Pietro Bembo
RIME
Sonetto I
Piansi e cantai lo strazio e l'aspra guerra,
Ch'i' ebbi a sostener molti e molti anni
E la cagion di così lunghi affanni,
Cose prima non mai vedute in terra.
Dive, per cui s'apre Elicona e serra,
Use far a la morte illustri inganni,
Date allo stil, che nacque de' miei danni,
Viver, quand'io sarò spento e sotterra.
Che potranno talor gli amanti accorti,
Queste rime leggendo, al van desio
Ritoglier l'alme col mio duro exempio,
E quella strada, ch'a buon fine porti,
Scorger da l'altre, e quanto adorar Dio
Solo si dee nel mondo, ch'è suo tempio.
Sonetto II
Io, che già vago e sciolto avea pensato
Viver quest'anni, e sì di ghiaccio armarme
Che fiamma non potesse omai scaldarme,
Avampo tutto e son preso e legato.
Giva solo per via, quando da lato
Donna scesa dal ciel vidi passarme,
E per mirarla, a pie mi cadder l'arme,
Che tenendo, sarei forse campato.
Nacque ne l'alma insieme un fiero ardore,
Che la consuma, e bella mano avinse
Catene al collo adamantine e salde.
Tal per te sono, e non men pento,
Amore, purché tu lei, che sì m'accese e strinse,
Qualche poco, Signor, leghi e riscalde.
Sonetto III
Sì come suol, poi che 'l verno aspro e rio
Parte e dà loco a le stagion migliori,
Giovene cervo uscir col giorno fuori
Del solingo suo bosco almo natio,
Et or su per un colle, or lungo un rio
Gir lontano da case e da pastori,
Erbe pascendo rugiadose e fiori,
Ovunque più ne 'l porta il suo desio;
Né teme di saetta o d'altro inganno,
Se non quand'egli è colto in mezzo 'l fianco
Da buon arcier, che di nascosto scocchi;
Tal io senza temer vicino affanno
Moss'il piede quel dì, che i be' vostr'occhi
Me 'mpiagar, Donna, tutto 'l lato manco.
Sonetto IV
Picciol cantor, ch'al mio verde soggiorno
Non togli ancor le tue note dolenti,
Ben riconosco in te gli usati accenti,
ma io, qual me n'andai, lasso, non torno.
Alta virtute e bel sembiante adorno
Dier lo mio debil legno a fieri venti:
Tosto avrai tu, chi suoi novi lamenti
Giunga agli antichi tuoi la notte e 'l giorno.
Già m'hai veduto a questo fido orrore
Venir co' miei pensieri amici appresso,
E lieto, et io di me vivea signore.
Or mi vedrai col mio nimico expresso,
E far de la mia pena cibo al core,
Del ciglio altrui sproni e freno a me stesso.
Sonetto V
Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,
Ch'all'aura su la neve ondeggi e vole,
Occhi soavi e più chiari che 'l sole,
Da far giorno seren la notte oscura,
Riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura,
Rubini e perle, ond'escono parole
Sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle,
Man d'avorio, che i cor distringe e fura,
Cantar, che sembra d'armonia divina,
Senno maturo a la più verde etade,
Leggiadria non veduta unqua fra noi,
Giunta a somma beltà somma onestade,
Fur l'esca del mio foco, e sono in voi
Grazie, ch'a poche il ciel largo destina.
Sonetto VI
Moderati desiri, immenso ardore,
Speme, voce, color cangiati spesso,
Veder, ove si miri, un volto impresso,
E viver pur del cibo, onde si more,
Mostrar a duo begli occhi aperto il core,
Far de le voglie altrui legge a se stesso,
Con la lingua e lo stil lunge e da presso
Gir procacciando a la sua donna onore,
Sdegni di vetro, adamantina fede,
Sofferenza lo schermo e di pensieri alti
Lo stral e 'l segno opra divina,
E meritar e non chieder mercede,
Fanno 'l mio stato, e son cagion ch'io speri
Grazie, ch'a pochi il ciel largo destina.
Sonetto VII
Poi ch'ogni ardir mi circonscrisse Amore
Quel dì, ch'io posi nel suo regno il piede,
Tanto ch'altrui, non pur chieder mercede,
Ma scoprir sol non oso il mio dolore,
Avess'io almen d'un bel cristallo il core,
Che, quel ch'i' taccio e Madonna non vede
De l'interno mio mal, senza altra fede
A' suoi begli occhi tralucesse fore;
Ch'io spererei de la pietate ancora
Veder tinta la neve di quel volto,
Che 'l mio sì spesso bagna e discolora.
Or che questo non ho, quello m'è tolto,
Temo non voglia il mio Signor, ch'io mora:
La medicina è poca, il languir molto.
Sonetto VIII
Ch'io scriva di costei, ben m'hai tu detto
Più volte, Amor; ma ciò, lasso, che vale?
Non ho né spero aver da salir ale,
Terreno incarco a sì celeste obietto.
- Ella ti scorgerá, ch'ogni imperfetto
Desta a virtute, e di stil fosco e frale
Potrà per grazia far chiaro immortale,
Dandogli forma da sì bel suggetto.
Forse non degna me di tanto onore;
Anzi nessun; pur se ti fidi in noi;
Esser può, ch'arco in van sempre non scocchi.
Ma che dirò, Signor, prima? che poi?
Quel, ch'io t'ho già di lei scritto nel core;
E quel, che leggerai ne' suoi begli occhi.
Sonetto IX
Di que' bei crin, che tanto più sempre amo,
Quanto maggior rnio mal nasce da loro,
Sciolto era il nodo, che del bel tesoro
M'asconde quel, ch'io più di mirar bramo;
E 'l cor, che 'ndarno or lasso a me richiamo,
Volò subitamente in quel dolce oro,
E fe' come augellin tra verde alloro,
Ch'a suo diletto va di ramo in ramo.
Quando ecco due man belle oltra misura,
Raccogliendo le treccie al collo sparse,
strinservi dentro lui, che v'era involto.
Gridai ben io, ma le voci fe' scarse
Il sangue, che gelò per la paura:
Intanto il cor mi fu legato e tolto.
Sonetto X
Usato di mirar forma terrena
Quest'anni adietro e torbido splendore,
Vidi la fronte, di celeste onore
Segnata e più che sol puro serena.
Corsemi un caldo allor di vena in vena
Dolce et acerbo e passò dentro al core,
Del qual poi vissi, come volle Amore,
Ch'or pace e gioia, or mi dà guerra e pena.
La pena è sola, ma la gioia mista
D'alcun tormento sempre, e quella pace
Poco secura, onde mia vita è trista.
E 'l divin chiaro sguardo sì mi piace,
Ch'io ritorno a perir de la sua vista,
Come farfalla, al lume che la sface.
Sonetto XI
Ove romita e stanca si sedea
Quella, in cui sparse ogni suo don natura,
Guidommi Amor, e fu ben mia ventura,
Che più felice farmi non potea.
Raccolta in sé, co' suoi pensier parea
Ch'ella parlasse; ond'io, che tema e cura
Non ho mai d'altro, a guisa d'uomi che fura,
Di paura e di speme tutto ardea.
E tanto in quel sembiante ella mi piacque,
Che poi per meraviglia oltre pensando,
Infinita dolcezza al cor mi nacque;
E crebbe allor che 'l bel fianco girando
Mi vide, e tinse il viso, e poi non tacque,
Tu pur qui se', ch'io non so come, o quando.
Sonetto XII
Amor, che meco in quest'ombre ti stavi,
Mirando nel bel viso di costei,
Quel dì che volentier detto l'avrei
Le mie ragion, ma tu mi spaventavi,
Ecco l'erbetta, e i fior lieti e soavi,
Che preser nel passar vigor da lei,
E 'l ciel, ch'acceser que' begli occhi rei,
Che tengon del mio petto ambe le chiavi.
Ecco ove giunse prima e poi s'assise,
Ove ne scorse, ove chinò le ciglia,
Ove parlò Madonna, ove sorrise.
Qui come suoi, chi se stesso consiglia,
Stette pensosa: o sue belle divise,
Come m'avete pien di meraviglia!
Sonetto XIII
Occhi leggiadri, onde sovente Amore
Move lo stral, che la mia vita impiaga,
Crespo dorato crin, che fai sì vaga
L'altrui bellezza e 'l mio foco maggiore,
E voi, man preste a distenermi 'l core
E più profonda far la mortal piaga,
Se del vedervi sol l'alma s'appaga,
Perché sì rado vi mostrate fore?
Non ti doler di noi, che ne convene
Seguir le voglie de la donna nostra:
Dì questo a lei, che 'n tal guisa ne tene.
Pur potess'io; ma con la vista vostra
M'abbaglia sì, ch'a forza le mie pene
Oblio tutte, ov'ella mi si mostra.
SonettoXIV
Porto, se 'l valor vostro arme e perigli
Guerreggiando piegâr né mica unquanco,
E Marte v'ha tra' suoi più cari figli,
Difendervi d'Amor non potrete anco.
Non vai, perch'uom di ferro il petto e 'l fianco
Si copra, e spada in mano o lancia pigli,
Con lui, che spesso Giove e tutto stanco
Ha 'l ciel, non ch'ei qua giù turbe e scompigli.
Più gioverà mostrarvi umile e piano
e volontariamente preso andarne,
com'ho fatt'io, che contrastar in vano.
Anzi pregate, poi ch'egli ha in sua mano
Nostra vita, né pote altro salvarne,
Vi doni a cor non da pietà lontano.
Canzone I (XV)
Tutto quel che felice et infelice
Viverò per inanzi, a voi si scriva,
Del mio bene e mal sola radice,
Fonte onde 'l mio stato si deriva:
Che tante cose Amor di voi mi dice,
Tante ne leggon le mie fide scorte
Negli occhi, ond'è la face sua più viva;
Ch'i' voglio anzi per voi tormento e morte,
Che viver e gioir in altra sorte.
Canzone II: (XVI)
La mia leggiadra e candida angioletta,
Cantando a par de le Sirene antiche,
Con altre d'onestade e pregio amiche
Sedersi a l'ombra in grembo de l'erbetta
Vid'io pien di spavento:
Perch'esser mi parea pur su nel cielo,
Tal di dolcezza velo
Avolto avea quel punto agli occhi miei.
E già dicev'io meco: o stelle, o dei,
O soave concento!
Quand'i m'accorsi ch'ell'eran donzelle,
Liete, secure e belle.
Amore, io non mi pento
D'esser ferito de la tua saetta,
S'un tuo sì picciol ben tanto diletta.
Canzone III (XVII)
Or che non s'odon per le fronde i venti,
Né si vede altro che le stelle e 'l cielo,
Poi che scampo non ho dal mio bel sole,
Se non quest'un, del suo celeste lume
Conven ch'io parli, e come foco e ghiaccio
Fa di me spesso fuor d'usanza e tempo.
Forse fia questo aventuroso tempo
A le mie voci, e gli amorosi venti,
Ch'io movo di sospiri al duro ghiaccio,
Faran del mio languir pietate al cielo:
A Madonna non già, che tanto lume
A le tenebre mie non porta il sole.
Or dico che di me, sì come il sole
Muta girando le stagioni e 'l tempo,
Fa l'altero fatal mio vivo lume:
Ch'or provo in me sereno, or nube, or venti,
Or pioggie, e spesso nel più freddo cielo
Son foco e nel più caldo neve e ghiaccio.
Foco son di desio, di tema ghiaccio,
Qualor si mostra agli occhi miei quel sole,
Ch'abbaglia più che l'altro, ch'è su in cielo:
Seren la pace e nubiloso tempo
Son l'ire e 'l pianto pioggia, i sospir venti,
Che move spesso in me l'amato lume.
Così sol per virtù di questo lume
Vivendo ho già passato il caldo e 'l ghiaccio,
Senza temer che forza d'altri venti
Turbasse un raggio mai di sì bel sole
Per chinar pioggia o menar fosco tempo,
Grazia e mercé del mio benigno cielo.
E prima fia di stelle ignudo il cielo
E 'l giorno andrà senza l'usato lume,
Ch'io muti stile o volontà per tempo;
Né spero già scaldar quel cor di ghiaccio,
Per provar tanto, ai raggi del mio sole,
Foco, gelo, seren, nube, acque e venti.
Quanto soffiano i venti e volge il cielo,
Non vide il sol giamai si chiaro lume,
Pur che 'l ghiaccio scacciasse un caldo tempo.
Canzone IV (XVIII)
Amor la tua virtute
Non è dal mondo e dalla gente intesa:
Che da viltate offesa
Segue suo danno, e fugge sua salute.
Ma se fosser tra noi ben conosciute
L'opre tue, come là dove risplende
Più del tuo raggio puro;
Cammin diritto e securo
Prenderia nostra vita, che no 'l prende,
E tornerian con la prima beltade
Gli anni dell'oro, e la felice etade.
Canzone V (XIX).
Come si converria, de' vostri onori
S'io non canto, Madonna, e non ragiono,
Ben me ne dee venir da voi perdono:
Che da la chiara e gran virtute vostra,
Ch'è quasi un sol, ch'ogni altro lume adombra,
E da quella celeste alma beltade,
Cui par non vide o questa od altra etade,
Quand'io vo per ritrarle,
Tal diletto, e sì novo a me si mostra,
Che l'alma in tanto resta vinta e sgombra
Di saper, e lo stil non può formarle,
Ch'al ver non sian pur come sogno et ombra;
Se non in quanto a voi fan puro dono
De la mia fede e testimon ne sono.
SonettoXV (XX)
O imagine mia celeste e pura,
Che splendi più che 'l sole agli occhi miei
E mi rassembri 'l volto di colei,
Che scolpita ho nel cor con maggior cura,
Credo che 'l mio Bellin con la figura
T'abbia dato il costume anco di lei,
Che m'ardi, s'io ti miro, e per te sei
Freddo smalto, a cui giunse alta ventura.
E come donna in vista dolce, umile,
Ben mostri tu pietà del mio tormento;
Poi, se mercè ten prego, non rispondi.
In questo hai tu di lei men fero stile,
Né spargi sì le mie speranze al vento,
Ch'almen, quand'io ti cerco, non t'ascondi.
SonettoXVI ( XXI)
Son questi quei begli occhi, in cui mirando
senza difesa far perdei me stesso?
È questo quel bel ciglio, a cui sì spesso
invan del mio languir mercé dimando?
Son queste quelle chiome, che legando
vanno il mio cor, sì ch'ei ne more espresso?
O volto, che mi stai ne l'alma impresso,
perch'io viva di me mai sempre in bando,
parmi veder ne la tua fronte Amore
tener suo maggior seggio, e d'una parte
volar speme, piacer, tema e dolore;
da l'altra, quasi stelle in ciel consparte,
quinci e quindi apparir senno, valore,
bellezza, leggiadria, natura ed arte.
SonettoXVII (XXII)
Grave, saggio, cortese, alto signore,
Lume di questa nostra oscura etate,
Che desti 'l mondo e 'l chiami in libertate
Da servitute, e nel suo antico onore,
Solo refugio in così lungo errore
De le nove sorelle abandonate,
Figliuol di Giove, amico d'onestate,
Per cui 'l ben vive e 'l mal si strugge e more,
O Ercole, che travagliando vai
Per lo nostro riposo, e 'n terra fama
E 'n ciel fra gli altri Dei t'acquisti loco,
Sgombra da te le gravi cure omai
E qua ne ven, ove a diletto e gioco
L'erba, il fiume, gli augei, l'aura ti chiama.
SonettoXVIII (XXIII)
Re degli altri, superbo e sacro monte,
Ch'Italia tutta imperioso parti
E per mille contrade e più comparti
Le spalle, il fianco e l'una e l'altra fronte;
De le mie voglie mal per me sì pronte
Vo risecando le non sane parti,
E raccogliendo i miei pensieri sparti
Sul lito, a cui vicin cadeo Fetonte:
Per appoggiarli al tuo sinistro corno,
Là dove bagna il bel Metauro e dove
Valor e cortesia fanno soggiorno;
E s'a prego mortal Febo si move,
Tu sarai 'l mio Parnaso, e 'l crine intorno
Ancor mi cingerai d'edere nove.
Sonetto XIX (XXIV)
Del cibo, onde Lucrezia e l'altre han vita,
In cui vera onestà mai non morio,
L'un pasca il digiun vostro lungo e rio,
Donna più che mortal, saggia e gradita.
L'altro la faccia bianca e sbigottita
Dal tuon, che qui sì grande si sentio,
Depinga col liquor d'un alto oblio
E vi ritorni vaga e colorita.
E 'l terzo vi stia inanzi a tutte l'ore,
E s'aven che Medusa a voi si mostri,
Schermo vi sia, che non s'impetre il core.
Per me si desti tanto il mio Signore,
Ch'io trovi loco in grembo a' pensier vostri,
Tal che 'nvidia non basti a trarmen fore.
Sonetto XX (XXV)
Tommaso, i venni, ove l'un duce mauro
fece del sangue suo vermiglio il piano,
di molti danni al buon popol romano,
cui l'altro afflitto avea, primo restauro.
Qui miro col piè vago il bel Metauro
gir fra le piaggie or disdegnoso or piano,
per mille rivi giù di mano in mano
portando al mar più ricco il suo tesauro.
Talor m'assido in su la verde riva,
e mentre di Madonna parlo o scrivo,
ad ogni altro penser m'involo spesso.
Così con l'alma solitaria e schiva
assai tranquillo e riposato vivo,
sprezzando 'l mondo, e molto più me stesso.
Canzone VI (XXVI).
Felice stella il mio viver sognava
Quel dì, ch'inanzi a voi mi scorse Amore,
Mostrando a me di fore
Il ben, che dentro agli altri si celava,
In tanto che 'l parlar fede non trova.
Ma perché ragionando si rinova
L'alto piacer, i dico che 'l mio core,
Preso al primo apparir del vostro lume,
L'antico suo costume
Lasciando incontro al dolce almo splendore,
Si mise vago a gir di raggio in raggio,
E giunse ove la luce terminava,
Che gli diè albergo in mezzo al vivo ardore.
Ma non si tenne pago a quel viaggio
L'ardito e fortunato peregrino;
Anzi seguì tant'oltre il suo destino,
Ch'ancor cercando più conforme stato
A la primiera vita, in ch'era usato,
Passò per gli occhi dentro a poco a poco
Nel dolce loco, ove 'l vostro si stava.
E quei, come dicesse: io men vo
Gire dritto colà, donde questi si parte;
Ché, stando in altra parte,
Quel innocente ne potria perire;
Sen venne a me stranier cortese e fido.
Da indi in qua, come in lor proprio nido,
Spirando vita pur a l'altrui parte,
Meco il cor vostro e 'l mio con voi dimora.
Né loco mai né ora,
Che gli altri amanti si spesso diparte
E di vera pietade li depinge.
Pò noi un sol momento dipartire;
Con tal ingegno Amor, con sì nov'arte
Fè la catena, che ne lega e stringe.
E quanto in duo si sprezza o si desia,
È bisogno che sia
Sprezzato e desiato parimente;
Che l'un per l'altro a se stesso consente.
Così si prova in questa frale vita
Gioia infinita senza alcun martire.
Canzone VII (XXVII)
Preso al primo apparir del vostro raggio
Il cor, che infin quel dì nulla mi tolse,
Da me partendo a seguir voi si volse;
E come quei, che trova in suo viaggio
Disusato piacer, non si ritenne,
Che fu negli occhi, onde la luce uscia,
Gridando a queste parti Amor m'invia.
Indi tanta baldanza appo voi prese
L'ardito fuggitivo a poco a poco,
Ch'ancor per suo destin lasciò quel loco
Dentro passando; e più oltra si stese,
Che 'n quello stato a lui non si convenne:
Finchè poi giunto, ov'era il vostro core,
Seco s'assise, e più non parve fore.
Ma quei, come 'l movesse un bel desire
Di non star con altrui del regno a parte,
O fosse 'l ciel, che lo scorgesse in parte,
Ov'altro Signor mai non devea gire;
Là, onde mosse il mio, lieto sen venne:
Così cangiaro albergo, e da quell'ora
Meco 'l cor vostro, e 'l mio con voi dimora.
Sonetto XXI (XXVIII)
De la gran quercia, che 'l bel Tebro adombra,
Esce un ramo, ed ha tanto i cieli amici,
Che gli onorati sette colli aprici
E tutto 'l fiume di vaghezza ingombra.
Questi m'è tal, che pur la sua dolce ombra
Far pote i giorni miei lieti e felici:
Ed ha sì nel mio cor le sue radici,
Che né forza né tempo indi lo sgombra.
Pianta gentil, ne le cui sacre fronde
S'annida la mia speme e i miei desiri;
Te non offenda mai caldo né gelo:
E tanto umor ti dian la terra e l'onde
E l'aura intorno sì soave spiri,
Che t'ergan sovr'ogni altra infino al cielo.
Sonetto XXII (XXIX)
Io ardo, dissi, e la risposta invano,
Come 'l gioco chiedea, lasso, cercai;
Onde tutto quel giorno e l'altro andai
Qual uom, ch'è fatto per gran doglia insano.
Poi che s'avide, ch'io potea lontano
Esser da quel penser, più pia che mai
Ver me volgendo de' begli occhi i rai,
Mi porse ignuda la sua bella mano.
Fredda era più che neve; né 'n quel punto
Scorsi il mio mal, tal di dolcezza velo
M'avea dinanzi ordito il mio desire.
Or ben mi trovo a duro passo giunto,
Che, s'i non erro, in quella guisa dire
Volle Madonna a me, com'era un gelo.
Sonetto XXIII (XXX)
Viva mia neve, e caro e dolce foco,
Vedete com'io agghiaccio e com'io avampo,
Mentre, qual cera, ad or ad or mi stampo
Del vostro segno, e voi di ciò cal poco.
Se gite disdegnosa, tremo, e loco
Non trovo che m'asconda, e non ho scampo
Dal gelo interno; se benigno lampo
Degli occhi vostri ha seco pace e gioco,
Surge la speme, e per le vene un caldo
Mi corre al cor, e sì forte l'infiamma,
Come s'ei fosse pur di solfo e d'esca.
Né per questi contrari una sol dramma
Scema del penser mio tenace e saldo,
C'ha ben poi tanto, onde s'avanzi e cresca.
Sonetto XXIV (XXXI)
Bella guerriera mia, perché sì spesso
V'armate incontro a me d'ira e d'orgoglio;
Che in atti ed in parole a voi mi soglio
Portar sì reverente e sì dimesso?
Se picciol pro del mio gran danno espresso
A voi torna o piacer del mio cordoglio,
Né di languir né di morir mi doglio,
Ch'io vo solo per voi caro a me stesso.
Ma se con l'opre, ond'io mai non mi sazio,
Esser vi pò d'onor questa mia vita;
Di lei vi caglia e non ne fate strazio.
L'istoria vostra col mio stame ordita,
Se non mi si darà più lungo spazio,
Quasi nel cominciar sarà finita.
Sonetto XXV (XXXII)
A questa fredda tema, a questo ardente
Sperar, a questo tuo diletto e gioco,
A questa pena Amor, perché dai loco
Nel mio cor ad un tempo, e sì sovente?
Ond'è, ch'un'alma fai lieta e dolente
Insieme spesso, e tutta gelo e foco?
Stati contrari e tempre, era a te poco,
Se separatamente uom prova e sente?
Risponde: - Voi non durereste in vita,
Tanto è 'l mio amaro, e 'l mio dolce mortale,
Se n'aveste sol questa, o quella parte.
Confusi, mentre l'un con l'altro male
Contende e scemal di sua forza in parte,
Quel, che v'ancideria per se, v'aita.
Sonetto XXVI (XXXIII)
Nei vostri sdegni, aspra mia morte e viva,
S'io piango e sfogo in voci alte e dolenti;
Tal voi risguardo avete a' miei lamenti,
Qual rapido torrente a letto o riva.
S'io taccio; l'alma, d'ogni speme priva,
Brama, che 'l nodo suo tosto s'allenti,
Certa, che allor di voi le nostre genti,
Anciso il suo fedel mentre e' fioriva,
Diranno; e già non sete voi si vostra,
Com'io, da che primier vi scorsi e dissi:
Questa è lo specchio e 'l sol de l'età nostra.
E 'n tante carte poi lo sparsi e scrissi,
Che, s'a mia voglia ancor poco si mostra,
Pur saprà ognun, ch'io mori' vostro e vissi.
Sonetto XXVII (XXXIV)
Sì come quando il ciel nube non ave
E l'aura in poppa con soave forza spira,
Senza alternar di poggia e d'orza
Tutta lieta sen va spalmata nave;
E come poi che 'l tempestoso e grave
Vela, remi, governo, ancore sforza
E l'arte manca e 'l mar poggia e rinforza,
Sente dubbio il suo stato e del fin pave,
Tal io, da speme onesta e pura scorto,
Assai mi tenni fortunato un tempo,
Mentre non m'ebbe la mia donna in ira;
E tal, or che mi sdegna a sì gran torto,
L'alma offesa da lei piagne e sospira,
Che gir si vede a morte anzi 'l suo tempo.
Sonetto XXVIII (XXXV)
La mia fatal nemica è bella e cruda,
COLA, né so qual più, ma cruda e bella,
Quanto il sol caldo e chiaro, e ben tal ella
Nel cor mi siede, che n'agghiaccia, e suda.
Già bella solo: or di pietà sì nuda
Insieme, lasso, e sì d'amor rubella,
Che, vedete tenor di fera stella,
Temo non morte le mie luci chiuda,
Prima ch'io scorga in quel bel viso un segno,
Non dico di mercé, ma che le 'ncresca
Pur solamente del mio, strazio indegno.
Felice voi già preso a più dolce esca,
Cui micidial di lei vaghezza, o sdegno
Gelo e foco ne l'alma non rinfresca.
Sonetto XXIX (XXXVI)
Mostrommi Amor da l'una parte, ov'era,
Quanta non fu giamai fra noi né fia,
Bellezza in sé raccolta e leggiadria
E piano orgoglio ed umiltate altera:
Brama, ch'ogni viltà languisca e pera,
E fiorisca onestate e cortesia:
Donna in opre crudel, in vista pia;
Che di nulla qua giù si fida o spera:
Da l'altra speme al vento, e tema invano,
Fugace allegrezza, e fermi guai,
E simulato riso, e pianti veri;
E scorno in su la fronte, e danno in mano:
Poi disse a me: seguace, quei guerrieri,
E questo guiderdon tu meco avrai.
Canzone VIII (XXXVII)
Sì rubella d'amor, nè sì fugace
Non presse erba col piede;
Nè mosse fronda mai Ninfa con mano;
Nè treccia di fin oro aperse al vento;
Nè in drappo schietto care membra accolse
Donna sì vaga e bella; come questa
Dolce nemica mia.
Quel, che nel mondo, e più ch'altro mi spiace,
Rade volte si vede,
Fanno in costei pur sovra il corpo umano
Bellezza e castità dolce concento:
L'una mi prese il cor, come Amor volse;
L'altra l'impiaga sì leggiadra e presta;
Ch'ei la sua doglia oblia.
Sola in disparte, ov'ogni oltraggio ha pace,
Rosa o giglio non siede;
Che l'alma, non gli assembri a mano a mano
Avvezza nel desio, ch'i serro dentro,
Quel vago fior, cui par uom mai non colse:
Così l'appaga, e parte la molesta
Secura legiadria .
Caro Armellin, ch'innocente si giace,
Vedendo, al cor mi riede
Quella del suo penser gentile e strano.
Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:
Sì novamente me da me disciolse
La vera maga mia, che di rubesta
Cangia ogni voglia in pia.
Bel fiume, allor ch'ogni ghiaccio si sface,
Tanta falda non diede,
Quanta spande dal ciglio altero e piano
Dolcezza, che può far altrui contento,
E se dal dritto corso unqua non tolse:
Nè mai s'inlaga mar senza tempesta,
Che sì tranquillo sia.
Come si spegne poco accesa face,
Se gran vento la fiede;
Similemente ogni piacer men sano
Vaghezza in lei sol d'onestate ha spento.
O fortunato il velo, in cui s'avvolse
L'anima saga, e lei, ch'ogni altra vesta
Men le si convenia.
Questa vita per altro a me non piace,
Che per lei, sua mercede;
Per cui sola dal vulgo m'allontano;
Ch'avvezza l'alma a gir là 'v'io la sento;
Sì ch'ella altrove mai orma non volse;
E più s'invaga, quanto men s'arresta
Per la solinga via.
Dolce delfin, che così gir la face:
Dolci dei mio cor prede;
Ch'altrui sì presto, a me '1 fan sì lontano
Asprezza dolce, mio dolce tormento:
Dolce, miracol, che vedcr non suolse:
Dolce ogni piaga, che per voi mi resta,
Beata compagnia.
Quanto Amor vaga, par beltate onesta
Non fu giammai, nè fia.
Capitolo I (XXXVIII)
Amor è, donne care, un vano e fello,
Cercando nel suo danno util soggiorno,
Altrui fedele, a sé farsi rubello:
Un desiar, ch'in aspettando un giorno
Ne porta gli anni e poi fugge com'ombra;
Né lascia altro di se, che doglia e scorno;
Un falso imaginar, che sì ne ingombra
Or di tema or di speme e strugge e pasce,
Che del vero saper l'alma ne sgombra:
Un ben, che le più volte more in fasce;
Un mal, che vive sempre e, se per sorte
TAllor l'ancidi, più grave rinasce:
Un agli amici suoi chiuder le porte
Del cor, fidando al nemico la chiave,
E far i sensi a la ragione scorte;
Un cibo amaro, e sostegno aspro e grave;
Un digiun dolce, e peso molle e leve,
Un gioir duro, e tormentar soave:
Un dinanzi al suo foco esser di neve,
E tutto in fiamma andar sendo in disparte;
E pensar lungo, e parlar tronco e breve;
Un consumarsi dentro a parte a parte,
Mostrando altrui di for diletto e gioia,
E rider finto, e lagrimar senz'arte;
Un, perché mille volte il dì si moia,
Non cercar altra sorte e gir contento
A la sua ferma e disperata noia:
Un cacciar tigri a passo infermo e lento,
E dar semi a l'arena, e pur col mare
Prati rigar, e nutrir fiori al vento:
Le guerre spesse aver, le paci rare,
La vittoria dubbiosa, il perder certo;
La libertate a vil, le pregion care;
L'entrar precipitoso, e l'uscir erto,
Pigro il patti servar, pronto il fallire,
Di poco mel molto assenzio coperto,
E 'n altrui vivo, in se stesso morire.
Canzone IX (XXXIX)
Quanto alma è più gentile,
Donna d'Amor e mia, tanto raccoglie
Più lietamente onesto servo umile.
Perché se 'l Tosco, che di Laura scrisse,
Ven reverente a far con voi soggiorno,
Dolce vi prove più, che non provo io.
Forse leggendo come sempre e' visse
Più fermo in amar lei di giorno in giorno,
Direte: ben è tale il fedel mio.
Basso pensero o vile
Non scorgerete in lui, ma sante voglie
Sparse in leggiadro ed onorato stile.
Sonetto XXX (XL.)
Siccome sola scalda la gran luce
E veste 'l mondo e sola in lui risplende;
Così nel penser mio sola riluce
Madonna, e sol di se l'orna e raccende.
E qual il velo, che la notte stende,
Febo ripiega e seco il dì conduce;
Tal ella, i mali che la vita adduce
Sgombrando, al cor con ogni ben si rende.
Tanta grazia del ciel chi vede altrove?
Rivolgete, scrittor famosi e saggi
Tutte in lodar costei le vostre prove.
Ma tu, che vibri sì felici raggi,
Mio bel Pianeta, onor di chi ti move,
Non tôrre a l'alma i tuoi dolci viaggi.
Sonetto XXXI (XLI)
L'alta cagion, che da principio diede
A le cose create ordine e stato,
Dispose ch'io v'amassi, e dielmi in fato,
Per far di se col mondo esempio e fede.
Che siccome virtù da lei procede,
Che 'l tempra e regge, e come è sol beato
A cui per grazia il contemplarla è dato,
Ed essa è d'ogni affanno ampia mercede:
Così 'l sostegno mio da voi mi vene
Od in atti cortesi od in parole;
E sol felice son, quand'io vi miro.
Né maggior guiderdon de le mie pene
Posso aver di voi stessa: ond'io mi giro
Pur sempre a voi, come Elitropio al Sole.
Sonetto XXXII (XLII)
Verdeggi all'Appennin la fronte e 'l petto
D'odorate felici Arabe fronde,
Corra latte il Metauro; e le sue sponde
Copran smeraldi, e rena d'oro il letto.
Al desiato novo parto eletto
De la lor donna, a cui foran seconde
Quante prime fur mai, la terra e l'onde
Si mostrin nel più vago e lieto aspetto.
Taccian per l'aere i venti, e caldo o gelo,
Come pria, no 'l distempre, e tutti i lumi,
Che portan pace a noi, raccenda il cielo.
D'alti pensieri, oneste e pure voglie,
Lodate arti, cortesi e bei costumi
Si vesta il mondo, e mai non se ne spoglie.
Sonetto XXXIII (XLIII)
O ben nato e felice, o primo frutto
De le due nostre al ciel sì care piante:
O verga, al cui fiorir, l'opere sante
Terranno il mondo e 'l nostro secol tutto:
Queta l'antica tema, e 'l pianto asciutto
N'hai tu nascendo per molt'anni avante;
Poi, quando già potrai fermar le piante,
Quel, ch'or non piace, sarà spento in tutto.
Mira le genti strane, e la raccolta
Schiera de' tuoi, ch'a prova onor ti fanno,
E del gran padre tuo le lode ascolta:
Che per tornar Italia in libertade
Sostien ne l'arme grave e lungo affanno,
Pien d'un leggiadro sdegno e di pietade.
Sonetto XXXIV (XLIV)
Donne, ch'avete in man l'alto governo
Del colle di Parnaso e de le valli,
Che co' lor puri e liquidi cristalli
Riga Ippocrene e 'l bel Permesso eterno;
Se mai non tolga a voi state né verno
Poter guidar cari amorosi balli;
Scrivete questo su duri metalli,
Che la vecchiezza e 'l tempo abbiano a scherno:
Nel mille cinquecento e dieci avea
Portato a Marte il ventesimo giorno
Febo, e de l'altro dì l'alba surgea,
Quando al Signor de l'universo piacque
Far di sì dolce pegno il mondo adorno,
E 'l chiaro FEDERICO a noi rinacque.
Sonetto XXXV (XLV)
Se dal più scaltro accorger delle genti
Portar celato l'amoroso ardore
In parte non rileva il tristo core
Né scema un sol di mille miei tormenti;
Sapess'io almen con sì pietosi accenti quel,
Che dentro si chiude, aprir di fore;
Ch'un dì vedessi in voi novo colore
Coprir le guancie al suon de' miei lamenti.
Ma si m'abbaglia il vostro altero lume,
Ch'inanzi a voi non so formar parola,
E sto qual uom di spirto ignudo e casso.
Parlo poi meco, e grido, e largo fiume
Verso per gli occhi in qualche parte sola,
E dolor, che devria romper un sasso.
Sonetto XXXVI (XLVI)
Lasso me, che ad un tempo e taccio e grido,
E temo e spero, e mi rallegro e doglio:
Me stesso ad un Signor dono e ritoglio:
De' miei danni egualmente piango e rido.
Volo senz'ale e la mia scorta guido:
Non ho venti contrari, e rompo in scoglio,
Nemico d'umiltà non amo orgoglio:
Né d'altrui né di me molto mi fido.
Cerco fermar il Sole, arder la neve:
E bramo libertate, e corro al giogo,
Di fuor mi copro, e son dentro percosso.
Caggio, quand'io non ho chi mi rileve:
Quando non giova, le mie doglie sfogo:
E per più non poter fo quant'io posso.
Sonetto XXXVII (XLVII)
Lasso, ch'i piango, e 'l mio gran duol non move
Tanto presente mal, quanto futuro;
Che se 'l tuo calle, Amor, è così duro,
Che fia di me, che non so gir altrove?
Poichè non valse alle tue fiamme nove
Il ghiaccio, ond'io credea viver securo;
Se il mio debile stato ben misuro,
Certo i cadrò nelle seconde prove.
Che son sì stanco, e tu più forte giungi:
Onde assai temo di lasciar tra via
Questa ancor verde, e già lacera scorza.
Sostien molta virtù noiosa e ria
Sorte tAllor; ma frale e vinta forza
Non può grave martir portar da lungi.
Sonetto XXXVIII (XLVIII)
Cantai un tempo, e se fu dolce il canto,
Questo mi tacerò, ch'altri il sentiva;
Or è ben giunto ogni mia festa a riva;
Et ogni mio piacer rivolto in pianto.
O fortunato, chi raffrena in tanto
Il suo desio, che riposato viva;
Di riposo e di pace il mio mi priva:
Così va, ch' in altrui pon fede tanto.
Misero, che sperava esser in via
Per dar amando assai felice esempio
A mille, che venisser dopo noi.
Or non lo spero; e quanto è grave ed empio
Il mio dolor, saprallo il mondo, e voi,
Di pietate e d'amor nemica e mia.
Sonetto XXXIX (XLIX)
Correte fiumi alle vostre alte fonti:
Onde, al soffiar de' venti or vi fermate:
Abeti e faggi il mar profondo amate:
Umidi pesci e voi gli alpestri monti.
Né si porti depinta ne le fronti
Alma pensieri e voglie inamorate:
Ardendo 'l verno, agghiacci omai la state:
E 'l Sol là oltre, ond'alza, inchini e smonti.
Cosa non vada più, come solea:
Poi che quel nodo è sciolto, ond'io fui preso:
Ch'altro che morte scioglier non devea.
Dolce mio stato, chi mi t'ha conteso?
Com'esser può quel ch'esser non potea?
O cielo, o terra! e so ch'io sono inteso.
Sonetto XL. (L.)
Or c'ho le mie fatiche tante, e gli anni
Spesi in gradir Madonna, e lei perduto
Senza mia colpa, e non m'hanno potuto
Levar di vita gli amorosi affanni;
Perché vaghezza tua più non m'inganni,
Mondo vano e fallace, io ti rifiuto,
Pentito assai d'averti unqua creduto,
De' tuoi guadagni sazio, e de' tuoi danni.
Che poi che di quel ben son privo e casso,
Che sol volli, e pregiai più che me stesso,
Ogni altro bene in te dispregio e lasso.
Col monte e col suo bosco ombroso e spesso,
Celerà Catria questo corpo lasso,
In fin ch'uscir di lui mi sia concesso.
Sonetto XLI (LI)
Solingo augello, se piangendo vai
La tua perduta dolce compagnia;
Meco ne ven, che piango anco la mia:
Inseme potrem fare i nostri lai.
Ma tu la tua forse oggi troverai:
Io la mia quando? e tu pur tuttavia
Ti stai nel verde; i fuggo indi, ove sia,
Chi mi conforte ad altro, ch'a trar guai.
Privo in tutto son io d'ogni mio bene,
E nudo e grave e solo e peregrino
Vo misurando i campi e le mie pene.
Gli occhi bagnati porto, e 'l viso chino
E 'l cor in doglia, e l'alma fuor di spene,
Né d'aver cerco men fero destino.
Sonetto XLII (LII)
Dura strada a fornir ebbi dinanzi,
Quando da prima in voi le luci apersi:
Tanti sol una vista, e sì diversi,
E sì gravi martir vien che m'avanzi.
Vissi quel dì per più non viver, anzi
Per morir ciascun giorno, e gli occhi fersi
Duo fonti, e s'io dettai rime ne' versi,
Tristi, non lieti fur, com'eran dianzi.
Nega un parlar, un atto dolce umile,
E corre al velo sì, come a siepe angue,
Per orgoglio tAllor donna gentile.
Mirar sempre a diletto alma, che langue,
Nulla già mai gradir servo non vile,
Questo è le mani aver tinte di sangue.
Sonetto XLIII (LIII)
O per cui tante invan lagrime e 'nchiostro,
Tanti al vento sospiri e lode spargo,
Non ch'Apollo mi sia cortese e largo
Di quel, onde s'eterni il nome vostro;
Ma dico, che non oro, o gemme, od ostro
Fer col pastor Ideo la donna d'Argo;
Né con Giove e Giunone e gli occhi d'Argo;
Io famosa, passar al secol nostro;
E se mercé de' lor fidi scrittori
L'una sen va col pregio di beltade,
L'altra ebbe là sul Nilo altari e tempio;
Voi perché no' alcun segno di pietade
Darmi tAllor, ch'io vinca il duro scempio,
E questa penna, come può, v'onori?
Sonetto XLIV (LIV)
Se vuoi ch'io torni sotto 'l fascio antico,
Che tu legasti, Amor, forza disciolse,
E sparso in parte un desir poi raccolse
Più di constanzia che di pace amico;
Rendimi il ricco sguardo, onde mendico
Fui gran tempo: e qual pria ver me si volse
Madonna e 'l mio cor timido raccolse
In grembo al suo penser saggio e pudico;
Mirando a la sua fede ferma e pura,
A la mia grave e travagliata sorte,
Di lor certa e pietosa or ne raccoglia.
Ma non la cange poi chiara od oscura
Vista del ciel, che 'n sofferir gran doglia
Non sarei più, Signor, come già, forte.
Sonetto XLV (LV)
Con la ragion nel suo bel vero involta
L'ardito mio voler combatte spesso
Di speme armato: e muovono con esso
Falsi pensieri a larga schiera e folta.
Ivi se la vittoria erra tal volta
Nel primo incontro, e non si ferma espresso;
Han per lo più gli assalti un fine stesso,
Che la miglior si torna in fuga volta:
Allor senza sospetto il vano e folle
Di me trionfa a pieno arbitrio, e parte
S'avanza in far le sue brame contente.
Ma tosto il cor doglioso e 'l petto molle
Gli mostran, quant'è il peggio assai sovente,
Di quel, che piace, aver alcuna parte.
Sonetto XLVI (LVI)
Questo infiammato e sospiroso core
Di duol trabocca, e gli occhi ognor più desti
Sono al pianger: e l'alma i più molesti
Messi introduce, e scaccia i lieti fore.
Antifonte, che orando alto dolore
Nei turbati sedar già promettesti;
Vedendo or la mia pena, ben diresti,
Che l'arte tua di lei fosse minore.
Ma tu sanavi quei, ch'avean desire
Di lor salute; e molte afflitte menti
Forse quetò la tua leggiadra lingua.
Io son del mio mal vago, e del morire
Sarei: se non ch'i' temo a' miei tormenti
Apporti fine, e 'l grave incendio estingua.
Sonetto XLVII (LVII)
Speme, che gli occhi nostri veli e fasci,
Sfreni e sferzi le voglie e l'ardimento;
Cote d'amor, di cure e di tormento
Ministra; che quetar mai non ne lasci;
Perché nel fondo del mio cor rinasci,
S'io te n'ho svelta? e poi ch'io mi ripento
D'aver a te creduto e 'l mio mal sento;
Perché di tue promesse ancor mi pasci?
Vattene ai lieti e fortunati amanti:
E lor lusinga, a lor porgi conforto,
S'han qualche dolci noie e dolci pianti.
Meco: e ben ha di ciò Madonna il torto:
Le lagrime son tali, e i dolor tanti,
Ch'al più misero e tristo invidia porto.
Canzone X (LVIII)
Ben ho da maledir l'empio Signore,
Che d'ogni mio penser vi fece obietto;
E quante voci in procurarvi onore
M'uscir da indi in qua giamai del petto;
E i passi, sparsi voi seguendo, e l'ore
Spese a vostr'uso più che a mio diletto;
E 'l laccio, ond'io fui stretto,
Quando 'l ciel non potea d'altro legarme:
Poi che di tanta e così lunga fede
Ogni or più grave oltraggio è la mercede.
Ahi quanto aven di quello, onde si dice:
Chi solca in lito, perde l'opra e 'l tempo.
Ogni frutto si trae da la radice;
Ma non aprono i fior tutti ad un tempo.
Già fu, ch'io m'ebbi caro, e gir felice
Sperai solo per voi tutto 'l mio tempo.
Nè giammai si per tempo
A ripensar di voi seppi destarme,
Nè Febo i suoi destrier si lento mosse,
Che 'l giorno al desir mio corto non fosse.
Or veggo, e dirol chiaro in ciascun loco;
Oro non ogni cosa è, che risplende.
Un parlar finto, un guardo, un riso, un gioco,
Spesso senz'altro molti cori accende.
Mal fa, chi tra duo parte onesto foco
E me del vezzo suo nota e riprende:
E chi l'amico offende
Coprendo sé con l'altrui scudo ed arme:
E chi per inalzar falso e protervo
Mette al fondo cortese e leal servo.
Alcun è, che de' suoi più colti campi
Non miete altro che pruni, assenso e tosco
E gente armata, ond'a gran pena scampi:
Altri si perde in raro e picciol bosco:
Ad altrui ven, ch'ad ogni tempo avvampi,
E altri ha sempre il ciel turbato e fosco.
Non sia del tutto losco,
Chi d'esser Argo a diveder vol darme.
Mal si conosce non provato amico:
E mal si cura morbo interno antico.
Ma sia che può: dopo 'l gelo ritorna
La rondinetta, e i brevi dì sen vanno;
In ogni selva egualmente soggiorna
Libero augello: e tal par grave danno,
Che poi via maggiormente a pro ne torna.
È gran parte di gioia uscir d'affanno.
Più che dorato scanno,
Può la stanchezza un bel cespo levarme:
Nè di diletto i poggi e la verd'ombra
Men che logge e teatro il cor m'ingombra.
Poichè 'l suon tace, è tolto a gran vergogna
Per breve spazio ancora essere in danza.
Ebbi già per ben dire agra rampogna:
Or altri in mal oprar se stesso avanza.
Odesi di lontano alta sampogna:
E nulla teme, chi non ha speranza.
Fuggir è buona usanza,
S'uom non è mago, o non sa il forte carme;
Fera, ch'a rimirar dolce e soave
Lo spirto e 'l dente ha venenoso e grave.
Di nessun danno mio molto mi doglio.
Godo la buona sorte: e se la ria
M'assale, i desir miei sparsi raccoglio;
E me ricovro a la virtute mia.
Né vostra pace più, né vostro orgoglio
Dal suo dritto camin l'alma desvia.
Chi vole in mar si stia,
E 'l legno suo di speme non disarme:
Ch'io del mal posto tempo e studio accorto
Fuggo da l'onde ingrate, e prendo il porto.
Canzone XI (LIX)
O rossigniuol, che 'n queste verdi fronde
Sovra 'l fugace rio fermar ti suoli;
E forse a qualche noia ora t'involi,
Dolce cantando al suon de le roche onde;
Alterna teco in note alte e profonde
La tua compagna, e par che ti consoli.
A me, perch'io mi strugga, e pianto e duoli
Versi ad ogni or, nessun giamai risponde:
Nè di mio danno si sospira, o geme;
E te s'un dolor preme,
Può ristorar un altro piacer vivo:
Ma io d'ogni mio ben son casso e privo.
Casso e privo son io d'ogni mio bene,
Che se 'l portò lo mio avaro destino;
E, come vedi, nudo e peregrino
Vo misurando i poggi, e le mie pene.
Ben sai, che poche dolci ore serene
Vedute ho nell'oscuro aspro cammino
Del viver mio; di cui fosse vicino
Il fin, che per mio mal unqua non vene;
E mi riserva a tenebre più nove.
Ma se pietà ti move,
Vola tu là, dove questo si vole;
E sciogli la tua lingua in tai parole:
A piè dell'alpi, che parton Lamagna
Dal campo, ch'ad Antenor non dispiacque;
Con le fere, e con gli arbori, e con l'acque
Ad alta voce un uom d'amor si lagna.
Dolore il ciba, e di lagrime bagna
L'erba, e le piaggie, e da che pria li piacque
Penser di voi, quanto mai disse o tacque,
Va rimembrando: e 'n tanto ogni campagna
Empie di gridi, u' pur che 'l piè lo porte:
E sol desio di morte
Mostra negli occhi e 'n bocca ha 'l vostro nome,
Giovane ancor al volto ed alle chiome.
Che parli, o sventurato?
A cui ragioni? a che così ti sfaci?
E perchè non più tosto piangi, e taci ?
Canzone XII (LX)
Quand'io penso al martire,
Amor, che tu mi dai gravoso e forte;
Corro, per gire a morte,
Così sperando i miei danni finire.
Ma poi ch'i' giungo al passo,
Ch'io porto in questo mar d'ogni tormento;
Tanto piacer ne sento,
Che l'alma si rinforza, ond'io no 'l passo.
Così 'l viver m'ancide:
Così la morte mi ritorna in vita:
O miseria infinita,
Che l'uno apporta, e l'altra non recide!
CANZONE XIII. (LXI.)
Che ti val saettarmi, s'io già fore
Esco di vita, o niquitoso arcero?
Di questa impresa tua, poi ch'io ne pero,
A te non pò venir più largo onore.
Tu m'hai piagato il core,
Amor, ferendo in guisa a parte a parte,
Che loco a nova piaga non può darte,
Nè di tuo stral sentir fresco dolore.
Che vuoi tu più da me? ripon giù l'arme:
Vedi ch'io moro: omai che puoi tu farme?
Canzone XIV (LXII)
Voi mi poneste in foco
Per farmi anz'il mio dì, donna perire:
E perchè questo mal vi parea poco,
Col pianto raddoppiaste il mio languire.
Or io vi vo' ben dire;
Levate l'un martire:
Che di due morti i non posso morire.
Perocchè dall'ardore
L'umor, che ven dagli occhi, mi difende:
E che 'l gran pianto non distempre il core,
Face la fiamma, che l'asciuga e 'ncende.
Così quanto si prende
L'un mal, l'altro mi rende;
E giova quello stesso, che m'offende.
Che se tanto a voi piace
Veder in polve questa carne ardita,
Che vostro e mio mal grado è sì vivace;
Perchè darle giammai quel, che l'aita?
Vostra voglia infinita
Sana la sua ferita:
Ond'io rimango in dolorosa vita.
E di voi non mi doglio,
Quanto d'Amor, che questo vi comporte;
Anzi di me, ch'ancor non mi discioglio.
Ma che poss'io? con leggi inique e torte
Amor regge sua corte.
Chi vide mai tal sorte,
Tenersi in vita un uom con doppia morte?
Sonetto XLVIII (LXIII)
Se 'l foco mio questa nevosa bruma
Non tempra; onde verrà, che sperar possa
Refrigerio al bollor, che mi disossa,
Nè cal di ciò chi m'arde e mi consuma?
L'antica forza, che qual leve piuma
Soprappose Ossa a Pelio, Olimpo ad Ossa,
Non fu d'amor e di pietà sì scossa:
E mar, quando più freme irato e spuma,
Non cura men le dolorose strida
De la misera turba, che si vede
Perir nel frale e già sdruscito legno,
Ched ella i prieghi miei; dura mercede.
Ma così va, chi per sua luce e guida
Prende bel ciglio e non cortese ingegno.
Sonetto XLIX (LXIV)
Se deste a la mia lingua tanta fede,
Madonna, quanta al cor doglia e martiri;
Non girian tutti al vento i miei sospiri,
Nè sempre indarno chiederei mercede.
Ma 'l vostro duro orgoglio, che non crede
Al mio mal, perch'io parli ancora e spiri,
Cagion sarà, ch'i miei brevi desiri
Finisca Morte, che già m'ode e vede.
E io ne prego lei e chi mi strinse
Nel forte nodo, allor che prima in noi
Un sol piacer ben mille ragion vinse;
Che potrà sempre il mondo dir di voi:
Questa fera e crudele a morte spinse
Un, che l'amò via più che gli occhi suoi.
Sonetto L. (LXV)
Rime leggiadre, che novellamente
Portaste nel mio cor dolce veneno,
E tu stil d'armonia, di grazia pieno,
Com'ella, che ti fa puro e lucente;
Vedete, quanto in me veracemente
L'incendio cresce, e la ragion ven meno:
E se nel volto no 'l dimostro a pieno,
Dentro è 'l mio mal più che di fuor possente.
Sappia ognun, ch'io vorrei ben farvi onore:
Tal me ne sprona, e si devea per certo;
Lasso, ma che può far un, che si more?
Era 'l sentier da se gravoso ed erto
A dir di voi: or tiemmi il gran dolore
D'ogni altro schivo, e di me stesso incerto.
Sonetto LI (LXVI)
Colei, che guerra a' miei pensieri indice,
E io pur pace e null'altro le cheggio;
Rinforzando la speme, ond'io vaneggio,
Dolce mia vaga angelica beatrice;
Or in forma di Cigno, or di Fenice,
S'io parlo, scrivo, penso, vado, o seggio,
M'è sempre inanzi; e lei sì bella veggio,
Che piacer d'altra vista non m'allice.
Per la via, che 'l gran Tosco amando corse,
Dice non ir: che 'ndarno oggi si brama
La vena, che del suo bel lauro sorse.
Ma chi poria tacer, quand'altri il chiama
Sì dolcemente? Amor mi spinse e torse:
Duro se punge, e duro, se richiama.
Sonetto LII (LXVII)
Se ne' monti Rifei sempre non piove;
Nè ciascun giorno è 'l mar Egeo turbato;
Nè l'Ebro o l'Istro o la Tana gelato;
Nè Borea i faggi ognior sferza e commove:
Voi perché pur mai sempre di più nove
Lagrime avete il bel volto bagnato?
Nè parte, o torna Sol, che l'ostinato
Pianto con voi non lasci e non ritrove?
Il Signor, che piangete e morte ha tolto,
Ride del mondo e dice: or di me vive
Il meglio, e 'l più, che dianzi era sepolto.
Ma tu di pace a che per me ti prive,
O mia Fedel, che 'n pace alta raccolto
Godo fra l'alme benedette e dive?
Sonetto LIII (LXVIII)
Certo ben mi poss'io dir pago ornai
D'ogni tuo oltraggio, Amor: e s'a colparte
Distretto 'l verso o le prose consparte
Ho pur talora; or me ne pento assai.
Che le note, onde tu ricco mi fai,
Di quella, che dal vulgo mi diparte,
Ancor mai non veduta; e scorge in parte,
Ove tu scorto pochi, o nessun hai;
Son tali, che quetar ben mille offesi
Possono, e di mille alme scacciar fora
Desir vili, e 'ngombrar d'alti e cortesi.
Pensar quinci si può, qual fia quell'ora,
Ch'i' vedrò gli occhi, ch'or mi son contesi,
E la voce udirò, che Brescia onora.
Sonetto LIV (LXIX)
O d'ogni mio penser ultimo segno,
Vergine veramente unica e sola,
Di cui più caro e prezioso pegno
Amor non ha, quanto saetta e vola;
Di quella chiara fronte, che m'invola,
Già pur pensando, e 'n parte è 'l mio sostegno;
Di quel bel ragionar pien d'alto ingegno,
Vedrò mai raggio, udirò mai parola?
Quando ebbe più tal mostro umana vita;
Bellezze non vedute arder un core,
E 'mpiagarlo armonia non anco udita?
Lasso, non so; ma poi che 'l face Amore,
Là 'nd'i ho già l'alma accesa, onde ferita,
Ponga pietà, quanto ha 'l ciel posto onore.
Stanza (LXX)
Qual meraviglia, se repente sorse
Del Volgar nostro in te si largo fonte,
Strozza mio caro; a cui del Latin forse
Vena par non bagnava il sacro monte?
Sì rara donna in vita al cor ti corse,
Per trarne fuor rime leggiadre e conte,
Che poria delle nevi accender foco,
E di Stige versar diletto e gioco.
Sonetto LV (LXXI)
LIETA e chiusa contrada, ov'io m'involo
Al vulgo, e meco vivo e meco albergo,
Chi mi t'invidia, or ch'i Gemelli a tergo
Lasciando scalda Febo il nostro polo?
Rade volte in te sento ira, nè duolo,
Nè gli occhi al ciel sì spesso e le voglie ergo;
Nè tante carte altrove aduno e vergo,
Per levarmi talor, s'io posso, a volo.
Quanto sia dolce un solitario stato,
Tu m'insegnasti, e quanto aver la mente
Di cure scarca, e di sospetti sgombra.
O cara selva e fiumicello amato,
Cangiar potess'io il mar e 'l lito ardente
Con le vostre fredd'acque e la verd'ombra.
Sonetto LVI (LXXII)
NE' tigre se vedendo orbata e sola
Corre sì leve dietro al caro pegno;
Nè d'arco stral va sì veloce al segno,
Come la nostra vita al suo fin vola.
Ma poi, GASPARRO mio, che pur s'invola
Talor a morte un pellegrino ingegno;
Fate sia contra lei vostro ritegno
Quel, ch'Amor v'insegnò ne la sua scola;
Spiegando in rime nove antico foco,
E i doni di colei, celesti e rari,
Che temprò con piacer le vostre doglie;
Tal che poi sempre ogni abitato loco
Parli d'ambo duo voi, nè gli anni avari
Se ne portin giamai più che le spoglie.
Sonetto LVII (LXXIII)
Alma, se stata fossi a pieno accorta,
Quando cademmo a l'amorosa impresa,
Non ti saresti così tosto resa
A que' begli occhi, e crudi, che t'han morta.
Io fui dal novo e gran diletto scorta,
E da la luce inusitata offesa;
Ma non erano già la tua difesa
Sospiri, e guancia sbigottita e smorta.
Altro non si potea, fuor che piangendo
Chieder mercé: questo fec'io dappoi
Sempre; nè men però languisco ed ardo.
Gir devevi lontan dai guerrier tuoi,
Stolto, e non sofferir più d'uno sguardo:
Che non si vince Amor, se non fuggendo.
Sonetto LVIII (LXXIV)
Cola, mentre voi sete in fresca parte,
A dove il chiaro e gran Benaco stagna;
Qui dentro m'arde, e spesso di fuor bagna
Amor, che mai da me non si diparte:
E la mia donna, ch'ogni studio ed arte
Ha di natura in sé, sì mi scompagna
D'ogni altro obietto, che talor si lagna
Del sonno il cor, che sol da se la parte.
Così conven ch'io pensi, e parli, e scriva
Quel, ch'un bel viso ad or ad or m'insegna:
E 'n foco, e 'n pianto, e come ei vuol, mi viva:
Perché veggiate in me, siccome avegna
Di quel, che Roma ne' teatri udiva,
Che ragion e consiglio Amor non degna.
Sonetto LIX (LXXV)
Poichè 'l vostr'alto ingegno, e quel celeste
Ragionar, e tacer pudico e saggio
Da far cortese un uom fero e selvaggio,
E i leggiadri atti, e l'accoglienze oneste,
Vi rendon tanto spazio sopra queste
Forme umane escellenti, ch'io non aggio
Stile da colorir ben picciol raggio
De le virtuti al vostro animo preste;
Se vi s'arroge il corpo, in cui beltade
Poser, quanta pon dar, benigne stelle;
Con quali rime assai potrò lodarvi?
O de le meraviglie a nostra etade
La maggior di gran lunga, in onorarvi
Si stancherian le tre lingue più belle.
Sonetto LX (LXXVI)
Se 'n dir la vostra angelica bellezza,
Neve, or, perle, rubin, due stelle, un Sole,
Subbietto abonda, e mancano parole,
A chi sua fama e veritate apprezza;
Quai versi agguaglieran l'alta dolcezza,
Ch'ogni avaro intelletto appagar sole
Di chi v'ascolta, e l'altre tante e sole
Doti de l'alma, e sua tanta ricchezza?
Colui, che nacque in su la riva d'Arno
E fece a Laura onor con la sua penna,
Direbbe a se: tu qui giugner non puoi.
Perché se questo stile solo accenna,
Non compie l'opra e ne fa pruova indarno,
Il mio difetto ven, Donna, da voi.
Canzone XV (LXXVII)
Non si vedrà giammai stanca, nè sazia
Questa mia pena, Amore,
Di renderti, Signore,
Del tuo cotanto onore alcuna grazia:
A cui pensando volentier si spazia
Per la memoria il core,
E vede 'l tuo valore:
Ond'ei prende vigore, e te ringrazia.
Amor da te conosco quel, ch'io sono
Tu primo mi levasti
Da terra, e 'n cielo alzasti;
E al mio dir donasti un dolce suono:
E tu colei, di ch'io sempre ragiono,
Agli occhi miei mostrasti;
E dentro al cor mandasti
Pensier leggiadri e casti, altero dono.
Tu se' la tua mercè cagion ch'io viva
In dolce foco ardendo;
Dal quale ogni ben prendo,
Di speme il cor pascendo onesta e viva:
E se giammai verrà, ch'io giunga a riva,
Là 've 'l mio volo stendo;
Quanto piacer n'attendo,
Più tosto no 'l comprendo, ch'io lo scriva.
Vita gioiosa e cara,
Chi da te non l'impara, Amor, non ave.
Canzone XVI (LXXVIII)
Gioia m'abbonda al cor tanta e sì pura,
Tosto che la mia donna scorgo e miro,
Che 'n un momento ad ogni aspro martiro,
In ch'ei giacesse, lo ritoglie e fura:
E s'io potessi un dì per mia ventura
Queste due luci desiose in lei
Fermar, quant'io vorrei;
Su nel ciel non è spirto sì beato,
Con ch'io cangiassi il mio felice stato.
Dall'altra parte un suo ben leve sdegno
Di sì duri pensier mi copre e 'ngombra,
Che se durasse, poca polve ed ombra
Faria di me, nè poria umano ingegno
Trovar al viver mio scampo, o ritegno:
E sel trovasse, non si prova e sente
Pena giù nel dolente
Cerchio di Stige, e 'n quello eterno foco,
Che posta col mio mal non fosse un gioco.
Nè fia per tutto ciò, che quella voglia,
Che con sì forte laccio il cor mi strinse,
Quando primieramente Amor lo vinse,
Rallenti il nodo suo, non pur discioglia;
Mentre in piè si terrà questa mia spoglia:
Che la radice, onde 'l mio dolor nasce,
In guisa nutre e pasce
L'anima, che di lui mai non mi pento:
Anzi son di languir sempre contento.
Canzon, e vo' ben dir cotanto avanti;
Fra tutti i lieti amanti
Quanto dolce in mill'anni Amor comparte,
Del mio amaro non vai la minor parte.
Canzone XVII (LXXIX)
A quai sembianze Amor Madonna agguaglia,
Dirò senza mentire;
Pur ch'altri non s'adire,
O 'n mercede appo lei questo mi vaglia.
Un sasso è forte sì, che non s'intaglia;
Altro per sua natura
Empie, e giamai non sazia occhio, che 'l miri.
Così contenti lascia i miei desiri,
Sazi non già, di quella petra dura,
Che d'ogni oltraggio uman vive secura,
La dolce vista angelica beatrice,
De la mia vita, e d'ogni ben radice.
Là dove 'l sol più tardo a noi s'adombra,
Un vento si diparte,
Lo qual in ogni parte
I boschi al suo spirar di fronde ingombra,
Che la fredda stagion dai rami sgombra.
Così dello mio core,
Ch'è selva di pensieri ombrosa e folta,
Quand'ogni pace, ogni dolcezza è tolta,
Però che sempre non consente Amore,
Ch'un uom per ben servir mieta dolore;
Del suo dolce parlar lo spirto e l'aura
Subitamente ogni mio mal restaura.
Nasce bella sovente in ciascun loco
Una pianta gentile,
Che per antico stile
Sempre si volge in ver l'eterno foco.
Or poi che mia ventura a poco a poco
Tanto innanzi mi chiama;
Farò, quasi fanciul, che teme e vole:
Come quel verde si rivolge al sole
E lui sol cerca, e riverisce, ed ama;
S'io potessi adempir l'antica brama,
Similemente ed io sempre ameria
L'alto splendor, la dolce fiamma mia.
CXVIII (LXXX)ANZONE
Se 'l pensier, che m'ingombra,
Com'è dolce e soave
Nel cor, così venisse in quelle rime;
L'anima saria sgombra
Del peso, ond'ella è grave,
Ed esse ultime van, ch'anderian prime:
Amor più forti lime
Useria sovra 'l fianco
Di chi n'udisce il suono:
Io, che fra gli altri sono
Quasi augello di selva oscuro umile,
Andrei cigno gentile
Poggiando per lo ciel canoro e bianco:
E fora il mio bel nido
Di più famoso ed onorato grido.
Ma non eran le stelle,
Quando a solcar quest'onda
Primier entrai, disposte a tanto alzarme,
Che perchè Amor favelle,
E Madonna risponda
Là, dove piú non puote altro passarme:
S'io voglio poi sfogarme;
Sì dolce è quel concento,
Che la lingua nol segue,
E par che sì dilegue
Lo cor nel cominciar delle parole:
Nè giammai neve a Sole
Sparve così, com'io strugger mi sento,
Tal ch'io rimango spesso
Com'uom, che vive in dubbio di se stesso.
Legge proterva e dura,
S'a dir mi sferza e punge
Quel, ond'io vivo; or chi mi tene a freno?
E s'ella oltra mia cura
Dal mondo mi disgiunge
Chi mi dà poi lo stil pigro e terreno?
Ben posson venir meno
Torri fondate e salde:
Ma ch'io non cerchi e brami
Di pascer le gran fami,
Che 'n sì lungo digiuno Amor mi dai;
Certo non farà mai:
Sì fur le tue saette acute e calde,
Di che 'l m io cor piagasti,
Ove negli occhi suoi nascosto entrasti.
Quanto sarebbe il meglio,
E tuo piú largo onore,
Ch'i' avessi in ragionar di lei qualch'arte:
E siccome di speglio
Un riposto colore
Saglie talor, e luce in altra parte;
Così di queste carte
Rilucesse ad altrui
La mia celata gioia:
E perchè poi si moia,
Non ci togliesse il gir solinghi a volo
Dall'uno all'altro polo;
Là dove or taccio a tuo danno; con cui,
S'io ne parlassi, aria
Voce nel mondo ancor la fiamma mia.
E forse avvenirebbe,
Ch'ogni tua infamia antica,
E mille alte querele acqueteresti:
Ch'uno talor direbbe,
Coppia fedele amica
Quanti dolci pensier vivendo avesti:
Altri, ben strinse questi
Nodo caro e felice,
Che sciolto a noi dà pace.
Or poich'a lui non piace,
Ricogliete voi piagge i miei desiri,
E tu sasso, che spiri
Dolcezza, e versi amor d'ogni pendice
Dal dì, che la mia donna
Errò per voi secura in treccia e 'n gonna.
E fe gli onesti preghi
Qualche mercede han teco,
Faggio, del mio piacer compagna eterna:
Pietà ti stringa, e pieghi
A darne segno or meco:
E mova dalla tua virtute interna.
Che 'l mio danno discerna:
Sì che s'altro mi sforza,
E di valor mi spoglia;
S'adempia una mia voglia
Dopo tante, che 'l vento ode e disperde:
Così mai chioma verde
Non manchi alla tua pianta, e nella scorza
Qualche bel verso viva,
E sempre all'ombra tua si legga, o scriva.
Già fai tu ben, siccome
Facean quì vago il cielo
Delle due chiare stelle i santi ardori:
E le dorate chiome
Scoperte dal bel velo
Spargendo di lontan soavi odori
Empiean l'erba di fiori:
E sai come al suo canto
Correano 'nverso 'l fonte
L'acque nel fiume, e 'l monte
Spogliar del bosco intorno si vedea,
Ch'ad ascoltar scendea:
E le fere seguir dietro, e da canto:
E gli augelletti inermi
Sovra in su l'ali star attenti e fermi.
Riva frondosa e fosca,
Sonanti e gelide acque,
Verdi, vaghi, fioriti, e lieti campi,
Chi fia, ch'oda, e conosca
Quanto di lei vi piacque,
E meco d'un incendio non avvampi?
Chi verrà mai, che stampi
L'andar soave e caro
Col bel dolce costume,
E quel celeste lume,
Che giunse quasi un Sole a mezzo 'l die
Sovra le notti mie?
Lume, nel cui splendor mirando imparo
A sprezzar il destino,
E di salir al ciel scorgo il cammino.
Quando giunte in un loco
Di cortesia vedeste,
D'onestà, di valor sì care forme?
Quando a sì dolce foco
Di sì begli occhi ardeste?
E so, ch'Amor in voi sempre non dorme
O chi m'insegna l'orme,
Che 'l piè leggiadro impresse?
O chi mi pon tra l'erba,
Ch'ancor vestigio serba
Di quella bianca man, che tese il laccio,
Onde uscir non procaccio,
E del bel fianco, e delle braccia stesse,
Che stringon la mia vita
Sì, che io ne pero, e non ne cheggio aita?
Genti, a cui porge il rio
Quinci 'l piè torto e molle,
E quindi l'alpe il dritto orrido corno;
Deh or tra voi foss'io
Pastor di quel bel colle,
O guardian di queste selve intorno:
Quanto riluce il giorno,
Del mio sostegno andrei
Ogni parte cercando,
Reverente inchinando
Là 've più fosse il ciel sereno e queto,
E 'l seggio ombroso e lieto.
Ivi del lungo error m'appagherei,
E baciando l'erbetta
Di mille miei sospir farei vendetta.
Tu non mi fai quetar, nè io t'incolpo:
Purchè tra queste frondi,
Canzon mia, dalla gente ti nascondi.
Sonetto LXI (LXXXI)
Frisio, che già da questa gente a quella
Passando vago, e fama in ciascun lato
Mercando, hai poco men cerco e girato
Quanto riscalda la diurna stella;
Ed or per render l'alma pura e bella
Al ciel, quando 'l tuo dì ti fia segnato,
Nel tuo ancor verde e più felice stato
Ti chiudi in sacra e solitaria cella,
Eletto ben hai tu la miglior parte,
Che non ti si torrà: fossi anch'io a tale,
Nè mi torcesse empia vaghezza i passi:
Contra la qual poi ch'altro non mi vale;
Prega 'l Signor per me tu, che mi lassi,
Senza te frale e sconsolata parte.
Sonetto LXII (LXXXII)
Se la via da curar gl'infermi hai mostro
Al mondo, che giacea pien d'alto errore,
Tu Febo, allor quando 'l secol migliore
Lasciò le genti al duro viver nostro;
Al buon Lombardo, il cui lodato inchiostro
Rende al moderno stil l'antico onore,
Soccorri, che già presso a l'ultime ore
Vede la mesta ripa e 'l nero chiostro.
Sì dirà poi, sanato, ad ora ad ora,
Come Delo fermasti vaga, e come
Piton morio mercé del tuo forte arco:
E tutto quel, perché de le tue chiome
È l'arbor sempre verde amico incarco,
Spiegherà in versi, e lodera'l tu ancora.
Sonetto LXIII (LXXXIII)
Ben devria farvi onor d'eterno esempio
Napoli vostra; e 'n mezzo al suo bel monte
Scolpirvi, in lieta e coronata fronte
Gir trionfando, e dar i voti al tempio:
Poi che l'avete a l'orgoglioso ed empio
Stuolo ritolta, e pareggiate l'onte;
Or ch'avea più la voglia e le man pronte
A far d'Italia tutta acerbo scempio.
Torceste 'l voi, Signor, dal corso ardito:
E foste tal, ch'ancora esser vorrebbe
A por di qua da l'alpe nostra il piede.
L'onda Tirrena del suo sangue crebbe;
E di tronchi restò coperto il lito:
E gli augelli ne fer secure prede.
Canzone XIX (LXXXIV)
Se lo stil non s'accorda col desio,
Che d'onorarvi ad or ad or m'invoglia;
Ei presto, ardente, e quel freddo e restio,
Non sia per ciò, Signor, chi me ne toglia:
Che non è questo suo difetto o mio.
Ma 'l gran splendor de la virtute vostra,
Che più m'abbaglia, quanto più la miro,
Ovunqu'io vado, agli occhi miei si mostra
Tal, che d'ogni suo ardir l'anima spoglia,
E col primo penser un altro giostra:
Ond'io per tema indietro il passo giro,
E con la mia speranza ne sospiro.
Sonetto LXIV (LXXXV)
Anima, che da' bei stellanti chiostri,
Cinta de' raggi sì del vero amore,
Scendesti in terra, che fuor d'ogni errore
Ten vai secura degli affetti nostri;
Con altre voci omai, con altri inchiostri
Moverò più sovente a farti onore,
Poi che se' giunta, ove fia 'l tuo valore
In altro pregio, che le perle e gli ostri.
Dirò di lei, ch'a quella gelosia,
Onde Roma miglior cadde, rassembra:
O vendetta di Dio, chi te ne oblia?
Poi seguirò, che se ben ti rimembra
D'Ercole e di Giason, questa é la via
Di gir al ciel ne le terrene membra.
Sonetto LXV (LXXXVI)
Tosto che 'l dolce sguardo Amor m'impetra,
Forse perch'io più volentier sospiri,
Parmel indi veder, che l'arco tiri,
E spenda tutta in me la sua faretra.
Ma se Madonna mai tanto si spetra,
Che tinta di pietà ver me si giri;
Signor mio caro allor, pur ch'io la miri,
Fa me d'uom vivo una gelata pietra.
Poi com'io torni a la prima figura,
Io no 'l sento per me: sassel Amore,
Che come veltro mi sta sempre al fianco.
Ma 'l sangue accolto in sé dalla paura
Si ritien dentro, e teme apparir fore:
Però son io così pallido e bianco.
Sonetto LXVI (LXXXVII)
Già vago, or sovr'ogni altro orrido colle;
Poi che 'l bel viso, in cui volse mostrarsi
Quanto ben qui fra noi potea trovarsi,
Luce ad altro paese, a te si tolle;
Dura quell'acqua e questa selce molle
Fia, prima ch'io non senta al cor girarsi
La memoria del dì, quando alsi ed arsi
Nel bel soggiorno tuo, come 'l ciel volle.
Por si può ben nemica e dura sorte
Fra noi talora, e 'l nostro vital lume;
Romper no a l'alma il penser vivo e forte;
Che speri, o tema, o goda, o si consume,
Torna sempre a quel giorno; e le sue scorte
Sono due stelle, e gran desio le piume.
Sonetto LXVII (LXXXVIII)
Mostrommi entro a lo spazio d'un bel volto
E sotto un ragionar cortese, umile,
Per farmi ogni altro caro esser a vile,
Amor, quanto può darne il ciel, raccolto.
Da indi in qua con l'alma al suo ben volto,
Lunge vicin già per antico stile
Scorgo i bei lumi e odo quel gentile
Spirto e d'altro giamai non mi cal molto.
Fortuna, che sì spesso indi mi svia,
Tolga agli occhi, agli orecchi il proprio obietto,
E 'n parte le dolcezze mie distempre:
Al cor non torrà mai l'alto diletto,
Ch'ei prova di veder la donna mia,
Ovunque io vado, e d'ascoltarla sempre.
Sonetto LXVIII (LXXXIX)
Caro sguardo sereno, in cui sfavilla,
Quanta non vide altrove uom mai bellezza;
Parlar saggio, soave, onde dolcezza
Non usata fra noi deriva e stilla,
Solo di voi pensando si tranquilla
In me la tempestosa mente avvezza
Mirarvi, udirvi, e ciò più ch'altro apprezza,
Lodando Amor, che col suo strale aprilla.
Amor la punse: e poi scolpio l'adorna
Fronte, e i begli occhi, e scrisse le parole
Dentro nel cor via più che 'n petra salde:
Perch'ella, com'augel, ch'a parte vole,
Ond'ha suo cibo, a lor sempre ritorna
Con l'ali del desio veloci e calde.
Canzone XX (XC.)
Se non fosse il penser, ch'a la mia donna
Per tanta via mi porta,
Sì lunge non avrei la vita scorta.
I' miro ad or ad or nel suo bel viso,
Com'io le fossi presso:
E veggo lampeggiar quel dolce riso,
Che mi furò a me stesso:
Ciò ne le lontananze, che sì spesso
Fan la mia gioia corta,
A morte mi sottragge e riconforta.
Nè men, dove ch'io vada, odo ed intendo
Le sue sante parole:
E 'n tanto acqueto i miei tormenti, e prendo
Vigor, siccome suole
Chiuso fioretto in sul mattin dal Sole:
Fida de l'alma scorta,
E freno al duol, ch'a morte mi trasporta.
Canzone XXI (XCI)
Perchè 'l piacer a ragionar m'invoglia,
E di sua propria man mi detta Amore,
Nè dall'un, nè dall'altro ardisco aitarmi;
Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,
E sol questa mercede appaghi il core,
Tanto ch'io dica, e possa contentarmi.
Ch'aver dinanzi sì bel viso parmi,
Sì pure voci, e tanto alti pensieri,
Che perch'io mai non speri
Per forza di mio ingegno, o per altr'arte
Cose leggiadre e nove,
Che 'n mill'anni volgendo il ciel non piove,
Qual io e sento al cor stender in carte;
Pur le mie ferme stelle
Portan ad or ad or, ch'io ne favelle.
Era nella stagion, che 'l ghiaccio perde
Dalle viole, e 'l Sol cangiando stile
La faccia oscura alle campagne ha tolta,
Quando tra 'l bel cristallo, e 'l dolce verde
Mi corse al cor la mia donna gentile,
Che correr vi dovea sol una volta.
Mia ventura in quel punto avea disciolta
La treccia d'oro: e quel soave sguardo
Lieto cortese e tardo
Armavan sì felici e cari lumi;
Che quant'io vidi poi
Vago amoroso e pellegrin fra noi,
Rimembrando di lor, tenni ombre e fumi:
E dicea fra me stefsso,
Amor senz'alcun dubbio è qui da presso.
Ben diss'io 'l ver: che come 'l dì col Sole,
Così con la mia donna Amor ven sempre,
Che da' begli occhi mai non s'allontana.
Poi sentì ragionando dir parole,
E risonar in sì soavi tempre,
Che già non mi sembrar di lingua umana.
Correa da parte una bella fontana,
Che vide l'acque sue quel dì più vive
Avanzar per le rive:
E 'n contro i raggi delle luci sante
Ogni ramo inchinarsi
Del bosco intorno, e più frondoso farsi:
E fiorir l'erbe sotto le sue piante:
E quetar tutti i venti
Al suon de' prirni suoi beati accenti.
Quante dolcezze con amanti unquanco
Non eran state certo infin quel giorno,
Tutte fur meco, e non le scorsi a pena.
Vincea la neve il vestir puro e bianco
Dal collo a'piedi: e 'l bel lembo d'intorno
Avea virtù da far l'aria serena.
L'andar toglieva l'alme alla lor pena,
E ristorava ogni passato oltraggio.
Ma 'l parlar dolce e saggio,
Che m'avea gú da me stesso diviso,
E i begli occhi, e le chiome,
Che fur legami alle mie care some,
Delle cose parean di paradiso
Scese quaggiuso in terra
Per dar al mondo pace, e torli guerra.
Deh se per mio destin voci mortali,
E son di donna pur queste bellezze,
Beato chi l'ascolta, e chi la mira
Ma se non son chi mi darà tante ali,
Ch'io segua lei, s'avven ch'ella non prezze
Di star, là 've si piagne e si sospira?
Così pensava: e 'n quanto occhio si gira,
Vidi un, che 'l dolce volto dipingea
Parte, e parte scrivea
Nell'alma dentro le parole e 'l suono
Dicendo: queste omai
Penne da gir con lei tu sempre arai.
Allor mi scossi, e qual io qui mi sono,
Tal la mia donna bella
M'era nel petto, in vifo, ed in favella.
Rimanti qui, Canzon, poichè dell'alto
Mio tesoro infinito
Così poveramente t'hai vestito.
Canzone XXII (XCII)
Se nella prima voglia mi rinvesca
L'anima desiosa, e pur un poco
Per levarmi da lei l'ale non stende;
Meraviglia non è: di sì dolc'esca
Movono le faville, e nasce il foco,
Ch'a ragionar di voi, Donna, m'accende,
Voi sete dentro: e ciò che fuor risplende,
Esser altro non può, che vostro raggio.
Ma perch'io poi non aggio
In ritrarlo ad altrui le rime accorte,
Ben ha da voi radice
Tutto quel, che per me se ne ridice
Ma le parole son debili e corte:
Che se fosser bastanti,
Ne 'nvaghirei mille cortesi amanti.
Però che da quel dì, ch'io feci in prima
Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia
Tutto questo mio viver non é stato.
E se per lunghe prove il ver s'estima,
Quantunque ch'io mi viva, o ch'io mi moia,
Non spero d'esser mai se non beato:
Sì fermo è 'l pié del mio felice stato.
E certo sotto 'l cerchio della luna
Sorte goiosa alcuna,
Ed un ben quanto 'l mio non si ritrova.
Che s'altri è lieto alquanto,
Immantenente poi l'assale il pianto:
Ma io non ho dolor, che mi rimova
Dalla mia festa pura,
Vostra mercè, Madonna, e mia ventura.
E se duro destin a ferir viemmi
Con più forza talor, di là non passa
Dalla spoglia, ond'io vo caduco e frale.
Che 'l piacer, di che Amor armato tiemmi,
Sostien il colpo, e gir oltra no 'l lassa,
Là 've sedete voi, che 'l fate tale.
Però s'io vivo a tempo, che mortale
Fora ad altrui, non è per proprio ingegno.
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral delle sventure umane:
Ma voi sete il mio schermo:
E perch'i fia di mia natura infermo,
Sotto 'l caso di me poco rimane.
Lasso, ma chi può dire
Le tante guise poi del mio gioire?
Che spesso un giro sol degli occhi vostri,
Una sol voce in allentar lo spirto
Mi lassa in mezzo 'l cor tanta dolcezza,
Che nol porian contar lingua, nè inchiostri.
Nè così 'l verde serva lauro, o mirto,
Com'ei le forme d'ogni sua vaghezza.
Ed ho sì l'alma a questo cibo avvezza,
Ch'a lei piacer non può, nè la desvia
Cosa, che voi non sia,
O co 'l vostro penser non s'accompagne;
E quando il giorno breve
Copre le rive e le piagge di neve,
E quando 'l lungo infiamma le campagne,
E quando aprono i fiori,
E quando i rami poi tornan minori.
Gigli, calta, viole, acanto, e rose,
E rubini, e zaffiri, e perle, ed oro
Scopro, s'io miro nel bel vostro volto
Dolce armonia delle più care cose
Sento per l'aere andar, e dolce coro
Di spiriti celesti, s'io n'ascolto
Tutto quel, che diletta, inseme accolto,
E posso col piacer, che mi trastulla,
Se di voi penso, è nulla:
Nè giurerei, ch'Amor tanto s'avanzi,
Perch'ha la face e l'arco,
Quanto per voi mio prezioso incarco:
Ed or mel par veder, ch'a voi dinanzi
Voli superbo, e dica:
Tanto son io, quanto m'è questa amica.
Nè tu per gir, Canzon, ad altro albergo,
Del mio ti partirai,
Se, quanto rozza fei, conoscerai.
Canzone XXIII (XCIII)
Da poich'Amor in tanto non si stanca
Dettarmi quel, ond'io sempre ragioni,
E 'l piacer più che mai dentro mi punge;
Ancor dirò, ma se del vero manca
La voce mia; Madonna il mi perdoni,
Che 'n tutto dal nostr'uso si disgiunge.
E come salirei, dov'ella aggiunge,
Io basso e grave, ed ella alta e leggera?
Basti mattino e sera
L'alma inchinarle, quanto si convene:
E qualche pura scorza
Segnar, allor che 'l gran desio mi sforza,
Del suo bel nome, e le più fide arene;
Acciò che 'l mar la chiami,
Ed ogni selva la conosca ed ami
Questo faccia 'l desir in parte sazio,
Che vorria alzarsi a dir della mia donna;
Ma tema di cader lo tene a freno.
E se per le sue lode unqua mi spazio,
Ch'è ben d'alto valor ferma colonna,
Non è però, ch'io creda dirne a pieno.
Ma perch'altrui lo mio stato sereno
Cerco mostrar, che sol da lei deriva;
Forza è talor, ch'io scriva,
Com'ogni mio penser indi si miete:
O di quella soave
Aura, che del mio cor volge la chiave:
O pur di voi che 'l mio sostegno sete,
Stelle lucenti e care,
Se non quando di voi mi sete avare.
Voi date al viver mio l'un fido porto:
Che come il Sol di luce il mondo ingombra,
E la nebbia sparisce innanzi al vento;
Così mi vien da voi gioia e conforto;
E così d'ogni parte si disgombra
Per lo vostro apparir noia e tormento.
L'altro è, quando parlar Madonna sento,
Che d'ogni bassa impresa mi ritoglie,
E quel laccio discioglie,
Che gli animi stringendo a terra inclina:
Tal ch'io mi fido ancora,
Quandi sarò di questo carcer fora,
Far di me stesso alla morte rapina:
E 'n più leggidra forma
Rimaner degli amanti esempio e norma.
Il terzo è 'l mio solingo alto pensero,
Col qual entro a mirarla, e cerco, e giro
Suoi tanti onor, che sol un non ne lasso:
E scorgo il bel semblante umile altero,
E 'l riso, che fa dolce ogni martiro,
E 'l cantar, che potria mollir un sasso.
O quante cose qui tacendo passo,
Che mi stan chiuse al cor sì dolcemente.
Poi raffermo la mente
In un giardin di nuovi fiori eterno:
Ed odo dir nell'erba,
Alla tua donna questo si riserba:
Ella potrà qui far la fiate e 'l verno.
Di cota' viste vago
Pascomi sempre, e d'altro non m'appago,
E chi non sa, quanto si gode in cielo
Vedendo Dio per l'anime beate,
Provi questo piacer, di ch'io li parlo.
Da quel dì innanzi mai caldo, nè gelo
Non temerà, nè altra indignitate
Ardirà della vita unque appressarlo:
E purch'un poco mova a salutarlo
Madonna il dolce e grazioso ciglio;
Più di nostro consiglio
Non avrà uopo, e vincerà il destino:
Che quelle vaghe luci
A salir sopra 'l ciel gli saran duci,
E mostreranli il più diritto cammino:
E potrà gir volando,
Ogni cofa mortal sotto lasciando.
Ove ne vai, Canzon, s'ancora è meco
L'una compagna e l'altra?
Già non sei tu di lor più ricca, o scaltra.
Sonetto LXIX (XCIV)
Felice imperador, ch'avanzi gli anni
Con la virtute, e rendi a questi giorni
L'antico onor di Marte, e 'n pregio il torni,
E per noi riposar te stesso affanni;
Per cui spera saldar tanti suoi danni
Roma, e fra più che mai lieti soggiorni
Sentir ancor sette suoi colli adorni
Di tuoi trionfi, e 'l mondo senza inganni:
Mira 'l Settentrion, Signor gentile;
Voce udirai, che 'n fin di là ti chiama,
Per farti sopra 'l ciel volando ir chiaro.
Sì vedrem poi del nostro ferro vile
Far secol d'oro, e viver dolce e caro:
Questo fia nostro, tuo 'l pregio e la fama.
Sonetto LXX (XCV)
Amor, mia voglia e 'l vostro altero sguardo,
Ch'ancor non volse a me vista serena:
Mi danno, lasso, ognor sì grave pena,
Ch'io temo, no 'l soccorso giunga tardo.
Al foco de' vostr'occhi qual esca ardo,
A cui l'ingordo mio voler mi mena:
E se ragion alcun tempo l'affrena,
Amor poi 'l fa più leve e più gagliardo.
Così mi struggo e pur, s'io non m'inganno,
Sete sol voi cagion, ch'io mi consume,
E mia voglia ed Amor lor dritto fanno:
Che potreste mutar l'aspro costume
De le luci, ond'io vo per minor danno
A morte, come al mar veloce fiume.
Sonetto LXXI (XCVI)
Quando 'l mio sol, del qual invidia prende
L'altro, che spesso si nasconde e fugge,
Levando ogni ombra, che 'l mio bene adugge,
Vago sereno agli occhi miei risplende;
Sì co' suoi vivi raggi il cor m'accende,
Che dolcemente ei si consuma e strugge:
E come fior, che 'l troppo caldo sugge,
Potria mancar, che nulla nel difende.
Se non ch'al suo sparir m'agghiaccio, e poi
Con vista d'uom, che piange sua ventura,
Passo in una marmorea figura.
Medusa, s'egli è ver, che tu di noi
Facevi petra, assai fosti men dura
Di tal, che m'arde, strugge, agghiaccia e indura.
Sonetto LXXII (XCVII)
O superba e crudele, o di bellezza
E d'ogni don del ciel ricca e possente,
Quando le chiome d'or caro e lucente
Saranno argento, che si copre e sprezza;
E de la fronte, a darmi pene avvezza,
L'avorio crespo e le faville spente;
E del sol de' begli occhi vago ardente
Scemato in voi l'onor e la dolcezza;
E nello specchio mirerete un'altra:
Direte sospirando, eh lassa, quale
Oggi meco penser? perché l'adorna
Mia giovenezza ancor non l'ebbe tale?
A questa mente o 'l sen fresco non torna?
Or non son bella: allora non fui scaltra.
Sonetto LXXIII (XCVIII)
Sogno, che dolcemente m'hai furato
A morte, e del mio mal posto in oblio,
Da qual porta del ciel cortese e pio
Scendesti a rallegrar un dolorato?
Qual angel hai là su di me spirato,
Che sì movesti al gran bisogno mio?
Scampo a lo stato faticoso e rio,
Altro che 'n te non ho lasso trovato.
Beato se, ch'altrui beato fai:
Se non ch'usi troppo ale al dipartire,
E 'n poca ora mi toi quel, che mi dai.
Almen ritorna, e già che 'l camin sai,
Fammi talor di quel piacer sentire,
Che senza te non spero sentir mai.
Sonetto LXXIV (XCIX)
Se 'l viver men che pria m'è duro e vile,
Nè più d'Amor mi pento esser suggetto,
Nè son di duol, come io solea, ricetto;
Tutto questo è tuo don, sogno gentile.
Madonna più che mai tranquilla umile,
Con tai parole e 'n sì cortese affetto
Mi si mostrava, e tanto altro diletto,
Ch'asseguir no 'l poria lingua nè stile.
Perché, dicea, la tua vita consume?
Perché pur del signor nostro ti lagni?
Frena i lamenti omai, frena 'l dolore;
E più cose altre: quando il primo lume
Del giorno sparse i miei dolci guadagni,
Aperti gli occhi, e traviato il core.
Sonetto LXXV (C.)
Giaceami stanco, 'l fin de la mia vita
Venia, nè potea molto esser lontano,
Quando pietosa, in atto onesto e piano
Madonna apparve a l'alma, e diemmi aita.
Non fu sì cara voce unquanco udita,
Nè tocca, dicev'io, sì bella mano,
Quant'or da me; nè per sostegno umano
Tanta dolcezza in cor grave sentita.
E già negli occhi miei feriva il giorno
Nemico degli amanti, e la mia speme
Parea qual Sol velarsi che s'adombre.
Gissene appresso il sonno: ed ella inseme
Co' miei diletti, e con la notte intorno,
Quasi nebbia sparì che 'l vento sgombre.
Sonetto LXXVI (CI)
Mentre 'l fero destin mi toglie, e vieta
Veder Madonna, e tiemmi in altra parte;
La bella imagin sua veduta in parte
Il digiun pasce, e i miei sospiri acqueta.
Però s'a l'apparir del bel pianeta,
Che tal non torna mai, qual si diparte,
Ebbi conforto all'alma dentro, e parte
Ristetti in vista desiosa e lieta;
Fu, perch'io 'l miro in vece ed in sembianza
De la mia donna, che men fredda, o ria,
O fugace di lui non mi si mostra:
E più ne avrò, se piacer vostro fia,
Che 'l sonno de la vita, che gli avanza,
Si tenga Endimion la Luna vostra.
Sonetto LXXVII (CII)
Perché sia forse a la futura gente,
Com'io fui vostro ancora, eterno segno,
Queste rime, devoto, e questo ingegno
Vi sacro, e questa mano e questa mente.
E se non più per tempo, o del presente
Secolo speme, e mio fido sostegno,
A così riverirvi, e darvi pegno
Del mio verace amor divenni ardente;
Farò qual peregrin, desto a gran giorno,
Che 'l sonno accusa, e raddoppiando i passi
Tutto 'l perduto del cammin racquista.
Ma o pur non da voi si prenda a scorno
Il mio dir roco, e i versi incolti e bassi;
Io per mirar nel Sol perda la vista.
Sonetto LXXVIII (CIII)
Questa del nostro lito antica sponda,
Che te, Venezia mia, copre e difende;
E mentre il corso al mar frena e suspende,
La fer mai sempre, e la percote l'onda;
Rassembra me: che se 'l dì breve sfronda
I boschi o se le piagge il lungo accende;
Mi bagna riva, che dagli occhi scende,
Riva, ch'aperse Amor larga e profonda.
Ma non perviene a la mia donna il pianto,
Che d'intorno al mio cor ferve e ristagna,
Per non turbar la sua fronte serena.
La qual vedesse sol un giorno, quanto
Per lei dolor dì e notte m'accompagna;
Assai fora men grave ogni mia pena.
Sonetto LXXIX (CIV)
La sera, che scolpita nel cor tengo:
Così l'avess'io viva entro le braccia:
Fuggì sì leve, ch'io perdei la traccia,
Nè freno il corso, nè la sete spengo.
Anzi così tra due vivo e sostengo
L'anima forsennata, che procaccia
Far d'una tigre sciolta preda in caccia,
Traendo me, che seguir lei convengo.
E so ch'io movo indarno, o penser casso,
E perdo inutilmente il dolce tempo
De la mia vita, che giammai non torna.
Ben devrei ricovrarmi, or ch'i m'attempo
Ed ho forse vicin l'ultimo passo:
Ma piè mosso dal ciel nulla distorna.
Sonetto LXXX (CV)
Mentre di me la verde abile scorza
Copria quel dentro, pien di speme e caldo;
Vissi a te servo, Amor, sì lieto e saldo,
Che non ti fu a tenermi uopo usar forza.
Or che 'l volger del ciel mi stempra, e sforza
Con gli anni e più non sono ardito e baldo
Com'io solea, nè sento al cor quel caldo,
Che scemato giammai non si rinforza;
Stendi l'arco per me, se vuoi, ch'io viva,
Nè ti dispiace aver chi l'alte prove
De la tua certa man racconti e scriva.
Non ho sangue e vigor da piaghe nove
Sofferir di tuo strale: omai l'oliva
Mi dona, e spendi le saette altrove.
Sonetto LXXXI (CVI)
Se tutti i miei prim'anni a parte a parte
Ti diedi, Amor, nè mai fuor del tuo regno
Posi orma, o vissi un giorno; era ben degno
Ch'io potessi attempato omai lasciarte:
E da' tuoi scogli a più secura parte
Girar la vela del mio stanco legno:
E volger questi studi e questo ingegno
Ad onorata impresa, a miglior arte.
Non son, se ben me stesso, e te risguardo,
Più da gir teco; i grave, e tu leggero;
Tu fanciullo e veloce, i vecchio e tardo:
Arsi al tuo foco, e dissi: altro non chero.
Mentre fui verde e forte: or non pur ardo
Secco già e fral, ma incenerisco e pero.
Canzone XXIV (CVII sestina)
I più soavi e riposati giorni
Non ebbe uom mai, nè le più chiare notti,
Di quel ch'ebb'io; nè 'l più felice stato,
Allor ch'io cominciai l'amato stile
Ordir con altro pur, che doglia e pianto,
Da prima entrando all'amorosa vita.
Or è mutato il corso alla mia vita,
E volto il gaio tempo e i lieti giorni,
Che non sapean, che cosa fosse un pianto,
In gravi travagliate e fosche notti:
Co '1 bel suggetto suo cangiar lo stile,
E con le mie venture ogni mio stato.
Lasso non mi credea di sì alto stato
Giammai cader in così bassa, vita
Nè di sì piano in così duro stile.
Nè 'l Sol non mena mai sì puri giorni,
Che non sian dietro poi tante altre notti:
Così vicino al rifo è sempre il pianto.
Ben ebbi al riso mio vicino il pianto,
Ed io non mel sapea: che 'n quello stato
Così cantando, e 'n quelle dolci notti
Forse avrei posto fine alla mia vita,
Per non tardar al fel di questi giorni,
Che m'ha sì inacerbito e petto e stile.
Amar tu, che porgel dianzi allo stile
Lieto argomento, or gl'insegni ira, e pianto:
A che son giunti i miei graditi giorni?
Qual vento nel fiorir svelse il mio stato,
E se fortuna alla tranquilla vita
Entro gli scogli alle più lunghe notti?
U' son le prime mie vegghiate notti
Sì dolcemente? u 'l mio ridente stile,
Che potea rallegrar ben mesta vita?
E chi sì tosto l'ha converso in pianto?
Ch'or foss'io morto, allor quando il mio stato
Tinse in oscuro i suoi candidi giorni.
Sparito è 'l Sol de' miei sereni giorni,
E raddoppiata l'ombra alle mie notti,
Che lucean più che i dì d'ogni altro stato.
Cantai un tempo, e 'n vago e lieto stile
Spiegai mie rime, ed or le spiego in pianto,
C'ha fatto amara di sì dolce vita.
Così sapesse ognun, qual è mia vita
Da indi in qua, che i miei festosi giorni,
Chi sola il potea far, rivolse in pianto;
Che pago mi terrei di queste notti
Senza colmar de' miei danni lo stile:
Ma non ho tanto bene in questo stato.
Che quella fera, che al mio verde stato
Diede di morso, e quasi alla mia vita,
Or fugge al suon del mi' angoscioso stile:
Nè mai per rimembrarle i primi giorni,
O raccontar delle presenti notti ,
Volse a pieta del mio sì largo pianto.
Ecco sola m ascolta, e col mio pianto,
Agguagliando 'l suo duro antico stato
Meco si duol di sì penose notti:
E se 'l fin si prevede dalla vita,
Ad una meta van questi e quei giorni,
E la mia nuda voce fia il mio stile.
Amanti, i ebbi già tra voi lo stile
Sì vago, che acquetava ogni altrui pianto:
Or me non queta un sol di questi giorni:
Così va, chi in suo molto allegro stato
Non crede mai provar noiosa vita,
Nè penfa 'l dì delle future notti.
Ma chi vuol, si rallegri alle mie notti:
Com'anco quella, che mi fa lo stile
Tornar a vile, e 'n odio esser la vita,
Ch'i non spero giammai d'uscir di pianto.
Ella se 'l fa, che di sì lieto stato
Tosto mi pose in così tristi giorni
Ite giorni gioiosi, e care notti:
Che 'l bel mio stato ha preso un altro stile
Per pascer sol di pianto la mia vita.
Sonetto LXXXII (CVIII)
Già donna, or dea, nel cui verginal chiostro
Scendendo in terra a sentir caldo e gelo,
S'armò, per liberarne, il Re del cielo,
Da l'empie man dell'avversario nostro,
I pensier tutti, e l'uno e l'altro inchiostro,
Cangiata veste, e con la mente il pelo,
A te rivolgo, e quel, ch'agli altri celo,
L'interne piaghe mie ti scopro e mostro.
Sanale, che puoi farlo, e dammi aita
A salvar l'alma da l'eterno danno:
La qual se dal cammin dritto impedita
Le Sirene gran tempo schernit'hanno,
Non tardar tu; ch'omai della mia vita
Si volge il terzo e cinquantesimo anno.
Sonetto LXXXIII (CIX)
In poca libertà con molti affanni,
Di là 'v'io fui gran tempo, al dolce piano,
Che cesse in parte al buon seme Troiano,
Venni già grave di pensieri e d'anni:
E posimi dal fasto, e dagl'inganni,
E dagli occhi del vulgo assai lontano:
Ma che mi valse, Amor, s'a mano a mano
Tu pur a lagrimar mi ricondanni?
Qui tra le selve, i campi, e l'erbe, e l'acque,
Allor quand'i credea viver sicuro,
Più feroce che pria m'assali e pungi.
Lasso, ben veggio omai, sì come è duro
Fuggir quel, che di noi su nel ciel piacque:
Nè pote uom dal suo fato esser mai lungi.
Sonetto LXXXIV (CX)
I chiari giorni miei passar volando,
Che fur sì pochi, e tosto aperser l'ale:
Poi piacque al ciel, cui contrastar non vale,
Pormi di pace, e di me stesso in bando.
Così molt'anni ho già varcato: e quando
Mancar devea la fiamma del tuo strale,
Amor, che questo incarco stanco e frale
Tutto dentro e di fuor si va lentando;
Sento un novo piacer possente e forte
Giugner ne l'alma al grave antico foco,
Talch'a doppio ardo, e par che non m'incresca.
Lasso ben son vicino alla mia morte:
Ché puote omai l'infermo durar poco,
In cui scema virtù, febbre rinfresca.
IN MORTE
DI MESSER CARLO SUO FRATELLO
E di molte altre persone
Canzone XXVIII ( CLVI)
Alma cortese, che dal mondo errante
Partendo ne la tua più verde etade
Hai me lasciato eternamente in doglia,
Da le sempre beate alme contrade,
Ov'or dimori cara a quello amante,
Che più temer non puoi, che ti si toglia,
Risguarda in terra, e mira u' la tua spoglia
Chiude un bel sasso: e me, che 'l marmo asciutto
Vedrai bagnar te richiamando, ascolta.
Però che sparsa e tolta
L'alta pura dolcezza, e rotto in tutto
Fu 'l più fido sostegno al viver mio,
Frate, quel dì, che te n'andasti a volo:
Da indi in qua nè lieto, nè securo
Non ebbi un giorno mai, nè d'aver curo;
Anzi mi pento esser rimaso solo,
Che son venuto senza te in obblio
Di me medesmo, e per te solo er'io
Caro a me stesso: or teco ogni mia gioia
È spenta, e non so già, perch'io non moia.
Raro pungente stral di ria fortuna
Fè sì profonda e sì mortal ferita,
Quanto questo, onde 'l ciel volle piagarme.
Rimedio alcun da rallegrar la vita
Non chiude tutto 'l cerchio de la luna,
Che del mio duol bastasse a consolarme.
Sì come non potea grave appressarme,
Alor ch'io partia teco i miei pensieri
Tutti, e tu meco i tuoi sì dolcemente;
Così non ho dolente
A questo tempo, in che mi fidi, o speri,
Ch'un sol piacer m'apporte in tanti affanni.
E non si vide mai perduta nave
Fra duri scogli a mezza notte il verno
Spinta dal vento errar senza governo,
Che non sia la mia vita ancor più grave;
E s'ella non si tronca a mezzo gli anni,
Forse averrà, perch'io pianga i miei danni
Più lungamente, e siano in mille carte
I miei lamenti e le tue lode sparte.
Dinanzi a te partiva ira e tormento,
Come parte ombra a l'apparir del Sole:
Quel mi tornava in dolce ogni atto amaro,
O pur con l'aura delle tue parole
Sgombravi d'ogni nebbia in un momento
Lo cor, cui dopo te nulla fu caro;
Nè mai volli al suo scampo altro riparo,
Mentre aver si poteo, che la tua fronte
E l'amico, fedel, saggio consiglio.
Perso, bianco, o vermiglio
Color non mostrò mai vetro; nè fonte
Così puro il suo vago erboso fondo,
Com'io negli occhi tuoi leggeva espressa
Ogni mia voglia sempre, ogni sospetto:
Con sì dolci sospir, sì caro affetto,
De le mie forme la tua guancia impressa
Portavi, anzi pur l'alma e 'l cor profondo.
Or, quanto a me, non ha più un bene al mondo:
E tutto quel di lui, che giova e piace,
Ad un col tuo mortal sotterra giace.
Quasi stella del polo chiara e ferma
Nelle fortune mie sì gravi, e 'l porto
Fosti dell'alma travagliata e stanca:
La mia sola difesa e 'l mio conforto
Contra le noie della vita inferma,
Ch'a mezzo il corso assai spesso ne manca:
E quando 'l verno le campagne imbianca,
E quando il maggior dì fende 'l terreno,
In ogni risco, in ogni dubbia via
Fidata compagnia
Tenesti il viver mio lieto e sereno:
Che mesto e tenebroso fora stato,
E sarà, Frate, senza te mai sempre.
O disavventurosa acerba sorte!
O dispietata intempestiva morte!
O mie cangiate e dolorose tempre!
Qual fu già, lasso, e qual ora è 'l mio stato?
Tu 'l sai; che poi ch'a me ti sei celato
Nè di qui rivederti ho più speranza;
Altro che pianto e duol nulla m'avanza.
Tu m'hai lasciato senza sole i giorni,
Le notti senza stelle, e grave ed egro
Tutto questo, ond'io parlo, ond'io respiro:
La terra scossa, e 'l ciel turbato e negro,
E pien di mille oltraggi e mille scorni
Mi sembra in ogni parte, quant'io miro.
Valor e cortesia si dipartiro
Nel tuo partir, e 'l mondo infermo giacque,
E virtù spense i suoi più chiari lumi:
E le fontane ai fiumi
Negar la vena antica e l'usate acque:
E gli augelletti abandonaro il canto:
E l'erbe e i fior lasciar nude le piaggie:
Nè più di fronde il bosco si consperse.
Parnaso un nembo eterno ricoperse,
E i lauri diventar quercie selvaggie:
E 'l cantar de le Dee, già lieto tanto,
Uscì doglioso e lamentevol pianto:
E fu più volte in voce mesta udito
Di tutto 'l colle: o BEMBO, ove se' ito?
Sovra 'l tuo sacro ed onorato busto
Cadde grave a se stesso il padre antico,
Lacero il petto, e pien di morte il volto:
E disse: ahi sordo e di pietà nemico
Destin predace e reo, destino ingiusto,
Destin a impoverirmi in tutto volto,
Perché più tosto me non hai disciolto
Da questo grave mio tenace incarco,
Più che non lece e più ch'io non vorrei,
Dando a lui gli anni miei,
Che del suo leve inanzi tempo hai scarco?
Lasso, allor potev'io morir felice:
Or vivo sol per dare al mondo esempio,
Quant'è 'l peggio far qui più lungo indugio,
S'uom de' perdere in breve il suo refugio
Dolce, e poi rimanere a pena e scempio:
O vecchiezza ostinata ed infelice
A che mi serbi ancor nuda radice,
Se 'l tronco, in cui fioriva la mia speme,
è secco, e gelo eterno il cigne e preme?
Qual pianser già le triste e pie sorelle,
Cui le treccie in su 'l Po tenera fronde,
E l'altre membra un duro legno avvolse,
Tal con gli scogli, e con l'aure, e con l'onde,
Misera, e con le genti, e con le stelle,
Del tuo ratto fuggir la tua si dolse.
Per duol Timavo indietro si rivolse:
E vider Manto i boschi e le campagne
Errar con gli occhi rugiadosi e molli:
Adria le rive e i colli
Per tutto, ove 'l suo mar sospira e piagne,
Percosse, in vista oltra l'usato offesa,
Tal ch'a noia e disdegno ebbi me stesso:
E se non fosse, che maggior paura
Frenò l'ardir; con morte acerba e dura,
Alla qual fui molte fiate presso,
D'uscir d'affanno arei corta via presa.
Or chiamo, e non so far altra difesa,
Pur lui, che l'ombra sua lasciando meco,
Di me la viva e miglior parte ha seco.
Che con l'altra restai morto in quel punto,
Ch'io senti' morir lui, che fu 'l suo core:
Nè son buon d'altro, che da tragger guai.
Tregua non voglio aver col mio dolore,
Infin ch'io sia dal giorno ultimo giunto.
E tanto il piangerò, quant'io l'amai.
Deh perché innanzi a lui non mi spogliai
La mortal gonna, s'io men vestì prima?
S'al viver fui veloce, perché tardo
Sono al morir? un dardo
Almen avesse ed una stessa lima
Parimente ambo noi trafitto e roso:
Che siccome un voler sempre ne tenne
Vivendo, così spenti ancor n'avesse
Un'ora, ed un sepolcro ne chiudesse.
E se questo al suo tempo o quel non venne,
Nè spero degli affanni alcun riposo;
Aprasi per men danno a l'angoscioso
Carcere mio rinchiuso omai la porta,
Ed egli a l'uscir fuor sia la mia scorta.
E guidemi per man, che sa 'l cammino
Di gir al ciel; e nella terza spera
M'impetri dal Signor appo se loco.
Ivi non corre il dì verso la sera,
Nè le notti sen' van contra 'l mattino;
Ivi 'l caso non può molto nè poco:
Di tema gelo mai, di disir foco
Gli animi non raffredda, e non riscalda,
Nè tormenta dolor, nè versa inganno:
Ciascuno in quello scanno
Vive e pasce di gioia pura e salda,
In eterno, fuor d'ira e d'ogni oltraggio,
Che preparato gli ha la sua virtute.
Chi mi dà il grembo pien di rose e mirto,
Sì ch'io sparga la tomba? o sacro spirto,
Che qual a' tuoi più fosti o di salute
O di trastullo; agli altri o buon, o saggio,
Non saprei dir: ma chiaro e dolce raggio
Giugnesti in questa fosca etate acerba,
Che tutti i frutti suoi consuma in erba.
Se, come già ti calse, ora ti cale
Di me; pon dal ciel mente, com'io vivo,
Dopo 'l tu' occaso, in tenebre e 'n martiri.
Te la tua morte più che pria fè vivo,
Anzi eri morto, or sei fatto immortale:
Me di lagrime albergo e di sospiri
Fa la mia vita, e tutti i miei desiri
Sono di morte, e sol quanto m'incresce,
È, ch'io non vo più tosto al fin ch'io bramo.
Non sostien verde ramo
De' nostri campi augello, e non han pesce
Tutte queste limose e torte rive:
Nè presso, o lunge a sì celato scoglio
Filo d'alga percote onda marina:
Nè sì riposta fronda il vento inclina,
Che non sia testimon del mio cordoglio.
Tu Re del ciel, cui nulla circonscrive,
Manda alcun de le schiere elette e dive
Di su da quei splendori giù in quest'ombre,
Che di sì dura vita omai mi sgombre.
Canzon, qui vedi un tempio a canto al mare,
E genti in lunga pompa, e gemme ed ostro,
E cerchi, e mete, e cento palme d'oro:
A lui, ch'io in terra amava, in cielo adoro,
Dirai: così v'onora il secol nostro.
Mentre udirà querele oscure e chiare
Morte; Amor fiamme arà dolci ed amare;
Mentre spiegherà il Sol dorate chiome;
Sempre sarà lodato il vostro nome.
A lei, che l'Appennin superbo affrena,
Là 've parte le piagge il bel Metauro;
Di cui non vive dal mar Indo al Mauro,
Da l'Orse a l'Austro, simil nè seconda,
Va prima: ella ti mostre, o ti nasconda.
SonettoCXXVII (CLVII)
Adunque m'hai tu pur, in su 'l fiorire
Morendo, senza te, Frate, lasciato;
Perché 'l mio dianzi chiaro e lieto stato
Ora si volga in tenebre e 'n martire?
Gran giustizia era, e mio sommo desire,
Da me lo stral avesse incominciato:
E come al venir qui son primo stato,
Ancora stato fossi al dipartire.
Ché non arei veduto il mio gran danno,
Di me stesso sparir la miglior parte;
E sarei teco fuor di questo affanno.
Or ch'io non ho potuto innanzi andarte,
Piaccia al Signor, a cui non piace inganno,
Ch'io possa in breve e scarco seguitarte.
SonettoCXXVIII (CLVIII)
Leonico, che 'n terra al ver sì spesso
Gli occhi levavi e 'l penser dotto e santo;
Et or nel cielo il guiderdon promesso
Ricevi al tuo di lui studio cotanto;
A te non si conven doglia, nè pianto:
Ch'omai pien d'anni, e pago di te stesso
Chiudi il tuo chiaro dì; ma festa e canto
Del grande a la tua vita onor concesso.
Qual dalla mensa uom temperato e sazio,
Ti diparti dal mondo, e torni a lui,
Che t'ha per nostro ben tardo ritolto.
Conviensi a me, che non ho più, con cui
Sì securo fornir quel poco o molto,
Che de la dubbia via m'avanza, spazio.
SonettoCXXIX (CLIX)
Navager mio, ch'a terra strana volto
Per giovar a la patria il mondo lassi,
Te piango: e piangon meco i liti, i sassi
E l'erbe, che per te crebber già molto.
Tu le palme latine hai di man tolto
Ai nostri tutte, con sì fermi passi
Salisti 'l colle: or quando più vedrassi
Tanto valor in un petto raccolto?
Grave duol certo; pur io mi consolo,
Ch'or ti diporti con quell'alme antiche,
Che tanto amasti, e teco è 'l buono e saggio
SAVORGNAN, che contese alle nemiche
Schiere il suo monte, e fu d'alto coraggio,
E poco inannzi a te prese il suo volo.
SonettoCXXX (CLX)
Anime, tra cui spazia or la grande ombra
Del dotto NAVAGER, per sorte acerba
Di questo secol reo, che miete in erba
Tutti i suoi frutti, o li dispiega in ombra,
Qual gioia voi della sua vista ingombra,
Tal noi preme dolor: poi sì superba
è stata morte, ch'i men degni serba,
E del maggior valor prima ne sgombra.
Piacciavi dir, quando il nostro emispero
Diede agli Elisi più sì chiaro spirto;
Ed egli qual da voi riceve onore
Raro dopo gli antichi: a questo Omero
Basciò la fronte e cinsela di mirto:
Virgilio parte seco i passi e l'ore.
SonettoCXXXI (CLXI)
Porto, che 'l piacer mio teco ne porti,
La vita e noi sì tosto abbandonando,
Che farò qui senza te lasso? e quando
Udirò cosa più, che mi conforti?
Invidio te, che vedi i nostri torti
Dal tuo dritto sentier, già posti in bando
Gli umani affetti; e vo pur te chiamando
Beato e vivo, e noi miseri e morti.
Deh che non mena il Sole omai quel giorno,
Ch'io renda la mia guardia, e torni al cielo,
Di tanti lumi in sì poche ore adorno?
Nel qual, lasciato in terra il suo bel velo,
Fa con l'eterno Re colei soggiorno,
Onde ho la piaga, ch'ancor amo e celo.
SonettoCXXXII (CLXII)
Or hai de la sua gloria scosso Amore,
O morte acerba: or delle donne hai spento
L'alto Sol di virtute e d'ornamento,
E noi rivolti in tenebroso orrore.
Deh perchè sì repente ogni valore,
Ogni bellezza inseme hai sparso al vento?
Ben potei tu de l'altre ancider cento,
E lei non torre a più maturo onore.
Fornito hai, bella donna, il tuo viaggio:
E torni al ciel con giovenetto piede,
Lasciando in terra la tua spoglia verde.
Ben si può dir omai, che poca fede
Ne serva il mondo, e come strale, o raggio,
A pena spunta un ben, che si disperde.
SonettoCXXXIII (CLXIII)
Ov'è, mia bella, e cara, e fida scorta,
L'usata tua pietà, che sol mi lassi
Al cammin duro, ai perigliosi passi,
Da me cotanto dilungata e torta?
Vedi l'alma, che trema e si sconforta
Per lo tuo dipartire, e 'n prova stassi
D'abbandonarmi; e sfida i membri lassi,
Per seguir te, qual viva, or così morta.
Ben le dice mio cor, chi t'assecura?
E forse a lei sua pace turberai,
Che di nostra salute in cielo ha cura .
Ella, che fo più qui? risponde: mai
Sostegno tale, e ben tanto, e ventura
Perdè null'altra: e tu misero il sai.
SonettoCXXXIV (CLXIV)
L'alto mio dal Signor tesoro eletto
De' suoi gemmai più ricchi, e con più cura,
Quella, che nè giudicio, nè misura
Usa nel tor, m'ha tolto, ond'io l'aspetto.
Che sì mendica e piena di sospetto
È rimasa quest'alma e 'n così dura
Vita, ch'assai le fora a gran ventura
Cenere farsi omai del suo ricetto:
Tal che leggera e di quel nodo sciolta
Potesse tanto in su levarsi a volo,
Che si posasse a piè de la sua donna.
O per me chiaro, e lieto, e dolce solo
Quel dì, nè può tardar, s'ella m'ascolta,
Che squarcerà questa povera gonna.
SonettoCXXXV (CLXV)
Quando, forse per dar loco a le stelle,
Il Sol si parte, e 'l nostro cielo imbruna,
Spargendosi di lor, ch'ad una ad una,
A diece, a cento escon fuor chiare e belle;
I penso e parlo meco, in qual di quelle
Ora splende colei, cui par alcuna
Non fu mai sotto 'l cerchio della Luna;
Benché di Laura il mondo assai favelle?
In questa piango, e poi ch'al mio riposo
Torno, più largo fiume gli occhi miei,
E l'imagine sua l'alma riempie
Trista: la qual mirando fiso in lei
Le dice quel, ch'io poi ridir non oso:
O notti amare, o Parche ingiuste ed empie!
SonettoCXXXVI (CLXVI)
Tosto che la bell'alba solo e mesto
Titon lasciando a noi conduce il giorno;
E ch'io mi sveglio, e rimirando intorno
Non veggo 'l Sol, che suol tenermi desto;
Di dolor, e di panni mi rivesto:
E sospirando il bel dolce soggiorno,
Che 'l ciel m'ha tolto, a lagrimar ritorno:
La luce ingrata, e 'l viver m'è molesto.
Talor vengo agl'inchiostri, e parte noto
Le mie sventure; ma 'l più celo e serbo
Nel cor: che nullo stile è che le spieghi.
Talor pien d'ira e di speranze voto,
Chiamo, chi del mortal mi scinga e sleghi:
O giorni tenebrosi, o fato acerbo!
SonettoCXXXVII (CLXVII)
S'al vostro amor ben fermo non s'appoggia
Mio cor, che ad ogni obbietto par che adombre,
Pregate lei, che ne' begli occhi alloggia,
Che di sì dura vita omai mi sgombre.
Non sempre alto dolor, che l'alma ingombre,
Scema per consolar, ma talor poggia:
Come lumi del ciel per notturne ombre:
Come di foco in calce esca per pioggia.
Morte m'ha tolto a la mia dolce usanza:
Or ho tutt'altro e più me stesso a noia,
Anzi a disdegno, e sol pianger m'avanza.
COSMO, chi visse un tempo in pace e 'n gioia,
Poi vive in guerra e 'n pene, e più speranza
Non ha di ritornar, qual fu; si moia.
SonettoCXXXVIII (CLXVIII)
Ben devrebbe Madonna a sé chiamarmi
Su nel beato e lieto asilo eterno;
E 'n questo pien di noia e pene inferno
Vita mortale omai più non lasciarmi:
Ché non è sotto 'l Sol ben da quetarmi,
Sì gli ho tutti col mondo inseme a scherno:
Nè può conforto al grave affanno interno,
Sendo di fuor chiusa ogni via, passarmi.
Ma s'ella il nodo a l'alma non discioglie,
Vedendo me di tacito e contento
Volto a sì triste e lamentose tempre;
E per sé non m'ancide, e quinci toglie
Il duol, che del suo ratto sparir sento;
Soranzo, i piango, e son per pianger sempre.
SonettoCXXXIX (CLXIX)
Donna, che fosti oriental Fenice
Tra l'altre donne, mentre il mondo t'ebbe,
E poi che d'abitar fra noi t'increbbe,
Angel salisti al ciel novo e felice;
L'alta beltà del nostro amor radice
Col senno, ond'ei tanto si stese e crebbe,
Vento fatal sì tosto non devrebbe
Aver divelta, l'un penser mi dice,
Per cui d'amaro pianto il cor si bagna;
Ma l'altro ad or ad or con tai parole
Prova quetarmi; a che ti struggi, o cieco?
Non era degno di sì chiaro Sole
Occhio di mortal vista; or Dio l'ha seco,
Dal cui voler uom pio non si scompagna.
SonettoCXL. (CLXX)
Deh, perché inanzi a me te ne se' gita,
Se tanto dopo me fra noi venisti?
Od io non me n'andai, quando partisti,
Teco? e tempo era ben d'uscir di vita.
Porgimi almen or tu dal cielo aita,
Ch'io chiuda questi dì sì neri e tristi,
Mostrandomi la via, per cui salisti
Al ben nato conciglio, alma e gradita.
Mentre i duo poli e 'l lucido Orione
Ti stai mirando, che tra lor si spazia,
Più giù qui, dov'io piango, e me risguarda:
E per Giesù, ch'al mondo oggi fe' grazia
Di se nascendo, a trarmi di pregione
E guidar costa su, non esser tarda.
SonettoCXLI (CLXXI)
S'Amor m'avesse detto: ohimè, da morte
Fieno i begli occhi prima di te spenti;
Avrei di lor con disusati accenti
Rime dettato, e più spesse e più scorte,
Per mio sostegno in questa dura sorte,
E perché le ben chiare ed apparenti
Note rendesser le lontane genti
De l'alma lor divina luce accorte:
Ché già sarebbe oltre l'Ibero, e 'l Gange,
La Tana, e 'l Nilo intesa, e divulgato,
Com'io solfo a quei raggi ed esca fui.
Or, poi ch'altro che pianger non m'è dato,
Piango pur sempre, e son; tanto duol m'ange;
Nè di me stesso ad uopo, nè d'altrui.
SonettoCXLII (CLXXII)
Un anno intero s'è girato a punto,
Che 'l mondo cadde del suo primo onore,
Morta lei, ch'era il fior d'ogni valore
Col fior d'ogni bellezza inseme aggiunto.
Come a sì mesto e lagrimoso punto
Non ti divelli e schianti, afflitto core,
Se ti rimembra, ch'a le tredici ore
Del sesto dì d'agosto il Sole è giunto?
In questa uscìo de la sua bella spoglia
Nel mille cinquecento e trentacinque
L'anima saggia, ed io cangiando il pelo
Non so però cangiar pensieri e voglia,
Ch'omai s'affretti l'altra e s'appropinque,
Ch'io parta quinci, e la rivegga in cielo.
SonettoCXLIII (CLXXIII)
Quella per cui chiaramente alsi ed arsi
Undici ed undici anni, al ciel salita,
Ha me lasciato in angosciosa vita:
O guadagni del mondo incerti e scarsi!
Che s'uom sotto le stelle ha da lagnarsi
Di suo gran danno, e di mortal ferita;
I son colui, ch'a morte cheggio aita;
Nè fine altronde al mio dolor può darsi.
Ben la scorgo io sin di là su talora,
D'amor e di pietate accesa il ciglio
Dirmi: tu pur qui sarai meco ancora:
Ond'io mi riconforto, ed in quell'ora
Di volger l'alma al ciel prendo consiglio:
Poi torna il pianto tristo, che m'accora.
SonettoCXLIV (CLXXIV)
Era Madonna al cerchio di sua vita
Trigesimo ed ottavo, quando morte
La spogliò del bel velo eletto in sorte
A vestir alma sì dal ciel gradita.
Perché, crudeli Parche, ancora unita
Mente a trar me del mio non foste accorte?
Cosa non ho, ch'altro che duol m'apporte:
Col suo piè freddo ogni mia festa è gita.
Qual alga in mar, che quinci e quindi l'onde
Sospingan, vivo; o qual abete in cima
D'altissim'alpe, all'austro, al borea segno.
Se quei pur vive, ch'assai lieto in prima,
Perde poi la sua guida e 'l suo sostegno,
E sempre chiama, e nessun mai risponde.
SonettoCXLV (CLXXV)
Che mi giova mirar donne e donzelle,
E prati e selve e rivi, e 'l bel governo,
Che fa del mondo il buon motore eterno,
Mar, terra, cielo, e vaghe, o ferme stelle?
Spenta colei, ch'un sol fu tra le belle
E tra le sagge, or è mio nembo interno:
Forme d'orror mi sembra quant'io scerno:
Esser cieco vorrei per non vedelle.
Ch'i' non so volger gli occhi a parte, ov'io
Non scorga lei fra molte meste, o lasso,
Chiuder morendo le sue luci sante.
Ond'io viver non curo, anzi desio
Di girle dietro con veloce passo:
Ed era me', ch'i' le fossi ito avante.
Canzone XXIX (CLXXVI)
Donna, de' cui begli occhi alto diletto
Trasser i miei gran tempo, e lieto vissi,
Mentre a te non dispiacque esser fra noi,
Se vedi, che quant'io parlai nè scrissi,
Non è stato se non doglia e sospetto
Dopo il quinci sparir dei raggi tuoi,
Impetra dal Signor, non più ne' suoi
Lacci mi stringa il mondo, e possa l'alma,
Che devea gir inanzi, omai seguirti.
Tu godi, assisa tra' beati spirti,
Della tua gran virtute, e chiara ed alma
Senti, e felice dirti:
Io senza te rimaso in questo inferno,
Sembro nave in gran mar senza governo:
E vò là dove il calle, e 'l piè m'invita,
La tua morte piangendo, e la mia vita.
Sì come più di me nessuno in terra
Visse de' suoi pensier pago e contento,
Te qui tenendo la divina cura;
Così cordoglio equale a quel, ch'io sento,
Non è, nè credo ch'esser possa: e guerra
Non fè giamai sì dispietata e dura
La spada, che suoi colpi non misura,
Quanto or a me, che 'n un sol chiuder d'occhi
Le mie vive speranze ha tutte estinto:
Ond'io son ben in guisa oppresso e vinto,
Che pur che 'l cor di lagrime trabocchi,
Mentre d'intorno cinto
Sarò de la caduca e frale spoglia,
Altro non cerco: o quando fia che voglia
Di vita il Re celeste e pio levarmi?
Prega 'l tu, Santa, e così poi quetarmi.
Avea per sua vaghezza teso Amore
Un'alta rete a mezzo del mio corso,
D'oro e di perle, e di rubin contesta,
Che veduta al più fero e rigid'orso
Umiliava e 'nteneriva il core
E quetava ogni nembo, ogni tempesta;
Questa lieto mi prese, e poscia in festa
Tenne molt'anni: or l'ha sparsa e disciolta,
Per far me sempre tristo, acerba sorte.
Ahi cieca, sorda, avara, invida morte;
Dunque hai di me la parte maggior tolta,
E l'altra sprezzi? O forte
Tenor di stelle, o già mia speme, quanto
Meglio m'era il morir, che 'l viver tanto!
Deh non mi lasciar qui più lungo spazio;
Ch'io son di sostenermi stanco e sazio.
Sovra le notti mie fur chiaro lume
E nel dubbio sentier fidata scorta
I tuoi begli occhi, e le dolci parole.
Or, lasso, che ti se' oscurata e torta
Tanto da me, convien ch'io mi consume
Senza i soavi accenti e 'l puro Sole:
Nè so cosa mirar, che mi console,
O voce udir, che 'l cor dolente appaghi
Nè mica in questo lamentoso albergo,
Lo qual dì e notte, pur di pianto aspergo,
Chiedendo che si volga e me rimpiaghi
Morte, nè più da tergo
Lasci, e m'ancida col suo stral secondo;
Poichè col primo ha impoverito il mondo,
Toltane te, per cui la nostra etade
Sì ricca fu di senno e di beltade.
Avess'io almen penna più ferma, o stile
Possente agli altri secoli di mille
De le tue lode farne passar una;
Che già di leggiadrissime faville
S'accenderebbe ogni anima gentile:
E io mi dorrei men di mia fortuna,
E men di morte, in aspettando alcuna
Vendetta contra lei da le mie rime.
E per chieder ancora, o se 'l mio inchiostro,
Mantova e Smirna, s'avanzasse al vostro
Tanto, che non pur lei la più sublime
In questo basso chiostro,
Ma tal là su facesse opra, che 'l cielo
La sforzasse a tornar nel suo bel velo:
Perché non fosse uom poi così beato,
Con ch'io cangiassi il mio gioioso stato.
Se tu stessa, Canzone,
Di quel vedermi lieto mai non credi,
Che più vo desiando; a pianger riedi,
E dì, del pianto molle, ovunque arrive,
Madonna è morta, e quel misero vive.
SonettoCXLVI (CLXXVII)
O Sol, di cui questo bel sole è raggio,
Sol, per lo qual visibilmente splendi,
Se sovra l'opre tue qua giù ti stendi;
Riluci a me, che speme altra non aggio.
Da l'alma, ch'a te fa verace omaggio
Dopo tanti e sì gravi suoi dispendi,
Sgombra l'antiche nebbie, e tal la rendi,
Che più dal mondo non riceva oltraggio.
Omai la scorga il tuo celeste lume:
E se già mortal fiamma, e poca l'arse;
All'eterna ed immensa or si consume
Tanto, che le sue colpe in caldo fiume
Di pianto lavi, e monda, da levarse
E rivolar a te vesta le piume.
SonettoCXLVII (CLXXVIII)
Se già ne l'età mia più verde e calda
Offesi te ben mille e mille volte,
E le sue doti l'alma ardita e balda
Da te donate, ha contra te rivolte;
Or che m'ha 'l verno in fredda e bianca falda
Di neve il mento e queste chiome involte,
Mi dona, ond'io con piena fede e salda
Padre t'onori, e le tue voci ascolte.
Non membrar le mie colpe, e poi ch'addietro
Tornar non ponno i mal passati tempi,
Reggi tu del cammin quel, che m'avanza:
E sì 'l mio cor del tuo desio riempi,
Che quella, che 'n te sempre ebbi, speranza,
Quantunque peccator, non sia di vetro.
Canzone XXX (CLXXIX)
Signor, quella pietà, che ti constrinse
Morendo far del nostro fallo ammenda,
Da l'ira tua ne copra e ne difenda.
Vedi, Padre cortese,
L'alto visco mondan com'è tenace,
E le reti, che tese
Ne son dall'avversario empio e fallace,
Quanto hanno intorno a se di quel che piace.
Però s'aven, che spesso uom se ne prenda,
Questo talor pietoso a noi ti renda.
Non si nega, Signore,
Che 'l peccar nostro senza fin non sia.
Ma se non fosse errore;
Campo da usar la tua pietà natia
Non avresti: la qual perché non stia
In oscuro, e quanta è fra noi, s'intenda,
Men grave esser ti dee, ch'altri t'offenda.
Tu, Padre, ne mandasti
In questo mar, e tu ne scorgi a porto:
E se molto ne amasti,
Allor che 'l mondo t'ebbe vivo e morto;
Amane a questo tempo: e 'l nostro torto
La tua pietosa man non ne sospenda;
Ma grazia sopra noi larga discenda.
Canzone XXVIII ( CLVI)
Alma cortese, che dal mondo errante
Partendo ne la tua più verde etade
Hai me lasciato eternamente in doglia,
Da le sempre beate alme contrade,
Ov'or dimori cara a quello amante,
Che più temer non puoi, che ti si toglia,
Risguarda in terra, e mira u' la tua spoglia
Chiude un bel sasso: e me, che 'l marmo asciutto
Vedrai bagnar te richiamando, ascolta.
Però che sparsa e tolta
L'alta pura dolcezza, e rotto in tutto
Fu 'l più fido sostegno al viver mio,
Frate, quel dì, che te n'andasti a volo:
Da indi in qua nè lieto, nè securo
Non ebbi un giorno mai, nè d'aver curo;
Anzi mi pento esser rimaso solo,
Che son venuto senza te in obblio
Di me medesmo, e per te solo er'io
Caro a me stesso: or teco ogni mia gioia
È spenta, e non so già, perch'io non moia.
Raro pungente stral di ria fortuna
Fè sì profonda e sì mortal ferita,
Quanto questo, onde 'l ciel volle piagarme.
Rimedio alcun da rallegrar la vita
Non chiude tutto 'l cerchio de la luna,
Che del mio duol bastasse a consolarme.
Sì come non potea grave appressarme,
Alor ch'io partia teco i miei pensieri
Tutti, e tu meco i tuoi sì dolcemente;
Così non ho dolente
A questo tempo, in che mi fidi, o speri,
Ch'un sol piacer m'apporte in tanti affanni.
E non si vide mai perduta nave
Fra duri scogli a mezza notte il verno
Spinta dal vento errar senza governo,
Che non sia la mia vita ancor più grave;
E s'ella non si tronca a mezzo gli anni,
Forse averrà, perch'io pianga i miei danni
Più lungamente, e siano in mille carte
I miei lamenti e le tue lode sparte.
Dinanzi a te partiva ira e tormento,
Come parte ombra a l'apparir del Sole:
Quel mi tornava in dolce ogni atto amaro,
O pur con l'aura delle tue parole
Sgombravi d'ogni nebbia in un momento
Lo cor, cui dopo te nulla fu caro;
Nè mai volli al suo scampo altro riparo,
Mentre aver si poteo, che la tua fronte
E l'amico, fedel, saggio consiglio.
Perso, bianco, o vermiglio
Color non mostrò mai vetro; nè fonte
Così puro il suo vago erboso fondo,
Com'io negli occhi tuoi leggeva espressa
Ogni mia voglia sempre, ogni sospetto:
Con sì dolci sospir, sì caro affetto,
De le mie forme la tua guancia impressa
Portavi, anzi pur l'alma e 'l cor profondo.
Or, quanto a me, non ha più un bene al mondo:
E tutto quel di lui, che giova e piace,
Ad un col tuo mortal sotterra giace.
Quasi stella del polo chiara e ferma
Nelle fortune mie sì gravi, e 'l porto
Fosti dell'alma travagliata e stanca:
La mia sola difesa e 'l mio conforto
Contra le noie della vita inferma,
Ch'a mezzo il corso assai spesso ne manca:
E quando 'l verno le campagne imbianca,
E quando il maggior dì fende 'l terreno,
In ogni risco, in ogni dubbia via
Fidata compagnia
Tenesti il viver mio lieto e sereno:
Che mesto e tenebroso fora stato,
E sarà, Frate, senza te mai sempre.
O disavventurosa acerba sorte!
O dispietata intempestiva morte!
O mie cangiate e dolorose tempre!
Qual fu già, lasso, e qual ora è 'l mio stato?
Tu 'l sai; che poi ch'a me ti sei celato
Nè di qui rivederti ho più speranza;
Altro che pianto e duol nulla m'avanza.
Tu m'hai lasciato senza sole i giorni,
Le notti senza stelle, e grave ed egro
Tutto questo, ond'io parlo, ond'io respiro:
La terra scossa, e 'l ciel turbato e negro,
E pien di mille oltraggi e mille scorni
Mi sembra in ogni parte, quant'io miro.
Valor e cortesia si dipartiro
Nel tuo partir, e 'l mondo infermo giacque,
E virtù spense i suoi più chiari lumi:
E le fontane ai fiumi
Negar la vena antica e l'usate acque:
E gli augelletti abandonaro il canto:
E l'erbe e i fior lasciar nude le piaggie:
Nè più di fronde il bosco si consperse.
Parnaso un nembo eterno ricoperse,
E i lauri diventar quercie selvaggie:
E 'l cantar de le Dee, già lieto tanto,
Uscì doglioso e lamentevol pianto:
E fu più volte in voce mesta udito
Di tutto 'l colle: o BEMBO, ove se' ito?
Sovra 'l tuo sacro ed onorato busto
Cadde grave a se stesso il padre antico,
Lacero il petto, e pien di morte il volto:
E disse: ahi sordo e di pietà nemico
Destin predace e reo, destino ingiusto,
Destin a impoverirmi in tutto volto,
Perché più tosto me non hai disciolto
Da questo grave mio tenace incarco,
Più che non lece e più ch'io non vorrei,
Dando a lui gli anni miei,
Che del suo leve inanzi tempo hai scarco?
Lasso, allor potev'io morir felice:
Or vivo sol per dare al mondo esempio,
Quant'è 'l peggio far qui più lungo indugio,
S'uom de' perdere in breve il suo refugio
Dolce, e poi rimanere a pena e scempio:
O vecchiezza ostinata ed infelice
A che mi serbi ancor nuda radice,
Se 'l tronco, in cui fioriva la mia speme,
è secco, e gelo eterno il cigne e preme?
Qual pianser già le triste e pie sorelle,
Cui le treccie in su 'l Po tenera fronde,
E l'altre membra un duro legno avvolse,
Tal con gli scogli, e con l'aure, e con l'onde,
Misera, e con le genti, e con le stelle,
Del tuo ratto fuggir la tua si dolse.
Per duol Timavo indietro si rivolse:
E vider Manto i boschi e le campagne
Errar con gli occhi rugiadosi e molli:
Adria le rive e i colli
Per tutto, ove 'l suo mar sospira e piagne,
Percosse, in vista oltra l'usato offesa,
Tal ch'a noia e disdegno ebbi me stesso:
E se non fosse, che maggior paura
Frenò l'ardir; con morte acerba e dura,
Alla qual fui molte fiate presso,
D'uscir d'affanno arei corta via presa.
Or chiamo, e non so far altra difesa,
Pur lui, che l'ombra sua lasciando meco,
Di me la viva e miglior parte ha seco.
Che con l'altra restai morto in quel punto,
Ch'io senti' morir lui, che fu 'l suo core:
Nè son buon d'altro, che da tragger guai.
Tregua non voglio aver col mio dolore,
Infin ch'io sia dal giorno ultimo giunto.
E tanto il piangerò, quant'io l'amai.
Deh perché innanzi a lui non mi spogliai
La mortal gonna, s'io men vestì prima?
S'al viver fui veloce, perché tardo
Sono al morir? un dardo
Almen avesse ed una stessa lima
Parimente ambo noi trafitto e roso:
Che siccome un voler sempre ne tenne
Vivendo, così spenti ancor n'avesse
Un'ora, ed un sepolcro ne chiudesse.
E se questo al suo tempo o quel non venne,
Nè spero degli affanni alcun riposo;
Aprasi per men danno a l'angoscioso
Carcere mio rinchiuso omai la porta,
Ed egli a l'uscir fuor sia la mia scorta.
E guidemi per man, che sa 'l cammino
Di gir al ciel; e nella terza spera
M'impetri dal Signor appo se loco.
Ivi non corre il dì verso la sera,
Nè le notti sen' van contra 'l mattino;
Ivi 'l caso non può molto nè poco:
Di tema gelo mai, di disir foco
Gli animi non raffredda, e non riscalda,
Nè tormenta dolor, nè versa inganno:
Ciascuno in quello scanno
Vive e pasce di gioia pura e salda,
In eterno, fuor d'ira e d'ogni oltraggio,
Che preparato gli ha la sua virtute.
Chi mi dà il grembo pien di rose e mirto,
Sì ch'io sparga la tomba? o sacro spirto,
Che qual a' tuoi più fosti o di salute
O di trastullo; agli altri o buon, o saggio,
Non saprei dir: ma chiaro e dolce raggio
Giugnesti in questa fosca etate acerba,
Che tutti i frutti suoi consuma in erba.
Se, come già ti calse, ora ti cale
Di me; pon dal ciel mente, com'io vivo,
Dopo 'l tu' occaso, in tenebre e 'n martiri.
Te la tua morte più che pria fè vivo,
Anzi eri morto, or sei fatto immortale:
Me di lagrime albergo e di sospiri
Fa la mia vita, e tutti i miei desiri
Sono di morte, e sol quanto m'incresce,
È, ch'io non vo più tosto al fin ch'io bramo.
Non sostien verde ramo
De' nostri campi augello, e non han pesce
Tutte queste limose e torte rive:
Nè presso, o lunge a sì celato scoglio
Filo d'alga percote onda marina:
Nè sì riposta fronda il vento inclina,
Che non sia testimon del mio cordoglio.
Tu Re del ciel, cui nulla circonscrive,
Manda alcun de le schiere elette e dive
Di su da quei splendori giù in quest'ombre,
Che di sì dura vita omai mi sgombre.
Canzon, qui vedi un tempio a canto al mare,
E genti in lunga pompa, e gemme ed ostro,
E cerchi, e mete, e cento palme d'oro:
A lui, ch'io in terra amava, in cielo adoro,
Dirai: così v'onora il secol nostro.
Mentre udirà querele oscure e chiare
Morte; Amor fiamme arà dolci ed amare;
Mentre spiegherà il Sol dorate chiome;
Sempre sarà lodato il vostro nome.
A lei, che l'Appennin superbo affrena,
Là 've parte le piagge il bel Metauro;
Di cui non vive dal mar Indo al Mauro,
Da l'Orse a l'Austro, simil nè seconda,
Va prima: ella ti mostre, o ti nasconda.
SonettoCXXVII (CLVII)
Adunque m'hai tu pur, in su 'l fiorire
Morendo, senza te, Frate, lasciato;
Perché 'l mio dianzi chiaro e lieto stato
Ora si volga in tenebre e 'n martire?
Gran giustizia era, e mio sommo desire,
Da me lo stral avesse incominciato:
E come al venir qui son primo stato,
Ancora stato fossi al dipartire.
Ché non arei veduto il mio gran danno,
Di me stesso sparir la miglior parte;
E sarei teco fuor di questo affanno.
Or ch'io non ho potuto innanzi andarte,
Piaccia al Signor, a cui non piace inganno,
Ch'io possa in breve e scarco seguitarte.
SonettoCXXVIII (CLVIII)
Leonico, che 'n terra al ver sì spesso
Gli occhi levavi e 'l penser dotto e santo;
Et or nel cielo il guiderdon promesso
Ricevi al tuo di lui studio cotanto;
A te non si conven doglia, nè pianto:
Ch'omai pien d'anni, e pago di te stesso
Chiudi il tuo chiaro dì; ma festa e canto
Del grande a la tua vita onor concesso.
Qual dalla mensa uom temperato e sazio,
Ti diparti dal mondo, e torni a lui,
Che t'ha per nostro ben tardo ritolto.
Conviensi a me, che non ho più, con cui
Sì securo fornir quel poco o molto,
Che de la dubbia via m'avanza, spazio.
SonettoCXXIX (CLIX)
Navager mio, ch'a terra strana volto
Per giovar a la patria il mondo lassi,
Te piango: e piangon meco i liti, i sassi
E l'erbe, che per te crebber già molto.
Tu le palme latine hai di man tolto
Ai nostri tutte, con sì fermi passi
Salisti 'l colle: or quando più vedrassi
Tanto valor in un petto raccolto?
Grave duol certo; pur io mi consolo,
Ch'or ti diporti con quell'alme antiche,
Che tanto amasti, e teco è 'l buono e saggio
SAVORGNAN, che contese alle nemiche
Schiere il suo monte, e fu d'alto coraggio,
E poco inannzi a te prese il suo volo.
SonettoCXXX (CLX)
Anime, tra cui spazia or la grande ombra
Del dotto NAVAGER, per sorte acerba
Di questo secol reo, che miete in erba
Tutti i suoi frutti, o li dispiega in ombra,
Qual gioia voi della sua vista ingombra,
Tal noi preme dolor: poi sì superba
è stata morte, ch'i men degni serba,
E del maggior valor prima ne sgombra.
Piacciavi dir, quando il nostro emispero
Diede agli Elisi più sì chiaro spirto;
Ed egli qual da voi riceve onore
Raro dopo gli antichi: a questo Omero
Basciò la fronte e cinsela di mirto:
Virgilio parte seco i passi e l'ore.
SonettoCXXXI (CLXI)
Porto, che 'l piacer mio teco ne porti,
La vita e noi sì tosto abbandonando,
Che farò qui senza te lasso? e quando
Udirò cosa più, che mi conforti?
Invidio te, che vedi i nostri torti
Dal tuo dritto sentier, già posti in bando
Gli umani affetti; e vo pur te chiamando
Beato e vivo, e noi miseri e morti.
Deh che non mena il Sole omai quel giorno,
Ch'io renda la mia guardia, e torni al cielo,
Di tanti lumi in sì poche ore adorno?
Nel qual, lasciato in terra il suo bel velo,
Fa con l'eterno Re colei soggiorno,
Onde ho la piaga, ch'ancor amo e celo.
SonettoCXXXII (CLXII)
Or hai de la sua gloria scosso Amore,
O morte acerba: or delle donne hai spento
L'alto Sol di virtute e d'ornamento,
E noi rivolti in tenebroso orrore.
Deh perchè sì repente ogni valore,
Ogni bellezza inseme hai sparso al vento?
Ben potei tu de l'altre ancider cento,
E lei non torre a più maturo onore.
Fornito hai, bella donna, il tuo viaggio:
E torni al ciel con giovenetto piede,
Lasciando in terra la tua spoglia verde.
Ben si può dir omai, che poca fede
Ne serva il mondo, e come strale, o raggio,
A pena spunta un ben, che si disperde.
SonettoCXXXIII (CLXIII)
Ov'è, mia bella, e cara, e fida scorta,
L'usata tua pietà, che sol mi lassi
Al cammin duro, ai perigliosi passi,
Da me cotanto dilungata e torta?
Vedi l'alma, che trema e si sconforta
Per lo tuo dipartire, e 'n prova stassi
D'abbandonarmi; e sfida i membri lassi,
Per seguir te, qual viva, or così morta.
Ben le dice mio cor, chi t'assecura?
E forse a lei sua pace turberai,
Che di nostra salute in cielo ha cura .
Ella, che fo più qui? risponde: mai
Sostegno tale, e ben tanto, e ventura
Perdè null'altra: e tu misero il sai.
SonettoCXXXIV (CLXIV)
L'alto mio dal Signor tesoro eletto
De' suoi gemmai più ricchi, e con più cura,
Quella, che nè giudicio, nè misura
Usa nel tor, m'ha tolto, ond'io l'aspetto.
Che sì mendica e piena di sospetto
È rimasa quest'alma e 'n così dura
Vita, ch'assai le fora a gran ventura
Cenere farsi omai del suo ricetto:
Tal che leggera e di quel nodo sciolta
Potesse tanto in su levarsi a volo,
Che si posasse a piè de la sua donna.
O per me chiaro, e lieto, e dolce solo
Quel dì, nè può tardar, s'ella m'ascolta,
Che squarcerà questa povera gonna.
SonettoCXXXV (CLXV)
Quando, forse per dar loco a le stelle,
Il Sol si parte, e 'l nostro cielo imbruna,
Spargendosi di lor, ch'ad una ad una,
A diece, a cento escon fuor chiare e belle;
I penso e parlo meco, in qual di quelle
Ora splende colei, cui par alcuna
Non fu mai sotto 'l cerchio della Luna;
Benché di Laura il mondo assai favelle?
In questa piango, e poi ch'al mio riposo
Torno, più largo fiume gli occhi miei,
E l'imagine sua l'alma riempie
Trista: la qual mirando fiso in lei
Le dice quel, ch'io poi ridir non oso:
O notti amare, o Parche ingiuste ed empie!
SonettoCXXXVI (CLXVI)
Tosto che la bell'alba solo e mesto
Titon lasciando a noi conduce il giorno;
E ch'io mi sveglio, e rimirando intorno
Non veggo 'l Sol, che suol tenermi desto;
Di dolor, e di panni mi rivesto:
E sospirando il bel dolce soggiorno,
Che 'l ciel m'ha tolto, a lagrimar ritorno:
La luce ingrata, e 'l viver m'è molesto.
Talor vengo agl'inchiostri, e parte noto
Le mie sventure; ma 'l più celo e serbo
Nel cor: che nullo stile è che le spieghi.
Talor pien d'ira e di speranze voto,
Chiamo, chi del mortal mi scinga e sleghi:
O giorni tenebrosi, o fato acerbo!
SonettoCXXXVII (CLXVII)
S'al vostro amor ben fermo non s'appoggia
Mio cor, che ad ogni obbietto par che adombre,
Pregate lei, che ne' begli occhi alloggia,
Che di sì dura vita omai mi sgombre.
Non sempre alto dolor, che l'alma ingombre,
Scema per consolar, ma talor poggia:
Come lumi del ciel per notturne ombre:
Come di foco in calce esca per pioggia.
Morte m'ha tolto a la mia dolce usanza:
Or ho tutt'altro e più me stesso a noia,
Anzi a disdegno, e sol pianger m'avanza.
COSMO, chi visse un tempo in pace e 'n gioia,
Poi vive in guerra e 'n pene, e più speranza
Non ha di ritornar, qual fu; si moia.
SonettoCXXXVIII (CLXVIII)
Ben devrebbe Madonna a sé chiamarmi
Su nel beato e lieto asilo eterno;
E 'n questo pien di noia e pene inferno
Vita mortale omai più non lasciarmi:
Ché non è sotto 'l Sol ben da quetarmi,
Sì gli ho tutti col mondo inseme a scherno:
Nè può conforto al grave affanno interno,
Sendo di fuor chiusa ogni via, passarmi.
Ma s'ella il nodo a l'alma non discioglie,
Vedendo me di tacito e contento
Volto a sì triste e lamentose tempre;
E per sé non m'ancide, e quinci toglie
Il duol, che del suo ratto sparir sento;
Soranzo, i piango, e son per pianger sempre.
SonettoCXXXIX (CLXIX)
Donna, che fosti oriental Fenice
Tra l'altre donne, mentre il mondo t'ebbe,
E poi che d'abitar fra noi t'increbbe,
Angel salisti al ciel novo e felice;
L'alta beltà del nostro amor radice
Col senno, ond'ei tanto si stese e crebbe,
Vento fatal sì tosto non devrebbe
Aver divelta, l'un penser mi dice,
Per cui d'amaro pianto il cor si bagna;
Ma l'altro ad or ad or con tai parole
Prova quetarmi; a che ti struggi, o cieco?
Non era degno di sì chiaro Sole
Occhio di mortal vista; or Dio l'ha seco,
Dal cui voler uom pio non si scompagna
SonettoCXL. (CLXX)
Deh, perché inanzi a me te ne se' gita,
Se tanto dopo me fra noi venisti?
Od io non me n'andai, quando partisti,
Teco? e tempo era ben d'uscir di vita.
Porgimi almen or tu dal cielo aita,
Ch'io chiuda questi dì sì neri e tristi,
Mostrandomi la via, per cui salisti
Al ben nato conciglio, alma e gradita.
Mentre i duo poli e 'l lucido Orione
Ti stai mirando, che tra lor si spazia,
Più giù qui, dov'io piango, e me risguarda:
E per Giesù, ch'al mondo oggi fe' grazia
Di se nascendo, a trarmi di pregione
E guidar costa su, non esser tarda.
SonettoCXLI (CLXXI)
S'Amor m'avesse detto: ohimè, da morte
Fieno i begli occhi prima di te spenti;
Avrei di lor con disusati accenti
Rime dettato, e più spesse e più scorte,
Per mio sostegno in questa dura sorte,
E perché le ben chiare ed apparenti
Note rendesser le lontane genti
De l'alma lor divina luce accorte:
Ché già sarebbe oltre l'Ibero, e 'l Gange,
La Tana, e 'l Nilo intesa, e divulgato,
Com'io solfo a quei raggi ed esca fui.
Or, poi ch'altro che pianger non m'è dato,
Piango pur sempre, e son; tanto duol m'ange;
Nè di me stesso ad uopo, nè d'altrui.
SonettoCXLII (CLXXII)
Un anno intero s'è girato a punto,
Che 'l mondo cadde del suo primo onore,
Morta lei, ch'era il fior d'ogni valore
Col fior d'ogni bellezza inseme aggiunto.
Come a sì mesto e lagrimoso punto
Non ti divelli e schianti, afflitto core,
Se ti rimembra, ch'a le tredici ore
Del sesto dì d'agosto il Sole è giunto?
In questa uscìo de la sua bella spoglia
Nel mille cinquecento e trentacinque
L'anima saggia, ed io cangiando il pelo
Non so però cangiar pensieri e voglia,
Ch'omai s'affretti l'altra e s'appropinque,
Ch'io parta quinci, e la rivegga in cielo.
SonettoCXLIII (CLXXIII)
Quella per cui chiaramente alsi ed arsi
Undici ed undici anni, al ciel salita,
Ha me lasciato in angosciosa vita:
O guadagni del mondo incerti e scarsi!
Che s'uom sotto le stelle ha da lagnarsi
Di suo gran danno, e di mortal ferita;
I son colui, ch'a morte cheggio aita;
Nè fine altronde al mio dolor può darsi.
Ben la scorgo io sin di là su talora,
D'amor e di pietate accesa il ciglio
Dirmi: tu pur qui sarai meco ancora:
Ond'io mi riconforto, ed in quell'ora
Di volger l'alma al ciel prendo consiglio:
Poi torna il pianto tristo, che m'accora.
SonettoCXLIV (CLXXIV)
Era Madonna al cerchio di sua vita
Trigesimo ed ottavo, quando morte
La spogliò del bel velo eletto in sorte
A vestir alma sì dal ciel gradita.
Perché, crudeli Parche, ancora unita
Mente a trar me del mio non foste accorte?
Cosa non ho, ch'altro che duol m'apporte:
Col suo piè freddo ogni mia festa è gita.
Qual alga in mar, che quinci e quindi l'onde
Sospingan, vivo; o qual abete in cima
D'altissim'alpe, all'austro, al borea segno.
Se quei pur vive, ch'assai lieto in prima,
Perde poi la sua guida e 'l suo sostegno,
E sempre chiama, e nessun mai risponde.
SonettoCXLV (CLXXV)
Che mi giova mirar donne e donzelle,
E prati e selve e rivi, e 'l bel governo,
Che fa del mondo il buon motore eterno,
Mar, terra, cielo, e vaghe, o ferme stelle?
Spenta colei, ch'un sol fu tra le belle
E tra le sagge, or è mio nembo interno:
Forme d'orror mi sembra quant'io scerno:
Esser cieco vorrei per non vedelle.
Ch'i' non so volger gli occhi a parte, ov'io
Non scorga lei fra molte meste, o lasso,
Chiuder morendo le sue luci sante.
Ond'io viver non curo, anzi desio
Di girle dietro con veloce passo:
Ed era me', ch'i' le fossi ito avante.
Canzone XXIX (CLXXVI)
Donna, de' cui begli occhi alto diletto
Trasser i miei gran tempo, e lieto vissi,
Mentre a te non dispiacque esser fra noi,
Se vedi, che quant'io parlai nè scrissi,
Non è stato se non doglia e sospetto
Dopo il quinci sparir dei raggi tuoi,
Impetra dal Signor, non più ne' suoi
Lacci mi stringa il mondo, e possa l'alma,
Che devea gir inanzi, omai seguirti.
Tu godi, assisa tra' beati spirti,
Della tua gran virtute, e chiara ed alma
Senti, e felice dirti:
Io senza te rimaso in questo inferno,
Sembro nave in gran mar senza governo:
E vò là dove il calle, e 'l piè m'invita,
La tua morte piangendo, e la mia vita.
Sì come più di me nessuno in terra
Visse de' suoi pensier pago e contento,
Te qui tenendo la divina cura;
Così cordoglio equale a quel, ch'io sento,
Non è, nè credo ch'esser possa: e guerra
Non fè giamai sì dispietata e dura
La spada, che suoi colpi non misura,
Quanto or a me, che 'n un sol chiuder d'occhi
Le mie vive speranze ha tutte estinto:
Ond'io son ben in guisa oppresso e vinto,
Che pur che 'l cor di lagrime trabocchi,
Mentre d'intorno cinto
Sarò de la caduca e frale spoglia,
Altro non cerco: o quando fia che voglia
Di vita il Re celeste e pio levarmi?
Prega 'l tu, Santa, e così poi quetarmi.
Avea per sua vaghezza teso Amore
Un'alta rete a mezzo del mio corso,
D'oro e di perle, e di rubin contesta,
Che veduta al più fero e rigid'orso
Umiliava e 'nteneriva il core
E quetava ogni nembo, ogni tempesta;
Questa lieto mi prese, e poscia in festa
Tenne molt'anni: or l'ha sparsa e disciolta,
Per far me sempre tristo, acerba sorte.
Ahi cieca, sorda, avara, invida morte;
Dunque hai di me la parte maggior tolta,
E l'altra sprezzi? O forte
Tenor di stelle, o già mia speme, quanto
Meglio m'era il morir, che 'l viver tanto!
Deh non mi lasciar qui più lungo spazio;
Ch'io son di sostenermi stanco e sazio.
Sovra le notti mie fur chiaro lume
E nel dubbio sentier fidata scorta
I tuoi begli occhi, e le dolci parole.
Or, lasso, che ti se' oscurata e torta
Tanto da me, convien ch'io mi consume
Senza i soavi accenti e 'l puro Sole:
Nè so cosa mirar, che mi console,
O voce udir, che 'l cor dolente appaghi
Nè mica in questo lamentoso albergo,
Lo qual dì e notte, pur di pianto aspergo,
Chiedendo che si volga e me rimpiaghi
Morte, nè più da tergo
Lasci, e m'ancida col suo stral secondo;
Poichè col primo ha impoverito il mondo,
Toltane te, per cui la nostra etade
Sì ricca fu di senno e di beltade.
Avess'io almen penna più ferma, o stile
Possente agli altri secoli di mille
De le tue lode farne passar una;
Che già di leggiadrissime faville
S'accenderebbe ogni anima gentile:
E io mi dorrei men di mia fortuna,
E men di morte, in aspettando alcuna
Vendetta contra lei da le mie rime.
E per chieder ancora, o se 'l mio inchiostro,
Mantova e Smirna, s'avanzasse al vostro
Tanto, che non pur lei la più sublime
In questo basso chiostro,
Ma tal là su facesse opra, che 'l cielo
La sforzasse a tornar nel suo bel velo:
Perché non fosse uom poi così beato,
Con ch'io cangiassi il mio gioioso stato.
Se tu stessa, Canzone,
Di quel vedermi lieto mai non credi,
Che più vo desiando; a pianger riedi,
E dì, del pianto molle, ovunque arrive,
Madonna è morta, e quel misero vive.
SONETTO CXLVI. (CLXXVII.)
O Sol, di cui questo bel sole è raggio,
Sol, per lo qual visibilmente splendi,
Se sovra l'opre tue qua giù ti stendi;
Riluci a me, che speme altra non aggio.
Da l'alma, ch'a te fa verace omaggio
Dopo tanti e sì gravi suoi dispendi,
Sgombra l'antiche nebbie, e tal la rendi,
Che più dal mondo non riceva oltraggio.
Omai la scorga il tuo celeste lume:
E se già mortal fiamma, e poca l'arse;
All'eterna ed immensa or si consume
Tanto, che le sue colpe in caldo fiume
Di pianto lavi, e monda, da levarse
E rivolar a te vesta le piume.
SonettoCXLVII (CLXXVIII)
Se già ne l'età mia più verde e calda
Offesi te ben mille e mille volte,
E le sue doti l'alma ardita e balda
Da te donate, ha contra te rivolte;
Or che m'ha 'l verno in fredda e bianca falda
Di neve il mento e queste chiome involte,
Mi dona, ond'io con piena fede e salda
Padre t'onori, e le tue voci ascolte.
Non membrar le mie colpe, e poi ch'addietro
Tornar non ponno i mal passati tempi,
Reggi tu del cammin quel, che m'avanza:
E sì 'l mio cor del tuo desio riempi,
Che quella, che 'n te sempre ebbi, speranza,
Quantunque peccator, non sia di vetro.
Canzone XXX (CLXXIX)
Signor, quella pietà, che ti constrinse
Morendo far del nostro fallo ammenda,
Da l'ira tua ne copra e ne difenda.
Vedi, Padre cortese,
L'alto visco mondan com'è tenace,
E le reti, che tese
Ne son dall'avversario empio e fallace,
Quanto hanno intorno a se di quel che piace.
Però s'aven, che spesso uom se ne prenda,
Questo talor pietoso a noi ti renda.
Non si nega, Signore,
Che 'l peccar nostro senza fin non sia.
Ma se non fosse errore;
Campo da usar la tua pietà natia
Non avresti: la qual perché non stia
In oscuro, e quanta è fra noi, s'intenda,
Men grave esser ti dee, ch'altri t'offenda.
Tu, Padre, ne mandasti
In questo mar, e tu ne scorgi a porto:
E se molto ne amasti,
Allor che 'l mondo t'ebbe vivo e morto;
Amane a questo tempo: e 'l nostro torto
La tua pietosa man non ne sospenda;
Ma grazia sopra noi larga discenda.
Sonetto LXXXV (CXI)
Sento l'odor da lunge, e 'l fresco e l'ora
Dei verdi campi, ove colei soggiorna,
Che co' begli occhi suoi le selve adorna
Di fronde, e con le piante l'erba infiora.
Sorgi dall'onde avanti all'usat'ora
Dimane, o Sole, e ratto a noi ritorna,
Ch'io possa il Sol, che le mie notti aggiorna,
Veder più tosto, e tu medesmo ancora.
Ché sai tra quanto scaldi e quanto giri,
Beltade e leggiadria sì nova e tanta,
Perdonimi qualunque altra, non miri.
E se qual alma quel bel velo amanta
Ancor sapessi, e quanto alti desiri;
L'inchineresti come cosa santa.
Canzone XXV (CXII)
Nè le dolci aure estive,
Nè 'l vago mormorar d'onda marina,
Nè tra fiorite rive
Donna passar leggiadra e pellegrina,
Fur giammai medicina,
Che sanase pensero infernio e grave;
Ch'io non gli aggia, per nulla
Di quel piacer, che dentro mi trastulla
L'anima, di cui tene Amor la chiave:
Sì è dolce e oave.
SonettoLXXXVI (CXIII)
Ombre, in cui spesso il mio Sol vibra e spiega
Suoi raggi, e talor parla, e talor ride;
E dolcemente me da me divide;
E i vaghi e lievi spirti prende e lega;
Mentre venir tra voi non mi si niega,
Non curo, Amor se m'arde, o se m'ancide:
Che 'n queste chiuse valli e sole e fide
Ogni mia pena, e morte ben s impiega.
Sento una voce fuor dei verdi rami
Dir, sì leggiadra donna, e sì gentile
Esser non può, che non gradisca ed ami.
Onde 'l superno Re devoto umile
Prego, non tosto in ciel la si richiami:
Ch'io farei cieco, e 'l mondo oscuro e vile.
SonettoLXXXVII (CXIV)
Fiume, onde armato il mio buon vicin bebbe,
Quando del gorgo e de la destra riva
Fugò lo stuol di Sparta, che veniva
Di quel cercando, che trovar gl'increbbe;
Qual ti fè dono e quant'onor t'accrebbe
Quel dì, che 'l corso tuo leggiadra e schiva
Vincea Madonna, e 'n contro a te saliva
Co 'l Sol, ch'a lei mirando invidia n'ebbe:
E d'un oscuro nembo ricoperse
La ricca navicella d'ogn'intorno,
Che di ventosa pioggia la consperse.
Ma poi, come temesse infamia e scorno
Di tal vendetta, il ciel turbato aperse,
Rendendo a Teti chiaro e puro il giorno.
SonettoLXXXVIII (CXV)
Se voi sapete, che 'l morir ne doglia,
Però che da noi stessi ne diparte,
Sapete ond'è, che, quand'io sto in disparte
Di Madonna, mi preme ultima doglia.
Ella è l'alma di me, ch'ogni sua voglia
Ne fa, siccome donna in serva parte:
Io, che lei seguo, in altro non ho parte,
Che 'n questa grave, e frale, e nuda spoglia.
E poi che non pote uom senza lo spirto
Tenersi in vita, ognor ch'io le son lunge,
Morte m'assale, ond'i' m'agghiaccio e torpo.
Vero è, ch'un crin di lei negletto ed irto
Ch'io miri, o l'ombra pur del suo bel corpo,
Trifon mio caro, a me mi ricongiunge.
SonettoLXXXIX (CXVI)
Molza, che fa la donna tua, che tanto
Ti piacque oltra misura? e fu ben degno,
Poi che sì chiaro e sì felice ingegno
Veste di sì leggiadro e sì bel manto.
Tienti ella per costume in doglia e pianto
Mai sempre, onde ti sia la vita a sdegno?
O pur talor ti mostra un picciol segno,
Che le 'ncresca del tuo languir cotanto?
Che detta il mio Collega, il qual n'ha mostro
Col suo dir grave e pien d'antica usanza,
Sì come a quel d'Arpin si può gir presso?
Che scrivi tu, del cui purgato inchiostro
Già l'uno e l'altro stil molto s'avanza?
Star neghittoso a te non è concesso.
SonettoXC. (CXVII)
Se la più dura quercia, che l'Alpe aggia,
V'avesse partorita, e le più infeste
Tigri Ircane nodrita; anco devreste
Non essermi sì fera e sì selvaggia.
Lasso, ben fu poco avveduta e saggia
L'alma, che di riposo in sì moleste
Cure si pose, e le mie vele preste
Girò dal porto a tempestosa piaggia.
Altro da indi in qua, che pene e guai,
Non fu meco un sol giorno, ed onta e strazio
E lagrime, che 'l cor profondo invia.
Nè sarà per innanzi, e se pur fia,
Non fia per tempo: ch'i son, Donna, omai
Di viver, non che d'altro, stanco e sazio.
SonettoXCI (CXVIII)
Per far tosto di me polvere ed ombra,
Non v'hann'uopo erbe, Donna, in Ponto colte:
Tenete pur le luci in se raccolte,
Mostrandovi d'amor e pietà sgombra.
L'alma, cui grave duol dì e notte ingombra,
Non par omai, che più conforto ascolte,
Misera: e le speranze vane e stolte
Del cor già stanco in aspettando sgombra.
Breve spazio, che dure il vostro orgoglio,
Avrà fin la mia vita: e non men pento:
Non viver pria, che sempre languir voglio.
Morte, che tronca lungo aspro tormento,
È riposo, e chiunque a suo cordoglio
Si toglie per morir, moia contento.
SonettoXCII (CXIX)
Sì levemente in ramo alpino fronda
Non è mossa dal vento, o spica molle
In colto e verde poggio, o nebbia in colle,
O vaga nel ciel nube, e nel mar onda;
Come sotto bel velo e treccia bionda
In picciol tempo un cor si dona e tolle;
E disvorrà quel che più ch'altro volle:
E di speranze e di sospetti abonda.
Gela, suda, chier pace, e move guerra:
Nostra pena, Signor, che noi legasti
A così grave e duro giogo in terra.
Se non che sofferenza ne donasti:
Con la qual chi le porte al dolor serra,
Pur vive, e par che prova altra non basti.
SonettoXCIII (CXX)
Tanto è ch'assenzo e fele e rodo e suggo,
Ch'omai di lor mi pasco e mi nodrisco,
E son sì avezzo al foco, ond'io mi struggo,
Che volontariamente ardo e languisco.
E se del carcer tuo pur talor fuggo
Per fuggir da la morte, e tanto ardisco,
Tosto ne piango ed a pregion rifuggo,
Amor, più dura, in pena del mio risco.
E fo come augellin, che si fatica
Per uscir della rete, ov'egli è colto;
Ma quanto più si scuote, e più s'intrica.
Tal fu mia stella il dì, che nel bel volto
Mirai primier dell'aspra mia nemica,
Ch'a me tutt'altro, e più me stesso ha tolto.
Canzone XXVI (CXXI)
Poscia che 'l mio destin fallace ed empio
Nei dolci lumi dell'altrui pietade
Le mie speranze acerbamente ha spento;
Di pena in pena, e d'uno in altro scempio
Menando i giorni, e per aspre contrade
Morte chiamando a passo infermo e lento,
Nebbia e polvere al vento
Son fatto, e sotto 'l Sol falda di neve;
Ch'un volto segue l'alma, ov'ella il fugge;
E un penser la strugge
Cocente sì, ch'ogni altro danno è leve:
E gli occhi, che già fur di mirar vaghi,
Piangono e questo sol par che gli appaghi.
Or che mia stella più non m'assicura,
Scorgo le membra via di passo in passo
Per cammin duro e 'n penser tristo e rio:
Ch'io dico pien d'error e di paura,
Ove ne vo, dolente? e che pur lasso?
Chi mi t'invidia, o mio sommo desio?.
Così dicendo un rio
Verso dal cor di dolorosa pioggia,
Che può far lacrimar le petre istesse;
E perché sian più spesse
L'angoscie mie, con disusata foggia,
U' che 'l piè movo, u' che la vista giro,
Altro che la mia donna unqua non miro.
Co 'l piè pur meco, e co 'l cor con altrui
Vo camminando, e dell'eterna riva
Bagnando for per gli occhi ogni sentero,
Alor ch'i penso: ohimè, che son, che fui?
Del mio caro tesoro or chi mi priva;
E scorge in parte, onde tornar non spero?
Deh perché qui non pero,
Prima ch'io ne divenga più mendico?
Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,
Per vestirmi di doglia
Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico
Destin, a che mi trai, perché non sia
Vita dura mortal, quanto la mia?
Ove men porta il calle o 'l piede errante,
Cerco sbramar piangendo, anzi ch'io moia,
Le luci, che desio d'altro non hanno:
E grido, o disaventuroso amante,
Or se' tu al fin della tua breve gioia,
E nel principio del tuo lungo affanno.
E gli occhi, che mi stanno
Come due stelle fissi in mezzo a l'alma;
E 'l viso, che pur dianzi era 'l mio Sole;
E gli atti e le parole,
Che mi sgombrâr del petto ogni altra salma;
Fan di pensieri al cor sì dura schiera,
Che meraviglia è ben, com'io non pera.
Non pero già, ma non rimango vivo;
Anzi pur vivo al danno, alla speranza
Via più che morto d'ogni mia mercede.
Morto al diletto, a le mie pene vivo;
E, manco del gioir, nel duol s'avanza
Lo cor, ch'ognor più largo a pianger riede:
E pensa e ode e vede
Pur lei, che l'arse già sì dolcemente,
E or in tanto amaro lo distilla:
Né sol d'una favilla
Scema 'l gran foco de l'accesa mente:
E me fa gir gridando: o destin forte,
Come m'hai tu ben posto in dura sorte!
Canzon, omai lo tronco ne ven meno,
Ma non la doglia che mi strugge e sforza;
Ond'io ne vergherò quest'altra scorza.
Canzone XXVII (CXXII)
Lasso, ch'i fuggo e per fuggir non scampo,
Nè 'n parte levo la mia stanca vita
Del giogo, che la preme ovunque i vada:
E la memoria, di ch'io tutto avvampo,
A raddoppiar i miei dolor m'invita,
E testimon lasciarne ogni contrada.
Amor, se ciò t'aggrada,
Almen fa con Madonna, ch'ella il senta:
E là ne porta queste voci estreme,
Dove l'alta mia speme
Fu viva un tempo, ed or caduta e spenta
Tanto fa questo esilio acerbo e grave,
Quanto lo stato fu dolce e soave.
S'in alpe odo passar l'aura fra 'l verde,
Sospiro e piango, e per pietà le cheggio,
Che faccia fede al ciel del mio dolore.
Se fonte in valle, o rio per cammin verde
Sento cader, con gli occhi miei vaneggio
A farne un del mio pianto via maggiore.
S'io miro in fronda o 'n fiore,
Veggio un, che dice: o tristo peregrino,
Lo tuo viver fiorito è secco e morto.
E pur nel pensier porto
Lei, che mi diè lo mio acerbo destino:
Ma quanto più pensando io ne vo seco,
Tanto più tormentando Amor ven meco.
Ove raggio di Sol l'erba non tocchi,
Spesso m'assido, e più mi sono amici
D'ombrosa selva i più riposti orrori:
Ch'io fermo 'l penser vago in que' begli occhi,
Che solean far miei dì lieti e felici,
Or gli empion di miserie e di dolori:
E perché più m'accori
L'ingordo error, a dir de' miei martiri
Vengo lor, com'io gli ho di giorno in giorno.
Poi quando a me ritorno,
Trovomi sì lontan da' miei desiri,
Ch'io resto, ahi lasso, quasi ombra sott'ombra;
Di sì vera pietate Amor m'ingombra.
Qualor due fiere in solitaria piaggia
Girsen pascendo simplicette e snelle
Per l'erba verde scorgo di lontano;
Piangendo a lor comincio: o lieta e saggia
Vita d'amanti, a voi nemiche stelle
Non fan vostro sperar fallace e vano:
Un bosco, un monte, un piano,
Un piacer, un desio sempre vi tene.
Io da la donna mia quanto son lunge?
Deh, se pietà vi punge,
Date udienzia inseme a le mie pene.
E 'n tanto mi riscuoto e veggio espresso
Che per cercar altrui perdo me stesso.
D'erma rivera i più deserti lidi
M'insegna Amor, lo mio avversario antico:
Che più s'allegra, dov'io più mi doglio.
Ivi 'l cor pregno in dolorosi stridi
Sfogo con l'onde, ed or d'un ombilico
E dell'arena li fo penna e foglio.
Indi per più cordoglio
Torno al bel viso, come pesce ad esca:
E con la mente in esso rimirando,
Temendo, e desiando,
Prego sovente che di me gl'incresca.
Poi mi risento, e dico: O penser casso,
Dov'è Madonna? e 'n questa piango e passo.
Canzon, tu viverai con questo faggio
Appresso all'altra, e rimarrai con lei:
E meco ne verranno i dolor miei.
SonettoXCIV (CXXIII)
La nostra e di Giesù nemica gente,
Ch'or lieta, come fosse un picciol varco,
L'Istro passando, in parte ha l'odio scarco
Sovra quei, che la fer già sì dolente;
Di cui trema il Tedesco, e 'n van si pente,
Ch'al ferro corse pigro, a l'oro parco;
E vede incontro a sé riteso l'arco,
C'ha Rodo e l'Ungheria piagate e spente;
Tu, che ne sembri Dio, raffrena e doma
L'empio furor con la tua santa spada,
Sgombrando 'l mondo di sì grave oltraggio,
E noi di tema, che non pera e cada
Sopra queste Lamagna, Italia, e Roma:
E direnti Clemente e forte e saggio.
SonettoXCV (CXXIV)
Da torvi agli occhi miei s'a voi diede ale
Fortuna ria, cui del mio bene increbbe;
Di levarmi al penser forza non ebbe,
Ch'è con voi sempre, al volar vostro equale.
Questi vi mira, quanto sete e quale:
E se 'l poteste udir, vi conterebbe
Di me, degli altri vostri: e ne devrebbe
Valer, se vero amor suo pregio vale.
Che poi che Pisa n'ha disciolti e privi
Di vostra compagnia, sem fatti quasi
Selve senz'ombra, o senza corso rivi.
Pochi degli onor tuoi ti son rimasi,
Padova mia: che i più son translati ivi
Col buon Ridolfo nostro, onde fiorivi.
SonettoXCVI (CXXV)
Pon Febo mano a la tua nobil arte,
Ai sughi, all'erbe: e quel dolce soggiorno
De' miei pensier, cui piove entro e d'intorno
Quanta beltà fra mille il ciel comparte,
Ch'or langue e va mancando a parte a parte,
Risana e serba: a te fia grave scorno,
Se così cara donna anz'il suo giorno
Dal mondo, ch'ella onora, si diparte.
Torna co 'l chiaro sguardo, ch'è 'l mio Sole,
La guancia, che l'affanno ha scolorita,
A far seren, qual pria, delle vostre ugge.
E sì darai tu scampo alla mia vita,
Che si consuma in lei, nè meco vvle
Sol un dì sovrastar, s'ella sen fugge.
SonettoXCVII (CXXVI)
Tenace e saldo, e non par, che m'aggrave,
è 'l nodo, onde mi strinse a voi la Parca,
Che fila il viver nostro; e ben è parca
Tutto lo stame far chiaro e soave.
Che qual avinta dietro a ricca nave
Solca talor la sua picciola barca
L'Egeo turbato, e di par seco il varca,
E procella sostien noiosa e grave;
Tal io; mentre fra via l'onde avvolgendo
Vi percosse repente aspra tempesta,
Passai quel mar con travagliato legno;
Ma poi fortuna più non v'è molesta,
Corro sedato voi lieta seguendo,
Fatale e prezioso mio ritegno.
SonettoXCVIII (CXXVII)
Mentre navi, e cavalli, e schiere armate,
Che 'l ministro di Dio sì giustamente
Move a ripor la misera e dolente
Italia, e la sua Roma in libertate,
Son cura de la vostra alta pietate,
Io vo, Signor, pensando assai sovente
Cose, ond'io queti un desiderio ardente
Di farmi conto a più d'un'altra etate.
Dal vulgo intanto m'allontano, e celo
Là dov'io leggo e scrivo, e 'n bel soggiorno
Partendo l'ore fo picciol guadagno.
Peso grave non ho dentro o d'intorno:
Cerco piacer a Lui, che regge il cielo:
Di duo mi lodo, e di nessun mi lagno.
SonettoXCIX (CXXVIII)
Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento
Molt'anni assai felice: e se 'l turbato
Regno d'Amor non ha felice stato,
Tennimi almen di lui pago e contento.
Poi per dar le mie vele a miglior vento,
Quando lume del ciel mi s'è mostrato,
Scintomi del bel viso in sen portato,
Sparsi co 'l piè la fiamma, e non men pento.
Ma l'imamgine sua dolente e schiva
M'è sempre innanzi, e preme il cor sì forte,
Ch'io son di Lete omai presso a la riva.
S'io 'l varcherò; farai tu, che si scriva
Sovra 'l mio sasso, com'io venni a morte,
Togliendomi ad Amor, mentr'io fuggiva.
SonettoC (CXXIX)
Se delle mie ricchezze care e tante,
E sì guardate, ond'io buon tempo vissi
Di mia sorte contento, e meco dissi:
- Nessun vive di me più lieto amante;
Io stesso mi disarmo: e queste piante
Avezze a gir per là, dov'io scoprissi
Quegli occhi vaghi, e l'armonia sentissi
Delle parole sì soavi e sante,
Lungi da lei di mio voler sen vanno,
Lasso, chi mi darà, Bernardo, aita?
O chi m'acqueterà, quand'io m'affanno?
Morrommi; e tu dirai, mia fine udita:
Questi, per non veder il suo gran danno,
Lasciata la sua donna, uscìo di vita.
SonettoCI (CXXX)
Signor, che parti e tempri gli elementi,
E 'l Sole e l'altre stelle e 'l mondo reggi,
Ed or col freno tuo santo correggi
Il lungo error de le mie voglie ardenti;
Non lasciar la mia guardia, e non s'allenti
La tua pietà; perch'io tolto alle leggi
M'abbia d'Amor, e disturbato i seggi,
In ch'ei di me regnava, alti e lucenti.
Ché, come audace lupo suol degli agni
Stretti nel chiuso lor, così costui
Ritenta far di me l'usata preda.
Acciò pur dunque in danno i miei guadagni
Non torni, e 'l lume tuo spegner si creda;
Con fermo piè dipartirmi da lui.
SonettoCII (CXXXI)
Che gioverà da l'alma avere scosso
Con tanta pena il giogo, che la presse
Lunga stagion, s'Amor con quelle stesse
Funi il rilega, ed io fuggir non posso?
Meglio era che lo strale, onde percosso
Fui da' begli occhi, ancor morto m'avesse:
Che fosse il braccio tuo, ch'allor mi resse,
Da me, superno Padre, unqua rimosso.
Ma poi ch'errante e cieco mi guidasti,
Tu sentiero e Tu luce; ora ti degna
Voler, che ciò far vano altri non basti:
E lei sì del tuo foco incendi e segna,
Che poggiando in desir leggiadri e casti
Rivoli a te, quando 'l suo dì ne vegna.
SonettoCIII (CXXXII)
Signor, che per giovar sei Giove detto,
E sempre offeso giammai non offendi,
Da quel folle tiranno or mi difendi,
Del qual fui cotant'anni sì suggetto.
Se per donarmi a te chiaro disdetto
Ho fatto a lui, sovra 'l mio scampo intendi:
E perché 'l fallo mio tutto s'ammendi,
Co 'l tuo favor tranquilla il mio sospetto.
Di riaprirsi Amor questo rinchiuso
Fianco, e raccender la sua fiamma spenta
Cerca: tu dammi, ond'ei resti deluso.
Ché l'ardir suo conosco e l'antico uso:
E so come scacciato al cor s'avventa:
E dentro v'è, quando ne pare escluso.
SonettoCIV (CXXXIII)
Uscito fuor de la prigion trilustre
E deposto de l'alma il grave incarco,
Salir già mi parea, spedito e scarco
Per la strada d'onor montana illustre:
Quand'ecco Amor, ch'al suo calle palustre
Mi richiama, e lusinga, e mostra il varco,
Nè di pregar, nè di turbar è parco,
Per rimenarmi alle lasciate lustre.
Ond'io, Padre celeste, a te mi volgo:
Tu l'alta via m'apristi, e tu la sgombra
De le costui contra 'l mio gir insidie.
Mentre da questa carne non mi sciolgo,
Scaccia da me sì col tuo Sole ogni ombra,
Che 'l bel preso cammin nulla m'invidie.
SonettoCV (CXXXIV)
Signor del ciel, s'alcun prego ti move,
Volgi a me gli occhi, questo solo, e poi,
S'io il vaglio, per pietà coi raggi tuoi
Porgi soccorso a l'alma e forze nove:
Tal ch'Amor questa volta indarno prove
Tornarmi ai già disciolti lacci suoi:
Io chiamo te, ch'assecurar mi puoi:
Solo in te speme aver posta mi giove.
Gran tempo fui sott'esso preso e morto:
Or poco, o molto a te libero viva,
E tu mi guida al fin tardi, o per tempo.
Se m'ha falso piacer in mare scorto,
Vero di ciò dolor mi fermi a riva:
Non è da vaneggiar omai più tempo.
SonettoCVI (CXXXV)
O pria sì cara al ciel del mondo parte,
Che l'acqua cigne, e 'l sasso orrido serra:
O lieta sovra ogni altra, e dolce terra,
Che 'l superbo Appennin segna e diparte;
Che giova omai, se 'l buon popol di Marte,
Ti lasciò del mar donna, e de la terra?
Le genti a te già serve or ti fan guerra,
E pongon man ne le tue trecce sparte.
Lasso, nè manca de' tuoi figli ancora
Chi le più strane a te chiamando inseme
La spada sua nel tuo bel corpo adopre.
Or son queste simili all'antiche opre?
O pur così pietate, e Dio s'onora?
Ahi secol duro, ahi tralignato seme!
SonettoCVII (CXXXVI)
Trifon, che 'n vece di ministri e servi,
Di loggie e marmi, e d'oro intesto e d'ostro,
Amate intorno elci frondose, e chiostro
Di lieti colli, erbe e ruscei vedervi,
Ben deve il mondo in riverenza avervi,
Mirando al puro e franco animo vostro,
Contento pur di quel, che solo il nostro
Semplice stat,o e natural conservi.
O alma, in cui riluce il casto e saggio
Secolo, quando Giove ancor non s'era
Contaminato del paterno oltraggio;
Scendesti a far qua giù matino e sera:
Perché non sia tra noi spento ogni raggio
Di bel costume, e cortesia non pera.
SonettoCVIII (CXXXVII)
Quel dolce suon, per cui chiaro s'intende,
Quanto raggio del ciel in voi riluce,
Nel laccio, in ch'io già fui, mi riconduce
Dopo tant'anni, e preso a voi mi rende.
Sento la bella man, che 'l nodo prende,
E strigne sì, che 'l fin de la mia luce
Mi s'avvicina: e chi di fuor traluce,
Nè rifugge da lei, nè si difende:
Ch'ogni pena per voi gli sembra gioco,
E 'l morir vita: ond'io ringrazio Amore,
Che m'ebbe poco men fin dalle fasce,
E 'l vostro ingegno, a cui lodar son roco,
E l'antico desio, che nel mio core,
Qual fior di primavera, apre e rinasce.
SonettoCIX (CXXXVIII)
Così mi renda il cor pago e contento
Di quel desio, ch'in lui più caldo porto,
E colmi voi di speme e di conforto
Lo ciel, quetando il vostro alto lamento:
Com'io poco m'apprezzo, e talor pento
De le fatiche mie, che 'l dolce e scorto
Vostro stil tanto onora, e sommi accorto,
Ch'Amor in voi dritto giudicio ha spento.
Ben son degni d'onor gl'inchiostri tutti,
Onde scrivete, e per le genti nostre
Ne va 'l grido maggior, che suon di squille.
Però s'avven che 'n voi percota e giostre
L'empia fortuna; i sospir vostri e i lutti
Sì raro don di Clio scemi e tranquille.
SonettoCX (CXXXIX)
Cingi le costei tempie dell'amato
Da te già in volto umano arboscel, poi
Ch'ella sorvola i più leggiadri tuoi
Poeti col suo verso alto e purgato:
E se 'n donna valor, bel petto armato
D'onestà, real sangue onorar vuoi;
Onora lei, cui par, Febo, non puoi
Veder qua giù, tanto dal ciel l'è dato.
Felice lui, ch'è sol conforme obietto
All'ampio stile, e dal beato regno
Vede, Amor santo quanto pote e vale;
E lei ben nata, che sì chiaro segno
Stampa del marital suo casto affetto,
E con gran passi a vera gloria sale.
SonettoCXI (CXL.)
Alta Colonna, e ferma alle tempeste
Del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno
Leggiadre membra avvolte in nero panno,
E pensier santi, e ragionar celeste,
E rime sì soavi, e sì conteste,
Ch'all'età dopo noi solinghe andranno
E scherniransi del millesim'anno,
Già dolci e liete, ora pietose e meste:
Quanti vi dier le stelle doni a prova,
Forse estimar si può, ma lingua o stile
Nel gran pelago lor guado non trova.
Solo a sprezzar la vita, alma gentile
Desio di lui, che sparve, non vi muova:
Nè vi sia lo star nosco ingrato e vile.
SonettoCXII (CXLI)
Caro e sovran de l'età nostra onore,
Donna d'ogni virtute intero esempio,
Nel cui bel petto, come in sacro tempio,
Arde la fiamma del pudico amore;
Se 'n ragionar del vostro alto valore
Scemo i suoi pregi, e 'l dever mio non empio;
Scusimi quel, ch'in lui scorgo e contempio,
Novitate e miracol via maggiore,
Che da spiegar lo stile in versi o 'n rime;
Se non quel un, col quale al Signor vostro
Spento tessete eterne lode e prime.
Rara pietà, con carte e con inchiostro
Sepolcro far, che 'l tempo mai non lime,
La sua Fedele al grande Avalo nostro.
SonettoCXIII (CXLII)
Carlo, dunque venite a le mie rime
Vago di celebrar la donna vostra,
Ch'al mondo cieco quasi un Sol si mostra
Di beltà, di valor chiaro e sublime?
E non le vostre prose elette e prime,
Come gemma s'indora, o seta inostra,
Distendete a fregiarla: onde la nostra
E ciascun'altra età più l'ami e stime?
A tal opra in disparte ora son volto,
Che per condurla più spedito a riva,
Ogni altro a me lavoro ho di man tolto.
Voi, cui non arde il cor fiamma più viva,
Devete dir, omai di sì bel volto,
D'alma sì saggia, è ben ragion, ch'io scriva.
SonettoCXIV (CXLIII)
Girolamo, se 'l vostro alto Quirino,
Cui Roma spense i chiari e santi giorni,
Cercate pareggiar, sì che ne torni
Men grave quel protervo aspro destino;
Perché la nobil turba, onde vicino
Mi sete, a gradir voi lenta soggiorni,
Nè v'apra a i desiati seggi adorni,
Alle civili palme anco il cammino,
Non sospirate: il meritar gli onori
è vera gloria, che non pate oltraggio:
Gli altri son falsi e torbidi splendori
Del men buon più sovente, e del men saggio,
Che sembran quasi al vento aperti fiori,
O fresca neve d'un bel Sole al raggio.
SonettoCXV (CXLIV)
Se col liquor che versa, non pur stilla,
Sì largo ingegno, spegner non potete
La nova doglia, onde pietoso ardete,
Perché v'infiammi usata empia favilla;
Sperate nel Signor, che può tranquilla
Far d'ogni alma turbata: indi chiedete;
Tosto averrà, che lieto renderete
Grazie campato di Cariddi e Scilla.
Tacquimi già molt'anni; e diedi al tempio
La mal cerata mia stridevol canna,
E volsi a l'opra, che lodate, il core.
Così fan, che 'l desir vostro non empio,
Oblio de l'arte, e quei, che più m'affanna
Ch'adorne lui, del mio bel nido Amore.
SonettoCXVI (CXLV)
Varchi, le vostre pure carte, e belle,
Che vergate talor per onorarmi,
Più che metalli di Mirone, e marmi
Di Fidia mi son care, e stil d'Apelle.
Ché se già non potranno e queste e quelle
Mie prose, cura di molt'anni, o carmi,
Nel tempo, che verrà, lontano farmi,
Eterna fama spero aver con elle.
Ma dove drizzan ora i caldi rai
Dell'ardente dottrina, e studio loro
I duo miglior, Vittorio e Ruscellai?
Questi, e 'l vostro Ugolin, cui debbo assai,
Mi salutate: o fortunato coro,
Fiorenza e tu, che nel bel cerchio l'hai.
SonettoCXVII (CXLVI)
Donna, cui nulla è par bella nè saggia,
Nè sarà, credo, e non fu certo avante;
Degna, ch'ogni alto stil vi lodi e cante
E 'l mondo tutto in reverenzia v'aggia;
Voi per questa vital fallace piaggia
Peregrinando a passo non errante,
Coi dolci lumi e con le voci sante
Fate gentil d'ogni anima selvaggia.
Grazie del ciel, via più ch'altri non crede,
Piover in terra, scopre chi vi mira,
E ferma al suon de le parole il piede.
Tra quanto il Sol riscalda e quanto gira,
Miracolo maggior non s'ode e vede:
O fortunato chi per voi sospira!
SonettoCXVIII (CXLVII)
Se stata foste voi nel colle Ideo
Tra le Dive, che Pari a mirar ebbe,
Venere gita lieta non sarebbe
Del pregio, per cui Troia arse e cadeo.
E se 'l mondo v'avea con quei, che feo
L'opra leggiadra, ond'Arno e Sorga crebbe,
Et egli a voi lo stil girato avrebbe,
Ch'eterna vita dar altrui poteo.
Or sete giunta tardo alle mie rime,
Povera vena e suono umile, a lato
Beltà sì ricca, e 'ngegno sì sublime.
Tacer devrei: ma chi nel manco lato
Mi sta, la man sì dolce al core imprime,
Che per membrar del vostro obblio 'l mio stato.
SonettoCXIX (CXLVIII)
Sì divina beltà Madonna onora,
Ch'avanza ogni ventura il veder lei:
Ben è tre volte fortunato, e sei,
Cui quel Sol vivo abbaglia e discolora.
E s'io potessi in lui mirar, qual ora
Di rivederlo braman gli occhi miei,
Per poco sol, non pur quant'io vorrei,
Questa mia vita a pien beata fora.
Ché da ciascun suo raggio in un momento
Sì pura gioia per le luci passa
Nel cor profondo, e con sì dolce affetto,
Ch'a parole contarsi altrui non lassa:
Nè posso anco ben dir, quanto diletto
Sol in pensar de la mia donna sento.
SonettoCXX (CXLIX)
Se mai ti piacque, Apollo, non indegno
Del tuo divin soccorso in tempo farmi;
Detta ora sì felici e lieti carmi,
Sì dolci rime a questo stanco ingegno;
Che 'n ragionar del caro almo sostegno
Della fral vita mia possa quetarmi:
Le cui lode, e scemar del vero parmi,
Foran al Mantovan troppo alto segno:
La donna, che qual sia tra saggia e bella
Maggior non può ben dirsi, e sola agguaglia,
Quanti fur del ciel doni unqua fra noi:
Ch'io tanto onorar bramo; e se forse ella
Non ave onde gradirmi; almen mi vaglia,
Ch'io vivo pur del Sol degli occhi suoi.
SonettoCXXI (CL.)
Se in me, Quirina, da lodar in carte
Vostro valor e vostra alma bellezza
Fosser pari al desio l'ingegno e l'arte;
Sormonterei qual più nel dir s'apprezza:
E Smirna, e Tebe, e i duo, ch'ebber vaghezza
Di cantar Mecenate, minor parte
Avrian del grido: e fora in quella altezza
Lo stil mio, ch'è in voi l'una e l'altra parte.
Nè sì viva riluce all'età nostra
La Galla espressa dal suo nobil Tosco,
Tal che sen duol Lucrezia e l'altre prime;
Che non più chiara assai, per entro 'l fosco
De la futura età, con le mie rime
Gisse la vera e dolce immagin vostra.
SonettoCXXII (CLI)
Quella, che co' begli occhi par, che 'nvoglie
Amor, di vili affetti, e penser casso,
E fa me spesso quasi freddo sasso,
Mentre lo spirto in care voci scioglie;
Del cui ciglio in governo le mie voglie,
Ad una ad una, e la mia vita lasso,
La via di gir al ciel con fermo passo
M'insegna, e 'n tutto al vulgo mi ritoglie.
Legga le dotte ed onorate carte,
Chi ciò brama: e per farsi al poggiar ale,
Con lungo studio apprenda ogni bell'arte.
Ch'io spero alzarmi, ove uom per se non sale,
Scorto dai dolci amati lumi, e parte
Dal suono a l'armonie celesti equale.
SonettoCXXIII (CLII)
Giovio, che i tempi e l'opre raccogliete
Del faticoso e duro secol nostro
In così puro e sì lodato inchiostro,
Che chiaro eternamente viverete;
Perché lo stile omai non rivolgete
A questa, novo in terra, e dolce mostro,
Donna gentil, che non di perle e d'ostro,
Ma sol d'onor e di virtute ha sete?
Questa risplenderà, come bel Sole,
Fra gli altri lumi de le vostre carte,
E le rendrà via più gradite e sole.
Quest'una ha inseme, quanto a parte a parte
Dar a mille ben nate a pena suole,
Di beltà, di valor, natura ed arte.
SonettoCXXIV (CLIII)
Signor, poi che fortuna in adorarvi,
Quant'ella possa, chiaramente ha mostro,
Vogliate al poggio del valor col vostro
Giovenetto pensero e studio alzarvi.
Ratto ogni lingua, se ciò fia, lodarvi
Udrete, e sacreravvi il secol nostro
Tutto 'l suo puro e non caduco inchiostro,
Per onorato e sempiterno farvi.
Ambe le chiavi del celeste regno
Volge l'avolo vostro, e Roma affrena
Con la sua gran virtù, che ne 'l fè degno.
La vita più gradita e più serena
Ne dà virtute, caro del ciel pegno:
Di vile e di turbato ogni altra è piena.
SonettoCXXV (CLIV)
Se qual è dentro in me, chi lodar brama,
Signor mio caro, il vostro alto valore,
Tal potesse mostrarsi a voi di fore,
Quando a rime dettarvi Amore il chiama,
Ovunque vero pregio e virtù s'ama,
S'inchinerebbe il mondo a farvi onore,
Securo dall'oblio delle tarde ore,
Se posson dar gl'inchiostri eterna fama.
Nè men di quel, che santamente adopra
Il maggior padre vostro, andrei cantando;
Ma poi mi nega il ciel sì leggiadra opra.
S'appagherà tacendo ed adorando
Mio cor, infin che terra il suo vel copra:
Non poca parte uom di se dona amando.
SonettoCXXVI (CLV)
Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo,
E pura fede e vera cortesia,
E lo stil, che d'Arpin sì dolce uscia,
Risorge, e i dopo sorti lascia a tergo;
S'io movo per lodarvi, e carte vergo,
Presontuoso il mio penser non sia:
Ché mentre e' viene a voi per tanta via,
Nel vostro gran valor m'affino e tergo.
E forse ancora un amoroso ingegno,
Ciò leggendo, dirà: più felici alme
Di queste il tempo lor certo non ebbe.
Due Città senza pari, e belle ed alme
Le dier al mondo, e Roma tenne e crebbe:
Qual può coppia sperar destin più degno?
RIME DI M. PIETRO BEMBO
DA LUI MEDESIMO RIFIUTATE
Ma poste poi fra l'altre sue per soddisfazione de' nobili ingegni
Capitolo I
Io stava in guisa d'uom, che pensa e pave
Campato da la morte, e sente orrore
Del mal passato, e pargli ancor ir grave;
E per memoria de l'antico ardore,
A cui sovente e volentier m'involo,
D'un freddo smalto m'avea cinto il core.
Quando io fui sopraggiunto inerme e solo
Da molte belle vaghe donne armate,
Che movean contra me tutto lor stuolo.
Le prime eran bellezza ed onestate,
Possenti imperatrici, e con lor gìa
Virtù canuta, e giovenile etate.
E dopo questa gran torma venia
D'altre elette gentil, ch'avean per scorta
Alto intelletto, e somma cortesia.
Come non so, ma quella gente accorta
Con forte nodo già m'avea legato,
Ch'era di speme con piacer attorta.
Mentr'io pensava al mio novello stato,
Riser di tanto inver la lor Reina;
Indi a lei, cosi preso, fui donato:
E sentì dir: a questa ora t'inchina;
E caro esser ti puote; a questa Donna
Il ciel per tua ventura ti destina.
A questa di valor ferma colonna
S'appoggerà lo tuo stanco pensero;
Per questa cangierai costumi e gonna.
Più ti vo' dire ancora, e siati vero
Quando che sia, e tosto potrai dire;
Ma tu n'andresti forse tropp'altero.
Un bene, un male, una speme, un desire
Sì farà d'ambo voi; nè tempo, o loco
Potrà da l'un giammai l'altro partire.
Più soave, tranquillo, e dolce foco
In duo cor giovenil non arse ancora;
E quel ch'io parlo, a quel ch'io sento, è poco.
Di quanto ti son stati infin ad ora,
Che sai ch'è molto, Amor e 'l ciel avversi,
Di tanto t'è seconda, e più quest'ora.
I tuoi sospir di lagrime conspersi
Rivolgerai ver questa alto cantando,
In mille prose vago e 'n mille versi.
E benché ella sia tal, ch'assai poggiando
Si levi per se stessa oltra ogni segno,
Pur non le spiacerà, che cerchi amando
Lasciar del suo bel nome eterno pegno.
Capitolo II
Fiume, che del mio pianto abbondi e cresci,
E con le tue gelate e lucide onde
Le mie sì calde e sì torbide mesci;
Pini, ch'avete a le soavi sponde,
Sì come io d'altri a me, fatto corona
De le vostre alte e sempre verdi fronde;
Valle, ove 'l ciel de' miei sospir risuona;
Ov'ogni augello, ov'ogni fera omai
E sterpo e sasso del mio mal ragiona;
Aura, ch'ad or ad or furando vai
A l'erbe 'l fresco, ai fior soavi odori,
A me concenti ed angosciosi lai;
E voi, che forse a più felici amori
Sarete ancora albergo, o verde riva,
Folto seggio, ombre fide, amici orrori;
Quando saranno i miei pensieri a riva?
Quando avrò queto e riposato il core?
Quando fia mai, che senza pena io viva?
Vaghi pastor, ch'al mio novo colore
Mille fiato già fermaste il piede
Con segno di pietade e di dolore,
Vedete ben, ed altri anco se 'l vede,
Quanto è mia sorte dispietata e dura:
Questo m'avanza di cotanta fede.
Ahi crudo Amor e mia fera ventura,
Perché date ad un cor ogni tormento?
A voi che ven dalla mia vita oscura?
Da poi ch'io nacqui, e foss'io in quel dì spento,
Non ebbi un giorno lieto, e la mia nave
Sempre fu spinta da contrario vento.
Or ch'io sperava un fin dolce e soave
Di tante guerre, e di si lungo affanno,
Via più mi trovo in stato acerbo e grave.
Ma così vada; e poi che del mio danno,
O quanto avvien di quel, che non si spera,
Madonna, il mondo, il ciel lor prò si fanno,
Per me non mostri un fior la primavera,
Nè 'l Sol un raggio, e sia pallido verno
Quantunque io miro, e notte orrenda e nera,
E 'l mio mal, se non è, diventi eterno.
Capitolo III
Dolce mal, dolce guerra, e dolce inganno,
Dolce rete d'Amor e dolce offesa,
Dolce languir, e pien di dolce affanno.
Dolce vendetta in dolce foco accesa
Di dolce onor, che par giammai non ave,
Principio della mia sì dolce impresa.
Dolci segni, ch'io seguo, e dolce nave,
Che porti la mia speme a dolce lido
Per l'onda del penser dolce e soave.
Dolce infido sostegno, e cader fido:
Dolce lungo dubbiar, e saper corto:
Dolce chiaro silenzio, e roco grido.
Dolce bramar giustizia, e chieder torto:
Dolce andar procacciando i danni suoi:
Dolce del suo dolor farsi conforto.
E dolce stral, che 'l cor d'ambeduo noi
Ferendo intrasti là, dove altro mai
Non passò prima e non passerà poi.
Dolce del proprio ben sempre trar guai,
E gir poi del suo mal alto cantando:
Dolci ire, dolci pianti, e dolci lai.
Dolce tacendo, amando, e desiando
Romper un sasso, e raccender un gelo
Pregando, sospirando, o lagrimando.
Dolce dinanzi agli occhi ordirsi un velo,
Che non lasci veder, perché si miri,
Fronda in selva, acqua in mar, o stella in cielo.
Dolce portar in fronte i suoi desiri,
E dentro aver il foco, e d'ogn'intorno
Mandar da lunge 'l suon de' suoi martiri.
Dolce via più temer di giorno in giorno,
Ed ardir meno, e sol d'una figura
A l'alma specchio far la notte e 'l giorno.
Dolce aver più d'altrui che di sé cura,
E governar due voglie con un freno,
E 'n comune recar ogni ventura.
Dolce non esser mai beato a pieno,
Nè del tutto infelice, e dolce spesso
Sentirsi innanzi tempo venir meno:
E per cercar altrui perder se stesso.
SonettoI (IV)
Amor, che vedi i più chiusi pensieri,
Ed odi quel, ch'ad ogn'altro si tace,
Quando fia, che pietà m'impetri pace
Con tanti al danno mio pronti guerrieri?
Lasso, che non so più quel, ch'io ne speri:
Che quanto meno alla mia Donna piace
Il mio languir, tu più tanto fallace
Armi ver me folti nemici e feri.
Ma s'ella m'assecura, e tu spaventi,
Lentando orgoglio, e rinforzando inganno,
Non avran più fine i miei tormenti.
O dubbiosa mercede, o certo affanno!
O fosser già questi due lumi spenti,
Poi ch'altro mai, che lacrimar non fanno.
SonettoII (V)
Ben è quel caldo voler voi, ch'io prenda,
PIETRO, a lodar la donna vostra, indarno,
Qual fora a dir, che 'l Taro, il Sile, o l'Arno
Più ricco l'Oceano e maggior renda.
E poi conven, qual io mi sia, ch'intenda
Ad altra cura, e 'n ciò mi stempro e scarno;
Nè quanto posso il vivo esempio incarno,
Che non adombran treccie, o copre benda.
Chi vede il bel lavoro ultimo vostro,
Alto levan, dirà, le costui rime
La sua SIRENA, onor del secol nostro.
La quale oggi risplende tra le prime
Per voi, siccome novo e dolce mostro,
Di beltà, di valor chiaro e sublime.
SonettoIII (VI)
Nè securo ricetto ad uom, che pave
Scorgendo da vicin nemica fronte;
Nè dopo lunga sete un vivo fonte;
Nè pace dopo guerra iniqua e grave;
Nè prender porto a travagliata nave;
Nè dir parole amando ornate e pronte;
Nè veder casa in solitario monte
A peregrin smarrito è si soave;
Quant'è quel giorno a me felice e caro,
Che mi rende la dolce amata vista,
Di cui m'è 'l ciel più che Madonna avaro.
Nè, perch'io parta poi, l'alma s'attrista:
Tanta in quel punto dal bel lume chiaro
Virtù, senno, valor, grazia s'acquista.
SonettoIV (VII)
Ben puoi tu via portartene la spoglia
Greve e stanca di me, vago destrero:
Ma lo spirto al suo ben pronto e leggero
Torna sovente, com'Amor le 'nvoglia.
Nè teme, ch'altrui forza unqua li toglia
Quel di gir insin là, dolce sentero;
Ond'io per questo acerbo anco non pero,
Col suo gioir temprando la mia doglia.
E certo son, se non m'inganna Amore,
Che scorgendo Madonna i suoi desiri
Dirà, questi ne ven da fedel core:
Lo qual, perché lontan da me si giri,
Non fia che sempre non mi renda onore,
E me sol brami, e sol per me sospiri.
Canzone I (VIII)
Amor, perché m'insegni andare al foco,
Dove 'l mio cor si strugge,
Seguendo chi mi fugge,
Pregando chi 'l mio duol si torna in gioco?
Credea trovar ne l'amorosa tresca
Più dolce ogni fatica:
Ahi del mio ben nemica:
Che 'l piacer manca, e 'l tormento rinfresca.
Donne, che non sentiste ancor d'Amore,
Quanto beate sete,
Se voi non v'accorgete,
Mirate quanto è grave il mio dolore.
Canzone II (IX)
Io vissi pargoletta in festa e 'n gioco
De' miei penfier, di mia sorte contenta:
Or sì m'affligge Amor e mi tormenta,
Ch' omai di tormentar gli avanza poco.
Credetti, lassa, aver gioiosa vita,
Da prima entrando, Amor, alla tua corte;
E già n'aspetto dolorosa morte:
O mia credenza come m'hai fallita!
Mentre ad Amor non si commise ancora,
Vide Colco Medea lieta e secura:
Poi ch'arse per Jason, acerba e dura
Fu la sua vita infin all'ultim'ora.
Canzone III (X)
Amor d'ogni mia pena io ti ringrazio,
Sì dolce è 'l tuo martire:
Ogni d'altro gioire,
Signor, è doglia, e festa ogni tuo strazio.
Ben mi credetti già, che grave peso
Fosse, Amor, la tua salma:
Or veggo, e ten chier l'alma
Mercé, che tu da me non eri inteso.
Giurerei, donne amanti, all'alta e fina
Mia gioia ripensando,
Ch'una ancilletta amando
Lo stato agguagli d'ogni gran Reina.
Canzone IV (XI)
Io vissi pargoletta in doglia e 'n pianto,
Delle mie scorte, e di me stessa in ira:
Or sì dolci penfier Amor mi spira,
Ch'altro meco non sta che riso e canto.
Arei giurato, Amor, ch'a te gir dietro
Fosse proprio un andar con nave a scoglio:
Così la 'nd'io temea danno e cordoglio,
Utile scampo alle mie pene impetro.
In fin quel dì, che pria la vinse Amore,
Andromeda ebbe sempre affanno e noia:
Poi ch'a Perseo si diè, diletto e gioia
Seguilla viva, e morta eterno onore.
Canzone V (XII)
È cosa natural fuggir da morte;
E quanto può ciascun tenersi in vita.
Ahi crudo Amor, ma io cercando morte
Vo sempre, e pur così mi serbo in vita.
Che perché 'l mio dolor passa ogni morte,
Corro a por giù questa gravosa vita.
Poi, quand'io son già ben presso a la morte,
E sento dal mio cor partir la vita,
Tanto diletto prendo della morte,
Ch'a forza quel gioir mi torna in vita.
Canzone VI (XIII)
Quand'io penso al martire
Arnor, che tu mi dai gravoso e forte;
Corro per gir a morte,
Così sperando i miei danni finire.
Ma poi ch'i giungo al passo,
Ch'è porto in questo mar d'ogni tormento,
Tanto piacer ne sento,
Che l'alma si rinforza, ond'io no 'l passo.
Così 'l viver rn'ancide:
Così la morte mi ritorna in vita.
O miseria infinita;
Che l'uno apporta, e l'altra non recide.
Canzone VII (XIV)
Chi rompe nell'Egeo, se poi vi riede,
È gran ragion, che senza pro si doglia.
Chi torna al ceppo, che gli offese il piede,
Conviensi ch'indi mai non si discioglia.
Chi prova Amor un tempo, e poi li crede,
Altro che pianto è ben, che non ne coglia.
O miei pensieri imaginati e folli,
Voi che speraste? o pur lo che ne volli?
Canzone VIII (XV)
Città con piú sudor posta, e cresciuta
Più grato rende il fio, che se ne coglie.
Vittoria con maggior perigli avuta
Più care sa le rapportate spoglie.
E nave più da' venti combattuta
Con maggior festa in porto si raccoglie.
Così quanto ebbe più d'amaro il fiore,
Tanto è più dolce poi nel frutto Amore.
Canzone IX (XVI)
Quel che sì grave mi parea pur dianzi,
Or m'è sì leve, che vago ne sono,
E menzogna parrà, s'io ne ragiono.
Tu mi furasti il core
Amor con gli occhi vaghi di costei;
Mentr'io nel lor splendore
Tenea mirando intenti i spirti miei.
Lasso che poi non fei
Per riaverlo, e di mia vita in forsi
Non star senz'esso sì, com'io credea,
Lo mio fero destin sempre colpando?
Per qual poggio non corsi,
E valle e riva pur di lui cercando?
Lagrime e preghi a qual Ninfa non porsi?
E valse al fin: che s'io l'andai chiamando
Un giorno, allor che men speme n'avea,
Al suon di quel lamento si rivolse.
Ma che frutto sen tolse?
Che m'è giovato il mio lungo dolore?
O quanto in van si spargon molti pianti:
O corso pien d'errore:
O senza legge stato degli amanti!
Che tosto ch'io m'accorsi,
Che viver senza l'alma si potea;
A begli occhi ne fei cortese dono,
E del mio folle error chiesi perdono.
Canzone X (XVII)
Occhi miei lassi, omai ch'altrove è volto
Il Sol, che facea luce a la mia vita,
Pur de' suo santi raggi il cor pascendo;
Accompagnate il gran dolor accolto,
Ch'a lamentarsi trae l'alma schernita,
Il vostro error, e 'l suo danno piangendo.
Che se le sue ragioni chiaro intendo,
Doveste a miglior tempo esser accorti.
Or che son da partir le vostre pene,
A voi pianger convene,
Che foste dal piacer sì tosto scorti,
Dolersi a lei, che nutrì falsa spene.
Ma io che debbo far? chi m'assicura,
Senza l'usato mio dolce conforto
Rimaso nudo, e 'n solitaria parte?
Seguir no 'l posso, ahi mia fera ventura!
E quì son men che mezzo; e quello è morto:
Che seco andò la viva e maggior parte.
Nè mai da corpo un'anima si parte
Ne le primiere sue più felici ore,
Che se ne doglia tal, qual io mi doglio.
O che grave cordoglio!
Madonna è ita, ed ha seco 'l mio core;
Et io sto qui pur contra quel, ch'io voglio.
Come nave in gran mar, se nube asconde
Le stelle, che reggeano il suo cammino,
Riman errando in dubbio di suo stato;
Così son io tra queste orribil onde
D'Amor, ove mi spinse il mio destino,
Rimaso lasso con la morte a lato:
Poi che 'l mio nubiloso acerbo fato
M'invidia que' due cari onesti lumi,
Che mi fidaro al periglioso corso.
. . .
. . .
. . .
STANZE
Le seguenti stanze del Bembo recitate per giuoco da lui, e dal Signor Ottavio Fregoso mascherati a guisa di due
Ambasciatori della Dea Venere mandati a Madonna Elisabetta Gonzaga Duchessa d'Urbino, e Madonna Emilia Pia
sedenti tra molte Nobili Donne e Signori, che nel palagio della detta Città danzando festeggiavano la sera del
Carnassale 1507. Ma M. Giovanbatista Lapini Fisicoso (pedante, ndr.) intronato compose a compiacimento di
Madonna Laura Piccolomini de' Turchi le Stanze della Pudicizia a contrapposizione di quelle del Bembo. Le quali
Stanze del Lapini furono prima impresse sotto il nome del Cardinal Egidio nel Tomo I. delle Rime scelte, nel Tomo I.
delle Stanze di diversi, raccolte da Lodovico Dolce, e nel Tom. VI. delle Rime di molti eccellentissimi Autori. Ma
Agostino Ferentilli nella sua Raccolta delle Stanze di diversi Autori Toscani le restituì al suo vero Autore, e afferma
essere state composte, come s'è detto, a istanza della Piccolomini.
I
Nell'odorato e lucido Oriente,
Là sotto 'l puro e temperato cielo
De la felice Arabia, che non sente,
Sì che l'offenda mai, caldo, nè gelo,
Vive una riposata e lieta gente
Tutta di bene amar accesa in zelo,
Come vuol sua ventura, e come piacque
A la cortese Dea, che nel mar nacque.
II
A cui più ch'altri mai servi e devoti
Questi felici (e son nel ver ben tali)
Han posto più d'un tempio, e fan lor voti
Sopra l'offese de' suoi dolci strali:
E mille a prova eletti Sacerdoti
Curan le cose sante e spiritali,
Ed hanno in guardia lor tutta la legge,
Che le belle contrade amica e regge.
III
La qual in somma è questa: ch'ogni uom viva
In tutti i suoi pensier seguendo Amore.
Però quando alma se ne rende schiva,
Le mostran quanto grave è questo errore;
E che del vero ben colui si priva,
Ch'al natural diletto indura il core;
E sopra ogn'altro come gran peccato
Commette, chi non ama essendo amato.
IV
A questo confortando il popol tutto
Onoran la lor Dea con pura fede:
E quanto essa ne trae maggiore il frutto,
Ne torna lor più dolce la mercede:
Ed han già la bell'opra a tal condutto,
Che senza question farne ogniun le crede:
Ond'ella, alquanto pria che 'l dì s'aprisse,
A duo di lor nel tempio apparve, e disse:
V
Fedeli miei, che sotto l'Euro avere
A questo confortando il popol tutto
Onoran la lor Dea con pura fede:
E quanto essa ne trae maggiore il frutto,
Ne torna lor più dolce la mercede:
Ed han già la bell'opra a tal condutto,
Che senza question farne ogniun le crede:
Ond'ella, alquanto pria che 'l dì s'aprisse,
A duo di lor nel tempio apparve, e disse:
V
Fedeli miei, che sotto l'Euro avete
La gloria mia, quanto pote ire, alzata;
Sì come non bisogna veltro o rete
A fera, che già sia presa e legata;
Così voi d'uopo qui più non mi sete:
Tanto ci son temuta e venerata.
Quel, che far si devea, tutto è fornito:
Da indi in qua si porta arena al lito.
VI
E se pur fia, che le mie insegne sante
Lasciando, alcun da me cerchi partire,
De l'altre schiere mie, che son cotante,
Sarà trionfo, e non sen potrà gire.
Per voi conven che 'l mio valor si cante
In altre parti, sì che 'l possa udire
La gente, che non l'ave udito ancora,
E per usanza mai non s'innamora.
VII
Siccome là dove 'l mio buon Romano
Casso di vita fè l'un duce Mauro:
E col piè vago discorrendo al piano
Parte le verdi piaggie il bel Metauro;
Ivi son donne, che fan via più vano
Lo stral d'Amor, che quel di Giove il lauro;
Sol per cagion di due, che la mia stella
Ardir prime chiamar bugiarda e fella.
VIII
L'una ha 'l governo in man delle contrade,
L'altra è d'onor e sangue a lei compagna.
Queste non pur a me chiudon le strade
Dei petti lor, che pianto altrui non bagna;
Ch'ancor vorrian di pari crudeltade
Dall'Orse a l'Austro, e dall'Indo a la Spagna
Tutte inasprir le donne e i cavalieri:
Tanto hanno i cori adamantini e feri.
IX
E vanno argomentando, che si deve
Castitate pregiar più che la vita,
Mostrando ch'a Lucrezia non fu greve
Morir per questa, onde ne fu gradita:
Tal che la gloria mia, come al Sol neve,
Si va struggendo: e se la vostra aita
Non mi riten quel regno a questo tempo;
Tutto il mi vedrò torre in piciol tempo.
X
Però vorrei ch'andaste a quelle fere
Solo ver me, là ov'elle fan soggiorno:
E le traeste a le mie dolci schiere,
Prima che faccia notte, ov'ora è giorno;
Rotti gli schermi, ond'elle vanno altere,
E mille volte a me fer danno e scorno;
Dando lor a veder, quanto s'inganni
Chi non mi dona il fior de' suoi verdi anni.
XI
Accingetevi dunque all'alta impresa:
Io v'agevolerò la lunga via.
Non vi sarà la terra al gir contesa;
Ché infino a lor per tutto ho signoria.
E perché 'l mar non possa farvi offesa;
Lo varcherete ne la conca mia:
O prendete i miei cigni, e 'l mio figliuolo,
Che regga il carro, e sì ven gite a volo.
XII
Così detto disparve, e le sue chiome
Spirar nel suo sparir soavi odori:
E tutto il ciel, cantando il suo bel nome,
Sparser di rose i pargoletti Amori.
Strinsersi intanto i sacerdoti, e come
Fu 'l sol de l'Oceano Indico fuori,
Senza dimora giù per cammin dritto,
Presa lor via n'andar verso l'Egitto.
XIII.
Le piramidi e Menfi poi lasciate
Stolta, che 'l bue d'altari e tempio cinse;
Vider le mura da colui nomate,
Che giovenetto il mondo corse e vinse;
E Rodo, e Creta; e queste anco varcate,
E te, che da l'Italia il mar distinse;
E più che mezzo corso l'Appennino,
Entrâr nel vostro vago e lieto Urbino.
XIV
E son or questi, ch'io v'addito e mostro,
L'uno e l'altro di laude e d'onor degno.
E perch'essi non sanno il parlar nostro,
Per interprete lor seco ne vegno:
E 'n lor vece dirò, come che al vostro
Divin conspetto uom sia di dire indegno:
E se cosa udirete, che non s'usi
Udir tra voi; la Dea strana mi scusi.
XV
O Donna in questa etade al mondo sola,
Anzi a cui par non fu giammai, nè fia;
La cui fama immortal sopra 'l ciel vola
Di beltà, di valor, di cortesia,
Tanto che a tutte l'altre il pregio invola;
E voi, che sete in un crudele e pia
Alma gentil dignissima d'impero,
E che di sola voi cantasse Omero:
XVI
Qual credenza d'aver senz'Amor pace,
Senza cui lieta un'ora uom mai non ave,
Le sante leggi sue fuggir vi face,
Come cosa mortal si fugge e pave?
E lui, ch'a tutti gli altri giova e piace,
Sole voi riputar dannoso e grave?
E di Signor mansueto e fedele,
Tiranno disleal farlo, e crudele?
XVII
Amor è graziosa e dolce voglia,
Che i più selvaggi e più feroci affrena:
Amor d'ogni viltà l'anime spoglia,
E le scorge a diletto e trae di pena:
Amor le cose umili ir alto invoglia:
Le brevi e fosche eterna e rasserena;
Amor è seme d'ogni ben fecondo,
E quel, ch'informa, e regge, e serva il mondo.
XVIII
Però che non la terra solo e 'l mare,
E l'aere e 'l foco e gli animali e l'erbe,
E quanto sta nascosto, e quanto appare
Di questo globo, Amor, tu guardi e serbe;
E generando fai tutto bastare
Con le tue fiamme dolcemente acerbe:
Ch'ancor la bella machina superna
Altri che tu non volve e non governa.
XIX
Anzi non pur Amor le vaghe stelle,
E 'l ciel di cerchio in cerchio tempra e move;
Ma l'altre creature via più belle,
Che senza madre già nacquer di Giove,
Liete, care, felici, pure e snelle,
Virtù, che sol d'Amor descende e piove,
Creò da prima ed or le nutre e pasce,
Onde 'l principio d'ogni vita nasce.
XX
Questa per vie sovra 'l penser divine
Scendendo pura giù ne le nostre alme,
Tal che state sarian dentro al confine
De le lor membra quasi gravi salme,
Fatto ha poggiando altere e pellegrine
Gir per lo cielo; e gloriose ed alme
Più che pria rimaner dopo la morte,
Il lor destin vincendo e la lor sorte.
XXI
Questa fè dolce ragionar Catullo
Di Lesbia, e di Corinna il Sulmonese:
E dar a Cinzia nome, a noi trastullo
Uno, a cui patria fu questo paese:
E per Delia e per Nemesi Tibullo
Cantar: e Gallo, che se stesso offese,
Via con le penne de la fama impigre
Portar Licori dal Timavo al Tigre.
XXII
Questa fe' Cino poi lodar Selvaggia,
D'altra lingua maestro, e d'altri versi:
E Dante, acciòcchè Bice onor ne traggia,
Stili trovar di maggior lumi aspersi:
E perché 'l mondo in reverenzia l'aggia,
Sì come ebb'ei; di sì leggiadri e tersi
Concenti il maggior Tosco addolcir l'aura,
Che sempre s'udirà risonar Laura.
XXIII
La qual or cinta di silenzio eterno
Fora, siccome pianta secca in erba;
S'a lui, ch'arse per lei la state e 'l verno,
Come fu dolce, fosse stata acerba;
E non men l'altre illustri, ch'io vi scerno;
E qual si mostrò mai dura e superba
Verso quei, che potea sovra 'l suo nido
Alzarla a volo, e darle vita e grido.
XXIV
Questa novellamente ai padri vostri
Spirò desio; di cui, come a Dio piacque,
Per adornarne il mondo, e gli occhi nostri
Bear de la sua vista, in terra nacque
L'alma vostra beltà; nè lingue, o 'nchiostri
Contar porian, nè vanno in mar tant'acque,
Quanta Amor da' bei cigli alta e diversa
Gioia, pace, dolcezza, e grazia versa.
XXV
Cosa dinanzi a voi non può fermarsi,
Che d'ogni indegnità non sia lontana:
Ch'al primo incontro vostro suol destarsi
Penser, che fa gentil d'alma villana:
E se potesse in voi fiso mirarsi,
Sormonteriasi oltra l'usanza umana:
Tutto quel, che gli amanti arde e trastulla,
A lato ad un saluto vostro è nulla.
XXVI
Quanto in mill'anni il ciel devea mostrarne
Di vago e dolce, in voi spiegò e ripose,
Volendo a suo diletto esempio darne
De le più care sue bellezze ascose.
Chi non sa, come Amor soglia predarne,
O pur di non amar seco propose,
Fermi ne' be' vostr'occhi un solo sguardo;
E fugga poi, se può, veloce, o tardo.
XXVII
Rose bianche e vermiglie ambe le gote
Sembran, colte pur ora in paradiso;
Care perle e rubini, ond'escon note
Da far ogni uom da se stesso diviso:
La vista un Sol, che scalda entro e percote;
E vaga primavera il dolce riso.
Ma l'accoglienza, il senno, e la virtute
Potrebbon dare al mondo ogni salute;
XXVIII
Se non fosse il penser crudele ed empio,
Che v'arma incontro Amor di ghiaccio il petto,
E fa d'altrui sì doloroso scempio;
E priva del maggior vostro diletto
Voi con l'altre, a cui noce il vostro esempio;
Sì come noce al gregge simplicetto
La scorta sua, quand'ella esce di strada;
Che tutto errando poi conven, che vada.
XXIX
Così più d'un error versa dal fonte
Del vostro largo e cupo e lento orgoglio:
E s'io avessi parole al voler pronte,
Pianger farei ben aspro e duro scoglio.
Che non si dolse al caso di Fetonte
Febo, quant'io per voi, Donne, mi doglio.
Pur mi consola, che, qual io mi sono,
Amor mi detta, quanto a voi ragiono.
XXX
E per bocca di lui chiaro vi dico,
Non chiudete l'entrata ai piacer suoi:
Se 'l ciel vi si girò largo ed amico,
Non vi gite nemiche e scarse voi:
Non basta il campo aver lieto ed aprico,
Se non s'ara, e sementa, e miete poi:
Giardin non colto in breve divien selva,
E fassi lustro ad ogni augello e belva.
XXXI
È la vostra bellezza quasi un orto;
Gli anni teneri vostri aprile e maggio:
Alor vi va per gioia e per diporto
Il Signor, quando può, sed egli è saggio:
Ma poi che 'l Sole ogni fioretto ha morto,
O 'l ghiaccio a le campagne ha fatto oltraggio;
No 'l cura, e stando in qualche fresco loco,
Passa il gran caldo, o tempra il verno al foco.
XXXII
Ahi poco degno è ben d'alta fortuna,
Chi ha gran doni e cari, e schifa usarli.
A che spalmar i legni, se la bruna
Onda del porto dee poi macerarli?
Questo Sol, che riluce, o questa Luna
Lucesse in van, non si devria pregiarli.
Giovenezza e beltà, che non s'adopre,
Val, quanto gemma, che s'asconda e copre.
XXXIII
Qual fora un uom, se l'una e l'altra luce
Di suo voler in nessun tempo aprisse;
E 'l senso de le voci, a l'alma duce
Tenesse chiuso sì, che nulla udisse;
E 'l piè, che 'l fral di noi porta e conduce,
Mai d'orma non movesse, e mai non gisse;
Tal è proprio colei, che bella e verde
Neghittosa tra voi siede e si perde.
XXXIV
Non vi mandò qua giù l'eterna cura,
A fin che senz'Amor tra noi viveste:
Nè vi diè sì piacevole figura,
Perché in tormento altrui la possedeste:
Se stata fosse ad ogni priego dura
Ciascuna madre, or voi dove sareste?
Il mondo tutto, in quanto a se distrugge,
Chi le paci amorose adombra e fugge.
XXXV
Come, a cui vi donate voi, disdice,
Sed egli a voi di se si rende avaro;
Così voi, donne, a quei, che v'hanno in vice
Di sole alla lor vita dolce e chiaro,
Mostrarvi acerbe e torbide non lice;
E quelle men, cui più l'onesto è caro:
Che s'io sostenni te, mentre cadevi,
Debbo cadendo aver chi mi rilevi.
XXXVI
Il pregio d'onestate amato e colto
Da quelle antiche poste in prosa e 'n rima;
E le voci, che 'l vulgo errante e stolto
Di peccato e disnor sì gravi estima;
E quel lungo rimbombo indi raccolto,
Che s'ode risonar per ogni clima;
Son fole di romanzi, e sogno ed ombra,
Che l'alme simplicette preme e 'ngombra.
XXXVII
Non è gran meraviglia, s'una, o due
Sciocche donne alcun secol vide ed ebbe,
A cui sentir d'amor caro non fue;
E 'ndarno viver gli anni poco increbbe:
Come la Greca, ch'a le tele sue
Scemò la notte, quanto 'l giorno accrebbe,
Misera, ch'a se stessa ogni ben tolse,
Mentre attender un uom vent'anni volse.
XXXVIII
Il qual errando in questa e 'n quella parte,
Solcando tutto 'l mar di seno in seno,
A molte donne del suo Amor fè parte,
E lieto si raccolse loro in seno:
Che ben sapea, quanto dal ver si parte
Colui, ch'al legno suo non spiega il seno,
Mentr'egli ha 'l porto a man sinistra e destra,
E l'aura della vita ancor gli è destra.
XXXIX
Come avrian posto al nostro nascimento
Necessità d'Amor natura, e Dio;
Se quel soave suo dolce concento,
Che piace sì, fosse malvagio e rio?
Se per girar il Sole, ir vago il vento,
In su la fiamma, al chin correre il rio,
Non si pecca da lor; nè voi peccate,
Quando 'l piacer, per cui si nasce, amate.
XL
Mirate quando Febo a noi ritorna,
E fa le piaggie verdi e colorite;
Se dove avolger possa le sue corna,
E sé fermar, non ha ciascuna vite;
Essa giace, e 'l giardin non se n'adorna;
Nè 'l frutto suo, nè l'ombre son gradite:
Ma quando ad olmo od oppio alta s'appoggia,
Cresce feconda e per Sole e per pioggia.
XLI
Pasce la pecorella i verdi campi,
E sente il suo monton cozzar vicino:
Ondeggia, e par ch'in mezzo l'acque avvampi
Con la sua amata il veloce Delfino:
Per tutto, ove 'l terren d'ombra si stampi,
Sosten due rondinelle un faggio, un pino.
E voi pur piace in disusate tempre
Viver solinghe e scompagnate sempre.
XLII
Che giova posseder cittadi e regni;
E palagi abitar d'alto lavoro;
E servi intorno aver d'imperio degni;
E l'arche gravi per molto tesoro;
Esser cantate da sublimi ingegni;
Di porpora vestir, mangiar in oro;
E di bellezza pareggiar il Sole;
Giacendo poi nel letto fredde e sole?
XLIII
Ma che non giova aver fedeli amanti,
E con loro partire ogni pensero,
I desir, le paure, i risi, i pianti,
E l'ira e la speranza, e 'l falso, e 'l vero:
Ed or con opre care, or con sembianti
Il grave de la vita far leggero;
E se di rozze in atto e 'n pensier vili,
Sovra l'uso mondan scorte e gentili?
XLIV
Quanto esser vi dee caro un uom, che brami
La vostra molto più che la sua gioia?
Ch'altro che 'l nome vostro unqua non chiami?
Che sol pensando in voi tempri ogni noia?
Che più che 'l mondo in un vi tema ed ami?
Che spesso in voi si viva, in se si moia?
Che le vostre tranquille e pure luci
Del suo corso mortal segua per duci?
XLV
O quanto è dolce, perch'Amor lo stringa,
Talor sentirsi un'alma venir meno:
Saper come duo volti un sol depinga
Color: come due voglie regga un freno:
Come un bel ghiaccio ad arder si constringa:
Come un torbido ciel torni sereno:
E come non so che si bea con gli occhi,
Perché sempre di gioia il cor trabocchi.
XLVI
Puossi morta chiamar quella, di cui
Face d'Amor nessun pensero accende:
Nè dice: che son io lassa? che fui?
Nè giova al mondo, e se medesma offende:
Nè si ten cara, nè vuol darsi a lui,
Che già molt'anni sol un giorno attende:
Nè sa, con l'alma nella fronte espressa
Altrui cercar, e ritrovar se stessa.
XLVII
Però che voi non sete cosa integra,
Nè noi, ma è ciascun del tutto il mezzo:
Amor è quello poi, che ne rintegra,
E lega e strigne, come chiodo al mezzo:
Onde ogni parte in tanto si rallegra,
Che suoi diletti e gioie non han mezzo:
E s'uom durasse molto in tale stato,
Compitamente diverria beato.
XLVIII
Così voi vi trovate altrui cercando:
E fate nel trovar paghe e felici.
Dunque perché di voi ponete in bando
Amor, se son di tanto ben radici
Le sue quadrella? or danno in guerreggiando
Qual maggior posson farvi alti nemici,
Che torvi il regno? e questo assai più vale:
E voi lo vi togliete, e non vi cale.
XLIX
Ond'io vi do sano e fedel consiglio;
Non vi torca dal ver falsa vaghezza.
Se non si coglie, come rosa, o giglio,
Cade da se la vostra alma bellezza.
Vien poi canuta il crin, severa il ciglio,
La faticosa e debile vecchiezza.
E vi dimostra per acerba prova,
Che 'l pentirsi da sezzo nulla giova.
L
Ancor direi: ma temo, non tal volta,
Vi gravi il lungo udire; oltra ch'io vedo
Questa selva d'Amor farsi più folta,
Quant'io parlando più sfrondar la credo.
Dunque vostra mercè, che sempre è molta,
Darete agli oratori omai congedo.
L'altro, ch'a dir rimane, essi diranno,
Quando la lingua vostra appresa aranno.
Rime aggiunte
(all'edizione del 1753)
Canzone DI MADONNA VIRGINIA SALVI
Sanese.
Mentre che 'l mio pensier dai santi lumi
Prendea fido riposo,
Ben non vid'io, che al mio ben fosse eguale.
Or che 'l ciel vuol, ch'in pace i mi consumi,
E a forza tenga ascoso
Il troppo acerbo e doloroso male,
Piacciavi darme l'ale
Così veloce a ritrovarvi poi,
Che sempre vivo in voi,
E ne piglio cotanta e tal dolcezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
M'è a noia, ove ch'io miro, se sembianza
Di voi, ben mio, non veggio:
E se di chiari spirti ho sempre intorno
Vago drappel, l'acerba lontananza
Fa, che col duol vaneggio.
Nè gioia, nè piacer fa in me soggiorno
Talchè a voi sempre torno,
Ch'ivi è la mia ricchezza, e 'l mio tesoro,
Ivi le gemme e l'oro
Son, che cotanto l'alma onora e prezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Movo talor le piante, ove 'l bel piede
Premendo se ne gìa
Le tenerelle erbette, e i vaghi fiori,
Per veder, s'orma almen di quei si vede;
Ma l'alta speme mia
Nulla ritrova fuorchè i suoi dolori:
E se Ninfe, o Pastori
Veggio, dimando pur, se del Sol mio
San nulla, e mentre un rio
Fan gli occhi mesti, e sono a tale avvezza
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza,
Ma che spero io trovare in altri mai
Di voi sembianza vera,
Se l'alma bella, e 'l valoroso velo
Fe senz'eguale il ciel per più mei guai?
Che dunque 'l cor piú spera
Temprar senza voi stesso il caldo e 'l gelo,
Che con grave duol celo
Fra finto riso, e simulato volto?
Non potendo veder vostra bellezza
Il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Se pur altro defio di eterno onore,
Di più lodate imprese
Vi face star da me, cor mio, lontano;
Benchè mi doglio, pur sento 'l valore
Vostro con l'ale stesse
Girsen' poggíando ognor per monte e piano;
Veggio la bella mano
Far con la spada al reo nimico danno,
E con tema ed affanno
Farlo cattivo, onde sua forza spezza,
E 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza,
Canzon mia passa i monti,
E ratta vanne al chiaro mio bel Sole;
E dì queste parole.
CINZIA vive a te lungi in tanta asprezza,
Che 'l suo cor lasso ogn'altra vista sprezza.
RISPOSTA ALLA Canzone DI M. VIRGINIA SALVI
Canzone XI (XVIII)
Almo mio Sole, i cui fulgenti lumi
Fan chiaro e luminoso
Quant'oggi mirar può vista mortale,
Perchè più lagrimando ti consumi?
Quantunque il volto ascoso
Ti fia, qual chiami in terra senza eguale,
Non fai, che i vanni e l'ale
Ha il bel pensier, e li viaggi suoi
A CINZIA sono, e poi
Ne tragge una sì estrema e gran dolcezza,
Che il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Non pur quella benigna alta sembianza,
Qual con la mente veggio,
Ed in mezzo dell'alma fa soggiorno,
Amareggiar l'acerba lontananza,
Che l'onorato seggio
Ha così bella immago al core intorno,
Il bel sembiante adorno,
E la rara beltà, che in terra adoro
In cui sol vivo e moro,
Gode 'l penser lontan, e sì l'apprezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Quantunque in altro clima io giri il piede,
Non però mi disvia
Amor sì li desir, che i primi ardori
Smorzi, e la data mia sincera fede:
La viva speme mia
Sempre ha sostegno di tempi migliori:
Muse, Ninfe, e Pastori
Cantan lodando il degno alto disio;
E mentre il pensier mio
Fermo con l'alma al dolce oggetto avvezza,
Il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Però se di lontan gli amati rai,
E la bellezza altera,
Se la gentil sembianza e 'l chiaro velo
Scorge l'occhio mental più dolce assai,
Che la presenza vera,
Perchè più ti distempra il caldo o 'l gelo?
Poich'è benigno il cielo,
Qual giunge l'alme, rafferena il volto,
Qual fia più grato molto
L'aspettato ritorno alla bellezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza?
Non mi scompagna un volontario errore,
Ma un desio d'alte imprese,
Che a te deve aggradir, mi fa lontano
Viver; ma vivo in te vive 'l mio core,
E le mie voglie accese
Passan mari, alti monti, e largo piano,
Ed al bel viso umano
Mille e più volte 'l duol torno fanno
Tempra dunque ogni affanno
CINZIA mia dolce, e 'l duol già rompi e spezza
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Canzon ripassa i monti,
E dì pietosamente al mio bel Sole
Queste quattro parole:
Vivi, CINZIA gentil, fuor d'ogni asprezza,
Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.
Canzone XII (XIX)
Quel vivo Sol, che alla mia vita oscura
Solea far chiaro giorno,
E chetar le tempeste del mio core,
Volge i suoi raggi altrove, e più non cura,
Se alle tenebre torno:
O mia ventura, ove m'hai giunto Amore!
Per doglia non si muore,
Chi vide al mondo mai sì dura sorte?
Sol ho disio di morte,
Nè morir posso, e tempo é di morire,
E cresce la mia vita col desire.
Viverò dunque, ed altri indegnamente
In un punto beato
Vive del nutrimento di mia vita?
Non viverò, nè fia mai sì possente
L'empio crudel mio fato,
Che non discioglia l'anima smarrita
Questa pena infinita;
Oprin sua forza le maligne stelle
D'ogni mio ben rubelle;
Che se 'l dolor di vita non mi priva
Non fia già mai, che al mio dispetto i viva.
O fiera rimembranza del mio bene,
Del mio tempo felice,
Che sì tosto passò, ch'appena il vidi!
Io vidi già fiorir l'alta mia spene:
Poi con svelta radice
In uno istante morta la rividi.
Misero, in cui ti fidi ,
Io son caduto, ch'era al ciel vicino.
Non so per qual destino
Or vo piangendo, or vo traendo guai,
Non per mia colpa, ma che troppo amai.
Donna leggiadra, e più chiara che 'l Sole,
Che l'età rasserena,
Quando sorride, e quando un sguardo move,
Mostrommi Amor, e femmi udir parole
D'addolcir ogni pena,
E veder atti da far arder Giove;
Fiamma non vista altrove
Subito m'arse 'l core, ed in costei
Girando gli occhi miei
Divenni cieco, e sì da me diviso,
Ch'io non vidi mai morte nel bel viso.
A poco a poco poi sentì legarmi,
Dico sì dolcemente,
Ch' ebbi in odio la cara libertade:
meco stava Amor per consolarmi,
Mostrandomi sovente
Dui vaghi lumi accesi di pietade;
E 'n la maggior beltade
Un puro e nobil cor pien di mercede,
Pien di fermezza e fede;
Poi mi giurò sull'arco e sulla face,
Sulla faretra darmi eterna pace.
Quanto la tua promessa, Amor, mi piacque,
Tanto valor non sento,
Ch'io basti a immaginarlo col pensiero:
Smisurata allegrezza al cor mi nacque;
Il Sol il più contento
Non vide in l'uno, nè 'n altro Emispero:
Ond'io divenni altero
Della speranza; che se 'l ver mi esalto,
Allor montai tant'alto,
Che pien di meraviglia fra me stesso
Dicea mirando; sono al cielo appresso.
Io caddi poi, poichè fui presso al cielo,
Caddi da tanta altezza,
Che la ruina mia non giunse al fine.
E innanzi agli occhi mi fu posto un velo,
Talchè per la chiarezza
Non vidi delle due luci divine
Le rose in sulle spine:
Ogni mia pace mi fu volta in guerra.
Ed allor vidi in terra
L'avara fe caduta e cortesia
E pietà morta della Donna mia.
Canzon, non so se alcun cerca la doglia
Che sì a morir m'invoglia;
Rispondi, il gran desio senza speranza
È del perduto ben la rimembranza .
SonettoV (XX)
APOLLO, quando a noi si mostran fuore
L'alme luci, e le chiome crespe e bionde,
Deh perchè sì veloce in mezzo l'onde
Ti attuffi, e privi noi di sì dolci ore?
Forse paventi in te novello amore,
Qual già sentisti in quella, ch'or ti asconde
La data scorza e l'onorata fronde,
Che sprezza Giove irato e 'l suo furore?
Stolto deh non fuggir quel, ch'altri brama;
Non schivar quel , che tanto piace altrui;
Resta a veder la bella donna meco:
E se natura, o 'l ciel pur ti richiama
In altra parte, mostra lor, per cui
Fermasti il corso, e fermeransi teco.
Canzone XIII (XXI)
Del procelloso mar rabbuffa l'onde
Or l'austro, or borea, e freddi ghiacci e nevi
Coprono i monti, e sono oscuri e brevi
I giorni, perchè Apol suoi raggi asconde;
Nè potendo aver io sentiero altronde,
Che son senz'ale e piume,
Al vivo e chiaro lume,
Alle rare bellezze alme e gioconde,
Alle man bianche, al volto unico e divo,
CINZIA mia illustre, però tardi arrivo.
Canzone XIV (XXII)
Solingo e vago augello,
Ch'hai sben sparsi i tuoi soavi accenti,
Or odi i miei lamenti:
Io vissi in gioia, or sol del pianger vivo,
Che non già d'altra lasso il cor si appaga.
E quella, ond'io fiorivo,
In vece dei mio ben, del pianto è vaga,
Deh guarda alla mia piaga,
Dolce augellino, e se pietà ti piega,
L'ali amorose spiega,
E va innanzi al mio Sole,
E dolce canterai queste parole:
Da te, da Amor, da tua beltà infinita
Chiede un misero Amante o morte, o vita.
Capitolo IV (XXIII)
Dolce e amaro destin, che mi sospinse
Là, dove prima Amor senza contese
Il dolce e amaro nodo al cor m'accinse,
Dolce e amaro desir, che al cor discese,
Trovando in gli occhi incauti aperta via,
E dolce e amaro il foco, che m'accese
Dolce e amaro fulgor, che vivo uscia
Dal sguardo micidial, che speme porse
Alla dolce ed amara impresa mia.
Dolce amaro sperar, che mi soccorse
Nei dolci amari guai; tal che già morto
Del dolce amaro mio mai non m'accorse.
Dolci e amare parole, che conforto
Diedero alle mie dolci e amare pene,
Che scritte nella fronte e nel cor porto.
Dolce amaro sembiante, che mantiene
Onde la dolce amara piaga antica,
Ch'ad or ad or via più crescendo viene.
Dolce amaro pensier, che mi nodrica
Sol di dolce memoria d'un bel viso,
Ma d'una dolce amara mia nemica.
Dolci amari contenti in breve riso,
Dolci occchi amari pien di fidi inganni,
Che lusingando m'han da me diviso
Dolce e amaro timor d'uscir d'affanni,
Dolce amaro sperar, non trovar pace,
Dolce e amaro bramar tutti i miei danni.
Dolce e amaro fuggir quel, che sol piace,
Dolce e amaro chiedendo altrui mercede
Con gli occhi dir quel, che la lingua tace.
Dolce e amaro ad altrui troppo gran fede
Aver, e agli occhi suoi negar il vero,
E a se stesso giurar quel, che non crede.
Dolce e amaro voler, che 'l suo pensiero
In libertà d'altrui servo sia messo,
Nè al sue spoglie aver alcun impero.
Dolce e amaro d'altrui, dolersi spesso,
E veggendosi a torto esser offeso,
Per non odiar chi offende odiar se stesso.
Dolce e amaro tacendo esser inteso,
E dopo lungo affanno aspro dolore
A conseguir pietà vedersi acceso.
Dolce e amaro timor d'un predatore,
E avaro del suo ben tener silenzio;
Onde si vede, che 'l stato d'amore
È qual il mel temprato coll'assenzio.
Canzone XV (XXIV)
Se come qui, la fronte onesta e grave
Del sacro almo Poeta,
Che d'un bel lauro colse eterna palma,
Così vedessi ancor lo spirto e l'alma;
Stella sì chiara e lieta,
Diresti, certo il ciel, certo non ave.
Tu che vieni a mirar l'onesta e grave
Sembianza del divin nostro Poeta,
Pensa, s'in questa il tuo desir s'acqueta,
Quanto fu il veder lui dolce e soave.
Da quella, che nel cor scolpita porto,
Vi ritrasse il Pittore ,
Mentre per gli occhi fuore ,
Qual siete dentro, agevolmente ha scorto.
SonettoVI (XXV)
Poich'Amore, Madonna, e la mia sorte
ognor più grave contra a me la fanno,
Ed or con chiuso, or con aperto inganno,
A mal cammino han le mie voglie scorte;
Svegliati in tua balìa possente e forte ,
Mi dice l'alma, e pon mente al tuo danno;
Di tanto strazio, e di sì lungo affanno
Che t'avanz'altro, che vergogna e morte?
Io come uom, ch'erra, e dell'error si accorge,
Vorrei tornar alla smarrita strada,
Ma l'uso antico pur oltra mi scorge.
Allor una pietade assale il core,
Che mentre i vo, nè so, dove mi vada,
Passano gli anni, e non passa il dolore.
SonettoVII (XXVI)
Ne' bei vostr'occhi mai non drizzo 'l guardo,
Che 'l mio corso fatal tutto non miri:
Veggio allor, come attenda i miei desiri
Un fallace sperar, per cui sempr'ardo.
E per sprezzar un ghiaccio aspro e gagliardo
Indarno infiammi i miei caldi sospiri,
Come a troppa mercede indegno aspiri,
E qual pigro animal segua il fier pardo.
Ma 'l vostro lume abbaglia indi sì forte,
Che mi fa non veder quel, che m'è aperto,
E cercar vita in una espressa morte.
E più per scusar me (se scusa merto)
Vostra bellezza incolpo, e la mia sorte,
Che creder non mi fa quel, che m'è certo.
SonettoVIII (XXVII)
Vivo in un dolce, e sì cocente foco,
Ch'Amor m'ha fatto Salamandra ed esca;
Ed un vital venen tanto m'adesca,
Ch'io moro, e morte in me non ave loco.
Seguo sì crudo e dilettoso gioco,
Che nel proprio martir sempre m'invesca:
il colpo è antico, e la ferita è fresca,
E chi m'uccide, a mio soccorso invoco.
Voglio quel, che voler non mi è concesso,
E i miei pensier sì spesso inganna Amore,
Che incredulo omai son fatto a me stesso.
O quante volte m'ha pregato il core,
Che il sleghi, e quando a farlo mi son messo
Se stesso involve, e corre al primo errore.
Canzone XVI (XXVIII)
Luce in amor tant'alto il vostro volto,
Donna sola d'amor fidato nido
Che segno e porto fido
Sol siete alle fortune degli amanti:
E qual s'attrova in mar d'acerbi pianti,
O cinto di martiri,
Purchè gli occhi a voi giri,
Ristorar sente ogni passato danno,
O pace eterna impetra al grave affanno.
Quanto il mar cinge, o quanto gira il Sole,
Pare a vostre bellezze non si vede,
Che fan tra noi qui fede,
Quant'eccellenza sia nel paradiso,
poich'un sol vostro sguardo, e un vostro riso
Acqueta ogni tempesta;
Ed a virtù si desta,
Chi fiso in voi luce benigna mira:
Beato dunque chi per voi sospira.
Stanza I (XXIX)
Donna, se vi diletta ogni mia gioia,
Son più, ch'ogn'altro amante, ora felice;
Signor, se non vi aggrava ogni mia noia,
Son più, ch'ogn'altra, misera e infelice;
Debb'io dunque sperar, anzi ch'io rnoia,
Quello di voi, che delle più si dice?
State pur Signor mio costante e forte,
Che me non cangerà tempo, nè morte.
Canzone XVII (XXX)
Se in pegno del mio amor vi diedi il core,
Madonna, il dì, che a voi prima mi volsi;
Se 'n lui mia fe scorgete a tutte l'ore,
E 'l duol, ond'io mi struggo i nervi e i polsi;
Se la vostra beltà, vostro valore
Son li saldi lacciuoi, che all'alma avvolsi,
E 'l fin de' miei pensieri altieri e casti;
Di poca fede perchè dubitasti.
Sì leggiadre cagioni al mio languire
Scorgo, s'oso mirar ne' bei vostri occhi,
Che soave mi fanno ogni martire,
Per cui tanto piacer nel petto fiocchi:
Dolci mi son di voi gli sdegni e l'ire:
Dolce, che 'n me le sue quadrella scocchi
Amor, sì dolci fiamme al cor mandasti:
Di poca fede perchè dubitasti?
Fermo son di soffrir ogni aspra doglia,
Ch'Amor m'affida all'amorosa impresa.
[Manca il resto del M.S.]
SonettoIX (XXXI)
Paolo v'invita qui, Signor mio caro,
A goder seco un bello e dolce loco,
E poi con lui vi prego anch'io non poco,
Non ci siate di voi stesso avaro.
Il sito sopra ogni altro ameno e raro,
E la dimora d'infinito gioco
N'accendon di vedervi un dolce foco,
Per far con voi questo giorno più chiaro.
Logge alte adombran peregrini chiostri,
Per cui passando l'aura dolce estiva
Porge diletto a' spirti afflitti nostri.
Dolce mormorio di fontana viva
Par dir: chiamate qui gli amici vostri
Però conven, Signor, ch'io ve ne scriva.
Capitolo V (XXXI)
Tornava la stagion, che discolora
Per l'Oriente le più basse stelle
Destando Febo al mover dell'Aurora?
Allor che scosso fuor delle gonnelle
Buon antico nocchier si leva e mira,
Se vede nube in cielo, o in mar procelle;
E se vento fecondo non gli aspira,
Dolente e sonnacchioso all'agio riede
E con Nettuno e con Eolo s'adira.
Quando 'l pensier, ch'allor dee trovar fede,
Perchè 'l corpo, che 'l turba, gli è men grave,
Se dormendo giammai vero si vede
M'aperse il cor con dilettosa chiave,
E trassel fuor del suo carcer terreno,
Che tenea chiuso un sonno alto e soave.
E per far ben quel dì lieto e sereno,
Come fusse, nol so, ma giunse teco
O petto di valor e grazia pieno.
Parta la stanza nostra un largo speco
Rinchiuso, e freddo assai, ma pien di fiori,
Che quando il dì tramonta, caggion seco.
Dentro per un usciuol, che all'uscir fuori
Mostrava faticoso giù nel basso,
Scorgeva 'l Sol i suoi raggi minori.
Quivi nel mezzo ignudi, ad un gran sasso
M'appoggiav'io; e tu sedevi in erba,
I pien di noia, e tu pensoso e lasso.
Ma ria fortuna ogni dolcezza acerba ,
Che così ragionammo varie cose,
E la memoria or lasso non le serba.
Pur dirò quel, ch'a me non si nascose,
Dopo che 'l vidi, e qui Talia m'aiuti,
Se d'aiutarmi unquanco mai dispose.
Qual uom, che parli, ed in un punto ammuti
Per poca novità, che poi si cuoce
D'aver sì presto i suoi sensi perduti;
Tal mi fec'io, allor che dalla foce
Fu giù nel dirimpetto un'ombra scorta,
Che col pensier m'interruppe la voce.
Ma poichè volsi gli occhi in ver la porta,
Ecco una donna a noi queta venire
Con lento passo, e con maniera accorta.
I volea per vergogna indi fuggire,
Sentendomi così scoperto e nudo,
E con un cenno tu mi desti ardire.
Pur feci a me ver lei del sasso scudo,
Gridando: non venir, se sei amica,
Con parole e con viso altero e crudo.
Fermossi ella sull'uscio, e molto antica
Mi parve in vista, e di pensieri onesti,
Ma vile a' panni, ed all'andar mendica.
Chinò giù gli occhi rugiadosi e mesti
Soavemente, e seco stette alquanto,
Dicendo, omai convien, che tu ti desti.
Poi cominciò: s'io non tenessi il pianto,
Farei per la pietà degli occhi un fiume,
Così m'addoglia il vostro inganno tanto.
Qual forza, qual vaghezza, o qual costume
V'ha di voi stessi sì posti in obblio,
Che non vogliate un tratto veder lume?
Che si fa quì tra così van desio,
O Figli ciechi? a che tanta tristizia?
Che giova al proprio ben farsi restio?
Ad ozio vano darsi, ed a pigrizia,
Che altro è se non odiar fe stesso,
Quando da lor ogni danno s'inizia?
Mirate gli anni vostri, che sì spesso
Cangian stato dal ghiaccio alle viole,
U' foste sempre, e sete pur quel stesso.
Tra quanto bagna 'l mar, e scalda il Sole,
Eccede l'uom ogni cosa creata,
Se sottopor a se se stesso vuole.
L'aer sospeso, e la terra fermata,
E sparse furon l'acque sol per lui,
Ciò che si vola, si calca, e si nata.
Ben è del tutto misero colui,
Che non cura di se, nè del suo stato,
Nè pensa, che farò, che son, che fui.
E l'intelletto, che dal ciel gli è dato,
Lasci, che caschi pur senza far frutto,
Come vi foglia in selva, o fiore in prato.
Or voi del viver vostro che costrutto
Trovate, e di voi stessi in questo fondo,
Dove ogni riso si converte in lutto?
Il gran pianeta, e 'l bel lume fecondo
Della sorella, e l'altre luci erranti,
Che san parer sì vago il vostro mondo;
E gli animali sì diversi e tanti,
Le contrade vicine e le lontane,
E 'l variar di lingue e di sembianti.
Sassi, selve, erbe, mar, fiumi, e fontane,
E ciò che nasce, e muore insieme, è nulla
A chi spende il suo tempo in cose vane,
Colui muor nelle fasce e nella culla,
Che vive vaneggiando ogni sua etate
E pur di vento sempre si trastulla.
Vengavi di voi stessi al cor pietate,
Innanzi che sen vadi Primavera;
Che così ne può andar anche la State.
Non fate, come suol la maggior schiera,
Che senza saper, come già son vecchi,
Menano 'l dì pur da mattina a sera:
Aprite a' buon consigli ambo gli orecchi,
Come si deve, anzi spronate il core,
Pria che ragion sotto al senso s'invecchi.
Che penitenza tardi e van dolore
Vi torneranno un dolce in mille amari,
Se indurerete in così falso errore.
Uscite fuor del fango de' Volgari,
Ove ogni netto e candido Armellino
Convien per forza ch'a giugner impari.
Venite meco, che assai bel destino
Par che vi chiami, e guiderovvi in parte,
Ove un altro è, che ha già fatto il cammino.
Quei, ch'ebber fama delle antiche carte,
Mi seguir tutti, onde poi le lor lode
Fur colle mie per ogni loco sparte.
Or dorme in mezzo 'l vizio, e così gode
L'umana industria, ed ha sì grave il sonno,
Che per gridar che facci ella non ode.
Quando primieramente si fondonno
Nel mondo ancor non suo le belle mura,
Che poi crescendo fin al ciel s'alzonno,
Non di marcir in ozio ogni lor cura
Poser gli antichi buon primi Romani,
Ch'oggi tanto si cerca e si procura;
Ma di tener tra studi onesti e sani
Un viver queto, e senza magistero,
Utili e parchi, non fastosi e vani.
Non ardiva sperar sì largo impero
Il Tevre ancor, e fuor delle sue rive
Nol vedea Roma andar superbo e fiero.
Nè si faceano ancor le genti schive
Di seder sopra un cespo, e ragionarsi.
Lungo un bel mormorar dell'acque vive.
Dalle foglie e dal fien solea levarsi
I Senator, e gir dietro all'aratro,
Poi di corna e d'ulive contentarsi.
Era il lor operoso e bel teatro
L'erbetta verde, e le fere i lor greggi:
Loggie alte un querco, un pin frondoso ed atro,
Che sciolti da' giudizi e dalle leggi,
Ch'a poco a poco hann'or tanti argomenti,
E par che'1 mondo ancor non fi correggi,
Viveano insieme al ben cornune intenti,
Non meno che al privato oggi si soglia,
E potean di suo stato andar contenti.
Or non sa che si facci, o che si voglia
La gente sciocca e cieca, e vive in fallo;
Nè di sì grave danno è chi si doglia.
Che contra al buon costume han fatto callo
Gli uomini infermi, e del suo ben nemichi
Fattisi servi di Sardanapallo.
Non badate voi dunque, o cari amichi,
Movete, andate, e camminate drieto
Per l'orme impresse da' buon Padri antichi.
Che 'l tempo se ne va veloce e queto
Co' vostri giorni, anzi corre, anzi vola ,
Degl'inganni del mondo altero e lieto.
O felice quell'alma, che s'invola
Pria che la sera, o la notte l'aggiungi,
Fuor di questa volgar misera scuola.
Dove s'impara, come l'uom s'allungi
Dal pregio vero, e non chini la testa,
Per cercar strada, che a buon porto aggiungi.
Qui tacque, e come suol, se in gran tempesta
Dorme nocchier, che dormendo non sente
Dolor della ruina manifesta:
Ma poichè nelle angoscie si risente,
E vede il gran periglio, e trema e duolsi;
E questo è men ficuro e più dolente;
Così mi fè tremar le vene e i polsi
Vera paura delle cose conte,
Poichè 'n me stesso alquanto mi raccolsi.
Ella mirommi,e scorse per la fronte
Il mio pensier, siccome gemma cara,
Che splendi sotto un vetro, o fuor d'un fonte.
Poi disse sorridendo: assai m'è cara
La coscienza, che così ti punge,
Onde 'l tuo buon voler mi si dichiara.
E se 'n cor giovanil valor s'aggiunge,
Non ti smarrir, figliuol mio, che ancor forse
Le vostre voci s'udiran da lunge;
Questi, che con un cenno ti soccorse
Nel mio venir, quando la mente offesa
Trista vergogna di se stesso morse,
Fia il tuo fido Piritoo: all'alta impresa
Movi pur tu; che a lui, s'io non m'inganno,
Più di te già, che di se stesso pesa.
Sicuri seco i tuoi giorni faranno,
Felici i suoi con quella Ippodamia,
Che Minerva e Diana cessa gli hanno.
Così detto, ella, e 'l sonno fuggir via.
SonettoX (XXXII)
Dunque son pur que' duo begli occhi spenti,
Laddove pose ogni sua face Amore,
Onde mosse lo strale, onde l'ardore,
Ch'arse e piagò tante anime dolenti.
Dunque a' più chiari e preziosi accenti,
Che mai s'udiro, alla beltà, al valore,
Posto è silenzio, e fine in sì brev'ore
Alle grazie, al costumi, agli ornamenti.
Le Ninfe d'Adria, in cui più non si mostra
Leggiadro effetto senza la lor Dea,
Son quasi prato senza fiori ed erba;
E dicon: ben puoi gir morte superba,
Che in un sol punto hai spento quanto avea
Di bello e di gentil la patria nostra .
SonettoXI (XXXIII)
Per tor in tutto agl'immortali il vanto
D'ogni beltà, d'ogni real costume,
E far la terra omai senza il gran lume,
Cieca, piena d'orror, colma di pianto;
Con quel fuo negro e spaventoso manto,
Ch'ogni cosa mortal copre e rassume,
Velò a Madonna l'uno e l'altro lume
Quella crudel, che 'l mondo teme tanto.
Così è mancato ogni tuo ricco fregio,
Patria gentil, e del tuo grave danno
Fatta è compagna ogni lontana parte.
E quando fia, che scarca dall'affanno
Ti veggia mai? che sì felice pregio
E' don, che raro il ciel quaggiù comparte.
SonettoXII (XXXIV)
Se le sorelle, che ne vider prima
Nascendo liete, vi dan fama e onore,
Non vi avesser disdetto quel liquore,
Di che 'l mondo oggi fa sì poca stima;
Dato v'arei con qualche ornata rima
Più spesso pegno del mio caldo Amore;
Ma se io taccio, è suo, non mio l'errore,
Ch'elle del mio poter son poste in cima.
Però fe pur talor avvien, ch'io scriva,
Fallo Amor, non Apollo, che m'insegna,
Com'anco nel suo foco e lauro viva.
Qui i vedrete voi ben, che fera insegna,
Segue chi ama, e già fu ch'io sentiva:
Ora al suo proprio mal l'alma s'ingegna.
Canzone XVIII (XXXV)
Una leggiadra e candida Angioletta
Cantar a par delle Sirene antiche;
Altre poi d'onestate e pregio amiche
Seder all'ombra in grembo dell'erbetta
Vid'io pien di spavento,
Perch'esser mi parea pur su nel Cielo,
Tal di dolcezza velo
Avvolse il bel piacer agli occhi miei:
E già voleva dir: sentite o Dei
Sempre quel, ch'ora i sento,
Quando m'accorsi, ch'elle eran donzelle;
Taccio l'oneste parolette schive
Da far innamorar un uom selvaggio;
Taccio quel presto e saggio
Sfavillar di due vaghe e chiare stelle,
E l'accorte novelle,
E 'l ballar pronto, leggiadretto e nuovo,
Del cui pensier pur sol lieto mi truovo.
Ma l'atto dolce e strano
D'una pietosa mano
In altri fogli ancor convien ch'i scrive.
Amor, così si vive;
Così aggrada il ferir di tua faetta;
Ma troppo è breve ohimè quel, che diletta.
Canzone XIX (XXXVI)
Come poss'io celato
Tener, Madonna, il foco, se l'umore
Ch'uscia per gli occhi fore, è già mancato,
E non è chi difesa faccia al core?
Che s'egli avvien, ch'Amore
Rinforzi in me l'ardore,
Morrò vivendo, e eterno fia 'l dolore.
Io non so già, che forte
Mi desse il cielo allor, quand'a soffrire
Per voi venni in quest'aspra ed empia morte,
Che 'n vita provo, e raddoppia il martire:
Almen potessi io dire,
Senza perder l'ardire,
S'a voi dispiace, o piace il mio morire .
Che se, Donna, e' vi spiace
Veder del proprio albergo l'alma fora,
Dal cor levate il foco aspro e tenace:
E se vi piace, che mia vita ancora
Finisca innanzi l'ora,
fate, ch'io tosto mora:
Che 'in doglia star non lice un, che v'adora.
SonettoXIII (XXXVII)
Quel dolce avventuroso e chiaro giorno,
Che 'l mio lungo desio condusse a riva,
Di riveder la mia terrestre diva,
Che fa di se il ciel lieto, e 'l mondo adorno:
Amorose faville all'alma intorno
Accende sì, che 'n dubbio è, s'ella viva,
Mentre ch'Amor di se vuol pur, ch' io scriva,
Ora ch'a lui così col pensier torno.
Però s'alcuna volta innanzi a lei
M'abbaglian quelle doi sue luci sante,
Nè mi lascian ben dir quel, ch' i' vorrei;
Non maraviglia: che pur troppo avante
Ardisce allor; ma ella i pensier miei
Da se fa tutti, e le mie ragion tante.
SonettoXIV (XXXVIII)
Guidommi Amor in parte, ond'io vedea
Quella, che sol veder sempre vorrei,
Specchiarsi lieta, che dagli occhi miei,
E fuor d'ogn'altra vista esser credea.
I' son pur bella, a se stessa parea
Sovente dir, per quel ch'io scorsi in lei:
Poi que' suoi crini a me sì dolci e rei,
Che 'l vento sparse, in bei modi accogliea.
Io che son troppo di tal vista ingordo,
Lasso, come non so, pur mi scopersi,
Ond'ella si ritrasse vergognando.
Così in un punto ogni mio ben dispersi,
Nè 'l trovai, per andarlo ricercando:
E tremo ancor, qualor me ne ricordo.
Canzone XX XXXIX)
Quel dì, che gli occhi apersi
Per mia fera ventura,
Donne, a mirar vostre bellezze in prima
E l'ora ch'io soffersi -
Nè cofa era più dura
D'ogni mia libertate porvi in cima;
Potea ben morte con l'acuta lima
Romper degli anni miei
Il fil, che gli attorcea,
Nè pur torcer dovea,
Per non lasciarmi a dì sì oscuri e rei,
Nè a sì penosa vita,
Ch'io ardo sempre, e indarno chieggio aita.
Lasso, ben sapevo io,
Che perigliosa usanza
Era ad uom porre in donna ogni sua fede;
Ma al cor già pien d'obblio
Porse tanta speranza
Il vostro sguardo, ove mia mente siede,
Che ratto, come quel, che troppo crede,
Incontro al mio mal corsi;
E fu tanto l'inganno,
Che per maggior mio danno
Poco di quel pensier vostro m'accorsi;
Nè posso ormai dar volta,
Ch'ogni arbitrio e ragion m'avete tolta
Son al fin dei mio giorno ,
Ch'Amor vi fece accorta
Del stato mio, che da voi sola pende
Festi al cor vostro intorno
Di pietà fredda e morta
Un ghiaccio, che a' miei prieghi non si rende,
Perchè al desio, ch'assai per se s'accende
Con sì pietosi guardi,
Giugnesti aperto foco;
O arti! o fero gioco!
L'accorgermi or del vostro inganno è tardi,
Ch' Amor gli usati schermi
Tolto m' ha tutti, e lasciato il dolermi.
Nè però ch'io mi dogli,
Queta quel fero ardore,
Ch'è in me, quanto in orgoglio e scema e cresce;
Anzi par che raccogli
Nel cor per nuovo errore
Più fiamma allor, che più lamento n'esce;
E perchè del mio mal nulla gl'incresce,
Del vostro duro affetto
Convien ch'io mi lamenti,
Onde perciò che i venti
Non portan, lasso, sempre ogni mio detto;
Tanta pena ne sento,
Che per dolermi doppia il mio lamento:
Nè perch'io non m'avveggia
Or or del mio fallire,
Volgo la lingua a ragionar di voi;
Ma l'alma, che vaneggia,
Col possente desire
Mi spinge a quel, ch'è tutto suo mal poi;
Qual'erbe, o arti maghe han forza in noi,
Taccin l'antiche carte,
Ch'io son pur quale io soglio;
E contro a quel, ch'io voglio,
Con qua' voci non so, nè con qual arte,
A se mi tira e mena
Questa del lito mio nuova Sirena.
E pur che 'n lei talora
De' miei lunghi martiri
Pietà scaldasse il fuo freddo pensiero,
Non torrei d'esser fuora
Degli usati sospiri,
Per trovar al mio corso altro sentiero;
Ma sdegno sotto suo concetto altiero
M'affligge in modo sempre,
Ch'or bestemmio mia sorte,
Or vo chiedendo morte,
Che le mie acerbe voglie omai distempre;
Ella par, che non m'oda,
Ma con Madonna del mal nostro goda.
Canzon, se fie persona,
Che per pietà t'ascolte,
Dirai, ben quante volte
I piango quel, che per te si ragiona.
Canzone XXI (XL.)
Debb'io mai sempre Amore,
Viver lontan da quella,
Ne' cui begli occhi impenni e spieghi l'ali?
Devrà mai sempre il core
Lontan dalla sua stella
Esser albergo d'infiniti mali?
So pur, che molto vali,
Quando il fier arco tendi;
Però se mai ti cale
Di me, nè prego valse,
Rendi alla vista il vago obbietto, rendi,
Acciocch'io poffa 'l viso
Mirar, cui senza, son da me diviso.
Che senza l'alma vista
Io son come terreno,
Ove non scaldi il Sol, negletto e incolto;
E la mia vita trista
Sento venirsi meno,
Tanta è la doglia, ov'io mi trovo involto;
Nè a me lo mondo tolto
Sì mi dorrei, com'io
Viver lontan mi doglio
Da quella, per cui soglio
D'ogn'altra vista aver eterno obblio:
Ch'un suo bel sguardo solo
Di terra può levarmi in cielo a volo.
Deh dimmi Amor, che fora
Senza lei la tua forza,
L'arco, gli srali, e le facelle ardenti?
Le. tue quadrelle indora
Il suo chiar raggio, e sforza
Seguirti le più sagge e salde menti:
Gli sguardi suoi cocenti
Ti danno eterno impero
Sovra' mortali, e puoi
Oprar ciò, che tu vuoi;
Tal è virtù fra 'l vivo bianco e nero.
Fammi dunque sentire,
Come dinanzi a lei si suol gioire.
Fin qui son stato in vita,
Sperando pur un giorno
Sul Mincio ritrovarmi alle grat'onde.
Or la mia speme è gita?
Che troppo ahimè soggiorno,
E par, ch'eterna notte omai m'adombre;
Poi temo non si sgombre
Dal bianco e casto petto
Quella memoria, ch'ivi
Talor tu mi scolpivi,
Quand'era appresso al sommo mio diletto;
Che pria morir vorrei,
Che di me fusse obblio, Amor, in lei.
Però, Signor, se brami,
Ch'io segua il tuo vessillo,
Cui da culla seguir fui destinato;
Fa che quest'occhi grami
Il limpido e tranquillo
Lume conforti, che mi fa beato.
Che dico (ahi sfortunato)
Tanto sperar non oso.
Ma prego sol, che sia
Dinanzi a lei la mia
Fede scolpita, e 'l stato mio penoso;
Se questo amor mi dai,
Qual dolcezza pareggia li miei guai?
Questo bastar mi de' Canzon mia rozza,
Se del fervir mi fido,
Nanzi a begli occhi Amor compone un nido.
Canzone XXII (XLI)
Or che solingo sono
Fra querce, olmi, ed abeti,
Ove d'Insubria il piano il Lambro inonda;
Ben potrò il roco suono
De' miei martir segreti
Scoprir col pianto, che negli occhi abbonda;
Sol Echo mi risponda,
E 'l fin de' mesti accenti
Sotto, quest'ombre chiuda,
Che 'l cor mi trema e suda,
Ch'altri non oda i duri miei lamenti,
E sia scoperto al mondo
L'altro mio duol profondo.
Fuggite dunque augelli,
Che per le fronde andate,
I vostri dolci amor cantando ogn' ora.
Fuggite pesci snelli,
Che 'n questo gorgo state,
E belle schiere di periglio fora,
Che 'l mio tormento fora
Forse cagion di darvi
Fra le chiare acque pena,
E la vostra serena
Pace potrei col mio gridar turbarvi;
Che l'aspro mio martire,
Chi l'ode, fa languire.
Dico, che poichè quella
Lasciai, di cui la vista,
Quando s'innalza, al Sol i raggi adombra,
Parmi, che mi si svella
Del petto il cor, e trista
Sia la mia vita, tanto duol l'ingombra.
Nè mai da me si sgombra
L'alto martir, che 'l giorno
Ebbi al partir, ch'io fei,
Quando salir vedei
Negli occhi il pianto, e mesto il viso adorno
Farsi, e così pietoso,
Che ripensar non l'oso.
Che 'n mezzo a que' begli occhi,
Che son del mondo il Sole,
Restai partendo eternamente preso.
Che dove avvien, che tocchi
Il vago lume, suole
Legar ogn'alma in vivo foco acceso;
Ma poi che m'è conteso
Quel dolce fguardo umile,
Nè vivo son, nè morto,
Privo d'ogni conforto,
E l'alma ha tolto di lagnarsi un stile,
Che per l'acerbe pene
Vie più crudel diviene.
Di lagrimar mai sempre
Dunque cagion avemo,
Alma, più non veggendo il nostro obbietto.
Però fin che mi stempre
Morte nel giorno estremo,
Umidi gli occhi sian, e molle il petto:
Che 'l sommo mio diletto
È star in pianto e doglia,
Tal che 'l giorno e la notte
Le lagrime interrotte
Mai non mi dian, ma sempre il cor si doglia,
E la penosa vita
Più non ritrovi aita.
Ahi lasso, s'io sapea,
Senza i begli occhi suoi
Morir il dì, che 'l Mincio abbandonai,
Il dì, che mi tenea
Gli occhi negli occhi, e poi
Sospirandio asciugava i dolci rai;
Io non moria giammai
O tal fentiva gioia
Quivi morendo il core,
Che l'alma a uscir di fore
Sentir non mi lasciava alcuna noia;
Ch'innanzi al suo bel viso
Non mor chi 'l mira fiso.
Ma perchè sempre stanzi
Novo duol meco, ond'io
Non fperi aver mai più tranquillo stato,
Non pote a lei dinanzi
Partir il spirto mio,
Ch'allor partendo si partia beato;
Or lasso travagliato
Sono dal Mincio lunge,
Nè di vederla spero:
Così mi molce Amor, così mi punge;
E stommi travagliando,
Temendo, ardendo, amando.
Mesta Canzon, ch'in ripa al Lambro fosti
Tra lagrime raccolta
Qui resterai sepolta.