ANTONIO FOGAZZARO



RACCONTI MUSICALI





Il fiasco del maestro Chieco


I


Rilessi nel vecchio quaderno, dove l'avevo trascritta molti anni addietro, questa sentenza di Lessing: “Lass dir eine Kleinigkeit nicht n'äher gegehen als sie werth ist” (Non lasciarti toccare da un'inerzia più ch'essa nol meriti). Alzai gli occhi e vidi la mia vita, vuota e amara per l'oblìo di quelle parole sapienti. Anche lei, però! Sì, lei era stata troppo orgogliosa, troppo fiera; ma se io le avessi detto sorridendo: “Badi, le sue rose avevano questa spina, e mi ha punto qui e vi è rimasta”, ella avrebbe levata la spina e forse anche baciata la ferita. Invece io m'ero fitto in cuore, con una strana e crudele compiacenza, quella sua lieve allusione a un passato di cui ero geloso. Il cuore aveva poi date parole acerbe che fecero stupore e offesa; l'amor proprio era entrato subito in mezzo, come naturale nemico di quell'altro amore, a reprimere ogni slancio generoso delle anime; e così, reciso dalla piccola spina un legame che pareva eterno, io non avevo più sposata donna Antonietta, la giovane vedova del tenente colonnello D'Embra di Challant.

Quando chiusi sospirando il vecchio quaderno, mi accorsi d'una lettera col francobollo, austriaco, che mi avean gittata sulla scrivania senz'avvertirmene, al solito.

Era quel matto del maestro Lazzaro Chieco, il famoso violoncellista e compositore che mi scriveva così:



Castel Tonchino (o che diavolo è)

24 giugno 1883


Caro Cesare,


Hai da sapere che il povero Chieco sta da quindici giorni in un Castel Catino del Tirolo fatto così. C'è un diavolo di montagna a picco, tutta nuda; sotto c'è la strada; questa strada tocca dall'altra parte un laghetto celeste e vi caccia dentro uno sperone di terra e sassi; in cima a questo sperone c'è Castel Tapino.

Dovevo andare ai bagni di Comano, ma passando ho visto questo castello che non c'è altro stupendo posto per comporre, e ho detto: Chieco mio, se tu non fai il primo atto della Tempesta qui, 'leverito!' come dicono a Fiumelatte, tu creperai senza farlo. E ci sono e scrivo. Tu sai, caro Cesare, che gli amici musicanti di Milano, mi sputarono su questo soggetto per la gola che n'avevano; ma lo straccione calabrese vuole che 'se òngen' tutti questi 'ragionàt' quanti sono.

Solo che tu mi devi aiutare perché il poeta veneziano ha il secondo atto in corpo e ponza; e io gli scrivo “corajo, corajo!” e lui mi risponde: “grassie, grassie, el vien, el vien!” ma non viene un accidente. Dunque va in via Brera, pigliamelo per il collo, e se non ti dà l'atto, strozzalo. Quindi tu vieni qua e stai tre giorni con il povero Chieco. Il primo giorno riposerai, il secondo ascolterai la mia musica, il terzo mi rifarai alquanti versi che non vanno e se li mando in via Brera, 'te saludi!'. Il quarto te n'andrai fuori dei lazzerei piedi.


Il tuo

Lazzaro Chieco


PS. - Non mi guardare le donne belle del Tirolo che sono tutte mie. Povero Chieco, e come si fa?



II


Avevo in mente di lasciar presto Milano e di passare il luglio a Madesimo, ma conoscevo tanto il maestro Chieco e tanto poco il Tirolo, che forse avrei mutato piano, se quella bestia, secondo la quale, tra parentesi, a Milano neppur si fa un risotto senza 'il ragionàt', il ragioniere, mi avesse indicato meglio il suo Castello Tonchino o Catino o Tapino e la via da tenere. La lettera, per verità, aveva il timbro di Trento, ma era poco. Mi stizzì e non ci pensai più. Otto giorni dopo ricevetti un'altra lettera con il timbro di Vezzano, dove una tale Purgher scriveva che il signor maestro Chieco, alloggiato nel suo albergo, era pericolosamente ammalato e mi desiderava come il migliore dei suoi amici. La signora Purgher m'indicava di prender a Trento la diligenza delle Giudicarie fino al ponte delle Sarche, dove nei giorni quattro e cinque luglio avrei trovato persona incaricata d'accompagnarmi dal mio amico. Partii subito e arrivai nel pomeriggio del quattro luglio sotto un sole cocente, al ponte delle Sarche.

Pochi minuti prima avevo riconosciuto a destra la nuda montagna scoscesa sopra il mio capo, a sinistra il laghetto celeste ai miei piedi. Scure collinette boscose lo cingevano dall'altro lato: dietro a quelle si levavano altri monti di un verde più gaio; ma laggiù, verso il Garda, il cielo scendeva quasi fino alle ondicelle azzurre, tutte trepidanti nell'ora del gran lago marino invisibile a mezzogiorno. Vidi il pugno di terra, sporgente della riva, e sulla punta, il castelluccio ritto e fiero come un falco.

Al ponte delle Sarche trovai una servotta tedesca che mi seppe solo dire "Purgher, Purgher". Entrai con lei nella piccola penisola, seguendo un parapetto merlato, un baluardo a riposo, con tanto di cipressi e di rose. Fuori dai merli luccicavan l'acque, tutte vento e sole; dentro viveva e si moveva, sotto l'alto fantasma del castello, un affollato disordine di erbe rigogliose, di fiori incolti, di arbusti selvaggi, di piccoli pini imbozzacchiti.

Ascendemmo lungo il giro del parapetto, sino all'andito male intagliato nella viva roccia che mette nel cortile del castello; un gibboso macigno, questo cortile, inquadrato di mura nere, di logge medioevali, con pitture mezzo stinte, con un chiasso, sui parapetti, di geranii in fiore.



III


Il castello era un vero eremo. Neppure la albergatrice si lasciò vedere, e fu la serva che m'introdusse nel camerone bianco dove giaceva sul cuscino di un letto colossale, il mefistofelico viso del mio povero amico Chieco. Me gli accostai in punta di piedi. Aveva gli occhi chiusi ma la fisonomia era composta. Dormiva? Mi arrischiai di dirgli piano all'orecchio:

“Lazzaro!”.

Mi rispose un fil di voce:

“Chi è?”.

“Cesare” sussurai “sono Cesare”.

Allora Chieco, senza aprir gli occhi, sbattè la bocca come un cane che azzanna a vuoto, dicendo sottovoce: “Asino!”. E continuò con una diabolica rapidità crescendo: “Cane, brigante, assassino, 'ragionàt!'”, aperse quei suoi carboni sfavillanti di occhi, saltò in piedi sul letto ballonzolando e gridando come un ossesso: “Entrate, o Purganti, di Castel Porcino, entrate a vedere il principe degli straccioni che, se non si crepa, non viene!”, e si pose a tirarmi tutto che aveva sul letto, mentre entravano ridendo la tonda signora Purgher e la serva. Colei incominciava a scusarsi meco della burla, quando Chieco, non avendo altro nelle mani, fece atto di tirarmi la camicia. Fughe, strilli, e risate; restammo soli.

Chieco saltò dal letto, corse così come era scalzo e in camicia, a pigliar il suo violoncello e, sedutosi in faccia a me, se lo piantò fra le gambe, attaccò un delizioso andante appassionato. La Purgher e la serva fecero subito capolino all'uscio, ma il maestro s'interruppe, si diede a sgambettare verso il soffitto, fischiando in un suo modo infernale, per cui le donne scapparono da capo, non ci seccarono più. Egli, suonando, mi guardava sempre. I visacci che faceva non si scrivono; non sapevo se commuovermi della melodia dolcissima, o ridere della bizzarra faccia, ora lugubre, ora sfavillante, ora solenne, ora furbesca, ora patetica, ora beffarda, comica sempre. Chieco ha trentott'anni, barba e capelli misti di nero e di argento; ciò accresce la stranezza della sua fisonomia napoletana, piena di sentimento umano e di brio diabolico. Finalmente depose lo strumento. “E come si fa?” disse egli. “Caro Cesare, e come si fa?”.

Gli domandai che musica fosse quella.

“Povero Chieco!” mi rispose serio serio, “io ho detto tutto e questo infelice 'ragionàt' non ha capito niente. La mia musica significa, o straccione, che io sono innamorato e che tu ti devi ammogliare”.

Io pigliai la cosa come una delle sue solite pazzie, per quanto mi giurasse che non aveva mai detto in vita sua una parola più vera.

Egli conosceva benissimo le mie passate relazioni con donna Antonietta e me ne parlò in modo tale che lo pregai a smettere. “Quanto sei asino!” disse egli. “Tu le vuoi ancora bene”. Diventai troppo rosso, forse, ma negai; ahimè, più di tre volte. Intanto Chieco ripeteva su tutti i toni, infilando le mutande: “Quanto sei asino! quanto sei asino!”. Tuttavia non mi parlò più di Antonietta.

Invece, appena compiuta la sua toeletta, mi invitò a vedere 'Castel Pulcino'. Prima di tutto mi condusse in cucina vociando: “O Purganti, o Purganti del diavolo dove siete?” E trovata, invece della Purgher, la servotta tedesca, incominciò a farle boccacce, a gesticolarle davanti, a stordirla con un diluvio di 'schlicche schlocche', da cui la disgraziata doveva capire di preparar subito da pranzo per due; ed accennò di aver capito tanto bene che Chieco la volle abbracciare prima di portarmi fuori.

Il castello non aveva proprio niente di raro, toltone la postura e quel cortile pittoresco; ma quando Chieco s'infatuava di un luogo, lo sentiva da gran poeta fantastico, lo idealizzava con una potenza straordinaria.

“Questo è Castel Divino, capisci?” mi disse egli nel cortile, estatico, davanti a un capitello gotico dei più comuni. “Guarda che bestia gentile deve essere stato lo scultore di quella graziosa porcheria lì! Sono dieci anni che io passo otto mesi dell'anno a Parigi e puoi pensare se ho visto Pierrefonds. Ho visto anche i castelli del Reno. Ebbene, sono niente rispetto a questo; ti dico niente. Qui, se tu non sei troppo asino, ci vedi tutti i tempi. Questo pavimento non sa che sia scalpello, tu lo vedi; è ancora dell'età della pietra. Le fondamenta di queste mura sono romane. Va qui vicino dal prete di Santa Pazienza, che è un santo uomo, a domandare se i romani non praticavano qui. E poi c'è tutto questo Medio Evo; e poi nelle camere tu hai veduto il Rinascimento sino al rococò; e poi ci sono i Purganti che sono il vile presente; e poi ci sono io che sono l'avvenire!”.

Gli chiesi se avesse fatto gite.

“Che gite, che gite!” mi rispose. “Queste sono idee da 'ragionàt'. Mi volevano ben mandare a Santa Pazienza, a Mancavino, al diavolo che li porti. Ma io, questi nomi, li fiuto e mi basta. Vado qualche volta a Comano, ecco tutto. Domattina per esempio, vado a far colazione a Comano”.

“Vengo anch'io!” dissi.

“No!” gridò Chieco “Nossignore! Domattina Lei resta a Castel Tavolino e mi rimpasta qualche dozzina di versi. Io vado per intendermi sul ballo”.

“Che ballo?”.

“Il ballo che si dà qui domani sera. Una cosa magica, mio caro; vedrai. Ho invitato tutti quegli straccioni di Comano per aver lei. Si fan due passi fuori?”.

“Chi lei?”.

Chieco mi piantò per ricomparire due minuti dopo in ombrellino, panama e babbucce.

“Si deve capire che io sono in casa mia” disse egli “e che tu sei uno straccione qualunque. Del resto, eccoti lei, ma somiglia poco”.

Mi diede la fotografia di una signora che non mi parve assai giovane, né assai bella.

“Somiglia poco” ripetè. “La vedrai. È una musica dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Povero Chieco”.

Grossi nuvoloni uscivano dalla gola delle Sarche, raggiungevano e celavano il sole; l'òra del Garda soffiava sempre più forte nei pini e negli arbusti sul lago tumultuante, tutto mobili luci plumbee. Chieco si buttò a giacer supino nell'erba con le mani intrecciate sotto nuca, e mi volle accanto a sè.

“È una musica” disse egli. “È la più morbida, fine musica che io conosca; è del Bach, per Sebastiano!”.

Balzò su a sedere per potersi sfogar meglio. Non pareva più il matto di prima.

“Tu sai” disse egli “o piuttosto tu non sai come disegna Bach. Ebbene, quando lei si muove e io vedo svolgersi tutte le linee del suo dolcissimo corpo e ondulare in aria così, così, dietro di lei, io penso sempre alla musica di Bach”.

Scosse forte il capo piantandosi le cinque unghie della mano destra nella fronte.

“Cosa vuoi?” disse. “Ha un orecchio, per esempio, che lo può fare solo il mio violoncello. E due labbra poi, due labbra così frementi di passione e di sensi, di tutti i peccati capitali, mio caro! Benché sia santa e 'prude' come una vecchia diavolessa inglese. È questo che ti frigge il sangue, capisci? Non ti parlo degli occhi, non sono mica il Padre eterno per poterne parlare. Ma le mani, per Bach, ma le mani! C'è un birbaccione di professore tedesco che gliele studia con gli occhiali, e gliele ha trovate 'psichiche!' Maledetto, come ha trovato bene! È un pezzo di Quattrocento”.

Continuò a lungo su questo tono misto di fuoco meridionale e di finezza parigina, di sensualità e di poesia, levando a cielo persino le toelette della dama, delle quali tremava che fossero una sola cosa con quel corpo e quella anima, che le crescessero vive intorno come il calice al fiore. L'anima? Ah l'anima era musica italiana del Settecento, così ricca di vena, così delicata nello scherzo, così composta e precisa nel sentimento, sempre penetrata da una ragione luminosa. Insomma questa donna era la sola degna di sposare Lazzaro Chieco, la sola cui avrebbe voluto sacrificare la sua libertà.

Questo accesso di febbre matrimoniale mi strappò una esclamazione molto ammirata. Allora Chieco mi parlò con toccante gravità della tristezza che era in fondo al suo cuore sotto tanti pazzi umori, come l'acqua morta, scura in fondo al lago sotto tanto ballare e luccicare di onde. Era stanco, disgustato di tutto fuorché della musica e di un suo antico ideale d'amore, non detto mai ad alcuna delle tante femmine che aveva prese un momento.

“Ho trentott'anni” mi disse egli “ma potrei forse amare ancora ed essere felice come un fanciullo di venti”.

“E perché non lo sarai?” diss'io.

“Perché questa stupida non mi ama” rispose.

La signora Purgher chiamò da una finestra. Chieco balzò in piedi e, ficcatosi un dito in bocca, cacciò il suo fischio diabolico.

“Andiamo a tavola” disse egli.



IV


Mi fece udire quella sera stessa, sopra un piano scellerato, la sinfonia e, in parte, il primo atto della sua Tempesta. Per vero dire, l'imitazione delle onde, del vento, dei tuoni, delle urla non mi è sembrata mai, con licenza dell'amico, straordinariamente felice in quella sinfonia; l'ultima melodia, che figura il canto di Ariele quando acquieta il mare, è soave, ma ricorda forse un po' troppo la Canzone di Primavera di Mendelssohn... Invece il pezzo sinfonico che segue, eseguito dall'orchestra a sipario alzato e scena vuota, mi parve veramente, come parve al pubblico, sublime. La musica non è descrittiva ma seconda mirabilmente l'immaginazione dello spettatore che sappia essere quella una isola deserta dell'Oceano popolata da spiriti obbedienti a un mago, e dove si prepara uno strano dramma in cui avranno parte quelle aeree potenze misteriose e tante passioni umane.

L'amico mio infondeva nella sua esecuzione una vita indiavolata, mi gridava i nomi degli strumenti, li imitava con la voce, urlava nei punti di grande sonorità, rovesciando il capo all'indietro, tempestando con le braccia e con le gambe. Mi fece udire, con gli altri pezzi il duetto originalissimo di Calibano e Ariele, di cui non erano per anco scritti i versi. “È il duetto dell'anima” mi disse Chieco. “Shakespeare non lo ha immaginato, ma io sì. Lo faccio precedere da un assolo di violoncello che è divino. Te lo suonerò, poi, fuori di qui”.

Il bizzarro uomo suonò infatti più tardi questo pezzo ispirato a capo della scala che scende nel cortile, presso una finestra poetica da cui si domina il lago e si vedono giù, porgendo il capo, le alte mura, lo scoglio, i salici e i fichi selvaggi che ne sbucano a pender sull'acqua. Io sedevo sulla scala, cinque o sei gradini più sotto.

Il violoncello sospirava e gemeva più dolcemente di qualsiasi voce umana. Il vento sibilava nelle logge, sbatteva ogni tanto qualche uscio per le solitudini del castello. Un soffio più forte spalancò la finestra, portò dentro il rumore delle onde. Pareva di essere in un'altra isola incantata, di udire un altro Ariele, altre voci confuse di spiriti. Possibile che la sera prima, a quell'ora, io stessi pranzando in Galleria Vittorio Emanuele? Mi pareva un sogno, mi sentiva una vaga commozione, una inquietudine inesplicabile.



V


Il mattino dopo l'amico mio se ne andò a Comano per tempo. Io vagai lungo il lago, e prese le 'zette dell'Imarò' che fiancheggiano i precipizi in fondo a cui si rigira, per un bagliore di ghiaie, la Sarca verde, giunsi a veder là di fronte, fra montagna e montagna, un cucuzzolo bianco, il ghiacciaio della Tosa. A colazione ebbi con la signora Purgher un dialogo su Chieco. “Matto” diceva “ma che cuore!”. Gli aveva visto prodigare oro ai poveri come un principe e parole assai più preziose dell'oro; abbracciare una vecchia pezzente che somigliava a sua madre. Di questa lo aveva udito parlar con un fuoco che gli empiva gli occhi di luce e di lagrime. Peccato che non avesse freno nel trattare con le donne! Era un orrore per quello. La signora Purgher finì col farmi acquistare, era la sua frase, un eccellente bicchier di Isera, dopo di che mi accinsi a rabberciar le strofette melliflue del poeta B. secondo certi concetti shakesperiani espressimi la sera antecedente dall'amico Chieco.

Il pomeriggio di quel giorno e tutto il giorno appresso furono interamente occupati dai preparativi del ballo. Chieco ne parlava come lo offrisse lui questo ballo, ma in fatto non aveva offerto che la sua direzione, la sua camera, la musica e l'acqua. Le provvigioni, i fiori, i fuochi di artificio vennero, per cura della società di Comano, in parte da Comano, in parte da Trento, insieme a tre famelici musicanti, un pianista e due violinisti, che noi battezzammo Trinculo, Stefano e Calibano; Chieco ne elesse subito uno a suo gran tappezziere, un altro a suo gran facchino, il terzo a suo grande sottocuoco. Lavoravano come scimmioni goffi, istupiditi da quella novità di mestiere e di padrone, guardando costui con un comico sgomento, non osando ribellarsi né sapendo se almeno fosse loro lecito di ridere.

“Tu non fai niente, brutto straccione” mi disse Chieco “ma stasera ti cambio nome vestito e mestiere, ti sollevo a mio primo lustrascarpe e barcaiuolo. Ho fatto venire apposta un canotto da Riva”.

Gli chiesi il perché di tanto onore, ma egli non me lo volle dir subito. Dopo pranzo mi prese a braccetto e mi condusse in giardino.

“Parliamo sul serio” disse egli. “Poiché non la posso sposare io, come si fa? la devi sposare tu. Maledetti voi che siete nati uno per l'altro!”.

“Mi dirai almeno il suo nome!” interruppi ridendo. “Non ridere! Tu non sai quanto bestia io sono in questo momento e quanto stupido sei tu. Perché lei ti vorrà bene, capisci, e tu ne vorrai a lei, e io che se ci penso ti strozzerei come l'ultimo dei piccioni, te la do, te la do e che siate maledetti!”.

Ciò detto mi saltò al collo, mi baciò, mi strinse in modo che lo credetti impazzito davvero.

“Ti voglio bene, sai” disse egli “perché ci conosciamo da tanti anni, perché non scrivi musica e ti piace la mia; ma se mi amasse, tu non saresti qui. Non ridere e non domandare il suo nome. La vedrai stasera. Se non ti piace è inutile che tu ne sappia il nome. Le ho già detto che ho qui un canotto e un domestico, e che questo domestico sa remare e che ella potrà fare una corsa sul lago. Ha accettato a patto che io non venga. Andrà con te solo, dunque. E adesso, mi dai trentadue lire e settantacinque centesimi”.

Feci un atto di meraviglia.

“Oh! furfante!” esclamò Chieco. “Vuoi che l'abbia fatto venire a mie spese il canotto? Vuoi fare all'amore tu e che io paghi? Come sei 'ragionàt'!”.

Non capivo bene, sulle prime, se scherzasse o no, ma il dubbio durò poco. Chieco voleva veramente le trentadue lire e io le sborsai, dichiarando tuttavia che in canotto non ci sarei andato poiché la sua incognita non mi tentava affatto.

“Oh” diss'egli “tu vuoi farti rendere il denaro?”.

Alle corte, dovetti promettere, per non offenderlo, di fare a suo modo, ma soggiunsi che non sarei uscito un momento dalla mia parte di barcaiuolo.



VI


Alla sera Chieco, in frac e cravatta bianca, raccolse una banda di ragazzotti, distribuì loro delle lanterne di carta e delle torce a vento, li schierò in colonna, vi collocò in mezzo i due violinisti, e, salito sull'asino di casa Purgher, si pose a capo di una bizzarra marcia alle fiaccole, in omaggio a quelli di Comano che dovevano trovarsi al ponte delle Sarche dopo le nove. I violini stridevano, Chieco zuffolava, i portafiaccole facevano un chiasso d'inferno, il terzo musicista tirava razzi dal nero culmine del castello, sul monte Cavedine sorgeva un fantasma velato di luna. Io m'imbarcai per una corsa di prova. Il canotto era un vecchio arnese pesante, troppo alto di sponde, fatto per i flutti e le collere, fluctibus et fremitu, del Garda, ben diverso dalla elegante barca inglese, che il maestro aveva a Fiumelatte; ma stava a galla, e io non desideravo di più. Approdai subito al luogo indicatomi da Chieco e vi attesi che le fiaccole e i clamori tornassero dal ponte delle Sarche. Faceva quasi freddo, l'aspettazione di questa signora che piaceva tanto a Chieco m'era sgradevole. Mi dolevo di avere scritto una certa lettera ad Antonietta, di non essere invece partito per Saint-Vincent dove ella si trovava. Le avevo scritto per chieder perdono e pace, ma la penna non aveva forse scritto come il cuore dettava, la penna aveva forse talvolta sentito il freno del maledetto orgoglio; non mi si era risposto. Perché scrivere? La febbrile visione di un incontro con Antonietta venne improvvisamente sopra di me. Era di una vivezza, e, in pari tempo, di una mobilità tormentosa. Ora Antonietta mi passava a fianco senza salutarmi, conversando e ridendo con altri, ora mi diceva un freddo 'buon giorno', ora il suo lungo sguardo mi correva deliziosamente le vene. Intanto i clamori e le fiaccole tornarono. Udii il fischio di Chieco. Voleva dire che la signora c'era e che mi tenessi pronto.

Ero uscito dal canotto e mi preparavo un'attitudine ossequiosa di barcaiuolo che aspetta, quando comparve Chieco tenendo a braccetto la dama avviluppata in uno scialle bianco.

“Entra, entra tu!” mi gridò il maestro. “E a posto! La signora siede a prua e al canotto gli do una spinta io.” “Presto!” soggiunse, parlando a lei. “Facciamo presto, altrimenti ci prendono!”.

Infatti si gridava dietro a loro: "Chieco! Chieco! anche noi! Dove siete, Chieco?".

Entrai nel canotto, sedetti sul banco di mezzo voltando le spalle alla prua, e impugnai i remi. In un baleno la signora balzò dentro, il canotto fregò, saltando indietro, la sabbia. “Presto, presto!” ripeteva Chieco. “Gira, gira!”. Feci girare a tutta forza quella vecchia carcassa e la misi con quattro colpi di remo alla corsa.

Si tagliava dritto all'altra sponda, quando la dama, che non aveva ancora aperto bocca, mi disse:

“Fate il giro del castello”.

Dio mio, che dolce voce era questa? N'ebbi tronchi, per un momento, il moto, il respiro, il pensiero; era la voce 'sua'. Appena potei, ripresi a remare a caso, immaginando febbrilmente ch'ella sapesse, che non sapesse, non osando volgere il capo, sentendo che era un momento supremo.

Ella ripetè: “Fate il giro del castello!” con una leggera impazienza, stavolta. No, no, non poteva saper niente, Chieco l'aveva ingannata come me. Obbedii; piegammo verso lo scoglio del castello, incendiato in giro dal bengala. Qualcuno gridò: “Donna Antonietta! A terra! A terra!”. Ella mi chiese allora se si potesse approdare dall'altro lato della penisola.

Esitai un poco, e risposi con voce involontariamente alterata:

“Non lo so”.

Antonietta non replicò nulla, ma subito dopo sentii il canotto piegare sul fianco destro.

Certo ell'aveva fatto un movimento, aveva cercato vedermi in viso. Anche la sua voce mi parve leggermente alterata quando soggiunse:

“Voglio tornar indietro, all'approdo”.

Pensai che mi avesse riconosciuto, che forse mi credesse complice dell'inganno. Guai se credeva questo, lei col suo carattere! Non c'era da sperar più nella pace. Voltai il canotto, silenziosamente, per ricondurla all'approdo. Ero ben risoluto di parlare ma solo quando ella fosse libera di scendere, di lasciarmi. La luna usciva brillante di sotto un nuvolone: entrai nell'ombra del muro di cinta.

“Vi sono altri forestieri qui nel castello?” chiese Antonietta colla stessa voce di prima. Eravamo a una trentina di metri dall'approdo. Non risposi. Ora avrei dovuto voltar il capo verso di lei per approdar bene. Remavo adagio, adagio, il cuore mi batteva in tutto il petto. Antonietta non ripetè la sua domanda. L'angolo del muro di cinta mi comparve a fianco, era lì che dovevo approdare. Trassi di un colpo i remi nel canotto e balzai in piedi voltandomi a lei che si rizzò in un lampo e fece l'atto di slanciarsi a terra.

“In nome di Dio” esclamai stendendole le braccia “non sapevo niente! Mi crede, mi crede? Non è possibile che non mi creda!”.

In quel punto il canotto urtò la riva. Antonietta non parlò né si mosse.

“Esci, se vuoi” proseguii tra l'angoscia e la speranza, giungendo le mani. “Proibiscimi di seguirti, di parlarti, ma credi!..”.

“Se non lo sapeva” interruppe Antonietta “perché questa commedia?”,

Saltai a lei, le afferrai una mano ch'ella né mi abbandonò, né mi tolse, le raccontai con affannosa fretta quello ch'io pensavo allora essere uno scherzo di Chieco, le parlai del mio folle orgoglio distrutto dal dolore, dell'ardente speranza che mi riprendeva, della vita mia che era in sua mano, come anche l'anima, forse! Ebbro di gioia sentii quella mano cedere, cedere; potei stringere fra le mie braccia la dolce fidanzata che nulla, neppure la morte, potrà mai più interamente dividere da me.

Mi disse che aveva creduto riconoscermi al mio primo “non lo so”, ma che n'era stata sicura solo quando non avevo risposto alla sua domanda. Vinsi così presto perché la mia lettera, arrivata a Saint-Vincent quando Antonietta n'era partita per non trovarvisi bene, l'aveva raggiunta, dopo lunghe peregrinazioni, a Comano, la mattina di quel giorno stesso. Le proposi di restare in barca, di pigliare ancora il largo. Non le parve conveniente; e neppure ch'io, mutata qualità, l'accompagnassi al ballo. Ma prima di andarsene dovette pur dirmi qualche cosa di Chieco. Egli le aveva infatti parlato di amore; trivialmente, sulle prime, a modo suo; più tardi con una serietà e una passione di cui Antonietta aveva creduto capace il violoncello, ma non l'uomo. Respinto in tutti i modi, le aveva detto male di me, scandagliando il terreno, giurando che non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di prendere ciò che io non aveva saputo tenere. A questo punto Antonietta gli aveva chiuso la bocca con due parole asciutte cui egli dichiarò di accogliere come il “turacciolo del fiasco”, soggiungendo però che farebbe vedere alla signora chi fosse Chieco, che testa e che cuore.

“Aveva ragione” disse Antonietta abbracciandomi dopo il suo racconto. “Ci ha intesi molto bene ed è stato molto buono. Ed ora vado, sai”.

“Va va” risposi trattenendola più forte che potevo.

“Come mandi via la gente, tu!” diss'ella con una boccuccia e un accento di bambina dolente, aggiustandomi i capelli sulla fronte. Mi pose le labbra all'orecchio, mi sussurrò: “Ho piacere che siamo qui al buio, che tu non mi veda bene negli occhi, altrimenti ci tornerebbe tropp'orgoglio qui dentro!”.

Ritirò il viso, rise un poco, mi diede un bacio, saltò a terra e fuggì.

Io mi scostai dalla riva remando in fretta e, deposti quasi subito i remi, mi abbandonai all'ebbrezza che m'invadeva cuore, pensieri e sensi. Non so quanto tempo rimanessi così sdraiato sul banco del canotto, con la nuca a una sponda, i piedi all'altra, le braccia incrociate, gli occhi alla luna; so che mi scosse il fischio di Chieco. Mi rizzai e remai a terra. Egli era là, sulla riva. Quando mi vide a pochi metri mi disse: “E come si fa?”. Vi era in me una battaglia di sentimenti diversi; pure saltai subito fuori ad abbracciarlo. Io non potevo parlare, egli ripeteva: “E come si fa? Poco somigliante la fotografia! Come si fa?”. Avevamo gli occhi umidi, credo, tutt'e due.

“Povero Chieco!” diss'egli. “È stato un gran fiasco!”.

Intanto un carro s'era fermato lì vicino sulla strada e alcuni uomini vennero difilati al canotto.

“Cosa succede?” diss'io al maestro.

“Succede che la barca e io andiamo via. Mi seccava di vederti, ma ti sei andato a cacciare in mezzo al lago, bisogna bene farti venire a riva. Adesso si mette il canotto sul carro, Chieco sul canotto e Castel-t'-inchino”.

Così fu. In un attimo si caricarono il canotto e i bagagli. Nel castello ballavano e suonavano, nessuno sapeva niente, tranne la signora Purgher che credeva sognare e venne tutta commossa per un ultimo saluto. Chieco, seduto sopra un baule, non volle stringerle la mano, pretendendo che non fosse pulita; e le ordinò bruscamente di avvertire le signore e i signori che il maestro non cavaliere Chieco stava per partire e avrebbe degnato dar loro un saluto.

Si udirono presto dei passi rapidi, delle grida, delle esclamazioni, il carro fu attorniato di gente che lo voleva prender d'assalto per tirar giù a forza il maestro. Ma questi cacciò tali improperi napoletani e lombardi da fare scappar le signore e star quieti gli uomini.

“Adesso” diss'egli “o straccioni, vi saluto. Se volete poi sapere perché ne ho abbastanza di voi, ecco qua”.

Trasse il suo magico violoncello, incominciò la melodia dolcissima, appassionata, ch'è del duetto nel secondo atto della Tempesta, la troncò subito con quattro raschiate buffonesche, ripose lo strumento e gridò 'avanti!' I buoi si mossero, le ruote stridettero, gli uomini salutarono con la voce e il cappello, le signore col fazzoletto, due o tre giovinotti saltarono sul carro. Vedo ancora Chieco buttarli giù a calci, l'odo ancora gridar loro in segno di vittoria: “E come si fa? E come si fa?”.



UN'IDEA DI ERMES TORRANZA




I


Il prof. Farsatti di Padova, lo stesso che ebbe con M.r. Nisard la famosa polemica sui fabulaeque Manes di Orazio, soleva dire di Monte San Donà: “Cossa vorla? Poesia franzese!” Il solitario palazzo, il vecchio giardino dei San Donà gli erano poco meno antipatici di “monsiù Nisarde” sin dall'autunno del 1846, quando vi era stato invitato dai nobili padroni a mangiare i tordi e fra questi gli si erano imbanditi degli stornelli. Dal viale di entrata con i suoi ippocastani tagliati a dado, al laberinto, ai giuochi di acqua, alla lunga scalinata che sale il colle; dalla base all'attico pesante del palazzo, l'eccellente professore trovava tutto pretenzioso e meschino, artificioso e prosaico. “Cossa vorla? Poesia franzese!”

Al tempo degli stornelli, forse, sarà stato così. Il professore non ha più voluto rivedere Monte San Donà e dorme profondamente da parecchi anni, nel suo campo di battaglia, come possono ben dirsi:


... Nox fabulaeque Manes

Et domus exilis Plutonia.


Adesso la famiglia San Donà, che ha vissuto con un certo fasto sino al 1848, pratica rigidamente, sotto l'impero del nobile sior Beneto, la economia di cui qualche indizio apparve sino dal 1846. Per il sior Beneto non esiste poesia francese né italiana; e, sulla collina, il giardino, lasciato pressoché interamente in delle proprie passioni, ha sciupato le fredde eleganze, ha preso, fra i vigneti blandi degli altri colli, un aspetto selvaggio, vigoroso, che gli sta molto bene in quel seno solitario degli Euganei. Al piano il laberinto fu messo a prato; i tubi dei giuochi d'acqua son tutti guasti; agl'ippocastani il sior Beneto ha sostituito due filari di gelsi. Voleva abbattere con lo stesso scopo scientifico i pioppi secolari del viale pomposo che da Monte San Donà mette ad una umile stradicciuola comunale; ma la signorina Bianca li difese con passione e lagrime contro l'acuto argomento di papà: “bezzi, bezzi”. Quando, nell'aprile del 1875, Bianca sposò il signor Emilio Sparcina di Padova, chiese ed ebbe in dono dal padre la promessa di lasciar in pace i cari pioppi che l'avevan tante volte veduta correre e saltare, prima del collegio, con le sue rustiche amiche, e più tardi leggere Rob Roy, Waverley e Ivanhoe, tre poveri vecchi libri della sottile biblioteca di casa, tre poveri vecchi libri immortali che ora aspettano sul loro scaffale altre cupide mani, altri ardenti cuori inesperti della nostra grande arte moderna.

Ermes Torranza, il poeta, le diceva che ella stessa a quindici anni, pareva un piccolo pioppo ridente a ogni soffio di vento, e che certo le colossali piante la ricambiavano di tenerezza paterna. Torranza lo diceva sul serio, egli aveva nel sangue questo fantastico sentimento della natura, questi distinti che i nostri freddi critici corretti gli rimproveravano forse a torto. Infatti, nel settembre del '79 Bianca tornò a Monte San Donà, sola, col cuore amaro; e le parve, passando fra i pioppi, che Torranza avesse ragione, che le piante pigliassero con lei la espressione di quel biasimo affettuoso che vien significato con la tristezza e il silenzio. Il piccolo sior Beneto non tenne questo metodo. Lo aveva sempre detto, quel padre sapiente e profetico, che la sarebbe andata a finire così, che troppi libri e troppa musica non conducono a niente di buono, che a forza di volersi raffinare ci si scavezza. Credeva la signorina di essere nata per sposare un principe, un Creso, un chi cosa diavolo mai? Erano questi gli esempi avuti dalla santa donna di sua madre? La mansueta signora Giovanna San Donà, una santa per forza, non partecipò alle collere del suo temuto signore, anzi godè segretamente che la ragazza non si fosse lasciata mettere in piedi sul collo e santificare come lei. Bianca aveva riamato il giovinotto biondo fattosi avanti, dopo un lungo sospirare, per la mano sua; ma i suoceri grossolani, avari, stizzosi, le eran riusciti intollerabili. Il marito, buono ma debole, non osava proteggerla a dovere; indi sdegni e lagrime. Non c'erano figli; e così Bianca aveva potuto, in un impeto di collera, tornarsene al suo solitario angolo degli Euganei, ai suoi pioppi venerabili.

Aveva creduto, sì, a prima giunta, esserne guardata severamente; ma poi raccontò loro tante e tante cose che ogni freddezza fra le vecchie piante e lei ne fu tolta. Due mesi dopo il suo ritorno, quando ella vide, un lucido giorno di novembre, che le ultime brine e il gran vento del dì innanzi le avevano spogliate di foglie sin quasi alla vetta, quei tremoli pennacchi giallo-rossicci le misero una malinconia da non dire; sentì che i pioppi la salutavano da lontano come amici fedeli, prossimi a venir meno, a perdere la parola ed i sensi.

Tutto veniva meno con essi nella gran pace, nella luce limpida del pomeriggio di novembre; tutto, tranne il bruno dorato dei cipressi che dai vigneti deserti presso a Monte San Donà si rizzavano qua e là sul cielo biancastro di oriente. La giovane signora aveva lungamente passeggiato i vigneti e ora, al cader del sole, scendeva piano piano la costa che ne beve con i suoi cavi sassi e con le querce inclinate l'ultimo tepore. Ella guardava, distratta, più le foglie dense del sentiero, più l'erbe grigie e giallicce del pendio che il piano e i colli dorati, e il tenero cielo caldo del ponente. Perché mai aveva pensato, la sera precedente, appena spento il lume, a Ermes Torranza? Perché ne aveva sognato tutta la notte? Perché non poteva ancora liberarsi da questa immagine? Eran pur quasi tre mesi che non vedeva il poeta, di cui nessuno a Monte San Donà le parlava mai, ed egli le aveva scritto una volta sola in principio d'ottobre per inviarle una romanza da camera. Bianca credeva ai presentimenti, non dubitava che avrebbe presto riveduto l'amico suo; ma pure, come spiegare una impressione così forte? Ella ammirava l'ingegno di Ermes Torranza, gli voleva un gran bene per la squisita nobilità dell'animo, per la conoscenza che ne aveva sin da bambina; ma il poeta era sui sessant'anni, e benché le portasse una amicizia più appassionata che paterna, e la sapesse esprimere molto bene in prosa e in versi, con la musica e i fiori, non poteva turbare il cuore della giovane signora; la quale correva con esso il solo pericolo di offenderlo quando bisognava posare una delicata parola fredda sulle sue effervescenze troppo giovanili. Avea ben pensato a lui tante volte con affetto, povero Torranza; non era mai stata assediata come ora dalla sua immagine. Proprio nello spegnere il lume le era venuto in cuore il nome strano 'Ermes'; e subito aveva veduto l'uomo, la barba bianca, l'abito nero, la gardenia all'occhiello. Si fermò involontariamente per una foglia che cadeva in lenti giri, davanti a lei; e ripensò come lo aveva riveduto in sogno, i versi dolcissimi che le aveva letti, la divina musica che aveva suonato stendendo la mano sul piano senza toccarlo. Venendole meno la vivezza del ricordare, a poco a poco le voci lontane per la pianura, un frequente zittir d'insetti nell'erba la richiamarono al vero. Si ripose in cammino sotto le querce piene di sole, guardando trasparir dal fogliame secco gli antichi tronchi verdi d'edera che le parlavano, anch'essi!, della strofa in cui il Torranza parla a certa gente del proprio ideale:


Se voi seguite, aride foglie, il vento,

Tutti si sdegna il mio fedel cor;

Di ruine, com'edera, è contento,

Sul nobil tronco ch'egli ha amato, muor.


Glieli racconterebbe, a Torranza, questi fatti bizzarri. Lui già metterebbe in campo il suo spiritismo, la occulta influenza di una psiche sopra un'altra. Questa idea le toccò il cuore come la sensazione di un mondo strano, forse non reale ma possibile; e, se reale, anche presente, anche circonfuso a lei; non solamente circonfuso, ma nascosto nel suo petto, inconscio nei misteri dell'anima.

Una campanellina flebile suonò le ore da lontano, in mezzo ai campi; una, due, tre e mezzo. Non era più da credere che Torranza venisse in quel giorno.

Bianca trasalì. Le pareva udire una carrozza sulla strada di Padova; ma ne passavano tante! Tutti volevano godere quelle deliziose giornate di novembre. Sì, sì, i cani della fattoria abbaiavano, le ruote stridevano sulla grossa ghiaia del viale d'entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villa doveva scendere, poi risalire.

Presso a casa trovò un ragazzo che veniva in cerca di lei. Erano arrivati tanti signori in due carrozze e la padrona gli aveva detto di correre a cercare la padroncina. Non sapeva il nome di questi signori né se ci fosse tra loro un vecchio vestito di nero con la barba bianca. Gli pareva di sì, ma non n'era sicuro.

Bianca entrò trafelata nella sala a pian terreno dove tutti erano ancora in piedi e Beneto distribuiva, qui i suoi rispetti, lì le sue riverenze, a destra i suoi rispetti, a sinistra la sua servitù, qualche complimentino sotto voce, qualche risatina cerimoniosa. Bianca si fermò sulla soglia, raccolse tutta quella gente in una occhiata; il poeta non c'era. Erano i Dalla Carretta con i loro ospiti, un piccolo museo archeologico di lunghi scialli scuri, di cappellini barocchi, di calze e nappe canonicali, di facce slavate; gente noiosa che veniva lì una volta l'anno, per convenienza, a sedersi in giro e a guardarsi un tratto in viso senza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchetta bigia entrava molto dignitosamente portando il caffè e i 'pandoli' che il cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzetti sempre uguali, di cui la compagnia rideva regolarmente ogni anno sullo stesso tono e sulla stessa misura.

Perdere un bel tramonto di novembre per costoro! Bianca non li poteva soffrire, le toglievano il respiro.

“Non so” le disse fra un sorso di caffè e l'altro il canonico Businello “non so se la sappia la brutta notizia..”

“No. Che notizia?..” rispose Bianca a fior di labbro.

“Ah, sicuro” dissero due o tre voci sommesse.

“Ah sicuro”.

“Il povero Torranza, poveretto” compunto il canonico, intingendo nel caffè l'ultimo pezzetto della sua ciambella.

Bianca si sentì una stretta al cuore; un formicolìo freddo al viso; e non potè articolare parole.

“Pur troppo” disse monsignore, agitando la tazza in giro per sciogliere lo zucchero rimasto al fondo. “Mancato, sì, poi...” Vuotò la tazza e soggiunse sospirando: “Iersera, alle undici e mezzo”.

Bianca perdette un momento la vista, ma oppose all'emozione un voler violento, un impeto, quasi di collera, e vinse. La signora Giovanna la vide farsi pallida pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapida occhiata dura di sua figlia la fermò sull'atto. Le signore Dalla Carretta, che conoscevano certi maligni epigrammi corsi a Padova sulle fiamme senili di Torranza, si guardarono alla sfuggita e tacquero.

Intanto il canonico raccontava che Torranza si era posto a letto due o tre giorni prima senza sofferenze gravi, però con tristissimi presentimenti. La catastrofe doveva esser avvenuta improvvisamente; ma egli non poteva affermarlo. Era partito da Padova, poche ore dopo, alle dieci del mattino. La città era già piena della notizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersi d'urgenza.

“Le solite commedie” esclamò il sior Beneto. “Beata, quella gente là, di poter far del chiasso e spender dei soldi. Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adesso che ci son loro in Comune. E cosa crede, Monsignore, che vogliano onorarlo per quei quattro versi? Ma neanche per idea! È perché era famoso anche lui a spendere e spandere. Basta questo, caro lei. Un uomo grande!”

“Papà” disse Bianca agitatissima “se deliberano qualche cosa per Torranza, fanno più onore a sé che a lui”.

“Idee tutte vostre, queste” replicò Beneto dispettosamente. “Idee tutte vostre. Non mettetevi mica in mente ch'egli fosse poi questa gran cosa. Non m'intendo di versi, ma siamo stati a scuola insieme, con Torranza, e posso dirlo. Volete metter la testa di Farsatti?”

“No, no, no” interruppe con certa secchezza molle il canonico. “Per talento, lasciamolo stare, il povero Ermes ne aveva più del bisogno; ma criterio, signora, criterio, la mi scusi proprio, neanche una briciola”.

“Egli era dei miei amici, l'avverto, monsignore” rispose Bianca. “A me queste cose non si possono dire”.

“Ah bene!” fece Monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono. Ma Beneto non permise che la finisse così, in un silenzio burrascoso.

“Monsignore parla benissimo” disse egli “e mi meraviglio di voi che non le abbiate mai capite, certe cose”.

“Basterebbe l'affare dello spiritismo” osservò a mezza voce il vecchio conte Dalla Carretta, rivolgendosi con un sorrisetto al canonico, per confortarlo.

“Euh!” disse questi, alzando gli occhi e le sopracciglia “io non parlo”.

Una zitellona della compagnia chiese, facendo l'innocente, se Torranza fosse proprio spiritista. “Spiritista fanatico, era. Aveva una biblioteca di pubblicazioni tedesche, francesi, inglesi, americane sullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo Fechte o Fochte o Fichte, pieno di quelle minchionerie”.

“Si capisce che lei non lo ha letto” interruppe Bianca.

“Sta' a vedere” saltò su il sior Beneto “che mi diventate spiritista. Vorrei vedere anche questa”.

Bianca fu per dare a suo padre una risposta audace e pungente. Si contenne e rispose solo che non amava i pregiudizi di nessun colore.

“Adesso gli potremo dare la prova, allo spiritismo del povero Torranza” osservò un signore “perché, e questo l'ho udito io con le mie orecchie da Pedrocchi, egli diceva che dopo morto si sarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcuno”.

Beneto nitrì una risata gutturale, a bocca chiusa.

“Gesummaria, papà!” disse la contessina Dalla Carretta al suo genitore.

“Matto, cara, matto!” rispose questi.

“Eh, matto, poveretto; eh matto”. Ciascuno guardava il suo vicino, gli passava la parola a mezza voce. Bianca si alzò senza dir nulla, spinse via nervosamente la sua sedia e uscì.

Beneto fremeva, la signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un breve silenzio, la Dalla Carretta guardò, imbarazzata, suo marito, piegando la persona; in un attimo tutti furono in piedi, contenti, sollevati da un gran peso.

Beneto discese la scalinata a braccio della contessa, che gli espresse, con molta ipocrisia, il suo rincrescimento per i discorsi che si eran fatti prima, per il dispiacere arrecato alla signora Bianca. Beneto protestò. Aveva gusto che sua figlia imparasse a conoscer meglio il mondo: era stato anche lui amico di Torranza, per tradizioni di famiglia; ma pur troppo quel vecchio matto aveva esercitato una pessima influenza in casa Squarcina. Intanto, dietro a loro scendeva la brigata tutta sussurri maligni, interrotti prudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramonto vermiglio, sulle campane della parrocchia che suonavano per l'ottavario dei morti, sul nero nebbione che si levava dall'orizzonte soffiando.

Ecco i due carrozzoni che si fanno avanti; ecco daccapo gli ossequi, i rispetti e i doveri. I lunghi scialli scuri, i cappellini barocchi, le nappe canonicali, le slavate facce noiose si allontanano sotto i pioppi, e il sior Beneto ritorna su, borbottandosi la lettura di un foglio consegnatogli dal cursor comunale, che lo segue col berretto in mano. Giunto sulla spianata, trova un servitore uscito ad avvertirlo che è in tavola; e fa chiamar fuori la padrona.

“Qui c'è l'annuncio di Torranza” diss'egli “e questo galantuomo ha un'altra lettera. Pagate voi?”

“Cosa?” diss'ella timidamente.

“Cosa? La multa, 'cosa'! Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperati che riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metter fuori otto palanche, suo danno! Io non pago sicuro”.

La signora Giovanna guardò la lettera. “Viene da Padova” diss'ella esitando. “Eh, sì sa, cara, che pagate!”

“È urgentissima” sussurrò la povera donna. Beneto le domandò qualche cosa con gli occhi e un cenno del capo.

“No” diss'ella. “Mi pare e non mi pare di conoscerlo, il carattere: ma di quella casa là, no certo”.

“Benone!” esclamò l'ironico marito. “Adesso poi, siccome sarebbe una pazzia, così son sicuro che pagate. Accomodatevi pure”.

Ed entrò in casa.

La signora non aveva un soldo in tasca, ma fece subito qualche segreta convenzione col cursore, che salutò e sparve nella nebbia, dilagata, in un batter d'occhio, sul piano. Il triste oceano bianco fumava su tutti i pendii, metteva le prime ondate taciturne sulla spianata di Monte San Donà. Ancora un momento e avrebbe chiusa la casa nel suo vapor denso, avrebbe affacciata a tutte le finestre la sua malinconia stupida.

“Ci vorrà un lume, a tavola” disse al domestico la signora San Donà, rientrando.

“Niente, niente” gridò Beneto dal salotto “non occorre lume che ci si vede benone. Sbrigatevi e dite alla principessa che si degni, almanco, di non farsi aspettare”.



II


L'annuncio così crudo, inatteso, della morte di Torranza era stato per Bianca un colpo di sgomento e di dolore, che volle celare, quanto potè; a quella sciocca compagnia pettegola. Comprimer lo sdegno le riusciva men facile; e, venuti in campo i discorsi di Torranza al caffè Pedrocchi, era uscita per non prorompere contro suo padre che rideva e gli altri che compativano.

Si chiuse in camera. L'immagine di un nuovo Torranza, di un Torranza morto assai più grande e buono che non le fosse mai parso il vivo, le riempiva l'anima; e lo pianse, meravigliata delle proprie lagrime, di sentirsi una tenerezza tanto profonda. Averlo lasciato partire così, senza un addio! Ecco, se non fosse stato quel ch'era stato, ella si sarebbe trovata a Padova, lo avrebbe potuto vedere. Si rimproverò d'aver risposto un po' tardi all'ultima sua lettera, di non averlo ringraziato bene della romanza. Tante altre sue piccole negligenze, tante altre lievi freddezze punto necessarie, che avevan forse rattristato il poeta, le tornavano tutte al cuore, le facevano male. Egli, un potente creatore d'anime e di figure ideali, l'aveva cullata, da bambina, sulle ginocchia, l'aveva consigliata, dopo il collegio, negli studi; sposa, l'aveva condotta alla più squisita intelligenza d'ogni arte; finalmente si era innamorato di lei come delle creature a cui il suo genio aveva dato vita e passione. Adesso Bianca voleva persuadersi d'essere stata amata così; sentiva più pura, in questo concetto, la memoria del poeta, e se più alta, più vicina, al paese in cui vivono i sogni dei grandi poeti spiritualisti. Egli l'amava ancora, povero amico; le si era voluto ricordare dal paese dei morti appena giuntovi. Era spirato, alle undici e mezzo; e Bianca si era sentito, prima della mezzanotte, il suo nome strano nel cuore.

Si picchiò all'uscio; era la signora Giovanna con una lettera urgentissima. Bianca prese la lettera senza guardarla, pregò sua madre di scendere a pranzo, di lasciarla sola. Non voleva trovarsi con papà prima d'essere un po' più calma; temeva che certi discorsi la irritassero troppo, le facessero dire quello che non avrebbe voluto. La signora Giovanna se n'andò sospirando, mentre sua figlia, chiuso l'uscio, si sorprendeva dell'oscurità sopravvenuta nella camera, del torbido mare che saliva davanti alle finestre. Vide per un momento ancora i fantasmi dei vasi ritti sul muricciolo della spianata, qualche altro spettro di piante vicine; poi niente, neppure un'ombra nel bianco immenso, eguale, impenetrabile. E stette a guardarvi su, attonita sentendo la voluttuosa dolcezza di trovarsi lì nella sua piccola camera tepida, a pensare, in grembo a quell'oceano silenzioso; sentendo una rispondenza arcana, indefinibile delle cose esterne con i pensieri che le empivano il cuore. Si ricordò a un tratto della lettera che aveva in mano, l'accostò ai vetri per decifrarne il carattere. “Oh Dio!” diss'ella.

L'aperse in furia con le mani convulse. Vi trovò uno scritto e una fotografia. Ravvisò tosto la barba bianca, l'abito nero, il fiore all'occhiello; lui insomma, Ermes Torranza.

Sentiva di dover leggere subito, non ci vedeva, non sapeva che si facesse, andava per la camera con la lettera in mano cercando a tastoni una candela che non v'era. Abbrancò un cerino sul suo tavolino da notte e l'accese. La fiammella mise un picciol lume sul legno lucido e sul crocefisso di bronzo, un gran buio nella camera. Bianca s'inginocchiò, macchinalmente, e lesse, sempre ginocchioni, lo scritto che segue:



Padova, 26 ottobre 1879


“Cara, non si turbi, non si sgomenti; legga questa lettera come io la scrivo con la tranquillità più serena. Non è niente; il vecchio codino Torranza, che cosa strana!, se ne va. Mi dia la buona notte, cara Bianca; dispongo perché questa lettera Le sia inviata appena spento il lume.

Avvertito da una voce interna, ho fatto stamane, spontaneamente, quello che fece, prima di morire, il codino mio padre; adesso mi sento nel cuore qualcosa che si allenta, e insieme un silenzio pieno di riverente aspettazione. Avrò forse ancora quattro, sei, otto giorni; mi basta un'ora per Lei.

Bianca, nei nostri passati colloqui, Ella mi parve temere, qualche volta, di un'ombra; il suo gentile affetto per me n'era turbato, non sapeva come esprimere un risentimento. Non è vero? Pure vi è solo nel mio cuore una tenerezza che in questo stesso momento solenne non offende i pensieri più alti; tutta la colpa è del vecchio sangue fantastico che lascia sempre un po' di colore sui sentimenti e sulle parole. Mi perdoni e sorridiamone insieme, oramai.

Ho a farle un'altra preghiera e voglio porvi su il suggello della morte. Mi è amaro non averle dato in addietro più prudenti consigli circa i Suoi dissensi domestici e discender nella tomba con questo pensiero. Bianca, per il bene Suo, per il bene di persone che Le son care e un poco anche per la mia pace nel mondo a cui vado, mi ascolti; non resti a Monte San Donà. Ella, in fondo al cuore, ama certo ancora Suo marito. Questo povero giovane fa pietà. L'altro giorno mi ha parlato di Lei per un'ora, con le lagrime agli occhi. Mi disse di averle scritto più volte, mi riferì le Sue risposte che gli tolgono ogni speranza se i vecchi non acconsentono a una separazione, o, almeno, se non promettono mutare contegno con Lei; e coloro non piegano né all'una né all'altra cosa. Bianca, pensi che qualche diritto ceduto in silenzio, qualche torto patito senza sdegno, non per timore, ma per pietà delle persone ingiuste che pensano offenderci, leva l'anima nostra al di sopra del loro contatto irritante. Torni con suo marito. Non vi è tanto amore nel mondo da gettar via questo ch'è pur fedele, pur tenero, e non toglie la pace.

E ora, se si ricorda le nostre conversazioni sul mondo invisibile e sui fenomeni che il secondo nega perché lo umiliano, non troverà strano ch'io desideri manifestarmi a Lei, dopo la mia morte, in qualche modo sensibile. La sera del giorno stesso in cui riceverà questa lettera, si trovi sola, fra le dieci e le dieci e mezzo, nella Sua saletta del piano. Apra la porta che dà sul giardino; le ombre della notte devono poter entrare. Suoni quindi la breve introduzione della romanza che Le ho inviata venti giorni sono. Dopo di questo, se Dio permette ch'io sia presente e possa darne segno, anche lieve, lo darò. Ella non conosce paura e vorrà consentire all'ultima fantasia sentimentale di un vecchio poeta che muore.

È tempo di dirvi addio, Bianca. Ho qui davanti a me la testina leonardesca che Vi somiglia. Gli occhi dell'incognita sono ben grandi, i capelli più chiari, ma l'espressione originale del viso è la stessa. Questo dolce sole di ottobre che passa tra i miei libri chiusi, brilla sul quadretto. Vi vedo viva, depongo la penna. Vi guardo, Vi guardo, una ultima ed irragionevole lagrima mi cade e si perde per sempre, come lo merita. Addio, addio.

Ponete questo ritratto nel vostro salotto di Padova.


Ermes Torranza”



“Sì, sì sì” singhiozzò Bianca appassionatamente. “Tutto!” Si chiuse il viso tra le mani, promise a Torranza, con uno slancio del cuore, che avrebbe appagato tutti i suoi ultimi desideri e pregò, senza parole, per esso.

Cadendo quell'impeto di fervore, il suo pensiero si assopiva, si perdeva, senza avvedersene in un altro campo. Ella non pregava più; aperte le mani, guardava la fiammella del cerino, si sentiva tornar nel cuore le conversazioni avute con Torranza sui misteri d'oltre la tomba.

Non cercava né combatteva queste memorie, le lasciava venire, inerte. Ad un tratto spense il cerino, pregò un altro poco e si rizzò. Era notte, il bianco oceano silenzioso empiva sempre le finestre, pareva essere in un'isola. Le venne in mente, malgrado se stessa, un racconto meraviglioso fattole dal poeta, una camera buia nel vecchio castello reale di Stoccolma, in mezzo al mare; il re Carlo XI che siede taciturno al fuoco ascoltando il dottore Paumgarten parlar della regina morta, poi si alza, va alla finestra e dice al conte Brahe: “chi ha acceso i lumi nella sala degli Stati?”.

Quivi non apparivano lumi; appoggiando il viso ai vetri si vedeva in alto, nella nebbia, un diffuso chiarore lunare. Bianca non potè a meno di pensare alla sala del piano, di vedervisi sola con le candele accese, ad aspettare uno spirito.

Alle sette e mezzo uscì di camera senza lume, discese la scala rischiarata dai quattro finestroni che rompono tutto un fianco del palazzo, dal primo piano alla cornice. Attraverso i due superiori si vedeva la luna mancare e tornare fra le nebbie fumanti; dei vani azzurrognoli si aprivano e si chiudevano nel cielo.

“Sei qua?” disse dal fondo della scala la signora Giovanna.

Subito dopo la fessa vocina stizzosa di Beneto gridò più da lontano:

“Presto! Oramai, tanto, la poteva anche andare a letto, mi pare. Presto!”

Bianca non gli badò. Quel padre amoroso voleva proprio farle costare poco il ritorno in casa Squarcina!

Egli era in salotto, picchiava e ripicchiava sulla tavola un mazzo di carte, impaziente che sua moglie venisse per la solita partita.

“Qua!” disse egli, brusco. “Qua! Andiamo!”

La rassegnata signora prese il suo posto all'angolo della tavola, presso una lucerna a petrolio. Bianca sedette sul canapè, nell'ombra. Povera mamma, pensava, che vita! Emilio era debole, non sapeva proteggerla; ma però, qual differenza da suo padre! Ella era sicura del suo marito, se non ci fossero i vecchi, la farebbero regina in casa propria. Era andato a piangere da Torranza, povero Emilio! Sentiva di volergli bene anche lei; e bisognava pur prenderlo come la natura lo aveva fatto.

“A vu!” brontolava tutti i momenti il signor Beneto. “A vu! Presto!”

Egli non rivolse mai una parola a sua figlia, e dopo le otto e mezzo se ne andò, com'era solito, a letto. Allora la signora Giovanna che prima non aveva mai osato fiatare, si pose attorno a Bianca perché pigliasse qualche cosa, offerse quanto seppe con una premura timida e appassionata nel tempo stesso; ma Bianca non accettò nulla.

“Quella lettera?” disse sua madre. “Era di casa tua?”

“No”.

“Disgrazie?”

“No, mamma”.

“Perché ho visto urgentissima” rispose l'altra esitante.

Bianca si rizzò e l'abbracciò.

“Mamma” disse ella sottovoce “se andassi via presto? Se tornassi con Emilio?”

“Oh Dio!” rispose la signora Giovanna commossa “cosa vuoi che ti dica? In coscienza non potrei dirti di no”.

“Forse lo faccio, mamma”.

Alla signora Giovanna vennero le lagrime agli occhi.

“Ma che ti maltrattino poi, no sai!” disse ella con voce soffocata e soggiunse dopo un breve silenzio:

“Se fosse per il papà, sai bene come è fatto. Non bisogna mica badare a certe apparenze”.

“No, mamma, non è per il papà”.

“Bene, cara, cosa vuoi che ti dica?”

La povera donna prese le sua calza e si mise a sferruzzare frettolosamente. Dopo le asciutte risposte di Bianca non osava toccare della lettera urgentissima, quantunque comprendesse bene che il segreto di questo probabile ritorno in famiglia doveva trovarsi lì. Lavorava e taceva, sperando ottenere qualche spiegazione col silenzio che era come un dignitoso dolersi del riserbo di Bianca, un espresso aspettare che parlasse. Ma Bianca non aperse bocca, per cui, verso le dieci, la buona signora, mortificata e non avendo il coraggio di usare autorità, posò il suo lavoro, e chiese alla figlia se volesse andare a letto.

Bianca rispose di non aver sonno. Sarebbe andata volentieri nella saletta del piano a fare un po' di musica. La mamma voleva tenerle compagnia, ma ella protestò tanto nervosamente che la signora Giovanna le chiese scusa, e, accesale una candela, salì le scale con la sua cerea faccia curva sul lumicino a petrolio.

Bianca si avviò invece per il corridoio che mette alle camere deserte nell'angolo nord-ovest della casa. Entrò in una sala non grande, ma molto alta, tutta istoriata di affreschi mitologici, vuota; e accese con la mano ferma le candele del suo piano attraversato a un canto. La lenta luce si allargò, a destra, sopra un tavolino zeppo di musica; a sinistra, sopra una giardiniera; in alto, su per le membra enormi di non so quali divinità. Non vi erano altri mobili in tutta la sala; i passi della giovine signora vi pigliavano un suono lungo, vibrante.

Ella guardò l'orologio: le dieci erano imminenti. Cercò un pezzo di musica e lo posò sul leggìo del piano. Poi si trasse dal petto il ritratto di Torranza, guardò a lungo la calva testa scultoria, del poeta. Oh, voleva bene accontentarne l'ultimo desiderio quando anche fosse una follia, voleva fedelmente comporgli la scena poetica, cui egli aveva forse pensato con qualche compiacimento prima di morire!

Si giustificava così, con se stessa, dei suoi preparativi e della sua emozione, senza confessarsi che aspettava davvero, con un oscuro istinto del cuore, qualche cosa di straordinario. Posò il ritratto sul leggìo e stette un momento, involontariamente, in ascolto. Che cosa si muoveva dietro a lei? Niente, un foglio scivolava dalla catasta della musica. Bianca si ripiegò a leggere i versi riprodotti sulla copertina del pezzo che aveva davanti. Erano stati composti, lo sapeva, fra il contrasto della passione con il sentimento religioso, da un giovane amico di Torranza, morto pochi mesi dopo, presso la donna non sua che amava malgrado se stesso, in silenzio; e dicevano così:


Ultimo pensiero poetico


Le finestre spalanca a la luna;

T'inginocchia, mi sento morir.

Da i terror de la cieca fortuna,

Da la guerra de i folli desir,


Esco e salgo ne' placidi rai

Lo splendente universo a veder,

A bruciar ne l'amor che bramai,

Che non volli qui impuro goder.


Ma se orribile un ciel senza Dio

Tra le stelle funeree mi appar,

Ricadrò su quel cor ch'era mio,

Disperato m'udrai singhiozzar.


Bianca si coperse il viso con le mani, si rivide dentro alla fronte le sinistre parole:


Ma se orribile un ciel senza Dio

Tra le stelle funeree mi appar.


Immaginava con un brivido quel che proverebbe se udisse piangere vicino a sé nel vuoto. Aperse la romanza per dar una passata alla introduzione non troppo facile, che aveva letto una volta sola. Ma le pagine non volevano stare aperte, si chiudevano tutti i momenti fastidiosamente. Le fermò col ritrattino di Torranza, e suonò, sotto voce, le quindici o venti battute di introduzione che ricordano molto, in principio, la Dernière pensèe musicale di Weber.

Dio, come parlava quella musica! Che amore, che dolore, che sfiduciato pianto! Entrava nel petto come un irresistibile fiume, lo gonfiava, vi metteva il tormento di sentire la passione sovrumana senza poterla comprendere. Bianca si alzò con gli occhi bagnati di lagrime, andò ad aprir le imposte della porta che mette in giardino. “Le ombre della notte” aveva scritto Torranza “devono poter entrare nella camera”.

La notte era chiara. Gli alberi del giardino si vedevano sfumati nella nebbia lattea. Non un sussurro, non un soffio; la nebbia, muta e sorda, era immobile.

Bianca tornò con un leggero tremito al piano. Guardò ancora l'orologio; erano le dieci e un quarto. Allora si decise, si raccolse nella musica che aveva davanti, bandì ogni altro pensiero, ogni trepidazione come se vi fosse dietro a lei una attenta folla severa e strappò dal piano con la sua grazia nervosa il primo accordo.

Ella suonava ansando, per lo sforzo di mettere tutta l'anima nella musica, di non pensare a quel che forse verrebbe dopo. Le fu impossibile seguire le ultime note smorzate della introduzione; il cuore le batteva troppo forte. Passarono dieci, venti, trenta secondi eterni. Silenzio.

Bianca alzò un poco la testa. In quel momento due colpi sommessi, affrettati, suonarono vicino a lei, che balzò in piedi con un subito ritorno di energia calma, e stette in ascolto.

Altri due colpi affrettati, più forti dei primi; poi un tocco leggero sulla soglia della porta aperta alle ombre della notte. Bianca guardò. Era entrata una ombra, una figura umana. La giovine signora gittò un grido: “Emilio!” disse ella. Era suo marito.

Egli si fece avanti rosso rosso, a passo incerto e a braccia distese, con la stessa ingenua contraddizione negli occhi di imbarazzo e di ardore. Bianca, pietrificata, non si muoveva.

“Mi aspettavi bene!” disse egli supplichevole, fermandosi.

Fu un lampo. Bianca ride confusamente che Torranza chissà come aveva combinato questo e rispose: “Sì” buttando le braccia al collo di suo marito con impeto così repentino che il povero giovane, tra la felicità ed il non capir niente, perdette addirittura la testa e non sapeva che ripetere fra un bacio e l'altro: scusa, scusa. Ma ella non lo udiva neppure e piangeva piangeva, sentendosi una tenera gratitudine per il suo povero amico, una gran consolazione di esser al posto che Dio, finalmente, le aveva dato nel mondo, presso un cuore forse debole, forse male atto a comprenderla, ma buono e fedele.

“Star qui con la porta aperta” sussurrò il giovane carezzevolmente “a quest'aria umida, con il dolor di capo che hai! Non voglio mica io!”

Ella passò in un baleno dal pianto al riso, e rise, rise sul suo petto, rise deliziosamente sentendo tornar l'allegria pazza del suo viaggio di nozze. Povero caro Emilio, credere che un doloruccio di capo di due mesi prima le durasse ancora! Egli restò un momento perplesso e poi rise anche lui di tutto cuore.

“Senti” diss'ella a un tratto, facendosi seria “adesso spiegami bene tutto”.

Suo marito parve sorpreso. “Ma se lo sai!” rispose.

“Lo so, ma ho piacere udirlo da te. Vien qua, conta”.

Camminarono su e giù per la sala, cingendosi l'un l'altro la vita con un braccio, parlando piano.

Lui aveva fretta, voleva sbrigarsi in due parole, dir che Torranza gli aveva scritto di venire e basta. Ma lei non la intendeva così! Aveva egli seco la lettera di Torranza? No. Quando gli era pervenuta? Questa mattina stessa prima di mezzogiorno. E cosa diceva, proprio? Diceva presso a poco: la sera del giorno in cui riceverai questa lettera, trovati fra le dieci e le dieci e mezzo a Monte San Donà. Se vedi lume nella sala del piano, se odi suonare e se la porta è aperta, entra, che Bianca ti aspetta ed è disposta a tornare con te. - Che data aveva la lettera? Anche la data? Egli non volle più rispondere né ascoltare; la sua gioia, la sua passione avevano bene il diritto, oramai, di passare avanti a tutto. E si strinse Bianca tra le braccia, le soffocò nel collo un tal impeto di tenerezza che ne perdette anche lei la parola. Ma, improvvisamente, un lieve suono blando la scosse.

“Zitto!” diss'ella rialzando il viso. Puntò le mani al petto di suo marito e guardò là ond'era venuto il suono.

Al leggìo del piano la romanza Ultimo pensiero poetico si era chiusa sul ritrattino che Bianca, poco prima, vi aveva posato a trattenere le pagine; Ermes Torranza non si vedeva più. Parve all'amica sua che quello fosse il promesso segno sensibile, l'addio del poeta il quale, compiuta l'opera propria, si ritraesse chetamente, si dileguasse nell'ombra, o per le condizioni misteriose della sua esistenza superiore, o, fors'anche, per effetto di un malinconico sentimento che si poteva comprendere.

“Cosa è stato?” disse Emilio. “Cos'hai che sospiri?”

Bianca tornò a piegargli il viso sul petto. “Niente” diss'ella.





FEDELE



“Soffio, signor Fogazzaro” disse, quella sera indimenticabile del 1° agosto 1884, il generale Trèzel pigliandomi una delle mie povere pedine. “Stia attento!”

“Alle dame” gli rispose per me la signorina Prina toccandomi il braccio con la penna. “Avanti! Detti! 'Mi co te vedo, sento Un certo non so che'; e poi?”

“Scusi generale” dissi io, dopo aver mossa una pedina a caso. “'È digo che nol sento, E digo che nol ghè'”.

“Fa piacere, Filippo!” disse la signorina a suo fratello che cercava inutilmente sul piano il motivo dell'Aria di Chiesa di Stradella.

Continuai a dettare la vecchia canzonetta che piaceva tanto alla società milanese, molto intelligente, molto distinta, dell'Hôtel Brocco:


Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar;

E digo: i xe acidenti...


Qui mi mancò la memoria. La signorina Prilla, le altre amabili signore e un paio di giovanotti molto disposti a usare della graziosa strofetta per i loro fini particolari, se ne desolavano. Il verso non venne e io potei solo ripetere alla damigella con il più sentimentale accento che seppi:


Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar.


“'I xe acidenti'” osservò sorridendo donna Luisa Trèzel con la sua solita finezza benevola e ironica insieme. “Chi sa” soggiunse sotto voce “che il signor Fogazzaro possa avere il versetto dalla sua Fedele”.

Tutti risero e io mi seccai. Mi rimisi a giuocare con attenzione; poi, siccome Filippo non veniva a capo di nulla, mi alzai, gli accennai con la mano destra le prime battute dell'Aria di Chiesa.

“Mangio, signor Fogazzaro” disse il generale che non aveva mai tolto gli occhi dallo scacchiere, se non per guardare di traverso, qualche volta, pianoforte e suonatore. La sua signora mi domandò se fossi in collera con lei. Non ero in collera, ma mi seccavano le allusioni a quella persona che donna Luisa chiamava 'la Sua Fedele'. Era una giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardino, sola. Nessuno la conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava mai con nessuno. La gente dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sul cartoncino che là usano allacciare intorno alle salviette, perché i forestieri vi scrivano il proprio nome, ella aveva scritto con una calligrafia punto inglese, punto elegante:


Signora Fedele.


Era bionda: non alta ma snella; bellina assai ma più delicata e graziosa che bella. Lo confesso, non saprei dire con certezza il colore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile del mare presso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigio, la stessa toque di pelliccia nera, gli stessi guanti neri. Usciva tardi per qualche passeggiata solitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva al caffè verso le nove. Se si faceva musica, restava lungamente nel suo angolo scuro, lontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè e spariva.

Si facevano commenti infiniti sulla sua origine, sul contegno misterioso, sul nome 'Fedele', che serviva persino al generale Trèzel per illudersi di avere spirito. Mi accadde una volta, nel solito crocchio della loggia, di prendere le sue difese contro le signore, che mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momento improvvisamente, salendo dalla via. Era molto accesa in viso, ma non guardò alla nostra volta. Mi guardò invece quel giorno stesso, passandomi vicino nella sala da pranzo, con uno sguardo che ai miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto a meno, perché poi non mi tribolassero tanto.

“Che miracolo, stasera, esser venuta giù così presto?” disse piano Filippo, che le aveva probabilmente dedicato i suoi pasticci musicali.

Infatti la signora Fedele era già nel suo angolo e suonavano in quel punto le otto.

“Aspetterà il concerto” disse la signora Prina.

Ci avevano annunciato per quella sera il concerto di un cieco suonatore di pianoforte.

Un signore che stava in piedi, presso a me, guardando giuocare al biliardo, ci disse che il concertista si era fatto scusare per una indisposizione del suo compagno.

A questo punto qualcuno disse sull'entrata del caffè:

“Nevica”.

Le signore si alzarono esclamando, i giuocatori di biliardo gittarono le stecche, i giuocatori di tarocco le carte. Perfino il generale Trèzel accordò una tregua alle mie pedine. Tutti si precipitarono in sala e di là in loggia. Non accade così facilmente di veder nevicare in agosto.

A me, antico frequentatore di quelle Alpi, ciò era successo più volte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai ad una finestra.

Era uno spettacolo fantastico, una magnifica festa notturna che il vento del Nord e la neve offrivano alla luna. Ella sorgeva sopra mille punte di abeti, fra due montagne enormi, nel sereno. Ora la vedevo lucida, ora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva nella sua stessa luce. Perché non si poteva propriamente dire che nevicasse. Era neve delle cime, cacciata dalla tormenta. Fra un turbine e l'altro si vedevano tutte le creste bianche fumar su nel cielo azzurro.

“La scusi, signor Fogazzaro” mi disse in veneziano una voce tremante. “Non c'è il concerto stasera?”.

Mi voltai, sorpreso.

“Scusi la libertà” riprese la signora Fedele. “So che siamo quasi concittadini”.

Ma non mi ero tanto sorpreso del suo improvviso interrogarmi, come della commozione strana, profonda, che sentivo nella sua voce, in una domanda così volgare. E poi il caro dialetto usato così di primo acchito, e quel chiamarmi per nome, mi avevano avvicinato con violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo voluta da lei chi sa per qual fine.

“S'immagini!” le risposi. “Non credo che ci sia concerto. Ho udito che il compagno del cieco è malato e che questi si è fatto scusare”.

“E andrà via, forse? Non suonerà più?”

I begli occhi mi parvero ad un tratto più grandi, la voce più tremante.

“Non lo so davvero” risposi. Credetti poi di dover soggiungere per cortesia: “Lei ama molto la musica?”.

Ella non rispondeva, guardava fuori nella tempesta nel baglior di luna e di neve. Scorso qualche momento, mi domandò ancora:

“Il compagno, ha detto?”

“Un signore, poco fa, diceva 'il compagno'; ma ora, pensandoci, credo che s'inganni. Credo che sia una compagna, una signorina”.

Ella appoggiò la fronte alle invetriate, come per vedere meglio; in fatto per non essere veduta in viso da me; e ricominciò a parlare con voce più sommessa di prima, più rotta dall'emozione.

“Sono qui senza amici” disse ella “senza nessuno, e posso aver tanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di me, Lei, adesso? No, sa, non pensi male. So che Lei non mi giudica come gli altri. E poi mi hanno detto che ha famiglia. È per questo!”.

Parlava così accorata!

“Si calmi, signora” risposi. “Se posso qualche cosa...”

La gente tornava allora correndo, schiamazzando, allegra e intirizzita dallo spettacolo della neve, e il generale mi cercava con gli occhi per finire la partita. Ci dividemmo rapidamente. Subito dopo, il padrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse del concertista, signor Zuane, impedito dalla indisposizione di sua figlia, che doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signor Brocco ci informò poi delle tristi condizioni di questo povero uomo, che, senza il concerto non saprebbe come pagare lo scotto dell'infimo albergo dove alloggiava. Le signore, impietosite, mi pregarono di andarlo a pigliare. Un valente allievo del Conservatorio di Milano s'offerse di suonare con lui.

Partimmo subito, il giovinotto ed io, pieni di zelo. Il cieco signor Zuane ci accolse con gratitudine dignitosa, con grave cortesia da re in esilio, parlando un italiano floscio che affondava ogni momento nelle mollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste udirlo discorrere così solennemente, accompagnando alle parole il gesto ampio e interrompendosi tutto perplesso quando incontrava con la mano il cappello nevicato che il mio compagno gli aveva storditamente posto davanti sul tavolino. Udivamo la signorina Zuane tossire nella camera vicina, aperta, da cui entrava una luce affatto superflua al signor Zuane, affatto insufficiente a noi. La signorina ci pregò, nello stesso morbido linguaggio paterno, di venire a prenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei a letto, credetti proprio vedere i capelli biondi, il delicato viso della signora Fedele.

“Le raccomando tanto papà, signore” mi disse. “Sento che sono così buoni!”

Poi alzò il capo dal guanciale e mi accennò di accostarmi a lei.

“La scusi, per carità” mi sussurrò ansiosa.

“Conosce lei qui una signorina veneziana bionda, che mi somiglia?”

“Sì, la signora Fedele”.

“Per carità, non la lasci parlare a papà, la supplico a ogni costo! Glielo dica magari a nome mio. A nome della Lisetta, dica. Adesso no, adesso no, per carità!”

Non si spiegò più di così. Partendomene con il signor Zuane, cercavo invano, fra me e me, di penetrare il mistero di dolore che avevo sentito prima nelle parole della Fedele, poi in quelle della signorina Lisetta; e mi pesava assai d'essermi lasciato immischiare.

Non vidi bene lo Zuane in viso che all'Hôtel Brocco, davanti alle candele del piano, quand'egli aspettava, in piedi, che aprissero lo strumento, che ne portassero via le montagne di musica e si accomodassero gli sgabelli. Altissimo della persona, si teneva immobile ed eretto come una statua d'imperatore antico, levando sopra noi tutti la faccia più marmorea e tragica ch'io abbia incontrato mai. Era una faccia color di cera, senza un pelo, dal naso, scultorio, dall'austera fronte imperiosa, piena d'anima sopra gli occhi sinistramente chiusi, piena quasi di un arcano sguardo che vi si spandesse sotto, cercando uscita.

Non c'era moltissima gente, perché la società dell'Hôtel Ravizza non aveva osato affrontare il vento e la neve. La signora Fedele era là, nel suo cantuccio favorito. Guardava il cieco, ma non accennava di volerlo accostare.

Nei brevi momenti della mia visita allo Zuane e del tragitto all'albergo, lo avevo udito parlar dell'arte sua con la devozione sincera, profonda, di un fanatico. Egli era, tuttavia, assai mediocre artista. Aveva più forza ed esattezza che espressione, e mostrava poi, nella scelta dei pezzi, un gusto molto dubbio. Il pubblico, tocco della sua sventura, applaudì il primo ed il secondo pezzo, applaudì più ancora il terzo, una fantasia a quattro mani in cui l'allievo del Conservatorio si fece troppo onore con scarsa carità del povero cieco.

Ma il programma era soverchiamente lungo. Parecchi uscirono a guardare il tempo, a giuocare nel gabinetto attiguo al caffè. I pochi rimasti chiacchieravano. Durante il quinto o sesto pezzo, non ricordo bene, la signora Fedele si alzò e venne dov'ero io, presso al piano, nel vano della finestra. Guardava molto pallida quelli che uscivano, guardava quelli che conversavano, con occhiate, non dirò di sdegno ma di tristezza amara. Io tremava che, finito il pezzo, ella volesse appiccar discorso con lo Zuane. Avevo ancora negli orecchi gli scongiuri della signorina malata, quel suo affannoso “La supplico!”. Mi chinai e le dissi:

“La signorina Lisetta la scongiura di non parlargli adesso”.

Ella trasalì, m'interrogò con uno sguardo attonito e diffidente. “Non so niente” risposi. “Lei ha detto così. Non so altro”.

“Non parlerò” diss'ella sottovoce, rapidamente. “Ma ella ha promesso il suo appoggio a me, sa, prima che alla Lisetta!”

In quel momento lo Zuane pose fine al suo faticoso pezzo. Egli pregò alcuno dei signori presenti a volersi compiacere di raccogliere le offerte. Io stava per farmi avanti, quando la signora Fedele mi trattenne e mi chiese di avvertire lo Zuane che una signorina gli offriva di chiudere il suo concerto con un pezzo vocale; e che sarebbe bene non uscire col piatto che poi. Io esitava, ma il ragazzo Prina, che stava lì a mangiarsela cogli occhi, colse a volo le parole di lei, e si affrettò a pubblicare la proposta, cui lo Zuane accolse con l'usata solennità, fiutando l'aria mentre parlava, in qua e in là, come per scoprire dove la gentile donne fosse.

La Fedele mi sussurrò all'orecchio:

“Lei mi accompagna l'Aria di Chiesa? Gliela ho udita suonare, stasera”.

Mi scusai, con ottime ragioni. Ella preferì allora non pregare altri e accompagnarsi da sé. Mentre si toglieva i guanti feci alzare il signor Zuane e lo condussi, di proposito, a sedere alquanto discosto dal piano.

Intanto la gente, avvertita come per incanto, rifluiva nel caffè a udir la bella veneziana. Lo Zuane si trovò subito in mezzo a un gruppo di persone.

La signora si pose al piano. Io ero in piedi vicino a lei; potevo vedere il leggero tremito delle sue mani, l'inquietudine delle sue labbra. Mi chinai per dirle all'orecchio che avrei potuto pregare l'allievo del Conservatorio di accompagnarla. Scosse il capo nervosamente e incominciò subito, con mano sicura, il preludio. Prima di finirlo, mi diede un'occhiata come per dirmi: “Le pare?”; come per mostrarmi il suo viso pallido, ma risoluto.

Vorrei saper esprimere la timida dolcezza accorata del suo canto quando incominciò sottovoce:


Pietà, Signore,

Di me dolente.


Guardai involontariamente i Prina e i Trèzel, dei cui bisbigli, dei cui sorrisi ironici m'ero bene accorto. Non sorridevano più. Gli occhi miei, tornando lentamente al piano, incontrarono a caso il volto del cieco, mentre la dolce voce saliva con un fremito di passione alle parole:


Se a te giunge il mio pregar

Non mi punisca il tuo rigor.


Lo Zuane porgeva il viso accigliato verso la musica, ascoltando a bocca semiaperta. A un tratto lo vidi piegarsi a destra, sussurrar qualche cosa a un vicino che gli rispose guardando la Fedele, come se gli parlasse di lei. Ella cantava allora con uno straziante spasimo nella voce:


Ah non fia mai che nell'inferno

Io sia dannata al fuoco eterno.


Lo Zuane si alzò in piedi con una faccia terribile, agitò le braccia verso la parte opposta al pianoforte, quasi per farsi strada fra la gente. Tutto il pubblico si voltò a lui, zitti così imperiosamente, ch'egli si fermò sull'atto, si ripose a sedere. La signora Fedele s'imbarazzò nell'accompagnamento, smarrì l'intonazione, si coperse il viso con le mani.

“Coraggio!” le dissi sotto voce. “Avanti!”

“Non posso, non posso” rispose senza scoprirsi. “Sto male, faccia le mie scuse”.

Dissi forte che la signora si sentiva male e non poteva proseguire. Vi ebbe un momento di agitazione perché i vicini dello Zuane e anche altri sospettavano una occulta relazione fra l'atto del cieco e il turbarsi di lei; ma poi uno, due, quattro batterono le mani, scoppiò l'applauso da tutta la sala. Parecchie signore si accostarono alla Fedele, offrirono il loro aiuto, insistettero perché prendesse qualche cordiale, perché si ritrasse. Rifiutò l'una e l'altra cosa ringraziando umilmente; ma più quasi con gli occhi e il piegar del capo che con la voce. La voce pareva rotta, spenta. Si alzò dal piano, sedette nel vano della finestra.

Volli starle vicino e pregai il Prina di raccogliere le offerte. Le monete piovevano nel piatto. Lo Zuane volgeva il capo a destra e a sinistra dietro al tintinnio dell'argento. Pareva impaziente di fare o dire qualche cosa.

La signora Fedele seguiva cogli occhi intenti ogni suo moto. Il Prina le si accostò esitante dubitando se dovesse rivolgersi anche a lei o no. Ella gli accennò col capo di venire e, trattosi un anello, lo posò sul piatto.

“Io ringrazio questi gentili signori” disse lo Zuane quando gli furono recate le offerte “io ringrazio questi gentili signori e prego che il denaro sia dato per i colerosi di Marsiglia”.

Le ultime parole furono proferite da lui con una subita energia di voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un gran gesto d'ambo le braccia.

La Fedele non diè segno né di sorpresa né di collera. Guardava sempre lui, sempre quella faccia marmorea, quegli occhi spenti.

“Le hanno dato anche un anello, signor Zuane” disse il Prina.

Il cieco stese un braccio, brancicò le monete del piatto, prese l'anello, lo palpeggiò con le dieci dita, alzando la fronte.

“Non accetto quest'anello” diss'egli. “La persona che lo ha dato lo riprenderà. Suppongo” soggiunse con voce quasi iraconda “ch'è ancora presente”.

Nessuno fiatò. Lo Zuane ripetè la domanda. Allora la Fedele accennò al Prina che rispondesse di no, come infatti rispose immediatamente.

“Pregherò i signori che m'hanno accompagnato, di restituire l'anello domattina” disse il cieco. “Intanto è mio dovere esprimere la mia gratitudine a questi signori”.

Si fece condurre al piano e cominciò a tempestarvi su il suo pezzo di ringraziamento, mettendo in fuga la gente, che andò a passeggiare e a commentare l'accaduto nella sala vicina. La signora Fedele, l'allievo del Conservatorio, il giovinetto Prina e io eravamo soli presso al piano.

“Sento che la sala è vuota” disse lo Zuane cessando dal suonare. “V'è qualcuno presso di me?..”

“Sì, sì” risposi.

“Ah, quel signore veneto” diss'egli. “Io sono stato poco gentile, stasera, e devo almeno a lei qualche spiegazione”.

Stavo proprio sulle brage e protestai di non volere spiegazioni; ma quegli insistette e la signora mi scongiurò, in silenzio, a mani giunte, con un viso disperato, di lasciarlo parlare. Guardai involontariamente gli altri che intesero e piano piano, molto a malincuore, se ne andarono.

“Non potevo prendere del denaro guadagnato da lei, capisce” disse lo Zuane: “È mia nipote, l'ho allevata io, l'ho educata io. Una cosa orribile! Mi ha tradito”.

Soffrivo inesprimibilmente, mi pareva d'essere un traditore io stesso, a permettere che egli parlasse così davanti a lei; ma ella lo voleva. Aveva voltato il viso alle finestre, adesso. Chi ci spiava dall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la tormenta. Dio, perché si ostinava a star lì? Le toccai leggermente una spalla. Ella m'indovinò, negò del capo con la stessa muta energia di poc'anzi.

Lo Zuane tacque un poco, aspettandosi forse qualche domanda. Poi riprese:

“Quell'anello mi era caro, una volta; adesso no, adesso no!”

Io lo interruppi, gli offersi di accompagnarlo a casa, dove la signorina Lisetta stava forse in angustia. “Potrebbe parlarmi per via se volesse”.

“Sì, sì” rispose senza muoversi “ma del resto è presto detto. Tutte le miserie che si possono soffrire in terra, io le ho sofferte dodici anni perché questa creatura diventasse artista. Ella lo aveva promesso fin da bambina, prima a Dio poi alla Madonna - ogni artista è credente, signore! - E lo diventava. Grande artista! Io morivo di fame e di consolazione, signore. Ebbene, viene un giovane, un ricco, uno che non sa cosa sia l'arte, uno che dice: ti sposo, ma niente scena, ma niente grandezza, ma niente gloria. E allora si dimentica Dio, si dimentica la Madonna, si dimentica tutto, signor mio, si spezza il cuore a questo vecchio. Non basta”.

“Insomma, signor Zuane” esclamai, non potendo più reggere “è tardi, andiamo”.

“Non basta” proseguì egli alzandosi. “Il marito muore, perché lassù, capisce, vi è una giustizia”.

La povera signora, sopraffatta, giunse le mani.

“Dio, questo no!” diss'ella.

Non potrei raccontar bene ciò che seguì in quel punto. Forse nessuno lo potrebbe. So che lo Zuane gridò, che accorse gente, che vi fu un tafferuglio, che il cieco fu condotto via, che la Fedele mi scongiurò di accompagnarla fuori subito, all'aria, alla solitudine.

La tormenta non soffiava più, ma il freddo era pungente. La guglia del Piz Vogel fumava ancora di neve. Ci avviammo in silenzio dall'altra parte, verso la luna e l'orizzonte basso, largo, tutto dentellato, fra due grandi montagne argentee, di punte nere di abeti. Di là dalla villetta dell'ingegnere C. faceva meno freddo; la mia compagna rallentò il passo.

“Mi perdoni” diss'ella “se le reco tanto disturbo. È la prima e l'ultima volta, sa. Non mi vedrà più, mai più. Domani spero che avrà la carità di fare ancora qualche piccola cosa per me e poi non udrà neppure più il mio nome. Mai più. Fedele è il mio nome di battesimo. Non posso esser altro che fedele”.

Su queste ultime parole la sua voce si abbassò, quasi si spense, come se avessero qualche tristo senso nascosto. Le vidi brillare gli occhi di lagrime. 'Non mi vedrà più, non udrà più il mio nome'. Perché diceva così? Cosa voleva fare? Mi si stringeva il cuore. Doveva soffrir tanto, pover'anima delicata, e mi si rivelava così pura! Con quel viso, con quella voce, con quel tenero nome insolito, mi pareva una delle creature che si amano in sogno.

“Mi ha posto nome lui, Fedele” diss'ella.

“Ha ben capito, non è vero, ch'è mio padre? Poveretto, non lo ha voluto dire. La vergogna gli pareva troppo grande. Non dico mica di non avere colpa, sa. È vero che avevo promesso a Dio e alla Madonna. Povero papà, forse aveva fatto troppo conto sulle promesse d'una bambina: forse il Signore non ne ha fatto tanto. Ma non voglio mica giudicarlo, povero papà. È la disgrazia nostra, di tutti, che abbia un sentimento così. Io non ho nessuna amarezza con lui. Solo non ho potuto...”

Non seppe reggere al ricordo delle parole dure che più l'avevano offesa. Le mancò la voce.

“È stata troppo amara” soggiunse dopo un istante sospirando. “Troppo amara, perché lui, caro, gli voleva bene, malgrado tutto al mio papà e quel che ho fatto per tornare con il mio papà, me lo ha insegnato lui dal paradiso. Solo non voleva che andassi sul teatro. Il papà credeva che dopo la disgrazia lo avrei accontentato, ma non è mica possibile; bisogna bene che lo ubbidisca più di prima, mio marito caro. Oramai poi ho perso tutte le speranze che il papà faccia pace. Neanche l'anello della povera mamma è giovato a niente. Me l'aspettavo, sa, ma volevo pur tentare una ultima volta. E adesso vorrei pregarla di parlare domani alla Lisetta”.

Le dissi che disponesse pure di me per qualunque cosa.

“La ringrazi tanto, prima di tutto, la Lisetta” disse ella. “Ha fatto quello che poteva, poverina, per aiutarmi. Le dica che non le scrivo perché proprio non posso, e non so neanche se le scriverò più; ma che tutta la roba mia è sua e che le carte e i denari sono a Milano in mano dell'avvocato Benvenuti, via S. Andrea, n. 23. Vuol prender nota?”

Notai nel mio portafogli, al chiaro di luna, il nome e l'indirizzo. Il cuore mi batteva forte, sentivo di scrivere qualche cosa di sinistro, la fine, quasi, di una esistenza, la fine di quella dolce, bella creatura, tanto giovane, tanto amante, tanto mite con il fanatico furioso che l'uccideva.

“Ecco” dissi, riponendo il portafogli.

Eravamo giunti a quella fornace dove si spicca dalla via maestra il sentiero del laghetto.

“Vorrei andare al lago” disse ella tranquillamente come se tutto fosse oramai finito in pace; e mi nominò un mio libretto, dove si tocca di questo lago alpino. L'idea di andare al lago a quell'ora dopo quei discorsi mi colpì tanto che me le opposi con troppo manifesto orrore. Fedele sorrise un poco. “Torniamo pure” diss'ella; e fatti pochi passi in silenzio, si pose a cantar sottovoce:


Ah non fia mai che nell'inferno

Io sia dannata al fuoco eterno


Ne fui rassicurato. Solo mi doleva di averle potuto attribuire per un momento quella idea orribile e di essermi tradito. Volevo ora domandarle che intendesse fare, e non osavo. Ella non parlava più. Passata la villetta C., mi disse che voleva farmi sapere il suo nome, che suo marito si chiamava Vida, e ch'ella aveva tenuto nascosto questo nome, acciocché suo padre, venendo per caso ad udirlo, non fuggisse addirittura da S. Bernardino.

Giungemmo al villaggio deserto, tutto bianco di luna. Nel porre il piede sugli scalini dell'Hôtel Brocco, mi feci coraggio ed incominciai:

“Lei parte?”

“Domattina”.

“E posso sapere?...”

Fedele esitò.

“Glielo dirò” rispose a bassa voce “non lo ripeta a mia sorella. Me lo prometta! Vado a Marsiglia”.

La guardai, le stesi la mano senza poter parlare. Ella mi diede la sua.

“So che ci muoio” soggiunse “ma in ogni caso andrei suora”.

Ci parve udir parlare nell'albergo.

“Domani” disse ella in fretta “non venga mica a salutarmi quando parto. I suoi amici sono troppo cattivi, mi criticherebbero, già, per la mia familiarità di stasera. Non racconti mica niente, sa. 'El ghe diga ch'el xe el nostro far, de nualtre veneziane'”.

Le strinsi la mano forte forte, con ambo le mie. Fu il nostro muto addio.

“Dunque” mi disse l'indomani mattina, alla fonte, la signorina Prina, tutta sfavillante di ironia “glielo avranno ben trovato quel verso iersera?”

“Che verso?” diss'io.

“Caro!” esclamò la signorina; e si mise a declamare con un'enfasi sarcastica:


Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar

E digo: i xe accidenti...


Me l'avevano trovato, il verso, sì. 'E digo: el xe el mio far'. Ma io lo tacqui, sdegnai concedere ai motteggi di quell'altera signorina che mi era del tutto indifferente, le ultime parole di Fedele.




R. SCHUMANN

(Dall'Op. 68)





Si ardeva, l'altra sera, nel salottino giallo di donna Valentina. Il calorifero ci soffiava fuoco nelle gambe. La bella dama vi brillava tra un sistema planetario di globi lucenti; perché una lampada splendeva sul piano, due lampade splendevano sulle consoles, un astro discreto luceva fra le orchidee della giardiniera, un astro azzurrognolo, sospeso a mezz'aria, fiammeggiava sul nostro capo. E poi c'era una fragranza così turca di sigarette di Salonicco; e poi donna Valentina era così africana, con quei capelli neri più folti, con gli occhi più grandi e indolenti che mai, con la corazza nera, con i guanti che le facevano due lunghe, sottili mani d'ebano. Io guardavo, inquieto, la signora; suo marito guardava, inquieto, il termometro; gli altri personaggi, un giovane biondo, un vecchio elegante e un maturo ufficiale di artiglieria, innamorati tutti e tre di donna Valentina, erano in ebollizione.

A lei poi venivano delle idee nubiane. Si disputò se la musica possa raccontare e descrivere, o no. Donna Valentina compativa nel suo languido modo indolente, con le sopracciglia e il sorriso, con qualche parolina sommessa, il povero marito infuriato al “no” contro i tre che lo caricavano, artiglieria in testa. Io tacevo. A un tratto la signora si alzò dal divano, pigliò fra la sua musica un fascicolo dell'Arte antica e moderna di Ricordi; il fascicolo decimoquarto, mi pare. I tre si ritirarono subito, in disordine, per acclamarla e accendere la candele del piano. L'uno d'essi, però, il vecchio signore, non fu abbastanza lesto e rimase prigioniero fremente del marito, che non gli dava quartiere con le sue mazzate di positivismo greggio.

“Una prova” disse la signora, aprendo il fascicolo sul leggìo. “Io suono loro due pagine di musica. Se v'è musica che parli, è questa. Qui c'è una scena e una storia, chiarissime. Ciascuno di loro me la traduca subito in iscritto. E non ci sono scuse! - Lei tradurrà in versi” mi diss'ella.

Chiesi venir dispensato dai versi, avendo posata, secondo il solito, la mia letteratura nell'anticamera, con il soprabito. E poi una traduzione in versi non s'improvvisa. Intanto i due zelanti accendevano una candela per ciascuno, e io nascosi male un sorriso, chinandomi a leggere, in capo alle due pagine di musica:


R. SCHUMANN

(Dall'Op. 68)


Donna Valentina vide il sorriso e, perché ci conosciamo bene, v'intese un volume di cose, sorrise pure, con la finezza più europea, con uno sguardo molto lungo, molto sospetto; il quarto o il quinto che avevo da lei, quella sera.

“Scettico!” diss'ella, sotto voce. E strappò dalle viscere del piano il ripetuto angoscioso gemito che apre quella stupenda pagina di musica e vi ritorna ogni momento.

Aveva una sera felice. Nel 'pianissimo' del ritornello, dopo le prime otto battute, mi parve proprio udire il lamento di un'anima. Gli adoratori della dama, tuffati in tre poltrone, ascoltavano con una tal quale segreta angustia, contemplando l'astro azzurrognolo sospeso in aria. Finito il pezzo, ne chiesero ed ottennero la replica; dopo di che il salottino giallo diventò un Parnaso all'opera.

L'ufficiale, che nel conversare sciabolava de omni re scibili, si trovò, dopo due minuti, tutto attonito di non essere in vena; smise, per il suo meglio, di tirarsi i baffi e le idee. Il vecchio signore, il giovine biondo ed io, presentammo a donna Valentina le nostre opere complete.

“Adesso si legge” diss'ella. “Già la scena è nel deserto, e sono due amanti che vi muoiono insieme”.

Il giovine diventò rosso e voleva riprendere il suo parto, ma donna Valentina non lo permise, riconobbe che la musica era una lingua senza dizionario e senza grammatica da non potersi tradurre lì per lì con sicurezza, e lesse ad alta voce questa prosa del vecchio signore elegante, persona molto a modo, del resto, e ingegno colto, ch'era una pietà di vedere umiliato ai piedi di lei da una passione ridicola.



MONDO DEI SOGNI - VALLE DELLE ROSE


All'aurora


“Folle sogno! Folle sogno! Nel caldo Oriente io poso giovane con lei su le rose.

Folle sogno! Folle sogno! Baciami, non parlarmi, bocca soave, non mi destare.

È lontano, è lontano, il freddo paese della neve; son lontani i tristi giorni della vecchiezza.

È fuoco nel core, nel sangue, è fuoco nel mare di rose, è fuoco nel cielo profondo. Bocca ardente, bocca ardente, fuoco tu sei e mi divora la molle fiamma.

Ti scongiuro, ti scongiuro, non obliarmi poi quando ci desteremo nel freddo paese, nei giorni tristi, quando scura, muta sarà la fiamma che divora il mio petto, ma fervente, ma potente a tornarti su le rose voluttuose per un giorno, per un'ora, a spirar fuoco nel tuo cuore, nel tuo sangue; ne l'aura amorosa a le tue grazie circonfusa.”



“Pompe! Acqua!” sussurrò l'ufficiale, mentre il marito, che aveva spesso scompigliate, con il suo riso grossolano, le rose dell'Oriente, esclamava: “Grazie di quel deserto! Grazie di quegli amanti che muoiono”.

“Deserto sì” disse la signora sorridendo amabilmente all'autore. “Suppongo che i suoi amanti non ci vorranno mica dei flaneurs in questa valle delle rose. E se non muoiono, dormono, sognano. To die, to sleep, perchance to dream. Adesso la sua” soggiunse sorridendo, stavolta, al giovane biondo. E lesse:



UNA CATTEDRALE


Notte


La penitente. - Che dolore! Che dolore! Egli morì da tanti anni ed è ancor piena di peccato l'anima mia.

L'amo ancora! L'amo ancora! Cerco Dio, non trovo che lui, ardo sempre delle passate ebbrezze.

Uno spirito. - Amami ancora! Amami ancora! Da tanti anni, nell'ombra della morte, sono ancora pieno di te.

Non ti dolere! Non ti pentire! Solo mi ristora, nel tormento eterno, il tuo amore.

Il confessore. - No, non t'accostar così al Sacramento, non muovere ad ira il Signore, va, prostrati sul marmo di gelo, prega e piangi, prega e piangi, forse il tuo cuore avrà pace.

La penitente. - Egli soffre! Egli soffre! Io lo sento; io non prego, non voglio esser mai felice, non dolermi, non pentirmi; forse lo ristora, laggiù nei tormenti, l'amor mio.

Il confessore. - Empia, va, esci dal luogo santo, io t'abbandono all'impuro fuoco. Forse perdona, forse perdona il Signore a lui, non a te, mai.

La penitente. - Padre mio! Padre mio! Non lasciarmi, t'oppongo le mie disperate braccia, prego e piango, prego e piango, mi pento, mi pento, cado infranta a' piedi tuoi, Signore!



“Conserva di romanticismo alle cipolle” disse l'ufficiale. “Una cosa lagrimevole”.

“Io la trovo bellissima” mormorò la signora con squisita dolcezza d'ammirazione rattenuta, guardando ancora lo scritto.

“Specialmente” soggiunse il marito “perché la cattedrale è un deserto; non c'è nemmeno il sagrestano, se quei due lì, in confessione, gridano come disperati. E gli amanti non solo muoiono, ma uno è bell'e andato da un pezzo”.

“Battista” disse donna Valentina “non essere insopportabile! Vediamo un poco lei, cos'ha scritto” soggiunse volgendosi a me. “Sono curiosissima”.

Prese le mie povere fatiche, le percorse con una rapida occhiata e sussurrò quasi parlando fra sè e sè:

“Non capisco”.

“Lei sarà stato sublime” mi disse l'ufficiale.

“Grande” gli risposi inchinandomi. “Sublime è stato il suo silenzio”.

La signora lesse:



IL POETA E LA DAMA


Il poeta. - Mia signora! Mia signora! Come può lei sopravvivere a questo diabolico inverno?

- Mia signora! Mia signora! Non gela il suo piccolo tepido cuore?

La dama. - Mio signore! Mio signore! Come vive lei col suo cuore di ghiaccio? Mio signore! Mio signore! Io ho un morbido nido caldo. Ho la mia stufa legittima che conserva ancora qualche bragia e manda di tempo in tempo qualche languido focherello. Ma non basta! Ma non basta! Ho un giovane caminetto dalle vampe bionde, che non mi brucia, mi consola, mi fa sognare. Ma non basta! Ma non basta! Ho un maturo, bollente scaldamani, una palla di cannone, coperta di panno ricamato d'oro, ch'io prendo tal volta per trastullo posando il libro o l'uncinetto. Ma non basta! Ma non basta! Ho un vecchio devoto scaldapiedi che mi serve tanto e manda pure il suo timido tepore. E se talora ho troppo caldo, apro la finestra, e guardo il cielo. Pur non basta! Pur non basta! Vorrei il vostro spirito di poeta, vorrei un'azzurra fiamma di alcool per il mio thè, per il diletto degli occhi miei.


Il poeta. - Mia signora! Mia signora! Io mi faccio, con il mio spirito, il mio umile caffè.

Questa roba agghiacciò tutti.

“Scusi” mi disse donna Valentina “cosa l'è venuto in mente?”

“Che vuole?” risposi. “Non capisco la musica. Ho scritto una sciocchezza a caso”.

“Va bene” replicò la dama. “In pena, lei non avrà il suo caffè, stasera. O thè con noi, o niente”.