Carlo Dossi
(pseudonimo di Carlo Alberto Pisani Dossi)
L'ALTRIERI
Nero su bianco
Agli scrittori novellini
Quando - diciottenne - a sèmplice sfogo di fantasìa, senza alcuna pretesa di riformare la lingua e le idèe correnti, senza la mènoma preoccupazione di piacere o spiacere alla onnipossente gazzetterìa, io scrissi e diedi alle stampe il mio «Altrieri»; quando l'èsile libro uscì, la prima volta, alla luce, o, per dir meglio, all'oscurità degli armadi dei cento amici e parenti cui lo donavo, molti di questi, non a mè ma tra essi, èbbero a confidarsi il lor malcontento perché «il Carletto si fosse messo sì presto a stampare» - aggiungendo caritatevolmente, che, fatto grande, me ne avrebbe potuto dolere.
Trèdici anni sono passati da allora, la mia esperienza è, più che matura, già marcia, e, non solo non sento rimorso alcuno di quel mio adolescente peccato, ma lo ristampo. Per quanto abbia cercate, pesate, analizzate le ragioni del dispiacere di que' mièi bravi amici e parenti, confesso di averle allora capite pochissimo e di capirle oggi ancor meno. Davvero, io non posso supporre, che, a breve distanza dal ventèsimo sècolo, perdùrino diffidenze e sospetti contro l'arte di Pàmfilo (la ferrovìa dell'umano pensiero) debbo quindi pensare che tutto l'allarme, in simigliante partita, non riguardi che i giòvani, autorizzati a varcare qualunque soglia impudica, purché non sia quella delle tipografìe. Trèdici anni or fà, ho inghiottito tacitamente il rimpròvero, contentàndomi di far in modo di rimeritarlo il più possìbile presto: oggi, rispondo con queste poche parole. Ancor non son certo di èssere giunto all'età di mèttere in moto legittimamente le màcchine tipogràfiche: spero, peraltro, di èssere a quella di esprìmere - se non di fare accettare - una mia opinione.
E questa opinione è che il diritto di stampa non debba assolutamente restrìngersi alle sole idèe degli uòmini fatti. Anzitutto, per diventar buoni scrittori, occorre (e sfido voi a trovarmi un modo diverso) di apprèndere... a scrìvere, ossia occorre di scrìvere molto, addestràndovisi di prest'ora. Chi può, del resto, impedire, che uno - qualunque sia la sua fede di nàscita - pensi, mèditi, e dia poi alle proprie meditazioni un poco d'inchiostro? Senonché, una volta scritto, è pure utilìssimo che il giòvine si consigli ai provetti - non è vero?... Or bene, qual differenza trovereste voi tra il consegnare un manoscritto a dieci persone una dopo dell'altra o a dieci contemporaneamente? tra il farlo lèggere a mille piuttosto che a dieci? ... Se differenza vi ha, è tutta a favore del caso dei mille. Spesso avviene, difatti, che una persona isolata emetta un parere, per cortesìa, bugiardo; per cortezza d'ingegno, incompleto; per invidia, ostile: la media invece del giudizio dei mille non potrebbe èssere solitamente troppo discosta dalla verità. Ammesso il che - e perché non dovrèbbesi ammèttere? - chi non vede che la è questione affatto secondaria quella di adoperare, per moltiplicare le copie de' nostri lavori, un alfabeto di piombo, un ràpido rullo di stampa, un torchio a vapore, anziché una penna d'oca, un calamajo, le pigre dita di un amanuense?
Ma l'argomento, come suol dirsi, della chiavetta pei nostri cordiali nemici, è quello che lo scrittore che stampa precocemente, può - fatto grigio ed illustre - arrossire degli incancellàbili sbagli da esso anticipati nel pùblico. Rispondiamo che egli arrossirebbe ben a torto. Molta cagione dei futuri successi, cèlasi, non di rado, nelle antecedenti sconfitte. Gli è a forza di sperimentare la nuca contro gli spigoli, ed il ginocchio sopra il selciato, che il fanciullo apprende a difèndersi da ogni capata o caduta. Fate invece, per una pietà malintesa, che lo stesso fanciullo passi i bimbi suòi anni in mezzo alle imbottiture; quando gli schiuderete l'uscio, tombolerà dritto a ròmpersi il muso e le gambe contro il durissimo mondo. Inoltre, il raffronto tra il poco, che, in giovinezza, uno è riuscito a scombiccherare e il molto ch'egli arriva talvolta a produrre in età più matura, dovrebbe - pare - èsser fonte inesauribile di compiacenze per lui, di efficace incoraggiamento per gli esordienti. A valutar la lunghezza della via percorsa, due punti, e non uno, bisogna conòscere, quello dove si giunse e quello donde si prèser le mosse. Epperciò, quèi signori autori - tra i quali ce ne fu anche di òttimi - che, acquistata una certa nomèa, si affànnano a far scomparire le primìssime orme da essi stampate nella carriera della cartastraccia, a rifiutare, com'essi dìcono pomposamente, le loro giovanili scritture, danno prova di grandìssimo orgoglio e di ben tenue sagacia: dimènticano, per lo meno, che al solo ingegno mediocre è concesso il non invidiàbile privilegio di presentarsi, fin dagli inizi, completo, il che viene a dire, di non poter far progressi.
Se voi credete, carìssimi mièi, che questi sìeno argomenti bastèvoli per confortarvi nel vostro propòsito di far gèmere i torchi - non i lettori, Dio guardi! - usàtene in buon'ora. Se non vi sèmbran da tanto, aspettate, ché non ne màncano altri. Oggi (come sempre, del resto) chi aspira alla vita pùblica, vuòi delle lèttere, vuòi della polìtica, deve per tempo assuefarsi a vedere le sue opinioni crivellate, sperate; i suòi intendimenti, fòssero i più savi, male interpretati; i suòi scopi, per quanto purissimi, attraversati. I primi assalti tùrbano tanto quanto. Ci attendevamo a un trionfo, come dicèvano i latini, impulvereo: èccoci invece obbligati a saltar fossi, a scavalcar siepi, in una parola, a disputar la vittoria. Un'acuta irritazione ci si sveglia allora nell'ànimo, un impulso di resistenza, una smania di vendicarci di nemici che non ci sembra di meritare. Senonché, se abbiamo il coraggio di non pèrdere il tempo in lotte dipinte, ma di guadagnarlo con altri scritti, con altri fatti, i pròssimi assalti o saranno o ci paranno più fiacchi. S'impara infatti, che il combattimento è la indispensàbile conseguenza di ogni nuova manifestazione del pensiero, che l'opposizione è tanto più viva quanto più l'idèa appartiene al progresso, che la critica è una necessaria e benèfica intemperie come il vento, come la pioggia; cosìcché, a poco a poco, ci subentra quella serena equanimità - da non confòndersi colla indifferenza - la quale, non solo sà presentare il biàsimo degli avversari, spoglio d'ogni amarezza ed offesa, ma insegna a cavarne ogni possìbil vantaggio. Maxima saepe ab inimicis salus. Beninteso, che sopportar bene la critica, non significa affatto saper crollarsi di dosso con disinvoltura ogni insulto. Data a tempo, una leonina unghiata è òttima marca di fàbbrica.
Resti dunque a dormire, nel suo sepolcro di versi, il consiglio del cisposo Orazio - consiglio che probabilmente non era seguito neppure da lui - di lasciare che una decennale muffa fiorisca sui nostri lavori, prima di divulgarli. Sono ragazze, i libri, che vògliono presto, finché sanno di fresco, èsser sposati col pùblico. Fate di mètterli insieme il più possìbile logicamente, e se ciò vi riesce in una misura appena onesta, non diperdètevi troppo a sciuparne, con una penna, che par cangiarsi in un tormento ortopèdico, la spontaneità.
Alla mia cara mamma,
per i suoi lunghi baci,
acconto
Introduzione
I mièi dolci ricordi! Allorché mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza - rotta solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna sull'ammattonato i circolari piombi della destra - mentre la gatta pìsola accovacciata sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolìo, sonnecchia; oppure quando, seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l'ànima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in segni di un lontano avvenire e stanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, strìngesi ad un intenso melancònico desiderio per ciò che fu.
Io li evòco allora i mièi amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co' suòi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tìrano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stùzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi comìnciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante aqua dal borbottino.
Ed èccomi - a un tratto - bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala è calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidìssima mappa, dai lucenti cristalli, quà e là arrubinati, dalla scintillante argenterìa, vi ha molti visi - di chi, non sovvengo - visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lì, due mani in bianchi guanti, pòsano nel mezzo, su un piatto turchino, quel dolce che è la vera imàgine dell'inverno, che così bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e... Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso...
E tutto rovina. Segue una tenebrìa: a mè par d'èssere solo, solìssimo, in una profonda caverna in cui l'aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch'io ebbi molto bìbì... Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall'una e dall'altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d'un azzurro smagliante; l'àura, fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all'estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sè un cerchio. Com'ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringèndomi colle sue manine le guancie, m'appicca uno di quelli schietti baci che làsciano il succio. E il cerchio intanto, abbandonato, traballa, disvìa... giravoltando, cade.
Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. È la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire.
E tò, in un salone (che stanzettina mi sembra adesso! ) entro una màchina di una sèggiola, mia nonna, ammagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscìo metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo, un cuffìone a nastri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lùcido intavolato, rùzzola, da mè lanciata, una trottola.
Strìduli suoni d'un ansante organetto sàlgono dalla strada. Io, sùbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo al poggiuolo, arràmpico sul balaustrata e giù vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterèllano convulsi sullo sfiatato istrumento.
- Oh i belli! i belli! - grido applaudendo... e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia civica, del padre, cerca d'impietosire impannate e vetriere, il mio più lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. È Nencia, la bambinaja: sobbràcciami d'improvviso, mi porta via - mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove stà un tepido bagno. E lì, essa e mamma, mi svèstono, mi attùffano, m'insapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia... Giuochiamo a chi fà il bacio più pìccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segreto fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispìgliano. E babbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! - Cattivo babbino - dico io schermèndomi - tu punci, tu... -
Oh, i mièi amati ricordi, èccovi. Mentre di fuori, ai lunghi sospiri del vento, frèmono, piègansi le pelate cime degli àlberi e batte i vetri la pioggia - qui vampeggia il più allegro fuoco del mondo, scoppietta, trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschìssimi; quì, un mucchio di crepitanti marroni, or or spadellati, forma il centro del cìrcolo... Amici mièi, novelliamo.
Lisa
I vecchi Re Magi - questi buoni amici dei fanciullini - avèvano già, per la sesta volta, colla lor stella chiomata, i loro carri zeppi di scàtole misteriose, i loro elefanti, i loro muli a pennacchi e a sonagliere, la loro famiglia color cioccolata, dai grandi anelli alle orecchie, fatto tintinnire i vetri della mia destra, quando mi apparve... chi? - dirò poi. Io, proprio in quel giorno, al baturlare di un tamburello, aveva nettamente saltato quella famosa cordicina che, per detto del catechismo, divide la cecità dalla chiaroveggenza, l'avventatàggine dalla posatezza; io, al di là del confine, doveva, con la intirizzita gonnelluccia (scambiata contro un pajo di calzoncini) avere svestito ogni capriccio, ogni bambinerìa... Cioè! adagio... almeno voleva così mio padre. L'eccellente persona! Guardando con superbiuzza il suo ben stampato bambino, sciamava: - ve', gli è un ometto, ora. - Ch'io per altro lo fossi, ne dùbito; anzi, riflettèndoci un pochino, sono sicuro di no. Inquantoché, cari mièi, per èssere uomo non mi bastava, certo, balbettare più nè dindo nè bambo nè pappo se, moralmente, portavo cèrcine ancora e camminavo in carruccio. E questo, le molte sbarre, ramate, inferriate che voi vedete ancora oggidì nei luoghi pericolosi del nostro giardino ed i giallicci conti del farmacista, lunghi come la fame - conti in cui le parole di cerotto e di àrnica si altèrnano fino alla somma - lo càntano.
Ma qui, a scusa mia e d'ogni folletto di bimbo, confiderò alle sfiduciate mammine una incuorante opinione. Non la giurerèi, avverto; pure, credo che non la sia errata del tutto. Voglio dire che come vi sono le fìsiche espulsioni, quali le ferse, la rosolìa, la scarlattina ed altre ed altre, così ve ne dèvono èssere anche di morali, e pur benedette, poiché per esse qualcuno di noi riesce a spazzarsi via, tutta o in parte, la cattiveria infùsagli dai genitori.
E - qual frùgolo ero allora, qual nabisso! Dal punto che, godùtami una dormitona, io cominciava a zampettare sotto le lenzuola, a quello in cui, scalcagnato, infangato, cadevo sopraccolto dal sonno sul canapè della sala, fate conto ch'io fossi come in mezzo alle ortiche. Quante diavolerìe! quanti dispetti! Per non dire de' ciòttoli ch'io lanciavo sui tègoli contro i piccioni o contro qualche grazioso gattino che si leccava quetamente i baffetti e spiluccàvasi al sole; lasciando stare le girellette de' seggioloni, strappate; gli squassati àlberi gravi di frutti, i sotterranei da talpe minati e simili piccolezze, io non poteva, a mo' d'esempio, passar vicino a un vassojo carco di bicchieri e di chìcchere, senza formicolare dalla prurìgine di mandarlo in frantumi, nè, incontrando un contadinello, vincer la smania di regalargli uno scapezzone o almeno almeno, un gambetto.
E, trottar sui viali... lo sperereste? chéh! Era sempre al di là de' cordonati, a traverso pòpoli di vainiglia e garòfani, pestando gerani, fracassando vitrei guardameloni, vasi da margotte; in una parola, insalando ben bene la faticata minestra di Tonio, il nostro ortolano - Tonio - il cui greggio faccione m'ho tratto tratto innanzi, grottescamente atterrito, fiso agli adaquatòi del giardino, che nuòtano presso il zampillo d'una ampia vasca. Un giorno poi (e questo è il solo dispetto in cui c'entri pazienza) stratagliài il disegno della facciata di casa, forbiciàndolo finestra per finestra, porta per porta; un altro - versato sul busto in gesso del nonno, un calamajo ben pieno - per compir l'òpera m'inchiostrài viso, panni, camicia.
E a dire che intanto i mièi buoni parenti ricamàvano con seta ed oro mille e mille progetti sul mio avvenire! La prima agugliata, essi l'avèvano inalata quando il mèdico del villaggio, intascando un greve rotoletto - idest il mio pedaggio per qui - lor presentava con prosopopèa una sentenza, chissà quante volte riattepidita, quella cioè che la testa del neonato, essendo di una misura e di una montuosità non comuni, indubbiamente pronosticava un uomo dai ventidùe ai ventiquattro carati: nientemeno! Eppure, essi, credèndoci, affinché non fallisse un così grande avvenire mi avèvano di presta ora stanato tutti quèi pochi maestri che un pìccol villaggio come Praverde (in cui vivevamo, lavorando mio padre le sue tenute) poteva ospitare.
Ma e che ne veniva?
Pòvero organista! - un vecchietto dai capelli bianchi, e dalla voce saltellante. Avèa bel tenermi le dita sui tasti; io mi sentiva sempre addosso il prurito: avèa bel spiegarmi il valore delle semibiscrome; io mi agitava intanto sullo sgabelletto e, cercando con i piedini (che non toccàvano terra) il pedale della gran cassa, andavo, sul più buono della ricerca, a gambe levate, io e il sedile.
E, press'a poco con il maestro di disegno - un piccolino, dèbole, magro e dalla voce velata. Infelice! Era la ventèsima volta ch'egli si metteva a corrèggermi la foglia (lezione ottava) o la roccia (lezione nona) tornàndomi a spiegare, per filo e per segno, il da farsi; io invece, concentrava tutta la mia attenzione a ròmpere la mezza pagnotta destinata alla cancellatura ed a gettarne i pezzi, uno per uno, sotto la tàvola, verso le fàuci di quel bracco che li abboccava a metà viaggio con imperturbàbile franchezza. Dunque, per ricondurci in chiave, èrano ben tre mesi che Nencia, spigolando ritagli di grembiali, avanzi di nastri, merletti, cinigli, imbastiva già il bizzarro abbigliamento pel futuro ceppo di Natale - allorché io, la prima volta, la vidi.
Fu tra il chiaro ed il bujo. Io mi trovava su uno scaglione della gradinata che metteva in giardino - mi vi trovavo, analizzando, con una tanaglia trafugata al legnajolo, un girarrosto complicatìssimo - quando, sul ripiano, nello squarcio della porta, si fece, insieme alla onesta tonda persona di mio padre, quella, svelta, di uno sconosciuto, dall'aria melancònica, pàllido, con i mostacchi biondi. E questo signore teneva per mano una ragazzina di circa sett'anni, in una robuccia strozzata alla vita, nera, sulla quale staccàvano i bianchi polsini e l'inamidato colletto - una ragazzina gentile di complessione, graziosa nelle movenze; insomma, di quelle fràgili creature da scatolino e bambagia in cui l'ànima è tutto. Gli occhi di lei lucentìssimi, lasciàvano, per così dire, lo sguardo dove fissàvansi.
- Marchese - diceva il babbo al nuovo arrivato - questo è il giardino. Spazioso, ha molta ombra e, quanto più preme, è sicuro... La vostra cara figliuola col mio demonietto... -
Io salìi verso loro.
- Ah! èccolo appunto - sclamò mio padre. - La nostra speranza! - aggiunse nell'indicare al nòbil signore, mè, suo impacciucato erede.
Il marchese mi fe' un complimento. Quì nol ripeto, ma esso stà ancora, ci scommetterèj, in cuore a babbo.
Poi:
- Giuocheràj, n'è vero? - domandò egli - con la mia Gìa, o...o... - e dovette interròmpersi, non conoscendo il nome del vostro amico scrittore.
- Mi chiamo Guido - gli dissi - Guido è un gran bel nome - aggiunsi con forte convinzione.
- Certo - sorrise egli.
- Ed io vorrò molto bene alla tua bimba - continuài. - Mi piace tanto, ve'!
- Allora - disse il marchese volgèndosi alla bambina che si serrava timidamente a' suòi panni - Giacché il nostro Guido è così gentile, gli offriremo una mela, eh? -
Lisa ne cavò due dalle sue taschine e me le porse.
- Tie' - disse.
- Grazie - risposi. E, senza esitare, le aggraffài ambe, ne insaccocciài una, addentài l'altra. - Sei pur buona, Gìa. Dammi un bacio. -
La bimba aguzzò le labbra. Inutilmente.
- Ah!... già - riflettèi, orgogliosetto della mia statura - sono troppo alto, io - per cui, di botto, chinàtomi, le stampài sulle gote un par di baci sonori - Uno, due... - Poi?... poi, pigliàtole la mano, la trassi a corsa con mè.
Stendèvansi, ove noi correvamo, le mie possessioni - cinque o sei metri quadrati di terra che il giardiniere, com'io ne avèa sentita vaghezza, mi aveva tosto concesso, imaginando il brav'uomo di così scampare i mille altri. A voi il dire se tale speranza potesse aver fondamento! Stà il fatto che il pìccolo già si mangiava il grande giardino e Tonio se ne convinse ben presto, ché, venendo sul mio per qualche irreperibil falcetto, ivi scappucciava sempre e nella vanga e nel badile e in fasci di sbarbicate piantelle.
Del resto, tuttoché io continuassi, secondo il sistema delle formiche, ad ammassarvi roba su roba, certamente il mio parco non respirava ricchezza. Al contrario! Di verzura, filo: non vi si scorgèvano che foglie e rami secchi, buche profonde, mucchi di sassi; un mastello interrato (il lago)pieno di un'aqua che parèa sugo di lenti, pali con corde - a scopi ignoti anche per mè - più, sparpagliati, cocci di vasi, gambe di sedie, un caldarino rotto, un crivello, due parafuoco (e intanto mamma si disperava a cercarli), in poche parole, un guazzabuglio, una confusione di cose.
Di notàbile, nulla. Tuttavia, siccome Lisa mi era stranamente andata a genio e siccome di parlantina non ne mancavo, così dièdemi ad illustrarle la suaccennata grillaja come se si trattasse degli orti di Babilonia. Nè me ne stetti al solo presente, no: di voglia intaccài l'avvenire; le dissi cioè, quanti e quali disegni astrologava il mio biondo ciuffetto, anzi, mi lasciài andare verso di lei alle più strane, gelose confidenze. Imperocché, figuràtevi, io le aprìi il quia - quel quia di cui mio padre avèa dovuto pulirsi la bocca - sopra una buca che vaneggiava a' pie' nostri; come, essa fosse strada alla scoperta di un tesorone di soldi d'oro (Gìa sbarrò gli occhi) profondo... una schioppettata a mezza; nascosto, dicèa il cocchiere, or fà millantanni dal Re Salomone - il quale noi spartiremo - poi, accennando a varie assi scheggiate, le sussurrài all'orecchio, che, se io avessi potuto trovare certi lunghi chiodi, che m'intendevo, ero sicuro di costruirne una casettina sul gusto di quella delle chiòcciole... colla differenza peraltro che volerebbe... la volerebbe: e, noi - aggiunsi - «ruberemo la luna». Ciò mise la fanciullina di buon umore. Ed ella, che avèa centellato, assaporato le mie parole, che come carta sugante se n'era imbevuta - finito ch'io ebbi - vinta una leggiera riluttanza, cominciò dal canto suo, con una voce sottile, accarezzante, a digabbiare colombini pensieri, a confidarmi i suòi segretucci. Mi contò su, fra gli altri, ch'ella era la fortunata mammina di una poppàtola, alta sì e sì - imbaulata per anco - la quale possedeva de' veri e ricci capelli, occhi di smalto, che si movèvano; vesti, più che più... un ombrellino... pèttini, scarpette... Dio! che frègola io sentìi di toccarla:
- Gìa, lo permetterài? -
Essa me lo promise... Alla sbrigata, c'innamorammo l'uno dell'altro, ci prendemmo tanto, che, quando Nencia venne per appollajarci, noi, in quella, barattavamo le impromesse.
Una settimana dopo - due ànime in un nòcciolo. Dove mi si trovava, certo, voi vedevate anche la bimba, salvo se l'aspettassi e, lei non giungendo, io non poteva requiare. E, a goccia a goccia, ci subentrò il costume - al gèmere della caffettiera - di scèndere nel giardino e là, sul pratello di fronte alla casa, produrre ciascuno fuori, una quantità di scamùzzoli di vivande, raccolti e messi da parte a tàvola, trinciarne alcuni, ricuòcerne altri - poi - insieme alla bàmbola (quella graziosa donnina di legno, sopr'annunziata da Lisa e che mio babbo già mi citava come un model di saviezza) incominciare un pranzettino con istoviglie e cristalli da Lilliputiani. Appresso il quale, persuadevo la Gìa a rassettarsi entro la nostra carrozza, carrettàndola con trabalzi su e giù per i fiori e gli ortaggi e ribaltàndola di tempo in tempo, o pure - e questo le quadrava di più - offèrtole il braccio, ci incamminavamo come due vecchiotti, piede innanzi piede, schizzando nell'aria mille ed uno progetti... da murarsi alloraquando, sul dosso gli anni e i soldi nelle tasche, ci si sarèbbero ammonticchiati - progetti capaci, se messi in òpera, di mutare la faccia del mondo. SE! tuttavìa; perocché, giudicàtene: ora, trattàvasi di succhiellare un pozzo della tirata di un milione di leghe; ora, di procurarci la famosa pòlvere di Pimpirlimpina che fa nàscer le ova dai sacchi e sparir le pallòttole.
Ed era allora altresì, che, tra lo sciorinamento d'un piano e la narrazione di un sogno (noi sognavamo sempre: in generale io, la notte, m'acciapinavo a zeppar bauli inempibili e a intrabbicolar sulle sedie; Gìa parpaglionava attorno alle rose e sorradeva, volando, le scale) che tra un sogno, dico, e un piano - ci scambiavamo i più carini presenti... Orecchini di ciliegie, collane di azzeruole, cestelli di bòzzoli e di ossi di frutta... tutti accomodati nella bambagia, in astucci da fiammìferi o penne, incartati di bianco e stretti da rossi nastrini di seta.
Rasentàndosi poi continuamente, i nostri caràtteri - come due palline di mercurio - tiràrono a conglobarsi. Sfumati sei mesi, io poteva già assìstere alla distribuzione di bricie di pane che Lisa, nel labbreggiar billi billi... usava di fare ogni mattina all'uscio del gallinajo; potevo sentirmi tutto in giro, polli, chioccie, anitrocchi, galli dal rosso bargiglione e dalla cresta superba, gracidando, pigolando, senza che mi saltasse l'abituale ticchio di scompigliarli, e Gìa dal canto suo, la tìmida Gìa, si trastullava anche lei a battagliare sull'aja gettàndomi bracciate e bracciate di fieno, o, gentilmente, con un cappello alla marinaresca e un bottaccino di limonèa, a far da cantiniera al mio esèrcito.
Sul quale esèrcito... due cenni.
Guerra io l'avèa sempre nudrita contro ai polli che osàvano passar l'imprunato del nostro giardino: le ostilità, sospese per la venuta di Lisa, dal moltiplicarsi delle scorrerie nemiche, si èrano, necessariamente, riaperte.
E fu, da parte mia, con un esèrcito di contadinelli; - intorno a dieci. Li aveste veduti! Schierati innanzi a mè con i pie' nudi staccanti nel verde cupo dell'erba, silenziosissimi (io capitanava a bacchetta)portàvano sulle bionde testine, un po' in traverso, bianche calze da donna e, nelle mani, alla cintola, armi di ogni fatta... mànichi di scopa, sciàbole di àcanto, ferri da tende, pistole di sambuco... Martorelli graziosi! La scoletta intanto aspettava.
Ma, anche con tali ajuti, la guerra non riusciva a risultati soddisfacenti; anzi, fuorché da un mìlite che si alettava la punta di un dito nel tagliare una mela - salsa di pomidoro non se ne era versata. Gambe lunghe sostenèvano i signori nemici, troppe porte foràvano le siepi, ed io, rattacconate venti volte le scarpe, non avèa raccolto, al postutto, sui campi dell'onore che una penna di gallo - la penna fieramente piantata nel mio berretto.
Finalmente, un giorno, com'io e Lisa, coccoloni in mezzo a un'ajuola, spiccavamo maggiostre (e ciò tanto per disallegarci i denti dall'acerbezza di non so che frutta), udimmo grida, bàtter di mano, e vìdimo la nostra ragazzaglia, che sparpagliata guardava i corni del campo, còrrere attruppàndosi verso di noi: dinanzi a tutti, Cecco, il mio luogotenente, reggeva alto per le zampe un pollo.
Io mi rialzài di botto; ridivenni il capitano. Insaccocciavo carta bianca sul come trattare i prigionieri pennuti e lo confesso, trovàndomi alla fin delle fini, averne uno, inclinavo verso la proposta di Cecco - quella di giustiziarlo. Se non per crudeltà, certo, mosso dal nuovo.
Ma Gìa intervenne.
- Guido - pregò essa dolcemente, tiràndomi per la mànica - làscialo andare... - Io ebbi un moto di stupore. In verità la domanda oltrepassava i tègoli.
- Ebbene - riappiccò Lisa, dopo una cucchiajata di silenzio - non uccìderlo almeno. Portiàmolo a babbo, Guidella. -
Io rimasi intradùe. Guardài la bambina, fissài gli occhi sul malcapitato, mi grattài la nuca... ma... Ma dirle di no, non potevo.
- Sia - sospirài. - Portiàmolo a babbo. -
Lisa balzò di gioja e mi mandò per l'aria un bacetto.
De' mièi guerrieri èbbevi tali che applaudirono, tali che grugnàrono.
- Silenzio! - comandàî - In fila. -
La fanciullaja si ordinò - nè più disse motto. Pesche! ella covava una ladra paura (pensavo in quel tempo) per certe mie pistole di latta che recavo alla cìntola; adesso invece, lo giurerèi, pei quarti d'ora che ai disobbedienti facevo contare, oltre generosi cazzotti, dietro alla ramata di una moscajuola od al graticcio di una capponaja; poi, banda in testa (la nostra banda si componeva di uno zùfolo, un tamburo stonato, e due coperchi di casserola)... marciammo verso la casa.
Babbo dormiva. Dormiva precisamente nel suo fresco studiolo, dove ogni dì, dopo il pranzo meridiano, egli si ritirava con qualche gazzetta, oppure, con un certo libro piuttosto grosso; un libro del quale non mi sovviene il titolo, ma benìssimo due pàgine giallo-rossastre, macchiate di caffè e di vino, con una carta da tresette per segno (le sole pàgine, credo, che conoscèssimo, io e babbo di lui) quando... Ah! fu proprio peccato, svegliarlo. Che faccia assonnata ci mostrò egli nell'aprire ai nostri picchi l'uscio, comparendo in mànica di camìcia, mutande e pantòfole! Tuttavìa non ci rabuffò: al contrario: raccomandàtoci di andar pianini pel bujo, intanto ch'egli tastava a sbarrar le imposte, e sedùtosi allo scrittojo, coll'aria la più buona del mondo chièseci che volevamo.
Io allora, gloriosetto, deposi sopra la tàvola il prigioniero legato e, dal c'era una volta un rè a la panzana è bella e finita, spifferài su la cosa.
- Bravissimo - disse mio padre, soppesando il pollastro. E tòltasi dal borsellino una lucente lira, me la chiuse in mano.
- Vi ha - aggiunse - molti topacci in giardino. Io ne dò un soldo la coda.
- Morte ai topi! - gridài con ferocia.
- Morte! - echeggiàrono i mièi.
Babbo si mise le palme alle orecchie.
E - quel giorno - fu la gran festa per tutti noi. Io aveva montato un piuolo nella stima di babbo, il mio esèrcito sgretolava un cartoccio di màndorle confettate, segno della mia alta soddisfazione, e quanto a Gìa, la si sentiva allegra come rondinella reputàndosi la salvatrice di un'innocente bestiuola. È vero che poco dopo, mio padre, accomodando a pranzo sul piatto pezzi tagliati di carne con becco, avvertito da una tosse ostinata del servitore: ve' la caccia di Guido - esclamò; è vero, ma Lisa, questo, non lo seppe mai... mai...
Allorché ci penso, che bei tempi èran quelli! Quante volte io mi sento ancor presso alla mia pìccola compagna, su quella ringhiera che rispondeva sopra la via, gonfiando bolle di sapone, le quali, staccàtesi dalla cannuccia (oh! le granate di casa) tremolàvano, cullàvansi nello spazio, poi, divenute colore cangiante, trasparentissime - a gran dispetto di quattro o cinque ragazzi che li attendèvano, la bocca aperta, svanivano; e quante volte anche, mi trovo faccia a faccia colla mia cara bimba la sera, a costrurre sul tavolino, ratenendo il fiato, torri di tarocchi e ridendo di gusto quando, per un buffo del mio cattivo babbino, le sprofondàvan di colpo.
E voi, minuti d'oro, ho forse mai obliati? minuti in cui - con de' cappelloni di paglia - accoccolati sotto una vite, tra le frasche, i tortuosi ceppi, i pàmpani, noi sgranavamo il rosario dei gràppoli? Ah no - voi lo sapete - sempre io mi ricorderò di voi, sempre, come della intensa gioja che in noi crepitava veggendo disserrarsi il chiusino del forno e uscirne, sopra la pala càrica di scroscianti fragranti pagnotte, i panettucci, grossi non più di noci, per noi; come del sapore di quelle gentili colazioncine di pane giallo nuotante in iscodelle di freschissimo latte - straripetute, insieme a Nencia, nelle capanne, fra una covata di bimbi ed una di pulcini, intanto che i bachi, brucando su pe' cannicci la foglia, sembràvano, con il fruscìo, contare già i ventilire del loro padrone o strascicarsi dietro la sèrica vesta della signora.
Sì! lo ripeto, quelli èrano pure i bei tempi. Ma, Dio! Mentre là - dove il ruscello scendeva più lentamente sulla finissima erba, sotto il rezzo de' pioppi, che frascheggiando si salutàvano di continuo - noi ascoltavamo il frottolare di Nencia intorno o al vecchio incantatore Merlino o allo stregazzo di Benevento, una volta, Lisa, io la scôrsi raccapricciare tutta come allo sgrigiolìo di un ferro e vòlgersi, pàllida, con sospetto.
Proprio io non saprèi dirvi il punto in cui primieramente ciò avvenne, ma so che d'allora in poi pàrvemi l'aria appesantirsi come una mola mugnaja, pàrvemi che un nemico invisìbile ci seguisse dovunque, intristendo, avvizzendo la mia delicata Gìa e so che quando questa creaturina gricciolava, io le chiedeva: che hai? - a bassa voce, a bassa voce. Allora essa, serràndomi con passione la mano: m'han stranamente chiamata - rispondeva. Ed io rimuginava con lo sguardo attorno: dallo stesso non incontrare mai niente, io, il rischioso fanciullo, soffocavo dalla paura.
E pàssane, pàssane - un dì - la mia tòrtora, stringèndosi più del consueto a mè, susurrò tremante di averlo veduto. Era, per detto di lei, un viso ovale, smorto, colle occhiaje lìvide, che le appariva nel folto della fratta, la guatava immòbile... dileguava. Dio! Che terribile dormiveglia io ne ebbi, la notte. Quantunque mi sentissi ancora nella mia càmera, nel mio letto, quantunque al chiaro di luna distinguessi uno per uno gli arredi, nondimeno e' mi pareva anche di starmi in una praterìa di sprofondata lunghezza, tutta a fiori, che mi rendeva aria di un'insalata d'indivia sparsa di nasturci e begliòmini, in cui scorrèvano lìmpidi ramicelli d'aqua, intertenèvansi crocchi di pini, ma dove, come nel vuoto, non propagàvasi rumore. Ed ecco staccarsi dall'estremo orizzonte, ecco ingrandirsi una massa informe (qui la memoria mi zòppica) una specie di ragno iperbòlico, giallo-limone, macchiato di nero, enfio, glutinoso, a grumi di sangue, bava, dai mille bracci, che - nel procèdere a saltacchioni o dondolàndosi sulle anche - altalenava.
Allora i bei fiorelli essiccàronsi, impallidì il raggio del sole, appannàronsi i canalucci.
E quel mollame si avanzava sempre, senza pietà, lasciando una lunga striscia come di arso, uno schiccheramento di lumaca, si avanzava e... Colto dallo spavento io mi snicchiài dalle coltri, tombolài con lenzuola e imbottita, in un fascio, sull'intavolato. Poi, riparài da mamma. La buona donna, toccàtomi la fronte che mi scottava, interrogàtomi gli occhi e la lingua, mi scongiurò di non mangiar troppi lamponi.
Oh! pel sogno ciò poteva essere, ma, storielle da nonna! per la realtà, non vi èrano nè lamponi nè sùsine. Per la realtà, la convinzione che qualcuno, che qualchecosa invidiasse alla felicità nostra, se non procedeva da un ragionamento lardellato di sillogismi, veniva da un profondo misterioso senso e, tuttoché non ce la confidàssimo, noi la provavamo ambedùe e sapevamo di provarla.
E sotto l'ombra di tale nero presagio, buon dato di quella briccona filatera di santi che immalinconisce il taccuino - colle sue piaghe, le glorie, i brevetti - passò.
Giunse l'ottantasettèsimo - Noi correvamo nel giardino; Lisa, dietro di mè per pigliarmi; io, sostando ogni tanto, a vòlgermi verso lei, a ridere, a farle bocchi...
Ma, a un tratto, la veggo arrestarsi. Ella arrossa, vacilla; presa da sùbita ambascia, poggia il capo ad un tronco, tossendo violentemente.
Ed io mi rimasi impietrito... cioè a dire, mi sarèi creduto di pietra se il cuore non mi fosse balzato a strappi.
Riavèndomi, le volài a presso.
- O Gìa! - esclamài.
L'ìmpeto era cessato. Ella asciugassi le ciglia, tornò sereno il visino ed inghiottendo un singulto:
- È niente, ve', Guido - mormorò.
Oh! sì! niente... ma intanto suo padre spiegazzava, nervoso, i guanti e più che fumare masticava gli zìgari buttàndone via il mozzicone con rabbia; ma intanto i mièi genitori, guardando la piccolina, parlottàvano tra di loro, poi mi raccomandàvano di non strappazzarci, di stare in riguardo... Dunque, niente? ma - in questo - Gìa viveva, si può dire, di limatura, s'assottigliava viepiù, traluceva a guisa di ambra... Niente, niente! ed essa ingollava certi cucchiajoni di liquidi crassi, mucilaginosi, la cui sola veduta impauriva mè non uso che a spìzzichi di santolina, a qualche po' di magnesia.
Eppure era destino che il dolore fisico e le pozioni non dovèssero, soli, distrùggerla.
Pòvera Lisa! vedètela... Ella si dirige alla gabbia del suo caro uccellino, di quel pàssero delle Canarie che, saltando sullo sportello del palazzetto in vimini, usava spiccare dalle labbra stesse di lei il pinocchio; che sì gentilmente aliava di ballatojo in ballatojo e sciaguattava nel beverino i pieducci e beccucchiava il suo rottame di zùcchero... L'amato cip-cip è là, sulla sabbietta, irrigidito, le ali sciupate, la pupilla nebbiata. Ella ribrezza, stende la mano su lui. Con uno sbàttito che le traspare nel viso, se l'avvicina, se lo preme alla guancia...
E stette in ascolto: nulla. Gli occhi le si fècero rossi, arricciò le labbra, diede in uno scoppio di pianto. Uno scoppio sì forte, così straziante che io mi stupisco ancora di non avere veduto il canarino drizzàrsele in su la palma, vispo, ricominciando il suo gorgheggio, uno scoppio che, quando il cielo e l'ànima mia son bruni bruni, riodo. Mi volgo allora a cercarla: inutilmente!
Ed altri ed altri dì scomparìrono. Infine...
Il giorno era stato caldìssimo; uno di que' giorni di estate in cui non svetta un fil d'erba, in cui ti senti addosso, ovunque t'appiatti, un fastidio, un disagio, una nausea, e pare, che tè stesso e tutto che ti circonda raggiunga il peso morto de' corpi inzuppati. È l'aspettazione di un temporale, grande, che sembra imminente ma che non viene mai: nell'aria, un rombo, un bombitare come di api intorno al melario.
Senonché le stelle èrano apparse: con esse il fresco.
Noi ci trovavamo in sala. Mio babbo ad un tàvolo, sotto il giallo lume della lucerna sudava, come di sòlito, la sua camicia, pigliàndosela coll'àbaco, tra una moltiplica che non batteva mai giusto e un calamajo stopposo; il marchese, in piedi, accostato allo stipite della porta che riusciva sopra la scalèa, fisava, collo zìgaro in bocca, d'un fare astratto, i cieli; noi intanto, Lisa ed io, aggruppati sulla medèsima sedia presso il clavicèmbalo cui sedeva mia mamma, ascoltavamo con angoscia quelli accenti tristìssimi, quel nodo alla gola, quello stracciamento di cuore, che Wèber lasciò insieme alla vita nel suo «ùltimo pensiero».
E gli accordi estremi - note fiacche, soffocate, a sbalzi - singhiozzàrono nelle nostre ànime. Gìa mi si strinse al braccio.
- Guido... - cominciò debolmente.
La interrogài collo sguardo.
- Andiamo all'aperto... -
Nessuno si oppose: uscimmo.
La viuzza, che per la prima si offriva, storcèvasi, grigia, in mezzo all'erboso punteggiato di scintillanti lùciole, e, non molto lontano, metteva capo ad un rialzo di terra e ad un boschetto di robinie. Prendèndola, com'io machinalmente dava dietro di mè un'occhiata, pàrvemi l'alta persona del marchese spiccarsi dall'ardente vano della porta, poi còrrere lungo il muro esterno di casa sul quale la luna tendeva lenzuoli di splendente bianchezza; pàrvemi,dico. Noi continuammo il nostro cammino, passo a passo, ratenendo il parlare.
Con quale fatica la fanciullina si trasse su per l'ascesa (ed era dolce salita) come anelante, affranta, si abbandonò sul sedile!
Là c'intorniàvan robinie. L'ombre di esse, una di cui ci copriva, allungàvansi tra le gambe delle panchette, sul suolo, bizzarramente; e, negli squarci da fusto a fusto, scorgèvasi giù sciorinata la campagna, gibbosa, sparsa di villaggi dai lucenti tetti d'ardesia, macchiata da querceti - masse nere, cupe. In fondo, una benda argentina: il Po; al di là, terra terra, un fumoso chiarore (esalazioni appestate): una città. Appresso, tutto si confondeva col cielo, d'un azzurro cinereo, giojellato di stelle che lappoleggiàvano senza posa e dalle quali staccàvansi di tempo in tempo ràpide striscie di fuoco.
Era la calma, solenne; nè la rompeva il monòtono continuo grillare, nè, della cornacchia, il sinistro, rado cra cra.
- Che notte strana! - fe' Gìa raccogliendo l'àlito, con suono, che, più dolce, più carezzante, io non le avèa udito mai.
- Non è vero che è strana? -
Taqui. Essa continuò:
- Stasera mi chiàmano da ogni parte... ascolta... il mio nome tintinna come in suono di baci... piccolini... piccolini. Io mi sento leggiera, più leggiera di una pennamatta... volo, vado come in dileguo... -
E azzittì. Poi capricciò. Sopra di noi, ad un frullo, s'era mosso il fogliame.
Gocciàrono silenziosi momenti.
Di botto:
- Vedesti tu il mare? - mi domandò essa.
Risposi con un: no - appena udìbile.
- Ebbene - ella seguì, fantasticando dietro a sfilati ricordi - quella sera si assomigliava punto a punto a questa... La stessa tranquillità... lo stesso abbarbagliamento di stelle. Noi sedevamo sulla spiaggia... uno de' mièi bracci posava sul ginocchio di babbo, la mano dell'altro la teneva mammina... E tacevamo. Le onde intanto, con de' sospiri lunghissimi, ruotolàvano, si allargàvano pel lido: ritiràndosi lentamente, scoprìvano sassolini, lùcidi come lire di zecca. Oh! mamma, quanto mi amavi!... Mesta, fisa, era essa... A un tratto, la prese un singhiozzo: smarrita, piangendo, curvossi su mè... E mi coperse di baci... -
Qui mancò a Gìa, la voce. Un sospiruccio... poi:
- Ora mammina è partita - riannodò dolcissimamente - Babbo dice che è in una stella, ora. In quale sarà, Guido? -
Io le ne accennài una; una che imbiancando, azzurrando, ci ammiccava più delle altre: Lisa, pigliàtami la mano (quanto la sua era fredda, màdida! quanto la polseggiava! ) fissò intensamente lo sguardo nel diamante celeste.
- E... e il mio canarino? - chiese la poveretta; a sbalzi, con pena.
Restài senza sangue.
In questa, il raggio lunare, passando tra ramo e ramo, colpì diritto su lei, l'avviluppò... Come ne era smorta la faccia, come affossati gli occhi!
- Ah! - fece essa, liberando la sua dalla mia mano e distendèndola convulsa - Ec... co... lo... - Aggrovigliò tutta; sbigottita, ritrasse la palma. E una turchina orlatura tinse le sue pàllide labbra. E cadde sulla spalliera della sedia... Addormentata? Un grido; il mio: un altro - lamento da ferita pantera - risuònano. Facèndosi strada per il cespuglio, il marchese precìpita presso la bimba. - Vive! - fà egli, in tuono, non giurerèi se di gioja o di angoscia - vive ancora... -
E incerto si guarda attorno. Ma è un àtimo; abbranca il sedile di Gìa ed essa con quello - essa le cui braccine spènzolano pesantemente: poi - tiene verso la casa. Io m'attacco a'suòi panni, gli corro di pari.
Amici, amici, qual notte!
Dalla saletta dove mi stavo, muro a muro colla càmera in cui il marchese avèa deposto sua figlia, udivo lo scricchiare degli stivali e degli intavolati, i pispigliamenti, il cigolar degli armadi, il frusciare della sèrica gonna di mamma che passava e ripassava. E scôrsi nelle tenebre rosseggiare i carboni di uno scaldaletto aperto, e scôrsi, come io cacciava il capo dentro lo squarcio della vicina porta, sulla parete illuminata di faccia, tremolare la gigantesca ombra del vecchio dottore dall'adunco profilo. Pensate voi se chiusi presto palpèbra!
Dal mattino seguente in poi, stette, la finestra di Gìa, serrata; quella finestra alla quale sì spesso ella si affacciava a salutarmi, a sorrìdermi, a discèndere verso mè un secchiolino, affinché io lo empissi di fresca aqua pel suo mangiapinocchi. E insieme a quella si serrò anche il mio cuore.
Io mi stabilìi allora alla porticina che conducèa dal marchese. Là vi appostavo chi usciva... domandavo loro... che domandassi, è inùtile dire. E molte e molte volte vidi aprirsi le imposte davanti a mamma, a Nencia, al dottore. Dio! che lanciettate. Afflizione, travaglio, respiràvan sempre le prime; l'altro, nel ritornare al suo rinsaccante ombroso bidetto, portava in sghimbescio il cappello e doppiamente lunga la faccia. Quando poi si confondeva ogni ombra - niente mùsica, niente lume in sala - di buon'ora mi si metteva a dormire, e mamma, nel suggerirmi - dolce illusione - le preci, vi ricordava il nome di Lisa. Ve l'assicuro: ben più di una volta, esso era ripetuto da mè.
E la bindella dei tempi, senza capo nè estremo, continuò a svilupparsi.
Diciàmolo, quel mattino, com'io, secondo l'usato, m'indirizzava al mio posto di guardia, un accoramento, una voglia di pigliàrmela con qualcheduno mi tormentàvano. Erano i mièi genitori, è vero, parsi, la sera innanzi, sciolti dall'inquietùdine, dall'agonìa de' giorni andati; ebbene, la loro inamidata tranquillità, il loro far grave, m'impaurìvano al doppio, mi stuzzicàvano a ricondurmi alla nota porta, grigia, dal martello di ottone. E questa, avvicinàndola io, si chiuse: Nencia, nell'aggropparsi un fazzoletto, venivane con un volto affìlato, le occhiaje morelle, ingarbugliati i capegli.
- Guido - affoltò essa d'un tuono ràuco, - ti cercavo a punto... Tua madre dice... dice che non ti muovi abbastanza. Vuole che ti muova, tua madre... Quà dunque - e bruscamente s'impossessò del mio braccio.
Io l'adocchiài con ansia, alitando. Ma ella non si trovava in vena di dire; io, d'interrogare altrimenti.
Così, noi ci avviottolammo più che di passo per quel cammino affondato tra due poggetti che erbeggiàvano con un verde smagliante e sopra i quali curvàvansi flessuosi olmi - il preferito cammino di Gìa, tuttoché i suòi pieducci v'intoppicàssero ne'ciottoloni o, soventi, restàssero nelle profonde rotaje. Da molto io non l'aveva più tocco. Pamporcini, more, vi èran spuntati a bizzeffe: oh sì! potèvano fioreggiare, insaporirsi a loro agio.
E noi procedevamo, tutti e due sopra fantasìa, atterrati gli sguardi: io imaginava sempre vedere, in mezzo alle fortimpresse orme di una scarpaccia a chiodi, le fresche leggiere traccie del borzacchino di Lisa.
E va e va, svoltammo alla fine in un pratello fuori di mano, abituale nostra fermata.
- Se' stracco? - domandò Nencia sostando.
Io non lo era affatto. Nè vi avèa perché. Pure la volli imitare: siedetti. E lì un fastidioso silenzio. Nencia si appisolava o ne faceva le mostre.
- Neh - dissi allora tiràndola per un gherone - e Gìa? -
Che ghiribizzo died'ella! Guatommi come l'avesse con mè, le imbambolò la pupilla e, gonfiàndosele il viso... - Ma no - si rattenne.
- Guido - scoppiò poi a ciarlare con eccitazione nervosa - vuòi che ti conti una istoria? una storia... bella, lunga, di maghi? Di', vuòi de' quattro figli di Aimone, vuòi de' tre pomi confusi... del diàvol d'argento, di Goga e Magoga, eh? vuòi? di' su, Guido, di'... -
Io non intendeva di scègliere; tampoco di udire.
Ed ella:
- Bene, la storia delle tre melarancie d'oro - seguì convulsamente. - Ve l'ho già... Te la dissi, credo, altra volta... La ricorderài forse... È quella del principino che mise al lotto... cioè, no... io la scambio... questa è «Dorotea.» È quella del regalo della fata bianca, dell'incantamento, dell'aqua che balla - e pausò. - Giusto... proprio... làh! cominciamo...
«C'era... c'era dunque una volta... »
Ma, in quella, staccate note di un canto, lontan lontano, flèbile, senza speranza, ondèggiano - note che una buffata, curvando le alte teste de' pioppi, ci apporta. Un brisciamento mi corse; rimàsero le tre melarancie nel loro cestino.
E Nencia scattava in piedi: le sue labbra tremàvano. - Torniamo - barbugliò essa - torniamo a casa. Qui v'ha tal guazza! (non una stilla, notate) su! Guido - e la mi prese la mano.
Già tutto - riposàtosi il vento - taceva.
Il cancello era aperto: la prima cosa ch'io scorsi fu la finestra di Gìa - aperta; l'odore che mi colpì, un leppo di arsi cerei. Ed ecco, entrare anche il marchese, instivalato, con gli speroni - mentre al muro di cinta, sul limitar della porta, sparso di rose sfogliate, fermàvansi, si aggruppàvano de' contadini... fra gli altri, alcuni angioletti dagli àbiti a strappi, i pie' nudi, l'ali di cartone sotto le ascelle. Il marchese avèa la faccia sbattuta, silenziosamente disperata. Pàllido forse al par di colèi che se n'era partita, egli si diresse al suo nero cavallo, raccolse le rèdini, montollo. Poi - di galoppo. Nè mai più l'incontrài.
E quella sera, sdrucciolàndomi in nanna, di quanti baci, di quante carezze, oh! mi tempestò mia madre! La mi stringeva a lei, la mi guardava passionatamente e due lagrimone le tremolàvano, le scendèvano per le guancie... Cara, dolcissima mamma - e perché palpitavi?
Panche di scuola
I.
Il grattacapo de' miei genitori stava, come già sapete, nel mio avvenire. Generalmente essi ne ragionàvano a sera, quando, divisi dalla tàvola, babbo schizzàvasi un rèbus, mamma intelucciava, mendava qualche mio tòmbolo e, loro presso, in una poltrona, il vostro amico scrittore se la dormiva. Secondo mio padre, io era uscito a questo mondo apposta per la diplomazia. Egli me ne scopriva credo, la vocazione nelle molte bugie, nelle fandonie, che gli vendevo ad ogni momento ed egli, uomo cui si sarebbe tolto, senza che se ne accorgesse, il panciotto, m'imaginava giojosamente là, dritto, intirizzito, in giubba verdona, spada, calzoncini e scarpette, a dòndoli, ciòndoli, - come un cereo personaggio da fiera - il cuore in saccoccia incartato ed il sorriso stradoppio: mia madre, invece, figlia di un generale, sorella di un colonnello (non oso dir moglie di un capitano, ché babbo non lo era che della milizia civica) vedèvami - intanto ch'io forse sognava di un cavallo di legno a mòbile coda - su un vero e vivissimo bajo, in una montura rossa dagli aurei agrimani, con un pennacchio bianco, sciàbola che ticchettava, brioso, galoppando, mandando in cimberli tutte le gonne del corso. E questo, a propòsito di un brillante avvenire. Siccome peraltro v'ha in ogni cosa del nero - il che, tra noi, egregiamente serve a far risaltare i colori - così, anche un lumacone di uno zio canònico, unto come la ghiotta, tirava sopra di mè a suo modo, somme e moltipliche. Lo spaventacchio! Io ne temeva i baci, biasciosi, tabaccati, come gli scappellotti: intravedùtolo a pena, battèvomela. Ed egli veniva ogni tanto da noi, sempre con un involto di nuove ragioni ch'egli spiegava su pel tappeto, magnificàvane la qualità, il prezzo... In poche parole, voleva ch'io mi scambiassi in un lavampolline. Io! pensate. Con il colletto strangolatojo, colla triste sottana, con l'O sulla coccia!
Ma, foglie - e - frasche! lasciando dir tutti, filosoficamente russavo. A che buono scaldarmi? Senza il mio visto,già, i grandi lor piani potèvan servire a stoppar buchi da toppe. Dunque, se ben volentieri accettavo ogni presente dalla parenteria, sbudellando i bussolotti di babbo, rompendo gli schioppetti di mamma, fondendo le croci, i vèscovi di peltro e gli altri utensili da altarino di zio, quanto a digerire un consiglio, a elèggere una strada, oh! non mi si trovava mai a tempo.
E sì che il brodo in cui mi cuocevo era il sciocchìssimo. Stringèvami una tale ripugnanza per tutto ciò che usciva dalle botteghe del librajo e del cartolajo, una tanta paura che, al muòversi di qualche pàgina, allo strìdere di una penna, davo una giravolta e via. Così, se qualche pagliùcola di sapere spuntàvami ciònondimeno nel ciuffo, lo era a mia insaputa: i mièi parenti ve l'avèano posta con ogni sorta di precauzioni, con ogni fatta di astuzie. Guài me ne fossi accorto! guài. E ne scoperchio un esèmpio.
Ritorno a' mièi cinqu'anni: siedo, in una sala priva di luce, sulle ginocchia di mamma. Di faccia a noi, stacca nella oscurità un quadro di carta velina, luminoso, dietro del quale, babbo è nascosto. Molte e molte ombre vi pàssano... ed uno zoppo che leva e si mette il cappello... e un cagnolino che muove la coda e un soldato che brandisce la spada... e una contadina che fa il butiro e buòi che dìcon di sì e... Ma, ecco un triàngolo - una livella quasi da muratore...
Io ne raccapriccio, ne ho lo stesso bizzarro spavento che coglie, ora, il mio cuginetto Poldo dinanzi a un piatto di gelatina o a un biancomangiare che bùbboli.
- Non volio d'A - grido. E l'A scompare.
E sfìlano, ancora, brave persone... Una donnetta con parapioggia, un ragazzino che corre, due àsini (babbo qui ragghia)... un pulcinella... poi... Tò! un altro intruso. La è una pìccola serpe; par la stanghetta del barbazzale, il gancio della catena del fuoco.
- Niente M - strillo aggricciando.
Il biscio non muòvesi.
- Niente O... niente R - sèguito a strappabecco.
Ma nulla di nuovo... nulla! e perché? Sèntomi su'n materasso imbottito di noci. Mi volgo. Mamma fà un leggierissimo fischio.
- Ah! S! via la S - scoppio allora con gioja. E il serpentello sparisce e la rappresentazione continua.
Per quello che poi riguarda la mia cattiveria, già scrissi a lèttere capitali. Se, alla dolce influenza di Gìa, ella si era per così dire coperta di cènere, ito che fu quel pòvero uccello di passo, di colpo la si sbraciò, io ridivenni un subbisso, e, stavolta, così fuor di misura, con tali caparbietà che sono certo di non aver mai fatto soffrire i mièi, come in quel tempo: nè quando misi i denti di latte, nè quando strafallìi gli esami.
Oh disilluso babbino! Il tuo diplomàtico liquefacèvasi al par di un gelato in una calda festa da ballo, ne aggrinzivano le decorazioni e il vento se le portava: ecco apparire invece un uomo con cappellaccio a gronda, la pipa in mezzo di una barba lunga, incolta, ed un bastone bernoccoluto nel pugno. E intanto, al colonnello di mamma si assottigliava il destriero, diventava di legno, prendendo a poco a poco figura di una enorme scopa, e intanto, lo zio canònico già mi sognava nell'unghie di Tentennino, fatto saltare come un marrone di padella in padella dai diavoletti a coda arroncigliata: stà il fatto che l'eccellente pretone, un giorno, propose a mio padre (e punto ridendo! ) di menarmi - lui stesso - alla Diana... alla Madonna di Efe... di Loreto od anche, di fare fregare le mie lenzuola contro la cristallina arca di San Galuppo, il tocca-e-sana degli invasati.
Babbo, peraltro, avèa la mente ad una diversa esorcizzazione: il collegio. Io, con tutto il rispetto per il brav'uomo, con la màssima voglia di trovar scuse a certe superstizioni di lui, bisogna tuttavia che osservi come, de' due rimedi, il migliore o, se non altro, il meno cattivo, fosse quello di zio.
Diàvolo! essendo tante le gradazioni dei caràtteri quanti gli uòmini, ne dovrèbbero per necessità venire altrettanti sistemi di educare. Se tu, cozzando con un temperamento di acciajo, arrischi - senza frutto - le corna, usando invece di questa tua forza contro ben altra tempra, riuscirài allo scopo con quella facilità stessa colla quale riversi un guanto o ti succi un uovo.
Molti sono degli uòmini i capricci;
A chi piàccion le torte, a chi i pasticci:
e quindi?...
Ne deriva che se un quidam, padre di cinque figli, si ponesse all'impegno d'incappellarli tutti con un solo berretto o di calzarli colla medèsima scarpa, troverèbbesi lo cento miglia fuori di carreggiata - ammessa la quale cosa, chi non vede l'assurdità dell'educazione collegiale? di quell'educazione a suono di campanella che òbbliga il malaticcio o delicato fanciullo a torsi dalle coltri alla stessa prest'ora del suo robusto e carnacciuto camerata; di quell'educazione che costringe lo sveglio e il diligente al passo dei capocchi o trasandati; di quell'educazione che, in sostanza, consìdera i suòi soggetti come altrettante màchine, uscite da una mano sola, dagli idèntici ordigni, e tutte caricate assieme in un dato giorno?...
Ma, rincasiamo. Ben triste, ben lagrimoso fu a' mièi genitori quel punto in cui dovèttero tirar fuori un'idèa già covata da lungo, dovèttero confessarsi cioè, che per il loro figliuolo era necessario, indispensàbile... un collegio. Tieni per certo, piccoletto Gustavo, che, se tu addolori, quando sei castigato, i tuòi ne sòffrono ancora di più.
Ma, fatta la grande risoluzione, importava comunicàrmela. Si titubò. Mamma e babbo accarezzàvano moltìssima fede intorno alla mia delicatezza, a' mièi sentimenti - essi, dunque, non mi parlàrono di collegio se non dopo un labirinto di andirivieni, un monte di storie, se non presentàndomene l'imàgine attraverso un nebbione di cioccolatini e di giuochi. Pur s'ingannàvano. Io era innamorato del nuovo, del cangiamento, io; per la qual cosa non mi grattài un minuto secondo la nuca - accettài; accettài con tanta facilità, così liberamente, di slancio, che, ne' mièi arcibuoni parenti, al timore di afflìggermi, al piacere d'avermi persuaso, subentrò una scontentezza profonda pel mio cuore di stoppa, la mia ingratitùdine.
Ed io, approfittando della circostanza, domandài loro una nuova carriola.
II.
Infine, ivi bene a un mese, venne il dì posto, quella mattina freddotta e poco appresso il Natale in cui il carrozzone della famiglia, verde chiaro o, piuttosto, sporco, greve, vasto come lo richiedeva il guardinfante di mia bisàvola (ché esso avèa condotto dalla Germania al nonno di babbo la baronessa di Staubibach sua sposa) stette, con le nostre due spelacchiate rozze dai finimenti tre quarti corda ed uno corame, davanti alla gradinata ed attese. Noi, tutti e tre, allora, vi ci rassettammo; la frusta die' il primo chiocco, i cavalli il primo scappuccio.
Nel luogo verso il qual trottavamo era un ben avviato negozio di scienza che andava sotto il nome del professore Proverbio, un degnìssimo uomo, imbastitore di una gramàtica e di una antologìa di brutte lèttere; due libri che gli avèvano fatto ottenere la croce di cavaliere e la immortalità sul gran dizionario-ricatto de' viventi scrittori. Proverbio e la casa di lui, mio padre, li avèa conosciuti a propòsito di certe botti di vino loro vendute e ne restava invaghito: rivìstili gli s'impiombàvano le simpatie.
E in verità, se la bottega non la poteva chiamarsi di prima classe, non lo era nemmeno di terza, oltre di che piantàvasi un cinque miglia solo distante da noi, incantinava del vino eccellente (e babbo se ne teneva) poi... In poche parole - ecco una gazzetta: La voce del gran S. Bernardo:
- Il professore cav. Giosuè Proverbio - essa stampa nel MINESTRONE DELLE NOTIZIE - per soddisfare ai desideri di questa colta città - (e mette lo stesso il commendatore Marfori, prestigiatore) - volle - a ragione di tanto - sagrificarsi alla gioventù fondando un Collegio-Convitto ùnico nel suo gènere. La posizione ne è eccezionale; il locale, il più confortàbile... Trenta professori, senza contare i bidelli, un'impiallacciatura di ogni scienza a prova di tarlo, letti al sicuro dei centogambe, catechista senza pidocchi, infine... - l'occhio perspicace di un padre, la mano premurosa di una madre - e - quattro piatti a tàvola, frutta, formaggio, con un bicchiere di vino. -
Il casamento era isolato. Rassomigliava, in complesso, a un dado immenso. Tègoli rossi, gelosìe verdi. Intorno intorno, gli correva un murello, interrotto qua e là da ingraticolati a pilastrini, sui quali - fra alcuni vasi a fiamma di pietra - aggomitolàvansi di que' barocchi nani in arenaria che già facèvano, dalle risa, saltare i bottoni agli adorati panciotti de' cavalieri serventi, e, dalla paura, abortire le loro damine; - e - dietro al graticcio, vedèvasi sgambettare, dar alla palla, altalenare, tuttoché sur uno strato di neve, un nùvolo di fanciulletti. Aperto il cancello, la nostra berlina svoltò lentamente: accompagnata da un bracco, che festosamente scodinzolava e faceva bau bau, giunse per l'inghiarato a un peristilio psèudo-greco-romano.
Tutto brillava, scintillava ad uno schietto raggio di sole - le vetriere del fabricato, le gronde, le banderuole di latta, la piastra Assicurazioni incendi, la soprascritta del'Istituto (lèttere d'oro su fondo turchino) cioè; Collegio-Convitto prìncipe di Gorgonzola, e - sotto - la testa calva, fregata quasi con chiara d'uova, gli occhiali e l'aurea grossa catena dell'orologio su raso nero del direttore-proprietario medèsimo. Il quale, rotondo come una mortadella, dal frontispizio fiorito, olïoso, con un solo cerchio di barba intorno al mento, pavoneggiàvasi là, tra due colonne del pòrtico, per avvertire a' suòi scolaretti e insieme godere di quella finestrata di sole - le gambe aperte, le mani in saccoccia, scuotendo e riscuotendo soldoni. Proprio, a modo di un albergatore di campagna: non gli mancàvano che il berretto, il bianco grembiale e, in giro, nell'aria, un profumo d'arrosto.
Come peraltro ci scorse, cessò di fare la ruota. Fu lui che ne sportellò la carrozza e scese lo smontatojo, che offerse il braccio a mia madre e trasportò mè a basso, che infine, ricevuta rispettosamente da babbo una stretta di mano, si prese il piacere, anzi l'onore,scambiando ad ogni uscio smorfie e cerimonie pel passo, di condurci al suo studio.
Oh! che studio: il più lustro ch'io vedessi mai! Salvo che nel soppalco, macchiato da certi segni che parèvan di tappi e di zaffate di vino, io mi specchiava dovunque; e nelle pareti a stucco e nel pavimento alla Veneziana - a propòsito del quale domando io se è un gusto davvero quello di stare sempre lì lì per ròmpersi una vèrtebra - e nei mòbili a lùcido e in due gran busti di gesso verniciati da marmo (Cicerone ed Orazio) dal lusinghiero, innocentino sorriso... Ipocritoni! E il signor Proverbio ci avvicinò delle sedie coperte di sdrucciolèvole pelle - sedie cedèvoli come toppi di legno. Un po' di gonfiatura, poi, la porta si schiuse:
I° a un servitorello, tosato al par di un barbino in primavera, che entrava reggendo un vassojo con aque concie, parte giallògnole e parte rossigne;
2° ad una donnuccia vestita di una lanetta, sorella, credo, alle due tende tessute a farfalle dello studiolo - una donnuccia che avèa della chinesina e pei capelli strappati all'indietro e per gli occhi a màndorla e per la tentennante andatura, effetto, là in Pagodìa, di piedi strozzati entro scarpine di porcellana; quà, di qualche osso fuori di casa.
- La è la nostra massaja! - esclamò il direttore pigliàndola per un dito e presentàndocela come il cavallerizzo fà di una Miss sfondatrice di cerchi incartati.
- Mia moglie... Gemma. -
Inchino generale: altra incensata. Mentre tìtubo ancora a fare la scelta tra le due sorta di aque tinte, il signor Giosuè, battèndomi una spalla, vuole ch'io lo inscriva pel mio più buono amico; la signora Gemma, toccàndomi l'altra, promette di pettinarmi ella stessa: tutti e due dilùviano in tanti punti di esclamazione, in tante lodi che sembra non àbbiano, se non per mè, edificato il loro collegio. Proprio come il Dio delle scalette trapuntò il cielo di fiamme a passatempo dell'uomo e seminò i pòpoli per quello di pochi frustamattoni, i rè.
Ma - quando il nostro becco fu molle ed ai Proverbio aridì - desideràndolo babbo, ci alzammo a visitare la fàbbrica. E lì, allora, vedemmo una grande cucina col suo cuochetto in bianco, con la piatteria e il rame in cui dava il sole, con un odore di caffè tosto, un borbottamento nel caldajo; e poi, vedemmo il lungo mangiatorio dai muri pitturati a convenzionali paesaggi (giardino con lago, cigni e tempietto; bosco con eremita...) dalla volta azzurra, a nuvoline, ròndini e due lumiere appiccàtevi - più - con sopra le finestre e le porte, dipinti a combutta, libri, calamài, cocòmeri, penne di oca e pezzi di formaggio; in sèguito, la librerìa, la pollerìa, il gabinetto di fìsica, le scuole, il dormitorio... In una parola - tutto.
Quanto a mè, cercavo attentamente i luoghi del castigo. Mio padre, mi ricordavo benissimo, me li avèa descritti, quando non esisteva peranco la probabilità ch'io li potessi temere, come degli orrìbili buchi. Li cercavo ora dunque e, avvisando, nel traversare un androne, ad una lunga fila di porticine, chiesi al direttore, se i famosi in-pace del collegio èrano quelli. Egli sorrise; babbo si tenne la pancia.
- Sì, sono - fece quest'ùltimo.
- Vero? - E vènnemi una matta voglia di curiosarvi. Ne diserrài uno... Scscsc... ciaach... che fumo! Che puzza di tabacco pipato!
- Ah! i por... - gridò Proverbio arrossendo (e spinse, incatenacciò l'usciolo) - sempre così, i domèstici! - aggiunse verso di noi.
Sottosopra, peraltro, i mièi rimàsero soddisfattìssimi. Come poi indirizzàvansi alla carrozza, si affrettàrono di lasciare al direttore i loro complimenti sinceri, cui egli rispose accollando a babbo un pacco di descrizioni del suo spettàbile collegio (ivi litografato sotto un certo punto di vista da somigliare una reggia) ed io - in questa - promettèndomi essi, fra i baci e le làgrime, di venirmi presto a vedere, li avvertìi, di non farlo, se non con molti giuochi e chicche... Fu il mio ùltimo addìo! O cattivìssimo Guido! Ma allorché la verdechiaro berlina si mosse e le cricchiò sotto la ghiaja ed essa svoltò e poi scomparve dietro al murello di cinta, io mi sentìi improvvisamente solo;ciò che prima mi era sembrato sì lucicante - le gronde di latta, le vetriere, l'aurea catena di Proverbio - appannò; io mi trovài in un abbandono, in un malèssere tali, che stetti a un filo di còrrere appresso a chi mi rubava il mio raggio di sole.
III.
Senonché, il direttore imponèndomi la sua pesante mano càrica di anelli, si era pigliata possessione di mè.
- N'è vero? - domandò egli nel rimorchiarmi in casa - noi, siamo già amiconi... Vostro padre mi dice che voi imparaste poco più di niente... Ebbene, risponderemo, tanto meglio! Ad una torre di pòrfido, da costruirsi, non sèrvono fondamenti in stracchino. I fondamenti, cacciàtevelo in testa, sono il capo essenziale... Certo, lo si capisce a occhio, voi siete un buon bimbo... Le scappatelle non mèttono conto. Dunque, lasciate fare al tempo e a noi... Noi, dal signor contino Guido Etelredi caveremo fuori qualchecosa di... di bello; ne caveremo un, un... - e, con quel bocchino che mòstrano i bachi da seta guardàndosi attorno, cercò il che cosa per l'aria. Pur non trovando: - Che porta! - riattaccò con un'alzata di spalle. - Voi, Etelredi, avete anche il diritto di non far nulla... Siete ricco, voi - e sospirò. - Lo potess'io! -
E quì un secondo trombamento di fiato. Impensierì, o parve; poi, scuotèndosi come per cacciare una mosca importuna:
- Intrattanto - disse - andiamo alla vostra scuola. Non per studiare, ora: per assueffarci al suo ambiente. -
E fummo alla III CLASSE.
Ivi, il più chiuso silenzio. E' vero che nel toccare la soglia del corritojo che vi menava, èrami sembrato uscirne una chiuccurlaja, un pestìo, ma, chi non lo sa? pòssono suonare gli orecchi: anzi - suonàvanmi - inquantoché il direttore continuò il suo passo con la prima e greve misura da catapulta e inquantoché - aperto l'uscio - demmo in una così severa, orgogliosa àula che ne intirizzivan le lingue. Io, machinalmente, mi bottonài.
La sala era ampia, a volta, con una canna di stufa, che, innalzàtasi a zigzag, la traversava, e, dalle pareti a sola rinzaffatura; quella di faccia a noi, bucata da tre finestre; l'altra, alla dritta, con suvvi una gran carta d'Europa di poche parole (pei negligenti, muta); la terza infine, con una mènsola di falso marmo, che riguardava il mezzo della corsìa tra i due òrdini di panche e che portava il busto in gesso, verniciato di verde, spolverizzato d'oro, dello stesso Proverbio - una perfetta insegna da macellaro!
Ed appancate, quante differenti testine! Là, una riccia siccome i trùciuoli del legnajuolo e castagnina chiara; quà, una arruffata, dal capello aspro e castagnina oscura; presso, una bionda, a ciambelline, vera matassa di seta; poi, una nera, ingommata, lustra al par di uno stivale (se lustro) in sèguito, tre cimate, una rossigna... E quanti diversi nasucci! ... arricciati, a peperone, aguzzi, i più... incipienti... E quanti vispi occhiettini! grandicelesti, piccolineri, grigi che ammìccano, verdògnoli; quì, a lunghe ciglia, bassi come que' di una mònaca; lì, strabuzzanti, da coccoveggia: o tondi come un duecentèsimi, o a sfenditura da caldarroste.
Il pettinatore morale di tutti questi ciuffetti - un fuseràgnolo alquanto scorretto di gambe, bircio, senza un pelo al labbro quantunque se lo carezzasse soventi e con un cinque o sei dozzine al più di capelli, tuttoché studiasse che la penna d'oca (in verità poggiata su di una molto visìbile orecchia) parèssegli ficcata nella capigliatura - si avanzò allora verso di noi.
- Signor cavaliere! - diss'egli chinàndosi a Proverbio.
- Stava forse dettando? - dimandò costùi vedèndogli in mano un foglio.
- Appunto, signore... La lèttera pel capo d'anno... ai parenti. La sua. Ne siamo, anzi, alla fine.
- E la finisca dunque - fece il direttore. E a sè tirò il seggiolone del maestro, vi si acconciò, poi, mi offerse un ginocchio. L'altro, accavalciàtosi l'occhialetto sul naso:
- Bene - disse, cercando col dito sul foglio - siamo restati a... a...
- Vita lunga e sempre lieta, la quale... - pispigliàrono i fanciullini.
- La quale - seguì il maestro - sarà coronata... da un èsito fortunato...
- Non per Mazzi, peraltro - osservò il direttore, accennando ad uno scolaretto che, invece di scrìvere, picchiàvasi con le dita a pizzico le gonfie gote. (Risa e movimento).
- Fortunato, ove il Signore assecondi... le preci mie; punto e virgola - Ed io farò... ogni... pos-sì-bi-le onde...
- Le preci mie? - Domandò un ragazzino in arretrato.
- Punto e virgola - ed io farò ogni possìbile, onde... - ripetè il maestro - onde rèndermi sempre più degno di CRÈDERMI Vostro - VI majùscola - af-fe-zio-na-tìssimo... ob-be-dien-tìssimo... - e mèttano o figlio, o nipote... o pupìllo... a seconda della persona cui scrìvono. Poi, il nome...
- E la data - compì Proverbio.
Si udì un susurro, uno stropiccìo di piedi per tutta la scuola: la è scorbiata... aah! Il direttore fece un gesto coll'indice.
- Bandinelli - disse - il vostro dettato -
Si dipancò un tomboletto, tondo, grasso e bianco come un pan di butìro - venne, e porse la sua carta da torta a Proverbio. Il quale vi mise gli occhi.
- Ahi, ahi... - notò sùbito - uno... due... tre... Tre o chiusi! in una sola linea!... E queste? le sono enne? le sono u?
- Ma il calamajo... - cominciò il bambino articolando con aspirazione.
- Sòlite scuse! Il calamajo! la penna, che rende grosso! ... Come, se noi, i rè del creato,le copie autèntiche di Dio, dovèssimo ubbidire a de' materialissimi oggetti! Cangiate scrittura, Bandinelli mio caro. Non sapete forse che nel caràttere calligràfico s'intravede anche il morale? Questo che voi possedete, sporco, ingarbugliato, è da arruffapòpoli, da testa balzana... già, guardate... non un puntino alle i, non una spranghetta alle ti!Bandinelli, procuràtevene uno, pieno, rotondo, ciccioso come la vostra presenza... E non è vero - aggiunse voltàndosi alla scolaresca - anzi! è falsìssimo che gli uòmini grandi scrivino alla maledetta. Migliaja e migliaja, ben in contrario, annerìrono le loro pàgine col più bel inglese del mondo... La è, Dio santo! questione sine qua non di buon gusto! - e a tale propòsito si pulì il naso con un moccichino stampato a cattedrali. - Poi, l'arte, non stà in quel che tu dici, ma nella forma che tu gli dai. Un bianco-mangiare in pappa, sentenza questa del Gran Luigi di Francia, ti sembra meno gustoso di uno che ti si porti a tàvola, ritto... E, di gente illustre con bella calligrafìa, ve ne potrèi citare un barbaglio... Fra gli altri... fra gli altri - quì si grattò un orecchio - Io, per esempio, ho nello scrìvere una mano eccellente... eppure - e riabassò il naso verso la inchiostrata di Bandinelli - senza vantarmi... stampài! -
Egli, leggendo a mezza voce, faceva il roco mormorìo d'un calabrone in un fiasco. Ma, a un tratto:
- Ah! Bandinelli - uscì a dir con rimpròvero, dando un buffetto al fogliuzzo - la vi in mandarvi si riferisce ai vostri signori parenti. Pure, qui non vi ha la majùscola! E perché mò? e il rispetto? -
Il ragazzino sbirciò il punto accusato:
- E' non è a capo - osservò.
- E i vostri parenti non lo sono forse? ribattè il direttore con un grosso sorriso - a capo della famiglia, eh? - e, come se avesse fatto uno stupendo trovato, ne gongolò tutto.
Nessuno proprio rideva.
- Ma che progressi, le lingue! Ora le si piègano adogni qualunque bizzarrissima idèa, rièscono ad esprìmere i nostri più astrusi concetti... Se, fortunatamente, non capitàssero di tanto in tanto delle brave persone a rattenerle per le sottane... già... perché ogni troppo è troppo... Dio sa, a lasciarle còrrere a che diàvolo giungerèbbero! E a dire, mièi cari figliuoli, che l'uomo, il linguacciuto, lo sballone di adesso, non imbroccava, una volta, una sola parola; che, per comunicare altrùi i suòi più importanti pensieri, dovèa valersi di segni, di grugniti, di suoni imitativi?... Teltel (pioggia) balbettàvano gli antidiluviani con un sistema assài sèmplice, gnamgnam (cibo) da cui deriva il nostro magnare, zaf (sputo) omk (inghiottire). E poi... senza andare fino in Mesopotamia... poniamo che, da noi, quando, non essèndovi ancora nè azoto nè ossìgeno, si usava dormire la notte fra i rami o sotto gli àlberi... poniamo si rompesse il collo... una mela. Cadendo, essa, naturalmente, levava un rumore... quale? - quì egli appoggiò allo scrittojo un tale gran pugno da darne un balzo al signor maestro di terza ed al polverino - pu... um. Ed ecco, quelli del luogo, chiamare così il frutto staccàtosi; ecco, in sèguito, modificàndosi, ingentilèndosi la loro lingua, procèderne dritto dritto il nostro vocàbolo: pomo.
- Ma, e se fosse caduta una pera? - fec'io, senza soggezione, il dubbio. Proverbio si sconcertò un istante. Nessuno avèa mai opposto alle sue sesquipedali baggianate; tuttavia, riavùtosi e, ad ogni buon conto, tappàtami con un manuscristi la bocca:
- Il pero - disse - è una pianta moderna. -
Poi, si alzò: gli scolaretti, egualmente.
- Questi - mi avvertì egli allora nell'indicarmi lo spilungone che poco prima dettava - è il signor maestro di terza. E sarà il vostro, Etelredi. Lei poi - aggiunse - carissimo Ghioldi, favorirà di avere molta e molta pazienza, qui, col signorino... È figlio del conte Carlo Etelredi... Molti riguardi, capisce?
- E quando non ne ho forse avuti? - domandò Ghioldi, arrossendo.
- Eh! non si scaldi. Ella, fraintende. Dicevo di andare adagio col ragazzo... nient'altro. Bisogna abituarlo, al lavoro, ma,lentissimamente. N'è vero, Guido? - e mi offerse una manata di caramelle.
- Grazie.
- Dunque - continuò egli ritirando, spazzata, la mano e con l'altra sfregàndola come a frullar cioccolata - siamo intesi. Guido, obedienza. Ragazzi mièi, gramàtica e calligrafia. -
Quindi, partì.
IV
Io, sgranocchiando i confetti del direttore, mi era seduto nel seggiolone di lui. Ghioldi, uscito quello, mi si appressò, mi fe' una carezza e: siate buonino come siete bello - mi disse. - Ora, dò il còmpito ai vostri signori compagni, poi, faremo due chiàcchiere tra mè e voi. - Detto il che, giustàndosi l'occhialino, riappuntò il naso alla scolaresca.
La qual scolaresca continuava a tacere: dopo la pioggia rimane un po' di frescura. E questo, a mè, quel follettino che conoscete di già, pareva enorme, miracoloso; io non riusciva a persuadermi che de' maliziosi visetti, come scorgèvane tanti, potèssero non fare d'occhio nemmeno - Che sìano tutti ammalati? - pensavo - quando... Ah! lo giurerèi - quantunque egli si avocasse a dire: no, no - fu quel ricciuto, fu quello nel canto di destra, il primo a lanciare una pallina di mòllica. Naturalmente, ne vènnero quà, risa; là, una pispilloria all'indirizzo del colpito, poi - ecco l'esempio! - una seconda pallòttola, altri susurri, altri risetti, un leggier scalpiccìo, e il tonfo (casuale? ) di un dizionario. Via via, il rumore si accrebbe: dopo qualche minuto mi ero tranquillizzato del tutto sulle condizioni sanitarie de' mièi nuovi compagni. I cari quietini! balzàvano su e giù nelle panche come i salterelli del pianoforte; uno, buffettando e battendo sull'intavolato coi piedi, imitava il vapore; un altro anatrava; chi faceva di castagnette; chi zufolava... alla sbrigata, ciascuno si cavava i suòi gusti nè più nè meno che se al posto di Ghioldi stesse invece piantato un portamantelli.
- Signori - pregava intanto il pòvero appiccapanni - un po' di silenzio... sol per mezz'ora... Scrivano...Conjugare i verbi: io mangio, bevo e... St! cari... fate un po' l'agnellino... -
Si udì un piagnoloso belato.
- Zitti, dunque. Da bravi... I verbi: io mangio, bevo e... Lah! santo Dio! Gori... ma tenete a casa la lingua... -
Gori si levò. Era un lasagnone di un fanciullotto cròi e grosso, vestito di un panno giallo; un panno, come fischiàvasi, e come lo provàvano i buchi dei chiodi, fòdera dismessa di una qualche carrozza.
- Eh? - interrogò egli con una di quelle voci, ràuche, sempre infreddate, che aggrìcciano i nervi
- Vi dico di tacere... cribbiani! - ripetè impazientito il maestro.
- Ma io dormiva - esclamò sbadigliando il ciccione - io mi sognava, io... aah - e cadde pesantemente, facendo le mostre di riappiccare il suo sonno. Ouf!
- E tùppete! - gridò in falsetto un màmmolo nel rovesciare, colto da gioja improvvisa, l'atramentarium sul libro del suo vicino; il che, con giudizio statario, gli procurò uno scapezzone.
Ghioldi si avanzò bruscamente:
- Dunque, non volete finirla? - disse, e le sue mani tremàvano. - Devo proprio condurvi dal direttore, devo?
- Chi? - rimpolpettàrono percotitore e percosso sporgendo i due musini crucciati.
Lo Spolveraccio guardò con disperazione la volta.
E io - in questa - mi trovava nella più diffìcile delle posizioni. Viaggiando il mio sguardo continuamente dallo scrittojo alle panche, se davo ne' fanciulletti che mi solleticàvano con gli occhi, e nei loro gesti burloni, nei dàddoli, negli sberleffì, io, un frùgolo al pari di essi, mi sentiva il morbino, non me ne potevo tenere, ridevo, mi divertivo... Ebbene - di botto - la mia allegrezza la diventava di pane caldo, nello scontrarmi in Ghioldi, nello scontrarmi in quella pàllida faccia, senza speranza, avvilita, con pelle pelle, lì per scoppiare, il pianto.
O disgraziato diàvolo! Fà veramente pena, indispettisce il pensare che un uomo come Ghioldi, sì onesto, sì ingenuo, amante del suo dovere e dei bimbi, riuscisse a cambiarsi nella grand'oca di carta di una scolaresca. Pur, che volete! stretto da una timidità che avèa del lepre, soprannaturale (già, perché, rasentando i quaranta, arrossiva ancora come una fanciulla di quìndici) con una fibra sì frolla da giravoltare a guisa di una tafferìa per un solo bicchiere di Asti - egli era sempre pronto a presentare il collo a chiunque mostrasse desiderio di sovrapporvi un giogo. Ghioldi era uscito da quella forma in cui si stàmpano quelli èsseri a contorni nebbiosi, nè originali nè copie, in conto di senza-idèe, non che veramente non ne possèdano qualcheduna, ma inquantoché, non avendo bastante coraggio di buttarle insieme a quelle degli altri nel gran caldajo del pùbblico, finìscono per sempre acconsentire come giapponesini di porcellana.
E tò - succedeva di castigare un ragazzo? un monello, il quale gli avesse nascosto de' pezzi di legno nel letto, ovvero prizzàtagli la tabacchiera di pepe? - egli, al momento dell'esecuzione, imbietoliva, rammollava... alle corte, si lasciava andare a carezzare il vispo malizioso visino.
Imaginate il lecchetto! Non dico, no, che si rimèttano le cordicine alle fruste; val più, imboccata a tempo, una caramella che cento tirate di orecchi. Pure... pure abbisogna modo anche nel distribuire le chicche - per iscansare le indigestioni. Se Ghioldi, poi, pareva curarsi poco della sua dignità personale, pensate i fanciulli! essi acquistàrono doppia briglia di quella che loro egli avèa concessa, gli guadagnàrono la mano e... Da qui staccossi una filatera di quelle brutte cose, che se istintivamente ci òbbligano un sorriso (perché un granello di cattiveria l'han tutti) danno, ragionàndoci sopra, i brìvidi; da quì ne venne una tal fama di straccio per il maestro di terza che gli studentelli, i quali dovèano entrare nella classe di lui alla rifioritura dei grisantemi, volgèvano già nella mente, guardando, attraverso i vetri, la neve, quali sorta di burla gli avrèbbero allora accoccate.
Nè solo i ragazzi. Ogni uomo è il guancialino da spilli di qualcunaltro; Ghioldi lo era di tutti: fra i molti, dei Proverbio. Infatti, essi sfogàvano sopra lo sfortunato l'aceto loro; il primo se la prendeva con lui quando non trovava il cappello, quando le costolette - sua colazione abituale - mancàvano di osso; l'altra apriva un diavoleto, se lo zùcchero che egli le comperava (ché molte fiate quel pòvero cacio tra due grattugie, fidando alla direttrice noi, correva ad eseguire le commissioni di lei - il che ci seccava oltremodo per il naturale manesco della facente funzioni); se, dico, i rottami di zùcchero che egli apportàvale èrano piuttosto otto che nove come l'ùltima volta, se èrano quadrati, non tondi...
- Dunque - quì osserva il mio amico Perelli - che serpeggiava nelle vene di Ghioldi? Latte?
- Ah! no, non dir questo - chi può contare le sue segrete trafitture? chi,le làgrime gocciàtegli nel silenzio di una notte?... Pure, l'abitùdine - quella ladra tiranna che già faceva crèdere lo sciaquamento delle bocche a tàvola, una pulitìssima, una elegantìssima usanza ai nostri padri (eccetto, intendiàmoci bene, a colùi che, pesce nuovo, si trangugiò la sua aqua tèpida) quell'abitùdine che noi persuade, valzando o polcando in una soffocante saletta, di divertirci; che fà dindonar le campane e boare i Tedeum pei colossali assassinii; che... ma taciamo! - ribadiva Ghioldi sulla sua sedia rovente, gli chiudeva a lucchetto le labbra: l'èssere sempre stato posposto al gatto di casa fino da quando, ragazzo, cadeva affamato, in làgrime, ma non osava allungare la mano alla panattiera, toglièvagli ogni speranza che si mutasse un giorno per lui il triste scenario... Poi - bisogna notare, sottosegnarlo - Ghioldi si era famigliarizzato alla propria soffitta e, per un uomo che non conosce un parente, che non incontrò mai un amico, che non ha tampoco amorosa, conta molto la càmera. Avrèbbegli sofferto l'ànimo di vedere diversamente accomodati gli oggetti che la disabbruttivano? oggetti, raccolti uno per uno, dopo lunga bramosìa, lenti sparagni, e una pazienza da scultore di nòccioli?
No, no, cari mièi. Là almeno, fuori dall'abbaino a mezzogiorno, veniva su allegro il bel geranio purpureo da lui allevato; là infine, quando egli più non reggeva, senza farsi scòrgere, al martello della passione, quando gli si gonfiava la strozza, poteva - con un giro di chiave - divìdersi dal nemico mondaccio. E allora tasteggiava un'affannosa armònica: dalla sua spalla intanto, una tòrtora caffè-e-latte, dal collare nerìssimo, pasceva in lui gli occhiettini.
Tuttavia, la è curiosa come - a mondarla - la maggior parte de' tormentatori di Ghioldi, cioè i ragazzi, non la si trovasse proprio cattiva. Guardate, a mo' d'esempio, Bobi Carletti, un segaligno al par di un chiodo di garòfano, dall'intelligente grillare dell'occhio, con una capigliatura, come la zucca, indomàbile. Bobi, è vero, ammattiva il malsegnato maestro, gli guastava il pranzo, facèndogli, lui solo, mangiare tre quarti delle sue unghie e per il volere sempre rimèttere la palla di posta e per il tuono bravatorio e per la strana mulàggine, ma, diciàmolo, Bobi - con questo - era d'un cuore stragrande. Lasciando stare ch'egli tirava giù, a una gran parte di noi, i conti,che ci rendeva mostosi, ci fagianava i componimentucci,io, un giorno, lo scôrsi strappare dal limitare di una porta, con rabbia, una corda a nodo scorsojo, insidia al maestro di terza, e, colto da questi e interrogato in propòsito, lo udìi rispòndere che chi l'avèa tesa era... lui.
Così, suppergiù, Betto de-Ciflis - un pacchiarotto rossiccio, dal naso arricciato come quel del mortajo e dall'andatura da pellicano; il solo, che portasse orologio e catena d'oro e, all'ìndice, un grosso anello d'argento; Betto che dalla sveglia al coprifuoco, sballava prodezze di caccia (su bricche a camosci, in selve cupe a cinghiali) e misteriosi incontri con ladri... Ebbene - tuttoché a lui si formàssero facilissimamente nelle polpute guancie le fosserelle per ogni scherzo accoccato a Ghioldi, tuttoché ei vi mettesse anche lo zampino non rado (come allorquando si ritrattò sulla lavagna il praeceptor con coda, corni, e tridente) pure, dite, poteva egli èsser chiamato cattivo un fanciullo che lagrimava leggendo Il pòvero Pill di Raiberti; che ruppe il graticcio ad una gabbiata di passerotti promessi sposi con una polenta; che infine, un giorno, giustamente appresso il Natale, sorpresi regalando una bracciata de' suòi nuovi balocchi al figliuolino dell'ortolano che singhiozzava in vederli?
Nulla del tutto - nè più del bajardino Bobi Carletti nè men di Ciapìno Girelli suo amico. E questi - del tempo e della stampa mia - se era il bellissimo dell'intero collegio (grandi occhi azzurri, colorito di mela appiuola, dal velluto di pesca) era anche il più disùtile, il più fracassoso... Fra noi, in verità, egli non si chiamava Girelli, nome della madre di lui, sibbene Pochetti; come tuttavìa il nòbile dei due sembrava il primo - ché la mamma, trinciando capriole (mo, perché ridi, zio Cecco?) metteva insieme migliaja di auree piastricine - così gliel'affibbiàvano colla spruzzaglia di sagrestia. Ed è per mamma che il nostro Ciapino teneva nelle gambette l'argento vivo: la smania di dimergolare i chiodi dai panchi e di cifrare i colli alle camicie de' suoi condiscèpoli, per chi, non so... Ciapino vinceva, con le diavolerie, mè e tutti; a lui importava un càvolo l'esprimere le proprie opinioni a voce alta in iscuola, il russarvi, il regalare ai compagni, presente il direttore stesso, botte e spettinature. Quanto peraltro a' suòi studi, non ne era al corrente; sapeva di far la terza - niente di più. E, ve', che caràttere! Se al mio primo impancarmi, egli scrivèvami il seguente viglietto:
«TU!
«- 'Sta mezzanotte, io (che sono il mago) ti verrò a prèndere col forcone; ti chiuderò in capponaja, ti farò venir grasso, poi ti butterò in un caldaro - e ti mangerò...
il quale viglietto mi diè' qualche apprensione, due giorni dopo, com'io andava in cerca di una penna d'acciajo, egli, senza mèttervi su nè sale nè olio, mi rovesciò dinanzi lo scatolino di Goro Sàiler il diligente, giuràndosi per mio amicone e, in prova di questo - nè molto stette - picchiò ben bene Pino Lamberti, che, motteggiando sulla mia confusa scrittura, dicèvala: brughiera di Gallarate.
V.
In poche parole, buoni, i mièi nuovi compagni lo èrano... Alto là - stavo per mèttere tutti, il che sarebbe stato bugìa. Tutti non lo èrano, buoni: ci avèa uno (uno solo, peraltro; quel Daniele Izar ch'or mi storceva la lingua) il quale dava la volta alla non cattiva bottiglia.
Se adesso poi io vi presento questo Daniele come un marmocchio costruito coi gòmiti, con un viso da tromba, non crediate già che lo faccia per convenzione, per quella brutta ruffiana che t'imbastisce in quattro agugliate un lavoro e che qui scrive: tiranno (moda antica) peloso più d'una còtica, occhi injettati di sangue, sia guercio e zòppichi - oppure - tiranno (moda odierna) il «Falconiere» di Tranquillo Cremona - no, è puramente perché và rispettata l'istoria.
E infatti - a voi. L'avreste avuto forse per bello, per simpàtico, un coso con due grosse e corte gambe, con mani larghe al par di guanti da scherma; che vi mostrava una faccia vizza, quadrata, lentiginosa, il color rosso di cui si agglomerava ne' mille bitorzoletti di un naso schiacciato e la cui bocca mangiava quasi gli orecchi ? un fanciullo che, conoscèndosi ricco, andava sopra di sè, incamatito, arrogante? Si-i ? - Allora vi tolgo il saluto.
E, non miglior della crosta, il pasticcio.
Vizi ve ne son molti, ma alcuni non ribùttano affatto; a mo' d'esempio, la superbia, la prodigalità... Ebbene, quelli di Daniele èrano invece i più bassi, i più schifosi, come la vendetta, l'avarizia, l'invidia.
Del resto, amici mièi, io voglio scusare il pòvero bimbo: a questo mondo, cattivi proprio, non vi si nasce, no.
Vi dirò dunque che la mamma di Daniele perdette la vita nel darla a lui e che per questo, ei, strapazzato da mani indifferenti, e pena e pena, sparse nella sua infanzia tutte le làgrime che gli èrano state concesse e fece il callo al dolore. Quante volte, di notte, in quella stamberga in cui la crudeltà di un padre l'avèa esigliato, quante volte - nel mentre che il guàttero, suo compagno di stanza, russava a spaventarne i sorci - Daniele, atterrito da un sogno angoscioso, svegliàvasi all'improvvisa e, sollevàndosi dal pagliericcio, poggiando al freddo muro l'accesa fronte, ascoltava con un trèmito, le avvinazzate voci che gli venivano dall'appartamento di babbo!... quante volte anche, dopo di èssersi fatto vicino al cuoco e di avergli detto: ho fame - cacciato dalla cucina, ricoveràvasi nell'anticàmera presso la sala da pranzo, per appostarvi i domèstici che ripassàvano còl selvaggiume scarnato, coi manicaretti in ruina; per domandare loro (e quasi sempre invano) timidamente la roba sua:
- Un morsellino! un solo spicchio di frutto! -
Senonché il padre - per fortuna! - morì. Sulle braccia di chi cadde allor l'orfanello? Ei tombolò nel grembiale di sua nonna paterna, una riccona detta la Contrabbandiera, vèdova di un mercante di olii, la quale, scandolezzata per la birba vita del figlio, in urta con lui, si era ritirata in campagna a mangiar bile sopra i suòi piatti d'oro... In confidenza, peraltro, la vecchia ci avèa lei pure posto un dito - e non il mignolo - nelle azioni ladre di quel fuggito all'inferno. E in verità, chi, se non essa, legava, la prima - colla cunetta - in capo del suo Peppino, l'idèa dell'onnipotenza del dio Mammone; quell'idèa che aduggia sì facilmente ogni nòbile istinto, che impoltrisce coloro i quali potrèbbero, scansando la faticosa lotta contro il bisogno, giùngere ancora pieni di forza e di entusiasmo al loro ideale? Ed anche - non era stata ella forse che proibiva al bambino di trastullarsi co' figlioletti del portinajo perché vestìvan frustagno, che non gli permetteva di spazzolarsi un cappello, che infine lo addormentava, credo, col dolce suono di un dinderlino a marenghi?
Ma - in quella maniera che la signora Izàr, tirando su il figlio così, non s'era accorta mai di storpiarlo - rotte le uova, dubitò manco di avere concorso a rovesciare il paniere: ah! i cattivi compagni - sospirava ella, e si faceva il segno di croce. Tant'è vero che appena la vecchia ebbe a pettinare il nipote (semi-lodiàmola - lo dichiarò suo ùnico erede) volle rifargli l'acconciatura tentata già col padre di lui, il che viene a dire, si diè' ad arricciargli le sòlite idèe di dare ed avere, di superiorità, di pasta diversa, di... Salvo che dal trito cammino si slontanò un pochetto. Siccome Daniele non conosceva una bricia di ciò che il mondo del primo piano sà o dovrebbe sapere, e, pazienza per l'istruzione! ma non aveva ancora vista la coperta nemmeno del libro di messer Giovanni; e siccome la nonna, tanto larga di cassa, era di mano strettìssima; così ella pensò di porre a bagnomarìa il nipote per qualche tempo entro un collegio, dal quale, egli - ricevuta la prima lessatura - passerebbe a condirsi nelle zampe di lei. La scelta pignatta stava non molto lontano... Ve'! ti affumicheràj, Daniele: vai fra chi incensa al vitello d'oro.
E quì, mi dispiace osservare come in generale, noi, caviamo volontieri il berretto dinanzi a un riccaccio. Pare che l'aureo trìpode basti a creare l'oràcolo; al dovizioso, il miglior posto a tàvola, al dovizioso una turibulatura continua, turibulatura poi, nòtisi bene, da parte di gente che non ha da sperare (nè spera) di far a mezzo con lui, di rosicchiargli almen qualche cosa.
E invero - che diàmine, mai, Daniele, di giunta alla paga, dava al Proverbio? Ma neanche un mazzo di tordi. Esso contàvagli le sue ottocento lire della tariffa nè più nè meno di Gervasoni, il figlio del calzolajo, il facitore di pensi. Ed il Proverbio, che poteva da lui impromèttersi? Nulla, ripeto. Finiti, o dato un taglio a' suòi studi, Izar prenderèbbesi la porta non gli lasciando che de' ricordi morali, qualche panca scolpita, o, tutt'al più, le sue care sembianze da rompinocciuole, in fotografìa. Pure, Proverbio, smarriva la testa nel giallo splendore del denaroso discèpolo, vi si spappolava entro, chiamava Daniele il suo cucco; gli avrebbe, se chiesto, regalata la sua dentiera perché si spassasse a sconnètterla. Ed era bello, sapete, il vederlo questo gran direttore, quando la domènica, svoltava nel giardino il tiro a due della ex-mercantessa, quando i due servitori in brache di felpa rossa, panciotto verde, àbito pavonazzo, precipitàvano dal lor ballatojo, sul quale tenèvali la fame ed una boria crudele... Che spreco d'incenso! che su e giù di soffietti! ... Proverbio produceva una flessibilità da meravigliarne Arlecchino; ei si piegava, ei si piegava e naturalmente allora quello scimmiotto di un Daniele rinveniva, gonfiava come un pane biscotto inzuppato.
A noi tuttavia le arie e il pieno borsello d'Izar non facèan nè caldo nè freddo. Noi, son ben contento di poterlo cantare, non avevamo per anco aquistata la vera aggiustatezza de' modi e de' pensieri civili; noi, ignorantìssimi d'ogni scienza sociale, non pensavamo proprio che fra de' pìccoli èsseri, con musi e corpicciuoli tanto quanto simili, fòssero delle differenze, delle insuperàbili sbarre; quindi, l'onorèvole mozzicone di uomo, sebbene a casa sua mangiasse con posate d'oro sodo, riceveva in collegio - quando ne era il caso - al par d'ogni altro ed anche più (ché li meritava spessìssimo) i tient'a-mente, pur sodi, cui la scolaresca giustizia lo condannava. Bene - guardate un po' che faceva allora l'ometto. Ei, non potendo abboccare il can grosso, volgèvasi stizzoso a mòrdere il barboncino senza difesa - giustamente, Ghioldi.
E' vero che, in sulle prime, Izar, lavorando di straforo, aveva con spionaggio e calunnia cercato di accomodarci in salsa brusca; è vero che cominciò anche a far spuntate le lagrimone a qualche puttino d'intorno i cinqu'anni, stuzzicàndolo per trovare un appicco di dargli una graffiatura, una dentata o di strappargli un riccietto, ma, nei due bei tentativi, non avèndosela passata liscia, toglièvasi tosto dal terreno malsano e andava là dove veggeva il bello di tribolare, con sicurezza, uno... Uno,cioè Ghioldi. E contro questo pòvero màrtire, tutto ciò che una diabòlica o a mèglio dire malata imaginazione riesce ad arzigogolare, fu da lui messo in òpera (ne salto le particolarità), gli indurì insomma, alla nascosa per mesi e mesi, cotanto il suo tocco di pane, che un altro, nuovo al dolore, ne sarebbe rimasto strozzato...
E qui - con simìl collegio e tali maestri e compagni - io vi trasporto di botto, o carìssimi, fino alla metà circa di luglio. Quanto al perché, èccolo:
VI.
Il sole se ne scappava a dormire, cioè a parlare più esatto, lo si argomentava dall'orologio, ché, con un sì fitto tendone di nubi, sfido voi a vedere la Maestà Sua aggropparsi il cuffiotto, e porre il roseo ginocchio sull'imperiale tàlamo: noi, intanto - colti da un temporale improvviso, a radi goccioloni, a rèfoli che facèvano bazzucare i frutti sugli àlberi, lamentarsi i camini, ed atterràvano i vasi di fiori - avevamo dovuto cambiare il giardino con uno stanzone a primo piano, stanzone che serviva un po' alla distribuzione de' premi, un po' a distèndervi le patate e, dal quale, per una porta in un canto ed una scaletta a chiòcciola, giungèvasi, presso il fienile, alla cameruccia di Ghioldi. Lì poi - siccome il Proverbio e la Proverbia èrano, per una visita di gala, scarrozzati via e siccome il maestro di quarta signor Fagioletti, cui essi raccomandàvano di aver l'occhio ai fanciulli, se l'era svignata del pari, sperando che quello di terza (il quale succiàvasi sotto le travi la ùnica orettina sua)scenderebbe al baccano - così, per i cinque minuti, rimasti soli, i mièi compagni (io basso matto, ma ci ho una buona ragione) si affacendàvano tanto, a còrrere, a trambustare le sedie, a sbraitare, che, a pena, udìvasi il rimbombo della partita a palle, giuocata là in alto a lume de' lampi fra Gambastorta e l'àngelo Gabriele.
Io, tuttavia - ne stupirete certo - non scalcagnàvami, non vociava; ben in contrario, mi tenevo nel vano di una finestra, immòbile, insensìbile alla chiassata e adocchiando machinalmente, con un capo della tendina in bocca, le gràndini che, sul tetto della rimessa risaltàvano di tègolo in tègolo, e le foglione delle pòvere paulonie che si stracciàvano, rompèvansi, cadendo a coprire i sentieri. Egli è che cominciàvanmi allora i tocchi di una malinconìa dolce, profonda, la quale, come non vi sarà nuovo, strìnsemi violentìssima poi e da cui non mi rifaccio che ora.
Di tempo in tempo essa mi si serrava alla gola - giusto quando la coda del micio ingrossava - e alle gelate carezze di tale donna, pàllida, dai capelli nerìssimi e dagli occhi eternamente sbattuti, cose e persone di una volta, a strato a strato, mi riapparìvano. Io, per esempio, in quel punto ricamminnavo coll'ànimo per una viuzza inondata dalle troscie dell'aqua, con la mia Gìa a braccio; ella succinta, infagottata in un paladrano disgocciolante, da uomo; io reggendo a fatica un gran parapioggia di cotonina rossa, mentre, intorno a noi ed a Nencia, la quale ci sgambava dietro calzata di malta ed arrabbiando sotto di un ombrelletto, la diluviava... Noi tornavamo da una cascina non molto lungi di casa dove eravamo stati a vedere un vitellino neonato... babbo non lo sapeva... e, come l'aqua che ci sorprendeva colà, continuava a flagello nè sembrava in voglia di smèttere, avevamo risolto pigliarla. Ah! come rideva di gusto la piccolina serràndosi a mè, come mai Nencia, tutta a schizzi di fango, si affannava a gridarci: ma adagio... vojaltri! Madonna santa! adagio.
Io non posso proprio dirvi, quante volte - stando così appensato - m'illuminasse il baleno e tentellàssero sotto al mio fronte i vetri pel bombare del tuono, nè fino a quando avrèi viaggiato ancora gli spazii, allorché, di colpo, una strappata alla mànica mi tirò su questa gòcciola di plutonio, nell'anno mille ottocento e... puntini, alla metà quasi di luglio, entro il gabbione dei signori Proverbio... Fu un vero salto mortale: io, aspramente, mi volsi.
La notte era calata e una candela di sego, sopra una scranna, bruciava fumosamente. De' mièi compagni (tutti zitti com'olio) alcuni si movèvano quà e là in punta di piedi; altri, con i ginocchi piegati e le mani su quelli, tendèvan gli sguardi allo spazzo.
- Ciòe - tentommi Primetto Levi - guarda, Etelredi... - Ed io, seguendo la mano di lui, scorsi nel mezzo del camerone la tortorella di Ghioldi.
Essa veniva innanzi, lentamente, a onde come le fèmine doppie, veniva non sospettando nemmeno che tanti cuoricini, intorno a lei, galoppàssero.
Pure la sua illusione fu breve. Al tonfo di una palla di gomma scaraventàtale presso e al susseguente scalpicciare dei nostri impazienti pieducci, ella restò, battè impaurita le ali, poi, a pìccoli e presti passi andò a nascòndersi sotto un mucchio di panchi.
- Dalle, dalle! - gridiamo, a squarciagola, tutti.
- La pitturerò io di verde - strilla Gigio Righetti, il proprietario di uno scatolone a colori.
E lì una ruffa. Chi sale su di una panca chi ne cimbòttola giù... spinte, urti, un fracasso che assorda...Ve'! alla rinfusa come un sacco di gatti. Ma la inseguita riesce sul cornicione. Silenzio di pochi momenti: ella crèdesi in salvo...
Bah!
- Eccola! - fà Maso Gìanelli - saltando ad una lunga scopa da diragnare ed agitàndola in alto. E la poveretta, sloggiata dal suo rifugio, và, smarrita, a starnazzare nell'àngolo che l'uscio della porta di Ghioldi - mezzo aperto - forma con la parete... Un craac, quasi in quella: Daniele Izar si era poggiato all'imposta, di peso, calcàndola contro al muro; Daniele ghignava a tirar schiaffi e piedate.
O pagòde malvagio!
Io non so, invero, che gli sarebbe allora toccato se lo stupore non ci avesse tenuto le mani e se il maestro di terza, lui stesso, non sopragiungeva - il maestro di terza con un candeliere in mano, sulla soglia, cercando come qual'cosa e interrogàndoci, inquieto, coll'occhio... Ma noi stavamo zitti, paurosamente zitti. Fu una risposta? - Certo. Egli si fece aggrondato e, intorno, lento, con insistenza, quasi volesse scolpirci fuori il segreto, girò lo sguardo... E questo fermossi sul canzonatorio sembiante d'Izar. Ghioldi ne ebbe un sobbalzo; depose il candeliere; avanzò la mano verso il braccio di Daniele e, risolutamente dicendo: di grazia, signore - mutogli, con una giravolta, posto. E l'uscio allora, sgravato, si slontanò dal muro da sè, si slontanò sospirando... Taccio quello che scorse Ghioldi: quello che noi vedemmo, fu lo stranìssimo cambiamento nella figura di lui... Rosso come una fràgola, gli lucicchiàvano gli occhi a guisa di talco, il corpo gli si era drizzato; pareva, tutto insieme, quasi un bel uomo. Con una furia che ci fe' impallidire e mise in volta il piccolo Ciccio Cardella, egli andò col pugno stretto sopra il cattivo riccaccio e...
Toccollo? - Non credo. Izar, vista la mala parata, lasciàvasi cader come un gnocco: Ghioldi - in questa - allentàndosegli a un tratto il furore, spaventato Dio sa per che cosa, cacciàvasi ne' capelli le palme e, gridando: che ho fatto! che ho fatto! - fuggiva.
VII.
Due giorni dopo, scendendo poi per la ricreazione trovammo la berlina a otto molle della vecchia Izar dinanzi al pòrtico - con i suòi grossi e grigi quadrùpedi e con quel certo ghirigoro a cifre sullo sportello il quale la ex-venditrice di olio voleva che, almeno alla lontana, rendesse tanto quanto aria di una corona. Come era dì non festivo e come, attraversando la sala, non udivamo la parola «denaro» (ammirate buona circonlocuzione per dire che non vi sedeva la mercantessa) così ci guatammo l'un l'altro ed aspettammo, con batticuore, una tempesta. Infatti, al comparire del direttore insieme alla Izar, come più arrogante pareva costèi! quanto più leccascarpe, quello! - La dama, scorgendo la sua cara tristizia di un Daniele, se la chiamò vicino, e:
- Non t'offenderanno più, mia oliva - disse; poi, dritta come una stecca da bigliardo, con un teatrale sussiego, salì il montatojo. E un servitore chiùsele impetuosamente dietro lo sportello; un servitore che, a rischio di fiaccarsi il collo, intanto che i due robusti Meclemburghesi dàvano la scappata, si arrampicava presso al tranquillo auriga, crèmisi più de' suòi calzoncini.
Clang... un tocco. Noi, sparito il nostro pane, consumata una mezza suola, torniamo alle panche.
Che fastidiose, pesanti due ore!
Ghioldi, il quale, ciò che noi vedemmo, avèa egli pure visto e ne sospettava il doppio, cercava inutilmente di dissimulare la sua emozione; ché il libro tremàvagli fra le mani e la lingua gli si storceva ad una folla tale di abbagli... di grossi abbagli, che, se noi fòssimo stati nelle condizioni sòlite, ce ne saremmo preso il più matto spasso del mondo. Ma - anche noi - ci sentivamo indisposti; il nostro ànimo era del pari mortificato; Betto, l'ammazza-sette-stroppia-quattòrdici, non gonfiava nessuno; Ciapino stàvasi mogio; Bobi, ingrugnatello... insomma, un così perfetto silenzio affreddava la scuola che, benìssimo, si udiva tratto tratto il malizioso scricchiare e stroppicciar delle palme di quello sguercio d'Izar e più ancora distintamente ci venne - tuttoché barbugliata - la timida voce di Rico Guinìgi della classe prima (un piccinino vestito alla Scozzese, con ghette e gambuccie nude, che bubbolava sempre pel freddo) quando, mettendo il suo grazioso visetto nell'àula, disse:
- Signov maestvo, il divettove la vuole. -
Come impallidì Ghioldi all'annuncio! Die' intorno intorno una sbigottita occhiata, poi, bottonàndosi convulsamente, uscì.
Che avvenne allora tra il Proverbio e lui? Giustamente no'l sèppimo mai, non lo sèppimo quantunque di noi, due (su, confessiàmolo... io e Beco Grimaldi il figlio dell'offellajo) codiàssimo il dimandato, non arrestàndoci che a faccia di ròvere.
E là usciolammo. Non ci giungèvan che suoni: avrèbbero potuto dir tutto come le campane.
Proprio - in sul principio - il colloquio pareva tranquillo; pareva che la posata voce del direttore intavolasse questioni e che la trèmola, da pìffero, di Ghioldi pacatamente opponesse - ma, a un tratto, ecco le lingue andar fuori di squadra, incalzarsi i punti interrogativi, crèscere gli esclamativi e... una bestemmia.
Vero è che, sùbito, il parlare si ricondusse alla prima chiave, ma questo fu come pel salto - in cui si prende rincorsa. A qualche nuova arrischiata frase riappàrvero le esclamazioni, vi si accompagnàrono le ingiurie, le cose di fuoco, i colpi di pugno sopra la tàvola... una completa lite, in sostanza.
E, violentemente, si spalanca la porta (mancò poco che ci stramazzasse), si spalanca a Ghioldi che, con gli occhi fuor dalla testa, smaniando:
- No, no - grida - neanche un minuto; - ed a Proverbio, il quale, rosso come un papàvero, sudato come una caldaja:
- L'ha tempo - esclama - giovedì venturo... domènica... -
Ma Ghioldi non vuole udire una sìllaba - scappa...
E Proverbio, rimasto sul limitare dello studiolo, dopo un gesto sdegnoso, un mìmico: va, t'accoppa! - tanto per ripigliare contegno, dà una strappata d'orecchi al pòvero Beco.
VIII.
La sera medèsima, Ghioldi partiva, con gli occhi gonfi, il suo vaso di geranio su 'n braccio; dieci anni d'inùtili fatiche, di tribolazioni sul dosso. Egli partiva, malandato in salute, con la farina a' capelli, troppo timido per aprirsi nuovamente fra i mille una via, troppo metòdico per potèrvisi, riuscendo, abituare. Com'egli passava vicino a noi - noi traevamo a salutarlo - di colpo chinassi verso chi gli stava più presso (io) stampando un caldìssimo bacio.
- Per tutti - singhiozzò egli, e...
E, quella sera medèsima, Daniele Izar si ebbe la sua buona merenda... Pesche duràcine! se l'ebbe.
La Principessa di Pimpirimpara
Ah! bene. L'uscio non avèa cricchiato. Io lo aprìi soavemente e, sulla punta de' piedi entrài nella càmera ratenendo il respiro e facendo, colla mano, intoppo tra il lume e il viso del mio fratellinuccio, di quel caro bottone di rosa che, tranquillo, là, nel suo lettino càndido, dormiva semiaperte le labbra. Come i mièi stivaletti sbrisciàvano sul lùcido pavimento della sala, il pèndolo avèa scattato e, dopo un breve e sordo ràntolo, con voce argentina sonava. Le tre! Quale straora per uno sbarbatello! Ve l'assicuro, in vita mia non m'era peranco occorso vedere che faccia mai mostrasse il mondo in sìmile freddo punto, in cui, nelle lunghe silenziose vie, le làmpade s'illùminano solo reciprocamente - tant'è vero che, nel rasentare l'ampio specchio della sala, gricciolài scontràndovi una figura e, con inquietùdine, guardài se, proprio io,dovèa èssere quel giovinetto pàllido che con un candeliere veniva verso di mè... in grigio sopràbito... calzoni neri... guantato e cravattato di bianco, il cilindro su'n occhio. Il cilindro! In quella stessa giornata me l'avèvano imposto: fu una delle prime càuse della sua memorabilità.
Il come
Io mi sedeva giusto a tavolino fra le dòdici e un'ora, non so se istroppiando i mièi pensieri entro un sonetto o imbrodolàndoveli di aggettivi, quando mamma, avanzàtasi cheta cheta nella stanza depose davanti a mè un... chissà-mài... incartato di azzurro.
Io levài la testa. Ella sorrise: Èccolo. -
Al papa i versi! Gettài la matita e, d'una mano febrile, tolsi dalla cappelliera un cilindro incamiciato di carta finissima, svolta la quale, scoprìi un cappello, nero come inchiostro di China, lùcido più di un bicchiere molato. Calcàndomelo in capo corsi al mio consigliere di vetro, lo interrogài...
Uuh! a primo tratto ne fui malcontento; mi smaltì l'entusiasmo. E, certo, la rabbiolina mi trapelava sul viso, perocché, mamma, premurosa, mi disse:
- Bibì, non istizzirti. Il cappello nuovo, vedi, è un arnese cui ci bisogna assuefare. Domàndalo un po' alle donne! sentirài. E ci vuole anche l'assieme, Bibì...Una cravatta pulita, una giubba elegante, un panciotto... -
Io disarmadiài di furia i chiesti abbigliamenti: mamma andò a chiamare babbo.
E questi venne, poi sopragiunse una vecchia prozia, in sèguito la cuciniera: tutti ad una voce - salvo nondimeno Giorgetto il quale borbottava che il mio berrettone da mago gli metteva paura e giurava sfondàrmelo, così acquistando un severo: ciarlino! e rincantucciando poi con greppo e broncio; - tutti, dico, conchiùsero che un più gentile cappello non l'avèvano mai, per lo innanzi, veduto; che noi eravamo creati l'uno apposta per l'altro; dalle dalle, me ne convìnsero tanto, che, dimèntico affatto de' versi alla Luna e non curando quelli del fratellino, uscìi a passeggiare fino a dì basso. Su tale soggetto - giova avvertirlo - ho poi cangiato di idèe: le idèe, a fortuna, sèguono la sorte delle ossa. Allora peraltro (quattr'anni or fà) quantunque ghignassi imbattèndomi ne' collegialini dei Barnabiti, i quali in lunga fila scarpinàvano al Duomo schiacciati sotto de' cilindroni senza un'ombra di grazia, tenevo ciò nondimeno il fermo convincimento che il salubre cappello - dico salubre rispetto ai colpi di canna - se dotato di una certa curva alla moda, felicissimamente si adattava (diàvolo di un periodo a qual confessione mi meni! ) si adattava a un giovinotto, come mè - già, capirete che per tracciarmi almanco la dirizzatura dovevo ricòrrere allo specchio - un giovinotto - làh! modestia a parte - bello.
E mi fu, tale cilindro, origine di un grande avvenimento.
Era per mè, proprio nel ritornare a casa con lui, che l'avvocato Ferretti, il mio patrino, attraversava la via.
- Guido - egli mi disse fermàndomi - stasera mia moglie fà ballare. Sai... una torta, una bottiglia di vino spumante e quattro salti. Etichetta, zero. Vieni. Vi ha molte e molte belle ragazze che attèndono un cavaliere. -
Io gli opposi che babbo avèa la sera stessa seduta e che, quanto a mamma...
- Corpo delle Pandette! - esclamò l'avvocato ridendo ed appoggiàndomi su' na gota un schiaffetto - E tu? che hai, tu? Non hai gambe, a caso? Poh! Un giovinotto in cilindro! -
Io arrossìi fino alla sèttima pelle: stringèndogli la mano, lo ringraziài.
Bene - fui al festino... Ma, alt! Prima di proseguire, è d'uopo ch'io vi presenti la spiegazione - intraveduta forse, pel buco della serratura, da qualcuno di voi - intorno a fatti toccati di già e, per sopramercato, vi unisca altre poche parole, affinché quelli che seguiranno spièghinsi da loro medèsimi a voi senza nuove postille.
Casa e persona del vostro amico scrittore
Circa la prima, sappiate, i mièi carìssimi, che ora gli occhi della nostra pèntola vedèvano un'altra gola di camino, ben più stretta, ben più lunga dell'antica; vedèvano la cappa di una città. Babbo, con tutta la sua economìa, non pagava più tasse sopra la maggior parte delle possessioni di casa (due anni, pensate, che si tagliava, per così dire, il frumento colle cesoje e lo si stendeva a seccare nei cassettoni! due anni che si vendemiava coi panieri da calza!) babbo dunque, affittato il poco avanzàtoci, tasta di quà, tasta di là, giungeva alla fine a trovarsi un buon impiego nella vicina città qual segretario in una pùbblica amministrazione.
Del rimanente, il trasporto della nostra pignatta, lo avrèbbero richiesto anche i mièi studi. Non era ancor l'anno dalla partenza di Ghioldi, che, scivolato al grosso Proverbio il piede su que'pericolosi suòi pavimenti, rompeva a sè il collo, a noi canarini il graticcio - quindi - non più maestri, non libri! ... figuràtevi... già minacciavo una ricaduta nella poltronàggine e nella cattiveria. Ma venne la risoluzione di babbo: noto che nel vagone che ci trasportava alla città, noi occupavamo quattro posti; nel quarto si adagiava una paffuta balia con un naccherino tutto polpa alla cioccia, un naccherino che i mièi genitori avèan potuto mèttere insieme nei mesi quieti di mia lontananza.
Quanto a mè, allorché sollevài la portiera nel raccontuccio presente, correvo il mio quindicèsimo: ero a pena sgattolajato dal ginnasio e cominciavo ad arieggiare l'uomo con barba. Ora, oltre a lavarmi e pettinarmi ogni mattina e, qualche volta, la sera, facevo gran consumo di saponi, manteche, pòlvere d'ìreos; attaccavo molta importanza al nodo della cravatta, alla freschezza dei guanti, all'arroccettatura delle camicie; ora importafogliavo i mièi biglietti da visita, intaschinavo un bell'orologio d'oro, con catena d'oro, dòndolo d'oro - indispensàbile per tener sbottonata la giubba - ed ora, come mi era messo tutto alla via, in punto, comparivo sul corso con una giannetta in mano, fulminando degli occhi le tose.
In confidenza, peraltro, osservo che sùbito li sbassavo e facevo lo gnorri se mai qualcuna mi reggeva allo sguardo... Che rabbia! E in questo, volere o no, saliva a galla ch'io era peranco bambino, in questo e in molte altre cose, ché - sebbene ora mi guardassi dallo sostare dinanzi le mostre de' baloccài - pure, le sbirciavo vogliosamente, impromettèndomi di sfogarmi a casa sotto pretesto di trastullar Giorgio e, tuttoché non mi andasse che mamma dicèssemi: Bibì o Guidino -alla presenza di forestieri, a quattro, anzi a sei occhi, accomodàvomi sulle di lei ginocchia e le parlavo con un vocabolario di parolinette graziose, inintelligibili a tutti - fuorché a noi.
Principiavo dunque, intenderete anche, a ingarbugliarmi in quella matassa di stùpide convenzioni sociali più geroglìfiche dei due bottoni che i sarti cucìscono dietro ai sopràbiti e càusa della maggior parte delle nostre pìccole miserie... Dio! quante pene io soffersi per esse. Tra le altre:
I° un terribile mal au coeur,avendo, come me lo si offriva, accettato e stretto fra i denti con disinvoltura un lungo zìgaro di Virginia - acceso;
2° una spellata di gola e due giorni di letto, regalàtimi da un fortìssimo punch, da mè coraggiosamente ordinato, in cambio dell'abituale aqua aranciata, trovàndomi in un caffè con mio cugino Tiberio, capitano di cavallerìa e vero imbuto di ghisa;
3° infine; i mille ed uno fastidi pel cangiamento di voce. Vi accennerò solo a quel dì in cui, entrato nella sala dove sedeva zia Marta con la signora Baglioni e la figliuola di questa - la quale, i mièi compagni, avèano erroneamente per una mia fiamma - avvisando di dare il buon giorno, m'inviài su 'n tuono, cupo, profondo, e finìi con uno sì acuto, con una stonatura tale che Dora si portò il fazzoletto alla bocca ed io mi morsi le labbra.
Ma la cosa sulla quale mi preme condurre, più che su ogni altra, la vostra attenzione, come quella che apre la ragionìssima del presente racconto, è il completo riversamento nel mio naturale. Certo, molti di coloro che mi conòbbero spensierato fanciullo, vivendo giorno per giorno, allegro come uno scrìcciolo, me ne vorranno forse, perché io mi ripresenti serio, riflessivo, alle volte triste, ma, oltre che i fatti son fatti, avverto come il modificarsi, il mutare de' gusti sia inerente all'uomo, anzi, secondo mè, costituisca uno de'suòi principali caràtteri. Mio padre, da pìccolo, sentivasi fuggire l'ànimo alla veduta solo di un pezzettino di zucca: ora, ne mangerebbe entro il tè. Non poteva dunque - su via morale - ripètersi un tale caso a mio riguardo? E, invero, la melanconìa che Lisa coll'ùltima stretta di mano mi gettava nel cuore, si era a poco a poco inspessata e fatta morbosa; mi avèa condotto ad almanaccare, a - come babbo diceva - perticare la luna, scoprèndomi uno strano regno di spìriti ch'io non sospettava manco esistesse; un regno, se di diffìcile entrata, d'impossìbile uscita.
E ciò avèa fortemente scossi i mièi nervi. Sotto il chiarore del fantàstico mondo, le cose del materiale mi si colorìvano al doppio. Lodàvami, a mo' d'esempio, il maestro? trac... io mi trovava balestrato nel salonone degli esami, dinanzi ad una tàvola col tappeto verde e con sedùtivi tre personaggi (cravatta bianca, marsina, decorazioni, sorriso paterno) de' quali uno porgèvami un libro in rosso ed oro. - Oh! grazie - e tutto intorno scoppiavano applàusi. Così; pigliava una febbrolina a Giorgio? Madonna! scorgevo sul letto di lui il lenzuolo segnare le forme di un corpicino instecchito, scorgevo lì a fianco una cassa aperta... della segatura... fiori e chiodi. Da lungi, l'estremo tempello di un'agonìa; dalla stanza vicina, singulti.
Perilqualché, capìto il mio sistema nervoso, torna piano l'imaginare quanto la festa - altro che i quattro salti! -dell'avvocato Ferretti, mi scombussolasse.
Le feste, per chi non c'è abituato, fanno come il vino; mòntano al cervello. Tutte quelle lumiere con specchi che le raddoppiàvano; quel su e giù di gente che s'impacciava reciprocamente il passo, signori vestiti ad un modo e dallo stesso scipito frasario, domèstici livreati buffonescamente quasi come Ministri di Stato, dame mezzo svestite, con gonne di color zabaglione, gàmbero cotto, dorso di scarabèo... di raso, di mussolina, di velluto, con guarnizioni, nastri e fiori di pezza; e quel trimpellamento continuo, monòtono di un pianoforte; que' colmi càlici di falso-Champagne, il tutto avvolto in un'aria calda, polverosa, che t'incollava la camicia alla pelle e ti essiccava il palato, mi avèano ubbriacato del tutto. Al che, se tu aggiungi un pajo di occhi che mi guardàvano fisi fisi, neri, birichini, come quelli della vedovella contessa di Nievo, uno degli astri della città, se... Dio! quando ci penso. Con mè, essa, avèa ballato la maggior parte de' valzi, polche, quadriglie, a mè chiedeva il braccio perché la scortassi alla cena - e le recài io medèsimo lo sgabellino, poi un'ala di quaglia - per mè, in quella sera, le lusinghiere frasette, le stralucenti zolfanellate. Pensate dunque quanto se ne dovesse tenere un giovanottino fuggito appena dal materno capèzzolo, sentèndosi il favorito di un ìdolo dei meglio incensati, vedèndosi su la di lui nera mànica il più rotondo sodo avambraccio che mai portasse smaniglie! Sarèbbene, fin un dei sette, impazzito... E proprio ci avèa motivo: nè più nè meno che per certe tosuccie dalla corta vestina, le quali, in quella stessìssima veglia, èrano - da un bel luogotenente degli Ussari, dai mostacchi biondi arricciati - tolte, non so perché, esclusivamente a piroettare.
Da parte mia, m'abbandonavo, a una èstasi tale che sono sicuro di avere commesso a quel ballo, e sùbito dopo, le più majùscole farfallonerìe. Bàstimi ricordare come dimenticài affatto, partendo, di riverire gli òspiti, e come, accompagnata la contessina, giusta il suo desiderio, fino a' pie' della scala e sospirato all'ùltima languidìssima occhiata di lei e vìstala scomparire, ravvolta in un bianco scialle, nella carrozza, presi a camminar verso casa sotto una folta neve senza nemmeno aprire il paraqua, poi, giùntovi, stetti un buon quarto d'ora, frugando e rifrugando nelle saccoccie, prima di rinvenire la chiave della porta di strada, una chiave, diàvolo! lunga dieci centimetri,
Con tutta la mia agitazione, peraltro, riuscii, come già sapete, fortunatamente, a non far cigolare gli usci e ad entrare nella càmera, non intoppando in spigolo alcuno, nè interrompendo, un àtimo, a Giorgio il suo tranquillo respiro. Entrato, in vece mia, buttài sul letto (dalla solleticante rimboccatura, con due calzerotti di lana rossa al guanciale) la tuba, i guanti, il sopràbito e, punto badando alle palpebre che tiràvano a chiùdersi, mi lasciài cadere su di una sedia presso alla tàvola, sopra la quale avèo allogato il lume e a capo di cui - basso il tendone - piantàvasi un teatrino portàbile, delizia di Giorgio ed anche spesso mia.
E lì, poggiài sulla tàvola i gòmiti: fra le mani la testa... a scoppiar bolle di aria.
Che tuttavia contenèssero mai, mi duole, mièi cari, di non potèrvelo dire. Punto primo: egli è impossìbile di imprigionare - salvo che dentro un rigo da mùsica - certi pensieri che fra di loro si giùngono, non già per nodi gramaticali ma per sensazioni delicatissime e il cui prestigio stà tutto nella nebulosità dei contorni: un tentativo di abbigliarli a perìodi con il lor verbo, il soggetto, il complemento... so io di molto! li fuga. Punto secondo: avessi io anche la potenza, la quale nessuno ebbe nè avrà mai, di acchiapparli con invisìbili maglie, di presentàrveli come vènnero a me, bisognerebbe che voi, per non trovarli ridìcoli, per non trovarli bambinerìe, foste, leggendo, nella medèsima disposizione di spìrito del loro scrittore. Il che, fra noi, non può èssere. Quando la fantasìa nostra si affolla, quando ci scordiamo di vìvere con pelle ed ossa, un libro - stretto da noi e con amore, prima - ci sfugge inavvertitamente.
Dunque, pazienza. Vi accennerò solo che, alla fin fine, schiacciata entro lo staccio, tutta la biribara de' mièi pensieroni non la filava altro di questo: che l'ingattimento della contessa di Nievo per mè - quantunque mezza-bottiglia - era fuori del forse e che io riamàvala alla spietata... E allora?
- Dormi - consigliommi la polpa.
Bah! avevo trincato troppi romanzi.
- Scrivi - mi vellicò, dall'altro orecchio, l'imaginazione.
Io sobbalzài. Una lèttera, eh? E come ne intravidi l'idèa, di colpo, con quella stessa foga che, pochi mesi innanzi, pressàvami a comperare - venti per volta - le scàtole de' soldatini di stagno, diedi di grappo alla cartelletta, l'aprìi, intinsi nel calamajo la penna... cominciài...
CON...
Ma - in questa - il lume impallidisce e, bizzarri suoni di una metàllica mùsica, sìmile a quella di certi tinnuli organetti germànici, pàjonmi gariglionare dal teatrino che mi stà in faccia: il lume si smorza; voi, fate un sibilo.
Ed al segnale, un luminoso quadrato si forma nell'oscurità. È il sipario, il quale, rotolàndosi, scopre alla slavata luce del magnesio un proscenio... Noi siamo nella magnìfica reggia di Pimpirimpàra: colonne, capitelli, architravi, tutto sembra coperto da un'aurea, impalpàbile polve, tutto trèmola, scintilla, crèpita, esageratamente càrico di elettricità. Ed ecco, nel mezzo della scena, su di un lettuccio S.A.R. la principessa Tripilla, una bellìssima bàmbola, in vesta oro ed argento, con un visetto bianco e rosso come una giuncata colle maggiostre, occhi aerini, treccie di stoppa stelleggiate di diamanti. Un groppo al fazzoletto, se mai ne usate, filòsofi! S.A. che mangia lingue di Araba Fenice e inghiotte perle sciolte in Tocài, che dorme su piume di uccelli-mosca e si forbisce con biglietti da mille, ahimè! si annoja pure a morirne. Invano la duchessa di Trich-e-trach - sua dama che le scalda le coltri - si affanna a trillare, a bocca chiusa, le più sdrucciolèvoli poesiuccie; invano la contessa di Piripicchio - la quale, ogni tanto, le soffia il nasino con una pezzuola a merletti - pizzica, su' n'arpa priva di corde, delle inzuccheranti armonie; Tripilla batte sempre, stizzosa, il plumbeo piedino contro le assi del palco: di più: come la marchesa di Chiacchieretta rispettosamente la prega di inanimirsi, di non compromèttere la sua augusta salute, essa, in risposta, dègnasi appoggiarle uno schiaffo. Se la spalmata, che, poco dopo, dalle quinte si ode, intende imitarlo, che Dio ci salvi anche dalle carezze della regale fanciulla.
Ma - taratàntara! - udite clangor di trombe. Ai lieti suoni di una fanfara (cioè di un pèttine vestito di carta velina, e di migliarola entro una scàtola di latta) due guardie, tutte d'un pezzo, dai larghi scudi, si appòstano agli stìpiti di una porta.
E in mezzo a loro, passa il Re di Pimpirimpàra. Esso è un vecchione con barba e zàzzera di bambagia, con una gran corona a gemme di talco, scettro e globo - insegne le quali dàvano, ai sovrani di una volta, maestà, e che ora la danno ai rè de' tarocchi; di più, con un manto d'amoerre celeste, ch'io giurerèi staccato dal cappellino di mamma.
Il per-la-grazia-di-Dio,viene, secondo il sòlito, ad augurare la buona mattina alla principessa figliuola; si avanza verso di lei - non senza distribuire de' pizzicotti alle belle damine d'onore - l'abbraccia e, paternamente, bàciale il cipollotto... Senonché, tosto, si accorge del malumore di S.A.R. - A un padre non sfugge nulla. Se ne accorge, benché le labbra di lei siano scolpite ad un eterno sorriso, e ne domanda la càusa:
- ? -
Risposta: la principessina si annoia -
Si annoja? - Ecco S.M., da babbo esemplare, offrirle un nùvolo di divertimenti: - Vuòi ch'io faccia tarantellare i mièi generali e ministri? vuòi ch'io converta il reame in un parco di caccia, avendo, per venagione, i nostri conigli di sùdditi? -
Ma no. Tripilla crolla sempre la testa con quell'aria che, così bene, segna nei burattini: sconforto - quantunque indichi pure, altra volta: starnuto.
- E allora - sclama salt... restando in bestia la Maestà Sua - và a spasso! ... - Poi - scuote, braccia, capo e gambette.
- Già, andiàmoci... - fà sùbito, ad annaquare il paterno furore, la principessa. E quì, tutti si òrdinano; ricomincia la mùsica, cui aggiùngesi un picchiamento di unghie sopra la tàvola per imitar lo scarpiccio e...via. La reggia imbianca, cancèllasi a poco a poco: dietro di essa, come ne' cromatropi, disègnasi una seconda scena.
Gran piazza; - l'attornia una tiritera di pòrtici; in fondo, chiesa: sul dinanzi da un lato, un albergo con insegna sporgente; dall'altro, un edifizio di carta grigia la cui soprascritta porta: asilo infantile. Sebbene il cielo stia pinto a un immacolato sereno, i signori burattinisti avvisano di rappresentare: tempo cattivo. Difatti, la luce che piove è glàuca, fredda come in una palude: tu, istintivamente aspetti, dalle quinte - un rospo.
Ma s'ode il crocchiar d'una toppa.
Invece del rospo, dall'asilo infantile, esce un collegialinuccio, in tùnica azzurra, il moccichino appiccato alla cìntola, in mano la cartelletta... Erbette in minestra! chi scorgo! Ma sono io, colùi, io stesso. Ecco i mièi capelli ricci, il mio bel naso all'insù, le mie labbra sottili... perfino un certo piccolo neo, alla dritta, sul ciglio... oh oh, chi osò mai?
Rataplan: in risposta, uno stamburamento.
Nasce, da lungi, un rumore simile a quello di molte dita a pìzzico, battute su gonfie gote (cavallerìa in galoppo) poi, il patatà-patatà si moltìplica; mèscolavisi tintinno di sonagliuzzi, squilli di casserole e uno scucchiarìo come di mano che frughi, convulsa, in una cesta di posate d'argento.
Appàjono i primi fanti; ciascuna fila somiglia ad una spiedata di quaglie... E pàssane, pàssane, arrìvano i cavalieri, corazzati in stagnolo; certo, de' cavalieri eccellenti per durarla in sella con i sopranaturali salti, con lo sprangar di calci violento, delle loro gran lepri; infine, su'n elefante, spunta, velata, la graziosa Tripilla, fèrmasi a metà piazza e, dopo qualche infruttuoso tentativo, si scopre.
O sfolgoreggiante beltà! Chi la vede, imminchionisce: agghiàcciasi sotto gli sguardi di lei il pispino di una fontana. Quanto a mè, il che viene a dire... quanto alla mia brutta copia, rimango quasi acciecato, mi si allarga la bocca, mi si sbàrrano gli occhi (avèo movìbili queste due parti, indizio della importanza mia nella comedia) insomma mostro un tal viso abbagliato che S.A. non può non addàrsene.
Allora, ella pispiglia non-so-che nel braccio della sua dama, baronessa Bacheròzzola: un fischio! e, tutto l'esèrcito, l'elefante compreso, dà in un precipitoso movimento; tanto precipitoso che i soldatucci, per meglio còrrere, non tòccan più suolo e - ingarbugliando fili di seta e di ferro - vanno ad ammontonarsi in mezzo alle quinte.
Gabinetto di S.A.R. -Si arreda con molte sedie e con tàvole introdotte dall'alto, si pòpola con le sòlite dame e damigelle d'onore. Entra la principessa: essa va ad accomodarsi, per quanto glielo permèttono le giunture, su' na poltrona. Dopo il silenzio di pochi momenti, in cui spicca il ronzìo addormentatore di una fontana... tac... tac - alla porta.
- Chi è? -
È un messaggiero; quel messaggiero in ferrajolo rosso, dagli sterminati baffi arricciati, che mi recava una letterona stracotta della graziosa Tripilla. Ei viene per annunciarmi; trincia de' minuèttici inchini e... Ma qui gli succede cosa imprevista; nel còmpiere una magnìfica riverenza, stramazza sul palco col suo filo di ferro...
Allora un manone grassoccio, dai tozzi diti e dalle unghie cimate, discende, prestamente il raccoglie: risetto beffeggiatore dietro le tele e la rappresentazione continua.
Rapito il messo, spazzate via le dame, chi,se non io, dovèa squintarsi? E invero, Ego compare nel suo bell'arnese delle domèniche, Ego che, in sulle prime, tremante, incoraggisce poi e comincia a spifferare a Tripilla una pippionata d'amore. Ma quella, con uno sguardo rimuginante, lo tira sùbito fuor di rotaja, lo confonde talmente che Ego,persa affatto affatto la scherma, le si butta alla balza in ginocchio. Poh! e' s'è fritto. Il lontano rumore, che nel principio dell'amoroso colloquio pareva quello di un orologio polseggiante in mezzo all'ovatta, raggiunge il rombo di cento incannatòi, come in cantina; un bolli bolli, uno sfrigolare, un sussurrìo, lo accompàgnano. E tutta la stanza si abbuja: con il cric-crac di cattivi fiammìferi, sègnansi, dissòlvonsi sulle pareti, girigògoli strani - fosforescenti, fumosi. Intanto de' violini, che si èrano inviati sottaqua, s'instràdano in un crescendo. Fuga. Subìscono strappate sprezzanti, rabbiose, che òbbligano certo i lor suonatori a balzar dalle sedie tre dita ogni arcata; - poi - ad un tratto, lampeggio. E nuovamente chiarore. Continuando il frastuono, attorno, nella scena, mi si pertùgiano mille finestre con duemila occhi che guàrdano giù e, da cento porte, una folla di burattini s'incalza, si stiva, risucchia come l'onda del mare. A mè trèman le gambe: tento gridare, non posso. La principessa, in questa, le cui pupille gattèggiano più che più, incorònami un cèrcine, imbòccami un dentaruolo. Generale sufolamento; la piena ballònzola, il fracasso aumenta, aumenta. E... bo-um... un colpo di tamburone, poi, tutto,teatro, ometti di stoppa, luce - in un battibaleno - come una palla di ferro che tonfi in negra aqua, scompare; scompare non lasciando dietro di sè che un forte odore di smoccolatura ed un rintrono da grossa campana suonata.
E io mi sveglio. Ho il corpo indolenzito, la lingua allappata, gli occhi mezzo ingommati. Fò per stirarmi: ahi! - dico, urtando contro la tàvola - che c'è? - Io ne rimango soprapensieri, quindi strasècolo allorché, riuscito tastoni alla finestra e schiusa un'imposta, vedo vestito mè, e il letto, non tocco: quanto all'orologio, accenna alle nove; quanto al mio Giorgio, si dorme pacificamente la sua dodicèsima ora.
Ed impossìbile racapezzarmi; mi affanno invano a cercare. A chi, dunque, ricòrrere?
Perdio! alla brocca.
Difatti, come v'immergo le mani - che unghiella! - e mi bagno la fronte, ecco nella fantasìa ripasseggiarmi, a braccio, la principessa di Pimpirimpàra e la contessa di Nievo. - Mariuole! - penso io tra lo stizzoso e il ridente.
E lì, non posso rimanermi di dare una occhiata dietro al sipario del teatruccio; vi si ammontona un garbuglio di fantoccini: ne volgo un altro alla carta da lèttera posta sopra la tàvola, vicino al candeliere senza candela e colla gorgieretta di vetro spezzata; c'incontro in majùscole, un:
CON...
- Mariuole, mariuole! - ripenso nell'abbeverare la penna. E, perché le due burlone non si gloriàssero almeno di avermi fatto anche sciupare un foglietto di carta, utilizzo il già scritto, seguendo:
CONjugazione del verbo difettivo, gutturale e nutriente: (((( = MANGIARE
E qui mi fermo
L'ora è tarda e i mièi ricordi, pòveri vecchi! son stanchi. Essi comìnciano a ciondolare del capo, a palpeggiar le palpebre, a sbadigliare; essi tèndono a poco a poco a riaddormentarsi in un cantone del mio cervello. Làh! buona notte, carìssimi.
Dunque, vero? potremmo parlar del presente... Ma no. Le gioje e i dolori dell'oggi intòrbidano troppo ancora le aque: lasciamo che pòsino... poi...
Pure, sappiate che, proprio in questo momento, tròvomi nella più gentile, nella più còmoda saletta del mondo. Qui avvampa, crèpita un vivìssimo fuoco e, dinanzi gli alari, barbuglia un fuliginoso ramino; quì, un vassojo con tazze di porcellana azzurra, sullo scodelletto di cui stàccano i pìccoli cucchiài d'argento - insieme alla lucente còcoma del tè, ad una zuccheriera, ad una coppa di panna ed un buon tondo di panettone a fette - ci attende.
A destra del camino, s'impoltrona poi mio padre; egli ascolta colla sua aria bonaccia Giorgio, il quale, accavalciàtogli un ginocchio, si sfoga a contargli le negligenze e le cattiverie del signor maestro di scuola: a manca, sièdono quelle due care ànime nella pupilla di cui, bevo, tratto tratto, le idèe. La prima è una donna di mezza età, pàllida, colla capigliatura nera, liscia, e con lo sguardo accarezzante: l'altra, una fanciulla di quatòrdici anni, dai capelli crespi, come spolverizzati di oro e dagli occhi vispìssimi; quella, la quale avvolge del filo su 'n dipanino, è mia mamma; questa (che, con le mani distese e la matassa allargata, le serve da guìndolo) mia... Una mia cugina.
A rivederci.
Milano, I868.