Buonarroti Michelangelo
RIME
Molti
anni fassi qual felice, in una
brevissima ora si lamenta e dole;
o
per famosa o per antica prole
altri s'inlustra, e 'n un momento
imbruna.
Cosa
mobil non è che sotto el sole
non vinca morte e cangi la
fortuna.
Sol
io ardendo all'ombra mi rimango,
quand'el sol de' suo razzi el
mondo spoglia:
ogni altro per piacere, e io per doglia,
prostrato
in terra, mi lamento e piango.
Grato
e felice, a' tuo feroci mali
ostare e vincer mi fu già
concesso;
or lasso, il petto vo bagnando spesso
contr'a mie
voglia, e so quante tu vali.
E se i
dannosi e preteriti strali
al segno del mie cor non fur ma'
presso,
or puoi a colpi vendicar te stesso
di que' begli occhi,
e fien tutti mortali.
Da quanti lacci
ancor, da quante rete
vago uccelletto per maligna sorte
campa
molt'anni per morir po' peggio,
tal di me,
donne, Amor, come vedete,
per darmi in questa età più
crudel morte,
campato m'ha gran tempo, come veggio.
Quanto
si gode, lieta e ben contesta
di fior sopra ' crin d'or d'una,
grillanda,
che l'altro inanzi l'uno all'altro manda,
come ch'il
primo sia a baciar la testa!
Contenta è
tutto il giorno quella vesta
che serra 'l petto e poi par che si
spanda,
e quel c'oro filato si domanda
le guanci' e 'l collo di
toccar non resta.
Ma più lieto quel
nastro par che goda,
dorato in punta, con sì fatte
tempre
che preme e tocca il petto ch'egli allaccia.
E
la schietta cintura che s'annoda
mi par dir seco: qui vo' stringer
sempre.
Or che farebbon dunche le mie
braccia?
I' ho già fatto un gozzo in questo stento,
coma fa l'acqua
a' gatti in Lombardia
o ver d'altro paese che si sia,
c'a forza
'l ventre appicca sotto 'l mento.
La barba
al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e 'l petto fo
d'arpia,
e 'l pennel sopra 'l viso tuttavia
mel fa, gocciando,
un ricco pavimento.
E' lombi entrati mi
son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e ' passi
senza gli occhi muovo invano.
Dinanzi mi
s'allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e
tendomi com'arco sorïano.
Però
fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché
mal si tra' per cerbottana torta.
La mia
pittura morta
difendi orma', Giovanni, e 'l mio onore,
non
sendo in loco bon, né io pittore.
Signor, se vero è alcun proverbio antico,
questo è
ben quel, che chi può mai non vuole.
Tu
hai creduto a favole e parole
e premiato chi è del ver
nimico.
I' sono e fui già tuo buon
servo antico,
a te son dato come e' raggi al sole,
e del mie
tempo non ti incresce o dole,
e men ti piaccio se più
m'affatico.
Già sperai ascender per
la tua altezza,
e 'l giusto peso e la potente spada
fussi al
bisogno, e non la voce d'ecco.
Ma 'l cielo
è quel c'ogni virtù disprezza
locarla al mondo, se
vuol c'altri vada
a prender frutto d'un arbor ch'è secco.
Chi
è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè,
oilmè,
legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se
tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m'hai
raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?
Come
può esser ch'io non sia più mio?
O
Dio, o Dio, o Dio,
chi m'ha tolto a me stesso,
c'a me fusse più
presso
o più di me potessi che poss'io?
O
Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi
tocchi?
Che cosa è questo,
Amore,
c'al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro
par che cresca?
E s'avvien che trabocchi?
Colui
che 'l tutto fe', fece ogni parte
e poi del tutto la più
bella scelse,
per mostrar quivi le suo cose eccelse,
com'ha
fatto or colla sua divin'arte.
Qua
si fa elmi di calici e spade
e 'l sangue di Cristo si vend'a
giumelle,
e croce e spine son lance e rotelle,
e pur da Cristo
pazïenzia cade.
Ma non ci arrivi più
'n queste contrade,
ché n'andre' 'l sangue suo 'nsin alle
stelle,
poscia c'a Roma gli vendon la pelle,
e ècci
d'ogni ben chiuso le strade.
S'i' ebbi ma'
voglia a perder tesauro,
per ciò che qua opra da me è
partita,
può quel nel manto che Medusa in Mauro;
ma
se alto in cielo è povertà gradita,
qual fia di
nostro stato il gran restauro,
s'un altro segno ammorza l'altra
vita?
Quanto
sare' men doglia il morir presto
che provar mille morte ad ora ad
ora,
da ch'in cambio d'amarla, vuol ch'io mora!
Ahi,
che doglia 'nfinita
sente 'l mio cor, quando li torna a mente
che
quella ch'io tant'amo amor non sente!
Come
resterò 'n vita?
Anzi mi dice, per
più doglia darmi,
che se stessa non ama: e vero
parmi.
Come posso sperar di me le
dolga,
se se stessa non ama? Ahi trista sorte!
Che
fia pur ver, ch'io ne trarrò la morte?
Com'arò
dunche ardire
senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n vita,
s'io non
posso al partir chiedervi aita?
Que' singulti e que' pianti e que' sospiri
che 'l miser core voi
accompagnorno,
madonna, duramente dimostrorno
la mia propinqua
morte e ' miei martiri.
Ma se ver è che per assenzia mai
mia fedel servitù
vadia in oblio,
il cor lasso con voi, che non è mio.
La
fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né inanzi né
indietro, perché son morti, e el loro operare è
fermo.
El
Dì e la Notte parlano, e dicono:
Noi abbiàno col
nostro veloce corso condotto
alla morte el duca Giuliano; è
ben giusto
che e' ne facci vendetta come fa.
E la vendetta è questa: che avendo noi
morto lui, lui così
morto ha tolta la luce a noi
e cogli occhi chiusi ha serrato e'
nostri,
che non risplendon più sopra la terra.
Che arrebbe di noi dunche fatto, mentre vivea?
Di
te me veggo e di lontan mi chiamo
per appressarm'al ciel dond'io
derivo,
e per le spezie all'esca a te arrivo,
come pesce per
fil tirato all'amo.
E perc'un cor fra dua
fa picciol segno
di vita, a te s'è dato ambo le
parti;
ond'io resto, tu 'l sai, quant'io son, poco.
E
perc'un'alma infra duo va 'l più degno,
m'è forza,
s'i' voglio esser, sempre amarti;
ch'i' son sol legno, e tu se'
legno e foco.
D'un
oggetto leggiadro e pellegrino,
d'un fonte di pietà nasce
'l mie male.
Crudele,
acerbo e dispietato core,
vestito di dolcezza e d'amar pieno,
tuo
fede al tempo nasce, e dura meno
c'al dolce verno non fa ciascun
fiore.
Muovesi 'l tempo, e compartisce
l'ore
al viver nostr'un pessimo veneno;
lu' come falce e no'
siàn come fieno,
. . . . . . . . . . . . . .
La
fede è corta e la beltà non dura,
ma di par seco par
che si consumi,
come 'l peccato tuo vuol de' mie danni.
. . . .
. . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
sempre fra noi
fare' con tutti gli anni.
Mille
rimedi invan l'anima tenta:
poi ch'i' fu' preso alla prestina
strada,
di ritornare endarno s'argomenta.
Il
mare e 'l monte e 'l foco colla spada:
in mezzo a questi tutti
insieme vivo.
Al monte non mi lascia chi
m'ha privo
dell'intelletto e tolto la ragione.
Natura ogni
valore
di donna o di donzella
fatto ha per imparare, insino a
quella
c'oggi in un punto m'arde e ghiaccia el core.
Dunche
nel mie dolore
non fu tristo uom più mai;
l'angoscia e
'l pianto e ' guai,
a più forte cagion maggiore
effetto.
Così po' nel diletto
non
fu né fie di me nessun più lieto.
Tu
ha' 'l viso più dolce che la sapa,
e passato vi par sù
la lumaca,
tanto ben lustra, e più bel c'una rapa;
e'
denti bianchi come pastinaca,
in modo tal che invaghiresti 'l
papa;
e gli occhi del color dell'utriaca;
e' cape' bianchi e
biondi più che porri:
ond'io morrò, se tu non mi
soccorri.
La tua bellezza par molto più
bella
che uomo che dipinto in chiesa sia:
la bocca tua mi par
una scarsella
di fagiuo' piena, si com'è la mia;
le
ciglia paion tinte alla padella
e torte più c'un arco di
Sorìa;
le gote ha' rosse e bianche, quando stacci,
come
fra cacio fresco e' rosolacci.
Quand'io ti
veggo, in su ciascuna poppa
mi paion duo cocomer in un
sacco,
ond'io m'accendo tutto come stoppa,
bench'io sia dalla
zappa rotto e stracco.
Pensa: s'avessi
ancor la bella coppa,
ti seguirrei fra l'altre me' c'un
bracco;
dunche s'i massi aver fussi possibile,
io fare' oggi
qui cose incredibile.
Chiunche
nasce a morte arriva
nel fuggir del tempo; e 'l sole
niuna cosa
lascia viva.
Manca il dolce e quel che dole
e gl'ingegni e le
parole;
e le nostre antiche prole
al sole ombre, al vento un
fummo.
Come voi uomini fummo,
lieti e
tristi, come siete;
e or siàn, come vedete,
terra al
sol, di vita priva.
Ogni cosa a morte
arriva.
Già fur gli occhi nostri
interi
con la luce in ogni speco;
or son voti, orrendi e
neri,
e ciò porta il tempo seco.
Che fie di
me? che vo' tu far di nuovo
d'un arso legno e d'un afflitto
core?
Dimmelo un poco, Amore,
acciò
che io sappi in che stato io mi truovo.
Gli
anni del corso mio al segno sono,
come saetta c'al berzaglio è
giunta,
onde si de' quetar l'ardente foco.
E'
mie passati danni a te perdono,
cagion che 'l cor l'arme tu'
spezza e spunta,
c'amor per pruova in me non ha più loco;
e
s'e' tuo colpi fussin nuovo gioco
agli occhi mei, al cor timido e
molle,
vorria quel che già volle?
Ond'or
ti vince e sprezza, e tu tel sai,
sol per aver men forza oggi che
mai.
Tu speri forse per nuova
beltate
tornarmi 'ndietro al periglioso impaccio,
ove 'l più
saggio assai men si difende:
più corto è 'l mal
nella più lunga etate
ond'io sarò come nel foco el
ghiaccio,
che si distrugge e parte e non s'accende.
La
morte in questa età sol ne difende
dal fiero braccio e da'
pungenti strali,
cagion di tanti mali,
che non perdona a
condizion nessuna,
né a loco, né tempo, né
fortuna.
L'anima mia, che con la morte
parla,
e seco di se stessa si consiglia,
e di nuovi sospetti
ognor s'attrista,
el corpo di dì in dì spera
lasciarla:
onde l'immaginato cammin piglia,
di speranza e timor
confusa e mista.
Ahi, Amor, come se'
pronto in vista,
temerario, audace, armato e forte!
che
e' pensier della morte
nel tempo suo di me discacci fori,
per
trar d'un arbor secco fronde e fiori.
Che
poss'io più? che debb'io? Nel tuo regno
non ha' tu tutto el
tempo mio passato,
che de' mia anni un'ora non m'è
tocca?
Qual inganno, qual forza o qual
ingegno
tornar mi puote a te, signore ingrato,
c'al cuor la
morte e pietà porti in bocca?
Ben
sare' ingrata e sciocca
l'alma risuscitata, e senza stima,
tornare
a quel che gli diè morte prima.
Ogni
nato la terra in breve aspetta;
d'ora in or manca ogni mortal
bellezza:
chi ama, il vedo, e' non si può po'
sciorre.
Col gran peccato la crudel
vendetta
insieme vanno; e quel che men s'apprezza,
colui è
sol c'a più suo mal più corre.
A
che mi vuo' tu porre,
che 'l dì ultimo buon, che mi
bisogna,
sie quel del danno e quel della vergogna?
I'
fu', già son molt'anni, mille volte
ferito e morto, non che
vinto e stanco
da te, mie colpa; e or col capo bianco
riprenderò
le tuo promesse stolte?
Quante volte ha'
legate e quante sciolte
le triste membra, e sì spronato il
fianco,
c'appena posso ritornar meco, anco
bagnando il petto
con lacrime molte!
Di te mi dolgo, Amor,
con teco parlo,
sciolto da' tuo lusinghi: a che bisogna
prender
l'arco crudel, tirare a voto?
Al legno
incenerato sega o tarlo,
o dietro a un correndo, è gran
vergogna
c'ha perso e ferma ogni destrezza e moto.
I'
fe' degli occhi porta al mie veneno,
quand' el passo dier libero
a' fier dardi;
nido e ricetto fe' de' dolci sguardi
della
memoria che ma' verrà meno.
Ancudine
fe' 'l cor, mantaco 'l seno
da fabricar sospir, con che tu m'ardi.
Quand'il
servo il signor d'aspra catena
senz'altra speme in carcer tien
legato,
volge in tal uso el suo misero stato,
che libertà
domanderebbe appena.
E el tigre e 'l serpe
ancor l'uso raffrena,
e 'l fier leon ne' folti boschi nato;
e
'l nuovo artista, all'opre affaticato,
coll'uso del sudor doppia
suo lena.
Ma 'l foco a tal figura non
s'unisce;
ché se l'umor d'un verde legno estinge,
il
freddo vecchio scalda e po' 'l nutrisce,
e tanto il torna in verde
etate e spinge,
rinnuova e 'nfiamma, allegra e
'ngiovanisce,
c'amor col fiato l'alma e 'l cor gli cinge.
E
se motteggia o finge,
chi dice in vecchia etate esser
vergogna
amar cosa divina, è gran menzogna.
L'anima
che non sogna,
non pecca amar le cose di natura,
usando peso,
termine e misura.
Quand'avvien
c'alcun legno non difenda
il propio umor fuor del terreste
loco,
non può far c'al gran caldo assai o poco
non si
secchi o non s'arda o non s'accenda.
Così
'l cor, tolto da chi mai mel renda,
vissuto in pianto e nutrito di
foco,
or ch'è fuor del suo propio albergo e loco,
qual
mal fie che per morte non l'offenda?
Fuggite,
amanti, Amor, fuggite 'l foco;
l'incendio è aspro e la
piaga è mortale,
c'oltr'a l'impeto primo più non
vale
né forza né ragion né mutar
loco.
Fuggite, or che l'esemplo non è
poco
d'un fiero braccio e d'un acuto strale;
leggete in me,
qual sarà 'l vostro male,
qual sarà l'impio e
dispietato gioco.
Fuggite, e non tardate,
al primo sguardo:
ch'i' pensa' d'ogni tempo avere accordo;
or
sento, e voi vedete, com'io ardo.
Perché
pur d'ora in ora mi lusinga
la memoria degli occhi e la
speranza,
per cui non sol son vivo, ma beato;
la forza e la
ragion par che ne stringa,
Amor, natura e la mie 'ntica
usanza,
mirarvi tutto il tempo che m'è dato.
E
s'i' cangiassi stato,
vivendo in questo, in quell'altro morrei;
né
pietà troverei
ove non fussin quegli.
O
Dio, e' son pur begli!
Chi non ne vive non è nato ancora;
e
se verrà dipoi,
a dirlo qui tra noi,
forz'è che,
nato, di subito mora;
ché chi non s'innamora
de' begli
occhi, non vive.
Ogn'ira,
ogni miseria e ogni forza,
chi d'amor s'arma vince ogni fortuna.
Dagli
occhi del mie ben si parte e vola
un raggio ardente e di sì
chiara luce
che da' mie, chiusi ancor, trapassa 'l core.
Onde
va zoppo Amore,
tant'è dispar la soma che conduce,
dando
a me luce, e tenebre m'invola.
Amor
non già, ma gli occhi mei son quegli
che ne' tuo soli e
begli
e vita e morte intera trovato hanno.
Tante
meno m'offende e preme 'l danno,
più mi distrugge e
cuoce;
dall'altra ancor mi nuoce
tante amor più quante
più grazia truovo.
Mentre ch'io
penso e pruovo
il male, el ben mi cresce in un momento.
O
nuovo e stran tormento!
Però non mi
sgomento:
s'aver miseria e stento
è dolce qua dove non è
ma' bene,
vo cercando 'l dolor con maggior pene.
Vivo
al peccato, a me morendo vivo;
vita già mia non son, ma del
peccato:
mie ben dal ciel, mie mal da me m'è dato,
dal
mie sciolto voler, di ch'io son privo.
Serva
mie libertà, mortal mie divo
a me s'è fatto. O
infelice stato!
a che miseria, a che viver
son nato!
Sie
pur, fuor di mie propie, c'ogni altr'arme
difender par ogni mie
cara cosa;
altra spada, altra lancia e altro scudo
fuor delle
propie forze non son nulla,
tant'è la trista usanza, che
m'ha tolta
la grazia che 'l ciel piove in ogni loco.
Qual
vecchio serpe per istretto loco
passar poss'io, lasciando le
vecchie arme,
e dal costume rinnovata e tolta
sie l'alma in
vita e d'ogni umana cosa,
coprendo sé con più sicuro
scudo,
ché tutto el mondo a morte è men che
nulla.
Amore, i' sento già di me
far nulla;
natura del peccat' è 'n ogni loco.
Spoglia
di me me stesso, e col tuo scudo,
colla pietra e tuo vere e dolci
arme,
difendimi da me, c'ogni altra cosa
è come non
istata, in brieve tolta.
Mentre c'al corpo
l'alma non è tolta,
Signor, che l'universo puo' far
nulla,
fattor, governator, re d'ogni cosa,
poco ti fie aver
dentr'a me loco;
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
che
d'ogn' uomo veril son le vere arme,
senza le quali ogn' uom
diventa nulla.
La
vita del mie amor non è 'l cor mio,
c'amor di quel ch'i'
t'amo è senza core;
dov'è cosa mortal, piena
d'errore,
esser non può già ma', nè pensier
rio.
Amor nel dipartir l'alma da Dio
me
fe' san occhio e te luc' e splendore;
nè può non
rivederlo in quel che more
di te, per nostro mal, mie gran
desio.
Come dal foco el caldo, esser
diviso
non può dal bell'etterno ogni mie stima,
ch'exalta,
ond'ella vien, chi più 'l somiglia.
Poi
che negli occhi ha' tutto 'l paradiso,
per ritornar là
dov'i' t'ama' prima,
ricorro ardendo sott'alle tuo ciglia.
El
ciglio col color non fere el volto
col suo contrar, che l'occhio
non ha pena
da l'uno all'altro stremo ov'egli è
volto.
L'occhio, che sotto intorno adagio
mena,
picciola parte di gran palla scuopre,
che men rilieva suo
vista serena,
e manco sale e scende quand'
el copre;
onde più corte son le suo palpebre,
che manco
grinze fan quando l'aopre.
El bianco
bianco, el ner più che funebre,
s'esser può, el
giallo po' più leonino,
che scala fa dall'una all'altra
vebre.
Pur tocchi sotto e sopra el suo
confino,
e 'l giallo e 'l nero e 'l bianco non circundi.
Oltre
qui fu, dove 'l mie amor mi tolse,
suo mercè, il core e vie
più là la vita;
qui co' begli occhi mi promisse
aita,
e co' medesmi qui tor me la volse.
Quinci
oltre mi legò, quivi mi sciolse;
per me qui piansi, e con
doglia infinita
da questo sasso vidi far partita
colui c'a me
mi tolse e non mi volse.
In
me la morte, in te la vita mia;
tu distingui e concedi e parti el
tempo;
quante vuo', breve e lungo è 'l viver
mio.
Felice son nella tuo
cortesia.
Beata l'alma, ove non corre
tempo,
per te s'è fatta a contemplare Dio.
Quanta
dolcezza al cor per gli occhi porta
quel che 'n un punto el tempo
e morte fura!
Che è questo però
che mi conforta
e negli affanni cresce e sempre dura.
Amor,
come virtù viva e accorta,
desta gli spirti ed è più
degna cura.
Risponde a me: - Come persona
morta
mena suo vita chi è da me sicura. -
Amore
è un concetto di bellezza
immaginata o vista dentro al
core,
amica di virtute e gentilezza.
Del
fiero colpo e del pungente strale
la medicina era passarmi 'l
core;
ma questo è propio sol del mie signore,
crescer la
vita dove cresce 'l male.
E se 'l primo
suo colpo fu mortale,
seco un messo di par venne d'Amore
che mi
disse: - Ama, anz'ardi; ché chi muore
non ha da gire al
ciel nel mondo altr'ale.
I' son colui che
ne' prim'anni tuoi
gli occhi tuo infermi volsi alla beltate
che
dalla terra al ciel vivo conduce. -
Quand'Amor
lieto al ciel levarmi è volto
cogli occhi di costei, anzi
col sole,
con breve riso ciò che preme e dole
del cor mi
caccia, e mettevi 'l suo volto;
e s'i'
durassi in tale stato molto,
l'alma, che sol di me lagnar si
vole,
avendo seco là dove star suole,
. . . . . . . . .
. .
Spirto
ben nato, in cu' si specchia e vede
nelle tuo belle membra oneste
e care
quante natura e 'l ciel tra no' può fare,
quand'a
null'altra suo bell'opra cede:
spirto
leggiadro, in cui si spera e crede
dentro, come di fuor nel viso
appare,
amor, pietà, mercé, cose sì rare,
che
ma' furn'in beltà con tanta fede:
l'amor
mi prende e la beltà mi lega;
la pietà, la mercé
con dolci sguardi
ferma speranz' al cor par che ne doni.
Qual
uso o qual governo al mondo niega,
qual crudeltà per tempo
o qual più tardi,
c'a sì bell'opra morte non
perdoni?
Dimmi
di grazia, Amor, se gli occhi mei
veggono 'l ver della beltà
c'aspiro,
o s'io l'ho dentro allor che, dov'io miro,
veggio
scolpito el viso di costei.
Tu 'l de'
saper, po' che tu vien con lei
a torm'ogni mie pace, ond'io
m'adiro;
né vorre' manco un minimo sospiro,
né
men ardente foco chiederei.
- La beltà
che tu vedi è ben da quella,
ma cresce poi c'a miglior loco
sale,
se per gli occhi mortali all'alma corre.
Quivi
si fa divina, onesta e bella,
com'a sé simil vuol cosa
immortale:
questa e non quella agli occhi tuo precorre. -
La
ragion meco si lamenta e dole,
parte ch'i' spero amando esser
felice;
con forti esempli e con vere parole
la mie vergogna mi
rammenta e dice:
- Che ne riportera' dal
vivo sole
altro che morte? e non come fenice. -
Ma poco giova,
ché chi cader vuole,
non basta l'altru' man pront' e
vittrice.
I' conosco e' mie danni, e 'l
vero intendo;
dall'altra banda albergo un altro core,
che più
m'uccide dove più m'arrendo.
In
mezzo di duo mort' è 'l mie signore:
questa non voglio e
questa non comprendo:
così sospeso, el corpo e l'alma
muore.
Mentre
c'alla beltà ch'i' vidi in prima
appresso l'alma, che per
gli occhi vede,
l'immagin dentro cresce, e quella cede
quasi
vilmente e senza alcuna stima.
Amor,
c'adopra ogni suo ingegno e lima,
perch'io non tronchi 'l fil
ritorna e riede.
Ben
doverrieno al sospirar mie tanto
esser secco oramai le fonti e '
fiumi,
s'i' non gli rinfrescassi col mie pianto.
Così
talvolta i nostri etterni lumi,
l'un caldo e l'altro freddo ne
ristora,
acciò che 'l mondo più non si
consumi.
E similmente il cor che
s'innamora,
quand'el superchio ardor troppo l'accende,
l'umor
degli occhi il tempra, che non mora.
La
morte e 'l duol, ch'i' bramo e cerco, rende
un contento avenir,
che non mi lassa
morir; ché chi diletta non
offende.
Onde la navicella mie non
passa,
com'io vorrei, a vederti a quella riva
che 'l corpo per
a tempo di qua lassa.
Troppo dolor vuol
pur ch'i' campi e viva,
qual più c'altri veloce andando
vede,
che dopo gli altri al fin del giorno arriva.
Crudel
pietate e spietata mercede
me lasciò vivo, e te da me
disciolse,
rompendo, e non mancando nostra fede,
e la memoria a
me non sol non tolse,
. . . . . . . . . . . .
Se
'l mie rozzo martello i duri sassi
forma d'uman aspetto or questo
or quello,
dal ministro che 'l guida, iscorge e tiello,
prendendo
il moto, va con gli altrui passi.
Ma quel
divin che in cielo alberga e stassi,
altri, e sé più,
col propio andar fa bello;
e se nessun martel senza martello
si
può far, da quel vivo ogni altro fassi.
E
perché 'l colpo è di valor più pieno
quant'alza
più se stesso alla fucina,
sopra 'l mie questo al ciel n'è
gito a volo.
Onde a me non finito verrà
meno,
s'or non gli dà la fabbrica divina
aiuto a farlo,
c'al mondo era solo.
Quand'el
ministro de' sospir mie tanti
al mondo, agli occhi mei, a sé
si tolse,
natura, che fra noi degnar lo volse,
restò in
vergogna, e chi lo vide in pianti.
Ma non
come degli altri oggi si vanti
del sol del sol, c'allor ci spense
e tolse,
morte, c'amor ne vinse, e farlo il tolse
in terra vivo
e 'n ciel fra gli altri santi.
Così
credette morte iniqua e rea
finir il suon delle virtute sparte,
e
l'alma, che men bella esser potea.
Contrari
effetti alluminan le carte
di vita più che 'n vita non
solea,
e morto ha 'l ciel, c'allor non avea parte.
Come
fiamma più cresce più contesa
dal vento, ogni virtù
che 'l cielo esalta
tanto più splende quant'è più
offesa.
Amor,
la tuo beltà non è mortale:
nessun volto fra noi è
che pareggi
l'immagine del cor, che 'nfiammi e reggi
con altro
foco e muovi con altr'ale.
Che
fie doppo molt'anni di costei,
Amor, se 'l tempo ogni beltà
distrugge?
Fama di lei; e anche questa
fugge
e vola e manca più ch'i' non vorrei.
Oilmè,
oilmè, ch'i' son tradito
da' giorni mie fugaci e dallo
specchio
che 'l ver dice a ciascun che fiso 'l guarda!
Così
n'avvien, chi troppo al fin ritarda,
com'ho fatt'io, che 'l tempo
m'è fuggito:
si trova come me 'n un giorno vecchio.
Né
mi posso pentir, né m'apparecchio,
né mi consiglio
con la morte appresso.
Nemico di me
stesso,
inutilmente i pianti e ' sospir verso,
ché non è
danno pari al tempo perso.
Oilmè,
oilmè, pur riterando
vo 'l mio passato tempo e non
ritruovo
in tutto un giorno che sie stato mio!
Le
fallace speranze e 'l van desio,
piangendo, amando, ardendo e
sospirando
(c'affetto alcun mortal non m'è più
nuovo)
m'hanno tenuto, ond'il conosco e pruovo,
lontan certo
dal vero.
Or con periglio pèro;
ché
'l breve tempo m'è venuto manco,
né sarie ancor, se
s'allungassi, stanco.
I' vo lasso, oilmè,
né so ben dove;
anzi temo, ch'il veggio, e 'l tempo
andato
mel mostra, né mi val che gli occhi chiuda.
Or
che 'l tempo la scorza cangia e muda,
la morte e l'alma insieme
ognor fan pruove,
la prima e la seconda, del mie stato.
E
s'io non sono errato,
(che Dio 'l voglia ch'io sia),
l'etterna
pena mia
nel mal libero inteso oprato vero
veggio, Signor, né
so quel ch'io mi spero.
S'alcun
se stesso al mondo ancider lice,
po' che per morte al ciel tornar
si crede,
sarie ben giusto a chi con tanta fede
vive servendo
miser e 'nfelice.
Ma perché l'uom
non è come fenice,
c'alla luce del sol resurge e riede,
la
man fo pigra e muovo tardi el piede.
Chi
di notte cavalca, el dì conviene
c'alcuna volta si riposi e
dorma:
così sper'io, che dopo tante pene
ristori 'l mie
signor mie vita e forma.
Non dura 'l mal
dove non dura 'l bene,
ma spesso l'un nell'altro si trasforma.
Io
crederrei, se tu fussi di sasso,
amarti con tal fede, ch'i'
potrei
farti meco venir più che di passo;
se fussi
morto, parlar ti farei,
se fussi in ciel, ti tirerei a basso
co'
pianti, co' sospir, co' prieghi miei.
Sendo
vivo e di carne, e qui tra noi,
chi t'ama e serve che de' creder
poi?
I' non posso altro far che
seguitarti,
e della grande impresa non mi pento.
Tu
non se' fatta com'un uom da sarti,
che si muove di fuor, si muove
drento;
e se dalla ragion tu non ti parti,
spero c'un dì
tu mi fara' contento:
ché 'l morso il ben servir togli' a'
serpenti,
come l'agresto quand'allega i denti.
E'
non è forza contr'a l'umiltate,
né crudeltà
può star contr'a l'amore;
ogni durezza suol vincer
pietate,
sì come l'allegrezza fa 'l dolore;
una nuova
nel mondo alta beltate
come la tuo non ha 'ltrimenti il
core;
c'una vagina, ch'è dritta a vedella,
non può
dentro tener torte coltella.
E non può
esser pur che qualche poco
la mie gran servitù non ti sie
cara;
pensa che non si truova in ogni loco
la fede negli amici,
che è sì rara;
. . . . . . . . . . .
. . . . . .
. . . . .
. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .
.
Quando un dì sto che veder non ti
posso,
non posso trovar pace in luogo ignuno;
se po' ti veggo,
mi s'appicca addosso,
come suole il mangiar far al digiuno;
. .
. . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
com'altri il ventre di
votar si muore,
ch'è più 'l conforto, po' che pri' è
'l dolore.
E non mi passa tra le mani un
giorno
ch'i' non la vegga o senta con la mente;
né
scaldar ma' si può fornace o forno
c'a' mie sospir non
fussi più rovente;
e quando avvien ch'i' l'abbi un po'
dintorno,
sfavillo come ferro in foco ardente;
e tanto vorre'
dir, s'ella m'aspetta,
ch'i' dico men che quand'i' non ho
fretta.
S'avvien che la mi rida pure un
poco
o mi saluti in mezzo della via,
mi levo come polvere dal
foco
o di bombarda o d'altra artiglieria;
se mi domanda, subito
m'affioco,
perdo la voce e la risposta mia,
e subito s'arrende
il gran desio,
e la speranza cede al poter mio.
I'
sento in me non so che grand'amore,
che quasi arrivere' 'nsino
alle stelle;
e quando alcuna volta il vo trar fore,
non ho buco
sì grande nella pelle
che nol faccia, a uscirne, assa'
minore
parere, e le mie cose assai men belle:
c'amore o forza
el dirne è grazia sola;
e men ne dice chi più alto
vola.
I' vo pensando al mie viver di
prima,
inanzi ch'i' t'amassi, com'egli era:
di me non fu ma'
chi facesse stima,
perdendo ogni dì il tempo insino a
sera;
forse pensavo di cantare in rima
o di ritrarmi da ogni
altra schiera?
Or si fa 'l nome, o per
tristo o per buono,
e sassi pure almen che i' ci sono.
Tu
m'entrasti per gli occhi, ond'io mi spargo,
come grappol d'agresto
in un'ampolla,
che doppo 'l collo cresce ov'è più
largo;
così l'immagin tua, che fuor m'immolla,
dentro
per gli occhi cresce, ond'io m'allargo
come pelle ove gonfia la
midolla;
entrando in me per sì stretto vïaggio,
che
tu mai n'esca ardir creder non aggio.
Come
quand'entra in una palla il vento,
che col medesmo fiato
l'animella,
come l'apre di fuor, la serra drento,
così
l'immagin del tuo volto bella
per gli occhi dentro all'alma venir
sento;
e come gli apre, poi si serra in quella;
e come palla
pugno al primo balzo,
percosso da' tu' occhi al ciel po'
m'alzo.
Perché non basta a una
donna bella
goder le lode d'un amante solo,
ché suo
beltà potre' morir con ella;
dunche, s'i' t'amo, reverisco
e colo,
al merito 'l poter poco favella;
c'un zoppo non
pareggia un lento volo,
né gira 'l sol per un sol suo
mercede,
ma per ogni occhio san c'al mondo vede.
I'
non posso pensar come 'l cor m'ardi,
passando a quel per gli occhi
sempre molli,
che 'l foco spegnerien non ch'e' tuo
sguardi.
Tutti e' ripari mie son corti e
folli:
se l'acqua il foco accende, ogni altro è tardi
a
camparmi dal mal ch'i' bramo e volli,
salvo il foco medesmo. O
cosa strana,
se 'l mal del foco spesso il foco sana!
I'
t'ho comprato, ancor che molto caro,
un po' di non so che, che sa
di buono,
perc'a l'odor la strada spesso imparo.
Ovunche
tu ti sia, dovunch'i' sono,
senz'alcun dubbio ne son certo e
chiaro.
Se da me ti nascondi, i' tel
perdono:
portandol dove vai sempre con teco,
ti troverei,
quand'io fussi ben cieco.
Vivo
della mie morte e, se ben guardo,
felice vivo d'infelice sorte;
e
chi viver non sa d'angoscia e morte,
nel foco venga, ov'io mi
struggo e ardo.
S'i'
vivo più di chi più m'arde e cuoce,
quante più
legne o vento il foco accende,
tanto più chi m'uccide mi
difende,
e più mi giova dove più mi nuoce.
Se
l'immortal desio, c'alza e corregge
gli altrui pensier, traessi e'
mie di fore,
forse c'ancor nella casa d'Amore
farie pietoso chi
spietato regge.
Ma perché l'alma
per divina legge
ha lunga vita, e 'l corpo in breve muore,
non
può 'l senso suo lode o suo valore
appien descriver quel
c'appien non legge.
Dunche, oilmè!
come sarà udita
la casta voglia che 'l cor dentro
incende
da chi sempre se stesso in altrui vede?
La
mie cara giornata m'è impedita
col mie signor c'alle
menzogne attende,
c'a dire il ver, bugiardo è chi nol
crede.
S'un
casto amor, s'una pietà superna,
s'una fortuna infra dua
amanti equale,
s'un'aspra sorte all'un dell'altro cale,
s'un
spirto, s'un voler duo cor governa;
s'un'anima
in duo corpi è fatta etterna,
ambo levando al cielo e con
pari ale;
s'amor d'un colpo e d'un dorato strale
le viscer di
duo petti arda e discerna;
s'amar l'un
l'altro e nessun se medesmo,
d'un gusto e d'un diletto, a tal
mercede
c'a un fin voglia l'uno e l'altro porre:
se
mille e mille, non sarien centesmo
a tal nodo d'amore, e tanta
fede;
e sol l'isdegno il può rompere e sciorre.
Tu
sa' ch'i' so, signor mie, che tu sai
ch'i vengo per goderti più
da presso,
e sai ch'i' so che tu sa' ch'i' son desso:
a che più
indugio a salutarci omai?
Se vera è
la speranza che mi dai,
se vero è 'l gran desio che m'è
concesso,
rompasi il mur fra l'uno e l'altra messo,
ché
doppia forza hann'i celati guai.
S'i' amo
sol di te, signor mie caro,
quel che di te più ami, non ti
sdegni,
ché l'un dell'altro spirto s'innamora.
Quel
che nel tuo bel volto bramo e 'mparo,
e mal compres' è
dagli umani ingegni,
chi 'l vuol saper convien che prima mora.
S'i'
avessi creduto al primo sguardo
di quest'alma fenice al caldo
sole
rinnovarmi per foco, come suole
nell'ultima vecchiezza,
ond'io tutt'ardo,
qual più veloce
cervio o lince o pardo
segue 'l suo bene e fugge quel che
dole,
agli atti, al riso, all'oneste parole
sarie cors'anzi,
ond'or son presto e tardo.
Ma perché
più dolermi, po' ch'i' veggio
negli occhi di quest'angel
lieto e solo
mie pace, mie riposo e mie salute?
Forse
che prima sarie stato il peggio
vederlo, udirlo, s'or di pari a
volo
seco m'impenna a seguir suo virtute.
Sol
pur col foco il fabbro il ferro stende
al concetto suo caro e bel
lavoro,
né senza foco alcuno artista l'oro
al sommo
grado suo raffina e rende;
né
l'unica fenice sé riprende
se non prim'arsa; ond'io,
s'ardendo moro,
spero più chiar resurger tra coloro
che
morte accresce e 'l tempo non offende.
Del
foco, di ch'i' parlo, ho gran ventura
c'ancor per rinnovarmi abbi
in me loco,
sendo già quasi nel numer de' morti.
O
ver, s'al cielo ascende per natura,
al suo elemento, e ch'io
converso in foco
sie, come fie che seco non mi porti?
Sì
amico al freddo sasso è 'l foco interno
che, di quel
tratto, se lo circumscrive,
che l'arda e spezzi, in qualche modo
vive,
legando con sé gli altri in loco etterno.
E
se 'n fornace dura, istate e verno
vince, e 'n più pregio
che prima s'ascrive,
come purgata infra l'altre alte e dive
alma
nel ciel tornasse da l'inferno.
Così
tratto di me, se mi dissolve
il foco, che m'è dentro
occulto gioco,
arso e po' spento aver più vita
posso.
Dunche, s'i' vivo, fatto fummo e
polve,
etterno ben sarò, s'induro al foco;
da tale oro e
non ferro son percosso.
Se
'l foco il sasso rompe e 'l ferro squaglia,
figlio del lor medesmo
e duro interno,
che farà 'l più ardente
dell'inferno
d'un nimico covon secco di paglia?
In
quel medesmo tempo ch'io v'adoro,
la memoria del mie stato
infelice
nel pensier mi ritorna, e piange e dice:
ben ama chi
ben arde, ov'io dimoro.
Però che
scudo fo di tutti loro...
Forse
perché d'altrui pietà mi vegna,
perché
dell'altrui colpe più non rida,
nel mie propio valor,
senz'altra guida,
caduta è l'alma che fu già sì
degna.
Né so qual militar
sott'altra insegna
non che da vincer, da campar più
fida,
sie che 'l tumulto dell'avverse strida
non pèra,
ove 'l poter tuo non sostegna.
O carne, o
sangue, o legno, o doglia strema,
giusto per vo' si facci el mie
peccato,
di ch'i' pur nacqui, e tal fu 'l padre mio.
Tu
sol se' buon; la tuo pietà suprema
soccorra al mie preditto
iniquo stato,
sì presso a morte e sì lontan da Dio.
Nuovo
piacere e di maggiore stima
veder l'ardite capre sopr'un
sasso
montar, pascendo or questa or quella cima,
e 'l mastro
lor, con aspre note, al basso,
sfogare el cor colla suo rozza
rima,
sonando or fermo, e or con lento passo,
e la suo vaga,
che ha 'l cor di ferro,
star co' porci, in contegno, sott'un
cerro;
quant'è veder 'n un eminente
loco
e di pagli' e di terra el loro ospizio:
chi ingombra 'l
desco e chi fa fora 'l foco,
sott'a quel faggio ch'è più
lor propizio;
chi ingrassa e gratta 'l porco, e prende gioco,
chi
doma 'l ciuco col basto primizio;
el vecchio gode e fa poche
parole,
fuor dell'uscio a sedere, e stassi al sole.
Di
fuor dentro si vede quel che hanno:
pace sanza oro e sanza sete
alcuna.
El giorno c'a solcare i colli
vanno,
contar puo' lor ricchezze ad una ad una.
Non
han serrami e non temon di danno;
lascion la casa aperta alla
fortuna;
po', doppo l'opra, lieti el sonno tentano;
sazi di
ghiande, in sul fien s'adormentano.
L'invidia
non ha loco in questo stato;
la superbia se stessa si
divora.
Avide son di qualche verde
prato,
o di quell'erba che più bella infiora.
Il
lor sommo tesoro è uno arato,
e 'l bomero è la gemma
che gli onora;
un paio di ceste è la credenza loro,
e le
pale e le zappe e' vasi d'oro.
O avarizia
cieca, o bassi ingegni,
che disusate 'l ben della
natura!
Cercando l'or, le terre e ' ricchi
regni,
vostre imprese superbia ha forte e dura.
L'accidia,
la lussuria par v'insegni;
l'invidia 'l mal d'altrui provvede e
cura:
non vi scorgete, in insaziabil foco,
che 'l tempo è
breve e 'l necessario è poco.
Color
c'anticamente, al secol vecchio,
si trasser fame e sete d'acqua e
ghiande
vi sieno esemplo, scorta, lume e specchio,
e freno alle
delizie, alle vivande.
Porgete al mie
parlare un po' l'orecchio:
colui che 'l mondo impera, e ch'è
sì grande,
ancor disidra, e non ha pace poi;
e 'l
villanel la gode co' suo buoi.
D'oro e di
gemme, e spaventata in vista,
adorna, la Ricchezza va
pensando;
ogni vento, ogni pioggia la contrista,
e gli agùri
e ' prodigi va notando.
La lieta Povertà,
fuggendo, acquista
ogni tesor, né pensa come o
quando;
secur ne' boschi, in panni rozzi e bigi,
fuor
d'obrighi, di cure e di letigi.
L'avere e
'l dar, l'usanze streme e strane,
el meglio e 'l peggio, e le cime
dell'arte
al villanel son tutte cose piane,
e l'erba e l'acqua
e 'l latte è la sua parte;
e 'l cantar rozzo, e ' calli
delle mane,
è 'l dieci e 'l cento e ' conti e lo suo
carte
dell'usura che 'n terra surger vede;
e senza affanno alla
fortuna cede.
Onora e ama e teme e prega
Dio
pe' pascol, per l'armento e pel lavoro,
con fede, con
ispeme e con desio,
per la gravida vacca e pel bel toro.
El
Dubbio, el Forse, el Come, el Perché rio
no 'l può
ma' far, ché non istà fra loro:
se con semplice fede
adora e prega
Iddio e 'l ciel, l'un lega e l'altro piega.
El
Dubbio armato e zoppo si figura,
e va saltando come la
locuste,
tremando d'ogni tempo per natura,
qual suole al vento
far canna paluste.
El Perché è
magro, e 'ntorn'alla cintura
ha molte chiave, e non son tanto
giuste,
c'agugina gl'ingegni della porta,
e va di notte, e 'l
buio è la suo scorta.
El Come e 'l
Forse son parenti stretti,
e son giganti di sì grande
altezza,
c'al sol andar ciascun par si diletti,
e ciechi fur
per mirar suo chiarezza;
e quello alle città co' fieri
petti
tengon, per tutto adombran lor bellezza;
e van per vie
fra sassi erte e distorte,
tentando colle man qual istà
forte.
Povero e nudo e sol se ne va 'l
Vero,
che fra la gente umìle ha gran valore:
un occhio
ha sol, qual è lucente e mero,
e 'l corpo ha d'oro, e
d'adamante 'l core;
e negli affanni cresce e fassi altero,
e 'n
mille luoghi nasce, se 'n un muore;
di fuor verdeggia sì
come smeraldo,
e sta co' suo fedel costante e saldo.
Cogli
occhi onesti e bassi in ver' la terra,
vestito d'oro e di vari
ricami,
il Falso va, c'a' iusti sol fa guerra;
ipocrito, di
fuor par c'ognuno ami;
perch'è di ghiaccio, al sol si
cuopre e serra;
sempre sta 'n corte, e par che l'ombra brami;
e
ha per suo sostegno e compagnia
la Fraude, la Discordia e la
Bugia.
L'Adulazion v'è poi, ch'è
pien d'affanni,
giovane destra e di bella persona;
di più
color coperta di più panni,
che 'l cielo a primavera a'
fior non dona:
ottien ciò che la vuol con dolci inganni,
e
sol di quel che piace altrui ragiona;
ha 'l pianto e 'l riso in
una voglia sola;
cogli occhi adora, e con le mani invola.
Non
è sol madre in corte all'opre orrende,
ma è lor
balia ancora, e col suo latte
le cresce, l'aümenta e le
difende.
Un
gigante v'è ancor, d'altezza tanta
che da' sua occhi noi
qua giù non vede,
e molte volte ha ricoperta e franta
una
città colla pianta del piede;
al sole aspira e l'alte torre
pianta
per aggiunger al cielo, e non lo vede,
ché 'l
corpo suo, così robusto e magno,
un occhio ha solo e
quell'ha 'n un calcagno.
Vede per terra le
cose passate,
e 'l capo ha fermo e prossim'a le stelle;
di qua
giù se ne vede dua giornate
delle gran gambe, e irsut' ha
la pelle;
da indi in su non ha verno né state,
ché
le stagion gli sono equali e belle;
e come 'l ciel fa pari alla
suo fronte,
in terra al pian col piè fa ogni
monte.
Com'a noi è 'l minuzzol
dell'arena,
sotto la pianta a lui son le montagne;
fra ' folti
pel delle suo gambe mena
diverse forme mostruose e magne:
per
mosca vi sarebbe una balena;
e sol si turba e sol s'attrista e
piagne
quando in quell'occhio il vento seco tira
fummo o
festuca o polvere che gira.
Una gran
vecchia pigra e lenta ha seco,
che latta e mamma l'orribil
figura,
e 'l suo arrogante, temerario e cieco
ardir conforta e
sempre rassicura.
Fuor di lui stassi in un
serrato speco,
nelle gran rocche e dentro all'alte mura;
quand'è
lui in ozio, e le' in tenebre vive,
e sol inopia nel popol
prescrive.
Palida e gialla, e nel suo
grave seno
il segno porta sol del suo signore:
cresce del mal
d'altrui, del ben vien meno,
né s'empie per cibarsi a tutte
l'ore;
il corso suo non ha termin né freno,
e odia
altrui e sé non porta amore;
di pietra ha 'l core e di
ferro le braccia,
e nel suo ventre il mare e ' monti
caccia.
Sette lor nati van sopra la
terra,
che cercan tutto l'uno e l'altro polo,
e solo a' iusti
fanno insidie e guerra,
e mille capi ha ciascun per sé
solo.
L'etterno abisso per lor s'apre e
serra,
tal preda fan nell'universo stuolo;
e lor membra ci
prendon passo passo,
come edera fa el mur fra sasso e sasso.
Ben
provvide natura, né conviene
a tanta crudeltà minor
bellezza,
ché l'un contrario l'altro ha temperato.
Così
può 'l viso vostro le mie pene
tante temprar con piccola
dolcezza,
e lieve fare quelle e me beato.
Crudele
stella, anzi crudele arbitrio
che 'l potere e 'l voler mi stringe
e lega;
né si travaglia chiara stella in cielo
dal
giorno [in qua?] che mie vela disciolse,
ond'io errando e
vagabondo andai,
qual vano legno gira a tutti e' venti.
Or
son qui, lasso, e all'incesi venti
convien varar mie legno, e
senza arbitrio
solcar l'alte onde ove mai sempre andai.
Così
quagiù si prende, preme e lega
quel che lassù già
'll'alber si disciolse,
ond'a me tolsi la dote del cielo.
Qui
non mi regge e non mi spinge il cielo,
ma potenti e terrestri e
duri venti,
ché sopra di me non so qual si disciolse
per
[darli mano?] e tormi del mio arbitrio.
Così
fuor di mie rete altri mi lega.
Mie colpa
è, ch'ignorando a quello andai?
Maladetto
[sie] 'l dì che ïo andai
col segno che correva su nel
cielo!
Se non ch'i' so che 'l giorno el
cor non lega,
né sforza l'alma, ne' contrari venti,
contra
al nostro largito e sciolto arbitrio,
perché [...] e pruove
ci disciolse.
Dunche, se mai dolor del cor
disciolse
sospiri ardenti, o se orando andai
fra caldi venti a
quel ch'è fuor d'arbitrio,
[...], pietoso de' mie caldi
venti,
vede, ode e sente e non m'è contra 'l cielo;
ché
scior non si può chi se stesso lega.
Così
l'atti suo perde chi si lega,
e salvo sé nessun ma' si
disciolse.
E come arbor va retto verso il
cielo,
ti prego, Signor mio, se mai andai,
ritorni, come quel
che non ha venti,
sotto el tüo grande el mïo
arbitrio.
Colui che sciolse e lega 'l mio
arbitrio,
ov'io andai agl'importuni venti,
fa' mie vendetta, s'
tu mel desti, o cielo.
I'
l'ho, vostra mercè, per ricevuto
e hollo letto delle volte
venti.
Tal pro vi facci alla natura i
denti,
co' 'l cibo al corpo quand'egli è pasciuto.
I'
ho pur, poi ch'i' vi lasciai, saputo
che Cain fu de' vostri
anticedenti,
né voi da quel tralignate altrimenti;
ché,
s'altri ha ben, vel pare aver perduto.
Invidiosi,
superbi, al ciel nimici,
la carità del prossimo v'è
a noia,
e sol del vostro danno siete amici.
Se
ben dice il Poeta di Pistoia,
istieti a mente, e basta; e se tu
dici
ben di Fiorenza, tu mi dai la soia.
Qual
prezïosa gioia
è certo, ma per te già non si
intende,
perché poca virtù non la comprende.
Se
nel volto per gli occhi il cor si vede,
altro segno non ho più
manifesto
della mie fiamma; addunche basti or questo,
signor
mie caro, a domandar mercede.
Forse lo
spirto tuo, con maggior fede
ch'i' non credo, che sguarda il foco
onesto
che m'arde, fie di me pietoso e presto,
come grazia
c'abbonda a chi ben chiede.
O felice quel
dì, se questo è certo!
Fermisi
in un momento il tempo e l'ore,
il giorno e 'l sol nella su'
antica traccia;
acciò ch'i' abbi, e
non già per mie merto,
il desïato mie dolce
signore
per sempre nell'indegne e pronte braccia.
Mentre
del foco son scacciata e priva,
morir m'è forza, ove si
vive e campa;
e 'l mie cibo è sol quel c'arde e avvampa,
e
di quel c'altri muor, convien ch'i' viva.
I'
piango, i' ardo, i' mi consumo, e 'l core
di questo si nutrisce. O
dolce sorte!
chi è che viva sol
della suo morte,
come fo io d'affanni e di dolore?
Ahi!
crudele arcier, tu sai ben l'ore
da far tranquille l'angosciose e
corte
miserie nostre con la tuo man forte;
ché chi vive
di morte mai non muore.
Egli
è pur troppo a rimirarsi intorno
chi con la vista ancide i
circustanti
sol per mostrarsi andar diporto attorno.
Egli
è pur troppo a chi fa notte il giorno,
scurando il sol co'
vaghi e be' sembianti,
aprirgli spesso, e chi con risi e
canti
ammuta altrui non esser meno adorno.
Non
so se s'è la desïata luce
del suo primo fattor, che
l'alma sente,
o se dalla memoria della gente
alcun'altra beltà
nel cor traluce;
o se fama o se sogno
alcun produce
agli occhi manifesto, al cor presente,
di sé
lasciando un non so che cocente
ch'è forse or quel c'a
pianger mi conduce.
Quel ch'i' sento e
ch'i' cerco e chi mi guidi
meco non è; né so ben
veder dove
trovar mel possa, e par c'altri mel mostri.
Questo,
signor, m'avvien, po' ch'i' vi vidi,
c'un dolce amaro, un sì
e no mi muove:
certo saranno stati gli occhi vostri.
Se
'l foco fusse alla bellezza equale
degli occhi vostri, che da que'
si parte,
non avrie 'l mondo sì gelata parte
che non
ardessi com'acceso strale.
Ma 'l ciel,
pietoso d'ogni nostro male,
a noi d'ogni beltà, che 'n voi
comparte,
la visiva virtù toglie e diparte
per
tranquillar la vita aspr'e mortale.
Non è
par dunche il foco alla beltate,
ché sol di quel s'infiamma
e s'innamora
altri del bel del ciel, ch'è da lui
inteso.
Così n'avvien, signore, in
questa etate:
se non vi par per voi ch'i' arda e mora,
poca
capacità m'ha poco acceso.
Dal
dolce pianto al doloroso riso,
da una etterna a una corta
pace
caduto son: là dove 'l ver si tace,
soprasta 'l
senso a quel da lui diviso.
Né so
se dal mie core o dal tuo viso
la colpa vien del mal, che men
dispiace
quante più cresce, o dall'ardente face
de gli
occhi tuo rubati al paradiso.
La tuo beltà
non è cosa mortale,
ma fatta su dal ciel fra noi
divina;
ond'io perdendo ardendo mi conforto,
c'appresso
a te non esser posso tale.
Se l'arme il
ciel del mie morir destina,
chi può, s'i' muoio, dir
c'abbiate il torto?
Felice
spirto, che con zelo ardente,
vecchio alla morte, in vita il mio
cor tieni,
e fra mill'altri tuo diletti e beni
me sol saluti
fra più nobil gente;
come mi fusti
agli occhi, or alla mente,
per l'altru' fiate a consolar mi
vieni,
onde la speme il duol par che raffreni,
che non men che
'l disio l'anima sente.
Dunche, trovando
in te chi per me parla
grazia di te per me fra tante cure,
tal
grazia ne ringrazia chi ti scrive.
Che
sconcia e grande usur saria a farla,
donandoti turpissime
pitture
per rïaver persone belle e vive.
I'
mi credetti, il primo giorno ch'io
mira' tante bellezze uniche e
sole,
fermar gli occhi com'aquila nel sole
nella minor di tante
ch'i' desio.
Po' conosciut'ho il fallo e
l'erro mio:
ché chi senz'ale un angel seguir vole,
il
seme a' sassi, al vento le parole
indarno isparge, e l'intelletto
a Dio.
Dunche, s'appresso il cor non mi
sopporta
l'infinita beltà che gli occhi abbaglia,
né
di lontan par m'assicuri o fidi,
che fie
di me? qual guida o qual scorta
fie che con teco ma' mi giovi o
vaglia,
s'appresso m'ardi e nel partir m'uccidi?
II
Ogni
cosa ch'i' veggio mi consiglia
e priega e forza ch'i' vi segua e
ami;
ché quel che non è voi non è 'l mie
bene.
Amor, che sprezza ogni altra
maraviglia,
per mie salute vuol ch'i' cerchi e brami
voi, sole,
solo; e così l'alma tiene
d'ogni alta spene e d'ogni valor
priva;
e vuol ch'i' arda e viva
non sol di voi, ma chi di voi
somiglia
degli occhi e delle ciglia alcuna parte.
E
chi da voi si parte,
occhi, mie vita, non ha luce poi;
ché
'l ciel non è dove non siate voi.
Non
posso altra figura immaginarmi
o di nud'ombra o di terrestre
spoglia,
col più alto pensier, tal che mie voglia
contra
la tuo beltà di quella s'armi.
Ché
da te mosso, tanto scender parmi,
c'Amor d'ogni valor mi priva e
spoglia,
ond'a pensar di minuir mie doglia,
duplicando, la
morte viene a darmi.
Però non val
che più sproni mie fuga,
doppiando 'l corso alla beltà
nemica,
ché 'l men dal più veloce non si
scosta.
Amor con le sue man gli occhi
m'asciuga,
promettendomi cara ogni fatica;
ché vile
esser non può chi tanto costa.
Veggio
nel tuo bel viso, signor mio,
quel che narrar mal puossi in questa
vita:
l'anima, della carne ancor vestita,
con esso è già
più volte ascesa a Dio.
E se 'l
vulgo malvagio, isciocco e rio,
di quel che sente, altrui segna e
addita,
non è l'intensa voglia men gradita,
l'amor, la
fede e l'onesto desio.
A quel pietoso
fonte, onde siàn tutti,
s'assembra ogni beltà che
qua si vede
più c'altra cosa alle persone accorte;
né
altro saggio abbiàn né altri frutti
del cielo in
terra; e chi v'ama con fede
trascende a Dio e fa dolce la morte.
Sì
come nella penna e nell'inchiostro
è l'alto e 'l basso e 'l
medïocre stile,
e ne' marmi l'immagin ricca e vile,
secondo
che 'l sa trar l'ingegno nostro;
così,
signor mie car, nel petto vostro,
quante l'orgoglio è forse
ogni atto umile;
ma io sol quel c'a me propio è e simile
ne
traggo, come fuor nel viso mostro.
Chi
semina sospir, lacrime e doglie,
(l'umor dal ciel terreste,
schietto e solo,
a vari semi vario si converte),
però
pianto e dolor ne miete e coglie;
chi mira alta beltà con
sì gran duolo,
ne ritra' doglie e pene acerbe e certe.
Com'io
ebbi la vostra, signor mio,
cercand'andai fra tutti e' cardinali
e
diss'a tre da vostra part' addio.
Al
Medico maggior de' nostri mali
mostrai la detta, onde ne rise
tanto
che 'l naso fe' dua parti dell'occhiali.
Il
servito da voi pregiat' e santo
costà e qua, sì come
voi scrivete,
n'ebbe piacer, che ne ris'altro tanto.
A
quel che tien le cose più secrete
del Medico minor non l'ho
ancor visto;
farebbes'anche a lui, se fusse prete.
Ècci
molt'altri che rinegon Cristo
che voi non siate qua; né dà
lor noia
ché chi non crede si tien manco tristo.
Di
voi a tutti caverò la foia
di questa vostra; e chi non si
contenta
affogar possa per le man del boia.
La
Carne che nel sal si purg' e stenta
che saria buon per carbonat'
ancora
di voi più che di sé par si rammenta.
Il
nostro Buonarroto, che v'adora,
visto la vostra, se ben veggio,
parmi
c'al ciel si lievi mille volte ogn'ora;
e
dice che la vita de' sua marmi
non basta a far il vostro
nom'eterno,
come lui fanno i divin vostri carmi.
Ai
qual non nuoce né state né verno,
dal temp' esenti e
da morte crudele,
che fama di virtù non ha in
governo.
E come vostro amico e mio
fedele
disse: - Ai dipinti, visti i versi belli,
s'appiccon
voti e s'accendon candele.
Dunque i' son
pur nel numero di quelli,
da un goffo pittor senza valore
cavato
a' pennell' e alberelli.
Il Bernia
ringraziate per mio amore,
che fra tanti lui sol conosc' il
vero
di me; ché chi mi stim' è 'n
grand'errore.
Ma la sua disciplin' el lum'
intero
mi può ben dar, e gran miracol fia,
a far un uom
dipint' un uom da vero. -
Così mi
disse; e io per cortesia
vel raccomando quanto so e posso,
che
fia l'apportator di questa mia.
Mentre la
scrivo a vers'a verso, rosso
diveng'assai, pensando a cui la
mando,
send' il mio non professo, goffo e grosso.
Pur
nondimen così mi raccomando
anch'io a voi, e altro non
accade;
d'ogni tempo son vostro e d'ogni quando.
A
voi nel numer delle cose rade
tutto mi v'offerisco, e non
pensate
ch'i' manchi, se 'l cappuccio non mi cade.
Così
vi dico e giuro, e certo siate,
ch'i' non farei per me quel che
per voi:
e non m'abbiat'a schifo come frate.
Comandatemi,
e fate poi da voi.
Ancor
che 'l cor già mi premesse tanto,
per mie scampo credendo
il gran dolore
n'uscissi con le lacrime e col pianto,
fortuna
al fonte di cotale umore
le radice e le vene ingrassa e
'mpingua
per morte, e non per pena o duol minore,
col
tuo partire; onde convien destingua
dal figlio prima e tu morto
dipoi,
del quale or parlo, pianto, penna e lingua.
L'un
m'era frate, e tu padre di noi;
l'amore a quello, a te l'obrigo
strigne:
non so qual pena più mi stringa o nòi.
La
memoria 'l fratel pur mi dipigne,
e te sculpisce vivo in mezzo il
core,
che 'l core e 'l volto più m'affligge e
tigne.
Pur mi quieta che il debito,
c'all'ore
pagò 'l mio frate acerbo, e tu maturo;
ché
manco duole altrui chi vecchio muore.
Tanto
all'increscitor men aspro e duro
esser dié 'l caso quant'è
più necesse,
là dove 'l ver dal senso è più
sicuro.
Ma chi è quel che morto non
piangesse
suo caro padre, c'ha veder non mai
quel che vedea
infinite volte o spesse?
Nostri intensi
dolori e nostri guai
son come più e men ciascun gli
sente:
quant'in me posson tu, Signor, tel sai.
E
se ben l'alma alla ragion consente,
tien tanto in collo, che vie
più abbondo
po' doppo quella in esser più
dolente.
E se 'l pensier, nel quale i' mi
profondo
non fussi che 'l ben morto in ciel si ridi
del timor
della morte in questo mondo,
crescere' 'l
duol; ma ' dolorosi stridi
temprati son d'una credenza ferma
che
'l ben vissuto a morte me' s'annidi.
Nostro
intelletto dalla carne inferma
è tanto oppresso, che 'l
morir più spiace
quanto più 'l falso persuaso
afferma.
Novanta volte el sol suo chiara
face
prim'ha nell'oceàn bagnata e molle,
che tu sie
giunto alla divina pace.
Or che nostra
miseria el ciel ti tolle,
increscati di me, che morto vivo,
come
tuo mezzo qui nascer mi volle.
Tu se' del
morir morto e fatto divo,
né tem'or più cangiar vita
né voglia,
che quasi senza invidia non lo
scrivo.
Fortuna e 'l tempo dentro a vostra
soglia
non tenta trapassar, per cui s'adduce
fra no' dubbia
letizia e certa doglia.
Nube non è
che scuri vostra luce,
l'ore distinte a voi non fanno forza,
caso
o necessità non vi conduce.
Vostro
splendor per notte non s'ammorza,
né cresce ma' per giorno,
benché chiaro,
sie quand'el sol fra no' il caldo
rinforza.
Nel tuo morire el mie morire
imparo,
padre mie caro, e nel pensier ti veggio
dove 'l mondo
passar ne fa di raro.
Non è,
com'alcun crede, morte il peggio
a chi l'ultimo dì
trascende al primo,
per grazia, etterno appresso al divin
seggio
dove, Die grazia, ti prosumo e stimo
e spero di veder,
se 'l freddo core
mie ragion tragge dal terrestre limo.
E
se tra 1' padre e 'l figlio ottimo amore
cresce nel ciel,
crescendo ogni virtute,
. . . . . . . . . . .
Vorrei
voler, Signor, quel ch'io non voglio:
tra 'l foco e 'l cor di
ghiaccia un vel s'asconde
che 'l foco ammorza, onde non
corrisponde
la penna all'opre, e fa bugiardo 'l foglio.
I'
t'amo con la lingua, e poi mi doglio
c'amor non giunge al cor; né
so ben onde
apra l'uscio alla grazia che s'infonde
nel cor, che
scacci ogni spietato orgoglio.
Squarcia 'l
vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne
ritarda
il sol della tuo luce, al mondo spenta!
Manda
'l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò
ch'io arda
il cor senz'alcun dubbio, e te sol senta.
Sento
d'un foco un freddo aspetto acceso
che lontan m'arde e sé
con seco agghiaccia;
pruovo una forza in due leggiadre braccia
che
muove senza moto ogni altro peso.
Unico
spirto e da me solo inteso,
che non ha morte e morte altrui
procaccia,
veggio e truovo chi, sciolto, 'l cor m'allaccia,
e
da chi giova sol mi sento offeso.
Com'esser
può, signor, che d'un bel volto
ne porti 'l mio così
contrari effetti,
se mal può chi non gli ha donar
altrui?
Onde al mio viver lieto, che m'ha
tolto,
fa forse come 'l sol, se nol permetti,
che scalda 'l
mondo e non è caldo lui.
Veggio
co' be' vostr'occhi un dolce lume
che co' mie ciechi già
veder non posso;
porto co' vostri piedi un pondo addosso,
che
de' mie zoppi non è già costume.
Volo
con le vostr'ale senza piume;
col vostro ingegno al ciel sempre
son mosso;
dal vostro arbitrio son pallido e rosso,
freddo al
sol, caldo alle più fredde brume.
Nel
voler vostro è sol la voglia mia,
i miei pensier nel vostro
cor si fanno,
nel vostro fiato son le mie parole.
Come
luna da sé sol par ch'io sia,
ché gli occhi nostri
in ciel veder non sanno
se non quel tanto che n'accende il sole.
I'
mi son caro assai più ch'i' non soglio;
poi ch'i' t'ebbi
nel cor più di me vaglio,
come pietra c'aggiuntovi
l'intaglio
è di più pregio che 'l suo primo
scoglio.
O come scritta o pinta carta o
foglio
più si riguarda d'ogni straccio o taglio,
tal di
me fo, da po' ch'i' fu' berzaglio
segnato dal tuo viso, e non mi
doglio.
Sicur con tale stampa in ogni
loco
vo, come quel c'ha incanti o arme seco,
c'ogni periglio
gli fan venir meno.
I' vaglio contr'a
l'acqua e contr'al foco,
col segno tuo rallumino ogni cieco,
e
col mie sputo sano ogni veleno.
Perc'all'estremo
ardore
che toglie e rende poi
il chiuder e l'aprir degli occhi
tuoi
duri più la mie vita,
fatti son calamita
di me,
de l'alma e d'ogni mie valore;
tal c'anciderm' Amore,
forse
perch'è pur cieco,
indugia, triema e teme.
C'a
passarmi nel core,
sendo nel tuo con teco,
pungere' prima le
tuo parte streme
e perché meco insieme
non mora, non
m'ancide. O gran martire,
c'una doglia mortal, senza
morire,
raddoppia quel languire
del qual, s'i' fussi meco,
sare' fora.
Deh rendim' a me stesso, acciò
ch'i' mora.
Quantunche
'l tempo ne costringa e sproni
ognor con maggior guerra
a
rendere alla terra
le membra afflitte, stanche e pellegrine,
non
ha per 'ncor fine
chi l'alma attrista e me fa così
lieto.
Né par che men perdoni
a
chi 'l cor m'apre e serra,
nell'ore più vicine
e più
dubiose d'altro viver quieto;
ché l'error consueto,
com
più m'attempo, ognor più si fa forte.
O
dura mia più c'altra crudel sorte!
tardi
orama' puo' tormi tanti affanni;
c'un cor che arde e arso è
già molt'anni
torna, se ben l'ammorza la ragione,
non
più già cor, ma cenere e carbone.
Spargendo
il senso il troppo ardor cocente
fuor del tuo bello, in alcun
altro volto,
men forza ha, signor, molto
qual per più
rami alpestro e fier torrente.
Il cor, che
del più ardente
foco più vive, mal s'accorda
allora
co' rari pianti e men caldi sospiri.
L'alma
all'error presente
gode c'un di lor mora
per gire al ciel, là
dove par c'aspiri.
La ragione i
martiri
fra lor comparte; e fra più salde tempre
s'accordan
tutt'a quattro amarti sempre.
D'altrui
pietoso e sol di sé spietato
nasce un vil bruto, che con
pena e doglia
l'altrui man veste e la suo scorza spoglia
e sol
per morte si può dir ben nato.
Così
volesse al mie signor mie fato
vestir suo viva di mie morta
spoglia,
che, come serpe al sasso si discoglia,
pur per morte
potria cangiar mie stato.
O fussi sol la
mie l'irsuta pelle
che, del suo pel contesta, fa tal gonna
che
con ventura stringe sì bel seno,
ch'i'
l'are' pure il giorno; o le pianelle
che fanno a quel di lor basa
e colonna,
ch'i' pur ne porterei duo nevi almeno.
Rendete
agli occhi mei, o fonte o fiume,
l'onde della non vostra e salda
vena,
che più v'innalza e cresce, e con più lena
che
non è 'l vostro natural costume.
E
tu, folt'aïr, che 'l celeste lume
tempri a' trist'occhi, de'
sospir mie piena,
rendigli al cor mie lasso e rasserena
tua
scura faccia al mie visivo acume.
Renda la
terra i passi alle mie piante,
c'ancor l'erba germugli che gli è
tolta,
e 'l suono eco, già sorda a' mie lamenti;
gli
sguardi agli occhi mie tuo luce sante,
ch'i' possa altra bellezza
un'altra volta
amar, po' che di me non ti contenti.
Sì
come secco legno in foco ardente
arder poss'io, s'i' non t'amo di
core,
e l'alma perder, se null'altro sente.
E
se d'altra beltà spirto d'amore
fuor de' tu' occhi è
che m'infiammi o scaldi,
tolti sien quegli a chi sanz'essi
muore.
S'io non t'amo e ador, ch'e' mie
più baldi
pensier sien con la speme tanto tristi
quanto
nel tuo amor son fermi e saldi.
Al
cor di zolfo, a la carne di stoppa,
a l'ossa che di secco legno
sièno;
a l'alma senza guida e senza freno
al desir
pronto, a la vaghezza troppa;
a la cieca
ragion debile e zoppa
al vischio, a' lacci di che 'l mondo è
pieno;
non è gran maraviglia, in un baleno
arder nel
primo foco che s'intoppa.
A la bell'arte
che, se dal ciel seco
ciascun la porta, vince la
natura,
quantunche sé ben prema in ogni loco;
s'i'
nacqui a quella né sordo né cieco,
proporzionato a
chi 'l cor m'arde e fura,
colpa è di chi m'ha destinato al
foco.
A
che più debb'i' omai l'intensa voglia
sfogar con pianti o
con parole meste,
se di tal sorte 'l ciel, che l'alma veste,
tard'
o per tempo alcun mai non ne spoglia?
A
che 'l cor lass' a più languir m'invoglia,
s'altri pur dee
morir? Dunche per queste
luci l'ore del fin fian men
moleste;
c'ogni altro ben val men c'ogni mia doglia.
Però
se 'l colpo ch'io ne rub' e 'nvolo
schifar non posso, almen, s'è
destinato,
chi entrerà 'nfra la dolcezza e 'l duolo?
Se
vint' e preso i' debb'esser beato,
maraviglia non è se nudo
e solo
resto prigion d'un cavalier armato.
Ben
mi dove' con sì felice sorte,
mentre che Febo il poggio
tutto ardea,
levar da terra, allor quand'io potea,
con le suo
penne, e far dolce la morte.
Or m'è
sparito; e se 'l fuggir men forte
de' giorni lieti invan mi
promettea,
ragione è ben c'all'alma ingrata e rea
pietà
le mani e 'l ciel chiugga le porte.
Le
penne mi furn'ale e 'l poggio scale,
Febo lucerna a' piè;
né m'era allora
men salute il morir che
maraviglia.
Morendo or senza, al ciel
l'alma non sale,
né di lor la memoria il cor ristora:
ché
tardi e doppo il danno, chi consiglia?
Ben
fu, temprando il ciel tuo vivo raggio,
solo a du' occhi, a me di
pietà vòto,
allor che con veloce etterno moto
a
noi dette la luce, a te 'l vïaggio.
Felice
uccello, che con tal vantaggio
da noi, t'è Febo e 'l suo
bel volto noto,
e più c'al gran veder t'è ancora
arroto
volare al poggio, ond'io rovino e caggio.
Perché
Febo non torce e non distende
d'intorn' a questo globo freddo e
molle
le braccia sua lucenti, el vulgo volle
notte chiamar quel
sol che non comprende.
E tant'è
debol, che s'alcun accende
un picciol torchio, in quella parte
tolle
la vita dalla notte, e tant'è folle
che l'esca col
fucil la squarcia e fende.
E s'egli è
pur che qualche cosa sia
cert'è figlia del sol e della
terra;
ché l'un tien l'ombra, e l'altro sol la cria.
Ma
sia che vuol, che pur chi la loda erra,
vedova, scura, in tanta
gelosia,
c'una lucciola sol gli può far guerra.
O
notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn' opra
sempr' al fin assalta;
ben vede e ben intende chi t'esalta,
e
chi t'onor' ha l'intelletto intero.
Tu
mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;
ché l'umid' ombra
ogni quiet' appalta,
e dall'infima parte alla più alta
in
sogno spesso porti, ov'ire spero.
O ombra
del morir, per cui si ferma
ogni miseria a l'alma, al cor
nemica,
ultimo delli afflitti e buon rimedio;
tu
rendi sana nostra carn' inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni
fatica,
e furi a chi ben vive ogn'ira e tedio.
Ogni
van chiuso, ogni coperto loco,
quantunche ogni materia
circumscrive,
serba la notte, quando il giorno vive,
contro al
solar suo luminoso gioco.
E s'ella è
vinta pur da fiamma o foco,
da lei dal sol son discacciate e
prive
con più vil cosa ancor sue specie dive,
tal c'ogni
verme assai ne rompe o poco.
Quel che
resta scoperto al sol, che ferve
per mille vari semi e mille
piante,
il fier bifolco con l'aratro assale;
ma l'ombra sol a
piantar l'uomo serve.
Dunche, le notti più
ch'e' dì son sante,
quanto l'uom più d'ogni altro
frutto vale.
Colui
che fece, e non di cosa alcuna,
il tempo, che non era anzi a
nessuno,
ne fe' d'un due e diè 'l sol alto
all'uno,
all'altro assai più presso diè la
luna.
Onde 'l caso, la sorte e la
fortuna
in un momento nacquer di ciascuno;
e a me consegnaro il
tempo bruno,
come a simil nel parto e nella cuna.
E
come quel che contrafà se stesso,
quando è ben
notte, più buio esser suole,
ond'io di far ben mal
m'affliggo e lagno.
Pur mi consola assai
l'esser concesso
far giorno chiar mia oscura notte al sole
che
a voi fu dato al nascer per compagno.
Non
vider gli occhi miei cosa mortale
allor che ne' bei vostri intera
pace
trovai, ma dentro, ov'ogni mal dispiace,
chi d'amor l'alma
a sé simil m'assale;
e se creata a
Dio non fusse equale,
altro che 'l bel di fuor, c'agli occhi
piace,
più non vorria; ma perch'è sì
fallace,
trascende nella forma universale.
Io
dico c'a chi vive quel che muore
quetar non può disir; né
par s'aspetti
l'eterno al tempo, ove altri cangia il
pelo.
Voglia sfrenata el senso è,
non amore,
che l'alma uccide; e 'l nostro fa perfetti
gli amici
qui, ma più per morte in cielo.
Per
ritornar là donde venne fora,
l'immortal forma al tuo
carcer terreno
venne com'angel di pietà sì
pieno,
che sana ogn'intelletto e 'l mondo onora.
Questo
sol m'arde e questo m'innamora,
non pur di fuora il tuo volto
sereno:
c'amor non già di cosa che vien meno
tien ferma
speme, in cui virtù dimora.
Né
altro avvien di cose altere e nuove
in cui si preme la natura, e
'l cielo
è c' a' lor parti largo s'apparecchia;
né
Dio, suo grazia, mi si mostra altrove
più che 'n alcun
leggiadro e mortal velo;
e quel sol amo perch'in lui si specchia.
Gli
occhi mie vaghi delle cose belle
e l'alma insieme della suo
salute
non hanno altra virtute
c'ascenda al ciel, che mirar
tutte quelle.
Dalle più alte
stelle
discende uno splendore
che 'l desir tira a quelle,
e
qui si chiama amore.
Né altro ha il
gentil core
che l'innamori e arda, e che 'l consigli,
c'un
volto che negli occhi lor somigli.
Indarno
spera, come 'l vulgo dice,
chi fa quel che non de' grazia o
mercede.
Non fu', com'io credetti, in vo'
felice,
privandomi di me per troppa fede,
né spero
com'al sol nuova fenice
ritornar più; ché 'l tempo
nol concede.
Pur godo il mie gran danno
sol perch'io
son più mie vostro, che s'i' fussi mio.
Non
sempre a tutti è sì pregiato e caro
quel che 'l
senso contenta,
c'un sol non sia che 'l senta,
se ben par
dolce, pessimo e amaro.
Il buon gusto è
sì raro
c'al vulgo errante cede
in vista, allor che
dentro di sé gode.
Così,
perdendo, imparo
quel che di fuor non vede
chi l'alma ha
trista, e ' suo sospir non ode.
El mondo è
cieco e di suo gradi o lode
più giova a chi più
scarso esser ne vuole,
come sferza che 'nsegna e parte duole.
Io
dico a voi c'al mondo avete dato
l'anima e 'l corpo e lo spirto
'nsïeme:
in questa cassa oscura è 'l vostro lato.
S'egli
è, donna, che puoi
come cosa mortal, benché sia
diva
di beltà, c'ancor viva
e mangi e dorma e parli qui
fra noi,
a non seguirti poi,
cessato il dubbio, tuo grazia e
mercede,
qual pena a tal peccato degna fora?
Ché
alcun ne' pensier suoi,
co' l'occhio che non vede,
per virtù
propia tardi s'innamora.
Disegna in me di
fuora,
com'io fo in pietra od in candido foglio,
che nulla ha
dentro, e èvvi ciò ch'io voglio.
Il
mio refugio e 'l mio ultimo scampo
qual più sicuro è,
che non sia men forte
che 'l pianger e 'l pregar? e non
m'aita.
Amore e crudeltà m'han
posto il campo:
l'un s'arma di pietà, l'altro di
morte;
questa n'ancide, e l'altra tien in vita.
Così
l'alma impedita
del mio morir, che sol poria giovarne,
più
volte per andarne
s'è mossa là dov'esser sempre
spera,
dov'è beltà sol fuor di donna altiera;
ma
l'imagine vera,
della qual vivo, allor risorge al core,
perché
da morte non sia vinto amore.
Esser
non può già ma' che gli occhi santi
prendin de' mie,
com'io di lor, diletto,
rendendo al divo aspetto,
per dolci
risi, amari e tristi pianti.
O fallace
speranza degli amanti!
Com'esser può
dissimile e dispari
l'infinita beltà, 'l superchio lume
da
ogni mie costume,
che meco ardendo, non ardin del pari?
Fra
duo volti diversi e sì contrari
s'adira e parte da l'un
zoppo Amore;
né può far forza che di me
gl'incresca,
quand'in un gentil core
entra di foco, e d'acqua
par che n'esca.
Ben
vinci ogni durezza
cogli occhi tuo, com'ogni luce ancora;
ché,
s'alcun d'allegrezza avvien che mora,
allor sarebbe l'ora
che
gran pietà comanda a gran bellezza.
E
se nel foco avvezza
non fusse l'alma, già morto sarei
alle
promesse de' tuo primi sguardi,
ove non fur ma' tardi
gl'ingordi
mie nimici, anz'occhi mei;
né doler mi potrei
di questo
non poter, che non è teco.
Bellezza
e grazia equalmente infinita,
dove più porgi aita,
men
puoi non tor la vita,
né puoi non far chiunche tu miri
cieco.
Lezi,
vezzi, carezze, or, feste e perle,
chi potria ma' vederle
cogli
atti suo divin l'uman lavoro,
ove l'argento e l'oro
da le'
riceve o duplica suo luce?
Ogni gemma più
luce
dagli occhi suo che da propia virtute.
Non
mi posso tener né voglio, Amore,
crescendo al tuo
furore,
ch'i' nol te dica e giuri:
quante più inaspri e
'nduri,
a più virtù l'alma consigli e sproni;
e
se talor perdoni
a la mie morte, agli angosciosi pianti,
com'a
colui che muore,
dentro mi sento il core
mancar, mancando i mie
tormenti tanti.
Occhi lucenti e santi,
mie
poca grazia m'è ben dolce e cara,
c'assai acquista chi
perdendo impara.
S'egli
è che 'l buon desio
porti dal mondo a Dio
alcuna cosa
bella,
sol la mie donna è quella,
a chi ha gli occhi
fatti com'ho io.
Ogni altra cosa oblio
e
sol di tant'ho cura.
Non è gran
maraviglia,
s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore;
né
propio valor mio,
se l'alma per natura
s'appoggia a chi
somiglia
ne gli occhi gli occhi, ond'ella scende fore.
Se
sente il primo amore
come suo fin, per quel qua questa
onora:
c'amar diè 'l servo chi 'l signore adora.
Ancor
che 'l cor già molte volte sia
d'amore acceso e da troppi
anni spento,
l'ultimo mie tormento
sarie mortal senza la morte
mia.
Onde l'alma desia
de' giorni mie,
mentre c'amor m'avvampa,
l'ultimo, primo in più tranquilla
corte.
Altro refugio o via
mie vita non
iscampa
dal suo morir, c'un'aspra e crudel morte;
né
contr'a morte è forte
altro che morte, sì
c'ogn'altra aita
è doppia morte a chi per morte ha vita.
Dal
primo pianto all'ultimo sospiro,
al qual son già
vicino,
chi contrasse già mai sì fier destino
com'io
da sì lucente e fera stella?
Non
dico iniqua o fella,
che 'l me' saria di fore,
s'aver disdegno
ne troncasse amore;
ma più, se più la miro,
promette
al mio martiro
dolce pietà, con dispietato core.
O
desiato ardore!
ogni uom vil sol potria
vincer con teco,
ond'io, s'io non fui cieco,
ne ringrazio le
prime e l'ultime ore
ch'io la vidi; e l'errore
vincami; e
d'ogni tempo sia con meco,
se sol forza e virtù perde con
seco.
Ben
tempo saria omai
ritrarsi dal martire,
ché l'età
col desir non ben s'accorda;
ma l'alma, cieca e sorda,
Amor,
come tu sai,
del tempo e del morire
che, contro a morte ancor,
me la ricorda;
e se l'arco e la corda
avvien che tronchi o
spezzi
in mille e mille pezzi,
prega te sol non manchi un de'
suoi guai:
ché mai non muor chi non guarisce mai.
Come
non puoi non esser cosa bella,
esser non puoi che pietosa non
sia;
sendo po' tutta mia,
non puo' poter non mi distrugga e
stempre.
Così durando sempre
mie
pietà pari a tua beltà qui molto,
la fin del tuo bel
volto
in un tempo con ella
fie del mie ardente core.
Ma
poi che 'l spirto sciolto
ritorna alla suo stella,
a fruir quel
signore
ch'e' corpi a chiunche muore
eterni rende o per quiete
o per lutto;
priego 'l mie, benché brutto,
com'è
qui teco, il voglia in paradiso:
c'un cor pietoso val quant'un bel
viso.
Se
'l foco al tutto nuoce,
e me arde e non cuoce,
non è mia
molta né sua men virtute,
ch'io sol trovi salute
qual
salamandra, là dove altri muore.
Né
so chi in pace a tal martir m'ha volto:
da te medesma il volto,
da
me medesmo il core
fatto non fu, né sciolto
da noi fia
mai il mio amore;
più alto è quel signore
che ne'
tu' occhi la mia vita ha posta.
S'io
t'amo, e non ti costa,
perdona a me, come io a tanta noia,
che
fuor di chi m'uccide vuol ch'i' muoia.
Quante
più par che 'l mie mal maggior senta,
se col viso vel
mostro,
più par s'aggiunga al vostro
bellezza, tal che
'l duol dolce diventa.
Ben fa chi mi
tormenta,
se parte vi fa bella
della mie pena ria:
se 'l mie
mal vi contenta,
mie cruda e fera stella,
che farie dunche con
la morte mia?
Ma s'è pur ver che
sia
vostra beltà dall'aspro mie martire,
e quel manchi
al morire,
morend'io, morrà vostra leggiadria.
Però
fate ch'i' stia
col mie duol vivo, per men vostro danno;
e se
più bella al mie mal maggior siete,
l'alma n'ha ben più
quiete:
c'un gran piacer sopporta un grande affanno.
Questa
mie donna è sì pronta e ardita,
c'allor che la
m'ancide ogni mie bene
cogli occhi mi promette, e parte tiene
il
crudel ferro dentro a la ferita.
E così
morte e vita,
contrarie, insieme in un picciol momento
dentro a
l'anima sento;
ma la grazia il tormento
da me discaccia per più
lunga pruova:
c'assai più nuoce il mal che 'l ben non
giova.
Tanto
di sé promette
donna pietosa e bella,
c'ancor mirando
quella
sarie qual fu' per tempo, or vecchio e tardi.
Ma
perc'ognor si mette
morte invidiosa e fella
fra ' mie dolenti e
' suo pietosi sguardi,
solo convien ch'i' ardi
quel picciol
tempo che 'l suo volto oblio.
Ma poi che
'l pensier rio
pur la ritorna al consueto loco,
dal suo fier
ghiaccio è spento il dolce foco.
Se
l'alma è ver, dal suo corpo disciolta,
che 'n alcun altro
torni
a' corti e brevi giorni,
per vivere e morire un'altra
volta,
la donna mie, di molta
bellezza agli occhi miei,
fie
allor com'or nel suo tornar sì cruda?
Se
mie ragion s'ascolta,
attender la dovrei
di grazia piena e di
durezza nuda.
Credo, s'avvien che
chiuda
gli occhi suo begli, arà, come rinnuova,
pietà
del mie morir, se morte pruova.
Non
pur la morte, ma 'l timor di quella
da donna iniqua e
bella,
c'ognor m'ancide, mi difende e scampa;
e se talor
m'avvampa
più che l'usato il foco in ch'io son corso,
non
trovo altro soccorso
che l'immagin sua ferma in mezzo il core:
ché
dove è morte non s'appressa Amore.
Se
'l timor della morte
chi 'l fugge e scaccia sempre
lasciar là
lo potessi onde ei si muove,
Amor crudele e forte
con più
tenaci tempre
d'un cor gentil faria spietate pruove.
Ma
perché l'alma altrove
per morte e grazia al fin gioire
spera,
chi non può non morir gli è 'l timor caro
al
qual ogni altro cede.
Né contro
all'alte e nuove
bellezze in donna altera
ha forza altro
riparo
che schivi suo disdegno o suo mercede.
Io
giuro a chi nol crede,
che da costei, che del mio pianger
ride,
sol mi difende e scampa chi m'uccide.
Da
maggior luce e da più chiara stella
la notte il ciel le sue
da lunge accende:
te sol presso a te rende
ognor più
bella ogni cosa men bella.
Qual cor più
questa o quella
a pietà muove o sprona,
c'ognor chi arde
almen non s'agghiacc'egli?
Chi, senza
aver, ti dona
vaga e gentil persona
e 'l volto e gli occhi e '
biondi e be' capegli.
Dunche, contr'a te
quegli
ben fuggi e me con essi,
se 'l bello infra ' non
begli
beltà cresce a se stessi.
Donna,
ma s' tu rendessi
quel che t'ha dato il ciel, c'a noi l'ha
tolto,
sarie più 'l nostro, e men bello il tuo volto.
Non
è senza periglio
il tuo volto divino
dell'alma a chi è
vicino
com'io a morte, che la sento ognora;
ond'io m'armo e
consiglio
per far da quel difesa anzi ch'i' mora.
Ma
tuo mercede, ancora
che 'l mie fin sie da presso,
non mi rende
a me stesso;
né danno alcun da tal pietà mi
scioglie:
ché l'uso di molt'anni un dì non toglie.
Sotto
duo belle ciglia
le forze Amor ripiglia
nella stagion che
sprezza l'arco e l'ale.
Gli occhi mie,
ghiotti d'ogni maraviglia
c'a questa s'assomiglia,
di lor fan
pruova a più d'un fero strale.
E
parte pur m'assale,
appresso al dolce, un pensier aspro e forte
di
vergogna e di morte;
né perde Amor per maggior tema o
danni:
c'un'or non vince l'uso di molt'anni.
Mentre
che 'l mie passato m'è presente,
sì come ognor mi
viene,
o mondo falso, allor conosco bene
l'errore e 'l danno
dell'umana gente:
quel cor, c'alfin consente
a' tuo lusinghi e
a' tuo van diletti,
procaccia all'alma dolorosi guai.
Ben
lo sa chi lo sente,
come spesso prometti
altrui la pace e 'l
ben che tu non hai
né debbi aver già mai.
Dunche
ha men grazia chi più qua soggiorna:
ché chi men
vive più lieve al ciel torna.
Condotto
da molt'anni all'ultim'ore,
tardi conosco, o mondo, i tuo
diletti:
la pace che non hai altrui prometti
e quel riposo
c'anzi al nascer muore.
La vergogna e 'l
timore
degli anni, c'or prescrive
il ciel, non mi rinnuova
che
'l vecchio e dolce errore,
nel qual chi troppo vive
l'anima
'ncide e nulla al corpo giova.
Il dico e
so per pruova
di me, che 'n ciel quel sol ha miglior sorte
ch'ebbe
al suo parto più presso la morte.
-
Beati voi che su nel ciel godete
le lacrime che 'l mondo non
ristora,
favvi amor forza ancora,
o pur per morte liberi ne
siete?
- La nostra etterna quiete,
fuor d'ogni tempo, è
priva
d'invidia, amando, e d'angosciosi pianti.
-
Dunche a mal pro' ch'i' viva
convien, come vedete,
per amare e
servire in dolor tanti.
Se 'l cielo è
degli amanti
amico, e 'l mondo ingrato,
amando, a che son
nato?
A viver molto? E questo mi
spaventa:
ché 'l poco è troppo a chi ben serve e
stenta.
Mentre
c'al tempo la mie vita fugge,
amor più mi distrugge,
né
mi perdona un'ora,
com'i' credetti già dopo
molt'anni.
L'alma, che trema e
rugge,
com'uom c'a torto mora,
di me si duol, de' sua etterni
danni.
Fra 'l timore e gl'inganni
d'amore
e morte, allor tal dubbio sento,
ch'i' cerco in un momento
del
me' di loro e di poi il peggio piglio;
sì dal mal uso è
vinto il buon consiglio.
L'alma,
che sparge e versa
di fuor l'acque di drento,
il fa sol perché
spento
non sie da loro il foco in ch'è conversa.
Ogni
altra aita persa
saria, se 'l pianger sempre
mi resurge al tuo
foco, vecchio e tardi.
Mie dura sorte e
mie fortuna avversa
non ha sì dure tempre,
che non
m'affligghin men, dove più m'ardi;
tal ch'e' tuo accesi
sguardi,
di fuor piangendo, dentro circumscrivo,
e di quel
c'altri muor sol godo e vivo.
Se
per gioir pur brami affanni e pianti,
più crudo, Amor, m'è
più caro ogni strale,
che fra la morte e 'l male
non
dona tempo alcun, né brieve spazio:
tal c'a 'ncider gli
amanti
i pianti perdi, e 'l nostro è meno
strazio.
Ond'io sol ti ringrazio
della
mie morte e non delle mie doglie,
c'ogni mal sana chi la vita
toglie.
Porgo
umilmente all'aspro giogo il collo
il volto lieto a la fortuna
ria,
e alla donna mia
nemica il cor di fede e foco pieno;
né
dal martir mi crollo,
anz'ogni or temo non venga meno.
Ché
se 'l volto sereno
cibo e vita mi fa d'un gran martire,
qual
crudel doglia mi può far morire?
In
più leggiadra e men pietosa spoglia
altr'anima non
tiene
che la tuo, donna, il moto e 'l dolce anelo;
tal c'alla
ingrata voglia
al don di tuo beltà perpetue pene
più
si convien c'al mie soffrire 'l cielo.
I'
nol dico e nol celo
s'i' bramo o no come 'l tuo 'l mie
peccato,
ché, se non vivo, morto ove te sia,
o, te
pietosa, che dove beato
mi fa 'l martir, si' etterna pace
mia.
Se dolce mi saria
l'inferno teco,
in ciel dunche che fora?
Beato a doppio
allora
sare' a godere i' sol nel divin coro
quel Dio che 'n
cielo e quel che 'n terra adoro.
Se
l'alma al fin ritorna
nella suo dolce e desïata spoglia,
o
danni o salvi il ciel, come si crede,
ne l'inferno men doglia,
se
tuo beltà l'adorna,
fie, parte c'altri ti contempla e
vede.
S'al cielo ascende e riede,
com'io
seco desio
e con tal cura e con sì caldo affetto,
fie
men fruire Dio,
s'ogni altro piacer cede
come di qua, al tuo
divo e dolce aspetto.
Che me' d'amarti
aspetto,
se più giova men doglia a chi è
dannato,
che 'n ciel non nuoce l'esser men beato.
Perc'all'alta
mie speme è breve e corta,
donna, tuo fé, se con san
occhio il veggio,
goderò per non peggio
quante di fuor
con gli occhi ne prometti;
ché dove è pietà
morta,
non è che gran bellezza non diletti.
E
se contrari effetti
agli occhi di mercé dentro a te
sento,
la certezza non tento,
ma prego, ove 'l gioire è
men che 'ntero
sie dolce il dubbio a chi nuocer può 'l
vero.
Credo,
perc'ancor forse
non sia la fiamma spenta
nel freddo tempo
dell'età men verde,
l'arco subito torse
Amor, che si
rammenta
che 'n gentil cor ma' suo colpo non perde;
e la
stagion rinverde
per un bel volto; e peggio è al sezzo
strale
mie ricaduta che 'l mio primo male.
Quant'ognor
fugge il giorno che mi resta
del viver corto e poco
tanto più
serra il foco
in picciol tempo a mie più danno e
strazio:
c'aita il ciel non presta
contr'al vecchio uso in così
breve spazio.
Pur poi che non se'
sazio
del foco circumscritto,
in cui pietra non serva suo
natura
non c'un cor, ti ringrazio,
Amor, se 'l manco invitto
in
chiuso foco alcun tempo non dura.
Mie
peggio è mie ventura,
perché la vita all'arme che tu
porti
cara non m'è, s'almen perdoni a' morti.
Passo
inanzi a me stesso
con alto e buon concetto,
e 'l tempo gli
prometto
c'aver non deggio. O pensier vano e stolto!
Ché
con la morte appresso
perdo 'l presente, e l'avvenir m'è
tolto;
e d'un leggiadro volto
ardo e spero sanar, che morto
viva
negli anni ove la vita non arriva.
Se
costei gode e tu solo, Amor, vivi
de' nostri pianti, e s'io, come
te, soglio
di lacrime e cordoglio
e d'un ghiaccio nutrir la
vita mia;
dunche, di vita privi
saremo da mercé di donna
pia.
Meglio il peggio saria:
contrari
cibi han sì contrari effetti
c'a lei il godere, a noi
torrien la vita;
tal che 'nsieme prometti
più morte, là
dove più porgi aita.
A l'alma
sbigottita
viver molto più val con dura sorte
che grazia
c'abbi a sé presso la morte.
Gli
sguardi che tu strazi
a me tutti gli togli;
né furto è
già quel che del tuo non doni;
ma se 'l vulgo ne sazi
e
' bruti, e me ne spogli,
omicidio è, c'a morte ognor mi
sproni.
Amor, perché perdoni
tuo
somma cortesia
sie di beltà qui tolta
a chi gusta e
desia,
e data a gente stolta?
Deh,
falla un'altra volta
pietosa dentro e sì brutta di
fuori,
c'a me dispiaccia, e di me s'innamori.
-
Deh dimmi, Amor, se l'alma di costei
fusse pietosa com'ha bell' il
volto,
s'alcun saria sì stolto
ch'a sé non si
togliessi e dessi a lei?
E io, che più
potrei
servirla, amarla, se mi fuss'amica,
che, sendomi
nemica,
l'amo più c'allor far non doverrei?
-
Io dico che fra voi, potenti dei,
convien c'ogni riverso si
sopporti.
Poi che sarete morti,
di
mille 'ngiurie e torti,
amando te com'or di lei tu ardi,
far ne
potrai giustamente vendetta.
Ahimè,
lasso chi pur tropp'aspetta
ch'i' gionga a' suoi conforti tanto
tardi!
Ancor, se ben riguardi,
un
generoso, alter e nobil core
perdon' e porta a chi l'offend'
amore.
Con
più certa salute
men grazia, donna, mi terrie ancor
vivo;
dall'uno e l'altro rivo
degli occhi il petto sarie manco
molle.
Doppia mercé mie picciola
virtute
di tanto vince che l'adombra e tolle;
né saggio
alcun ma' volle,
se non sé innalza e sprona,
di quel
gioir ch'esser non può capace.
Il
troppo è vano e folle;
ché modesta persona
d'umil
fortuna ha più tranquilla pace.
Quel
c'a vo' lice, a me, donna, dispiace:
chi si dà altrui,
c'altrui non si prometta,
d'un superchio piacer morte n'aspetta.
Non
posso non mancar d'ingegno e d'arte
a chi mi to' la vita
con
tal superchia aita,
che d'assai men mercé più se ne
prende.
D'allor l'alma mie
parte
com'occhio offeso da chi troppo splende,
e sopra me
trascende
a l'impossibil mie; per farmi pari
al minor don di
donna alta e serena,
seco non m'alza; e qui convien ch'impari
che
quel ch'i' posso ingrato a lei mi mena.
Questa,
di grazie piena,
n'abonda e 'nfiamma altrui d'un certo foco,
che
'l troppo con men caldo arde che 'l poco.
Non
men gran grazia, donna, che gran doglia
ancide alcun, che 'l furto
a morte mena,
privo di speme e ghiacciato ogni vena,
se vien
subito scampo che 'l discioglia.
Simil se
tuo mercé, più che ma' soglia,
nella miseria mie
d'affanni piena,
con superchia pietà mi rasserena,
par,
più che 'l pianger, la vita mi toglia.
Così
n'avvien di novell'aspra o dolce:
ne' lor contrari è morte
in un momento,
onde s'allarga o troppo stringe 'l core.
Tal
tuo beltà, c'Amore e 'l ciel qui folce,
se mi vuol vivo
affreni il gran contento,
c'al don superchio debil virtù
muore.
Non
ha l'ottimo artista alcun concetto
c'un marmo solo in sé
non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la
man che ubbidisce all'intelletto.
Il mal
ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,
in te, donna leggiadra,
altera e diva,
tal si nasconde; e perch'io più non
viva,
contraria ho l'arte al disïato effetto.
Amor
dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran
disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;
se
dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che 'l mio
basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.
Sì
come per levar, donna, si pone
in pietra alpestra e dura
una
viva figura,
che là più cresce u' più la
pietra scema;
tal alcun'opre buone,
per l'alma che pur
trema,
cela il superchio della propria carne
co' l'inculta sua
cruda e dura scorza.
Tu pur dalle mie
streme
parti puo' sol levarne,
ch'in me non è di me
voler né forza.
Non
pur d'argento o d'oro
vinto dal foco esser po' piena aspetta,
vota
d'opra prefetta,
la forma, che sol fratta il tragge fora;
tal
io, col foco ancora
d'amor dentro ristoro
il desir voto di
beltà infinita,
di coste' ch'i' adoro,
anima e cor della
mie fragil vita.
Alta donna e gradita
in
me discende per sì brevi spazi,
c'a trarla fuor convien mi
rompa e strazi.
Tanto
sopra me stesso
mi fai, donna, salire,
che non ch'i' 'l possa
dire,
nol so pensar, perch'io non son più
desso.
Dunche, perché più
spesso,
se l'alie tuo mi presti,
non m'alzo e volo al tuo
leggiadro viso,
e che con teco resti,
se dal ciel n'è
concesso
ascender col mortale in paradiso?
Se
non ch'i' sia diviso
dall'alma per tuo grazia, e che
quest'una
fugga teco suo morte, è mie fortuna.
Le
grazie tua e la fortuna mia
hanno, donna, sì vari
gli
effetti, perch'i' 'mpari
in fra 'l dolce e l'amar qual mezzo
sia.
Mentre benigna e pia
dentro, e di
fuor ti mostri
quante se' bella al mie 'rdente desire,
la
fortun' aspra e ria,
nemica a' piacer nostri,
con mille
oltraggi offende 'l mie gioire;
se per avverso po' di tal
martire,
si piega alle mie voglie,
tuo pietà mi si
toglie.
Fra 'l riso e 'l pianto, en sì
contrari stremi,
mezzo non è c'una gran doglia scemi.
A
l'alta tuo lucente dïadema
per la strada erta e lunga,
non
è, donna, chi giunga,
s'umiltà non v'aggiungi e
cortesia:
il montar cresce, e 'l mie valore scema,
e la lena mi
manca a mezza via.
Che tuo beltà
pur sia
superna, al cor par che diletto renda,
che d'ogni rara
altezza è ghiotto e vago:
po' per gioir della tuo
leggiadria
bramo pur che discenda
là dov'aggiungo. E 'n
tal pensier m'appago,
se 'l tuo sdegno presago,
per basso amare
e alto odiar tuo stato,
a te stessa perdona il mie peccato.
Pietosa
e dolce aita
tuo, donna, teco insieme,
per le mie parte
streme
spargon dal cor gli spirti della vita,
onde l'alma,
impedita
del suo natural corso
pel subito gioir, da me
diparti.
Po' l'aspra tuo partita,
per
mie mortal soccorso,
tornan superchi al cor gli spirti
sparti.
S'a me veggio tornarti,
dal cor
di nuovo dipartir gli sento;
onde d'equal tormento
e l'aita e
l'offesa mortal veggio:
el mezzo, a chi troppo ama, è
sempre il peggio.
Amor,
la morte a forza
del pensier par mi scacci,
e con tal grazia
impacci
l'alma che, senza, sarie più contenta.
Caduto
è 'l frutto e secca è già la scorza,
e quel,
già dolce, amaro or par ch'i' senta;
anzi, sol mi
tormenta,
nell'ultim'ore e corte,
infinito piacere in breve
spazio.
Sì, tal mercé,
spaventa
tuo pietà tardi e forte,
c'al corpo è
morte, e al diletto strazio;
ond'io pur ti ringrazio
in questa
età: ché s'i' muoio in tal sorte,
tu 'l fai più
con mercé che con la morte.
Per
esser manco, alta signora, indegno
del don di vostra immensa
cortesia,
prima, all'incontro a quella, usar la mia
con tutto
il cor volse 'l mie basso ingegno.
Ma
visto poi, c'ascendere a quel segno
propio valor non è
c'apra la via,
perdon domanda la mie audacia ria,
e del fallir
più saggio ognor divegno.
E veggio
ben com'erra s'alcun crede
la grazia, che da voi divina
piove,
pareggi l'opra mia caduca e frale.
L'ingegno,
l'arte, la memoria cede:
c'un don celeste non con mille
pruove
pagar del suo può già chi è mortale.
S'alcun
legato è pur dal piacer molto,
come da morte altrui tornare
in vita,
qual cosa è che po' paghi tanta aita,
che renda
il debitor libero e sciolto?
E se pur
fusse, ne sarebbe tolto
il soprastar d'una mercé
infinita
al ben servito, onde sarie 'mpedita
da l'incontro
servire, a quella volto.
Dunche, per tener
alta vostra grazia,
donna, sopra 'l mie stato, in me sol
bramo
ingratitudin più che cortesia:
ché
dove l'un dell'altro al par si sazia,
non mi sare' signor quel che
tant'amo:
ché 'n parità non cape signoria.
Per
qual mordace lima
discresce e manca ognor tuo stanca
spoglia,
anima inferma? or quando fie ti scioglia
da quella il
tempo, e torni ov'eri, in cielo,
candida e lieta prima,
deposto
il periglioso e mortal velo?
C'ancor ch'i'
cangi 'l pelo
per gli ultim'anni e corti,
cangiar non posso il
vecchio mie antico uso,
che con più giorni più mi
sforza e preme.
Amore, a te nol
celo,
ch'i' porto invidia a' morti,
sbigottito e confuso,
sì
di sé meco l'alma trema e teme.
Signor,
nell'ore streme,
stendi ver' me le tuo pietose braccia,
tomm'a
me stesso e famm'un che ti piaccia.
Ora
in sul destro, ora in sul manco piede
variando, cerco della mie
salute.
Fra 'l vizio e la virtute
il
cor confuso mi travaglia e stanca,
come chi 'l ciel non vede,
che
per ogni sentier si perde e manca.
Porgo
la carta bianca
a' vostri sacri inchiostri,
c'amor mi sganni e
pietà 'l ver ne scriva:
che l'alma, da sé
franca,
non pieghi agli error nostri
mie breve resto, e che men
cieco viva.
Chieggio a voi, alta e
diva
donna, saper se 'n ciel men grado tiene
l'umil peccato che
'l superchio bene.
Quante
più fuggo e odio ognor me stesso,
tanto a te, donna, con
verace speme
ricorro; e manco teme
l'alma di me, quant'a te son
più presso.
A quel che 'l ciel
promesso
m'ha nel tuo volto aspiro
e ne' begli occhi, pien
d'ogni salute:
e ben m'accorgo spesso,
in quel c'ogni altri
miro,
che gli occhi senza 'l cor non han virtute.
Luci
già mai vedute!
né da
vederle è men che 'l gran desio;
ché 'l veder raro è
prossimo a l'oblio.
Per
fido esemplo alla mia vocazione
nel parto mi fu data la
bellezza,
che d'ambo l'arti m'è lucerna e
specchio.
S'altro si pensa, è falsa
opinione.
Questo sol l'occhio porta a
quella altezza
c'a pingere e scolpir qui m'apparecchio.
S'e'
giudizi temerari e sciocchi
al senso tiran la beltà, che
muove
e porta al cielo ogni intelletto sano,
dal mortale al
divin non vanno gli occhi
infermi, e fermi sempre pur là
d'ove
ascender senza grazia è pensier vano.
Se
'l commodo degli occhi alcun costringe
con l'uso, parte insieme
la
ragion perde, e teme;
ché più s'inganna quel c'a sé
più crede:
onde nel cor dipinge
per bello quel c'a
picciol beltà cede.
Ben vi fo,
donna, fede
che 'l commodo né l'uso non m'ha preso,
sì
di raro e' mie veggion gli occhi vostri
circonscritti ov'a pena il
desir vola.
Un punto sol m'ha acceso,
né
più vi vidi c'una volta sola.
Ben
posson gli occhi mie presso e lontano
veder dov'apparisce il tuo
bel volto;
ma dove loro, ai pie', donna, è ben tolto
portar
le braccia e l'una e l'altra mano.
L'anima,
l'intelletto intero e sano
per gli occhi ascende più libero
e sciolto
a l'alta tuo beltà; ma l'ardor molto
non dà
tal previlegio al corp'umano
grave e
mortal, sì che mal segue poi,
senz'ali ancor,
d'un'angioletta il volo,
e 'l veder sol pur se ne gloria e
loda.
Deh, se tu puo' nel ciel quante tra
noi,
fa' del mie corpo tutto un occhio solo;
né fie poi
parte in me che non ti goda.
La
morte, Amor, del mie medesmo loco,
del qual, già nudo,
trïonfar solevi
non che con l'arco e co' pungenti strali,
ti
scaccia e sprezza, e col fier ghiaccio il foco
tuo dolce ammorza,
c'ha dì corti e brevi.
In ogni cor
veril men di le' vali;
e se ben porti l'ali,
con esse mi
giugnesti, or fuggi e temi,
c'ogni età verde è
schifa a' giorni stremi.
Perché
'l mezzo di me che dal ciel viene
a quel con gran desir ritorna e
vola,
restando in una sola
di beltà donna, e ghiaccio
ardendo in lei,
in duo parte mi tiene
contrarie sì, che
l'una all'altra invola
il ben che non diviso aver devrei.
Ma
se già ma' costei
cangia 'l suo stile, e c'a l'un mezzo
manchi
il ciel, quel mentre c'a le' grato sia,
e' mie sì
sparsi e stanchi
pensier fien tutti in quella donna mia;
e se
'lor che m'è pia,
l'alma il ciel caccia, almen quel tempo
spero
non più mezz'esser, ma suo tutto intero.
Nel
mie 'rdente desio,
coste' pur mi trastulla,
di fuor pietosa e
nel cor aspra e fera.
Amor, non tel
diss'io,
ch'e' no' ne sare' nulla
e che 'l suo perde chi 'n
quel d'altri spera?
Or s'ella vuol ch'i'
pèra,
mie colpa, e danno s'ha prestarle fede,
com'a chi
poco manca a chi più crede.
Spargendo
gran bellezza ardente foco
per mille cori accesi,
come cosa è
che pesi,
c'un solo ancide, a molti è lieve e poco.
Ma,
chiuso in picciol loco,
s'il sasso dur calcina,
che l'acque
poi il dissolvon 'n un momento,
come per pruova il sa chi 'l ver
dicerne:
così d'una divina
de mille il foco ho
drento
c'arso m'ha 'l cor nelle mie parte interne;
ma le
lacrime etterne
se quel dissolvon già sì duro e
forte,
fie me' null'esser c'arder senza morte.
Nella
memoria delle cose belle
morte bisogna, per tor di costui
il
volto a lei, com'a vo' tolto ha lui;
se 'l foco in ghiaccio e 'l
riso volge in pianto,
con tale odio di quelle,
che del cor voto
più non si dien vanto.
Ma se
rimbotta alquanto
i suo begli occhi nell'usato loco,
fien legne
secche in un ardente foco.
Costei
pur si delibra,
indomit' e selvaggia,
ch'i' arda, mora e
caggia
a quel c'a peso non sie pure un'oncia;
e 'l sangue a
libra a libra
mi svena, e sfibra e 'l corpo all'alma
sconcia.
La si gode e racconcia
nel suo
fidato specchio,
ove sé vede equale al paradiso;
po',
volta a me, mi concia
sì, c'oltr'all'esser vecchio,
in
quel col mie fo più bello il suo viso,
ond'io vie più
deriso
son d'esser brutto; e pur m'è gran ventura,
s'i'
vinco, a farla bella, la natura.
Se
dal cor lieto divien bello il volto,
dal tristo il brutto; e se
donna aspra e bella
il fa, chi fie ma' quella
che non arda di
me com'io di lei?
Po' c'a destinguer
molto
dalla mie chiara stella
da bello a bel fur fatti gli
occhi mei,
contr'a sé fa costei
non men crudel che
spesso
dichi: - Dal cor mie smorto il volto viene. -
Che
s'altri fa se stesso,
pingendo donna, in quella
che farà
poi, se sconsolato il tiene?
Dunc'ambo
n'arien bene
ritrarla col cor lieto e 'l viso asciutto:
sé
farie bella e me non farie brutto.
Per
quel che di vo', donna, di fuor veggio,
quantunche dentro al ver
l'occhio non passi,
spero a' mie stanchi e lassi
pensier riposo
a qualche tempo ancora;
e 'l più saperne il peggio,
del
vostro interno, forse al mie mal fora.
Se
crudeltà dimora
'n un cor che pietà vera
co'
begli occhi prometta a' pianti nostri,
ben sarebb'ora
l'ora,
c'altro già non si spera
d'onesto amor, che quel
ch'è di fuor mostri.
Donna, s'agli
occhi vostri
contraria è l'alma, e io, pur contro a
quella,
godo gl'inganni d'una donna bella.
No'
salda, Amor, de' tuo dorati strali
fra le mie vecchie ancor la
minor piaga,
che la mente, presaga
del mal passato, a peggio mi
traporti.
Se ne' vecchi men vali,
campar
dovria, se non fa' guerra a' morti.
S'a
l'arco l'alie porti
contra me zoppo e nudo,
con gli occhi per
insegna,
c'ancidon più ch'e' tuo più feri dardi,
chi
fia che mi conforti?
Elmo non già
né scudo,
ma sol quel che mi segna
d'onor, perdendo, e
biasmo a te, se m'ardi.
Debile vecchio, è
tardi
la fuga e lenta, ov'è posto 'l mie scampo;
e chi
vince a fuggir, non resti in campo.
Mestier
non era all'alma tuo beltate
legar me vinto con alcuna corda;
ché,
se ben mi ricorda,
sol d'uno sguardo fui prigione e preda:
c'alle
gran doglie usate
forz'è c'un debil cor subito ceda.
Ma
chi fie ma' che 'l creda,
preso da' tuo begli occhi in brevi
giorni,
un legno secco e arso verde torni?
In
noi vive e qui giace la divina
beltà da morte anz'il suo
tempo offesa.
Se con la dritta man face'
difesa,
campava. Onde nol fe'? Ch'era mancina.
La
nuova alta beltà che 'n ciel terrei
unica, non c'al mondo
iniquo e fello
(suo nome dal sinistro braccio tiello
il vulgo,
cieco a non adorar lei),
per voi sol
nacque; e far non la saprei
con ferri in pietra, in carte col
pennello;
ma 'l vivo suo bel viso esser può quello
nel
qual vostro sperar fermar dovrei.
E se,
come dal sole ogni altra stella
è vinta, vince l'intelletto
nostro,
per voi non di men pregio esser dovea.
Dunche,
a quetarvi, è suo beltà novella
da Dio formata
all'alto desir vostro;
e quel solo, e non io, far lo potea.
Se
qui son chiusi i begli occhi e sepolti
anzi tempo, sol questo ne
conforta:
che pietà di lor vivi era qua morta;
or che
son morti, di lor vive in molti.
Deh
serbi, s'è di me pietate alcuna
che qui son chiuso e dal
mondo disciolto,
le lacrime a bagnarsi il petto e 'l volto
per
chi resta suggetto alla fortuna.
-
Perché ne' volti offesi non entrasti
dagli anni, Morte, e
c'anzi tempo i' mora?
- Perché nel
ciel non sale e non dimora
cosa che 'nvecchi e parte il mondo
guasti.
Non
volse Morte non ancider senza
l'arme degli anni e de' superchi
giorni
la beltà che qui giace, acciò c'or torni
al
ciel con la non persa sua presenza.
La
beltà che qui giace al mondo vinse
di tanto ogni più
bella creatura,
che morte, ch'era in odio alla natura,
per
farsi amica a lei, l'ancise e stinse.
Qui
son de' Bracci, deboli a l'impresa
contr'a la morte mia per non
morire;
meglio era esser de' piedi per fuggire
che de' Bracci e
non far da lei difesa.
Qui
son sepulto, e poco innanzi nato
ero: e son quello al qual fu
presta e cruda
la morte sì, che l'alma di me nuda
s'accorge
a pena aver cangiato stato.
Non
può per morte già chi qui mi serra
la beltà,
c'al mortal mie largir volse,
renderla agli altri tutti a chi la
tolse,
s'alfin com'ero de' rifarmi in terra.
L'alma
di dentro di fuor non vedea,
come noi, il volto, chiuso in questo
avello:
che se nel ciel non è albergo sì
bello,
trarnela morte già ma' non potea.
Se
dalla morte è vinta la natura
qui nel bel volto, ancor
vendetta in cielo
ne fie pel mondo, a trar divo il suo velo
più
che mai bel di questa sepoltura.
Qui
son chiusi i begli occhi, che aperti
facén men chiari i più
lucenti e santi;
or perché, morti, rendon luce a
tanti,
qual sie più 'l danno o l'util non siàn
certi.
Qui
son morto creduto; e per conforto
del mondo vissi, e con mille
alme in seno
di veri amanti; adunche a venir meno,
per tormen'
una sola non son morto.
Se
l'alma vive del suo corpo fora,
la mie, che par che qui di sé
mi privi,
il mostra col timor ch'i' rendo a' vivi:
che nol po
far chi tutto avvien che mora.
S'è
ver, com'è, che dopo il corpo viva,
da quel disciolta, c'a
mal grado regge
sol per divina legge,
l'alma e non prima, allor
sol è beata;
po' che per morte diva
è fatta sì,
com'a morte era nata.
Dunche, sine
peccata,
in riso ogni suo doglia
preschiver debbe alcun del suo
defunto,
se da fragile spoglia
fuor di miseria in vera pace è
giunto
de l'ultim'ora o punto.
Tant'esser
de' dell'amico 'l desio,
quante men val fruir terra che Dio.
A
pena prima aperti gli vidd'io
i suo begli occhi in questa fragil
vita,
che, chiusi el dì dell'ultima partita,
gli aperse
in cielo a contemplare Dio.
Conosco e
piango, e non fu l'error mio,
col cor sì tardi a lor beltà
gradita,
ma di morte anzi tempo, ond'è sparita
a voi non
già, m'al mie 'rdente desio.
Dunche,
Luigi, a far l'unica forma
di Cecchin, di ch'i' parlo, in pietra
viva
etterna, or ch'è già terra qui tra noi,
se
l'un nell'altro amante si trasforma,
po' che sanz'essa l'arte non
v'arriva,
convien che per far lui ritragga voi.
Qui
vuol mie sorte c'anzi tempo i' dorma,
né son già
morto; e ben c'albergo cangi,
resto in te vivo, c'or mi vedi e
piangi,
se l'un nell'altro amante si trasforma.
-
Se qui cent'anni t'han tolto due ore,
un lustro è forza che
l'etterno inganni.
- No: che 'n un giorno
è vissuto cent'anni
colui che 'n quello il tutto impara e
muore.
Gran
ventura qui morto esser mi veggio:
tal dota ebbi dal cielo, anzi
che veglio;
ché, non possendo al mondo darmi meglio,
ogni
altro che la morte era 'l mie peggio.
La
carne terra, e qui l'ossa mie, prive
de' lor begli occhi e del
leggiadro aspetto,
fan fede a quel ch'i' fu' grazia e diletto
in
che carcer quaggiù l'anima vive.
Se
fussin, perch'i' viva un'altra volta,
gli altru' pianti a
quest'ossa carne e sangue,
sarie spietato per pietà chi
langue
per rilegar lor l'alma in ciel disciolta.
Chi
qui morto mi piange indarno spera,
bagnando l'ossa e 'l mie
sepulcro, tutto
ritornarmi com'arbor secco al frutto;
c'uom
morto non risurge a primavera.
S'i'
fu' già vivo, tu sol, pietra, il sai,
che qui mi serri, e
s'alcun mi ricorda,
gli par sognar: sì morte è
presta e 'ngorda,
che quel ch'è stato non par fusse mai.
I'
temo più, fuor degli anni e dell'ore
che m'han qui chiuso,
il ritornare in vita,
s'esser può qua, ch'i' non fe' la
partita;
po' c'allor nacqui ove la morte muore.
I'
fu de' Bracci, e se ritratto e privo
restai dell'alma, or m'è
cara la morte,
po' che tal opra ha sì benigna
sorte
d'entrar dipinto ov'io non pote' vivo.
De'
Bracci nacqui, e dopo 'l primo pianto,
picciol tempo il sol vider
gli occhi mei.
Qui son per sempre; né
per men vorrei,
s'i' resto vivo in quel che m'amò tanto.
Più
che vivo non ero, morto sono
vivo e caro a chi morte oggi m'ha
tolto;
se più c'averne copia or m'ama molto,
chi cresce
per mancar, gli è 'l morir buono.
Se
morte ha di virtù qui 'l primo fiore
del mondo e di beltà,
non bene aperto,
anzi tempo sepulto, i' son ben certo
che più
non si dorrà chi vecchio muore.
Dal
ciel fu la beltà mie diva e 'ntera,
e 'l corpo sol mortal
dal padre mio.
Se morto è meco quel
che ebbi d'Iddio
che dunche il mortal sol da morte spera?
Per
sempre a morte, e prima a voi fu' dato
sol per un'ora; e con
diletto tanto
porta' bellezza, e po' lasciai tal pianto
che 'l
me' sarebbe non esser ma' nato.
Qui
chiuso è 'l sol di c'ancor piangi e ardi:
l'alma suo luce
fu corta ventura.
Men grazia e men
ricchezza assai più dura;
c'a' miseri la morte è
pigra e tardi.
Qui
sol per tempo convien posi e dorma
per render bello el mie
terrestre velo;
ché più grazia o beltà non
have 'l cielo,
c'alla natura fussi esempro e norma.
Se
gli occhi aperti mie fur vita e pace
d'alcun, qui chiusi, or chi
gli è pace e vita?
Beltà non
già, che del mond'è sparita,
ma morte sol, s'ogni
suo ben qui giace.
Se,
vivo al mondo, d'alcun vita fui
che gli è qui terra or la
bellezza mia,
mort'è non sol, ma crudel gelosia
c'alcun
per me non mora innanzi a lui.
Perc'all'altru'
ferir non ave' pari
col suo bel volto il Braccio che qui
serro,
morte vel tolse e fecel, s'io non erro,
perc'a lei
ancider toccava i men chiari.
Sepulto
è qui quel Braccio, che Dio volse
corregger col suo volto
la natura;
ma perché perso è 'l ben, c'altri non
cura,
lo mostrò al mondo e presto sel ritolse.
Era
la vita vostra il suo splendore:
di Cecchin Bracci, che qui morto
giace.
Chi nol vide nol perde e vive in
pace:
la vita perde chi 'l vide e non muore.
A
la terra la terra e l'alma al cielo
qui reso ha morte; a chi morto
ancor m'ama
ha dato in guardia mie bellezza e fama,
ch'etterni
in pietra il mie terrestre velo.
Qui
serro il Braccio e suo beltà divina,
e come l'alma al corpo
è forma e vita,
è quello a me dell'opra alta e
gradita;
c'un bel coltello insegna tal vagina.
S'avvien
come fenice mai rinnuovi
qui 'l bel volto de' Bracci di più
stima,
fie ben che 'l ben chi nol conosce prima
per alcun tempo
il perda e po' 'l ritruovi.
Col
sol de' Bracci il sol della natura,
per sempre estinto, qui lo
chiudo e serro:
morte l'ancise senza spada o ferro,
c'un fior
di verno picciol vento il fura.
I'
fui de' Bracci, e qui mie vita è morte.
Sendo
oggi 'l ciel dalla terra diviso,
toccando i' sol del mondo al
paradiso,
anzi per sempre serri le suo porte.
Deposto
ha qui Cecchin sì nobil salma
per morte, che 'l sol ma'
simil non vide.
Roma ne piange, e 'l ciel
si gloria e ride,
che scarca del mortal si gode l'alma.
Qui
giace il Braccio, e men non si desìa
sepulcro al corpo, a
l'alma il sacro ufizio.
Se più che
vivo, morto ha degno ospizio
in terra e 'n ciel, morte gli è
dolce e pia.
Qui
stese il Braccio e colse acerbo il frutto
morte, anz'il fior, c'a
quindici anni cede.
Sol questo sasso il
gode che 'l possiede,
e 'l resto po' del mondo il piange tutto.
I'
fu' Cecchin mortale e or son divo:
poco ebbi 'l mondo e per sempre
il ciel godo.
Di sì bel cambio e di
morte mi lodo,
che molti morti, e me partorì vivo.
Chiusi
ha qui gli occhi e 'l corpo, e l'alma sciolta
di Cecchin Bracci
morte, e la partita
fu 'nanz' al tempo per cangiar suo vita
a
quella c'a molt'anni spesso è tolta.
I'
fu' de' Bracci, e qui dell'alma privo
per esser da beltà
fatt'ossa e terra:
prego il sasso non s'apra, che mi serra,
per
restar bello in chi m'amò già vivo.
Che
l'alma viva, i' che qui morto sono
or ne son certo e che, vivo,
ero morto.
I' fu' de' Bracci, e se 'l
tempo ebbi corto,
chi manco vive più speri perdono.
Ripreso
ha 'l divin Braccio il suo bel velo:
non è più qui,
c'anz'al gran dì l'ha tolto
pietà di terra; che
s'allor sepolto
fussi, lu' sol sarie degno del cielo.
Se
'l mondo il corpo, e l'alma il ciel ne presta
per lungo tempo, il
morto qui de' Bracci
qual salute fie mai che 'l
soddisfacci?
Di tanti anni e beltà
creditor resta.
Occhi
mie, siate certi
che 'l tempo passa e l'ora s'avvicina,
c'a le
lacrime triste il passo serra.
Pietà
vi tenga aperti,
mentre la mie divina
donna si degna d'abitare
in terra.
Se grazia il ciel
disserra,
com'a' beati suole,
questo mie vivo sole
se lassù
torna e partesi da noi,
che cosa arete qui da veder poi?
Perché
tuo gran bellezze al mondo sièno
in donna più
cortese e manco dura,
prego se ne ripigli la natura
tutte
quelle c'ognor ti vengon meno,
e serbi a
riformar del tuo sereno
e divin volto una gentil figura
del
ciel, e sia d'amor perpetua cura
rifarne un cor di grazia e pietà
pieno.
E serbi poi i mie sospiri ancora,
e
le lacrime sparte insieme accoglia
e doni a chi quella ami
un'altra volta.
Forse a pietà chi
nascerà in quell'ora
la moverà co' la mie propia
doglia,
né fie persa la grazia c'or m'è tolta.
Non
è più tempo, Amor, che 'l cor m'infiammi,
né
che beltà mortal più goda o tema:
giunta è
già l'ora strema
che 'l tempo perso, a chi men n'ha, più
duole.
Quante 'l tuo braccio dammi,
morte
i gran colpi scema,
e ' sua accresce più che far non
suole.
Gl'ingegni e le parole,
da te di
foco a mio mal pro passati,
in acqua son conversi;
e Die 'l
voglia c'or versi
con essa insieme tutti e' mie peccati.
Non
altrimenti contro a sé cammina
ch'i' mi facci alla
morte,
chi è da giusta corte
tirato là dove
l'alma il cor lassa;
tal m'è morte vicina,
salvo più
lento el mie resto trapassa.
Né per
questo mi lassa
Amor viver un'ora
fra duo perigli, ond'io mi
dormo e veglio:
la speme umile e bassa
nell'un forte
m'accora,
e l'altro parte m'arde, stanco e veglio.
Né
so il men danno o 'l meglio:
ma pur più temo, Amor, che co'
tuo sguardi
più presto ancide quante vien più tardi.
Se
da' prim'anni aperto un lento e poco
ardor distrugge in breve un
verde core,
che farà, chiuso po' da l'ultim'ore,
d'un
più volte arso un insaziabil foco?
Se
'l corso di più tempo dà men loco
a la vita, a le
forze e al valore,
che farà a quel che per natura
muore
l'incendio arroto d'amoroso gioco?
Farà
quel che di me s'aspetta farsi:
cenere al vento sì pietoso
e fero,
c'a' fastidiosi vermi il corpo furi.
Se,
verde, in picciol foco i' piansi e arsi,
che, più secco ora
in un sì grande, spero
che l'alma al corpo lungo tempo
duri?
Tanto
non è, quante da te non viene,
agli occhi specchio, a che
'l cor lasso cede;
che s'altra beltà vede,
gli è
morte, donna, se te non somiglia,
qual vetro che non
bene
senz'altra scorza ogni su' obbietto piglia.
Esempro
e maraviglia
ben fie a chi si dispera
della tuo grazia al suo
'nfelice stato,
s'e' begli occhi e le ciglia
con la tuo pietà
vera
volgi a far me sì tardi ancor beato:
a la miseria
nato,
s'al fier destin preval grazia e ventura,
da te fie vinto
il cielo e la natura.
Un
uomo in una donna, anzi uno dio
per la sua bocca parla,
ond'io
per ascoltarla
son fatto tal, che ma' più sarò
mio.
I' credo ben, po' ch'io
a me da
lei fu' tolto,
fuor di me stesso aver di me pietate;
sì
sopra 'l van desio
mi sprona il suo bel volto,
ch'i' veggio
morte in ogni altra beltate.
O donna che
passate
per acqua e foco l'alme a' lieti giorni,
deh, fate c'a
me stesso più non torni.
Se
ben concetto ha la divina parte
il volto e gli atti d'alcun, po'
di quello
doppio valor con breve e vil modello
dà vita
a' sassi, e non è forza d'arte.
Né
altrimenti in più rustiche carte,
anz'una pronta man prenda
'l pennello,
fra ' dotti ingegni il più accorto e
bello
pruova e rivede, e suo storie comparte.
Simil
di me model di poca istima
mie parto fu, per cosa alta e
perfetta
da voi rinascer po', donna alta e degna.
Se
'l poco accresce, e 'l mie superchio lima
vostra mercé,
qual penitenzia aspetta
mie fiero ardor, se mi gastiga e 'nsegna?
Molto
diletta al gusto intero e sano
l'opra della prim'arte, che
n'assembra
i volti e gli atti, e con più vive membra,
di
cera o terra o pietra un corp' umano.
Se
po' 'l tempo ingiurioso, aspro e villano
la rompe o storce o del
tutto dismembra,
la beltà che prim'era si rimembra,
e
serba a miglior loco il piacer vano.
Non
è non degna l'alma che n'attende
etterna vita, in cui si
posa e quieta,
per arricchir dell'unica moneta
che 'l ciel ne
stampa, e qui natura spende.
Com'esser,
donna, può quel c'alcun vede
per lunga sperïenza, che
più dura
l'immagin viva in pietra alpestra e dura
che 'l
suo fattor, che gli anni in cener riede?
La
causa a l'effetto inclina e cede,
onde dall'arte è vinta la
natura.
I' 'l so, che 'l pruovo in la
bella scultura,
c'all'opra il tempo e morte non tien
fede.
Dunche, posso ambo noi dar lunga
vita
in qual sie modo, o di colore o sasso,
di noi sembrando
l'uno e l'altro volto;
sì che
mill'anni dopo la partita,
quante voi bella fusti e quant'io
lasso
si veggia, e com'amarvi i' non fu' stolto.
Sol
d'una pietra viva
l'arte vuol che qui viva
al par degli anni il
volto di costei.
Che dovria il ciel di
lei,
sendo mie questa, e quella suo fattura,
non già
mortal, ma diva,
non solo agli occhi mei?
E
pur si parte e picciol tempo dura.
Dal
lato destro è zoppa suo ventura,
s'un sasso resta e pur lei
morte affretta.
Chi ne farà
vendetta?
Natura sol, se de' suo nati
sola
l'opra qui dura, e la suo 'l tempo invola.
Negli
anni molti e nelle molte pruove,
cercando, il saggio al buon
concetto arriva
d'un'immagine viva,
vicino a morte, in pietra
alpestra e dura;
c'all'alte cose nuove
tardi si viene, e poco
poi si dura.
Similmente natura,
di
tempo in tempo, d'uno in altro volto,
s'al sommo, errando, di
bellezza è giunta
nel tuo divino, è vecchia, e de'
perire:
onde la tema, molto
con la beltà congiunta,
di
stranio cibo pasce il gran desire;
né so pensar né
dire
qual nuoca o giovi più, visto 'l tuo 'spetto,
o 'l
fin dell'universo o 'l gran diletto.
S'egli
è che 'n dura pietra alcun somigli
talor l'immagin d'ogni
altri a se stesso,
squalido e smorto spesso
il fo, com'i' son
fatto da costei.
E par ch'esempro
pigli
ognor da me, ch'i' penso di far lei.
Ben
la pietra potrei,
per l'aspra suo durezza,
in ch'io l'esempro,
dir c'a lei s'assembra;
del resto non saprei,
mentre mi strugge
e sprezza,
altro sculpir che le mie afflitte membra.
Ma
se l'arte rimembra
agli anni la beltà per durare ella,
farà
me lieto, ond'io le' farò bella.
Ognor
che l'idol mio si rappresenta
agli occhi del mie cor debile e
forte,
fra l'uno e l'altro obbietto entra la morte,
e più
'l discaccia, se più mi spaventa.
L'alma
di tale oltraggio esser contenta
più spera che gioir d'ogni
altra sorte;
l'invitto Amor, con suo più chiare scorte,
a
suo difesa s'arma e s'argomenta:
Morir,
dice, si può sol una volta,
né più si nasce;
e chi col mie 'mor muore,
che fie po', s'anzi morte in quel
soggiorna?
L'acceso amor, donde vien
l'alma sciolta,
s'è calamita al suo simile ardore,
com'or
purgata in foco, a Dio si torna.
Se
'l duol fa pur, com'alcun dice, bello,
privo piangendo d'un bel
volto umano,
l'essere infermo è sano,
fa vita e grazia
la disgrazia mia:
ché 'l dolce amaro è quello
che,
contr'a l'alma, il van pensier desia.
Né
può fortuna ria
contr'a chi basso vola,
girando,
trïonfar d'alta ruina;
ché mie benigna e pia
povertà
nuda e sola,
m'è nuova ferza e dolce disciplina:
c'a
l'alma pellegrina
è più salute, o per guerra o per
gioco,
saper perdere assai che vincer poco.
-
Se 'l volto di ch'i' parlo, di costei,
no' m'avessi negati gli
occhi suoi,
Amor, di me qual poi
pruova faresti di più
ardente foco,
s'a non veder me' lei
co' suo begli occhi tu
m'ardi e non poco?
- La men parte del
gioco
ha chi nulla ne perde,
se nel gioir vaneggia ogni
desire:
nel sazio non ha loco
la speme e non rinverde
nel
dolce che preschive ogni martire -.
Anzi
di lei vo' dire:
s'a quel c'aspiro suo gran copia cede,
l'alto
desir non quieta tuo mercede.
Te
sola del mie mal contenta veggio,
né d'altro ti richieggio
amarti tanto;
non è la pace tua senza il mio pianto,
e
la mia morte a te non è 'l mie peggio.
Che
s'io colmo e pareggio
il cor di doglia alla tua voglia altera,
per
fuggir questa vita,
qual dispietata aita
m'ancide e strazia e
non vuol poi ch'io pera?
Perché 'l
morir è corto
al lungo andar di tua crudeltà
fera.
Ma chi patisce a torto
non men
pietà che gran iustizia spera.
Così
l'alma sincera
serve e sopporta e, quando che sia poi,
spera
non quel che puoi:
ché 'l premio del martir non è
tra noi.
Caro
m'è 'l sonno, e più l'esser di sasso,
mentre che 'l
danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m'è gran
ventura;
però non mi destar, deh, parla basso.
Dal
ciel discese, e col mortal suo, poi
che visto ebbe l'inferno
giusto e 'l pio
ritornò vivo a contemplare Dio,
per dar
di tutto il vero lume a noi.
Lucente
stella, che co' raggi suoi
fe' chiaro a torto el nido ove
nacq'io,
né sare' 'l premio tutto 'l mondo rio;
tu sol,
che la creasti, esser quel puoi.
Di Dante
dico, che mal conosciute
fur l'opre suo da quel popolo ingrato
che
solo a' iusti manca di salute.
Fuss'io pur
lui! c'a tal fortuna nato,
per l'aspro esilio suo, co' la
virtute,
dare' del mondo il più felice stato.
-
Per molti, donna, anzi per mille amanti
creata fusti, e d'angelica
forma;
or par che 'n ciel si dorma,
s'un sol s'appropia quel
ch'è dato a tanti.
Ritorna a'
nostri pianti
il sol degli occhi tuo, che par che schivi
chi
del suo dono in tal miseria è nato.
-
Deh, non turbate i vostri desir santi,
ché chi di me par
che vi spogli e privi,
col gran timor non gode il gran
peccato;
ché degli amanti è men felice stato
quello,
ove 'l gran desir gran copia affrena,
c'una miseria di speranza
piena.
Quante
dirne si de' non si può dire,
ché troppo agli orbi
il suo splendor s'accese;
biasmar si può più 'l
popol che l'offese,
c'al suo men pregio ogni maggior
salire.
Questo discese a' merti del
fallire
per l'util nostro, e poi a Dio ascese;
e le porte, che
'l ciel non gli contese,
la patria chiuse al suo giusto
desire.
Ingrata, dico, e della suo
fortuna
a suo danno nutrice; ond'è ben segno
c'a' più
perfetti abonda di più guai.
Fra
mille altre ragion sol ha quest'una:
se par non ebbe il suo exilio
indegno,
simil uom né maggior non nacque mai.
Nel
dolce d'una immensa cortesia,
dell'onor, della vita alcuna
offesa
s'asconde e cela spesso, e tanto pesa
che fa men cara la
salute mia.
Chi gli omer' altru' 'mpenna e
po' tra via
a lungo andar la rete occulta ha tesa,
l'ardente
carità d'amore accesa
là più l'ammorza
ov'arder più desia.
Però,
Luigi mio, tenete chiara
la prima grazia, ond'io la vita
porto,
che non si turbi per tempesta o vento.
L'isdegno
ogni mercé vincere impara,
e s'i' son ben del vero amico
accorto,
mille piacer non vaglion un tormento.
Perch'è
troppo molesta,
ancor che dolce sia,
quella mercé che
l'alma legar suole,
mie libertà di questa
vostr'alta
cortesia
più che d'un furto si lamenta e duole.
E
com'occhio nel sole
disgrega suo virtù ch'esser dovrebbe
di
maggior luce, s'a veder ne sprona,
così 'l desir non
vuole
zoppa la grazia in me, che da vo' crebbe.
Ché
'l poco al troppo spesso s'abbandona,
né questo a quel
perdona:
c'amor vuol sol gli amici, onde son rari
di fortuna e
virtù simili e pari.
S'i'
fussi stato ne' prim'anni accorto
del fuoco, allor di fuor, che
m'arde or drento,
per men mal, non che spento,
ma privo are'
dell'alma il debil core
e del colpo, or ch'è morto;
ma
sol n'ha colpa il nostro prim'errore.
Alma
infelice, se nelle prim'ore
alcun s'è mal
difeso,
nell'ultim' arde e muore
del primo foco acceso:
ché
chi non può non esser arso e preso
nell'età verde,
c'or c'è lume e specchio,
men foco assai 'l distrugge
stanco e vecchio.
Donn',
a me vecchio e grave,
ov'io torno e rientro
e come a peso il
centro,
che fuor di quel riposo alcun non have,
il ciel porge
le chiave.
Amor le volge e gira
e apre
a' iusti il petto di costei;
le voglie inique e prave
mi vieta,
e là mi tira,
già stanco e vil, fra ' rari e
semidei.
Grazie vengon da lei
strane e
dolce e d'un certo valore,
che per sé vive chiunche per le'
muore.
Mentre
i begli occhi giri,
donna, ver' me da presso,
tanto veggio me
stesso
in lor, quante ne' mie te stessa miri.
Dagli
anni e da' martiri
qual io son, quegli a me rendono in tutto,
e
' mie lor te più che lucente stella.
Ben
par che 'l ciel s'adiri
che 'n sì begli occhi i' mi veggia
sì brutto,
e ne' mie brutti ti veggia sì bella;
né
men crudele e fella
dentro è ragion, c'al core
per lor
mi passi, e quella
de' tuo mi serri fore.
Perché
'l tuo gran valore
d'ogni men grado accresce suo durezza,
c'amor
vuol pari stato e giovanezza.
S'alcuna
parte in donna è che sie bella,
benché l'altre sien
brutte,
debb'io amarle tutte
pel gran piacer ch'i' prendo sol
di quella?
La parte che s'appella,
mentre
il gioir n'attrista,
a la ragion, pur vuole
che l'innocente
error si scusi e ami.
Amor, che mi
favella
della noiosa vista,
com'irato dir suole
che nel suo
regno non s'attenda o chiami.
E 'l ciel
pur vuol ch'i' brami,
a quel che spiace non sie pietà
vana:
ché l'uso agli occhi ogni malfatto sana.
Perché
sì tardi e perché non più spesso
con ferma
fede quell'interno ardore
che mi lieva di terra e porta 'l
core
dove per suo virtù non gli è
concesso?
Forse c'ogn' intervallo n'è
promesso
da l'uno a l'altro tuo messo d'amore,
perc'ogni raro
ha più forz'e valore
quant'è più desïato
e meno appresso.
La notte è
l'intervallo, e 'l dì la luce:
l'una m'agghiaccia 'l cor,
l'altro l'infiamma
d'amor, di fede e d'un celeste foco.
Quantunche
sie che la beltà divina
qui manifesti il tuo bel volto
umano,
donna, il piacer lontano
m'è corto sì, che
del tuo non mi parto,
c'a l'alma pellegrina
gli è duro
ogni altro sentiero erto o arto.
Ond' il
tempo comparto:
per gli occhi il giorno e per la notte il
core,
senza intervallo alcun c'al cielo aspiri.
Sì
'l destinato parto
mi ferm'al tuo splendore,
c'alzar non lassa
i mie ardenti desiri,
s'altro non è che tiri
la mente al
ciel per grazia o per mercede:
tardi ama il cor quel che l'occhio
non vede.
Ben
può talor col mie 'rdente desio
salir la speme e non esser
fallace,
ché s'ogni nostro affetto al ciel dispiace,
a
che fin fatto arebbe il mondo Iddio?
Qual
più giusta cagion dell'amart'io
è, che dar gloria a
quella eterna pace
onde pende il divin che di te piace,
e
c'ogni cor gentil fa casto e pio?
Fallace
speme ha sol l'amor che muore
con la beltà, c'ogni momento
scema,
ond'è suggetta al variar d'un bel viso.
Dolce
è ben quella in un pudico core,
che per cangiar di scorza o
d'ora strema
non manca, e qui caparra il paradiso.
Non
è sempre di colpa aspra e mortale
d'una immensa bellezza un
fero ardore,
se poi sì lascia liquefatto il core,
che 'n
breve il penetri un divino strale.
Amore
isveglia e desta e 'mpenna l'ale,
né l'alto vol preschive
al van furore;
qual primo grado c'al suo creatore,
di quel non
sazia, l'alma ascende e sale.
L'amor di
quel ch'i' parlo in alto aspira;
donna è dissimil troppo; e
mal conviensi
arder di quella al cor saggio e verile.
L'un
tira al cielo, e l'altro in terra tira;
nell'alma l'un,
l'altr'abita ne' sensi,
e l'arco tira a cose basse e vile.
Se
'l troppo indugio ha più grazia e ventura
che per tempo al
desir pietà non suole,
la mie, negli anni assai, m'affligge
e duole,
ché 'l gioir vecchio picciol tempo
dura.
Contrario ha 'l ciel, se di no'
sente o cura,
arder nel tempo che ghiacciar si vuole,
com'io
per donna; onde mie triste e sole
lacrime peso con l'età
matura.
Ma forse, ancor c'al fin del
giorno sia,
col sol già quasi oltr'a l'occaso spento,
fra
le tenebre folte e 'l freddo rezzo,
s'amor
c'infiamma solo a mezza via,
né altrimenti è, s'io
vecchio ardo drento,
donna è che del mie fin farà 'l
mie mezzo.
Amor,
se tu se' dio,
non puo' ciò che tu vuoi?
Deh
fa' per me, se puoi,
quel ch'i' fare' per te, s'Amor
fuss'io.
Sconviensi al gran desio
d'alta
beltà la speme,
vie più l'effetto a chi è
press'al morire.
Pon nel tuo grado il
mio:
dolce gli fie chi 'l preme?
Ché
grazia per poc'or doppia 'l martire.
Ben
ti voglio ancor dire:
che sarie morte, s'a' miseri è
dura,
a chi muor giunto a l'alta suo ventura?
La
nuova beltà d'una
mi sprona, sfrena e sferza;
né
sol passato è terza,
ma nona e vespro, e prossim'è
la sera.
Mie parto e mie fortuna,
l'un
co' la morte scherza,
né l'altra dar mi può qui pace
intera.
I' c'accordato m'era
col capo
bianco e co' molt'anni insieme,
già l'arra in man tene'
dell'altra vita,
qual ne promette un ben contrito core.
Più
perde chi men teme
nell'ultima partita,
fidando sé nel
suo propio valore
contr'a l'usato ardore:
s'a la memoria sol
resta l'orecchio,
non giova, senza grazia, l'esser vecchio.
Come
portato ho già più tempo in seno
l'immagin, donna,
del tuo volto impressa,
or che morte s'appressa,
con previlegio
Amor ne stampi l'alma,
che del carcer terreno
felice sie 'l
dipor suo grieve salma.
Per procella o per
calma
con tal segno sicura,
sie come croce contro a' suo
avversari;
e donde in ciel ti rubò la natura
ritorni,
norma agli angeli alti e chiari,
c'a rinnovar s'impari
là
sù pel mondo un spirto in carne involto,
che dopo te gli
resti il tuo bel volto.
Per
non s'avere a ripigliar da tanti
quell'insieme beltà che
più non era,
in donna alta e sincera
prestata fu sott'un
candido velo,
c'a riscuoter da quanti
al mondo son, mal si
rimborsa il cielo.
Ora in un breve
anelo,
anzi in un punto, Iddio
dal mondo poco accorto
se
l'ha ripresa, e tolta agli occhi nostri.
Né
metter può in oblio,
benché 'l corpo sie morto,
i
suo dolci, leggiadri e sacri inchiostri.
Crudel
pietà, qui mostri,
se quanto a questa il ciel prestava a'
brutti,
s'or per morte il rivuol, morremo or tutti.
Qual
meraviglia è, se prossim'al foco
mi strussi e arsi, se or
ch'egli è spento
di fuor, m'affligge e mi consuma drento,
e
'n cener mi riduce a poco a poco?
Vedea
ardendo sì lucente il loco
onde pendea il mio greve
tormento,
che sol la vista mi facea contento,
e morte e strazi
m'eran festa e gioco.
Ma po' che del gran
foco lo splendore
che m'ardeva e nutriva, il ciel m'invola,
un
carbon resto acceso e ricoperto.
E s'altre
legne non mi porge amore
che lievin fiamma, una favilla sola
non
fie di me, sì 'n cener mi converto.
I'
sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua pover e
solo,
come spirto legato in un'ampolla:
e la mia scura tomba è
picciol volo,
dov'è Aragn' e mill'opre e lavoranti,
e
fan di lor filando fusaiuolo.
D'intorn'a
l'uscio ho mete di giganti,
ché chi mangi'uva o ha presa
medicina
non vanno altrove a cacar tutti quanti.
I'
ho 'mparato a conoscer l'orina
e la cannella ond'esce, per quei
fessi
che 'nanzi dì mi chiamon la mattina.
Gatti,
carogne, canterelli o cessi,
chi n'ha per masserizi' o men
vïaggio
non vien a vicitarmi mai senz'essi.
L'anima
mia dal corpo ha tal vantaggio,
che se stasat' allentasse
l'odore,
seco non la terre' 'l pan e 'l formaggio.
La
toss' e 'l freddo il tien sol che non more;
se la non esce per
l'uscio di sotto,
per bocca il fiato a pen' uscir può
fore.
Dilombato, crepato, infranto e
rotto
son già per le fatiche, e l'osteria
è
morte, dov'io viv' e mangio a scotto.
La
mia allegrezz' è la maninconia,
e 'l mio riposo son questi
disagi:
che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.
Chi
mi vedess' a la festa de' Magi
sarebbe buono; e più, se la
mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.
Fiamma
d'amor nel cor non m'è rimasa;
se 'l maggior caccia sempre
il minor duolo,
di penne l'alma ho ben tarpata e rasa.
Io
tengo un calabron in un orciuolo,
in un sacco di cuoio ossa e
capresti,
tre pilole di pece in un bocciuolo.
Gli
occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di
stormento
c'al moto lor la voce suoni e resti.
La
faccia mia ha forma di spavento;
i panni da cacciar, senz'altro
telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.
Mi
cova in un orecchio un ragnatelo,
ne l'altro canta un grillo tutta
notte;
né dormo e russ' al catarroso anelo.
Amor,
le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a' cemboli, a'
cartocci,
agli osti, a' cessi, a' chiassi son condotte.
Che
giova voler far tanti bambocci,
se m'han condotto al fin, come
colui
che passò 'l mar e poi affogò ne'
mocci?
L'arte pregiata, ov'alcun tempo
fui
di tant'opinïon, mi rec'a questo,
povero, vecchio e
servo in forz'altrui,
ch'i' son disfatto,
s'i' non muoio presto.
Perché
l'età ne 'nvola
il desir cieco e sordo,
con la morte
m'accordo,
stanco e vicino all'ultima parola.
L'alma
che teme e cola
quel che l'occhio non vede,
come da cosa
perigliosa e vaga,
dal tuo bel volto, donna,
m'allontana.
Amor, c'al ver non cede,
di
nuovo il cor m'appaga
di foco e speme; e non già cosa
umana
mi par, mi dice, amar...
Or
d'un fier ghiaccio, or d'un ardente foco,
or d'anni o guai, or di
vergogna armato,
l'avvenir nel passato
specchio con trista e
dolorosa speme;
e 'l ben, per durar poco,
sento non men che 'l
mal m'affligge e preme.
Alla buona, alla
rie fortuna insieme,
di me già stanche, ognor chieggio
perdono:
e veggio ben che della vita sono
ventura e grazia
l'ore brieve e corte,
se la miseria medica la morte.
Tu
mi da' di quel c'ognor t'avanza
e vuo' da me le cose che non sono.
Di
te con teco, Amor, molt'anni sono
nutrito ho l'alma e, se non
tutto, in parte
il corpo ancora; e con mirabil arte
con la
speme il desir m'ha fatto buono.
Or,
lasso, alzo il pensier con l'alie e sprono
me stesso in più
sicura e nobil parte.
Le tuo promesse
indarno delle carte
e del tuo onor, di che piango e ragiono,
.
. . . . . . .
Tornami
al tempo, allor che lenta e sciolta
al cieco ardor m'era la
briglia e 'l freno;
rendimi il volto angelico e sereno
onde fu
seco ogni virtù sepolta,
e ' passi
spessi e con fatica molta,
che son sì lenti a chi è
d'anni pieno;
tornami l'acqua e 'l foco in mezzo 'l seno,
se
vuo' di me saziarti un'altra volta.
E
s'egli è pur, Amor, che tu sol viva
de' dolci amari pianti
de' mortali,
d'un vecchio stanco oma' puo' goder poco;
ché
l'alma, quasi giunta a l'altra riva,
fa scudo a' tuo di più
pietosi strali:
e d'un legn'arso fa vil pruova il foco.
Se
sempre è solo e un quel che sol muove
il tutto per altezza
e per traverso,
non sempre a no' si mostra per un verso,
ma più
e men quante suo grazia piove.
A me d'un
modo e d'altri in ogni altrove:
più e men chiaro o più
lucente e terso,
secondo l'egritudin, che disperso
ha
l'intelletto a le divine pruove.
Nel cor
ch'è più capace più s'appiglia,
se dir si
può, 'l suo volto e 'l suo valore;
e di quel fassi sol
guida e lucerna.
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . .
.
truova conforme a la suo parte interna.
Deh
fammiti vedere in ogni loco!
Se da mortal
bellezza arder mi sento,
appresso al tuo mi sarà foco
ispento,
e io nel tuo sarò, com'ero, in foco.
Signor
mie caro, i' te sol chiamo e 'nvoco
contr'a l'inutil mie cieco
tormento:
tu sol puo' rinnovarmi fuora e drento
le voglie e 'l
senno e 'l valor lento e poco.
Tu desti al
tempo, Amor, quest'alma diva
e 'n questa spoglia ancor fragil e
stanca
l'incarcerasti, e con fiero destino.
Che
poss'io altro che così non viva?
Ogni
ben senza te, Signor, mi manca;
il cangiar sorte è sol
poter divino.
Dagli
alti monti e d'una gran ruina,
ascoso e circunscritto d'un gran
sasso,
discesi a discoprirmi in questo basso,
contr'a mie
voglia, in tal lapedicina.
Quand'el sol
nacqui, e da chi il ciel destina,
. . . . . . . . . . . .
Passa
per gli occhi al core in un momento
qualunche obbietto di beltà
lor sia,
e per sì larga e sì capace via
c'a mille
non si chiude, non c'a cento,
d'ogni età,
d'ogni sesso; ond'io pavento,
carco d'affanni, e più di
gelosia;
né fra sì vari volti so qual sia
c'anzi
morte mi die 'ntero contento.
S'un ardente
desir mortal bellezza
ferma del tutto, non discese insieme
dal
ciel con l'alma; è dunche umana voglia.
Ma
se pass'oltre, Amor, tuo nome sprezza,
c'altro die cerca; e di
quel più non teme
c'a lato vien contr'a sì bassa
spoglia.
0277
Se con lo stile o coi colori avete
alla natura pareggiato
l'arte,
anzi a quella scemato il pregio in parte,
che 'l bel di
lei più bello a noi rendete,
poi
che con dotta man posto vi sete
a più degno lavoro, a
vergar carte,
quel che vi manca, a lei di pregio in parte,
nel
dar vita ad altrui, tutta togliete.
Che se
secolo alcuno omai contese
in far bell'opre, almen cedale, poi
che
convien c'al prescritto fine arrive.
Or le
memorie altrui, già spente, accese
tornando, fate or che
fien quelle e voi
malgrado d'esse, etternalmente vive.
Chi
non vuol delle foglie
non ci venga di maggio.
La
forza d'un bel viso a che mi sprona?
C'altro
non è c'al mondo mi diletti:
ascender vivo fra gli spirti
eletti
per grazia tal, c'ogni altra par men buona.
Se
ben col fattor l'opra suo consuona,
che colpa vuol giustizia ch'io
n'aspetti,
s'i' amo, anz'ardo, e per divin concetti
onoro e
stimo ogni gentil persona?
L'alma
inquieta e confusa in sé non truova
altra cagion c'alcun
grave peccato
mal conosciuto, onde non è celato
all'immensa
pietà c'a' miser giova.
I' parlo a
te, Signor, c'ogni mie pruova
fuor del tuo sangue non fa l'uom
beato:
miserere di me, da ch'io son nato
a la tuo legge; e non
fie cosa nuova.
Arder
sole' nel freddo ghiaccio il foco;
or m'è l'ardente foco un
freddo ghiaccio,
disciolto, Amor, quello insolubil laccio,
e
morte or m'è, che m'era festa e gioco.
Quel
primo amor che ne diè tempo e loco,
nella strema miseria è
greve impaccio
a l'alma stanca...
Con
tanta servitù, con tanto tedio
e con falsi concetti e gran
periglio
dell'alma, a sculpir qui cose divine.
Non
può, Signor mie car, la fresca e verde
età sentir,
quant'a l'ultimo passo
si cangia gusto, amor, voglie e
pensieri.
Più l'alma acquista ove
più 'l mondo perde;
l'arte e la morte non va bene
insieme:
che convien più che di me dunche speri?
S'a
tuo nome ho concetto alcuno immago,
non è senza del par
seco la morte,
onde l'arte e l'ingegno si dilegua.
Ma
se, quel c'alcun crede, i' pur m'appago
che si ritorni a viver, a
tal sorte
ti servirò, s'avvien che l'arte segua.
Giunto
è già 'l corso della vita mia,
con tempestoso mar,
per fragil barca,
al comun porto, ov'a render si varca
conto e
ragion d'ogni opra trista e pia.
Onde
l'affettüosa fantasia
che l'arte mi fece idol e
monarca
conosco or ben com'era d'error carca
e quel c'a mal suo
grado ogn'uom desia.
Gli amorosi pensier,
già vani e lieti,
che fien or, s'a duo morte
m'avvicino?
D'una so 'l certo, e l'altra
mi minaccia.
Né pinger né
scolpir fie più che quieti
l'anima, volta a quell'amor
divino
c'aperse, a prender noi, 'n croce le braccia.
Gl'infiniti
pensier mie d'error pieni,
negli ultim'anni della vita
mia,
ristringer si dovrien 'n un sol che sia
guida agli etterni
suo giorni sereni.
Ma che poss'io, Signor,
s'a me non vieni
coll'usata ineffabil cortesia?
Di
giorno in giorno insin da' mie prim'anni,
Signor, soccorso tu mi
fusti e guida,
onde l'anima mia ancor si fida
di doppia aita
ne' mie doppi affanni.
Le
favole del mondo m'hanno tolto
il tempo dato a contemplare
Iddio,
né sol le grazie suo poste in oblio,
ma con lor,
più che senza, a peccar volto.
Quel
c'altri saggio, me fa cieco e stolto
e tardi a riconoscer l'error
mio;
manca la speme, e pur cresce il desio
che da te sia dal
propio amor disciolto.
Ammezzami la strada
c'al ciel sale,
Signor mie caro, e a quel mezzo solo
salir m'è
di bisogno la tuo 'ita.
Mettimi in odio
quante 'l mondo vale
e quante suo bellezze onoro e colo,
c'anzi
morte caparri eterna vita.
Non
è più bassa o vil cosa terrena
che quel che, senza
te, mi sento e sono,
onde a l'alto desir chiede perdono
la
debile mie propia e stanca lena.
Deh,
porgi, Signor mio, quella catena
che seco annoda ogni celeste
dono:
la fede, dico, a che mi stringo e sprono;
né, mie
colpa, n'ho grazia intiera e piena.
Tanto
mi fie maggior, quante più raro
il don de' doni, e maggior
fia se, senza,
pace e contento il mondo in sé non
have.
Po' che non fusti del tuo sangue
avaro,
che sarà di tal don la tuo clemenza,
se 'l ciel
non s'apre a noi con altra chiave?
Scarco
d'un'importuna e greve salma,
Signor mie caro, e dal mondo
disciolto,
qual fragil legno a te stanco rivolto
da l'orribil
procella in dolce calma.
Le spine e '
chiodi e l'una e l'altra palma
col tuo benigno umil pietoso
volto
prometton grazia di pentirsi molto,
e speme di salute a
la trist'alma.
Non mirin co' iustizia i
tuo sant'occhi
il mie passato, e 'l gastigato orecchio;
non
tenda a quello il tuo braccio severo.
Tuo
sangue sol mie colpe lavi e tocchi,
e più abondi, quant'i'
son più vecchio,
di pronta aita e di perdono intero.
Penso
e ben so c'alcuna colpa preme,
occulta a me, lo spirto in gran
martire;
privo dal senso e dal suo propio ardire
il cor di
pace, e 'l desir d'ogni speme.
Ma chi è
teco, Amor, che cosa teme
che grazia allenti inanzi al suo
partire?
Ben
sarien dolce le preghiere mie,
se virtù mi prestassi da
pregarte:
nel mio fragil terren non è già parte
da
frutto buon, che da sé nato sie.
Tu
sol se' seme d'opre caste e pie,
che là germuglian, dove ne
fa' parte;
nessun propio valor può seguitarte,
se non
gli mostri le tuo sante vie.
Carico
d'anni e di peccati pieno
e col trist'uso radicato e forte,
vicin
mi veggio a l'una e l'altra morte,
e parte 'l cor nutrisco di
veleno.
Né propie forze ho, c'al
bisogno sièno
per cangiar vita, amor, costume o
sorte,
senza le tuo divine e chiare scorte,
d'ogni fallace
corso guida e freno.
Signor mie car, non
basta che m'invogli
c'aspiri al ciel sol perché l'alma
sia,
non come prima, di nulla, creata.
Anzi
che del mortal la privi e spogli,
prego m'ammezzi l'alta e erta
via,
e fie più chiara e certa la tornata.
Mentre
m'attrista e duol, parte m'è caro
ciascun pensier c'a
memoria mi riede
il tempo andato, e che ragion mi chiede
de'
giorni persi, onde non è riparo.
Caro
m'è sol, perc'anzi morte imparo
quant'ogni uman diletto ha
corta fede;
tristo m'è, c'a trovar grazi' e mercede
negli
ultim'anni a molte colpe è raro.
Ché
ben c'alle promesse tua s'attenda,
sperar forse, Signore, è
troppo ardire
c'ogni superchio indugio amor perdoni.
Ma
pur par nel tuo sangue si comprenda,
se per noi par non ebbe il
tuo martire,
senza misura sien tuo cari doni.
Di
morte certo, ma non già dell'ora,
la vita è breve e
poco me n'avanza;
diletta al senso, è non però la
stanza
a l'alma, che mi prega pur ch'i' mora.
Il
mondo è cieco e 'l tristo esempro ancora
vince e sommerge
ogni prefetta usanza;
spent'è la luce e seco ogni
baldanza,
trionfa il falso e 'l ver non surge fora.
Deh,
quando fie, Signor, quel che s'aspetta
per chi ti crede? c'ogni
troppo indugio
tronca la speme e l'alma fa mortale.
Che
val che tanto lume altrui prometta,
s'anzi vien morte, e senza
alcun refugio
ferma per sempre in che stato altri assale?
S'avvien
che spesso il gran desir prometta
a' mie tant'anni di molt'anni
ancora,
non fa che morte non s'appressi ognora,
e là
dove men duol manco s'affretta.
A che più
vita per gioir s'aspetta,
se sol nella miseria Iddio
s'adora?
Lieta fortuna, e con lunga
dimora,
tanto più nuoce quante più diletta.
E
se talor, tuo grazia, il cor m'assale,
Signor mie caro,
quell'ardente zelo
che l'anima conforta e rassicura,
da
che 'l propio valor nulla mi vale,
subito allor sarie da girne al
cielo:
ché con più tempo il buon voler men dura.
Se
lungo spazio del trist'uso e folle
più temp'il suo
contrario a purgar chiede,
la morte già vicina nol
concede,
né freno il mal voler da quel ch'e' volle.
Non
fur men lieti che turbati e tristi
che tu patissi, e non già
lor, la morte,
gli spirti eletti, onde le chiuse porte
del
ciel, di terra a l'uom col sangue apristi.
Lieti,
poiché, creato, il redemisti
dal primo error di suo misera
sorte;
tristi, a sentir c'a la pena aspra e forte,
servo de'
servi in croce divenisti.
Onde e chi
fusti, il ciel ne diè tal segno
che scurò gli occhi
suoi, la terra aperse,
tremorno i monti e torbide fur
l'acque.
Tolse i gran Padri al tenebroso
regno,
gli angeli brutti in più doglia sommerse;
godé
sol l'uom, c'al battesmo rinacque.
Al
zucchero, a la mula, a le candele,
aggiuntovi un fiascon di
malvagia,
resta sì vinta ogni fortuna mia,
ch'i' rendo
le bilance a san Michele.
Troppa bonaccia
sgonfia sì le vele,
che senza vento in mar perde la via
la
debil mie barca, e par che sia
una festuca in mar rozz'e
crudele.
A rispetto a la grazia e al gran
dono,
al cib', al poto e a l'andar sovente
c'a ogni mi' bisogno
è caro e buono,
Signor mie car, ben
vi sare' nïente
per merto a darvi tutto quel ch'i' sono:
ché
'l debito pagar non è presente.
Per
croce e grazia e per diverse pene
son certo, monsignor, trovarci
in cielo;
ma prima c'a l'estremo ultimo anelo,
goderci in terra
mi parria pur bene.
Se l'aspra via coi
monti e co 'l mar tiene
l'un da l'altro lontan, lo spirto e 'l
zelo
non cura intoppi o di neve o di gelo,
né l'alia del
pensier lacci o catene.
Ond'io con esso
son sempre con voi,
e piango e parlo del mio morto Urbino,
che
vivo or forse saria costà meco,
com'ebbi
già in pensier. Sua morte poi
m'affretta e tira per altro
cammino,
dove m'aspetta ad albergar con seco.
Di
più cose s'attristan gli occhi mei,
e 'l cor di tante
quant'al mondo sono;
se 'l tuo di te cortese e caro dono
non
fussi, della vita che farei?
Del mie
tristo uso e dagli esempli rei,
fra le tenebre folte, dov'i'
sono,
spero aita trovar non che perdono,
c'a chi ti mostri, tal
prometter dei.
Non
più per altro da me stesso togli
l'amor, gli affetti
perigliosi e vani,
che per fortuna avversa o casi strani,
ond'e'
tuo amici dal mondo disciogli,
Signor mie
car, tu sol che vesti e spogli,
e col tuo sangue l'alme purghi e
sani
da l'infinite colpe e moti umani,
. . . . . . . . . . . .