Buonarroti Michelangelo

RIME



001

    Molti anni fassi qual felice, in una
brevissima ora si lamenta e dole;
o per famosa o per antica prole
altri s'inlustra, e 'n un momento imbruna.

    Cosa mobil non è che sotto el sole
non vinca morte e cangi la fortuna.

002

    Sol io ardendo all'ombra mi rimango,
quand'el sol de' suo razzi el mondo spoglia:
ogni altro per piacere, e io per doglia,
prostrato in terra, mi lamento e piango.

003

    Grato e felice, a' tuo feroci mali
ostare e vincer mi fu già concesso;
or lasso, il petto vo bagnando spesso
contr'a mie voglia, e so quante tu vali.
    E se i dannosi e preteriti strali
al segno del mie cor non fur ma' presso,
or puoi a colpi vendicar te stesso
di que' begli occhi, e fien tutti mortali.
    Da quanti lacci ancor, da quante rete
vago uccelletto per maligna sorte
campa molt'anni per morir po' peggio,
    tal di me, donne, Amor, come vedete,
per darmi in questa età più crudel morte,
campato m'ha gran tempo, come veggio.

004

    Quanto si gode, lieta e ben contesta
di fior sopra ' crin d'or d'una, grillanda,
che l'altro inanzi l'uno all'altro manda,
come ch'il primo sia a baciar la testa!
    Contenta è tutto il giorno quella vesta
che serra 'l petto e poi par che si spanda,
e quel c'oro filato si domanda
le guanci' e 'l collo di toccar non resta.
    Ma più lieto quel nastro par che goda,
dorato in punta, con sì fatte tempre
che preme e tocca il petto ch'egli allaccia.
    E la schietta cintura che s'annoda
mi par dir seco: qui vo' stringer sempre.
    Or che farebbon dunche le mie braccia?

005

    I' ho già fatto un gozzo in questo stento,
coma fa l'acqua a' gatti in Lombardia
o ver d'altro paese che si sia,
c'a forza 'l ventre appicca sotto 'l mento.
    La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e 'l petto fo d'arpia,
e 'l pennel sopra 'l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
    E' lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e ' passi senza gli occhi muovo invano.
    Dinanzi mi s'allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com'arco sorïano.
    Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra' per cerbottana torta.
    La mia pittura morta
difendi orma', Giovanni, e 'l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.

006

    Signor, se vero è alcun proverbio antico,
questo è ben quel, che chi può mai non vuole.
    Tu hai creduto a favole e parole
e premiato chi è del ver nimico.
    I' sono e fui già tuo buon servo antico,
a te son dato come e' raggi al sole,
e del mie tempo non ti incresce o dole,
e men ti piaccio se più m'affatico.
    Già sperai ascender per la tua altezza,
e 'l giusto peso e la potente spada
fussi al bisogno, e non la voce d'ecco.
    Ma 'l cielo è quel c'ogni virtù disprezza
locarla al mondo, se vuol c'altri vada
a prender frutto d'un arbor ch'è secco.

007

    Chi è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè, oilmè,
legato e stretto, e son libero e sciolto?
    Se tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m'hai raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?

008

    Come può esser ch'io non sia più mio?
    O Dio, o Dio, o Dio,
chi m'ha tolto a me stesso,
c'a me fusse più presso
o più di me potessi che poss'io?
    O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
    Che cosa è questo, Amore,
c'al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca?
    E s'avvien che trabocchi?

009

    Colui che 'l tutto fe', fece ogni parte
e poi del tutto la più bella scelse,
per mostrar quivi le suo cose eccelse,
com'ha fatto or colla sua divin'arte.

010

    Qua si fa elmi di calici e spade
e 'l sangue di Cristo si vend'a giumelle,
e croce e spine son lance e rotelle,
e pur da Cristo pazïenzia cade.
    Ma non ci arrivi più 'n queste contrade,
ché n'andre' 'l sangue suo 'nsin alle stelle,
poscia c'a Roma gli vendon la pelle,
e ècci d'ogni ben chiuso le strade.
    S'i' ebbi ma' voglia a perder tesauro,
per ciò che qua opra da me è partita,
può quel nel manto che Medusa in Mauro;
    ma se alto in cielo è povertà gradita,
qual fia di nostro stato il gran restauro,
s'un altro segno ammorza l'altra vita?

011

    Quanto sare' men doglia il morir presto
che provar mille morte ad ora ad ora,
da ch'in cambio d'amarla, vuol ch'io mora!
    Ahi, che doglia 'nfinita
sente 'l mio cor, quando li torna a mente
che quella ch'io tant'amo amor non sente!
    Come resterò 'n vita?
    Anzi mi dice, per più doglia darmi,
che se stessa non ama: e vero parmi.
    Come posso sperar di me le dolga,
se se stessa non ama? Ahi trista sorte!
    Che fia pur ver, ch'io ne trarrò la morte?

012

    Com'arò dunche ardire
senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n vita,
s'io non posso al partir chiedervi aita?
        Que' singulti e que' pianti e que' sospiri
che 'l miser core voi accompagnorno,
madonna, duramente dimostrorno
la mia propinqua morte e ' miei martiri.
        Ma se ver è che per assenzia mai
mia fedel servitù vadia in oblio,
il cor lasso con voi, che non è mio.

013

    La fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né inanzi né
indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo.

014

    El Dì e la Notte parlano, e dicono:
Noi abbiàno col nostro veloce corso condotto
alla morte el duca Giuliano; è ben giusto
che e' ne facci vendetta come fa.
        E la vendetta è questa: che avendo noi
morto lui, lui così morto ha tolta la luce a noi
e cogli occhi chiusi ha serrato e' nostri,
che non risplendon più sopra la terra.
        Che arrebbe di noi dunche fatto, mentre vivea?

015

    Di te me veggo e di lontan mi chiamo
per appressarm'al ciel dond'io derivo,
e per le spezie all'esca a te arrivo,
come pesce per fil tirato all'amo.
    E perc'un cor fra dua fa picciol segno
di vita, a te s'è dato ambo le parti;
ond'io resto, tu 'l sai, quant'io son, poco.
    E perc'un'alma infra duo va 'l più degno,
m'è forza, s'i' voglio esser, sempre amarti;
ch'i' son sol legno, e tu se' legno e foco.

016

    D'un oggetto leggiadro e pellegrino,
d'un fonte di pietà nasce 'l mie male.

017

    Crudele, acerbo e dispietato core,
vestito di dolcezza e d'amar pieno,
tuo fede al tempo nasce, e dura meno
c'al dolce verno non fa ciascun fiore.
    Muovesi 'l tempo, e compartisce l'ore
al viver nostr'un pessimo veneno;
lu' come falce e no' siàn come fieno,
. . . . . . . . . . . . . .
    La fede è corta e la beltà non dura,
ma di par seco par che si consumi,
come 'l peccato tuo vuol de' mie danni.
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
sempre fra noi fare' con tutti gli anni.

018

    Mille rimedi invan l'anima tenta:
poi ch'i' fu' preso alla prestina strada,
di ritornare endarno s'argomenta.
    Il mare e 'l monte e 'l foco colla spada:
in mezzo a questi tutti insieme vivo.
    Al monte non mi lascia chi m'ha privo
dell'intelletto e tolto la ragione.

019

Natura ogni valore
di donna o di donzella
fatto ha per imparare, insino a quella
c'oggi in un punto m'arde e ghiaccia el core.
    Dunche nel mie dolore
non fu tristo uom più mai;
l'angoscia e 'l pianto e ' guai,
a più forte cagion maggiore effetto.
    Così po' nel diletto
non fu né fie di me nessun più lieto.

020

    Tu ha' 'l viso più dolce che la sapa,
e passato vi par sù la lumaca,
tanto ben lustra, e più bel c'una rapa;
e' denti bianchi come pastinaca,
in modo tal che invaghiresti 'l papa;
e gli occhi del color dell'utriaca;
e' cape' bianchi e biondi più che porri:
ond'io morrò, se tu non mi soccorri.
    La tua bellezza par molto più bella
che uomo che dipinto in chiesa sia:
la bocca tua mi par una scarsella
di fagiuo' piena, si com'è la mia;
le ciglia paion tinte alla padella
e torte più c'un arco di Sorìa;
le gote ha' rosse e bianche, quando stacci,
come fra cacio fresco e' rosolacci.
    Quand'io ti veggo, in su ciascuna poppa
mi paion duo cocomer in un sacco,
ond'io m'accendo tutto come stoppa,
bench'io sia dalla zappa rotto e stracco.
    Pensa: s'avessi ancor la bella coppa,
ti seguirrei fra l'altre me' c'un bracco;
dunche s'i massi aver fussi possibile,
io fare' oggi qui cose incredibile.

021

Chiunche nasce a morte arriva
nel fuggir del tempo; e 'l sole
niuna cosa lascia viva.
Manca il dolce e quel che dole
e gl'ingegni e le parole;
e le nostre antiche prole
al sole ombre, al vento un fummo.
    Come voi uomini fummo,
lieti e tristi, come siete;
e or siàn, come vedete,
terra al sol, di vita priva.
    Ogni cosa a morte arriva.
    Già fur gli occhi nostri interi
con la luce in ogni speco;
or son voti, orrendi e neri,
e ciò porta il tempo seco.

022

Che fie di me? che vo' tu far di nuovo
d'un arso legno e d'un afflitto core?
    Dimmelo un poco, Amore,
acciò che io sappi in che stato io mi truovo.
    Gli anni del corso mio al segno sono,
come saetta c'al berzaglio è giunta,
onde si de' quetar l'ardente foco.
    E' mie passati danni a te perdono,
cagion che 'l cor l'arme tu' spezza e spunta,
c'amor per pruova in me non ha più loco;
e s'e' tuo colpi fussin nuovo gioco
agli occhi mei, al cor timido e molle,
vorria quel che già volle?
    Ond'or ti vince e sprezza, e tu tel sai,
sol per aver men forza oggi che mai.
    Tu speri forse per nuova beltate
tornarmi 'ndietro al periglioso impaccio,
ove 'l più saggio assai men si difende:
più corto è 'l mal nella più lunga etate
ond'io sarò come nel foco el ghiaccio,
che si distrugge e parte e non s'accende.
    La morte in questa età sol ne difende
dal fiero braccio e da' pungenti strali,
cagion di tanti mali,
che non perdona a condizion nessuna,
né a loco, né tempo, né fortuna.
    L'anima mia, che con la morte parla,
e seco di se stessa si consiglia,
e di nuovi sospetti ognor s'attrista,
el corpo di dì in dì spera lasciarla:
onde l'immaginato cammin piglia,
di speranza e timor confusa e mista.
    Ahi, Amor, come se' pronto in vista,
temerario, audace, armato e forte!
    che e' pensier della morte
nel tempo suo di me discacci fori,
per trar d'un arbor secco fronde e fiori.
    Che poss'io più? che debb'io? Nel tuo regno
non ha' tu tutto el tempo mio passato,
che de' mia anni un'ora non m'è tocca?
    Qual inganno, qual forza o qual ingegno
tornar mi puote a te, signore ingrato,
c'al cuor la morte e pietà porti in bocca?
    Ben sare' ingrata e sciocca
l'alma risuscitata, e senza stima,
tornare a quel che gli diè morte prima.
    Ogni nato la terra in breve aspetta;
d'ora in or manca ogni mortal bellezza:
chi ama, il vedo, e' non si può po' sciorre.
    Col gran peccato la crudel vendetta
insieme vanno; e quel che men s'apprezza,
colui è sol c'a più suo mal più corre.
    A che mi vuo' tu porre,
che 'l dì ultimo buon, che mi bisogna,
sie quel del danno e quel della vergogna?

023

    I' fu', già son molt'anni, mille volte
ferito e morto, non che vinto e stanco
da te, mie colpa; e or col capo bianco
riprenderò le tuo promesse stolte?
    Quante volte ha' legate e quante sciolte
le triste membra, e sì spronato il fianco,
c'appena posso ritornar meco, anco
bagnando il petto con lacrime molte!
    Di te mi dolgo, Amor, con teco parlo,
sciolto da' tuo lusinghi: a che bisogna
prender l'arco crudel, tirare a voto?
    Al legno incenerato sega o tarlo,
o dietro a un correndo, è gran vergogna
c'ha perso e ferma ogni destrezza e moto.

024

    I' fe' degli occhi porta al mie veneno,
quand' el passo dier libero a' fier dardi;
nido e ricetto fe' de' dolci sguardi
della memoria che ma' verrà meno.
    Ancudine fe' 'l cor, mantaco 'l seno
da fabricar sospir, con che tu m'ardi.

025

    Quand'il servo il signor d'aspra catena
senz'altra speme in carcer tien legato,
volge in tal uso el suo misero stato,
che libertà domanderebbe appena.
    E el tigre e 'l serpe ancor l'uso raffrena,
e 'l fier leon ne' folti boschi nato;
e 'l nuovo artista, all'opre affaticato,
coll'uso del sudor doppia suo lena.
    Ma 'l foco a tal figura non s'unisce;
ché se l'umor d'un verde legno estinge,
il freddo vecchio scalda e po' 'l nutrisce,
e tanto il torna in verde etate e spinge,
rinnuova e 'nfiamma, allegra e 'ngiovanisce,
c'amor col fiato l'alma e 'l cor gli cinge.
    E se motteggia o finge,
chi dice in vecchia etate esser vergogna
amar cosa divina, è gran menzogna.
    L'anima che non sogna,
non pecca amar le cose di natura,
usando peso, termine e misura.

026

Quand'avvien c'alcun legno non difenda
il propio umor fuor del terreste loco,
non può far c'al gran caldo assai o poco
non si secchi o non s'arda o non s'accenda.
    Così 'l cor, tolto da chi mai mel renda,
vissuto in pianto e nutrito di foco,
or ch'è fuor del suo propio albergo e loco,
qual mal fie che per morte non l'offenda?

027

    Fuggite, amanti, Amor, fuggite 'l foco;
l'incendio è aspro e la piaga è mortale,
c'oltr'a l'impeto primo più non vale
né forza né ragion né mutar loco.
    Fuggite, or che l'esemplo non è poco
d'un fiero braccio e d'un acuto strale;
leggete in me, qual sarà 'l vostro male,
qual sarà l'impio e dispietato gioco.
    Fuggite, e non tardate, al primo sguardo:
ch'i' pensa' d'ogni tempo avere accordo;
or sento, e voi vedete, com'io ardo.

028

    Perché pur d'ora in ora mi lusinga
la memoria degli occhi e la speranza,
per cui non sol son vivo, ma beato;
la forza e la ragion par che ne stringa,
Amor, natura e la mie 'ntica usanza,
mirarvi tutto il tempo che m'è dato.
    E s'i' cangiassi stato,
vivendo in questo, in quell'altro morrei;
né pietà troverei
ove non fussin quegli.
    O Dio, e' son pur begli!
Chi non ne vive non è nato ancora;
e se verrà dipoi,
a dirlo qui tra noi,
forz'è che, nato, di subito mora;
ché chi non s'innamora
de' begli occhi, non vive.

029

    Ogn'ira, ogni miseria e ogni forza,
chi d'amor s'arma vince ogni fortuna.

030

    Dagli occhi del mie ben si parte e vola
un raggio ardente e di sì chiara luce
che da' mie, chiusi ancor, trapassa 'l core.
    Onde va zoppo Amore,
tant'è dispar la soma che conduce,
dando a me luce, e tenebre m'invola.

031

    Amor non già, ma gli occhi mei son quegli
che ne' tuo soli e begli
e vita e morte intera trovato hanno.
    Tante meno m'offende e preme 'l danno,
più mi distrugge e cuoce;
dall'altra ancor mi nuoce
tante amor più quante più grazia truovo.
    Mentre ch'io penso e pruovo
il male, el ben mi cresce in un momento.
    O nuovo e stran tormento!
    Però non mi sgomento:
s'aver miseria e stento
è dolce qua dove non è ma' bene,
vo cercando 'l dolor con maggior pene.

032

    Vivo al peccato, a me morendo vivo;
vita già mia non son, ma del peccato:
mie ben dal ciel, mie mal da me m'è dato,
dal mie sciolto voler, di ch'io son privo.
    Serva mie libertà, mortal mie divo
a me s'è fatto. O infelice stato!
    a che miseria, a che viver son nato!

033

    Sie pur, fuor di mie propie, c'ogni altr'arme
difender par ogni mie cara cosa;
altra spada, altra lancia e altro scudo
fuor delle propie forze non son nulla,
tant'è la trista usanza, che m'ha tolta
la grazia che 'l ciel piove in ogni loco.
    Qual vecchio serpe per istretto loco
passar poss'io, lasciando le vecchie arme,
e dal costume rinnovata e tolta
sie l'alma in vita e d'ogni umana cosa,
coprendo sé con più sicuro scudo,
ché tutto el mondo a morte è men che nulla.
    Amore, i' sento già di me far nulla;
natura del peccat' è 'n ogni loco.
    Spoglia di me me stesso, e col tuo scudo,
colla pietra e tuo vere e dolci arme,
difendimi da me, c'ogni altra cosa
è come non istata, in brieve tolta.
    Mentre c'al corpo l'alma non è tolta,
Signor, che l'universo puo' far nulla,
fattor, governator, re d'ogni cosa,
poco ti fie aver dentr'a me loco;
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
che d'ogn' uomo veril son le vere arme,
senza le quali ogn' uom diventa nulla.

034

    La vita del mie amor non è 'l cor mio,
c'amor di quel ch'i' t'amo è senza core;
dov'è cosa mortal, piena d'errore,
esser non può già ma', nè pensier rio.
    Amor nel dipartir l'alma da Dio
me fe' san occhio e te luc' e splendore;
nè può non rivederlo in quel che more
di te, per nostro mal, mie gran desio.
    Come dal foco el caldo, esser diviso
non può dal bell'etterno ogni mie stima,
ch'exalta, ond'ella vien, chi più 'l somiglia.
    Poi che negli occhi ha' tutto 'l paradiso,
per ritornar là dov'i' t'ama' prima,
ricorro ardendo sott'alle tuo ciglia.

035

    El ciglio col color non fere el volto
col suo contrar, che l'occhio non ha pena
da l'uno all'altro stremo ov'egli è volto.
    L'occhio, che sotto intorno adagio mena,
picciola parte di gran palla scuopre,
che men rilieva suo vista serena,
    e manco sale e scende quand' el copre;
onde più corte son le suo palpebre,
che manco grinze fan quando l'aopre.
    El bianco bianco, el ner più che funebre,
s'esser può, el giallo po' più leonino,
che scala fa dall'una all'altra vebre.
    Pur tocchi sotto e sopra el suo confino,
e 'l giallo e 'l nero e 'l bianco non circundi.

036

    Oltre qui fu, dove 'l mie amor mi tolse,
suo mercè, il core e vie più là la vita;
qui co' begli occhi mi promisse aita,
e co' medesmi qui tor me la volse.
    Quinci oltre mi legò, quivi mi sciolse;
per me qui piansi, e con doglia infinita
da questo sasso vidi far partita
colui c'a me mi tolse e non mi volse.

037

    In me la morte, in te la vita mia;
tu distingui e concedi e parti el tempo;
quante vuo', breve e lungo è 'l viver mio.
    Felice son nella tuo cortesia.
    Beata l'alma, ove non corre tempo,
per te s'è fatta a contemplare Dio.

038

    Quanta dolcezza al cor per gli occhi porta
quel che 'n un punto el tempo e morte fura!
    Che è questo però che mi conforta
e negli affanni cresce e sempre dura.
    Amor, come virtù viva e accorta,
desta gli spirti ed è più degna cura.
    Risponde a me: - Come persona morta
mena suo vita chi è da me sicura. -
    Amore è un concetto di bellezza
immaginata o vista dentro al core,
amica di virtute e gentilezza.

039

    Del fiero colpo e del pungente strale
la medicina era passarmi 'l core;
ma questo è propio sol del mie signore,
crescer la vita dove cresce 'l male.
    E se 'l primo suo colpo fu mortale,
seco un messo di par venne d'Amore
che mi disse: - Ama, anz'ardi; ché chi muore
non ha da gire al ciel nel mondo altr'ale.
    I' son colui che ne' prim'anni tuoi
gli occhi tuo infermi volsi alla beltate
che dalla terra al ciel vivo conduce. -

040

    Quand'Amor lieto al ciel levarmi è volto
cogli occhi di costei, anzi col sole,
con breve riso ciò che preme e dole
del cor mi caccia, e mettevi 'l suo volto;
    e s'i' durassi in tale stato molto,
l'alma, che sol di me lagnar si vole,
avendo seco là dove star suole,
. . . . . . . . . . .

041

    Spirto ben nato, in cu' si specchia e vede
nelle tuo belle membra oneste e care
quante natura e 'l ciel tra no' può fare,
quand'a null'altra suo bell'opra cede:
    spirto leggiadro, in cui si spera e crede
dentro, come di fuor nel viso appare,
amor, pietà, mercé, cose sì rare,
che ma' furn'in beltà con tanta fede:
    l'amor mi prende e la beltà mi lega;
la pietà, la mercé con dolci sguardi
ferma speranz' al cor par che ne doni.
    Qual uso o qual governo al mondo niega,
qual crudeltà per tempo o qual più tardi,
c'a sì bell'opra morte non perdoni?

042

    Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi mei
veggono 'l ver della beltà c'aspiro,
o s'io l'ho dentro allor che, dov'io miro,
veggio scolpito el viso di costei.
    Tu 'l de' saper, po' che tu vien con lei
a torm'ogni mie pace, ond'io m'adiro;
né vorre' manco un minimo sospiro,
né men ardente foco chiederei.
    - La beltà che tu vedi è ben da quella,
ma cresce poi c'a miglior loco sale,
se per gli occhi mortali all'alma corre.
    Quivi si fa divina, onesta e bella,
com'a sé simil vuol cosa immortale:
questa e non quella agli occhi tuo precorre. -

043

    La ragion meco si lamenta e dole,
parte ch'i' spero amando esser felice;
con forti esempli e con vere parole
la mie vergogna mi rammenta e dice:
    - Che ne riportera' dal vivo sole
altro che morte? e non come fenice. -
Ma poco giova, ché chi cader vuole,
non basta l'altru' man pront' e vittrice.
    I' conosco e' mie danni, e 'l vero intendo;
dall'altra banda albergo un altro core,
che più m'uccide dove più m'arrendo.
    In mezzo di duo mort' è 'l mie signore:
questa non voglio e questa non comprendo:
così sospeso, el corpo e l'alma muore.

044

    Mentre c'alla beltà ch'i' vidi in prima
appresso l'alma, che per gli occhi vede,
l'immagin dentro cresce, e quella cede
quasi vilmente e senza alcuna stima.
    Amor, c'adopra ogni suo ingegno e lima,
perch'io non tronchi 'l fil ritorna e riede.

045

    Ben doverrieno al sospirar mie tanto
esser secco oramai le fonti e ' fiumi,
s'i' non gli rinfrescassi col mie pianto.
    Così talvolta i nostri etterni lumi,
l'un caldo e l'altro freddo ne ristora,
acciò che 'l mondo più non si consumi.
    E similmente il cor che s'innamora,
quand'el superchio ardor troppo l'accende,
l'umor degli occhi il tempra, che non mora.
    La morte e 'l duol, ch'i' bramo e cerco, rende
un contento avenir, che non mi lassa
morir; ché chi diletta non offende.
    Onde la navicella mie non passa,
com'io vorrei, a vederti a quella riva
che 'l corpo per a tempo di qua lassa.
    Troppo dolor vuol pur ch'i' campi e viva,
qual più c'altri veloce andando vede,
che dopo gli altri al fin del giorno arriva.
    Crudel pietate e spietata mercede
me lasciò vivo, e te da me disciolse,
rompendo, e non mancando nostra fede,
e la memoria a me non sol non tolse,
. . . . . . . . . . . .

046

    Se 'l mie rozzo martello i duri sassi
forma d'uman aspetto or questo or quello,
dal ministro che 'l guida, iscorge e tiello,
prendendo il moto, va con gli altrui passi.
    Ma quel divin che in cielo alberga e stassi,
altri, e sé più, col propio andar fa bello;
e se nessun martel senza martello
si può far, da quel vivo ogni altro fassi.
    E perché 'l colpo è di valor più pieno
quant'alza più se stesso alla fucina,
sopra 'l mie questo al ciel n'è gito a volo.
    Onde a me non finito verrà meno,
s'or non gli dà la fabbrica divina
aiuto a farlo, c'al mondo era solo.

047

    Quand'el ministro de' sospir mie tanti
al mondo, agli occhi mei, a sé si tolse,
natura, che fra noi degnar lo volse,
restò in vergogna, e chi lo vide in pianti.
    Ma non come degli altri oggi si vanti
del sol del sol, c'allor ci spense e tolse,
morte, c'amor ne vinse, e farlo il tolse
in terra vivo e 'n ciel fra gli altri santi.
    Così credette morte iniqua e rea
finir il suon delle virtute sparte,
e l'alma, che men bella esser potea.
    Contrari effetti alluminan le carte
di vita più che 'n vita non solea,
e morto ha 'l ciel, c'allor non avea parte.

048

    Come fiamma più cresce più contesa
dal vento, ogni virtù che 'l cielo esalta
tanto più splende quant'è più offesa.

049

    Amor, la tuo beltà non è mortale:
nessun volto fra noi è che pareggi
l'immagine del cor, che 'nfiammi e reggi
con altro foco e muovi con altr'ale.

050

    Che fie doppo molt'anni di costei,
Amor, se 'l tempo ogni beltà distrugge?
    Fama di lei; e anche questa fugge
e vola e manca più ch'i' non vorrei.

051

    Oilmè, oilmè, ch'i' son tradito
da' giorni mie fugaci e dallo specchio
che 'l ver dice a ciascun che fiso 'l guarda!
    Così n'avvien, chi troppo al fin ritarda,
com'ho fatt'io, che 'l tempo m'è fuggito:
si trova come me 'n un giorno vecchio.
    Né mi posso pentir, né m'apparecchio,
né mi consiglio con la morte appresso.
    Nemico di me stesso,
inutilmente i pianti e ' sospir verso,
ché non è danno pari al tempo perso.
    Oilmè, oilmè, pur riterando
vo 'l mio passato tempo e non ritruovo
in tutto un giorno che sie stato mio!
    Le fallace speranze e 'l van desio,
piangendo, amando, ardendo e sospirando
(c'affetto alcun mortal non m'è più nuovo)
m'hanno tenuto, ond'il conosco e pruovo,
lontan certo dal vero.
    Or con periglio pèro;
ché 'l breve tempo m'è venuto manco,
né sarie ancor, se s'allungassi, stanco.
    I' vo lasso, oilmè, né so ben dove;
anzi temo, ch'il veggio, e 'l tempo andato
mel mostra, né mi val che gli occhi chiuda.
    Or che 'l tempo la scorza cangia e muda,
la morte e l'alma insieme ognor fan pruove,
la prima e la seconda, del mie stato.
    E s'io non sono errato,
(che Dio 'l voglia ch'io sia),
l'etterna pena mia
nel mal libero inteso oprato vero
veggio, Signor, né so quel ch'io mi spero.

052

    S'alcun se stesso al mondo ancider lice,
po' che per morte al ciel tornar si crede,
sarie ben giusto a chi con tanta fede
vive servendo miser e 'nfelice.
    Ma perché l'uom non è come fenice,
c'alla luce del sol resurge e riede,
la man fo pigra e muovo tardi el piede.

053

    Chi di notte cavalca, el dì conviene
c'alcuna volta si riposi e dorma:
così sper'io, che dopo tante pene
ristori 'l mie signor mie vita e forma.
    Non dura 'l mal dove non dura 'l bene,
ma spesso l'un nell'altro si trasforma.

054

    Io crederrei, se tu fussi di sasso,
amarti con tal fede, ch'i' potrei
farti meco venir più che di passo;
se fussi morto, parlar ti farei,
se fussi in ciel, ti tirerei a basso
co' pianti, co' sospir, co' prieghi miei.
    Sendo vivo e di carne, e qui tra noi,
chi t'ama e serve che de' creder poi?
    I' non posso altro far che seguitarti,
e della grande impresa non mi pento.
    Tu non se' fatta com'un uom da sarti,
che si muove di fuor, si muove drento;
e se dalla ragion tu non ti parti,
spero c'un dì tu mi fara' contento:
ché 'l morso il ben servir togli' a' serpenti,
come l'agresto quand'allega i denti.
    E' non è forza contr'a l'umiltate,
né crudeltà può star contr'a l'amore;
ogni durezza suol vincer pietate,
sì come l'allegrezza fa 'l dolore;
una nuova nel mondo alta beltate
come la tuo non ha 'ltrimenti il core;
c'una vagina, ch'è dritta a vedella,
non può dentro tener torte coltella.
    E non può esser pur che qualche poco
la mie gran servitù non ti sie cara;
pensa che non si truova in ogni loco
la fede negli amici, che è sì rara;
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
    Quando un dì sto che veder non ti posso,
non posso trovar pace in luogo ignuno;
se po' ti veggo, mi s'appicca addosso,
come suole il mangiar far al digiuno;
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
com'altri il ventre di votar si muore,
ch'è più 'l conforto, po' che pri' è 'l dolore.
    E non mi passa tra le mani un giorno
ch'i' non la vegga o senta con la mente;
né scaldar ma' si può fornace o forno
c'a' mie sospir non fussi più rovente;
e quando avvien ch'i' l'abbi un po' dintorno,
sfavillo come ferro in foco ardente;
e tanto vorre' dir, s'ella m'aspetta,
ch'i' dico men che quand'i' non ho fretta.
    S'avvien che la mi rida pure un poco
o mi saluti in mezzo della via,
mi levo come polvere dal foco
o di bombarda o d'altra artiglieria;
se mi domanda, subito m'affioco,
perdo la voce e la risposta mia,
e subito s'arrende il gran desio,
e la speranza cede al poter mio.
    I' sento in me non so che grand'amore,
che quasi arrivere' 'nsino alle stelle;
e quando alcuna volta il vo trar fore,
non ho buco sì grande nella pelle
che nol faccia, a uscirne, assa' minore
parere, e le mie cose assai men belle:
c'amore o forza el dirne è grazia sola;
e men ne dice chi più alto vola.
    I' vo pensando al mie viver di prima,
inanzi ch'i' t'amassi, com'egli era:
di me non fu ma' chi facesse stima,
perdendo ogni dì il tempo insino a sera;
forse pensavo di cantare in rima
o di ritrarmi da ogni altra schiera?
    Or si fa 'l nome, o per tristo o per buono,
e sassi pure almen che i' ci sono.
    Tu m'entrasti per gli occhi, ond'io mi spargo,
come grappol d'agresto in un'ampolla,
che doppo 'l collo cresce ov'è più largo;
così l'immagin tua, che fuor m'immolla,
dentro per gli occhi cresce, ond'io m'allargo
come pelle ove gonfia la midolla;
entrando in me per sì stretto vïaggio,
che tu mai n'esca ardir creder non aggio.
    Come quand'entra in una palla il vento,
che col medesmo fiato l'animella,
come l'apre di fuor, la serra drento,
così l'immagin del tuo volto bella
per gli occhi dentro all'alma venir sento;
e come gli apre, poi si serra in quella;
e come palla pugno al primo balzo,
percosso da' tu' occhi al ciel po' m'alzo.
    Perché non basta a una donna bella
goder le lode d'un amante solo,
ché suo beltà potre' morir con ella;
dunche, s'i' t'amo, reverisco e colo,
al merito 'l poter poco favella;
c'un zoppo non pareggia un lento volo,
né gira 'l sol per un sol suo mercede,
ma per ogni occhio san c'al mondo vede.
    I' non posso pensar come 'l cor m'ardi,
passando a quel per gli occhi sempre molli,
che 'l foco spegnerien non ch'e' tuo sguardi.
    Tutti e' ripari mie son corti e folli:
se l'acqua il foco accende, ogni altro è tardi
a camparmi dal mal ch'i' bramo e volli,
salvo il foco medesmo. O cosa strana,
se 'l mal del foco spesso il foco sana!

055

    I' t'ho comprato, ancor che molto caro,
un po' di non so che, che sa di buono,
perc'a l'odor la strada spesso imparo.
    Ovunche tu ti sia, dovunch'i' sono,
senz'alcun dubbio ne son certo e chiaro.
    Se da me ti nascondi, i' tel perdono:
portandol dove vai sempre con teco,
ti troverei, quand'io fussi ben cieco.

056

    Vivo della mie morte e, se ben guardo,
felice vivo d'infelice sorte;
e chi viver non sa d'angoscia e morte,
nel foco venga, ov'io mi struggo e ardo.

057

    S'i' vivo più di chi più m'arde e cuoce,
quante più legne o vento il foco accende,
tanto più chi m'uccide mi difende,
e più mi giova dove più mi nuoce.

058

    Se l'immortal desio, c'alza e corregge
gli altrui pensier, traessi e' mie di fore,
forse c'ancor nella casa d'Amore
farie pietoso chi spietato regge.
    Ma perché l'alma per divina legge
ha lunga vita, e 'l corpo in breve muore,
non può 'l senso suo lode o suo valore
appien descriver quel c'appien non legge.
    Dunche, oilmè! come sarà udita
la casta voglia che 'l cor dentro incende
da chi sempre se stesso in altrui vede?
    La mie cara giornata m'è impedita
col mie signor c'alle menzogne attende,
c'a dire il ver, bugiardo è chi nol crede.

059

    S'un casto amor, s'una pietà superna,
s'una fortuna infra dua amanti equale,
s'un'aspra sorte all'un dell'altro cale,
s'un spirto, s'un voler duo cor governa;
    s'un'anima in duo corpi è fatta etterna,
ambo levando al cielo e con pari ale;
s'amor d'un colpo e d'un dorato strale
le viscer di duo petti arda e discerna;
    s'amar l'un l'altro e nessun se medesmo,
d'un gusto e d'un diletto, a tal mercede
c'a un fin voglia l'uno e l'altro porre:
    se mille e mille, non sarien centesmo
a tal nodo d'amore, e tanta fede;
e sol l'isdegno il può rompere e sciorre.

060

    Tu sa' ch'i' so, signor mie, che tu sai
ch'i vengo per goderti più da presso,
e sai ch'i' so che tu sa' ch'i' son desso:
a che più indugio a salutarci omai?
    Se vera è la speranza che mi dai,
se vero è 'l gran desio che m'è concesso,
rompasi il mur fra l'uno e l'altra messo,
ché doppia forza hann'i celati guai.
    S'i' amo sol di te, signor mie caro,
quel che di te più ami, non ti sdegni,
ché l'un dell'altro spirto s'innamora.
    Quel che nel tuo bel volto bramo e 'mparo,
e mal compres' è dagli umani ingegni,
chi 'l vuol saper convien che prima mora.

061

    S'i' avessi creduto al primo sguardo
di quest'alma fenice al caldo sole
rinnovarmi per foco, come suole
nell'ultima vecchiezza, ond'io tutt'ardo,
    qual più veloce cervio o lince o pardo
segue 'l suo bene e fugge quel che dole,
agli atti, al riso, all'oneste parole
sarie cors'anzi, ond'or son presto e tardo.
    Ma perché più dolermi, po' ch'i' veggio
negli occhi di quest'angel lieto e solo
mie pace, mie riposo e mie salute?
    Forse che prima sarie stato il peggio
vederlo, udirlo, s'or di pari a volo
seco m'impenna a seguir suo virtute.

062

    Sol pur col foco il fabbro il ferro stende
al concetto suo caro e bel lavoro,
né senza foco alcuno artista l'oro
al sommo grado suo raffina e rende;
    né l'unica fenice sé riprende
se non prim'arsa; ond'io, s'ardendo moro,
spero più chiar resurger tra coloro
che morte accresce e 'l tempo non offende.
    Del foco, di ch'i' parlo, ho gran ventura
c'ancor per rinnovarmi abbi in me loco,
sendo già quasi nel numer de' morti.
    O ver, s'al cielo ascende per natura,
al suo elemento, e ch'io converso in foco
sie, come fie che seco non mi porti?

063

    Sì amico al freddo sasso è 'l foco interno
che, di quel tratto, se lo circumscrive,
che l'arda e spezzi, in qualche modo vive,
legando con sé gli altri in loco etterno.
    E se 'n fornace dura, istate e verno
vince, e 'n più pregio che prima s'ascrive,
come purgata infra l'altre alte e dive
alma nel ciel tornasse da l'inferno.
    Così tratto di me, se mi dissolve
il foco, che m'è dentro occulto gioco,
arso e po' spento aver più vita posso.
    Dunche, s'i' vivo, fatto fummo e polve,
etterno ben sarò, s'induro al foco;
da tale oro e non ferro son percosso.

064

    Se 'l foco il sasso rompe e 'l ferro squaglia,
figlio del lor medesmo e duro interno,
che farà 'l più ardente dell'inferno
d'un nimico covon secco di paglia?

065

    In quel medesmo tempo ch'io v'adoro,
la memoria del mie stato infelice
nel pensier mi ritorna, e piange e dice:
ben ama chi ben arde, ov'io dimoro.
    Però che scudo fo di tutti loro...

066

    Forse perché d'altrui pietà mi vegna,
perché dell'altrui colpe più non rida,
nel mie propio valor, senz'altra guida,
caduta è l'alma che fu già sì degna.
    Né so qual militar sott'altra insegna
non che da vincer, da campar più fida,
sie che 'l tumulto dell'avverse strida
non pèra, ove 'l poter tuo non sostegna.
    O carne, o sangue, o legno, o doglia strema,
giusto per vo' si facci el mie peccato,
di ch'i' pur nacqui, e tal fu 'l padre mio.
    Tu sol se' buon; la tuo pietà suprema
soccorra al mie preditto iniquo stato,
sì presso a morte e sì lontan da Dio.

067

    Nuovo piacere e di maggiore stima
veder l'ardite capre sopr'un sasso
montar, pascendo or questa or quella cima,
e 'l mastro lor, con aspre note, al basso,
sfogare el cor colla suo rozza rima,
sonando or fermo, e or con lento passo,
e la suo vaga, che ha 'l cor di ferro,
star co' porci, in contegno, sott'un cerro;
    quant'è veder 'n un eminente loco
e di pagli' e di terra el loro ospizio:
chi ingombra 'l desco e chi fa fora 'l foco,
sott'a quel faggio ch'è più lor propizio;
chi ingrassa e gratta 'l porco, e prende gioco,
chi doma 'l ciuco col basto primizio;
el vecchio gode e fa poche parole,
fuor dell'uscio a sedere, e stassi al sole.
    Di fuor dentro si vede quel che hanno:
pace sanza oro e sanza sete alcuna.
    El giorno c'a solcare i colli vanno,
contar puo' lor ricchezze ad una ad una.
    Non han serrami e non temon di danno;
lascion la casa aperta alla fortuna;
po', doppo l'opra, lieti el sonno tentano;
sazi di ghiande, in sul fien s'adormentano.
    L'invidia non ha loco in questo stato;
la superbia se stessa si divora.
    Avide son di qualche verde prato,
o di quell'erba che più bella infiora.
    Il lor sommo tesoro è uno arato,
e 'l bomero è la gemma che gli onora;
un paio di ceste è la credenza loro,
e le pale e le zappe e' vasi d'oro.
    O avarizia cieca, o bassi ingegni,
che disusate 'l ben della natura!
    Cercando l'or, le terre e ' ricchi regni,
vostre imprese superbia ha forte e dura.
    L'accidia, la lussuria par v'insegni;
l'invidia 'l mal d'altrui provvede e cura:
non vi scorgete, in insaziabil foco,
che 'l tempo è breve e 'l necessario è poco.
    Color c'anticamente, al secol vecchio,
si trasser fame e sete d'acqua e ghiande
vi sieno esemplo, scorta, lume e specchio,
e freno alle delizie, alle vivande.
    Porgete al mie parlare un po' l'orecchio:
colui che 'l mondo impera, e ch'è sì grande,
ancor disidra, e non ha pace poi;
e 'l villanel la gode co' suo buoi.
    D'oro e di gemme, e spaventata in vista,
adorna, la Ricchezza va pensando;
ogni vento, ogni pioggia la contrista,
e gli agùri e ' prodigi va notando.
    La lieta Povertà, fuggendo, acquista
ogni tesor, né pensa come o quando;
secur ne' boschi, in panni rozzi e bigi,
fuor d'obrighi, di cure e di letigi.
    L'avere e 'l dar, l'usanze streme e strane,
el meglio e 'l peggio, e le cime dell'arte
al villanel son tutte cose piane,
e l'erba e l'acqua e 'l latte è la sua parte;
e 'l cantar rozzo, e ' calli delle mane,
è 'l dieci e 'l cento e ' conti e lo suo carte
dell'usura che 'n terra surger vede;
e senza affanno alla fortuna cede.
    Onora e ama e teme e prega Dio
pe' pascol, per l'armento e pel lavoro,
con fede, con ispeme e con desio,
per la gravida vacca e pel bel toro.
    El Dubbio, el Forse, el Come, el Perché rio
no 'l può ma' far, ché non istà fra loro:
se con semplice fede adora e prega
Iddio e 'l ciel, l'un lega e l'altro piega.
    El Dubbio armato e zoppo si figura,
e va saltando come la locuste,
tremando d'ogni tempo per natura,
qual suole al vento far canna paluste.
    El Perché è magro, e 'ntorn'alla cintura
ha molte chiave, e non son tanto giuste,
c'agugina gl'ingegni della porta,
e va di notte, e 'l buio è la suo scorta.
    El Come e 'l Forse son parenti stretti,
e son giganti di sì grande altezza,
c'al sol andar ciascun par si diletti,
e ciechi fur per mirar suo chiarezza;
e quello alle città co' fieri petti
tengon, per tutto adombran lor bellezza;
e van per vie fra sassi erte e distorte,
tentando colle man qual istà forte.
    Povero e nudo e sol se ne va 'l Vero,
che fra la gente umìle ha gran valore:
un occhio ha sol, qual è lucente e mero,
e 'l corpo ha d'oro, e d'adamante 'l core;
e negli affanni cresce e fassi altero,
e 'n mille luoghi nasce, se 'n un muore;
di fuor verdeggia sì come smeraldo,
e sta co' suo fedel costante e saldo.
    Cogli occhi onesti e bassi in ver' la terra,
vestito d'oro e di vari ricami,
il Falso va, c'a' iusti sol fa guerra;
ipocrito, di fuor par c'ognuno ami;
perch'è di ghiaccio, al sol si cuopre e serra;
sempre sta 'n corte, e par che l'ombra brami;
e ha per suo sostegno e compagnia
la Fraude, la Discordia e la Bugia.
    L'Adulazion v'è poi, ch'è pien d'affanni,
giovane destra e di bella persona;
di più color coperta di più panni,
che 'l cielo a primavera a' fior non dona:
ottien ciò che la vuol con dolci inganni,
e sol di quel che piace altrui ragiona;
ha 'l pianto e 'l riso in una voglia sola;
cogli occhi adora, e con le mani invola.
    Non è sol madre in corte all'opre orrende,
ma è lor balia ancora, e col suo latte
le cresce, l'aümenta e le difende.

068

    Un gigante v'è ancor, d'altezza tanta
che da' sua occhi noi qua giù non vede,
e molte volte ha ricoperta e franta
una città colla pianta del piede;
al sole aspira e l'alte torre pianta
per aggiunger al cielo, e non lo vede,
ché 'l corpo suo, così robusto e magno,
un occhio ha solo e quell'ha 'n un calcagno.
    Vede per terra le cose passate,
e 'l capo ha fermo e prossim'a le stelle;
di qua giù se ne vede dua giornate
delle gran gambe, e irsut' ha la pelle;
da indi in su non ha verno né state,
ché le stagion gli sono equali e belle;
e come 'l ciel fa pari alla suo fronte,
in terra al pian col piè fa ogni monte.
    Com'a noi è 'l minuzzol dell'arena,
sotto la pianta a lui son le montagne;
fra ' folti pel delle suo gambe mena
diverse forme mostruose e magne:
per mosca vi sarebbe una balena;
e sol si turba e sol s'attrista e piagne
quando in quell'occhio il vento seco tira
fummo o festuca o polvere che gira.
    Una gran vecchia pigra e lenta ha seco,
che latta e mamma l'orribil figura,
e 'l suo arrogante, temerario e cieco
ardir conforta e sempre rassicura.
    Fuor di lui stassi in un serrato speco,
nelle gran rocche e dentro all'alte mura;
quand'è lui in ozio, e le' in tenebre vive,
e sol inopia nel popol prescrive.
    Palida e gialla, e nel suo grave seno
il segno porta sol del suo signore:
cresce del mal d'altrui, del ben vien meno,
né s'empie per cibarsi a tutte l'ore;
il corso suo non ha termin né freno,
e odia altrui e sé non porta amore;
di pietra ha 'l core e di ferro le braccia,
e nel suo ventre il mare e ' monti caccia.
    Sette lor nati van sopra la terra,
che cercan tutto l'uno e l'altro polo,
e solo a' iusti fanno insidie e guerra,
e mille capi ha ciascun per sé solo.
    L'etterno abisso per lor s'apre e serra,
tal preda fan nell'universo stuolo;
e lor membra ci prendon passo passo,
come edera fa el mur fra sasso e sasso.

069

    Ben provvide natura, né conviene
a tanta crudeltà minor bellezza,
ché l'un contrario l'altro ha temperato.
    Così può 'l viso vostro le mie pene
tante temprar con piccola dolcezza,
e lieve fare quelle e me beato.

070

    Crudele stella, anzi crudele arbitrio
che 'l potere e 'l voler mi stringe e lega;
né si travaglia chiara stella in cielo
dal giorno [in qua?] che mie vela disciolse,
ond'io errando e vagabondo andai,
qual vano legno gira a tutti e' venti.
    Or son qui, lasso, e all'incesi venti
convien varar mie legno, e senza arbitrio
solcar l'alte onde ove mai sempre andai.
    Così quagiù si prende, preme e lega
quel che lassù già 'll'alber si disciolse,
ond'a me tolsi la dote del cielo.
    Qui non mi regge e non mi spinge il cielo,
ma potenti e terrestri e duri venti,
ché sopra di me non so qual si disciolse
per [darli mano?] e tormi del mio arbitrio.
    Così fuor di mie rete altri mi lega.
    Mie colpa è, ch'ignorando a quello andai?
    Maladetto [sie] 'l dì che ïo andai
col segno che correva su nel cielo!
    Se non ch'i' so che 'l giorno el cor non lega,
né sforza l'alma, ne' contrari venti,
contra al nostro largito e sciolto arbitrio,
perché [...] e pruove ci disciolse.
    Dunche, se mai dolor del cor disciolse
sospiri ardenti, o se orando andai
fra caldi venti a quel ch'è fuor d'arbitrio,
[...], pietoso de' mie caldi venti,
vede, ode e sente e non m'è contra 'l cielo;
ché scior non si può chi se stesso lega.
    Così l'atti suo perde chi si lega,
e salvo sé nessun ma' si disciolse.
    E come arbor va retto verso il cielo,
ti prego, Signor mio, se mai andai,
ritorni, come quel che non ha venti,
sotto el tüo grande el mïo arbitrio.
    Colui che sciolse e lega 'l mio arbitrio,
ov'io andai agl'importuni venti,
fa' mie vendetta, s' tu mel desti, o cielo.

071

    I' l'ho, vostra mercè, per ricevuto
e hollo letto delle volte venti.
    Tal pro vi facci alla natura i denti,
co' 'l cibo al corpo quand'egli è pasciuto.
    I' ho pur, poi ch'i' vi lasciai, saputo
che Cain fu de' vostri anticedenti,
né voi da quel tralignate altrimenti;
ché, s'altri ha ben, vel pare aver perduto.
    Invidiosi, superbi, al ciel nimici,
la carità del prossimo v'è a noia,
e sol del vostro danno siete amici.
    Se ben dice il Poeta di Pistoia,
istieti a mente, e basta; e se tu dici
ben di Fiorenza, tu mi dai la soia.
    Qual prezïosa gioia
è certo, ma per te già non si intende,
perché poca virtù non la comprende.

072

    Se nel volto per gli occhi il cor si vede,
altro segno non ho più manifesto
della mie fiamma; addunche basti or questo,
signor mie caro, a domandar mercede.
    Forse lo spirto tuo, con maggior fede
ch'i' non credo, che sguarda il foco onesto
che m'arde, fie di me pietoso e presto,
come grazia c'abbonda a chi ben chiede.
    O felice quel dì, se questo è certo!
    Fermisi in un momento il tempo e l'ore,
il giorno e 'l sol nella su' antica traccia;
    acciò ch'i' abbi, e non già per mie merto,
il desïato mie dolce signore
per sempre nell'indegne e pronte braccia.

073

    Mentre del foco son scacciata e priva,
morir m'è forza, ove si vive e campa;
e 'l mie cibo è sol quel c'arde e avvampa,
e di quel c'altri muor, convien ch'i' viva.

074

    I' piango, i' ardo, i' mi consumo, e 'l core
di questo si nutrisce. O dolce sorte!
    chi è che viva sol della suo morte,
come fo io d'affanni e di dolore?
    Ahi! crudele arcier, tu sai ben l'ore
da far tranquille l'angosciose e corte
miserie nostre con la tuo man forte;
ché chi vive di morte mai non muore.

075

    Egli è pur troppo a rimirarsi intorno
chi con la vista ancide i circustanti
sol per mostrarsi andar diporto attorno.
    Egli è pur troppo a chi fa notte il giorno,
scurando il sol co' vaghi e be' sembianti,
aprirgli spesso, e chi con risi e canti
ammuta altrui non esser meno adorno.

076

    Non so se s'è la desïata luce
del suo primo fattor, che l'alma sente,
o se dalla memoria della gente
alcun'altra beltà nel cor traluce;
    o se fama o se sogno alcun produce
agli occhi manifesto, al cor presente,
di sé lasciando un non so che cocente
ch'è forse or quel c'a pianger mi conduce.
    Quel ch'i' sento e ch'i' cerco e chi mi guidi
meco non è; né so ben veder dove
trovar mel possa, e par c'altri mel mostri.
    Questo, signor, m'avvien, po' ch'i' vi vidi,
c'un dolce amaro, un sì e no mi muove:
certo saranno stati gli occhi vostri.

077

    Se 'l foco fusse alla bellezza equale
degli occhi vostri, che da que' si parte,
non avrie 'l mondo sì gelata parte
che non ardessi com'acceso strale.
    Ma 'l ciel, pietoso d'ogni nostro male,
a noi d'ogni beltà, che 'n voi comparte,
la visiva virtù toglie e diparte
per tranquillar la vita aspr'e mortale.
    Non è par dunche il foco alla beltate,
ché sol di quel s'infiamma e s'innamora
altri del bel del ciel, ch'è da lui inteso.
    Così n'avvien, signore, in questa etate:
se non vi par per voi ch'i' arda e mora,
poca capacità m'ha poco acceso.

078

    Dal dolce pianto al doloroso riso,
da una etterna a una corta pace
caduto son: là dove 'l ver si tace,
soprasta 'l senso a quel da lui diviso.
    Né so se dal mie core o dal tuo viso
la colpa vien del mal, che men dispiace
quante più cresce, o dall'ardente face
de gli occhi tuo rubati al paradiso.
    La tuo beltà non è cosa mortale,
ma fatta su dal ciel fra noi divina;
ond'io perdendo ardendo mi conforto,
    c'appresso a te non esser posso tale.
    Se l'arme il ciel del mie morir destina,
chi può, s'i' muoio, dir c'abbiate il torto?

079

    Felice spirto, che con zelo ardente,
vecchio alla morte, in vita il mio cor tieni,
e fra mill'altri tuo diletti e beni
me sol saluti fra più nobil gente;
    come mi fusti agli occhi, or alla mente,
per l'altru' fiate a consolar mi vieni,
onde la speme il duol par che raffreni,
che non men che 'l disio l'anima sente.
    Dunche, trovando in te chi per me parla
grazia di te per me fra tante cure,
tal grazia ne ringrazia chi ti scrive.
    Che sconcia e grande usur saria a farla,
donandoti turpissime pitture
per rïaver persone belle e vive.

080

    I' mi credetti, il primo giorno ch'io
mira' tante bellezze uniche e sole,
fermar gli occhi com'aquila nel sole
nella minor di tante ch'i' desio.
    Po' conosciut'ho il fallo e l'erro mio:
ché chi senz'ale un angel seguir vole,
il seme a' sassi, al vento le parole
indarno isparge, e l'intelletto a Dio.
    Dunche, s'appresso il cor non mi sopporta
l'infinita beltà che gli occhi abbaglia,
né di lontan par m'assicuri o fidi,
    che fie di me? qual guida o qual scorta
fie che con teco ma' mi giovi o vaglia,
s'appresso m'ardi e nel partir m'uccidi?

II

081

    Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia
e priega e forza ch'i' vi segua e ami;
ché quel che non è voi non è 'l mie bene.
    Amor, che sprezza ogni altra maraviglia,
per mie salute vuol ch'i' cerchi e brami
voi, sole, solo; e così l'alma tiene
d'ogni alta spene e d'ogni valor priva;
e vuol ch'i' arda e viva
non sol di voi, ma chi di voi somiglia
degli occhi e delle ciglia alcuna parte.
    E chi da voi si parte,
occhi, mie vita, non ha luce poi;
ché 'l ciel non è dove non siate voi.

082

    Non posso altra figura immaginarmi
o di nud'ombra o di terrestre spoglia,
col più alto pensier, tal che mie voglia
contra la tuo beltà di quella s'armi.
    Ché da te mosso, tanto scender parmi,
c'Amor d'ogni valor mi priva e spoglia,
ond'a pensar di minuir mie doglia,
duplicando, la morte viene a darmi.
    Però non val che più sproni mie fuga,
doppiando 'l corso alla beltà nemica,
ché 'l men dal più veloce non si scosta.
    Amor con le sue man gli occhi m'asciuga,
promettendomi cara ogni fatica;
ché vile esser non può chi tanto costa.

083

    Veggio nel tuo bel viso, signor mio,
quel che narrar mal puossi in questa vita:
l'anima, della carne ancor vestita,
con esso è già più volte ascesa a Dio.
    E se 'l vulgo malvagio, isciocco e rio,
di quel che sente, altrui segna e addita,
non è l'intensa voglia men gradita,
l'amor, la fede e l'onesto desio.
    A quel pietoso fonte, onde siàn tutti,
s'assembra ogni beltà che qua si vede
più c'altra cosa alle persone accorte;
    né altro saggio abbiàn né altri frutti
del cielo in terra; e chi v'ama con fede
trascende a Dio e fa dolce la morte.

084

    Sì come nella penna e nell'inchiostro
è l'alto e 'l basso e 'l medïocre stile,
e ne' marmi l'immagin ricca e vile,
secondo che 'l sa trar l'ingegno nostro;
    così, signor mie car, nel petto vostro,
quante l'orgoglio è forse ogni atto umile;
ma io sol quel c'a me propio è e simile
ne traggo, come fuor nel viso mostro.
    Chi semina sospir, lacrime e doglie,
(l'umor dal ciel terreste, schietto e solo,
a vari semi vario si converte),
    però pianto e dolor ne miete e coglie;
chi mira alta beltà con sì gran duolo,
ne ritra' doglie e pene acerbe e certe.

085

    Com'io ebbi la vostra, signor mio,
cercand'andai fra tutti e' cardinali
e diss'a tre da vostra part' addio.
    Al Medico maggior de' nostri mali
mostrai la detta, onde ne rise tanto
che 'l naso fe' dua parti dell'occhiali.
    Il servito da voi pregiat' e santo
costà e qua, sì come voi scrivete,
n'ebbe piacer, che ne ris'altro tanto.
    A quel che tien le cose più secrete
del Medico minor non l'ho ancor visto;
farebbes'anche a lui, se fusse prete.
    Ècci molt'altri che rinegon Cristo
che voi non siate qua; né dà lor noia
ché chi non crede si tien manco tristo.
    Di voi a tutti caverò la foia
di questa vostra; e chi non si contenta
affogar possa per le man del boia.
    La Carne che nel sal si purg' e stenta
che saria buon per carbonat' ancora
di voi più che di sé par si rammenta.
    Il nostro Buonarroto, che v'adora,
visto la vostra, se ben veggio, parmi
c'al ciel si lievi mille volte ogn'ora;
    e dice che la vita de' sua marmi
non basta a far il vostro nom'eterno,
come lui fanno i divin vostri carmi.
    Ai qual non nuoce né state né verno,
dal temp' esenti e da morte crudele,
che fama di virtù non ha in governo.
    E come vostro amico e mio fedele
disse: - Ai dipinti, visti i versi belli,
s'appiccon voti e s'accendon candele.
    Dunque i' son pur nel numero di quelli,
da un goffo pittor senza valore
cavato a' pennell' e alberelli.
    Il Bernia ringraziate per mio amore,
che fra tanti lui sol conosc' il vero
di me; ché chi mi stim' è 'n grand'errore.
    Ma la sua disciplin' el lum' intero
mi può ben dar, e gran miracol fia,
a far un uom dipint' un uom da vero. -
    Così mi disse; e io per cortesia
vel raccomando quanto so e posso,
che fia l'apportator di questa mia.
    Mentre la scrivo a vers'a verso, rosso
diveng'assai, pensando a cui la mando,
send' il mio non professo, goffo e grosso.
    Pur nondimen così mi raccomando
anch'io a voi, e altro non accade;
d'ogni tempo son vostro e d'ogni quando.
    A voi nel numer delle cose rade
tutto mi v'offerisco, e non pensate
ch'i' manchi, se 'l cappuccio non mi cade.
    Così vi dico e giuro, e certo siate,
ch'i' non farei per me quel che per voi:
e non m'abbiat'a schifo come frate.
    Comandatemi, e fate poi da voi.

086

    Ancor che 'l cor già mi premesse tanto,
per mie scampo credendo il gran dolore
n'uscissi con le lacrime e col pianto,
    fortuna al fonte di cotale umore
le radice e le vene ingrassa e 'mpingua
per morte, e non per pena o duol minore,
    col tuo partire; onde convien destingua
dal figlio prima e tu morto dipoi,
del quale or parlo, pianto, penna e lingua.
    L'un m'era frate, e tu padre di noi;
l'amore a quello, a te l'obrigo strigne:
non so qual pena più mi stringa o nòi.
    La memoria 'l fratel pur mi dipigne,
e te sculpisce vivo in mezzo il core,
che 'l core e 'l volto più m'affligge e tigne.
    Pur mi quieta che il debito, c'all'ore
pagò 'l mio frate acerbo, e tu maturo;
ché manco duole altrui chi vecchio muore.
    Tanto all'increscitor men aspro e duro
esser dié 'l caso quant'è più necesse,
là dove 'l ver dal senso è più sicuro.
    Ma chi è quel che morto non piangesse
suo caro padre, c'ha veder non mai
quel che vedea infinite volte o spesse?
    Nostri intensi dolori e nostri guai
son come più e men ciascun gli sente:
quant'in me posson tu, Signor, tel sai.
    E se ben l'alma alla ragion consente,
tien tanto in collo, che vie più abbondo
po' doppo quella in esser più dolente.
    E se 'l pensier, nel quale i' mi profondo
non fussi che 'l ben morto in ciel si ridi
del timor della morte in questo mondo,
    crescere' 'l duol; ma ' dolorosi stridi
temprati son d'una credenza ferma
che 'l ben vissuto a morte me' s'annidi.
    Nostro intelletto dalla carne inferma
è tanto oppresso, che 'l morir più spiace
quanto più 'l falso persuaso afferma.
    Novanta volte el sol suo chiara face
prim'ha nell'oceàn bagnata e molle,
che tu sie giunto alla divina pace.
    Or che nostra miseria el ciel ti tolle,
increscati di me, che morto vivo,
come tuo mezzo qui nascer mi volle.
    Tu se' del morir morto e fatto divo,
né tem'or più cangiar vita né voglia,
che quasi senza invidia non lo scrivo.
    Fortuna e 'l tempo dentro a vostra soglia
non tenta trapassar, per cui s'adduce
fra no' dubbia letizia e certa doglia.
    Nube non è che scuri vostra luce,
l'ore distinte a voi non fanno forza,
caso o necessità non vi conduce.
    Vostro splendor per notte non s'ammorza,
né cresce ma' per giorno, benché chiaro,
sie quand'el sol fra no' il caldo rinforza.
    Nel tuo morire el mie morire imparo,
padre mie caro, e nel pensier ti veggio
dove 'l mondo passar ne fa di raro.
    Non è, com'alcun crede, morte il peggio
a chi l'ultimo dì trascende al primo,
per grazia, etterno appresso al divin seggio
dove, Die grazia, ti prosumo e stimo
e spero di veder, se 'l freddo core
mie ragion tragge dal terrestre limo.
    E se tra 1' padre e 'l figlio ottimo amore
cresce nel ciel, crescendo ogni virtute,
. . . . . . . . . . .

087

    Vorrei voler, Signor, quel ch'io non voglio:
tra 'l foco e 'l cor di ghiaccia un vel s'asconde
che 'l foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all'opre, e fa bugiardo 'l foglio.
    I' t'amo con la lingua, e poi mi doglio
c'amor non giunge al cor; né so ben onde
apra l'uscio alla grazia che s'infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.
    Squarcia 'l vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tuo luce, al mondo spenta!
    Manda 'l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch'io arda
il cor senz'alcun dubbio, e te sol senta.

088

    Sento d'un foco un freddo aspetto acceso
che lontan m'arde e sé con seco agghiaccia;
pruovo una forza in due leggiadre braccia
che muove senza moto ogni altro peso.
    Unico spirto e da me solo inteso,
che non ha morte e morte altrui procaccia,
veggio e truovo chi, sciolto, 'l cor m'allaccia,
e da chi giova sol mi sento offeso.
    Com'esser può, signor, che d'un bel volto
ne porti 'l mio così contrari effetti,
se mal può chi non gli ha donar altrui?
    Onde al mio viver lieto, che m'ha tolto,
fa forse come 'l sol, se nol permetti,
che scalda 'l mondo e non è caldo lui.

089

    Veggio co' be' vostr'occhi un dolce lume
che co' mie ciechi già veder non posso;
porto co' vostri piedi un pondo addosso,
che de' mie zoppi non è già costume.
    Volo con le vostr'ale senza piume;
col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;
dal vostro arbitrio son pallido e rosso,
freddo al sol, caldo alle più fredde brume.
    Nel voler vostro è sol la voglia mia,
i miei pensier nel vostro cor si fanno,
nel vostro fiato son le mie parole.
    Come luna da sé sol par ch'io sia,
ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno
se non quel tanto che n'accende il sole.

090

    I' mi son caro assai più ch'i' non soglio;
poi ch'i' t'ebbi nel cor più di me vaglio,
come pietra c'aggiuntovi l'intaglio
è di più pregio che 'l suo primo scoglio.
    O come scritta o pinta carta o foglio
più si riguarda d'ogni straccio o taglio,
tal di me fo, da po' ch'i' fu' berzaglio
segnato dal tuo viso, e non mi doglio.
    Sicur con tale stampa in ogni loco
vo, come quel c'ha incanti o arme seco,
c'ogni periglio gli fan venir meno.
    I' vaglio contr'a l'acqua e contr'al foco,
col segno tuo rallumino ogni cieco,
e col mie sputo sano ogni veleno.

091

    Perc'all'estremo ardore
che toglie e rende poi
il chiuder e l'aprir degli occhi tuoi
duri più la mie vita,
fatti son calamita
di me, de l'alma e d'ogni mie valore;
tal c'anciderm' Amore,
forse perch'è pur cieco,
indugia, triema e teme.
    C'a passarmi nel core,
sendo nel tuo con teco,
pungere' prima le tuo parte streme
e perché meco insieme
non mora, non m'ancide. O gran martire,
c'una doglia mortal, senza morire,
raddoppia quel languire
del qual, s'i' fussi meco, sare' fora.
    Deh rendim' a me stesso, acciò ch'i' mora.

092

    Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni
ognor con maggior guerra
a rendere alla terra
le membra afflitte, stanche e pellegrine,
non ha per 'ncor fine
chi l'alma attrista e me fa così lieto.
    Né par che men perdoni
a chi 'l cor m'apre e serra,
nell'ore più vicine
e più dubiose d'altro viver quieto;
ché l'error consueto,
com più m'attempo, ognor più si fa forte.
    O dura mia più c'altra crudel sorte!
    tardi orama' puo' tormi tanti affanni;
c'un cor che arde e arso è già molt'anni
torna, se ben l'ammorza la ragione,
non più già cor, ma cenere e carbone.

093

    Spargendo il senso il troppo ardor cocente
fuor del tuo bello, in alcun altro volto,
men forza ha, signor, molto
qual per più rami alpestro e fier torrente.
    Il cor, che del più ardente
foco più vive, mal s'accorda allora
co' rari pianti e men caldi sospiri.
    L'alma all'error presente
gode c'un di lor mora
per gire al ciel, là dove par c'aspiri.
    La ragione i martiri
fra lor comparte; e fra più salde tempre
s'accordan tutt'a quattro amarti sempre.

094

    D'altrui pietoso e sol di sé spietato
nasce un vil bruto, che con pena e doglia
l'altrui man veste e la suo scorza spoglia
e sol per morte si può dir ben nato.
    Così volesse al mie signor mie fato
vestir suo viva di mie morta spoglia,
che, come serpe al sasso si discoglia,
pur per morte potria cangiar mie stato.
    O fussi sol la mie l'irsuta pelle
che, del suo pel contesta, fa tal gonna
che con ventura stringe sì bel seno,
    ch'i' l'are' pure il giorno; o le pianelle
che fanno a quel di lor basa e colonna,
ch'i' pur ne porterei duo nevi almeno.

095

    Rendete agli occhi mei, o fonte o fiume,
l'onde della non vostra e salda vena,
che più v'innalza e cresce, e con più lena
che non è 'l vostro natural costume.
    E tu, folt'aïr, che 'l celeste lume
tempri a' trist'occhi, de' sospir mie piena,
rendigli al cor mie lasso e rasserena
tua scura faccia al mie visivo acume.
    Renda la terra i passi alle mie piante,
c'ancor l'erba germugli che gli è tolta,
e 'l suono eco, già sorda a' mie lamenti;
    gli sguardi agli occhi mie tuo luce sante,
ch'i' possa altra bellezza un'altra volta
amar, po' che di me non ti contenti.

096

    Sì come secco legno in foco ardente
arder poss'io, s'i' non t'amo di core,
e l'alma perder, se null'altro sente.
    E se d'altra beltà spirto d'amore
fuor de' tu' occhi è che m'infiammi o scaldi,
tolti sien quegli a chi sanz'essi muore.
    S'io non t'amo e ador, ch'e' mie più baldi
pensier sien con la speme tanto tristi
quanto nel tuo amor son fermi e saldi.

097

    Al cor di zolfo, a la carne di stoppa,
a l'ossa che di secco legno sièno;
a l'alma senza guida e senza freno
al desir pronto, a la vaghezza troppa;
    a la cieca ragion debile e zoppa
al vischio, a' lacci di che 'l mondo è pieno;
non è gran maraviglia, in un baleno
arder nel primo foco che s'intoppa.
    A la bell'arte che, se dal ciel seco
ciascun la porta, vince la natura,
quantunche sé ben prema in ogni loco;
    s'i' nacqui a quella né sordo né cieco,
proporzionato a chi 'l cor m'arde e fura,
colpa è di chi m'ha destinato al foco.

098

    A che più debb'i' omai l'intensa voglia
sfogar con pianti o con parole meste,
se di tal sorte 'l ciel, che l'alma veste,
tard' o per tempo alcun mai non ne spoglia?
    A che 'l cor lass' a più languir m'invoglia,
s'altri pur dee morir? Dunche per queste
luci l'ore del fin fian men moleste;
c'ogni altro ben val men c'ogni mia doglia.
    Però se 'l colpo ch'io ne rub' e 'nvolo
schifar non posso, almen, s'è destinato,
chi entrerà 'nfra la dolcezza e 'l duolo?
    Se vint' e preso i' debb'esser beato,
maraviglia non è se nudo e solo
resto prigion d'un cavalier armato.

099

    Ben mi dove' con sì felice sorte,
mentre che Febo il poggio tutto ardea,
levar da terra, allor quand'io potea,
con le suo penne, e far dolce la morte.
    Or m'è sparito; e se 'l fuggir men forte
de' giorni lieti invan mi promettea,
ragione è ben c'all'alma ingrata e rea
pietà le mani e 'l ciel chiugga le porte.
    Le penne mi furn'ale e 'l poggio scale,
Febo lucerna a' piè; né m'era allora
men salute il morir che maraviglia.
    Morendo or senza, al ciel l'alma non sale,
né di lor la memoria il cor ristora:
ché tardi e doppo il danno, chi consiglia?

100

    Ben fu, temprando il ciel tuo vivo raggio,
solo a du' occhi, a me di pietà vòto,
allor che con veloce etterno moto
a noi dette la luce, a te 'l vïaggio.
    Felice uccello, che con tal vantaggio
da noi, t'è Febo e 'l suo bel volto noto,
e più c'al gran veder t'è ancora arroto
volare al poggio, ond'io rovino e caggio.

101

    Perché Febo non torce e non distende
d'intorn' a questo globo freddo e molle
le braccia sua lucenti, el vulgo volle
notte chiamar quel sol che non comprende.
    E tant'è debol, che s'alcun accende
un picciol torchio, in quella parte tolle
la vita dalla notte, e tant'è folle
che l'esca col fucil la squarcia e fende.
    E s'egli è pur che qualche cosa sia
cert'è figlia del sol e della terra;
ché l'un tien l'ombra, e l'altro sol la cria.
    Ma sia che vuol, che pur chi la loda erra,
vedova, scura, in tanta gelosia,
c'una lucciola sol gli può far guerra.

102

    O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn' opra sempr' al fin assalta;
ben vede e ben intende chi t'esalta,
e chi t'onor' ha l'intelletto intero.
    Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;
ché l'umid' ombra ogni quiet' appalta,
e dall'infima parte alla più alta
in sogno spesso porti, ov'ire spero.
    O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria a l'alma, al cor nemica,
ultimo delli afflitti e buon rimedio;
    tu rendi sana nostra carn' inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni fatica,
e furi a chi ben vive ogn'ira e tedio.

103

    Ogni van chiuso, ogni coperto loco,
quantunche ogni materia circumscrive,
serba la notte, quando il giorno vive,
contro al solar suo luminoso gioco.
    E s'ella è vinta pur da fiamma o foco,
da lei dal sol son discacciate e prive
con più vil cosa ancor sue specie dive,
tal c'ogni verme assai ne rompe o poco.
    Quel che resta scoperto al sol, che ferve
per mille vari semi e mille piante,
il fier bifolco con l'aratro assale;
ma l'ombra sol a piantar l'uomo serve.
    Dunche, le notti più ch'e' dì son sante,
quanto l'uom più d'ogni altro frutto vale.

104

    Colui che fece, e non di cosa alcuna,
il tempo, che non era anzi a nessuno,
ne fe' d'un due e diè 'l sol alto all'uno,
all'altro assai più presso diè la luna.
    Onde 'l caso, la sorte e la fortuna
in un momento nacquer di ciascuno;
e a me consegnaro il tempo bruno,
come a simil nel parto e nella cuna.
    E come quel che contrafà se stesso,
quando è ben notte, più buio esser suole,
ond'io di far ben mal m'affliggo e lagno.
    Pur mi consola assai l'esser concesso
far giorno chiar mia oscura notte al sole
che a voi fu dato al nascer per compagno.

105

    Non vider gli occhi miei cosa mortale
allor che ne' bei vostri intera pace
trovai, ma dentro, ov'ogni mal dispiace,
chi d'amor l'alma a sé simil m'assale;
    e se creata a Dio non fusse equale,
altro che 'l bel di fuor, c'agli occhi piace,
più non vorria; ma perch'è sì fallace,
trascende nella forma universale.
    Io dico c'a chi vive quel che muore
quetar non può disir; né par s'aspetti
l'eterno al tempo, ove altri cangia il pelo.
    Voglia sfrenata el senso è, non amore,
che l'alma uccide; e 'l nostro fa perfetti
gli amici qui, ma più per morte in cielo.

106

    Per ritornar là donde venne fora,
l'immortal forma al tuo carcer terreno
venne com'angel di pietà sì pieno,
che sana ogn'intelletto e 'l mondo onora.
    Questo sol m'arde e questo m'innamora,
non pur di fuora il tuo volto sereno:
c'amor non già di cosa che vien meno
tien ferma speme, in cui virtù dimora.
    Né altro avvien di cose altere e nuove
in cui si preme la natura, e 'l cielo
è c' a' lor parti largo s'apparecchia;
    né Dio, suo grazia, mi si mostra altrove
più che 'n alcun leggiadro e mortal velo;
e quel sol amo perch'in lui si specchia.

107

    Gli occhi mie vaghi delle cose belle
e l'alma insieme della suo salute
non hanno altra virtute
c'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.
    Dalle più alte stelle
discende uno splendore
che 'l desir tira a quelle,
e qui si chiama amore.
    Né altro ha il gentil core
che l'innamori e arda, e che 'l consigli,
c'un volto che negli occhi lor somigli.

108

    Indarno spera, come 'l vulgo dice,
chi fa quel che non de' grazia o mercede.
    Non fu', com'io credetti, in vo' felice,
privandomi di me per troppa fede,
né spero com'al sol nuova fenice
ritornar più; ché 'l tempo nol concede.
    Pur godo il mie gran danno sol perch'io
son più mie vostro, che s'i' fussi mio.

109

    Non sempre a tutti è sì pregiato e caro
quel che 'l senso contenta,
c'un sol non sia che 'l senta,
se ben par dolce, pessimo e amaro.
    Il buon gusto è sì raro
c'al vulgo errante cede
in vista, allor che dentro di sé gode.
    Così, perdendo, imparo
quel che di fuor non vede
chi l'alma ha trista, e ' suo sospir non ode.
    El mondo è cieco e di suo gradi o lode
più giova a chi più scarso esser ne vuole,
come sferza che 'nsegna e parte duole.

110

    Io dico a voi c'al mondo avete dato
l'anima e 'l corpo e lo spirto 'nsïeme:
in questa cassa oscura è 'l vostro lato.

111

    S'egli è, donna, che puoi
come cosa mortal, benché sia diva
di beltà, c'ancor viva
e mangi e dorma e parli qui fra noi,
a non seguirti poi,
cessato il dubbio, tuo grazia e mercede,
qual pena a tal peccato degna fora?
    Ché alcun ne' pensier suoi,
co' l'occhio che non vede,
per virtù propia tardi s'innamora.
    Disegna in me di fuora,
com'io fo in pietra od in candido foglio,
che nulla ha dentro, e èvvi ciò ch'io voglio.

112

    Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo
qual più sicuro è, che non sia men forte
che 'l pianger e 'l pregar? e non m'aita.
    Amore e crudeltà m'han posto il campo:
l'un s'arma di pietà, l'altro di morte;
questa n'ancide, e l'altra tien in vita.
    Così l'alma impedita
del mio morir, che sol poria giovarne,
più volte per andarne
s'è mossa là dov'esser sempre spera,
dov'è beltà sol fuor di donna altiera;
ma l'imagine vera,
della qual vivo, allor risorge al core,
perché da morte non sia vinto amore.

113

    Esser non può già ma' che gli occhi santi
prendin de' mie, com'io di lor, diletto,
rendendo al divo aspetto,
per dolci risi, amari e tristi pianti.
    O fallace speranza degli amanti!
    Com'esser può dissimile e dispari
l'infinita beltà, 'l superchio lume
da ogni mie costume,
che meco ardendo, non ardin del pari?
    Fra duo volti diversi e sì contrari
s'adira e parte da l'un zoppo Amore;
né può far forza che di me gl'incresca,
quand'in un gentil core
entra di foco, e d'acqua par che n'esca.

114

    Ben vinci ogni durezza
cogli occhi tuo, com'ogni luce ancora;
ché, s'alcun d'allegrezza avvien che mora,
allor sarebbe l'ora
che gran pietà comanda a gran bellezza.
    E se nel foco avvezza
non fusse l'alma, già morto sarei
alle promesse de' tuo primi sguardi,
ove non fur ma' tardi
gl'ingordi mie nimici, anz'occhi mei;
né doler mi potrei
di questo non poter, che non è teco.
    Bellezza e grazia equalmente infinita,
dove più porgi aita,
men puoi non tor la vita,
né puoi non far chiunche tu miri cieco.

115

    Lezi, vezzi, carezze, or, feste e perle,
chi potria ma' vederle
cogli atti suo divin l'uman lavoro,
ove l'argento e l'oro
da le' riceve o duplica suo luce?
    Ogni gemma più luce
dagli occhi suo che da propia virtute.

116

    Non mi posso tener né voglio, Amore,
crescendo al tuo furore,
ch'i' nol te dica e giuri:
quante più inaspri e 'nduri,
a più virtù l'alma consigli e sproni;
e se talor perdoni
a la mie morte, agli angosciosi pianti,
com'a colui che muore,
dentro mi sento il core
mancar, mancando i mie tormenti tanti.
    Occhi lucenti e santi,
mie poca grazia m'è ben dolce e cara,
c'assai acquista chi perdendo impara.

117

    S'egli è che 'l buon desio
porti dal mondo a Dio
alcuna cosa bella,
sol la mie donna è quella,
a chi ha gli occhi fatti com'ho io.
    Ogni altra cosa oblio
e sol di tant'ho cura.
    Non è gran maraviglia,
s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore;
né propio valor mio,
se l'alma per natura
s'appoggia a chi somiglia
ne gli occhi gli occhi, ond'ella scende fore.
    Se sente il primo amore
come suo fin, per quel qua questa onora:
c'amar diè 'l servo chi 'l signore adora.

118

    Ancor che 'l cor già molte volte sia
d'amore acceso e da troppi anni spento,
l'ultimo mie tormento
sarie mortal senza la morte mia.
    Onde l'alma desia
de' giorni mie, mentre c'amor m'avvampa,
l'ultimo, primo in più tranquilla corte.
    Altro refugio o via
mie vita non iscampa
dal suo morir, c'un'aspra e crudel morte;
né contr'a morte è forte
altro che morte, sì c'ogn'altra aita
è doppia morte a chi per morte ha vita.

119

    Dal primo pianto all'ultimo sospiro,
al qual son già vicino,
chi contrasse già mai sì fier destino
com'io da sì lucente e fera stella?
    Non dico iniqua o fella,
che 'l me' saria di fore,
s'aver disdegno ne troncasse amore;
ma più, se più la miro,
promette al mio martiro
dolce pietà, con dispietato core.
    O desiato ardore!
    ogni uom vil sol potria vincer con teco,
ond'io, s'io non fui cieco,
ne ringrazio le prime e l'ultime ore
ch'io la vidi; e l'errore
vincami; e d'ogni tempo sia con meco,
se sol forza e virtù perde con seco.

120

    Ben tempo saria omai
ritrarsi dal martire,
ché l'età col desir non ben s'accorda;
ma l'alma, cieca e sorda,
Amor, come tu sai,
del tempo e del morire
che, contro a morte ancor, me la ricorda;
e se l'arco e la corda
avvien che tronchi o spezzi
in mille e mille pezzi,
prega te sol non manchi un de' suoi guai:
ché mai non muor chi non guarisce mai.

121

    Come non puoi non esser cosa bella,
esser non puoi che pietosa non sia;
sendo po' tutta mia,
non puo' poter non mi distrugga e stempre.
    Così durando sempre
mie pietà pari a tua beltà qui molto,
la fin del tuo bel volto
in un tempo con ella
fie del mie ardente core.
    Ma poi che 'l spirto sciolto
ritorna alla suo stella,
a fruir quel signore
ch'e' corpi a chiunche muore
eterni rende o per quiete o per lutto;
priego 'l mie, benché brutto,
com'è qui teco, il voglia in paradiso:
c'un cor pietoso val quant'un bel viso.

122

    Se 'l foco al tutto nuoce,
e me arde e non cuoce,
non è mia molta né sua men virtute,
ch'io sol trovi salute
qual salamandra, là dove altri muore.
    Né so chi in pace a tal martir m'ha volto:
da te medesma il volto,
da me medesmo il core
fatto non fu, né sciolto
da noi fia mai il mio amore;
più alto è quel signore
che ne' tu' occhi la mia vita ha posta.
    S'io t'amo, e non ti costa,
perdona a me, come io a tanta noia,
che fuor di chi m'uccide vuol ch'i' muoia.

123

    Quante più par che 'l mie mal maggior senta,
se col viso vel mostro,
più par s'aggiunga al vostro
bellezza, tal che 'l duol dolce diventa.
    Ben fa chi mi tormenta,
se parte vi fa bella
della mie pena ria:
se 'l mie mal vi contenta,
mie cruda e fera stella,
che farie dunche con la morte mia?
    Ma s'è pur ver che sia
vostra beltà dall'aspro mie martire,
e quel manchi al morire,
morend'io, morrà vostra leggiadria.
    Però fate ch'i' stia
col mie duol vivo, per men vostro danno;
e se più bella al mie mal maggior siete,
l'alma n'ha ben più quiete:
c'un gran piacer sopporta un grande affanno.

124

    Questa mie donna è sì pronta e ardita,
c'allor che la m'ancide ogni mie bene
cogli occhi mi promette, e parte tiene
il crudel ferro dentro a la ferita.
    E così morte e vita,
contrarie, insieme in un picciol momento
dentro a l'anima sento;
ma la grazia il tormento
da me discaccia per più lunga pruova:
c'assai più nuoce il mal che 'l ben non giova.

125

    Tanto di sé promette
donna pietosa e bella,
c'ancor mirando quella
sarie qual fu' per tempo, or vecchio e tardi.
    Ma perc'ognor si mette
morte invidiosa e fella
fra ' mie dolenti e ' suo pietosi sguardi,
solo convien ch'i' ardi
quel picciol tempo che 'l suo volto oblio.
    Ma poi che 'l pensier rio
pur la ritorna al consueto loco,
dal suo fier ghiaccio è spento il dolce foco.

126

    Se l'alma è ver, dal suo corpo disciolta,
che 'n alcun altro torni
a' corti e brevi giorni,
per vivere e morire un'altra volta,
la donna mie, di molta
bellezza agli occhi miei,
fie allor com'or nel suo tornar sì cruda?
    Se mie ragion s'ascolta,
attender la dovrei
di grazia piena e di durezza nuda.
    Credo, s'avvien che chiuda
gli occhi suo begli, arà, come rinnuova,
pietà del mie morir, se morte pruova.

127

    Non pur la morte, ma 'l timor di quella
da donna iniqua e bella,
c'ognor m'ancide, mi difende e scampa;
e se talor m'avvampa
più che l'usato il foco in ch'io son corso,
non trovo altro soccorso
che l'immagin sua ferma in mezzo il core:
ché dove è morte non s'appressa Amore.

128

    Se 'l timor della morte
chi 'l fugge e scaccia sempre
lasciar là lo potessi onde ei si muove,
Amor crudele e forte
con più tenaci tempre
d'un cor gentil faria spietate pruove.
    Ma perché l'alma altrove
per morte e grazia al fin gioire spera,
chi non può non morir gli è 'l timor caro
al qual ogni altro cede.
    Né contro all'alte e nuove
bellezze in donna altera
ha forza altro riparo
che schivi suo disdegno o suo mercede.
    Io giuro a chi nol crede,
che da costei, che del mio pianger ride,
sol mi difende e scampa chi m'uccide.

129

    Da maggior luce e da più chiara stella
la notte il ciel le sue da lunge accende:
te sol presso a te rende
ognor più bella ogni cosa men bella.
    Qual cor più questa o quella
a pietà muove o sprona,
c'ognor chi arde almen non s'agghiacc'egli?
    Chi, senza aver, ti dona
vaga e gentil persona
e 'l volto e gli occhi e ' biondi e be' capegli.
    Dunche, contr'a te quegli
ben fuggi e me con essi,
se 'l bello infra ' non begli
beltà cresce a se stessi.
    Donna, ma s' tu rendessi
quel che t'ha dato il ciel, c'a noi l'ha tolto,
sarie più 'l nostro, e men bello il tuo volto.

130

    Non è senza periglio
il tuo volto divino
dell'alma a chi è vicino
com'io a morte, che la sento ognora;
ond'io m'armo e consiglio
per far da quel difesa anzi ch'i' mora.
    Ma tuo mercede, ancora
che 'l mie fin sie da presso,
non mi rende a me stesso;
né danno alcun da tal pietà mi scioglie:
ché l'uso di molt'anni un dì non toglie.

131

    Sotto duo belle ciglia
le forze Amor ripiglia
nella stagion che sprezza l'arco e l'ale.
    Gli occhi mie, ghiotti d'ogni maraviglia
c'a questa s'assomiglia,
di lor fan pruova a più d'un fero strale.
    E parte pur m'assale,
appresso al dolce, un pensier aspro e forte
di vergogna e di morte;
né perde Amor per maggior tema o danni:
c'un'or non vince l'uso di molt'anni.

132

    Mentre che 'l mie passato m'è presente,
sì come ognor mi viene,
o mondo falso, allor conosco bene
l'errore e 'l danno dell'umana gente:
quel cor, c'alfin consente
a' tuo lusinghi e a' tuo van diletti,
procaccia all'alma dolorosi guai.
    Ben lo sa chi lo sente,
come spesso prometti
altrui la pace e 'l ben che tu non hai
né debbi aver già mai.
    Dunche ha men grazia chi più qua soggiorna:
ché chi men vive più lieve al ciel torna.

133

    Condotto da molt'anni all'ultim'ore,
tardi conosco, o mondo, i tuo diletti:
la pace che non hai altrui prometti
e quel riposo c'anzi al nascer muore.
    La vergogna e 'l timore
degli anni, c'or prescrive
il ciel, non mi rinnuova
che 'l vecchio e dolce errore,
nel qual chi troppo vive
l'anima 'ncide e nulla al corpo giova.
    Il dico e so per pruova
di me, che 'n ciel quel sol ha miglior sorte
ch'ebbe al suo parto più presso la morte.

134

    - Beati voi che su nel ciel godete
le lacrime che 'l mondo non ristora,
favvi amor forza ancora,
o pur per morte liberi ne siete?
- La nostra etterna quiete,
fuor d'ogni tempo, è priva
d'invidia, amando, e d'angosciosi pianti.
    - Dunche a mal pro' ch'i' viva
convien, come vedete,
per amare e servire in dolor tanti.
    Se 'l cielo è degli amanti
amico, e 'l mondo ingrato,
amando, a che son nato?
    A viver molto? E questo mi spaventa:
ché 'l poco è troppo a chi ben serve e stenta.

135

    Mentre c'al tempo la mie vita fugge,
amor più mi distrugge,
né mi perdona un'ora,
com'i' credetti già dopo molt'anni.
    L'alma, che trema e rugge,
com'uom c'a torto mora,
di me si duol, de' sua etterni danni.
    Fra 'l timore e gl'inganni
d'amore e morte, allor tal dubbio sento,
ch'i' cerco in un momento
del me' di loro e di poi il peggio piglio;
sì dal mal uso è vinto il buon consiglio.

136

    L'alma, che sparge e versa
di fuor l'acque di drento,
il fa sol perché spento
non sie da loro il foco in ch'è conversa.
    Ogni altra aita persa
saria, se 'l pianger sempre
mi resurge al tuo foco, vecchio e tardi.
    Mie dura sorte e mie fortuna avversa
non ha sì dure tempre,
che non m'affligghin men, dove più m'ardi;
tal ch'e' tuo accesi sguardi,
di fuor piangendo, dentro circumscrivo,
e di quel c'altri muor sol godo e vivo.

137

    Se per gioir pur brami affanni e pianti,
più crudo, Amor, m'è più caro ogni strale,
che fra la morte e 'l male
non dona tempo alcun, né brieve spazio:
tal c'a 'ncider gli amanti
i pianti perdi, e 'l nostro è meno strazio.
    Ond'io sol ti ringrazio
della mie morte e non delle mie doglie,
c'ogni mal sana chi la vita toglie.

138

    Porgo umilmente all'aspro giogo il collo
il volto lieto a la fortuna ria,
e alla donna mia
nemica il cor di fede e foco pieno;
né dal martir mi crollo,
anz'ogni or temo non venga meno.
    Ché se 'l volto sereno
cibo e vita mi fa d'un gran martire,
qual crudel doglia mi può far morire?

139

    In più leggiadra e men pietosa spoglia
altr'anima non tiene
che la tuo, donna, il moto e 'l dolce anelo;
tal c'alla ingrata voglia
al don di tuo beltà perpetue pene
più si convien c'al mie soffrire 'l cielo.
    I' nol dico e nol celo
s'i' bramo o no come 'l tuo 'l mie peccato,
ché, se non vivo, morto ove te sia,
o, te pietosa, che dove beato
mi fa 'l martir, si' etterna pace mia.
    Se dolce mi saria
l'inferno teco, in ciel dunche che fora?
    Beato a doppio allora
sare' a godere i' sol nel divin coro
quel Dio che 'n cielo e quel che 'n terra adoro.

140

    Se l'alma al fin ritorna
nella suo dolce e desïata spoglia,
o danni o salvi il ciel, come si crede,
ne l'inferno men doglia,
se tuo beltà l'adorna,
fie, parte c'altri ti contempla e vede.
    S'al cielo ascende e riede,
com'io seco desio
e con tal cura e con sì caldo affetto,
fie men fruire Dio,
s'ogni altro piacer cede
come di qua, al tuo divo e dolce aspetto.
    Che me' d'amarti aspetto,
se più giova men doglia a chi è dannato,
che 'n ciel non nuoce l'esser men beato.

141

    Perc'all'alta mie speme è breve e corta,
donna, tuo fé, se con san occhio il veggio,
goderò per non peggio
quante di fuor con gli occhi ne prometti;
ché dove è pietà morta,
non è che gran bellezza non diletti.
    E se contrari effetti
agli occhi di mercé dentro a te sento,
la certezza non tento,
ma prego, ove 'l gioire è men che 'ntero
sie dolce il dubbio a chi nuocer può 'l vero.

142

    Credo, perc'ancor forse
non sia la fiamma spenta
nel freddo tempo dell'età men verde,
l'arco subito torse
Amor, che si rammenta
che 'n gentil cor ma' suo colpo non perde;
e la stagion rinverde
per un bel volto; e peggio è al sezzo strale
mie ricaduta che 'l mio primo male.

143

    Quant'ognor fugge il giorno che mi resta
del viver corto e poco
tanto più serra il foco
in picciol tempo a mie più danno e strazio:
c'aita il ciel non presta
contr'al vecchio uso in così breve spazio.
    Pur poi che non se' sazio
del foco circumscritto,
in cui pietra non serva suo natura
non c'un cor, ti ringrazio,
Amor, se 'l manco invitto
in chiuso foco alcun tempo non dura.
    Mie peggio è mie ventura,
perché la vita all'arme che tu porti
cara non m'è, s'almen perdoni a' morti.

144

    Passo inanzi a me stesso
con alto e buon concetto,
e 'l tempo gli prometto
c'aver non deggio. O pensier vano e stolto!
    Ché con la morte appresso
perdo 'l presente, e l'avvenir m'è tolto;
e d'un leggiadro volto
ardo e spero sanar, che morto viva
negli anni ove la vita non arriva.

145

    Se costei gode e tu solo, Amor, vivi
de' nostri pianti, e s'io, come te, soglio
di lacrime e cordoglio
e d'un ghiaccio nutrir la vita mia;
dunche, di vita privi
saremo da mercé di donna pia.
    Meglio il peggio saria:
contrari cibi han sì contrari effetti
c'a lei il godere, a noi torrien la vita;
tal che 'nsieme prometti
più morte, là dove più porgi aita.
    A l'alma sbigottita
viver molto più val con dura sorte
che grazia c'abbi a sé presso la morte.

146

    Gli sguardi che tu strazi
a me tutti gli togli;
né furto è già quel che del tuo non doni;
ma se 'l vulgo ne sazi
e ' bruti, e me ne spogli,
omicidio è, c'a morte ognor mi sproni.
    Amor, perché perdoni
tuo somma cortesia
sie di beltà qui tolta
a chi gusta e desia,
e data a gente stolta?
    Deh, falla un'altra volta
pietosa dentro e sì brutta di fuori,
c'a me dispiaccia, e di me s'innamori.

147

    - Deh dimmi, Amor, se l'alma di costei
fusse pietosa com'ha bell' il volto,
s'alcun saria sì stolto
ch'a sé non si togliessi e dessi a lei?
    E io, che più potrei
servirla, amarla, se mi fuss'amica,
che, sendomi nemica,
l'amo più c'allor far non doverrei?
    - Io dico che fra voi, potenti dei,
convien c'ogni riverso si sopporti.
    Poi che sarete morti,
di mille 'ngiurie e torti,
amando te com'or di lei tu ardi,
far ne potrai giustamente vendetta.
    Ahimè, lasso chi pur tropp'aspetta
ch'i' gionga a' suoi conforti tanto tardi!
    Ancor, se ben riguardi,
un generoso, alter e nobil core
perdon' e porta a chi l'offend' amore.

148

    Con più certa salute
men grazia, donna, mi terrie ancor vivo;
dall'uno e l'altro rivo
degli occhi il petto sarie manco molle.
    Doppia mercé mie picciola virtute
di tanto vince che l'adombra e tolle;
né saggio alcun ma' volle,
se non sé innalza e sprona,
di quel gioir ch'esser non può capace.
    Il troppo è vano e folle;
ché modesta persona
d'umil fortuna ha più tranquilla pace.
    Quel c'a vo' lice, a me, donna, dispiace:
chi si dà altrui, c'altrui non si prometta,
d'un superchio piacer morte n'aspetta.

149

    Non posso non mancar d'ingegno e d'arte
a chi mi to' la vita
con tal superchia aita,
che d'assai men mercé più se ne prende.
    D'allor l'alma mie parte
com'occhio offeso da chi troppo splende,
e sopra me trascende
a l'impossibil mie; per farmi pari
al minor don di donna alta e serena,
seco non m'alza; e qui convien ch'impari
che quel ch'i' posso ingrato a lei mi mena.
    Questa, di grazie piena,
n'abonda e 'nfiamma altrui d'un certo foco,
che 'l troppo con men caldo arde che 'l poco.

150

    Non men gran grazia, donna, che gran doglia
ancide alcun, che 'l furto a morte mena,
privo di speme e ghiacciato ogni vena,
se vien subito scampo che 'l discioglia.
    Simil se tuo mercé, più che ma' soglia,
nella miseria mie d'affanni piena,
con superchia pietà mi rasserena,
par, più che 'l pianger, la vita mi toglia.
    Così n'avvien di novell'aspra o dolce:
ne' lor contrari è morte in un momento,
onde s'allarga o troppo stringe 'l core.
    Tal tuo beltà, c'Amore e 'l ciel qui folce,
se mi vuol vivo affreni il gran contento,
c'al don superchio debil virtù muore.

151

    Non ha l'ottimo artista alcun concetto
c'un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all'intelletto.
    Il mal ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch'io più non viva,
contraria ho l'arte al disïato effetto.
    Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;
    se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che 'l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

152

Sì come per levar, donna, si pone
in pietra alpestra e dura
una viva figura,
che là più cresce u' più la pietra scema;
tal alcun'opre buone,
per l'alma che pur trema,
cela il superchio della propria carne
co' l'inculta sua cruda e dura scorza.
    Tu pur dalle mie streme
parti puo' sol levarne,
ch'in me non è di me voler né forza.

153

    Non pur d'argento o d'oro
vinto dal foco esser po' piena aspetta,
vota d'opra prefetta,
la forma, che sol fratta il tragge fora;
tal io, col foco ancora
d'amor dentro ristoro
il desir voto di beltà infinita,
di coste' ch'i' adoro,
anima e cor della mie fragil vita.
    Alta donna e gradita
in me discende per sì brevi spazi,
c'a trarla fuor convien mi rompa e strazi.

154

    Tanto sopra me stesso
mi fai, donna, salire,
che non ch'i' 'l possa dire,
nol so pensar, perch'io non son più desso.
    Dunche, perché più spesso,
se l'alie tuo mi presti,
non m'alzo e volo al tuo leggiadro viso,
e che con teco resti,
se dal ciel n'è concesso
ascender col mortale in paradiso?
    Se non ch'i' sia diviso
dall'alma per tuo grazia, e che quest'una
fugga teco suo morte, è mie fortuna.

155

    Le grazie tua e la fortuna mia
hanno, donna, sì vari
gli effetti, perch'i' 'mpari
in fra 'l dolce e l'amar qual mezzo sia.
    Mentre benigna e pia
dentro, e di fuor ti mostri
quante se' bella al mie 'rdente desire,
la fortun' aspra e ria,
nemica a' piacer nostri,
con mille oltraggi offende 'l mie gioire;
se per avverso po' di tal martire,
si piega alle mie voglie,
tuo pietà mi si toglie.
    Fra 'l riso e 'l pianto, en sì contrari stremi,
mezzo non è c'una gran doglia scemi.

156

    A l'alta tuo lucente dïadema
per la strada erta e lunga,
non è, donna, chi giunga,
s'umiltà non v'aggiungi e cortesia:
il montar cresce, e 'l mie valore scema,
e la lena mi manca a mezza via.
    Che tuo beltà pur sia
superna, al cor par che diletto renda,
che d'ogni rara altezza è ghiotto e vago:
po' per gioir della tuo leggiadria
bramo pur che discenda
là dov'aggiungo. E 'n tal pensier m'appago,
se 'l tuo sdegno presago,
per basso amare e alto odiar tuo stato,
a te stessa perdona il mie peccato.

157

    Pietosa e dolce aita
tuo, donna, teco insieme,
per le mie parte streme
spargon dal cor gli spirti della vita,
onde l'alma, impedita
del suo natural corso
pel subito gioir, da me diparti.
    Po' l'aspra tuo partita,
per mie mortal soccorso,
tornan superchi al cor gli spirti sparti.
    S'a me veggio tornarti,
dal cor di nuovo dipartir gli sento;
onde d'equal tormento
e l'aita e l'offesa mortal veggio:
el mezzo, a chi troppo ama, è sempre il peggio.

158

    Amor, la morte a forza
del pensier par mi scacci,
e con tal grazia impacci
l'alma che, senza, sarie più contenta.
    Caduto è 'l frutto e secca è già la scorza,
e quel, già dolce, amaro or par ch'i' senta;
anzi, sol mi tormenta,
nell'ultim'ore e corte,
infinito piacere in breve spazio.
    Sì, tal mercé, spaventa
tuo pietà tardi e forte,
c'al corpo è morte, e al diletto strazio;
ond'io pur ti ringrazio
in questa età: ché s'i' muoio in tal sorte,
tu 'l fai più con mercé che con la morte.

159

    Per esser manco, alta signora, indegno
del don di vostra immensa cortesia,
prima, all'incontro a quella, usar la mia
con tutto il cor volse 'l mie basso ingegno.
    Ma visto poi, c'ascendere a quel segno
propio valor non è c'apra la via,
perdon domanda la mie audacia ria,
e del fallir più saggio ognor divegno.
    E veggio ben com'erra s'alcun crede
la grazia, che da voi divina piove,
pareggi l'opra mia caduca e frale.
    L'ingegno, l'arte, la memoria cede:
c'un don celeste non con mille pruove
pagar del suo può già chi è mortale.

160

    S'alcun legato è pur dal piacer molto,
come da morte altrui tornare in vita,
qual cosa è che po' paghi tanta aita,
che renda il debitor libero e sciolto?
    E se pur fusse, ne sarebbe tolto
il soprastar d'una mercé infinita
al ben servito, onde sarie 'mpedita
da l'incontro servire, a quella volto.
    Dunche, per tener alta vostra grazia,
donna, sopra 'l mie stato, in me sol bramo
ingratitudin più che cortesia:
    ché dove l'un dell'altro al par si sazia,
non mi sare' signor quel che tant'amo:
ché 'n parità non cape signoria.



161

    Per qual mordace lima
discresce e manca ognor tuo stanca spoglia,
anima inferma? or quando fie ti scioglia
da quella il tempo, e torni ov'eri, in cielo,
candida e lieta prima,
deposto il periglioso e mortal velo?
    C'ancor ch'i' cangi 'l pelo
per gli ultim'anni e corti,
cangiar non posso il vecchio mie antico uso,
che con più giorni più mi sforza e preme.
    Amore, a te nol celo,
ch'i' porto invidia a' morti,
sbigottito e confuso,
sì di sé meco l'alma trema e teme.
    Signor, nell'ore streme,
stendi ver' me le tuo pietose braccia,
tomm'a me stesso e famm'un che ti piaccia.

162

    Ora in sul destro, ora in sul manco piede
variando, cerco della mie salute.
    Fra 'l vizio e la virtute
il cor confuso mi travaglia e stanca,
come chi 'l ciel non vede,
che per ogni sentier si perde e manca.
    Porgo la carta bianca
a' vostri sacri inchiostri,
c'amor mi sganni e pietà 'l ver ne scriva:
che l'alma, da sé franca,
non pieghi agli error nostri
mie breve resto, e che men cieco viva.
    Chieggio a voi, alta e diva
donna, saper se 'n ciel men grado tiene
l'umil peccato che 'l superchio bene.

163

    Quante più fuggo e odio ognor me stesso,
tanto a te, donna, con verace speme
ricorro; e manco teme
l'alma di me, quant'a te son più presso.
    A quel che 'l ciel promesso
m'ha nel tuo volto aspiro
e ne' begli occhi, pien d'ogni salute:
e ben m'accorgo spesso,
in quel c'ogni altri miro,
che gli occhi senza 'l cor non han virtute.
    Luci già mai vedute!
    né da vederle è men che 'l gran desio;
ché 'l veder raro è prossimo a l'oblio.

164

    Per fido esemplo alla mia vocazione
nel parto mi fu data la bellezza,
che d'ambo l'arti m'è lucerna e specchio.
    S'altro si pensa, è falsa opinione.
    Questo sol l'occhio porta a quella altezza
c'a pingere e scolpir qui m'apparecchio.
    S'e' giudizi temerari e sciocchi
al senso tiran la beltà, che muove
e porta al cielo ogni intelletto sano,
dal mortale al divin non vanno gli occhi
infermi, e fermi sempre pur là d'ove
ascender senza grazia è pensier vano.

165

    Se 'l commodo degli occhi alcun costringe
con l'uso, parte insieme
la ragion perde, e teme;
ché più s'inganna quel c'a sé più crede:
onde nel cor dipinge
per bello quel c'a picciol beltà cede.
    Ben vi fo, donna, fede
che 'l commodo né l'uso non m'ha preso,
sì di raro e' mie veggion gli occhi vostri
circonscritti ov'a pena il desir vola.
    Un punto sol m'ha acceso,
né più vi vidi c'una volta sola.

166

    Ben posson gli occhi mie presso e lontano
veder dov'apparisce il tuo bel volto;
ma dove loro, ai pie', donna, è ben tolto
portar le braccia e l'una e l'altra mano.
    L'anima, l'intelletto intero e sano
per gli occhi ascende più libero e sciolto
a l'alta tuo beltà; ma l'ardor molto
non dà tal previlegio al corp'umano
    grave e mortal, sì che mal segue poi,
senz'ali ancor, d'un'angioletta il volo,
e 'l veder sol pur se ne gloria e loda.
    Deh, se tu puo' nel ciel quante tra noi,
fa' del mie corpo tutto un occhio solo;
né fie poi parte in me che non ti goda.

167

    La morte, Amor, del mie medesmo loco,
del qual, già nudo, trïonfar solevi
non che con l'arco e co' pungenti strali,
ti scaccia e sprezza, e col fier ghiaccio il foco
tuo dolce ammorza, c'ha dì corti e brevi.
    In ogni cor veril men di le' vali;
e se ben porti l'ali,
con esse mi giugnesti, or fuggi e temi,
c'ogni età verde è schifa a' giorni stremi.

168

    Perché 'l mezzo di me che dal ciel viene
a quel con gran desir ritorna e vola,
restando in una sola
di beltà donna, e ghiaccio ardendo in lei,
in duo parte mi tiene
contrarie sì, che l'una all'altra invola
il ben che non diviso aver devrei.
    Ma se già ma' costei
cangia 'l suo stile, e c'a l'un mezzo manchi
il ciel, quel mentre c'a le' grato sia,
e' mie sì sparsi e stanchi
pensier fien tutti in quella donna mia;
e se 'lor che m'è pia,
l'alma il ciel caccia, almen quel tempo spero
non più mezz'esser, ma suo tutto intero.

169

    Nel mie 'rdente desio,
coste' pur mi trastulla,
di fuor pietosa e nel cor aspra e fera.
    Amor, non tel diss'io,
ch'e' no' ne sare' nulla
e che 'l suo perde chi 'n quel d'altri spera?
    Or s'ella vuol ch'i' pèra,
mie colpa, e danno s'ha prestarle fede,
com'a chi poco manca a chi più crede.

170

    Spargendo gran bellezza ardente foco
per mille cori accesi,
come cosa è che pesi,
c'un solo ancide, a molti è lieve e poco.
    Ma, chiuso in picciol loco,
s'il sasso dur calcina,
che l'acque poi il dissolvon 'n un momento,
come per pruova il sa chi 'l ver dicerne:
così d'una divina
de mille il foco ho drento
c'arso m'ha 'l cor nelle mie parte interne;
ma le lacrime etterne
se quel dissolvon già sì duro e forte,
fie me' null'esser c'arder senza morte.

171

    Nella memoria delle cose belle
morte bisogna, per tor di costui
il volto a lei, com'a vo' tolto ha lui;
se 'l foco in ghiaccio e 'l riso volge in pianto,
con tale odio di quelle,
che del cor voto più non si dien vanto.
    Ma se rimbotta alquanto
i suo begli occhi nell'usato loco,
fien legne secche in un ardente foco.

172

    Costei pur si delibra,
indomit' e selvaggia,
ch'i' arda, mora e caggia
a quel c'a peso non sie pure un'oncia;
e 'l sangue a libra a libra
mi svena, e sfibra e 'l corpo all'alma sconcia.
    La si gode e racconcia
nel suo fidato specchio,
ove sé vede equale al paradiso;
po', volta a me, mi concia
sì, c'oltr'all'esser vecchio,
in quel col mie fo più bello il suo viso,
ond'io vie più deriso
son d'esser brutto; e pur m'è gran ventura,
s'i' vinco, a farla bella, la natura.

173

    Se dal cor lieto divien bello il volto,
dal tristo il brutto; e se donna aspra e bella
il fa, chi fie ma' quella
che non arda di me com'io di lei?
    Po' c'a destinguer molto
dalla mie chiara stella
da bello a bel fur fatti gli occhi mei,
contr'a sé fa costei
non men crudel che spesso
dichi: - Dal cor mie smorto il volto viene. -
Che s'altri fa se stesso,
pingendo donna, in quella
che farà poi, se sconsolato il tiene?
    Dunc'ambo n'arien bene
ritrarla col cor lieto e 'l viso asciutto:
sé farie bella e me non farie brutto.

174

    Per quel che di vo', donna, di fuor veggio,
quantunche dentro al ver l'occhio non passi,
spero a' mie stanchi e lassi
pensier riposo a qualche tempo ancora;
e 'l più saperne il peggio,
del vostro interno, forse al mie mal fora.
    Se crudeltà dimora
'n un cor che pietà vera
co' begli occhi prometta a' pianti nostri,
ben sarebb'ora l'ora,
c'altro già non si spera
d'onesto amor, che quel ch'è di fuor mostri.
    Donna, s'agli occhi vostri
contraria è l'alma, e io, pur contro a quella,
godo gl'inganni d'una donna bella.

175

    No' salda, Amor, de' tuo dorati strali
fra le mie vecchie ancor la minor piaga,
che la mente, presaga
del mal passato, a peggio mi traporti.
    Se ne' vecchi men vali,
campar dovria, se non fa' guerra a' morti.
    S'a l'arco l'alie porti
contra me zoppo e nudo,
con gli occhi per insegna,
c'ancidon più ch'e' tuo più feri dardi,
chi fia che mi conforti?
    Elmo non già né scudo,
ma sol quel che mi segna
d'onor, perdendo, e biasmo a te, se m'ardi.
    Debile vecchio, è tardi
la fuga e lenta, ov'è posto 'l mie scampo;
e chi vince a fuggir, non resti in campo.

176

    Mestier non era all'alma tuo beltate
legar me vinto con alcuna corda;
ché, se ben mi ricorda,
sol d'uno sguardo fui prigione e preda:
c'alle gran doglie usate
forz'è c'un debil cor subito ceda.
    Ma chi fie ma' che 'l creda,
preso da' tuo begli occhi in brevi giorni,
un legno secco e arso verde torni?

177

    In noi vive e qui giace la divina
beltà da morte anz'il suo tempo offesa.
    Se con la dritta man face' difesa,
campava. Onde nol fe'? Ch'era mancina.

178

    La nuova alta beltà che 'n ciel terrei
unica, non c'al mondo iniquo e fello
(suo nome dal sinistro braccio tiello
il vulgo, cieco a non adorar lei),
    per voi sol nacque; e far non la saprei
con ferri in pietra, in carte col pennello;
ma 'l vivo suo bel viso esser può quello
nel qual vostro sperar fermar dovrei.
    E se, come dal sole ogni altra stella
è vinta, vince l'intelletto nostro,
per voi non di men pregio esser dovea.
    Dunche, a quetarvi, è suo beltà novella
da Dio formata all'alto desir vostro;
e quel solo, e non io, far lo potea.

179

    Se qui son chiusi i begli occhi e sepolti
anzi tempo, sol questo ne conforta:
che pietà di lor vivi era qua morta;
or che son morti, di lor vive in molti.

180

    Deh serbi, s'è di me pietate alcuna
che qui son chiuso e dal mondo disciolto,
le lacrime a bagnarsi il petto e 'l volto
per chi resta suggetto alla fortuna.

181

    - Perché ne' volti offesi non entrasti
dagli anni, Morte, e c'anzi tempo i' mora?
    - Perché nel ciel non sale e non dimora
cosa che 'nvecchi e parte il mondo guasti.

182

    Non volse Morte non ancider senza
l'arme degli anni e de' superchi giorni
la beltà che qui giace, acciò c'or torni
al ciel con la non persa sua presenza.

183

    La beltà che qui giace al mondo vinse
di tanto ogni più bella creatura,
che morte, ch'era in odio alla natura,
per farsi amica a lei, l'ancise e stinse.

184

    Qui son de' Bracci, deboli a l'impresa
contr'a la morte mia per non morire;
meglio era esser de' piedi per fuggire
che de' Bracci e non far da lei difesa.

185

    Qui son sepulto, e poco innanzi nato
ero: e son quello al qual fu presta e cruda
la morte sì, che l'alma di me nuda
s'accorge a pena aver cangiato stato.

186

    Non può per morte già chi qui mi serra
la beltà, c'al mortal mie largir volse,
renderla agli altri tutti a chi la tolse,
s'alfin com'ero de' rifarmi in terra.

187

    L'alma di dentro di fuor non vedea,
come noi, il volto, chiuso in questo avello:
che se nel ciel non è albergo sì bello,
trarnela morte già ma' non potea.

188

    Se dalla morte è vinta la natura
qui nel bel volto, ancor vendetta in cielo
ne fie pel mondo, a trar divo il suo velo
più che mai bel di questa sepoltura.

189

    Qui son chiusi i begli occhi, che aperti
facén men chiari i più lucenti e santi;
or perché, morti, rendon luce a tanti,
qual sie più 'l danno o l'util non siàn certi.

190

    Qui son morto creduto; e per conforto
del mondo vissi, e con mille alme in seno
di veri amanti; adunche a venir meno,
per tormen' una sola non son morto.

191

    Se l'alma vive del suo corpo fora,
la mie, che par che qui di sé mi privi,
il mostra col timor ch'i' rendo a' vivi:
che nol po far chi tutto avvien che mora.

192

    S'è ver, com'è, che dopo il corpo viva,
da quel disciolta, c'a mal grado regge
sol per divina legge,
l'alma e non prima, allor sol è beata;
po' che per morte diva
è fatta sì, com'a morte era nata.
    Dunche, sine peccata,
in riso ogni suo doglia
preschiver debbe alcun del suo defunto,
se da fragile spoglia
fuor di miseria in vera pace è giunto
de l'ultim'ora o punto.
    Tant'esser de' dell'amico 'l desio,
quante men val fruir terra che Dio.

193

    A pena prima aperti gli vidd'io
i suo begli occhi in questa fragil vita,
che, chiusi el dì dell'ultima partita,
gli aperse in cielo a contemplare Dio.
    Conosco e piango, e non fu l'error mio,
col cor sì tardi a lor beltà gradita,
ma di morte anzi tempo, ond'è sparita
a voi non già, m'al mie 'rdente desio.
    Dunche, Luigi, a far l'unica forma
di Cecchin, di ch'i' parlo, in pietra viva
etterna, or ch'è già terra qui tra noi,
    se l'un nell'altro amante si trasforma,
po' che sanz'essa l'arte non v'arriva,
convien che per far lui ritragga voi.

194

    Qui vuol mie sorte c'anzi tempo i' dorma,
né son già morto; e ben c'albergo cangi,
resto in te vivo, c'or mi vedi e piangi,
se l'un nell'altro amante si trasforma.

195

    - Se qui cent'anni t'han tolto due ore,
un lustro è forza che l'etterno inganni.
    - No: che 'n un giorno è vissuto cent'anni
colui che 'n quello il tutto impara e muore.

196

    Gran ventura qui morto esser mi veggio:
tal dota ebbi dal cielo, anzi che veglio;
ché, non possendo al mondo darmi meglio,
ogni altro che la morte era 'l mie peggio.

197

    La carne terra, e qui l'ossa mie, prive
de' lor begli occhi e del leggiadro aspetto,
fan fede a quel ch'i' fu' grazia e diletto
in che carcer quaggiù l'anima vive.

198

    Se fussin, perch'i' viva un'altra volta,
gli altru' pianti a quest'ossa carne e sangue,
sarie spietato per pietà chi langue
per rilegar lor l'alma in ciel disciolta.

199

    Chi qui morto mi piange indarno spera,
bagnando l'ossa e 'l mie sepulcro, tutto
ritornarmi com'arbor secco al frutto;
c'uom morto non risurge a primavera.

200

    S'i' fu' già vivo, tu sol, pietra, il sai,
che qui mi serri, e s'alcun mi ricorda,
gli par sognar: sì morte è presta e 'ngorda,
che quel ch'è stato non par fusse mai.

201

    I' temo più, fuor degli anni e dell'ore
che m'han qui chiuso, il ritornare in vita,
s'esser può qua, ch'i' non fe' la partita;
po' c'allor nacqui ove la morte muore.

202

    I' fu de' Bracci, e se ritratto e privo
restai dell'alma, or m'è cara la morte,
po' che tal opra ha sì benigna sorte
d'entrar dipinto ov'io non pote' vivo.

203

    De' Bracci nacqui, e dopo 'l primo pianto,
picciol tempo il sol vider gli occhi mei.
    Qui son per sempre; né per men vorrei,
s'i' resto vivo in quel che m'amò tanto.

204

    Più che vivo non ero, morto sono
vivo e caro a chi morte oggi m'ha tolto;
se più c'averne copia or m'ama molto,
chi cresce per mancar, gli è 'l morir buono.

205

    Se morte ha di virtù qui 'l primo fiore
del mondo e di beltà, non bene aperto,
anzi tempo sepulto, i' son ben certo
che più non si dorrà chi vecchio muore.

206

    Dal ciel fu la beltà mie diva e 'ntera,
e 'l corpo sol mortal dal padre mio.
    Se morto è meco quel che ebbi d'Iddio
che dunche il mortal sol da morte spera?

207

    Per sempre a morte, e prima a voi fu' dato
sol per un'ora; e con diletto tanto
porta' bellezza, e po' lasciai tal pianto
che 'l me' sarebbe non esser ma' nato.

208

    Qui chiuso è 'l sol di c'ancor piangi e ardi:
l'alma suo luce fu corta ventura.
    Men grazia e men ricchezza assai più dura;
c'a' miseri la morte è pigra e tardi.

209

    Qui sol per tempo convien posi e dorma
per render bello el mie terrestre velo;
ché più grazia o beltà non have 'l cielo,
c'alla natura fussi esempro e norma.

210

    Se gli occhi aperti mie fur vita e pace
d'alcun, qui chiusi, or chi gli è pace e vita?
    Beltà non già, che del mond'è sparita,
ma morte sol, s'ogni suo ben qui giace.

211

    Se, vivo al mondo, d'alcun vita fui
che gli è qui terra or la bellezza mia,
mort'è non sol, ma crudel gelosia
c'alcun per me non mora innanzi a lui.

212

    Perc'all'altru' ferir non ave' pari
col suo bel volto il Braccio che qui serro,
morte vel tolse e fecel, s'io non erro,
perc'a lei ancider toccava i men chiari.

213

    Sepulto è qui quel Braccio, che Dio volse
corregger col suo volto la natura;
ma perché perso è 'l ben, c'altri non cura,
lo mostrò al mondo e presto sel ritolse.

214

    Era la vita vostra il suo splendore:
di Cecchin Bracci, che qui morto giace.
    Chi nol vide nol perde e vive in pace:
la vita perde chi 'l vide e non muore.

215

    A la terra la terra e l'alma al cielo
qui reso ha morte; a chi morto ancor m'ama
ha dato in guardia mie bellezza e fama,
ch'etterni in pietra il mie terrestre velo.

216

    Qui serro il Braccio e suo beltà divina,
e come l'alma al corpo è forma e vita,
è quello a me dell'opra alta e gradita;
c'un bel coltello insegna tal vagina.

217

    S'avvien come fenice mai rinnuovi
qui 'l bel volto de' Bracci di più stima,
fie ben che 'l ben chi nol conosce prima
per alcun tempo il perda e po' 'l ritruovi.

218

    Col sol de' Bracci il sol della natura,
per sempre estinto, qui lo chiudo e serro:
morte l'ancise senza spada o ferro,
c'un fior di verno picciol vento il fura.

219

    I' fui de' Bracci, e qui mie vita è morte.
    Sendo oggi 'l ciel dalla terra diviso,
toccando i' sol del mondo al paradiso,
anzi per sempre serri le suo porte.

220

    Deposto ha qui Cecchin sì nobil salma
per morte, che 'l sol ma' simil non vide.
    Roma ne piange, e 'l ciel si gloria e ride,
che scarca del mortal si gode l'alma.

221

    Qui giace il Braccio, e men non si desìa
sepulcro al corpo, a l'alma il sacro ufizio.
    Se più che vivo, morto ha degno ospizio
in terra e 'n ciel, morte gli è dolce e pia.

222

    Qui stese il Braccio e colse acerbo il frutto
morte, anz'il fior, c'a quindici anni cede.
    Sol questo sasso il gode che 'l possiede,
e 'l resto po' del mondo il piange tutto.

223

    I' fu' Cecchin mortale e or son divo:
poco ebbi 'l mondo e per sempre il ciel godo.
    Di sì bel cambio e di morte mi lodo,
che molti morti, e me partorì vivo.

224

    Chiusi ha qui gli occhi e 'l corpo, e l'alma sciolta
di Cecchin Bracci morte, e la partita
fu 'nanz' al tempo per cangiar suo vita
a quella c'a molt'anni spesso è tolta.

225

    I' fu' de' Bracci, e qui dell'alma privo
per esser da beltà fatt'ossa e terra:
prego il sasso non s'apra, che mi serra,
per restar bello in chi m'amò già vivo.

226

    Che l'alma viva, i' che qui morto sono
or ne son certo e che, vivo, ero morto.
    I' fu' de' Bracci, e se 'l tempo ebbi corto,
chi manco vive più speri perdono.

227

    Ripreso ha 'l divin Braccio il suo bel velo:
non è più qui, c'anz'al gran dì l'ha tolto
pietà di terra; che s'allor sepolto
fussi, lu' sol sarie degno del cielo.

228

    Se 'l mondo il corpo, e l'alma il ciel ne presta
per lungo tempo, il morto qui de' Bracci
qual salute fie mai che 'l soddisfacci?
    Di tanti anni e beltà creditor resta.

229

    Occhi mie, siate certi
che 'l tempo passa e l'ora s'avvicina,
c'a le lacrime triste il passo serra.
    Pietà vi tenga aperti,
mentre la mie divina
donna si degna d'abitare in terra.
    Se grazia il ciel disserra,
com'a' beati suole,
questo mie vivo sole
se lassù torna e partesi da noi,
che cosa arete qui da veder poi?

230

    Perché tuo gran bellezze al mondo sièno
in donna più cortese e manco dura,
prego se ne ripigli la natura
tutte quelle c'ognor ti vengon meno,
    e serbi a riformar del tuo sereno
e divin volto una gentil figura
del ciel, e sia d'amor perpetua cura
rifarne un cor di grazia e pietà pieno.
    E serbi poi i mie sospiri ancora,
e le lacrime sparte insieme accoglia
e doni a chi quella ami un'altra volta.
    Forse a pietà chi nascerà in quell'ora
la moverà co' la mie propia doglia,
né fie persa la grazia c'or m'è tolta.

231

    Non è più tempo, Amor, che 'l cor m'infiammi,
né che beltà mortal più goda o tema:
giunta è già l'ora strema
che 'l tempo perso, a chi men n'ha, più duole.
    Quante 'l tuo braccio dammi,
morte i gran colpi scema,
e ' sua accresce più che far non suole.
    Gl'ingegni e le parole,
da te di foco a mio mal pro passati,
in acqua son conversi;
e Die 'l voglia c'or versi
con essa insieme tutti e' mie peccati.

232

    Non altrimenti contro a sé cammina
ch'i' mi facci alla morte,
chi è da giusta corte
tirato là dove l'alma il cor lassa;
tal m'è morte vicina,
salvo più lento el mie resto trapassa.
    Né per questo mi lassa
Amor viver un'ora
fra duo perigli, ond'io mi dormo e veglio:
la speme umile e bassa
nell'un forte m'accora,
e l'altro parte m'arde, stanco e veglio.
    Né so il men danno o 'l meglio:
ma pur più temo, Amor, che co' tuo sguardi
più presto ancide quante vien più tardi.

233

    Se da' prim'anni aperto un lento e poco
ardor distrugge in breve un verde core,
che farà, chiuso po' da l'ultim'ore,
d'un più volte arso un insaziabil foco?
    Se 'l corso di più tempo dà men loco
a la vita, a le forze e al valore,
che farà a quel che per natura muore
l'incendio arroto d'amoroso gioco?
    Farà quel che di me s'aspetta farsi:
cenere al vento sì pietoso e fero,
c'a' fastidiosi vermi il corpo furi.
    Se, verde, in picciol foco i' piansi e arsi,
che, più secco ora in un sì grande, spero
che l'alma al corpo lungo tempo duri?

234

    Tanto non è, quante da te non viene,
agli occhi specchio, a che 'l cor lasso cede;
che s'altra beltà vede,
gli è morte, donna, se te non somiglia,
qual vetro che non bene
senz'altra scorza ogni su' obbietto piglia.
    Esempro e maraviglia
ben fie a chi si dispera
della tuo grazia al suo 'nfelice stato,
s'e' begli occhi e le ciglia
con la tuo pietà vera
volgi a far me sì tardi ancor beato:
a la miseria nato,
s'al fier destin preval grazia e ventura,
da te fie vinto il cielo e la natura.

235

    Un uomo in una donna, anzi uno dio
per la sua bocca parla,
ond'io per ascoltarla
son fatto tal, che ma' più sarò mio.
    I' credo ben, po' ch'io
a me da lei fu' tolto,
fuor di me stesso aver di me pietate;
sì sopra 'l van desio
mi sprona il suo bel volto,
ch'i' veggio morte in ogni altra beltate.
    O donna che passate
per acqua e foco l'alme a' lieti giorni,
deh, fate c'a me stesso più non torni.

236

    Se ben concetto ha la divina parte
il volto e gli atti d'alcun, po' di quello
doppio valor con breve e vil modello
dà vita a' sassi, e non è forza d'arte.
    Né altrimenti in più rustiche carte,
anz'una pronta man prenda 'l pennello,
fra ' dotti ingegni il più accorto e bello
pruova e rivede, e suo storie comparte.
    Simil di me model di poca istima
mie parto fu, per cosa alta e perfetta
da voi rinascer po', donna alta e degna.
    Se 'l poco accresce, e 'l mie superchio lima
vostra mercé, qual penitenzia aspetta
mie fiero ardor, se mi gastiga e 'nsegna?

237

    Molto diletta al gusto intero e sano
l'opra della prim'arte, che n'assembra
i volti e gli atti, e con più vive membra,
di cera o terra o pietra un corp' umano.
    Se po' 'l tempo ingiurioso, aspro e villano
la rompe o storce o del tutto dismembra,
la beltà che prim'era si rimembra,
e serba a miglior loco il piacer vano.

238

    Non è non degna l'alma che n'attende
etterna vita, in cui si posa e quieta,
per arricchir dell'unica moneta
che 'l ciel ne stampa, e qui natura spende.

239

    Com'esser, donna, può quel c'alcun vede
per lunga sperïenza, che più dura
l'immagin viva in pietra alpestra e dura
che 'l suo fattor, che gli anni in cener riede?
    La causa a l'effetto inclina e cede,
onde dall'arte è vinta la natura.
    I' 'l so, che 'l pruovo in la bella scultura,
c'all'opra il tempo e morte non tien fede.
    Dunche, posso ambo noi dar lunga vita
in qual sie modo, o di colore o sasso,
di noi sembrando l'uno e l'altro volto;
    sì che mill'anni dopo la partita,
quante voi bella fusti e quant'io lasso
si veggia, e com'amarvi i' non fu' stolto.

240

    Sol d'una pietra viva
l'arte vuol che qui viva
al par degli anni il volto di costei.
    Che dovria il ciel di lei,
sendo mie questa, e quella suo fattura,
non già mortal, ma diva,
non solo agli occhi mei?
    E pur si parte e picciol tempo dura.
    Dal lato destro è zoppa suo ventura,
s'un sasso resta e pur lei morte affretta.
    Chi ne farà vendetta?
    Natura sol, se de' suo nati sola
l'opra qui dura, e la suo 'l tempo invola.



241

    Negli anni molti e nelle molte pruove,
cercando, il saggio al buon concetto arriva
d'un'immagine viva,
vicino a morte, in pietra alpestra e dura;
c'all'alte cose nuove
tardi si viene, e poco poi si dura.
    Similmente natura,
di tempo in tempo, d'uno in altro volto,
s'al sommo, errando, di bellezza è giunta
nel tuo divino, è vecchia, e de' perire:
onde la tema, molto
con la beltà congiunta,
di stranio cibo pasce il gran desire;
né so pensar né dire
qual nuoca o giovi più, visto 'l tuo 'spetto,
o 'l fin dell'universo o 'l gran diletto.

242

    S'egli è che 'n dura pietra alcun somigli
talor l'immagin d'ogni altri a se stesso,
squalido e smorto spesso
il fo, com'i' son fatto da costei.
    E par ch'esempro pigli
ognor da me, ch'i' penso di far lei.
    Ben la pietra potrei,
per l'aspra suo durezza,
in ch'io l'esempro, dir c'a lei s'assembra;
del resto non saprei,
mentre mi strugge e sprezza,
altro sculpir che le mie afflitte membra.
    Ma se l'arte rimembra
agli anni la beltà per durare ella,
farà me lieto, ond'io le' farò bella.

243

    Ognor che l'idol mio si rappresenta
agli occhi del mie cor debile e forte,
fra l'uno e l'altro obbietto entra la morte,
e più 'l discaccia, se più mi spaventa.
    L'alma di tale oltraggio esser contenta
più spera che gioir d'ogni altra sorte;
l'invitto Amor, con suo più chiare scorte,
a suo difesa s'arma e s'argomenta:
    Morir, dice, si può sol una volta,
né più si nasce; e chi col mie 'mor muore,
che fie po', s'anzi morte in quel soggiorna?
    L'acceso amor, donde vien l'alma sciolta,
s'è calamita al suo simile ardore,
com'or purgata in foco, a Dio si torna.

244

    Se 'l duol fa pur, com'alcun dice, bello,
privo piangendo d'un bel volto umano,
l'essere infermo è sano,
fa vita e grazia la disgrazia mia:
ché 'l dolce amaro è quello
che, contr'a l'alma, il van pensier desia.
    Né può fortuna ria
contr'a chi basso vola,
girando, trïonfar d'alta ruina;
ché mie benigna e pia
povertà nuda e sola,
m'è nuova ferza e dolce disciplina:
c'a l'alma pellegrina
è più salute, o per guerra o per gioco,
saper perdere assai che vincer poco.

245

    - Se 'l volto di ch'i' parlo, di costei,
no' m'avessi negati gli occhi suoi,
Amor, di me qual poi
pruova faresti di più ardente foco,
s'a non veder me' lei
co' suo begli occhi tu m'ardi e non poco?
    - La men parte del gioco
ha chi nulla ne perde,
se nel gioir vaneggia ogni desire:
nel sazio non ha loco
la speme e non rinverde
nel dolce che preschive ogni martire -.
    Anzi di lei vo' dire:
s'a quel c'aspiro suo gran copia cede,
l'alto desir non quieta tuo mercede.

246

    Te sola del mie mal contenta veggio,
né d'altro ti richieggio amarti tanto;
non è la pace tua senza il mio pianto,
e la mia morte a te non è 'l mie peggio.
    Che s'io colmo e pareggio
il cor di doglia alla tua voglia altera,
per fuggir questa vita,
qual dispietata aita
m'ancide e strazia e non vuol poi ch'io pera?
    Perché 'l morir è corto
al lungo andar di tua crudeltà fera.
    Ma chi patisce a torto
non men pietà che gran iustizia spera.
    Così l'alma sincera
serve e sopporta e, quando che sia poi,
spera non quel che puoi:
ché 'l premio del martir non è tra noi.

247

    Caro m'è 'l sonno, e più l'esser di sasso,
mentre che 'l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m'è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso.

248

    Dal ciel discese, e col mortal suo, poi
che visto ebbe l'inferno giusto e 'l pio
ritornò vivo a contemplare Dio,
per dar di tutto il vero lume a noi.
    Lucente stella, che co' raggi suoi
fe' chiaro a torto el nido ove nacq'io,
né sare' 'l premio tutto 'l mondo rio;
tu sol, che la creasti, esser quel puoi.
    Di Dante dico, che mal conosciute
fur l'opre suo da quel popolo ingrato
che solo a' iusti manca di salute.
    Fuss'io pur lui! c'a tal fortuna nato,
per l'aspro esilio suo, co' la virtute,
dare' del mondo il più felice stato.

249

    - Per molti, donna, anzi per mille amanti
creata fusti, e d'angelica forma;
or par che 'n ciel si dorma,
s'un sol s'appropia quel ch'è dato a tanti.
    Ritorna a' nostri pianti
il sol degli occhi tuo, che par che schivi
chi del suo dono in tal miseria è nato.
    - Deh, non turbate i vostri desir santi,
ché chi di me par che vi spogli e privi,
col gran timor non gode il gran peccato;
ché degli amanti è men felice stato
quello, ove 'l gran desir gran copia affrena,
c'una miseria di speranza piena.

250

    Quante dirne si de' non si può dire,
ché troppo agli orbi il suo splendor s'accese;
biasmar si può più 'l popol che l'offese,
c'al suo men pregio ogni maggior salire.
    Questo discese a' merti del fallire
per l'util nostro, e poi a Dio ascese;
e le porte, che 'l ciel non gli contese,
la patria chiuse al suo giusto desire.
    Ingrata, dico, e della suo fortuna
a suo danno nutrice; ond'è ben segno
c'a' più perfetti abonda di più guai.
    Fra mille altre ragion sol ha quest'una:
se par non ebbe il suo exilio indegno,
simil uom né maggior non nacque mai.

251

    Nel dolce d'una immensa cortesia,
dell'onor, della vita alcuna offesa
s'asconde e cela spesso, e tanto pesa
che fa men cara la salute mia.
    Chi gli omer' altru' 'mpenna e po' tra via
a lungo andar la rete occulta ha tesa,
l'ardente carità d'amore accesa
là più l'ammorza ov'arder più desia.
    Però, Luigi mio, tenete chiara
la prima grazia, ond'io la vita porto,
che non si turbi per tempesta o vento.
    L'isdegno ogni mercé vincere impara,
e s'i' son ben del vero amico accorto,
mille piacer non vaglion un tormento.

252

    Perch'è troppo molesta,
ancor che dolce sia,
quella mercé che l'alma legar suole,
mie libertà di questa
vostr'alta cortesia
più che d'un furto si lamenta e duole.
    E com'occhio nel sole
disgrega suo virtù ch'esser dovrebbe
di maggior luce, s'a veder ne sprona,
così 'l desir non vuole
zoppa la grazia in me, che da vo' crebbe.
    Ché 'l poco al troppo spesso s'abbandona,
né questo a quel perdona:
c'amor vuol sol gli amici, onde son rari
di fortuna e virtù simili e pari.

253

    S'i' fussi stato ne' prim'anni accorto
del fuoco, allor di fuor, che m'arde or drento,
per men mal, non che spento,
ma privo are' dell'alma il debil core
e del colpo, or ch'è morto;
ma sol n'ha colpa il nostro prim'errore.
    Alma infelice, se nelle prim'ore
alcun s'è mal difeso,
nell'ultim' arde e muore
del primo foco acceso:
ché chi non può non esser arso e preso
nell'età verde, c'or c'è lume e specchio,
men foco assai 'l distrugge stanco e vecchio.

254

    Donn', a me vecchio e grave,
ov'io torno e rientro
e come a peso il centro,
che fuor di quel riposo alcun non have,
il ciel porge le chiave.
    Amor le volge e gira
e apre a' iusti il petto di costei;
le voglie inique e prave
mi vieta, e là mi tira,
già stanco e vil, fra ' rari e semidei.
    Grazie vengon da lei
strane e dolce e d'un certo valore,
che per sé vive chiunche per le' muore.

255

    Mentre i begli occhi giri,
donna, ver' me da presso,
tanto veggio me stesso
in lor, quante ne' mie te stessa miri.
    Dagli anni e da' martiri
qual io son, quegli a me rendono in tutto,
e ' mie lor te più che lucente stella.
    Ben par che 'l ciel s'adiri
che 'n sì begli occhi i' mi veggia sì brutto,
e ne' mie brutti ti veggia sì bella;
né men crudele e fella
dentro è ragion, c'al core
per lor mi passi, e quella
de' tuo mi serri fore.
    Perché 'l tuo gran valore
d'ogni men grado accresce suo durezza,
c'amor vuol pari stato e giovanezza.

256

    S'alcuna parte in donna è che sie bella,
benché l'altre sien brutte,
debb'io amarle tutte
pel gran piacer ch'i' prendo sol di quella?
    La parte che s'appella,
mentre il gioir n'attrista,
a la ragion, pur vuole
che l'innocente error si scusi e ami.
    Amor, che mi favella
della noiosa vista,
com'irato dir suole
che nel suo regno non s'attenda o chiami.
    E 'l ciel pur vuol ch'i' brami,
a quel che spiace non sie pietà vana:
ché l'uso agli occhi ogni malfatto sana.

257

    Perché sì tardi e perché non più spesso
con ferma fede quell'interno ardore
che mi lieva di terra e porta 'l core
dove per suo virtù non gli è concesso?
    Forse c'ogn' intervallo n'è promesso
da l'uno a l'altro tuo messo d'amore,
perc'ogni raro ha più forz'e valore
quant'è più desïato e meno appresso.
    La notte è l'intervallo, e 'l dì la luce:
l'una m'agghiaccia 'l cor, l'altro l'infiamma
d'amor, di fede e d'un celeste foco.

258

    Quantunche sie che la beltà divina
qui manifesti il tuo bel volto umano,
donna, il piacer lontano
m'è corto sì, che del tuo non mi parto,
c'a l'alma pellegrina
gli è duro ogni altro sentiero erto o arto.
    Ond' il tempo comparto:
per gli occhi il giorno e per la notte il core,
senza intervallo alcun c'al cielo aspiri.
    Sì 'l destinato parto
mi ferm'al tuo splendore,
c'alzar non lassa i mie ardenti desiri,
s'altro non è che tiri
la mente al ciel per grazia o per mercede:
tardi ama il cor quel che l'occhio non vede.

259

    Ben può talor col mie 'rdente desio
salir la speme e non esser fallace,
ché s'ogni nostro affetto al ciel dispiace,
a che fin fatto arebbe il mondo Iddio?
    Qual più giusta cagion dell'amart'io
è, che dar gloria a quella eterna pace
onde pende il divin che di te piace,
e c'ogni cor gentil fa casto e pio?
    Fallace speme ha sol l'amor che muore
con la beltà, c'ogni momento scema,
ond'è suggetta al variar d'un bel viso.
    Dolce è ben quella in un pudico core,
che per cangiar di scorza o d'ora strema
non manca, e qui caparra il paradiso.

260

    Non è sempre di colpa aspra e mortale
d'una immensa bellezza un fero ardore,
se poi sì lascia liquefatto il core,
che 'n breve il penetri un divino strale.
    Amore isveglia e desta e 'mpenna l'ale,
né l'alto vol preschive al van furore;
qual primo grado c'al suo creatore,
di quel non sazia, l'alma ascende e sale.
    L'amor di quel ch'i' parlo in alto aspira;
donna è dissimil troppo; e mal conviensi
arder di quella al cor saggio e verile.
    L'un tira al cielo, e l'altro in terra tira;
nell'alma l'un, l'altr'abita ne' sensi,
e l'arco tira a cose basse e vile.

261

    Se 'l troppo indugio ha più grazia e ventura
che per tempo al desir pietà non suole,
la mie, negli anni assai, m'affligge e duole,
ché 'l gioir vecchio picciol tempo dura.
    Contrario ha 'l ciel, se di no' sente o cura,
arder nel tempo che ghiacciar si vuole,
com'io per donna; onde mie triste e sole
lacrime peso con l'età matura.
    Ma forse, ancor c'al fin del giorno sia,
col sol già quasi oltr'a l'occaso spento,
fra le tenebre folte e 'l freddo rezzo,
    s'amor c'infiamma solo a mezza via,
né altrimenti è, s'io vecchio ardo drento,
donna è che del mie fin farà 'l mie mezzo.

262

    Amor, se tu se' dio,
non puo' ciò che tu vuoi?
    Deh fa' per me, se puoi,
quel ch'i' fare' per te, s'Amor fuss'io.
    Sconviensi al gran desio
d'alta beltà la speme,
vie più l'effetto a chi è press'al morire.
    Pon nel tuo grado il mio:
dolce gli fie chi 'l preme?
    Ché grazia per poc'or doppia 'l martire.
    Ben ti voglio ancor dire:
che sarie morte, s'a' miseri è dura,
a chi muor giunto a l'alta suo ventura?

263

    La nuova beltà d'una
mi sprona, sfrena e sferza;
né sol passato è terza,
ma nona e vespro, e prossim'è la sera.
    Mie parto e mie fortuna,
l'un co' la morte scherza,
né l'altra dar mi può qui pace intera.
    I' c'accordato m'era
col capo bianco e co' molt'anni insieme,
già l'arra in man tene' dell'altra vita,
qual ne promette un ben contrito core.
    Più perde chi men teme
nell'ultima partita,
fidando sé nel suo propio valore
contr'a l'usato ardore:
s'a la memoria sol resta l'orecchio,
non giova, senza grazia, l'esser vecchio.

264

    Come portato ho già più tempo in seno
l'immagin, donna, del tuo volto impressa,
or che morte s'appressa,
con previlegio Amor ne stampi l'alma,
che del carcer terreno
felice sie 'l dipor suo grieve salma.
    Per procella o per calma
con tal segno sicura,
sie come croce contro a' suo avversari;
e donde in ciel ti rubò la natura
ritorni, norma agli angeli alti e chiari,
c'a rinnovar s'impari
là sù pel mondo un spirto in carne involto,
che dopo te gli resti il tuo bel volto.

265

    Per non s'avere a ripigliar da tanti
quell'insieme beltà che più non era,
in donna alta e sincera
prestata fu sott'un candido velo,
c'a riscuoter da quanti
al mondo son, mal si rimborsa il cielo.
    Ora in un breve anelo,
anzi in un punto, Iddio
dal mondo poco accorto
se l'ha ripresa, e tolta agli occhi nostri.
    Né metter può in oblio,
benché 'l corpo sie morto,
i suo dolci, leggiadri e sacri inchiostri.
    Crudel pietà, qui mostri,
se quanto a questa il ciel prestava a' brutti,
s'or per morte il rivuol, morremo or tutti.

266

    Qual meraviglia è, se prossim'al foco
mi strussi e arsi, se or ch'egli è spento
di fuor, m'affligge e mi consuma drento,
e 'n cener mi riduce a poco a poco?
    Vedea ardendo sì lucente il loco
onde pendea il mio greve tormento,
che sol la vista mi facea contento,
e morte e strazi m'eran festa e gioco.
    Ma po' che del gran foco lo splendore
che m'ardeva e nutriva, il ciel m'invola,
un carbon resto acceso e ricoperto.
    E s'altre legne non mi porge amore
che lievin fiamma, una favilla sola
non fie di me, sì 'n cener mi converto.

267

    I' sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua pover e solo,
come spirto legato in un'ampolla:
e la mia scura tomba è picciol volo,
dov'è Aragn' e mill'opre e lavoranti,
e fan di lor filando fusaiuolo.
    D'intorn'a l'uscio ho mete di giganti,
ché chi mangi'uva o ha presa medicina
non vanno altrove a cacar tutti quanti.
    I' ho 'mparato a conoscer l'orina
e la cannella ond'esce, per quei fessi
che 'nanzi dì mi chiamon la mattina.
    Gatti, carogne, canterelli o cessi,
chi n'ha per masserizi' o men vïaggio
non vien a vicitarmi mai senz'essi.
    L'anima mia dal corpo ha tal vantaggio,
che se stasat' allentasse l'odore,
seco non la terre' 'l pan e 'l formaggio.
    La toss' e 'l freddo il tien sol che non more;
se la non esce per l'uscio di sotto,
per bocca il fiato a pen' uscir può fore.
    Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l'osteria
è morte, dov'io viv' e mangio a scotto.
    La mia allegrezz' è la maninconia,
e 'l mio riposo son questi disagi:
che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.
    Chi mi vedess' a la festa de' Magi
sarebbe buono; e più, se la mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.
    Fiamma d'amor nel cor non m'è rimasa;
se 'l maggior caccia sempre il minor duolo,
di penne l'alma ho ben tarpata e rasa.
    Io tengo un calabron in un orciuolo,
in un sacco di cuoio ossa e capresti,
tre pilole di pece in un bocciuolo.
    Gli occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di stormento
c'al moto lor la voce suoni e resti.
    La faccia mia ha forma di spavento;
i panni da cacciar, senz'altro telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.
    Mi cova in un orecchio un ragnatelo,
ne l'altro canta un grillo tutta notte;
né dormo e russ' al catarroso anelo.
    Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a' cemboli, a' cartocci,
agli osti, a' cessi, a' chiassi son condotte.
    Che giova voler far tanti bambocci,
se m'han condotto al fin, come colui
che passò 'l mar e poi affogò ne' mocci?
    L'arte pregiata, ov'alcun tempo fui
di tant'opinïon, mi rec'a questo,
povero, vecchio e servo in forz'altrui,
    ch'i' son disfatto, s'i' non muoio presto.

268

    Perché l'età ne 'nvola
il desir cieco e sordo,
con la morte m'accordo,
stanco e vicino all'ultima parola.
    L'alma che teme e cola
quel che l'occhio non vede,
come da cosa perigliosa e vaga,
dal tuo bel volto, donna, m'allontana.
    Amor, c'al ver non cede,
di nuovo il cor m'appaga
di foco e speme; e non già cosa umana
mi par, mi dice, amar...

269

    Or d'un fier ghiaccio, or d'un ardente foco,
or d'anni o guai, or di vergogna armato,
l'avvenir nel passato
specchio con trista e dolorosa speme;
e 'l ben, per durar poco,
sento non men che 'l mal m'affligge e preme.
    Alla buona, alla rie fortuna insieme,
di me già stanche, ognor chieggio perdono:
e veggio ben che della vita sono
ventura e grazia l'ore brieve e corte,
se la miseria medica la morte.

270

    Tu mi da' di quel c'ognor t'avanza
e vuo' da me le cose che non sono.

271

    Di te con teco, Amor, molt'anni sono
nutrito ho l'alma e, se non tutto, in parte
il corpo ancora; e con mirabil arte
con la speme il desir m'ha fatto buono.
    Or, lasso, alzo il pensier con l'alie e sprono
me stesso in più sicura e nobil parte.
    Le tuo promesse indarno delle carte
e del tuo onor, di che piango e ragiono,
. . . . . . . .

272

    Tornami al tempo, allor che lenta e sciolta
al cieco ardor m'era la briglia e 'l freno;
rendimi il volto angelico e sereno
onde fu seco ogni virtù sepolta,
    e ' passi spessi e con fatica molta,
che son sì lenti a chi è d'anni pieno;
tornami l'acqua e 'l foco in mezzo 'l seno,
se vuo' di me saziarti un'altra volta.
    E s'egli è pur, Amor, che tu sol viva
de' dolci amari pianti de' mortali,
d'un vecchio stanco oma' puo' goder poco;
    ché l'alma, quasi giunta a l'altra riva,
fa scudo a' tuo di più pietosi strali:
e d'un legn'arso fa vil pruova il foco.

273

    Se sempre è solo e un quel che sol muove
il tutto per altezza e per traverso,
non sempre a no' si mostra per un verso,
ma più e men quante suo grazia piove.
    A me d'un modo e d'altri in ogni altrove:
più e men chiaro o più lucente e terso,
secondo l'egritudin, che disperso
ha l'intelletto a le divine pruove.
    Nel cor ch'è più capace più s'appiglia,
se dir si può, 'l suo volto e 'l suo valore;
e di quel fassi sol guida e lucerna.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
truova conforme a la suo parte interna.

274

    Deh fammiti vedere in ogni loco!
    Se da mortal bellezza arder mi sento,
appresso al tuo mi sarà foco ispento,
e io nel tuo sarò, com'ero, in foco.
    Signor mie caro, i' te sol chiamo e 'nvoco
contr'a l'inutil mie cieco tormento:
tu sol puo' rinnovarmi fuora e drento
le voglie e 'l senno e 'l valor lento e poco.
    Tu desti al tempo, Amor, quest'alma diva
e 'n questa spoglia ancor fragil e stanca
l'incarcerasti, e con fiero destino.
    Che poss'io altro che così non viva?
    Ogni ben senza te, Signor, mi manca;
il cangiar sorte è sol poter divino.

275

    Dagli alti monti e d'una gran ruina,
ascoso e circunscritto d'un gran sasso,
discesi a discoprirmi in questo basso,
contr'a mie voglia, in tal lapedicina.
    Quand'el sol nacqui, e da chi il ciel destina,
. . . . . . . . . . . .

276

    Passa per gli occhi al core in un momento
qualunche obbietto di beltà lor sia,
e per sì larga e sì capace via
c'a mille non si chiude, non c'a cento,
    d'ogni età, d'ogni sesso; ond'io pavento,
carco d'affanni, e più di gelosia;
né fra sì vari volti so qual sia
c'anzi morte mi die 'ntero contento.
    S'un ardente desir mortal bellezza
ferma del tutto, non discese insieme
dal ciel con l'alma; è dunche umana voglia.
    Ma se pass'oltre, Amor, tuo nome sprezza,
c'altro die cerca; e di quel più non teme
c'a lato vien contr'a sì bassa spoglia.

0277

     Se con lo stile o coi colori avete
alla natura pareggiato l'arte,
anzi a quella scemato il pregio in parte,
che 'l bel di lei più bello a noi rendete,
    poi che con dotta man posto vi sete
a più degno lavoro, a vergar carte,
quel che vi manca, a lei di pregio in parte,
nel dar vita ad altrui, tutta togliete.
    Che se secolo alcuno omai contese
in far bell'opre, almen cedale, poi
che convien c'al prescritto fine arrive.
    Or le memorie altrui, già spente, accese
tornando, fate or che fien quelle e voi
malgrado d'esse, etternalmente vive.

278

    Chi non vuol delle foglie
non ci venga di maggio.

279

    La forza d'un bel viso a che mi sprona?
    C'altro non è c'al mondo mi diletti:
ascender vivo fra gli spirti eletti
per grazia tal, c'ogni altra par men buona.
    Se ben col fattor l'opra suo consuona,
che colpa vuol giustizia ch'io n'aspetti,
s'i' amo, anz'ardo, e per divin concetti
onoro e stimo ogni gentil persona?

280

    L'alma inquieta e confusa in sé non truova
altra cagion c'alcun grave peccato
mal conosciuto, onde non è celato
all'immensa pietà c'a' miser giova.
    I' parlo a te, Signor, c'ogni mie pruova
fuor del tuo sangue non fa l'uom beato:
miserere di me, da ch'io son nato
a la tuo legge; e non fie cosa nuova.

281

    Arder sole' nel freddo ghiaccio il foco;
or m'è l'ardente foco un freddo ghiaccio,
disciolto, Amor, quello insolubil laccio,
e morte or m'è, che m'era festa e gioco.
    Quel primo amor che ne diè tempo e loco,
nella strema miseria è greve impaccio
a l'alma stanca...

282

    Con tanta servitù, con tanto tedio
e con falsi concetti e gran periglio
dell'alma, a sculpir qui cose divine.

283

    Non può, Signor mie car, la fresca e verde
età sentir, quant'a l'ultimo passo
si cangia gusto, amor, voglie e pensieri.
    Più l'alma acquista ove più 'l mondo perde;
l'arte e la morte non va bene insieme:
che convien più che di me dunche speri?

284

    S'a tuo nome ho concetto alcuno immago,
non è senza del par seco la morte,
onde l'arte e l'ingegno si dilegua.
    Ma se, quel c'alcun crede, i' pur m'appago
che si ritorni a viver, a tal sorte
ti servirò, s'avvien che l'arte segua.

285

    Giunto è già 'l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov'a render si varca
conto e ragion d'ogni opra trista e pia.
    Onde l'affettüosa fantasia
che l'arte mi fece idol e monarca
conosco or ben com'era d'error carca
e quel c'a mal suo grado ogn'uom desia.
    Gli amorosi pensier, già vani e lieti,
che fien or, s'a duo morte m'avvicino?
    D'una so 'l certo, e l'altra mi minaccia.
    Né pinger né scolpir fie più che quieti
l'anima, volta a quell'amor divino
c'aperse, a prender noi, 'n croce le braccia.

286

    Gl'infiniti pensier mie d'error pieni,
negli ultim'anni della vita mia,
ristringer si dovrien 'n un sol che sia
guida agli etterni suo giorni sereni.
    Ma che poss'io, Signor, s'a me non vieni
coll'usata ineffabil cortesia?

287

    Di giorno in giorno insin da' mie prim'anni,
Signor, soccorso tu mi fusti e guida,
onde l'anima mia ancor si fida
di doppia aita ne' mie doppi affanni.

288

    Le favole del mondo m'hanno tolto
il tempo dato a contemplare Iddio,
né sol le grazie suo poste in oblio,
ma con lor, più che senza, a peccar volto.
    Quel c'altri saggio, me fa cieco e stolto
e tardi a riconoscer l'error mio;
manca la speme, e pur cresce il desio
che da te sia dal propio amor disciolto.
    Ammezzami la strada c'al ciel sale,
Signor mie caro, e a quel mezzo solo
salir m'è di bisogno la tuo 'ita.
    Mettimi in odio quante 'l mondo vale
e quante suo bellezze onoro e colo,
c'anzi morte caparri eterna vita.

289

    Non è più bassa o vil cosa terrena
che quel che, senza te, mi sento e sono,
onde a l'alto desir chiede perdono
la debile mie propia e stanca lena.
    Deh, porgi, Signor mio, quella catena
che seco annoda ogni celeste dono:
la fede, dico, a che mi stringo e sprono;
né, mie colpa, n'ho grazia intiera e piena.
    Tanto mi fie maggior, quante più raro
il don de' doni, e maggior fia se, senza,
pace e contento il mondo in sé non have.
    Po' che non fusti del tuo sangue avaro,
che sarà di tal don la tuo clemenza,
se 'l ciel non s'apre a noi con altra chiave?

290

    Scarco d'un'importuna e greve salma,
Signor mie caro, e dal mondo disciolto,
qual fragil legno a te stanco rivolto
da l'orribil procella in dolce calma.
    Le spine e ' chiodi e l'una e l'altra palma
col tuo benigno umil pietoso volto
prometton grazia di pentirsi molto,
e speme di salute a la trist'alma.
    Non mirin co' iustizia i tuo sant'occhi
il mie passato, e 'l gastigato orecchio;
non tenda a quello il tuo braccio severo.
    Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,
e più abondi, quant'i' son più vecchio,
di pronta aita e di perdono intero.

291

    Penso e ben so c'alcuna colpa preme,
occulta a me, lo spirto in gran martire;
privo dal senso e dal suo propio ardire
il cor di pace, e 'l desir d'ogni speme.
    Ma chi è teco, Amor, che cosa teme
che grazia allenti inanzi al suo partire?

292

    Ben sarien dolce le preghiere mie,
se virtù mi prestassi da pregarte:
nel mio fragil terren non è già parte
da frutto buon, che da sé nato sie.
    Tu sol se' seme d'opre caste e pie,
che là germuglian, dove ne fa' parte;
nessun propio valor può seguitarte,
se non gli mostri le tuo sante vie.

293

    Carico d'anni e di peccati pieno
e col trist'uso radicato e forte,
vicin mi veggio a l'una e l'altra morte,
e parte 'l cor nutrisco di veleno.
    Né propie forze ho, c'al bisogno sièno
per cangiar vita, amor, costume o sorte,
senza le tuo divine e chiare scorte,
d'ogni fallace corso guida e freno.
    Signor mie car, non basta che m'invogli
c'aspiri al ciel sol perché l'alma sia,
non come prima, di nulla, creata.
    Anzi che del mortal la privi e spogli,
prego m'ammezzi l'alta e erta via,
e fie più chiara e certa la tornata.

294

    Mentre m'attrista e duol, parte m'è caro
ciascun pensier c'a memoria mi riede
il tempo andato, e che ragion mi chiede
de' giorni persi, onde non è riparo.
    Caro m'è sol, perc'anzi morte imparo
quant'ogni uman diletto ha corta fede;
tristo m'è, c'a trovar grazi' e mercede
negli ultim'anni a molte colpe è raro.
    Ché ben c'alle promesse tua s'attenda,
sperar forse, Signore, è troppo ardire
c'ogni superchio indugio amor perdoni.
    Ma pur par nel tuo sangue si comprenda,
se per noi par non ebbe il tuo martire,
senza misura sien tuo cari doni.

295

    Di morte certo, ma non già dell'ora,
la vita è breve e poco me n'avanza;
diletta al senso, è non però la stanza
a l'alma, che mi prega pur ch'i' mora.
    Il mondo è cieco e 'l tristo esempro ancora
vince e sommerge ogni prefetta usanza;
spent'è la luce e seco ogni baldanza,
trionfa il falso e 'l ver non surge fora.
    Deh, quando fie, Signor, quel che s'aspetta
per chi ti crede? c'ogni troppo indugio
tronca la speme e l'alma fa mortale.
    Che val che tanto lume altrui prometta,
s'anzi vien morte, e senza alcun refugio
ferma per sempre in che stato altri assale?

296

    S'avvien che spesso il gran desir prometta
a' mie tant'anni di molt'anni ancora,
non fa che morte non s'appressi ognora,
e là dove men duol manco s'affretta.
    A che più vita per gioir s'aspetta,
se sol nella miseria Iddio s'adora?
    Lieta fortuna, e con lunga dimora,
tanto più nuoce quante più diletta.
    E se talor, tuo grazia, il cor m'assale,
Signor mie caro, quell'ardente zelo
che l'anima conforta e rassicura,
    da che 'l propio valor nulla mi vale,
subito allor sarie da girne al cielo:
ché con più tempo il buon voler men dura.

297

    Se lungo spazio del trist'uso e folle
più temp'il suo contrario a purgar chiede,
la morte già vicina nol concede,
né freno il mal voler da quel ch'e' volle.

298

    Non fur men lieti che turbati e tristi
che tu patissi, e non già lor, la morte,
gli spirti eletti, onde le chiuse porte
del ciel, di terra a l'uom col sangue apristi.
    Lieti, poiché, creato, il redemisti
dal primo error di suo misera sorte;
tristi, a sentir c'a la pena aspra e forte,
servo de' servi in croce divenisti.
    Onde e chi fusti, il ciel ne diè tal segno
che scurò gli occhi suoi, la terra aperse,
tremorno i monti e torbide fur l'acque.
    Tolse i gran Padri al tenebroso regno,
gli angeli brutti in più doglia sommerse;
godé sol l'uom, c'al battesmo rinacque.

299

    Al zucchero, a la mula, a le candele,
aggiuntovi un fiascon di malvagia,
resta sì vinta ogni fortuna mia,
ch'i' rendo le bilance a san Michele.
    Troppa bonaccia sgonfia sì le vele,
che senza vento in mar perde la via
la debil mie barca, e par che sia
una festuca in mar rozz'e crudele.
    A rispetto a la grazia e al gran dono,
al cib', al poto e a l'andar sovente
c'a ogni mi' bisogno è caro e buono,
    Signor mie car, ben vi sare' nïente
per merto a darvi tutto quel ch'i' sono:
ché 'l debito pagar non è presente.

300

    Per croce e grazia e per diverse pene
son certo, monsignor, trovarci in cielo;
ma prima c'a l'estremo ultimo anelo,
goderci in terra mi parria pur bene.
    Se l'aspra via coi monti e co 'l mar tiene
l'un da l'altro lontan, lo spirto e 'l zelo
non cura intoppi o di neve o di gelo,
né l'alia del pensier lacci o catene.
    Ond'io con esso son sempre con voi,
e piango e parlo del mio morto Urbino,
che vivo or forse saria costà meco,
    com'ebbi già in pensier. Sua morte poi
m'affretta e tira per altro cammino,
dove m'aspetta ad albergar con seco.

301

    Di più cose s'attristan gli occhi mei,
e 'l cor di tante quant'al mondo sono;
se 'l tuo di te cortese e caro dono
non fussi, della vita che farei?
    Del mie tristo uso e dagli esempli rei,
fra le tenebre folte, dov'i' sono,
spero aita trovar non che perdono,
c'a chi ti mostri, tal prometter dei.

302

    Non più per altro da me stesso togli
l'amor, gli affetti perigliosi e vani,
che per fortuna avversa o casi strani,
ond'e' tuo amici dal mondo disciogli,
    Signor mie car, tu sol che vesti e spogli,
e col tuo sangue l'alme purghi e sani
da l'infinite colpe e moti umani,
. . . . . . . . . . . .