Carlo Dossi

(Pseudonimo di Carlo Alberto Pisani Dossi)




GOCCIE D'INCHIOSTRO






AVVERTENZA



I bozzetti di cui si compone il presente volume ricevèttero già, in parte, il loro battèsimo tipogràfico nei vari libri che l'Autore sparse fra i suòi amici dal 1866 al 78. Ma altro è stampare, altro è pubblicare. Gli scarsi esemplari, impressi dall'Economìa, rimàsero sequestrati dall'Amicizia; e però questi bozzetti, spannati, per così dire, dagli scritti del Dossi, quantunque tèngano più di un anno di vita, ponno chiamarsi ancor nuovi. Pur, se tali per qualche rado lettore non sono — meglio per lui e per noi! — poichè le opere del nostro Autore non lèggonsi veramente che nel rilèggerle.


L. PERELLI.




PREFAZIONE


Questo libro stava per entrare nel consorzio umano, da solo, senza corriere che lo precedesse ad apparecchiargli l'alloggio, come vi entràvano i libri in quel tempo in cui c'era minor etichetta e maggior cortesia. Il mio Gigi però, che si tiene al corrente del figurino letterario, mi tirò per la mànica, osservàndomi che non vi ha oggi appartamento completo senza anticàmera, e che se in questa il rispettàbile e colto non è fatto aspettare almeno una mezzoretta, si arrischia, noi padroni di casa, di passare — perchè troppo gentili — per maleducati.

— Ed è appunto nell'anticàmera del libro — continuò Gigi — che qualche amico di casa (per es. lo stesso padrone) ha modo di catechizzare chi attende e d'imboccargli la conveniente ammirazione, col decantare cioè le doti dell'autore, i pregi del libro, le difficoltà superate, ecc. ecc. Vero è bene, che nelle lor prefazioni, i romanzieri de' nostri nonni seguìvano tutt'altro stile.

Quella buona pasta di gente pareva temesse di èsser creduta capace d'inventare le più innocenti fandonie, e si vergognasse di scrìvere — dato il caso — de' capolavori. Quando perciò non mettèvano innanzi o un'ampia protesta d'ignoranza od una sùpplica di compatimento, cercàvano di affibbiare le lor fantasìe a qualche babbo d'impresto. Raddoppiando così, per l'affermazione della verità, la bugia, chi veniva a contarci dell'incontro fatto con un vecchio barcajolo, il quale, fra un tuffo di remo e l'altro, gli avèa confidato i suòi bruciori amorosi di quarant'anni addietro o narrata la storia di un sàlice che in riva al lago, piangeva su una romàntica urna, storia e bruciori che l'autore avrà nulla più che trascritti “a sfogo di quegli occhi gentili che àmano il pianto”; chi c'informava della scoperta di un anònimo scartafaccio bucherellato dalle tarme e scompisciato dai topi, dal quale, a conforto dei buoni, a spavento de' tristi, avèa cavata la sua narrazione, non aggiungèndovi altro del suo — osservava modestamente — che i punti e le virgole. Senonchè, oggi, la moneta dell'umiltà, commerciàbile ai tempi in cui Manzoni si affannava ad inargentare il suo oro, fu rilegata nei medaglieri; oggi, tempi di metallo Christophle e diamante francese, non corre che la sfacciatàggine. Se dunque tu hai, a cagione d'esempio, composta una nuova pòlvere contro il prurito o fabricato, poniamo, un cavastivali più complicato di quanti mai sono, guàrdati dall'esitare sì l'una che l'altro per quello che vàlgono; strombazza invece che la tua invenzione ha rimesso la chimica sulle vere sue basi, che la meccànica ha fatto per tè un gigantesco progresso. Se hai stiticamente tortito qualche verso duro o bislacco, giulèbbacelo per la melodiosa eco, da tè ritrovata, della poesia greca o latina, annunciàndoci insieme che, mercè tua, la letteratura è entrata nella sua, non so se quarta o quinta o sèttima rifioritura. Se poi non tieni nè in scienza nè in lèttere il minimo ingegno o sapere, e neppure in politica — purtuttavia non manchi di quella, dirèi, funzione morale, che è supposta in ogni uomo, ossia l'onestà, piglia una dozzina di trombetti e tamburi, và in piazza, e là proclama che l'ùnico galantuomo sei tu, e che ciò è sufficente (anzi ne avanza) per fare di tè un letterato, un dotto, magari un ministro di Stato.

D'altronde, il lettore moderno è meno poeta che critico. Egli frequenta più volentieri le cliniche che non le palestre. Non importa che l'esemplare che tu gli presenti sia d'arte ammalata, basta che egli si accorga che tu sai farne la diàgnosi, che veda il propòsito de' tuòi spropòsiti, che creda che tu possegga, benchè non ne usi, la capacità di guarire. Supponi invece che le òpere di que' portenti di completezza e di sanità cerebrale che fùrono Shakespeare e Dante uscìssero oggi, nude nella loro bellezza, la prima volta al mondo; c'è da giurare che il pùbblico, dovendo, senza alcun preavviso, affrontarne le meraviglie — meraviglie, spesso create in momenti di sonnambulismo sublime — le guarderebbe con diffidenza, e aspetterebbe ad entusiasmarsi che qualche maestro di scuola glien desse, con un preàmbolo illustrativo, licenza. Insomma, si vògliono, ora, vedere i libri col punto dell'imbastito. È un detestàbile gusto, non nego, ma è il gusto della maggioranza. Siamo in China, abbigliàmoci da cinesi.

Di più; una prefazione fatta come si deve, ti risparmia la noja di andar girando per le redazioni delle gazzette a suggerire o scriverti bibliografìe. Per procurarti una buona réclame, non hai che a raccògliere nella tua pattumiera… volevo dir prefazione — la spazzatura… cioè il maggior possibile nùmero de' nomi de' tuòi viventi colleghi in voga e non in voga, citando pàgine di riviste, articoli di giornali, scàmpoli d'ogni penna. Avverti però bene, in qual senso. Si credeva una volta che il miglior modo per ottenere nomèa, fosse quello di lodare altrùi. Non dico che non vi sia del vero in ciò. Il tàcito patto del frico ut frìcas, fu la base, specialmente fra i dotti, di molte celebrità; se tuttavìa, colla adulazione, si và alla fama letteraria in carrozza, vi si và in vagone col biàsimo. Difatti, benchè la tua lode possa rènderti amico e futuro laudatore un collega (non sempre però, chè, a contatto dell'intima soddisfazione che sente di sè qualunque autorello, ogni più fitto incenso par fumo di rapa) essa, nel medèsimo tempo, è d'offesa ai novantanove altri che tu o tacesti o in pari misura lodasti — non di tanta offesa, peraltro, da costituire il cosidetto fatto personale, cioè di farli cantare. Al contrario; il tuo dir corna apertamente di molti, anzi di tutti, ti susciterà intorno un vespajo di recriminazioni. Non vi ha scribaccino che non possa mèttere bocca in qualche trombone o fischietto della quotidiana pubblicità. Tante le accuse, altrettante le difese — ecco il pettegolezzo, o con più nòbil parola, la polèmica. Cento gazzette contro di tè, centomila lettori del nome tuo — ecco, (secondo i prezzi del mercato attuale) la fama.

Con tutti questi vantaggi, non c'è da stupire se la prefazione ha messo pancia e da serva è diventata padrona. È di lei, come fu già della porta. Destinata in origine ad immèttere semplicemente nella casa, la porta non era nè più nè meno ampia di quanto occorreva, e per maggior sicurezza, la si teneva dissimulata. Senonchè, nata la smania delle ambiziose apparenze, la porta fu ingrandita e recata nel mezzo della facciata, acciocchè la folla avesse potuto ammirare il felice che entrava nel suo làuto palazzo. Non bastò questo, ma la si caricò d'ornamenti, e le si accollàrono, a sentinelle sui lati, un pajo di colonne, poi le colonne incominciàrono a slontanarsi dal muro, a maritarsi con altre, figliando un pronao, un pòrtico, ossìa una fila di porte. Un dì finalmente naque un bizzarro architetto, che imaginò una porta senza casa, una porta che conducesse nel vacuo, e si ebbe l'arco di trionfo. Nè la prefazione è lontana da una sìmil vittoria. Mercè i nuovi autori, essa ha già conquistato la metà del volume. Un passo, più oltre, e il libro, ridotto alle pàgine estreme, ne dovrà uscire del tutto — probabilmente, del resto, per rifar capolino dall'altra parte — la prima — sotto le spoglie mentite di una pre-prefazione. Lùnam finiri cèrnis ut incìpiat.

Conchiudendo; la prefazione promette sempre; il libro non mantiene quasi mai: segui dunque la strada più piana, che, in questo caso, è la più vantaggiosa. Nè altro è il segreto della fortuna di tante mediocrità. Incontrerài spesso persone, colla presunzione nel viso e l'àmido nelle giunture, dinanzi alle quali tutti fan largo rispettosamente — chiarìssimi, onorèvoli, eccellenze — i cui nomi salìrono rapidìssimi la scala della stima ufficiale e il cui ozio gràvita sui cuscini più sòffici che può sprimacciare uno Stato. Chi mai sono costoro? Davvero non hanno nome nè Macchiavelli, nè Galilèo, nè Rovani; pur tuttavìa ti si dirà di molti, con un certo quale mistero, che sono gente di vaglia. Embè, che hanno fatto? Precisamente, nessuno lo sa: se dai retta a taluno di quelli incontentàbili che non si vòglion fermare al di quà dei frontespizi, quei bacalari non avrèbbero fatto, nè saprèbbero fare nulla — almeno di buono. Ma, tant'è, il Chiarìssimo ha dato e dà fuori programmi di òpere colossali che tèngono nell'aspettazione e nell'anticipato stupore il pùbblico, nè manca ad ogni nuova questione di letteraria dogana, di scrìvere la sua epistoluccia ai giornali, per dire che esprimerà la sua opinione; ma l'Onorèvole nelle sue gite autunnali che mèttono in moto la culinaria e la polìtica di tutto il paese, disegna, fra un brìndisi e l'altro, piani di universale cuccagna; ma l'Eccellenza, a sua volta, dai banchi ministeriali dà a bere alle Càmere di quel medèsimo vino delle promesse di cui l'Onorèvole ubbriacò gli elettori. Tutti costoro non fanno che prefazioni. Sono bottiglie cattive, spesso vuote, che dèbbono il loro posto d'onore sulla credenza alla pomposa intappatura e alla promettente etichetta: il padrone di casa stà in suggezione dinanzi loro, e, accontentàndosi d'imaginarne i sapori, ripone il cavaturàccioli. O se vuòi meglio — sono pezzi di mùsica della scuola che non ha cuore — dico quella di Wàgner: — il pùbblico, dèdito alla minchionatura, li ascolta con incorreggìbil pazienza, sempre in attesa di una melodìa che non viene mai. E infatti, guài se venisse! Si vorrebbe tosto altra mùsica.

Prometti dunque o minaccia il tuo libro anche tè, ma guàrdati bene dal farlo.”





VALICHI DI MONTAGNE


I


— Sempre diritto — rispose al conte Rinucci il vetturino, indicàndogli colla punta della frusta la bianca strada che, dinanzi a loro, montava, montava, internàvasi in un folto pineto e, serpeggiante ricompariva nell'interrotto fogliame — sempre diritto, voi non potete sbagliare. —

Rinucci consultò l'orologio. Fra una mezz'ora la vettura doveva raggiùngerlo: proprio il solo tempo, stretto e necessario — come aveva già tartagliato nel suo gergo gallo-tedesco il camiciotto azzurro — di affettare una pagnotta alle pòvere bestie, di rinfrescarsi gli arrì! e di attaccare un cavallaccio di rinforzo.

Il conte approvò col gesto. D'un gran passo poi superata la larga striscia di fanghiglia che, nudrita da una sorgentella di aqua, traversava la strada, fermossi all'asciutto, si volse e stette aspettando la giòvine moglie che apparecchiàvasi a smontare dalla carrozza.

Ned essa si fece attèndere a lungo. Sbarazzàtasi dagli scialli e dalle sciarpe che la inviluppàvano, e consegnàtili alla cameriera, succinta la gonna e tolto dal fascio dei parasoli e dei parapioggia, un pìccolo bastone dell'Alpi dal nero corno di camoscio, avanzò sulla predella il più elegante piedino che mai calzolajo avesse avuta la fortuna di stringere fra le palme, spiccò un leggiero salto e, sulla punta degli stivaletti, un po' aiutata dalle grosse pietre che uno sollècito stalliere voltolava per lei nel molticcio, un po' dalla robusta mano che il conte le offriva, senza schizzi di fango, sana e salva, riuscì presso al marito. Tutti e due allora s'avviàrono: s'avviàrono a paro, lentamente.

Il conte e la contessa da circa tre mesi chiamàvansi col medèsimo nome. Il solo amore li aveva congiunti, e se nobiltà e ricchezza èrano, esse pure, intervenute a segnare la scritta ed a mangiare i confetti, vi èrano, credètelo, senza alcun invito.

I nostri giòvani sposi realizzàvano due fra i più spiccati modelli di bellezza italiana: l'uno ricordava la calda tinta di un siciliano tramonto, I'altra la malincònica e smorta di un mattino lombardo. Il conte, col suo corpo svelto e nervoso, colla sua faccia affilata, brunetta, dal naso fortemente aquilino, dai baffi, come i capelli, nerissimi, con due occhi che lucicàvano a guisa di pugnali, palesava come in lui brillasse dell'àrabo sangue, di quella razza a grandi contrasti, ora inerte, estatica nelle più misteriose contemplazioni, ora guizzante, in febbre, sotto passioni roventi come il sole di Africa; oggi di una folle generosità; dimani, con sottigliezza, vendicativa: invece il volto della contessa, pàllido, grassoccio, dagli occhioni neri con lunghe ciglia e il cui ovale appariva fra anella di un castagno chiaro, quasi sempre spirava quell'intenso affetto, quel voluttuoso abbandono, quel languore, che caratterizza le innamorate della nostra pianura.

Senonchè, la loro naturale sembianza era più che intorbidata, guastata, da una cert'aria di disagio, di stento, che essi tenèvano a riscontro l'uno dell'altra.

E infatti camminàvano passo a passo, in un silenzio che confinava col broncio, evitàndosi gli sguardi e vergognando quasi della lor falsa posizione, da cui — sebbene ne parèssero indispettiti — pur non trovàvano o non volèan cercare modo di uscire.

Mio Dio! che poteva mai èssere accaduto tra due colombi così da poco appajati?… La risposta è fàcile… Un gran litigio, il primo che turbasse la pace da loro giurata. — E la causa?… Non è prudenza rispòndere… voi ridereste… Vi basti sapere che naque da una chiappoleria, da una puerilità… dirò di più… da una sèmplice frase, da una frase di quelle che, a stato normale, non fanno nè caldo nè freddo, non le si avvèrtono neppure, ma che, in iscambio, buttate là in un quarto d'ora di maldisposizione e ricevute da chi è punto bambagia, per un ammucchiarsi di malintesi, per un concorso di parole che, come la stizza c'imbocca, noi adoperiamo, dallo scontento istesso di aver rotto il sereno fomentate, originano un bisticcio il quale, via via inasprendo, ingrossando, riesce a menarci laddove noi eravamo le mille miglia dall'imaginare, a una odiosìssima lite.

Figuràtevi! La contessa giunse a torsi dal collo il vezzo che suo marito il giorno prima le aveva donato, ed a gettarlo sdegnosamente sul tàvolo… Il conte stette a un filo d'impugnare… una sedia…

Ma — domando io — e la colpa, di chi?… Ecco, parlando con imparzialità… No, no; la cavallerìa mi chiude le labbra… Parlando con misericordia, la colpa la fu del tempo.

Sì! di un tempaccio, nero come il fumo dell'olio, in cui diluviava e tiràvano certe folate di vento che, contòrtesi fra gli àlberi del cortile, gittàvansi sull'alberghetto di legno, lo facèvano scricchiolare, ne sbattèvano convulsamente le mal raccomandate imposte, poi, inabissàndosi nelle gole de' camini e morendo con uno straziante, lunghìssimo gèmito, a un tratto scoprìvano il triste fracassìo dell'aqua grondaja che cadeva e spicciava tra i sassi. Al che, se voi aggiungete un freddo che metteva addosso i grìccioli e costringeva a mòrdersi, pel bubbolare, la lingua, più il lume bizzarro di due candele (vi avverto, suonàvan le 5) che sembrava si fòssero passata parola di far rinnegare pazienza alla loro smoccolatrice, e un inùtile scampanellamento e l'irreperibilità di alcuni oggetti favoriti, voi, cari amici, troverete anche, non una, cento scuse, alla sùbita irritazione che cagionò la lite, tan to più riflettendo che forse voi stessi (senza nemmeno ricòrrere al furore improvviso di Alfieri contro il suo servo Elìa per un capello tirato) in sìmili circostanze rampognaste acerbamente un domèstico perchè le scarpe nuove non vi calzàvano bene, o foste a due dita dallo strozzarvi con quella stessa cravatta della quale non vi riusciva il cappio.


II


Ma ora, faceva un tempo bellìssimo. Non c'era quindi, diàmine! più alcuna ragione che l'ombra di scomparse nubi oscurasse la fronte de' nostri due giòvani sposi.

Un più splendente, un più azzurro cielo, da un pezzo non allegrava la montagna. L'aria, lavata dalla pioggia, imbalsamata dalle fragranti esalazioni dell'ùmida terra, lùcida come il raso, disegnava nettamente ogni profilo di monte, ogni contorno frastagliato di bosco, ravvivava tutti i colori e saliva per le nari come la bisbigliante spuma dello Champagne. Tuffati in questo bagno di puro àere, con una brezzolina fresca fresca che sfiorava i capelli ed allargava i polmoni, dissolvèvasi la stanchezza e ci si trovava tanto flessìbili e leggieri che, piuttosto di camminare, parèa di volare. Snebbiàvasi la fantasìa; nette, spiccate, schieràvansi in capo le idèe, il benèssere, la gioja si diffondèvano per tutta la persona; in una parola; a larghi càlici si beveva la vita… Oh! come sembrava mai buona!

Poi — qual magnìfico paesaggio! — A un trar d'arco dal casale ove la carrozza dei conti Rinucci sostava, alzando lo sguardo, alla vostra manca voi miravate rupi a crepacci che fuori di dirittura minacciàvano voi e di continuo la via, sulle quali s'abbarbicava il silvestre pino, inerpicàvansi le saltellanti capre, e da cui la nera vacchetta, levato il pacìfico muso, che gocciolava, dalla cascatina, e scossa, lenta, la campanella, vi fissava coi grandi occhi sbarrati — nel mentre, alla vostra dritta, ponèndovi sul ciglione della strada e giù guardando, per una serie di verdeggianti praterìe, voi giungevate coll'occhio in fondo alla valle, sul fiumicino di lìquido argento che vi serpeggiava — passato il quale e ricominciata l'erta, incontravate una nuova distesa di prati, sparsa di gentili casette, indi selve annose, cupamente verdi, selve che si opponèvano alle spesse frane di quel monte, nudo, dirupato, gialliccio, che, dietro a loro ergèvasi, superbo delle sue acute cime, e baluardo a perpetue nevi dall'immacolata bianchezza.

La via che il conte e la contessa or camminàvano, cacciàvasi poco fuor dal villaggio, in una boscaglia. Ivi, da una banda e l'altra della strada, si rizzàvano altìssimi gli abeti, dalla corteccia grigiastra qua e là macchiata, ora dai pàllidi licheni, ora dal tetro musco, e che, dopo di èssersi strettamente abbracciati a fior di terra nelle radici contorte a mo' di serpenti, in alto rintrecciàvano i frondosi rami sì da foggiare sui viatori un incantèvole pergolato, negli squarci del quale splendeva un ciel di zaffiro e di cui, al basso, disegnata dai raggi del sole, tremolava la ombrìa. Alla sinistra della salita — cioè dalla parte che toccava il monte — vedèvansi sull'erta costa, fra gli àlberi, immani macigni, alcuni pesantemente appoggiati a tronchi che piegàvano, ma cedèvano punto, altri interrati, altri ancora divisi in due con un taglio più netto di quello che la Durindana di Orlando potesse — tutti però coperti al sommo da una porracina di velluto e chiazzati di larghe macchie rossastre, tutti lambiti da un filo di aqua, chiaro, fresco, che sussurrando correva nel suo pìccolo letto di polve quarzosa: invece, dall'altro lato del cammino — ove il terreno dopo di èssere gravemente sceso per tre o quattro scaglioni, colto da un folle ardore, rìpido si abbassava in un pratello smagliante che, giù a tòmboli, finiva coll'arrestarsi di botto dinanzi al vuoto di un precipizio — ci si presentava alla veduta il paesaggio del di là del fiumetto, spezzato in un sèguito di quadri, gareggianti in bellezza, e col frascato a cornice.

Sotto le verdeggianti volte si aspirava poi quell'acuto sentore dell'ùmido legno che, come l'altro del fieno tagliato, scuote tanto piacevolmente i sensi. Ivi la plàcida, la fina, la dolcìssima sinfonìa d'idillio che la natura pe' suòi innùmeri pispigli di fronde e mormorìi di zampilli, canterellava, non era turbata da dissonanza alcuna: il rombo istesso, sordo, continuo, di una gran colonna di aqua che dirocciava lontan lontano, alla calma, alla solitùdine della pineta, aggiungeva una misteriosa velatura. Solo, di tempo in tempo, udìvasi lo scoppiettìo di àride corteccie o il pìccolo soffocato rumore di un ramoscello che cadeva sull'erba, od anche, come si rasentava un cespuglio, a un tratto il cinguettìo di chiacchierine augellette e il frullo di qualche grosso pennuto che, battèndosela a traverso il fogliame, nel mentre voi ne scorgevate sul terreno illuminato dal sole la fuggente ombra, pioveva sul vostro capo una gocciata di lìquidi diamanti.

Eppure, nel mezzo di tutto questo paesaggio abbigliato a festa, che empiva, faceva traboccar l'ànimo di amore e sembrava non desiderasse colle sue verzure e col suo lìmpido cielo, altro che di disporsi a scena intorno a due belle figure, le mani intrecciate, fiso il guardo nel guardo, il conte e la contessa Rinucci serbàvano sempre il loro inamidato contegno, la loro cera di cattivo umore. Anzi; al primo entrare nella foresta si èrano distaccati l'uno dall'altra e, poco dopo, vedèvansi, ella, costeggiare la pendice del monte, tiràndosi dietro di svoglia il suo bastoncino dell'Alpi che, immerso nel torrentello cui affluìvano col cessar dell'erboso i lùcidi canaletti, e, rimorchiato contro corrente, tentennava nella gorgogliante aqua, egli, dall'opposta banda, camminare sull'orlo della strada, colle mani a tergo, l'una nell'altra e, buttando coi piedi i ciòttoli in cui dava, giù pe' scaglioni… fra gli abeti, che, alcuna fiata percossi, gli rispondèvano.

Nulla di meno io so (e ve lo dico a bassa voce) che la freddezza, la indifferenza, la noja non andàvano più in là del viso ne' nostri sposini. Difatti, se noi prendiamo la giòvine, l'ànima di lei era travagliata da un continuo sbàttito. Cedèvano le sue fibre dolcemente sotto le delicate sensazioni dell'amorosa natura, il cuore le si cominciava a schiùdere, già una tranquilla contentezza le stillava nelle vene, quand'ecco, lì, pronto ad amareggiarla, a gonfiarle gli occhi… un gruppo alla gola. La contessa ardeva di fuggire la solitùdine, di abbandonarsi all'universale espansione ma… le mancàvan le forze. Cento volte le sue labbra si èrano agitate a un: mio Alberto! — e cento — sia che l'aggrottate ciglia del conte le mettèsser timore, sia che ripugnasse al caràttere suo, piuttosto altero, di riconòscere un fallo, il caro nome le si sfogliava in un sussurro che confondèvasi col mùrmure de' ruscelletti, ed ella — spaurita — si ripiegava in sè stessa come una sensitiva e ringollava amaramente l'intensa voglia. — Insomma, rotte le fila d'oro e di seta di una felicità sin allora inalterata, ella a riappiccarle era o si credeva impotente.

Tuttavolta vi fu un istante che lo sperò. Suo marito, lui che dal principio della salita procedeva schiacciando senza pietà i gentili fiorelli ne' quali abbattèvasi, premurosamente si era abbassato a cògliere un purpureo ciclàmine. Emma si sentì bàtter le tempia… Ben presto al pamporcino, Alberto unì un anèmone, poi aggiunse una viola, poi… Evidentemente egli intendeva di porre assieme un mazzetto.

Per chi?

La contessa sorrise con compiacenza. Non solo: diè in un balzo di gioia. Inquantochè il conte, dopo di avere stretto con un filo di robusta erba i raccolti fiori, volgèvasi come verso di lei e… Ma no! Pòvera Emma! Alberto, diggià pentito, lasciò cadere il braccio, fè qualche passo, avvicinossi alle nari il mazzetto, ne aspirò lentamente tutto il profumo, tutta la freschezza, irresoluto lo girò fra le dita pel gambo, fissollo con malinconìa, poi, di sùbito, sprezzatamente, lo gittò lontano da sè, fuor dalla strada. Mazzolino infelice! Passato a volo tra i fusti degli àlberi, raso il declive pratello e' si ficcò nel prunajo — corona del precipizio — e restò.

Il dolore, l'angoscia fu tale allora nella giòvine donna, che gli occhi le imbambolàrono e le gocciàron le làgrime; tanta la commozione che, sentèndosi venir meno, si lasciò, smarrita, cadere sur uno di que' grossi tronchi di pino che di distanza in distanza giacèvano lungo la via.

E il conte, vid'egli? — Certo, se volessi affermare, non giurerèi (chè Alberto aveva sempre tenuto il volto verso la opposta parte) ma è pura istoria che, alla fermata della contessa, egli del pari, sostò, rimase qualche momento in tentenna: quindi risòltosi, bellamente siedette anch'egli sul ciglione della strada, volgendo le spalle alla moglie, una gamba pendente giù dal muro di sostegno, l'altra, alquanto piegata, sopra il rialto. Seguìrono un cinque minuti… lenti per ambedue come quelli di un prigioniero, cinque minuti di una pesantezza di piombo. — Il conte teneva dietro machinalmente collo sguardo a due farfalle che senza posa, si corrèvano appresso a muta per acchiapparsi e non riuscìvano mai: Emma, col puntale del suo bastoncino dell'Alpi, scalzava istizzita i sassolini della via… ritardando così il viaggio ad una pòvera formica che col suo minùzzolo in bocca, mezzo balorda, mezzo acciecata pel gran polverìo, più non sapeva a qual santo raccomandarsi. E tutti e due capìvano che in tale maniera non la si poteva durare. Ma, comprendèndolo, essèndone convintìssimi, che volete? per una strana inerzia di ànimo — quantunque bramàssero di darsi presto un buon bacio e di voltare pàgina — non tentàvano nulla e si rimettevano l'un l'altro pel cominciamento — il quale non veniva mai.


III


Le cose si trovàvano appunto in questi tèrmini — e così avrèbbero potuto forse continuare fino al dì del giudizio — allorchè un nuovo personaggio, sbucando dai maestosi abeti che si rizzàvano dietro di Emma, improvvisamente apparve.

Era egli un bambino di press'a poco cinque anni, paffuto, bianco e rosso come una mela appiuola, dagli occhi di un celestino sbiadito, dai capelli ricci e colore di stoppa, con nudi i piedi, e tanto làcero, che qua e là dagli stracci del vestito di lui sorrideva il roseo della sua pelle. Era dunque uno di que' montanarini de' quali v'ha un formicolajo in Isvìzzera e che tra loro si rassomìgliano come passerotti; di quelli che, al fermarsi di una diligenza, a mezza strada dinanzi un albergo nel mentre voi sorsate la tazza alta di birra che la pienotta figlia dell'oste apporta sur un tondo di stagno, vi si avvicìnano e lèvano verso di voi le loro manine stringendo in esse qualche punta di cristallo, qualche frammento di pìrite — oppure — quando la vostra carrozza sale adagio il monte — abbandònano le loro mandre, sàltan giù dai dirupi, ràmpicano sulla via, quindi vi tròttano di pari e nell'offrirvi con insistenza o una ciocca di lamponi grondante ancora di pioggia, o qualche gagliardo e peloso fiore dell'alpe, chièdonvi d'un tuono quèrulo une p'tite pièce, mo-ossieu…

Il nostro piccino, però, fra i mercantuzzi del taglio suo non occupava l'ùltimo luogo. — Inquantochè egli possedeva nientemeno che una scatoletta di cartone in cui stàvano in mostra bianchi ciòttoli con isquamuzze d'oro, acuti e diàfani quarzi, pallottoline a làmine di un grigio-ferro lucente, più una fotografìa da stereoscopio, un po' ingiallita, è vero, ma che, in compenso, rappresentava, indovinate? Il Louvre. — Il nostro piccino aveva poi, dal nascondiglio ove i genitori lo ponèvano ogni mattina, da qualche tempo adocchiata la nòbile coppia, l'aveva attesa e, naturalmente, vìstosela a tiro, apparve.

Ma, avanti di dar l'avviatura a' suòi affari, ei si rattenne vicino all'àlbero da cui era uscito e stette, con un ditino alle labbra, come per istudiare il terreno delle sue pròssime operazioni di commercio… Certo, se a conti fatti, decise di principiare dalla signora, lo spingeva a lei quella simpatìa d'istinto che lega il fanciullo alla donna.

Egli adunque discese, saltò il rigàgnolo e, famigliarmente appoggiàtosi al tronco di abete sul quale Emma siedeva, diede a costèi l'opportunità… meglio… il piacere di esaminare tutte le di lui ricchezze.

Emma aveva levata la testa. Guardò lentamente il bambino con quell'aria che dice: sei arrivato in mal punto — e al suolo riabbassò le pupille.

Ma il ragazzino non se lo tenne per detto; sapeva dall'esperienza che chi dura la vince.

Quindi, al diniego della contessa, ben in contrario di andàrsene, scelse nel botteghino uno fra i ciòttoli, a parer suo il più bello, e sulla palma lo presentò con importanza alla dama quasi dicendo: osserva un po' questo e dimmi di no, se lo puòi.

Emma fissollo di nuovo. Davvero che le pietruzze non la solleticàvano. E infatti colla sua già stava per allontanare la ostinata mano del bimbo… quando una nuova idèa le balenò. Cambiando allora il primo moto di repulsione in uno attrattivo, tirò a sè dolcemente il piccino, gli fe' una carezza, ed indicàndogli il conte, o meglio, il dorso di quello, con molti gesti e molti sorrisi lo eccitò a portare la sua mercanziuola al mossieu.

Il bimbo assaporava il muto discorso della contessa. Figuratevi poi se egli che, di sòlito, cacciato brutalmente da que' di destra delle vetture, usava passare a manca, ritornando alla càrica, e così di sèguito, figuràtevi, dico, se non doveva arrèndersi all'affàbile invito della giòvine donna! Perlocchè, appena egli ebbe compreso quanto si desiderava da lui, pigliò le mosse alla volta del conte e…

Ma a mezza via sostò.

Ah! i galantuòmini son proprio case di vetro. Hanno bel celare le loro passioni: esse trapèlano più che il sudore dalla lor pelle. E in verità; il dorso di Alberto, curvo, dal capo in iscorcio, dal collo mezzo nascosto pei sollevàtisi òmeri, dava a capire più che un SI-FÀ-NOTO in majùscole, come al didentro fosse gonfia marina — tanto gonfia che il nostro morsello di uomo, fin lui! l'audace tra gli audaci, l'abituato ai musi in broncio ed alle frustate, si volse interrogando incerto col viso la nòbile donna.

Ma essa lo inanimì. Con gli occhi, con la mano, perfino con un… baciuzzo.

Or, ditemi, amici, dopo un siffatto incoraggiamento avreste voi potuto ninnarla? Voglio sperare che no. — In quanto al nostro bambino, ogni sua incertezza scomparve, mostrò coraggiosamente i bianchi dentucci e difilato andò a piantarsi, lui e i suòi ciòttoli, dappresso al conte…

— Che c'è — esclamò questi in bùrbero tuono, alzando vivamente la testa. Imperocchè avèa udito come un bisbiglio che lo chiamava — Ah! ecco — aggiunse con sprezzo — un selvaggio de' sòliti!… Venderài qualcosa, m'imàgino! Un po' di selciato, vero?… cocci di bottiglia forse?… E vuòi ch'io li compri?… Poh! per dar retta a tutti vojaltri bisognerebbe èsser Creso…

Quì avvertite com'egli fosse fuor dalla pesta. Voi però dovete scusarlo pensando alla smania ch'egli sentiva di sfogarsi, di pigliàrsela con qualcheduno…

E, rabbruscàndosi, continuò:

— Perdìo! I Farisèi portàrono le loro baracche nel tempio… Fin qui in questo magnifico paesaggio si cacciò la bottega: quì — ora — s'inganna, si fà a tira tira, nè più nè meno che da noi, dove l'aria è corrotta… Guardàtelo, quel marmocchio! (avverto ch'egli teneva sempre fiso lo sguardo nel merciajuolo) è nell'età dell'innocenza… eppure… ha già sete d'oro! —

Ih! che lente convessa. Correggi sùbito: ha gran fame di pane.

— E di tal stampo sono tutti quassù. Venderèbbero, se lo potèssero, i loro punti di vista… ehe dico? li vèndono. Venderèbbero il minio delle loro guancie, il loro appetito. Se il diàvolo vivesse ancora, lo supplicherèbbero ginocchioni di barattar loro il soffio con un cinquelire… Oh! èsseri incontentàbili, ma non vi basta il vostro purissimo àere? —

Naturalmente, il bimbo punto rispose. Egli, dello squarcio di Alberto, non era giunto ad acchiappare una sillaba. Chè se, al contrario, l'orecchio e il comprendonio di lui fòsser riusciti a cògliere la ùltima interrogazione soltanto — parola d'onore! — egli avrebbe tosto e chiaro proferito un bel: no.

Ma il conte non gli menò buono tampoco il silenzio.

— Affedidìo! — gridò scattando in piedi colI'ira e coll'impazienza che gli guadagnàvano la mano. — Sempre con quel riso d'idiota!… Hai capito di non seccarmi? Giù le mani… Hai capito di andàrtene? di spazzar via… e sùbito… colla tua ghiaja e le tue pulci?… Sapr… —

Il ragazzino arretrò. Di soverchio a bujo mettèvasi il tempo sulla faccia di Alberto per serbare, sfidàndolo, leggera speranza. Di più… Al bambino venne una idèa vaga di avere fatto un grosso marrone, se ne allarmò tutto e, preso dalla paura, corse, con un piccolo grido, a rifugiarsi dietro il ceppo di abete, sul quale sedeva la contessa.

Alberto, come già toccài, voleva quasi mangiar cogli occhi il fanciullo. Vedèndoselo quindi fuggire, istintivamente il suo sguardo lo seguitò; dallo sguardo obbligati, i tacchi fècero una mezza giravolta e — naturale! — essèndosi in quel mentre il bambino nascosto dietro il rusticano sedile di Emma, Alberto si trovò con quest'ultima faccia a faccia. Valicato era il monte. Essi, Dio sia benedetto! fisàvansi.

Oh aveste allora veduta la giòvine donna! In avanti piegata, poggiando le mani al ceppo di abete, sul viso di lei, bianco come un panno lavato, l'ànima intera affluiva. Intenso dolore, sùpplica ansiosa, speranza, vi si scorgèvano in una, e tutte sur un tal fondo di amore così incrollàbile, ardente, che una ràpida vampa passò pel volto del conte e un trèmito quasi di elèttrica scossa lo colse.

— Oh! Emma — dovette egli dire appassionatamente, giungendo le palme.

— Alberto! — ella rispose con un grido di gola.

L'incanto si dissolveva.

— Mia Emma — esclamò il giòvane con trasporto, correndo vèr lei. E vicino le cadde e l'abbracciò stretta stretta.

— Perdòno — mormorò essa, colla sua guancia appoggiata a quella di Alberto sì ch'egli ne sentiva rigare le calde làgrime.

Ma il conte:

— Mai… mai… — interruppe asciugandole a furia di baci le palpebre, e — scostatosela dal petto — come fa col bambino la madre, si pose voluttuosamente a succhiare la contentezza che le raggiava nel viso.

E in quella una ricciuta e bionda testina in mezzo a loro, apparve. Era il mercantuccio: egli che, passato il pericolo, aveva creduto bene di torsi dal suo rifugio… il tronco dietro cui zitto zitto stava acchiocciolato; egli che ora pazzamente rideva — e perchè mai? — rideva offrendo i suoi quattro ciòttoli ai due giòvani sposi…

Amici, voi ben potete imaginarlo: quello fu un giorno d'oro per gli affari di lui. — Confessiàmolo però: se lo meritava. Ne aveva conchiuso uno tra i più belli del mondo.




VIAGGIO DI NOZZE


I due che, parlottando, sedèvano sotto una vèntola a gas nel vestibolo del Grand Hôtel de Russie a Gènova, vale a dire un marinajo del piròscafo Tùnisi ed un portiere in casacca turchina e berretto listato d'oro, si alzàrono; l'òmnibus dell'albergo rientrava.

Il portinajo aggrappò la corda di una campanella — clang! Non era ancora al comignolo del tetto, il gatto fuggito dalle gronde, i peli irti, grossa la coda; nè i cavalli avèvano patita la penùltima sbarbazzata che, da ogni parte, intorno all'òmnibus traèvasi gente; press'a poco come un assalto di ladri (fors'anche!); uno apriva lo sportello; due altri, per calare i bauli, apportàvano scalette di ferro; un quarto accorreva anelante con un lume per mano; nè mancava il visino curioso di una cameriera, nè i favoriti grigi di un maggiordomo — Pàlmerston di strapazzo — il quale dignitosamente inchinava i viaggiatori, mano mano che venivano oltre.

E i primi a smontare fùrono un Mèntore con l'annesso Telèmaco; quello, un gesuita francese, per prete, abbastanza pulito, che tirava al guercio e respirava malizia: questi, un giovinetto in sui quìndici, pàllido, con un'aria intontita. Il pòvero duchino De-Je-ne-sais-quoi viaggiava per istruzione l'Italia; il coso nero gliela dovèa illustrare da un punto di vista, in sommo grado, cattòlico.

E appresso guizzò fuori un vecchietto in sopràbito color tanè, a bàvero di velluto; poi, fe' scricchiolare lo smontatojo un donnone con doppia giogaja e con una faccia di un rosso apoplètico, un donnone di que' destinati a soffocare nella lor ciccia. Ed essa, su'n braccio, reggeva un brutto King-Charles dagli occhi lagrimosi; scesa, deposto nelle mani dell'imponente maggiordomo una gabbia con merlo, offerse gentilmente l'altra a chi la seguiva.

Ma sì che Claudia Di-Viano volèa accettarla! Figuràtevi se lo poteva una fanciulla di diciott'anni, tutta vita, e sposa da cinque o sei ore al più (suo marito era quel giòvane alto, dai baffi biondi che si faceva dietro di lei) figuràtevi poi una ragazza la quale tenèvasi di èssere una capriola sulle montagne, una viaggiatrice perfetta!

Claudia, fin dalle corte gonnelle, avèa avuta manìa per i viaggi e le pericolose avventure. Ella imparò, si può dire, l'abbicì, per lèggere del capitano Cook, del Milione, di Sindbad: appisolandosi sul Ròbinson Crosuè o Svìzzero cui voleva un ben matto, sognava sempre con gioja di trovarsi, anche lei, in un'isola disabitata, vestita di pelli caprine, con lì sottomano, arenato, l'inesaurìbile bastimento. Nè solo fantasticava. Un giorno, a dì basso, suo padre, ritornando da caccia, incontrò nel folto di un bosco la piccolina acchiocciolata presso un mucchio di stipa; la piccolina, che, smarrìtasi a bel diletto con le tascucce zeppe di chiodi, di pezzi di corda e di morselli di pane, ora piangeva a lagrimone, accòrtasi di aver dimenticati a casa i fiammìferi.

E crescendo, crebbe anche il suo ticchio. Il tavolino di Claudia vedèvasi a tutte l'ore ingombro da carte geogràfiche, da fotografìe di ghiacciài, da ragguagli sulle infruttuose spedizioni ai Poli e alle sorgenti del Nilo. Quando poi nella sua fantasìa, sdrucciolò, la prima volta, l'ometto, essa lo vestì da capitano di mare, lo mise a prora con un cannocchiale; essa lo desiderò ardentemente, per internarsi seco nella baja di Bàffin, per lasciare insieme a lui le suole sul Davalagiri.

Ma, in attesa del signor capitano, Claudia dovette frattanto accontentarsi di bèver dei ponci nel traversare con mamma e babbo la Mànica, e di scottare di nomi quali Pilato, Furca, Faulhorn, Jungfrau, il suo bastone dell'Alpi. Se il maggiore Tiptof dell'Indie, da lei conosciuto al Rigi, uno sballone per eccellenza, cavatappi famoso e mandaldiàvol di tigri, avesse mostrato un occhio di più e qualche anno di meno, c'è da giurarlo, conosceremmo ora in Claudia una lady.

Senonchè, lo sgranocchiatore dell'appetitosa fanciulla dovèa èssere per fortuna un giòvane, il cavaliere Di-Viano. Di-Viano avèa lui pure corso la sua parte di mondo e per ciò, come e' s'ingattiva di Claudia, guadagnava di primo tratto nelle sue grazie il passo su molti de' vecchi amici di lei.

— Ei conta sì bene — diceva ella.

— E ha degli occhi sì risplendenti — pensavamo noi. Tant'è — conta conta, o guarda guarda — una sera, Di-Viano domandò un colloquio al barone Fiorelli; questi, dopo poche parole, baciàvalo in viso — Brìncoli! I due figliuoli si amàvano a non vedere più innanzi: di più, èrano giòvani, nòbili, ricchi, in dato eguale… Se non si sposàvano essi, chi mai potèa sposarsi?

Pure, la baronessina pose una condizione: quella di realizzare, maritata, qualcuno de' suòi bei sogni di vèrgine, di fare un giretto, come viaggio di nozze, almeno in Africa.

Almeno! Di-Viano si morse instintivamente le labbra. Le osservò poi, mettendo fuori tutta la persuasiva, che il sole di Libia cuoceva su per le piante i marroni, che là sotto i guanciali — senza le pulci — ci si avveniva sempre in scorpioni, in serpentacci lunghi sì e sì; che quanto poi alle piràmidi, non francava proprio la spesa vederle… De' colossali fermausci, null'altro.

— E allora… addìo — fe' Claudia salutàndolo d'un cenno dispettosetto.

— No, no — diss'egli premurosamente — ci andremo… Dove vuòi, amor mio. — A prova del che, raccolse, la settimana stessa notizie intorno le vaporiere che stantuffàvano da Gènova ad Alessandria d'Egitto.

E si risolse partire il dì delle nozze. Sarèbbesi con tutta la parenterìa patito un pranzo di gala, poi gli sposini avrèbbero preso la via ferrata e… buona notte. Difatti, punto a punto, ciò avvenne: circa allo scorpacciamento… ma no, non parliàmone; nulla v'ha di più uggioso e per due che s'àmano e per chi non ha l'appetito in pianta stàbile, a paragone di tali solennità di famiglia in cui ci tocca sedere, gòmito a gòmito, proprio con quel parente che noi studiavamo di cansare in istrada; udirvi scipiti o puzzoni bisticci; scaldarci ogni tanto le mani a certa roba scritta con il decimetro, tutta bugie — o rimbombante come un barile vuoto, o geroglìfica più dell'obelisco di Lùxor.

E aggiungi che gli sposini, stavolta, ingojàrono anche il piacere di scarrozzare alla stazione in gran compagnia; Camillo in una berlina, col padre della sua sposa e con due vecchi zii campagnuoli, i quali, per la fausta occasione, avèano stampato un libretto dal titolo: Studio sopra i letami; Claudia in un'altra, insieme alla mamma e a tre cuginette che non stàvano mai dal palparla, dal baciucchiarla, sclamando, le làgrime ai nottolini, cose di fuoco su que' crudelacci di uòmini.

Pur finalmente, son nel vagone… soli! E soli, c'è da sperare, rimarranno per qualche tratto di strada; ve'… chiùdesi la sala di 1a classe ed a momenti il convoglio… Ma ahimè! poveretti… Riàpresi lo sportello ed un omino appare adocchiando.

— Ciò, Beta! — dic'egli — varda… ghe xe logo per una famegia d'impiegài. —

E lì, montato su, il rompitorta, ecco seguirlo una badalona, ansante come una armònica frusta, rossa come un'anguria, e accomodarsi di facciatina ai due sposi.

Ah sorte ladra! Claudia e Camillo allungàrono i visi. Lampeggiata al cavaliere l'idèa di procurarsi uno scompartimento a parte — già s'inviava il convoglio: Claudia non susurrava peranco “dunque, alla prima fermata” — che, raccolto la nuova venuta il soffio, èbbero tutti e quattro la consolazione di raffigurarsi per conoscenze e insieme, per un'unghia, parenti.

Imaginate il grazioso viaggio! I due colombi dalla carne tirante si èrano, come uncinetti a maglie, appiccicati ai tèneri: senza pèrdere un àtimo, li rallegràrono — via correndo — di un chiacchieramento in xe-serrato, mòlto a propòsito… e sul tran-tran stuccante della vita matrimoniale, e sul pigliare di brusco delle bottiglie stappate, e intorno ai modi econòmici di raffazzonare abitucci pei bimbi dai calzoni di babbo e dalle coperte vecchie dei canapè. Nè Camillo potè neanco cavarsi il gusto di strìnger fra i denti un Virginia. Quantunque il vagone fosse pei fumatori, avendo egli a seconda del Galatèo domandato: permèttono? — udì rispòndersi dalla grassona che per carità non accendesse zìgari — non per lei, no — ma perchè il puzzo sgradiva al suo caro cagnetto, un mostrino che, insciallato, dormivale in grembo. Di più; come a Claudia scappava di bocca il nome dell'albergo cui èrano indirizzati a Gènova:

— Ben! vegno anca mi — inchiodò il vecchietto — no xe vero, Beta?

— Sì, sì — ribadi il donnone — E se gavaremo — aggiunse — el piaser de magnar un boccon assieme. —

Perciò noi vedemmo le due coppie, l'una dopo l'altra, smontare dal medesimo òmnibus nel Grand Hôtel de Russie e, ora, le seguitiamo ad un tempo fino allo scalone.

— Una càmera, signori? — ivi domanda il maggiordomo ai concittadini della zuca baruca.

— Nò, nò — risponde il sior Anzolo — dò… Almanco la note… Ostia! —

Il maggiordomo porge ad un servitore un pajo di chiavi.

— E le signorìe loro — chiede ai nostri sposini — due stanze?

— Credo ce ne basterà una — fà con un sorriso Camillo — È vero, Claudia? —

Ma in quella, una voce grossa, come infreddata:

— Gh'è u sciù cavaliè De-Vianu?

— Io… — dice Camillo volgèndosi.

Il marinajo, dopo una toccatina di cappello: sciù, m'han mandào a pigià i baili…

Di-Viano: Ah! bene. Aspetta. Tu Claudia — dice e sogguarda i due carini compagni di viaggio, che sono quasi al ripiano — intanto ch'io me la intendo… solo quattro parole… per i bauli, dovresti scèglier la càmera, dovresti ingegnarti a prepararmi una bella cenetta… Se tu per altro la preferisci ordinare coi Bragadier…

— Dio ce ne lìberi — interrompe la giòvane — E quì ella, preceduta da un servo che porta due saccone di pelle bùlgara e da una cameriera con i plaids e le sciarpe, si dirige alla scala; egli, accompagnato dal marinaro, attraversa il cortile.

E le parole non fùrono più di quattro. Dopo di che, Di-Viano fece il cammino di Claudia e spinse, a capo di un corritojo, l'uscio n° 15.

Buono! che deliziosa veduta! In mezzo ad un elegante salotto, illuminato da due lucerne, sopra una tàvola tonda, dalla tovaglia bianchìssima, posàvano scintillando cristalli e argenterìa, un cestino di fiori e, quello che importa il tutto, certi piatti fragranti, piatti che facèvano andare su e giù il pomo di Adamo: per una porta poi spalancata, vedèvasi nella vicina stanza, tapezzata in celeste, la sposa, dinanzi uno specchio a ravviarsi i capelli.

— Claudia! — fece Camillo picchiando con il cucchiajo contro il bicchiere.

— 'Gnore! — ella rispose correndo a lui.

Il domèstico che avèa apparecchiata la cena le avvicinò una sedia.

— Ve', qui c'è tutto — osservò allora sottolineando la giòvane al maritino. — Non manca uno stecco, sai…

— Se è così — conchiuse Camillo volto al domèstico — abbisognando di voi, chiameremo. —

Quello acconsentì del capo.

— A che ora, signor Conte? — interrogò — domani…

— Noi partiamo col Tùnisi… — disse il cavaliere — Dunque… dunque ci sveglierete alle sette.

— Alle sette — ripetè inchinàndosi il servitore, ed uscì.


— Tach… tach — alla porta.

Camillo si desta. Dormiva con le orecchie in ascolto. Si stira, èrgesi a mezzo su gli origlieri e, con un nervoso sbadiglio:

— Ohè! — dice.

— Le sette, signore — fa un quìdam di là dell'imposta.

— Bene — risponde il cavaliere. E si leva del tutto sopra i guanciali, frègasi gli occhi, si guarda attorno.

La luce che piove nella càmera è smorta. Ella disegna al fianco di lui la cara sua sposa, sciolti i capelli, semiaperte le labbra, coi nastri della camicia slacciati, con un braccio fuor delle coltri, nudo per la mànica breve, orlata di trine, pienotto, rotondo, dalla birichina fosserella al gòmito — la sua sposuccia che sùcciasi tranquillamente il sonnellino dell'oro.

Al giòvane sembra peccato svegliarla. Infatti, è. Prendendo consiglio dall'orologio, com'esso scorge che all'ora annunciata màncano ancora cinque minuti, glieli regala. E segue il lentìssimo ago fino a… E quasi contemporaneamente, da lungi, un campanone ràntola le sette.

— È tempo — pensa allora con un sospiro Camillo. — Se taccio, me ne vorrebbe — Sbassando dunque il suo viso verso quello di Claudia, le soffia leggier leggiero sul fronte.

Ma ciò serve poco. Manco di una mosca.

Dà una momentanea crespa… nient'altro.

Ebbene to' una diversa sveglia — un bacio.

Un bacio schietto, sonoro, che si regala Camillo. Poi si slontana.

E questa volta ella si desta. Gira i suòi amorosi occhioni,

— Mamma — sorride.

— Già… mamma — motteggia Camillo.

La giòvane arròssa.

— Su, poltronona — segu'egli raddoppiando il baciozzo — siam di viaggio, sai… —

Ma Claudia non si move: continua a fisare d'un'aria lànguida lo sposo.

— Il Tùnisi parte alle otto — egli osserva.

— E si sta sì bene quì — mòrmora la giòvane.

— Certo — appoggia Camillo — ma quanta più poesìa in mezzo alle onde! Imàgina un po' noi due, a prora, mentre il vascello sega… sotto un cielo stellato… il plàcido seno di Teti, o pure, allorchè mugliando sopra il mar va il greggie bianco, noi due a braccio, almanaccando…

Et coetera — incastra la sposa.

— Poi, pensa ai magnìfici luoghi, alle romanzesche avventure che incontreremo. Quì, io mi vedo, passato un rovente piano di sabbia, battèndocela dinanzi al Simoon, bellamente attendati in una freschìssima òasi, con le nostre guide color di caviale, i nostri camelli, e intenti io e tu, a impepare sulla gratìcola costolettine di lione o di tigre; là, io mi trovo nelle montagne del Giurgiura, le gambe incrociate su una stuoja pungente, faccia a faccia con uno cheik dei Cabili… barbone bianco… quel vecchio Abu-Hassan-Mohamed, il quale ci offre un grazioso pranzo…

— Di cavallette — finisce Claudia.

— E pensa anche ai nostri nomi intrecciati, da scarpellare sopra le statue di re Memnòne, a fianco di quello di Sua Maestà l'imperatore Caracalla! E pensa alla vista delle piràmidi, di que' tre colossi, dall'alto dei quali quaranta sècoli e mezzo ci contempleranno e al basso di cui un beduino, discendente forse dal Bue Apis, nel suo pittoresco costume…

— E sudicio…

— Sudicio… sia pure — ci porgerà una manciata di scarabèi, di verdi idoletti, che la zampa del suo fedele corsiero scoprì, raspando… in una fabrica al Cairo. In sèguito, ai volcani di Teneriffa…

— Ma se ci abbiamo que' di Gorini a Lodi! — interrompe con impazienza la giòvane.

Il cavaliere la intèrroga intensamente con gli occhi: — fai sul serio o per celia?

Ella, nel modo stesso, ritòrnagli la domanda.

— Làh… insomma… ti levi?

A quoi bon?

In questo, un nuovo picchio alla porta.

— Le sette e mezza, signore. —

Camillo (in un orecchio di Claudia)

— E dunque?

Claudia (sottovoce, con un po' di timore) — Ma e hai veramente voglia di andarci? —


Tlen… tlen — i rintocchi di una campanella in distanza: forse vèngon dal Tùnisi, chè la lancetta del pèndolo segna le otto.

— La vaporiera s'invìa — sospira grottescamente Camillo.

— Buon viaggio — fà Claudia sfavillando di gioia. Ma d'improvviso:

— E i nostri bauli?

Il cavaliere ride e ghigna un pochetto, poi:

— Non inquietarti, mio cuore; i bauli son là — e accenna alla stanza vicina.

Claudia rimane sopra pensieri: ella passa, ripassa del guardo, il mìgnolo in bocca, la faccia del suo Camillo; infine:

— Aah!… tu sapevi…! —




LA PROVVIDENZA


Oh aveste avuta una mano sul cuore della fanciulla Claudia, quand'ella incontrava, là dove la scala potèa ancor dirsi scalone, un certo giòvane bruno, e di capelli e di occhi e di baffi nerìssimi! Tuttavìa, egli non salutava in lei che la figliola del padrone di casa, e salutava senza pure fisarla. Egli era pòvero e bello, ma non si sentiva che pòvero.

Chi fosse, udiamo la portinaja: “un giòvane molto gentile — chè le chiudeva sempre la porta e accarezzava il micino — il quale, da circa tre mesi, avèa tolto a pigione una stanza nelle soffitte. Precisamente non sovvenìvane il nome, ma quel si vedeva stampato e attaccato su pei cantoni, come maestro di… di… non ricordava di che. Nondimeno, gli affari suòi, quali si fòssero, non dovèano còrrere a olio; nessuno ne avèa mai chiesto; ed egli, se spesso usciva con dei fardelli, rientrava sempre a man vuote.”

Alle quali parole, Claudia, volgèvasi in fretta, e lasciando la portinarìa, salìva nelle sue stanze. Là, presto abbandonava il ricamo per l'ago; l'ago per i fiori di carta, metteva insieme, o una rosa turchina o un geranio verde; poi, indispettita anche dei fiori, s'andava a sedere nel vano di una finestra con un qualche romanzo. E Lisa Angiolelli, che gliel avèa appostato non appena finito, si guadagnava a pazienza il suo spicchio di cielo.

Altre notizie intorno al giòvane bruno, Claudia le ebbe da cui meno pensava, da un cugino di lei, Pietro Bareggi: chi lo conobbe?… un mangia-dormi dalla faccia intontita?… con un eterno sorriso senza perchè?… un seccatore atroce?… No? — Già; i connotati sono un po' troppo comuni. Pietro faceva assiduamente la corte alla bella cugina, e in generale s'avèa per il suo sposo futuro. Nondimeno, se è vero che molti folletti in gonnella lo sospiràssero come un marito completo, io v'assicuro che la nostra ragazza la pensava diverso.

Bene, questo Pietro Bareggi, uscendo un dopopranzo in carrozza con la cugina e il padre di lei (un mezzo accidentato e tutto acciuchito, antico beone in cui s'era rifatto al rovescio il prodigio delle nozze di Cana) Pietro, dico, salutò il bel giòvane bruno, che rincasava in quel punto.

— Lo conosci, tu? — disse con vivacità la ragazza.

Nota, lettore, che Claudia con quel suo scimunito parente, stava sempre imbronciata; sul dimandare, mai; sul rispondere, rado; e, puta il caso, con dei o dei no. L'inaspettato favore die' quindi un sorriso al pòvero goffo, che:

— Altro! — disse, e cominciò a narrarle (avverti ancora, lettore, che per amor tuo, insàlo tanto o quanto il suo parlare fatuo) com'egli, due o tre estati prima, avesse conosciuto a Nizza, in quel giòvine bruno, un tal Guido Sàlis, conte, ricco allora da parte di madre di un diecimila e passa lire di rèndita. Ma, Guido avèa per babbo uno strappacasa, giocatore finito e di borsa e di bisca. Il quale, un bel giorno, fatto, cinquanta e dieci, trenta, andò con un po' di stricnina a stoppar la sua buca. Una fortuna, vero? Senonchè Guido volle prefìgerle un'esse, e accettò la successione paterna. Ed èccolo intorniato da un nùvolo di scortichini, con fasci di carte sgorbiate, bollate. Egli, giù allegramente a pagare! paga di quà, paga di là, non si trovò infine avanzati che i piedi fuor dalle scarpe.

— E jeri l'altro — aggiunse il cugino — lo rincontrài quì da noi. Quantunque molto male in arnese, ed io moltìssimo bene, attraversài la via apposta. Già, si sa, io sono un signore alla mano, io. E lo invitài a pranzo: parèami dire il suo viso “ho fame” giusto, come le sue scarpe — (e quì il cugino sbassò un'occhiata di compiacenza alle proprie, nuove e a vernice) — Che vuòi? rifiutò. E con un far di superbia! Aqua! —

Ma, no; io sostengo il contrario. Guido, superbo? Oh l'aveste veduto, pochi dì appresso al racconto di Pietro, far capolino, con il cappello fra mani e in aria di soggezione, nella ragionerìa Bareggi! Claudia, che a caso ivi era, il può dire.

Sàlis veniva all'amministratore, e, nel pagargli una parte arretrata di fitto, si congedava dalla cameretta sua e da lui.

La bella ragazza lo fisò tristamente.

L'amministratore borbottò una frase convenzionale di dispiacere.

Il giòvane allora, sempre con lo sguardo vèr terra, salutò e si volse.

— Fàtegli agio — suggerì, sottovoce e con pressa, Claudia all'amministratore.

Il quale:

— Signore — fece — se è per il fitto… —

La faccia di Guido imbragiò:

— Grazie! — disse — ma io… io parto per l'Oceania — e, salutando ancora, sparì.

Al trach della porta che si chiudèa dietro di lui, rispose una fitta violente nel cuore della ragazza. Ella capì di quale incendio e di quanto avvampasse.

Partito Guido, sembrò insieme partito dalle labbra di lei, il sorriso. Claudia lasciò le amiche, i libri, le passeggiate; prese a cibarsi a fregucci, a limarsi nell'ànima; e, dalla fresca fanciulla a cera spazzata di un tempo, a cambiarsi in una di viso affilato, smorto, balogio.

Fu poi, in quel torno, che quello sfasciume di un padre di lei, da un pezzo a sè non più vivo, cessò di morirle. Ciò pòrsele alquanto sollievo, le disfogò quel lago di làgrime, che dalla partenza di Guido le si era al di dentro ammassato; per la ragione stessa per cui, in piena battaglia, un bravo maggiore mio amico, tôcco leggermente nel naso, diede in quelli urli, i quali, una prima e grave ferita in luogo meno eminente, gli provocava. E invano, Pietro cugino, commosso allo struggimento di Claudia, cercò a forza di buffonate di ridonarle allegrìa e di rimètterla in carne. Pena gettata il fare da nano, il travestirsi da cuoco, il travestirsi da balia! non otteneva da lei un sorriso, neanche di sprezzo.

Ma un dì, il sincerone disse all'afflitta cugina di avere, in una viuzza perduta, incontrato ancor Guido. E Guido, questa volta, non gli avèa pur reso il saluto!

— O il mio carìssimo Pietro! — sclamò la fanciulla con un sorriso di gioia, disincantàndosi quasi. E a pranzo mangiò due bistecche. Piàcciavi o no, sentimentali lettrici, stòmaco e cuore sono vicini di casa.

E quì verrèbbemi il taglio per un sermone circa le gioje morali, le ùniche vere, che la ricchezza potrebbe apportare. Apporta anche fastidi non dico di no, ma, come scrisse un milanese brav'uomo “ogni qualunque cosa ha due mànichi” nè, ora, sarebbe il caso di mètter mano al sinistro. Intorno al quale, parlerò poi a lungo, a consolazione degli spiantati, lor dimostrando anzitutto, che se i nudi a quattrini vòlgono in capo i più generosi e i più bizzarri progetti, i ricchi, per contrappeso, hanno i denari, solo.

Pur tuttavìa si danno eccezioni: èccone una:

Alcuni giorni dopo che Sàlis fu segnalato alla tosa da quel gaglioffo cugino, un servitore di lei ne scopriva la casa ed entrava in un desolato stambugio, dove, neanche il sole, universale parente, si era mai arrischiato. E il servitore offriva a Guido un viglietto, con tali parole:

— Da parte della signorina Bareggi.

Sàlis lo pigliò con tremore.

— Accomodàtevi! — fece al domèstico.

Questi, guardàtosi attorno, dovette stàrsene in piedi.

Quanto al viglietto, diceva:


Signore;

desiderosa da un pezzo d'imparare il disegno, ora, mi sono risolta. Voi ne siete maestro, e mi si disse, egregio. Vorreste insegnàrmelo? Se sì, vi aspetto: tardi è meglio che mai; presto è ancor meglio che tardi.


Il giòvane non si moveva.

— Ha una risposta? — azzardò il servitore.

Guido si scosse, e corse alla tàvola (tàvola e letto era la sua sola mobilia) Ma, a che? di carta, non si vedeva se non se un brano d'invoglia, già di salame; quant'è al calamaio, l'inchiostro era sì secco che la ruginosa penna di acciajo rùppesi tosto. E allora ei si frugò nelle tasche; e ne cavò una matita mezzo mangiata; era monca! Tentò di aguzzarla con una lama di coltello da tàvola; non tagliava, questa, oltre il cacio.

Ma lo soccorse un temperino del servo.

E Guido, dietro il viglietto di Claudia, scrisse:


Signorina gentile,

non posso proprio accettare: un pùbblico impiego mi vuole di giorno, e spesso, di notte. Di malincuore è il mio no: pur mi consolo, pensando che lascio il posto a qualch'altro, certo più degno di me.


Voi capirete, lettori, che il pùbblico impiego di Guido era tutto fandonìa, sebbene ei già avesse, e l'ozio di un alto e la fame di un ùmile. Dunque, che ne era del suo schietto carattere? mò perchè ricusare un onestìssimo ajuto?

— Bella! se è un matto! — salta su a dire un N.N., che a questo mondo cantò sempre nei cori. E, matto, in confidenza, è quel nome, molto di uso, che noi regaliamo a coloro, i quali òsan pensare diversamente di noi, quando ne sembra un po' forte il chiamarli o bestie o birbanti.

Ma il viso della mia Bigia si fà più furbetto del sòlito.

Ve', se ha compreso!

Tu allora, Bigia, e insieme a te, quelli che hanno intelletto d'amore e scèlgono le scorciatoje del sentimento, non chiederete certo perchè, allontanàtosi il servo, Guido si buttasse sul letto, a piàngere e a pentirsi, prima del suo rifiuto, del pentimento poi. Guido sentiva di aversi accecato il solo spiraglio di luce che ancor gli restasse, di avere perduto l'ùltimo filo che il ratteneva alla vita.

Ma, un'ora dopo, un picchio alla porta: forse, della vecchia padrona di casa pel fitto settimanale.

— Avanti! — Sàlis rispose, con la faccia sul pagliericcio.

Si udì l'aprirsi dell'uscio.

— Signore — principiò oscillando una voce di donna; ma questa voce descrisse una curva; non, come Guido attendeva, un àngolo.

Egli ne trasalì. Levando lentamente e con timore la testa:

— Oh! — fece; e balzando in sui pie', poggiossi alla tàvola.

— Signore — Claudia continuò, dal lato opposto di quella — il mio servitore m'ha detto… io vengo… mi disse il mio servitore…, — ma lì, s'empiendo di parole la bocca, taque rossa e confusa, e fisò l'occhio alla tàvola.

— Signorina… voi… — cominciò allora il giòvane bruno — avete scritto… il vostro servitore mi disse… io… l'impiego…

E batti con questo impiego! Guido si moltiplicava le macchie sulle unghie. Ma il dir bugìe non è affare da tutti. Ed egli turbossi, azzittì, e scese lo sguardo su dove posava quello di Claudia.

In cui, era un intreccio di lèttere, un intreccio a matita; Guido leggèvavi Claudia; Claudia, Guido. E le pupille di essi, rialzàndosi insieme, dièdero l'una nell'altra; nè si fuggìrono.

Dio, che scontro! In un baleno, due storie di amore, che ne formàvano una!

— Claudia! — egli esclamò, giugnendo le mani — io ti fuggìi; tu mi segui.

— Dunque, ci amiamo — fe' la ragazza con uno scoppio di gioja.

Ma il giòvane impallidì, e si lasciò cadere sul letto, e si nascose tra le palme la faccia.

— Oh noi infelici! — disse.

— Perchè? — domandò la tosa, agitata.

Ei trasse un profondo sospiro.

— A che sono ricca, io? — esclamò con angoscia la bella.

E quì, silenziosi momenti. Poi, s'ode un passo che si allontana; poi una porta che cricchia. Egli leva le mani dal volto; guarda: è solo. E geme “la povertà fa paura.”


* * *


In qual maniera si maritàrono dunque? State a sentire. La conclusione par da comedia. Un prete Armeno (chi dice Greco, ma ciò nulla importa) apparve Dèus ex-màchina a Guido, e gli rimise in nome di tale, morto pentito a Betlemme, una grossìssima somma, truffata, anni già molti, al babbo di lui. Il che era bene possìbile. La vecchia casa dei Sàlis, disordinata che mai, vincèa per ladri il nuovo regno d'Italia; poi, l'Armeno produsse una filatèra di scritti; infine, prova senza risposta, era il pagamento sonante.

— Bigia, or che pensi?

— Penso che la Provvidenza è pur buona!… ad aiutarla un tantino.





PRIMA E DOPO


I


Infine!… Dieci anni lo avèan bramato. Oh quante volte Antonietta, lasciando cadere con un sospiro il ricamo e fisando sconsolatamente il marito, che di sottocchi la guardava di già, avèa detto:

— Come farèi più volentieri un cuffino! —

Giulio, allora, si avvicinava a lei con la sedia, e baciàvala in fronte. E cominciàvano a dire di que' bambinelli color mela poppina, succianti alle mamme di un'ampia nutrice. Eccome tenersi dal vezzeggiarli? dal mangiucchiarli di baci?… Ma, st! il bimbo ha distaccato la bocca dalla sua credenza e allenta le cicciose manine… Il sonno lo accoglie.

E, spesso, Giulio e Antonietta passàvano verso le tre, innanzi alle scuole del pomo; di cui, apèrtasi a un tratto la pìccola porta, rovesciàvasi fuori, come fantocci da un sacco, la melonìa de' scolaretti, isparpagliàndosi tosto per la contrada, a corsa, dimèntica già della noja sofferta, e saltellante e giojosa; e spesso, di dopo-pranzo, sedèvano tristamente su' na panchetta ai Giardini, Gullìveri nuovi in mezzo alla gentile frugaglia del Lillipùt, che trottolava di su e di giù, vero moto perpetuo, senza fastidi, senza pensieri e tutta amica; là, a fare i grandi occhi intorno al bossolottajo, mago del buon comando; quà, a leccare il cucchiajo, il piattello e le labbra intorno a quel dal sorbetto dell'unghia, o a bevucchiare a due mani la consolina entro un tazzone; in ogni parte, correndo coi cerchi, coi palloncelli, coi draghi-volanti o sui bastoni dei babbi; facendo al signore e al soldato innocentemente, o a rimpiattino dietro le gonne dell'aje; mentre i bebè dalle dande, che incominciàvano a sentirsi i pieducci, con l'agitar delle alette e la voce, credèvano còrrere anch'essi. Oh quanti maluzzi da unguento sputino, tavane da pulci! oh liti, temporali di monte! o dispettini e capricci e cattiverie adoràbili! oh paci! senza riserve, senza capi segreti.

E, a volte, Giulio e Antonietta attiràvano a sè qualche putto; se furfantello dagli occhi briosi e dal nasino all'insù, coll'invito di un dolce; se vergognìno, a sorrisi. Ed ella solleticàvane la chiacchierina. Il cìttolo, allora, mettèvasi a spippolare le ragionette sue o ponèa dimande sopra dimande di una ingenuità da imbrogliarne quattòrdici savi… non una donna però. E, Giulio, facea, poi, palpitare i cittelli, loro contando le istorie di Gino e Ginetta e di Barbotta-fagioli stregone, o rìdere a più non posso scoccando loro sul naso la calottina dell'orologio.

Così, su quella istessa panchetta, i nostri due infelici almanaccàvano il nome pel loro piccino. E, in quanto a nomi, biseffe! Essi mettèvano a parte i più graziosi e minuti, pur non trovàndone mai uno minuto e grazioso abbastanza; senz'avvertire, che il toso farèbbesi uomo e il nome resterebbe bambino. Poi, pensàvano anche agli abitucci di lui, dopo quello di polpa; sul che, Antonietta, la quale avèane sempre pel capo uno nuovo, lo descriveva al marito mandando giù l'aquolina. Infatti, in questo giro di tempo, se ne vèggono in mostra di sì gentili e sì belli, che la smania ci piglia di spirar loro la vita, e, non farlo, è un peccato.

— Mò guarda quello — Giulio diceva alla moglie, additando una bimba, la quale parèa uscita in quel punto da una vetrina.

— Dio! — esclamava Antonietta, serrando il braccio al marito.

E ritornàvano a casa… ed èrano sempre due.

Ma un dì, ella, arrossendo, mormorò all'orecchio di lui una mezza parola… Fu una fortuna ch'ei fosse in quella seduto.

E, da quel dì, Antonietta lasciò il canovaccio e le lane. Popolossi la casa di fascie e onestine, di camiciole e scarpette e calzettuccie e cuffini, i quali Giulio ridendo s'imponeva sul pugno — a nastri, a pizzi, a stratagli.

Nè passava giornata, ch'egli oppure essa, giocato all'indovinello un pochetto, non si facèsser vedere qualche còmpera nuova pel loro ninino. Al quale apparecchiàrono poi una balia (asciutta ben sott'inteso) e una culla in seta celeste e oro, con su un Amorino lì lì per dire “silenzio!” Ma siccome Antonietta non trovò l'Amorino di tutto suo gusto, Giulio, per racconciarle la vista, le tappezzò tosto la stanza con i putti più insigni di Raffaello e Tiziano.




II


È nato.

Giulio, tremando, alza il velo alla culla e guarda il suo bimbo…

Brutto! Gli è un di que' còsi falliti, aborti maturi, cinesi magoghi. Floscio, di un colore ulivigno, tien già le rughe della vecchiaja, e Dio sa quanto vivrà! Non solo. È di un brutto volgare; niuna favilla di quella fiamma divina, che sublimò la bruttezza di Sòcrate; ed è di un brutto neppure, che possa, strada facendo, aggiustarsi. veramente, si dice:


“maschi e tortelli

son sempre belli,”


ma! — ma quì non si tratta di un maschio.

O poverina, quale avvenire ti attende?

Dopo un'infanzia, lunga, durata in un canto, gli occhi gravi di duolo, nascosta da' tuòi genitori, che arròssan di tè; dopo un'infanzia, buja, quà e là serenata da baci, che non làsciano succio — baci di compassione — èccoti giovinetta, e lo “spirto di amore” risvègliasi in tè con violenza morbosa.

Ma, nessuno ti guarda; se sì, è per rìdere; non per sorrìdere mai. Cangia il mondo di scorza, non di midollo; gli è ancora quello, quellìssimo, che diè la causa vinta a Frine. Sei brutta, e le belle ragazze non ti vòglion con loro; brutta, e sgradisci alle mamme. Cave a signatis! le ti crèdon cattiva, e, credendo, ti fanno.

Ma, come i tuòi occhi non sono costretti vèr terra da quelli degli altri, così ognora tu guardi.

Ed ecco, il tuo “desìo amoroso” ha incontrato una faccia soave, di uno, che a tè, alle maniere leggiadre non usa, raccolse il fazzoletto caduto, e, con parola cortese, l'offrì. Oh nascondi l'amore! nascondi.

Ecchè? quel gentile er ti passa vicino e non ti saluta. Sai? Hanno scoccato di tè e di lui male cose; come si dice, bons mots; ed egli più non s'intriga con gobbe; e, in prova, sposa Paolina, un angioletto senz'ali. Oh baci! oh strida!

Così, il caràttere tuo, siccome la voce, inasprisce. Babbo e mamma, al pari della speranza, ti hanno lasciato da un pezzo. Essi rimpròverano a tè la lor morte; tu, a loro, la vita. Pàssano gli anni e più non ti resta che il calor della ciecia.

E tu diventi una vecchia borbottona e stizzosa, che fà morir gli augelletti con il sistema Filadelfiano, che rompe i tèneri arbusti amici a tèneri cuori, che, tutta piena di spilli, si tira in collo i bambini a intabaccarli di baci; e tu diventi una dama, che, lumacando col biscottino e gli scrùpoli per gli ospedali, raddoppia la febbre ai malati — e nelle case attizza discordie, fà la chierca ai ragazzi, e a Dio prostituisce le tose — e i matrimoni attraversa, e turba i riusciti.

Ma quì, il povero padre, aggricciando, abbandona su quella cuna di tanti dolori il velo, e fugge. Fugge impaurito la brama di soffocarli a una stretta; fugge un reato pietoso.



IL MAGO


Eppure, codesta casa, non avèa niente di strano! non gronde sporgenti, non fumajoli bizzarri o torrette, non cabalìstici segni. Era una borghesìssima casa, col suo rispettàbile nùmero senza nè l'uno nè il tre, a due piani, semplicemente rinzaffata di bianco, e dalle persiane grigie.

— Ma le persiane stàvano sempre chiuse!

Ebbene? che volèa ciò dire? ch'essa avèa molto più sonno delle altre. Non si può forse tenere gli occhi serrati anche di giorno?

E neanche il padrone di lei, almeno per vista, era fuori del sòlito; un lanternone a barba biancastra, come tanti altri. Tuttavìa la gente dicèvalo il mago; tuttavìa le mamme, nel minacciarlo ai loro bambini quando cattivi, sentìvano, elle pure, spago. Ed io v'accerto ch'egli, ben in contrario, avrebbe baciato que' tosi che al suo apparire fuggìvano! Un mago poi, che, con l'abbondanza di spiritelli a' suòi cenni, scarpeggia gobbo e doglioso con la salvietta accoccata a comperarsi egli stesso, ogni mattina, e la fetta di manzo e il cinque quattrini di sale ed il pane, è un mago, mi sembra, un po' troppo domèstico.

Ma sì! va e persuadi la contrada San Rocco. A lei era rimasto, fitto e saldato, il racconto di due operài, i quali, ammessi nella misteriosa casetta per aggiustarvi un camino che pativa di fumo, avèano scorto sopra un gran tondo una testa mozzata, ancora con i capelli, con gli occhi invetriti e con in bocca… una pipa. Tonio inoltre, il garzone, narrava con la voce in cantina, che lo stregone, tràttolo a un certo punto in disparte, avèagli offerto una pila di doppi marenghi, purchè gli fosse andato a strappare un braccio di una tal croce di legno appesa ad una tal porta…

— Naturalmente — Tonio aggiungeva — ho risposto di no —

— Oca! — osservàvano i preti — dovevi accettare, poi far dir tante messe. —

Di più; la contrada San Rocco avèa veduto un bel giorno fermarsi alla casa del mago un carretto e uscirne caldaje, storte, lambicchi. La contrada èbbene i batistini; lei, che avèa pure assistito, due mesi prima, tranquilla, al trasporto di una batterìa di roba tal quale nel liquorista di contra!

— Ei cerca l'oro — pispigliàvasi il volgo, mandando giù la saliva. Ma il volgo, secondo l'usanza, sbagliava: il mago non era in traccia dell'oro, quantunque il fosse di cosa, al pari di quello, cùpida e paurosa a una volta.

Infelice! Il più orrìbile morbo che imaginare si possa lo tormentava, chè, se negli altri ci è dato e la illusione e la tregua, o spesso, la forza del male tògliene la coscienza, quì, il martìro, sorto dalla fantasìa, alimentato da questa, e sempre in novìssime foggie, non requiava mai.

Fanciullo ancora, ei raggrinzava le mani e nella voce affiochiva alla parola “morte” e si palpava la faccia seguèndone l'ossa. In tutto, un accenno di lei; montava una scala, ogni gradino suggerìvagli un anno… oh! come presto al ripiano. A volte, stretto da improvvisi spaventi, corrèa strillando le stanze…

— Che hai? — gli dimandava la mamma.

Egli taceva, aggricchiava.

E, a soffocare tali atroci paure, credette, adolescente, una via, il gittarsi nella nemica idèa, il non pensare, il non udir che di essa. Ahimè! il rimendo fu peggior dello straccio. Certo, ci ha libri, i quali ne famigliarìzzano con la figura di morte, pingèndone urne rischiarate dal sole e inghirlandate di rose; ma altri, e molti (la più parte di frati cui il digiuno del mondo fe' brusco) aumèntano i nostri terrori, col mètterne innanzi un inventario di strazi… artigli, code e pièd'oca sopra e sotto del letto, sudari, e puzzolenti tenèbre. E — poiché noi, verso dove incliniamo, si cade — Martino, invece d'aprire le imposte al sereno, asserragliossi nel bujo.

Sbaglio su sbaglio, dièdesi alla medicina. Questa, nella maniera che la psicologìa avèvagli tolta ogni fede e ogni opinione sul patrimonio dell'ànima gli giunse a destare intorno a quello del corpo un labirinto di dubbi. Solo, capì su quale fràgile trama fosse l'uomo tessuto, quanta folla di casi potèvala ròmpere. E, nuova scienza, nuovi dolori.

Tuttavìa, uno svario gli si frammise a tali ombre. Le ombre e la giovinezza di lui facèvano ressa a vicenda; Martino sì ubbriacò, stalloneggiò, riuscì a sottrarsi per qualche tempo a sè.

Ma, una notte, allo zènit di un'orgia che rasentava i confini della ribalderìa, la biondìssima Giulia, assieme alla quale egli aveva bevuto la vita, alzàtasi con un far risoluto, teso il bicchiere, gridato “viva il…” cadde improvvisamente, senza compire la frase, all'indietro.

Il cuore le si era spezzato. Martino svenne; fu chi credette per la fine di Giulia, e, invece, era per quella di lui! per quella di lui, che riapparìvagli a un tratto. Egli avèa già spesi trent'anni; quanti gliene avanzava? altrettanti? oh il buffo!… e mettiamo pure quaranta, cinquanta… serriamo tutte le ante… cos'era? un buffo del pari.

— No, non voglio morire — giurossi — Nè morirò —

E con la foga della disperazione, a capofitto si rigettò nelle naturali scienze, le quali, agli sforzi di lui, si aprìrono come l'onda a chi nuota. Ma l'onda mai non finiva. Dopo vent'anni di studio, feroce, senza una posa (dunque vent'anni di morte) ei si trovò ricco di non cercati segreti, capace di far di un cadàvere pietra, di sospèndere il corso dell'umano orologio e ravviarlo, anzi, dietro a un filo sicuro per costruirne a sua posta; nondimeno, impotente, e, quel ch'è più, nudo a speranze di eternar quel battìto, mosso in noi, primo, da… Da chi? Va te l'accatta! — E intanto il corpo di lui avèa perduto l'acciajo, la barba èrasegli fatta grigia; ei si vedeva in là molto su quello stretto sentiero, affondato tra insormontàbili muri e chiuso alle spalle man mano, entro di cui non vale il coraggio, non la viltà; voglia o non voglia, bisogna camminare in avanti, sempre, finchè un abisso c'inghiotte.

Sino allora, Martino, avèa corso l'aque e le terre, inquieto all'ubbìa che la presente sua stanza diventàssegli l'ùltima, àvido di contemplare la morte sotto ogni clima. Oh quanta avèa accolta eredità di sospiri!… e, nel dilungarsi dai funerei letti, gemeva “uno di manco… vèr me.” Ma, quando sentì che irreparàbili guasti nell'interno congegno gli minacciàvan lo sfascio, bruciò di fuggire non avvertito dal teatro del mondo, di conigliarsi in qualche oscuro cantuccio, per aspettarvi da solo lei, schivando almeno così le làgrime degli amici, il leppo dei ceri, il borbottare dei preti, tutta insomma la pompa dell'ùltimo tuffo. E comperò nel sobborgo la casina a due piani.

Vèngono gli strasudori in pensare a quelli anni, così brevi da lungi e così lunghi da presso, vissuti da lui, solamente con sè. Io me lo vedo ansando a fatica, mezzo seduto su di un cadàver spaccato, a interrogare “morte che sei?” a rovistarvi le traccie di vita, la quale vita è… Cosa? Le definizioni, molte; materialìstiche alcune; altre spiritualìstiche. E tanto o quanto, ciascuna, per la sua strada, va: mèttile insieme, picco e ripicco.

Disperato allora, Martino si buttava a ginocchi, supplicando quel Dio, al quale nell'ìntimo suo mai non avèa creduto nè oggi pure credeva, d'incretinirlo; poi, dalla stessa viltà svergognato, spregava ansiosamente la prece. E altrevolte, èccolo, con lo sguardo smarrito, dimandare a follia quello per cui la scienza era muta; or mescidando ai fornelli indiavolate pozioni; or riunendo la volontà sua, tutta, nei più turchini scongiuri; ora a sfogliare con un tremore di speme, stranìssimi libri di scrittori sotterra, che a parte a parte insegnàvano e il vìvere eterno e la giovinezza perpetua.

Ma il tempo non si arrestava, mai.

E finalmente, agli albori di un giorno, un vicino di lui, in pantòfole e col tabarro sulla camicia a ridosso, apparve alle due portinaje del mago e disse loro che qualcheduno stava sballando od era fatto sballar nella casa; egli ne aveva sentito le grida, il ràntolo.

Le portinaje, prima atterrite, occhieggiàronsi poi indecise. Romperèbbero esse il divieto del loro padrone? traverserèbbero l'atrio? ne salirèbber le scale? E tentennàrono un poco. Senonchè, il caso premeva; risolvèttero il sì. Infatti, giunte al di là del ripiano, udìrono angosciosa la voce del mago gridare “oh mi risparmia; pietà!” indi, un gèmito lungo.

Precipitàrono nella stanza.

Martino, in uno de' suòi peggiori accessi di necrofobìa, giù dal letto, e il letto sembrava quel delle streghe, era dinanzi uno specchio, al pàllido lume dell'alba, miràndosi con ispavento. E certo, l'aspetto di lui, dovèa èssere bene stravolto, se le due donne agghiacciàrono, e l'uomo se la cavò… in cerca di un prete.

Non l'avesse mai fatto!

Il mago si vide perduto, vìdesi agli sgòccioli.

— Gira largo, via! — stridette.

Ma il prete fe' per pigliargli una mano. Martino arretrò, con terrore, come tòcca una biscia; diede nel letto, cadde entro la stretta…

E in quella, per paura di morte, morì.



PROFUMO DI POESÌA


Miss Ada Banner of Bannerlodge, con un tometto del suo inseparàbile Moore sottobraccio, risaliva le scale del Grand Hôtel de Genève a Roma e veniva dall'aver impostato il suo terzo reciso rifiuto alla terza insistente proposta di matrimonio del cugino di lei, Tomaso Turtleson, esq. Mò figuràtevi presunzione! Parlare di matrimonio, anzi di letto matrimoniale, ad una che non capiva se non l'amore di contrabbando (che è il più incòmodo amore) parlarne poi tanto alla buona, tanto commercialmente, come se si trattasse di un affar di formaggi. Infatti — circostanza aggravante — il cugino Tomaso negoziava all'ingrosso di questo alleato degli osti. Per quanto muschio sentisse la sua carta da lèttere, le delicatìssime nari di Ada, odoràvano sempre formaggio. Pàride anche — chissà! — avrà esercito in sìmili gèneri, ma il Priamide vestiva pelli agnelline e non avèa su ditta. Imaginate! Sposare un “Thomas Turtleson and Co.” all'insegna della Vacca e del Bue! e di più, uno le cui ventrali carnosità, già inestètiche, auguràvano di riuscire nella maritale sbottonatura alle rotondità di una pancia. Domando io, come possìbile i voli con una sìmile bomba ai piedi? Come i lunari colloqui con un paralume tale dinanzi?

Fanciulle! gran bella cosa la poesìa — … Parlo s'intende, non a quelle dense tosoccie o piuttosto “pollanche ingrassate col riso” che si permèttono di avere sempre appetito e sempre voglia di rìdere, ma a quelle, le quali,


tenuia vix summo vestigia pùlvere signant,


dalla lingua perpetuamente sudicia, dagli occhi coi luciconi, dal naso che trasparisce, assidue frequentatrici del negozietto Aleardiano di profumerìa poètica: e dico, gran bella cosa, o mie azzurrine, la poesìa! inquantochè essa ci toglie al solitismo di cotesto mondaccio e ci fa piàngere amaramente sopra disgrazie non mai avvenute nè mai avventure, e ci mantiene tutta la scienza dimessa e sèrbaci magri con poco.

Disgraziatamente, per quanto poco si mangi — ahimè! — non tutto va in sangue, ed anche le più vaporose fanciulle… (dove troverò io espressione che non offenda le mie gentili lettrici, tanto caste d'orecchio?…) sono obbligate di fare da sè ciò che non pòsson far fare dalla lor cameriera. Il che, per la forma, è il capolavoro della infernale malizia: dìgitus diàboli est hic; benchè io ci ravvisi piuttosto di quella sapienza divina che mette tutti nel mondo per un'ùnica strada. O pòpoli, trepidanti in ginocchio dinanzi a degli appiccapanni abbigliati d'oro e d'argento, o datevi pena d'imaginare i vostri Reacci e Papassi anche sul trono forato! Quella è la vera comune. Addìo maestà! addìo infallibilità!

E appunto — tornando a noi — fu uno di tali inviti improvvisi, imperiosi, che colse a mezza scala la biondìssima Inglese e la obbligò, pàllida e smarrita, a rifugiarsi nella sua prima compatriota in cui diede. Era il poètico cestellino di uva, mangiato il dì prima. Tutto và in quell'eterno sepolcro — e la foglia di rosa e la foglia d'alloro…

Ma sostiamo. Non è indispensàbile, vero? ch'io dica tutto. Avessi pure lettori leggenti le sole parole, di que' lettori pei quali i puntini rèstano sempre puntini, abituati alle dande e non ancora svezzati, parmi ciò nondimeno ch'io possa, in questo ùnico caso, contare un pochetto, se non sulla fantasìa loro, almeno sulla memoria. E però, pregàndoli di èssermi tacitamente collaboratori, tirerò via dritto saltando a ritrovare la nostra bionda inglesina, quando, soffusa di un pudico rossore e, diciàmolo pure, col cuore più sollevato (o cuore, comodìssimo nome) sta per riporre la mano sul catenaccio dell'uscio.

Ma, alla maniglia, un sobbalzo. Miss Ada si arrestò sussultando.

Era un nuovo avventore. Il quale trovando chiuso, e avendo invano bussato, parve si allontanasse.

E lei ripose con titubanza la mano sul catenaccio.

Ma l'avventore ritorna e si dà a passeggiare su e giù pel ripiano.

Miss Ada si ferma di nuovo e si mette in ascolto. Il passo continua. Che fare? uscire? spoetizzarsi?… Ma e in faccia di chi? La poesìa è alle fanciulle come la polve dorata alle farfalle… guài se la tocchi!… E perduta la poesìa, che le restava da pèrdere?… Fra il sì e il no, passàrono alcuni minuti, minuti che a tutti e due sembràrono un'ora — e lo credo.

Sapristì! — esclamò spazientito, colùi che aspettava —

Gran Dio! la voce del prìncipe russo — di quell'elegantìssimo giòvane, che accompagnàvala al piano e cantava con lei i più appassionati duetti ed imparava l'inglese dalle sue rosee labbruzze sul Moore… pòvero Moore! Or che fare? che fare? Ragazze mie: mettètevi ne' panni suòi. Parlo, sempre, s'intende, alle mie sòlite magroline.

Ogni speranza, vana.

E intanto s'era avviato sul pianeròttolo il dialoghetto seguente:

— Comanda il signore?

Morbleu! — ma sono tutti occupati i vostri nùmero 1000? E ci si gode a starci. È un'ora che attendo.

— Un'ora?

— Dico poco.

— Ha bussato? hanno risposto? no…? oh allora… non voglia Dio! — E forte battendo e scuotendo la spagnoletta dell'uscio, il nuovo venuto gridò: signore! signore! —

Miss Ada si guardò bene dal muòvere labbro.

— Certo… certo… — continuò in inquietìssimo tono colùi che parlava — una disgrazia è accaduta. È un luogo malaugurato questo. L'altr'anno… —

E quì nuovi passi e altre voci… Che c'è?… una disgrazia? — dove?… apoplessìa? omicidio?… Convien chiamare un dottore… Chiamate un prete piuttosto… Occorre il sìndaco… il giùdice… Fate presto… un ferro… una leva.

Miss Ada non sapeva più in che mondo si fosse, o, sapèvalo troppo. L'idèa del suicidio le balenò. Guardò al finestrino del chiaro; non vi passava nemmeno la testa; sguardò al finestrino del buio, inorridì.

E dire che ella sarebbe rimasta senza paura in una gabbia di tigri! O martirio, invidiàbile onore! all'aria aperta però. Nè più sapeva se le convenisse svenire.

Ma la porta cedette.

Miss Ada fremè di furore e si coprì colle palme la faccia. Stette immota un istante, come vinta dal peso di una universale berlina, come sotto le risa che meno udiva di quel che sentisse — eppòi precipitossi alla scala, dietro lasciando un profumo, che non era di viole.

La Poesia fuggì, turàndosi il naso.

E quel dì stesso Tomaso Turtleson, esq. negoziante in formaggi all'ingrosso — Chester — Whitesquare — leggeva, gongolando di gioia, il telegramma seguente:

— Riceverài una lèttera mia. Non aprirla. Stràcciala. Io mi marito anche con tè.



ODIO AMOROSO

I

Volta e rivolta, nulla! Sonno non ne veniva. E sfido! La fantasìa di lui conflagrava al ricordo di una bellìssima tosa bevuta con gli occhi quel dì, Correggesca Madonna, fuggita alla gloria di un quadro e pòstasi ad una finestra. Senonchè, in sulle braccia, invece del gonfi-ampolle bambino, reggèa un gatto soriano. E gli facèa carezze… Gatto felice!

Innamorato dunque, cotto, biscotto! — Egli, Leopoldo Angiolieri, che in una bicchierata a New-Orleans avèa sclamato “amore, nel trantran della vita, è un nome decente per esprìmere… altro.” Fatto è, che sino a quell'ora, cioè ai ventisette e passa, niuno uncino amoroso avèa pigliato Leopoldo; e chi ha verace giudizio sa come ciascuno di noi tutto misuri con la spanna sua propria.

In verità, era d'uopo che per cangiare d'idèe, egli cangiasse di mondo, tornasse giusto in paese — imaginate! — nel bel primo dì.

Venuto per la sorella… Ma quì la parola sorella, lo deviò in altri pensieri, pensieri indigesti. Allorchè egli partiva per l'oltremare — nè lunga avèa a riuscire l'assenza — Ines, sejenne, era stata messa in collegio; ora, dopo quattòrdici anni, rimpatriava a farle da babbo, lui. E, questo, egli avrebbe e di cuore e con gioja prima che la sua sconosciuta apparisse; ma ora, no; ora, una sorella non gli accomodava un bel nulla, qualunque si fosse. Chè, se sveglia d'ingegno, quale tormento! se stupidetta, che noja!… Ed era? Leopoldo pendèa al secondo partito; il ritrattino difatti che, dodicenne, essa gli avèa mandato, mostrava una faccia grassa, dormiosa. Non rifletteva però il giovanotto, che chi dormiva era amore, e che chi dorme si sveglia. Pur, sia come si sia, a che ci hanno le doti? a che gli spiantati?

Così, cacciato con un sospiro di gusto quel tàfano della sorella, Leopoldo intese la imaginazione tutta alla vaghìssima incògnita. E ricompose gli occhioni di lei, neri; e il fiume de' suòi neri capelli, e il viso “color di amore e pietà” di un sùbito pinto a vergogna, com'ella si accorse di lui, e sparve.

Volta e rivolta, sentì sonare le quattro.



II

E, nella mattina, venne a trovarlo il signor Camoletti, procurator suo in patria. Era egli una miseria di uomo, dal viso color formaggio-di-Olanda, con due occhiucci nerìssimi, da faìna; neri, i capelli cimati; nero, un pizzo da capra; nera, la cravattona (e non un sìntomo di una camicia); neri, il vestito impiccato e le brache; sì che parèa ch'e' uscisse da un calamajo in quel punto e gocciasse l'inchiostro. Il corpicciolo di lui, inquieto, le lappoleggianti palpèbre, le mani che non requiàvano mai, dicèvano chiaro il caràttere suo, rabattino ed astuto. Quando parlava, colùi che avèssene udita solamente la voce, doveva pensare “oh pappagallo d'ingegno!” Ed era, quattro-parole-un-complimento-e-un-inchino.

Il quale ometto dei ceci, dopo di èssere andato in dileguo sul ritorno felice e sulla bella presenza di Leopoldo, disse della fortuna di avere, il dì prima, ricevuto un biglietto “proprio del signor conte” — e quì un saluto di capo; — ma aggiunse della disgrazia di non averlo potuto lègger che a sera… “capirà, noi gente d'affari…” Nondimeno, com'egli, a fortuna, abitava nella medèsima via del Pensionnat Anglais Catholique di donna Ines — e quì un altro saluto — così, vi avèa tosto spedito il suo saltafossi e il biglietto. Sgraziatamente! la contessina, uscita a pranzare da una sua amica sposa, non era ancor rientrata…

— Tuttavìa — osservò Camoletti — io avèa già avuto l'onore di partecipare a donna Ines il pròssimo arrivo di sua signorìa. Donna Ines lo sospirava da un pezzo.

— Anch'io — fe' Leopoldo — Pensi, avvocato, che essa toccava appena i sei anni, quand'io partìi con pappà. Ben mi ricordo; era una bimba cicciosa; bella no certo; cattiva come un folletto…

— Oh, allora! — sclamò Camoletti — la contessina di adesso, chi è?

— Vero — notò il giovanotto — che le belle ragazze nàscono ai quìndici anni…

— Infatti… — fe' per dire l'avvocato.

— Prego! — interruppe Leopoldo — La non mi dica niente. Mi lasci un po' d'improvviso. —

E sonò il campanello.

— Un brougham! — ordinò al servitore.

Intanto, il discorso si ridusse agli affari, e parve che tutto assieme andàssero a maraviglia, inquantochè i per fortuna in bocca di Camoletti fùrono un dieci a ciascun per disgrazia. Leopoldo, da parte sua, accennò a cambiamenti ch'egli voleva nei fondi (i fondi visiterebbe nella settimana ventura) parlò di màcchine agrarie commesse a Manchèster, di un nuovo sistema d'affitti, di nuove colture; sul che, il discorso, continuando anche nel brougham, s'interessò vivamente, tanto che, al fermarsi di quello, il cocchiere dovette smontare, aprir lo sportello, e dire “signori!”

Ed essi scèsero ed entràrono.

Quantunque la vaghìssima incògnita avesse già in Leopoldo occupato il posto migliore, tuttavìa, trovàndosi egli sì presso a colèi che sola poteva ancor chiamare parente, si senti bàttere il cuore. Ecchè! Ines, forse, non era nè un velo di Tulle, nè una che curiosava ogni dove, nè un rompigloria a perchè?; — bensì di quelle creature devote, sentimentali, veri tiretti ai nostri segreti, e manualucci di pràtica filosofia. Or, chi non sa che gli amanti han sempre a confidare qualcosa e sempre a dimandare consigli?

In sulla scala, non incontràrono alcuno. Ma, al primo ripiano, il signor Camoletti, ad una vecchia senza cuffia e in cartucce, che il salutò per nome e cognome, chiese:

— C'è donna Ines? —

La inserviente rispose: che le signore maestre e tutte le damigelle èrano fuori a messa… “messa bassa” aggiunse per consolarli “vògliono intanto sedere?” e lor dischiuse una porta con scritto su “Direzione.”

Ned essi rispòsero no.

Rimasti soli, rimàsero anche in silenzio. Il signor Camoletti, accomodàtosi in una sedia a bracciuoli, dopo di aver concrepate le dita alcun po', prese a mangiarsi furiosamente le unghie. Leopoldo girandolava la sala. Sulle pareti di cui, oltre il ritratto del rè, era una mostra (proprio una mostra) di adaquerelli e disegni, di prove di bella scrittura, pantòfole ricamate, ghirlande di fiori, quadri a margheritine, iscrizioni (evviva la direttrice! viva il suo onomàstico!) tutto disotto al vetro e in cornice; e, sopra i tàvoli e i tavolini, programmi dell'Istituto, mazzi di fiori di carta, un cestino di biglietti da visita, in cui stàvano a galla quelli con la corona; poi, dentro uno stipo, un lucicchio d'oro e d'argento — pese, coppe, un nùvolo di tabacchiere una sull'altra come le scatolette delle sardine, e campanelli e penne e posate — doni ed omaggi. Oh quanti segni di amore!… diciamo meglio… oh quanta adulazione pelosa! oh quanta smania di un saldo ai conti seccanti della riconoscenza! E, tuttociò, si voleva che fosse visto e ammirato. Leopoldo ci frisò appena lo sguardo. Però, siccome, nè ad ammirar nè a vedere, posava dimenticato sullo scrittojo un pìccolo albo, Leopoldo l'aprì.

E lesse:

“Note sulle ragazze del P. A. C.” (Pensionnat Anglais Catholique) “anno corrente… fatte da mé direttrice MARIA STEWART”

E, a pàgina prima, lèttera A:

“ALDIFREDI baronessina VITTORIA — diciasett'anni, naso all'in su; capelli da Barba-Jovis; colorito di fuoco.

“Da che reggo il collegio, non mi è mai capitata una fanciulla più ghiotta. Va in seconda a ogni cibo. E sì che tra i pasti non fa che spazzare scàtole di canditi, e pasticche e cioccolatte e mentini! Jeri di là, ad esempio, mi ha furato e vuotato il mastelletto della mostarda. Poi, ride sempre, di tutto. Entro io, ride; entra il signor Catechista, ride. Sgrido; ride ancor più. E attacca alle altre il morbino.

“Vittoria ama, tra i fiori, il garòfano…”

Ma quì, Leopoldo, abbandonò l'Aldifredi, e passò all'A-enne.

E lesse:

“ANGIOLIERI donna INES (dei conti) — vent'anni.

“Buona fanciulla, ma che si atteggia all'interessantismo. Per quanti gliene sequestri e tèngala d'occhio, mi legge continuamente romanzi, roba francese ed istèrica.

“Il suo fiore mignone è la viola. Non sa sonar che notturni, cloches du village, dernières pensées, e sìmili piagnonerìe.

“Ines mangia il meno che può…”

— Sente, avvocato? — dimandò Leopoldo — dìcesi che mia sorella mangia il meno che può. Quest'è, io credo, una nota di buona condotta in collegio: e lei? —

Camoletti si affrettò di sputare i rottami di unghia, e disse:

— Oh certo! buona!… ih… ih! — con un ridacchiar cavallino.

E Leopoldo leggendo, ma a forte:

“… Invìa delle letterone alle amiche, a punti ammirativi e puntini…”

— Dica, avvocato, ma e le àprono dunque le lèttere?

— Sa! nei collegi! — prese a dir Camolètti, in tono che sottintendeva “è un naturalìssimo

uso.”

— Bella! — sogghignò il giovanotto; e seguendo:

“… punti ammirativi e puntini… in cui loro confida dei dispiaceri impossìbili. ”

— Auf! — pensò — che piaga! Dovèa toccar proprio a mè!… Fosse la gaja Vittoria — e chiuse il pìccolo albo, mortificato.

In quella, uno scarpiccìo e un suono di freschìssime voci. Rifluiva il sangue al collegio. E, nella sala, parve che gli ori, gli argenti e i cristalli scintillàssero il doppio, all'idèa di rispecchiare qualche grazioso visetto; e, dal giardino, levossi un'affollata di cipp-ri-cip-cip, tale, che sembrò ogni foglia e ogni fiore cangiato in un vispo augellino.

I passi, il cinguettio, il fruscìo già rasentàvano l'uscio della direzione. E una vocetta, maliziosamente chioccia, diceva: badabigelle! le pvego; non fàccian tvoppo vumove! — Giù, un gruppo di risa! e le fanciulle passàrono.

E, dopo un istante, si udì un ràpido passo. Leopoldo assunse un contegno serio.

— Oh fratel mio! — sclamò una ragazza, entrando di corsa.

Il giovanotto diede uno scatto all'indietro. L'amata di lui non era più sconosciuta.

— Abbràccialo, Ines! — fe' la rettrice apparsa alla soglia, vedendo la tosa arrestarsi.

Ed Ines si appressò a Leopoldo, tremante; ella, come un fantoccio, l'abbracciò; lui si lasciò abbracciare.

— Son pur felice, conte! — disse la vecchia maestra, facèndosi innanzi — Si accòmodino. —

E tutti e quattro sedèttero.

Così, il discorso, principiò, e seguì solo tra Camoletti e la signora Maria, due tali, per parlantina, allo stessìssimo buco; questa, che già iscorgeva in prospetto le sguizzasole vetrine del giojelliere, tolse la mano del dire, mettèndosi a fare l'elogio della scolara di lei, dàndola per garantita, e sospirò e pianse; quello, come riuscì a rubarle la parola di bocca (chè altro mezzo non c'era), snocciolò una tirata di lodi sul principale di lui, la quale, volto il tempo presente in passato, avrebbe pure servito da necrologìa. Ma, quanto alla sorella e al fratello, non una di quelle vampe di affetto che rischiàrano a un tratto antichi ricordi obliati, ricordi d'infanzia; sedèvano a bocca chiusa, non rispondèvan che a cenni, parèvano insomma due poveretti villani, che, mascherati da ricchi, stèssero in soggezione del loro vestito.

— Oh sacristìa! — dicea tra sè l'avvocato — che scherzi fà l'amore! —



III

In verità, era un bruttìssimo scherzo! Poichè Leopoldo fu tornato all'albergo e fu nella càmera sua, solo (chè egli avèa lasciato ancor la sorella in collegio sotto la scusa che tra pochìssimi dì sarebbe venuto a pigliarla per condurla alla villa) cominciò a lagrimare, poi ismaniò, e finì tempestando. E che tempesta la fosse, il conto dell'albergatore può dire!

No; la sorella di oggi non dissolveva l'amata di jeri. Argomentava pur bene la signora Ragione, ma il Sentimento, non ne capiva il linguaggio. Leopoldo pensò di scrìvere ad Ines, di dirle ch'egli era obbligato di ritornare in Amèrica, che lo obbligàvan gli affari, e ci si pose a tamburo battente. Ma, fatto due righe, sostò. E l'avvocato gli crederebbe? con quale fronte abbandonar la ragazza, che, forse, anzi! certo, certìssimo, l'avèa solamente a fratello? dove la volontà? dove l'ànimo forte?… e stracciò il foglio, poi il quinterno.

Si alzò disperato. No! egli non dovèa allontanarsi da lei… cioè, non poteva, perchè…

E trasse un sospiro di avidità, e abbrividì del sospiro.



IV

Pensate dunque che inferno! e chissà quanto avèa a durare!… inferno, le cui pene maggiori èrano appunto gli sforzi per dissimularle, tantochè, ogni collòquio tranquillo con l'avvocato, costava, al giòvane, una o due sedie.

E, un dì, l'avvocato fe' capire a Leopoldo che la sorella di lui non sapeva che dire del suo starle lontano, e si lagnava e piangeva, e…

— A domani! — interruppe Leopoldo alla brusca.

E l'indomani, una carrozza a quattro cavalli e a postiglioni fermossi al collegio. Di cui le finestre si fècer tosto cornice a tanti quadri viventi di ragazzine e ragazze; le une, curiose dell'equipaggio superbo; le altre, del padrone di quello. E Ines passò di saluto in augurio, di augurio in abbraccio, ed ebbe una scorta di baci tale, che, se di labbra coi baffi, avrebbe tornato la vita a chissà quante inamate!… Così, baci perduti.

Tuttavìa, Leopoldo si rimaneva in carrozza.

— Il tuo signore fratello — notò Giorgina Tibaldi, sinceramente, all'amica — è una meraviglia di giòvine, ma, a cortesìa… ve' scusa… è americano… un po' troppo —

Ines taque. Condotta dall'avvocato e dalla rettrice, scese le scale e salì il montatojo. Ella non si era messa alla via: solo, si avèa gettato in ispalla una mantiglia a cappuccio. Ma la beltà non chiede altro che luce: oh conoscèsser le belle qual male fanno gli specchi! E Ines, in disabbiglio, appariva sì seducente, sì voluttuosa, che il giovanotto, impaurito, tòltosi dapresso lei, siedette all'opposto. E fece:

— Oh avvocato — (con una voce ansiosa, affogata) — venga!… la prego —

Il Camoletti ringraziò vivamente, ma si scusò:

— Se si ricorda — aggiunse — abbiamo quest'oggi a trattare dell'eredità di sua zia.

— Maledette le càuse! — fe' a mezzo tono Leopoldo, occhieggiando con ira; e serrò lo sportello di colpo.

La carrozza partì.

Il giòvane, allora, si ricacciò nel suo canto; e alla sorella disse, che la stanchezza il vincèa… Dopo una stranottata, si sa!… dunque, di tenerlo iscusato se si metteva… a dormire.

Ines, nulla rispose.

E, in modo tale, si trottò via quattr'ore. Di tutti i viaggi di lui, faticosìssimi, lunghi, niuno il spossò più di questo.



V

Nè era certo in villa con lei, che Leopoldo dovèa trovare riposo. L'omiopatìa lì non serviva. Leopoldo avèa bel circondarsi di affari, bel imbrogliarli, bel stare fuori giorno su giorno pe' suòi latifondi, ma nello specchio del capo apparìvagli sempre quella pàllida faccia contro la quale parèa battesse continuamente la luna; avèa bel vilupparsi in filosòfiche dissertazioni intorno all'equanimità, e al modo di annichilir le passioni, cioè di vìvere morti, studiàndone anche a memoria i concettini ingegnosi e le elegantissime frasi, ma tutta 'sta roba, scritta in pacifici studi verso cortile, al sovvenire di una occhiata di lei, languidissima, nera, sprofondàvasi giù.

Venivano allora i furori. E allora e' fuggiva a sérrarsi nella càmera sua e ne appiccava la chiave sotto il ritratto materno. Facea le volte di un leone affamato. Pigliàvalo uno struggimento di abbracciare colèi, di schioccare dei baci… che dico! di mòrderla, di pugnalarla. Ma, inorridito a un tratto di sè, si gettava sul letto, sospirava d'angoscia, e mirava con il desìo negli occhi le sue pistole. Oh, a non toccarle, ci volèa bene coraggio!

Ma e fuggire da lei?

Pazzie! ei si sentiva legato con doppia catena. Avesse amato soltanto, non era impossibile… forse; ma, nell'amare, egli odiava; ed una goccia di odio fà un sentimento eterno.

Per quante fitte crudeli, per quante torture ciò gli costasse, egli or più non poteva fare di meno di que' terribili istanti, nei quali era presso a colèi, anzi, èrale al fianco; quando, in una sentiva e le vampe amorose e i brividi dell'orrore ed i sobbalzi della disperazione; tutto, sotto una màschera calma, solo tradendo la irrompente passione al spesseggiare convulso del nome, il più severo, il più dolce, “sorella.”

E, a volte, Ines fisàvalo con gli occhi gonfi, inghirlandati di duolo…

Pòvera tosa! Non avèa fatt'altro se non cangiar di prigione; e in peggio. Chè, almeno in collegio, allegre voci di amiche mischiàvansi a quella della campana imperante; quà, rinchiusa come dalla pioggia autunnale, splendèndole il sole all'intorno, senza compagne ma serve, niuno veggendo all'infuori del fratel suo e di un dottore vecchio, sentivasi orribilmente sola, spopolata pur di pensieri, perchè temeva a pensare; in collegio, a traverso le spie delle persiane, scorgeva un fine, un cangiamento; quà, con un largo orizzonte, nulla. Or, che cosa, Dio mio! più paurosa dell'infinito?

E la salute si dilungava da lei; sì che Leopoldo, agitato, chiese al dottore, una sera:

— Che dice di mia sorella?

— Dico — rispose il dottore — che sua sorella ha un di que' mali che i mèdici non guariscono — i mèdici vecchi almeno, come, purtroppo, io. Donna Ines ha il male di amore.

— Ah? innamorata? di chi? — sclamò Leopoldo adombrando; e, senza stare per la risposta, corse alle sue càmere.

E pòsesi a passeggiarle in lungo ed in largo. Una folla di suoni gli mormoràvano un nome… tremò. Lo sbigottiva il suo stato, ch'egli non avèa osato mai di segnarsi a netti contorni e che non mai in altrùi avrebbe pur sospettato. No; questo non si poteva — non si dovèa, cioè; era duopo un nome diverso; qualunque.

E cercò spasimando… Ah! ecco… Emilio Folperti… Eppure! no. Imaginate in costùi un fittabil del suo, che il mèdico avèa un giorno condotto in casa Angiolieri; un giòvane bello sì, ma bello e nient'altro. Il quale Folperti, s'era creduto d'ingraziarsi il fratello, lodando a lui la sorella, e Leopoldo — gentilmente villano — avèagli chiuso, prima la bocca, poi la porta sul viso; dopo, se n'era affatto scordato. Ma adesso, creàtoselo appena a rivale, Leopoldo non lo potè più soffrire, non gli parve più il mondo, vasto per tutti e due abbastanza… o l'uno o l'altro… lì ci volèa una soddisfazione… Soddisfazione? e di che?… E se il Folperti gliel'avesse accordata con lo sposare colèi?

Ben seguitava a sussurrargli il buon senso “come vuòi ch'ella ami una sì fatua cosa a bellezza ed a senno?” Ma saltò su a dire il sofisma “non si adoràrono statue? non si adoràrono mostri? non si baciàron cadàveri?…” e Leopoldo, sospinto da geloso furore, schiuse di botta salda la porta, e fe' il corritojo, lungo, che divideva le sue dalle stanze di lei.



VI


Era notte; e, nelle càmere d'Ines, niun lume, ma le finestre aperte, sì che il raggio lunare e la brezza entràvano a loro piacere. Leopoldo passò le due prime. E, nella seguente, era Ines, sur il poggiolo che rispondeva al giardino, seduta, e reclinando la testa all'indietro, gli occhi velati, semichiuse le labbra, in quell'abbandono di quasi-delìquio, che inonda chi pianse molto e molto si disperò. Piovèndole attorno, la luna ora piangeva per lei.

Leopoldo riste' a contemplarla un istante. Ed ella se lo sentì forse vicino, vicinìssimo anzi, ma tènnesi immota.

Leopoldo tentò proferire un nome; la lingua non gli ubbidì. Ei la obbligò, e disse: sorella! —

Si alzàrono lentamente le palpèbre di lei, e scopèrser due occhioni, nuotanti in negri stagni di duolo.

— Sorella — riappiccò egli a fatica, in tono alterato — sono ancor quì… perchè… perchè non ti posso stare lontano… quando tu soffri. E, che tu soffri, io so.

— Ma no — ella disse con un filo di voce.

— Sì! — egli fece, in uno scoppio di rabbia — or perchè contradici?… Atrocemente soffri. Io leggo negli occhi tuòi, ebri; nella tua faccia patita, colore di perla; in questo tuo istesso singulto. Eppòi, conosco il tuo male —

Ines sorrise pallidamente.

— Tu spàsimi di amore. —

Ella ne sobbalzò; si raddrizzò sulla vita, e, serràndosi al cuore le mani, quasi per ratenerlo, chè le parèa fuggisse, gridò: no.

— Sì! — ripetè Leopoldo con un riflesso d'incendio nelle pupille, piantàndosi innanzi a lei — Non mentire a mè! Tu spàsimi d'amore per… per tale, che io odio, che io schiaffeggerò, ucciderò — (e accennava come a sè stesso) — per… — (e si stravolse la lingua) — Emilio… —

Ma oltre non disse. Ella il guardava, schiettamente stupita, ed ei ne ebbe un sussulto e di gioja e dolore.

— Dunque, chi è? — disse, piegàndosi sopra di lei, strette le pugna.

Ines era un trèmito solo.

— Voglio saperlo — egli fece — voglio!… hai capito? —

Il viso della fanciulla sformossi, pigliò la strana gonfiezza del viso di un folle. E una ràuca voce esclamò “”; e un bacio, incandescente carbone, arse per sempre un sorriso.

Ma a pena Leopoldo ebbe toccata la sua contro la bocca di lei, che si ritrasse atterrito, cacciò le mani ai capelli, fuggì — Caino d'amore.

Ed ella si morse a sangue le labbra; poi, tramortita, cadde.


VII


Da quella sera, i due giòvani èbber paura l'uno dell'altro. Leopoldo cominciò a star lungi da casa le settimane, or cavalcando alla pazza, allorchè lo pigliava una fumana furiosa, or lungo disteso su'n prato, quando la spossatezza vincèa l'esaltamento. Ines, gittàtasi per indisposta, più non usciva di càmera.

Ma sìmil vita non poteva durare.

Un dì, corse voce che il conte Angiolieri, in caffè, se l'era presa con il Folperti e gli avèa minacciato uno schiaffo; e ciascuno si chiese “epperchè?”

Ma, in quel dì stesso, Leopoldo camminò risoluto verso l'appartamento della sorella e ne aperse la porta.

Ines era a scrittojo; dinanzi a lei, carta bianca; e si posava d'un'aria stracca, abbattuta, su di una mano, tenendo con l'altra la penna. Cercava forse pensieri e ne trovava sol uno. Senonchè, al cricchiare dell'uscio, si volse, vide il fratello, e il fisò. Parèano gli occhi di lei “due desìri di lagrimare.”

Il contegno di Leopoldo era freddo, severo.

— Sorella — cominciò egli, sottolineando tal nome — io stò per dir cosa che è capitale a tè… e a mè. Dà retta. Ci ha… un quìdam… giòvane, bello… ma ciò poco importa… il quale ti chiede per moglie… e questo è quello che conta —

Ines si alzò, e nettamente disse: io non mi marito.

— Tu ti mariterài — ribattè Leopoldo con una voce decisa — Io ti ho promessa già. È affare finito.

— Affare! — sospirò la fanciulla.

— E che altro sarebbe? — dimandò Leopoldo — Tu, ti ma-ri-te-rài —

Ines ricadde, con le mani alla faccia, seduta.

E il giòvane continuando:

— Di', c'è forse una via diversa per la finire col nostro stato infamìssimo? A noi, morte è bene vicina, chè, senza cuore si vive, ma non col cuore piagato; ma… e intanto? Io torno, è vero, in Amèrica; e là ferve anche una guerra… tuttavìa, non basta. Mille miglia di mare framezzo a noi sono poche… ci vuole, quà, sulla spiaggia europèa un uomo, che possa, che abbia il diritto di uccìdermi se… o sorella! sorella! —

E tenne dietro un terrìbil silenzio.

— Lo sposo è il Folperti — aggiunse Leopoldo con una tinta di sprezzo e come di circostanza di nullo rilievo.

— Io non potrò mai amarlo! — sclamò la fanciulla dolorosamente.

— E chi altri potremmo… io e tè? — egli chiese, lasciàndosi trasportare dalla passione, ma, padroneggiàtosi poi — Sorella, quì non si tratta di amore — disse — io parlo di matrimonio… Abbìgliati! stasera io verrò con colùi… — e, soggiogato, a sua volta, dalla propria emozione e da quella della ragazza, Leopoldo fuggì.



VIII


In un battibaleno, tutti della provincia parlàrono del matrimonio, e tutti credèttero allora capire di aver già capito il perchè della scena violente tra l'Angiolieri e il Folperti, e il perchè della guancia affilata della ragazza, quantunque loro allegasse un po' i denti quello di un sìmile amore. Infatti, avèano detto sempre gli uòmini, che, in espressione, la faccia di Emilio era una mortadella, e, quanto agli uòmini, passi! ma anche le donne s'èrano sempre accordate in questa sentenza. Comunque! il matrimonio parèa dei meglio assortiti: in ambidue, anni pochi, soldi moltìssimi… qual gioja per il fratello!

Ma, oh avesse potuto, chi la pensava così, dare un'occhiata in casa Angiolieri! Dove — all'infuori di quel ciccioso e lustro di Emilio, il quale, tutto soddisfazione imaginàndosi amato, non scomodàvasi manco ad amare, come colùi che, servito, si lascia servire — e' vi avrebbe veduto una giòvane, o, meglio, la marmorea effigie di una, costretta a sedere dapresso tale che odiava ed a sentìrsene tocca; come pure, veduto un amante obbligato a mirare, anzi a far buona cera, allo strazio del cuor dell'amata e del suo.

Poi, sulla fine di un pranzo, lo sposo, con un sorriso a Leopoldo, disse:

— Al nostro primo bambino ci metteremo il tuo nome; ti piace? —

E il conte, che si stava mescendo, assentì con un ghigno. Ma fu una grazia del Cielo se la bottiglia di lui continuò a versare.



IX


Il moribondo per decreto dell'uomo, quando dispera di protrarre la vita, chiede gli sia la morte accorciata; e sì facèa Leopoldo, accelerando la sua.

Nè tardò molto quel dì, in cui la sorella gli apparve abbigliata di bianco e di pallidezza. Foss'ella stata in un còfano, niuno avrebbe temuto di porle sopra il coperchio: nè lei certamente sarèbbesi opposta.

E fùrono alla chiesola. Ines dìssevi un sì, gelato come neve all'ombrìa. Una sua amica, svenne.

Uscìrono. Bombàvano i mortaletti, le campane suonàvano ed una banda di stuonatori die' fiato alle trombe. In sul sagrato, giostre, cuccagne, apparecchi pci fuochi, tra i quali la bianca ossatura di un I e di un E giganteschi; da ogni parte, folla. E il Sìndaco, in tutta divisa, inchinati gli sposi, presentò loro dieci contadinelle, vestite di nuovo e dotate per il fàusto giorno da Ines, principiando un discorso che avèa l'odore della carta bollata. Ma l'interrùppero i viva; un grosso pallone con sòpravi scritto felicità pigliava l'aìre. Si sparse il cammino di fiori, si presentàrono mazzi, scambiàronsi in aria i cappelli. Camoletti, intanto, guizzava quà e là nella piena, distribuendo denari, boni per scorpacciate, boni per sbornie, e remissioni di dèbiti inesigìbili. La gioventù si asciugava la gola, la vecchiaja le ciglia. Ed il maestro di scuola, riuscito a chiappare un bottone a Leopoldo, gli fece inghiottire fino all'ùltima stilla un sonetto di duecento e più versi che incominciava:

Te beäto, o signor, cui la sorella

D'amor ferita, ora Imenèo risana.



X


Ed Ines e Leopoldo si sono divisi per sempre, in questo mondo almeno, dato che l'altro ci sia. C'è? Speriamo allora trovarli — non condannati ad una fraternità eterna —



IL NATALE


In que' momenti di spirituale abbandono e di fisica immobilità che precèdono o sèguono il sonno, nei quali più non rammenti quanto sei lungo e largo, e sogni, conscio del sogno, o come flùttuano, o come s'aggìrano in capo le larve di ciò che mai non verrà o non ritornerà più!… E a mè sovviene della vigilia del dì di Natale, quando la folla rigurgitante per le contrade inverte il dubbio, che ci era nato il mattino, alla veduta di quel famoso Verziere, bondanza dì nostran, stupor di forestee, se, cioè, a tanta roba fòssero bocche bastanti. Il giorno stà per chiùdere i suòi registri. All'incertezza della scelta, successe la temerarietà, la febbre scalmana della còmpera. I soldi sèmbran pesare nelle saccoccie; non si fa più prezzo; contràttasi fra i compratori, e le botteguccie a ruote de' baloccài si vuòtano a occhio, come se tutto si donasse o rubasse.

Ed io, anch'io, col mio presepio a màntice e le saccoccie zeppe di caldarroste, sgambetto con la fantesca ver' casa, allungando la via dinanzi a tante vetrine che si dìsputano gli occhi e le borse. In ogni dove, la gola ingegnosa trionfa. Il salumiere par non abbondi che di roba rara. Sotto la pompa di un baldacchino di salsicciotti, di trasparenti zendadine del Papa e di corda di Monza, fra il grana piangente a saporite làgrime, e le artistiche velleità del butiro, fra nuove bottiglie a secolari ragnaje e un luccicchio di scatolette di latta, ecco una colossale testa di negro, inturbantata, che odora lontano un miglio la mortadella, terrìbile e appetitosa; ecco pernici impettite con grembialini e bianchi berretti che girarrostìscono cuochi di pane tosto e tartufi; ecco tacchini abbigliati da uccelli del Paradiso, e porcellini di latte mascherati da frate, e gàmberi e aragoste circùitu curvàntes brachia longo… E il droghiere? Il droghiere, sotto la rituale fila delle fùnebri torcie da cinque o sei libbra di dolore l'una, avvicendata coi pani di zùcchero color cielosudicio a cordelline rosse, ha disposto un bel lago di specchio con bastimenti canditi ed isole in cui nasce la frutta già bell'e cotta e acconciata, ed aspri monti dolcissimi, sui quali saltìcchiano de' canarini, modo huc, modo illuc, per la ragione della sproporzione, favolosamente enormi. Così, nella vetrina del mercantello, sta esposto un grosso agnello imbottito, esageratamente lanuto, col suo bindellone rosa, quieto e stùpido quasi come un agnello vero. E intanto il lattajo assurge a sorbettajo, a pasticciere il fornajo. E quello ci porge il tùmido lattemiele e le àride cialde, simbolo della stagione; questi, Rè magi bollenti scroscianti, due soldi trè.

Ma il cielo promettineve incombe viepiù. Càndidi fiocchettini si cùllano per l'àere come dubbiosi di scèndere, e scèndono lentamente, come attaccati ad un filo. Il campanone del Munici-pio, brontolone ostinato, comincia a rombare. È l'ora dello scopripignatte, l'ora della minestra che bolle. I lumajoli si spàrgono per la città; la stella cometa del Presepio meccànico illùminasi. Tu scorgi inusitate rigonfiature negli àbiti: tu scorgi far capolino i cappucci dorati o inceralaccati delle bottiglie. Tutti hanno il loro pacchetto, e sovente più di uno, o, se no, certo sorriso soddisfatto e saputo, che vuole dire lo stesso. Garzoni e facchini, carri e carriole con su a mucchi la roba s'incròciano per ogni dove. Ma, o voi, che avete il pacchetto, non iscordate coloro che non pòssono averlo: passando, non date solo uno sguardo a que' pòveri bimbi, cui, delle cucine dei ricchi, altro non giova che il fumo: oh fate che nessuno rammenti con astio il dì del Signore; fate che il pane della miseria, almeno oggidì, non sappia troppo di sale!…



* * *


Ma la fantesca, pressosa, mi tira a casa, piena la testa, vuota la pancia. Oh come lieta ci accoglie oggi la tàvola, inondata di luce, riscintillante d'insòlita argenteria, rè il Panettone! oh come vi ci sediamo volentieri!… E in verità, la vigilia del dì del Natale è il giorno il più affacendato, vuotasaccoccie, stancatore dell'anno; aggiungerò, il più misterioso. Chè in questo dì, ben ricordo, il campanello della porta di strada ha tintinnito a straore; e a chi correva ad aprire, affrettate persone hanno sporto dei pacchi, tosto pigliati dalla fantesca, tosto rimessi alla mamma, che, sorridendo a' miei occhiucci curiosi, andava a serrarli in un armadione profondo, cigolatore…

Or che potèvano èssere?… Certo, regali — Epperchì?… Certo per mè… E contèngono?…

Ma, innanzi tutto, facciamo un po' il conto su quanti e quali parenti posso ancora sperare. Ahimè! il nùmero diminuisce ogni anno. Essi mi muòjono senza ammalarsi, anticipando le làgrime mie. Dìcono che io sono fatto già grande, mentre son loro che fànnosi pìccoli. È vero, che, oltre babbo e mammina, possiedo ancora trè zii di più retto giudizio e due nonni… Oh buoni nonni, che non cessate mai di vederci con il cèrcine in capo, anche se grigi di barba!… Ma, per nonna Prassede, quantunque i mièi genitori si ostìnino a dire che il regalo migliore è il suo (il quale regalo, immaginate è sempre un abitino completo, dalle scarpe al cappello) non fo assegnamento: difatti, il suo, non è un regalo per mè, ma per loro. Nonno Bernardo poi, si sà, il sòlito scatolone di dolci, perchè, dice lui, i bimbi vanno dolcemente trattati. Dolcezza troppa, peraltro, fà indigestione e i regali di nonno finìscono sempre in magnesia. E nonno, insième alle chicche, usa chiùdermi in mano un due centèsìmi d'oro… Pure, da che i marenghini diventàrono pinti, da che non tròttolano più, non so cosa farne. Poco m'importa che i mièi genitori me li pòrtino via e li mèttano in un grande salvadanajo che ha nome la cassa dei risparmi, dicendo: ti servirà poi. Chissà che diàvolo, il nonno, finirà per pagarmi!

Veniamo ora agli zii. Zio Rocco, zio Antonio e zio Giorgio. Zio Rocco è quello del libro. Egli mi affibbia, ogni anno, qualche volume di scarto, rilegàndomelo a nuovo… Fosse almeno, stavolta, rilegato di rosso!… Quanto a zio Antonio… Ottimo zio! il Natale passato, mi ha fatto avere una cassetta da legnajolo, poichè egli vuole, secondo il sistema di Froebel, che, dilettàndomi, impari. Per carità, non chiedètene a mamma!… poverette le gambe delle sue sedie!… Ma “tu, o rè Baldassare, fà che zio Antonio mi regali quest'anno, un bel vaporino dal congegno del topo… di que' vaporini che sempre si còrrono dietro e non si giùngono mai; con i suòi bravi vagoni di prima, di seconda e di terza — e tanti!… con i carri da merce, e tanti!… con le casine dei ferrovieri — e tante!… Amen. No, aspetta! Non iscordare la bambagia del fumo, o buon rè Baldassare!”.

Senonchè, la mia maggiore speranza… che dico?… certezza, è zia Gigia, la zia dei regaloni. Quando a Natale sento in cortile il rumore di una carretta, io esclamo: è quì il regalo di zia! Se poi, i doni degli altri dùrano una occhiata e non più, i suòi contìnuano finchè c'è roba da discartare. Fu l'anno scorso, ad esempio, una grand'arca di Noè i cui inquilini occupàvano tutta la tàvola, la credenza, e un pajo di sedie… Non avrèi mai creduto che fòssero tante le bestie!… E, quest'anno?… che io forse indovini?… Poichè l'amantìssima zia ha cura, uno o due mesi prima, di succhiellare i mièi desideri, e poi, ella tiene i segreti a fiore di labbro… Ed io, già, glielo dissi: io voglio un mercato, io — Scusate se è poco! volere nient'altro che il mondo! —

Così, spàsimo ora di vedermi padrone, con alta e bassa giustizia, di tanto paese. Tutto stà ad èssere certi che il Natale sia oggi… Ma sì. Sì, perchè ieri scrissi io medèsimo il nome del mio signor maestro su un pacco di zùcchero e cioccolatte, dolce corrompimento che contrapesa, nella stima di lui, il sale che màncami, e ricopiài sopra lùcida carta a merletti trè letterine coi sensi del cuore mio dettati dal signor maestro, e vidi, tra compassione e allegrìa, la cuoca comporre l'infelice tacchino, mio confidente da quindici giorni, in una bara di rame, in mezzo all'olio e al limone…



* * *


Sì, sì, — è Natale. All'inquietùdine del desiderio e del dubbio, all'attesa, successe la calma della stanchezza e della soddisfazione. Dappertutto, odore di lauro e d'arancio. Marìa cessò o dimenticò di penare, rapita nel viso raggiante del pàrgolo suo, che pèndele addormentato alla poppa, coi boccheggianti labbruzzi bagnati ancora di latte, inconscio di sè, mentre i due sìmboli dell'umana famiglia lo guàrdano stupidamente e l'àngelo della Povertà fà la guardia alla porta. Zitto! non lo destate. Solennemente cade intanto la neve, e la Provvidenza par che stenda con essa sotto ai nostri scèttici passi un muto tappeto. Non s'ode che il fioco galabronio di una piva lontana, non si ode che il fruscio argentino del ruscelletto di talco del casalingo presepio…

Ed io, compreso della più dolce illusione, alzo, fuor dalle coltri, il capo, e guàrdomi attorno. Il sole fà da padrone nella mia stanza. È Natale davvero, me ne ricordo benìssimo, ma la mia mano ha incontrato… una barba. Nella mia stanza, odore inveterato di pipa, e pistole, e stivaloni appesi a spade… non di latta, purtroppo!… Dio! da quanto tempo sono scomparse quelle faccie amorose, che, in tali mattine, brillàvano intorno al mio letto, col più trasparente segreto nei loro sorrisi, faccie per rivedere le quali m'è d'uopo riconfortar la memoria a fotografìe ingiallite come foglie autunnali!… E neppure c'è un bimbo che attenda la mia!



ISTINTO


Giorgio entra di corsa nella sua càmera…

In mezzo alla tàvola posa un certo negozio sul gusto di uno scatolone, rivestito di carta grigiastra da bachi e stretto da spago. Giorgio ristà, gli brillano gli occhiucci, il cuore gli fà — spiccatamente — toch-toch.

È il regalo di zio! Infine! Giorgio avèa cessato dal sospirarlo. È il regalo di quel curioso di zio che gli mantiene i bei fantoccini e lo fa ridere tanto, producèndoli fuori dalle sue tasche, adagio adagio, con una storietta a rinforzo.

E che sarà, e'? Il piccinino arràmpica sur una scranna, siede sopra la tàvola, una gamba di quà, una di là dell'involto — poi tira uno de' capi del nodo. E la cordetta si allarga; con essolei, anche la carta grigiastra.

Ecco uno scatolone — Giorgio vi mette su le manine: con la sinistra se lo ponta contro, con l'altra si sforza a strappargli il coperchio… Nenni!

Sbuffando, volge lo scatolone. E ritenta. Bah! di nuovo fallisce… Allora, su! alle pìccole scosse, ai colpettini, uno di quì, uno di lì… dalle dalle… aah! ci riesce. Il coperchio si stacca, cade. Si leva un odore di vernice e di trùcioli, l'odore delle botteghe de' baloccài.

E Giorgio, con pressa, spazza via lo strato dei frastagli di carta. Oh! dà in un grido di gioia.

— Un pino! — fà egli, estraendo un coso dal fogliame verde arricciato, dal fusto color terra-di-Siena, con uno zòccolo giallo — E te lo alloga in mezzo alla tàvola.

Ne sèguono altri stranissimi àlberi, pomi, peri, la pianta de' manuscristi, quella dei venti-lire, nèspoli, aranci, al dire di Giorgio.

— Un pècoro — sclama poi, assicurando sopra i picciuoli una bestietta bianca con una linea rossa al collo. E dietro all'agnello, trotta il somaro, il drago, il bue, il rinoceronte, il cavallo, il… Nò, l'è un omino.

— Il signor Pietro Grattoni! — osserva, facèndogli bocchi, il monello (Grattoni gl'insegnava le lèttere, non le belle, intendiàmoci.)

— E la sua cuoca Mattèa! — continua, accompagnàndolo ad una villana, quadrata di spalle, e, più ancora, di gonna.

Insomma egli discàtola tutto. La tàvola rimane coperta di un barbaglio di galantuomicini e di bestiole d'ogni fatta — color pomodoro, pisello, inchiostro — Nè màncano pezzi di prato con incollàtovi il muschio e coi ruscelli di specchio, nè le cascine a tetto rosso-di-minio e le capanne coperchiate di paglia.

E in tutto questo piccolo mondo, corre una rara concordia, il lupo giuoca con l'agnellino, il cacciatore và a spasso col lepre, i porci cùllano i bamboletti. Giorgio poi, la cui prima gioja è svampata, serio serio, il labbro inferiore sporgente, le sopraciglie aggrottatuccie, guida i suoi morselli di legno l'uno a casa dell'altro, li passeggia, li fà polcare, stringe parentadi fra essi, imbandisce de' pranzi…

Ma, tò! il lagrimèvole caso. Un bue, quel bue pezzato, simpatìa del mimmo, salta dalla tàvola, giù. Ah! s'è crepato un corno. Giorgio gliel vuol rassettare; lo spezza.

— Se' tu — dice allora, passando la colpa su di un innocente ominatto — tu, birbone! — e, per smaltire la rabbia, lo fà cozzare con un compaesano di lui.

Tich… tach — tutti e due si scavèzzan la testa.

Non fosse mai succeduto! Ne viene, a coda, la filatera delle vendette: si fura il pollame, rùbansi le giovenche, si abbàttono i pini. Ve'! un generale conquasso, una fricassèa!…



* * *


Un'ora dopo, la mamma:

— Pòvero zio! — esclama.

Raccoglie lo scatolone, vi accòmoda i biscottini.

BALOCCHI

— No, no — disse mio nonno, un dopo-pranzo a tàvola, dindonando e la testa e il fiocco del berrettino — le tue ragioni saranno della chiavetta, pure… non m'èntrano. Voglio concèderti che, tanto o quanto, si tocchi innanzi, ma nego, stranego che il tuo progresso sia universale. Di più — in certi casi — voi, affinando, guastate.

— Oh! nonno — fec'io con rimpròvero.

— No, no — ripetè egli, al doppio impuntato — non mi persuadete, voi. In certi casi, dico, il mondo va proprio alla gàmbera. — Guarda, a mò d'esempio, i giuochi del nostro Bertino, que' giuochi che tu gli regali ogni giorno: sono — l'ammetto — molto più lavorati, molto più eleganti di quelli che io, a mièi bei tempi, tentavo di ròmpere, ma, con tua pace, non sono che giuochi bastardi. Il vero, il tradizionale, il robusto balocco — il balocco ereditario che i nostri avi disarmadiàvano pei loro bambini e riponèvano poi, quando questi bambini cominciàvano ad imbronciarsi sul rosa-rosae — s'è perso. In quale mostra mi puòi ora trovare que' galantuòmini di noce, rozzi, ma non senza sapore scolpiti, sòlidi, che, aprendo sì grottescamente con gran trich-trach braccia e gambette ad una strappata di filo, gonfiàvan le guancie ai nostri puttini barocchi?… e dove que' soldatucci di legno, incamatiti, verniciati di bianco e di rosso, dallo zòccolo verde, che si schieràvan di botto, movendo dai capi le stecche in cui èrano fissi? dove, infine, di'? que' cavalloni massicci, con dipintovi su briglie e sella, e con le mezzelune sotto, forate a tondo, pitturate di stranissimi fiori? cavalloni che altalenàvano rumorosamente…

— Fortunati i vicini!

— Ti avverto che non si murava come oggi. Carlo, insomma, pazienta… ora il balocco perdette la sua originalità. A che si riduce, adesso? si riduce a una meschina copia, un quinto dal vero, di ciò che sempre vediamo. Ecco pianofortini, tavolinucci, sediette — tutta roba di cera, di cartapesta, come un sistema di filosofia, unita insieme con biascia, rotta non appena comprata — ecco, so io di molto! topini, vapori, a molle, a ingegni, da montarsi in cento maniere, che fan lagrimare i nostri poveri màmmoli per non poterli capire e fanno, non rado, dicervellare anche i signori pappà. In somma, il balocco legittimo è sotterrato; rimane nella sola nostra memoria. Oggi è minuteria, da cantoniera, da stipo, chincaglierìa; trastulla, non i bambini, ma i bambinoni…

Io (sorridendo): E sì, nonno, che noi, anche noi, abbiamo di già i nostri giuochetti… Croci, spalline, pennacchi, et coetera et coetera.



LA CASETTA DI GIGIO


— Mammina, condùcimi in nanna — disse a mezza voce un toso nell'abbracciare mia cugina Claudia.

— Sì presto? — domandò essa, guardando il pèndolo che segnava le otto. — E perchè mai, Gigio? —

Il mimmo sorrise maliziosetto.

— Ah! non vuòi dirlo tu — fece la mamma — lo dirò io. —

Gigio nascose il suo paffuto visino contro la spalla di lei.

— Sai, Carlo — diss'ella, volgèndosi a mè — Qui, il mio bruttìssimo bimbo, intorno a quest'ora, ha la malinconia del letto. Comincia a fregàrmisi, come un gattuccio, alle gonne, mi tira i gheroni, insomma non stà più quieto fino a che io (egli mi dice il suo brougham) finchè lo porti alla cuccia, lo svesti al pari di una poppàtola — poi ve lo acconci.

Bene, come l'è infoderato e ci ha avuti e baci e bacini, sai che mi fà? nasconde il capetto sotto le coltri… già, una cattiva abitùdine…

— Ma ci si vèdono tante cose… belle — mormorò il piccinino.

— E vuole — seguì la mamma — che io gli smorzi sùbito il lume; non solo; ch'io me ne esca zitta, sulla punta dei piedi… Di', pensi ch'egli intenda dormire?

— Mammina! — sospirò il mammoletto.

— Figùrati, Carlo, che prima di venirmi a chiamare, e' s'apparecchia un magazzino di roba sotto ai guanciali; vi disaccoccia, credo, tutto ciò che riesce a razzolarsi quì in casa… le chicche, i rottami di zùcchero… anche i chiodi. Non parlo de' suòi fantoccini. Ieri, per dìrtene una, gli scopersi nel letto, indovina? la gamba di uno sgabelluccio. Voleva, che so io! voleva gli sostenesse la volta… Qual volta?

— Andiamo… dunque! — fè il mimmo, raspando con un piedino sull'intavolato.

— Gua' che ti rompi le scarpe, bimbo! — osservò premurosa la mamma — Già, tu farài sempre a tuo senno — Dà la buona notte al cugino (e prendèndoselo al collo ed alzàndosi:) Oh! la casetta di Gigio! — quindi, uscì.

Udìi, al di là della porta, fresche risa e baciozzi.

La sua casetta!… il lettuccio!… mi si gonfiàrono gli occhi. Sovènnemi di un'altra mammina, un'amorosa mammina che stava cucendo sotto il chiarore di una lucerna una camiciuola pel suo tosetto, sovennemi di questo tosetto, biondo e ricciuto, che, serràndosele intorno, susurrava lui pure: condùcimi in nanna.

E adesso?… Più nulla. Proprio? Ah! no. La mia casetta l'ho ancora.

Quando, stanco dalla giornaliera lotta contro la poltronàggine, avvilito dalle pìccole cattiverie in cui scappoccio ogni tratto, dalle ridìcole transazioncelle fra il mio dentro e il mio fuori e, più, avvilito dal sentirmi, come tutti gli altri, un burattino in balìa di mano ignota, mi nicchio, mi faccio il covo in mezzo alle coltri e, a poco a poco, nella ebbrezza lieve che precede il sonno, dimèntico questo mio corpaccio — godo… parmi godere, infine! la libertà.

Se Gigio reca in lettino un subisso di roba, io pure. Tutte quelle impressioni, quèi sentimenti, che per la via degli occhi e delle orecchie, affollàrono nel mio capo, sgarbùgliansi, mi si sciorìnano. Un cioccolatino, a Gigio, tocca la posta di un panettone: a mè si moltìplicano le idèe, le più disparate assorèllansi. Tutte quelle imàgini, la notte prima plasmate, dietro alle quali durante il giorno ho corso… dalle dalle… non imprigionàndone che qualcheduna — ed anche questa sciupata — mi riappàjono, disègnansi nettamente. Se un dolore, una mortificazione, un'offesa, m'han fatto nodo alla gola, ecco tranquille làgrime che le cancèllano: il ricordo delle mie buone azioni — quantunque le buone sien poche — m'inonda di gioja.

Poi — alcuna volta — disfatto in un battibaleno il mondo, ivi lo rifaccio a mio modo: che generale riversamento! Altre invece, il cervello, non conservàndomi di sè che una bricia, mi si suddivide in migliaja di parti.

Allora, fra de' piccoli èsseri mièi, riannodo le fila interrotte dal giorno, le fila delle loro comedie o tragedie. Cìrcola in ognuno la mia volontà; tutto, dinanzi ad essa, si piega; oppongo a mè medèsimo ostàcoli per il piacere di abbàtterli. Insomma, ho a dirla? io non giravolto più con la terra. Fuori da ogni potenza fìsica, fuori dal tempo — creo, provo la superbia di…

— Gigio è nella sua casetta — fe' Claudia, riaprendo la porta.



IL VECCHIO BOSSOLOTTAJO


Ma no! non intendo dire ch'egli facesse bene: tutt'altro: bossolottava scelleratamente. E io capisco che a cittadini abituati alle sedute fisiomagnètiche del cavaliere X o del professore Y, i giuochi del cot-co-dek la gallina fà l'uovo e del viaggio di Giovannin della Vigna, dovèan sembrare un po' troppo innocenti, come capisco che il vecchio prestigiatore avrebbe fatto meglio a ingambare un pajo di brache men larghe, lasciando poi nel baule un certo cravattone di lana rossa e dietro ai denti un certo preàmbolo in cui si diceva che la regina Vittoria graziosamente chiedeva da lui, ogni dopo pranzo, il lepidìssimo scherzo della “frittata entro il cappello”: tutto questo però, anche con la sua somma “guài se alla compassione viene il morbino” signori mièi, non vi scusa.

Voi ridevate? Bene, le vostre risa non èran di quelle che pàrton dal cuore e allàrgano il polmone; vi c'entrava il cervello, e il cervello dell'uomo, salvochè forse in frittura, è sempre cattivo. Pareva vi foste dati la posta, non tanto per godere i giuochi del vecchio, quanto per godere lui.

Or mi si dice pianino: il vecchio è un ubbriacone: guarda il suo naso. Sarà, ma io non l'ho ancora visto col fiasco. Quello invece che vedo, sono i suòi bianchi capelli, e quanto poi al naso, cheh! non è il vino soltanto che fà salire il rossore.

Non, con questo, che di pietà non fosse più grano in alcuno. Giòvani ce n'èrano troppi. A casa mia, peraltro, un sentimento che non dà in fuori, quando dovrebbe, è per non nato. E quì potrèi toccare degli alti e bassi dei nostri sentimenti e delle nostre virtù. Confessiàmolo, s'ha più riguardo alla cornice che al quadro. Tu darài un due lire a un birbone artisticamente a strappi; mancherài di moneta per un disgraziato che non può o non ha il buon tempo di far la macchietta. Così, la vista di una ferita alla nuca, ti metterà i lagrimoni; qualche palmo più basso, allegrìa. Lo si trovò pugnalato… Infelice! — Si appese… Che goffo!

Ma per tornare alle nostre bottiglie, pazienza la gioventù! quelli che forse addoloràvano al doppio il pòvero vecchio, èrano certi uòmini fatti — e per fortuna, quasi disfatti — che mi so io. Canzona e ridi, offenderài molto meno di chi concede il chiesto compatimento; chiesto sempre, desiderato mai.

Accordo, deputato Tizio, che il scèglierne una dal ventaglio di carte che ti presenta un bossolottajo è affare non tanto serio quant'uno di quelli arruffianati alle Càmere, tuttavìa era proprio superfluo, eleggèndola, quel fare di degnazione regia, e inutilìssimi poi quèi risetti e quelli “auf” a dritta e a sinistra, come a dire: n'è? io che sono quello che sono, fare quello che faccio!

E questo valga per tè, cavaliere Cajo. Senza che ti raspassi la gola a tossire così da sgarbato quando il vecchio in berlina disse: ecco un gioco di chìmica — già si sapeva che tu ne eri e professore e insieme pedante. Chi d'altra parte ti accerta, che non ci sia qualcuno — per esempio, un certo Gorini — che possa anche lui tossire alle tue lezioni?

Quanto a me, amici mièi, ne ero nauseato: avessi già aperto il borsello, scappavo.

Pur finalmente, l'aprìi.

Il vecchio prestigiatore compì il suo giro col piatto: raccolse dalle quaranta alle cinquanta lire. Per i suòi giuochi era molto; per la umiliazione, poco.



ILLUSIONI


Fui davvero cattivo! Con quanta fede Pietro mi raccontava la guarigione della sua donna, concessa alle appassionate preghiere di lui! Ed io a ghignare.

Chi mi conosce, lo sa: di consueto, sono intrigato nel dire. Moltissime volte in cui ciò sarebbe stata òpera d'oro — parte rispetti umani, parte coniglierìa — tenni a casa o non potèi mètter fuori il pezzuolo: ora, al contrario, vero e giusto momento al tacere, la lingua mi si fece di una elasticità senza pari. Natura mia destàvasi.

E lì con una sfornata di ragioni, sèmplici, evidenti, con una eloquenza tanto più insinuante quanto meno in ponteficale, mi diedi a scalzare la buona fede di Pietro. Per leva adoprài la religione medèsima, gli mostrài come Dio non esistesse per fare da burattino agli uòmini, e come la prece, non inùtile solo, ma fosse un insulto alla divina sapienza. Precisamente, non mi sovviene metàfore quali, quali giri di frase tirài oltre (e le metàfore e i giri, quasi sempre, pìglian tanto lo spìrito da non lasciarci intravedere neppure la discutibilità della ragione che vèstono), fatto è, che la contraria baracca ne rovinò. Pietro, che sul principio, scopava la stanza e dimenava non persuaso la testa, fermossi, appoggiò (fisàndomi con stupore) il mento al bastone della granata; poi venne a sedermi vicino. “Sì! è vero” disse replicatamente. Infine? infine, lisciàndosi i baffi, mormorò: proprio! — E uscì rabbujato.

Sapete allora che avvenne? Svampata quella prima soddisfazione, la quale sente anche il bimbo, rotto — embriònica anàlisi — un cocciuto balocco, mi trovài malcontento, anzi arrabbiato di mè.

Forse, avevo disciolta una dolce illusione; guastàtala certo.

E che le avèa da sostituire il pòvero uomo? Non toccando de' sogni di gloria, dati a pochìssimi, egli era troppo innanzi in età per quelli d'amore, troppo indietro nell'abicì e nell'intelletto per torne a presto da un libro. Io non poteva fuggire dal trovàrmelo nella fantasìa, pieno di dèbiti, colla moglie ammalata, con i figliuoli che nicchiàvan di fame e non volèvan dormire, seduto sulla predella di un focolare spento, cercando almeno l'obblìo. Ma il cielo gli s'era chiuso. La sua Madonna non sorridèvagli più.



LA CORBA


Ed era cosa ben semplice! Figùrati che, svoltando in un vicoluccio, avevo dato in una vecchia, immòbile, piccina sotto una soma di corbe. Una di esse le era caduta e la pòvera donna o non poteva chinarsi per la rigida età o non osava col càrico già squilibrato delle altre. Intanto, un birbone, seduto su lo scalino di una portella, ghignava e pipava.

Quello che feci, l'avresti anche tu.

Ripeto, la cosa era semplicìssima. Eppure, seguitando il cammino, mi tremolava nel segreto del cuore un gusto che mai. La meraviglia della vecchietta nel trovar gentile un signore, i suòi ringraziamenti commossi mi circolàvan col sangue. Affè! che non mi si vada dunque a promèttere premi in un altro mondo. Non usciamo da questo. Ogni òpera buona frutta al beneficato e al benefattore. Per mè non avèo più nulla a pretèndere, anzi — siamo sinceri — dovevo.

Ma, insieme, ricordavo con compassione que' ricchi aggrondati che non san dove comprare un'oncia di cuore contento, mi chiedevo stupìto come mai, lo stesso egoismo, non li tirasse a fare del bene.

E ci ha tante corbe a levar su ancora da terra!



UN'ACCADEMIA ALLA BUONA


La mia marsina ha fatto la sua prima comparsa. Dove? Non vi arriveresti in un anno. Ti verrò incontro.

Come già sai, il mio padrone di casa mi aveva invitato a sentire un pochetto di mùsica, nè io gli aveva detto di nò. Incerto tuttavìa alla prima, mi ero poi risoluto di andarvi, pensando e al modo senza pretesa con cui il maestro mi avèa fatto l'invito e all'aria alla buona, fors'anche troppo alla buona, che spirava la casa. Intravedevo una lieta serata. “Quì almeno” — pensavo — “non ci sarà l'uggia degli appartamenti dorati.” I guanti — sarà un pregiudizio — ma io ho sempre creduto che i guanti impàccino ogni divertimento.

Dunque, giunta la sera e l'ora, mi vesto, cioè non mi vesto affatto (chè una toletta fuori di posto è il dissolvente maggiore della schietta allegrìa) e passo nel quartierino del mio padrone di casa.

Per la piràmide di Cajo Cestio! Grande illuminazione e un mucchio di gente, i signori in frac e con guanti: le dame, senza colletto e màniche. Imàgina il mio stupore!

“Ve sii mai imbattuu in quai ostarìa

A fallà l'uss dopo vess staa a pissà?”

tale io restai. Ricordando però, che io possedevo, del pari, una marsina nuova e fiammante, corsi a indossarla. Chè io voleva conòscere a fondo quell'insòlito lusso, e per bene osservare, bisogna anzitutto non èsserlo.

Dunque, mi rivesto, ritorno. Insalutante e insalutato, mi pianto presso la porta.

Ecco il mio padrone di casa, tutto prosopopèa, àbito nero, guanti giallicci. È a pianoforte ed arpeggia. Oh quante volte l'avevo io invece veduto in cucina, con una veste da càmera sudicia quasi, come le scale di casa, a mondar l'erbolina e a smoccolar le candele!

Quanto poi agli altri signori, più li guardavo, più mi sonàvan di rame. Gli uòmini avèvano ben la marsina, ma parèa che niuno vestisse la sua, parèa che se la fòssero scambiata reciprocamente. Io ci vedeva come appiccato, in mezzo alle spalle, il cartellino del nolo. E, le signore calzàvano guanti, certo, ma guanti calzati di già. Osservàndoli poi parte a parte, distingueva qua e là delle figure non nuove, figure che avèo forse incontrato più di una volta, scendendo o salendo le scale, con sottobraccio il lor quaderno di trilli.

In uno, principalmente, mi ero giusto avvenuto la sera prima. Egli saliva con tanto di mantellaccio, cappellaccio, pipaccia. Ed io gli aveva ceduto la dritta prodigalmente. Il che egli credendo un mio riguardo per lui, mentr'era solo per mè, m'avèa, in passando, fatto una gran scappellata. Ora, èccolo lì, impalato tra i sostegni del muro, in gìbus e coda, nero e lugubre come un becchino.

Regnava la mutolità.

E come mai tanta gente avèa potuto riunirsi a far brutta mostra di mancanza di spirito? avèa potuto ficcarsi in vesti e modi non suòi? Se a mascherarsi, non c'èrano forse abbigliamenti più allegri? E chi diàvolo poi li obbligava a divertirsi così sottovoce, con cera così malcontenta? ad ingozzare — ingrati al sole italiano — certe bieche bevande, peggio che aqua, aque? O è divertirsi questo? Viva allora la noja!

E mi saltava una matta voglia di gridar loro “O voi, che le patate alimentàrono e attèndono, o voi riuniti a far Quarèsima in Carnevale!…” ma quà si propagò per la sala un zittìo. Il pianoforte echeggiò! Ed un filo di donna, in piedi accanto il maestro, sbarrava una bocca, che prego Dio di non incontrare a pranzo, emettendo uno strillo (ecco un felice aggettivo e per chi scrive e chi legge) indescrivìbile. Mò bastava, ti pare? sì ch'io me la fumài bellamente. E ripassando presso la porta di scala, udìi la fantesca, che ad uno il quale avèa bussato (uno, probabilmente, degli eleganti invitati) chiedèa, prima di aprire sospettosa, “chi sei?”



UNA VISITA AL PAPA


Il pèndolo segnava le ùndici e mezza. E per le dieci dovèa èsser la udienza! Io aveva già esaurito ogni possibile passatempo; aveva presa, come si dice, la consegna del luogo; fatto cioè conoscenza, non amicizia, con quattro arrazzoni che tenèan ciascuno una parete; addolìtomi il collo a mirare il dorato soffitto in cui campeggiava l'arme di Sua Santità, con due immensi chiavoni più atti a sfondare che non ad aprire le porte; gustato un pò di tutti i sedili intorno la sala, graditi assài quanto agli occhi, ma quanto a quell'altro, che, in fatto di sedie, è il migliore dei giùdici, assài poco… E poi, aveva passato in rivista i mièi compagni d'udienza: poche persone, del resto; sei o sette in nera marsina, cravatta bianca e mani sguantate, al pari di mè e dei servitori da caffè; due militari dimessi, abbigliati sul gusto dei generali delle marionette; nel rimanente, mònaci e preti dai visi o birbi o intontiti, i quali però, usi al mestiere dell'ozio, se la passàvano placidamente susurrando fra loro e stabaccando e sputacchiando in certe cassettine leggiadre poste tutt'intorno la sala. Nè a ròmpere la monotonìa, vi era che l'apparizione intrigata di qualche nuovo invitato o il frettoloso passaggio di qualche pretocchio dal mantellino di seta color violetto.

Quand'ecco, la cannonata annunziatrice del mezzodì.

Ciascuno si leva di tasca l'oriolo: dal cronòmetro mio allo scaldaletto del chierichino; e chi si mette a montarlo o ad aggiustarne la freccia e chi se l'appone all'orecchio e chi lo confronta con quel del vicino. E un servitore, pomposamente vestito di un damasco scarlatto, si appressa in grande sussiego al barocco faragginoso orologio, ne apre il cristallo e con un dito guida la pigra lancia sulla dodicèsima ora; poi, dà un buffetto al pèndolo, che rappresenta il gaudente faccione del sole.

Ma, con esso, si riavvìa anche la noja. I militari fuori di corso riprèndono a passeggiare su e giù e ad incrociarsi lisciàndosi i baffi; i mònaci e i preti a sbadigliare tacitamente, a stabaccare, a grattarsi; i signori in marsina, che non sedèttero a tempo, a non sapere più su quale gamba appoggiarsi.

Ed io, cercato inutilmente di entrare in uno stanzone tutto marmi e colonne, in mezzo al quale, intorno a un braciere, stà un gruppo di Svìzzeri, in elmo e giallo-rossa divisa, cui non màncano che i dadi e il tamburo per èsser veri giudèi da sepolcro, ritorno nel vano del finestrone da cui mi sono staccato, e mi rimetto a guardare la sottostante amplìssima Roma.

In quella, ecco risuona distintamente da Castel S. Angelo, una fanfara da bersagliere! Stranìssimo effetto! I preti sorrìsero ironicamente, i due militari arricciàronsi i baffi e si fècero d'occhio; io, dalla gioja, arrossìi. Per la prima volta in mia vita, amài, un istante, i soldati. Quell'allegra fanfara, udita in quella morta atmosfera di quattro sècoli fà, parèa dicesse, che il mondo vivèa tuttora nè mai avèa cessato dal proceder di corsa; che l'Italia s'andava compiendo a dispetto di tutti i Santi del taccuino nè così tosto si sarebbe disfatta. E lì mi coglièa la smania di vedere una schiera di que' giòvani arditi, dalle piume al cappello, venire correndo al riscatto dei formosìssimi Iddìi vaticani, prigioni delle negre sottane, finèndola una buona volta con quella minùscola China, con quel pìccol rifugio dell'ignoranza e della immobilità, ammorbatore d'Europa.

Ma quì, un gran movimento per tutta la sala. Da una lontanìssima porta, in fondo all'anticamerone de' Svìzzeri, appariva un barbaglio di vesti d'ogni colore, e tra esso, un coso bianco, una specie di sacco.

Il chierichetto, vicino mio, divenne rosso di fuoco. I due generali da burattini, si accomodàrono le pistagne e si fècer panciuti ancor più; fratume e pretame si mise a sbottirsi di tasca un nùvolo di agnusdèi, corone, crocifissi, santini, e pezze e pezzuole; trè o quattro giù, si buttàron per terra come majali.

Capìi, che quel bianco che si avanzava, dovèa èsser qualcosa peggiore di un sacco.

Era, difatti, Sua Santità il servo dei servi, primo fra gli inciampi al progresso, màssimo fra i nemici d'Italia.





E l'oste tornò con la bottiglia del grand vin blanc, ne empì due bicchieri, servì Antonio e servì mè.

I quali due, perchè è necessario che abbiate sott'occhio la situazione, eravamo seduti di faccia. Antonio su'na panchetta di pietra di fianco alla porta dell'osterìa; io, di là del sentiero, su'n ceppo di quercia.

L'oste rientra. Attenti! Il caso interessa.

No, non lo dico di certo, Antonio forse si succiava le labbra; tuttavìa, secondo a mè parve, egli, dopo la prima sorsata, fece un ghignuzzo. E sia come si vuole! È compiacenza? è viltà? allorchè noi ci troviamo con persone eguali o maggiori di noi, ma conoscenti da poco, il viso ci si fà specchio del loro. Nàrrano una disgrazia? chi più addolorati di noi?… una fortuna? come siamo felici!… Ci guàrdano solo? noi sorridiamo acconsentendo.

Ed io sorrisi.

Pure, sembrava che Antonio fosse nelle mie medèsime aque. Al mio consenso ei disegnò più netto il suo ghigno; sogguardò mè, poi il bicchiere, poi mè ancora…

Ed io, ìdem.

Il quale giochetto incoraggiò un ehm! da parte di Antonio, un ehm che voleva dir troppo per dir qualchecosa.

Io allora “che le pare?…” azzardài. Ciò a bassa voce, prima interrogando con gli occhi il bicchiere, quindi Antonio.

Silenzio di mezzo minuto.

— Non buono, eh? — chiese l'amico, assicuràndosi in sella.

— Mi par cattivo! — sclamài con aria di profondo conoscitore.

Silenzio nùmero due.

— Poh! — fece Antonio con sprezzo e ripose il suo bicchiere sul tondo.

Vuotài il mio per terra.

E il vino era eccellente! Ce lo disse poi Gigi, famoso strappaturàccioli



IL LOTTO


È la portinarìa clàssica. Ampia, bassa, non ricevendo luce che da una finestra chiusa, incartata e per metà nel soppalco, dal pavimento che invischia, non la contiene due mòbili in parentela fra loro, sebbene più d'uno venuto fuori da due. In fondo, un lettone, di que' catafalchi che non si pìglian che a corsa, interrogàndone prima con un po' di paura il disotto, coperto di un pannolano a scacchi bianchi ed azzurri, e protetto da una spalliera di roba, passata per l'aquasanta.

Questa portinaria può dirsi il mondezzajo di casa. Sulle pareti, quadri d'ogni generazione, o senza il vetro o con il vetro rotto… e un àlbero genealògico e stampe dal Cosmorama Pittòrico e figurini di mode dell'època di Beauharnais e una raccolta di taccuini fuor d'uso; sui tàvoli, sui canterani, vasi di fiori di carta, polverosi, sbiaditi — piccole stàtue alabastrine monche — pere, mele e Gesù-bimbi di cera — tomi senza il compagno — porcellane e terraglie a crepi — guanti dismessi — piombo appallato di Dio sa quante boètte — e scàtole e scatolini di tutti gli sposalizi del borgo con entro ancor la treggèa. In un camerino senz'uscio, appesa, folla di vesti, avanzi di ùltimi spogli.

E il tutto, si sottintende, liso, sudicio come le sue vecchie padrone. Le quali, son due; una, che ha nome la Pinciroli, è piccolina, è tutta ossi, e pensa alla provvista temporale dei cibi; l'altra, che è madama Ciriminaghi, vera madre badessa, sempre su 'n poltronone, provvede alla spirituale, spaternostrando, snocciolando rosari, dicendo male del pròssimo.

Ora; volete sapere una cosa?… ma, vè, mièi ragazzi, stia questo tra noi: le due portinaje sono… riccone sfondate.

Gua' che voi fate i larghi occhi! Voi già pensate a un asinello conia-zecchini, o a una borsa infinita: mi appongo o no?… Bene, voglio imbrogliarvi ancor più, aggiungendo, che le due donne, in barba ai loro sacconi di scudi, sono — quel che si può — felici.

E il gran segreto?

Esse mèttono al lotto.

— Oh, è la volta del terno! — dìcono poi con uno scrocchetto di lingua — i nùmeri sono bellìssimi — e le si stìllano il capo intorno al come impiegare i venti-lire del rè.

Madama Ciriminaghi amerebbe una casetta sul lago, in riguardo alla barca; la Pinciroli, una sulla montagna, per amor della mucca; lì si discute, e si sciorìnano in mostra di quello e questo i vantaggi; poi, si va a letto, e lietamente si sogna.

Per il dì dopo, la Pinciroli ha rinunziato alla mucca e si accòmoda al lago. S'aquista allora la casa, e si comincia a pensare in qual maniera disporla, in quale foggia acconciarla. Su un muro di quà, su uno di là, èccoti fuori un casone, quindi un palazzo. In ogni sala, tappeti, grandi specchi, lumiere. Tintìnnano i campanelli, accòrrono i servitori, attàccansi i tiri-a-quattro.

E, certe come si stanno le due amiche di vìncere, possièdono veramente; han, dunque, tutti i piaceri della ricchezza senza i fastidi, tutta la smania del comperare e non il sazio di avere. Sono padrone di fondi e non pàgano imposte nè al governo nè a Dio, sono padrone di case e non tèmono incendi e non ladri, fanno spese stragrandi e il loro sacchetto pesa sempre lo stesso.

Nè poi crediate che i disinganni settimanali le distùrbino molto.

— Pazienza! — esclama, rincasando, la magra.

— A un'altra volta! — ribadisce il grassone senza scomporsi. E lì, fatto un bel taccio sulla disdetta, si danno a cercare nùmeri di fisionomìa più bella.

Ma quì odo certuni, di quella risma di gente, che, infistolita nel naso, sente la corruzione ogni dove, gridare “lungi da lui” mè additando “è un venduto!” e odo, del pari, altri, di que' che fanno il mestier del filàntropo e dan masticata la scienza al popolino, dire “non lo ascoltate operài; ammucchiate. Volete vìncere il terno? mettete al lotto degli interessi composti.” Ebbene! io ai primi rispondo, che respiro del mio; e dico a quelli altri, brave persone del resto, ch'essi ragiònano troppo col mètodo dei matemàtici, cioè a màchina. Oltre le gambe, ci ha molto ancora nell'uomo, se pòvero principalmente, a tener su. E, una e prima, la speme. Vale pure, mi sembra, per settimana, un cinquanta centèsimi.



I FREQUENTATORI DELLA PORTINARÌA


Il primo era un antico soldato dal faccione a grattugia, rosso come un salame, in grazia forse del collo strozzato da un cravattone e della zucca compressa da un parrucchino, con gli anelletti d'oro alle orecchie, e un abitaccio caffè; di quei soldati entusiasti del

“…petit chapeau

Avec redingote grise;”

dal piglio di poffardìa, schiamazzoni, giuroni, ma che si mènano attorno con un pezzetto di zùcchero. Chiamàvasi il caporale Montagna, ei vi diceva il suo nome, poi v'infilava la storia di un certo ponte e di due certi Croati.

La quale storia narrava giusto ogni sera nella portinarìa, quando veniva a pizzicarvi un sonnino — in sui ginocchi il caldano — o a fare il terzo nell'entro.

E, a volte, in quest'ùltimo caso, deponeva il ventaglio di carte contro la tàvola. Allora, il giuoco ristava. Montagna alzava la testa, piegàndola alquanto all'indietro, le vene del fronte ingrossate, le narici gonfie, semi-aperta la bocca…

E le due vecchie lo fisàvano immote.

Aciumm! — faceva egli poi, scotèndosi tutto.

— Salute! — augurava o la magra o il grassone.

— Coppe… — dicèa sùbito l'altra nel porre giù la sua carta. E così il giuoco seguiva pacificamente.

Venne Paolino e il turbò.

Chè, Paolino, s'era messo a sedere viso a viso col caporale, il quale, già per due volte, avèa soddisfatto al suo naso. Ma, come e' s'atteggia alla terza, quel dispettoso picchia di contrattempo le palme ed esclama:

— Felicità! —

Rèquiem per lo starnuto! Le portinaje si vòlsero a Paolino con uno sguardo di theològicum òdium; il caporale si fe' pavonazzo, strabuzzò in giro gli occhi, prese la tabacchiera interdetto, l'aprì, non ne offerse ad alcuno, la riserrò: poi, se la spinse in saccoccia. E, quella sera, taque di quel tal ponte e di que' tali Croati.

L'altro, dei frequentatori della portinarìa, era una donna, magra, lunga, che pendèa un po' innanzi, con un visino tùmido, moscio, dalla tinta pan-cotto, con gli occhi grigi, pìccoli, privi di sopraciglia; e una cuffietta bianca, le sottane a piombo; finalmente, uno scialle, già di tutti i colori, ma or sì smontato, che parèa di un solo.

Sua professione… la poveretta di chiesa.

Toccheggio di un'agonìa. La si raccoglie intorno lo scialle, e ciabatta verso la casa segnata; nè va di certo a dir preci, e non a stènder la mano, e nemmanco a furare; va per nient'altro che per vedere a morire. Ed ecco si alloga al capezzale deserto — chè, due volte su trè, noi fuggiamo lui che ne fugge — e, sola, aggricchiando e scialivando di voluttà, succhia gli ùltimi strappi, il ràntaco del moribondo. Chè, se non giunge appunto a costùi, a furia di giri e rigiri, arriva in qualche stanza vicina, e là si mette in ascolto, ratenendo il respiro. Cacciata poi dalla casa, si mette alla porta, e — a chi esce — chiede, ansiosa, importuna, se il pòver'uomo soffre, e quanto e come.

Il quale vampìro, ogni dì, passava dalle due vecchie, non tanto a vedere se bene, quanto se stàvano male, e s'informava al minuto del batticuore di una, del mancafiato dell'altra.

Poi, loro contava i decessi di tutto il quartiere.

— Quel poveretto di Tonio! — faceva con zanzaresca vocina — quel tessitore volto il cantone, vera calza disfatta, vero spedale ambulante, bluff! jermattina andò via come olio. Quasi non mi accorgevo, io! E neppur lui! — Il che proferiva con un riso calcato ed in tuon di rammàrico.

— E quel pòvero Cecco, sapete? Dico il beccajo… Costituzione forte… due spalle che avrèbber portato come niente un cassone, e lei entro, madama; scusi! ma! tutti s'ha da sballare. Dunque, Cecco, è giù dalle spese anche lui. Lo colse quella malatietta di adesso, che attacca come la boccajòla, e diede in fuori… che?… un bel tifo… Ve' se strillava! soffriva come un dannato! si dibatteva! Oh fu ben duro a morire! — E ciò la strega dicèa, quasi andasse in brodo di viòle, dicèa con un tal lampo feroce negli occhi, che, a madama Ciriminaghi crescèa il soffocamento, il pàlpito alla Pinciroli, e al caporale la gotta.



UNA FANCIULLA CHE MUORE


Oggi, il dottore si avvicinò alla signora Vanelli e con quel suo fraseggiare a rilento — però stavolta un po' brusco, quasi instizzito con le parole che era per dire — crede proprio chiese che la idropatìa possa giovare a sua figlia?

La signora Vanelli ne sobbalzò. Debolmente poi, con una voce sicura come quel che diceva: ma sì, credo — rispose. E dopo una pàusa, una pàusa durante la quale il cervello le suggerì forse argomenti che il cuore taceva: certo — riprese — le mani della mia Ida tòrnano a farsi caldine… —

Il dottore si allontanò con dispetto.

Oh le mamme! o indovìnano troppo o non vòglion capire una goccia. Di chi, rispòndimi tu, poteva èssere il caldo, quando la disgraziata madre stringeva passionatamente le inerti mani della figliuola?

Stà un fatto. Tutti quelli altri signori che gliele serràvano, dicèvan poi sempre tra loro “è ghiaccio”; specialmente dicèvanlo que' giovanotti che si occupàvano con tanta premura di lei, domandàndole “e come stava? e se l'affanno diminuiva?” raccomandàndole di ripararsi bene dal freddo, di coricarsi non tardi. Ve'! come s'interessàvano alla sua salute.

E allora la lisa fanciulla saliva silenziosamente di una andatura stanca le scale… verso la cuccia. Là si lasciava svestire dalla mamma e dalla cameriera al par di una bàmbola, si raggruppava nella sua nanna, la testa sotto le coltri, e cominciava (smorzando contro i guanciali i singhiozzi) a nicchiare. Pure, làgrime non ne venìvano giù. Gli occhi della fanciulla si èrano asciutti di quell'aquitrino in cui la pupilla nuota e ne è la visìbile ànima. La pòvera Ida contava, ricontava i suoi diciottanni, pensava, con un nodo alla gola, che tutti avèvano molta, troppa compassione per lei. Compassione? null'altro?

E lì con la mano sorradèvasi il seno…

Chè! Amore vuol polpe.



I RACCONTI DI DONNA GIACINTA


— Conta. —

La nonna lo accarezzava, incominciando, a mo' d'esempio, così:

il codino

Ti dirò una scenetta che accadde a mio fratello maggiore… morto anche lui! Me la narrava sovente, e come, nel ricordarla, si rischiarava il suo viso!

Quando la avvenne, io era in Francia, in collegio. Corrèvano tempi tristìssimi. Mio fratello faceva gli studi nella paterna città presso una scuola di Barnabiti, se non eccellente, buona. È vero che la malattìa rivoluzionaria l'avèa tanto quanto intaccata, ma che poteva allora sfuggire a tal malattia? Era nell'aria. Infatti, i reverendi sequestràvano spesso ai loro scolari imàgini sediziose, libri guasta-cervelli, e allorchè poi, a castigare, mettèvan mano alla sferza, gli zuffettini pappagallàvano su certe ideone intorno alla dignità umana, e che so io! Mio fratello però, uno tra i pochi, non avèa peranco rizzata la cresta; tanto è ciò vero, che il padre reggitore la scuola, pel quale era sempre la terza posata sulla nostra tovaglia, affermava ogni dopo-pranzo a donna Francesca mia madre, che il suo Carlomagnino avrebbe, senza alcun fallo, inscritto nel calendario la famiglia Etelrèdi.

Senonchè, un giorno, il nostro futuro santuccio, tornato a casa da scuola… e quì, avverti… èrano le prime volte che egli tornava da solo, avendo tocchi i venti anni…

Alberto: ne ho sette io, e vado attorno senza nessuno, io.

La nonna: oggi s'è messo il vapore, si nasce con uno sigaro in bocca; allora si maturava più tardi…

… dunque, tornato mio fratello da scuola, e, come l'etichetta ponèa, recàtosi a baciare la mano alla contessa mammina, parve straordinariamente rosso.

— Che avete? — ella chiese con il suo sòlito imperio.

— Niente — egli rispose turbato.

— Eppure — osservò mia madre — siete di un tal colore sì acceso… Sembrate un villano!

— Io? — disse il contino ancor più arrossendo.

Mia madre, che stava seduta, cominciò a tripillare per l'impazienza un ginocchio, e a dire: so cosa avete —

Don Carlomagno si spaurì.

— Voi — seguitò la contessa nell'additarlo con l'indice — oggi… poco fà… udiste e forse avete anche tenuto, discorsi, mi duole d'insudiciarmi le labbra… rivoluzionari. No? allora leggeste qualcuno di que' lùridi fogli scritti da quei pieni-di-pulci di repubblicani… gente che non usa le brache, e sen gloria!… canaglia…

— Ma no, signora mammina — interruppe don Carlomagno.

— No? — ribattè la contessa, studiàndolo con l'occhialetto — Bene, andate —

Don Carlomagno fe' un tondo inchino, e rimase.

— Ho detto? — esclamò la contessa.

— Vado — balbettò mio fratello e si allontanò a ritroso.

Mia madre se la sentì fumare. Balzò dalla sedia, e corse al contino. Quello, continuando a indietreggiare, s'addossò contro il muro.

Oh il bel quadretto, Bertino! Là, mio fratello, un traccagnotto, alto come un granatiere di Prussia, tutto tremante, quà, rimpetto a lui, mia madre, donnettina dell'India, gli occhi fuor dalla testa, soffiando come una gatta.

— Conte! — ella esclamò — si vòlti! — e, senza dargli un momento, lo fe' girare sui tacchi.

Orrore! Don Carlomagno s'era tagliato il codino.

Imàgina la signora mia madre! Fu come se le avèssero tolto un quarto di nobiltà; non riuscendo a parlare, s'ajutò con le mani, e giù, una solenne guanciata al figliolo.

— Ho dunque in casa un ribelle? — gridò, non appena potè rinviare la lingua — Ed io! sono io che lo ha allattato! Cielo! che cosa ne avrebbe mai detto il vostro pòvero padre? Disonore degli Etelrèdi! — e qui, sulla seconda gota di mio fratello, poggiò un altro splèndido schiaffo, forse per simmetria.

Il ragazzone, còlto dalla paura, non alzava nemmeno lo sguardo; si limitava a fregarsi, con le due palme, le guancie.

— O dove il metteste? — dimandò imperiosa mia madre.

Il poveretto aguzzò le labbra quasi a impetrare pietà: l'ho in tasca — disse con un filo di voce.

— Quà — ordinò la contessa; e, come don Carlomagno traeva timidamente fuori il codino, ella glielo strappò dalle mani e gliel misurò sulla faccia.

— Ora — conchiuse — o creatura ingratìssima, andate! e Pietro vi serri nel camerino. Vi resterete ad aqua, pane e formaggio… no, non meritate il formaggio… a solo pane ed aqua quìndici giorni. Obbedite! —

Quel pampalugo di un mio fratello, se non più rosso e confuso, ben altro gonfio che non all'entrare, uscì. Ch'egli ubbidisse, è certo: era abituato.

Quanto a mia madre, piangendo rabbia e dolore, serrò sotto chiave il codino. E lo tirava poi oltre per castigar Carlomagno.

— Ti piace?

Alberto: sì… ma nàrrane un'altra… seria —

La nonna: incontentàbile!

— Oh ne sai tante tu!

— Bene, alla seria!

isolina

Ti ho detto che mi avèano messa in un collegio di Francia; aggiungo ch'ei si trovava in una mezza città di provincia, Chateau-Mauvèrt. Là, mentr'io toccava i nove anni, corrèvano i giorni i più vermigli della Rivoluzione. La tolle faceva la testa senza riposo. Giorni, ricorda bene, nei quali per ottener l'eguaglianza si calpestava la fraternità, e, proclamando i diritti dell'uomo, legàvasi il volume riformatore in pelle umana. Il nostro collegio s'era fatto deserto. Non vi restàvano che quelle poche, le quali non avèan potuto fuggire, cioè sei o sette bambine del tempo mio e una ragazza intorno ai diciotto, che noi chiamavamo la grande. Quanto alle suore, due — suora Clotilde e suor'Anna — giòvani creature, amorose, che la nostra innocenza, in quelli orrìbili tempi, più che tutt'altro, teneva in un continuo sbàttito.

Una mattina, noi, raccolte in una pìccola sala, ascoltavamo suora Clotilde. Essa, con la sua voce vellutata e soave, pingèvane le dolcezze della carità. Entra di pressa il giardiniere, e: suora — dice — un commissario della Repùbblica… il ciabattino Garnier. —

Suora Clotilde, impallidita oltre il suo abituale pallore, si alzò: ben venga — disse.

Ma, a che il permesso? — l'ex-tiraspaghi, in nome della onnipossente libertà, se l'era già preso. Ecco apparire alla soglia un uomo dal viso tutto occhielli e bottoni, con la sòlita fascia dai tre-colori, seguito da mezza dozzina di mascalzoni, sùcidi, a strappi, armati di picche.

— Cittadina Beaumont! — egli fece, nemmen toccando il berretto, chè cortesìa non è repubblicana virtù — rispondi: ci hai quì una cotale Isolina, figlia di un sedicente conte della Roche-Surville, smoccolato a Parigi? —

Suora Clotilde tremò: forse, le sue purìssime labbra stàvano per proferire la prima bugìa. Senonchè, i nostri occhiettini avèano di già tradita Isolina. Anzi, ella si avèa da lei, sorgendo. Era la grande. Oh la gentile figura! svelta, fràgile come un bicchier di Murano: poi, di certe manine! mani sì bianche, sì trasparenti e voluttuose!

— Garnier — proruppe la suora quasi piangendo — non per pietà! per giustizia. Voi non potete strapparci questa delicata fanciulla, innocentìssima. Ella ci venne affidata da' suòi genitori, e i suòi genitori son morti. Fòsser pur stati i più malvagi del mondo, che ci può ella mai? e la Repùbblica nostra, gloriosa, come mai può temere una ragazza, tìmida, senza parenti, nè amici, pòvera…

— Pòvera? — ghignò il commissario — Con quella miseria alle dita? — e accennò a tre o quattro anelli di lei, ùnica fortuna sua che or le tornava in disgrazia — Intanto — ciò vèr gli straccioni alle terga — noi, pòpolo, crepiamo di fame!… Cittadina Beaumont! guarda col tuo parlare anticìvico di non obbligarmi a ritornare da te… guàrdati bene! —

E lì il birbone venne alla giovinetta:

— Isolina la Roche — disse — ti arresto! — e allungò la mano su lei.

— Largo! tu puzzi! — disse arretrando la tosa.

— Aristocràta! — vociò il canagliume.

Così, ne fu condotta via un'amica: ed allorquando suora Clotilde, uscita dietro Isolina, rincasò verso l'Ave-Maria, a noi che chiedevamo: e dunque? — venne solo risposto: pregate —

S'andava chiudendo la sera. Prima di coricarci, noi usavamo entrare in una stanza dedicata al Signore. Peraltro, non vi si vedèa nessunìssimo segno della nostra salute. A mezzo allora di gente, la quale imponeva la libertà del pensiero, tai segni, o per paura o pudore, si nascondèvano. Noi li portavamo nel cuore.

E l'oratorio dava sur una viuzza perduta. Quando splendeva la luna, non vi si accendèvano lumi. Quella sera splendeva la luna.

Le suore s'inginocchiàrono senza dire parola intorno di esse, noi; e pregammo.

Gemèa la calma notturna. Per chi pregavamo, tu sai.

Ma, a un tratto, suono di vetri spezzati; e, a terra, il tonfo di cosa morta. E un grido: vive la république!

Balzammo in pie' sbigottite… Dio! Sul pavimento giaceva tagliata una mano, bianca, ornata ancora di anella…

— Basta! — qui esclamava Albertino, serràndosi all'ava. E rimanèa pensoso il resto della giornata. A notte, sognava — e mani e mani spiccate, sotto chiaro di luna, che gocciolàvano sangue, fine, bianchìssime, inanellate di topazi e smeraldi.



LA CASSIERINA


Dieci anni di meno — Alberto si trovava in campagna. Era solo, su 'n terrazzino della casa paterna che soprastava al villaggio, stanco, come generalmente si è agli sgòccioli di una domènica, il giorno del fare niente, e si sentiva la faccia accarezzata dalla frescura notturna. Poco innanzi, una ventina di razzi — imàgine della più desiderèvole vita, corta e splendente — avèa, per annunciare la chiusa di una festa paesana, stracciato l'àere, e apparecchiato tabacco di naso agli uccelli. Il cielo, nero-fulìgine. Tratto tratto, un lampeggio vi abbarbagliava per un batti-palpèbra, facendo brillare vetri, gronde ed ardesie: poi, tutto rintenebriva; e rispiccàvano le illuminate finestre. Ancor più nero dell'àere, il villaggio pareva allora un ammasso di spenti carboni.

E dal villaggio salìvano ad Alberto i suoni maleaccordati di un tamburo e una tromba. Essi di tempo in tempo, cedèvano a una voce di donna, acuta… Di botto, Alberto, si parte dal terrazzino, stacca un cappello dal muro, esce di casa; e, giù per l'erta arriva al sagrato.

In cui, a mezzo di una folla di vìllici e in pie' su 'na panca, illuminata da fiàccole, era un toccone di carne fèmina, con i capelli a cespo di maggiorana, le guancie a pane buffetto, e la pappagorgia: sua veste, una petturina di raso non bianco, e una gonnella di garzo; sotto, due colonnette da balaustrato. Il che maledettamente stonava con la vocina di lei. Ma ella ricorreva spesso al tamburo. Allora, un uomo alla destra, in maglie, con una cera da pignatta bruciata, strideva una tromba; e intanto, un pagliaccio a sinistra, abbigliato da Meneghino, gambuto di uno a ventre di contrabasso e a muso biacca-e-mattone, gestiva, e, in ràuca voce, quasi annegata nell'aquavite, gridava.

E i tre saltimbanchi, rullando il tamburo, suonando la tromba, facendo un fracasso per trenta, si mèttono in marcia: dietro, la beceraglia intruppata, a zufoletti ed a fischi.

I saltimbanchi vanno alla loro baracca. Ma, ivi, perchè la folla si arresta? È che là tira vento di rame. Ha bel strillare il donnone: “sotto, pòpolo generoso! si tratta della miseria di un dieci-centèsimi…” tutti rimàngono sodi. Corre quel diffidente sospetto, che è la prudenza di chi moltissimo ignora e poco ragiona.

Alberto volle ròmpere il ghiaccio. Si fe' coraggio, e, camminato vèr la baracca — là ove si stava a cassiere una tosuccia di circa otto anni, in bianco, con un visino stregato, gli occhi nerìssimi, lùcidi lùcidi, forse dal lagrimare continuo, ed i braccetti nudi, che ricordàvano i bastoncini del tè — buttò una moneta sul tondo.

Fu 'n soldo che diede un suono di argento.

— Lei… — prese a dire la bimba, tirando una falda ad Alberto. Ma non disse di più. Il saltatore dal muso affumato, avèa grugnito con ira. Ella serrò le palpèbre come a tuono imminente, e Alberto, che s'era volto e avèa egli pure compreso, taque, e con stringicore seguitò la sua via.

Noti — chi si diletta a dipìngere — come pezzi di tela e pali formàsser due lati della baracca; gli altri, un muro di orto. E, nell'interno, si vedèvano panche, un pajo di cavalletti con padelline di grasso a fumosa fiammella agli estremi, e un organetto guardato da un cane barbone: volta, quella del cielo.

Quanto però a spettatori, all'entrare di Alberto non si toccava la mezza dozzina. Senonchè, il panno tira il frustagno. “Và tu… vengo ancor io appena Alberto fu dentro, èbbevi ressa alla porta; e nella baracca, folla.

E cominciàrono i giuochi — giuochi infami!

Imàgina due piccini, di non più di sei anni per uno, pezzati di nudo e con le animuccie lì pelle pelle, ballottati senza misericordia; e imàgina una tosuccia (la cassierina) incesa da bicchieretti di branda, a saltar trafelata, cerchi, corde e sedili, tossendo, e gettando a guisa di gioja i gridi che le strappava il dolore.

A un punto, sdrucciolàtole il piede, la cadde contro del muro; nè il muro era, per pasta, di quelli di Gèrico.

Alberto non potè più durarla, si alzò, e dilungossi coll'ànimo arrovesciato. E, quella notte, nella fantasìa di lui, fu un vai-e-vieni; ora, di vispi e puliti bambini dal sentore di cipria, cui, parlando, ognuno addolciva e le parole e la voce, e i quali, se piangèvano mai, era per non riuscire a spezzare tutti i loro balocchi; ora, invece, di avvizziti puttini — meglio, di pìccoli vecchi — a strappi, lavati dalle loro làgrime solo, mai da nessuno baciati, mai sorrisi, quì a rosicchiare secchetti di pane dinanzi alle golose mostre di una rosticcerìa, là rannicchiati entro un pagliajo, bubbolando pel freddo, in compagnìa di qualche cane perduto o abbandonato com'essi.

Il domani, Alberto, si destò di buon'ora. Bisogno, più che non voglia, stringèvalo a ritornare sul luogo del crudele spettàcolo. E, come vi fu, trovò la baracca, spiantata; sen caricava un carretto. Sopra del quale, uno de' saltatori (quel dal mostaccio di spazzacamino) in maglie ma con la giacchetta a ridosso, dava di piglio ad un palo pòrtogli dal Meneghino. E questi era giù, la camicia slacciata (il che scopriva degli àgnus) col muso ancor mezzo dipinto e mezzo verd'aglio. Lì accosto, i due pòveri bimbi sotto di un asse, uno per capo, aspettando; in fondo, il donnone, floscio carname, in ginocchio, che legava un fardello.

E, tra i curiosi, Alberto. L'occhio di cui, più che a tutt'altro, indugiò sulla faccia di uno dei due tormentati piccini, faccia sparuta, smorta, ma intelligente che mai. Poterne cangiar l'avvenire, quale felicità! E, Dio sa che cammino di gloria gli si sarebbe dischiuso!… Una frasuccia bastava…

Ma la frasuccia non venne, ma Alberto si allontanò.

Chè a lui mancava qualch'altro da rivedere, pur non sapeva dir che. Proprio, come allorquando s'ha una parola da proferire, se ne conosce il suono, se ne conosce il valore, ma non c'è verso di spiccicarla; notando poi, che la cosa, cui tal parola è veste, torna, apparendo, moltìssime volte inaspettata.

La quale cosa, ad Alberto (che svoltava in un vìcolo) fu 'na tosetta, seduta sullo scalino di una portella, fisa a un collo di fiasco, rimàstole in mano: a terra, dinanzi a lei, cocci di vetro ed una traccia di rosso.

La cassierina! Perchè sì assorta? Già, era vano di attèndere una di quelle fate benigne, le quali, a bei tempi andati “splif splaf” avrebbe, con un colpetto di verga, riuniti i vetruzzi, e riempiuto la boccia. Il vino continuava a colare. Ma ella non si moveva. Tanto fà! le busse non le avrebbe perdute. Se lei non andava, loro sarèbber bene venuti. Oh! per le busse, non la dimenticàvano… mai… — E tristamente, girava il collo del fiasco.

— Tu! — disse Alberto.

La ragazzetta alzò due occhioni neri e gonfi dal pianto.

— Ti batteranno, eh? — dimandò egli con una voce pietosa.

Ella bassò la testina, e sospirò.

— Prendi — fe' Alberto, rovesciàndole in grembo tutto quanto avèa in tasca… e soldi di rame e soldi d'argento. Poi, fuggì via.

Due sguardi maravigliati e di riconoscenza lo accompagnàrono. Ei non li vide; li sentì.



UN ROMANZO ABORTITO


Notte; il cortil delle poste. In mezzo, nell'ombra, una diligenza a gobba coperta di tela cerata, alla quale, degli stallieri in camiciotto azzurro, attàccano tre robusti cavalli. E intanto, presso un lampione, il cocchiere aggroppa una nuova scoppiarella alla frusta.

— L'interno, completo — fà un uomo a berretto listato di oro, scendendo lo smontatojo dell'òmnibus.

E va a dare un'occhiata al coupé. Vi è un giòvane intabarrato.

— Uno — egli dice, consultando un libretto; poi, volgèndosi al pòrtico — manca un signore! il signore nùmero due.

— Signore… nùmero due! — ripete alla soglia della sala da pranzo una voce.

Quì il vetturino, per le maniglie, s'arràmpica vèr la cassetta.

— Eccolo! — grida un ragazzo

Infatti, due donne èntrano frettolose dalla porta di strada; si fèrmano alla diligenza; si abbràcciano; bàciansi; pènano a separarsi. Ed il commesso si mette a far note; il vetturino si calza i guanti più adagio.

Ma concambiato è l'ùltimo bacio.

— Olà! op op! — vocia il cocchiere, raccogliendo le briglie e schioccando la frusta. E la grave carrozza si muove, passa lentamente il portone, e ruota sui trottatoi di granito. Vi ha passeggieri, di quelli infelici, costretti, nell'ampiezza del mondo, a trarre la vita entro quel torno di mura di cui nàquer prigioni, che l'accompàgnano con un sospiro. Molti de' viaggiatori sospìrano invece nel lasciare la gabbia.

Nel coupé, Alberto, il quale sembra dormire, guarda la sua vicina, sott'occhio. Egli, nel nùmero due, non aspettàvasi certo una donna, e, quel ch'è più, una donna giòvane e bella come gli avèan tradito i fanali. Troppo desiderava e temeva ciò. Ora, il cuore gli langue in una commozione dolcìssima. La sua compagna stà avvolta in un waterproof, il velo del cappellino giù. Tra essi, posa una sacchetta di cuojo, poca barriera, ma che val, per l'onore, quanto una catena di monti.

E chi potèa mai èssere la solitaria viaggiatrice? Alberto vìdela trarre un fazzoletto di tasca, e pòrselo agli occhi; dunque, una istoria di pianto! Tosto, il cervello di lui si die' a fabricare romanzesche avventure, tuttavìa e' s'annaspava vieppiù; tuttavia e' sentiva quello smarrimento di sè, quell'abbandono, che precèdono il sonno. Nè c'era di mezzo se non il rumor del selciato; sì, che allorquando si cominciò a còrrer soave sur il battuto, Alberto non finse più di dormire.

Come destossi, la luna splendeva diritto nei vetri innanzi al coupè, illuminando, al di là, i dorsi e le teste dei tre cavalli; di quà, egli e la vicina di lui, sopita. Il velo del cappellino era su. L'ovale sua faccia, da cui le làgrime avèano cancellato e il colore e il sorriso, pareva al melancònico chiaro uno schizzo a carbone su 'n bianco muro. Dio sa quali occhi sotto quelle palpèbre a lunghe ciglia di seta!

E il guardo del nostro amico, vinto da incandescenza cotanta, dovette abbassarsi. Dal waterproof di lei, sopra un ginocchio, usciva una mano guantata, stringente una lèttera.

Un'ora passò. Svegliossi anche la bella, s'addiede di ciò che avèa tra mani, e, volto alla sfuggita un'occhiata ad Alberto, l'aprì.

Quella lèttera avea forte-impresse le pieghe, ed era sciupata. L'incognita stette un istante indecisa, poi la stracciò, e tornolla a stracciare; sogguardò un'altra volta ad Alberto, si alzò, e, sceso un cristallo (senti che brezza!) sparpagliò fuori i pezzetti. Quanto al suo cuore, era di già lacerato!

Impallidisce la luna; la punta del freddo si agozza. Con il dissòlversi di una spolverina di nebbia, si disègnano e stàccano su 'n fondo celeste a pennellate rosee, violette ed arancie, le creste delle montagne, e de' villaggi i contorni. Il gallo, canta.

E, come la machinosa carrozza, in discesa con uno stridore di scarpa, tocca un acciottolato, la sconosciuta si tira in grembo la sua sacchetta di cuojo.

Ecco! la diligenza si arresta. Generale risveglio nell'òmnibus; vi si scuòton le membra intorpidite da uno scòmodo sonno; si danno i diti negli occhi; si ritròvan le gambe; qualcuno, il torcicollo; altri, il naso intasato. E un uomo, di barba nera, smorto e accigliato, apparso, di là dei vetri innanzi al coupé, illuminando, al di là, i parole, che Alberto non riesce a far sue, alla giòvane. La quale smonta…

Lontan lontano, in una selva di quercie, tetti acuti e torri…

— Olà! op op! — fà il vetturino di nuovo, riprovando la voce inumidita ad un fiasco. E il carrozzone ripiglia la pesante sua corsa, mentre l'amico nostro mira con amarezza l'abbandonato canto. Ella, per lui, non è più. Quale sorte attendèvala?

Ma a terra è un brano di lèttera che gli potrebbe rispòndere.

Alberto il raccoglie, e… Scusa, lettore! lo straccia a minutissimi pezzi.



ADELINA


E un'altra volta, a una fossa novellamente scavata io m'incontrài in un convoglio funèbre. La pretendeva il convoglio alla seconda di classe, ma fuor mostrava i gòmiti della terza. Oh meglio! i preti non avèano troppo seccato il pòvero morto in chiesa.

Quanto allo strato, bianco. Di bella prima pensài ad uno di que' Regi Impiegati, cèlibi, egoisti fin alla sèttima pelle, i quali, messa la pezza della giubilazione, tìrano là, in barba al governo, oltre il nùmero sommo del lotto; poi, a qualcuna di quelle vecchie prudenti, morte zitelle, perchè vissute a saggiuoli; e feci per slontanarmi.

Ma in quella… soffio imponente di naso. Non gli è il baleno a un discorso? Infatti, come mi volgo, vedo un bottacciuto pretone in nicchio e calzetta, porsi sul monticino che costeggia la buca. Dentro di cui è scesa la scricchiolante cassa, e resta con un sordo lamento. E allora, i pochìssimi astanti, tutte quasi ragazze, le quali senza risparmio lasciàvano lagrimare i loro belli occhi e le lor smilze candele, si fanno in un gruppo. Io pure.

E il sacerdote si passa e ripassa la mano sulle palpèbre; tògliesi il nicchio, aggiùstasi il cupolino, e comincia:

— “Adelina nostra è beata.

Adelina Gentili, fin dai più tèneri anni, trovò il sentiero del Cielo. Non si lasciando adulare o da specchio o da labbro, aliena da ogni esterna pompa di abbigliamento, aliena del pari dalle conversazioni e dalle comparse, a disfogare la piena soave de' suòi affetti, mai si trattenne se non nei colloqui col suo Gesù. Solo di lui gustava le si parlasse; il suo voto, anzi il sospiro, era di èsserne sposa, e se l'Eterno, pròvvido sempre, non le ne avesse accorciata la via chiamàndola a sè, ella avrebbe di certo aggiunto un nuovo splendore all'òrdine delle Cappuccine.

“Oh voi aveste veduto, mie figlie, con qual religiosa paura ella correva a narrarmi le sue apparenze di colpa, se pur di colpa si pòssono dire, e con quanto fervore si avvicinava alla mensa degli àngioli, desiderosa, pregante — ricevendo Gesù — di volàrsene a lui!

“E Dio l'esaudì.

“In sul mattino di lei e di un purìssimo giorno, Adelina partiva. Sfinita di forze, più non riuscendo nè a mormorare preghiere nè a strìngere al seno la crocettina amica, con la soavità del sorriso, col vòlger dolce del guardo, mostrava come a delizia le fosse il nome, il pensiero del suo Gesù.

“Placidamente morì, come un colombo. E a mè, che al fianco di lei, in sui ginocchi, oravo… parve un istante sentire ed uno sbàttere di ali ed un odore d'incenso ed un riflesso di aerei òrgani…

“Or perchè dunque piangete? Egli è per lei o per voi?…

“Per lei, il De-profùndis va detto con un Te-Deùm — ”

Ma, ben incontrario, raddòppiano i singolti. E nella buca si gèttano fiori e vi si getta la prima palata di terra. Io mi sentìi la voglia di cacciarvi anche il prete.

E mi rivolsi turbato, e vidi? Vidi una delicata fanciulla, stretta, sotto le volte maestose di un Duomo, e tra gl'incensi, le melodìe, le faci, da sacro orrore; la mente affollata dalle pene infernali e dalle gioje del Paradiso; cercando con ansia nelle vite dei Santi i modelli; in brama di una celletta, senza conòscere ancora con che cosa si muta.

Senonchè, l'istinto, svegliàndosele a un tratto, gliel dice.

Che è? Sarèbbero forse le tentazioni di Sàtana? sarèbbero queste le prove di cui tanto lesse e udì? Ma udì e lesse ben anche, che, per toccare la palma, bisognava combàttere, ed aspramente combàttere! Ed ecco iniziarsi una di quelle sequele di notti dal continuo accèndere e spègnere il lume, notti di sbigottimento “paffate senza dormire & nè pure giacendo,” in vita o rivolgèndosi tra le lenzuola, “fcaldata tanto nell'amore di Dio, che non nello fpìrito folo, ma ancor nella carne infiammava & le pareua le ufciffe foffio di fuoco.”

E allora Adelina, cui il terror del peccato acuiva lo sbàttito, strappàvasi dalle coltri, si rannicchiava sul tappetino; e, le mani alla faccia, reclinata la testa contro del letto, piangendo, supplicava Dio, la Madonna, i Santi, tutti i Beati, a salvarla, e lor giurava i voti i più temerari.

Ma “l'àngiol nero non rimetteua di bàtterla.” Diàbolus in lùmbis est! notti di ambascia si succedèvano a notti; la vèrgine si struggeva… un cerchio morello agli occhi, i rossetti alle guance… e, spaventati i parenti, mandàvano per il mèdico vecchio.

Poi, un giorno, Adelina spinse lo sguardo sur un vaghìssimo viso di giovanetto, e un altro scontrò, lungo e appassionato sguardo. Voi dite, amanti, qual rivoltura, qual bollimento di sangue ella dovette sentire! Ebbene! ciò che per tutte sarebbe stato il lietìssimo fiore del giardino più lieto, per lei fu erba di cimitero.

Sgomentata del suo sgomento, senza un'amica alla quale narrar tutto il suo cuore, ella ricorse al confessionale; e ne tornò, riandando che gli occhi èrano la prima porta al peccato, che con la chiave di quella, oh se ne aprìvan ben altre! che l'Avversario tendeva infiniti calappi, e che, ad ogni costo, non avèasi a cèdere. Imaginate! si osò consigliarle perfino, digiuno e sinistre pozioni.

Così, la fanciulla, sensibilìssima fin dalla cuna e or doppiamente al progredire di una di quelle infermità di languore, sottili, lente, instancàbili, i germi di cui sarèbbersi in pace dimenticati di aprirsi, e sottosopra fra scrùpoli tormentosi e una passione devastatrice; in mezzo a vampe di fuoco e a zaffate di gelo, sfiniva, diventava un filo di refe, traspariva come ambra.

E giunse alfine quel dì, in cui non potè più levarsi. O voi, lasciate di attènderla, gentili vestine pendenti in un canto della cameretta di lei, e tu pel primo, scialletto rosso, uso a seguire sì amorosamente le sue virginee forme. Pòvero canarino, chi ti offrirà mai il pignòlo? Vasetti di fiori, v'inaffierà chi? le làgrime di una madre, forse? Due giorni ancora, e la vostra graziosa padrona si torcerà in delirio sul suo lettuccio, un crepitìo di fiamma dannata all'orecchio, serrando convulsamente nelle mani aggrinzite una croce e nella mente esaltata un amante; ancora una notte! e voi la vedrete supina, immota, pàllida e fredda come l'alba nascente.

O giovinette, peccate!

MEZZANOTTE

Mezzanotte!

Lettori mièi, niente paura! non vi allargate dal muro. Oggidì, questa non è più l'ora dei ladri; oggi, si ruba in pieno meriggio.

È l'ora, invece, in cui il mercato di Priapo affolla.

Già il bujo pesa su quelli intavolati, più che campi dell'arte, ruffiani dei vizi; e le torme di lupe dalla voce ràuca, che il dopopranzo battèrono i marciapiedi infranciosando i cervelli mezzo intontiti dal cibo, son covigliate e tripùdiano; già quasi tutti serrati son que' caffè, ove dei còsi, torti di gambe come di ànimo, spàrsero effigi di pezzi di carne con l'indirizzo dietro; e la timidetta fanciulla, che poco innanzi valzava sotto gli occhi di mamma con qualche bel cavaliere, dorme, imaginando di lui, ignara di che gli servì. Or la città va prendendo una sospettosa aria; quella di una ragazza, che, con gli orecchi attesi alla porta, legga un volume senza nome di tipi.

Ve', un barbigino di quindici anni, il cappello negli occhi, che rade il muro di un vìcolo. Egli potè fuggire da casa, e, mentre il vecchio suo padre lo sogna in preghiere, egli… Và o viene? È troppo allegro; và… E quel bambino, tristo, stracciato, su'na scalèa, che aspetta? Pare venda fiammiferi… Fiammìferi solo?

Intanto, dei broughams dalle tendine calate fanno a precipizio, chè il Diavol li porta, la strada.

E intanto una carrozza si arresta in una via tortuosa che fiancheggia la Corte. La sentinella rintana. Lo sportello si apre; ed ecco un alto signore, il quale offre la mano a una donna incappucciata e dal vestito che fruscia. Tò! quel signore non rièscemi nuovo; mi par d'averlo ammirato ad una mostra di truppe, in tanto di fanfarona divisa, isputacchiata di principesche decorazioni… E la bella sua moglie gli passa dinanzi. Egli le fà un ampio inchino, e, come la vede sparire in una piccola porta — porta alle grandi fortune — tutto orgoglioso di ben meritar quelle insegne che incuginan col rè, rimonta nella carrozza.

Un'ora!

Uòmini inferajolati, a viso da campana e martello, ne pedònano ancora, tossendo; o ne vèngono incontro soffiàndosi il naso. Aumèntano dalle finestre i pst pst; alcune vie, da cima a fondo, pispigliano. Nabucco imbestia; la città è in frègola.



LE CARAMELLE


Monsù, doi soldi d' caramel — disse un fanciullo, entrando frettolosamente con due bambine che gli trottàvan di pari. E, tutti e tre, postàronsi al banco.

Il caffettiere, lasciato il giornale, si alzò.

Io adocchiài i piccini. L'omo, era in blusa celeste e in berrettino da soldatello. A parte quel po' di aria baciocca che i maschi hanno in sugli otto, trapelava nel musino di lui, la coscienza della sua doppia importante funzione di compratore, custode di una rispettàbile somma. La quale somma egli chiudeva in un pugno. E tenèvala stretta, ve'!

Ma e la bimba alla sinistra di lui? Qual fino e sentimentale visuccio!… visuccio promettente di quelle smortone impastate di chiaro di luna, che dove làscian lo sguardo, guài!

La puttina invece alla dritta, era un brioso raggio di sole. Non toccava i cinque anni. Tomboletta, latte-e-vino, con una vestuccia corta inamidata, reggèvasi in su la punta delle scarpette; attaccando le palme all'orlo del banco, poggiava tramezzo a quelle, il mento.

E i sei occhietti — due neri, due grigi, e due castagnini — si attruppàrono intorno alla mano del caffettiere. Questa, mise un pìccolo peso su'n guscio della bilancia; gli occhietti ve la accompagnàrono: la si diresse a dipalcare un baràttolo; gli occhietti le tènnero dietro: tach tach… il caffettiere lasciò cadere sul piatto le caramelle… tre, quattro, cinque… ad ogni tach, i fanciulli si sogguardàvano e sorridèvano.

Ma, per due soldi, i sorrisi non potèano èssere molti.

Mi venne un'idèa.

Avvertito con una tossetta il monsù e mèssomi a traverso la bocca l'ìndice, mi diedi, dietro dei bimbi, a far segni; cioè, ad accennare il baràttolo, indi, a rovesciare la mano verso la coppa della bilancia.

Bah! Il caffettiere era proprio grosso di scorza. Salvo il cenno del zitto, non mi comprese per niente. Anzi: egli ebbe il coraggio — sottolineo coraggio — di ripigliarsi una caramella avvantaggina e riporla. Tre guardi mortificati la seguitàrono e tre sospiri.

Così, fu il cartoccino aggruppato, e consegnato all'ometto.

Questi mollò allora il due-soldi. Stèttero tutti e tre, un momento, a vederlo sparire nel fesso del banco; poi, con un balzo di gioja, scappàrono via.



* * *

Chiel, che voleva? — mi domandò il caffettiere.

— Volevo, che loro vuotaste il baràttolo — risposi istizzito — Pagavo io —

Ei si rimase un po' grullo.

Contagg! — disse — bisognava parlare —

Foss'egli stato una donna!



TESORETTA


Chi più giojello da scatolino? chi più inviziata di Tesoretta?

Era venuta al mondo, proprio in una veglia, sopra un vassojo di chicche. Allorchè il musino di lei, vero sorbetto di fràgole e crema, apparve, ognuno sorrise, ognuno si offerse a dondolarle la culla.

E sua mammina — che gioja! Tuttociò che un amore, con zeppo di ventilire il turcasso, può comperare, fu. Tesoretta ebbe camìcie della più fina battista, ebbe scialli di trine, calzettuccie di seta, e come Tesoretta, al dire del mèdico, era un arboscello da serra, la s'inviluppò in tanto armellino, in tanta màrtora, da farle rèndere aria di un nettapenne.

Poi — oh aveste veduto il suo nido! — Prepuntato di stoffa, con un tappeto che acconsentiva come la polpa di una gamboccia, con un odore di muschio da disgradarne la carta da lèttere di una elegante damina, esso inscatolava e una pìccola nanna di raso celeste e oro, imbottita con piume di cigno, e sedie che si ribaltàvan soffiando, e poltrone che avrèbber potuto requiare lo stesso mio cugino Guidella; di più, sugli stipi, sulle cantoniere, una folla di nìnnoli, curiosi, gentili — grottesche figurine di avorio, organetti che gariglionàvano, noci con entro mille ferruzzi per le pipite, e tiri a quattro d'argento e bastimentucci di filigrana e galantuòmini giapponesi dalla testa pelata — che salutàvano continuamente.

E in mezzo a tutti questi balocchi, il graziosìssimo di Tesoretta. Che vita lieta, la sua! Aperti i nerìssimi occhioni nell'ora in cui i martirelli dell'abicì càvano dai loro panieri e mela appiola e panetto, essa in bianco accappatojo a nodi azzurri, sedèa alla pettiniera. E là, mamma ravviàvale i ricci, un giorno con un'acconciatura a ciuffi da scàtole di canditi, un altro con una di fìlibus; dopo di che, spazzata una colazioncina di dolci, dei quali la si sceglieva i meglio incartati, usciva a spasso in un carrozzino di vìmini, foderato di rancio amoerre, guidando con rèdini di seta rossa un candidìssimo agnello. Allorchè poi il povero Monsù Travet si toglie con un sospiro di soddisfacimento le manichette di tela, il portinajo le rischiudeva il cancello e sberettàvasi; infine, attraversato gloriosa e trionfante un pranzo, una conversazione, e qualche volta un ballo, essa si rifaceva la nicchia nel suo caldo lettino.

Venuta-su dunque così inaffiata di quintessenza di viola e fra tanta bambagia, è chiaro che la nostra piccina riuscisse delicata come un clichet fotogràfico. Sua mamma, anche oggi, se dà nel frontispizio della Crònaca Grigia, briscia, risovvenèndole quel calabrone che un dì, con grande spavento di tutti, pungèa un labbruzzo alla sua mòrbida bimba, ed io, quand'ora stringo la grossa mano dell'alto baffuto Leopoldo, cugino di Tesoretta, rammento con pena quel biondo petulantello Poldino, che entrato di furia, dov'ella si stava con altri bottoni di rosa… ahi! le scoccò un buffetto sul naso.

Questo, del rimanente, fu il solo torto che le toccasse mai da bestiucce in calzoncini o gonnella: e pongo la distinzione, chè da quelli invece che non fanno uso di tali attributi, così necessari a' dì nostri per conòscere il sesso, ella ne sofferse parecchi — principalmente da uno.

Chi? —

Den.

Den apparteneva alla mamma di Tesoretta; un levrierino grigio, svelto, dal lungo muso; di quelli che bùbbolano anche di mezza state e sèmbrano avere indosso una perpetua pulce. Den, co' suòi improvvisi abbajamenti a degl'invisìbili mici, con le sue corse a fiaccacollo per poi subitamente restare, in sospetto, le orecchie tese, uno zampino levato, divertiva a crepar dalle risa il pacìfico e vecchio Tell — un bracco.

Bene, Den covava ruggine per Tesoretta. Quando, la prima volta, un rottame di zùcchero passò dalle dita della sua padrona nelle tascucce della puttina, maravigliato, offeso, adocchiò: alla seconda, alla terza, guaì sordamente. Privarlo dello zùcchero suo! Dio-cane! Che altro, fuorch'esso, gli rimaneva, ora, che un ukase municipalesco, appiccàndogli una musoliera, una cinghia alla strozza, e per giunta, una corda, toglièvagli di fiutare… le belle? Den fece un groppo al codino — quindi d'allora in poi si trovàrono per la casa gheroni strappati dalle sottane di Tesoretta, si raccolse un cappellino di lei nel mondezzajo, si scoprì, rifacendo la nanna della bambina un… Scusa! non ti vedevo, Bigia.

E lì, quale tirata di orecchi! Den fu rinchiuso nello stanzino cui egli avrebbe dovuto prima ricòrrere, e il guàttero passàndovi presso due ore dopo con una gazzetta in mano, stette in forse — atterrito da un rabbioso lamento — di aprirlo.

Intanto, nella sala a terreno della sua mamma, si rannicchiava sul fondo di un poltronone la bimba. Le manine di lei stàvano appiattate in un manicotto di topo-bianco; sul manicotto posava un libro. Pur non guardava. L'ànima sua parpaglionava lontan lontano, forse intorno a un cartoccio di chicche, forse ai mille baràttoli e alle boccette di una bacheca di profumiere.

Ma, in quella — un grattìo alla porta. E la porta si schiude. Guìzzane, impetuoso, Den.

Egli si arresta, le narici soffianti, la guardatura bieca. Fisa Tesoretta e guàjola.

Bah! ella non si move neppure. La fantasìa di lei o vola entro una mostra di cappellini, vera gabbiata di papagalli, o salterella dentro e fuor per le chicchere di un servizio lilliputiano da tè.

E ciò fa montare la sènapa al naso di Den. Ei balza sopra una sedia faccìa a faccia con Tesoretta; sciupa l'imbottito coll'unghie, dirùggina i denti.

Invano! la mimma non impallidisce neppure: ben in contrario, sorride; sorride con quella stessa grazia, con quella stessa tranquillità, con cui riceve le amiche.

Ma, cielo! gli occhi del levrierino stralùnano insanguinati. Egli soffia, egli ringhia. Di colpo si slancia su Tesoretta… Ahi! le morde la gota. E Tesoretta cade dal seggiolone giù.

E Den si getta nella finestra; precìpita, con un fracasso di vetri, in giardino.

— All'arrabbiato! all'arrabbiato! — grida una villanella fuggendo.

Buum — una schioppettata.

O poveretto Den! Ingelosir di una bàmbola!? —



DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE


— Dio solo il potrebbe — rispose solennemente il dottore.

Il volto di Arrigo assunse la pallidezza del volto della sua giòvine sposa, che — gravato il ciglio dalla mano di morte — giacèvagli innanzi in quel letto, di tanta gioja ricordo e di tanta vita. Arrigo stette per dare in un urlo; si frenò a stento, e non potendo altrimenti, corse a celare l'ambascia nella stanza vicina. E là cadde in una poltrona, le palme alla faccia.

Pòvera Lisa! pòvera Lisa! Non un anno, da che èragli apparsa nella solitaria e brulla sua via, qual rugiada, qual fiore — e vedèvasela ancora, petulante di gioventù e freschezza, entrargli nell'ammuffìto studio, a mèttergli in fuga i topi e le tarme, ad aprirgli le imposte al sole che crea, all'innamorata natura. Oh i libri si vendicàvano ben crudelmente della loro rivale!

E Arrigo singhiozzò disperato.

Ma e non un conforto a tanta e sì orrenda e improvvisa jattura? dovrà mai l'uomo esser lasciato solo, senza difesa, alle belve affamate de' propri dolori? Che gli giovava di avere, anni e anni, impallidito sui libri, mietendo altrùi esperienza, quand'ora, in bisogno, non se ne sapeva comporre un panetto? A che studii se non apprendi a vìver da amico colla sventura, tua obbligatoria compagna? a che pensi?

O vieni, filosofìa! tu che guardando le cose e gli avvenimenti fuori di noi, li vedi nella loro essenza e non nella loro relatività — tu che trovi a tutto una scusa e nulla ti fà stupore: filosofìa, che hai fatto ricca la povertà di Epicuro e felice la ricchezza di Sèneca; che hai in una dìsputa con sperimento cangiato l'agonìa di Sòcrate e in una tranquilla accademia l'impero di Marco — o tu che non abbandoni chi ti ama; ùnico patrimonio salvo dai colpi della fortuna.

Vieni e confòrtami. Dalle tue eccelse regioni, imperturbabilmente serene, ben sai il mondo cos'è — : un punto, un quasi impercettìbile punto. Che è dunque colle sue piccine passioni la umanità? anzi — “fra il lampo di vita ed il tuono di morte” ov'è l'uomo?

Filosofìa, dammi, se non il sorriso, l'indifferenza almeno del saggio. Menti, ma consòlami.

Non c'è male, m'hai detto, donde bene non sorga. Natura è perpetuamente, incorreggibilmente buona. Al disopra di quelle nerìssime nubi, splende immacolato l'azzurro: si scioglieranno le nubi, l'azzurro mai. Se ti par dunque la vita un doloroso sospiro, non è forse la morte la cessazione di quello? e se la morte è di un dolore la fine, perchè la invidi, la imprechi, la vuòi furare a chi ami?

Ami! — sì è vero — ma avresti amato poi sempre? — Lisa era bella… la vecchiaja avrèbbela resa brutta: Lisa era buona… la bruttezza l'avrebbe fatta sembrare cattiva. Ma, or morendo immatura, essa ti lascia il ricordo di lei intatto. Ti sarà sempre e giòvane e bella e soave e… tua. Di desiderio più che di soddisfazione cibasi Amore. Eternamente si àmano gli ideali perchè non raggiùngonsi mai. Cosa invece che cominciò, è destinata a cessare. Or non è meglio che cessi innanzi la sazietà?

Eppòi tu se' nato agli studii. Vògliono pace gli studii… Dove trovare mai pace fuorchè in solitùdine? Distratto dalle quotidiane meschinissime cure della famiglia, con un occhio alla pèntola aspettata dai tuòi figliuoletti e l'altro alla tua letteraria coscienza, avresti tutta la vita, per dir così, loscheggiato, di te insoddisfattissimo. Chi non procede per una sol via, di nessuna va a capo: chi l'arco non tende del proprio intelletto ad un ùnico scopo, nulla colpisce. Ringrazia dunque la provvidenza, che per l'utile prova del duolo ti riconduce alla felicità. I tuòi libri ti han perdonato e ti attèndono, pronti a riaprirti i loro tesori, a lasciarsi ancor lèggere, fra linea e linea e nei màrgini, i riposti veri. Quali ore, quali giorni di voluttà con quèi tuòi vecchi compagni! Eccoti allo scrittojo, fatto un sol corpo con esso, immèmore delle immondissime carni, palla galeotta dell'ànima, immèmore di quel bagno penale che chiàmasi il mondo — èccoti, nell'abbraccio fecondo con un altro cervello, generando idèe da idèe, conquistando terreno sull'avvenire — aggiungendo nuovi piuoli alla infinita scala vèr Dio…

E già il singulto di Arrigo taceva e trionfàvagli la pupilla. Filosofia tanto invocata gli stava seduta sulle ginocchia e reclinava la testa contro la spalla di lui.

Quand'ecco, il dottore. La sua faccia da lunga èrasi fatta tonda.

Stupirono l'uno dell'altro.

— Salva! — esclamò con voce commossa il dottore.

— Davvero? — fe' Arrigo.

La voce d'Arrigo scrocchiò.

Era gioia? Quà coi vostri lambicchi, chimici dei sentimenti.



INSODDISFAZIONE


Era, nella città, l'ora, in cui i ciccajoli allùmano i lor lampioncini, e i mangia-malta appòstano i gatti, e i pòveri vergognosi di nani, dagli ampi mantelli, fanno la traversata dalla bottega alla casa. Gli ùltimi raggi di sole avèano arroventato una rastrelliera di casserole di rame, e si èran rinfranti in una di majòliche e vetri, e fatto brillare una fila di guantiere e cucchiài di ottone; dunque, è una cucina la scena; ed io aggiungo, cucina di un'osteria mezzo perduta tra i monti.

Nella quale, ora, l'ombra ha inghiottito un giòvane di sèdici anni, seduto in un canto. Chi, verso le sei, la chiacchierava alla porta, avèalo visto a venire e ad entrare, lo schioppo a tracolla, un cane ai tacchi. Era, la giubba sua, frustagno, ma la fòdera, seta. E il giovanetto, di dove avèa pranzato non si era più mosso; insieme alle frutta, sopragiungèvan le tènebre.

Siano le benvenute! Sentìvasi stanco, forse. Scarpe di montanaro, nelle montagne, non bàstano. Allora, la ostina avèa deposte, inaccese, due stoppiniere dal piattel verde di latta sopra la tàvola, e, mentr'ei si stendeva, chiudendo gli occhi, su 'na panchetta di legno, zitta, era andata a sedere sulla predella del vasto camino e si appoggiava, come a dormire, contra uno stipite. Il bracco poi, lappata la sua scodella di pappa, e leccàtosi i baffì, già stàvasi accovacciato a pie' del padrone, i nottolini giù — di tutti e tre il solo che non facesse per finta.

Infatti, sotto palpèbra, il giòvane teneva lo sguardo fiso nella fanciulla. In confidenza, essa l'avèa turbato fin da principio, quando, con una di quelle voci soavi, di argento, che ricèrcan le vene, avèagli detto “buon dì”, mentre, intorno alla voce, appariva il più bel gràppolo di giovinetta che mai. E, com'egli avèa voluto, per dare passata alla emozione che gl'imbragiava la gota, arrischiarsi a delle disinvolture, ajutando, ad esempio, l'ostina a dispiegar la tovaglia, a porre giù i tondi e i bicchieri, a cavar l'aqua dal pozzo, questa emozione era invece aumentata; così, egli avèa scelto un cibo per l'altro, bevuto aqua per vino… poi, si scottava, tagliava… Tènebre, oh benedette!

Chè, protetto da esse, Guido ora pasceva la vista nella fanciulla, aggruppata al camino, e illuminata, a tratti, dal chiaror di uno stizzo. Con gli occhi, il giovanetto accarezzava, ricarezzava il viso di lei malinconicamente inclinato, dai colori contadineschi ma dal profilo di dama, e la sua bocca da baci, e il mento dal “sigillo di Amore”; poi, si godeva a smarrire nei folti e castagnini capelli; poi, sostato all'orecchio sur il grassello incorallato, veniva giù giù con le volte più tonde per un vèrgine corpo, sciutto, sveltìssimo. E ritornava ai capelli, e vi scopriva un bottone di rosa. Oh felici le mani che ve l'avèano messo! Pur non èran le sue! e, sospirando, invidiava colùi del quale la giovinetta sognava.

Or, chi era colùi? Più di una volta, ella avèa arrossito, e non di certo pel calor della fiamma. La giovinetta sentiva la presenza di Guido; stava, dirèi, in una attesa vaga, che la mano di lui le frisasse la spalla; e desiosa e temente. Oh! com'egli era gentile! La ostina non poteva fuggire di confrontarlo con que' suòi rozzi paesani, che non venìvan da lei se non per pigliare la sbornia e attaccar delle liti, e le dicèvano brutte e villane parole, e le buffàvano in faccia il lor ributtante tabacco. Poi, quanto bello! (quì la ostina aggricchiava). Essa ancor lo vedeva con quel suo viso aperto, dal velluto di pesca, il sorriso che rischiarava, la pupilla azzurrina, buona come la stessa bontà. Ma lui era ricco, lui! essa lavava i piatti!

E lì, gonfi gli occhi, affisàvasi giù.

Momenti, per tutti e due, di un acuto languore; momenti fuor dagli spazi e dai tempi, in cui scorgèano, in una, migliaja di cose e di affetti a indefiniti contorni; momenti, che la mùsica solo — universal lingua — saprebbe narrare.

Il silenzio, profondo; il cielo, stellato.

E così stèttero… Quanto?… Non guardài l'orologio. So tuttavìa che sarèbberci stati molto e molto di più, se dalla chiesa vicina non fòsser piovuti sulla osteria, gravi, severi, lenti, ùndici tocchi.

Quella, era una voce che rassegnata diceva “il tempo passa”. E taque.

Ma, quasi contemporaneamente, udissi un trach nella stanza. Tosto, il grido aspro del cùculo ripetè l'ora.

E questo, un corollario maligno alla sentenza del cainpanile. Parèa dicesse “dunque, svelti!”. E, trach, l'usciolo si chiuse.

La giovinetta si alzò con premura. Venne alla tàvola, tòlsene una stoppiniera, e, tornata al camino, chinossi e l'accese.

Guido levò pure su. Prese la seconda bugìa, e, fàttosi presso alla bella, le dimandò con la voce lì lì per tremare “una càmera”.

— Venga — disse in mezzo tono colèi; e precede' Guido. E, uno dietro dell'altro, salìrono una scaluccia, stretta; salìrono lentamente, come se in cima li attendesse la scure.

Senonchè, ecco il primo ripiano.

E si fèrmano là. Guido china la candela di lui, intatta, verso l'accesa di lei; quanto agli sguardi, sono bassi di già, chè ciascuno si crede sotto quelli dell'altro.

Diàvolo di uno stoppino! non vuòi pigliare, eh? È Amore che ti filò? ti par di troppo anche una? Cert'è, che, adesso, i polsi dei due be' giovanetti non sono i propri per accèndere lumi.

Ma, infine, aah! ci rièscono. Le due fiammelle stanno un istante confuse, poi si distàccano. E anch'essi. Auguransi la buona notte (intantochè se la danno cattiva); lui, apre un uscio e scompare; lei ridiscende la scala.

E il bracco? Il bracco, navigato vecchione, che ride forse tra i denti, si allunga alla porta del suo arancino signore.

Pare, dei tre, l'ùnico soddisfatto.



ELVIRA


Il giorno fòndesi nella notte. È la più stanca ora per tutti e la più insidiosa per quelli, in cui i nervi tirannèggiano i mùscoli. Già l'uomo cede alla donna, la riflessione alla spontaneità. Tutti que' sentimenti, sepolti lo stolto giorno in un tenore di vita odiato e nel sospettoso contatto coi nostri così-detti fratelli, risòrgono, ciò che vi ha in noi di gentile, parla. Nè le carezze di questa ora tristìssima son sconosciute ad alcuno, perchè tutti hanno in sè qualchecosa di buono, e ne hanno, perchè a nessuno è negato di amare.

Il commerciante conta infine un minuto di felice oblìo della sua doppia partita: il filòsofo ridiventa uomo; alza gli occhi dai libri, vòlgeli al cielo. Ed ecco l'ombra si stende in quella parte che gli sembrava chiarìssima, dimossa da dove nulla vedeva. Tìtubano i suòi sistemi, sistemi dalla luciferesca pretesa di discoprire la chiave universale, sì laboriosamente cercati, presuntuosamente espressi, molestamente scritti, di una dottrina, pura difficoltà, di una difficoltà pura ostentazione, pasto futuro alle taciturne tignuole, e sente che un nonsochè scamperà sempre e poi sempre alla sua penna d'oca, che il multiforme imprevedibile caso regge la vita, non la sapienza, e capisce di nulla capire, o tanto, insomma, come il primo che passa. Difatti, non si sà bene che quello che s'indovina.

Ed io, fuggendo la sala, dove una mesta armonia confederàtasi all'ora, mi strazia di voluttà, riparo nella mia càmera. Ho bisogno di piàngere e le làgrime àmano la solitùdine. Ma no, non sono le anònime desolazioni di un tempo, tempo beato nel quale spremevo il pianto da occhi che non ne volèvan sapere. Quelle pene, a paragone di queste, èrano piume di cigno e foglie di rosa; era il desìo di un ideale, ne è adesso il rammàrico.

Zitto! Malinconia, dal tàcito piede, viene. Mi appoggio allo stìpite del caminetto in cui il fuoco sonnecchia e nella cui cappa piòvono gravemente gli echi di una squilla lontana “che pare il giorno piànger che si more” e…


* * *


Elvira era bella, e, quantunque bella, d'ingegno, e quantunque d'ingegno, buona. Di più, pòvera. O povertà benedetta! chè in te, o fastidiosa abbondanza, Amore sovente cade di sbadiglio e d'inedia. Dove la soddisfazione precede la voglia, la nausea la fame, oh di quanti alleati manca un affetto!

Elvira era bella, ripeto; non mi state a citare le vostre bellezze Greche o Romane, tutte le stesse. Ella era diversa delle altre; non sofferiva, s'intende, un di que' corpi, che si dìcono eròici, olìmpici, da abbracciarsi a riprese e ansando, roba forse per i templi e gli incensi, non per le case ed i baci; bensì di quelli, lievissimi, che si ponno raccorre in un mezzo abbraccio, senza doverli, per sentire qualcosa, oltraggiare. Guardando il suo fràgile viso, in cui la forma perdèvasi nell'espressione, non si poteva certo pensare che l'ànima le dormisse, e, incontrando gli occhioni di lei, cilestrini, eruditi, lietìssimi d'ombra, si comprendeva perchè mai i poeti, a volte, li hanno uditi parlare. Le sue narici, un poco all'insù, un po' espanse, sagaci. La castagnina capigliatura, sciolta, l'avrebbe tutta coperta. Le manine poi di una trasparenza di perla, azzurrate di vene… Chi le baciava, beato!

Ed ella era d'ingegno. Per leggermente che voi con la mano le aveste sorraso il fil delle reni, ella ne sobbalzava e raddoppiava il sobbalzo. La fiamma vitale, lambente la volta del cranio, alimentàvasi in lei nell'implacàbile siero, genioso. Non leggeva ella i libri ma i loro autori, non gli strumenti sonava ma le armonìe, amava, non faceva all'amore. Presente lei, oh quanto gusto s'avèa a dir belle cose! Senonchè, per questo medèsimo troppo, il suo ingegno non poteva non èssere improduttivo, non consumarsi tutto in sè stesso, com'è di quelle mostruose bellezze sforzate dai giardinieri. Poichè mancàvale affatto quel tanto di non-ingegno che si traduce in isgobbo, divulgatore degli uòmini grandi, e che guidò tale, sì confondendo l'esplicazione con l'essenza del genio, a definir questo “pazienza”. Ma, quel ch'è più, l'ingegno di lei era simpaticissimo, non di quelli, cioè, consci, orgogliosi, i quali ci tèngono, per così dire, tre passi indietro col cappello fra mani, ma uno invece modestamente baldo, inconsapèvole, piano, come la Verità prima della invenzione degli àbiti; ingegno, che tanto non camminava per il diffìcile, quanto pel fàcile, che guadagnava, non s'imponeva, che non cercava mai e sempre trovava.

Insomma, un ingegno che conducèvala al buono. La penna di lei avrebbe potuto lasciarci il mite idillio, non l'aspra sàtira dal male di fègato. Alla luce serena degli occhi suòi, al suo sorriso soavìssimo disapprendèvasi il male e pullulàvaci in cuore ogni dimèntico bene; ci stupivamo, anzi, del come, vivendo Elvira, potèssero prosperare i malvagi. Parèa di udire Bellini. Ma, ve'! intendiàmoci, non si trattava di quella bontà dozzinale, imparata a memoria e mantenuta o per coazione od inerzia. Tutto in Elvira era ingenuo, tutto sincero, nè l'arte quì simulava il caso. Non dico con questo, che, ad educarle il delicato sentire, non fosse pure concorso la melòdica onda, che, nata appena, la accolse, e sempre la circondò. O mùsica, celeste dono!… tu, voce della carità; tu, voluttà non corruttrice dell'ànimo; tu placatrice, consolatrice, che vai dove la parola s'arresta; tu lingua universale fra le gentili alme, come, fra le villane, l'oro!

Ma l'acutìssimo ingegno di Elvira e la bontà senza fine, non èrano certo i ripari migliori ai trabocchi della malinconìa, dolcezza amara dalle inesplorate profondità… Non ch'Elvira facesse del convenzionale romanticismo; per carità! no. Ella passava, senza scomporsi, dal clavicordio ai fornelli per ajutar la mammina, ma a volte, indugiata a mirare l'agonìa del fuoco o le imaginose nubi, spontaneamente cadeva in una malincònica èstasi, e le guancie le diventàvan lucenti di mesta rugiada… perchè? per le sciagure forse a venire?… senonchè, una sola parola faceta, una ganascina scherzosa, bastava a dissiparle ogni bujo, e lei prestamente asciugàvasi gli occhi, e rifacèvasi allegra come l' arcobaleno.

Nè alla graziosa figura d'Elvira mancava un intonatìssimo sfondo. Poichè ella avèa, non un padre, ma un babbo, egregio violinista, e una mamma, l'òttima delle mamme, giòvani entrambi e che si amàvano ancora benchè maritati, oltre due rose di fratellini non mai sazi di baci; e poichè abitava una casa la meno cittadinesca della città. N'era la via, fortunatamente; fuori di mano, e là nè le rotaje nè i marciapiedi s'èrano mai sovvenuti di entrare; sì bene l'erba cresceva al sicuro, e qualche volta si coglièvano fiori. La casa, pìccola, ma la porta grande, verace insegna del larghìssimo cuore e della stretta fortuna di quella famiglia, che sul secondo ripiano, con un bigliettino bellamente scritto da Elvira, ci accoglieva con un saluto di lieto augurio; e poi veniva l'appartamentino, pòvero a stanze e a mobiglia, ma dovizioso di vista, riguardando un giardino dall'ombre spesse e profonde, di là di cui verdeggiava un'ortaglia… e così via, per ortaglie e giardini, l'occhio arrivava agli spaldi, chiomati d'antichi castagni.

In quella casa si bevèa un'auretta tutta della campagna e vi facèa la luna le sue più strane e più poètiche apparizioni e commoveva il suono delle campane. Il dì gli augelletti, a sera i grilli. Di primavera in ispecie, un cinguettìo, un fruscìo senza riposo. Indisturbati, i pàsseri avèano sotto la protendèntesi gronda costruito un villaggio di pensili cellette, e quando più denso più turbinoso, si faceva il cippìo, sul terrazzino d'Elvira ne piombàvano coppie tenacemente avvinte, ebbre.



* * *


Correva Giugno; una giornata quanto mai soffocante; il cielo pioveva fiamme, vampeggiàvano i muri; una di quelle giornate, che ti fanno sentire il fastidio della tua soma mortale e ti fan sospirare i monti e il lago. E neppure la notte ci era cortese di fresco; l'àere continuava ad èssere plumbeo; il cielo basso. Parèa che tutta la terra stesse, colle fàuci sbarrate, semiuste, attendendo lo scoppio di un temporale, il quale, sempre imminente, non risolvèvasi mai.

È mezzanotte. Nella stanza di lei brilla un lume, ma è un lume velato; e s'ode un respiro affannoso, corto. Da cinque ore Elvira non mosse labbro, immota nel suo lettuccio. Senonchè il mèdico ha detto, che nulla v'era a temere, che si trattava soltanto di una fra le stranissime nevralgie, la quale volgèa al suo fine pronosticando una indubbia crisi felice, e i parenti di lei, che già due lunghissime notti e due giorni hanno vegliato in angoscia, si son confortati al riposo, fidenti nella dotta parola e nella certezza, che la figliuola è salva. Infatti, il sordo lamento cessò, e il mutar spesso di lato, e il convulso gemito: oh Dio!… Ora, a pie' del verginale lettino, è rimasta una giovinetta infermiera, coallieva di Elvira, dalla pelle di rosa e dagli occhioni azzurri, gravi di sonno.

Tacitamente la porta si apre e un giòvane entra sulla punta de' piedi. Egli è colùi, che, in due dì, fu mille volte invocato da Elvira, quello cu' essa, nell'ùltimo loro colloquio, baciàndolo passionatamente, dicea: son tutta tua — prèsaga del futuro. E Gigi si avvicinò al sommo del letto, guardò la giacente, poi, scorso lungo la sponda, ne chiese in isbàttito alla gentilissima vigile. E questa, a fiore di labbro, a riprese, come permettèvale il sonno, gli ripetè ciò che il dottore aveva detto di Elvira e ciò ch'Elvira di lui, tutte cose incuoranti, e contògli, che nell'imaginoso suo morbo, Elvira sembrava che udisse melodie amorose. — Ora dorme — aggiunse — domani è guarita — e sbadigliò un sospiretto di gaudio.

Al che, Gigi, riattinto coraggio, tornò al capezzale della sopita, vi si siedette, e, assuefando la vista alla mezz'ombra che tutto avvolgeva, si pose a mirarla.

Le palpèbre di lei èran chiuse, abbandonata la gentile persona, un braccio fuor dalle coltri, fluente lungh'essa. Era l'affanno scomparso; non rimaneva che un sibilio leggiero.

In questa, la infermierina restò addormentata, con la ricciuta testina, sul letto. Il silenzio facèvasi sempre più nero, più pauroso…

A un tratto, udissi il ronzìo di un sinistro moscone, che entrava, che invadeva la stanza; che passò e ripassò sfiorando la chioma di Gigi.

Gigi rabbrividì. Alzò la mano di Elvira, che leggermente tremolò nella sua, e, màdida di freddo sudore, se l'appressò alle labbra. Ma Elvira non si destò.

Il moscone andava intanto a picchiare, cocciuto, nei vetri, poi ritornava, ancor più insistente, più minaccioso di prima. Gigi fu colto da una strana inquietezza, da una folla di orrìbili idèe, incalzante… ma no, non era possìbile!… quì non vi avèa di che… e intensamente affisossi in Elvira. Anche il leggier sibilìo, cessato: una mollìssima quiete si diffondeva su lei, una pace perfetta. Ed egli ebbe un baleno di gioia, poi un balzo di tema. Abbandonò la diàfana mano. La mano cadde sul letto, grave.

Gigi si drizzò in pie' vacillando. Credèa d'assìstere a un sogno. Fu alla finestra, l'aprì.

Il cielo, caliginoso: in fondo, una lunga fila luminosa di punti, le làmpade del bastione… Ed agli occhi abbarbagliati di lui, nell'atrocìssimo dubbio di quello che era avvenuto e ch'ei non osava accertare, parve, che la processione dei lumi s'andasse stendendo su su verso il cielo… Baluginìo di lampo. Si scorse nell'imo orizonte una fuga di nubi, nere, ammontonate; si udì dai frondeggianti boschetti un improvviso cippìo, tosto ammútito. E insieme ad uno schianto di tuono, incominciò a grosse goccie a cadere la sospiratìssima pioggia.



LA MAESTRINA D'INGLESE


I

Tanto per cominciare


È una pìccola stanza. Serve, con vece alterna, e da sala da pranzo e da vìsite, e, si potrebbe anche dire, da càmera a letto, chè i due sofà mi han punto l'aria di restar sempre sofà. Tègoli troppi si vèggono fuori, per crèderci bassi di piani; troppa poca mobilia dentro, per crèderci alti di fondi.

Squillo di campanello. Il campanello sussulta nella stanzetta; che la sia pure anticàmera?

E al suono, una ragazza gentile si presenta a una porta, e leggera leggera corre a dischiùderne un'altra. Ed ecco un bel giòvane biondo, alto, entrare, e tosto pigliarle con trasporto le palme.

— E il pappà? — chied'egli di sottovoce.

Aurora muove la graziosa testina tristissimamente.

— Ma il dottore, che dice?

— Dice: vi è un sol rimedio… morire. —

Aurora ha nel parlare la più adoràbile erre del mondo. Ma, oè, signore lettrici, non vi sforzate a erreggiare; un rossetto e un bianchetto, come Natura dà, nel profumiere non troverete mai.

I due bei giòvani stanno zitti, mani con mani, sguardo con sguardo.

— Aurora! — geme una voce dalla stanza vicina.

La fanciulla si scuote, scioglie le sue dalle mani di Enrico, che con passione le preme, e accorre a chi chiama.

Enrico ode la voce dell'ammalato, diventando agra e stizzosa, dire alla figlia che lo si abbandona, che lo si lascia morire, anzi! che lo si desìdera morto… E Aurora, giù a piàngere.

— Oh l'egoista! — fà il giovanotto fra i denti, e sospira.



II

Patria potèstas


Per verità, tutti siamo egoisti. La differenza stà solo nei mezzi di soddisfare a tale suìsmo, i quali, chi ha lunga veduta, trova nella beneficenza; non sentendo, vo' dire, felicità seco, fà in modo che quella ch'egli procura agli altri lo illùmini di riflesso; chi breve, crede cavare dal male, fomentato in altrùi, un lenimento al suo; dal che, tòccano-via quelle due razze di uòmini; una, gaja, ridente, che dispicca le rose coltivate da lei; l'altra, immusonita, instizzita, la quale si punge alle ortiche che seminò. Oh il cielo ne guardi, in quest'ùltimo caso, dai vecchi! La gotta costrìngeli su un seggiolone? come diàvolo il mondo ha ancor baldanza di mòversi? — Perdèttero i denti? màngino tutti la pappa — Incendi Roma, pur che si cuoca il lor ovo… E, per disgrazia, il padre di Aurora — dico disgrazia e di lei e sua propria — apparteneva a costoro.

Al doppio egoista di una sediòla ad un posto, il signor Pietro Morelli non èrasi maritato, che a procurarsi una serva e un materasso da botte, nè avèa messo insieme una figlia se non a preparàrsene un'altra, per quando la prima sarebbe andata fuor d'uso.

Un tiranno, già, suppone un pòpol minchione; e il signor Pietro si era ben scelto il suo pòpolo. Imaginate, che la donna di lui — di quelle pòvere ànime, prive di volontà o senza il coraggio di averne, ànime nate ad ingloriosi martìri — curva sotto il trìplice peso della fatica, della mala salute e della continua ingiuria, usava, a sua maggiore querela, il sospiro; poi, stracca, frusta, avéa, per la paura di contrariare il marito, aspettato e còlto a riposar tra quattr'assi, giusto il momento che la figliuola giungesse a imbracciare da sola il sopràbito al babbo. E Aurora, ànima anch'essa timida e per natura e abitùdine, avèa accettata la successione di mamma, tal quale.

Ma di lì a poco, il signor padre o padrone, preso da un mezzo accidente, perdeva le gambe e l'impiego. Cangiò egli allora di tàttica. Il signor Pietro, adesso, aveva bisogno di ajuto, e veramente bisogno, per non èsser più in grado di obbligare gli altri a prestàrgliene: il signor Pietro era vile; credeva che dell'amor della figlia, sebbene (tra noi) potesse stare al sicuro, ci fosse poco a fidarsi; dunque dièdesi a fare la vittima, a piàngere, a lamentarsi. E la buonìssima Aurora, la quale, a dispetto di ogni rabuffo e d'ogni broncio di lui, l'avrebbe servito a ginocchi, ora ch'ei supplicava, pensate!

Sottile sottile era la pensione sua. Aurora, vogliosa che nel bicchiere di babbo rosseggiàssene sempre del buono, saltò su a dire:

— Darò lezioni d'inglese —

Il signor Pietro fissolla con dubitoso stupore.

— E sai l'inglese… tu? — disse.

— Sì — ella fece timidamente — da un pezzo. Me l'ha insegnato la mia maestra Racheli… Pappà, scusa! — e aggiunse, che la detta maestra, la quale amàvala molto, le offriva…

— No — interruppe il pappà, gentile come un chirurgo.

E tàquero entrambi. No, avvertite, era la sua risposta abituale; sentiva, nel proferirla, uno strano piacere. Vero è, che dovèa poi scèndere al sì, ma pel momento era no.

Pur, questa volta, il diniego stette. Sospettoso come un topo frugato, il signor Pietro pensava che le lezioni d'inglese d'Aurora, se non èrano già, potèvano convertirsi in tanti spedienti per istargli alla larga. Aurora gli avrebbe dato ad intèndere ogni sorta di storie; ed egli, inchiodato su'na poltrona, con la finestra che non vedeva che gatti, avrebbe dovuto, o bene o male, inghiottirle.. No, no; egli s'amareggiava fin troppo quand'ella, per la poca provvista, era fuori.

Così passò un anno; muro a muro la vita. Tutto, men la pensione, aumentava; ed il Governo, giù imposte! chè, quasi fosse una vigna il paese, credeva arricchirsi l'impoverendo.

Tornò il dare lezioni d'inglese a far capolino. Aurora disse che la sua vecchia maestra avèala cerca per una brava signora e, acconsentendo pappà…

— No — rispose, secondo il suo vezzo, quella delizia di padre. Pure soggiunse: — la vuol proprio imparare? ben, venga quì.

— Oh babbo! — sclamò la fanciulla con un ghignuzzo — chi può èssere quello che fà dieci scale per una lezione d'inglese? —

Sul che, il signor Pietro si degnò di riflèttere. 'Stavolta, il suo falso-egoismo se ne trovava di fronte altrettanto: lì si trattava di scègliere tra un po' più di minestra o un po' più di figliuola: e il signor Pietro, forse in quella a digiuno, si attenne al “po' più di minestra.”

Ma tuttavìa, volle e pretese un mucchio d'informazioni: dopo, impòsene uno di condizioni. Ed eccolo, mentre Aurora è lontana, atteso con l'occhio alla lancetta del pèndolo, la quale ha trascorso l'ora fissata… Inquieto, egli manda e rimanda la ragazzina che gli tien compagnìa, sul pianeròttolo… E pàssano altri dieci minuti… Perchè non torna? che fà?

Aurora entra pressosa, anelante.

Il signor Pietro, senza lasciar ch'ella dica, comincia a bajare come un can da pagliajo. Ed essa, alla prima in bilancia, risponde poi risentita. Egli, allora, fuori il secondo argomento! cioè il moccichino… Dio mio! ingrata figliola! Bianchi capelli! padre ammalato… tanto che, spaurita la tosa, con le perle negli occhi, e il singhiozzo, gli dimanda perdono.

Poi, un dì, il signor Pietro, veduto apparir la fanciulla con un mazzetto di fiori, si cacciò in testa che gliel avèsser donato.

— È per tè — ella disse e lo porse — l'ho comperato per tè — aggiunse, avvertendo alla nuvolosa aria del padre.

Ma — in segno di grazie — questi lo getta per terra. E fà “tu hai arrossito”; quindi, una scena d'ira e di pianto, il ricordo di cui, le làgrime molte di Aurora, èbbero pena, assài pena a lavare.

O è vero ch'ella avèa arrossito?

Sì… vero, che il mazzolino era un dono?

No…

Ma perchè io meglio mi spieghi, e voi men male intendiate, prenderò il fazzoletto per un capo diverso.



III

Enrico San-Giorgio scopre la Terra promessa


Enrico San-Giorgio era dal suo quinquennale viaggio rimpatriato. Scàpolo e milionario, fu accolto a braccia aperte dalle mammine, e le figliole èbber licenza di compromèttersi; qualcuna anzi, ingiunzione. E ben si poteva ubbidire; giòvane e bello era Enrico.

Ma!… egli era anche di spìrito, non qualità da marito, sì che, guardàndosi attorno, vìdesi tosto, in mezzo ad amici che gli dicèvano “se' navigato abbastanza”; a babbi che gli narràvano le domèstiche gioje, apprese a colla-di-bocca in su i libri; a mamme — grandi e non grandi — che gli toglièvano il fiato a furia di sesquipedali accoglienze con tanto di fòdera, ora invitàndolo a pranzo, per mètterlo accosto a collegialine pupazze sciocchissimamente belle, ora facèndolo a forza ballare con vèrgini stagionate, pudiche fino allo scàndalo; insomma, vìdesi in mezzo a una tal rete vasta d'intrighi, a tanta roba posticcia, che, stomacato e anche un po' impaurito, risolse fuggire laddove ancor si dormiva beatamente “il greve sonno della barbarie.”

Fermo nel quale partito, Enrico, un dì, soprapensieri passeggiava una via, riandando i paesi già visti e quelli a vedere. Ecchè non andrebbe al Giappone? là, in quella terra da vasi, in cui il mondo è a rovescio, e i nostri non-sensi hanno senso, e le nostre eccezioni son règole? Ei vi potrebbe comprare un bel servizio da tè, poi, tanta curiosa frugaglia — e palle d'avorio cinque-entro-una, e un vestiario di carta, e strani disegni (sogni fotografati) e scarpe di porcellana, piccine… e perchè no? forse coi loro pieducci vivi al didentro, con quel che segue al difuori… — Dunque, al Giappone!… si piglia prima per Suez; si fà il mar Rosso… tocco Ceilan, mi vi provvedo del buon zafferano, torno a imbarcarmi per Singapore e Sciang-hai, vo a Nagasaki, poi a Yokoama, poi, se si può, infilo lo stretto di Kanagava… — Ed egli scorgèa di già i draghi-volanti nella imperiale Jeddo, quando “Oè! la vita, signori! eh!” venne arrestato dalla carriola d'un perecottajo… Maledetta carriola!

Per cui, si trasse di banda contro di una bottega. Era questa di fiori; ci si vedèvano vasi di novellini gerani e garòfani, desìo della pòvera agucchiatrice; vasi di erba amarella, dittamo e ruta, amori della pulcellona; mazzi con il Vidoppio, musco; corone di bianche rose, da far parere più in fiamme la guancia di una vèrgine sposa o pàllida doppiamente quella di una vèrgine morta; ma, il tutto, qual sfondo ad un più splèndido fiore, dico ad una fanciulla, vero occhio di sole, ferma anche lei per la carriola di pere… Oh benedetta carriola!

E la fanciulla avèa uno di que' tai visi, passavìa della tristezza, che fanno belli gli specchi, a colori e a contorno finissimo, dal naso gentilmente aquilino, e cui, gli occhi furbetti e un germe di malizioso ghignuzzo sul destro canto fra i labbri, dàvano il moscadello. Le manine poi, lunghe, sottili, a mezziguanti di filo; una, sul seno come a fermaglio, tenèa raccolto uno scialletto scozzese; l'altra, stringendo un mazzoluccio di viole, scendeva lungo la gonna a mille-righe di bianco e di nero. E, dall'imo di questa, usciva la mascherina di una scarpetta, piccola sì da mèttere il dubbio se avrebbe potuto annidare una tòrtora.

Enrico si sentì il cuore sommosso; capì i suòi viaggi finiti; gli cadde di bocca lo scorcio di sigaro, e:

— Oh il bel mazzetto! — fece.

Allor la fanciulla girò la testa alla voce, infiorando un sorriso; ma, come diede nel giòvane, arrossì tutta e volse lo sguardo al mazzetto, quasi a passargli quel complimento, che, sotto il nome di lui, èrasele volto. Eppòi, lesta lesta, partì. Ed egli, dietro.



IV

Chi può essere quello, che fà dieci scale per una lezione d'inglese


Pochi dì dopo “derlin-din-din!” sclamò il campanello di casa Morelli; e la servetta, che corse ad aprire, vedendo un giòvane biondo, svelto, bellìssimo, crede' che entrasse l'Arcàngiolo Raffaele vestito alla moda.

Ned ella gli dimandò che volèa, ned egli l'espresse, chè tutti e due èrano già nella sala, alla presenza del padrone di casa.

Al quale, il nuovo arrivato, fatto un inchino, chiese:

— Ho io l'onore di salutare il signor Pietro Morelli?

— Sì, per servirla — rispose l'infermo, alquanto maravigliato; e, dopo una diffidentissima pàusa — Si accòmodi. —

La servettina portò al forestiere una scranna.

Quello, siedette.

— Mi chiamo Enrico… Giorgini — poi cominciò; e disse, ch'egli era un negoziante di panni, il quale, secco della tarda avviatura de' suòi affari in patria, voleva recarsi in Amèrica… giustamente a New-York… —

Il signor Pietro con un gesto assentì, quasi a dire: — Ma bravo!

— Tuttavia — segui il giovanotto — c'è un male… non conosco la lingua…

— Già; è un male — convenne l'infermo.

— Ora, avèa egli, il Giorgini, in una casa d'amici, udito a parlare di una signora Morelli, maestra d'inglese della contessa Orologi… di cui la contessa era enchantée… —

Quì il signor Pietro rifiutò con la mano la lode, quasi fosse per lui, bah!

— Dunque — conchiuse il Giorgini — prego la signora sua figlia ad accettarmi a scolare; scolare un po' vecchio, ma pieno di buonavoglia, e pregola inoltre di pormi un due ore ogni dì, perchè io passi da lei. —

Il signor Pietro, mentre Enrico diceva, ne masticava una a una le sìllabe; com'ebbe finito, trasse, a prèndersi tempo, il moccichino di tasca, spiegollo, gli cercò ai capi la cifra, e se lo applicò. E, nel soffiàrselo lentissimamente, vide ch'egli poteva a una volta imberciare in tutti e due i bersagli, cioè nel po' più di minestra e nel non men di figliola.

Nondimeno, rispose:

— Aurora, non deve star molto a tornare; ha ella pazienza di attènderla?

— Oh si figuri — fe' Enrico, che meglio non isperava. E attese. E, intanto, discorse di moltìssimo altro col vecchio, il quale, uno trovando che dàvagli in tutto ragione, rimase giulebbe.

— È quà — disse a un tratto l'infermo, additando la porta — La fà l'ùltima scala… —

Enrico sentissi rimescolare; si alzò.

— Stia còmodo! — suggerì il signor Pietro.

Ed ecco, tenendo l'uscio dischiuso la servettina, entrare, con un visetto che ancor più brillava del sòlito, Aurora. La quale, sul primo, scorgendo una persona inusata, sostenne la vispa andatura; poi, raffigurato chi era, ne sobbalzò.

— Il signor Giorgini — disse allora il pappà — vuole imparare l'inglese. Ei chiede se puòi disporre di qualche ora per giorno, e di quali. Verrebbe quì — ed appoggiò la voce sul quì.

— Per mè, sono lìbere tutte — avvertì il giovanotto.

— Potrèi dire anch'io lo stesso — fè, sorridendo e con quel suo monello aggricciare di labbra la tosa; (e dopo una irresoluzione: ) — Alle due? le và? —

Enrico, che la bevèa con gli occhi, e a stenti non con la bocca, fu per rispòndere che tutte le ore passate con lei, dovèano èssere belle — al par di lei, belle — ma si trattenne. Invece, parlò come scolare a maestro; le dimandò se l'inglese fosse una diffìcile lingua, chièsele conto delle più buone grammàtiche, dei libri di prima lettura insomma, cercò di tirare in lungo il collòquio, nè, al certo, lei d'accorciarlo. Oh! senza il babbo per terzo, chissà fin quando avrebbe continuato! Così, dovette finire. Enrico strinse la mano al pappà, poi alla splendente fanciulla. E, da quest'ùltima stretta, il tremore, che naque ai polsi dei due e si propagò per le vene, disse lor cose che avèano poco a che fare con l'Ollendorff e il Millhouse. Molto migliori però.



V

Progressi in inglese


Il dì seguente, incominciàrono le lezioni. Non mai fu uno scolare più assiduo di lui, nè una maestra più puntuale di lei. Uno sedèa ad un lato del tàvolo, l'altra all'opposto; tra loro, in sul terzo, impoltronàvasi il babbo; gli occhiali, volti ad un libro; gli occhi, un po' a destra, un po' a manca.

E, dopo due chiàcchiere e sulla salute ed il tempo, aveva principio il dettato. Era curioso il notare com'ella facesse fatica a dir bene, egli a scrivere male. A volte, Enrico sostava a porre una domanda o un dubbio, o meglio, a consolarsi la vista; ed ella gli rispondeva turbata. Turbata? epperchè? perchè forse vedèa che insegnava a un maestro? E, se sì, starsi zitta? a che?

Appresso, si leggeva il dettato; capital punto della lezione. Allora, le due sedie amorose s'avvicinàvano sul quarto lato del tàvolo, cioè in facciatina all'egoista poltrona del babbo, e la bella ragazza, con l'imo di un tagliacarte, apriva la strada ad Enrico, mentre costùi, spesso, si diperdeva a mirare, non la parola, bensì le dita affilate che gliela indicàvano. E la ragazza: su, coraggio, signore; dica. —

— Diàvolo d'un inglese! — borbottava il pappà. Tanto che lo scolare, tirato fuori dall'èstasi, accentuava la ritrosa parola in modo, che, se Aurora gentile fosse stata solo maestra, n'avrebbe fatto tesoro.

A volte poi, e' si sentiva solleticare da un capriccioso riccietto o titillare la guancia all'appressarsi della rasata di lei; ancora un pochino, e si sarèbbero tocche. Serràvali in quella lo smarrimento medèsimo; èrano come ubbriachi; leggèvano macchinalmente o almeno credèano lèggere, chè, davvero, che forloccàssero mai, neppur Centofanti sarebbe riuscito a capire.

Fortuna, che tutto l'inglese del babbo consisteva in beef-steak e roast-beef con la giunta dell'yes!

Ma un dì, usando essi di fare anche un po' di diàlogo:

Whom do you love? — chiese la bella volgèndosi ad Enrico e innamoratamente guardàndolo.

Enrico non tènnesi più.

I love you! — fece con entusiasmo.

La fanciulla arrossò.

Love? che significa love? — disse intorbidàndosi il babbo e strascicando la voce.

E, a botta risposta, Enrico: mangio. —

Il Signor Pietro lampeggiò l'uno, poi l'altra, con un'occhiata tale, che, se le occhiate lasciàssero il segno, quella li avrebbe uccisi di colpo. E, la lezione finita, ed il Giorgini partito, si die' a carteggiare il “Baretti.”



VI

Malus homo stultus est


Ma l'indomani dell'amorosa dichiarazione, Enrico anticipò di qualche ora la sua venuta in casa Morelli, cogliendo giusto il momento che la fanciulla era fuori. Quel dì, Enrico, avèa un aspetto grave, bùrbero, il signor Pietro.

— Ho da parlarle — disse il Giorgini, inchinàndosi al vecchio; e siedette.

— Anch'io — oppose costùi con un sogghigno di tristìssimo augurio.

— Dica — acconsentì il giovanotto.

— No; dica lei — ribattè il signor Pietro.

Dunque, Enrico, piegossi un po' indietro sulla spalliera della sua sedia, passando la mano alla bocca e accarezzàndosi il mento. Forse, avèa apparecchiato un discorso, ma il discorso era ito.

Il babbo di Aurora lo guatava attendendo.

Enrico si stancò di cercare:

— Signore — disse con risoluto cenno di capo — parliamo sgusciato. Io adoro sua figlia e gliela chiedo per sposa. —

Ve', il signor Pietro non mosse pure palpèbra. Ma con calma rispose, calma di temporale però:

— Seppi io jeri, che ella faceva la corte a mia figlia; oggi lei sappia, che, quanto a sposarla, nichts! —

Enrico sentissi le bragia sul viso; pure, si limitò di arricciarsi i mostacchi; e con le belle belline difese la causa sua e di ogni cuore gentile; toccò dell'immenso amore per lei, amore che pareggiava sol quello della ragazza per lui…

Al che, il signor Pietro sbuffava e barbugliava tra le gengive: oh! mèttere in succhio una tosa… scusate se è poco!… già; al taglio come le angurie… chiòh eh!

Poi, Enrico lasciò il tema su amore e parlò numerario; disse, ch'ei non si chiamava Giorgini; sì bene San-Giorgio, dei San-Giorgio di Ponte (che volèa dir milionari) per cui, egli ed Aurora, avrèbbero circondato il lor babbo di tutti gli agi possìbili.

La quale ùltima corda non sonò male al pappà.

— Insomma — finì il giovanotto, pigliando a colùi, con preghiera e speranza, una mano — ella può fare la felicità di noi due.

Bene; questo argomento — chi non vuol crèder non creda — ruinò tutta la càusa. Il falso egoismo susurrò tosto all'infermo, che là ove due si àman da vero, un terzo è di troppo; ch'ei sembrerebbe una pezzuola-cotone, a villani colori, sudicia, in un cassettino di fazzoletti-battista, a ricami, bianchìssimi, profumati; poi, susurrò ch'egli trarrebbe la vita in un palazzo sì, ma non suo, in mezzo a tappeti, a tappezzerìe di stoffa, a mobiglia intarsiata, ma di altri… e d'altri anche la figlia! e, tra una folla di servi, servo; in conclusione, ch'egli vivrebbe splendidamente di carità, senza il diritto ad un lagno. E Aurora intanto ed Enrico, a divertirsi, a gioire!… gaudiumque coeli poena poenàrum damnàtis.

Rispose dunque di netto:

— No —

No? Enrico era di sùbita ira. Abbiate pazienza! c'è il vino spumante e c'è il muto. Enrico, alzàtosi impetuoso, appoggiò sur il tàvolo un pugno, tale, che lo isfondò, gridando:

— Cattivisìssimo uomo! —

Il signor Pietro, lui e la sua poltrona, ruzzolò fino in fondo alla stanza, pàllido, come se l'omèrica botta avèsselo contracolpito.

— Fuori!… via!… — gridava; ed Enrico spaventato dallo spavento del vecchio, pigliò a precipizio la porta.

Ma, a mezza scala, diede nella fanciulla.

— Aurora! — esclamò, baciàndola in viso — io ti chiesi a tuo padre. Egli… mi ti ha negata!… Lo spaventài… perdona — e in quattro frasi la fece conta di tutto.

Ed essa? Essa pure baciollo… basta? sì ch'egli uscì che lanciava scintille.



VII

Ultimi spruzzi di cattiveria


Appunto in quell'infàusto giorno, il signor Pietro ebbe il secondo colpetto. Egli rimase due dì senza potere spiccicare parola, i denti serrati tanto, che a pena gli si riuscì a introdurre qualche cucchiajo di roba. Nè il terzo colpetto si sarebbe fatto aspettare s'egli avesse saputo, che Enrico in persona era corso dal mèdico e dal farmacista, e che ora stava presso di lui, trepidando, in attesa di nuovamente servirlo.

E il signor Pietro non rimise un pie' nella vita (quasi a rincorsa alla morte) se non per proròmpere ingiurie contro alla figlia ed all'amato di lei. Parèa che non trovàssene mai di bastante. Sì ne disse di quelle, che il mèdico confessò ad Enrico ch'egli sentiva più voglia di mandarlo dal babbo che non di serbarlo alla figlia. E questa scioglièvasi in làgrime. Voleva proprio suo padre, che non le ne avanzasse una goccia per piàngerlo morto.



VIII

Il testamento del signor Pietro


È di mattina; le sei. Il dottore ha detto ad Enrico, che l'ammalato può andàrsene di minuto in minuto, e il giovanotto lo disse alla tosa. Sono dieci ore che il signor Pietro tiene chiusa la bocca e le palpèbre giù, rannicchiato contro del muro e ansante: solo, alle prime parole di una domanda d'Aurora che avèa sentore di chiesa e di preti, egli, impaziente, fremette.

E la fanciulla gli è accosto e gli ha una mano sul fronte, intantochè, nella medèsima stanza, Enrico, dietro di un paravento, aspetta una parola di pace.

Verso le sette, il moribondo si volge a fatica, guarda la figlia, e con la voce, come l'occhio, appannata:

— Aurora — fà.

— Oh babbo! — e la ragazza lo bacia.

— Par che la vita mi lasci — egli geme. — E io… io fui molto cattivo… più che cattivo, con la tua mamma e tè… ma…

— Oh babbo! — singhiozza la tosa.

— Ma — egli riprende con pena — io vo' che tu sia felice… Tu devi giurarmi… Eh? giuri?

— Sì…

— Di non sposare il Giorgi… il San-Giorgio, perchè… —

Enrico diede un sussulto di cui vacillò il paravento, e si fuggì nella stanza vicina. Là si gettò su'na sedia, pianse. Oh quando stillossi, mio Dio, una quintessenza più acuta di malvagità?



IX

Dichiarazione del testamento


Aurora entra là dove Enrico si sta disperando, pàllida, con due madonnine che le còrrono giù:

— Pòvero babbo! — sospira.

— E tu che hai promesso, tu? — chiede l'amante con un singulto d'angoscia.

Ed essa: quello che manterrò.

Il giovanotto la mira con uno sguardo da folle, uno sguardo che preavvisa di serrare le imposte.

— O Enrico, esclama la bella — e chi ne toglie di amarci? —

E si amàrono infatti, e si amàrono sempre, chè il solo amore li tenèa legati. E stampàrono bimbi, intellettuali, formosi, i quali fùrono a loro il miglior contratto di nozze e la migliore delle benedizioni





APPENDICE



1. LA VESTE



Aspettavamo da un'ora, io e la zuppa: questa si raffreddava, io mi scaldavo. Finalmente si udì un passo affrettato. Giannetta entrò vispa e gaja e... in una nuova toilette — la terza in un mese.

Aggrondài le ciglia.

— Non mi sgridare — ella disse con una voce da tortora e facendo scherzosamente colla manina l'atto di turarmi la bocca. — È percallo. Cinquanta lire.

Prevedevo assai più e perciò mi acquietài. Dirò anzi: l'essermela cavata a così modesto mercato mi fe' quasi contento.

Sedemmo a tavola. Giannetta era carina quanto mai e chiacchierava chiacchierava colla più amabile incoerenza. Al secondo bicchiere di vino, mi saltò la stupida idea di lodare il nuovo abito.

— Non è vero che ho scelto bene? — insinuò essa con premurosa dolcezza. — Per ottanta lire, credi, non si poteva avere di più.

— Ma e non dicesti cinquanta? — domandai con sorpresa.

— Hai capito male, amor mio — rispose ingenuamente Giannetta. — Pare a tè, a tè che tanto t'intendi ed hai gusto sì fino, che valga meno? —

Certo, non pareva. Feci un moto d'impazienza ma non dissi parola. Avendo, del resto, già consentito nella prima spesa, potevo anche imaginarmi benissimo di non aver più da pagare che trenta lire.

Così, il pranzetto, giocondo di vino e di sguardi, continuò. Tra una spiritosaggine vecchia e un'asinaggine nuova, Giannetta uscì a dire di aver giurato alla sarta che le avrebbe, il dì appresso, fatto tenere il denaro dell'abito, soggiungendo con un sorriso: — capirai che, trattandosi di una sciocchezza di cento lire…

— Cento? — interruppi. — Eppure, la cifra, se non ho male inteso…

— Oh, stavolta hai inteso malissimo — sclamò essa con vivacità. — Fa un po' il conto tu, tu che hai studiato di matematica. Ottanta la stoffa, sessanta la fattura, venti le spese… —

In principio di tàvola, avrei rovesciato… la tàvola. Ma eravamo già a mezzo, e Giannetta, attraverso il mio vino, cominciava a diventarmi bellissima.

Per dirla in breve, ad ogni muta di piatti, il prezzo della veste di lei, come in una pùblica asta, aumentava. Fortunatamente, i miei pranzi non sono lunghi. Quando si arrivò alle frutta, Giannetta aveva già avvicinata la sua alla mia sedia, e, circuèndomi il collo col braccio: — vedrai, caro — mi susurrava in voce di dichiarazione amorosa (e colle ditina giojellate e affusolate infilàvami intanto nella tasca esterna dell'abito un conticino piegato in quattro) — vedrai che pomposa figura farà sul corso la tua amatuccia colla sua veste da… trecento lire. Sembra percallo, vero? ma è tutta seta. Ne sei persuaso?

E Giannetta si partì, com'era venuta, gaja e vispa. Spiegài malinconicamente il conto. Il conto diceva trecento cinquanta. Altro non mi restava che di pagarlo. E lo pagài di gran fretta per evitare il pericolo che mi crescesse anche in saccoccia.



2. DALLE “NOTE AZZURRE”



2527. Progetto di un libro, dal titolo “Goccie d'inchiostro” in cui il Dossi raccoglierebbe tutte sue briciole letterarie, avanzategli dai grossi pasti delle opere. Molte di queste briciole si trovano già sparse e nelle sue lettere, e nell'Alberto Pisani ecc. e nella Palestra Letteraria ecc. come p. es. i bozzetti, intitolati Istinto — Balocchi — La casetta di Gigio — Giudizi della giornata — La fede — Un cas de conscience — Charitas — La corba — Le caramelle — Una fanciulla che muore — Una visita al papa etc. etc. — Tra i bozzetti potrebbe figurare anche uno dal titolo “I giochi”. “I Giochi” potrebbero stare anche nel L. VI. R. U. Eccone la traccia. - “Sei già un ometto. Smetti di giocare che è ora” — così certi bravuomini di babbi dicono ai loro figlioli quando hanno infilato la prima volta le brache. Ma che dicono proprio, non sanno. — Anzitutto, che intendono mai per giocare? Rispondono “giocare è un fare cosa non utile” - “E per utile? Chè, se utile è ciò che soddisfa a un bisogno, anche il giocare è un bisogno, il massimo anzi ai bambini; ma se diciamo bisogno soltanto il mangiare ed il bere, o quante inutili cose! O quante son giochi. — E in verità chi proprio gioca (che i nostri figli non ci odano!) siamo noi — noi i majuscoli bimbi — Che fanno là tutte quelle genti, vestite dentro e fuori a un sol modo, ubbidienti a un tamburo; il cui mestiere è l'omicidio etc.? avec tutte quelle cose lucenti etc. etc.? Giocano — E quegli altri che vanno a dormire su quelle belle poltrone celesti affine di completare il numero di que' etc. che credono dirigere gli avvenimenti che camminano per proprio conto, attorno a un balocco che costa 17 milioni all'anno, che fanno? giocano — E quegli altri ancora, abbigliati di carta d'oro che fanno il mestiere di adorare un Dio creato da loro a loro imagine e somiglianza, che fanno con tutte quelle genuflessioni etc.? giocano — e quelli nelle academie che discutono in lingua italiana, se la lingua italiana esista; oppure a pesar le parole etc. che fanno? giocano — E giochi noi grandi uomini (grandi s'intende per la cresciuta) ne abbiamo a bizzeffe — titoli, decorazioni, mistico vaniloquio, cerimoniali etc. etc. Lasciamo dunque che i nostri bambini si trastullino il più lungo tempo possibile coi loro pezzetti di legno etc. Que' giochi non costano che pochi soldi — i nostri costano oro, sangue, lagrime — Tra i giochi, le reliquie, i santi, le processioni, i sistemi filosofici (encicli e recicli), la framassoneria — Illi a puero magnitudine formaque corporum tantum differunt, quia serio ludunt. — I vecchi = due volte bimbi. — I nostri orribili giochi.


2559. Temi. 1° Una fanciulla, innamoratasi di un giovane, è sul morirne. I parenti di lei, vogliono sforzare il giovane a sposarla — Il giovane, innamorato d'altra, rifiuta — Ma la sua amante, saputa la cosa, unisce i generosi suoi sforzi a quelli dei parenti della fanciulla morente. La quale, per riconoscenza, diviene amicissima della generosa. Conclusione. Il giovane vive con tutte e due — e vive in perfettissima armonia. - 2° Tale s'innamora fieramente di una, che non gli corrisponde. Disperato, egli cerca dimenticarla, e dopo indicibili sforzi, ci riesce, mercè un'altra. Ma allora, quasi a vendicarsi, Amore scende in colei che negava, la quale, ricomponendo nella mente la figura del lontano giovane, a poco a poco se ne innamora perdutamente. Ma è tardi.— 3° È la sera. Una bellissima faccia di ragazza sta appoggiata alla vetrina di una bottega, guardando verso la strada. Passa un giovane, pien di tristezza e d'amore. I loro occhi s'incontrano: le loro labbra si aguzzano le une verso l'altre — e i due giovani si baciano attraverso il cristallo. Donde un amore — 4° Due fidanzati vanno dal notajo per l'atto nuziale. Si trattava di un matrimonio fatto più tra i parenti che tra gli sposi. Il notajo è un bellissimo giovane. La fidanzata se ne innamora. Rifiuta di sottoscrivere l'atto etc. — 5° Racconto in cui ci siano due figli di madre nobile e di padre plebeo, che trattano d'alto in basso il padre. Umiltà del padre in loro riguardo etc. —


2571. Temi. (G. I.) l° Un bimbo dà a un povero vecchio accattone un lucidissimo cinque quattrini statogli regalato dal babbo. Il vecchio, ingannato dal suo luciore, lo piglia per un marengo, e corre dietro al bimbo per restituirglielo, credendo di averlo avuto in sbaglio. Dispiacere profondo del bimbo, perchè la moneta è davvero un cinque quattrini. — 2° Passo per una via. Un poveretto mi cava il cappello. Io credo ch'ei mi saluti a gratis e gli rendo gentilmente il saluto. Mortificazione del poveretto — 3° Molte buone azioni ci vengono in mente, quando appunto non c'è più tempo di farle. Un povero straccione cade sotto di un omnibus. Non si fa nulla di male. Vien rimbrottato dai passanti, cacciato a spintoni, schernito. Io passo oltre. Strada facendo, penso quanto bene avrei fatto, a lui ed a me a pagargli un bicchiere di vino, bevendo seco. — 4° Due s'incontrano: credono raffigurarsi e fanno per portarsi la mano al cappello. Conosciuto l'errore, si pigliano, invece dell'ala del cappello, il naso. —


3711. I villani. Nella stalla in mezzo al fimo, suocera e nuora s'insolentiscono. Anche nelle società meno sporche ci si odia, ma l'odio è almen vestito d'amore. Quì tutto è natura. La suocera dice alla nuora “putana de voeuna, nissun v'ha volsuu, fin quand avii trovaa on asnon come mè fioeu”. — Nuora: s'cioppee, brutta porca d'ona veggiassa! — Suocera: sont stava quindes dì amalava e s'hii mai venuu a trovamm — Nuora: crepavev minga l'istess! — e così via (dal vero). — Bizz. V. 3627 Catalogo etc. 42. I contadini rifiutano il medico intelligente e si danno anima e corpo a certi loro ciarlatani che si vantano di possedere la grazia miracolosa. Costoro entrano nelle capanne a segnare il malato, (e se questo è una donna anche a palpeggiarla) e gli borbottano su certe turchine preghiere da un libro fratesco in cui si trovano scongiuri per ogni sorta di male o impedimento maligno. — Bozzetto — Io e Mons.re Bignami in una casipola, un dì, confondiamo e fughiamo uno di tali strion stobbiaroeu, tirando fuori i soliti argomenti relat. alla buonafede, alla ignoranza, al ciarlatanismo. — Poi usciamo. Strada facendo, il discorso passa allo spiritismo e il Bignami mi parla con riverenza dei mediums etc. Concl. È una ignoranza la nostra un po' più alta di quella dei contadini, ma è sempre ignoranza.


4003. Della vita intellettuale e della fisica. Sono al balcone — mi sento squilibratissimo. (!) Vedo in giardino il Porro, aitante della persona, tutto salute ecc. Invidio alla sua vita. Penso e confronto la vita infelice dei nervi e quella felice dei muscoli. Entro, seguendo il mio destino, nello studio, sconfortato e piangendo. Mi metto a leggere, poi a scrivere. A poco a poco mi si compone la cerebrale congestione del genio, e l'entusiasmo conflagra. Capisco allora quanto le gioje intellettuali vincano le altre, e dico, pensando al P.: egli non avrà mai questa divina voluttà.