Giovanni Cena
IN UMBRA
A LEONARDO BISTOLFI
DESIDERI TORBIDI
DISCENDEVA la sera
su l'erta solitaria.
Io ristetti. Non era
una voce nell'aria.
Solo nel fondo il fiume
dava un lamento roco
scintillando nel lume
del tramonto di fuoco.
A tratti, fra le chiome
oscure della selva
rifluivano come
aneliti di belva,
e nella luce estrema
tutti i colli riarsi
in una ansia suprema
parevano levarsi
rigidi, come dorsi
gigantei, da onde
voluttuose corsi;
e le forre profonde
anelavano aperte
com'arse fauci e rosse.
Qualcosa ch'era inerte
in me si schiuse e mosse.
E come in antro cieco
tortuosi grovigli
di lombrichi, che bieco
il sol tocchi e scompigli,
un fremito di vite
ignote e nove sorse
in me da le sopite
solitudini. Forse,
gioventù moribonda,
sentivi tu salire
il rimpianto, com'onda
amara? Impeti ed ire
covate a lungo e vani
rancori e odî occulti
e desiderî insani
suscitavan tumulti
sì violenti, ch'io
tutto m'eressi, tutto
vibrai, come restio
fusto che investe il flutto.
O da l'amore esclusa
anima taciturna!
Risonò come, chiusa
da lungo tempo, un'urna
da lungo tempo muta.
Come levossi allora
dentro d'essa un'acuta
voce clamando: "E' l'ora!"
Davan le fibre tòcche
un'ampia onda sonora:
sclamavan mille bocche
imperiose: "E' l'ora!"
E' l'ora? Ma non veggo
venir per il deserto
ombra: ma solo io seggo
su l'avello scoperto,
ove s'abbatte e spezza
la mia fede pugnace
ove la giovinezza
mia si compone in pace!
Amore, amor, vibranti
cantavano le cose.
Forse dai circostanti
colli un grido rispose?
O da l'amore esclusa
anima! Verso il blando
appello ansiosa illusa
si levò brancolando
per la tenebra densa
e protesa la mano
aspettò con intensa
speranza. Invano, invano!
E un soffio arido corse
lungo l'aeree vette.
La foresta si torse
viva sotto le strette
formidabili e giacque
rigida. Tacque il vento.
Solo nel fondo l'acque
ripetean il lamento.
Ma in occidente il cielo
poi che il sol si nascose
spiegossi, come un velo caldo
e piovevan rose.
Le rose sanguinose
caddero sui pendii
indi silenziose
l'ombre... Oh ch'io t'oblii,
livida sera in cui
l'anima inorridita
in faccia a' cieli bui
maledisse la Vita!
NOX.
L'ANIMA mia piena di cose oscure
brancola vagabonda: come un cieco
in sè guarda, si ascolta e parla seco
stessa parole a penetrarsi dure.
Sfioranla a volo le capigliature
buie dei sogni là dov'io la reco
e fra 'l notturno vento ella ode l'eco
di sordi passi su le sepolture.
L'anima mia profondi esseri cova.
Su lei sovente chino e senza fiato
li sento nella notte abbrividire.
E senza fine attendo che si mova
e schiuda il seme in lei dell'avvenire.
Muta la Morte vigila in aguato.
IL CIRENEO
Per le notturne vie mentre una trista
nebbia dal cielo desolato piove,
le case tue per cui lume non move
sembrano muti sepolcreti in vista,
o città fosca e taciturna, dove
io scesi altero un dì come a conquista,
dove l'anima mia piega e s'attrista
ad ogni passo di tristezze nuove.
Ma tu non dormi. Grondano le vie
lagrime e sangue: io sento questi immani
dolori sopra gli omeri gravarmi
come una croce smisurata, e parmi
piangere, solo, tutti i pianti umani,
agonizzar di tutte le agonie.
NELL'OSPEDALE
SOSPIRI ancora verso quelle nevi
sacre? Contendi a' liberi orizzonti?
Lungi le aurore sono ed i tramonti...
Or quest'uman dolore, anima, bevi.
Questo dolore assorbi e questo senso
oscuro d'una ignota Ombra vivente,
questo profumo di carne morente
ch'erra nell'aria come un acre incenso.
Anche dilaga il sol da le vetrate
nel tempio del dolore. Sole! Sole!
Quante d'amor ti mormoran parole
quest'anime di te non saziate!
Parole rotte da risa e singulti
tumide di follia, che celan cose
puerili, profonde e spaventose;
lumi gettati sovra abissi occulti.
Cavi occhi spenti, o vivi ancor di luce
ultima! Bocche immobili o tremanti!
Scarne mani che a gesti supplicanti
un istinto superstite conduce!
Splendono i letti quali candide are
ove consuman sacrifici lenti
ascoltano le vittime scienti
una micidiale arma fischiare.
Gemono alcuni, come bimbi in culla,
gemiti fiochi, lunghi come canti
lontani, e gli occhi lor non hanno pianti.
La nenia monotona li culla.
Guardano in cieli gemmei pallenti
gli ultimi voli far lunghi ricami
e dondolar gracili al vento rami,
irrugginirsi, diradarsi lenti.
Alcuno cui la vita amara porse
troppe angosce, la fine ultima invoca,
ma la vecchia speranza che s'affioca
susurra ancor, dolce e tenace: "Forse!..."
Vigilano altri: su la cute un gelo
striscia: qualcosa rompe dentro d'essi:
odono schianti e crepiti sommessi,
sentono immoti il rapido sfacelo.
Sentono Alcuno pur nella diurna
luce, tetro, che a l'anime sovrasta
e le assorbe nell'ala umida e vasta
che le trarrà nell'ombra taciturna.
Io seguivo ne' cieli di cristallo
le fluttuanti fragili chimere:
lungo i vetri passavan forme nere
e scivolavan tra 'l fogliame giallo,
quando l'ugna sentii dell'avvoltoio
premere nel costato e penetrare,
e mi pareva il mio respiro stare...
onde gridai con voce roca: Muoio!...
Convalescenti languidi con occhi
vagabondi implorando il sole, il sole,
mutano rare timide parole
vacillando su i trepidi ginocchi.
Ascoltano i rumori onde s'ingombra
l'orecchio, mormorii di frondi e d'acque,
i suoni della vita che rinacque
risospinta dal limite dell'ombra;
tentando i primi passi, con leggera
inquietudin, fino oltre le soglie;
e mentre aride rotean le foglie
odono in sè brusir la primavera.
O voci più che musica soavi,
leni feminee dita su febbrili
fronti! Le suore van, cogl'infantili
visi a la morte sorridendo gravi.
O fiori chiusi in orti di dolore,
cui traggono morenti occhi seguaci,
non vi darebber mai gli umani baci
una sì pia felicità d'amore!
Si schiuse il fior d'amore umile e solo,
il fior che non t'offersi e non hai colto,
quando vidi apparire il tuo bel volto,
gigli e rose nel candido soggolo,
suor Luciana; e forse t'avvedesti:
e come augel sotto amorose dita
forse tremò l'anima tua smarrita,
quando n'andavi china gli occhi onesti!
Ma quei che giace ed agonizza dietro
il paravento! Livida figura
irta, cava; socchiusa bocca oscura,
arida; occhi immobili di vetro.
Esce una man di scheletro che afferra
la coltre: il petto ondeggia sibilando.
Intorno a lo spettacolo nefando
Alcuno tetro ed invisibil erra...
Muore. La faccia si compone bianca
e sui lini la man si fa di cera.
Passò la morte. Cade la bufera
rapida. Torna la gran calma stanca.
Intanto scruta e palpa e si travaglia
la Scienza che passa curiosa.
Ahi se nell'agonia che non ha posa
chiusa è la gola come da tanaglia
e l'aria densa il petto inerte cerchia,
quegli occhi, che dilata un sovrumano
terrore, verso lei pregano invano,
come anneganti cui l'onda soverchia.
Non èvvi in petto d'uom fiato che inali
entro dei petti esanimi la vita:
la scienza degli uomini smarrita
disperando si perde in mezzo a' mali.
Oh Colui che sentiam dietro le ignude
apparenze, inflessibile e possente!
Colui che sta silenziosamente
dentro l'immensità che a noi si chiude!
Perché la nostra cieca mente indaga
l'ambigua Forma che ne l'aer oscilla?
Oh chiudiamo la debole pupilla
al mister che ci asseta e non ci appaga!
Invano l'uom si sfascia sotto i vasti
cieli, implorando Lui muto e lontano!
Cristo morente, come un giorno, invano
esclama: Padre, ché m'abbandonasti?
Ecco, in alto Gesù, china la bionda
testa nel sole, sanguinoso pende.
L'innocente la morte ancora attende
e non è sazia l'anima profonda.
Ecco 'l Figliuol dell'uomo; egli è 'l dolore
che in sè raduna tutta l'infinita
agonia dei viventi: egli è la Vita
che a morir nata eternamente muore.
LA CHIOCCIA
LA chioccia empiea di gridi la radura,
che aveva scorto la vivanda ghiotta,
e i pulcini correan avidi in frotta,
quand'ella vide in ciel la macchia scura.
Grifagno roteò su la pastura
il falco e scese, l'ali chiuse, a rotta:
ella aspettò, stridendo, irta, la lotta,
sovra i pulcini muti di paura,
O ire generose! Ma ghermita
rapidamente dentro l'ugne ladre
ascende nel tranquillo azzurro e spare.
Guardano in alto le pupille ignare.
Ed io che vidi ho l'anima smarrita:
e ricordando gemo: "Madre, madre!"
I BRUTI
1.
NELLA piccola culla io l'ho veduto.
La mamma ricantava un suo lamento
roco, il visino languido e paffuto
della culla seguìa l'ondulamento.
Ei nell'inconscia pace aperte a stento
le gravi ciglia, richiudeale muto:
e la madre sentiva un dubbio lento
figgersi in cuor come uno spillo acuto.
Ma ristando talor con un sussulto
afferrava il suo bimbo da la culla.
Oh scorgere in quegli occhi una scintilla!
E sorgean le sue viscere in tumulto:
Parla! guardami! ridi... Nulla, nulla!
Di luce muta era la gran pupilla.
2.
MENTR'EGLI cresce ed ella ancor attende,
solo e randagio trae per la campagna,
piene d'un sangue giallo che ristagna,
le membra dove lume non s'accende.
Egli ama il sole, il sol grande che fende
le nubi nel mattin su la montagna:
e un'adorazion muta il guadagna
per il bel dio che nell'azzurro ascende.
Egli ama il bacio della madre, e il viso
soffuso d'una sconsolata pace,
di lei che al pari d'un pulcin lo impinza.
Poi quand'ogni altra bramosia si tace,
sdraiasi al sole ed un beato riso,
mentre dorme, la faccia gli raggrinza.
3.
IO già li vedo scendere i deformi
ingordi quali corvi su carname:
flaccidi gialli: le mascelle enormi
lungamente digrignano per fame.
Nei cranî angusti gurgitano informi
pensieri d'odio e belluine brame:
s'adunan su le piazze orridi a stormi
e attendono, grugnendo, nello strame...
Così colei che fu matrigna sempre
anco per invecchiar non cangia tempre,
feconda ognora d'infelici vite.
Ed il giorno è pur lunge che una prole
nova uscirà nello splendor del sole
da le viscere sue ringiovanite.
EPIFANIA
PER loco ignoto, viator solingo,
brancolo nell'opaco tenebrore
e co' miei occhi, ad ingannarmi, aurore
e meriggi e tramonti aurei fingo.
Nè per ch'io passi in lunghi sogni l'ore
si fa più breve il mio cammin ramingo,
ché, quant'io lungi le pupille spingo,
non trema in oriente alcun bagliore.
O per gli umili stella che riluce
ancora, e là dov'è bimbo Gesù
per sentiero infallibile conduce!
Splendea pur nel mio cielo, or non è più!
Onde, con gli occhi vagabondi: O Luce,
io vo gridando: Luce ove sei tu?
CIELO
NUBI di perla tenui, fluenti
verso l'occaso, come grandi torme
di pascenti chimere, io seguo i lenti
giri e l' mutare delle vostre forme,
come un dì. Guardo: l'ombre vanienti
m'oscuran gli occhi di fuggevoli orme:
fumano desiderî sonnolenti
come vapori sopra il cuor che dorme.
Fuggiamo, anima mia, verso quel lembo
di cielo ove trovasti un dì soggiorno
per riposare, e per piangere un grembo!
Come un giorno tu sei nuda e fanciulla
il cielo è bello e grande come un giorno,
anima... Ma lassù non è più nulla!
ELEVAZIONE
UN tenacissimo arbusto
lunghesso l'antico spalto
fuor del mattone combusto
allunga il gracile fusto.
Quando nel ciel di cobalto
il vento l'urta e l'aggira,
s'anima, vibra a l'assalto,
par che si lanci ne l'alto.
La notte chiuso sospira,
solo, d'amor come un seno
abbandonato, ed aspira
a l'alba che s'inzaffira.
Un dì trarrà nel sereno
con folle slancio dell'ali.
Ahi! Sradicatosi appieno,
morrà sul nudo terreno!
Che importa? Anima! Sali!
TEDII
ATTESA
NON perché il novo sole abbia rimote
le brume, spoglia il cuor la sua gramaglia:
su la mia vita stanno l'ombre immote
e il diuturno gelo non si squaglia.
Solo tra la randagia nuvolaglia
qualche raggio sanguineo percote:
ma il sol ch'ora m'illude, ora m'abbaglia
dal sonno dov'io giaccio non mi scuote.
Ah prima che si sfrondi la virente
stagione, forse un vivido sorriso
espanderà dell'ansia anima il fiore?
Così nei cieli l'occhio paziente
sebbene il cor disperi, io tengo fiso,
pur se una tarda spunti alba d'amore.
ARTE
ARTE, vano e dolcissimo tormento
che di cose terribili m'invogli:
Arte, fonte di spasimi e d'orgogli
che m'adergi e mi prostri a tuo talento:
tu la mia cruda giovinezza sfogli
senza rimorso e gitti preda al vento,
sì ch'io m'avvedo e pur non fo lamento
ch'ogni virtù di vivere mi spogli.
Forti muscoli, arterie copïose
m'ebbi, ma nell'orribile fatica
tutte le forze mie giacquero dome:
e il cervel grava su le faticose
membra sì ch'io mi curvo e piego, come
su fragil gambo troppo colma spica.
IL VENTO
1.
GIE' da la notte s'ode il mugolio
iroso della valle: a la collina
quel solitario pino invan restìo
dondola il capo sotto la rapina.
E su la strada bianca presso il rio
grigio di foglie s'alza una cortina
a tratti e il bosco è tutto un arruffio
di criniere che il vento urge e mulina.
I bovi stanchi allungan la giogaia
annusando, le nari aride, invano
mentre l'aratro la gleba rimove;
e gira i dubitosi occhi il villano
nel ciel di vetro dove ala non move
se un fiocco bianco su le creste appaia.
2.
ANIMA mia che stai come un deserto
interminato dove ombra non scende
e più d'un solco a nobil seme aperto
alcun soffio di brezza invano attende;
anche su te disperso andò l'incerto
stuolo di nubi che sì dolci prende
forme di sogno: anche su te scoperto
il firmamento immoto arido pende.
Pure alcun tronco rami apre giganti
e alcun germoglio insinua le cieche
radiche nel profondo brancicanti,
anima! E guardan le pupille assorte
se appaia un segno in ciel e sia di bieche
forme o di liete, e gioia rechi o morte.
IL CUORE
OR mentre a me ricama
l'arte o rattoppa
alcuna futile trama,
un cavallo remoto galoppa.
Piano, come di state
su paglia o loppa
nell'aie già trebbiate.
E' il mio povero cuor che galoppa.
E' il mio cuore. Il destino
gli siede in groppa.
Sento: lontano vicino
lo scalpito fitto galoppa.
Animal generoso
era, di troppa
foga: oggi implora il riposo
Oh galoppa, galoppa, galoppa!
Ma il mostro che l'infrena
stringe e s'aggroppa
qual serpe, nè gli dà lena.
Oh galoppa, galoppa, galoppa!
Giovine, e quasi d'occhi
cieco, s'intoppa
e piegan fiacchi i ginocchi
O mio cuore, galoppa, galoppa!
Ma la morte sorgiunge
che non è zoppa.
L'ascolti? Più non è lunge
Non è lunge. Pur ella galoppa.
LE SIRENE
La vela mia da li error vaghi stanca
lunghesso il lido oblivioso viene,
dove, sostando, poi che il vento manca
abbrividisce a un suon di cantilene.
Oh saggia Circe! Ecco le bionde arene
animarsi, ondular seni tra bianca
spuma, snodarsi braccia di Sirene
e fiorir rosse bocche. Arranca! arranca!
Ahi ch'io di cera l'inesperto orecchio
prima, nè poi di vincoli impedii
le membra troppo obedienti al suono!
Chiamano: Vieni! vieni! Su lo specchio
del mar voluttuoso io piego. Oh sii,
tu che mi vuoi, la morte! Io m'abbandono!
L'INGANNO
Io la vestii di sogno: io su la chioma
nera da' violacei riflessi
cinsi timidamente i miei sommessi
desiri e fusi un delicato aroma.
Negli occhi oscuri, sotto grandi ciglia
simili ad ali fuggitive, ascosi
vaghi misteri, e fulgide composi
parole su la sua bocca vermiglia.
La persona bellissima di lume
aspersi tutta e involsi di profumi,
ed io che non credevo a finti numi
questo mi finsi per mio culto nume.
Poi caddi riverente sui ginocchi
a contemplar la bella creatura,
così divina ch'io m'ebbi paura
di mirar quel prodigio con quest'occhi.
Or che sarà di me s'ella da l'ara
scenda e si spogli di quell'aurea veste?
Scenderà l'amor mio dentro le meste
ombre e si chiuderà come in sua bara.
Amore, onde fiorisce il sogno e langue
la vita! Resterai, anima, sola,
perduta dietro la divina fola
intessuta con lagrime e con sangue;
e a lungo guarderai con occhi assorti
in quei giorni sì belli e sì fugaci,
mentr'ella in altro amor muterà baci
ignuda fra due braccia ignude e forti.
DORME
ELLA dorme alternando sommessi aliti brevi:
sogna. Sogna di me?
Mormorano le labbra, ridono risi lievi...
Non saprò mai perché!...
Non saprò mai: la guardo imporporarsi immersa
nel sogno. Alcuno l'ha
sua tra le braccia e nelle membra vibranti versa
acute voluttà.
Chi? Forse alcun che appena visto le apparve e sparve
entro la folla un dì?
Od altri che formato di sue verginee larve
venia nel sonno?... Chi?
Non so. Qualche sembianza aveva ella cercato
nel mio volto, di lui?
Uomo ei non era, ed era da' suoi desiri nato.
Non io sono, non fui.
E ti compiango, amante delusa, e mi vergogno.
E tremo anche, non tu
desta repente a sommo della gioia, ove il sogno
frale non regge più,
me vedendo curvato pallido sul tuo cuore
e il viso e gli occhi miei
tristissimi, balzando pazza per il terrore,
gridi: Chi sei? Chi sei?
FIOR DI SERRA
TANTO dai chiusi ripari
gli steli magri tendevi,
pianta, per suggere i rari
soli ed i zefiri avari!
Quella di che ti piangevi
interminata agonia
cessò. Ne' zefiri lievi
nuoti, di luce t'imbevi.
Or come par che tu sia
vinta d'ignoti languori,
chiusa da oscura malia?
L'ape ti sfiora e devia,
cadono i lieti colori
negletta resti, con sole
foglie diafane: i fiori
morirono tutti: e muori...
Amor, ch'io muoia di sole!
VANEGGIAMENTI
Io non so. Non mi dici nulla! Ché non difendi
l'amor nostro da queste nuvole di procella?
Sono inquieto e tanto triste!...sei tu che rendi
triste questo fanciullo che piange e si flagella.
Quando gli accorgimenti d'amante e di sorella
simuli delicatamente, mi riaccendi
il disgusto nel sangue che insorge e si ribella...
tu non comprendi, amante triste, tu non comprendi!
Io pure non comprendo. Guardiamo in noi. Sì fioco
è 'l lume, sì profonda l'ombra che ci riempie!
Le nostre anime sono due tenebrosi abissi.
..Non dirmi nulla! Ho tanto male, qui. Forse un poco
di febbre... ma che dissi? Carezzami le tempie
così... Piangi? Perdona... Perdonami! Che dissi?
PASSIONE
1.
IO sono stanco, instabile, inquieto,
il capo grave, ardenti le palpebre
come per mal che in me covi segreto;
e il sangue pulsa turgido per l'ebre
vene e gli occhi m'intorbida e la mente.
Questo è dunque l'amore? Questa febre,
quest'acuta follia che m'ha repente
sconvolto, le natie virtù disfatte,
scagliato come arbusto in un torrente?
Si levano le mie mani contratte,
tutto il mio corpo invaso da tremori
in preda a la vertigine s'abbatte,
quand'ella appare, fosca nei pallori
delle sue membra, accesa come lampa.
Allor salgono tutti i miei furori,
ed una smania di conquista avvampa
in me: su la sua bocca umida esangue
baci feroci la mia bocca stampa.
Indi in quel corpo che sùbito langue
la mia collera insana incrudelisce
come per un delirio di sangue.
Ondulano dinanzi agli occhi strisce
rosse. Ella giace e nel suo corpo attorto
corrono freddi scivolii di bisce.
E tutto l'esser suo vedendo morto
a sé, vivente solo al mio volere,
tutto da le mie brame ingorde assorto,
e lento consumar come un braciere
quel muto corpo ond'è l'anima lunge,
il disgusto m'assal del mio potere.
Quest'è la donna? Ed un rancor mi punge
contro lei, contro questa illusione
insensata che corpo a corpo giunge,
ch'esseri l'uno a l'altro estranei pone
in abbracci di morte e un tal furore
crea di possesso e di distruzione...
Non tal sognavi, anima mia, l'Amore!
2.
O Sogno della mia vita! La Donna
prima apparita a me fanciul novenne
incoronata il dì della Madonna,
quando una mano trepido mi tenne
che non era materna, pur mi pose
nel cuore un desiderio perenne.
Oh quante indi fantasime compose
il mio pensiero e quante bianche dita
il mio guancial fiorirono di rose!
Ma nella bionda vergine stupita
ai suoni uscenti di sue mani sante,
dipinta nella sua nicchia romita;
nella suora a la sua grata pregante,
chiusa tra' lini come in un bocciuolo,
negli occhi intravveduta un solo istante;
nelle figure che in fiorente stuolo
tornano agli occhi sul passato fissi,
il mio sogno, il mio sogno era uno solo!
Una la donna che adorando vissi
quando parlai d'amor, quando ascoltai,
quando ostinato sofferii, nè dissi.
Ella da l'ombre emergerà giammai?
Poi che non sei già tu fosca bambina,
che a me stesso per poco tolto m'hai.
Ella è colei che l'uom fece regina
della natura, eletta forma bella
cui la Forza ed il Genio s'inchina.
Di sé, del mondo ignara e pur sorella
dell'infinito, a lei levato è un lembo
del mistero e l'ignoto in lei favella.
Misericorde sì ch'io nel suo grembo
pieghi la fronte fatta oscura e triste,
come un dì bimbo quando urlava il nembo.
L'amor di lei fu sopra le conquiste
più terribili: accanto a la vittoria
erano Vita e Morte insiem commiste.
O visioni dolci a la memoria,
quando l'amor desiderabil era
per me più che i fantasmi della Gloria.
Amore! Amore! Esser la primavera,
il cielo, il mare, l'infinito e Dio!
Sentir gonfiarmi come la riviera,
come la terra nello sfavillio
argenteo del meriggio! E come il sole,
tese le braccia a tutto quel ch'è mio,
allegrare, guarire, indir parole
creatrici; far lieti i prati, biondi
tutti i campi, fiorir tutte le aiuole!
Di due congiunti spiriti profondi
che forse d'un'impronta egual sigilla
un altro amore in più remoti mondi,
compenetrar la duplice scintilla
in una fiamma luminosa e pura
imprigionata nella stessa argilla,
onde sorga la nova creatura
piena, vasta, molteplice, infinita,
cui segnino il destino e la natura
a reggere il dominio della vita!
3.
AHI! Da quel dì che prima al tuo cospetto
tremai di tenerezza e di terrore,
inutilmente in me guardo ed aspetto,
s'io senta un tratto rifluir dal cuore
le silenti certezze imperiose.
Quello ch'io sento è quel che nasce e muore.
L'anima mia che ha sete delle cose
eterne, lungi da l'impure brame,
nel suo mistico sogno si nascose.
La carne sola in questo brulicame
di desiderî, trionfando estolle
il grido della insaziabil fame.
La passione che sgorgava in polle
limpide, or tutta nel suo letto affonda
ingoiata dal fango, e rugge e bolle.
O abondanza di purissim'onda
che m'irrorò la prima giovinezza
or fatta un acquitrino in breve sponda!
Io gemo e ardo nella gran tristezza
del cielo, e giaccio su la terra dove
la salda fede mia s'abbatte e spezza...
Io fuggirò come il destin mi move
verso il mio sogno che nelle segrete
lontananze mi chiama per vie nuove.
Altre nel corso mi trarranno liete
promettitrici illusioni agli occhi
ed altre soste appariranno mete.
Ad altre larve piegherò i ginocchi
insanguinati, e vacue lontano
tosto dilegueran com'io le tocchi,
non senz'avere ad una ad una invano
gocciato in me veleno, ad una ad una
strappato al varco del mio cuore un brano,
fin che più grande pel dolor che aduna
cadendo su la meta faticosa
l'anima a piè s'inchini di quell'Una
che Amore e Morte m'hanno eletta sposa.
VA!...
VA... per ch'io ti rimpianga,
di te non sazio e t'ami:
ch'io per sempre ti brami
e deserto rimanga,
prima che il tempo franga
i mal tesi legami,
prima che a' tuoi richiami
sordo, io t'accusi e pianga.
Passa la morta gora
ove affoga ogni gioia:
il nostro amor v'è già.
Prima che tutto muoia,
o ancora amata, ancora
desiderata... va!
L'ABBANDONO
ODI... Nella menzogna
l'anima tua si culla:
chi ad amar si trastulla
n'abbia danno e vergogna.
La tua mente fanciulla
altra in me vede o sogna
io di quello che agogna
non le potrò dar nulla.
Freddo è il tuo cor: la mente
amò sola, d'un culto
ch'è per te stesso occulto.
Noi non ci amammo; addio...
Così diss'ella ed io
piansi tacitamente.
RAMMARICO
POVERO uccello, piegato
sul ramo ispido, china
la testa cieca da lato
sovra il tuo fianco forato!
Nel nido quella mattina
era un tepor così blando!
Forse credesti vicina
la primavera divina?
E la bufera scoppiando
negl'irti pruni ti spinse.
Battevi con miserando
palpito l'ale, pìando.
Di rare gocce si tinse
rosse il nivale candore:
poscia la tenebra vinse
e il picciol corpo ti cinse...
Cuore! Mio povero cuore!
IN VANO
UN tempo fu che l'anima si giacque
pensosa in un dolor torpido e molle,
e a la stagion che il sangue in cor ribolle,
di tristissime cose si compiacque.
Ma un dì vidi fiorir, tardi, corolle
languenti, chine in solitudin d'acque
ed il verno si sciolse e in cuor mi nacque
un turbamento desioso e folle.
Ahi! Rosee gote o pallide, occhi azzurri
o tenebrosi, chioma nera o flava,
in molli corpi anime ignare o false!
Tra i baci, i risi, i fremiti, i susurri,
virtù d'amore ad assopir non valse
nel mio cuor l'Ironia che vigilava!
LEMBI D'AZZURRO
A Mario Pilo
IL RIO
1.
SNODASI lenta l'onda fra le strette
ripe sotto l'intrico del fogliame,
e il sol di tra le fronde agili mette
su lo specchio brunito argentee trame.
Danzano moscerini e 'l mobil sciame
su l'acque un turbinio vivo riflette
le rondini si spiccan da le rame
radono l'onda via come saette.
Siedon sul ponte i vecchi novellando
l'uno con dubitoso viso addita
certe piccole nuvole raminghe.
Movono bimbi lungo il rio, le dita
protese, cauti, nei rovi, spiando
sui fiori le libellule guardinghe.
2.
Vedi, ove 'l rio sbuca da salci folti,
stuolo di donne a varia cura intento:
sciacquano strepitando i panni e sciolti
li appiccan su le tese funi al vento.
Svolano bruni riccioli sconvolti:
sobbalzan chiusi ne' corsetti a stento
pendenti seni e s'invermiglian volti:
s'alzano fiotti e polverii d'argento.
Si rincorrono ansanti oche loquaci
fra le gaggìe, dove lenzuoli al sole
brillano e pezze e fasce e camiciole.
Cianciano donne con gesti vivaci:
diconsi pianamente due figliole
parole rotte da risa fugaci.
3.
E' più lunge il molino. Per la china
scroscia e sibila il rio nella caduta,
e la rapida ruota una voluta
di spume dietro il suo giro trascina.
A lato il maglio dentro la fucina
ripicchia la monotona battuta:
aspettando l'incarco un ciuco fiuta
odor che giunge fresco di farina.
Volgi, macina, i giri lenti e grevi
mentre induran nei solchi l'altre spiche,
prima che l'aspro verno più t'aggrevi.
Spumeggia e canta il rio. Poi si racqueta,
poi c'ha fornite l'utili fatiche
e si rimbuca nell'ombria segreta.
PANE NOSTRUM
A G.Faldella
1.
QUANDO il primaveril sole s'accende
mite e la linfa nel terren ribolle
come in un corpo giovine, le zolle
brulicano e la scorza aspra si fende.
E mentre nella siepe un nido attende
una covata e schiudonsi corolle
come infantili occhi stupiti, un molle
tappeto lungo i solchi si distende.
Piegano brividendo le sottili
cime nella carezza che s'imprime
come in capigliature puerili.
e che allegrezza quando tenerine
sui culmi lunghi, fuor da le guaine
aguzze tremeran le spighe prime!
2.
SPLENDETE, o giorni, limpidi e benigni!
le spiche inturgidiscono e la veccia
tra' verdi gambi e fiordalisi intreccia:
cupi frastagli e petali rossigni.
Le mondaiole vanno e di sanguigni
papaveri s'infiorano la treccia:
cantando la canzone villereccia
svelgon dal grano i cespiti maligni.
E' il meriggio. La terra ardente e muta
nell'abbraccio del sol pare svenuta:
e 'l coro canta in voce illanguidita:
Quella mattina che l'andò nell'orto
vide la rosa bianca inaridita,
o me! o me! Povero amore è morto!
3.
E mentre giugno a le colline apriche
i caldi succhi negli acini prome,
a la trebbia verranno alte le biche
e daranno a' mulini grevi some.
Ondeggia l'oro eguale e vasto come
fluido lago su le zolle antiche:
piegano da leggier zefiro dome
sui frali gambi le ricolme spiche.
Sur uno spalto un bove bianco e grande
guarda col glauco occhio sereno e spande
l'augurale mugulo nel piano.
O Madre, nel cui grembo si rinnova
la morta vita con la vita nuova,
o Terra, dànne il pan quotidiano!
POMERIGGI CANAVESANI
Al pittore A. M. Mucchi
SE ti punga desio di più sereni
cieli in codesta bolgia ove tu avvampi,
un dì tra' miei laboriosi campi,
nel gran respiro della terra, vieni;
o solitario amico cittadino,
chiuso in tuoi panni come in salde maglie,
che un giorno i bracchi fervidi e le quaglie
pettegole destavano al mattino!
Andremo erranti per sentieri insieme,
umiliando l'anima superba.
Meco vedrai fiorire ogni fil d'erba,
udrai nel suolo fendersi ogni seme.
Nel cielo puro e vasto come un mare
cavo d'azzurro il sol possente regna,
e le nubi di lembi argentei segna
che paiono in quell'onde navigare.
O grande mar diafano che incide
il profil delle vette acute in giro,
come esultante la gran conca miro
sotto il tuo riso che universo ride!
O grande arco dell'alpi gloriose!
Salgono a te dal piano, su le caste
frigidità le nubi pigre e vaste,
nembi di gigli, cumuli di rose!
Su la terra tripudia la vita.
Tutte le cose stanno assorte e mute,
ma tra' muschi gorgogliano le argute
fontane. Qualche pura acqua romita
tra mezzo a' sassi e l'eriche rampolla.
Un fruscio di locusta passa, un rombo
celere d'ale, il brontolio d'un bombo
od il trillìo d'un grillo su la zolla.
Io mi soffermo e chiudo gli occhi, pregni
di luce, e ascolto i palpiti sonori.
Non sono esausti in me tutti i tesori,
Madre? Sono i miei occhi ancora degni?
E aspiro lungo i marghi le corolle
protese al vento disiosamente,
mentre amor leva il polline lucente
e scioglie i germi gonfi entro le zolle.
Nella siepe s'intricano le rame
intorno a un piccol nido che pispiglia,
dove una madre veglia una famiglia
e rimira guardinga tra 'l fogliame,
trasalendo, se là dove s'azzuffa
un ammasso di spini irti sul fosso,
frugar oda un ramarro in fuga mosso
o la rana che in acqua si rituffa.
Quanta vita selvaggia! Quanti succhi
munti all'arena avara, erbe maligne!
Ruvide foglie, livide, sanguigne,
cardi, ortiche, pruni, atropi, vilucchi,
rovi da cui occhieggiano le more
com'occhi di libellule spianti,
viticchi e ricci e spire inerpicanti...
Ed in lor ombre intumidano spore
venefiche. Dintorno il buon frumento
fugge da quel rapace stuol che preme.
Così, villico improvvido, il mal seme
ogni nostra fatica sperde al vento!
Mentre qui, dove il rivo si dirupa,
sedendo guardo, tra le delicate
acace, le colline miniate
su la massa dei monti azzurro cupa,
un'erbaiola gorgheggia d'amore
tra le saggine e l'irte erbe recide.
Ella canta: "Una bocca mi sorride,
mi sorride una bocca e m'ama un core..."
Poi si leva nel solco alta, vermiglia,
come un gran fior tra le selvagge aiuole,
dove sui fusti rigidi nel sole
il pendulo fagiolo s'attorciglia.
Quasi schierata lungo i solchi piega
i ricolmi pennacchi la saggina:
a lei la bionda meliga s'inchina
e le guaine hanno stridii di sega.
E col fascio dell'erba s'incammina,
nuda le braccia e 'l seno. Ed io da lunge
guardo... Nessun rimpianto antico punge
lei che si trastullò meco bambina!
E poi che verso l'Alpi azzurre, ingombre
di vapori, contende il sole e neri
si fanno i boschi e sui bianchi sentieri
le file degli ontani allungan l'ombre,
a lenti passi ripigliam la via
del borgo, tra le grige canapaie,
tra' boschi dove gracchian le ghiandaie
e 'l cacciator di tra le fronde spia.
Nei seminati vociano bifolchi
dietro gli aratri e 'l vomero s'intrude.
Si fendono le zolle asciutte e crude:
volano corvi ne' recenti solchi.
Mi volgono da lunge ampî saluti
i falciator' da' bronzei petti nudi.
E' la serenità ne' volti rudi.
Le adunche falci hanno barbagli acuti.
Tornano da le stoppie, ove s'affolta
maturata di già la lupinella,
cacciando innanzi lentamente nella
strada bianca la mandria disciolta;
vigili, se una voce lamentosa
avvisi lungo il tràino che passa;
dilegua esso ululando ed una bassa
nuvola sovra i pascoli si posa.
E se una croce memore sui cigli
d'un borro sorge o su l'orlo d'un ponte,
passando a canto piegano la fronte,
fatti pensosi e muti un tratto. O figli
integri della terra, son cadute
le parvenze del mio superbo sogno.
Voi siete forti e buoni: io mi vergogno,
però che volli a voi recar salute!
O fiume che dipingi nelle chiare
acque il bel cielo e i penduli querceti,
dove le vacche bianche di sui greti
levansi con gli umani occhi a guardare,
io tuffo nelle chiare acque la faccia
e nel passato l'anima profonda.
Ah da quel dì che nell'età gioconda
io mi venni a gittar fra le tue braccia,
passò dentro 'l mio cuor tanto dolore,
quant'è fra le tue rive onda passata!
Fiacco è 'l mio corpo e l'anima malata:
la giovinezza mia sterile muore.
Ed or quasi vorrei in te calare
come bimbo che fugge una minaccia,
padre! Oh per sempre, chiuso da tue braccia
sotto immobili cieli andare andare!
Mentre tu da le cime irte di torri
dirute, intorno a cui tripudianti
alzarono i miei padri incendî e canti,
calmo o torvo com'essi, al pian trascorri.
E tutto vive, tutto canta a' cieli
inni di luce, di suoni, di odori!
Così, santa natura, a me i tesori
dell'eterne bellezze tue non celi.
E umilmente nel tuo seno anch'io,
fra l'ardua pugna che imperversa e mugge,
vo rintracciando quel che ognor mi fugge,
degli uomini e di me sereno oblio!
RANZ DE VACHES
OR tutte le campane della valle
levan da lunge i tremuli tintinni?
Da' fulvi greppi e da le conche gialle
compongono a l'azzurro gli agili inni?
Voci alte e brevi o lente, cupe, grevi,
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Ecco, improvvisa, a l'apice del ponte
una mucca s'affaccia. Sosta e guarda,
bianca sul fondo cerulo del monte;
e dietro lei la mandria s'attarda.
Occhi ripieni di cieli sereni!
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Occhi tranquilli dove pugna il bianco
dei picchi nel mattino scintillanti
con l'umil verde che serpeggia al fianco
di lor come su membra di giganti,
ecco v'appare lungi lungi un mare!
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Nubilo mare che il sole inazzurra
sparso di strisce bianche al par di veli,
ove un minuto popolo susurra
di cose vaste come i vasti cieli,
branco smarrito dentro l'infinito.
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Candidi velli popolano l'aria
silenziosi come il vento spira;
fra l'eriche una voce solitaria
s'interrompe talvolta e un cor sospira...
"Morto è l'amore e la speranza muore!"
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Pensa il pastore mentre la pineta
geme e coi venti rigida combatte.
ai bimbi, ai vecchi nella casa queta...
Oh le vitelle mie, come son fatte
belle quest'anno! Vedranno, vedranno!
din don, dlin dlon, dalin dalon!
E guarda. Spesso alcuna si dispaia
dal branco: la Belfior, la Violetta;
e il cane l'una addenta, all'altra abbaia.
La Bella innanzi va, la più civetta
con gran collana e lucida campana.
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Scendete ne' silenzii montani,
o della vita ultimi tintinnii,
che ad alcun viator trassero vani
rimpianti e amareggiarono gli addii.
Pianse, poi chino riprese il cammino.
din don, dlin dlon, dalin dalon!
Altro paese v'ha di là dai monti
ed altro mare ancor di là dal mare.
Noi vedremo altre terre, altri orizzonti,
ed altri occasi ed altre albe passare,
e di là da la vita un'altra vita.
din don, dlin dlon, dalin dalon!
SAGGEZZA
PIGMALIONE
TU vedi balenar di tra' vapori
del sogno e fermi nel tuo cor l'idea:
l'occhio la serba e a noverar si bea
ad uno ad uno i mistici tesori.
Poi in sostanze indocili t'accori
di compor le parvenze della dea
e lo spirituale alito crea
il sogno ne' marmorei candori.
Le tue mani la cingono di leni
blandimenti nè tu sei pago mai.
Ma quando l'immortale opra è finita,
perché ti struggi e in lei chiami la vita?
Or l'adora, Poeta! Non avrai
simili gaudii su feminei seni
PROMETEO
ANIMA vasta che i suoi fati piega
e l'opera dei numi infranger osa,
in carne pigra da veleni rôsa
che sotto la tortura si disgrega;
occhio ch'ogni mister con curiosa
tenacia lentamente apre e dispiega,
ragïone implacabil che rinnega
ogni più dolce e più fallace cosa;
ancor legato è su la vetta e nove
erinni in lui perseguono l'atroce
vendetta antica. Dileguato è Giove,
nè l'augello famelico sovrasta.
Pur egli fatto contro sè feroce
perennemente il suo cuore devasta.
SANT'AGOSTINO
SANT'Agostino assorto in suoi austeri
problemi andando un giorno in riva al mare,
vide un fanciullo intento a singolare
trastullo; ond'egli uscito di pensieri,
rise e disse: "Che fai, bambolo, speri
il mare in questi cerchi imprigionare?
E quei: "Meglio" rispose "che indagare
come tu fai terribili misteri!"
Così, tratte da facili miraggi
l'ingenue menti e gl'intelletti chiari
s'affaticano ancora in opre vane.
E ritentano ancor, pargoli e saggi,
in piccoletto cerchio accoglier mari
e l'universo in brevi menti umane.
LA MOSCA
1.
SU la parete candida s'appende
immobile, una mosca moribonda:
tenacemente sta' gonfia ed immonda
in preda a lunghi brividi ed attende.
Guardano i multipli occhi la profonda
ombra che insidiosamente scende,
come un mostro grifagno che distende
sue fila e striscia e l'urge e la circonda.
Come in ascolto sta. Sente un veleno
acre con lavorio sottil fluire
e insinuarsi la corruzione.
Muto, pensando, io la contemplo, pieno
l'anima d'un'acuta passione...
Tutto è soffrire, ahimè! tutto è morire!
2.
ALLOR che ti svegliasti umida, apparsi
i primi soli (mentre tu ti spegni
io penso a' tuoi sì brevi dì scomparsi)
e superati i fragili ritegni,
il corpo che fu già sì pigro, farsi
aereo sentisti e gli occhi pregni
di luce, oh qual ebbrezza errar nei regni
nuovi, tra' fluttuanti atomi sparsi!
Tra 'l turbine incessante della vita
sugger la luce e la gioia nell'ore
tanto febbrili più quanto più brevi!
E un dì nel paIpitante aer rapita
alto volasti ed era teco amore,
e di tua vita il culmine attingevi.
3.
QUANDO in cielo vibravi atomo d'oro,
(era di giugno, or già la brina appare)
e il sol dentro il mio nudo limitare
i suoi veli mettea, solo decoro,
e per le zone vivide un tesoro
agitar si vedea di pietre rare,
e parea lontanissime fanfare
udire d'un esercito canoro,
chiusi gli occhi e la mente sbigottita,
ascoltavo la voce, in mio pensiero
fatta più vasta', multipla, infinita,
e i minimi ond'è tolto a l'uom l'impero
brulicanti a le soglie della vita
mi scoprivano un lembo del Mistero.
4.
SCENDONO assorte dentro l'ombra enorme
le minuscole vite e le giganti;
ma senza tregua sgorgano, esultanti
da l'abisso le nove agili a torme.
Ma, poi che segue i suoi divini incanti
la segreta virtù che non s'addorme,
noi ieri nate e già morenti forme
su la caduta rinnoviamo i pianti.
Oh cecità di menti malaccorte!
Perchè figgiam lo sguardo entro la bruma
terrena che ci vieta i firmamenti?
Ahi mentre tutti portano i viventi
il lor destino ignari, uno consuma
tutta la vita ad esplorar la Morte!
IL MULO DELLA MACINA
IL giumento slombato e cieco tira,
curvo il collo, la ruota faticosa:
paziente procede, nè riposa
mai, nè s'impunta, nè s'accende d'ira.
Credendo ir per diritta via, sospira
ognora ad una meta ov'abbia posa:
è lungi la pianura luminosa
libera e verde, ond'ei gira e rigira.
Perennemente schiavi e ciechi andare
per una landa ignota ed infinita:
ostinati sperar che a poco a poco
giunga la fine e mai non mutar loco,
pover'anima mia, quest'è la vita.
Onde t'acqueta, nè sollecitare.
SOGNI
IL SOGNO
BEATO quei che lungamente dorme,
cui volgono di sogni piene l'ore
e che non vede scendere le aurore
divine in questa realtà deforme.
Libero e grande è il regno delle forme
dov'io riposo e vigilo signore,
dove sotto il mio fiato animatore
sorge ogni cosa al cenno mio conforme.
Ivi è l'oblio delle disfatte amare
che già m'han tratto a desiar la morte:
ivi mi lancio, fatto agile e forte,
nelle serene voluttà che agogno,
ed ivi attendo per virtù di sogno
colei ch'io possa eternamente amare.
PAESAGGIO
DA la sponda, ch'è tutta un ondeggiare
di fior, che il vento ad or ad ora assale,
il ciel riempie di spirituale
candore il mare, e tutto cielo appare.
Ed ecco, lentamente, a fior del mare,
un diafano sogno vegetale.
Divino sogno! forse un Immortale
in esso vuole una mortale amare?
Vagano lungo i lucidi lavacri
grandi e misteriosi esseri alati:
vaporan l'acque nebulosi veli.
Levansi da la terra simulacri
diafani pei cieli immacolati,
feminei visi su viventi steli.
GLI OCCHI
OCCHI di lei che mi riapparite
poi che tacque dei sensi la tempesta!
Perché soltanto quella imagin resta
viva nelle fattezze impallidite?
Occhi tristi e pur dolci, penetranti
e pure impenetrabili, perversi
in sembianti di bimba ignari e tersi,
or mi splendete quali diamanti.
E tu, donna, ritorni anco signora
nella mia fuga, se, per la notturna
ombra, l'anima mia con diuturna
ansia guarda i tuoi occhi ancora, ancora.
Più grandi sono, ammalianti, oscuri
entro una faccia vaga e molto stanca
che sorge come una figura bianca
evocata da magici scongiuri;
e nella notte mettono un bagliore
che tinge l'ombra di fosforescenze.
Io sento a l'imo tutte le potenze
dell'essere tremar vinte d'amore,
e dell'antico incendïo faville
sorgere da le ceneri già gravi...
Oh chiudetevi, palpebre soavi,
oh vanìte, tristissime pupille!
Dilèguati, parvenza, e teco porta
le visioni ov'io m'agito e snervo,
e a questo vano cuor che ti fu servo
lungi per sempre sii, per sempre morta!
ELLA
O sogno, vivi? Sogno che venivi
un giorno al mio guancial di adolescente,
che indulgî ancora, nella vaniente
notte, dentro a' miei occhi; o sogno, vivi?
Scivolavano via le foglie morte
lungo il viale e grigia era la sera.
Solingo nella turba andavo ed era
triste l'anima mia fino a la morte.
La bella forma in me non è più viva,
ma un senso resta del mio cuore in fondo
come in un fiume torbido e profondo
reliquie ferme in onda fuggitiva.
Vidi lungi l'ignota. Dissi: "Ella!"
ed assentiva l'anima in occulto.
Mi sorse in tutto l'essere un tumulto
grave. Disse una voce: "Dessa! Quella
che fu nei sogni tuoi familiare...
Da tergo vidi i fianchi armoniosi
mover con lunghi brividi nascosi.
Era tutta una musica l'andare.
La turba a lei timidamente aprire
vidi la via con mormorio sommesso:
fronti chinarsi al suo regale incesso
e splender occhi e guance impallidire.
Ristetti sul cammino. Ella passava.
E il suo sguardo fu lampo. Volto, oh volto
che sorgi un tratto come un dissepolto
fuor da la nube che gli occhi mi grava!
Ma invano la mia fronte si corruga
a rattener l'immagine che manca:
il giorno alto di già che i vetri imbianca
dissipa i lembi nebulosi in fuga.
Io non caddi. Sì tutto mi raccolsi
nel godimento doloroso intenso;
era come in un turbine ogni senso:
inturgidian di flussi ardenti i polsi...
E rapida sparì nella tristezza
di questa accidiosa alba autunnale
colei che non parea cosa mortale,
cui dieder gli occhi miei nome "Bellezza."
Chiara apparenza, chiusa dentro un nimbo
di sole! Il viso fuor del sogno emerso
mi sospingea teneramente verso
la mia ritrosa purità di bimbo.
Colei ch'era offuscata dietro un velo
nero quando l'inganno mi fe' cieco,
anco tornava a' miei sospiri, e seco
il verde, i fiori e le chimere in cielo!
O donna ch'io nomai sola regina
fin da la puerizia pensosa,
cui tra la femminil turba nascosa
presentì spesso l'anima indovina',
o sogno, vivi? Sogno, che venivi
un giorno al mio guancial di adolescente,
ch'oggi m'assali sì tenacemente
che il tuo desio m'uccide, o sogno, vivi?
Ove sei? Cerchi in disperato affanno
anche tu per la notte? O pur delusa
stai, dubitando, e l'anima ricusa
abbandonarsi ancora in altro inganno?
Forse ascolti, frenando i moti arcani,
passar sovra il tuo capo il mio destino?
Oggi il mio cuor ti palpita vicino
forse, che morirà lunge domani...
E se non vivi, oh nella disadorna
stanza ch'io popolai di visioni,
oh torna come un dì fra' sogni buoni;
fantasima d'amor antica, torna!
Pellegrino verrò su la tua traccia
seguendo il lume di tue chiome bionde;
felice appieno se a le sitibonde
pupille un giorno porgerai la faccia.
Quanto amerò le tenebre interrotte
da l'apparizion della mia stella!
A la stagion che il giorno più s'abbella
affretterò dentro il mio cuor la notte.
Ebbro mi lancerò verso il tuo volto
che a la mia vita insegnerà la gioia,
come in un mar di sole, infin ch'io muoia
entro la tua soavità dissolto.
O Bellezza! Sognanti uomini a torme
Ciechi, avidi, laceri i ginocchi
seguono e non han lagrime negli occhi,
su la tua traccia, e son di sangue l'orme.
MORTO EROE
SORGONO in cielo tra l'albor lunare
teneri brulichii. Nubi d'argento
stanno in quel tremolar languido, rare
e non le turba un alito di vento.
Il fiume largo e senza ondulamento
sembra per incantesimo ristare
e tutto intorno pare ansioso, intento
alcun novo portento contemplare.
Un'isola fiorita è dentro il fiume
ove tra' gigli folti un denudato
corpo d'eroe biancheggia al mite lume.
Recente sangue i gigli fe' vermigli
che sgorgò da quel petto perforato.
Ridon le stelle fra li aperti cigli.
LA SFINGE
DI LEONARDO BISTOLFI
SIEDE la verginal forma, rapita
dentro la gran solennità de' cieli
e sembra che nel sen marmoreo celi
la vision dei secoli infinita.
Agile a' piedi suoi lambendo i veli
sgorga l'inesauribile fiorita:
la Terra madre suscita la vita
in un trionfo di gagliardi steli.
Ella non vede. Retta su le soglie
oscure della vita e della morte,
là, dove s'apre l'increato impero,
guarda. Nelle pupille immote, assorte
da la terra e da' cieli si raccoglie
l'inviolato universal mistero.
LA NINNA NANNA
LA madre morta canta su la scranna
la ninna nanna. La lucerna è smorta:
la bimba assorta e su di lei s'affanna
la madre morta:
"Viso di cera, fior di paradiso,
pallido viso nella notte nera,
a primavera sarai un narciso,
viso di cera,
Mano avvizzita, stretta ancora, invano,
che chiudi, mano, fra le bianche dita?
E' già fuggita la gioia lontano,
mano avvizzita.
Capelli biondi come vivi anelli,
biondi capelli sovra i lini mondi:
sogni profondi misi in questi belli
capelli biondi.
Ciglia soavi, che vi maraviglia,
nitide ciglia, dentro l'ombre gravi?
Ne' cieli cavi un velo già s'ingiglia,
ciglia soavi.
O bocca esangue dove il bacio scocca
la morte, bocca, fior di latte e sangue;
ahi tutto langue dove quella tocca,
o bocca esangue!
Dormi, piccina! Già l'anime a stormi
passano. Dormi. Su di te s'inchina
l'Ombra divina... Dentro l'ali enormi
dormi, piccina!"
Il cielo imbianca. Ohimè, che stanca pace!
La bimba giace: la lucerna manca,
Che pace stanca! Tutto intorno tace...
E il cielo imbianca.
PICCOLA BARA
IN riva al mare opaco io vedo andare
un marinaro con un passo stanco:
porta una bara sotto il braccio manco
come una culla e con lui piange il mare.
Segue una donna pallida che pare
una morente e tre bambini a fianco:
guardano il cielo in oriente bianco
ed hanno risi le pupille ignare.
Lungo la diga dove il mar si frange,
dove si frange il mare opaco e nero
la triste comitiva si dilunga.
Oh quant'è quella strada eguale e lunga!
Dov'è, dov'è l'antico cimitero?
Là giù, tranquillo in riva al mar che piange.
CANTILENA
DI qua dal mare, di qua dal monte
volevo amare,
di qua dal mare, di qua dal monte
presso la fonte.
Di là dal monte, di là dal mare
nell'orizzonte,
di là dal monte' di là dal mare
volevo andare.
Di là dal mare, di là dal monte
un uomo appare,
di là dal mare, di là dal monte,
ferito in fronte,
Di là da notte, di là da giorno
tutto s'inghiotte,
di là da notte, di là da giorno
non v'ha ritorno.
A MIA SORELLA
IO sono tanto stanco, tanto stanco! Mi sembra
che il mio cuor si rimanga e intorpidisca. Sento
la testa grave, gli occhi gravi: uno sfinimento
strano, un ignoto male mi pervade le membra.
Tu non tremasti mai di morire? Non bella
è la vita! Pur tremo di perderla. Tu sai...?
Ma belle erano e grandi le cose ch'io sognai...
Ho paura... Sorridi? E in cuor piangi, sorella!
Come sono bambino! Io ti rendo inquieta
senza motivo... Sono un po' stanco, soltanto,
e triste! Mi spavento d'ogni più vana forma...
Vorrei dormire... Canta il tuo più lungo canto
Come sopra una culla... E' muto il tuo poeta...
Ah v'è solo una culla dov'io tranquillo dorma!
INCUBI
L'INCUBO
IO lo sento: a' miei piedi s'accovaccia:
e nella notte ond'è la stanza ingombra
guata me dormiente, poi s'affaccia
nei calmi sogni e di terror gli adombra.
E da lato salendo, con le braccia
pigre mi cinge ed il mio petto ingombra;
e sul mio corpo che suda ed agghiaccia
ghigna muto e orribile nell'ombra.
Entro le membra gravi quasi morte
l'esangui arterie palpitano lente;
sfugge dal petto qualche voce rara.
S'accerchia intorno a me come una bara,
e l'anima a soffrir viva e presente
spasima come d'una lunga morte.
QUEGLI OCCHI
PERCHE'..? Perché, rincasando,
dovere tutte le sere
passare per quelle nere
colonne dell'atrio? Quando
la grande porta ebbi aperta,
tremarono i miei ginocchi.
Sempre, sempre quegli occhi
dentro la tenebra incerta!
Ristettero i piedi gravi...
Dover passare, lambire
quasi il suo corpo, sentire
quegli occhi rossastri, cavi,
larghi così che vie più
parevano dilatarsi!
Io lo sentivo già farsi
presso. Ma come si fu
in mezzo a l'atrio, stette.
Densa era l'ombra su lui.
Fuggire negli angoli bui?
Strisciare lungo le strette
pareti? Ma come, se
sentivo il suo petto ansare
su me, la bocca alitare
rapida, calda, su me?
Immoto stetti: non più di
un attimo. Ah! infinito!
E guardai inorridito
gli occhi. E sentii come ignudi
coltelli gelidi, acuti
lungo le carni strisciare.
Gridare volli, gridare...
Grevi erano i labri e muti.
Quando mi scossi, salii
rapido, come avessi ale:
e seguianmi per le scale
ansamenti e scivolii.
Apersi, chiusi, ed entrai
sotto le coltri tremante.
Rimasi per un istante
soffocato... Ascoltai...
Udii alcuni rintocchi
lontani, brevi... Ripresi
fiato. Poi tutto mi stesi...
Orrore! con chiusi gli occhi,
io vidi, vidi quegli occhi
traverso le ciglia, sempre,
traverso le coltri! Sempre
quegli occhi! Sempre quegli occhi!
L'AMANTE
PALLIDA e magra, come un bianco stelo
abitator dell'ombra, ella compare,
quando s'inalba a le finestre il cielo,
sul limitare.
Entro la chioma il corpo d'alabastro
chiuso traspare come in negre bende
e per interno lume, al par d'un astro
freddo risplende.
Opachi gli occhi brillano di strie
rapide: immane s'apre la pupilla,
poi che ha vedute tutte le agonie
senza una stilla.
Rigida, senza palpiti, la gola
bianca: la bocca esangue e senza fiato
sotto il sigillo da mortal parola
inviolato.
vide non vista nella notte i volti
dei fidanzati: dispensò promesse
silenziose: a molti sposi molti
baci concesse.
Nozze fatali! L'infecondo fianco
entro origlieri innumerati volse:
ma il fiore acerbo del suo corpo bianco
mai non si colse.
Tra il chiaro sogno, senza meraviglia
vedo quel solco d'ombra nella stanza.
Alza le braccia. Tra le chiuse ciglia
guardo... S'avanza.
Entro le dita gracili ond'emana
il sonno, sfoglia labili corone,
e mi contempla, come già Diana
Endimione.
L'ASSASSINO
NEL viso ch'è rigato d'un atroce
solco arde la pupilla sanguinosa
piena dell'acre fiamma onde si coce
la sua carne da rei tossici rósa.
Un vel di sangue intorbida ogni cosa
sotto i suoi occhi: s'agita in feroce
gesto la mano e palpa l'arme ascosa
e: "Colpisci " gli sibila una voce.
E gl'invade la mente un inumano
Sogno: rompere un sen bianco e nell'onde
calde tutta la faccia arsa tuffare;
e contemplar le membra in un sovrano
brivido irrigidir, le moribonde
pupille nella morte naufragare.
L'APPARIZIONE
ANCOR vedo nell'aria tenebrosa
una bocca fiorir senza parola.
Oh quella bocca, nelle notti, sola
come una gran corolla sanguinosa!
Nel sogno invano gli occhi cerco, invano
cerco il tesoro delle forme intero:
sola resta nel memore pensiero
l'immagine del fior malvagio umano.
Quali parole disser le superbe
labbra ora fatte sospirose e fioche?
Disser parole quelle labbra, poche
e oscure, ma ne' baci erano acerbe.
Trascinava al pericolo giocondo
come una maga astuta e insidiosa:
nelle tenere sue membra di rosa
non avea punto che non fosse immondo.
Su le tenaci membra e nell'acuto
obliquo morso della bocca rea
ogni vital virtù si disfacea
consumata da un morbo sconosciuto...
Le labbra ardenti esalan voci rotte:
tremano tinte di dolce veleno,
e come una lattante avida un seno,
cercano desiose nella notte.
Grandi ombre van di grandi adolescenti
per lei sotto il silente albor lunare
e fanciulle non sazie d'amare
seguendoli coi grandi occhi languenti.
Vergini vanno con l'esangui bocche
protese al par di cupide corolle.
A lungo abbrividiscono con molle
desio le labbra che non fur mai tocche.
E madri bianche agitano le scarne
mani. Da l'ombre emergono le braccia
trepide alzate in atto di minaccia.
Gridano: " O carne della nostra carne!"
Era la forma già dell'Impudica
legata, attorta al tronco, in un lascivo
atteggiamento. Sorse un chiaror vivo
rapidamente. Divampò la bica.
Bianca tra 'l fumo si torcea con guizzi,
con brividi e con irrigidimenti:
vibravano le lingue acri lambenti
e acuti cigolii fuggian da' tizzi.
Vergini intorno e adolescenti, bianchi
lucevano a quel lume. Tra le acerbe
essenze delle resine e dell'erbe
balenarono un tratto i larghi fianchi:
s'aderse il petto fra le rosse lame:
e videro gli astanti irti nel caldo
aere fumante, per un tratto, saldo
quel gran corpo restar, quasi di rame.
Sorse un nitrito come di cavalla.
Il tronco crepitò. Su l'abbattuta
l'incendïo salì pari ad acuta
piramide nel cielo opaco gialla,
che largamente circondando il pingue
cumulo vegetal, tra la sonora
bufera s'incurvava ad ora ad ora
e palpitava scissa in mille lingue.
E un ansare affannoso, un pianto roco
n'usciva come da una vasta selva;
strida, singhiozzi, bramìti di belva,
la voce innumerabile del fuoco.
Ma poi che cesse il fumo impuro e giacque
la bufera, e la vampa ebbe consunto
il rogo, e nel sereno ciel trapunto
di stelle il rombo della vampa tacque,
la fiamma s'allungò silenziosa
diritta e pura: tremolii di piume
candide scivolavano tra il lume
e intorno l'aer tingevasi di rosa.
E mentre nella queta ombra le scialbe
luci tremavan sopra le ammiranti
vergini e impallidivano gli astanti
adolescenti nelle tuniche albe,
da la cenere azzurra, che di larve
bianche ondeggiava, una lung'ala, un velo
fluttuante, la fiamma ultima in cielo
oscillò, esitò aerea. Sparve.
RIBELLIONI
FERMENTO
ESSER vivo balzato da le frane
della montagna, aver in sè raccolte
le forze tutte nel terren sepolte
e l'energie di molte vite umane ;
sentir fremere tutte le rivolte
d'una gente indomata ed un immane
delirio di conquista, e in opre vane
le proprie forze abbandonar dissolte,
e attendere nell'ombra solitario
in quest'inerzia d'animucce stanche,
mentre il tempo miglior dilegua via,
un ostacolo degno, un avversario,
una battaglia, una catastrofe anche...
e invano! Oh lamentevole agonia!
O CITTA'
O città che gli amanti tuoi componi
languidamente in maliosi freni,
e cinta i lombi di seduzioni
il sangue lor corrompi di veleni,
che fra lusinghe sapienti tieni
assopite le mie ribellioni,
e quando son tutti i miei sensi pieni
di te, bieca repugni e non ti doni,
ecco me pur, che non ti nacqui servo,
invidiando quei che al tuo convito
fatto schiavo di gelose voglie,
eccomi a mendicar su le tue soglie
le tue carezze onde al desio mi snervo,
io, nato a la foresta ed al ruggito.
I CENCI
Perché sciorinare al pubblico
I suoi cenci e il suo dolore?
Un critico conservatore.
MENTRE ne' campi suoi tollera il mite
sole vicino a' gigli i rei fermenti,
perch'io l'angustia de' miei cenci ostenti
accanto a gli ori vostri, abbrividite?
O figli che a le poppe inaridite
della Turba gran madre l'ugne e i denti
figgete ingordi, perché s'alimenti
la pingue gioia delle vostre vite!
Or questo seno apersi io, cui non turba
orror del sangue; e in alto umidi scossi
i brani del mio cuore. Io son la Turba!
E questi cenci miei sopra le braccia
Ecco, vi porto. Palpitanti e rossi
lembi di carne e ve li gitto in faccia!
SUL COLLE
Ad A. M. Pastore
ALTRE volte gustai la tenerezza
di queste delicate ombre azzurrine
onde aprile i mattini acri marezza,
quando han levato l'ultime pruine
da le vie biancicanti e dai cortili
i lor tessuti gracili di trine.
Giungeva l'aria piena di sottili
sapori: da le gemme e dai virgulti
rompevano gli spiriti infantili,
ondulavano i desiderî occulti
della terra. O miei sogni! O tenerella
anima mia d'un tempo, odi ed esulti?
Io mi rivedo. Il grillo da la zolla
mi chiama: su le mie dita di rosa
guardo rossa salir la coccinella.
E chiudo gli occhi: l'anima ritrosa
sogna d'un mar formicolante d'oro:
è la palude gialla e fragorosa,
da cui grand'ali fuggono in sonoro
ondeggiamento. L'anatre pei greti
seguo e nel rivo mi tuffo con loro.
Ahi! Ma dal dì che a l'ombra dei pometi
vidi su rosse labbra umidi risi
in giovini occhi balenii segreti,
io tenni gli occhi lungamente fisi,
dove non so: sovente trasalii
senza causa, sovente piansi e risi.
E solingo cercai lungo i pendii
le chiuse ombre. Fuggevoli parole
inviti e suoni conturbanti udii.
E ne' lucidi spazzi le viole
guardavano e ridean le margherite.
Oh belli occhi feminei nel sole!
Così nata vedeste ombre romite
come un roseo vapor la mia chimera...
O fiori morti del mio cuor, dormite!
Sole, tu sai l'anima mia com'era
limpida e come su più bel giardino
non scese mai più bella primavera!
Or quel che risplendette cristallino
s'intorbidò. La fiamma, che alta sorse
verso il cielo nel fulgido mattino,
si ritrasse e le carni aride morse.
Il mio cuor fumigante di tizzoni
al par d'un ceppo verde si contorse.
Crepitano aspre le ribellioni:
bruciano nella tenebra i rancori:
m'empiono il petto ceneri e carboni.
Or qui sul colle cinto al piè di fiori,
su cui piegano mani giovanili,
arso al sommo e combusto, o miei furori,
o mie collere, contro i cieli ostili
sprigionatevi, e tu orgoglio enorme,
esci e batti le grandi ali febbrili!
Fuga le voglie mie che vanno a tòrme
su la città! Come una peccatrice
ecco, nel sol meridiano dorme.
Languida giace la fascinatrice
a' piè de' colli azzurri e senza moto
denuda al sol la sua carne felice.
S'annoda il fiume qual serpe devoto
i piè lambendo, e invano vigile alza
l'Alpe le braccia verso il cielo immoto.
Questa marea di fuoco che m'incalza
m'ha sì l'anima tutta inacerbita,
che il sangue mio con folle impeto balza.
Quel che attesi, e non fu l'anima ardita
di chiedere a la vita, ed era mio:
quel che non volli chiedere a la vita:
quel che desiderai, ed altri, od io
stesso tenacemente in me repulsi;
quel che sprezzai, quel che accettai restio,
o rimpianti, o speranze, o ciechi impulsi!
o germi brancicanti nel terreno
ch'io già credevo da forti unghie avulsi!
ecco, sbucano, rompono nel pieno
sole meridiano: e dentro e fuori
mi circondo e m'imbevo di veleno.
Cortigiana infingarda, che i tesori
delle membra con vecchia sapienza
cingi di veli come di vapori,
cui traggon giovinette anime senza
macchia, e ciascuna sul tuo seno getta
come un fiore la cruda adolescenza,
ancor mi chiami, ancora, o maledetta?
Il tuo cuor come un mare insaziato
vivi travolge in sè, morti rigetta.
Al tuo cospetto tutto il pianto è nato
in me: lo spettro delle vite spente
mi sta com'ombra immobilmente a lato...
Oh goder questa bella età fuggente!
tutto ottenere e tutto darmi! Bere
ad ogni coppa insaziabilmente!
Oh naufragar nei flutti del piacere,
oh vino, oh rose, oh sangue! E degli sparsi
petali al suol compormi un origliere
per morire...! Ahimè! Io sento farsi
aride le mie fauci. Un caldo fiato
m'empie: di fuoco ho tutti i muscoli arsi...
Salvami da la brama del peccato,
poi che il mio cuor in odiarlo dura!
Riprenditi il mio cuore immacolato,
o sola santa, o verginal Natura!
L'UOMO A GINOCCHI.
ANCORA egli è un titano. Una foresta
di capelli irti di color rossigno
cinge di luci fiammee la testa
ampia, che sembra sculta nel macigno.
Possente ancor. Di sua possanza resta
visibil traccia nel corpo ferrigno:
altero sì che l'intima tempesta
di dolore si scioglie in un sogghigno.
E faticosamente per le sozze
strade, romeo dannato, sui ginocchi
si trascina, le tibie infrante e mozze...
Solo a tratti ristà, le braccia tese
sbarrati e fissi immobilmente gli occhi,
come allor che a' suoi piedi il fulmin scese.
SANSONE
QUANDO, tratto da l'opera tapina
fu nell'oscena festa e nel tumulto,
le occhiaie sanguinarono a l'insulto,
fosche sotto la chioma leonina,
e sentendo le membra in repentina
onda gonfiarsi d'un vigore occulto,
le colonne abbracciò. Come un virgulto
le infranse e tutto fu morte e ruina.
Anch'io, sospinto da un oscuro fondo
a questo folgorìo d'orge nefande
m'erigo su le mie membra calpeste,
ed uno smisurato impeto investe
l'anima immensa che ha sognato un grande
sogno. Morendo far crollare un mondo.
I RIBELLI
1.
IO penso a voi, povere creature
che da' primi anni trasse l'inimico
infra gli schiavi, e crebbe sotto dure
leggi, e ricinse d'un tenace intrico.
Io penso a voi, allor che da le alture
ov'io contendo contro un grande antico
traggonmi a valle miserande cure,
e mi sfiora l'altrui gaudio impudico.
Allor, se posi un attimo la tarma
che m'occupa il cervello e degl'iniqui
la gioia oscura m'avvilisca e prostri,
io guardo i visi cavi e gli occhi obliqui
intorno ai cocchi d'oro alzarsi e i vostri
pugni serrarsi come su di un'arma.
2.
UN giorno (morta mamma era da poco)
Rosinella, la bimba si moria
nel lettino, minuscola, con fioco
alito, di già muta... Oh figlia mia!
Girava gli occhi ciechi... A poco a poco
gelava, il corpicino. Oh l'agonia
dei bimbi! E non la riscaldava il fuoco
della mia febbre e della mia follìa!
Quando improvvisi strepiti lontani
ruppero e voci: sùbite fanfare
sonarono. La via sorse in tumulto...
La strozza mi si chiuse: un gran sussulto
m'irrigidì: le mie braccia e le mani...
Oh balzare, afferrare, stritolare!
3.
IO penso ad uno che morì ventenne
sognando ancor. La vita che gli porse
una madre morente e gli mantenne
col sangue, si disciolse, e non s'accorse.
Era un sogno. Parea gioia perenne
e in un pianto infinito si ritorse:
e l'acuta agonia ch'egli sostenne
era destino, era delitto? Forse.
Era un de' figli che le genitrici
plebee lanciano a' giorni dell'inedia
perché sian germi d'ira e di rivolta.
Morì ventenne ed io volli, a' felici
lanciando in viso un dì quella tragedia,
chiamar tutto un esercito a raccolta.
4.
MA quando la malizia ch'è diffusa
nella vita universa ebbe ragione
de' folli slanci di ribellione
ed ebbe ogn'ira risorgente ottusa,
forse s'infranse l'anima non usa
al giogo? Più non piange. Si compone
in una pertinace illusione.
Più non piange, non odia, non accusa.
Ma prega: "O per incognito cammino
smarriti, solo va ciascuno e truce
guata: è ciascuno a' prossimi assassino.
Deh, miti e perdonanti il negro Duce
seguìte, e mondo ciascun pellegrino
s'affacci ai limitari della Luce!"
SU L'ORIZZONTE
LA FORESTA
IO vidi già nei dì canicolari,
vidi piante malefiche infinite,
suggendo il sangue dalle antiche vite
radicarsi nei tronchi secolari.
Impinguano bevendo le ferite
dei tronchi onde sprigionan succhi amari:
e tutta la foresta è fatta pari
a palude di fronde imputridite.
Ma da le glebe fervide nell'ombra
sbucano piante faticose e strane,
s'espande una mirabile fiorita.
O vecchi tronchi, o spore agili e vane
fate di voi alfin la terra sgombra.
Per te, nova foresta, or è la Vita.
IL SEMINATORE
A G. Segantini
UN chiaror d'alba fioco si propaga
su la palude tacita e deserta,
ove nereggia la terra coperta
d'un livido vapor che fuma e vaga.
Sosta il seminator e nell'incerta
ombra con la pupilla acuta indaga:
ogni solco a' suoi piè sembra una piaga
oscura in una viva carne aperta.
S'accinge, eretto le giganti membra
sparso i capelli, a l'alta opera e sembra
dentro la nebbia tremula ingrandire.
Solenne la fatal semenza afferra
nel pugno e fisi gli occhi a l'avvenire
la gitta in grembo a la feconda terra.
L'EDIFICIO
A Edmondo De Amicis
L'OPRA da l'uom nei secoli costrutta
sta dell'eccelso monte su la cima:
vaste radici ha nella Terra e tutta
la Terra a' piedi suoi vinta s'adima.
Nel ciel protese in atto di minaccia
levansi torri tinte di sanguigno.
tutto è grande ed iniquo, e serba traccia
d'un'umana agonia ciascun macigno
Sono le bolge sotteranee piene
d'antichi ossami: vittime recenti
sognano, morte dentro le catene,
i sogni che né pur la morte ha spenti.
Ma, lenta, lungo le ferrigne mura
come una pianta di tenaci braccia
s'aggroviglia una folla ignuda, oscura
che tutto disperatamente allaccia,
ed intacca il macigno a scaglia a scaglia,
curve le schiene, attorti avidi, come
fiere su prede. Intricasi la maglia
serpentina e s'avvinghia in colossali
contorcimenti come di pareti
vulcaniche, cui l'ignea possanza
urga, sommova, agiti d'inquieti
palpiti. Su dai fianchi irti s'avanza
un'orda nuova e guadagna la cresta.
Salgono corpi giovani con nòve
ire a l'assalto sorridenti, dove
li spinga morte, come ad una festa:
e scalano li spalti mentre goccia
su le lor fronti sangue da le sante
membra paterne, c'or vedranno infrante
ruinar balenando su la roccia.
Fumano i corpi ignudi. Il vasto incenso
e l'angoscia che l'anime travaglia
sorge dai corpi quale da un immenso
rogo. Chi mai terribili, vi scaglia,
operai della morte, a la ruina?
Non san; vennero, ignari a quali pugne,
nel fòco interior che li trascina.
Dolorosi combattono, con l'ugne
coi denti e con l'immane odio.Li incìta
l'oscura possa, c'apre i monti e sferra
i mari e muta e sconvolge la vita.
E' suddita di lei tutta la Terra.
Geme l'umana carne sotto il vano
sforzo. Ma la gran mole a tratti invade
un brivido: a tratti qualche brano
della gran mole si scoscende e cade.
Cade con esso nell'abisso un denso
sciame di corpi. Fuor da le profonde
caverne il rombo sale, ed un intenso
da infranti petti rantolo risponde.
L'ultimo sol che annega dentro un cielo
vermiglio, come in un sanguigno mare,
sembra di lunge tutto lo sfacelo
come un enorme rogo incendiare.
E mentre su la terra già le tarde
ombre scendono dense di paura,
nel silenzio universo la natura
guarda muta il miracolo che arde.
E succedono atleti, prorompenti
da la Terra. Uno spirito inesausto
li crea, li scaglia perché s'alimenti
di vittime l'eroico olocausto.
Demolitori delle forme, vuole
per voi l'eternità mutar vicenda.
Questa è l'opra del tempo, in fin che il sole
grande sul capo all'uomo ultimo splenda.
Che importa il poi? La vostra opra compita
un tempio sorga su la vetta sgombra.
Non voi, non altri ucciderà la Vita.
L'Ombra la cova e la ringoia l'Ombra.
IL POETA
A Pellizza da Volpedo
VIDE sentieri stendersi e fiorire
a sè davanti d'ideali fiori:
accennavano lunge i primi albori:
ei s'avviò di fronte a l'avvenire.
Quando vide il sentiero in traditori
avvolgimenti torcere e sparire,
cinto le membra di tenaci spire,
il sangue suo fluì da tutti i pori.
In ogni sasso è di quel sangue traccia,
ogni roveto ha di sue carni un brano.
Cadde. Ma non passò Samaritano
a trarlo su la sua cavalcatura.
Così giacque morente, e la natura
non pianse e il sole non velò sua faccia.
1.
NEL crepuscolo gelido la neve
che assidua sui culmini s'affolta
tien la soffitta sotto il manto greve
come in sudario candido raccolta.
Vaghi baglior da la finestra breve
imbiancan le pareti e da la volta
che obliqua preme, si fende e s'imbeve,
la neve filtra in lente gocce sciolta.
Starnazza il vento con un rombo cupo
entro la gola del camino impura
radendo con rigore aspro di lame.
Il poeta supino su lo strame
spasima in quell'aerea sepoltura
ch'eresse un giorno l'uomo a l'uomo lupo.
2.
O bianco paesel che riappare
inerpicato su 'l confin del piano,
dove brilla un deserto casolare
e un cimitero al sol meridiano!
Gli offerse ivi la terra salutare
in premio del sudor quotidiano
la gioia in vita e un solco ove posare
le membra un dì, non solo e non invano.
O, per l'ultima volta visione
bianca ritorni fuor dell'ombre gravi?
Povere croci in quella terra santa!
E una voce nell'orto lungi canta...
O Maria quest'è pur la tua canzone!
Ridevan gli occhi ceruli soavi.
3.
IL canto egli sapea dell'usignuolo
appreso un tempo a la natal pineta
e la dolce d'amor pena segreta
amava ricantar piangendo solo.
Ma quando vide i suoi fratelli al suolo
ignudi, sorse libero poeta
con alte voci a predicar la lieta
novella e stimolar l'ignavo stuolo.
Stavano i tristi sotto i cieli bui
come armenti adunati ad olocausti
curvando i corpi già sì poderosi.
E fra tanto squallor vedendo lui
pianger i pianti ond'erano essi esausti
guardavano in quel volto dubitosi.
4.
EGLI parlò gemendo e quando l'eco
tacque della fortissima rampogna,
si levarono muti di vergogna,
poi esclamò ciascuno: "Eccomi teco!"
Ma quelli che tesserono con bieco
ingegno l'empia secolar menzogna,
come un ladro lo misero a la gogna
e rinchiusero in antro umido e cieco.
E un giorno avesti da misericordi
mani la libertà perché morissi
di fame lungi o pur di mal sottile...
Così mi torna agli occhi umidi e fissi
la tua vista che fu quasi infantile...
O ricordi! Terribili ricordi!
5.
E da l'alto mirando la sommersa
città nell'ombra che di neve albeggia,
dove i camini sembrano una greggia
lungo scialbi declivii dispersa,
vede la strada in baratro conversa,
che di barlumi qua e là biancheggia
in cui, rombando come un flutto, ondeggia
nera la folla raminga e diversa.
Ahi qual gorgoglia nell'oscuro fondo
verso i cieli vaporando sale
effluvïo d'angoscia e di delitto!
Guata, sbarrando le pupille, fisso,
e un pensiero fulmineo l'assale;
"S'io mi lanciassi dentro a capofitto?"
6.
RISPLENDONO finestre lungi, quali
aperti su la via grand'occhi d'oro:
a lui dice uno spirito canoro
come in un soffio cose alte e fatali.
"O folleggiante di felici coro
che svoli intorno a ceri funerali,
di quanti suscitasti odî mortali
coglierai il terribile tesoro.
I tuoi campi avran frutti di paludi:
cenere il grano, il vino tuo veleno:
per te li agnelli vestiranno spine.
Ma i tuoi figli che nasceranno ignudi
benediranno il sol giusto e sereno
dopo la notte ch'è presso a la fine."
7.
ORA ten va, sognante anima e sola
caduta nelle tue superbe sfide:
la luce che seguivi, ecco, s'invola
e il diuturno sogno si recide.
Le vie che tu calcavi erano infide:
l'ideal cui tendevi era una fola.
Così la vota illusion t'irride
e la feroce realtà t'immola.
Pallido asceta! E tu la notte scruti,
quella che amasti notte ampia sonora
per cui voci s'udian, lucevan forme
care a' tuoi sensi vigili ed acuti.
Or t'involge la tenebra deforme.
Quest'è la notte cui non segue aurora.
8.
GIACE. D'un tratto guarda. Si commove
l'ombra. Parole ambigüe, remote
s'appressano sonando: voci note
al certo: visi già veduti: dove?
Ma sorge un turbinìo vivo, di nove
forme, laide, terribili. Si scuote
la parete. Un rombar cupo di ruote:
un crollo ed uno schianto; or tutto move.
Tutto s'avventa dentro il ciel di fiamma:
sul capo il cielo e sotto i piedi il cielo:
il ciel di sangue, infinito, infinito...
E tutto è sangue. Lo avviluppa un velo
tepido. Balza: un grido ch'è smarrito
da tant'anni, prorompe: O mamma, mamma!
9.
E ricade gemendo. Come un'onda
morta di stagno giace estenuato
lo spirito. Ma fuor della profonda
ombra, come una fiera da l'agguato
sbuca una forma tacita ed immonda:
tende le braccia a lui senza trar fiato:
brancica al buio: poi, ratta, la sponda
del letto ascende e gli si corca a lato.
Viscida, serpentina gli si pone
intorno al corpo e l'avvinghia e lo sugge:
"Spirto di fiamma, corpo di fanciulla,
di tua sublime vita che mi sfugge?
Ti prendo e son la dissoluzione!"
E la più pura vita entrò nel nulla.
10.
VIVE! Vive! Nel fluido elemento
fuor dai corpi tangibili ed impuri
fin che l'essenza incorruttibil duri
è la sua vita senza mutamento.
Ma quando sieno gli uomini e l'evento
parati e alla vittorïa maturi,
su dai recessi delle tombe oscuri
lo spirito uscirà simile a vento.
Aleggerà fra gli aspettanti, quale
aureola di fiamma su le fronti:
gonfierà petti e sciorrà mute bocche.
E i vigili poeti da le rocche
"Sorgete" sclameranno "è vinto il Male!
ecco già grande il Sole, ecco, sui monti!"
FUNUS
Ad Arturo Graf
1.
ONDE la visione orrenda sorse
che m'ha fatto a parlare arido e fioco
sì ch'io rimango di mio senno in forse?
Io tali cose vidi in ogni loco
che ancora attendo da' meridiani
cieli tempeste e turbini di fuoco.
Dai monti augusti ch'erano vulcani
di sacra fiamma, le cui cime pure
parevan tese al ciel candide mani,
fendersi vidi molte bocche impure
fumide, vomitanti in polle dense
com'ebri su la via melma e sozzure.
E dai cieli scendevano le immense
ombre come palpabili velarî
per cui serpean lingue di fiamma intense.
Spandeansi lungo i fianchi i flutti, pari
a fiumi per soverchie acque rigonfi
e le valli eran colme, i piani, i mari.
Cupamente cantava i suoi trionfi
la melma, in cui le cime più serene
vid'io piombar con fragorosi tonfi.
Sparnazzavan nel fosco aer oscene
forme e sbucando da' gorghi maligni,
grandi mostri inarcavano le schiene.
Pullulavano bolle di rossigni
vapori, a' cui fosforei bagliori
splendeano fauci immani, occhi sanguigni.
O giardini divini ov'eran fiori
puri, ove scendeano l'api a nembi:
arbori che chiudevano tesori
d'infantili bisbigli dentro a' grembi
pudibondi! Fiumane su' cui lati
la terra distendea floridi lembi:
o colli come altari consagrati!
Tutto è polluto dentro l'onda immonda
e profanato da putridi fiati.
Tutto la rea corruzion circonda
violando ed il cielo è ben remoto:
sangue dai cieli spalancati gronda!
Quest'è dunque la fine? Io giaccio immoto
su l'onde nere, vigile, le braccia
come di piombo; e 'l corpo non ha moto
per fuggir da la tragica minaccia.
Orsù, fuochi del cielo, divampate:
né della terra più rimanga traccia.
Risorgano le cose immacolate!
2.
UOMINI emersi innumeri sui fianchi
del Monte si torceano. Brulicanti,
torme di corpi su la costa bianchi
adunghiavano i sassi erti e le piante
nane. Sorgevan altri presso a riva
abbracciati ad informi cose infrante,
e l'onda invidiosa li rapiva
vivi nel gorgo e vomitava morti.
Fremeva il monte pari a cosa viva.
E i flutti pur salian come coorti
compatte di cavalli scalpitanti.
Guardando abbrividivano i risorti.
Macigni s'ingoiavano con schianti
onde infiniti percoteansi gli echi
negli abissi tra 'l vortice anelanti.
E gli uomini correvan sotto i ciechi
firmamenti con ansia enorme e il Monte
appariva talor nei lampi biechi
un mostro nero immane, con la fronte
immersa nelle stelle anguicrinite,
solo emergendo in mezzo all'orizzonte,
formicolante al piè di mille vite.
E da lunge pareva il brulichio
un polipo di braccia irte infinite.
Ma dal Mare e dal Monte un mormorio
sorse ed un grido. Tutti i petti esausti
s'effusero in estremo impeto a Dio.
Fumava il cielo come d'olocausti.
3.
E quei che dentro l'Ombra si nasconde
E noi cerchiam nello splendor diurno
quei che invocato sempre non risponde,
cui pregano d'aiuto e di perdono
amato e maledetto Taciturno
ed ei non dice ai moribondi: Io sono;
rimase tra le dense nubi muto,
però che il giorno estremo era venuto.
4.
CUPO era l'aër, cavo e senza veli
dove una croce fulse di scintille.
Poi figure addensate a mille a mille
s'accesero e s'estinsero ne' cieli.
Angioli in atti supplici o crudeli,
ferine piante, mostri con pupille
onde gocciavan rosse a terra stille
su le fronti pallenti e su gli steli.
Rombò la terra. Parve che il gran giogo
si spaccasse: piombavan le ruine
che a uomini ed a belve erano tombe.
Muti, adunati come in ecatombe
attesero i superstiti che alfine
fosse la terra a la sua stirpe rogo.
5.
O Tu che le tempeste agiti e scagli
e 'l mar sollevi e i monti apri e scoscendi,
di tenebre coperto e di barbagli,
che di saette repentine fendi
l'aer profondo e nella notte muta
più densa l'ombra dopo il lampo rendi.
Tu che rimani là da quel che muta,
cui nell'esiguo spazio sommersa
l'anima implora e la creta rifiuta.
Vedi qual sangue e quai lagrime versa
l'uom solitario, poi che dolorare
in sè risente l'anima universa.
Invano l'uomo interrogò l'ignare
apparenze. Fra gli astri accesi cupa
è l'ombra e 'l vero dietro il sol dispare.
Sgombra l'orror di morte che ci occùpa
Dio della vita, però che una trista
brama nel vòto nulla ci dirupa.
E se la tua possanza non conquista
l'abisso di miseria che c'ingoia,
se la creta si strugge a la tua vista,
l'Uomo contempli la tua faccia e muoia!
FINE