Ludovico Ariosto
L'Orlando Furioso
Canti XXXI-XL
CANTO TRENTUNESIMO
Che
dolce più, che più giocondo stato
saria
di quel d'un amoroso core?
che
viver più felice e più beato,
che
ritrovarsi in servitù d'Amore?
se
non fosse l'uom sempre stimulato
da
quel sospetto rio, da quel timore,
da
quel martìr, da quella frenesia,
da
quella rabbia detta gelosia.
Però
che ogni altro amaro che si pone
tra
questa soavissima dolcezza,
è
un augumento, una perfezione,
ed
è un condurre amore a più finezza.
L'acque
parer fa saporite e buone
la
sete, e il cibo pel digiun s'apprezza:
non
conosce la pace e non l'estima
chi
provato non ha la guerra prima.
Se
ben non veggon gli occhi ciò che vede
ognora
il core, in pace si sopporta.
Lo
star lontano, poi quando si riede,
quanto
più lungo fu, più riconforta.
Lo
stare in servitù senza mercede
(pur
che non resti la speranza morta)
patir
si può: che premio al ben servire
pur
viene al fin, se ben tarda a venire.
Gli
sdegni, le repulse, e finalmente
tutti
i martìr d'amor, tutte le pene,
fan
per lor rimembranza, che si sente
con
miglior gusto un piacer quando viene.
Ma
se l'infernal peste una egra mente
avvien
che infetti, ammorbi ed avelene;
se
ben segue poi festa ed allegrezza,
non
la cura l'amante e non l'apprezza.
Questa
è la cruda e avelenata piaga
a
cui non val liquor, non vale impiastro,
né
murmure, né imagine di saga,
né
val lungo osservar di benigno astro,
né
quanta esperienza d'arte maga
fece
mai l'inventor suo Zoroastro:
piaga
crudel che sopra ogni dolore
conduce
l'uom, che disperato muore.
Oh
incurabil piaga che nel petto
d'un
amator sì facile s'imprime,
non
men per falso che per ver sospetto!
piaga
che l'uom sì crudelmente opprime,
che
la ragion gli offusca e l'intelletto,
e
lo tra' fuor de le sembianze prime!
Oh
iniqua gelosia, che così a torto
levasti
a Bradamante ogni conforto!
Non
di questo che Ippalca e che il fratello
le
avea nel core amaramente impresso,
ma
dico d'uno annunzio crudo e fello
che
le fu dato pochi giorni appresso.
Questo
era nulla a paragon di quello
che
io vi dirò, ma dopo alcun digresso.
Di
Rinaldo ho da dir primieramente,
che
vêr Parigi vien con la sua gente.
Scontraro
il dì seguente invêr la sera
un
cavallier che avea una donna al fianco,
con
scudo e sopravesta tutta nera,
se
non che per traverso ha un fregio bianco.
Sfidò
alla giostra Ricciardetto, che era
dinanzi,
e vista avea di guerrier franco:
e
quel, che mai nessun ricusar volse,
girò
la briglia e spazio a correr tolse.
Senza
dir altro, o più notizia darsi
de
l'esser lor, si vengono all'incontro.
Rinaldo
e gli altri cavallier fermarsi
per
veder come seguiria lo scontro.
-
Tosto costui per terra ha da versarsi,
se
in luogo fermo a mio modo lo incontro -
dicea
tra sé medesmo Ricciardetto;
ma
contrario al pensier seguì l'effetto:
però
che lui sotto la vista offese
di
tanto colpo il cavalliero istrano,
che
lo levò di sella, e lo distese
più
di due lance al suo destrier lontano.
Di
vendicarlo incontinente prese
l'assunto
Alardo, e ritrovossi al piano
stordito
e male acconcio: sì fu crudo
lo
scontro fier, che gli spezzò lo scudo.
Guicciardo
pone incontinente in resta
l'asta,
che vede i duo germani in terra,
ben
che Rinaldo gridi: - Resta, resta;
che
mia convien che sia la terza guerra: -
ma
l'elmo ancor non ha allacciato in testa
sì
che Guicciardo al corso si disserra;
né
più degli altri si seppe tenere,
e
ritrovossi subito a giacere.
Vuol
Ricciardo, Viviano e Malagigi,
e
l'un prima de l'altro essere in giostra:
ma
Rinaldo pon fine ai lor litigi;
che
inanzi a tutti armato si dimostra,
dicendo
loro: - È tempo ire a Parigi;
e
saria troppo la tardanza nostra,
s'io
volesse aspettar fin che ciascuno
di
voi fosse abbattuto ad uno ad uno. -
Dissel
tra sé, ma non che fosse inteso,
che
saria stato agli altri ingiuria e scorno.
L'uno
e l'altro del campo avea già preso,
e
si faceano incontra aspro ritorno.
Non
fu Rinaldo per terra disteso,
che
valea tutti gli altri che avea intorno;
le
lance si fiaccar, come di vetro,
né
i cavallier si piegar oncia a dietro.
L'uno
e l'altro cavallo in guisa urtosse,
che
gli fu forza in terra a por le groppe.
Baiardo
immantinente ridrizzosse,
tanto
che a pena il correre interroppe.
Sinistramente
sì l'altro percosse,
che
la spalla e la schena insieme roppe.
Il
cavallier che il destrier morto vede,
lascia
le staffe ed è subito in piede.
Ed
al figlio d'Amon, che già rivolto
tornava
a lui con la man vota, disse:
-
Signore, il buon destrier che tu m'hai tolto,
perché
caro mi fu mentre che visse,
mi
faria uscir del mio debito molto,
se
così invendicato si morisse:
sì
che vientene, e fa ciò che tu puoi,
perché
battaglia esser convien tra noi. -
Disse
Rinaldo a lui: - Se il destrier morto,
e
non altro ci de' porre a battaglia,
un
de' miei ti darò, piglia conforto,
che
men del tuo non crederò che vaglia. -
Colui
soggiunse: - Tu sei malaccorto,
se
creder vuoi che d'un destrier mi caglia.
Ma
poi che non comprendi ciò che io voglio,
ti
spiegherò più chiaramente il foglio.
Vo'
dir che mi parria commetter fallo,
se
con la spada non ti provassi anco,
e
non sapessi s'in quest'altro ballo
tu
mi sia pari, o se più vali o manco.
Come
ti piace, o scendi, o sta a cavallo:
pur
che le man tu non ti tegna al fianco,
io
son contento ogni vantaggio darti:
tanto
alla spada bramo di provarti. -
Rinaldo
molto non lo tenne in lunga,
e
disse: - La battaglia ti prometto;
e
perché tu sia ardito, e non ti punga
di
questi c'ho d'intorno alcun sospetto,
andranno
inanzi fin che io gli raggiunga;
né
meco resterà fuor che un valletto
che
mi tenga il cavallo: - e così disse
alla
sua compagnia che se ne gisse.
La
cortesia del paladin gagliardo
commendò
molto il cavalliero estrano.
Smontò
Rinaldo, e del destrier Baiardo
diede
al valletto le redine in mano:
e
poi che più non vede il suo stendardo,
il
qual di lungo spazio è già lontano,
lo
scudo imbraccia e stringe il brando fiero,
e
sfida alla battaglia il cavalliero.
E
quivi s'incomincia una battaglia
di
che altra mai non fu più fiera in vista.
Non
crede l'un che tanto l'altro vaglia,
che
troppo lungamente gli resista.
Ma
poi che il paragon ben gli ragguaglia,
né
l'un de l'altro più s'allegra o attrista,
pongon
l'orgoglio ed il furor da parte,
ed
al vantaggio loro usano ogn'arte.
S'odon
lor colpi dispietati e crudi
intorno
rimbombar con suono orrendo,
ora
i canti levando a' grossi scudi,
schiodando
or piastre, e quando maglie aprendo.
Né
qui bisogna tanto che si studi
a
ben ferir, quanto a parar, volendo
star
l'uno a l'altro par; che eterno danno
lor
può causar il primo error che fanno.
Durò
l'assalto un'ora e più che il mezzo
d'un'altra;
ed era il sol già sotto l'onde,
ed
era sparso il tenebroso rezzo
de
l'orizzon fin all'estreme sponde;
né
riposato o fatto altro intermezzo
aveano
alle percosse furibonde
questi
guerrier, che non ira o rancore,
ma
tratto all'arme avea disio d'onore.
Rivolve
tuttavia tra sé Rinaldo
chi
sia l'estrano cavallier sì forte,
che
non pur gli sta contra ardito e saldo,
ma
spesso il mena a risco de la morte;
e
già tanto travaglio e tanto caldo
gli
ha posto, che del fin dubita forte:
e
volentier, se con suo onor potesse,
vorria
che quella pugna rimanesse.
Da
l'altra parte il cavallier estrano,
che
similmente non avea notizia
che
quel fosse il signor di Montalbano,
quel
sì famoso in tutta la milizia,
che
gli avea incontra con la spada in mano
condotto
così poca nimicizia,
era
certo che d'uom di più eccellenza
non
potesson dar l'arme esperienza.
Vorrebbe
de l'impresa esser digiuno,
che
avea di vendicare il suo cavallo;
e
se potesse senza biasmo alcuno,
si
trarria fuor del periglioso ballo.
Il
mondo era già tanto oscuro e bruno,
che
tutti i colpi quasi ivano in fallo.
Poco
ferire e men parar sapeano,
che
a pena in man le spade si vedeano.
Fu
quel da Montalbano il primo a dire
che
far battaglia non denno allo scuro,
ma
quella indugiar tanto e differire,
che
avesse dato volta il pigro Arturo;
e
che può intanto al padiglion venire,
ove
di sé non sarà men sicuro,
ma
servito, onorato e ben veduto,
quanto
in loco ove mai fosse venuto.
Non
bisognò a Rinaldo pregar molto,
che
il cortese baron tenne lo 'nvito.
Ne
vanno insieme ove il drappel raccolto
di
Montalbano era in sicuro sito.
Rinaldo
al suo scudiero avea già tolto
un
bel cavallo e molto ben guernito,
a
spada e a lancia e ad ogni prova buono,
ed
a quel cavallier fattone dono.
Il
guerrier peregrin conobbe quello
esser
Rinaldo, che venìa con esso;
che
prima che giungessero all'ostello,
venuto
a caso era a nomar se stesso:
e
perché l'un de l'altro era fratello,
si
sentìr dentro di dolcezza oppresso,
e
di pietoso affetto tocco il core;
e
lacrimar per gaudio e per amore.
Questo
guerriero era Guidon selvaggio,
che
dianzi con Marfisa e Sansonetto
e'
figli d'Olivier molto viaggio
avea
fatto per mar, come v'ho detto.
Di
non veder più tosto il suo lignaggio
il
fellon Pinabel gli avea interdetto,
avendol
preso e a bada poi tenuto
alla
difesa del suo rio statuto.
Guidon,
che questo esser Rinaldo udio,
famoso
sopra ogni famoso duce,
che
avuto avea più di veder disio,
che
non ha il cieco la perduta luce,
con
molto gaudio disse: - O signor mio,
qual
fortuna a combatter mi conduce
con
voi, che lungamente ho amato ed amo,
e
sopra tutto il mondo onorar bramo?
Mi
partorì Costanza ne le estreme
ripe
del mar Eusino: io son Guidone,
concetto
de lo illustre inclito seme,
come
ancor voi, del generoso Amone.
Di
voi vedere e gli altri nostri insieme
il
desiderio è del venir cagione;
e
dove mia intenzion fu d'onorarvi,
mi
veggo esser venuto a ingiuriarvi.
Ma
scusimi apo voi d'un error tanto,
che
io non ho voi né gli altri conosciuto;
e
s'emendar si può, ditemi quanto
far
debbo, che in ciò far nulla rifiuto. -
Poi
che si fu da questo e da quel canto
de'
complessi iterati al fin venuto,
rispose
a lui Rinaldo: - Non vi caglia
meco
scusarvi più de la battaglia:
che
per certificarne che voi sète
di
nostra antiqua stirpe un vero ramo,
dar
miglior testimonio non potete,
che
il gran valor che in voi chiaro proviamo.
Se
più pacifiche erano e quiete
vostre
maniere, mal vi credevamo;
che
la damma non genera il leone,
né
le colombe l'aquila o il falcone. -
Non,
per andar, di ragionar lasciando,
non
di seguir, per ragionar, lor via,
vennero
ai padiglioni; ove narrando
il
buon Rinaldo alla sua compagnia
che
questo era Guidon, che disiando
veder,
tanto aspettato aveano pria,
molto
gaudio apportò ne le sue squadre;
e
parve a tutti assimigliarsi al padre.
Non
dirò l'accoglienze che gli fero
Alardo,
Ricciardetto e gli altri dui;
che
gli fece Viviano ed Aldigiero,
e
Malagigi, frati e cugin sui;
che
ogni signor gli fece e cavalliero;
ciò
che egli disse a loro, ed essi a lui:
ma
vi concluderò che finalmente
fu
ben veduto da tutta la gente.
Caro
Guidone a' suoi fratelli stato
credo
sarebbe in ogni tempo assai;
ma
lor fu al gran bisogno ora più grato,
che
esser potesse in altro tempo mai.
Poscia
che il nuovo sole incoronato
del
mare uscì di luminosi rai,
Guidon
coi frati e coi parenti in schiera
se
ne tornò sotto la lor bandiera.
Tanto
un giorno ed un altro se n'andaro,
che
di Parigi alle assediate porte
a
men di dieci miglia s'accostaro
in
ripa a Senna; ove per buona sorte
Grifone
ed Aquilante ritrovaro,
i
duo guerrier da l'armatura forte:
Grifone
il bianco ed Aquilante il nero,
che
partorì Gismonda d'Oliviero.
Con
essi ragionava una donzella,
non
già di vil condizione in vista,
che
di sciamito bianco la gonnella
fregiata
intorno avea d'aurata lista;
molto
leggiadra in apparenza e bella,
fosse
quantunque lacrimosa e trista:
e
mostrava ne' gesti e nel sembiante
di
cosa ragionar molto importante.
Conobbe
i cavallier, come essi lui,
Guidon,
che fu con lor pochi dì inanzi;
ed
a Rinaldo disse: - Eccovi dui
a
cui van pochi di valore inanzi;
e
se per Carlo ne verran con nui,
non
ne staranno i Saracini inanzi. -
Rinaldo
di Guidon conferma il detto,
che
l'uno e l'altro era guerrier perfetto.
Gli
avea riconosciuti egli non manco;
però
che quelli sempre erano usati,
l'un
tutto nero, e l'altro tutto bianco
vestir
su l'arme, e molto andare ornati.
Da
l'altra parte essi conobbero anco
e
salutar Guidon, Rinaldo e i frati;
ed
abbracciar Rinaldo come amico,
messo
da parte ogni lor odio antico.
S'ebbero
un tempo in urta e in gran dispetto
per
Truffaldin, che fôra lungo a dire;
ma
quivi insieme con fraterno affetto
s'accarezzar,
tutte obliando l'ire.
Rinaldo
poi si volse a Sansonetto,
che
era tardato un poco più a venire,
e
lo raccolse col debito onore,
a
pieno istrutto del suo gran valore.
Tosto
che la donzella più vicino
vide
Rinaldo, e conosciuto l'ebbe
(che
avea notizia d'ogni paladino),
gli
disse una novella che gli increbbe;
e
cominciò: - Signore, il tuo cugino,
a
cui la Chiesa e l'alto Imperio debbe,
quel
già sì saggio ed onorato Orlando,
è
fatto stolto, e va pel mondo errando.
Onde
causato così strano e rio
accidente
gli sia, non so narrarte.
La
sua spada e l'altr'arme ho vedute io,
che
per li campi avea gittate e sparte;
e
vidi un cavallier cortese e pio
che
le andò raccogliendo da ogni parte,
e
poi di tutte quelle un arbuscello
fe',
a guisa di trofeo, pomposo e bello.
Ma
la spada ne fu tosto levata
dal
figliuol d'Agricane il dì medesmo.
Tu
pòi considerar quanto sia stata
gran
perdita alla gente del battesmo
l'essere
un'altra volta ritornata
Durindana
in poter del paganesmo.
Né
Brigliadoro men, che errava sciolto
intorno
all'arme, fu dal pagan tolto.
Son
pochi dì che Orlando correr vidi
senza
vergogna e senza senno, ignudo,
con
urli spaventevoli e con gridi:
che
è fatto pazzo in somma ti conchiudo;
e
non avrei, fuor che a questi occhi fidi,
creduto
mai sì acerbo caso e crudo. -
Poi
narrò che lo vide giù dal ponte
abbracciato
cader con Rodomonte.
-
A qualunque io non creda esser nimico
d'Orlando
(soggiungea) di ciò favello,
acciò
che alcun di tanti a che io lo dico,
mosso
a pietà del caso strano e fello,
cerchi
o a Parigi o in altro luogo amico
ridurlo,
fin che si purghi il cervello.
Ben
so, se Brandimarte n'avrà nuova,
sarà
per farne ogni possibil prova. -
Era
costei la bella Fiordiligi,
più
cara a Brandimarte che se stesso,
la
qual, per lui trovar, venìa a Parigi:
e
de la spada ella suggiunse appresso,
che
discordia e contesa e gran litigi
tra
il Sericano e l' Tartaro avea messo;
e
che avuta l'avea, poi fu casso,
di
vita Mandricardo, al fin Gradasso.
Di
così strano e misero accidente
Rinaldo
senza fin si lagna e duole;
né
il core intenerir men se ne sente,
che
soglia intenerirsi il ghiaccio al sole:
e
con disposta ed immutabil mente,
ovunque
Orlando sia, cercar lo vuole,
con
speme, poi che ritrovato l'abbia,
di
farlo risanar di quella rabbia.
Ma
già lo stuolo avendo fatto unire,
sia
volontà del cielo o sia aventura,
vuol
fare i Saracin prima fuggire,
e
liberar le parigine mura.
Ma
consiglia l'assalto differire,
che
vi par gran vantaggio, a notte scura,
ne
la terza vigilia o ne la quarta,
che
avrà l'acqua di Lete il Sonno sparta.
Tutta
la gente alloggiar fece al bosco,
e
quivi la posò per tutto il giorno;
ma
poi che il sol, lasciando il mondo fosco,
alla
nutrice antiqua fe' ritorno,
ed
orsi e capre e serpi senza tosco
e
l'altre fere ebbeno il cielo adorno,
che
state erano ascose al maggior lampo,
mosse
Rinaldo il taciturno campo:
e
venne con Grifon, con Aquilante,
con
Vivian, con Alardo e con Guidone,
con
Sansonetto, agli altri un miglio inante,
a
cheti passi e senza alcun sermone.
Trovò
dormir l'ascolta d'Agramante:
tutta
l'uccise, e non ne fe' un prigione.
Indi
arrivò tra l'altra gente Mora,
che
non fu visto né sentito ancora.
Del
campo d'infedeli a prima giunta
la
ritrovata guardia all'improviso
lasciò
Rinaldo sì rotta e consunta,
che
un sol non ne restò, se non ucciso.
Spezzata
che lor fu la prima punta,
i
Saracin non l'avean più da riso,
che
sonnolenti, timidi ed inermi,
poteano
a tai guerrier far pochi schermi.
Fece
Rinaldo per maggior spavento
dei
Saracini, al mover de l'assalto,
a
trombe e a corni dar subito vento,
e,
gridando, il suo nome alzar in alto.
Spinse
Baiardo, e quel non parve lento;
che
dentro all'alte sbarre entrò d'un salto,
e
versò cavallier, pestò pedoni,
ed
atterrò trabacche e padiglioni.
Non
fu sì ardito tra il popul pagano,
a
cui non s'arricciassero le chiome,
quando
sentì Rinaldo e Montalbano
sonar
per l'aria, il formidato nome.
Fugge
col campo d'Africa l'ispano,
né
perde tempo a caricar le some;
che
aspettar quella furia più non vuole,
che
aver provata anco si piagne e duole.
Guidon
lo segue, e non fa men di lui;
né
men fanno i duo figli d'Oliviero,
Alardo
e Ricciardetto, e gli altri dui:
col
brando Sansonetto apre il sentiero:
Aldigiero
e Vivian provar altrui
fan
quanto in arme l'uno e l'altro è fiero.
Così
fa ognun che segue lo stendardo
di
Chiaramonte, da guerrier gagliardo.
Settecento
con lui tenea Rinaldo
in
Montalbano e intorno a quelle ville,
usati
a portar l'arme al freddo e al caldo,
non
già più rei dei Mirmidon d'Achille.
Ciascun
d'essi al bisogno era sì saldo,
che
cento insieme non fuggian per mille;
e
se ne potean molti sceglier fuori,
che
d'alcun dei famosi eran migliori.
E
se Rinaldo ben non era molto
ricco
né di città né di tesoro,
facea
sì con parole e con buon volto,
e
ciò che avea partendo ognor con loro,
che
un di quel numer mai non gli fu tolto
per
offerire altrui più somma d'oro.
Questi
da Montalban mai non rimuove,
se
non lo stringe un gran bisogno altrove.
Ed
or, perche abbia il Magno Carlo aiuto,
lasciò
con poca guardia il suo castello.
Tra
gli African questo drappel venuto,
questo
drappel del cui valor favello,
ne
fece quel che del gregge lanuto
sul
falanteo Galeso il lupo fello,
o
quel che soglia, del barbato, appresso
il
barbaro Cinifio, il leon spesso.
Carlo,
che aviso da Rinaldo avuto
avea
che presso era a Parigi giunto,
e
che la notte il campo sproveduto
volea
assalir, stato era in arme e in punto;
e
quando bisognò, venne in aiuto
coi
paladini; e ai paladini aggiunto
avea
il figliol del ricco Monodante,
di
Fiordiligi il fido e saggio amante;
che
ella più giorni per sì lunga via
cercato
avea per tutta Francia invano.
Quivi
all'insegne che portar solia,
fu
da lei conosciuto di lontano.
Come
lei Brandimarte vide pria,
lasciò
la guerra, e tornò tutto umano,
e
corse ad abbracciarla; e d'amor pieno,
mille
volte baciolla o poco meno.
De
le lor donne e de le lor donzelle
si
fidar molto a quella antica etade.
Senz'altra
scorta andar lasciano quelle
per
piani e monti e per strane contrade;
ed
al ritorno l'han per buone e belle,
né
mai tra lor suspizione accade.
Fiordiligi
narrò quivi al suo amante,
che
fatto stolto era il signor d'Anglante.
Brandimarte
sì strana e ria novella
credere
ad altri a pena avria potuto;
ma
lo credette a Fiordiligi bella,
a
cui già maggior cose avea creduto.
Non
pur d'averlo udito gli dice ella,
ma
che con gli occhi propri l'ha veduto
(c'ha
conoscenza e pratica d'Orlando,
quanto
alcun altro), e dice dove e quando
E
gli narra del ponte periglioso,
che
Rodomonte ai cavallier difende,
ove
un sepolcro adorna e fa pomposo
di
sopraveste e d'arme di chi prende.
Narra
c'ha visto Orlando furioso
far
cose quivi orribili e stupende;
che
nel fiume il pagan mandò riverso,
con
gran periglio di restar summerso.
Brandimarte,
che il conte amava quanto
si
può compagno amar, fratello o figlio,
disposto
di cercarlo, e di far tanto,
non
ricusando affanno né periglio,
che
per opra di medico o d'incanto
si
ponga a quel furor qualche consiglio,
così
come trovossi armato in sella,
si
mise in via con la sua donna bella.
Verso
la parte ove la donna il conte
avea
veduto, il lor camin drizzaro,
di
giornata in giornata, fin che al ponte
che
guarda il re d'Algier, si ritrovaro.
La
guardia ne fe' segno a Rodomonte;
e
gli scudieri a un tempo gli arrecaro
l'arme
e il cavallo: e quel si trovò in punto,
quando
fu Brandimarte al passo giunto.
Con
voce qual conviene al suo furore
il
Saracino a Brandimarte grida:
-
Qualunque tu ti sia, che, per errore
di
via o di mente, qui tua sorte guida,
scendi
e spogliati l'arme, e fanne onore
al
gran sepolcro, inanzi che io t'uccida,
e
che vittima all'ombre tu sia offerto:
che
io il farò poi, né te n'avrò alcun merto. -
Non
volse Brandimarte a quell'altiero
altra
risposta dar, che de la lancia.
Sprona
Batoldo, il suo gentil destriero,
e
inverso quel con tanto ardir si lancia,
che
mostra che può star d'animo fiero
con
qual si voglia al mondo alla bilancia:
e
Rodomonte, con la lancia in resta,
lo
stretto ponte a tutta briglia pesta.
Il
suo destrier che avea continuo uso
d'andarvi
sopra, e far di quel sovente
quando
uno e quando un altro cader giuso,
alla
giostra correa sicuramente;
l'altro,
del corso insolito confuso,
venìa
dubbioso, timido e tremente.
Trema
anco il ponte, e par cader ne l'onda,
oltre
che stretto e che sia senza sponda.
I
cavallier, di giostra ambi maestri,
che
le lance avean grosse come travi,
tali
qual fur nei lor ceppi silvestri,
si
dieron colpi non troppo soavi.
Ai
lor cavalli esser possenti e destri
non
giovò molto agli aspri colpi e gravi;
che
si versar di pari ambi sul ponte,
e
seco i signor lor tutti in un monte.
Nel
volersi levar con quella fretta
che
lo spronar de' fianchi insta e richiede,
l'asse
del ponticel lor fu sì stretta,
che
non trovaro ove fermare il piede;
sì
che una sorte uguale ambi li getta
ne
l'acqua; e gran rimbombo al ciel ne riede,
simile
a quel che uscì del nostro fiume,
quando
ci cadde il mal rettor del lume.
I
duo cavalli con tutto il pondo
dei
cavallier, che steron fermi in sella,
a
cercar la rivera insin al fondo,
se
v'era ascosa alcuna ninfa bella.
Non
è già il primo salto né il secondo,
che
giù del ponte abbia il pagano in quella
onda
spiccato col destrero audace;
però
sa ben come quel fondo giace:
sa
dove è saldo e sa dove è più molle,
sa
dove è l'acqua bassa e dove è l'alta.
Dal
fiume il capo e il petto e i fianchi estolle,
e
Brandimarte a gran vantaggio assalta.
Brandimarte
il corrente in giro tolle:
ne
la sabbia il destrier, che il fondo smalta,
tutto
si ficca, e non può riaversi,
con
rischio di restarvi ambi sommersi.
L'onda
si leva e li fa andar sozzopra,
e
dove è più profonda li trasporta:
va
Brandimarte sotto, e il destrier sopra.
Fiordiligi
dal ponte afflitta e smorta
e
le lacrime e i voti e i prieghi adopra:
-
Ah Rodomonte, per colei che morta
tu
riverisci, non esser sì fiero,
che
affogar lasci un tanto cavalliero!
Deh,
cortese signor, s'unque tu amasti,
di
me, che amo costui, pietà ti vegna.
Di
farlo tuo prigion, per Dio, ti basti;
che
s'orni il sasso tuo di quella insegna,
di
quante spoglie mai tu gli arrecasti,
questa
fia la più bella e la più degna. -
E
seppe sì ben dir, che ancor che fosse
sì
crudo il re pagan, pur lo commosse;
e
fe' che il suo amator ratto soccorse,
che
sotto acqua il destrier tenea sepolto,
e
de la vita era venuto in forse,
e
senza sete avea bevuto molto.
Ma
aiuto non però prima gli porse,
che
gli ebbe il brando e dipoi l'elmo tolto.
De
l'acqua mezzo morto il trasse, e porre
con
molti altri lo fe' ne la sua torre.
Fu
ne la donna ogni allegrezza spenta,
quando
prigion vide il suo amante gire;
ma
di questo pur meglio si contenta,
che
di vederlo nel fiume perire.
Di
se stessa, e non d'altri, si lamenta,
che
fu cagion di farlo ivi venire,
per
averli narrato che avea il conte
riconosciuto
al periglioso ponte.
Quindi
si parte, avendo già concetto
di
menarvi Rinaldo paladino,
o
il Selvaggio Guidone, o Sansonetto,
o
altri de la corte di Pipino,
in
acqua e in terra cavallier perfetto
da
poter contrastar col Saracino;
se
non più forte, almen più fortunato
che
Brandimarte suo non era stato.
Va
molti giorni, prima che s'abbatta
in
alcun cavallier che abbia sembiante
d'esser
come lo vuol, perché combatta
col
Saracino e liberi il suo amante.
Dopo
molto cercar di persona atta
al
suo bisogno, un le vien pur avante,
che
sopravesta avea ricca ed ornata,
a
tronchi di cipressi ricamata.
Chi
costui fosse, altrove ho da narrarvi;
che
prima ritornar voglio a Parigi,
e
de la gran sconfitta seguitarvi,
che
a' Mori diè Rinaldo e Malagigi.
Quei
che fuggiro io non saprei contarvi,
né
quei che fur cacciati ai fiumi stigi.
Levò
a Turpino il conto l'aria oscura,
che
di contarli s'avea preso cura.
Nel
primo sonno dentro al padiglione
dormia
Agramante; e un cavallier lo desta,
dicendogli
che fia fatto prigione,
se
la fuga non è via più che presta.
Guarda
il re intorno, e la confusione
vede
dei suoi, che van senza far testa
chi
qua chi là fuggendo inermi e nudi,
che
non han tempo di pur tor gli scudi.
Tutto
confuso e privo di consiglio
si
facea porre indosso la corazza,
quando
con Falsiron vi giunse il figlio,
Grandonio
e Balugante e quella razza;
e
al re Agramante mostrano il periglio
di
restar morto o preso in quella piazza:
e
che può dir, se salva la persona,
che
Fortuna gli sia propizia e buona.
Così
Marsilio e così il buon Sobrino,
e
così dicon gli altri ad una voce,
che
a sua distruzion tanto è vicino,
quanto
a Rinaldo il qual ne vien veloce;
che
s'aspetta che giunga il paladino
con
tanta gente, e un uom tanto feroce,
render
certo si può che egli e i suo' amici
rimarran
morti, o in man degli nimici.
Ma
ridur si può in Arli o sia in Narbona
con
quella poca gente c'ha d'intorno;
che
l'una e l'altra terra è forte e buona
da
mantener la guerra più d'un giorno:
e
quando salva sia la sua persona,
si
potrà vendicar di questo scorno,
rifacendo
l'esercito in un tratto,
onde
al fin Carlo ne sarà disfatto.
Il
re Agramante al parer lor s'attenne,
ben
che il partito fosse acerbo e duro.
Andò
verso Arli, e parve aver le penne,
per
quel camin che più trovò sicuro.
Oltre
alle guide, in gran favor gli venne
che
la partita fu per l'aer scuro.
Ventimila
tra d'Africa e di Spagna
fur,
che a Rinaldo uscir fuor de la ragna.
Quei
che egli uccise e quei che i suoi fratelli,
quei
che i duo figli del signor di Vienna,
quei
che provaro empi nimici e felli
i
settecento a cui Rinaldo accenna,
e
quei che spense Sansonetto, e quelli
che
ne la fuga s'affogaro in Senna,
chi
potesse contar, conteria ancora
ciò
che sparge d'april Favonio e Flora.
Istima
alcun che Malagigi parte
ne
la vittoria avesse de la notte;
non
che di sangue le campagne sparte
fosser
per lui, né per lui teste rotte:
ma
che gli infernali angeli per arte
facesse
uscir da le tartaree grotte,
e
con tante bandiere e tante lance,
che
insieme più non ne porrian due France;
e
che facesse udir tanti metalli,
tanti
tamburi e tanti varii suoni,
tanti
anitriri in voce di cavalli,
tanti
gridi e tumulti di pedoni,
che
risonare e piani e monti e valli
dovean
de le longique regioni:
ed
ai Mori con questo un timor diede,
che
li fece voltare in fuga il piede.
Non
si scordò il re d'Africa Ruggiero,
che
era ferito e stava ancora grave.
Quanto
poté più acconcio s'un destriero
lo
fece por, che avea l'andar soave;
e
poi che l'ebbe tratto ove il sentiero
fu
più sicuro, il fe' posar in nave,
e
verso Arli portar commodamente,
dove
s'avea a raccor tutta la gente.
Quei
che a Rinaldo e a Carlo dier le spalle
(fur,
credo, centomila o poco manco),
per
campagne, per boschi e monte e valle
cercaro
uscir di man del popul franco;
ma
la più parte trovò chiuso il calle,
e
fece rosso ov'era verde e bianco.
Così
non fece il re di Sericana,
che
avea da lor la tenda più lontana:
anzi,
come egli sente che il signore
di
Montalbano è questo che gli assalta,
gioisce
di tal iubilo nel core,
che
qua e là per allegrezza salta.
Loda
e ringrazia il suo sommo Fattore,
che
quella notte gli occorra tant'alta
e
sì rara aventura d'acquistare
Baiardo,
quel destrier che non ha pare.
Avea
quel re gran tempo desiato
(credo
che altrove voi l'abbiate letto)
d'aver
la buona Durindana a lato,
e
cavalcar quel corridor perfetto.
E
già con più di centomila armato
era
venuto in Francia a questo effetto;
e
con Rinaldo già sfidato s'era
per
quel cavallo alla battaglia fiera;
e
sul lito del mar s'era condutto
ove
dovea la pugna diffinire:
ma
Malagigi a turbar venne il tutto,
che
fe' il cugin, mal grado suo, partire,
avendol
sopra un legno in mar ridutto.
Lungo
saria tutta l'istoria dire.
Da
indi in qua stimò timido e vile
sempre
Gradasso il paladin gentile.
Or
che Gradasso esser Rinaldo intende
costui
che assale il campo, se n'allegra.
Si
veste l'arme, e la sua alfana prende,
e
cercando lo va per l'aria negra:
e
quanti ne riscontra, a terra stende;
ed
in confuso lascia afflitta ed egra
la
gente, o sia di Libia o sia di Francia:
tutti
li mena a un par la buona lancia.
Lo
va di qua di là tanto cercando,
chiamando
spesso e quanto può più forte,
e
sempre a quella parte declinando,
ove
più folte son le genti morte,
che
al fin s'incontra in lui brando per brando
poi
che le lance loro ad una sorte
eran
salite in mille schegge rotte
sin
al carro stellato de la Notte.
Quando
Gradasso il paladin gagliardo
conosce,
e non perché ne vegga insegna,
ma
per gli orrendi colpi e per Baiardo,
che
par che sol tutto quel campo tegna;
non
è, gridando, a improverargli tardo
la
prova che di sé fece non degna:
che
al dato campo il giorno non comparse,
che
tra lor la battaglia dovea farse.
Suggiunse
poi: - Tu forse avevi speme,
se
potevi nasconderti quel punto,
che
non mai più per raccozzarci insieme
fossimo
al mondo: or vedi che io t'ho giunto.
Sie
certo, se tu andassi ne l'estreme
fosse
di Stige, o fossi in cielo assunto,
ti
seguirò, quando abbi il destrier teco,
ne
l'alta luce e giù nel mondo cieco.
Se
d'aver meco a far non ti dà il core,
e
vedi già che non puoi starmi a paro,
e
più stimi la vita che l'onore,
senza
periglio ci puoi far riparo,
quando
mi lasci in pace il corridore;
e
viver puoi, se sì t'è il viver caro:
ma
vivi a piè, che non merti cavallo,
s'alla
cavalleria fai sì gran fallo. -
A
quel parlar si ritrovò presente
con
Ricciardetto il cavallier Selvaggio;
e
le Spade ambi trassero ugualmente,
per
far parere il Serican mal saggio.
Ma
Rinaldo s'oppose immantinente,
e
non patì che se gli fêsse oltraggio,
dicendo:
- Senza voi dunque non sono
a
chi m'oltraggia per risponder buono? -
Poi
se ne ritornò verso il pagano,
e
disse: - Odi, Gradasso; io voglio farte,
e
tu m'ascolti, manifesto e piano
che
io venni alla marina a ritrovarte:
e
poi ti sosterrò con l'arme in mano,
che
t'avrò detto il vero in ogni parte;
e
sempre che tu dica mentirai,
che
alla cavalleria mancass'io mai.
Ma
ben ti priego che prima che sia
pugna
tra noi, che pianamente intenda
la
giustissima e vera scusa mia,
acciò
che a torto più non mi riprenda;
e
poi Baiardo al termine di pria
tra
noi vorrò che a piedi si contenda
da
solo a solo in solitario lato,
sì
come a punto fu da te ordinato. -
Era
cortese il re di Sericana,
come
ogni cor magnanimo esser suole;
ed
è contento udir la cosa piana,
e
come il paladin scusar si vuole.
Con
lui ne viene in ripa alla fiumana,
ove
Rinaldo in semplici parole
alla
sua vera istoria trasse il velo,
e
chiamò in testimonio tutto il cielo:
e
poi chiamar fece il figliuol di Buovo,
l'uom
che di questo era informato a pieno,
che
a parte a parte replicò di nuovo
l'incanto
suo, né disse più né meno.
Soggiunse
poi Rinaldo: - Ciò che io provo
col
testimonio, io vo' che l'arme sieno,
che
ora e in ogni tempo che ti piace,
te
n'abbiano a far prova più verace. -
Il
re Gradasso, che lasciar non volle
per
la seconda la querela prima,
le
scuse di Rinaldo in pace tolle,
ma
se son vere o false in dubbio stima.
Non
tolgon campo più sul lito molle
di
Barcelona, ove lo tolser prima;
ma
s'accordaro per l'altra matina
trovarsi
a una fontana indi vicina:
ove
Rinaldo seco abbia il cavallo,
che
posto sia communemente in mezzo:
se
il re uccide Rinaldo o il fa vassallo,
se
ne pigli il destrier senz'altro mezzo,
ma
se Gradasso è quel che faccia fallo,
che
sia condotto all'ultimo ribrezzo,
o,
per più non poter, che gli si renda,
da
lui Rinaldo Durindana prenda.
Con
maraviglia molta e più dolore
(come
v'ho detto) avea Rinaldo udito
da
Fiordiligi bella, che era fuore
de
l'intelletto il suo cugino uscito.
Avea
de l'arme inteso anco il tenore,
e
del litigio che n'era seguito;
e
che in somma Gradasso avea quel brando
che
ornò di mille e mille palme Orlando.
Poi
che furon d'accordo, ritornosse
il
re Gradasso ai servitori sui
ben
che dal paladin pregato fosse
che
ne venisse ad alloggiar con lui.
Come
fu giorno, il re pagano armosse;
così
Rinaldo: e giunsero ambedui
ove
dovea non lungi alla fontana
combattersi
Baiardo e Durindana.
De
la battaglia che Rinaldo avere
con
Gradasso dovea da solo a solo,
parean
gli amici suoi tutti temere,
e
inanzi il caso ne faceano il duolo.
Molto
ardir, molta forza, alto sapere
avea
Gradasso; ed or che del figliuolo
del
gran Milone avea la spada al fianco,
di
timor per Rinaldo era ognun bianco.
E
più degli altri il frate di Viviano
stava
di questa pugna in dubbio e in tema,
ed
anco volentier vi porria mano
per
farla rimaner d'effetto scema:
ma
non vorria che quel da Montalbano
seco
venisse a inimicizia estrema;
che
anco avea di quell'altra seco sdegno,
che
gli turbò, quando il levò sul legno.
Ma
stiano gli altri in dubbio, in tema, in doglia:
Rinaldo
se ne va lieto e sicuro,
sperando
che ora il biasmo se gli toglia,
che
avere a torto gli parea pur duro;
sì
che quei da Pontieri e d'Altafoglia
faccia
cheti restar, come mai furo.
Va
con baldanza e sicurtà di core
di
riportarne il trionfale onore.
Poi
che l'un quinci e l'altro quindi giunto
fu
quasi a un tempo in su la chiara fonte,
s'accarezzaro,
e fero a punto a punto
così
serena ed amichevol fronte,
come
di sangue e d'amistà congiunto
fosse
Gradasso a quel di Chiaramonte.
Ma
come poi s'andassero a ferire,
vi
voglio a un'altra volta differire.
CANTO
TRENTADUESIMO
Soviemmi
che cantar io vi dovea
(già
lo promisi, e poi m'uscì di mente)
d'una
sospizion che fatto avea
la
bella donna di Ruggier dolente,
de
l'altra più spiacevole e più rea,
e
di più acuto e venenoso dente,
che
per quel che ella udì da Ricciardetto,
a
devorare il cor l'entrò nel petto.
Dovea
cantarne, ed altro incominciai,
perché
Rinaldo in mezzo sopravenne;
e
poi Guidon mi diè che fare assai,
che
tra camino a bada un pezzo il tenne.
D'una
cosa in un'altra in modo entrai,
che
mal di Bradamante mi sovenne:
sovienmene
ora, e vo' narrarne inanti
che
di Rinaldo e di Gradasso io canti.
Ma
bisogna anco, prima che io ne parli,
che
d'Agramante io vi ragioni un poco,
che
avea ridutte le reliquie in Arli,
che
gli restar del gran notturno fuoco,
quando
a raccor lo sparso campo e a darli
soccorso
e vettovaglie era atto il loco:
l'Africa
incontra, e la Spagna ha vicina,
ed
è in sul fiume assiso alla marina.
Per
tutto il regno fa scriver Marsilio
gente
a piedi e a cavallo, e trista e buona.
Per
forza e per amore ogni navilio
atto
a battaglia s'arma in Barcelona.
Agramante
ogni dì chiama a concilio;
né
a spesa né a fatica si perdona.
Intanto
gravi esazioni e spesse
tutte
hanno le città d'Africa oppresse.
Egli
ha fatto offerire a Rodomonte,
perché
ritorni (ed impetrar nol puote),
una
cugina sua, figlia d'Almonte,
e
il bel regno d'Oran dargli per dote.
Non
si volse l'altier muover dal ponte,
ove
tant'arme e tante selle vote
di
quei che son già capitati al passo
ha
ragunate, che ne cuopre il sasso.
Già
non volse Marfisa imitar l'atto
di
Rodomonte: anzi com'ella intese
che
Agramante da Carlo era disfatto,
sue
genti morte, saccheggiate e prese,
e
che con pochi in Arli era ritratto,
senza
aspettare invito, il camin prese:
venne
in aiuto de la sua corona,
e
l'aver gli proferse e la persona.
E
gli menò Brunello, e gli ne fece
libero
dono, il qual non avea offeso:
l'avea
tenuto dieci giorni e diece
notti
sempre in timor d'essere appeso;
e
poi che né con forza né con prece
da
nessun vide il patrocinio preso,
in
sì sprezzato sangue non si volse
bruttar
l'altiere mani, e lo disciolse.
Tutte
l'antique ingiurie gli remesse,
e
seco in Arli ad Agramante il trasse.
Ben
dovete pensar che gaudio avesse
il
re di lei che ad aiutarlo andasse:
e
del gran conto che egli ne facesse,
volse
che Brunel prova le mostrasse;
che
quel di che ella gli avea fatto cenno,
di
volerlo impiccar, fe' da buon senno.
Il
manigoldo, in loco inculto ed ermo,
pasto
di corvi e d'avoltoi lasciollo.
Ruggier
che un'altra volta gli fu schermo,
e
che il laccio gli avria tolto dal collo,
la
giustizia di Dio fa che ora infermo
s'è
ritrovato, ed aiutar non puollo:
e
quando il seppe, era già il fatto occorso;
sì
che restò Brunel senza soccorso.
Intanto
Bradamante iva accusando
che
così lunghi sian quei venti giorni,
li
quai finiti, il termine era quando
a
lei Ruggiero ed alla fede torni.
A
chi aspetta di carcere o di bando
uscir,
non par che il tempo più soggiorni
a
dargli libertade, o de l'amata
patria
vista gioconda e disiata.
In
quel duro aspettare ella talvolta
pensa
che Eto e Piròo sia fatto zoppo;
o
sia la ruota guasta, che a dar volta
le
par che tardi, oltr'all'usato, troppo.
Più
lungo di quel giorno a cui, per molta
fede,
nel cielo il giusto Ebreo fe' intoppo,
più
de la notte che Ercole produsse,
parea
lei che ogni notte, ogni dì fusse.
Oh
quante volte da invidiar le diero
e
gli orsi e i ghiri e i sonnacchiosi tassi!
che
quel tempo voluto avrebbe intero
tutto
dormir, che mai non si destassi;
né
potere altro udir, fin che Ruggiero
dal
pigro sonno lei non richiamassi.
Ma
non pur questo non può far, ma ancora
non
può dormir di tutta notte un'ora.
Di
qua di là va le noiose piume
tutte
premendo, e mai non si riposa.
Spesso
aprir la finestra ha per costume,
per
veder s'anco di Titon la sposa
sparge
dinanzi al matutino lume
il
bianco giglio e la vermiglia rosa:
non
meno ancor, poi che nasciuto è il giorno,
brama
vedere il ciel di stelle adorno.
Poi
che fu quattro o cinque giorni appresso
il
termine a finir, piena di spene
stava
aspettando d'ora in ora il messo
che
le apportasse: - Ecco Ruggier che viene. -
Montava
sopra un'alta torre spesso,
che
i folti boschi e le campagne amene
scopria
d'intorno, e parte de la via
onde
di Francia a Montalban si gìa.
Se
di lontano o splendor d'arme vede,
o
cosa tal che a cavallier simiglia,
che
sia il suo disiato Ruggier crede,
e
rasserena i begli occhi e le ciglia;
se
disarmato o viandante a piede,
che
sia messo di lui speranza piglia:
e
se ben poi fallace la ritrova,
pigliar
non cessa una ed un'altra nuova.
Credendolo
incontrar, talora armossi,
scese
dal monte e giù calò nel piano;
né
lo trovando, si sperò che fossi
per
altra strada giunto a Montalbano:
e
col disir con che avea i piedi mossi
fuor
del castel, ritornò dentro invano.
Né
qua né là trovollo; e passò intanto
il
termine aspettato da lei tanto.
Il
termine passò d'uno, di dui,
di
tre giorni, di sei, d'otto e di venti;
né
vedendo il suo sposo, né di lui
sentendo
nuova, incominciò lamenti
che
avrian mosso a pietà nei regni bui
quelle
Furie crinite di serpenti;
e
fece oltraggio a' begli occhi divini,
al
bianco petto, all'aurei crespi crini.
-
Dunque fia ver (dicea) che mi convegna
cercare
un che mi fugge e mi s'asconde?
Dunque
debbo prezzare un che mi sdegna?
Debbo
pregar chi mai non mi risponde?
Patirò
che chi m'odia, il cor mi tegna?
un
che sì stima sue virtù profonde,
che
bisogno sarà che dal ciel scenda
immortal
dea che il cor d'amor gli accenda.
Sa
questo altier che io l'amo e che io l'adoro,
né
mi vuol per amante né per serva.
Il
crudel sa che per lui spasmo e moro,
e
dopo morte a darmi aiuto serva.
E
perché io non gli narri il mio martoro
atto
a piegar la sua voglia proterva,
da
me s'asconde, come aspide suole,
che,
per star empio, il canto udir non vuole.
Deh,
ferma, Amor, costui che così sciolto
dinanzi
al lento mio correr s'affretta;
o
tornami nel grado onde m'hai tolto
quando
né a te né ad altri era suggetta!
Deh,
come è il mio sperar fallace e stolto,
che
in te con prieghi mai pietà si metta;
che
ti diletti, anzi ti pasci e vivi
di
trar dagli occhi lacrimosi rivi!
Ma
di che debbo lamentarmi, ahi lassa
fuor
che del mio desire irrazionale?
che
alto mi leva, e sì ne l'aria passa,
che
arriva in parte ove s'abbrucia l'ale;
poi
non potendo sostener, mi lassa
dal
ciel cader: né qui finisce il male;
che
le rimette, e di nuovo arde: ond'io
non
ho mai fine al precipizio mio.
Anzi
via più che del disir, mi deggio
di
me doler, che sì gli apersi il seno;
onde
cacciata ha la ragion di seggio,
ed
ogni mio poter può di lui meno.
Quel
mi trasporta ognor di male in peggio,
né
lo posso frenar, che non ha freno:
e
mi fa certa che mi mena a morte,
perche
aspettando il mal noccia più forte.
Deh
perché voglio anco di me dolermi?
Che
error, se non d'amarti, unqua commessi?
Che
maraviglia, se fragili e infermi
feminil
sensi fur subito oppressi?
Perché
dovev'io usar ripari e schermi
che
la somma beltà non mi piacessi,
gli
alti sembianti e le sagge parole?
Misero
è ben chi veder schiva il sole!
Ed
oltre al mio destino, io ci fui spinta
da
le parole altrui degne di fede:
somma
felicità mi fu dipinta,
che
esser dovea di questo amor mercede.
Se
la persuasione, ohimè! fu finta,
se
fu inganno il consiglio che mi diede
Merlin,
posso di lui ben lamentarmi,
ma
non d'amar Ruggier posso ritrarmi.
Di
Merlin posso e di Melissa insieme
dolermi,
e mi dorrò d'essi in eterno,
che
dimostrare i frutti del mio seme
mi
fero dagli spirti de lo 'nferno,
per
pormi sol con questa falsa speme
in
servitù; né la cagion discerno,
se
non che erano forse invidiosi
dei
miei dolci, sicuri, almi riposi. -
Sì
l'occupa il dolor, che non avanza
loco
ove in lei conforto abbia ricetto;
ma,
mal grado di quel, vien la speranza
e
vi vuole alloggiare in mezzo il petto,
rifrescandole
pur la rimembranza
di
quel che al suo partir l'ha Ruggier detto:
e
vuol, contra il parer degli altri affetti,
che
d'ora in ora il suo ritorno aspetti.
Questa
speranza dunque la sostenne,
finito
i venti giorni, un mese appresso;
sì
che il dolor sì forte non le tenne,
come
tenuto avria, l'animo oppresso.
Un
dì che per la strada se ne venne,
che
per trovar Ruggier solea far spesso,
novella
udì la misera, che insieme
fe'
dietro all'altro ben fuggir la speme.
Venne
a incontrare un cavallier guascone
che
dal campo african venìa diritto,
ove
era stato da quel dì prigione,
che
fu inanzi a Parigi il gran conflitto.
Da
lei fu molto posto per ragione,
fin
che si venne al termine prescritto.
Domandò
di Ruggiero, e in lui fermosse;
né
fuor di questo segno più si mosse.
Il
cavallier buon conto ne rendette,
che
ben conoscea tutta quella corte:
e
narrò di Ruggier, che contrastette
da
solo a solo a Mandricardo forte;
e
come egli l'uccise, e poi ne stette
ferito
più d'un mese presso a morte:
e
s'era la sua istoria qui conclusa,
fatto
avria di Ruggier la vera escusa.
Ma
come poi soggiunse, una donzella
esser
nel campo, nomata Marfisa,
che
men non era che gagliarda, bella,
né
meno esperta d'arme in ogni guisa;
che
lei Ruggiero amava e Ruggiero ella,
che
egli da lei, che ella da lui divisa
si
vedea raro, e che ivi ognuno crede
che
s'abbiano tra lor data la fede;
e
che come Ruggier si faccia sano,
il
matrimonio publicar si deve;
e
che ogni re, ogni principe pagano
gran
piacere e letizia ne riceve,
che
de l'uno e de l'altro sopraumano
conoscendo
il valor, sperano in breve
far
una razza d'uomini da guerra
la
più gagliarda che mai fosse in terra;
credea
il Guascon quel che dicea, non senza
cagion;
che ne l'esercito de' Mori
openione
e universal credenza,
e
publico parlar n'era di fuori.
I
molti segni di benivolenza
stati
tra lor facean questi romori;
che
tosto o buona o ria che la fama esce
fuor
d'una bocca, in infinito cresce.
L'esser
venuta a' Mori ella in aita
con
lui, né senza lui comparir mai,
avea
questa credenza stabilita;
ma
poi l'avea accresciuta pur assai,
che
essendosi del campo già partita
portandone
Brunel (come io contai),
senza
esservi d'alcuno richiamata,
sol
per veder Ruggier v'era tornata.
Sol
per lui visitar, che gravemente
languia
ferito, in campo venuta era,
non
una sola volta, ma sovente;
vi
stava il giorno e si partia la sera:
e
molto più da dir dava alla gente,
che
essendo conosciuta così altiera,
che
tutto il mondo a sé le parea vile,
solo
a Ruggier fosse benigna e umile;
come
il Guascon questo affermò per vero,
fu
Bradamante da cotanta pena,
da
cordoglio assalita così fiero,
che
di quivi cader si tenne a pena.
Voltò,
senza far motto, il suo destriero,
di
gelosia, d'ira e di rabbia piena;
e
da sé discacciata ogni speranza,
ritornò
furibonda alla sua stanza.
E
senza disarmarsi, sopra il letto,
col
viso volta in giù, tutta si stese,
ove
per non gridar, sì che sospetto
di
sé facesse, i panni in bocca prese;
e
ripetendo quel che l'avea detto
il
cavalliero, in tal dolor discese,
che
più non lo potendo sofferire,
fu
forza a disfogarlo, e così a dire:
-
Misera! a chi mai più creder debb'io?
Vo'
dir che ognuno è perfido e crudele,
se
perfido e crudel sei, Ruggier mio,
che
sì pietoso tenni e sì fedele.
Qual
crudeltà, qual tradimento rio
unqua
s'udì per tragiche querele,
che
non trovi minor, se pensar mai
al
mio merto e al tuo debito vorai?
Perché,
Ruggier, come di te non vive
cavallier
di più ardir, di più bellezza,
né
che a gran pezzo al tuo valore arrive,
né
a' tuoi costumi, né a tua gentilezza;
perché
non fai che fra tue illustri e dive
virtù,
si dica ancor che abbi fermezza?
si
dica che abbi inviolabil fede?
a
chi ogn'altra virtù s'inchina e cede.
Non
sai che non compar, se non v'è quella,
alcun
valore, alcun nobil costume?
come
né cosa (e sia quanto vuol bella)
si
può vedere ove non splenda lume.
Facil
ti fu ingannare una donzella
di
cui tu signore eri, idolo e nume,
a
cui potevi far con tue parole
creder
che fosse oscuro e freddo il sole.
Crudel,
di che peccato a doler t'hai,
se
d'uccider chi t'ama non ti penti?
Se
il mancar di tua fé sì leggier fai,
di
che altro peso il cor gravar ti senti?
Come
tratti il nimico, se tu dai
a
me, che t'amo sì, questi tormenti?
Ben
dirò che giustizia in ciel non sia,
s'a
veder tardo la vendetta mia.
Se
d'ogn'altro peccato assai più quello
de
l'empia ingratitudine l'uomo grava,
e
per questo dal ciel l'angel più bello
fu
relegato in parte oscura e cava;
e
se gran fallo aspetta gran flagello
quando
debita emenda il cor non lava;
guarda
che aspro flagello in te non scenda,
che
mi se' ingrato e non vuoi farne emenda.
Di
furto ancora, oltre ogni vizio rio,
di
te, crudele, ho da dolermi molto.
Che
tu mi tenga il cor, non ti dico io;
di
questo io vo' che tu ne vada assolto:
dico
di te, che t'eri fatto mio
e
poi contra ragion mi ti sei tolto.
Renditi,
iniquo, a me; che tu sai bene
che
non si può salvar chi l'altrui tiene.
Tu
m'hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio,
né
lasciarti volendo anco potrei;
ma
per uscir d'affanno e di cordoglio,
posso
e voglio, finire i giorni miei.
Di
non morirti in grazia sol mi doglio;
che
se concesso m'avessero i dei
che
io fossi morta quando t'era grata,
morte
non fu giamai tanto beata. -
Così
dicendo, di morir disposta,
salta
dal letto, e di rabbia infiammata
si
pon la spada alla sinistra costa;
ma
si ravvede poi che tutta è armata.
Il
miglior spirto in questo le s'accosta,
e
nel cor le ragiona: - O donna nata
di
tant'alto lignaggio, adunque vuoi
finir
con sì gran biasmo i giorni tuoi?
Non
è meglio che al campo tu ne vada,
ove
morir si può con laude ognora?
Quivi,
s'avvien che inanzi a Ruggier cada,
del
morir tuo si dorrà forse ancora:
ma
s'a morir t'avvien per la sua spada,
chi
sarà mai che più contenta muora?
Ragione
è ben che di vita ti privi,
poi
che è cagion che in tanta pena vivi.
Verrà
forse anco che prima che muori
farai
vendetta di quella Marfisa
che
t'ha con fraudi e disonesti amori,
da
te Ruggiero alienando, uccisa. -
Questi
pensieri parveno migliori
alla
donzella; e tosto una divisa
si
fe' su l'arme, che volea inferire
disperazione
e voglia di morire.
Era
la sopraveste del colore
in
che riman la foglia che s'imbianca
quando
del ramo è tolta, o che l'umore
che
facea vivo l'arbore le manca.
Ricamata
a tronconi era, di fuore,
di
cipresso che mai non si rinfranca,
poi
che ha sentita la dura bipenne;
l'abito
al suo dolor molto convenne.
Tolse
il destrier che Astolfo aver solea,
e
quella lancia d'or, che, sol toccando,
cader
di sella i cavallier facea.
Perché
la le diè Astolfo, e dove e quando,
e
da chi prima avuta egli l'avea,
non
credo che bisogni ir replicando.
Ella
la tolse, non però sapendo
che
fosse del valor che era, stupendo.
Senza
scudiero e senza compagnia
scese
dal monte, e si pose in camino
verso
Parigi alla più dritta via,
ove
era dianzi il campo saracino;
che
la novella ancora non s'udia,
che
l'avesse Rinaldo paladino,
aiutandolo
Carlo e Malagigi,
fatto
tor da l'assedio di Parigi.
Lasciati
avea i Cadurci e la cittade
di
Caorse alle spalle, e tutto il monte
ove
nasce Dordona, e le contrade
scopria
di Monferrante e di Clarmonte,
quando
venir per le medesme strade
vide
una donna di benigna fronte,
che
uno scudo all'arcione avea attaccato;
e
le venian tre cavallieri a lato.
Altre
donne e scudier venivano anco,
qual
dietro e qual dinanzi, in lunga schiera.
Domandò
ad un che le passò da fianco,
la
figlia d'Amon, chi la donna era;
e
quel le disse: - Al re del popul franco
questa
donna, mandata messaggera
fin
di là dal polo artico, è venuta
per
lungo mar da l'Isola Perduta.
Altri
Perduta, altri ha nomata Islanda
l'isola,
donde la regina d'essa,
di
beltà sopra ogni beltà miranda,
dal
ciel non mai, se non a lei, concessa,
lo
scudo che vedete, a Carlo manda;
ma
ben con patto e condizione espressa,
che
al miglior cavallier lo dia, secondo
il
suo parer, che oggi si trovi al mondo.
Ella,
come si stima, e come in vero
è
la più bella donna che mai fosse,
così
vorria trovare un cavalliero
che
sopra ogn'altro avesse ardire e posse:
perché
fondato e fisso è il suo pensiero,
da
non cader per centomila scosse,
che
sol chi terrà in arme il primo onore,
abbia
d'esser suo amante e suo signore.
Spera
che in Francia, alla famosa corte
di
Carlo Magno, il cavallier si trove,
che
d'esser più d'ogn'altro ardito e forte
abbia
fatto veder con mille prove.
I
tre che son con lei come sue scorte,
re
sono tutti, e dirovvi anco dove:
uno
in Svezia, uno in Gotia, in Norvegia uno,
che
pochi pari in arme hanno o nessuno.
Questi
tre, la cui terra non vicina,
ma
men lontana è all'Isola Perduta
(detta
così, perché quella marina
da
pochi naviganti è conosciuta),
erano
amanti, e son, de la regina,
e
a gara per moglier l'hanno voluta;
e
per aggradir lei, cose fatt'hanno,
che,
fin che giri il ciel, dette saranno.
Ma
né questi ella, né alcun altro vuole,
che
al mondo in arme esser non creda il primo.
-
Che abbiate fatto prove (lor dir suole)
in
questi luoghi appresso, poco istimo;
e
s'un di voi, qual fra le stelle il sole,
fra
gli altri duo sarà, ben lo sublimo:
ma
non però che tenga il vanto parme
del
miglior cavallier che oggi port'arme.
A
Carlo Magno, il quale io stimo e onoro
pel
più savio signor che al mondo sia,
son
per mandare un ricco scudo d'oro,
con
patto e condizion che esso lo dia
al
cavalliero il quale abbia fra loro
il
vanto e il primo onor di gagliardia.
Sia
il cavalliero o suo vasallo o d'altri,
il
parer di quel re vo' che mi scaltri.
Se,
poi che Carlo avrà lo scudo avuto,
e
l'avrà dato a quel sì ardito e forte,
che
d'ogn'altro migliore abbia creduto,
che
'n sua si trovi o in alcun'altra corte,
uno
di voi sarà, che con l'aiuto
di
sua virtù lo scudo mi riporte;
porrò
in quello ogni amore, ogni disio,
e
quel sarà il marito e il signor mio. -
Queste
parole han qui fatto venire
questi
tre re dal mar tanto discosto,
che
riportarne lo scudo, o morire
per
man di chi l'avrà, s'hanno proposto. -
Ste'
molto attenta Bradamante a udire
quanto
le fu da lo scudier risposto;
il
qual poi l'entrò inanzi, e così punse
il
suo cavallo, che i compagni giunse.
Dietro
non gli galoppa né gli corre
ella;
che adagio il suo camin dispensa,
e
molte cose tuttavia discorre,
che
son per accadere: e in somma pensa
che
questo scudo di Francia sia per porre
discordia
e rissa e nimicizia immensa
fra
paladini ed altri, se vuol Carlo
chiarir
chi sia il miglior, e a colui darlo.
Le
preme il cor questo pensier; ma molto
più
le lo preme e strugge in peggior guisa
quel
che ebbe prima, di Ruggier, che tolto
il
suo amor le abbia e datolo a Marfisa.
Ogni
suo senso in questo è sì sepolto,
che
non mira la strada, né divisa
ove
arrivar, né se troverà inanzi
commodo
albergo ove la notte stanzi.
Come
nave, che vento da la riva,
o
qualche altro accidente abbia disciolta,
va
di nochiero e di governo priva
ove
la porti o meni il fiume in volta;
così
l'amante giovane veniva,
tutta
a pensare al suo Ruggier rivolta,
ove
vuol Rabican; che molte miglia
lontano
è il cor che de' girar la briglia.
Leva
al fin gli occhi, e vede il sol che il tergo
avea
mostrato alle città di Bocco,
e
poi s'era attuffato, come il mergo,
in
grembo alla nutrice oltr'a Marocco:
e
se disegna che la frasca albergo
le
dia ne' campi, fa pensier di sciocco;
che
soffia un vento freddo, e l'aria grieve
pioggia
la notte le minaccia o nieve.
Con
maggior fretta fa movere il piede
al
suo cavallo; e non fece via molta,
che
lasciar le campagne a un pastor vede,
che
s'avea la sua gregge inanzi tolta.
La
donna lui con molta istanza chiede
che
le 'nsegni ove possa esser raccolta
o
ben o mal; che mal sì non s'alloggia,
che
non sia peggio star fuori alla pioggia.
Disse
il pastore: - Io non so loco alcuno
che
io vi sappia insegnar, se non lontano
più
di quattro o di sei leghe, for che uno
che
si chiama la rocca di Tristano.
Ma
d'alloggiarvi non succede a ognuno;
perché
bisogna, con la lancia in mano
che
se l'acquisti e che se la difenda
il
cavallier che d'alloggiarvi intenda.
Se,
quando arriva un cavallier, si trova
vota
la stanza, il castellan l'accetta;
ma
vuol se sopravien poi gente nuova,
che
uscir fuori alla giostra gli prometta.
Se
non vien, non accade che si mova:
se
vien, forza è che l'arme si rimetta
e
con lui giostri, e chi di lor val meno.
ceda
l'albergo ed esca al ciel sereno.
Se
duo, tre, quattro o più guerrieri a un tratto
vi
giungon prima, in pace albergo v'hanno;
e
chi di poi vien solo, ha peggior patto,
perché
seco giostrar quei più lo fanno.
Così,
se prima un sol si sarà fatto
quivi
alloggiar, con lui giostrar voranno
in
duo, tre, quattro o più che verran dopo;
sì
che, s'avrà valor, gli fia a grande uopo.
Non
men, se donna capita o donzella,
accompagnata
o sola a questa rocca,
e
poi v'arrivi un'altra, alla più bella
l'albergo,
ed alla men star di fuor tocca. -
Domanda
Bradamante ove sia quella;
e
il buon pastor non pur dice con bocca,
ma
le dimostra il loco anco con mano,
da
cinque o dai sei miglia indi lontano.
La
donna, ancor che Rabican ben trotte,
solecitar
però non lo sa tanto
per
quelle vie tutte fangose e rotte
da
la stagion che era piovosa alquanto,
che
prima arrivi, che la cieca notte
fatt'abbia
oscuro il mondo in ogni canto.
Trovò
chiusa la porta; e a chi n'avea
la
guardia disse che alloggiar volea.
Rispose
quel, che era occupato il loco
da
donne e da guerrier che venner dianzi,
e
stavano aspettando intorno al fuoco
che
posta fosse lor la cena inanzi.
-
Per lor non credo l'avrà fatta il cuoco,
s'ella
v'è ancor, né l'han mangiata inanzi
(disse
la donna): or va, che qui gli attendo;
che
so l'usanza, e di servarla intendo.-
Parte
la guardia, e porta l'imbasciata
là
dove i cavallier stanno a grand'agio,
la
qual non poté lor troppo esser grata,
che
all'aer li fa uscir freddo e malvagio;
ed
era una gran pioggia incomminciata.
Si
levan pure, e piglian l'arme adagio:
restano
gli altri; e quei non troppo in fretta
escono
insieme ove la donna aspetta.
Eran
tre cavallier che valean tanto,
che
pochi al mondo valean più di loro;
ed
eran quei che il dì medesmo a canto
veduti
a quella messaggiera foro;
quei
che in Islanda s'avean dato vanto
di
Francia riportar lo scudo d'oro:
e
perché avean meglio i cavalli punti,
prima
di Bradamante eran giunti.
Di
loro in arme pochi erano migliori,
ma
di quei pochi ella sarà ben l'una;
che
a nessun patto rimaner di fuori
quella
notte intendea molle e digiuna.
Quei
dentro alle finestre e ai corridori
miran
la giostra al lume de la luna,
che
mal grado de' nugoli lo spande
e
fa veder, ben che la pioggia è grande.
Come
s'allegra un bene acceso amante
che
ai dolci furti per entrar si trova,
quando
al fin senta dopo indugie tante,
che
il taciturno chiavistel si muova;
così
volontarosa Bradamante
di
far di sé coi cavallieri prova,
s'allegrò
quando udì le porte aprire,
calare
il ponte, e fuor li vide uscire.
Tosto
che fuor del ponte i guerrier vede
uscire
insieme o con poco intervallo,
si
volge a pigliar campo, e di poi riede
cacciando
a tutta briglia il buon cavallo,
e
la lancia arrestando, che le diede
il
suo cugin, che non si corre in fallo,
che
fuor di sella è forza che trabocchi,
se
fosse Marte, ogni guerrier che tocchi.
Il
re di Svezia, che primier si mosse,
fu
primier anco a riversciarsi al piano:
con
tanta forza l'elmo gli percosse
l'asta
che mai non fu abbassata invano.
Poi
corse il re di Gotia, e ritrovosse
coi
piedi in aria al suo destrier lontano.
Rimase
il terzo sottosopra volto,
ne
l'acqua e nel pantan mezzo sepolto.
Tosto
che ella ai tre colpi tutti gli ebbe
fatto
andar coi piedi alti e i capi bassi,
alla
rocca ne va, dove aver debbe
la
notte albergo; ma prima che passi,
v'è
chi la fa giurar che n'uscirebbe,
sempre
che a giostrar fuori altri chiamassi.
Il
signor de là dentro, che il valore
ben
n'ha veduto, le fa grande onore.
Così
le fa la donna che venuta
era
con quegli tre quivi la sera,
come
io dicea, da l'Isola Perduta,
mandata
al re di Francia messaggiera.
Cortesemente
a lei che la saluta,
sì
come graziosa e affabil era,
si
leva incontra, e con faccia serena
piglia
per mano, e seco al fuoco mena.
La
donna, cominciando a disarmarsi,
s'avea
lo scudo e dipoi l'elmo tratto;
quando
una cuffia d'oro, in che celarsi
soleano
i capei lunghi e star di piatto,
uscì
con l'elmo; onde caderon sparsi
giù
per le spalle, e la scopriro a un tratto
e
la feron conoscer per donzella,
non
men che fiera in arme, in viso bella.
Quale
al cader de le cortine suole
parer
fra mille lampade la scena,
d'archi
e di più d'una superba mole,
d'oro
e di statue e di pitture piena;
o
come suol fuor de la nube il sole
scoprir
la faccia limpida e serena:
così,
l'elmo levandosi dal viso,
mostrò
la donna aprisse il paradiso.
Già
son cresciute e fatte lunghe in modo
le
belle chiome che tagliolle il frate,
che
dietro al capo ne può fare un nodo,
ben
che non sian come son prima state.
Che
Bradamante sia, tien fermo e sodo
(che
ben l'avea veduta altre fiate)
il
signor de la rocca; e più che prima
or
l'accarezza e mostra farne stima.
Siedono
al fuoco, e con giocondo e onesto
ragionamento
dan cibo all'orecchia,
mentre,
per ricreare ancora il resto
del
corpo, altra vivanda s'apparecchia.
La
donna all'oste domandò se questo
modo
d'albergo è nuova usanza o vecchia,
e
quando ebbe principio, e chi la pose;
e
il cavalliero a lei così rispose:
-
Nel tempo che regnava Fieramonte,
Clodione,
il figliuolo, ebbe una amica
leggiadra
e bella e di maniere conte
quant'altra
fosse a quella etade antica;
la
quale amava tanto, che la fronte
non
rivolgea da lei, più che si dica
che
facesse da Ione il suo pastore,
perche
avea ugual la gelosia all'amore.
Qui
la tenea; che il luogo avuto in dono
avea
dal padre, e raro egli n'uscia;
e
con lui dieci cavallier ci sono,
e
dei miglior di Francia tuttavia.
Qui
stando, venne a capitarci il buono
Tristano,
ed una donna in compagnia,
liberata
da lui poche ore inante,
che
traea presa a forza un fier gigante.
Tristano
ci arrivò che il sol già volto
avea
le spalle ai liti di Siviglia;
e
domandò qui dentro esser raccolto,
perché
non c'è altra stanza a dieci miglia.
Ma
Clodion, che molto amava e molto
era
geloso, in somma si consiglia
che
forestier, sia chi si voglia, mentre
ci
stia la bella donna, qui non entre.
Poi
che con lunghe ed iterate preci
non
poté aver qui albergo il cavalliero:
-
Or quel che far con prieghi io non ti feci,
che
il facci (disse) tuo mal grado, spero, -
E
sfidò Clodion con tutti i dieci
che
tenea appresso, e con un grido altiero
se
gli offerse con lancia e spada in mano
provar
che discortese era e villano;
con
patto, che se fa che con lo stuolo
suo
cada in terra, ed ei stia in sella forte,
ne
la rocca alloggiar vuole egli solo,
e
vuol gli altri serrar fuor de le porte.
Per
non patir quest'onta, va il figliuolo
del
re di Francia a rischio de la morte;
che
aspramente percosso cade in terra,
e
cadon gli altri, e Tristan fuor li serra.
Entrato
ne la rocca, trova quella
la
qual v'ho detta a Clodion sì cara,
e
che avea, a par d'ogn'altra, fatto bella
Natura,
a dar bellezze così avara.
Con
lei ragiona: intanto arde e martella
di
fuor l'amante aspra passione amara;
il
qual non differisce a mandar prieghi
al
cavallier, che dar non gli la nieghi.
Tristano,
ancor che lei molto non prezze,
né
prezzar, fuor che Isotta, altra potrebbe
(che
altra né che ami vuol né che accarezze
la
pozion che già incantata bebbe),
pur,
perché vendicarsi de l'asprezze
che
Clodion gli ha usate si vorebbe:
-
Di far gran torto mi parria (gli disse)
che
tal bellezza del suo albergo uscisse.
E
quando a Clodion dormire incresca
solo
alla frasca, e compagnia domandi,
una
giovane ho meco bella e fresca,
non
però di bellezze così grandi.
Questa
sarò contento che fuor esca,
e
che ubbidisca a tutti i suoi comandi;
ma
la più bella mi par dritto e giusto
che
stia con quel di noi che è più robusto. -
Escluso
Clodione e malcontento,
andò
sbuffando tutta notte in volta,
come
s'a quei che ne l'alloggiamento
dormiano
ad agio, fêsse egli l'ascolta;
e
molto più che del freddo e del vento,
si
dolea de la donna che gli è tolta.
La
mattina Tristano a cui ne 'ncrebbe,
gli
la rendé, donde il dolor fin ebbe:
perché
gli disse, e lo fe' chiaro e certo,
che
qual trovolla, tal gli la rendea;
e
ben che degno era d'ogni onta in merto
de
la discortesia che usata avea,
pur
contentar d'averlo allo scoperto
fatto
star tutta notte si volea:
né
l'escusa accettò, che fosse Amore
stato
cagion di così grave errore;
che
Amor de' far gentile un cor villano,
e
non far d'un gentil contrario effetto.
Partito
che si fu di qui Tristano,
Clodion
non ste' molto a mutar tetto;
ma
prima consegnò la rocca in mano
a
un cavallier, che molto gli era accetto,
con
patto che egli e chi da lui venisse,
quest'uso
in albergar sempre seguisse:
che
il cavallier che abbia maggior possanza,
e
la donna beltà, sempre ci alloggi;
e
chi vinto riman, voti la stanza,
dorma
sul prato, o altrove scenda e poggi.
E
finalmente ci fe' por l'usanza
che
vedete durar fin al dì d'oggi. -
Or,
mentre il cavallier questo dicea,
lo
scalco por la mensa fatto avea.
Fatto
l'avea ne la gran sala porre,
di
che non era al mondo la più bella;
indi
con torchi accesi venne a torre
le
belle donne, e le condusse in quella.
Bradamante,
all'entrar, con gli occhi scorre,
e
similmente fa l'altra donzella;
e
tutte piene le superbe mura
veggon
di nobilissima pittura.
Di
sì belle figure è adorno il loco,
che
per mirarle oblian la cena quasi,
ancor
che ai corpi non bisogni poco,
pel
travaglio del dì lassi rimasi,
e
lo scalco si doglia e doglia il coco,
che
i cibi lascin raffreddar nei vasi.
Pur
fu chi disse: - Meglio fia che voi
pasciate
prima il ventre, e gli occhi poi. -
S'erano
assisi, e porre alle vivande
voleano
man, quando il signor s'avide
che
l'alloggiar due donne è un error grande:
l'una
ha da star, l'altra convien che snide.
Stia
la più bella, e la men fuor si mande,
dove
la pioggia bagna e il vento stride.
Perché
non vi son giunte amendue a un'ora,
l'una
ha a partire, e l'altra a far dimora.
Chiama
duo vecchi, e chiama alcune sue
donne
di casa, a tal giudizio buone;
e
le donzelle mira, e di lor due
chi
la più bella sia, fa paragone.
Finalmente
parer di tutti fue
che
era più bella la figlia d'Amone;
e
non men di beltà l'altra vincea,
che
di valore i guerrier vinti avea.
Alla
donna d'Islanda, che non sanza
molta
sospizion stava di questo,
il
signor disse: - Che serviàn l'usanza,
non
v'ha, donna, a parer se non onesto.
A
voi convien procacciar d'altra stanza,
quando
a noi tutti è chiaro e manifesto
che
costei di bellezze e di sembianti,
ancor
che inculta sia, vi passa inanti. -
Come
si vede in un momento oscura
nube
salir d'umida valle al cielo,
che
la faccia che prima era sì pura
cuopre
del sol con tenebroso velo;
così
la donna alla sentenza dura
che
fuor la caccia ove è la pioggia e il gielo,
cangiar
si vide, e non parer più quella
che
fu pur dianzi sì gioconda e bella.
S'impallidisce
e tutta cangia in viso,
che
tal sentenza udir poco le aggrada.
Ma
Bradamante con un saggio aviso,
che
per pietà non vuol che se ne vada,
rispose:
- A me non par che ben deciso,
né
che ben giusto alcun giudicio cada,
ove
prima non s'oda quanto nieghi
la
parte o affermi, e sue ragioni alleghi.
Io
che a difender questa causa toglio,
dico:
o più bella o men che io sia di lei,
non
venni come donna qui, né voglio
che
sian di donna ora i progressi miei.
Ma
chi dirà, se tutta non mi spoglio,
s'io
sono o s'io non son quel che è costei?
E
quel che non si sa non si de' dire,
e
tanto men, quando altri n'ha a patire.
Ben
son degli altri ancor, c'hanno le chiome
lunghe,
com'io, né donne son per questo.
Se
come cavallier la stanza, o come
donna
acquistata m'abbia, è manifesto:
perché
dunque volete darmi nome
di
donna, se di maschio è ogni mio gesto?
La
legge vostra vuol che ne sian spinte
donne
da donne, e non da guerrier vinte.
Poniamo
ancor, che, come a voi pur pare,
io
donna sia (che non però il concedo),
ma
che la mia beltà non fosse pare
a
quella di costei; non però credo
che
mi vorreste la mercé levare
di
mia virtù, se ben di viso io cedo.
Perder
per men beltà giusto non parmi
quel
c'ho acquistato per virtù con l'armi.
E
quando ancor fosse l'usanza tale,
che
chi perde in beltà ne dovesse ire,
io
ci vorrei restare, o bene o male
che
la mia ostinazion dovesse uscire.
Per
questo, che contesa diseguale
è
tra me e questa donna, vo' inferire
che,
contendendo di beltà, può assai
perdere,
e meco guadagnar non mai.
E
se guadagni e perdite non sono
in
tutto pari, ingiusto è ogni partito:
sì
che a lei per ragion, sì ancor per dono
spezial,
non sia l'albergo proibito.
E
s'alcuno di dir che non sia buono
e
dritto il mio giudizio sarà ardito,
sarò
per sostenergli a suo piacere,
che
il mio sia vero, e falso il suo parere. -
La
figliuola d'Amon, mossa a pietade
che
questa gentil donna debba a torto
esser
cacciata ove la pioggia cade,
ove
né tetto, ove né pure è un sporto,
al
signor de l'albergo persuade
con
ragion molte e con parlare accorto,
ma
molto più con quel che al fin concluse,
che
resti cheto e accetti le sue scuse.
Qual
sotto il più cocente ardore estivo,
quando
di ber più desiosa è l'erba,
il
fior che era vicino a restar privo
di
tutto quell'umor che in vita il serba,
sente
l'amata pioggia e si fa vivo;
così,
poi che difesa sì superba
si
vide apparecchiar la messaggera,
lieta
e bella tornò come prim'era.
La
cena, stata lor buon pezzo avante,
né
ancor pur tocca, al fin godersi in festa,
senza
che più di cavalliero errante
nuova
venuta fosse lor molesta.
La
goder gli altri, ma non Bradamante,
pure
all'usanza addolorata e mesta;
che
quel timor, che quel sospetto ingiusto
che
sempre avea nel cor, le tollea il gusto.
Finita
che ella fu (che saria forse
stata
più lunga, se il desir non era
di
cibar gli occhi), Bradamante sorse,
e
sorse appresso a lei la messaggera.
Accennò
quel signore ad un che corse
e
prestamente allumò molta cera,
che
splender fe' la sala in ogni canto.
Quel
che seguì dirò ne l'altro canto.
CANTO
TRENTATREESIMO
Timagora,
Parrasio, Polignoto,
Protogene,
Timante, Apollodoro,
Apelle,
più di tutti questi noto,
e
Zeusi, e gli altri che a quei tempi foro;
di
quai la fama (mal grado di Cloto,
che
spinse i corpi e dipoi l'opre loro)
sempre
starà, fin che si legga e scriva,
mercé
degli scrittori, al mondo viva:
e
quei che furo a' nostri dì, o sono ora,
Leonardo,
Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo
Dossi, e quel che a par sculpe e colora,
Michel,
più che mortale, angel divino;
Bastiano,
Rafael, Tizian, che onora
non
men Cador, che quei Venezia e Urbino;
e
gli altri di cui tal l'opra si vede,
qual
de la prisca età si legge e crede:
questi
che noi veggiàn pittori, e quelli
che
già mille e mill'anni in pregio furo,
le
cose che son state, coi pennelli
fatt'hanno,
altri su l'asse, altri sul muro.
Non
però udiste antiqui, né novelli
vedeste
mai dipingere il futuro:
e
pur si sono istorie anco trovate,
che
son dipinte inanzi che sian state.
Ma
di saperlo far non si dia vanto
pittore
antico né pittor moderno;
e
ceda pur quest'arte al solo incanto,
del
qual trieman gli spirti de lo 'nferno.
La
sala che io dicea ne l'altro canto,
Merlin
col libro, o fosse al lago Averno,
o
fosse sacro alle Nursine grotte,
fece
far dai demonii in una notte.
Quest'arte,
con che i nostri antiqui fenno
mirande
prove, a nostra etade è estinta.
Ma
ritornando ove aspettar mi denno
quei
che la sala hanno a veder dipinta,
dico
che a uno scudier fu fatto cenno,
che
accese i torchi; onde la notte, vinta
dal
gran splendor, si dileguò d'intorno;
né
più vi si vedria, se fosse giorno.
Quel
signor disse lor: - Vo' che sappiate,
che
de le guerre che son qui ritratte,
fin
al dì d'oggi poche ne son state;
e
son prima dipinte, che sian fatte.
Chi
l'ha dipinte, ancor l'ha indovinate.
Quando
vittoria avran, quando disfatte
in
Italia saran le genti nostre,
potrete
qui veder come si mostre.
Le
guerre che i Franceschi da far hanno
di
là da l'Alpe, o bene o mal successe,
dal
tempo suo fin al millesim'anno,
Merlin
profeta in questa sala messe;
il
qual mandato fu dal re britanno
al
franco re che a Marcomir successe:
e
perché lo mandassi, e perché fatto
da
Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto.
Re
Fieramonte, che passò primiero
con
l'esercito franco in Gallia il Reno,
poi
che quella occupò, facea pensiero
di
porre alla superba Italia il freno.
Faceal
perciò, che più il romano Impero
vedea
di giorno in giorno venir meno:
e
per tal causa col britanno Arturo
volse
far lega; che ambi a un tempo furo.
Artur,
che impresa ancor senza consiglio
del
profeta Merlin non fece mai,
di
Merlin, dico, del demonio figlio,
che
del futuro antivedeva assai,
per
lui seppe, e saper fece il periglio
a
Fieramonte, a che di molti guai
porrà
sua gente, s'entra ne la terra
che
Apenin parte, e il mare e l'Alpe serra.
Merlin
gli fe' veder che quasi tutti
gli
altri che poi di Francia scettro avranno,
o
di ferro gli eserciti distrutti,
o
di fame o di peste si vedranno;
e
che brevi allegrezze e lunghi lutti,
poco
guadagno ed infinito danno
riporteran
d'Italia; che non lice
che
il Giglio in quel terreno abbia radice.
Re
Fieramonte gli prestò tal fede,
che
altrove disegnò volger l'armata;
e
Merlin, che così la cosa vede,
che
abbia a venir, come se già sia stata,
avere
a' prieghi di quel re si crede
la
sala per incanto istoriata,
ove
dei Franchi ogni futuro gesto,
come
già stato sia, fa manifesto.
Acciò
chi poi succederà, comprenda
che,
come ha d'acquistar vittoria e onore,
qualor
d'Italia la difesa prenda
incontra
ogn'altro barbaro furore;
così,
s'avvien che a danneggiarla scenda,
per
porle il giogo e farsene signore,
comprenda,
dico, e rendasi ben certo
che
oltre a quei monti avrà il sepulcro aperto. -
Così
disse; e menò le donne dove
incomincian
l'istorie: e Singiberto
fa
lor veder, che per tesor si muove,
che
gli ha Maurizio imperatore offerto.
-
Ecco che scende dal monte di Giove
nel
pian da l'Ambra e dal Ticino aperto.
Vedete
Eutar, che non pur l'ha respinto,
ma
volto in fuga e fracassato e vinto.
Vedete
Clodoveo, che a più di cento
mila
persone fa passare il monte:
vedete
il duca là di Benevento,
che
con numer dispar vien loro a fronte.
Ecco
finge lasciar l'alloggiamento,
e
pon gli aguati: ecco, con morti ed onte,
al
vin lombardo la gente francesca
corre,
e riman come la lasca all'esca.
Ecco
in Italia Childiberto quanta
gente
di Francia e capitani invia;
né
più che Clodoveo, si gloria e vanta
che
abbia spogliata o vinta Lombardia;
che
la spada del ciel scende con tanta
strage
de' suoi, che n'è piena ogni via,
morti
di caldo e di profluvio d'alvo;
sì
che di dieci un non ne torna salvo.
Mostra
Pipino, e mostra Carlo appresso,
come
in Italia un dopo l'altro scenda,
e
v'abbia questo e quel lieto successo,
che
venuto non v'è perché l'offenda;
ma
l'uno, acciò il pastor Stefano oppresso,
l'altro
Adriano, e poi Leon difenda:
l'un
doma Aistulfo, e l'altro vince e prende
il
successore, e al papa il suo onor rende.
Lor
mostra appresso un giovene Pipino,
che
con sua gente par che tutto cuopra
da
le Fornaci al lito pelestino;
e
faccia con gran spesa e con lung'opra
il
ponte a Malamocco, e che vicino
giunga
a Rialto, e vi combatta sopra.
Poi
fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto
l'acque;
che il ponte il vento e il mar gli han rotto.
-
Ecco Luigi Borgognon, che scende
là
dove par che resti vinto e preso,
e
che giurar gli faccia chi lo prende,
che
più da l'arme sue non sarà offeso.
Ecco
che il giuramento vilipende;
ecco
di nuovo cade al laccio teso;
ecco
vi lascia gli occhi, e come talpe
lo
riportano i suoi di qua da l'Alpe.
Vedete
un Ugo d'Arli far gran fatti,
e
che d'Italia caccia i Berengari;
e
due o tre volte gli ha rotti e disfatti,
or
dagli Unni rimessi, or dai Bavari.
Poi
da più forza è stretto di far patti
con
l'inimico, e non sta in vita guari;
né
guari dopo lui vi sta l'erede,
e
il regno intero a Berengario cede.
Vedete
un altro Carlo, che a' conforti
del
buon Pastor fuoco in Italia ha messo;
e
in due fiere battaglie ha duo re morti,
Manfredi
prima, e Coradino appresso.
Poi
la sua gente, che con mille torti
sembra
tenere il nuovo regno oppresso,
di
qua e di là per le città divisa,
vedete
a un suon di vespro tutta uccisa. -
Lor
mostra poi (ma vi parea intervallo
di
molti e molti, non che anni, ma lustri)
scender
dai monti un capitano Gallo,
e
romper guerra ai gran Visconti illustri;
e
con gente francesca a piè e a cavallo
par
che Alessandria intorno cinga e lustri;
e
che il duca il presidio dentro posto,
e
fuor abbia l'aguato un po' discosto;
e
la gente di Francia malaccorta,
tratta
con arte ove la rete è tesa,
col
conte Armeniaco, la cui scorta
l'avea
condotta all'infelice impresa,
giaccia
per tutta la campagna morta,
parte
sia tratta in Alessandria presa:
e
di sangue non men che d'acqua grosso,
il
Tanaro si vede il Po far rosso.
Un,
detto de la Marca, e tre Angioini
mostra
l'un dopo l'altro, e dice: - Questi
a
Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini
vedete
come son spesso molesti.
Ma
né de' Franchi val né de' Latini
aiuto
sì, che alcun di lor vi resti:
ecco
li caccia fuor del regno, quante
volte
vi vanno, Alfonso e poi Ferrante.
Vedete
Carlo ottavo, che discende
da
l'Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia,
che
passa il Liri e tutto il regno prende
senza
mai stringer spada o abbassar lancia,
fuor
che lo scoglio che a Tifeo si stende
su
le braccia, sul petto e su la pancia;
che
del buon sangue d'Avalo al contrasto
la
virtù trova d'Inico del Vasto. -
Il
signor de la rocca, che venìa
quest'istoria
additando a Bradamante,
mostrato
che l'ebbe Ischia, disse: - Pria
che
a vedere altro più vi meni avante,
io
vi dirò quel che a me dir solia
il
bisavolo mio, quand'io era infante,
e
quel che similmente mi dicea
che
da suo padre udito anche esso avea;
e
il padre suo da un altro, o padre o fosse
avolo,
e l'un da l'altro sin a quello
che
a udirlo da quel proprio ritrovosse,
che
l'imagini fe' senza pennello,
che
qui vedete bianche, azzurre e rosse:
udì
che, quando al re mostrò il castello
che
or mostro a voi su quest'altiero scoglio,
gli
disse quel che a voi riferir voglio.
Udì
che gli dicea che in in questo loco
di
quel buon cavallier che lo difende
con
tanto ardir, che par disprezzi il fuoco
che
d'ogn'intorno e sino al Faro incende,
nascer
debbe in quei tempi o dopo poco
(e
ben gli disse l'anno e le calende)
un
cavalliero, a cui sarà secondo
ogn'altro
che sin qui sia stato al mondo.
Non
fu Nireo sì bel, non sì eccellente
di
forze Achille, e non sì ardito Ulisse,
non
sì veloce Lada, non prudente
Nestor,
che tanto seppe e tanto visse,
non
tanto liberal, tanto clemente,
l'antica
fama Cesare descrisse;
che
verso l'uom che in Ischia nascer deve,
non
abbia ogni lor vanto a restar lieve.
E
se si gloriò l'antiqua Creta,
quando
il nipote in lei nacque di Celo,
se
Tebe fece Ercole e Bacco lieta,
se
si vantò dei duo gemelli Delo;
né
questa isola avrà da starsi cheta,
che
non s'esalti e non si levi in cielo,
quando
nascerà in lei quel gran marchese
che
avrà sì d'ogni grazia il ciel cortese.
Merlin
gli disse, e replicògli spesso,
che
era serbato a nascere all'etade
che
più il romano Imperio saria oppresso,
acciò
per lui tornasse in libertade.
Ma
perché alcuno de' suoi gesti appresso
vi
mostrerò, predirli non accade. -
Così
disse; e tornò all'istoria dove
di
Carlo si vedean l'inclite prove.
-
Ecco (dicea) sì pente Ludovico
d'aver
fatto in ltalia venir Carlo;
che
sol per travagliar l'emulo antico
chiamato
ve l'avea, non per cacciarlo;
e
se gli scuopre al ritornar nimico
con
Veneziani in lega, e vuol pigliarlo.
Ecco
la lancia il re animoso abbassa,
apre
la strada e, lor mal grado, passa.
Ma
la sua gente che a difesa resta
del
nuovo regno, ha ben contraria sorte;
che
Ferrante, con l'opra che gli presta
il
signor mantuan, torna sì forte,
che
in pochi mesi non ne lascia testa,
o
in terra o in mar, che non sia messa a morte:
poi
per un uom che gli è con fraude estinto,
non
par che senta il gaudio d'aver vinto. -
Così
dicendo, mostragli il marchese
Alfonso
di Pescara, e dice: - Dopo
che
costui comparito in mille imprese
sarà
più risplendente che piropo,
ecco
qui ne l'insidie che gli ha tese
con
un trattato doppio il rio Etiopo,
come
scannato di saetta cade
il
miglior cavallier di quella etade.
Poi
mostra ove il duodecimo Luigi
passa
con scorta italiana i monti,
e
svelto il Moro, pon la Fiordaligi
nel
fecondo terren già de' Visconti.
Indi
manda sua gente pei vestigi
di
Carlo, a far sul Garigliano i ponti;
la
quale appresso andar rotta e dispersa
si
vede, e morta e nel fiume summersa.
Vedete
in Puglia non minor macello
de
l'esercito franco in fuga volto;
e
Consalvo Ferrante ispano è quello
che
due volte alla trappola l'ha colto.
E
come qui turbato, così bello
mostra
Fortuna al re Luigi il volto
nel
ricco pian che, fin dove Adria stride,
tra
l'Apenino e l'Alpe il Po divide. -
Così
dicendo, se stesso riprende
che
quel che avea a dir prima abbia lasciato;
e
torna a dietro, e mostra uno che vende
il
castel che il signor suo gli avea dato;
mostra
il perfido Svizzero che prende
colui
che a sua difesa l'ha assoldato:
le
quai due cose, senza abbassar lancia,
han
dato la vittoria al re di Francia.
Poi
mostra Cesar Borgia col favore
di
questo re farsi in Italia grande;
che
ogni baron di Roma, ogni signore
suggietto
a lei, par che in esilio mande.
Poi
mostra il re che di Bologna fuore
leva
la Sega, e vi fa entrar le Giande;
poi
come volge i Genovesi in fuga
fatti
ribelli, e la città suggiuga.
-
Vedete (dice poi) di gente morta
coperta
in Giaradada la campagna.
Par
che apra ogni cittade al re la porta,
e
che Venezia a pena vi rimagna.
Vedete
come al papa non comporta
che,
passati i confini di Romagna,
Modana
al duca di Ferrara toglia,
né
qui si fermi, e il resto tor gli voglia:
e
fa, all'incontro, a lui Bologna torre;
che
v'entra la Bentivola famiglia.
Vedete
il campo de' Francesi porre
a
sacco Brescia, poi che la ripiglia;
e
quasi a un tempo Felsina soccorre,
e
il campo ecclesiastico sgombiglia:
e
l'uno e l'altro poi nei luoghi bassi
par
si riduca del lito de Chiassi.
Di
qua la Francia, e di là il campo ingrossa
la
gente ispana; e la battaglia è grande.
Cader
si vede e far la terra rossa
la
gente d'arme in amendua le bande.
Piena
di sangue uman pare ogni fossa:
Marte
sta in dubbio u' la vittoria mande.
Per
virtù d'un Alfonso al fin si vede
che
resta il Franco, e che l'Ispano cede,
e
che Ravenna saccheggiata resta.
Si
morde il papa per dolor le labbia,
e
fa da' monti, a guisa di tempesta,
scendere
in fretta una tedesca rabbia,
che
ogni Francese, senza mai far testa,
di
qua da l'Alpe par che cacciat'abbia,
e
che posto un rampollo abbia del Moro
nel
giardino onde svelse i Gigli d'oro.
Ecco
torna il Francese: eccolo rotto
da
l'infedele Elvezio che in suo aiuto
con
troppo rischio ha il giovine condotto,
del
quale il padre avea preso e venduto.
Vedete
poi l'esercito, che sotto
la
ruota di Fortuna era caduto,
creato
il novo re, che si prepara
de
l'onta vendicar che ebbe a Novara:
e
con migliore auspizio ecco ritorna.
Vedete
il re Francesco inanzi a tutti,
che
così rompe a' Svizzeri le corna,
che
poco resta a non gli aver distrutti:
sì
che il titolo mai più non gli adorna,
che
usurpato s'avran quei villan brutti,
che
domator de' principi, e difesa
si
nomeran de la cristiana Chiesa.
Ecco,
mal grado de la lega, prende
Milano,
e accorda il giovene Sforzesco.
Ecco
Borbon che la città difende
pel
re di Francia dal furor tedesco.
Eccovi
poi, che mentre altrove attende
ad
altre magne imprese il re Francesco,
né
sa quanta superbia e crudeltade
usino
i suoi, gli è tolta la cittade.
Ecco
un altro Francesco che assimiglia
di
virtù all'avo, e non di nome solo;
che,
fatto uscirne i Galli, si ripiglia
col
favor de la Chiesa il patrio suolo.
Francia
anco torna, ma ritien la briglia,
né
scorre Italia, come suole, a volo;
che
il bon duca di Mantua sul Ticino
le
chiude il passo, e le taglia il camino.
Federico,
che ancor non ha la guancia
de'
primi fiori sparsa, si fa degno
di
gloria eterna, che abbia con la lancia,
ma
più con diligenza e con ingegno,
Pavia
difesa dal furor di Francia,
e
del Leon del mar rotto il disegno.
Vedete
duo marchesi, ambi terrore
di
nostre genti, ambi d'Italia onore;
ambi
d'un sangue, ambi in un nido nati.
Di
quel marchese Alfonso il primo è figlio,
il
qual tratto dal Negro negli aguati,
vedeste
il terren far di sé vermiglio.
Vedete
quante volte son cacciati
d'Italia
i Franchi pel costui consiglio.
L'altro
di sì benigno e lieto aspetto
il
Vasto signoreggia, e Alfonso è detto.
-
Questo è il buon cavallier, di cui dicea,
quando
l'isola d'Ischia vi mostrai,
che
già profetizzando detto avea
Merlino
a Fieramonte cose assai:
che
diferire a nascere dovea
nel
tempo che d'aiuto più che mai
l'afflitta
Italia, la Chiesa e l'Impero
contra
ai barbari insulti avria mistiero.
Costui
dietro al cugin suo di Pescara
con
l'auspicio di Prosper Colonnese,
vedete
come la Bicocca cara
fa
parere all'Elvezio e più al Francese.
Ecco
di nuovo Francia si prepara
di
ristaurar le mal successe imprese:
scende
il re con un campo in Lombardia,
un
altro per pigliar Napoli invia.
Ma
quella che di noi fa come il vento
d'arida
polve, che l'aggira in volta,
la
leva fin al cielo, e in un momento
a
terra la ricaccia, onde l'ha tolta;
fa
che intorno a Pavia crede di cento
mila
persone aver fatto raccolta
il
re, che mira a quel che di man gli esce,
non
se la gente sua si scema o cresce.
Così
per colpa de' ministri avari,
e
per bontà del re che se ne fida,
sotto
l'insegne si raccoglion rari,
quando
la notte il campo all'arme grida,
che
si vede assalir dentro ai ripari
dal
sagace Spagnuol, che con la guida
di
duo del sangue d'Avalo ardiria
farsi
nel cielo e ne lo 'nferno via.
Vedete
il meglio de la nobiltade
di
tutta Francia alla campagna estinto.
Vedete
quante lance e quante spade
han
d'ogn'intorno il re animoso cinto;
vedete
che il destrier sotto gli cade:
né
per questo si rende o chiama vinto,
ben
che a lui solo attenda, a lui sol corra
lo
stuol nimico, e non è chi il soccorra.
Il
re gagliardo si difende a piede,
e
tutto de l'ostil sangue si bagna:
ma
virtù al fine a troppa forza cede.
Ecco
il re preso, ed eccolo in Ispagna:
ed
a quel di Pescara dar si vede,
ed
a chi mai da lui non si scompagna,
a
quel del Vasto, le prime corone
del
campo rotto e del gran re prigione.
Rotto
a Pavia l'un campo, l'altro che era,
per
dar travaglio a Napoli, in camino,
restar
si vede, come, se la cera
gli
manca o l'oglio, resta il lumicino.
Ecco
che il re ne la prigione ibera
lascia
i figliuoli, e torna al suo domìno:
ecco
fa a un tempo egli in Italia guerra;
ecco
altri la fa a lui ne la sua terra.
Vedete
gli omicidi e le rapine
in
ogni parte far Roma dolente;
e
con incendi e stupri le divine
e
le profane cose ire ugualmente.
Il
campo de la lega le ruine
mira
d'appresso, e il pianto e il grido sente;
e
dove ir dovria inanzi, torna indietro,
e
prender lascia il successor di Pietro.
Manda
Lotrecco il re con nuove squadre,
non
più per fare in Lombardia l'impresa,
ma
per levar de le mani empie e ladre
il
capo e l'altre membra de la Chiesa;
che
tarda sì, che trova al Santo Padre
non
esser più la libertà contesa.
Assedia
la cittade ove sepolta
è
la sirena, e tutto il regno volta.
Ecco
l'armata imperial si scioglie
per
dar soccorso alla città assediata;
ed
ecco il Doria che la via le toglie,
e
l'ha nel mar sommersa, arsa e spezzata.
Ecco
Fortuna come cangia voglie,
sin
qui a' Francesi sì propizia stata;
che
di febbre gli uccide, e non di lancia,
sì
che di mille un non ne torna in Francia. -
La
sala queste ed altre istorie molte,
che
tutte saria lungo riferire,
in
vari e bei colori avea raccolte;
che
era ben tal che le potea capire.
Tornano
a rivederle due e tre volte,
né
par che se ne sappiano partire;
e
rilegon più volte quel che in oro
si
vedea scritto sotto il bel lavoro.
Le
belle donne e gli altri quivi stati
mirando
e ragionando insieme un pezzo,
fur
dal signore a riposar menati,
che
onorar gli osti suoi molt'era avezzo.
Già
sendo tutti gli altri addormentati,
Bradamante
a corcar si va da sezzo,
e
si volta or su questo or su quel fianco,
né
può dormir sul destro né sul manco.
Pur
chiude alquanto appresso all'alba i lumi,
e
di veder le pare il suo Ruggiero,
il
qual le dica: - Perché ti consumi,
dando
credenza a quel che non è vero?
Tu
vedrai prima all'erta andare i fiumi,
che
ad altri mai, che a te, volga il pensiero.
S'io
non amassi te, né il cor potrei
né
le pupille amar degli occhi miei. -
E
par che le suggiunga: - Io son venuto
per
battezzarmi e far quanto ho promesso;
e
s'io son stato tardi, m'ha tenuto
altra
ferita, che d'amore, oppresso. -
Fuggesi
in questo il sonno, né veduto
è
più Ruggier che se ne va con esso.
Rinuova
allora i pianti la donzella,
e
ne la mente sua così favella:
-
Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo
che
mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero.
Il
ben fu sogno a dileguarsi presto,
ma
non è sogno il martire aspro e fiero.
Perche
or non ode e vede il senso desto
quel
che udire e veder parve al pensiero?
A
che condizione, occhi miei, sete,
che
chiusi il ben, e aperti il mal vedete?
Il
dolce sonno mi promise pace,
ma
l'amaro veggiar mi torna in guerra:
il
dolce sonno è ben stato fallace,
ma
l'amaro veggiare, ohimè! non erra.
Se
il vero annoia, e il falso sì mi piace,
non
oda o vegga mai più vero in terra:
se
il dormir mi dà gaudio, e il veggiar guai,
possa
io dormir senza destarmi mai.
O
felice animai che un sonno forte
sei
mesi tien senza mai gli occhi aprire!
Che
s'assimigli tal sonno alla morte,
tal
veggiare alla vita, io non vo' dire;
che
a tutt'altre contraria la mia sorte
sente
morte a veggiar, vita a dormire:
ma
s'a tal sonno morte s'assimiglia,
deh,
Morte, or ora chiudimi le ciglia! -
De
l'orizzonte il sol fatte avea rosse
l'estreme
parti, e dileguato intorno
s'eran
le nubi, e non parea che fosse
simile
all'altro il cominciato giorno;
quando
svegliata Bradamante armosse
per
fare a tempo al suo camin ritorno,
rendute
avendo grazie a quel signore
del
buono albergo e de l'avuto onore.
E
trovò che la donna messaggera,
con
damigelle sue, con suoi scudieri
uscita
de la rocca, venut'era
là
dove l'attendean quei tre guerrieri;
quei
che con l'asta d'oro essa la sera
fatto
avea riversar giù dei destrieri,
e
che patito avean con gran disagio
la
notte l'acqua e il vento e il ciel malvagio.
Arroge
a tanto mal, che a corpo voto
ed
essi e i lor cavalli eran rimasi,
battendo
i denti e calpestando il loto:
ma
quasi lor più incresce, e senza quasi
incresce
e preme più, che farà noto
la
messaggera, appresso agli altri casi,
alla
sua donna, che la prima lancia
gli
abbia abbattuti, c'han trovata in Francia.
E
presti o di morire, o di vendetta
subito
far del ricevuto oltraggio,
acciò
la messaggera, che fu detta
Ullania,
che nomata più non aggio,
la
mala opinion che avea concetta
forse
di lor, si tolga del coraggio,
la
figliuola d'Amon sfidano a giostra,
tosto
che fuor del ponte ella si mostra;
non
pensando però che sia donzella,
che
nessun gesto di donzella avea.
Bradamante
ricusa, come quella
che
in fretta gìa, né soggiornar volea.
Pur
tanto e tanto fur molesti, che ella,
che
negar senza biasmo non potea,
abbassò
l'asta, ed a tre colpi in terra
li
mandò tutti; e qui finì la guerra:
che
senza più voltarsi mostrò loro
lontan
le spalle, e dileguossi tosto.
Quei
che, per guadagnar lo scudo d'oro,
di
paese venian tanto discosto,
poi
che senza parlar ritti si foro,
che
ben l'avean con ogni ardir deposto,
stupefatti
parean di maraviglia,
né
verso Ullania ardian d'alzar le ciglia;
che
con lei molte volte per camino
dato
s'avean troppo orgogliosi vanti:
che
non è cavallier né paladino
che
al minor di lor tre durasse avanti.
La
donna, perché ancor più a capo chino
vadano,
e più non sian così arroganti,
fa
lor saper che fu femina quella,
non
paladin, che li levò di sella.
-
Or che dovete (diceva ella), quando
così
v'abbia una femina abbattuti,
pensar
che sia Rinaldo o che sia Orlando,
non
senza causa in tant'onore avuti?
S'un
d'essi avrà lo scudo, io vi domando
se
migliori di quel che siate suti
contra
una donna, contra lor sarete?
Non
credo io già, né voi forse il credete.
Questo
vi può bastar; né vi bisogna
del
valor vostro aver più chiara prova:
e
quel di voi che temerario aggogna
far
di sé in Francia esperienza nuova,
cerca
giungere il danno alla vergogna
in
che ieri ed oggi s'è trovato e trova;
se
forse egli non stima utile e onore,
qualor
per man di tai guerrier si muore. -
Poi
che ben certi i cavallieri fece
Ullania,
che quell'era una donzella,
la
qual fatto avea nera più che pece
la
fama lor, che esser solea sì bella;
e
dove una bastava, più di diece
persone
il detto confermar di quella;
essi
fur per voltar l'arme in se stessi,
da
tal dolor, da tanta rabbia oppressi.
E
da lo sdegno e da la furia spinti,
l'arme
si spoglian, quante n'hanno indosso;
né
si lascian la spada onde eran cinti,
e
del castel la gittano nel fosso:
e
giuran, poi che gli ha una donna vinti,
e
fatto sul terren battere il dosso,
che,
per purgar sì grave error, staranno
senza
mai vestir l'arme intero un anno;
e
che n'andranno a piè pur tuttavia,
o
sia la strada piana, o scenda e saglia;
né,
poi che l'anno anco finito sia,
saran
per cavalcare o vestir maglia,
s'altr'arme,
altro destrier da lor non fia
guadagnato
per forza di battaglia.
Così
senz'arme, per punir lor fallo,
essi
a piè se n'andar, gli altri a cavallo.
Bradamante
la sera ad un castello
che
alla via di Parigi si ritrova,
di
Carlo e di Rinaldo suo fratello,
che
avean rotto Agramante, udì la nuova.
Quivi
ebbe buona mensa e buono ostello:
ma
questo ed ogn'altro agio poco giova;
che
poco mangia e poco dorme, e poco,
non
che posar, ma ritrovar può loco.
Non
però di costei voglio dir tanto,
che
io non ritorni a quei duo cavallieri
che
d'accordo legato aveano a canto
la
solitaria fonte i duo destrieri.
La
pugna lor, di che vo' dirvi alquanto,
non
è per acquistar terre né imperi,
ma
perché Durindana il più gagliardo
abbia
ad avere, e a cavalcar Baiardo.
Senza
che tromba o segno altro accennasse
quando
a muover s'avean, senza maestro
che
lo schermo e il ferir lor ricordasse,
e
lor pungesse il cor d'animoso estro,
l'uno
e l'altro d'accordo il ferro trasse,
e
si venne a trovare agile e destro.
I
spessi e gravi colpi a farsi udire
incominciaro,
ed a scaldarsi l'ire.
Due
spade altre non so per prova elette
ad
esser ferme e solide e ben dure,
che
a tre colpi di quei si fosser rette,
che
erano fuor di tutte le misure:
ma
quelle fur di tempre sì perfette,
per
tante esperienze sì sicure,
che
ben poteano insieme riscontrarsi
con
mille colpi e più, senza spezzarsi.
Or
qua Rinaldo, or là mutando il passo,
con
gran destrezza e molta industria ed arte
fuggia
di Durindana il gran fracasso,
che
sa ben come spezza il ferro e parte.
Ferìa
maggior percosse il re Gradasso;
ma
quasi tutte al vento erano sparte:
se
coglieva talor, coglieva in loco
ove
potea gravare e nuocer poco.
L'altro
con più ragion sua spada inchina,
e
fa spesso al pagan stordir le braccia;
e
quando ai fianchi e quando ove confina
la
corazza con l'elmo, gli la caccia:
ma
trova l'armatura adamantina,
sì
che una maglia non ne rompe o straccia.
Se
dura e forte la ritrova tanto,
avvien
perche ella è fatta per incanto.
Senza
prender riposo erano stati
gran
pezzo tanto alla battaglia fisi,
che
volti gli occhi in nessun mai de' lati
aveano,
fuor che nei turbati visi;
quando
da un'altra zuffa distornati,
e
da tanto furor furon divisi.
Ambi
voltaro a un gran strepito il ciglio,
e
videro Baiardo in gran periglio.
Vider
Baiardo a zuffa con un mostro
che
era più di lui grande, ed era augello:
avea
più lungo di tre braccia il rostro;
l'altre
fattezze avea di vipistrello;
avea
la piuma negra come inchiostro;
avea
l'artiglio grande, acuto e fello;
occhi
di fuoco, e sguardo avea crudele;
l'ale
avea grandi, che parean due vele.
Forse
era vero augel, ma non so dove
o
quando un altro ne sia stato tale.
Non
ho veduto mai, né letto altrove,
fuor
che in Turpin, d'un sì fatto animale:
questo
rispetto a credere mi muove,
che
l'augel fosse un diavolo infernale
che
Malagigi in quella forma trasse,
acciò
che la battaglia disturbasse.
Rinaldo
il credette anco, e gran parole
e
sconce poi con Malagigi n'ebbe.
Egli
già confessar non glielo vuole;
e
perché tor di colpa si vorrebbe,
giura
pel lume che dà lume al sole,
che
di questo imputato esser non debbe.
Fosse
augello o demonio, il mostro scese
sopra
Baiardo, e con l'artiglio il prese.
Le
redine il destrier, che era possente,
subito
rompe, e con sdegno e con ira
contra
l'augello i calci adopra e il dente;
ma
quel veloce in aria si ritira:
indi
ritorna, e con l'ugna pungente
lo
va battendo, e d'ogn'intorno aggira.
Baiardo
offeso, e che non ha ragione
di
schermo alcun, ratto a fuggir si pone.
Fugge
Baiardo alla vicina selva,
e
va cercando le più spesse fronde.
Segue
di sopra la pennuta belva
con
gli occhi fisi ove la via seconde;
ma
pure il buon destrier tanto s'inselva,
che
al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi
che l'alato ne perde la traccia,
ritorna
in cielo, e cerca nuova caccia.
Rinaldo
e il re Gradasso, che partire
veggono
la cagion de la lor pugna,
restan
d'accordo quella differire
fin
che Baiardo salvino da l'ugna
che
per la scura selva il fa fuggire;
con
patto, che qual d'essi lo raggiugna,
a
quella fonte lo restituisca,
ove
la lite lor poi si finisca.
Seguendo,
si partir da la fontana,
l'erbe
novellamente in terra peste.
Molto
da lor Baiardo s'allontana,
che
ebbon le piante in seguir lui mal preste.
Gradasso,
che non lungi avea l'alfana,
sopra
vi salse, e per quelle foreste
molto
lontano il paladin lasciosse,
tristo
e peggio contento che mai fosse.
Rinaldo
perdé l'orme in pochi passi
del
suo destrier, che fe' strano viaggio;
che
andò rivi cercando, arbori e sassi,
il
più spinoso luogo, il più selvaggio,
acciò
che da quella ugna si celassi,
che
cadendo dal ciel gli facea oltraggio.
Rinaldo,
dopo la fatica vana,
ritornò
ad aspettarlo alla fontana,
se
da Gradasso vi fosse condutto,
sì
come tra lor dianzi si convenne.
Ma
poi che far si vide poco frutto,
dolente
e a piedi in campo se ne venne.
Or
torniamo a quell'altro, al quale in tutto
diverso
da Rinaldo il caso avvenne.
Non
per ragion, ma per suo gran destino
sentì
anitrire il buon destrier vicino;
e
lo trovò ne la spelonca cava,
da
l'avuta paura anco sì oppresso,
che
uscire allo scoperto non osava:
perciò
l'ha in suo potere il pagan messo.
Ben
de la convenzion si raccordava,
che
alla fonte tornar dovea con esso;
ma
non è più disposto d'osservarla,
e
così in mente sua tacito parla:
-
Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra:
io
d'averlo con pace più disio.
Da
l'uno all'altro capo de la terra
già
venni, e sol per far Baiardo mio.
Or
che io l'ho in mano, ben vaneggia ed erra
chi
crede che depor lo volesse io.
Se
Rinaldo lo vuol, non disconviene,
come
io già in Francia, or s'egli in India viene.
Non
men sicura a lui fia Sericana,
che
già due volte Francia a me sia stata. -
Così
dicendo, per la via più piana
ne
venne in Arli, e vi trovò l'armata;
e
quindi con Baiardo e Durindana
si
partì sopra una galea spalmata.
Ma
questo a un'altra volta; che or Gradasso,
Rinaldo
e tutta Francia a dietro lasso.
Voglio
Astolfo seguir, che a sella e a morso,
a
uso facea andar di palafreno
l'ippogrifo
per l'aria a sì gran corso,
che
l'aquila e il falcon vola assai meno.
Poi
che de' Galli ebbe il paese scorso
da
un mare a l'altro e da Pirene al Reno,
tornò
verso ponente alla montagna
che
separa la Francia da la Spagna.
Passò
in Navarra, ed indi in Aragona,
lasciando
a chi il vedea gran maraviglia.
Restò
lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia
a destra, ed arrivò in Castiglia.
Vide
Gallizia e il regno d'Ulisbona,
poi
volse il corso a Cordova e Siviglia;
né
lasciò presso al mar né fra campagna
città,
che non vedesse tutta Spagna.
Vide
le Gade e la meta che pose
ai
primi naviganti Ercole invitto.
Per
l'Africa vagar poi si dispose
dal
mar d'Atlante ai termini d'Egitto.
Vide
le Baleariche famose,
e
vide Eviza appresso al camin dritto.
Poi
volse il freno, e tornò verso Arzilla
sopra
il mar che da Spagna dipartilla.
Vide
Marocco, Feza, Orano, Ippona,
Algier,
Buzea, tutte città superbe,
c'hanno
d'altre città tutte corona,
corona
d'oro, e non di fronde o d'erbe.
Verso
Biserta e Tunigi poi sprona:
vide
Capisse e l'isola d'Alzerbe
e
Tripoli e Bernicche e Tolomitta,
sin
dove il Nilo in Asia si tragitta.
Tra
la marina e la silvosa schena
del
fiero Atlante vide ogni contrada.
Poi
diè le spalle ai monti di Carena,
e
sopra i Cirenei prese la strada;
e
traversando i campi de l'arena,
venne
a' confin di Nubia in Albaiada.
Rimase
dietro il cimiter di Batto
e
l'gran tempio d'Amon, che oggi è disfatto.
Indi
giunse ad un'altra Tremisenne,
che
di Maumetto pur segue lo stilo.
Poi
volse agli altri Etiopi le penne,
che
contra questi son di là dal Nilo.
Alla
città di Nubia il camin tenne
tra
Dobada e Coalle in aria a filo.
Questi
cristiani son, quei saracini;
e
stan con l'arme in man sempre a' confini.
Senapo
imperator de la Etiopia,
che
in loco tien di scettro in man la croce,
di
gente, di cittadi e d'oro ha copia
quindi
fin là dove il mar Rosso ha foce;
e
serva quasi nostra fede propia,
che
può salvarlo da l'esilio atroce.
Gli
è, s'io non piglio errore, in questo loco
ove
al battesmo loro usano un fuoco.
Dismontò
il duca Astolfo alla gran corte
dentro
di Nubia, e visitò il Senapo.
Il
castello è più ricco assai che forte,
ove
dimora d'Etiopia il capo.
Le
catene dei ponti e de le porte,
gangheri
e chiavistei da piedi a capo,
e
finalmente tutto quel lavoro
che
noi di ferro usiamo, ivi usan d'oro.
Ancor
che del finissimo metallo
vi
sia tale abondanza, è pur in pregio.
Colonnate
di limpido cristallo
son
le gran logge del palazzo regio.
Fan
rosso, bianco, verde, azzurro e giallo
sotto
i bei palchi un relucente fregio,
divisi
tra proporzionati spazi,
rubin,
smeraldi, zafiri e topazi.
In
mura, in tetti, in pavimenti sparte
eran
le perle, eran le ricche gemme.
Quivi
il balsamo nasce; e poca parte
n'ebbe
appo questi mai Ierusalemme.
Il
muschio che a noi vien, quindi si parte;
quindi
vien l'ambra, e cerca altre maremme:
vengon
le cose in somma da quel canto,
che
nei paesi nostri vaglion tanto.
Si
dice che il soldan, re de l'Egitto,
a
quel re dà tributo e sta suggetto,
perche
è in poter di lui dal camin dritto
levare
il Nilo, e dargli altro ricetto,
e
per questo lasciar subito afflitto
di
fame il Cairo e tutto quel distretto.
Senapo
detto è dai sudditi suoi;
gli
diciàn Presto o Preteianni noi.
Di
quanti re mai d'Etiopia foro,
il
più ricco fu questi e il più possente;
ma
con tutta sua possa e suo tesoro,
gli
occhi perduti avea miseramente.
E
questo era il minor d'ogni martoro:
molto
era più noioso e più spiacente,
che,
quantunque ricchissimo si chiame,
cruciato
era da perpetua fame.
Se
per mangiare o ber quello infelice
venìa
cacciato dal bisogno grande,
tosto
apparia l'infernal schiera ultrice,
le
mostruose arpie brutte e nefande,
che
col griffo e con l'ugna predatrice
spargeano
i vasi, e rapian le vivande;
e
quel che non capia lor ventre ingordo,
vi
rimanea contaminato e lordo.
E
questo, perche essendo d'anni acerbo,
e
vistosi levato in tanto onore,
che,
oltre alle ricchezze, di più nerbo
era
di tutti gli altri e di più core;
divenne,
come Lucifer, superbo,
e
pensò muover guerra al suo Fattore.
Con
la sua gente la via prese al dritto
al
monte onde esce il gran fiume d'Egitto.
Inteso
avea che su quel monte alpestre,
che
oltre alle nubi e presso al ciel si leva,
era
quel paradiso che terrestre
si
dice, ove abitò già Adamo ed Eva.
Con
camelli, elefanti, e con pedestre
esercito,
orgoglioso si moveva
con
gran desir, se v'abitava gente,
di
farla alle sue leggi ubbidiente.
Dio
gli ripresse il temerario ardire,
e
mandò l'angel suo tra quelle frotte,
che
centomila ne fece morire,
e
condannò lui di perpetua notte.
Alla
sua mensa poi fece venire
l'orrendo
mostro da l'infernal grotte,
che
gli rapisce e contamina i cibi,
né
lascia che ne gusti o ne delibi.
Ed
in desperazion continua il messe
uno
che già gli avea profetizzato
che
le sue mense non sariano oppresse
da
la rapina e da l'odore ingrato,
quando
venir per l'aria si vedesse
un
cavallier sopra un cavallo alato.
Perché
dunque impossibil parea questo,
privo
d'ogni speranza vivea mesto.
Or
che con gran stupor vede la gente
sopra
ogni muro e sopra ogn'alta torre
entrare
il cavalliero, immantinente
è
chi a narrarlo al re di Nubia corre,
a
cui la profezia ritorna a mente;
ed
obliando per letizia torre
la
fedel verga, con le mani inante
vien
brancolando al cavallier volante.
Astolfo
ne la piazza del castello
con
spaziose ruote in terra scese.
Poi
che fu il re condotto inanzi a quello,
inginochiossi,
e le man giunte stese,
e
disse: - Angel di Dio, Messi novello,
s'io
non merto perdono a tante offese,
mira
che proprio è a noi peccar sovente,
a
voi perdonar sempre a chi si pente.
Del
mio error consapevole, non chieggio
né
chiederti ardirei gli antiqui lumi.
Che
tu lo possa far, ben creder deggio,
che
sei de' cari a Dio beati numi.
Ti
basti il gran martìr che io non ci veggio,
senza
che ognor la fame mi consumi:
almen
discaccia le fetide arpie,
che
non rapiscan le vivande mie.
E
di marmore un tempio ti prometto
edificar
de l'alta regia mia,
che
tutte d'oro abbia le porte e il tetto,
e
dentro e fuor di gemme ornato sia;
e
dal tuo santo nome sarà detto,
e
del miracol tuo scolpito fia. -
Così
dicea quel re che nulla vede,
cercando
invan baciare al duca il piede.
Rispose
Astolfo: - Né l'angel di Dio,
né
son Messia novel, né dal cielo vegno;
ma
son mortale e peccatore anche io,
di
tanta grazia a me concessa indegno.
Io
farò ogn'opra acciò che il mostro rio,
per
morte o fuga, io ti levi del regno.
S'io
il fo, me non, ma Dio ne loda solo,
che
per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.
Fa
questi voti a Dio, debiti a lui;
a
lui le chiese edifica e gli altari. -
Così
parlando, andavano ambidui
verso
il castello fra i baron preclari.
Il
re commanda ai servitori sui
che
subito il convito si prepari,
sperando
che non debba essergli tolta
la
vivanda di mano a questa volta.
Dentro
una ricca sala immantinente
apparecchiossi
il convito solenne.
Col
Senapo s'assise solamente
il
duca Astolfo, e la vivanda venne.
Ecco
per l'aria lo stridor si sente,
percossa
intorno da l'orribil penne;
ecco
venir l'arpie brutte e nefande,
tratte
dal cielo a odor de le vivande.
Erano
sette in una schiera, e tutte
volto
di donne avean, pallide e smorte,
per
lunga fame attenuate e asciutte,
orribili
a veder più che la morte.
L'alaccie
grandi avean, deformi e brutte;
le
man rapaci, e l'ugne incurve e torte;
grande
e fetido il ventre, e lunga coda,
come
di serpe che s'aggira e snoda.
Si
sentono venir per l'aria, e quasi
si
veggon tutte a un tempo in su la mensa
rapire
i cibi e riversare i vasi:
e
molta feccia il ventre lor dispensa,
tal
che gli è forza d'atturare i nasi;
che
non si può patir la puzza immensa.
Astolfo,
come l'ira lo sospinge,
contra
gli ingordi augelli il ferro stringe.
Uno
sul collo, un altro su la groppa
percuote,
e chi nel petto, e chi ne l'ala;
ma
come fera in su 'n sacco di stoppa,
poi
langue il colpo, e senza effetto cala:
e
quei non vi lasciar piatto né coppa
che
fosse intatta, né sgombrar la sala,
prima
che le rapine e il fiero pasto
contaminato
il tutto avesse e guasto.
Avuto
avea quel re ferma speranza
nel
duca, che l'arpie gli discacciassi;
ed
or che nulla ove sperar gli avanza,
sospira
e geme, e disperato stassi.
Viene
al duca del corno rimembranza,
che
suole aitarlo ai perigliosi passi;
e
conchiude tra sé, che questa via
per
discacciare i mostri ottima sia.
E
prima fa che il re con suoi baroni
di
calda cera l'orecchia si serra,
acciò
che tutti, come il corno suoni,
non
abbiano a fuggir fuor de la terra.
Prende
la briglia, e salta sugli arcioni
de
l'ippogrifo, ed il bel corno afferra;
e
con cenni allo scalco poi commanda
che
riponga la mensa e la vivanda.
E
così in una loggia s'apparecchia
con
altra mensa altra vivanda nuova.
Ecco
l'arpie che fan l'usanza vecchia:
Astolfo
il corno subito ritrova.
Cli
augelli, che non han chiusa l'orecchia,
udito
il suon, non puon stare alla prova;
ma
vanno in fuga pieni di paura,
né
di cibo né d'altro hanno più cura.
Subito
il paladin dietro lor sprona:
volando
esce il destrier fuor de la loggia,
e
col castel la gran città abandona,
e
per l'aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo
il corno tuttavolta suona:
fuggon
l'arpie verso la zona roggia,
tanto
che sono all'altissimo monte
ove
il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.
Quasi
de la montagna alla radice
entra
sotterra una profonda grotta,
che
certissima porta esser si dice
di
che allo 'nferno vuol scender talotta.
Quivi
s'è quella turba predatrice,
come
in sicuro albergo, ricondotta,
e
giù sin di Cocito in su la proda
scesa,
e più là, dove quel suon non oda.
All'infernal
caliginosa buca
che
apre la strada a chi abandona il lume,
finì
l'orribil suon l'inclito duca,
e
fe' raccorre al suo destrier le piume.
Ma
prima che più inanzi io lo conduca,
per
non mi dipartir dal mio costume,
poi
che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire
il canto, e riposar mi voglio.
CANTO
TRENTAQUATTRESIMO
Oh
famelice, inique e fiere arpie
che
all'accecata Italia e d'error piena,
per
punir forse antique colpe rie,
in
ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti
fanciulli e madri pie
cascan
di fame, e veggon che una cena
di
questi mostri rei tutto divora
ciò
che del viver lor sostegno fôra.
Troppo
fallò chi le spelonche aperse,
che
già molt'anni erano state chiuse;
onde
il fetore e l'ingordigia emerse,
che
ad ammorbare Italia si diffuse.
Il
bel vivere allora si summerse;
e
la quiete in tal modo s'escluse,
che
in guerre, in povertà sempre e in affanni
è
dopo stata, ed è per star molt'anni:
fin
che ella un giorno ai neghitosi figli
scuota
la chioma, e cacci fuor di Lete,
gridando
lor: - Non fia chi rassimigli
alla
virtù di Calai e di Zete?
che
le mense dal puzzo e dagli artigli
liberi,
e torni a lor mondizia liete,
come
essi già quelle di Fineo, e dopo
fe'
il paladin quelle del re etiopo. -
Il
paladin col suono orribil venne
le
brutte arpie cacciando in fuga e in rotta,
tanto
che a piè d'un monte si ritenne,
ove
esse erano entrate in una grotta.
L'orecchie
attente allo spiraglio tenne,
e
l'aria ne sentì percossa e rotta
da
pianti e d'urli e da lamento eterno:
segno
evidente quivi esser lo 'nferno.
Astolfo
si pensò d'entrarvi dentro,
e
veder quei c'hanno perduto il giorno,
e
penetrar la terra fin al centro,
e
le bolge infernal cercare intorno.
-
Di che debbo temer (dicea) s'io v'entro,
che
mi posso aiutar sempre col corno?
Farò
fuggir Plutone e Satanasso,
e
il can trifauce leverò dal passo. -
De
l'alato destrier presto discese,
e
lo lasciò legato a un arbuscello:
poi
si calò ne l'antro, e prima prese
il
corno, avendo ogni sua speme in quello.
Non
andò molto inanzi, che gli offese
il
naso e gli occhi un fumo oscuro e fello,
più
che di pece grave e che di zolfo:
non
sta d'andar per questo inanzi Astolfo.
Ma
quando va più inanzi, più s'ingrossa
il
fumo e la caligine, e gli pare
che
andare inanzi più troppo non possa;
che
sarà forza a dietro ritornare.
Ecco,
non sa che sia, vede far mossa
da
la volta di sopra, come fare
il
cadavero appeso al vento suole,
che
molti dì sia stato all'acqua e al sole.
Sì
poco, e quasi nulla era di luce
in
quella affumicata e nera strada,
che
non comprende e non discerne il duce
chi
questo sia che sì per l'aria vada;
e
per notizia averne si conduce
a
dargli uno o due colpi de la spada.
Stima
poi che un spirto esser quel debbia;
che
gli par di ferir sopra la nebbia.
Allor
sentì parlar con voce mesta:
-
Deh, senza fare altrui danno, giù cala!
Pur
troppo il negro fumo mi molesta,
che
dal fuoco infernal qui tutto esala. -
Il
duca stupefatto allor s'arresta,
e
dice all'ombra: - Se Dio tronchi ogni ala
al
fumo, sì che a te più non ascenda,
non
ti dispiaccia che il tuo stato intenda.
E
se vuoi che di te porti novella
nel
mondo su, per satisfarti sono. -
L'ombra
rispose: - Alla luce alma e bella
tornar
per fama ancor sì mi par buono,
che
le parole è forza che mi svella
il
gran desir c'ho d'aver poi tal dono,
e
che il mio nome e l'esser mio ti dica,
ben
che il parlar mi sia noia e fatica. -
E
cominciò: - Signor, Lidia sono io,
del
re di Lidia in grande altezza nata,
qui
dal giudicio altissimo di Dio
al
fumo eternamente condannata,
per
esser stata al fido amante mio,
mentre
io vissi, spiacevole ed ingrata.
D'altre
infinite è questa grotta piena,
poste
per simil fallo in simil pena.
Sta
la cruda Anassarete più al basso,
ove
è maggiore il fumo e più martire.
Restò
converso al mondo il corpo in sasso
e
l'anima qua giù venne a patire,
poi
che veder per lei l'afflitto e lasso
suo
amante appeso poté sofferire.
Qui
presso è Dafne, che or s'avvede quanto
errasse
a fare Apollo correr tanto.
Lungo
saria se gli infelici spirti
de
le femine ingrate, che qui stanno,
volesse
ad uno ad uno riferirti;
che
tanti son, che in infinito vanno.
Più
lungo ancor saria gli uomini dirti,
a'
quai l'essere ingrato ha fatto danno,
e
che puniti sono in peggior loco,
ove
il fumo gli accieca, e cuoce il fuoco.
Perché
le donne più facili e prone
a
creder son, di più supplicio è degno
chi
lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone
e
chi turbò a Latin l'antiquo regno;
sallo
che incontra sé il frate Absalone
per
Tamar trasse a sanguinoso sdegno;
ed
altri ed altre: che sono infiniti,
che
lasciato han chi moglie e chi mariti.
Ma
per narrar di me più che d'altrui,
e
palesar l'error che qui mi trasse,
bella,
ma altiera più, sì in vita fui,
che
non so s'altra mai mi s'aguagliasse:
né
ti saprei ben dir, di questi dui,
s'in
me l'orgoglio o la beltà avanzasse;
quantunque
il fasto o l'alterezza nacque
da
la beltà che a tutti gli occhi piacque.
Era
in quel tempo in Tracia un cavalliero
estimato
il miglior del mondo in arme,
il
qual da più d'un testimonio vero
di
singular beltà sentì lodarme;
tal
che spontaneamente fe' pensiero
di
volere il suo amor tutto donarme,
stimando
meritar per suo valore,
che
caro aver di lui dovessi il core.
In
Lidia venne; e d'un laccio più forte
vinto
restò, poi che veduta m'ebbe.
Con
gli altri cavallier si messe in corte
del
padre mio, dove in gran fama crebbe.
L'alto
valore e le più d'una sorte
prodezze
che mostrò, lungo sarebbe
a
raccontarti, e il suo merto infinito,
quando
egli avesse a più grato uom servito.
Panfilia
e Caria e il regno de' Cilici
per
opra di costui mio padre vinse;
che
l'esercito mai contra i nimici,
se
non quanto volea costui, non spinse.
Costui,
poi che gli parve i benefici
suoi
meritarlo, un dì col re si strinse
a
domandargli in premio de le spoglie
tante
arrecate, che io fossi sua moglie.
Fu
repulso dal re, che in grande stato
maritar
disegnava la figliuola,
non
a costui che cavallier privato
altro
non tien che la virtude sola:
e
il padre mio troppo al guadagno dato,
e
all'avarizia, d'ogni vizio scuola,
tanto
apprezza costumi, o virtù ammira,
quanto
l'asino fa il suon de la lira.
Alceste,
il cavallier di che io ti parlo
(che
così nome avea), poi che si vede
repulso
da chi più gratificarlo
era
più debitor, commiato chiede;
e
lo minaccia, nel partir, di farlo
pentir
che la figliuola non gli diede.
Se
n'andò al re d'Armenia, emulo antico
del
re di Lidia e capital nimico;
e
tanto stimulò, che lo dispose
a
pigliar l'arme e far guerra a mio padre.
Esso
per l'opre sue chiare e famose
fu
fatto capitan di quelle squadre.
Pel
re d'Armenia tutte l'altre cose
disse
che acquisteria: sol le leggiadre
e
belle membra mie volea per frutto
de
l'opra sua, vinto che avesse il tutto.
Io
non ti potre' esprimere il gran danno
che
Alceste al padre mio fa in quella guerra.
Quattro
eserciti rompe, e in men d'un anno
lo
mena a tal, che non gli lascia terra,
fuor
che un castel che alte pendici fanno
fortissimo;
e là dentro il re si serra
con
la famiglia che più gli era accetta,
e
col tesor che trar vi puote in fretta.
Quivi
assedionne Alceste; ed in non molto
termine
a tal disperazion ne trasse,
che
per buon patto avria mio padre tolto
che
moglie e serva ancor me gli lasciasse
con
la metà del regno, s'indi assolto
restar
d'ogni altro danno si sperasse.
Vedersi
in breve de l'avanzo privo
era
ben certo, e poi morir captivo.
Tentar,
prima che accada, si dispone
ogni
rimedio che possibil sia;
e
me, che d'ogni male era cagione,
fuor
de la rocca, ov'era Alceste invia.
Io
vo ad Alceste con intenzione
di
dargli in preda la persona mia,
e
pregar che la parte che vuol tolga
del
regno nostro, e l'ira in pace volga.
Come
ode Alceste che io vo a ritrovarlo,
mi
viene incontra pallido e tremante:
di
vinto e di prigione, a riguardarlo,
più
che di vincitore, have sembiante.
Io
che conosco che arde, non gli parlo
sì
come avea già disegnato inante:
vista
l'occasion, fo pensier nuovo
conveniente
al grado in che io lo trovo.
A
maledir comincio l'amor d'esso,
e
di sua crudeltà troppo a dolermi,
che
iniquamente abbia mio padre oppresso,
e
che per forza abbia cercato avermi;
che
con più grazia gli saria successo
indi
a non molti dì, se tener fermi
saputo
avesse i modi cominciati,
che
al re ed a tutti noi sì furon grati.
E
se ben da principio il padre mio
gli
avea negata la domanda onesta
(però
che di natura è un poco rio,
né
mai si piega alla prima richiesta),
farsi
per ciò di ben servir restio
non
doveva egli, e aver l'ira sì presta;
anzi,
ognor meglio oprando, tener certo
venire
in breve al desiato merto.
E
quando anco mio padre a lui ritroso
stato
fosse, io l'avrei tanto pregato,
che
avria l'amante mio fatto mio sposo.
Pur,
se veduto io l'avessi ostinato,
avrei
fatto tal opra di nascoso,
che
di me Alceste si saria lodato.
Ma
poi che a lui tentar parve altro modo,
io
di mai non l'amar fisso avea il chiodo.
E
se ben era a lui venuta, mossa
da
la pietà che al mio padre portava,
sia
certo che non molto fruir possa
il
piacer che al dispetto mio gli dava;
che
era per far di me la terra rossa,
tosto
che io avessi alla sua voglia prava
con
questa mia persona satisfatto
di
quel che tutto a forza saria fatto.
Queste
parole e simili altre usai,
poi
che potere in lui mi vidi tanto;
e
il più pentito lo rendei, che mai
si
trovasse ne l'eremo alcun santo.
Mi
cadde a' piedi, e supplicommi assai,
che
col coltel che si levò da canto
(e
volea in ogni modo che io il pigliassi)
di
tanto fallo suo mi vendicassi.
Poi
che io lo trovo tale, io fo disegno
la
gran vittoria insin al fin seguire:
gli
do speranza di farlo anco degno
che
la persona mia potrà fruire,
s'emendando
il suo error, l'antiquo regno
al
padre mio farà restituire;
e
nel tempo a venir vorrà acquistarme
servendo,
amando, e non mai più per arme.
Così
far mi promesse, e ne la rocca
intatta
mi mandò, come a lui venni,
né
di baciarmi pur s'ardì la bocca:
vedi
s'al collo il giogo ben gli tenni;
vedi
se bene Amor per me lo tocca,
se
convien che per lui più strali impenni.
Al
re d'Armenia andò, di cui dovea
esser
per patto ciò che si prendea:
e
con quel miglior modo che usar puote,
lo
priega che al mio padre il regno lassi,
del
qual le terre ha depredate e vote,
ed
a goder l'antiqua Armenia passi.
Quel
re, d'ira infiammando ambe le gote,
disse
ad Alceste che non vi pensassi;
che
non si volea tor da quella guerra,
fin
che mio padre avea palmo di terra.
E
s'Alceste è mutato alle parole
d'una
vil feminella, abbiasi il danno.
Già
a' prieghi esso di lui perder non vuole
quel
che a fatica ha preso in tutto un anno.
Di
nuovo Alceste il priega, e poi si duole
che
seco effetto i prieghi suoi non fanno.
All'ultimo
s'adira, e lo minaccia
che
vuol, per forza o per amor, lo faccia.
L'ira
multiplicò sì, che li spinse
da
le male parole ai peggior fatti.
Alceste
contra il re la spada strinse
fra
mille che in suo aiuto s'eran tratti,
e
mal grado lor tutti, ivi l'estinse;
e
quel dì ancor gli Armeni ebbe disfatti,
con
l'aiuto de' Cilici e de' Traci
che
pagava egli, e d'altri suoi seguaci.
Seguitò
la vittoria, ed a sue spese,
senza
dispendio alcun del padre mio,
ne
rendé tutto il regno in men d'un mese.
Poi
per ricompensarne il danno rio,
oltr'alle
spoglie che ne diede, prese
in
parte, e gravò in parte di gran fio
Armenia
e Capadocia che confina,
e
scorse Ircania fin su la marina.
In
luogo di trionfo, al suo ritorno,
facemmo
noi pensier dargli la morte.
Restammo
poi, per non ricever scorno;
che
lo veggiàn troppo d'amici forte.
Fingo
d'amarlo, e più di giorno in giorno
gli
do speranza d'essergli consorte;
ma
prima contra altri nimici nostri
dico
voler che sua virtù dimostri.
E
quando sol, quando con poca gente
lo
mando a strane imprese e perigliose,
da
farne morir mille agevolmente:
ma
lui successer ben tutte le cose;
che
tornò con vittoria, e fu sovente
con
orribil persone e mostruose,
con
Griganti a battaglia e Lestrigoni,
che
erano infesti a nostre regioni.
Non
fu da Euristeo mai, non fu mai tanto
da
la matrigna esercitato Alcide
in
Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto,
alle
valli d'Etolia, alle Numide,
sul
Tevre, su l'Ibero e altrove; quanto
con
prieghi finti e con voglie omicide
esercitato
fu da me il mio amante,
cercando
io pur di torlomi davante.
Né
potendo venire al primo intento,
vengone
ad un di non minore effetto:
gli
fo quei tutti ingiuriar, che io sento
che
per lui sono, e a tutti in odio il metto.
Egli
che non sentia maggior contento
che
d'ubbidirmi, senza alcun rispetto
le
mani ai cenni miei sempre avea pronte,
senza
guardare un più d'un altro in fronte.
Poi
che mi fu, per questo mezzo, aviso
spento
aver del mio padre ogni nimico,
e
per lui stesso Alceste aver conquiso,
che
non si avea, per noi, lasciato amico;
quel
che io gli avea con simulato viso
celato
fin allor, chiaro gli esplico:
che
grave e capitale odio gli porto,
e
pur tuttavia cerco che sia morto.
Considerando
poi, s'io lo facessi,
che
in publica ignominia ne verrei
(sapeasi
troppo quanto io gli dovessi,
e
crudel detta sempre ne sarei),
mi
parve fare assai che io gli togliessi
di
mai venir più inanzi agli occhi miei.
Né
veder né parlar mai più gli volsi,
né
messo udio, né lettera ne tolsi.
Questa
mia ingratitudine gli diede
tanto
martìr, che al fin dal dolor vinto,
e
dopo un lungo domandar mercede,
infermo
cadde, e ne rimase estinto.
Per
pena che al fallir mio si richiede,
or
gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto
del
negro fumo: e così avrò in eterno;
che
nulla redenzione è ne l'inferno. -
Poi
che non parla più Lidia infelice,
va
il duca per saper s'altri vi stanzi:
ma
la caligine alta che era ultrice
de
l'opre ingrate, si gli ingrossa inanzi,
che
andare un palmo sol più non gli lice;
anzi
a forza tornar gli conviene, anzi,
perché
la vita non gli sia intercetta
dal
fumo, i passi accelerar con fretta.
Il
mutar spesso de le piante ha vista
di
corso, e non di chi passeggia o trotta.
Tanto,
salendo inverso l'erta, acquista,
che
vede dove aperta era la grotta;
e
l'aria, già caliginosa e trista,
dal
lume cominciava ad esser rotta.
Al
fin con molto affanno e grave ambascia
esce
de l'antro, e dietro il fumo lascia.
E
perché del tornar la via sia tronca
a
quelle bestie c'han sì ingorde l'epe,
raguna
sassi, e molti arbori tronca,
che
v'eran qual d'amomo e qual di pepe;
e
come può, dinanzi alla spelonca
fabrica
di sua man quasi una siepe:
e
gli succede così ben quell'opra,
che
più l'arpie non torneran di sopra.
Il
negro fumo de la scura pece,
mentre
egli fu ne la caverna tetra,
non
macchiò sol quel che apparia, ed infece,
ma
sotto i panni ancora entra e penètra;
sì
che per trovare acqua andar lo fece
cercando
un pezzo; e al fin fuor d'una pietra
vide
una fonte uscir ne la foresta,
ne
la qual si lavò dal piè alla testa.
Poi
monta il volatore, e in aria s'alza
per
giunger di quel monte in su la cima,
che
non lontan con la superna balza
dal
cerchio de la luna esser si stima.
Tanto
è il desir che di veder lo 'ncalza,
che
al cielo aspira, e la terra non stima.
De
l'aria più e più sempre guadagna,
tanto
che al giogo va de la montagna.
Zafir,
rubini, oro, topazi e perle,
e
diamanti e crisoliti e iacinti
potriano
i fiori assimigliar, che per le
liete
piaggie v'avea l'aura dipinti:
sì
verdi l'erbe, che possendo averle
qua
giù, ne fôran gli smeraldi vinti;
né
men belle degli arbori le frondi,
e
di frutti e di fior sempre fecondi.
Cantan
fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri
e bianchi e verdi e rossi e gialli.
Murmuranti
ruscelli e cheti laghi
di
limpidezza vincono i cristalli.
Una
dolce aura che ti par che vaghi
a
un modo sempre e dal suo stil non falli,
facea
sì l'aria tremolar d'intorno,
che
non potea noiar calor del giorno:
e
quella ai fiori, ai pomi e alla verzura
gli
odor diversi depredando giva,
e
di tutti faceva una mistura
che
di soavità l'alma notriva.
Surgea
un palazzo in mezzo alla pianura,
che
acceso esser parea di fiamma viva:
tanto
splendore intorno e tanto lume
raggiava,
fuor d'ogni mortal costume.
Astolfo
il suo destrier verso il palagio
che
più di trenta miglia intorno aggira,
a
passo lento fa muovere ad agio,
e
quinci e quindi il bel paese ammira;
e
giudica, appo quel, brutto e malvagio,
e
che sia al ciel ed a natura in ira
questo
che abitian noi fetido mondo:
tanto
è soave quel, chiaro e giocondo.
Come
egli è presso al luminoso tetto,
attonito
riman di maraviglia;
che
tutto d'una gemma è il muro schietto,
più
che carbonchio lucida e vermiglia.
O
stupenda opra, o dedalo architetto!
Qual
fabrica tra noi le rassimiglia?
Taccia
qualunque le mirabil sette
moli
del mondo in tanta gloria mette.
Nel
lucente vestibulo di quella
felice
casa un vecchio al duca occorre,
che
il manto ha rosso, e bianca la gonnella,
che
l'un può al latte, e l'altro al minio opporre.
I
crini ha bianchi, e bianca la mascella
di
folta barba che al petto discorre;
ed
è sì venerabile nel viso,
che
un degli eletti par del paradiso.
Costui
con lieta faccia al paladino,
che
riverente era d'arcion disceso,
disse:
- O baron, che per voler divino
sei
nel terrestre paradiso asceso;
come
che né la causa del camino,
né
il fin del tuo desir da te sia inteso;
pur
credi che non senza alto misterio
venuto
sei da l'artico emisperio.
Per
imparar come soccorrer déi
Carlo,
e la santa fé tor di periglio
venuto
meco a consigliar ti sei
per
così lunga via, senza consiglio.
Né
a tuo saper, né a tua virtù vorrei
che
esser qui giunto attribuissi, o figlio;
che
né il tuo corno, né il cavallo alato
ti
valea, se da Dio non t'era dato.
Ragionerem
più ad agio insieme poi,
e
ti dirò come a procedere hai:
ma
prima vienti a ricrear con noi;
che
il digiun lungo de' noiarti ormai. -
Continuando
il vecchio i detti suoi,
fece
meravigliare il duca assai,
quando
scoprendo il nome suo, gli disse
esser
colui che l'evangelio scrisse:
quel
tanto al Redentor caro Giovanni,
per
cui il sermone tra i fratelli uscìo,
che
non dovea per morte finir gli anni;
sì
che fu causa che il figliuol di Dio
a
Pietro disse: - Perché pur t'affanni,
s'io
vo' che così aspetti il venir mio? -
Ben
che non disse: egli non de' morire,
si
vede pur che così volse dire.
Quivi
fu assunto, e trovò compagnia,
che
prima Enoch, il patriarca, v'era;
eravi
insieme il gran profeta Elia,
che
non han vista ancor l'ultima sera;
e
fuor de l'aria pestilente e ria
si
goderan l'eterna primavera,
fin
che dian segno l'angeliche tube,
che
torni Cristo in su la bianca nube.
Con
accoglienza grata il cavalliero
fu
dai santi alloggiato in una stanza;
fu
provisto in un'altra al suo destriero
di
buona biada, che gli fu a bastanza.
De'
frutti a lui del paradiso diero,
di
tal sapor, che a suo giudicio, sanza
scusa
non sono i duo primi parenti,
se
per quei fur sì poco ubbidienti.
Poi
che a natura il duca aventuroso
satisfece
di quel che se le debbe,
come
col cibo, così col riposo,
che
tutti e tutti i commodi quivi ebbe;
lasciando
già l'Aurora il vecchio sposo,
che
ancor per lunga età mai non l'increbbe,
si
vide incontra ne l'uscir del letto
il
discipul da Dio tanto diletto;
che
lo prese per mano, e seco scorse
di
molte cose di silenzio degne:
e
poi disse: - Figliuol, tu non sai forse
che
in Francia accada, ancor che tu ne vegne.
Sappi
che il vostro Orlando, perché torse
dal
camin dritto le commesse insegne,
è
punito da Dio, che più s'accende
contra
chi egli ama più, quando s'offende.
Il
vostro Orlando, a cui nascendo diede
somma
possanza Dio con sommo ardire,
e
fuor de l'uman uso gli concede
che
ferro alcun non lo può mai ferire;
perché
a difesa di sua santa fede
così
voluto l'ha costituire,
come
Sansone incontra a' Filistei
costituì
a difesa degli Ebrei:
renduto
ha il vostro Orlando al suo Signore
di
tanti benefici iniquo merto;
che
quanto aver più lo dovea in favore,
n'è
stato il fedel popul più deserto.
Sì
accecato l'avea l'incesto amore
d'una
pagana, che avea già sofferto
due
volte e più venire empio e crudele,
per
dar la morte al suo cugin fedele.
E
Dio per questo fa che egli va folle,
e
mostra nudo il ventre, il petto e il fianco;
e
l'intelletto sì gli offusca e tolle,
che
non può altrui conoscere, e sé manco.
A
questa guisa si legge che volle
Nabuccodonosor
Dio punir anco,
che
sette anni il mandò il furor pieno,
sì
che, qual bue, pasceva l'erba e il fieno.
Ma
perche assai minor del paladino,
che
di Nabucco, è stato pur l'eccesso,
sol
di tre mesi dal voler divino
a
purgar questo error termine è messo.
Né
ad altro effetto per tanto camino
salir
qua su t'ha il Redentor concesso,
se
non perché da noi modo tu apprenda,
come
ad Orlando il suo senno si renda.
Gli
è ver che ti bisogna altro viaggio
far
meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel
cerchio de la luna a menar t'aggio,
che
dei pianeti a noi più prossima erra,
perché
la medicina che può saggio
rendere
Orlando, là dentro si serra.
Come
la luna questa notte sia
sopra
noi giunta, ci porremo in via. -
Di
questo e d'altre cose fu diffuso
il
parlar de l'apostolo quel giorno.
Ma
poi che il sol s'ebbe nel mar rinchiuso,
e
sopra lor levò la luna il corno,
un
carro apparecchiòsi, che era ad uso
d'andar
scorrendo per quei cieli intorno:
quel
già ne le montagne di Giudea
da'
mortali occhi Elia levato avea.
Quattro
destrier via più che fiamma rossi
al
giogo il santo evangelista aggiunse;
e
poi che con Astolfo rassettossi,
e
prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando
il carro, per l'aria levossi,
e
tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che
il vecchio fe' miracolosamente,
che,
mentre lo passar, non era ardente.
Tutta
la sfera varcano del fuoco,
ed
indi vanno al regno de la luna.
Veggon
per la più parte esser quel loco
come
un acciar che non ha macchia alcuna;
e
lo trovano uguale, o minor poco
di
ciò che in questo globo si raguna,
in
questo ultimo globo de la terra,
mettendo
il mar che la circonda e serra.
Quivi
ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che
quel paese appresso era sì grande,
il
quale a un picciol tondo rassimiglia
a
noi che lo miriam da queste bande;
e
che aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s'indi
la terra e il mar che intorno spande,
discerner
vuol; che non avendo luce,
l'imagin
lor poco alta si conduce.
Altri
fiumi, altri laghi, altre campagne
sono
là su, che non son qui tra noi;
altri
piani, altre valli, altre montagne,
c'han
le cittadi, hanno i castelli suoi,
con
case de le quai mai le più magne
non
vide il paladin prima né poi:
e
vi sono ample e solitarie selve,
ove
le ninfe ognor cacciano belve.
Non
stette il duca a ricercar il tutto;
che
là non era asceso a quello effetto.
Da
l'apostolo santo fu condutto
in
un vallon fra due montagne istretto,
ove
mirabilmente era ridutto
ciò
che si perde o per nostro diffetto,
o
per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò
che si perde qui, là si raguna.
Non
pur di regni o di ricchezze parlo,
in
che la ruota instabile lavora;
ma
di quel che in poter di tor, di darlo
non
ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta
fama è là su, che, come tarlo,
il
tempo al lungo andar qua giù divora:
là
su infiniti prieghi e voti stanno,
che
da noi peccatori a Dio si fanno.
Le
lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil
tempo che si perde a giuoco,
e
l'ozio lungo d'uomini ignoranti,
vani
disegni che non han mai loco,
i
vani desideri sono tanti,
che
la più parte ingombran di quel loco:
ciò
che in somma qua giù perdesti mai,
là
su salendo ritrovar potrai.
Passando
il paladin per quelle biche,
or
di questo or di quel chiede alla guida.
Vide
un monte di tumide vesiche,
che
dentro parea aver tumulti e grida;
e
seppe che eran le corone antiche
e
degli Assiri e de la terra lida,
e
de' Persi e de' Greci, che già furo
incliti,
ed or n'è quasi il nome oscuro.
Ami
d'oro e d'argento appresso vede
in
una massa, che erano quei doni
che
si fan con speranza di mercede
ai
re, agli avari principi, ai patroni.
Vede
in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed
ode che son tutte adulazioni.
Di
cicale scoppiate imagine hanno
versi
che in laude dei signor si fanno.
Di
nodi d'oro e di gemmati ceppi
vede
c'han forma i mal seguiti amori.
V'eran
d'aquile artigli; e che fur, seppi,
l'autorità
che ai suoi danno i signori.
I
mantici che intorno han pieni i greppi,
sono
i fumi dei principi e i favori
che
danno un tempo ai ganimedi suoi,
che
se ne van col fior degli anni poi.
Ruine
di cittadi e di castella
stavan
con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda,
e sa che son trattati, e quella
congiura
che sì mal par che si cuopra.
Vide
serpi con faccia di donzella,
di
monetieri e di ladroni l'opra:
poi
vide bocce rotte di più sorti,
che
era il servir de le misere corti.
Di
versate minestre una gran massa
vede,
e domanda al suo dottor che importe.
-
L'elemosina è (dice) che si lassa
alcun,
che fatta sia dopo la morte. -
Di
vari fiori ad un gran monte passa,
che
ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo
era il dono (se però dir lece)
che
Costantino al buon Silvestro fece.
Vide
gran copia di panie con visco,
che
erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo
sarà, se tutte in verso ordisco
le
cose che gli fur quivi dimostre;
che
dopo mille e mille io non finisco,
e
vi son tutte l'occurrenze nostre:
sol
la pazzia non v'è poca né assai;
che
sta qua giù, né se ne parte mai.
Quivi
ad alcuni giorni e fatti sui,
che
egli già avea perduti, si converse;
che
se non era interprete con lui,
non
discernea le forme lor diverse.
Poi
giunse a quel che par sì averlo a nui,
che
mai per esso a Dio voti non ferse;
io
dico il senno: e n'era quivi un monte,
solo
assai più che l'altre cose conte.
Era
come un liquor suttile e molle,
atto
a esalar, se non si tien ben chiuso;
e
si vedea raccolto in varie ampolle,
qual
più, qual men capace, atte a quell'uso.
Quella
è maggior di tutte, in che del folle
signor
d'Anglante era il gran senno infuso;
e
fu da l'altre conosciuta, quando
avea
scritto di fuor: Senno d'Orlando.
E
così tutte l'altre avean scritto anco
il
nome di color di chi fu il senno.
Del
suo gran parte vide il duca franco;
ma
molto più maravigliar lo fenno
molti
che egli credea che dramma manco
non
dovessero averne, e quivi dénno
chiara
notizia che ne tenean poco;
che
molta quantità n'era in quel loco.
Altri
in amar lo perde, altri in onori,
altri
in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri
ne le speranze de' signori,
altri
dietro alle magiche sciocchezze;
altri
in gemme, altri in opre di pittori,
ed
altri in altro che più d'altro aprezze.
Di
sofisti e d'astrologhi raccolto,
e
di poeti ancor ve n'era molto.
Astolfo
tolse il suo; che gliel concesse
lo
scrittor de l'oscura Apocalisse.
L'ampolla
in che era al naso sol si messe,
e
par che quello al luogo suo ne gisse:
e
che Turpin da indi in qua confesse
che
Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma
che uno error che fece poi, fu quello
che
un'altra volta gli levò il cervello.
La
più capace e piena ampolla, ov'era
il
senno che solea far savio il conte,
Astolfo
tolle; e non è sì leggiera,
come
stimò, con l'altre essendo a monte.
Prima
che il paladin da quella sfera
piena
di luce alle più basse smonte,
menato
fu da l'apostolo santo
in
un palagio ov'era un fiume a canto;
che
ogni sua stanza avea piena di velli
di
lin, di seta, di coton, di lana,
tinti
in vari colori e brutti e belli.
Nel
primo chiostro una femina cana
fila
a un aspo traea da tutti quelli,
come
veggiàn l'estate la villana
traer
dai bachi le bagnate spoglie,
quando
la nuova seta si raccoglie.
V'è
chi, finito un vello, rimettendo
ne
viene un altro, e chi ne porta altronde:
un'altra
de le filze va scegliendo
il
bel dal brutto che quella confonde.
-
Che lavor si fa qui, che io non l'intendo? -
dice
a Giovanni Astolfo; e quel risponde:
-
Le vecchie son le Parche, che con tali
stami
filano vite a voi mortali.
Quanto
dura un de' velli, tanto dura
l'umana
vita, e non di più un momento.
Qui
tien l'occhio e la Morte e la Natura,
per
saper l'ora che un debba esser spento.
Sceglier
le belle fila ha l'altra cura,
perché
si tesson poi per ornamento
del
paradiso; e dei più brutti stami
si
fan per li dannati aspri legami. -
Di
tutti i velli che erano già messi
in
aspo, e scelti a farne altro lavoro,
erano
in brevi piastre i nomi impressi,
altri
di ferro, altri d'argento o d'oro:
e
poi fatti n'avean cumuli spessi,
de'
quali, senza mai farvi ristoro,
portarne
via non si vedea mai stanco
un
vecchio, e ritornar sempre per anco.
Era
quel vecchio sì espedito e snello,
che
per correr parea che fosse nato;
e
da quel monte il lembo del mantello
portava
pien del nome altrui segnato.
Ove
n'andava, e perché facea quello,
ne
l'altro canto vi sarà narrato,
se
d'averne piacer segno farete
con
quella grata udienza che solete.
CANTO
TRENTACINQUESIMO
Chi
salirà per me, madonna, in cielo
a
riportarne il mio perduto ingegno?
che,
poi che uscì da' bei vostri occhi il telo
che
il cor mi fisse, ognor perdendo vegno.
Né
di tanta iattura mi querelo,
pur
che non cresca, ma stia a questo segno;
che
io dubito, se più si va scemando,
di
venir tal, qual ho descritto Orlando.
Per
riaver l'ingegno mio m'è aviso
che
non bisogna che per l'aria io poggi
nel
cerchio de la luna o in paradiso;
che
il mio non credo che tanto alto alloggi.
Ne'
bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel
sen d'avorio e alabastrini poggi
se
ne va errando; ed io con queste labbia
lo
corrò, se vi par che io lo riabbia.
Per
gli ampli tetti andava il paladino
tutte
mirando le future vite,
poi
che ebbe visto sul fatal molino
volgersi
quelle che erano già ordite:
e
scorse un vello che più che d'or fino
splender
parea; né sarian gemme trite,
s'in
filo si tirassero con arte,
da
comparargli alla millesma parte.
Mirabilmente
il bel vello gli piacque,
che
tra infiniti paragon non ebbe;
e
di sapere alto disio gli nacque,
quando
sarà tal vita, e a chi si debbe.
L'evangelista
nulla gliene tacque:
che
venti anni principio prima avrebbe
che
col .M. e col .D. fosse notato
l'anno
corrente dal Verbo incarnato,
E
come di splendore e di beltade
quel
vello non avea simile o pare,
così
saria la fortunata etade
che
dovea uscirne al mondo singulare;
perché
tutte le grazie inclite e rade
che
alma Natura, o proprio studio dare,
o
benigna Fortuna ad uomo puote,
avrà
in perpetua ed infallibil dote.
-
Del re de' fiumi tra l'altiere corna
or
siede umil (diceagli) e piccol borgo:
dinanzi
il Po, di dietro gli soggiorna
d'alta
palude un nebuloso gorgo;
che,
volgendosi gli anni, la più adorna
di
tutte le città d'Italia scorgo,
non
pur di mura e d'ampli tetti regi,
ma
di bei studi e di costumi egregi.
Tanta
esaltazione e così presta,
non
fortuìta o d'aventura casca;
ma
l'ha ordinata il ciel, perché sia questa
degna
in che l'uom di che io ti parlo, nasca:
che,
dove il frutto ha da venir, s'inesta
e
con studio si fa crescer la frasca;
e
l'artefice l'oro affinar suole,
in
che legar gemma di pregio vuole.
Né
sì leggiadra né sì bella veste
unque
ebbe altr'alma in quel terrestre regno;
e
raro è sceso e scenderà da queste
sfere
superne un spirito sì degno,
come
per farne Ippolito da Este
n'have
l'eterna mente alto disegno.
Ippolito
da Este sarà detto
l'uom
a chi Dio sì ricco dono ha eletto.
Quegli
ornamenti che divisi in molti,
a
molti basterian per tutti ornarli,
in
suo ornamento avrà tutti raccolti
costui,
di c'hai voluto che io ti parli.
Le
virtudi per lui, per lui soffolti
saran
gli studi; e s'io vorrò narrar li
alti
suoi merti, al fin son sì lontano,
che
Orlando il senno aspetterebbe invano. -
Così
venìa l'imitator di Cristo
ragionando
col duca: e poi che tutte
le
stanze del gran luogo ebbono visto,
onde
l'umane vite eran condutte,
sul
fiume usciro, che d'arena misto
con
l'onde discorrea turbide e brutte;
e
vi trovar quel vecchio in su la riva,
che
con gli impressi nomi vi veniva.
Non
so se vi sia a mente, io dico quello
che
al fin de l'altro canto vi lasciai,
vecchio
di faccia, e sì di membra snello,
che
d'ogni cervio è più veloce assai.
Degli
altrui nomi egli si empìa il mantello;
scemava
il monte, e non finiva mai:
ed
in quel fiume che Lete si noma,
scarcava,
anzi perdea la ricca soma.
Dico
che, come arriva in su la sponda
del
fiume, quel prodigo vecchio scuote
il
lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte
lascia cader l'impresse note.
Un
numer senza fin se ne profonda,
che
un minimo uso aver non se ne puote;
e
di cento migliaia che l'arena
sul
fondo involve, un se ne serva a pena.
Lungo
e d'intorno quel fiume volando
givano
corvi ed avidi avoltori,
mulacchie
e vari augelli, che gridando
facean
discordi strepiti e romori;
ed
alla preda correan tutti, quando
sparger
vedean gli amplissimi tesori:
e
chi nel becco, e chi ne l'ugna torta
ne
prende; ma lontan poco li porta.
Come
vogliono alzar per l'aria i voli,
non
han poi forza che il peso sostegna;
sì
che convien che Lete pur involi
de'
ricchi nomi la memoria degna.
Fra
tanti augelli son duo cigni soli,
bianchi,
Signor, come è la vostra insegna,
che
vengon lieti riportando in bocca
sicuramente
il nome che lor tocca.
Così
contra i pensieri empi e maligni
del
vecchio che donar li vorria al fiume,
alcuno
ne salvan gli augelli benigni:
tutto
l'avanzo oblivion consume.
Or
se ne van notando i sacri cigni,
ed
or per l'aria battendo le piume,
fin
che presso alla ripa del fiume empio
trovano
un colle, e sopra il colle un tempio.
All'Inmmortalitade
il luogo è sacro,
ove
una bella ninfa giù del colle
viene
alla ripa del leteo lavacro,
e
di bocca dei cigni i nomi tolle;
e
quelli affige intorno al simulacro
che
in mezzo il tempio una colonna estolle,
quivi
li sacra, e ne fa tal governo,
che
vi si pôn veder tutti in eterno.
Chi
sia quel vecchio, e perché tutti al rio
senza
alcun frutto i bei nomi dispensi,
e
degli augelli, e di quel luogo pio
onde
la bella ninfa al fiume viensi,
aveva
Astolfo di saper desio
i
gran misteri e gli incogniti sensi;
e
domandò di tutte queste cose
l'uomo
di Dio, che così gli rispose:
-
Tu déi saper che non si muove fronda
là
giù che segno qui non se ne faccia.
Ogni
effetto convien che corrisponda
in
terra e in ciel, ma con diversa faccia.
Quel
vecchio, la cui barba il petto inonda,
veloce
sì che mai nulla l'impaccia,
gli
effetti pari e la medesima opra
che
il Tempo fa là giù, fa qui di sopra.
Volte
che son le fila in su la ruota,
là
giù la vita umana arriva al fine.
La
fama là, qui ne riman la nota;
che
immortali sariano ambe e divine,
se
non che qui quel da la irsuta gota,
e
là giù il Tempo ognor ne fa rapine.
Questi
le getta, come vedi, al rio;
e
quel l'immerge ne l'eterno oblio.
E
come qua su i corvi e gli avoltori
e
le mulacchie e gli altri varii augelli
s'affaticano
tutti per trar fuori
de
l'acqua i nomi che veggion più belli:
così
là giù ruffiani, adulatori,
buffon,
cinedi, accusatori, e quelli
che
viveno alle corti e che vi sono
più
grati assai che il virtuoso e il buono,
e
son chiamati cortigian gentili,
perché
sanno imitar l'asino e il ciacco;
de'
lor signor, tratto che n'abbia i fili
la
giusta Parca, anzi Venere e Bacco,
questi
di che io ti dico, inerti e vili,
nati
solo ad empir di cibo il sacco,
portano
in bocca qualche giorno il nome;
poi
ne l'oblio lascian cader le some.
Ma
come i cigni che cantando lieti
rendeno
salve le medaglie al tempio,
così
gli uomini degni da' poeti
son
tolti da l'oblio, più che morte empio.
Oh
bene accorti principi e discreti,
che
seguite di Cesare l'esempio,
e
gli scrittor vi fate amici, donde
non
avete a temer di Lete l'onde!
Son,
come i cigni, anco i poeti rari,
poeti
che non sian del nome indegni;
sì
perché il ciel degli uomini preclari
non
pate mai che troppa copia regni,
sì
per gran colpa dei signori avari
che
lascian mendicare i sacri ingegni;
che
le virtù premendo, ed esaltando
i
vizi, caccian le buone arti in bando.
Credi
che Dio questi ignoranti ha privi
de
lo 'ntelletto, e loro offusca i lumi;
che
de la poesia gli ha fatto schivi,
acciò
che morte il tutto ne consumi.
Oltre
che del sepolcro uscirian vivi,
ancor
che avesser tutti i rei costumi,
pur
che sapesson farsi amica Cirra,
più
grato odore avrian che nardo o mirra.
Non
sì pietoso Enea, né forte Achille
fu,
come è fama, né sì fiero Ettorre;
e
ne son stati e mille a mille e mille
che
lor si puon con verità anteporre:
ma
i donati palazzi e le gran ville
dai
descendenti lor, gli ha fatto porre
in
questi senza fin sublimi onori
da
l'onorate man degli scrittori.
Non
fu sì santo né benigno Augusto
come
la tuba di Virgilio suona.
L'aver
avuto in poesia buon gusto
la
proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun
sapria se Neron fosse ingiusto,
né
sua fama saria forse men buona,
avesse
avuto e terra e ciel nimici,
se
gli scrittor sapea tenersi amici.
Omero
Agamennòn vittorioso,
e
fe' i Troian parer vili ed inerti;
e
che Penelopea fida al suo sposo
dai
Prochi mille oltraggi avea sofferti.
E
se tu vuoi che il ver non ti sia ascoso,
tutta
al contrario l'istoria converti:
che
i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e
che Penelopea fu meretrice.
Da
l'altra parte odi che fama lascia
Elissa,
che ebbe il cor tanto pudico;
che
riputata viene una bagascia,
solo
perché Maron non le fu amico.
Non
ti maravigliar che io n'abbia ambascia,
e
se di ciò diffusamente io dico.
Gli
scrittori amo, e fo il debito mio;
che
al vostro mondo fui scrittore anche io.
E
sopra tutti gli altri io feci acquisto
che
non mi può levar tempo né morte:
e
ben convenne al mio lodato Cristo
rendermi
guidardon di sì gran sorte.
Duolmi
di quei che sono al tempo tristo,
quando
la cortesia chiuso ha le porte;
che
con pallido viso e macro e asciutto
la
notte e il dì vi picchian senza frutto.
Sì
che continuando il primo detto,
sono
i poeti e gli studiosi pochi;
che
dove non han pasco né ricetto,
insin
le fere abbandonano i lochi. -
Così
dicendo il vecchio benedetto
gli
occhi infiammò, che parveno duo fuochi;
poi
volto al duca con un saggio riso
tornò
sereno il conturbato viso.
Resti
con lo scrittor de l'evangelo
Astolfo
ormai, che io voglio far un salto,
quanto
sia in terra a venir fin dal cielo;
che
io non posso più star su l'ali in alto.
Torno
alla donna a cui con grave telo
mosso
avea gelosia crudele assalto.
Io
la lasciai che avea con breve guerra
tre
re gittati, un dopo l'altro, in terra;
e
che giunta la sera ad un castello
che
alla via di Parigi si ritrova,
d'Agramante,
che rotto dal fratello
s'era
ridotto in Arli, ebbe la nuova.
Certa
che il suo Ruggier fosse con quello,
tosto
che apparve in ciel la luce nuova,
verso
Provenza, dove ancora intese
che
Carlo lo seguia, la strada prese.
Verso
Provenza per la via più dritta
andando,
s'incontrò in una donzella,
ancor
che fosse lacrimosa e afflitta,
bella
di faccia e di maniere bella.
Questa
era quella sì d'amor traffitta
per
lo figliuol di Monodante, quella
donna
gentil che avea lasciato al ponte
l'amante
suo prigion di Rodomonte.
Ella
venìa cercando un cavalliero,
che
a far battaglia usato, come lontra,
in
acqua e in terra fosse, e così fiero,
che
lo potesse al pagan porre incontra.
La
sconsolata amica di Ruggiero,
come
quest'altra sconsolata incontra,
cortesemente
la saluta, e poi
le
chiede la cagion dei dolor suoi.
Fiordiligi
lei mira, e veder parle
un
cavallier che al suo bisogno fia;
e
comincia del ponte a ricontarle,
ove
impedisce il re d'Algier la via;
e
che era stato appresso di levarle
l'amante
suo: non che più forte sia;
ma
sapea darsi il Saracino astuto
col
ponte stretto e con quel fiume aiuto.
-
Se sei (dicea) sì ardito e sì cortese,
come
ben mostri l'uno e l'altro in vista,
mi
vendica, per Dio, di chi mi prese
il
mio signore, e mi fa gir sì trista;
o
consigliami almeno in che paese
possa
io trovare un che a colui resista,
e
sappia tanto d'arme e di battaglia,
che
il fiume e il ponte al pagan poco vaglia.
Oltre
che tu farai quel che conviensi
ad
uom cortese e a cavalliero errante,
in
beneficio il tuo valor dispensi
del
più fedel d'ogni fedele amante.
De
l'altre sue virtù non appertiensi
a
me narrar; che sono tante e tante,
che
chi non n'ha notizia, si può dire
che
sia del veder privo e de l'udire. -
La
magnanima donna, a cui fu grata
sempre
ogni impresa che può farla degna
d'esser
con laude e gloria nominata,
subito
al ponte di venir disegna:
ed
ora tanto più, che è disperata,
vien
volentier, quando anco a morir vegna;
che
credendosi, misera! esser priva
del
suo Ruggiero, ha in odio d'esser viva.
-
Per quel che io vaglio, giovane amorosa
(rispose
Bradamante), io m'offerisco
di
far l'impresa dura e perigliosa,
per
altre cause ancor, che io preterisco;
ma
più, che del tuo amante narri cosa
che
narrar di pochi uomini avvertisco,
che
sia in amor fedel; che a fé ti giuro
che
in ciò pensai che ognun fosse pergiuro. -
Con
un sospir quest'ultime parole
finì,
con un sospir che uscì dal core;
poi
disse: - Andiamo; - e nel seguente sole
giunsero
al fiume, al passo pien d'orrore.
Scoperte
da la guardia che vi suole
farne
segno col corno al suo signore,
il
pagan s'arma; e quale è il suo costume,
sul
ponte s'apparecchia in ripa al fiume:
e
come vi compar quella guerriera,
di
porla a morte subito minaccia,
quando
de l'arme e del destrier su che era,
al
gran sepolcro oblazion non faccia.
Bradamante
che sa l'istoria vera,
come
per lui morta Issabella giaccia,
che
Fiordiligi detto le l'avea,
al
Saracin superbo rispondea:
-
Perché vuoi tu, bestial, che gli innocenti
facciano
penitenza del tuo fallo?
Del
sangue tuo placar costei convienti:
tu
l'uccidesti, e tutto il mondo sallo.
Sì
che di tutte l'arme e guernimenti
di
tanti che gittati hai da cavallo,
oblazione
e vittima più accetta
avrà,
che io te l'uccida in sua vendetta.
E
di mia man le fia più grato il dono,
quando,
come ella fu, son donna anche io:
né
qui venuta ad altro effetto sono,
che
a vendicarla; e questo sol disio.
Ma
far tra noi prima alcun patto è buono,
che
il tuo valor si compari col mio.
S'abbattuta
sarò, di me farai
quel
che degli altri tuoi prigion fatt'hai:
ma
s'io t'abbatto, come io credo e spero,
guadagnar
voglio il tuo cavallo e l'armi,
e
quelle offerir sole al cimitero,
e
tutte l'altre distaccar da' marmi;
e
voglio che tu lasci ogni guerriero. -
Rispose
Rodomonte: - Giusto parmi
che
sia come tu dio; ma i prigion darti
già
non potrei, che io non gli ho in queste parti.
Io
gli ho al mio regno in Africa mandati:
ma
ti prometto, e ti do ben la fede,
che
se m'avvien per casi inopinati
che
tu stia in sella e che io rimanga a piede,
farò
che saran tutti liberati
in
tanto tempo quanto si richiede
di
dare a un messo che in fretta si mandi
e
far quel che, s'io perdo, mi commandi.
Ma
s'a te tocca star di sotto, come
piu
si conviene, e certo so che fia,
non
vo' che lasci l'arme, né il tuo nome,
come
di vinta, sottoscritto sia:
al
tuo bel viso, a' begli occhi, alle chiome,
che
spiran tutti amore e leggiadria,
voglio
donar la mia vittoria; e basti
che
ti disponga amarmi, ove m'odiasti.
Io
son di tal valor, son di tal nerbo,
che
aver non déi d'andar di sotto a sdegno. -
Sorrise
alquanto, ma d'un riso acerbo
che
fece d'ira, più che d'altro, segno,
la
donna, né rispose a quel superbo;
ma
tornò in capo al ponticel di legno,
spronò
il cavallo, e con la lancia d'oro
venne
a trovar quell'orgoglioso Moro.
Rodomonte
alla giostra s'apparecchia:
viene
a gran corso; ed è sì grande il suono
che
rende il ponte, che intronar l'orecchia
può
forse a molti che lontan ne sono.
La
lancia d'oro fe' l'usanza vecchia;
che
quel pagan, sì dianzi in giostra buono,
levò
di sella, e in aria lo sospese,
indi
sul ponte a capo in giù lo stese.
Nel
trapassar ritrovò a pena loco
ove
entrar col destrier quella guerriera;
e
fu a gran risco, e ben vi mancò poco,
che
ella non traboccò ne la riviera:
ma
Rabicano, il quale il vento e il fuoco
concetto
avean, sì destro ed agil era,
che
nel margine estremo trovò strada;
e
sarebbe ito anco su 'n fil di spada.
Ella
si volta, e contra l'abbattuto
pagan
ritorna; e con leggiadro motto:
-
Or puoi (disse) veder chi abbia perduto,
e
a chi di noi tocchi di star di sotto. -
Di
maraviglia il pagan resta muto,
che
una donna a cader l'abbia condotto;
e
far risposta non poté o non volle,
e
fu come uom pien di stupore e folle.
Di
terra si levò tacito e mesto;
e
poi che andato fu quattro o sei passi,
lo
scudo e l'elmo, e de l'altre arme il resto
tutto
si trasse, e gittò contra i sassi;
e
solo e a piè fu a dileguarsi presto:
non
che commission prima non lassi
a
un suo scudier, che vada a far l'effetto
dei
prigion suoi, secondo che fu detto.
Partissi;
e nulla poi più se n'intese,
se
non che stava in una grotta scura.
Intanto
Bradamante avea sospese
di
costui l'arme all'alta sepoltura,
e
fattone levar tutto l'arnese,
il
qual dei cavallieri, alla scrittura,
conobbe
de la corte esser di Carlo;
non
levò il resto, e non lasciò levarlo.
Oltr'a
quel del figliuol di Monodante,
v'è
quel di Sansonetto e d'Oliviero,
che
per trovare il principe d'Anglante,
quivi
condusse il più dritto sentiero.
Quivi
fur presi, e furo il giorno inante
mandati
via dal Saracino altiero.
Di
questi l'arme fe' la donna torre
da
l'alta mole, e chiuder ne la torre.
Tutte
l'altre lasciò pender dai sassi,
che
fur spogliate ai cavallier pagani.
V'eran
l'arme d'un re, del quale i passi
per
Frontalatte mal fur spesi e vani:
io
dico l'arme del re de' Circassi,
che
dopo lungo errar per colli e piani,
venne
quivi a lasciar l'altro destriero;
e
poi senz'arme andossene leggiero.
S'era
partito disarmato e a piede
quel
re pagan dal periglioso ponte,
sì
come gli altri che eran di sua fede,
partir
da sé lasciava Rodomonte.
Ma
di tornar più al campo non gli diede
il
cor; che ivi apparir non avria fronte:
che
per quel che vantossi, troppo scorno
gli
saria farvi in tal guisa ritorno.
Di
pur cercar nuovo desir lo prese
colei
che sol avea fissa nel core.
Fu
l'aventura sua, che tosto intese
(io
non vi saprei dir chi ne fu autore)
che
ella tornava verso il suo paese:
onde
esso, come il punge e sprona Amore,
dietro
alla pesta subito si pone.
Ma
tornar voglio alla figlia d'Amone.
Poi
che narrato ebbe con altro scritto
come
da lei fu liberato il passo;
a
Fiordiligi che avea il core afflitto,
e
tenea il viso lacrimoso e basso,
domandò
umanamente ov'ella dritto
volea
che fosse, indi partendo, il passo.
Rispose
Fiordiligi: - Il mio camino
vo'
che sia in Arli al campo saracino,
ove
navilio e buona compagnia
spero
trovar da gir ne l'altro lito.
Mai
non mi fermerò fin che io non sia
venuta
al mio signore e mio marito.
Voglio
tentar, perché in prigion non stia,
più
modi e più; che se mi vien fallito
questo
che Rodomonte t'ha promesso,
ne
voglio avere uno ed un altro appresso. -
-
Io m'offerisco (disse Bradamante)
d'accompagnarti
un pezzo de la strada,
tanto
che tu ti vegga Arli davante,
ove
per amor mio vo' che tu vada
a
trovar quel Ruggier del re Agramante,
che
del suo nome ha piena ogni contrada;
e
che gli rendi questo buon destriero,
onde
abbattuto ho il Saracino altiero.
Voglio
che a punto tu gli dica questo:
-
Un cavallier che di provar si crede,
e
fare a tutto il mondo manifesto
che
contra lui sei mancator di fede;
acciò
ti trovi apparecchiato e presto,
questo
destrier, perche io tel dia, mi diede.
Dice
che trovi tua piastra e tua maglia,
e
che l'aspetti a far teco battaglia. -
Digli
questo, e non altro; e se quel vuole
saper
da te che io son, dio che nol sai. -
Quella
rispose umana come suole:
-
Non sarò stanca in tuo servizio mai,
spender
la vita, non che le parole;
che
tu ancora per me così fatto hai. -
Grazie
le rende Bradamante, e piglia
Frontino,
e le lo porge per la briglia.
Lungo
il fiume le belle e pellegrine
giovani
vanno a gran giornate insieme,
tanto
che veggono Arli, e le vicine
rive
odon risonar del mar che freme.
Bradamante
si ferma alle confine
quasi
de' borghi ed alle sbarre estreme,
per
dare a Fiordiligi atto intervallo,
che
condurre a Ruggier possa il cavallo.
Vien
Fiordiligi, ed entra nel rastrello,
nel
ponte e ne la porta; e seco prende
chi
le fa compagnia fin all'ostello
ove
abita Ruggiero, e quivi scende;
e,
secondo il mandato, al damigello
fa
l'imbasciata, e il buon Frontin gli rende:
indi
va, che risposta non aspetta,
ad
eseguire il suo bisogno in fretta.
Ruggier
riman confuso e in pensier grande,
e
non sa ritrovar capo né via
di
saper chi lo sfide, e chi gli mande
a
dire oltraggio e a fargli cortesia.
Che
costui senza fede lo domande,
o
possa domandar uomo che sia,
non
sa veder né imaginare; e prima,
che
ogn'altro sia che Bradamante, istima.
Che
fosse Rodomonte, era più presto
ad
aver, che fosse altri, opinione;
e
perché ancor da lui debba udir questo,
pensa,
né imaginar può la cagione.
Fuor
che con lui, non sa di tutto il resto
del
mondo, con chi lite abbia e tenzone.
Intanto
la donzella di Dordona
chiede
battaglia, e forte il corno suona.
Vien
la nuova a Marsilio e ad Agramante,
che
un cavallier di fuor chiede battaglia.
A
caso Serpentin loro era avante,
ed
impetrò di vestir piastra e maglia,
e
promesse pigliar questo arrogante.
Il
popul venne sopra la muraglia;
né
fanciullo restò, né restò veglio,
che
non fosse a veder chi fêsse meglio.
Con
ricca sopravesta e bello arnese
Serpentin
da la Stella in giostra venne.
Al
primo scontro in terra si distese:
il
destrier aver parve a fuggir penne.
Dietro
gli corse la donna cortese,
e
per la briglia al Saracin lo tenne,
e
disse: - Monta, e fa che il tuo signore
mi
mandi un cavallier di te migliore. -
Il
re african, che era con gran famiglia
sopra
le mura alla giostra vicino,
del
cortese atto assai si maraviglia,
che
usato ha la donzella a Serpentino.
-
Di ragion può pigliarlo, e non lo piglia, -
diceva,
udendo il popul saracino.
Serpentin
giunge, e come ella commanda,
un
miglior da sua parte al re domanda.
Grandonio
di Volterna furibondo,
il
più superbo cavallier di Spagna,
pregando
fece sì, che fu il secondo,
ed
uscì con minacce alla campagna.
-
Tua cortesia nulla ti vaglia al mondo;
che,
quando da me vinto tu rimagna,
al
mio signor menar preso ti voglio:
ma
qui morrai, s'io posso, come soglio. -
La
donna disse lui: - Tua villania
non
vo' che men cortese far mi possa,
che
io non ti dica che tu torni pria
che
sul duro terren ti doglian l'ossa.
Ritorna,
e dio al tuo re da parte mia,
che
per simile a te non mi son mossa;
ma
per trovar guerrier che il pregio vaglia,
son
qui venuta a domandar battaglia. -
Il
mordace parlare, acre ed acerbo,
gran
fuoco al cor del Saracino attizza;
sì
che senza poter replicar verbo,
volta
il destrier con colera e con stizza.
Volta
la donna, e contra quel superbo
la
lancia d'oro e Rabicano drizza.
Come
l'asta fatal lo scudo tocca,
coi
piedi al cielo il Saracin trabocca.
Il
destrier la magnanima guerriera
gli
prese, e disse: - Pur tel prediss'io,
che
far la mia imbasciata meglio t'era,
che
de la giostra aver tanto disio.
Dio,
al re, ti prego, che fuor de la schiera
elegga
un cavallier che sia par mio;
né
voglia con voi altri affaticarme,
che
avete poca esperienza d'arme. -
Quei
da le mura, che stimar non sanno
chi
sia il guerriero in su l'arcion sì saldo,
quei
più famosi nominando vanno,
che
tremar li fan spesso al maggior caldo.
Che
Brandimarte sia, molti detto hanno:
la
più parte s'accorda esser Rinaldo:
molti
su Orlando avrian fatto disegno;
ma
il suo caso sapean di pietà degno.
La
terza giostra il figlio di Lanfusa
chiedendo,
disse: - Non che vincer speri,
ma
perché di cader più degna scusa
abbian,
cadendo anche io, questi guerrieri. -
E
poi di tutto quel che in giostra s'usa
si
messe in punto; e di cento destrieri
che
tenea in stalla, d'un tolse l'eletta,
che
avea il correre acconcio, e di gran fretta.
Contra
la donna per giostrar si fece;
ma
prima salutolla, ed ella lui.
Disse
la donna: - Se saper mi lece,
ditemi
in cortesia che siate vui. -
Di
questo Ferraù le satisfece,
che
usò di rado di celarsi altrui.
Ella
soggiunse: - Voi già non rifiuto,
ma
avria più volentieri altri voluto. -
-
E chi? - Ferraù disse. Ella rispose:
-
Ruggiero; - e a pena il poté proferire,
e
sparse d'un color come di rose
la
bellissima faccia in questo dire.
Soggiunse
al detto poi: - Le cui famose
lode
a tal prova m'han fatto venire.
Altro
non bramo, e d'altro non mi cale,
che
di provar come egli in giostra vale. -
Semplicemente
disse le parole
che
forse alcuno ha già prese a malizia.
Rispose
Ferraù: - Prima si vuole
provar
tra noi chi sa più di milizia.
Se
di me avvien quel che di molti suole,
poi
verrà ad emendar la mia tristizia
quel
gentil cavallier che tu dimostri
aver
tanto desio che teco giostri. -
Parlando
tuttavolta la donzella
teneva
la visiera alta dal viso.
Mirando
Ferraù la faccia bella,
si
sente rimaner mezzo conquiso,
e
taciturno dentro a sé favella:
-
Questo un angel mi par del paradiso;
e
ancor che con la lancia non mi tocchi,
abbattuto
son già da' suoi begli occhi. -
Preson
del campo; e come agli altri avvenne,
Ferraù
se n'uscì di sella netto.
Bradamante
il destrier suo gli ritenne,
e
disse: - Torna, e serva quel c'hai detto. -
Ferraù
vergognoso se ne venne,
e
ritrovò Ruggier che era al cospetto
del
re Agramante; e gli fece sapere
che
alla battaglia il cavallier lo chere.
Ruggier
non conoscendo ancor chi fosse
chi
a sfidar lo mandava alla battaglia,
quasi
certo di vincere, allegrosse;
e
le piastre arrecar fece e la maglia:
né
l'aver visto alle gravi percosse,
che
gli altri sian caduti, il cor gli smaglia.
Come
s'armasse, e come uscisse, e quanto
poi
ne seguì, lo serbo all'altro canto.
CANTO
TRENTASEIESIMO
Convien
che ovunque sia, sempre cortese
sia
un cor gentil, che esser non può altrimente;
che
per natura e per abito prese
quel
che di mutar poi non è possente.
Convien
che ovunque sia, sempre palese
un
cor villan si mostri similmente.
Natura
inchina al male, e viene a farsi
l'abito
poi difficile a mutarsi.
Di
cortesia, di gentilezza esempi
fra
gli antiqui guerrier si vider molti,
e
pochi fra i moderni; ma degli empi
costumi
avvien che assai ne vegga e ascolti
in
quella guerra, Ippolito, che i tempi
di
segni ornaste agli nimici tolti,
e
che traeste lor galee captive
di
preda carche alle paterne rive.
Tutti
gli atti crudeli ed inumani
che
usasse mai Tartaro o Turco o Moro,
(non
già con volontà de' Veneziani,
che
sempre esempio di giustizia foro),
usaron
l'empie e scelerate mani
di
rei soldati, mercenari loro.
Io
non dico or di tanti accesi fuochi
che
arson le ville e i nostri ameni lochi:
ben
che fu quella ancor brutta vendetta,
massimamente
contra voi, che appresso
Cesare
essendo, mentre Padua stretta
era
d'assedio, ben sapea che spesso
per
voi più d'una fiamma fu interdetta,
e
spento il fuoco ancor, poi che fu messo,
da
villaggi e da templi, come piacque,
all'alta
cortesia che con voi nacque.
Io
non parlo di questo né di tanti
altri
lor discortesi e crudeli atti;
ma
sol di quel che trar dai sassi i pianti
debbe
poter, qual volta se ne tratti:
quel
dì, Signor, che la famiglia inanti
vostra
mandaste là dove ritratti
dai
legni lor con importuni auspici
s'erano
in luogo forte gli inimici.
Qual
Ettorre ed Enea sin dentro ai flutti,
per
abbruciar le navi greche, andaro;
un
Ercol vidi e un Alessandro, indutti
da
troppo ardir, partirsi a paro a paro,
e
spronando i destrier, passarci tutti,
e
i nemici turbar fin nel riparo,
e
gir sì inanzi, che al secondo molto
aspro
fu il ritornare, e al primo tolto.
Salvossi
il Ferruffin, restò il Cantelmo.
Che
cor, duca di Sora, che consiglio
fu
allora il tuo, che trar vedesti l'elmo
fra
mille spade al generoso figlio,
e
menar preso a nave, e sopra un schelmo
troncargli
il capo? Ben mi maraviglio
che
darti morte lo spettacol solo
non
poté, quanto il ferro a tuo figliuolo.
Schiavon
crudele, onde hai tu il modo appreso
de
la milizia? In qual Scizia s'intende
che
uccider si debba un, poi che gli è preso,
che
rende l'arme, e più non si difende?
Dunque
uccidesti lui, perché ha difeso
la
patria? Il sole a torto oggi risplende,
crudel
seculo, poi che pieno sei
di
Tiesti, di Tantali e di Atrei.
Festi,
barbar crudel, del capo scemo
il
più ardito garzon che di sua etade
fosse
da un polo e l'altro, e da l'estremo
lito
degli Indi a quello ove il sol cade.
Potea
in Antropofàgo, in Polifemo
la
beltà e gli anni suoi trovar pietade;
ma
non in te, più crudo e più fellone
d'ogni
Ciclope e d'ogni Lestrigone.
Simile
esempio non credo che sia
fra
gli antiqui guerrier, di quai li studi
tutti
fur gentilezza e cortesia;
né
dopo la vittoria erano crudi.
Bradamante
non sol non era ria
a
quei che avea, toccando lor gli scudi,
fatto
uscir de la sella, ma tenea
loro
i cavalli, e rimontar facea.
Di
questa donna valorosa e bella
io
vi dissi di sopra, che abbattuto
avea
Serpentin quel da la Stella,
Grandonio
di Volterra e Ferrauto,
e
ciascun d'essi poi rimesso in sella;
e
dissi ancor che il terzo era venuto,
da
lei mandato a disfidar Ruggiero,
là
dove era stimata un cavalliero.
Ruggier
tenne lo 'nvito allegramente,
e
l'armatura sua fece venire.
Or
mentre che s'armava al re presente,
tornaron
quei signor di nuovo a dire
chi
fosse il cavallier tanto eccellente,
che
di lancia sapea sì ben ferire;
e
Ferraù, che parlato gli avea,
fu
domandato se lo conoscea.
Rispose
Ferraù: - Tenete certo
che
non è alcun di quei che avete detto.
A
me parea, che il vidi a viso aperto,
il
fratel di Rinaldo giovinetto:
ma
poi che io n'ho l'alto valore esperto,
e
so che non può tanto Ricciardetto,
penso
che sia la sua sorella, molto
(per
quel che io n'odo) a lui simil di volto.
Ella
ha ben fama d'esser forte a pare
del
suo Rinaldo e d'ogni paladino;
ma,
per quanto io ne veggo oggi, mi pare
che
val più del fratel, più del cugino. -
Come
Ruggier lei sente ricordare,
del
vermiglio color che il matutino
sparge
per l'aria, si dipinge in faccia,
e
nel cor triema, e non sa che si faccia.
A
questo annunzio, stimulato e punto
da
l'amoroso stral, dentro infiammarse,
e
per l'ossa sentì tutto in un punto
correre
un giaccio che il timor vi sparse,
timor
che un nuovo sdegno abbia consunto
quel
grande amor che già per lui sì l'arse.
Di
ciò confuso non si risolveva,
s'incontra
uscirle, o pur restar doveva.
Or
quivi ritrovandosi Marfisa,
che
d'uscire alla giostra avea gran voglia,
ed
era armata, perché in altra guisa
è
raro, o notte o dì, che tu la coglia;
sentendo
che Ruggier s'arma, s'avisa
che
di quella vittoria ella si spoglia
se
lascia che Ruggiero esca fuor prima:
pensa
ire inanzi, e averne il pregio stima.
Salta
a cavallo, e vien spronando in fretta
ove
nel campo la figlia d'Amone
con
palpitante cor Ruggiero aspetta,
desiderosa
farselo prigione,
e
pensa solo ove la lancia metta,
perché
del colpo abbia minor lesione.
Marfisa
se ne vien fuor de la porta,
e
sopra l'elmo una fenice porta;
o
sia per sua superbia, dinotando
se
stessa unica al mondo in esser forte,
o
pur sua casta intenzion lodando
di
viver sempremai senza consorte.
La
figliuola d'Amon la mira; e quando
le
fattezze che amava non ha scorte,
come
si nomi le domanda, ed ode
esser
colei che del suo amor si gode;
o
per dir meglio, esser colei che crede
che
goda del suo amor, colei che tanto
ha
in odio e in ira, che morir si vede,
se
sopra lei non vendica il suo pianto.
Volta
il cavallo, e con gran furia riede,
non
per desir di porla in terra, quanto
di
passarle con l'asta in mezzo il petto,
e
libera restar d'ogni suspetto.
Forza
è a Marfisa che a quel colpo vada
a
provar se il terreno è duro o molle;
e
cosa tanto insolita le accada,
che
ella n'è per venir di sdegno folle.
Fu
in terra a pena, che trasse la spada,
e
vendicar di quel cader si volle.
La
figliuola d'Amon non meno altiera
gridò:
- Che fai? tu sei mia prigioniera.
Se
bene uso con gli altri cortesia,
usar
teco, Marfisa, non la voglio,
come
a colei che d'ogni villania
odo
che sei dotata e d'ogni orgoglio. -
Marfisa
a quel parlar fremer s'udia
come
un vento marino in uno scoglio.
Grida,
ma sì per rabbia si confonde,
che
non può esprimer fuor quel che risponde.
Mena
la spada, e più ferir non mira
lei,
che il destrier, nel petto e ne la pancia:
ma
Bradamante al suo la briglia gira,
e
quel da parte subito si lancia;
e
tutto a un tempo con isdegno ed ira
la
figliuola d'Amon spinge la lancia,
e
con quella Marfisa tocca a pena,
che
la fa riversar sopra l'arena.
A
pena ella fu in terra, che rizzosse,
cercando
far con la spada mal'opra.
Di
nuovo l'asta Bradamante mosse,
e
Marfisa di nuovo andò sozzopra.
Ben
che possente Bradamante fosse,
non
però sì a Marfisa era di sopra,
che
l'avesse ogni colpo riversata;
ma
tal virtù ne l'asta era incantata.
Alcuni
cavallieri in questo mezzo,
alcuni,
dico, de la parte nostra,
se
n'erano venuti dove, in mezzo
l'un
campo e l'altro, si facea la giostra
(che
non eran lontani un miglio e mezzo),
veduta
la virtù che il suo dimostra;
il
suo che non conoscono altrimente
che
per un cavallier de la lor gente.
Questi
vedendo il generoso figlio
di
Troiano alle mura approssimarsi,
per
ogni caso, per ogni periglio
non
volse sproveduto ritrovarsi;
e
fe' che molti all'arme dier di piglio,
e
che fuor dei ripari appresentarsi.
Tra
questi fu Ruggiero, a cui la fretta
di
Marfisa la giostra avea intercetta.
L'inamorato
giovene mirando
stava
il successo, e gli tremava il core,
de
la sua cara moglie dubitando;
che
di Marfisa ben sapea il valore.
Dubitò,
dico, nel principio, quando
si
mosse l'una e l'altra con furore;
ma
visto poi come successe il fatto,
restò
maraviglioso e stupefatto:
e
poi che fin la lite lor non ebbe,
come
avean l'altre avute, al primo incontro,
nel
cor profundamente gli ne 'ncrebbe,
dubbioso
pur di qualche strano incontro.
De
l'una egli e de l'altra il ben vorrebbe;
che
ama amendue: non che da porre incontro
sien
questi amori: è l'un fiamma e furore,
l'altro
benivolenza più che amore.
Partita
volentier la pugna avria,
se
con suo onor potuto avesse farlo.
Ma
quei che egli avea seco in compagnia,
perché
non vinca la parte di Carlo,
che
già lor par che superior ne sia,
saltan
nel campo, e vogliono turbarlo.
Da
l'altra parte i cavallier cristiani
si
fanno inanzi, e son quivi alle mani.
Di
qua di là gridar si sente all'arme,
come
usati eran far quasi ogni giorno.
Monti
chi è a piè, chi non è armato s'arme,
alla
bandiera ognun faccia ritorno!
dicea
con chiaro e bellicoso carme
più
d'una tromba che scorrea d'intorno:
e
come quelle svegliano i cavalli,
svegliano
i fanti i timpani e i taballi.
La
scaramuccia fiera e sanguinosa,
quanto
si possa imaginar, si mesce.
La
donna di Dordona valorosa,
a
cui mirabilmente aggrava e incresce
che
quel di che era tanto disiosa,
di
por Marfisa a morte, non riesce;
di
qua di là si volge e si raggira,
se
Ruggier può veder, per cui sospira.
Lo
riconosco all'aquila d'argento
c'ha
nello scudo azzurro il giovinetto.
Ella
con gli occhi e col pensiero intento
si
ferma a contemplar le spalle e il petto,
le
leggiadre fattezze, e il movimento
pieno
di grazia; e poi con gran dispetto,
imaginando
che altra ne gioisse,
da
furore assalita così disse:
-
Dunque baciar sì belle e dolce labbia
deve
altra, se baciar non le poss'io?
Ah
non sia vero già che altra mai t'abbia;
che
d'altra esser non déi, se non sei mio.
Più
tosto che morir sola di rabbia,
che
meco di mia man mori, disio;
che
se ben qui ti perdo, almen l'inferno
poi
mi ti renda, e stii meco in eterno.
Se
tu m'occidi, è ben ragion che deggi
darmi
de la vendetta anco conforto;
che
voglion tutti gli ordini e le leggi,
che
chi dà morte altrui debba esser morto.
Né
par che anco il tuo danno il mio pareggi;
che
tu mori a ragione, io moro a torto.
Farò
morir chi brama, ohimè! che io muora;
ma
tu, crudel, chi t'ama e chi t'adora.
Perché
non déi tu, mano, essere ardita
d'aprir
col ferro al mio nimico il core?
che
tante volte a morte m'ha ferita
sotto
la pace in sicurtà d'amore,
ed
or può consentir tormi la vita,
né
pur aver pietà del mio dolore.
Contra
questo empio ardisci, animo forte:
vendica
mille mie con la sua morte. -
Gli
sprona contra in questo dir, ma prima:
-
Guardati (grida), perfido Ruggiero:
tu
non andrai, s'io posso, de la opima
spoglia
del cor d'una donzella altiero. -
Come
Ruggiero ode il parlare, estima
che
sia la moglie sua, com'era in vero,
la
cui voce in memoria sì bene ebbe,
che
in mille riconoscer la potrebbe.
Ben
pensa quel che le parole denno
volere
inferir più; che ella l'accusa
che
la convenzion che insieme fenno,
non
le osservava: onde per farne iscusa,
di
volerle parlar le fece cenno:
ma
quella già con la visiera chiusa
venìa
dal dolor spinta e da la rabbia,
per
porlo, e forse ove non era sabbia.
Quando
Ruggier la vede tanto accesa,
si
ristringe ne l'arme e ne la sella:
la
lancia arresta; ma la tien sospesa,
piegata
in parte ove non nuoccia a quella.
La
donna, che a ferirlo e a fargli offesa
venìa
con mente di pietà rubella,
non
poté sofferir, come fu appresso,
di
porlo in terra e fargli oltraggio espresso.
Così
lor lance van d'effetto vote
a
quello incontro; e basta ben s'Amore
con
l'un giostra e con l'altro, e gli percuote
d'una
amorosa lancia in mezzo il core.
Poi
che la donna sofferir non puote
di
far onta a Ruggier, volge il furore
che
l'arde il petto, altrove; e vi fa cose
che
saran, fin che giri il ciel, famose.
In
poco spazio ne gittò per terra
trecento
e più con quella lancia d'oro.
Ella
sola quel dì vinse la guerra,
messe
ella sola in fuga il popul Moro.
Ruggier
di qua di là s'aggira ed erra
tanto,
che se le accosta e dice: - Io moro,
s'io
non ti parlo: ohimè! che t'ho fatto io,
che
mi debbi fuggire? Odi, per Dio! -
Come
ai meridional tiepidi venti,
che
spirano dal mare il fiato caldo,
le
nievi si disciolveno e i torrenti,
e
il ghiaccio che pur dianzi era sì saldo;
così
a quei prieghi, a quei brevi lamenti
il
cor de la sorella di Rinaldo
subito
ritornò pietoso e molle,
che
l'ira, più che marmo, indurar volle.
Non
vuol dargli, o non puote, altra risposta;
ma
da traverso sprona Rabicano,
e
quanto può dagli altri si discosta,
ed
a Ruggiero accenna con la mano.
Fuor
de la moltitudine in reposta
valle
si trasse, ov'era un piccol piano
che
in mezzo avea un boschetto di cipressi
che
parean d'una stampa, tutti impressi.
In
quel boschetto era di bianchi marmi
fatta
di nuovo un'alta sepoltura.
Chi
dentro giaccia, era con brevi carmi
notato
a chi saperlo avesse cura.
Ma
quivi giunta Bradamante, parmi
che
gia non pose mente alla scrittura.
Ruggier
dietro il cavallo affretta e punge
tanto,
che al bosco e alla donzella giunge.
Ma
ritorniamo a Marfisa che s'era
in
questo mezzo in sul destrier rimessa,
e
venìa per trovar quella guerriera
che
l'avea al primo scontro in terra messa:
e
la vide partir fuor de la schiera,
e
partir Ruggier vide e seguir essa;
né
si pensò che per amor seguisse,
ma
per finir con l'arme ingiurie e risse.
Urta
il cavallo, e vien dietro alla pesta
tanto,
che a un tempo con lor quasi arriva.
Quanto
sua giunta ad ambi sia molesta,
chi
vive amando, il sa, senza che io il scriva.
Ma
Bradamante offesa più ne resta,
che
colei vede, onde il suo mal deriva.
Chi
le può tor che non creda esser vero
che
l'amor ve la sproni di Ruggiero?
E
perfido Ruggier di nuovo chiama.
-
Non ti bastava, perfido (disse ella),
che
tua perfidia sapessi per fama,
se
non mi facevi anco veder quella?
Di
cacciarmi da te veggo c'hai brama:
e
per sbramar tua voglia iniqua e fella,
io
vo' morir; ma sforzerommi ancora
che
muora meco chi è cagion che io mora. -
Sdegnosa
più che vipera, si spicca,
così
dicendo, e va contra Marfisa;
ed
allo scudo l'asta sì le appicca,
che
la fa a dietro riversare in guisa,
che
quasi mezzo l'elmo in terra ficca;
né
si può dir che sia colta improvisa:
anzi
fa incontra ciò che far si puote;
e
pure in terra del capo percuote.
La
figliuola d'Amon, che vuol morire
o
dar morte a Marfisa, è in tanta rabbia,
che
non ha mente di nuovo a ferire
con
l'asta, onde a gittar di nuovo l'abbia;
ma
le pensa dal busto dipartire
il
capo mezzo fitto ne la sabbia:
getta
da sé la lancia d'oro, e prende
la
spada, e del destrier subito scende.
Ma
tarda è la sua giunta; che si trova
Marfisa
incontra, e di tanta ira piena
(poi
che s'ha vista alla seconda prova
cader
sì facilmente su l'arena),
che
pregar nulla, e nulla gridar giova
a
Ruggier che di questo avea gran pena:
sì
l'odio e l'ira le guerriere abbaglia,
che
fan da disperate la battaglia.
A
mezzo spada vengono di botto;
e
per la gran superbia che l'ha accese,
van
pur inanzi, e si son già sì sotto,
che
altro non puon che venire alle prese.
Le
spade, il cui bisogno era interrotto,
lascian
cadere, e cercan nuove offese.
Priega
Ruggiero e supplica amendue,
ma
poco frutto han le parole sue.
Quando
pur vede che il pregar non vale,
di
partirle per forza si dispone:
leva
di mano ad amendua il pugnale,
ed
al piè d'un cipresso li ripone.
Poi
che ferro non han più da far male,
con
prieghi e con minaccie s'interpone:
ma
tutto è invan; che la battaglia fanno
a
pugni e a calci, poi che altro non hanno.
Ruggier
non cessa: or l'una or l'altra prende
per
le man, per le braccia, e la ritira;
e
tanto fa, che di Marfisa accende
contra
di sé, quanto si può più, l'ira.
Quella
che tutto il mondo vilipende,
alla
amicizia di Ruggier non mira.
Poi
che da Bradamante si distacca,
corre
alla spada, e con Ruggier s'attacca.
-
Tu fai da discortese e da villano,
Ruggiero,
a disturbar la pugna altrui;
ma
ti farò pentir con questa mano
che
vo' che basti a vincervi ambedui.
Cerca
Ruggier con parlar molto umano
Marfisa
mitigar; ma contra lui
la
trova in modo disdegnosa e fiera,
che
un perder tempo ogni parlar seco era.
All'ultimo
Ruggier la spada trasse,
poi
che l'ira anco lui fe' rubicondo.
Non
credo che spettacolo mirasse
Atene
o Roma o luogo altro del mondo,
che
così a' riguardanti dilettasse,
come
dilettò questo e fu giocondo
alla
gelosa Bradamante, quando
questo
le pose ogni sospetto in bando.
La
sua spada avea tolta ella di terra,
e
tratta s'era a riguardar da parte;
e
le parea veder che il dio di guerra
fosse
Ruggiero alla possanza e all'arte.
Una
furia infernal quando si sferra
sembra
Marfisa, se quel sembra Marte.
Vero
è che un pezzo il giovene gagliardo
di
non far il potere ebbe riguardo.
Sapea
ben la virtù de la sua spada;
che
tante esperienze n'ha già fatto.
Ove
giunge, convien che se ne vada
l'incanto,
o nulla giovi, e stia di piatto:
sì
che ritien che il colpo suo non cada
di
taglio o punta, ma sempre di piatto.
Ebbe
a questo Ruggier lunga avvertenza:
ma
perdé pure un tratto la pazienza;
perché
Marfisa una percossa orrenda
gli
mena per dividergli la testa.
Leva
lo scudo che il capo difenda
Ruggiero,
e il colpo in su l'aquila pesta.
Vieta
lo 'ncanto che lo spezzi o fenda;
ma
di stordir non però il braccio resta:
e
s'avea altr'arme che quelle d'Ettorre,
gli
potea il fiero colpo il braccio torre:
e
saria sceso indi alla testa, dove
disegnò
di ferir l'aspra donzella.
Ruggiero
il braccio manco a pena muove,
a
pena più sostien l'aquila bella.
Per
questo ogni pietà da sé rimuove;
par
che negli occhi avampi una facella:
e
quanto può cacciar, caccia una punta.
Marfisa,
mal per te, se n'eri giunta!
Io
non vi so ben dir come si fosse:
la
spada andò a ferire in un cipresso,
e
un palmo e più ne l'arbore cacciosse:
in
modo era piantato il luogo spesso.
In
quel momento il monte e il piano scosse
un
gran tremuoto; e si sentì con esso
da
quell'avel che in mezzo il bosco siede,
gran
voce uscir, che ogni mortale eccede.
Grida
la voce orribile: - Non sia
lite
tra voi: gli è ingiusto ed inumano
che
alla sorella il fratel morte dia,
o
la sorella uccida il suo germano.
Tu,
mio Ruggiero, e tu, Marfisa mia,
credete
al mio parlar che non è vano:
in
un medesimo utero d'un seme
foste
concetti, e usciste al mondo insieme.
Concetti
foste da Ruggier secondo:
vi
fu Galaciella genitrice,
i
cui fratelli avendole dal mondo
cacciato
il genitor vostro infelice,
senza
guardar che avesse in corpo il pondo
di
voi, che usciste pur di lor radice,
la
fer, perché s'avesse ad affogare,
s'un
debol legno porre in mezzo al mare.
Ma
Fortuna che voi, ben che non nati,
avea
già eletti a gloriose imprese,
fece
che il legno ai liti inabitati
sopra
le Sirti a salvamento scese;
ove,
poi che nel mondo v'ebbe dati,
l'anima
eletta al paradiso ascese.
Come
Dio volse e fu vostro destino,
a
questo caso io mi trovai vicino.
Diedi
alla madre sepoltura onesta,
qual
potea darsi in sì deserta arena;
e
voi teneri avolti ne la vesta
meco
portai sul monte di Carena;
e
mansueta uscir de la foresta
fecie
lasciare i figli una leena,
de
le cui poppe dieci mesi e dieci
ambi
nutrir con molto studio feci.
Un
giorno che d'andar per la contrada
e
da la stanza allontanar m'occorse,
vi
sopravenne a caso una masnada
d'Arabi
(e ricordarvene de' forse),
che
te, Marfisa, tolser ne la strada,
ma
non poter Ruggier, che meglio corse.
Restai
de la tua perdita dolente,
e
di Ruggier guardian più diligente.
Ruggier,
se ti guardò, mentre che visse,
il
tuo maestro Atlante, tu lo sai.
Di
te sentio predir le stelle fisse,
che
tra' cristiani a tradigion morrai;
e
perché il male influsso non seguisse,
tenertene
lontan m'affaticai:
né
ostare al fin potendo alla tua voglia,
infermo
caddi, e mi morio di doglia.
Ma
inanzi a morte, qui dove previdi
che
con Marfisa aver pugna dovevi,
feci
raccor con infernal sussidi
a
formar questa tomba i sassi grevi;
ed
a Caron dissi con alti gridi:
-
Dopo morte non vo' lo spirto levi
di
questo bosco, fin che non ci giugna
Ruggier
con la sorella per far pugna. -
Così
lo spirto mio per le belle ombre
ha
molti dì aspettato il venir vostro:
sì
che mai gelosia più non t'ingombre,
o
Bradamante, che ami Ruggier nostro.
Ma
tempo è ormai che de la luce io sgombre,
e
mi conduca al tenebroso chiostro. -
Qui
si tacque; e a Marfisa ed alla figlia
d'Amon
lasciò e a Ruggier gran maraviglia.
Riconosce
Marfisa per sorella
Ruggier
con molto gaudio, ed ella lui;
e
ad abbracciarsi, senza offender quella
che
per Ruggiero ardea, vanno ambidui:
e
rammentando de l'età novella
alcune
cose: io feci, io dissi, io fui;
vengon
trovando con più certo effetto,
tutto
esser ver quel c'ha lo spirto detto.
Ruggiero
alla sorella non ascose
quanto
avea nel cor fissa Bradamante;
e
narrò con parole affettuose
de
le obligazion che le avea tante:
e
non cessò, che in grand'amor compose
le
discordie che insieme ebbono avante;
e
fe', per segno di pacificarsi,
che
umanamente andaro ad abbracciarsi.
A
domandar poi ritornò Marfisa
chi
stato fosse, e di che gente il padre;
e
chi l'avesse morto, ed a che guisa,
s'in
campo chiuso o fra l'armate squadre;
e
chi commesso avea che fosse uccisa
dal
mar atroce la misera madre:
che
se già l'avea udito da fanciulla,
or
ne tenea poca memoria o nulla.
Ruggiero
incominciò, che da' Troiani
per
la linea d'Ettorre erano scesi;
che
poi che Astianatte de le mani
campò
d'Ulisse e da li aguati tesi,
avendo
un de' fanciulli coetani
per
lui lasciato, uscì di quei paesi;
e
dopo un lungo errar per la marina,
venne
in Sicilia e dominò Messina.
-
I descendenti suoi di qua dal Faro
signoreggiar
de la Calabria parte;
e
dopo più successioni andaro
ad
abitar ne la città di Marte.
Più
d'uno imperatore e re preclaro
fu
di quel sangue in Roma e in altra parte,
cominciando
a Costante e a Costantino,
sino
a re Carlo figlio de Pipino.
Fu
Ruggier primo e Gianbaron di questi,
Buovo,
Rambaldo, al fin Ruggier secondo,
che
fe', come d'Atlante udir potesti,
di
nostra madre l'utero fecondo.
De
la progenie nostra i chiari gesti
per
l'istorie vedrai celebri al mondo. -
Seguì
poi, come venne il re Agolante
con
Almonte e col padre d'Agramante;
e
come menò seco una donzella
che
era sua figlia, tanto valorosa,
che
molti paladin gittò di sella;
e
di Ruggiero al fin venne amorosa,
e
per suo amor del padre fu ribella,
e
battezzossi, e diventògli sposa.
Narrò
come Beltramo traditore
per
la cognata arse d'incesto amore;
e
che la patria e il padre e duo fratelli
tradì,
così sperando acquistar lei;
aperse
Risa agli nimici, e quelli
fer
di lor tutti i portamenti rei;
come
Agolante e i figli iniqui e felli
poser
Galaciella, che di sei
mesi
era grave, in mar senza governo,
quando
fu tempestoso al maggior verno.
Stava
Marfisa con serena fronte
fisa
al parlar che il suo german facea:
ed
esser scesa da la bella fonte
che
avea sì chiari rivi, si godea.
Quindi
Mongrana e quindi Chiaramonte
le
due progenie derivar sapea,
che
al mondo fu molti e molt'anni e lustri
splendide,
e senza par d'uomini illustri.
Poi
che il fratello al fin le venne a dire
che
il padre d'Agramante e l'avo e il zio
Ruggiero
a tradigion feron morire,
e
posero la moglie a caso rio;
non
lo poté più la sorella udire,
che
lo 'nterroppe, e disse: - Fratel mio
(salva
tua grazia), avuto hai troppo torto
a
non ti vendicar del padre morto.
Se
in Almonte e in Troian non ti potevi
insanguinar,
che erano morti inante,
dei
figli vendicar tu ti dovevi.
Perché,
vivendo tu, vive Agramante?
Questa
è una macchia che mai non ti levi
dal
viso; poi che dopo offese tante
non
pur posto non hai questo re a morte,
ma
vivi al soldo suo ne la sua corte.
Io
fo ben voto a Dio (che adorar voglio
Cristo
Dio vero, che adorò mio padre)
che
di questa armatura non mi spoglio,
fin
che Ruggier non vendico e mia madre.
E
vo' dolermi, e fin ora mi doglio,
di
te, se più ti veggo fra le squadre
del
re Agramante o d'altro signor Moro,
se
non col ferro in man per danno loro. -
Oh
come a quel parlar leva la faccia
la
bella Bradamante, e ne gioisce!
E
conforta Ruggier che così faccia
come
Marfisa sua ben l'ammonisce;
e
venga a Carlo, e conoscer si faccia,
che
tanto onora, lauda e riverisce
del
suo padre Ruggier la chiara fama,
che
ancor guerrier senza alcun par lo chiama.
Ruggiero
accortamente le rispose
che
da principio questo far dovea;
ma
per non bene aver note le cose,
come
ebbe poi, tardato troppo avea.
Ora,
essendo Agramante che gli pose
la
spada al fianco, farebbe opra rea
dandogli
morte, e saria traditore;
che
già tolto l'avea per suo signore.
Ben,
come a Bradamante già promesse,
promettea
a lei di tentare ogni via,
tanto
che occasione, onde potesse
levarsi
con suo onor, nascer faria.
E
se già fatto non l'avea, non desse
la
colpa a lui, m'al re di Tartaria,
dal
qual ne la battaglia che seco ebbe,
lasciato
fu, come saper si debbe.
Ed
ella che ogni dì gli venìa al letto,
buon
testimon, quanto alcun altro, n'era.
Fu
sopra questo assai risposto e detto
da
l'una e da l'altra inclita guerriera.
L'ultima
conclusion, l'ultimo effetto
è
che Ruggier ritorni alla bandiera
del
suo signor, fin che cagion gli accada,
che
giustamente a Carlo se ne vada.
-
Lascialo pur andar (dicea Marfisa
a
Bradamante), e non aver timore:
fra
pochi giorni io farò bene in guisa
che
non gli fia Agramante più signore. -
Così
dice ella, né però devisa
quanto
di voler fare abbia nel core.
Tolta
da lor licenza, al fin Ruggiero
per
tornare al suo re volgea il destriero;
quando
un pianto s'udì da le vicine
valli
sonar, che li fe' tutti attenti.
A
quella voce fan l'orecchie chine,
che
di femina par che si lamenti.
Ma
voglio questo canto abbia qui fine,
e
di quel che voglio io, siate contenti;
che
miglior cose vi prometto dire,
s'all'altro
canto mi verrete a udire.
CANTO
TRENTASETTESIMO
Se,
come in acquistar qualche altro dono
che
senza industria non può dar Natura,
affaticate
notte e dì si sono
con
somma diligenza e lunga cura
le
valorose donne, e se con buono
successo
n'è uscit'opra non oscura;
così
si fosson poste a quelli studi
che
immortal fanno le mortal virtudi;
e
che per sé medesime potuto
avesson
dar memoria alle sue lode,
non
mendicar dagli scrittori aiuto,
ai
quali astio ed invidia il cor sì rode,
che
il ben che ne puon dir, spesso è taciuto,
e
il mal, quanto ne san, per tutto s'ode;
tanto
il lor nome sorgeria, che forse
viril
fama a tal grado unqua non sorse.
Non
basta a molti di prestarsi l'opra
in
far l'un l'altro glorioso al mondo,
che
anco studian di far che si discuopra
ciò
che le donne hanno fra lor d'immondo.
Non
le vorrian lasciar venir di sopra,
e
quanto puon, fan per cacciarle al fondo:
dico
gli antiqui; quasi l'onor debbia
d'esse
il lor oscurar, come il sol nebbia.
Ma
non ebbe e non ha mano né lingua,
formando
in voce o discrivendo in carte
(quantunque
il mal, quanto può, accresce e impingua,
e
minuendo il ben va con ogni arte),
poter
però, che de le donne estingua
la
gloria sì, che non ne resti parte;
ma
non già tal, che presso al segno giunga,
né
che anco se gli accosti di gran lunga:
che
Arpalice non fu, non fu Tomiri,
non
fu chi Turno, non chi Ettor soccorse;
non
chi seguita da Sidoni e Tiri
andò
per lungo mare in Libia a porse;
non
Zenobia, non quella che gli Assiri,
i
Persi e gli Indi con vittoria scorse:
non
fur queste e poche altre degne sole,
di
cui per arme eterna fama vole.
E
di fedeli e caste e sagge e forti
stato
ne son, non pur in Grecia e in Roma,
ma
in ogni parte ove fra gli Indi e gli Orti
de
le Esperide il Sol spiega la chioma:
de
le quai sono i pregi agli onor morti,
sì
che a pena di mille una si noma;
e
questo, perché avuto hanno ai lor tempi
gli
scrittori bugiardi, invidi ed empi.
Non
restate però, donne, a cui giova
il
bene oprar, di seguir vostra via;
né
da vostra alta impresa vi rimuova
tema
che degno onor non vi si dia:
che,
come cosa buona non si trova
che
duri sempre, così ancor né ria.
Se
le carte sin qui state e gli inchiostri
per
voi non sono, or sono a' tempi nostri.
Dianzi
Marullo ed il Pontan per vui
sono,
e duo Strozzi, il padre e il figlio, stati:
c'è
il Bembo, c'è il Capel, c'è chi, qual lui
vediamo,
ha tali i cortigian formati:
c'è
un Luigi Alaman: ce ne son dui,
di
par da Marte e da le Muse amati,
ambi
del sangue che regge la terra
che
il Menzo fende e d'alti stagni serra.
Di
questi l'uno, oltre che il proprio istinto
ad
onorarvi e a riverirvi inchina,
e
far Parnasso risonare e Cinto
di
vostra laude, e porla al ciel vicina;
l'amor,
la fede, il saldo e non mai vinto
per
minacciar di strazi e di ruina,
animo
che Issabella gli ha dimostro,
lo
fa, assai più che di se stesso, vostro:
sì
che non è per mai trovarsi stanco
di
farvi onor nei suoi vivaci carmi:
e
s'altri vi dà biasmo, non è che anco
sia
più pronto di lui per pigliar l'armi:
e
non ha il mondo cavallier che manco
la
vita sua per la virtù rispiarmi.
Dà
insieme egli materia ond'altri scriva,
e
fa la gloria altrui, scrivendo, viva.
Ed
è ben degno che sì ricca donna,
ricca
di tutto quel valor che possa
esser
fra quante al mondo portin gonna,
mai
non si sia di sua costanza mossa;
e
sia stata per lui vera colonna,
sprezzando
di Fortuna ogni percossa:
di
lei degno egli, e degna ella di lui;
né
meglio s'accoppiaro unque altri dui.
Nuovi
trofei pon su la riva d'Oglio;
che
in mezzo a ferri, a fuochi, a navi, a ruote
ha
sparso alcun tanto ben scritto foglio,
che
il vicin fiume invidia aver gli puote.
Appresso
a questo un Ercol Bentivoglio
fa
chiaro il vostro onor con chiare note,
e
Renato Trivulcio, e il mio Guidetto,
e
il Molza, a dir di voi da Febo eletto.
C'è
il duca de' Carnuti Ercol, figliuolo
del
duca mio, che spiega l'ali come
canoro
cigno, e va cantando a volo,
e
fin al cielo udir fa il vostro nome.
C'è
il mio signor del Vasto, a cui non solo
di
dare a mille Atene e a mille Rome
di
sé materia basta, che anco accenna
volervi
eterne far con la sua penna.
Ed
oltre a questi ed altri che oggi avete,
che
v'hanno dato gloria e ve la danno,
voi
per voi stesse dar ve la potete;
poi
che molte, lasciando l'ago e il panno,
son
con le Muse a spegnersi la sete
al
fonte d'Aganippe andate, e vanno;
e
ne ritornan tai, che l'opra vostra
è
più bisogno a noi, che a voi la nostra.
Se
chi sian queste, e di ciascuna voglio
render
buon conto, e degno pregio darle,
bisognerà
che io verghi più d'un foglio,
e
che oggi il canto mio d'altro non parle:
e
s'a lodarne cinque o sei ne toglio,
io
potrei l'altre offendere e sdegnarle.
Che
farò dunque? Ho da tacer d'ognuna,
o
pur fra tante sceglierne sol una?
Sceglieronne
una; e sceglierolla tale,
che
superato avrà l'invidia in modo,
che
nessun'altra potrà avere a male,
se
l'altre taccio, e se lei sola lodo.
Quest'una
ha non pur sé fatta immortale
col
dolce stil di che il meglior non odo;
ma
può qualunque di cui parli o scriva,
trar
del sepolcro, e far che eterno viva.
Come
Febo la candida sorella
fa
più di luce adorna, e più la mira,
che
Venere o che Maia o che altra stella
che
va col cielo o che da sé si gira:
così
facundia, più che all'altre, a quella
di
che io vi parlo, e più dolcezza spira;
e
dà tal forza all'alte sue parole,
che
orna a' dì nostri il ciel d'un altro sole.
Vittoria
è il nome; e ben conviensi a nata
fra
le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi,
di
trofei sempre e di trionfi ornata,
la
vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.
Questa
è un'altra Artemisia, che lodata
fu
di pietà verso il suo Mausolo; anzi
tanto
maggior, quanto è più assai bell'opra,
che
por sotterra un uom, trarlo di sopra.
Se
Laodamìa se la moglier di Bruto,
s'Arria,
s'Argia, s'Evadne, e s'altre molte
meritar
laude per aver voluto,
morti
i mariti, esser con lor sepolte;
quanto
onore a Vittoria è più dovuto,
che
di Lete e del rio che nove volte
l'ombre
circonda, ha tratto il suo consorte,
mal
grado de le Parche e de la Morte!
S'al
fiero Achille invidia de la chiara
meonia
tromba il Macedonico ebbe,
quanto,
invitto Francesco di Pescara,
maggior
a te, se vivesse or, l'avrebbe!
che
sì casta mogliere e a te sì cara
canti
l'eterno onor che ti si debbe,
e
che per lei sì il nome tuo rimbombe,
che
da bramar non hai più chiare trombe.
Se
quanto dir se ne potrebbe, o quanto
io
n'ho desir, volessi porre in carte,
ne
direi lungamente; ma non tanto,
che
a dir non ne restasse anco gran parte:
e
di Marfisa e dei compagni intanto
la
bella istoria rimarria da parte,
la
quale io vi promisi di seguire,
s'in
questo canto mi verreste a udire.
Ora
essendo voi qui per ascoltarmi,
ed
io per non mancar de la promessa,
serberò
a maggior ozio di provarmi
che
ogni laude di lei sia da me espressa;
non
perche io creda bisognar miei carmi
a
chi se ne fa copia da se stessa;
ma
sol per satisfare a questo mio.
c'ho
d'onorarla e di lodar, disio.
Donne,
io conchiudo in somma, che ogni etate
molte
ha di voi degne d'istoria avute;
ma
per invidia di scrittori state
non
sete dopo morte conosciute:
il
che più non sarà, poi che voi fate
per
voi stesse immortal vostra virtute.
Se
far le due cognate sapean questo,
si
sapria meglio ogni lor degno gesto.
Di
Bradamante e di Marfisa dico,
le
cui vittoriose inclite prove
di
ritornare in luce m'affatico;
ma
de le diece mancanmi le nove.
Queste
che io so, ben volentieri esplìco;
sì
perché ogni bell'opra si de', dove
occulta
sia, scoprir, sì perché bramo
a
voi, donne, aggradir, che onoro ed amo.
Stava
Ruggier, com'io vi dissi, in atto
di
partirsi, ed avea commiato preso,
e
dall'arbore il brando già ritratto,
che,
come dianzi, non gli fu conteso;
quando
un gran pianto, che non lungo tratto
era
lontan, lo fe' restar sospeso;
e
con le donne a quella via si mosse,
per
aiutar, dove bisogno fosse.
Spingonsi
inanzi, e via più chiaro il suon ne
viene,
e via più son le parole intese.
Giunti
ne la vallea, trovan tre donne
che
fan quel duolo, assai strane in arnese;
che
fin all'ombilico ha lor le gonne
scorciate
non so chi poco cortese:
e
per non saper meglio elle celarsi,
sedeano
in terra, e non ardian levarsi.
Come
quel figlio di Vulcan, che venne
fuor
de la polve senza madre in vita,
e
Pallade nutrir fe' con solenne
cura
d'Aglauro, al veder troppo ardita,
sedendo,
ascosi i brutti piedi tenne
su
la quadriga da lui prima ordita;
così
quelle tre giovani le cose
secrete
lor tenean, sedendo, ascose.
Lo
spettacolo enorme e disonesto
l'una
e l'altra magnanima guerriera
fe'
del color che nei giardin di Pesto
esser
la rosa suol da primavera.
Riguardò
Bradamante, e manifesto
tosto
le fu che Ullania una d'esse era,
Ullania
che da l'Isola Perduta
in
Francia messaggera era venuta:
e
riconobbe non men l'altre due;
che
dove vide lei, vide esse ancora.
Ma
se n'andaron le parole sue
a
quella de le tre che ella più onora;
e
le domanda chi sì iniquo fue,
e
sì di legge e di costumi fuora,
che
quei segreti agli occhi altrui riveli,
che,
quanto può, par che Natura celi.
Ullania
che conosce Bradamante,
non
meno che alle insegne, alla favella,
esser
colei che pochi giorni inante
avea
gittati i tre guerrier di sella,
narra
che ad un castel poco distante
una
ria gente e di pietà ribella,
oltre
all'ingiuria di scorciarle i panni,
l'avea
battuta e fattol'altri danni.
Né
le sa dir che de lo scudo sia,
né
dei tre re che per tanti paesi
fatto
le avean sì lunga compagnia:
non
sa se morti, o sian restati presi;
e
dice c'ha pigliata questa via,
ancor
che andare a piè molto le pesi,
per
richiamarsi de l'oltraggio a Carlo,
sperando
che non sia per tolerarlo.
Alle
guerriere ed a Ruggier, che meno
non
han pietosi i cor, che audaci e forti,
de'
bei visi turbò l'aer sereno
l'udire,
e più il veder sì gravi torti:
et
obliando ogn'altro affar che avieno,
e
senza che li prieghi o che gli esorti
la
donna afflitta a far la sua vendetta,
piglian
la via verso quel luogo in fretta.
Di
commune parer le sopraveste,
mosse
da gran bontà, s'aveano tratte,
cha'
ricoprir le parti meno oneste
di
quelle sventurate assai furo atte.
Bradamante
non vuol che Ullania peste
le
strade a piè, che avea a piede anco fatte,
e
se la leva in groppa del destriero;
l'altra
Marfisa, l'altra il buon Ruggiero.
Ullania
a Bradamante che la porta,
mostra
la via che va al castel più dritta:
Bradamante
all'incontro lei conforta,
che
la vendicherà di chi l'ha afflitta.
Lascian
la valle, e per via lunga e torta
sagliono
un colle or a man manca or ritta;
e
prima il sol fu dentro il mare ascoso,
che
volesser tra via prender riposo.
Trovaro
una villetta che la schena
d'un
erto colle, aspro a salir, tenea;
ove
ebbon buono albergo e buona cena,
quale
avere in quel loco si potea.
Si
mirano d'intorno, e quivi piena
ogni
parte di donne si vedea,
quai
giovani, quai vecchie; e in tanto stuolo
faccia
non v'apparia d'un uomo solo.
Non
più a Iason di maraviglia denno,
né
agli Argonauti che venian con lui,
le
donne che i mariti morir fenno
e
i figli e i padri coi fratelli sui,
sì
che per tutta l'isola di Lenno
di
viril faccia non si vider dui;
che
Ruggier quivi, e chi con Ruggier era
maraviglia
ebbe all'alloggiar la sera.
Fero
ad Ullania ed alle damigelle
che
venivan con lei, le due guerriere
la
sera proveder di tre gonnelle,
se
non così polite, almeno intere.
A
sé chiama Ruggiero una di quelle
donne
che abitan quivi, e vuol sapere
ove
gli uomini sian, che un non ne vede;
ed
ella a lui questa risposta diede:
-
Questa che forse è maraviglia a voi,
che
tante donne senza uomini siamo,
è
grave e intolerabil pena a noi,
che
qui bandite misere viviamo.
E
perché il duro esilio più ci annoi,
padri,
figli e mariti, che sì amiamo,
aspro
e lungo divorzio da noi fanno,
come
piace al crudel nostro tiranno.
Da
le sue terre, le quai son vicine
a
noi due leghe, e dove noi siàn nate,
qui
ci ha mandato il barbaro in confine,
prima
di mille scorni ingiuriate;
ed
ha gli uomini nostri e noi meschine
di
morte e d'ogni strazio minacciate,
se
quelli a noi verranno, o gli fia detto
che
noi diàn lor, venendoci, ricetto.
Nimico
è sì costui del nostro nome,
che
non ci vuol, più che io vi dico, appresso,
né
che a noi venga alcun de' nostri, come
l'odor
l'ammorbi del femineo sesso.
Già
due volte l'onor de le lor chiome
s'hanno
spogliato gli alberi e rimesso,
da
indi in qua che il rio signor vaneggia
in
furor tanto: e non è chi il correggia;
che
il populo ha di lui quella paura
che
maggior aver può l'uom de la morte;
che
aggiunto al mal voler gli ha la natura
una
possanza fuor d'umana sorte.
Il
corpo suo di gigantea statura
è
più, che di cent'altri insieme, forte.
Né
pure a noi sue suddite è molesto,
ma
fa alle strane ancor peggio di questo.
Se
l'onor vostro, e queste tre vi sono
punto
care, che avete in compagnia,
più
vi sarà sicuro, utile e buono
non
gir più inanzi, e trovar altra via.
Questa
al castel de l'uom di che io ragiono,
a
provar mena la costuma ria
che
v'ha posta il crudel con scorno e danno
di
donne e di guerrier che di là vanno.
Marganor
il fellon (così si chiama
il
signore, il tiran di quel castello),
del
qual Nerone, o s'altri è che abbia fama
di
crudeltà, non fu più iniquo e fello,
il
sangue uman, ma il feminil più brama,
che
il lupo non lo brama de l'agnello.
Fa
con onta scacciar le donne tutte
da
lor ria sorte a quel castel condutte. -
Perché
quell'empio in tal furor venisse,
volson
le donne intendere e Ruggiero:
pregar
colei, che in cortesia seguisse,
anzi
che cominciasse il conto intero.
-
Fu il signor del castel (la donna disse)
sempre
crudel, sempre inumano e fiero;
ma
tenne un tempo il cor maligno ascosto,
né
si lasciò conoscer così tosto:
che
mentre duo suoi figli erano vivi,
molto
diversi dai paterni stili,
che
amavan forestieri, ed eran schivi
di
crudeltade e degli altri atti vili;
quivi
le cortesie fiorivan, quivi
i
bei costumi e l'opere gentili:
che
il padre mai, quantunque avaro fosse,
da
quel che lor piacea non li rimosse.
Le
donne e i cavallier che questa via
facean
talor, venian sì ben raccolti,
che
si partian de l'alta cortesia
dei
duo germani inamorati molti.
Amendui
questi di cavalleria
parimente
i santi ordini avean tolti:
Cilandro
l'un, l'altro Tanacro detto,
gagliardi,
arditi e di reale aspetto.
Ed
eran veramente, e sarian stati
sempre
di laude degni e d'ogni onore,
s'in
preda non si fossino sì dati
a
quel desir che nominiamo amore;
per
cui dal buon sentier fur traviati
al
labirinto ed al camin d'errore;
e
ciò che mai di buono aveano fatto,
restò
contaminato e brutto a un tratto.
Capitò
quivi un cavallier di corte
del
greco imperator, che seco avea
una
sua donna di maniere accorte,
bella
quanto bramar più si potea.
Cilandro
in lei s'inamorò sì forte,
che
morir, non l'avendo, gli parea:
gli
parea che dovesse, alla partita
di
lei, partire insieme la sua vita.
E
perché i prieghi non v'avriano loco,
di
volerla per forza si dispose.
Armossi,
e dal castel lontano un poco,
ove
passar dovean, cheto s'ascose.
L'usata
audacia e l'amoroso fuoco
non
gli lasciò pensar troppo le cose:
sì
che vedendo il cavallier venire,
l'andò
lancia per lancia ad assalire.
Al
primo incontro credea porlo in terra,
portar
la donna e la vittoria indietro:
ma
il cavallier, che mastro era di guerra,
l'osbergo
gli spezzò come di vetro.
Venne
la nuova al padre ne la terra,
che
lo fe' riportar sopra un ferètro;
e
ritrovandol morto, con gran pianto
gli
diè sepulcro agli antiqui avi a canto.
Né
più però né manco si contese
l'albergo
e l'accoglienza a questo e a quello,
perché
non men Tanacro era cortese,
né
meno era gentil di suo fratello.
L'anno
medesmo di lontan paese
con
la moglie un baron venne al castello,
a
maraviglia egli gagliardo, ed ella,
quanto
si possa dir, leggiadra e bella;
né
men che bella, onesta e valorosa,
e
degna veramente d'ogni loda:
il
cavallier, di stirpe generosa,
di
tanto ardir, quanto più d'altri s'oda.
E
ben conviensi a tal valor, che cosa
di
tanto prezzo e sì eccellente goda.
Olindro
il cavallier da Lungavilla,
la
donna nominata era Drusilla.
Non
men di questa il giovene Tanacro
arse,
che il suo fratel di quella ardesse,
che
gli fe' gustar fine acerbo ed acro
del
desiderio ingiusto che in lei messe.
Non
men di lui di violar del sacro
e
santo ospizio ogni ragione ellesse,
più
tosto che patir che il duro e forte
nuovo
desir lo conducesse a morte.
Ma
perche avea dinanzi agli occhi il tema
del
suo fratel che n'era stato morto,
pensa
di torla in guisa, che non tema
che
Olindro s'abbia a vendicar del torto.
Tosto
s'estingue in lui, non pur si scema
quella
virtù su che solea star sorto;
ché
non lo sommergean dei vizi l'acque,
de
le quai sempre al fondo il padre giacque.
Con
gran silenzio fece quella notte
seco
raccor da vent'uomini armati;
e
lontan dal castel, fra certe grotte
che
si trovan tra via, messe gli aguati.
Quivi
ad Olindro il dì le strade rotte,
e
chiusi i passi fur da tutti i lati;
e
ben che fe' lunga difesa e molta,
pur
la moglie e la vita gli fu tolta.
Ucciso
Olindro, ne menò captiva
la
bella donna, addolorata in guisa,
che
a patto alcun restar non volea viva,
e
di grazia chiedea d'essere uccisa.
Per
morir si gittò giù d'una riva
che
vi trovò sopra un vallone assisa;
e
non poté morir, ma con la testa
rotta
rimase, e tutta fiacca e pesta.
Altrimente
Tanacro riportarla
a
casa non poté che s'una bara.
Fece
con diligenza medicarla;
che
perder non volea preda sì cara.
E
mentre che s'indugia a risanarla,
di
celebrar le nozze si prepara:
che
aver sì bella donna e sì pudica
debbe
nome di moglie, e non d'amica.
Non
pensa altro Tanacro, altro non brama,
d'altro
non cura, e d'altro mai non parla.
Si
vede averla offesa, e se ne chiama
in
colpa, e ciò che può, fa d'emendarla.
Ma
tutto è invano: quanto egli più l'ama,
quanto
più s'affatica di placarla,
tant'ella
odia più lui, tanto è più forte,
tanto
è più ferma in voler porlo a morte.
Ma
non però quest'odio così ammorza
la
conoscenza in lei, che non comprenda
che,
se vuol far quanto disegna, è forza
che
simuli, ed occulte insidie tenda;
e
che il desir sotto contraria scorza
(il
quale è sol come Tanacro offenda)
veder
gli faccia; e che si mostri tolta
dal
primo amore, e tutto a lui rivolta.
Simula
il viso pace; ma vendetta
chiama
il cor dentro, e ad altro non attende.
Molte
cose rivolge, alcune accetta,
altre
ne lascia, ed altre in dubbio appende.
Le
par che quando essa a morir si metta,
avrà
il suo intento; e quivi al fin s'apprende.
E
dove meglio può morire, o quando,
che
il suo caro marito vendicando?
Ella
si mostra tutta lieta, e finge
di
queste nozze aver sommo disio;
e
ciò che può indugiarle, a dietro spinge,
non
che ella mostri averne il cor restio.
Più
de l'altre s'adorna e si dipinge:
Olindro
al tutto par messo in oblio.
Ma
che sian fatte queste nozze vuole,
come
ne la sua patria far si suole.
Non
era però ver che questa usanza
che
dir volea, ne la sua patria fosse:
ma,
perché in lei pensier mai non avanza,
che
spender possa altrove, imaginosse
una
bugia, la qual le diè speranza
di
far morir chi il suo signor percosse:
e
disse di voler le nozze a guisa
de
la sua patria, e il modo gli devisa.
-
La vedovella che marito prende,
deve,
prima (dicea) che a lui s'appresse,
placar
l'alma del morto che ella offende,
facendo
celebrargli offici e messe,
in
remission de le passate mende,
nel
tempio ove di quel son l'ossa messe;
e
dato fin che al sacrificio sia,
alla
sposa l'annel lo sposo dia:
ma
che abbia in questo mezzo il sacerdote
sul
vino ivi portato a tale effetto
appropriate
orazion devote,
sempre
il liquor benedicendo, detto;
indi
che il fiasco in una coppa vote,
e
dia alli sposi il vino benedetto:
ma
portare alla sposa il vino tocca,
ed
esser prima a porvi su la bocca. -
Tanacro,
che non mira quanto importe
che
ella le nozze alla sua usanza faccia,
le
dice: - Pur che il termine si scorte
d'essere
insieme, in questo si compiaccia. -
Né
s'avede il meschin che essa la morte
d'Olindro
vendicar così procaccia,
e
sì la voglia ha in uno oggetto intensa,
che
sol di quello, e mai d'altro non pensa.
Avea
seco Drusilla una sua vecchia,
che
seco presa, seco era rimasa.
A
sé chiamolla, e le disse all'orecchia,
sì
che non poté udire uomo di casa:
-
Un subitano tosco m'apparecchia,
qual
so che sai comporre, e me lo invasa;
c'ho
trovato la via di vita torre
il
traditor figliuol di Marganorre.
E
me so come, e te salvar non meno:
ma
diferisco a dirtelo più ad agio. -
Andò
la vecchia, e apparecchiò il veneno,
ed
acconciollo, e ritornò al palagio.
Di
vin dolce di Candia un fiasco pieno
trovò
da por con quel succo malvagio,
e
lo serbò pel giorno de le nozze;
che
omai tutte l'indugie erano mozze.
Lo
statuito giorno al tempio venne,
di
gemme ornata e di leggiadre gonne,
ove
d'Olindro, come gli convenne,
fatto
avea l'arca alzar su due colonne.
Quivi
l'officio si cantò solenne:
trasseno
a udirlo tutti, uomini e donne,
e
lieto Marganor più de l'usato,
venne
col figlio e con gli amici a lato.
Tosto
che al fin le sante esequie foro,
e
fu col tosco il vino benedetto,
il
sacerdote in una coppa d'oro
lo
versò, come avea Drusilla detto.
Ella
ne bebbe quanto al suo decoro
si
conveniva, e potea far l'effetto:
poi
diè allo sposo con viso giocondo
il
nappo; e quel gli fe' apparire il fondo.
Renduto
il nappo al sacerdote, lieto
per
abbracciar Drusilla apre le braccia.
Or
quivi il dolce stile e mansueto
in
lei si cangia e quella gran bonaccia.
Lo
spinge a dietro, e gli ne fa divieto,
e
par che arda negli occhi e ne la faccia;
e
con voce terribile e incomposta
gli
grida: - Traditor, da me ti scosta!
Tu
dunque avrai da me solazzo e gioia,
io
lagrime da te, martìri e guai?
Io
vo' per le mie man che ora tu muoia:
questo
è stato venen, se tu nol sai.
Ben
mi duol c'hai troppo onorato boia,
che
troppo lieve e facil morte fai;
che
mani e pene io non so sì nefande,
che
fosson pari al tuo peccato grande.
Mi
duol di non vedere in questa morte
il
sacrificio mio tutto perfetto:
che
s'io il poteva far di quella sorte
che
era il disio, non avria alcun difetto.
Di
ciò mi scusi il dolce mio consorte:
riguardi
al buon volere, e l'abbia accetto;
che
non potendo come avrei voluto,
io
t'ho fatto morir come ho potuto.
E
la punizion che qui, secondo
il
desiderio mio, non posso darti,
spero
l'anima tua ne l'altro mondo
veder
patire; ed io starò a mirarti. -
Poi
disse, alzando con viso giocondo
i
turbidi occhi alle superne parti:
-
Questa vittima, Olindro, in tua vendetta
col
buon voler de la tua moglie accetta;
ed
impetra per me dal Signor nostro
grazia,
che in paradiso oggi io sia teco.
Se
ti dirà che senza merto al vostro
regno
anima non vien, dio che io l'ho meco;
che
di questo empio e scelerato mostro
le
spoglie opime al santo tempio arreco.
E
che merti esser puon maggior di questi,
spegner
sì brutte e abominose pesti? -
Finì
il parlare insieme con la vita;
e
morta anco parea lieta nel volto
d'aver
la crudeltà così punita
di
chi il caro marito le avea tolto.
Non
so se prevenuta, o se seguita
fu
da lo spirto di Tanacro sciolto:
fu
prevenuta, credo; che effetto ebbe
prima
il veneno in lui, perché più bebbe.
Marganor
che cader vede il figliuolo,
e
poi restar ne le sue braccia estinto,
fu
per morir con lui, dal grave duolo
che
alla sprovista lo trafisse, vinto.
Duo
n'ebbe un tempo, or si ritrova solo:
due
femine a quel termine l'han spinto.
La
morte a l'un da l'una fu causata;
e
l'altra all'altro di sua man l'ha data.
Amor,
pietà, sdegno, dolore ed ira,
disio
di morte e di vendetta insieme
quell'infelice
ed orbo padre aggira,
che,
come il mar che turbi il vento, freme.
Per
vendicarsi va a Drusilla, e mira
che
di sua vita ha chiuse l'ore estreme;
e
come il punge e sferza l'odio ardente,
cerca
offendere il corpo che non sente.
Qual
serpe che ne l'asta che alla sabbia
la
tenga fissa, indarno i denti metta;
o
qual mastin che al ciottolo che gli abbia
gittato
il viandante, corra in fretta,
e
morda invano con stizza e con rabbia,
né
se ne voglia andar senza vendetta:
tal
Marganor d'ogni mastin, d'ogni angue
via
più crudel, fa contra il corpo esangue.
E
poi che per stracciarlo e farne scempio
non
si sfoga il fellon né disacerba,
vien
fra le donne di che è pieno il tempio,
né
più l'una de l'altra ci riserba;
ma
di noi fa col brando crudo ed empio
quel
che fa con la falce il villan d'erba.
Non
vi fu alcun ripar, che in un momento
trenta
n'uccise, e ne ferì ben cento.
Egli
da la sua gente è sì temuto,
che
uomo non fu che ardisse alzar la testa.
Fuggon
le donne col popul minuto
fuor
de la chiesa, e chi può uscir, non resta.
Quel
pazzo impeto al fin fu ritenuto
dagli
amici con prieghi e forza onesta,
e
lasciando ogni cosa in pianto al basso,
fatto
entrar ne la rocca in cima al sasso.
E
tuttavia la colera durando,
di
cacciar tutte per partito prese;
poi
che gli amici e il populo pregando,
che
non ci uccise a fatto, gli contese:
e
quel medesmo dì fe' andare un bando,
che
tutte gli sgombrassimo il paese;
e
darci qui gli piacque le confine.
Misera
chi al castel più s'avvicine!
Da
le mogli così furo i mariti,
da
le madri così i figli divisi.
S'alcuni
sono a noi venire arditi,
nol
sappia già chi Marganor n'avisi;
che
di multe gravissime puniti
n'ha
molti, e molti crudelmente uccisi.
Al
suo castello ha poi fatto una legge,
di
cui peggior non s'ode né si legge.
Ogni
donna che trovin ne la valle,
la
legge vuol (che alcuna pur vi cade)
che
percuotan con vimini alle spalle,
e
la faccian sgombrar queste contrade:
ma
scorciar prima i panni, e mostrar falle
quel
che Natura asconde ed Onestade;
e
s'alcuna vi va, che armata scorta
abbia
di cavallier, vi resta morta.
Quelle
c'hanno per scorta cavallieri,
son
da questo nimico di pietate,
come
vittime, tratte ai cimiteri
dei
morti figli, e di sua man scannate.
Leva
con ignominia arme e destrieri,
e
poi caccia in prigion chi l'ha guidate:
e
lo può far; che sempre notte e giorno
si
trova più di mille uomini intorno.
E
dir di più vi voglio ancora, che esso,
s'alcun
ne lascia, vuol che prima giuri
su
l'ostia sacra, che il femineo sesso
in
odio avrà fin che la vita duri.
Se
perder queste donne e voi appresso
dunque
vi pare, ite a veder quei muri
ove
alberga il fellone, e fate prova
s'in
lui più forza o crudeltà si trova. -
Così
dicendo, le guerriere mosse
prima
a pietade, e poscia a tanto sdegno,
che
se, come era notte, giorno fosse,
sarian
corse al castel senza ritegno.
La
bella compagnia quivi pososse;
e
tosto che l'Aurora fece segno
che
dar dovesse al Sol loco ogni stella,
ripigliò
l'arme e si rimesse in sella.
Già
sendo in atto di partir, s'udiro
le
strade risonar dietro le spalle
d'un
lungo calpestio, che gli occhi in giro
fece
a tutti voltar giù ne la valle.
E
lungi quanto esser potrebbe un tiro
di
mano, andar per uno istretto calle
vider
da forse venti armati in schiera,
di
che parte in arcion, parte a pied'era;
e
che traean con lor sopra un cavallo
donna
che al viso aver parea molt'anni,
a
guisa che si mena un che per fallo
a
fuoco o a ceppo o a laccio si condanni:
la
qual fu, non ostante l'intervallo,
tosto
riconosciuta al viso e ai panni.
La
riconobber queste de la villa
esser
la cameriera di Drusilla:
la
cameriera che con lei fu presa
dal
rapace Tanacro, come ho detto,
ed
a chi fu dipoi data l'impresa
di
quel venen che fe' il crudele effetto.
Non
era entrata ella con l'altre in chiesa;
che
di quel che seguì stava in sospetto:
anzi
in quel tempo, de la villa uscita,
ove
esser sperò salva, era fugita.
Avuto
Marganor poi di lei spia,
la
qual s'era ridotta in Ostericche,
non
ha cessato mai di cercar via
come
in man l'abbia, acciò l'abruci o impicche:
e
finalmente l'Avarizia ria,
mossa
da doni e da proferte ricche,
ha
fatto che un baron, che assicurata
l'avea
in sua terra, a Marganor l'ha data:
e
mandata glie l'ha fin a Costanza
sopra
un somier, come la merce s'usa,
legata
e stretta, e toltole possanza
di
far parole, e in una cassa chiusa:
onde
poi questa gente l'ha ad istanza
de
l'uom che ogni pietade ha da sé esclusa,
quivi
condotta con disegno che abbia
l'empio
a sfogar sopra di lei sua rabbia.
Come
il gran fiume che di Vesulo esce,
quanto
più inanzi e verso il mar discende,
e
che con lui Lambra e Ticin si mesce,
ed
Ada e gli altri onde tributo prende,
tanto
più altiero e impetuoso cresce;
così
Ruggier, quante più colpe intende
di
Marganor, così le due guerriere
se
gli fan contra più sdegnose e fiere.
Elle
fur d'odio, elle fur d'ira tanta
contra
il crudel, per tante colpe, accese,
che
di punirlo, mal grado di quanta
gente
egli avea, conclusion si prese.
Ma
dargli presta morte troppo santa
pena
lor parve e indegna a tante offese;
ed
era meglio fargliela sentire,
fra
strazio prolungandola e martìre.
Ma
prima liberar la donna è onesto,
che
sia condotta da quei birri a morte.
Lentar
di briglia col calcagno presto
fece
a' presti destrier far le vie corte.
Non
ebbon gli assaliti mai di questo
uno
incontro più acerbo né più forte;
sì
che han di grazia di lasciar gli scudi
e
la donna e l'arnese, e fuggir nudi:
sì
come il lupo che di preda vada
carco
alla tana, e quando più si crede
d'esser
sicur, dal cacciator la strada
e
da' suoi cani attraversar si vede,
getta
la soma, e dove appar men rada
la
scura macchia inanzi, affretta il piede.
Già
men presti non fur quelli a fuggire,
che
li fusson quest'altri ad assalire.
Non
pur la donna e l'arme vi lasciaro,
ma
de' cavalli ancor lasciaron molti,
e
da rive e da grotte si lanciaro,
parendo
lor così d'esser più sciolti.
Il
che alle donne ed a Ruggier fu caro;
che
tre di quei cavalli ebbono tolti
per
portar quelle tre che il giorno d'ieri
feron
sudar le groppe ai tre destrieri.
Quindi
espediti segueno la strada
verso
l'infame e dispietata villa.
Voglion
che seco quella vecchia vada,
per
veder la vendetta di Drusilla.
Ella
che teme che non ben le accada,
lo
niega indarno, e piange e grida e strilla;
ma
per forza Ruggier la leva in groppa
del
buon Frontino, e via con lei galoppa.
Giunseno
in somma onde vedeano al basso
di
molte case un ricco borgo e grosso,
che
non serrava d'alcun lato il passo,
perché
né muro intorno avea né fosso.
Avea
nel mezzo un rilevato sasso
che
un'alta rocca sostenea sul dosso.
A
quella si drizzar con gran baldanza,
che
esser sapean di Marganor la stanza.
Tosto
che son nel borgo, alcuni fanti
che
v'erano alla guardia de l'entrata,
dietro
chiudon la sbarra, e già davanti
veggion
che l'altra uscita era serrata:
ed
ecco Marganorre, e seco alquanti
a
piè e a cavallo, e tutta gente armata;
che
con brevi parole, ma orgogliose,
la
ria costuma di sua terra espose.
Marfisa,
la qual prima avea composta
con
Bradamante e con Ruggier la cosa,
gli
spronò incontro in cambio di risposta;
e
com'era possente e valorosa,
senza
che abbassi lancia, o che sia posta
in
opra quella spada sì famosa,
col
pugno in guisa l'elmo gli martella,
che
lo fa tramortir sopra la sella.
Con
Marfisa la giovane di Francia
spinge
a un tempo il destrier, né Ruggier resta
ma
con tanto valor corre la lancia,
che
sei, senza levarsela di resta,
n'uccide,
uno ferito ne la pancia,
duo
nel petto, un nel collo, un ne la testa:
nel
sesto che fuggia l'asta si roppe,
che
entrò alle schene e riuscì alle poppe.
La
figliuola d'Amon quanti ne tocca
con
la sua lancia d'or, tanti n'atterra:
fulmine
par, che il cielo ardendo scocca,
che
ciò che incontra, spezza e getta a terra.
Il
popul sgombra, chi verso la rocca,
chi
verso il piano; altri si chiude e serra,
chi
ne le chiese e chi ne le sue case;
né,
fuor che morti, in piazza uomo rimase.
Marfisa
Marganorre avea legato
intanto
con le man dietro alle rene,
ed
alla vecchia di Drusilla dato,
che
appagata e contenta se ne tiene.
D'arder
quel borgo poi fu ragionato,
s'a
penitenza del suo error non viene:
levi
la legge ria di Marganorre,
e
questa accetti, che essa vi vuol porre.
Non
fu già d'ottener questo fatica;
con
quella gente, oltre al timor che avea
che
più faccia Marfisa che non dica,
che
uccider tutti ed abbruciar volea,
di
Marganorre affatto era nimica
e
de la legge sua crudele e rea.
Ma
il populo facea come i più fanno,
che
ubbidiscon più a quei che più in odio hanno.
Però
che l'un de l'altro non si fida,
e
non ardisce conferir sua voglia,
lo
lascian che un bandisca, un altro uccida,
a
quel l'avere, a questo l'onor toglia.
Ma
il cor che tace qui, su nel ciel grida,
fin
che Dio e santi alla vendetta invoglia;
la
qual, se ben tarda a venir, compensa
l'indugio
poi con punizione immensa.
Or
quella turba d'ira e d'odio pregna
con
fatti e con mal dir cerca vendetta:
com'è
in proverbio, ognun corre a far legna
all'arbore
che il vento in terra getta.
Sia
Marganorre esempio di chi regna;
che
chi mal opra, male al fine aspetta.
Di
vederlo punir de' suoi nefandi
peccati,
avean piacer piccioli e grandi.
Molti
a chi fur le mogli o le sorelle
o
le figlie o le madri da lui morte,
non
più celando l'animo ribelle,
correan
per dargli di lor man la morte:
e
con fatica lo difeser quelle
magnanime
guerriere e Ruggier forte;
che
disegnato avean farlo morire
d'affanno,
di disagio e di martire.
A
quella vecchia che l'odiava quanto
femina
odiare alcun nimico possa,
nudo
in mano lo dier, legato tanto,
che
non si scioglierà per una scossa;
ed
ella, per vendetta del suo pianto,
gli
andò facendo la persona rossa
con
un stimulo aguzzo che un villano,
che
quivi si trovò, le pose in mano.
La
messaggera e le sue giovani anco,
che
quell'onta non son mai per scordarsi,
non
s'hanno più a tener le mani al fianco,
né
meno che la vecchia, a vendicarsi;
ma
sì è il desir d'offenderlo, che manco
viene
il potere, e pur vorrian sfogarsi:
chi
con sassi il percuote, chi con l'unge;
altra
lo morde, altra cogli aghi il punge.
Come
torrente che superbo faccia
lunga
pioggia talvolta o nievi sciolte,
va
ruinoso, e giù da' monti caccia
gli
arbori e i sassi e i campi e le ricolte;
vien
tempo poi, che l'orgogliosa faccia
gli
cade, e sì le forze gli son tolte,
che
un fanciullo, una femina per tutto
passar
lo puote, e spesso a piede asciutto:
così
già fu che Marganorre intorno
fece
tremar, dovunque udiasi il nome;
or
venuto è chi gli ha spezzato il corno
di
tanto orgoglio, e sì le forze dome,
che
gli puon far sin a' bambini scorno,
chi
pelargli la barba e chi le chiome.
Quindi
Ruggiero e le donzelle il passo
alla
rocca voltar, che era sul sasso.
La
diè senza contrasto in poter loro
chi
v'era dentro, e così i ricchi arnesi,
che
in parte messi a sacco, in parte foro
dati
ad Ullania ed a' compagni offesi.
Ricovrato
vi fu lo scudo d'oro,
e
quei tre re che avea il tiranno presi,
li
quai venendo quivi, come parmi
d'avervi
detto, erano a piè senz'armi;
perché
dal dì che fur tolti di sella
da
Bradamante, a piè sempre eran iti
senz'arme,
in compagnia de la donzella
la
qual venìa da sì lontani liti.
Non
so se meglio o peggio fu di quella,
che
di lor armi non fusson guerniti.
Era
ben meglio esser da lor difesa;
ma
peggio assai, se ne perdean l'impresa:
perché
stata saria, com'eran tutte
quelle
che armate avean seco le scorte,
al
cimitero misere condutte
dei
due fratelli, e in sacrificio morte.
Gli
è pur men che morir, mostrar le brutte
e
disoneste parti, duro e forte;
e
sempre questo e ogn'altro obbrobrio amorza
il
poter dir che le sia fatto a forza.
Prima
che indi si partan le guerriere,
fan
venir gli abitanti a giuramento,
che
daranno i mariti alle mogliere
de
la terra e del tutto il reggimento;
e
castigato con pene severe
sarà
chi contrastare abbia ardimento.
In
somma quel che altrove è del marito,
che
sia qui de la moglie è statuito.
Poi
si feccion promettere che a quanti
mai
verrian quivi, non darian ricetto,
o
fosson cavallieri, o fosson fanti,
né
'ntrar li lascerian pur sotto un tetto,
se
per Dio non giurassino e per santi,
o
s'altro giuramento v'è più stretto,
che
sarian sempre de le donne amici,
e
dei nimici lor sempre nimici;
e
s'avranno in quel tempo, e se saranno,
tardi
o più tosto, mai per aver moglie,
che
sempre a quelle sudditi saranno,
e
ubbidienti a tutte le lor voglie.
Tornar
Marfisa, prima che esca l'anno,
disse,
e che perdan gli arbori le foglie;
e
se la legge in uso non trovasse,
fuoco
e ruina il borgo s'aspettasse.
Né
quindi si partir, che de l'immondo
luogo
dov'era, fer Drusilla torre,
e
col marito in uno avel, secondo
che
ivi potean più riccamente porre.
La
vecchia facea intanto rubicondo
con
lo stimulo il dosso a Marganorre:
sol
si dolea di non aver tal lena,
che
potesse non dar triegua alla pena.
L'animose
guerriere a lato un tempio
videno
quivi una colonna in piazza,
ne
la qual fatt'avea quel tiranno empio
scriver
la legge sua crudele e pazza.
Elle,
imitando d'un trofeo l'esempio,
lo
scudo v'attaccaro e la corazza
di
Marganorre e l'elmo; e scriver fenno
la
legge appresso, che esse al loco denno.
Quivi
s'indugiar tanto, che Marfisa
fe'
por la legge sua ne la colonna,
contraria
a quella che già v'era incisa
a
morte ed ignominia d'ogni donna.
Da
questa compagnia restò divisa
quella
d'Islanda, per rifar la gonna;
che
comparire in corte obbrobrio stima,
se
non si veste ed orna come prima.
Quivi
rimase Ullania; e Marganorre
di
lei restò in potere: ed essa poi,
perché
non s'abbia in qualche modo a sciorre,
e
le donzelle un'altra volta annoi,
lo
fe' un giorno saltar giù d'una torre,
che
non fe' il maggior salto a' giorni suoi.
Non
più di lei, né più dei suoi si parli,
ma
de la compagnia che va verso Arli.
Tutto
quel giorno, e l'altro fin appresso
l'ora
di terza andaro; e poi che furo
giunti
dove in due strade è il camin fesso
(l'una
va al campo, e l'altra d'Arli al muro),
tornar
gli amanti ad abbracciarsi, e spesso
a
tor commiato, e sempre acerbo e duro.
Al
fin le donne in campo, e in Arli è gito
Ruggiero;
ed io il mio canto ho qui finito.
CANTO
TRENTOTTESIMO
Cortesi
donne, che benigna udienza
date
a' miei versi, io vi veggo al sembiante,
che
quest'altra sì subita partenza
che
fa Ruggier da la sua fida amante,
vi
dà gran noia, e avete displicenza
poco
minor che avesse Bradamante;
e
fate anco argumento che esser poco
in
lui dovesse l'amoroso fuoco.
Per
ogni altra cagion che allontanato
contra
la voglia d'essa se ne fusse,
ancor
che avesse più tesor sperato
che
Creso o Crasso insieme non ridusse,
io
crederia con voi, che penetrato
non
fosse al cor lo stral che lo percusse;
che
un almo gaudio, un così gran contento
non
potrebbe comprare oro né argento.
Pur,
per salvar l'onor, non solamente
d'escusa,
ma di laude è degno ancora;
per
salvar, dico, in caso che altrimente
facendo,
biasmo ed ignominia fôra:
e
se la donna fosse renitente
ed
ostinata in fargli far dimora,
darebbe
di sé indizio e chiaro segno
o
d'amar poco o d'aver poco ingegno.
Che
se l'amante de l'amato deve
la
vita amar più de la propria, o tanto
(io
parlo d'uno amante a cui non lieve
colpo
d'Amor passò più là del manto);
al
piacer tanto più, che esso riceve,
l'onor
di quello antepor deve, quanto
l'onore
è di più pregio che la vita,
che
a tutti altri piaceri è preferita.
Fece
Ruggiero il debito a seguire
il
suo signor, che non se ne potea,
se
non con ignominia, dipartire;
che
ragion di lasciarlo non avea.
E
s'Almonte gli fe' il padre morire,
tal
colpa in Agramante non cadea;
che
in molti effetti avea con Ruggier poi
emendato
ogni error dei maggior suoi.
Farà
Ruggiero il debito a tornare
al
suo signore; ed ella ancor lo fece,
che
sforzar non lo volse di restare,
come
potea, con iterata prece.
Ruggier
potrà alla donna satisfare
a
un altro tempo, s'or non satisfece:
ma
all'onor, chi gli manca d'un momento,
non
può in cento anni satisfar né in cento.
Torna
Ruggiero in Arli, ove ha ritratta
Agramante
la gente che gli avanza.
Bradamante
e Marfisa, che contratta
col
parentado avean grande amistanza,
andaro
insieme ove re Carlo fatta
la
maggior prova avea di sua possanza,
sperando,
o per battaglia o per assedio,
levar
di Francia così lungo tedio.
Di
Bradamante, poi che conosciuta
in
campo fu, si fe' letizia e festa:
ognun
la riverisce e la saluta;
ed
ella a questo e a quel china la testa.
Rinaldo,
come udì la sua venuta,
le
venne incontra; né Ricciardo resta
né
Ricciardetto od altri di sua gente,
e
la raccoglion tutti allegramente.
Come
s'intese poi che la compagna
era
Marfisa, in arme sì famosa,
che
dal Cataio ai termini di Spagna
di
mille chiare palme iva pomposa;
non
è povero o ricco che rimagna
nel
padiglion: la turba disiosa
vien
quinci e quindi, e s'urta, storpia e preme
sol
per veder sì bella coppia insieme.
A
Carlo riverenti appresentarsi.
Questo
fu il primo dì (scrive Turpino)
che
fu vista Marfisa inginocchiarsi;
che
sol le parve il figlio di Pipino
degno,
a cui tanto onor dovesse farsi,
tra
quanti, o mai nel popul saracino
o
nel cristiano, imperatori e regi
per
virtù vide o per ricchezza egregi.
Carlo
benignamente la raccolse,
e
le uscì incontra fuor dei padiglioni;
e
che sedesse a lato suo poi volse
sopra
tutti re, principi e baroni.
Si
diè licenza a chi non se la tolse;
sì
che tosto restaro in pochi e buoni:
restaro
i paladini e i gran signori;
la
vilipesa plebe andò di fuori.
Marfisa
cominciò con grata voce:
-
Eccelso, invitto e glorioso Augusto,
che
dal mar Indo alla Tirinzia foce,
dal
bianco Scita all'Etiope adusto
riverir
fai la tua candida croce,
né
di te regna il più saggio o il più giusto;
tua
fama, che alcun termine non serra,
qui
tratto m'ha fin da l'estrema terra.
E,
per narrarti il ver, sola mi mosse
invidia,
e sol per farti guerra io venni,
acciò
che sì possente un re non fosse,
che
non tenesse la legge che io tenni.
Per
questo ho fatto le campagne rosse
del
cristian sangue; ed altri fieri cenni
era
per farti da crudel nimica,
se
non cadea chi mi t'ha fatto amica.
Quando
nuocer pensai più alle tue squadre,
io
trovo (e come sia dirò più adagio)
che
il bon Ruggier di Risa fu mio padre,
tradito
a torto dal fratel malvagio.
Portommi
in corpo mia misera madre
di
là dal mare, e nacqui in gran disagio.
Nutrimmi
un mago infin al settimo anno,
a
cui gli Arabi poi rubata m'hanno.
E
mi vendero in Persia per ischiava
a
un re che poi cresciuta io posi a morte;
che
mia virginità tor mi cercava.
Uccisi
lui con tutta la sua corte;
tutta
cacciai la sua progenie prava,
e
presi il regno; e tal fu la mia sorte,
che
diciotto anni d'uno o di due mesi
io
non passai, che sette regni presi.
E
di tua fama invidiosa, come
io
t'ho già detto, avea fermo nel core
la
grande altezza abbatter del tuo nome:
forse
il faceva, o forse era in errore.
Ma
ora avvien che questa voglia dome,
e
faccia cader l'ale al mio furore,
l'aver
inteso, poi che qui son giunta,
come
io ti son d'affinità congiunta.
E
come il padre mio parente e servo
ti
fu, ti son parente e serva anche io:
e
quella invidia e quell'odio protervo
il
qual io t'ebbi un tempo, or tutto oblio;
anzi
contra Agramante io lo riservo,
e
contra ogn'altro che sia al padre o al zio
di
lui stato parente, che fur rei
di
porre a morte i genitori miei. -
E
seguitò, voler cristiana farsi,
e
dopo che avrà estinto il re Agramante,
voler
piacendo a Carlo, ritornarsi
a
battezzare il suo regno in Levante;
ed
indi contra tutto il mondo armarsi,
ove
Macon s'adori e Trivigante;
e
con promission, che ogni suo acquisto
sia
de l'Impero e de la fé di Cristo.
L'imperator,
che non meno eloquente
era,
che fosse valoroso e saggio,
molto
esaltando la donna eccellente,
e
molto il padre e molto il suo lignaggio,
rispose
ad ogni parte umanamente,
e
mostrò in fronte aperto il suo coraggio;
e
conchiuse ne l'ultima parola,
per
parente accettarla e per figliuola.
E
qui si leva, e di nuovo l'abbraccia,
e,
come figlia, bacia ne la fronte.
vengono
tutti con allegra faccia
quei
di Mongrana e quei di Chiaramonte.
Lungo
a dir fôra, quanto onor le faccia
Rinaldo,
che di lei le prove conte
vedute
avea più volte al paragone,
quando
Albracca assediar col suo girone.
Lungo
a dir fôra, quanto il giovinetto
Guidon
s'allegri di veder costei,
Aquilante
e Grifone e Sansonetto
che
alla città crudel furon con lei;
Malagigi
e Viviano e Ricciardetto,
che
all'occision de' Maganzesi rei
e
di quei venditori empi di Spagna
l'aveano
avuta sì fedel compagna.
Apparecchiar
per lo seguente giorno,
ed
ebbe cura Carlo egli medesmo,
che
fosse un luogo riccamente adorno,
ove
prendesse Marfisa battesmo.
I
vescovi e gran chierici d'intorno,
che
le leggi sapean del cristianesmo,
fece
raccorre, acciò da lor in tutta
la
santa fé fosse Marfisa istrutta.
Venne
in pontificale abito sacro
l'arcivesco
Turpino, e battizzolla:
Carlo
dal salutifero lavacro
con
cerimonie debite levolla.
Ma
tempo è ormai che al capo voto e macro
di
senno si soccorra con l'ampolla,
con
che dal ciel più basso ne venìa
il
duca Astolfo sul carro d'Elia.
Sceso
era Astolfo dal giro lucente
alla
maggiore altezza de la terra,
con
la felice ampolla che la mente
dovea
sanare al gram mastro di guerra.
Un'erba
quivi di virtù eccellente
mostra
Giovanni al duca d'Inghilterra:
con
essa vuol che al suo ritorno tocchi
al
re di Nubia e gli risani gli occhi;
acciò
per questi e per li primi merti
gente
gli dia con che Biserta assaglia.
E
come poi quei populi inesperti
armi
ed acconci ad uso di battaglia,
e
senza danno passi pei deserti
ove
l'arena gli uomini abbarbaglia,
a
punto a punto l'ordine che tegna,
tutto
il vecchio santissimo gli insegna.
Poi
lo fe' rimontar su quello alato
che
di Ruggiero, e fu prima d'Atlante.
Il
paladin lasciò, licenziato
da
San Giovanni, le contrade sante;
e
secondando il Nilo a lato a lato,
tosto
i Nubi apparir si vide inante;
e
ne la terra che del regno è capo
scese
da l'aria, e ritrovò il Senapo.
Molto
fu il gaudio e molta fu la gioia
che
portò a quel signor nel suo ritorno;
che
ben si raccordava de la noia
che
gli avea tolta, de l'arpie, d'intorno.
Ma
poi che la grossezza gli discuoia
di
quello umor che già gli tolse il giorno,
e
che gli rende la vista di prima,
l'adora
e cole, e come un Dio sublima:
sì
che non pur la gente che gli chiede
per
muover guerra al regno di Biserta,
ma
centomila sopra gli ne diede,
e
gli fe' ancor di sua persona offerta.
La
gente a pena, che era tutta a piede,
potea
capir ne la campagna aperta;
che
di cavalli ha quel paese inopia,
ma
d'elefanti e de camelli copia.
La
notte inanzi il dì che a suo camino
l'esercito
di Nubia dovea porse,
montò
su l'ippogrifo il paladino,
e
verso mezzodì con fretta corse,
tanto
che giunse al monte che l'austrino
vento
produce e spira contra l'Orse.
Trovò
la cava, onde per stretta bocca,
quando
si desta, il furioso scocca.
E
come raccordògli il suo maestro,
avea
seco arrecato un utre voto,
il
qual, mentre ne l'antro oscuro e alpestro,
affaticato
dorme il fiero Noto,
allo
spiraglio pon tacito e destro:
ed
è l'aguato in modo al vento ignoto,
che,
credendosi uscir fuor la dimane,
preso
e legato in quello utre rimane.
Di
tanta preda il paladino allegro,
ritorna
in Nubia, e la medesma luce
si
pone a caminar col popul negro,
e
vettovaglia dietro si conduce.
A
salvamento con lo stuolo integro
verso
l'Atlante il glorioso duce
pel
mezzo vien de la minuta sabbia,
senza
temer che il vento a nuocer gli abbia.
E
giunto poi di qua dal giogo, in parte
onde
il pian si discuopre e la marina,
Astolfo
elegge la più nobil parte
del
campo, e la meglio atta a disciplina;
e
qua e là per ordine la parte
a
piè d'un colle, ove nel pian confina.
Quivi
la lascia, e su la cima ascende
in
vista d'uom che a gran pensieri intende.
Poi
che, inchinando le ginocchia, fece
al
santo suo maestro orazione,
sicuro
che sia udita la sua prece,
copia
di sassi a far cader si pone.
Oh
quanto a chi ben crede in Cristo, lece!
I
sassi, fuor di natural ragione
crescendo,
si vedean venire in giuso,
e
formar ventre e gambe e collo e muso:
e
con chiari anitrir giù per quei calli
venian
saltando, e giunti poi nel piano
scuotean
le groppe, e fatti eran cavalli,
chi
baio e chi leardo e chi rovano.
La
turba che aspettando ne le valli
stava
alla posta, lor dava di mano:
sì
che in poche ore fur tutti montati;
che
con sella e con freno erano nati.
Ottantamila
cento e dua in un giorno
fe',
di pedoni, Astolfo cavallieri.
Con
questi tutta scorse Africa intorno,
facendo
prede, incendi e prigionieri.
Posto
Agramante avea fin al ritorno
il
re di Fersa e il re degli Algazeri,
col
re Branzardo a guardia del paese:
e
questi si fer contra al duca inglese;
prima
avendo spacciato un suttil legno,
che
a vele e a remi andò battendo l'ali,
ad
Agramante aviso, come il regno
patia
dal re de' Nubi oltraggi e mali.
Giorno
e notte andò quel senza ritegno,
tanto
che giunse ai liti provenzali;
e
trovò in Arli il suo re mezzo oppresso,
che
il campo avea di Carlo un miglio appresso.
Sentendo
il re Agramante a che periglio,
per
guadagnare il regno di Pipino,
lasciava
il suo, chiamar fece a consiglio
principi
e re del popul saracino.
E
poi che una o due volte girò il ciglio
quinci
a Marsilio e quindi al re Sobrino,
i
quai d'ogni altro fur, che vi venisse,
i
duo più antiqui e saggi, così disse:
-
Quantunque io sappia come mal convegna
a
un capitano dir: non mel pensai,
pur
lo dirò; che quando un danno vegna
da
ogni discorso uman lontano assai,
a
quel fallir par che sia escusa degna:
e
qui si versa il caso mio; che errai
a
lasciar d'arme l'Africa sfornita,
se
da li Nubi esser dovea assalita.
Ma
chi pensato avria, fuor che Dio solo,
a
cui non è cosa futura ignota,
che
dovesse venir con sì gran stuolo
a
farne danno gente sì remota?
tra
i quali e noi giace l'instabil suolo
di
quella arena ognor da' venti mota.
Pur
è venuta ad assediar Biserta,
ed
ha in gran parte l'Africa deserta.
Or
sopra ciò vostro consiglio chieggio:
se
partirmi di qui senza far frutto,
o
pur seguir tanto l'impresa deggio,
che
prigion Carlo meco abbi condutto;
o
come insieme io salvi il nostro seggio,
e
questo imperial lasci distrutto.
S'alcun
di voi sa dir, priego nol taccia,
acciò
si trovi il meglio, e quel si faccia. -
Così
disse Agramante; e volse gli occhi
al
re di Spagna, che gli sedea appresso,
come
mostrando di voler che tocchi
di
quel c'ha detto, la risposta ad esso.
E
quel, poi che surgendo ebbe i ginocchi
per
riverenza, e così il capo flesso,
nel
suo onorato seggio si raccolse;
indi
la lingua a tai parole sciolse:
-
O bene o mal che la Fama ci apporti,
signor,
di sempre accrescere ha in usanza.
Perciò
non sarà mai che io mi sconforti,
o
mai più del dover pigli baldanza
per
casi o buoni o rei, che sieno sorti:
ma
sempre avrò di par tema e speranza
che
esser debban minori, e non del modo
che
a noi per tante lingue venir odo.
E
tanto men prestar gli debbo fede,
quanto
più al verisimile s'oppone.
Or
se gli è verisimile si vede,
che
abbia con tanto numer di persone
posto
ne la pugnace Africa il piede
un
re di sì lontana regione,
traversando
l'arene a cui Cambise
con
male augurio il popul suo commise.
Crederò
ben, che sian gli Arabi scesi
da
le montagne, ed abbian dato il guasto,
e
saccheggiato, e morti uomini e presi,
ove
trovato avran poco contrasto;
e
che Branzardo che di quei paesi
luogotenente
e viceré è rimasto,
per
le decine scriva le migliaia,
acciò
la scusa sua più degna paia.
Vo'
concedergli ancor che sieno i Nubi
per
miracol dal ciel forse piovuti:
o
forse ascosi venner ne le nubi;
poi
che non fur mai per camin veduti.
Temi
tu che tal gente Africa rubi,
se
ben di più soccorso non l'aiuti?
Il
tuo presidio avria ben trista pelle,
quando
temesse un populo sì imbelle.
Ma
se tu mandi ancor che poche navi,
pur
che si veggan gli stendardi tuoi,
non
scioglieran di qua sì tosto i cavi,
che
fuggiranno nei confini suoi
questi,
o sien Nubi o sieno Arabi ignavi,
ai
quali il ritrovarti qui con noi,
separato
pel mar da la tua terra,
ha
dato ardir di romperti la guerra.
Or
piglia il tempo che, per esser senza
il
suo nipote Carlo, hai di vendetta:
poi
che Orlando non c'è, far resistenza
non
ti può alcun de la nimica setta.
Se
per non veder lasci, o negligenza,
l'onorata
vittoria che t'aspetta,
volterà
il calvo, ove ora il crin ne mostra,
con
molto danno e lunga infamia nostra. -
Con
questo ed altri detti accortamente
l'Ispano
persuader vuol nel concilio
che
non esca di Francia questa gente,
fin
che Carlo non sia spinto in esilio.
Ma
il re Sobrin, che vide apertamente
il
camino a che andava il re Marsilio,
che
più per l'util proprio queste cose,
che
pel commun dicea, così rispose:
-
Quando io ti confortava a stare in pace,
fosse
io stato, signor, falso indovino;
o
tu, se io dovea pure esser verace,
creduto
avessi al tuo fedel Sobrino,
e
non più tosto a Rodomonte audace,
a
Marbalusto, a Alzirdo e a Martasino,
li
quali ora vorrei qui avere a fronte:
ma
vorrei più degli altri Rodomonte,
per
rinfacciargli che volea di Francia
far
quel che si faria d'un fragil vetro,
e
in cielo e ne lo 'nferno la tua lancia
seguire,
anzi lasciarsela di dietro;
poi
nel bisogno si gratta la pancia
ne
l'ozio immerso abominoso e tetro:
ed
io, che per predirti il vero allora
codardo
detto fui, son teco ancora;
e
sarò sempremai, fin che io finisca
questa
vita che ancor che d'anni grave,
porsi
incontra ogni dì per te s'arrisca
a
qualunque di Francia più nome have.
Né
sarà alcun, sia chi si vuol, che ardisca
di
dir che l'opre mie mai fosser prave:
e
non han più di me fatto, né tanto,
molti
che si donar di me più vanto.
Dico
così, per dimostrar che quello
che
io dissi allora, e che ti voglio or dire,
né
da viltade vien né da cor fello,
ma
d'amor vero e da fedel servire.
Io
ti conforto che al paterno ostello,
più
tosto che tu pòi, vogli redire;
che
poco saggio si può dir colui
che
perde il suo per acquistar l'altrui.
S'acquisto
c'è, tu il sai. Trentadui fummo
re
tuoi vassalli a uscir teco del porto:
or,
se di nuovo il conto ne rassummo,
c'è
a pena il terzo, e tutto il resto è morto.
Che
non ne cadan più, piaccia a Dio summo:
ma
se tu vuoi seguir, temo di corto,
che
non ne rimarrà quarto né quinto;
e
il miser popul tuo fia tutto estinto.
Che
Orlando non ci sia, ne aiuta; che ove
siàn
pochi, forse alcun non ci saria.
Ma
per questo il periglio non rimuove,
se
ben prolunga nostra sorte ria.
Ecci
Rinaldo, che per molte prove
mostra
che non minor d'Orlando sia:
c'è
il suo lignaggio e tutti i paladini,
timore
eterno a' nostri Saracini.
Ed
hanno appresso quel secondo Marte
(ben
che i nimici al mio dispetto lodo),
io
dico il valoroso Brandimarte,
non
men d'Orlando ad ogni prova sodo;
del
qual provata ho la virtude in parte,
parte
ne veggo all'altrui spese ed odo.
Poi
son più dì che non c'è Orlando stato;
e
più perduto abbiàn che guadagnato.
Se
per adietro abbiàn perduto, io temo
che
da qui inanzi perderen più in grosso.
Del
nostro campo Mandricardo è scemo:
Gradasso
il suo soccorso n'ha rimosso:
Marfisa
n'ha lasciata al punto estremo,
e
così il re d' Algier, di cui dir posso
che,
se fosse fedel come gagliardo,
poco
uopo era Gradasso o Mandricardo.
Ove
sono a noi tolti questi aiuti,
e
tante mila son dei nostri morti;
e
quei che a venir han, son già venuti,
né
s'aspetta altro legno che n'apporti:
quattro
son giunti a Carlo, non tenuti
manco
d'Orlando o di Rinaldo forti;
e
con ragion; che da qui sino a Battro
potresti
mal trovar tali altri quattro.
Non
so se sai chi sia Guidon Selvaggio
e
Sansonetto e i figli d'Oliviero.
Di
questi fo più stima e più tema aggio,
che
d'ogni altro lor duca e cavalliero
che
di Lamagna o d'altro stran linguaggio
sia
contra noi per aiutar l'Impero:
ben
che importa anco assai la gente nuova
che
a' nostri danni in campo si ritrova.
Quante
volte uscirai alla campagna,
tanto
avrai la peggiore, o sarai rotto.
Se
spesso perdé il campo Africa e Spagna,
quando
siàn stati sedici per otto,
che
sarà poi che Italia e che Lamagna
con
Francia è unita, e il populo anglo e scotto,
e
che sei contra dodici saranno?
Che
altro si può sperar, che biasmo e danno?
La
gente qui, là perdi a un tempo il regno,
s'in
questa impresa più duri ostinato;
ove,
s'al ritornar muti disegno,
l'avanzo
di noi servi con lo stato.
Lasciar
Marsilio è di te caso indegno,
che
ognun te ne terrebbe molto ingrato:
ma
c'è rimedio, far con Carlo pace;
che
a lui deve piacer, se a te pur piace.
Pur
se ti par che non ci sia il tuo onore,
se
tu, che prima offeso sei, la chiedi;
e
la battaglia più ti sta nel core,
che,
come sia fin qui successa, vedi;
studia
almen di restarne vincitore:
il
che forse averrà, se tu mi credi;
se
d'ogni tua querela a un cavalliero
darai
l'assunto, e se quel fia Ruggiero.
Io
il so, e tu il sai che Ruggier nostro è tale,
che
già da solo a sol con l'arme in mano
non
men d'Orlando o di Rinaldo vale,
né
d'alcun altro cavallier cristiano.
Ma
se tu vuoi far guerra universale,
ancor
che il valor suo sia sopraumano,
egli
però non sarà più che un solo,
ed
avrà di par suoi contra uno stuolo.
A
me par, s'a te par, che a dir si mandi
al
re cristian, che per finir le liti,
e
perché cessi il sangue che tu spandi
ognor
de' suoi, egli de' tuo' infiniti;
che
contra un tuo guerrier tu gli domandi
che
metta in campo uno dei suoi più arditi;
e
faccian questi duo tutta la guerra,
fin
che l'un vinca, e l'altro resti in terra:
con
patto, che qual d'essi perde, faccia
che
il suo re all'altro re tributo dia.
Questa
condizion non credo spiaccia
a
Carlo, ancor che sul vantaggio sia.
Mi
fido sì ne le robuste braccia
poi
di Ruggier, che vincitor ne fia;
e
ragion tanta è da la nostra parte,
che
vincerà, s'avesse incontra Marte. -
Con
questi ed altri più efficaci detti
fece
Sobrin sì che il partito ottenne;
e
gli interpreti fur quel giorno eletti,
e
quel dì a Carlo l'imbasciata venne.
Carlo
che avea tanti guerrier perfetti,
vinta
per sé quella battaglia tenne,
di
cui l'impresa al buon Rinaldo diede,
in
che avea, dopo Orlando, maggior fede.
Di
questo accordo lieto parimente
l'uno
esercito e l'altro si godea;
che
il travaglio del corpo e de la mente
tutti
avea stanchi e a tutti rincrescea.
Ognun
di riposare il rimanente
de
la sua vita disegnato avea;
ognun
maledicea l'ire e i furori
che
a risse e a gare avean lor desti i cori.
Rinaldo
che esaltar molto si vede,
che
Carlo in lui di quel che tanto pesa,
via
più che in tutti gli altri, ha avuto fede,
lieto
si mette all'onorata impresa.
Ruggier
non stima; e veramente crede
che
contra sé non potrà far difesa:
che
suo pari esser possa non gli è aviso,
se
ben in campo ha Mandricardo ucciso.
Ruggier
da l'altra parte, ancor che molto
onor
gli sia che il suo re l'abbia eletto,
e
pel miglior di tutti i buoni tolto,
a
cui commetta un sì importante effetto;
pur
mostra affanno e gran mestizia in volto,
non
per paura che gli turbi il petto;
che
non che un sol Rinaldo, ma non teme
se
fosse con Rinaldo Orlando insieme:
ma
perché vede esser di lui sorella
la
sua cara e fidissima consorte
che
ognor scriver do stimula e martella,
come
colei che è ingiuriata forte.
Or
s'alle vecchie offese aggiunge quella
d'entrare
in campo a porle il frate a morte,
se
la farà, d'amante, così odiosa,
che
a placarla mai più fia dura cosa.
Se
tacito Ruggier s'affligge ed ange
de
la battaglia che mal grado prende,
la
sua cara moglier lacrima e piange,
come
la nuova indi a poche ore intende.
Batte
il bel petto, e l'auree chiome frange,
e
le guance innocenti irriga e offende;
e
chiama con ramarichi e querele
Ruggiero
ingrato, e il suo destin crudele.
D'ogni
fin che sortisca la contesa,
a
lei non può venir altro che doglia.
Che
abbia a morir Ruggiero in questa impresa,
pensar
non vuol; che par che il cor le toglia.
Quando
anco, per punir più d'una offesa,
la
ruina di Francia Cristo voglia,
oltre
che sarà morto il suo fratello,
seguirà
un danno a lei più acerbo e fello:
che
non potrà, se non con biasmo e scorno,
e
nimicizia di tutta sua gente,
fare
al marito suo mai più ritorno,
sì
che lo sappia ognun publicamente,
come
s'avea, pensando notte e giorno,
più
volte disegnato ne la mente:
e
tra lor era la promessa tale,
che
il ritrarsi e il pentir più poco vale.
Ma
quella usata ne le cose avverse
di
non mancarle di soccorsi fidi,
dico
Melissa maga, non sofferse
udirne
il pianto e i dolorosi gridi;
e
venne a consolarla, e le proferse,
quando
ne fosse il tempo, alti sussidi,
e
disturbar quella pugna futura
di
che ella piange e si pon tanta cura.
Rinaldo
intanto e l'inclito Ruggiero
apparechiavan
l'arme alla tenzone,
di
cui dovea l'eletta al cavalliero
che
del romano Imperio era campione:
e
come quel, che poi che il buon destriero
perdé
Baiardo, andò sempre pedone,
si
elesse a piè, coperto a piastra e a maglia,
con
l'azza e col pugnal far la battaglia.
O
fosse caso, o fosse pur ricordo
di
Malagigi suo provido e saggio,
che
sapea quanto Balisarda ingordo
il
taglio avea di fare all'arme oltraggio;
combatter
senza spada fur d'accordo
l'uno
e l'altro guerrier, come detto aggio.
Del
luogo s'accordar presso alle mura
de
l'antiquo Arli, in una gran pianura.
A
pena avea la vigilante Aurora
da
l'ostel di Titon fuor messo il capo,
per
dare al giorno terminato, e all'ora
che
era prefissa alla battaglia, capo;
quando
di qua e di là vennero fuora
i
deputati; e questi in ciascun capo
degli
steccati i padiglion tiraro,
appresso
ai quali ambi un altar fermaro.
Non
molto dopo, istrutto a schiera a schiera,
si
vide uscir l'esercito pagano.
In
mezzo armato e suntuoso v'era
di
barbarica pompa il re africano;
e
s'un baio corsier di chioma nera,
di
fronte bianca, e di duo piè balzano,
a
par a par con lui venìa Ruggiero,
a
cui servir non è Marsilio altiero.
L'elmo,
che dianzi con travaglio tanto
trasse
di testa al re di Tartaria,
l'elmo,
che celebrato in maggior canto
portò
il troiano Ettòr mill'anni pria,
gli
porta il re Marsilio a canto a canto:
altri
principi ed altra baronia
s'hanno
partite l'altr'arme fra loro,
ricche
di gioie e ben fregiate d'oro.
Da
l'altra parte fuor dei gran ripari
re
Carlo uscì con la sua gente d'arme,
con
gli ordini medesmi e modi pari
che
terria se venisse al fatto d'arme.
Cingonlo
intorno i suoi famosi pari;
e
Rinaldo è con lui con tutte l'arme,
fuor
che l'elmo che fu del re Mambrino,
che
porta Ugier Danese paladino.
E
di due azze ha il duca Namo l'una,
e
l'altra Salamon re di Bretagna.
Carlo
da un lato i suoi tutti raguna;
da
l'altro son quei d'Africa e di Spagna.
Nel
mezzo non appar persona alcuna:
voto
riman gran spazio di campagna,
che
per bando commune a chi vi sale,
eccetto
ai duo guerrieri, è capitale.
Poi
che de l'arme la seconda eletta
si
diè al campion del populo pagano,
duo
sacerdoti, l'un de l'una setta,
l'altro
de l'altra, uscir coi libri in mano.
In
quel del nostro è la vita perfetta
scritta
di Cristo; e l'altro è l'Alcorano.
Con
quel de l'Evangelio si fe' inante
l'imperator,
con l'altro il re Agramante.
Giunto
Carlo all'altar che statuito
i
suoi gli aveano, al ciel levò le palme,
e
disse: - O Dio, c'hai di morir patito
per
redimer da morte le nostr'alme;
o
Donna, il cui valor fu sì gradito,
che
Dio prese da te l'umane salme,
e
nove mesi fu nel tuo santo alvo,
sempre
serbando il fior virgineo salvo:
siatemi
testimoni, che io prometto
per
me e per ogni mia successione
al
re Agramante, ed a chi dopo eletto
sarà
al governo di sua regione,
dar
venti some ogni anno d'oro schietto,
s'oggi
qui riman vinto il mio campione;
e
che io prometto subito la triegua
incominciar,
che poi perpetua segua:
e
se 'n ciò manco, subito s'accenda
la
formidabil ira d'ambidui,
la
qual me solo e i miei figliuoli offenda,
non
alcun altro che sia qui con nui;
sì
che in brevissima ora si comprenda
che
sia il mancar de la promessa a vui. -
Così
dicendo, Carlo sul Vangelo
tenea
la mano, e gli occhi fissi al cielo.
Si
levan quindi, e poi vanno all'altare
che
riccamente avean pagani adorno;
ove
giurò Agramante, che oltre al mare
con
l'esercito suo faria ritorno,
ed
a Carlo daria tributo pare,
se
restasse Ruggier vinto quel giorno;
e
perpetua tra lor triegua saria,
coi
patti che avea Carlo detti pria.
E
similmente con parlar non basso,
chiamando
in testimonio il gran Maumette,
sul
libro che in man tiene il suo papasso,
ciò
che detto ha, tutto osservar promette.
Poi
del campo si partono a gran passo,
e
tra i suoi l'uno e l'altro si rimette:
poi
quel par di campioni a giurar venne;
e
il giuramento lor questo contenne:
Ruggier
promette, se de la tenzone
il
suo re viene o manda a disturbarlo,
che
né suo guerrier più, né suo barone
esser
mai vuol, ma darsi tutto a Carlo.
Giura
Rinaldo ancor, che se cagione
sarà
del suo signor quindi levarlo,
fin
che non resti vinto egli o Ruggiero,
si
farà d'Agramante cavalliero.
Poi
che le cerimonie finite hanno,
si
ritorna ciascun da la sua parte;
né
v'indugiano molto, che lor danno
le
chiare trombe segno al fiero marte.
Or
gli animosi a ritrovar si vanno,
con
senno i passi dispensando ed arte.
Ecco
si vede incominciar l'assalto,
sonar
il ferro, or girar basso, or alto.
Or
inanzi col calce, or col martello
accennan
quando al capo e quando al piede,
con
tal destrezza e con modo sì snello,
che
ogni credenza il raccontarlo eccede.
Ruggier
che combattea contro il fratello
di
chi la misera alma gli possiede,
a
ferir lo venìa con tal riguardo,
che
stimato ne fu manco gagliardo.
Era
a parar, più che a ferire, intento,
e
non sapea egli stesso il suo desire:
spegner
Rinaldo saria malcontento,
né
vorria volentieri egli morire.
Ma
ecco giunto al termine mi sento,
ove
convien l'istoria diferire.
Ne
l'altro canto il resto intenderete,
s'udir
ne l'altro canto mi vorrete.
CANTO
TRENTANOVESIMO
L'affanno
di Ruggier ben veramente
è
sopra ogn'altro duro, acerbo e forte,
di
cui travaglia il corpo, e più la mente,
poi
che di due fuggir non può una morte;
o
da Rinaldo, se di lui possente
fia
meno, o se fia più, da la consorte:
che
se il fratel le uccide, sa che incorre
ne
l'odio suo, che più che morte aborre.
Rinaldo,
che non ha simil pensiero,
in
tutti i modi alla vittoria aspira:
mena
de l'azza dispettoso e fiero;
quando
alle braccia e quando al capo mira.
Volteggiando
con l'asta il buon Ruggiero
ribatte
il colpo, e quinci e quindi gìra;
e
se percuote pur, disegna loco
ove
possa a Rinaldo nuocer poco.
Alla
più parte dei signor pagani
troppo
par disegual esser la zuffa:
troppo
è Ruggier pigro a menar le mani,
troppo
Rinaldo il giovine ribuffa.
Smarrito
in faccia il re degli Africani
mira
l'assalto, e ne sospira e sbuffa:
ed
accusa Sobrin, da cui procede
tutto
l'error, che il mal consiglio diede.
Melissa
in questo tempo, che era fonte
di
quanto sappia incantatore o mago,
avea
cangiata la feminil fronte,
e
del gran re d'Algier presa l'imago:
sembrava
al viso, ai gesti Rodomonte,
e
parea armata di pelle di drago;
e
tal lo scudo e tal la spada al fianco
avea,
quale usava egli, e nulla manco.
Spinse
il demonio inanzi al mesto figlio
del
re Troiano, in forma di cavallo;
e
con gran voce e con turbato ciglio
disse:
- Signor, questo è pur troppo fallo,
che
un giovene inesperto a far periglio,
contra
un sì forte e sì famoso Gallo
abbiate
eletto in cosa di tal sorte,
che
il regno e l'onor d'Africa n'importe.
Non
si lassi seguir questa battaglia,
che
ne sarebbe in troppo detrimento.
Su
Rodomonte sia, né ve ne caglia,
l'avere
il patto rotto e il giuramento.
Dimostri
ognun come sua spada taglia:
poi
che io ci sono, ognun di voi val cento. -
Poté
questo parlar sì in Agramante,
che
senza più pensar si cacciò inante.
Il
creder d'aver seco il re d'Algieri
fece
che si curò poco del patto;
e
non avria di mille cavallieri
giunti
in suo aiuto sì gran stima fatto.
Perciò
lance abbassar, spronar destrieri
di
qua di là veduto fu in un tratto.
Melissa,
poi che con sue finte larve
la
battaglia attaccò, subito sparve.
I
duo campion che vedeno turbarsi
contra
ogni accordo, contra ogni promessa,
senza
più l'un con l'altro travagliarsi,
anzi
ogni ingiuria avendosi rimessa,
fede
si dàn né qua né là impacciarsi,
fin
che la cosa non sia meglio espressa,
chi
stato sia che i patti ha rotto inante,
o
il vecchio Carlo, o il giovene Agramante.
E
replican con nuovi giuramenti
d'esser
nimici a chi mancò di fede.
Sozzopra
se ne van tutte le genti:
chi
porta inanzi e chi ritorna il piede.
Chi
sia fra i vili, e chi tra i più valenti
in
un atto medesimo si vede:
son
tutti parimente al correr presti;
ma
quei corrono inanzi, e indietro questi.
Come
levrier che la fugace fera
correre
intorno ed aggirarsi mira,
né
può con gli altri cani andare in schiera,
che
il cacciator lo tien, si strugge d'ira,
si
tormenta, s'affligge e si dispera,
schiattisce
indarno, e si dibatte e tira;
così
sdegnosa infin allora stata
Marfisa
era quel dì con la cognata.
Fin
a quell'ora avean quel dì vedute
sì
ricche prede in spazioso piano;
e
che fosser dal patto ritenute
di
non poter seguirle e porvi mano,
ramaricate
s'erano e dolute,
e
n'avean molto sospirato invano.
Or
che i patti e le triegue vider rotte,
liete
saltar ne l'africane frotte.
Marfisa
cacciò l'asta per lo petto
al
primo che scontrò, due braccia dietro:
poi
trasse il brando, e in men che non l'ho detto,
spezzò
quattro elmi, che sembrar di vetro.
Bradamante
non fe' minore effetto;
ma
l'asta d'or tenne diverso metro:
tutti
quei che toccò, per terra mise;
duo
tanti fur, né però alcuno uccise.
Questo
sì presso l'una all'altra fero,
che
testimonie se ne fur tra loro;
poi
si scostaro, ed a ferir si diero,
ove
le trasse l'ira, il popul Moro.
Chi
potrà conto aver d'ogni guerriero
che
a terra mandi quella lancia d'oro?
o
d'ogni testa che tronca o divisa
sia
da la orribil spada di Marfisa?
Come
al soffiar de' più benigni venti,
quando
Apennin scuopre l'erbose spalle,
muovonsi
a par duo turbidi torrenti
che
nel cader fan poi diverso calle;
svellono
i sassi e gli arbori eminenti
da
l'alte ripe, e portan ne la valle
le
biade e i campi; e quasi a gara fanno
a
chi far può nel suo camin più danno:
così
le due magnanime guerriere,
scorrendo
il campo per diversa strada,
gran
strage fan ne l'africane schiere,
l'una
con l'asta, e l'altra con la spada.
Tiene
Agramante a pena alle bandiere
la
gente sua, che in fuga non ne vada.
Invan
domanda, invan volge la fronte;
né
può saper che sia di Rodomonte.
A
conforto di lui rotto avea il patto
(così
credea) che fu solennemente,
i
dei chiamando in testimonio, fatto;
poi
s'era dileguato sì repente.
Né
Sobrin vede ancor: Sobrin ritratto
in
Arli s'era, e dettosi innocente;
perché
di quel pergiuro aspra vendetta
sopra
Agramante il dì medesmo aspetta.
Marsilio
anco è fuggito ne la terra:
sì
la religion gli preme il core.
Perciò
male Agramante il passo serra
a
quei che mena Carlo imperatore,
d'Italia,
di Lamagna e d'Inghilterra,
che
tutte gente son d'alto valore;
ed
hanno i paladin sparsi tra loro,
come
le gemme in un riccamo d'oro:
e
presso ai paladini alcun perfetto
quanto
esser possa al mondo cavalliero,
Guidon
Selvaggio, l'intrepido petto,
e
i duo famosi figli d'Oliviero.
Io
non voglio ridir, che io l'ho già detto,
di
quel par di donzelle ardito e fiero.
Questi
uccidean di genti saracine
tanto,
che non v'è numero né fine.
Ma
differendo questa pugna alquanto,
io
vo' passar senza navilio il mare.
Non
ho con quei di Francia da far tanto,
che
io non m'abbia d'Astolfo a ricordare.
La
grazia che gli diè l'apostol santo
io
v'ho già detto, e detto aver mi pare,
che
il re Branzardo e il re de l'Algazera
per
girli incontra armasse ogni sua schiera.
Furon
di quei che aver poteano in fretta,
le
schiere di tutta Africa raccolte,
non
men d'inferma età che di perfetta;
quasi
che ancor le femine fur tolte.
Agramante
ostinato alla vendetta
avea
già vota l'Africa due volte.
Poche
genti rimase erano, e quelle
esercito
facean timido e imbelle.
Ben
lo mostrar; che gli nimici a pena
vider
lontan, che se n'andaron rotti.
Astolfo,
come pecore, li mena
dinanzi
ai suoi di guerreggiar più dotti,
e
fa restarne la campagna piena:
pochi
a Biserta se ne son ridotti.
Prigion
rimase Bucifar gagliardo;
salvossi
ne la terra il re Branzardo,
via
più dolente sol di Bucifaro,
che
se tutto perduto avesse il resto.
Biserta
è grande, e farle gran riparo
bisogna,
e senza lui mal può far questo:
poterlo
riscattar molto avria caro.
Mentre
vi pensa e ne sta afflitto e mesto,
gli
viene in mente come tien prigione
già
molti mesi il paladin Dudone.
Lo
prese sotto a Monaco in riviera
il
re di Sarza nel primo passaggio.
Da
indi in qua prigion sempre stato era
Dudon
che del Danese fu lignaggio.
Mutar
costui col re de l'Algazera
pensò
Branzardo, e ne mandò messaggio
al
capitan de' Nubi, perché intese
per
vera spia, che egli era Astolfo inglese.
Essendo
Astolfo paladin, comprende
che
dee aver caro un paladino sciorre.
Il
gentil duca, come il caso intende,
col
re Branzardo in un voler concorre.
Liberato
Dudon, grazie ne rende
al
duca, e seco si mette a disporre
le
cose che appertengono alla guerra,
così
quelle da mar, come da terra.
Avendo
Astolfo esercito infinito
da
non gli far sette Afriche difesa;
e
rammentando come fu ammonito
dal
santo vecchio che gli diè l'impresa
di
tor Provenza e d'Acquamorta il lito
di
man di Saracin che l'avean presa;
d'una
gran turba fece nuova eletta,
quella
che al mar gli parve manco inetta.
Ed
avendosi piene ambe le palme,
quanto
potean capir, di varie fronde
a
lauri, a cedri tolte, a olive, a palme,
venne
sul mare, e le gittò ne l'onde.
Oh
felici, e dal ciel ben dilette alme!
Grazia
che Dio raro a' mortali infonde!
Oh
stupendo miracolo che nacque
di
quelle frondi, come fur ne l'acque!
Crebbero
in quantità fuor d'ogni stima;
si
feron curve e grosse e lunghe e gravi;
le
vene che attraverso aveano prima,
mutaro
in dure spranghe e in grosse travi:
e
rimanendo acute inver la cima,
tutte
in un tratto diventaro navi
di
differenti qualitadi, e tante,
quante
raccolte fur da varie piante.
Miracol
fu veder le fronde sparte
produr
fuste, galee, navi da gabbia.
Fu
mirabile ancor, che vele e sarte
e
remi avean, quanto alcun legno n'abbia.
Non
mancò al duca poi chi avesse l'arte
di
governarsi alla ventosa rabbia;
che
di Sardi e di Corsi non remoti,
nocchier,
padron, pennesi ebbe e piloti.
Quelli
che entraro in mar, contati foro
ventiseimila,
e gente d'ogni sorte.
Dudon
andò per capitano loro,
cavallier
saggio, e in terra e in acqua forte.
Stava
l'armata ancora al lito moro,
miglior
vento aspettando, che la porte,
quando
un navilio giunse a quella riva,
che
di presi guerrier carco veniva.
Portava
quei che al periglioso ponte,
ove
alla giostre il campo era sì stretto,
pigliato
avea l'audace Rodomonte,
come
più volte io v'ho di sopra detto.
Il
cognato tra questi era del conte,
e
il fedel Brandimarte e Sansonetto,
ed
altri ancor, che dir non mi bisogna,
d'Alemagna,
d'Italia e di Guascogna.
Quivi
il nocchier, che ancor non s'era accorto
degli
inimici, entrò con la galea,
lasciando
molte miglia a dietro il porto
d'Algieri,
ove calar prima volea,
per
un vento gagliardo che era sorto,
e
spinto oltre il dover la poppa avea.
Venir
tra i suoi credette e in loco fido,
come
vien Progne al suo loquace nido.
Ma
come poi l'imperiale augello,
i
gigli d'oro e i pardi vide appresso,
restò
pallido in faccia, come quello
che
il piede incauto d'improviso ha messo
sopra
il serpente venenoso e fello,
dal
pigro sonno in mezzo l'erbe oppresso;
che
spaventato e smorto si ritira,
fuggendo
quel, che è pien di tosco e d'ira.
Già
non poté fuggir quindi il nocchiero,
né
tener seppe i prigion suoi di piatto.
Con
Brandimarte fu, con Oliviero,
con
Sansonetto e con molti altri tratto
ove
dal duca e dal figliuol d'Uggiero
fu
lieto viso agli suo' amici fatto;
e
per mercede lui che li condusse,
volson
che condannato al remo fusse.
Come
io vi dico, dal figliuol d'Otone
i
cavallier cristian furon ben visti,
e
di mensa onorati al padiglione,
d'arme
e di ciò che bisognò provisti.
Per
amor d'essi differì Dudone
l'andata
sua; che non minori acquisti
di
ragionar con tai baroni estima,
che
d'esser gito uno o duo giorni prima.
In
che stato, in che termine si trove
e
Francia e Carlo, istruzion vera ebbe;
e
dove più sicuramente, e dove,
per
far miglior effetto, calar debbe.
Mentre
da lor venìa intendendo nuove,
s'udì
un rumor che tuttavia più crebbe;
e
un dar all'arme ne seguì sì fiero,
che
fece a tutti far più d'un pensiero.
Il
duca Astolfo e la compagnia bella,
che
ragionando insieme si trovaro,
in
un momento armati furo e in sella,
e
verso il maggior grido in fretta andaro,
di
qua di là cercando pur novella
di
quel romore; e in loco capitaro,
ove
videro un uom tanto feroce,
che
nudo e solo a tutto il campo nuoce.
Menava
un suo baston di legno in volta,
che
era sì duro e sì grave e sì fermo,
che
declinando quel, facea ogni volta
cader
in terra un uom peggio che infermo.
Già
a più di cento avea la vita tolta;
né
più se gli facea riparo o schermo,
se
non tirando di lontan saette:
d'appresso
non è alcun già che l'aspette.
Dudone,
Astolfo, Brandimarte, essendo
corsi
in fretta al romore, ed Oliviero,
de
la gran forza e del valor stupendo
stavan
maravigliosi di quel fiero;
quando
venir s'un palafren correndo
videro
una donzella in vestir nero,
che
corse a Brandimarte e salutollo,
e
gli alzò a un tempo ambe le braccia al collo.
Questa
era Fiordiligi, che sì acceso
avea
d'amor per Brandimarte il core,
che
quando al ponte stretto il lasciò preso,
vicina
ad impazzar fu di dolore.
Di
là dal mare era passata, inteso
avendo
dal pagan che ne fu autore,
che
mandato con molti cavallieri
era
prigion ne la città d'Algieri.
Quando
fu per passare, avea trovato
a
Marsilia una nave di Levante,
che
un vecchio cavalliero avea portato
de
la famiglia del re Monodante;
il
qual molte province avea cercato,
quando
per mar, quando per terra errante,
per
trovar Brandimarte; che nuova ebbe
tra
via di lui, che in Francia il troverebbe.
Ed
ella, conosciuto che Bardino
era
costui, Bardino che rapito
al
padre Brandimarte piccolino,
ed
a Rocca Silvana avea notrito,
e
la cagione intesa del camino,
seco
fatto l'avea scioglier dal lito,
avendogli
narrato in che maniera
Brandimarte
passato in Africa era.
Tosto
che furo a terra, udir le nuove,
che
assediata d'Astolfo era Biserta:
che
seco Brandimarte si ritrove
udito
avean, ma non per cosa certa.
Or
Fiordiligi in tal fretta si muove,
come
lo vede, che ben mostra aperta
quella
allegrezza che i precessi guai
le
fero la maggior che avesse mai.
Il
gentil cavallier, non men giocondo
di
veder la diletta e fida moglie
che
amava più che cosa altra del mondo,
l'abraccia
e stringe e dolcemente accoglie:
né
per saziare al primo né al secondo
né
al terzo bacio era l'accese voglie;
se
non che alzando gli occhi ebbe veduto
Bardin
che con la donna era venuto.
Stese
le mani, ed abbracciar lo volle,
e
insieme domandar perché venìa;
ma
di poterlo far tempo gli tolle
il
campo che in disordine fuggia
dinanzi
a quel baston che il nudo folle
menava
intorno, e gli facea dar via.
Fiordiligi
mirò quel nudo in fronte,
e
gridò a Brandimarte: - Eccovi il conte! -
Astolfo
tutto a un tempo, che era quivi,
che
questo Orlando fosse, ebbe palese
per
alcun segno che dai vecchi divi
su
nel terrestre paradiso intese.
Altrimente
restavan tutti privi
di
cognizion di quel signor cortese;
che
per lungo sprezzarsi, come stolto,
avea
di fera, più che d'uomo, il volto.
Astolfo
per pietà che gli traffisse
il
petto e il cor, si volse lacrimando;
ed
a Dudon (che gli era appresso) disse,
ed
indi ad Oliviero: - Eccovi Orlando! -
Quei
gli occhi alquanto e le palpèbre fisse
tenendo
in lui, l'andar raffigurando;
e
il ritrovarlo in tal calamitade,
gli
empì di meraviglie e di pietade.
Piangeano
quei signor per la più parte:
sì
lor ne dolse, e lor ne 'ncrebbe tanto.
-
Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte
di
risanarlo, e non di fargli il pianto. -
E
saltò a piedi, e così Brandimarte,
Sansonetto,
Oliviero e Dudon santo;
e
s'aventaro al nipote di Carlo
tutti
in un tempo; che volean pigliarlo.
Orlando
che si vide fare il cerchio,
menò
il baston da disperato e folle;
ed
a Dudon che si facea coperchio
al
capo de lo scudo ed entrar volle,
fe'
sentir che era grave di soperchio:
e
se non che Olivier col brando tolle
parte
del colpo, avria il bastone ingiusto
rotto
lo scudo, l'elmo, il capo e il busto.
Lo
scudo roppe solo, e su l'elmetto
tempestò
sì, che Dudon cadde in terra.
Menò
la spada a un tempo Sansonetto;
e
del baston più di duo braccia afferra
con
valor tal, che tutto il taglia netto.
Brandimarte
che addosso se gli serra,
gli
cinge i fianchi, quanto può, con ambe
le
braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe.
Scuotesi
Orlando, e lungi dieci passi
da
sé l'Inglese fe' cader riverso:
non
fa però che Brandimarte il lassi,
che
con più forza l'ha preso a traverso.
Ad
Olivier che troppo inanzi fassi,
menò
un pugno sì duro e sì perverso,
che
lo fe' cader pallido ed esangue,
e
dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue.
E
se non era l'elmo più che buono,
che
avea Olivier, l'avria quel pugno ucciso:
cadde
però, come se fatto dono
avesse
de lo spirto al paradiso.
Dudone
e Astolfo che levati sono,
ben
che Dudone abbia gonfiato il viso,
e
Sansonetto che il bel colpo ha fatto,
adosso
a Orlando son tutti in un tratto.
Dudon
con gran vigor dietro l'abbraccia,
pur
tentando col piè farlo cadere:
Astolfo
e gli altri gli han prese le braccia,
né
lo puon tutti insieme anco tenere.
C'ha
visto toro a cui si dia la caccia,
e
che alle orecchie abbia le zanne fiere,
correr
mugliando, e trarre ovunque corre
i
cani seco, e non potersi sciorre;
imagini
che Orlando fosse tale,
che
tutti quei guerrier seco traea.
In
quel tempo Olivier di terra sale,
là
dove steso il gran pugno l'avea;
e
visto che così si potea male
far
di lui quel che Astolfo far volea,
si
pensò un modo, ed ad effetto il messe,
di
far cader Orlando, e gli successe.
Si
fe' quivi arrecar più d'una fune,
e
con nodi correnti adattò presto;
ed
alle gambe ed alle braccia alcune
fe'
porre al conte, ed a traverso il resto.
Di
quelle i capi poi partì in commune,
e
li diede a tenere a quello e a questo.
Per
quella via che maniscalco atterra
cavallo
o bue, fu tratto Orlando in terra.
Come
egli è in terra, gli son tutti adosso,
e
gli legan più forte e piedi e mani.
Assai
di qua di là s'è Orlando scosso,
ma
sono i suoi risforzi tutti vani.
Commanda
Astolfo che sia quindi mosso,
che
dice voler far che si risani.
Dudon
che è grande, il leva in su le schene,
e
porta al mar sopra l'estreme arene.
Lo
fa lavar Astolfo sette volte;
e
sette volte sotto acqua l'attuffa;
sì
che dal viso e da le membra stolte
leva
la brutta rugine e la muffa:
poi
con certe erbe, a questo effetto colte,
la
bocca chiuder fa, che soffia e buffa;
che
non volea che avesse altro meato
onde
spirar, che per lo naso, il fiato.
Aveasi
Astolfo apparecchiato il vaso
in
che il senno d'Orlando era rinchiuso;
e
quello in modo appropinquogli al naso,
che
nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto
il votò: maraviglioso caso!
che
ritornò la mente al primier uso;
e
ne' suoi bei discorsi l'intelletto
rivenne,
più che mai lucido e netto.
Come
chi da noioso e grave sonno,
ove
o vedere abominevol forme
di
mostri che non son, né che esser ponno,
o
gli par cosa far strana ed enorme,
ancor
si maraviglia, poi che donno
è
fatto de' suoi sensi, e che non dorme;
così,
poi che fu Orlando d'error tratto,
restò
maraviglioso e stupefatto.
E
Brandimarte, e il fratel d'Aldabella,
e
quel che il senno in capo gli ridusse,
pur
pensando riguarda, e non favella,
come
egli quivi e quando si condusse.
Girava
gli occhi in questa parte e in quella,
né
sapea imaginar dove si fusse.
Si
maraviglia che nudo si vede,
e
tante funi ha da le spalle al piede.
Poi
disse, come già disse Sileno
a
quei che lo legar nel cavo speco:
"Solvite
me," con viso sì sereno,
con
guardo sì men de l'usato bieco,
che
fu slegato; e de' panni che avieno
fatti
arrecar participaron seco,
consolandolo
tutti del dolore,
che
lo premea, di quel passato errore.
Poi
che fu all'esser primo ritornato
Orlando
più che mai saggio e virile,
d'amor
si trovò insieme liberato;
sì
che colei, che sì bella e gentile
gli
parve dianzi, e che avea tanto amato,
non
stima più se non per cosa vile.
Ogni
suo studio, ogni disio rivolse
a
racquistar quanto già amor gli tolse.
Narrò
Bardino intanto a Brandimarte,
che
morto era il suo padre Monodante;
e
che a chiamarlo al regno egli da parte
veniva
prima del fratel Gigliante,
poi
de le genti che abitan le sparte
isole
in mare, e l'ultime in Levante;
di
che non era un altro regno al mondo
sì
ricco, populoso, o sì giocondo.
Disse,
tra più ragion che dovea farlo,
che
dolce cosa era la patria; e quando
si
disponesse di voler gustarlo,
avria
poi sempre in odio andare errando.
Brandimarte
rispose voler Carlo
servir
per tutta questa guerra e Orlando;
e
se potea vederne il fin, che poi
penseria
meglio sopra i casi suoi.
Il
dì seguente la sua armata spinse
verso
Provenza il figlio del Danese.
Indi
Orlando col duca si ristrinse,
ed
in che stato era la guerra, intese:
tutta
Biserta poi d'assedio cinse,
dando
però l'onore al duca inglese
d'ogni
vittoria; ma quel duca il tutto
facea,
come dal conte venìa istrutto.
Che
ordine abbian tra lor, come s'assaglia
la
gran Biserta, e da che lato e quando,
come
fu presa alla prima battaglia,
chi
ne l'onor parte ebbe con Orlando,
s'io
non vi séguito ora, non vi caglia;
che
io non me ne vo molto dilungando.
In
questo mezzo di saper vi piaccia,
come
dai Franchi i Mori hanno la caccia.
Fu
quasi il re Agramante abbandonato
nel
pericol maggior di quella guerra;
che
con molti pagani era tornato
Marsilio
e il re Sobrin dentro alla terra,
poi
su l'armata è questo e quel montato,
che
dubbio avean di non salvarsi in terra;
e
duci e cavallier del popul Moro
molti
seguito avean l'esempio loro.
Pure
Agramante la pugna sostiene;
e
quando finalmente più non puote,
volta
le spalle, e la via dritta tiene
alle
porte non troppo indi remote.
Rabican
dietro in gran fretta gli viene,
che
Bradamante stimola e percuote:
d'ucciderlo
era disiosa molto;
che
tante volte il suo Ruggier le ha tolto.
Il
medesmo desir Marfisa avea,
per
far del padre suo tarda vendetta;
e
con gli sproni, quanto più potea,
facea
il destrier sentir che ella avea fretta.
Ma
né l'una né l'altra vi giungea
sì
a tempo, che la via fosse intercetta
al
re d'entrar ne la città serrata,
ed
indi poi salvarsi in su l'armata.
Come
due belle e generose parde
che
fuor del lascio sien di pari uscite,
poscia
che i cervi o le capre gagliarde
indarno
aver si veggano seguite,
vergognandosi
quasi, che fur tarde,
sdegnose
se ne tornano e pentite;
così
tornar le due donzelle, quando
videro
il pagan salvo, sospirando.
Non
però si fermar; ma ne la frotta
degli
altri che fuggivano, cacciarsi,
di
qua di là facendo ad ogni botta
molti
cader senza mai più levarsi.
A
mal partito era la gente rotta,
che
per fuggir non potea ancor salvarsi;
che
Agramante avea fatto per suo scampo
chiuder
la porta che uscia verso il campo,
e
fatto sopra il Rodano tagliare
i
ponti tutti. Ah sfortunata plebe,
che
dove del tiranno utile appare,
sempre
è in conto di pecore e di zebe!
Chi
s'affoga nel fiume e chi nel mare,
chi
sanguinose fa di sé le glebe.
Molti
perir, pochi restar prigioni;
che
pochi a farsi taglia erano buoni.
De
la gran moltitudine che uccisa
fu
da ogni parte in questa ultima guerra
(ben
che la cosa non fu ugual divisa;
che
assai più andar dei Saracin sotterra
per
man di Bradamante e di Marfisa),
se
ne vede ancor segno in quella terra;
che
presso ad Arli, ove il Rodano stagna,
piena
di sepolture è la campagna.
Fatto
avea intanto il re Agramante sciorre
e
ritirar in alto i legni gravi,
lasciando
alcuni, e i più leggieri, a torre
quei
che volean salvarsi in su le navi.
Vi
ste' duo dì per chi fuggia raccorre,
e
perché venti eran contrari e pravi.
Fece
lor dar le vele il terzo giorno;
che
in Africa credea di far ritorno.
Il
re Marsilio che sta in gran paura
che
alla sua Spagna il fio pagar non tocche,
e
la tempesta orribilmente oscura
sopra
suoi campi all'ultimo non scocche;
si
fe' porre a Valenza, e con gran cura
cominciò
a riparar castella e rocche,
e
preparar la guerra che fu poi
la
sua ruina e degli amici suoi.
Verso
Africa Agramante alzò le vele
de'
legni male armati, e voti quasi;
d'uomini
voti, e pieni di querele,
perche
in Francia i tre quarti eran rimasi.
Chi
chiama il re superbo, chi crudele,
chi
stolto; e come avviene in simil casi,
tutti
gli voglion mal ne' lor secreti;
ma
timor n'hanno, e stan per forza cheti.
Pur
duo talora o tre schiudon le labbia,
che
amici sono, e che tra lor s'han fede,
e
sfogano la colera e la rabbia;
e
il misero Agramante ancor si crede
che
ognun gli porti amore, e pietà gli abbia:
e
questo gli intervien, perché non vede
mai
visi se non finti, e mai non ode
se
non adulazion, menzogne e frode.
Erasi
consigliato il re africano
di
non smontar nel porto di Biserta,
però
che avea del popul nubiano,
che
quel lito tenea, novella certa;
ma
tenersi di sopra sì lontano,
che
non fosse acre la discesa ed erta;
mettersi
in terra, e ritornare al dritto
a
dar soccorso al suo populo afflitto.
Ma
il suo fiero destin che non risponde
a
quella intenzion provida e saggia,
vuol
che l'armata che nacque di fronde
miracolosamente
ne la spiaggia,
e
vien solcando inverso Francia l'onde,
con
questa ad incontrar di notte s'aggia,
a
nubiloso tempo, oscuro e tristo,
perché
sia in più disordine sprovisto.
Non
ha avuto Agramante ancora spia,
che
Astolfo mandi una armata sì grossa;
né
creduto anco a chi il dicesse, avria,
che
cento navi un ramuscel far possa:
e
vien senza temer che intorno sia
che
contra lui s'ardisca di far mossa;
né
pone guardie né veletta in gabbia,
che
di ciò che si scuopre avisar abbia.
Sì
che i navili che d'Astolfo avuti
avea
Dudon, di buona gente armati,
e
che la sera avean questi veduti,
ed
alla volta lor s'eran drizzati,
assalir
gli nimici sproveduti,
gittaro
i ferri, e sonsi incatenati,
poi
che al parlar certificati foro,
che
erano Mori e gli nimici loro.
Ne
l'arrivar i gran navili fenno
(spirando
il vento a' lor desir secondo),
nei
Saracin con tale impeto denno,
che
molti legni ne cacciaro al fondo.
Poi
cominciaro oprar le mani e il senno,
e
ferro e fuoco e sassi di gran pondo
tirar
con tanta e sì fiera tempesta,
che
mai non ebbe il mar simile a questa.
Quei
di Dudone, a cui possanza e ardire
più
del solito è lor dato di sopra
(che
venuto era il tempo di punire
i
Saracin di più d'una mal'opra),
sanno
appresso e lontan sì ben ferire,
che
non trova Agramante ove si cuopra.
Gli
cade sopra un nembo di saette;
da
lato ha spade e graffi e picche e accette.
D'alto
cader sente gran sassi e gravi
da
machine cacciati e da tormenti;
e
prore e poppe fraccassar de navi,
ed
aprire usci al mar larghi e patenti;
e
il maggior danno è de l'incendi pravi,
a
nascer presti, ad ammorzarsi lenti.
La
sfortunata ciurma si vuol torre
del
gran periglio, e via più ognor vi corre.
Altri
che il ferro e l'inimico caccia,
nel
mar si getta, e vi s'affoga e resta:
altri
che muove a tempo piedi e braccia,
va
per salvarsi o in quella barca o in questa;
ma
quella, grave oltre il dover, lo scaccia,
e
la man, per salir troppo molesta,
fa
restare attaccata ne la sponda:
ritorna
il resto a far sanguigna l'onda.
Altri
che spera in mar salvar la vita,
o
perderlavi almen con minor pena,
poi
che notando non ritrova aita,
e
mancar sente l'animo e la lena,
alla
vorace fiamma c'ha fuggita,
la
tema di annegarsi anco rimena:
s'abbraccia
a un legno che arde, e per timore
c'ha
di due morte, in ambe se ne muore.
Altri
per tema di spiedo o d'accetta
che
vede appresso, al mar ricorre invano,
perché
dietro gli vien pietra o saetta
che
non lo lascia andar troppo lontano.
Ma
saria forse, mentre che diletta
il
mio cantar, consiglio utile e sano
di
finirlo, più tosto che seguire
tanto,
che v'annoiasse il troppo dire.
CANTO
QUARANTESIMO
Lungo
sarebbe, se i diversi casi
volessi
dir di quel naval conflitto;
e
raccontarlo a voi mi parria quasi,
magnanimo
figliuol d'Ercole invitto,
portar,
come si dice, a Samo vasi,
nottole
Atene, e crocodili a Egitto;
che
quanto per udita io ve ne parlo,
Signor,
miraste, e feste altrui mirarlo.
Ebbe
lungo spettacolo il fedele
vostro
popul la notte e il dì che stette,
come
in teatro, l'inimiche vele
mirando
in Po tra ferro e fuoco astrette.
Che
gridi udir si possano e querele,
che
onde veder di sangue umano infette,
per
quanti modi in tal pugna si muora,
vedeste,
e a molti il dimostraste allora.
Nol
vide io già, che era sei giorni inanti,
mutando
ogn'ora altre vetture, corso
con
molta fretta e molta ai piedi santi
del
gran Pastore a domandar soccorso:
poi
né cavalli bisognar né fanti;
che
intanto al Leon d'or l'artiglio e il morso
fu
da voi rotto sì, che più molesto
non
l'ho sentito da quel giorno a questo.
Ma
Alfonsin Trotto il qual si trovò in fatto,
Annibal
e Pier Moro e Afranio e Alberto,
e
tre Ariosti, e il Bagno e il Zerbinatto
tanto
me ne contar, che io ne fui certo:
me
ne chiarir poi le bandiere affatto,
vistone
al tempio il gran numero offerto,
e
quindice galee che a queste rive
con
mille legni star vidi captive.
Chi
vide quelli incendi e quei naufragi,
le
tante uccisioni e sì diverse,
che,
vendicando i nostri arsi palagi,
fin
che fu preso ogni navilio, ferse;
potrà,
veder le morti anco e i disagi
che
il miser popul d'Africa sofferse
col
re Agramante in mezzo l'onde salse,
la
scura notte che Dudon l'assalse.
Era
la notte, e non si vedea lume,
quando
s'incominciar l'aspre contese:
ma
poi che il zolfo e la pece e il bitume
sparso
in gran copia, ha prore e sponde accese,
e
la vorace fiamma arde e consume
le
navi e le galee poco difese;
sì
chiaramente ognun si vedea intorno,
che
la notte parea mutata in giorno.
Onde
Agramante che per l'aer scuro,
non
avea l'inimico in sì gran stima,
né
aver contrasto si credea sì duro,
che,
resistendo, al fin non lo reprima;
poi
che rimosse le tenèbre furo,
e
vide quel che non credeva in prima,
che
le navi nimiche eran duo tante,
fece
pensier diverso a quel d'avante.
Smonta
con pochi, ove in più lieve barca
ha
Brigliadoro e l'altre cose care.
Tra
legno e legno taciturno varca,
fin
che si trova in più sicuro mare
da'
suoi lontan, che Dudon preme e carca,
e
mena a condizioni acri ed amare.
Gli
arde il foco, il mar sorbe, il ferro strugge:
egli
che n'è cagion, via se ne fugge.
Fugge
Agramante ed ha con lui Sobrino,
con
cui si duol di non gli aver creduto,
quando
previde con occhio divino,
e
il mal gli annunziò, che or gli è avvenuto.
Ma
torniamo ad Orlando paladino,
che,
prima che Biserta abbia altro aiuto,
consiglia
Astolfo che la getti in terra,
sì
che a Francia mai più non faccia guerra.
E
così fu publicamente detto
che
il campo in arme al terzo dì sia istrutto.
Molti
navili Astolfo a questo effetto
tenuti
avea, né Dudon n'ebbe il tutto;
di
quai diede il governo a Sansonetto,
sì
buon guerrier al mar come all'asciutto:
e
quel si pose, in su l'ancore sorto,
contra
a Biserta, un miglio appresso al porto.
Come
veri cristiani Astolfo e Orlando,
che
senza Dio non vanno a rischio alcuno,
ne
l'esercito fan publico bando,
che
sieno orazion fatte e digiuno;
e
che si trovi il terzo giorno, quando
si
darà il segno, apparecchiato ognuno
per
espugnar Biserta, che data hanno,
vinta
che s'abbia, a fuoco e a saccomanno.
E
così, poi che le astinenze e i voti
devotamente
celebrati foro,
parenti,
amici, e gli altri insieme noti
si
cominciaro a convitar tra loro.
Dato
restauro a' corpi esausti e voti,
abbracciandosi
insieme lacrimoro,
tra
loro usando i modi e le parole
che
tra i più cari al dipartir si suole.
Dentro
a Biserta i sacerdoti santi
supplicando
col populo dolente,
battonsi
il petto, e con dirotti pianti
chiamano
il lor Macon che nulla sente.
Quante
vigilie, quante offerte, quanti
doni
promessi son privatamente!
quanto
in publico templi, statue, altari,
memoria
eterna de' lor casi amari!
E
poi che dal Cadì fu benedetto,
prese
il populo l'arme, e tornò al muro.
Ancor
giacea col suo Titon nel letto
la
bella Aurora, ed era il cielo oscuro,
quando
Astolfo da un canto, e Sansonetto
da
un altro, armati agli ordini lor furo:
e
poi che il segno che diè il conte udiro,
Biserta
con grande impeto assaliro.
Avea
Biserta da duo canti il mare,
sedea
dagli altri duo nel lito asciutto.
Con
fabrica eccellente e singulare
fu
antiquamente il suo muro costrutto.
Poco
altro ha che l'aiuti o la ripare;
che
poi che il re Branzardo fu ridutto
dentro
da quella, pochi mastri, e poco
poté
aver tempo a riparare il loco.
Astolfo
dà l'assunto al re de' Neri,
che
faccia a' merli tanto nocumento
con
falariche, fonde e con arcieri,
che
levi d'affacciarsi ogni ardimento;
sì
che passin pedoni e cavallieri
fin
sotto la muraglia a salvamento,
che
vengon, chi di pietre e chi di travi,
chi
d'asce e chi d'altra materia gravi.
Chi
questa cosa e chi quell'altra getta
dentro
alla fossa, e vien di mano in mano;
di
cui l'acqua il dì inanzi fu intercetta,
sì
che in più parti si scopria il pantano.
Ella
fu piena ed atturata in fretta,
e
fatto uguale insin al muro il piano.
Astolfo,
Orlando ed Olivier procura
di
far salir i fanti in su le mura.
I
Nubi d'ogni indugio impazienti,
da
la speranza del guadagno tratti,
non
mirando a' pericoli imminenti,
coperti
da testuggini e da gatti,
con
arieti e loro altri istrumenti
a
forar torri, e porte rompere atti,
tosto
si fero alla città vicini;
né
trovaro sprovisti i Saracini:
che
ferro e fuoco e merli e tetti gravi
cader
facendo a guisa di tempeste,
per
forza aprian le tavole e le travi
de
le machine in lor danno conteste.
Ne
l'aria oscura e nei principi pravi
molto
patir le battezzate teste;
ma
poi che il sole uscì del ricco albergo,
voltò
Fortuna ai Saracini il tergo.
Da
tutti i canti risforzar l'assalto
fe'
il conte Orlando e da mare e da terra.
Sansonetto
che avea l'armata in alto,
entrò
nel porto e s'accostò alla terra;
e
con frombe e con archi facea d'alto,
e
con vari tormenti estrema guerra;
e
facea insieme espedir lance e scale,
ogni
apparecchio e munizion navale.
Facea
Oliviero, Orlando e Brandimarte,
e
quel che fu sì dianzi in aria ardito,
aspra
e fiera battaglia da la parte
che
lungi al mare era più dentro al lito.
Ciascun
d'essi venìa con una parte
de
l'oste che s'avean quadripartito.
Quale
a mur, quale a porte, e quale altrove,
tutti
davan di sé lucide prove.
Il
valor di ciascun meglio si puote
veder
così, che se fosser confusi:
chi
sia degno di premio e chi di note,
appare
inanzi a mill'occhi non chiusi.
Torri
di legno trannosi con ruote,
e
gli elefanti altre ne portano usi,
che
su lor dossi così in alto vanno,
che
i merli sotto a molto spazio stanno.
Vien
Brandimarte, e pon la scala a' muri,
e
sale, e di salir altri conforta:
lo
seguon molti intrepidi e sicuri;
che
non può dubitar chi l'ha in sua scorta.
Non
è chi miri, o chi mirar si curi,
se
quella scala il gran peso comporta.
Sol
Brandimarte agli nimici attende;
pugnando
sale, e al fine un merlo prende.
E
con mano e con piè quivi s'attacca,
salta
sui merli, e mena il brando in volta,
urta,
riversa e fende e fora e ammacca,
e
di sé mostra esperienza molta.
Ma
tutto a un tempo la scala si fiacca,
che
troppa soma e di soperchio ha tolta:
e
for che Brandimarte, giù nel fosso
vanno
sozzopra, e l'uno all'altro adosso.
Per
ciò non perde il cavallier l'ardire,
né
pensa riportare a dietro il piede;
ben
che de' suoi non vede alcun seguire,
ben
che berzaglio alla città si vede.
Pregavan
molti (e non volse egli udire)
che
ritornasse; ma dentro si diede:
dico
che giù ne la città d'un salto
dal
muro entrò, che trenta braccia era alto.
Come
trovato avesse o piume o paglia,
presse
il duro terren senza alcun danno;
e
quei c'ha intorno affrappa e fora e taglia,
come
s'affrappa e taglia e fora il panno.
Or
contra questi or contra quei si scaglia;
e
quelli e questi in fuga se ne vanno.
Pensano
quei di fuor, che l'han veduto
dentro
saltar, che tardo fia ogni aiuto.
Per
tutto il campo alto rumor si spande
di
voce in voce, e il mormorio e il bisbiglio.
La
vaga Fama intorno si fa grande,
e
narra, ed accrescendo va il periglio.
Ove
era Orlando (perché da più bande
si
dava assalto), ove d'Otone il figlio,
ove
Olivier, quella volando venne,
senza
posar mai le veloci penne.
Questi
guerrier, e più di tutti Orlando,
che
amano Brandimarte e l'hanno in pregio,
udendo
che se van troppo indugiando,
perderanno
un compagno così egregio,
piglian
le scale, e qua e là montando,
mostrano
a gara animo altiero e regio,
con
sì audace sembiante e sì gagliardo,
che
i nimici tremar fan con lo sguardo.
Come
nel mar che per tempesta freme,
assaglion
l'acque il temerario legno,
che
or da la prora, or da le parti estreme
cercano
entrar con rabbia e con isdegno;
il
pallido nocchier sospira e geme,
che
aiutar deve, e non ha cor né ingegno;
una
onda viene al fin, che occupa il tutto,
e
dove quella entrò, segue ogni flutto:
così
dipoi che ebbono presi i muri
questi
tre primi, fu sì largo il passo,
che
gli altri ormai seguir ponno sicuri,
che
mille scale hanno fermate al basso.
Aveano
intanto gli arieti duri
rotto
in più lochi, e con sì gran fraccasso,
che
si poteva in più che in una parte
soccorrer
l'animoso Brandimarte.
Con
quel furor che il re de' fiumi altiero,
quando
rompe talvolta argini e sponde,
e
che nei campi Ocnei s'apre il sentiero,
e
i grassi solchi e le biade feconde,
e
con le sue capanne il gregge intero,
e
coi cani i pastor porta ne l'onde;
guizzano
i pesci agli olmi in su la cima,
ove
solean volar gli augelli in prima:
con
quel furor l'impetuosa gente,
là
dove avea in più parti il muro rotto,
entrò
col ferro e con la face ardente
a
distruggere il popul mal condotto.
Omicidio,
rapina e man violente
nel
sangue e ne l'aver, trasse di botto
la
ricca e trionfal città a ruina,
che
fu di tutta l'Africa regina.
D'uomini
morti pieno era per tutto;
e
de le innumerabili ferite
fatto
era un stagno più scuro e più brutto
di
quel che cinge la città di Dite.
Di
casa in casa un lungo incendio indutto
ardea
palagi, portici e meschite.
Di
pianti e d'urli e di battuti petti
suonano
i voti e depredati tetti.
I
vincitori uscir de le funeste
porte
vedeansi di gran preda onusti,
chi
con bei vasi e chi con ricche veste,
chi
con rapiti argenti a' dei vetusti:
chi
traea i figli, e chi le madri meste:
fur
fatti stupri e mille altri atti ingiusti,
dei
quali Orlando una gran parte intese,
né
lo poté vietar, né il duca inglese.
Fu
Bucifar de l'Algazera morto
con
esso un colpo da Olivier gagliardo.
Perduta
ogni speranza, ogni conforto,
s'uccise
di sua mano il re Branzardo,
con
tre ferite, onde morì di corto,
fu
preso Folvo dal duca dal Pardo.
Questi
eran tre che al suo partir lasciato
avea
Agramante a guardia de lo stato.
Agramante
che intanto avea deserta
l'armata,
e con Sobrin n'era fuggito,
pianse
da lungi e sospirò Biserta,
veduto
sì gran fiamma arder sul lito.
Poi
più d'appresso ebbe novella certa
come
de la sua terra il caso era ito:
e
d'uccider se stesso in pensier venne,
e
lo facea; ma il re Sobrin lo tenne.
Dicea
Sobrin: - Che più vittoria lieta,
signor,
potrebbe il tuo inimico avere,
che
la tua morte udire, onde quieta
si
speraria poi l'Africa godere?
Questo
contento il viver tuo gli vieta:
quindi
avrà cagion sempre di temere.
Sa
ben che lungamente Africa sua
esser
non può, se non per morte tua.
Tutti
i sudditi tuoi, morendo, privi
de
la speranza, un ben che sol ne resta.
Spero
che n'abbi a liberar, se vivi,
e
trar d'affanno e ritornarne in festa.
So
che, se muori, siàn sempre captivi,
Africa
sempre tributaria e mesta.
Dunque,
s'in util tuo viver non vuoi,
vivi,
signor, per non far danno ai tuoi.
Dal
soldano d'Egitto, tuo vicino,
certo
esser puoi d'aver danari e gente:
malvolentieri
il figlio di Pipino
in
Africa vedrà tanto potente.
Verrà
con ogni sforzo Norandino
per
ritornarti in regno, il tuo parente:
Armeni,
Turchi, Persi, Arabi e Medi,
tutti
in soccorso avrai, se tu li chiedi. -
Con
tali e simil detti il vecchio accorto
studia
tornare il suo signore in speme
di
racquistarsi l'Africa di corto;
ma
nel suo cor forse il contrario teme:
sa
ben quanto è a mal termine e a mal porto,
e
come spesso invan sospira e geme
chiunque
il regno suo si lascia torre,
e
per soccorso a' barbari ricorre.
Annibal
e Iugurta di ciò foro
buon
testimoni, ed altri al tempo antico:
al
tempo nostro Ludovico il Moro,
dato
in poter d'un altro Ludovico.
Vostro
fratello Alfonso da costoro
ben
ebbe esempio (a voi, Signor mio, dico),
che
sempre ha riputato pazzo espresso
chi
più si fida in altri che in se stesso.
E
però ne la guerra che gli mnosse
del
pontifice irato un duro sdegno,
ancor
che ne le deboli sue posse
non
potessi egli far molto disegno,
e
chi lo difendea, d'Italia fosse
spinto,
e n'avesse il suo nimico il regno;
né
per minacce mai né per promesse
s'indusse
che lo stato altrui cedesse.
Il
re Agramante all'oriente avea
volta
la prora, e s'era spinto in alto,
quando
da terra una tempesta rea
mosse
da banda impetuoso assalto.
Il
nocchier che al governo vi sedea:
-
Io veggo (disse alzando gli occhi ad alto)
una
procella apparecchiar sì grave,
che
contrastar non le potrà la nave.
S'attendete,
signori, al mio consiglio,
qui
da man manca ha un'isola vicina,
a
cui mi par che abbiamo a dar di piglio,
fin
che passi il furor de la marina. -
Consentì
il re Agramante; e di periglio
uscì,
pigliando la spiaggia mancina,
che
per salute de' nocchier giace
tra
gli Afri e di Vulcan l'alta fornace.
D'abitazioni
è l'isoletta vota,
piena
d'umil mortelle e di ginepri,
ioconda
solitudine e remota
a
cervi, a daini, a capriuoli, a lepri;
e
fuor che a piscatori, è poco nota,
ove
sovente a rimondati vepri
sospendon,
per seccar, l'umide reti:
dormeno
intanto i pesci in mar quieti.
Quivi
trovar che s'era un altro legno,
cacciato
da fortuna, già ridutto:
il
gran guerrier che in Sericana ha regno,
levato
d'Arli, avea quivi condutto.
Con
modo riverente e di sé degno
l'un
re con l'altro s'abbracciò all'asciutto;
che
erano amici, e poco inanzi furo
compagni
d'arme al parigino muro.
Con
molto dispiacer Gradasso intese
del
re Agramante le fortune avverse:
poi
confortollo, e come re cortese,
con
la propria persona se gli offerse:
ma
che egli andasse all'infedel paese
d'Egitto,
per aiuto, non sofferse.
-
Che vi sia (disse) periglioso gire,
dovria
Pompeio i profugi ammonire.
E
perché detto m'hai che con l'aiuto
degli
Etiopi, sudditi al Senapo,
Astolfo
a torti l'Africa è venuto,
e
che arsa ha la città che n'era capo;
e
che Orlando è con lui, che diminuto
poco
inanzi di senno aveva il capo;
mi
pare al tutto un ottimo rimedio
aver
pensato a farti uscir di tedio.
Io
piglierò per amor tuo l'impresa
d'entrar
col conte a singular certame.
Contra
me so che non avrà difesa,
se
tutto fosse di ferro o di rame.
Morto
lui, stimo la cristiana Chiesa,
quel
che l'agnelle il lupo che abbia fame.
Ho
poi pensato (e mi fia cosa lieve)
di
fare i Nubi uscir d'Africa in breve.
Farò
che gli altri Nubi che da loro
il
Nilo parte e la diversa legge,
e
gli Arabi e i Macrobi, questi d'oro
ricchi
e di gente, e quei d'equino gregge,
Persi
e Caldei (perché tutti costoro
con
altri molti il mio scettro corregge);
farò
che in Nubia lor faran tal guerra,
che
non si fermeran ne la tua terra. -
Al
re Agramante assai parve oportuna
del
re Gradasso la seconda offerta;
e
si chiamò obligato alla Fortuna,
che
l'avea tratto all'isola deserta:
ma
non vuol torre a condizione alcuna,
se
racquistar credesse indi Biserta,
che
battaglia per lui Gradasso prenda;
che
'n ciò gli par che l'onor troppo offenda.
-
S'a disfidar s'ha Orlando, son quell'io
(rispose)
a cui la pugna più conviene:
e
pronto vi sarò; poi faccia Dio
di
me, come gli pare, o male o bene. -
-
Facciàn (disse Gradasso) al modo mio,
a
un nuovo modo che in pensier mi viene:
questa
battaglia pigliamo ambedui
incontra
Orlando, e un altro sia con lui. -
-
Pur che io non resti fuor, non me ne lagno
(disse
Agramante), o sia primo o secondo:
ben
so che in arme ritrovar compagno
di
te miglior non si può in tutto il mondo. -
-
Ed io (disse Sobrin) dove rimagno?
E
se vecchio vi paio, vi rispondo
che
io debbo esser più esperto, e nel periglio
presso
alla forza è buono aver consiglio. -
D'una
vecchiezza valida e robusta
era
Sobrino, e di famosa prova;
e
dice che in vigor l'età vetusta
si
sente pari alla già verde e nuova.
Stimata
fu la sua domanda giusta;
e
senza indugio un messo si ritrova,
il
qual si mandi agli africani lidi,
e
da lor parte il conte Orlando sfidi;
che
s'abbia a ritrovar con numer pare
di
cavallieri armati in Lipadusa.
Una
isoletta è questa, che dal mare
medesmo
che li cinge, è circonfusa.
Non
cessa il messo a vela e a remi andare,
come
quel che prestezza al bisogno usa,
che
fu a Biserta; e trovò Orlando quivi,
che
a suoi le spoglie dividea e i captivi.
Lo
'nvito di Gradasso e d'Agramante
e
di Sobrino in publico fu espresso,
tanto
giocondo al principe d'Anglante,
che
d'ampli doni onorar fece il messo.
Avea
dai suoi compagni udito inante,
che
Durindana al fianco s'avea messo
il
re Gradasso: onde egli, per desire
di
racquistarla, in India volea gire,
stimando
non aver Gradasso altrove,
poi
che udì che di Francia era partito.
Or
più vicin gli è offerto luogo, dove
spera
che il suo gli fia restituito.
Il
bel corno d'Almonte anco lo muove
ad
accettar sì volentier lo 'nvito,
e
Brigliador non men; che sapea in mano
esser
venuti al figlio di Troiano.
Per
compagno s'elegge alla battaglia
il
fedel Brandimarte e il suo cognato.
Provato
ha quanto l'uno e l'altro vaglia;
sa
che da trambi è sommamente amato.
Buon
destrier, buona piastra e buona maglia,
e
spade cerca e lance in ogni lato
a
sé e a' compagni: che sappiate parme,
che
nessun d'essi avea le solite arme.
Orlando
(come io v'ho detto più volte)
de
le sue sparse per furor la terra:
agli
altri ha Rodomonte le lor tolte,
che
or alta torre in ripa un fiume serra.
Non
se ne può per Africa aver molte;
sì
perché in Francia avea tratto alla guerra
il
re Agramante ciò che era di buono,
sì
perché poche in Africa ne sono.
Ciò
che di ruginoso e di brunito
aver
si può, fa ragunare Orlando;
e
coi compagni intanto va pel lito
de
la futura pugna ragionando.
Gli
avvien che essendo fuor del campo uscito
più
di tre miglia, e gli occhi al mare alzando,
vide
calar con le vele alte un legno
verso
il lito african senza ritegno.
Senza
nocchieri e senza naviganti,
sol
come il vento e sua fortuna il mena,
venìa
con le vele alte il legno avanti,
tanto
che se ritenne in su l'arena.
Ma
prima che di questo più vi canti,
l'amor
che a Ruggier porto mi rimena
alla
sua istoria, e vuol che io vi racconte
di
lui e del guerrier di Chiaramonte.
Di
questi duo guerrier dissi che tratti
s'erano
fuor del marziale agone,
viste
convenzion rompere e patti,
e
turbarsi ogni squadra e legione.
Chi
prima i giuramenti abbia disfatti,
e
stato sia di tanto mal cagione,
o
l'imperator Carlo, o il re Agramante,
studian
saper da chi lor passa avante.
Un
servitor intanto di Ruggiero,
che
era fedele e pratico ed astuto,
né
pel conflitto dei duo campi fiero
avea
di vista il patron mai perduto,
venne
a trovarlo, e la spada e il destriero
gli
diede, perché a' suoi fosse in aiuto.
Montò
Ruggiero e la sua spada tolse,
ma
ne la zuffa entrar non però volse.
Quindi
si parte; ma prima rinuova
la
convenzion che con Rinaldo avea;
che
se pergiuro il suo Agramante trova,
lo
lascierà con la sua setta rea.
Per
quel giorno Ruggier fare altra prova
d'arme
non volse; ma solo attendea
a
fermar questo e quello, e a domandarlo
chi
prima roppe, o il re Agramante, o Carlo.
Ode
da tutto il mondo, che la parte
del
re Agramante fu, che roppe prima.
Ruggiero
ama Agramante, e se si parte
da
lui per questo, error non lieve stima.
Fur
le gente africane e rotte e sparte
(questo
ho già detto inanzi), e da la cima
de
la volubil ruota tratte al fondo,
come
piacque a colei che aggira il mondo.
Tra
sé volve Ruggiero e fa discorso,
se
restar deve, o il suo signor seguire.
Gli
pon l'amor de la sua donna un morso
per
non lasciarlo in Africa più gire:
lo
volta e gira, ed a contrario corso
lo
sprona, e lo minaccia di punire,
se
l' patto e il giuramento non tien saldo,
che
fatto avea col paladin Rinaldo.
Non
men da l'altra parte sferza e sprona
la
vigilante e stimulosa cura,
che
s'Agramante in quel caso abbandona,
a
viltà gli sia ascritto ed a paura.
Se
del restar la causa parrà buona
a
molti, a molti ad accettar fia dura.
Molti
diran che non si de' osservare
quel
che era ingiusto e illicito a giurare.
Tutto
quel giorno e la notte seguente
stette
solingo, e così l'altro giorno,
pur
travagliando la dubbiosa mente,
se
partir deve o far quivi soggiorno.
Pel
signor suo conclude finalmente
di
fargli dietro in Africa ritorno.
Potea
in lui molto il coniugale amore,
ma
vi potea più il debito e l'onore.
Torna
verso Arli; che trovarvi spera
l'armata
ancor, che in Africa il trasporti:
né
legno in mar né dentro alla rivera,
né
Saracini vede, se non morti.
Seco
al partire ogni legno che v'era
trasse
Agramante, e il resto arse nei porti.
Fallitogli
il pensier, prese il camino
verso
Marsilia pel lito marino.
A
qualche legno pensa dar di piglio,
che
a prieghi o forza il porti all'altra riva.
Già
v'era giunto del Danese il figlio
con
l'armata de' barbari captiva.
Non
si avrebbe potuto un gran di miglio
gittar
ne l'acqua: tanto la copriva
la
spessa moltitudine de navi,
di
vincitori e di prigioni, gravi.
Le
navi de' pagani, che avanzaro
dal
fuoco e dal naufragio quella notte,
eccetto
poche che in fuga n'andaro,
tutte
a Marsilia avea Dudon condotte.
Sette
di quei che in Africa regnaro,
che,
poi che le lor genti vider rotte,
con
sette legni lor s'eran renduti,
stavan
dolenti, lacrimosi e muti.
Era
Dudon sopra la spiaggia uscito,
che
a trovar Carlo andar volea quel giorno;
e
de' captivi e de lor spoglie ordito
con
lunga pompa avea un trionfo adorno.
Eran
tutti i prigion stesi nel lito,
e
i Nubi vincitori allegri intorno,
che
faceano del nome di Dudone
intorno
risonar la regione.
Venne
in speranza di lontan Ruggiero,
che
questa fosse armata d'Agramante;
e,
per saperne il vero, urtò il destriero:
ma
riconobbe, come fu più inante,
il
re de Nasamona prigionero,
Bambirago,
Agricalte e Farurante,
Manilardo
e Balastro e Rimedonte,
che
piangendo tenean bassa la fronte.
Ruggier
che gli ama, sofferir non puote
che
stian ne la miseria in che li trova.
Quivi
sa che a venir con le man vote,
senza
usar forza, il pregar poco giova.
La
lancia abbassa, e chi li tien percuote;
e
fa del suo valor l'usata prova;
stringe
la spada, e in un piccol momento
ne
fa cadere intorno più di cento.
Dudone
ode il rumor, la strage vede
che
fa Ruggier, ma chi sia non conosce.
Vede
i suoi c'hanno in fuga volto il piede
con
gran timor, con pianto e con angosce.
Presto
il destrier, lo scudo e l'elmo chiede;
che
già avea armato e petto e braccia e cosce:
salta
a cavallo e si fa dar la lancia,
e
non oblia che è paladin di Francia.
Grida
che si ritiri ognun da canto,
spinge
il cavallo e fa sentir gli sproni.
Ruggier
cent'altri n'avea uccisi intanto,
e
gran speranza dato a quei prigioni:
e
come venir vide Dudon santo
solo
a cavallo, e gli altri esser pedoni,
stimò
che capo e che signor lor fosse;
e
contra lui con gran desir si mosse.
Già
mosso prima era Dudon; ma quando
senza
lancia Ruggier vide venire,
lunge
da sé la sua gittò, sdegnando
con
tal vantaggio il cavallier ferire.
Ruggiero,
al cortese atto riguardando,
disse
fra sé: - Costui non può mentire,
che
uno non sia di quei guerrier perfetti
che
paladin di Francia sono detti.
S'impetrar
lo potrò, vo' che il suo nome,
inanzi
che segua altro, mi palese; -
e
così domandollo: e seppe come
era
Dudon figliuol d'Uggier danese.
Dudon
gravò Ruggier poi d'ugual some,
e
parimente lo trovò cortese.
Poi
che i nomi tra lor s'ebbono detti,
si
disfidaro, e vennero agli effetti.
Avea
Dudon quella ferrata mazza
che
in mille imprese gli diè eterno onore:
con
essa mostra ben che egli è di razza
di
quel Danese pien d'alto valore.
La
spada che apre ogni elmo, ogni corazza,
di
che non era al mondo la migliore,
trasse
Ruggiero, e fece paragone
di
sua virtude al paladin Dudone.
Ma
perché in mente ognora avea di meno
offender
la sua donna, che potea;
ed
era certo, se spargea il terreno
del
sangue di costui, che la offendea
(de
le case di Francia istrutto a pieno,
la
madre di Dudone esser sapea
Armelina
sorella di Beatrice,
che
era di Bradamante genitrice):
per
questo mai di punta non gli trasse,
e
di taglio rarissimo ferìa.
Schermiasi,
ovunque la mazza calasse,
or
ribattendo, or dandole la via.
Crede
Turpin che per Ruggier restasse,
che
Dudon morto in pochi colpi avria:
né
mai, qualunque volta si scoperse,
ferir,
se non di piatto, lo sofferse.
Di
piatto usar potea, come di taglio,
Ruggier
la spada sua che avea gran schena;
e
quivi a strano giuoco di sonaglio
sopra
Dudon con tanta forza mena,
che
spesso agli occhi gli pon tal barbaglio,
che
si ritien di non cadere a pena.
Ma
per esser più grato a chi mi ascolta,
io
differisco il canto a un'altra volta.