Pietro Bembo



RIME





Sonetto I


Piansi e cantai lo strazio e l'aspra guerra,

Ch'i' ebbi a sostener molti e molti anni

E la cagion di così lunghi affanni,

Cose prima non mai vedute in terra.


Dive, per cui s'apre Elicona e serra,

Use far a la morte illustri inganni,

Date allo stil, che nacque de' miei danni,

Viver, quand'io sarò spento e sotterra.


Che potranno talor gli amanti accorti,

Queste rime leggendo, al van desio

Ritoglier l'alme col mio duro exempio,


E quella strada, ch'a buon fine porti,

Scorger da l'altre, e quanto adorar Dio

Solo si dee nel mondo, ch'è suo tempio.



Sonetto II


Io, che già vago e sciolto avea pensato

Viver quest'anni, e sì di ghiaccio armarme

Che fiamma non potesse omai scaldarme,

Avampo tutto e son preso e legato.


Giva solo per via, quando da lato

Donna scesa dal ciel vidi passarme,

E per mirarla, a pie mi cadder l'arme,

Che tenendo, sarei forse campato.


Nacque ne l'alma insieme un fiero ardore,

Che la consuma, e bella mano avinse

Catene al collo adamantine e salde.


Tal per te sono, e non men pento,

Amore, purché tu lei, che sì m'accese e strinse,

Qualche poco, Signor, leghi e riscalde.



Sonetto III


Sì come suol, poi che 'l verno aspro e rio

Parte e dà loco a le stagion migliori,

Giovene cervo uscir col giorno fuori

Del solingo suo bosco almo natio,


Et or su per un colle, or lungo un rio

Gir lontano da case e da pastori,

Erbe pascendo rugiadose e fiori,

Ovunque più ne 'l porta il suo desio;


Né teme di saetta o d'altro inganno,

Se non quand'egli è colto in mezzo 'l fianco

Da buon arcier, che di nascosto scocchi;


Tal io senza temer vicino affanno

Moss'il piede quel dì, che i be' vostr'occhi

Me 'mpiagar, Donna, tutto 'l lato manco.



Sonetto IV


Picciol cantor, ch'al mio verde soggiorno

Non togli ancor le tue note dolenti,

Ben riconosco in te gli usati accenti,

ma io, qual me n'andai, lasso, non torno.


Alta virtute e bel sembiante adorno

Dier lo mio debil legno a fieri venti:

Tosto avrai tu, chi suoi novi lamenti

Giunga agli antichi tuoi la notte e 'l giorno.


Già m'hai veduto a questo fido orrore

Venir co' miei pensieri amici appresso,

E lieto, et io di me vivea signore.


Or mi vedrai col mio nimico expresso,

E far de la mia pena cibo al core,

Del ciglio altrui sproni e freno a me stesso.



Sonetto V


Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,

Ch'all'aura su la neve ondeggi e vole,

Occhi soavi e più chiari che 'l sole,

Da far giorno seren la notte oscura,


Riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura,

Rubini e perle, ond'escono parole

Sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle,

Man d'avorio, che i cor distringe e fura,


Cantar, che sembra d'armonia divina,

Senno maturo a la più verde etade,

Leggiadria non veduta unqua fra noi,


Giunta a somma beltà somma onestade,

Fur l'esca del mio foco, e sono in voi

Grazie, ch'a poche il ciel largo destina.


Sonetto VI


Moderati desiri, immenso ardore,

Speme, voce, color cangiati spesso,

Veder, ove si miri, un volto impresso,

E viver pur del cibo, onde si more,


Mostrar a duo begli occhi aperto il core,

Far de le voglie altrui legge a se stesso,

Con la lingua e lo stil lunge e da presso

Gir procacciando a la sua donna onore,


Sdegni di vetro, adamantina fede,

Sofferenza lo schermo e di pensieri alti

Lo stral e 'l segno opra divina,


E meritar e non chieder mercede,

Fanno 'l mio stato, e son cagion ch'io speri

Grazie, ch'a pochi il ciel largo destina.



Sonetto VII


Poi ch'ogni ardir mi circonscrisse Amore

Quel dì, ch'io posi nel suo regno il piede,

Tanto ch'altrui, non pur chieder mercede,

Ma scoprir sol non oso il mio dolore,


Avess'io almen d'un bel cristallo il core,

Che, quel ch'i' taccio e Madonna non vede

De l'interno mio mal, senza altra fede

A' suoi begli occhi tralucesse fore;


Ch'io spererei de la pietate ancora

Veder tinta la neve di quel volto,

Che 'l mio sì spesso bagna e discolora.


Or che questo non ho, quello m'è tolto,

Temo non voglia il mio Signor, ch'io mora:

La medicina è poca, il languir molto.



Sonetto VIII


Ch'io scriva di costei, ben m'hai tu detto

Più volte, Amor; ma ciò, lasso, che vale?

Non ho né spero aver da salir ale,

Terreno incarco a sì celeste obietto.


- Ella ti scorgerá, ch'ogni imperfetto

Desta a virtute, e di stil fosco e frale

Potrà per grazia far chiaro immortale,

Dandogli forma da sì bel suggetto.


Forse non degna me di tanto onore;

Anzi nessun; pur se ti fidi in noi;

Esser può, ch'arco in van sempre non scocchi.


Ma che dirò, Signor, prima? che poi?

Quel, ch'io t'ho già di lei scritto nel core;

E quel, che leggerai ne' suoi begli occhi.


Sonetto IX


Di que' bei crin, che tanto più sempre amo,

Quanto maggior rnio mal nasce da loro,

Sciolto era il nodo, che del bel tesoro

M'asconde quel, ch'io più di mirar bramo;


E 'l cor, che 'ndarno or lasso a me richiamo,

Volò subitamente in quel dolce oro,

E fe' come augellin tra verde alloro,

Ch'a suo diletto va di ramo in ramo.


Quando ecco due man belle oltra misura,

Raccogliendo le treccie al collo sparse,

strinservi dentro lui, che v'era involto.


Gridai ben io, ma le voci fe' scarse

Il sangue, che gelò per la paura:

Intanto il cor mi fu legato e tolto.



Sonetto X


Usato di mirar forma terrena

Quest'anni adietro e torbido splendore,

Vidi la fronte, di celeste onore

Segnata e più che sol puro serena.


Corsemi un caldo allor di vena in vena

Dolce et acerbo e passò dentro al core,

Del qual poi vissi, come volle Amore,

Ch'or pace e gioia, or mi dà guerra e pena.


La pena è sola, ma la gioia mista

D'alcun tormento sempre, e quella pace

Poco secura, onde mia vita è trista.


E 'l divin chiaro sguardo sì mi piace,

Ch'io ritorno a perir de la sua vista,

Come farfalla, al lume che la sface.



Sonetto XI


Ove romita e stanca si sedea

Quella, in cui sparse ogni suo don natura,

Guidommi Amor, e fu ben mia ventura,

Che più felice farmi non potea.


Raccolta in sé, co' suoi pensier parea

Ch'ella parlasse; ond'io, che tema e cura

Non ho mai d'altro, a guisa d'uomi che fura,

Di paura e di speme tutto ardea.


E tanto in quel sembiante ella mi piacque,

Che poi per meraviglia oltre pensando,

Infinita dolcezza al cor mi nacque;


E crebbe allor che 'l bel fianco girando

Mi vide, e tinse il viso, e poi non tacque,

Tu pur qui se', ch'io non so come, o quando.



Sonetto XII


Amor, che meco in quest'ombre ti stavi,

Mirando nel bel viso di costei,

Quel dì che volentier detto l'avrei

Le mie ragion, ma tu mi spaventavi,


Ecco l'erbetta, e i fior lieti e soavi,

Che preser nel passar vigor da lei,

E 'l ciel, ch'acceser que' begli occhi rei,

Che tengon del mio petto ambe le chiavi.


Ecco ove giunse prima e poi s'assise,

Ove ne scorse, ove chinò le ciglia,

Ove parlò Madonna, ove sorrise.


Qui come suoi, chi se stesso consiglia,

Stette pensosa: o sue belle divise,

Come m'avete pien di meraviglia!



Sonetto XIII


Occhi leggiadri, onde sovente Amore

Move lo stral, che la mia vita impiaga,

Crespo dorato crin, che fai sì vaga

L'altrui bellezza e 'l mio foco maggiore,


E voi, man preste a distenermi 'l core

E più profonda far la mortal piaga,

Se del vedervi sol l'alma s'appaga,

Perché sì rado vi mostrate fore?


Non ti doler di noi, che ne convene

Seguir le voglie de la donna nostra:

Dì questo a lei, che 'n tal guisa ne tene.


Pur potess'io; ma con la vista vostra

M'abbaglia sì, ch'a forza le mie pene

Oblio tutte, ov'ella mi si mostra.


SonettoXIV


Porto, se 'l valor vostro arme e perigli

Guerreggiando piegâr né mica unquanco,

E Marte v'ha tra' suoi più cari figli,

Difendervi d'Amor non potrete anco.


Non vai, perch'uom di ferro il petto e 'l fianco

Si copra, e spada in mano o lancia pigli,

Con lui, che spesso Giove e tutto stanco

Ha 'l ciel, non ch'ei qua giù turbe e scompigli.


Più gioverà mostrarvi umile e piano

e volontariamente preso andarne,

com'ho fatt'io, che contrastar in vano.


Anzi pregate, poi ch'egli ha in sua mano

Nostra vita, né pote altro salvarne,

Vi doni a cor non da pietà lontano.



Canzone I (XV)


Tutto quel che felice et infelice

Viverò per inanzi, a voi si scriva,

Del mio bene e mal sola radice,

Fonte onde 'l mio stato si deriva:

Che tante cose Amor di voi mi dice,

Tante ne leggon le mie fide scorte

Negli occhi, ond'è la face sua più viva;

Ch'i' voglio anzi per voi tormento e morte,

Che viver e gioir in altra sorte.



Canzone II: (XVI)


La mia leggiadra e candida angioletta,

Cantando a par de le Sirene antiche,

Con altre d'onestade e pregio amiche

Sedersi a l'ombra in grembo de l'erbetta

Vid'io pien di spavento:

Perch'esser mi parea pur su nel cielo,

Tal di dolcezza velo

Avolto avea quel punto agli occhi miei.

E già dicev'io meco: o stelle, o dei,

O soave concento!

Quand'i m'accorsi ch'ell'eran donzelle,

Liete, secure e belle.

Amore, io non mi pento

D'esser ferito de la tua saetta,

S'un tuo sì picciol ben tanto diletta.



Canzone III (XVII)


Or che non s'odon per le fronde i venti,

Né si vede altro che le stelle e 'l cielo,

Poi che scampo non ho dal mio bel sole,

Se non quest'un, del suo celeste lume

Conven ch'io parli, e come foco e ghiaccio

Fa di me spesso fuor d'usanza e tempo.


Forse fia questo aventuroso tempo

A le mie voci, e gli amorosi venti,

Ch'io movo di sospiri al duro ghiaccio,

Faran del mio languir pietate al cielo:

A Madonna non già, che tanto lume

A le tenebre mie non porta il sole.


Or dico che di me, sì come il sole

Muta girando le stagioni e 'l tempo,

Fa l'altero fatal mio vivo lume:

Ch'or provo in me sereno, or nube, or venti,

Or pioggie, e spesso nel più freddo cielo

Son foco e nel più caldo neve e ghiaccio.


Foco son di desio, di tema ghiaccio,

Qualor si mostra agli occhi miei quel sole,

Ch'abbaglia più che l'altro, ch'è su in cielo:

Seren la pace e nubiloso tempo

Son l'ire e 'l pianto pioggia, i sospir venti,

Che move spesso in me l'amato lume.


Così sol per virtù di questo lume

Vivendo ho già passato il caldo e 'l ghiaccio,

Senza temer che forza d'altri venti

Turbasse un raggio mai di sì bel sole

Per chinar pioggia o menar fosco tempo,

Grazia e mercé del mio benigno cielo.


E prima fia di stelle ignudo il cielo

E 'l giorno andrà senza l'usato lume,

Ch'io muti stile o volontà per tempo;

Né spero già scaldar quel cor di ghiaccio,

Per provar tanto, ai raggi del mio sole,

Foco, gelo, seren, nube, acque e venti.


Quanto soffiano i venti e volge il cielo,

Non vide il sol giamai si chiaro lume,

Pur che 'l ghiaccio scacciasse un caldo tempo.



Canzone IV (XVIII)


Amor la tua virtute

Non è dal mondo e dalla gente intesa:

Che da viltate offesa

Segue suo danno, e fugge sua salute.

Ma se fosser tra noi ben conosciute

L'opre tue, come là dove risplende

Più del tuo raggio puro;

Cammin diritto e securo

Prenderia nostra vita, che no 'l prende,

E tornerian con la prima beltade

Gli anni dell'oro, e la felice etade.



Canzone V (XIX).


Come si converria, de' vostri onori

S'io non canto, Madonna, e non ragiono,

Ben me ne dee venir da voi perdono:

Che da la chiara e gran virtute vostra,

Ch'è quasi un sol, ch'ogni altro lume adombra,

E da quella celeste alma beltade,

Cui par non vide o questa od altra etade,

Quand'io vo per ritrarle,

Tal diletto, e sì novo a me si mostra,

Che l'alma in tanto resta vinta e sgombra

Di saper, e lo stil non può formarle,

Ch'al ver non sian pur come sogno et ombra;

Se non in quanto a voi fan puro dono

De la mia fede e testimon ne sono.



SonettoXV (XX)


O imagine mia celeste e pura,

Che splendi più che 'l sole agli occhi miei

E mi rassembri 'l volto di colei,

Che scolpita ho nel cor con maggior cura,


Credo che 'l mio Bellin con la figura

T'abbia dato il costume anco di lei,

Che m'ardi, s'io ti miro, e per te sei

Freddo smalto, a cui giunse alta ventura.


E come donna in vista dolce, umile,

Ben mostri tu pietà del mio tormento;

Poi, se mercè ten prego, non rispondi.


In questo hai tu di lei men fero stile,

Né spargi sì le mie speranze al vento,

Ch'almen, quand'io ti cerco, non t'ascondi.



SonettoXVI ( XXI)


Son questi quei begli occhi, in cui mirando

senza difesa far perdei me stesso?

È questo quel bel ciglio, a cui sì spesso

invan del mio languir mercé dimando?


Son queste quelle chiome, che legando

vanno il mio cor, sì ch'ei ne more espresso?

O volto, che mi stai ne l'alma impresso,

perch'io viva di me mai sempre in bando,


parmi veder ne la tua fronte Amore

tener suo maggior seggio, e d'una parte

volar speme, piacer, tema e dolore;


da l'altra, quasi stelle in ciel consparte,

quinci e quindi apparir senno, valore,

bellezza, leggiadria, natura ed arte.



SonettoXVII (XXII)


Grave, saggio, cortese, alto signore,

Lume di questa nostra oscura etate,

Che desti 'l mondo e 'l chiami in libertate

Da servitute, e nel suo antico onore,


Solo refugio in così lungo errore

De le nove sorelle abandonate,

Figliuol di Giove, amico d'onestate,

Per cui 'l ben vive e 'l mal si strugge e more,


O Ercole, che travagliando vai

Per lo nostro riposo, e 'n terra fama

E 'n ciel fra gli altri Dei t'acquisti loco,


Sgombra da te le gravi cure omai

E qua ne ven, ove a diletto e gioco

L'erba, il fiume, gli augei, l'aura ti chiama.



SonettoXVIII (XXIII)


Re degli altri, superbo e sacro monte,

Ch'Italia tutta imperioso parti

E per mille contrade e più comparti

Le spalle, il fianco e l'una e l'altra fronte;


De le mie voglie mal per me sì pronte

Vo risecando le non sane parti,

E raccogliendo i miei pensieri sparti

Sul lito, a cui vicin cadeo Fetonte:


Per appoggiarli al tuo sinistro corno,

Là dove bagna il bel Metauro e dove

Valor e cortesia fanno soggiorno;


E s'a prego mortal Febo si move,

Tu sarai 'l mio Parnaso, e 'l crine intorno

Ancor mi cingerai d'edere nove.



Sonetto XIX (XXIV)


Del cibo, onde Lucrezia e l'altre han vita,

In cui vera onestà mai non morio,

L'un pasca il digiun vostro lungo e rio,

Donna più che mortal, saggia e gradita.


L'altro la faccia bianca e sbigottita

Dal tuon, che qui sì grande si sentio,

Depinga col liquor d'un alto oblio

E vi ritorni vaga e colorita.


E 'l terzo vi stia inanzi a tutte l'ore,

E s'aven che Medusa a voi si mostri,

Schermo vi sia, che non s'impetre il core.


Per me si desti tanto il mio Signore,

Ch'io trovi loco in grembo a' pensier vostri,

Tal che 'nvidia non basti a trarmen fore.



Sonetto XX (XXV)


Tommaso, i venni, ove l'un duce mauro

fece del sangue suo vermiglio il piano,

di molti danni al buon popol romano,

cui l'altro afflitto avea, primo restauro.


Qui miro col piè vago il bel Metauro

gir fra le piaggie or disdegnoso or piano,

per mille rivi giù di mano in mano

portando al mar più ricco il suo tesauro.


Talor m'assido in su la verde riva,

e mentre di Madonna parlo o scrivo,

ad ogni altro penser m'involo spesso.


Così con l'alma solitaria e schiva

assai tranquillo e riposato vivo,

sprezzando 'l mondo, e molto più me stesso.



Canzone VI (XXVI).


Felice stella il mio viver sognava

Quel dì, ch'inanzi a voi mi scorse Amore,

Mostrando a me di fore

Il ben, che dentro agli altri si celava,

In tanto che 'l parlar fede non trova.

Ma perché ragionando si rinova

L'alto piacer, i dico che 'l mio core,

Preso al primo apparir del vostro lume,

L'antico suo costume

Lasciando incontro al dolce almo splendore,

Si mise vago a gir di raggio in raggio,

E giunse ove la luce terminava,

Che gli diè albergo in mezzo al vivo ardore.

Ma non si tenne pago a quel viaggio

L'ardito e fortunato peregrino;

Anzi seguì tant'oltre il suo destino,

Ch'ancor cercando più conforme stato

A la primiera vita, in ch'era usato,

Passò per gli occhi dentro a poco a poco

Nel dolce loco, ove 'l vostro si stava.


E quei, come dicesse: io men vo

Gire dritto colà, donde questi si parte;

Ché, stando in altra parte,

Quel innocente ne potria perire;

Sen venne a me stranier cortese e fido.

Da indi in qua, come in lor proprio nido,

Spirando vita pur a l'altrui parte,

Meco il cor vostro e 'l mio con voi dimora.

Né loco mai né ora,

Che gli altri amanti si spesso diparte

E di vera pietade li depinge.

Pò noi un sol momento dipartire;

Con tal ingegno Amor, con sì nov'arte

Fè la catena, che ne lega e stringe.

E quanto in duo si sprezza o si desia,

È bisogno che sia

Sprezzato e desiato parimente;

Che l'un per l'altro a se stesso consente.

Così si prova in questa frale vita

Gioia infinita senza alcun martire.



Canzone VII (XXVII)


Preso al primo apparir del vostro raggio

Il cor, che infin quel dì nulla mi tolse,

Da me partendo a seguir voi si volse;

E come quei, che trova in suo viaggio

Disusato piacer, non si ritenne,

Che fu negli occhi, onde la luce uscia,

Gridando a queste parti Amor m'invia.

Indi tanta baldanza appo voi prese

L'ardito fuggitivo a poco a poco,

Ch'ancor per suo destin lasciò quel loco

Dentro passando; e più oltra si stese,

Che 'n quello stato a lui non si convenne:

Finchè poi giunto, ov'era il vostro core,

Seco s'assise, e più non parve fore.


Ma quei, come 'l movesse un bel desire

Di non star con altrui del regno a parte,

O fosse 'l ciel, che lo scorgesse in parte,

Ov'altro Signor mai non devea gire;

Là, onde mosse il mio, lieto sen venne:

Così cangiaro albergo, e da quell'ora

Meco 'l cor vostro, e 'l mio con voi dimora.



Sonetto XXI (XXVIII)


De la gran quercia, che 'l bel Tebro adombra,

Esce un ramo, ed ha tanto i cieli amici,

Che gli onorati sette colli aprici

E tutto 'l fiume di vaghezza ingombra.


Questi m'è tal, che pur la sua dolce ombra

Far pote i giorni miei lieti e felici:

Ed ha sì nel mio cor le sue radici,

Che né forza né tempo indi lo sgombra.


Pianta gentil, ne le cui sacre fronde

S'annida la mia speme e i miei desiri;

Te non offenda mai caldo né gelo:


E tanto umor ti dian la terra e l'onde

E l'aura intorno sì soave spiri,

Che t'ergan sovr'ogni altra infino al cielo.



Sonetto XXII (XXIX)


Io ardo, dissi, e la risposta invano,

Come 'l gioco chiedea, lasso, cercai;

Onde tutto quel giorno e l'altro andai

Qual uom, ch'è fatto per gran doglia insano.


Poi che s'avide, ch'io potea lontano

Esser da quel penser, più pia che mai

Ver me volgendo de' begli occhi i rai,

Mi porse ignuda la sua bella mano.


Fredda era più che neve; né 'n quel punto

Scorsi il mio mal, tal di dolcezza velo

M'avea dinanzi ordito il mio desire.


Or ben mi trovo a duro passo giunto,

Che, s'i non erro, in quella guisa dire

Volle Madonna a me, com'era un gelo.



Sonetto XXIII (XXX)


Viva mia neve, e caro e dolce foco,

Vedete com'io agghiaccio e com'io avampo,

Mentre, qual cera, ad or ad or mi stampo

Del vostro segno, e voi di ciò cal poco.


Se gite disdegnosa, tremo, e loco

Non trovo che m'asconda, e non ho scampo

Dal gelo interno; se benigno lampo

Degli occhi vostri ha seco pace e gioco,


Surge la speme, e per le vene un caldo

Mi corre al cor, e sì forte l'infiamma,

Come s'ei fosse pur di solfo e d'esca.


Né per questi contrari una sol dramma

Scema del penser mio tenace e saldo,

C'ha ben poi tanto, onde s'avanzi e cresca.


Sonetto XXIV (XXXI)


Bella guerriera mia, perché sì spesso

V'armate incontro a me d'ira e d'orgoglio;

Che in atti ed in parole a voi mi soglio

Portar sì reverente e sì dimesso?


Se picciol pro del mio gran danno espresso

A voi torna o piacer del mio cordoglio,

Né di languir né di morir mi doglio,

Ch'io vo solo per voi caro a me stesso.


Ma se con l'opre, ond'io mai non mi sazio,

Esser vi pò d'onor questa mia vita;

Di lei vi caglia e non ne fate strazio.


L'istoria vostra col mio stame ordita,

Se non mi si darà più lungo spazio,

Quasi nel cominciar sarà finita.


Sonetto XXV (XXXII)


A questa fredda tema, a questo ardente

Sperar, a questo tuo diletto e gioco,

A questa pena Amor, perché dai loco

Nel mio cor ad un tempo, e sì sovente?


Ond'è, ch'un'alma fai lieta e dolente

Insieme spesso, e tutta gelo e foco?

Stati contrari e tempre, era a te poco,

Se separatamente uom prova e sente?


Risponde: - Voi non durereste in vita,

Tanto è 'l mio amaro, e 'l mio dolce mortale,

Se n'aveste sol questa, o quella parte.


Confusi, mentre l'un con l'altro male

Contende e scemal di sua forza in parte,

Quel, che v'ancideria per se, v'aita.


Sonetto XXVI (XXXIII)


Nei vostri sdegni, aspra mia morte e viva,

S'io piango e sfogo in voci alte e dolenti;

Tal voi risguardo avete a' miei lamenti,

Qual rapido torrente a letto o riva.


S'io taccio; l'alma, d'ogni speme priva,

Brama, che 'l nodo suo tosto s'allenti,

Certa, che allor di voi le nostre genti,

Anciso il suo fedel mentre e' fioriva,


Diranno; e già non sete voi si vostra,

Com'io, da che primier vi scorsi e dissi:

Questa è lo specchio e 'l sol de l'età nostra.


E 'n tante carte poi lo sparsi e scrissi,

Che, s'a mia voglia ancor poco si mostra,

Pur saprà ognun, ch'io mori' vostro e vissi.


Sonetto XXVII (XXXIV)


Sì come quando il ciel nube non ave

E l'aura in poppa con soave forza spira,

Senza alternar di poggia e d'orza

Tutta lieta sen va spalmata nave;


E come poi che 'l tempestoso e grave

Vela, remi, governo, ancore sforza

E l'arte manca e 'l mar poggia e rinforza,

Sente dubbio il suo stato e del fin pave,


Tal io, da speme onesta e pura scorto,

Assai mi tenni fortunato un tempo,

Mentre non m'ebbe la mia donna in ira;


E tal, or che mi sdegna a sì gran torto,

L'alma offesa da lei piagne e sospira,

Che gir si vede a morte anzi 'l suo tempo.


Sonetto XXVIII (XXXV)


La mia fatal nemica è bella e cruda,

COLA, né so qual più, ma cruda e bella,

Quanto il sol caldo e chiaro, e ben tal ella

Nel cor mi siede, che n'agghiaccia, e suda.


Già bella solo: or di pietà sì nuda

Insieme, lasso, e sì d'amor rubella,

Che, vedete tenor di fera stella,

Temo non morte le mie luci chiuda,


Prima ch'io scorga in quel bel viso un segno,

Non dico di mercé, ma che le 'ncresca

Pur solamente del mio, strazio indegno.


Felice voi già preso a più dolce esca,

Cui micidial di lei vaghezza, o sdegno

Gelo e foco ne l'alma non rinfresca.


Sonetto XXIX (XXXVI)


Mostrommi Amor da l'una parte, ov'era,

Quanta non fu giamai fra noi né fia,

Bellezza in sé raccolta e leggiadria

E piano orgoglio ed umiltate altera:


Brama, ch'ogni viltà languisca e pera,

E fiorisca onestate e cortesia:

Donna in opre crudel, in vista pia;

Che di nulla qua giù si fida o spera:


Da l'altra speme al vento, e tema invano,

Fugace allegrezza, e fermi guai,

E simulato riso, e pianti veri;


E scorno in su la fronte, e danno in mano:

Poi disse a me: seguace, quei guerrieri,

E questo guiderdon tu meco avrai.


Canzone VIII (XXXVII)


Sì rubella d'amor, nè sì fugace

Non presse erba col piede;

Nè mosse fronda mai Ninfa con mano;

Nè treccia di fin oro aperse al vento;

Nè in drappo schietto care membra accolse

Donna sì vaga e bella; come questa

Dolce nemica mia.


Quel, che nel mondo, e più ch'altro mi spiace,

Rade volte si vede,

Fanno in costei pur sovra il corpo umano

Bellezza e castità dolce concento:

L'una mi prese il cor, come Amor volse;

L'altra l'impiaga sì leggiadra e presta;

Ch'ei la sua doglia oblia.


Sola in disparte, ov'ogni oltraggio ha pace,

Rosa o giglio non siede;

Che l'alma, non gli assembri a mano a mano

Avvezza nel desio, ch'i serro dentro,

Quel vago fior, cui par uom mai non colse:

Così l'appaga, e parte la molesta

Secura legiadria .


Caro Armellin, ch'innocente si giace,

Vedendo, al cor mi riede

Quella del suo penser gentile e strano.

Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:

Sì novamente me da me disciolse

La vera maga mia, che di rubesta

Cangia ogni voglia in pia.


Bel fiume, allor ch'ogni ghiaccio si sface,

Tanta falda non diede,

Quanta spande dal ciglio altero e piano

Dolcezza, che può far altrui contento,

E se dal dritto corso unqua non tolse:

Nè mai s'inlaga mar senza tempesta,

Che sì tranquillo sia.


Come si spegne poco accesa face,

Se gran vento la fiede;

Similemente ogni piacer men sano

Vaghezza in lei sol d'onestate ha spento.

O fortunato il velo, in cui s'avvolse

L'anima saga, e lei, ch'ogni altra vesta

Men le si convenia.


Questa vita per altro a me non piace,

Che per lei, sua mercede;

Per cui sola dal vulgo m'allontano;

Ch'avvezza l'alma a gir là 'v'io la sento;

Sì ch'ella altrove mai orma non volse;

E più s'invaga, quanto men s'arresta

Per la solinga via.


Dolce delfin, che così gir la face:

Dolci dei mio cor prede;

Ch'altrui sì presto, a me '1 fan sì lontano

Asprezza dolce, mio dolce tormento:

Dolce, miracol, che vedcr non suolse:

Dolce ogni piaga, che per voi mi resta,

Beata compagnia.


Quanto Amor vaga, par beltate onesta

Non fu giammai, nè fia.


Capitolo I (XXXVIII)


Amor è, donne care, un vano e fello,

Cercando nel suo danno util soggiorno,

Altrui fedele, a sé farsi rubello:

Un desiar, ch'in aspettando un giorno

Ne porta gli anni e poi fugge com'ombra;

Né lascia altro di se, che doglia e scorno;

Un falso imaginar, che sì ne ingombra

Or di tema or di speme e strugge e pasce,

Che del vero saper l'alma ne sgombra:

Un ben, che le più volte more in fasce;

Un mal, che vive sempre e, se per sorte

TAllor l'ancidi, più grave rinasce:

Un agli amici suoi chiuder le porte

Del cor, fidando al nemico la chiave,

E far i sensi a la ragione scorte;

Un cibo amaro, e sostegno aspro e grave;

Un digiun dolce, e peso molle e leve,

Un gioir duro, e tormentar soave:

Un dinanzi al suo foco esser di neve,

E tutto in fiamma andar sendo in disparte;

E pensar lungo, e parlar tronco e breve;

Un consumarsi dentro a parte a parte,

Mostrando altrui di for diletto e gioia,

E rider finto, e lagrimar senz'arte;

Un, perché mille volte il dì si moia,

Non cercar altra sorte e gir contento

A la sua ferma e disperata noia:

Un cacciar tigri a passo infermo e lento,

E dar semi a l'arena, e pur col mare

Prati rigar, e nutrir fiori al vento:

Le guerre spesse aver, le paci rare,

La vittoria dubbiosa, il perder certo;

La libertate a vil, le pregion care;

L'entrar precipitoso, e l'uscir erto,

Pigro il patti servar, pronto il fallire,

Di poco mel molto assenzio coperto,

E 'n altrui vivo, in se stesso morire.


Canzone IX (XXXIX)


Quanto alma è più gentile,

Donna d'Amor e mia, tanto raccoglie

Più lietamente onesto servo umile.

Perché se 'l Tosco, che di Laura scrisse,

Ven reverente a far con voi soggiorno,

Dolce vi prove più, che non provo io.

Forse leggendo come sempre e' visse

Più fermo in amar lei di giorno in giorno,

Direte: ben è tale il fedel mio.

Basso pensero o vile

Non scorgerete in lui, ma sante voglie

Sparse in leggiadro ed onorato stile.


Sonetto XXX (XL.)


Siccome sola scalda la gran luce

E veste 'l mondo e sola in lui risplende;

Così nel penser mio sola riluce

Madonna, e sol di se l'orna e raccende.


E qual il velo, che la notte stende,

Febo ripiega e seco il dì conduce;

Tal ella, i mali che la vita adduce

Sgombrando, al cor con ogni ben si rende.


Tanta grazia del ciel chi vede altrove?

Rivolgete, scrittor famosi e saggi

Tutte in lodar costei le vostre prove.


Ma tu, che vibri sì felici raggi,

Mio bel Pianeta, onor di chi ti move,

Non tôrre a l'alma i tuoi dolci viaggi.


Sonetto XXXI (XLI)


L'alta cagion, che da principio diede

A le cose create ordine e stato,

Dispose ch'io v'amassi, e dielmi in fato,

Per far di se col mondo esempio e fede.


Che siccome virtù da lei procede,

Che 'l tempra e regge, e come è sol beato

A cui per grazia il contemplarla è dato,

Ed essa è d'ogni affanno ampia mercede:


Così 'l sostegno mio da voi mi vene

Od in atti cortesi od in parole;

E sol felice son, quand'io vi miro.


Né maggior guiderdon de le mie pene

Posso aver di voi stessa: ond'io mi giro

Pur sempre a voi, come Elitropio al Sole.


Sonetto XXXII (XLII)


Verdeggi all'Appennin la fronte e 'l petto

D'odorate felici Arabe fronde,

Corra latte il Metauro; e le sue sponde

Copran smeraldi, e rena d'oro il letto.


Al desiato novo parto eletto

De la lor donna, a cui foran seconde

Quante prime fur mai, la terra e l'onde

Si mostrin nel più vago e lieto aspetto.


Taccian per l'aere i venti, e caldo o gelo,

Come pria, no 'l distempre, e tutti i lumi,

Che portan pace a noi, raccenda il cielo.


D'alti pensieri, oneste e pure voglie,

Lodate arti, cortesi e bei costumi

Si vesta il mondo, e mai non se ne spoglie.


Sonetto XXXIII (XLIII)


O ben nato e felice, o primo frutto

De le due nostre al ciel sì care piante:

O verga, al cui fiorir, l'opere sante

Terranno il mondo e 'l nostro secol tutto:


Queta l'antica tema, e 'l pianto asciutto

N'hai tu nascendo per molt'anni avante;

Poi, quando già potrai fermar le piante,

Quel, ch'or non piace, sarà spento in tutto.


Mira le genti strane, e la raccolta

Schiera de' tuoi, ch'a prova onor ti fanno,

E del gran padre tuo le lode ascolta:


Che per tornar Italia in libertade

Sostien ne l'arme grave e lungo affanno,

Pien d'un leggiadro sdegno e di pietade.


Sonetto XXXIV (XLIV)


Donne, ch'avete in man l'alto governo

Del colle di Parnaso e de le valli,

Che co' lor puri e liquidi cristalli

Riga Ippocrene e 'l bel Permesso eterno;


Se mai non tolga a voi state né verno

Poter guidar cari amorosi balli;

Scrivete questo su duri metalli,

Che la vecchiezza e 'l tempo abbiano a scherno:


Nel mille cinquecento e dieci avea

Portato a Marte il ventesimo giorno

Febo, e de l'altro dì l'alba surgea,


Quando al Signor de l'universo piacque

Far di sì dolce pegno il mondo adorno,

E 'l chiaro FEDERICO a noi rinacque.


Sonetto XXXV (XLV)


Se dal più scaltro accorger delle genti

Portar celato l'amoroso ardore

In parte non rileva il tristo core

Né scema un sol di mille miei tormenti;


Sapess'io almen con sì pietosi accenti quel,

Che dentro si chiude, aprir di fore;

Ch'un dì vedessi in voi novo colore

Coprir le guancie al suon de' miei lamenti.


Ma si m'abbaglia il vostro altero lume,

Ch'inanzi a voi non so formar parola,

E sto qual uom di spirto ignudo e casso.


Parlo poi meco, e grido, e largo fiume

Verso per gli occhi in qualche parte sola,

E dolor, che devria romper un sasso.


Sonetto XXXVI (XLVI)


Lasso me, che ad un tempo e taccio e grido,

E temo e spero, e mi rallegro e doglio:

Me stesso ad un Signor dono e ritoglio:

De' miei danni egualmente piango e rido.


Volo senz'ale e la mia scorta guido:

Non ho venti contrari, e rompo in scoglio,

Nemico d'umiltà non amo orgoglio:

Né d'altrui né di me molto mi fido.


Cerco fermar il Sole, arder la neve:

E bramo libertate, e corro al giogo,

Di fuor mi copro, e son dentro percosso.


Caggio, quand'io non ho chi mi rileve:

Quando non giova, le mie doglie sfogo:

E per più non poter fo quant'io posso.


Sonetto XXXVII (XLVII)


Lasso, ch'i piango, e 'l mio gran duol non move

Tanto presente mal, quanto futuro;

Che se 'l tuo calle, Amor, è così duro,

Che fia di me, che non so gir altrove?


Poichè non valse alle tue fiamme nove

Il ghiaccio, ond'io credea viver securo;

Se il mio debile stato ben misuro,

Certo i cadrò nelle seconde prove.


Che son sì stanco, e tu più forte giungi:

Onde assai temo di lasciar tra via

Questa ancor verde, e già lacera scorza.


Sostien molta virtù noiosa e ria

Sorte tAllor; ma frale e vinta forza

Non può grave martir portar da lungi.


Sonetto XXXVIII (XLVIII)


Cantai un tempo, e se fu dolce il canto,

Questo mi tacerò, ch'altri il sentiva;

Or è ben giunto ogni mia festa a riva;

Et ogni mio piacer rivolto in pianto.


O fortunato, chi raffrena in tanto

Il suo desio, che riposato viva;

Di riposo e di pace il mio mi priva:

Così va, ch' in altrui pon fede tanto.


Misero, che sperava esser in via

Per dar amando assai felice esempio

A mille, che venisser dopo noi.


Or non lo spero; e quanto è grave ed empio

Il mio dolor, saprallo il mondo, e voi,

Di pietate e d'amor nemica e mia.


Sonetto XXXIX (XLIX)


Correte fiumi alle vostre alte fonti:

Onde, al soffiar de' venti or vi fermate:

Abeti e faggi il mar profondo amate:

Umidi pesci e voi gli alpestri monti.


Né si porti depinta ne le fronti

Alma pensieri e voglie inamorate:

Ardendo 'l verno, agghiacci omai la state:

E 'l Sol là oltre, ond'alza, inchini e smonti.


Cosa non vada più, come solea:

Poi che quel nodo è sciolto, ond'io fui preso:

Ch'altro che morte scioglier non devea.


Dolce mio stato, chi mi t'ha conteso?

Com'esser può quel ch'esser non potea?

O cielo, o terra! e so ch'io sono inteso.


Sonetto XL. (L.)


Or c'ho le mie fatiche tante, e gli anni

Spesi in gradir Madonna, e lei perduto

Senza mia colpa, e non m'hanno potuto

Levar di vita gli amorosi affanni;


Perché vaghezza tua più non m'inganni,

Mondo vano e fallace, io ti rifiuto,

Pentito assai d'averti unqua creduto,

De' tuoi guadagni sazio, e de' tuoi danni.


Che poi che di quel ben son privo e casso,

Che sol volli, e pregiai più che me stesso,

Ogni altro bene in te dispregio e lasso.


Col monte e col suo bosco ombroso e spesso,

Celerà Catria questo corpo lasso,

In fin ch'uscir di lui mi sia concesso.


Sonetto XLI (LI)


Solingo augello, se piangendo vai

La tua perduta dolce compagnia;

Meco ne ven, che piango anco la mia:

Inseme potrem fare i nostri lai.


Ma tu la tua forse oggi troverai:

Io la mia quando? e tu pur tuttavia

Ti stai nel verde; i fuggo indi, ove sia,

Chi mi conforte ad altro, ch'a trar guai.


Privo in tutto son io d'ogni mio bene,

E nudo e grave e solo e peregrino

Vo misurando i campi e le mie pene.


Gli occhi bagnati porto, e 'l viso chino

E 'l cor in doglia, e l'alma fuor di spene,

Né d'aver cerco men fero destino.


Sonetto XLII (LII)


Dura strada a fornir ebbi dinanzi,

Quando da prima in voi le luci apersi:

Tanti sol una vista, e sì diversi,

E sì gravi martir vien che m'avanzi.


Vissi quel dì per più non viver, anzi

Per morir ciascun giorno, e gli occhi fersi

Duo fonti, e s'io dettai rime ne' versi,

Tristi, non lieti fur, com'eran dianzi.


Nega un parlar, un atto dolce umile,

E corre al velo sì, come a siepe angue,

Per orgoglio tAllor donna gentile.


Mirar sempre a diletto alma, che langue,

Nulla già mai gradir servo non vile,

Questo è le mani aver tinte di sangue.


Sonetto XLIII (LIII)


O per cui tante invan lagrime e 'nchiostro,

Tanti al vento sospiri e lode spargo,

Non ch'Apollo mi sia cortese e largo

Di quel, onde s'eterni il nome vostro;


Ma dico, che non oro, o gemme, od ostro

Fer col pastor Ideo la donna d'Argo;

Né con Giove e Giunone e gli occhi d'Argo;

Io famosa, passar al secol nostro;


E se mercé de' lor fidi scrittori

L'una sen va col pregio di beltade,

L'altra ebbe là sul Nilo altari e tempio;


Voi perché no' alcun segno di pietade

Darmi tAllor, ch'io vinca il duro scempio,

E questa penna, come può, v'onori?


Sonetto XLIV (LIV)


Se vuoi ch'io torni sotto 'l fascio antico,

Che tu legasti, Amor, forza disciolse,

E sparso in parte un desir poi raccolse

Più di constanzia che di pace amico;


Rendimi il ricco sguardo, onde mendico

Fui gran tempo: e qual pria ver me si volse

Madonna e 'l mio cor timido raccolse

In grembo al suo penser saggio e pudico;


Mirando a la sua fede ferma e pura,

A la mia grave e travagliata sorte,

Di lor certa e pietosa or ne raccoglia.


Ma non la cange poi chiara od oscura

Vista del ciel, che 'n sofferir gran doglia

Non sarei più, Signor, come già, forte.


Sonetto XLV (LV)


Con la ragion nel suo bel vero involta

L'ardito mio voler combatte spesso

Di speme armato: e muovono con esso

Falsi pensieri a larga schiera e folta.


Ivi se la vittoria erra tal volta

Nel primo incontro, e non si ferma espresso;

Han per lo più gli assalti un fine stesso,

Che la miglior si torna in fuga volta:


Allor senza sospetto il vano e folle

Di me trionfa a pieno arbitrio, e parte

S'avanza in far le sue brame contente.


Ma tosto il cor doglioso e 'l petto molle

Gli mostran, quant'è il peggio assai sovente,

Di quel, che piace, aver alcuna parte.


Sonetto XLVI (LVI)


Questo infiammato e sospiroso core

Di duol trabocca, e gli occhi ognor più desti

Sono al pianger: e l'alma i più molesti

Messi introduce, e scaccia i lieti fore.


Antifonte, che orando alto dolore

Nei turbati sedar già promettesti;

Vedendo or la mia pena, ben diresti,

Che l'arte tua di lei fosse minore.


Ma tu sanavi quei, ch'avean desire

Di lor salute; e molte afflitte menti

Forse quetò la tua leggiadra lingua.


Io son del mio mal vago, e del morire

Sarei: se non ch'i' temo a' miei tormenti

Apporti fine, e 'l grave incendio estingua.


Sonetto XLVII (LVII)


Speme, che gli occhi nostri veli e fasci,

Sfreni e sferzi le voglie e l'ardimento;

Cote d'amor, di cure e di tormento

Ministra; che quetar mai non ne lasci;


Perché nel fondo del mio cor rinasci,

S'io te n'ho svelta? e poi ch'io mi ripento

D'aver a te creduto e 'l mio mal sento;

Perché di tue promesse ancor mi pasci?


Vattene ai lieti e fortunati amanti:

E lor lusinga, a lor porgi conforto,

S'han qualche dolci noie e dolci pianti.


Meco: e ben ha di ciò Madonna il torto:

Le lagrime son tali, e i dolor tanti,

Ch'al più misero e tristo invidia porto.


Canzone X (LVIII)


Ben ho da maledir l'empio Signore,

Che d'ogni mio penser vi fece obietto;

E quante voci in procurarvi onore

M'uscir da indi in qua giamai del petto;

E i passi, sparsi voi seguendo, e l'ore

Spese a vostr'uso più che a mio diletto;

E 'l laccio, ond'io fui stretto,

Quando 'l ciel non potea d'altro legarme:

Poi che di tanta e così lunga fede

Ogni or più grave oltraggio è la mercede.


Ahi quanto aven di quello, onde si dice:

Chi solca in lito, perde l'opra e 'l tempo.

Ogni frutto si trae da la radice;

Ma non aprono i fior tutti ad un tempo.

Già fu, ch'io m'ebbi caro, e gir felice

Sperai solo per voi tutto 'l mio tempo.

Nè giammai si per tempo

A ripensar di voi seppi destarme,

Nè Febo i suoi destrier si lento mosse,

Che 'l giorno al desir mio corto non fosse.


Or veggo, e dirol chiaro in ciascun loco;

Oro non ogni cosa è, che risplende.

Un parlar finto, un guardo, un riso, un gioco,

Spesso senz'altro molti cori accende.

Mal fa, chi tra duo parte onesto foco

E me del vezzo suo nota e riprende:

E chi l'amico offende

Coprendo sé con l'altrui scudo ed arme:

E chi per inalzar falso e protervo

Mette al fondo cortese e leal servo.


Alcun è, che de' suoi più colti campi

Non miete altro che pruni, assenso e tosco

E gente armata, ond'a gran pena scampi:

Altri si perde in raro e picciol bosco:

Ad altrui ven, ch'ad ogni tempo avvampi,

E altri ha sempre il ciel turbato e fosco.

Non sia del tutto losco,

Chi d'esser Argo a diveder vol darme.

Mal si conosce non provato amico:

E mal si cura morbo interno antico.


Ma sia che può: dopo 'l gelo ritorna

La rondinetta, e i brevi dì sen vanno;

In ogni selva egualmente soggiorna

Libero augello: e tal par grave danno,

Che poi via maggiormente a pro ne torna.

È gran parte di gioia uscir d'affanno.

Più che dorato scanno,

Può la stanchezza un bel cespo levarme:

Nè di diletto i poggi e la verd'ombra

Men che logge e teatro il cor m'ingombra.


Poichè 'l suon tace, è tolto a gran vergogna

Per breve spazio ancora essere in danza.

Ebbi già per ben dire agra rampogna:

Or altri in mal oprar se stesso avanza.

Odesi di lontano alta sampogna:

E nulla teme, chi non ha speranza.

Fuggir è buona usanza,

S'uom non è mago, o non sa il forte carme;

Fera, ch'a rimirar dolce e soave

Lo spirto e 'l dente ha venenoso e grave.


Di nessun danno mio molto mi doglio.

Godo la buona sorte: e se la ria

M'assale, i desir miei sparsi raccoglio;

E me ricovro a la virtute mia.

Né vostra pace più, né vostro orgoglio

Dal suo dritto camin l'alma desvia.

Chi vole in mar si stia,

E 'l legno suo di speme non disarme:

Ch'io del mal posto tempo e studio accorto

Fuggo da l'onde ingrate, e prendo il porto.


Canzone XI (LIX)


O rossigniuol, che 'n queste verdi fronde

Sovra 'l fugace rio fermar ti suoli;

E forse a qualche noia ora t'involi,

Dolce cantando al suon de le roche onde;

Alterna teco in note alte e profonde

La tua compagna, e par che ti consoli.

A me, perch'io mi strugga, e pianto e duoli

Versi ad ogni or, nessun giamai risponde:

Nè di mio danno si sospira, o geme;

E te s'un dolor preme,

Può ristorar un altro piacer vivo:

Ma io d'ogni mio ben son casso e privo.


Casso e privo son io d'ogni mio bene,

Che se 'l portò lo mio avaro destino;

E, come vedi, nudo e peregrino

Vo misurando i poggi, e le mie pene.

Ben sai, che poche dolci ore serene

Vedute ho nell'oscuro aspro cammino

Del viver mio; di cui fosse vicino

Il fin, che per mio mal unqua non vene;

E mi riserva a tenebre più nove.

Ma se pietà ti move,

Vola tu là, dove questo si vole;

E sciogli la tua lingua in tai parole:


A piè dell'alpi, che parton Lamagna

Dal campo, ch'ad Antenor non dispiacque;

Con le fere, e con gli arbori, e con l'acque

Ad alta voce un uom d'amor si lagna.

Dolore il ciba, e di lagrime bagna

L'erba, e le piaggie, e da che pria li piacque

Penser di voi, quanto mai disse o tacque,

Va rimembrando: e 'n tanto ogni campagna

Empie di gridi, u' pur che 'l piè lo porte:

E sol desio di morte

Mostra negli occhi e 'n bocca ha 'l vostro nome,

Giovane ancor al volto ed alle chiome.


Che parli, o sventurato?

A cui ragioni? a che così ti sfaci?

E perchè non più tosto piangi, e taci ?


Canzone XII (LX)


Quand'io penso al martire,

Amor, che tu mi dai gravoso e forte;

Corro, per gire a morte,

Così sperando i miei danni finire.


Ma poi ch'i' giungo al passo,

Ch'io porto in questo mar d'ogni tormento;

Tanto piacer ne sento,

Che l'alma si rinforza, ond'io no 'l passo.


Così 'l viver m'ancide:

Così la morte mi ritorna in vita:

O miseria infinita,

Che l'uno apporta, e l'altra non recide!


CANZONE XIII. (LXI.)


Che ti val saettarmi, s'io già fore

Esco di vita, o niquitoso arcero?

Di questa impresa tua, poi ch'io ne pero,

A te non pò venir più largo onore.

Tu m'hai piagato il core,

Amor, ferendo in guisa a parte a parte,

Che loco a nova piaga non può darte,

Nè di tuo stral sentir fresco dolore.

Che vuoi tu più da me? ripon giù l'arme:

Vedi ch'io moro: omai che puoi tu farme?


Canzone XIV (LXII)


Voi mi poneste in foco

Per farmi anz'il mio dì, donna perire:

E perchè questo mal vi parea poco,

Col pianto raddoppiaste il mio languire.

Or io vi vo' ben dire;

Levate l'un martire:

Che di due morti i non posso morire.


Perocchè dall'ardore

L'umor, che ven dagli occhi, mi difende:

E che 'l gran pianto non distempre il core,

Face la fiamma, che l'asciuga e 'ncende.

Così quanto si prende

L'un mal, l'altro mi rende;

E giova quello stesso, che m'offende.


Che se tanto a voi piace

Veder in polve questa carne ardita,

Che vostro e mio mal grado è sì vivace;

Perchè darle giammai quel, che l'aita?

Vostra voglia infinita

Sana la sua ferita:

Ond'io rimango in dolorosa vita.


E di voi non mi doglio,

Quanto d'Amor, che questo vi comporte;

Anzi di me, ch'ancor non mi discioglio.

Ma che poss'io? con leggi inique e torte

Amor regge sua corte.

Chi vide mai tal sorte,

Tenersi in vita un uom con doppia morte?


Sonetto XLVIII (LXIII)


Se 'l foco mio questa nevosa bruma

Non tempra; onde verrà, che sperar possa

Refrigerio al bollor, che mi disossa,

Nè cal di ciò chi m'arde e mi consuma?


L'antica forza, che qual leve piuma

Soprappose Ossa a Pelio, Olimpo ad Ossa,

Non fu d'amor e di pietà sì scossa:

E mar, quando più freme irato e spuma,


Non cura men le dolorose strida

De la misera turba, che si vede

Perir nel frale e già sdruscito legno,


Ched ella i prieghi miei; dura mercede.

Ma così va, chi per sua luce e guida

Prende bel ciglio e non cortese ingegno.


Sonetto XLIX (LXIV)


Se deste a la mia lingua tanta fede,

Madonna, quanta al cor doglia e martiri;

Non girian tutti al vento i miei sospiri,

Nè sempre indarno chiederei mercede.


Ma 'l vostro duro orgoglio, che non crede

Al mio mal, perch'io parli ancora e spiri,

Cagion sarà, ch'i miei brevi desiri

Finisca Morte, che già m'ode e vede.


E io ne prego lei e chi mi strinse

Nel forte nodo, allor che prima in noi

Un sol piacer ben mille ragion vinse;


Che potrà sempre il mondo dir di voi:

Questa fera e crudele a morte spinse

Un, che l'amò via più che gli occhi suoi.


Sonetto L. (LXV)


Rime leggiadre, che novellamente

Portaste nel mio cor dolce veneno,

E tu stil d'armonia, di grazia pieno,

Com'ella, che ti fa puro e lucente;


Vedete, quanto in me veracemente

L'incendio cresce, e la ragion ven meno:

E se nel volto no 'l dimostro a pieno,

Dentro è 'l mio mal più che di fuor possente.


Sappia ognun, ch'io vorrei ben farvi onore:

Tal me ne sprona, e si devea per certo;

Lasso, ma che può far un, che si more?


Era 'l sentier da se gravoso ed erto

A dir di voi: or tiemmi il gran dolore

D'ogni altro schivo, e di me stesso incerto.


Sonetto LI (LXVI)


Colei, che guerra a' miei pensieri indice,

E io pur pace e null'altro le cheggio;

Rinforzando la speme, ond'io vaneggio,

Dolce mia vaga angelica beatrice;


Or in forma di Cigno, or di Fenice,

S'io parlo, scrivo, penso, vado, o seggio,

M'è sempre inanzi; e lei sì bella veggio,

Che piacer d'altra vista non m'allice.


Per la via, che 'l gran Tosco amando corse,

Dice non ir: che 'ndarno oggi si brama

La vena, che del suo bel lauro sorse.


Ma chi poria tacer, quand'altri il chiama

Sì dolcemente? Amor mi spinse e torse:

Duro se punge, e duro, se richiama.


Sonetto LII (LXVII)


Se ne' monti Rifei sempre non piove;

Nè ciascun giorno è 'l mar Egeo turbato;

Nè l'Ebro o l'Istro o la Tana gelato;

Nè Borea i faggi ognior sferza e commove:


Voi perché pur mai sempre di più nove

Lagrime avete il bel volto bagnato?

Nè parte, o torna Sol, che l'ostinato

Pianto con voi non lasci e non ritrove?


Il Signor, che piangete e morte ha tolto,

Ride del mondo e dice: or di me vive

Il meglio, e 'l più, che dianzi era sepolto.


Ma tu di pace a che per me ti prive,

O mia Fedel, che 'n pace alta raccolto

Godo fra l'alme benedette e dive?


Sonetto LIII (LXVIII)


Certo ben mi poss'io dir pago ornai

D'ogni tuo oltraggio, Amor: e s'a colparte

Distretto 'l verso o le prose consparte

Ho pur talora; or me ne pento assai.


Che le note, onde tu ricco mi fai,

Di quella, che dal vulgo mi diparte,

Ancor mai non veduta; e scorge in parte,

Ove tu scorto pochi, o nessun hai;


Son tali, che quetar ben mille offesi

Possono, e di mille alme scacciar fora

Desir vili, e 'ngombrar d'alti e cortesi.


Pensar quinci si può, qual fia quell'ora,

Ch'i' vedrò gli occhi, ch'or mi son contesi,

E la voce udirò, che Brescia onora.


Sonetto LIV (LXIX)


O d'ogni mio penser ultimo segno,

Vergine veramente unica e sola,

Di cui più caro e prezioso pegno

Amor non ha, quanto saetta e vola;


Di quella chiara fronte, che m'invola,

Già pur pensando, e 'n parte è 'l mio sostegno;

Di quel bel ragionar pien d'alto ingegno,

Vedrò mai raggio, udirò mai parola?


Quando ebbe più tal mostro umana vita;

Bellezze non vedute arder un core,

E 'mpiagarlo armonia non anco udita?


Lasso, non so; ma poi che 'l face Amore,

Là 'nd'i ho già l'alma accesa, onde ferita,

Ponga pietà, quanto ha 'l ciel posto onore.


Stanza (LXX)


Qual meraviglia, se repente sorse

Del Volgar nostro in te si largo fonte,

Strozza mio caro; a cui del Latin forse

Vena par non bagnava il sacro monte?

Sì rara donna in vita al cor ti corse,

Per trarne fuor rime leggiadre e conte,

Che poria delle nevi accender foco,

E di Stige versar diletto e gioco.




Sonetto LV (LXXI)


LIETA e chiusa contrada, ov'io m'involo

Al vulgo, e meco vivo e meco albergo,

Chi mi t'invidia, or ch'i Gemelli a tergo

Lasciando scalda Febo il nostro polo?


Rade volte in te sento ira, nè duolo,

Nè gli occhi al ciel sì spesso e le voglie ergo;

Nè tante carte altrove aduno e vergo,

Per levarmi talor, s'io posso, a volo.


Quanto sia dolce un solitario stato,

Tu m'insegnasti, e quanto aver la mente

Di cure scarca, e di sospetti sgombra.


O cara selva e fiumicello amato,

Cangiar potess'io il mar e 'l lito ardente

Con le vostre fredd'acque e la verd'ombra.


Sonetto LVI (LXXII)


NE' tigre se vedendo orbata e sola

Corre sì leve dietro al caro pegno;

Nè d'arco stral va sì veloce al segno,

Come la nostra vita al suo fin vola.


Ma poi, GASPARRO mio, che pur s'invola

Talor a morte un pellegrino ingegno;

Fate sia contra lei vostro ritegno

Quel, ch'Amor v'insegnò ne la sua scola;


Spiegando in rime nove antico foco,

E i doni di colei, celesti e rari,

Che temprò con piacer le vostre doglie;


Tal che poi sempre ogni abitato loco

Parli d'ambo duo voi, nè gli anni avari

Se ne portin giamai più che le spoglie.


Sonetto LVII (LXXIII)


Alma, se stata fossi a pieno accorta,

Quando cademmo a l'amorosa impresa,

Non ti saresti così tosto resa

A que' begli occhi, e crudi, che t'han morta.


Io fui dal novo e gran diletto scorta,

E da la luce inusitata offesa;

Ma non erano già la tua difesa

Sospiri, e guancia sbigottita e smorta.


Altro non si potea, fuor che piangendo

Chieder mercé: questo fec'io dappoi

Sempre; nè men però languisco ed ardo.


Gir devevi lontan dai guerrier tuoi,

Stolto, e non sofferir più d'uno sguardo:

Che non si vince Amor, se non fuggendo.


Sonetto LVIII (LXXIV)


Cola, mentre voi sete in fresca parte,

A dove il chiaro e gran Benaco stagna;

Qui dentro m'arde, e spesso di fuor bagna

Amor, che mai da me non si diparte:


E la mia donna, ch'ogni studio ed arte

Ha di natura in sé, sì mi scompagna

D'ogni altro obietto, che talor si lagna

Del sonno il cor, che sol da se la parte.


Così conven ch'io pensi, e parli, e scriva

Quel, ch'un bel viso ad or ad or m'insegna:

E 'n foco, e 'n pianto, e come ei vuol, mi viva:


Perché veggiate in me, siccome avegna

Di quel, che Roma ne' teatri udiva,

Che ragion e consiglio Amor non degna.


Sonetto LIX (LXXV)


Poichè 'l vostr'alto ingegno, e quel celeste

Ragionar, e tacer pudico e saggio

Da far cortese un uom fero e selvaggio,

E i leggiadri atti, e l'accoglienze oneste,


Vi rendon tanto spazio sopra queste

Forme umane escellenti, ch'io non aggio

Stile da colorir ben picciol raggio

De le virtuti al vostro animo preste;


Se vi s'arroge il corpo, in cui beltade

Poser, quanta pon dar, benigne stelle;

Con quali rime assai potrò lodarvi?


O de le meraviglie a nostra etade

La maggior di gran lunga, in onorarvi

Si stancherian le tre lingue più belle.


Sonetto LX (LXXVI)


Se 'n dir la vostra angelica bellezza,

Neve, or, perle, rubin, due stelle, un Sole,

Subbietto abonda, e mancano parole,

A chi sua fama e veritate apprezza;


Quai versi agguaglieran l'alta dolcezza,

Ch'ogni avaro intelletto appagar sole

Di chi v'ascolta, e l'altre tante e sole

Doti de l'alma, e sua tanta ricchezza?


Colui, che nacque in su la riva d'Arno

E fece a Laura onor con la sua penna,

Direbbe a se: tu qui giugner non puoi.


Perché se questo stile solo accenna,

Non compie l'opra e ne fa pruova indarno,

Il mio difetto ven, Donna, da voi.


Canzone XV (LXXVII)


Non si vedrà giammai stanca, nè sazia

Questa mia pena, Amore,

Di renderti, Signore,

Del tuo cotanto onore alcuna grazia:

A cui pensando volentier si spazia

Per la memoria il core,

E vede 'l tuo valore:

Ond'ei prende vigore, e te ringrazia.


Amor da te conosco quel, ch'io sono

Tu primo mi levasti

Da terra, e 'n cielo alzasti;

E al mio dir donasti un dolce suono:

E tu colei, di ch'io sempre ragiono,

Agli occhi miei mostrasti;

E dentro al cor mandasti

Pensier leggiadri e casti, altero dono.


Tu se' la tua mercè cagion ch'io viva

In dolce foco ardendo;

Dal quale ogni ben prendo,

Di speme il cor pascendo onesta e viva:

E se giammai verrà, ch'io giunga a riva,

Là 've 'l mio volo stendo;

Quanto piacer n'attendo,

Più tosto no 'l comprendo, ch'io lo scriva.


Vita gioiosa e cara,

Chi da te non l'impara, Amor, non ave.


Canzone XVI (LXXVIII)


Gioia m'abbonda al cor tanta e sì pura,

Tosto che la mia donna scorgo e miro,

Che 'n un momento ad ogni aspro martiro,

In ch'ei giacesse, lo ritoglie e fura:

E s'io potessi un dì per mia ventura

Queste due luci desiose in lei

Fermar, quant'io vorrei;

Su nel ciel non è spirto sì beato,

Con ch'io cangiassi il mio felice stato.


Dall'altra parte un suo ben leve sdegno

Di sì duri pensier mi copre e 'ngombra,

Che se durasse, poca polve ed ombra

Faria di me, nè poria umano ingegno

Trovar al viver mio scampo, o ritegno:

E sel trovasse, non si prova e sente

Pena giù nel dolente

Cerchio di Stige, e 'n quello eterno foco,

Che posta col mio mal non fosse un gioco.


Nè fia per tutto ciò, che quella voglia,

Che con sì forte laccio il cor mi strinse,

Quando primieramente Amor lo vinse,

Rallenti il nodo suo, non pur discioglia;

Mentre in piè si terrà questa mia spoglia:

Che la radice, onde 'l mio dolor nasce,

In guisa nutre e pasce

L'anima, che di lui mai non mi pento:

Anzi son di languir sempre contento.


Canzon, e vo' ben dir cotanto avanti;

Fra tutti i lieti amanti

Quanto dolce in mill'anni Amor comparte,

Del mio amaro non vai la minor parte.


Canzone XVII (LXXIX)


A quai sembianze Amor Madonna agguaglia,

Dirò senza mentire;

Pur ch'altri non s'adire,

O 'n mercede appo lei questo mi vaglia.

Un sasso è forte sì, che non s'intaglia;

Altro per sua natura

Empie, e giamai non sazia occhio, che 'l miri.

Così contenti lascia i miei desiri,

Sazi non già, di quella petra dura,

Che d'ogni oltraggio uman vive secura,

La dolce vista angelica beatrice,

De la mia vita, e d'ogni ben radice.


Là dove 'l sol più tardo a noi s'adombra,

Un vento si diparte,

Lo qual in ogni parte

I boschi al suo spirar di fronde ingombra,

Che la fredda stagion dai rami sgombra.

Così dello mio core,

Ch'è selva di pensieri ombrosa e folta,

Quand'ogni pace, ogni dolcezza è tolta,

Però che sempre non consente Amore,

Ch'un uom per ben servir mieta dolore;

Del suo dolce parlar lo spirto e l'aura

Subitamente ogni mio mal restaura.


Nasce bella sovente in ciascun loco

Una pianta gentile,

Che per antico stile

Sempre si volge in ver l'eterno foco.

Or poi che mia ventura a poco a poco

Tanto innanzi mi chiama;

Farò, quasi fanciul, che teme e vole:

Come quel verde si rivolge al sole

E lui sol cerca, e riverisce, ed ama;

S'io potessi adempir l'antica brama,

Similemente ed io sempre ameria

L'alto splendor, la dolce fiamma mia.


CXVIII (LXXX)ANZONE


Se 'l pensier, che m'ingombra,

Com'è dolce e soave

Nel cor, così venisse in quelle rime;

L'anima saria sgombra

Del peso, ond'ella è grave,

Ed esse ultime van, ch'anderian prime:

Amor più forti lime

Useria sovra 'l fianco

Di chi n'udisce il suono:

Io, che fra gli altri sono

Quasi augello di selva oscuro umile,

Andrei cigno gentile

Poggiando per lo ciel canoro e bianco:

E fora il mio bel nido

Di più famoso ed onorato grido.


Ma non eran le stelle,

Quando a solcar quest'onda

Primier entrai, disposte a tanto alzarme,

Che perchè Amor favelle,

E Madonna risponda

Là, dove piú non puote altro passarme:

S'io voglio poi sfogarme;

Sì dolce è quel concento,

Che la lingua nol segue,

E par che sì dilegue

Lo cor nel cominciar delle parole:

Nè giammai neve a Sole

Sparve così, com'io strugger mi sento,

Tal ch'io rimango spesso

Com'uom, che vive in dubbio di se stesso.


Legge proterva e dura,

S'a dir mi sferza e punge

Quel, ond'io vivo; or chi mi tene a freno?

E s'ella oltra mia cura

Dal mondo mi disgiunge

Chi mi dà poi lo stil pigro e terreno?

Ben posson venir meno

Torri fondate e salde:

Ma ch'io non cerchi e brami

Di pascer le gran fami,

Che 'n sì lungo digiuno Amor mi dai;

Certo non farà mai:

Sì fur le tue saette acute e calde,

Di che 'l m io cor piagasti,

Ove negli occhi suoi nascosto entrasti.


Quanto sarebbe il meglio,

E tuo piú largo onore,

Ch'i' avessi in ragionar di lei qualch'arte:

E siccome di speglio

Un riposto colore

Saglie talor, e luce in altra parte;

Così di queste carte

Rilucesse ad altrui

La mia celata gioia:

E perchè poi si moia,

Non ci togliesse il gir solinghi a volo

Dall'uno all'altro polo;

Là dove or taccio a tuo danno; con cui,

S'io ne parlassi, aria

Voce nel mondo ancor la fiamma mia.


E forse avvenirebbe,

Ch'ogni tua infamia antica,

E mille alte querele acqueteresti:

Ch'uno talor direbbe,

Coppia fedele amica

Quanti dolci pensier vivendo avesti:

Altri, ben strinse questi

Nodo caro e felice,

Che sciolto a noi dà pace.

Or poich'a lui non piace,

Ricogliete voi piagge i miei desiri,

E tu sasso, che spiri

Dolcezza, e versi amor d'ogni pendice

Dal dì, che la mia donna

Errò per voi secura in treccia e 'n gonna.


E fe gli onesti preghi

Qualche mercede han teco,

Faggio, del mio piacer compagna eterna:

Pietà ti stringa, e pieghi

A darne segno or meco:

E mova dalla tua virtute interna.

Che 'l mio danno discerna:

Sì che s'altro mi sforza,

E di valor mi spoglia;

S'adempia una mia voglia

Dopo tante, che 'l vento ode e disperde:

Così mai chioma verde

Non manchi alla tua pianta, e nella scorza

Qualche bel verso viva,

E sempre all'ombra tua si legga, o scriva.


Già fai tu ben, siccome

Facean quì vago il cielo

Delle due chiare stelle i santi ardori:

E le dorate chiome

Scoperte dal bel velo

Spargendo di lontan soavi odori

Empiean l'erba di fiori:

E sai come al suo canto

Correano 'nverso 'l fonte

L'acque nel fiume, e 'l monte

Spogliar del bosco intorno si vedea,

Ch'ad ascoltar scendea:

E le fere seguir dietro, e da canto:

E gli augelletti inermi

Sovra in su l'ali star attenti e fermi.


Riva frondosa e fosca,

Sonanti e gelide acque,

Verdi, vaghi, fioriti, e lieti campi,

Chi fia, ch'oda, e conosca

Quanto di lei vi piacque,

E meco d'un incendio non avvampi?

Chi verrà mai, che stampi

L'andar soave e caro

Col bel dolce costume,

E quel celeste lume,

Che giunse quasi un Sole a mezzo 'l die

Sovra le notti mie?

Lume, nel cui splendor mirando imparo

A sprezzar il destino,

E di salir al ciel scorgo il cammino.


Quando giunte in un loco

Di cortesia vedeste,

D'onestà, di valor sì care forme?

Quando a sì dolce foco

Di sì begli occhi ardeste?

E so, ch'Amor in voi sempre non dorme

O chi m'insegna l'orme,

Che 'l piè leggiadro impresse?

O chi mi pon tra l'erba,

Ch'ancor vestigio serba

Di quella bianca man, che tese il laccio,

Onde uscir non procaccio,

E del bel fianco, e delle braccia stesse,

Che stringon la mia vita

Sì, che io ne pero, e non ne cheggio aita?


Genti, a cui porge il rio

Quinci 'l piè torto e molle,

E quindi l'alpe il dritto orrido corno;

Deh or tra voi foss'io

Pastor di quel bel colle,

O guardian di queste selve intorno:

Quanto riluce il giorno,

Del mio sostegno andrei

Ogni parte cercando,

Reverente inchinando

Là 've più fosse il ciel sereno e queto,

E 'l seggio ombroso e lieto.

Ivi del lungo error m'appagherei,

E baciando l'erbetta

Di mille miei sospir farei vendetta.

Tu non mi fai quetar, nè io t'incolpo:

Purchè tra queste frondi,

Canzon mia, dalla gente ti nascondi.


Sonetto LXI (LXXXI)


Frisio, che già da questa gente a quella

Passando vago, e fama in ciascun lato

Mercando, hai poco men cerco e girato

Quanto riscalda la diurna stella;


Ed or per render l'alma pura e bella

Al ciel, quando 'l tuo dì ti fia segnato,

Nel tuo ancor verde e più felice stato

Ti chiudi in sacra e solitaria cella,


Eletto ben hai tu la miglior parte,

Che non ti si torrà: fossi anch'io a tale,

Nè mi torcesse empia vaghezza i passi:


Contra la qual poi ch'altro non mi vale;

Prega 'l Signor per me tu, che mi lassi,

Senza te frale e sconsolata parte.


Sonetto LXII (LXXXII)


Se la via da curar gl'infermi hai mostro

Al mondo, che giacea pien d'alto errore,

Tu Febo, allor quando 'l secol migliore

Lasciò le genti al duro viver nostro;


Al buon Lombardo, il cui lodato inchiostro

Rende al moderno stil l'antico onore,

Soccorri, che già presso a l'ultime ore

Vede la mesta ripa e 'l nero chiostro.


Sì dirà poi, sanato, ad ora ad ora,

Come Delo fermasti vaga, e come

Piton morio mercé del tuo forte arco:


E tutto quel, perché de le tue chiome

È l'arbor sempre verde amico incarco,

Spiegherà in versi, e lodera'l tu ancora.


Sonetto LXIII (LXXXIII)


Ben devria farvi onor d'eterno esempio

Napoli vostra; e 'n mezzo al suo bel monte

Scolpirvi, in lieta e coronata fronte

Gir trionfando, e dar i voti al tempio:


Poi che l'avete a l'orgoglioso ed empio

Stuolo ritolta, e pareggiate l'onte;

Or ch'avea più la voglia e le man pronte

A far d'Italia tutta acerbo scempio.


Torceste 'l voi, Signor, dal corso ardito:

E foste tal, ch'ancora esser vorrebbe

A por di qua da l'alpe nostra il piede.


L'onda Tirrena del suo sangue crebbe;

E di tronchi restò coperto il lito:

E gli augelli ne fer secure prede.


Canzone XIX (LXXXIV)


Se lo stil non s'accorda col desio,

Che d'onorarvi ad or ad or m'invoglia;

Ei presto, ardente, e quel freddo e restio,

Non sia per ciò, Signor, chi me ne toglia:

Che non è questo suo difetto o mio.

Ma 'l gran splendor de la virtute vostra,

Che più m'abbaglia, quanto più la miro,

Ovunqu'io vado, agli occhi miei si mostra

Tal, che d'ogni suo ardir l'anima spoglia,

E col primo penser un altro giostra:

Ond'io per tema indietro il passo giro,

E con la mia speranza ne sospiro.


Sonetto LXIV (LXXXV)


Anima, che da' bei stellanti chiostri,

Cinta de' raggi sì del vero amore,

Scendesti in terra, che fuor d'ogni errore

Ten vai secura degli affetti nostri;


Con altre voci omai, con altri inchiostri

Moverò più sovente a farti onore,

Poi che se' giunta, ove fia 'l tuo valore

In altro pregio, che le perle e gli ostri.


Dirò di lei, ch'a quella gelosia,

Onde Roma miglior cadde, rassembra:

O vendetta di Dio, chi te ne oblia?


Poi seguirò, che se ben ti rimembra

D'Ercole e di Giason, questa é la via

Di gir al ciel ne le terrene membra.


Sonetto LXV (LXXXVI)


Tosto che 'l dolce sguardo Amor m'impetra,

Forse perch'io più volentier sospiri,

Parmel indi veder, che l'arco tiri,

E spenda tutta in me la sua faretra.


Ma se Madonna mai tanto si spetra,

Che tinta di pietà ver me si giri;

Signor mio caro allor, pur ch'io la miri,

Fa me d'uom vivo una gelata pietra.


Poi com'io torni a la prima figura,

Io no 'l sento per me: sassel Amore,

Che come veltro mi sta sempre al fianco.


Ma 'l sangue accolto in sé dalla paura

Si ritien dentro, e teme apparir fore:

Però son io così pallido e bianco.


Sonetto LXVI (LXXXVII)


Già vago, or sovr'ogni altro orrido colle;

Poi che 'l bel viso, in cui volse mostrarsi

Quanto ben qui fra noi potea trovarsi,

Luce ad altro paese, a te si tolle;


Dura quell'acqua e questa selce molle

Fia, prima ch'io non senta al cor girarsi

La memoria del dì, quando alsi ed arsi

Nel bel soggiorno tuo, come 'l ciel volle.


Por si può ben nemica e dura sorte

Fra noi talora, e 'l nostro vital lume;

Romper no a l'alma il penser vivo e forte;


Che speri, o tema, o goda, o si consume,

Torna sempre a quel giorno; e le sue scorte

Sono due stelle, e gran desio le piume.


Sonetto LXVII (LXXXVIII)


Mostrommi entro a lo spazio d'un bel volto

E sotto un ragionar cortese, umile,

Per farmi ogni altro caro esser a vile,

Amor, quanto può darne il ciel, raccolto.


Da indi in qua con l'alma al suo ben volto,

Lunge vicin già per antico stile

Scorgo i bei lumi e odo quel gentile

Spirto e d'altro giamai non mi cal molto.


Fortuna, che sì spesso indi mi svia,

Tolga agli occhi, agli orecchi il proprio obietto,

E 'n parte le dolcezze mie distempre:


Al cor non torrà mai l'alto diletto,

Ch'ei prova di veder la donna mia,

Ovunque io vado, e d'ascoltarla sempre.


Sonetto LXVIII (LXXXIX)


Caro sguardo sereno, in cui sfavilla,

Quanta non vide altrove uom mai bellezza;

Parlar saggio, soave, onde dolcezza

Non usata fra noi deriva e stilla,


Solo di voi pensando si tranquilla

In me la tempestosa mente avvezza

Mirarvi, udirvi, e ciò più ch'altro apprezza,

Lodando Amor, che col suo strale aprilla.


Amor la punse: e poi scolpio l'adorna

Fronte, e i begli occhi, e scrisse le parole

Dentro nel cor via più che 'n petra salde:


Perch'ella, com'augel, ch'a parte vole,

Ond'ha suo cibo, a lor sempre ritorna

Con l'ali del desio veloci e calde.


Canzone XX (XC.)


Se non fosse il penser, ch'a la mia donna

Per tanta via mi porta,

Sì lunge non avrei la vita scorta.


I' miro ad or ad or nel suo bel viso,

Com'io le fossi presso:

E veggo lampeggiar quel dolce riso,

Che mi furò a me stesso:

Ciò ne le lontananze, che sì spesso

Fan la mia gioia corta,

A morte mi sottragge e riconforta.


Nè men, dove ch'io vada, odo ed intendo

Le sue sante parole:

E 'n tanto acqueto i miei tormenti, e prendo

Vigor, siccome suole

Chiuso fioretto in sul mattin dal Sole:

Fida de l'alma scorta,

E freno al duol, ch'a morte mi trasporta.


Canzone XXI (XCI)


Perchè 'l piacer a ragionar m'invoglia,

E di sua propria man mi detta Amore,

Nè dall'un, nè dall'altro ardisco aitarmi;

Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,

E sol questa mercede appaghi il core,

Tanto ch'io dica, e possa contentarmi.

Ch'aver dinanzi sì bel viso parmi,

Sì pure voci, e tanto alti pensieri,

Che perch'io mai non speri

Per forza di mio ingegno, o per altr'arte

Cose leggiadre e nove,

Che 'n mill'anni volgendo il ciel non piove,

Qual io e sento al cor stender in carte;

Pur le mie ferme stelle

Portan ad or ad or, ch'io ne favelle.


Era nella stagion, che 'l ghiaccio perde

Dalle viole, e 'l Sol cangiando stile

La faccia oscura alle campagne ha tolta,

Quando tra 'l bel cristallo, e 'l dolce verde

Mi corse al cor la mia donna gentile,

Che correr vi dovea sol una volta.

Mia ventura in quel punto avea disciolta

La treccia d'oro: e quel soave sguardo

Lieto cortese e tardo

Armavan sì felici e cari lumi;

Che quant'io vidi poi

Vago amoroso e pellegrin fra noi,

Rimembrando di lor, tenni ombre e fumi:

E dicea fra me stefsso,

Amor senz'alcun dubbio è qui da presso.


Ben diss'io 'l ver: che come 'l dì col Sole,

Così con la mia donna Amor ven sempre,

Che da' begli occhi mai non s'allontana.

Poi sentì ragionando dir parole,

E risonar in sì soavi tempre,

Che già non mi sembrar di lingua umana.

Correa da parte una bella fontana,

Che vide l'acque sue quel dì più vive

Avanzar per le rive:

E 'n contro i raggi delle luci sante

Ogni ramo inchinarsi

Del bosco intorno, e più frondoso farsi:

E fiorir l'erbe sotto le sue piante:

E quetar tutti i venti

Al suon de' prirni suoi beati accenti.


Quante dolcezze con amanti unquanco

Non eran state certo infin quel giorno,

Tutte fur meco, e non le scorsi a pena.

Vincea la neve il vestir puro e bianco

Dal collo a'piedi: e 'l bel lembo d'intorno

Avea virtù da far l'aria serena.

L'andar toglieva l'alme alla lor pena,

E ristorava ogni passato oltraggio.

Ma 'l parlar dolce e saggio,

Che m'avea gú da me stesso diviso,

E i begli occhi, e le chiome,

Che fur legami alle mie care some,

Delle cose parean di paradiso

Scese quaggiuso in terra

Per dar al mondo pace, e torli guerra.


Deh se per mio destin voci mortali,

E son di donna pur queste bellezze,

Beato chi l'ascolta, e chi la mira

Ma se non son chi mi darà tante ali,

Ch'io segua lei, s'avven ch'ella non prezze

Di star, là 've si piagne e si sospira?

Così pensava: e 'n quanto occhio si gira,

Vidi un, che 'l dolce volto dipingea

Parte, e parte scrivea

Nell'alma dentro le parole e 'l suono

Dicendo: queste omai

Penne da gir con lei tu sempre arai.

Allor mi scossi, e qual io qui mi sono,

Tal la mia donna bella

M'era nel petto, in vifo, ed in favella.


Rimanti qui, Canzon, poichè dell'alto

Mio tesoro infinito

Così poveramente t'hai vestito.


Canzone XXII (XCII)


Se nella prima voglia mi rinvesca

L'anima desiosa, e pur un poco

Per levarmi da lei l'ale non stende;

Meraviglia non è: di sì dolc'esca

Movono le faville, e nasce il foco,

Ch'a ragionar di voi, Donna, m'accende,

Voi sete dentro: e ciò che fuor risplende,

Esser altro non può, che vostro raggio.

Ma perch'io poi non aggio

In ritrarlo ad altrui le rime accorte,

Ben ha da voi radice

Tutto quel, che per me se ne ridice

Ma le parole son debili e corte:

Che se fosser bastanti,

Ne 'nvaghirei mille cortesi amanti.


Però che da quel dì, ch'io feci in prima

Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia

Tutto questo mio viver non é stato.

E se per lunghe prove il ver s'estima,

Quantunque ch'io mi viva, o ch'io mi moia,

Non spero d'esser mai se non beato:

Sì fermo è 'l pié del mio felice stato.

E certo sotto 'l cerchio della luna

Sorte goiosa alcuna,

Ed un ben quanto 'l mio non si ritrova.

Che s'altri è lieto alquanto,

Immantenente poi l'assale il pianto:

Ma io non ho dolor, che mi rimova

Dalla mia festa pura,

Vostra mercè, Madonna, e mia ventura.


E se duro destin a ferir viemmi

Con più forza talor, di là non passa

Dalla spoglia, ond'io vo caduco e frale.

Che 'l piacer, di che Amor armato tiemmi,

Sostien il colpo, e gir oltra no 'l lassa,

Là 've sedete voi, che 'l fate tale.

Però s'io vivo a tempo, che mortale

Fora ad altrui, non è per proprio ingegno.

Io per me nacqui un segno

Ad ogni stral delle sventure umane:

Ma voi sete il mio schermo:

E perch'i fia di mia natura infermo,

Sotto 'l caso di me poco rimane.

Lasso, ma chi può dire

Le tante guise poi del mio gioire?


Che spesso un giro sol degli occhi vostri,

Una sol voce in allentar lo spirto

Mi lassa in mezzo 'l cor tanta dolcezza,

Che nol porian contar lingua, nè inchiostri.

Nè così 'l verde serva lauro, o mirto,

Com'ei le forme d'ogni sua vaghezza.

Ed ho sì l'alma a questo cibo avvezza,

Ch'a lei piacer non può, nè la desvia

Cosa, che voi non sia,

O co 'l vostro penser non s'accompagne;

E quando il giorno breve

Copre le rive e le piagge di neve,

E quando 'l lungo infiamma le campagne,

E quando aprono i fiori,

E quando i rami poi tornan minori.


Gigli, calta, viole, acanto, e rose,

E rubini, e zaffiri, e perle, ed oro

Scopro, s'io miro nel bel vostro volto

Dolce armonia delle più care cose

Sento per l'aere andar, e dolce coro

Di spiriti celesti, s'io n'ascolto

Tutto quel, che diletta, inseme accolto,

E posso col piacer, che mi trastulla,

Se di voi penso, è nulla:

Nè giurerei, ch'Amor tanto s'avanzi,

Perch'ha la face e l'arco,

Quanto per voi mio prezioso incarco:

Ed or mel par veder, ch'a voi dinanzi

Voli superbo, e dica:

Tanto son io, quanto m'è questa amica.


Nè tu per gir, Canzon, ad altro albergo,

Del mio ti partirai,

Se, quanto rozza fei, conoscerai.


Canzone XXIII (XCIII)


Da poich'Amor in tanto non si stanca

Dettarmi quel, ond'io sempre ragioni,

E 'l piacer più che mai dentro mi punge;

Ancor dirò, ma se del vero manca

La voce mia; Madonna il mi perdoni,

Che 'n tutto dal nostr'uso si disgiunge.

E come salirei, dov'ella aggiunge,

Io basso e grave, ed ella alta e leggera?

Basti mattino e sera

L'alma inchinarle, quanto si convene:

E qualche pura scorza

Segnar, allor che 'l gran desio mi sforza,

Del suo bel nome, e le più fide arene;

Acciò che 'l mar la chiami,

Ed ogni selva la conosca ed ami


Questo faccia 'l desir in parte sazio,

Che vorria alzarsi a dir della mia donna;

Ma tema di cader lo tene a freno.

E se per le sue lode unqua mi spazio,

Ch'è ben d'alto valor ferma colonna,

Non è però, ch'io creda dirne a pieno.

Ma perch'altrui lo mio stato sereno

Cerco mostrar, che sol da lei deriva;

Forza è talor, ch'io scriva,

Com'ogni mio penser indi si miete:

O di quella soave

Aura, che del mio cor volge la chiave:

O pur di voi che 'l mio sostegno sete,

Stelle lucenti e care,

Se non quando di voi mi sete avare.


Voi date al viver mio l'un fido porto:

Che come il Sol di luce il mondo ingombra,

E la nebbia sparisce innanzi al vento;

Così mi vien da voi gioia e conforto;

E così d'ogni parte si disgombra

Per lo vostro apparir noia e tormento.

L'altro è, quando parlar Madonna sento,

Che d'ogni bassa impresa mi ritoglie,

E quel laccio discioglie,

Che gli animi stringendo a terra inclina:

Tal ch'io mi fido ancora,

Quandi sarò di questo carcer fora,

Far di me stesso alla morte rapina:

E 'n più leggidra forma

Rimaner degli amanti esempio e norma.


Il terzo è 'l mio solingo alto pensero,

Col qual entro a mirarla, e cerco, e giro

Suoi tanti onor, che sol un non ne lasso:

E scorgo il bel semblante umile altero,

E 'l riso, che fa dolce ogni martiro,

E 'l cantar, che potria mollir un sasso.

O quante cose qui tacendo passo,

Che mi stan chiuse al cor sì dolcemente.

Poi raffermo la mente

In un giardin di nuovi fiori eterno:

Ed odo dir nell'erba,

Alla tua donna questo si riserba:

Ella potrà qui far la fiate e 'l verno.

Di cota' viste vago

Pascomi sempre, e d'altro non m'appago,


E chi non sa, quanto si gode in cielo

Vedendo Dio per l'anime beate,

Provi questo piacer, di ch'io li parlo.

Da quel dì innanzi mai caldo, nè gelo

Non temerà, nè altra indignitate

Ardirà della vita unque appressarlo:

E purch'un poco mova a salutarlo

Madonna il dolce e grazioso ciglio;

Più di nostro consiglio

Non avrà uopo, e vincerà il destino:

Che quelle vaghe luci

A salir sopra 'l ciel gli saran duci,

E mostreranli il più diritto cammino:

E potrà gir volando,

Ogni cofa mortal sotto lasciando.


Ove ne vai, Canzon, s'ancora è meco

L'una compagna e l'altra?

Già non sei tu di lor più ricca, o scaltra.


Sonetto LXIX (XCIV)


Felice imperador, ch'avanzi gli anni

Con la virtute, e rendi a questi giorni

L'antico onor di Marte, e 'n pregio il torni,

E per noi riposar te stesso affanni;


Per cui spera saldar tanti suoi danni

Roma, e fra più che mai lieti soggiorni

Sentir ancor sette suoi colli adorni

Di tuoi trionfi, e 'l mondo senza inganni:


Mira 'l Settentrion, Signor gentile;

Voce udirai, che 'n fin di là ti chiama,

Per farti sopra 'l ciel volando ir chiaro.


Sì vedrem poi del nostro ferro vile

Far secol d'oro, e viver dolce e caro:

Questo fia nostro, tuo 'l pregio e la fama.


Sonetto LXX (XCV)


Amor, mia voglia e 'l vostro altero sguardo,

Ch'ancor non volse a me vista serena:

Mi danno, lasso, ognor sì grave pena,

Ch'io temo, no 'l soccorso giunga tardo.


Al foco de' vostr'occhi qual esca ardo,

A cui l'ingordo mio voler mi mena:

E se ragion alcun tempo l'affrena,

Amor poi 'l fa più leve e più gagliardo.


Così mi struggo e pur, s'io non m'inganno,

Sete sol voi cagion, ch'io mi consume,

E mia voglia ed Amor lor dritto fanno:


Che potreste mutar l'aspro costume

De le luci, ond'io vo per minor danno

A morte, come al mar veloce fiume.


Sonetto LXXI (XCVI)


Quando 'l mio sol, del qual invidia prende

L'altro, che spesso si nasconde e fugge,

Levando ogni ombra, che 'l mio bene adugge,

Vago sereno agli occhi miei risplende;


Sì co' suoi vivi raggi il cor m'accende,

Che dolcemente ei si consuma e strugge:

E come fior, che 'l troppo caldo sugge,

Potria mancar, che nulla nel difende.


Se non ch'al suo sparir m'agghiaccio, e poi

Con vista d'uom, che piange sua ventura,

Passo in una marmorea figura.


Medusa, s'egli è ver, che tu di noi

Facevi petra, assai fosti men dura

Di tal, che m'arde, strugge, agghiaccia e indura.


Sonetto LXXII (XCVII)


O superba e crudele, o di bellezza

E d'ogni don del ciel ricca e possente,

Quando le chiome d'or caro e lucente

Saranno argento, che si copre e sprezza;


E de la fronte, a darmi pene avvezza,

L'avorio crespo e le faville spente;

E del sol de' begli occhi vago ardente

Scemato in voi l'onor e la dolcezza;


E nello specchio mirerete un'altra:

Direte sospirando, eh lassa, quale

Oggi meco penser? perché l'adorna


Mia giovenezza ancor non l'ebbe tale?

A questa mente o 'l sen fresco non torna?

Or non son bella: allora non fui scaltra.


Sonetto LXXIII (XCVIII)

Sogno, che dolcemente m'hai furato

A morte, e del mio mal posto in oblio,

Da qual porta del ciel cortese e pio

Scendesti a rallegrar un dolorato?


Qual angel hai là su di me spirato,

Che sì movesti al gran bisogno mio?

Scampo a lo stato faticoso e rio,

Altro che 'n te non ho lasso trovato.


Beato se, ch'altrui beato fai:

Se non ch'usi troppo ale al dipartire,

E 'n poca ora mi toi quel, che mi dai.


Almen ritorna, e già che 'l camin sai,

Fammi talor di quel piacer sentire,

Che senza te non spero sentir mai.


Sonetto LXXIV (XCIX)


Se 'l viver men che pria m'è duro e vile,

Nè più d'Amor mi pento esser suggetto,

Nè son di duol, come io solea, ricetto;

Tutto questo è tuo don, sogno gentile.


Madonna più che mai tranquilla umile,

Con tai parole e 'n sì cortese affetto

Mi si mostrava, e tanto altro diletto,

Ch'asseguir no 'l poria lingua nè stile.


Perché, dicea, la tua vita consume?

Perché pur del signor nostro ti lagni?

Frena i lamenti omai, frena 'l dolore;


E più cose altre: quando il primo lume

Del giorno sparse i miei dolci guadagni,

Aperti gli occhi, e traviato il core.


Sonetto LXXV (C.)


Giaceami stanco, 'l fin de la mia vita

Venia, nè potea molto esser lontano,

Quando pietosa, in atto onesto e piano

Madonna apparve a l'alma, e diemmi aita.


Non fu sì cara voce unquanco udita,

Nè tocca, dicev'io, sì bella mano,

Quant'or da me; nè per sostegno umano

Tanta dolcezza in cor grave sentita.


E già negli occhi miei feriva il giorno

Nemico degli amanti, e la mia speme

Parea qual Sol velarsi che s'adombre.


Gissene appresso il sonno: ed ella inseme

Co' miei diletti, e con la notte intorno,

Quasi nebbia sparì che 'l vento sgombre.


Sonetto LXXVI (CI)


Mentre 'l fero destin mi toglie, e vieta

Veder Madonna, e tiemmi in altra parte;

La bella imagin sua veduta in parte

Il digiun pasce, e i miei sospiri acqueta.


Però s'a l'apparir del bel pianeta,

Che tal non torna mai, qual si diparte,

Ebbi conforto all'alma dentro, e parte

Ristetti in vista desiosa e lieta;


Fu, perch'io 'l miro in vece ed in sembianza

De la mia donna, che men fredda, o ria,

O fugace di lui non mi si mostra:


E più ne avrò, se piacer vostro fia,

Che 'l sonno de la vita, che gli avanza,

Si tenga Endimion la Luna vostra.


Sonetto LXXVII (CII)


Perché sia forse a la futura gente,

Com'io fui vostro ancora, eterno segno,

Queste rime, devoto, e questo ingegno

Vi sacro, e questa mano e questa mente.


E se non più per tempo, o del presente

Secolo speme, e mio fido sostegno,

A così riverirvi, e darvi pegno

Del mio verace amor divenni ardente;


Farò qual peregrin, desto a gran giorno,

Che 'l sonno accusa, e raddoppiando i passi

Tutto 'l perduto del cammin racquista.


Ma o pur non da voi si prenda a scorno

Il mio dir roco, e i versi incolti e bassi;

Io per mirar nel Sol perda la vista.


Sonetto LXXVIII (CIII)


Questa del nostro lito antica sponda,

Che te, Venezia mia, copre e difende;

E mentre il corso al mar frena e suspende,

La fer mai sempre, e la percote l'onda;


Rassembra me: che se 'l dì breve sfronda

I boschi o se le piagge il lungo accende;

Mi bagna riva, che dagli occhi scende,

Riva, ch'aperse Amor larga e profonda.


Ma non perviene a la mia donna il pianto,

Che d'intorno al mio cor ferve e ristagna,

Per non turbar la sua fronte serena.


La qual vedesse sol un giorno, quanto

Per lei dolor dì e notte m'accompagna;

Assai fora men grave ogni mia pena.


Sonetto LXXIX (CIV)


La sera, che scolpita nel cor tengo:

Così l'avess'io viva entro le braccia:

Fuggì sì leve, ch'io perdei la traccia,

Nè freno il corso, nè la sete spengo.


Anzi così tra due vivo e sostengo

L'anima forsennata, che procaccia

Far d'una tigre sciolta preda in caccia,

Traendo me, che seguir lei convengo.


E so ch'io movo indarno, o penser casso,

E perdo inutilmente il dolce tempo

De la mia vita, che giammai non torna.


Ben devrei ricovrarmi, or ch'i m'attempo

Ed ho forse vicin l'ultimo passo:

Ma piè mosso dal ciel nulla distorna.


Sonetto LXXX (CV)


Mentre di me la verde abile scorza

Copria quel dentro, pien di speme e caldo;

Vissi a te servo, Amor, sì lieto e saldo,

Che non ti fu a tenermi uopo usar forza.


Or che 'l volger del ciel mi stempra, e sforza

Con gli anni e più non sono ardito e baldo

Com'io solea, nè sento al cor quel caldo,

Che scemato giammai non si rinforza;


Stendi l'arco per me, se vuoi, ch'io viva,

Nè ti dispiace aver chi l'alte prove

De la tua certa man racconti e scriva.


Non ho sangue e vigor da piaghe nove

Sofferir di tuo strale: omai l'oliva

Mi dona, e spendi le saette altrove.


Sonetto LXXXI (CVI)


Se tutti i miei prim'anni a parte a parte

Ti diedi, Amor, nè mai fuor del tuo regno

Posi orma, o vissi un giorno; era ben degno

Ch'io potessi attempato omai lasciarte:


E da' tuoi scogli a più secura parte

Girar la vela del mio stanco legno:

E volger questi studi e questo ingegno

Ad onorata impresa, a miglior arte.


Non son, se ben me stesso, e te risguardo,

Più da gir teco; i grave, e tu leggero;

Tu fanciullo e veloce, i vecchio e tardo:


Arsi al tuo foco, e dissi: altro non chero.

Mentre fui verde e forte: or non pur ardo

Secco già e fral, ma incenerisco e pero.


Canzone XXIV (CVII sestina)


I più soavi e riposati giorni

Non ebbe uom mai, nè le più chiare notti,

Di quel ch'ebb'io; nè 'l più felice stato,

Allor ch'io cominciai l'amato stile

Ordir con altro pur, che doglia e pianto,

Da prima entrando all'amorosa vita.


Or è mutato il corso alla mia vita,

E volto il gaio tempo e i lieti giorni,

Che non sapean, che cosa fosse un pianto,

In gravi travagliate e fosche notti:

Co '1 bel suggetto suo cangiar lo stile,

E con le mie venture ogni mio stato.


Lasso non mi credea di sì alto stato

Giammai cader in così bassa, vita

Nè di sì piano in così duro stile.

Nè 'l Sol non mena mai sì puri giorni,

Che non sian dietro poi tante altre notti:

Così vicino al rifo è sempre il pianto.


Ben ebbi al riso mio vicino il pianto,

Ed io non mel sapea: che 'n quello stato

Così cantando, e 'n quelle dolci notti

Forse avrei posto fine alla mia vita,

Per non tardar al fel di questi giorni,

Che m'ha sì inacerbito e petto e stile.


Amar tu, che porgel dianzi allo stile

Lieto argomento, or gl'insegni ira, e pianto:

A che son giunti i miei graditi giorni?

Qual vento nel fiorir svelse il mio stato,

E se fortuna alla tranquilla vita

Entro gli scogli alle più lunghe notti?


U' son le prime mie vegghiate notti

Sì dolcemente? u 'l mio ridente stile,

Che potea rallegrar ben mesta vita?

E chi sì tosto l'ha converso in pianto?

Ch'or foss'io morto, allor quando il mio stato

Tinse in oscuro i suoi candidi giorni.


Sparito è 'l Sol de' miei sereni giorni,

E raddoppiata l'ombra alle mie notti,

Che lucean più che i dì d'ogni altro stato.

Cantai un tempo, e 'n vago e lieto stile

Spiegai mie rime, ed or le spiego in pianto,

C'ha fatto amara di sì dolce vita.


Così sapesse ognun, qual è mia vita

Da indi in qua, che i miei festosi giorni,

Chi sola il potea far, rivolse in pianto;

Che pago mi terrei di queste notti

Senza colmar de' miei danni lo stile:

Ma non ho tanto bene in questo stato.


Che quella fera, che al mio verde stato

Diede di morso, e quasi alla mia vita,

Or fugge al suon del mi' angoscioso stile:

Nè mai per rimembrarle i primi giorni,

O raccontar delle presenti notti ,

Volse a pieta del mio sì largo pianto.


Ecco sola m ascolta, e col mio pianto,

Agguagliando 'l suo duro antico stato

Meco si duol di sì penose notti:

E se 'l fin si prevede dalla vita,

Ad una meta van questi e quei giorni,

E la mia nuda voce fia il mio stile.


Amanti, i ebbi già tra voi lo stile

Sì vago, che acquetava ogni altrui pianto:

Or me non queta un sol di questi giorni:

Così va, chi in suo molto allegro stato

Non crede mai provar noiosa vita,

Nè penfa 'l dì delle future notti.


Ma chi vuol, si rallegri alle mie notti:

Com'anco quella, che mi fa lo stile

Tornar a vile, e 'n odio esser la vita,

Ch'i non spero giammai d'uscir di pianto.

Ella se 'l fa, che di sì lieto stato

Tosto mi pose in così tristi giorni


Ite giorni gioiosi, e care notti:

Che 'l bel mio stato ha preso un altro stile

Per pascer sol di pianto la mia vita.


Sonetto LXXXII (CVIII)


Già donna, or dea, nel cui verginal chiostro

Scendendo in terra a sentir caldo e gelo,

S'armò, per liberarne, il Re del cielo,

Da l'empie man dell'avversario nostro,


I pensier tutti, e l'uno e l'altro inchiostro,

Cangiata veste, e con la mente il pelo,

A te rivolgo, e quel, ch'agli altri celo,

L'interne piaghe mie ti scopro e mostro.


Sanale, che puoi farlo, e dammi aita

A salvar l'alma da l'eterno danno:

La qual se dal cammin dritto impedita


Le Sirene gran tempo schernit'hanno,

Non tardar tu; ch'omai della mia vita

Si volge il terzo e cinquantesimo anno.


Sonetto LXXXIII (CIX)


In poca libertà con molti affanni,

Di là 'v'io fui gran tempo, al dolce piano,

Che cesse in parte al buon seme Troiano,

Venni già grave di pensieri e d'anni:


E posimi dal fasto, e dagl'inganni,

E dagli occhi del vulgo assai lontano:

Ma che mi valse, Amor, s'a mano a mano

Tu pur a lagrimar mi ricondanni?


Qui tra le selve, i campi, e l'erbe, e l'acque,

Allor quand'i credea viver sicuro,

Più feroce che pria m'assali e pungi.


Lasso, ben veggio omai, sì come è duro

Fuggir quel, che di noi su nel ciel piacque:

Nè pote uom dal suo fato esser mai lungi.


Sonetto LXXXIV (CX)


I chiari giorni miei passar volando,

Che fur sì pochi, e tosto aperser l'ale:

Poi piacque al ciel, cui contrastar non vale,

Pormi di pace, e di me stesso in bando.


Così molt'anni ho già varcato: e quando

Mancar devea la fiamma del tuo strale,

Amor, che questo incarco stanco e frale

Tutto dentro e di fuor si va lentando;


Sento un novo piacer possente e forte

Giugner ne l'alma al grave antico foco,

Talch'a doppio ardo, e par che non m'incresca.


Lasso ben son vicino alla mia morte:

Ché puote omai l'infermo durar poco,

In cui scema virtù, febbre rinfresca.



IN MORTE

DI MESSER CARLO SUO FRATELLO

E di molte altre persone



Canzone XXVIII ( CLVI)


Alma cortese, che dal mondo errante

Partendo ne la tua più verde etade

Hai me lasciato eternamente in doglia,

Da le sempre beate alme contrade,

Ov'or dimori cara a quello amante,

Che più temer non puoi, che ti si toglia,

Risguarda in terra, e mira u' la tua spoglia

Chiude un bel sasso: e me, che 'l marmo asciutto

Vedrai bagnar te richiamando, ascolta.

Però che sparsa e tolta

L'alta pura dolcezza, e rotto in tutto

Fu 'l più fido sostegno al viver mio,

Frate, quel dì, che te n'andasti a volo:

Da indi in qua nè lieto, nè securo

Non ebbi un giorno mai, nè d'aver curo;

Anzi mi pento esser rimaso solo,

Che son venuto senza te in obblio

Di me medesmo, e per te solo er'io

Caro a me stesso: or teco ogni mia gioia

È spenta, e non so già, perch'io non moia.


Raro pungente stral di ria fortuna

Fè sì profonda e sì mortal ferita,

Quanto questo, onde 'l ciel volle piagarme.

Rimedio alcun da rallegrar la vita

Non chiude tutto 'l cerchio de la luna,

Che del mio duol bastasse a consolarme.

Sì come non potea grave appressarme,

Alor ch'io partia teco i miei pensieri

Tutti, e tu meco i tuoi sì dolcemente;

Così non ho dolente

A questo tempo, in che mi fidi, o speri,

Ch'un sol piacer m'apporte in tanti affanni.

E non si vide mai perduta nave

Fra duri scogli a mezza notte il verno

Spinta dal vento errar senza governo,

Che non sia la mia vita ancor più grave;

E s'ella non si tronca a mezzo gli anni,

Forse averrà, perch'io pianga i miei danni

Più lungamente, e siano in mille carte

I miei lamenti e le tue lode sparte.


Dinanzi a te partiva ira e tormento,

Come parte ombra a l'apparir del Sole:

Quel mi tornava in dolce ogni atto amaro,

O pur con l'aura delle tue parole

Sgombravi d'ogni nebbia in un momento

Lo cor, cui dopo te nulla fu caro;

Nè mai volli al suo scampo altro riparo,

Mentre aver si poteo, che la tua fronte

E l'amico, fedel, saggio consiglio.

Perso, bianco, o vermiglio

Color non mostrò mai vetro; nè fonte

Così puro il suo vago erboso fondo,

Com'io negli occhi tuoi leggeva espressa

Ogni mia voglia sempre, ogni sospetto:

Con sì dolci sospir, sì caro affetto,

De le mie forme la tua guancia impressa

Portavi, anzi pur l'alma e 'l cor profondo.

Or, quanto a me, non ha più un bene al mondo:

E tutto quel di lui, che giova e piace,

Ad un col tuo mortal sotterra giace.


Quasi stella del polo chiara e ferma

Nelle fortune mie sì gravi, e 'l porto

Fosti dell'alma travagliata e stanca:

La mia sola difesa e 'l mio conforto

Contra le noie della vita inferma,

Ch'a mezzo il corso assai spesso ne manca:

E quando 'l verno le campagne imbianca,

E quando il maggior dì fende 'l terreno,

In ogni risco, in ogni dubbia via

Fidata compagnia

Tenesti il viver mio lieto e sereno:

Che mesto e tenebroso fora stato,

E sarà, Frate, senza te mai sempre.

O disavventurosa acerba sorte!

O dispietata intempestiva morte!

O mie cangiate e dolorose tempre!

Qual fu già, lasso, e qual ora è 'l mio stato?

Tu 'l sai; che poi ch'a me ti sei celato

Nè di qui rivederti ho più speranza;

Altro che pianto e duol nulla m'avanza.


Tu m'hai lasciato senza sole i giorni,

Le notti senza stelle, e grave ed egro

Tutto questo, ond'io parlo, ond'io respiro:

La terra scossa, e 'l ciel turbato e negro,

E pien di mille oltraggi e mille scorni

Mi sembra in ogni parte, quant'io miro.

Valor e cortesia si dipartiro

Nel tuo partir, e 'l mondo infermo giacque,

E virtù spense i suoi più chiari lumi:

E le fontane ai fiumi

Negar la vena antica e l'usate acque:

E gli augelletti abandonaro il canto:

E l'erbe e i fior lasciar nude le piaggie:

Nè più di fronde il bosco si consperse.

Parnaso un nembo eterno ricoperse,

E i lauri diventar quercie selvaggie:

E 'l cantar de le Dee, già lieto tanto,

Uscì doglioso e lamentevol pianto:

E fu più volte in voce mesta udito

Di tutto 'l colle: o BEMBO, ove se' ito?


Sovra 'l tuo sacro ed onorato busto

Cadde grave a se stesso il padre antico,

Lacero il petto, e pien di morte il volto:

E disse: ahi sordo e di pietà nemico

Destin predace e reo, destino ingiusto,

Destin a impoverirmi in tutto volto,

Perché più tosto me non hai disciolto

Da questo grave mio tenace incarco,

Più che non lece e più ch'io non vorrei,

Dando a lui gli anni miei,

Che del suo leve inanzi tempo hai scarco?

Lasso, allor potev'io morir felice:

Or vivo sol per dare al mondo esempio,

Quant'è 'l peggio far qui più lungo indugio,

S'uom de' perdere in breve il suo refugio

Dolce, e poi rimanere a pena e scempio:

O vecchiezza ostinata ed infelice

A che mi serbi ancor nuda radice,

Se 'l tronco, in cui fioriva la mia speme,

è secco, e gelo eterno il cigne e preme?


Qual pianser già le triste e pie sorelle,

Cui le treccie in su 'l Po tenera fronde,

E l'altre membra un duro legno avvolse,

Tal con gli scogli, e con l'aure, e con l'onde,

Misera, e con le genti, e con le stelle,

Del tuo ratto fuggir la tua si dolse.

Per duol Timavo indietro si rivolse:

E vider Manto i boschi e le campagne

Errar con gli occhi rugiadosi e molli:

Adria le rive e i colli

Per tutto, ove 'l suo mar sospira e piagne,

Percosse, in vista oltra l'usato offesa,

Tal ch'a noia e disdegno ebbi me stesso:

E se non fosse, che maggior paura

Frenò l'ardir; con morte acerba e dura,

Alla qual fui molte fiate presso,

D'uscir d'affanno arei corta via presa.

Or chiamo, e non so far altra difesa,

Pur lui, che l'ombra sua lasciando meco,

Di me la viva e miglior parte ha seco.


Che con l'altra restai morto in quel punto,

Ch'io senti' morir lui, che fu 'l suo core:

Nè son buon d'altro, che da tragger guai.

Tregua non voglio aver col mio dolore,

Infin ch'io sia dal giorno ultimo giunto.

E tanto il piangerò, quant'io l'amai.

Deh perché innanzi a lui non mi spogliai

La mortal gonna, s'io men vestì prima?

S'al viver fui veloce, perché tardo

Sono al morir? un dardo

Almen avesse ed una stessa lima

Parimente ambo noi trafitto e roso:

Che siccome un voler sempre ne tenne

Vivendo, così spenti ancor n'avesse

Un'ora, ed un sepolcro ne chiudesse.

E se questo al suo tempo o quel non venne,

Nè spero degli affanni alcun riposo;

Aprasi per men danno a l'angoscioso

Carcere mio rinchiuso omai la porta,

Ed egli a l'uscir fuor sia la mia scorta.


E guidemi per man, che sa 'l cammino

Di gir al ciel; e nella terza spera

M'impetri dal Signor appo se loco.

Ivi non corre il dì verso la sera,

Nè le notti sen' van contra 'l mattino;

Ivi 'l caso non può molto nè poco:

Di tema gelo mai, di disir foco

Gli animi non raffredda, e non riscalda,

Nè tormenta dolor, nè versa inganno:

Ciascuno in quello scanno

Vive e pasce di gioia pura e salda,

In eterno, fuor d'ira e d'ogni oltraggio,

Che preparato gli ha la sua virtute.

Chi mi dà il grembo pien di rose e mirto,

Sì ch'io sparga la tomba? o sacro spirto,

Che qual a' tuoi più fosti o di salute

O di trastullo; agli altri o buon, o saggio,

Non saprei dir: ma chiaro e dolce raggio

Giugnesti in questa fosca etate acerba,

Che tutti i frutti suoi consuma in erba.


Se, come già ti calse, ora ti cale

Di me; pon dal ciel mente, com'io vivo,

Dopo 'l tu' occaso, in tenebre e 'n martiri.

Te la tua morte più che pria fè vivo,

Anzi eri morto, or sei fatto immortale:

Me di lagrime albergo e di sospiri

Fa la mia vita, e tutti i miei desiri

Sono di morte, e sol quanto m'incresce,

È, ch'io non vo più tosto al fin ch'io bramo.

Non sostien verde ramo

De' nostri campi augello, e non han pesce

Tutte queste limose e torte rive:

Nè presso, o lunge a sì celato scoglio

Filo d'alga percote onda marina:

Nè sì riposta fronda il vento inclina,

Che non sia testimon del mio cordoglio.

Tu Re del ciel, cui nulla circonscrive,

Manda alcun de le schiere elette e dive

Di su da quei splendori giù in quest'ombre,

Che di sì dura vita omai mi sgombre.


Canzon, qui vedi un tempio a canto al mare,

E genti in lunga pompa, e gemme ed ostro,

E cerchi, e mete, e cento palme d'oro:

A lui, ch'io in terra amava, in cielo adoro,

Dirai: così v'onora il secol nostro.

Mentre udirà querele oscure e chiare

Morte; Amor fiamme arà dolci ed amare;

Mentre spiegherà il Sol dorate chiome;

Sempre sarà lodato il vostro nome.


A lei, che l'Appennin superbo affrena,

Là 've parte le piagge il bel Metauro;

Di cui non vive dal mar Indo al Mauro,

Da l'Orse a l'Austro, simil nè seconda,

Va prima: ella ti mostre, o ti nasconda.


SonettoCXXVII (CLVII)


Adunque m'hai tu pur, in su 'l fiorire

Morendo, senza te, Frate, lasciato;

Perché 'l mio dianzi chiaro e lieto stato

Ora si volga in tenebre e 'n martire?


Gran giustizia era, e mio sommo desire,

Da me lo stral avesse incominciato:

E come al venir qui son primo stato,

Ancora stato fossi al dipartire.


Ché non arei veduto il mio gran danno,

Di me stesso sparir la miglior parte;

E sarei teco fuor di questo affanno.


Or ch'io non ho potuto innanzi andarte,

Piaccia al Signor, a cui non piace inganno,

Ch'io possa in breve e scarco seguitarte.


SonettoCXXVIII (CLVIII)


Leonico, che 'n terra al ver sì spesso

Gli occhi levavi e 'l penser dotto e santo;

Et or nel cielo il guiderdon promesso

Ricevi al tuo di lui studio cotanto;


A te non si conven doglia, nè pianto:

Ch'omai pien d'anni, e pago di te stesso

Chiudi il tuo chiaro dì; ma festa e canto

Del grande a la tua vita onor concesso.


Qual dalla mensa uom temperato e sazio,

Ti diparti dal mondo, e torni a lui,

Che t'ha per nostro ben tardo ritolto.


Conviensi a me, che non ho più, con cui

Sì securo fornir quel poco o molto,

Che de la dubbia via m'avanza, spazio.


SonettoCXXIX (CLIX)


Navager mio, ch'a terra strana volto

Per giovar a la patria il mondo lassi,

Te piango: e piangon meco i liti, i sassi

E l'erbe, che per te crebber già molto.


Tu le palme latine hai di man tolto

Ai nostri tutte, con sì fermi passi

Salisti 'l colle: or quando più vedrassi

Tanto valor in un petto raccolto?


Grave duol certo; pur io mi consolo,

Ch'or ti diporti con quell'alme antiche,

Che tanto amasti, e teco è 'l buono e saggio


SAVORGNAN, che contese alle nemiche

Schiere il suo monte, e fu d'alto coraggio,

E poco inannzi a te prese il suo volo.


SonettoCXXX (CLX)


Anime, tra cui spazia or la grande ombra

Del dotto NAVAGER, per sorte acerba

Di questo secol reo, che miete in erba

Tutti i suoi frutti, o li dispiega in ombra,


Qual gioia voi della sua vista ingombra,

Tal noi preme dolor: poi sì superba

è stata morte, ch'i men degni serba,

E del maggior valor prima ne sgombra.


Piacciavi dir, quando il nostro emispero

Diede agli Elisi più sì chiaro spirto;

Ed egli qual da voi riceve onore


Raro dopo gli antichi: a questo Omero

Basciò la fronte e cinsela di mirto:

Virgilio parte seco i passi e l'ore.


SonettoCXXXI (CLXI)


Porto, che 'l piacer mio teco ne porti,

La vita e noi sì tosto abbandonando,

Che farò qui senza te lasso? e quando

Udirò cosa più, che mi conforti?


Invidio te, che vedi i nostri torti

Dal tuo dritto sentier, già posti in bando

Gli umani affetti; e vo pur te chiamando

Beato e vivo, e noi miseri e morti.


Deh che non mena il Sole omai quel giorno,

Ch'io renda la mia guardia, e torni al cielo,

Di tanti lumi in sì poche ore adorno?


Nel qual, lasciato in terra il suo bel velo,

Fa con l'eterno Re colei soggiorno,

Onde ho la piaga, ch'ancor amo e celo.


SonettoCXXXII (CLXII)

Or hai de la sua gloria scosso Amore,

O morte acerba: or delle donne hai spento

L'alto Sol di virtute e d'ornamento,

E noi rivolti in tenebroso orrore.


Deh perchè sì repente ogni valore,

Ogni bellezza inseme hai sparso al vento?

Ben potei tu de l'altre ancider cento,

E lei non torre a più maturo onore.


Fornito hai, bella donna, il tuo viaggio:

E torni al ciel con giovenetto piede,

Lasciando in terra la tua spoglia verde.


Ben si può dir omai, che poca fede

Ne serva il mondo, e come strale, o raggio,

A pena spunta un ben, che si disperde.


SonettoCXXXIII (CLXIII)


Ov'è, mia bella, e cara, e fida scorta,

L'usata tua pietà, che sol mi lassi

Al cammin duro, ai perigliosi passi,

Da me cotanto dilungata e torta?


Vedi l'alma, che trema e si sconforta

Per lo tuo dipartire, e 'n prova stassi

D'abbandonarmi; e sfida i membri lassi,

Per seguir te, qual viva, or così morta.


Ben le dice mio cor, chi t'assecura?

E forse a lei sua pace turberai,

Che di nostra salute in cielo ha cura .


Ella, che fo più qui? risponde: mai

Sostegno tale, e ben tanto, e ventura

Perdè null'altra: e tu misero il sai.


SonettoCXXXIV (CLXIV)


L'alto mio dal Signor tesoro eletto

De' suoi gemmai più ricchi, e con più cura,

Quella, che nè giudicio, nè misura

Usa nel tor, m'ha tolto, ond'io l'aspetto.


Che sì mendica e piena di sospetto

È rimasa quest'alma e 'n così dura

Vita, ch'assai le fora a gran ventura

Cenere farsi omai del suo ricetto:


Tal che leggera e di quel nodo sciolta

Potesse tanto in su levarsi a volo,

Che si posasse a piè de la sua donna.


O per me chiaro, e lieto, e dolce solo

Quel dì, nè può tardar, s'ella m'ascolta,

Che squarcerà questa povera gonna.


SonettoCXXXV (CLXV)


Quando, forse per dar loco a le stelle,

Il Sol si parte, e 'l nostro cielo imbruna,

Spargendosi di lor, ch'ad una ad una,

A diece, a cento escon fuor chiare e belle;


I penso e parlo meco, in qual di quelle

Ora splende colei, cui par alcuna

Non fu mai sotto 'l cerchio della Luna;

Benché di Laura il mondo assai favelle?


In questa piango, e poi ch'al mio riposo

Torno, più largo fiume gli occhi miei,

E l'imagine sua l'alma riempie


Trista: la qual mirando fiso in lei

Le dice quel, ch'io poi ridir non oso:

O notti amare, o Parche ingiuste ed empie!


SonettoCXXXVI (CLXVI)


Tosto che la bell'alba solo e mesto

Titon lasciando a noi conduce il giorno;

E ch'io mi sveglio, e rimirando intorno

Non veggo 'l Sol, che suol tenermi desto;


Di dolor, e di panni mi rivesto:

E sospirando il bel dolce soggiorno,

Che 'l ciel m'ha tolto, a lagrimar ritorno:

La luce ingrata, e 'l viver m'è molesto.


Talor vengo agl'inchiostri, e parte noto

Le mie sventure; ma 'l più celo e serbo

Nel cor: che nullo stile è che le spieghi.


Talor pien d'ira e di speranze voto,

Chiamo, chi del mortal mi scinga e sleghi:

O giorni tenebrosi, o fato acerbo!


SonettoCXXXVII (CLXVII)


S'al vostro amor ben fermo non s'appoggia

Mio cor, che ad ogni obbietto par che adombre,

Pregate lei, che ne' begli occhi alloggia,

Che di sì dura vita omai mi sgombre.


Non sempre alto dolor, che l'alma ingombre,

Scema per consolar, ma talor poggia:

Come lumi del ciel per notturne ombre:

Come di foco in calce esca per pioggia.


Morte m'ha tolto a la mia dolce usanza:

Or ho tutt'altro e più me stesso a noia,

Anzi a disdegno, e sol pianger m'avanza.


COSMO, chi visse un tempo in pace e 'n gioia,

Poi vive in guerra e 'n pene, e più speranza

Non ha di ritornar, qual fu; si moia.


SonettoCXXXVIII (CLXVIII)


Ben devrebbe Madonna a sé chiamarmi

Su nel beato e lieto asilo eterno;

E 'n questo pien di noia e pene inferno

Vita mortale omai più non lasciarmi:


Ché non è sotto 'l Sol ben da quetarmi,

Sì gli ho tutti col mondo inseme a scherno:

Nè può conforto al grave affanno interno,

Sendo di fuor chiusa ogni via, passarmi.


Ma s'ella il nodo a l'alma non discioglie,

Vedendo me di tacito e contento

Volto a sì triste e lamentose tempre;


E per sé non m'ancide, e quinci toglie

Il duol, che del suo ratto sparir sento;

Soranzo, i piango, e son per pianger sempre.


SonettoCXXXIX (CLXIX)


Donna, che fosti oriental Fenice

Tra l'altre donne, mentre il mondo t'ebbe,

E poi che d'abitar fra noi t'increbbe,

Angel salisti al ciel novo e felice;


L'alta beltà del nostro amor radice

Col senno, ond'ei tanto si stese e crebbe,

Vento fatal sì tosto non devrebbe

Aver divelta, l'un penser mi dice,


Per cui d'amaro pianto il cor si bagna;

Ma l'altro ad or ad or con tai parole

Prova quetarmi; a che ti struggi, o cieco?


Non era degno di sì chiaro Sole

Occhio di mortal vista; or Dio l'ha seco,

Dal cui voler uom pio non si scompagna.


SonettoCXL. (CLXX)


Deh, perché inanzi a me te ne se' gita,

Se tanto dopo me fra noi venisti?

Od io non me n'andai, quando partisti,

Teco? e tempo era ben d'uscir di vita.


Porgimi almen or tu dal cielo aita,

Ch'io chiuda questi dì sì neri e tristi,

Mostrandomi la via, per cui salisti

Al ben nato conciglio, alma e gradita.


Mentre i duo poli e 'l lucido Orione

Ti stai mirando, che tra lor si spazia,

Più giù qui, dov'io piango, e me risguarda:


E per Giesù, ch'al mondo oggi fe' grazia

Di se nascendo, a trarmi di pregione

E guidar costa su, non esser tarda.


SonettoCXLI (CLXXI)


S'Amor m'avesse detto: ohimè, da morte

Fieno i begli occhi prima di te spenti;

Avrei di lor con disusati accenti

Rime dettato, e più spesse e più scorte,


Per mio sostegno in questa dura sorte,

E perché le ben chiare ed apparenti

Note rendesser le lontane genti

De l'alma lor divina luce accorte:


Ché già sarebbe oltre l'Ibero, e 'l Gange,

La Tana, e 'l Nilo intesa, e divulgato,

Com'io solfo a quei raggi ed esca fui.


Or, poi ch'altro che pianger non m'è dato,

Piango pur sempre, e son; tanto duol m'ange;

Nè di me stesso ad uopo, nè d'altrui.


SonettoCXLII (CLXXII)


Un anno intero s'è girato a punto,

Che 'l mondo cadde del suo primo onore,

Morta lei, ch'era il fior d'ogni valore

Col fior d'ogni bellezza inseme aggiunto.


Come a sì mesto e lagrimoso punto

Non ti divelli e schianti, afflitto core,

Se ti rimembra, ch'a le tredici ore

Del sesto dì d'agosto il Sole è giunto?


In questa uscìo de la sua bella spoglia

Nel mille cinquecento e trentacinque

L'anima saggia, ed io cangiando il pelo


Non so però cangiar pensieri e voglia,

Ch'omai s'affretti l'altra e s'appropinque,

Ch'io parta quinci, e la rivegga in cielo.


SonettoCXLIII (CLXXIII)


Quella per cui chiaramente alsi ed arsi

Undici ed undici anni, al ciel salita,

Ha me lasciato in angosciosa vita:

O guadagni del mondo incerti e scarsi!


Che s'uom sotto le stelle ha da lagnarsi

Di suo gran danno, e di mortal ferita;

I son colui, ch'a morte cheggio aita;

Nè fine altronde al mio dolor può darsi.


Ben la scorgo io sin di là su talora,

D'amor e di pietate accesa il ciglio

Dirmi: tu pur qui sarai meco ancora:


Ond'io mi riconforto, ed in quell'ora

Di volger l'alma al ciel prendo consiglio:

Poi torna il pianto tristo, che m'accora.


SonettoCXLIV (CLXXIV)


Era Madonna al cerchio di sua vita

Trigesimo ed ottavo, quando morte

La spogliò del bel velo eletto in sorte

A vestir alma sì dal ciel gradita.


Perché, crudeli Parche, ancora unita

Mente a trar me del mio non foste accorte?

Cosa non ho, ch'altro che duol m'apporte:

Col suo piè freddo ogni mia festa è gita.


Qual alga in mar, che quinci e quindi l'onde

Sospingan, vivo; o qual abete in cima

D'altissim'alpe, all'austro, al borea segno.


Se quei pur vive, ch'assai lieto in prima,

Perde poi la sua guida e 'l suo sostegno,

E sempre chiama, e nessun mai risponde.


SonettoCXLV (CLXXV)


Che mi giova mirar donne e donzelle,

E prati e selve e rivi, e 'l bel governo,

Che fa del mondo il buon motore eterno,

Mar, terra, cielo, e vaghe, o ferme stelle?


Spenta colei, ch'un sol fu tra le belle

E tra le sagge, or è mio nembo interno:

Forme d'orror mi sembra quant'io scerno:

Esser cieco vorrei per non vedelle.


Ch'i' non so volger gli occhi a parte, ov'io

Non scorga lei fra molte meste, o lasso,

Chiuder morendo le sue luci sante.


Ond'io viver non curo, anzi desio

Di girle dietro con veloce passo:

Ed era me', ch'i' le fossi ito avante.


Canzone XXIX (CLXXVI)


Donna, de' cui begli occhi alto diletto

Trasser i miei gran tempo, e lieto vissi,

Mentre a te non dispiacque esser fra noi,

Se vedi, che quant'io parlai nè scrissi,

Non è stato se non doglia e sospetto

Dopo il quinci sparir dei raggi tuoi,

Impetra dal Signor, non più ne' suoi

Lacci mi stringa il mondo, e possa l'alma,

Che devea gir inanzi, omai seguirti.

Tu godi, assisa tra' beati spirti,

Della tua gran virtute, e chiara ed alma

Senti, e felice dirti:

Io senza te rimaso in questo inferno,

Sembro nave in gran mar senza governo:

E vò là dove il calle, e 'l piè m'invita,

La tua morte piangendo, e la mia vita.


Sì come più di me nessuno in terra

Visse de' suoi pensier pago e contento,

Te qui tenendo la divina cura;

Così cordoglio equale a quel, ch'io sento,

Non è, nè credo ch'esser possa: e guerra

Non fè giamai sì dispietata e dura

La spada, che suoi colpi non misura,

Quanto or a me, che 'n un sol chiuder d'occhi

Le mie vive speranze ha tutte estinto:

Ond'io son ben in guisa oppresso e vinto,

Che pur che 'l cor di lagrime trabocchi,

Mentre d'intorno cinto

Sarò de la caduca e frale spoglia,

Altro non cerco: o quando fia che voglia

Di vita il Re celeste e pio levarmi?

Prega 'l tu, Santa, e così poi quetarmi.


Avea per sua vaghezza teso Amore

Un'alta rete a mezzo del mio corso,

D'oro e di perle, e di rubin contesta,

Che veduta al più fero e rigid'orso

Umiliava e 'nteneriva il core

E quetava ogni nembo, ogni tempesta;

Questa lieto mi prese, e poscia in festa

Tenne molt'anni: or l'ha sparsa e disciolta,

Per far me sempre tristo, acerba sorte.

Ahi cieca, sorda, avara, invida morte;

Dunque hai di me la parte maggior tolta,

E l'altra sprezzi? O forte

Tenor di stelle, o già mia speme, quanto

Meglio m'era il morir, che 'l viver tanto!

Deh non mi lasciar qui più lungo spazio;

Ch'io son di sostenermi stanco e sazio.


Sovra le notti mie fur chiaro lume

E nel dubbio sentier fidata scorta

I tuoi begli occhi, e le dolci parole.

Or, lasso, che ti se' oscurata e torta

Tanto da me, convien ch'io mi consume

Senza i soavi accenti e 'l puro Sole:

Nè so cosa mirar, che mi console,

O voce udir, che 'l cor dolente appaghi

Nè mica in questo lamentoso albergo,

Lo qual dì e notte, pur di pianto aspergo,

Chiedendo che si volga e me rimpiaghi

Morte, nè più da tergo

Lasci, e m'ancida col suo stral secondo;

Poichè col primo ha impoverito il mondo,

Toltane te, per cui la nostra etade

Sì ricca fu di senno e di beltade.


Avess'io almen penna più ferma, o stile

Possente agli altri secoli di mille

De le tue lode farne passar una;

Che già di leggiadrissime faville

S'accenderebbe ogni anima gentile:

E io mi dorrei men di mia fortuna,

E men di morte, in aspettando alcuna

Vendetta contra lei da le mie rime.

E per chieder ancora, o se 'l mio inchiostro,

Mantova e Smirna, s'avanzasse al vostro

Tanto, che non pur lei la più sublime

In questo basso chiostro,

Ma tal là su facesse opra, che 'l cielo

La sforzasse a tornar nel suo bel velo:

Perché non fosse uom poi così beato,

Con ch'io cangiassi il mio gioioso stato.


Se tu stessa, Canzone,

Di quel vedermi lieto mai non credi,

Che più vo desiando; a pianger riedi,

E dì, del pianto molle, ovunque arrive,

Madonna è morta, e quel misero vive.


SonettoCXLVI (CLXXVII)


O Sol, di cui questo bel sole è raggio,

Sol, per lo qual visibilmente splendi,

Se sovra l'opre tue qua giù ti stendi;

Riluci a me, che speme altra non aggio.


Da l'alma, ch'a te fa verace omaggio

Dopo tanti e sì gravi suoi dispendi,

Sgombra l'antiche nebbie, e tal la rendi,

Che più dal mondo non riceva oltraggio.


Omai la scorga il tuo celeste lume:

E se già mortal fiamma, e poca l'arse;

All'eterna ed immensa or si consume


Tanto, che le sue colpe in caldo fiume

Di pianto lavi, e monda, da levarse

E rivolar a te vesta le piume.


SonettoCXLVII (CLXXVIII)


Se già ne l'età mia più verde e calda

Offesi te ben mille e mille volte,

E le sue doti l'alma ardita e balda

Da te donate, ha contra te rivolte;


Or che m'ha 'l verno in fredda e bianca falda

Di neve il mento e queste chiome involte,

Mi dona, ond'io con piena fede e salda

Padre t'onori, e le tue voci ascolte.


Non membrar le mie colpe, e poi ch'addietro

Tornar non ponno i mal passati tempi,

Reggi tu del cammin quel, che m'avanza:


E sì 'l mio cor del tuo desio riempi,

Che quella, che 'n te sempre ebbi, speranza,

Quantunque peccator, non sia di vetro.


Canzone XXX (CLXXIX)


Signor, quella pietà, che ti constrinse

Morendo far del nostro fallo ammenda,

Da l'ira tua ne copra e ne difenda.


Vedi, Padre cortese,

L'alto visco mondan com'è tenace,

E le reti, che tese

Ne son dall'avversario empio e fallace,

Quanto hanno intorno a se di quel che piace.

Però s'aven, che spesso uom se ne prenda,

Questo talor pietoso a noi ti renda.


Non si nega, Signore,

Che 'l peccar nostro senza fin non sia.

Ma se non fosse errore;

Campo da usar la tua pietà natia

Non avresti: la qual perché non stia

In oscuro, e quanta è fra noi, s'intenda,

Men grave esser ti dee, ch'altri t'offenda.


Tu, Padre, ne mandasti

In questo mar, e tu ne scorgi a porto:

E se molto ne amasti,

Allor che 'l mondo t'ebbe vivo e morto;

Amane a questo tempo: e 'l nostro torto

La tua pietosa man non ne sospenda;

Ma grazia sopra noi larga discenda.


Canzone XXVIII ( CLVI)


Alma cortese, che dal mondo errante

Partendo ne la tua più verde etade

Hai me lasciato eternamente in doglia,

Da le sempre beate alme contrade,

Ov'or dimori cara a quello amante,

Che più temer non puoi, che ti si toglia,

Risguarda in terra, e mira u' la tua spoglia

Chiude un bel sasso: e me, che 'l marmo asciutto

Vedrai bagnar te richiamando, ascolta.

Però che sparsa e tolta

L'alta pura dolcezza, e rotto in tutto

Fu 'l più fido sostegno al viver mio,

Frate, quel dì, che te n'andasti a volo:

Da indi in qua nè lieto, nè securo

Non ebbi un giorno mai, nè d'aver curo;

Anzi mi pento esser rimaso solo,

Che son venuto senza te in obblio

Di me medesmo, e per te solo er'io

Caro a me stesso: or teco ogni mia gioia

È spenta, e non so già, perch'io non moia.


Raro pungente stral di ria fortuna

Fè sì profonda e sì mortal ferita,

Quanto questo, onde 'l ciel volle piagarme.

Rimedio alcun da rallegrar la vita

Non chiude tutto 'l cerchio de la luna,

Che del mio duol bastasse a consolarme.

Sì come non potea grave appressarme,

Alor ch'io partia teco i miei pensieri

Tutti, e tu meco i tuoi sì dolcemente;

Così non ho dolente

A questo tempo, in che mi fidi, o speri,

Ch'un sol piacer m'apporte in tanti affanni.

E non si vide mai perduta nave

Fra duri scogli a mezza notte il verno

Spinta dal vento errar senza governo,

Che non sia la mia vita ancor più grave;

E s'ella non si tronca a mezzo gli anni,

Forse averrà, perch'io pianga i miei danni

Più lungamente, e siano in mille carte

I miei lamenti e le tue lode sparte.


Dinanzi a te partiva ira e tormento,

Come parte ombra a l'apparir del Sole:

Quel mi tornava in dolce ogni atto amaro,

O pur con l'aura delle tue parole

Sgombravi d'ogni nebbia in un momento

Lo cor, cui dopo te nulla fu caro;

Nè mai volli al suo scampo altro riparo,

Mentre aver si poteo, che la tua fronte

E l'amico, fedel, saggio consiglio.

Perso, bianco, o vermiglio

Color non mostrò mai vetro; nè fonte

Così puro il suo vago erboso fondo,

Com'io negli occhi tuoi leggeva espressa

Ogni mia voglia sempre, ogni sospetto:

Con sì dolci sospir, sì caro affetto,

De le mie forme la tua guancia impressa

Portavi, anzi pur l'alma e 'l cor profondo.

Or, quanto a me, non ha più un bene al mondo:

E tutto quel di lui, che giova e piace,

Ad un col tuo mortal sotterra giace.


Quasi stella del polo chiara e ferma

Nelle fortune mie sì gravi, e 'l porto

Fosti dell'alma travagliata e stanca:

La mia sola difesa e 'l mio conforto

Contra le noie della vita inferma,

Ch'a mezzo il corso assai spesso ne manca:

E quando 'l verno le campagne imbianca,

E quando il maggior dì fende 'l terreno,

In ogni risco, in ogni dubbia via

Fidata compagnia

Tenesti il viver mio lieto e sereno:

Che mesto e tenebroso fora stato,

E sarà, Frate, senza te mai sempre.

O disavventurosa acerba sorte!

O dispietata intempestiva morte!

O mie cangiate e dolorose tempre!

Qual fu già, lasso, e qual ora è 'l mio stato?

Tu 'l sai; che poi ch'a me ti sei celato

Nè di qui rivederti ho più speranza;

Altro che pianto e duol nulla m'avanza.


Tu m'hai lasciato senza sole i giorni,

Le notti senza stelle, e grave ed egro

Tutto questo, ond'io parlo, ond'io respiro:

La terra scossa, e 'l ciel turbato e negro,

E pien di mille oltraggi e mille scorni

Mi sembra in ogni parte, quant'io miro.

Valor e cortesia si dipartiro

Nel tuo partir, e 'l mondo infermo giacque,

E virtù spense i suoi più chiari lumi:

E le fontane ai fiumi

Negar la vena antica e l'usate acque:

E gli augelletti abandonaro il canto:

E l'erbe e i fior lasciar nude le piaggie:

Nè più di fronde il bosco si consperse.

Parnaso un nembo eterno ricoperse,

E i lauri diventar quercie selvaggie:

E 'l cantar de le Dee, già lieto tanto,

Uscì doglioso e lamentevol pianto:

E fu più volte in voce mesta udito

Di tutto 'l colle: o BEMBO, ove se' ito?


Sovra 'l tuo sacro ed onorato busto

Cadde grave a se stesso il padre antico,

Lacero il petto, e pien di morte il volto:

E disse: ahi sordo e di pietà nemico

Destin predace e reo, destino ingiusto,

Destin a impoverirmi in tutto volto,

Perché più tosto me non hai disciolto

Da questo grave mio tenace incarco,

Più che non lece e più ch'io non vorrei,

Dando a lui gli anni miei,

Che del suo leve inanzi tempo hai scarco?

Lasso, allor potev'io morir felice:

Or vivo sol per dare al mondo esempio,

Quant'è 'l peggio far qui più lungo indugio,

S'uom de' perdere in breve il suo refugio

Dolce, e poi rimanere a pena e scempio:

O vecchiezza ostinata ed infelice

A che mi serbi ancor nuda radice,

Se 'l tronco, in cui fioriva la mia speme,

è secco, e gelo eterno il cigne e preme?


Qual pianser già le triste e pie sorelle,

Cui le treccie in su 'l Po tenera fronde,

E l'altre membra un duro legno avvolse,

Tal con gli scogli, e con l'aure, e con l'onde,

Misera, e con le genti, e con le stelle,

Del tuo ratto fuggir la tua si dolse.

Per duol Timavo indietro si rivolse:

E vider Manto i boschi e le campagne

Errar con gli occhi rugiadosi e molli:

Adria le rive e i colli

Per tutto, ove 'l suo mar sospira e piagne,

Percosse, in vista oltra l'usato offesa,

Tal ch'a noia e disdegno ebbi me stesso:

E se non fosse, che maggior paura

Frenò l'ardir; con morte acerba e dura,

Alla qual fui molte fiate presso,

D'uscir d'affanno arei corta via presa.

Or chiamo, e non so far altra difesa,

Pur lui, che l'ombra sua lasciando meco,

Di me la viva e miglior parte ha seco.


Che con l'altra restai morto in quel punto,

Ch'io senti' morir lui, che fu 'l suo core:

Nè son buon d'altro, che da tragger guai.

Tregua non voglio aver col mio dolore,

Infin ch'io sia dal giorno ultimo giunto.

E tanto il piangerò, quant'io l'amai.

Deh perché innanzi a lui non mi spogliai

La mortal gonna, s'io men vestì prima?

S'al viver fui veloce, perché tardo

Sono al morir? un dardo

Almen avesse ed una stessa lima

Parimente ambo noi trafitto e roso:

Che siccome un voler sempre ne tenne

Vivendo, così spenti ancor n'avesse

Un'ora, ed un sepolcro ne chiudesse.

E se questo al suo tempo o quel non venne,

Nè spero degli affanni alcun riposo;

Aprasi per men danno a l'angoscioso

Carcere mio rinchiuso omai la porta,

Ed egli a l'uscir fuor sia la mia scorta.


E guidemi per man, che sa 'l cammino

Di gir al ciel; e nella terza spera

M'impetri dal Signor appo se loco.

Ivi non corre il dì verso la sera,

Nè le notti sen' van contra 'l mattino;

Ivi 'l caso non può molto nè poco:

Di tema gelo mai, di disir foco

Gli animi non raffredda, e non riscalda,

Nè tormenta dolor, nè versa inganno:

Ciascuno in quello scanno

Vive e pasce di gioia pura e salda,

In eterno, fuor d'ira e d'ogni oltraggio,

Che preparato gli ha la sua virtute.

Chi mi dà il grembo pien di rose e mirto,

Sì ch'io sparga la tomba? o sacro spirto,

Che qual a' tuoi più fosti o di salute

O di trastullo; agli altri o buon, o saggio,

Non saprei dir: ma chiaro e dolce raggio

Giugnesti in questa fosca etate acerba,

Che tutti i frutti suoi consuma in erba.


Se, come già ti calse, ora ti cale

Di me; pon dal ciel mente, com'io vivo,

Dopo 'l tu' occaso, in tenebre e 'n martiri.

Te la tua morte più che pria fè vivo,

Anzi eri morto, or sei fatto immortale:

Me di lagrime albergo e di sospiri

Fa la mia vita, e tutti i miei desiri

Sono di morte, e sol quanto m'incresce,

È, ch'io non vo più tosto al fin ch'io bramo.

Non sostien verde ramo

De' nostri campi augello, e non han pesce

Tutte queste limose e torte rive:

Nè presso, o lunge a sì celato scoglio

Filo d'alga percote onda marina:

Nè sì riposta fronda il vento inclina,

Che non sia testimon del mio cordoglio.

Tu Re del ciel, cui nulla circonscrive,

Manda alcun de le schiere elette e dive

Di su da quei splendori giù in quest'ombre,

Che di sì dura vita omai mi sgombre.


Canzon, qui vedi un tempio a canto al mare,

E genti in lunga pompa, e gemme ed ostro,

E cerchi, e mete, e cento palme d'oro:

A lui, ch'io in terra amava, in cielo adoro,

Dirai: così v'onora il secol nostro.

Mentre udirà querele oscure e chiare

Morte; Amor fiamme arà dolci ed amare;

Mentre spiegherà il Sol dorate chiome;

Sempre sarà lodato il vostro nome.


A lei, che l'Appennin superbo affrena,

Là 've parte le piagge il bel Metauro;

Di cui non vive dal mar Indo al Mauro,

Da l'Orse a l'Austro, simil nè seconda,

Va prima: ella ti mostre, o ti nasconda.


SonettoCXXVII (CLVII)


Adunque m'hai tu pur, in su 'l fiorire

Morendo, senza te, Frate, lasciato;

Perché 'l mio dianzi chiaro e lieto stato

Ora si volga in tenebre e 'n martire?


Gran giustizia era, e mio sommo desire,

Da me lo stral avesse incominciato:

E come al venir qui son primo stato,

Ancora stato fossi al dipartire.


Ché non arei veduto il mio gran danno,

Di me stesso sparir la miglior parte;

E sarei teco fuor di questo affanno.


Or ch'io non ho potuto innanzi andarte,

Piaccia al Signor, a cui non piace inganno,

Ch'io possa in breve e scarco seguitarte.


SonettoCXXVIII (CLVIII)


Leonico, che 'n terra al ver sì spesso

Gli occhi levavi e 'l penser dotto e santo;

Et or nel cielo il guiderdon promesso

Ricevi al tuo di lui studio cotanto;


A te non si conven doglia, nè pianto:

Ch'omai pien d'anni, e pago di te stesso

Chiudi il tuo chiaro dì; ma festa e canto

Del grande a la tua vita onor concesso.


Qual dalla mensa uom temperato e sazio,

Ti diparti dal mondo, e torni a lui,

Che t'ha per nostro ben tardo ritolto.


Conviensi a me, che non ho più, con cui

Sì securo fornir quel poco o molto,

Che de la dubbia via m'avanza, spazio.


SonettoCXXIX (CLIX)


Navager mio, ch'a terra strana volto

Per giovar a la patria il mondo lassi,

Te piango: e piangon meco i liti, i sassi

E l'erbe, che per te crebber già molto.


Tu le palme latine hai di man tolto

Ai nostri tutte, con sì fermi passi

Salisti 'l colle: or quando più vedrassi

Tanto valor in un petto raccolto?


Grave duol certo; pur io mi consolo,

Ch'or ti diporti con quell'alme antiche,

Che tanto amasti, e teco è 'l buono e saggio


SAVORGNAN, che contese alle nemiche

Schiere il suo monte, e fu d'alto coraggio,

E poco inannzi a te prese il suo volo.


SonettoCXXX (CLX)


Anime, tra cui spazia or la grande ombra

Del dotto NAVAGER, per sorte acerba

Di questo secol reo, che miete in erba

Tutti i suoi frutti, o li dispiega in ombra,


Qual gioia voi della sua vista ingombra,

Tal noi preme dolor: poi sì superba

è stata morte, ch'i men degni serba,

E del maggior valor prima ne sgombra.


Piacciavi dir, quando il nostro emispero

Diede agli Elisi più sì chiaro spirto;

Ed egli qual da voi riceve onore


Raro dopo gli antichi: a questo Omero

Basciò la fronte e cinsela di mirto:

Virgilio parte seco i passi e l'ore.


SonettoCXXXI (CLXI)


Porto, che 'l piacer mio teco ne porti,

La vita e noi sì tosto abbandonando,

Che farò qui senza te lasso? e quando

Udirò cosa più, che mi conforti?


Invidio te, che vedi i nostri torti

Dal tuo dritto sentier, già posti in bando

Gli umani affetti; e vo pur te chiamando

Beato e vivo, e noi miseri e morti.


Deh che non mena il Sole omai quel giorno,

Ch'io renda la mia guardia, e torni al cielo,

Di tanti lumi in sì poche ore adorno?


Nel qual, lasciato in terra il suo bel velo,

Fa con l'eterno Re colei soggiorno,

Onde ho la piaga, ch'ancor amo e celo.


SonettoCXXXII (CLXII)


Or hai de la sua gloria scosso Amore,

O morte acerba: or delle donne hai spento

L'alto Sol di virtute e d'ornamento,

E noi rivolti in tenebroso orrore.


Deh perchè sì repente ogni valore,

Ogni bellezza inseme hai sparso al vento?

Ben potei tu de l'altre ancider cento,

E lei non torre a più maturo onore.


Fornito hai, bella donna, il tuo viaggio:

E torni al ciel con giovenetto piede,

Lasciando in terra la tua spoglia verde.


Ben si può dir omai, che poca fede

Ne serva il mondo, e come strale, o raggio,

A pena spunta un ben, che si disperde.


SonettoCXXXIII (CLXIII)


Ov'è, mia bella, e cara, e fida scorta,

L'usata tua pietà, che sol mi lassi

Al cammin duro, ai perigliosi passi,

Da me cotanto dilungata e torta?


Vedi l'alma, che trema e si sconforta

Per lo tuo dipartire, e 'n prova stassi

D'abbandonarmi; e sfida i membri lassi,

Per seguir te, qual viva, or così morta.


Ben le dice mio cor, chi t'assecura?

E forse a lei sua pace turberai,

Che di nostra salute in cielo ha cura .


Ella, che fo più qui? risponde: mai

Sostegno tale, e ben tanto, e ventura

Perdè null'altra: e tu misero il sai.


SonettoCXXXIV (CLXIV)


L'alto mio dal Signor tesoro eletto

De' suoi gemmai più ricchi, e con più cura,

Quella, che nè giudicio, nè misura

Usa nel tor, m'ha tolto, ond'io l'aspetto.


Che sì mendica e piena di sospetto

È rimasa quest'alma e 'n così dura

Vita, ch'assai le fora a gran ventura

Cenere farsi omai del suo ricetto:


Tal che leggera e di quel nodo sciolta

Potesse tanto in su levarsi a volo,

Che si posasse a piè de la sua donna.


O per me chiaro, e lieto, e dolce solo

Quel dì, nè può tardar, s'ella m'ascolta,

Che squarcerà questa povera gonna.


SonettoCXXXV (CLXV)

Quando, forse per dar loco a le stelle,

Il Sol si parte, e 'l nostro cielo imbruna,

Spargendosi di lor, ch'ad una ad una,

A diece, a cento escon fuor chiare e belle;


I penso e parlo meco, in qual di quelle

Ora splende colei, cui par alcuna

Non fu mai sotto 'l cerchio della Luna;

Benché di Laura il mondo assai favelle?


In questa piango, e poi ch'al mio riposo

Torno, più largo fiume gli occhi miei,

E l'imagine sua l'alma riempie


Trista: la qual mirando fiso in lei

Le dice quel, ch'io poi ridir non oso:

O notti amare, o Parche ingiuste ed empie!


SonettoCXXXVI (CLXVI)


Tosto che la bell'alba solo e mesto

Titon lasciando a noi conduce il giorno;

E ch'io mi sveglio, e rimirando intorno

Non veggo 'l Sol, che suol tenermi desto;


Di dolor, e di panni mi rivesto:

E sospirando il bel dolce soggiorno,

Che 'l ciel m'ha tolto, a lagrimar ritorno:

La luce ingrata, e 'l viver m'è molesto.


Talor vengo agl'inchiostri, e parte noto

Le mie sventure; ma 'l più celo e serbo

Nel cor: che nullo stile è che le spieghi.


Talor pien d'ira e di speranze voto,

Chiamo, chi del mortal mi scinga e sleghi:

O giorni tenebrosi, o fato acerbo!


SonettoCXXXVII (CLXVII)


S'al vostro amor ben fermo non s'appoggia

Mio cor, che ad ogni obbietto par che adombre,

Pregate lei, che ne' begli occhi alloggia,

Che di sì dura vita omai mi sgombre.


Non sempre alto dolor, che l'alma ingombre,

Scema per consolar, ma talor poggia:

Come lumi del ciel per notturne ombre:

Come di foco in calce esca per pioggia.


Morte m'ha tolto a la mia dolce usanza:

Or ho tutt'altro e più me stesso a noia,

Anzi a disdegno, e sol pianger m'avanza.


COSMO, chi visse un tempo in pace e 'n gioia,

Poi vive in guerra e 'n pene, e più speranza

Non ha di ritornar, qual fu; si moia.


SonettoCXXXVIII (CLXVIII)


Ben devrebbe Madonna a sé chiamarmi

Su nel beato e lieto asilo eterno;

E 'n questo pien di noia e pene inferno

Vita mortale omai più non lasciarmi:


Ché non è sotto 'l Sol ben da quetarmi,

Sì gli ho tutti col mondo inseme a scherno:

Nè può conforto al grave affanno interno,

Sendo di fuor chiusa ogni via, passarmi.


Ma s'ella il nodo a l'alma non discioglie,

Vedendo me di tacito e contento

Volto a sì triste e lamentose tempre;


E per sé non m'ancide, e quinci toglie

Il duol, che del suo ratto sparir sento;

Soranzo, i piango, e son per pianger sempre.


SonettoCXXXIX (CLXIX)


Donna, che fosti oriental Fenice

Tra l'altre donne, mentre il mondo t'ebbe,

E poi che d'abitar fra noi t'increbbe,

Angel salisti al ciel novo e felice;


L'alta beltà del nostro amor radice

Col senno, ond'ei tanto si stese e crebbe,

Vento fatal sì tosto non devrebbe

Aver divelta, l'un penser mi dice,


Per cui d'amaro pianto il cor si bagna;

Ma l'altro ad or ad or con tai parole

Prova quetarmi; a che ti struggi, o cieco?


Non era degno di sì chiaro Sole

Occhio di mortal vista; or Dio l'ha seco,

Dal cui voler uom pio non si scompagna


SonettoCXL. (CLXX)


Deh, perché inanzi a me te ne se' gita,

Se tanto dopo me fra noi venisti?

Od io non me n'andai, quando partisti,

Teco? e tempo era ben d'uscir di vita.


Porgimi almen or tu dal cielo aita,

Ch'io chiuda questi dì sì neri e tristi,

Mostrandomi la via, per cui salisti

Al ben nato conciglio, alma e gradita.


Mentre i duo poli e 'l lucido Orione

Ti stai mirando, che tra lor si spazia,

Più giù qui, dov'io piango, e me risguarda:


E per Giesù, ch'al mondo oggi fe' grazia

Di se nascendo, a trarmi di pregione

E guidar costa su, non esser tarda.


SonettoCXLI (CLXXI)


S'Amor m'avesse detto: ohimè, da morte

Fieno i begli occhi prima di te spenti;

Avrei di lor con disusati accenti

Rime dettato, e più spesse e più scorte,


Per mio sostegno in questa dura sorte,

E perché le ben chiare ed apparenti

Note rendesser le lontane genti

De l'alma lor divina luce accorte:


Ché già sarebbe oltre l'Ibero, e 'l Gange,

La Tana, e 'l Nilo intesa, e divulgato,

Com'io solfo a quei raggi ed esca fui.


Or, poi ch'altro che pianger non m'è dato,

Piango pur sempre, e son; tanto duol m'ange;

Nè di me stesso ad uopo, nè d'altrui.


SonettoCXLII (CLXXII)


Un anno intero s'è girato a punto,

Che 'l mondo cadde del suo primo onore,

Morta lei, ch'era il fior d'ogni valore

Col fior d'ogni bellezza inseme aggiunto.


Come a sì mesto e lagrimoso punto

Non ti divelli e schianti, afflitto core,

Se ti rimembra, ch'a le tredici ore

Del sesto dì d'agosto il Sole è giunto?


In questa uscìo de la sua bella spoglia

Nel mille cinquecento e trentacinque

L'anima saggia, ed io cangiando il pelo


Non so però cangiar pensieri e voglia,

Ch'omai s'affretti l'altra e s'appropinque,

Ch'io parta quinci, e la rivegga in cielo.


SonettoCXLIII (CLXXIII)


Quella per cui chiaramente alsi ed arsi

Undici ed undici anni, al ciel salita,

Ha me lasciato in angosciosa vita:

O guadagni del mondo incerti e scarsi!


Che s'uom sotto le stelle ha da lagnarsi

Di suo gran danno, e di mortal ferita;

I son colui, ch'a morte cheggio aita;

Nè fine altronde al mio dolor può darsi.


Ben la scorgo io sin di là su talora,

D'amor e di pietate accesa il ciglio

Dirmi: tu pur qui sarai meco ancora:


Ond'io mi riconforto, ed in quell'ora

Di volger l'alma al ciel prendo consiglio:

Poi torna il pianto tristo, che m'accora.


SonettoCXLIV (CLXXIV)


Era Madonna al cerchio di sua vita

Trigesimo ed ottavo, quando morte

La spogliò del bel velo eletto in sorte

A vestir alma sì dal ciel gradita.


Perché, crudeli Parche, ancora unita

Mente a trar me del mio non foste accorte?

Cosa non ho, ch'altro che duol m'apporte:

Col suo piè freddo ogni mia festa è gita.


Qual alga in mar, che quinci e quindi l'onde

Sospingan, vivo; o qual abete in cima

D'altissim'alpe, all'austro, al borea segno.


Se quei pur vive, ch'assai lieto in prima,

Perde poi la sua guida e 'l suo sostegno,

E sempre chiama, e nessun mai risponde.


SonettoCXLV (CLXXV)


Che mi giova mirar donne e donzelle,

E prati e selve e rivi, e 'l bel governo,

Che fa del mondo il buon motore eterno,

Mar, terra, cielo, e vaghe, o ferme stelle?


Spenta colei, ch'un sol fu tra le belle

E tra le sagge, or è mio nembo interno:

Forme d'orror mi sembra quant'io scerno:

Esser cieco vorrei per non vedelle.


Ch'i' non so volger gli occhi a parte, ov'io

Non scorga lei fra molte meste, o lasso,

Chiuder morendo le sue luci sante.


Ond'io viver non curo, anzi desio

Di girle dietro con veloce passo:

Ed era me', ch'i' le fossi ito avante.


Canzone XXIX (CLXXVI)


Donna, de' cui begli occhi alto diletto

Trasser i miei gran tempo, e lieto vissi,

Mentre a te non dispiacque esser fra noi,

Se vedi, che quant'io parlai nè scrissi,

Non è stato se non doglia e sospetto

Dopo il quinci sparir dei raggi tuoi,

Impetra dal Signor, non più ne' suoi

Lacci mi stringa il mondo, e possa l'alma,

Che devea gir inanzi, omai seguirti.

Tu godi, assisa tra' beati spirti,

Della tua gran virtute, e chiara ed alma

Senti, e felice dirti:

Io senza te rimaso in questo inferno,

Sembro nave in gran mar senza governo:

E vò là dove il calle, e 'l piè m'invita,

La tua morte piangendo, e la mia vita.


Sì come più di me nessuno in terra

Visse de' suoi pensier pago e contento,

Te qui tenendo la divina cura;

Così cordoglio equale a quel, ch'io sento,

Non è, nè credo ch'esser possa: e guerra

Non fè giamai sì dispietata e dura

La spada, che suoi colpi non misura,

Quanto or a me, che 'n un sol chiuder d'occhi

Le mie vive speranze ha tutte estinto:

Ond'io son ben in guisa oppresso e vinto,

Che pur che 'l cor di lagrime trabocchi,

Mentre d'intorno cinto

Sarò de la caduca e frale spoglia,

Altro non cerco: o quando fia che voglia

Di vita il Re celeste e pio levarmi?

Prega 'l tu, Santa, e così poi quetarmi.


Avea per sua vaghezza teso Amore

Un'alta rete a mezzo del mio corso,

D'oro e di perle, e di rubin contesta,

Che veduta al più fero e rigid'orso

Umiliava e 'nteneriva il core

E quetava ogni nembo, ogni tempesta;

Questa lieto mi prese, e poscia in festa

Tenne molt'anni: or l'ha sparsa e disciolta,

Per far me sempre tristo, acerba sorte.

Ahi cieca, sorda, avara, invida morte;

Dunque hai di me la parte maggior tolta,

E l'altra sprezzi? O forte

Tenor di stelle, o già mia speme, quanto

Meglio m'era il morir, che 'l viver tanto!

Deh non mi lasciar qui più lungo spazio;

Ch'io son di sostenermi stanco e sazio.


Sovra le notti mie fur chiaro lume

E nel dubbio sentier fidata scorta

I tuoi begli occhi, e le dolci parole.

Or, lasso, che ti se' oscurata e torta

Tanto da me, convien ch'io mi consume

Senza i soavi accenti e 'l puro Sole:

Nè so cosa mirar, che mi console,

O voce udir, che 'l cor dolente appaghi

Nè mica in questo lamentoso albergo,

Lo qual dì e notte, pur di pianto aspergo,

Chiedendo che si volga e me rimpiaghi

Morte, nè più da tergo

Lasci, e m'ancida col suo stral secondo;

Poichè col primo ha impoverito il mondo,

Toltane te, per cui la nostra etade

Sì ricca fu di senno e di beltade.


Avess'io almen penna più ferma, o stile

Possente agli altri secoli di mille

De le tue lode farne passar una;

Che già di leggiadrissime faville

S'accenderebbe ogni anima gentile:

E io mi dorrei men di mia fortuna,

E men di morte, in aspettando alcuna

Vendetta contra lei da le mie rime.

E per chieder ancora, o se 'l mio inchiostro,

Mantova e Smirna, s'avanzasse al vostro

Tanto, che non pur lei la più sublime

In questo basso chiostro,

Ma tal là su facesse opra, che 'l cielo

La sforzasse a tornar nel suo bel velo:

Perché non fosse uom poi così beato,

Con ch'io cangiassi il mio gioioso stato.


Se tu stessa, Canzone,

Di quel vedermi lieto mai non credi,

Che più vo desiando; a pianger riedi,

E dì, del pianto molle, ovunque arrive,

Madonna è morta, e quel misero vive.


SONETTO CXLVI. (CLXXVII.)


O Sol, di cui questo bel sole è raggio,

Sol, per lo qual visibilmente splendi,

Se sovra l'opre tue qua giù ti stendi;

Riluci a me, che speme altra non aggio.


Da l'alma, ch'a te fa verace omaggio

Dopo tanti e sì gravi suoi dispendi,

Sgombra l'antiche nebbie, e tal la rendi,

Che più dal mondo non riceva oltraggio.


Omai la scorga il tuo celeste lume:

E se già mortal fiamma, e poca l'arse;

All'eterna ed immensa or si consume


Tanto, che le sue colpe in caldo fiume

Di pianto lavi, e monda, da levarse

E rivolar a te vesta le piume.


SonettoCXLVII (CLXXVIII)


Se già ne l'età mia più verde e calda

Offesi te ben mille e mille volte,

E le sue doti l'alma ardita e balda

Da te donate, ha contra te rivolte;


Or che m'ha 'l verno in fredda e bianca falda

Di neve il mento e queste chiome involte,

Mi dona, ond'io con piena fede e salda

Padre t'onori, e le tue voci ascolte.


Non membrar le mie colpe, e poi ch'addietro

Tornar non ponno i mal passati tempi,

Reggi tu del cammin quel, che m'avanza:


E sì 'l mio cor del tuo desio riempi,

Che quella, che 'n te sempre ebbi, speranza,

Quantunque peccator, non sia di vetro.


Canzone XXX (CLXXIX)


Signor, quella pietà, che ti constrinse

Morendo far del nostro fallo ammenda,

Da l'ira tua ne copra e ne difenda.


Vedi, Padre cortese,

L'alto visco mondan com'è tenace,

E le reti, che tese

Ne son dall'avversario empio e fallace,

Quanto hanno intorno a se di quel che piace.

Però s'aven, che spesso uom se ne prenda,

Questo talor pietoso a noi ti renda.


Non si nega, Signore,

Che 'l peccar nostro senza fin non sia.

Ma se non fosse errore;

Campo da usar la tua pietà natia

Non avresti: la qual perché non stia

In oscuro, e quanta è fra noi, s'intenda,

Men grave esser ti dee, ch'altri t'offenda.


Tu, Padre, ne mandasti

In questo mar, e tu ne scorgi a porto:

E se molto ne amasti,

Allor che 'l mondo t'ebbe vivo e morto;

Amane a questo tempo: e 'l nostro torto

La tua pietosa man non ne sospenda;

Ma grazia sopra noi larga discenda.



Sonetto LXXXV (CXI)


Sento l'odor da lunge, e 'l fresco e l'ora

Dei verdi campi, ove colei soggiorna,

Che co' begli occhi suoi le selve adorna

Di fronde, e con le piante l'erba infiora.


Sorgi dall'onde avanti all'usat'ora

Dimane, o Sole, e ratto a noi ritorna,

Ch'io possa il Sol, che le mie notti aggiorna,

Veder più tosto, e tu medesmo ancora.


Ché sai tra quanto scaldi e quanto giri,

Beltade e leggiadria sì nova e tanta,

Perdonimi qualunque altra, non miri.


E se qual alma quel bel velo amanta

Ancor sapessi, e quanto alti desiri;

L'inchineresti come cosa santa.


Canzone XXV (CXII)


Nè le dolci aure estive,

Nè 'l vago mormorar d'onda marina,

Nè tra fiorite rive

Donna passar leggiadra e pellegrina,

Fur giammai medicina,

Che sanase pensero infernio e grave;

Ch'io non gli aggia, per nulla

Di quel piacer, che dentro mi trastulla

L'anima, di cui tene Amor la chiave:

Sì è dolce e oave.


SonettoLXXXVI (CXIII)


Ombre, in cui spesso il mio Sol vibra e spiega

Suoi raggi, e talor parla, e talor ride;

E dolcemente me da me divide;

E i vaghi e lievi spirti prende e lega;


Mentre venir tra voi non mi si niega,

Non curo, Amor se m'arde, o se m'ancide:

Che 'n queste chiuse valli e sole e fide

Ogni mia pena, e morte ben s impiega.


Sento una voce fuor dei verdi rami

Dir, sì leggiadra donna, e sì gentile

Esser non può, che non gradisca ed ami.


Onde 'l superno Re devoto umile

Prego, non tosto in ciel la si richiami:

Ch'io farei cieco, e 'l mondo oscuro e vile.


SonettoLXXXVII (CXIV)


Fiume, onde armato il mio buon vicin bebbe,

Quando del gorgo e de la destra riva

Fugò lo stuol di Sparta, che veniva

Di quel cercando, che trovar gl'increbbe;


Qual ti fè dono e quant'onor t'accrebbe

Quel dì, che 'l corso tuo leggiadra e schiva

Vincea Madonna, e 'n contro a te saliva

Co 'l Sol, ch'a lei mirando invidia n'ebbe:


E d'un oscuro nembo ricoperse

La ricca navicella d'ogn'intorno,

Che di ventosa pioggia la consperse.


Ma poi, come temesse infamia e scorno

Di tal vendetta, il ciel turbato aperse,

Rendendo a Teti chiaro e puro il giorno.


SonettoLXXXVIII (CXV)


Se voi sapete, che 'l morir ne doglia,

Però che da noi stessi ne diparte,

Sapete ond'è, che, quand'io sto in disparte

Di Madonna, mi preme ultima doglia.


Ella è l'alma di me, ch'ogni sua voglia

Ne fa, siccome donna in serva parte:

Io, che lei seguo, in altro non ho parte,

Che 'n questa grave, e frale, e nuda spoglia.


E poi che non pote uom senza lo spirto

Tenersi in vita, ognor ch'io le son lunge,

Morte m'assale, ond'i' m'agghiaccio e torpo.


Vero è, ch'un crin di lei negletto ed irto

Ch'io miri, o l'ombra pur del suo bel corpo,

Trifon mio caro, a me mi ricongiunge.


SonettoLXXXIX (CXVI)


Molza, che fa la donna tua, che tanto

Ti piacque oltra misura? e fu ben degno,

Poi che sì chiaro e sì felice ingegno

Veste di sì leggiadro e sì bel manto.


Tienti ella per costume in doglia e pianto

Mai sempre, onde ti sia la vita a sdegno?

O pur talor ti mostra un picciol segno,

Che le 'ncresca del tuo languir cotanto?


Che detta il mio Collega, il qual n'ha mostro

Col suo dir grave e pien d'antica usanza,

Sì come a quel d'Arpin si può gir presso?


Che scrivi tu, del cui purgato inchiostro

Già l'uno e l'altro stil molto s'avanza?

Star neghittoso a te non è concesso.


SonettoXC. (CXVII)


Se la più dura quercia, che l'Alpe aggia,

V'avesse partorita, e le più infeste

Tigri Ircane nodrita; anco devreste

Non essermi sì fera e sì selvaggia.


Lasso, ben fu poco avveduta e saggia

L'alma, che di riposo in sì moleste

Cure si pose, e le mie vele preste

Girò dal porto a tempestosa piaggia.


Altro da indi in qua, che pene e guai,

Non fu meco un sol giorno, ed onta e strazio

E lagrime, che 'l cor profondo invia.


Nè sarà per innanzi, e se pur fia,

Non fia per tempo: ch'i son, Donna, omai

Di viver, non che d'altro, stanco e sazio.


SonettoXCI (CXVIII)


Per far tosto di me polvere ed ombra,

Non v'hann'uopo erbe, Donna, in Ponto colte:

Tenete pur le luci in se raccolte,

Mostrandovi d'amor e pietà sgombra.


L'alma, cui grave duol dì e notte ingombra,

Non par omai, che più conforto ascolte,

Misera: e le speranze vane e stolte

Del cor già stanco in aspettando sgombra.


Breve spazio, che dure il vostro orgoglio,

Avrà fin la mia vita: e non men pento:

Non viver pria, che sempre languir voglio.


Morte, che tronca lungo aspro tormento,

È riposo, e chiunque a suo cordoglio

Si toglie per morir, moia contento.


SonettoXCII (CXIX)


Sì levemente in ramo alpino fronda

Non è mossa dal vento, o spica molle

In colto e verde poggio, o nebbia in colle,

O vaga nel ciel nube, e nel mar onda;


Come sotto bel velo e treccia bionda

In picciol tempo un cor si dona e tolle;

E disvorrà quel che più ch'altro volle:

E di speranze e di sospetti abonda.


Gela, suda, chier pace, e move guerra:

Nostra pena, Signor, che noi legasti

A così grave e duro giogo in terra.


Se non che sofferenza ne donasti:

Con la qual chi le porte al dolor serra,

Pur vive, e par che prova altra non basti.


SonettoXCIII (CXX)


Tanto è ch'assenzo e fele e rodo e suggo,

Ch'omai di lor mi pasco e mi nodrisco,

E son sì avezzo al foco, ond'io mi struggo,

Che volontariamente ardo e languisco.


E se del carcer tuo pur talor fuggo

Per fuggir da la morte, e tanto ardisco,

Tosto ne piango ed a pregion rifuggo,

Amor, più dura, in pena del mio risco.


E fo come augellin, che si fatica

Per uscir della rete, ov'egli è colto;

Ma quanto più si scuote, e più s'intrica.


Tal fu mia stella il dì, che nel bel volto

Mirai primier dell'aspra mia nemica,

Ch'a me tutt'altro, e più me stesso ha tolto.


Canzone XXVI (CXXI)


Poscia che 'l mio destin fallace ed empio

Nei dolci lumi dell'altrui pietade

Le mie speranze acerbamente ha spento;

Di pena in pena, e d'uno in altro scempio

Menando i giorni, e per aspre contrade

Morte chiamando a passo infermo e lento,

Nebbia e polvere al vento

Son fatto, e sotto 'l Sol falda di neve;

Ch'un volto segue l'alma, ov'ella il fugge;

E un penser la strugge

Cocente sì, ch'ogni altro danno è leve:

E gli occhi, che già fur di mirar vaghi,

Piangono e questo sol par che gli appaghi.


Or che mia stella più non m'assicura,

Scorgo le membra via di passo in passo

Per cammin duro e 'n penser tristo e rio:

Ch'io dico pien d'error e di paura,

Ove ne vo, dolente? e che pur lasso?

Chi mi t'invidia, o mio sommo desio?.

Così dicendo un rio

Verso dal cor di dolorosa pioggia,

Che può far lacrimar le petre istesse;

E perché sian più spesse

L'angoscie mie, con disusata foggia,

U' che 'l piè movo, u' che la vista giro,

Altro che la mia donna unqua non miro.


Co 'l piè pur meco, e co 'l cor con altrui

Vo camminando, e dell'eterna riva

Bagnando for per gli occhi ogni sentero,

Alor ch'i penso: ohimè, che son, che fui?

Del mio caro tesoro or chi mi priva;

E scorge in parte, onde tornar non spero?

Deh perché qui non pero,

Prima ch'io ne divenga più mendico?

Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,

Per vestirmi di doglia

Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico

Destin, a che mi trai, perché non sia

Vita dura mortal, quanto la mia?


Ove men porta il calle o 'l piede errante,

Cerco sbramar piangendo, anzi ch'io moia,

Le luci, che desio d'altro non hanno:

E grido, o disaventuroso amante,

Or se' tu al fin della tua breve gioia,

E nel principio del tuo lungo affanno.

E gli occhi, che mi stanno

Come due stelle fissi in mezzo a l'alma;

E 'l viso, che pur dianzi era 'l mio Sole;

E gli atti e le parole,

Che mi sgombrâr del petto ogni altra salma;

Fan di pensieri al cor sì dura schiera,

Che meraviglia è ben, com'io non pera.


Non pero già, ma non rimango vivo;

Anzi pur vivo al danno, alla speranza

Via più che morto d'ogni mia mercede.

Morto al diletto, a le mie pene vivo;

E, manco del gioir, nel duol s'avanza

Lo cor, ch'ognor più largo a pianger riede:

E pensa e ode e vede

Pur lei, che l'arse già sì dolcemente,

E or in tanto amaro lo distilla:

Né sol d'una favilla

Scema 'l gran foco de l'accesa mente:

E me fa gir gridando: o destin forte,

Come m'hai tu ben posto in dura sorte!


Canzon, omai lo tronco ne ven meno,

Ma non la doglia che mi strugge e sforza;

Ond'io ne vergherò quest'altra scorza.


Canzone XXVII (CXXII)


Lasso, ch'i fuggo e per fuggir non scampo,

Nè 'n parte levo la mia stanca vita

Del giogo, che la preme ovunque i vada:

E la memoria, di ch'io tutto avvampo,

A raddoppiar i miei dolor m'invita,

E testimon lasciarne ogni contrada.

Amor, se ciò t'aggrada,

Almen fa con Madonna, ch'ella il senta:

E là ne porta queste voci estreme,

Dove l'alta mia speme

Fu viva un tempo, ed or caduta e spenta

Tanto fa questo esilio acerbo e grave,

Quanto lo stato fu dolce e soave.


S'in alpe odo passar l'aura fra 'l verde,

Sospiro e piango, e per pietà le cheggio,

Che faccia fede al ciel del mio dolore.

Se fonte in valle, o rio per cammin verde

Sento cader, con gli occhi miei vaneggio

A farne un del mio pianto via maggiore.

S'io miro in fronda o 'n fiore,

Veggio un, che dice: o tristo peregrino,

Lo tuo viver fiorito è secco e morto.

E pur nel pensier porto

Lei, che mi diè lo mio acerbo destino:

Ma quanto più pensando io ne vo seco,

Tanto più tormentando Amor ven meco.


Ove raggio di Sol l'erba non tocchi,

Spesso m'assido, e più mi sono amici

D'ombrosa selva i più riposti orrori:

Ch'io fermo 'l penser vago in que' begli occhi,

Che solean far miei dì lieti e felici,

Or gli empion di miserie e di dolori:

E perché più m'accori

L'ingordo error, a dir de' miei martiri

Vengo lor, com'io gli ho di giorno in giorno.

Poi quando a me ritorno,

Trovomi sì lontan da' miei desiri,

Ch'io resto, ahi lasso, quasi ombra sott'ombra;

Di sì vera pietate Amor m'ingombra.


Qualor due fiere in solitaria piaggia

Girsen pascendo simplicette e snelle

Per l'erba verde scorgo di lontano;

Piangendo a lor comincio: o lieta e saggia

Vita d'amanti, a voi nemiche stelle

Non fan vostro sperar fallace e vano:

Un bosco, un monte, un piano,

Un piacer, un desio sempre vi tene.

Io da la donna mia quanto son lunge?

Deh, se pietà vi punge,

Date udienzia inseme a le mie pene.

E 'n tanto mi riscuoto e veggio espresso

Che per cercar altrui perdo me stesso.


D'erma rivera i più deserti lidi

M'insegna Amor, lo mio avversario antico:

Che più s'allegra, dov'io più mi doglio.

Ivi 'l cor pregno in dolorosi stridi

Sfogo con l'onde, ed or d'un ombilico

E dell'arena li fo penna e foglio.

Indi per più cordoglio

Torno al bel viso, come pesce ad esca:

E con la mente in esso rimirando,

Temendo, e desiando,

Prego sovente che di me gl'incresca.

Poi mi risento, e dico: O penser casso,

Dov'è Madonna? e 'n questa piango e passo.


Canzon, tu viverai con questo faggio

Appresso all'altra, e rimarrai con lei:

E meco ne verranno i dolor miei.


SonettoXCIV (CXXIII)


La nostra e di Giesù nemica gente,

Ch'or lieta, come fosse un picciol varco,

L'Istro passando, in parte ha l'odio scarco

Sovra quei, che la fer già sì dolente;


Di cui trema il Tedesco, e 'n van si pente,

Ch'al ferro corse pigro, a l'oro parco;

E vede incontro a sé riteso l'arco,

C'ha Rodo e l'Ungheria piagate e spente;


Tu, che ne sembri Dio, raffrena e doma

L'empio furor con la tua santa spada,

Sgombrando 'l mondo di sì grave oltraggio,


E noi di tema, che non pera e cada

Sopra queste Lamagna, Italia, e Roma:

E direnti Clemente e forte e saggio.


SonettoXCV (CXXIV)


Da torvi agli occhi miei s'a voi diede ale

Fortuna ria, cui del mio bene increbbe;

Di levarmi al penser forza non ebbe,

Ch'è con voi sempre, al volar vostro equale.


Questi vi mira, quanto sete e quale:

E se 'l poteste udir, vi conterebbe

Di me, degli altri vostri: e ne devrebbe

Valer, se vero amor suo pregio vale.


Che poi che Pisa n'ha disciolti e privi

Di vostra compagnia, sem fatti quasi

Selve senz'ombra, o senza corso rivi.


Pochi degli onor tuoi ti son rimasi,

Padova mia: che i più son translati ivi

Col buon Ridolfo nostro, onde fiorivi.


SonettoXCVI (CXXV)


Pon Febo mano a la tua nobil arte,

Ai sughi, all'erbe: e quel dolce soggiorno

De' miei pensier, cui piove entro e d'intorno

Quanta beltà fra mille il ciel comparte,


Ch'or langue e va mancando a parte a parte,

Risana e serba: a te fia grave scorno,

Se così cara donna anz'il suo giorno

Dal mondo, ch'ella onora, si diparte.


Torna co 'l chiaro sguardo, ch'è 'l mio Sole,

La guancia, che l'affanno ha scolorita,

A far seren, qual pria, delle vostre ugge.


E sì darai tu scampo alla mia vita,

Che si consuma in lei, nè meco vvle

Sol un dì sovrastar, s'ella sen fugge.


SonettoXCVII (CXXVI)


Tenace e saldo, e non par, che m'aggrave,

è 'l nodo, onde mi strinse a voi la Parca,

Che fila il viver nostro; e ben è parca

Tutto lo stame far chiaro e soave.


Che qual avinta dietro a ricca nave

Solca talor la sua picciola barca

L'Egeo turbato, e di par seco il varca,

E procella sostien noiosa e grave;


Tal io; mentre fra via l'onde avvolgendo

Vi percosse repente aspra tempesta,

Passai quel mar con travagliato legno;


Ma poi fortuna più non v'è molesta,

Corro sedato voi lieta seguendo,

Fatale e prezioso mio ritegno.


SonettoXCVIII (CXXVII)


Mentre navi, e cavalli, e schiere armate,

Che 'l ministro di Dio sì giustamente

Move a ripor la misera e dolente

Italia, e la sua Roma in libertate,


Son cura de la vostra alta pietate,

Io vo, Signor, pensando assai sovente

Cose, ond'io queti un desiderio ardente

Di farmi conto a più d'un'altra etate.


Dal vulgo intanto m'allontano, e celo

Là dov'io leggo e scrivo, e 'n bel soggiorno

Partendo l'ore fo picciol guadagno.


Peso grave non ho dentro o d'intorno:

Cerco piacer a Lui, che regge il cielo:

Di duo mi lodo, e di nessun mi lagno.


SonettoXCIX (CXXVIII)


Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento

Molt'anni assai felice: e se 'l turbato

Regno d'Amor non ha felice stato,

Tennimi almen di lui pago e contento.


Poi per dar le mie vele a miglior vento,

Quando lume del ciel mi s'è mostrato,

Scintomi del bel viso in sen portato,

Sparsi co 'l piè la fiamma, e non men pento.


Ma l'imamgine sua dolente e schiva

M'è sempre innanzi, e preme il cor sì forte,

Ch'io son di Lete omai presso a la riva.


S'io 'l varcherò; farai tu, che si scriva

Sovra 'l mio sasso, com'io venni a morte,

Togliendomi ad Amor, mentr'io fuggiva.


SonettoC (CXXIX)


Se delle mie ricchezze care e tante,

E sì guardate, ond'io buon tempo vissi

Di mia sorte contento, e meco dissi:

- Nessun vive di me più lieto amante;


Io stesso mi disarmo: e queste piante

Avezze a gir per là, dov'io scoprissi

Quegli occhi vaghi, e l'armonia sentissi

Delle parole sì soavi e sante,


Lungi da lei di mio voler sen vanno,

Lasso, chi mi darà, Bernardo, aita?

O chi m'acqueterà, quand'io m'affanno?


Morrommi; e tu dirai, mia fine udita:

Questi, per non veder il suo gran danno,

Lasciata la sua donna, uscìo di vita.


SonettoCI (CXXX)


Signor, che parti e tempri gli elementi,

E 'l Sole e l'altre stelle e 'l mondo reggi,

Ed or col freno tuo santo correggi

Il lungo error de le mie voglie ardenti;


Non lasciar la mia guardia, e non s'allenti

La tua pietà; perch'io tolto alle leggi

M'abbia d'Amor, e disturbato i seggi,

In ch'ei di me regnava, alti e lucenti.


Ché, come audace lupo suol degli agni

Stretti nel chiuso lor, così costui

Ritenta far di me l'usata preda.


Acciò pur dunque in danno i miei guadagni

Non torni, e 'l lume tuo spegner si creda;

Con fermo piè dipartirmi da lui.


SonettoCII (CXXXI)


Che gioverà da l'alma avere scosso

Con tanta pena il giogo, che la presse

Lunga stagion, s'Amor con quelle stesse

Funi il rilega, ed io fuggir non posso?


Meglio era che lo strale, onde percosso

Fui da' begli occhi, ancor morto m'avesse:

Che fosse il braccio tuo, ch'allor mi resse,

Da me, superno Padre, unqua rimosso.


Ma poi ch'errante e cieco mi guidasti,

Tu sentiero e Tu luce; ora ti degna

Voler, che ciò far vano altri non basti:


E lei sì del tuo foco incendi e segna,

Che poggiando in desir leggiadri e casti

Rivoli a te, quando 'l suo dì ne vegna.


SonettoCIII (CXXXII)


Signor, che per giovar sei Giove detto,

E sempre offeso giammai non offendi,

Da quel folle tiranno or mi difendi,

Del qual fui cotant'anni sì suggetto.


Se per donarmi a te chiaro disdetto

Ho fatto a lui, sovra 'l mio scampo intendi:

E perché 'l fallo mio tutto s'ammendi,

Co 'l tuo favor tranquilla il mio sospetto.


Di riaprirsi Amor questo rinchiuso

Fianco, e raccender la sua fiamma spenta

Cerca: tu dammi, ond'ei resti deluso.


Ché l'ardir suo conosco e l'antico uso:

E so come scacciato al cor s'avventa:

E dentro v'è, quando ne pare escluso.


SonettoCIV (CXXXIII)


Uscito fuor de la prigion trilustre

E deposto de l'alma il grave incarco,

Salir già mi parea, spedito e scarco

Per la strada d'onor montana illustre:


Quand'ecco Amor, ch'al suo calle palustre

Mi richiama, e lusinga, e mostra il varco,

Nè di pregar, nè di turbar è parco,

Per rimenarmi alle lasciate lustre.


Ond'io, Padre celeste, a te mi volgo:

Tu l'alta via m'apristi, e tu la sgombra

De le costui contra 'l mio gir insidie.


Mentre da questa carne non mi sciolgo,

Scaccia da me sì col tuo Sole ogni ombra,

Che 'l bel preso cammin nulla m'invidie.


SonettoCV (CXXXIV)


Signor del ciel, s'alcun prego ti move,

Volgi a me gli occhi, questo solo, e poi,

S'io il vaglio, per pietà coi raggi tuoi

Porgi soccorso a l'alma e forze nove:


Tal ch'Amor questa volta indarno prove

Tornarmi ai già disciolti lacci suoi:

Io chiamo te, ch'assecurar mi puoi:

Solo in te speme aver posta mi giove.


Gran tempo fui sott'esso preso e morto:

Or poco, o molto a te libero viva,

E tu mi guida al fin tardi, o per tempo.


Se m'ha falso piacer in mare scorto,

Vero di ciò dolor mi fermi a riva:

Non è da vaneggiar omai più tempo.


SonettoCVI (CXXXV)


O pria sì cara al ciel del mondo parte,

Che l'acqua cigne, e 'l sasso orrido serra:

O lieta sovra ogni altra, e dolce terra,

Che 'l superbo Appennin segna e diparte;


Che giova omai, se 'l buon popol di Marte,

Ti lasciò del mar donna, e de la terra?

Le genti a te già serve or ti fan guerra,

E pongon man ne le tue trecce sparte.


Lasso, nè manca de' tuoi figli ancora

Chi le più strane a te chiamando inseme

La spada sua nel tuo bel corpo adopre.


Or son queste simili all'antiche opre?

O pur così pietate, e Dio s'onora?

Ahi secol duro, ahi tralignato seme!


SonettoCVII (CXXXVI)


Trifon, che 'n vece di ministri e servi,

Di loggie e marmi, e d'oro intesto e d'ostro,

Amate intorno elci frondose, e chiostro

Di lieti colli, erbe e ruscei vedervi,


Ben deve il mondo in riverenza avervi,

Mirando al puro e franco animo vostro,

Contento pur di quel, che solo il nostro

Semplice stat,o e natural conservi.


O alma, in cui riluce il casto e saggio

Secolo, quando Giove ancor non s'era

Contaminato del paterno oltraggio;


Scendesti a far qua giù matino e sera:

Perché non sia tra noi spento ogni raggio

Di bel costume, e cortesia non pera.


SonettoCVIII (CXXXVII)


Quel dolce suon, per cui chiaro s'intende,

Quanto raggio del ciel in voi riluce,

Nel laccio, in ch'io già fui, mi riconduce

Dopo tant'anni, e preso a voi mi rende.


Sento la bella man, che 'l nodo prende,

E strigne sì, che 'l fin de la mia luce

Mi s'avvicina: e chi di fuor traluce,

Nè rifugge da lei, nè si difende:


Ch'ogni pena per voi gli sembra gioco,

E 'l morir vita: ond'io ringrazio Amore,

Che m'ebbe poco men fin dalle fasce,


E 'l vostro ingegno, a cui lodar son roco,

E l'antico desio, che nel mio core,

Qual fior di primavera, apre e rinasce.


SonettoCIX (CXXXVIII)


Così mi renda il cor pago e contento

Di quel desio, ch'in lui più caldo porto,

E colmi voi di speme e di conforto

Lo ciel, quetando il vostro alto lamento:


Com'io poco m'apprezzo, e talor pento

De le fatiche mie, che 'l dolce e scorto

Vostro stil tanto onora, e sommi accorto,

Ch'Amor in voi dritto giudicio ha spento.


Ben son degni d'onor gl'inchiostri tutti,

Onde scrivete, e per le genti nostre

Ne va 'l grido maggior, che suon di squille.


Però s'avven che 'n voi percota e giostre

L'empia fortuna; i sospir vostri e i lutti

Sì raro don di Clio scemi e tranquille.


SonettoCX (CXXXIX)


Cingi le costei tempie dell'amato

Da te già in volto umano arboscel, poi

Ch'ella sorvola i più leggiadri tuoi

Poeti col suo verso alto e purgato:


E se 'n donna valor, bel petto armato

D'onestà, real sangue onorar vuoi;

Onora lei, cui par, Febo, non puoi

Veder qua giù, tanto dal ciel l'è dato.


Felice lui, ch'è sol conforme obietto

All'ampio stile, e dal beato regno

Vede, Amor santo quanto pote e vale;


E lei ben nata, che sì chiaro segno

Stampa del marital suo casto affetto,

E con gran passi a vera gloria sale.


SonettoCXI (CXL.)


Alta Colonna, e ferma alle tempeste

Del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno

Leggiadre membra avvolte in nero panno,

E pensier santi, e ragionar celeste,


E rime sì soavi, e sì conteste,

Ch'all'età dopo noi solinghe andranno

E scherniransi del millesim'anno,

Già dolci e liete, ora pietose e meste:


Quanti vi dier le stelle doni a prova,

Forse estimar si può, ma lingua o stile

Nel gran pelago lor guado non trova.


Solo a sprezzar la vita, alma gentile

Desio di lui, che sparve, non vi muova:

Nè vi sia lo star nosco ingrato e vile.


SonettoCXII (CXLI)


Caro e sovran de l'età nostra onore,

Donna d'ogni virtute intero esempio,

Nel cui bel petto, come in sacro tempio,

Arde la fiamma del pudico amore;


Se 'n ragionar del vostro alto valore

Scemo i suoi pregi, e 'l dever mio non empio;

Scusimi quel, ch'in lui scorgo e contempio,

Novitate e miracol via maggiore,


Che da spiegar lo stile in versi o 'n rime;

Se non quel un, col quale al Signor vostro

Spento tessete eterne lode e prime.


Rara pietà, con carte e con inchiostro

Sepolcro far, che 'l tempo mai non lime,

La sua Fedele al grande Avalo nostro.


SonettoCXIII (CXLII)


Carlo, dunque venite a le mie rime

Vago di celebrar la donna vostra,

Ch'al mondo cieco quasi un Sol si mostra

Di beltà, di valor chiaro e sublime?


E non le vostre prose elette e prime,

Come gemma s'indora, o seta inostra,

Distendete a fregiarla: onde la nostra

E ciascun'altra età più l'ami e stime?


A tal opra in disparte ora son volto,

Che per condurla più spedito a riva,

Ogni altro a me lavoro ho di man tolto.


Voi, cui non arde il cor fiamma più viva,

Devete dir, omai di sì bel volto,

D'alma sì saggia, è ben ragion, ch'io scriva.


SonettoCXIV (CXLIII)


Girolamo, se 'l vostro alto Quirino,

Cui Roma spense i chiari e santi giorni,

Cercate pareggiar, sì che ne torni

Men grave quel protervo aspro destino;


Perché la nobil turba, onde vicino

Mi sete, a gradir voi lenta soggiorni,

Nè v'apra a i desiati seggi adorni,

Alle civili palme anco il cammino,


Non sospirate: il meritar gli onori

è vera gloria, che non pate oltraggio:

Gli altri son falsi e torbidi splendori


Del men buon più sovente, e del men saggio,

Che sembran quasi al vento aperti fiori,

O fresca neve d'un bel Sole al raggio.


SonettoCXV (CXLIV)


Se col liquor che versa, non pur stilla,

Sì largo ingegno, spegner non potete

La nova doglia, onde pietoso ardete,

Perché v'infiammi usata empia favilla;


Sperate nel Signor, che può tranquilla

Far d'ogni alma turbata: indi chiedete;

Tosto averrà, che lieto renderete

Grazie campato di Cariddi e Scilla.


Tacquimi già molt'anni; e diedi al tempio

La mal cerata mia stridevol canna,

E volsi a l'opra, che lodate, il core.


Così fan, che 'l desir vostro non empio,

Oblio de l'arte, e quei, che più m'affanna

Ch'adorne lui, del mio bel nido Amore.


SonettoCXVI (CXLV)


Varchi, le vostre pure carte, e belle,

Che vergate talor per onorarmi,

Più che metalli di Mirone, e marmi

Di Fidia mi son care, e stil d'Apelle.


Ché se già non potranno e queste e quelle

Mie prose, cura di molt'anni, o carmi,

Nel tempo, che verrà, lontano farmi,

Eterna fama spero aver con elle.


Ma dove drizzan ora i caldi rai

Dell'ardente dottrina, e studio loro

I duo miglior, Vittorio e Ruscellai?


Questi, e 'l vostro Ugolin, cui debbo assai,

Mi salutate: o fortunato coro,

Fiorenza e tu, che nel bel cerchio l'hai.


SonettoCXVII (CXLVI)


Donna, cui nulla è par bella nè saggia,

Nè sarà, credo, e non fu certo avante;

Degna, ch'ogni alto stil vi lodi e cante

E 'l mondo tutto in reverenzia v'aggia;


Voi per questa vital fallace piaggia

Peregrinando a passo non errante,

Coi dolci lumi e con le voci sante

Fate gentil d'ogni anima selvaggia.


Grazie del ciel, via più ch'altri non crede,

Piover in terra, scopre chi vi mira,

E ferma al suon de le parole il piede.


Tra quanto il Sol riscalda e quanto gira,

Miracolo maggior non s'ode e vede:

O fortunato chi per voi sospira!


SonettoCXVIII (CXLVII)


Se stata foste voi nel colle Ideo

Tra le Dive, che Pari a mirar ebbe,

Venere gita lieta non sarebbe

Del pregio, per cui Troia arse e cadeo.


E se 'l mondo v'avea con quei, che feo

L'opra leggiadra, ond'Arno e Sorga crebbe,

Et egli a voi lo stil girato avrebbe,

Ch'eterna vita dar altrui poteo.


Or sete giunta tardo alle mie rime,

Povera vena e suono umile, a lato

Beltà sì ricca, e 'ngegno sì sublime.


Tacer devrei: ma chi nel manco lato

Mi sta, la man sì dolce al core imprime,

Che per membrar del vostro obblio 'l mio stato.


SonettoCXIX (CXLVIII)


Sì divina beltà Madonna onora,

Ch'avanza ogni ventura il veder lei:

Ben è tre volte fortunato, e sei,

Cui quel Sol vivo abbaglia e discolora.


E s'io potessi in lui mirar, qual ora

Di rivederlo braman gli occhi miei,

Per poco sol, non pur quant'io vorrei,

Questa mia vita a pien beata fora.


Ché da ciascun suo raggio in un momento

Sì pura gioia per le luci passa

Nel cor profondo, e con sì dolce affetto,


Ch'a parole contarsi altrui non lassa:

Nè posso anco ben dir, quanto diletto

Sol in pensar de la mia donna sento.


SonettoCXX (CXLIX)


Se mai ti piacque, Apollo, non indegno

Del tuo divin soccorso in tempo farmi;

Detta ora sì felici e lieti carmi,

Sì dolci rime a questo stanco ingegno;


Che 'n ragionar del caro almo sostegno

Della fral vita mia possa quetarmi:

Le cui lode, e scemar del vero parmi,

Foran al Mantovan troppo alto segno:


La donna, che qual sia tra saggia e bella

Maggior non può ben dirsi, e sola agguaglia,

Quanti fur del ciel doni unqua fra noi:


Ch'io tanto onorar bramo; e se forse ella

Non ave onde gradirmi; almen mi vaglia,

Ch'io vivo pur del Sol degli occhi suoi.


SonettoCXXI (CL.)


Se in me, Quirina, da lodar in carte

Vostro valor e vostra alma bellezza

Fosser pari al desio l'ingegno e l'arte;

Sormonterei qual più nel dir s'apprezza:


E Smirna, e Tebe, e i duo, ch'ebber vaghezza

Di cantar Mecenate, minor parte

Avrian del grido: e fora in quella altezza

Lo stil mio, ch'è in voi l'una e l'altra parte.


Nè sì viva riluce all'età nostra

La Galla espressa dal suo nobil Tosco,

Tal che sen duol Lucrezia e l'altre prime;


Che non più chiara assai, per entro 'l fosco

De la futura età, con le mie rime

Gisse la vera e dolce immagin vostra.


SonettoCXXII (CLI)


Quella, che co' begli occhi par, che 'nvoglie

Amor, di vili affetti, e penser casso,

E fa me spesso quasi freddo sasso,

Mentre lo spirto in care voci scioglie;


Del cui ciglio in governo le mie voglie,

Ad una ad una, e la mia vita lasso,

La via di gir al ciel con fermo passo

M'insegna, e 'n tutto al vulgo mi ritoglie.


Legga le dotte ed onorate carte,

Chi ciò brama: e per farsi al poggiar ale,

Con lungo studio apprenda ogni bell'arte.


Ch'io spero alzarmi, ove uom per se non sale,

Scorto dai dolci amati lumi, e parte

Dal suono a l'armonie celesti equale.


SonettoCXXIII (CLII)


Giovio, che i tempi e l'opre raccogliete

Del faticoso e duro secol nostro

In così puro e sì lodato inchiostro,

Che chiaro eternamente viverete;


Perché lo stile omai non rivolgete

A questa, novo in terra, e dolce mostro,

Donna gentil, che non di perle e d'ostro,

Ma sol d'onor e di virtute ha sete?


Questa risplenderà, come bel Sole,

Fra gli altri lumi de le vostre carte,

E le rendrà via più gradite e sole.


Quest'una ha inseme, quanto a parte a parte

Dar a mille ben nate a pena suole,

Di beltà, di valor, natura ed arte.


SonettoCXXIV (CLIII)


Signor, poi che fortuna in adorarvi,

Quant'ella possa, chiaramente ha mostro,

Vogliate al poggio del valor col vostro

Giovenetto pensero e studio alzarvi.


Ratto ogni lingua, se ciò fia, lodarvi

Udrete, e sacreravvi il secol nostro

Tutto 'l suo puro e non caduco inchiostro,

Per onorato e sempiterno farvi.


Ambe le chiavi del celeste regno

Volge l'avolo vostro, e Roma affrena

Con la sua gran virtù, che ne 'l fè degno.


La vita più gradita e più serena

Ne dà virtute, caro del ciel pegno:

Di vile e di turbato ogni altra è piena.


SonettoCXXV (CLIV)


Se qual è dentro in me, chi lodar brama,

Signor mio caro, il vostro alto valore,

Tal potesse mostrarsi a voi di fore,

Quando a rime dettarvi Amore il chiama,


Ovunque vero pregio e virtù s'ama,

S'inchinerebbe il mondo a farvi onore,

Securo dall'oblio delle tarde ore,

Se posson dar gl'inchiostri eterna fama.


Nè men di quel, che santamente adopra

Il maggior padre vostro, andrei cantando;

Ma poi mi nega il ciel sì leggiadra opra.


S'appagherà tacendo ed adorando

Mio cor, infin che terra il suo vel copra:

Non poca parte uom di se dona amando.


SonettoCXXVI (CLV)


Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo,

E pura fede e vera cortesia,

E lo stil, che d'Arpin sì dolce uscia,

Risorge, e i dopo sorti lascia a tergo;


S'io movo per lodarvi, e carte vergo,

Presontuoso il mio penser non sia:

Ché mentre e' viene a voi per tanta via,

Nel vostro gran valor m'affino e tergo.


E forse ancora un amoroso ingegno,

Ciò leggendo, dirà: più felici alme

Di queste il tempo lor certo non ebbe.


Due Città senza pari, e belle ed alme

Le dier al mondo, e Roma tenne e crebbe:

Qual può coppia sperar destin più degno?



RIME DI M. PIETRO BEMBO

DA LUI MEDESIMO RIFIUTATE

Ma poste poi fra l'altre sue per soddisfazione de' nobili ingegni


Capitolo I


Io stava in guisa d'uom, che pensa e pave

Campato da la morte, e sente orrore

Del mal passato, e pargli ancor ir grave;

E per memoria de l'antico ardore,

A cui sovente e volentier m'involo,

D'un freddo smalto m'avea cinto il core.

Quando io fui sopraggiunto inerme e solo

Da molte belle vaghe donne armate,

Che movean contra me tutto lor stuolo.

Le prime eran bellezza ed onestate,

Possenti imperatrici, e con lor gìa

Virtù canuta, e giovenile etate.

E dopo questa gran torma venia

D'altre elette gentil, ch'avean per scorta

Alto intelletto, e somma cortesia.

Come non so, ma quella gente accorta

Con forte nodo già m'avea legato,

Ch'era di speme con piacer attorta.

Mentr'io pensava al mio novello stato,

Riser di tanto inver la lor Reina;

Indi a lei, cosi preso, fui donato:

E sentì dir: a questa ora t'inchina;

E caro esser ti puote; a questa Donna

Il ciel per tua ventura ti destina.

A questa di valor ferma colonna

S'appoggerà lo tuo stanco pensero;

Per questa cangierai costumi e gonna.

Più ti vo' dire ancora, e siati vero

Quando che sia, e tosto potrai dire;

Ma tu n'andresti forse tropp'altero.

Un bene, un male, una speme, un desire

Sì farà d'ambo voi; nè tempo, o loco

Potrà da l'un giammai l'altro partire.

Più soave, tranquillo, e dolce foco

In duo cor giovenil non arse ancora;

E quel ch'io parlo, a quel ch'io sento, è poco.

Di quanto ti son stati infin ad ora,

Che sai ch'è molto, Amor e 'l ciel avversi,

Di tanto t'è seconda, e più quest'ora.

I tuoi sospir di lagrime conspersi

Rivolgerai ver questa alto cantando,

In mille prose vago e 'n mille versi.

E benché ella sia tal, ch'assai poggiando

Si levi per se stessa oltra ogni segno,

Pur non le spiacerà, che cerchi amando

Lasciar del suo bel nome eterno pegno.


Capitolo II


Fiume, che del mio pianto abbondi e cresci,

E con le tue gelate e lucide onde

Le mie sì calde e sì torbide mesci;

Pini, ch'avete a le soavi sponde,

Sì come io d'altri a me, fatto corona

De le vostre alte e sempre verdi fronde;

Valle, ove 'l ciel de' miei sospir risuona;

Ov'ogni augello, ov'ogni fera omai

E sterpo e sasso del mio mal ragiona;

Aura, ch'ad or ad or furando vai

A l'erbe 'l fresco, ai fior soavi odori,

A me concenti ed angosciosi lai;

E voi, che forse a più felici amori

Sarete ancora albergo, o verde riva,

Folto seggio, ombre fide, amici orrori;

Quando saranno i miei pensieri a riva?

Quando avrò queto e riposato il core?

Quando fia mai, che senza pena io viva?

Vaghi pastor, ch'al mio novo colore

Mille fiato già fermaste il piede

Con segno di pietade e di dolore,

Vedete ben, ed altri anco se 'l vede,

Quanto è mia sorte dispietata e dura:

Questo m'avanza di cotanta fede.

Ahi crudo Amor e mia fera ventura,

Perché date ad un cor ogni tormento?

A voi che ven dalla mia vita oscura?

Da poi ch'io nacqui, e foss'io in quel dì spento,

Non ebbi un giorno lieto, e la mia nave

Sempre fu spinta da contrario vento.

Or ch'io sperava un fin dolce e soave

Di tante guerre, e di si lungo affanno,

Via più mi trovo in stato acerbo e grave.

Ma così vada; e poi che del mio danno,

O quanto avvien di quel, che non si spera,

Madonna, il mondo, il ciel lor prò si fanno,

Per me non mostri un fior la primavera,

Nè 'l Sol un raggio, e sia pallido verno

Quantunque io miro, e notte orrenda e nera,

E 'l mio mal, se non è, diventi eterno.


Capitolo III


Dolce mal, dolce guerra, e dolce inganno,

Dolce rete d'Amor e dolce offesa,

Dolce languir, e pien di dolce affanno.

Dolce vendetta in dolce foco accesa

Di dolce onor, che par giammai non ave,

Principio della mia sì dolce impresa.

Dolci segni, ch'io seguo, e dolce nave,

Che porti la mia speme a dolce lido

Per l'onda del penser dolce e soave.

Dolce infido sostegno, e cader fido:

Dolce lungo dubbiar, e saper corto:

Dolce chiaro silenzio, e roco grido.

Dolce bramar giustizia, e chieder torto:

Dolce andar procacciando i danni suoi:

Dolce del suo dolor farsi conforto.

E dolce stral, che 'l cor d'ambeduo noi

Ferendo intrasti là, dove altro mai

Non passò prima e non passerà poi.

Dolce del proprio ben sempre trar guai,

E gir poi del suo mal alto cantando:

Dolci ire, dolci pianti, e dolci lai.

Dolce tacendo, amando, e desiando

Romper un sasso, e raccender un gelo

Pregando, sospirando, o lagrimando.

Dolce dinanzi agli occhi ordirsi un velo,

Che non lasci veder, perché si miri,

Fronda in selva, acqua in mar, o stella in cielo.

Dolce portar in fronte i suoi desiri,

E dentro aver il foco, e d'ogn'intorno

Mandar da lunge 'l suon de' suoi martiri.

Dolce via più temer di giorno in giorno,

Ed ardir meno, e sol d'una figura

A l'alma specchio far la notte e 'l giorno.

Dolce aver più d'altrui che di sé cura,

E governar due voglie con un freno,

E 'n comune recar ogni ventura.

Dolce non esser mai beato a pieno,

Nè del tutto infelice, e dolce spesso

Sentirsi innanzi tempo venir meno:

E per cercar altrui perder se stesso.


SonettoI (IV)


Amor, che vedi i più chiusi pensieri,

Ed odi quel, ch'ad ogn'altro si tace,

Quando fia, che pietà m'impetri pace

Con tanti al danno mio pronti guerrieri?


Lasso, che non so più quel, ch'io ne speri:

Che quanto meno alla mia Donna piace

Il mio languir, tu più tanto fallace

Armi ver me folti nemici e feri.


Ma s'ella m'assecura, e tu spaventi,

Lentando orgoglio, e rinforzando inganno,

Non avran più fine i miei tormenti.


O dubbiosa mercede, o certo affanno!

O fosser già questi due lumi spenti,

Poi ch'altro mai, che lacrimar non fanno.


SonettoII (V)


Ben è quel caldo voler voi, ch'io prenda,

PIETRO, a lodar la donna vostra, indarno,

Qual fora a dir, che 'l Taro, il Sile, o l'Arno

Più ricco l'Oceano e maggior renda.


E poi conven, qual io mi sia, ch'intenda

Ad altra cura, e 'n ciò mi stempro e scarno;

Nè quanto posso il vivo esempio incarno,

Che non adombran treccie, o copre benda.


Chi vede il bel lavoro ultimo vostro,

Alto levan, dirà, le costui rime

La sua SIRENA, onor del secol nostro.


La quale oggi risplende tra le prime

Per voi, siccome novo e dolce mostro,

Di beltà, di valor chiaro e sublime.


SonettoIII (VI)


Nè securo ricetto ad uom, che pave

Scorgendo da vicin nemica fronte;

Nè dopo lunga sete un vivo fonte;

Nè pace dopo guerra iniqua e grave;


Nè prender porto a travagliata nave;

Nè dir parole amando ornate e pronte;

Nè veder casa in solitario monte

A peregrin smarrito è si soave;


Quant'è quel giorno a me felice e caro,

Che mi rende la dolce amata vista,

Di cui m'è 'l ciel più che Madonna avaro.


Nè, perch'io parta poi, l'alma s'attrista:

Tanta in quel punto dal bel lume chiaro

Virtù, senno, valor, grazia s'acquista.


SonettoIV (VII)


Ben puoi tu via portartene la spoglia

Greve e stanca di me, vago destrero:

Ma lo spirto al suo ben pronto e leggero

Torna sovente, com'Amor le 'nvoglia.


Nè teme, ch'altrui forza unqua li toglia

Quel di gir insin là, dolce sentero;

Ond'io per questo acerbo anco non pero,

Col suo gioir temprando la mia doglia.


E certo son, se non m'inganna Amore,

Che scorgendo Madonna i suoi desiri

Dirà, questi ne ven da fedel core:


Lo qual, perché lontan da me si giri,

Non fia che sempre non mi renda onore,

E me sol brami, e sol per me sospiri.


Canzone I (VIII)


Amor, perché m'insegni andare al foco,

Dove 'l mio cor si strugge,

Seguendo chi mi fugge,

Pregando chi 'l mio duol si torna in gioco?


Credea trovar ne l'amorosa tresca

Più dolce ogni fatica:

Ahi del mio ben nemica:

Che 'l piacer manca, e 'l tormento rinfresca.


Donne, che non sentiste ancor d'Amore,

Quanto beate sete,

Se voi non v'accorgete,

Mirate quanto è grave il mio dolore.


Canzone II (IX)


Io vissi pargoletta in festa e 'n gioco

De' miei penfier, di mia sorte contenta:

Or sì m'affligge Amor e mi tormenta,

Ch' omai di tormentar gli avanza poco.


Credetti, lassa, aver gioiosa vita,

Da prima entrando, Amor, alla tua corte;

E già n'aspetto dolorosa morte:

O mia credenza come m'hai fallita!


Mentre ad Amor non si commise ancora,

Vide Colco Medea lieta e secura:

Poi ch'arse per Jason, acerba e dura

Fu la sua vita infin all'ultim'ora.


Canzone III (X)


Amor d'ogni mia pena io ti ringrazio,

Sì dolce è 'l tuo martire:

Ogni d'altro gioire,

Signor, è doglia, e festa ogni tuo strazio.


Ben mi credetti già, che grave peso

Fosse, Amor, la tua salma:

Or veggo, e ten chier l'alma

Mercé, che tu da me non eri inteso.


Giurerei, donne amanti, all'alta e fina

Mia gioia ripensando,

Ch'una ancilletta amando

Lo stato agguagli d'ogni gran Reina.


Canzone IV (XI)


Io vissi pargoletta in doglia e 'n pianto,

Delle mie scorte, e di me stessa in ira:

Or sì dolci penfier Amor mi spira,

Ch'altro meco non sta che riso e canto.


Arei giurato, Amor, ch'a te gir dietro

Fosse proprio un andar con nave a scoglio:

Così la 'nd'io temea danno e cordoglio,

Utile scampo alle mie pene impetro.


In fin quel dì, che pria la vinse Amore,

Andromeda ebbe sempre affanno e noia:

Poi ch'a Perseo si diè, diletto e gioia

Seguilla viva, e morta eterno onore.


Canzone V (XII)


È cosa natural fuggir da morte;

E quanto può ciascun tenersi in vita.

Ahi crudo Amor, ma io cercando morte

Vo sempre, e pur così mi serbo in vita.

Che perché 'l mio dolor passa ogni morte,

Corro a por giù questa gravosa vita.

Poi, quand'io son già ben presso a la morte,

E sento dal mio cor partir la vita,

Tanto diletto prendo della morte,

Ch'a forza quel gioir mi torna in vita.


Canzone VI (XIII)


Quand'io penso al martire

Arnor, che tu mi dai gravoso e forte;

Corro per gir a morte,

Così sperando i miei danni finire.


Ma poi ch'i giungo al passo,

Ch'è porto in questo mar d'ogni tormento,

Tanto piacer ne sento,

Che l'alma si rinforza, ond'io no 'l passo.


Così 'l viver rn'ancide:

Così la morte mi ritorna in vita.

O miseria infinita;

Che l'uno apporta, e l'altra non recide.


Canzone VII (XIV)


Chi rompe nell'Egeo, se poi vi riede,

È gran ragion, che senza pro si doglia.

Chi torna al ceppo, che gli offese il piede,

Conviensi ch'indi mai non si discioglia.

Chi prova Amor un tempo, e poi li crede,

Altro che pianto è ben, che non ne coglia.

O miei pensieri imaginati e folli,

Voi che speraste? o pur lo che ne volli?


Canzone VIII (XV)


Città con piú sudor posta, e cresciuta

Più grato rende il fio, che se ne coglie.

Vittoria con maggior perigli avuta

Più care sa le rapportate spoglie.

E nave più da' venti combattuta

Con maggior festa in porto si raccoglie.

Così quanto ebbe più d'amaro il fiore,

Tanto è più dolce poi nel frutto Amore.


Canzone IX (XVI)


Quel che sì grave mi parea pur dianzi,

Or m'è sì leve, che vago ne sono,

E menzogna parrà, s'io ne ragiono.


Tu mi furasti il core

Amor con gli occhi vaghi di costei;

Mentr'io nel lor splendore

Tenea mirando intenti i spirti miei.

Lasso che poi non fei

Per riaverlo, e di mia vita in forsi

Non star senz'esso sì, com'io credea,

Lo mio fero destin sempre colpando?

Per qual poggio non corsi,

E valle e riva pur di lui cercando?

Lagrime e preghi a qual Ninfa non porsi?

E valse al fin: che s'io l'andai chiamando

Un giorno, allor che men speme n'avea,

Al suon di quel lamento si rivolse.

Ma che frutto sen tolse?

Che m'è giovato il mio lungo dolore?

O quanto in van si spargon molti pianti:

O corso pien d'errore:

O senza legge stato degli amanti!

Che tosto ch'io m'accorsi,

Che viver senza l'alma si potea;

A begli occhi ne fei cortese dono,

E del mio folle error chiesi perdono.


Canzone X (XVII)


Occhi miei lassi, omai ch'altrove è volto

Il Sol, che facea luce a la mia vita,

Pur de' suo santi raggi il cor pascendo;

Accompagnate il gran dolor accolto,

Ch'a lamentarsi trae l'alma schernita,

Il vostro error, e 'l suo danno piangendo.

Che se le sue ragioni chiaro intendo,

Doveste a miglior tempo esser accorti.

Or che son da partir le vostre pene,

A voi pianger convene,

Che foste dal piacer sì tosto scorti,

Dolersi a lei, che nutrì falsa spene.


Ma io che debbo far? chi m'assicura,

Senza l'usato mio dolce conforto

Rimaso nudo, e 'n solitaria parte?

Seguir no 'l posso, ahi mia fera ventura!

E quì son men che mezzo; e quello è morto:

Che seco andò la viva e maggior parte.

Nè mai da corpo un'anima si parte

Ne le primiere sue più felici ore,

Che se ne doglia tal, qual io mi doglio.

O che grave cordoglio!

Madonna è ita, ed ha seco 'l mio core;

Et io sto qui pur contra quel, ch'io voglio.


Come nave in gran mar, se nube asconde

Le stelle, che reggeano il suo cammino,

Riman errando in dubbio di suo stato;

Così son io tra queste orribil onde

D'Amor, ove mi spinse il mio destino,

Rimaso lasso con la morte a lato:

Poi che 'l mio nubiloso acerbo fato

M'invidia que' due cari onesti lumi,

Che mi fidaro al periglioso corso.

. . .

. . .

. . .


STANZE


Le seguenti stanze del Bembo recitate per giuoco da lui, e dal Signor Ottavio Fregoso mascherati a guisa di due

Ambasciatori della Dea Venere mandati a Madonna Elisabetta Gonzaga Duchessa d'Urbino, e Madonna Emilia Pia

sedenti tra molte Nobili Donne e Signori, che nel palagio della detta Città danzando festeggiavano la sera del

Carnassale 1507. Ma M. Giovanbatista Lapini Fisicoso (pedante, ndr.) intronato compose a compiacimento di

Madonna Laura Piccolomini de' Turchi le Stanze della Pudicizia a contrapposizione di quelle del Bembo. Le quali

Stanze del Lapini furono prima impresse sotto il nome del Cardinal Egidio nel Tomo I. delle Rime scelte, nel Tomo I.

delle Stanze di diversi, raccolte da Lodovico Dolce, e nel Tom. VI. delle Rime di molti eccellentissimi Autori. Ma

Agostino Ferentilli nella sua Raccolta delle Stanze di diversi Autori Toscani le restituì al suo vero Autore, e afferma

essere state composte, come s'è detto, a istanza della Piccolomini.


I


Nell'odorato e lucido Oriente,

Là sotto 'l puro e temperato cielo

De la felice Arabia, che non sente,

Sì che l'offenda mai, caldo, nè gelo,

Vive una riposata e lieta gente

Tutta di bene amar accesa in zelo,

Come vuol sua ventura, e come piacque

A la cortese Dea, che nel mar nacque.


II


A cui più ch'altri mai servi e devoti

Questi felici (e son nel ver ben tali)

Han posto più d'un tempio, e fan lor voti

Sopra l'offese de' suoi dolci strali:

E mille a prova eletti Sacerdoti

Curan le cose sante e spiritali,

Ed hanno in guardia lor tutta la legge,

Che le belle contrade amica e regge.


III


La qual in somma è questa: ch'ogni uom viva

In tutti i suoi pensier seguendo Amore.

Però quando alma se ne rende schiva,

Le mostran quanto grave è questo errore;

E che del vero ben colui si priva,

Ch'al natural diletto indura il core;

E sopra ogn'altro come gran peccato

Commette, chi non ama essendo amato.


IV


A questo confortando il popol tutto

Onoran la lor Dea con pura fede:

E quanto essa ne trae maggiore il frutto,

Ne torna lor più dolce la mercede:

Ed han già la bell'opra a tal condutto,

Che senza question farne ogniun le crede:

Ond'ella, alquanto pria che 'l dì s'aprisse,

A duo di lor nel tempio apparve, e disse:


V


Fedeli miei, che sotto l'Euro avere


A questo confortando il popol tutto

Onoran la lor Dea con pura fede:

E quanto essa ne trae maggiore il frutto,

Ne torna lor più dolce la mercede:

Ed han già la bell'opra a tal condutto,

Che senza question farne ogniun le crede:

Ond'ella, alquanto pria che 'l dì s'aprisse,

A duo di lor nel tempio apparve, e disse:


V


Fedeli miei, che sotto l'Euro avete

La gloria mia, quanto pote ire, alzata;

Sì come non bisogna veltro o rete

A fera, che già sia presa e legata;

Così voi d'uopo qui più non mi sete:

Tanto ci son temuta e venerata.

Quel, che far si devea, tutto è fornito:

Da indi in qua si porta arena al lito.


VI


E se pur fia, che le mie insegne sante

Lasciando, alcun da me cerchi partire,

De l'altre schiere mie, che son cotante,

Sarà trionfo, e non sen potrà gire.

Per voi conven che 'l mio valor si cante

In altre parti, sì che 'l possa udire

La gente, che non l'ave udito ancora,

E per usanza mai non s'innamora.


VII


Siccome là dove 'l mio buon Romano

Casso di vita fè l'un duce Mauro:

E col piè vago discorrendo al piano

Parte le verdi piaggie il bel Metauro;

Ivi son donne, che fan via più vano

Lo stral d'Amor, che quel di Giove il lauro;

Sol per cagion di due, che la mia stella

Ardir prime chiamar bugiarda e fella.


VIII


L'una ha 'l governo in man delle contrade,

L'altra è d'onor e sangue a lei compagna.

Queste non pur a me chiudon le strade

Dei petti lor, che pianto altrui non bagna;

Ch'ancor vorrian di pari crudeltade

Dall'Orse a l'Austro, e dall'Indo a la Spagna

Tutte inasprir le donne e i cavalieri:

Tanto hanno i cori adamantini e feri.


IX


E vanno argomentando, che si deve

Castitate pregiar più che la vita,

Mostrando ch'a Lucrezia non fu greve

Morir per questa, onde ne fu gradita:

Tal che la gloria mia, come al Sol neve,

Si va struggendo: e se la vostra aita

Non mi riten quel regno a questo tempo;

Tutto il mi vedrò torre in piciol tempo.


X


Però vorrei ch'andaste a quelle fere

Solo ver me, là ov'elle fan soggiorno:

E le traeste a le mie dolci schiere,

Prima che faccia notte, ov'ora è giorno;

Rotti gli schermi, ond'elle vanno altere,

E mille volte a me fer danno e scorno;

Dando lor a veder, quanto s'inganni

Chi non mi dona il fior de' suoi verdi anni.


XI


Accingetevi dunque all'alta impresa:

Io v'agevolerò la lunga via.

Non vi sarà la terra al gir contesa;

Ché infino a lor per tutto ho signoria.

E perché 'l mar non possa farvi offesa;

Lo varcherete ne la conca mia:

O prendete i miei cigni, e 'l mio figliuolo,

Che regga il carro, e sì ven gite a volo.


XII


Così detto disparve, e le sue chiome

Spirar nel suo sparir soavi odori:

E tutto il ciel, cantando il suo bel nome,

Sparser di rose i pargoletti Amori.

Strinsersi intanto i sacerdoti, e come

Fu 'l sol de l'Oceano Indico fuori,

Senza dimora giù per cammin dritto,

Presa lor via n'andar verso l'Egitto.


XIII.


Le piramidi e Menfi poi lasciate

Stolta, che 'l bue d'altari e tempio cinse;

Vider le mura da colui nomate,

Che giovenetto il mondo corse e vinse;

E Rodo, e Creta; e queste anco varcate,

E te, che da l'Italia il mar distinse;

E più che mezzo corso l'Appennino,

Entrâr nel vostro vago e lieto Urbino.


XIV


E son or questi, ch'io v'addito e mostro,

L'uno e l'altro di laude e d'onor degno.

E perch'essi non sanno il parlar nostro,

Per interprete lor seco ne vegno:

E 'n lor vece dirò, come che al vostro

Divin conspetto uom sia di dire indegno:

E se cosa udirete, che non s'usi

Udir tra voi; la Dea strana mi scusi.


XV


O Donna in questa etade al mondo sola,

Anzi a cui par non fu giammai, nè fia;

La cui fama immortal sopra 'l ciel vola

Di beltà, di valor, di cortesia,

Tanto che a tutte l'altre il pregio invola;

E voi, che sete in un crudele e pia

Alma gentil dignissima d'impero,

E che di sola voi cantasse Omero:


XVI


Qual credenza d'aver senz'Amor pace,

Senza cui lieta un'ora uom mai non ave,

Le sante leggi sue fuggir vi face,

Come cosa mortal si fugge e pave?

E lui, ch'a tutti gli altri giova e piace,

Sole voi riputar dannoso e grave?

E di Signor mansueto e fedele,

Tiranno disleal farlo, e crudele?


XVII


Amor è graziosa e dolce voglia,

Che i più selvaggi e più feroci affrena:

Amor d'ogni viltà l'anime spoglia,

E le scorge a diletto e trae di pena:

Amor le cose umili ir alto invoglia:

Le brevi e fosche eterna e rasserena;

Amor è seme d'ogni ben fecondo,

E quel, ch'informa, e regge, e serva il mondo.


XVIII


Però che non la terra solo e 'l mare,

E l'aere e 'l foco e gli animali e l'erbe,

E quanto sta nascosto, e quanto appare

Di questo globo, Amor, tu guardi e serbe;

E generando fai tutto bastare

Con le tue fiamme dolcemente acerbe:

Ch'ancor la bella machina superna

Altri che tu non volve e non governa.


XIX


Anzi non pur Amor le vaghe stelle,

E 'l ciel di cerchio in cerchio tempra e move;

Ma l'altre creature via più belle,

Che senza madre già nacquer di Giove,

Liete, care, felici, pure e snelle,

Virtù, che sol d'Amor descende e piove,

Creò da prima ed or le nutre e pasce,

Onde 'l principio d'ogni vita nasce.


XX


Questa per vie sovra 'l penser divine

Scendendo pura giù ne le nostre alme,

Tal che state sarian dentro al confine

De le lor membra quasi gravi salme,

Fatto ha poggiando altere e pellegrine

Gir per lo cielo; e gloriose ed alme

Più che pria rimaner dopo la morte,

Il lor destin vincendo e la lor sorte.


XXI


Questa fè dolce ragionar Catullo

Di Lesbia, e di Corinna il Sulmonese:

E dar a Cinzia nome, a noi trastullo

Uno, a cui patria fu questo paese:

E per Delia e per Nemesi Tibullo

Cantar: e Gallo, che se stesso offese,

Via con le penne de la fama impigre

Portar Licori dal Timavo al Tigre.


XXII


Questa fe' Cino poi lodar Selvaggia,

D'altra lingua maestro, e d'altri versi:

E Dante, acciòcchè Bice onor ne traggia,

Stili trovar di maggior lumi aspersi:

E perché 'l mondo in reverenzia l'aggia,

Sì come ebb'ei; di sì leggiadri e tersi

Concenti il maggior Tosco addolcir l'aura,

Che sempre s'udirà risonar Laura.


XXIII


La qual or cinta di silenzio eterno

Fora, siccome pianta secca in erba;

S'a lui, ch'arse per lei la state e 'l verno,

Come fu dolce, fosse stata acerba;

E non men l'altre illustri, ch'io vi scerno;

E qual si mostrò mai dura e superba

Verso quei, che potea sovra 'l suo nido

Alzarla a volo, e darle vita e grido.


XXIV


Questa novellamente ai padri vostri

Spirò desio; di cui, come a Dio piacque,

Per adornarne il mondo, e gli occhi nostri

Bear de la sua vista, in terra nacque

L'alma vostra beltà; nè lingue, o 'nchiostri

Contar porian, nè vanno in mar tant'acque,

Quanta Amor da' bei cigli alta e diversa

Gioia, pace, dolcezza, e grazia versa.


XXV


Cosa dinanzi a voi non può fermarsi,

Che d'ogni indegnità non sia lontana:

Ch'al primo incontro vostro suol destarsi

Penser, che fa gentil d'alma villana:

E se potesse in voi fiso mirarsi,

Sormonteriasi oltra l'usanza umana:

Tutto quel, che gli amanti arde e trastulla,

A lato ad un saluto vostro è nulla.


XXVI


Quanto in mill'anni il ciel devea mostrarne

Di vago e dolce, in voi spiegò e ripose,

Volendo a suo diletto esempio darne

De le più care sue bellezze ascose.

Chi non sa, come Amor soglia predarne,

O pur di non amar seco propose,

Fermi ne' be' vostr'occhi un solo sguardo;

E fugga poi, se può, veloce, o tardo.


XXVII


Rose bianche e vermiglie ambe le gote

Sembran, colte pur ora in paradiso;

Care perle e rubini, ond'escon note

Da far ogni uom da se stesso diviso:

La vista un Sol, che scalda entro e percote;

E vaga primavera il dolce riso.

Ma l'accoglienza, il senno, e la virtute

Potrebbon dare al mondo ogni salute;


XXVIII


Se non fosse il penser crudele ed empio,

Che v'arma incontro Amor di ghiaccio il petto,

E fa d'altrui sì doloroso scempio;

E priva del maggior vostro diletto

Voi con l'altre, a cui noce il vostro esempio;

Sì come noce al gregge simplicetto

La scorta sua, quand'ella esce di strada;

Che tutto errando poi conven, che vada.


XXIX


Così più d'un error versa dal fonte

Del vostro largo e cupo e lento orgoglio:

E s'io avessi parole al voler pronte,

Pianger farei ben aspro e duro scoglio.

Che non si dolse al caso di Fetonte

Febo, quant'io per voi, Donne, mi doglio.

Pur mi consola, che, qual io mi sono,

Amor mi detta, quanto a voi ragiono.


XXX


E per bocca di lui chiaro vi dico,

Non chiudete l'entrata ai piacer suoi:

Se 'l ciel vi si girò largo ed amico,

Non vi gite nemiche e scarse voi:

Non basta il campo aver lieto ed aprico,

Se non s'ara, e sementa, e miete poi:

Giardin non colto in breve divien selva,

E fassi lustro ad ogni augello e belva.


XXXI


È la vostra bellezza quasi un orto;

Gli anni teneri vostri aprile e maggio:

Alor vi va per gioia e per diporto

Il Signor, quando può, sed egli è saggio:

Ma poi che 'l Sole ogni fioretto ha morto,

O 'l ghiaccio a le campagne ha fatto oltraggio;

No 'l cura, e stando in qualche fresco loco,

Passa il gran caldo, o tempra il verno al foco.


XXXII


Ahi poco degno è ben d'alta fortuna,

Chi ha gran doni e cari, e schifa usarli.

A che spalmar i legni, se la bruna

Onda del porto dee poi macerarli?

Questo Sol, che riluce, o questa Luna

Lucesse in van, non si devria pregiarli.

Giovenezza e beltà, che non s'adopre,

Val, quanto gemma, che s'asconda e copre.


XXXIII


Qual fora un uom, se l'una e l'altra luce

Di suo voler in nessun tempo aprisse;

E 'l senso de le voci, a l'alma duce

Tenesse chiuso sì, che nulla udisse;

E 'l piè, che 'l fral di noi porta e conduce,

Mai d'orma non movesse, e mai non gisse;

Tal è proprio colei, che bella e verde

Neghittosa tra voi siede e si perde.


XXXIV


Non vi mandò qua giù l'eterna cura,

A fin che senz'Amor tra noi viveste:

Nè vi diè sì piacevole figura,

Perché in tormento altrui la possedeste:

Se stata fosse ad ogni priego dura

Ciascuna madre, or voi dove sareste?

Il mondo tutto, in quanto a se distrugge,

Chi le paci amorose adombra e fugge.


XXXV


Come, a cui vi donate voi, disdice,

Sed egli a voi di se si rende avaro;

Così voi, donne, a quei, che v'hanno in vice

Di sole alla lor vita dolce e chiaro,

Mostrarvi acerbe e torbide non lice;

E quelle men, cui più l'onesto è caro:

Che s'io sostenni te, mentre cadevi,

Debbo cadendo aver chi mi rilevi.


XXXVI


Il pregio d'onestate amato e colto

Da quelle antiche poste in prosa e 'n rima;

E le voci, che 'l vulgo errante e stolto

Di peccato e disnor sì gravi estima;

E quel lungo rimbombo indi raccolto,

Che s'ode risonar per ogni clima;

Son fole di romanzi, e sogno ed ombra,

Che l'alme simplicette preme e 'ngombra.


XXXVII


Non è gran meraviglia, s'una, o due

Sciocche donne alcun secol vide ed ebbe,

A cui sentir d'amor caro non fue;

E 'ndarno viver gli anni poco increbbe:

Come la Greca, ch'a le tele sue

Scemò la notte, quanto 'l giorno accrebbe,

Misera, ch'a se stessa ogni ben tolse,

Mentre attender un uom vent'anni volse.


XXXVIII


Il qual errando in questa e 'n quella parte,

Solcando tutto 'l mar di seno in seno,

A molte donne del suo Amor fè parte,

E lieto si raccolse loro in seno:

Che ben sapea, quanto dal ver si parte

Colui, ch'al legno suo non spiega il seno,

Mentr'egli ha 'l porto a man sinistra e destra,

E l'aura della vita ancor gli è destra.


XXXIX


Come avrian posto al nostro nascimento

Necessità d'Amor natura, e Dio;

Se quel soave suo dolce concento,

Che piace sì, fosse malvagio e rio?

Se per girar il Sole, ir vago il vento,

In su la fiamma, al chin correre il rio,

Non si pecca da lor; nè voi peccate,

Quando 'l piacer, per cui si nasce, amate.


XL


Mirate quando Febo a noi ritorna,

E fa le piaggie verdi e colorite;

Se dove avolger possa le sue corna,

E sé fermar, non ha ciascuna vite;

Essa giace, e 'l giardin non se n'adorna;

Nè 'l frutto suo, nè l'ombre son gradite:

Ma quando ad olmo od oppio alta s'appoggia,

Cresce feconda e per Sole e per pioggia.


XLI


Pasce la pecorella i verdi campi,

E sente il suo monton cozzar vicino:

Ondeggia, e par ch'in mezzo l'acque avvampi

Con la sua amata il veloce Delfino:

Per tutto, ove 'l terren d'ombra si stampi,

Sosten due rondinelle un faggio, un pino.

E voi pur piace in disusate tempre

Viver solinghe e scompagnate sempre.


XLII


Che giova posseder cittadi e regni;

E palagi abitar d'alto lavoro;

E servi intorno aver d'imperio degni;

E l'arche gravi per molto tesoro;

Esser cantate da sublimi ingegni;

Di porpora vestir, mangiar in oro;

E di bellezza pareggiar il Sole;

Giacendo poi nel letto fredde e sole?


XLIII


Ma che non giova aver fedeli amanti,

E con loro partire ogni pensero,

I desir, le paure, i risi, i pianti,

E l'ira e la speranza, e 'l falso, e 'l vero:

Ed or con opre care, or con sembianti

Il grave de la vita far leggero;

E se di rozze in atto e 'n pensier vili,

Sovra l'uso mondan scorte e gentili?


XLIV


Quanto esser vi dee caro un uom, che brami

La vostra molto più che la sua gioia?

Ch'altro che 'l nome vostro unqua non chiami?

Che sol pensando in voi tempri ogni noia?

Che più che 'l mondo in un vi tema ed ami?

Che spesso in voi si viva, in se si moia?

Che le vostre tranquille e pure luci

Del suo corso mortal segua per duci?


XLV


O quanto è dolce, perch'Amor lo stringa,

Talor sentirsi un'alma venir meno:

Saper come duo volti un sol depinga

Color: come due voglie regga un freno:

Come un bel ghiaccio ad arder si constringa:

Come un torbido ciel torni sereno:

E come non so che si bea con gli occhi,

Perché sempre di gioia il cor trabocchi.


XLVI


Puossi morta chiamar quella, di cui

Face d'Amor nessun pensero accende:

Nè dice: che son io lassa? che fui?

Nè giova al mondo, e se medesma offende:

Nè si ten cara, nè vuol darsi a lui,

Che già molt'anni sol un giorno attende:

Nè sa, con l'alma nella fronte espressa

Altrui cercar, e ritrovar se stessa.


XLVII


Però che voi non sete cosa integra,

Nè noi, ma è ciascun del tutto il mezzo:

Amor è quello poi, che ne rintegra,

E lega e strigne, come chiodo al mezzo:

Onde ogni parte in tanto si rallegra,

Che suoi diletti e gioie non han mezzo:

E s'uom durasse molto in tale stato,

Compitamente diverria beato.


XLVIII


Così voi vi trovate altrui cercando:

E fate nel trovar paghe e felici.

Dunque perché di voi ponete in bando

Amor, se son di tanto ben radici

Le sue quadrella? or danno in guerreggiando

Qual maggior posson farvi alti nemici,

Che torvi il regno? e questo assai più vale:

E voi lo vi togliete, e non vi cale.


XLIX


Ond'io vi do sano e fedel consiglio;

Non vi torca dal ver falsa vaghezza.

Se non si coglie, come rosa, o giglio,

Cade da se la vostra alma bellezza.

Vien poi canuta il crin, severa il ciglio,

La faticosa e debile vecchiezza.

E vi dimostra per acerba prova,

Che 'l pentirsi da sezzo nulla giova.



L


Ancor direi: ma temo, non tal volta,

Vi gravi il lungo udire; oltra ch'io vedo

Questa selva d'Amor farsi più folta,

Quant'io parlando più sfrondar la credo.

Dunque vostra mercè, che sempre è molta,

Darete agli oratori omai congedo.

L'altro, ch'a dir rimane, essi diranno,

Quando la lingua vostra appresa aranno.



Rime aggiunte

(all'edizione del 1753)


Canzone DI MADONNA VIRGINIA SALVI

Sanese.


Mentre che 'l mio pensier dai santi lumi

Prendea fido riposo,

Ben non vid'io, che al mio ben fosse eguale.

Or che 'l ciel vuol, ch'in pace i mi consumi,

E a forza tenga ascoso

Il troppo acerbo e doloroso male,

Piacciavi darme l'ale

Così veloce a ritrovarvi poi,

Che sempre vivo in voi,

E ne piglio cotanta e tal dolcezza,

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


M'è a noia, ove ch'io miro, se sembianza

Di voi, ben mio, non veggio:

E se di chiari spirti ho sempre intorno

Vago drappel, l'acerba lontananza

Fa, che col duol vaneggio.

Nè gioia, nè piacer fa in me soggiorno

Talchè a voi sempre torno,

Ch'ivi è la mia ricchezza, e 'l mio tesoro,

Ivi le gemme e l'oro

Son, che cotanto l'alma onora e prezza,

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Movo talor le piante, ove 'l bel piede

Premendo se ne gìa

Le tenerelle erbette, e i vaghi fiori,

Per veder, s'orma almen di quei si vede;

Ma l'alta speme mia

Nulla ritrova fuorchè i suoi dolori:

E se Ninfe, o Pastori

Veggio, dimando pur, se del Sol mio

San nulla, e mentre un rio

Fan gli occhi mesti, e sono a tale avvezza

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza,


Ma che spero io trovare in altri mai

Di voi sembianza vera,

Se l'alma bella, e 'l valoroso velo

Fe senz'eguale il ciel per più mei guai?

Che dunque 'l cor piú spera

Temprar senza voi stesso il caldo e 'l gelo,

Che con grave duol celo

Fra finto riso, e simulato volto?

Non potendo veder vostra bellezza

Il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Se pur altro defio di eterno onore,

Di più lodate imprese

Vi face star da me, cor mio, lontano;

Benchè mi doglio, pur sento 'l valore

Vostro con l'ale stesse

Girsen' poggíando ognor per monte e piano;

Veggio la bella mano

Far con la spada al reo nimico danno,

E con tema ed affanno

Farlo cattivo, onde sua forza spezza,

E 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza,


Canzon mia passa i monti,

E ratta vanne al chiaro mio bel Sole;

E dì queste parole.

CINZIA vive a te lungi in tanta asprezza,

Che 'l suo cor lasso ogn'altra vista sprezza.


RISPOSTA ALLA Canzone DI M. VIRGINIA SALVI

Canzone XI (XVIII)


Almo mio Sole, i cui fulgenti lumi

Fan chiaro e luminoso

Quant'oggi mirar può vista mortale,

Perchè più lagrimando ti consumi?

Quantunque il volto ascoso

Ti fia, qual chiami in terra senza eguale,

Non fai, che i vanni e l'ale

Ha il bel pensier, e li viaggi suoi

A CINZIA sono, e poi

Ne tragge una sì estrema e gran dolcezza,

Che il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Non pur quella benigna alta sembianza,

Qual con la mente veggio,

Ed in mezzo dell'alma fa soggiorno,

Amareggiar l'acerba lontananza,

Che l'onorato seggio

Ha così bella immago al core intorno,

Il bel sembiante adorno,

E la rara beltà, che in terra adoro

In cui sol vivo e moro,

Gode 'l penser lontan, e sì l'apprezza,

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Quantunque in altro clima io giri il piede,

Non però mi disvia

Amor sì li desir, che i primi ardori

Smorzi, e la data mia sincera fede:

La viva speme mia

Sempre ha sostegno di tempi migliori:

Muse, Ninfe, e Pastori

Cantan lodando il degno alto disio;

E mentre il pensier mio

Fermo con l'alma al dolce oggetto avvezza,

Il mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Però se di lontan gli amati rai,

E la bellezza altera,

Se la gentil sembianza e 'l chiaro velo

Scorge l'occhio mental più dolce assai,

Che la presenza vera,

Perchè più ti distempra il caldo o 'l gelo?

Poich'è benigno il cielo,

Qual giunge l'alme, rafferena il volto,

Qual fia più grato molto

L'aspettato ritorno alla bellezza,

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza?


Non mi scompagna un volontario errore,

Ma un desio d'alte imprese,

Che a te deve aggradir, mi fa lontano

Viver; ma vivo in te vive 'l mio core,

E le mie voglie accese

Passan mari, alti monti, e largo piano,

Ed al bel viso umano

Mille e più volte 'l duol torno fanno

Tempra dunque ogni affanno

CINZIA mia dolce, e 'l duol già rompi e spezza

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Canzon ripassa i monti,

E dì pietosamente al mio bel Sole

Queste quattro parole:

Vivi, CINZIA gentil, fuor d'ogni asprezza,

Che 'l mio cor lasso ogn'altra vista sprezza.


Canzone XII (XIX)


Quel vivo Sol, che alla mia vita oscura

Solea far chiaro giorno,

E chetar le tempeste del mio core,

Volge i suoi raggi altrove, e più non cura,

Se alle tenebre torno:

O mia ventura, ove m'hai giunto Amore!

Per doglia non si muore,

Chi vide al mondo mai sì dura sorte?

Sol ho disio di morte,

Nè morir posso, e tempo é di morire,

E cresce la mia vita col desire.


Viverò dunque, ed altri indegnamente

In un punto beato

Vive del nutrimento di mia vita?

Non viverò, nè fia mai sì possente

L'empio crudel mio fato,

Che non discioglia l'anima smarrita

Questa pena infinita;

Oprin sua forza le maligne stelle

D'ogni mio ben rubelle;

Che se 'l dolor di vita non mi priva

Non fia già mai, che al mio dispetto i viva.


O fiera rimembranza del mio bene,

Del mio tempo felice,

Che sì tosto passò, ch'appena il vidi!

Io vidi già fiorir l'alta mia spene:

Poi con svelta radice

In uno istante morta la rividi.

Misero, in cui ti fidi ,

Io son caduto, ch'era al ciel vicino.

Non so per qual destino

Or vo piangendo, or vo traendo guai,

Non per mia colpa, ma che troppo amai.


Donna leggiadra, e più chiara che 'l Sole,

Che l'età rasserena,

Quando sorride, e quando un sguardo move,

Mostrommi Amor, e femmi udir parole

D'addolcir ogni pena,

E veder atti da far arder Giove;

Fiamma non vista altrove

Subito m'arse 'l core, ed in costei

Girando gli occhi miei

Divenni cieco, e sì da me diviso,

Ch'io non vidi mai morte nel bel viso.


A poco a poco poi sentì legarmi,

Dico sì dolcemente,

Ch' ebbi in odio la cara libertade:

meco stava Amor per consolarmi,

Mostrandomi sovente

Dui vaghi lumi accesi di pietade;

E 'n la maggior beltade

Un puro e nobil cor pien di mercede,

Pien di fermezza e fede;

Poi mi giurò sull'arco e sulla face,

Sulla faretra darmi eterna pace.


Quanto la tua promessa, Amor, mi piacque,

Tanto valor non sento,

Ch'io basti a immaginarlo col pensiero:

Smisurata allegrezza al cor mi nacque;

Il Sol il più contento

Non vide in l'uno, nè 'n altro Emispero:

Ond'io divenni altero

Della speranza; che se 'l ver mi esalto,

Allor montai tant'alto,

Che pien di meraviglia fra me stesso

Dicea mirando; sono al cielo appresso.


Io caddi poi, poichè fui presso al cielo,

Caddi da tanta altezza,

Che la ruina mia non giunse al fine.

E innanzi agli occhi mi fu posto un velo,

Talchè per la chiarezza

Non vidi delle due luci divine

Le rose in sulle spine:

Ogni mia pace mi fu volta in guerra.

Ed allor vidi in terra

L'avara fe caduta e cortesia

E pietà morta della Donna mia.


Canzon, non so se alcun cerca la doglia

Che sì a morir m'invoglia;

Rispondi, il gran desio senza speranza

È del perduto ben la rimembranza .


SonettoV (XX)


APOLLO, quando a noi si mostran fuore

L'alme luci, e le chiome crespe e bionde,

Deh perchè sì veloce in mezzo l'onde

Ti attuffi, e privi noi di sì dolci ore?


Forse paventi in te novello amore,

Qual già sentisti in quella, ch'or ti asconde

La data scorza e l'onorata fronde,

Che sprezza Giove irato e 'l suo furore?


Stolto deh non fuggir quel, ch'altri brama;

Non schivar quel , che tanto piace altrui;

Resta a veder la bella donna meco:


E se natura, o 'l ciel pur ti richiama

In altra parte, mostra lor, per cui

Fermasti il corso, e fermeransi teco.


Canzone XIII (XXI)


Del procelloso mar rabbuffa l'onde

Or l'austro, or borea, e freddi ghiacci e nevi

Coprono i monti, e sono oscuri e brevi

I giorni, perchè Apol suoi raggi asconde;

Nè potendo aver io sentiero altronde,

Che son senz'ale e piume,

Al vivo e chiaro lume,

Alle rare bellezze alme e gioconde,

Alle man bianche, al volto unico e divo,

CINZIA mia illustre, però tardi arrivo.


Canzone XIV (XXII)


Solingo e vago augello,

Ch'hai sben sparsi i tuoi soavi accenti,

Or odi i miei lamenti:

Io vissi in gioia, or sol del pianger vivo,

Che non già d'altra lasso il cor si appaga.

E quella, ond'io fiorivo,

In vece dei mio ben, del pianto è vaga,

Deh guarda alla mia piaga,

Dolce augellino, e se pietà ti piega,

L'ali amorose spiega,

E va innanzi al mio Sole,

E dolce canterai queste parole:

Da te, da Amor, da tua beltà infinita

Chiede un misero Amante o morte, o vita.


Capitolo IV (XXIII)


Dolce e amaro destin, che mi sospinse

Là, dove prima Amor senza contese

Il dolce e amaro nodo al cor m'accinse,

Dolce e amaro desir, che al cor discese,

Trovando in gli occhi incauti aperta via,

E dolce e amaro il foco, che m'accese

Dolce e amaro fulgor, che vivo uscia

Dal sguardo micidial, che speme porse

Alla dolce ed amara impresa mia.

Dolce amaro sperar, che mi soccorse

Nei dolci amari guai; tal che già morto

Del dolce amaro mio mai non m'accorse.

Dolci e amare parole, che conforto

Diedero alle mie dolci e amare pene,

Che scritte nella fronte e nel cor porto.

Dolce amaro sembiante, che mantiene

Onde la dolce amara piaga antica,

Ch'ad or ad or via più crescendo viene.

Dolce amaro pensier, che mi nodrica

Sol di dolce memoria d'un bel viso,

Ma d'una dolce amara mia nemica.

Dolci amari contenti in breve riso,

Dolci occchi amari pien di fidi inganni,

Che lusingando m'han da me diviso

Dolce e amaro timor d'uscir d'affanni,

Dolce amaro sperar, non trovar pace,

Dolce e amaro bramar tutti i miei danni.

Dolce e amaro fuggir quel, che sol piace,

Dolce e amaro chiedendo altrui mercede

Con gli occhi dir quel, che la lingua tace.

Dolce e amaro ad altrui troppo gran fede

Aver, e agli occhi suoi negar il vero,

E a se stesso giurar quel, che non crede.

Dolce e amaro voler, che 'l suo pensiero

In libertà d'altrui servo sia messo,

Nè al sue spoglie aver alcun impero.

Dolce e amaro d'altrui, dolersi spesso,

E veggendosi a torto esser offeso,

Per non odiar chi offende odiar se stesso.

Dolce e amaro tacendo esser inteso,

E dopo lungo affanno aspro dolore

A conseguir pietà vedersi acceso.

Dolce e amaro timor d'un predatore,

E avaro del suo ben tener silenzio;

Onde si vede, che 'l stato d'amore

È qual il mel temprato coll'assenzio.


Canzone XV (XXIV)


Se come qui, la fronte onesta e grave

Del sacro almo Poeta,

Che d'un bel lauro colse eterna palma,

Così vedessi ancor lo spirto e l'alma;

Stella sì chiara e lieta,

Diresti, certo il ciel, certo non ave.

Tu che vieni a mirar l'onesta e grave

Sembianza del divin nostro Poeta,

Pensa, s'in questa il tuo desir s'acqueta,

Quanto fu il veder lui dolce e soave.


Da quella, che nel cor scolpita porto,

Vi ritrasse il Pittore ,

Mentre per gli occhi fuore ,

Qual siete dentro, agevolmente ha scorto.


SonettoVI (XXV)


Poich'Amore, Madonna, e la mia sorte

ognor più grave contra a me la fanno,

Ed or con chiuso, or con aperto inganno,

A mal cammino han le mie voglie scorte;


Svegliati in tua balìa possente e forte ,

Mi dice l'alma, e pon mente al tuo danno;

Di tanto strazio, e di sì lungo affanno

Che t'avanz'altro, che vergogna e morte?


Io come uom, ch'erra, e dell'error si accorge,

Vorrei tornar alla smarrita strada,

Ma l'uso antico pur oltra mi scorge.


Allor una pietade assale il core,

Che mentre i vo, nè so, dove mi vada,

Passano gli anni, e non passa il dolore.


SonettoVII (XXVI)


Ne' bei vostr'occhi mai non drizzo 'l guardo,

Che 'l mio corso fatal tutto non miri:

Veggio allor, come attenda i miei desiri

Un fallace sperar, per cui sempr'ardo.


E per sprezzar un ghiaccio aspro e gagliardo

Indarno infiammi i miei caldi sospiri,

Come a troppa mercede indegno aspiri,

E qual pigro animal segua il fier pardo.


Ma 'l vostro lume abbaglia indi sì forte,

Che mi fa non veder quel, che m'è aperto,

E cercar vita in una espressa morte.


E più per scusar me (se scusa merto)

Vostra bellezza incolpo, e la mia sorte,

Che creder non mi fa quel, che m'è certo.


SonettoVIII (XXVII)


Vivo in un dolce, e sì cocente foco,

Ch'Amor m'ha fatto Salamandra ed esca;

Ed un vital venen tanto m'adesca,

Ch'io moro, e morte in me non ave loco.


Seguo sì crudo e dilettoso gioco,

Che nel proprio martir sempre m'invesca:

il colpo è antico, e la ferita è fresca,

E chi m'uccide, a mio soccorso invoco.


Voglio quel, che voler non mi è concesso,

E i miei pensier sì spesso inganna Amore,

Che incredulo omai son fatto a me stesso.


O quante volte m'ha pregato il core,

Che il sleghi, e quando a farlo mi son messo

Se stesso involve, e corre al primo errore.


Canzone XVI (XXVIII)


Luce in amor tant'alto il vostro volto,

Donna sola d'amor fidato nido

Che segno e porto fido

Sol siete alle fortune degli amanti:

E qual s'attrova in mar d'acerbi pianti,

O cinto di martiri,

Purchè gli occhi a voi giri,

Ristorar sente ogni passato danno,

O pace eterna impetra al grave affanno.


Quanto il mar cinge, o quanto gira il Sole,

Pare a vostre bellezze non si vede,

Che fan tra noi qui fede,

Quant'eccellenza sia nel paradiso,

poich'un sol vostro sguardo, e un vostro riso

Acqueta ogni tempesta;

Ed a virtù si desta,

Chi fiso in voi luce benigna mira:

Beato dunque chi per voi sospira.


Stanza I (XXIX)


Donna, se vi diletta ogni mia gioia,

Son più, ch'ogn'altro amante, ora felice;

Signor, se non vi aggrava ogni mia noia,

Son più, ch'ogn'altra, misera e infelice;

Debb'io dunque sperar, anzi ch'io rnoia,

Quello di voi, che delle più si dice?

State pur Signor mio costante e forte,

Che me non cangerà tempo, nè morte.


Canzone XVII (XXX)


Se in pegno del mio amor vi diedi il core,

Madonna, il dì, che a voi prima mi volsi;

Se 'n lui mia fe scorgete a tutte l'ore,

E 'l duol, ond'io mi struggo i nervi e i polsi;

Se la vostra beltà, vostro valore

Son li saldi lacciuoi, che all'alma avvolsi,

E 'l fin de' miei pensieri altieri e casti;

Di poca fede perchè dubitasti.


Sì leggiadre cagioni al mio languire

Scorgo, s'oso mirar ne' bei vostri occhi,

Che soave mi fanno ogni martire,

Per cui tanto piacer nel petto fiocchi:

Dolci mi son di voi gli sdegni e l'ire:

Dolce, che 'n me le sue quadrella scocchi

Amor, sì dolci fiamme al cor mandasti:

Di poca fede perchè dubitasti?


Fermo son di soffrir ogni aspra doglia,

Ch'Amor m'affida all'amorosa impresa.

[Manca il resto del M.S.]


SonettoIX (XXXI)


Paolo v'invita qui, Signor mio caro,

A goder seco un bello e dolce loco,

E poi con lui vi prego anch'io non poco,

Non ci siate di voi stesso avaro.


Il sito sopra ogni altro ameno e raro,

E la dimora d'infinito gioco

N'accendon di vedervi un dolce foco,

Per far con voi questo giorno più chiaro.


Logge alte adombran peregrini chiostri,

Per cui passando l'aura dolce estiva

Porge diletto a' spirti afflitti nostri.


Dolce mormorio di fontana viva

Par dir: chiamate qui gli amici vostri

Però conven, Signor, ch'io ve ne scriva.


Capitolo V (XXXI)


Tornava la stagion, che discolora

Per l'Oriente le più basse stelle

Destando Febo al mover dell'Aurora?

Allor che scosso fuor delle gonnelle

Buon antico nocchier si leva e mira,

Se vede nube in cielo, o in mar procelle;

E se vento fecondo non gli aspira,

Dolente e sonnacchioso all'agio riede

E con Nettuno e con Eolo s'adira.

Quando 'l pensier, ch'allor dee trovar fede,

Perchè 'l corpo, che 'l turba, gli è men grave,

Se dormendo giammai vero si vede

M'aperse il cor con dilettosa chiave,

E trassel fuor del suo carcer terreno,

Che tenea chiuso un sonno alto e soave.

E per far ben quel dì lieto e sereno,

Come fusse, nol so, ma giunse teco

O petto di valor e grazia pieno.

Parta la stanza nostra un largo speco

Rinchiuso, e freddo assai, ma pien di fiori,

Che quando il dì tramonta, caggion seco.

Dentro per un usciuol, che all'uscir fuori

Mostrava faticoso giù nel basso,

Scorgeva 'l Sol i suoi raggi minori.

Quivi nel mezzo ignudi, ad un gran sasso

M'appoggiav'io; e tu sedevi in erba,

I pien di noia, e tu pensoso e lasso.

Ma ria fortuna ogni dolcezza acerba ,

Che così ragionammo varie cose,

E la memoria or lasso non le serba.

Pur dirò quel, ch'a me non si nascose,

Dopo che 'l vidi, e qui Talia m'aiuti,

Se d'aiutarmi unquanco mai dispose.

Qual uom, che parli, ed in un punto ammuti

Per poca novità, che poi si cuoce

D'aver sì presto i suoi sensi perduti;

Tal mi fec'io, allor che dalla foce

Fu giù nel dirimpetto un'ombra scorta,

Che col pensier m'interruppe la voce.

Ma poichè volsi gli occhi in ver la porta,

Ecco una donna a noi queta venire

Con lento passo, e con maniera accorta.

I volea per vergogna indi fuggire,

Sentendomi così scoperto e nudo,

E con un cenno tu mi desti ardire.

Pur feci a me ver lei del sasso scudo,

Gridando: non venir, se sei amica,

Con parole e con viso altero e crudo.

Fermossi ella sull'uscio, e molto antica

Mi parve in vista, e di pensieri onesti,

Ma vile a' panni, ed all'andar mendica.

Chinò giù gli occhi rugiadosi e mesti

Soavemente, e seco stette alquanto,

Dicendo, omai convien, che tu ti desti.

Poi cominciò: s'io non tenessi il pianto,

Farei per la pietà degli occhi un fiume,

Così m'addoglia il vostro inganno tanto.

Qual forza, qual vaghezza, o qual costume

V'ha di voi stessi sì posti in obblio,

Che non vogliate un tratto veder lume?

Che si fa quì tra così van desio,

O Figli ciechi? a che tanta tristizia?

Che giova al proprio ben farsi restio?

Ad ozio vano darsi, ed a pigrizia,

Che altro è se non odiar fe stesso,

Quando da lor ogni danno s'inizia?

Mirate gli anni vostri, che sì spesso

Cangian stato dal ghiaccio alle viole,

U' foste sempre, e sete pur quel stesso.

Tra quanto bagna 'l mar, e scalda il Sole,

Eccede l'uom ogni cosa creata,

Se sottopor a se se stesso vuole.

L'aer sospeso, e la terra fermata,

E sparse furon l'acque sol per lui,

Ciò che si vola, si calca, e si nata.

Ben è del tutto misero colui,

Che non cura di se, nè del suo stato,

Nè pensa, che farò, che son, che fui.

E l'intelletto, che dal ciel gli è dato,

Lasci, che caschi pur senza far frutto,

Come vi foglia in selva, o fiore in prato.

Or voi del viver vostro che costrutto

Trovate, e di voi stessi in questo fondo,

Dove ogni riso si converte in lutto?

Il gran pianeta, e 'l bel lume fecondo

Della sorella, e l'altre luci erranti,

Che san parer sì vago il vostro mondo;

E gli animali sì diversi e tanti,

Le contrade vicine e le lontane,

E 'l variar di lingue e di sembianti.

Sassi, selve, erbe, mar, fiumi, e fontane,

E ciò che nasce, e muore insieme, è nulla

A chi spende il suo tempo in cose vane,

Colui muor nelle fasce e nella culla,

Che vive vaneggiando ogni sua etate

E pur di vento sempre si trastulla.

Vengavi di voi stessi al cor pietate,

Innanzi che sen vadi Primavera;

Che così ne può andar anche la State.

Non fate, come suol la maggior schiera,

Che senza saper, come già son vecchi,

Menano 'l dì pur da mattina a sera:

Aprite a' buon consigli ambo gli orecchi,

Come si deve, anzi spronate il core,

Pria che ragion sotto al senso s'invecchi.

Che penitenza tardi e van dolore

Vi torneranno un dolce in mille amari,

Se indurerete in così falso errore.

Uscite fuor del fango de' Volgari,

Ove ogni netto e candido Armellino

Convien per forza ch'a giugner impari.

Venite meco, che assai bel destino

Par che vi chiami, e guiderovvi in parte,

Ove un altro è, che ha già fatto il cammino.

Quei, ch'ebber fama delle antiche carte,

Mi seguir tutti, onde poi le lor lode

Fur colle mie per ogni loco sparte.

Or dorme in mezzo 'l vizio, e così gode

L'umana industria, ed ha sì grave il sonno,

Che per gridar che facci ella non ode.

Quando primieramente si fondonno

Nel mondo ancor non suo le belle mura,

Che poi crescendo fin al ciel s'alzonno,

Non di marcir in ozio ogni lor cura

Poser gli antichi buon primi Romani,

Ch'oggi tanto si cerca e si procura;

Ma di tener tra studi onesti e sani

Un viver queto, e senza magistero,

Utili e parchi, non fastosi e vani.

Non ardiva sperar sì largo impero

Il Tevre ancor, e fuor delle sue rive

Nol vedea Roma andar superbo e fiero.

Nè si faceano ancor le genti schive

Di seder sopra un cespo, e ragionarsi.

Lungo un bel mormorar dell'acque vive.

Dalle foglie e dal fien solea levarsi

I Senator, e gir dietro all'aratro,

Poi di corna e d'ulive contentarsi.

Era il lor operoso e bel teatro

L'erbetta verde, e le fere i lor greggi:

Loggie alte un querco, un pin frondoso ed atro,

Che sciolti da' giudizi e dalle leggi,

Ch'a poco a poco hann'or tanti argomenti,

E par che'1 mondo ancor non fi correggi,

Viveano insieme al ben cornune intenti,

Non meno che al privato oggi si soglia,

E potean di suo stato andar contenti.

Or non sa che si facci, o che si voglia

La gente sciocca e cieca, e vive in fallo;

Nè di sì grave danno è chi si doglia.

Che contra al buon costume han fatto callo

Gli uomini infermi, e del suo ben nemichi

Fattisi servi di Sardanapallo.

Non badate voi dunque, o cari amichi,

Movete, andate, e camminate drieto

Per l'orme impresse da' buon Padri antichi.

Che 'l tempo se ne va veloce e queto

Co' vostri giorni, anzi corre, anzi vola ,

Degl'inganni del mondo altero e lieto.

O felice quell'alma, che s'invola

Pria che la sera, o la notte l'aggiungi,

Fuor di questa volgar misera scuola.

Dove s'impara, come l'uom s'allungi

Dal pregio vero, e non chini la testa,

Per cercar strada, che a buon porto aggiungi.

Qui tacque, e come suol, se in gran tempesta

Dorme nocchier, che dormendo non sente

Dolor della ruina manifesta:

Ma poichè nelle angoscie si risente,

E vede il gran periglio, e trema e duolsi;

E questo è men ficuro e più dolente;

Così mi fè tremar le vene e i polsi

Vera paura delle cose conte,

Poichè 'n me stesso alquanto mi raccolsi.

Ella mirommi,e scorse per la fronte

Il mio pensier, siccome gemma cara,

Che splendi sotto un vetro, o fuor d'un fonte.

Poi disse sorridendo: assai m'è cara

La coscienza, che così ti punge,

Onde 'l tuo buon voler mi si dichiara.

E se 'n cor giovanil valor s'aggiunge,

Non ti smarrir, figliuol mio, che ancor forse

Le vostre voci s'udiran da lunge;

Questi, che con un cenno ti soccorse

Nel mio venir, quando la mente offesa

Trista vergogna di se stesso morse,

Fia il tuo fido Piritoo: all'alta impresa

Movi pur tu; che a lui, s'io non m'inganno,

Più di te già, che di se stesso pesa.

Sicuri seco i tuoi giorni faranno,

Felici i suoi con quella Ippodamia,

Che Minerva e Diana cessa gli hanno.

Così detto, ella, e 'l sonno fuggir via.


SonettoX (XXXII)


Dunque son pur que' duo begli occhi spenti,

Laddove pose ogni sua face Amore,

Onde mosse lo strale, onde l'ardore,

Ch'arse e piagò tante anime dolenti.


Dunque a' più chiari e preziosi accenti,

Che mai s'udiro, alla beltà, al valore,

Posto è silenzio, e fine in sì brev'ore

Alle grazie, al costumi, agli ornamenti.


Le Ninfe d'Adria, in cui più non si mostra

Leggiadro effetto senza la lor Dea,

Son quasi prato senza fiori ed erba;


E dicon: ben puoi gir morte superba,

Che in un sol punto hai spento quanto avea

Di bello e di gentil la patria nostra .


SonettoXI (XXXIII)


Per tor in tutto agl'immortali il vanto

D'ogni beltà, d'ogni real costume,

E far la terra omai senza il gran lume,

Cieca, piena d'orror, colma di pianto;


Con quel fuo negro e spaventoso manto,

Ch'ogni cosa mortal copre e rassume,

Velò a Madonna l'uno e l'altro lume

Quella crudel, che 'l mondo teme tanto.


Così è mancato ogni tuo ricco fregio,

Patria gentil, e del tuo grave danno

Fatta è compagna ogni lontana parte.


E quando fia, che scarca dall'affanno

Ti veggia mai? che sì felice pregio

E' don, che raro il ciel quaggiù comparte.


SonettoXII (XXXIV)


Se le sorelle, che ne vider prima

Nascendo liete, vi dan fama e onore,

Non vi avesser disdetto quel liquore,

Di che 'l mondo oggi fa sì poca stima;


Dato v'arei con qualche ornata rima

Più spesso pegno del mio caldo Amore;

Ma se io taccio, è suo, non mio l'errore,

Ch'elle del mio poter son poste in cima.


Però fe pur talor avvien, ch'io scriva,

Fallo Amor, non Apollo, che m'insegna,

Com'anco nel suo foco e lauro viva.


Qui i vedrete voi ben, che fera insegna,

Segue chi ama, e già fu ch'io sentiva:

Ora al suo proprio mal l'alma s'ingegna.


Canzone XVIII (XXXV)


Una leggiadra e candida Angioletta

Cantar a par delle Sirene antiche;

Altre poi d'onestate e pregio amiche

Seder all'ombra in grembo dell'erbetta

Vid'io pien di spavento,

Perch'esser mi parea pur su nel Cielo,

Tal di dolcezza velo

Avvolse il bel piacer agli occhi miei:

E già voleva dir: sentite o Dei

Sempre quel, ch'ora i sento,

Quando m'accorsi, ch'elle eran donzelle;

Taccio l'oneste parolette schive

Da far innamorar un uom selvaggio;

Taccio quel presto e saggio

Sfavillar di due vaghe e chiare stelle,

E l'accorte novelle,

E 'l ballar pronto, leggiadretto e nuovo,

Del cui pensier pur sol lieto mi truovo.

Ma l'atto dolce e strano

D'una pietosa mano

In altri fogli ancor convien ch'i scrive.

Amor, così si vive;

Così aggrada il ferir di tua faetta;

Ma troppo è breve ohimè quel, che diletta.


Canzone XIX (XXXVI)


Come poss'io celato

Tener, Madonna, il foco, se l'umore

Ch'uscia per gli occhi fore, è già mancato,

E non è chi difesa faccia al core?

Che s'egli avvien, ch'Amore

Rinforzi in me l'ardore,

Morrò vivendo, e eterno fia 'l dolore.


Io non so già, che forte

Mi desse il cielo allor, quand'a soffrire

Per voi venni in quest'aspra ed empia morte,

Che 'n vita provo, e raddoppia il martire:

Almen potessi io dire,

Senza perder l'ardire,

S'a voi dispiace, o piace il mio morire .


Che se, Donna, e' vi spiace

Veder del proprio albergo l'alma fora,

Dal cor levate il foco aspro e tenace:

E se vi piace, che mia vita ancora

Finisca innanzi l'ora,

fate, ch'io tosto mora:

Che 'in doglia star non lice un, che v'adora.


SonettoXIII (XXXVII)


Quel dolce avventuroso e chiaro giorno,

Che 'l mio lungo desio condusse a riva,

Di riveder la mia terrestre diva,

Che fa di se il ciel lieto, e 'l mondo adorno:


Amorose faville all'alma intorno

Accende sì, che 'n dubbio è, s'ella viva,

Mentre ch'Amor di se vuol pur, ch' io scriva,

Ora ch'a lui così col pensier torno.


Però s'alcuna volta innanzi a lei

M'abbaglian quelle doi sue luci sante,

Nè mi lascian ben dir quel, ch' i' vorrei;


Non maraviglia: che pur troppo avante

Ardisce allor; ma ella i pensier miei

Da se fa tutti, e le mie ragion tante.


SonettoXIV (XXXVIII)


Guidommi Amor in parte, ond'io vedea

Quella, che sol veder sempre vorrei,

Specchiarsi lieta, che dagli occhi miei,

E fuor d'ogn'altra vista esser credea.


I' son pur bella, a se stessa parea

Sovente dir, per quel ch'io scorsi in lei:

Poi que' suoi crini a me sì dolci e rei,

Che 'l vento sparse, in bei modi accogliea.


Io che son troppo di tal vista ingordo,

Lasso, come non so, pur mi scopersi,

Ond'ella si ritrasse vergognando.


Così in un punto ogni mio ben dispersi,

Nè 'l trovai, per andarlo ricercando:

E tremo ancor, qualor me ne ricordo.



Canzone XX XXXIX)


Quel dì, che gli occhi apersi

Per mia fera ventura,

Donne, a mirar vostre bellezze in prima

E l'ora ch'io soffersi -

Nè cofa era più dura

D'ogni mia libertate porvi in cima;

Potea ben morte con l'acuta lima

Romper degli anni miei

Il fil, che gli attorcea,

Nè pur torcer dovea,

Per non lasciarmi a dì sì oscuri e rei,

Nè a sì penosa vita,

Ch'io ardo sempre, e indarno chieggio aita.


Lasso, ben sapevo io,

Che perigliosa usanza

Era ad uom porre in donna ogni sua fede;

Ma al cor già pien d'obblio

Porse tanta speranza

Il vostro sguardo, ove mia mente siede,

Che ratto, come quel, che troppo crede,

Incontro al mio mal corsi;

E fu tanto l'inganno,

Che per maggior mio danno

Poco di quel pensier vostro m'accorsi;

Nè posso ormai dar volta,

Ch'ogni arbitrio e ragion m'avete tolta


Son al fin dei mio giorno ,

Ch'Amor vi fece accorta

Del stato mio, che da voi sola pende

Festi al cor vostro intorno

Di pietà fredda e morta

Un ghiaccio, che a' miei prieghi non si rende,

Perchè al desio, ch'assai per se s'accende

Con sì pietosi guardi,

Giugnesti aperto foco;

O arti! o fero gioco!

L'accorgermi or del vostro inganno è tardi,

Ch' Amor gli usati schermi

Tolto m' ha tutti, e lasciato il dolermi.


Nè però ch'io mi dogli,

Queta quel fero ardore,

Ch'è in me, quanto in orgoglio e scema e cresce;

Anzi par che raccogli

Nel cor per nuovo errore

Più fiamma allor, che più lamento n'esce;

E perchè del mio mal nulla gl'incresce,

Del vostro duro affetto

Convien ch'io mi lamenti,

Onde perciò che i venti

Non portan, lasso, sempre ogni mio detto;

Tanta pena ne sento,

Che per dolermi doppia il mio lamento:


Nè perch'io non m'avveggia

Or or del mio fallire,

Volgo la lingua a ragionar di voi;

Ma l'alma, che vaneggia,

Col possente desire

Mi spinge a quel, ch'è tutto suo mal poi;

Qual'erbe, o arti maghe han forza in noi,

Taccin l'antiche carte,

Ch'io son pur quale io soglio;

E contro a quel, ch'io voglio,

Con qua' voci non so, nè con qual arte,

A se mi tira e mena

Questa del lito mio nuova Sirena.


E pur che 'n lei talora

De' miei lunghi martiri

Pietà scaldasse il fuo freddo pensiero,

Non torrei d'esser fuora

Degli usati sospiri,

Per trovar al mio corso altro sentiero;

Ma sdegno sotto suo concetto altiero

M'affligge in modo sempre,

Ch'or bestemmio mia sorte,

Or vo chiedendo morte,

Che le mie acerbe voglie omai distempre;

Ella par, che non m'oda,

Ma con Madonna del mal nostro goda.


Canzon, se fie persona,

Che per pietà t'ascolte,

Dirai, ben quante volte

I piango quel, che per te si ragiona.



Canzone XXI (XL.)


Debb'io mai sempre Amore,

Viver lontan da quella,

Ne' cui begli occhi impenni e spieghi l'ali?

Devrà mai sempre il core

Lontan dalla sua stella

Esser albergo d'infiniti mali?

So pur, che molto vali,

Quando il fier arco tendi;

Però se mai ti cale

Di me, nè prego valse,

Rendi alla vista il vago obbietto, rendi,

Acciocch'io poffa 'l viso

Mirar, cui senza, son da me diviso.


Che senza l'alma vista

Io son come terreno,

Ove non scaldi il Sol, negletto e incolto;

E la mia vita trista

Sento venirsi meno,

Tanta è la doglia, ov'io mi trovo involto;

Nè a me lo mondo tolto

Sì mi dorrei, com'io

Viver lontan mi doglio

Da quella, per cui soglio

D'ogn'altra vista aver eterno obblio:

Ch'un suo bel sguardo solo

Di terra può levarmi in cielo a volo.


Deh dimmi Amor, che fora

Senza lei la tua forza,

L'arco, gli srali, e le facelle ardenti?

Le. tue quadrelle indora

Il suo chiar raggio, e sforza

Seguirti le più sagge e salde menti:

Gli sguardi suoi cocenti

Ti danno eterno impero

Sovra' mortali, e puoi

Oprar ciò, che tu vuoi;

Tal è virtù fra 'l vivo bianco e nero.

Fammi dunque sentire,

Come dinanzi a lei si suol gioire.


Fin qui son stato in vita,

Sperando pur un giorno

Sul Mincio ritrovarmi alle grat'onde.

Or la mia speme è gita?

Che troppo ahimè soggiorno,

E par, ch'eterna notte omai m'adombre;

Poi temo non si sgombre

Dal bianco e casto petto

Quella memoria, ch'ivi

Talor tu mi scolpivi,

Quand'era appresso al sommo mio diletto;

Che pria morir vorrei,

Che di me fusse obblio, Amor, in lei.


Però, Signor, se brami,

Ch'io segua il tuo vessillo,

Cui da culla seguir fui destinato;

Fa che quest'occhi grami

Il limpido e tranquillo

Lume conforti, che mi fa beato.

Che dico (ahi sfortunato)

Tanto sperar non oso.

Ma prego sol, che sia

Dinanzi a lei la mia

Fede scolpita, e 'l stato mio penoso;

Se questo amor mi dai,

Qual dolcezza pareggia li miei guai?


Questo bastar mi de' Canzon mia rozza,

Se del fervir mi fido,

Nanzi a begli occhi Amor compone un nido.


Canzone XXII (XLI)


Or che solingo sono

Fra querce, olmi, ed abeti,

Ove d'Insubria il piano il Lambro inonda;

Ben potrò il roco suono

De' miei martir segreti

Scoprir col pianto, che negli occhi abbonda;

Sol Echo mi risponda,

E 'l fin de' mesti accenti

Sotto, quest'ombre chiuda,

Che 'l cor mi trema e suda,

Ch'altri non oda i duri miei lamenti,

E sia scoperto al mondo

L'altro mio duol profondo.


Fuggite dunque augelli,

Che per le fronde andate,

I vostri dolci amor cantando ogn' ora.

Fuggite pesci snelli,

Che 'n questo gorgo state,

E belle schiere di periglio fora,

Che 'l mio tormento fora

Forse cagion di darvi

Fra le chiare acque pena,

E la vostra serena

Pace potrei col mio gridar turbarvi;

Che l'aspro mio martire,

Chi l'ode, fa languire.


Dico, che poichè quella

Lasciai, di cui la vista,

Quando s'innalza, al Sol i raggi adombra,

Parmi, che mi si svella

Del petto il cor, e trista

Sia la mia vita, tanto duol l'ingombra.

Nè mai da me si sgombra

L'alto martir, che 'l giorno

Ebbi al partir, ch'io fei,

Quando salir vedei

Negli occhi il pianto, e mesto il viso adorno

Farsi, e così pietoso,

Che ripensar non l'oso.


Che 'n mezzo a que' begli occhi,

Che son del mondo il Sole,

Restai partendo eternamente preso.

Che dove avvien, che tocchi

Il vago lume, suole

Legar ogn'alma in vivo foco acceso;

Ma poi che m'è conteso

Quel dolce fguardo umile,

Nè vivo son, nè morto,

Privo d'ogni conforto,

E l'alma ha tolto di lagnarsi un stile,

Che per l'acerbe pene

Vie più crudel diviene.


Di lagrimar mai sempre

Dunque cagion avemo,

Alma, più non veggendo il nostro obbietto.

Però fin che mi stempre

Morte nel giorno estremo,

Umidi gli occhi sian, e molle il petto:

Che 'l sommo mio diletto

È star in pianto e doglia,

Tal che 'l giorno e la notte

Le lagrime interrotte

Mai non mi dian, ma sempre il cor si doglia,

E la penosa vita

Più non ritrovi aita.


Ahi lasso, s'io sapea,

Senza i begli occhi suoi

Morir il dì, che 'l Mincio abbandonai,

Il dì, che mi tenea

Gli occhi negli occhi, e poi

Sospirandio asciugava i dolci rai;

Io non moria giammai

O tal fentiva gioia

Quivi morendo il core,

Che l'alma a uscir di fore

Sentir non mi lasciava alcuna noia;

Ch'innanzi al suo bel viso

Non mor chi 'l mira fiso.

Ma perchè sempre stanzi

Novo duol meco, ond'io

Non fperi aver mai più tranquillo stato,

Non pote a lei dinanzi

Partir il spirto mio,

Ch'allor partendo si partia beato;

Or lasso travagliato

Sono dal Mincio lunge,

Nè di vederla spero:

Così mi molce Amor, così mi punge;

E stommi travagliando,

Temendo, ardendo, amando.


Mesta Canzon, ch'in ripa al Lambro fosti

Tra lagrime raccolta

Qui resterai sepolta.