Ludovico Ariosto
L'Orlando Furioso
Canti XXI-XXX
CANTO VENTUNESIMO
Né
fune intorto crederò che stringa
soma
così, né così legno chiodo,
come
la fé che una bella alma cinga
del
suo tenace indissolubil nodo.
Né
dagli antiqui par che si dipinga
la
santa Fé vestita in altro modo,
che
d'un vel bianco che la cuopra tutta:
che
un sol punto, un sol neo la può far brutta.
La
fede unqua non debbe esser corrotta,
o
data a un solo, o data insieme a mille;
e
così in una selva, in una grotta,
lontan
da le cittadi e da le ville,
come
dinanzi a tribunali, in frotta
di
testimon, di scritti e di postille,
senza
giurare o segno altro più espresso,
basti
una volta che s'abbia promesso.
Quella
servò, come servar si debbe
in
ogni impresa, il cavallier Zerbino:
e
quivi dimostrò che conto n'ebbe,
quando
si tolse dal proprio camino
per
andar con costei, la qual gli increbbe,
come
s'avesse il morbo sì vicino,
o
pur la morte istessa; ma potea,
più
che il disio, quel che promesso avea.
Dissi
di lui, che di vederla sotto
la
sua condotta tanto al cor gli preme,
che
n'arrabbia di duol, né le fa motto,
e
vanno muti e taciturni insieme:
dissi
che poi fu quel silenzio rotto,
che
al mondo il sol mostrò le ruote estreme,
da
un cavalliero aventuroso errante,
che
in mezzo del camin lor si fe' inante.
La
vecchia che conobbe il cavalliero,
che
era nomato Ermonide d'Olanda,
che
per insegna ha ne lo scudo nero
attraversata
una vermiglia banda,
posto
l'orgoglio e quel sembiante altiero,
umilmente
a Zerbin si raccomanda,
e
gli ricorda quel che esso promise
alla
guerriera che in sua man la mise.
Perché
di lei nimico e di sua gente
era
il guerrier che contra lor venìa:
ucciso
ad essa avea il padre innocente,
e
un fratello che solo al mondo avia;
e
tuttavolta far del rimanente,
come
degli altri, il traditor disia.
-
Fin che alla guardia tua, donna, mi senti
(dicea
Zerbin), non vo' che tu paventi. -
Come
più presso il cavallier si specchia
in
quella faccia che sì in odio gli era:
-
O di combatter meco t'apparecchia
(gridò
con voce minacciosa e fiera),
o
lascia la difesa de la vecchia,
che
di mia man secondo il merto pera.
Se
combatti per lei, rimarrai morto;
che
così avviene a chi s'appiglia al torto. -
Zerbin
cortesemente a lui risponde
che
gli è desir di bassa e mala sorte,
ed
a cavalleria non corrisponde
che
cerchi dare ad una donna morte:
se
pur combatter vuol, non si nasconde;
ma
che prima consideri che importe
che
un cavallier, com'era egli, gentile,
voglia
por man nel sangue feminile,
Queste
gli disse e più parole invano;
e
fu bisogno al fin venire a' fatti.
Poi
che preso a bastanza ebbon del piano,
tornarsi
incontra a tutta briglia ratti.
Non
van sì presti i razzi fuor di mano,
che
al tempo son de le allegrezze tratti,
come
andaron veloci i duo destrieri
ad
incontrare insieme i cavallieri.
Ermonide
d'Olanda segnò basso,
che
per passare il destro fianco attese:
ma
la sua debol lancia andò in fracasso,
e
poco il cavallier di Scozia offese.
Non
fu già l'altro colpo vano e casso:
roppe
lo scudo, e sì la spalla prese,
che
la forò da l'uno all'altro lato,
e
riversar fe' Ermonide sul prato.
Zerbin
che si pensò d'averlo ucciso,
di
pietà vinto, scese in terra presto,
e
levò l'elmo da lo smorto viso;
e
quel guerrier, come dal sonno desto,
senza
parlar guardò Zerbino fiso;
e
poi gli disse: - Non m'è già molesto
che
io sia da te abbattuto, che ai sembianti
mostri
esser fior de' cavallier erranti;
ma
ben mi duol che questo per cagione
d'una
femina perfida m'avviene,
a
cui non so come tu sia campione,
che
troppo al tuo valor si disconviene.
E
quando tu sapessi la cagione
che
a vendicarmi di costei mi mene,
avresti,
ognor che rimembrassi, affanno
d'aver,
per campar lei, fatto a me danno.
E
se spirto a bastanza avrò nel petto
che
io il possa dir (ma del contrario temo),
io
ti farò veder che in ogni effetto
scelerata
è costei più che in estremo.
Io
ebbi già un fratel che giovinetto
d'Olanda
si partì, donde noi semo,
e
si fece d'Eraclio cavalliero,
che
allor tenea de' Greci il sommo impero.
Quivi
divenne intrinseco e fratello
d'un
cortese baron di quella corte,
che
nei confin di Servia avea un castello
di
sito ameno e di muraglia forte.
Nomossi
Argeo colui di che io favello,
di
questa iniqua femina consorte,
la
quale egli amò sì, che passò il segno
che
a un uom si convenia, come lui, degno.
Ma
costei, più volubile che foglia
quando
l'autunno è più priva d'umore,
che
l' freddo vento gli arbori ne spoglia
e
le soffia dinanzi al suo furore;
verso
il marito cangiò tosto voglia,
che
fisso qualche tempo ebbe nel core;
e
volse ogni pensiero, ogni disio
d'acquistar
per amante il fratel mio.
Ma
né sì saldo all'impeto marino
l'Acrocerauno
d'infamato nome,
né
sta sì duro incontra borea il pino
che
rinovato ha più di cento chiome,
che
quanto appar fuor de lo scoglio alpino,
tanto
sotterra ha le radici; come
il
mio fratello a' prieghi di costei,
nido
de tutti i vizi infandi e rei.
Or,
come avviene a un cavallier ardito,
che
cerca briga e la ritrova spesso,
fu
in una impresa il mio fratel ferito,
molto
al castel del suo compagno appresso,
dove
venir senza aspettare invito
solea,
fosse o non fosse Argeo con esso;
e
dentro a quel per riposar fermosse
tanto
che del suo mal libero fosse.
Mentre
egli quivi si giacea, convenne
che
in certa sua bisogna andasse Argeo.
Tosto
questa sfacciata a tentar venne
il
mio fratello, ed a sua usanza feo;
ma
quel fedel non oltre più sostenne
avere
ai fianchi un stimulo sì reo:
elesse,
per servar sua fede a pieno,
di
molti mal quel che gli parve meno.
Tra
molti mal gli parve elegger questo:
lasciar
d'Argeo l'intrinsichezza antiqua;
lungi
andar sì, che non sia manifesto
mai
più il suo nome alla femina iniqua.
Ben
che duro gli fosse, era più onesto
che
satisfare a quella voglia obliqua,
o
che accusar la moglie al suo signore,
da
cui fu amata a par del proprio core.
E
de le sue ferite ancora infermo
l'arme
si veste, e del castel si parte;
e
con animo va costante e fermo
di
non mai più tornare in quella parte.
Ma
che gli val? che ogni difesa e schermo
gli
disipa Fortuna con nuova arte;
ecco
il marito che ritorna intanto,
e
trova la moglier che fa gran pianto,
e
scapigliata e con la faccia rossa;
e
le domanda di che sia turbata.
Prima
che ella a rispondere sia mossa,
pregar
si lascia più d'una fiata,
pensando
tuttavia come si possa
vendicar
di colui che l'ha lasciata:
e
ben convenne al suo mobile ingegno
cangiar
l'amore in subitano sdegno.
-
Deh (disse al fine), a che l'error nascondo
c'ho
commesso, signor, ne la tua assenza?
che
quando ancora io il celi a tutto il mondo,
celar
nol posso alla mia coscienza.
L'alma
che sente il suo peccato immondo,
pate
dentro da sé tal penitenza,
che
avanza ogn'altro corporal martire
che
dar mi possa alcun del mio fallire;
quando
fallir sia quel che si fa a forza:
ma
sia quel che si vuol, tu sappil'anco;
poi
con la spada da la immonda scorza
scioglie
lo spirto imaculato e bianco,
e
le mie luci eternamente ammorza;
che
dopo tanto vituperio, almanco
tenerle
basse ognor non mi bisogni,
e
di ciascun che io vegga, io mi vergogni.
Il
tuo compagno ha l'onor mio distrutto:
questo
corpo per forza ha violato;
e
perché teme che io ti narri il tutto,
or
si parte il villan senza commiato. -
In
odio con quel dir gli ebbe ridutto
colui
che più d'ogn'altro gli fu grato.
Argeo
lo crede, ed altro non aspetta;
ma
piglia l'arme e corre a far vendetta.
E
come quel che avea il paese noto,
lo
giunse che non fu troppo lontano;
che
il mio fratello, debole ed egroto,
senza
sospetto se ne gìa pian piano:
e
brevemente, in un loco remoto
pose,
per vendicarsene, in lui mano.
Non
trova il fratel mio scusa che vaglia;
che
in somma Argeo con lui vuol la battaglia.
Era
l'un sano e pien di nuovo sdegno,
infermo
l'altro, ed all'usanza amico:
sì
che ebbe il fratel mio poco ritegno
contra
il compagno fattogli nimico.
Dunque
Filandro di tal sorte indegno
(de
l'infelice giovene ti dico:
così
avea nome), non sofrendo il peso
di
sì fiera battaglia, restò preso.
-
Non piaccia a Dio che mi conduca a tale
il
mio giusto furore e il tuo demerto
(gli
disse Argeo), che mai sia omicidiale
di
te che amava; e me tu amavi certo,
ben
che nel fin me l'hai mostrato male;
pur
voglio a tutto il mondo fare aperto
che,
come fui nel tempo de l'amore,
così
ne l'odio son di te migliore.
Per
altro modo punirò il tuo fallo,
che
le mie man più nel tuo sangue porre. -
Così
dicendo, fece sul cavallo
di
verdi rami una bara comporre,
e
quasi morto in quella riportallo
dentro
al castello in una chiusa torre,
dove
in perpetuo per punizione
candannò
l'innocente a star prigione.
Non
però che altra cosa avesse manco,
che
la libertà prima del partire;
perché
nel resto, come sciolto e franco
vi
comandava e si facea ubidire.
Ma
non essendo ancor l'animo stanco
di
questa ria del suo pensier fornire,
quasi
ogni giorno alla prigion veniva;
che
avea le chiavi, e a suo piacer l'apriva:
e
movea sempre al mio fratello assalti,
e
con maggiore audacia che di prima.
-
Questa tua fedeltà (dicea) che valti,
poi
che perfidia per tutto si stima?
Oh
che trionfi gloriosi ed alti!
oh
che superbe spoglie e preda opima!
oh
che merito al fin te ne risulta,
se,
come a traditore, ognun t'insulta!
Quanto
utilmente, quanto con tuo onore
m'avresti
dato quel che da te volli!
Di
questo sì ostinato tuo rigore
la
gran mercé che tu guadagni, or tolli:
in
prigion sei, né crederne uscir fuore,
se
la durezza tua prima non molli.
Ma
quando mi compiacci, io farò trama
di
racquistarti e libertade e fama. -
-
No, no (disse Filandro) aver mai spene
che
non sia, come suol, mia vera fede,
se
ben contra ogni debito mi avviene
che
io ne riporti sì dura mercede,
e
di me creda il mondo men che bene:
basta
che inanti a quel che il tutto vede
e
mi può ristorar di grazia eterna,
chiara
la mia innocenza si discerna.
Se
non basta che Argeo mi tenga preso,
tolgami
ancor questa noiosa vita.
Forse
non mi fia il premio in ciel conteso
de
la buona opra, qui poco gradita.
Forse
egli, che da me si chiama offeso,
quando
sarà quest'anima partita,
s'avedrà
poi d'avermi fatto torto,
e
piangerà il fedel compagno morto. -
Così
più volte la sfacciata donna
tenta
Filandro, e torna senza frutto.
Ma
il cieco suo desir, che non assonna
del
scelerato amor traer costrutto,
cercando
va più dentro che alla gonna
suoi
vizi antiqui, e ne discorre il tutto.
Mille
pensier fa d'uno in altro modo,
prima
che fermi in alcun d'essi il chiodo.
Stette
sei mesi che non messe piede,
come
prima facea, ne la prigione;
di
che il miser Filandro e spera e crede
che
costei più non gli abbia affezione.
Ecco
Fortuna, al mal propizia, diede
a
questa scelerata occasione
di
metter fin con memorabil male
al
suo cieco appetito irrazionale.
Antiqua
nimicizia avea il marito
con
un baron detto Morando il bello,
che,
non v'essendo Argeo, spesso era ardito
di
correr solo, e sin dentro al castello;
ma
s'Argeo v'era, non tenea lo 'nvito,
né
s'accostava a dieci miglia a quello.
Or,
per poterlo indur che ci venisse,
d'ire
in Ierusalem per voto disse.
Disse
d'andare; e partesi che ognuno
lo
vede, e fa di ciò sparger le grida:
né
il suo pensier, fuor che la moglie, alcuno
puote
saper; che sol di lei si fida.
Torna
poi nel castello all'aer bruno,
né
mai, se non la notte, ivi s'annida;
e
con mutate insegne al nuovo albore,
senza
vederlo alcun, sempre esce fuore.
Se
ne va in questa e in quella parte errando,
e
volteggiando al suo castello intorno,
pur
per veder se credulo Morando
volesse
far, come solea, ritorno.
Stava
il dì tutto alla foresta; e quando
ne
la marina vedea ascoso il giorno,
venìa
al castello, e per nascose porte
lo
togliea dentro l'infedel consorte.
Crede
ciascun, fuor che l'iniqua moglie,
che
molte miglia Argeo lontan si trove.
Dunque
il tempo oportuno ella si toglie:
al
fratel mio va con malizie nuove.
Ha
di lagrime a tutte le sue voglie
un
nembo che dagli occhi al sen le piove.
-
Dove potrò (dicea) trovare aiuto,
che
in tutto l'onor mio non sia perduto?
E
col mio quel del mio marito insieme,
il
qual se fosse qui, non temerei.
Tu
conosci Morando, e sai se teme,
quando
Argeo non ci sente, omini e dei.
Questi
or pregando, or minacciando, estreme
prove
fa tuttavia, né alcun de' miei
lascia
che non contamini, per trarmi
a'
suoi desii, né so s'io potrò aitarmi.
Or
c'ha inteso il partir del mio consorte,
e
che al ritorno non sarà sì presto,
ha
avuto ardir d'entrar ne la mia corte
senza
altra scusa e senz'altro pretesto;
che
se ci fosse il mio signor per sorte,
non
sol non avria audacia di far questo,
ma
non si terria ancor, per Dio, sicuro
d'appressarsi
a tre miglia a questo muro.
E
quel che già per messi ha ricercato,
oggi
me l'ha richiesto a fronte a fronte,
e
con tai modi, che gran dubbio è stato
de
lo avvenirmi disonore ed onte,
e
se non che parlar dolce gli ho usato,
e
finto le mie voglie alle sue pronte,
saria
a forza, di quel suto rapace,
che
spera aver per mie parole in pace.
Promesso
gli ho, non già per osservargli
(che
fatto per timor, nullo è il contratto);
ma
la mia intenzion fu per vietargli
quel
che per forza avrebbe allora fatto.
Il
caso è qui: tu sol pòi rimediargli;
del
mio onor altrimenti sarà tratto,
e
di quel del mio Argeo, che già m'hai detto
aver
o tanto, o più che il proprio, a petto.
E
se questo mi nieghi, io dirò dunque
che
in te non sia la fé di che ti vanti;
ma
che fu sol per crudeltà, qualunque
volta
hai sprezzati i miei supplici pianti;
non
per rispetto alcun d'Argeo, quantunque
m'hai
questo scudo ognora opposto inanti.
Saria
stato tra noi la cosa occulta;
ma
di qui aperta infamia mi risulta. -
-
Non si convien (disse Filandro) tale
prologo
a me, per Argeo mio disposto.
Narrami
pur quel che tu vuoi, che quale
sempre
fui, di sempre essere ho proposto;
e
ben che a torto io ne riporti male,
a
lui non ho questo peccato imposto.
Per
lui son pronto andare anco alla morte,
e
siami contra il mondo e la mia sorte. -
Rispose
l'empia: - Io voglio che tu spenga
colui
che il nostro disonor procura.
Non
temer che alcun mal di ciò t'avenga;
che
io te ne mostrerò la via sicura.
Debbe
egli a me tornar come rivenga
su
l'ora terza la notte più scura;
e
fatto un segno de che io l'ho avvertito,
io
l'ho a tor dentro, che non sia sentito.
A
te non graverà prima aspettarme
ne
la camera mia dove non luca,
tanto
che dispogliar gli faccia l'arme,
e
quasi nudo in man te lo conduca. -
Così
la moglie conducesse parme
il
suo marito alla tremenda buca;
se
per dritto costei moglie s'appella,
più
che furia infernal crudele e fella.
Poi
che la notte scelerata venne,
fuor
trasse il mio fratel con l'arme in mano;
e
ne l'oscura camera lo tenne,
fin
che tornasse il miser castellano.
Come
ordine era dato, il tutto avvenne;
che
il consiglio del mal va raro invano.
Così
Filandro il buon Argeo percosse,
che
si pensò che quel Morando fosse.
Con
esso un colpo il capo fesse e il collo;
che
elmo non v'era, e non vi fu riparo.
Pervenne
Argeo, senza pur dare un crollo,
de
la misera vita al fine amaro:
e
tal l'uccise, che mai non pensollo,
né
mai l'avria creduto: oh caso raro!
che
cercando giovar, fece all'amico
quel
di che peggio non si fa al nimico.
Poscia
che Argeo non conosciuto giacque,
rende
a Gabrina il mio fratel la spada.
Gabrina
è il nome di costei, che nacque
sol
per tradire ognun che in man le cada.
Ella,
che il ver fin a quell'ora tacque,
vuol
che Filandro a riveder ne vada
col
lume in mano il morto ond'egli è reo:
e
gli dimostra il suo compagno Argeo.
E
gli minaccia poi, se non consente
all'amoroso
suo lungo desire,
di
palesare a tutta quella gente
quel
che egli ha fatto, e nol può contradire;
e
lo farà vituperosamente
come
assassino e traditor morire:
e
gli ricorda che sprezzar la fama
non
de', se ben la vita sì poco ama.
Pien
di paura e di dolor rimase
Filandro,
poi che del suo error s'accorse.
Quasi
il primo furor gli persuase
d'uccider
questa, e stette un pezzo in forse:
e
se non che ne le nimiche case
si
ritrovò (che la ragion soccorse),
non
si trovando avere altr'arme in mano,
coi
denti la stracciava a brano a brano.
Come
ne l'alto mar legno talora,
che
da duo venti sia percosso e vinto,
che
ora uno inanzi l'ha mandato, ed ora
un
altro al primo termine respinto,
e
l'han girato da poppa e da prora,
dal
più possente al fin resta sospinto;
così
Filandro, tra molte contese
de'
duo pensieri, al manco rio s'apprese.
Ragion
gli dimostrò il pericol grande,
oltre
al morir, del fine infame e sozzo,
se
l'omicidio nel castel si spande;
e
del pensare il termine gli è mozzo.
Voglia
o non voglia, al fin convien che mande
l'amarissimo
calice nel gozzo.
Pur
finalmente ne l'afflitto core
più
de l'ostinazion poté il timore.
Il
timor del supplicio infame e brutto
prometter
fece con mille scongiuri,
che
faria di Gabrina il voler tutto,
se
di quel luogo se partian sicuri.
Così
per forza colse l'empia il frutto
del
suo desire, e poi lasciar quei muri.
Così
Filandro a noi fece ritorno,
di
sé lasciando in Grecia infamia e scorno.
E
portò nel cor fisso il suo compagno
che
così scioccamente ucciso avea,
per
far con sua gran noia empio guadagno
d'una
Progne crudel, d'una Medea.
E
se la fede e il giuramento, magno
e
duro freno, non lo ritenea,
come
al sicuro fu, morta l'avrebbe;
ma,
quanto più si puote, in odio l'ebbe.
Non
fu da indi in qua rider mai visto:
tutte
le sue parole erano meste,
sempre
sospir gli uscian dal petto tristo,
ed
era divenuto un nuovo Oreste,
poi
che la madre uccise e il sacro Egisto,
e
che l'ultrice Furie ebbe moleste.
E
senza mai cessar, tanto l'afflisse
questo
dolor, che infermo al letto il fisse.
Or
questa meretrice, che si pensa
quanto
a quest'altro suo poco sia grata,
muta
la fiamma già d'amore intensa
in
odio, in ira ardente ed arrabbiata;
né
meno è contra al mio fratello accensa,
che
fosse contra Argeo la scelerata:
e
dispone tra sé levar dal mondo,
come
il primo marito, anco il secondo.
Un
medico trovò d'inganni pieno,
sufficiente
ed atto a simil uopo,
che
sapea meglio uccider di veneno,
che
risanar gli infermi di silopo;
e
gli promesse, inanzi più che meno
di
quel che domandò, donargli, dopo
che
avesse con mortifero liquore
levatole
dagli occhi il suo signore.
Già
in mia presenza e d'altre più persone
venìa
col tosco in mano il vecchio ingiusto,
dicendo
che era buona pozione
da
ritornare il mio fratel robusto.
Ma
Gabrina con nuova intenzione,
pria
che l'infermo ne turbasse il gusto,
per
torsi il consapevole d'appresso,
o
per non dargli quel che avea promesso,
la
man gli prese, quando a punto dava
la
tazza dove il tosco era celato,
dicendo:
- Ingiustamente è se il ti grava
che
io tema per costui c'ho tanto amato.
Voglio
esser certa che bevanda prava
tu
non gli dia, né succo avelenato;
e
per questo mi par che il beveraggio
non
gli abbi a dar, se non ne fai tu il saggio. -
Come
pensi, signor, che rimanesse
il
miser vecchio conturbato allora?
La
brevità del tempo sì l'oppresse,
che
pensar non poté che meglio fôra;
pur,
per non dar maggior sospetto, elesse
il
calice gustar senza dimora:
e
l'infermo, seguendo una tal fede,
tutto
il resto pigliò, che si gli diede.
Come
sparvier che nel piede grifagno
tenga
la starna e sia per trarne pasto,
dal
can che si tenea fido compagno,
ingordamente
è sopragiunto e guasto;
così
il medico intento al rio guadagno,
donde
sperava aiuto ebbe contrasto.
Odi
di summa audacia esempio raro!
e
così avvenga a ciascun altro avaro.
Fornito
questo, il vecchio s'era messo,
per
ritornare alla sua stanza, in via,
ed
usar qualche medicina appresso,
che
lo salvasse da la peste ria;
ma
da Gabrina non gli fu concesso,
dicendo
non voler che andasse pria
che
il succo ne lo stomaco digesto
il
suo valor facesse manifesto.
Pregar
non val, né far di premio offerta,
che
lo voglia lasciar quindi partire.
Il
disperato, poi che vede certa
la
morte sua, né la poter fuggire,
ai
circostanti fa la cosa aperta;
né
la seppe costei troppo coprire.
E
così quel che fece agli altri spesso,
quel
buon medico al fin fece a se stesso:
e
sequitò con l'alma quella che era
già
de mio frate caminata inanzi.
Noi
circostanti, che la cosa vera
del
vecchio udimmo, che fe' pochi avanzi,
pigliammo
questa abominevol fera,
più
crudel di qualunque in selva stanzi;
e
la serrammo in tenebroso loco,
per
condannarla al meritato foco. -
Questo
Ermonide disse, e più voleva
seguir,
com'ella di prigion levossi;
ma
il dolor de la piaga si l'aggreva,
che
pallido ne l'erba riversossi.
Intanto
duo scudier, che seco aveva,
fatto
una bara avean di rami grossi:
Ermonide
si fece in quella porre;
che
indi altrimente non si potea torre.
Zerbin
col cavallier fece sua scusa,
che
gli increscea d'averli fatto offesa;
ma,
come pur tra cavallieri s'usa,
colei
che venìa seco avea difesa:
che
altrimente sua fé saria confusa;
perché,
quando in sua guardia l'avea presa,
promesse
a sua possanza di salvarla
contra
ognun che venisse a disturbarla.
E
s'in altro potea gratificargli,
prontissimo
offeriase alla sua voglia.
Rispose
il cavallier, che ricordargli
sol
vuol, che da Gabrina si discioglia
prima
che ella abbia cosa a machinargli,
di
che esso indarno poi si penta e doglia.
Gabrina
tenne sempre gli occhi bassi,
perché
non ben risposta al vero dassi.
Con
la vecchia Zerbin quindi partisse
al
già promesso debito viaggio;
e
tra sé tutto il dì la maledisse,
che
far gli fece a quel barone oltraggio.
Ed
or che pel gran mal che gli ne disse
chi
lo sapea, di lei fu istrutto e saggio,
se
prima l'avea a noia e a dispiacere,
or
l'odia sì che non la può vedere.
Ella
che di Zerbin sa l'odio a pieno,
né
in mala voluntà vuole esser vinta,
un'oncia
a lui non ne riporta meno:
la
tien di quarta, e la rifà di quinta.
Nel
cor era gonfiata di veneno,
e
nel viso altrimente era dipinta.
Dunque
ne la concordia che io vi dico,
tenean
lor via per mezzo il bosco antico.
Ecco,
volgendo il sol verso la sera,
udiron
gridi e strepiti e percosse,
che
facean segno di battaglia fiera
che,
quanto era il rumor, vicina fosse.
Zerbino,
per veder la cosa che era,
verso
il rumore in gran fretta si mosse:
non
fu Gabrina lenta a seguitarlo.
Di
quel che avvenne, all'altro canto io parlo.
CANTO
VENTIDUESIMO
Cortesi
donne e grate al vostro amante,
voi
che d'un solo amor sète contente,
come
che certo sia, fra tante e tante,
che
rarissime siate in questa mente;
non
vi dispiaccia quel che io dissi inante,
quando
contra Gabrina fui sì ardente,
e
s'ancor son per spendervi alcun verso,
di
lei biasmando l'animo perverso.
Ella
era tale; e come imposto fummi
da
chi può in me, non preterisco il vero.
Per
questo io non oscuro gli onor summi
d'una
e d'un'altra che abbia il cor sincero.
Quel
che il Maestro suo per trenta nummi
diede
a' Iudei, non nocque a Ianni o a Piero;
né
d'Ipermestra è la fama men bella,
se
ben di tante inique era sorella.
Per
una che biasmar cantando ardisco
(che
l'ordinata istoria così vuole),
lodarne
cento incontra m'offerisco,
e
far lor virtù chiara più che il sole.
Ma
tornando al lavor che vario ordisco,
che
a molti, lor mercé, grato esser suole,
del
cavallier di Scozia io vi dicea,
che
un alto grido appresso udito avea.
Fra
due montagne entrò in un stretto calle
onde
uscia il grido, e non fu molto inante,
che
giunse dove in una chiusa valle
si
vide un cavallier morto davante.
Chi
sia dirò; ma prima dar le spalle
a
Francia voglio, e girmene in Levante,
tanto
che io trovi Astolfo paladino,
che
per Ponente avea preso il camino.
Io
lo lasciai ne la città crudele,
onde
col suon del formidabil corno
avea
cacciato il populo infedele,
e
gran periglio toltosi d'intorno,
ed
a' compagni fatto alzar le vele,
e
dal lito fuggir con grave scorno.
Or
seguendo di lui, dico che prese
la
via d'Armenia, e uscì di quel paese.
E
dopo alquanti giorni in Natalia
trovossi,
e inverso Bursia il camin tenne;
onde,
continuando la sua via
di
qua dal mare, in Tracia se ne venne.
Lungo
il Danubio andò per l'Ungaria;
e
come avesse il suo destrier le penne,
i
Moravi e i Boemi passò in meno
di
venti giorni e la Franconia e il Reno.
Per
la selva d'Ardenna in Aquisgrana
giunse
e in Barbante, e in Fiandra al fin s'imbarca.
L'aura
che soffia verso tramontana,
la
vela in guisa in su la prora carca,
che
a mezzo giorno Astolfo non lontana
vede
Inghilterra, ove nel lito varca.
Salta
a cavallo, e in tal modo lo punge,
che
a Londra quella sera ancora giunge.
Quivi
sentendo poi che il vecchio Otone
già
molti mesi inanzi era in Parigi,
e
che di nuovo quasi ogni barone
avea
imitato i suoi degni vestigi;
d'andar
subito in Francia si dispone:
e
così torna al porto di Tamigi,
onde
con le vele alte uscendo fuora,
verso
Calessio fe' drizzar la prora.
Un
ventolin che leggiermente all'orza
ferendo,
avea adescato il legno all'onda,
a
poco a poco cresce e si rinforza;
poi
vien sì, che al nocchier ne soprabonda.
Che
li volti la poppa al fine è forza;
se
non, gli caccerà sotto la sponda.
Per
la schena del mar tien dritto il legno,
e
fa camin diverso al suo disegno.
Or
corre a destra, or a sinistra mano,
di
qua di là, dove fortuna spinge,
e
piglia terra al fin presso a Roano;
e
come prima il dolce lito attinge,
fa
rimetter la sella a Rabicano,
e
tutto s'arma e la spada si cinge.
Prende
il camino, ed ha seco quel corno
che
gli val più che mille uomini intorno.
E
giunse, traversando una foresta,
a
piè d'un colle ad una chiara fonte,
ne
l'ora che il monton di pascer resta,
chiuso
in capanna, o sotto un cavo monte.
E
dal gran caldo e da la sete infesta
vinto,
si trasse l'elmo da la fronte;
legò
il destrier tra le più spesse fronde,
e
poi venne per bere alle fresche onde.
Non
avea messo ancor le labra in molle,
che
un villanel che v'era ascoso appresso,
sbuca
fuor d'una macchia, e il destrier tolle,
sopra
vi sale, e se ne va con esso.
Astolfo
il rumor sente, eil capo estolle;
e
poi che il danno suo vede sì espresso,
lascia
la fonte, e sazio senza bere,
gli
va dietro correndo a più potere.
Quel
ladro non si stende a tutto corso,
che
dileguato si saria di botto;
ma
or lentando or raccogliendo il morso,
se
ne va di galoppo e di buon trotto.
Escon
del bosco dopo un gran discorso;
e
l'uno e l'altro al fin si fu ridotto
là
dove tanti nobili baroni
eran
senza prigion più che prigioni.
Dentro
il palagio il villanel si caccia
con
quel destrier che i venti al corso adegua.
Forza
è che Astolfo, il qual lo scudo impaccia,
l'elmo
e l'altr'arme, di lontan lo segua.
Pur
giunge anche egli, e tutta quella traccia
che
fin qui avea seguita, si dilegua;
che
più né Rabican né il ladro vede,
e
gira gli occhi, e indarno affretta il piede;
affretta
il piede e va cercando invano
e
le logge e le camere e le sale;
ma
per trovare il perfido villano,
di
sua fatica nulla si prevale.
Non
sa dove abbia ascoso Rabicano,
quel
suo veloce sopra ogni animale;
e
senza frutto alcun tutto quel giorno
cercò
di su di giù, dentro e d'intorno.
Confuso
e lasso d'aggirarsi tanto,
s'avvide
che quel loco era incantato;
e
del libretto che avea sempre a canto,
che
Logistilla in India gli avea dato,
acciò
che, ricadendo in nuovo incanto,
potessi
aitarsi, si fu ricordato:
all'indice
ricorse, e vide tosto
a
quante carte era il rimedio posto.
Del
palazzo incantato era difuso
scritto
nel libro; e v'eran scritti i modi
di
fare il mago rimaner confuso,
e
a tutti quei prigion di sciorre i nodi.
Sotto
la soglia era uno spirto chiuso,
che
facea questi inganni e queste frodi:
e
levata la pietra ov'è sepolto,
per
lui sarà il palazzo in fumo sciolto.
Desideroso
di condurre a fine
il
paladin sì gloriosa impresa,
non
tarda più che il braccio non inchine
a
provar quanto il grave marmo pesa.
Come
Atlante le man vede vicine
per
far che l'arte sua sia vilipesa,
sospettoso
di quel che può avvenire,
lo
va con nuovi incanti ad assalire.
Lo
fa con diaboliche sue larve
parer
da quel diverso, che solea:
gigante
ad altri, ad altri un villan parve,
ad
altri un cavallier di faccia rea.
Ognuno
in quella forma in che gli apparve
nel
bosco il mago, il paladin vedea;
sì
che per riaver quel che gli tolse
il
mago, ognuno al paladin si volse.
Ruggier,
Gradasso, Iroldo, Bradamante,
Brandimarte,
Prasildo, altri guerrieri
in
questo nuovo error si fero inante,
per
distruggere il duca accesi e fieri.
Ma
ricordossi il corno in quello istante,
che
fe' loro abbassar gli animi altieri.
Se
non si soccorrea col grave suono,
morto
era il paladin senza perdono.
Ma
tosto che si pon quel corno a bocca
e
fa sentire intorno il suono orrendo,
a
guisa dei colombi, quando scocca
lo
scoppio, vanno i cavallier fuggendo.
Non
meno al negromante fuggir tocca,
non
men fuor de la tana esce temendo
pallido
e sbigottito, e se ne slunga
tanto,
che il suono orribil non lo giunga.
Fuggì
il guardian coi suo' prigioni; e dopo
de
le stalle fuggir molti cavalli,
che
altro che fune a ritenerli era uopo,
e
seguiro i patron per vari calli.
In
casa non restò gatta né topo
al
suon che par che dica: Dàlli, dàlli.
Sarebbe
ito con gli altri Rabicano,
se
non che all'uscir venne al duca in mano.
Astolfo,
poi che ebbe cacciato il mago,
levò
di su la soglia il grave sasso,
e
vi ritrovò sotto alcuna imago,
ed
altre cose che di scriver lasso:
e
di distrugger quello incanto vago,
di
ciò che vi trovò, fece fraccasso,
come
gli mostra il libro che far debbia;
e
si sciolse il palazzo in fumo e in nebbia.
Quivi
trovò che di catena d'oro
di
Ruggiero il cavallo era legato,
parlo
di quel che il negromante moro
per
mandarlo ad Alcina gli avea dato;
a
cui poi Logistilla fe' il lavoro
del
freno, ond'era in Francia ritornato,
e
girato da l'India all'Inghilterra
tutto
avea il lato destro de la terra.
Non
so se vi ricorda che la briglia
lasciò
attaccata all'arbore quel giorno
che
nuda da Ruggier sparì la figlia
di
Galafrone, e gli fe' l'alto scorno.
Fe'
il volante destrier, con maraviglia
di
chi lo vide, al mastro suo ritorno;
e
con lui stette infin al giorno sempre,
che
de l'incanto fur rotte le tempre.
Non
potrebbe esser stato più giocondo
d'altra
aventura Astolfo, che di questa;
che
per cercar la terra e il mar, secondo
che
avea desir, quel che a cercar gli resta,
e
girar tutto in pochi giorni il mondo,
troppo
venìa questo ippogrifo a sesta.
Sapea
egli ben quanto a portarlo era atto,
che
l'avea altrove assai provato in fatto.
Quel
giorno in India lo provò, che tolto
da
la savia Melissa fu di mano
a
quella scelerata che travolto
gli
avea in mirto silvestre il viso umano:
e
ben vide e notò come raccolto
gli
fu sotto la briglia il capo vano
da
Logistilla, e vide come istrutto
fosse
Ruggier di farlo andar per tutto.
Fatto
disegno l'ippogrifo torsi,
la
sella sua, che appresso avea, gli messe;
e
gli fece, levando da più morsi
una
cosa ed un'altra, un che lo resse;
che
dei destrier che in fuga erano corsi,
quivi
attaccate eran le briglie spesse.
Ora
un pensier di Rabicano solo
lo
fa tardar che non si leva a volo.
D'amar
quel Rabicano avea ragione;
che
non v'era un miglior per correr lancia,
e
l'avea da l'estrema regione
de
l'India cavalcato insin in Francia.
Pensa
egli molto; e in somma si dispone
darne
più tosto ad un suo amico mancia,
che,
lasciandolo quivi in su la strada,
se
l'abbia il primo che a passarvi accada.
Stava
mirando se vedea venire
pel
bosco o cacciatore o alcun villano,
da
cui far si potesse indi seguire
a
qualche terra, e trarvi Rabicano.
Tutto
quel giorno e sin all'apparire
de
l'altro stette riguardando invano.
L'altro
matin, che era ancor l'aer fosco,
veder
gli parve un cavallier pel bosco.
Ma
mi bisogna, s'io vo' dirvi il resto,
che
io trovi Ruggier prima e Bradamante.
Poi
che si tacque il corno, e che da questo
loco
la bella coppia fu distante,
guardò
Ruggiero, e fu a conoscer presto
quel
che fin qui gli avea nascoso Atlante:
fatto
avea Atlante che fin a quell'ora
tra
lor non s'eran conosciuti ancora.
Ruggier
riguarda Bradamante, ed ella
riguarda
lui con alta maraviglia,
che
tanti dì l'abbia offuscato quella
illusion
sì l'animo e le ciglia.
Ruggiero
abbraccia la sua donna bella,
che
più che rosa ne divien vermiglia;
e
poi di su la bocca i primi fiori
cogliendo
vien dei suoi beati amori.
Tornaro
ad iterar gli abbracciamenti
mille
fiate, ed a tenersi stretti
i
duo felici amanti, e sì contenti,
che
a pena i gaudi lor capiano i petti.
Molto
lor duol che per incantamenti,
mentre
che fur negli errabondi tetti,
tra
lor non s'eran mai riconosciuti,
e
tanti lieti giorni eran perduti.
Bradamante,
disposta di far tutti
i
piaceri che far vergine saggia
debbia
ad un suo amator, sì che di lutti,
senza
il suo onore offendere, il sottraggia;
dice
a Ruggier, se a dar gli ultimi frutti
lei
non vuol sempre aver dura e selvaggia,
la
faccia domandar per buoni mezzi
al
padre Amon: ma prima si battezzi.
Ruggier,
che tolto avria non solamente
viver
cristiano per amor di questa,
com'era
stato il padre, e antiquamente
l'avolo
e tutta la sua stirpe onesta;
ma,
per farle piacere, immantinente
data
le avria la vita che gli resta:
-
Non che ne l'acqua (disse), ma nel fuoco
per
tuo amor porre il capo mi fia poco. -
Per
battezzarsi dunque, indi per sposa
la
donna aver, Ruggier si messe in via,
guidando
Bradamante a Vallombrosa
(così
fu nominata una badia
ricca
e bella, né men religiosa,
e
cortese a chiunque vi venìa);
e
trovaro all'uscir de la foresta
donna
che molto era nel viso mesta.
Ruggier,
che sempre uman, sempre cortese
era
a ciascun, ma più alle donne molto,
come
le belle lacrime comprese
cader
rigando il delicato volto,
n'ebbe
pietade, e di disir s'accese
di
saper il suo affanno; ed a lei volto,
dopo
onesto saluto, domandolle
perche
avea sì di pianto il viso molle.
Ed
ella, alzando i begli umidi rai,
umanissimamente
gli rispose,
e
la cagion de' suoi penosi guai,
poi
che le domandò, tutta gli espose.
-
Gentil signor (disse ella), intenderai
che
queste guance son sì lacrimose
per
la pietà che a un giovinetto porto,
che
in un castel qui presso oggi fia morto.
Amando
una gentil giovane e bella,
che
di Marsilio re di Spagna è figlia,
sotto
un vel bianco e in feminil gonella,
finta
la voce e il volger de le ciglia,
egli
ogni notte si giacea con quella,
senza
darne sospetto alla famiglia:
ma
sì secreto alcuno esser non puote,
che
al lungo andar non sia chi il vegga e note.
Se
n'accorse uno, e ne parlò con dui;
gli
dui con altri, insin che al re fu detto.
Venne
un fedel del re l'altr'ieri a nui,
che
questi amanti fe' pigliar nel letto;
e
ne la rocca gli ha fatto ambedui
divisamente
chiudere in distretto:
né
credo per tutto oggi che abbia spazio
il
gioven, che non mora in pena e in strazio.
Fuggita
me ne son per non vedere
tal
crudeltà; che vivo l'arderanno:
né
cosa mi potrebbe più dolere,
che
faccia di sì bel giovine il danno;
né
potrò aver giamai tanto piacere,
che
non si volga subito in affanno,
che
de la crudel fiamma mi rimembri,
che
abbia arsi i belli e delicati membri. -
Bradamante
ode, e par che assai le prema
questa
novella, e molto il cor l'annoi;
né
par che men per quel dannato tema,
che
se fosse uno dei fratelli suoi.
Né
certo la paura in tutto scema
era
di causa, come io dirò poi.
Si
volse ella a Ruggiero, e disse: - Parme
che
in favor di costui sien le nostr'arme. -
E
disse a quella mesta: - Io ti conforto
che
tu vegga di porci entro alle mura,
che
se il giovine ancor non avran morto,
più
non l'uccideran, stanne sicura. -
Ruggiero,
avendo il cor benigno scorto
de
la sua donna e la pietosa cura,
sentì
tutto infiammarsi di desire
di
non lasciare il giovine morire.
Ed
alla donna, a cui dagli occhi cade
un
rio di pianto, dice: - Or che s'aspetta?
Soccorrer
qui, non lacrimare accade:
fa
che ove è questo tuo, pur tu ci metta.
Di
mille lance trar, di mille spade
tel
promettian, pur che ci meni in fretta:
ma
studia il passo più che puoi, che tarda
non
sia l'aita, e intanto il fuoco l'arda. -
L'alto
parlare e la fiera sembianza
di
quella coppia a maraviglia ardita,
ebbon
di tornar forza la speranza
colà
dond'era già tutta fuggita;
ma
perche ancor, più che la lontananza,
temeva
il ritrovar la via impedita,
e
che saria per questo indarno presa,
stava
la donna in sé tutta sospesa.
Poi
disse lor: - Facendo noi la via
che
dritta e piana va fin a quel loco,
credo
che a tempo vi si giungeria,
che
non sarebbe ancora acceso il fuoco:
ma
gir convien per così torta e ria,
che
il termine d'un giorno saria poco
a
riuscirne; e quando vi saremo,
che
troviam morto il giovine mi temo. -
-
E perché non andian (disse Ruggiero)
per
la più corta? - E la donna rispose:
-
Perché un castel de' conti da Pontiero
tra
via si trova, ove un costume pose,
non
son tre giorni ancora, iniquo e fiero
a
cavallieri e a donne aventurose,
Pinabello,
il peggior uomo che viva,
figliuol
del conte Anselmo d'Altariva.
Quindi
né cavallier né donna passa,
che
se ne vada senza ingiuria e danni:
l'uno
e l'altro a piè resta; ma vi lassa
il
guerrier l'arme, e la donzella i panni.
Miglior
cavallier lancia non abbassa,
e
non abbassò in Francia già molt'anni,
di
quattro che giurato hanno al castello
la
legge mantener di Pinabello.
Come
l'usanza (che non è più antiqua
di
tre dì) cominciò, vi vo' narrare;
e
sentirete se fu dritta o obliqua
cagion
che i cavallier fece giurare.
Pinabello
ha una donna così iniqua,
così
bestial, che al mondo è senza pare;
che
con lui, non so dove, andando un giorno,
ritrovò
un cavallier che le fe' scorno.
Il
cavallier, perché da lei beffato
fu
d'una vecchia che portava in groppa,
giostrò
con Pinabel che era dotato
di
poca forza e di superbia troppa;
ed
abbattello, e lei smontar nel prato
fece,
e provò s'andava dritta o zoppa:
lasciolla
a piede, e fe' de la gonella
di
lei vestir l'antiqua damigella.
Quella
che a piè rimase, dispettosa,
e
di vendetta ingorda e sitibonda,
congiunta
a Pinabel che d'ogni cosa
dove
sia da mal far, ben la seconda,
né
giorno mai, né notte mai riposa,
e
dice che non fia mai più gioconda,
se
mille cavallieri e mille donne
non
mette a piedi, e lor tolle arme e gonne.
Giunsero
il dì medesmo, come accade,
quattro
gran cavallieri ad un suo loco,
li
quai di rimotissime contrade
venuti
a queste parti eran di poco;
di
tal valor, che non ha nostra etade
tant'altri
buoni al bellicoso gioco:
Aquilante,
Grifone e Sansonetto,
ed
un Guidon Selvaggio giovinetto.
Pinabel
con sembiante assai cortese
al
castel che io v'ho detto gli raccolse.
La
notte poi tutti nel letto prese,
e
presi tenne; e prima non li sciolse,
che
li fece giurar che un anno e un mese
(questo
fu a punto il termine che tolse)
stariano
quivi, e spogliarebbon quanti
vi
capitasson cavallieri erranti;
e
le donzelle che avesson con loro
porriano
a piedi, e torrian lor le vesti.
Così
giurar, così costretti foro
ad
osservar, ben che turbati e mesti.
Non
par che fin a qui contra costoro
alcun
possa giostrar, che a piè non resti:
e
capitati vi sono infiniti,
che
a piè e senz'arme se ne son partiti.
È
ordine tra lor, che chi per sorte
esce
fuor prima, vada a correr solo:
ma
se trova il nimico così forte,
che
resti in sella, e getti lui nel suolo,
sono
ubligati gli altri infin a morte
pigliar
l'impresa tutti in uno stuolo.
Vedi
or, se ciascun d'essi è così buono,
quel
che esser de', se tutti insieme sono.
Poi
non conviene all'importanza nostra
che
ne vieta ogni indugio, ogni dimora,
che
punto vi fermiate a quella giostra;
e
presuppongo che vinciate ancora,
che
vostra alta presenza lo dimostra,
ma
non è cosa da fare in un'ora;
ed
è gran dubbio che il giovine s'arda,
se
tutto oggi a soccorrerlo si tarda. -
Disse
Ruggier: - Non riguardiamo a questo:
facciàn
nui quel che si può far per nui;
abbia
chi regge il ciel cura del resto,
o
la Fortuna, se non tocca a lui.
Ti
fia per questa giostra manifesto,
se
buoni siamo d'aiutar colui
che
per cagion sì debole e sì lieve,
come
n'hai detto, oggi bruciar si deve. -
Senza
risponder altro, la donzella
si
messe per la via che era più corta.
Più
di tre miglia non andar per quella,
che
si trovaro al ponte ed alla porta
dove
si perdon l'arme e la gonnella,
e
de la vita gran dubbio si porta.
Al
primo apparir lor, di su la rocca
è
chi duo botti la campana tocca.
Ed
ecco de la porta con gran fretta,
trottando
s'un ronzino, un vecchio uscìo;
e
quel venìa gridando: - Aspetta aspetta:
restate
olà, che qui si paga il fio:
e
se l'usanza non v'è stata detta,
che
qui si tiene, or ve la vo' dir io. -
E
contar loro incominciò di quello
costume,
che servar fa Pinabello.
Poi
seguitò, volendo dar consigli,
com'era
usato agli altri cavallieri:
-
Fate spogliar la donna (dicea), figli,
e
voi l'arme lasciateci e i destrieri;
e
non vogliate mettervi a perigli
d'andare
incontra a tai quattro guerrieri.
Per
tutto vesti, arme e cavalli s'hanno:
la
vita sol mai non ripara il danno. -
-
Non più (disse Ruggier), non più; che io sono
del
tutto informatissimo, e qui venni
per
far prova di me, se così buono
in
fatti son, come nel cor mi tenni.
Arme,
vesti e cavallo altrui non dono,
s'altro
non sento che minacce e cenni;
e
son ben certo ancor, che per parole
il
mio compagno le sue dar non vuole.
Ma,
per Dio, fa che io vegga tosto in fronte
quei
che ne voglion torre arme e cavallo;
che
abbiamo da passar anco quel monte,
e
qui non si può far troppo intervallo. -
Rispose
il vecchio: - Eccoti fuor del ponte
chi
vien per farlo: - e non lo disse in fallo;
che
un cavallier n'uscì, che sopraveste
vermiglie
avea, di bianchi fior conteste.
Bradamante
pregò molto Ruggiero
che
le lasciasse in cortesia l'assunto
di
gittar de la sella il cavalliero,
che
avea di fiori il bel vestir trapunto;
ma
non poté impetrarlo, e fu mestiero
a
lei far ciò che Ruggier volse a punto.
Egli
volse l'impresa tutta avere,
e
Bradamante si stesse a vedere.
Ruggiero
al vecchio domandò chi fosse
questo
primo che uscia fuor de la porta.
-
È Sansonetto (disse); che le rosse
veste
conosco e i bianchi fior che porta. -
L'uno
di qua, l'altro di là si mosse
senza
parlarsi, e fu l'indugia corta;
che
s'andaro a trovar coi ferri bassi,
molto
affrettando i lor destrieri i passi.
In
questo mezzo de la rocca usciti
eran
con Pinabel molti pedoni,
presti
per levar l'arme ed espediti
ai
cavallier che uscian fuor degli arcioni.
Veniansi
incontra i cavallieri arditi,
fermando
in su le reste i gran lancioni,
grossi
duo palmi, di nativo cerro,
che
quasi erano uguali insino al ferro.
Di
tali n'avea più d'una decina
fatto
tagliar di su lor ceppi vivi
Sansonetto
a una selva indi vicina,
e
portatone duo per giostrar quivi.
Aver
scudo e corazza adamantina
bisogna
ben, che le percosse schivi.
Aveane
fatto dar, tosto che venne,
l'uno
a Ruggier, l'altro per sé ritenne.
Con
questi, che passar dovean gli incudi
(sì
ben ferrate avean le punte estreme),
di
qua e di là fermandoli agli scudi,
a
mezzo il corso si scontraro insieme.
Quel
di Ruggiero, che i demòni ignudi
fece
sudar, poco del colpo teme:
de
lo scudo vo' dir che fece Atlante,
de
le cui forze io v'ho già detto inante.
Io
v'ho già detto che con tanta forza
l'incantato
splendor negli occhi fere,
che
al discoprirsi ogni veduta ammorza,
e
tramortito l'uom fa rimanere:
perciò,
s'un gran bisogno non lo sforza,
d'un
vel coperto lo solea tenere.
Si
crede che anco impenetrabil fosse,
poi
che a questo incontrar nulla si mosse.
L'altro,
che ebbe l'artefice men dotto,
il
gravissimo colpo non sofferse.
Come
tocco da fulmine, di botto
diè
loco al ferro, e pel mezzo s'aperse;
diè
loco al ferro, e quel trovò di sotto
il
braccio che assai mal si ricoperse;
sì
che ne fu ferito Sansonetto,
e
de la sella tratto al suo dispetto.
E
questo il primo fu di quei compagni
che
quivi mantenean l'usanza fella,
che
de le spoglie altrui non fe' guadagni,
e
che alla giostra uscì fuor de la sella.
Convien
chi ride, anco talor si lagni,
e
Fortuna talor trovi ribella.
Quel
da la rocca, replicando il botto,
ne
fece agli altri cavallieri motto.
S'era
accostato Pinabello intanto
a
Bradamante, per saper chi fusse
colui
che con prodezza e valor tanto
il
cavallier del suo castel percusse.
La
giustizia di Dio, per dargli quanto
era
il merito suo, vi lo condusse
su
quel destrier medesimo che inante
tolto
avea per inganno a Bradamante.
Fornito
a punto era l'ottavo mese
che,
con lei ritrovandosi a camino,
(se
il vi raccorda) questo Maganzese
la
gittò ne la tomba di Merlino,
quando
da morte un ramo la difese,
che
seco cadde, anzi il suo buon destino;
e
trassene, credendo ne lo speco
che
ella fosse sepolta, il destrier seco.
Bradamante
conosce il suo cavallo,
e
conosce per lui l'iniquo conte;
e
poi che ode la voce, e vicino hallo
con
maggiore attenzion mirato in fronte:
-
Questo è il traditor (disse), senza fallo,
che
procacciò di farmi oltraggio ed onte:
ecco
il peccato suo, che l'ha condutto
ove
avrà de' suoi merti il premio tutto. -
Il
minacciare e il por mano alla spada
fu
tutto a un tempo, e lo aventarsi a quello;
ma
inanzi tratto gli levò la strada,
che
non poté fuggir verso il castello.
Tolta
è la speme che a salvar si vada,
come
volpe alla tana, Pinabello.
Egli
gridando e senza mai far testa,
fuggendo
si cacciò ne la foresta.
Pallido
e sbigottito il miser sprona,
che
posto ha nel fuggir l'ultima speme.
L'animosa
donzella di Dordona
gli
ha il ferro ai fianchi, e lo percuote e preme:
vien
con lui sempre, e mai non l'abbandona.
Grande
è il rumore, e il bosco intorno geme.
Nulla
al castel di questo ancor s'intende,
però
che ognuno a Ruggier solo attende.
Gli
altri tre cavallier de la fortezza
intanto
erano usciti in su la via;
ed
avean seco quella male avezza
che
v'avea posta la costuma ria.
A
ciascun di lor tre, che il morir prezza
più
che aver vita che con biasmo sia,
di
vergogna arde il viso, e il cor di duolo,
che
tanti ad assalir vadano un solo.
La
crudel meretrice che avea fatto
por
quella iniqua usanza ed osservarla,
il
giuramento lor ricorda e il patto
che
essi fatti l'avean, di vendicarla.
-
Se sol con questa lancia te gli abbatto,
perché
mi vòi con altre accompagnarla?
(dicea
Guidon Selvaggio): e s'io ne mento,
levami
il capo poi, che io son contento. -
Così
dicea Grifon, così Aquilante.
Giostrar
da sol a sol volea ciascuno,
e
preso e morto rimanere inante
che
incontra un sol volere andar più d'uno.
La
donna dicea loro: - A che far tante
parole
qui senza profitto alcuno?
Per
torre a colui l'arme io v'ho qui tratti,
non
per far nuove leggi e nuovi patti.
Quando
io v'avea in prigione, era da farme
queste
escuse, e non ora, che son tarde.
Voi
dovete il preso ordine servarme,
non
vostre lingue far vane e bugiarde. -
Ruggier
gridava lor: - Eccovi l'arme,
ecco
il destrier c'ha nuovo e sella e barde;
i
panni de la donna eccovi ancora:
se
li volete, a che più far dimora? -
La
donna del castel da un lato preme,
Ruggier
da l'altro li chiama e rampogna,
tanto
che a forza si spiccaro insieme,
ma
nel viso infiammati di vergogna.
Dinanzi
apparve l'uno e l'altro seme
del
marchese onorato di Borgogna;
ma
Guidon, che più grave ebbe il cavallo,
venìa
lor dietro con poco intervallo.
Con
la medesima asta con che avea
Sansonetto
abbattuto, Ruggier viene,
coperto
da lo scudo che solea
Atlante
aver sui monti di Pirene:
dico
quello incantato, che splendea
tanto,
che umana vista nol sostiene;
a
cui Ruggier per l'ultimo soccorso
nei
più gravi perigli avea ricorso.
Ben
che sol tre fiate bisognolli,
e
certo in gran perigli, usarne il lume:
le
prime due, quando dai regni molli
si
trasse a più lodevole costume;
la
terza, quando i denti mal satolli
lasciò
de l'orca alle marine spume,
che
dovean devorar la bella nuda
che
fu a chi la campò poi così cruda.
Fuor
che queste tre volte, tutto il resto
lo
tenea sotto un velo in modo ascoso,
che
a discoprirlo esser potea ben presto,
che
del suo aiuto fosse bisognoso.
Quivi
alla giostra ne venìa con questo,
come
io v'ho detto ancora, sì animoso,
che
quei tre cavallier che vedea inanti,
manco
temea che pargoletti infanti.
Ruggier
scontra Grifone, ove la penna
de
lo scudo alla vista si congiunge.
Quel
di cader da ciascun lato accenna,
ed
al fin cade, e resta al destrier lunge.
Mette
allo scudo a lui Grifon l'antenna;
ma
pel traverso e non pel dritto giunge:
e
perché lo trovò forbito e netto,
l'andò
strisciando, e fe' contrario effetto.
Roppe
il velo e squarciò, che gli copria
lo
spaventoso ed incantato lampo,
al
cui splendor cader si convenia
con
gli occhi ciechi, e non vi s'ha alcun scampo.
Aquilante,
che a par seco venìa,
stracciò
l'avanzo, e fe' lo scudo vampo.
Lo
splendor ferì gli occhi ai duo fratelli
ed
a Guidon, che correa dopo quelli.
Chi
di qua, chi di là cade per terra:
lo
scudo non pur lor gli occhi abbarbaglia,
ma
fa che ogn'altro senso attonito erra.
Ruggier,
che non sa il fin de la battaglia,
volta
il cavallo; e nel voltare afferra
la
spada sua che sì ben punge e taglia:
e
nessun vede che gli sia all'incontro,
che
tutti eran caduti a quello scontro.
I
cavallieri e insieme quei che a piede
erano
usciti, e così le donne anco,
e
non meno i destrieri in guisa vede,
che
par che per morir battano il fianco.
Prima
si maraviglia, e poi s'avvede
che
il velo ne pendea dal lato manco:
dico
il velo di seta, in che solea
chiuder
la luce di quel caso rea.
Presto
si volge, e nel voltar, cercando
con
gli occhi va l'amata sua guerriera;
e
vien là dove era rimasa, quando
la
prima giostra cominciata s'era.
Pensa
che andata sia (non la trovando)
a
vietar che quel giovine non pera,
per
dubbio che ella ha forse che non s'arda
in
questo mezzo che a giostrar si tarda.
Fra
gli altri che giacean vede la donna,
la
donna che l'avea quivi guidato.
Dinanzi
se la pon, sì come assonna,
e
via cavalca tutto conturbato.
D'un
manto che essa avea sopra la gonna,
poi
ricoperse lo scudo incantato;
e
i sensi riaver le fece, tosto
che
il nocivo splendore ebbe nascosto.
Via
se ne va Ruggier con faccia rossa
che,
per vergogna, di levar non osa:
gli
par che ognuno improverar gli possa
quella
vittoria poco gloriosa.
-
Che emenda poss'io fare, onde rimossa
mi
sia una colpa tanto obbrobriosa?
che
ciò che io vinsi mai, fu per favore,
diran,
d'incanti, e non per mio valore. -
Mentre
così pensando seco giva,
venne
in quel che cercava a dar di cozzo;
che
'n mezzo de la strada soprarriva
dove
profondo era cavato un pozzo.
Quivi
l'armento alla calda ora estiva
si
ritraea, poi che avea pieno il gozzo.
Disse
Ruggiero: - Or proveder bisogna,
che
non mi facci, o scudo, più vergogna.
Più
non starai tu meco; e questo sia
l'ultimo
biasmo c'ho d'averne al mondo. -
Così
dicendo, smonta ne la via:
piglia
una grossa pietra e di gran pondo,
e
la lega allo scudo, ed ambi invia
per
l'alto pozzo a ritrovarne il fondo;
e
dice: - Costà giù statti sepulto,
e
teco stia sempre il mio obbrobrio occulto. -
Il
pozzo è cavo, e pieno al sommo d'acque:
grieve
è lo scudo, e quella pietra grieve.
Non
si fermò fin che nel fondo giacque:
sopra
si chiuse il liquor molle e lieve.
Il
nobil atto e di splendor non tacque
la
vaga Fama, e divulgollo in breve;
e
di rumor n'empì, suonando il corno,
e
Francia e Spagna e le province intorno.
Poi
che di voce in voce si fe' questa
strana
aventura in tutto il mondo nota,
molti
guerrier si missero all'inchiesta
e
di parte vicina e di remota:
ma
non sapean qual fosse la foresta
dove
nel pozzo il sacro scudo nuota;
che
la donna che fe' l'atto palese,
dir
mai non volse il pozzo né il paese.
Al
partir che Ruggier fe' dal castello,
dove
avea vinto con poca battaglia;
che
i quattro gran campion di Pinabello
fece
restar come uomini di paglia;
tolto
lo scudo, avea levato quello
lume
che gli occhi e gli animi abbarbaglia:
e
quei che giaciuti eran come morti,
pieni
di meraviglia eran risorti.
Né
per tutto quel giorno si favella
altro
fra lor, che de lo strano caso,
e
come fu che ciascun d'essi a quella
orribil
luce vinto era rimaso.
Mentre
parlan di questo, la novella
vien
lor di Pinabel giunto all'occaso:
che
Pinabello è morto hanno l'aviso,
ma
non sanno però chi l'abbia ucciso.
L'ardita
Bradamante in questo mezzo
giunto
avea Pinabello a un passo stretto;
e
cento volte gli avea fin a mezzo
messo
il brando pei fianchi e per lo petto.
Tolto
che ebbe dal mondo il puzzo e il lezzo
che
tutto intorno avea il paese infetto,
le
spalle al bosco testimonio volse
con
quel destrier che già il fellon le tolse.
Volse
tornar dove lasciato avea
Ruggier;
né seppe mai trovar la strada.
Or
per valle or per monte s'avvolgea:
tutta
quasi cercò quella contrada.
Non
volse mai la sua fortuna rea,
che
via trovasse onde a Ruggier si vada.
Questo
altro canto ad ascoltare aspetto
chi
de l'istoria mia prende diletto.
CANTO
VENTITREESIMO
Studisi
ognun giovare altrui; che rade
volte
il ben far senza il suo premio fia:
e
se pur senza, almen non te ne accade
morte
né danno né ignominia ria.
Chi
nuoce altrui, tardi o per tempo cade
il
debito a scontar, che non s'oblia.
Dice
il proverbio, che a trovar si vanno
gli
uomini spesso, e i monti fermi stanno.
Or
vedi quel che a Pinabello avviene
per
essersi portato iniquamente:
è
giunto in somma alle dovute pene,
dovute
e giuste alla sua ingiusta mente.
E
Dio, che le più volte non sostiene
veder
patire a torto uno innocente,
salvò
la donna; e salverà ciascuno
che
d'ogni fellonia viva digiuno.
Credette
Pinabel questa donzella
già
d'aver morta, e colà giù sepulta;
né
la pensava mai veder, non che ella
gli
avesse a tor degli error suoi la multa.
Né
il ritrovarsi in mezzo le castella
del
padre, in alcun util gli risulta.
Quivi
Altaripa era tra monti fieri
vicina
al tenitorio di Pontieri.
Tenea
quell'Altaripa il vecchio conte
Anselmo,
di che uscì questo malvagio,
che,
per fuggir la man di Chiaramonte,
d'amici
e di soccorso ebbe disagio.
La
donna al traditore a piè d'un monte
tolse
l'indegna vita a suo grande agio;
che
d'altro aiuto quel non si provede,
che
d'alti gridi e di chiamar mercede.
Morto
che ella ebbe il falso cavalliero
che
lei voluto avea già porre a morte,
volse
tornare ove lasciò Ruggiero;
ma
non lo consentì sua dura sorte,
che
la fe' traviar per un sentiero
che
la portò dov'era spesso e forte,
dove
più strano e più solingo il bosco,
lasciando
il sol già il mondo all'aer fosco.
Né
sappiendo ella ove potersi altrove
la
notte riparar, si fermò quivi
sotto
le frasche in su l'erbette nuove,
parte
dormendo, fin che il giorno arrivi,
parte
mirando ora Saturno or Giove,
Venere
e Marte e gli altri erranti divi;
ma
sempre, o vegli o dorma, con la mente
contemplando
Ruggier come presente.
Spesso
di cor profondo ella sospira,
di
pentimento e di dolor compunta,
che
abbia in lei, più che amor, potuto l'ira.
-
L'ira (dicea) m'ha dal mio amor disgiunta:
almen
ci avessi io posta alcuna mira,
poi
che avea pur la mala impresa assunta,
di
saper ritornar donde io veniva;
che
ben fui d'occhi e di memoria priva. -
Queste
ed altre parole ella non tacque,
e
molto più ne ragionò col core.
Il
vento intanto di sospiri, e l'acque
di
pianto facean pioggia di dolore.
Dopo
una lunga aspettazion pur nacque
in
oriente il disiato albore:
ed
ella prese il suo destrier che intorno
giva
pascendo, ed andò contra il giorno.
Né
molto andò, che si trovò all'uscita
del
bosco, ove pur dianzi era il palagio,
là
dove molti dì l'avea schernita
con
tanto error l'incantator malvagio.
Ritrovò
quivi Astolfo, che fornita
la
briglia all'ippogrifo avea a grande agio,
e
stava in gran pensier di Rabicano,
per
non sapere a chi lasciarlo in mano.
A
caso si trovò che fuor di testa
l'elmo
allor s'avea tratto il paladino;
sì
che tosto che uscì de la foresta,
Bradamante
conobbe il suo cugino.
Di
lontan salutollo, e con gran festa
gli
corse, e l'abbracciò poi più vicino;
e
nominossi, ed alzò la visiera,
e
chiaramente fe' veder che ell'era.
Non
potea Astolfo ritrovar persona
a
chi il suo Rabican meglio lasciasse,
perché
dovesse averne guardia buona
e
renderglielo poi come tornasse,
de
la figlia del duca di Dordona;
e
parvegli che Dio gli la mandasse.
Vederla
volentier sempre solea,
ma
pel bisogno or più che egli n'avea.
Da
poi che due o tre volte ritornati
fraternamente
ad abbracciar si foro,
e
si for l'uno a l'altro domandati
con
molta affezion de l'esser loro,
Astolfo
disse: - Ormai, se dei pennati
vo'
il paese cercar, troppo dimoro: -
ed
aprendo alla donna il suo pensiero,
veder
le fece il volator destriero.
A
lei non fu di molta maraviglia
veder
spiegare a quel destrier le penne;
che
altra volta, reggendogli la briglia
Atlante
incantator, contra le venne;
e
le fece doler gli occhi e le ciglia:
sì
fisse dietro a quel volar le tenne
quel
giorno, che da lei Ruggier lontano
portato
fu per camin lungo e strano.
Astolfo
disse a lei, che le volea
dar
Rabican, che sì nel corso affretta,
che,
se scoccando l'arco si movea,
si
solea lasciar dietro la saetta;
e
tutte l'arme ancor, quante n'avea,
che
vuol che a Montalban gli le rimetta,
e
gli le serbi fin al suo ritorno;
che
non gli fanno or di bisogno intorno.
Volendosene
andar per l'aria a volo,
aveasi
a far quanto potea più lieve.
Tiensi
la spada e il corno, ancor che solo
bastargli
il corno ad ogni risco deve.
Bradamante
la lancia che il figliuolo
portò
di Galafrone, anco riceve;
la
lancia che di quanti ne percuote
fa
le selle restar subito vote.
Salito
Astolfo sul destrier volante,
lo
fa mover per l'aria lento lento;
indi
lo caccia sì, che Bradamante
ogni
vista ne perde in un momento.
Così
si parte col pilota inante
il
nochier che gli scogli teme e il vento;
e
poi che il porto e i liti a dietro lassa,
spiega
ogni vela e inanzi ai venti passa.
La
donna, poi che fu partito il duca,
rimase
in gran travaglio de la mente;
che
non sa come a Montalban conduca
l'armatura
e il destrier del suo parente;
però
che il cuor le cuoce e le manuca
l'ingorda
voglia e il desiderio ardente
di
riveder Ruggier, che, se non prima,
a
Vallombrosa ritrovar lo stima.
Stando
quivi suspesa, per ventura
si
vede inanzi giungere un villano,
dal
qual fa rassettar quella armatura,
come
si puote, e por su Rabicano;
poi
di menarsi dietro gli diè cura
i
duo cavalli, un carco e l'altro a mano:
ella
n'avea duo prima; che avea quello
sopra
il qual levò l'altro a Pinabello.
Di
Vallombrosa pensò far la strada,
che
trovar quivi il suo Ruggier ha speme;
ma
qual più breve o qual miglior vi vada,
poco
discerne, e d'ire errando teme.
Il
villan non avea de la contrada
pratica
molta; ed erreranno insieme.
Pur
andare a ventura ella si messe,
dove
pensò che il loco esser dovesse.
Di
qua di là si volse, né persona
incontrò
mai da domandar la via.
Si
trovò uscir del bosco in su la nona
dove
un castel poco lontan scoprìa,
il
qual la cima a un monticel corona.
Lo
mira, e Montalban le par che sia:
ed
era certo Montalbano; e in quello
avea
la matre ed alcun suo fratello.
Come
la donna conosciuto ha il loco,
nel
cor s'attrista, e più che io non so dire:
sarà
scoperta, se si ferma un poco,
né
più le sarà lecito a partire;
se
non si parte, l'amoroso foco
l'arderà
sì, che la farà morire:
non
vedrà più Ruggier, né farà cosa
di
quel che era ordinato a Vallombrosa.
Stette
alquanto a pensar; poi si risolse
di
voler dar a Montalban le spalle:
e
verso la badia pur si rivolse,
che
quindi ben sapea qual era il calle.
Ma
sua fortuna, o buona o trista, volse
che
prima che ella uscisse de la valle,
scontrasse
Alardo, un de' fratelli sui;
né
tempo di celarsi ebbe da lui.
Veniva
da partir gli alloggiamenti
per
quel contado a cavallieri e a fanti;
che
ad istanza di Carlo nuove genti
fatto
avea de le terre circostanti.
I
saluti e i fraterni abbracciamenti
con
le grate accoglienze andaro inanti;
e
poi, di molte cose a paro a paro
tra
lor parlando, in Montalban tornaro.
Entrò
la bella donna in Montalbano,
dove
l'avea con lacrimosa guancia
Beatrice
molto desiata invano,
e
fattone cercar per tutta Francia.
Or
quivi i baci e il giunger mano a mano
di
matre e di fratelli estimò ciancia
verso
gli avuti con Ruggier complessi,
che
avrà ne l'alma eternamente impressi.
Non
potendo ella andar, fece pensiero
che
a Vallombrosa altri in suo nome andasse
immantinente
ad avisar Ruggiero
de
la cagion che andar lei non lasciasse;
e
lui pregar (s'era pregar mestiero)
che
quivi per suo amor si battezzasse,
e
poi venisse a far quanto era detto,
sì
che si desse al matrimonio effetto.
Pel
medesimo messo fe' disegno
di
mandar a Ruggiero il suo cavallo,
che
gli solea tanto esser caro: e degno
d'essergli
caro era ben senza fallo;
che
non s'avria trovato in tutto il regno
dei
Saracin, né sotto il signor Gallo,
più
bel destrier di questo o più gagliardo,
eccetti
Brigliador, soli, e Baiardo.
Ruggier,
quel dì che troppo audace ascese
su
l'ippogrifo, e verso il ciel levosse,
lasciò
Frontino, e Bradamante il prese
(Frontino,
che il destrier così nomosse);
mandollo
a Montalbano, e a buone spese
tener
lo fece, e mai non cavalcosse,
se
non per breve spazio e a picciol passo;
sì
che era più che mai lucido e grasso.
Ogni
sua donna tosto, ogni donzella
pon
seco in opra, e con suttil lavoro
fa
sopra seta candida e morella
tesser
ricamo di finissimo oro;
e
di quel cuopre ed orna briglia e sella
del
buon destrier: poi sceglie una di loro
figlia
di Callitrefia sua nutrice,
d'ogni
secreto suo fida uditrice.
Quanto
Ruggier l'era nel core impresso,
mille
volte narrato avea a costei;
la
beltà, la virtude, i modi d'esso
esaltato
l'avea fin sopra i dei.
A
sé chiamolla, e disse: - Miglior messo
a
tal bisogno elegger non potrei;
che
di te né più fido né più saggio
imbasciator,
Ippalca mia, non aggio. -
Ippalca
la donzella era nomata.
-
Va, - le dice, e l'insegna ove de' gire;
e
pienamente poi l'ebbe informata
di
quanto avesse al suo signore a dire;
e
far la scusa se non era andata
al
monaster: che non fu per mentire;
ma
che Fortuna, che di noi potea
più
che noi stessi, da imputar s'avea.
Montar
la fece s'un ronzino, e in mano
la
ricca briglia di Frontin le messe:
e
se sì pazzo alcuno o sì villano
trovasse,
che levar le lo volesse;
per
fargli a una parola il cervel sano,
di
chi fosse il destrier sol gli dicesse;
che
non sapea sì ardito cavalliero,
che
non tremasse al nome di Ruggiero.
Di
molte cose l'ammonisce e molte,
che
trattar con Ruggier abbia in sua vece;
le
qual poi che ebbe Ippalca ben raccolte,
si
pose in via, né più dimora fece.
Per
strade e campi e selve oscure e folte
cavalcò
de le miglia più di diece;
che
non fu a darle noia chi venisse,
né
a domandarla pur dove ne gisse.
A
mezzo il giorno, nel calar d'un monte,
in
una stretta e malagevol via
si
venne ad incontrar con Rodomonte,
che
armato un piccol nano e a piè seguia.
Il
Moro alzò vêr lei 'altiera fronte,
e
bestemmiò l'eterna Ierarchia,
poi
che sì bel destrier, sì bene ornato,
non
avea in man d'un cavallier trovato.
Avea
giurato che il primo cavallo
torria
per forza, che tra via incontrasse.
Or
questo è stato il primo; e trovato hallo
più
bello e più per lui, che mai trovasse:
ma
torlo a una donzella gli par fallo;
e
pur agogna averlo, e in dubbio stasse.
Lo
mira, lo contempla, e dice spesso:
-
Deh perché il suo signor non è con esso! -
-
Deh ci fosse egli! (gli rispose Ippalca)
che
ti faria cangiar forse pensiero.
Assai
più di te val chi lo cavalca,
né
lo pareggia al mondo altro guerriero. -
-
Chi è (le disse il Moro) che sì calca
l'onore
altrui? - Rispose ella: - Ruggiero. -
E
quel suggiunse: - Adunque il destrier voglio,
poi
che a Ruggier, sì gran campion, lo toglio.
Il
qual, se sarà ver, come tu parli,
che
sia sì forte, e più d'ogn'altro vaglia,
non
che il destrier, ma la vettura darli
converrammi,
e in suo albitrio fia la taglia.
Che
Rodomonte io sono, hai da narrarli,
e
che, se pur vorrà meco battaglia,
mi
troverà; che ovunque io vada o stia,
mi
fa sempre apparir la luce mia.
Dovunque
io vo, sì gran vestigio resta,
che
non lo lascia il fulmine maggiore. -
Così
dicendo, avea tornate in testa
le
redine dorate al corridore:
sopra
gli salta; e lacrimosa e mesta
rimane
Ippalca, e spinta dal dolore
minaccia
Rodomonte e gli dice onta:
non
l'ascolta egli, e su pel poggio monta.
Per
quella via dove lo guida il nano
per
trovar Mandricardo e Doralice,
gli
viene Ippalca dietro di lontano,
e
lo bestemmia sempre e maledice.
Ciò
che di questo avvenne, altrove è piano.
Turpin,
che tutta questa istoria dice,
fa
qui digresso, e torna in quel paese
dove
fu dianzi morto il Maganzese.
Dato
avea a pena a quel loco le spalle
la
figliuola d'Amon, che in fretta gìa,
che
v'arrivò Zerbin per altro calle
con
la fallace vecchia in compagnia:
e
giacer vide il corpo ne la valle
del
cavallier, che non sa già chi sia;
ma,
come quel che era cortese e pio,
ebbe
pietà del caso acerbo e rio.
Giaceva
Pinabello in terra spento,
versando
il sangue per tante ferite,
che
esser doveano assai, se più di cento
spade
in sua morte si fossero unite.
Il
cavallier di Scozia non fu lento
per
l'orme che di fresco eran scolpite
a
porsi in avventura, se potea
saper
chi l'omicidio fatto avea.
Ed
a Gabrina dice che l'aspette;
che
senza indugio a lei farà ritorno.
Ella
presso al cadavero si mette,
e
fissamente vi pon gli occhi intorno;
perché,
se cosa v'ha che le dilette,
non
vuol che un morto invan più ne sia adorno,
come
colei che fu, tra l'altre note,
quanto
avara esser più femina puote.
Se
di portarne il furto ascosamente
avesse
avuto modo o alcuna speme,
la
sopravesta fatta riccamente
gli
avrebbe tolta, e le bell'arme insieme.
Ma
quel che può celarsi agevolmente,
si
piglia, e il resto fin al cor le preme.
Fra
l'altre spoglie un bel cinto levonne,
e
se ne legò i fianchi infra due gonne.
Poco
dopo arrivò Zerbin, che avea
seguito
invan di Bradamante i passi,
perché
trovò il sentier che si torcea
in
molti rami che ivano alti e bassi:
e
poco ormai del giorno rimanea,
né
volea al buio star fra quelli sassi;
e
per trovare albergo diè le spalle
con
l'empia vecchia alla funesta valle.
Quindi
presso a dua miglia ritrovaro
un
gran castel che fu detto Altariva,
dove
per star la notte si fermaro,
che
già a gran volo inverso il ciel saliva.
Non
vi ster molto, che un lamento amaro
l'orecchie
d'ogni parte lor feriva;
e
veggon lacrimar da tutti gli occhi,
come
la cosa a tutto il popul tocchi.
Zerbino
dimandonne, e gli fu detto
che
venut'era al cont'Anselmo aviso,
che
fra duo monti in un sentiero istretto
giacea
il suo figlio Pinabello ucciso.
Zerbin,
per non ne dar di sé sospetto,
di
ciò si finge nuovo, e abbassa il viso;
ma
pensa ben, che senza dubbio sia
quel
che egli trovò morto in su la via.
Dopo
non molto la bara funèbre
giunse,
a splendor di torchi e di facelle,
là
dove fece le strida più crebre
con
un batter di man gire alle stelle,
e
con più vena fuor de le palpèbre
le
lacrime inundar per le mascelle:
ma
più de l'altre nubilose ed atre
era
la faccia del misero patre.
Mentre
apparecchio si facea solenne
di
grandi esequie e di funèbri pompe,
secondo
il modo ed ordine che tenne
l'usanza
antiqua e che ogni età corrompe;
da
parte del signore un bando venne,
che
tosto il popular strepito rompe,
e
promette gran premio a chi dia aviso
chi
stato sia che gli abbia il figlio ucciso.
Di
voce in voce e d'una in altra orecchia
il
grido e il bando per la terra scorse,
fin
che l'udì la scelerata vecchia
che
di rabbia avanzò le tigri e l'orse;
e
quindi alla ruina s'apparecchia
di
Zerbino, o per l'odio che gli ha forse,
o
per vantarsi pur, che sola priva
d'umanitade
in uman corpo viva;
o
fosse pur per guadagnarsi il premio:
a
ritrovar n'andò quel signor mesto;
e
dopo un verisimil suo proemio,
gli
disse che Zerbin fatto avea questo:
e
quel bel cinto si levò di gremio,
che
il miser padre a riconoscer presto,
appresso
il testimonio e tristo uffizio
de
l'empia vecchia, ebbe per chiaro indizio.
E
lacrimando al ciel leva le mani,
che
il figliuol non sarà senza vendetta.
Fa
circundar l'albergo ai terrazzani;
che
tutto il popul s'è levato in fretta.
Zerbin
che gli nimici aver lontani
si
crede, e questa ingiuria non aspetta,
dal
conte Anselmo, che si chiama offeso
tanto
da lui, nel primo sonno è preso;
e
quella notte in tenebrosa parte
incatenato,
e in gravi ceppi messo.
Il
sole ancor non ha le luci sparte,
che
l'ingiusto supplicio è già commesso;
che
nel loco medesimo si squarte,
dove
fu il mal c'hanno imputato ad esso.
Altra
esamina in ciò non si facea:
bastava
che il signor così credea.
Poi
che l'altro matin la bella Aurora
l'aer
seren fe' bianco e rosso e giallo,
tutto
il popul gridando: - Mora, mora, -
vien
per punir Zerbin del non suo fallo.
Lo
sciocco vulgo l'accompagna fuora,
senz'ordine,
chi a piede e chi a cavallo,
e
il cavallier di Scozia a capo chino
ne
vien legato in s'un piccol ronzino.
Ma
Dio, che spesso gli innocenti aiuta,
né
lascia mai che in sua bontà si fida,
tal
difesa gli avea già proveduta,
che
non v'è dubbio più che oggi s'uccida.
Quivi
Orlando arrivò, la cui venuta
alla
via del suo scampo gli fu guida.
Orlando
giù nel pian vide la gente
che
trae a morte il cavallier dolente.
Era
con lui quella fanciulla, quella
che
ritrovò ne la selvaggia grotta,
del
re galego la figlia lssabella,
in
poter già de' malandrin condotta,
poi
che lasciato avea ne la procella
del
truculento mar la nave rotta:
quella
che più vicino al core avea
questo
Zerbin, che l'alma onde vivea.
Orlando
se l'avea fatta compagna,
poi
che de la caverna la riscosse.
Quando
costei li vide alla campagna,
domandò
Orlando, chi la turba fosse.
-
Non so, - diss'egli; e poi su la montagna
lasciolla,
e verso il pian ratto si mosse.
Guardò
Zerbino, ed alla vista prima
lo
giudicò baron di molta stima.
E
fattosegli appresso, domandollo
per
che cagione e dove il menin preso.
Levò
il dolente cavalliero il collo,
e
meglio avendo il paladino inteso,
rispose
il vero; e così ben narrollo,
che
meritò dal conte esser difeso.
Bene
avea il conte alle parole scorto
che
era innocente, e che moriva a torto.
E
poi che 'ntese che commesso questo
era
dal conte Anselmo d'Altariva,
fu
certo che era torto manifesto;
che
altro da quel fellon mai non deriva.
Ed
oltre a ciò, l'uno era all'altro infesto
per
l'antiquissimo odio che bolliva
tra
il sangue di Maganza e di Chiarmonte;
e
tra lor eran morti e danni ed onte.
-
Slegate il cavallier (gridò), canaglia,
(il
conte a' masnadieri), o che io v'uccido. -
-
Chi è costui che sì gran colpi taglia?
(rispose
un che parer volle il più fido).
Se
di cera noi fussimo o di paglia,
e
di fuoco egli, assai fôra quel grido. -
E
venne contra il paladin di Francia:
Orlando
contra lui chinò la lancia.
La
lucente armatura il Maganzese,
che
levata la notte avea a Zerbino,
e
postasela indosso, non difese
contro
l'aspro incontrar del paladino.
Sopra
la destra guancia il ferro prese:
l'elmo
non passò già, perche era fino;
ma
tanto fu de la percossa il crollo,
che
la vita gli tolse e roppe il collo.
Tutto
in un corso, senza tor di resta
la
lancia, passò un altro in mezzo il petto:
quivi
lasciolla, e la mano ebbe presta
a
Durindana; e nel drappel più stretto
a
chi fece due parti de la testa,
a
chi levò dal busto il capo netto;
forò
la gola a molti; e in un momento
n'uccise
e messe in rotta più di cento.
Più
del terzo n'ha morto, e il resto caccia
e
taglia e fende e fiere e fora e tronca.
Chi
lo scudo, e chi l'elmo che lo 'mpaccia,
e
chi lascia lo spiedo e chi la ronca;
chi
al lungo, chi al traverso il camin spaccia;
altri
s'appiatta in bosco, altri in spelonca.
Orlando,
di pietà questo dì privo,
a
suo poter non vuol lasciarne un vivo.
Di
cento venti (che Turpin sottrasse
il
conto), ottanta ne periro almeno.
Orlando
finalmente si ritrasse
dove
a Zerbin tremava il cor nel seno.
S'al
ritornar d'Orlando s'allegrasse,
non
si potria contare in versi a pieno.
Se
gli saria per onorar prostrato;
ma
si trovò sopra il ronzin legato.
Mentre
che Orlando, poi che lo disciolse,
l'aiutava
a ripor l'arme sue intorno,
che
al capitan de la sbirraglia tolse,
che
per suo mal se n'era fatto adorno;
Zerbino
gli occhi ad Issabella volse,
che
sopra il colle avea fatto soggiorno,
e
poi che de la pugna vide il fine,
portò
le sue bellezze più vicine.
Quando
apparir Zerbin si vide appresso
la
donna che da lui fu amata tanto,
la
bella donna che per falso messo
credea
sommersa, e n'ha più volte pianto;
com'un
ghiaccio nel petto gli sia messo,
sente
dentro aggelarsi, e triema alquanto:
ma
tosto il freddo manca, ed in quel loco
tutto
s'avampa d'amoroso fuoco.
Di
non tosto abbracciarla lo ritiene
la
riverenza del signor d'Anglante;
perché
si pensa, e senza dubbio tiene
che
Orlando sia de la donzella amante.
Così
cadendo va di pene in pene,
e
poco dura il gaudio che ebbe inante:
il
vederla d'altrui peggio sopporta,
che
non fe' quando udì che ella era morta.
E
molto più gli duol che sia in podesta
del
cavalliero a cui cotanto debbe;
perché
volerla a lui levar né onesta
né
forse impresa facile sarebbe.
Nessuno
altro da sé lassar con questa
preda
partir senza romor vorrebbe:
ma
verso il conte il suo debito chiede
che
se lo lasci por sul collo il piede.
Giunsero
taciturni ad una fonte,
dove
smontaro e fer qualche dimora.
Trassesi
l'elmo il travagliato conte,
ed
a Zerbin lo fece trarre ancora.
Vede
la donna il suo amatore in fronte,
e
di subito gaudio si scolora;
poi
torna come fiore umido suole
dopo
gran pioggia all'apparir del sole.
E
senza indugio e senza altro rispetto
corre
al suo caro amante, e il collo abbraccia;
e
non può trar parola fuor del petto,
ma
di lacrime il sen bagna e la faccia.
Orlando
attento all'amoroso affetto,
senza
che più chiarezza se gli faccia,
vide
a tutti gli indizi manifesto
che
altri esser, che Zerbin, non potea questo.
Come
la voce aver poté Issabella,
non
bene asciutta ancor l'umida guancia,
sol
de la molta cortesia favella,
che
l'avea usata il paladin di Francia.
Zerbino,
che tenea questa donzella
con
la sua vita pare a una bilancia,
si
getta a' piè del conte, e quello adora
come
a chi gli ha due vite date a un'ora.
Molti
ringraziamenti e molte offerte
erano
per seguir tra i cavallieri,
se
non udian sonar le vie coperte
dagli
arbori di frondi oscuri e neri.
Presti
alle teste lor, che eran scoperte,
posero
gli elmi, e presero i destrieri:
ed
ecco un cavalliero e una donzella
lor
sopravien, che a pena erano in sella.
Era
questo guerrier quel Mandricardo
che
dietro Orlando in fretta si condusse
per
vendicar Alzirdo e Manilardo,
che
il paladin con gran valor percusse:
quantunque
poi lo seguitò più tardo;
che
Doralice in suo poter ridusse,
la
quale avea con un troncon di cerro
tolta
a cento guerrier carchi di ferro.
Non
sapea il Saracin però, che questo,
che
egli seguia, fosse il signor d'Anglante:
ben
n'avea indizio e segno manifesto
che
esser dovea gran cavalliero errante.
A
lui mirò più che a Zerbino, e presto
gli
andò con gli occhi dal capo alle piante;
e
i dati contrasegni ritrovando,
disse:
- Tu se' colui che io vo cercando.
Sono
omai dieci giorni (gli soggiunse)
che
di cercar non lascio i tuo' vestigi:
tanto
la fama stimolommi e punse,
che
di te venne al campo di Parigi,
quando
a fatica un vivo sol vi giunse
di
mille che mandasti ai regni stigi;
e
la strage contò, che da te venne
sopra
i Norizi e quei di Tremisenne.
Non
fui, come lo seppi, a seguir lento,
e
per vederti e per provarti appresso:
e
perché m'informai del guernimento
c'hai
sopra l'arme, io so che tu sei desso;
e
se non l'avessi anco, e che fra cento
per
celarti da me ti fossi messo,
il
tuo fiero sembiante mi faria
chiaramente
veder che tu quel sia. -
-
Non si può (gli rispose Orlando) dire
che
cavallier non sii d'alto valore;
però
che sì magnanimo desire
non
mi credo albergasse in umil core.
Se
il volermi veder ti fa venire,
vo'
che mi veggi dentro, come fuore:
mi
leverò questo elmo da le tempie,
acciò
che a punto il tuo desire adempie.
Ma
poi che ben m'avrai veduto in faccia,
all'altro
desiderio ancora attendi:
resta
che alla cagion tu satisfaccia,
che
fa che dietro questa via mi prendi;
che
veggi se il valor mio si confaccia
a
quel sembiante fier che sì commendi. -
-
Orsù (disse il pagano), al rimanente;
che
al primo ho satisfatto interamente. -
Il
conte tuttavia dal capo al piede
va
cercando il pagan tutto con gli occhi:
mira
ambi i fianchi, indi l'arcion; né vede
pender
né qua né là mazze né stocchi.
Gli
domanda di che arme si provede,
s'avvien
che con la lancia in fallo tocchi.
Rispose
quel: - Non ne pigliar tu cura:
così
a molt'altri ho ancor fatto paura.
Ho
sacramento di non cinger spada,
fin
che io non tolgo Durindana al conte;
e
cercando lo vo per ogni strada,
acciò
più d'una posta meco sconte.
Lo
giurai (se d'intenderlo t'aggrada)
quando
mi posi quest'elmo alla fronte,
il
qual con tutte l'altr'arme che io porto,
era
d'Ettòr, che già mill'anni è morto.
La
spada sola manca alle buone arme:
come
rubata fu, non ti so dire.
Or
che la porti il paladino, parme;
e
di qui vien che egli ha sì grande ardire.
Ben
penso, se con lui posso accozzarme,
fargli
il mal tolto ormai ristituire.
Cercolo
ancor, che vendicar disio
il
famoso Agrican genitor mio.
Orlando
a tradimento gli diè morte:
ben
so che non potea farlo altrimente. -
Il
conte più non tacque, e gridò forte:
-
E tu e qualunque il dice, se ne mente.
Ma
quel che cerchi t'è venuto in sorte:
io
sono Orlando, e uccisil giustamente;
e
questa è quella spada che tu cerchi,
che
tua sarà, se con virtù la merchi.
Quantunque
sia debitamente mia,
tra
noi per gentilezza si contenda:
né
voglio in questa pugna che ella sia
più
tua che mia; ma a un arbore s'appenda.
Levala
tu liberamente via,
s'avvien
che tu m'uccida o che mi prenda. -
Così
dicendo, Durindana prese,
e
'n mezzo il campo a un arbuscel l'appese.
Già
l'un da l'altro è dipartito lunge,
quanto
sarebbe un mezzo tratto d'arco:
già
l'uno contra l'altro il destrier punge,
né
de le lente redine gli è parco:
già
l'uno e l'altro di gran colpo aggiunge
dove
per l'elmo la veduta ha varco.
Parveno
l'aste, al rompersi, di gielo;
e
in mille schegge andar volando al cielo.
L'una
e l'altra asta è forza che si spezzi;
che
non voglion piegarsi i cavallieri,
i
cavallier che tornano coi pezzi
che
son restati appresso i calci interi.
Quelli,
che sempre fur nel ferro avezzi,
or,
come duo villan per sdegno fieri
nel
partir acque o termini de prati,
fan
crudel zuffa di duo pali armati.
Non
stanno l'aste a quattro colpi salde,
e
mancan nel furor di quella pugna.
Di
qua e di là si fan l'ire più calde;
né
da ferir lor resta altro che pugna.
Schiodano
piastre, e straccian maglie e falde,
pur
che la man, dove s'aggraffi, giugna.
Non
desideri alcun, perché più vaglia,
martel
più grave o più dura tanaglia.
Come
può il Saracin ritrovar sesto
di
finir con suo onore il fiero invito?
Pazzia
sarebbe il perder tempo in questo,
che
nuoce al feritor più che al ferito.
Andò
alle strette l'uno e l'altro, e presto
il
re pagano Orlando ebbe ghermito:
lo
strigne al petto; e crede far le prove
che
sopra Anteo fe' già il figliol di Giove.
Lo
piglia con molto impeto a traverso:
quando
lo spinge, e quando a sé lo tira;
ed
è ne la gran colera sì immerso,
che
ove resti la briglia poco mira.
Sta
in sé raccolto Orlando, e ne va verso
il
suo vantaggio, e alla vittoria aspira:
gli
pon la cauta man sopra le ciglia
del
cavallo, e cader ne fa la briglia.
Il
Saracino ogni poter vi mette,
che
lo soffoghi, o de l'arcion lo svella:
negli
urti il conte ha le ginocchia strette;
né
in questa parte vuol piegar né in quella.
Per
quel tirar che fa il pagan, costrette
le
cingie son d'abandonar la sella.
Orlando
è in terra, e a pena sel conosce:
che
i piedi ha in staffa, e stringe ancor le cosce.
Con
quel rumor che un sacco d'arme cade,
risuona
il conte, come il campo tocca.
Il
destrier c'ha la testa in libertade,
quello
a chi tolto il freno era di bocca,
non
più mirando i boschi che le strade,
con
ruinoso corso si trabocca,
spinto
di qua e di là dal timor cieco;
e
Mandricardo se ne porta seco.
Doralice
che vede la sua guida
uscir
dal campo e torlesi d'appresso,
e
mal restarne senza si confida,
dietro,
correndo, il suo ronzin gli ha messo.
Il
pagan per orgoglio al destrier grida,
e
con mani e con piedi il batte spesso;
e,
come non sia bestia, lo minaccia
perché
si fermi, e tuttavia più il caccia.
La
bestia, che era spaventosa e poltra,
sanza
guardarsi ai piè, corre a traverso.
Già
corso avea tre miglia, e seguiva oltra,
s'un
fosso a quel desir non era avverso;
che,
sanza aver nel fondo o letto o coltra,
riceve
l'uno e l'altro in sé riverso.
Diè
Mandricardo in terra aspra percossa;
né
però si fiaccò né si roppe ossa.
Quivi
si ferma il corridore al fine,
ma
non si può guidar, che non ha freno.
Il
Tartaro lo tien preso nel crine,
e
tutto è di furore e d'ira pieno.
Pensa,
e non sa quel che di far destine.
-
Pongli la briglia del mio palafreno
(la
donna gli dicea); che non è molto
il
mio feroce, o sia col freno o sciolto. -
Al
Saracin parea discortesia
la
proferta accettar di Doralice;
ma
fren gli farà aver per altra via
Fortuna
a' suoi disii molto fautrice.
Quivi
Gabrina scelerata invia,
che,
poi che di Zerbin fu traditrice,
fuggia,
come la lupa che lontani
oda
venire i cacciatori e i cani.
Ella
avea ancora indosso la gonnella,
e
quei medesimi giovenili ornati
che
furo alla vezzosa damigella
di
Pinabel, per lei vestir, levati;
ed
avea il palafreno anco di quella,
dei
buon del mondo e degli avantaggiati.
La
vecchia sopra il Tartaro trovosse,
che
ancor non s'era accorta che vi fosse.
L'abito
giovenil mosse la figlia
di
Stordilano, e Mandricardo a riso,
vedendolo
a colei che rassimiglia
a
un babuino, a un bertuccione in viso.
Disegna
il Saracin torle la briglia
pel
suo destriero, e riuscì l'aviso.
Toltogli
il morso, il palafren minaccia,
gli
grida, lo spaventa, e in fuga il caccia.
Quel
fugge per la selva, e seco porta
la
quasi morta vecchia di paura
per
valli e monti e per via dritta e torta,
per
fossi e per pendici alla ventura.
Ma
il parlar di costei sì non m'importa,
che
io non debba d'Orlando aver più cura,
che
alla sua sella ciò che era di guasto,
tutto
ben racconciò sanza contrasto.
Rimontò
sul destriero, e ste' gran pezzo
a
riguardar che il Saracin tornasse.
Nol
vedendo apparir, volse da sezzo
egli
esser quel che a ritrovarlo andasse;
ma,
come costumato e bene avezzo,
non
prima il paladin quindi si trasse,
che
con dolce parlar grato e cortese
buona
licenza dagli amanti prese.
Zerbin
di quel partir molto si dolse;
di
tenerezza ne piangea Issabella:
voleano
ir seco, ma il conte non volse
lor
compagnia, ben che era e buona e bella;
e
con questa ragion se ne disciolse,
che
a guerrier non è infamia sopra quella
che,
quando cerchi un suo nimico, prenda
compagno
che l'aiuti e che il difenda.
Li
pregò poi, che quando il Saracino,
prima
che in lui, si riscontrasse in loro,
gli
dicesser che Orlando avria vicino
ancor
tre giorni per quel tenitoro;
ma
dopo, che sarebbe il suo camino
verso
le 'nsegne dei bei gigli d'oro,
per
esser con l'esercito di Carlo,
acciò,
volendol, sappia onde chiamarlo.
Quelli
promiser farlo volentieri,
e
questa e ogn'altra cosa al suo comando.
Feron
camin diverso i cavallieri,
di
qua Zerbino, e di là il conte Orlando.
Prima
che pigli il conte altri sentieri,
all'arbor
tolse, e a sé ripose il brando;
e
dove meglio col pagan pensosse
di
potersi incontrare, il destrier mosse.
Lo
strano corso che tenne il cavallo
del
Saracin pel bosco senza via,
fece
che Orlando andò duo giorni in fallo,
né
lo trovò, né poté averne spia.
Giunse
ad un rivo che parea cristallo,
ne
le cui sponde un bel pratel fioria,
di
nativo color vago e dipinto,
e
di molti e belli arbori distinto.
Il
merigge facea grato l'orezzo
al
duro armento ed al pastore ignudo;
sì
che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che
la corazza avea, l'elmo e lo scudo.
Quivi
egli entrò per riposarvi in mezzo;
e
v'ebbe travaglioso albergo e crudo,
e
più che dir si possa empio soggiorno,
quell'infelice
e sfortunato giorno.
Volgendosi
ivi intorno, vide scritti
molti
arbuscelli in su l'ombrosa riva.
Tosto
che fermi v'ebbe gli occhi e fitti,
fu
certo esser di man de la sua diva.
Questo
era un di quei lochi già descritti,
ove
sovente con Medor veniva
da
casa del pastore indi vicina
la
bella donna del Catai regina.
Angelica
e Medor con cento nodi
legati
insieme, e in cento lochi vede.
Quante
lettere son, tanti son chiodi
coi
quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va
col pensier cercando in mille modi
non
creder quel che al suo dispetto crede:
che
altra Angelica sia, creder si sforza,
che
abbia scritto il suo nome in quella scorza.
Poi
dice: - Conosco io pur queste note:
di
tal'io n'ho tante vedute e lette.
Finger
questo Medoro ella si puote:
forse
che a me questo cognome mette. -
Con
tali opinion dal ver remote
usando
fraude a sé medesmo, stette
ne
la speranza il malcontento Orlando,
che
si seppe a se stesso ir procacciando.
Ma
sempre più raccende e più rinuova,
quanto
spenger più cerca, il rio sospetto:
come
l'incauto augel che si ritrova
in
ragna o in visco aver dato di petto,
quanto
più batte l'ale e più si prova
di
disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando
viene ove s'incurva il monte
a
guisa d'arco in su la chiara fonte.
Aveano
in su l'entrata il luogo adorno
coi
piedi storti edere e viti erranti.
Quivi
soleano al più cocente giorno
stare
abbracciati i duo felici amanti.
V'aveano
i nomi lor dentro e d'intorno,
più
che in altro dei luoghi circostanti,
scritti,
qual con carbone e qual con gesso,
e
qual con punte di coltelli impresso.
Il
mesto conte a piè quivi discese;
e
vide in su l'entrata de la grotta
parole
assai, che di sua man distese
Medoro
avea, che parean scritte allotta.
Del
gran piacer che ne la grotta prese,
questa
sentenza in versi avea ridotta.
Che
fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed
era ne la nostra tale il senso:
-
Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca
opaca e di fredde ombre grata,
dove
la bella Angelica che nacque
di
Galafron, da molti invano amata,
spesso
ne le mie braccia nuda giacque;
de
la commodità che qui m'è data,
io
povero Medor ricompensarvi
d'altro
non posso, che d'ognor lodarvi:
e
di pregare ogni signore amante,
e
cavallieri e damigelle, e ognuna
persona,
o paesana o viandante,
che
qui sua volontà meni o Fortuna;
che
all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante
dica:
benigno abbiate e sole e luna,
e
de le ninfe il coro, che proveggia
che
non conduca a voi pastor mai greggia. -
Era
scritto in arabico, che il conte
intendea
così ben come latino:
fra
molte lingue e molte che avea pronte,
prontissima
avea quella il paladino;
e
gli schivò più volte e danni ed onte,
che
si trovò tra il popul saracino:
ma
non si vanti, se già n'ebbe frutto;
che
un danno or n'ha, che può scontargli il tutto.
Tre
volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello
infelice, e pur cercando invano
che
non vi fosse quel che v'era scritto;
e
sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed
ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi
il cor sentia con fredda mano.
Rimase
al fin con gli occhi e con la mente
fissi
nel sasso, al sasso indifferente.
Fu
allora per uscir del sentimento
sì
tutto in preda del dolor si lassa.
Credete
a chi n'ha fatto esperimento,
che
questo è il duol che tutti gli altri passa.
Caduto
gli era sopra il petto il mento,
la
fronte priva di baldanza e bassa;
né
poté aver (che il duol l'occupò tanto)
alle
querele voce, o umore al pianto.
L'impetuosa
doglia entro rimase,
che
volea tutta uscir con troppa fretta.
Così
veggiàn restar l'acqua nel vase,
che
largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che
nel voltar che si fa in su la base,
l'umor
che vorria uscir, tanto s'affretta,
e
ne l'angusta via tanto s'intrica,
che
a goccia a goccia fuore esce a fatica.
Poi
ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa
esser che non sia la cosa vera:
che
voglia alcun così infamare il nome
de
la sua donna e crede e brama e spera,
o
gravar lui d'insopportabil some
tanto
di gelosia, che se ne pera;
ed
abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto
la man di lei bene imitato.
In
così poca, in così debol speme
sveglia
gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi
al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando
già il sole alla sorella loco.
Non
molto va, che da le vie supreme
dei
tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente
cani abbaiar, muggiare armento:
viene
alla villa, e piglia alloggiamento.
Languido
smonta, e lascia Brigliadoro
a
un discreto garzon che n'abbia cura;
altri
il disarma, altri gli sproni d'oro
gli
leva, altri a forbir va l'armatura.
Era
questa la casa ove Medoro
giacque
ferito, e v'ebbe alta avventura.
Corcarsi
Orlando e non cenar domanda,
di
dolor sazio e non d'altra vivanda.
Quanto
più cerca ritrovar quiete,
tanto
ritrova più travaglio e pena;
che
de l'odiato scritto ogni parete,
ogni
uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder
ne vuol: poi tien le labra chete;
che
teme non si far troppo serena,
troppo
chiara la cosa che di nebbia
cerca
offuscar, perché men nuocer debbia.
Poco
gli giova usar fraude a se stesso;
che
senza domandarne, è chi ne parla.
Il
pastor che lo vede così oppresso
da
sua tristizia, e che voria levarla,
l'istoria
nota a sé, che dicea spesso
di
quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
che
a molti dilettevole fu a udire,
gli
incominciò senza rispetto a dire:
come
esso a prieghi d'Angelica bella
portato
avea Medoro alla sua villa,
che
era ferito gravemente; e che ella
curò
la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma
che nel cor d'una maggior di quella
lei
ferì Amor; e di poca scintilla
l'accese
tanto e sì cocente fuoco,
che
n'ardea tutta, e non trovava loco:
e
sanza aver rispetto che ella fusse
figlia
del maggior re che abbia il Levante,
da
troppo amor costretta si condusse
a
farsi moglie d'un povero fante.
All'ultimo
l'istoria si ridusse,
che
il pastor fe' portar la gemma inante,
che
alla sua dipartenza, per mercede
del
buono albergo, Angelica gli diede.
Questa
conclusion fu la secure
che
il capo a un colpo gli levò dal collo,
poi
che d'innumerabil battiture
si
vide il manigoldo Amor satollo.
Celar
si studia Orlando il duolo; e pure
quel
gli fa forza, e male asconder pòllo:
per
lacrime e suspir da bocca e d'occhi
convien,
voglia o non voglia, al fin che scocchi.
Poi
che allargare il freno al dolor puote
(che
resta solo e senza altrui rispetto),
giù
dagli occhi rigando per le gote
sparge
un fiume di lacrime sul petto:
sospira
e geme, e va con spesse ruote
di
qua di là tutto cercando il letto;
e
più duro che un sasso, e più pungente
che
se fosse d'urtica, se lo sente.
In
tanto aspro travaglio gli soccorre
che
nel medesmo letto in che giaceva,
l'ingrata
donna venutasi a porre
col
suo drudo più volte esser doveva.
Non
altrimenti or quella piuma abborre,
né
con minor prestezza se ne leva,
che
de l'erba il villan che s'era messo
per
chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
Quel
letto, quella casa, quel pastore
immantinente
in tant'odio gli casca,
che
senza aspettar luna, o che l'albore
che
va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia
l'arme e il destriero, ed esce fuore
per
mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e
quando poi gli è aviso d'esser solo,
con
gridi ed urli apre le porte al duolo.
Di
pianger mai, mai di gridar non resta;
né
la notte né il dì si dà mai pace.
Fugge
cittadi e borghi, e alla foresta
sul
terren duro al discoperto giace.
Di
sé si meraviglia che abbia in testa
una
fontana d'acqua sì vivace,
e
come sospirar possa mai tanto;
e
spesso dice a sé così nel pianto:
-
Queste non son più lacrime, che fuore
stillo
dagli occhi con sì larga vena.
Non
suppliron le lacrime al dolore:
finir,
che a mezzo era il dolore a pena.
Dal
fuoco spinto ora il vitale umore
fugge
per quella via che agli occhi mena;
ed
è quel che si versa, e trarrà insieme
e
il dolore e la vita all'ore estreme.
Questi
che indizio fan del mio tormento,
sospir
non sono, né i sospir sono tali.
Quelli
han triegua talora; io mai non sento
che
il petto mio men la sua pena esali.
Amor
che m'arde il cor, fa questo vento,
mentre
dibatte intorno al fuoco l'ali.
Amor,
con che miracolo lo fai,
che
'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
Non
son, non sono io quel che paio in viso:
quel
che era Orlando è morto ed è sotterra;
la
sua donna ingratissima l'ha ucciso:
sì,
mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io
son lo spirto suo da lui diviso,
che
in questo inferno tormentandosi erra,
acciò
con l'ombra sia, che sola avanza,
esempio
a chi in Amor pone speranza. -
Pel
bosco errò tutta la notte il conte;
e
allo spuntar de la diurna fiamma
lo
tornò il suo destin sopra la fonte
dove
Medoro isculse l'epigramma.
Veder
l'ingiuria sua scritta nel monte
l'accese
sì, che in lui non restò dramma
che
non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né
più indugiò, che trasse il brando fuore.
Tagliò
lo scritto e il sasso, e sin al cielo
a
volo alzar fe' le minute schegge.
Infelice
quell'antro, ed ogni stelo
in
cui Medoro e Angelica si legge!
Così
restar quel dì, che ombra né gielo
a
pastor mai non daran più, né a gregge:
e
quella fonte, già si chiara e pura,
da
cotanta ira fu poco sicura;
che
rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non
cessò di gittar ne le bell'onde,
fin
che da sommo ad imo sì turbolle
che
non furo mai più chiare né monde.
E
stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi
che la lena vinta non risponde
allo
sdegno, al grave odio, all'ardente ira,
cade
sul prato, e verso il ciel sospira.
Afflitto
e stanco al fin cade ne l'erba,
e
ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza
cibo e dormir così si serba,
che
il sole esce tre volte e torna sotto.
Di
crescer non cessò la pena acerba,
che
fuor del senno al fin l'ebbe condotto.
Il
quarto dì, da gran furor commosso,
e
maglie e piastre si stracciò di dosso.
Qui
riman l'elmo, e là riman lo scudo,
lontan
gli arnesi, e più lontan l'usbergo:
l'arme
sue tutte, in somma vi concludo,
avean
pel bosco differente albergo.
E
poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l'ispido
ventre e tutto il petto e il tergo;
e
cominciò la gran follia, sì orrenda,
che
de la più non sarà mai che intenda.
In
tanta rabbia, in tanto furor venne,
che
rimase offuscato in ogni senso.
Di
tor la spada in man non gli sovenne;
che
fatte avria mirabil cose, penso.
Ma
né quella, né scure, né bipenne
era
bisogno al suo vigore immenso.
Quivi
fe' ben de le sue prove eccelse,
che
un alto pino al primo crollo svelse:
e
svelse dopo il primo altri parecchi,
come
fosser finocchi, ebuli o aneti;
e
fe' il simil di querce e d'olmi vecchi,
di
faggi e d'orni e d'illici e d'abeti.
Quel
che un ucellator che s'apparecchi
il
campo mondo, fa, per por le reti,
dei
giunchi e de le stoppie e de l'urtiche,
facea
de cerri e d'altre piante antiche.
I
pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando
il gregge sparso alla foresta,
chi
di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi
vengono a veder che cosa è questa.
Ma
son giunto a quel segno il qual s'io passo
vi
potria la mia istoria esser molesta;
ed
io la vo' più tosto diferire,
che
v'abbia per lunghezza a fastidire.
CANTO
VENTIQUATTRESIMO
Chi
mette il piè su l'amorosa pania,
cerchi
ritrarlo, e non v'inveschi l'ale;
che
non è in somma amor, se non insania,
a
giudizio de' savi universale:
e
se ben come Orlando ognun non smania,
suo
furor mostra a qualche altro segnale.
E
quale è di pazzia segno più espresso
che,
per altri voler, perder se stesso?
Vari
gli effetti son, ma la pazzia
è
tutt'una però, che li fa uscire.
Gli
è come una gran selva, ove la via
conviene
a forza, a chi vi va, fallire:
chi
su, chi giù, chi qua, chi là travia.
Per
concludere in somma, io vi vo' dire:
a
chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena,
si
convengono i ceppi e la catena.
Ben
mi si potria dir: - Frate, tu vai
l'altrui
mostrando, e non vedi il tuo fallo. -
Io
vi rispondo che comprendo assai,
or
che di mente ho lucido intervallo;
ed
ho gran cura (e spero farlo ormai)
di
riposarmi e d'uscir fuor di ballo:
ma
tosto far, come vorrei, nol posso;
che
il male è penetrato infin all'osso.
Signor,
ne l'altro canto io vi dicea
che
il forsennato e furioso Orlando
trattesi
l'arme e sparse al campo avea,
squarciati
i panni, via gittato il brando,
svelte
le piante, e risonar facea
i
cavi sassi e l'alte selve; quando
alcun'
pastori al suon trasse in quel lato
lor
stella, o qualche lor grave peccato.
Viste
del pazzo l'incredibil prove
poi
più d'appresso e la possanza estrema,
si
voltan per fuggir, ma non sanno ove,
sì
come avviene in subitana tema.
Il
pazzo dietro lor ratto si muove:
uno
ne piglia, e del capo lo scema
con
la facilità che torria alcuno
da
l'arbor pome, o vago fior dal pruno.
Per
una gamba il grave tronco prese,
e
quello usò per mazza adosso al resto:
in
terra un paio addormentato stese,
che
al novissimo dì forse fia desto.
Gli
altri sgombraro subito il paese,
che
ebbono il piede e il buono aviso presto.
Non
saria stato il pazzo al seguir lento,
se
non che era già volto al loro armento.
Gli
agricultori, accorti agli altru'esempli,
lascian
nei campi aratri e marre e falci:
chi
monta su le case e chi sui templi
(poi
che non son sicuri olmi né salci),
onde
l'orrenda furia si contempli,
che
a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci,
cavalli
e buoi rompe, fraccassa e strugge;
e
ben è corridor chi da lui fugge.
Già
potreste sentir come ribombe
l'alto
rumor ne le propinque ville
d'urli
e di corni, rusticane trombe.
e
più spesso che d'altro, il suon di squille;
e
con spuntoni ed archi e spiedi e frombe
veder
dai monti sdrucciolarne mille,
ed
altritanti andar da basso ad alto,
per
fare al pazzo un villanesco assalto.
Qual
venir suol nel salso lito l'onda
mossa
da l'austro che a principio scherza,
che
maggior de la prima è la seconda,
e
con più forza poi segue la terza;
ed
ogni volta più l'umore abonda,
e
ne l'arena più stende la sferza:
tal
contra Orlando l'empia turba cresce,
che
giù da balze scende e di valli esce.
Fece
morir diece persone e diece,
che
senza ordine alcun gli andaro in mano:
e
questo chiaro esperimento fece,
che
era assai più sicur starne lontano.
Trar
sangue da quel corpo a nessun lece,
che
lo fere e percuote il ferro invano.
Al
conte il re del ciel tal grazia diede,
per
porlo a guardia di sua santa fede.
Era
a periglio di morire Orlando,
se
fosse di morir stato capace.
Potea
imparar che era a gittare il brando,
e
poi voler senz'arme essere audace.
La
turba già s'andava ritirando,
vedendo
ogni suo colpo uscir fallace.
Orlando,
poi che più nessun l'attende,
verso
un borgo di case il camin prende.
Dentro
non vi trovò piccol né grande,
che
il borgo ognun per tema avea lasciato.
v'erano
in copia povere vivande,
convenienti
a un pastorale stato.
Senza
pane di scerner da le giande,
dal
digiuno e da l'impeto cacciato,
le
mani e il dente lasciò andar di botto
in
quel che trovò prima, o crudo o cotto.
E
quindi errando per tutto il paese,
dava
la caccia e agli uomini e alle fere;
e
scorrendo pei boschi, talor prese
i
capri isnelli e le damme leggiere.
Spesso
con orsi e con cingiai contese,
e
con man nude li pose a giacere:
e
di lor carne con tutta la spoglia
più
volte il ventre empì con fiera voglia.
Di
qua, di là, di su, di giù discorre
per
tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva,
sotto
cui largo e pieno d'acqua corre
un
fiume d'alta e di scoscesa riva.
Edificato
accanto avea una torre
che
d'ogn'intorno e di lontan scopriva.
Quel
che fe' quivi, avete altrove a udire;
che
di Zerbin mi convien prima dire.
Zerbin,
da poi che Orlando fu partito,
dimorò
alquanto, e poi prese il sentiero
che
il paladino inanzi gli avea trito,
e
mosse a passo lento il suo destriero.
Non
credo che duo miglia anco fosse ito,
che
trar vide legato un cavalliero
sopra
un picciol ronzino, e d'ogni lato
la
guardia aver d'un cavalliero armato.
Zerbin
questo prigion conobbe tosto
che
gli fu appresso, e così fe' lssabella:
era
Odorico il Biscaglin, che posto
fu
come lupo a guardia de l'agnella.
L'avea
a tutti gli amici suoi preposto
Zerbino
in confidargli la donzella,
sperando
che la fede che nel resto
sempre
avea avuta, avesse ancora in questo.
Come
era a punto quella cosa stata,
venìa
Issabella raccontando allotta:
come
nel palischermo fu salvata,
prima
che avesse il mar la nave rotta;
la
forza che l'avea Odorico usata;
e
come tratta poi fosse alla grotta.
Né
giunt'era anco al fin di quel sermone,
che
trarre il malfattor vider prigione.
I
duo che in mezzo avean preso Odorico,
d'Issabella
notizia ebbeno vera;
e
s'avisaro esser di lei l'amico,
e
il signor lor, colui che appresso l'era;
ma
più, che ne lo scudo il segno antico
vider
dipinto di sua stirpe altiera:
e
trovar poi, che guardar meglio al viso,
che
s'era al vero apposto il loro aviso.
Saltaro
a piedi, e con aperte braccia
correndo
se n'andar verso Zerbino,
e
l'abbracciaro ove il maggior s'abbraccia,
col
capo nudo e col ginocchio chino.
Zerbin,
guardando l'uno e l'altro in faccia,
vide
esser l'un Corebo il Biscaglino,
Almonio
l'altro, che egli avea mandati
con
Odorico in sul navilio armati.
Almonio
disse: - Poi che piace a Dio
(la
sua mercé) che sia Issabella teco,
io
posso ben comprender, signor mio,
che
nulla cosa nuova ora t'arreco,
s'io
vo' dir la cagion che questo rio
fa
che cosi legato vedi meco;
che
da costei, che più sentì l'offesa,
a
punto avrai tutta l'istoria intesa.
Come
dal traditore io fui schernito
quando
da sé levommi, saper déi;
e
come poi Corebo fu ferito,
che
a difender s'avea tolto costei.
Ma
quanto al mio ritorno sia seguito,
né
veduto né inteso fu da lei,
che
te l'abbia potuto riferire:
di
questa parte dunque io ti vo' dire.
Da
la cittade al mar ratto io veniva
con
cavalli che in fretta avea trovati,
sempre
con gli occhi intenti s'io scopriva
costor
che molto a dietro eran restati.
Io
vengo inanzi, io vengo in su la riva
del
mare, al luogo ove io gli avea lasciati;
io
guardo, né di loro altro ritrovo,
che
ne l'arena alcun vestigio nuovo.
La
pesta seguitai, che mi condusse
nel
bosco fier; né molto adentro fui,
che,
dove il suon l'orecchie mi percusse,
giacere
in terra ritrovai costui.
Gli
domandai che de la donna fusse,
che
d'Odorico, e chi aveva offeso lui.
Io
me n'andai, poi che la cosa seppi,
il
traditor cercando per quei greppi.
Molto
aggirando vommi, e per quel giorno
altro
vestigio ritrovar non posso.
Dove
giacea Corebo al fin ritorno,
che
fatto appresso avea il terren sì rosso,
che
poco più che vi facea soggiorno,
gli
saria stato di bisogno il fosso
e
i preti e i frati più per sotterrarlo,
che
i medici e che il letto per sanarlo.
Dal
bosco alla città feci portallo,
e
posi in casa d'uno ostier mio amico,
che
fatto sano in poco termine hallo
per
cura ed arte d'un chirurgo antico.
Poi
d'arme proveduti e di cavallo
Corebo
ed io cercammo d'Odorico,
che
in corte del re Alfonso di Biscaglia
trovammo;
e quivi fui seco a battaglia.
La
giustizia del re, che il loco franco
de
la pugna mi diede, e la ragione,
ed
oltre alla ragion la Fortuna anco,
che
spesso la vittoria, ove vuol, pone,
mi
giovar sì, che di me poté manco
il
traditore; onde fu mio prigione.
Il
re, udito il gran fallo, mi concesse
di
poter farne quanto mi piacesse.
Non
l'ho voluto uccider né lasciarlo,
ma,
come vedi, trarloti in catena;
perché
vo' che a te stia di giudicarlo,
se
morire o tener si deve in pena.
L'avere
inteso che eri appresso a Carlo,
e
il desir di trovarti qui mi mena.
Ringrazio
Dio che mi fa in questa parte,
dove
lo sperai meno, ora trovarte.
Ringraziolo
anco, che la tua Issabella
io
veggo (e non so come) che teco hai;
di
cui, per opera del fellon, novella
pensai
che non avessi ad udir mai. -
Zerbino
ascolta Almonio e non favella,
fermando
gli occhi in Odorico assai;
non
sì per odio, come che gli incresce
che
a sì mal fin tanta amicizia gli esce.
Finito
che ebbe Almonio il suo sermone,
Zerbin
riman gran pezzo sbigottito,
che
chi d'ogn'altro men n'avea cagione,
sì
espressamente il possa aver tradito.
Ma
poi che d'una lunga ammirazione
fu,
sospirando, finalmente uscito,
al
prigion domandò se fosse vero
quel
che avea di lui detto il cavalliero.
Il
disleal con le ginocchia in terra
lasciò
cadersi, e disse: - Signor mio,
ognun
che vive al mondo pecca ed erra:
né
differisce in altro il buon dal rio,
se
non che l'uno è vinto ad ogni guerra
che
gli vien mossa da un piccol disio;
l'altro
ricorre all'arme e si difende,
ma
se il nimico è forte, anco ei si rende.
Se
tu m'avessi posto alla difesa
d'una
tua rocca, e che al primiero assalto
alzate
avessi, senza far contesa,
degli
inimici le bandiere in alto;
di
viltà, o tradimento, che più pesa,
sugli
occhi por mi si potria uno smalto:
ma
s'io cedessi a forza, son ben certo
che
biasmo non avrei, ma gloria e merto.
Sempre
che l'inimico è più possente,
più
chi perde accettabile ha la scusa.
Mia
fé guardar dovea non altrimente
che
una fortezza d'ogn'intorno chiusa:
così,
con quanto senno e quanta mente
da
la somma Prudenza m'era infusa,
io
mi sforzai guardarla; ma al fin vinto
da
intolerando assalto, ne fui spinto. -
Così
disse Odorico, e poi soggiunse
(che
saria lungo a ricontarvi il tutto)
mostrando
che gran stimolo lo punse,
e
non per lieve sferza s'era indutto.
Se
mai per prieghi ira di cor si emunse,
s'umiltà
di parlar fece mai frutto,
quivi
far lo dovea; che ciò che muova
di
cor durezza, ora Odorico trova.
Pigliar
di tanta ingiuria alta vendetta,
tra
il sì Zerbino e il no resta confuso:
il
vedere il demerito lo alletta
a
far che sia il fellon di vita escluso;
il
ricordarsi l'amicizia stretta
che
era stata tra lor per sì lungo uso,
con
l'acqua di pietà l'accesa rabbia
nel
cor gli spegne, e vuol che mercé n'abbia.
Mentre
stava così Zerbino in forse
di
liberare, o di menar captivo,
o
pur il disleal dagli occhi torse
per
morte, o pur tenerlo in pena vivo;
quivi
rignando il palafreno corse,
che
Mandricardo avea di briglia privo;
e
vi portò la vecchia che vicino
a
morte dianzi avea tratto Zerbino.
Il
palafren, che udito di lontano
avea
quest'altri, era tra lor venuto,
e
la vecchia portatavi, che invano
venìa
piangendo e domandando aiuto.
Come
Zerbin lei vide, alzò la mano
al
ciel che sì benigno gli era suto,
che
datogli in arbitrio avea que' dui
che
soli odiati esser dovean da lui.
Zerbin
fa ritener la mala vecchia,
tanto
che pensi quel che debba farne:
tagliarle
il naso e l'una e l'altra orecchia
pensa,
ed esempio a' malfattori darne;
poi
gli par assai meglio, s'apparecchia
un
pasto agli avoltoi di quella carne.
Punizion
diversa tra sé volve;
e
così finalmente si risolve.
Si
rivolta ai compagni, e dice: - Io sono
di
lasciar vivo il disleal contento;
che
s'in tutto non merita perdono,
non
merita anco sì crudel tormento.
Che
viva e che slegato sia gli dono,
però
che esser d'Amor la colpa sento;
e
facilmente ogni scusa s'ammette,
quando
in Amor la colpa si reflette.
Amore
ha volto sottosopra spesso
senno
più saldo che non ha costui,
ed
ha condotto a via maggiore eccesso
di
questo, che oltraggiato ha tutti nui.
Ad
Odorico debbe esser rimesso:
punito
esser debbo io, che cieco fui,
cieco
a dargline impresa, e non por mente
che
il fuoco arde la paglia facilmente. -
Poi
mirando Odorico: - Io vo' che sia
(gli
disse) del tuo error la penitenza,
che
la vecchia abbi un anno in compagnia,
né
di lasciarla mai ti sia licenza;
ma
notte e giorno, ove tu vada o stia,
un'ora
mai non te ne trovi senza;
e
fin a morte sia da te difesa
contra
ciascun che voglia farle offesa.
Vo',
se da lei ti sarà commandato,
che
pigli contra ognun contesa e guerra:
vo'
in questo tempo, che tu sia ubligato
tutta
Francia cercar di terra in terra. -
Così
dicea Zerbin; che pel peccato
meritando
Odorico andar sotterra,
questo
era porgli inanzi un'alta fossa,
che
fia gran sorte che schivar la possa.
Tante
donne, tanti uomini traditi
avea
la vecchia, e tanti offesi e tanti,
che
chi sarà con lei, non senza liti
potrà
passar de' cavallieri erranti.
Così
di par saranno ambi puniti:
ella
de' suoi commessi errori inanti,
egli
di torne la difesa a torto;
né
molto potrà andar che non sia morto.
Di
dover servar questo, Zerbin diede
ad
Odorico un giuramento forte,
con
patto che se mai rompe la fede,
e
che inanzi gli capiti per sorte,
senza
udir prieghi e averne più mercede,
lo
debba far morir di cruda morte.
Ad
Almonio e a Corebo poi rivolto,
fece
Zerbin che fu Odorico sciolto.
Corebo,
consentendo Almonio, sciolse
il
traditore al fin, ma non in fretta;
che
all'uno e all'altro esser turbato dolse
da
sì desiderata sua vendetta.
Quindi
partissi il disleale, e tolse
in
compagnia la vecchia maledetta.
Non
si legge in Turpin che n'avvenisse;
ma
vidi già un autor che più ne scrisse.
Scrive
l'autore, il cui nome mi taccio,
che
non furo lontani una giornata,
che
per torsi Odorico quello impaccio,
contra
ogni patto ed ogni fede data,
al
collo di Gabrina gittò un laccio,
e
che ad un olmo la lasciò impiccata;
e
che indi a un anno (ma non dice il loco)
Almonio
a lui fece il medesmo giuoco.
Zerbin
che dietro era venuto all'orma
del
paladin, né perder la vorrebbe,
manda
a dar di sé nuove alla sua torma,
che
star senza gran dubbio non ne debbe:
Almonio
manda, e di più cose informa,
che
lungo il tutto a ricontar sarebbe;
Almonio
manda, e a lui Corebo appresso;
né
tien, fuor che Issabella, altri con esso.
Tant'era
l'amor grande che Zerbino,
e
non minor del suo quel che Issabella
portava
al virtuoso paladino;
tanto
il desir d'intender la novella
che
egli avesse trovato il Saracino
che
del destrier lo trasse con la sella;
che
non farà all'esercito ritorno,
se
non finito che sia il terzo giorno;
il
termine che Orlando aspettar disse
il
cavallier che ancor non porta spada.
Non
è alcun luogo dove il conte gisse,
che
Zerbin pel medesimo non vada.
Giunse
al fin tra quegli arbori che scrisse
l'ingrata
donna, un poco fuor di strada;
e
con la fonte e col vicino sasso
tutti
li ritruovò messi in fracasso.
Vede
lontan non sa che luminoso,
e
trova la corazza esser del conte;
e
trova l'elmo poi, non quel famoso
che
armò già il capo all'africano Almonte.
Il
destrier ne la selva più nascoso
sente
anitrire, e leva al suon la fronte;
e
vede Brigliador pascer per l'erba,
che
dall'arcion pendente il freno serba.
Durindana
cercò per la foresta,
e
fuor la vide del fodero starse.
Trovò,
ma in pezzi, ancor la sopravesta
che
in cento lochi il miser conte sparse.
Issabella
e Zerbin con faccia mesta
stanno
mirando, e non san che pensarse:
pensar
potrian tutte le cose, eccetto
che
fosse Orlando fuor dell'intelletto.
Se
di sangue vedessino una goccia,
creder
potrian che fosse stato morto.
Intanto
lungo la corrente doccia
vider
venire un pastorello smorto.
Costui
pur dianzi avea di su la roccia
l'alto
furor de l'infelice scorto,
come
l'arme gittò, squarciossi i panni,
pastori
uccise, e fe' mill'altri danni.
Costui,
richiesto da Zerbin, gli diede
vera
informazion di tutto questo.
Zerbin
si maraviglia, e a pena il crede;
e
tuttavia n'ha indizio manifesto.
Sia
come vuole, egli discende a piede,
pien
di pietade, lacrimoso e mesto;
e
ricogliendo da diversa parte
le
reliquie ne va che erano sparte.
Del
palafren discende anco Issabella,
e
va quell'arme riducendo insieme.
Ecco
lor sopraviene una donzella
dolente
in vista, e di cor spesso geme.
Se
mi domanda alcun chi sia, perche ella
così
s'affligge, e che dolor la preme,
io
gli risponderò che è Fiordiligi
che
de l'amante suo cerca i vestigi.
Da
Brandimarte senza farle motto
lasciata
fu ne la città di Carlo,
dov'ella
l'aspettò sei mesi od otto;
e
quando al fin non vide ritornarlo,
da
un mare all'altro si mise, fin sotto
Pirene
e l'Alpe, e per tutto a cercarlo:
l'andò
cercando in ogni parte, fuore
che
al palazzo d'Atlante incantatore.
Se
fosse stata a quell'ostel d'Atlante,
veduto
con Gradasso andare errando
l'avrebbe,
con Ruggier, con Bradamante,
e
con Ferraù prima e con Orlando;
ma
poi che cacciò Astolfo il negromante
col
suono del corno orribile e mirando,
Brandimarte
tornò verso Parigi:
ma
non sapea già questo Fiordiligi.
Come
io vi dico, sopraggiunta a caso
a
quei duo amanti Fiordiligi bella,
conobbe
l'arme, e Brigliador rimaso
senza
il patrone e col freno alla sella.
Vide
con gli occhi il miserabil caso,
e
n'ebbe per udita anco novella;
che
similmente il pastorel narrolle
aver
veduto Orlando correr folle.
Quivi
Zerbin tutte raguna l'arme,
e
ne fa come un bel trofeo su 'n pino;
e
volendo vietar che non se n'arme
cavallier
paesan né peregrino,
scrive
nel verde ceppo in breve carme:
-
Armatura d'Orlando paladino; -
come
volesse dir: nessun la muova,
che
star non possa con Orlando a prova.
Finito
che ebbe la lodevol opra,
tornava
a rimontar sul suo destriero;
ed
ecco Mandricardo arrivar sopra,
che
visto il pin di quelle spoglie altiero,
lo
priega che la cosa gli discuopra:
e
quel gli narra, come ha inteso, il vero.
Allora
il re pagan lieto non bada,
che
viene al pino, e ne leva la spada,
dicendo:
- Alcun non me ne può riprendere;
non
è pur oggi che io l'ho fatta mia,
ed
il possesso giustamente prendere
ne
posso in ogni parte, ovunque sia.
Orlando
che temea quella difendere,
s'ha
finto pazzo, e l'ha gittata via;
ma
quando sua viltà pur così scusi,
non
debbe far che io mia ragion non usi. -
Zerbino
a lui gridava: - Non la torre,
o
pensa non l'aver senza questione.
Se
togliesti così l'arme d'Ettorre,
tu
l'hai di furto, più che di ragione. -
Senz'altro
dir l'un sopra l'altro corre,
d'animo
e di virtù gran paragone.
Di
cento colpi già rimbomba il suono,
né
bene ancor ne la battaglia sono.
Di
prestezza Zerbin pare una fiamma
a
torsi ovunque Durindana cada:
di
qua di là saltar come una damma
fa
il suo destrier dove è miglior la strada.
E
ben convien che non ne perda dramma;
che
andrà, s'un tratto il coglie quella spada,
a
ritrovar gli innamorati spirti
che
empion la selva degli ombrosi mirti.
Come
il veloce can che il porco assalta
che
fuor del gregge errar vegga nei campi,
lo
va aggirando, e quinci e quindi salta;
ma
quello attende che una volta inciampi:
così,
se vien la spada o bassa od alta,
sta
mirando Zerbin come ne scampi;
come
la vita e l'onor salvi a un tempo,
tien
sempre l'occhio, e fiere e fugge a tempo.
Da
l'altra parte, ovunque il Saracino
la
fiera spada vibra o piena o vota,
sembra
fra due montagne un vento alpino
che
una frondosa selva il marzo scuota;
che
ora la caccia a terra a capo chino,
or
gli spezzati rami in aria ruota.
Ben
che Zerbin più colpi e fùggia e schivi,
non
può schivare al fin, che un non gli arrivi.
Non
può schivare al fine un gran fendente
che
tra il brando e lo scudo entra sul petto.
Grosso
l'usbergo, e grossa parimente
era
la piastra, e il panziron perfetto:
pur
non gli steron contra, ed ugualmente
alla
spada crudel dieron ricetto.
Quella
calò tagliando ciò che prese,
la
corazza e l'arcion fin su l'arnese.
E
se non che fu scarso il colpo alquanto,
permezzo
lo fendea come una canna;
ma
penetra nel vivo a pena tanto,
che
poco più che la pelle gli danna:
la
non profunda piaga è lunga quanto
non
si misureria con una spanna.
Le
lucid'arme il caldo sangue irriga
per
sino al piè di rubiconda riga.
Così
talora un bel purpureo nastro
ho
veduto partir tela d'argento
da
quella bianca man più che alabastro,
da
cui partire il cor spesso mi sento.
Quivi
poco a Zerbin vale esser mastro
di
guerra, ed aver forza e più ardimento;
che
di finezza d'arme e di possanza
il
re di Tartaria troppo l'avanza.
Fu
questo colpo del pagan maggiore
in
apparenza, che fosse in effetto;
tal
che Issabella se ne sente il core
fendere
in mezzo all'agghiacciato petto.
Zerbin
pien d'ardimento e di valore
tutto
s'infiamma d'ira e di dispetto;
e
quanto più ferire a due man puote,
in
mezzo l'elmo il Tartaro percuote.
Quasi
sul collo del destrier piegosse
per
l'aspra botta il Saracin superbo;
e
quando l'elmo senza incanto fosse,
partito
il capo gli avria il colpo acerbo.
Con
poco differir ben vendicosse,
né
disse: A un'altra volta io te la serbo:
e
la spada gli alzò verso l'elmetto,
sperandosi
tagliarlo infin al petto.
Zerbin
che tenea l'occhio ove la mente,
presto
il cavallo alla man destra volse;
non
sì presto però, che la tagliente
spada
fuggisse, che lo scudo colse.
Da
sommo ad imo ella il partì ugualmente,
e
di sotto il braccial roppe e disciolse
e
lui ferì nel braccio, e poi l'arnese
spezzògli,
e ne la coscia anco gli scese.
Zerbin
di qua di là cerca ogni via,
né
mai di quel che vuol, cosa gli avviene;
che
l'armatura sopra cui feria,
un
piccol segno pur non ne ritiene.
Da
l'altra parte il re di Tartaria
sopra
Zerbino a tal vantaggio viene,
che
l'ha ferito in sette parti o in otto,
tolto
lo scudo, e mezzo l'elmo rotto.
Quel
tuttavia più va perdendo il sangue;
manca
la forza, e ancor par che nol senta:
il
vigoroso cor che nulla langue,
val
sì, che il debol corpo ne sostenta.
La
donna sua, per timor fatta esangue,
intanto
a Doralice s'appresenta,
e
la priega e la supplica per Dio,
che
partir voglia il fiero assalto e rio.
Cortese
come bella, Doralice,
né
ben sicura come il fatto segua,
fa
volentier quel che Issabella dice,
e
dispone il suo amante a pace e a triegua.
Così
a' prieghi de l'altra l'ira ultrice
di
cor fugge a Zerbino e si dilegua:
ed
egli, ove a lei par, piglia la strada,
senza
finir l'impresa de la spada.
Fiordiligi,
che mal vede difesa
la
buona spada del misero conte,
tacita
duolsi, e tanto le ne pesa,
che
d'ira piange e battesi la fronte.
Vorria
aver Brandimarte a quella impresa;
e
se mai lo ritrova e gli lo conte,
non
crede poi che Mandricardo vada
lunga
stagione altier di quella spada.
Fiordiligi
cercando pure invano
va
Brandimarte suo matina e sera;
e
fa camin da lui molto lontano,
da
lui che già tornato a Parigi era.
Tanto
ella se n'andò per monte e piano,
che
giunse ove, al passar d'una riviera,
vide
e conobbe il miser paladino;
ma
diciàn quel che avvenne di Zerbino:
che
il lasciar Durindana sì gran fallo
gli
par, che più d'ogn'altro mal gli incresce;
quantunque
a pena star possa a cavallo
pel
molto sangue che gli è uscito ed esce.
Or
poi che dopo non troppo intervallo
cessa
con l'ira il caldo, il dolor cresce:
cresce
il dolor sì impetuosamente,
che
mancarsi la vita se ne sente.
Per
debolezza più non potea gire;
sì
che fermossi appresso una fontana.
Non
sa che far né che si debba dire
per
aiutarlo la donzella umana.
Sol
di disagio lo vede morire;
che
quindi è troppo ogni città lontana,
dove
in quel punto al medico ricorra,
che
per pietade o premio gli soccorra.
Ella
non sa se non invan dolersi,
chiamar
fortuna e il cielo empio e crudele.
-
Perché, ahi lassa! (dicea) non mi sommersi
quando
levai ne l'Oceàn le vele? -
Zerbin
che i languidi occhi ha in lei conversi,
sente
più doglia che ella si querele,
che
de la passion tenace e forte
che
l'ha condutto omai vicino a morte.
-
Così, cor mio, vogliate (le diceva),
dopo
che io sarò morto, amarmi ancora,
come
solo il lasciarvi è che m'aggreva
qui
senza guida, e non già perche io mora:
che
se in sicura parte m'accadeva
finir
de la mia vita l'ultima ora,
lieto
e contento e fortunato a pieno
morto
sarei, poi che io vi moro in seno.
Ma
poi che il mio destino iniquo e duro
vol
che io vi lasci, e non so in man di cui;
per
questa bocca e per questi occhi giuro,
per
queste chiome onde allacciato fui,
che
disperato nel profondo oscuro
vo
de lo 'nferno, ove il pensar di vui
che
abbia così lasciata, assai più ria
sarà
d'ogn'altra pena che vi sia. -
A
questo la mestissima Issabella,
declinando
la faccia lacrimosa
e
congiungendo la sua bocca a quella
di
Zerbin, languidetta come rosa,
rosa
non colta in sua stagion, sì che ella
impallidisca
in su la siepe ombrosa,
disse:
- Non vi pensate già, mia vita,
far
senza me quest'ultima partita.
Di
ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi;
che
io vo' seguirvi o in cielo o ne lo 'nferno.
Convien
che l'uno e l'altro spirto scocchi,
insieme
vada, insieme stia in eterno.
Non
sì tosto vedrò chiudervi gli occhi,
o
che m'ucciderà il dolore interno,
o
se quel non può tanto, io vi prometto
con
questa spada oggi passarmi il petto.
De'
corpi nostri ho ancor non poca speme,
che
me' morti che vivi abbian ventura.
Qui
forse alcun capiterà, che insieme,
mosso
a pietà, darà lor sepoltura. -
Così
dicendo, le reliquie estreme
de
lo spirto vital che morte fura,
va
ricogliendo con le labra meste,
fin
che una minima aura ve ne reste.
Zerbin
la debol voce riforzando,
disse:
- Io vi priego e supplico, mia diva,
per
quello amor che mi mostraste, quando
per
me lasciaste la paterna riva;
e
se commandar posso, io vel commando,
che
fin che piaccia a Dio, restiate viva;
né
mai per caso pogniate in oblio
che
quanto amar si può, v'abbia amato io.
Dio
vi provederà d'aiuto forse,
per
liberarvi d'ogni atto villano,
come
fe' quando alla spelonca torse,
per
indi trarvi, il senator romano.
Così
(la sua mercé) già vi soccorse
nel
mare e contra il Biscaglin profano:
e
se pure avverrà che poi si deggia
morire,
allora il minor mal s'elleggia. -
Non
credo che quest'ultime parole
potesse
esprimer sì, che fosse inteso;
e
finì come il debol lume suole,
cui
cera manchi od altro in che sia acceso.
Chi
potrà dire a pien come si duole,
poi
che si vede pallido e disteso,
la
giovanetta, e freddo come ghiaccio
il
suo caro Zerbin restare in braccio?
Sopra
il sanguigno corpo s'abbandona,
e
di copiose lacrime lo bagna,
e
stride sì, che intorno ne risuona
a
molte miglia il bosco e la campagna.
Né
alle guance né al petto si perdona,
che
l'uno e l'altro non percuota e fragna;
e
straccia a torto l'auree crespe chiome,
chiamando
sempre invan l'amato nome.
In
tanta rabbia, in tal furor sommersa
l'avea
la doglia sua, che facilmente
avria
la spada in se stessa conversa,
poco
al suo amante in questo ubidiente;
s'uno
eremita che alla fresca e tersa
fonte
avea usanza di tornar sovente
da
la sua quindi non lontana cella,
non
s'opponea, venendo, al voler d'ella.
Il
venerabile uom, che alta bontade
avea
congiunta a natural prudenza,
ed
era tutto pien di caritade,
di
buoni esempi ornato e d'eloquenza,
alla
giovan dolente persuade
con
ragioni efficaci pazienza;
e
inanzi le puon, come uno specchio,
donne
del Testamento e nuovo e vecchio.
Poi
le fece veder, come non fusse
alcun,
se non in Dio, vero contento,
e
che eran l'altre transitorie e flusse
speranze
umane, e di poco momento;
e
tanto seppe dir, che la ridusse
da
quel crudele ed ostinato intento,
che
la vita sequente ebbe disio
tutta
al servigio dedicar di Dio.
Non
che lasciar del suo signor voglia unque
né
il grand'amor, né le reliquie morte:
convien
che l'abbia ovunque stia ed ovunque
vada,
e che seco e notte e dì le porte.
Quindi
aiutando l'eremita dunque,
che
era de la sua età valido e forte,
sul
mesto suo destrier Zerbin posaro,
e
molti dì per quelle selve andaro.
Non
volse il cauto vecchio ridur seco,
sola
con solo, la giovane bella
là
dove ascosa in un selvaggio speco
non
lungi avea la solitaria cella;
fra
sé dicendo: - Con periglio arreco
in
una man la paglia e la facella. -
Né
si fida in sua età né in sua prudenza,
che
di sé faccia tanta esperienza.
Di
condurla in Provenza ebbe pensiero
non
lontano a Marsilia in un castello,
dove
di sante donne un monastero
ricchissimo
era, e di edificio bello:
e
per portarne il morto cavalliero,
composto
in una cassa aveano quello,
che
'n un castel che era tra via, si fece
lunga
e capace, e ben chiusa di pece.
Più
e più giorni gran spazio di terra
cercaro,
e sempre per lochi più inculti;
che
pieno essendo ogni cosa di guerra,
voleano
gir più che poteano occulti.
Al
fine un cavallier la via lor serra,
che
lor fe' oltraggi e disonesti insulti;
di
cui dirò quando il suo loco fia;
ma
ritorno ora al re di Tartaria.
Avuto
che ebbe la battaglia il fine
che
già v'ho detto, il giovin si raccolse
alle
fresche ombre e all'onde cristalline;
ed
al destrier la sella e il freno tolse,
e
lo lasciò per l'erbe tenerine
del
prato andar pascendo ove egli volse:
ma
non ste' molto, che vide lontano
calar
dal monte un cavalliero al piano.
Conobbel,
come prima alzò la fronte,
Doralice,
e mostrollo a Mandricardo,
dicendo:
- Ecco il superbo Rodomonte,
se
non m'inganna di lontan lo sguardo.
Per
far teco battaglia cala il monte:
or
ti potrà giovar l'esser gagliardo.
Perduta
avermi a grande ingiuria tiene,
che
era sua sposa, e a vendicar si viene. -
Qual
buono astor che l'anitra o l'acceggia,
starna
o colombo o simil altro augello
venirsi
incontra di lontano veggia,
leva
la testa e si fa lieto e bello;
tal
Mandricardo, come certo deggia
di
Rodomonte far strage e macello,
con
letizia e baldanza il destrier piglia,
le
staffe ai piedi, e dà alla man la briglia.
Quando
vicini fur sì, che udir chiare
tra
lor poteansi le parole altiere,
con
le mani e col capo a minacciare
incominciò
gridando il re d'Algiere,
che
a penitenza gli faria tornare
che
per un temerario suo piacere
non
avesse rispetto a provocarsi
lui
che altamente era per vendicarsi.
Rispose
Mandricardo: - Indarno tenta
chi
mi vuol impaurir per minacciarme:
così
fanciulli o femine spaventa,
o
altri che non sappia che sieno arme;
me
non, cui la battaglia più talenta
d'ogni
riposo; e son per adoprarme
a
piè, a cavallo, armato e disarmato,
sia
alla campagna, o sia ne lo steccato. -
Ecco
sono agli oltraggi, al grido, all'ire,
al
trar de' brandi, al crudel suon de' ferri;
come
vento che prima a pena spire,
poi
cominci a crollar frassini e cerri,
ed
indi oscura polve in cielo aggire,
indi
gli arbori svella e case atterri,
sommerga
in mare, e porti ria tempesta
che
il gregge sparso uccida alla foresta.
De'
duo pagani, senza pari in terra,
gli
audacissimi cor, le forze estreme
parturiscono
colpi, ed una guerra
conveniente
a sì feroce seme.
Del
grande e orribil suon triema la terra,
quando
le spade son percosse insieme:
gettano
l'arme insin al ciel scintille,
anzi
lampadi accese a mille a mille.
Senza
mai riposarsi o pigliar fiato
dura
fra quei duo re l'aspra battaglia,
tentando
ora da questo, or da quel lato
aprir
le piastre e penetrar la maglia.
Né
perde l'un, né l'altro acquista il prato,
ma
come intorno sian fosse o muraglia,
o
troppo costi ogn'oncia di quel loco,
non
si parton d'un cerchio angusto e poco.
Fra
mille colpi il Tartaro una volta
colse
a duo mani in fronte il re d'Algiere;
che
gli fece veder girare in volta
quante
mai furon fiacole e lumiere.
Come
ogni forza all'African sia tolta,
le
groppe del destrier col capo fere:
perde
la staffa, ed è, presente quella
che
cotant'ama, per uscir di sella.
Ma
come ben composto e valido arco
di
fino acciaio in buona somma greve,
quanto
si china più, quanto è più carco,
e
più lo sforzan martinelli e lieve;
con
tanto più furor, quanto è poi scarco,
ritorna,
e fa più mal che non riceve:
così
quello African tosto risorge,
e
doppio il colpo all'inimico porge.
Rodomonte
a quel segno ove fu colto,
colse
a punto il figliol del re Agricane.
Per
questo non poté nuocergli al volto,
che
in difesa trovò l'arme troiane;
ma
stordì in modo il Tartaro, che molto
non
sapea s'era vespero o dimane.
L'irato
Rodomonte non s'arresta,
che
mena l'altro, e pur segna alla testa.
Il
cavallo del Tartaro, che aborre
la
spada che fischiando cala d'alto,
al
suo signor con suo gran mal soccorre,
perché
s'arretra, per fuggir, d'un salto:
il
brando in mezzo il capo gli trascorre,
che
al signor, non a lui, movea l'assalto.
Il
miser non avea l'elmo di Troia,
come
il patrone; onde convien che muoia.
Quel
cade, e Mandricardo in piedi guizza,
non
più stordito, e Durindana aggira.
Veder
morto il cavallo entro gli adizza,
e
fuor divampa un grave incendio d'ira.
L'African,
per urtarlo, il destrier drizza;
ma
non più Mandricardo si ritira,
che
scoglio far soglia da l'onde: e avvenne
che
il destrier cadde, ed egli in piè si tenne.
L'African
che mancarsi il destrier sente,
lascia
le staffe e sugli arcion si ponta,
e
resta in piedi e sciolto agevolmente:
così
l'un l'altro poi di pari affronta.
La
pugna più che mai ribolle ardente,
e
l'odio e l'ira e la superbia monta:
ed
era per seguir; ma quivi giunse
in
fretta un messagger che gli disgiunse.
Vi
giunse un messagger del popul Moro,
di
molti che per Francia eran mandati
a
richiamare agli stendardi loro
i
capitani e i cavallier privati;
perché
l'imperator dai gigli d'oro
gli
avea gli alloggiamenti già assediati;
e
se non è il soccorso a venir presto,
l'eccidio
suo conosce manifesto.
Riconobbe
il messaggio i cavallieri,
oltre
all'insegne, oltre alle sopraveste,
al
girar de le spade, e ai colpi fieri
che
altre man non farebbeno che queste.
Tra
lor però non osa entrar, che speri
che
fra tant'ira sicurtà gli preste
l'esser
messo del re; né si conforta
per
dir che imbasciator pena non porta.
Ma
viene a Doralice, ed a lei narra
che
Agramante, Marsilio e Stordilano,
con
pochi dentro a mal sicura sbarra
sono
assediati dal popul cristiano.
Narrato
il caso, con prieghi ne inarra
che
faccia il tutto ai duo guerrieri piano,
e
che gli accordi insieme, e per lo scampo
del
popul saracin li meni in campo.
Tra
i cavallier la donna di gran core
si
mette, e dice loro: - Io vi comando,
per
quanto so che mi portate amore,
che
riserbiate a miglior uso il brando,
e
ne vegnate subito in favore
del
nostro campo saracino, quando
si
trova ora assediato ne le tende,
e
presto aiuto, o gran ruina attende. -
lndi
il messo soggiunse il gran periglio
dei
Saracini, e narrò il fatto a pieno;
e
diede insieme lettere del figlio
del
re Troiano al figlio d'Ulieno.
Si
piglia finalmente per consiglio
che
i duo guerrier, deposto ogni veneno,
facciano
insieme triegua fin al giorno
che
sia tolto l'assedio ai Mori intorno;
e
senza più dimora, come pria
liberato
d'assedio abbian lor gente,
non
s'intendano aver più compagnia,
ma
crudel guerra e inimicizia ardente,
fin
che con l'arme diffinito sia
chi
la donna aver de' meritamente.
Quella,
ne le cui man giurato fue,
fece
la sicurtà per amendue.
Quivi
era la Discordia impaziente,
inimica
di pace e d'ogni triegua;
e
la Superbia v'è, che non consente
né
vuol patir che tale accordo segua.
Ma
più di lor può Amor quivi presente,
di
cui l'alto valor nessuno adegua;
e
fe' che indietro, a colpi di saette,
e
la Discordia e la Superbia stette.
Fu
conclusa la triegua fra costoro
sì
come piacque a chi di lor potea.
Vi
mancava uno dei cavalli loro,
che
morto quel del Tartaro giacea:
però
vi venne a tempo Brigliadoro,
che
le fresche erbe lungo il rio pascea.
Ma
al fin del canto io mi trovo esser giunto;
sì
che io farò, con vostra grazia, punto.
CANTO
VENTICINQUESIMO
Oh
gran contrasto in giovenil pensiero,
desir
di laude ed impeto d'amore!
né
chi più vaglia, ancor si trova il vero;
che
resta or questo or quel superiore.
Ne
l'uno ebbe e ne l'altro cavalliero
quivi
gran forza il debito e l'onore;
che
l'amorosa lite s'intermesse,
fin
che soccorso il campo lor s'avesse.
Ma
più ve l'ebbe Amor: che se non era
che
così commandò la donna loro,
non
si sciogliea quella battaglia fiera,
che
l'un n'avrebbe il triunfale alloro;
ed
Agramante invan con la sua schiera
l'aiuto
avria aspettato di costoro.
Dunque
Amor sempre rio non si ritrova:
se
spesso nuoce, anco talvolta giova.
Or
l'uno e l'altro cavallier pagano,
che
tutti ha differiti i suoi litigi,
va,
per salvar l'esercito africano,
con
la donna gentil verso Parigi;
e
va con essi ancora il piccol nano
che
seguitò del Tartaro i vestigi,
fin
che con lui condotto a fronte a fronte
avea
quivi il geloso Rodomonte.
Capitaro
in un prato ove a diletto
erano
cavallier sopra un ruscello,
duo
disarmati e duo che avean l'elmetto,
e
una donna con lor di viso bello.
Chi
fosser quelli, altrove vi fia detto;
or
no, che di Ruggier prima favello,
del
buon Ruggier di cui vi fu narrato
che
lo scudo nel pozzo avea gittato.
Non
è dal pozzo ancor lontano un miglio,
che
venire un corrier vede in gran fretta,
di
quei che manda di Troiano il figlio
ai
cavallieri onde soccorso aspetta;
dal
qual ode che Carlo in tal periglio
la
gente saracina tien ristretta,
che,
se non è chi tosto le dia aita,
tosto
l'onor vi lascerà o la vita.
Fu
da molti pensier ridutto in forse
Ruggier,
che tutti l'assaliro a un tratto;
ma
qual per lo miglior dovesse torse,
né
luogo avea né tempo a pensar atto.
Lasciò
andare il messaggio, e il freno torse
là
dove fu da quella donna tratto,
che
ad or ad or in modo egli affrettava,
che
nessun tempo d'indugiar le dava.
Quindi
seguendo il camin preso, venne
(già
declinando il sole) ad una terra
che
il re Marsilio in mezzo Francia tenne,
tolta
di man di Carlo in quella guerra.
Né
al ponte né alla porta si ritenne,
che
non gli niega alcuno il passo o serra,
ben
che intorno al rastrello e in su le fosse
gran
quantità d'uomini e d'arme fosse.
Perche
era conosciuta da la gente
quella
donzella che avea in compagnia,
fu
lasciato passar liberamente,
né
domandato pure onde venìa.
Giunse
alla piazza, e di fuoco lucente,
e
piena la trovò di gente ria;
e
vide in mezzo star con viso smorto
il
giovine dannato ad esser morto.
Ruggier
come gli alzò gli occhi nel viso,
che
chino a terra e lacrimoso stava,
di
veder Bradamante gli fu aviso,
tanto
il giovine a lei rassimigliava.
Più
dessa gli parea, quanto più fiso
al
volto e alla persona il riguardava;
e
fra sé disse: - O questa è Bradamante,
o
che io non son Ruggier com'era inante.
Per
troppo ardir si sarà forse messa
del
garzon condennato alla difesa;
e
poi che mal la cosa l'è successa,
ne
sarà stata, come io veggo, presa.
Deh
perché tanta fretta, che con essa
io
non potei trovarmi a questa impresa?
Ma
Dio ringrazio che ci son venuto,
che
a tempo ancora io potrò darle aiuto. -
E
sanza più indugiar la spada stringe
(che
avea all'altro castel rotta la lancia),
e
adosso il vulgo inerme il destrier spinge
per
lo petto, pei fianchi e per la pancia.
Mena
la spada a cerco, ed a chi cinge
la
fronte, a chi la gola, a chi la guancia.
Fugge
il popul gridando; e la gran frotta
resta
o sciancata o con la testa rotta.
Come
stormo d'augei che in ripa a un stagno
vola
sicuro e a sua pastura attende,
s'improviso
dal ciel falcon grifagno
gli
dà nel mezzo ed un ne batte o prende,
si
sparge in fuga, ognun lascia il compagno,
e
de lo scampo suo cura si prende;
così
veduto avreste far costoro,
tosto
che il buon Ruggier diede fra loro.
A
quattro o sei dai colli i capi netti
levò
Ruggier, che indi a fuggir fur lenti;
ne
divise altretanti infin ai petti,
fin
agli occhi infiniti e fin ai denti.
Concederò
che non trovasse elmetti,
ma
ben di ferro assai cuffie lucenti:
e
s'elmi fini anco vi fosser stati,
così
gli avrebbe, o poco men, tagliati.
La
forza di Ruggier non era quale
or
si ritrovi in cavallier moderno,
né
in orso né in leon né in animale
altro
più fiero, o nostrale od esterno.
Forse
il tremuoto le sarebbe uguale,
forse
il Gran Diavol: non quel de lo 'nferno,
ma
quel del mio signor, che va col fuoco
che
a cielo e a terra e a mar si fa dar loco.
D'ogni
suo colpo mai non cadea manco
d'un
uomo in terra, e le più volte un paio;
e
quattro a un colpo e cinque n'uccise anco,
sì
che si venne tosto al centinaio.
Tagliava
il brando che trasse dal fianco,
come
un tenero latte, il duro acciaio.
Falerina,
per dar morte ad Orlando,
fe'
nel giardin d'Orgagna il crudel brando.
Averlo
fatto poi ben le rincrebbe,
che
il suo giardin disfar vide con esso.
Che
strazio dunque, che ruina debbe
far
or che in man di tal guerriero è messo?
Se
mai Ruggier furor, se mai forza ebbe,
se
mai fu l'alto suo valore espresso,
qui
l'ebbe, il pose qui, qui fu veduto,
sperando
dare alla sua donna aiuto.
Qual
fa la lepre contra i cani sciolti,
facea
la turba contra lui riparo.
Quei
che restaro uccisi, furo molti;
furo
infiniti quei che in fuga andaro.
Avea
la donna intanto i lacci tolti,
che
ambe le mani al giovine legaro;
e
come poté meglio, presto armollo,
gli
diè una spada in mano e un scudo al collo.
Egli
che molto è offeso, più che puote
si
cerca vendicar di quella gente:
e
quivi son sì le sue forze note,
che
riputar si fa prode e valente.
Già
avea attuffato le dorate ruote
il
Sol ne la marina d'occidente,
quando
Ruggier vittorioso e quello
giovine
seco uscir fuor del castello.
Quando
il garzon sicuro de la vita
con
Ruggier si trovò fuor de le porte,
gli
rendé molta grazia ed infinita
con
gentil modi e con parole accorte,
che
non lo conoscendo, a dargli aita
si
fosse messo a rischio de la morte;
e
pregò che il suo nome gli dicesse,
per
sapere a chi tanto obligo avesse.
-
Veggo (dicea Ruggier) la faccia bella
e
le belle fattezze e il bel sembiante,
ma
la suavità de la favella
non
odo già de la mia Bradamante;
né
la relazion di grazie è quella
che
ella usar debba al suo fedele amante.
Ma
se pur questa è Bradamante, or come
ha
sì tosto in oblio messo il mio nome? -
Per
ben saperne il certo, accortamente
Ruggier
le disse: - Io v'ho veduto altrove;
ed
ho pensato e penso, e finalmente
non
so né posso ricordarmi dove.
Ditemel
voi, se vi ritorna a mente,
e
fate che il nome anco udir mi giove,
acciò
che saper possa a cui mia aita
dal
fuoco abbia salvata oggi la vita. -
-
Che voi m'abbiate visto esser potria
(rispose
quel), che non so dove o quando:
ben
vo pel mondo anche io la parte mia,
strane
aventure or qua or là cercando.
Forse
una mia sorella stata fia,
che
veste l'arme e porta al lato il brando;
che
nacque meco, e tanto mi somiglia,
che
non ne può discerner la famiglia.
Né
primo né secondo né ben quarto
sète
di quei che errore in ciò preso hanno:
né
il padre né i fratelli né chi a un parto
ci
produsse ambi, scernere ci sanno.
Gli
è ver che questo crin raccorcio e sparto
che
io porto, come gli altri uomini fanno,
ed
il suo lungo e in treccia al capo avvolta,
ci
solea far già differenza molta:
ma
poi che un giorno ella ferita fu
nel
capo (lungo saria a dirvi come),
e
per sanarla un servo di Iesù
a
mezza orecchia le tagliò le chiome,
alcun
segno tra noi non restò più
di
differenza, fuor che il sesso e il nome.
Ricciardetto
son io, Bradamante ella;
io
fratel di Rinaldo, essa sorella.
E
se non v'increscesse l'ascoltarmi,
cosa
direi che vi faria stupire,
la
qual m'occorse per assimigliarmi
a
lei: gioia al principio e al fin martìre. -
Ruggiero
il qual più graziosi carmi,
più
dolce istoria non potrebbe udire,
che
dove alcun ricordo intervenisse
de
la sua donna, il pregò sì, che disse.
-
Accadde a questi dì, che pei vicini
boschi
passando la sorella mia,
ferita
da uno stuol de Saracini
che
senza l'elmo la trovar per via,
fu
di scorciarsi astretta i lunghi crini,
se
sanar volse d'una piaga ria
che
avea con gran periglio ne la testa;
e
così scorcia errò per la foresta.
Errando
giunse ad una ombrosa fonte;
e
perché afflitta e stanca ritrovosse,
dal
destrier scese e disarmò la fronte,
e
su le tenere erbe addormentosse.
Io
non credo che fabula si conte,
che
più di questa istoria bella fosse.
Fiordispina
di Spagna soprarriva,
che
per cacciar nel bosco ne veniva.
E
quando ritrovò la mia sirocchia
tutta
coperta d'arme, eccetto il viso,
che
avea la spada in luogo di conocchia,
le
fu vedere un cavalliero aviso.
La
faccia e le viril fattezze adocchia
tanto,
che se ne sente il cor conquiso;
la
invita a caccia, e tra l'ombrose fronde
lunge
dagli altri al fin seco s'asconde.
Poi
che l'ha seco in solitario loco
dove
non teme d'esser sopraggiunta,
con
atti e con parole a poco a poco
le
scopre il fisso cuor di grave punta.
Con
gli occhi ardenti e coi sospir di fuoco
le
mostra l'alma di disio consunta.
Or
si scolora in viso, or si raccende;
tanto
s'arrischia, che un bacio ne prende.
La
mia sorella avea ben conosciuto
che
questa donna in cambio l'avea tolta:
né
dar poteale a quel bisogno aiuto,
e
si trovava in grande impaccio avvolta.
-
Gli è meglio (dicea seco) s'io rifiuto
questa
avuta di me credenza stolta
e
s'io mi mostro femina gentile,
che
lasciar riputarmi un uomo vile. -
E
dicea il ver; che era viltade espressa,
conveniente
a un uom fatto di stucco,
con
cui sì bella donna fosse messa,
piena
di dolce e di nettareo succo,
e
tuttavia stesse a parlar con essa,
tenendo
basse l'ale come il cucco.
Con
modo accorto ella il parlar ridusse,
che
venne a dir come donzella fusse;
che
gloria, qual già Ippolita e Camilla,
cerca
ne l'arme; e in Africa era nata
in
lito al mar ne la città d'Arzilla,
a
scudo e a lancia da fanciulla usata.
Per
questo non si smorza una scintilla
del
fuoco de la donna inamorata.
Questo
rimedio all'alta piaga è tardo:
tant'avea
Amor cacciato inanzi il dardo.
Per
questo non le par men bello il viso,
men
bel lo sguardo e men belli i costumi;
per
ciò non torna il cor, che già diviso
da
lei, godea dentro gli amati lumi.
Vedendola
in quell'abito, l'è aviso
che
può far che il desir non la consumi;
e
quando, che ella è pur femina, pensa,
sospira
e piange e mostra doglia immensa.
Chi
avesse il suo ramarico e il suo pianto
quel
giorno udito, avria pianto con lei.
-
Quai tormenti (dicea) furon mai tanto
crudel,
che più non sian crudeli i miei?
D'ogn'altro
amore, o scelerato o santo,
il
desiato fin sperar potrei;
saprei
partir la rosa da le spine:
solo
il mio desiderio è senza fine!
Se
pur volevi, Amor, darmi tormento
che
t'increscesse il mio felice stato,
d'alcun
martìr dovevi star contento,
che
fosse ancor negli altri amanti usato.
Né
tra gli uomini mai né tra l'armento,
che
femina ami femina ho trovato:
non
par la donna all'altre donne bella,
né
a cervie cervia, né all'agnelle agnella.
In
terra, in aria, in mar, sola son io
che
patisco da te sì duro scempio;
e
questo hai fatto acciò che l'error mio
sia
ne l'imperio tuo l'ultimo esempio.
La
moglie del re Nino ebbe disio,
il
figlio amando, scelerato ed empio,
e
Mirra il padre, e la Cretense il toro:
ma
gli è più folle il mio, che alcun dei loro.
La
femina nel maschio fe' disegno,
speronne
il fine, ed ebbelo, come odo:
Pasife
ne la vacca entrò del legno,
altre
per altri mezzi e vario modo.
Ma
se volasse a me con ogni ingegno
Dedalo,
non potria scioglier quel nodo
che
fece il mastro troppo diligente,
Natura
d'ogni cosa più possente. -
Così
si duole e si consuma ed ange
la
bella donna, e non s'accheta in fretta.
Talor
si batte il viso e il capel frange,
e
di sé contra sé cerca vendetta.
La
mia sorella per pietà ne piange,
ed
è a sentir di quel dolor costretta.
Del
folle e van disio si studia trarla,
ma
non fa alcun profitto, e invano parla.
Ella
che aiuto cerca e non conforto,
sempre
più si lamenta e più si duole.
Era
del giorno il termine ormai corto,
che
rosseggiava in occidente il sole,
ora
oportuna da ritrarsi in porto
a
chi la notte al bosco star non vuole;
quando
la donna invitò Bradamante
a
questa terra sua poco distante.
Non
le seppe negar la mia sorella:
e
così insieme ne vennero al loco,
dove
la turba scelerata e fella
posto
m'avria, se tu non v'eri, al fuoco.
Fece
là dentro Fiordispina bella
la
mia sirocchia accarezzar non poco:
e
rivestita di feminil gonna,
conoscer
fe' a ciascun che ella era donna.
Però
che conoscendo che nessuno
util
traea da quel virile aspetto,
non
le parve anco di voler che alcuno
biasmo
di sé per questo fosse detto:
féllo
anco, acciò che il mal che avea da l'uno
virile
abito, errando, già concetto,
ora
con l'altro, discoprendo il vero,
provassi
di cacciar fuor del pensiero.
Commune
il letto ebbon la notte insieme,
ma
molto differente ebbon riposo;
che
l'una dorme, e l'altra piange e geme
che
sempre il suo desir sia più focoso.
E
se il sonno talor gli occhi le preme,
quel
breve sonno è tutto imaginoso:
le
par veder che il ciel l'abbia concesso
Bradamante
cangiata in miglior sesso.
Come
l'infermo acceso di gran sete,
s'in
quella ingorda voglia s'addormenta,
nell'interrotta
e turbida quiete,
d'ogn'acqua
che mai vide si ramenta;
così
a costei di far sue voglie liete
l'imagine
del sonno rappresenta.
Si
desta; e nel destar mette la mano,
e
ritrova pur sempre il sogno vano.
Quanti
prieghi la notte, quanti voti,
offerse
al suo Macone e a tutti i dei,
che
con miracoli apparenti e noti
mutassero
in miglior sesso costei!
ma
tutti vede andar d'effetto voti,
e
forse ancora il ciel ridea di lei.
Passa
la notte; e Febo il capo biondo
traea
del mare, e dava luce al mondo.
Poi
che il dì venne e che lasciaro il letto,
a
Fiordispina s'augumenta doglia;
che
Bradamante ha del partir già detto,
che
uscir di questo impaccio avea gran voglia.
La
gentil donna un ottimo ginetto
in
don da lei vuol che partendo toglia,
guernito
d'oro, ed una sopravesta
che
riccamente ha di sua man contesta.
Accompagnolla
un pezzo Fiordispina,
poi
fe' piangendo al suo castel ritorno.
La
mia sorella sì ratto camina,
che
venne a Montalbano anco quel giorno.
Noi
suoi fratelli e la madre meschina
tutti
le siamo festeggiando intorno;
che
di lei non sentendo, avuto forte
dubbio
e tema avevàn de la sua morte.
Mirammo
(al trar de l'elmo) al mozzo crine,
che
intorno al capo prima s'avolgea;
così
le sopraveste peregrine
ne
fer meravigliar, che indosso avea.
Ed
ella il tutto dal principio al fine
narronne,
come dianzi io vi dicea:
come
ferita fosse al bosco, e come
lasciasse,
per guarir, le belle chiome;
e
come poi dormendo in ripa all'acque,
la
bella cacciatrice sopragiunse,
a
cui la falsa sua sembianza piacque;
e
come da la schiera la disgiunse.
Del
lamento di lei poi nulla tacque,
che
di pietade l'anima ci punse;
e
come alloggiò seco, e tutto quello
che
fece fin che ritornò al castello.
Di
Fiordispina gran notizia ebb'io,
che
in Siragozza e già la vidi in Francia,
e
piacquer molto all'appetito mio
i
suoi begli occhi e la polita guancia:
ma
non lasciai fermarvisi il disio,
che
l'amar senza speme è sogno e ciancia.
Or,
quando in tal ampiezza mi si porge,
l'antiqua
fiamma subito risorge.
Di
queste speme Amor ordisce i nodi,
che
d'altre fila ordir non li potea,
onde
mi piglia: e mostra insieme i modi
che
da la donna avrei quel che io chiedea.
A
succeder saran facil le frodi;
che
come spesso altri ingannato avea
la
simiglianza c'ho di mia sorella,
forse
anco ingannerà questa donzella.
Faccio
o nol faccio? Al fin mi par che buono
sempre
cercar quel che diletti sia.
Del
mio pensier con altri non ragiono,
né
vo' che in ciò consiglio altri mi dia.
Io
vo la notte ove quell'arme sono
che
s'avea tratte la sorella mia:
tolgole,
e col destrier suo via camino,
né
sto aspettar che luca il matutino.
Io
me ne vo la notte (Amore è duce)
a
ritrovar la bella Fiordispina;
e
v'arrivai che non era la luce
del
sole ascosa ancor ne la marina.
Beato
è chi correndo si conduce
prima
degli altri a dirlo alla regina,
da
lei sperando per l'annunzio buono
acquistar
grazia e riportarne dono.
Tutti
m'aveano tolto così in fallo,
com'hai
tu fatto ancor, per Bradamante;
tanto
più che le vesti ebbi e il cavallo
con
che partita era ella il giorno inante.
Vien
Fiordispina di poco intervallo
con
feste incontra e con carezze tante,
e
con sì allegro viso e sì giocondo,
che
più gioia mostrar non potria al mondo.
Le
belle braccia al collo indi mi getta,
e
dolcemente stringe, e bacia in bocca.
Tu
puoi pensar s'allora la saetta
dirizzi
Amor, s'in mezzo il cor mi tocca.
Per
man mi piglia, e in camera con fretta
mi
mena; e non ad altri, che a lei, tocca
che
da l'elmo allo spron l'arme mi slacci
e
nessun altro vuol che se n'impacci.
Poi
fattasi arrecare una sua veste
adorna
e ricca, di sua man la spiega,
e
come io fossi femina, mi veste,
e
in reticella d'oro il crin mi lega.
Io
muovo gli occhi con maniere oneste,
né
che io sia donna alcun mio gesto niega.
La
voce che accusar mi potea forse,
sì
ben usai, che alcun non se n'accorse.
Uscimmo
poi là dove erano molte
persone
in sala, e cavallieri e donne,
dai
quali fummo con l'onor raccolte,
che
alle regine fassi e gran madonne.
Quivi
d'alcuni mi risi io più volte,
che
non sappiendo ciò che sotto gonne
si
nascondesse valido e gagliardo,
mi
vagheggiavan con lascivo sguardo.
Poi
che si fece la notte più grande,
e
già un pezzo la mensa era levata,
la
mensa, che fu d'ottime vivande,
secondo
la stagione, apparecchiata;
non
aspetta la donna che io domande
quel
che m'era cagion del venir stata:
ella
m'invita per sua cortesia,
che
quella notte a giacer seco io stia.
Poi
che donne e donzelle ormai levate
si
furo, e paggi e camerieri intorno,
essendo
ambe nel letto dispogliate,
coi
torchi accesi che parea di giorno,
io
cominciai: - Non vi maravigliate,
madonna,
se sì tosto a voi ritorno;
che
forse v'andavate imaginando
di
non mi riveder fin Dio sa quando.
Dirò
prima la causa del partire,
poi
del ritorno l'udirete ancora.
Se
il vostro ardor, madonna, intiepidire
potuto
avessi col mio far dimora,
vivere
in vostro servizio e morire
voluto
avrei, né starne senza un'ora;
ma
visto quanto il mio star vi nocessi,
per
non poter far meglio, andare elessi.
Fortuna
mi tirò fuor del camino
in
mezzo un bosco d'intricati rami,
dove
odo un grido risonar vicino,
come
di donna che soccorso chiami.
V'accorro,
e sopra un lago cristallino
ritrovo
un fauno che avea preso agli ami
in
mezzo l'acqua una donzella nuda,
e
mangiarsi, il crudel, la volea cruda.
Colà
mi trassi, e con la spada in mano
(perche
aiutar non la potea altrimente)
tolsi
di vita il pescator villano:
ella
saltò ne l'acqua immantinente.
-
Non m'avrai (disse) dato aiuto invano:
ben
ne sarai premiato e riccamente
quanto
chieder saprai, perché son ninfa
che
vivo dentro a questa chiara linfa;
ed
ho possanza far cose stupende,
e
sforzar gli elementi e la natura.
Ghiedi
tu, quanto il mio valor s'estende,
poi
lascia a me di satisfarti cura.
Dal
ciel la luna al mio cantar discende,
s'agghiaccia
il fuoco, e l'aria si fa dura;
ed
ho talor con semplici parole
mossa
la terra, ed ho fermato il sole. -
Non
le domando a questa offerta unire
tesor,
né dominar populi e terre,
né
in più virtù né in più vigor salire,
né
vincer con onor tutte le guerre;
ma
sol che qualche via donde il desire
vostro
s'adempia, mi schiuda e disserre:
né
più le domando un che un altro effetto,
ma
tutta al suo giudicio mi rimetto.
Ebbile
a pena mia domanda esposta,
che
un'altra volta la vidi attuffata;
né
fece al mio parlare altra risposta,
che
di spruzzar vêr me l'acqua incantata:
la
qual non prima al viso mi s'accosta,
che
io (non so come) son tutta mutata.
Io
il veggo, io il sento, e a pena vero parmi:
sento
in maschio, di femina, mutarmi.
E
se non fosse che senza dimora
vi
potete chiarir, nol credereste:
e
qual nell'altro sesso, in questo ancora
ho
le mie voglie ad ubbidirvi preste.
Commandate
lor pur, che fieno or ora
e
sempremai per voi vigile e deste. -
Così
le dissi; e feci che ella istessa
trovò
con man la veritade espressa.
Come
interviene a chi già fuor di speme
di
cosa sia che nel pensier molt'abbia,
che
mentre più d'esserne privo geme,
più
se n'afflige e se ne strugge e arrabbia;
se
ben la trova poi, tanto gli preme
l'aver
gran tempo seminato in sabbia,
e
la disperazion l'ha sì male uso,
che
non crede a se stesso, e sta confuso:
così
la donna, poi che tocca e vede
quel
di che avuto avea tanto desire,
agli
occhi, al tatto, a se stessa non crede,
e
sta dubbiosa ancor di non dormire;
e
buona prova bisognò a far fede,
che
sentia quel che le parea sentire.
-
Fa, Dio (disse ella), se son sogni questi,
che
io dorma sempre, e mai più non mi desti. -
Non
rumor di tamburi o suon di trombe
furon
principio all'amoroso assalto,
ma
baci che imitavan le colombe,
davan
segno or di gire, or di fare alto.
Usammo
altr'arme che saette o frombe.
Io
senza scale in su la rocca salto
e
lo stendardo piantovi di botto,
e
la nimica mia mi caccio sotto.
Se
fu quel letto la notte dinanti
pien
di sospiri e di querele gravi,
non
stette l'altra poi senza altretanti
risi,
feste, gioir, giochi soavi.
Non
con più nodi i flessuosi acanti
le
colonne circondano e le travi,
di
quelli con che noi legammo stretti
e
colli e fianchi e braccia e gambe e petti.
La
cosa stava tacita fra noi,
sì
che durò il piacer per alcun mese:
pur
si trovò chi se n'accorse poi,
tanto
che con mio danno il re lo 'ntese.
Voi
che mi liberaste da quei suoi
che
ne la piazza avean le fiamme accese,
comprendere
oggimai potete il resto;
ma
Dio sa ben con che dolor ne resto. -
Così
a Ruggier narrava Ricciardetto,
e
la notturna via facea men grave,
salendo
tuttavia verso un poggetto
cinto
di ripe e di pendici cave.
Un
erto calle e pien di sassi e stretto
apria
il camin con faticosa chiave.
Sedea
al sommo un castel detto Agrismonte,
che
ave' in guardia Aldigier di Chiaramonte.
Di
Buovo era costui figliuol bastardo,
fratel
di Malagigi e di Viviano;
chi
legitimo dice di Gherardo,
è
testimonio temerario e vano.
Fosse
come si voglia, era gagliardo,
prudente,
liberal, cortese, umano;
e
facea quivi le fraterne mura
la
notte e il dì guardar con buona cura.
Raccolse
il cavallier cortesemente,
come
dovea, il cugin suo Ricciardetto,
che
amò come fratello; e parimente
fu
ben visto Ruggier per suo rispetto.
Ma
non gli uscì già incontra allegramente,
come
era usato, anzi con tristo aspetto,
perche
uno aviso il giorno avuto avea,
che
nel viso e nel cor mesto il facea.
A
Ricciardetto in cambio di saluto
disse:
- Fratello, abbiàn nuova non buona.
Per
certissimo messo oggi ho saputo
che
Bertolagi iniquo di Baiona
con
Lanfusa crudel s'è convenuto,
che
preziose spoglie esso a lei dona,
ed
essa a lui pon nostri frati in mano,
il
tuo bon Malagigi e il tuo Viviano.
Ella
dal dì che Ferraù li prese,
gli
ha ognor tenuti in loco oscuro e fello,
fin
che il brutto contratto e discortese
n'ha
fatto con costui di che io favello.
Gli
de' mandar domane al Maganzese
nei
confin tra Baiona e un suo castello.
Verrà
in persona egli a pagar la mancia
che
compra il miglior sangue che sia in Francia.
Rinaldo
nostro n'ho avisato or ora,
ed
ho cacciato il messo di galoppo;
ma
non mi par che arrivar possa ad ora
che
non sia tarda, che il camino è troppo.
Io
non ho meco gente da uscir fuora:
l'animo
è pronto, ma il potere è zoppo.
Se
gli ha quel traditor, li fa morire:
sì
che non so che far, non so che dire. -
La
dura nuova a Ricciardetto spiace,
e
perché spiace a lui, spiace a Ruggiero;
che
poi che questo e quel vede che tace,
né
tra' profitto alcun del suo pensiero,
disse
con grande ardir: - Datevi pace:
sopra
me quest'impresa tutta chero;
e
questa mia varrà per mille spade
a
riporvi i fratelli in libertade.
Io
non voglio altra gente, altri sussidi,
che
io credo bastar solo a questo fatto;
io
vi domando solo un che mi guidi
al
luogo ove si dee fare il baratto.
Io
vi farò sin qui sentire i gridi
di
chi sarà presente al rio contratto. -
Così
dicea; né dicea cosa nuova
all'un
de' dui, che n'avea visto pruova.
L'altro
non l'ascoltava, se non quanto
s'ascolti
un che assai parli e sappia poco:
ma
Ricciardetto gli narrò da canto
come
fu per costui tratto del fuoco;
e
che era certo che maggior del vanto
faria
veder l'effetto a tempo e a loco.
Gli
diede allor udienza più che prima,
e
riverillo, e fe' di lui gran stima.
Ed
alla mensa, ove la Copia fuse
il
corno, l'onorò come suo donno.
Quivi
senz'altro aiuto si concluse
che
liberare i duo fratelli ponno.
Intanto
sopravenne e gli occhi chiuse
ai
signori e ai sergenti il pigro Sonno,
fuor
che a Ruggier; che, per tenerlo desto,
gli
punge il cor sempre un pensier molesto.
L'assedio
d'Agramante che avea il giorno
udito
dal corrier, gli sta nel core.
Ben
vede che ogni minimo soggiorno
che
faccia d'aiutarlo, è suo disnore.
Quanta
gli sarà infamia, quanto scorno,
se
coi nemici va del suo signore!
Oh
come a gran viltade, a gran delitto,
battezzandosi
alor, gli sarà ascritto!
Potria
in ogn'altro tempo esser creduto
che
vera religion l'avesse mosso;
ma
ora che bisogna col suo aiuto
Agramante
d'assedio esser riscosso,
più
tosto da ciascun sarà tenuto
che
timore e viltà l'abbia percosso,
che
alcuna opinion di miglior fede:
questo
il cor di Ruggier stimula e fiede.
Che
s'abbia da partire anco lo punge
senza
licenza de la sua regina.
Quando
questo pensier, quando quel giunge,
che
il dubio cor diversamente inchina.
Gli
era l'aviso riuscito lunge
di
trovarla al castel di Fiordispina,
dove
insieme dovean, come ho già detto,
in
soccorso venir di Ricciardetto.
Poi
gli sovien che egli le avea promesso
di
seco a Vallombrosa ritrovarsi.
Pensa
che andar v'abbi ella, e quivi d'esso
che
non vi trovi poi, maravigliarsi.
Potesse
almen mandar lettera o messo,
sì
che ella non avesse a lamentarsi
che,
oltre che egli mal le avea ubbidito,
senza
far motto ancor fosse partito.
Poi
che più cose imaginate s'ebbe,
pensa
scriverle al fin quanto gli accada;
e
ben che egli non sappia come debbe
la
lettera inviar, sì che ben vada,
non
però vuol restar; che ben potrebbe
alcun
messo fedel trovar per strada.
Più
non s'indugia, e salta de le piume;
si
fa dar carta, inchiostro, penna e lume.
I
camarier discreti ed aveduti
arrecano
a Ruggier ciò che commanda.
Egli
comincia a scrivere, e i saluti
(come
si suol) nei primi versi manda:
poi
narra degli avisi che venuti
son
dal suo re, che aiuto gli domanda;
e
se l'andata sua non è ben presta,
o
morto o in man degli nimici resta.
Poi
seguita, che essendo a tal partito,
e
che a lui per aiuto si volgea,
vedesse
ella che il biasmo era infinito
s'a
quel punto negar gli lo volea;
e
che esso, a lei dovendo esser marito,
guardarsi
da ogni macchia si dovea;
che
non si convenia con lei, che tutta
era
sincera, alcuna cosa brutta.
E
se mai per adietro un nome chiaro,
ben
oprando, cercò di guadagnarsi,
e
guadagnato poi, se avuto caro,
se
cercato l'avea di conservarsi;
or
lo cercava, e n'era fatto avaro,
poi
che dovea con lei participarsi,
la
qual sua moglie, e totalmente in dui
corpi
esser dovea un'anima con lui.
E
sì come già a bocca le avea detto,
le
ridicea per questa carta ancora:
finito
il tempo in che per fede astretto
era
al suo re, quando non prima muora,
che
si farà cristian così d'effetto,
come
di buon voler stato era ogni ora;
e
che al padre e a Rinaldo e agli altri suoi
per
moglie domandar la farà poi.
-
Voglio (le soggiungea), quando vi piaccia,
l'assedio
al mio signor levar d'intorno,
acciò
che l'ignorante vulgo taccia,
il
qual direbbe, a mia vergogna e scorno:
Ruggier,
mentre Agramante ebbe bonaccia,
mai
non l'abandonò notte né giorno;
or
che Fortuna per Carlo si piega,
egli
col vincitor l'insegna spiega.
Voglio
quindici dì termine o venti,
tanto
che comparir possa una volta,
sì
che degli africani alloggiamenti
la
grave ossedion per me sia tolta.
Intanto
cercherò convenienti
cagioni,
e che sian giuste, di dar volta.
Io
vi domando per mio onor sol questo:
tutto
poi vostro è di mia vita il resto. -
In
simili parole si diffuse
Ruggier,
che tutte non so dirvi a pieno;
e
seguì con molt'altre, e non concluse
fin
che non vide tutto il foglio pieno;
e
poi piegò la lettera e la chiuse,
e
suggellata se la pose in seno,
con
speme che gli occorra il dì seguente
chi
alla donna la dia secretamente.
Chiusa
che ebbe la lettera, chiuse anco
gli
occhi sul letto, e ritrovò quiete;
che
il Sonno venne, e sparse il corpo stanco
col
ramo intinto nel liquor di Lete:
e
posò fin che un nembo rosso e bianco
di
fiori sparse le contrade liete
del
lucido oriente d'ogn'intorno,
ed
indi uscì de l'aureo albergo il giorno.
E
poi che a salutar la nuova luce
pei
verdi rami incominciar gli augelli,
Aldigier
che voleva essere il duce
di
Ruggiero e de l'altro, e guidar quelli
ove
faccin che dati in mano al truce
Bertolagi
non siano i duo fratelli,
fu
il primo in piede; e quando sentir lui,
del
letto usciro anco quegli altri dui.
Poi
che vestiti furo e bene armati,
coi
duo cugin Ruggier si mette in via,
già
molto indarno avendoli pregati
che
questa impresa a lui tutta si dia;
ma
essi, pel desir c'han de' lor frati,
e
perché lor parea discortesia,
steron
negando più duri che sassi,
né
consentiron mai che solo andassi.
Giunsero
al loco il dì che si dovea
Malagigi
mutar nei carriaggi.
Era
un'ampla campagna che giacea
tutta
scoperta agli apollinei raggi.
Quivi
né allor né mirto si vedea,
né
cipressi né frassini né faggi,
ma
nuda ghiara, e qualche umil virgulto
non
mai da marra o mai da vomer culto.
I
tre guerrieri arditi si fermaro
dove
un sentier fendea quella pianura;
e
giunger quivi un cavallier miraro,
che
avea d'oro fregiata l'armatura,
e
per insegna in campo verde il raro
e
bello augel che più d'un secol dura.
Signor,
non più, che giunto al fin mi veggio
di
questo canto, e riposarmi chieggio.
CANTO
VENTISEIESIMO
Cortesi
donne ebbe l'antiqua etade,
che
le virtù, non le ricchezze, amaro:
al
tempo nostro si ritrovan rade
a
cui, più del guadagno, altro sia caro.
Ma
quelle che per lor vera bontade
non
seguon de le più lo stile avaro,
vivendo,
degne son d'esser contente;
gloriose
e immortal poi che fian spente.
Degna
d'eterna laude è Bradamante,
che
non amò tesor, non amò impero,
ma
la virtù, ma l'animo prestante,
ma
l'alta gentilezza di Ruggiero;
e
meritò che ben le fosse amante
un
così valoroso cavalliero,
e
per piacere a lei facesse cose
nei
secoli avenir miracolose.
Ruggier,
come di sopra vi fu detto,
coi
duo di Chiaramonte era venuto,
dico
con Aldigier, con Ricciardetto,
per
dare ai duo fratei prigioni aiuto.
Vi
dissi ancor che di superbo aspetto
venire
un cavalliero avean veduto,
che
portava l'augel che si rinuova,
e
sempre unico al mondo si ritrova.
Come
di questi il cavallier s'accorse,
che
stavan per ferir quivi su l'ale,
in
prova disegnò di voler porse,
s'alla
sembianza avean virtude uguale.
-
È di voi (disse loro) alcuno forse
che
provar voglia chi di noi più vale
a'
colpi o de la lancia o de la spada,
fin
che l'un resti in sella e l'altro cada? -
-
Farei (disse Aldigier) teco, o volessi
menar
la spada a cerco, o correr l'asta;
ma
un'altra impresa che, se qui tu stessi,
veder
potresti, questa in modo guasta,
che
a parlar teco, non che ci traessi
a
correr giostra, a pena tempo basta:
seicento
uomini al varco, o più, attendiamo,
coi
qua' d'oggi provarci obligo abbiamo.
Per
tor lor duo de' nostri che prigioni
quinci
trarran, pietade e amor n'ha mosso. -
E
seguitò narrando le cagioni
che
li fece venir con l'arme indosso.
-
Sì giusta è questa escusa che m'opponi
(disse
il guerrier), che contradir non posso;
e
fo certo giudicio che voi siate
tre
cavallier che pochi pari abbiate.
Io
chiedea un colpo o dui con voi scontrarme,
per
veder quanto fosse il valor vostro;
ma
quando all'altrui spese dimostrarme
lo
vogliate, mi basta, e più non giostro.
Vi
priego ben, che por con le vostr'arme
quest'elmo
io possa e questo scudo nostro;
e
spero dimostrar, se con voi vegno,
che
di tal compagnia non sono indegno. -
Parmi
veder che alcun saper desia
il
nome di costui, che quivi giunto
a
Ruggiero e a' compagni si offeria
compagno
d'arme al periglioso punto.
Costei
(non più costui detto vi sia)
era
Marfisa che diede l'assunto
al
misero Zerbin de la ribalda
vecchia
Gabrina ad ogni mal sì calda.
I
duo di Chiaramonte e il buon Ruggiero
l'accettar
volentier ne la lor schiera,
che
esser credeano certo un cavalliero,
e
non donzella, e non quella che ella era.
Non
molto dopo scoperse Aldigiero
e
veder fe' ai compagni una bandiera
che
facea l'aura tremolare in volta,
e
molta gente intorno avea raccolta.
E
poi che più lor fur fatti vicini,
e
che meglio notar l'abito moro,
conobbero
che gli eran Saracini,
e
videro i prigioni in mezzo a loro
legati
e tratti su piccol ronzini
a'
Maganzesi, per cambiarli in oro.
Disse
Marfisa agli altri: - Ora che resta,
poi
che son qui, di cominciar la festa? -
Ruggier
rispose: - Gli invitati ancora
non
ci son tutti, e manca una gran parte.
Gran
ballo s'apparecchia di fare ora;
e
perché sia solenne, usiamo ogn'arte:
ma
far non ponno omai lunga dimora. -
Così
dicendo, veggono in disparte
venire
i traditori di Maganza:
sì
che eran presso a cominciar la danza.
Giungean
da l'una parte i Maganzesi,
e
conducean con loro i muli carchi
d'oro
e di vesti e d'altri ricchi arnesi;
da
l'altra in mezzo a lance, spade ed archi,
venian
dolenti i duo germani presi,
che
si vedeano essere attesi ai varchi:
e
Bertolagi, empio inimico loro,
udian
parlar col capitano Moro.
Né
di Buovo il figliuol né quel d'Amone,
veduto
il Maganzese, indugiar puote:
la
lancia in resta l'uno e l'altro pone,
e
l'uno e l'altro il traditor percuote.
L'un
gli passa la pancia e il primo arcione,
e
l'altro il viso per mezzo le gote.
Così
n'andasser pur tutti i malvagi,
come
a quei colpi n'andò Bertolagi.
Marfisa
con Ruggiero a questo segno
si
muove, e non aspetta altra trombetta;
né
prima rompe l'arrestato legno,
che
tre, l'un dopo l'altro, in terra getta.
De
l'asta di Ruggier fu il pagan degno,
che
guidò gli altri, e uscì di vita in fretta;
e
per quella medesima con lui
uno
ed un altro andò nei regni bui.
Di
qui nacque un error tra gli assaliti,
che
lor causò lor ultima ruina.
Da
un lato i Maganzesi esser traditi
credeansi
da la squadra saracina;
da
l'altro i Mori in tal modo feriti,
l'altra
schiera chiamavano assassina:
e
tra lor cominciar con fiera clade
a
tirare archi e a menar lance e spade.
Salta
ora in questa squadra ed ora in quella
Ruggiero,
e via ne toglie or dieci or venti:
altritanti
per man de la donzella
di
qua e di là ne son scemati e spenti.
Tanti
si veggon gir morti di sella,
quanti
ne toccan le spade taglienti,
a
cui dan gli elmi e le corazze loco,
come
nel bosco i secchi legni al fuoco.
Se
mai d'aver veduto vi raccorda,
o
rapportato v'ha fama all'orecchie,
come,
allor che il collegio si discorda,
e
vansi in aria a far guerra le pecchie,
entri
fra lor la rondinella ingorda,
e
mangi e uccida e guastine parecchie;
dovete
imaginar che similmente
Ruggier
fosse e Marfisa in quella gente.
Non
così Ricciardetto e il suo cugino
tra
le due genti variavan danza,
perché,
lasciando il campo saracino,
sol
tenean l'occhio all'altro di Maganza.
Il
fratel di Rinaldo paladino
con
molto animo avea molta possanza,
e
quivi raddoppiar glie la facea
l'odio
che contra ai Maganzesi avea.
Facea
parer questa medesma causa
un
leon fiero il bastardo di Buovo,
che
con la spada senza indugio e pausa
fende
ogn'elmo, o lo schiaccia come un ovo.
E
qual persona non saria stata ausa,
non
saria comparita un Ettor nuovo,
Marfisa
avendo in compagnia e Ruggiero,
che
eran la scelta e il fior d'ogni guerriero?
Marfisa
tuttavolta combattendo,
spesso
ai compagni gli occhi rivoltava;
e
di lor forza paragon vedendo,
con
maraviglia tutti li lodava:
ma
di Ruggier pur il valor stupendo
e
senza pari al mondo le sembrava;
e
talor si credea che fosse Marte
sceso
dal quinto cielo in quella parte.
Mirava
quelle orribili percosse,
miravale
non mai calare in fallo:
parea
che contra Balisarda fosse
il
ferro carta e non duro metallo.
Gli
elmi tagliava e le corazze grosse,
e
gli uomini fendea fin sul cavallo,
e
li mandava in parte uguali al prato,
tanto
da l'un quanto da l'altro lato.
Continuando
la medesma botta,
uccidea
col signore il cavallo anche.
I
capi dalle spalle alzava in frotta,
e
spesso i busti dipartia da l'anche.
Cinque
e più a un colpo ne tagliò talotta:
e
se non che pur dubito che manche
credenza
al ver c'ha faccia di menzogna,
di
più direi; ma di men dir bisogna.
Il
buon Turpin, che sa che dice il vero,
e
lascia creder poi quel che a l'uom piace,
narra
mirabil cose di Ruggiero,
che
udendolo, il direste voi mendace.
Così
parea di ghiaccio ogni guerriero
contra
Marfisa, ed ella ardente face;
e
non men di Ruggier gli occhi a sé trasse,
che
ella di lui l'alto valor mirasse.
E
s'ella lui Marte stimato avea,
stimato
egli avria lei forse Bellona,
se
per donna così la conoscea,
come
parea il contrario alla persona.
E
forse emulazion tra lor nascea
per
quella gente misera, non buona,
ne
la cui carne e sangue e nervi ed ossa
fan
prova chi di loro abbia più possa.
Bastò
di quattro l'animo e il valore
a
far che un campo e l'altro andasse rotto.
Non
restava arme, a chi fuggia, migliore
che
quella che si porta più di sotto.
Beato
chi il cavallo ha corridore,
che
in prezzo non è quivi ambio né trotto;
e
chi non ha destrier, quivi s'avede,
quanto
il mestier de l'arme è tristo a piede.
Riman
la preda e il campo ai vincitori
che
non è fante o mulatier che resti.
Là
Maganzesi, e qua fuggono i Mori:
quei
lasciano i prigion, le some questi.
Furon,
con lieti visi e più coi cori,
Malagigi
e Viviano a scioglier presti;
non
fur men diligenti a sciorre i paggi,
e
por le some in terra e i carriaggi.
Oltre
una buona quantità d'argento
che
in diverse vasella era formato,
ed
alcun muliebre vestimento
di
lavoro bellissimo fregiato,
e
per stanze reali un paramento
d'oro
e di seta in Fiandra lavorato,
ed
altre cose ricche in copia grande;
fiaschi
di vin trovar, pane e vivande.
Al
trar degli elmi, tutti vider come
avea
lor dato aiuto una donzella:
fu
conosciuta all'auree crespe chiome
ed
alla faccia delicata e bella.
L'onoran
molto, e pregano che il nome
di
gloria degno non asconda; ed ella,
che
sempre tra gli amici era cortese,
a
dar di sé notizia non contese.
Non
si ponno saziar di riguardarla;
che
tal vista l'avean ne la battaglia.
Sol
mira ella Ruggier, sol con lui parla:
altri
non prezza, altri non par che vaglia.
Vengono
i servi intanto ad invitarla
coi
compagni a goder la vettovaglia,
che
apparecchiata avean sopra una fonte
che
difendea dal raggio estivo un monte.
Era
una de le fonti di Merlino,
de
le quattro di Francia da lui fatte,
d'intorno
cinta di bel marmo fino,
lucido
e terso, e bianco più che latte.
Quivi
d'intaglio con lavor divino
avea
Merlino imagini ritratte:
direste
che spiravano, e, se prive
non
fossero di voce, che eran vive.
Quivi
una bestia uscir de la foresta
parea,
di crudel vista, odiosa e brutta,
che
avea l'orecchie d'asino, e la testa
di
lupo e i denti, e per gran fame asciutta;
branche
avea di leon; l'altro che resta,
tutto
era volpe: e parea scorrer tutta
e
Francia e Italia e Spagna ed Inghelterra,
l'Europa
e l'Asia, e al fin tutta la terra.
Per
tutto avea genti ferite e morte,
la
bassa plebe e i più superbi capi:
anzi
nuocer parea molto più forte
a
re, a signori, a principi, a satrapi.
Peggio
facea ne la romana corte,
che
v'avea uccisi cardinali e papi:
contaminato
avea la bella sede
di
Pietro e messo scandol ne la fede.
Par
che dinanzi a questa bestia orrenda
cada
ogni muro, ogni ripar che tocca.
Non
si vede città che si difenda:
se
l'apre incontra ogni castello e rocca.
Par
che agli onor divini anco s'estenda,
e
sia adorata da la gente sciocca,
e
che le chiavi s'arroghi d'avere
del
cielo e de l'abisso in suo potere.
Poi
si vedea d'imperiale alloro
cinto
le chiome un cavallier venire
con
tre giovini a par, che i gigli d'oro
tessuti
avean nel lor real vestire;
e,
con insegna simile, con loro
parea
un leon contra quel mostro uscire:
avean
lor nomi chi sopra la testa,
e
chi nel lembo scritto de la vesta.
L'un
che avea fin a l'elsa ne la pancia
la
spada immersa alla maligna fera,
Francesco
primo, avea scritto, di Francia;
Massimigliano
d'Austria a par seco era;
e
Carlo quinto imperator, di lancia
avea
passato il mostro alla gorgiera;
e
l'altro, che di stral gli fige il petto,
l'ottavo
Enrigo d'Inghilterra è detto.
Decimo
ha quel Leon scritto sul dosso,
che
al brutto mostro i denti ha ne l'orecchi;
e
tanto l'ha già travagliato e scosso,
che
vi sono arrivati altri parecchi.
Parea
del mondo ogni timor rimosso;
ed
in emenda degli errori vecchi
nobil
gente accorrea, non però molta,
onde
alla belva era la vita tolta.
I
cavallieri stavano e Marfisa
con
desiderio di conoscer questi
per
le cui mani era la bestia uccisa,
che
fatti avea tanti luoghi atri e mesti.
Avenga
che la pietra fosse incisa
dei
nomi lor, non eran manifesti.
Si
pregavan tra lor, che se sapesse
l'istoria
alcuno, agli altri la dicesse.
Voltò
Viviano a Malagigi gli occhi,
che
stava a udire, e non facea lor motto:
-
A te (disse) narrar l'istoria tocchi,
che
esser ne déi, per quel che io vegga, dotto.
Chi
son costor che con saette e stocchi
e
lance a morte han l'animal condotto? -
Rispose
Malagigi: - Non è istoria
di
che abbia autor fin qui fatto memoria.
Sappiate
che costor che qui scritto hanno
nel
marmo i nomi, al mondo mai non furo;
ma
fra settecento anni vi saranno,
con
grande onor del secolo futuro.
Merlino,
il savio incantator britanno,
fe'
far la fonte al tempo del re Arturo;
e
di cose che al mondo hanno a venire,
la
fe' da buoni artefici scolpire.
Questa
bestia crudele uscì del fondo
de
lo 'nferno a quel tempo che fur fatti
alle
campagne i termini, e fu il pondo
trovato
e la misura, e scritti i patti.
Ma
non andò a principio in tutto il mondo:
di
sé lasciò molti paesi intatti.
Al
tempo nostro in molti lochi sturba;
ma
i populari offende e la vil turba.
Dal
suo principio infin al secol nostro
sempre
è cresciuto, e sempre andrà crescendo:
sempre
crescendo, al lungo andar fia il mostro
il
maggior che mai fosse e lo più orrendo.
Quel
Fiton che per carte e per inchiostro
s'ode
che fu sì orribile e stupendo,
alla
metà di questo non fu tutto,
né
tanto abominevol né sì brutto.
Farà
strage crudel, né sarà loco
che
non guasti, contamini ed infetti:
e
quanto mostra la scultura, è poco
de'
suoi nefandi e abominosi effetti.
Al
mondo, di gridar mercé già roco,
questi,
dei quali i nomi abbiamo letti,
che
chiari splenderan più che piropo,
verranno
a dare aiuto al maggior uopo.
Alla
fera crudele il più molesto
non
sarà di Francesco il re de' Franchi:
e
ben convien che molti ecceda in questo,
e
nessun prima e pochi n'abbia a' fianchi;
quando
in splendor real, quando nel resto
di
virtù farà molti parer manchi,
che
già parver compiuti; come cede
tosto
ogn'altro splendor, che il sol si vede.
L'anno
primier del fortunato regno,
non
ferma ancor ben la corona in fronte,
passerà
l'Alpe, e romperà il disegno
di
chi all'incontro avrà occupato il monte,
da
giusto spinto e generoso sdegno,
che
vendicate ancor non sieno l'onte
che
dal furor da paschi e mandre uscito
l'esercito
di Francia avrà patito.
E
quindi scenderà nel ricco piano
di
Lombardia, col fior di Francia intorno,
e
sì l'Elvezio spezzerà, che invano
farà
mai più pensier d'alzare il corno.
Con
grande e de la Chiesa e de l'ispano
campo
e del fiorentin vergogna e scorno
espugnerà
il castel che prima stato
sarà
non espugnabile stimato.
Sopra
ogn'altr'arme, ad espugnarlo, molto
più
gli varrà quella onorata spada
con
la qual prima avrà di vita tolto
il
mostro corruttor d'ogni contrada.
Convien
che inanzi a quella sia rivolto
in
fuga ogni stendardo, o a terra vada;
né
fossa, né ripar, né grosse mura
possan
da lei tener città sicura.
Questo
principe avrà quanta eccellenza
aver
felice imperator mai debbia:
l'animo
del gran Cesar, la prudenza
di
chi mostrolla a Transimeno e a Trebbia,
con
la fortuna d'Alessandro, senza
cui
saria fumo ogni disegno, e nebbia.
Sarà
sì liberal, che io lo contemplo
qui
non aver né paragon né esemplo. -
Così
diceva Malagigi, e messe
desire
a' cavallier d'aver contezza
del
nome d'alcun altro che uccidesse
l'infernal
bestia, uccider gli altri avezza.
Quivi
un Bernardo tra' primi si lesse,
che
Merlin molto nel suo scritto apprezza.
-
Fia nota per costui (dicea) Bibiena,
quanto
Fiorenza sua vicina e Siena. -
Non
mette piede inanzi ivi persona
a
Sismondo, a Giovanni, a Ludovico:
un
Gonzaga, un Salviati, un d'Aragona,
ciascuno
al brutto mostro aspro nimico.
V'è
Francesco Gonzaga, né abandona
le
sue vestigie il figlio Federico;
ed
ha il cognato e il genero vicino,
quel
di Ferrara, e quel duca d'Urbino.
De
l'un di questi il figlio Guidobaldo
non
vuol che il padre o che altri a dietro il metta.
Con
Otobon dal Flisco, Sinibaldo
caccia
la fera, e van di pari in fretta.
Luigi
da Gazolo il ferro caldo
fatto
nel collo le ha d'una saetta,
che
con l'arco gli diè Febo, quando anco
Marte
la spada sua gli messe al fianco.
Duo
Erculi, duo Ippoliti da Este,
un
altro Ercule, un altro Ippolito anco,
da
Gonzaga, de' Medici, le peste
seguon
del mostro, e l'han, cacciando, stanco.
Né
Giuliano al figliuol, né par che reste
Ferrante
al fratel dietro; né che manco
Andrea
Doria sia pronto; né che lassi
Francesco
Sforza, che ivi uomo lo passi.
Del
generoso, illustre e chiaro sangue
d'Avalo
vi son dui che han per insegna
lo
scoglio, che dal capo ai piedi d'angue
par
che l'empio Tifeo sotto si tegna.
Non
è di questi duo, per fare esangue
l'orribil
mostro, che più inanzi vegna:
l'uno
Francesco di Pescara invitto,
l'altro
Alfonso del Vasto ai piedi ha scritto.
Ma
Consalvo Ferrante ove ho lasciato,
l'ispano
onor, che in tanto pregio v'era,
che
fu da Malagigi sì lodato,
che
pochi il pareggiar di quella schiera?
Guglielmo
si vedea di Monferrato
fra
quei che morto avean la brutta fera;
ed
eran pochi verso gli infiniti
che
ella v'avea chi morti e chi feriti.
In
giuochi onesti e parlamenti lieti,
dopo
mangiar, spesero il caldo giorno,
corcati
su finissimi tapeti
tra
gli arbuscelli ond'era il rivo adorno.
Malagigi
e Vivian, perché quieti
più
fosser gli altri, tenean l'arme intorno;
quando
una donna senza compagnia
vider,
che verso lor ratto venìa.
Questa
era quella Ippalca a cui fu tolto
Frontino,
il bon destrier, da Rodomonte.
L'avea
il dì inanzi ella seguito molto,
pregandolo
ora, ora dicendogli onte;
ma
non giovando, avea il camin rivolto
per
ritrovar Ruggiero in Agrismonte.
Tra
via le fu (non so già come) detto
che
quivi il troveria con Ricciardetto.
E
perché il luogo ben sapea (che v'era
stata
altre volte), se ne venne al dritto
alla
fontana; ed in quella maniera
ve
lo trovò, che io v'ho di sopra scritto.
Ma
come buona e cauta messaggera
che
sa meglio esequir che non l'è ditto,
quando
vide il fratel di Bradamante,
non
conoscer Ruggier fece sembiante.
A
Ricciardetto tutta rivoltosse,
sì
come drittamente a lui venisse;
e
quel che la conobbe, se le mosse
incontra,
e domandò dove ne gisse.
Ella
che ancora avea le luci rosse
del
pianger lungo, sospirando disse;
ma
disse forte, acciò che fosse espresso
a
Ruggiero il suo dir, che gli era presso.
-
Mi traea dietro (disse) per la briglia,
come
imposto m'avea la tua sorella,
un
bel cavallo e buono a maraviglia,
che
ella molto ama e che Frontino appella;
e
l'avea tratto più di trenta miglia
verso
Marsilia, ove venir debbe ella
fra
pochi giorni, e dove ella mi disse
che
io l'aspettassi fin che vi venisse.
Era
sì baldanzoso il creder mio,
che
io non stimava alcun di cor sì saldo,
che
me l'avesse a tor, dicendogli io
che
era de la sorella di Rinaldo.
Ma
vano il mio disegno ieri m'uscìo,
che
me lo tolse un Saracin ribaldo;
né
per udir di chi Frontino fusse,
a
volermelo rendere s'indusse.
Tutto
ieri ed oggi l'ho pregato; e quando
ho
visto uscir prieghi e minacce invano,
maledicendol
molto e bestemmiando,
l'ho
lasciato di qui poco lontano,
dove
il cavallo e sé molto affannando,
s'aiuta,
quanto può, con l'arme in mano
contra
un guerrier che in tal travaglio il mette,
che
spero che abbia a far le mie vendette. -
Ruggiero
a quel parlar salito in piede,
che
avea potuto a pena il tutto udire,
si
volta a Ricciardetto, e per mercede
e
premio e guidardon del ben servire
(prieghi
aggiungendo senza fin) gli chiede
che
con la donna solo il lasci gire
tanto
che il Saracin gli sia mostrato,
che
a lei di mano ha il buon destrier levato.
A
Ricciardetto, ancor che discortese
il
concedere altrui troppo paresse
di
terminar le a sé debite imprese,
al
voler di Ruggier pur si rimesse:
e
quel licenza dai compagni prese,
e
con Ippalca a ritornar si messe,
lasciando
a quei che rimanean, stupore,
con
maraviglia pur del suo valore.
Poi
che dagli altri allontanato alquanto
Ippalca
l'ebbe, gli narrò che ad esso
era
mandata da colei che tanto
avea
nel core il suo valore impresso;
e
senza finger più, seguitò quanto
la
sua donna al partir le avea commesso,
e
che se dianzi avea altrimente detto,
per
la presenza fu di Ricciardetto.
Disse,
che chi le avea tolto il destriero,
ancor
detto l'avea con molto orgoglio:
-
Perché so che il cavallo è di Ruggiero,
più
volontier per questo te lo toglio.
S'egli
di racquistarlo avrà pensiero,
fagli
saper (che asconder non gli voglio)
che
io son quel Rodomonte il cui valore
mostra
per tutto il mondo il suo splendore. -
Ascoltando,
Ruggier mostra nel volto,
di
quanto sdegno acceso il cor gli sia,
sì
perché caro avria Frontino molto,
sì
perché venìa il dono onde venìa
sì
perché in suo dispregio gli par tolto;
vede
che biasmo e disonor gli fia,
se
torlo a Rodomonte non s'affretta,
e
sopra lui non fa degna vendetta.
La
donna Ruggier guida, e non soggiorna,
che
por lo brama col Pagano a fronte;
e
giunge ove la strada fa dua corna:
l'un
va giù al piano, e l'altro va su al monte;
e
questo e quel ne la vallea ritorna,
dov'ella
avea lasciato Rodomonte.
Aspra,
ma breve era la via del colle;
l'altra
più lunga assai, ma piana e molle.
Il
desiderio che conduce Ippalca
d'aver
Frontino e vendicar l'oltraggio,
fa
che il sentier de la montagna calca,
onde
molto più corto era il viaggio.
Per
l'altra intanto il re d'Algier cavalca
col
Tartaro e cogli altri che detto aggio;
e
giù nel pian la via più facil tiene,
né
con Ruggier ad incontrar si viene.
Già
son le lor querele differite
fin
che soccorso ad Agramante sia
(questo
sapete); ed han d'ogni lor lite
la
cagion, Doralice, in compagnia.
Ora
il successo de l'istoria udite.
Alla
fontana è la lor dritta via,
ove
Aldigier, Marfisa, Ricciardetto,
Malagigi
e Vivian stanno a diletto.
Marfisa
a' prieghi de' compagni avea
veste
da donna ed ornamenti presi,
di
quelli che a Lanfusa si credea
mandare
il traditor de' Maganzesi;
e
ben che veder raro si solea
senza
l'osbergo e gli altri buoni arnesi,
pur
quel dì se li trasse; e come donna,
a'
prieghi lor lasciò vedersi in gonna.
Tosto
che vede il Tartaro Marfisa,
per
la credenza c'ha di guadagnarla,
in
ricompensa e in cambio ugual s'avisa
di
Doralice, a Rodomonte darla;
sì
come Amor si regga a questa guisa,
che
vender la sua donna o permutarla
possa
l'amante, né a ragion s'attrista,
se
quando una ne perde, una n'acquista.
Per
dunque provedergli di donzella,
acciò
per sé quest'altra si ritegna,
Marfisa,
che gli par leggiadra e bella,
e
d'ogni cavallier femina degna,
come
abbia ad aver questa, come quella,
subito
cara, a lui donar disegna;
e
tutti i cavallier che con lei vede,
a
giostra seco ed a battaglia chiede.
Malagigi
e Vivian, che l'arme aveano
come
per guardia e sicurtà del resto,
si
mossero dal luogo ove sedeano,
l'un
come l'altro alla battaglia presto,
perché
giostrar con amenduo credeano;
ma
l'African che non venìa per questo,
non
ne fe' segno o movimento alcuno:
sì
che la giostra restò lor contra uno.
Viviano
è il primo, e con gran cor si muove,
e
nel venire abbassa un'asta grossa:
e
il re pagan da le famose pruove
da
l'altra parte vien con maggior possa.
Dirizza
l'uno e l'altro, e segna dove
crede
meglio fermar l'aspra percossa.
Viviano
indarno a l'elmo il pagan fere;
che
non lo fa piegar, non che cadere.
Il
re pagan, che avea più l'asta dura,
fe'
lo scudo a Vivian parer di ghiaccio;
e
fuor di sella in mezzo alla verdura,
all'erbe
e ai fiori il fe' cadere in braccio.
Vien
Malagigi, e ponsi in aventura
di
vendicare il suo fratello avaccio;
ma
poi d'andargli appresso ebbe tal fretta,
che
gli fe' compagnia più che vendetta.
L'altro
fratel fu prima del cugino
coll'arme
indosso, e sul destrier salito;
e
disfidato contra il Saracino
venne
a scontrarlo a tutta briglia ardito.
Risonò
il colpo in mezzo a l'elmo fino
di
quel pagan sotto la vista un dito:
volò
al ciel l'asta in quattro tronchi rotta;
ma
non mosse il pagan per quella botta.
Il
pagan ferì lui dal lato manco;
e
perché il colpo fu con troppa forza,
poco
lo scudo, e la corazza manco
gli
valse, che s'aprir come una scorza.
Passò
il ferro crudel l'omero bianco:
piegò
Aldigier ferito a poggia e ad orza;
tra
fiori ed erbe al fin si vide avolto,
rosso
su l'arme, e pallido nel volto.
Con
molto ardir vien Ricciardetto appresso;
e
nel venire arresta sì gran lancia,
che
mostra ben, come ha mostrato spesso,
che
degnamente è paladin di Francia:
ed
al pagan ne facea segno espresso,
se
fosse stato pari alla bilancia;
ma
sozzopra n'andò, perché il cavallo
gli
cadde adosso, e non già per suo fallo.
Poi
che altro cavallier non si dimostra,
che
al pagan per giostrar volti la fronte,
pensa
aver guadagnato de la giostra
la
donna, e venne a lei presso alla fonte;
e
disse: - Damigella, sète nostra,
s'altri
non è per voi che in sella monte.
Nol
potete negar, né farne iscusa;
che
di ragion di guerra così s'usa. -
Marfisa,
alzando con un viso altiero
la
faccia, disse: - Il tuo parer molto erra.
Io
ti concedo che diresti il vero,
che
io sarei tua per la ragion di guerra,
quando
mio signor fosse o cavalliero
alcun
di questi che hai gittato in terra.
Io
sua non son, né d'altri son che mia:
dunque
me tolga a me chi mi desia.
So
scudo e lancia adoperare anche io,
e
più d'un cavalliero in terra ho posto. -
-
Datemi l'arme, disse, e il destrier mio, -
agli
scudier che l'ubbidiron tosto.
Trasse
la gonna, ed in farsetto uscìo;
e
le belle fattezze e il ben disposto
corpo
mostrò, che in ciascuna sua parte,
fuor
che nel viso, assimigliava a Marte.
Poi
che fu armata, la spada si cinse
e
sul destrier montò d'un leggier salto;
e
qua e là tre volte e più lo spinse,
e
quinci e quindi fe' girare in alto;
e
poi, sfidando il Saracino, strinse
la
grossa lancia e cominciò l'assalto.
Tal
nel campo troian Pentesilea
contra
il tessalo Achille esser dovea.
Le
lance infin al calce si fiaccaro
a
quel superbo scontro, come vetro;
né
pero chi le corsero, piegaro,
che
si notasse, un dito solo a dietro.
Marfisa
che volea conoscer chiaro
s'a
più stretta battaglia simil metro
le
serverebbe contra il fier pagano,
se
gli rivolse con la spada in mano.
Bestemmiò
il cielo e gli elementi il crudo
pagan,
poi che restar la vide in sella:
ella,
che gli pensò romper lo scudo,
non
men sdegnosa contra il ciel favella.
Già
l'uno e l'altro ha in mano il ferro nudo
e
su le fatal arme si martella:
l'arme
fatali han parimente intorno,
che
mai non bisognar più di quel giorno.
Sì
buona è quella piastra e quella maglia,
che
spada o lancia non le taglia o fora;
sì
che potea seguir l'aspra battaglia
tutto
quel giorno e l'altro appresso ancora.
Ma
Rodomonte in mezzo lor si scaglia,
e
riprende il rival de la dimora,
dicendo:
- Se battaglia pur far vuoi,
finiàn
la cominciata oggi fra noi.
Facemmo,
come sai, triegua con patto
di
dar soccorso alla milizia nostra.
Non
debbiàn, prima che sia questo fatto,
incominciare
altra battaglia o giostra. -
Indi
a Marfisa, riverente in atto
si
volta, e quel messaggio le dimostra;
e
le racconta come era venuto
a
chieder lor per Agramante aiuto.
La
priega poi che le piaccia non solo
lasciar
quella battaglia o differire,
ma
che voglia in aiuto del figliuolo
del
re Troian con essi lor venire;
onde
la fama sua con maggior volo
potrà
far meglio infin al ciel salire,
che,
per querela di poco momento,
dando
a tanto disegno impedimento.
Marfisa,
che fu sempre disiosa
di
provar quei di Carlo a spada e a lancia,
né
l'avea indotta a venire altra cosa
di
sì lontana regione in Francia,
se
non per esser certa se famosa
lor
nominanza era per vero o ciancia,
tosto
d'andar con lor partito prese,
che
d'Agramante il gran bisogno intese.
Ruggiero
in questo mezzo avea seguito
indarno
Ippalca per la via del monte;
e
trovò, giunto al loco, che partito
per
altra via se n'era Rodomonte:
e
pensando che lungi non era ito,
e
che il sentier tenea dritto alla fonte,
trottando
in fretta dietro gli venìa
per
l'orme che eran fresche in su la via.
Volse
che Ippalca a Montalban pigliasse
la
via, che una giornata era vicino;
perché
s'alla fontana ritornasse,
si
torria troppo dal dritto camino.
E
disse a lei, che già non dubitasse
che
non s'avesse a ricovrar Frontino:
ben
le farebbe a Montalbano, o dove
ella
si trovi, udir tosto le nuove.
E
le diede la lettera che scrisse
in
Agrismonte, e che si portò in seno;
e
molte cose a bocca anco le disse,
e
la pregò che l'escusasse a pieno.
Ne
la memoria Ippalca il tutto fisse,
prese
licenza e voltò il palafreno;
e
non cessò la buona messaggera,
che
in Montalban si ritrovò la sera.
Seguia
Ruggiero in fretta il Saracino
per
l'orme che apparian ne la via piana,
ma
non lo giunse prima che vicino
con
Mandricardo il vide alla fontana.
Già
promesso s'avean che per camino
l'un
non farebbe all'altro cosa strana,
né
fin che al campo si fosse soccorso,
a
cui Carlo era appresso a porre il morso.
Quivi
giunto Ruggier, Frontin conobbe,
e
conobbe per lui chi adosso gli era;
e
su la lancia fe' le spalle gobbe,
e
sfidò l'African con voce altiera.
Rodomonte
quel dì fe' più che Iobbe,
poi
che domò la sua superbia fiera;
e
ricusò la pugna che avea usanza
di
sempre egli cercar con ogni istanza.
Il
primo giorno e l'ultimo, che pugna
mai
ricusasse il re d'Algier, fu questo;
ma
tanto il desiderio che si giugna,
in
soccorso al suo re gli pare onesto,
che
se credesse aver Ruggier ne l'ugna
più
che mai lepre il pardo isnello e presto,
non
se vorria fermar tanto con lui,
che
fêsse un colpo de la spada o dui.
Aggiungi
che sapea che era Ruggiero
che
seco per Frontin facea battaglia,
tanto
famoso, che altro cavalliero
non
è che a par di lui di gloria saglia,
l'uom
che bramato ha di saper per vero
esperimento
quanto in arme vaglia;
e
pur non vuol seco accettar l'impresa:
tanto
l'assedio del suo re gli pesa.
Trecento
miglia sarebbe ito e mille,
se
ciò non fosse, a comperar tal lite;
ma
se l'avesse oggi sfidato Achille,
più
fatto non avria di quel che udite:
tanto
a quel punto sotto le faville
le
fiamme avea del suo furor sopite.
Narra
a Ruggier perché pugna rifiuti;
ed
anco il priega che l'impresa aiuti:
che
facendol, farà quel che far deve
al
suo signore un cavallier fedele.
Sempre
che questo assedio poi si leve,
avran
ben tempo da finir querele.
Ruggier
rispose a lui: - Mi sarà lieve
differir
questa pugna, fin che de le
forze
di Carlo si traggia Agramante,
pur
che mi rendi il mio Frontino inante.
Se
di provarti c'hai fatto gran fallo,
e
fatto hai cosa indegna ad un uom forte,
d'aver
tolto a una donna il mio cavallo,
vuoi
che io prolunghi fin che siamo in corte,
lascia
Frontino, e nel mio arbitrio dàllo.
Non
pensare altrimente che io sopporte
che
la battaglia qui tra noi non segua,
o
che io ti faccia sol d'un'ora triegua. -
Mentre
Ruggiero all'African domanda
o
Frontino o battaglia allora allora,
e
quello in lungo e l'uno e l'altro manda,
né
vuol dare il destrier, né far dimora;
Mandricardo
ne vien da un'altra banda,
e
mette in campo un'altra lite ancora,
poi
che vede Ruggier che per insegna
porta
l'augel che sopra gli altri regna.
Nel
campo azzur l'aquila bianca avea,
che
de' Troiani fu l'insegna bella:
perché
Ruggier l'origine traea
dal
fortissimo Ettòr, portava quella.
Ma
questo Mandricardo non sapea;
né
vuol patire, e grande ingiuria appella,
che
ne lo scudo un altro debba porre
l'aquila
bianca del famoso Ettorre.
Portava
Mandricardo similmente
l'augel
che rapì in Ida Ganimede.
Come
l'ebbe quel dì che fu vincente
al
castel periglioso, per mercede,
credo
vi sia con l'altre istorie a mente,
e
come quella fata gli lo diede
con
tutte le bell'arme che Vulcano
avea
già date al cavallier troiano.
Altra
volta a battaglia erano stati
Mandricardo
e Ruggier solo per questo;
e
per che caso fosser distornati,
io
nol dirò, che già v'è manifesto.
Dopo
non s'eran mai più raccozzati,
se
non quivi ora; e Mandricardo presto,
visto
lo scudo alzò il superbo grido
minacciando,
e a Ruggier disse: - Io ti sfido.
Tu
la mia insegna, temerario, porti;
né
questo è il primo dì che io te l'ho detto.
E
credi, pazzo, ancor che io tel comporti,
per
una volta che io t'ebbi rispetto?
Ma
poi che né minacce né conforti
ti
pôn questa follia levar del petto,
ti
mostrerò quanto miglior partito
t'era
d'avermi subito ubbidito.
Come
ben riscaldato arrido legno
a
piccol soffio subito s'accende,
così
s'avampa di Ruggier lo sdegno
al
primo motto che di questo intende.
-
Ti pensi (disse) farmi stare al segno,
perché
quest'altro ancor meco contende?
Ma
mostrerotti che io son buon per torre
Frontino
a lui, lo scudo a te d'Ettorre.
Un'altra
volta pur per questo venni
teco
a battaglia, e non è gran tempo anco;
ma
d'ucciderti allora mi contenni,
perché
tu non avevi spada al fianco.
Questi
fatti saran, quelli fur cenni;
e
mal sarà per te quell'augel bianco,
che
antiqua insegna è stata di mia gente:
tu
te l'usurpi, io il porto giustamente. -
-
Anzi t'usurpi tu l'insegna mia! -
rispose
Mandricardo; e trasse il brando,
quello
che poco inanzi per follia
avea
gittato alla foresta Orlando.
Il
buon Ruggier, che di sua cortesia
non
può non sempre ricordarsi, quando
vide
il Pagan che avea tratta la spada,
lasciò
cader la lancia ne la strada.
E
tutto a un tempo Balisarda stringe,
la
buona spada, e me' lo scudo imbraccia:
ma
l'Africano in mezzo il destrier spinge,
e
Marfisa con lui presta si caccia;
e
l'uno questo, e l'altro quel respinge,
e
priegano amendui che non si faccia.
Rodomonte
si duol che rotto il patto
due
volte ha Mandricardo, che fu fatto.
Prima,
credendo d'acquistar Marfisa,
fermato
s'era a far più d'una giostra;
or
per privar Ruggier d'una divisa,
di
curar poco il re Agramante mostra.
-
Se pur (dicea) déi fare a questa guisa,
finiàn
prima tra noi la lite nostra,
conveniente
e più debita assai,
che
alcuna di quest'altre che prese hai.
Con
tal condizion fu stabilita
la
triegua e questo accordo che è fra nui.
Come
la pugna teco avrò finita,
poi
del destrier risponderò a costui.
Tu
del tuo scudo, rimanendo in vita,
la
lite avrai da terminar con lui;
ma
ti darò da far tanto, mi spero,
che
non n'avanzarà troppo a Ruggiero. -
-
La parte che ti pensi, non n'avrai
(rispose
Mandricardo a Rodomonte):
io
te ne darò più che non vorrai,
e
ti farò sudar dal piè alla fronte:
e
me ne rimarrà per darne assai
(come
non manca mai l'acqua del fonte)
ed
a Ruggiero ed a mill'altri seco,
e
a tutto il mondo che la voglia meco. -
Moltiplicavan
l'ire e le parole
quando
da questo e quando da quel lato:
con
Rodomonte e con Ruggier la vuole
tutto
in un tempo Mandricardo irato;
Ruggier,
che oltraggio sopportar non suole,
non
vuol più accordo, anzi litigio e piato.
Marfisa
or va da questo or da quel canto
per
riparar, ma non può sola tanto.
Come
il villan, se fuor per l'alte sponde
trapela
il fiume e cerca nuova strada,
frettoloso
a vietar che non affonde
i
verdi paschi e la sperata biada,
chiude
una via ed un'altra, e si confonde;
che
se ripara quinci che non cada,
quindi
vede lassar gli argini molli,
e
fuor l'acqua spicciar con più rampolli:
così,
mentre Ruggiero e Mandricardo
e
Rodomonte son tutti sozzopra,
che
ognun vuol dimostrarsi più gagliardo,
ed
ai compagni rimaner di sopra,
Marfisa
ad acchetarli have riguardo,
e
s'affatica, e perde il tempo e l'opra;
che,
come ne spicca uno e lo ritira,
gli
altri duo risalir vede con ira.
Marfisa,
che volea porgli d'accordo,
dicea:
- Signori, udite il mio consiglio:
differire
ogni lite è buon ricordo
fin
che Agramante sia fuor di periglio.
S'ognun
vuole al suo fatto essere ingordo,
anche
io con Mandricardo mi ripiglio;
e
vo' vedere al fin se guadagnarme,
come
egli ha detto, è buon per forza d'arme.
Ma
se si de' soccorrere Agramante,
soccorrasi,
e tra noi non si contenda. -
-
Per me non si starà d'andare inante
(disse
Ruggier), pur che il destrier si renda.
O
che mi dia il cavallo, a far di tante
una
parola, o che da me il difenda:
o
che qui morto ho da restare, o che io
in
campo ho da tornar sul destrier mio. -
Rispose
Rodomonte: - Ottener questo
non
fia così, come quell'altro, lieve.-
E
seguitò dicendo: - Io ti protesto
che,
s'alcun danno il nostro re riceve,
fia
per tua colpa; che io per me non resto
di
fare a tempo quel che far si deve.-
Ruggiero
a quel protesto poco bada;
ma
stretto dal furor stringe la spada.
Al
re d'Algier come cingial si scaglia,
e
l'urta con lo scudo e con la spalla;
e
in modo lo disordina e sbarraglia,
che
fa che d'una staffa il piè gli falla.
Mandricardo
gli grida: - O la battaglia
differisci,
Ruggiero, o meco falla; -
e
crudele e fellon più che mai fosse,
Ruggier
su l'elmo in questo dir percosse.
Fin
sul collo al destrier Ruggier s'inchina,
né,
quando vuolsi rilevar, si puote;
perché
gli sopragiunge la ruina
del
figlio d'Ulien che lo percuote.
Se
non era di tempra adamantina,
fesso
l'elmo gli avria fin tra le gote.
Apre
Ruggier le mani per l'ambascia,
e
l'una il fren, l'altra la spada lascia.
Se
lo porta il destrier per la campagna:
dietro
gli resta in terra Balisarda.
Marfisa
che quel dì fatta compagna
se
gli era d'arme, par che avampi ed arda,
che
solo fra que' duo così rimagna:
e
come era magnanima e gagliarda,
si
drizza a Mandricardo, e col potere
che
avea maggior, sopra la testa il fiere.
Rodomonte
a Ruggier dietro si spinge:
vinto
è Frontin, s'un'altra gli n'appicca;
ma
Ricciardetto con Vivian si stringe,
e
tra Ruggiero e il Saracin si ficca.
L'uno
urta Rodomonte e lo rispinge,
e
da Ruggier per forza lo dispicca;
l'altro
la spada sua, che fu Viviano,
pone
a Ruggier, già risentito, in mano.
Tosto
che il buon Ruggiero in sé ritorna,
e
che Vivian la spada gli appresenta,
a
vendicar l'ingiuria non soggiorna,
e
verso il re d'Algier ratto s'aventa,
come
il leon che tolto su le corna
dal
bue sia stato, e che il dolor non senta:
sì
sdegno ed ira ed impeto l'affretta,
stimula
e sferza a far la sua vendetta.
Ruggier
sul capo al Saracin tempesta:
e
se la spada sua si ritrovasse,
che,
come ho detto, al comminciar di questa
pugna,
di man gran fellonia gli trasse,
mi
credo che a difendere la testa
di
Rodomonte l'elmo non bastasse,
l'elmo
che fece il re far di Babelle
quando
muover pensò guerra alle stelle.
La
Discordia, credendo non potere
altro
esser quivi che contese e risse,
né
vi dovesse mai più luogo avere
o
pace o triegua, alla sorella disse
che
omai sicuramente a rivedere
i
monachetti suoi seco venisse.
Lasciànle
andare, e stiàn noi dove in fronte
Ruggiero
avea ferito Rodomonte.
Fu
il colpo di Ruggier di sì gran forza,
che
fece in su la groppa di Frontino
percuoter
l'elmo e quella dura scorza
di
che avea armato il dosso il Saracino,
e
lui tre volte e quattro a poggia e ad orza
piegar
per gire in terra a capo chino;
e
la spada egli ancora avria perduta,
se
legata alla man non fosse suta.
Avea
Marfisa a Mandricardo intanto
fatto
sudar la fronte, il viso e il petto,
ed
egli aveva a lei fatto altretanto;
ma
sì l'osbergo d'ambi era perfetto,
che
mai poter falsarlo in nessun canto,
e
stati eran sin qui pari in effetto:
ma
in un voltar che fece il suo destriero,
bisogno
ebbe Marfisa di Ruggiero.
Il
destrier di Marfisa in un voltarsi
che
fece stretto, ov'era molle il prato,
sdrucciolò
in guisa, che non poté aitarsi
di
non tutto cader sul destro lato;
e
nel volere in fretta rilevarsi,
da
Brigliador fu pel traverso urtato,
con
che il pagan poco cortese venne;
sì
che cader di nuovo gli convenne.
Ruggier
che la donzella a mal partito
vide
giacer, non differì il soccorso,
or
che l'agio n'avea, poi che stordito
da
sé lontan quell'altro era trascorso:
ferì
su l'elmo il Tartaro; e partito
quel
colpo gli avria il capo, come un torso,
se
Ruggier Balisarda avesse avuta,
o
Mandricardo in capo altra barbuta.
Il
re d'Algier che si risente in questo,
si
volge intorno, e Ricciardetto vede;
e
si ricorda che gli fu molesto
dianzi,
quando soccorso a Ruggier diede.
A
lui si drizza, e saria stato presto
a
darli del ben fare aspra mercede,
se
con grande arte e nuovo incanto tosto
non
se gli fosse Malagigi opposto.
Malagigi,
che sa d'ogni malia
quel
che ne sappia alcun mago eccellente,
ancor
che il libro suo seco non sia,
con
che fermare il sole era possente,
pur
la scongiurazione onde solia
commandare
ai demoni aveva a mente:
tosto
in corpo al ronzino un ne costringe
di
Doralice, ed in furor lo spinge.
Nel
mansueto ubino che sul dosso
avea
la figlia del re Stordilano,
fece
entrar un degli angel di Minosso
sol
con parole il frate di Viviano:
e
quel che dianzi mai non s'era mosso,
se
non quanto ubidito avea alla mano,
or
d'improviso spiccò in aria un salto,
che
trenta piè fu lungo e sedeci alto.
Fu
grande il salto, non però di sorte
che
ne dovesse alcun perder la sella.
Quando
si vide in alto, gridò forte
(che
si tenne per morta) la donzella.
Quel
ronzin, come il diavol se lo porte,
dopo
un gran salto se ne va con quella,
che
pur grida soccorso, in tanta fretta,
che
non l'avrebbe giunto una saetta.
Da
la battaglia il figlio d'Ulieno
si
levò al primo suon di quella voce;
e
dove furiava il palafreno,
per
la donna aiutar n'andò veloce.
Mandricardo
di lui non fece meno,
né
più a Ruggier, né più a Marfisa nòce;
ma,
senza chieder loro o paci o tregue,
e
Rodomonte e Doralice segue.
Marfisa
intanto si levò di terra,
e
tutta ardendo di disdegno e d'ira,
credesi
far la sua vendetta, ed erra;
che
troppo lungi il suo nimico mira.
Ruggier,
che aver tal fin vede la guerra,
rugge
come un leon, non che sospira.
Ben
sanno che Frontino e Brigliadoro
giunger
non ponno coi cavalli loro.
Ruggier
non vuol cessar fin che decisa
col
re d'Algier non l'abbia del cavallo:
non
vuol quietar il Tartaro Marfisa,
che
provato a suo senno anco non hallo.
Lasciar
la sua querela a questa guisa
parrebbe
all'uno e all'altro troppo fallo.
Di
commune parer disegno fassi
di
chi offesi gli avea seguire i passi.
Nel
campo saracin li troveranno,
quando
non possan ritrovarli prima;
che
per levar l'assedio iti seranno,
prima
che il re di Francia il tutto opprima.
Così
dirittamente se ne vanno
dove
averli a man salva fanno stima.
Già
non andò Ruggier così di botto,
che
non facesse ai suoi compagni motto.
Ruggier
se ne ritorna ove in disparte
era
il fratel de la sua donna bella,
e
se gli proferisce in ogni parte
amico,
per fortuna e buona e fella:
indi
lo priega (e lo fa con bella arte)
che
saluti in suo nome la sorella;
e
questo così ben gli venne detto,
che
né a lui diè né agli altri alcun sospetto.
E
da lui, da Vivian, da Malagigi,
dal
ferito Aldigier tolse commiato.
Si
proferiro anche essi alli servigi
di
lui, debitor sempre in ogni lato.
Marfisa
avea sì il cor d'ire a Parigi,
che
il salutar gli amici avea scordato;
ma
Malagigi andò tanto e Viviano,
che
pur la salutaron di lontano;
e
così Ricciardetto; ma Aldigiero
giace,
e convien che suo malgrado resti.
Verso
Parigi avean preso il sentiero
quelli
duo prima, ed or lo piglian questi.
Dirvi,
Signor, ne l'altro canto spero
miracolosi
e sopraumani gesti,
che
con danno degli uomini di Carlo
ambe
le coppie fer, di che io vi parlo.
CANTO
VENTISETTESIMO
Molti
consigli de le donne sono
meglio
improviso, che a pensarvi, usciti;
che
questo è speziale e proprio dono
fra
tanti e tanti lor dal ciel largiti.
Ma
può mal quel degli uomini esser buono,
che
maturo discorso non aiti,
ove
non s'abbia a ruminarvi sopra
speso
alcun tempo e molto studio ed opra.
Parve,
e non fu però buono il consiglio
di
Malagigi, ancor che (come ho detto)
per
questo di grandissimo periglio
liberassi
il cugin suo Ricciardetto.
A
levare indi Rodomonte e il figlio
del
re Agrican, lo spirto avea costretto,
non
avvertendo che sarebbon tratti
dove
i cristian ne rimarrian disfatti.
Ma
se spazio a pensarvi avesse avuto,
creder
si può che dato similmente
al
suo cugino avria debito aiuto,
né
fatto danno alla cristiana gente.
Commandare
allo spirto avria potuto,
che
alla via di levante o di ponente
sì
dilungata avesse la donzella,
che
non n'udisse Francia più novella.
Così
gli amanti suoi l'avrian seguìta,
come
a Parigi, anco in ogn'altro loco;
ma
fu questa avvertenza inavvertita
da
Malagigi, per pensarvi poco:
e
la Malignità dal ciel bandita,
che
sempre vorria sangue e strage e fuoco,
prese
la via donde più Carlo afflisse,
poi
che nessuna il mastro gli prescrisse.
Il
palafren che avea il demonio al fianco,
portò
la spaventata Doralice,
che
non poté arrestarla fiume, e manco
fossa,
bosco, palude, erta o pendice;
fin
che per mezzo il campo inglese e franco,
e
l'altra moltitudine fautrice
de
l'insegne di Cristo, rassegnata
non
l'ebbe al padre suo re di Granata.
Rodomonte
col figlio d'Agricane
la
seguitaro il primo giorno un pezzo,
che
le vedean le spalle, ma lontane:
di
vista poi perderonla da sezzo,
e
venner per la traccia, come il cane
la
lepre o il capriol trovare avezzo;
né
si fermar, che furo in parte, dove
di
lei che era col padre ebbono nuove.
Guardati,
Carlo, che il ti viene addosso
tanto
furor, che io non ti veggo scampo:
né
questi pur, ma il re Gradasso è mosso
con
Sacripante a danno del tuo campo.
Fortuna,
per toccarti fin all'osso,
ti
tolle a un tempo l'uno e l'altro lampo
di
forza e di saper, che vivea teco;
e
tu rimaso in tenebre sei cieco.
Io
ti dico d'Orlando e di Rinaldo;
che
l'uno al tutto furioso e folle,
al
sereno, alla pioggia, al freddo, al caldo,
nudo
va discorrendo il piano e il colle:
l'altro,
con senno non troppo più saldo,
d'appresso
al gran bisogno ti si tolle;
che
non trovando Angelica in Parigi,
si
parte, e va cercandone vestigi.
Un
fraudolente vecchio incantatore
gli
fe' (come a principio vi si disse)
creder
per un fantastico suo errore,
che
con Orlando Angelica venisse:
ondè
di gelosia tocco nel core,
de
la maggior che amante mai sentisse,
venne
a Parigi, e come apparve in corte,
d'ire
in Bretagna gli toccò per sorte.
Or
fatta la battaglia onde portonne
egli
l'onor d'aver chiuso Agramante,
tornò
a Parigi, e monister di donne
e
case e rocche cercò tutte quante.
Se
murata non è tra le colonne,
l'avria
trovata il curioso amante.
Vedendo
al fin che ella non v'è né Orlando,
amenduo
va con gran disio cercando.
Pensò
che dentro Anglante o dentro a Brava
se
la godesse Orlando in festa e in giuoco;
e
qua e là per ritrovarla andava,
né
in quel la ritrovò né in questo loco.
A
Parigi di nuovo ritornava,
pensando
che tardar dovesse poco
di
capitare il paladino al varco;
che
il suo star fuor non era senza incarco.
Un
giorno o duo ne la città soggiorna
Rinaldo;
e poi che Orlando non arriva,
or
verso Anglante, or verso Brava torna,
cercando
se di lui novella udiva.
Cavalca
e quando annotta e quando aggiorna,
alla
fresca alba e all'ardente ora estiva;
e
fa al lume del sole e de la luna
dugento
volte questa via, non che una.
Ma
l'antiquo aversario, il qual fece Eva
all'interdetto
pome alzar la mano,
a
Carlo un giorno i lividi occhi leva,
che
il buon Rinaldo era da lui lontano;
e
vedendo la rotta che poteva
darsi
in quel punto al populo cristiano,
quanta
eccellenza d'arme al mondo fusse
fra
tutti i Saracini, ivi condusse.
Al
re Gradasso e al buon re Sacripante,
che
eran fatti compagni all'uscir fuore
de
la piena d'error casa d'Atlante,
di
venire in soccorso messe in core
alle
genti assediate d'Agramante,
e
a distruzion di Carlo imperatore:
ed
egli per l'incognite contrade
fe'
lor la scorta e agevolò le strade.
Ed
ad un altro suo diede negozio
d'affrettar
Rodomonte e Mandricardo
per
le vestigie donde l'altro sozio
a
condur Doralice non è tardo.
Ne
manda ancora un altro, perché in ozio
non
stia Marfisa né Ruggier gagliardo;
ma
chi guidò l'ultima coppia tenne
la
briglia più, né quando gli altri venne.
La
coppia di Marfisa e di Ruggiero
di
mezza ora più tarda si condusse;
però
che astutamente l'angel nero,
volendo
agli cristian dar de le busse,
provide
che la lite del destriero
per
impedire il suo desir non fusse,
che
rinovata si saria, se giunto
fosse
Ruggiero e Rodomonte a un punto.
I
quattro primi si trovaro insieme
onde
potean veder gli alloggiamenti
de
l'esercito oppresso e di chi il preme,
e
le bandiere in che feriano i venti.
Si
consigliaro alquanto; e fur l'estreme
conclusion
dei lor ragionamenti
di
dare aiuto, mal grado di Carlo,
al
re Agramante, e de l'assedio trarlo.
Stringonsi
insieme, e prendono la via
per
mezzo ove s'alloggiano i cristiani,
gridando
Africa e Spagna tuttavia;
e
si scopriro in tutto esser pagani.
Pel
campo, arme, arme risonar s'udia;
ma
menar si sentir prima le mani:
e
de la retroguardia una gran frotta,
non
che assalita sia, ma fugge in rotta.
L'esercito
cristian mosso a tumulto
sozzopra
va senza sapere il fatto.
Estima
alcun che sia un usato insulto
che
Svizzari o Guasconi abbino fatto.
Ma
perche alla più parte è il caso occulto,
s'aduna
insieme ogni nazion di fatto,
altri
a suon di tamburo, altri di tromba:
grande
è il rumore, e fin al ciel rimbomba.
Il
magno imperator, fuor che la testa,
è
tutto armato, e i paladini ha presso;
e
domandando vien che cosa è questa
che
le squadre in disordine gli ha messo;
e
minacciando, or questi or quelli arresta;
e
vede a molti il viso o il petto fesso,
ad
altri insanguinare o il capo o il gozzo,
alcun
tornar con mano o braccio mozzo.
Giunge
più inanzi, e ne ritrova molti
giacere
in terra, anzi in vermiglio lago
nel
proprio sangue orribilmente involti,
né
giovar lor può medico né mago;
e
vede dagli busti i capi sciolti
e
braccia e gambe con crudele imago;
e
ritrova dai primi alloggiamenti
agli
ultimi per tutto uomini spenti.
Dove
passato era il piccol drappello,
di
chiara fama eternamente degno,
per
lunga riga era rimaso quello
al
mondo sempre memorabil segno.
Carlo
mirando va il crudel macello,
maraviglioso,
e pien d'ira e di sdegno,
come
alcun, in cui danno il fulgur venne,
cerca
per casa ogni sentier che tenne.
Non
era agli ripari anco arrivato
del
re african questo primiero aiuto,
che
con Marfisa fu da un altro lato
l'animoso
Ruggier sopravenuto.
Poi
che una volta o due l'occhio aggirato
ebbe
la degna coppia, e ben veduto
qual
via più breve per soccorrer fosse
l'assediato
signor, ratto si mosse.
Come
quando si dà fuoco alla mina,
pel
lungo solco de la negra polve
licenziosa
fiamma arde e camina
sì
che occhio a dietro a pena se le volve;
e
qual si sente poi l'alta ruina
che
il duro sasso o il grosso muro solve:
così
Ruggiero e Marfisa veniro,
e
tai ne la battaglia si sentiro.
Per
lungo e per traverso a fender teste
incominciaro,
e tagliar braccia e spalle
de
le turbe che male erano preste
ad
espedire e sgombrar loro il calle.
C'ha
notato il passar de le tempeste,
che
una parte d'un monte o d'una valle
offende,
e l'altra lascia, s'appresenti
la
via di questi duo fra quelle genti.
Molti
che dal furor di Rodomonte
e
di quegli altri primi eran fuggiti,
Dio
ringraziavan che avea lor sì pronte
gambe
concesse, e piedi sì spediti;
e
poi, dando del petto e de la fronte
in
Marfisa e in Ruggier, vedean scherniti,
come
l'uom né per star né per fuggire,
al
suo fisso destin può contradire.
Chi
fugge l'un pericolo, rimane
ne
l'altro, e paga il fio d'ossa e di polpe.
Così
cader coi figli in bocca al cane
suol,
sperando fuggir, timida volpe,
poi
che la caccia de l'antique tane
il
suo vicin che le dà mille colpe,
e
cautamente con fumo e con fuoco
turbata
l'ha da non temuto loco.
Negli
ripari entrò de' Saracini
Marfisa
con Ruggiero a salvamento.
Quivi
tutti con gli occhi al ciel supini
Dio
ringraziar del buono avvenimento.
Or
non v'è più timor de' paladini:
il
più tristo pagan ne sfida cento;
ed
è concluso che senza riposo
si
torni a fare il campo sanguinoso.
Corni,
bussoni, timpani moreschi
empieno
il ciel di formidabil suoni:
ne
l'aria tremolare ai venti freschi
si
veggon le bandiere e i gonfaloni.
Da
l'altra parte i capitan carleschi
stringon
con Alamanni e con Britoni
quei
di Francia, d'Italia e d'Inghilterra;
e
si mesce aspra e sanguinosa guerra.
La
forza del terribil Rodomonte,
quella
di Mandricardo furibondo,
quella
del buon Ruggier, di virtù fonte,
del
re Gradasso, sì famoso al mondo,
e
di Marfisa l'intrepida fronte,
col
re circasso a nessun mai secondo,
feron
chiamar san Gianni e san Dionigi
al
re di Francia, e ritrovar Parigi.
Di
questi cavallieri e di Marfisa
l'ardire
invitto e la mirabil possa
non
fu, Signor, di sorte, non fu in guisa
che
imaginar, non che descriver possa.
Quindi
si può stimar che gente uccisa
fosse
quel giorno, e che crudel percossa
avesse
Carlo. Arroge poi con loro,
con
Ferraù più d'un famoso Moro.
Molti
per fretta s'affogaro in Senna
(che
il ponte non potea supplire a tanti),
e
desiar, come Icaro, la penna,
perché
la morte avean dietro e davanti.
Eccetto
Uggieri e il marchese di Vienna,
i
paladin fur presi tutti quanti.
Olivier
ritornò ferito sotto
la
spalla destra, Uggier col capo rotto.
E
se, come Rinaldo e come Orlando,
lasciato
Brandimarte avesse il giuoco,
Carlo
n'andava di Parigi in bando,
se
potea vivo uscir di sì gran fuoco.
Ciò
che poté, fe' Brandimarte, e quando
non
poté più, diede alla furia loco.
Così
Fortuna ad Agramante arrise,
che
un'altra volta a Carlo assedio mise.
Di
vedovelle i gridi e le querele,
e
d'orfani fanciulli e di vecchi orbi,
ne
l'eterno seren dove Michele
sedea,
salir fuor di questi aer torbi;
e
gli fecion veder come il fedele
popul
preda de' lupi era e de' corbi,
di
Francia, d'Inghilterra e di Lamagna,
che
tutta avea coperta la campagna.
Nel
viso s'arrossì l'angel beato,
parendogli
che mal fosse ubidito
al
Creatore, e si chiamò ingannato
da
la Discordia perfida e tradito.
D'accender
liti tra i pagani dato
le
avea l'assunto, e mal era esequito;
anzi
tutto il contrario al suo disegno
parea
aver fatto, a chi guardava al segno.
Come
servo fedel, che più d'amore
che
di memoria abondi, e che s'aveggia
aver
messo in oblio cosa che a core
quanto
la vita e l'anima aver deggia,
studia
con fretta d'emendar l'errore,
né
vuol che prima il suo signor lo veggia:
così
l'angelo a Dio salir non volse,
se
de l'obligo prima non si sciolse.
Al
monister, dove altre volte avea
la
Discordia veduta, drizzò l'ali.
Trovolla
che in capitulo sedea
a
nuova elezion degli ufficiali;
e
di veder diletto si prendea,
volar
pel capo a' frati i breviali.
Le
man le pose l'angelo nel crine,
e
pugna e calci le diè senza fine.
Indi
le roppe un manico di croce
per
la testa, pel dosso e per le braccia.
Mercé
grida la misera a gran voce,
e
le genocchia al divin nunzio abbraccia.
Michel
non l'abandona, che veloce
nel
campo del re d'Africa la caccia;
e
poi le dice: - Aspettati aver peggio,
se
fuor di questo campo più ti veggio. -
Come
che la Discordia avesse rotto
tutto
il dosso e le braccia, pur temendo
un'altra
volta ritrovarsi sotto
a
quei gran colpi, a quel furor tremendo,
corre
a pigliare i mantici di botto,
ed
agli accesi fuochi esca aggiungendo,
ed
accendendone altri, fa salire
da
molti cori un alto incendio d'ire.
E
Rodomonte e Mandricardo e insieme
Ruggier
n'infiamma sì, che inanzi al Moro
li
fa tutti venire, or che non preme
Carlo
i pagani, anzi il vantaggio è loro.
Le
differenze narrano, ed il seme
fanno
saper, da cui produtte foro;
poi
del re si rimettono al parere,
chi
di lor prima il campo debba avere.
Marfisa
del suo caso anco favella,
e
dice che la pugna vuol finire,
che
cominciò col Tartaro; perche ella
provocata
da lui vi fu a venire:
né,
per dar loco all'altre, volea quella
un'ora,
non che un giorno, differire;
ma
d'esser prima fa l'instanza grande,
che
alla battaglia il Tartaro domande.
Non
men vuol Rodomonte il primo campo
da
terminar col suo rival l'impresa,
che
per soccorrer l'africano campo
ha
già interrotta, e fin a qui sospesa.
Mette
Ruggier le sue parole a campo,
e
dice che patir troppo gli pesa
che
Rodomonte il suo destrier gli tenga,
e
che a pugna con lui prima non venga.
Per
più intricarla il Tartaro viene anche,
e
niega che Ruggiero ad alcun patto
debba
l'aquila aver da l'ale bianche;
e
d'ira e di furore è così matto,
che
vuol, quando dagli altri tre non manche,
combatter
tutte le querele a un tratto.
Né
più dagli altri ancor saria mancato,
se
il consenso del re vi fosse stato.
Con
prieghi il re Agramante e buon ricordi
fa
quanto può, perché la pace segua;
e
quando al fin tutti li vede sordi
non
volere assentire a pace o a triegua,
va
discorrendo come almen gli accordi
sì,
che l'un dopo l'altro il campo assegua:
e
pel miglior partito al fin gli occorre
che
ognuno a sorte il campo s'abbia a torre.
Fe'
quattro brevi porre: un Mandricardo
e
Rodomonte insieme scritto avea;
ne
l'altro era Ruggiero e Mandricardo.
Rodomonte
e Ruggier l'altro dicea;
dicea
l'altro Marfisa e Mandricardo.
Indi
all'arbitrio de l'instabil dea
li
fece trarre: e il primo fu il signore
di
Sarza a uscir con Mandricardo fuore.
Mandricardo
e Ruggier fu nel secondo;
nel
terzo fu Ruggiero e Rodomonte;
restò
Marfisa e Mandricardo in fondo,
di
che la donna ebbe turbata fronte.
Né
Ruggier più di lei parve giocondo:
sa
che le forze dei duo primi pronte
han
tra lor da finir le liti in guisa,
che
non ne fia per sé né per Marfisa.
Giacea
non lungi da Parigi un loco,
che
volgea un miglio o poco meno intorno:
lo
cingea tutto un argine non poco
sublime,
a guisa d'un teatro adorno.
Un
castel già vi fu, ma a ferro e a fuoco
le
mura e i tetti ed a ruina andorno.
Un
simil può vederne in su la strada,
qual
volta a Borgo il Parmigiano vada.
In
questo loco fu la lizza fatta,
di
brevi legni d'ogn'intorno chiusa,
per
giusto spazio quadra, al bisogno atta,
con
due capaci porte, come s'usa.
Giunto
il dì che al re par che si combatta
tra
i cavallier che non ricercan scusa,
furo
appresso alle sbarre in ambi i lati
contra
i rastrelli i padiglion tirati.
Nel
padiglion che è più verso ponente
sta
il re d'Algier, c'ha membra di gigante.
Gli
pon lo scoglio indosso del serpente
l'ardito
Ferraù con Sacripante.
Il
re Gradasso e Falsiron possente
sono
in quell'altro al lato di levante,
e
metton di sua man l'arme troiane
indosso
al successor del re Agricane.
Sedeva
in tribunale amplo e sublime
il
re d'Africa, e seco era l'Ispano;
poi
Stordilano, e l'altre genti prime
che
riveria l'esercito pagano.
Beato
a chi pôn dare argini e cime
d'arbori
stanza che gli alzi dal piano!
Grande
è la calca, e grande in ogni lato
populo
ondeggia intorno al gran steccato.
Eran
con la regina di Castiglia
regine
e principesse e nobil donne
d'Aragon,
di Granata e di Siviglia,
e
fin di presso all'atlantee colonne:
tra
quai di Stordilan sedea la figlia,
che
di duo drappi avea le ricche gonne,
l'un
d'un rosso mal tinto, e l'altro verde;
ma
il primo quasi imbianca e il color perde.
In
abito succinta era Marfisa,
qual
si convenne a donna ed a guerriera.
Termoodonte
forse a quella guisa
vide
Ippolita ornarsi e la sua schiera.
Già,
con la cotta d'arme alla divisa
del
re Agramante, in campo venut'era
l'araldo
a far divieto e metter leggi,
che
né in fatto né in detto alcun parteggi.
La
spessa turba aspetta disiando
la
pugna, e spesso incolpa il venir tardo
dei
duo famosi cavallieri; quando
s'ode
dal padiglion di Mandricardo
alto
rumor che vien moltiplicando.
Or
sappiate, Signor, che il re gagliardo
di
Sericana e il Tartaro possente
fanno
il tumulto e il grido che si sente.
Avendo
armato il re di Sericana
di
sua man tutto il re di Tartaria,
per
porgli al fianco la spada soprana
che
già d'Orlando fu, se ne venìa;
quando
nel pome scritto Durindana
vide,
e il quartier che Almonte aver solia,
che
a quel meschin fu tolto ad una fonte
dal
giovenetto Orlando in Aspramonte.
Vedendola,
fu certo che era quella
tanto
famosa del signor d'Anglante,
per
cui con grande armata, e la più bella
che
giamai si partisse di Levante,
soggiogato
avea il regno di Castella,
e
Francia vinta esso pochi anni inante:
ma
non può imaginarsi come avenga
che
or Mandricardo in suo poter la tenga.
E
dimandògli se per forza o patto
l'avesse
tolta al conte, e dove e quando.
E
Mandricardo disse che avea fatto
gran
battaglia per essa con Orlando;
e
come finto quel s'era poi matto,
così
coprire il suo timor sperando,
che
era d'aver continua guerra meco,
fin
che la buona spada avesse seco.
E
dicea che imitato avea il castore,
il
qual si strappa i genitali sui,
vedendosi
alle spalle il cacciatore,
che
sa che non ricerca altro da lui.
Gradasso
non udì tutto il tenore,
che
disse: - Non vo' darla a te né altrui:
tanto
oro, tanto affanno e tanta gente
ci
ho speso, che è ben mia debitamente.
Cercati
pur fornir d'un'altra spada,
che
io voglio questa, e non ti paia nuovo.
Pazzo
o saggio che Orlando se ne vada,
averla
intendo, ovunque io la ritrovo.
Tu
senza testimoni in su la strada
te
l'usurpasti: io qui lite ne muovo.
La
mia ragion dirà mia scimitarra,
e
faremo il giudicio ne la sbarra.
Prima,
di guadagnarla t'apparecchia,
che
tu l'adopri contra a Rodomonte.
Di
comprar prima l'arme è usanza vecchia,
che
alla battaglia il cavallier s'affronte. -
-
Più dolce suon non mi viene all'orecchia
(rispose
alzando il Tartaro la fronte),
che
quando di battaglia alcun mi tenta;
ma
fa che Rodomonte lo consenta.
Fa
che sia tua la prima, e che si tolga
il
re di Sarza la tenzon seconda:
e
non ti dubitar che io non mi volga,
e
che a te ed ad ogni altro io non risponda. -
Ruggier
gridò: - Non vo' che si disciolga
il
patto, o più la sorte si confonda:
o
Rodomonte in campo prima saglia,
o
sia la sua dopo la mia battaglia.
Se
di Gradasso la ragion prevale,
prima
acquistar che porre in opra l'arme;
né
tu l'aquila mia da le bianche ale
prima
usar déi, che non me ne disarme:
ma
poi che è stato il mio voler già tale,
di
mia sentenza non voglio appellarme,
che
sia seconda la battaglia mia,
quando
del re d'Algier la prima sia.
Se
turbarete voi l'ordine in parte,
io
totalmente turbarollo ancora.
Io
non intendo il mio scudo lasciarte,
se
contra me non lo combatti or ora. -
-
Se l'uno e l'altro di voi fosse Marte
(rispose
Mandricardo irato allora),
non
saria l'un né l'altro atto a vietarme
la
buona spada o quelle nobili arme. -
E
tratto da la colera, aventosse
col
pugno chiuso al re di Sericana;
e
la man destra in modo gli percosse,
che
abandonar gli fece Durindana.
Gradasso,
non credendo che egli fosse
di
così folle audacia e così insana,
colto
improviso fu, che stava a bada,
e
tolta si trovò la buona spada.
Così
scornato, di vergogna e d'ira
nel
viso avampa, e par che getti fuoco;
e
più l'affligge il caso e lo martira,
poi
che gli accade in sì palese loco.
Bramoso
di vendetta si ritira,
a
trar la scimitarra, a dietro un poco.
Mandricardo
in sé tanto si confida,
che
Ruggiero anco alla battaglia sfida.
-
Venite pure inanzi amenduo insieme,
e
vengane pel terzo Rodomonte,
Africa
e Spagna e tutto l'uman seme;
che
io son per sempremai volger la fronte. -
Così
dicendo, quel che nulla teme,
mena
d'intorno la spada d'Almonte;
lo
scudo imbraccia, disdegnoso e fiero,
contra
Gradasso e contra il buon Ruggiero.
-
Lascia la cura a me (dicea Gradasso),
che
io guarisca costui de la pazzia. -
-
Per Dio (dicea Ruggier), non te la lasso,
che
esser convien questa battaglia mia. -
-
Va indietro tu! - Vavvi pur tu! - né passo
però
tornando, gridan tuttavia;
ed
attaccossi la battaglia in terzo,
ed
era per uscirne un strano scherzo,
se
molti non si fossero interposti
a
quel furor, non con troppo consiglio;
che
a spese lor quasi imparar che costi
voler
altri salvar con suo periglio.
Né
tutto il mondo mai gli avria composti,
se
non venia col re d'Ispagna il figlio
del
famoso Troiano, al cui cospetto
tutti
ebbon riverenza e gran rispetto.
Si
fe' Agramante la cagione esporre
di
questa nuova lite così ardente:
poi
molto affaticossi per disporre
che
per quella giornata solamente
a
Mandricardo la spada d'Ettorre
concedesse
Gradasso umanamente,
tanto
che avesse fin l'aspra contesa
che
avea già incontra a Rodomonte presa.
Mentre
studia placarli il re Agramante,
ed
or con questo ed or con quel ragiona;
da
l'altro padiglion tra Sacripante
e
Rodomonte un'altra lite suona.
Il
re circasso (come è detto inante)
stava
di Rodomonte alla persona,
ed
egli e Ferraù gli aveano indotte
l'arme
del suo progenitor Nembrotte.
Ed
eran poi venuti ove il destriero
facea,
mordendo, il ricco fren spumoso;
io
dico il buon Frontin, per cui Ruggiero
stava
iracondo e più che mai sdegnoso.
Sacripante
che a por tal cavalliero
in
campo avea, mirava curioso
se
ben ferrato e ben guernito e in punto
era
il destrier, come doveasi a punto.
E
venendo a guardargli più a minuto
i
segni, le fattezze isnelle ed atte,
ebbe,
fuor d'ogni dubbio, conosciuto
che
questo era il destrier suo Frontalatte,
che
tanto caro già s'avea tenuto,
per
cui già avea mille querele fatte;
e
poi che gli fu tolto, un tempo volse
sempre
ire a piedi: in modo gliene dolse.
Inanzi
Albracca glie l'avea Brunello
tolto
di sotto quel medesmo giorno
che
ad Angelica ancor tolse l'annello,
al
conte Orlando Balisarda e il corno,
e
la spada a Marfisa: ed avea quello,
dopo
che fece in Africa ritorno,
con
Balisarda insieme a Ruggier dato,
il
qual l'avea Frontin poi nominato.
Quando
conobbe non si apporre in fallo,
disse
il Circasso, al re d'Algier rivolto:
-
Sappi, signor, che questo è mio cavallo,
che
ad Albracca di furto mi fu tolto.
Bene
avrei testimoni da provallo;
ma
perché son da noi lontani molto,
s'alcun
lo niega, io gli vo' sostenere
con
l'arme in man le mie parole vere.
Ben
son contento, per la compagnia
in
questi pochi dì stata fra noi,
che
prestato il cavallo oggi ti sia,
che
io veggo ben che senza far non puoi;
però
con patto, se per cosa mia
e
prestata da me conoscer vuoi:
altrimente
d'averlo non far stima,
o
se non lo combatti meco prima. -
Rodomonte,
del quale un più orgoglioso
non
ebbe mai tutto il mestier de l'arme;
al
quale in esser forte e coraggioso
alcuno
antico d'uguagliar non parme;
rispose:
- Sacripante, ogn'altro che oso,
fuor
che tu, fosse in tal modo a parlarme,
con
suo mal si saria tosto avveduto
che
meglio era per lui di nascer muto.
Ma
per la compagnia che, come hai detto,
novellamente
insieme abbiamo presa,
ti
son contento aver tanto rispetto,
che
io t'ammonisca a tardar questa impresa,
fin
che de la battaglia veggi effetto,
che
fra il Tartaro e me tosto fia accesa:
dove
porti uno esempio inanzi spero,
che
avrai di grazia a dirmi: Abbi il destriero. -
Gli
è teco cortesia l'esser villano
(disse
il Circasso pien d'ira e di isdegno);
ma
più chiaro ti dico ora e più piano,
che
tu non faccia in quel destrier disegno:
che
te lo defendo io, tanto che in mano
questa
vindice mia spada sostegno;
e
metteròvi insino l'ugna e il dente,
se
non potrò difenderlo altrimente. -
Venner
da le parole alle contese,
ai
gridi, alle minacce, alla battaglia,
che
per molt'ira in più fretta s'accese,
che
s'accendesse mai per fuoco paglia.
Rodomonte
ha l'osbergo ed ogni arnese,
Sacripante
non ha piastra né maglia;
ma
par (sì ben con lo schermir s'adopra)
che
tutto con la spada si ricuopra.
Non
era la possanza e la fierezza
di
Rodomonte, ancor che era infinita,
più
che la providenza e la destrezza
con
che sue forze Sacripante aita.
Non
voltò ruota mai con più prestezza
il
macigno sovran che il grano trita,
che
faccia Sacripante or mano or piede
di
qua di là, dove il bisogno vede.
Ma
Ferraù, ma Serpentino arditi
trasson
le spade, e si cacciar tra loro,
dal
re Grandonio, da Isolier seguiti,
da
molt'altri signor del popul Moro.
Questi
erano i romori, i quali uditi
ne
l'altro padiglion fur da costoro,
quivi
per accordar venuti invano
col
Tartaro, Ruggiero e il Sericano.
Venne
chi la novella al re Agramante
riportò
certa, come pel destriero
avea
con Rodomonte Sacripante
incominciato
un aspro assalto e fiero.
Il
re, confuso di discordie tante,
disse
a Marsilio: - Abbi tu qui pensiero
che
fra questi guerrier non segua peggio,
mentre
all'altro disordine io proveggio. -
Rodomonte,
che il re, suo signor, mira,
frena
l'orgoglio, e torna indietro il passo;
né
con minor rispetto si ritira
al
venir d'Agramante il re circasso.
Quel
domanda la causa di tant'ira
con
real viso e parlar grave e basso:
e
cerca, poi che n'ha compreso il tutto,
porli
d'accordo; e non vi fa alcun frutto.
Il
re circasso il suo destrier non vuole
che
al re d'Algier più lungamente resti,
se
non s'umilia tanto di parole,
che
lo venga a pregar che glie lo presti.
Rodomonte,
superbo come suole,
gli
risponde: - Né il ciel, né tu faresti
che
cosa che per forza aver potessi,
da
altri, che da me, mai conoscessi. -
Il
re chiede al Circasso, che ragione
ha
nel cavallo, e come gli fu tolto:
e
quel di parte in parte il tutto espone,
ed
esponendo s'arrossisce in volto,
quando
gli narra che il sottil ladrone,
che
in un alto pensier l'aveva colto,
la
sella su quattro aste gli suffolse,
e
di sotto il destrier nudo gli tolse.
Marfisa
che tra gli altri al grido venne,
tosto
che il furto del cavallo udì,
in
viso si turbò, che le sovenne
che
perdé la sua spada ella quel dì:
e
quel destrier che parve aver le penne
da
lei fuggendo, riconobbe qui:
riconobbe
anco il buon re Sacripante,
che
non avea riconosciuto inante.
Gli
altri che erano intorno, e che vantarsi
Brunel
di questo aveano udito spesso,
verso
lui cominciaro a rivoltarsi,
e
far palesi cenni che era desso;
Marfisa
sospettando, ad informarsi
da
questo e da quell'altro che avea appresso,
tanto
che venne a ritrovar che quello
che
le tolse la spada era Brunello:
e
seppe che pel furto onde era degno
che
gli annodasse il collo un capestro unto,
dal
re Agramante al tingitano regno
fu,
con esempio inusitato, assunto.
Marfisa,
rinfrescando il vecchio sdegno,
disegnò
vendicarsene a quel punto,
e
punir scherni e scorni che per strada
fatti
l'avea sopra la tolta spada.
Dal
suo scudier l'elmo allacciar si fece;
che
del resto de l'arme era guernita.
Senza
osbergo io non trovo che mai diece
volte
fosse veduta alla sua vita,
dal
giorno che a portarlo assuefece
la
sua persona, oltre ogni fede ardita.
Con
l'elmo in capo andò dove fra i primi
Brunel
sedea negli argini sublimi.
Gli
diede a prima giunta ella di piglio
in
mezzo il petto, e da terra levollo,
come
levar suol col falcato artiglio
talvolta
la rapace aquila il pollo;
e
là dove la lite inanzi al figlio
era
del re Troian, così portollo.
Brunel,
che giunto in male man si vede,
pianger
non cessa e domandar mercede.
Sopra
tutti i rumor, strepiti e gridi,
di
che il campo era pien quasi ugualmente,
Brunel,
che ora pietade ora sussidi
domandando
venìa, così si sente,
che
al suono de' ramarichi e de' stridi
si
fa d'intorno accor tutta la gente.
Giunta
inanzi al re d'Africa, Marfisa
con
viso altier gli dice in questa guisa:
-
Io voglio questo ladro tuo vasallo
con
le mie mani impender per la gola,
perché
il giorno medesmo che il cavallo
a
costui tolle, a me la spada invola.
Ma
se gli è alcun che voglia dir che io fallo,
facciasi
inanzi e dica una parola;
che
in tua presenza gli vo' sostenere
che
se ne mente, e che io fo il mio dovere.
Ma
perché si potria forse imputarme
c'ho
atteso a farlo in mezzo a tante liti,
mentre
che questi più famosi in arme
d'altre
querele son tutti impediti;
tre
giorni ad impiccarlo io vo' indugiarme:
intanto
o vieni, o manda chi l'aiti;
che
dopo, se non fia chi me lo vieti,
farò
di lui mille uccellacci lieti.
Di
qui presso a tre leghe a quella torre
che
siede inanzi ad un piccol boschetto,
senza
più compagnia mi vado a porre,
che
d'una mia donzella e d'un valletto.
S'alcuno
ardisce di venirmi a torre
questo
ladron, là venga, che io l'aspetto. -
Così
disse ella; e dove disse, prese
tosto
la via, né più risposta attese.
Sul
collo inanzi del destrier si pone
Brunel,
che tuttavia tien per le chiome.
Piange
il misero e grida, e le persone,
in
che sperar solìa, chiama per nome.
Resta
Agramante in tal confusione
di
questi intrichi, che non vede come
poterli
sciorre; e gli par via più greve
che
Marfisa Brunel così gli leve.
Non
che l'apprezzi o che gli porti amore,
anzi
più giorni son che l'odia molto;
e
spesso ha d'impiccarlo avuto in core,
dopo
che gli era stato l'annel tolto.
Ma
questo atto gli par contra il suo onore,
sì
che n'avampa di vergogna in volto.
Vuole
in persona egli seguirla in fretta,
e
a tutto suo poter farne vendetta.
Ma
il re Sobrino, il quale era presente,
da
questa impresa molto il dissuade,
dicendogli
che mal conveniente
era
all'altezza di sua maestade,
se
ben avesse d'esserne vincente
ferma
speranza e certa sicurtade:
più
che onor, gli fia biasmo, che si dica
che
abbia vinta una femina a fatica.
Poco
l'onore, e molto era il periglio
d'ogni
battaglia che con lei pigliasse;
e
che gli dava per miglior consiglio,
che
Brunello alle forche aver lasciasse;
e
se credesse che uno alzar di ciglio
a
torlo dal capestro gli bastasse,
non
dovea alzarlo, per non contradire
che
s'abbia la giustizia ad esequire.
-
Potrai mandare un che Marfisa prieghi
(dicea)
che in questo giudice ti faccia,
con
promission che al ladroncel si leghi
il
laccio al collo, e a lei si sodisfaccia;
e
quando anco ostinata te lo nieghi,
se
l'abbia, e il suo desir tutto compiaccia:
pur
che da tua amicizia non si spicchi,
Brunello
e gli altri ladri tutti impicchi. -
Il
re Agramante volentier s'attenne
al
parer di Sobrin discreto e saggio;
e
Marfisa lasciò, che non le venne,
né
patì che altri andasse a farle oltraggio,
né
di farla pregare anco sostenne:
e
tolerò, Dio sa con che coraggio,
per
poter acchetar liti maggiori,
e
del suo campo tor tanti romori.
Di
ciò si ride la Discordia pazza,
che
pace o triegua ormai più teme poco.
Scorre
di qua e di là tutta la piazza,
né
può trovar per allegrezza loco.
La
Superbia con lei salta e gavazza,
e
legne ed esca va aggiungendo al fuoco:
e
grida sì, che fin ne l'alto regno
manda
a Michel de la vittoria segno.
Tremò
Parigi e turbidossi Senna
all'alta
voce, a quello orribil grido;
rimbombò
il suon fin alla selva Ardenna
sì
che lasciar tutte le fiere il nido.
Udiron
l'Alpi e il monte di Gebenna,
di
Blaia e d'Arli e di Roano il lido;
Rodano
e Sonna udì, Garonna e il Reno:
si
strinsero le madri i figli al seno.
Son
cinque cavallier c'han fisso il chiodo
d'essere
i primi a terminar sua lite,
l'una
ne l'altra aviluppata in modo,
che
non l'avrebbe Apolline espedite.
Commincia
il re Agramante a sciorre il nodo
de
le prime tenzon che aveva udite,
che
per la figlia del re Stordilano
eran
tra il re di Scizia e il suo Africano.
Il
re Agramante andò per porre accordo
di
qua e di là più volte a questo e a quello,
e
a questo e a quel più volte diè ricordo
da
signor giusto e da fedel fratello:
e
quando parimente trova sordo
l'un
come l'altro, indomito e rubello
di
volere esser quel che resti senza
la
donna da cui vien lor differenza;
s'appiglia
al fin, come a miglior partito,
di
che amendui si contentar gli amanti,
che
de la bella donna sia marito
l'uno
de' duo, quel che vuole essa inanti;
e
da quanto per lei sia stabilito,
più
non si possa andar dietro né avanti.
All'uno
e all'altro piace il compromesso,
sperando
che esser debbia a favor d'esso.
Il
re di Sarza, che gran tempo prima
di
Mandricardo amava Doralice,
ed
ella l'avea posto in su la cima
d'ogni
favor che a donna casta lice;
che
debba in util suo venire estima
la
gran sentenza che il può far felice:
né
egli avea questa credenza solo,
ma
con lui tutto il barbaresco stuolo.
Ognun
sapea ciò che egli avea già fatto
per
essa in giostre, in torniamenti, in guerra;
e
che stia Mandricardo a questo patto,
dicono
tutti che vaneggia ed erra.
Ma
quel che più fiate e più di piatto
con
lei fu mentre il sol stava sotterra,
e
sapea quanto avea di certo in mano,
ridea
del popular giudicio vano.
Poi
lor convenzion ratificaro
in
man del re quei duo prochi famosi,
ed
indi alla donzella se n'andaro.
Ed
ella abbassò gli occhi vergognosi,
e
disse che più il Tartaro avea caro:
di
che tutti restar maravigliosi;
Rodomonte
sì attonito e smarrito,
che
di levar non era il viso ardito.
Ma
poi che l'usata ira cacciò quella
vergogna
che gli avea la faccia tinta,
ingiusta
e falsa la sentenza appella;
e
la spada impugnando, che egli ha cinta,
dice,
udendo il re e gli altri, che vuol che ella
gli
dia perduta questa causa o vinta,
e
non l'arbitrio di femina lieve
che
sempre inchina a quel che men far deve.
Di
nuovo Mandricardo era risorto,
dicendo:
- Vada pur come ti pare: -
sì
che prima che il legno entrasse in porto,
v'era
a solcare un gran spazio di mare:
se
non che il re Agramante diede torto
a
Rodomonte, che non può chiamare
più
Mandricardo per quella querela;
e
fe' cadere a quel furor la vela.
Or
Rodomonte che notar si vede
dinanzi
a quei signor di doppio scorno,
dal
suo re, a cui per riverenza cede,
e
da la donna sua, tutto in un giorno,
quivi
non volse più fermare il piede;
e
de la molta turba che avea intorno
seco
non tolse più che duo sergenti,
ed
uscì dei moreschi alloggiamenti.
Come,
partendo, afflitto tauro suole,
che
la giuvenca al vincitor cesso abbia,
cercar
le selve e le rive più sole
lungi
dai paschi, o qualche arrida sabbia;
dove
muggir non cessa all'ombra e al sole,
né
però scema l'amorosa rabbia:
così
sen va di gran dolor confuso
il
re d'Algier da la sua donna escluso.
Per
riavere il buon destrier si mosse
Ruggier,
che già per questo s'era armato;
ma
poi di Mandricardo ricordasse,
a
cui de la battaglia era ubligato:
non
seguì Rodomonte, e ritornosse
per
entrar col re tartaro in steccato
prima
che 'ntrasse il re di Sericana,
che
l'altra lite avea di Durindana.
Veder
torsi Frontin troppo gli pesa
dinanzi
agli occhi, e non poter vietarlo;
ma
dato che abbia fine a questa impresa,
ha
ferma intenzion di ricovrarlo.
Ma
Sacripante, che non ha contesa,
come
Ruggier, che possa distornarlo,
e
che non ha da far altro che questo,
per
l'orme vien di Rodomonte presto.
E
tosto l'avria giunto, se non era
un
caso strano che trovò tra via,
che
lo fe' dimorar fin alla sera,
e
perder le vestigie che seguia.
Trovò
una donna che ne la riviera
di
Senna era caduta, e vi peria,
s'a
darle tosto aiuto non veniva:
saltò
ne l'acqua e la ritrasse a riva.
Poi
quando in sella volse risalire,
aspettato
non fu dal suo destriero,
che
fin a sera si fece seguire,
e
non si lasciò prender di leggiero:
preselo
al fin, ma non seppe venire
più,
donde s'era tolto dal sentiero:
ducento
miglia errò tra piano e monte,
prima
che ritrovasse Rodomonte.
Dove
trovollo, e come fu conteso
con
disvantaggio assai di Sacripante,
come
perdé il cavallo e restò preso,
or
non dirò; c'ho da narrarvi inante
di
quanto sdegno e di quanta ira acceso
contra
la donna e contra il re Agramante
del
campo Rodomonte si partisse,
e
ciò che contra all'uno e all'altro disse.
Di
cocenti sospir l'aria accendea
dovunque
andava il Saracin dolente:
Ecco
per la pietà che gli n'avea,
da'
cavi sassi rispondea sovente.
-
Oh feminile ingegno (egli dicea),
come
ti volgi e muti facilmente,
contrario
oggetto proprio de la fede!
Oh
infelice, oh miser chi ti crede!
Né
lunga servitù, né grand'amore
che
ti fu a mille prove manifesto,
ebbono
forza di tenerti il core,
che
non fossi a cangiarsi almen sì presto.
Non
perche a Mandricardo inferiore
io
ti paressi, di te privo resto;
né
so trovar cagione ai casi miei,
se
non quest'una, che femina sei.
Credo
che t'abbia la Natura e Dio
produtto,
o scelerato sesso, al mondo
per
una soma, per un grave fio
de
l'uom, che senza te saria giocondo:
come
ha produtto anco il serpente rio
e
il lupo e l'orso, e fa l'aer fecondo
e
di mosche e di vespe e di tafani,
e
loglio e avena fa nascer tra i grani.
Perché
fatto non ha l'alma Natura,
che
senza te potesse nascer l'uomo,
come
s'inesta per umana cura
l'un
sopra l'altro il pero, il corbo e il pomo?
Ma
quella non può far sempre a misura:
anzi,
s'io vo' guardar come io la nomo,
veggo
che non può far cosa perfetta,
poi
che Natura femina vien detta.
Non
siate però tumide e fastose,
donne,
per dir che l'uom sia vostro figlio;
che
de le spine ancor nascon le rose,
e
d'una fetida erba nasce il giglio:
importune,
superbe, dispettose,
prive
d'amor, di fede e di consiglio,
temerarie,
crudeli, inique, ingrate,
per
pestilenza eterna al mondo nate. -
Con
queste ed altre er infinite appresso
querele
il re di Sarza se ne giva,
or
ragionando in un parlar sommesso,
quando
in un suon che di lontan s'udiva,
in
onta e in biasmo del femineo sesso:
e
certo da ragion si dipartiva;
che
per una o per due che trovi ree,
che
cento buone sien creder si dee.
Se
ben di quante io n'abbia fin qui amate,
non
n'abbia mai trovata una fedele,
perfide
tutte io non vo' dir né ingrate,
ma
darne colpa al mio destin crudele.
Molte
or ne sono, e più già ne son state,
che
non dan causa ad uom che si querele;
ma
mia fortuna vuol che s'una ria
ne
sia tra cento, io di lei preda sia.
Pur
vo' tanto cercar prima che io mora,
anzi
prima che il crin più mi s'imbianchi,
che
forse dirò un dì, che per me ancora
alcuna
sia che di sua fé non manchi.
Se
questo avvien (che di speranza fuora
io
non ne son), non fia mai che io mi stanchi
di
farla, a mia possanza, gloriosa
con
lingua e con inchiostro, e in verso e in prosa.
Il
Saracin non avea manco sdegno
contra
il suo re, che contra la donzella;
e
così di ragion passava il segno,
biasmando
lui, come biasmando quella.
Ha
disio di veder che sopra il regno
gli
cada tanto mal, tanta procella,
che
in Africa ogni casa si funesti,
né
pietra salda sopra pietra resti;
e
che spinto del regno, in duolo e in lutto
viva
Agramante misero e mendico:
e
che esso sia che poi gli renda il tutto,
e
lo riponga nel suo seggio antico,
e
de la fede sua produca il frutto;
e
gli faccia veder che un vero amico
a
dritto e a torto esser dovea preposto,
se
tutto il mondo se gli fosse opposto.
E
così quando al re, quando alla donna
volgendo
il cor turbato, il Saracino
cavalca
a gran giornate, e non assonna,
e
poco riposar lascia Frontino.
Il
dì seguente o l'altro in su la Sonna
si
ritrovò, che avea dritto il camino
verso
il mar di Provenza, con disegno
di
navigare in Africa al suo regno.
Di
barche e di sottil legni era tutto
fra
l'una ripa e l'altra il fiume pieno,
che
ad uso de l'esercito condutto
da
molti lochi vettovaglie avieno;
perché
in poter de' Mori era ridutto,
venendo
da Parigi al lito ameno
d'Acquamorta,
e voltando invêr la Spagna,
ciò
che v'è da man destra di campagna.
Le
vettovaglie in carra ed in iumenti,
tolte
fuor de le navi, erano carche,
e
tratte con la scorta de le genti,
ove
venir non si potea con barche.
Avean
piene le ripe i grassi armenti
quivi
condotti da diverse marche;
e
i conduttori intorno alla riviera
per
vari tetti albergo avean la sera.
Il
re d'Algier, perché gli sopravenne
quivi
la notte e l'aer nero e cieco,
d'un
ostier paesan lo 'nvito tenne,
che
lo pregò che rimanesse seco.
Adagiato
il destrier, la mensa venne
di
vari cibi e di vin corso e greco;
che
il Saracin nel resto alla moresca
ma
volse far nel bere alla francesca.
L'oste
con buona mensa e miglior viso
studiò
di fare a Rodomonte onore;
che
la presenza gli diè certo aviso
che
era uomo illustre e pien d'alto valore:
ma
quel che da se stesso era diviso,
né
quella sera avea ben seco il core
(che
mal suo grado s'era ricondotto
alla
donna già sua), non facea motto.
Il
buon ostier, che fu dei diligenti
che
mai si sien per Francia ricordati,
quando
tra le nimiche e strane genti
l'albergo
e' beni suoi s'avea salvati,
per
servir, quivi, alcuni suoi parenti,
a
tal servigio pronti, avea chiamati;
de'
quai non era alcun di parlar oso,
vedendo
il Saracin muto e pensoso.
Di
pensiero in pensiero andò vagando
da
se stesso lontano il pagan molto,
col
viso a terra chino, né levando
sì
gli occhi mai, che alcun guardasse in volto.
Dopo
un lungo star cheto, suspirando,
sì
come d'un gran sonno allora sciolto,
tutto
si scosse, e insieme alzò le ciglia,
e
voltò gli occhi all'oste e alla famiglia.
Indi
roppe il silenzio, e con sembianti
più
dolci un poco e viso men turbato,
domandò
all'oste e agli altri circostanti
se
d'essi alcuno avea mogliere a lato.
Che
l'oste e che quegli altri tutti quanti
l'aveano,
per risposta gli fu dato.
Domanda
lor quel che ciascun si crede
de
la sua donna nel servargli fede.
Eccetto
l'oste, fer tutti risposta,
che
si credeano averle e caste e buone.
Disse
l'oste: - Ognun pur creda a sua posta;
che
io so che avete falsa opinione.
Il
vostro sciocco credere vi costa
che
io stimi ognun di voi senza ragione;
e
così far questo signor deve anco,
se
non vi vuol mostrar nero per bianco.
Perché,
sì come è sola la fenice,
né
mai più d'una in tutto il mondo vive,
così
né mai più d'uno esser si dice,
che
de la moglie i tradimenti schive.
Ognun
si crede d'esser quel felice,
d'esser
quel sol che a questa palma arrive.
Come
è possibil che v'arrivi ognuno,
se
non ne può nel mondo esser più d'uno?
Io
fui già ne l'error che siete voi,
che
donna casta anco più d'una fusse.
Un
gentilomo di Vinegia poi,
che
qui mia buona sorte già condusse,
seppe
far sì con veri esempi suoi,
che
fuor de l'ignoranza mi ridusse.
Gian
Francesco Valerio era nomato;
che
il nome suo non mi s'è mai scordato.
Le
fraudi che le mogli e che l'amiche
sogliano
usar, sapea tutte per conto:
e
sopra ciò moderne istorie e antiche,
e
proprie esperienze avea sì in pronto,
che
mi mostrò che mai donne pudiche
non
si trovaro, o povere o di conto;
e
s'una casta più de l'altra parse,
venìa,
perché più accorta era a celarse.
E
fra l'altre (che tante me ne disse,
che
non ne posso il terzo ricordarmi),
sì
nel capo una istoria mi si scrisse,
che
non si scrisse mai più saldo in marmi:
e
ben parria a ciascuno che l'udisse,
di
queste rie quel che a me parve e parmi.
E
se, signor, a voi non spiace udire,
a
lor confusion ve la vo' dire. -
Rispose
il Saracin: - Che puoi tu farmi,
che
più al presente mi diletti e piaccia,
che
dirmi istoria e qualche esempio darmi
che
con l'opinion mia si confaccia?
Perche
io possa udir meglio, e tu narrarmi,
siedemi
incontra, che io ti vegga in faccia. -
Ma
nel canto che segue io v'ho da dire
quel
che fe' l'oste a Rodomonte udire.
CANTO
VENTOTTESIMO
Donne,
e voi che le donne avete in pregio,
per
Dio, non date a questa istoria orecchia,
a
questa che l'ostier dire in dispregio
e
in vostra infamia e biasmo s'apparecchia;
ben
che né macchia vi può dar né fregio
lingua
sì vile, e sia l'usanza vecchia
che
il volgare ignorante ognun riprenda,
e
parli più di quel che meno intenda.
Lasciate
questo canto, che senza esso
può
star l'istoria, e non sarà men chiara.
Mettendolo
Turpino, anche io l'ho messo,
non
per malivolenza né per gara.
Che
io v'ami, oltre mia lingua che l'ha espresso,
che
mai non fu di celebrarvi avara,
n'ho
fatto mille prove; e v'ho dimostro
che
io son, né potrei esser se non vostro.
Passi,
chi vuol, tre carte o quattro, senza
leggerne
verso, e chi pur legger vuole,
gli
dia quella medesima credenza
che
si suol dare a finzioni e a fole.
Ma
tornando al dir nostro, poi che udienza
apparecchiata
vide a sue parole,
e
darsi luogo incontra al cavalliero,
così
l'istoria incominciò l'ostiero.
-
Astolfo, re de' Longobardi, quello
a
cui lasciò il fratel monaco il regno,
fu
ne la giovinezza sua sì bello,
che
mai poche altri giunsero a quel segno.
N'avria
a fatica un tal fatto a penello
Apelle,
o Zeusi, o se v'è alcun più degno.
Bello
era, ed a ciascun così parea:
ma
di molto egli ancor più si tenea.
Non
stimava egli tanto per l'altezza
del
grado suo, d'avere ognun minore;
né
tanto, che di genti e di ricchezza,
di
tutti i re vicini era il maggiore;
quanto
che di presenza e di bellezza
avea
per tutto il mondo il primo onore.
Godea
di questo, udendosi dar loda,
quanto
di cosa volentier più s'oda.
Tra
gli altri di sua corte avea assai grato
Fausto
Latini, un cavallier romano:
con
cui sovente essendosi lodato
or
del bel viso or de la bella mano,
ed
avendolo un giorno domandato
se
mai veduto avea, presso o lontano,
altro
uom di forma così ben composto;
contra
quel che credea, gli fu risposto.
-
Dico (rispose Fausto) che secondo
che
io veggo e che parlarne odo a ciascuno,
ne
la bellezza hai pochi pari al mondo;
e
questi pochi io li restringo in uno.
Quest'uno
è un fratel mio, detto Iocondo.
Eccetto
lui, ben crederò che ognuno
di
beltà molto a dietro tu ti lassi;
ma
questo sol credo t'adegui e passi. -
Al
re parve impossibil cosa udire,
che
sua la palma infin allora tenne;
e
d'aver conoscenza alto desire
di
sì lodato giovene gli venne.
Fe'
sì con Fausto, che di far venire
quivi
il fratel prometter gli convenne;
ben
che a poterlo indur che ci venisse,
saria
fatica, e la cagion gli disse:
che
il suo fratello era uom che mosso il piede
mai
non avea di Roma alla sua vita,
che
del ben che Fortuna gli concede,
tranquilla
e senza affanni avea notrita:
la
roba di che il padre il lasciò erede,
né
mai cresciuta avea né minuita;
e
che parrebbe a lui Pavia lontana
più
che non parria a un altro ire alla Tana.
E
la difficultà saria maggiore
a
poterlo spiccar da la mogliere,
con
cui legato era di tanto amore,
che
non volendo lei, non può volere.
Pur
per ubbidir lui che gli è signore,
disse
d'andare e fare oltre il potere.
Giunse
il re a' prieghi tali offerte e doni,
che
di negar non gli lasciò ragioni.
Partisse,
e in pochi giorni ritrovosse
dentro
di Roma alle paterne case.
Quivi
tanto pregò, che il fratel mosse
sì
che a venire al re gli persuase;
e
fece ancor (ben che difficil fosse)
che
la cognata tacita rimase,
proponendole
il ben che n'usciria,
oltre
che obligo sempre egli l'avria.
Fisse
Iocondo alla partita il giorno:
trovò
cavalli e servitori intanto;
vesti
fe' far per comparire adorno,
che
talor cresce una beltà un bel manto.
La
notte a lato, e il dì la moglie intorno,
con
gli occhi ad or ad or pregni di pianto,
gli
dice che non sa come patire
potrà
tal lontananza e non morire;
che
pensandovi sol, da la radice
sveller
si sente il cor nel lato manco.
-
Deh, vita mia, non piagnere (le dice
Iocondo,
e seco piagne egli non manco);
così
mi sia questo camin felice,
come
tornar vo' fra duo mesi almanco:
né
mi faria passar d'un giorno il segno,
se
mi donasse il re mezzo il suo regno.-
Né
la donna perciò si riconforta:
dice
che troppo termine si piglia;
e
s'al ritorno non la trova morta,
esser
non può se non gran maraviglia.
Non
lascia il duol che giorni e notte porta,
che
gustar cibo, e chiuder possa ciglia;
tal
che per la pietà Iocondo spesso
si
pente che al fratello abbia promesso.
Dal
collo un suo monile ella si sciolse,
che
una crocetta avea ricca di gemme,
e
di sante reliquie che raccolse
in
molti luoghi un peregrin boemme;
ed
il padre di lei, che in casa il tolse
tornando
infermo, di Ierusalemme,
venendo
a morte poi ne lasciò erede:
questa
levossi ed al marito diede.
E
che la porti per suo amore al collo
lo
prega, sì che ognor gli ne sovenga.
Piacque
il dono al marito, ed accettollo;
non
perché dar ricordo gli convenga:
che
né tempo né assenza mai dar crollo,
né
buona o ria fortuna che gli avenga,
potrà
a quella memoria salda e forte
c'ha
di lei sempre, e avrà dopo la morte.
La
notte che andò inanzi a quella aurora
che
fu il termine estremo alla partenza,
al
suo Iocondo par che in braccio muora
la
moglie, che n'ha tosto da star senza.
Mai
non si dorme; e inanzi al giorno un'ora
viene
il marito all'ultima licenza.
Montò
a cavallo e si partì in effetto;
e
la moglier si ricorcò nel letto.
Iocondo
ancor duo miglia ito non era,
che
gli venne la croce raccordata,
che
avea sotto il guancial messo la sera,
poi
per oblivion l'avea lasciata.
-
Lasso! (dicea tra sé) di che maniera
troverò
scusa che mi sia accettata,
che
mia moglie non creda che gradito
poco
da me sia l'amor suo infinito? -
Pensa
la scusa, e poi gli cade in mente
che
non sarà accettabile né buona,
mandi
famigli, mandivi altra gente,
s'egli
medesmo non vi va in persona.
Si
ferma, e al fratel dice: - Or pianamente
fin
a Baccano al primo albergo sprona;
che
dentro a Roma è forza che io rivada:
e
credo anco di giugnerti per strada.
Non
potria fare altri il bisogno mio:
né
dubitar, che io sarò tosto teco. -
voltò
il ronzin di trotto, e disse a Dio;
né
de' famigli suoi volse alcun seco.
Già
cominciava, quando passò il rio,
dinanzi
al sole a fuggir l'aer cieco.
Smonta
in casa, va al letto, e la consorte
quivi
ritrova addormentata forte.
La
cortina levò senza far motto,
e
vide quel che men veder credea:
che
la sua casta e fedel moglie, sotto
la
coltre, in braccio a un giovene giacea.
Riconobbe
l'adultero di botto,
per
la pratica lunga che n'avea;
che
era de la famiglia sua un garzone,
allevato
da lui, d'umil nazione.
S'attonito
restasse e malcontento,
meglio
è pensarlo e farne fede altrui,
che
esserne mai per far l'esperimento
che
con suo gran dolor ne fe' costui.
Da
lo sdegno assalito, ebbe talento
di
trar la spada e uccidergli ambedui:
ma
da l'amor che porta, al suo dispetto,
all'ingrata
moglier, gli fu interdetto.
Né
lo lasciò questo ribaldo Amore
(vedi
se sì l'avea fatto vasallo)
destarla
pur, per non le dar dolore
che
fosse da lui colta in sì gran fallo.
Quanto
poté più tacito uscì fuore,
scese
le scale, e rimontò a cavallo;
e
punto egli d'amor, così lo punse,
che
all'albergo non fu, che il fratel giunse.
Cambiato
a tutti parve esser nel volto;
vider
tutti che il cor non avea lieto.
ma
non v'è chi s'apponga già di molto,
e
possa penetrar nel suo secreto.
Credeano
che da lor si fosse tolto
per
gire a Roma, e gito era a Corneto.
Che
amor sia del mal causa ognun s'avisa;
ma
non è già chi dir sappia in che guisa.
Estimasi
il fratel, che dolor abbia
d'aver
la moglie sua sola lasciata;
e
pel contrario duolsi egli ed arrabbia
che
rimasa era troppo accompagnata.
Con
fronte crespa e con gonfiate labbia
sta
l'infelice, e sol la terra guata.
Fausto
che a confortarlo usa ogni prova,
perché
non sa la causa, poca giova.
Di
contrario liquor la piaga gli unge,
e
dove tor dovria, gli accresce doglie;
dove
dovria saldar, più l'apre e punge:
questo
gli fa col ricordar la moglie.
Né
posa dì né notte: il sonno lunge
fugge
col gusto, e mai non si raccoglie:
e
la faccia, che dianzi era sì bella,
si
cangia sì, che più non sembra quella.
Par
che gli occhi se ascondin ne la testa;
cresciuto
il naso par nel viso scarno:
de
la beltà sì poca gli ne resta,
che
ne potrà far paragone indarno.
Col
duol venne una febbre sì molesta,
che
lo fe' soggiornar all'Arbia e all'Arno:
e
se di bello avea serbata cosa,
tosto
restò come al sol colta rosa.
Oltre
che a Fausto incresca del fratello
che
veggia a simil termine condutto,
via
più gli incresce che bugiardo a quello
principe,
a chi lodollo, parrà in tutto:
mostrar
di tutti gli uomini il più bello
gli
avea promesso, e mostrerà il più brutto.
Ma
pur continuando la sua via,
seco
lo trasse al fin dentro a Pavia.
Già
non vuol che lo vegga il re improviso,
per
non mostrarsi di giudicio privo:
ma
per lettere inanzi gli dà aviso
che
il suo fratel ne viene a pena vivo;
e
che era stato all'aria del bel viso
un
affanno di cor tanto nocivo,
accompagnato
da una febbre ria,
che
più non parea quel che esser solia.
Grata
ebbe la venuta di Iocondo
quanto
potesse il re d'amico avere;
che
non avea desiderato al mondo
cosa
altretanto, che di lui vedere.
Né
gli spiace vederselo secondo,
e
di bellezza dietro rimanere;
ben
che conosca, se non fosse il male,
che
gli saria superiore o uguale.
Giunto,
lo fa alloggiar nel suo palagio,
lo
visita ogni giorno, ogni ora n'ode;
fa
gran provision che stia con agio,
e
d'onorarlo assai si studia e gode.
Langue
Iocondo, che il pensier malvagio
c'ha
de la ria moglier, sempre lo rode:
né
il veder giochi, né musici udire,
dramma
del suo dolor può minuire.
Le
stanze sue, che sono appresso al tetto
l'ultime,
inanzi hanno una sala antica.
Quivi
solingo (perche ogni diletto,
perche
ogni compagnia prova nimica)
si
ritraea, sempre aggiungendo al petto
di
più gravi pensier nuova fatica:
e
trovò quivi (or chi lo crederia?)
chi
lo sanò de la sua piaga ria.
In
capo de la sala, ove è più scuro
(che
non vi s'usa le finestre aprire,)
vede
che il palco mal si giunge al muro,
e
fa d'aria più chiara un raggio uscire.
Pon
l'occhio quindi, e vede quel che duro
a
creder fôra a chi l'udisse dire:
non
l'ode egli d'altrui, ma se lo vede;
ed
anco agli occhi suoi propri non crede.
Quindi
scopria de la regina tutta
la
più secreta stanza e la più bella,
ove
persona non verria introdutta,
se
per molto fedel non l'avesse ella.
Quindi
mirando vide in strana lutta
che
un nano aviticchiato era con quella:
ed
era quel piccin stato sì dotto,
che
la regina avea messa di sotto.
Attonito
Iocondo e stupefatto,
e
credendo sognarsi, un pezzo stette;
e
quando vide pur che gli era in fatto
e
non in sogno, a se stesso credette.
-
A uno sgrignuto mostro e contrafatto
dunque
(disse) costei si sottomette,
che
il maggior re del mondo ha per marito,
più
bello e più cortese? oh che appetito! -
E
de la moglie sua, che così spesso
più
d'ogn'altra biasmava, ricordosse,
perché
il ragazzo s'avea tolto appresso:
ed
or gli parve che escusabil fosse.
Non
era colpa sua più che del sesso,
che
d'un solo uomo mai non contentosse:
e
s'han tutte una macchia d'uno inchiostro,
almen
la sua non s'avea tolto un mostro.
Il
dì seguente, alla medesima ora,
al
medesimo loco fa ritorno;
e
la regina e il nano vede ancora,
che
fanno al re pur il medesmo scorno.
Trova
l'altro dì ancor che si lavora,
e
l'altro; e al fin non si fa festa giorno:
e
la regina (che gli par più strano)
sempre
si duol che poco l'ami il nano.
Stette
fra gli altri un giorno a veder, che ella
era
turbata e in gran malenconia,
che
due volte chiamar per la donzella
il
nano fatto avea, n'ancor venìa.
Mandò
la terza volta, ed udì quella,
che:
- Madonna, egli giuoca (riferia);
e
per non stare in perdita d'un soldo,
a
voi niega venire il manigoldo. -
A
sì strano spettacolo Iocondo
raserena
la fronte e gli occhi e il viso;
e
quale in nome, diventò giocondo
d'effetto
ancora, e tornò il pianto in riso.
Allegro
torna e grasso e rubicondo,
che
sembra un cherubin del paradiso;
che
il re, il fratello e tutta la famiglia
di
tal mutazion si maraviglia.
Se
da Iocondo il re bramava udire
onde
venisse il subito conforto,
non
men Iocondo lo bramava dire,
e
fare il re di tanta ingiuria accorto;
ma
non vorria che, più di sé, punire
volesse
il re la moglie di quel torto;
sì
che per dirlo e non far danno a lei,
il
re fece giurar su l'agnusdei.
Giurar
lo fe' che né per cosa detta,
né
che gli sia mostrata che gli spiaccia,
ancor
che egli conosca che diretta-
mente
a sua Maestà danno si faccia,
tardi
o per tempo mai farà vendetta;
e
di più vuole ancor che se ne taccia,
sì
che né il malfattor giamai comprenda
in
fatto o in detto, che il re il caso intenda.
Il
re, che ogn'altra cosa, se non questa,
creder
potria, gli giurò largamente.
Iocondo
la cagion gli manifesta,
ond'era
molti dì stato dolente:
perché
trovata avea la disonesta
sua
moglie in braccio d'un suo vil sergente;
e
che tal pena al fin l'avrebbe morto,
se
tardato a venir fosse il conforto.
Ma
in casa di sua Altezza avea veduto
cosa
che molto gli scemava il duolo;
che
se bene in obbrobrio era caduto,
era
almen certo di non v'esser solo.
Così
dicendo, e al bucolin venuto,
gli
dimostrò il bruttissimo omiciuolo
che
la giumenta altrui sotto si tiene,
tocca
di sproni e fa giuocar di schene.
Se
parve al re vituperoso l'atto,
lo
crederete ben, senza che io il giuri.
Ne
fu per arrabbiar, per venir matto;
ne
fu per dar del capo in tutti i muri;
fu
per gridar, fu per non stare al patto:
ma
forza è che la bocca al fin si turi,
e
che l'ira trangugi amara ed acra,
poi
che giurato avea su l'ostia sacra.
-
Che debbo far, che mi consigli, frate,
(disse
a Iocondo), poi che tu mi tolli
che
con degna vendetta e crudeltate
questa
giustissima ira io non satolli? -
-
Lasciàn (disse Iocondo) queste ingrate,
e
proviam se son l'altre così molli:
facciàn
de le lor femine ad altrui
quel
che altri de le nostre han fatto a nui.
Ambi
gioveni siamo, e di bellezza,
che
facilmente non troviamo pari.
Qual
femina sarà che n'usi asprezza,
se
contra i brutti ancor non han ripari?
Se
beltà non varrà né giovinezza,
varranne
almen l'aver con noi danari.
Non
vo' che torni, che non abbi prima
di
mille moglie altrui la spoglia opima.
La
lunga assenza, il veder vari luoghi,
praticare
altre femine di fuore,
par
che sovente disacerbi e sfoghi
de
l'amorose passioni il core. -
Lauda
il parer, né vuol che si proròghi
il
re l'andata; e fra pochissime ore,
con
due scudieri, oltre alla compagnia
del
cavallier roman, si mette in via.
Travestiti
cercaro Italia, Francia,
le
terre de' Fiaminghi e de l'Inglesi;
e
quante ne vedean di bella guancia,
trovavan
tutte ai prieghi lor cortesi.
Davano,
e dato loro era la mancia;
e
spesso rimetteano i danar spesi.
Da
loro pregate foro molte, e foro
anche
altretante che pregaron loro.
In
questa terra un mese, in quella dui
soggiornando,
accertarsi a vera prova
che
non men ne le lor, che ne l'altrui
femine,
fede e castità si trova.
Dopo
alcun tempo increbbe ad ambedui
di
sempre procacciar di cosa nuova;
che
mal poteano entrar ne l'altrui porte,
senza
mettersi a rischio de la morte.
Gli
è meglio una trovarne che di faccia
e
di costumi ad ambi grata sia;
che
lor communemente sodisfaccia,
e
non n'abbin d'aver mai gelosia.
-
E perché (dicea il re) vo' che mi spiaccia
aver
più te che un altro in compagnia?
So
ben che in tutto il gran femineo stuolo
una
non è che stia contenta a un solo.
Una,
senza sforzar nostro potere,
ma
quando il natural bisogno inviti,
in
festa goderemoci e in piacere,
che
mai contese non avren né liti.
Né
credo che si debba ella dolere:
che
s'anco ogn'altra avesse duo mariti,
più
che ad un solo, a duo saria fedele;
né
forse s'udirian tante querele. -
Di
quel che disse il re, molto contento
rimaner
parve il giovine romano.
Dunque
fermati in tal proponimento,
cercar
molte montagne e molto piano:
trovaro
al fin, secondo il loro intento,
una
figliuola d'uno ostiero ispano,
che
tenea albergo al porto di Valenza,
bella
di modi e bella di presenza.
Era
ancor sul fiorir di primavera
sua
tenerella e quasi acerba etade.
Di
molti figli il padre aggravat'era,
e
nimico mortal di povertade;
sì
che a disporlo fu cosa leggiera,
che
desse lor la figlia in potestade;
che
ove piacesse lor potesson trarla,
poi
che promesso avean di ben trattarla.
Pigliano
la fanciulla, e piacer n'hanno
or
l'un or l'altro in caritade e in pace,
come
a vicenda i mantici che danno,
or
l'uno or l'altro, fiato alla fornace.
Per
veder tutta Spagna indi ne vanno,
e
passar poi nel regno di Siface;
e
il dì che da Valenza si partiro,
ad
albergare a Zattiva veniro.
I
patroni a veder strade e palazzi
ne
vanno, e lochi publici e divini;
che
usanza han di pigliar simil solazzi
in
ogni terra ove entran peregrini;
e
la fanciulla resta coi ragazzi.
Altri
i letti, altri acconciano i ronzini,
altri
hanno cura che sia alla tornata
dei
signor lor la cena apparecchiata.
Ne
l'albergo un garzon stava per fante,
che
in casa de la giovene già stette
a'
servigi del padre, e d'essa amante
fu
da' primi anni, e del suo amor godette.
Ben
s'adocchiar, ma non ne fer sembiante,
che
esser notato ognun di lor temette:
ma
tosto che i patroni e la famiglia
lor
dieron luogo, alzar tra lor le ciglia.
Il
fante domandò dove ella gisse,
e
qual dei duo signor l'avesse seco.
A
punto la Fiammetta il fatto disse
(così
avea nome, e quel garzone il Greco).
-
Quando sperai che il tempo ohimè! venisse
(il
Greco le dicea) di viver teco,
Fiammetta,
anima mia, tu te ne vai,
e
non so più di rivederti mai.
Fannosi
i dolci miei disegni amari,
poi
che sei d'altri, e tanto mi ti scosti.
Io
disegnava, avendo alcun' danari
con
gran fatica e gran sudor riposti,
che
avanzato m'avea de' miei salari
e
de le bene andate di molti osti,
di
tornare a Valenza, e domandarti
al
padre tuo per moglie, e di sposarti. -
La
fanciulla negli omeri si stringe,
e
risponde che fu tardo a venire.
Piange
il Greco e sospira, e parte finge:
-
Vuommi (dice) lasciar così morire?
Con
le tuo braccia i fianchi almen mi cinge,
lasciami
disfogar tanto desire:
che
inanzi che tu parta, ogni momento
che
teco io stia mi fa morir contento. -
La
pietosa fanciulla rispondendo:
-
Credi (dicea) che men di te nol bramo;
ma
né luogo né tempo ci comprendo
qui,
dove in mezzo di tanti occhi siamo. -
Il
Greco soggiungea: - Certo mi rendo,
che
s'un terzo ami me di quel che io t'amo,
in
questa notte almen troverai loco
che
ci potren godere insieme un poco. -
-
Come potrò (diceagli la fanciulla),
che
sempre in mezzo a duo la notte giaccio?
e
meco or l'uno or l'altro si trastulla,
e
sempre a l'un di lor mi trovo in braccio? -
-
Questo ti fia (suggiunse il Greco) nulla;
che
ben ti saprai tor di questo impaccio,
e
uscir di mezzo lor, pur che tu voglia:
e
déi voler, quando di me ti doglia. -
Pensa
ella alquanto, e poi dice che vegna
quando
creder potrà che ognuno dorma;
e
pianamente come far convegna,
e
de l'andare e del tornar l'informa.
Il
Greco, sì come ella gli disegna,
quando
sente dormir tutta la torma,
viene
all'uscio e lo spinge, e quel gli cede:
entra
pian piano, e va a tenton col piede.
Fa
lunghi i passi, e sempre in quel di dietro
tutto
si ferma, e l'altro par che muova
a
guisa che di dar tema nel vetro,
non
che il terreno abbia a calcar, ma l'uova;
e
tien la mano inanzi simil metro,
va
brancolando infin che il letto trova:
e
di là dove gli altri avean le piante,
tacito
si cacciò col capo inante.
Fra
l'una e l'altra gamba di Fiammetta,
che
supina giacea, diritto venne;
e
quando le fu a par, l'abbracciò stretta,
e
sopra lei sin presso al dì si tenne.
Cavalcò
forte, e non andò a staffetta;
che
mai bestia mutar non gli convenne:
che
questa pare a lui che sì ben trotte,
che
scender non ne vuol per tutta notte.
Avea
Iocondo ed avea il re sentito
il
calpestio che sempre il letto scosse;
e
l'uno e l'altro, d'uno error schernito,
s'avea
creduto che il compagno fosse.
Poi
che ebbe il Greco il suo camin fornito,
sì
come era venuto, anco tornosse.
Saettò
il sol da l'orizzonte i raggi;
sorse
Fiammetta, e fece entrare i paggi.
Il
re disse al compagno motteggiando:
-
Frate, molto camin fatto aver déi;
e
tempo è ben che ti riposi, quando
stato
a cavallo tutta notte sei. -
Iocondo
a lui rispose di rimando,
e
disse: - Tu dio quel che io a dire avrei.
A
te tocca posare, e pro ti faccia,
che
tutta notte hai cavalcato a caccia. -
-
Anche io (suggiunse il re) senza alcun fallo
lasciato
avria il mio can correre un tratto,
se
m'avessi prestato un po' il cavallo,
tanto
che il mio bisogno avessi fatto. -
Iocondo
replicò: - Son tuo vasallo,
e
puoi far meco e rompere ogni patto:
sì
che non convenia tal cenni usare;
ben
mi potevi dir: lasciala stare. -
Tanto
replica l'un, tanto soggiunge
l'altro,
che sono a grave lite insieme.
Vengon
da' motti ad un parlar che punge,
che
ad amenduo l'esser beffato preme.
Chiaman
Fiammetta (che non era lunge,
e
de la fraude esser scoperta teme)
per
fare in viso l'uno all'altro dire
quel
che negando ambi parean mentire.
-
Dimmi (le disse il re con fiero sguardo),
e
non temer di me né di costui;
chi
tutta notte fu quel sì gagliardo,
che
ti godé senza far parte altrui? -
Credendo
l'un provar l'altro bugiardo,
la
risposta aspettavano ambedui.
Fiammetta
a' piedi lor si gittò, incerta
di
viver più, vedendosi scoperta.
Domandò
lor perdono, che d'amore
che
a un giovinetto avea portato, spinta,
e
da pietà d'un tormentato core
che
molto avea per lei patito, vinta,
caduta
era la notte in quello errore;
e
seguitò, senza dir cosa finta,
come
tra lor con speme si condusse,
che
ambi credesson che il compagno fusse.
Il
re e Iocondo si guardaro in viso,
di
maraviglia e di stupor confusi;
né
d'aver anco udito lor fu aviso,
che
altri duo fusson mai così delusi.
Poi
scoppiaro ugualmente in tanto riso,
che
con la bocca aperta e gli occhi chiusi,
potendo
a pena il fiato aver del petto,
a
dietro si lasciar cader sul letto.
Poi
che ebbon tanto riso, che dolere
se
ne sentiano il petto, e pianger gli occhi,
disson
tra lor: - Come potremo avere
guardia,
che la moglier non ne l'accocchi,
se
non giova tra duo questa tenere,
e
stretta sì, che l'uno e l'altro tocchi?
Se
più che crini avesse occhi il marito,
non
potria far che non fosse tradito.
Provate
mille abbiamo, e tutte belle;
né
di tante una è ancor che ne contraste.
Se
provian l'altre, fian simili anche elle;
ma
per ultima prova costei baste.
Dunque
possiamo creder che più felle
non
sien le nostre, o men de l'altre caste:
e
se son come tutte l'altre sono,
che
torniamo a godercile fia buono. -
Conchiuso
che ebbon questo, chiamar fero
per
Fiammetta medesima il suo amante;
e
in presenza di molti gli la diero
per
moglie, e dote gli fu bastante.
Poi
montaro a cavallo, e il lor sentiero
che
era a ponente, volsero a levante;
ed
alle mogli lor se ne tornaro,
di
che affanno mai più non si pigliaro. -
L'ostier
qui fine alla sua istoria pose,
che
fu con molta attenzione udita.
Udilla
il Saracin, né gli rispose
parola
mai, fin che non fu finita.
Poi
disse: - Io credo ben che de l'ascose
feminil
frode sia copia infinita;
né
si potria de la millesma parte
tener
memoria con tutte le carte. -
Quivi
era un uom d'età, che avea più retta
opinion
degli altri, e ingegno e ardire;
e
non potendo ormai, che sì negletta
ogni
femina fosse, più patire,
si
volse a quel che avea l'istoria detta,
e
gli disse: - Assai cose udimo dire,
che
veritade in sé non hanno alcuna:
e
ben di queste è la tua favola una.
A
chi te la narrò non do credenza,
s'evangelista
ben fosse nel resto;
che
opinione, più che esperienza
che
abbia di donne, lo facea dir questo.
L'avere
ad una o due malivolenza,
fa
che odia e biasma l'altre oltre all'onesto;
ma
se gli passa l'ira, io vo' tu l'oda,
più
che ora biasmo, anco dar lor gran loda.
E
se vorrà lodarne, avra maggiore
il
campo assai, che a dirne mal non ebbe:
di
cento potrà dir degne d'onore
verso
una trista che biasmar si debbe.
Non
biasmar tutte, ma serbarne fuore
la
bontà d'infinite si dovrebbe;
e
se il Valerio tuo disse altrimente,
disse
per ira, e non per quel che sente.
Ditemi
un poco: è di voi forse alcuno
che
abbia servato alla sua moglie fede?
che
nieghi andar, quando gli sia oportuno,
all'altrui
donna, e darle ancor mercede?
credete
in tutto il mondo trovarne uno?
chi
il dice, mente; e folle è ben chi il crede.
Trovatene
vo' alcuna che vi chiami?
(non
parlo de le publiche ed infami).
Conoscete
alcun voi, che non lasciasse
la
moglie sola, ancor che fosse bella,
per
seguire altra donna, se sperasse
in
breve e facilmente ottener quella?
Che
farebbe egli, quando lo pregasse
o
desse premio a lui donna o donzella?
Credo,
per compiacere or queste or quelle,
che
tutti lasciaremmovi la pelle.
Quelle
che i lor mariti hanno lasciati,
le
più volte cagione avuta n'hanno.
Del
suo di casa, li veggon svogliati,
e
che fuor, de l'altrui bramosi, vanno.
Dovriano
amar, volendo essere amati,
e
tor con la misura che a lor danno.
Io
farei (se a me stesse il darla e torre)
tal
legge, che uom non vi potrebbe opporre.
Saria
la legge, che ogni donna colta
in
adulterio, fosse messa a morte,
se
provar non potesse che una volta
avesse
adulterato il suo consorte:
se
provar lo potesse, andrebbe asciolta,
né
temeria il marito né la corte.
Cristo
ha lasciato nei precetti suoi:
non
far altrui quel che patir non vuoi.
La
incontinenza è quanto mal si puote
imputar
lor, non già a tutto lo stuolo.
Ma
in questo chi ha di noi più brutte note?
che
continente non si trova un solo.
E
molto più n'ha ad arrossir le gote,
quando
bestemmia, ladroneccio, dolo,
usura
ed omicidio, e se v'è peggio,
raro,
se non dagli uomini, far veggio. -
Appresso
alle ragioni avea il sincero
e
giusto vecchio in pronto alcuno esempio
di
donne, che né in fatto né in pensiero
mai
di lor castità patiron scempio.
Ma
il Saracin, che fuggia udire il vero,
lo
minacciò con viso crudo ed empio,
sì
che lo fece per timor tacere;
ma
già non lo mutò di suo parere.
Posto
che ebbe alle liti e alle contese
termine
il re pagan, lasciò la mensa;
indi
nel letto per dormir si stese
fin
al partir de l'aria scura e densa:
ma
de la notte, a sospirar l'offese
più
de la donna che a dormir, dispensa.
Quindi
parte all'uscir del nuovo raggio,
e
far disegna in nave il suo viaggio.
Però
che avendo tutto quel rispetto
che
a buon cavallo dee buon cavalliero,
a
quel suo bello e buono, che a dispetto
tenea
di Sacripante e di Ruggiero;
vedendo
per duo giorni averlo stretto
più
che non si dovria sì buon destriero,
lo
pon, per riposarlo, e lo rassetta
in
una barca, e per andar più in fretta.
Senza
indugio al nocchier varar la barca,
e
dar fa i remi all'acqua da la sponda.
Quella,
non molto grande e poco carca,
se
ne va per la Sonna giù a seconda.
Non
fugge il suo pensier né se ne scarca
Rodomonte
per terra né per onda:
lo
trova in su la proda e in su la poppa;
e
se cavalca, il porta dietro in groppa.
Anzi
nel capo, o sia nel cor gli siede,
e
di fuor caccia ogni conforto e serra.
Di
ripararsi il misero non vede,
da
poi che gli nimici ha ne la terra.
Non
sa da chi sperar possa mercede,
se
gli fanno i domestici suoi guerra:
la
notte e il giorno e sempre è combattuto
da
quel crudel che dovria dargli aiuto.
Naviga
il giorno e la notte seguente
Rodomonte
col cor d'affanni grave;
e
non si può l'ingiuria tor di mente,
che
da la donna e dal suo re avuto have;
e
la pena e il dolor medesmo sente,
che
sentiva a cavallo, ancora in nave:
né
spegner può, per star ne l'acqua, il fuoco,
né
può stato mutar, per mutar loco.
Come
l'infermo, che dirotto e stanco
di
febbre ardente, va cangiando lato;
o
sia su l'uno o sia su l'altro fianco
spera
aver, se si volge, miglior stato;
né
sul destro riposa né sul manco,
e
per tutto ugualmente è travagliato:
così
il pagano al male ond'era infermo
mal
trova in terra e male in acqua schermo.
Non
puote in nave aver più pazienza,
e
si fa porre in terra Rodomonte.
Lion
passa e Vienna, indi Valenza
e
vede in Avignone il ricco ponte;
che
queste terre ed altre ubidienza,
che
son tra il fiume e il celtibero monte,
rendean
al re Agramante e al re di Spagna
dal
dì che fur signor de la campagna.
Verso
Acquamorta a man dritta si tenne
con
animo in Algier passare in fretta;
e
sopra un fiume ad una villa venne
e
da Bacco e da Cerere diletta,
che
per le spesse ingiurie, che sostenne
dai
soldati, a votarsi fu costretta.
Quinci
il gran mare, e quindi ne l'apriche
valli
vede ondeggiar le bionde spiche.
Quivi
ritrova una piccola chiesa
di
nuovo sopra un monticel murata,
che
poi che intorno era la guerra accesa,
i
sacerdoti vota avean lasciata.
Per
stanza fu da Rodomonte presa;
che
pel sito, e perche era sequestrata
dai
campi, onde avea in odio udir novella,
gli
piacque sì, che mutò Algieri in quella.
Mutò
d'andare in Africa pensiero,
sì
commodo gli parve il luogo e bello.
Famigli
e carriaggi e il suo destriero
seco
alloggiar fe' nel medesmo ostello.
Vicino
a poche leghe a Mompoliero
e
ad alcun altro ricco e buon castello
siede
il villaggio allato alla riviera;
sì
che d'avervi ogn'agio il modo v'era.
Standovi
un giorno il Saracin pensoso
(come
pur era il più del tempo usato),
vide
venir per mezzo un prato erboso,
che
d'un piccol sentiero era segnato,
una
donzella di viso amoroso
in
compagnia d'un monaco barbato;
e
si traeano dietro un gran destriero
sotto
una soma coperta di nero.
Chi
la donzella, chi il monaco sia,
chi
portin seco, vi debbe esser chiaro.
Conoscere
Issabella si dovria,
che
il corpo avea del suo Zerbino caro.
Lasciai
che vêr Provenza ne venìa
sotto
la scorta del vecchio preclaro,
che
le avea persuaso tutto il resto
dicare
a Dio del suo vivere onesto.
Come
che in viso pallida e smarrita
sia
la donzella ed abbia i crini inconti;
e
facciano i sospir continua uscita
del
petto acceso, e gli occhi sien duo fonti;
ed
altri testimoni d'una vita
misera
e grave in lei si veggan pronti;
tanto
però di bello anco le avanza,
che
con le Grazie Amor vi può aver stanza.
Tosto
che il Saracin vide la bella
donna
apparir, messe il pensiero al fondo,
che
avea di biasmar sempre e d'odiar quella
schiera
gentil che pur adorna il mondo.
E
ben gli par dignissima Issabella,
in
cui locar debba il suo amor secondo,
e
spenger totalmente il primo, a modo
che
da l'asse si trae chiodo con chiodo.
Incontra
se le fece, e col più molle
parlar
che seppe, e col miglior sembiante,
di
sua condizione domandolle;
ed
ella ogni pensier gli spiegò inante;
come
era per lasciare il mondo folle,
e
farsi amica a Dio con opre sante.
Ride
il pagano altier che in Dio non crede,
d'ogni
legge nimico e d'ogni fede.
E
chiama intenzione erronea e lieve,
e
dice che per certo ella troppo erra;
né
men biasmar che l'avaro si deve,
che
il suo ricco tesor metta sotterra:
alcuno
util per sé non ne riceve,
e
da l'uso degli altri uomini il serra.
Chiuder
leon si denno, orsi e serpenti,
e
non le cose belle ed innocenti.
Il
monaco, che a questo avea l'orecchia,
e
per soccorrer la giovane incauta,
che
ritratta non sia per la via vecchia,
sedea
al governo qual pratico nauta,
quivi
di spiritual cibo apparecchia
tosto
una mensa sontuosa e lauta.
Ma
il Saracin, che con mal gusto nacque,
non
pur la saporò, che gli dispiacque:
e
poi che invano il monaco interroppe,
e
non poté mai far sì che tacesse,
e
che di pazienza il freno roppe,
le
mani adosso con furor gli messe.
Ma
le parole mie parervi troppe
potriano
omai, se più se ne dicesse:
sì
che finirò il canto; e mi fia specchio
quel
che per troppo dire accade al vecchio.
CANTO
VENTINOVESIMO
O
degli uomini inferma e instabil mente!
come
siàn presti a variar disegno!
Tutti
i pensier mutamo facilmente,
più
quei che nascon d'amoroso sdegno.
Io
vidi dianzi il Saracin sì ardente
contra
le donne, e passar tanto il segno,
che
non che spegner l'odio, ma pensai
che
non dovesse intiepidirlo mai.
Donne
gentil, per quel che a biasmo vostro
parlò
contra il dover, sì offeso sono,
che
sin che col suo mal non gli dimostro
quanto
abbia fatto error, non gli perdono.
Io
farò sì con penna e con inchiostro,
che
ognun vedrà che gli era utile e buono
aver
taciuto, e mordersi anco poi
prima
la lingua, che dir mal di voi.
Ma
che parlò come ignorante e sciocco,
ve
lo dimostra chiara esperienza.
Incontra
tutte trasse fuor lo stocco
de
l'ira, senza farvi differenza:
poi
d'Issabella un sguardo sì l'ha tocco,
che
subito gli fa mutar sentenza.
Già
in cambio di quell'altra la disia,
l'ha
vista a pena, e non sa ancor chi sia.
E
come il nuovo amor lo punge e scalda,
muove
alcune ragion di poco frutto,
per
romper quella mente intera e salda
che
ella avea fissa al Creator del tutto.
Ma
l'eremita che l'è scudo e falda,
perché
il casto pensier non sia distrutto,
con
argumenti più validi e fermi,
quanto
più può, le fa ripari e schermi.
Poi
che l'empio pagan molto ha sofferto
con
lunga noia quel monaco audace,
e
che gli ha detto invan che al suo deserto
senza
lei può tornar quando gli piace;
e
che nuocer si vede a viso aperto,
e
che seco non vuol triegua né pace:
la
mano al mento con furor gli stese,
e
tanto ne pelò, quanto ne prese.
E
sì crebbe la furia, che nel collo
con
man lo stringe a guisa di tanaglia;
e
poi che una e due volte raggirollo,
da
sé per l'aria e verso il mar lo scaglia.
Che
n'avenisse, né dico né sollo:
varia
fama è di lui, né si raguaglia.
Dice
alcun che sì rotto a un sasso resta,
che
il piè non si discerne da la testa;
ed
altri, che a cadere andò nel mare,
che
era più di tre miglia indi lontano,
e
che morì per non saper notare,
fatti
assai prieghi e orazioni invano;
altri,
che un santo lo venne aiutare,
lo
trasse al lito con visibil mano.
Di
queste, qual si vuol, la vera sia:
di
lui non parla più l'istoria mia.
Rodomonte
crudel, poi che levato
s'ebbe
da canto il garrulo eremita,
si
ritornò con viso men turbato
verso
la donna mesta e sbigottita;
e
col parlar che è fra gli amanti usato,
dicea
che era il suo core e la sua vita
e
il suo conforto e la sua cara speme,
ed
altri nomi tai che vanno insieme.
E
si mostrò sì costumato allora,
che
non le fece alcun segno di forza.
Il
sembiante gentil che l'innamora,
l'usato
orgoglio in lui spegne ed ammorza:
e
ben che il frutto trar ne possa fuora,
passar
non però vuole oltre a la scorza;
che
non gli par che potesse esser buono,
quando
da lei non lo accettasse in dono.
E
così di disporre a poco a poco
a'
suoi piaceri Issabella credea.
Ella,
che in sì solingo e strano loco,
qual
topo in piede al gatto si vedea,
vorria
trovarsi inanzi in mezzo il fuoco;
e
seco tuttavolta rivolgea
s'alcun
partito, alcuna via fosse atta
a
trarla quindi immaculata e intatta.
Fa
ne l'animo suo proponimento
di
darsi con sua man prima la morte,
che
il barbaro crudel n'abbia il suo intento,
e
che le sia cagion d'errar sì forte
contra
quel cavallier che in braccio spento
l'avea
crudele e dispietata sorte;
a
cui fatto have col pensier devoto
de
la sua castità perpetuo voto.
Crescer
più sempre l'appetito cieco
vede
del re pagan, né sa che farsi.
Ben
sa che vuol venire all'atto bieco,
ove
i contrasti suoi tutti fien scarsi.
Pur
discorrendo molte cose seco,
il
modo trovò al fin di ripararsi,
e
di salvar la castità sua, come
io
vi dirò, con lungo e chiaro nome.
Al
brutto Saracin, che le venìa
già
contra con parole e con effetti
privi
di tutta quella cortesia
che
mostrata le avea ne' primi detti:
-
Se fate che con voi sicura io sia
del
mio onor (disse) e che io non ne sospetti,
cosa
all'incontro vi darò, che molto
più
vi varrà, che avermi l'onor tolto.
Per
un piacer di sì poco momento,
di
che n'ha sì abondanza tutto il mondo,
non
disprezzate un perpetuo contento,
un
vero gaudio a nullo altro secondo.
Potrete
tuttavia ritrovar cento
e
mille donne di viso giocondo;
ma
chi vi possa dar questo mio dono,
nessuno
al mondo, o pochi altri ci sono.
Ho
notizia d'un'erba, e l'ho veduta
venendo,
e so dove trovarne appresso,
che
bollita con elera e con ruta
ad
un fuoco di legna di cipresso,
e
fra mano innocenti indi premuta,
manda
un liquor, che, chi si bagna d'esso
tre
volte il corpo, in tal modo l'indura,
che
dal ferro e dal fuoco l'assicura.
Io
dico, se tre volte se n'immolla,
un
mese invulnerabile si trova.
Oprar
conviensi ogni mese l'ampolla;
che
sua virtù più termine non giova.
Io
so far l'acqua, ed oggi ancor farolla,
ed
oggi ancor voi ne vedrete prova:
e
vi può, s'io non fallo, esser più grata,
che
d'aver tutta Europa oggi acquistata.
Da
voi domando in guiderdon di questo,
che
su la fede vostra mi giuriate
che
né in detto né in opera molesto
mai
più sarete alla mia castitate. -
Così
dicendo, Rodomonte onesto
fe'
ritornar; che in tanta voluntate
venne
che inviolabil si facesse,
che
più che ella non disse, le promesse:
e
servaralle fin che vegga fatto
de
la mirabil acqua esperienza;
e
sforzerasse intanto a non fare atto,
a
non far segno alcun di violenza.
Ma
pensa poi di non tenere il patto,
perché
non ha timor né riverenza
di
Dio o di santi; e nel mancar di fede
tutta
a lui la bugiarda Africa cede.
Ad
Issabella il re d'Algier scongiuri
di
non la molestar fe' più di mille,
pur
che essa lavorar l'acqua procuri,
che
far lo può qual fu già Cigno e Achille.
Ella
per balze e per valloni oscuri
da
le città lontana e da le ville
ricoglie
di molte erbe; e il Saracino
non
l'abandona, e l'è sempre vicino.
Poi
che in più parti quant'era a bastanza
colson
de l'erbe e con radici e senza,
tardi
si ritornaro alla lor stanza;
dove
quel paragon di continenza
tutta
la notte spende, che l'avanza,
a
bollir erbe con molta avertenza:
e
a tutta l'opra e a tutti quei misteri
si
trova ognor presente il re d'Algieri.
Che
producendo quella notte in giuoco
con
quelli pochi servi che eran seco,
sentia,
per lo calor del vicin fuoco
che
era rinchiuso in quello angusto speco,
tal
sete, che bevendo or molto or poco,
duo
baril votar pieni di greco,
che
aveano tolto uno o duo giorni inanti
i
suoi scudieri a certi viandanti.
Non
era Rodomonte usato al vino,
perché
la legge sua lo vieta e danna:
e
poi che lo gustò, liquor divino
gli
par, miglior che il nettare o la manna;
e
riprendendo il rito saracino,
gran
tazze e pieni fiaschi ne tracanna.
Fece
il buon vino, che andò spesso intorno,
girare
il capo a tutti come un torno.
La
donna in questo mezzo la caldaia
dal
fuoco tolse, ove quell'erbe cosse;
e
disse a Rodomonte: - Acciò che paia
che
mie parole al vento non ho mosse,
quella
che il ver da la bugia dispaia,
e
che può dotte far le genti grosse,
te
ne farò l'esperienza ancora,
non
ne l'altrui, ma nel mio corpo or ora.
Io
voglio a far il saggio esser la prima
del
felice liquor di virtù pieno,
acciò
tu forse non facessi stima
che
ci fosse mortifero veneno.
Di
questo bagnerommi da la cima
del
capo giù pel collo e per lo seno:
tu
poi tua forza in me prova e tua spada,
se
questo abbia vigor, se quella rada.-
Bagnossi,
come disse, e lieta porse
all'incauto
pagano il collo ignudo,
incauto,
e vinto anco dal vino forse,
incontra
a cui non vale elmo né scudo.
Quel
uom bestial le prestò fede, e scorse
sì
con la mano e sì col ferro crudo,
che
del bel capo, già d'Amore albergo,
fe'
tronco rimanere il petto e il tergo.
Quel
fe' tre balzi; e funne udita chiara
voce,
che uscendo nominò Zerbino,
per
cui seguire ella trovò sì rara
via
di fuggir di man del Saracino.
Alma,
che avesti più la fede cara,
e
il nome quasi ignoto e peregrino
al
tempo nostro, de la castitade,
che
la tua vita e la tua verde etade,
vattene
in pace, alma beata e bella!
Così
i miei versi avesson forza, come
ben
m'affaticherei con tutta quella
arte
che tanto il parlar orna e come,
perché
mille e mill'anni e più, novella
sentisse
il mondo del tuo chiaro nome.
Vattene
in pace alla superna sede,
e
lascia all'altre esempio di tua fede.
All'atto
incomparabile e stupendo,
dal
cielo il Creator giù gli occhi volse,
e
disse: - Più di quella ti commendo,
la
cui morte a Tarquinio il regno tolse;
e
per questo una legge fare intendo
tra
quelle mie, che mai tempo non sciolse,
la
qual per le inviolabil'acque giuro
che
non muterà seculo futuro.
Per
l'avvenir vo' che ciascuna che aggia
il
nome tuo, sia di sublime ingegno,
e
sia bella, gentil, cortese e saggia,
e
di vera onestade arrivi al segno:
onde
materia agli scrittori caggia
di
celebrare il nome inclito e degno;
tal
che Parnasso, Pindo ed Elicone
sempre
Issabella, Issabella risuone. -
Dio
così disse, e fe' serena intorno
l'aria,
e tranquillo il mar più che mai fusse.
Fe'
l'alma casta al terzo ciel ritorno,
e
in braccio al suo Zerbin si ricondusse.
Rimase
in terra con vergogna e scorno
quel
fier senza pietà nuovo Breusse;
che
poi che il troppo vino ebbe digesto,
biasmò
il suo errore, e ne restò funesto.
Placare
o in parte satisfar pensosse
a
l'anima beata d'Issabella,
se,
poi che a morte il corpo le percosse,
desse
almen vita alla memoria d'ella.
Trovò
per mezzo, acciò che così fosse,
di
convertirle quella chiesa, quella
dove
abitava e dove ella fu uccisa,
in
un sepolcro; e vi dirò in che guisa.
Di
tutti i lochi intorno fa venire
mastri,
chi per amore e chi per tema;
e
fatto ben seimila uomini unire,
de'
gravi sassi i vicin monti scema,
e
ne fa una gran massa stabilire,
che
da la cima era alla parte estrema
novanta
braccia; e vi rinchiude dentro
la
chiesa, che i duo amanti have nel centro.
Imita
quasi la superba mole
che
fe' Adriano all'onda tiberina.
Presso
al sepolcro una torre alta vuole;
che
abitarvi alcun tempo si destina.
Un
ponte stretto e di due braccia sole
fece
su l'acqua che correa vicina.
Lungo
il ponte, ma largo era sì poco,
che
dava a pena a duo cavalli loco;
a
duo cavalli che venuti a paro,
o
che insieme si fossero scontrati:
e
non avea né sponda né riparo,
e
si potea cader da tutti i lati.
Il
passar quindi vuol che costi caro
a
guerrieri o pagani o battezzati;
che
de le spoglie lor mille trofei
promette
al cimiterio di costei.
In
dieci giorni e in manco fu perfetta
l'opra
del ponticel che passa il fiume;
ma
non fu già il sepolcro così in fretta,
né
la torre condutta al suo cacume:
pur
fu levata sì, che alla veletta
starvi
in cima una guardia avea costume,
che
d'ogni cavallier che venìa al ponte,
col
corno facea segno a Rodomonte.
E
quel s'armava, e se gli venìa a opporre
ora
su l'una, ora su l'altra riva;
che
se il guerrier venìa di vêr la torre,
su
l'altra proda il re d' Algier veniva.
Il
ponticello è il campo ove si corre;
e
se il destrier poco del segno usciva,
cadea
nel fiume, che alto era e profondo:
ugual
periglio a quel non avea il mondo.
Aveasi
imaginato il Saracino,
che,
per gir spesso a rischio di cadere
dal
ponticel nel fiume a capo chino,
dove
gli converria molt'acqua bere,
del
fallo a che l'indusse il troppo vino,
dovesse
netto e mondo rimanere;
come
l'acqua, non men che il vino, estingua
l'error
che fa pel vino o mano o lingua.
Molti
fra pochi dì vi capitaro:
alcuni
la via dritta vi condusse,
che
a quei che verso Italia o Spagna andaro
altra
non era che più trita fusse;
altri
l'ardire, e, più che vita caro,
l'onore,
a farvi di sé prova indusse.
E
tutti, ove acquistar credean la palma,
lasciavan
l'arme, e molti insieme l'alma.
Di
quelli che abbattea, s'eran pagani,
si
contentava d'aver spoglie ed armi;
e
di chi prima furo, i nomi piani
vi
facea sopra, e sospendeale ai marmi:
ma
ritenea in prigion tutti i cristiani;
e
che in Algier poi li mandasse parmi.
Finita
ancor non era l'opra, quando
vi
venne a capitare il pazzo Orlando.
A
caso venne il furioso conte
a
capitar su questa gran riviera,
dove,
come io vi dico, Rodomonte
fare
in fretta facea, né finito era
la
torre né il sepolcro, e a pena il ponte:
e
di tutte arme, fuor che di visiera,
a
quell'ora il pagan si trovò in punto,
che
Orlando al fiume e al ponte è sopragiunto.
Orlando
(come il suo furor lo caccia)
salta
la sbarra e sopra il ponte corre.
Ma
Rodomonte con turbata faccia,
a
piè, com'era inanzi a la gran torre,
gli
grida di lontano e gli minaccia,
né
se gli degna con la spada opporre:
Indiscreto
villan, ferma le piante,
temerario,
importuno ed arrogante!
Sol
per signori e cavallieri è fatto
il
ponte, non per te, bestia balorda. -
Orlando,
che era in gran pensier distratto,
vien
pur inanzi e fa l'orecchia sorda.
-
Bisogna che io castighi questo matto -
disse
il pagano; e con la voglia ingorda
venìa
per traboccarlo giù ne l'onda,
non
pensando trovar chi gli risponda.
In
questo tempo una gentil donzella,
per
passar sovra il ponte, al fiume arriva,
leggiadramente
ornata e in viso bella,
e
nei sembianti accortamente schiva.
Era
(se vi ricorda, Signor) quella
che
per ogni altra via cercando giva
di
Brandimarte, il suo amator, vestigi,
fuor
che, dove era, dentro da Parigi.
Ne
l'arrivar di Fiordiligi al ponte
(che
così la donzella nomata era),
Orlando
s'attaccò con Rodomonte
che
lo volea gittar ne la riviera.
La
donna, che avea pratica del conte,
subito
n'ebbe conoscenza vera:
e
restò d'alta maraviglia piena,
de
la follia che così nudo il mena.
Fermasi
a riguardar che fine avere
debba
il furor dei duo tanti possenti.
Per
far del ponte l'un l'altro cadere
a
por tutta lor forza sono intenti.
-
Come è che un pazzo debba sì valere? -
seco
il fiero pagan dice tra' denti;
e
qua e là si volge e si raggira,
pieno
di sdegno e di superbia e d'ira.
Con
l'una e l'altra man va ricercando
far
nuova presa, ove il suo meglio vede;
or
tra le gambe, or fuor gli pone, quando
con
arte il destro, e quando il manco piede.
Simiglia
Rodomonte intorno a Orlando
lo
stolido orso che sveller si crede
l'arbor
onde è caduto; e come n'abbia
quello
ogni colpa, odio gli porta e rabbia.
Orlando,
che l'ingegno avea sommerso,
io
non so dove, e sol la forza usava,
l'estrema
forza a cui per l'universo
nessuno
o raro paragon si dava,
cader
del ponte si lasciò riverso
col
pagano abbracciato come stava.
Cadon
nel fiume e vanno al fondo insieme:
ne
salta in aria l'onda, e il lito geme.
L'acqua
gli fece distaccare in fretta.
Orlando
è nudo, e nuota com'un pesce:
di
qua le braccia, e di là i piedi getta,
e
viene a proda; e come di fuor esce,
correndo
va, né per mirare aspetta,
se
in biasmo o in loda questo gli riesce.
Ma
il pagan, che da l'arme era impedito,
tornò
più tardo e con più affanno al lito.
Sicuramente
Fiordiligi intanto
avea
passato il ponte e la riviera;
e
guardato il sepolcro in ogni canto,
se
del suo Brandimarte insegna v'era,
poi
che né l'arme sue vede né il manto,
di
ritrovarlo in altra parte spera.
Ma
ritorniamo a ragionar del conte,
che
lascia a dietro e torre e fiume e ponte.
Pazzia
sarà, se le pazzie d'Orlando
prometto
raccontarvi ad una ad una;
che
tante e tante fur, che io non so quando
finir:
ma ve n'andrò scegliendo alcuna
solenne
ed atta da narrar cantando,
e
che all'istoria mi parrà oportuna;
né
quella tacerò miraculosa,
che
fu nei Pirenei sopra Tolosa.
Trascorso
avea molto paese il conte,
come
dal grave suo furor fu spinto;
ed
al fin capitò sopra quel monte
per
cui dal Franco è il Tarracon distinto;
tenendo
tuttavia volta la fronte
verso
là dove il sol ne viene estinto:
e
quivi giunse in uno angusto calle,
che
pendea sopra una profonda valle.
Si
vennero a incontrar con esso al varco
duo
boscherecci gioveni, che inante
avean
di legna un loro asino carco;
e
perché ben s'accorsero al sembiante,
che
avea di cervel sano il capo scarco,
gli
gridano con voce minacciante,
o
che a dietro o da parte se ne vada,
e
che si levi di mezzo la strada.
Orlando
non risponde altro a quel detto,
se
non che con furor tira d'un piede,
e
giunge a punto l'asino nel petto
con
quella forza che tutte altre eccede;
ed
alto il leva, sì, che uno augelletto
che
voli in aria, sembra a chi lo vede.
Quel
va a cadere alla cima d'un colle,
che
un miglio oltre la valle il giogo estolle.
Indi
verso i duo gioveni s'aventa,
dei
quali un, più che senno, ebbe aventura,
che
da la balza, che due volte trenta
braccia
cadea, si gittò per paura.
A
mezzo il tratto trovò molle e lenta
una
macchia di rubi e di verzura,
a
cui bastò graffiargli un poco il volto:
del
resto lo mandò libero e sciolto.
L'altro
s'attacca ad un scheggion che usciva
fuor
de la roccia, per salirvi sopra;
perché
si spera, s'alla cima arriva,
di
trovar via che dal pazzo lo cuopra.
Ma
quel nei piedi (che non vuol che viva)
lo
piglia, mentre di salir s'adopra:
e
quanto più sbarrar puote le braccia,
le
sbarra sì, che in duo pezzi lo straccia;
a
quella guisa che veggiàn talora
farsi
d'uno aeron, farsi d'un pollo,
quando
si vuol de le calde interiora
che
falcone o che astor resti satollo.
Quanto
è bene accaduto che non muora
quel
che fu a risco di fiaccarsi il collo!
che
ad altri poi questo miracol disse,
sì
che l'udì Turpino, e a noi lo scrisse.
E
queste ed altre assai cose stupende
fece
nel traversar de la montagna.
Dopo
molto cercare, al fin discende
verso
meriggie alla terra di Spagna;
e
lungo la marina il camin prende,
che
intorno a Taracona il lito bagna:
e
come vuol la furia che lo mena,
pensa
farsi uno albergo in quella arena,
dove
dal sole alquanto si ricuopra;
e
nel sabbion si caccia arrido e trito.
Stando
così, gli venne a caso sopra
Angelica
la bella e il suo marito,
che
eran (sì come io vi narrai di sopra)
scesi
dai monti in su l'ispano lito.
A
men d'un braccio ella gli giunse appresso,
perché
non s'era accorta ancora d'esso.
Che
fosse Orlando, nulla le soviene:
troppo
è diverso da quel che esser suole.
Da
indi in qua che quel furor lo tiene,
è
sempre andato nudo all'ombra e al sole:
se
fosse nato all'aprica Siene,
o
dove Ammone il Garamante cole,
o
presso ai monti onde il gran Nilo spiccia,
non
dovrebbe la carne aver più arsiccia.
Quasi
ascosi avea gli occhi ne la testa,
la
faccia macra, e come un osso asciutta,
la
chioma rabuffata, orrida e mesta,
la
barba folta, spaventosa e brutta.
Non
più a vederlo Angelica fu presta,
che
fosse a ritornar, tremando tutta:
tutta
tremando, e empiendo il ciel di grida,
si
volse per aiuto alla sua guida.
Come
di lei s'accorse Orlando stolto,
per
ritenerla si levò di botto:
così
gli piacque il delicato volto,
così
ne venne immantinente giotto.
D'averla
amata e riverita molto
ogni
ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli
corre dietro, e tien quella maniera
che
terria il cane a seguitar la fera.
Il
giovine che il pazzo seguir vede
la
donna sua, gli urta il cavallo adosso,
e
tutto a un tempo lo percuote e fiede,
come
lo trova che gli volta il dosso.
Spiccar
dal busto il capo se gli crede:
ma
la pelle trovò dura come osso,
anzi
via più che acciar; che Orlando nato
impenetrabile
era ed affatato.
Come
Orlando sentì battersi dietro,
girossi,
e nel girare il pugno strinse,
e
con la forza che passa ogni metro,
ferì
il destrier che il Saracino spinse.
Feril
sul capo, e come fosse vetro,
lo
spezzò sì, che quel cavallo estinse:
e
rivoltosse in un medesmo istante
dietro
a colei che gli fuggiva inante.
Caccia
Angelica in fretta la giumenta,
e
con sferza e con spron tocca e ritocca;
che
le parrebbe a quel bisogno lenta,
se
ben volasse più che stral da cocca.
De
l'annel c'ha nel dito si ramenta,
che
può salvarla, e se lo getta in bocca:
e
l'annel, che non perde il suo costume,
la
fa sparir come ad un soffio il lume.
O
fosse la paura, o che pigliasse
tanto
disconcio nel mutar l'annello,
o
pur, che la giumenta traboccasse,
che
non posso affermar questo né quello;
nel
medesmo momento che si trasse
l'annello
in bocca e celò il viso bello,
levò
le gambe ed uscì de l'arcione,
e
si trovò riversa in sul sabbione.
Più
corto che quel salto era dua dita,
aviluppata
rimanea col matto,
che
con l'urto le avria tolta la vita;
ma
gran ventura l'aiutò a quel tratto.
Cerchi
pur, che altro furto le dia aita
d'un'altra
bestia, come prima ha fatto;
che
più non è per riaver mai questa
che
inanzi al paladin l'arena pesta.
Non
dubitate già che ella non s'abbia
a
provedere; e seguitiamo Orlando,
in
cui non cessa l'impeto e la rabbia
perché
si vada Angelica celando.
Segue
la bestia per la nuda sabbia,
e
se le vien più sempre approssimando:
già
già la tocca, ed ecco l'ha nel crine,
indi
nel freno, e la ritiene al fine.
Con
quella festa il paladin la piglia,
che
un altro avrebbe fatto una donzella:
le
rassetta le redine e la briglia,
e
spicca un salto ed entra ne la sella;
e
correndo la caccia molte miglia,
senza
riposo, in questa parte e in quella:
mai
non le leva né sella né freno,
né
le lascia gustare erba né fieno.
Volendosi
cacciare oltre una fossa,
sozzopra
se ne va con la cavalla.
Non
nocque a lui, né sentì la percossa;
ma
nel fondo la misera si spalla.
Non
vede Orlando come trar la possa;
e
finalmente se l'arreca in spalla,
e
su ritorna, e va con tutto il carco,
quanto
in tre volte non trarrebbe un arco.
Sentendo
poi che gli gravava troppo,
la
pose in terra, e volea trarla a mano.
Ella
il seguia con passo lento e zoppo;
dicea
Orlando: - Camina! - e dicea invano.
Se
l'avesse seguito di galoppo,
assai
non era al desiderio insano.
Al
fin dal capo le levò il capestro,
e
dietro la legò sopra il piè destro;
e
così la strascina, e la conforta
che
lo potrà seguir con maggior agio.
Qual
leva il pelo, e quale il cuoio porta,
dei
sassi che eran nel camin malvagio.
La
mal condotta bestia restò morta
finalmente
di strazio e di disagio.
Orlando
non le pensa e non la guarda,
e
via correndo il suo camin non tarda.
Di
trarla, anco che morta, non rimase,
continoando
il corso ad occidente;
e
tuttavia saccheggia ville e case,
se
bisogno di cibo aver si sente;
e
frutte e carne e pan, pur che egli invase,
rapisce;
ed usa forza ad ogni gente:
qual
lascia morto e qual storpiato lassa;
poco
si ferma, e sempre inanzi passa.
Avrebbe
così fatto, o poco manco,
alla
sua donna, se non s'ascondea;
perché
non discernea il nero dal bianco,
e
di giovar, nocendo si credea.
Deh
maledetto sia l'annello ed anco
il
cavallier che dato le l'avea!
che
se non era, avrebbe Orlando fatto
di
sé vendetta e di mill'altri a un tratto.
Né
questa sola, ma fosser pur state
in
man d'Orlando quante oggi ne sono;
che
ad ogni modo tutte sono ingrate,
né
si trova tra loro oncia di buono.
Ma
prima che le corde rallentate
al
canto disugual rendano il suono,
fia
meglio differirlo a un'altra volta,
acciò
men sia noioso a chi l'ascolta.
CANTO
TRENTESIMO
Quando
vincer da l'impeto e da l'ira
si
lascia la ragion, né si difende,
e
che il cieco furor sì inanzi tira
o
mano o lingua, che gli amici offende;
se
ben dipoi si piange e si sospira,
non
è per questo che l'error s'emende.
Lasso!
io mi doglio e affliggo invan di quanto
dissi
per ira al fin de l'altro canto.
Ma
simile son fatto ad uno infermo,
che
dopo molta pazienza e molta,
quando
contra il dolor non ha più schermo,
cede
alla rabbia e a bestemmiar si volta.
Manca
il dolor, né l'impeto sta fermo,
che
la lingua al dir mal facea sì sciolta;
e
si ravvede e pente e n'ha dispetto:
ma
quel c'ha detto, non può far non detto.
Ben
spero, donne, in vostra cortesia
aver
da voi perdon, poi che io vel chieggio.
Voi
scusarete, che per frenesia,
vinto
da l'aspra passion, vaneggio.
Date
la colpa alla nimica mia,
che
mi fa star, che io non potrei star peggio,
e
mi fa dir quel di che io son poi gramo:
sallo
Idio, s'ella ha il torto; essa, s'io l'amo.
Non
men son fuor di me, che fosse Orlando;
e
non son men di lui di scusa degno,
che
or per li monti, or per le piagge errando,
scorse
in gran parte di Marsilio il regno,
molti
dì la cavalla strascinando
morta,
come era, senza alcun ritegno;
ma
giunto ove un gran fiume entra nel mare,
gli
fu forza il cadavero lasciare.
E
perché sa nuotar come una lontra,
entra
nel fiume, e surge all'altra riva.
Ecco
un pastor sopra un cavallo incontra,
che
per abeverarlo al fiume arriva.
Colui,
ben che gli vada Orlando incontra,
perché
egli è solo e nudo, non lo schiva.
-
Vorrei del tuo ronzin (gli disse il matto)
con
la giumenta mia far un baratto.
Io
te la mostrerò di qui, se vuoi;
che
morta là su l'altra ripa giace:
la
potrai far tu medicar dipoi;
altro
diffetto in lei non mi dispiace.
Con
qualche aggiunta il ronzin dar mi puoi:
smontane
in cortesia, perché mi piace. -
Il
pastor ride, e senz'altra risposta
va
verso il guado, e dal pazzo si scosta.
-
Io voglio il tuo cavallo: olà non odi? -
suggiunse
Orlando, e con furor si mosse.
Avea
un baston con nodi spessi e sodi
quel
pastor seco, e il paladin percosse.
La
rabbia e l'ira passò tutti i modi
del
conte; e parve fier più che mai fosse.
Sul
capo del pastore un pugno serra,
che
spezza l'osso, e morto il caccia in terra.
Salta
a cavallo, e per diversa strada
va
discorrendo, e molti pone a sacco.
Non
gusta il ronzin mai fieno né biada,
tanto
che in pochi dì ne riman fiacco:
ma
non però che Orlando a piedi vada,
che
di vetture vuol vivere a macco;
e
quante ne trovò, tante ne mise
in
uso, poi che i lor patroni uccise.
Capitò
al fin a Malega, e più danno
vi
fece, che egli avesse altrove fatto:
che
oltre che ponesse a saccomanno
il
popul sì, che ne restò disfatto,
né
si poté rifar quel né l'altr'anno;
tanti
n'uccise il periglioso matto,
vi
spianò tante case e tante accese,
che
disfe' più che il terzo del paese.
Quindi
partito, venne ad una terra,
Zizera
detta, che siede allo stretto
di
Zibeltarro, o vuoi di Zibelterra,
che
l'uno e l'altro nome le vien detto;
ove
una barca che sciogliea da terra
vide
piena di gente da diletto,
che
solazzando all'aura matutina,
gìa
per la tranquillissima marina.
Cominciò
il pazzo a gridar forte: -Aspetta! -
che
gli venne disio d'andare in barca.
Ma
bene invano e i gridi e gli urli getta;
che
volentier tal merce non si carca.
Per
l'acqua il legno va con quella fretta
che
va per l'aria irondine che varca.
Orlando
urta il cavallo e batte e stringe,
e
con un mazzafrusto all'acqua spinge.
Forza
è che al fin nell'acqua il cavallo entre,
che
invan contrasta, e spende invano ogni opra:
bagna
i genocchi, e poi la groppa e il ventre,
indi
la testa, e a pena appar di sopra.
Tornare
a dietro non si speri, mentre
la
verga tra l'orecchie se gli adopra.
Misero!
o si convien tra via affogare,
o
nel lito african passare il mare.
Non
vede Orlando più poppe né sponde
che
tratto in mar l'avean dal lito asciutto;
che
son troppo lontane, e le nasconde
agli
occhi bassi l'alto e mobil flutto:
e
tuttavia il destrier caccia tra l'onde,
che
andar di là dal mar dispone in tutto.
Il
destrier, d'acqua pieno e d'alma voto,
finalmente
finì la vita e il nuoto.
Andò
nel fondo, e vi traea la salma,
se
non si tenea Orlando in su le braccia.
Mena
le gambe e l'una e l'altra palma,
e
soffia, e l'onda spinge da la faccia.
Era
l'aria soave e il mare in calma:
e
ben vi bisognò più che bonaccia;
che
ogni poco che il mar fosse più sorto,
restava
il paladin ne l'acqua morto.
Ma
la Fortuna, che dei pazzi ha cura,
del
mar lo trasse nel lito di Setta,
in
una spiaggia, lungi da le mura
quanto
sarian duo tratti di saetta.
Lungo
il mar molti giorni alla ventura
verso
levante andò correndo in fretta;
fin
che trovò, dove tendea sul lito
di
nera gente esercito infinito.
Lasciamo
il paladin che errando vada:
ben
di parlar di lui tornerà tempo.
Quanto,
Signore, ad Angelica accada
dopo
che uscì di man del pazzo a tempo;
e
come a ritornare in sua contrada
trovasse
e buon navilio e miglior tempo,
e
de l'India a Medor desse lo scettro,
forse
altri canterà con miglior plettro.
Io
sono a dir tante altre cose intento,
che
di seguir più questa non mi cale.
Volger
conviemmi il bel ragionamento
al
Tartaro, che spinto il suo rivale,
quella
bellezza si godea contento,
a
cui non resta in tutta Europa uguale,
poscia
che se n'è Angelica partita,
e
la casta Issabella al ciel salita.
De
la sentenza Mandricardo altiero,
che
in suo favor la bella donna diede,
non
può fruir tutto il diletto intero;
che
contra lui son altre liti in piede.
L'una
gli muove il giovene Ruggiero,
perché
l'aquila bianca non gli cede;
l'altra
il famoso re di Sericana,
che
da lui vuol la spada Durindana.
S'affatica
Agramante, né disciorre,
né
Marsilio con lui, sa questo intrico:
né
solamente non li può disporre
che
voglia l'un de l'altro essere amico;
ma
che Ruggiero a Mandricardo torre
lasci
lo scudo del Troiano antico,
o
Gradasso la spada non gli vieti,
tanto
che questa o quella lite accheti.
Ruggier
non vuol che in altra pugna vada
con
lo suo scudo; né Gradasso vuole
che,
fuor che contra sé porti la spada
che
il glorioso Orlando portar suole.
-
Al fin veggiamo in cui la sorte cada
(disse
Agramante), e non sian più parole;
veggiàn
quel che Fortuna ne disponga,
e
sia preposto quel che ella preponga.
E
se compiacer meglio mi volete,
onde
d'aver ve n'abbia obligo ognora,
chi
de' di voi combatter, sortirete;
ma
con patto, che al primo che esca fuora,
amendue
le querele in man porrete:
sì
che, per sé vincendo, vinca ancora
pel
compagno; e perdendo l'un di vui,
così
perduto abbia per ambidui.
Tra
Gradasso e Ruggier credo che sia
di
valor nulla o poca differenza;
e
di lor qual si vuol venga fuor pria,
so
che in arme farà per eccellenza.
Poi
la vittoria da quel canto stia,
che
vorrà la divina providenza.
Il
cavallier non avrà colpa alcuna,
ma
il tutto imputerassi alla Fortuna. -
Steron
taciti al detto d'Agramante
e
Ruggiero e Gradasso; ed accordarsi
che
qualunque di loro uscirà inante,
e
l'una briga e l'altra abbia a pigliarsi.
Così
in duo brevi, che avean simigliante
ed
ugual forma, i nomi lor notarsi;
e
dentro un'urna quelli hanno rinchiusi,
versati
molto, e sozzopra confusi.
Un
semplice fanciul nell'urna messe
la
mano, e prese un breve; e venne a caso
che
in questo il nome di Ruggier si lesse,
essendo
quel del Serican rimaso.
Non
si può dir quanta allegrezza avesse,
quando
Ruggier si sentì trar del vaso,
e
d'altra parte il Sericano doglia;
ma
quel che manda il ciel, forza è che toglia.
Ogni
suo studio il Sericano, ogni opra
a
favorire, ad aiutar converte
perché
Ruggiero abbia a restar di sopra:
e
le cose in suo pro, che avea già esperte,
come
or di spada, or di scudo si cuopra,
qual
sien botte fallaci e qual sien certe,
quando
tentar, quando schivar fortuna
si
dee, gli torna a mente ad una ad una.
Il
resto di quel dì, che da l'accordo
e
dal trar de le sorti sopravanza,
è
speso dagli amici in dar ricordo,
chi
a l'un guerrier chi all'altro, come è usanza.
Il
popul, di veder la pugna ingordo,
s'affretta
a gara d'occupar la stanza:
né
basta a molti inanzi giorno andarvi,
che
voglion tutta notte anco veggiarvi.
La
sciocca turba disiosa attende
che
i duo buon cavallier vengano in prova;
che
non mira più lungi né comprende
di
quel che inanzi agli occhi si ritrova.
Ma
Sobrino e Marsilio, e chi più intende
e
vede ciò che nuoce e ciò che giova,
biasma
questa battaglia, ed Agramante,
che
voglia comportar che vada inante.
Né
cessan raccordargli il grave danno
che
n'ha d'avere il popul saracino,
muora
Ruggiero o il tartaro tiranno,
quel
che prefisso è dal suo fier destino:
d'un
sol di lor via più bisogno avranno
per
contrastare al figlio di Pipino,
che
di dieci altri mila che ci sono,
tra'
quai fatica è ritrovare un buono.
Conosce
il re Agramante che gli è vero,
ma
non può più negar ciò c'ha promesso.
Ben
prega Mandricardo e il buon Ruggiero,
che
gli ridonin quel c'ha lor concesso;
e
tanto più che il lor litigio è un zero,
né
degno in prova d'arme esser rimesso:
e
s'in ciò pur nol vogliono ubbidire,
voglino
almen la pugna differire.
Cinque
o sei mesi il singular certame,
o
meno o più, si differisca, tanto
che
cacciato abbin Carlo del reame,
tolto
lo scettro, la corona e il manto.
Ma
l'un e l'altro, ancor che voglia e brame
il
re ubbidir, pur sta duro da canto;
che
tale accordo obbrobrioso stima
a
chi il consenso suo vi darà prima,
Ma
più del re, ma più d'ognun che invano
spenda
a placare il Tartaro parole,
la
bella figlia del re Stordilano
supplice
il priega, e si lamenta e duole:
lo
prega che consenta al re africano
e
voglia quel che tutto il campo vuole;
si
lamenta e si duol che per lui sia
timida
sempre e piena d'angonia.
-
Lassa! (dicea) che ritrovar poss'io
rimedio
mai che a riposar mi vaglia,
s'or
contra questo, or quel, nuovo disio
vi
trarrà sempre a vestir piastra e maglia?
C'ha
potuto giovare al petto mio
il
gaudio che sia spenta la battaglia
per
me da voi contra quell'altro presa,
se
un'altra non minor se n'è già accesa?
Ohimè!
che invano io me n'andava altiera
che
un re sì degno, un cavallier sì forte
per
me volesse in perigliosa e fiera
battaglia
porsi al risco de la morte;
che
or veggo per cagion tanto leggiera
non
meno esporvi alla medesma sorte.
Fu
natural ferocità di core
che
a quella v'istigò, più che il mio amore.
Ma
se gli è ver che il vostro amor sia quello
che
vi sforzate di mostrarmi ognora,
per
lui vi prego, e per quel gran flagello
che
mi percuote l'alma e che m'accora,
che
non vi caglia se il candido augello
ha
ne lo scudo quel Ruggiero ancora.
Utile
o danno a voi non so che importi,
che
lasci quella insegna o che la porti.
Poco
guadagno, e perdita uscir molta
de
la battaglia può, che per far sète:
quando
abbiate a Ruggier l'aquila tolta,
poca
mercé d'un gran travaglio avrete;
ma
se Fortuna le spalle vi volta
(che
non però nel crin presa tenete),
causate
un danno, che a pensarvi solo
mi
sento il petto già sparrar di duolo.
Quando
la vita a voi per voi non sia
cara,
e più amate un'aquila dipinta,
vi
sia almen cara per la vita mia:
non
sarà l'una senza l'altra estinta.
Non
già morir con voi grave mi fia:
son
di seguirvi in vita e in morte accinta;
ma
non vorrei morir sì malcontenta
come
io morrò, se dopo voi son spenta. -
Con
tai parole e simili altre assai,
che
le lacrime accompagnano e sospiri,
pregar
non cessa tutta notte mai
perche
alla pace il suo amator ritiri;
e
quel, suggendo dagli umidi rai
quel
dolce pianto, e quei dolci martiri
da
le vermiglie labra più che rose,
lacrimando
egli ancor, così rispose:
-
Deh, vita mia, non vi mettete affanno,
deh
non, per Dio, di così lieve cosa;
che
se Carlo e il re d'Africa, e ciò c'hanno
qui
di gente moresca e di franciosa,
spiegasson
le bandiere in mio sol danno,
voi
pur non ne dovreste esser pensosa.
Ben
mi mostrate in poco conto avere,
se
per me un Ruggier sol vi fa temere.
E
vi dovria pur ramentar che, solo
(e
spada io non avea né scimitarra),
con
un troncon di lancia a un grosso stuolo
d'armati
cavallier tolsi la sbarra.
Gradasso,
ancor che con vergogna e duolo
lo
dica, pure, a chi il domanda, narra
che
fu in Soria a un castel mio prigioniero;
ed
è pur d'altra fama che Ruggiero.
Non
niega similmente il re Gradasso,
e
sallo Isolier vostro e Sacripante,
io
dico Sacripante, il re circasso,
e
il famoso Grifone ed Aquilante,
cent'altri
e più, che pure a questo passo
stati
eran presi alcuni giorni inante,
macometani
e gente di battesmo,
che
tutti liberai quel dì medesmo.
Non
cessa ancor la maraviglia loro
de
la gran prova che io feci quel giorno,
maggior,
che se l'esercito del Moro
e
del Franco inimici avessi intorno.
Ed
or potrà Ruggier, giovine soro,
farmi
da solo a solo o danno o scorno?
Ed
or c'ho Durindana e l'armatura
d'Ettòr,
vi de' Ruggier metter paura?
Deh,
perché dianzi in prova non venni io,
se
far di voi con l'arme io potea acquisto?
So
che v'avrei sì aperto il valor mio,
che
avresti il fin già di Ruggier previsto.
Asciugate
le lacrime, e, per Dio,
non
mi fate uno augurio così tristo;
e
siate certa che il mio onor m'ha spinto,
non
ne lo scudo il bianco augel dipinto. -
Così
disse egli; e molto ben risposto
gli
fu da la mestissima sua donna,
che
non pur lui mutato di proposto,
ma
di luogo avria mossa una colonna.
Ella
era per dover vincer lui tosto,
ancor
che armato, e che ella fosse in gonna;
e
l'avea indutto a dir, se il re gli parla
d'accordo
più, che volea contentarla.
E
lo facea; se non, tosto che al Sole
la
vaga Aurora fe' l'usata scorta,
l'animoso
Ruggier, che mostrar vuole
che
con ragion la bella aquila porta,
per
non udir più d'atti e di parole
dilazion,
ma far la lite corta,
dove
circonda il popul lo steccato,
sonando
il corno s'appresenta armato.
Tosto
che sente il Tartaro superbo,
che
alla battaglia il suono altier lo sfida,
non
vuol più de l'accordo intender verbo,
ma
si lancia del letto, ed arme grida;
e
si dimostra sì nel viso acerbo,
che
Doralice istessa non si fida
di
dirgli più di pace né di triegua:
e
forza è infin che la battaglia segua.
Subito
s'arma, ed a fatica aspetta
da'
suoi scudieri i debiti servigi;
poi
monta sopra il buon cavallo in fretta,
che
del gran difensor fu di Parigi;
e
vien correndo invêr la piazza eletta
a
terminar con l'arme i gran litigi.
Vi
giunse il re e la corte allora allora;
sì
che all'assalto fu poca dimora.
Posti
lor furo ed allacciati in testa
i
lucidi elmi, e date lor le lance.
Siegue
la tromba a dare il segno presta,
che
fece a mille impallidir le guance.
Posero
l'aste i cavallieri in resta,
e
i corridori punsero alle pance;
e
venner con tale impeto a ferirsi,
che
parve il ciel cader, la terra aprirsi.
Quinci
e quindi venir si vede il bianco
augel
che Giove per l'aria sostenne;
come
ne la Tessalia si vide anco
venir
più volte, ma con altre penne.
Quanto
sia l'uno e l'altro ardito e franco,
mostra
il portar de le massicce antenne;
e
molto più, che a quello incontro duro,
quai
torri ai venti, o scogli all'onde furo.
I
tronchi fin al ciel ne sono ascesi:
scrive
Turpin, verace in questo loco,
che
dui o tre giù ne tornaro accesi,
che
eran saliti alla sfera del fuoco.
I
cavallieri i brandi aveano presi:
e
come quei che si temeano poco,
si
ritornaro incontra; e a prima giunta
ambi
alla vista si ferir di punta.
Ferirsi
alla visiera al primo tratto;
e
non miraron, per mettersi in terra,
dare
ai cavalli morte, che è mal atto,
perche
essi non han colpa de la guerra.
Chi
pensa che tra lor fosse tal patto,
non
sa l'usanza antiqua, e di molto erra:
senz'altro
patto, era vergogna e fallo
e
biasmo eterno a chi feria il cavallo.
Ferirsi
alla visiera, che era doppia,
ed
a pena anco a tanta furia resse.
L'un
colpo appresso all'altro si raddoppia:
le
botte più che grandine son spesse,
che
spezza fronde e rami e grano e stoppia,
e
uscir invan fa la sperata messe.
Se
Durindana e Balisarda taglia,
sapete,
e quanto in queste mani vaglia.
Ma
degno di sé colpo ancor non fanno,
sì
l'uno e l'altro ben sta su l'aviso.
Uscì
da Mandricardo il primo danno,
per
cui fu quasi il buon Ruggiero ucciso:
d'uno
di quei gran colpi che far sanno,
gli
fu lo scudo pel mezzo diviso,
e
la corazza apertagli di sotto;
e
fin sul vivo il crudel brando ha rotto.
L'aspra
percossa agghiacciò il cor nel petto,
per
dubbio di Ruggiero, ai circostanti,
nel
cui favor si conoscea lo affetto
dei
più inchinar, se non di tutti quanti.
E
se Fortuna ponesse ad effetto
quel
che la maggior parte vorria inanti,
già
Mandricardo saria morto o preso:
sì
che il suo colpo ha tutto il campo offeso.
Io
credo che qualche agnol s'interpose
per
salvar da quel colpo il cavalliero.
Ma
ben senza più indugio gli rispose,
terribil
più che mai fosse, Ruggiero.
La
spada in capo a Mandricardo pose;
ma
sì lo sdegno fu subito e fiero,
e
tal fretta gli fe', che io men l'incolpo
se
non mandò a ferir di taglio il colpo.
Se
Balisarda lo giungea pel dritto,
l'elmo
d'Ettorre era incantato invano.
Fu
sì del colpo Mandricardo afflitto,
che
si lasciò la briglia uscir di mano.
D'andar
tre volte accenna a capo fitto,
mentre
scorrendo va d'intorno il piano
quel
Brigliador che conoscete al nome,
dolente
ancor de le mutate some.
Calcata
serpe mai tanto non ebbe,
né
ferito leon, sdegno e furore,
quanto
il Tartaro, poi che si riebbe
dal
colpo che di sé lo trasse fuore.
E
quanto l'ira e la superbia crebbe,
tanto
e più crebbe in lui forza e valore:
fece
spiccare a Brigliadoro un salto
verso
Ruggiero, e alzò la spada in alto.
Levossi
in su le staffe, ed all'elmetto
segnolli;
e si credette veramente
partirlo
a quella volta fin al petto:
ma
fu di lui Ruggier più diligente;
che,
pria che il braccio scenda al duro effetto,
gli
caccia sotto la spada pungente,
e
gli fa ne la maglia ampla finestra,
che
sotto difendea l'ascella destra.
E
Balisarda al suo ritorno trasse
di
fuori il sangue tiepido e vermiglio,
e
vietò a Durindana che calasse
impetuosa
con tanto periglio;
ben
che fin su la groppa si piegasse
Ruggiero,
e per dolor strignesse il ciglio:
e
s'elmo in capo avea di peggior tempre,
gli
era quel colpo memorabil sempre.
Ruggier
non cessa, e spinge il suo cavallo,
e
Mandricardo al destro fianco trova.
Quivi
scelta finezza di metallo
e
ben condutta tempra poco giova
contra
la spada che non scende in fallo,
che
fu incantata non per altra prova,
che
per far che a' suoi colpi nulla vaglia
piastra
incantata ed incantata maglia.
Taglionne
quanto ella ne prese, e insieme
lasciò
ferito il Tartaro nel fianco,
che
il ciel bestemmia, e di tant'ira freme,
che
il tempestoso mare è orribil manco.
Or
s'apparecchia a por le forze estreme:
lo
scudo ove in azzurro è l'augel bianco,
vinto
da sdegno, si gittò lontano,
e
messe al brando e l'una e l'altra mano.
-
Ah (disse a lui Ruggier), senza più basti
a
mostrar che non merti quella insegna,
che
or tu la getti, e dianzi la tagliasti;
né
potrai dir mai più che ti convegna. -
Così
dicendo, forza è che egli attasti
con
quanta furia Durindana vegna;
che
sì gli grava e sì gli pesa in fronte,
che
più leggier potea cadervi un monte.
E
per mezzo gli fende la visiera;
buon
per lui che dal viso si discosta:
poi
calò su l'arcion che ferrato era,
né
lo difese averne doppia crosta:
giunse
al fin su l'arnese, e come cera
l'aperse
con la falda sopraposta;
e
ferì gravemente ne la coscia
Ruggier,
sì che assai stette a guarir poscia.
De
l'un, come de l'altro, fatte rosse
il
sangue l'arme avea con doppia riga;
tal
che diverso era il parer, chi fosse
di
lor, che avesse il meglio in quella briga.
Ma
quel dubbio Ruggier tosto rimosse
con
la spada che tanti ne castiga:
mena
di punta, e drizza il colpo crudo
onde
gittato avea colui lo scudo.
Fora
de la corazza il lato manco,
e
di venire al cor trova la strada,
che
gli entra più d'un palmo sopra il fianco:
sì
che convien che Mandricardo cada
d'ogni
ragion che può ne l'augel bianco,
o
che può aver ne la famosa spada;
e
da la cara vita cada insieme,
che,
più che spada e scudo, assai gli preme.
Non
morì quel meschin senza vendetta;
che
a quel medesmo tempo che fu colto,
la
spada, poco sua, menò di fretta;
ed
a Ruggier avria partito il volto,
se
già Ruggier non gli avesse intercetta
prima
la forza, e assai del vigor tolto:
di
forza e di vigor troppo gli tolse
dianzi,
che sotto il destro braccio il colse.
Da
Mandricardo fu Ruggier percosso
nel
punto che egli a lui tolse la vita;
tal
che un cerchio di ferro, anco che grosso,
e
una cuffia d'acciar ne fu partita.
Durindana
tagliò cotenna ed osso,
e
nel capo a Ruggiero entrò due dita.
Ruggier
stordito in terra si riversa,
e
di sangue un ruscel dal capo versa.
Il
primo fu Ruggier, che andò per terra;
e
dipoi stette l'altro a cader tanto,
che
quasi crede ognun che de la guerra
riporti
Mandricardo il pregio e il vanto:
e
Doralice sua, che con gli altri erra,
e
che quel dì più volte ha riso e pianto,
Dio
ringraziò con mani al ciel supine,
che
avesse avuta la pugna tal fine.
Ma
poi che appare a manifesti segni
vivo
chi vive, e senza vita il morto,
nei
petti dei fautor mutano regni:
di
là mestizia, e di qua vien conforto.
I
re, i signori, i cavallier più degni,
con
Ruggier che a fatica era risorto,
a
rallegrarsi ed abbracciarsi vanno,
e
gloria senza fine e onor gli danno.
Ognun
s'allegra con Ruggiero, e sente
il
medesmo nel cor, c'ha ne la bocca.
Sol
Gradasso il pensiero ha differente
tutto
da quel che fuor la lingua scocca:
mostra
gaudio nel viso; e occultamente
del
glorioso acquisto invidia il tocca;
e
maledice o sia destino o caso,
il
qual trasse Ruggier prima del vaso.
Che
dirò del favor, che de le tante
carezze
e tante, affettuose e vere,
che
fece a quel Ruggiero il re Agramante,
senza
il qual dare al vento le bandiere,
né
volse muover d'Africa le piante,
né
senza lui si fidò in tante schiere?
Or
che del re Agricane ha spento il seme,
prezza
più lui, che tutto il mondo insieme.
Né
di tal volontà gli uomini soli
eran
verso Ruggier, ma le donne anco,
che
d'Africa e di Spagna fra gli stuoli
eran
venute al tenitorio franco.
E
Doralice istessa, che con duoli
piangea
l'amante suo pallido e bianco,
forse
con l'altre ita sarebbe in schiera,
se
di vergogna un duro fren non era.
Io
dico forse, non che io ve l'accerti,
ma
potrebbe esser stato di leggiero:
tal
la bellezza e tali erano i merti,
i
costumi e i sembianti di Ruggiero.
Ella,
per quel che già ne siamo esperti,
sì
facile era a variar pensiero,
che
per non si veder priva d'amore,
avria
potuto in Ruggier porre il core.
Per
lei buono era vivo Mandricardo:
ma
che ne volea far dopo la morte?
Proveder
le convien d'un che gagliardo
sia
notte e dì ne' suoi bisogni, e forte.
Non
era stato intanto a venir tardo
il
più perito medico di corte,
che
di Ruggier veduta ogni ferita,
già
l'avea assicurato de la vita.
Con
molta diligenza il re Agramante
fece
colcar Ruggier ne le sue tende;
che
notte e dì veder sel vuole inante:
sì
l'ama, sì di lui cura si prende.
Lo
scudo al letto e l'arme tutte quante,
che
fur di Mandricardo, il re gli appende;
tutte
le appende, eccetto Durindana,
che
fu lasciata al re di Sericana.
Con
l'arme l'altre spoglie a Ruggier sono
date
di Mandricardo, e insieme dato
gli
è Brigliador, quel destrier bello e buono,
che
per furore Orlando avea lasciato.
Poi
quello al re diede Ruggiero in dono,
che
s'avide che assai gli saria grato.
Non
più di questo; che tornar bisogna
a
chi Ruggiero invan sospira e agogna.
Gli
amorosi tormenti che sostenne
Bradamante
aspettando, io v'ho da dire.
A
Montalbano Ippalca a lei rivenne
e
nuova le arrecò del suo desire.
Prima,
di quanto di Frontin le avenne
con
Rodomonte, l'ebbe a riferire;
poi
di Ruggier, che ritrovò alla fonte
con
Ricciardetto e' frati d'Agrismonte:
e
che con esso lei s'era partito
con
speme di trovare il Saracino,
e
punirlo di quanto avea fallito
d'aver
tolto a una donna il suo Frontino;
e
che il disegno poi non gli era uscito,
perché
diverso avea fatto il camino.
La
cagione anco, perché non venisse
a
Montalban Ruggier, tutta le disse;
e
riferille le parole a pieno,
che
in sua scusa Ruggier le avea commesse.
Poi
si trasse la lettera di seno,
che
egli le diè, perche ella a lei la desse.
Con
viso più turbato che sereno
prese
la carta Bradamante, e lesse;
che,
se non fosse la credenza stata
già
di veder Ruggier, fôra più grata.
L'aver
Ruggiero ella aspettato, e invece
di
lui vedersi ora appagar d'un scritto,
del
bel viso turbar l'aria le fece
di
timor, di cordoglio e di despitto.
Baciò
la carta diece volte e diece,
avendo
a chi la scrisse il cor diritto.
Le
lacrime vietar, che su vi sparse,
che
con sospiri ardenti ella non l'arse.
Lesse
la carta quattro volte e sei,
e
volse che altretante l'imbasciata
replicata
le fosse da colei
che
l'una e l'altra avea quivi arrecata,
pur
tuttavia piangendo: e crederei
che
mai non si saria più racchetata,
se
non avesse avuto pur conforto
di
riveder il suo Ruggier di corto.
Termine
a ritornar quindici o venti
giorni
avea Ruggier tolto, ed affermato
l'avea
ad Ippalca poi con giuramenti
da
non temer che mai fosse mancato.
-
Chi m'assicura, ohimè, degli accidenti
(ella
dicea), c'han forza in ogni lato,
ma
ne le guerre più, che non distorni
alcun
tanto Ruggier, che più non torni?
Ohimè!
Ruggiero, ohimè! chi arìa creduto
che
avendoti amato io più di me stessa,
tu
più di me, non che altri, ma potuto
abbi
amar gente tua inimica espressa?
A
chi opprimer dovresti, doni aiuto:
chi
tu dovresti aitare, è da te oppressa.
Non
so se biasmo o laude esser ti credi,
che
al premiar e al punir sì poco vedi.
Fu
morto da Troian (non so se il sai)
il
padre tuo; ma fin ai sassi il sanno:
e
tu del figlio di Troian cura hai
che
non riceva alcun disnor né danno.
È
questa la vendetta che ne fai,
Ruggiero?
e a quei che vendicato l'hanno,
rendi
tal premio, che del sangue loro
me
fai morir di strazio e di martoro? -
Dicea
la donna al suo Ruggiero assente
queste
parole ed altre, lacrimando,
non
una sola volta, ma sovente.
Ippalca
la venìa pur confortando,
che
Ruggier servarebbe interamente
sua
fede, e che ella l'aspettasse, quando
altro
far non potea, fin a quel giorno
che
avea Ruggier prescritto al suo ritorno.
I
conforti d'Ippalca, e la speranza
che
degli amanti suole esser compagna,
alla
tema e al dolor tolgon possanza
di
far che Bradamante ognora piagna;
in
Montalban senza mutar mai stanza
voglion
che fin al termine rimagna,
fino
al promesso termine e giurato,
che
poi fu da Ruggier male osservato.
Ma
che egli alla promessa sua mancasse
non
però debbe aver la colpa affatto;
che
una causa ed un'altra sì lo trasse,
che
gli fu forza preterire il patto.
Convenne
che nel letto si colcasse,
e
più d'un mese si stesse di piatto
in
dubbio di morir, sì il dolor crebbe
dopo
la pugna che col Tartaro ebbe.
L'innamorata
giovane l'attese
tutto
quel giorno e desiollo invano,
né
mai ne seppe, fuor quanto ne 'ntese
ora
da Ippalca, e poi dal suo germano,
che
le narrò che Ruggier lui difese,
e
Malagigi liberò e Viviano.
Questa
novella, ancor che avesse grata,
pur
di qualche amarezza era turbata:
che
di Marfisa in quel discorso udito
l'alto
valore e le bellezze avea:
udì
come Ruggier s'era partito
con
esso lei, e che d'andar dicea
là
dove con disagio in debol sito
malsicuro
Agramante si tenea.
Sì
degna compagnia la donna lauda
ma
non che se n'allegri, o che l'applauda.
Né
picciolo è il sospetto che la preme;
che
se Marfisa è bella, come ha fama,
e
che fin a quel dì sien giti insieme,
è
maraviglia se Ruggier non l'ama.
Pur
non vuol creder anco, e spera e teme:
e
il giorno che la può far lieta e grama,
misera
aspetta; e sospirando stassi,
da
Montalban mai non movendo i passi.
Stando
ella quivi, il principe, il signore
del
bel castello, il primo de' suoi frati
(io
non dico d'etade, ma d'onore,
che
di lui prima dui n'erano nati),
Rinaldo,
che di gloria e di splendore
gli
ha, come il sol le stelle, illuminati,
giunse
al castello un giorno in su la nona;
né,
fuor che un paggio, era con lui persona.
Cagion
del suo venir fu, che da Brava
ritornandosi
un dì verso Parigi
(come
v'ho detto che sovente andava
per
ritrovar d'Angelica vestigi),
avea
sentita la novella prava
del
suo Viviano e del suo Malagigi,
che
eran per essere dati al Maganzese;
e
perciò ad Agrismonte la via prese.
Dove
intendendo poi che eran salvati,
e
gli aversari lor morti e distrutti,
e
Marfisa e Ruggiero erano stati,
che
gli aveano a quei termini ridutti;
e
suoi fratelli e suoi cugin tornati
a
Montalbano insieme erano tutti;
gli
parve un'ora un anno di trovarsi
con
esso lor là dentro ad abbracciarsi.
Venne
Rinaldo a Montalbano, e quivi
madre,
moglie abbracciò, figli e fratelli,
e
i cugini che dianzi eran captivi;
e
parve, quando egli arrivò tra quelli,
dopo
gran fame irondine che arrivi
col
cibo in bocca ai pargoletti augelli.
E
poi che un giorno vi fu stato o dui,
partissi,
e fe' partire altri con lui.
Ricciardo,
Alardo, Ricciardetto, e d'essi
figli
d'Amone, il più vecchio Guicciardo,
Malagigi
e Vivian, si furon messi
in
arme dietro al paladin gagliardo.
Bradamante
aspettando che s'appressi
il
tempo che al disio suo ne vien tardo,
inferma
disse agli fratelli che era,
e
non volse con lor venire in schiera.
E
ben lor disse il ver, che ella era inferma,
ma
non per febbre o corporal dolore:
era
il disio che l'alma dentro inferma,
e
le fa alterazion patir d'amore.
Rinaldo
in Montalban più non si ferma,
e
seco mena di sua gente il fiore.
Come
a Parigi appropinquosse, e quanto
Carlo
aiutò, vi dirà l'altro canto.