, se più vi ricordiate,
di
questo Saracin tanto sicuro,
che
morte le sue genti avea lasciate
tra
il secondo riparo e il primo muro,
da
la rapace fiamma devorate,
che
non fu mai spettacolo più oscuro.
Dissi
che entrò d'un salto ne la terra
sopra
la fossa che la cinge e serra.
Quando
fu noto il Saracino atroce
all'arme
istrane, alla scagliosa pelle,
là
dove i vecchi e il popul men feroce
tendean
l'orecchie a tutte le novelle,
levossi
un pianto, un grido, un'alta voce,
con
un batter di man che andò alle stelle;
e
chi poté fuggir non vi rimase,
per
serrarsi ne' templi e ne le case.
Ma
questo a pochi il brando rio conciede,
che
intorno ruota il Saracin robusto.
Qui
fa restar con mezza gamba un piede,
là
fa un capo sbalzar lungi dal busto;
l'un
tagliare a traverso se gli vede,
dal
capo all'anche un altro fender giusto:
e
di tanti che uccide, fere e caccia,
non
se gli vede alcun segnare in faccia.
Quel
che la tigre de l'armento imbelle
ne'
campi ircani o là vicino al Gange,
o
il lupo de le capre e de l'agnelle
nel
monte che Tifeo sotto si frange;
quivi
il crudel pagan facea di quelle
non
dirò squadre, non dirò falange,
ma
vulgo e populazzo voglio dire,
degno,
prima che nasca, di morire.
Non
ne trova un che veder possa in fronte,
fra
tanti che ne taglia, fora e svena.
Per
quella strada che vien dritto al ponte
di
san Michel, sì popolata e piena,
corre
il fiero e terribil Rodomonte,
e
la sanguigna spada a cerco mena:
non
riguarda né al servo né al signore,
né
al giusto ha più pietà che al peccatore.
Religion
non giova al sacerdote,
né
la innocenza al pargoletto giova:
per
sereni occhi o per vermiglie gote
mercé
né donna né donzella truova:
la
vecchiezza si caccia e si percuote;
né
quivi il Saracin fa maggior pruova
di
gran valor, che di gran crudeltade;
che
non discerne sesso, ordine, etade.
Non
pur nel sangue uman l'ira si stende
de
l'empio re, capo e signor degli empi,
ma
contra i tetti ancor, sì che n'incende
le
belle case e i profanati tempi.
Le
case eran, per quel che se n'intende,
quasi
tutte di legno in quelli tempi:
e
ben creder si può; che in Parigi ora
de
le diece le sei son così ancora.
Non
par, quantunque il fuoco ogni cosa arda,
che
sì grande odio ancor saziar si possa.
Dove
s'aggrappi con le mani, guarda,
sì
che ruini un tetto ad ogni scossa.
Signor,
avete a creder che bombarda
mai
non vedeste a Padova sì grossa,
che
tanto muro possa far cadere,
quanto
fa in una scossa il re d'Algiere.
Mentre
quivi col ferro il maledetto
e
con le fiamme facea tanta guerra,
se
di fuor Agramante avesse astretto,
perduta
era quel dì tutta la terra.
ma
non v'ebbe agio; che gli fu interdetto
dal
paladin che venìa d'Inghilterra
col
populo alle spalle inglese e scotto,
dal
Silenzio e da l'angelo condotto.
Dio
volse che all'entrar che Rodomonte
fe'
ne la terra, e tanto fuoco accese,
che
presso ai muri il fior di Chiaramonte,
Rinaldo,
giunse, e seco il campo inglese.
Tre
leghe sopra avea gittato il ponte,
e
torte vie da man sinistra prese;
che
disegnando i barbari assalire,
il
fiume non l'avesse ad impedire.
Mandato
avea seimila fanti arcieri
sotto
l'altiera insegna d'Odoardo,
e
duomila cavalli, e più, leggieri
dietro
alla guida d'Ariman gagliardo;
e
mandati gli avea per li sentieri
che
vanno e vengon dritto al mar picardo,
che
a porta San Martino e San Dionigi
entrassero
a soccorso di Parigi.
I
cariaggi e gli altri impedimenti
con
lor fece drizzar per questa strada.
Egli
con tutto il resto de le genti
più
sopra andò girando la contrada.
Seco
avean navi e ponti ed argumenti
da
passar Senna che non ben si guada.
Passato
ognuno, e dietro i ponti rotti,
ne
le lor schiere ordinò Inglesi e Scotti.
Ma
prima quei baroni e capitani
Rinaldo
intorno avendosi ridutti,
sopra
la riva che alta era dai piani
sì,
che poteano udirlo e veder tutti,
disse:
- Signor, ben a levar le mani
avete
a Dio, che qui v'abbia condutti,
acciò,
dopo un brevissimo sudore,
sopra
ogni nazion vi doni onore.
Per
voi saran dui principi salvati,
se
levate l'assedio a quelle porte:
il
vostro re, che voi sete ubligati
da
servitù difendere e da morte;
ed
uno imperator de' più lodati
che
mai tenuto al mondo abbiano corte;
e
con loro altri re, duci e marchesi,
signori
e cavallier di più paesi.
Sì
che, salvando una città, non soli
Parigini
ubligati vi saranno,
che
molto più che per li propri duoli,
timidi,
afflitti e sbigottiti stanno
per
le lor mogli e per li lor figliuoli
che
a un medesmo pericolo seco hanno,
e
per le sante vergini richiuse,
che
oggi non sien dei voti lor deluse:
dico,
salvando voi questa cittade,
v'ubligate
non solo i Parigini,
ma
d'ogn'intorno tutte le contrade.
Non
parlo sol dei populi vicini;
ma
non è terra per Cristianitade,
che
non abbia qua dentro cittadini:
sì
che, vincendo, avete da tenere
che
più che Francia v'abbia obligo avere.
Se
donavan gli antiqui una corona
a
chi salvasse a un cittadin la vita,
or
che degna mercede a voi si dona,
salvando
multitudine infinita?
Ma
se da invidia o da viltà sì buona
e
sì santa opra rimarrà impedita,
credetemi
che prese quelle mura,
né
Italia né Lamagna anco è sicura;
né
qualunque altra parte ove s'adori
quel
che volse per noi pender sul legno.
Né
voi crediate aver lontani i Mori,
né
che pel mar sia forte il vostro regno:
che
s'altre volte quelli, uscendo fuori
di
Zibeltaro e de l'Erculeo segno,
riportar
prede da l'isole vostre,
che
faranno or, s'avran le terre nostre?
Ma
quando ancor nessuno onor, nessuno
util
v'inanimasse a questa impresa,
commun
debito è ben soccorrer l'uno
l'altro,
che militiàn sotto una Chiesa.
Che
io non vi dia rotti i nemici, alcuno
non
sia chi tema, e con poca contesa;
che
gente male esperta tutta parmi,
senza
possanza, senza cor, senz'armi. -
Poté
con queste e con miglior ragioni,
con
parlare espedito e chiara voce
eccitar
quei magnanimi baroni
Rinaldo,
e quello esercito feroce:
e
fu, com'è in proverbio, aggiunger sproni
al
buon corsier che già ne va veloce.
Finito
il ragionar, fece le schiere
muover
pian pian sotto le lor bandiere.
Senza
strepito alcun, senza rumore
fa
il tripartito esercito venire:
lungo
il fiume a Zerbin dona l'onore
di
dover prima i barbari assalire;
e
fa quelli d'Irlanda con maggiore
volger
di via più tra campagna gire;
e
i cavallieri e i fanti d'Inghilterra
col
duca di Lincastro in mezzo serra.
Drizzati
che gli ha tutti al lor camino,
cavalca
il paladin lungo la riva,
e
passa inanzi al buon duca Zerbino
e
a tutto il campo che con lui veniva;
tanto
che al re d'Orano e al re Sobrino
e
agli altri lor compagni soprarriva,
che
mezzo miglio appresso a quei di Spagna
guardavan
da quel canto la campagna.
L'esercito
cristian che con sì fida
e
sì sicura scorta era venuto,
che
ebbe il Silenzio e l'angelo per guida,
non
poté ormai patir più di star muto.
Sentiti
gli nimici, alzò le grida,
e
de le trombe udir fe' il suono arguto:
e
con l'alto rumor che arrivò al cielo,
mandò
ne l'ossa a' Saracini il gelo.
Rinaldo
inanzi agli altri il destrier punge;
e
con la lancia per cacciarla in resta
lascia
gli Scotti un tratto d'arco lunge,
che
ogni indugio a ferir sì lo molesta.
Come
groppo di vento talor giunge,
che
si tra' dietro un'orrida tempesta,
tal
fuor di squadra il cavallier gagliardo
venìa
spronando il corridor Baiardo.
Al
comparir del paladin di Francia,
dan
segno i Mori alle future angosce:
tremare
a tutti in man vedi la lancia,
i
piedi in staffa, e ne l'arcion le cosce.
Re
Puliano sol non muta guancia,
che
questo esser Rinaldo non conosce;
né
pensando trovar sì duro intoppo,
gli
muove il destrier contra di galoppo:
e
su la lancia nel partir si stringe,
e
tutta in sé raccoglie la persona;
poi
con ambo gli sproni il destrier spinge,
e
le redine inanzi gli abandona.
Da
l'altra parte il suo valor non finge,
e
mostra in fatti quel che in nome suona,
quanto
abbia nel giostrare e grazia ed arte,
il
figliuolo d'Amone, anzi di Marte.
Furo
al segnar degli aspri colpi, pari,
che
si posero i ferri ambi alla testa:
ma
furo in arme ed in virtù dispari,
che
l'un via passa, e l'altro morto resta.
Bisognan
di valor segni più chiari,
che
por con leggiadria la lancia in resta:
ma
fortuna anco più bisogna assai;
che
senza, val virtù raro o non mai.
La
buona lancia il paladin racquista,
e
verso il re d'Oran ratto si spicca,
che
la persona avea povera e trista
di
cor, ma d'ossa e di gran polpe ricca.
Questo
por tra bei colpi si può in lista,
ben
che in fondo allo scudo gli l'appicca:
e
chi non vuol lodarlo, abbialo escuso,
perché
non si potea giunger più in suso.
Non
lo ritien lo scudo, che non entre,
ben
che fuor sia d'acciar, dentro di palma;
e
che da quel gran corpo uscir pel ventre
non
faccia l'inequale e piccola alma.
Il
destrier che portar si credea, mentre
durasse
il lungo dì, sì grave salma,
riferì
in mente sua grazie a Rinaldo,
che
a quello incontro gli schivò un gran caldo.
Rotta
l'asta, Rinaldo il destrier volta
tanto
legger, che fa sembrar che abbia ale;
e
dove la più stretta e maggior folta
stiparsi
vede, impetuoso assale.
Mena
Fusberta sanguinosa in volta
che
fa l'arme parer di vetro frale:
tempra
di ferro il suo tagliar non schiva,
che
non vada a trovar la carne viva.
Ritrovar
poche tempre e pochi ferri
può
la tagliente spada, ove s'incappi,
ma
targhe, altre di cuoio, altre di cerri,
giupe
trapunte e attorcigliati drappi.
Giusto
è ben dunque che Rinaldo atterri
qualunque
assale, e fori e squarci e affrappi;
che
non più si difende da sua spada,
che
erba da falce, o da tempesta biada.
La
prima schiera era già messa in rotta,
quando
Zerbin con l'antiguardia arriva.
Il
cavallier inanzi alla gran frotta
con
la lancia arrestata ne veniva.
La
gente sotto il suo pennon condotta,
con
non minor fierezza lo seguiva:
tanti
lupi parean, tanti leoni
che
andassero assalir capre o montoni.
Spinse
a un tempo ciascuno il suo cavallo,
poi
che fur presso; e sparì immantinente
quel
breve spazio, quel poco intervallo
che
si vedea fra l'una e l'altra gente.
Non
fu sentito mai più strano ballo;
che
ferian gli Scozzesi solamente:
solamente
i pagani eran distrutti,
come
sol per morir fosser condutti.
Parve
più freddo ogni pagan che ghiaccio;
parve
ogni Scotto più che fiamma caldo.
I
Mori si credean che avere il braccio
dovesse
ogni cristian, che ebbe Rinaldo.
Mosse
Sobrino i suoi schierati avaccio,
senza
aspettar che lo 'nvitasse araldo:
de
l'altra squadra questa era migliore
di
capitano, d'arme e di valore.
D'Africa
v'era la men trista gente;
ben
che né questa ancor gran prezzo vaglia.
Dardinel
la sua mosse incontinente,
e
male armata, e peggio usa in battaglia;
ben
che egli in capo avea l'elmo lucente,
e
tutto era coperto a piastra e a maglia.
Io
credo che la quarta miglior sia,
con
la qual Isolier dietro venìa.
Trasone
intanto, il buon duca di Marra,
che
ritrovarsi all'alta impresa gode,
ai
cavallieri suoi leva la sbarra,
e
seco invita alle famose lode,
poi
che Isolier con quelli di Navarra
entrar
ne la battaglia vede ed ode.
Poi
mosse Ariodante la sua schiera,
che
nuovo duca d'Albania fatt'era.
L'alto
rumor de le sonore trombe,
de'
timpani e de' barbari stromenti,
giunti
al continuo suon d'archi, di frombe,
di
machine, di ruote e di tormenti;
e
quel di che più par che il ciel ribombe,
gridi,
tumulti, gemiti e lamenti;
rendeno
un alto suon che a quel s'accorda,
con
che i vicin, cadendo, il Nilo assorda.
Grande
ombra d'ogn'intorno il cielo involve,
nata
dal saettar de li duo campi;
l'alito,
il fumo del sudor, la polve
par
che ne l'aria oscura nebbia stampi.
Or
qua l'un campo, or l'altro là si volve:
vedresti
or come un segua, or come scampi;
ed
ivi alcuno, o non troppo diviso,
rimaner
morto ove ha il nimico ucciso.
Dove
una squadra per stanchezza è mossa,
un'altra
si fa tosto andare inanti.
Di
qua di là la gente d'arme ingrossa:
là
cavallieri, e qua si metton fanti.
La
terra che sostien l'assalto, è rossa:
mutato
ha il verde ne' sanguigni manti;
e
dov'erano i fiori azzurri e gialli,
giaceno
uccisi or gli uomini e i cavalli.
Zerbin
facea le più mirabil pruove
che
mai facesse di sua età garzone:
l'esercito
pagan che 'ntorno piove,
taglia
ed uccide e mena a destruzione.
Ariodante
alle sue genti nuove
mostra
di sua virtù gran paragone;
e
dà di sé timore e meraviglia
a
quelli di Navarra e di Castiglia.
Chelindo
e Mosco, i duo figli bastardi
del
morto Calabrun re d'Aragona,
ed
un che reputato fra' gagliardi
era,
Calamidor da Barcelona,
s'avean
lasciato a dietro gli stendardi;
e
credendo acquistar gloria e corona
per
uccider Zerbin, gli furo adosso;
e
ne' fianchi il destrier gli hanno percosso.
Passato
da tre lance il destrier morto
cade;
ma il buon Zerbin subito è in piede;
che
a quei che al suo cavallo han fatto torto,
per
vendicarlo va dove gli vede:
e
prima a Mosco, al giovene inaccorto,
che
gli sta sopra, e di pigliar sel crede,
mena
di punta, e lo passa nel fianco,
e
fuor di sella il caccia freddo e bianco.
Poi
che si vide tor, come di furto,
Chelindo
il fratel suo, di furor pieno
venne
a Zerbino, e pensò dargli d'urto;
ma
gli prese egli il corridor pel freno:
trasselo
in terra, onde non è mai surto,
e
non mangiò mai più biada né fieno;
che
Zerbin sì gran forza a un colpo mise,
che
lui col suo signor d'un taglio uccise.
Come
Calamidor quel colpo mira,
volta
la briglia per levarsi in fretta;
ma
Zerbin dietro un gran fendente tira,
dicendo:
- Traditore, aspetta, aspetta! -
Non
va la botta ove n'andò la mira,
non
che però lontana vi si metta;
lui
non poté arrivar, ma il destrier prese
sopra
la groppa, e in terra lo distese.
Colui
lascia il cavallo, e via carpone
va
per campar, ma poco gli successe;
che
venne caso che il duca Trasone
gli
passò sopra, e col peso l'oppresse.
Ariodante
e Lurcanio si pone
dove
Zerbino è fra le genti spesse;
e
seco hanno altri e cavallieri e conti,
che
fanno ogn'opra che Zerbin rimonti.
Menava
Ariodante il brando in giro,
e
ben lo seppe Artalico e Margano;
ma
molto più Etearco e Casimiro
la
possanza sentir di quella mano:
i
primi duo feriti se ne giro,
rimaser
gli altri duo morti sul piano.
Lurcanio
fa veder quanto sia forte;
che
fere, urta, riversa e mette a morte.
Non
crediate, Signor, che fra campagna
pugna
minor che presso al fiume sia,
né
che a dietro l'esercito rimagna,
che
di Lincastro il buon duca seguia.
Le
bandiere assalì questo di Spagna,
e
molto ben di par la cosa gìa;
che
fanti, cavallieri e capitani
di
qua e di là sapean menar le mani.
Dinanzi
vien Oldrado e Fieramonte,
un
duca di Glocestra, un d'Eborace;
con
lor Ricardo, di Varvecia conte,
e
di Chiarenza il duca, Enrigo audace.
Han
Matalista e Follicone a fronte,
e
Baricondo ed ogni lor seguace.
Tiene
il primo Almeria, tiene il secondo
Granata,
tien Maiorca Baricondo.
La
fiera pugna un pezzo andò di pare,
che
vi si discernea poco vantaggio.
Vedeasi
or l'uno or l'altro ire e tornare,
come
le biade al ventolin di maggio,
o
come sopra il lito un mobil mare
or
viene or va, né mai tiene un viaggio.
Poi
che fortuna ebbe scherzato un pezzo,
dannosa
ai Mori ritornò da sezzo.
Tutto
in un tempo il duca di Glocestra
a
Matalista fa votar l'arcione;
ferito
a un tempo ne la spalla destra
Fieramonte
riversa Follicone:
e
l'un pagano e l'altro si sequestra,
e
tra gli Inglesi se ne va prigione.
E
Baricondo a un tempo riman senza
vita
per man del duca di Chiarenza.
Indi
i pagani tanto a spaventarsi,
indi
i fedeli a pigliar tanto ardire,
che
quei non facean altro che ritrarsi
e
partirsi da l'ordine e fuggire,
e
questi andar inanzi ed avanzarsi
sempre
terreno, e spingere e seguire:
e
se non vi giungea chi lor dié aiuto,
il
campo da quel lato era perduto.
Ma
Ferraù, che sin qui mai non s'era
dal
re Marsilio suo troppo disgiunto,
quando
vide fuggir quella bandiera,
e
l'esercito suo mezzo consunto,
spronò
il cavallo, e dove ardea più fiera
la
battaglia, lo spinse; e arrivò a punto
che
vide dal destrier cadere in terra
col
capo fesso Olimpio da la Serra;
un
giovinetto che col dolce canto,
concorde
al suon de la cornuta cetra,
d'intenerire
un cor si dava vanto,
ancor
che fosse più duro che pietra.
Felice
lui, se contentar di tanto
onor
sapeasi, e scudo, arco e faretra
aver
in odio, e scimitarra e lancia,
che
lo fecer morir giovine in Francia!
Quando
lo vide Ferraù cadere,
che
solea amarlo e avere in molta estima,
si
sente di lui sol via più dolere,
che
di mill'altri che periron prima:
e
sopra chi l'uccise in modo fere,
che
gli divide l'elmo da la cima
per
la fronte, per gli occhi e per la faccia,
per
mezzo il petto, e morto a terra il caccia.
Ne
qui s'indugia; e il brando intorno ruota,
che
ogni elmo rompe, ogni lorica smaglia;
a
chi segna la fronte, a chi la gota,
ad
altri il capo, ad altri il braccio taglia;
or
questo or quel di sangue e d'alma vota:
e
ferma da quel canto la battaglia,
onde
la spaventata ignobil frotta
senza
ordine fuggia spezzata e rotta.
Entrò
ne la battaglia il re Agramante,
d'uccider
gente e di far pruove vago;
e
seco ha Baliverzo, Farurante,
Prusion,
Soridano e Bambirago.
Poi
son le genti senza nome tante,
che
del lor sangue oggi faranno un lago,
che
meglio conterei ciascuna foglia,
quando
l'autunno gli arbori ne spoglia.
Agramante
dal muro una gran banda
di
fanti avendo e di cavalli tolta,
col
re di Feza subito li manda,
che
dietro ai padiglion piglin la volta,
e
vadano ad opporsi a quei d'Irlanda,
le
cui squadre vedea con fretta molta,
dopo
gran giri e larghi avolgimenti,
venir
per occupar gli alloggiamenti.
Fu
il re di Feza ad esequir ben presto;
che
ogni tardar troppo nociuto avria.
Raguna
intanto il re Agramante il resto;
parte
le squadre, e alla battaglia invia.
Egli
va al fiume; che gli par che in questo
luogo
del suo venir bisogno sia:
e
da quel canto un messo era venuto
del
re Sobrino a domandare aiuto.
Menava
in una squadra più di mezzo
il
campo dietro; e sol del gran rumore
tremar
gli Scotti, e tanto fu il ribrezzo,
che
abbandonavan l'ordine e l'onore.
Zerbin,
Lurcanio e Ariodante in mezzo
vi
restar soli incontra a quel furore;
e
Zerbin, che era a pié, vi peria forse,
mail
buon Rinaldo a tempo se n'accorse.
Altrove
intanto il paladin s'avea
fatto
inanzi fuggir cento bandiere.
Or
che l'orecchie la novella rea
del
gran periglio di Zerbin gli fere,
che
a piedi fra la gente cirenea
lasciato
solo aveano le sue schiere,
volta
il cavallo, e dove il campo scotto
vede
fuggir, prende la via di botto.
Dove
gli Scotti ritornar fuggendo
vede,
s'appara, e grida: - Or dove andate?
perché
tanta viltade in voi comprendo,
che
a sì vil gente il campo abbandonate?
Ecco
le spoglie, de le quali intendo
che
esser dovean le vostre chiese ornate.
Oh
che laude, oh che gloria, che il figliuolo
del
vostro re si lasci a piedi e solo! -
D'un
suo scudier una grossa asta afferra,
e
vede Prusion poco lontano,
re
d'Alvaracchie, e adosso se gli serra,
e
de l'arcion lo porta morto al piano.
Morto
Agricalte e Bambirago atterra:
dopo
fere aspramante Soridano;
e
come gli altri l'avria messo a morte,
se
nel ferir la lancia era più forte.
Stringe
Fusberta, poi che l'asta è rotta,
e
tocca Serpentin, quel da la Stella.
Fatate
l'arme avea, ma quella botta
pur
tramortito il manda fuor di sella.
E
così al duca de la gente scotta
fa
piazza intorno spaziosa e bella;
sì
che senza contesa un destrier puote
salir
di quei che vanno a selle vote.
E
ben si ritrovò salito a tempo,
che
forse nol facea, se più tardava:
perché
Agramante e Dardinello a un tempo,
Sobrin
col re Balastro v'arrivava.
Ma
egli, che montato era per tempo,
di
qua e di là col brando s'aggirava,
mandando
or questo or quel giù ne l'inferno
a
dar notizia del viver moderno.
Il
buon Rinaldo, il quale a porre in terra
i
più dannosi avea sempre riguardo,
la
spada contra il re Agramante afferra,
che
troppo gli parea fiero e gagliardo
(facea
egli sol più che mille altri guerra);
e
se gli spinse adosso con Baiardo:
lo
fere a un tempo ed urta di traverso,
sì
che lui col destrier manda riverso.
Mentre
di fuor con sì crudel battaglia,
odio,
rabbia, furor l'un l'altro offende,
Rodomonte
in Parigi il popul taglia,
le
belle case e i sacri templi accende.
Carlo,
che in altra parte si travaglia,
questo
non vede, e nulla ancor ne 'ntende:
Odoardo
raccoglie ed Arimanno
ne
la città, col lor popul britanno.
A
lui venne un scudier pallido in volto,
che
potea a pena trar del petto il fiato.
-
Ahimè! signor, ahimè - replica molto,
prima
che abbia a dir altro incominciato:
-
Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto;
oggi
ha il suo popul Cristo abandonato:
il
demonio dal cielo è piovuto oggi,
perché
in questa città più non s'alloggi.
Satanasso
(perche altri esser non puote)
strugge
e ruina la città infelice.
Volgiti
e mira le fumose ruote
de
la rovente fiamma predatrice;
ascolta
il pianto che nel ciel percuote;
e
faccian fede a quel che il servo dice.
Un
solo è quel che a ferro e a fuoco strugge
la
bella terra, e inanzi ognun gli fugge. -
Quale
è colui che prima oda il tumulto,
e
de le sacre squille il batter spesso,
che
vegga il fuoco a nessun altro occulto,
che
a sé, che più gli tocca, e gli è più
presso;
tal
è il re Carlo, udendo il nuovo insulto,
e
conoscendol poi con l'occhio istesso:
onde
lo sforzo di sua miglior gente
al
grido drizza e al gran rumor che sente.
Dei
paladini e dei guerrier più degni
Carlo
si chiama dietro una gran parte,
e
vêr la piazza fa drizzare i segni;
che
il pagan s'era tratto in quella parte.
Ode
il rumor, vede gli orribil segni
di
crudeltà, l'umane membra sparte.
Ora
non più: ritorni un'altra volta
chi
voluntier la bella istoria ascolta.
CANTO
DICIASSETTESIMO.
Il
giusto Dio, quando i peccati nostri
hanno
di remission passato il segno,
acciò
che la giustizia sua dimostri
uguale
alla pietà, spesso dà regno
a
tiranni atrocissimi ed a mostri,
e
dà lor forza e di mal fare ingegno.
Per
questo Mario e Silla pose al mondo,
e
duo Neroni e Caio furibondo,
Domiziano
e l'ultimo Antonino;
e
tolse da la immonda e bassa plebe,
ed
esaltò all'imperio Massimino;
e
nascer prima fe' Creonte a Tebe;
e
dié Mezenzio al populo Agilino,
che
fe' di sangue uman grasse le glebe;
e
diede Italia a tempi men remoti
in
preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti.
Che
d'Atila dirò? che de l'iniquo
Ezzellin
da Roman? che d'aItri cento?
che
dopo un lungo andar sempre in obliquo,
ne
manda Dio per pena e per tormento.
Di
questo abbiàn non pur al tempo antiquo,
ma
ancora al nostro, chiaro esperimento,
quando
a noi, greggi inutili e malnati,
ha
dato per guardian lupi arrabbiati:
a
cui non par che abbi a bastar lor fame,
che
abbi il lor ventre a capir tanta carne;
e
chiaman lupi di più ingorde brame
da
boschi oltramontani a divorarne.
Di
Trasimeno l'insepulto ossame
e
di Canne e di Trebia poco parne
verso
quel che le ripe e i campi ingrassa,
dov'Ada
e Mella e Ronco e Tarro passa.
Or
Dio consente che noi siàn puniti
da
populi di noi forse peggiori,
per
li multiplicati ed infiniti
nostri
nefandi, obbrobriosi errori.
Tempo
verrà che a depredar lor liti
andremo
noi, se mai saren migliori,
e
che i peccati lor giungano al segno,
che
l'eterna Bontà muovano a sdegno.
Doveano
allora aver gli eccessi loro
di
Dio turbata la serena fronte,
che
scórse ogni lor luogo il Turco e il Moro
con
stupri, uccision, rapine ed onte:
ma
più di tutti gli altri danni, foro
gravati
dal furor di Rodomonte.
Dissi
che ebbe di lui la nuova Carlo,
e
che 'n piazza venia per ritrovarlo.
Vede
tra via la gente sua troncata,
arsi
i palazzi, e ruinati i templi,
gran
parte de la terra desolata;
mai
non si vider sì crudeli esempli.
-
Dove fuggite, turba spaventata?
Non
è tra voi chi il danno suo contempli?
Che
città, che refugio più vi resta,
quando
si perda sì vilmente questa?
Dunque
un uom solo in vostra terra preso,
cinto
di mura onde non può fuggire,
si
partirà che non l'avrete offeso,
quando
tutti v'avrà fatto morire? -
Così
Carlo dicea, che d'ira acceso
tanta
vergogna non potea patire.
E
giunse dove inanti alla gran corte
vide
il pagan por la sua gente a morte.
Quivi
gran parte era del populazzo,
sperandovi
trovare aiuto, ascesa;
perché
forte di mura era il palazzo,
con
munizion da far lunga difesa.
Rodomonte,
d'orgoglio e d'ira pazzo,
solo
s'avea tutta la piazza presa:
e
l'una man, che prezza il mondo poco,
ruota
la spada, e l'altra getta il fuoco.
E
de la regal casa, alta e sublime,
percuote
e risuonar fa le gran porte.
Gettan
le turbe da le eccelse cime
e
merli e torri, e si metton per morte.
Guastare
i tetti non è alcun che stime;
e
legne e pietre vanno ad una sorte,
lastre
e colonne, e le dorate travi
che
furo in prezzo agli lor padri e agli avi.
Sta
su la porta il re d'Algier, lucente
di
chiaro acciar che il capo gli arma e il busto,
come
uscito di tenebre serpente,
poi
c'ha lasciato ogni squalor vetusto,
del
nuovo scoglio altiero, e che si sente
ringiovenito
e più che mai robusto:
tre
lingue vibra, ed ha negli occhi foco;
dovunque
passa, ogn'animal dà loco.
Non
sasso, merlo, trave, arco o balestra,
né
ciò che sopra il Saracin percuote,
ponno
allentar la sanguinosa destra
che
la gran porta taglia, spezza e scuote:
e
dentro fatto v'ha tanta finestra,
che
ben vedere e veduto esser puote
dai
visi impressi di color di morte,
che
tutta piena quivi hanno la corte.
Suonar
per gli alti e spaziosi tetti
s'odono
gridi e feminil lamenti:
l'afflitte
donne, percotendo i petti,
corron
per casa pallide e dolenti;
e
abbraccian gli usci e i geniali letti
che
tosto hanno a lasciare a strane genti.
Tratta
la cosa era in periglio tanto,
quando
il re giunse, e suoi baroni accanto.
Carlo
si volse a quelle man robuste
che
ebbe altre volte a gran bisogni pronte.
-
Non sète quelli voi, che meco fuste
contra
Agolante (disse) in Aspramonte?
Sono
le forze vostre ora sì fruste,
che,
s'uccideste lui, Troiano e Almonte
con
centomila, or ne temete un solo
pur
di quel sangue e pur di quello stuolo?
Perché
debbo vedere in voi fortezza
ora
minor che io la vedessi allora?
Mostrate
a questo can vostra prodezza,
a
questo can che gli uomini devora.
Un
magnanimo cor morte non prezza,
presta
o tarda che sia, pur che ben muora.
Ma
dubitar non posso ove voi sète,
che
fatto sempre vincitor m'avete. -
Al
fin de le parole urta il destriero,
con
l'asta bassa, al Saracino adosso.
Mossesi
a un tratto il paladino Ugiero,
a
un tempo Namo ed Ulivier si è mosso,
Avino,
Avolio, Otone e Berlingiero,
che
un senza l'altro mai veder non posso:
e
ferir tutti sopra a Rodomonte
e
nel petto e nei fianchi e ne la fronte.
Ma
lasciamo, per Dio, Signore, ormai
di
parlar d'ira e di cantar di morte;
e
sia per questa volta detto assai
del
Saracin non men crudel che forte:
che
tempo è ritornar dov'io lasciai
Grifon,
giunto a Damasco in su le porte
con
Orrigille perfida, e con quello
che
adulter era, e non di lei fratello.
De
le più ricche terre di Levante,
de
le più populose e meglio ornate
si
dice esser Damasco, che distante
siede
a Ierusalem sette giornate,
in
un piano fruttifero e abondante,
non
men giocondo il verno, che l'estate.
A
questa terra il primo raggio tolle
de
la nascente aurora un vicin colle.
Per
la città duo fiumi cristallini
vanno
inaffiando per diversi rivi
un
numero infinito di giardini,
non
mai di fior, non mai di fronde privi.
Dicesi
ancor, che macinar molini
potrian
far l'acque lanfe che son quivi;
e
chi va per le vie vi sente, fuore
di
tutte quelle case, uscire odore.
Tutta
coperta è la strada maestra
di
panni di diversi color lieti;
e
d'odorifera erba, e di silvestra
fronda
la terra e tutte le pareti.
Adorna
era ogni porta, ogni finestra
di
finissimi drappi e di tapeti,
ma
più di belle e ben ornate donne
di
ricche gemme e di superbe gonne.
Vedeasi
celebrar dentr'alle porte,
in
molti lochi, solazzevol balli;
il
popul, per le vie, di miglior sorte
maneggiar
ben guarniti e bei cavalli:
facea
più bel veder la ricca corte
de'
signor, de' baroni e de' vasalli,
con
ciò che d'India e d'eritree maremme
di
perle aver si può, d'oro e di gemme.
Venia
Grifone e la sua compagnia
mirando
e quinci e quindi il tutto ad agio,
quando
fermolli un cavalliero in via,
e
gli fece smontare a un suo palagio;
e
per l'usanza e per sua cortesia
di
nulla lasciò lor patir disagio.
Li
fe' nel bagno entrar, poi con serena
fronte
gli accolse a sontuosa cena.
E
narrò lor come il re Norandino,
re
di Damasco e di tutta Soria,
fatto
avea il paesano e il peregrino
che
ordine avesse di cavalleria,
alla
giostra invitar, che al matutino
del
dì sequente in piazza si faria;
e
che s'avean valor pari al sembiante,
potrian
mostrarlo senza andar più inante.
Ancor
che quivi non venne Grifone
a
questo effetto, pur lo 'nvito tenne;
che
qual volta se n'abbia occasione,
mostrar
virtude mai non disconvenne.
Interrogollo
poi de la cagione
di
quella festa, e s'ella era solenne
usata
ogn'anno, o pure impresa nuova
del
re che i suoi veder volesse in pruova.
Rispose
il cavallier: - La bella festa
s'ha
da far sempre ad ogni quarta luna:
de
l'altre che verran, la prima è questa:
ancora
non se n'è fatta più alcuna.
Sarà
in memoria che salvò la testa
il
re in tal giorno da una gran fortuna,
dopo
che quattro mesi in doglie e 'n pianti
sempre
era stato, e con la morte inanti.
Ma
per dirvi la cosa pienamente,
il
nostro re, che Norandin s'appella,
molti
e molt'anni ha avuto il core ardente
de
la leggiadra e sopra ogn'altra bella
figlia
del re di Cipro: e finalmente
avutala
per moglie, iva con quella,
con
cavallieri e donne in compagnia;
e
dritto avea il camin verso Soria.
Ma
poi che fummo tratti a piene vele
lungi
dal porto nel Carpazio iniquo,
la
tempesta saltò tanto crudele,
che
sbigottì sin al padrone antiquo.
Tre
dì e tre notti andammo errando ne le
minacciose
onde per camino obliquo.
Uscimo
al fin nel lito stanchi e molli,
tra
freschi rivi, ombrosi e verdi colli.
Piantare
i padiglioni, e le cortine
fra
gli arbori tirar facemo lieti.
S'apparechiano
i fuochi e le cucine;
le
mense d'altra parte in su tapeti.
Intanto
il re cercando alle vicine
valli
era andato e a' boschi più secreti,
se
ritrovasse capre o daini o cervi;
e
l'arco gli portar dietro duo servi.
Mentre
aspettamo, in gran piacer sedendo,
che
da cacciar ritorni il signor nostro,
vedemo
l'Orco a noi venir correndo
lungo
il lito del mar, terribil mostro.
Dio
vi guardi, signor, che il viso orrendo
de
l'Orco agli occhi mai vi sia dimostro:
meglio
è per fama aver notizia d'esso,
che
andargli, si che lo veggiate, appresso.
Non
gli può comparir quanto sia lungo,
sì
smisuratamente è tutto grosso.
In
luogo d'occhi, di color di fungo
sotto
la fronte ha duo coccole d'osso.
Verso
noi vien (come vi dico) lungo
il
lito, e par che un monticel sia mosso.
Mostra
le zanne fuor, come fa il porco;
ha
lungo il naso, il sen bavoso e sporco.
Correndo
viene, e il muso a guisa porta
che
il bracco suol, quando entra in su la traccia.
Tutti
che lo veggiam, con faccia smorta
in
fuga andamo ove il timor ne caccia.
Poco
il veder lui cieco ne conforta,
quando,
fiutando sol, par che più faccia,
che
altri non fa, che abbia odorato e lume:
e
bisogno al fuggire eran le piume.
Corron
chi qua chi là; ma poco lece
da
lui fuggir, veloce più che il Noto.
Di
quaranta persone, a pena diece
sopra
il navilio si salvaro a nuoto.
Sotto
il braccio un fastel d'alcuni fece,
né
il grembio si lasciò né il seno voto;
un
suo capace zaino empissene anco,
che
gli pendea, come a pastor, dal fianco.
Portòci
alla sua tana il mostro cieco,
cavata
in lito al mar dentr'uno scoglio.
Di
marmo così bianco è quello speco,
come
esser soglia ancor non scritto foglio.
Quivi
abitava una matrona seco,
di
dolor piena in vista e di cordoglio;
ed
avea in compagnia donne e donzelle
d'ogni
età, d'ogni sorte, e brutte e belle.
Era
presso alla grotta in che egli stava,
quasi
alla cima del giogo superno,
un'altra
non minor di quella cava,
dove
del gregge suo facea governo.
Tanto
n'avea, che non si numerava;
e
n'era egli il pastor l'estate e il verno.
Ai
tempi suoi gli apriva e tenea chiuso,
per
spasso che n'avea, più che per uso.
L'umana
carne meglio gli sapeva:
e
prima il fa veder che all'antro arrivi;
che
tre de' nostri giovini che aveva,
tutti
li mangia, anzi trangugia vivi.
Viene
alla stalla, e un gran sasso ne leva:
ne
caccia il gregge, e noi riserra quivi.
Con
quel sen va dove il suol far satollo,
sonando
una zampogna che avea in collo.
Il
signor nostro intanto ritornato
alla
marina, il suo danno comprende;
che
truova gran silenzio in ogni lato,
voti
frascati, padiglioni e tende.
Né
sa pensar chi sì l'abbia rubato;
e
pien di gran timore al lito scende,
onde
i nocchieri suoi vede in disparte
sarpar
lor ferri e in opra por le sarte.
Tosto
che essi lui veggiono sul lito,
il
palischermo mandano a levarlo:
ma
non sì tosto ha Norandino udito
de
l' Orco che venuto era a rubarlo,
che,
senza più pensar, piglia partito,
dovunque
andato sia, di seguitarlo.
Vedersi
tor Lucina sì gli duole,
che
o racquistarla, o non più viver vuole.
Dove
vede apparir lungo la sabbia
la
fresca orma, ne va con quella fretta
con
che lo spinge l'amorosa rabbia,
fin
che giunge alla tana che io v'ho detta;
ove
con tema la maggior che s'abbia
a
patir mai, l'Orco da noi s'aspetta:
ad
ogni suono di sentirlo parci,
che
affamato ritorni a divorarci.
Quivi
Fortuna il re da tempo guida,
che
senza l'Orco in casa era la moglie.
Come
ella il vede: - Fuggine! (gli grida)
misero
te, se l'Orco ti ci coglie! -
-
Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida,
che
miserrimo io sia non mi si toglie.
Disir
mi mena, e non error di via,
c'ho
di morir presso alla moglie mia. -
Poi
seguì, dimandandole novella
di
quei che prese l'Orco in su la riva;
prima
degli altri, di Lucina bella,
se
l'avea morta, o la tenea captiva.
La
donna umanamente gli favella,
e
lo conforta, che Lucina è viva,
e
che non è alcun dubbio che ella muora;
che
mai femina l'Orco non divora.
-
Esser di ciò argumento ti poss'io,
e
tutte queste donne che son meco:
né
a me né a lor mai l'Orco è stato rio,
pur
che non ci scostian da questo speco.
A
chi cerca fuggir, pon grave fio;
né
pace mai puon ritrovar più seco:
o
le sotterra vive, o l'incatena,
o
fa star nude al sol sopra l'arena.
Quando
oggi egli portò qui la tua gente,
le
femine dai maschi non divise;
ma,
sì come gli avea, confusamente
dentro
a quella spelonca tutti mise.
Sentirà
a naso il sesso differente.
Le
donne non temer che sieno uccise:
gli
uomini, siene certo; ed empieranne
di
quattro, il giorno, o sei, l'avide canne.
Di
levar lei di qui non ho consiglio
che
dar ti possa; e contentar ti puoi
che
ne la vita sua non è periglio:
starà
qui al ben e al mal che avremo noi.
Ma
vattene, per Dio, vattene, figlio,
che
l'Orco non ti senta e non t'ingoi.
Tosto
che giunge, d'ogn'intorno annasa,
e
sente sin a un topo che sia in casa. -
Rispose
il re, non si voler partire,
se
non vedea la sua Lucina prima;
e
che più tosto appresso a lei morire,
che
viverne lontan, faceva stima.
Quando
vede ella non potergli dire
cosa
che il muova da la voglia prima,
per
aiutarlo fa nuovo disegno,
e
ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno.
Morte
avea in casa, e d'ogni tempo appese,
con
lor mariti, assai capre ed agnelle,
onde
a sé ed alle sue facea le spese;
e
dal tetto pendea più d'una pelle.
La
donna fe' che il re del grasso prese,
che
avea un gran becco intorno alle budelle,
e
che se n'unse dal capo alle piante,
fin
che l'odor cacciò che egli ebbe inante.
E
poi che il tristo puzzo aver le parve,
di
che il fetido becco ognora sape,
piglia
l'irsuta pelle, e tutto entrarve
lo
fe'; che ella è sì grande che lo cape.
Coperto
sotto a così strane larve,
facendol
gir carpon, seco lo rape
là
dove chiuso era d'un sasso grave
de
la sua donna il bel viso soave.
Norandino
ubidisce; ed alla buca
de
la spelonca ad aspettar si mette,
acciò
col gregge dentro si conduca;
e
fin a sera disiando stette.
Ode
la sera il suon de la sambuca,
con
che 'nvita a lassar l'umide erbette,
e
ritornar le pecore all'albergo
il
fier pastor che lor venìa da tergo.
Pensate
voi se gli tremava il core,
quando
l'Orco sentì che ritornava,
e
che il viso crudel pieno d'orrore
vide
appressare all'uscio de la cava;
ma
poté la pietà più che il timore:
s'ardea,
vedete, o se fingendo amava.
Vien
l'Orco inanzi, e leva il sasso, ed apre:
Norandino
entra fra pecore e capre.
Entrato
il gregge, l'Orco a noi descende;
ma
prima sopra sé l'uscio si chiude.
Tutti
ne va fiutando: al fin duo prende;
che
vuol cenar de le lor carni crude.
Al
rimembrar di quelle zanne orrende,
non
posso far che ancor non trieme e sude.
Partito
l'Orco, il re getta la gonna
che
avea di becco, e abbraccia la sua donna.
Dove
averne piacer deve e conforto,
vedendol
quivi, ella n'ha affanno e noia:
lo
vede giunto ov'ha da restar morto;
e
non può far però che essa non muoia.
-
Con tutto il mal (diceagli) che io supporto,
signor,
sentia non mediocre gioia,
che
ritrovato non t'eri con nui
quando
da l'Orco oggi qui tratta fui.
Che
se ben il trovarmi ora in procinto
d'uscir
di vita m'era acerbo e forte;
pur
mi sarei, come è commune istinto,
dogliuta
sol de la mia trista sorte:
ma
ora, o prima o poi che tu sia estinto,
più
mi dorrà la tua che la mia morte. -
E
seguitò, mostrando assai più affanno
di
quel di Norandin, che del suo danno.
-
La speme (disse il re) mi fa venire,
c'ho
di salvarti, e tutti questi teco:
e
s'io nol posso far, meglio è morire,
che
senza te, mio sol, viver poi cieco.
Come
io ci venni, mi potrò partire;
e
voi tutt'altri ne verrete meco,
se
non avrete, come io non ho avuto,
schivo
a pigliare odor d'animal bruto. -
La
fraude insegnò a noi, che contra il naso
de
l'Orco insegnò a lui la moglie d'esso;
di
vestirci le pelli, in ogni caso
che
egli ne palpi ne l'uscir del fesso.
Poi
che di questo ognun fu persuaso;
quanti
de l'un, quanti de l'altro sesso
ci
ritroviamo, uccidian tanti becchi,
quelli
che più fetean, che eran più vecchi.
Ci
ungemo i corpi di quel grasso opimo
che
ritroviamo all'intestina intorno,
e
de l'orride pelli ci vestimo.
Intanto
uscì da l'aureo albergo il giorno.
Alla
spelonca, come apparve il primo
raggio
del sol, fece il pastor ritorno;
e
dando spirto alle sonore canne,
chiamò
il suo gregge fuor de le capanne.
Tenea
la mano al buco de la tana,
acciò
col gregge non uscissin noi:
ci
prendea al varco; e quando pelo o lana
sentia
sul dosso, ne lasciava poi.
Uomini
e donne uscimmo per sì strana
strada,
coperti dagli irsuti cuoi:
e
l'Orco alcun di noi mai non ritenne,
fin
che con gran timor Lucina venne.
Lucina,
o fosse perche ella non volle
ungersi
come noi, che schivo n'ebbe;
o
che avesse l'andar più lento e molle,
che
l'imitata bestia non avrebbe;
o
quando l'Orco la groppa toccolle,
gridasse
per la tema che le accrebbe;
o
che se le sciogliessero le chiome;
sentita
fu, né ben so dirvi come.
Tutti
eravam sì intenti al caso nostro,
che
non avemmo gli occhi agli altrui fatti.
Io
mi rivolsi al grido; e vidi il mostro
che
già gli irsuti spogli le avea tratti,
e
fattola tornar nel cavo chiostro.
Noi
altri dentro a nostre gonne piatti
col
gregge andamo ove il pastor ci mena,
tra
verdi colli in una piaggia amena.
Quivi
attendiamo infin che steso all'ombra
d'un
bosco opaco il nasuto Orco dorma.
Chi
lungo il mar, chi verso il monte sgombra:
sol
Norandin non vuol seguir nostr'orma.
L'amor
de la sua donna sì lo 'ngombra,
che
alla grotta tornar vuol fra la torma,
né
partirsene mai sin alla morte,
se
non racquista la fedel consorte:
che
quando dianzi avea all'uscir del chiuso
vedutala
restar captiva sola,
fu
per gittarsi, dal dolor confuso,
spontaneamente
al vorace Orco in gola;
e
si mosse, e gli corse infino al muso,
né
fu lontano a gir sotto la mola:
ma
pur lo tenne in mandra la speranza
che
avea di trarla ancor di quella stanza.
La
sera, quando alla spelonca mena
il
gregge l'Orco, e noi fuggiti sente,
e
c'ha da rimaner privo di cena,
chiama
Lucina d'ogni mal nocente,
e
la condanna a star sempre in catena
allo
scoperto in sul sasso eminente.
Vedela
il re per sua cagion patire,
e
si distrugge, e sol non può morire.
Matina
e sera l'infelice amante
la
può veder come s'affliga e piagna;
che
le va misto fra le capre avante,
torni
alla stalla o torni alla campagna.
Ella
con viso mesto e supplicante
gli
accenna che per Dio non vi rimagna,
perché
vi sta a gran rischio de la vita,
né
però a lei può dare alcuna aita.
Così
la moglie ancor de l'Orco priega
il
re che se ne vada, ma non giova;
che
d'andar mai senza Lucina niega,
e
sempre più costante si ritruova.
In
questa servitude, in che lo lega
Pietate
e Amor, stette con lunga pruova
tanto,
che a capitar venne a quel sasso
il
figlio d'Agricane e il re Gradasso.
Dove
con loro audacia tanto fenno,
che
liberaron la bella Lucina;
ben
che vi fu aventura più che senno:
e
la portar correndo alla marina;
e
al padre suo, che quivi era, la denno:
e
questo fu ne l'ora matutina,
che
Norandin con l'altro gregge stava
a
ruminar ne la montana cava.
Ma
poi che il giorno aperta fu la sbarra,
e
seppe il re la donna esser partita
(che
la moglie de l'Orco gli lo narra),
e
come a punto era la cosa gita;
grazie
a Dio rende, e con voto n'inarra,
che
essendo fuor di tal miseria uscita,
faccia
che giunga onde per arme possa,
per
prieghi o per tesoro, esser riscossa.
Pien
di letizia va con l'altra schiera
del
simo gregge, e viene ai verdi paschi;
e
quivi aspetta fin che all'ombra nera
il
mostro per dormir ne l'erba caschi.
Poi
ne vien tutto il giorno e tutta sera;
e
al fin sicur che l'Orco non lo 'ntaschi,
sopra
un navilio monta in Satalia;
e
son tre mesi che arrivò in Soria.
In
Rodi, in Cipro, e per città e castella
e
d'Africa e d'Egitto e di Turchia,
il
re cercar fe' di Lucina bella;
né
fin l'altr'ieri aver ne poté spia.
L'altr'ier
n'ebbe dal suocero novella,
che
seco l'avea salva in Nicosia,
dopo
che molti dì vento crudele
era
stato contrario alle sue vele.
Per
allegrezza de la buona nuova
prepara
il nostro re la ricca festa;
e
vuol che ad ogni quarta luna nuova,
una
se n'abbia a far simile a questa:
che
la memoria rifrescar gli giova
dei
quattro mesi che 'n irsuta vesta
fu
tra il gregge de l'Orco; e un giorno, quale
sarà
dimane, uscì di tanto male.
Questo
che io v'ho narrato, in parte vidi,
in
parte udio da chi trovossi al tutto;
dal
re, vi dico, che calende ed idi
vi
stette, fin che volse in riso il lutto:
e
se n'udite mai far altri gridi,
direte
a chi gli fa, che mal n'è istrutto. -
Il
gentiluomo in tal modo a Grifone
de
la festa narrò l'alta cagione.
Un
gran pezzo di notte si dispensa
dai
cavallieri in tal ragionamento;
e
conchiudon che amore e pietà immensa
mostrò
quel re con grande esperimento.
Andaron,
poi che si levar da mensa,
ove
ebbon grato e buono alloggiamento.
Nel
seguente matin sereno e chiaro,
al
suon de l'allegrezze si destaro.
Vanno
scorrendo timpani e trombette,
e
ragunando in piazza la cittade.
Or,
poi che de cavalli e de carrette
e
ribombar de gridi odon le strade,
Grifon
le lucide arme si rimette,
che
son di quelle che si trovan rade;
che
l'avea impenetrabili e incantate
la
Fata bianca di sua man temprate.
Quel
d'Antiochia, più d'ogn'altro vile,
armossi
seco, e compagnia gli tenne.
Preparate
avea lor l'oste gentile
nerbose
lance, e salde e grosse antenne,
e
del suo parentado non umìle
compagnia
tolta; e seco in piazza venne;
e
scudieri a cavallo, e alcuni a piede,
a
tal servigi attissimi, lor diede.
Giunsero
in piazza, e trassonsi in disparte,
né
pel campo curar far di sé mostra,
per
veder meglio il bel popul di Marte,
che
ad uno, o a dua, o a tre, veniano in giostra.
Chi
con colori accompagnati ad arte
letizia
o doglia alla sua donna mostra;
chi
nel cimier, chi nel dipinto scudo
disegna
Amor, se l'ha benigno o crudo.
Soriani
in quel tempo aveano usanza
d'armarsi
a questa guisa di Ponente.
Forse
ve gli inducea la vicinanza
che
de' Franceschi avean continuamente,
che
quivi allor reggean la sacra stanza
dove
in carne abitò Dio onnipotente;
che
ora i superbi e miseri cristiani,
con
biasmi lor, lasciano in man de' cani.
Dove
abbassar dovrebbono la lancia
in
augumento de la santa fede,
tra
lor si dan nel petto e ne la pancia
a
destruzion del poco che si crede.
Voi,
gente ispana, e voi, gente di Francia,
volgete
altrove, e voi, Svizzeri, il piede,
e
voi, Tedeschi, a far più degno acquisto;
che
quanto qui cercate è già di Cristo.
Se
Cristianissimi esser voi volete,
e
voi altri Catolici nomati,
perché
di Cristo gli uomini uccidete?
perché
de' beni lor son dispogliati?
Perché
Ierusalem non riavete,
che
tolto è stato a voi da' rinegati?
Perché
Costantinopoli e del mondo
la
miglior parte occupa il Turco immondo?
Non
hai tu, Spagna, l'Africa vicina,
che
t'ha via più di questa Italia offesa?
E
pur, per dar travaglio alla meschina,
lasci
la prima tua sì bella impresa.
O
d'ogni vizio fetida sentina,
dormi,
Italia imbriaca, e non ti pesa
che
ora di questa gente, ora di quella
che
già serva ti fu, sei fatta ancella?
Se
il dubbio di morir ne le tue tane,
Svizzer,
di fame, in Lombardia ti guida,
e
tra noi cerchi o chi ti dia del pane,
o,
per uscir d'inopia, chi t'uccida;
le
richezze del Turco hai non lontane:
caccial
d'Europa, o almen di Grecia snida;
così
potrai o del digiuno trarti,
o
cader con più merto in quelle parti.
Quel
che a te dico, io dico al tuo vicino
tedesco
ancor; là le richezze sono,
che
vi portò da Roma Costantino:
portonne
il meglio, e fe' del resto dono.
Pattolo
ed Ermo onde si tra' l'or fino,
Migdonia
e Lidia, e quel paese buono
per
tante laudi in tante istorie noto,
non
è, s'andar vi vuoi, troppo remoto.
Tu,
gran Leone, a cui premon le terga
de
le chiavi del ciel le gravi some,
non
lasciar che nel sonno si sommerga
Italia,
se la man l'hai ne le chiome.
Tu
sei Pastore; e Dio t'ha quella verga
data
a portare, e scelto il fiero nome,
perché
tu ruggi, e che le braccia stenda,
sì
che dai lupi il grege tuo difenda.
Ma
d'un parlar ne l'altro, ove sono ito
si
lungi, dal camin che io faceva ora?
Non
lo credo però sì aver smarrito,
che
io non lo sappia ritrovare ancora.
Io
dicea che in Soria si tenea il rito
d'armarsi,
che i Franceschi aveano allora:
sì
che bella in Damasco era la piazza
di
gente armata d'elmo e di corazza.
Le
vaghe donne gettano dai palchi
sopra
i giostranti fior vermigli e gialli,
mentre
essi fanno a suon degli oricalchi
levare
a salti ed aggirar cavalli.
Ciascuno,
o bene o mal che egli cavalchi,
vuol
far quivi vedersi, e sprona e dàlli:
di
che altri ne riporta pregio e lode;
mentre
altri a riso, e gridar dietro s'ode.
De
la giostra era il prezzo un'armatura
che
fu donata al re pochi dì inante,
che
su la strada ritrovò a ventura,
ritornando
d'Armenia, un mercatante.
Il
re di nobilissima testura
le
sopraveste all'arme aggiunse, e tante
perle
vi pose intorno e gemme ed oro,
che
la fece valer molto tesoro.
Se
conosciute il re quell'arme avesse,
care
avute l'avria sopra ogni arnese;
né
in premio de la giostra l'avria messe,
come
che liberal fosse e cortese.
Lungo
saria chi raccontar volesse
chi
l'avea sì sprezzate e vilipese,
che
'n mezzo de la strada le lasciasse,
preda
chiunque o inanzi o indietro andasse.
Di
questo ho da contarvi più di sotto:
or
dirò di Grifon, che alla sua giuuta
un
paio e più di lance trovò rotto,
menato
più d'un taglio e d'una punta.
Dei
più cari e più fidi al re fur otto
che
quivi insieme avean lega congiunta;
gioveni;
in arme pratichi ed industri,
tutti
o signori o di famiglie illustri.
Quei
rispondean ne la sbarrata piazza
per
un dì, ad uno ad uno, a tutto il mondo,
prima
con lancia, e poi con spada o mazza,
fin
che al re di guardarli era giocondo;
e
si foravan spesso la corazza:
per
giuoco in somma qui facean, secondo
fan
gli nimici capitali, eccetto
che
potea il re partirli a suo diletto.
Quel
d'Antiochia, un uom senza ragione,
che
Martano il codardo nominosse,
come
se de la forza di Grifone,
poi
che era seco, participe fosse,
audace
entrò nel marziale agone;
e
poi da canto ad aspettar fermosse,
sin
che finisce una battaglia fiera
che
tra duo cavallier cominciata era.
Il
signor di Seleucia, di quell'uno,
che
a sostener l'impresa aveano tolto,
combattendo
in quel tempo con Ombruno,
lo
ferì d'una punta in mezzo il volto,
sì
che l'uccise: e pietà n'ebbe ognuno,
perché
buon cavallier lo tenean molto;
ed
oltra la bontade, il più cortese
non
era stato in tutto quel paese.
Veduto
ciò, Martano ebbe paura
che
parimente a sé non avvenisse;
e
ritornando ne la sua natura,
a
pensar cominciò come fugisse.
Grifon,
che gli era appresso e n'avea cura,
lo
spinse pur, poi che assai fece e disse,
contra
un gentil guerrier che s'era mosso,
come
si spinge il cane al lupo adosso;
che
dieci passi gli va dietro o venti,
e
poi si ferma, ed abbaiando guarda
come
digrigni i minacciosi denti,
come
negli occhi orribil fuoco gli arda.
Quivi
ov'erano e principi presenti
e
tanta gente nobile e gagliarda,
fuggì
lo 'ncontro il timido Martano,
e
torse il freno e il capo a destra mano.
Pur
la colpa potea dar al cavallo,
chi
di scusarlo avesse tolto il peso;
ma
con la spada poi fe' sì gran fallo,
che
non l'avria Demostene difeso.
Di
carta armato par, non di metallo;
sì
teme da ogni colpo essere offeso.
Fuggesi
al fine, e gli ordini disturba,
ridendo
intorno a lui tutta la turba.
Il
batter de le mani, il grido intorno
se
gli levò del populazzo tutto.
Come
lupo cacciato, fe' ritorno
Martano
in molta fretta al suo ridutto.
Resta
Grifone; e gli par de lo scorno
del
suo compagno esser macchiato e brutto:
esser
vorrebbe stato in mezzo il foco,
più
tosto che trovarsi in questo loco.
Arde
nel core, e fuor nel viso avampa,
come
sia tutta sua quella vergogna;
perché
l'opere sue di quella stampa
vedere
aspetta il populo ed agogna:
sì
che rifulga chiara più che lampa
sua
virtù, questa volta gli bisogna;
che
un'oncia, un dito sol d'error che faccia,
per
la mala impression parrà sei braccia.
Già
la lancia avea tolta su la coscia
Grifon,
che errare in arme era poco uso:
spinse
il cavallo a tutta briglia, e poscia
che
alquanto andato fu, la messe suso,
e
portò nel ferire estrema angoscia
al
baron di Sidonia, che andò guiso.
Ognun
maravigliando in pié si leva;
che
il contrario di ciò tutto attendeva.
Tornò
Grifon con la medesma antenna,
che
'ntiera e ferma ricovrata avea,
ed
in tre pezzi la roppe alla penna
de
lo scudo al signor di Lodicea.
Quel
per cader tre volte e quattro accenna,
che
tutto steso alla groppa giacea:
pur
rilevato al fin la spada strinse,
voltò
il cavallo, e vêr Grifon si spinse.
Grifon,
che il vede in sella, e che non basta
sì
fiero incontro perché a terra vada,
dice
fra sé: - Quel che non poté l'asta,
in
cinque colpi o 'n sei farà la spada. -
E
su la tempia subito l'attasta
d'un
dritto tal, che par che dal ciel cada;
e
un altro gli accompagna e un altro appresso,
tanto
che l'ha stordito e in terra messo.
Quivi
erano d'Apamia duo germani,
soliti
in giostra rimaner di sopra,
Tirse
e Corimbo; ed ambo per le mani
del
figlio d'Uliver cader sozzopra.
L'uno
gli arcion lascia allo scontro vani;
con
l'altro messa fu la spada in opra.
Già
per commun giudicio si tien certo
che
di costui fia de la giostra il merto.
Ne
la lizza era entrato Salinterno,
gran
diodarro e maliscalco regio,
e
che di tutto il regno avea il governo,
e
di sua mano era guerriero egregio.
Costui,
sdegnoso che un guerriero esterno
debba
portar di quella giostra il pregio,
piglia
una lancia, e verso Grifon grida,
e
molto minacciandolo lo sfida.
Ma
quel con un lancion gli fa risposta,
che
avea per lo miglior fra dieci eletto,
e
per non far error, lo scudo apposta,
e
via lo passa e la corazza e il petto:
passa
il ferro crudel tra costa e costa,
e
fuor pel tergo un palmo esce di netto.
Il
colpo, eccetto al re, fu a tutti caro;
che
ognuno odiava Salinterno avaro.
Grifone,
appresso a questi, in terra getta
duo
di Damasco, Ermofilo e Carmondo.
La
milizia del re dal primo è retta;
del
mar grande almiraglio è quel secondo.
Lascia
allo scontro l'un la sella in fretta:
adosso
all'altro si riversa il pondo
del
rio destrier, che sostener non puote
l'alto
valor con che Grifon percuote.
Il
signor di Seleucia ancor restava,
miglior
guerrier di tutti gli altri sette;
e
ben la sua possanza accompagnava
con
destrier buono e con arme perfette.
Dove
de l'elmo la vista si chiava,
l'asta
allo scontro l'uno e l'altro mette;
pur
Grifon maggior colpo al pagan diede,
che
lo fe' staffeggiar dal manco piede.
Gittaro
i tronchi, e si tornaro adosso
pieni
di molto ardir coi brandi nudi.
Fu
il pagan prima da Grifon percosso
d'un
colpo che spezzato avria gli incudi.
Con
quel fender si vide e ferro ed osso
d'un
che eletto s'avea tra mille scudi;
e
se non era doppio e fin l'arnese,
ferìa
la coscia ove cadendo scese.
Ferì
quel di Seleucia alla visera
Grifone
a un tempo; e fu quel colpo tanto,
che
l'avria aperta e rotta, se non era
fatta,
come l'altr'arme, per incanto.
Gli
è un perder tempo che il pagan più fera:
così
son l'arme dure in ogni canto:
e
'n più parti Grifon già fessa e rotta
ha
l'armatura a lui, né perde botta.
Ognun
potea veder quanto di sotto
il
signor di Seleucia era a Grifone;
e
se partir non li fa il re di botto,
quel
che sta peggio, la vita vi pone.
Fe'
Norandino alla sua guardia motto
che
entrasse a distaccar l'aspra tenzone.
Quindi
fu l'uno, e quindi l'altro tratto;
e
fu lodato il re di sì buon atto.
Gli
otto che dianzi avean col mondo impresa,
e
non potuto durar poi contra uno,
avendo
mal la parte lor difesa,
usciti
eran dal campo ad uno ad uno.
Gli
altri che eran venuti a lor contesa,
quivi
restar senza contrasto alcuno,
avendo
lor Grifon, solo, interrotto
quel
che tutti essi avean da far contra otto.
E
durò quella festa così poco,
che
in men d'un'ora il tutto fatto s'era:
ma
Norandin, per far più lungo il giuoco
e
per continuarlo infino a sera,
dal
palco scese, e fe' sgombrare il loco;
e
poi divise in due la grossa schiera,
indi,
secondo il sangue e la lor prova,
gli
andò accoppiando, e fe' una giostra nova.
Grifone
intanto avea fatto ritorno
alla
sua stanza pien d'ira e di rabbia
e
più gli preme di Martan lo scorno
che
non giova l'onor che esso vinto abbia.
Quivi,
per tor l'obbrobrio che avea intorno,
Martano
adopra le mendaci labbia:
e
l'astuta e bugiarda meretrice,
come
meglio sapea, gli era adiutrice.
O
sì o no che il giovin gli credesse,
pur
la scusa accettò, come discreto:
e
pel suo meglio allora allora elesse
quindi
levarsi tacito e secreto,
per
tema che, se il populo vedesse
Martano
comparir, non stesse cheto.
Così
per una via nascosa e corta
usciro
al camin lor fuor de la porta.
Grifone,
o che egli o che il cavallo fosse
stanco,
o gravasse il sonno pur le ciglia,
al
primo albergo che trovar, fermosse,
che
non erano andati oltre a dua miglia.
Si
trasse l'elmo, e tutto disarmosse,
e
trar fece a' cavalli e sella e briglia;
e
poi serrossi in camera soletto,
e
nudo per dormire entrò nel letto.
Non
ebbe così tosto il capo basso,
che
chiuse gli occhi, e fu dal sonno oppresso
così
profundamente, che mai tasso
né
ghiro mai s'addormentò quanto esso.
Martano
in tanto ed Orrigille a spasso
entraro
in un giardin che era lì appresso;
ed
un inganno ordir, che fu il più strano
che
mai cadesse in sentimento umano.
Martano
disegnò torre il destriero,
i
panni e l'arme che Grifon s'ha tratte;
e
andare inanzi al re pel cavalliero
che
tante pruove avea giostrando fatte.
L'effetto
ne seguì, fatto il pensiero:
tolle
il destrier più candido che latte,
scudo
e cimiero ed arme e sopraveste,
e
tutte di Grifon l'insegne veste.
Con
gli scudieri e con la donna, dove
era
il popolo ancora, in piazza venne;
e
giunse a tempo che finian le pruove
di
girar spade e d'arrestare antenne.
Commanda
il re che il cavallier si truove,
che
per cimier avea le bianche penne,
bianche
le vesti e bianco il corridore;
che
il nome non sapea del vincitore.
Colui
che indosso il non suo cuoio aveva,
come
l'asino già quel del leone,
chiamato,
se n'andò, come attendeva,
a
Norandino, in loco di Grifone.
Quel
re cortese incontro se gli leva,
l'abbraccia
e bacia, e allato se lo pone:
né
gli basta onorarlo e dargli loda,
che
vuol che il suo valor per tutto s'oda.
E
fa gridarlo al suon degli oricalchi
vincitor
de la giostra di quel giorno.
L'alta
voce ne va per tutti i palchi,
che
il nome indegno udir fa d'ogn'intorno.
Seco
il re vuol che a par a par cavalchi,
quando
al palazzo suo poi fa ritorno;
e
di sua grazia tanto gli comparte,
che
basteria, se fosse Ercole o Marte.
Bello
ed ornato alloggiamento dielli
in
corte, ed onorar fece con lui
Orrigille
anco; e nobili donzelli
mandò
con essa, e cavallieri sui.
Ma
tempo è che anco di Grifon favelli,
il
qual né dal compagno né d'altrui
temendo
inganno, addormentato s'era,
né
mai si risvegliò fin alla sera.
Poi
che fu desto, e che de l'ora tarda
s'accorse,
uscì di camera con fretta,
dove
il falso cognato e la bugiarda
Orrigille
lasciò con l'altra setta;
e
quando non gli truova, e che riguarda
non
v'esser l'arme né i panni, sospetta;
ma
il veder poi più sospettoso il fece
l'insegne
del compagno in quella vece.
Sopravien
l'oste, e di colui l'informa
che
già gran pezzo, di bianche arme adorno,
con
la donna e col resto de la torma
avea
ne la città fatto ritorno.
Truova
Grifone a poco a poco l'orma
che
ascosa gli avea Amor fin a quel giorno;
e
con suo gran dolor vede esser quello
adulter
d'Orrigille, e non fratello.
Di
sua sciocchezza indarno ora si duole,
che
avendo il ver dal peregrino udito,
lasciato
mutar s'abbia alle parole
di
chi l'avea più volte già tradito.
Vendicar
si potea, né seppe; or vuole
l'inimico
punir, che gli è fuggito;
ed
è costretto con troppo gran fallo
a
tor di quel vil uom l'arme e il cavallo.
Eragli
meglio andar senz'arme e nudo,
che
porsi indosso la corazza indegna,
o
che imbracciar l'abominato scudo,
o
por su l'elmo la beffata insegna;
ma
per seguir la meretrice e il drudo,
ragione
in lui pari al disio non regna.
A
tempo venne alla città, che ancora
il
giorno avea quasi di vivo un'ora.
Presso
alla porta ove Grifon venìa,
siede
a sinistra un splendido castello,
che,
più che forte e che a guerre atto sia,
di
ricche stanze è accommodato e bello.
I
re, i signori, i primi di Soria
con
alte donne in un gentil drappello
celebravano
quivi in loggia amena
la
real sontuosa e lieta cena.
La
bella loggia sopra il muro usciva
con
l'alta rocca fuor de la cittade;
e
lungo tratto di lontan scopriva
i
larghi campi e le diverse strade.
Or
che Grifon verso la porta arriva
con
quell'arme d'obbrobrio e di viltade,
fu
con non troppa aventurosa sorte
dal
re veduto e da tutta la corte:
e
riputato quel di che avea insegna,
mosse
le donne e i cavallieri a riso.
Il
vil Martano, come quel che regna
in
gran favor, dopo il re è il primo assiso,
e
presso a lui la donna di sé degna;
dai
quali Norandin con lieto viso
volse
saper chi fosse quel codardo
che
così avea al suo onor poco riguardo;
che
dopo una sì trista e brutta pruova,
con
tanta fronte or gli tornava inante.
Dicea:
- Questa mi par cosa assai nuova,
che
essendo voi guerrier degno e prestante,
costui
compagno abbiate, che non truova,
di
viltà, pari in terra di Levante.
Il
fate forse per mostrar maggiore,
per
tal contrario, il vostro alto valore.
Ma
ben vi giuro per gli eterni dei,
che
se non fosse che io riguardo a vui,
la
publica ignominia gli farei,
che
io soglio fare agli altri pari a lui.
Perpetua
ricordanza gli darei,
come
ognor di viltà nimico fui.
Ma
sappia, s'impunito se ne parte,
grado
a voi che il menaste in questa parte. -
Colui
che fu de tutti i vizi il vaso,
rispose:
- Alto signor, dir non sapria
chi
sia costui; che io l'ho trovato a caso,
venendo
d'Antiochia, in su la via.
ll
suo smnbiante m'avea persuaso
che
fosse degno di mia compagnia;
che
intesa non n'avea pruova né vista,
se
non quella che fece oggi assai trista.
La
qual mi spiacque sì, che restò poco,
che
per punir l'estrema sua viltade,
non
gli facessi allora allora un gioco,
che
non toccasse più lance né spade:
ma
ebbi, più che a lui, rispetto al loco,
e
riverenza a vostra maestade.
Né
per me voglio che gli sia guadagno
l'essermi
stato un giorno o dua compagno:
di
che contaminato anco esser parme;
e
sopra il cor mi sarà eterno peso,
se,
con vergogna del mestier de l'arme,
io
lo vedrò da noi partire illeso:
e
meglio che lasciarlo, satisfarme
potrete,
se sarà d'un merlo impeso;
e
fia lodevol opra e signorile,
perche
el sia esempio e specchio ad ogni vile. -
Al
detto suo Martano Orrigille have,
senza
accennar, confermatrice presta.
-
Non son (rispose il re) l'opre sì prave,
che
al mio parer v'abbia d'andar la testa.
Voglio
per pena del peccato grave,
che
sol rinuovi al populo la festa. -
E
tosto a un suo baron, che fe' venire,
impose
quanto avesse ad esequire.
Quel
baron molti armati seco tolse,
ed
alla porta de la terra scese;
e
quivi con silenzio li raccolse,
e
la venuta di Grifone attese:
e
ne l'entrar sì d'improviso il colse,
che
fra i duo ponti a salvamento il prese;
e
lo ritenne con beffe e con scorno
in
una oscura stanza insin al giorno.
Il
Sole a pena avea il dorato crine
tolto
di grembio alla nutrice antica,
e
cominciava da le piagge alpine
a
cacciar l'ombre e far la cima aprica;
quando
temendo il vil Martan che al fine
Grifone
ardito la sua causa dica,
e
ritorni la colpa ond'era uscita,
tolse
licenza, e fece indi partita,
trovando
idonia scusa al priego regio,
che
non stia allo spettacolo ordinato.
Altri
doni gli avea fatto, col pregio
de
la non sua vittoria, il signor grato;
e
sopra tutto un amplo privilegio,
dov'era
d'altri onori al sommo ornato.
Lasciànlo
andar; che io vi prometto certo,
che
la mercede avrà secondo il merto.
Fu
Grifon tratto a gran vergogna in piazza,
quando
più si trovò piena di gente.
Gli
avean levato l'elmo e la corazza,
e
lasciato in farsetto assai vilmente;
e
come il conducessero alla mazza,
posto
l'avean sopra un carro eminente,
che
lento lento tiravan due vacche
da
lunga fame attenuate e fiacche.
Venian
d'intorno alla ignobil quadriga
vecchie
sfacciate e disoneste putte,
di
che n'era una ed or un'altra auriga,
e
con gran biasmo lo mordeano tutte.
Lo
poneano i fanciulli in maggior briga,
che,
oltre le parole infami e brutte,
l'avrian
coi sassi insino a morte offeso,
se
dai più saggi non era difeso.
L'arme
che del suo male erano state
cagion,
che di lui fer non vero indicio,
da
la coda del carro strascinate
patian
nel fango debito supplicio.
Le
ruote inanzi a un tribunal fermate
gli
fero udir de l'altrui maleficio
la
sua ignominia, che 'n sugli occhi detta
gli
fu, gridando un publico trombetta.
Lo
levar quindi, e lo mostrar per tutto
dinanzi
a templi, ad officine e a case,
dove
alcun nome scelerato e brutto,
che
non gli fosse detto, non rimase.
Fuor
de la terra all'ultimo cundutto
fu
da la turba, che si persuase
bandirlo
e cacciare indi a suon di busse,
non
conoscendo ben che egli si fusse.
Si
tosto a pena gli sferraro i piedi
e
liberargli l'una e l'altra mano,
che
tor lo scudo ed impugnar gli vedi
la
spada, che rigò gran pezzo il piano.
Non
ebbe contra sé lance né spiedi;
che
senz'arme venìa il populo insano.
Ne
l'altro canto diferisco il resto;
che
tempo è omai, Signor, di finir questo.
CANTO
DICIOTTESIMO.
Magnanimo
Signore, ogni vostro atto
ho
sempre con ragion laudato e laudo:
ben
che col rozzo stil duro e mal atto
gran
parte de la gloria vi defraudo.
Ma
più de l'altre una virtù m'ha tratto,
a
cui col core e con la lingua applaudo;
che
s'ognun truova in voi ben grata udienza,
non
vi truova però facil credenza.
Spesso
in difesa deI biasmato assente
indur
vi sento una ed un'altra scusa,
o
riserbargli almen, fin che presente
sua
causa dica, l'altra orecchia chiusa;
e
sempre, prima che dannar la gente,
vederla
in faccia, e udir la ragion che usa;
differir
anco e giorni e mesi ed anni,
prima
che giudicar negli altrui danni.
Se
Norandino il simil fatto avesse,
fatto
a Grifon non avria quel che fece.
A
voi utile e onor sempre successe:
denigrò
sua fama egli più che pece.
Per
lui sue genti a morte furon messe;
che
fe' Grifone in dieci tagli, e in diece
punte
che trasse pien d'ira e bizzarro,
che
trenta ne cascaro appresso al carro.
Van
gli altri in rotta ove il timor li caccia,
chi
qua chi là, pei campi e per le strade;
e
chi d'entrar ne la città procaccia,
e
l'un su l'altro ne la porta cade.
Grifon
non fa parole e non minaccia;
ma
lasciando lontana ogni pietade,
mena
tra il vulgo inerte il ferro intorno,
e
gran vendetta fa d'ogni suo scorno.
Di
quei che primi giunsero alla porta,
che
le piante a levarsi ebbeno pronte,
parte,
al bisogno suo molto più accorta
che
degli amici, alzò subito il ponte;
piangendo
parte, o con la faccia smorta
fuggendo
andò senza mai volger fronte,
e
ne la terra per tutte le bande
levò
grido e tumulto e rumor grande.
Grifon
gagliardo duo ne piglia in quella
che
il ponte si levò per lor sciagura.
Sparge
de l'uno al campo le cervella;
che
lo percuote ad una cote dura:
prende
l'altro nel petto, e l'arrandella
in
mezzo alla città sopra le mura.
Scorse
per l'ossa ai terrazzani il gelo,
quando
vider colui venir dal cielo.
Fur
molti che temer che il fier Grifone
sopra
le mura avesse preso un salto.
Non
vi sarebbe più confusione,
s'a
Damasco il soldan desse l'assalto.
Un
muover d'arme, un correr di persone,
e
di talacimanni un gridar d'alto,
e
di tamburi un suon misto e di trombe
il
mondo assorda, e il ciel par ne rimbombe.
Ma
voglio a un'altra volta differire
a
ricontar ciò che di questo avenne.
Del
buon re Carlo mi convien seguire,
che
contra Rodomonte in fretta venne,
il
qual le genti gli facea morire.
Io
vi dissi che al re compagnia tenne
il
gran Danese e Namo ed Oliviero
e
Avino e Avolio e Otone e Berlingiero.
Otto
scontri di lance, che da forza
di
tali otto guerrier cacciati foro,
sostenne
a un tempo la scagliosa scorza
di
che avea armato il petto il crudo Moro.
Come
legno si drizza, poi che l'orza
lenta
il nochier che crescer sente il Coro,
così
presto rizzossi Rodomonte
dai
colpi che gittar doveano un monte.
Guido,
Ranier, Ricardo, Salamone,
Ganelon
traditor, Turpin fedele,
Angioliero,
Angiolino, Ughetto, Ivone,
Marco
e Matteo dal pian di san Michele,
e
gli otto di che dianzi fei menzione,
son
tutti intorno al Saracin crudele,
Arimanno
e Odoardo d'Inghilterra,
che
entrati eran pur dianzi ne la terra.
Non
così freme in su lo scoglio alpino
di
ben fondata rocca alta parete,
quando
il furor di borea o di garbino
svelle
dai monti il frassino e l'abete;
come
freme d'orgoglio il Saracino,
di
sdegno acceso e di sanguigna sete:
e
com'a un tempo è il tuono e la saetta,
così
l'ira de l'empio e la vendetta.
Mena
alla testa a quel che gli è più presso,
che
gli è il misero Ughetto di Dordona:
lo
pone in terra insino ai denti fesso,
come
che l'elmo era di tempra buona.
Percosso
fu tutto in un tempo anche esso
da
molti colpi in tutta la persona;
ma
non gli fan più che all'incude l'ago:
sì
duro intorno ha lo scaglioso drago.
Furo
tutti i ripar, fu la cittade
d'intorno
intorno abandonata tutta;
che
la gente alla piazza, dove accade
maggior
bisogno, Carlo avea ridutta.
Corre
alla piazza da tutte le strade
la
turba, a chi il fuggir sì poco frutta.
La
persona del re sì i cori accende,
che
ognun prend'arme, ognuno animo prende.
Come
se dentro a ben rinchiusa gabbia
d'antiqua
leonessa usata in guerra,
perche
averne piacere il popul abbia,
talvolta
il tauro indomito si serra;
i
leoncin che veggion per la sabbia
come
altiero e mugliando animoso erra,
e
veder sì gran corna non son usi,
stanno
da parte timidi e confusi:
ma
se la fiera madre a quel si lancia,
e
ne l'orecchio attacca il crudel dente,
vogliono
anche essi insanguinar la guancia,
e
vengono in soccorso arditamente;
chi
morde al tauro il dosso e chi la pancia:
così
contra il pagan fa quella gente.
Da
tetti e da finestre e più d'appresso
sopra
gli piove un nembo d'arme e spesso.
Dei
cavallieri e de la fanteria
tanta
è la calca, che a pena vi cape.
La
turba che vi vien per ogni via,
v'abbonda
ad or ad or spessa come ape;
che
quando, disarmata e nuda, sia
più
facile a tagliar che torsi o rape,
non
la potria, legata a monte a monte,
in
venti giorni spenger Rodomonte.
Al
pagan, che non sa come ne possa
venir
a capo, omai quel gioco incresce.
Poco,
per far di mille, o di più, rossa
la
terra intorno, il populo discresce.
Il
fiato tuttavia più se gli ingrossa,
si
che comprende al fin che, se non esce
or
c'ha vigore e in tutto il corpo è sano,
vorrà
da tempo uscir, che sarà invano.
Rivolge
gli occhi orribili, e pon mente
che
d'ogn'intorno sta chiusa l'uscita;
ma
con ruina d'infinita gente
l'aprirà
tosto, e la farà espedita.
Ecco,
vibrando la spada tagliente,
che
vien quel empio, ove il furor lo 'nvita,
ad
assalire il nuovo stuol britanno,
che
vi trasse Odoardo ed Arimanno.
Chi
ha visto in piazza rompere steccato,
a
cui la folta turba ondeggi intorno,
immansueto
tauro accaneggiato,
stimulato
e percosso tutto il giorno;
che
il popul se ne fugge ispaventato,
ed
egli or questo or quel leva sul corno:
pensi
che tale o più terribil fosse
il
crudele African quando si mosse.
Quindici
o venti ne tagliò a traverso,
altritanti
lasciò del capo tronchi,
ciascun
d'un colpo sol dritto o riverso;
che
viti o salci par che poti e tronchi.
Tutto
di sangue il fier pagano asperso,
lasciando
capi fessi e bracci monchi,
e
spalle e gambe ed altre membra sparte,
ovunque
il passo volga, al fin si parte.
De
la piazza si vede in guisa torre,
che
non si può notar che abbia paura;
ma
tuttavolta col pensier discorre,
dove
sia per uscir via più sicura.
Capita
al fin dove la Senna corre
sotto
all'isola, e va fuor de le mura.
La
gente d'arme e il popul fatto audace
lo
stringe e incalza, e gir nol lascia in pace.
Qual
per le selve nomade o massile
cacciata
va la generosa belva,
che
ancor fuggendo mostra il cor gentile,
e
minacciosa e lenta si rinselva;
tal
Rodomonte, in nessun atto vile,
da
strana circondato e fiera selva
d'aste
e di spade e di volanti dardi,
si
tira al fiume a passi lunghi e tardi.
E
sì tre volte e più l'ira il sospinse,
che
essendone già fuor, vi tornò in mezzo,
ove
di sangue la spada ritinse,
e
più di cento ne levò di mezzo.
Ma
la ragione al fin la rabbia vinse
di
non far sì, che a Dio n'andasse il lezzo;
e
da la ripa, per miglior consiglio,
si
gittò all'acqua, e uscì di gran periglio.
Con
tutte l'arme andò per mezzo l'acque,
come
s'intorno avesse tante galle.
Africa,
in te pare a costui non nacque,
ben
che d'Anteo ti vanti e d'Anniballe.
Poi
che fu giunto a proda, gli dispiacque,
che
si vide restar dopo le spalle
quella
città che avea trascorsa tutta,
e
non l'avea tutta arsa né distrutta.
E
sì lo rode la superbia e l'ira,
che,
per tornarvi un'altra volta, guarda,
e
di profondo cor geme e sospira,
né
vuolne uscir, che non la spiani ed arda.
Ma
lungo il fiume, in questa furia, mira
venir
chi l'odio estingue e l'ira tarda.
Chi
fosse io vi farò ben tosto udire;
ma
prima un'altra cosa v'ho da dire.
Io
v'ho da dir de la Discordia altiera,
a
cui l'angel Michele avea commesso
che
a battaglia accendesse e a lite fiera
quei
che più forti avea Agramante appresso.
Uscì
de' frati la medesma sera,
avendo
altrui l'ufficio suo commesso:
lasciò
la Fraude a guerreggiare il loco,
fin
che tornasse, e a mantenervi il fuoco.
E
le parve che andria con più possanza,
se
la Superbia ancor seco menasse;
e
perché stavan tutte in una stanza,
non
fu bisogno che a cercar l'andasse.
La
Superbia v'andò, ma non che sanza
la
sua vicaria il monaster lasciasse:
per
pochi dì che credea starne assente,
lasciò
l'Ipocrisia locotenente.
L'implacabil
Discordia in compagnia
de
la Superbia si messe in camino,
e
ritrovò che la medesma via
facea,
per gire al campo saracino,
l'afflitta
e sconsolata Gelosia;
e
venìa seco un nano piccolino,
il
qual mandava Doralice bella
al
re di Sarza a dar di sé novella.
Quando
ella venne a Mandricardo in mano
(che
io v'ho già raccontato e come e dove),
tacitamente
avea commesso al nano,
che
ne portasse a questo re le nuove.
Ella
sperò che nol saprebbe invano,
ma
che far si vedria mirabil pruove,
per
riaverla con crudel vendetta
da
quel ladron che gli l'avea intercetta.
La
Gelosia quel nano avea trovato;
e
la cagion del suo venir compresa,
a
caminar se gli era messa allato,
parendo
d'aver luogo a questa impresa.
Alla
Discordia ritrovar fu grato
la
Gelosia; ma più quando ebbe intesa
la
cagion del venir, che le potea
molto
valere in quel che far volea.
D'inimicar
con Rodomonte il figlio
del
re Agrican le pare aver suggetto:
troverà
a sdegnar gli altri altro consiglio;
a
sdegnar questi duo questo è perfetto.
Col
nano se ne vien dove l'artiglio
del
fier pagano avea Parigi astretto;
e
capitaro a punto in su la riva,
quando
il crudel del fiume a nuoto usciva.
Tosto
che riconobbe Rodomonte
costui
de la sua donna esser messaggio,
estinse
ogn'ira, e serenò la fronte,
e
si sentì brillar dentro il coraggio.
Ogn'altra
cosa aspetta che gli conte,
prima
che alcuno abbia a lei fatto oltraggio.
Va
contra il nano, e lieto gli domanda:
-
Che è de la donna nostra? ove ti manda? -
Rispose
il nano: - Né più tua né mia
donna
dirò quella che è serva altrui.
Ieri
scontrammo un cavallier per via,
che
ne la tolse, e la menò con lui. -
A
quello annunzio entrò la Gelosia,
fredda
come aspe, ed abbracciò costui.
Seguita
il nano, e narragli in che guisa
un
sol l'ha presa, e la sua gente uccisa.
L'acciaio
allora la Discordia prese,
e
la pietra focaia, e picchiò un poco,
e
l'esca sotto la Superbia stese,
e
fu attaccato in un momento il fuoco;
e
sì di questo l'anima s'accese
del
Saracin, che non trovava loco:
sospira
e freme con sì orribil faccia,
che
gli elementi e tutto il ciel minaccia.
Come
la tigre, poi che invan discende
nel
voto albergo, e per tutto s'aggira,
e
i cari figli all'ultimo comprende
essergli
tolti, avampa di tant'ira,
a
tanta rabbia, a tal furor s'estende,
che
né a monte né a rio né a notte mira;
né
lunga via, né grandine raffrena
l'odio
che dietro al predator la mena:
così
furendo il Saracin bizzarro
si
volge al nano, e dice: - Or là t'invia; -
e
non aspetta né destrier né carro,
e
non fa motto alla sua compagnia.
Va
con più fretta che non va il ramarro,
quando
il ciel arde, a traversar la via.
Destrier
non ha, ma il primo tor disegna,
sia
di chi vuol, che ad incontrar lo vegna.
La
Discordia che udì questo pensiero,
guardò,
ridendo, la Superbia, e disse
che
volea gire a trovare un destriero
che
gli apportasse altre contese e risse;
e
far volea sgombrar tutto il sentiero,
che
altro che quello in man non gli venisse:
e
già pensato avea dove trovarlo.
Ma
costei lascio, e torno a dir di Carlo.
Poi
che al partir del Saracin si estinse
Carlo
d'intorno il periglioso fuoco,
tutte
le genti all'ordine ristrinse.
Lascionne
parte in qualche debol loco:
adosso
il resto ai Saracini spinse,
per
dar lor scacco, e guadagnarsi il giuoco;
e
gli mandò per ogni porta fuore,
da
San Germano infin a San Vittore.
E
commandò che a porta San Marcello,
dov'era
gran spianata di campagna,
aspettasse
l'un l'altro, e in un drappello
si
ragunasse tutta la compagna.
Quindi
animando ognuno a far macello
tal,
che sempre ricordo ne rimagna,
ai
lor ordini andar fe' le bandiere,
e
di battaglia dar segno alle schiere.
Il
re Agramante in questo mezzo in sella,
mal
grado dei cristian, rimesso s'era;
e
con l'inamorato d'Isabella
facea
battaglia perigliosa e fiera:
col
re Sobrin Lurcanio si martella:
Rinaldo
incontra avea tutta una schiera;
e
con virtude e con fortuna molta
l'urta,
l'apre, ruina e mette in volta.
Essendo
la battaglia in questo stato,
l'imperatore
assalse il retroguardo
dal
canto ove Marsilio avea fermato
il
fior di Spagna intorno al suo stendardo.
Con
fanti in mezzo e cavallieri allato,
re
Carlo spinse il suo popul gagliardo
con
tal rumor di timpani e di trombe,
che
tutto il mondo par che ne rimbombe.
Cominciavan
le schiere a ritirarse
de'
Saracini, e si sarebbon volte
tutte
a fuggir, spezzate, rotte e sparse,
per
mai più non potere esser raccolte;
ma
il re Grandonio e Falsiron comparse,
che
stati in maggior briga eran più volte,
e
Balugante e Serpentin feroce,
e
Ferraù che lor dicea a gran voce:
-
Ah (dicea) valentuomini, ah compagni,
ah
fratelli, tenete il luogo vostro.
I
nimici faranno opra di ragni,
se
non manchiamo noi del dover nostro.
Guardate
l'alto onor, gli ampli guadagni
che
Fortuna, vincendo, oggi ci ha mostro:
guardate
la vergogna e il danno estremo,
che
essendo vinti, a patir sempre avremo. -
Tolto
in quel tempo una gran lancia avea,
e
contra Berlingier venne di botto,
che
sopra Largaliffa combattea,
e
l'elmo ne la fronte gli avea rotto:
gittollo
in terra, e con la spada rea
appresso
a lui ne fe' cader forse otto.
Per
ogni botta almanco, che disserra,
cader
fa sempre un cavalliero in terra.
In
altra parte ucciso avea Rinaldo
tanti
pagan, che io non potrei contarli.
Dinanzi
a lui non stava ordine saldo:
vedreste
piazza in tutto il campo darli.
Non
men Zerbin, non men Lurcanio è caldo:
per
modo fan, che ognun sempre ne parli:
questo
di punta avea Balastro ucciso,
e
quello a Finadur l'elmo diviso.
L'esercito
d'Alzerbe avea il primiero,
che
poco inanzi aver solea Tardocco;
l'altro
tenea sopra le squadre impero
di
Zamor e di Saffi e di Marocco.
-
Non è tra gli Africani un cavalliero
che
di lancia ferir sappia o di stocco? -
mi
si potrebbe dir: ma passo passo
nessun
di gloria degno a dietro lasso.
Del
re de la Zumara non si scorda
il
nobil Dardinel figlio d'Almonte,
che
con la lancia Uberto da Mirforda,
Claudio
dal Bosco, Elio e Dulfin dal Monte,
e
con la spada Anselmo da Stanforda,
e
da Londra Raimondo e Pinamonte
getta
per terra (ed erano pur forti),
dui
storditi, un piagato, e quattro morti.
Ma
con tutto il valor che di sé mostra,
non
può tener sì ferma la sua gente,
sì
ferma, che aspettar voglia la nostra
di
numero minor, ma più valente.
Ha
più ragion di spada e più di giostra
e
d'ogni cosa a guerra appertinente.
Fugge
la gente maura, di Zumara,
di
Setta, di Marocco e di Canara.
Ma
più degli altri fuggon quei d'Alzerbe,
a
cui s'oppose il nobil giovinetto;
ed
or con prieghi, or con parole acerbe
ripor
lor cerca l'animo nel petto.
-
S'Almonte meritò che in voi si serbe
di
lui memoria, or ne vedrò l'effetto:
io
vedrò (dicea lor) se me, suo figlio,
lasciar
vorrete in così gran periglio.
State,
vi priego per mia verde etade,
in
cui solete aver sì larga speme:
deh
non vogliate andar per fil di spade,
che
in Africa non torni di noi seme.
Per
tutto ne saran chiuse le strade,
se
non andiam raccolti e stretti insieme:
troppo
alto muro e troppo larga fossa
è
il monte e il mar, pria che tornar si possa.
Molto
è meglio morir qui, che ai supplici
darsi
e alla discrezion di questi cani.
State
saldi, per Dio, fedeli amici;
che
tutti son gli altri rimedi vani.
Non
han di noi più vita gli nimici;
più
d'un'alma non han, più di due mani. -
Così
dicendo, il giovinetto forte
al
conte d'Otonlei diede la morte.
Il
rimembrare Almonte così accese
l'esercito
african che fuggia prima,
che
le braccia e le mani in sue difese
meglio,
che rivoltar le spalle, estima.
Guglielmo
da Burnich era uno Inglese
maggior
di tutti, e Dardinello il cima,
e
lo pareggia agli altri; e apresso taglia
il
capo ad Aramon di Cornovaglia.
Morto
cadea questo Aramone a valle;
e
v'accorse il fratel per dargli aiuto:
ma
Dardinel l'aperse per le spalle
fin
giù dove lo stomaco è forcuto.
Poi
forò il ventre a Bogio da Vergalle,
e
lo mandò del debito assoluto:
avea
promesso alla moglier fra sei
mesi,
vivendo, di tornare a lei.
Vide
non lungi Dardinel gagliardo
venir
Lurcanio, che avea in terra messo
Dorchin,
passato ne la gola, e Gardo
per
mezzo il capo e insin ai denti fesso;
e
che Alteo fuggir volse, ma fu tardo,
Alteo
che amò quanto il suo core istesso;
che
dietro alla collottola gli mise
il
fier Lurcanio un colpo che l'uccise.
Piglia
una lancia, e va per far vendetta,
dicendo
al suo Macon (s'udir lo puote),
che
se morto Lurcanio in terra getta,
ne
la moschea ne porrà l'arme vote.
Poi
traversando la campagna in fretta,
con
tanta forza il fianco gli percuote,
che
tutto il passa sin all'altra banda;
ed
ai suoi, che lo spoglino, commanda.
Non
è da domandarmi, se dolere
se
ne dovesse Ariodante il frate;
se
desiasse di sua man potere
por
Dardinel fra l'anime dannate:
ma
nol lascian le genti adito avere,
non
men de le 'nfedel le battezzate.
Vorria
pur vendicarsi, e con la spada
di
qua di là spianando va la strada.
Urta,
apre, caccia, atterra, taglia e fende
qualunque
lo 'mpedisce o gli contrasta.
E
Dardinel che quel disire intende,
a
volerlo saziar già non sovrasta:
ma
la gran moltitudine contende
con
questa ancora, e i suoi disegni guasta.
Se'
Mori uccide l'un, l'altro non manco
gli
Scotti uccide e il campo inglese e il franco.
Fortuna
sempremai la via lor tolse,
che
per tutto quel dì non s'accozzaro.
A
più famosa man serbar l'un volse;
che
l'uomo il suo destin fugge di raro.
Ecco
Rinaldo a questa strada volse,
perche
alla vita d'un non sia riparo:
ecco
Rinaldo vien: Fortuna il guida
per
dargli onor che Dardinello uccida.
Ma
sia per questa volta detto assai
dei
gloriosi fatti di Ponente.
Tempo
è che io torni ove Grifon lasciai,
che
tutto d'ira e di disdegno ardente
facea,
con più timor che avesse mai,
tumultuar
la sbigottita gente.
Re
Norandino a quel rumor corso era
con
più di mille armati in una schiera.
Re
Norandin con la sua corte armata,
vedendo
tutto il populo fuggire,
venne
alla porta in battaglia ordinata,
e
quella fece alla sua giunta aprire.
Grifone
intanto avendo già cacciata
da
sé la turba sciocca e senza ardire,
la
sprezzata armatura in sua difesa
(qual
la si fosse) avea di nuovo presa;
e
presso a un tempio ben murato e forte,
che
circondato era d'un'alta fossa,
in
capo un ponticel si fece forte,
perché
chiuderlo in mezzo alcun non possa.
Ecco,
gridando e minacciando forte,
fuor
de la porta esce una squadra grossa.
L'animoso
Grifon non muta loco,
e
fa sembiante che ne tema poco.
E
poi che avicinar questo drappello
si
vide, andò a trovarlo in su la strada;
e
molta strage fattane e macello
(che
menava a due man sempre la spada),
ricorso
avea allo stretto ponticello,
e
quindi li tenea non troppo a bada:
di
nuovo usciva e di nuovo tornava;
e
sempre orribil segno vi lasciava.
Quando
di dritto e quando di riverso
getta
or pedoni or cavallieri in terra.
Il
popul contra lui tutto converso
più
e più sempre inaspera la guerra.
Teme
Grifone al fin restar sommerso:
sì
cresce il mar che d'ogn'intorno il serra;
e
ne la spalla e ne la coscia manca
è
già ferito, e pur la lena manca.
Ma
la virtù, che ai suoi spesso soccorre,
gli
fa appo Norandin trovar perdono.
Il
re, mentre al tumulto in dubbio corre,
vede
che morti già tanti ne sono:
vede
le piaghe che di man d'Ettorre
pareano
uscite: un testimonio buono,
che
dianzi esso avea fatto indegnamente
vergogna
a un cavallier molto eccellente.
Poi,
come gli è più presso, e vede in fronte
quel
che la gente a morte gli ha condutta,
e
fattosene avanti orribil monte,
e
di quel sangue il fosso e l'acqua brutta;
gli
è aviso di veder proprio sul ponte
Orazio
sol contra Toscana tutta:
e
per suo onore, e perché gli ne 'ncrebbe,
ritrasse
i suoi, né gran fatica v'ebbe.
Ed
alzando la man nuda e senz'arme,
antico
segno di tregua o di pace,
disse
a Grifon: - Non so, se non chiamarme
d'avere
il torto, e dir che mi dispiace:
ma
il mio poco giudicio, e lo istigarme
altrui,
cadere in tanto error mi face.
Quel
che di fare io mi credea al più vile
guerrier
del mondo, ho fatto al più gentile.
E
se bene alla ingiuria ed a quell'onta
che
oggi fatta ti fu per ignoranza,
l'onor
che ti fai qui s'adegua e sconta,
o
(per più vero dir) supera e avanza;
la
satisfazion ci serà pronta
a
tutto mio sapere e mia possanza,
quando
io conosca di poter far quella
per
oro o per cittadi o per castella.
Chiedimi
la metà di questo regno,
che
io son per fartene oggi possessore;
che
l'alta tua virtù non ti fa degno
di
questo sol, ma che io ti doni il core:
e
la tua mano in questo mezzo, pegno
di
fé mi dona e di perpetuo amore. -
Così
dicendo, da cavallo scese,
e
vêr Grifon la destra mano stese.
Grifon,
vedendo il re fatto benigno
venirgli
per gittar le braccia al collo,
lasciò
la spada e l'animo maligno,
e
sotto l'anche ed umile abbracciollo.
Lo
vide il re di due piaghe sanguigno,
e
tosto fe' venir chi medicollo;
indi
portar ne la cittade adagio,
e
riposar nel suo real palagio.
Dove,
ferito, alquanti giorni, inante
che
si potesse armar, fece soggiorno.
Ma
lascio lui, che al suo frate Aquilante
ed
ad Astolfo in Palestina torno,
che
di Grifon, poi che lasciò le sante
mura,
cercare han fatto più d'un giorno
in
tutti i lochi in Solima devoti,
e
in molti ancor da la città remoti.
Or
né l'uno né l'altro è sì indovino,
che
di Grifon possa saper che sia:
ma
venne lor quel Greco peregrino,
nel
ragionare, a caso a darne spia,
dicendo
che Orrigille avea il camino
verso
Antiochia preso di Soria,
d'un
nuovo drudo, che era di quel loco,
di
subito arsa e d'improviso fuoco.
Dimandògli
Aquilante, se di questo
così
notizia avea data a Grifone:
e
come l'affermò, s'avisò il resto,
perché
fosse partito, e la cagione.
Che
Orrigille ha seguito è manifesto
in
Antiochia con intenzione
di
levarla di man del suo rivale
con
gran vendetta e memorabil male.
Non
tolerò Aquilante che il fratello
solo
e senz'esso a quell'impresa andasse;
e
prese l'arme, e venne dietro a quello:
ma
prima pregò il duca che tardasse
l'andata
in Francia ed al paterno ostello,
fin
che esso d'Antiochia ritornasse.
Scende
al Zaffo e s'imbarca, che gli pare
e
più breve e miglior la via del mare.
Ebbe
un ostro-silocco allor possente
tanto
nel mare, e sì per lui disposto,
che
la terra del Surro il dì seguente
vide
e Saffetto, un dopo l'altro tosto.
Passa
Barutti e il Zibeletto, e sente
che
da man manca gli è Cipro discosto.
A
Tortosa da Tripoli, e alla Lizza
e
al golfo di Laiazzo il camin drizza.
Quindi
a levante fe' il nocchier la fronte
del
navilio voltar snello e veloce;
ed
a sorger n'andò sopra l'Oronte,
e
colse il tempo, e ne pigliò la foce.
Gittar
fece Aquilante in terra il ponte,
e
n'uscì armato sul destrier feroce;
e
contra il fiume il camin dritto tenne,
tanto
che in Antiochia se ne venne.
Di
quel Martano ivi ebbe ad informarse;
ed
udì che a Damasco se n'era ito
con
Orrigille, ove una giostra farse
dovea
solenne per reale invito.
Tanto
d'andargli dietro il desir l'arse,
certo
che il suo german l'abbia seguito,
che
d'Antiochia anco quel dì si tolle;
ma
già per mar più ritornar non volle.
Verso
Lidia e Larissa il camin piega:
resta
più sopra Aleppe ricca e piena.
Dio,
per mostrar che ancor di qua non niega
mercede
al bene, ed al contrario pena,
Martano
appresso a Mamuga una lega
ad
incontrarsi in Aquilante mena.
Martano
si facea con bella mostra
portare
inanzi il pregio de la giostra.
Pensò
Aquilante al primo comparire,
che
il vil Martano il suo fratello fosse;
che
l'ingannaron l'arme, e quel vestire
candido
più che nievi ancor non mosse:
e
con quell'oh! che d'allegrezza dire
si
suole, incominciò; ma poi cangiosse
tosto
di faccia e di parlar, che appresso
s'avide
meglio, che non era desso.
Dubitò
che per fraude di colei
che
era con lui, Grifon gli avesse ucciso;
e:
- Dimmi (gli gridò) tu che esser déi
un
ladro e un traditor, come n'hai viso,
onde
hai quest'arme avute? onde ti sei
sul
buon destrier del mio fratello assiso?
Dimmi
se il mio fratello è morto o vivo;
come
de l'arme e del destrier l'hai privo. -
Quando
Orrigille udì l'irata voce,
a
dietro il palafren per fuggir volse;
ma
di lei fu Aquilante più veloce,
e
fecela fermar, volse o non volse.
Martano
al minacciar tanto feroce
del
cavallier, che sì improviso il colse,
pallido
triema, come al vento fronda,
né
sa quel che si faccia o che risponda.
Grida
Aquilante, e fulminar non resta,
e
la spada gli pon dritto alla strozza;
e
giurando minaccia che la testa
ad
Orrigille e a lui rimarrà mozza,
se
tutto il fatto non gli manifesta.
Il
mal giunto Martano alquanto ingozza,
e
tra sé volve se può sminuire
sua
grave colpa, e poi comincia a dire:
-
Sappi, signor, che mia sorella è questa,
nata
di buona e virtuosa gente,
ben
che tenuta in vita disonesta
l'abbia
Grifone obbrobriosamente:
e
tale infamia essendomi molesta,
né
per forza sentendomi possente
di
torla a sì grande uom, feci disegno
d'averla
per astuzia e per ingegno.
Tenni
modo con lei, che avea desire
di
ritornare a più lodata vita,
che
essendosi Grifon messo a dormire,
chetamente
da lui fêsse partita.
Così
fece ella; e perché egli a seguire
non
n'abbia, ed a turbar la tela ordita,
noi
lo lasciammo disarmato e a piedi;
e
qua venuti siàn, come tu vedi. -
Poteasi
dar di somma astuzia vanto,
che
colui facilmente gli credea;
e,
fuor che 'n torgli arme e destrier e quanto
tenesse
di Grifon, non gli nocea;
se
non volea pulir sua scusa tanto,
che
la facesse di menzogna rea:
buona
era ogn'altra parte, se non quella
che
la femina a lui fosse sorella.
Avea
Aquilante in Antiochia inteso
essergli
concubina, da più genti;
onde
gridando, di furore acceso:
-
Falsissimo ladron, tu te ne menti! -
un
pugno gli tirò di tanto peso,
che
ne la gola gli cacciò duo denti:
e
senza più contesa, ambe le braccia
gli
volge dietro, e d'una fune allaccia;
e
parimente fece ad Orrigille,
ben
che in sua scusa ella dicesse assai.
Quindi
li trasse per casali e ville,
né
li lasciò fin a Damasco mai;
e
de le miglia mille volte mille
tratti
gli avrebbe con pene e con guai,
fin
che avesse trovato il suo fratello,
per
farne poi come piacesse a quello.
Fece
Aquilante lor scudieri e some
seco
tornare, ed in Damasco venne,
e
trovò di Grifon celebre il nome
per
tutta la città batter le penne:
piccoli
e grandi, ognun sapea già come
egli
era, che sì ben corse l'antenne,
ed
a cui tolto fu con falsa mostra
dal
compagno la gloria de la giostra.
Il
popul tutto al vil Martano infesto,
l'uno
all'altro additandolo, lo scuopre.
-
Non è (dicean), non è il ribaldo questo,
che
si fa laude con l'altrui buone opre?
e
la virtù di chi non è ben desto,
con
la sua infamia e col suo obbrobrio copre?
Non
è l'ingrata femina costei,
la
qual tradisce i buoni e aiuta i rei? -
Altri
dicean: - Come stan bene insieme
segnati
ambi d'un marchio e d'una razza! -
Chi
li bestemmia, chi lor dietro freme,
chi
grida: - Impicca, abrucia, squarta, amazza! -
La
turba per veder s'urta, si preme,
e
corre inanzi alle strade, alla piazza.
Venne
la nuova al re, che mostrò segno
d'averla
cara più che un altro regno.
Senza
molti scudier dietro o davante,
come
si ritrovò, si mosse in fretta,
e
venne ad incontrarsi in Aquilante,
che
avea del suo Grifon fatto vendetta;
e
quello onora con gentil sembiante,
seco
lo 'nvita, e seco lo ricetta;
di
suo consenso avendo fatto porre
i
duo prigioni in fondo d'una torre.
Andaro
insieme ove del letto mosso
Grifon
non s'era, poi che fu ferito,
che
vedendo il fratel, divenne rosso;
che
ben stimò che avea il suo caso udito.
E
poi che motteggiando un poco adosso
gli
andò Aquilante, messero a partito
di
dare a quelli duo iusto martoro,
venuti
in man degli avversari loro.
Vuole
Aquilante, vuole il re che mille
strazi
ne sieno fatti; ma Grifone
(perché
non osa dir sol d'Orrigille)
all'uno
e all'altro vuol che si perdone.
Disse
assai cose, e molto ben ordille;
fugli
risposto; or per conclusione
Martano
è disegnato in mano al boia,
che
abbia a scoparlo, e non però che moia.
Legar
lo fanno, e non tra' fiori e l'erba,
e
per tutto scopar l'altra matina.
Orrigille
captiva si riserba
fin
che ritorni la bella Lucina,
al
cui saggio parere, o lieve o acerba,
rimetton
quei signor la disciplina.
Quivi
stette Aquilante a ricrearsi
fin
che il fratel fu sano e poté armarsi.
Re
Norandin, che temperato e saggio
divenuto
era dopo un tanto errore,
non
potea non aver sempre il coraggio
di
penitenza pieno e di dolore,
d'aver
fatto a colui danno ed oltraggio,
che
degno di mercede era e d'onore:
sì
che dì e notte avea il pensiero intento
par
farlo rimaner di sé contento.
E
statuì nel publico cospetto
de
la città, di tanta ingiuria rea,
con
quella maggior gloria che a perfetto
cavallier
per un re dar si potea,
di
rendergli quel premio che intercetto
con
tanto inganno il traditor gli avea:
e
perciò fe' bandir per quel paese,
che
faria un'altra giostra indi ad un mese.
Di
che apparecchio fa tanto solenne,
quanto
a pompa real possibil sia:
onde
la Fama con veloci penne
portò
la nuova per tutta Soria;
ed
in Fenicia e in Palestina venne,
e
tanto, che ad Astolfo ne diè spia,
il
qual col viceré deliberosse
che
quella giostra senza lor non fosse.
Per
guerrier valoroso e di gran nome
la
vera istoria Sansonetto vanta.
Gli
diè battesmo Orlando, e Carlo (come
v'ho
detto) a governar la Terra Santa.
Astolfo
con costui levò le some,
per
ritrovarsi ove la Fama canta,
sì
che d'intorno n'ha piena ogni orecchia,
che
in Damasco la giostra s'apparecchia.
Or
cavalcando per quelle contrade
con
non lunghi viaggi, agiati e lenti,
per
ritrovarsi freschi alla cittade
poi
di Damasco il dì de' torniamenti,
scontraro
in una croce di due strade
persona
che al vestire e a' movimenti
avea
sembianza d'uomo, e femin' era,
ne
le battaglie a maraviglia fiera.
La
vergine Marfisa si nomava,
di
tal valor, che con la spada in mano
fece
più volte al gran signor di Brava
sudar
la fronte e a quel di Montalbano;
e
il dì e la notte armata sempre andava
di
qua di là cercando in monte e in piano
con
cavallieri erranti riscontrarsi,
ed
immortale e gloriosa farsi.
Com'ella
vide Astolfo e Sansonetto,
che
appresso le venian con l'arme indosso,
prodi
guerrier le parvero all'aspetto;
che
erano ambeduo grandi e di buono osso:
e
perché di provarsi avria diletto,
per
isfidarli avea il destrier già mosso;
quando,
affissando l'occhio più vicino,
conosciuto
ebbe il duca paladino.
De
la piacevolezza le sovenne
del
cavallier, quando al Catai seco era:
e
lo chiamò per nome, e non si tenne
la
man nel guanto, e alzossi la visiera;
e
con gran festa ad abbracciarlo venne,
come
che sopra ogn'altra fosse altiera.
Non
men da l'altra parte riverente
fu
il paladino alla donna eccellente.
Tra
lor si domandaron di lor via:
e
poi che Astolfo, che prima rispose,
narrò
come a Damasco se ne gìa,
dove
le genti in arme valorose
avea
invitato il re de la Soria
a
dimostrar lor opre virtuose;
Marfisa,
sempre a far gran pruove accesa,
-
Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. -
Sommamente
ebbe Astolfo grata questa
compagna
d'arme, e così Sansonetto.
Furo
a Damasco il dì inanzi la festa,
e
di fuora nel borgo ebbon ricetto:
e
sin all'ora che dal sonno desta
l'
Aurora il vecchiarel già suo diletto,
quivi
si riposar con maggior agio,
che
se smontati fossero al palagio.
E
poi che il nuovo sol lucido e chiaro
per
tutto sparsi ebbe i fulgenti raggi,
la
bella donna e i duo guerrier s'armaro,
mandato
avendo alla città messaggi;
che,
come tempo fu, lor rapportaro
che
per veder spezzar frassini e faggi
re
Norandino era venuto al loco
che
avea costituito al fiero gioco.
Senza
più indugio alla città ne vanno,
e
per la via maestra alla gran piazza,
dove
aspettando il real segno stanno
quinci
e quindi i guerrier di buona razza.
I
premi che quel giorno si daranno
a
chi vince, è uno stocco ed una mazza
guerniti
riccamente, e un destrier, quale
sia
convenevol dono a un signor tale.
Avendo
Norandin fermo nel core
che,
come il primo pregio, il secondo anco,
e
d'ambedue le giostre il sommo onore
si
debba guadagnar Grifone il bianco;
per
dargli tutto quel che uom di valore
dovrebbe
aver, né debbe far con manco,
posto
con l'arme in questo ultimo pregio
ha
stocco e mazza e destrier molto egregio.
L'arme
che ne la giostra fatta dianzi
si
doveano a Grifon che il tutto vinse,
e
che usurpate avea con tristi avanzi
Martano
che Grifone esser si finse,
quivi
si fece il re pendere inanzi,
e
il ben guernito stocco a quelle cinse,
e
la mazza all'arcion del destrier messe,
perché
Grifon l'un pregio e l'altro avesse.
Ma
che sua intenzione avesse effetto
vietò
quella magnanima guerriera,
che
con Astolfo e col buon Sansonetto
in
piazza nuovamente venuta era.
Costei,
vedendo l'arme che io v'ho detto,
subito
n'ebbe conoscenza vera:
però
che già sue furo, e l'ebbe care
quanto
si suol le cose ottime e rare;
ben
che l'avea lasciate in su la strada
a
quella volta che le fur d'impaccio,
quando
per riaver sua buona spada
correa
dietro a Brunel degno di laccio.
Questa
istoria non credo che m'accada
altrimenti
narrar; però la taccio.
Da
me vi basti intendere a che guisa
quivi
trovasse l'arme sue Marfisa.
Intenderete
ancor, che come l'ebbe
riconosciute
a manifeste note,
per
altro che sia al mondo, non le avrebbe
lasciate
un dì di sua persona vote.
Se
più tenere un modo o un altro debbe
per
racquistarle, ella pensar non puote:
ma
se gli accosta a un tratto, e la man stende,
e
senz'altro rispetto se le prende;
e
per la fretta che ella n'ebbe, avenne
che
altre ne prese, altre mandonne in terra.
Il
re, che troppo offeso se ne tenne,
con
uno sguardo sol le mosse guerra;
che
il popul, che l'ingiuria non sostenne,
per
vendicarlo e lance e spade afferra,
non
rammentando ciò che i giorni inanti
nocque
il dar noia ai cavallieri erranti.
Né
fra vermigli fiori, azzurri e gialli
vago
fanciullo alla stagion novella,
né
mai si ritrovò fra suoni e balli
più
volentieri ornata donna e bella;
che
fra strepito d'arme e di cavalli,
e
fra punte di lance e di quadrella,
dove
si sparga sangue e si dia morte,
costei
si truovi, oltre ogni creder forte.
Spinge
il cavallo, e ne la turba sciocca
con
l'asta bassa impetuosa fere;
e
chi nel collo e chi nel petto imbrocca,
e
fa con l'urto or questo or quel cadere:
poi
con la spada uno ed un altro tocca,
e
fa qual senza capo rimanere,
e
qual rotto, e qual passato al fianco,
e
qual del braccio privo o destro o manco.
L'ardito
Astolfo e il forte Sansonetto,
che
avean con lei vestita e piastra e maglia,
ben
che non venner già per tal effetto,
pur,
vedendo attaccata la battaglia,
abbassan
la visiera de l'elmetto,
e
poi la lancia per quella canaglia;
ed
indi van con la tagliente spada
di
qua di là facendosi far strada.
I
cavallieri di nazion diverse,
che
erano per giostrar quivi ridutti,
vedendo
l'arme in tal furor converse,
e
gli aspettati giuochi in gravi lutti
(che
la cagion che avesse di dolerse
la
plebe irata non sapeano tutti,
né
che al re tanta ingiuria fosse fatta),
stavan
con dubbia mente e stupefatta.
Di
che altri a favorir la turba venne,
che
tardi poi non se ne fu a pentire;
altri,
a cui la città più non attenne
che
gli stranieri, accorse a dipartire;
altri,
più saggio, in man la briglia tenne,
mirando
dove questo avesse a uscire.
Di
quelli fu Grifone ed Aquilante,
che
per vendicar l'arme andaro inante.
Essi
vedendo il re che di veneno
avea
le luci inebriate e rosse,
ed
essendo da molti istrutti a pieno
de
la cagion che la discordia mosse,
e
parendo a Grifon che sua, non meno
che
del re Norandin, l'ingiuria fosse;
s'avean
le lance fatte dar con fretta,
e
venian fulminando alla vendetta.
Astolfo
d'altra parte Rabicano
venìa
spronando a tutti gli altri inante,
con
l'incantata lancia d'oro in mano,
che
al fiero scontro abbatte ogni giostrante.
Ferì
con essa e lasciò steso al piano
prima
Grifone, e poi trovò Aquilante;
e
de lo scudo toccò l'orlo a pena,
che
lo gittò riverso in su l'arena.
I
cavallier di pregio e di gran pruova
votan
le selle inanzi a Sansonetto.
L'uscita
de la piazza il popul truova:
il
re n'arrabbia d'ira e di dispetto.
Con
la prima corazza e con la nuova
Marfisa
intanto, e l'uno e l'altro elmetto,
poi
che si vide a tutti dare il tergo,
vincitrice
venìa verso l'albergo.
Astolfo
e Sansonetto non fur lenti
a
seguitarla, e seco a ritornarsi
verso
la porta (che tutte le genti
gli
davan loco), ed al rastrel fermarsi.
Aquilante
e Grifon, troppo dolenti
di
vedersi a uno incontro riversarsi,
tenean
per gran vergogna il capo chino,
né
ardian venire inanzi a Norandino.
Presi
e montati c'hanno i lor cavalli,
spronano
dietro agli nimici in fretta.
Li
segue il re con molti suoi vasalli,
tutti
pronti o alla morte o alla vendetta.
La
sciocca turba grida: - Dàlli dàlli -;
e
sta lontana, e le novelle aspetta.
Grifone
arriva ove volgean la fronte
i
tre compagni, ed avean preso il ponte.
A
prima giunta Astolfo raffigura,
che
avea quelle medesime divise,
avea
il cavallo, avea quella armatura
che
ebbe dal dì che Orril fatale uccise.
Né
miratol, né posto gli avea cura,
quando
in piazza a giostrar seco si mise:
quivi
il conobbe e salutollo; e poi
gli
domandò de li compagni suoi;
e
perché tratto avean quell'arme a terra,
portando
al re sì poca riverenza.
Di
suoi compagni il duca d'Inghilterra
diede
a Grifon non falsa conoscenza:
de
l'arme che attaccate avean la guerra,
disse
che non n'avea troppa scienza;
ma
perché con Marfisa era venuto,
dar
le volea con Sansonetto aiuto.
Quivi
con Grifon stando il paladino,
viene
Aquilante, e lo conosce tosto
che
parlar col fratel l'ode vicino,
e
il voler cangia, che era mal disposto.
Giungean
molti di quei di Norandino,
ma
troppo non ardian venire accosto;
e
tanto più, vedendo i parlamenti,
stavano
cheti, e per udire intenti.
Alcun
che intende quivi esser Marfisa,
che
tiene al mondo il vanto in esser forte,
volta
il cavallo, e Norandino avisa
che
s'oggi non vuol perder la sua corte,
proveggia,
prima che sia tutta uccisa,
di
man trarla a Tesifone e alla Morte;
perché
Marfisa veramente è stata,
che
l'armatura in piazza gli ha levata.
Come
re Norandino ode quel nome
così
temuto per tutto Levante,
che
facea a molti anco arricciar le chiome,
ben
che spesso da lor fosse distante,
è
certo che ne debbia venir come
dice
quel suo, se non provede inante;
però
gli suoi, che già mutata l'ira
hanno
in timore, a sé richiama e tira.
Da
l'altra parte i figli d'Oliviero
con
Sansonetto e col figliuol d'Otone,
supplicando
a Marfisa, tanto fero,
che
si diè fine alla crudel tenzone.
Marfisa,
giunta al re, con viso altiero
disse:
- Io non so, signor, con che ragione
vogli
quest'arme dar, che tue non sono,
al
vincitor de le tue giostre in dono.
Mie
sono l'arme, e 'n mezzo de la via
che
vien d'Armenia, un giorno le lasciai,
perché
seguire a piè mi convenia
un
rubator che m'avea offesa assai:
e
la mia insegna testimon ne fia,
che
qui si vede, se notizia n'hai. -
E
la mostrò ne la corazza impressa,
che
era in tre parti una corona fessa.
-
Gli è ver (rispose il re) che mi fur date,
son
pochi dì, da un mercatante armeno;
e
se voi me l'avesse domandate,
l'avreste
avute, o vostre o no che sièno;
che
avenga che a Grifon già l'ho donate,
ho
tanta fede in lui, che nondimeno,
acciò
a voi darle avessi anche potuto,
volentieri
il mio don m'avria renduto.
Non
bisogna allegar, per farmi fede
che
vostre sien, che tengan vostra insegna:
basti
il dirmelo voi; che vi si crede
più
che a qual altro testimonio vegna.
Che
vostre sian vostr'arme si concede
alla
virtù di maggior premio degna.
Or
ve l'abbiate, e più non si contenda;
e
Grifon maggior premio da me prenda. -
Grifon
che poco a cor avea quell'arme,
ma
gran disio che il re si satisfaccia,
gli
disse: - Assai potete compensarme,
se
mi fate saper che io vi compiaccia. -
Tra
sé disse Marfisa: - Esser qui parme
l'onor
mio in tutto: - e con benigna faccia
volle
a Grifon de l'arme esser cortese;
e
finalmente in don da lui le prese.
Ne
la città con pace e con amore
tornaro,
ove le feste raddoppiarsi.
Poi
la giostra si fe', di che l'onore
e
il pregio Sansonetto fece darsi;
che
Astolfo e i duo fratelli e la migliore
di
lor, Marfisa, non volson provarsi,
cercando,
com'amici e buon compagni,
che
Sansonetto il pregio ne guadagni.
Stati
che sono in gran piacere e in festa
con
Norandino otto giornate o diece,
perché
l'amor di Francia gli molesta,
che
lasciar senza lor tanto non lece,
tolgon
licenza; e Marfisa, che questa
via
disiava, compagnia lor fece.
Marfisa
avuto avea lungo disire
al
paragon dei paladin venire;
e
far esperienza se l'effetto
si
pareggiava a tanta nominanza.
Lascia
un altro in suo loco Sansonetto,
che
di Ierusalem regga la stanza.
Or
questi cinque in un drappello eletto,
che
pochi pari al mondo han di possanza,
licenziati
dal re Norandino,
vanno
a Tripoli e al mar che v'è vicino.
E
quivi una caracca ritrovaro,
che
per Ponente mercanzie raguna.
Per
loro e pei cavalli s'accordaro
con
un vecchio patron che era da Luna.
Mostrava
d'ogn'intorno il tempo chiaro,
che
avrian per molti dì buona fortuna.
Sciolser
dal lito, avendo aria serena,
e
di buon vento ogni lor vela piena.
L'isola
sacra all'amorosa dea
diede
lor sotto un'aria il primo porto,
che
non che a offender gli uomini sia rea,
ma
stempra il ferro, e quivi è il viver corto.
Cagion
n'è un stagno: e certo non dovea
Natura
a Famagosta far quel torto
d'appressarvi
Costanza acre e maligna,
quando
al resto di Cipro è sì benigna.
Il
grave odor che la palude esala
non
lascia al legno far troppo soggiorno.
Quindi
a un greco-levante spiegò ogni ala,
volando
da man destra a Cipro intorno,
e
surse a Pafo, e pose in terra scala;
e
i naviganti uscir nel lito adorno,
chi
per merce levar, chi per vedere
la
terra d'amor piena e di piacere.
Dal
mar sei miglia o sette, a poco a poco
si
va salendo inverso il colle ameno.
Mirti
e cedri e naranci e lauri il loco,
e
mille altri soavi arbori han pieno.
Serpillo
e persa e rose e gigli e croco
spargon
da l'odorifero terreno
tanta
suavità, che in mar sentire
la
fa ogni vento che da terra spire.
Da
limpida fontana tutta quella
piaggia
rigando va un ruscel fecondo.
Ben
si può dir che sia di Vener bella
il
luogo dilettevole e giocondo;
che
v'è ogni donna affatto, ogni donzella
piacevol
più che altrove sia nel mondo:
e
fa la dea che tutte ardon d'amore,
giovani
e vecchie, infino all'ultime ore.
Quivi
odono il medesimo che udito
di
Lucina e de l'Orco hanno in Soria,
e
come di tornare ella a marito
facea
nuovo apparecchio in Nicosia.
Quindi
il padrone (essendosi espedito,
e
spirando buon vento alla sua via)
l'ancore
sarpa, e fa girar la proda
verso
ponente, ed ogni vela snoda.
Al
vento di maestro alzò la nave
le
vele all'orza, ed allargossi in alto.
Un
ponente-libecchio, che soave
parve
a principio e fin che il sol stette alto,
e
poi si fe' verso la sera grave,
le
leva incontra il mar con fiero assalto,
con
tanti tuoni e tanto ardor di lampi,
che
par che il ciel si spezzi e tutto avampi.
Stendon
le nubi un tenebroso velo
che
né sole apparir lascia né stella.
Di
sotto il mar, di sopra mugge il cielo,
il
vento d'ogn'intorno, e la procella
che
di pioggia oscurissima e di gelo
i
naviganti miseri flagella:
e
la notte più sempre si diffonde
sopra
l'irate e formidabil onde.
I
naviganti a dimostrare effetto
vanno
de l'arte in che lodati sono:
chi
discorre fischiando col fraschetto,
e
quanto han gli altri a far, mostra col suono;
chi
l'ancore apparechia da rispetto,
e
chi al mainare e chi alla scotta è buono;
chi
il timone, chi l'arbore assicura,
chi
la coperta di sgombrare ha cura.
Crebbe
il tempo crudel tutta la notte,
caliginosa
e più scura che inferno.
Tien
per l'alto il padrone, ove men rotte
crede
l'onde trovar, dritto il governo;
e
volta ad or ad or contra le botte
del
mar la proda, e de l'orribil verno,
non
senza speme mai che, come aggiorni,
cessi
fortuna, o più placabil torni.
Non
cessa e non si placa, e più furore
mostra
nel giorno, se pur giorno è questo,
che
si conosce al numerar de l'ore,
non
che per lume già sia manifesto.
Or
con minor speranza e più timore
si
dà in poter del vento il padron mesto:
volta
la poppa all'onde, e il mar crudele
scorrendo
se ne va con umil vele.
Mentre
Fortuna in mar questi travaglia,
non
lascia anco posar quegli altri in terra,
che
sono in Francia, ove s'uccide e taglia
coi
Saracini il popul d'Inghilterra.
Quivi
Rinaldo assale, apre e sbaraglia
le
schiere avverse, e le bandiere atterra.
Dissi
di lui, che il suo destrier Baiardo
mosso
avea contra a Dardinel gagliardo.
Vide
Rinaldo il segno del quartiero,
di
che superbo era il figliuol d'Almonte;
e
lo stimò gagliardo e buon guerriero,
che
concorrer d'insegna ardia col conte.
Venne
più appresso, e gli parea più vero;
che
avea d'intorno uomini uccisi a monte.
-
Meglio è (gridò) che prima io svella e spenga
questo
mal germe, che maggior divenga. -
Dovunque
il viso drizza il paladino,
levasi
ognuno, e gli dà larga strada;
né
men sgombra il fedel, che il Saracino,
si
reverita è la famosa spada.
Rinaldo,
fuor che Dardinel meschino,
non
vede alcuno, e lui seguir non bada.
Grida:
- Fanciullo, gran briga ti diede
chi
ti lasciò di questo scudo erede.
Vengo
a te per provar, se tu m'attendi,
come
ben guardi il quartier rosso e bianco;
che
s'ora contra me non lo difendi,
difender
contra Orlando il potrai manco. -
Rispose
Dardinello: - Or chiaro apprendi
che
s'io lo porto, il so difender anco;
e
guadagnar più onor, che briga, posso
del
paterno quartier candido e rosso.
Perché
fanciullo io sia, non creder farme
però
fuggire, o che il quartier ti dia:
la
vita mi torrai, se mi toi l'arme;
ma
spero in Dio che anzi il contrario fia.
Sia
quel che vuol, non potrà alcun biasmarme
che
mai traligni alla progenie mia. -
Così
dicendo, con la spada in mano
assalse
il cavallier da Montalbano.
Un
timor freddo tutto il sangue oppresse,
che
gli Africani aveano intorno al core,
come
vider Rinaldo che si messe
con
tanta rabbia incontra a quel signore,
con
quanta andria un leon che al prato avesse
visto
un torel che ancor non senta amore.
Il
primo che ferì, fu il Saracino;
ma
picchiò invan su l'elmo di Mambrino.
Rise
Rinaldo, e disse: - Io vo' tu senta,
s'io
so meglio di te trovar la vena. -
Sprona,
e a un tempo al destrier la briglia allenta,
e
d'una punta con tal forza mena,
d'una
punta che al petto gli appresenta,
che
gli la fa apparir dietro alla schena.
Quella
trasse, al tornar, l'alma col sangue:
di
sella il corpo uscì freddo ed esangue.
Come
purpureo fior languendo muore,
che
il vomere al passar tagliato lassa;
o
come carco di superchio umore
il
papaver ne l'orto il capo abbassa:
così,
giù de la faccia ogni colore
cadendo,
Dardinel di vita passa;
passa
di vita, e fa passar con lui
l'ardire
e la virtù de tutti i sui.
Qual
soglion l'acque per umano ingegno
stare
ingorgate alcuna volta e chiuse,
che
quando lor vien poi rotto il sostegno,
cascano,
e van con gran rumor difuse;
tal
gli African, che avean qualche ritegno
mentre
virtù lor Dardinello infuse,
ne
vanno or sparti in questa parte e in quella,
che
l'han veduto uscir morto di sella.
Chi
vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa,
ed
attende a cacciar chi vuol star saldo.
Si
cade ovunque Ariodante passa,
che
molto va quel dì presso a Rinaldo.
Altri
Lionetto, altri Zerbin fracassa,
a
gara ognuno a far gran prove caldo.
Carlo
fa il suo dover, lo fa Oliviero,
Turpino
e Guido e Salamone e Ugiero.
I
Mori fur quel giorno in gran periglio
che
'n Pagania non ne tornasse testa;
ma
il saggio re di Spagna dà di piglio,
e
se ne va con quel che in man gli resta.
Restar
in danno tien miglior consiglio,
che
tutti i denar perdere e la vesta:
meglio
è ritrarsi e salvar qualche schiera,
che,
stando, esser cagion che il tutto pèra.
Verso
gli alloggiamenti i segni invia,
che
eron serrati d'argine e di fossa,
con
Stordilan, col re d'Andologia,
col
Portughese in una squadra grossa.
Manda
a pregar il re di Barbaria,
che
si cerchi ritrar meglio che possa;
e
se quel giorno la persona e il loco
potrà
salvar, non avrà fatto poco.
Quel
re che si tenea spacciato al tutto,
né
mai credea più riveder Biserta,
che
con viso sì orribile e sì brutto
unquanco
non avea Fortuna esperta,
s'allegrò
che Marsilio avea ridutto
parte
del campo in sicurezza certa:
ed
a ritrarsi cominciò, e a dar volta
alle
bandiere, e fe' sonar raccolta.
Ma
la più parte de la gente rotta
né
tromba né tambur né segno ascolta:
tanta
fu la viltà, tanta la dotta,
che
in Senna se ne vide affogar molta.
Il
re Agramante vuol ridur la frotta:
seco
ha Sobrino, e van scorrendo in volta;
e
con lor s'affatica ogni buon duca,
che
nei ripari il campo si riduca.
Ma
né il re, né Sobrin, né duca alcuno
con
prieghi, con minacce, con affanno
ritrar
può il terzo, non che io dica ognuno,
dove
l'insegne mal seguite vanno.
Morti
o fuggiti ne son dua, per uno
che
ne rimane, e quel non senza danno:
ferito
è chi di dietro e chi davanti;
ma
travagliati e lassi tutti quanti.
E
con gran tema fin dentro alle porte
dei
forti alloggiamenti ebbon la caccia:
ed
era lor quel luogo anco mal forte,
con
ogni proveder che vi si faccia
(che
ben pigliar nel crin la buona sorte
Carlo
sapea, quando volgea la faccia),
se
non venia la notte tenebrosa,
che
staccò il fatto, ed acquetò ogni cosa;
dal
Creator accelerata forse,
che
de la sua fattura ebbe pietade.
Ondeggiò
il sangue per campagna, e corse
come
un gran fiume, e dilagò le strade.
Ottantamila
corpi numerorse,
che
fur quel dì messi per fil di spade.
Villani
e lupi uscir poi de le grotte
a
dispogliargli e a devorar la notte.
Carlo
non torna più dentro alla terra,
ma
contra gli nimici fuor s'accampa,
ed
in assedio le lor tende serra,
ed
alti e spessi fuochi intorno avampa.
Il
pagan si provede, e cava terra,
fossi
e ripari e bastioni stampa;
va
rivedendo, e tien le guardie deste,
né
tutta notte mai l'arme si sveste.
Tutta
la notte per gli alloggiamenti
dei
malsicuri Saracini oppressi
si
versan pianti, gemiti e lamenti,
ma
quanto più si può, cheti e soppressi.
Altri,
perché gli amici hanno e i parenti
lasciati
morti, ed altri per se stessi,
che
son feriti, e con disagio stanno:
ma
più è la tema del futuro danno.
Duo
Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d'oscura
stirpe nati in Tolomitta;
de'
quai l'istoria, per esempio raro
di
vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano
e Medor si nominaro,
che
alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano
sempre amato Dardinello,
ed
or passato in Francia il mar con quello.
Cloridan,
cacciator tutta sua vita,
di
robusta persona era ed isnella:
Medoro
avea la guancia colorita
e
bianca e grata ne la età novella;
e
fra la gente a quella impresa uscita
non
era faccia più gioconda e bella:
occhi
avea neri, e chioma crespa d'oro:
angel
parea di quei del sommo coro.
Erano
questi duo sopra i ripari
con
molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando
la Notte fra distanze pari
mirava
il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro
quivi in tutti i suoi parlari
non
può far che il signor suo non rammenti,
Dardinello
d'Almonte, e che non piagna
che
resti senza onor ne la campagna.
Volto
al cornpagno, disse: - O Cloridano,
io
non ti posso dir quanto m'incresca
del
mio signor, che sia rimaso al piano,
per
lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando
come sempre mi fu umano,
mi
par che quando ancor questa anima esca
in
onor di sua fama, io non compensi
né
sciolga verso lui gli oblighi immensi.
Io
voglio andar, perché non stia insepulto
in
mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e
forse Dio vorrà che io vada occulto
là
dove tace il campo del re Carlo.
Tu
rimarrai; che quando in ciel sia sculto
che
io vi debba morir, potrai narrarlo:
che
se Fortuna vieta sì bell'opra,
per
fama almeno il mio buon cor si scuopra. -
Stupisce
Cloridan, che tanto core,
tanto
amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e
cerca assai, perché gli porta amore,
di
fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma
non gli val, perche un sì gran dolore
non
riceve conforto né trastullo.
Medoro
era disposto o di morire,
o
ne la tomba il suo signor coprire.
Veduto
che nol piega e che nol muove,
Cloridan
gli risponde: - E verrò anche io,
anche
io vuo' pormi a sì lodevol pruove,
anche
io famosa morte amo e disio.
Qual
cosa sarà mai che più mi giove,
s'io
resto senza te, Medoro mio?
Morir
teco con l'arme è meglio molto,
che
poi di duol, s'avvien che mi sii tolto. -
Così
disposti, messero in quel loco
le
successive guardie, e se ne vanno.
Lascian
fosse e steccati, e dopo poco
tra'
nostri son, che senza cura stanno.
Il
campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché
dei Saracin poca tema hanno.
Tra
l'arme e' carriaggi stan roversi,
nel
vin, nel sonno insino agli occhi immersi.
Fermossi
alquanto Cloridano, e disse:
-
Non son mai da lasciar l'occasioni.
Di
questo stuol che il mio signor trafisse,
non
debbo far, Medoro, occisioni?
Tu,
perché sopra alcun non ci venisse,
gli
occhi e l'orecchi in ogni parte poni;
che
io m'offerisco farti con la spada
tra
gli nimici spaziosa strada. -
Così
disse egli, e tosto il parlar tenne,
ed
entrò dove il dotto Alfeo dormia,
che
l'anno inanzi in corte a Carlo venne,
medico
e mago e pien d'astrologia:
ma
poco a questa volta gli sovenne;
anzi
gli disse in tutto la bugia.
Predetto
egli s'avea, che d'anni pieno
dovea
morire alla sua moglie in seno:
ed
or gli ha messo il cauto Saracino
la
punta de la spada ne la gola.
Quattro
altri uccide appresso all'indovino,
che
non han tempo a dire una parola:
menzion
dei nomi lor non fa Turpino,
e
il lungo andar le lor notizie invola:
dopo
essi Palidon da Moncalieri,
che
sicuro dormia fra duo destrieri.
Poi
se ne vien dove col capo giace
appoggiato
al barile il miser Grillo:
avealo
voto, e avea creduto in pace
godersi
un sonno placido e tranquillo.
Troncògli
il capo il Saracino audace:
esce
col sangue il vin per uno spillo,
di
che n'ha in corpo più d'una bigoncia;
e
di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.
E
presso a Grillo, un Greco ed un Tedesco
spenge
in dui colpi, Andropono e Conrado.
che
de la notte avean goduto al fresco
gran
parte, or con la tazza, ora col dado:
felici,
se vegghiar sapeano a desco
fin
che de l'Indo il sol passassi il guado.
Ma
non potria negli uomini il destino,
se
del futuro ognun fosse indovino.
Come
impasto leone in stalla piena,
che
lunga fame abbia smacrato e asciutto,
uccide,
scanna, mangia, a strazio mena
l'infermo
gregge in sua balìa condutto;
così
il crudel pagan nel sonno svena
la
nostra gente, e fa macel per tutto.
La
spada di Medoro anco non ebe;
ma
si sdegna ferir l'ignobil plebe.
Venuto
era ove il duca di Labretto
con
una dama sua dormia abbracciato;
e
l'un con l'altro si tenea sì stretto,
che
non saria tra lor l'aere entrato.
Medoro
ad ambi taglia il capo netto.
Oh
felice morire! oh dolce fato!
che
come erano i corpi, ho così fede
che
andar l'alme abbracciate alla lor sede.
Malindo
uccise e Ardalico il fratello,
che
del conte di Fiandra erano figli;
e
l'uno e l'altro cavallier novello
fatto
avea Carlo, e aggiunto all'arme i gigli,
perché
il giorno amendui d'ostil macello
con
gli stocchi tornar vide vermigli:
e
terre in Frisa avea promesso loro,
e
date avria; ma lo vietò Medoro.
Gli
insidiosi ferri eran vicini
ai
padiglioni che tiraro in volta
al
padiglion di Carlo i paladini,
facendo
ognun la guardia la sua volta;
quando
da l'empia strage i Saracini
trasson
le spade, e diero a tempo volta;
che
impossibil lor par, tra sì gran torma,
che
non s'abbia a trovar un che non dorma.
E
ben che possan gir di preda carchi,
salvin
pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove
più creda aver sicuri i varchi
va
Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon
nel campo, ove fra spade ed archi
e
scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion
poveri e ricchi, e re e vassalli,
e
sozzopra con gli uomini i cavalli.
Quivi
dei corpi l'orrida mistura,
che
piena avea la gran campagna intorno,
potea
far vaneggiar la fedel cura
dei
duo compagni insino al far del giorno,
se
non traea fuor d'una nube oscura,
a'
prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro
in ciel divotamente fisse
verso
la Luna gli occhi, e così disse:
-
O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente
sei detta triforme;
che
in cielo, in terra e ne l'inferno mostri
l'alta
bellezza tua sotto più forme,
e
ne le selve, di fere e di mostri
vai
cacciatrice seguitando l'orme;
mostrami
ove il mio re giaccia fra tanti,
che
vivendo imitò tuoi studi santi. -
La
luna a quel pregar la nube aperse
(o
fosse caso o pur la tanta fede),
bella
come fu allor che ella s'offerse,
e
nuda in braccio a Endimion si diede.
Con
Parigi a quel lume si scoperse
l'un
campo e l'altro; e il monte e il pian si vede:
si
videro i duo colli di lontano,
Martire
a destra, e Lerì all'altra mano,
Rifulse
lo splendor molto più chiaro
ove
d'Almonte giacea morto il figlio.
Medoro
andò, piangendo, al signor caro;
che
conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e
tutto il viso gli bagnò d'amaro
pianto,
che n'avea un rio sotto ogni ciglio,
in
sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che
potea ad ascoltar fermare i venti.
Ma
con sommessa voce e a pena udita;
non
che riguardi a non si far sentire,
perche
abbia alcun pensier de la sua vita,
più
tosto l'odia, e ne vorrebbe uscire:
ma
per timor che non gli sia impedita
l'opera
pia che quivi il fe' venire.
Fu
il morto re sugli omeri sospeso
di
tramendui, tra lor partendo il peso.
Vanno
affrettando i passi quanto ponno,
sotto
l'amata soma che gli ingombra.
E
già venìa chi de la luce è donno
le
stelle a tor del ciel, di terra l'ombra;
quando
Zerbino, a cui del petto il sonno
l'alta
virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato
avendo tutta notte i Mori,
al
campo si traea nei primi albori.
E
seco alquanti cavallieri avea,
che
videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno
a quella parte si traea,
sperandovi
trovar prede e guadagni.
-
Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar
la soma, e dare opra ai calcagni;
che
sarebbe pensier non troppo accorto,
perder
duo vivi per salvar un morto. -
E
gittò il carco, perché si pensava
che
il suo Medoro il simil far dovesse:
ma
quel meschin, che il suo signor più amava,
sopra
le spalle sue tutto lo resse.
L'altro
con molta fretta se n'andava,
come
l'amico a paro o dietro avesse:
se
sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille
aspettate avria, non che una morte.
Quei
cavallier, con animo disposto
che
questi a render s'abbino o a morire,
chi
qua chi là si spargono, ed han tosto
preso
ogni passo onde si possa uscire.
Da
loro il capitan poco discosto,
più
degli altri è sollicito a seguire;
che
in tal guisa vedendoli temere,
certo
è che sian de le nimiche schiere.
Era
a quel tempo ivi una selva antica,
d'ombrose
piante spessa e di virgulti,
che,
come labirinto, entro s'intrica
di
stretti calli e sol da bestie culti.
Speran
d'averla i duo pagan sì amica,
che
abbi a tenerli entro a' suoi rami occulti.
Ma
chi del canto mio piglia diletto,
un'altra
volta ad ascoltarlo aspetto.
CANTO
DICIANNOVESIMO.
Alcun
non può saper da chi sia amato,
quando
felice in su la ruota siede:
però
c'ha i veri e i finti amici a lato,
che
mostran tutti una medesma fede.
Se
poi si cangia in tristo il lieto stato,
volta
la turba adulatrice il piede;
e
quel che di cor ama riman forte,
ed
ama il suo signor dopo la morte.
Se,
come il viso, si mostrasse il core,
tal
ne la corte è grande e gli altri preme,
e
tal è in poca grazia al suo signore,
che
la lor sorte muteriano insieme.
Questo
umil diverria tosto il maggiore:
staria
quel grande infra le turbe estreme.
Ma
torniamo a Medor fedele e grato,
che
'n vita e in morte ha il suo signore amato.
Cercando
già nel più intricato calle
il
giovine infelice di salvarsi;
ma
il grave peso che avea su le spalle,
gli
facea uscir tutti i partiti scarsi.
Non
conosce il paese, e la via falle,
e
torna fra le spine a invilupparsi.
Lungi
da lui tratto al sicuro s'era
l'altro,
che avea la spalla più leggiera.
Cloridan
s'è ridutto ove non sente
di
chi segue lo strepito e il rumore:
ma
quando da Medor si vede assente,
gli
pare aver lasciato a dietro il core.
-
Deh, come fui (dicea) sì negligente,
deh,
come fui sì di me stesso fuore,
che
senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né
sappia quando o dove io ti lasciassi! -
Così
dicendo, ne la torta via
de
l'intricata selva si ricaccia;
ed
onde era venuto si ravvia,
e
torna di sua morte in su la traccia.
Ode
i cavalli e i gridi tuttavia,
e
la nimica voce che minaccia:
all'
ultimo ode il suo Medoro, e vede
che
tra molti a cavallo è solo a piede.
Cento
a cavallo, e gli son tutti intorno:
Zerbin
commanda e grida che sia preso.
L'infelice
s'aggira com'un torno,
e
quanto può si tien da lor difeso,
or
dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
né
si discosta mai dal caro peso.
L'ha
riposato al fin su l'erba, quando
regger
nol puote, e gli va intorno errando:
come
orsa, che l'alpestre cacciatore
ne
la pietrosa tana assalita abbia,
sta
sopra i figli con incerto core,
e
freme in suono di pietà e di rabbia:
ira
la 'nvita e natural furore
a
spiegar l'ugne e a insanguinar le labbia;
amor
la 'ntenerisce, e la ritira
a
riguardare ai figli in mezzo l'ira.
Cloridan,
che non sa come l'aiuti,
e
che esser vuole a morir seco ancora,
ma
non che in morte prima il viver muti,
che
via non truovi ove più d'un ne mora;
mette
su l'arco un de' suoi strali acuti,
e
nascoso con quel sì ben lavora,
che
fora ad uno Scotto le cervella,
e
senza vita il fa cader di sella.
Volgonsi
tutti gli altri a quella banda
ond'era
uscito il calamo omicida.
Intanto
un altro il Saracin ne manda,
perché
il secondo a lato al primo uccida;
che
mentre in fretta a questo e a quel domanda
chi
tirato abbia l'arco, e forte grida,
lo
strale arriva e gli passa la gola,
e
gli taglia pel mezzo la parola.
Or
Zerbin, che era il capitano loro,
non
poté a questo aver più pazienza.
Con
ira e con furor venne a Medoro,
dicendo:
- Ne farai tu penitenza. -
Stese
la mano in quella chioma d'oro,
e
strascinollo a sé con violenza:
ma
come gli occhi a quel bel volto mise,
gli
ne venne pietade, e non l'uccise.
Il
giovinetto si rivolse a' prieghi,
e
disse: - Cavallier, per lo tuo Dio,
non
esser sì crudel, che tu mi nieghi
che
io sepelisca il corpo del re mio.
Non
vo' che altra pietà per me ti pieghi,
né
pensi che di vita abbi disio:
ho
tanta di mia vita, e non più, cura,
quanta
che al mio signor dia sepultura.
E
se pur pascer vòi fiere ed augelli,
che
'n te il furor sia del teban Creonte,
fa
lor convito di miei membri, e quelli
sepelir
lascia del figliuol d'Almonte. -
Così
dicea Medor con modi belli,
e
con parole atte a voltare un monte;
e
sì commosso già Zerbino avea,
che
d'amor tutto e di pietade ardea.
In
questo mezzo un cavallier villano,
avendo
al suo signor poco rispetto,
ferì
con una lancia sopra mano
al
supplicante il delicato petto.
Spiacque
a Zerbin l'atto crudele e strano;
tanto
più, che del colpo il giovinetto
vide
cader sì sbigottito e smorto,
che
'n tutto giudicò che fosse morto.
E
se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che
disse: - Invendicato già non fia! -
e
pien di mal talento si rivolse
al
cavallier che fe' l'impresa ria:
ma
quel prese vantaggio, e se gli tolse
dinanzi
in un momento, e fuggì via.
Cloridan,
che Medor vede per terra,
salta
del bosco a discoperta guerra.
E
getta l'arco, e tutto pien di rabbia
tra
gli nimici il ferro intorno gira,
più
per morir, che per pensier che egli abbia
di
far vendetta che pareggi l'ira.
Del
proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra
tante spade, e al fin venir si mira;
e
tolto che si sente ogni potere,
si
lascia a canto al suo Medor cadere.
Seguon
gli Scotti ove la guida loro
per
l'alta selva alto disdegno mena,
poi
che lasciato ha l'uno e l'altro Moro,
l'un
morto in tutto, e l'altro vivo a pena.
Giacque
gran pezzo il giovine Medoro,
spicciando
il sangue da sì larga vena,
che
di sua vita al fin saria venuto,
se
non sopravenia chi gli diè aiuto.
Gli
sopravenne a caso una donzella,
avolta
in pastorale ed umil veste,
ma
di real presenza e in viso bella,
d'alte
maniere e accortamente oneste.
Tanto
è che io non ne dissi più novella,
che
a pena riconoscer la dovreste:
questa,
se non sapete, Angelica era,
del
gran Can del Catai la figlia altiera.
Poi
che il suo annello Angelica riebbe,
di
che Brunel l'avea tenuta priva,
in
tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe,
che
esser parea di tutto il mondo schiva.
Se
ne va sola, e non si degnerebbe
compagno
aver qual più famoso viva:
si
sdegna a rimembrar che già suo amante
abbia
Orlando nomato, o Sacripante.
E
sopra ogn'altro error via più pentita
era
del ben che già a Rinaldo volse,
troppo
parendole essersi avilita,
che
a riguardar sì basso gli occhi volse.
Tant'arroganza
avendo Amor sentita,
più
lungamente comportar non volse:
dove
giacea Medor, si pose al varco,
e
l'aspettò, posto lo strale all'arco.
Quando
Angelica vide il giovinetto
languir
ferito, assai vicino a morte,
che
del suo re che giacea senza tetto,
più
che del proprio mal si dolea forte;
insolita
pietade in mezzo al petto
si
sentì entrar per disusate porte,
che
le fe' il duro cor tenero e molle,
e
più, quando il suo caso egli narrolle.
E
rivocando alla memoria l'arte
che
in India imparò già di chirugia
(che
par che questo studio in quella parte
nobile
e degno e di gran laude sia;
e
senza molto rivoltar di carte,
che
il patre ai figli ereditario il dia),
si
dispose operar con succo d'erbe,
che
a più matura vita lo riserbe.
E
ricordossi che passando avea
veduta
un'erba in una piaggia amena;
fosse
dittamo, o fosse panacea,
o
non so qual, di tal effetto piena,
che
stagna il sangue, e de la piaga rea
leva
ogni spasmo e perigliosa pena.
La
trovò non lontana, e quella colta,
dove
lasciato avea Medor, diè volta.
Nel
ritornar s'incontra in un pastore
che
a cavallo pel bosco ne veniva,
cercando
una iuvenca, che già fuore
duo
dì di mandra e senza guardia giva.
Seco
lo trasse ove perdea il vigore
Medor
col sangue che del petto usciva;
e
già n'avea di tanto il terren tinto,
che
era omai presso a rimanere estinto.
Del
palafreno Angelica giù scese,
e
scendere il pastor seco fece anche.
Pestò
con sassi l'erba, indi la prese,
e
succo ne cavò fra le man bianche;
ne
la piaga n'infuse, e ne distese
e
pel petto e pel ventre e fin a l'anche:
e
fu di tal virtù questo liquore,
che
stagnò il sangue, e gli tornò il vigore;
e
gli diè forza, che poté salire
sopra
il cavallo che il pastor condusse.
Non
però volse indi Medor partire
prima
che in terra il suo signor non fusse.
E
Cloridan col re fe' sepelire;
e
poi dove a lei piacque si ridusse.
Ed
ella per pietà ne l'umil case
del
cortese pastor seco rimase.
Né
fin che nol tornasse in sanitade,
volea
partir: così di lui fe' stima,
tanto
se intenerì de la pietade
che
n'ebbe, come in terra il vide prima.
Poi
vistone i costumi e la beltade,
roder
si sentì il cor d'ascosa lima;
roder
si sentì il core, e a poco a poco
tutto
infiammato d'amoroso fuoco.
Stava
il pastore in assai buona e bella
stanza,
nel bosco infra duo monti piatta,
con
la moglie e coi figli; ed avea quella
tutta
di nuovo e poco inanzi fatta.
Quivi
a Medoro fu per la donzella
la
piaga in breve a sanità ritratta:
ma
in minor tempo si sentì maggiore
piaga
di questa avere ella nel core.
Assai
più larga piaga e più profonda
nel
cor sentì da non veduto strale,
che
da' begli occhi e da la testa bionda
di
Medoro aventò l'Arcier c'ha l'ale.
Arder
si sente, e sempre il fuoco abonda;
e
più cura l'altrui che il proprio male:
di
sé non cura, e non è ad altro intenta,
che
a risanar chi lei fere e tormenta.
La
sua piaga più s'apre e più incrudisce,
quanto
più l'altra si ristringe e salda.
Il
giovine si sana: ella languisce
di
nuova febbre, or agghiacciata, or calda.
Di
giorno in giorno in lui beltà fiorisce:
la
misera si strugge, come falda
strugger
di nieve intempestiva suole,
che
in loco aprico abbia scoperta il sole.
Se
di disio non vuol morir, bisogna
che
senza indugio ella se stessa aiti:
e
ben le par che di quel che essa agogna,
non
sia tempo aspettar che altri la 'nviti.
Dunque,
rotto ogni freno di vergogna,
la
lingua ebbe non men che gli occhi arditi:
e
di quel colpo domandò mercede,
che,
forse non sapendo, esso le diede.
O
conte Orlando, o re di Circassia,
vostra
inclita virtù, dite, che giova?
Vostro
alto onor dite in che prezzo sia,
o
che mercé vostro servir ritruova.
Mostratemi
una sola cortesia
che
mai costei v'usasse, o vecchia o nuova,
per
ricompensa e guidardone e merto
di
quanto avete già per lei sofferto.
Oh
se potessi ritornar mai vivo,
quanto
ti parria duro, o re Agricane!
che
già mostrò costei sì averti a schivo
con
repulse crudeli ed inumane.
O
Ferraù, o mille altri che io non scrivo,
che
avete fatto mille pruove vane
per
questa ingrata, quanto aspro vi fôra,
s'a
costu' in braccio voi la vedesse ora!
Angelica
a Medor la prima rosa
coglier
lasciò, non ancor tocca inante:
né
persona fu mai sì aventurosa,
che
in quel giardin potesse por le piante.
Per
adombrar, per onestar la cosa,
si
celebrò con cerimonie sante
il
matrimonio, che auspice ebbe Amore,
e
pronuba la moglie del pastore.
Fersi
le nozze sotto all'umil tetto
le
più solenni che vi potean farsi;
e
più d'un mese poi stero a diletto
i
duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Più
lunge non vedea del giovinetto
la
donna, né di lui potea saziarsi;
né,
per mai sempre pendergli dal collo,
il
suo disir sentia di lui satollo.
Se
stava all'ombra o se del tetto usciva,
avea
dì e notte il bel giovine a lato:
matino
e sera or questa or quella riva
cercando
andava, o qualche verde prato:
nel
mezzo giorno un antro li copriva,
forse
non men di quel commodo e grato,
che
ebber, fuggendo l'acque, Enea e Dido,
de'
lor secreti testimonio fido.
Fra
piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse
ombrare o fonte o rivo puro,
v'avea
spillo o coltel subito fitto;
così,
se v'era alcun sasso men duro:
ed
era fuori in mille luoghi scritto,
e
così in casa in altritanti il muro,
Angelica
e Medoro, in vari modi
legati
insieme di diversi nodi.
Poi
che le parve aver fatto soggiorno
quivi
più che a bastanza, fe' disegno
di
fare in India del Catai ritorno,
e
Medor coronar del suo bel regno.
Portava
al braccio un cerchio d'oro, adorno
di
ricche gemme, in testimonio e segno
del
ben che il conte Orlando le volea;
e
portato gran tempo ve l'avea.
Quel
donò già Morgana a Ziliante,
nel
tempo che nel lago ascoso il tenne;
ed
esso, poi che al padre Monodante,
per
opra e per virtù d'Orlando venne,
lo
diede a Orlando: Orlando che era amante,
di
porsi al braccio il cerchio d'or sostenne,
avendo
disegnato di donarlo
alla
regina sua di che io vi parlo.
Non
per amor del paladino, quanto
perche
era ricco e d'artificio egregio,
caro
avuto l'avea la donna tanto,
che
più non si può aver cosa di pregio.
Se
lo serbò ne l'Isola del pianto,
non
so già dirvi con che privilegio,
là
dove esposta al marin mostro nuda
fu
da la gente inospitale e cruda.
Quivi
non si trovando altra mercede
che
al buon pastor ed alla moglie dessi,
che
serviti gli avea con sì gran fede
dal
dì che nel suo albergo si fur messi,
levò
dal braccio il cerchio e gli lo diede,
e
volse per suo amor che lo tenessi.
Indi
saliron verso la montagna
che
divide la Francia da la Spagna.
Dentro
a Valenza o dentro a Barcellona
per
qualche giorno avea pensato porsi,
fin
che accadesse alcuna nave buona
che
per Levante apparecchiasse a sciorsi.
Videro
il mar scoprir sotto a Girona
ne
lo smontar giù dei montani dorsi;
e
costeggiando a man sinistra il lito,
a
Barcellona andar pel camin trito.
Ma
non vi giunser prima, che un uom pazzo
giacer
trovato in su l'estreme arene,
che,
come porco, di loto e di guazzo
tutto
era brutto e volto e petto e schene.
Costui
si scagliò lor come cagnazzo
che
assalir forestier subito viene;
e
diè lor noia, e fu per far lor scorno.
Ma
di Marfisa a ricontarvi torno.
Di
Marfisa, d'Astolfo, d' Aquilante,
di
Grifone e degli altri io vi vuo' dire,
che
travagliati, e con la morte inante,
mal
si poteano incontra il mar schermire:
che
sempre più superba e più arrogante
crescea
fortuna le minacce e l'ire;
e
già durato era tre dì lo sdegno,
né
di placarsi ancor mostrava segno.
Castello
e ballador spezza e fracassa
l'onda
nimica e il vento ognor più fiero:
se
parte ritta il verno pur ne lassa,
la
taglia e dona al mar tutta il nocchiero.
Chi
sta col capo chino in una cassa
su
la carta appuntando il suo sentiero
a
lume di lanterna piccolina,
e
chi col torchio giù ne la sentina.
Un
sotto poppe, un altro sotto prora
si
tiene inanzi l'oriuol da polve:
e
torna a rivedere ogni mezz'ora
quanto
è già corso, ed a che via si volve:
indi
ciascun con la sua carta fuora
a
mezza nave il suo parer risolve,
là
dove a un tempo i marinari tutti
sono
a consiglio dal padron ridutti.
Chi
dice: - Sopra Linmissò venuti
siamo,
per quel che io trovo, alle seccagne; -
chi:
- Di Tripoli appresso i sassi acuti,
dove
il mar le più volte i legni fragne; -
chi
dice: - Siamo in Satalia perduti,
per
cui più d'un nocchier sospira e piagne. -
Ciascun
secondo il parer suo argomenta,
ma
tutti ugual timor preme e sgomenta.
Il
terzo giorno con maggior dispetto
gli
assale il vento, e il mar più irato freme;
e
l'un ne spezza e portane il trinchetto,
e
il timon l'altro, e chi lo volge insieme.
Ben
è di forte e di marmoreo petto
e
più duro che acciar, che ora non teme.
Marfisa,
che già fu tanto sicura,
non
negò che quel giorno ebbe paura.
Al
monte Sinaì fu peregrino,
a
Gallizia promesso, a Cipro, a Roma,
al
Sepolcro, alla Vergine d'Ettino,
e
se celebre luogo altro si noma.
Sul
mare intanto, e spesso al ciel vicino
l'afflitto
e conquassato legno toma,
di
cui per men travaglio avea il padrone
fatto
l'arbor tagliar de l'artimone.
E
colli e casse e ciò che v'è di grave
gitta
da prora e da poppe e da sponde;
e
fa tutte sgombrar camere e giave,
e
dar le ricche merci all'avide onde.
Altri
attende alle trombe, e a tor di nave
l'acque
importune, e il mar nel mar rifonde;
soccorre
altri in sentina, ovunque appare
legno
da legno aver sdrucito il mare.
Stero
in questo travaglio, in questa pena
ben
quattro giorni, e non avean più schermo;
e
n'avria avuto il mar vittoria piena,
poco
più che il furor tenesse fermo:
ma
diede speme lor d'aria serena
la
disiata luce di santo Ermo,
che
in prua s'una cocchina a por si venne;
che
più non v'erano arbori né antenne.
Veduto
fiammeggiar la bella face,
s'inginocchiaro
tutti i naviganti,
e
domandaro il mar tranquillo e pace
con
umidi occhi e con voci tremanti.
La
tempesta crudel, che pertinace
fu
sin allora, non andò più inanti:
Maestro
e Traversia più non molesta,
e
sol del mar tiràn Libecchio resta.
Questo
resta sul mar tanto possente,
e
da la negra bocca in modo esala,
ed
è con lui sì il rapido corrente
de
l'agitato mar che in fretta cala,
che
porta il legno più velocemente,
che
pelegrin falcon mai facesse ala,
con
timor del nocchier che al fin del mondo
non
lo trasporti, o rompa, o cacci al fondo.
Rimedio
a questo il buon nocchier ritruova,
che
commanda gittar per poppa spere,
e
caluma la gomona, e fa pruova
di
duo terzi del corso ritenere.
Questo
consiglio, e più l'augurio giova
di
chi avea acceso in proda le lumiere:
questo
il legno salvò che peria forse,
e
fe' che in alto mar sicuro corse.
Nel
golfo di Laiazzo invêr Soria
sopra
una gran città si trovò sorto,
e
sì vicino al lito, che scopria
l'uno
e l'altro castel che serra il porto.
Come
il padron s'accorse de la via
che
fatto avea, ritornò in viso smorto;
che
né porto pigliar quivi volea,
né
stare in alto, né fuggir potea.
Né
potea stare in alto, né fuggire,
che
gli arbori e l'antenne avea perdute:
eran
tavole e travi pel ferire
del
mar, sdrucite, macere e sbattute.
E
il pigliar porto era un voler morire,
o
perpetuo legarsi in servitute;
che
riman serva ogni persona, o morta,
che
quivi errore o ria fortuna porta.
E
il stare in dubbio era con gran periglio
che
non salisser genti de la terra
con
legni armati, e al suo desson di piglio,
mal
atto a star sul mar, non che a far guerra.
Mentre
il padron non sa pigliar consiglio,
fu
domandato da quel d'Inghilterra,
chi
gli tenea sì l'animo suspeso,
e
perché già non avea il porto preso.
Il
padron narrò lui che quella riva
tutta
tenean le femine omicide,
di
quai l'antiqua legge ognun che arriva
in
perpetuo tien servo, o che l'uccide;
e
questa sorte solamente schiva
chi
nel campo dieci uomini conquide,
e
poi la notte può assaggiar nel letto
diece
donzelle con carnal diletto.
E
se la prima pruova gli vien fatta,
e
non fornisca la seconda poi,
egli
vien morto, e chi è con lui si tratta
da
zappatore o da guardian di buoi.
Se
di far l'uno e l'altro è persona atta,
impetra
libertade a tutti i suoi;
a
sé non già, c'ha da restar marito
di
diece donne, elette a suo appetito.
Non
poté udire Astolfo senza risa
de
la vicina terra il rito strano.
Sopravien
Sansonetto, e poi Marfisa,
indi
Aquilante, e seco il suo germano.
Il
padron parimente lor divisa
la
causa che dal porto il tien lontano:
-
Voglio (dicea) che inanzi il mar m'affoghi,
che
io senta mai di servitude i gioghi. -
Del
parer del padrone i marinari
e
tutti gli altri naviganti furo;
ma
Marfisa e' compagni eran contrari,
che,
più che l'acque, il lito avean sicuro.
Via
più il vedersi intorno irati i mari,
che
centomila spade, era lor duro.
Parea
lor questo e ciascun altro loco
dov'arme
usar potean, da temer poco.
Bramavano
i guerrier venire a proda,
ma
con maggior baldanza il duca inglese;
che
sa, come del corno il rumor s'oda,
sgombrar
d'intorno si farà il paese.
Pigliare
il porto l'una parte loda,
e
l'altra il biasma, e sono alle contese;
ma
la più forte in guisa il padron stringe,
che
al porto, suo malgrado, il legno spinge.
Già,
quando prima s'erano alla vista
de
la città crudel sul mar scoperti,
veduto
aveano una galea provista
di
molta ciurma e di nochieri esperti
venire
al dritto a ritrovar la trista
nave,
confusa di consigli incerti;
che,
l'alta prora alle sua poppe basse
legando,
fuor de l'empio mar la trasse.
Entrar
nel porto remorchiando, e a forza
di
remi più che per favor di vele;
però
che l'alternar di poggia e d'orza
avea
levato il vento lor crudele.
Intanto
ripigliar la dura scorza
i
cavallieri e il brando lor fedele;
ed
al padrone ed a ciascun che teme
non
cessan dar con lor conforti speme.
Fatto
è il porto a sembianza d'una luna,
e
gira più di quattro miglia intorno:
seicento
passi è in bocca, ed in ciascuna
parte
una rocca ha nel finir del corno.
Non
teme alcuno assalto di fortuna,
se
non quando gli vien dal mezzogiorno.
A
guisa di teatro se gli stende
la
città a cerco, e verso il poggio ascende.
Non
fu quivi sì tosto il legno sorto
(già
l'aviso era per tutta la terra),
che
fur seimila femine sul porto,
con
gli archi in mano, in abito di guerra;
e
per tor de la fuga ogni conforto,
tra
l'una rocca e l'altra il mar si serra:
da
navi e da catene fu rinchiuso,
che
tenean sempre istrutte a cotal uso.
Una
che d'anni alla Cumea d'Apollo
poté
uguagliarsi e alla madre d'Ettorre,
fe'
chiamare il padrone, e domandollo
se
si volean lasciar la vita torre,
o
se voleano pur al giogo il collo,
secondo
la costuma, sottoporre.
Degli
dua l'uno aveano a torre: o quivi
tutti
morire, o rimaner captivi.
-
Gli è ver (dicea) che s'uom si ritrovasse
tra
voi così animoso e così forte,
che
contra dieci nostri uomini osasse
prender
battaglia, e desse lor la morte,
e
far con diece femine bastasse
per
una notte ufficio di consorte;
egli
si rimarria principe nostro,
e
gir voi ne potreste al camin vostro.
E
sarà in vostro arbitrio il restar anco,
vogliate
o tutti o parte; ma con patto,
che
chi vorrà restare, e restar franco,
marito
sia per diece femine atto.
Ma
quando il guerrier vostro possa manco
dei
dieci che gli fian nimici a un tratto,
o
la seconda pruova non fornisca,
vogliàn
voi siate schiavi, egli perisca. -
Dove
la vecchia ritrovar timore
credea
nei cavallier, trovò baldanza;
che
ciascun si tenea tal feritore,
che
fornir l'uno e l'altro avea speranza:
ed
a Marfisa non mancava il core,
ben
che mal atta alla seconda danza;
ma
dove non l'aitasse la natura,
con
la spada supplir stava sicura.
Al
padron fu commessa la risposta,
prima
conchiusa per commun consiglio:
che
avean chi lor potria di sé a lor posta
ne
la piazza e nel letto far periglio.
Levan
l'offese, ed il nocchier s'accosta,
getta
la fune e le fa dar di piglio;
e
fa acconciare il ponte, onde i guerrieri
escono
armati, e tranno i lor destrieri.
E
quindi van per mezzo la cittade,
e
vi ritruovan le donzelle altiere,
succinte
cavalcar per le contrade,
ed
in piazza armeggiar come guerriere.
Né
calciar quivi spron, né cinger spade,
né
cosa d'arme puoi gli uomini avere,
se
non dieci alla volta, per rispetto
de
l'antiqua costuma che io v'ho detto.
Tutti
gli altri alla spola, all'aco, al fuso,
al
pettine ed all'aspo sono intenti,
con
vesti feminil che vanno giuso
insin
al piè, che gli fa molli e lenti.
Si
tengono in catena alcuni ad uso
d'arar
la terra o di guardar gli armenti.
Son
pochi i maschi, e non son ben, per mille
femine,
cento, fra cittadi e ville.
Volendo
tôrre i cavallieri a sorte
chi
di lor debba, per commune scampo
l'una
decina in piazza porre a morte,
e
poi l'altra ferir ne l'altro campo;
non
disegnavan di Marfisa forte,
stimando
che trovar dovesse inciampo
ne
la seconda giostra de la sera,
che
ad averne vittoria abil non era.
Ma
con gli altri esser volse ella sortita:
or
sopra lei la sorte in somma cade.
Ella
dicea: - Prima v'ho a por la vita,
che
v'abbiate a por voi la libertade;
ma
questa spada (e lor la spada addita,
che
cinta avea) vi do per securtade
che
io vi sciorrò tutti gli intrichi al modo
che
fe' Alessandro il gordiano nodo.
Non
vuo' mai più che forestier si lagni
di
questa terra, fin che il mondo dura. -
Così
disse; e non potero i compagni
torle
quel che le dava sua aventura.
Dunque,
o che in tutto perda, o lor guadagni
la
libertà, le lasciano la cura.
Ella
di piastre già guernita e maglia,
s'appresentò
nel campo alla battaglia.
Gira
una piazza al sommo de la terra,
di
gradi a seder atti intorno chiusa;
che
solamente a giostre, a simil guerra,
a
cacce, a lotte, e non ad altro s'usa:
quattro
porte ha di bronzo, onde si serra.
Quivi
la moltitudine confusa
de
l'armigere femine si trasse;
e
poi fu detto a Marfisa che entrasse.
Entrò
Marfisa s'un destrier leardo,
tutto
sparso di macchie e di rotelle,
di
piccol capo e d'animoso sguardo,
d'andar
superbo e di fattezze belle.
Pel
maggiore e più vago e più gagliardo,
di
mille che n'avea con briglie e selle,
scelse
in Damasco, e realmente ornollo,
ed
a Marfisa Norandin donollo.
Da
mezzogiorno e da la porta d'austro
entrò
Marfisa; e non vi stette guari,
che
appropinquare e risonar pel claustro
udì
di trombe acuti suoni e chiari:
e
vide poi di verso il freddo plaustro
entrar
nel campo i dieci suoi contrari.
Il
primo cavallier che apparve inante,
di
valer tutto il resto avea sembiante.
Quel
venne in piazza sopra un gran destriero,
che,
fuor che in fronte e nel piè dietro manco,
era,
più che mai corbo, oscuro e nero:
nel
piè e nel capo avea alcun pelo bianco.
Del
color del cavallo il cavalliero
vestito,
volea dir che, come manco
del
chiaro era l'oscuro, era altretanto
il
riso in lui verso l'oscuro pianto.
Dato
che fu de la battaglia il segno,
nove
guerrier l'aste chinaro a un tratto:
ma
quel dal nero ebbe il vantaggio a sdegno;
si
ritirò, né di giostrar fece atto.
Vuol
che alle leggi inanzi di quel regno,
che
alla sua cortesia, sia contrafatto.
Si
tra' da parte e sta a veder le pruove
che
una sola asta farà contra a nove.
Il
destrier, che avea andar trito e soave,
portò
all'incontro la donzella in fretta,
che
nel corso arrestò lancia sì grave,
che
quattro uomini avriano a pena retta.
L'avea
pur dianzi al dismontar di nave
per
la più salda in molte antenne eletta.
Il
fier sembiante con che ella si mosse,
mille
facce imbiancò, mille cor scosse.
Aperse
al primo che trovò sì il petto,
che
fôra assai che fosse stato nudo:
gli
passò la corazza e il soprapetto,
ma
prima un ben ferrato e grosso scudo.
Dietro
le spalle un braccio il ferro netto
si
vide uscir: tanto fu il colpo crudo.
Quel
fitto ne la lancia a dietro lassa,
e
sopra gli altri a tutta briglia passa.
E
diede d'urto a chi venìa secondo,
ed
a chi terzo sì terribil botta,
che
rotto ne la schiena uscir del mondo
fe'
l'uno e l'altro, e de la sella a un'otta;
sì
duro fu l'incontro e di tal pondo,
sì
stretta insieme ne venìa la frotta.
Ho
veduto bombarde a quella guisa
le
squadre aprir, che fe' lo stuol Marfisa.
Sopra
di lei più lance rotte furo;
ma
tanto a quelli colpi ella si mosse,
quanto
nel giuoco de le cacce un muro
si
muova a' colpi de le palle grosse.
L'usbergo
suo di tempra era sì duro,
che
non gli potean contra le percosse;
e
per incanto al fuoco de l'Inferno
cotto,
e temprato all'acque fu d'Averno.
Al
fin del campo il destrier tenne e volse,
e
fermò alquanto: e in fretta poi lo spinse
incontra
gli altri, e sbarragliolli e sciolse,
e
di lor sangue insin all'elsa tinse.
All'uno
il capo, all'altro il braccio tolse;
e
un altro in guisa con la spada cinse,
che
il petto in terra andò col capo ed ambe
le
braccia, e in sella il ventre era e le gambe.
Lo
partì, dico, per dritta misura,
de
le coste e de l'anche alle confine,
e
lo fe' rimaner mezza figura,
qual
dinanzi all'imagini divine,
poste
d'argento, e più di cera pura
son
da genti lontane e da vicine,
che
a ringraziarle e sciorre il voto vanno
de
le domande pie che ottenute hanno.
Ad
uno che fuggia, dietro si mise,
né
fu a mezzo la piazza, che lo giunse;
e
il capo e il collo in modo gli divise,
che
medico mai più non lo raggiunse.
In
somma tutti un dopo l'altro uccise,
o
ferì sì che ogni vigor n'emunse;
e
fu sicura che levar di terra
mai
più non si potrian per farle guerra.
Stato
era il cavallier sempre in un canto,
che
la decina in piazza avea condutta;
però
che contra un solo andar con tanto
vantaggio
opra gli parve iniqua e brutta.
Or
che per una man torsi da canto
vide
sì tosto la compagna tutta,
per
dimostrar che la tardanza fosse
cortesia
stata e non timor, si mosse.
Con
man fe' cenno di volere, inanti
che
facesse altro, alcuna cosa dire;
e
non pensando in sì viril sembianti
che
s'avesse una vergine a coprire,
le
disse; - Cavalliero, omai di tanti
esser
déi stanco, c'hai fatto morire;
e
s'io volessi, più di quel che sei,
stancarti
ancor, discortesia farei.
Che
ti risposi in sino al giorno nuovo,
e
doman torni in campo, ti concedo.
Non
mi fia onor se teco oggi mi pruovo,
che
travagliato e lasso esser ti credo. -
-
Il travagliare in arme non m'è nuovo,
né
per sì poco alla fatica cedo
(disse
Marfisa); e spero che a tuo costo
io
ti farò di questo aveder tosto.
De
la cortese offerta ti ringrazio,
ma
riposare ancor non mi bisogna;
e
ci avanza del giorno tanto spazio,
che
a porlo tutto in ozio è pur vergogna. -
Rispose
il cavallier: - Fuss'io sì sazio
d'ogn'altra
cosa che il mio core agogna,
come
t'ho in questo da saziar; ma vedi
che
non ti manchi il dì più che non credi. -
Così
disse egli, e fe' portare in fretta
due
grosse lance, anzi due gravi antenne;
ed
a Marfisa dar ne fe' l'eletta:
tolse
l'altra per sé, che indietro venne.
Già
sono in punto, ed altro non s'aspetta
che
un alto suon che lor la giostra accenne.
Ecco
la terra e l'aria e il mar rimbomba
nel
mover loro al primo suon di tromba.
Trar
fiato, bocca aprir, o battere occhi
non
si vedea de' riguardanti alcuno:
tanto
a mirare a chi la palma tocchi
dei
duo campioni, intento era ciascuno.
Marfisa,
acciò che de l'arcion trabocchi,
sì
che mai non si levi, il guerrier bruno,
drizza
la lancia; e il guerrier bruno forte
studia
non men di por Marfisa a morte.
Le
lance ambe di secco e suttil salce,
non
di cerro sembrar grosso ed acerbo,
così
n'andaro in tronchi fin al calce;
e
l'incontro ai destrier fu sì superbo,
che
parimente parve da una falce
de
le gambe esser lor tronco ogni nerbo.
Cadero
ambi ugualmente; ma i campioni
fur
presti a disbrigarsi dagli arcioni.
A
mille cavallieri alla sua vita
al
primo incontro avea la sella tolta
Marfisa,
ed ella mai non n'era uscita;
e
n'uscì, come udite, a questa volta.
Del
caso strano non pur sbigottita,
ma
quasi fu per rimanerne stolta.
Parve
anco strano al cavallier dal nero,
che
non solea cader già di leggiero.
Tocca
avean nel cader la terra a pena,
che
furo in piedi e rinovar l'assalto.
Tagli
e punte a furor quivi si mena,
quivi
ripara or scudo, or lama, or salto.
Vada
la botta vota o vada piena,
l'aria
ne stride e ne risuona in alto.
Quelli
elmi, quelli usberghi, quelli scudi
mostrar
che erano saldi più che incudi.
Se
de l'aspra donzella il braccio è grave,
né
quel del cavallier nimico è lieve.
Ben
la misura ugual l'un da l'altro have:
quanto
a punto l'un dà, tanto riceve.
Chi
vol due fiere audaci anime brave,
cercar
più là di queste due non deve,
né
cercar più destrezza né più possa;
che
n'han tra lor quanto più aver si possa.
Le
donne, che gran pezzo mirato hanno
continuar
tante percosse orrende,
e
che nei cavallier segno d'affanno
e
di stanchezza ancor non si comprende;
dei
duo miglior guerrier lode lor danno,
che
sien tra quanto il mar sua braccia estende.
Par
lor che, se non fosser più che forti,
esser
dovrian sol del travaglio morti.
Ragionando
tra sé, dicea Marfisa:
-
Buon fu per me, che costui non si mosse;
che
andava a risco di restarne uccisa,
se
dianzi stato coi compagni fosse,
quando
io mi truovo a pena a questa guisa
di
potergli star contra alle percosse. -
Così
dice Marfisa; e tuttavolta
non
resta di menar la spada in volta.
-
Buon fu per me (dicea quell'altro ancora),
che
riposar costui non ho lasciato.
Difender
me ne posso a fatica ora
che
de la prima pugna è travagliato.
Se
fin al nuovo dì facea dimora
a
ripigliar vigor, che saria stato?
Ventura
ebbi io, quanto più possa aversi,
che
non volesse tor quel che io gli offersi. -
La
battaglia durò fin alla sera,
né
chi avesse anco il meglio era palese;
né
l'un né l'altro più senza lumiera
saputo
avria come schivar l'offese.
Giunta
la notte, all'inclita guerriera
fu
primo a dir il cavallier cortese:
-
Che faren, poi che con ugual fortuna
n'ha
sopragiunti la notte importuna?
Meglio
mi par che il viver tuo prolunghi
almeno
insino a tanto che s'aggiorni.
Io
non posso concederti che aggiunghi
fuor
che una notte picciola ai tua giorni.
E
di ciò che non gli abbi aver più lunghi,
la
colpa sopra me non vuo' che torni:
torni
pur sopra alla spietata legge
del
sesso feminil che il loco regge.
Se
di te duolmi e di quest'altri tuoi,
lo
sa colui che nulla cosa ha oscura.
Con
tuoi compagni star meco tu puoi:
con
altri non avrai stanza sicura;
perché
la turba, a cu' i mariti suoi
oggi
uccisi hai, già contra te congiura.
Ciascun
di questi a cui dato hai la morte,
era
di diece femine consorte.
Del
danno c'han da te ricevut'oggi,
disian
novanta femine vendetta:
sì
che se meco ad albergar non poggi,
questa
notte assalito esser t'aspetta. -
Disse
Marfisa: - Accetto che m'alloggi,
con
sicurtà che non sia men perfetta
in
te la fede e la bontà del core,
che
sia l'ardire e il corporal valore.
Ma
che t'incresca che m'abbi ad uccidere,
ben
ti può increscere anco del contrario.
Fin
qui non credo che l'abbi da ridere,
perche
io sia men di te duro avversario.
O
la pugna seguir vogli o dividere,
o
farla all'uno o all'altro luminario,
ad
ogni cenno pronta tu m'avrai,
e
come ed ogni volta che vorrai. -
Così
fu differita la tenzone
fin
che di Gange uscisse il nuovo albore,
e
si restò senza conclusione
chi
d'essi duo guerrier fosse il migliore.
Ad
Aquilante venne ed a Grifone
e
così agli altri il liberal signore,
e
li pregò che fin al nuovo giorno
piacesse
lor di far seco soggiorno.
Tenner
lo 'nvito senza alcun sospetto:
indi,
a splendor de bianchi torchi ardenti,
tutti
saliro ov'era un real tetto,
distinto
in molti adorni alloggiamenti.
Stupefatti
al levarsi de l'elmetto,
mirandosi,
restaro i combattenti;
che
il cavallier, per quanto apparea fuora,
non
eccedeva i diciotto anni ancora.
Si
maraviglia la donzella, come
in
arme tanto un giovinetto vaglia;
si
maraviglia l'altro, che alle chiome
s'avede
con chi avea fatto battaglia:
e
si domandan l'un con l'altro il nome,
e
tal debito tosto si ragguaglia.
Ma
come si nomasse il giovinetto,
ne
l'altro canto ad ascoltar v'aspetto.
CANTO
VENTESIMO.
Le
donne antique hanno mirabil cose
fatto
ne l'arme e ne le sacre muse;
e
di lor opre belle e gloriose
Gran
lume in tutto il mondo si diffuse.
Arpalice
e Camilla son famose,
perché
in battaglia erano esperte ed use;
Safo
e Corinna, perché furon dotte,
splendono
illustri, e mai non veggon notte.
Le
donne son venute in eccellenza
Di
ciascun'arte ove hanno posto cura;
e
qualunque all'istorie abbia avvertenza,
ne
sente ancor la fama non oscura.
Se
il mondo n'è gran tempo stato senza,
non
però sempre il mal influsso dura;
e
forse ascosi han lor debiti onori
l'invidia
o il non saper degli scrittori.
Ben
mi par di veder che al secol nostro
tanta
virtù fra belle donne emerga,
che
può dare opra a carte ed ad inchiostro,
perché
nei futuri anni si disperga,
e
perché, odiose lingue, il mal dir vostro
con
vostra eterna infamia si sommerga:
e
le lor lode appariranno in guisa,
che
di gran lunga avanzeran Marfisa.
Or
pur tornando a lei, questa donzella
al
cavallier che l'usò cortesia,
de
l'esser suo non niega dar novella,
quando
esso a lei voglia contar chi sia.
Sbrigossi
tosto del suo debito ella:
tanto
il nome di lui saper disia.
-
Io son (disse) Marfisa: - e fu assai questo;
che
si sapea per tutto il mondo il resto.
L'altro
comincia, poi che tocca a lui,
con
più proemio a darle di sé conto,
dicendo:
- Io credo che ciascun di vui
abbia
de la mia stirpe il nome in pronto;
che
non pur Francia e Spagna e i vicin sui,
ma
l'India, l'Etiopia e il freddo Ponto
han
chiara cognizion di Chiaramonte,
onde
uscì il cavallier che uccise Almonte,
quel
che a Chiariello e al re Mambrino
diede
la morte, e il regno lor disfece.
Di
questo sangue, dove ne l'Eusino
l'Istro
ne vien con otto corna o diece,
al
duca Amone, il qual già peregrino
vi
capitò, la madre mia mi fece:
e
l'anno è ormai che io la lasciai dolente,
per
gire in Francia a ritrovar mia gente.
Ma
non potei finire il mio viaggio,
che
qua mi spinse un tempestoso Noto.
Son
dieci mesi o più che stanza v'aggio,
che
tutti i giorni e tutte l'ore noto.
Nominato
son io Guidon Selvaggio,
di
poca pruova ancora e poco noto.
Uccisi
qui Argilon da Melibea
con
dieci cavallier che seco avea.
Feci
la pruova ancor de le donzelle:
così
n'ho diece a' miei piaceri allato;
ed
alla scelta mia son le più belle,
e
son le più gentil di questo stato.
E
queste reggo e tutte l'altre; che elle
di
sé m'hanno governo e scettro dato:
così
daranno a qualunque altro arrida
Fortuna
sì, che la decina ancida. -
I
cavallier domandano a Guidone,
com'ha
sì pochi maschi il tenitoro;
e
s'alle moglie hanno suggezione,
come
esse l'han negli altri lochi a loro.
Disse
Guidon: - Più volte la cagione
udita
n'ho da poi che qui dimoro;
e
vi sarà, secondo che io l'ho udita,
da
me, poi che v'aggrada, riferita.
Al
tempo che tornar dopo anni venti
da
Troia i Greci (che durò l'assedio
dieci,
e dieci altri da contrari venti
furo
agitati in mar con troppo tedio),
trovar
che le lor donne agli tormenti
di
tanta assenza avean preso rimedio:
tutte
s'avean gioveni amanti eletti,
per
non si raffreddar sole nei letti.
Le
case lor trovaro i Greci piene
de
l'altrui figli; e per parer commune
perdonano
alle mogli, che san bene
che
tanto non potean viver digiune:
ma
ai figli degli adulteri conviene
altrove
procacciarsi altre fortune;
che
tolerar non vogliono i mariti
che
più alle spese lor sieno notriti.
Sono
altri esposti, altri tenuti occulti
da
le lor madri e sostenuti in vita.
In
vane squadre quei che erano adulti
feron,
chi qua chi là, tutti partita.
Per
altri l'arme son, per altri culti
gli
studi e l'arti; altri la terra trita;
serve
altri in corte; altri è guardian di gregge,
come
piace a colei che qua giù regge.
Partì
fra gli altri un giovinetto, figlio
di
Clitemnestra, la crudel regina,
di
diciotto anni, fresco come un giglio,
o
rosa colta allor di su la spina.
Questi,
armato un suo legno, a dar di piglio
si
pose e a depredar per la marina
in
compagnia di cento giovinetti
del
tempo suo, per tutta Grecia eletti.
I
Cretesi, in quel tempo che cacciato
il
crudo Idomeneo del regno aveano,
e
per assicurarsi il nuovo stato,
d'uomini
e d'arme adunazion faceano;
fero
con bon stipendio lor soldato
Falanto
(così al giovine diceano),
e
lui con tutti quei che seco avea,
poser
per guardia alla città Dictea.
Fra
cento alme città che erano in Creta,
Dictea
più ricca e più piacevol era,
di
belle donne ed amorose lieta,
lieta
di giochi da matino a sera:
e
com'era ogni tempo consueta
d'accarezzar
la gente forestiera,
fe'
a costor sì, che molto non rimase
a
fargli anco signor de le lor case.
Eran
gioveni tutti e belli affatto
(che
il fior di Grecia avea Falanto eletto):
sì
che alle belle donne, al primo tratto
che
v'apparir, trassero i cor del petto.
Poi
che non men che belli, ancora in fatto
si
dimostrar buoni e gagliardi al letto,
si
fero ad esse in pochi dì sì grati,
che
sopra ogn'altro ben n'erano amati.
Finita
che d'accordo è poi la guerra
per
cui stato Falanto era condutto,
e
lo stipendio militar si serra,
sì
che non v'hanno i gioveni più frutto,
e
per questo lasciar voglion la terra;
fan
le donne di Creta maggior lutto,
e
per ciò versan più dirotti pianti,
che
se i lor padri avesson morti avanti.
Da
le lor donne i gioveni assai foro,
ciascun
per sé, di rimaner pregati:
né
volendo restare, esse con loro
n'andar,
lasciando e padri e figli e frati,
di
ricche gemme e di gran summa d'oro
avendo
i lor dimestici spogliati;
che
la pratica fu tanto secreta,
che
non sentì la fuga uomo di Creta.
Sì
fu propizio il vento, sì fu l'ora
commoda,
che Falanto a fuggir colse,
che
molte miglia erano usciti fuora,
quando
del danno suo Creta si dolse.
Poi
questa spiaggia, inabitata allora,
trascorsi
per fortuna li raccolse.
Qui
si posaro, e qui sicuri tutti
meglio
del furto lor videro i frutti.
Questa
lor fu per dieci giorni stanza
di
piaceri amorosi tutta piena.
Ma
come spesso avvien, che l'abondanza
seco
in cor giovenil fastidio mena,
tutti
d'accordo fur di restar sanza
femine,
e liberarsi di tal pena;
che
non è soma da portar sì grave,
come
aver donna, quando a noia s'have.
Essi
che di guadagno e di rapine
eran
bramosi, e di dispendio parchi,
vider
che a pascer tante concubine,
d'altro
che d'aste avean bisogno e d'archi:
sì
che sole lasciar qui le meschine,
e
se n'andar di lor ricchezze carchi
là
dove in Puglia in ripa al mar poi sento
che
edificar la terra di Tarento.
Le
donne, che si videro tradite
dai
loro amanti in che più fede aveano,
restar
per alcun dì sì sbigottite,
che
statue immote in lito al mar pareano.
Visto
poi che da gridi e da infinite
lacrime
alcun profitto non traeano,
a
pensar cominciaro e ad aver cura
come
aiutarsi in tanta lor sciagura.
E
proponendo in mezzo i lor pareri,
altre
diceano: in Creta è da tornarsi;
e
più tosto all'arbitrio de' severi
padri
e d'offesi lor mariti darsi,
che
nei deserti liti e boschi fieri,
di
disagio e di fame consumarsi.
Altre
dicean che lor saria più onesto
affogarsi
nel mar, che mai far questo;
e
che manco mal era meretrici
andar
pel mondo, andar mendiche o schiave,
che
se stesse offerire agli supplici
di
che eran degne l'opere lor prave.
Questi
e simil partiti le infelici
si
proponean, ciascun più duro e grave.
Tra
loro al fine una Orontea levosse,
che
origine traea dal re Minosse;
la
più gioven de l'artre e la più bella
e
la più accorta, e che avea meno errato:
amato
avea Falanto, e a lui pulzella
datasi,
e per lui il padre avea lasciato.
Costei
mostrando in viso ed in favella
il
magnanimo cor d'ira infiammato,
redarguendo
di tutte altre il detto,
suo
parer disse, e fe' seguirne effetto.
Di
questa terra a lei non parve torsi,
che
conobbe feconda e d'aria sana,
e
di limpidi fiumi aver discorsi,
di
selve opaca, e la più parte piana;
con
porti e foci, ove dal mar ricorsi
per
ria fortuna avea la gente estrana,
che
or d'Africa portava, ora d'Egitto
cose
diverse e necessarie al vitto.
Qui
parve a lei fermarsi, e far vendetta
del
viril sesso che le avea sì offese:
vuol
che ogni nave, che da venti astretta
a
pigliar venga porto in suo paese,
a
sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta;
né
de la vita a un sol si sia cortese.
Così
fu detto e così fu concluso,
e
fu fatta la legge e messa in uso.
Come
turbar l'aria sentiano, armate
le
femine correan su la marina,
da
l'implacabile Orontea guidate,
che
diè lor legge e si fe' lor regina:
e
de le navi ai liti lor cacciate
faceano
incendi orribili e rapina,
uom
non lasciando vivo, che novella
dar
ne potesse o in questa parte o in quella.
Così
solinghe vissero qualche anno
aspre
nimiche del sesso virile:
ma
conobbero poi, che il proprio danno
procaccierian,
se non mutavan stile;
che
se di lor propagine non fanno,
sarà
lor legge in breve irrita e vile,
e
mancherà con l'infecondo regno,
dove
di farla eterna era il disegno.
Sì
che, temprando il suo rigore un poco
scelsero,
in spazio di quattro anni interi,
di
quanti capitaro in questo loco
dieci
belli e gagliardi cavallieri,
che
per durar ne l'amoroso gioco
contr'esse
cento fosser buon guerrieri.
Esse
in tutto eran cento; e statuito
ad
ogni lor decina fu un marito.
Prima
ne fur decapitati molti
che
riusciro al paragon mal forti.
Or
questi dieci a buona pruova tolti,
del
letto e del governo ebbon consorti;
facendo
lor giurar che, se più colti
altri
uomini verriano in questi porti,
essi
sarian che, spenta ogni pietade,
li
porriano ugualmente a fil di spade.
Ad
ingrossare, ed a figliar appresso
le
donne, indi a temere incominciaro
che
tanti nascerian del viril sesso,
che
contra lor non avrian poi riparo;
e
al fine in man degli uomini rimesso
saria
il governo che elle avean sì caro:
sì
che ordinar, mentre eran gli anni imbelli,
far
sì, che mai non fosson lor ribelli.
Acciò
il sesso viril non le soggioghi,
uno
ogni madre vuol la legge orrenda,
che
tenga seco; gli altri, o li suffoghi,
o
fuor del regno li permuti o venda.
Ne
mandano per questo in vari luoghi:
e
a chi gli porta dicono che prenda
femine,
se a baratto aver ne puote;
se
non, non torni almen con le man vote.
Né
uno ancora alleverian, se senza
potesson
fare, e mantenere il gregge.
Questa
è quanta pietà, quanta clemenza
più
ai suoi che agli altri usa l'iniqua legge:
gli
altri condannan con ugual sentenza;
e
solamente in questo si corregge,
che
non vuol che, secondo il primiero uso,
le
femine gli uccidano in confuso.
Se
dieci o venti o più persone a un tratto
vi
fosser giunte, in carcere eran messe:
e
d'una al giorno, e non di più, era tratto
il
capo a sorte, che perir dovesse
nel
tempio orrendo che Orontea avea fatto,
dove
un altare alla Vendetta eresse;
e
dato all'un de' dieci il crudo ufficio
per
sorte era di farne sacrificio.
Dopo
molt'anni alle ripe omicide
a
dar venne di capo un giovinetto,
la
cui stirpe scendea dal buono Alcide,
di
gran valor ne l'arme, Elbanio detto.
Qui
preso fu, che a pena se n'avide,
come
quel che venìa senza sospetto;
e
con gran guardia in stretta parte chiuso,
con
gli altri era serbato al crudel uso.
Di
viso era costui bello e giocondo,
e
di maniere e di costumi ornato,
e
di parlar sì dolce e sì facondo,
che
un aspe volentier l'avria ascoltato:
sì
che, come di cosa rara al mondo,
de
l'esser suo fu tosto rapportato
ad
Alessandra figlia d'Orontea,
che
di molt'anni grave anco vivea.
Orontea
vivea ancora; e già mancate
tutt'eran
l'altre che abitar qui prima:
e
diece tante e più n'erano nate,
e
in forza eran cresciute e in maggior stima;
né
tra diece fucine che serrate
stavan
pur spesso, avean più d'una lima;
e
dieci cavallieri anco avean cura
di
dare a chi venìa fiera aventura.
Alessandra,
bramosa di vedere
il
giovinetto che avea tante lode,
da
la sua matre in singular piacere
impetra
sì, che Elbanio vede ed ode;
e
quando vuol partirne, rimanere
si
sente il core ove è chiil punge e rode:
legar
si sente e non sa far contesa,
e
al fin dal suo prigion si trova presa.
Elbanio
disse a lei: - Se di pietade
s'avesse,
donna, qui notizia ancora,
come
se n'ha per tutt'altre contrade,
dovunque
il vago sol luce e colora;
io
vi osarei, per vostr'alma beltade
che
ogn'animo gentil di sé inamora,
chiedervi
in don la vita mia, che poi
saria
ognor presto a spenderla per voi.
Or
quando fuor d'ogni ragion qui sono
privi
d'umanitade i cori umani,
non
vi domanderò la vita in dono,
che
i prieghi miei so ben che sarian vani;
ma
che da cavalliero, o tristo o buono
che
io sia, possi morir con l'arme in mani,
e
non come dannato per giudicio,
o
come animal bruto in sacrificio. -
Alessandra
gentil, che umidi avea,
per
la pietà del giovinetto, i rai,
rispose:
- Ancor che più crudele e rea
sia
questa terra, che altra fosse mai;
non
concedo però che qui Medea
ogni
femina sia, come tu fai:
e
quando ogn'altra così fosse ancora,
me
sola di tant'altre io vo' trar fuora.
E
se ben per adietro io fossi stata
empia
e crudel, come qui sono tante,
dir
posso che suggetto ove mostrata
per
me fosse pietà, non ebbi avante.
Ma
ben sarei di tigre più arrabbiata,
e
più duro avre' il cor che di diamante,
se
non m'avesse tolto ogni durezza
tua
beltà, tuo valor, tua gentilezza.
Così
non fosse la legge più forte,
che
contra i peregrini è statuita,
come
io non schiverei con la mia morte
di
ricomprar la tua più degna vita.
Ma
non è grado qui di sì gran sorte,
che
ti potesse dar libera aita;
e
quel che chiedi ancor, ben che sia poco,
difficile
ottener fia in questo loco.
Pur
io vedrò di far che tu l'ottenga,
che
abbi inanzi al morir questo contento;
ma
mi dubito ben che te n'avenga,
tenendo
il morir lungo, più tormento. -
Suggiunse
Elbanio: - Quando incontra io venga
a
dieci armato, di tal cor mi sento,
che
la vita ho speranza di salvarme,
e
uccider lor, se tutti fosser arme. -
Alessandra
a quel detto non rispose
se
non un gran sospiro, e dipartisse,
e
portò nel partir mille amorose
punte
nel cor, mai non sanabil, fisse.
Venne
alla madre, e voluntà le pose
di
non lasciar che il cavallier morisse,
quando
si dimostrasse così forte,
che,
solo, avesse posto i dieci a morte.
La
regina Orontea fece raccorre
il
suo consiglio, e disse: - A noi conviene
sempre
il miglior che ritroviamo, porre
a
guardar nostri porti e nostre arene;
e
per saper chi ben lasciar, chi torre,
prova
è sempre da far quando gli avviene;
per
non patir con nostro danno a torto,
che
regni il vile, e chi ha valor sia morto.
A
me par, se a voi par, che statuito
sia,
che ogni cavallier per lo avvenire,
che
fortuna abbia tratto al nostro lito,
prima
che al tempio si faccia morire,
possa
egli sol, se gli piace il partito,
incontra
i dieci alla battaglia uscire;
e
se di tutti vincerli è possente,
guardi
egli il porto, e seco abbia altra gente.
Parlo
così, perché abbian qui un prigione
che
par che vincer dieci s'offerisca.
Quando,
sol, vaglia tante altre persone,
dignissimo
è, per Dio, che s'esaudisca.
Così
in contrario avrà punizione,
quando
vaneggi e temerario ardisca. -
Orontea
fine al suo parlar qui pose,
a
cui de le più antique una rispose:
-
La principal cagion che a far disegno
sul
comercio degli uomini ci mosse,
non
fu perche a difender questo regno
del
loro aiuto alcun bisogno fosse;
che
per far questo abbiamo ardire e ingegno
da
noi medesme, e a sufficienza posse:
così
senza sapessimo far anco,
che
non venisse il propagarci a manco!
Ma
poi che senza lor questo non lece,
tolti
abbiàn, ma non tanti, in compagnia,
che
mai ne sia più d'uno incontra diece,
sì
che aver di noi possa signoria.
Per
conciper di lor questo si fece,
non
che di lor difesa uopo ci sia.
La
lor prodezza sol ne vaglia in questo,
e
sieno ignavi e inutili nel resto.
Tra
noi tenere un uom che sia sì forte,
contrario
è in tutto al principal disegno.
Se
può un solo a dieci uomini dar morte,
quante
donne farà stare egli al segno?
Se
i dieci nostri fosser di tal sorte,
il
primo dì n'avrebbon tolto il regno.
Non
è la via di dominar, se vuoi
por
l'arme in mano a chi può più di noi.
Pon
mente ancor, che quando così aiti
Fortuna
questo tuo, che i dieci uccida,
di
cento donne che de' lor mariti
rimarran
prive, sentirai le grida.
Se
vuol campar, proponga altri partiti,
che
esser di dieci gioveni omicida.
Pur,
se per far con cento donne è buono
quel
che dieci fariano, abbi perdono. -
Fu
d'Artemia crudel questo il parere
(così
avea nome), e non mancò per lei
di
far nel tempio Elbanio rimanere
scannato
inanzi agli spietati dèi.
Ma
la madre Orontea che compiacere
volse
alla figlia, replicò a colei
altre
ed altre ragioni, e modo tenne
che
nel senato il suo parer s'ottenne.
L'aver
Elbanio di bellezza il vanto
sopra
ogni cavallier che fosse al mondo,
fu
nei cor de le giovani di tanto,
che
erano in quel consiglio, e di tal pondo,
che
il parer de le vecchie andò da canto,
che
con Artemia volean far secondo
l'ordine
antiquo; né lontan fu molto
ad
esser per favore Elbanio assolto.
Di
perdonargli in somma fu concluso,
ma
poi che la decina avesse spento,
e
che ne l'altro assalto fosse ad uso
di
diece donne buono, e non di cento.
Di
carcer l'altro giorno fu dischiuso;
e
avuto arme e cavallo a suo talento,
contra
dieci guerrier, solo, si mise,
e
l'uno appresso all'altro in piazza uccise.
Fu
la notte seguente a prova messo
contra
diece donzelle ignudo e solo,
dove
ebbe all'ardir suo sì buon successo,
che
fece il saggio di tutto lo stuolo.
E
questo gli acquistò tal grazia appresso
ad
Orontea, che l'ebbe per figliuolo;
e
gli diede Alessandra e l'altre nove
con
che avea fatto le notturne prove.
E
lo lasciò con Alessandra bella,
che
poi diè nome a questa terra, erede,
con
patto, che a servare egli abbia quella
legge,
ed ogn'altro che da lui succede:
che
ciascun che già mai sua fiera stella
farà
qui por lo sventurato piede,
elegger
possa, o in sacrificio darsi,
o
con dieci guerrier, solo, provarsi.
E
se gli avvien che il dì gli uomini uccida,
la
notte con le femine si provi;
e
quando in questo ancor tanto gli arrida
la
sorte sua, che vincitor si trovi,
sia
del femineo stuol principe e guida,
e
la decina a scelta sua rinovi,
con
la qual regni, fin che un altro arrivi,
che
sia più forte, e lui di vita privi.
Appresso
a duamila anni il costume empio
si
è mantenuto, e si mantiene ancora;
e
sono pochi giorni che nel tempio
uno
infelice peregrin non mora.
Se
contra dieci alcun chiede, ad esempio
d'Elbanio,
armarsi (che ve n'è talora),
spesso
la vita al primo assalto lassa;
né
di mille uno all'altra prova passa.
Pur
ci passano alcuni, ma sì rari,
che
su le dita annoverar si ponno.
Uno
di questi fu Argilon: ma guari
con
la decina sua non fu qui donno;
che
cacciandomi qui venti contrari,
gli
occhi gli chiusi in sempiterno sonno.
Così
fossi io con lui morto quel giorno,
prima
che viver servo in tanto scorno.
che
piaceri amorosi e riso e gioco,
che
suole amar ciascun de la mia etade,
le
purpure e le gemme e l'aver loco
inanzi
agli altri ne la sua cittade,
potuto
hanno, per Dio, mai giovar poco
all'uom
che privo sia di libertade:
e
il non poter mai più di qui levarmi,
servitù
grave e intolerabil parmi.
Il
vedermi lograr dei miglior anni
il
più bel fiore in sì vile opra e molle,
tiemmi
il cor sempre in stimulo e in affanni,
ed
ogni gusto di piacer mi tolle.
La
fama del mio sangue spiega i vanni
per
tutto il mondo, e fin al ciel s'estolle;
che
forse buona parte anche io n'avrei,
s'esser
potessi coi fratelli miei.
Parmi
che ingiuria il mio destin mi faccia,
avendomi
a sì vil servigio eletto;
come
chi ne l'armento il destrier caccia,
il
qual d'occhi o di piedi abbia difetto,
o
per altro accidente che dispiaccia,
sia
fatto all'arme e a miglior uso inetto:
né
sperando io, se non per morte, uscire
di
sì vil servitù, bramo morire. -
Guidon
qui fine alle parole pose,
e
maledì quel giorno per isdegno,
il
qual dei cavallieri e de le spose
gli
diè vittoria in acquistar quel regno.
Astolfo
stette a udire, e si nascose
tanto,
che si fe' certo a più d'un segno,
che,
come detto avea, questo Guidone
era
figliol del suo parente Amone.
Poi
gli rispose: - Io sono il duca inglese,
il
tuo cugino Astolfo; - ed abbracciollo,
e
con atto amorevole e cortese,
non
senza sparger lagrime, baciollo.
-
Caro parente mio, non più palese
tua
madre ti potea por segno al collo;
che
a farne fede che tu sei de' nostri,
basta
il valor che con la spada mostri. -
Guidon,
che altrove avria fatto gran festa
d'aver
trovato un sì stretto parente,
quivi
l'accolse con la faccia mesta,
perché
fu di vedervilo dolente.
Se
vive, sa che Astolfo schiavo resta,
né
il termine è più là che il dì seguente;
se
fia libero Astolfo, ne more esso:
sì
che il ben d'uno è il mal de l'altro espresso.
Gli
duol che gli altri cavallieri ancora
abbia,
vincendo, a far sempre captivi;
né
più, quando esso in quel contrasto mora,
potrà
giovar che servitù lor schivi:
che
se d'un fango ben gli porta fuora,
e
poi s'inciampi come all'altro arrivi,
avrà
lui senza pro vinto Marfisa;
che
essi pur ne fien schiavi, ed ella uccisa.
Da
l'altro canto avea l'acerba etade,
la
cortesia e il valor del giovinetto
d'amore
intenerito e di pietade
tanto
a Marfisa ed ai compagni il petto,
che,
con morte di lui lor libertade
esser
dovendo, avean quasi a dispetto:
e
se Marfisa non può far con manco
che
uccider lui, vuol essa morir anco.
Ella
disse a Guidon: - Vientene insieme
con
noi, che a viva forza usciren quinci. -
-
Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme
di
mai più uscirne, o perdi meco o vinci. -
Ella
suggiunse: - Il mio cor mai non teme
di
non dar fine a cosa che cominci;
né
trovar so la più sicura strada
di
quella ove mi sia guida la spada.
Tal
ne la piazza ho il tuo valor provato,
che,
s'io son teco, ardisco ad ogn'impresa.
Quando
la turba intorno allo steccato
sarà
domani in sul teatro ascesa,
io
vo' che l'uccidian per ogni lato,
o
vada in fuga o cerchi far difesa,
e
che agli lupi e agli avoltoi del loco
lasciamo
i corpi, e la cittade al fuoco. -
Suggiunse
a lei Guidon: - Tu m'avrai pronto
a
seguitarti ed a morirti a canto,
ma
vivi rimaner non facciàn conto;
bastar
ne può di vendicarci alquanto:
che
spesso diecimila in piazza conto
del
popul feminile, ed altretanto
resta
a guardare e porto e rocca e mura,
né
alcuna via d'uscir trovo sicura. -
Disse
Marfisa: - E molto più sieno elle
degli
uomini che Serse ebbe già intorno,
e
sieno più de l'anime ribelle
che
uscir del ciel con lor perpetuo scorno;
se
tu sei meco, o almen non sie con quelle,
tutte
le voglio uccidere in un giorno. -
Guidon
suggiunse: - Io non ci so via alcuna
che
a valer n'abbia, se non val quest'una.
Ne
può sola salvar, se ne succede,
quest'una
che io dirò, che or mi soviene.
Fuor
che alle donne, uscir non si concede,
né
metter piede in su le salse arene:
e
per questo commettermi alla fede
d'una
de le mie donne mi conviene,
del
cui perfetto amor fatta ho sovente
più
pruova ancor, che io non farò al presente.
Non
men di me tormi costei disia
di
servitù, pur che ne venga meco,
che
così spera, senza compagnia
de
le rivali sue, che io viva seco.
Ella
nel porto o fuste o saettia
farà
ordinar, mentre è ancor l'aer cieco,
che
i marinai vostri troveranno
acconcia
a navigar, come vi vanno.
Dietro
a me tutti in un drappel ristretti,
cavallieri,
mercanti e galeotti,
che
ad albergarvi sotto a questi tetti
meco,
vostra merce, sète ridotti,
avrete
a farvi amplo sentier coi petti,
se
del nostro camin siamo interrotti:
così
spero, aiutandoci le spade,
che
io vi trarrò de la crudel cittade. -
-
Tu fa come ti par (disse Marfisa),
che
io son per me d'uscir di qui sicura.
Più
facil fia che di mia mano uccisa
la
gente sia, che è dentro a queste mura,
che
mi veggi fuggire, o in altra guisa
alcun
possa notar che abbi paura.
Vo'
uscir di giorno, e sol per forza d'arme;
che
per ogn'altro modo obbrobrio parme.
S'io
ci fossi per donna conosciuta,
so
che avrei da le donne onore e pregio;
e
volentieri io ci sarei tenuta
e
tra le prime forse del collegio:
ma
con costoro essendoci venuta,
non
ci vo' d'essi aver più privilegio.
Troppo
error fôra che io mi stessi o andassi
libera,
e gli altri in servitù lasciassi. -
Queste
parole ed altre seguitando,
mostrò
Marfisa che il rispetto solo
che
avea al periglio de' compagni (quando
potria
loro il suo ardir tornare in duolo),
la
tenea che con alto e memorando
segno
d'ardir non assalia lo stuolo:
e
per questo a Guidon lascia la cura
d'usar
la via che più gli par sicura.
Guidon
la notte con Aleria parla
(così
avea nome la più fida moglie),
né
bisogno gli fu molto pregarla,
che
la trovò disposta alle sue voglie.
Ella
tolse una nave e fece armarla,
e
v'arrecò le sue più ricche spoglie,
fingendo
di volere al nuovo albore
con
le compagne uscire in corso fuore.
Ella
avea fatto nel palazzo inanti
spade
e lance arrecar, corazze e scudi,
onde
armar si potessero i mercanti
e
i galeotti che eran mezzo nudi.
Altri
dormiro, ed altri ster vegghianti,
compartendo
tra lor gli ozi e gli studi;
spesso
guardando, e pur con l' arme indosso,
se
l'oriente ancor si facea rosso.
Dal
duro volto de la terra il sole
non
tollea ancora il velo oscuro ed atro;
a
pena avea la licaonia prole
per
li solchi del ciel volto l'aratro:
quando
il femineo stuol, che veder vuole
il
fin de la battaglia, empì il teatro,
come
ape del suo claustro empie la soglia,
che
mutar regno al nuovo tempo voglia.
Di
trombe, di tambur, di suon de corni
il
popul risonar fa cielo e terra,
così
citando il suo signor, che torni
a
terminar la cominciata guerra.
Aquilante
e Grifon stavano adorni
de
le lor arme, e il duca d'Inghilterra,
Guidon,
Marfisa, Sansonetto e tutti
gli
altri, chi a piedi e chi a cavallo istrutti.
Per
scender dal palazzo al mare e al porto,
la
piazza traversar si convenia,
né
v'era altro camin lungo né corto:
così
Guidon disse alla compagnia.
E
poi che di ben far molto conforto
lor
diede, entrò senza rumore in via;
e
ne la piazza, dove il popul era,
s'appresentò
con più di cento in schiera.
Molto
affrettando i suoi compagni, andava
Guidone
all'altra porta per uscire:
ma
la gran moltitudine che stava
intorno
armata, e sempre atta a ferire,
pensò,
come lo vide che menava
seco
quegli altri, che volea fuggire;
e
tutta a un tratto agli archi suoi ricorse,
e
parte, onde s'uscia, venne ad opporse.
Guidone
e gli altri cavallier gagliardi,
e
sopra tutti lor Marfisa forte,
al
menar de le man non furon tardi,
e
molto fer per isforzar le porte:
ma
tanta e tanta copia era dei dardi
che,
con ferite dei compagni e morte,
pioveano
lor di sopra e d'ogn'intorno,
che
al fin temean d'averne danno e scorno.
D'ogni
guerrier l'usbergo era perfetto;
che
se non era, avean più da temere.
Fu
morto il destrier sotto a Sansonetto;
quel
di Marfisa v'ebbe a rimanere.
Astolfo
tra sé disse: - Ora, che aspetto
che
mai mi possa il corno più valere?
Io
vo' veder, poi che non giova spada,
s'io
so col corno assicurar la strada. -
Come
aiutar ne le fortune estreme
sempre
si suol, si pone il corno a bocca.
Par
che la terra e tutto il mondo trieme,
quando
l'orribil suon ne l'aria scocca.
Sì
nel cor de la gente il timor preme,
che
per disio di fuga si trabocca
giù
del teatro sbigottita e smorta,
non
che lasci la guardia de la porta.
Come
talor si getta e si periglia
e
da finestra e da sublime loco
l'esterrefatta
subito famiglia,
che
vede appresso e d'ogn'intorno il fuoco,
che
mentre le tenea gravi le ciglia
il
pigro sonno, crebbe a poco a poco:
così
messa la vita in abandono,
ognun
fuggia lo spaventoso suono.
Di
qua di là, di su di giù smarrita
surge
la turba, e di fuggir procaccia.
Son
più di mille a un tempo ad ogni uscita:
cascano
a monti, e l'una l'altra impaccia.
In
tanta calca perde altra la vita;
da
palchi e da finestre altra si schiaccia:
più
d'un braccio si rompe e d'una testa,
di
che altra morta, altra storpiata resta.
Il
pianto e il grido insino al ciel saliva,
d'alta
ruina misto e di fraccasso.
Affretta,
ovunque il suon del corno arriva,
la
turba spaventata in fuga il passo.
Se
udite dir che d'ardimento priva
la
vil plebe si mostri e di cor basso,
non
vi maravigliate, che natura
è
de la lepre aver sempre paura.
Ma
che direte del già tanto fiero
cor
di Marfisa e di Guidon Selvaggio?
dei
dua giovini figli d'Oliviero,
che
già tanto onoraro il lor lignaggio?
Già
centomila avean stimato un zero;
e
in fuga or se ne van senza coraggio,
come
conigli, o timidi colombi
a
cui vicino alto rumor rimbombi.
Così
noceva ai suoi come agli strani
la
forza che nel corno era incantata.
Sansonetto,
Guidone e i duo germani
fuggon
dietro a Marfisa spaventata;
né
fuggendo ponno ir tanto lontani,
che
lor non sia l'orecchia anco intronata.
Scorre
Astolfo la terra in ogni lato,
dando
via sempre al corno maggior fiato.
Chi
scese al mare, e chi poggiò su al monte,
e
chi tra i boschi ad occultar si venne:
alcuna,
senza mai volger la fronte,
fuggir
per dieci dì non si ritenne:
uscì
in tal punto alcuna fuor del ponte,
che
in vita sua mai più non vi rivenne.
Sgombraro
in modo e piazze e templi e case,
che
quasi vota la città rimase.
Marfisa
e il bon Guidone e i duo fratelli
e
Sansonetto, pallidi e tremanti,
fuggiano
inverso il mare, e dietro a quelli
fuggian
i marinari e i mercatanti;
ove
Aleria trovar, che, fra i castelli,
loro
avea un legno apparecchiato inanti.
Quindi,
poi che in gran fretta li raccolse,
diè
i remi all'acqua ed ogni vela sciolse.
Dentro
e d'intorno il duca la cittade
avea
scorsa dai colli insino all'onde;
fatto
avea vote rimaner le strade:
ognun
lo fugge, ognun se gli nasconde.
Molte
trovate fur, che per viltade
s'eran
gittate in parti oscure e immonde;
e
molte, non sappiendo ove s'andare,
messesi
a nuoto ed affogate in mare.
Per
trovare i compagni il duca viene,
che
si credea di riveder sul molo.
Si
volge intorno, e le deserte arene
guarda
per tutto, e non v'appare un solo.
Leva
più gli occhi, e in alto a vele piene
da
sé lontani andar li vede a volo:
sì
che gli convien fare altro disegno
al
suo camin, poi che partito è il legno.
Lasciamolo
andar pur - né vi rincresca
che
tanta strada far debba soletto
per
terra d'infedeli e barbaresca,
dove
mai non si va senza sospetto:
non
è periglio alcuno, onde non esca
con
quel suo corno, e n'ha mostrato effetto; -
e
dei compagni suoi pigliamo cura,
che
al mar fuggian tremando di paura.
A
piena vela si cacciaron lunge
da
la crudele e sanguinosa spiaggia:
e
poi che di gran lunga non li giunge
l'orribil
suon che a spaventar più gli aggia,
insolita
vergogna sì gli punge,
che,
com'un fuoco, a tutti il viso raggia.
L'un
non ardisce a mirar l'altro, e stassi
tristo,
senza parlar, con gli occhi bassi.
Passa
il nocchiero, al suo viaggio intento,
e
Cipro e Rodi, e giù per l'onda egea
da
sé vede fuggire isole cento
col
periglioso capo di Malea;
e
con propizio ed immutabil vento
asconder
vede la greca Morea;
volta
Sicilia, e per lo mar Tirreno
costeggia
de l'Italia il lito ameno:
e
sopra Luna ultimamente sorse,
dove
lasciato avea la sua famiglia.
Dio
ringraziando che il pelago corse
senza
più danno, il noto lito piglia.
Quindi
un nochier trovar per Francia sciorse,
il
qual di venir seco li consiglia:
e
nel suo legno ancor quel dì montaro,
ed
a Marsilia in breve si trovaro.
Quivi
non era Bradamante allora,
che
aver solea governo del paese;
che
se vi fosse, a far seco dimora
gli
avria sforzati con parlar cortese.
Sceser
nel lito, e la medesima ora
dai
quattro cavallier congedo prese
Marfisa,
e da la donna del Selvaggio;
e
pigliò alla ventura il suo viaggio,
dicendo
che lodevole non era
che
andasser tanti cavallieri insieme:
che
gli storni e i colombi vanno in schiera,
i
daini e i cervi e ogn'animal che teme;
ma
l'audace falcon, l'aquila altiera,
che
ne l'aiuto altrui non metton speme
orsi,
tigri, leon, soli ne vanno;
che
di più forza alcun timor non hanno.
Nessun
degli altri fu di quel pensiero;
sì
che a lei sola toccò a far partita.
Per
mezzo i boschi e per strano sentiero
dunque
ella se n'andò sola e romita.
Grifone
il bianco ed Aquilante il nero
pigliar
con gli altri duo la via più trita,
e
giunsero a un castello il dì seguente,
dove
albergati fur cortesemente.
Cortesemente
dico in apparenza,
ma
tosto vi sentir contrario effetto;
che
il signor del castel, benivolenza
fingendo
e cortesia, lor dè ricetto:
e
poi la notte, che sicuri senza
timor
dormian, gli fe' pigliar nel letto;
né
prima li lasciò, che d'osservare
una
costuma ria li fe' giurare.
Ma
vo' seguir la bellicosa donna,
prima,
Signor, che di costor più dica.
Passò
Druenza, il Rodano e la Sonna,
e
venne a piè d'una montagna aprica.
Quivi
lungo un torrente, in negra gonna
vide
venire una femina antica,
che
stanca e lassa era di lunga via,
ma
via più afflitta di malenconia.
Questa
è la vecchia che solea servire
ai
malandrin nel cavernoso monte,
là
dove alta giustizia fe' venire
e
dar lor morte il paladino conte.
La
vecchia, che timore ha di morire
per
le cagion che poi vi saran conte,
già
molti dì va per via oscura e fosca,
fuggendo
ritrovar chi la conosca.
Quivi
d'estrano cavallier sembianza
l'ebbe
Marfisa all'abito e all'arnese;
e
perciò non fuggì, com'avea usanza
fuggir
dagli altri che eran del paese;
anzi
con sicurezza e con baldanza
si
fermò al guado, e di lontan l'attese:
al
guado del torrente, ove trovolla,
la
vecchia le uscì incontra e salutolla.
Poi
la pregò che seco oltr'a quell'acque
ne
l'altra ripa in groppa la portasse.
Marfisa
che gentil fu da che nacque,
di
là dal fiumicel seco la trasse;
e
portarla anche un pezzo non le spiacque,
fin
che a miglior camin la ritornasse,
fuor
d'un gran fango; e al fin di quel sentiero
si
videro all'incontro un cavalliero.
Il
cavallier su ben guernita sella,
di
lucide arme e di bei panni ornato,
verso
il fiume venìa da una donzella
e
da un solo scudiero accompagnato.
La
donna che avea seco era assai bella,
ma
d'altiero sembiante e poco grato,
tutta
d'orgoglio e di fastidio piena,
del
cavallier ben degna che la mena.
Pinabello,
un de' conti maganzesi,
era
quel cavallier che ella avea seco;
quel
medesmo che dianzi a pochi mesi
Bradamante
gittò nel cavo speco.
Quei
sospir, quei singulti così accesi,
quel
pianto che lo fe' già quasi cieco,
tutto
fu per costei che or seco avea,
che
il negromante allor gli ritenea.
Ma
poi che fu levato di sul colle
l'incantato
castel del vecchio Atlante,
e
che poté ciascuno ire ove volle,
per
opra e per virtù di Bradamante;
costei,
che agli disii facile e molle
di
Pinabel sempre era stata inante,
si
tornò a lui, ed in sua compagnia
da
un castello ad un altro or se ne gìa.
E
sì come vezzosa era e mal usa,
quando
vide la vecchia di Marfisa,
non
si poté tenere a bocca chiusa
di
non la motteggiar con beffe e risa.
Marfisa
altiera, appresso a cui non s'usa
sentirsi
oltraggio in qualsivoglia guisa,
rispose
d'ira accesa alla donzella,
che
di lei quella vecchia era più bella;
e
che al suo cavallier volea provallo,
con
patto di poi torre a lei la gonna
e
il palafren che avea, se da cavallo
gittava
il cavallier di che era donna.
Pinabel
che faria, tacendo, fallo,
di
risponder con l'arme non assonna:
piglia
lo scudo e l'asta, e il destrier gira,
poi
vien Marfisa a ritrovar con ira.
Marfisa
incontra una gran lancia afferra,
e
ne la vista a Pinabel l'arresta,
e
sì stordito lo riversa in terra,
che
tarda un'ora a rilevar la testa.
Marfisa
vincitrice de la guerra,
fe'
trarre a quella giovane la vesta,
ed
ogn'altro ornamento le fe' porre,
e
ne fe' il tutto alla sua vecchia torre:
e
di quel giovenile abito volse
che
si vestisse e se n'ornasse tutta;
e
fe' che il palafreno anco si tolse,
che
la giovane avea quivi condutta.
Indi
al preso camin con lei si volse,
che
quant'era più ornata, era più brutta.
Tre
giorni se n'andar per lunga strada,
senza
far cosa onde a parlar m'accada.
Il
quarto giorno un cavallier trovaro,
che
venìa in fretta galoppando solo.
Se
di saper chi sia forse v'è caro,
dicovi
che è Zerbin, di re figliuolo,
di
virtù esempio e di bellezza raro,
che
se stesso rodea d'ira e di duolo
di
non aver potuto far vendetta
d'un
che gli avea gran cortesia interdetta.
Zerbino
indarno per la selva corse
dietro
a quel suo che gli avea fatto oltraggio;
ma
sì a tempo colui seppe via torse,
sì
seppe nel fuggir prender vantaggio,
sì
il bosco e sì una nebbia lo soccorse,
che
avea offuscato il matutino raggio,
che
di man di Zerbin si levò netto,
fin
che l'ira e il furor gli uscì del petto.
Non
poté, ancor che Zerbin fosse irato,
tener,
vedendo quella vecchia, il riso;
che
gli parea dal giovenile ornato
troppo
diverso il brutto antiquo viso;
ed
a Marfisa, che le venìa a lato,
disse:
- Guerrier, tu sei pien d'ogni aviso,
che
damigella di tal sorte guidi,
che
non temi trovar chi te la invidi.
Avea
la donna (se la crespa buccia
può
darne indicio) più de la Sibilla,
e
parea, così ornata, una bertuccia,
quando
per muover riso alcun vestilla;
ed
or più brutta par, che si coruccia,
e
che dagli occhi l'ira le sfavilla:
che
a donna non si fa maggior dispetto,
che
quando o vecchia o brutta le vien detto.
Mostrò
turbarse l'inclita donzella,
per
prenderne piacer, come si prese;
e
rispose a Zerbin: - Mia donna è bella,
per
Dio, via più che tu non sei cortese;
come
che io creda che la tua favella
da
quel che sente l'animo non scese:
tu
fingi non conoscer sua beltade,
per
escusar la tua somma viltade.
E
chi saria quel cavallier, che questa
sì
giovane e sì bella ritrovasse
senza
più compagnia ne la foresta,
e
che di farla sua non si provasse? -
-
Sì ben (disse Zerbin) teco s'assesta,
che
saria mal che alcun te la levasse;
ed
io per me non son così indiscreto,
che
te ne privi mai; stanne pur lieto.
S'in
altro conto aver vuoi a far meco,
di
quel che io vaglio son per farti mostra;
ma
per costei non mi tener sì cieco,
che
solamente far voglia una giostra.
O
brutta o bella sia, restisi teco:
non
vo' partir tanta amicizia vostra.
Ben
vi sète accoppiati: io giurerei,
com'ella
è bella, tu gagliardo sei. -
Suggiunse
a lui Marfisa: - Al tuo dispetto
di
levarmi costei provar convienti.
Non
vo' patir che un sì leggiadro aspetto
abbi
veduto, e guadagnar nol tenti. -
Rispose
a lei Zerbin - Non so a che effetto
l'uom
si metta a periglio e si tormenti,
per
riportarne una vittoria, poi,
che
giovi al vinto, e al vincitore annoi. -
-
Se non ti par questo partito buono,
te
ne do un altro, e ricusar nol dei
(disse
a Zerbin Marfisa): che s'io sono
vinto
da te, m'abbia a restar costei;
ma
s'io te vinco, a forza te la dono.
Dunque
provian chi de' star senza lei:
se
perdi, converrà che tu le faccia
compagnia
sempre, ovunque andar le piaccia. -
-
E così sia, - Zerbin rispose; e volse
a
pigliar campo subito il cavallo.
Si
levò su le staffe e si raccolse
fermo
in arcione, e per non dare in fallo,
lo
scudo in mezzo alla donzella colse;
ma
parve urtasse un monte di metallo:
ed
ella in guisa a lui toccò l'elmetto,
che
stordito il mandò di sella netto.
Troppo
spiacque a Zerbin l'esser caduto,
che
in altro scontro mai più non gli avvenne,
e
n'avea mille e mille egli abbattuto;
ed
a perpetuo scorno se lo tenne.
Stette
per lungo spazio in terra muto;
e
più gli dolse poi che gli sovenne
che
avea promesso e che gli convenia
aver
la brutta vecchia in compagnia.
Tornando
a lui la vincitrice in sella,
disse
ridendo: - Questa t'appresento;
e
quanto più la veggio e grata e bella,
tanto,
che ella sia tua, più mi contento.
Or
tu in mio loco sei campion di quella;
ma
la tua fé non se ne porti il vento,
che
per sua guida e scorta tu non vada
(come
hai promesso) ovunque andar l'aggrada. -
Senza
aspettar risposta urta il destriero
per
la foresta, e subito s'imbosca.
Zerbin,
che la stimava un cavalliero,
dice
alla vecchia: - Fa che io lo conosca. -
Ed
ella non gli tiene ascoso il vero,
onde
sa che lo 'ncende e che l'attosca:
-
Il colpo fu di man d'una donzella,
che
t'ha fatto votar (disse) la sella.
Per
suo valor costei debitamente
usurpa
a' cavallieri e scudo e lancia;
e
venuta è pur dianzi d'Oriente
per
assaggiare i paladin di Francia. -
Zerbin
di questo tal vergogna sente,
che
non pur tinge di rossor la guancia,
ma
restò poco di non farsi rosso
seco
ogni pezzo d'arme che avea indosso.
Monta
a cavallo, e se stesso rampogna
che
non seppe tener strette le cosce.
Tra
sé la vecchia ne sorride, e agogna
di
stimularlo e di più dargli angosce.
Gli
ricorda che andar seco bisogna:
e
Zerbin, che ubligato si conosce,
l'orecchie
abbassa, come vinto e stanco
destrier
c'ha in bocca il fren, gli sproni al fianco.
E
sospirando: - Ohimè, Fortuna fella
(dicea),
che cambio è questo che tu fai?
Colei
che fu sopra le belle bella,
che
esser meco dovea, levata m'hai.
Ti
par che in luogo ed in ristor di quella
si
debba por costei che ora mi dai?
Stare
in danno del tutto era men male,
che
fare un cambio tanto diseguale.
Colei
che di bellezze e di virtuti
unqua
non ebbe e non avrà mai pare,
sommersa
e rotta tra gli scogli acuti
hai
data ai pesci ed agli augei del mare;
e
costei che dovria già aver pasciuti
sotterra
i vermi, hai tolta a perservare
dieci
o venti anni più che non devevi,
per
dar più peso agli mie' affanni grevi. -
Zerbin
così parlava; né men tristo
in
parole e in sembianti esser parea
di
questo nuovo suo sì odioso acquisto,
che
de la donna che perduta avea.
La
vecchia, ancor che non avesse visto
mai
più Zerbin, per quel che ora dicea,
s'avvide
esser colui di che notizia
le
diede già Issabella di Galizia.
Se
il vi ricorda quel che avete udito,
costei
da la spelonca ne veniva,
dove
Issabella, che d'amor ferito
Zerbino
avea, fu molti dì captiva.
Più
volte ella le avea già riferito
come
lasciasse la paterna riva,
e
come rotta in mar da la procella,
si
salvasse alla spiaggia di Rocella.
E
sì spesso dipinto di Zerbino
le
avea il bel viso e le fattezze conte,
che
ora udendol parlare, e più vicino
gli
occhi alzandogli meglio ne la fronte,
vide
esser quel per cui sempre meschino
fu
d'Issabella il cor nel cavo monte;
che
di non veder lui più si lagnava,
che
d'esser fatta ai malandrini schiava.
La
vecchia, dando alle parole udienza,
che
con sdegno e con duol Zerbino versa,
s'avede
ben che egli ha falsa credenza
che
sia Issabella in mar rotta e sommersa:
e
ben che ella del certo abbia scienza,
per
non lo rallegrar, pur la perversa
quel
che far lieto lo potria, gli tace,
e
sol gli dice quel che gli dispiace.
-
Odi tu (gli disse ella), tu che sei
cotanto
altier, che sì mi scherni e sprezzi,
se
sapessi che nuova ho di costei
che
morta piangi, mi faresti vezzi:
ma
più tosto che dirtelo, torrei
che
mi strozzassi o fêssi in mille pezzi;
dove,
s'eri vêr me più mansueto,
forse
aperto t'avrei questo secreto. -
Come
il mastin che con furor s'aventa
adosso
al ladro, ad achetarsi è presto,
che
quello o pane o cacio gli appresenta,
o
che fa incanto appropriato a questo;
così
tosto Zerbino umil diventa,
e
vien bramoso di sapere il resto,
che
la vecchia gli accenna che di quella,
che
morta piange, gli sa dir novella.
E
volto a lei con più piacevol faccia,
la
supplica, la prega, la scongiura
per
gli uomini, per Dio, che non gli taccia
quanto
ne sappia, o buona o ria ventura.
-
Cosa non udirai che pro ti faccia
(disse
la vecchia pertinace e dura):
non
è Issabella, come credi, morta;
ma
viva sì, che a' morti invidia porta.
È
capitata in questi pochi giorni
che
non n'udisti, in man di più di venti;
sì
che, qualora anco in man tua ritorni,
ve'
se sperar di corre il fior convienti. -
Ah
vecchia maladetta, come adorni
la
tua menzogna! e tu sai pur se menti.
Se
ben in man de venti ell'era stata,
non
l'avea alcun però mai violata.
Dove
l'avea veduta domandolle
Zerbino,
e quando, ma nulla n'invola;
che
la vecchia ostinata più non volle
a
quel c'ha detto aggiungere parola.
Prima
Zerbin le fece un parlar molle,
poi
minacciolle di tagliar la gola:
ma
tutto è invan ciò che minaccia e prega;
che
non può far parlar la brutta strega.
Lasciò
la lingua all'ultimo in riposo
Zerbin,
poi che il parlar gli giovò poco;
per
quel che udito avea, tanto geloso,
che
non trovava il cor nel petto loco;
d'Issabella
trovar sì disioso,
che
saria per vederla ito nel fuoco:
ma
non poteva andar più che volesse
colei,
poi che a Marfisa lo promesse.
E
quindi per solingo e strano calle,
dove
a lei piacque, fu Zerbin condotto;
né
per o poggiar monte o scender valle,
mai
si guardaro in faccia o si fer motto.
Ma
poi che al mezzodì volse le spalle
il
vago sol, fu il lor silenzio rotto
da
un cavallier che nel cammin scontraro.
Quel
che seguì, ne l'altro canto è chiaro.