Lorenzo de' Medici
detto Il Magnifico
CANTI CARNASCIALESCHI
I
CANZONA DE CONFORTINI
Berricuocoli,
donne, e confortini!
se ne volete, i nostri son de fini.
Non
bisogna insegnar come si fanno,
chè tempo perso, e l
tempo è pur gran danno;
e chi lo perde, come molte
fanno,
convien che facci poi de pentolini.
Quando
gli è l tempo vostro, fate fatti,
e non pensate
a impedimenti o imbratti:
chi non ha il modo, dal vicin
laccatti;
e preston lun allaltro i buon
vicini.
Il
far questarte è cosa da garzoni:
basta che i nostri
confortin son buoni.
Non aspettate chaltri ve li
doni:
convien giucare e spender bei quattrini.
No
abbiam carte, e fassi alla bassetta,
e convien che
lun lalzi e laltro metta;
e poi di qua e di là
spesso si getta
le carte; e tira a te, se tu indovini.
O
a sanzuomo, o sotto o sopra
chiedi,
e ti struggi dal capo infino ai piedi,
infin che viene;
e, quando vien poi, vedi
stran visi, e mugolar come mucini.
Chi
si truova al di sotto, allor si cruccia,
scontorcesi e fa viso di
bertuccia,
ché l suo ne va; straluna gli occhi e
succia,
e piangon anche i miseri meschini.
Chi
vince, per dolcezza si gavazza,
dileggia e ghigna, e tutto si
diguazza;
credere alla Fortuna è cosa pazza:
aspetta pur
che poi si pieghi e chini.
Questa
bassetta è spacciativo giuoco,
e ritto ritto
fassi, e in ogni loco;
e solo ha questo mal, che dura poco;
ma
spesso bea chi ha bicchier piccini.
Il
flusso cè, chè giuoco
maladetto:
ma chi volessi pure uscirne netto,
metta pian piano,
e inviti poco e stretto;
ma lo fanno oggi infino a
contadini.
Chi
mette tutto il suo in un invito,
se vien flusso, si
truova a mal partito;
se lo vedessi, e pare un uom
ferito:
che maladetto sie Sforzo Bettini!
Trai
è mal giuoco, e l pizzico si suole
usare,
e la diritta a nessun duole:
chi ha le carte in man,
fa quel che vuole,
sè ben fornito di grossi e
fiorini.
Se
volete giucar, come abbiam mòstro,
noi siam contenti metter
tutto il nostro
in una posta: or qui per mezzo il vostro,
sino
alle casse, non che i confortini.
II
CANZONA DE PROFUMI
Siam
galanti di Valenza
qui per passo capitati,
damor già
presi e legati
delle donne di Fiorenza.
Molto
son gentili e belle
donne nella terra nostra:
voi vincete
dassai quelle,
come il viso di fuor mostra;
questa gran
bellezza vostra
con amore accompagnate;
se non siete
innamorate,
e saria meglio esser senza.
Quanto
è una buona spanna
vaselletti lunghi abbiamo;
se
dicessi: - Altri vinganna -
noi ve li porremo in mano:
ritti
al luogo li mettiamo;
nella punta acceso è il foco,
onde
sparge a poco a poco
dolce odor, che ha gran potenza.
Or
dellolio vogliam dire:
ha odore e virtù tanta,
che
fa altri risentire
dal capo insino alla pianta.
Lolio è
una cosa santa,
sè stillato in buona boccia:
esce
fuori a goccia a goccia;
se più pena, ha più
potenza.
Lolio
sana ogni dolore
e risolve ogni durezza;
tira a sé tutto
lumore,
trae del membro la caldezza,
penetrando la
dolcezza
quanto più forte stropicci:
se hai triemiti o
capricci,
usa lolio e sarai senza.
Noi
abbiamo un buon sapone,
che fa saponata assai:
frega un pezzo,
ove si pone:
se più meni, più narai.
Èvvegli
accaduto mai,
donne, aver lanella strette?
Col sapon, che
cava e mette,
cuoce un poco: pazïenza!
Donne,
ciò che abbiamo è vostro.
Se damor voi siate
accese,
metterem lolio di nostro,
ungeremo a nostre
spese;
abbiam olio del paese,
gelsi, aranci e mongiuï:
se
vi piace, proviam qui:
fate questa esperïenza.
III
CANZONA DE CIALDONI
Giovani
siam, maestri molto buoni,
donne, come udirete, a far cialdoni.
In
questo carnascial siamo svïati
dalla bottega, anzi fummo
cacciati:
non eron prima fatti che mangiati
da noi, che ghiotti
siam, tutti cialdoni.
Cerchiamo
avviamento, donne, tale,
che ci passiamo in questo carnasciale;
ma
sanza donne inver si può far male:
e insegnerenvi come si
fan buoni.
Metti
nel vaso acqua, e farina drento
quanto ve nentra, e mena a
compimento:
quandhai menato, e vien come un
unguento,
unacqua quasi par di maccheroni.
Chi
non vuole al menar presto esser stanco,
meni col dritto e non col
braccio manco;
poi vi si getta quel chè dolce e
bianco
zucchero; e fa il menar non abbandoni.
Conviene,
in quel menar, cura ben aggia,
per menar forte, che di fuor non
caggia,
fatto lintriso, poi col dito assaggia:
se ti par
buon, le forme a fuoco poni.
Scaldale
bene, e, se sia forma nuova,
il fare adagio ed ugner molto
giova;
e mettivene poco prima, e pruova
come rïesce, e se
li getta buoni.
Ma,
se la forma sia usata e vecchia,
quanto tu vuoi, per metterne,
apparecchia,
perché ne può ricevere una secchia;
e
da Bologna i romaiuol son buoni.
Quando
lintriso nelle forme metti
e senti frigger, tieni i ferri
stretti,
mena le forme, e scuoti acciò sassetti,
volgi
sozzopra, e fien ben cotti e buoni.
Il
troppo intriso fuori spesso avanza,
esce pe fessi, ma questo
è usanza:
quando ti par che sia fatto abbastanza,
apri
le forme e cavane i cialdoni.
Nello
star troppo scema, non già cresce:
se son ben unte, da sé
quasi nesce,
e l ripiegarlo allor facile rïesce
caldo,
e in un panno bianco lo riponi.
Piglia
le grattapugie od un pannuccio
ruvido, e netta bene ogni
cantuccio;
la forma è quasi una bocca di luccio;
tien
ne fessi lo intriso che vi poni.
Esser
vuole il cialdone un terzo o piùe
grosso, a ragione aver le
parti sue:
ed a farli esser vogliono almen due,
lun
tenga, laltro metta; e fansi buoni.
Se
son ben cotti, coloriti e rossi,
son belli, e quanto un vuol
mangiarne puossi;
perché, se paion ben vegnenti e
grossi,
strignendo e son pur piccioli bocconi.
Donne,
terrete voi e noi mettiamo;
se noi mettessin troppo forte o
piano,
pigliate voi il romaiuolo in mano:
mettete voi, purché
facciam de buoni.
IV
CANZONA DEGLINNESTATORI
Donne,
noi siam maestri dinnestare;
in ogni modo lo sappiam ben
fare.
Se
volete imparar questa nostrarte,
noi ve la mostreremo a
parte a parte,
e non bisogna molti studi o carte:
le cose
naturali ognun sa fare.
Larbor
che innesti fa sia giovinetto,
tenero, lungo, sanza nodi,
schietto;
dilicato di buccia, bello e netto,
quando comincia a
muovere e gittare.
Segalo
poi e fa pel mezzo un fesso:
la marza in ordin sia un terzo
o presso;
stretto quanto tu pòi ve lo arai messo,
purché
la buccia non facci scoppiare.
Così
quanto si può dentro si pigne,
con un buon salcio poi si
lega e cigne,
e luna buccia con laltra si
strigne,
così gli umor si posson mescolare.
Sanza
fender ancor fassi e sappicca:
con man la buccia gentilmente
spicca
senza intaccarla, e poi la marza ficca;
tra buccia e
buccia strigni e lascia fare.
Per
quando piove molto ben si fascia;
così fasciato, qualche dì
si lascia:
chi lo sfasciassi allora e non cè
grascia,
che non facessi la marza sdegnare.
Chi
vuol buon olio ancor gli ulivi innesti;
e mele e fichi fansi
grossi e presti:
veggo che l modo intender voi vorresti;
ma
voi il sapete, e fateci parlare.
Di
questo modo si fa grande stima:
togli un tondo cotal forato in
cima,
un ferro da stampare, e spicca prima
la buccia intorno
dove locchio appare.
Spicco
quellocchio e presto lo conduco,
ovio ho preparato
prima un buco,
che men dun grosso un po la buccia
sdruco;
mettivel drento: e suol rammarginare.
Convien
con diligenzia ivi si metta:
guasta ogni cosa spesso chi fa in
fretta;
rïesce meglio chi l suo tempo aspetta;
quando
gli è in succhio e dolce, è miglior fare.
Noi
crediamo oramai che voi sappiate
linnestare a bucciuolo e
quel del frate,
che ne fa tutto lanno verno e state:
puossi
ogni pianta, e pèsche anche innestare.
Larbor,
chè prima salvatico e strano,
innestandol si fa di
mano in mano
più bello e più gentil, né viene
invano,
ma vedete be frutti che suol fare.
Donne,
noi vinvitiamo a innestar tutte,
se non piove e se van le
cose asciutte;
e, se volete pèsche od altre frutte,
noi
siamo in punto e ve ne possiam dare.
V
CANZONA DELLO ZIBETTO
Donne,
questè un animal perfetto
a molte cose, e chiamasi l
zibetto,
E
vien da lungi, dun paese strano;
sta dovè
gemizion over pantano,
in luoghi bassi, e chi l tocca con
mano,
rade volte ne suole uscir poi netto.
Carne
sanzosso sol gli paion buone,
ma vuolne spesso, e, se può,
gran boccone;
poi duo dita di sotto al codrïone,
come
udirete, si cava il zibetto.
Hassi
una tenta, chè un terzo lunga,
spuntata acciò
che drento non lo punga.
caccisi drento, e convien tutta sunga,
o
donne: e vi parrà dolce diletto.
Così
si cava quel dolce licore;
ed ècci a chi non piace
quellodore:
egli è pur buon, ma il troppo fa
fetore
di qualche tanfo a chi lo tien mal netto.
Bisogna
al metter drento ben guardare;
il luogo ovè l
zibetto non scambiare,
ché si potria daltra cosa
imbrattare
la tenta, e fassi male al poveretto.
Chi
non ha tenta pigli altro partito;
truova stran modi, o
almeno fa col dito,
e poi lo dànno a fiutare al marito,
se
non ha tenta o vien da lui il difetto.
È
certe volte a trar pericoloso,
perché gli ha il tempo
suo, e vuol riposo
tre giorni o quattro; pure un voglioloso
non
guarda a quello e trae un stran brodetto.
La
virtù del zibetto, o donne, è questa
mettivi il
naso, scarica la testa;
della donna del corpo ogni mal resta,
e
non cè meglio a chi ha tal difetto.
Chi
avessi durezza nelle rene,
la punta della tenta ugnerai
bene;
metti ovè il male, e subito ne viene
fuor la
caldezza, ed hanne gran diletto.
Di
fare ingravidare ha gran virtùe;
molte altre ancor, ma non
ne direm piùe;
forse abbiam detto troppo; donne, or
sùe,
provate segli è ver quel che abbiam
detto.
Se
ne volete, noi ne vogliam vendere;
del più vivo che avete
convien spendere;
non state dure; e vi bisogna arrendere,
e
menar a volerne un bossoletto.
VI
CANZONA DELLE FORESTE
Lasse,
in questo carnasciale
noi abbiam, donne, smarriti
tutta
sei nostri mariti;
e sanzessi stiam pur male.
Di
Narcetri noi siam tutte,
nostrarte è lesser
forese;
noi cogliemo certe frutte
belle come dà il
paese;
se cè alcuna sì cortese,
cinsegni
i mariti nostri;
questi frutti saran vostri,
che son dolci e
non fan male.
Cetrïuoli
abbiamo e grossi,
di fuor pur ronchiosi e strani;
paion quasi
pien di cossi,
poi sono apritivi e strani;
e si
piglion con duo mani:
di fuor lieva un po di buccia,
apri
ben la bocca e succia;
chi savezza, e non fa male.
Mellon
cè cogli altri insieme
quanto è una zucca
grossa;
noi serbiam questi per seme,
perché assai nascer
ne possa.
Fassi lor la lingua rossa,
lalie e piè:
e pare un drago
a vederlo e fiero e vago;
fa paura, non
fa male.
Noi
abbiam con noi baccelli
lunghi e teneri da ghiotti;
ed abbiamo
ancor di quelli
duri e grossi: e son buon cotti
e da far
de sermagotti;
se la coda in man tu tieni,
su e giù
quel guscio meni,
e minaccia e non fa male.
Queste
frutte oggi è usanza
che si mangin drieto a cena:
a noi
pare unignoranza;
a smaltirle è poi la pena:
quando
la natura è piena,
de bastar: pur fate
voi
dellusarle innanzi o poi;
ma dinanzi non fan male.
Queste
frutte, come sono,
se i mariti cinsegnate,
noi ve ne
faremo un dono:
noi siam pur di verde etate;
se lor fien
persone ingrate,
troverrem qualche altro modo,
che l
poder non resti sodo:
noi vogliam far carnasciale.
VII
CANZONA DI BACCO
Quantè
bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto,
sia:
di doman non cè certezza.
Questè
Bacco ed Arïanna,
belli, e lun de laltro
ardenti:
perché l tempo fugge e inganna,
sempre
insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre
tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non cè
certezza.
Questi
lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per
boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco
riscaldati
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto,
sia
di doman non cè certezza.
Queste
ninfe hanno anco caro
da lor essere ingannate:
non può
fare a Amor riparo,
se non gente rozze e ingrate:
ora insieme
mescolate
suonon salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di
doman non cè certezza.
Questa
soma, che vien drieto
sopra lasino, è Sileno:
così
vecchio è ebbro e lieto,
già di carne e danni
pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode
tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non cè
certezza.
Mida
vien dopo a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che
giova aver tesoro,
saltro poi non si contenta?
Che
dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser
lieto, sia:
di doman non cè certezza.
Ciascun
apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siàn,
giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo
pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto,
sia:
di doman non cè certezza.
Donne
e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni,
balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non
dolore!
Ciò cha esser convien sia.
Chi vuol esser
lieto, sia:
di doman non cè certezza
VIII
CANZONA DE SETTE PIANETI
Sette
pianeti siam, che lalte sede
lasciam per far del cielo in
terra fede.
Da
noi son tutti i beni e tutti i mali,
quel che vaffligge
miseri, e vi giova;
ciò chagli uomini avviene, agli
animali
e piante e pietre, convien da noi muova:
sforziam chi
tenta contro a noi far pruova;
conduciam dolcemente chi ci crede.
Maninconici,
miseri e sottili;
ricchi, onorati, buon prelati e
gravi;
sùbiti, impazïenti, fèr,
virili;
pomposi re, musici illustri, e savi;
astuti parlator,
bugiardi e pravi;
ogni vil opra alfin da noi procede.
Venere
grazïosa, chiara e bella
muove nel core amore e
gentilezza:
chi tocca il foco della dolce stella,
convien
sempre arda dellaltrui bellezza:
fère, uccelli e
pesci hanno dolcezza:
per questa il mondo rinnovar si vede.
Orsù!
seguiam questa stella benigna,
o donne vaghe, o giovinetti
adorni:
tutti vi chiama la bella Ciprigna
a spender lietamente
i vostri giorni,
senzaspettar che l dolce tempo
torni,
ché, come fugge un tratto, mai non riede.
Il
dolce tempo ancor tutti cinvita
lasciare i pensier
tristi e van dolori:
mentre che dura questa brieve
vita,
ciascun sallegri, ciascun sinnamori.
Contentisi
chi può: ricchezze e onori
per chi non si contenta, invan
si chiede.
IX
CANZONA DELLE CICALE
Le fanciulle incominciano
Donne,
siam, come vedete,
giovanette vaghe e liete.
Noi ci andiam
dando diletto,
come susa il carnasciale:
laltrui
bene hanno in dispetto
glinvidiosi e le cicale;
poi si
sfogon col dir male
le cicaleche vedete.
Noi siam pure
sventurate!
le cicalein preda ci hanno,
che non canton
sol la state,
anzi duron tutto lanno;
a color che peggio
fanno,
sempre dir peggio udirete.
Le cicale rispondono:
Quel
chè la Natura nostra,
donne belle, facciam noi;
ma
spesso è la colpa vostra,
quando lo ridite voi;
vuolsi
far le cose, e poi ...
saperle tener secrete.
Chi fa presto,
può fuggire
il pericol del parlare.
Che vi giova un far
morire,
sol per farlo assai stentare?
Se voffende il
cicalare,
fate, mentre che potete.
Le fanciulle rispondono:
Or
che val nostra bellezza,
se si perde per parole?
Viva amore e
gentilezza!
Muoia invidia e a chi ben duole!
Dica pur chi mal
dir vuole,
noi faremo e voi direte.
X
CANZONA DE VISI ADDRIETO
Le
cose al contrario vanno
tutte, pensa a ciò che vuoi:
come
il gambero andiam noi,
per far come laltre fanno.
E
bisogna oggi portare
gli occhi drieto e non davanti;
né
così possi un guardare:
traditor siam tutti
quanti;
tristo a chi crede a sembianti,
ché riceve
spesso inganno.
Però
noi facciamo scusa
di questo nostro ire addrieto:
e
sintende, oggi ognun lusa:
questo è il modo
consüeto
chi lo fa, dunque, stia cheto;
noi sentiam che
tutti il fanno.
Crediam
questo me rïesca,
poi chognun dà di drieto
oggi;
se riceve qualche pèsca
vede e pensa ove
sappoggi,
con man tocca, pria challoggi,
poi non ha
vergogna o danno.
Chi
non porta drieto gli occhi,
per voltarsi indrieto incorda;
di
gran colpi convien tocchi,
per vergogna fa la sorda;
drieto al
fatto si ricorda,
quando sente il mal che fanno.
Non
pigliate maraviglia,
se le donne ancor fan questo;
ciascun oggi
sassottiglia,
ogni mese è lor bisesto:
lun
soccorre allaltro presto,
e così tutte vi vanno.
XI
CANZONA DE FORNAI
O
donne, noi siam giovani fornai,
dellarte nostra buon
maestri assai.
Noi
facciam berlingozzi e zuccherini,
cociamo ancor certi
calicioncini:
abbiam de grandi, e paionvi piccini,
di
fuor pastosi e drento dolci assai.
Facciamo
ancor bracciatelli ed i gnocchi,
non grati agli occhi, anzi pien
di bernocchi:
paion duri di fuor, quando li tocchi;
ma drento
poi rïescon meglio assai.
Se
ci è alcuna a chi la fava piaccia,
la meglio infranta
abbiam che ci si faccia,
con un pestel che insino a gusci
schiaccia,
ma a menar forte ellesce de mortai.
Noi
sappiamo ancor fare il pan buffetto,
più bianco che non è
l vostro ciuffetto;
direnvi il modo che nabbiam
diletto;
pensar, dir, far non vorremaltro mai.
Convien
farina aver di gran calvello,
poi menar tanto il staccio o
burattello,
che nesca il fiore: e lacqua calda e
quello
mescola insieme, e tutto intriderai.
Or
qui bisogna aver poi buona stiena:
la pasta è fine quanto
più si mena;
se sudi qualche goccia per la pena,
rimena
pur insin che fatto lhai.
Fatto
il pan si vuol porre a lievitare;
in qualche loco caldo vorria
stare;
sopra un letto puossi assai ben fare;
che in ordine sia
bene aspetterai.
Intanto
l forno è caldo e tu lo spazzi:
lo spazzatoio in qua
e in là diguazzi,
se vi resta di cener certi sprazzi;
non
lha mai netto ben chi cuoce assai.
Sente
il pan drento quel calduccio e cresce,
rigonfia, e lacqua a
poco a poco nesce;
entravi grave e soffice rïesce;
dun
pane allor quasi un boccon farai.
Per
cuocere un arrosto ed un pastello,
allato al forno grande è
un fornello,
e tutta dua han quasi uno sportello,
ma non
lo sanno usar tutti i fornai.
O
belle donne, questa è larte nostra;
se voi volessi
per la bocca vostra
qualche cosetta, questa sia la mostra:
al
paragon noi starem sempre mai.