Giulio Cesare Croce
Bertoldo
Nuovamente
reviste e ristampate
con il suo testamento nell'ultimo
e altri
detti sentenziosi che nel primo non erano
Proemio
Qui non ti narrerò, benigno lettore, il giudicio di Paris, non il ratto di Elena, non l'incendio di Troia, non il passaggio d'Enea in Italia, non i longhi errori di Ulisse, non le magiche operazioni di Circe, non la distruzione di Cartagine, non l'esercito di Serse, non le prove di Alessandro, non la fortezza di Pirro, non i trionfi di Mario, non le laute mense di Lucullo, non i magni fatti di Scipione, non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano, poiché di simil fatti le istorie ne danno a chi legge piena contezza; ma bene t'appresento innanzi un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto, e di sottilissimo ingegno; a tale, che paragonando la bruttezza del corpo con la bellezza dell'animo, si può dire ch'ei sia proprio un sacco di grossa tela, foderato di dentro di seta e oro. Quivi udirai astuzie, motti, sentenze, arguzie, proverbi e stratagemme sottilissime e ingegnose da far trasecolare non che stupire. Leggi dunque, che di ciò trarrai grato e dolce trattenimento, essendo l'opera piacevole e di molta dilettazione.
Le sottilissime astuzie di Bertoldo.
Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell'ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l'acutezza dell'ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive.
Fattezze di Bertoldo.
Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l'orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all'insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.
Audacia di Bertoldo.
Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch'erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s'immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo:
Ragionamento fra il Re e Bertoldo.
Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?
Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo.
Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi?
Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta.
Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle?
Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti.
Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti?
Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte.
Re. Qual è la più veloce cosa che sia?
Bertoldo. Il pensiero.
Re. Qual è il miglior vino che sia?
Bertoldo. Quello che si beve a casa d'altri.
Re. Qual è quel mare che non s'empie mai?
Bertoldo. L'ingordigia dell'uomo avaro.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane?
Bertoldo. La disubbidienza.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio?
Bertoldo. La lascivia.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante?
Bertoldo. La bugia.
Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa?
Bertoldo. La puttana.
Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa?
Bertoldo. La mala lingua del servitore.
Re. Qual è il più gran pazzo che sia?
Bertoldo. Colui che si tiene il più savio.
Re. Quali sono le infermità incurabili?
Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti.
Re. Qual è quel figlio ch'abbrugia la lingua a sua madre?
Bertoldo. Lo stuppino della lucerna.
Re. Come faresti a portarmi dell'acqua in un crivello e non la spandere?
Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei.
Re. Quali sono quelle cose che l'uomo le cerca e non le vorria trovare?
Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto.
Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane?
Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei.
Re. Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse.
Bertoldo. E tu saresti un bell'umore, se non rangiasti.
Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch'io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai.
Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri.
Re. Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami?
Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l'hai; e però non puoi darla a me.
Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio?
Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi.
Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi.
Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza.
Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle.
Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall'adulazione.
Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte?
Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà.
Re. Chi t'ha mosso dunque a venir qua?
Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re.
Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t'induce a fare questi ragionamenti?
Bertoldo. L'asino del tuo fattore.
Re. Che cosa ha da fare l'asino del mio fattore con la grandezza della mia corte?
Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l'asino aveva raggiato quattro mill'anni innanzi.
Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere.
Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi.
Re. Tu sei un malizioso villano.
Bertoldo. La mia natura dà così.
Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna.
Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti.
Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.
Astuzia di Bertoldo.
Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch'egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse:
Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te.
Re. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto?
Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne?
Re. Sì, vanno.
Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l'hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi.
Re. Tu sei un grand'uomo. Or va, ch'io ti perdono, e voi menatelo a mangiare.
Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l'opera.
Re. Perché, hai tu forse altro da dire?
Bertoldo. Io non ho ancora incominciato.
Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme.
Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta.
Aurelia. Sappi, Signore, che costei ieri sera fu nella camera mia e mi rubbò quello specchio di cristallo ch'ella tiene in mano. Io gliel'ho addimandato più volte, ed essa me lo nega e non me lo vuol restituire, e però io t'addimando giustizia.
Lite donnesca.
Vennero dunque due donne dinanzi al Re, e una di quelle aveva rubato uno specchio di cristallo all'altra, e quella di chi era lo specchio si chiamava Aurelia, e l'altra che l'aveva rubato si chiamava Lisa, la quale aveva il detto specchio in mano. E Aurelia querelandosi innanzi al re, disse:
Lisa. Questa non è la verità, anzi sono più giorni ch'io lo comprai dei miei danari e non so come costei abbia tanto ardire di chiedere quello che non è suo.
Aurelia. Deh, giustissimo Re, non dar credito alle false parole di costei, perché ella è una ladra publica che non ha conscienza né fede, e sappi tua Maestà che io non mi sarei mossa a chiedere quello che non è mio per tutto l'oro del mondo.
Lisa. O che conscienza grossa! Sa ella mo' bene dare ad intendere di essere lei quella dalla ragione, e chi ti credesse, ah, sorella, ne sapresti trovare delle megliori? Ma noi siamo dinanzi a un giudice che conoscerà la mia innocenza e la tua falsità.
Aurelia. O terra, perché non t'apri a inghiottire questa ribalda che con tanta sfacciataggine nega quello che è mio, e di più si sforza dare ad intendere di esser lei quella dalla ragione e io dal torto? O Cielo, scopri tu la verità di questo fatto.
Sentenza giusta del Re.
Re. Orsù, achettatevi, che or ora io vi consolarò. Pigliate qua voi questo specchio e spezzatelo minutamente e diassene tanti pezzi all'una quanto all'altra e così tutte dua saranno contente. Che ne dite voi?
Lisa. Io sì mi contento, perché così sarà finita la lite fra noi, né gridaremo più insieme.
Aurelia. No, no. Diasi pur più tosto a lei che romperlo, perché io non potrei mai soffrire di vedere che fosse spezzato così bello specchio; e chi sa che un giorno, rimorsa dalla conscienza, ella non me lo renda. Portiselo dunque costei intiero a casa e sia qui finita la nostra tenzone.
Lisa. La sentenza del re mi piace; spezzisi pure, che mai più non avremo da rugare insieme. Su, che si venghi al fatto.
Prudenza del Re.
Re. Orsù, io conosco veramente che lo specchio è di colei che non vuole che si spezzi; perché al pianto, alle lagrime e al supplicare ch'ella fa, quanto al giudicio mio, mostra segno chiarissimo ch'ella n'è patrona e che quest'altra gliel'ha involato. Diasi adunque lo specchio a lei e mandisi via l'altra vergognosamente.
Aurelia. Io ti ringrazio infinitamente, benignissimo Signore, poiché conoscendo con la tua prudenza la malizia di costei, hai dato la sentenza retta, come giusto giudice; onde pregarò sempre il cielo che ti conservi e ti dia tutte le prosperità che desideri.
Re. Va' in pace, e sforzati d'esser da bene. In vero si conosce che lo specchio è di costei perché al lagrimar ch'ella faceva, mostrava chiaro segno ch'ei fosse suo.
Bertoldo ridendo di tal sentenza, dice:
Bertoldo. Questa non è buona cognizione, o Re.
Re. Perché non è buona cognizione?
Bertoldo. Tu credi dunque alle lagrime delle donne?
Re. Perché non vuoi tu ch'io gli creda?
Bertoldo. Or non sai tu che il suo pianto è un inganno? e che ogni cosa ch'esse fanno o dicono è l'istesso, però ch'esse piangono con gli occhi e ridono con il cuore; ti sospirano dinanzi, poi ti burlano di dietro, parlano al contrario di quello ch'esse pensano, e pensano al contrario di quello ch'esse parlano; però il versare delle lagrime loro, lo sbattersi, la mutazione della faccia, tutte sono fraudi, inganni e tradimenti che gli scorrono per la mente per adempire i loro ingordi e insaziabili desiderii.
Lodi date dal Re alle donne.
Re. Tanto hanno in esse bontà le donne, senno e prudenza, quanto alcuna di queste cose da te impostegli a torto; e se a sorte pur una pecca per fragilità è degna di scusa, per esser ella più molle e più facile al cadere in questi difetti che non è l'uomo. Ma dimmi un poco, non si può dire che sia morto colui che sia separato da tal sesso? Prima, la donna ama il suo marito, genera i figliuoli, li alleva, li nodrisce, li costuma e gli mostra tutte le buone creanze. La donna regge la casa, mantien la robba, custodisce la famiglia, sollecita le serve e provede a tutti i disordini che possono avvenire in casa, ama con fedeltà, è dolce da praticare, nobile da conversare, schietta nel contrattare e discreta nel comandare, pronta nell'ubidire, onesta nel ragionare, modesta nel procedere, sobria nel mangiare, parca nel bere, mansueta con quelli di casa e trattabile con quelli di fuora. In somma, la donna apresso l'uomo si può dire ch'ella sia una gemma orientale, legata in oro purissimo; e per una, che caschi in qualche frenesia o umore stravagante, mille all'incontro ne sono onestissime e da bene; e però io tengo che la sentenza da me data sia stata giusta.
Bertoldo. Veramente si vede che tu ami molto le donne, e però hai fatto sì bella spiegata di parole in lode loro. Ma che dirai tu se io ti farò tornare a dietro tutto quello che in suo favore hai detto, prima che tu vadi a dormire doman di sera?
Re. Quando tu farai questo, il quale tengo che sia impossibile che lo facci, io dirò che tu sei il primo uomo del mondo; ma se tu non lo farai io ti farò impiccar subito.
Bertoldo. Orsù, a rivederci domani.
Così, essendo sera, il Re si ritirò nelle sue stanze e Bertoldo, dopo aver cenato, andò a dormire alla stalla per quella notte, andando fantasticando fra sé di trovar strada acciò che il Re cantasse alla roversa di quanto avea detto in lode delle donne; e, avendo pensato una nuova astuzia, si pose a dormire, aspettando il giorno per porla in essecuzione.
Astuzia di Bertoldo.
Venuta la mattina, Bertoldo si levò dalla paglia e andò a trovare quella femina alla quale il Re aveva data la sentenza in favore e gli disse:
Bertoldo. Tu non sai quello che ha determinato il Re?
Aurelia. Io non so nulla se tu non me lo dici.
Bertoldo. Egli ha commesso che lo specchio sia spezzato, com'ei disse, e dato la metà a quell'altra perché ella si è appellata della sentenza; onde il Re, per non udire più querelle, vuole, col dividerlo, sodisfare all'una e all'altra.
Aurelia. Come che il Re ha determinato che il mio specchio sia spezzato, se di già egli ha sentenziato ch'esso mi sia restituito sano e intiero? Oh, che tu mi burli, va' via!
Bertoldo. Io non ti burlo, certo; che gliel'ho udito dire con la sua propria bocca.
Aurelia. Ohimè, che è quello ch'io sento; forsi ei fa questo per dar sodisfazzione a quella maledetta femina. Oh che giuste sentenze, oh che nobili azioni d'un Re, oh povera giustizia, come sei tu bene amministrata, poiché adesso si crede più alla bugia che alla verità. Oh misera me! Pur converrà ch'io ti veggia rotto in mille pezzi, caro il mio specchio, uh, uh!
Bertoldo. Il ciel volesse che non vi fusse di peggio.
Aurelia. E che cosa vi può essere di peggio per me che questo?
Bertoldo. Egli ha ordinato una legge che ogni uomo debba prendere sette mogli. Or mira un poco tu che ruina sarà per le case con tante femine.
Aurelia. Come, ch'ei vuole che ogni uomo pigli sette mogli? Oh questo è ben peggio che s'ei facesse rompere quanti specchi sono nella città. Ma che pazzia è questa che gli è saltata nel capo?
Bertoldo. Io non ti so dire altro, e t'ho detto tutto quello che a lui ho udito dire; a voi donne sta il diffendervi, prima che il male vada più avanti.
Così avendogli cacciato questo pulce nell'orecchio si partì da lei e se ne tornò alla corte aspettando di udire qualche gran novità avanti che fusse notte.
Tumulto di donne della città per questa baia.
Partito Bertoldo, Aurelia credendosi che ciò fusse la verità, subito andò a trovare le sue vicine e gli fece palese quel tanto che da Bertoldo aveva udito; le quali, udendo tal cosa, entrarono in tanta smania e in tanta furia che gettavano fuoco per tutto; e in meno d'un'ora si sparse tal nuova per tutta la città; onde si raccolsero insieme più di due mila femine, le quali, avendo discorso gran pezzo sopra tal fatto, si risolsero alla fine di andar a trovar il Re e quivi alla sua presenza gridar tanto e far tanto romore, che esso, vinto dalla loro importunità, si risolvesse a fare che la legge da lui nuovamente imposta non andasse più avanti. E così, tutte piene di rabbia e colme di sdegno, andarono a corte e ivi gionte cominciarono a fare i più gran strepiti e le maggior grida del mondo, a tale che il Re era quasi stordito, né sapendo la cagione di così gran tumulto, restò tutto confuso e pieno di maraviglia; laonde non potendo più sopportar tanta insolenza, tratto dalla colera e dallo sdegno, fu sforzato di ponere la pazienza da una banda nell'ultimo.
Il Re va in colera con le donne e Bertoldo gode.
E rivolto a quelle con faccia turbata, disse loro: "Che novità è questa ch'io sento? E di dove procede questa sollevazione? Chi vi ha messo in tanta smania? Dove nasce tanto fracasso? Perché fate tanta ruina? Sete voi forse spiritate? Che malanno avete? Ditelo in mal ora, femine del diavolo".
Donne. Che novità è la tua, o Re? Che umore di pazzia ti è saltato nel capo - rispose una delle più audaci e rabbiose - che frenesia ti è tocca a ordinare che ogn'uomo pigli sette mogli? O che nobile considerazione di prudente re! Ma sappi certo che ella non ti anderà fatta.
Re. Che cosa dite voi sciocche? Parlate pianamente, ch'io v'intenda, e vi risponderò.
Donne. Parlar pianamente, eh? Anzi bisognarebbe tirarti giù di quel seggio regale, dove ora siedi, e cavarti ambidue gli occhi.
Re. Che ingiuria, che dispiacere v'ho fatto io? Ditelo alla schietta, e non v'affocate tanto, cagne rabbiose che sete.
Donne. Non te l'abbiamo noi detto un'altra volta?
Re. Io non vi ho bene inteso, però tornatelo a dire.
Donne. Non è il peggior sordo, quanto quello che non vuole udire. Noi ti torniamo a dire che tu hai fatto un grande errore a ordinare per legge che ogn'uomo pigli sette donne per moglie, e che tu dovresti attendere ai negozi tuoi e del tuo regno e non t'impacciare in quello che a te non s'appartiene. Hai tu inteso adesso? Ma ben si vede che non hai punto di cervello e che sei pazzo affatto.
Il Re scaccia le donne e biasma il sesso feminile.
Ah, sesso ingrato e discortese, quando feci io tal legge? Levatevi or ora dalla presenza mia e andate alla malora, seme ribaldo e importuno, che adesso io conosco chiaramente che donna non vuol dinotare altro che danno e femina semina zizanie e discordie, che dalla casa ov'ella si parte si tira dietro ciò che può col rastello, e dove ella entra vi porta la fiamma e il fuoco; ella è una sentina d'inganni e di tradimenti, un baratro infernale nel quale si sentono di continuo i pianti e i lamenti de' miseri mariti; elle sono la ruina de' padri, tormento delle madri, flagello de' fratelli, vergogna de' parenti, consumamento delle case, e in somma elle sono pena e afflizzione di tutto il genere umano. Andate via tutte nella mala perdizione e non mi tornate mai più innanzi, spiriti infernali e bestie malvagie che voi siete. Oh che fracasso, oh che rovina hanno fatto queste pazze scatenate per niente! Ma s'io posso sapere chi sia stato l'autore di questa novità, io son risoluto di riconoscerlo secondo ch'egli merita. Ecco che pur sono andate via queste insolenti, che poco vi è mancato ch'esse non mi abbino cavati gli occhi con le dita.
Partite le donne e quietatosi alquanto il Re, Bertoldo ch'era stato in disparte ad ascoltar il tutto, essendogli riuscito il suo disegno, si fece, ridendo, innanzi al Re e gli disse:
Bertoldo. Che dici, o Re? Non ti diss'io che prima che tu andasti a letto il giorno d'oggi tu leggeresti il libro alla roversa di questo che ieri dicesti in lode delle donne? Or vedi, ch'elle ti hanno chiarito.
Re. O che cervelli diabolici andar a trovare inventiva ch'io abbia ordinato che ogni uomo debba prendere sette mogli, cosa che mai non m'imaginai, né pure me la sognai. O che mal seme, o che crudel razza!
Bertoldo. Tu sai i patti che sono fra te e me.
Re. Tu hai molto ben ragione; però vien, siedi meco su questo seggio regale, poiché tu l'hai meritato.
Bertoldo. Non ponno capire quattro natiche in un istesso seggio.
Re. Io ne farò fare un altro appresso di questo e vi sederai su, e darai audienza come me.
Bertoldo. Né amore, né signoria non vuol compagnia; però governa pur tu, che sei Signore.
Re. Io dubito che tu sia stato l'auttore di questo fracasso.
Bertoldo. Tu l'hai indovinato alla prima e non mi puoi castigare altrimente perch'io mi son ingegnato per adempire quanto avea promesso di fare.
Re. Orsù, poiché questa è stata tua invenzione, io ti perdono; ma come hai tu ordita questa diavoleria?
Bertoldo. Io sono andato a trovar colei alla quale tu concedesti lo specchio e gli ho dato ad intendere che tu volevi di nuovo farlo spezzare e darne la metà alla sua avversaria, e di più che tu avevi ordinato che ogn'uomo pigliasse sette mogli e perciò costei aveva radunato così gran numero di femine insieme e hanno fatto lo schiamazzo che tu hai sentito.
Il Re si pente di aver detto male delle donne, onde torna di nuovo a lodarle.
Re. Tu sei stato un grand'inventore, ma però di malizia, e tu hai quasi causato un gran disordine oggi, e hanno avuto mille raggioni, non che una, a muoversi ad ira contro di me; e non potevo credere che il sesso donnesco fusse così privo di cervello che si movesse a far tanto rumore senza grandissima cagione; e qual maggior occasione di questa gli potevi tu dare a farle irritare verso di me? E a me parimente hai dato occasione di dire contro di loro quello ch'io non vorrei aver detto per tutto l'oro del mondo; e ne son dolente e pentito, e torno a dire che la donna è un fonte di virtù, un fiume di bontà, un giardino di costumi, un monte di benignità, un prato di gentilezza, un campo di cortesia, un specchio di prudenza, una torre di magnanimità, un mare di pudicizia, e un fermo scoglio di costanza e di fermezza. Però chi vuol essere mio amico non dica male delle donne, perch'elle non offendono alcuno, non portano armi, non cercano risse, ma sono tutte mansuete, placide, benigne e quiete, amabili e ornate di tutte le creanze, si ché non incitar più l'ira mia verso di loro perché io ti farò dare condegno castigo.
Bertoldo. Io non toccherò più le corde di questa cittera, ma attenderemo ad altro e saremo amici.
Re. Sì, perché dice il proverbio: sta' discosto all'acqua corrente e da can che mostra il dente.
Bertoldo. Ancora, l'acqua cheta e l'uomo che tace, non mi piace.
La Regina manda a domandar Bertoldo al Re, perché lo vuol vedere.
Mentre ragionavano così famigliarmente il Re e Bertoldo, giunse un messo da parte della Regina, il qual disse al Re come la Regina desiderava di vedere Bertoldo, pregando sua Maestà a mandarglielo; e perché ella aveva inteso che costui si pigliava spasso di burlar le donne, aveva fatto pensiero di farlo bastonare ben bene; onde il Re, udito la dimanda della Regina, volto a Bertoldo, gli disse:
Re. La Regina ha mandato a domandarti. Ecco il messo, il qual è venuto a posta, ch'ella brama di vederti.
Bertoldo. Tanto per male, quanto per bene si portano le ambasciate.
Re. La conscienza sempre rimorde l'uomo tristo.
Bertoldo. Il riso della corte non si confà con quello della villa.
Re. L'innocente passa libero fra le bombarde.
Bertoldo. La donna irata, la fiamma impicciata e la padella forata son di gran danno in casa.
Re. Spesso interviene all'uomo tristo quello ch'ei teme.
Bertoldo. Il gambaro spesse volte salta fuora della padella per salvarsi, e si trova nelle bragie.
Re. Chi semina iniquità raccoglie de' mali.
Bertoldo. Sotto la scuffia bianca spesso vi sta la tigna ascosa.
Re. Chi ha intricato la tela la destriga.
Bertoldo. Mal si può destricare, quando i capi sono avviluppati.
Re. Chi semina le spine non vada senza scarpe.
Bertoldo. Non si può combattere contra più forti di sé.
Re. Non temere che alcuno ti faccia oltraggio.
Bertoldo. Al buon confortatore non duole il capo.
Re. Temi tu forsi che la Regina ti facci dispiacere?
Bertoldo. Donna iraconda, mar senza sponda.
Re. La Regina è tutta piacevole e brama di vederti; però va' via allegramente, e non dubitare.
Bertoldo. In ultimo se ne dirà, e tal ride che piangerà.
Bertoldo è condotto dalla Regina.
Così Bertoldo fu condotto dalla Regina, la quale avendo inteso, come vi dissi, la burla fatta a quelle donne il giorno innanzi, aveva fatto preparare alquanti bastoni e commesso alle sue donne che, serratolo in una camera, gli sbattessero ben bene la polvere di sul mantello; e, subito ch'essa lo vide, mirando quel mostruoso aspetto, tutta sdegnata, disse:
Regina. Mira che ceffo di babuino.
Bertoldo. Il laveggio grida dietro la padella.
Regina. Come t'addimandi tu?
Bertoldo. Io non domando nulla.
Regina. Come ti chiami?
Bertoldo. Chi mi chiama, io gli rispondo.
Regina. Dico come tu t'appelli.
Bertoldo. Io non mi sono mai pelato, ch'io mi ricorda
Mentre che la Regina interrogava Bertoldo, una delle serve portò di nascosto un vaso pieno d'acqua per fargli batter dentro il sedere, ma il villano astuto, accortosi di ciò, stava molto bene avvertito, e subito pensò una nuova astuzia, seguitando pur la Regina il suo parlare.
Astuzia di Bertoldo, perché non gli fusse bagnato il podice.
Regina. Come fai tu tante astuzie, che tu pari un indovino?
Bertoldo. Ogni volta che mi vien adacquato il sedere, io indovino ogni cosa, e so se una donna fa l'amore e se ella ha mai fatto errore con alcuno, e s'ella è casta overo impudica; e in somma io indovino ogni cosa, e se vi fusse chi mi volesse bagnar di dietro io vi saprei dir ogni cosa adesso, adesso.
Bertoldo scampa la furia dell'acqua.
Allora quella serva che aveva portato il secchio con l'acqua per bagnarlo, udendo tal parola, lo portò via pian piano, per sospetto di non essere scoperta di qualche macchia; né ve ne fu alcuna che ardisse di fargli scherzo alcuno, perché tutte avevano, come si suol dire, qualche straccio in bucato. Ma la Regina, che ardeva di sdegno contro di costui, impose che esse pigliassero un bastone per ciascheduna in mano e lo bastonassero ben bene; ond'esse se gli avventarono addosso con maggior impeto che non fecero le furiose Baccanti addosso al misero Orfeo. Onde, vedendosi il povero Bertoldo in così gran pericolo, ricorse di nuovo all'usata astuzia, e rivolto a loro così disse:
Nuova astuzia di Bertoldo per non esser bastonato.
Bertoldo. Quella di voi che ha trattato di avvelenar il Re alla mensa, quella sia la prima a pigliare il legno e percuotermi, ch'io mi contento.
Allora tutte s'incominciarono a guardare l'una con l'altra, dicendo: "Io non ho mai pensato di far questo"; "Né io", rispondeva l'altra, e così di mano in mano risposero tutte e per sino la Regina, a tale ch'esse tornarono i bastoni al suo luogo e il sagacissimo e buon Bertoldo restò illeso da quelle aspre percosse per allora.
La Regina brama che Bertoldo sia bastonato per ogni modo.
La Regina, che tuttavia ardeva di sdegno contra Bertoldo, e volendo per ogni modo ch'ei fosse bastonato, mandò a dire alle sue guardie che nell'uscir fuora lo bastonassero senza remissione alcuna e lo fece accompagnare a quattro dei suoi servi, i quali poi gli portassero la nuova di tutto quello ch'era successo.
Astuzia sottilissima di Bertoldo, per non essere percosso dalle guardie.
Quando Bertoldo vidde che in modo alcuno non la poteva fuggire, ricorse all'usato giudicio e, volto alla Regina disse: "Poi ch'io veggio chiaramente che pur tu vuoi ch'io sia bastonato, fammi questa grazia: ti prego in cortesia, che la domanda è onesta e la puoi fare, in ogni modo a te non importa pur ch'io sia bastonato, di' a questi tuoi che mi vengono accompagnare, che dicano alle guardie che portino rispetto al capo e che elle menino poi il resto alla peggio".
La Regina, non intendendo la metafora, comandò a coloro che dicessero alle guardie che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio che sapevano; e così costoro, con Bertoldo innanzi, s'inviarono verso le guardie, le quali aveano di già i legni in mano per servirlo della buona fatta; onde Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l'accompagnavano viddero le guardie all'ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina.
I servi sono bastonati in cambio di Bertoldo.
Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa, e in somma non vi fu membro né osso che non avesse la sua ricercata di bastone. sì tutti pesti e fracassati tornarono alla Regina, la quale, avendo udito che Bertoldo con tale astuzia s'era salvato e aveva fatto bastonare i servi in suo luoco, arse verso di lui di doppio sdegno e giurò di volersene vendicare, ma per allora celò lo sdegno che ella avea, aspettando nuova occasione; facendo in tanto medicare i servi, i quali, come vi dissi, erano stati acconci per le feste, come si suol dire.
Bertoldo torna dal Re, e fa una burla a un parasito.
Venuto l'altro giorno, la sala regale s'incominciò a empire di cavalieri e baroni, secondo il solito, e Bertoldo non mancò di comparire al modo usato; laonde vedutolo il Re, lo chiamò a sé e disse:
Re. E bene, come passò il negozio fra te e la Regina?
Bertoldo. Dall'orlo alla scarpa vi fu poco vantaggio.
Re. Il mare era molto turbato.
Bertoldo. Chi sa ben veleggiare passa ogni golfo sicuramente.
Re. Il cielo minacciava gran tempesta.
Bertoldo. La tempesta s'è scaricata sopra d'altri.
Re. Credi tu che sia tornato sereno?
Bertoldo. Io lasciai il cielo molto turbato.
Insolenza d'un parasito.
Allora un parasito che stava appresso il Re, il quale serviva ancora per far ridere e si chiamava Fagotto per essere egli uomo grosso, picciolo di statura, con il capo calvo, disse al Re: "Di grazia, Signore, fammi grazia ch'io ragioni un poco con questo villano, ch'io lo voglio chiarire". Disse il Re a lui: "Fa' quello che ti pare; ma guarda a non fare come fece Benvenuto, il quale andò per radere e fu raduto". "No, no - rispose Fagotto - io non ho paura di lui", e volto verso Bertoldo con un ceffo stravagante le disse:
Fagotto. Che dici tu barbagianni caduto del nido?
Bertoldo. Con chi parli tu, allocco spennacchiato?
Fagotto. Quante miglia sono dal far della luna ai Bagni di Lucca?
Bertoldo. Quanto fai tu dal caldaron della broda alla stalla?
Fagotto. Per che causa fa la gallina negra l'ova bianche?
Bertoldo. Per che causa il staffile del Re fa venire nere a te le chiappe di Fabriano?
Fagotto. Chi sono più, i Turchi o gli Ebrei?
Bertoldo. Chi sono più, quelli che tu hai nella camicia o nella barba?
Fagotto. Il villano e l'asino nacquero tutti due a un parto istesso?.
Bertoldo. Il gnattone e il porco mangiano tutti due ad un'istessa conca?
Fagotto. Quant'è che tu non hai mangiato rape?
Bertoldo. Quant'è che non t'è stato dato la coperta?
Fagotto. Sei tu un bufalo o una pecora?
Bertoldo. Non mettere in ballo i tuoi parenti.
Fagotto. Sin quando starai tu a lasciar da parte le tue astuzie?
Bertoldo. Quando tu lascierai stare di leccare i piatti di cucina.
Fagotto. Al villano non gli dar bacchetta in mano.
Bertoldo. Al porco e alla rana non gli levare il fango.
Fagotto. Il corvo mai non portò nuova buona.
Bertoldo. Il nibbio e l'avoltore vanno sempre dietro le carogne.
Fagotto. Io sono uomo da bene e ben creato.
Bertoldo. Chi si loda s'imbroda.
Fagotto. Il villano è un mal animale.
Bertoldo. E l'adulatore è un brutto mostro.
Fagotto. Non fu mai villano senza malizia.
Bertoldo. Non fu mai gallo senza cresta, né parassito senza adulazione.
Fagotto. Le tue scarpe hanno aperta la bocca.
Bertoldo. Le ridono di te, che sei una bestia.
Fagotto. Le tue calze sono tutte rappezzate.
Bertoldo. Meglio è avere rappezzato le calze che il mostaccio come hai tu.
Avea costui molti segni sulla faccia che gli erano stati dati per suo benemerito; dove che, sentendosi toccare sul vivo, né sapendo che si rispondere, venne rosso in viso come il fuoco per vergogna, tanto più che tutta la corte cominciò a ridere di questo motto, onde cominciossi ad acchettare; e volontieri si saria partito se quei cavalieri non l'avessero trattenuto.
Ma Bertoldo, che per aver ragionato assai aveva la bocca piena di saliva, né sapendo dove sputare, essendo ornata la sala tutta e le pareti di panni di seta e d'oro, disse al Re: "Dove vuoi tu ch'io sputi?" Disse il Re: "Va, sputa in piazza". Allora Bertoldo voltossi verso Fagotto, qual era tutto calvo, come già vi dissi, gli sputò in mezo della testa, onde costui alterato si querelò innanzi al Re dell'ingiuria fatta. Disse Bertoldo: "Il Re mi ha dato licenza ch'io sputi in piazza; e qual è la più bella piazza quanto la tua testa? Non si dice per proverbio, testa calva, piazza da pedocchi? Ecco dunque ch'io non ho fatto errore alcuno, e che io ho sputato in piazza secondo la commissione del Re".
Tutta la corte diede ragione a Bertoldo, e Fagotto spazzandosi la zucca convenne aver pazienza; e avrebbe voluto esser digiuno di essersi mai impacciato con lui; e tutti n'ebbero gran piacere perché costui faceva professione di bellissimo ingegno e dava delle canzoni a tutti; e ora non ardiva a pena di alzare più gli occhi per vergogna, e fu quasi per andarsi a impiccare per il dispiacere.
E perché era sera, il Re accomiatò tutti i suoi baroni e disse a Bertoldo che tornasse da lui il dì seguente, ma che non fusse né nudo né vestito.
Astuzia galante di Bertoldo nel tornare innanzi al Re nel modo ch'ei gli aveva detto.
Venuta la mattina, Bertoldo comparve alla presenza del Re involto in una rete da pescare, e il Re, vedutolo a quella maniera, gli disse:
Re. Perché sei tu comparso così alla presenza mia?
Bertoldo. Non dicesti tu ch'io tornassi a te questa mane e che io non fosse né nudo né vestito?
Re. Sì, dissi.
Bertoldo. Ed eccomi involto in questa rete, con la quale parte copro delle membra, e parte restano scoperte.
Re. Dove sei stato fino ad ora?
Bertoldo. Dove son stato più non sono, e dove son ora non vi può stare altri che me.
Re. Che cosa fa tuo padre, tua madre, tuo fratello e tua sorella?
Bertoldo. Mio padre d'un danno ne fa due; mia madre fa alla sua vicina quello che non gli farà mai più; mio fratello quanti ne trova, tanti ne ammazza; e mia sorella piange di quello ch'ella ha riso tutto quest'anno.
Re. Dichiarami questo imbroglio.
Bertoldo. Mio padre, nel campo desiderando di chiudere un sentiero, vi pone dei spini; onde quei che solevano passare per detto sentiero, passano or di qua or di là dai detti spini, a tale che d'un solo sentiero, che vi era, ne viene a far due. Mia madre serra gli occhi a una sua vicina che muore, cosa che non gli farà mai più. Mio fratello, stando al sole, ammazza quanti pedocchi trova nella camicia. Mia sorella tutto quest'anno s'è data trastullo con il suo marito, e ora piange nel letto i dolori del parto.
Re. Qual è il più lungo giorno che sia?
Bertoldo. Quello che si sta senza mangiare.
Re. Qual è la più gran pazzia dell'uomo?
Bertoldo. Il riputarsi savio.
Re. Per che causa vien più presto canuta la testa che la barba?
Bertoldo. Perché i capelli son nati prima della barba.
Re. Qual è quel figlio che pela la barba a sua madre?
Bertoldo. Il fuso.
Re. Qual è quell'erba che fin i ciechi la conoscono?
Bertoldo. L'ortica.
Re. Qual è quella femina che balla sempre nell'acqua e mai non si lava i piedi?
Bertoldo. La barca.
Re. Qual è colui che si serra in prigione da sua posta?
Bertoldo. Il bigatto, o cavaliero da seta.
Re. Qual è il più tristo fiore che sia?
Bertoldo. Quello ch'esce della botte quando si finisce il vino.
Re. Qual è la più sfacciata cosa che sia?
Bertoldo. Il vento, che si caccia fin sotto i panni delle donne.
Re. Qual è colei che nessun non la vuole in casa?
Bertoldo. La colpa.
Re. Qual è quel storto che taglia le gambe a tutti i dritti?
Bertoldo. Il ferro, overo falce da mietere il grano.
Re. Qual è la più gramma femina che sia?
Bertoldo. La gramma da fare il pane.
Re. Quanti anni hai tu?
Bertoldo. Chi numera gli anni fa conto con la morte.
Re. Qual è la più bianca cosa che sia?
Bertoldo. Il giorno.
Re. Più del latte?
Bertoldo. Più del latte e della neve ancora.
Re. Se tu non mi fai vedere questo, io ti voglio far battere duramente.
Bertoldo. Oh infelicità e miseria delle corti.
Astuzia ingegnosa di Bertoldo, per non aver delle busse.
Andò dunque Bertoldo e prese un secchio di latte e secretamente lo portò nella camera del Re e serrò tutte le finestre, ed era mezogiorno ed entrando il Re nella camera venne a urtare nel detto secchio di latte e lo roversò tutto, e poco vi mancò ch'ei non cadesse con la faccia per terra; onde tutto irato fece aprire i balconi e, vedendo quel latte sparso per terra ed esso avere urtato in quel secchio, cominciò a gridare, dicendo:
Re. Chi è stato colui che ha posto quel secchio di latte nella camera mia e ha serrato le finestre acciò ch'io v'urti dentro?
Bertoldo. Sono stato quell'io, per provarti che il giorno è più bianco e più chiaro del latte, perché se il latte fosse stato più bianco del giorno egli t'avria fatto lume per la camera e non averesti urtato nel secchio, come hai fatto.
Re. Tu sei un astuto villano e a ogni cesto trovi il suo manico. Ma chi è questo che viene in qua? Costui è un messo della Regina, certo, e ha una lettera in mano. Tirati un poco da banda, ch'io intenda quello che dice costui.
Bertoldo. Io mi ritiro e il Ciel voglia ch'ella non sia trista nuova per me.
Umor fantastico saltato nel capo alle donne della città.
Venne dunque il messo inanzi, e fatto la debita riverenza al Re, gli porse la carta in mano, il cui contenuto era questo, che le matrone di quella città, cioè le più nobili, bramavano, anzi pur dimandavano liberamente al Re di potere esse ancora entrare né consigli e reggimento della città, come erano i loro mariti, e metter fave e balottare, e udire le querele e sentenziare, e in conclusione di fare anch'esse tutto quello che facevano quelli del Senato e primati della città, allegando che ve n'erano state dell'altre che avevano retto imperii e regni con tanta prudenza, e più tal ora che non avevano fatto molti re e imperatori passati, e che molte erano uscite alla campagna armate e avevano diffesi i loro stati e regni valorosamente, e che perciò il Re non doveva rifiutarle ma accettarle e far partecipe ancor loro di quanto addimandavano, perché pur loro pareva strana cosa che gli uomini avessero il dominio d'ogni cosa e che esse fossero tenute per nulla; alludendo nel fine che tanto esse sariano secrete nelle cose d'importanza quanto gli uomini e forse più, e di ciò la Regina faceva molta instanza, raccomandandogli caldamente tal negozio. Letto il Re la lettera, e inteso la pazza domanda di queste femine, non sapeva che risoluzione si dovesse prendere; onde volto a Bertoldo gli narrò tutto il fatto, il quale prese fortemente a ridere, onde il Re alterato alquanto gli disse:
Re. Tu ridi, manigoldo?
Bertoldo. Io rido per certo, e chi non ridesse adesso meritarebbe che gli fussero cavati tutti i denti.
Re. Perché?
Bertoldo. Perché queste donne ti hanno scorto per un babuino e non per Alboino, e per questo elle ti hanno fatto questa pazza domanda.
Re. A loro sta il domandare, a me il servirle.
Bertoldo. Tristo quel cane che si lascia prendere la coda in mano.
Re. Parla, ch'io t'intenda.
Bertoldo. Triste quelle case che le galline cantano e il gallo tace.
Re. Tu sei come il sole di marzo, che commove e non risolve.
Bertoldo. A buono intenditore poche parole bastano.
Re. Cavamela fuori del sacco una volta.
Bertoldo. Chi vuol tener la casa monda, non tenghi polli né colomba.
Re. A proposito, chiodo da carro, vieni alla conclusione.
Bertoldo. Ch'intende, chi non intende, e chi non vuol intendere.
Re. Chi s'impaccia con frasche, la minestra sa di fumo.
Bertoldo. Che cosa vuoi tu da me, insomma?
Re. Io voglio il tuo consiglio in questa occasione.
Bertoldo. La formica chiede del pane alla cicala, adesso.
Re. So che tu hai ingegno e che sei copioso d'invenzioni, e però io voglio dare a te l'assunto di tutto questo negozio.
Bertoldo. Se a me dai l'assonto di questo, non ti dubitare che presto te le caverò da torno; lassa pur far a me, che s'elle ti parlano mai più di questo fatto, io sono un cane.
Re. Orsù, ingègnati di espedirle quanto prima.
Bertoldo. Lassa pur fare a me.
Astuzia di Bertoldo per cavare questo capriccio del capo alle dette femine.
Andò dunque Bertoldo in piazza e comprò un uccelletto, e lo pose in una scatola e portollo al Re dicendo che mandasse quella scatola così serrata alla Regina e che essa la mandasse a quelle donne e che gli commettesse espressamente che non l'aprissero e che la mattina seguente tornassero e che portassero la scatola così serrata che il Re gli farebbe loro la grazia di quanto chiedevano. Il messo prese la scatola e la portò alla Regina, la quale la consegnò alle dette matrone che in camera di lei stavano aspettare la risposta, commettendole espressamente da parte del Re che non dovessero in modo alcuno aprir la detta scatola e che tornassero il dì seguente, ch'elle avriano ottenuto tutto quello ch'esse desideravano dal Re. E così si partirono tutte consolate dalla Regina.
Curiosità di cervelli donneschi.
Partite che furono le dette femine dalla Regina, gli venne gran desiderio di vedere quello ch'era in detta scatola e cominciarono l'una con l'altra a dire: "Vogliamo noi veder quello che si rinchiude qui dentro?" Altre dicevano: "Non facciamo, perché abbiamo espressa commissione di non aprirla, perché forsi v'è dentro qualche cosa importante per il Re". "Che cosa vi può egli essere? - dicevano le più curiose - e poi se noi l'apriamo non sapremo ancora serrarla com'ella sta? Sì, sì, apriamola pure e siaci dentro quello che si voglia".
Risoluzione di donne.
Al fine, dopo molti bisbigli fatti fra di loro, si risolsero di aprirla, né così tosto ebbero levato il coperchio, che l'uccello che v'era dentro spiegò l'ali e si levò in aere e volò via; onde ne restarono tutte confuse e di mala voglia, e tanto più poiché esse non poterono vedere che uccello si fusse quello, perché con tanta velocità se gli levò di vista che non poterono discernere s'egli era o passero o rosignuolo, perché se l'avessero veduto avrebbono forsi fatto instanza di averne uno simile a quello, e la mattina che seguiva avriano portato la scatola come l'avevano avuta e non vi saria stato male alcuno.
Dolore delle dette donne per essergli scampato via l'uccello.
Stavano dunque tutte dolenti e malenconiche queste povere madonne per aver perso il detto uccello, e riprendendo la sua curiosità dicevano: "Meschine noi, come avremo più faccia di tornare innanzi al Re, poiché non abbiamo osservato il suo comandamento, né abbiamo solo potuto tener stretto l'uccello per una notte. Misere e sconsolate noi, che animo, che ardire sarà il nostro domattina?" Così passarono tutta quella notte con dolore e angustia, né si sapevano risolvere se dovevano tornare il dì seguente innanzi al Re, o pur starsene a casa.
Risoluzione di donne animose.
Passata la notte e tornato il giorno chiaro, le dette donne si levarono e si ridussero insieme, e come disperate non sapevano che partito si dovessero pigliare circa il tornare più alla presenza del Re, per l'errore commesso; e parimente stavano in dubbio se dovevano tornare dalla Regina, o sì o no; chi diceva a un modo e chi a un altro, chi persuadeva di andare, chi di restare. Al fine, dopo molti parlamenti, si fece innanzi una di loro che aveva un poco più gagliardo il cervello di tutte l'altre e disse: "A che perdere più tempo in far tante chiacchiere fra noi? L'errore è già fatto, né si può coprire, né manco emendare se non con chiedere perdono al Re e confessare liberamente il fatto com'egli sta. Imperocché esso è di natura benigno e massime con le donne, facilmente ci perdonerà; e io sarò la prima andare inanzi. Su, fate buon animo e seguitatemi poiché questa all'ultimo non è morte d'uomo; sarebbe mai egli più che un uccelletto da quattro quattrini il quale è volato via? Venite meco e non temete punto". Altre dicevano che il Re averebbe più a sdegno l'atto della disobedienza, che se esse gli avessero fatto scampar via quanti fagiani e pernici egli si trovava avere ne' suoi boschetti e giardini. Al fine, volta e rivolta, si risolsero d'appresentarsi alla Regina e narrargli il fatto, e così fecero.
Le donne vanno dalla Regina ed essa le conduce innanzi al Re.
Udendo la Regina simil cosa, restò molto travagliata nell'animo e non sapeva che si dire, né che si fare, temendo di qualche gran disordine; pur fece buon cuore e andò dal Re con tutta questa comitiva di donne, le quali dovevano essere sino a trecento e tutte quante venivano col capo basso e tutte vergognose. Giunto che fu la Regina nella gran sala, salutò il Re ed esso rese a lei il saluto allegramente; poi la fece sedere appresso di sé e gli addimandò che buona nuova la conduceva a lui con tanta compagnia di donne.
La Regina racconta al Re la fuga dell'uccelletto.
Disse la Regina: "Sappia tua Maestà ch'io son venuta qui dinanzi alla tua Corona con queste nobilissime madonne per la risposta della domanda fatta a te per via d'entrare ancor esse ne' negozi e offici istessi che hanno quei del Senato; alle quali avendo tua Maestà mandato quella scatola con espressa commissione ch'elle non l'aprissero in modo alcuno e tornarla a lei nel modo ch'ella gli era stata data, ora una più curiosa dell'altre avendo desiderio di vedere quello che vi si rinchiudeva dentro, l'aperse non pensando più oltre; e l'uccello subito scampò via; onde elle sono restate tanto addolorate di simil fatto ch'elle non ardivano di levar più la testa, né mirarti in viso per la gran vergogna ch'elle hanno per aver trasgredito il precetto regale. Tu dunque, che sempre fosti benigno e clemente verso tutti, perdona loro, pregoti, tale errore, che non per disubbidire a tua Maestà, ma per un loro curioso desiderio hanno fatto simil fallo. Eccole qui pentite e dolenti innanzi a te, ch'elle ti chiedono umilmente perdono".
Il Re si mostra turbato forte e riprende le donne di tal fatto, poi gli perdona e le manda a casa.
Allora il Re mostrando avere a sdegno simil fatto, volto a loro con un viso turbato, disse: "Voi vi siete dunque lasciato scampare l'uccello fuori della scatola? Ahi, femine sciocche e di poco cervello! e poi avete ardimento di voler entrare ne' consigli segreti della mia corte? Or come potreste, ditemi voi, tenere un secreto, dove andasse l'interesse dello stato mio e della vita degli uomini, se un'ora intiera non avete potuto tener serrato una scatola, la quale io ho raccommandata con tanta instanza? Tornate dunque ai vostri esercizi e ad aver cura delle vostre famiglie e governare le case vostre, come è solito vostro, e lasciate il governo della città agli uomini. Io so che le cose andrebbono per i loro piedi, s'elle avessero a passare per le vostre mani: non vi sarebbe cosa tanto secreta e occulta che non si sapesse in un'ora per tutta la città. Orsù, levatevi su, ch'io vi perdono, e andate alle case vostre e non entrate mai più in simil frenetico".
Poi licenziò similmente la Regina, facendola accompagnare sino alle sue stanze da molti cavalieri. Così si partirono quelle povere donne tutte di mala voglia, né mai più parlarono di entrare in consiglio, né di balottare o mettere fave, essendo elle state balottate per sempre dal Re per opera però dell'astuto Bertoldo, al quale il Re rivolto, ridendo, disse:
Re. Questa è stata una bellissima invenzione, ed è riuscita molto bene.
Bertoldo. Ben vada la capra zoppa, fin che nel lupo ella s'intoppa.
Re. Perché dici tu questo?
Bertoldo. Perché donna, acqua e fuoco per tutto si fan dar luoco.
Re. Chi ha il seder nell'ortica, spesse volte gli formica.
Bertoldo. Chi sputa contra il vento si sputa nel mostaccio.
Re. Chi piscia sotto la neve forza è che si discopra.
Bertoldo. Chi lava il capo all'asino perde la fatica e il sapone.
Re. Parli tu forsi così per me?
Bertoldo. Per te parlo apunto e non per altri.
Re. Di che cosa ti puoi tu doler di me?
Bertoldo. Di che poss'io lodarmi?
Re. Dimmi in che cosa tu ti senti aggravato da me.
Bertoldo. Io ti sono stato coadiutore in cosa di tanta importanza e tu in cambio di assicurarmi della vita mi dai la burla.
Re. Io non son tanto ingrato ch'io non conosca i tuoi meriti.
Bertoldo. Il conoscerli è poco, il tutto è il riconoscerli.
Re. Taci, ch'io ti voglio rimunerare in guisa ch'io voglio che tu stia sempre a piè pari.
Bertoldo. Anco quelli che sono appiccati stanno a piè pari.
Re. Tu interpreti ogni cosa alla roversa.
Bertoldo. Chi dice così l'indovina quasi sempre.
Re. Tu dici male e fai male ancora.
Bertoldo. Che male faccio io nella tua corte?
Re. Tu non hai punto di civiltà né di creanza.
Bertoldo. Ch'importa a te s'io son ben creato o scostumato?
Re. M'importa assai, perché troppo villanescamente ti porti meco.
Bertoldo. La causa?
Re. Perché quando tu vieni alla presenza mia mai non ti cavi il cappello e non t'inchini.
Bertoldo. L'uomo non deve inchinarsi all'altr'uomo.
Re. Secondo le qualità degli uomini si devono usare le creanze e le riverenze.
Bertoldo. Tutti siamo di terra, tu di terra, io di terra, e tutti torneremo in terra; e però la terra non deve inchinarsi alla terra.
Re. Tu dici il vero, che tutti siamo di terra; ma la differenza qual è fra te e me non è altro se non che, sì come d'un'istessa terra si fanno varii vasi, parte che in essi tengono liquori preciosi e odoriferi e altri che servono a esercizi vili e negletti, così io sono uno di quelli che rinchiudono in sé balsami, nardi e altri liquori preciosi, e tu uno di quelli nei quali s'orina e vi si fa peggio ancora: e pure tutti sono fabricati da una mano istessa e d'un'istessa terra.
Bertoldo. Questo non ti nego, ma ben ti dico che tanto sono fragili l'uno quanto l'altro, e quando ambo son rotti i pezzi si gettano là per le strade e dall'uno all'altro non si fa differenza alcuna.
Re. Orsù, sia come si voglia, io voglio che tu t'inchini a me.
Bertoldo. Io non posso far questo, abbi pazienza.
Re. Perché non puoi?
Bertoldo. Perché io ho mangiato delle pertiche di salice e però non vorrei scavezzarle nel piegarmi.
Re. Ah, villan tristo, io voglio al tuo dispetto che tu t'inchini, come tu torni alla presenza mia.
Bertoldo. Ogni cosa può essere, ma duro gran fatica a crederlo.
Re. Domattina si vedrà l'effetto; va' pur a casa per questa sera.
Il
Re fa abbassar l'uscio della sua camera acciò
Bertoldo
convenga in chinarsi nell'entrar dentro la mattina.
Partissi Bertoldo, e il Re fece abbassar l'uscio della sua camera tanto che chi voleva entrare in essa, bisognava per forza inchinarsi con il capo; e ciò fece acciò che Bertoldo alla tornata ch'ei faceva si dovesse inchinare nell'entrare e così venisse a fargli riverenza al suo dispetto. E così stava aspettando il giorno per vedere il successo della cosa.
Astuzia di Bertoldo per non inchinarsi al Re.
La mattina l'astuto Bertoldo tornò alla corte, come era suo solito, e veduto l'uscio abbassato in quella maniera penso subito alla malizia e conobbe che il Re aveva fatto far questo solamente perché esso nell'entrare a lui se le inchinasse; onde in cambio di chinare il capo e abbassarlo nell'entrare dentro, voltò la schiena ed entrò all'indietro a tal che, in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il podice e l'onorò con le natiche. Allora il Re conobbe che costui era astuto sopra gli altri astuti ed ebbe caro simil piacevolezza; pur, mostrando d'essere alquanto alterato, gli disse:
Re. Chi t'ha insegnato, villan ribaldo, d'entrar nelle case a questa foggia?
Bertoldo. Il gambaro.
Re. Perché il gambaro? Tu hai avuto un buon pedante, certo.
Favola del gambaro e della granzella narrata da Bertoldo.
Bertoldo. Tu dei sapere che il mio padre aveva fin a dieci figliuoli ed era povero come ancora son io, e perché spesse volte non vi era pane da cena, egli, in iscambio di cibarci e mandarci pasciuti a letto, ci soleva contare qualche favola a buon conto per farci addormentare, e così la solevamo passare fino alla mattina; onde fra l'altre ch'io gli udì raccontare, questa mi restò nella mente, e se tu hai pazienza di darmi un poco di udienza, udirai cosa che non ti spiacerà e torna a punto al proposito nostro.
Re. Di' pur su, che ciò mi sarà di sommo piacere.
Bertoldo. Diceva il mio padre che quando le bestie parlavano e che le civette cacavano mantelli, che il gambaro e la granzella, amici carissimi, si disposero d'andare un poco per lo mondo a vedere come si viveva negli altri paesi (e il gambaro allora caminava all'innanzi come fa l'altro bestiame, e similmente la Granzella non andava per traverso, come fanno al presente). Ora costoro partironsi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo e furono nel regno delle cavallette; poi passarono su quello delle lucerte, che confina con quello del Re de' parpaglioni, e così circondarono gran parte della terra e videro vari riti e vari costumi fra quelle bestiole; alla fine capitarono nel paese de' schiratoli ed era sera; e perché fra gli schiratoli e le donnole era grandissima guerra per esser confinanti insieme e per una nuova sospizione di tradimento si stava in arme dall'una e dall'altra parte, arrivati questi due compagni in simil luoco, furono dalle guardie scoperti e tolti per due spioni; e subito presi e legati furono condotti innanzi al loro capitano, il quale, fattogli essaminare minutamente non trovò in essi altro se non che, desiderosi di veder del mondo, erano giunti in quelle parti e che come forastieri non erano informati di cosa alcuna, e che bramavano di esser posti in libertà e tornarsene alle patrie loro; o pure, se volevano trattenergli per soldati, gli dessero il soldo come agli altri, ch'essi gli averiano serviti in quella guerra fidelissimamente. Inteso ciò dal capitano, subito gli fece slegare, e parendogli essere bestie da fazzione, per avere tanti piedi e tante braccia, gli accettò e subito gli fece passar la panca. Ora avvenne che, essendo mandato il gambaro a spiare quello che si faceva nel campo de' nemici, come quello ch'era nuovo personaggio in quel paese e che caminava con grandissimo silenzio e spesso si copriva tutto sotto la coda, non sarebbe conosciuto così facilmente; esso andò animosamente nel campo nemico e, trovando le guardie che dormivano, passò avanti e andò fino al padiglione del Donnolotto, pensando ch'ivi ancora si dormisse; ma il meschino ebbe la mala fortuna perché ivi si stava svegliato e giocavano a massa e topa, onde nel porre ch'ei fece il capo dentro, subito fu visto da uno di quei soldati, il quale cheto cheto si levò da giocare, che il povero gambaro non se n'avidde, e preso uno stanghetto gli tirò così fatto colpo sul capo, che lo stordì di maniera ch'ei parea morto, e se egli non si fusse trovato indosso le sue solite arme, il cervello gli andava a spasso.
Colui che lo percosse, non sapendo ch'ei fosse una spia, ma credendosi che quivi fosse capitato a caso, non avendo mostaccio a proposito da spia e credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senza altro sospetto tornò a giocare. Ora, ritornato il misero in se stesso e non potendo appena levare il capo per la gran percossa ricevuta, giurò di mai più non voler entrare con il capo inanti in luoco alcuno, ma caminare con la coda, acciò se più gli veniva dato delle busse, che più tosto gli fusse dato sulla schiena che sulla testa. Così, tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era intravenuto, e come le guardie dormivano ma che nel padiglione si veghiava; onde il capitano fece armare chetamente le sue schiere, e andò ad assaltare il nemico e prese il padiglione e uccise tutti quelli che vi erano dentro, e fecero le vendette del bastonato gambaro. Il quale, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella: "Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi". "Ma come fuggiremo - disse la granzella - che non siano vedute le nostre pedate?" "Tu caminerai per traverso - disse il gambaro - e io all'indietro, e così ci torremo di sotto". Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone e con tanta destrezza che il gambaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potero coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli ne' quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l'avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gambaro camina all'indietro e la granzella per fianco. E perché il gambaro ebbe quella bacchettata sul capo nel cacciarsi nel padiglione, io me lo son sempre tenuto a mente, e per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato alla roversa, perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo. Or che ne dici? Non è bella questa favola
Re. Sì, certo, e sei stato un grand'uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa' ch'io ti vegga e non ti vegga, e portami l'orto, la stalla e il molino.
Bertoldo. Indovinala tu, Grillo. Orsù, io vado, e m'ingegnarò di fare quel ch'io saprò.
Astuzia di Bertoldo per comparire innanzi al Re nel modo sopradetto.
Il giorno seguente Bertoldo fece fare una torta a sua madre di bietole ben unta con butiro, casio e ricotta in abbondanza, e poi, preso un crivello da formento, se lo pose sopra la fronte, sì che pendeva giù al petto e al ventre; e così con esso e con la torta tornò dal Re, il quale, vedendolo comparire in guisa tale, ridendo disse:
Re. Che cosa vuol dire quel crivello che tu hai dinanzi al viso?
Bertoldo. Non mi commettesti tu ch'io tornassi a te in modo tale che tu mi vedessi e non mi vedessi?
Re. Sì, ti commisi.
Bertoldo. Eccomi dunque doppo i buchi di questo crivello, dove tu mi puoi vedere e non mi puoi vedere.
Re. Tu sei un grand'uomo e ingegnoso; ma dove l'orto, la stalla e il molino ch'io ti dissi che tu portassi?
Bertoldo. Ecco qui questa torta, nella quale vi sono infuse tutte tre le dette cose, cioè la bietola, la quale dinota l'orto, il casio, il butiro e la ricotta, che significa la stalla, e la spoglia della farina, che altro non vuol dimostrare che il molino.
Re. Io non ho mai veduto né pratticato il più vivo intelletto del tuo; però serviti della mia corte in ogni tua occorrenza.
Piacevolezza di Bertoldo.
A queste parole Bertoldo, scostatosi alquanto dal Re e ritiratosi nella corte, si calò le brache, mostrando di voler fare un suo servigio corporale; laonde, veduto il Re tal atto, gridando, disse:
Re. Che cosa vuoi tu fare manigoldo?
Bertoldo. Non dici tu ch'io mi serva della tua corte in ogni mia occorrenza?
Re. Sì, ho detto; ma che atto è questo?
Bertoldo. Io me ne voglio servire adunque a scaricare il peso della natura, il quale tanto m'aggrava ch'io non posso più tenerlo.
Allora uno di quelli della guardia del Re, alzato un bastone, volse percuoterlo, dicendogli: "Brutto poltrone, va' alla stalla dove vanno gli asini pari tuoi, e non fare queste indignità innanzi al Re, se non vuoi ch'io t'assaggi le coste con questo legno". A cui Bertoldo rivolto, disse:
Bertoldo. Va' destro, fratello, né voler tu fare il sofficiente, perché le mosche che volano sulla testa ai tignosi vanno sulla mensa regale ancora e cacano nella propria scodella del Re e pure esso mangia quella minestra; e io dunque non potrò fare i miei servigi in terra, che è cosa necessaria? E tanto più che il Re ha detto ch'io mi serva della sua corte in ogni mio bisogno? E qual maggior bisogno per servirmene poteva venirmi che in questo fatto?
Intese il Re la metafora di Bertoldo e si cavò di deto un ricco e precioso anello e, volto a lui, disse:
Re. Piglia questo anello, ch'io te lo dono; e tu, tesoriero, va', porta qui mille scudi ch'io gliene voglio far un presente or ora.
Bertoldo. Io non voglio che tu m'interrompa il sonno.
Re. Perché interrompere il sonno?
Bertoldo. Perché quand'io avessi quell'anello e tanti danari io non poserei mai, ma mi andarei lambiccando il cervello di continuo, né mai più potrei trovar pace né quiete. E poi si suol dire: chi l'altrui prende, se stesso vende. Natura mi fece libero, e libero voglio conservarmi.
Re. Che cosa poss'io dunque fare per gratificarti?
Bertoldo. Assai paga, chi conosce il beneficio.
Re. Non basta conoscerlo solamente, ma riconoscerlo ancora con qualche gratitudine.
Bertoldo. Il buon animo è compìto pagamento all'uomo modesto.
Re. Non deve il maggiore cedere al minore di cortesia.
Bertoldo. Né deve il minore accettar cosa che sia maggiore del suo merito.
La Regina manda di nuovo a chieder Bertoldo al Re.
Mentre essi andavano così ragionando insieme, giunse un altro messo da parte della Regina, con una lettera la quale conteneva che il Re gli mandasse Bertoldo per ogni modo, ché, sentendosi ella un poco indisposta, voleva passare il tempo alquanto con le piacevolezze di lui. Ma ciò era al contrario, anzi ch'ella aveva fatto pensiero di farlo privar di vita, avendo inteso che per opera sua quelle matrone avevano ricevuto quello affronto dal Re, per lo quale erano in tanta rabbia che se l'avessero potuto aver nelle mani l'averiano lapidato. Il Re, letta la lettera, prestando fede alle parole della Regina, volto a Bertoldo, disse:
Re. La Regina di nuovo mi t'ha mandato a domandare e dice ch'essendo alquanto indisposta vorrebbe che tu l'andasti un poco a trattenere e fargli passar l'umore con le tue piacevolezze.
Bertoldo. Anco la volpe talora si finge inferma per trapolar i polastri.
Re. A che proposito dici tu questo?
Bertoldo. Perché né tigre, né femina fu mai senza vendetta.
Re. Leggi qui, se tu sai leggere.
Bertoldo. La prattica mi serve per libro.
Re. Sdegno di donna nobile tosto passa via.
Bertoldo. Le cernici coperte tengono un pezzo calda la cenere.
Re. Non odi tu le buone parole ch'ella ti manda a dire?
Bertoldo. Buone parole e tristi fatti ingannano i savi e i matti.
Re. Orsù, chi ha d'andar vada, che l'acqua non è spada.
Bertoldo. Chi è scottato dalla minestra calda soffia sulla fredda.
Re. Da corsaro a corsaro non si perde altro che i barili vuoti.
Bertoldo. Una cosa pensa il ghiotto, l'altra il tavernaro.
Re. Il far servizio mai non si perde.
Bertoldo. Servizio con danno, Dio ti dia il mal anno.
Re. Non aver paura di nulla nella mia corte.
Bertoldo. Meglio è esser uccello di campagna che di gabbia.
Re. Orsù, non ti far bramar più; va' via, perché cosa tanto pregata poco è poi grata.
Bertoldo. Tristo colui che dà essempio ad altrui.
Re. Chi sta più, vorrebbe star più.
Bertoldo. Chi spinge la nave in mare sta sulla riva.
Re. Orsù, va' dove ti mando, e non temere.
Bertoldo. Quando il bue va alla mazza, suda dinanzi e trema di dietro.
Re. Fa' un animo di leone e va' via arditamente.
Bertoldo. Non può far animo di leone chi ha il cuore di pecora.
Re. Va' via sicuramente, che la Regina non ha più odio teco, ma s'è passata quella burla in riso.
Bertoldo. Riso di signore, sereno di verno, cappello di matto, trotto di mula vecchia, fanno una primiera di pochi punti.
Re. Non ti far più aspettare perché ogni tardanza è poi noiosa.
Bertoldo. Orsù, io vado, poiché tu me lo comandi; vada come si vuole, in ogni modo, o per l'uscio o per la porta bisogna entrarvi.
Bertoldo con una bellissima astuzia si ripara dal primo empito della Regina.
Così Bertoldo s'inviò per andare dalla Regina, e avendo inteso come ella aveva commesso ai suoi cagnateri che subito ch'egli giongeva nella sua corte essi gli lasciassero andare tutti i cani incontro, acciò da quelli fusse crudelmente stracciato (tanto era incrudelita verso di lui), nel passare ch'ei fece per piazza vidde per buona sorte un villano il quale aveva una lepre viva, e comperolla, mettendosela sotto il mantello; e quando fu gionto nella detta corte gli furono lasciati i cani, i quali venivano verso lui correndo quasi come affamati, e l'averiano morto e stracciato con i fieri denti. Ma esso, vedendo il gran pericolo nel quale ei si trovava, subito lasciò gir la lepre che egli avea sotto, la quale non sì tosto fu veduta dai cani, che lasciarono stare di morder Bertoldo e si posero a correr dietro alla lepre, com'è lor natura, a tale ch'esso restò salvo e illeso dai crudi morsi di quei fieri cani, e così si ridusse innanzi alla Regina, la quale tutta ammirativa, credendolo morto da quei cani, tutta piena di disdegno e ira gli disse:
Regina. Tu sei qua, brutto assassino?
Bertoldo. Così non ci fussi come ci sono.
Regina. Come sei scampato dai denti de' miei fieri cani?
Bertoldo. La natura ha provisto all'accidente.
Regina. La moglie del ladro non rise sempre.
Bertoldo. Chi va al molino, bisogna che s'infarini.
Regina. Chi ha le prime non va senza.
Bertoldo. A chi tocca leva.
Regina. A te toccarà a questa volta.
Bertoldo. Non viene ingannato se non chi si fida.
Regina. Promettere e non dare, vien per matto confortare.
Bertoldo. Chi manco può, paga il bo'.
Regina. Chi non gli gioca mal li spende.
Bertoldo. A chi la va bene, par savio.
Regina. Andar bestia e tornar bestia è tutt'uno.
Bertoldo. Non bisognava entrarci, disse la volpe al lupo.
Regina. Pur ci sei venuto tu, che fai l'astuto e il malicioso.
Bertoldo. Pazienza, disse il lupo all'asino: tal va al sposalizio che non va a tavola.
Regina. Ogni tempo viene, a chi può aspettarlo.
Bertoldo. Ventura, pur che poco senno basta.
Regina. Dietro il tuono suol venire la tempesta.
Bertoldo. Il pesce grosso mangia il picciolo.
Regina. Ogni gallo non conosce fava.
Bertoldo. Ogni serpe ha il veleno nella coda, ma la femina irata lo tiene per tutta la vita.
Regina. Tu non camperai del certo questa volta, usa pure quanta malizia tu puoi e sai, ch'io non voglio che tu ti vanti di fare più stratagemme contra le donne.
Bertoldo. Chi non va a una fornata va all'altra, e chi va più presto inganna il compagno; però sbrigarmi in un tratto. In ogni modo, come disse la volpe al villano, se noi campassimo mille anni, noi non ci guardaremo mai più di buon occhio, né sarà buon stomaco fra di noi.
La Regina fa mettere Bertoldo in un sacco.
Allora la Regina tutta adirata lo fece pigliare e legar stretto, poi lo fece condurre in una camera appresso a quella dove lei dormiva; e, perch'ella non si fidava ch'esso non scampasse, come aveva fatto altre volte con le sue astuzie, lo fece mettere in un sacco e gli pose per guardia un sbirro il quale lo guardasse sino alla mattina, con animo poi di mandarlo a gettare nel fiume o fargli altra cosa, ch'ei non potesse fargli più burle. E così il misero Bertoldo restò serrato nel sacco, né mai ebbe timore della morte se non in quella volta; pure si pensò una nuova astuzia per uscir del sacco, e gli riuscì mirabilissimamente, e fu questa.
Astuzia nobilissima di Bertoldo per uscir fuori del sacco
Restò dunque il povero Bertoldo serrato nel sacco, con la guardia di quello sbirro; e avendosi imaginato una nuova astuzia, mostrando di parlare fra se stesso, incominciò querelandosi a dire: "O fortuna maledetta, come ti pigli tu spasso di travagliare tanto i ricchi quanto i poveri! Oh robba iniqua, dove m'hai tu condotto? Meglio saria stato per me se il padre mio m'avesse lasciato mendico, che ora io non sarei a così tristo passo congiunto. Che cosa ha giovato a me il vestirmi di questi rozzi e ruvidi panni per mostrare di esser povero, s'io sono stato scoperto per ricco, come io sono? Onde questi tiranni per l'avidità della robba mia si vogliono imparentar meco; ma vada come si voglia, io non consentirò mai di prenderla, ché io son uomo contrafatto e so ch'ella non sarebbe tutta mia, e se la Regina vorrà ch'io la pigli al mio dispetto, qualche cosa sarà".
Lo sbirro comincia a impaniarsi.
Allora lo sbirro udendo queste parole ed essendo curioso di sapere dove derivava simil ragionamento, ed essendo alquanto compassionevole di natura, disse:
Sbirro. Che ragionamento è questo che tu fai? Perché sei tu stato messo in questo sacco, poveraccio?
Bertoldo. Eh, fratello, a te non importa saper le mie miserie, però lasciami lamentare e tu attendi a far l'ufficio al quale sei stato messo.
Sbirro. Se ben faccio lo sbirro, per questo son uomo anch'io e ho compassione delle calamità de' compagni, e se io non potrò darti aiuto con le forze mie in questo tuo travaglio, ti darò almeno qualche consolazione di parole.
Bertoldo. Poca consolazione puoi darmi, perché il termine è breve di quanto s'ha da fare.
Sbirro. Ti vogliono forsi far frustare?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Dar della fune?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Mandar in galera?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Far impiccare?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Far squartare?
Bertoldo. Peggio ancora.
Sbirro. Abbruggiare?
Bertoldo. Mille volte peggio.
Sbirro. Che diavolo ti possono far (peggio) di queste sei cose?
Bertoldo. Mi vogliono dar moglie.
Sbirro. E questo è peggio che esser frustato, aver della fune, andar in galera, esser impiccato, squartato e abbruggiato? O bestia che sei, io mi credea che questo fusse un gran fastidio. Oh sì che questa è da cantare nella chitarra!
Bertoldo. Non che il prender moglie sia peggio (di quello) ch'io ho detto; ma il modo che vogliono tenere in darmela mi dà più travaglio che se mi fessero tutte queste cose che m'hai detto.
Sbirro. E che modo vogliono essi tenere? Parla chiaro.
Bertoldo. È lì nissun altro che te? Perché io non vorrei essere udito da qualchedun altro, perch'io sarei poi rovinato affatto.
Sbirro. Non v'è altri che me; parla pure sicurissimamente.
Bertoldo. Di grazia, che non mi facci poi la spia.
Sbirro. Non dubitar di questo, ch'io non ho mai fatto simil professione, né manco voglio incominciare adesso.
Bertoldo. Orsù, io mi voglio fidar di te, perché al parlare che tu fai tu mi pari galantuomo; e poi vada com'ella si voglia, quello che deve essere non può mancare.
Sbirro. Orsù cominciami a narrare il negozio, ch'io ti ascolterò.
Bertoldo. Tu dei dunque sapere che trovandomi io ricco de' beni di fortuna, ma difforme e mostruoso di vista, confinando con i miei poderi con un gentiluomo il quale ha una figliuola bellissima, costui, avendo visto le ricchezze mie, s'è pensato (benché io sia villano, brutto, come ti dico) di voler darmi questa sua figliuola per moglie, e più volte me n'ha fatto parlare, non già perché gli piaccia il mio aspetto, ma per la gran robba ch'io mi trovo, che in quanto della vita mia non credo ch'ei se ne curi un aglio, anzi credo che egli mi vorrebbe piuttosto vedere sulle forche.
Sbirro. Tu sei dunque ricco?
Bertoldo. Ricchissimo d'armenti, di greggi, di possessioni e d'ogni cosa.
Sbirro. Quanto puoi tu aver d'entrata?
Bertoldo. Io mi trovo avere un anno per l'altro sei mila scudi e più.
Sbirro. Cancaro! Vi sono dei signori che non hanno tanto. E questo gentiluomo è ricco, lui?
Bertoldo. Egli si trova stare assai commodo, ma appresso di me è poverissimo.
Sbirro. Quanto può aver egli d'entrata?
Bertoldo. Da mille scudi in circa.
Sbirro. Ei non è però così povero come tu dici. È poi nobile di famiglia?
Bertoldo. Nobilissimo.
Sbirro. Non ti vuole egli dar nulla in dote?
Bertoldo. Sì, vuole; ma io ti dirò il tutto, poiché siamo qua. Ma io non posso parlare in questo sacco se tu non gli sleghi la bocca, tanto ch'io possa metter fuori la testa, che poi tornarai a serrarlo, come avrai inteso il fatto intieramente.
Sbirro. Volentieri, eccola slegata, ragiona via allegramente. Ma tu hai un brutto mostaccio. Se il resto corrisponde al viso, tu dei essere un brutto manigoldo.
Bertoldo. Cavami del tutto fuori e vedrai la mia bella disposizione.
Sbirro. Sì, ma bisogna che vi torni poi dentro, come hai finito di ragionare, e ch'io ti serri come stavi prima.
Bertoldo. Siamo d'accordo in questo, non ti dubitare.
Lo sbirro cava Bertoldo fuori del sacco.
Sbirro. Orsù, vien fuori.
Bertoldo. Eccomi. Che ti pare di questa bella vitina?
Sbirro. A fé, che tu sei un garbato cavaliero. O può far il Cielo! Io non ho mai visto la più brutta bestia di te. T'ha mai visto la sposa?
Bertoldo. Ella mai non m'ha veduto, e perché ella non mi vegga m'hanno fatto cacciare in questo sacco e vogliono condurla in questa stanza e fare ch'io la sposi senza lume e quando poi l'averò sposata mi scopriranno e bisognerà ch'ella si contenti al suo dispetto, che così è stabilito, e a me subito sarà sborsato due mila doble di Spagna le quali gli dona la Regina, acciò non gli scappi così buona ventura.
Sbirro. Una buona ventura, certo. O che bambino grazioso da tener in braccio! O robba mal nata, quanti poveri uomini e povere donne affuoghi tu? Mira, di grazia, costui, che pare un mostro infernale; e perché esso ha delle facoltà, i gentiluomini nobili hanno di grazia di fare parentato con esso lui. Or bene dice vero il proverbio, che la robba fa stare il tignoso al balcone. A me che son povero e che già non sono mostruoso come questo diavolo, non intraverrebbe simil ventura; ma la robba malvaggia è causa di questo. Pazienza.
Bertoldo. Se tu fossi galant'uomo io ti farei ricco questa notte; perché io mi sono rissoluto di non voler costei in modo alcuno, perché intendo ch'ella è bella come un sole, però mi vado pensando ch'ella non sarebbe tutta mia. L'altra poi, vedendomi sì contrafatto, mi potrebbe dar forse il boccone e farmi tirare le calcie. Però, se tu vuoi entrare in questo sacco in mio cambio, io ti rinonciarò questa gran ventura.
Sbirro. Qualche buffalaccio farebbe tal pazzia, che, come mi scoprissero poi, e ch'io non fussi te, mi facessero tirare il guindo· e farmi fare il saltarello del groppo.
Bertoldo. Non dubitare di questo, perché subito che tu averai sposata la sposa e che ti scopriranno, tu che sei un giovane garbato e non orrendo come me, ella vedendoti non dirà altrimente che non ti voglia, e quello che sarà fatto non potrà più tornare a dietro e beccarai via le due mila doble ed entrarai in possesso di quella robba, perché il padre è vecchio e poco più può stare andare a fare dell'erba al cavallo del Gonnella; sì che tu potrai per l'avvenire vivere onoratamente senza essercitare più questo tuo mestiero così vituperoso e infame.
Sbirro. Tu la fai molto facile la cosa; ma io non voglio però pormi a questo rischio: entra pur tu nel sacco.
Bertoldo. Oh poveraccio che tu sei, non sai tu che il si dice che all'uomo audace giova il tentar la fortuna? Che cosa di male ti può intravenire in questo negozio? Vuoi tu che il padre di lei ti faccia dispiacere, come l'avrai sposata? Vuoi tu che lei, ch'è tutta modesta, dica che non ti voglia? Vuoi tu che la Regina, la quale è tanto larga e liberale, non voglia sborsare i danari per parere avara? Tutti si rimetteranno a quello che vuole il Cielo e la passaranno sotto silenzio, e tu andarai in casa della sposa e con il tempo sarai erede del tutto e sarai onorato da tutti come gentiluomo.
Sappi, sappi conoscere così gran ventura, e pensa che ogni dì non s'appresentano simili occasioni. Su, dunque, entra nel sacco e non vi pensar più, perché se vi fusse qualche pericolo per te io non te lo direi, che io sono un uomo schietto, né saprei dire una bugia, e inanzi che sia domani ora di desinare, t'accorgerai s'io ti voglio bene.
Lo sbirro comincia a cascare alla rete.
Sbirro. Tu me la dipingi tanto garbatamente, che quasi quasi mi hai fatto venir voglia d'entrare in questa impresa. Io ho sempre udito dire che chi non s'arrischia non guadagna. Chi sa che il Cielo non abbi preparato per me questa ventura?
Bertoldo mostra di non volere più che lo sbirro entri nel sacco, per fargliene venir più desiderio.
Bertoldo. Io non ti so dire tante chiacchiere. Colui che non conosce la fortuna quando gli viene in mano, la va poi cercando indarno. Se il Cielo vuol farti questo dono, perché lo vuoi tu ricusare? Ma io so bene che se tu conoscessi la mia sincerità, tu non faresti tante repulse. Orsù, fratello, fa' quello che ti pare. Io non voglio più starmi affaticare in farti tanti prologhi; ecco, ch'io entro nel sacco, vienmi pure a serrare, ch'io non ti direi più nulla per tutto l'oro del mondo.
Sbirro. Fermati ancora un poco, che v'è ben del tempo da entrarvi dentro.
Bertoldo. Chi ha tempo non aspetti tempo. Io veggo che tu non sai conoscer tua ventura, e però non voglio più star a intuonarti il capo, perché pazzo è colui che vuol far del bene a suo dispetto.
Lo sbirro si risolve d'entrar nel sacco.
Sbirro. Orsù, io conosco veramente che queste tue parole vengono da un puro zelo d'amore che tu mi porti, e veggo che tu ti scommodi molto per me; però io non voglio abusare simil cortesia. Eccomi qui risoluto per entrare nel sacco e fare quel tanto che tu hai detto, perché quando averò sposata costei, bisognerà ben poi ch'ella sia mia e che tutti abbino pazienza al suo dispetto.
Bertoldo. Orsù, vien pur, serra il sacco, ch'io entro dentro.
Sbirro. Aspetta, non v'entrare, perché io sono risoluto d'entrarvi.
Bertoldo. Io non voglio più farne altro; vien pur, lega la bocca al sacco.
Sbirro. Di grazia, caro fratello, non mi vietare simil ventura, ch'io te la domando per cortesia.
Bertoldo. Orsù, io non voglio mancare di farti questo beneficio, se bene tu m'hai fatto alterare alquanto. Entra dunque dentro e non stare a parlar più, ma sta' aspettar quello che ha da venire, che domattina vedrai che opera io avrò fatta per te.
Sbirro. S'io non t'avessi per galant'uomo e per uomo schietto, io non mi lasciarei ridurre a serrarmi in questo sacco, ma si vede che sei l'istessa bontà.
Bertoldo. Il Ciel ti fa parlare adesso. Orsù, caccia ben dentro quell'altro braccio e abbassa un poco giù la testa, perché tu sei un poco più alto di me, e non potrei legar la bocca.
Sbirro. Ohimè, io mi stroppio il collo. Orsù, lega pure, in ogni modo non ponno star arrivare i parenti, secondo che tu hai detto.
Bertoldo. Fra due o tre ore al più sarai espedito. Orsù, io t'ho legato, sta' cheto e non dir più nulla, acciò la cosa vada com'ha d'andare.
Sbirro. Io non parlerò più, ma appoggiami al muro, perché mi stancherei a star ritto tanto.
Bertoldo. Eccoti appoggiato. Stai tu bene?
Sbirro. Benissimo.
Bertoldo. Orsù, cito e senza lingua; e sappiti reggere, che il bisogna.
Sbirro. Io non parlo più e sta' pur cheto ancor tu, e lascia che venghi la sposa.
Bertoldo compra il porchetto e lascia lo sbirro nelle peste.
Posto ch'ebbe Bertoldo lo sciocco sbirro nel sacco, fece pensiero di subito scampar via e non aspettare altrimente la tempesta che gli era per cadere adosso la mattina che succedeva; e, bisognando passare per le stanze della Regina, accostò più volte l'orecchio se udiva nessuno; né sentendo anima nata per quelle camere (perché erano tutti nel primo sonno), aperse l'uscio pian piano della camera dov'egli era ed entrò nella sala e di qui nella camera dove dormiva la Regina, e appressandosi al letto di lei cheto cheto trovò ch'essa dormiva come un tasso, onde pensò di fargli una beffa, e, preso una delle sue vesti, se la pose indosso e così vestito da donna passò per tutte le altre stanze dove dormivano le dame; e, avendo trovato le chiavi di tutte le porte dal capo del letto della nutrice, aperse destrissimamente tutti gli usci e uscì fuori del palazzo. Ed essendo nevato la notte aveva paura che le sue pedate non lo scoprissero; onde, come astuto, si pose le scarpe in piedi alla roversa, a tale che, in cambio d'andare in là, pareva ch'ei venisse in qua. Così, tanto andò di qua e di là, che alfinecapitò ad un forno dietro le mura della città e si ficcò dentro.
La
Regina non trovando la veste dà la colpa allo sbirro che
l'abbia rubbata, e
credendo parlar con Bertoldo parla con lo
sbirro ch'era nel sacco.
Venuta la mattina, entrarono le damigelle per vestir la Regina, né trovando la veste ch'esse gli avevano cavato la sera, restarono tutte ammirate e stupefatte. Alfinela Regina, fattosi portare altra veste, si levò tutta furiosa e subito andò alla camera dove aveva lasciato Bertoldo nel sacco, né vedendo la guardia ch'ella aveva messo alla custodia sua, dubitò che lo sbirro fosse stato quello che gli avesse rubbata la veste e che si fosse gito con Dio; e giurò, se lo poteva aver nelle mani, di farlo subito impiccare. Poi, accostatasi al sacco, disse: "E bene, galant'uomo, sei tu più dell'umor di prima?"
Sbirro. Signora no, anzi son qui per pigliarla quanto prima.
Regina. Che cosa vuoi tu pigliare, una medicina?
Sbirro. L'avete voi posta all'ordine?
Regina. La faremo metter all'ordine or ora.
Sbirro. Quanto più presto sarò ispedito, l'avrò più caro.
Regina. Non passerà molto tempo, che tu sarai consolato.
Sbirro. Non vedo l'ora d'aver quest'allegrezza. Su, fate ch'ella sia condotta or ora.
Regina. Dico che fra poco ti condurremo da lei, sta' pur allegro.
Sbirro. Se i nostri patti sono ch'ella venghi in questa camera e ch'io la sposi incognitamente e ch'io tiri le due mila doble poi come l'avrò sposata, a che voler farmi andar da lei? Fate ch'ella sia condotta qua e farò quel tanto ch'io ho da fare.
Regina. Che parla questo villano di sposa e di doble? Cavatelo un poco fuori di quel sacco, ch'io lo veggia in viso.
Lo sbirro esce fuori del sacco in cambio di Bertoldo, e la Regina tutta stupefatta dice:
Regina. Chi t'ha posto in quel sacco, sciagurato?
Sbirro. Colui ch'aveva da essere lo sposo, il quale, non volendo colei che gli volete dare, ha rinunciato a me questa ventura. Però fate venir la sposa e le doble, ch'io son qui per far quel tanto che va fatto.
Regina. Che sposa? che doble dici tu? Parla più chiaro, ch'io t'intenda.
Sbirro. La sposa che volevate dare a quel villano con quelle due mila doble.
Regina. T'ha forsi dato colui a intendere questa pappolata?
Sbirro. Dico ch'egli ha detto del miglior senno ch'egli ha, e m'ha posto in questo sacco a posta ed ei se n'è fuggito via; però venghisi all'espedizione, fin ch'io son di vena di fare la ricevuta.
Lo sbirro vien bastonato; poi, tornato nel sacco, mandato a gettar nell'Adice.
Regina. Adesso, adesso farò venir le doble; intanto preparati al ricevere, ch'io voglio che il contratto sia fatto a tue spalle.
Sbirro. Io sono qui per questo e un'ora mi pare mille anni di contarle; ma avvertite ch'io le voglio di peso e trabocchenti.
Regina. Tu le conterai prima; poi, se non saranno di peso, io te le farò cambiare. In questo mezo comincia a contare, e quelle che ti paiono leggiere, dillo.
Il che poi detto, subito fece comparire quattro de' suoi serventi con un buon bastone per uno, i quali tosto cominciarono a bastonare il povero sbirro, il quale, sentendosi tempestare con tanta rovina, incominciò a gridare e raccomandarsi; ma nulla gli giovò perché coloro lo lasciarono in terra come morto, né bastò di questo, ché la Regina lo fece tornar nel sacco e portarlo a gettar nel fiume, e così quel povero disgraziato tirò le doble di peso, mal per lui, e in cambio di prender moglie s'ammogliò nell'Adice del tutto.
Bertoldo sta nel forno e la Regina il fa cercar per tutto.
Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere, si fece gran diligenza per trovar Bertoldo, ma per le pedate volte alla roversa non poteva(si) comprendere ch'ei fosse uscito fuori di corte, e la Regina lo fece cercar per tutto con animo risoluto di farlo impiccare, parendogli pur grave la beffa della veste e dello sbirro.
Bertoldo viene scoperto nel forno da una vecchia, e si divulga per tutto la Regina esser nel forno.
Stava dunque il misero Bertoldo in quel forno e udiva il tutto e cominciò a temere molto della morte e si pentì d'esser mai andato in quella corte e non ardiva d'uscire fuori per non essere preso, sapendo che la Regina gli aveva mal animo adosso; e ora tanto più avendogli fatto la burla dello sbirro e della veste, dubitava ch'ella non lo facesse impiccare. Ma avendo indosso quella veste, ch'era lunga, né avendola tirata ben dentro del forno tutta, essendone restata fuori un lembo, volse la sua mala sorte ch'ivi venne a passare una vecchia appresso al detto forno, e conosciuto l'orlo della veste, che pendeva fuori, che quella era una delle vesti della Regina, si pensò che la Regina fusse rinchiusa nel detto forno; onde andò in un tratto da una sua vicina e gli disse che la Regina era in quel forno. Andò colei seco e, guardando nel forno, vidde la detta veste, e, conoscendola, lo disse ad un'altra, quell'altra ad un'altra e così di mano in mano a tale che non fu meza mattina che per tutta la città andò la nuova che la Regina era in un forno dietro le mura della città.
Il Re dubita che Bertoldo non abbi portato la Regina in quel forno, e va a chiarirsi del fatto.
Udendo il Re simil fatto, dubitò che Bertoldo avesse portato la Regina in quel forno, perché lo conosceva tanto tristo che credeva ch'ei potesse fare ogni cosa, e le strattagemme del passato maggiormente gli crescevano il sospetto; onde subito andò alla camera della Regina e la trovò ch'ella era tutta arrabbiata; e inteso da lei la beffa della veste, si fece condurre a quel forno e guardando in esso vidde costui nel detto avviluppato nella veste della Regina, e tosto lo fece tirar fuori, minacciandolo della morte; e così fu spogliato della veste il povero villano e restò con gli suoi strazzi intorno; e tra che esso era brutto di natura e avendosi tutto tinto il mostaccio nel detto forno, pareva proprio un diavolo infernale.
Bertoldo è tirato fuori del forno e il Re sdegnato dice:
Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo.
Bertoldo. Chi non vi è non vi entri, e chi v'è non si penti.
Re. Chi fa quello che non deve, gli avviene quello che non crede.
Bertoldo. Chi non vi va non vi casca, e chi vi casca non si leva netto.
Re. Chi ride il venere, piange la domenica.
Bertoldo. Dispicca l'appiccato, egli appiccherà poi te.
Re. Fra carne e unghia, nissun non vi pungia.
Bertoldo. Chi è in difetto, è in sospetto.
Re. La lingua non ha osso e fa rompere il dosso.
Bertoldo. La verità vuol star di sopra.
Re. Ancor del ver si tace qualche volta.
Bertoldo. Non bisogna fare, chi non vuol che si dica.
Re. Chi si veste di quel d'altri, presto si spoglia.
Bertoldo. Meglio è dar la lana, che la pecora.
Re. Peccato vecchio, penitenza nuova.
Bertoldo. Pissa chiaro, indorme al medico.
Re. Il menar delle mani dispiace fino ai pedocchi.
Bertoldo. E il menar de' piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche.
Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli.
Bertoldo. Inanzi orbo, che indovino.
Re. Orsù, lasciamo andare le dispute da un lato. Olà, cavaliero di giustizia, e voi altri ministri, pigliate costui e menatelo or ora a impendere a un arbore, né si dia orecchie alle sue parole perché costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell'ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato. Su, presto, conducetelo via, né si tardi più.
Bertoldo. Cosa fatta in fretta non fu mai buona.
Re. Troppo grave è stato l'oltraggio che tu hai fatto alla Regina.
Bertoldo. Chi ha manco ragione, grida più forte. Lasciami almeno dire il fatto mio.
Re. Alle tre si fa cavallo e tu glien'hai fatte più di quattro, che gli sono state di troppo affronto. Va' pur via.
Bertoldo. Per aver detto la verità ho da patir la morte? Deh, non esser così crudele contra di me, ti prego.
Re. Tu sai bene quello che dice il proverbio: odi, vedi e tace, se vuoi vivere in pace; e, chi vuol bene a madonna, vuol bene a messere. Però non mi star più a intuonar l'orecchie, perché quanto più preghi, più gitti indarno le parole e pesti acqua in mortaio.
Esclamazione di Bertoldo per la sentenza data dal Re contra di lui.
Bertoldo. Orsù pure, il proverbio dice il vero: o servi come servo, o fuggi come cervo, perché corvi con corvi non si cavano mai gli occhi, e i parenti si vedono condurre alla forca, ma fra loro non si appiccano; però tutto quello che luce non è oro, ma chi non fa non falla; parola detta e pietra tratta non può tornar a dietro, e un torso di verze è cagione talora della morte di mille mosche; ma tal mi ride in bocca che ha il rasoio sotto, onde meglio è un'oncia di libertà, che dieci libre d'oro, perché alla fine lupo non mangia di lupo, e però per cantare il corvo perse il formaggio, come ho fatto io, che, per aver canzonato in amaro son ridotto al buco del gatto, né mi scamperiano le ali di Dedalo, ché il Re ha già dato la sentenza e la sua parola non può tornare a dietro, ancorché si dica che chi può fare può anco disfare.
Astuzia ultima di Bertoldo per campar la vita, seguitando il suo dire.
Bertoldo. Orsù pur Bertoldo, qui ti bisogna far un animo di leone e mostrar la tua generosità a questo passo, poiché tanto dura il dolore quanto tarda il morire, e quello che non si può vendere, si deve donare. Eccomi dunque pronto, o Re, a essequire quanto hai ordinato. Ma, prima ch'io muoia, io bramo una grazia da te e sarà l'ultima che mi farai più.
Re. Eccomi pronto per fare quello che domandi, ma di' presto, ché m'hai fastidito con quel tuo longo cianciume.
Bertoldo. Comanda, ti prego, a questi tuoi ministri, che non mi appicchino sin tanto che io non trovo una pianta o arbore che mi piaccia, che poi morirò contento.
Re. Questa grazia ti sia concessa. Su, conducetelo via, né lo sospenderete se non a una pianta che gli piaccia, sotto pena della mia disgrazia. Vuoi altro da me?
Bertoldo. Altro non ti chieggio, e ti rendo grazie infinite.
Re. Orsù, a Dio Bertoldo, abbi pazienza per questa volta.
Bertoldo non trova arbore né pianta che gli piaccia, onde i ministri infastiditi lo lasciano andare.
Non comprese il Re la metafora di Bertoldo, onde costoro lo menarono in un bosco pieno di varie piante, e, quivi non ve n'essendo nissuna che gli piacesse, lo condussero per tutti i boschi d'Italia, né mai poterono trovare pianta, arbore né tronco che gli piacesse; onde, fastiditi dal lungo viaggio e ancora avendo conosciuto la sua grande astuzia, lo slegarono e lo posero in libertà, e ritornati al Re gli narrarono il tutto. Il quale, oltra modo si stupì del gran giudicio e sottile ingegno di costui, tenendolo per uno de' più accorti cervelli che fossero al mondo.
Il
Re manda di nuovo a cercar Bertoldo e trovatolo va in persona
dove
sta e con preghi e gran promesse lo fa tornare alla corte.
Passato lo sdegno al Re, mandò di nuovo a cercar Bertoldo e, trovatolo, lo fece pregare a tornare in corte, che il tutto gli era stato perdonato; ed esso gli mandò a dire che cavoli riscaldati né amore ritornato non fu mai buono, e che non v'era tesoro che pagasse la libertà. Onde il Re vi andò in persona e lo pregò e supplicò tanto che alfine(benché contra sua voglia) lo condusse in corte e gli fece perdonare alla Regina, e volse ch'ei stesse sempre appresso della sua corona, né faceva cosa alcuna senza il consiglio di lui. E mentre ch'ei stette in quella corte, ogni cosa andò di bene in meglio; ma essendo egli usato a mangiar cibi grossi e frutti selvatichi, tosto ch'esso incominciò a gustar di quelle vivande gentili e delicate s'infermò gravemente a morte, con grandissimo dispiacere del Re e della Regina, i quali dopo la sua morte vissero poi sempre sotto una vita trista e infelice.
Morte di Bertoldo e sua sepoltura.
I medici non conoscendo la sua complessione, gli facevano i rimedi che si fanno alli gentiluomini e cavalieri di corte; ma esso, che conosceva la sua natura, teneva domandato a quelli che gli portassero una pentola di fagiuoli con la cipolla dentro e delle rape cotte sotto la cenere, perché sapeva lui che con tal cibi saria guarito; ma i detti medici mai non lo volsero contentare. Così finì sua vita con questa volontà, colui ch'era tenuto un altro Esopo da tutti, anzi un oracolo, e fu pianto da tutta la corte, e il Re lo fece sepelire con grandissimo onore, e quei medici si pentirono di non gli aver dato quant'esso gli addimandava nell'ultimo, e conobbero che egli era morto per non l'aver essi contentato. E il Re, a perpetua memoria di questo grand'uomo, fece scolpire nella sua sepoltura in lettere d'oro i seguenti versi in forma d'epitafio, facendo vestire di nero tutta la sua corte, come se fosse morto uno dei primati di quella.
Epitafio di Bertoldo.
In
questa tomba tenebrosa e scura
Giace un villan di sì
difforme aspetto,
Che più d'orso che d'uomo avea figura;
Ma
di tant'alto e nobile intelletto
Che stupir fece il mondo e la
natura.
Mentr'egli visse e fu Bertoldo detto,
Fu grato al Re;
morì con aspri duoli
Per non poter mangiar rape e fagiuoli.
Detti sentenziosi di Bertoldo innanzi la sua morte.
Chi
è uso alle rape non vada ai pasticci.
Chi è uso alla
zappa non pigli la lancia.
Chi è uso al campo non vada alla
corte.
Chi vincerà il suo appetito sarà un gran
capitano.
Chi non mangia da tutte due le bande, non è buona
simia.
Chi guarda fisso nel sole e non strenuta, guàrdati
da quello.
Chi ogni dì si veste di nuovo, grida ognor con
il sartore.
Chi lascia stare i fatti suoi per far quelli d'altri,
ha poco senno.
Chi vuol salutare ognuno frusta presto la
berretta.
Chi batte la moglie dà da mormorare ai
vicini.
Chi misura il suo stato non sarà mai mendico.
Chi
gratta la rogna d'altri la sua rinfresca.
Chi promette nel bosco,
deve osservare la parola nella città.
Chi ha paura degli
uccelli non semini il miglio.
Chi farà come il riccio starà
sempre sicuro in casa.
Chi va in viaggio porti il pane in seno e
il bastone in mano.
Chi crede ai sogni fonda i suoi pensieri nella
nebbia.
Chi pone la sua speranza in terra, si discosta dal
cielo.
Chi è pigro delle mani non vada a tinello.
Chi ti
consiglia in cambio d'aiutarti, non è buon amico.
Chi
castiga la cagna, il cane sta discosto.
Chi imita la formica
l'estate, non va per pane in presto il verno.
Chi tira il sasso in
alto, gli torna a dare sul capo.
Chi va alla festa e ballar non
sa, ingombra il loco e altro non fa.
Chi tuol moglie per robba, la
borsa va a marito.
Chi dà il maneggio di casa alle donne,
ha sempre le filiere all'uscio.
Chi non può portar la sua
pelle è una trista pecora.
Chi usa la robba in mala parte,
alla morte vede le sue partite.
Chi loda uno innanzi che l'abbia
praticato, spesso si dà delle mentite da se stesso.
Chi dà
del pane ai cani d'altri, spesso vien latrato dai suoi.
Chi non dà
la sua mercede all'operaio non ha dell'uomo giusto.
Chi mangia a
gusto d'altrui non mangia mai cosa che gli faccia pro.
Chi si
pretende di saper nulla, quello è più sapiente degli
altri.
Chi vuol correggere altri, diasi buon essempio a se
medesimo.
Chi fugge le volontà terrene, mangia frutti
celesti.
Chi si trova senza amici è come corpo senza
anima.
Chi manda la lingua avanti del pensiero non ha del
saggio.
Chi all'uscir di casa pensa quello che ha da fare, quando
torna ha finito l'opera.
Chi dà presto quello che promette,
dà due volte.
Chi pecca, e fa peccar altrui, ha da far due
penitenze in una volta.
Chi a se stesso non è buono, manco
può esser buono per altri.
Chi vuol seguir la virtù,
bisogna scacciare il vizio.
Chi domanda quello che non spera
d'avere, a se stesso nega la grazia.
Chi ha buon vino in casa, ha
sempre i fiaschi alla porta.
Chi elegge l'armi vuol combattere con
vantaggio.
Chi navica nel mar delle sensualità si sbarca al
porto delle miserie.
Chi del ben d'altri si attrista, altri ride
del suo male.
Chi ti lecca dinanzi, ti morde di dietro.
Chi sta
in sospetto, vada a buon'ora a letto.
Chi ha la virtù per
guida va sicuro al suo viaggio.
Testamento di Bertoldo trovato sotto al capezzale del suo letto, dopo la sua morte.
Queste sentenze tutte fece il Re imprimere in lettere d'oro, e quelle poner sopra la porta della sala regia, acciò ognuno le potesse vedere, né si poteva consolare della perdita di così grand'uomo. E quelli i quali erano restati custodi della camera del detto Bertoldo, nell'accommodare il letto dove esso dormir solea, trovorno sotto il matarazzo un fagotto di strazzi e di scritture, dove senz'altro indugio portarono il detto stramazzo inanzi al Re, il quale, facendolo subito sciorre, trovò tra quelle tattare il testamento che il detto aveva fatto molti giorni innanzi ch'ei morisse, né mai l'aveva palesato a nissuno; la causa, forse, acciò che nissuno non sapesse di che stirpe né di che parte egli si fusse, essendo un uomo così stravagante. Or sia come si voglia, commandò il Re adunque che subito si andasse per il notaro che l'avea fatto, acciò glielo leggesse alla presenza sua; e così il detto notaro comparve in un tratto e, fatto la debita riverenza al Re, disse:
Notaro. Eccomi, Sacra Corona, per essequire quel tanto che da lei mi sarà comandato.
Re. Avete voi fatto il testamento di Bertoldo?
Notaro. Sì, Sacra Maestà, ch'io l'ho fatto.
Re. E quanto è che l'avete fatto?
Notaro. Può essere da tre mesi in circa.
Re. Or eccolo, prendetelo e leggetelo voi, ché questa lettera notaresca non capisco troppo, per le stravaganti zifere che vi solete fare per dentro.
Notaro. Anzi, Signore, ch'io non so scrivere se non volgare, perché mai non potei passare il Donato con tutto ciò ch'io andassi alla scuola ventidue anni, e però non attendo ad altro che alle differenze de' villani.
Re. Qual è il vostro nome?
Notaro. Io mi addimando Cerfoglio de' Viluppi, per servirla sempre.
Re. Bel nome avete certo e anche il cognome può passare; ma vi starebbe meglio al parer mio nome Sier Imbroglio, poiché imbrogliate così bene il mondo. Orsù, leggete allegramente, Sier Cerfoglio, e dite forte, adagio e chiaro, ch'io v'intenda.
Sier Cerfoglio legge il testamento.
Al nome del buon cominciamento, e sia in bene; vedendo e conoscendo io Bertoldo figliuolo del quondamBertolazzo, del già Bertuzzo, di Bertin, di Bertolin da Bertagnana, che tutti noi mortali siamo proprio come tante vessiche gonfie che ogni picciola pontura le manda a spasso, e che come l'uomo giunge agli settant'anni, come oramai io mi ritrovo, si può dire che sia sulle ventitre ore e che non possa stare a battere le ventiquattro, e poi buona notte. Però fin ch'io mi trovo un poco di sale nella zucca voglio accomodare alquanto i fatti miei con fare un poco di testamento sì per mia sodisfazione, come anco per sodisfare a' miei parenti e amici ai quali io mi trovo esser obligato; e così voi, Sier Cerfoglio, sarete pregato di rogarvi di questo mio testamento e mia ultima volontà e prima.
Lasso a mastro Bartolo ciavattino le mie scarpe da quattro suole, e otto soldi di moneta corrente per essermi stato sempre amorevole e avermi più volte prestato la lesina da trappongere i tacconi e fatto altri servigi, etc.
Item a mastro Ambrogio spacciator di corte soldi diece per avermi più volte portato il braghiero a far conciare e fatto altri servigi, etc.
Item a barba Sambuco ortolano il mio cappello di paglia per avermi talora dato un mazzo di porri la mattina a buona ora per fare buon stomaco e aguzzarmi l'appetito.
Item a mastro Allegretto canevaro la mia correggia larga e il scarsellotto, per avermi empito il bottrigo ogni volta che io ne avea bisogno, e fatti altri servigi, etc.
Item a mastro Martino cuoco il mio coltello e la mia guaina per avermi alcune volte cotto delle rape sotto le cernici e fatto della minestra de fagiuoli con della cipolla, cibo conferente alla mia natura più assai che le tortore, le pernici e i pastizzi, etc.
Item alla zia Pandora bugattara il mio pagliarizzo dove dormo suso e due scaranne, desligate e tre brazza di tela da farsi due grembiali, e questo per avermi più volte lavato i scalfarotti e tenuto nette le mie massarizie, etc.
Item, il resto de' strazzi, tattare e ciangatole ch'io mi trovo nella camera, rinuncio e lascio a mastro Braghetton solfanaro, per avermi talora portato a donare un castagnaccio e altre cosette uguali al mio gusto, etc.
Item, lasso a Fichetto ragazzo di corte stafillate numero venticinque con un buon stafile per avermi forato l'orinale e fattomi pisciare nel letto e attaccatomi un chiocchetto overo zaganella di dietro e orinato in una scarpa e fattomi molte altre burle; e questo bramo sia essequito quanto prima etc., perché egli è un gran tristo, etc.
Re. Di questo non si mancherà etc. Seguitate pur innanzi, Sier Cerfoglio.
Notaro. Item, perché quando venni qua giù, che ne foss'io digiuno, io lasciai la Marcolfa mia moglie con un figlio chiamato Bertoldino che deve aver da diece anni in circa, né però mi lasciai intendere dov'io mi gissi acciò non mi tenessero dietro, non avendo mostacci da comparire in questi luochi, parendo più tosto babuini che altro, e trovandomi aver un podere e certe poche bestiole, lascio la Marcolfa donna e madonna d'ogni cosa fin che il figliuolo abbi venticinque anni, che poi allora voglio sia padrone assoluto d'ogni cosa, con patto che se esso piglia moglie cerchi di non impazzarsi con gente da più di sé.
Che
non si domestichi con i suoi maggiori.
Che non dia danno ai suoi
vicini.
Che mangi quando n'ha, e che lavori quando può.
Che
non pigli consigli da gente che sia andata a male.
Che non si
lasci medicar a medico amalato.
Che non si lasci cavar sangue a
barbiero che gli tremi la mano.
Che dia suo dovere a tutti.
Che
sia vigilante ne' suoi negozi.
Che non s'impacci in quello che non
gl'importa.
Che non facci mercanzia di quello che non s'intende.
E sopra il tutto ch'ei si contenti del suo stato, né brami di più, e consideri che molte volte l'agnello va innanzi la pecora, cioè che la morte ha la balestra in mano per tirare tanto a' giovani quanto a' vecchi; che se pensarà a tutte queste cose, non inciamperà mai in cosa che gli possa dar danno, e farà felice ed ottimo fine.
Item, non mi trovando altro, poiché non ho voluto accettar mai nulla dal mio Re, il quale non ha mancato di persuadermi a prendere da lui anelli, gioie, danari, veste, cavalli e altri ricchi presenti, perché forse con simili ricchezze non avrei mai posato e forse ancora avrei fatto mille insolenze, e fattomi odioso a tutti, come alcuni che, di bassi e vili che sono, ascendono per fortuna a gradi alti e sublimi, né però con tante dignità non escono fuora del fango del quale sono impastati; io mi contento di morir povero e sapere ch'io non ho mai usato adulazione al mio Re, ma sempre consigliatolo fedelmente in ogni occasione ch'egli mi ha chiamato, parlando liberamente secondo che io l'ho inteso, e non altrimente. E per mostrargli parimente in quest'ultimo fine l'affetto ch'io gli porto, gli lascio questi pochi di documenti, i quali non si sdegnarà accettare e osservare insieme, ancor ch'essi eschino fuor della bocca di un rustico villano, e sono questi, cioè:
Di
tenere la bilancia giusta, tanto per il povero, quanto pel ricco.
Di
far veder minutamente i processi, inanzi che si venghi all'atto del
condennare.
Di non sentenziare mai nessuno in colera.
Di farsi
benevoli i suoi popoli.
Di premiare i buoni e i virtuosi.
Di
castigare i rei.
Di scacciar gli adulatori, i gnattoni e le lingue
mal dicenti che mettono fuoco per le corti.
Di non aggravare i
suoi sudditi.
Di tenere la protezzione delle vedove e pupilli, e
difendere le loro cause.
Di espedire le liti, né lasciare
stracciar i poveri litiganti, né farli correre in su e giù
per le scale del foro tutto il giorno.
Che osservando questi pochi
ricordi viverà lieto e contento, e sarà tenuto da tutti
per ottimo e giusto Signore, e qui finisco.
Udito il Re il prefato testamento e gli ottimi ricordi a lui lasciati, non puoté fare che non mandasse le lagrime fuor degli occhi, considerando alla gran prudenza che rognava in costui e l'amor e la fedeltà che esso gli avea portato in vita e dopo la morte. E così, fatto donare a Sier Cerfoglio cinquanta ducati, lo licenziò; poi, secondo che il Magno Alessandro conservò fra le più care e preciose gioie l'Iliade d'Omero, così esso fece riporre il detto testamento fra le sue più ricche e pregiate gemme; poi cominciò a fare instanza che si trovasse dove fosse il suo figliuolo Bertoldino e la Marcolfa sua madre e che si conducessero alla città, che per ogni modo gli voleva appresso di lui, per memoria del detto Bertoldo; e così espedì alquanti cavalieri che l'andassero a cercare per quei monti e boschi vicini e che non tornassero a lui se non gli avevano con essi.
Così si partirono i detti cavalieri, e tanto andarono girando attorno che li trovarono. Ma di quello che ne seguì, s'udirà in un altro volume, e presto, che questo non passa più oltre per ora, lasciandovi intanto il buon giorno. Addio.