Antonio Fogazzaro




PICCOLO MONDO MODERNO






CAPITOLO PRIMO

AB OVO



I


La vecchia marchesa Nene Scremin stava spolverando ella stessa, in abito di ricevimento e con un viso arcigno, il suo salotto. Strofinava col fazzoletto le spalliere delle sedie appoggiate alle pareti, gl'intagli del canapè e delle poltrone, i piani delle cantoniere, la campana della pendola. Alzava uno a uno i candelieri dorati dalla caminiera di marmo nero, alzava dal tavolo di marmo bianco, uno a uno, i porta-fiori, i porta-ritratti, le bomboniere, i ninnoli accumulati da una serie favolosa di natalizi e di anniversari, strofinava il marmo, cancellava le piccole nuvolette di polvere, brontolando contro quel benedetto Federico che pretendeva di avere spolverato. Il povero Federico, mezzo storpio, mezzo sdentato, mezzo calvo, capitò in quel punto, nella sua blusa di fatica, a dirle che c'era il giardiniere vecchio, quello licenziato da due mesi, e che desiderava di parlarle.

“Ch'el speta!” disse la marchesa. “E vu, benedeto, cossa feu che no ve vestí? No savì che xe marti? Che spolverar feu, vu? No vedì che stala che xe qua?”

“Che stala?” fece Federico, intontito. “Che stala? Cape, mi so che son sta qua do ore stamatina.”

“Ben, gavarì dormìo. Gài portà l'ovo a la Tonina?”


La Tonina era una vecchia cameriera inferma, mantenuta dagli Scremin per carità. Federico dichiarò di non sapere se a mezzogiorno le avessero portato il solito uovo, e in quel punto venne la cuoca a ripetere il messaggio del giardiniere licenziato. Ne seguì un battibecco fra i due servi, appunto per questa replica non richiesta, malgrado la presenza della padrona. Ma la marchesa, dominata da tetri presentimenti, voleva notizie dell'uovo e seppe dalla cuoca che l'uovo alla Tonina lo aveva portato la guattera e che la Tonina, sentendosi poco bene, non lo aveva preso. Questo fu il principio di un dramma. Cos'era accaduto dell'uovo? Silenzio. Possibile che qualcuno l'avesse mangiato? Che si fosse dimenticata la quaresima? Federico brontolò: “El sarà in cusina”. La marchesa intascò il suo fazzoletto sudicio, andò diritta in cucina. Cerca qua, cerca là, niente uovo. Andò alla finestra e chiamò il cocchiere che stava ripulendo finimenti nel cortile. Mentre colui saliva ella si affacciò alla buia scaletta di servizio per chiamar la guattera, vide qualcuno nell'ombra, lo credette il cocchiere e gli domandò bruscamente: “Gavìo tolto un ovo?”. “Mi, signora?” rispose colui, timido. “Mi no so gnente de ovi.” Allora la marchesa lo giudicò un accattone, gli gittò un brusco “No ghe xe gnente!” Quegli replicò ch'era il giardiniere vecchio. “Oh, ben, spetè.” E la vecchia dama ricominciò la sua caccia all'uovo.

Nessuno aveva preso l'uovo, nè la guattera, nè il cocchiere, nè la cameriera. La marchesa andò in cerca del fattore che di solito dopo mezzogiorno pigliava un caffè in cucina. “Galo visto un ovo?”. “Un ovo, signora?” Il povero fattore, non potendo negare di aver veduto un uovo durante la sua carriera mortale e non osando affermarlo in quel momento, rimase a bocca aperta. Intanto i cinque domestici, quale sulla scala, quale in una stanza, quale in un corridoio, quale in cucina, brontolavano soliloqui alquanto scorretti e l'uovo scomparso empiva la casa di sè.

“Per un ovo!” fremeva il cocchiere, seccatissimo di aver fatto tante scale per niente “e i tien carozza e cavài, sti fioi de cani!” Proprio in quel momento la padrona lo chiamò da capo. Voleva sapere se avesse visto il padrone. Colui rispose di no, sgarbatamente. “Sarà in Duomo, il signor padrone” disse la cameriera alle spalle della marchesa. “Sarà andato a far l'ora.” La vecchia signora sapeva che da qualche tempo suo marito, per certe coperte ambizioni politiche, non vestiva più la cotta di socio della confraternita del Duomo. Tacque, però. In quel momento un ragazzotto uscì dalla scuderia con una bracciata di fieno. “Dove va quel fien, ohe?” gridò la vecchia, imperiosa. Stavolta il cocchiere rispose con affettata solennità, compiacendosi di farla tacere e di esprimere insieme un coperto disprezzo per qualcun altro: “Fien del paron giovine! Ordine del paron giovine!”.

Federico, che stava abbottonandosi la livrea, masticò un altro soliloquio sulla clientela di straccioni che aveva il “paron giovine”, il genero dei padroni vecchi, che abitava un'ala del palazzo e teneva in scuderia un cavallo da sella. Anche i brumisti disperati, venivano, adesso, a spremerlo! Anche fieno regalava! Federico diede al giardiniere, nella sua sapienza, il consiglio di andarsene e di ritornare verso le quattro quando veniva a casa il “paron giovine”. “Ancò, ciò, la parona la ga in testa un ovo e diman la gavarà in testa un galeto. Vien dal paron giovine. Adesso che i lo ga fato anca consiglier!”


L'arrivo delle prime visite interruppe le indagini della marchesa mentre stavano per approdare a una scoperta impensata e imbarazzante. Ella era in relazione con tutta la città. Aveva nel suo taccuino una nota di novantasette visite a fare in dicembre e in aprile, residuo delle centoquarantasei cui era giunta, per compiacere al marito, nella sua giovinezza e forse anche negli anni faticosi e tormentosi in cui aveva dovuto mettere in mostra la figliuola. I suoi ricevimenti del martedì erano però di solito molto scarsi perchè le amiche intime e le amiche umili evitavano il giorno solenne. Invece quel martedì, natalizio della padrona di casa, un po' per questo un po' per caso, venne molta gente. Le amiche umili capitarono presto per non abbattersi nelle amiche grandi. Erano tre o quattro vecchiette dignitosamente composte nel decoro delle loro maniere cerimoniose e della loro seta, nella coscienza della loro modesta civiltà. Il tu che davano alla marchesa Nene aveva una segreta, commovente anima di soggezione e d'intima compiacenza. La marchesa se la intendeva con loro meglio che con le altre, anche perchè in fatto di pratiche religiose, di magri, stretti magri e digiuni avevano tutte, come lei, una coscienza di ermellino, così candida che persino la più minuta goccia di latte avrebbe potuto macchiarla. Le vecchie signore si eran sempre tanto guardate, nei loro colloqui, dal menomo accenno a cose politiche, a elezioni, a Consigli comunali come da ogni altro discorso che non riguardasse il tempo, la salute, gli interessi, le vicende familiari di qualche persona, tutt'al più l'ingegno e i polmoni di un predicatore; avevano così regolarmente ammutolito e con tale identico sussiego udendo altrui parlar di faccende pubbliche e di faccende sporche, che adesso non sapevano come felicitar la suocera per la elezione del genero a consigliere comunale, avvenuta due giorni prima.

Dopo aver lamentato, tutte a una voce, la fortunatissima recrudescenza di freddo che alimentava i languenti colloqui dei salotti cittadini, la più ardita arrischiò una parolina: “El ga avudo una bela sodisfazion, to genero, i me ga dito. L'è tanto bon, po, poareto!”.

Le altre vecchiette, preso animo, gracidarono con le loro fesse voci untuose: “Eh quel che xe, po! - Tanto bon, tuti no fa che dire. - Se consolemo tanto”.

La marchesa Nene fece un viso grave e disse loro: “Conforti magri”. Allora venne dalle amiche qualche triste, misteriosa parola di compianto e di speranza che cadde non raccolta. Il discorso ritornò alle virtù del genero e le buone signore, invece di parlarne alla suocera, ne parlarono, per un raffinamento di adulazione, tra loro. Una di esse aveva udito il parroco del Duomo levare a cielo la pietà del signor Maroni; un'altra riferì che la sua domestica s'incontrava ogni mattina col signor Maroni alla prima messa. La più timida non fece che correggere sottovoce le altre quando nominavano il lodato, ma per quanto mormorasse “Maironi, Maironi”, esse continuavano col loro Maroni; scusabili, perchè anche la marchesa, usa a rimpastar nel dialetto nomi e cognomi, diceva Maroni tre volte su quattro. La conversazione passò quindi al matrimonio di un garzone della merciaiuola dove tutte quelle signore si provvedevano di aghi e di refe.


Più tardi, partite le pedine, arrivarono quasi a un punto alcune dame e un paio di cavalieri, che si eran data la posta per alleviar le noie di questa visita a una vecchia signora, che non viveva abbastanza nel mondo per poterle parlare di cose mondane nè abbastanza fuori di esso per poterla piantare del tutto. Fu suonata la stessa musica di prima, in tono diverso. Si parlò di freddo e ci furon brevi accenni fra le dame e i cavalieri a un picknick, a una grossa questione diplomatica, a certe persone non desiderate nella compagnia. L'idea di una trottata mattutina in stage metteva segreti brividi a molti, ch'eran però contenti di gelare per l'eleganza della partita e della brigata. Poi una dama politicante entrò a spada tratta nell'argomento dell'elezione, mentre le altre la guardavano come un fenomeno di eloquenza e di ardire e uno dei cavalieri faceva di soppiatto qualche smorfia burlesca. Costui fece pure rumorosamente le sue felicitazioni ma intercalandovi sottovoce, per uso delle vicine, certe giaculatorie: “Atenti che adesso vien Federico con quattro cichere de aqua santa. - Scommessa che el consiglier xe in camera col piviale ch'el canta el Te Deum davanti a l'altariolo. - Me par de sentirlo in Consiglio: et cum spiritu tuo”. Le vicine si mordevano le labbra, gli sussurravano: “El tasa!” ed egli pretendeva che la marchesa fosse sorda. “Ahi, ahi” brontolò udendo annunciare il Prefetto, “ahi che adesso bisogna parlar pulito! Se savea portava la gramatica!”

Il commendatore Prefetto, un buon toscano, amante del quieto vivere, venuto da un mese appena nella sua modesta sede veneta, era stato presentato alla marchesa da suo marito, in ferrovia, e ora veniva per la visita d'obbligo, ben contento di blandire il marchese Zaneto, di servirsi delle sue velleità senatoriali per staccarlo poco a poco dal partito clericale.

La marchesa, impacciatissima con la gente che parlava italiano, lo accolse in modo da farlo rimanere impacciato anche lui. Per fortuna la signora eloquente si era incontrata più volte col commendatore in una casa di amici, a Firenze. Ella fece subito pompa di questa relazione, gli parlò con familiarità, e poichè tra lei e lui era seduta un'altra signora, lo presentò sottovoce per far intendere che sapeva come ciò sarebbe toccato alla padrona di casa ma che si pigliava una licenza amabile. “Disemoghe a la Nene” mormorò allora il cavaliere satirico alle vicine “che qua gnente ocore e che la pol andar a dar fora el butiro in cusina”. Infatti la povera marchesa, nota per la sua severa economia domestica, assisteva muta al duetto brillante dell'amica e del commendatore, al quale non era parso vero, in quel primo smarrimento, di afferrare la sola mano offertagli. Egli non fiatò, naturalmente, dell'elezione clericale Maironi, fece alla padrona di casa, non sapendo che dirle, dei complimenti per il suo bel palazzo del Quattrocento, si udì rispondere che lo aveva tenuto in gran pregio anche il fu professor Canella e senza domandar chi diavolo fosse questo illustre uomo, visto alzarsi il cavalier faceto e la signora eloquente, si alzò anch'egli.

Fuori, la via deserta luceva nel sole di marzo. La irrequieta dama, invece di salire in carrozza, si portò i suoi due compagni, a piedi, sotto gl'ippocastani del passeggio pubblico, già tutti spruzzati di verde. Il Prefetto s'informò con una faccia ossequiosa se la signora fosse cugina degli Scremin. Udito che no, si volse all'altro: “Allora è Lei?” diss'egli. “No, neppur Lei? Dio La honservi!” Dopo un mese di residenza nel suo minuscolo principato egli s'era fitto in capo che tutti i nobili vi fossero, fra loro, poter del mondo, almeno “hugini!” Immaginava con terrore le loro affinità e parentele come un garbuglio inestricabile, un'arruffata matassa enorme che a tirarne un poco il menomo filo vien tutta addosso. Perciò non s'attentava mai a parlar di nobili con altri nobili senza infiniti riguardi e cerimonie. Voleva dunque sapere quanto valesse questo nuovo consigliere clericale, questo genero senza moglie, di questa suocera senza figlia. Non lo conosceva affatto, non s'era mai incontrato con lui neppure in una visita. E perchè, Dio bono, quest'uomo che non si vede sta in casa di questa donna che non parla?

Tanto la dama politicante quanto il cavaliere di spirito possedevano una scienza minuta di tutti gli Scremin e persino dei loro domestici, dal famoso Federico ch'era stato licenziato dal Vescovo per causa di certa piacente pollivendola, sino alla guattera, cugina della bella Matilde di casa X, tanto cara al padrone. Sapevano quanto la vecchia marchesa spendeva il mese nello zucchero e nel caffè, e a quale altezza favolosa giungevano le calze del marchese. Avrebbero potuto offrire al Prefetto la completa biografia del nuovo consigliere, ornata di un ritratto cui non sarebbe mancato un pelo. Forse gli sarebbero soltanto mancate certe ombre recondite nell'occhio, inafferrabili dal loro intelletto e di pochissimo conto per l'amministrazione provinciale.

Ma nessuno dei due s'attentò d'istruire il Prefetto in presenza dell'altro che lo avrebbe poi raccontato al mondo. Convien dire altresì che se non eran parenti nè amici degli Scremin, sentivano però di avere un decoro comune con quei nobili di vecchia razza e il linguaggio poco riguardoso del Prefetto li aveva turbati come un leggero urto di contraccolpo all'aristocratico sedile onde assorbivano, dissimulandolo, coperte, intime dolcezze. Il nobile signore arguto poteva bene burlarsi degli Scremin in privato, come fece poi quando gli riescì di cavare a Federico la storiella dell'uovo, ma in pubblico era un'altra cosa e quando gli capitava d'incontrar la carrozza della marchesa Nene, salutava solenne e compunto come se passasse una persona della Sacra Famiglia. Così il Prefetto potè solamente sapere che Piero Maironi, nato dalle nozze poco savie del nobile Franco Maironi, bresciano, con una persona inferiore, orfano dall'infanzia, era stato pupillo del marchese Scremin suo parente per parte di una defunta marchesa Scremin maritata Maironi, bisnonna del giovane; che aveva sposato l'unica figliuola degli Scremin; che sventuratamente la giovane signora, colta pochi mesi dopo il matrimonio da grave malattia mentale, giaceva da quattro anni, senza speranza, in una casa di salute. Il marito non se n'era consolato mai, non andava in società, viveva ritiratissimo, frequentava molto le chiese, studiava molto. Ricco assai per la eredità della bisnonna, più ricco degli Scremin, non si occupava punto de' suoi affari, largheggiava in beneficenze.

Il povero Prefetto sarebbe rimasto male se, partita la dama col cavaliere nel coupé che li seguiva, avesse udito l'arguto gentiluomo commentar piacevolmente il suo copricapo, un Pantheon, e, rifacendogli il verso, la sua larga cravatta: “Un vero hollare di haval di harretta dello Stato!”. Quanto a Maironi, nè il cavaliere nè la dama lo potevano soffrire, e dopo servito il Prefetto si sfogarono sul nuovo consigliere, un antipatico, un baciapile, un orso, uno strambo, un ambizioso coperto che probabilmente sapeva collocare le sue beneficenze a frutto. Il cavaliere neppure voleva credere alla santità di un uomo giovane, da quattro anni ammogliato e non ammogliato. Povero cavaliere, povera dama, essi pure sarebbero rimasti male se, due minuti dopo saliti in carrozza, avessero udito il capitano Reggini di Nizza cavalleria, famoso cinico, affrontar sotto gli ippocastani il Prefetto, suo compaesano, a questo modo: “O che ci faceva Lei, commendatore mio, fra quella vecchia scatola e quel coperchio? Per causa Sua non combaciavano!”.



II


La marchesa Nene non si trovò col marito sola e sicura dalle curiosità domestiche se non assai tardi nel dopopranzo, poco prima dell'ora di conversazione. “L'ovo!” diss'egli umile, quando sua moglie lo interrogò con un lugubre cipiglio. “Tasi, xe vero, lo go tolto mi. No magnarme, son andà in oca. Cossa vustu? Son andà in oca.” Egli offerse, nella sua mansueta virtù, una confessione pubblica in cucina. “Sempiezzi!” brontolò la moglie, accigliata. Il marito, molto superiore a lei di cultura e molto inferiore d'animo, largamente fornito di ambizioni a lei sconosciute, sapeva camminar bene certe mobili vie delle nuvole e anche certe altre vie sotterranee, certe gallerie elicoidali che potevano condurre piano piano su qualche cima dominatrice il suo carico di desideri e di scrupoli, ma non era mai riuscito ad impratichirsi delle vie comuni dove il volgo cammina spedito, anzi non sapeva raccapezzarsi neppure in casa propria dove camminava spedita sua moglie. Invece costei, natura complicatissima d'intelligenza e di tardità, di larghezza e di parsimonia, di gentilezze poetiche e di fermezze quasi dure, nata immune da fantasie, da passioni e anche da egoismo, ma curante di sè e pur sempre tenace, in palese o in segreto, de' suoi propositi, pronta alle franchezze difficili e custode gelosa degl'intimi propri pensieri, possedeva un senso acuto dell'angusta realtà dentro la quale chiudeva l'energia instancabile de' suoi affetti oscuri e profondi, i suoi disegni sapienti e i suoi discorsi insipidi.

Ella era devota al marito, come al solo uomo cui avesse pensato mai; devota a quella felicità del marito che nel campo morale rispondeva non tanto ai desideri di lui quanto alle idee di lei. Le inettitudini di Zaneto alla vita pratica la irritavano nel suo segreto. Nè una discreta fama di archeologo, nè l'ambito seggio in Senato, nè un portafogli di ministro avrebbero scemato d'un atomo la occulta disistima ond'era partito adesso quello scatto: “Sempiezzi!”. Un'ombra di malcontento le restò in viso per tutta la serata, benchè di tempo in tempo il vecchio sposo cercasse farle, quasi di soppiatto, qualche amabilità, e benchè la conversazione dei soliti amici, preti e piccoli borghesi, clienti della nobile famiglia, fosse più vivace del solito.


Il salotto di casa Scremin era una specie di laboratorio dove si recavano ogni sera, per la descrizione e l'analisi, parole raccolte per le altre case e per le vie, parole di riconosciuti proprietari, parole vaganti senza padrone, ogni voce da cui si potesse spremere qualche curioso fatto altrui, qualche sospetto solleticante, qualche materia oscura ove far comparire, mediante reagenti opportuni, le ombre mobili di un intrigo, ove trovar col fiuto le orme di una persona nota e seguirla poi all'odore e pungerla se possibile nella sua via nascosta e morderla un poco, tanto da gustarne anche il sapore o almeno da cogliere qualche minuscolo filo delle tenui trame di commedia che la vita continuamente ordisce, sperde e ricompone intorno a ogni persona umana. Il laboratorio non mancava nè di sali nè di acidi. Vi si faceva della maldicenza misurata e garbata su tutti i peccati del prossimo salvochè su quelli di amore.

I peccati di amore non si potevano assolutamente introdurre nella conversazione. Se i due o tre più liberi parlatori della brigata si arrischiavano a infrangere il divieto, subito il marchese Zaneto alzava la voce: “Ta ta ta!” e accadeva ben di rado ch'egli fosse costretto dalla protervia di un ribelle a continuare di galoppo e più forte: “Taratatà, taratatà, taratatà!”. Il buon uomo, che avrebbe avuto una spiccata inclinazione a mettersi con i farisei e a lapidar l'adultera, non usava altrettanto rigore che per le espressioni poco esatte in materia di fede. Quando non si trattava di malcostume nè di dogmi lasciava correre. Guardingo egli stesso in ogni sua parola, pareva quasi compiacersi che gli altri non lo fossero altrettanto. Una certa dose di sale comune l'avevan tutti. C'era poi un burbero giudice in pensione che aveva sempre in pronto il sale amaro e c'era un vecchio lungo, magro, giallo, arcigno, che veniva assiduamente con una moglie lunga, magra, gialla, malinconica e che non parlava se non per schizzare qualche goccia di acido.

Quella sera i chimici di casa Scremin avevano nel crogiuolo il fiore del mondo elegante, l'Olimpo della piccola città. Trattar quest'Olimpo con acidi e sali era il loro più squisito piacere. Da buoni botoli borghesi non si pigliavano alcuna soggezione della grossa bestia rampante sullo stemma di casa. La marchesa Nene non pareva tener gran fatto alla bestia; il marchese Zaneto, affabile e umile con tutti, sapeva coprir bene un certo debole per essa. I nobili coniugi appartenevano a un gruppo scuro, pesante, malinconico di nobili codini, fra i quali e l'Olimpo dei ricevimenti eleganti, dei balli, dei pick_nicks, del lawn_tennis, del pattinaggio, le relazioni erano scarse e fredde. Un prete bonario, assai curioso e ambizioso cronista, mise fuori, appena venuto, la sua ghiotta primizia: “Dunque, picche nicche, gnente!”. Subito il signore acido e il signore amaro, che quando potevano mordere il prete ci avevano un gusto matto, esclamarono: “Vècia, vècia! Barba, barba!”. Il prete, sbalordito, irritato, rosso, affermò che la risoluzione di mandar tutto a monte era stata presa tre ore prima, alle sei, e i suoi tormentatori perpetui replicarono che alle sei e mezzo se n'era parlato al caffè e che il picknick era andato in fumo per causa dei forestieri di villa Diedo. “Vedìo, che no saví gnente!” fece il prete trionfante. Egli aveva una versione diversa. “E la mia xe sicura!” Una gran dama anfibia, tutta chiesa alla mattina e tutta Olimpo alla sera, aveva raccontato il fatto a suo marito in presenza del medico di casa, e il medico, amico del prete, lo aveva incontrato, gli aveva detto: “Vai a casa Scremin, stasera? Conta questa”. E il prete cominciò solennemente, in lingua aulica:

“Bisogna sapere che parecchie signore avevano posto per condizione che il picche_nicche si facesse di domenica per rispetto alla quaresima.” “No credo un corno” brontolò il signore acido. Gli altri zittirono, il prete ribattè in dialetto: “La fazza de manco” e risalì subito sul suo pulpito dell'italiano, pulpito, per verità, un po' sconnesso e sdrucciolevole.

“Dunque si sceglie domenica; questa che viene. Intanto succede che Pittimèla, Loro sanno chi è, incontra a passeggio i Zigiotti, marito e moglie, e, da balordo, li invita. I Zigiotti, figuremose!, beati, beati! La cosa si spande, succede un putiferio. Nessuno vuole i Zigiotti, specialmente le signore. Pittimèla prende una fila di titoli, ma come si fa? dicono i promotori del picche_nicche, i direttori. "Come si fa?' dice una signora. "S'intima a Pittimèla, poichè ha fatto la frittata, che se la mangi e che ci liberi come può.' Un'altra dice: "Si pianta anche Pittimèla'. Un'altra dice: "Si manda tutto a monte'. Una quarta non dice niente, ma subito, ticche tacche, si ammala.”

“Benone!” brontola il signore amaro. “S'indovina chi è.” “La tale!” dice il signore acido. “Mi no so gnente!” esclama il prete. “Eh caro, come se no lo savesse tuti che fra so marìo e la Zigiotta...”. “Ta ta ta, ta ta ta!” squilla in furia il marchese Zaneto. “Avanti, don Serafin.” E il prete continua: “I promotori, disperati, non sanno a che santo votarsi. Però, adesso vi dirò come stamattina tutto pareva accomodato per modo che alle tre una Commissione andò a villa Diedo per invitare i signori Dessià!.” “Dessalle!” interruppe qualcuno. “Va ben, va ben, de sal, de pevere, de quel che i xe.”

Appena uditi nominare i Dessalle, i forestieri di villa Diedo, il signore acido che li aveva designati come colpevoli della catastrofe e s'era udito smentire dal prete, cominciò a storcere la bocca, il naso, tutti i muscoli del suo viso di cartapecora, con le più lugubri e fantastiche smorfie. Don Serafino lo guardò e prima ancora che colui aprisse bocca, gli disse: “La spèta!”.

“Mi no parlo, benedèto!”

Il prete riprese:

“Fatalità volle che i signori Dessalle aspettassero amici da Venezia proprio per domenica.” “E dunque?” brontolò colui che non parlava. A misura che don Serafino veniva raccontando come per effetto del rifiuto dei Dessalle si fossero divise le opinioni circa il fare e il non fare il picknick, il signore acido e il signore amaro lo interrompevano sempre più forte: “E dunque? E dunque?”. Qualche altro più sommesso “e dunque?” scattava qua e là dall'uditorio. Per un poco il prete andò avanti e poi, perduta la pazienza, si mise esemplarmente a gridare: “Pazienza! pazienza!”. Quindi scese dal pulpito: “Le lassa andar avanti, Le lassa, corpo de mi solo!” - “Zitto, zitto, buoni, buoni!” gridava Zaneto. Ma quando il prete, rosso come un gambero, abbaiò che non sapevano niente, no, niente; e che per il rifiuto dei Dessalle si era dibattuta da capo la questione Zigiotti; e che per causa della Zigiotti “tin tun tan para martella, i ga mandà tuto per aria”, allora gli altri si misero ad abbaiargli contro che senza il rifiuto Dessalle non sarebbe tornata in campo la questione Zigiotti e abbaiarono tanto forte che Zaneto diede un gran colpo di timone e voltò il discorso verso il naso del signor Carlino Dessalle. “L'ho visto una volta sola, ma un gran naso!” “Non lo tocchi, marchese!” esclamò l'uomo acido.

“Tutto dev'essere perfetto a casa Dessalle; anche i nasi. Forestieri, marchese, gente che invita, gente che spende, signor mio! Adoriamoli, ungiamoli, lecchiamoli, andiamo in visibilio, andiamo in deliquio! Che distinti, che amabili, che cari, che spirito, che bellezza! Ella, marchese, mi parla del naso di lui, ma giurerei che qui si trova bello anche il naso di lei!”

“Peuh!” fece don Serafino, come per dire che questo secondo naso non gli pareva poi tanto obbrobrioso.

“Ma sì, caro! Sente, marchese? Anche il clero! Ci perde la testa anche il clero, ci perde! Eppure quella è gente che non va a messa. Gente, ute religion, che qua se ghe dise pamòi”.

Questa parola pamòio che nel dialetto del luogo significa tanto una zuppa quanto una persona di dubbia ortodossia, forse per le parvenze incolori, per la poco nutriente virtù di un tal cibo e di un tal credo, fece succedere un altro tafferuglio. Il prete gridava: “Cossa vienlo fora? cossa m'importa a mi che i sia pamòi o che no i sia pamòi? Cossa ga da far i pamòi col naso?”. Il censore bilioso gridava: “Sissignor, sissignor, pamòi, pamòi! Pamòio lu e pamòia ela!”. Gli altri ridevano e li aizzavano. Zaneto, fra ridente e contrito per la mala riuscita della sua manovra, cercava metter pace. Durante la zuffa un signore ossequioso seduto presso alla marchesa Nene le domandò sommessamente il suo parere. La marchesa, che lavorava di calze, non alzò gli occhi dai ferri e rispose:

“Mi no vado a zavariarme.”

La vecchia marchesa non si “zavariava” mai, ossia non si dava mai fastidio per ciò che non la riguardava. Così almeno pareva; perchè nel fondo dell'anima sua vi era una quantità di celle segrete e chiuse a chiave dov'ella custodiva note raccolte in silenzio su tante cose cui non pareva badare, fila intricate di tenebrosi disegni per il bene di questa o quella persona in qualche caso futuro e incerto, simpatie e antipatie non confessate mai, giudizi sugli uomini e sulle cose tenuti occulti ma inflessibili e duri come il bronzo, idee parte diritte, parte storte che davano qualche rara volta, nei colloqui più intimi, parole impensate, ben diverse da quei comuni ferravecchi di cui teneva un magazzino in bocca. Ella era, del resto, imbronciata, quella sera; e il marchese Zaneto, con la sua coscienza tutta intrisa dell'uovo illegittimo preso per distrazione in cucina, colse il tempo in cui gli altri, infervorati nella disputa per i nasi Dessalle, non badavano a loro, si accostò alla sua sposa, si mise a farle delle moine contrite che la seccarono. “Va là! Lasciami stare!” diss'ella brusca. “Non far sciocchezze!” Il pover uomo si voltò mogio mogio a don Serafino che stava rimbeccando un interruttore. “Abramo? Cossa vienlo fora con Abramo questo qua, adesso?” “Sì”, rispondeva colui: “Abramo e Rebecca, no, e Sara, cossa xela!” Poichè i Dessalle si erano fatti conoscere come fratello e sorella, s'insinuava benignamente che qualche Faraone avrebbe forse potuto dire una cosa diversa. Più voci protestarono. I Dessalle erano conosciutissimi a Roma e a Venezia come fratelli, orfani di un ricchissimo banchiere di Marsiglia e di una Guglielmucci romana.

Don Serafino diceva di non saperne se fossero pamòi o no. Avevano invitato il loro parroco a pranzo, certo, e largheggiavano con lui di danaro per i poveri. La signora gli aveva anche offerto qualche cosa per la chiesa. “Una santa!” brontolò l'uomo acido con un ghigno pieno di reticenze. “Oh no se sa po gnente!” esclamò don Serafino. “Ela, no La sa gnente!” ribattè l'altro: e si fermò lì per paura dei “ta ta ta” di Zaneto. “E pur la gavarà i so trenta” brontolò il signore amaro, a epilogo di parole taciute. Allora gli scoppiò da ogni parte un fuoco vivo di “Cossa, trenta? Cossa, trenta?” “Venticinque!” “Vintidò!” L'acido venne in soccorso dell'amaro: “Mo sì! Undese! Diese!”.


Al battere delle undici tutta la brigata si rovesciò in frotta dal salotto sulle scale. Nell'atrio del palazzo cominciarono i bisbigli sul muso lungo della marchesa. Che diavolo aveva? Appena uscito lo sciame sulla via sopraggiunse l'ultimo amico di casa che s'era indugiato con Federico sulle scale appunto per spillargli il segreto del muso lungo. Sopraggiunse correndo, ridendosi nel bavero rialzato, fregandosi le mani, ripetendo a se stesso: “Bela, bela, bela, bela!”. Subito gli furono tutti attorno, tutti sorbirono con voluttà il famoso uovo, tutti fecero eco: “Bela! Bela!” meno don Serafino che trattandosi di materia molto delicata, rideva con riserbo e diceva solo: “Povareta! Povareta!” in tono di blando compatimento. Dopo il muso lungo della marchesa venne la volta della lucerna. “Che puzzo di petrolio! Che indecenza!”. “E il caffè?” esclamò don Serafino. “Non era proprio acqua sporca, stasera?” Anche qui gli amici fecero eco; solo il signore acido sostenne ch'era acqua pulita.

Il prete raccontò che in passato aveva fatto qualche osservazione a Federico. Federico s'era scusato accusando la padrona. “Avarizia cagna, sior.” Ogni mese, appena pagato il conto del droghiere, la padrona andava in cucina a predicare sul caffè troppo forte. Ripagata così la ospitalità degli Scremin dove quei piccoli borghesi gustavano da lunghi anni un odore, un sapore di padronanza sulla nobile casa molto voluttuosi ai loro sensi democratici, la brigata si sciolse sotto il fanale di un crocicchio, si sparse per tre o quattro vie deserte. Di qua l'uomo acido riprese il tema Dessalle brontolando con l'asprezza di una stizzosa virtù cose da fare spiritare quattro Zaneti e strillar “ta ta ta” anche alle vecchie metope del Cinquecento, che dall'alto delle cornici palladiane guardavan giù nella via. Di là era l'uovo che si frullava da capo fra bisbigli e risatine; e si ricommentava l'uscita di Zaneto dalla confraternita del Duomo. Poi si faceva l'autopsia del vecchio amico per trovargli l'ulcus senatorium e l'uomo amaro andava ripetendo: “Mondo! Tuti compagni! Mondo!”. “Caspita!” diceva un altro: “Un ovo de matina, la quaresima! Atenti ch'el se fa turco!” Poi vennero in campo certe promesse di Zaneto al deputato del collegio. Figurarsi, Zaneto che dopo il 1870 non aveva mai votato! Parlarono anche di pratiche fatte per lui dal deputato del collegio presso una dama romana amica di due ministri.

“Capìo?” diceva uno. “Amiga de do! Figurève che dama! altro che ta ta ta!” Un altro alluse discretamente a un potentato della città, a un uomo politico detto per antonomasia il Commendatore, basso di statura. “Sì, ma se el picoleto no lo aiuta!...”

Per una terza straduccia don Serafino trotterellava verso il suo umile nido insieme a un compagno che aveva nidificato negli stessi paraggi. Anche questi due frullarono l'uovo ma con mansuetudine. Si figuravano i rimorsi di Zaneto per lo scandalo dato. “Perchè l'è un santo omo, savìo!” diceva il prete. “Perchè mi so!” E raccontò al suo compagno atti di ascetismo compiuti dal marchese Scremin in segreto. Ci aveva in corpo quel baco del Senato, sì; un baco guastamestieri! Don Serafino stava considerando minutamente, a bassa voce, il disgraziato baco e i suoi malefizi, quando, allo svoltar d'un canto, il suo compagno lo interruppe con un colpo di gomito. Quegli aveva sfiorato, svoltando, un signore astratto che svoltava nel senso opposto, e camminava adagio, con le mani nelle tasche del soprabito.

“Gala visto el consiglier!” diss'egli, fatti pochi passi.

“Mi no. Che consiglier?”

“Eh, cosso! Maironi!”

Maironi! A quest'ora! Da queste parti! Dove sarà andato? In conversazione non si vede più. Tanti lo trovano più distratto, quel giovine, più cupo. Ogni mattina a messa, ogni sera alle funzioni, ogni otto giorni ai Sacramenti. E` sempre stato pio ma non a questo punto. E carità, carità senza fine. “Perchè mi so!” La sua disgrazia, sì! Ma insomma non è cosa nuova, son quattro anni, adesso.

No, non poteva esser questo. Un buon giovine, ma un po' strano anche lui, sapete. Il sangue non è acqua, dicono che sua madre sia stata una testa calda, e suo padre: hèhèoli! Buono, però! Ecco, un santo davvero. Una fede, una carità! E devoto alla causa! Clericale proprio di quei convinti, capite; perchè, inter nos, anche fra i nostri della zizzania ce n'è! C'è chi tira alla scarsella e c'è chi tira a far chiasso, a farsi un nome, un'influenza. Pochi, ma ce n'è! Quello lì no; eh, quello lì! E talento. Talento grande. - Qui don Serafino si fermò sui due piedi, cavò la tabacchiera e, ficcate le dita nel tabacco, soggiunse con importanza: “Adesso lo femo sindaco, capìo”.



III


Intanto il signore astratto si avviava con un'andatura stanca verso il palazzo Scremin. Trovò il portone chiuso, spento il gas nell'atrio, spento il gas sulle scale. Entrò nel suo appartamento, al primo piano, in faccia a quello abitato dagli Scremin. Si stava levando il soprabito nell'anticamera quando fu leggermente bussato all'uscio. Aperse. Era la giovane cameriera della marchesa Nene, una figurina snella e alta, bionda, vestita di scuro, con i capelli arruffati sulla fronte. Egli impallidì, le domandò, tenendo la maniglia dell'uscio, che volesse. La ragazza lo fissò, pallida anche lei, con due belli occhi azzurri, arditi nel fondo, velati di dolcezza. “Scusi un momento” diss'ella. “C'è una cosa.” Si guardò, con una mossa rapida, alle spalle e ripetè: “Le avrei a dire una cosa”. La voce, un po' fioca, un po' grossa, era tuttavia musicale. Il giovane esitò un momento, poi mormorò: “Avanti” e si fece da banda. La camerierina passò sfiorandolo col suo odor tepido di capelli giovani e di persona monda, sussurrò un “grazie” pieno di senso, pigliò il soprabito del signore, s'indugiò ad appenderlo all'attaccapanni, ad assettarvelo con leggeri colpettini delle mani non bianche ma piccole e sottili. La lucernetta, che ardeva sulla consolle in faccia all'attaccapanni, le dorava i capelli magnifici attorti sulla nuca come un groppo di serpi.

“C'è stato il giardiniere” diss'ella accarezzando ancora il soprabito e parlando piano, quasi con tenerezza, come se le parole fossero state più di quell'abito e di quelle carezze, che d'altro. “Il giardiniere ch'è andato via.”

Per qualche momento ella non si udì risponder nulla, e le sue mani parvero moversi incerte, a caso. Poi il giovine disse: “Cosa...” con voce diversa dalla solita e non compiè la frase. Ella si chinò a raccattar chi sa che, gli offerse un baleno del suo fine collo bianco.

“Dice” riprese ancora più sottovoce, “che forse andrà dai signori Dessalle e che i signori Dessalle domanderanno informazioni alla mia marchesa e che allora Lei ci potrebbe forse mettere una parola buona. Dice pure che Lei ora diventerà sindaco e che gli raccomanda un suo figliuolo per la biblioteca.”

Si voltò, diede un'occhiata alla lucerna che fumava, si mosse, adagio adagio, per andarne ad abbassare il lucignolo e nel passar davanti a Maironi gli alzò in viso due occhi grandi, vitrei, pieni di una chiara proposta. Egli fremette ma non disse niente. La biondina si pose ad abbassar lentamente il lucignolo, giù, giù, senza sosta, quasi fino a spegnere. Allora Maironi disse brusco:

“La signora ha suonato.”

“Ha suonato?”. Colei trasalì, rialzò il lucignolo, guardò il giovine in viso, capì subito di avere passato il segno.

“Se quell'uomo ritorna” riprese Maironi, “gli dica che per le informazioni parlerò.”

La ragazza rispose asciutta “va bene”, se n'andò dritta e seria senza degnarlo nè d'un saluto nè d'uno sguardo.

Rimasto solo, il giovane si strinse i pugni alle tempie, li battè con impeto sul piano della consolle, ve li tenne per un momento, ansante, guardandosi nello specchio, interrogando, quasi, l'immagine di se stesso.

Poi, a un tratto, come se avesse paura del proprio viso, del proprio sguardo, dei propri pensieri, soffiò furiosamente sulla lucerna, entrò al buio nella sua camera da letto, si gittò ginocchioni sull'obliqua lama di luce biancastra che per una grande finestra il cielo notturno gittava sul tappeto del pavimento, giunse le mani di slancio, guardando il chiaror fioco delle nuvole.

Passati alcuni secondi, gli occhi suoi poco a poco discesero fino al davanzale della finestra, fino all'ombra; si fermarono come smarriti in una visione. Egli pareva immaginare con la volontà sospesa, nè consentendo nè resistendo alle immaginazioni, cose che gli togliessero il respiro. Si scosse, si gettò bocconi a terra figgendo il viso sul pavimento. Poi balzò in piedi, accese una candela e, snudatosi il braccio destro, lo tenne a più riprese, stringendo il pugno, sulla fiamma. Si guardò le grandi macchie rosse delle scottature, mise un sospiro di sollievo, trasse il portafogli, lo aperse, contemplò una piccola fotografia ovale, il viso di una giovinetta sui diciott'anni, regolare, freddo nella espressione e tuttavia non senza una tal quale malinconica dolcezza nell'occhio e una più spiccata fermezza nel mento. L'acconciatura altissima, passata di moda da cinque o sei anni, lo guastava come un goffo accento circonflesso e faceva pensare a una persona morta. Il giovane se lo accostò alle labbra ma poi non ebbe cuore di baciarlo, parendogli esserne indegno, depose sospirando il portafogli sul tavolino da notte e soltanto allora vi scorse un mazzolino di violette sopra una lettera.

Il suo pensiero corse alla cameriera toscana. Era lei, forse, che aveva scritto, che offriva i fiori. Nè volendo nè disvolendo mosse lentamente la mano, tolse le violette di su la lettera e restò con la mano in aria, tutto amaro di vergogna.

Non era una lettera, era un cartoncino e aveva due sole parole di pugno della marchesa Nene:

17 marzo.


Piero Maironi ed Elisa Scremin, la donatrice del portafoglio, si erano fidanzati il 17 marzo 1882 e ogni anno la marchesa Nene, con un delicatissimo, poetico pensiero, aveva silenziosamente ricordato così a suo genero il giorno felice, diventato giorno di lagrime. Ora, per la prima volta, il 17 marzo era giunto senza ch'egli ricordasse. Neppure le viole glielo avevano rammentato. Dio, e aver pensato che venissero dalla cameriera! Ne chiese mentalmente perdono alla riverita vecchia signora con uno slancio che subito gli mancò nella morta sfiducia montante dal fondo dell'anima. Si coricò senza pregare, covando un disordine di sentimenti informi: umiliato amor proprio, cruccio di non sentirsi alcuna dolcezza della vittoria materiale sulla tentazione, rancore sordo contro Iddio che taceva, dubbi che il suo lottare con la natura fosse inutile e stolto, dubbi di essere un miserabile schiavo inconscio di pregiudizi religiosi e morali impressi dagli altri, e per sempre, nella sua molle coscienza infantile, terrore e rimorso di questi dubbi, propositi di lottare ancora. Poi, chetati alquanto i moti incomposti dell'animo e successovi un lieve sopore, gli risalì nell'ombra interna del capo e gli fugò il sonno l'immagine più e più viva della donna che si era offerta, degli occhi vitrei, parlanti e brucianti.

Cacciò la visione voluttuosa, la richiamò, la respinse ancora con più molle difesa. Ebbe, con un gran batter del cuore, l'idea che un velo denso e molle si stendesse lentamente sopra di lui, chiudesse il cielo. Ebbe il senso di una liberazione, di un'ebbrezza saliente dalla terra calda, di un abbandono, di un'amorosa estasi in cui tutta la più occulta parte dell'esser suo, una magnifica potenza intatta di passione, di gioia e di follia gli sarebbe scoppiata dal cuore, dal pensiero, dai sensi. Diverse forme gli lampeggiavano nella visione interna: l'ardita cameriera bionda, la bella signora Dessalle, incontrata un giorno in ferrovia, dai grandi occhi bruni che tanto lo avevan guardato, e altre ancora, cui egli si foggiava con violenza in una forma sola, in un essere solo, creandole di sè con un pensato magico bacio fra l'orecchio e il collo, creando nella cameriera come nella dama, con irresistibile impero, la donna voluta da lui, animando della propria sua fiamma la donna da lui uscita e da riaspirare in sè. Balzò a sedere sul letto. Nel silenzio della notte, nel lume tremante della candela le stesse cose intorno a lui parevano guardarlo attonite. Scese, aperse la finestra, bevve l'aria fredda, scura e muta.

Ore dalla torre di città: una, due. Silenzio. Ore dalla prossima chiesa: una, due. Paiono voci tristi e gravi che si scambiano un lugubre saluto claustrale: memento. Altre voci solenni, vicine, lontane, nell'interno stesso della casa, ripetono: una, due: memento. Maironi si fece macchinalmente il segno della croce, mormorò macchinalmente: “Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo, amen”.

Sentì la preghiera cader senza eco nel mistero vuoto e sordo, giunse le mani, chiamò a sè, quasi per un cieco istinto, due persone non conosciute mai, immaginate in diverse forme infinite, talvolta dimenticate, talvolta desiderate intensamente, strette a lui dal più tenero affetto, ma impedite di rispondere al suo richiamo, dormenti l'ultimo sonno nel povero camposanto di Oria in Valsolda: “Madre mia! padre mio!”.


Si ricordò di avere una lettera urgente a scrivere, volle farlo subito. Si trattava di rispondere a monsignor De Antoni, canonico del Duomo, ch'era venuto il giorno prima da lui con una missione segreta di S.E. il Vescovo. La maggioranza clericale del Consiglio, uscita dalle recenti elezioni, avrebbe corso pericolo di vita se non metteva alla luce il giovane sindaco da lei concepito. Questo frutto restìo del suo seno era Piero Maironi. Le pratiche fatte presso di lui prima dell'elezione non avevano approdato; Maironi non voleva saperne, l'aveva dichiarato a monsignor De Antoni. Il mansueto monsignor De Antoni a forza di spiccicare durante le sue proteste dei vischiosi “ben, ben, sissignor, sissignor”, a forza di sorrisetti, di contorcimenti, di blandi “ho capito” e di vispi “facciamo così” aveva ottenuto una proroga alla risposta definitiva. Ora Maironi era impaziente di sbarazzarsi del tutto. Se si era lasciato portare dagli amici per disciplina di parte e anche per un desiderio indefinito di moto e di lavoro, non voleva però, nuovo agli affari, esser posto a capo dell'amministrazione comunale in un momento difficile, in cui la sua inesperienza poteva costar cara al partito e più al pubblico.

Gli ripugnava pure di lasciar del tutto, sui due piedi, l'abito di vita bigia che portava da quattro anni. Qualche altra cosa gli ripugnava forse nell'offerta degli amici, cui neppure voleva confessare a se stesso. Ed era ritornato a casa, quella sera, col proposito di scrivere subito, per finirla.

Nel pensare, con la penna in mano, le frasi di cui vestire i suoi argomenti per modo che persuadessero il Vescovo al quale la lettera sarebbe stata indubbiamente mostrata da monsignor De Antoni, nel cercare gli epiteti delle difficoltà, dei pericoli, delle cure, delle angustie che lo avrebbero atteso sullo scanno sindacale, un pensiero nuovo gli si affacciò alla mente. E se accettasse? Se le difficoltà, i pericoli, le cure, le angustie potessero cacciare i fantasmi amorosi, e voluttuosi che lo assediavano? Se questo dubbio glielo ispirassero suo padre e sua madre allora invocati? Se l'offerta degli amici e le premure del Vescovo celassero un coperto aiuto di Dio? Pensò, pensò fino a che il capo gli s'intorbidò di stanchezza, di sonno; e rimise la decisione all'indomani mattina.


Egli dormiva ancora quando gli capitò in camera, guardingo, con la faccia piena di rincrescimento e la bocca piena di scuse, il marchese Zaneto. Aveva una tal quale necessità di parlare al genero, non gli era venuto in mente, conoscendo le sue abitudini, che potesse dormire ancora, gli parlerebbe adesso, se però il genero non ne fosse troppo incomodato. Dopo il successo elettorale di Maironi il suocero lo trattava con una officiosità così impacciata e fredda che Piero n'era seccato e aspettava sempre di vederne comparire la cagione occulta. Udito quell'esordio, pensò: "Ci siamo" e rispose: “Figurati!”.

“Bene, ecco, due cose” cominciò Zaneto lentamente, guardando in terra e spremendosi a più riprese, dalle guance con la mano sinistra, le parole che parvero colar vischiose dalla bocca: “due cose”.

Aperta così la vena del discorso, alzò gli occhi, non però in viso al suo interlocutore, e parlò un poco più fluido:

“Sono venute da me alcune persone del tuo partito. Dico del tuo partito perchè forse le mie idee... sì, dico, non so... insomma per intenderci meglio. Persone ottime e anche, dirò, autorevoli. Sì sì, autorevoli. Desideravano che io ti persuadessi ad accettare l'ufficio di sindaco. Io ho risposto che parlerei per riferire, semplicemente. Dicono...”

Qui la voce di Zaneto cambiò, prese l'accento caricato di chi ripetendo parole altrui, vuol fare intender chiaro che parla così un altro e non egli.

“Dicono che sei indicato per la posizione sociale, per la votazione stessa, che nessun altro sindaco è possibile fuori di te, che se non accetti è un danno gravissimo della città e così via.”

Zaneto tacque un momento, poi guardò finalmente suo genero e lasciò cascare floscia floscia questa chiusa:

“Ecco.”

“E tu” domandò Piero, “cosa ne dici?”

Zaneto si fece un po' scuro, prese un'aria di Sibilla restìa e dopo aver taciuto alquanto rispose con insolita risolutezza:

“Dispensami!”

“Eh no!” rispose il giovane ironicamente, volendo pur aver ragione di tanta diplomazia.

“Perchè dispensarti?”

Zaneto fece un gran gesto silenzioso, menò il braccio destro in aria, sorrise come per dire “cosa serve?” e ripetè:

“Dispensami!”

“Ci vuol tanto” esclamò Piero “a dire che sei contrario?”

“No” rispose Zaneto, “io non sono nè contrario nè favorevole. Ti dico subito che di questo stesso argomento mi ha parlato un'altra persona per indurmi a sconsigliarti dall'accettare, ed io l'ho pregata, come adesso te, a dispensarmi.”

“E chi era questa persona?”

Zaneto si scosse, si contorse con un brontolìo che pareva nascergli nel ventricolo. Suo genero indovinò subito.

“Il Prefetto” diss'egli. “Non c'è dubbio.”

“Piano, piano” fece Zaneto sconcertato. “Io non ho detto niente e non dico niente. Del resto ieri son venuti molti a parlarmi del tuo sindacato. Il primo è venuto alle otto della mattina, un individuo che non conosco. - Chi è Lei? - Sono uno che suona il pelittone in fa bemolle. - Bravo. E allora?... Se dicesse una parola a Suo genero che sarà il nostro sindaco... se mi facesse prendere nella banda municipale... - A mezzogiorno ne capita un altro; anche lui per avere la tua protezione, perchè tu gli faccia impiegare un figliuolo alla Posta e collocar la madre al Ricovero comunale. Un terzo è venuto ieri a sera, un diurnista del Municipio. Dice che fra pochi giorni sarai eletto sindaco, che vorrebbe presentarsi a te per farti i suoi ossequi e anche per certe sue istanze particolari, ma che si trova in condizioni miserabili di vestito e gli occorrerebbe una giacca decente, se puoi aiutarlo. Vedi vedi, che tesoro di clienti ti fai!”

Piero lo fissò in silenzio, leggendogli nelle pieghe dell'anima, e, finito di leggere, cambiò discorso.

“Avevi un'altra cosa, mi pare” diss'egli.

Il marchese ostentò di reprimere grosse ondate di riso, ostentate anche quelle.

“Sì, un'altra cosa” diss'egli. “Un'altra cosa sicut et in quantum.”

E mise fuori l'altra cosa, non senza sussultare ancora, tratto tratto, di riso represso.

Un ambasciatore della stessa risma di coloro ch'eran venuti colla fascia sindacale in tasca, aveva picchiato all'uscio di Zaneto molto più segretamente e timidamente per averne aiuto a cavare quattrini dal genero in pro del giornale clericale. Zaneto riferì il messaggio con lo stesso umorismo di cui aveva lievemente condite, poco prima, le suppliche di quei tali clienti, aggiunse sale alla vivanda amara volendo renderla impossibile al palato, non tanto per una paterna cura de' quattrini insidiati quanto per il desiderio che il giornale più inviso alla Prefettura non ricevesse aiuti da casa sua. “La parte mia” conchiuse il vecchio diplomatico, “l'ho fatta.” E si alzò.

Maironi credette finito il colloquio, ma s'ingannava. Il suocero si accostò al suo letto, gli prese una mano, gli disse sottovoce, tutto mutato in viso: “Senti”, represse a stento dei singhiozzi come prima aveva represso il riso e potè finalmente spiccicare queste due parole: “Quando vai?...”

“Al solito” rispose Piero, pure sottovoce. “Posdomani.”

“E credi che la vedrai?”

“Ma no, lo sai bene che da molto tempo il direttore non vuole più.”

Allora Zaneto ruppe in singhiozzi più forti. Maironi sapeva che il vecchio portava veramente affetto alla figliuola reclusa in un luogo di sventura; sapeva che quelle lagrime non si potevano dir false. Pure, siccome il modo suo di sentire e di esprimere il dolore era affatto diverso, le dimostrazioni così rumorose e intempestive di Zaneto gli ferivano i nervi come a suo padre le dolcezze della süra Peppina. Il sangue che ora gli corse al viso era proprio il buon sangue impetuoso del povero Franco.

“Oh Signore!” mormorò Zaneto asciugandosi gli occhi con un fazzolettone biancastro.

“Cosa?” Piero trasalì. Che c'era di nuovo, adesso?

“Oh! Una cosa, una cosa! Uno sforzo tale che debbo fare!”

Nuovi singhiozzi, nuove lagrime, affannosa ricerca del fazzolettone per tutte le tasche, brancicamento, molto spiacevole a Piero, delle lenzuola, scoperta, finalmente, del sudicio coso fra le gambe della sedia quando gli occhi si erano asciugati da sè e Zaneto non poteva, decentemente, rimettersi a lagrimare.

“Cosa vuoi? Bisogna pur parlare. Sai che il termine dopo il quale tu puoi conseguire il capitale della dote di...”

Una pausa, una contrazione del viso, una vittoria della volontà.

“... scade l'anno venturo. Occorre dunque parlarne. Ora ti confesso che nelle mie condizioni il metter fuori questa somma...”

Piero lo interruppe. Ma di che si crucciava mai? Ma che termini, che scadenze! Facesse il comodo suo. Allora il buon Zaneto s'impelagò in un mar di parole ingarbugliate, nè avrebbe riguadagnata la riva senza il soccorso altrui. In sostanza quel chieder la proroga dell'affranco della dote non era stato che un esordio, una introduzione alla proposta di addossare per l'avvenire al genero il pagamento della ricchezza mobile. Piero capì subito che il pover uomo recitava male una lezioncina spuntata, meditata e composta dentro quel duro e freddo bernoccolo degli affari che fioriva sotto le trecce grigie della marchesa Nene, in amichevole compagnia con parecchi altri bernoccoli di opposta indole.

“Ma tutto quel che volete!” diss'egli, sdegnoso.

“Abbi pazienza” fece il povero Zaneto. “Abbi pazienza. Le cose bisogna dirle, eh!”

Cavò l'orologio, trasalì, fece “ohe, ohe!” e scappò dicendo che aveva l'impegno di andare con la Nene in Duomo alla novena di san Giuseppe.


Uscito Zaneto, Piero pensò lungamente guardando nella sedia vuota la impronta sincera del suocero pesante, lo sgualcimento scandaloso e ignobile, senza velature diplomatiche, senz'alcuno di quegli accomodamenti studiati ch'erano familiari a Zaneto quando intendeva produrre impressione in altrui con una parte diversa di sè, con la parte superiore e più degna. Poi si vestì e scrisse la seguente lettera a monsignor De Antoni:


Monsignore, Voglia, La prego, informare monsignor Vescovo che se i miei colleghi penseranno proprio di chiamarmi a quell'ufficio malgrado le mie scarse attitudini e la mia totale inesperienza della cosa pubblica, lo accetterò. Gli dica pure che confido molto nelle sue preghiere. Mi raccomandi a Dio, monsignore, anche Lei.

Suo devotissimo

P. Maironi


Rilesse e si disse: “Fino a qual punto sono sincero? Fino a qual punto sono ipocrita?”.

Entrò Federico recando una lettera.

"Qualcuno' pensò Piero, "che suonerà il pelittone in mi.' Si disdisse subito. Era una busta di carta pergamena, leggermente profumata di violetta, con questo semplice indirizzo: - Signor Maironi - a caratteri grandi e sicuri. Chi l'aveva portata? Un cameriere dei forestieri di villa Diedo.

Piero aperse e lesse:


Signore, Un tale Pomato ci si è offerto per giardiniere asserendo di essere stato lungamente al Suo servizio. Mi permetto di chiederle, a nome pure di mio fratello, ch'è assente, qualche informazione circa l'abilità e l'onestà di quest'uomo. Gradisca le mie scuse per l'incomodo che Le reco.

Jeanne Dessalle

P.S. Sono in casa il lunedì e il venerdì dalle cinque alle sette.


Federico domandò se vi fosse risposta. Maironi tacque, assorto nelle due righe discrete, significanti del poscritto. Egli aveva viaggiato due mesi prima in ferrovia con una giovane signora elegantissima, dai lineamenti molto spiccati, ma bella, dagli occhi grandi, intelligenti e dolci che troppe volte si erano incontrati con i suoi e gli erano poi rimasti parecchi giorni nel cuore. La signora era discesa con lui e nello staffiere in livrea che ne aveva preso la valigetta egli aveva riconosciuto un antico domestico di casa Scremin, passato al servizio dei Dessalle. Adesso i due grandi, intelligenti, dolci occhi gli si erano riaperti nel cuore.

“Risposta?” diss'egli, guardando ancora il poscritto. “No, adesso no.” Ma poi, quando Federico era già uscito, lo richiamò: “Aspetta, sì, c'è risposta”. E scrisse:


Signora,

Il Pomato fu veramente al servizio del marchese Scremin, mio suocero. Lo credo abile. Ho inteso dire che fa professione d'idee socialiste. Non so che gli Scremin abbiano mai sospettato della sua probità.

Con perfetto ossequio.

Devotissimo

P. Maironi


Consegnò a Federico il biglietto senza rileggerlo e congedò bruscamente il povero diavolo sbalordito: “va là! va là”, come se temesse di pentirsi ancora.




CAPITOLO SECONDO


NEL MONASTERO


I


Un servo tagliato all'antica introdusse nella sala del biliardo il signore che aveva chiesto di don Giuseppe. “Il suo nome, di grazia?” diss'egli.

“Maironi.”

Quegli andò in cerca del padrone.

L'uscio a vetri, che dalla sala del biliardo mette per cinque scalini al giardino della villa Flores, era aperto. Un languido sole d'aprile moriva sulla coperta grigia del biliardo e sul chiaro impiantito di abete. Entrava con l'aria tepida un odor lieve della pioggerellina fine fine che si vedeva tremolar nel sole, annebbiar le campagne da lontano, sotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro alla fronte dell'edificio alto e scoperto, i grandi alberi, che fanno ala quasi a un atteso corteo di principi, suggevano la pioggerellina dolce senza un bisbiglio. Così taceva la casa vuota. Lì nella sala le sedie addossate alle pareti, i pochi altri arredi simmetricamente disposti, il biliardo coperto, parevan tristi come cose morte che serbassero il ricordo della vita.

Il domestico non ritornava. Piero uscì sulla scalinata a guardar la pioggerellina muta, e un sentor debole di viole gli rese la visione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora gli riempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello di pelliccia, mostrar il busto squisito, odorante di viola, il mazzolino degli scuri fiori alla cintura. Sentì lo sguardo intelligente, che gli aveva fatto allora dolere il petto, entrargli ancora e diffonderglisi con tanta dolcezza nella persona. “Non lo trovo, signore” disse il vecchio domestico alle sue spalle. “In camera non c'è, nella chiesetta neppure. Sarà sul monte, forse.” Soggiunse che sarebbe andato a rintracciarlo. Maironi non lo permise, prese egli stesso la via dell'umile poggio che sale dietro il cortile della villa, blando verso mezzogiorno e rigato per traverso di viti a filari, cui fende una sottile processione ascendente di cipressi; erto, boscoso verso occidente, allacciato da grandi maglie bizzarre di sentieri che ne legano il rotto cadere. Per uno di quei sentieri Piero scorse calar il vecchio prete che cercava, don Giuseppe Flores, l'ultimo della sua famiglia, il solo signore della villa deserta, del poggio, dei bassi prati dove nel gran silenzio del mezzogiorno gurgugliavan tacchini, schiamazzavano anitre e oche, delle folte macchie di alberi esotici e nostrali che lì salivano i valloncelli e i dorsi del poggio fino al ciglio degli alti vigneti.

Don Giuseppe scendeva passo passo, leggendo, non curando le rade, fini goccioline di pioggia. Quando alzò gli occhi dal libro, Maironi salutò accelerando il passo. Sulle prime il vecchio prete non lo riconobbe; poi mise un “oh!” lieto, scese con vivacità giovanile, a braccia aperte, il cappello in una mano e il libro nell'altra, tutto lucente in viso di sorpresa e di piacere. Era un nobile viso dove le linee maschie delle ossa inferiori e il grande arco del naso compievano degnamente, per così dire, l'alta parola della fronte ampia, solenne; e gli occhi scuri, vivi, dolci austeramente, pronti a colorarsi di ogni baleno, di ogni fiamma, di ogni ombra dello spirito, dicevano la calda purezza interna, la soavità recondita di quella parola così maestosa.

Ora scintillavano veramente, perchè don Giuseppe aveva conosciuto in Valsolda, prima del 1859, standovi ospite di certi suoi parenti, Franco e Luisa Maironi, i genitori di Piero; e godeva sempre di veder Piero che gli ricordava quelle elette creature, quel poetico lago romito e i giorni suoi più sereni. S'incontravano di rado. Prossimo ai settanta, solo, lontano dalla città nove mesi l'anno, don Giuseppe, che aveva un tempo frequentato casa Scremin ed era stato confessore della marchesa Nene, non ci andava quasi più. S'incontrava qualche volta con Piero l'inverno al gabinetto di lettura o fuori porta, sulle vie solitarie della collina.

“Caro signor sindaco, caro signor sindaco!” esclamò tutto ridente, posando le mani affettuose alle braccia del giovane che gli stava davanti pur sorridente ma in atto di riverenza. “Che miracolo! Come mai?”

“Lei è sempre stato così buono con me, mi ha detto tante volte di venire, e oggi me ne sono rammentato, ho avuto una ragione di rammentarmene.”

“Bene bene bene” fece don Giuseppe e gli venne in mente che al Municipio volessero qualche cosa da lui, forse imporgli la soma di un ufficio pubblico. Si avviò con l'ospite verso la villa senza parlare, pensando a levarsi d'impaccio e preparando difese, vecchio e infiacchito come si sentiva. Anche Maironi camminava preoccupato e taciturno. Don Giuseppe fu il primo a sentir la molestia di quel silenzio, chiese notizia degli Scremin. Poi si fermò e guardò Piero sorridendo con certa innocente malizia.

“È vero” diss'egli, “quello che mi hanno detto del marchese?”

“Cosa?”

“Che presto sarà fatto senatore?”

Piero si strinse nelle spalle.

“Può darsi” rispose. “Non lo so. Non ne stupirei. Ma dica: io Le reco incomodo? Ella sarebbe rimasto fuori, ora?”

Don Giuseppe protestò e si confermò nell'idea che il sindaco fosse venuto per uno scopo determinato. Presso il cancello del cortile convenne ai due di arrestarsi per una torma di buoi che andavano all'abbeveratoio.

“Sudditi suoi?” fece Maironi. “Cento volte migliori di certi sudditi miei, gliel'assicuro.”

L'accento fu così amaro che don Giuseppe, stupito, esclamò:

“Dispiaceri? Ha dispiaceri al Municipio?”

“No, no, no” s'affrettò a rispondere Maironi. “Questo non importa affatto. Dicevo per dire.”

V'era dunque un'altra cosa che importava. Don Giuseppe introdusse l'ospite nella sala del biliardo e lo invitò a sedere.

“Scusi” disse Maironi, restando in piedi. “Se mi permette, Le vorrei parlare.” E poichè don Giuseppe, con un cenno di assenso, insisteva per farlo sedere lì, lo guardò un poco senza rispondere. Il vecchio prete capì. “Come vuole, come vuole” diss'egli, e accostatagli una mano al braccio, lo avviò verso l'uscio che metteva in un suo freddo e umido studiolo.

“Scusi, sa” fece Maironi sottovoce.

No, non potevano essere affari del Municipio, quella non era la solita voce di Piero Maironi.

“Qui non entra nessuno?” diss'egli.

Don Giuseppe chiuse l'uscio a chiave e rispose:

“Ecco.”

Dubitava, per certe voci, che gli Scremin fossero un po' squilibrati nelle finanze.

Una confidenza circa questo punto? O circa la infelice reclusa? Mentre fantasticava così, Piero Maironi, seduto accanto a lui sul vecchio logoro canapè rosso, stava silenzioso a capo chino. “Don Giuseppe” cominciò finalmente, e stese una mano al prete senza guardarlo, senza volgere il viso, “io sono venuto da Lei come un figlio.”

Don Giuseppe gli prese la mano, gliela strinse commosso, con un tacito moto delle labbra, con un lampo affettuoso del viso.

“Io ho per Lei la riverenza che hanno tutti; sì, sì, me lo lasci dire! Ma poi ci ho anche un'affezione particolare e Lei ne sa il perchè. Ho un bisogno immenso di Lei, adesso.”

Il viso del candido, umile prete si colorò di meraviglia.

“Bisogno di me?”

“Sì. Bisogno di Lei. Son venuto da Lei come da un padre, ma da un padre ch'è sacerdote.”

Don Giuseppe gli riprese la mano, gliela strinse ancora, senza parole.

“Non si meravigli di nulla, sa! Pensi ch'io sia il penitente e Lei il confessore. Prima di tutto Le domando questo: secondo le leggi della Chiesa, è mai possibile, in nessun caso, che un uomo coniugato, il quale ha la moglie viva ma demente da più anni, proprio affatto e senza speranza, ottenga il permesso di entrare in una corporazione religiosa?”

“Eh, no.”

Maironi tacque.

“Può ritirarsi dal mondo” s'affrettò a dire don Giuseppe, “può vivere con Dio nella solitudine, comporsi lui una regola, santificarsi.”

La fronte solenne, gli occhi gravi, la voce dolce e bassa spiravano ossequio al gran dolore, alla gran fede che apparivano congiunti nel desiderio del giovane.

Maironi rispose sottovoce: “Questo non è possibile”.

Nel silenzio che seguì lampeggiò in mente a don Giuseppe una parola dimenticata di donna Luisa Maironi Rigey, la madre di Piero. Salivano insieme, i Maironi, i Pasotti e lui a piedi, il signor Giacomo Puttini sull'asino del mugnaio, al Boglia per la via di Castello. Presso Muzzaglio don Franco Maironi era uscito a dire: “Bel posto, eh, per un monastero!”. E donna Luisa aveva mormorato: “Troppo bello per gente inutile”. N'era venuta poi una gran discussione. Adesso dopo tanti anni, cose umane! il figlio di Luisa, non ancor nato in quel tempo, sentiva il fascino del monastero.

“Ella non comprenderà” riprese Maironi, “perchè non mi sia possibile ritirarmi dal mondo senza un abito religioso, senza un voto. Questo dipende dallo stato dell'anima mia. Vede, io son venuto veramente per parlarle dell'anima mia. Immaginavo che circa l'altra cosa Ella mi avrebbe risposto come mi ha risposto. E parlarle dell'anima mia mi è tanto difficile! Non riesco a comprendere bene me stesso. Se penso una cosa di me mi vien subito in mente qualche ragione di pensarne l'opposta. Bisogna che Lei mi aiuti, don Giuseppe. Soffro, sa; e Lei ha voluto bene, non è vero, al povero papà e alla povera mamma?...”

Dicendo queste parole sorrise un poco di un sorriso tanto triste che passò il cuore a don Giuseppe. “Sì, sì” diss'egli, “tanto!” E tacque, esitando ancora a cercar consiglio e conforto per una ultima resistenza dell'umiltà sua nativa.

“Mi dica” incominciò finalmente sottovoce con un albore in volto di letizia santa: “questa idea della professione religiosa, intendo che Le è venuta dal dolore, ma quando? Come ha principiato in Lei?”

“Oh, don Giuseppe, non mi è mica venuta dal dolore.”

“No?”

Il viso di Maironi, giunto dalla tempesta interna, si scompose. La voce obbediva ancora al freno, ma tremava.

“No, don Giuseppe, sono un vile, non sento più nessun dolore per lo stato di mia moglie.”

Don Giuseppe lo guardò, sgomentato più ancora dal disordine di quel volto che dalle parole. L'altro ripetè, a stento, con soffocata voce:

“Nessuno.”

Don Giuseppe aperse le braccia.

“E allora?” diss'egli quasi severamente. Maironi scattò in piedi, andò alla finestra, vi stette un minuto voltando al prete le spalle che sussultavano. Quando ritornò al canapè il viso era ricomposto e la voce ferma.

“Bisogna che Le spieghi tutto” diss'egli. “Avrà pazienza, don Giuseppe?” Alla protesta muta del vecchio, continuò:

“Ella sa come sono entrato in casa Scremin. Sa che restai senza padre appena nato, si può dire; perchè mio padre morì a Oria delle conseguenze della sua ferita nel 1860 e io nacqui nel '59. Sa che mia madre morì, pure a Oria, due anni dopo, che mia bisnonna Maironi non volle tenermi in casa e mi affidò ai suoi parenti Scremin. Il marchese è figlio di un fratello della bisnonna. Morì presto anche lei, lasciò erede me e nominò mio tutore il marchese. Credo che sin da quel giorno gli Scremin abbiano pensato a me per la povera Elisa. Sono diventato uomo in casa loro, studiando con don Paolo, com'Ella sa, senza libertà di scegliermi degli amici, frequentando sempre la stessa gente, impregnata delle stesse idee. Io voglio ancora bene a quell'eccellente don Paolo, ma da ragazzo, poi, l'ho adorato. Quanto ho pensato allora di farmi religioso anch'io! Il solo odore d'incenso che don Paolo serbava nella tonaca quando veniva a pigliarmi, dopo le funzioni, per il passeggio, mi metteva una riverenza! E pensavo allo stato religioso come ad uno stato quasi divino. Durante le funzioni, al suono dell'organo, la mia delizia era di sognare la Tebaide o il Libano o anche spesso un monastero fantastico perduto in mezzo al mare del Nord. In pari tempo...”

Qui Piero s'interruppe.

“Mi ascolti come nel sacramento” diss'egli sottovoce. E ripigliò:

“Dunque, io che sognavo monasteri e vita religiosa, è incredibile come dai primi anni della fanciullezza, prima di possedere il senso morale, fossi soggetto ad accessi strani di sensualità; di una sensualità che la mia ignoranza, fortunatamente durata moltissimo, rendeva cieca e particolarmente tormentosa. Quando il mio senso morale si risvegliò, siccome poi religiosissimo ero già da prima, non Le so dire i miei terrori e le penitenze segrete! Allora, molto molto presto, siccome per un certo tempo dopo ch'ero andato ai Sacramenti avevo delle estasi religiose, dei rapimenti inesprimibili, dei giorni in cui l'idea della menoma impurità mi metteva schifo, cominciai a pensare sul serio che per liberarmi dalle ossessioni dello spirito immondo avrei dovuto entrare in un Ordine religioso.

Una volta fui condotto a vedere l'abbazia di Praglia, negli Euganei, che Lei conosce; dev'essere a sei o sette miglia da qui. Là, proprio nelle logge del cortile pensile, mi venne l'idea di farmi benedettino. Avevo quindici anni, allora. Ne parlai a don Paolo e don Paolo mi disse ch'ero troppo giovine per pensare a queste cose. Capii da certe vaghe parole del mio confessore che il discorso era stato riferito in famiglia, che l'avevano preso sul serio e ch'erano contrarissimi. Infatti mi mandarono a viaggiare con don Paolo, mi fecero condurre qualche volta al teatro da un amico di casa. Io avevo sempre combattimenti interni, ma duravo fermo nel mio proposito. Studiavo il latino e il greco assai volentieri ed ero contento che il mio tutore non mi facesse seguire un corso regolare di studi perchè prima ancora di pensare a farmi frate, quando mi avevano detto che gli studi regolari potevano solamente condurmi a diventare avvocato, o impiegato, o medico, o ingegnere, o professore, n'ero rimasto sorpreso e afflitto. Non mi sentivo nato ad alcuna di queste vie, avevo creduto che nel mondo ve ne fosse un'altra buona per me, mi accoravo del mio inganno come di non saper decifrare in me stesso i desideri che mi rendevano inquieto. L'idea di farmi religioso mi parve una rivelazione, mi diede un benessere profondo, per qualche tempo; vorrei dire fino a sedici anni. A sedici anni un certo senso di diventar diverso io e di veder diverse tutte le cose, certi sguardi, nuovi, di donne, certe rivelazioni del mondo e della vita mi sconvolsero l'anima. Però nelle mie agitazioni indicibili di quel tempo, anche nei momenti in cui abborrivo dalla vita religiosa, l'idea di renderla impossibile col matrimonio m'ispirava un inesplicabile terrore; proprio terrore. Intanto mi tenevo attaccato a tutte le esteriorità religiose, alla Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, al Circolo della gioventù cattolica, per istinto, perchè lì almeno c'è qualche cosa di fermo. Gli anni passavano, avrei potuto cominciare a occuparmi de' miei affari ma non ci pensavo. Capivo che il mio tutore non lo desiderava e mi era facile di compiacerlo: non ho affetto alla proprietà. Dal partito ero accarezzato molto. Lei lo sa. Mi elessero vicepresidente del Circolo. Mi affidarono dei lavori, delle traduzioni dal tedesco e dal francese di scritti cattolici, mi parlavano sempre del mio ingegno, di uffici pubblici cui sarei stato chiamato, di una grande parte che mi era serbata nell'azione cattolica, mi chiusero nella loro cerchia, mi rappresentarono corrotti e pericolosi tutti i giovani non clericali, m'insinuarono spesso idee di matrimonio con allusioni alla cuginetta ch'era in collegio. Ciò che dovevo fare per il Circolo lo facevo senz'amore. Non ho fatto con amore che una traduzione di Ketteler. Capivo che per l'idea d'una legislazione sociale cristiana avrei potuto appassionarmi, ma sentivo in pari tempo che fra i miei compagni di partito e me vi erano delle dissonanze profonde, che un'azione comune con essi, proprio ex corde, non mi sarebbe stata possibile. Mi pareva che avessero acqua nelle vene, acqua santa, se vuole, ma troppo diversa da quel sangue pieno di fuoco latente che mi sentivo io, e ricadevo in una specie di letargo, confortandomi con la speranza stupida di una potenza ignota che maturasse dentro di me.

Quanto al matrimonio incominciai a considerarne l'idea come un nuotatore stanco incomincia a pensare di abbandonarsi. Avevo ventun anni quando gli Scremin levarono di collegio l'Elisa che ne aveva diciassette. Allora ebbi un quartierino a parte, un domestico a parte. Il marchese mi dichiarò solennemente che le convenienze volevano così; tanto solennemente che mi parve quasi essere giudicato indegno di aspirare alla mano di mia cugina. In apparenza ero libero. In fatto la marchesa, con tutte le piccole buone arti che possiede, mi teneva più schiavo di prima. L'Elisa mi piaceva come persona, mi piaceva per un certo che di enigmatico nella sua stessa freddezza e severità, mi piaceva sopra tutto, credo, perchè mi ero accorto di piacere a lei. Però, siccome mi ero finalmente anche accorto delle manovre di suo padre e di sua madre, n'ero seccato e mi difendevo; perchè poi proprio innamorato non ero. In questo stato d'animo, una sera, a Venezia, io che fino a quel momento mi ero serbato materialmente puro...”

Silenzio.

“Passi, passi” mormorò don Giuseppe. Piero ripetè:

“La reazione di vergogna e di nausea fu violentissima. Allora il matrimonio con una fanciulla tanto pura e severa come mia cugina mi parve un asilo di pace. Quando la sposai mi credetti innamoratissimo di lei. Però neppure a lei ho voluto raccontare i miei propositi segreti di una volta. Solo mi ricordo che si visitò insieme Praglia, che il trovarmi nel cortile pensile con mia moglie mi fece un'impressione straordinaria e che mia moglie mi domandò e mi ridomandò se mi sentissi male. Adesso, don Giuseppe, viene qualche cosa di tanto penoso a dire! Mi pare una viltà di raccontare certe cose quando...”

Piero non potè continuare, non potè reprimere un singhiozzo violento.

“Ecco” ripigliò alfine, “dopo i primi giorni mi trovai disilluso, in certe cose, riguardo a mia moglie. Intanto, malgrado il suo affetto, aveva freddezze invincibili. Mi perdoni; a un padre devo pur dire tutto! Non mi pareva più enigmatica, mi pareva chiusa, sì, ma vuota. La portai in Valsolda per una visita ai miei morti, avrei voluto che pigliasse affetto al paese, alla casa che mi è tanto cara. Invece si mostrò gelida. Ne fui offeso amaramente. La malattia terribile incominciò con prostrazioni, terrori, presentimenti sinistri e accessi strazianti di affetto per me. Allora non Le so dire i miei rimorsi, mi sono disprezzato, odiato! Mi sono proposto di adorarla, se guariva, come una creatura del cielo. Non avrei voluto la casa di salute; cedetti perchè solo a quel patto i medici mi permettevano di sperare. Quel che ho sofferto Iddio lo sa, ma confidavo in lui, tanto! Dopo un anno vennero certe parole dubbie, scure dei medici, che prima mi avevano sempre confortato. La impressione fu terribile, ma poco a poco passò; qualche momento buono di tempo in tempo c'era e bastava per rialzarmi. Mia suocera, poveretta, aveva tanta fiducia! Nel primo tempo parlava sempre di sua figlia come se avesse a guarire l'indomani, poi non ne parlava più, ma io sapevo che faceva segretamente preparare in campagna un quartiere per lei.

Si figuri che vi faceva collocare stufe perchè fosse pronto ad accoglierla in qualunque momento, che vi andava raccogliendo certi vecchi mobili stati cari all'Elisa da ragazza. Andai avanti così un altro paio d'anni con un'altalena continua d'illusioni e di disillusioni. Finalmente vi fu un primo momento in cui, pensando a mia moglie, mi tornò in mente qualche suo atto, qualche sua parola che mi aveva fatto cattiva impressione. Mi spaventai. Possibile che il mio dolore cominciasse a venir meno? Cacciai quei ricordi come tentazioni diaboliche. Ma tornavano. Reagii quanto potei, pregai e feci pregare più di prima, esagerai nelle dimostrazioni. Non so, per esempio disposi la camera da letto e il gabinetto di toeletta di mia moglie come s'ella vi fosse ancora, con tutti i suoi ninnoli, i profumi, sino all'accappatoio sulla poltroncina. Per un po' di tempo questo mi giovava, mi ravvivava le memorie; ma poi! Vedevo la tenerezza negli occhi de' miei suoceri, vedevo la pietà negli occhi dei miei conoscenti. Era una cosa terribile perchè non soffrivo più, non amavo più, mi sentivo, con orrore, un ipocrita. Non basta; prima non avrei guardato una donna in viso due volte, per la sua bellezza. Poi...”

Il giovane si coperse gli occhi con le mani ripetendo che voleva dire tutto, tutto! Scopertosi il viso continuò:

“Un giorno, proprio ritornando dal luogo dov'è mia moglie, m'incontrai nel treno con una signora giovine e bella che certo mi conosceva perchè mi avvidi subito che mi guardava con curiosità e interesse. Quella è la prima persona che ha sospettato il vero de' miei sentimenti perchè mi parve leggerle in viso, dopo averla guardata due o tre volte, una sorpresa, una specie di sorriso interno; capisce? Per molto tempo non mi potei levare quegli occhi dalla memoria. M'infervorai sempre più nelle pratiche ascetiche, pregai Dio che mi aiutasse e mi parve infatti di aver dimenticato.”

Tutto quest'ultimo racconto Maironi lo fece ansando, con voce rotta dallo sforzo di strapparsi dall'anima cose tanto compresse nell'interno di lei. Don Giuseppe lo ascoltava triste, senza guardarlo, con l'aria rassegnata di uno che non si meraviglia più, che sa di aver ad ascoltare la solita, eterna, uniforme storia. Piero prosegui:

“Il fervore ascetico durò poco. Qui devo anche dire che non sotto il colpo della mia sventura ma più tardi, quando il dolore diminuiva, proprio quando mi davo più che mai alle pratiche religiose, cominciarono a venirmi dei pensieri strani, novissimi per me, dei dubbi circa la fede, fulminei, che mi scuotevano e che io cacciavo restandone tutto tremante. Una sera la cameriera di mia suocera, giovane, graziosa, venne da me con un pretesto. Mi contenni, il mio viso, le mie parole furono di ghiaccio ed ella se ne andò, ma vi ebbe poi un momento in cui mi domandai perchè se Dio voleva proprio un simile tormento delle sue creature non le aiutasse di più! Perchè mi facesse incontrare quella signora nel treno e quella ragazza in casa di mia suocera! Mi venivano impeti di ribellione, una domanda insistente, acre, mi martellava il cervello: e se Dio non ci fosse? E se Dio non ci fosse? Se tutta la mia fede fosse un tessuto di illusioni? Se io fossi uno schiavo di pregiudizi altrui, d'idee cacciatemi nella testa quando non potevo pensare? Se io fossi in fatto di religione una miserabile scimmia della gente che ho sempre veduto intorno a me? Oh, don Giuseppe, don Giuseppe, mi salvi Lei!”

Il giovine gettò le braccia al collo del vecchio prete singhiozzando.

Don Giuseppe corrispose all'abbraccio, sussurrò con dolcezza: “Sì, sì caro, io no ma il Signore La salverà. Sì, confidi, confidi!”.

Il servitore bussò e annunciò il caffè. Don Giuseppe credette bene di aprirgli. Maironi riprese l'impero di se stesso, e quando il domestico se ne fu andato continuò il suo racconto.

“Proprio quella notte mi decisi di accettare l'ufficio di sindaco. Vi ripugnavo moltissimo, prima. Ogni volta che ho pensato, dopo la mia sventura, a occupare in qualche modo stabile la mia vita così vuota, a legarmi in qualche modo, mi arrestò sempre uno sgomento istintivo. Sempre mi veniva in mente di essere destinato da Dio a qualche cosa ch'Egli non mi rivelava ancora, sempre mi pareva di far male se pigliavo un'altra via. Quella notte pensai che fosse bene di costringermi a tanti pensieri nuovi, a tante preoccupazioni nuove, a lavorare assai, a occuparmi degli altri più che di me. Guardi, mi decido e poco dopo ecco un biglietto di quella signora incontrata in ferrovia, che mi domanda certe informazioni e mi fa capire, non proprio chiaramente, ma copertamente, che gradirebbe una mia visita. Ebbi come un'ondata di amarezza per questa tentazione che Iddio mi mandava appena compiuto un sacrificio grande per serbarmi fedele alla sua legge. Presi la penna e spedii sull'atto alla signora le informazioni richieste, togliendo ogni ragione di visita. Poi mi diedi tutto alla preparazione che mi era necessaria prima di assumere l'ufficio di sindaco. Mio Dio, don Giuseppe, è passato un anno e sto ancora tanto male; se c'è per me una via di salute, non è che questa: uscire dal mondo!”

Il giovine tacque. Poi afferrò un braccio al prete, glielo strinse in uno spasimo di passione: “Don Giuseppe, don Giuseppe, pensi, pensi se proprio non è possibile! Un romitaggio libero non fa per me. Ho bisogno contro me stesso di un carcere, di quattro pareti sepolcrali, dure, fredde, mute, e in questo momento sono ancora pronto, andrei con gioia, domani non so! La supplico nel nome del mio povero papà, della mia povera mamma che Lei ricorda tanto. La scongiuro!”

Fece l'atto, così dicendo, di buttarsi ginocchioni. Don Giuseppe lo abbracciò di slancio, lo trattenne. La gran fronte maestosa irradiava tenerezza e dolore, gli occhi erano velati, la voce gli moriva in un movimento muto, incomposto, del viso inferiore.

“No” diss'egli a stento, dopo una lunga pausa, “la cella no, adesso la cella non farebbe per Lei.”

“Perchè? Perchè?”

Il vecchio lo guardò un poco e sussurrò tristemente:

“Perchè tutte le Sue tentazioni vi entrerebbero con Lei, perchè il mondo è ancora troppo radicato nel Suo cuore e credendo di fuggirlo Ella lo porterebbe con sè.”

“Ma forse Iddio mi aiuterebbe di più.”

Don Giuseppe sospirò come chi si duole di non essere creduto.

“Di questo parleremo” diss'egli. “Intanto mi spieghi perchè sta così male, ora.”

“Ecco: perchè, prima di tutto, la mia fede va molto peggio. Le ho parlato di dubbi, poco fa. Glielo dico subito, i miei sono sopra tutto dubbi di sentimento, dubbi d'istinto, e in fondo, lo capisco bene, vengono da un insieme di impressioni piuttosto che dal raziocinio.

Fin da quando ero tentato nei sensi ed ero tentato di accusar Dio che m'imponeva una legge terribile, una legge contro la natura del mio corpo e non mi aiutava a obbedire, sin d'allora, questa è una coincidenza che forse mi condanna ma insomma è la verità, io cominciai a sentire fastidio di quella specie di religione che vedevo intorno a me; fastidio degli scrupoli di mio suocero che parla sempre di umiltà cristiana, che piega il ginocchio davanti al Vescovo e farebbe a quattro gambe gli scalini di tutti i ministeri per esser nominato senatore; fastidio persino qualche volta delle pratiche devote di mia suocera che con tutta la sua santità e bontà suggerisce al marito grettezze, in materie d'affari, dell'altro mondo; fastidio di certe persone pie che venivano a seccarsi ogni sera in casa Scremin per mangiarvi a due palmenti una volta la settimana; fastidio di tante altre pie persone o avare o malediche, piene di livore contro tutto e tutti o feroci contro le povere creature che hanno ceduto a una passione illecita; fastidio di certi formalismi farisaici, di certe idolatrie superstiziose, di certi incensi pagani profusi a uomini. Li cacciavo allora, questi fastidi, come tentazioni contro la carità e l'umiltà. Ah, don Giuseppe, quanto sono cresciuti dopo un anno che sto in mezzo, come sindaco, alla parte attiva e politicante di un partito il quale diffida già di me perchè indovina qualche cosa del mio interno! Non Le dico tutte le meschinità, tutte le piccole ambizioni, tutti i piccoli rancori che fermentano intorno a me! Non immagini, sa, che io ammiri gli altri, quelli che mi trovo a fronte più spesso nel Consiglio comunale, gente pronta sempre a bravate contro persone che non schiaffeggiano nè si battono, gente prodiga di frasi sentimentali e avara di quattrini, gente che ha paura dell'acqua santa quando vive e del diavolo quando muore, sempre a cavallo su Roma e la monarchia liberale, di cui giurerei che almeno a tre su quattro di loro non importa niente! Non li ammiro, ma quelli non si fanno avanti nel nome di Dio! Di essi non mi curo. Ecco invece il mio pensiero terribile: come mai è quest'altra gente gretta, questa gente piccina, questa gente maligna, questa gente sciocca che possiede, proprio lei sola, la verità, il segreto di tutto l'Essere, il segreto dell'anima umana, il segreto della nostra sorte futura? Per un pezzo mi sono rifugiato nelle ragioni di credere che avevo nel mio proprio cervello, nel mio proprio cuore; adesso non mi sento più sicuro neppure lì. Mi risponda: posso io dire che la mia fede venga proprio, originariamente, dal raziocinio mio, dal sentimento mio? Posso io dire che non vi è stata seminata e coltivata dai miei educatori? Posso io dire - mi perdoni, don Giuseppe! - ch'essi non mi abbiano storpiato il cervello e il cuore per farne dei vasi di questa loro cultura artificiale, così che in fin dei conti è forse la loro fede e non la mia che vive in me, perchè io non ho mai avuto la libertà di credere o di non credere e vado acquistandola solamente adesso? La loro fede! Forse la fede che anche ad essi quand'erano teneri fu cacciata nell'intelletto per forza, storpiandolo! Capisce che dubbio spaventoso! E` anche per questo che vorrei seppellirmi in un convento di Trappisti, fra uomini religiosi che non abbiano tenuto niente per sè, che abbiano dato a Dio tutto, che dovrei quindi ammirare, fra uomini che avranno presa la fede anche dai loro educatori, ma che però l'hanno grandemente accresciuta in sè, per forza propria.

Non si può, don Giuseppe, non si può?”

“Ma no!” fece don Giuseppe, quasi bruscamente. Il viso era freddo e grave; era il viso di un medico che uditi i lamenti del suo infermo poco se n'è commosso, ma poi, ascoltatone il cuore, vi ha udito nel profondo il passo zoppicante della Morte. Credette che Maironi avesse finito e come cercando il suo esordio, con parlante moto inquieto di tutti i muscoli del viso e delle mani raccolte davanti al petto, incominciò:

“Ecco.”

Maironi sussurrò angosciosamente, in fretta:

“Non ho finito, don Giuseppe, non ho finito.”

“Ah, bene bene, dica.”

L'altro non parlò subito. Era venuto il momento delle parole più difficili, forse. Gli facevano groppo alla gola, non venivano.

“Se crede bene di parlare” disse don Giuseppe dolcemente, “si faccia coraggio.”

“Sì, caro don Giuseppe, mi farò coraggio. Lei ricorda che Le ho parlato di una signora? Di una signora che incontrai un giorno in ferrovia, e che poi mi scrisse un biglietto al quale risposi in iscritto per togliermi alla tentazione di andare da lei? Bene...”

“Ah!” fece don Giuseppe, sottovoce, involontariamente.

“Aspetti!” esclamò il giovine. “Forse Lei pensa cose peggiori di quelle che adesso Le dirò. Senta, non so perchè farei misteri con Lei in un momento come questo. La signora è la Dessalle di villa Diedo. Ne avrà sentito parlare. Male? Molto male?”

“Ecco, sì, non tanto bene” rispose don Giuseppe imbarazzato, masticando le parole: “non tanto bene. Però mi parve che in fin dei conti se ne parlasse vagamente, che fossero dicerie, supposizioni...”

Qui, nel voler intravvedere la possibile falsità della maldicenza, i begli occhi del vecchio diedero un lume lieto. Maironi, alla vista di quel lume benevolo, al pensiero che don Giuseppe fosse mitemente disposto verso la persona di cui gli stava parlando come di un pericolo, riprese e strinse la mano del vecchio, lo interrogò con lo sguardo, inconsciamente, quasi sperando una parola indulgente al suo sentimento. Don Giuseppe non capì.

“Cosa?” diss'egli.

La benigna luce era già sparita dagli occhi suoi. Maironi riprese triste:

“Niente. Cosa dicevo? Credo che l'abbiano calunniata e che se in principio si son raccontate delle storie odiose, adesso non se ne raccontino più. La credo pura. Lei sa ch'è divisa dal marito? Ha chiesto la separazione, perchè suo marito si ubbriacava e la batteva. Pura per fierezza, sa, per orgoglio, forse anche per disgusto e per un sentimento morale forte; per sentimento religioso, no. Dio mio, e adesso come Le posso raccontare ciò che vi è stato fra lei e me se di atti non c'è stato niente, se dovrei raccontare dei movimenti d'anima che sono in me, che sento in lei, che vogliono dire tutto? Si, vedo anche nell'anima sua, perchè è molto appassionata e si tradisce molto persino quando si difende contro se stessa, quando lotta, forse per orgoglio, contro la sua inclinazione ed è aggressiva con me. Ho capito che la prima impressione risale per lei come per me all'incontro in ferrovia. La prima volta mi portò da lei il consigliere delegato Bassanelli, amico di casa Dessalle, compagno d'armi di mio padre, che zoppica per una ferita riportata a Palestro.

Bassanelli voleva mostrarmi la stradicciuola comunale che conduce a villa Diedo, e che il Municipio dovrebbe riattare. Abbiamo incontrato il signor Dessalle e bisognò entrare nella villa. Me ne venni via solo. Lei conosce villa Diedo, naturalmente? L'avrà visitata per i Tiepolo, almeno. Nell'uscire per la terrazza di ponente, fra quell'ondeggiar di rose sulle balaustrate, nello scender la gradinata in faccia a uno splendore di tramonto, io avevo addosso, direi, la ubbriacatura di un sogno strano, e avevo insieme un dolore muto, fisso, proprio nel centro del mio essere. Avevo inteso che la signora voleva farsi amare da me, mi sentivo attratto non per i sensi che tacevano, non per l'anima che aveva paura, ma per una specie di fascino magnetico. Ora, e questo non l'ho capito, non lo capirò mai se Lei non mi aiuta, l'idea di un legame spirituale, anche solo spirituale, con la signora mi atterriva molto più che l'idea di un vero e proprio peccato con la prima disgraziata che passa. Ritornai a villa Diedo molte volte e, per un pezzo, riluttante, tratto, non so, dal magnetismo. Ci stavo come uno che fosse innamorato e non credevo di esserlo; non potevo a meno di guardarla spesso, non potevo a meno di parlarle, quando eravamo soli, come uno che l'amasse e volesse contenersi. Intanto, devo pur dirlo, le altre mie tentazioni mi davano tregua. Forse per questo il mio confessore mi citò un passo dell'Imitazione, che dice presso a poco “non ogni affezione che pare non buona deve subito sfuggirsi” e non mi ordinò di troncare. E` un sant'uomo, ma, peccati a parte, certe cose non le può intendere. Dirgliele sarebbe peggio che inutile. Ora in quest'ultimo tempo, proprio in questi ultimi giorni, c'è stato un cambiamento. Sento, vedo, intendo che dall'altra parte, se prima c'era capriccio, adesso c'è passione, una passione che non dissimula quasi più. Ieri proprio me l'ha confessata quasi del tutto apertamente. E da tre giorni temo che la passione vera stia entrando anche in me, lo stesso mio senso morale, a momenti, si oscura. Mi pare, a momenti, che in presenza dell'amore ogni restrizione morale cessi di diritto, resti abolita, che l'amore li abbia tutti, i diritti. Non li accetto ancora questi pensieri, mi fanno ancora orrore, li mando via, mi dico che se sarei capace di consentirvi con la immaginazione non sarei però capace di consentirvi col fatto; e c'è anche in me, ogni tanto, una reazione forte di tutte le resistenze buone, una reazione di fede, di slanci mistici, persino di tenerezza per la mia povera moglie, per la memoria di mio padre e di mia madre. Il bene e il male si alternano dentro di me con una violenza che non posso più sopportare. Vuole che glielo dica? Io non ho un po' di tranquillità, un po' di riposo se non quando sto con questa signora. La presenza sua mi riposa invece di eccitarmi. Dopo è peggio, questo sì. Non so neppure come posso attendere al mio ufficio. Già la gente si deve accorgere di qualche cosa, non è possibile! Stanotte non potevo dormire, avevo un'ora buona, pregai e piansi tanto, mi venne in mente quest'idea di uscire dal mondo, mi parve che il Signore mi suggerisse di venire da Lei e...”

Violenti singhiozzi senza lacrime gli ruppero la parola. Don Giuseppe gli pose una mano sul capo dolcemente.

“No” diss'egli “no, caro. Perchè? Dolore sì, terrore no. Lei sta in mezzo alle onde e alla tempesta, ma nella navicella vi è Cristo, sa; Cristo che dorme”.

“Mi parli, mi parli” mormorò Maironi. Gli s'inginocchiò ai piedi e il prete non lo impedì.

“Sì, caro, sì. Prima di tutto non abbia tanta paura delle Sue tentazioni! Non si creda tentato molto più di tanti altri che a Lei parranno sicuri del male, tutti di Dio. Le Sue tentazioni contro la fede, intanto, per poco che Lei resista, non mi paiono temibili. Se non ci fossero state le tentazioni del senso, così forti, e, posta la fralezza umana, così prevedibili, le altre probabilmente neppure sarebbero venute. Perchè fu tentato contro la fede? Perchè Le è parso che Dio non L'aiutasse a sostener la sua legge severa, perchè ha temuto che la Sua fede Le fosse stata imposta, perchè ha visto intorno a Sé molti cattolici di mente ristretta e che non Le paiono conformarsi all'ideale evangelico. Veda un poco quanto piccole sono queste difficoltà! Iddio non L'aiuta! Come non L'aiuta? Permette che Ella sia tentato, ma poi quando Lei combatteva, come mi ha detto, quando vinceva, come mi ha detto, chi Le spirava la forza buona? Non sa che nemo potest esse continens nisi Deus det? Dio opera nascostamente, noi non possiamo avere il senso di quello ch'Egli fa in noi e fuori di noi, ma certo neppure possiamo vincere la carne senza il suo aiuto. Se una volta permise che cadesse, L'ha poi rialzato subito. La fede imposta? Sarà vero, se vuole, fino a un certo punto; ma Le par questa una buona ragione di rigettarla? Rigetterebbe Lei le nozioni di scienza che Le hanno impresso nell'intelletto quando era fanciullo, perchè non Le furono dimostrate? Non è invece questo un altro stimolo, se mai, a considerare, a meditare i fondamenti razionali della nostra fede, che sono magnifici, a compiere un dovere del cristiano intelligente e colto, un dovere troppo poco inteso, troppo poco praticato, il dovere di elevare il Suo concetto della verità cattolica sopra il concetto popolare e infantile, di formarsene uno adeguato alle facoltà che Iddio dona per il fine ultimo di essere conosciuto e glorificato? E quanto al disgusto che Le viene dalle persone..., si alzi, sieda qui,... proprio, è un argomento misero! Poniamo che questa gente sia come Lei dice, io non la giudico; forse le intenzioni sono migliori delle opere. Vorrei solo affermare che Sua suocera potrà forse avere qualche piccola debolezza, non lo so, ma è un'anima cristiana grande. Lasciamo pure. Per Lei, i Suoi suoceri, i loro amici, i Suoi colleghi, metta pure un altro centinaio di persone che pratica, sono dunque la Chiesa cattolica di tutti i luoghi e di tutti i tempi? Non ha dato la Chiesa cattolica una folla di uomini santi e di uomini grandi che hanno avuto un adeguato concetto della verità religiosa e del modo migliore di praticarla? E non ha trovato mai, Lei, grandezza morale in persone umili che non sanno niente di partiti e professano con ardore la religione cattolica? Mi pare impossibile! Lei non se ne accorge, ma è la passione che non Le lascia veder giusto.

Guardi, io potrei anche ammettere degli apostoli che sorgessero a predicare una elevazione dello spirito cristiano nella Chiesa, ma uscirne perchè oggi nella sua parte umana essa non risponde all'ideale che ne abbiamo? Allora, se siamo patrioti, andiamo in esilio! Eh?”

Così parlando il vecchio prete guardava Piero con tutta l'anima sua calda negli occhi santi, pieni di richiamo alla ragione. Attese la risposta a bocca socchiusa, porgendosi ancora tutto incontro all'altro, parlandogli ancora con gli occhi accesi e col viso.

“Mi perdoni” rispose il giovine accorato. “Forse vi è un'altra ragione de' miei dubbi, più recondita, e io non la so.”

Don Giuseppe sospirò.

“Senta” diss'egli dopo un breve silenzio. “Mentre Lei mi parlava della persona che l'attrae, io pensavo una cosa. Se l'esperimento di vita pubblica Le è riuscito male, perchè non troncarlo? Se non è contento de' Suoi colleghi, perchè restare al Municipio? E uscendo bruscamente dal Municipio, vorrebbe restare in città, subire il fastidio delle pressioni, degli interrogatori, delle chiacchiere infinite che si farebbero sul conto Suo? Perchè non andrebbe a stare un anno o due nella casa di Suo padre e di Sua madre? Mi pare che quel soggiorno avrebbe grandi vantaggi per Lei. E` anche un paesaggio spirituale, pieno di raccoglimento, che so, di dolcezza casta.”

“E allora...” fece Maironi, piano. L'altra parola gli morì nella gola. Perchè dirla? Neppure don Giuseppe l'aveva pronunciata e tutto il suo discorso del Municipio, della città, della Valsolda non significava che quella parola: rompere.

“Lei era pur disposto” riprese don Giuseppe vedendolo esitare “a entrare in un convento?”

Maironi si volse lentamente a lui con le braccia aperte, lo abbracciò e appoggiandogli il viso a una spalla mormorò:

“Uscir dal mondo sarebbe più facile.”

Allora il vecchio lo cinse alla sua volta d'un braccio, gli parlò sui capelli, gravemente. Le parole pie avevano una sonorità velata, così profonda, così dolce!

“Caro, bisogna restar nel mondo e bisogna uscirne. Bisogna che la Sua cella sia nel Suo cuore, nel più interno del Suo cuore. Sì, caro, pianga di dolore, ma pianga pure di tenerezza. Vi è Qualcuno che gliela prepara, in questo momento, la cella, che vi si dispone ad aspettarLa, che Le dice di venire a Lui, di abbandonargli il capo in seno perchè ha tanta pietà di Lei, perchè vuol perdonarle tutto, tutto, tutto. Entri, entri, non resista. Dice che si sente tanto male? Sì, perchè guarda le cose del mondo a cui è legato e anche in esse vi è Gesù, ma vi è Gesù severo, Gesù triste, e niente fa dolere il cuore come lo sguardo severo e triste di Gesù. E` un prezioso dono l'amarezza del Suo cuore, sa! Come vivrebbe in un tal tormento, come non si volgerebbe da Gesù severo a Gesù amoroso? E` un prezioso dono e le Sue tentazioni, se proprio sono tanto più fiere delle comuni, dànno segno di cose grandi a cui è chiamato dal Signore. Le dico questo secondo la parola di un arcangelo, una delle parole più profonde che ci siano pervenute dal mondo angelico.

Lei dice che le tentazioni di sensualità sono diminuite e che non comprende come il pericolo di legarsi a quella signora con l'anima La sgomenti più del pericolo di una caduta puramente sensuale. Il Suo terrore è giusto perchè la viltà stessa del peccato semplicemente sensuale prima è un ritegno e dopo genera quell'impulso di dolore e di sdegno che rialza rapidamente. Invece il legame creduto solo d'anima conduce, a poco a poco, quando c'è l'occasione, a certe familiarità che vanno diventando più e più sensuali e preparano una sovreccitazione del corpo che si unisce alla sovreccitazione dello spirito. Allora, in questo naturale accordo del corpo e dello spirito, il peccato pare meno vile, meno deformatore della natura umana e non genera odio e schifo dell'altra persona come nel primo caso, genera invece una più stretta unione nel male, unione superba e cieca, contenta di sè fino a che, per suo castigo, e spirito e corpo non si raffreddino. Ringrazi Dio che L'ammonisce del pericolo da Lei non veduto con un orrore da Lei non compreso. Non indugi, cessi di vedere quella signora e, senza timore dei suoi dubbi circa la Fede, si chiuda nelle braccia di Gesù. Poi, quanto a rimanere o partire, io non Le voglio più dare consigli. Io La vedo già fra quelle braccia, su quel petto, e sento che debbo solamente dirle, poichè sono qui un amico e non altro: interroghi Lui, ascolti Lui. Allora, quando dirà i Suoi desideri a Gesù, si ricordi anche, per l'ultima cosa, di questo vecchio prete tanto impedito ancora nello spirito da un miserabile corpo che decade sempre e non si dissolve mai. Ha inteso, caro?”

Maironi non rispondeva, baciava l'abito dell'uomo santo, piangendo. E l'uomo santo chinò il viso, gli posò lievemente le labbra sui capelli, guardando pur sempre con occhi riverenti nell'alto, nell'Invisibile.


Non pioveva più, blandi chiarori di sole mal nascosto nelle nuvole giallognole ravvivavano il giardino sonnolento, lucevano sulla umida gradinata della villa, dove don Giuseppe stava mostrando a Maironi con un sorriso triste la scena dei piani sfumanti di qua sino ai grandi coni azzurrognoli degli Euganei, di là sino alla sottile parete soleggiata dei Berici, e il giardino da lui pensato, disegnato, gittato sul rustico piano e sul colle selvaggio, abbellito via via, d'anno in anno, vagheggiato nel suo futuro fiore non per sè, ma per dilette anime partite dalla terra, contro l'antivedere umano, prima di lui.

“Ecco” diss'egli accennando con una mano agli Euganei, “Praglia è là.”

Per venire da don Giuseppe, Maironi aveva detto in casa che si pigliava un giorno di riposo e che desiderava rivedere l'abbazia benedettina di Praglia. Adesso aveva poca voglia di andarci. Don Giuseppe lo incoraggiò. Era così magnificamente triste, l'antico monastero! Era così propizio, nella sua maestà cinta di solitudine, ai pensieri di cui Maironi aveva maggior bisogno! Il vecchio si animava tutto in viso parlando dei cortili eleganti e severi, della Crocifissione di Bartolomeo Montagna che stava nel refettorio e anche dell'indegno abbandono in cui l'insigne monumento era lasciato dal Governo, degli strazî maggiori che si temevano allora e che furono compiuti più tardi: assassinio vile di un vecchio glorioso, delitto consumato nel silenzio, col favore della solitudine.

Maironi, distratto, lo ascoltava male. Pensava all'altra solitudine lontana della Valsolda. Proprio il giorno prima gli avevano scritto di là che il mandarino del giardinetto pensile era uscito malconcio assai dall'invernata dura, che l'antica passiflora della terrazza era morta, che occorrevano riparazioni al tetto della sala e alle palizzate delle fondamenta nel lago, e che si sperava in una prossima visita del padrone. Mentre don Giuseppe gli parlava del doloroso abbandono in cui giaceva Praglia, egli aveva in mente la casetta deserta dov'erano morti suo padre e sua madre e dov'egli non faceva che due apparizioni l'anno: il giorno dei morti e nel maggio per provvedere il giardinetto di fiori. Il prete sentì di non essere ascoltato e tacque. Poi, come cercando i pensieri dell'ospite in argomenti più vicini a lui, gli parlò di una visita che la marchesa Nene gli aveva fatta l'anno prima.

“Desiderava una Messa per la Sua signora, qui nella cappella dove la Sua signora è stata da bambina e si è tanto divertita a tirare i mantici dell'organo. Mi chiese pure certi aranci dell'aranciera, molto acerbi, per verità, ma che insomma la Sua signora aveva gustati quella volta e che aveva ricordati poi spesso. E desiderò, poveretta, che io unissi agli aranci una parola mia.” Qui don Giuseppe ebbe un sorriso di commiserazione triste, come per dire: si figuri cosa può valere una parola mia!

“Adesso gliela mando con gli aranci” disse. “Mi ha veramente ispirato riverenza, povera marchesa. Lei sa che di solito esprime poco i proprî sentimenti, non dice mai cose accentuate. Bene, qui, proprio qui dove siamo adesso, ricordo queste sue parole dette senza lagrime, sa, senza troppa commozione: "Don Giuseppe, dica al Signore che non ne posso più'.”

Era infatti, a pensare la maschera di calma che sempre la vecchia signora portava davanti ai suoi e al mondo, una parola tragica. Maironi, quantunque avesse più volte intravvedute le profondità segrete di quell'anima, ne fu colpito come da un rimprovero, sentì la inferiorità morale della propria natura obliosa, piena di concupiscenze. Gli balenò insieme il dubbio di una impotenza della volontà contro questa disposizione fatale, imperante, dell'essere suo, il cuore gli si sollevò in un amaro “perchè” e subito si raumiliò per la riverenza dell'alto spirito vicino.

“Don Giuseppe” diss'egli quando il domestico lo ebbe avvertito che la carrozzella era pronta, “crede proprio che il Signore vorrà aiutarmi?”

“Ma sì, purchè non ne dubiti.”

Sul sedile della carrozzella era stato posato un panierino di aranci. Maironi si volse a don Giuseppe. “Son di quelli che Lei sa” disse don Giuseppe umilmente, come scusandosi. Il giovane gli strinse forte le mani e non potè proferir parola. Potè appena, quando la carrozzella partì, levarsi il cappello, rispondere così al saluto, pur silenzioso e commosso, del vecchio prete.



II


La carrozzella seguì l'unghia, in principio, di umili collinette, passò un villaggio, un fiume, altri villaggi, corse una tortuosa stradicciuola vagabonda nel piano sino agli avamposti degli Euganei, piegò per il viale maestoso di platani che ne rade a settentrione il fianco deserto.

Dove questo svolta a guardar il levante e si allontana verso mezzodì, si parte dalla via maestra e lo segue uno stradone che mette capo dopo cinque minuti alla fosca cintura del grande monastero abbandonato, alla torre merlata, al bel tempio possente del Quattrocento, assiso sur un enorme dado di pietre nere, onde irrompe qua e là, congiurata con le ribellioni del pensiero, la ribellione dell'erba viva. Maironi fece l'intero viaggio senza guardar mai nè a destra nè a sinistra, assorto nel suo dramma interno, nelle visioni di villa Diedo, nel fantasma della Valsolda. Anche lo molestavano di tempo in tempo i richiami di tanti affari pubblici gravi, urgenti, che aveva per le mani, benchè non volesse dar loro ascolto. In fondo il colloquio con don Giuseppe gli aveva lasciato nell'anima gratitudine, riverenza nuova, tenerezza intensa per il santo vecchio e con questo una mistura di delusione, non avvertita in principio, manifestatasi poi a misura che ne veniva meditando le parole disgiunte dal suono dolce e grave della voce, dall'aspetto del viso pio, dall'aura dello spirito immacolato. Sospettava, in fondo, di non essere stato compreso nè conosciuto bene, sospettava che il consiglio di fuggire in una solitudine e di viverci partisse da un concetto inesatto della sua natura e fosse stato suggerito dal desiderio di sostituire al monastero, impossibile, uno stato simile allo stato monastico. Ora egli aveva sognato i sacrifici, le aspre penitenze; si sgomentava della vita inerte in una casa piacevole. Ah però, se Iddio lo aiutasse! Se la coincidenza strana del consiglio di don Giuseppe con la lettera di Valsolda significasse un disegno della Provvidenza! Quando si vide a fronte la fosca cintura e la torre merlata di Praglia pensò che forse, chi sa, nel silenzio dell'antico monastero la voce divina gli si farebbe udire. Lo urtò improvvisamente fuori de' suoi pensieri un fracasso di cavalli al gran trotto e di ruote sulla ghiaia. Una victoria che veniva dal monastero gli passò accanto, una voce nota gridò: “Maironi, Maironi! Ferma, ferma!”. La carrozzella si fermò, un giovanotto elegante, saltato dalla victoria, corse allo sportello. “Finalmente” diss'egli con uno spiccato accento toscano. “Vede, signor sindaco, che improvvisata! Si è saputo che il nostro signore e padrone veniva a Praglia e noi che siamo i fedeli tra i fedeli, dietro! Ma si credeva di trovarlo qui ed eravamo un poco puzzled. Jeanne è al monastero. Io vado a occuparmi dell'igiene delle mie bestie, e ritorno subito. Mi dica un po': Lei non ha ombrello e tiene anche abbassato il mantice della carrozza. Si piglierà un malanno con questa pioggerella fredda che in aprile dev'essere poi anche infetta di fermenti, credo!”

Maironi non s'era accorto affatto della pioggia. Al vedere Carlino Dessalle, sentì, prima di udirlo, che sua sorella era a Praglia, ch'era venuta per lui, che tornar indietro era impossibile.

Una fiamma gli divampò in cuore. Così, così Dio lo aiutava? Non era un irridere lui che si era proposto d'interrogare la volontà nella pace del monastero e anche un irridere al suo ministro, povero santo vecchio, che lo aveva consigliato di venirci? Impose silenzio alla ribellione interna, con impeto, salutò Dessalle non senza imbarazzo. Partito Dessalle, ordinò al vetturino di andare al passo. Dio, come comportarsi nel primo incontro! Lasciar comprendere lo stato dell'animo suo, la risoluzione di allontanarsi, o coprirla, dissimulare? Sì, sì, dissimulare. Ma troppo no, sarebbe un tradimento! Restar poco? Un pretesto, un pretesto di restar poco! Dio, quale? Gli zoccoli del cavallo suonarono sulle pietre della soglia, Maironi si compose, palpitante, un viso freddo, la carrozzella entrò nel portico del cortile rustico.


Lì non c'era nessuno. Piero stette un pezzo a guardar il tremolare della pioggia fitta e minuta fuori del portico, sull'erba folta, sul pozzo elegante del Cinquecento, sull'alto fianco del monastero imminente a sinistra con le sue piccole finestre archiacute, con i finestroni dello scalone interno del Settecento, con gli archettini trilobati delle cornici di terracotta. Stette a guardare, a origliare. Nessun passo, nessuna voce. Richiamò al cuore tutti i suoi propositi buoni e si avviò a sinistra verso una porta socchiusa. L'aperse, ebbe una visione di svelte arcate, il senso di un pio, ammonitore pensiero antico, di una severa bellezza casta. Entrò e nulla più vide, nulla più sentì di quel gentile Quattrocento. A dieci passi da lui, la signora Dessalle, stretta in un lungo mantello verde scuro, foderato di pelliccia, in un collare di skunk, col bavero rialzato intorno al viso pallido, lo guardava immobile.

Ella lo guardava con lo stesso sguardo serio che gli aveva fermato in viso nel treno, dopo molti altri sguardi fugaci, dopo un batter incerto delle palpebre, un'apparente lotta con se stessa. I grandi occhi di lei, dama in ogni movimento dell'alta e fine persona, in ogni linea della toeletta ricca e severa, lo avevano allora fatto palpitare con la loro fissa profondità, dove oscura passione e oscura ironia componevano un indistinto colore di maturità voluttuosa. Ella li aveva ritolti per la prima da quelli del giovane. Apertasi quindi il lungo mantello verde scuro foderato di pelliccia con un atto lento, negligente delle mani, guardando il finestrino, aveva lasciato intravvedere lo squisito disegno del busto. La figura e le movenze erano così nobilmente signorili, il viso così serio, che il solo dubbio d'una pensata cagione di quell'atto aveva dato a Maironi il più mordente piacere. I begli occhi, ripresi da inquietudine, dopo guardato a caso qua e là, si eran fermati ancora nei suoi, gli avean fatto doler di dolcezza tutta la persona. E adesso, dopo alquanti mesi di familiarità, ella lo guardava con lo stesso sguardo, muta, immobile, stretta nello stesso mantello, nel collare di skunk, col bavero rialzato intorno al viso pallido e serio. I begli occhi bruni dicevano: "Eccomi, son venuta per Lei, ho fatto male? Aspetto una parola'.

Il giovane salutò sorridendo con un sorriso forzato e le stese la mano ch'ella non prese.

“Lei desiderava di star solo, qui? Debbo andar via?” diss'ella con la sua bella voce rapida, col suo purissimo accento. E lentamente, quasi timidamente, una mano inguantata di bianco uscì dal mantello dischiuso, mentre lo sguardo fisso cercava la risposta in fondo agli occhi di lui.

Maironi strinse la mano che si offriva, disse un “grazie” inteso a evitar una risposta diretta senza scortesia: caldo, perciò. E subito, al sorriso felice di lei, n'ebbe una stretta di rimorso.

“Le piace la mia toilette?” diss'ella. “La ricorda?” E sorridendo ancora dischiuse un poco il mantello, mostrò lo squisito disegno del busto.

Egli impallidì e rispose freddo che la ricordava.

“Lo so, che la ricorda. Sono anche freddolosa, ma l'ho messa per questo. Dica, forse non Le sono mai tanto piaciuta, dopo, come quel giorno, nel treno.”

“Sa” diss'egli scherzando, “quando viaggio ho il cuore molto sensibile.”

La giovane signora aggrottò le sopracciglia, mormorò: “Brutto!” e soggiunse subito: “Però mi trova bella? Molto bella, non è vero? Anche adesso?”.

Il giovine fece “oh, moltissimo!” con un inchino profondo. Ella si sdegnò di quel tono. “Se non fossi tanto vile con Lei” disse, “dovrei voltarle le spalle! Mi fa una rabbia! Lei è tanto padrone di sè, e io, appena ho cominciato a sentire, mi sono tradita subito. Io non so nascondere e non me ne importa niente, del resto. Senta! Lei mi ha giudicato leggera quel giorno, in viaggio? Mi ha giudicato civetta?”

“No, avrei giudicato leggera e civetta un'altra; Lei, con quella sincerità negli occhi, no.”

“Me l'ha detto, però, dopo!”

“Sì, ma per giuoco.”

“E adesso mi giudica male perchè sono venuta?”

Maironi esitò un attimo prima di rispondere: “No”.

“Perchè ci ha pensato? Ecco che mi giudica male. Cosa voleva dire? Ha risposto "no' per compassione. Mi giudica anche Lei come certi suoi cari concittadini!”

Egli sapeva le calunnie infami sparse da qualche sciocco, da qualche spensierato sul conto di Jeanne Dessalle, e protestò con tanto sdegno, con tanto ardore che gli occhi di lei ebbero un sorriso dolcissimo.

“Non sono cattiva, sa, sono molto buona” diss'ella facendosi un viso contrito, una boccuccia di bambina imbronciata, una voce dolente. “Solamente non so nascondere quello che sento. Non ho potuto nascondere la mia simpatia neppure quel primo giorno. E faccio male, ho sempre fatto male a tradirmi così, perchè Lei è un superbo che vorrebbe conquistare per forza l'amore di una donna superba. Io invece sono umile e non Le piaccio.”

Non era la prima volta che la signora Dessalle si mostrava tanto audace con Piero Maironi. La prima volta ella gli si era mostrata così a villa Diedo, nel boschetto appartato che pende dal colle ai silenzi di una valletta deserta. Gli aveva detto che lo trovava tanto diverso da tutti, tanto migliore, ch'era felice di vederlo, ma che l'aspettazione delle sue visite la turbava sempre, che poi la sua presenza le metteva una soggezione grande e che osava dirgli tutto questo perchè lo sapeva un santo.

Maironi, non conoscendola ancora, aveva giudicato che si trattasse di un capriccio, di una provocazione meditata e non dubitò di venire disprezzato per il suo riserbo. Vide poi che la signora non lo disprezzava punto, la conobbe fieramente sincera, fieramente sdegnosa di capricci sensuali, vergognò di sè, del proprio sospetto indegno, come di una inferiorità morale.

“Dica” insistette la signora perchè il giovine non rispondeva.

A un tratto gli occhi di lei diedero un lampo.

“Cos'ha?” diss'ella. “Lei ha qualche cosa!”

“Niente, non ho niente. Cosa vuole che abbia?”

Piero rispose sorridendo così poco spontaneamente, che un'angoscia, una tenerezza senza nome sfolgorarono nel viso pallido di Jeanne. “E` successo qualche cosa? Cosa è successo? Parli!” E gli afferrò un braccio.

“Badi, c'è il custode” mormorò Piero, sgomentato.

“No, no, non c'è, è andato a prender le chiavi del refettorio. Parli! Parli!”

“Ma, Dio, adesso verrà Suo fratello!”

“Non me ne importa!” esclamò la signora. “Dica! Cosa è successo?”

Tanta violenza ferì Maironi. “Niente” diss'egli, fermo. “Non è successo niente. Ho preso una risoluzione, ecco tutto.”

“Quale risoluzione?”

Il custode con le chiavi.

“Un momento” rispose Piero. Ma che importava a lei la presenza di quell'uomo! Un fugace moto di commiserazione orgogliosa le passò per gli occhi torbidi e le sopracciglia inarcate. Come poteva il grande amore usar tante piccole prudenze? “Vada avanti!” disse al custode. “Apra! Noi verremo poi.” E non curando più costui che brontolava e non obbediva, si volse a Piero. “Quale risoluzione?” diss'ella.

“Una risoluzione che Le farò conoscere, ma non ora.”

“Perchè? E` una risoluzione che mi deve far male?”

“Non ne parliamo adesso, La prego!”

“Com'è possibile, a me, di non parlarne? Lei non capisce niente!”

Alle acerbe parole seguì uno slancio represso della bella persona che si porse un istante fremendo amore, raggiando dal viso e dallo sguardo umile, accorato amore.

“Oh, ma questo è un incanto, è un paradiso!”

Era Carlino Dessalle che si estasiava così sull'entrata del cortile, alle spalle di Piero. “Caro Maironi” diss'egli “senta quest'idea. Praglia è il sogno d'un vecchione vergine e santo che ha cenato di olive e di melagrani e si è addormentato al suono di un preludio di Bach, non però come vi addormentereste voi. Oserei anche dire che ha bevuto acqua sterilizzata.”

“Lei non ha veduto ancora niente” fece Maironi.

“Dio, questi sindaci come sono amministrativi! Niente, dice! Non ho veduto niente quando sono arrivato in carrozza perchè avevo paura di pigliarmi un malanno grazie ai capricci di mia sorella che vuole la pelliccia, ma vuole anche la pioggia e il vento; e soprattutto perchè mia sorella è stata insopportabile, mi ha torturato tutto il tempo accusandomi di un ritardo che poteva far crollare, a quanto sembra, il cielo e la terra; ma ritornando a piedi, adesso, ho avuto le coup de foudre. Capite, basta uno sguardo. La torre merlata e quella divina loggetta che vi si porge incontro lassù - già voi nemmanco l'avete vista! - come un saluto del genio dell'abbazia, il quale non ha potuto partire coi frati; e quella bruna chiesa quattrocentesca, così larga e solida nella sua eleganza, assisa in alto sopra quella compagine quadrata di grandi pietre coricate e morte come volumi di teologi, di dottori e di Padri, mi han fatto battere il cuore; o almeno qualche cosa in quel posto, perchè mia sorella non è sicura che io ce l'abbia, il cuore; quanto a me non ci tengo.

E, capite, la massiccità - lasciate, vocabolo mio! - la massiccità toscana di questo zoccolo e di questa chiesa così legata con la toscanità di questo colle che di barbaro ci ha solamente la calotta di selva selvaggia sopra gli oliveti, ma è tanto composto nel suo movimento, tanto schivo di ogni attitudine maleducata, tanto serio, vero?, e fatto per la meditazione, con quelle piccole processioni fraticellesche di cipressetti, molto bornés ma semplici e pii, tale insomma, questo colle, che si vede nel suo corpo alto e grosso una devota umiltà verso la chiesa che gli sta sotto e che pure grandeggia e lo signoreggia, tutto ciò mi ha preso, diremo eh, sorella mia, i polmoni, perchè quelli spero di averli, e ho buttato fuori tutto il mio fiato in una fila di oh! oh!, tanto che ne son rimasto senza per cinque minuti.”

“Pare che ti sia ritornato” disse Jeanne.

“Oh sì, è ritornato. E qui e qui, questo cortiletto divino, questo casto pensamento trasmutato in sogno! Guardate la grazia infinita dei fregi minuti, vedete le cornici di terracotta, gli archettini trilobati, il melarancio simbolico, e quelle conchigliette, un antico rosario allineato. Giusto, forse non erano melagrani, erano melaranci che il vecchione santo ha preso a cena. E` la grazia del colossale! Guardatemi questa torre che regna e non opprime. Lasciamo che si tiri su la nostra gratitudine verso un'eccelsa fonte di tutte le forme belle.”

“Carlino” interruppe sua sorella, “non far troppo il Carucci!”

“Che Carucci! Il Carucci è un monolito e io sono una costruzione infinitamente composta. Il Carucci non ha che una nota e io ne ho cento. Il Carucci è un ipocrita intellettuale. Ha finto per tanto tempo di sdilinquirsi per la bellezza che ora si crede sincero. In fondo non gusta che vino bleu, formaggio pecorino e cuoche. Lasciatemi dire. Il Carucci non è uno specchio delle cose multicolore, mobile, ora piano, ora cavo, ora convesso, come lo sono io che poi non scrivo. Per il Carucci lo specchio è nelle cose; egli non ci vede che sè, dappertutto sè. Lasciami dire. Oh, badate! Codesto ha ad essere lo stemma del monastero. Una stella. Bene!”

Mentre Carlino Dessalle, col monocolo incastrato nell'occhio destro, alzava il suo lunghissimo naso fine, la sua smunta bruna faccia originale verso lo stemma del monastero, scolpito sopra una porta, sua sorella prese il braccio di Maironi.

“Andiamo” diss'ella, e raggiunsero il custode ancora piantato lì ad aspettare sull'altra porta che mette allo scalone.

Dessalle, pur guardando la stella, se ne avvide e si rannuvolò. Egli teneva sua sorella, maggiore di lui, per la donna più bella, più affascinante e insieme di più alto animo e di più sicuro giudizio che fosse al mondo. Gli pareva strano che ciascuno dei suoi conoscenti non s'innamorasse di lei, gli pareva naturale che l'amore dell'uno o dell'altro giungesse a toccarla un po', ma ch'ella potesse con un atto, con una parola, venir meno per un solo momento alla propria dignità, non l'aveva sospettato mai. Incominciava a sospettarne adesso per la prima volta e n'era, segretamente, turbato.

Che sua sorella provasse una viva simpatia per Maironi, ch'egli pure stimava molto malgrado la gran divergenza delle idee, lo intendeva. Intendeva meno ch'ella curasse poco di nascondere il proprio sentimento, mentre Maironi, se pure era innamorato, sapeva dissimulare. Aveva consentito non senza qualche difesa alla gita di Praglia per timore che Jeanne ci venisse sola; e ora gli seccava che, presente lui, ella, non paga di esser corsa dietro Maironi, anche gli si attaccasse a quel modo. La richiamò a veder lo stemma del monastero e il tono del richiamo fu alquanto vibrato. Jeanne si staccò da Maironi, che non la seguì, e venne sola, a malincuore.

Vergisst mein nicht!” le diss'egli sottovoce, quando gli fu vicina, pigiando sul t del plurale.

Ella alzò il viso imbronciato a guardar la stella e sussurrò:

“Credi che so condurmi.”

Carlino, contento in cuor suo di essere stato inteso, protestò di non aver voluto dir questo. Che! Mai!

Intanto Maironi contemplava non il doppio giro delle svelte arcate sotto le sopracciglia graziose delle cornici di terracotta, non la torre ascendente in atto di mediatrice fra il chiostro e il cielo, ma il disordine vivo e la foga, nel cortile, dell'erbe ubbriache di primavera. Contemplava l'erbe, pieno il cuor torbido e dolente di quella offerta d'amore immenso, dell'idea che forse Dio non esisteva o almeno ch'era un Dio diverso da quello della fede cristiana, poichè di tante preghiere, penitenze e lotte lo rimunerava permettendo che in un momento simile fosse tentato così.

“Lei ama i fiori? Quelli bianchi son gigli, vero? E quelli gialli son dente di leone? E quelli azzurri che sono? Dica, senta un'idea carina. Non han l'aria tutti questi fiori di aver saputo che non ci sono più i frati severi nè i loro asini ghiottoni, che non ci son più nè comandamenti nè precetti, e d'essere allora sgusciati fuori da quella corbeille, da quella vecchia vasca là in mezzo, di essersi dispersi per fare all'amore allegramente un po' dappertutto? Dica.”

Volendo pure almeno una paroletta dolce per l'idea carina, Dessalle posò un dito sulla spalla di Maironi che trasalì e rispose a caso:

“Certamente!”

Sullo scalone del Settecento che sale ai grandi androni fiancheggiati di celle, mentre il custode indicava le lapidi commemoranti visite imperiali austriache, Francesco I, Ferdinando I, e Dessalle gemeva come se lapidi e scalone gli premessero sullo stomaco, sua sorella, preso da capo il braccio di Piero, gli sussurrò affannosamente:

“Non mi abbandoni.”

Egli non rispose parola, strinse inconsciamente col proprio il braccio di Jeanne, rallentò subito la stretta, come atterrito. Gli occhi di lei, che si erano illuminati di dolcezza, lo interrogarono con sgomento.

Egli disse allora, non volendole dire, per uno sdoppiamento della sua volontà, per un maligno impulso interiore, parole che sentiva esser il principio della sua disfatta:

“Le parlerò subito.”

Si erano avviati per un androne alla loggetta sporgente che guarda i neri approcci del monastero, il fianco della chiesa, il gran piano di settentrione fino a nevose Alpi lontane.

Non udirono il custode che li richiamava:

“Signori, da questa parte!” Dessalle gridò: “Jeanne!”. Allora si voltarono e Carlino disse a sua sorella che aveva un'idea: questa. Poichè il Governo con la sua Giunta superiore di Belle Arti, con i suoi elenchi di monumenti nazionali, con le sue Commissioni conservatrici di niente e rompitrici all'infinito, con le sue cateratte di retorica ministeriale, lasciava marcire e perire un gioiello simile, comperarlo per una frateria nuova di artisti e di poeti che avessero un comune concetto dell'arte e fossero già entrati negli anni della sapienza cosicchè non importasse loro più affatto nè di onori nè di amori.

“Vediamo le celle” disse la signora. Ma Dessalle protestò che mai non avrebbe posto piede in una di quelle celle senza farsi precedere da una eccellentissima soluzione di sublimato corrosivo al quattro per mille. “Temo particolarmente i microbi frateschi” diss'egli. “Entrateci voi ma stateci poco.”

Entrarono in una cella. Appena il custode ne tornò fuori pensando esser seguito da loro, Jeanne si fermò.

“Dunque?” diss'ella.

Adesso Maironi non voleva più dir niente. La signora, corrucciata, si accostò al finestrino, parlò guardando i campi, a voce bassa:

“Lei non ha cuore. E` egoista. Si diverte a essere amato e ha paura di compromettersi, vorrebbe dire e non dire, farsi avanti e tirarsi indietro, non tanto avanti da metter sè in pericolo e non tanto indietro da offendere me. E` antipatico, disgustoso!”

Si voltò a guardarlo. Il cruccio degli occhi dolenti, delle labbra serrate e sporte finì in un ritorno di dolcezza e di preghiera.

“Sì” diss'egli, senza avvicinarlesi. “Disgustoso a me stesso, sopra tutto. La mia prima risoluzione era, guardi, cacciarmi in una cella di frate, per sempre!”

“Dove? Qui?” fece la Dessalle, ironica. “Questa era la prima; e la seconda?”

Il custode rientrò facendo suonar le chiavi e disse che lo sposo della signora la desiderava. Sia Maironi che Jeanne sentirono cosa quell'uomo aveva pensato di loro. Alla signora ciò era indifferente. A Maironi parve aver dato un passo avanti nella via scura dell'abbandono di sè alla passione.

“Credevo che recitaste compieta” disse Dessalle, un po' brusco. Sua sorella gli rispose che infatti aveva provato lì dentro certa inclinazione a monacarsi e che Maironi aveva sentito una divina chiamata per il ministero di sacrestano del convento. Conoscendola incapace di coprir con affettate impertinenze le tracce di una emozione diversa, Carlino rise e ritornò agli amoreggiamenti fantasiosi col monastero, al piacere di crearvi con la sua immaginazione bellezze nuove per goderne primo e solo, di esprimere i suoi capricci intellettuali in una forma curiosa, pregna dell'aura cerebrale sua. Aveva rassomigliato il monumento a un sogno e come quell'incognito Carucci dal quale gli pareva esser tanto disforme, vi andava specchiando i sogni suoi propri, le sue proprie fantasie estetiche. Ne assaporava certe squisitezze particolari d'arte che gli parlavano del suo favorito Quattrocento e intanto l'anima unica dell'abbazia venerabile, vivificante ogni pietra di pensiero santo, orante nella solitudine con la maestà di un grande che si sente dissolvere in Dio, non era interrogata da lui e non gli parlava.

Essa taceva pure interamente con la signora Dessalle. Jeanne Dessalle, intelligentissima d'arte, non aveva dato alle magnifiche architetture un solo sguardo attento e camminava a caso, legata i pensieri e i sensi alla presenza di Maironi. A Maironi la impertinente trovata della signora sulla vocazione era parsa forse un colpo di spillo a lui, certo una soffiatina di polvere negli occhi del fratello, soffiatina che supponeva la complicità sua. Gliene corse nel sangue prima una brivido di dolcezza, poi una reazione di malcontento. Quando i suoi compagni, che lo precedevano, oltrepassata una porta senza uscio, svoltarono dal corridoio nel cortile pensile, ed egli, rimasto un poco indietro, si trovò a fronte quel chiaror largo, quel quadrato severo di contrapposte arcate, il puteale nel mezzo, il tabernacoletto sull'angolo del refettorio, pieno di cielo sotto il pinnacolo, fra le quattro colonnine, lo Spirito del monastero lo fermò. Preso dal suo dramma, il giovane si era scordato di essere a Praglia. Riconobbe a un tratto il chiaror largo, il quadrato di arcate, il puteale nel mezzo, il tabernacoletto sull'angolo del refettorio. Trasalì, si arrestò. Era il posto della commozione inesplicabile, della presenza misteriosa, che due volte, a intervalli di anni, aveva sentito. Sul piano del cortile, sulle fronti delle arcate, un crescente lume di sole veniva più e più colorando le pietre austere come un'ascensione interna di vita, di senso, di parola. La prima volta lo Spirito del monastero aveva inebriato il giovinetto di desiderio, aveva la seconda volta percosso l'uomo di rimprovero; adesso lo respingeva da sè, muto.

“Ebbene, caro Maironi, che fa? Venga! Ci sono cose meravigliose, qui!”

Dessalle trascinò Piero nella loggia, gli mostrò la cresta scura del colle imminente al tetto della loggia opposta. “Faccia grazia, Praglia è l'abbazia del Morgante, del mio divino Morgante! Quello è il monte dei giganti! Che stava pensando, Lei? Non ci pianti! Pensi che oggi dovevano venire a Villa Diedo la contessa Importanza e le contessine Importanzète e noi le abbiamo piantate per Lei!”

Avevano riso insieme, in passato, di questi nomignoli inflitti da certa signora di loro comune conoscenza a una nobile dama della città e alle sue figliuole che si dicevano insidiare al celibato di Carlino.

“Non per Lei, per Praglia!” corresse Jeanne, senza voltarsi.

“Vada vada, ammansi mia sorella!” esclamò Dessalle e si fermò a schizzare sul taccuino una elegante porta sotto le arcate di levante.

Maironi raggiunse la signora che non mostrò avvedersi di lui. Andarono così a paro per qualche momento, senza parlarsi.

“Già Lei ha paura!” disse alfine Jeanne con voce sommessa ma vibrante. “Lei non vuol dirlo ma capisco, pensa bassezze di me, con tutta la Sua religione. Appunto perchè ha un'idea angusta, un'idea falsa della religione, dell'amore, di me, soprattutto di me, s'immagina che io La condurrò al male. È così: non mi conosce, non sa conoscermi, crede che fuori della Sua religione tutto sia impuro, tutto sia falso, tutto sia da fuggire, da odiare!”

“Lei sa che non sono libero?”

Nel proferire sottovoce queste parole Piero si fermò.

Mai non si era parlato fra loro della demente.

Jeanne lo guardò negli occhi e rispose:

“Lo so.”

Un momento dopo, interpretando il silenzio di Maironi per desiderio di risparmiarle una conclusione ovvia e amara, riprese con fretta incauta.

“Ma io non tolgo niente a Sua moglie.”

La parola poteva intendersi nel senso che Jeanne aveva pensato, sapendo come Piero non amasse più la moglie da un pezzo, e anche nel senso che alla signora Maironi, posto il suo stato, niente si poteva più togliere. A Piero balenò questo secondo senso. Esclamò con sdegno: “Non lo dica!” e riprese a camminare concitato. Jeanne, atterrita, lo seguì: “Come? Che ha inteso?”. E afferrato il perchè di quello sdegno, protestò con tanta violenza, mentre Maironi ripeteva “mi lasci! mi lasci! mi lasci!”, di non aver voluto alludere alla sventura di sua moglie, che quegli si arrese. Intanto si avviavano entrambi, senza volerlo nè saperlo, a una uscita del cortile. Il custode, che badava a veder disegnare Carlino, li richiamò: “Signori! Signori! Non vogliono vedere il refettorio?”. Tornarono lentamente indietro. “Credo!” disse Maironi, con voce soverchiata dall'emozione. “Ma io non posso continuare così! E` meglio che mi allontani non da Lei sola, da tutto; da quanto posso, insomma. La seconda risoluzione era questa”.

“Aspetti” disse Jeanne. Pregò il custode, per liberarsene, di portarle un bicchier d'acqua, diede un'occhiata a suo fratello che stava tuttavia disegnando, ritornò a Piero, gli disse: “venga!”, lo trasse nella loggetta che presso il refettorio si porge sugli orti, al parapetto dell'arcata che guarda lo sconfinato piano di levante; tutto questo con prontezza nervosa e sicura.

“Mi ascolti!” diss'ella rapidamente, buttandosi sul parapetto. “Lei non ha ragione di fuggirmi, non ha ragione di temermi. Lei non conosce il mio sentimento per Lei, non conosce l'anima mia. Io non vivo che per Lei nel mio interno. Ho sempre amato mio fratello come una madre, l'amo ancora con un senso di dovere materno, teneramente, direi che la mia vita esterna gli appartiene ancora tutta, che gli potrei sacrificare anche la gioia di veder Lei; ma la mia vita interna, quella che non dipende dalla mia volontà, appartiene a Lei. Se sono tanto franca e audace con Lei è perchè il sentimento mio non ha niente da nascondere, non ha niente che mi possa far vergogna, niente che Le possa fare paura e anche perchè ho una gran fiducia in Lei. Io non desidero che affetto, il resto mi fa ribrezzo. Sarà la mia natura fredda, sarà orgoglio, saranno i sei mesi orribili che ho passato con un marito immondo, perchè Lei sa che neppur io sono libera, sarà quel che Lei vuole, io non desidero che tenerezza di affetto. Se lei ha delle cattive immaginazioni, io sento che purificherei l'anima Sua invece di abbassarla. La purificherei meglio io che il digiuno e le preghiere nel deserto, perchè con quest'idea di combattere un nemico lo si va necessariamente a cercare e in qualunque posto Lei andasse, penserebbe male a me; nella Sua mente diventerei un'altra persona, quella che non sono, una corruttrice. Ma io...”

Qui si coperse il viso con le mani, e continuò abbassando la voce:

“Io ho un bisogno immenso, immenso, immenso che Lei mi voglia bene. Io mi dispero se Lei mi abbandona, precipito in un abisso. Mi dica che mi vuol bene, mi dica che non mi abbandona! Non mi faccia morire!”

“Signora, l'acqua” disse il custode dietro a loro.

Jeanne si alzò dal parapetto, livida, con gli occhi rossi, prese la tazza.

“Si c'ètait du poison” diss'ella, volta a Maironi, “faudrait_il boire?”

Nei grandi occhi magnetici erravano tristezza e tenerezza infinite.

“Je crois que non” mormorò egli malgrado sè, in una vertigine, pallido come se gli mancasse la vita.

Gli occhi di Jeanne s'illuminarono di un lampo inesprimibile di sorriso. “Quest'acqua è torbida” diss'ella al custode attonito. Porse la tazza fuori del parapetto, versò l'acqua pian piano fino all'ultima goccia, guardandola, sorridendo, mormorando: “Che gioia, che gioia, che gioia!”.


Parve allora che gli occhi suoi si aprissero alle cose. Lasciò Piero, prese amorosamente il braccio di suo fratello, volle vedere lo schizzo della porta, suggerì uno schizzo del colle imminente alla loggia ma da un punto di vista migliore, lo andò cercando per il cortile, si fece spiegare il motto del puteale “aestus, sordes, sitim pulso”, cadde in estasi davanti al magnifico lavabo sull'entrata del refettorio, trasse Carlino nella loggetta sporgente sugli orti, gli mostrò il mare verdognolo della campagna distesa fino alle torri e alle cupole di una lontana città, umili e nere sull'orizzonte; e di là, solo di là, gittò a Maironi un'occhiata dolcissima. Voltasi poi alla scena delle logge che l'abside alta del tempio e il campanile signoreggiano, immaginò, dicendo la sua visione a voce bassa e col volto rapito, una sera di luna, un andar lento e silenzioso di monaci sotto le arcate per chiarori e ombre. Si dolse che i monaci fossero scomparsi, ma poi, guardando Piero, espresse arditamente l'opinione che non vi fosse più armonia fra l'odierno spirito cattolico e la poesia di quella solitudine. Sostenne che la presente combattività cattolica poteva bene acconciarsi a conventi fra il popolo, nelle città, ma che nessuno pensava più ai deserti, che se il cattolicismo era antiquato nello spirito, tendeva però a tutte le forme moderne dell'azione. “Ci sono sempre le anime offese, al mondo” disse Carlino. “Ci sono i solitari per natura, come io, per esempio, che sono un benedettino leggermente sbagliato. Se avessi fede piglierei l'abito e riscatterei Praglia”.

“Lei?” fece Maironi. Le parole aggressive di Jeanne sullo spirito del cattolicismo non lo avevano ferito; l'incontro curioso delle parole spensierate di Dessalle con i sentimenti suoi di poc'anzi non lo aveva scosso. Rideva e gli occhi gli scintillavano. Mentre Jeanne gli aveva parlato del suo amore, tanto violento e puro, egli si era sentito prendere insensibilmente da lei e anche dalla idea che i suoi timori eran ombra e sogno, che i ritegni religiosi, i ritegni del suo legame erano lacci di cose morte, che forse la stessa intera religione cattolica era un grande spettrale cadavere in piedi come l'abbazia.

L'occulto lavoro di tante passate tentazioni contro la fede, represse con terrore e non vinte, si manifestava ora, nell'urto della passione, con improvvise rovine.

Appena pronunciate, quasi automaticamente, le parole "je crois que non' come colui che nudo saggia col piede una fresca corrente ed esita, ma se si sente sdrucciolare dal margine tutto di slancio le si abbandona, egli si era abbandonato al sentimento che non gli pareva più tentazione ma offerta di un Dio più vero e grande e buono del Dio appresogli da' suoi maestri. Per un attimo, martellandogli il cuore a furia, le mura, gli archi, le colonne del monastero gli avevano roteato vorticosamente intorno. Si sentiva una furiosa voglia di cinger con un braccio la vita di Jeanne e trascinarla fuori, all'aperto, di correre l'erbe dei prati, gli oliveti, le cime dei colli, gridando al cielo la sua libertà e la sua gioia. Rideva in pari tempo, internamente, della propria voglia folle, tremava di tradirsi, si comprimeva nel petto la nuova intensa vita. E godette che Jeanne non gli fosse vicina, gli fece un acuto piacere di vederla sciolta in apparenza da lui, sapendola stretta a lui nel pensiero, ebbra di lui. E si ascoltò intanto, con profondi respiri, dilatar l'anima. Il dolcissimo sguardo lungo di Jeanne dalla loggetta dove l'acqua era stata idealmente convertita in veleno gli fece ancora, per un attimo, rotear le cose intorno.

“Lei?” diss'egli ridendo. “Un mondano come Lei?”

“Io non sono un mondano, caro Maironi. Io prendo interesse a osservare le vanità mondane e non sono mondano come un astronomo non è celeste.”

Jeanne, che in quel momento stava guardando da vicino i fregi del lavabo, i pesci marini, le tarsie di verde antico e di porfido, chiamò a sè Maironi, con un gesto.

“Non so mai come chiamarla” diss'ella, piano. E soggiunse forte: “Cosa è scritto qui? Mi spieghi”.

Piero le tradusse il motto latino scolpito dentro l'arco, al di sopra del vaso marmoreo:

OMNES VELUT AQUA DILABIMUR


E chinandosi come per guardare lo squisito marmo, sussurrò:

“Chiamami amore.”

Ella non rispose; egli rimase chino celando il fuoco del viso.

“Poveri fratucci!” esclamò Dessalle alle loro spalle. “Son passati tutti davvero, eh? Ma ditemi un po': quel motto lì come va preso? Dev'essere epicureo, dentro quella gioia di fregi, quel sorriso dello scettico Cinquecento! Mangiamo, beviamo e godiamo fin che ci è tempo, eh?”

Entrarono nel refettorio. Jeanne, assorta nella sua beatitudine, guardava distrattamente i motti immaginosi, attorti a sculture simboliche, sopra ciascuno degli stalli di legno che il secolo XVIII schierò alle pareti maggiori della sala rettangolare, da capo a fondo, sotto certi quadroni male ingombri di corpi enormi. Dessalle, ammirato delle imprese scolpite sugli stalli, dei motti arguti e profondi, si staccò da Jeanne, prese con sè Maironi, lo trasse da uno stallo all'altro, leggendo, commentando, ammirando a gran voce. “Aiuti me, signor Maironi!” disse Jeanne. “Carlo sa il latino.” Mentre Maironi veniva bevendo nei begli occhi fissi un dolcissimo richiamo, ella, che stava presso lo stallo dov'è figurata una falce di luna, gli disse con voce oscillante: “Cosa significa completur cursu?” e quando fu a due passi, gli gittò con un lieve, rapido porger del viso la trepida parola: “Amore!”.

E sorrise.

Maironi non potè parlare subito. Ella rise allora due sottili, brevi getti di riso, come getti di una vena ferita sfuggenti al pollice.

“Significa...” ricominciò il giovine e voleva dire: "l'anima mia che si volge a te e tutta s'illumina, si compie nella luce tua'. Ma Jeanne lo interruppe alla prima parola: “Non importa; mi dica che mi ama! Sì? Proprio? Combini di ritornare in città con noi. C'è posto!”.

“Udite questo, come è bello per un pozzo!” gridò Carlino dall'altro capo della sala. “Exercita purior!

“Che vuol dire?” domandò Jeanne a Maironi, perchè il custode s'era piantato lì accosto. E udita la spiegazione osservò: “Non avrà pensato qualche frate che esercitando fuori di qui la mente, il cuore, tutte le attività buone, sarebbe diventato più puro, più sano?”

“E questa, e questa?” gridò Dessalle. “Una sirena. Dulcedine perdit!

“Se la capisco bene, non è peregrina!” esclamò Jeanne, vivacemente. Maironi tacque. Dessalle chiamò il custode, gli chiese di chi fosse l'affresco della Crocifissione.

“Di Bartolomeo Montagna, pittore vicentino.”

Dessalle volle che sua sorella e Maironi venissero ad ammirare il grande affresco. Vennero, lodarono assai scarsamente, con sorpresa e sdegno di Carlino. Il Cristo non piaceva loro affatto; nelle altre figure si vedeva l'epoca buona e non più.

“Ma guardate Maria, dunque! Per me ve lo dico subito, un'altra sola Maria in tutta l'arte che conosco mi ha commosso più di questa, la Maria di Van Dyck al museo di Anversa, che ha in grembo il Cristo morto e spande le braccia con quel viso al cielo, ti ricordi, Jeanne?, con quel viso lagrimoso e amaro che dice: "perchè?'. Questa, religiosamente, è superiore. E` piena di coraggio, crede nella resurrezione di suo figlio. Qui arrischio, caro Maironi, di pigliarmi una febbriciattola di fede anch'io. Lei poi mi prende nel suo Municipio per assessore delle Belle Arti, eh?”

Maironi sorrise a fior di labbro e rispose solo: “Va bene”.



III


Partirono al tramonto, nella stessa carrozza. Prima di uscire dal recinto, passando lungo il nero bastione che porta la chiesa, Dessalle esclamò: “E la chiesa? Non abbiamo veduta la chiesa!”. Uscendo dal refettorio, il custode aveva chiesto due volte a Jeanne e a Maironi se desiderassero visitare la chiesa e poichè non era venuta la risposta, aveva lasciato andare. Anche adesso nè Maironi nè Jeanne parlarono, la carrozza correva già forte, il momento passò. Dessalle aveva la fantasia piena del monastero taciturno, della solitudine ove posa, di cipressi, di ulivi, di archetti trilobati, di stemmi, di motti, di monaci antichi, del custode dalle chiavi tintinnanti nel deserto lo stridulo inno trionfale dello spirito moderno. E rievocava ogni cosa nel suo linguaggio colorito e fine, cercando similitudini bizzarre che gli atteggiassero a modo suo dentro la mente le cose vedute sì che s'incarnassero nella sua persona e gli appartenessero meglio. Poi si mise ad abbozzare il piano d'un romanzo dove Praglia, venduta dal Governo, era comperata da un mistico polacco che vi raccoglieva delle dame isteriche per fondarvi, nella meditazione e nella preghiera, una religione nuova.

“Quale?” chiese Maironi.

“Non importa. Una religione nuova! Poniamo, se vuole, la religione mia, ch'è la religione del dubbio, una religione che invece di obbligarci a credere quello che non si può sapere, ci proibisce di negarlo e c'impone il dubbio, il quale è infinitamente più sapiente e utile della fede, perchè ci dispone a tutte le possibilità! Ed è anche più poetico!”

Maironi scattò con una violenza strana.

“No, no, sia tutto per o sia tutto contro! Neghi piuttosto! Dica che l'uomo creò Iddio perchè gli fece comodo! Oppure dica che il Dio della religione è una maschera del Dio vero e che Lei non vuole adorare le maschere! Oppure si ribelli, dica che Lei non si è obbligato a niente per avere il Suo corpo e il Suo intelletto, che i Suoi desideri di vita e di libertà non se li è dati Lei, che Lei vuole l'una e l'altra! Dica questo se Le piace, ma non quello che ha detto!”

“Ecco, i cattolici, come sono” ribatté Dessalle, sorridendo. “Ci vogliono addirittura empî. Più ci avviciniamo a voi, meno ci sopportate. Si potrebbe sostenere benissimo che la vostra religione insegna l'odio del prossimo. Guardate come trattate i protestanti e quei poveri liberali che vorrebbero dirsi cattolici anche loro! Odio del prossimo!”

“Però...” fece Jeanne rivolgendosi a Maironi come per rispondere a lui al di fuori e al di sopra delle parole di suo fratello. E s'interruppe subito.

“Però?” ripetè Maironi, aspettando.

“Niente” diss'ella.

Il giovane raccolse la bianca pelliccia di lupo di Russia che scivolava dalle ginocchia di Jeanne e dalle sue, l'accomodò, v'incontrò sotto una mano che prima si offerse inerte e poi attanagliò la sua come un morso, mentre una bella bocca lasciava neghittosamente cadere queste due paroline di pace: “Fa fresco”.

Nessuno parlò più per un pezzo. Jeanne accomodò alla sua volta la pelliccia, meglio assai. Parve a Maironi che il greve mantello bianco di fiera piegasse ai lievi tocchi delle mani abili con intelletto del comando.

Egli guardava la mano desiderata, non osando, in faccia a Dessalle, guardare Jeanne negli occhi senza parole, e non trovandone alcuna; guardava la mano che indugiandosi sulla pelliccia gli rispondeva, come pure un mal celato sorriso della bocca: strette segrete, basta. L'odore del mantello di Jeanne, chiuso sulla squisita persona, della pelliccia, dei guanti lievemente profumati, forse dei capelli, saliva in un tepido indistinto al cervello del giovine, alternandosi, secondo il vento e il passo dei cavalli, con l'odor fresco dei campi e della strada umida. Gli pareva che una scura, dolce aura di lei lo avvolgesse, donandosi; che fosse già questo un principio di segreto delizioso possesso. Passarono davanti alla villa di don Giuseppe, bianca nell'ultimo chiarore del ponente, sopra il giardino pieno d'ombra. Dessalle credette discernere un prete seduto sulla gradinata della fronte, lo suppose il padrone, disse che aveva udito farne gran lodi e chiese a Maironi se lo conoscesse. Nello stesso punto Jeanne, che non aveva fatto attenzione al discorso del fratello, mostrò a Maironi la falce della luna nel cielo di occidente. “Completur?” diss'ella, non ricordando l'altra parola. Maironi non parve intendere ed ella ripetè: “completur... dica!”. “Ah, cursu, cursu!” esclamò Dessalle e non rinnovò la domanda. Intanto la mano di Jeanne cercò sotto la pelliccia la mano cara, la strinse, disse: lo so, distratto, a cosa pensavi! e la mano stretta rispose mentendo: sì, sì, lo sai. Avrebbero poi voluto tacere, l'una e l'altro, ma Carlino aveva una parlantina! Raccontò a Maironi quanto sua sorella si fosse scandolezzata, tempo addietro, ch'egli avesse raccomandato quel giardiniere, bellissimo esemplare di socialista latino, rivoluzionario. Sua sorella, saputo di certi suoi discorsi, gli aveva proposto di licenziarlo, ma egli era felice di tenersi in gabbia nel giardino una bestia feroce tanto curiosa. Non si lasciava studiare, però, la bestia; aveva un guscio molto pulito e inoffensivo nel quale rientrava tosto che i padroni le si accostavano. Intanto i due si parlavano in segreto con le mani congiunte, avendo Jeanne tentato invano, mollemente, di ritirar la sua, e lasciaron dire Carlino, non si difesero, solamente risero, di quando in quando. Carlino trasse in campo anche il figlio del giardiniere, Ricciotti Pomato; lo raccomandò per il posto d'inserviente della Biblioteca. L'anno prima era stato nominato un altro invece di lui; adesso il posto era vacante da capo. Maironi promise senz'altro, per uscirne. Ma Carlino era inesauribile e mise il discorso sul marchese Scremin che aveva fatto parlare ai Dessalle da suo genero perchè gli giovassero nelle sue mire senatorie, presso una potente, intrigante dama di Roma di cui si conosceva l'amicizia - da presupporsi onesta, diceva Zaneto; molto ambigua, diceva il mondo - con un uomo politico, zio dei Dessalle. Egli si era poi fatto presentare a villa Diedo, suonandogli dietro il ghigno satanico dell'uomo amaro: mondo! mondo! Vi era quindi ritornato due o tre volte con una solenne tuba e, diceva Carlino, col suo guscio anche lui; con un polito untuoso guscio di umiltà, nel quale spariva frettoloso a capo in giù tósto che Jeanne e Carlino accennavano a toccar il tasto dei meriti che il Governo gli avrebbe dovuto riconoscere.

Ora Carlino lo stese delicatamente sopra un'ideale tavola anatomica per trovargli questi meriti. Finalmente, poichè i suoi compagni non parevano dargli retta, smise di parlare anche lui.

Una torre alta e sottile, tozzi campanili, schiacciati ammassi di tetti venivano alzandosi dal piano davanti alla carrozza sotto le aeree fronti nevose delle montagne lontane. Era la città, la triste fine del cielo aperto ai sogni, della terra distesa in pace, odorante vita e frescura; la triste fine, per Jeanne e Piero, del molle, veloce andare in silenzio sentendo fino al cuore ogni tocco lieve delle spalle, nelle scosse della corsa. La carrozza si fermò alla scuderia Dessalle, sull'angolo della ripida stradicciuola che sale a villa Diedo. Un invito a pranzo per il giorno dopo, saluti brevi e già caldi del dolce domani. Mentre Piero scendeva per rientrare a piedi in città, il cocchiere disse che teneva un panierino di aranci del signore, consegnatogli dal vetturale della carrozzella: e Dessalle gli ordinò di accompagnare il signore al palazzo Scremin.

Il panierino di aranci fu posato sul piccolo sedile interno della victoria di fronte a Piero. Egli sentì la loro parola tragica ma non se ne commosse. Era un rimprovero per il destino, forse; non per lui! Fisso lo sguardo nei frutti dorati, blandito i sensi dalla persistente aura della signora di cui adesso aveva preso il posto, rivedeva Jeanne nella loggia di Praglia con la tazza in mano, riassaporava la tristezza dei grandi occhi magnetici, l'ineffabile accento delle sommesse parole: "Si c'ètait du poison, faudrait_il boire?'.


CAPITOLO TERZO


ECLISSI


I


Alquanti consiglieri della maggioranza clericale dovevano riunirsi alle quattro in casa Záupa. La vecchia signora Záupa non voleva persuadersi che questo fosse un onore per lei, per il consigliere suo figlio, per sua nuora, per i nipoti, per tutte le frondi del prolifero ceppo Záupa. Perchè non si riunivano in casa del sindaco? “La porta pazienza, mama, per sta volta; ghe xe la so rason” ripeteva l'onesto, piccoletto consigliere Záupa dirigendo con voce più sommessa ma più imperiosa, fra una presa di tabacco e l'altra, il lavoro docile e muto di una donnina esangue, sua moglie, e di un donnone polputo, la serva, che levavano il pepe e la canfora dalle poltrone, dai canapè del salotto, spolveravano i fiori di carta, le bomboniere. Alla vecchia signora Záupa, spettatrice accigliata, pareva che non fosse necessario ricevere i consiglieri in quell'augusta e sacra stanza, dove grazie al pepe, alla canfora, alle prolisse camicie di tela turchina e alle tenebre perpetue, seggiole, poltrone, canapè, tavolini, specchi, vasi, candelabri, pendola e fiori di carta, entrativi per le nozze dei suoi defunti suoceri Záupa, serbavano ancora la freschezza del 1815.

“La porta pazienza, mama, la sia bona” ripeteva l'omino, mellifluo; e brontolò invece alla sposa: “Carèghe! Andèmo”. La mansueta creatura e il donnone cominciarono a portar dentro sedie. Alla quinta sedia la vecchia signora sbuffò: “Ma quanti mai xeli, po, sti b...?”.

“Sedese, mama, se i vien tuti” rispose il figliuolo mansueto, ingoiando con una smorfia l'appellativo ingiurioso e la propria complicità in esso.

“Mi digo, sior, che faressi megio a tender al vostro mezà, con tuti quei tosi; che za gnanca in Paradiso per el scalon del Municipio no ghe andè.”

La vecchia diede le spalle a quelle fastidiose novità della sua casa brontolando “no ghe andè, no ghe andè”, si allontanò. Subito la esangue signora Záupa juniore osò metter fuori la sua voce flebile per osservare a Matío ch'era presto, ch'erano appena le due e mezzo; il donnone alzò una tendina della finestra, sorrise alla fruttivendola di faccia; e Matío Záupa, senza rispondere alla sposa, si mise a trottare per la camera, ripetendo: “Ga d'essere, ga d'essere, ga d'essere”, fino a che gli capitò sotto gli occhi miopi una piccola, poco vestita donnetta di porcellana, già difesa contro le sue verecondie iconoclaste dalla vecchia signora Záupa che le chiamava "stomeghezzi'. Matío si cacciò la donnetta in una delle tasche posteriori dell'abito, dove poi la dimenticò e il donnone ebbe a pescarla l'indomani mattina col più complicato stupore.

Alle tre meno cinque minuti un discretissimo tocco di campanello fece trasalire l'onesto consigliere. Presto qua, presto là, caccia la serva ad aprire, mette in fuga la moglie dalla parte opposta, “via, via, via!”, s'incammina piano piano in punta di piedi verso l'anticamera, si ferma, torce e china il capo, mette una mano all'orecchio, riconosce i passi e le voci di chi sale la scala, si soffia il naso a precipizio.

Entrano due persone dall'aria piuttosto misteriosa, un laico e un prete.

Il laico cava l'orologio e dice a Záupa: “Le pare?”. Záupa risponde tutto sorridente, facendo frettolosi inchini e fregandosi le mani: “Puntualissimi, puntualissimi!” e introduce i visitatori nel salotto sacro. Il prete, figurina smilza dal viso fine, dagli occhi beffardi, era un capoccia occulto del partito, uno dei tre o quattro che, stando nell'ombra, movevano sullo scacchiere con occulte fila i vittoriosi pezzi neri. L'altro, bell'uomo sulla quarantina, dai modi signorili, dall'aria intelligente e benevola, era il cavalier Soldini, lombardo, direttore del giornale clericale.

“Dunque?” fece Záupa.

I due si guardarono esitando, sorridendo, interrogandosi tacitamente. “Parli Lei” disse il prete. E spiegò allo Záupa, poichè l'altro non si arrendeva, che non c'era tra loro un perfettissimo accordo e ch'egli preferiva parlare dopo. Allora il Soldini disse che stava bene e incominciò il suo discorso.

“Ecco qua. Dunque, disgraziatamente, nelle voci che corrono sul nostro sindaco e quella signora vi ha molto, per lo meno, del vero. C'è la passione dalle due parti e non silenziosa.”

“Eh!” interruppe il prete. “Altro che silenziosa! Baci, abbracciamenti, in giardino, coram populo!”

“Diciamo coram nemore et luna, se è vero. Ma poi, fino a qual punto le cose siano arrivate, nessuno...”

“Fa lo stesso” brontolò il prete. “Del resto coram nemore, luna et hortulano.”

“Sia! A me non pare che faccia lo stesso, ma tiriamo avanti. Premetto. Mia moglie e io siamo in buona relazione col sindaco e mia moglie visita poi anche la signora Dessalle che ha conosciuto a Roma.”

Záupa assentì ossequiosamente: “Sissignor”. E il prete che ascoltava a capo chino fece una smorfia significativa.

“Io, però” continuò il cavalier Soldini “parlando di questo doloroso argomento sarò imparzialissimo e schiettissimo. Nessuno, dicevo, può sapere fino a qual punto le cose siano arrivate; ma mia moglie che in queste faccende è molto penetrante, non crede al peggio e non ci voglio credere neppur io.”

“Ben, ben” fece Záupa, contento. Il prete brontolò: “buone persone”. E soggiunse forte: “E il resto?”.

“Il resto, sì: ora ci vengo, siccome però il peggio si dice, avrei rimorso di tacere che la sorgente delle voci più velenose, raccolte subito, si sa, e diffuse rapidamente con bisbigli pieni di prudenza ipocrita, da tanta gente che assapora con una voluttà particolare i peccati delle persone credute impeccabili e sopra tutto i peccati dei clericali, è l'ortolano di casa Dessalle, il quale ha particolari rancori, più o meno coperti, con il giardiniere, quel mezzo anarchico tutto propenso al sindaco che gli ha fatto nominare il figliuolo alla biblioteca e lo ha protetto nel ridicolo affare dei calzoni filettati di bleu.”

“Ridicolo?” mormorò il prete. “Sentirà oggi, Quaiotto!”

“Ma sì, ridicolo, via! e spero che lo capiranno tutti! Spero che si seppellirà! Nell'interesse del partito, dico!”

“Eh, per me!” disse il prete. “Bisogna persuadere Quaiotto!”

“Ebbene, bisognerà far intendere ragione anche al signor consigliere Quaiotto!”

Il buon Záupa che teneva in sospeso una presa di tabacco, si pose a menar in giro la mano con la presa, a menar in giro la testa come un baco maturo, tirandosi faticosamente in bocca un gruppo di parole che gli si udivano strisciar su per la gola.

“Me par anca a mi, me par anca a mi, pare anche a me. Ma bisogna che ghe la diga, bisogna che ce la dica: questi calzoni... il collega Quaiotto... me li ha mandati... precisamente per la seduta d'oggi... e io, come facevo?... li ho dovuti accettare, li ho dovuti, li ho. E son qui.”

“Bruciamoli” fece Soldini. E il prete: “Oh sì, bruciamoli! Non capisce che la parte ridicola la fanno i liberali?”

“A me pare che la facciamo un po' tutti quanti; ma tiriamo via. E veniamo, come si diceva, al resto. Il resto è che venerdì scorso i Dessalle hanno dato a degli amici forestieri, in giardino, un déjeuné di grasso e Maironi c'era”.

“Hm, grossetta” fece Záupa, contrito e mite nel tempo stesso. “Ma è poi sicuro che abbia mangiato?”

“Purtroppo e ci fu scandalo” rispose Soldini “perchè il solito ortolano ne ha parlato a una turba di gente.”

“Capisce!” esclamò il prete guardando Záupa.”

“Non mi meraviglio” disse Záupa. “Non conoscevo questo particolare, ma che l'uomo... da qualche tempo... sia cambiato e non in bene, ecco, non in bene... bisogna ammetterlo, bisogna. Anche il suo contegno nell'affare dei calzoni, andiamo!... Non va, ecco, non va! E tante altre piccole cose ci sono, tanti altri piccoli fatti spiacevoli, per cui, già, specialmente dato il carattere di certi colleghi, non si va avanti, non si va, ecco!”

Allora il cavaliere, premesso che deplorava privatamente gli scandali Dessalle ma che a suo avviso era pericolosissimo, inopportunissimo di servirsene contro il sindaco, ammise che la sua permanenza in ufficio era diventata un vero impaccio per tutti e spiegò che il dissenso fra lui e l'ottimo abate riguardava soltanto la via di uscita. Secondo lui il contegno del sindaco nel famoso affare dei calzoni significava desiderio di provocare una crisi. Maironi voleva romperla con la Giunta, con la maggioranza e col partito, ma, probabilmente, romperla come e dove faceva comodo a lui. Voleva intanto, probabilmente, mettre les rieurs de son côté. Qui Záupa e l'abate si guardarono, si dissero con gli occhi: "Avete capito, voi? Io no'. Voleva poi, proseguì Soldini, venir licenziato in modo che facesse torto ai cattolici, che giustificasse, o almeno scusasse, una successiva rottura maggiore ancora, un passaggio ad altre idee e ad altri uomini. Ora non conveniva ai cattolici di fare il suo giuoco; per niente! Conveniva romperla sopra una questione amministrativa.

“A questo modo” conchiuse il sagace oratore “eviterete di offendere i suoi sentimenti personali, non lo spingerete a reazioni estreme che sarebbero una rovina spirituale per lui, naturalmente, ma poi anche un colpo doloroso per il partito. Se quando voi, prudentemente, rispettosamente, lo avviate all'uscita dall'amministrazione, egli vorrà invece pigliar l'uscita dalla Fede, suo danno. Voi non ne avrete colpa ed egli non ci farà una bella figura. No davvero! Nessuno approverà mai che si cambi fede politica e religiosa per una questione di cinta daziaria o di gas, o di stipendi alle levatrici comunali e nemmeno per una questione di amor proprio.

Ma se non lo irritate, non credo che diserterà. Sta sotto il fascino di una donna, queste son cose umane e noi cattolici abbiamo forse il torto di non riconoscere abbastanza la fragilità sessuale, sto per dire, anche dei galantuomini e dei cristiani più convinti. Lasciate che la parabola del fascino si compia. Come certi tumori, questi sono mali che guai a operarli se non sono giunti a maturità. Io adesso dirò una cosa cruda che scandolezzerà qui il nostro buon dottor Záupa.”

“E me no?” fece il prete.

“Lei meno, credo. Io, come non sono un mistico, nè un asceta, così non sono un teologo e non so se dico un'eresia. S'è un'eresia, da buon cattolico la ritiro. Ragionando da uomo di mondo dico che se il desiderio della colpa estrema, non soddisfatto per difficoltà esterne, equivale, nel giudizio di Dio, al fatto, se per caso quest'uomo e questa signora si trovano in condizioni tali, sarebbe utile che il fatto si avverasse perchè la parabola della passione sarebbe più breve.”

Si vide l'esofago dell'ottimo dottor Záupa contrarsi nello sforzo d'inghiottire un boccone tanto smisurato, per esso.

“E in questo caso” disse il maligno beffardo abate “cosa si dovrebbe far noi, per aiutare?” Soldini esclamò ridendo: “Per carità, per carità! Son cose che si dicono”. E venne alla conclusione del suo discorso. “Lasciamo queste chiacchiere. Voi scegliete oggi il terreno della crisi. Mi è venuto in mente ora che potrebbe esser l'aumento dello stipendio ai maestri delle scuole rurali. Voi assessori vi accordate oggi di sollevare la questione nella prima seduta di Giunta e di deliberare allora che l'istanza dei maestri sia portata in Consiglio con voto negativo. Il sindaco si è compromesso, come sapete, a questo proposito, con le dichiarazioni che ha fatte quando si discuteva l'istanza degli spazzini. Si dimetterà. Subito voi vi dimettete pure, pro forma. Si raduna il Consiglio per le dimissioni e allora non si fanno complimenti, e non si rielegge il sindaco. Res finita est.”

“Eh, sissignor” fece Záupa. “Questa xe prudente. Xe prudente.”

“Finita male” cominciò il prete, curando poco le opinioni di Záupa. Egli aveva idee diverse da quelle del cavaliere. Brutta, bruttissima cosa la relazione con la signora; inutile il ricercare, quando c'è scandalo, se vi sia o non vi sia, in fatto, tutto il male che la gente dice: ma insomma, via! concediamo per un momento che il fallo sia da imputare alla comune fragilità umana; e la infrazione pubblica del venerdì? Pazienza un cattolico qualunque! Ma il capo del partito? Passi per un banchetto ufficiale cui il sindaco potrebbe essere costretto d'intervenire. Può avere la dispensa del Vescovo, può scegliere fra i piatti grassi e i magri, per ultima risorsa può fare a meno di mangiare. Ma in una riunione di puro piacere e anche all'aperto! E il tavolino del sindaco si poteva vedere dal vigneto dove la gente lavorava! Non era una semplice violazione del precetto, era una sfida! Sarebbe un altro scandalo il non raccoglierla. Il signor sindaco era un membro malato della Chiesa e il membro malato si tronca senza misericordia.

La misericordia giusta è di fare come San Paolo, di consegnare l'uomo e la sua sciarpa sindacale nelle mani di Satana, perchè l'anima si salvi nel giorno del giudizio. Però, prima di arrivare a tanto bisogna richiamare il peccatore, fargli parlare da qualche persona molto autorevole, e poi, se resiste, andar da lui, dirgli che si desiderano le sue dimissioni.

“Eh!” fece Záupa, immaginando di aversi a trovare anche lui fra i futuri portatori dell'ambasciata. “Questa xe dureta. Xe dureta. No ghe par?”

“Eh, ciò!” rispose il prete. “Lo so anca mi”.

Il cavaliere osservò ch'erano quasi le quattro, e che a loro conveniva di andarsene senza esser veduti dai consiglieri, i quali forse li pregherebbero di partecipare alla riunione, cosa non opportuna. Oramai il dottor Záupa sapeva e poteva regolarsi. Per parte sua il cavaliere aveva espresso una semplice opinione, desiderava si discutesse ma poi non si voleva imporre.

Nell'uscire l'abate mormorò all'orecchio di Záupa: “La tenete segreta questa riunione?”. E siccome Záupa rispose di soprassalto con tanto di cipiglio e di mani levate: “Euh, diamine!” come se si fosse trattato di un complotto per ammazzare il Papa, l'altro crollò le spalle, infastidito, fece un gesto, come per dire: "Parlate!' e lasciò trasecolato l'ingenuo Záupa, gli rallentò la foga dei "servitor suo, servitor suo', degl'interminabili inchini a scatto con i quali soleva accompagnare alla porta i suoi visitatori. Rimasto solo, il dottor Matío si appuntò alla fronte l'indice della mano destra, guardando con attenzione intensa la chiave dell'uscio. Quando gli parve aver trovato l'altra chiave ideale che cercava, dato un omaggio tacito alla finezza dell'abate, raccolse il pensiero nella necessità dell'ora presente e chiamò la serva.

“Quele braghe?”

“Le xe in cusina, signor.”

“Ben, quando ca sonarò, portèle.”



II


I consiglieri invitati vennero alla spicciolata e in ritardo. Alle quattro e un quarto erano sette. L'uomo acido e l'uomo amaro, membri essi pure del Consiglio e della maggioranza, cominciarono a borbottare insopportabilmente. L'acido masticava, con la sua mutria sepolcrale, giaculatorie corrosive, senza guardare in faccia a nessuno. “Brava zente! Un gusto mato, magnaremo i risi longhi un mia!” L'amaro lo accompagnava con un pizzicato di contrabbasso: “Porcarie, porcarie”. Il consigliere Quaiotto, venuto il primo, pareva pure impaziente, guardava spesso nella via. Gli altri, scambiate abbondanti cerimonie con il dottor Záupa e fra loro, fatti tranquilli circa la preziosa salute della mamma Záupa, della sposa Záupa e dei marmocchi Záupa, lodato sommessamente, timidamente, il meraviglioso aspetto giovanile del canapè, delle seggiole e delle poltrone, evocate con rispetto le ombre congiuntevi degli Záupa preistorici, cantata in coro la gran bontà delle stoffe antiche, non sapevano più che dire. Matío chiese con qualche trepidazione all'uomo acido se intendesse di assistere all'eclissi totale di luna ch'era atteso nella notte prossima e n'ebbe un rabbuffo. “Benedeto! No La vede che nuvole?” Per fortuna capitarono in breve altri otto consiglieri. Matío sedette, tossì, aperse la seduta, cominciò a spiegare, con una faccia compunta, il perchè di quella riunione straordinaria in casa sua. Tutte le altre facce diventarono pure compunte, tutti gli occhi si abbassarono a guardar i piedi di loro particolare conoscenza, meno quelli dell'uomo acido che fissavano l'oratore con una espressione pregiudiziale, nelle grigie loro nebbie, di mediocre stima.

L'oratore fece con garbo un discorsetto diplomatico. Tutti sapevano che la riunione si teneva per intendersi sul quid agendum rispetto al sindaco e quasi tutti erano venuti a malincuore, col presentimento di non saper trovare una buona uscita dall'impiccio doloroso. Il solo consigliere Quaiotto, piccolo proprietario del suburbio, uno fra i più ardenti, turbolenti ed eloquenti del partito, era venuto con la testa piena di accuse d'ogni maniera e di propositi feroci, con la risoluzione di far votare un formidabile ultimatum. Il mite Záupa, propenso in cuor suo alle opinioni del Soldini, cominciò a dire che certi dissensi fra la maggioranza e il suo capo naturale, il sindaco, circa certe questioni amministrative gravi, avevano consigliato una riunione quasi plenaria della maggioranza stessa senza l'intervento del sindaco stesso, per trattare dei dissensi...

“... stessi” mormorò l'uomo acido. Ma Záupa, dopo averci pensato un poco, disse invece: “Medesimi”.

L'uditorio parve sorpreso. Coloro che avevano preparato la riunione insieme a Záupa s'interrogarono con gli occhi. Matío si guardò in giro e ripetè più forte, con intenzione: “... sui dissensi medesimi”. Il consigliere Quaiotto, che si era venuto agitando sulla sedia e aveva pure scambiato a destra e a sinistra occhiate di malcontento, disse, non tanto sottovoce: “Ma cosa?”. Gli altri, incominciando a capire l'idea di Matío, contenti di non avere a toccare il tasto scottante, zittirono Quaiotto. Matío proseguì.

Nella sua qualità di membro della Giunta espose con dispiacere i "medesimi'. Appena migliorati gli stipendi degli spazzini eran venute istanze delle guardie di città, degli uscieri municipali, degli insegnanti delle scuole suburbane. Circa i desideri di questi ultimi il sindaco aveva fatto in Consiglio dichiarazioni compromettenti e, Záupa lo diceva con rincrescimento, non autorizzate. Ora conveniva troncare subito, fosse pure con rammarico, un movimento che dagli spazzini minacciava di propagarsi fino al segretario capo e che metteva a repentaglio la salute del bilancio. Conveniva salvare il bilancio a ogni costo e passare all'ordine del giorno su tutte le istanze presentate. Záupa riteneva che gli assessori suoi colleghi non avrebbero avuto difficoltà di far conoscere all'onorevole sindaco Maironi, con dolore, ma nettamente assai, la loro volontà incrollabile, arrivando sino all'offerta delle dimissioni. Capiva bene che questo era quasi un costringere il sindaco a offrire le proprie, ma era pure, lo dichiarava con cordoglio, una imprescindibile necessità. Aveva creduto di esporre così l'opinione propria, modestamente, pronto, del resto, ad accettare...

“... con disperazione” suggerì piano l'uomo acido.

“... con ossequio” disse Záupa “la volontà dei colleghi.”

La piccola assemblea, sulle prime, rimase muta. Poi cominciarono alcuni bisbigli intorno a Quaiotto e si udì costui dire: “O siamo in famiglia o non siamo in famiglia!”. Evidentemente i vicini gli bisbigliavano dei calmanti. Záupa lo guardò, allargò le braccia in un silenzioso dominus vobiscum scattando indietro con il collo, per significare che al fine voluto da Quaiotto si arrivava lo stesso. Ma Quaiotto bolliva sempre più forte, ribatteva a destra e a sinistra i bisbigli degli amici, scotendo loro le mani sul viso perchè gli amici pure si accaloravano. Come in un fascio di sarmenti imposto a coperte brage il calore si propaga con lento lavoro fino a che vi brillan sotto due, tre, quattro punti roventi e il fascio si slaccia, vi spesseggiano le faville, le fumarole, tutto vi bisbiglia, cigola, crepita, e se qualche spettatore impaziente vi accosta un fiammifero acceso, subito ne saetta ruggente la vampa acuta, così rumoreggiando quel gruppo inquieto, e avendovi l'uomo acido, pensoso della minestra, gittato il suo fiammifero acceso “O dentro o fora!”, Quaiotto scattò: “Domando la parola!”.

Parlò con l'onda di grossa facondia che la Provvidenza versa nelle teste più vuote di ciascun partito politico estremo per cavarne salutare frutto di spropositi. Disse che nel Consiglio Comunale si poteva rappresentare una commedia ma che in una riunione privata ciò gli pareva fuor di luogo. Soggiunse, chiedendone scusa all'egregio dottor Záupa, che neppure la scena della commedia gli pareva scelta bene. Dimostrò che respingere con un voto di massima tutte le istanze per aumento di stipendi era impolitico e che sarebbe minor errore, in fin dei conti, aumentar lo stipendio anche al segretario capo.

“Pulito!” brontolò l'uomo acido, mentre altri esclamava: “E il bilancio? E il bilancio?”.

Quaiotto raccolse, per disgrazia, l'interruzione. Cos'erano cinque, sei, ottomila lire per un bilancio di milioni? Fino a che il pallone della sua rettorica aveva navigato le nubi i colleghi erano stati a guardarlo col naso all'aria, ma quando toccò terra, e s'impigliò fra le cifre, gli corsero, come avviene agli aeronauti, tutti addosso.

In fondo la maggioranza della maggioranza, gente pacifica, più penetrata di un malinteso dovere religioso che di passione politica, fedele anche nell'azione pubblica alle vecchie tradizioni delle buone creanze private, subiva il demagogo Quaiotto ma non lo amava. Fu un subisso di proteste. Che cinque! Che sei! Che otto! Quaiotto si voltò inferocito sfidando l'assemblea. Due o tre colleghi, i finanzieri del partito, gli tennero testa. Gli altri si sfogarono fra loro contro le violenze di colui che minacciava di guastar le uova tanto bene accomodate nel paniere del dottor Záupa. E poichè Quaiotto e i suoi contraddittori disputavano in piedi con un baccano del diavolo, si fecero essi pure addosso allo smarrito presidente, gli predicarono di tener duro, duro, duro, di non permettere che si parlasse di scandali privati. L'uomo acido porse un orecchio nel gruppo. “Benon!” diss'egli, ritraendosi. “Il sindaco rompe e i pori cani dei impiegati paga.” Intanto Quaiotto e i suoi avversari si gittavano manciate di cifre negli occhi. “Carta e penna!” gridò uno dei contendenti. “Dottor Záupa, carta e penna, La prego!” Záupa, attorniato, intontito dagli altri, non udiva. Il demagogo esclamò: “Qua mi! Qua mi!”. E diede senz'altro una strappata di campanello. “Un foglio di carta, un calamaio e una penna!”, diss'egli al donnone appena comparve. Ma il donnone si fece avanti rosso rosso, recando sulle mani sporte come un vassoio le brache piegate in quattro, cercando il padrone cogli occhi attoniti.

“Signori! Signori!” gridò Quaiotto trionfalmente. “Zitti tutti! La provvidenza! Adesso c'intendiamo subito! Domando la parola!” E intanto pigliò le brache. Tutti si voltarono a lui, porsero il naso verso l'oggetto misterioso. “Cossa? Braghe? un par de braghe?” I più non sapevano, non intendevano, guardavano le brache, sbalorditi. Qualcuno che sapeva, sorrise, crollando il capo. L'uomo acido domandò sottovoce al suo vicino: “Xele le braghe de la vecia Záupa?”. Quaiotto, spiegata e scossa la sua preda con manifesta compiacenza insisteva: “Domando la parola! Domando la parola! Domando la parola!” mentre Záupa faceva dei gesti severi al donnone, il quale rispondeva con gesti apologetici, mostrando il campanello. Finalmente la serva se n'andò e Quaiotto ebbe la parola.

“Signori” diss'egli, “se la comparsa di queste... di questi... di questo, dirò così, indumento vi pare strana e ridicola, sappiate che il colpevole sono io. L'ho mandato io al nostro egregio presidente e me ne felicito, signori. Quando si tratta del bene pubblico e del trionfo dei nostri principii, delle nostre opinioni, non vi sono argomenti ridicoli. Questo oggetto di vestiario ha una storia incredibile ma vera. Ha una storia dico: e questa storia...”

“E dài!” sussurrò l'uomo acido.

“... questa storia io la racconterò adesso per vostra edificazione e perchè, siccome capisco che voi, egregi colleghi, per un sentimento di squisita delicatezza...”

L'uomo acido borbottò più forte: “A proposito de comedie!”.

L'oratore, seccato, lo apostrofò. “Cossa gala, Ela? La faccia la grazia de tasere, La faccia.”

L'uomo acido storse la bocca, gli occhi, le sopracciglia, le rughe gialle delle guance e della fronte nelle più contraddittorie e assurde direzioni, ma non ribattè sillaba.

“Siccome capisco” riprese Quaiotto “che voi, egregi colleghi, siete alieni, per un sentimento di squisita delicatezza, dall'occuparvi di spinose faccende private, il mio racconto vi suggerirà un modo di uscire dalle presenti difficoltà senza toccare quelle faccende, e anche senza sacrificar gl'interessi di tanti fedeli e miseri servitori del nostro Comune.”

Qui molti esclamarono: “A pian! A pian! A pian!”. L'oratore non se ne diede per inteso e continuò:

“Voi sapete che recentemente fu nominato inserviente della Biblioteca il figlio di quel Pomato detto Çeóla, socialista, forse anarchico, ch'è giardiniere di una certa casa dove l'illustrissimo signor sindaco pratica molto.”

Il dottor Záupa diventò rosso e tossì.

“Non abbia paura, signor presidente! Mi fermo a tempo. La Giunta avrà nominato il signor Ricciotti Çeóla per far piacere all'illustrissimo signor sindaco, ma ha fatto male, diciamola. Bastava il nome Ricciotti per capirlo. Dunque il signor Ricciotti, appena nominato, si presenta al bibliotecario, e il bibliotecario lo manda dall'economo municipale per il vestito. Il signor Ricciotti va dall'economo e si fa mostrare il vestito. Appena veduti i calzoni filettati di rosso, protesta che non vuole uniformi. L'economo, invece di fare il proprio dovere e mandarlo al diavolo...”

Alcuni consiglieri pii grugnirono.

“Bene, dirò così: invece di mandarlo da suo padre, l'economo gli dice che parlerà coll'assessore. L'assessore, ch'è il nostro egregio presidente qui, persona gentile, persona benigna quanto mai, propone alla Giunta di cambiare la filettatura rossa in una filettatura blù. I calzoni sono neri. La Giunta approva.”

Matío assentì del capo, sorridendo modestamente.

“Adesso vi prego, signori, di guardare la filettatura e di giudicare.”

Quaiotto posò i calzoni sul tavolo, davanti a sè.

“Vi prego di dirmi se il filo potrebbe essere più invisibile, se il blù scuro non si confonde col nero!”

Záupa sorrise ancora e crollò il capo come scotendo da sè un alloro ideale che il collega gli avesse offerto per la sua fine trovata.

“Invece” proseguì Quaiotto, “il signor Çeóla, richiamato dall'economo, gli dichiarò che i suoi principii gli vietavano di accettare il blù come il rosso e fece poi la stessa dichiarazione anche al bibliotecario...”

“Il quale” interruppe un consigliere informato, pescando con due dita nella tabacchiera e sorridendo al tabacco, “ga risposto: "E Lu el se dimeta'. "Mi no' dise el toso. "Ben' dise el bibliotecario "e Lu el vegna senza braghe.'”

“Benissimo!” rispose Quaiotto. “Il signor bibliotecario, persona intelligente, persona dotta, persona pratica del mondo, avrà risposto come avrà creduto meglio. Adesso state attenti. Il signor Çeóla va da un consigliere liberale, liberalissimo, che lo protegge. Non faccio nomi ma la cosa è certa. Il nostro collega liberale, appena udito il suo racconto, lo abbraccia, gli fa gran complimenti sulla sua nobiltà e fierezza, lo incoraggia a tener duro, va dal bibliotecario, lo investe, gli tira fuori il Medio Evo, gl'ideali moderni, il filo blù che poi diventerà rosso per la vergogna e persino l'uguaglianza cristiana.

Lo dico perchè stavo leggendo nella stanza vicina” (“Cossa!” mormorò l'uomo acido. “La vita de Bertoldo?”) “... e ho udito colle mie orecchie.”

Qualcuno domandò che avesse risposto il bibliotecario al collega liberale.

“Il bibliotecario? Prima ha risposto: a me la conta? Vada al Municipio. E poi ha detto: li ha visti, Lei, questi calzoni? E il nostro signor collega talentone ha dovuto confessare di no. Non si è però dato per vinto. Al Municipio, s'intende bene, non ebbe il muso di presentarsi. Doveva andare dal signor commendatore Prefetto per affari della provincia, insieme a un senatore e a due deputati. Non faccio nomi. Sbrigati gli affari della provincia si fa un po' di conversazione e il nostro collega... scherzando... mettendo quasi la cosa in ridicolo... vien fuori con l'affare dei calzoni”.

Qui l'uomo acido, desideroso di una rivincita, esclamò: “Come fala a saverlo?”.

“Come faccio a saperlo?” rispose Quaiotto sdegnosamente. “Lo so perchè lo so. E La prego di credere che quel che so lo so.”

“Bravo!” fece l'uomo acido. Il suo vicino gli disse sottovoce che l'usciere di prefettura Martinato era fratello del gastaldo di Quaiotto. Questi continuò:

“Tanto il senatore quanto i deputati ci mettono pure le loro risatine. L'illustrissimo signor Prefetto la piglia sullo stesso tono. Scherzano, ridono tutti e cinque. Non credo che il signor Ricciotti Çeóla sarebbe stato contento dei loro discorsi, se avesse origliato all'uscio; ma intanto l'illustrissimo signor Prefetto si assume di parlarne all'illustrissimo signor sindaco. Infatti il giorno dopo, ier l'altro, Prefetto e sindaco si trovano insieme in quella tale casa, si parlano, scherzano, ridono. Voi non lo crederete: ieri Çeóla si presenta in Biblioteca con una lettera del signor sindaco che lo dispensa dall'uniforme. Il nostro dottor Záupa non ne sa niente, nessuno della Giunta ne sa niente, Çeóla trionfa di tutto e di tutti, e i calzoni che dovrebbero prestar servizio in Biblioteca, eccoli qua!”

L'oratore, temendo che si sorridesse, temendo che lo sdegno dell'uditorio non riuscisse adeguato al suo desiderio e al misfatto del sindaco, balzò in piedi, e gesticolando, declamando come un barbiere in tragedia, esclamò:

“Signori! Questo atto del signor sindaco, non esito a dirlo, è inqualificabile. Questo atto è un insulto alla Giunta, un insulto al bibliotecario, un insulto alle tradizioni dell'amministrazione comunale, un insulto ai nostri principî, alle nostre opinioni. Pare un piccolo fatto, signori, ma invece è un fatto grande, come sarebbe un fatto grande la prima piccola goccia che in questo istante filtrasse dal fiume sotto le fondamenta dell'onesta casa dove siamo raccolti”.

Il dottor Záupa alzò di scatto le sopracciglia fino ai capelli. L'altro riprese:

“È necessario che questo atto del sindaco venga revocato! E` per noi questione di dignità, questione di onore. E` necessario che una deliberazione della Giunta stessa e, se occorre, del Consiglio medesimo, tolga la concessione inconsulta. E` necessario!”

Quaiotto, avendo concepito il disegno di assistere la propria eloquenza con un pugno di gran suono sul tavolo, spinse con la sinistra i calzoni da banda e con la destra menò il pugno, mentre i suoi vicini gli gridavano “Ocio! Ocio!” e un cestellino di porcellana dorata spinto da una bomboniera, spinta da un album, spinto dalle brache del Municipio, capitombolava nell'abisso.

"Oh Dio, la mamma!' pensò Matío nel cuore mentre la bocca diceva: “Gnente, gnente, gnente!”. E si precipitò col desolato Quaiotto, con i colleghi più agili, a raccogliere gli sparsi cocci dorati. Quattro schiene tumultuavano sotto il tavolo: quella del buon Matío che ripeteva “gnente, gnente, gnente”, quella di Quaiotto che gemeva “per carità, per carità, per carità!” e altre due schiene ricche di buone speranze nella risurrezione artificiale del cestellino. Gli undici personaggi seduti, intenti, con le mani sulle ginocchia, alle quattro schiene e ai cocci brillanti, dirigevano il lavoro. “Quaiotto, a dritta!” “Dotòr, a sinistra!” “Più in qua!” “Più in là” L'uomo acido, dato di gomito all'uomo amaro e poi a un altro vicino, mostrava loro con un sorriso giallo la testa e il seno della donnetta di porcellana che uscivano dalla tasca posteriore sinistra dell'abito di Matío. Inutilmente il donnone ricomparso sulla soglia con una lettera in mano chiamò tre volte, guardando stupefatta quella baraonda: “Siòr paron! Siòr paron! Siòr paron!”. Matío non udì che la quarta chiamata. Cosa c'era adesso! Una lettera di gran premura, mandata dal signor sindaco.

Il presidente dell'adunanza uscì rosso rosso di sotto il tavolo, prese la lettera, l'aperse, mise una esclamazione, dedicò un nuovo omaggio mentale alla finezza dello smilzo abate, chiamò a due mani i colleghi a sè e lesse ad alta voce:

Egregio signore, Apprendo che i consiglieri della maggioranza si riuniscono quest'oggi in casa Sua per trattare di affari del Comune. Non invitato alla riunione, giudico, senza sorpresa e senza il menomo rammarico, che la maggioranza desideri troncare i suoi legami con il capo dell'Amministrazione comunale. Risolvo perciò di rassegnare immediatamente le mie dimissioni al R. Prefetto e ne do comunicazione a Lei, assessore anziano, avvertendola che non rimetterò piede in ufficio. Gradisca, egregio signore, i sentimenti della mia personale osservanza.

Devotissimo

P. Maironi

“Evviva!” gridò Quaiotto. “Eclissi del sindaco!” E tutte le facce s'illuminarono, meno quella dell'uomo acido. “S'el mandava la so ciacierata un'ora prima” diss'egli scendendo le scale, “no me tocaria de magnar i risi longhi e no gavaria le scarsèle piene de braghe”. “E io Le dico” gridò su Quaiotto dal fondo della scala, “che ho le tasche piene dei Suoi brontolamenti!” L'uomo acido storse la bocca, gli occhi, le sopracciglia, le rughe gialle delle guance e della fronte, forse anche gli orecchi, ma non ribattè sillaba. Gli altri non facevano che parlare a lingua sciolta degli amori del sindaco e la scala era piena di tutto che nel salotto si era faticosamente taciuto. “E cossa dise la marchesa?” “Povareta, la xe un spetro.” “E el marchese?” “El se adata.” “Ma sémoi proprio a sto punto?” “Mi digo de sì.” “Mi digo de no.” “Disela de no? I dise de sì.” Le stesse cose si erano bisbigliate sulle scale, più sommessamente, prima della seduta, fra i consiglieri che s'incontrarono a salirle insieme. Così entrano bisbigliando in un cavo montano rivoletti che lo empiono di acque silenziose e queste poi traboccando insieme a valle ripigliano le chiacchiere con maggior voce.




III


I nuvoli che alle quattro pendevano sulle spettabili tegole dell'onesta casa Záupa, diedero alle sei un violento acquazzone. Tuoni, lampi, furioso vento apersero nitide da levante a ponente le vie della luna. Il principio dell'eclissi era annunciato per le undici e mezzo, e verso le undici Maironi doveva recarsi a villa Diedo per salire poi con i Dessalle sul vicino colle, dove un nastro di magnifica via serpeggia per le alture signoreggiando a vicenda, e talora insieme, l'oriente infinito e il disordinato campo d'occidente che le radici tortuose dell'Alpe ingombrano sino alla fuga obliqua dell'alte sue fronti. Poco dopo le dieci e mezzo egli si metteva per la stradicciuola ripida e deserta che sale alla villa dalla scuderia. La luna radeva le vette degli alberi pendenti dalla costa sulla strada. Piero, camminando rapidamente nell'ombra, udì un chiacchierìo di voci femminili e maschili che gli scendevano incontro. Rallentò egli pure il passo.

Riconobbe le voci delle signore che Carlino Dessalle chiamava contessa Importanza e contessine Importanzète, di altre signore, di ufficiali e borghesi suoi conoscenti, che ridevano, si facevano congratulazioni smaccate, magnificavano lo spettacolo dell'eclissi dalla terrazza della villa. Gli uomini schiamazzavano, la contessa Importanza li sgridava: “Zitto! zitto!”, un'altra, che pareva furiosa, esclamava: “Che zitto! Parlate forte! Per me giuro che non ci ritorno mai più!”. Precedeva un gruppo di signorine, ridendo a proposito di certa eclissi che non era quella della luna, della eclissi di un giovine signore, la quale, a sentir le altre, aveva molto afflitto la maggiore delle Importanzète. Questa protestava, ritorceva gli strali, parlava di eclissi del thè, del babà, delle sigarette cubane, dolcezze sperate invano dalle amiche, di eclissi di un tenente e di un segretario di prefettura, sperati anch'essi e non visti comparire al ritrovo.

Qualcuno gridò dalla retroguardia: “Dica eclissi della buona creanza!”. La dama furiosa confermò: “Bravo! E cosa credete? Che vadano a veder l'eclissi, lei e l'amico? Si eclisseranno loro, invece, in qualche boschetto!”. Si capiva che la compagnia era salita a villa Diedo con l'elegante idea di fare una sorpresa gradita, pigliando l'eclissi a pretesto; e che Jeanne l'aveva poco amabilmente congedata. Le signorine incontrarono Maironi che saliva rasente il muro di sostegno della costa, nell'ombra. Una di esse lo riconobbe, finse di sdrucciolare e appiccicatasi di peso al braccio della povera Importanzèta minore, la fece sdrucciolar davvero, strillò con la sua vittima. Subito strillarono anche le madri, i cavalieri si slanciarono al soccorso, tutta la retroguardia venne giù sull'avanguardia come una valanga e Maironi passò.

Trovò socchiusa la porta del giardino, entrò sotto la folta carpinata di sinistra cui luceva in fondo un chiaror di ghiaia illuminata dalla luna. Da un lato della carpinata un'ombra nera scattò sul chiaror bianco, Piero si sentì stretto nelle braccia di Jeanne, n'ebbe la fronte impetuosa sul petto. Stettero così lungamente abbracciati senza una parola, egli con la bocca sui tepidi, soffici capelli di lei, respirandone l'odore; ella stringendolo forte, premendo e scotendo la fronte come per rompergli il petto ed entrarvi tutta.

Finalmente Jeanne disse piano, senz'alzare il capo, che suo fratello era fuori di città, che aveva tanto gioito di questa inattesa fortuna e poi tanto trepidato, tanto temuto; temuto di non poter star sola con lui, prima; poi quando le era riuscito di mandar via dei noiosi, temuto che egli non venisse. E gli rise sul petto un piccolo riso di gioia. Piero non disse niente, le prese il capo a due mani, glielo alzò a forza, la baciò ingordo, sugli occhi, sulle guance, sulle labbra, sempre in silenzio, Jeanne concedendosi, rendendo i baci ma senza foga. Ella gli levò alfine dolcemente le mani dal collo, gli prese il capo alla sua volta, lo baciò sulla fronte come per quietargli il sangue e sussurrò: “Adesso dimmi una parola”. Ma perchè il giovine, ingordo ancora, inasprito nel suo desiderio, rispondeva solamente, fra un bacio e l'altro: “Ho sete, ho sete”, ella si staccò da lui, disse risoluta “basta”, gli ordinò di uscire, di star fuori alcuni minuti, di suonare il campanello per riguardo ai domestici. Ell'andava ad aspettarlo sulla terrazza. Maironi obbedì, malcontento.

Cinque minuti dopo, un domestico usciva, precedendolo dalla carpinata tenebrosa nel chiaro di luna, e, alzata la impenetrabile faccia liscia di romano antico alla balaustrata della terrazza, annunciava:

“Il signor Maironi.”

Jeanne, ritta dietro la balaustrata, chiusa in un mantelletto bianco, rispose al saluto rispettoso di Piero: “Che bravo!” e sorrise. Piero salì sulla terrazza con il cappello in mano, con un sorriso troppo simile al sorriso di lei che gli veniva incontro. Era magnifica, nel chiaro di luna, la terrazza di marmo bianco, protesa dal piano signorile della villa, porgente lo scalone al giardino, sommersa la balaustrata nel furioso assalto del roseto, in una scarmigliata pompa di fogliame denso, di grandi occhi carnei, di lunghe frondi mobili ai fiati vagabondi della notte. Era magnifica con il suo arco di bellezza in giro alle tre fronti, via via dagli umili oscuri piani del settentrione al radiante chiarore del cielo sopra la città illuminata, al dorso dell'altura stretto fra le due carpinate lunghe, ai campi arati dormenti nella valletta del mezzogiorno, sotto la luna.

“Perchè non si resta qui?” disse Piero con voce sommessa, come se le parole innocenti potessero tradire a qualche orecchio curioso il suo desiderio di un'ora beata in quel solingo incanto di marmi e di luna, fra le rose inquiete, accennanti un voluttuoso invito.

“Adesso si resta qui” rispose Jeanne; e ordinato al domestico il caffè, la bevanda favorita di lei e dell'amico, si avviò verso alcuni sedili di bambù aggruppati in un angolo della terrazza.

“E poi si va” diss'ella piano, abbandonandosi riversa, con un sospiro, sulla poltrona bassa lambita dalle rose. Vide negli occhi di Piero un lampo che la fece rizzarsi di botto. “Com'è cattivo, Lei!” diss'ella. “Io non ci penso mai.”

Egli protestò, acceso, che non era cattiveria di amarla con tutto il suo spirito e tutto il suo sangue, di...

Jeanne lo interruppe con un gesto, gli additò una finestra della villa, illuminata e aperta.

“Le cameriere” diss'ella.

Piero si morse le labbra, la guardò a lungo, parlando con gli occhi fissi, ardenti. Poi le disse che non era più sindaco, che aveva rotto con quella gente, per sempre, che gli pareva di nascere a un'altra vita, ch'era ubbriaco di libertà. Appena proferita la parola gli sovvenne della catena intatta. Jeanne parve colpita dalla stessa idea, non trovò niente a dire. Dopo un momento di silenzio penoso, parlò dei seccatori venuti dalla città col pretesto dell'eclissi per fare una bizzarria elegante e divertirsi. Aveva dovuto licenziarli con desolazione, povera Jeanne! Un impegno, un ritrovo sulla via dei colli, con amici. In verità suo fratello l'aveva lasciata in forse di ritornare da Venezia con un amico pittore, in tempo di assistere insieme all'eclissi, ed ella si era impegnata di salire ai colli in carrozza e di fermarsi ad attenderli sul tratto di via che signoreggia i due versanti. I seccatori parevano disposti ad aspettare ch'ella partisse. “Temo di non essere stata molto gentile”, diss'ella. “Del resto” soggiunse, alludendo a due dame della città che l'adoravano malgrado un assai tepido ricambio da parte sua, “nè l'una nè l'altra delle mie gelose c'era, le mamme e le signorine della compagnia erano venute immensamente più per mio fratello che per me; e forse qualcuna era venuta per eclissarsi in buona compagnia nel boschetto o sotto le carpinate.”

Maironi pensò involontariamente che aveva udito dai "seccatori' una simile parola detta per Jeanne, e non n'ebbe piacere. Intanto entrò il romano antico recando il caffè.

“Sapevo quello che Lei mi ha raccontato” disse Jeanne. “Me lo ha detto questa sera, mezzo costernato, mezzo fremente, il signorino fiero della biblioteca. E ho capito che lo sapevano anche gli altri. Je les ai entendus dire en partant que j'avais les nerfs et que c'ètait l'effet de la crise.”

“Andiamo a piedi, eh?” diss'ella poi. “Faccio scendere la carrozza alla stazione e ordino che ci raggiunga poi a ogni modo, arrivino o non arrivino.”

Diede le istruzioni al domestico e si alzò mentre dall'alto santuario del colle, bianco sul cielo sereno, suonava la gran voce solenne della mezzanotte. Poichè andavano a piedi era tempo di mettere il cappello e i guanti.

Maironi la seguì in sala, nella bella sala rettangolare onde il Tiepolo ha dipinto le due pareti maggiori, mostrandoci qua Ifigenia fra i carnefici e i principi dolenti, là gli equipaggi achei volti alle navi per l'imbarco. Era semiscura, odorata di héliotrope e di sigarette cubane.

“Restiamo qui, restiamo qui” disse il giovine con una voce tanto strana, con un accento di supplica tanto ardente che Jeanne, avviata a salire nelle sue camere, affrettò il passo. Egli balzò dietro a lei nel corridoio oscuro che conduce alla scala, le gittò le mani alla vita, ma ella se ne strappò di slancio, saltò nella luce della scala. Ridiscese presto, triste, con la cameriera.

Appena il domestico ebbe chiuso alle loro spalle il cancello del giardino, Maironi chiese perdono. Jeanne non rispose. Egli si sentì gelare il sangue, si fermò sui due piedi.

Jeanne gli prese il braccio, gli disse che non era in collera, ch'era soltanto triste, molto triste, di sovreccitargli tanto i sensi, di non essere intesa nei suoi slanci di amore immenso e tuttavia non sensuale. Era dolente e sorpresa di esercitare un'influenza simile sopra di lui, suo primo vero amore, mentre altri che l'avevano amata e forse l'amavano ancora, senza ricambio, si sentivano come purificati da lei, le avevan chiesto amore nel nome della loro salvezza morale. Perciò temeva di essere amata da lui solamente come una dolce liberazione dal suo passato, la quale non gli paresse completa senza un atto di offesa mortale, irrimediabile, a questo passato, senza un atto che lo legasse quasi materialmente alla sua liberatrice. Qui egli volle interromperla, ma Jeanne non lo permise. Se nella sua passione violenta ella si faceva talvolta umile davanti a lui come una schiava, lo giudicava ora con un'alta indipendenza, con un acume, con una tranquilla franchezza che lo sgomentarono.

“Non mi ami più?” diss'egli. Ella fece: “Oh!” e gli strinse il braccio, gli si serrò con impeto al fianco. Una ricreante dolcezza lo invase. “Anch'io” diss'egli “sono stato purificato da te perchè adesso il piacere senz'amore mi farebbe schifo. In questo momento poi mi sento puro come vuoi tu. Pensa che ti bacio sulla fronte.” Jeanne sorrise. “Sì, caro” e continuò:

“Vedi, devi credermi; io sono proprio singolare, in questo. Non so se sia freddezza di natura, se sia orgoglio, se sia conseguenza dell'impressione orribile ch'ebbi dalla brutalità di mio marito, se sia, non so, un senso estetico, se sia tutto questo insieme. So che l'idea sola della sensualità estrema m'ispira un'immensa ripugnanza. Forse potrei, con uno sforzo, sacrificarmi per compiacere la persona che amo, ma sarei certissima di amarla molto meno, dopo. Anche te sento di amar meno in certi momenti che sai, come poco fa. Sarò strana, unica, ma è così! E poi vi è mio fratello. Io mi sento madre per mio fratello e mio fratello ha la più grande fiducia nella mia elevatezza, mi adora come un essere superiore a ogni fragilità umana. Sarebbe terribile per lui di scoprire che mi abbasso come le altre. Perchè poi io lo credo freddo anche lui, di temperamento; certo è schivo morbosamente, per un uomo, non soltanto d'ogni atto poco fine ma d'ogni parola che tocchi certi argomenti. Non ha più religione di me, eppure io direi che vive proprio non come gli altri. Forse ha un po' la religione della sua salute...”

Jeanne guardò la luna. “Non so” diss'ella “come faccio a parlare con Lei di simili cose, prima dell'eclissi totale.”

“Con Lei?”

“Sì, con Lei! Non vede che c'è gente?”

Uscivano allora dalla viuzza stretta fra due muri sullo scoperto dorso ascendente alle maggiori alture, dove, a pochi passi da loro, lungo il parapetto che corona il ciglio del piazzale verso la città, camminava una frotta di giovani conversando e ridendo.

“Adesso che ha piantato quei santocchi” diceva uno di loro soverchiando con la voce il chiasso degli altri, “per il piacere...”,

e qui una sconcezza, “adesso lo stimo e gli do il voto!”

“Ma che!” gridò un altro. “E` stato per i calzoni di Ricciotti!” Una risata e passarono.

Lì presso, la strada che viene da villa Diedo e dalle altre ville del poggetto si allaccia con quella che sale al Santuario dalla città. Maironi, livido, si avviò con la sua compagna verso le ombre dei grandi ippocastani allineati come una guardia d'onore sulla sinistra dell'ampia salita. Avanti e dietro a loro salivano alcuni altri curiosi dell'eclissi. Udirono un signore che li precedeva con due signore, dire alle sue compagne: “Sarebbe bella che lei guarisse!”. Forse non parlava della persona cui Maironi e Jeanne pensarono, ma le parole oscure percossero questi due come un soffio di ghiaccio. A ciascuno fu amaro anzitutto il pensare che l'altro pure aveva udito; poi, che non era possibile dir niente; poi, che il loro stesso imbarazzo pareva non scevro di ridicolo. Senz'accordo, senza parlare, passarono insieme dall'altro lato della via. Jeanne ruppe il silenzio, disse che a suo fratello era venuto il capriccio di dare a villa Diedo o un garden-party in giugno o una festa in costume nel prossimo inverno, per la quale sarebbe stato necessario di coprire le terrazze con ferro e vetro e perciò d'incominciar presto almeno gli studi, ch'ella vi era contraria ma che gli amici e le amiche di Carlino, con quest'idea del Tiepolo, del Settecento e dei costumi tiepoleschi e settecenteschi, gli montavano la testa persino da Firenze. Posto l'ambiente pettegolo, c'era da sperare che la festa andasse a monte come il pick-nick. Piero non parve prendere interesse al discorso. Allora Jeanne gli domandò, parlando piano perchè davanti a loro saliva una brigata di giovani e signore, se non fosse probabile che il Consiglio comunale lo rieleggesse. No, non era affatto probabile. Perchè non si credesse a un puntiglio, a un dispetto, Piero intendeva inviare al più presto le sue dimissioni anche da consigliere.

“A quante cose pensa Lei!” disse Jeanne. “Io penso a una sola.” “Io posso pensare quella che Lei dice” rispose Piero “intensamente quanto Lei, e posso insieme pensarne altre!”

Nel gruppo dei giovani e delle signore si discorreva di blasone. Alcune signorine, ferocemente democratiche, parlavano della nobiltà e anche della borghesia mescolata ai nobili, come di gente inferiore intellettualmente e moralmente, destinata a finire di logorarsi nell'ozio e nei piaceri, a scomparire nella rovina economica che li minacciava quasi tutti e di cui si vedevano in giro molti segni mal coperti di stemmi, di corone, di livree. E qui, a voce più bassa, si dicevano i nomi. Ciascuno del gruppo aveva a raccontare grettezze segrete di gente fastosa, debiti vergognosi, segrete strettezze di gente che non sapeva rinunciare a costose apparenze, miserie intellettuali della classe alta, ignoranze crasse, apatìe cretine, bigottismo, ateismo pratico senza base razionale; miserie morali, accidie, burbanze con gl'inferiori, durezze avare, amori senz'amore.

“Almeno questo no” mormorò Piero all'amica. Egli nobile, lei borghese mescolata ai nobili, si divertivano di quei panegirici.

“Socialismo, socialismo!” esclamò ridendo uno dei giovani. Due o tre ragazze, uscite di fresco dalla Scuola magistrale, appunto inclinate al socialismo, ardite, franche, raccolsero il guanto. I giovani, usciti di fresco dall'Università, replicarono con foga ironica, opponendo alle ragazze la dottrina liberale, concedendo questo e negando quello dall'alto della loro superiorità maschile. Essi parevano più colti; le donne, nella loro passione per una creduta giustizia, parevano più forti. Irritata dal tono sarcastico dei contraddittori, una di esse rispose così pungente che qualcuno replicò:

“Cara Ela, La dovaría sposar Ciotti Çeóla.” La signorina rispose scherzando che lo stimava più di loro, ma che pur troppo l'eroe era già prigioniero di una cameriera. Allora una delle due povere vecchie mamme fuori d'uso, prese con sè da quella briosa gioventù e sfoderate come due stracci di passaporti, turbata dalle audacie della conversazione, osò dire: “Andemo, andemo!”. L'altra, dolce, candida, ineffabile oca, usa snocciolar rosari e lasciar la briglia sul collo alle figlie, soggiunse, perchè toccavano allora l'alto piazzale del tempio: “Almanco no fève sentir da la Madona!”. I giovani si sparsero ridendo a guardar il panorama e la luna.

“E tu adesso” disse Jeanne sorridendo “ti metterai con i liberali?”

Maironi non rispose. Fatti pochi passi, entrarono nell'ombra della chiesa. Egli prese allora il braccio di Jeanne, che resistette. “Per me non importa se ci vedono” diss'ella, “ma temo di far male a te.” Il giovane la trasse a sè con violenza, ella cedette subito. “Non temere, no” diss'egli. “Io disprezzo tutto quello che tutti hanno detto, che dicono e che diranno. Del resto non mi parlare dei partiti di qui! E non mi parlare di questa città che mi diventa più odiosa ogni momento. Già io non sono nato qui e ho un altro sangue nelle vene. Adesso poi che ho rotto con tante cose, il mondo mi si allarga e mi s'illumina intorno immensamente. Mi par d'essere un Dio, capisci, in una pozzanghera. Mettermi con i liberali? Ma con qual partito mettermi qui, santo cielo, se hanno tutti un'impronta di angustia e di miseria! Guarda i clericali! Se c'è un clericale col quale si possa discutere non è di qui, è Soldini, che viene da Milano. I liberali? Lo so che adesso li avrò tutti intorno a me e ne son seccato a quest'ora. Li conosco e li peso! E poi, già, io non so ancora cosa diventerò. Tanto, sai, la mia parte d'azione nel mondo la esercito! Non so, mi pare di esserci portato dal destino, ma non credo che neanche fuori di qui diventerei mai quello che si chiama un liberale. Gente invecchiata. La libertà è stata un ideale e adesso non può essere che un'arma. E` più facile che tu mi veda socialista.”

“No no” fece Jeanne; senza molto calore, però.

“Eh, non socialista con i socialisti di qui, sai! Forse neanche con i socialisti di Milano e di Torino che valgono di più. Certo mai con gl'ignoranti, nè con i disonesti, nè con i cupidi!”

“Ma neanche con gli altri!”

“Perchè?”

Piero sapeva che Carlino Dessalle era un feroce nemico del socialismo; non s'era mai accorto che Jeanne dividesse il sentimento del fratello.

Infatti Jeanne non ne divideva l'odio. Era scettica, profondamente scettica.

“Perchè è una cosa inutile” diss'ella. “Il mondo va come deve andare. Sono sogni. Sarai una mosca del carro.”

Egli protestò così sdegnosamente che Jeanne se ne atterrì. “No no, scusa scusa, zitto zitto!” Sopraggiungeva allora la comitiva oltrepassata sul piazzale della chiesa. I giovani, già tanto chiassosi, passavano in silenzio, rapidamente, avendo riconosciuto Maironi. Invano le due povere mamme sgangherate arrancavano loro dietro gemendo: “Tosi! putèle!”. Maironi aspettò che passassero anche le due mamme e poi ritornò alle proteste; ma Jeanne lo supplicò di smettere, di non guastare l'ora felice, di parlarle di amore, soltanto di amore, e la sua voce aveva lente carezze di mani tenere. Egli si arrese, ebbe un ritorno di passione come nella villa, voleva lasciare la via maestra, prenderne un'altra ombrosa che se ne spicca pochi passi oltre la chiesa. Jeanne si oppose. Piero insisteva, quasi violento. “Adesso ti prendo fra le braccia, ti porto dove voglio io.” Ella tenne fermo, lo trasse avanti.

“Avresti gridato?” diss'egli.

“No, ti avrei morso.”

Egli tacque. Fatti pochi passi, Jeanne, conducendo a fine con la voce un ragionamento incominciato nel silenzio, gli domandò se avesse rotto proprio del tutto anche con la sua fede. “Credo di sì” diss'egli. Jeanne sorrise. “Come, credi?” Egli giustificò la parola strana. “Sai, vi è nell'anima mia un tale polverìo di rovine ancora in moto, che non so bene cosa sia caduto e cosa resti in piedi. Credo di credere ancora in Dio, questo sì, ma non nel Dio che mi hanno insegnato. Quello l'ho sepolto a Praglia. Era già mezzo morto dentro di me, anche prima: stavo però ancora nel vischio delle mie vecchie abitudini mentali. Chi sa, se tutti i cattolici fossero come un vecchio prete che conosco, non avrei perduta la fede. Anche lui, però! Mi dice che non devo giudicare la Chiesa cattolica da qualche centinaio di persone e io non sapergli rispondere che da tutta intera la Chiesa cattolica si va ritirando la vita, che tutto vi è antiquato, dalla parola del Vaticano a quella dell'ultimo cappellano di campagna! Una volta ho pensato: "Se venisse un altro San Francesco! Se venisse un altro Sant'Agostino!' Adesso so che non verranno”.

“Mi dispiace” disse Jeanne “che tu abbia perduta la fede.”

“Perchè?”

“Perchè so quanto è triste di non aver dentro di sè niente di fermo, niente di assoluto.”

“Tu non hai niente, in te, di fermo?”.

“Niente, tranne l'amore.”

“Non credi neppure che ci sia un'altra vita?”

“No” rispose Jeanne, sospirando.

Tacquero entrambi. A un tratto Jeanne esclamò: “E la luna?”. Alzarono insieme gli occhi alla luna, quasi dubitando che l'eclissi fosse già passata. L'ombra copriva un terzo dell'astro. Guardarono l'ora. A momenti avrebbe dovuto arrivare la carrozza.

“Spero che non vengano” disse Jeanne. Soggiunse che il pittore veneziano era stato innamorato di lei e confessò che una volta, pure non amandolo affatto, lo trovava carino, e si divertiva delle pazzie ch'egli, malgrado i rabbuffi di lei, le diceva.

Adesso non le diceva più pazzie e le era venuto a noia. Maironi finse d'intendere ch'ella rimpiangesse le pazzie di colui, fece il geloso. Risero insieme, risero deliziosamente di altri innamorati di Jeanne, del capitano Reggini, uggioso, malgrado il suo spirito, per la gelosia che si permetteva con quel bel diritto, risero di un maturo signore ammogliato della città, ambizioso dell'alloro di libertino e poco pratico del mestiere, che non s'era peritato di far l'audace e, messo a posto, aveva preso il Ponte dei Sospiri.

Una carrozza dietro a loro. Cavalli bianchi; non la carrozza Dessalle. Jeanne e Maironi si fecero da banda, nell'ombra di un muro. Principiava lì una discesa ripida, il cocchiere mise i cavalli al passo. Era uno stage pieno di signore, di ufficiali e di una chiassosa discussione astronomica sul naso del colonnello, del quale naso il capitano Reggini giurava veder l'ombra sulle montagne della luna e proprio sul vulcano della Desolazione, mentre qualcun altro giurava alla sua volta che quella era l'ombra delle appendici frontali di... Proteste inorridite, esclamazioni, risate, risatine, satire, cavalli e stage, tutto passò. A Jeanne pareva che fosse stato pronunciato il nome di suo marito.

“Anch'io sai” diss'ella, “vorrei tanto andar via!”

“Dove?”

“Dove nessuno ci conoscesse.”

Egli la comprese, le strinse forte il braccio, le domandò:

“E tuo fratello?”

Jeanne sospirò. “Basterebbe dirgli che nella valletta del Silenzio, dopo le piogge abbondanti, l'acqua ristagna e infetta un pochino l'aria. Ma io non lo farò. Villa Diedo gli piace tanto e ci ha già speso un tal monte di denaro!”

Ecco i cavalli di casa Dessalle, al piccolo trotto. Il landau è vuoto, il romano antico scende di cassetta e dice che non è arrivato nessuno. Jeanne e Maironi salgono. Jeanne non vorrebbe incontrare lo stage, propone, senza troppo riflettere, di ritornare a villa Diedo e attendervi il culmine dell'eclissi sulla terrazza. Maironi le mormora un “grazie” così caldo ch'ella si pente della proposta. Non osa però mutarla.

Soltanto allora, risalendo lentamente l'erta, dietro le orecchiute maestà del cocchiere e dello staffiere, Jeanne e Piero guardarono la scena del loro idillio, le bianche villette più e più smorte per i colli oscurati, il tremolar nuovo di stelline nascenti dal profondo del cielo. Passavano ondate d'aria tiepida, odori d'acacie in fiore, ondate d'aria fresca, odori di bosco umido.

“Il Suo paese è bello, però” disse Jeanne.

“Non è il mio.”

“Come, non è il Suo?”

Maironi rise per il tono delle parole di Jeanne che pareva offesa, pareva non credergli.

“Sempre orgogliosa!” diss'egli. “Non vuol mai avere sbagliato!” Ella sorrise pure, gli alitò sul viso un “Cattivo!”. Poi gli domandò ad alta voce dove mai fosse il suo paese e soggiunse piano: “Lo so, non ci aveva pensato”. Piero le parlò della casetta dov'era nato, del romito lago, delle grandi, austere montagne di Valsolda. Il landau toccava allora il sommo dell'erta, i cavalli presero il trotto.

“Se fossimo là in barca, noi due soli!” disse Piero. “Ci saremo mai? Soli, in una piccola barchetta, nell'ombra di un golfo, sull'acqua che palpita?” Passò un braccio dietro le spalle di Jeanne, sentì la bella persona rilevarsi un poco e poi premergli sul braccio, deliziosamente, ora più ora meno, rispondendo a ogni sua stretta. Non si parlarono più che così. I cavalli correvano, gli odori ventavano sulla via dell'una e dell'altra fiorita sponda, tutte le cose si facevano al mancar della luna più e più smorte in un languore voluttuoso, nel presentimento di una congiunzione arcana dei due astri nell'ombra.

Appena un sottile orlo di argento del rossastro globo lunare brillava ancora quando i due risalirono sulla terrazza oscura. Si sentivano sì e no nell'aria inquieta e buia gli aliti delle rose come voci di desiderio e di pena. Si vedevan sì e no le frondi porgersi in qua e in là come braccia di ciechi brancolanti. Nel chinarsi per volgere la poltrona da riposo verso il ponente ove la luna scendeva, Piero sfiorò con le labbra una spalla di Jeanne e sussurrò: “Cara ombra!”. Jeanne rispose: “Io però amo la luce”. Nello stesso tempo gli folgorarono dentro la fronte, come una punta di ghiaccio fitta e ritolta, le parole: dilexerunt tenebras. Via! Via! Neppure averle pensate, voleva! Sedette accanto a Jeanne, disse forte, per il caso che qualcuno li spiasse: “Adesso, signora, facciamo gli astronomi” e le prese una mano. “Sei stata ingiusta” mormorò, “amaramente ingiusta quando hai detto che nel mio ardore c'è un proposito freddo. Non dirlo più!” Jeanne si portò la mano di lui alle labbra. Silenzio, aliti di rose, molle ondular di frondi, sospiri umani pieni dell'Indicibile.

“Non è troppo fresco e umido, qui, per Lei?” disse Piero finalmente. “Non sarebbe meglio...?”

Jeanne sorrise. “E` meglio che Lei parta, credo, amico mio.”

“Addio, dunque!”

“No!”

Gli aveva ben detto lei di partire e adesso non voleva più. Risero entrambi, tanto dolcemente. “Sì, sì” diss'ella facendosi seria. “Bisogna che parta!” E perchè Piero le sussurrava: “Partire senza un bacio? Partire senza un bacio?” si alzò, entrò in sala, seguìta da lui. “Adesso La faccio accompagnare al cancello” disse. Posato un dito sul bottone del campanello elettrico, si volse al giovane, gli porse le labbra.

Egli scese come in sogno, senz'altro senso che di quell'atto, di quella bocca, senz'altro pensiero che di non poter pensare a niente, di non poter volere niente, di scender beato in grembo al Fiume della Vita, ardente e dolce. Nell'entrare in casa si domandò se fosse possibile vivere più oltre fra quella gente. Posando il soprabito gli sovvenne, con disgusto, della camerierina bionda. Che gioia non sentire più in sè il bruto senz'amore, esser trasfigurato anche nella vita corporea! Sedette sul letto, rivisse i più deliziosi momenti di quella notte, dall'abbraccio muto sotto i carpini al bacio nella sala. Anche meditò le più singolari parole di Jeanne, compiacendosi orgogliosamente dell'amore di una creatura così bella, strana e profonda, chiedendosi in pari tempo, adesso che ci pensava a mente riposata, se non fosse in lei, con tutto il suo amore, un intimo nucleo di orgoglio, d'idee più forti che l'amore, invincibili.

E quell'attaccamento al fratello non era eccessivo, quasi offensivo? Quale amore, però, quale grande, impetuoso, tenero amore pur nei confini suoi! Quale amore unico, quale spiritualità intensa di amore mista con i desideri più delicati e squisiti dei sensi! Ricorse avido alla memoria dell'abbraccio muto, della bocca soave. Ah!

Si scosse, si dispose a coricarsi. Ecco qualche cosa di nuovo sul tavolino da notte, come la sera della tentazione. Non fiori stavolta, una lettera chiusa, con un semplice indirizzo, “Piero”, di carattere della marchesa. L'aperse, non si avvide della piccola busta che ne cadde e lesse:

Sia ringraziato Iddio che ci dona consolazione. Stasera dopo le dieci è venuto il medico assistente dello Stabilimento e ha portato il biglietto con lo scritto di Elisa che ti unisco.

Piero s'interruppe, rabbrividì, cercò e raccattò da terra la piccola busta. Conteneva un quadratino di carta dove la mano della Demente aveva scritto per isghembo e male a grossi caratteri:


s’ofro

Dalle profondità del palazzo il vecchio orologio suonò le tre. Ritornò il silenzio, il pauroso silenzio delle cose conscie. Piero seduto sul letto con la lettera in mano, la guardava trasognato, guardava il quadratino di carta e poi da capo la lettera, leggeva e rileggeva di speranze dei medici, di una messa che si sarebbe celebrata l'indomani mattina in Duomo. Fermò finalmente gli occhi torbidi sulla parola scritta male, per isghembo, a caratteri grandi. Sentimenti diversi di rimorso, di terrore, di speranza rea o conosciuta per tale, diverse immagini di possibili eventi che maturassero qualche strano dramma cozzavano in lui oscurandogli l'anima. Poco a poco, mirando sempre la terribile parola tanto ancora piena di ombre idiote, egli si ricompose una cupa quiete nell'idea della probabile vittoria finale delle ombre, si disse e si ridisse ch'era questo il freddo giudizio della sua ragione e non la voce delle crudeli speranze. Il lume della candela smorì nei primi albori, dalle profondità del palazzo il vecchio orologio suonò le quattro, e ritornò il silenzio, il pauroso silenzio delle cose conscie.



IV


Jeanne, partito Maironi, mandò il domestico a letto, suonò per la cameriera, mandò a letto anche costei, uscì sulla terrazza candida nel lume della luna rediviva, ritornò all'angolo d'ombra tra i fogliami tiepidi delle rose, si riadagiò sulla poltrona da riposo e sorrise a se stessa, beata. Mai non aveva amato prima d'incontrar Maironi e neppure desiderato di amare. Nessuno dei tanti adoratori suoi aveva saputo destarle nell'anima il senso della sua femminilità profonda. Questo senso non s'era ora destato che a mezzo. L'ardore dello spirito non le aveva ancora penetrato il corpo. I suoi desideri non andavano oltre la presenza continua e la tenerezza appassionata di lui, il possesso dell'anima sua, la libertà, nei momenti in cui si preferisce il silenzio alla parola, di cingergli con le braccia il collo, di posargli la fronte sopra una spalla. Oltre questo abbandono e carezze, baci a fior di labbro, e il senso alle spalle del braccio diletto, incominciavano le sue ripugnanze. Ai suoi rapimenti non si mesceva un atomo di timore nè di rimorso. Figlia di genitori increduli e tuttavia rispettosi della religione, era passata per gli effimeri fervori ascetici del collegio. Quindi lo spirito infusole nel sangue, la coscienza della sua superiorità intellettuale sulle persone che l'avevano guidata alla pietà, la tendenza critica del suo intelletto, le letture, le conversazioni di uomini coltissimi e irreligiosi, la incredulità conosciuta dei genitori che pure la mandavano a messa, ai sacramenti, e le regalavano libri di preghiera, tutto questo insieme l'aveva condotta a una specie di sereno fatalismo, dall'alto del quale i dogmi cristiani, Iddio, la immortalità dello spirito le parevano illusioni gentili, nobili, anche utili a coloro che non possedessero come lei nella propria natura il senso della dignità morale, i suoi freni e i suoi stimoli. La sua fierezza, il suo affetto al rispetto altrui, le vaghe idealità morali che le tenevano luogo di fede le ispiravano il disgusto dell'adulterio ma non le facevano alcun rimprovero di un amore che, soddisfatto secondo il desiderio suo, le riempiva l'anima di bontà. Sapeva di non toglier niente alla moglie di Piero e il suo scetticismo circa le illusioni del sentimento, il forte, lucido intelletto della realtà non le consentivano rimorsi per un'offesa che, non potuta sentire, non era offesa.

L'immagine squallida della Demente non si affacciava mai alla sua coscienza. Aveva ben pensato, una volta, che la madre di lei soffrirebbe molto, se sapesse; ma vi era nella vita, secondo il suo vedere, un Ineluttabile e questi dolori ne facevan parte. Anche l'amore procedeva dall'Ineluttabile. Perchè si era ella innamorata di Maironi? Per i pregi del viso e dello spirito? No, per un che negli occhi suoi. Le avevano molto parlato, sì, di questo giovane intelligente, colto, generosissimo, pio, infelice; le avevano ispirata molta curiosità di conoscerlo, particolarmente di sapere se egli amasse ancora sua moglie; ma soltanto quel Che misterioso l'aveva presa. Era ella forse delle infinite cui basta venir guardate due volte da un uomo non vecchio, non brutto, non inelegante, per sentirsi attratte? Neppur questo; molti uomini le avevano ispirato simpatia conversando con lei, s'era compiaciuta di molte ammirazioni, non sempre aveva sdegnato le dolcezze d'una lieve civetteria, ma soltanto nel primo incontro con Maironi aveva sentito l'improvviso impero d'un destino.

Era in quel punto divenuta schiava dell'Ineluttabile.

Ineluttabile l'amore, ineluttabili erano i dolori che esso avrebbe recato ad altre creature umane e che non le ispiravano, quindi, rimorso ma solamente pietà. Sotto l'ebbrezza di Maironi che scendeva col bacio di lei sulle labbra si veniva raccogliendo silenziosamente, non avvertito, un lievito amaro. Sotto l'ebbrezza di Jeanne vi era il recondito, freddo nucleo del suo scetticismo, la sua chiara visione del vortice eterno nel quale il suo amore e la sua coscienza, come tutti gli altri amori, come tutte le altre coscienze, si dissolverebbero in breve. Questo era l'Ineluttabile supremo e non la turbava, le rendeva più intenso il piacere dell'ora presente.

Ella non credeva di poter più dormire, quella notte: e le gradiva di godersi il tramonto della luna, la fragranza delle rose, pensando a lui. Come mai l'aveva lasciato partire senza domandargli quando sarebbe ritornato? Non poteva, non poteva stare in questa incertezza! Vide i suoi guanti, dimenticati sopra una sedia. Oh, se ora venisse a riprenderli! Si rizzò sulla persona, stette in ascolto. Che follia! Si propose di rimandar i guanti l'indomani mattina con una lettera. E li prese, contenta. Si struggeva di baciarli, sorrise di se stessa. Non li baciò, mise la mano in uno di essi, sorrise ancora, sorrise di sentirsi mortificata che fossero così grandi mentre avrebbe giurato che le mani di Piero fossero piccole. Uno stridere del cancello! Lui?


Non era Maironi, era Carlino arrivato in carrozza con quattro amici, l'elegante deputato Berardini, il grande violoncellista Lazzaro Chieco, l'allegro pittore veneziano Fusarin e un tal Fanelli, senese, critico d'arte e di letteratura, giovanissimo, libertino, sfacciato come un monello di Firenze. Eran partiti da Venezia col treno e l'avevan lasciato per fare una scarrozzata di trenta chilometri godendosi appieno la calda notte di maggio e l'eclissi. Seguiva il vetturale portando il violoncello di Chieco. Furono meravigliatissimi di trovare Jeanne, a quell'ora, sulla terrazza. Ella non conosceva che Fusarin, il suo adoratore pazzo di una volta. Chi si fece avanti il primo con il cappello in mano e a braccia aperte fu Chieco. “Divina signora, non badate a questi grattaformaggi che non sono degni della vostra attenzione. Io solo, Lazzaro Chieco, violoncellista di camera, anzi di anticamera del Padre Eterno, lo sono!”

“Carlino!” esclamò Jeanne ridendo mentre gli altri la supplicavano comicamente di compatire il maestro rimbambito. “Non presenti? Che fai?”

Carlino saliva lo scalone della terrazza a ritroso, pian piano. “Scusate, scusate!” diss'egli. “Aspettate! Mi hanno insegnato a Venezia questa cosa magnifica, che fa bene ai polmoni di salire le scale così. E` delizioso!”

Fusarin e Fanelli lo afferrarono, lo portarono su di peso, strillando egli: “Meglio! Meglio!”. Intanto Berardini pregava Jeanne di non confonderlo con quei farabutti: egli non aveva bevuto, a cena, che acqua; essi...! E fece il gesto ipocrita della simulata ignoranza. Intanto Carlino, rassettatisi i solini, la cravatta e il bavero della giacca, si accinse alle presentazioni.

“Lasciamo queste volgarità, per amor del cielo!” esclamò l'onorevole deputato. “Signora, io La ho veduta nei miei sogni e confido che anche Lei abbia veduto me. Lasciamo che costoro mi chiamino Berardini. Suo fratello che mi disprezza, dice: "Il deputato Berardini'; Fusarin che mi odia, dice: "Il commendatore Berardini'.”

“Fiol d'un can!” brontolò Fusarin. “Intanto el ghe le ga spiferae tute.”

“Non ce ne curiamo” proseguì l'onorevole. “Lei è Lei, e io sono io.”

“Signora” disse Fanelli, “io, come il più educato di questi quattro amici di Suo fratello, che non è gran lode!, mi lascerò presentare.”

Ma poi Jeanne guardò Carlino, imbarazzata. Aveva carissima questa visita, ma... Chieco precorse le parole che venivano.

“Niente, signora mia! Noi non siamo genterella come questi grattaformaggi di questa vostra cittaduzza, che russano laggiù nei pantani. Voi non avete a incaricarvi di farci dormire. Siete voi, bella mia, che dormite e noi siamo il vostro sogno di stanotte. Io sono venuto perchè vostro fratello mi ha detto che tiene un clavecin antico, bonissimo; e perchè voglio vedere se io posso innamorarmi di Voi e se Voi potete non innamorarvi di me. Questi altri straccioni sono del mio seguito. Ebbene, adesso si fa musica, si prendono, bella mia, se è possibile, tre o quattro tazze di tè, non tanto forte, con latte, Fusarin e Vostro fratello si consigliano sul ballo tiepolesco che darete, il mio compaesano Berardini dice un altro sacco di asinate, io faccio un poco il grazioso e sull'aurora tutto il sogno sfuma in landau verso l'oriente.”

I domestici vi perdettero il sonno ma parve un sogno veramente. Le fiamme della luce elettrica brillarono nella sala grande e nelle quattro minori che la inquadrano, pure dipinte a buon fresco dal Tiepolo in onore di Omero, di Virgilio, dell'Ariosto e del Tasso. Apparvero per le pareti i grandi corpi viventi degli eroi, superbi nelle armonie del moto e del riposo; apparvero facce plebee di principi dai manti pomposi, nudità carnose e calde di principesse villane, i colonnati di Aulide, le logge di Cartagine, le tende achee, gli scogli dell'isola di Calipso e delle Ebude, sfondi nebulosi di cielo e di mare. Successe uno strepito perchè Berardini e Chieco erano pazzi di ammirazione per gli affreschi mentre Fanelli sentenziava, freddo e sarcastico, dietro la caramella, faceva il difficile, notava le scorrezioni scandalose del disegno, tanto che Chieco gli diede del "brutto macaco” e Fusarin gli saltò addosso con furore. “Cossa galo, El diga, sor piavolo? El me lassa star sto poro vecio che a fato sti spegassi, sala! El se contenta de scrivar settessento articoli a la setimana, co quele game sugestive, in malora, co quel maledeto color che canta e co sete oto "vibrante di modernità', El diga! Ti ti la ga co Tiepolo perchè el fasea i zenoci grossi e mi la go co Domenedio che te ga fato el muso roto!”

Trlin! Trlin! Trlin! Carlino chiama col clavecin alla sala di Omero, Jeanne richiama con la voce: “Musica, musica!”. Si risponde: “Musica, musica! Basta, basta!”. Tutti corrono alla sala di Omero meno Chieco che cava il violoncello dalla cassa.

Poichè stanno per entrare un certo signor Bach, un certo signor Haydn, un certo signor Marcello e altri personaggi in parrucca, spadino, calze di seta e fibbie di brillanti, sia l'accoglienza gaia! Champagne! Fanelli brinda spiritosamente alla più vibrante di modernità fra le dee di villa Diedo. Berardini improvvisa una tirata barocca sulla dea Diana e beve al fratello suo divino, ad Apollo Dessalle. Chieco, alzando il bicchiere verso l'affresco di Ulisse pensoso in riva al mare, si offre consolatore alla dolce, triste, bellissima Calipso che vi emerge dall'onda con le spalle e col seno ignudi, brinda a lei e alla sua sarta. Fusarin brinda “ai veci Diedo, poarini, che a fato su sto casoto!” E Carlino, poichè Jeanne vorrebbe proibirgli di aprire troppe bottiglie di Champagne, brinda a lei come gendarme: “Pas à Jeanne d'Arc mais à Jeanne d'armes!”.

Ed entra Bach, il dio Bach, dice Chieco, che dà dello straccione a Carlino perchè in una tale villa, con tali affreschi, con tale clavecin, regnando insieme Tiepolo e Bach, non tiene parrucche, spadini, giubbe ricamate, calzoni corti, calze di seta per tutti i suoi ospiti. “Giuriamo” grida Berardini “di venire al vostro ballo così!” Si giura e Bach incomincia il suo discorsino sereno. A una cristallina, tintinnante vocina puerile s'intreccia una voce di vecchio nonno scherzoso, tenero e nasuto. Chieco suona il violoncello come un semidio e Carlino fa meraviglie sul clavecin tanto che il collega gli dice spesso: bravo! Il delizioso profumo del Settecento ammollisce i cuori. Jeanne sospira, Fusarin ritrova in sè veteris vestigia flammae, si attenta di accarezzarle, di soppiatto, una mano, onde Jeanne si alza e va, con un lievissimo sorriso traditore, a voltar le pagine a suo fratello. Fanelli indovina e guarda maliziosamente Fusarin che si butta sul davanzale di una finestra e incensa le stelle con il suo manilla. Berardini fiuta un intrigo, incontra due volte, per caso, i begli occhi di Jeanne, palpita, sogna un'avventura casanoviana. Jeanne sente il proprio fascino, ne gode per lui al quale idealmente appartiene. E il cortigiano Bach va intorno lusingando ciascuno con parolette dolci, con risolini blandi, s'inchina grazioso con un colpo di tricorno al vento e si ritira. Berardini applaude forte e subito trova modo di sussurrare a Jeanne, in francese, che non ha udito niente, che ha veduto lei sola, che bisogna riprodurre nel ballo i personaggi degli affreschi, ch'ella sarà Calipso e lui il mare. “L'amer?” dice Fanelli, ficcando il naso nel dialogo. “Il l'est toujours. N'en goûtez pas!” E una risatina. Zitto, perchè adesso entra So Ecelenza el nobilomo Marcello e Chieco richiama Jeanne.

“Bella mia, non date retta alle asinate di costoro. A posto! E non voltate troppo presto come avete fatto prima! E voi altri atei porci, attenti! Perchè io, quando suono Marcello, credo in Dio! Avanti! Andiamo!”

Era la quarta sonata per violoncello e piano. Dopo un trillo del violoncello, il credente Chieco, menando certe potenti arcate, gridò: “Questo mondo non si può sopportare!”. E su e su verso l'alto con l'onde accavallantisi delle arcate veementi.

“Senza Calipso” sussurrò Fanelli. Infatti Fusarin, preso dalla violenza della musica, teneva su Jeanne gli occhi ardenti, la scongiurava con gli slanci del violoncello. Il clavecin parve disadatto a tanta passione. Come poteva Beethoven concepire le sonate senza concepire insieme il pianoforte moderno? Carlino sostenne che la musica di Beethoven aveva creato il pianoforte moderno come negli organismi non è l'organo che si crea la potenza, è la potenza che si crea l'organo. Si passò a Corelli, ma Carlino era stanco, alla seconda pagina sbagliò il tempo, si prese del ladro e dell'assassino da Chieco, il quale, dopo due "a capo' smarrito ancora il compagno, saltò in piedi gridando: “Ci troveremo al caffè! Ci troveremo al caffè!”. Mentre gli altri amici ridevano col reo Carlino, egli prese Jeanne a parte, le disse qualche cosa di tanto arrischiato che Jeanne fece un atto di vivo sdegno. “Niente, niente, niente!” si mise a gridare buffonescamente lo sfrontato uomo. “Dirò come il mio barcaiuolo - de Venessia - quando gli domando se vuol piovere: "Gnente, gnente! La montagna vorave ma el mar no la intende!'”. E tutta la brigata passò ridendo nella sala d'Ifigenia.


Al suono del clavecin e del violoncello, il giardiniere Çeóla, l'ortolano, sua moglie, un paio di braccianti erano sbucati all'aperto presso che in camicia. Si era quindi aggiunto al gruppo, sotto le finestre di Calipso, uno straccione in tuba, un vecchio mattoide nottambulo, che tutti chiamavano el sior Piereto Pignolo.

í “Ciò, ti, colo storto” disse il giardiniere all'ortolano, finita la gavotta di Bach, “ti che te frui i banchi de le ciese e che te ghe credi a l'inferno, sti siori che gode el bon tempo tuto el dì e tuta la note, disito che i ghe vada o che no i ghe vada a l'inferno?”

“Va là, mato! Cossa vètu a tirar fora?” rispose l'ortolano, e sua moglie soggiunse: “Lassèlo stare el me omo che l'è un bon omo. Vardè de no andarghe vu, a l'inferno”.

“Mi? Ghe andaria volentiera, vardè vu, per vederli andar a rosto lori. I fa compagno de le mosche, sti maledeti, che co xe qua novembre, le fa el demonio sui veri quando che ghe bate el sole. I sa che i la ga curta e i ghe dà dentro a più no posso.”

Zitto, musica in alto, Marcello.

“Che musica da gati! Mi torno a cuccio” brontola l'ortolana quando il pezzo è finito. “Tasi, bestia” le dice il marito, placido. “E mi” ripiglia lei, “che voria saver se i ghe crede, i siori, a l'inferno! Mi digo che i ghe crede tanto cofà vu, giardiniero. E lora, capìo, mi digo che chi sa che el Signore no li manda in malora lori e anca vualtri che no volì saverghene de ciesa e che el ne fassa diventar siori nualtri che se tien da Elo. Cossa diselo, Lu, sior Piereto, ch'el ga studià?”

Zitto, musica nell'alto, Corelli.

“Me par che i vada a torzio” brontola il giardiniere, udendo le interruzioni della musica e il tempestare di Chieco.

“Mi digo” incomincia solennemente il mattoide in tuba quando non si ode più nè chiasso nè musica “che sì tuti una manega de aseni.

Aseni i to paroni perchè i te paga ti, giardinier. Aseno ti, perchè se te ghe comandavi a quel bambozzo de quel to fiolo de ciapar le braghe de la biblioteca, lu el becava el posto istesso e ti te podevi darme le so braghe vecie a mi. Asena vu, ortolana, perchè no capì che sì nata con un muso da brocoli e che gavì da crepar in mezo ai brocoli; e aseno anca ti, ortolan, che te vè in ciesa e te robi poco!”

E il signor Piereto Pignolo volta le spalle, se ne va lento e solenne verso il cancello, fendendo le ghiaie argentee con la sperticata ombra della tuba.


Nell'uscire dalla sala di musica, Berardini trattenne un momento Jeanne.

“Lei s'interessa per un aspirante senatore?” diss'egli con gli occhi accesi. “Non troppo, non troppo!” rispose Jeanne ridendo. Infatti ella s'era adoperata per il marchese Zaneto quando le premeva il favore degli Scremin che avrebbero potuto insospettirsi dell'assiduità del Maironi e allontanarlo, tuttora indeciso com'era, da lei. Adesso, sicura del fatto suo, lasciava fare a Carlino che ci aveva preso gusto.

“Non troppo ma però abbastanza, insomma” replicò Berardini. “La riuscita è possibile. Occorrono però alcune cose. Prima, che il genero del marchese si dimetta da sindaco e abbandoni il suo partito; o almeno, se il disertare gli ripugna troppo, che non militi più.”

“Questo è fatto” interruppe Jeanne.

“Ah! Bene. Poi, che nel collegio del Bresciano dove il signor Maironi ha possedimenti grandi e dove i suoi agenti, finora, hanno raccomandato sempre l'astensione, questi agenti facciano invece votare, nell'elezione prossima, per il candidato del Governo. Poi, che si trovi modo di far cessare certe dicerie sulle condizioni economiche del marchese. Finalmente, e questo preme assai perchè il Governo non vuole compromettersi troppo, che non gli sia contrario un uomo politico influente di cui ho detto il nome a Carlino e che sarà senza dubbio fatto interpellare, con prudenza, dal Presidente del Consiglio. Credo che a queste condizioni la cosa si possa considerare decisa. E` contenta? Posso sperare un piccolo premio?” Qui Berardini abbassò la voce, e con un sorrisetto stupido cercò prender le mani di Jeanne che, pronta, gli volse le spalle. Quando Chieco, nella sala d'Ifigenia, vide l'uomo comparire alquanto mogio dietro la dama accigliata, si mise a gridare da capo: “Paron benedeto, gnente, gnente, la montagna vorave, ma el mar no la intende!”. Ella raggiunse gli altri e si dispose a fare il thè. Carlino e Fusarin parlarono del futuro ballo, discussero l'idea di prescrivere agli invitati i costumi degli affreschi, di confondere nelle sale lucenti le Ifigenie ai Rinaldi, gli Agamennoni alle Armide, i Medori alle Didoni. Parlarono del progetto di coprire con ferro e vetro le due terrazze della villa, di ridurre l'una a vestibolo e l'altra a buffet. Carlino non voleva saperne dell'odiosissimo ferro, Fusarin pretendeva di poterlo dissimulare interamente con arazzi e stoffe, lo snobino Fanelli posava qua e là nella contesa il suo pizzico di sapienza mondana, sfoderava la sua conoscenza di sale illustri, di grandi poeti dell'arredamento.

A Carlino piaceva solamente l'idea degli arazzi perchè ne aveva dei superbi, del Cinquecento, che a villa Diedo non poteva collocare. Però i suoi arazzi avevano da esser diventati seminari di batteri! C'era da prendere un malanno del secolo decimosesto! Come disinfettarli per bene? Potrebbe la loro sublime pelle sopportare il sublimato?

“Ciò!” gridò il bizzarro Fusarin. “E quela barbassa de quel capussin de Calcante, e quela giaca onta de quel maledeto barbiero inzenocià col so caìn sporco in man per tor su el sangue de Ifigenia, e tuti quei tabaroni longhi de quei prinsipi greçi co quei musi da ciche e da cicheti, credistu, anima mia, che no i ghe n'abia dei batteri? E mi che me piasarave, vardè vualtri, crepar da la peste del mille e sinquessento! Saria belo, ciò! Saria novo!”

Seguì un torneo di sentenze pazze sulla morte e sulla vita. Berardini scherzava e rideva con la più bronzea delle facce e Jeanne durava fatica a ricordarsi ch'era in dovere di trattarlo un po' male, tanto poco si curava di lui e tante simili audacie di sciocchi e d'intelligenti aveva conosciute. Egli sostenne che non aveva la coscienza di esistere, ma soltanto di parere esistente e che questo era il balsamo di tutti i mali, di tutte le paure e gli diminuiva niente la facoltà di godere, anzi gliel'accresceva, toglieva di mezzo o almeno riduceva a una semplice apparenza quella diversità fra la vita e la morte che spaventa il comune degli uomini. Fanelli prese le sue parti contro i due artisti, soli a difendere l'assoluto con una mitraglia punto metafisica d'improperi. Jeanne ascoltava in silenzio, attendendo al tè, ma gli occhi, le sopracciglia, la fronte, persino talvolta le spalle, dicevano consensi e dissensi vivaci, a vicenda; più vivaci i dissensi da Chieco e Fusarin, come se la infastidisse che proprio quei due fossero nel torto. Fusarin se ne avvide il primo e disse sdegnosamente:

“Eh, za se sa, ciò! Go torto mi.”

“Ma certo” esclamò Jeanne accesa in volto. “Pare impossibile! E` una cosa tanto evidente che ogni nostra certezza è una certezza solamente per noi, è una certezza relativa, e che il pretendere di possedere qualsiasi certezza assoluta è una illusione.”

Fanelli e Berardini batterono le mani.

“Forse ci sono” disse Carlino “e forse non ci sono. Questa è la mia gioia, di non saperlo. Ma bada, Jeanne, tu mi hai l'aria di riscaldarti non tanto contro Chieco e Fusarin, quanto contro un'opposizione segreta di mia sorella, non so se m'intendi.”

Ella crollò le spalle: “Sciocchezze!”. E sorrise a Chieco che domandava una illusione di thè, mezza illusione di latte, tre illusioni di zucchero e sei o sette illusioni di gauffrettes perchè forse aveva cenato e forse non aveva cenato alle dieci e mezzo. Fusarin, più innamorato che logico, inghiottí rassegnatamente col thè la certezza che non vi ha certezza, e si accontentò di brontolare a Jeanne:

“Se no La ghe xe Ela, no ghe son gnanca mi, ciò, intendemose!”


Partirono all'alba, con grande sollievo di Jeanne che si pose a letto mortalmente stanca ma beata di pensare lui, lui solo, in pace.

Si domandò: sogna egli di me adesso? E rise di se stessa, del romanticismo convenzionale che si assorbe nei libri e ci passa nel sangue. No, egli sognava forse il Municipio o qualche altro sogno stupido. A lei sarebbe piaciuto di sognare l'ignoto lago di Valsolda nel chiaro di luna, una gita in barchetta con lui. Chiuse gli occhi, cercò disporsi al sonno e a questo sogno: vedersi nella mente il lago e le montagne di cui non aveva un'idea. Non seppe immaginare che la barchetta, le carezze, la voce amorosa di lui; ma così non le riesciva di dormire. Allora si mise a pensare alla fama che qualche vendicativo, forse uno dei tanti libertini respinti, forse suo marito stesso, doveva averle fatta perchè gli uomini che non la conoscevano fossero tanto audaci con lei. E pensò pure al discorso di Berardini, al marchese Zaneto, all'uomo politico influente che le sarebbe piaciuto di conoscere per farlo amico di Maironi, perchè gli combattesse le tendenze socialiste che a lei dispiacevano, che le parevano pericolose, non convenienti alla sua natura delicata e mistica, frutto di fantasia. Non un brivido, non una lieve inquietudine le diedero segno che in quell'ora stessa il suo amante vegliava immobile e cupo, fissando uno spettro.


CAPITOLO IV


IL CAFFÈ DEL COMMENDATORE


I


La marchesa Nene, vestita di nero, curva, severa nel viso rugoso e cereo, entrò, seguita da Maironi, con la sua grossa Filotea in mano, nella cappella del Duomo dove aveva desiderato che si dicesse una messa in ringraziamento della nuova luce di speranza che spuntava sul triste innominato Asilo. La cappella era vuota, i ceri ancora spenti, l'altare coperto. Ma quando un chierichetto venne a scoprir l'altare e ad accendere i ceri, le poche figure nere sparse per i banchi della unica grande navata mossero verso la cappella. Due fra le amiche umili della marchesa, piccoline, vestite di scuro, due vecchi pretini femmine, le si accostarono: “Se consolemo che gavemo sentìo”, e fatto a Piero un lieve, contegnoso cenno del capo, entrarono nel banco di faccia. C'era pure, per caso, l'uomo acido, uso ascoltar la messa ogni mattina. C'era la moglie del giornalista Soldini, una bella signora dai capelli bianchi e dagli occhi vivaci, che salutò la marchesa ma con discrezione, senza accostarlesi. C'erano finalmente due vecchie accattone. Ultimo entrò nella cappella con passo cascante e con viso modesto un omino grigio dal zimarrone vasto, l'omino potente sui destini di Zaneto Scremin e di molti altri, il Commendatore. Miope, non si avvide a prima giunta della marchesa nè di Maironi, nè della Soldini, nè dell'uomo acido, tutte persone a lui note. Si sarebbe umilmente inginocchiato sul gradino di un confessionale se la Soldini per un ossequio spontaneo e le accattone per un ossequio meditato non si fossero affrettate a fargli posto. La Soldini gli sussurrò che a messa finita gli avrebbe chiesto un minuto di udienza fuori della chiesa, ciò che fece rannuvolare la fronte e inasprire la guardatura del prossimo uomo acido, il quale meditava pure di afferrare il Commendatore all'uscita della chiesa, per certi suoi fini profani. Il Commendatore s'inchinò alla signora con un mite sorriso di assenso. Soltanto a messa inoltrata gli venne il sospetto che l'uomo ritto in piedi presso la vecchia signora dal viso rugoso e cereo fosse Piero Maironi. Ne fu così durevolmente distratto che poi se ne giudicò reo di colpa veniale attenuata dalla bontà del movente; perchè l'ex-sindaco gl'ispirava molta simpatia, gli sarebbe piaciuto che s'avviasse per un cammino migliore, gli sorrideva di aiutare a porvelo e ora compiacevasi molto di vederlo in quel luogo e in quella compagnia, pensava qualche pretesto per parlargli dopo la messa, qualche modo di tenersi in comunicazione con lui.

Piero aveva cercato per tempissimo della suocera, volendo sapere che avesse veramente detto il medico dello Stabilimento. Arduo problema con una informatrice impacciata e tarda nella lingua come la marchesa; tanto più impacciata e tarda quanto più combattuta dal dovere di dire la verità e dal desiderio di non dirla intera. Ell'avrebbe voluto che Piero si accontentasse delle parole scritte dall'inferma, che ne godesse, che non curasse di sapere altro; e a tutte le sue domande rispondeva annaspando, annaspando, per metter poi fuori sempre da capo, sempre con rinnovato desiderio e sollievo, quel pezzetto di carta.

Esperto di lei, delle sue vie mentali coperte e delle coperture caotiche, Piero comprese che il barlume di coscienza balenato nella parola dolorosa doveva essere svanito subito. Poi la suocera gli aveva detto con il suo apparente candore: “Andemo che xe ora”, come se non sapesse delle nuove abitudini di Piero, il quale da Praglia in poi aveva rotto, per un sentimento di fiera lealtà, con tutte le pratiche. E la marchesa lo sapeva. Colto all'improvviso, Piero non seppe trovare lì per lì un pretesto di scusarsi, non osò ferire la vecchia signora che in cuor suo, malgrado tutto, venerava, e l'accompagnò in Duomo.

Stanco della lunga veglia, delle angoscie patite nella immaginazione, aveva pieno il capo di sonno, di stupore e di tedio, il cuore intorpidito. Anche la passione vincitrice taceva in lui, come spossata. Non sentiva che uggia di sè, del luogo sacro, di doverci stare a forza. Gli davan fastidio le occhiate bieche dell'uomo acido, le facce compunte dei devoti stupidamente prostrati, come a lui pareva, ciascuno davanti a un piccolo specchio, guardandovi un piccolo Iddio della propria mente. Gli dava fastidio l'idea che quelle vecchiette e la signora Soldini e il Commendatore facessero in cuor loro, secondo era probabile, commenti alla sua presenza nella chiesa. Persino il devoto pregare della suocera gli pareva un eccessivo sdilinquimento. Mentre s'inacerbiva così contro tutto e contro tutti, cedendo a un soffio demoniaco di perversità, entrò nella cappella, a passo lento, preceduto dal chierico, il celebrante. Piero riconobbe don Giuseppe Flores. A questo incontro non si attendeva e ne fu seccato. Avrebbe preferito un pretoccolo antipatico. Non gli era possibile di riversare anche su don Giuseppe il fastidio, il disprezzo di cui era tutto amaro; e guardare quel viso con desiderio di luce e di pace come l'aveva guardato un giorno là nella villa solitaria, non voleva, non poteva più. Nemmanco poteva, però, chiuder gli orecchi alla voce grave e dolce che gli riconduceva le memorie della solitudine pastorale intorno alla villa silenziosa, dello stanzino, del colloquio sul canapè rosso, delle parole sante, delle sante labbra posateglisi un momento sui capelli. Se durante le tentazioni antiche la sua volontà si annientava per non consentirvi nè perderne la dolcezza, adesso gli avveniva di non poter cacciare da sè, per una simile paralisi della volontà, quelle imperiose memorie moleste. Non poteva non aderire col senso alla voce dolce e grave, non poteva non aderire colla mente alla visione di don Giuseppe seduto accanto a lui sul canapè rosso, pieno la gran fronte, gli occhi accesi e calda la parola di Spirito Santo. Così, udendo la voce del celebrante, contemplando le immagini della propria mente, incominciò a sentirsi in fondo alla gola e più giù verso il cuore un dolor sordo simile al dolore che sotto una pressione fissa lentamente si genera, dilata e profonda. Era un dolore anche muto, non diceva la propria origine, la propria natura, si dilatava e si sprofondava, era tormento, e anche spossatezza amara, impazienza della Forza fissa e premente.

Quando il celebrante incominciò la lettura del Vangelo, Piero, avvinto al suono e non al senso delle parole, sentì un mutamento del suono.

Nel dir le parole di Gesù, il celebrante si congiungeva in ispirito a Gesù con amore e tremore. Il sentimento del suo alto ministero, il sentimento della sua indegnità, il soverchiar del divino, nel suo petto, sulle forze umane; tutto diceva quella voce, non colorita nell'esterno ma penetrata d'anima e quasi ansante. Piero non potè a meno di volgere il capo a guardar la solennità umile del noto viso antico, sentì che il suo malessere interno si trasformava in un cupo ribollimento, in una commozione violenta, n'ebbe terrore, s'irrigidì contro se stesso con tutto il nerbo della ridesta volontà, si rifece dentro il silenzio. E per non ricadere pensò a Jeanne, pensò che forse in quel momento ella usciva dal letto, riuscì ad accendersi la mente di un fuoco piuttosto lascivo che amoroso, quale non lo aveva bruciato ancora stando egli con Jeanne o pensando a lei; quale un esperto medico di anime avrebbe giudicato indizio di passione declinante. In quella cupida fiamma il tedio, il malessere e insieme anche le immagini suscitate dalla voce di don Giuseppe, tutti i germi vitali dell'anima, subito arsero.

Uscirono di chiesa in un gruppo, la Scremin tutta sorridente e pacifica, Maironi accigliato, la vivace signora Soldini pronta nel viso a parole che già le sfuggivano dagli occhi, il Commendatore modesto e mansueto. Quest'ultimo, riverite ossequiosamente le signore, disse a Maironi con un sorriso tra benevolo e scherzoso, con un'artificiosa peritanza nel metter fuori la facezia come se fosse arrischiata molto:

“Adesso che Lei è in disponibilità... in disponibilità... si lasci vedere, si ricordi degli umili e dei derelitti. Ho a dirle qualche cosa ma con tutto il Suo comodo. Oggi vado a Roma. Ritorno lunedì, non della settimana ventura, della successiva; lunedì fra le quattro e le quattro e mezzo, se crede, mi trova certo.”

La marchesa e il genero si allontanarono subito. La Soldini, infocandosi a un tratto di commozione, domandò al Commendatore se avesse notato il pallore cadaverico di Maironi. E la marchesa, invece, che aria serena! Era un vero enigma, quella marchesa! Gli amici di casa Scremin dicevano "virtù'. Santo cielo, una virtù troppo simile al gelo! Siccome al Commendatore, il quale non aveva poi notato nè pallori, nè arie serene, questo non necessario giudicar veemente di sentimenti altrui non pareva andar troppo a genio, e non gli uscivano di bocca che monosillabi stentati, così la signora mutò discorso e gli disse ridendo che le rimordeva di esser venuta in Duomo quasi più per incontrar lui che per udirvi la messa. Suo marito desiderava di parlargli e gli faceva chiedere quando avrebbe potuto riceverlo. Il Commendatore rispose, forse non tanto cordialmente: “Con piacere, con piacere”. Si fermò sui due piedi, aggrottò le ciglia per un soliloquio in parte mentale, in parte espresso, per un calcolo di giorni, di ore, di sedute, di convegni, di elementi certi, di elementi probabili, di elementi possibili, dal quale ricavò, dopo qualche tentennamento, che avrebbe ricevuto il signor Soldini alle tre e tre quarti dello stesso lunedì indicato a Maironi, ossia venticinque minuti dopo il suo arrivo da Roma.

Detto ciò, fece un inchino umile, piantò in asso la signora che non se l'aspettava e ne rimase un po' male. L'uomo acido il quale aveva gironzato al largo non senza rabbiosi moti di sopracciglia e di mandibole, gli si fece subito incontro.

“Son qua” gli disse il Commendatore. Ma intanto qualcuno gli sbucò alle spalle dall'imboscata di un chiassuolo, gemendo: “Comendatore, me racomando! Son Bisata, Comendatore; quelo che sona el pelittone in mi. Sperava tanto in tel sindaco Maironi, per la banda. Adesso i dise che lo farà sindaco i liberali. Me racomando una So paroleta, Comendatore!”. L'uomo acido gli intimò così bruscamente di levarsi loro dai piedi che il buon Commendatore, tutto turbato al veder Bisata volgersi fosco verso l'interruttore, gli cacciò in mano dei soldi e lo congedò più benignamente che potè: “Va là, caro, va là”. Ma ecco un'accattona flebile. “Lo go spetà tuta la messa, benedeto! S'el gavesse delle scarpe vecie!” Nuove escandescenze dell'uomo acido: “A sì una dona e ghe dimandè le scarpe a lu?”. Nuovi allarmi, nuovi soldi e miti consigli dell'ottimo Commendatore. “Va là, cara, va là!” Finalmente l'uomo acido potè avere il suo colloquio promessogli in chiesa, nell'uscire dalla cappella. Era un accattone anche lui, chiedeva una rivendita di sale e tabacchi per certa sua parente a corto di quattrini. E chiedeva per sè aiuto in una questione col Ricevitore del Registro. “La lo fazza far cavalier quel fiol d'un can! Chi sa ch'el deventa più molesin!” Il Commendatore ascoltò tutto con santissima pazienza, chiese notizie, diede consigli, riprese sorridendo le escandescenze, scusò il R. Ufficio del Registro e venne finalmente a un quia che certo gli premeva. Domandò in tono scherzoso a che punto fosse la crisi municipale. Che stava per succedere dopo le dimissioni del sindaco? L'uomo acido si meravigliò delle domande. Non aveva il Commendatore udito le rivelazioni strepitose dell'illustrissimo sior Bisata? “Ah ta ta ta!” fece il Commendatore come un altro marchese Zaneto. “Mi dica Lei, sul serio!” Qui l'uomo acido, fiutato un pericolo nello scandagliare del Commendatore e visto il marchese Scremin mover loro incontro, come evocato da quel "ta ta ta', con una faccia pregna di parole pronte, esclamò che adesso il Commendatore aveva faccende e “servitor suo, servitor suo” lo piantò malgrado i richiami ufficiosi dello Scremin.

Anche il marchese accattava un colloquio per accattare altre gravissime cose, ma il Commendatore non lo potè accordare lì per lì e lo rimandò alle cinque di quel famoso lunedì. Colui parve un po' seccato dell'indugio, avrebbe voluto parlare all'omino prima ch'egli partisse per Roma e non dopo. Intanto i due, passo passo, erano giunti al palazzo del Commendatore. Un vecchio domestico stava sull'entrata confabulando con un fattorino postale che subito mosse incontro all'umile onnipotente e gli porse, sberrettandosi, una carta. “Il pro_memoria per mio figlio, Commendatore. Mille grazie.” Mentre il Commendatore pigliava la carta col solito sorriso benigno, il domestico gli annunciò che lo aspettava nell'anticamera del suo studio il signor Ricciotti Çeóla; e perchè il padrone, non conoscendo il soprannome del Pomato, pareva non raccapezzarsi, soggiunse: “Pomato, quel de la Biblioteca, ghe dirò”.

All'udire il minaccioso nome, il Commendatore ritirò il capo fra le spalle, chiuse gli occhi, arricciò il naso e soffiò “pff!” come se avesse immaginato la puntura di un ago rovente nella parte più delicata del proprio individuo.

Pensò un poco e poi commise al domestico di riferire al signor Pomato che adesso il padrone doveva recarsi in Biblioteca e poi partire per Roma. “E se il signor Çeóla” insistette il domestico “volesse sapere...” Ma intanto il padrone trottò via senz'altro verso la Biblioteca.

Trottò via con la segreta speranza di liberarsi anche dal marchese al quale non poteva promettere alcun balsamo per il suo ulcus senatorium. Lo Scremin, tagliato presso a poco sulla misura del Commendatore, però alquanto più vecchio, allegando di aversi a recare in Biblioteca egli pure, pigliò lo stesso trotto e parve una pariglia sconnessa mostrata in fiera.

“Avrei tante cose a dirti” cominciò il ronzino arrembato di sinistra, ansando, sulla scala della Biblioteca. “Sarà per lunedì. Intanto ti raccomando...” Qui, usando il linguaggio insolitamente ellittico e rotto cui lo costringevano la trottata e la scala faticosa, nominò il ministro formidabile al quale avrebbe voluto invece venire raccomandato lui.

“Anche l'affare Dessalle” soggiunse prima di entrare nella stanza del bibliotecario. Il Commendatore fece un impercettibile segno di sorpresa. I Dessalle avevano ereditato dal padre certa lite con un piccolo Stato americano e ottenuto due sentenze favorevoli, ma non erano ancora riusciti a farsi liquidare il credito. La faccenda era entrata nelle vie diplomatiche e occorreva che alla Consulta non dormissero. Tempo addietro, prima dell'incontro di Praglia, Carlino ne aveva fatto parlare al Commendatore dal marchese Scremin, e il Commendatore s'era adoperato a favore dei Dessalle in Roma con il solito caritatevole zelo a cui ogni specie di prossimo più lontano traeva elemosinando. Divulgatesi poi le voci scandalose su Maironi e la signora Dessalle, la marchesa Nene, pur tacendo con tutti le proprie angoscie, aveva opposto un tale contegno alle effusioni affettuose, alle pressanti cortesie di Jeanne, che Jeanne non aveva osato insistervi; e il Commendatore, un grande silenzioso cinto d'informatori minuti, sapeva tutto ciò. Adesso, all'udire la nuova raccomandazione del marchese per l'affare Dessalle, ebbe un sorriso interno di spettatore savio delle debolezze umane; perchè sapeva pure che a favore di Zaneto erano in giuoco presso il ministero influenze mosse da casa Dessalle. Zaneto divinò e parò la frecciata invisibile.

“In verità” diss'egli, “nell'interesse della città non dovrei farti questa raccomandazione, perchè se i Dessalle ottengono quello che domandano, si tratta di milioni, non mi pare possibile che abbiano a restare qui e per la città sarebbe una perdita.”

Pareva un capolavoro di finezza questa risposta, e lo era, ma sincero; era il capolavoro di una coscienza industriosa e non d'industriose labbra. A furia di ragionare col marchese scrupoloso del lobo cerebrale destro, il marchese dottor sottile del lobo cerebrale sinistro lo aveva persuaso che facendo al Commendatore la raccomandazione Dessalle in ordine al meditato fine principale di allontanare Jeanne da suo genero, si potevano accettare in pace i benefizi accessori che ne venissero naturalmente, come l'appoggio dei Dessalle per ottenere al modesto panino Zaneto un posto sulla pala ministeriale delle infornate.

“Bene bene, addio addio” fece il Commendatore, lottando asceticamente dentro di sè con il proprio buon giudizio, non riconoscendolo, scambiandolo, causa l'andatura affrettata, per un giudizio temerario.

Egli si recava in Biblioteca per sollecitarvi certe ricerche nell'interesse di certe persone pratiche e di altre persone poetiche: di persone che gli avevano chiesto aiuto per comprovare il possesso legittimo di qualche decima e di persone che gli avevano chiesto aiuto per comprovare il possesso legittimo di qualche titolo nobiliare.

“Mi dica la santa verità” esclamò il bibliotecario mezzo infastidito, “vengono anche le balie a spasso da Lei, per raccomandarsi?”

“Anche anche anche! Sissignore sissignore sissignore!”

E il Commendatore raccontò che proprio allora era venuto a casa sua il signor Ricciotti Pomato.

“Lei vuol dire Çeóla?” fece il bibliotecario. No, il Commendatore non chiamava mai la gente con nomignoli, specie se ridicoli. Pomato usque ad finem. Come andava quella faccenda di Pomato, dunque?

“Uh, l'affare si fa grosso” rispose il bibliotecario. “Finiremo prima noi di rimettere in piedi un esercito di decime cadute in deliquio e di fabbricare un altro esercito di conti e di contesse, che il Municipio di allestire un paio di brache miracolose che vadano egualmente bene a un Prefetto, a un deputato, a un senatore, a Quaiotto e a Ciotti Çeóla.”

E proseguì narrando che quella stessa mattina, molto per tempo, gli era pervenuta in casa una Nota municipale, sottoscritta dal dottor Záupa, con l'ordine di non ammettere il Pomato all'esercizio delle sue funzioni fino a che non si presentasse in uniforme. Çeóla era venuto all'ora solita, aveva fatto una scenata e annunciato che si sarebbe immediatamente rivolto al Prefetto per far mettere a Záupa e Comp. il capo a partito. La Giunta si doveva riunire alle tre per deliberare ufficialmente circa le dimissioni del sindaco. Qualcuno andava dicendo che la crisi municipale sarebbe terminata come la crisi della luna, ma il Bibliotecario, considerato l'ordine draconiano "o brache o morte' che tagliava i ponti fra sindaco e colleghi, non lo credeva. Del resto alcuni pezzi grossi della maggioranza, alcuni Cai, come venezianamente diceva il Bibliotecario, si erano raccolti la sera prima, forse per contemplare l'eclissi, forse per altre ragioni, e avevano chiamato a sè il giornalista Soldini. Siccome il Soldini è temperatissimo e in relazione col sindaco, si è creduto da taluno che i Cai volessero aprire trattative di pace.

“Ma se il sindaco torna pregato” ragionò l'acuto bibliotecario, “vuole che ceda sull'affare delle brache? E se non cede, che figura ci fa il buon Záupa? Mo!”

Qui il Bibliotecario sorrise, fissò il suo interlocutore con un reiterato sobbalzare della persona che significava il complicato garbuglio di problemi da sciogliere, e conchiuse: “Vedrà che Soldini verrà da Lei”.

Il Commendatore osservò ch'egli non c'entrava. Pensò in pari tempo, con un visibile malumore, al colloquio chiestogli dalla signora Soldini per suo marito. Aveva sperato, sulle prime, che il Soldini desiderasse parlargli per interessi suoi personali.

Lo conosceva per un logico acuto, per un politico fine, per un carattere rigido, dissimulato sotto maniere squisite e sotto molta tolleranza non delle opinioni avverse, ma delle persone che le professavano. Gli avrebbe reso assai volentieri un servigio personale che sarebbe stato il primo; trattare con lui di cose pubbliche gli garbava meno, alieno com'era dall'affrontare certe rigidezze inflessibili anche fuori di quei convincimenti sostanziali nei quali era egli pure inflessibilmente rigido.

“Vado poi anche a Roma oggi” diss'egli rasserenandosi nella speranza che una lunga necessaria dilazione del colloquio lo facesse sfumare.

Allora il bibliotecario lo pregò di non partire senz'aver parlato con uno degli assistenti distributori; suonò il campanello per farlo venire e sussurrò, ridendo, fregandosi le mani: “Una balia!” mentre l'assistente s'inoltrava timidetto, rispettosetto.

“Scusi, signor Commendatore, Lei è presidente della Giunta di vigilanza dell'Istituto tecnico.”

“Sì.”

“Ho udito dire che viene un professore nuovo.”

“Sì.”

“Ecco, perchè avrei una camera da affittare, se volesse dirgli una parolina!...”

Il Commendatore se la cavò come potè e l'altro annunciò al bibliotecario che il marchese Scremin chiedeva di parlargli quando fosse libero.

“Parlarmi! Non vorrà mica soldi, spero!” Il Commendatore trasalì. Quattrini? Perchè? Andavano male gli affari di casa Scremin? Male, male; proprio adesso che sua figlia guarisce. Guarisce? Ma! La notizia del giorno, nella sagrestia del Duomo, era questa. Guarisce, viene a casa fra pochi dì.

Il povero Commendatore che aveva, nella sua grande bontà, viscere particolarmente affettuose per tutti i nati dentro la cerchia delle mura cittadine e anche nei borghi e anche oltre il selciato, in quelle terre suburbane del Comune dove non era giunto l'affetto di antichi pubblici benefattori, se ne andò tutto rannuvolato per l'intravvista rovina di una illustre famiglia della sua patria e crucciato nella coscienza di rattristarsi troppo della rovina e di rallegrarsi troppo poco della guarigione annunciata. Forse non era vero, ma se fosse vero, altro che Senato, altro che Senato! Presso a casa lo raggiunse arrancando un ometto in occhiali, un acuto e onesto dottor di leggi, sempre febbricitante per nobili emozioni politiche o amministrative, del tutto platoniche.

“Dunque, Commendatore, il Prefetto se ne va?”

“Non lo so.”

“Ma se la gente dice che lo fa traslocare Lei?”

“Io?”

“Sissignore, perchè il Prefetto vorrebbe arrivare allo scioglimento del Consiglio comunale e Lei no.”

E l'ometto rise d'un grosso riso per dare all'aspetto del proprio dire quel gaio e quel morbido che serve a far inghiottire altrui parole piuttosto durette e amarognole nella midolla.

í “Sa cosa?” replicò il Commendatore, molto seccato. “Io faccio come la luna: mi eclisso!”

E sparì nel suo atrio.



II


Don Giuseppe Flores pregava nella chiesina della sua villa, solo, immerso in una doppia visione. Gli avveniva spesso, sui sentieri del suo colle, di sostare meditando le profondità di Dio e insieme contemplando la bellezza magnifica e pia delle cose. Così adesso il suo pensiero si affisava nell'eternità santa, imminente, alta, oscura sopra la visione distesa della sua lunga vita arrovesciata per modo da mostrare la faccia interiore come la sola che valesse. Non ne vedeva il gran bene irradiato a tante anime per vie nascoste alla sua stessa coscienza, senza opere, senza espresse parole di consiglio e di ammaestramento, solo con l'aura dell'essere suo puro, umile, pieno di Dio. Ci vedeva infiniti torpori, miserie, inerzie e persino mollezze, egli, austero a sè circa i desideri del corpo quanto mite agli altri. Ci vedeva tracce di morti affetti inutilmente dati a fantasmi d'illusione e svaniti con essi, e di altri affetti dati con troppo ardore a cose terrene, persino alla casa dove stava pregando, agli alberi del colle, ai fiori del giardino. Ci vedeva, come ombre di tristi vuoti, le perdute occasioni di opere buone e sminuite le opere buone dall'assenza del sacrificio, dall'obbedir fiacco al divino impulso, da compiacenze caduche del bene operato, se non viziose neppur virtuose. Vedeva tale la intera sua vita e non gliene veniva tristezza nella preghiera, ma tenero fervore. Segreto premio di quel suo riferire a Dio tutto il bene fattosi manifesto in lui e invece a sè tutte le lacune del bene, era una intima gioia di affidarsi povero alla Misericordia Infinita, di sentire Iddio con tanto maggior tenerezza di amore quanto più si riconosceva indegno. Quando per effetto della naturale, comune debolezza umana gli si allentava la tensione dello spirito e altri pensieri lo traevano inconscio con sè, erano pensieri della famiglia sua che intera lo aveva preceduto nel mistero, parte per manifeste leggi di natura, parte per occulte leggi di sventura. Anime austere, anime gaie, anime tranquille, anime ardenti, erano tutte passate sulla terra con la fiaccola della fede, tutte partite con il presidio soave di Cristo; e nella semplice chiesina modeste lapidi ne ricordavano i nomi. Don Giuseppe aveva amato i suoi del più vivido amore, li aveva pianti appena con qualche rara lagrima tutta santa di affetto alla Divina Volontà. Ora la sua mente si perdeva dietro care figure use tener sempre nella chiesina lo stesso posto. Si perdeva nella memoria del viso, degli abiti, delle attitudini, dei saluti sommessi nel luogo santo. Allora il senso del silenzio, del vuoto presente lo richiamava alla triste realtà e alla preghiera. Quindi gli s'infondeva nella preghiera un'aura delle persone nascoste ai viventi, un vago rimpianto di non averle forse appagate in qualche loro desiderio innocente nè ben taciuto, nè ben detto, di non avere sufficientemente aperto loro le vie a qualche confidenza difficile, di non esservi ritornato il primo quando, aperta la via, ciò sarebbe stato bene. E da quest'ultimo ricordo trapassò senz'avvedersene, mentre la bocca pregava e pregava, all'altro del colloquio con Piero Maironi, del quale aveva udito poi cose tristi senza tentare alcuna mossa di soccorso.

Il trotto di due cavalli e ruote correnti suonarono sulla via davanti alla porta maggiore, chiusa, della cappella. Don Giuseppe udì trotto e ruote svoltare nel cortile della villa. Poco dopo il domestico venne ad annunziargli la marchesa Scremin.

Egli uscì a incontrar la marchesa sulla gradinata che sale dal cortile alla villa. La vecchia signora, nobilmente vestita di nero, un po' più magra, un po' più rugosa e cerea del solito, si affrettava sugli scalini faticosi per ossequio al vecchio prete che alla sua volta, per ossequio a lei, si affrettava sulla discesa malfida. Don Giuseppe non osava nè ringraziare nè mostrar letizia per una visita ch'era presuntuoso attribuire a semplice cortesia e non temerario, pur troppo, attribuire a qualche cagione poco lieta. La marchesa gli aveva parlato, in città, di certa iscrizione da far incidere in una medaglia, l'aveva pregato di dettarla, di commetterne il lavoro all'artefice; ma non era possibile che fosse venuta per questo.

Dal canto suo la marchesa pareva infervorata a coprire il fine della sua venuta con un arruffìo di frasi mozze e incongrue, di complimenti sull'aspetto florido del vecchio, del suo giardino, sulla bellezza del laghetto giallognolo, ingrossato dalle piogge recenti, e di certe oche, sue tronfie navigatrici; le quali la condussero a parlare delle anitre che teneva lei e dei taglierini al brodo di anitre e dei gusti di Zaneto cui non piaceva l'oca. Don Giuseppe sorrideva, non sapendo che dire, secondava con qualche blando monosillabo quella parlantina disordinata e nervosa che finalmente, quando la povera signora sedette stanca sul canapè della sala, si spense. Allora toccò a don Giuseppe di parlare, di chieder notizie del marchese, e poi, con voce sommessa, esitante, anche dell'altra persona per la quale aveva celebrato pochi giorni prima, in Duomo.

Una tristezza quieta comparve sul viso squallido della povera vecchia. “Ma!...” diss'ella. “Ecco!...” Non soggiunse parola e, durante il silenzio lungo che seguì, due lagrime le spuntarono negli occhi. Don Giuseppe sospirò accorato e chinò il viso riverente davanti alla grandezza recondita di quella creatura umile dalle parole incomposte, che celava il suo inesplorabile dolore, curva e mansueta sotto l'impero amaro della Divina Volontà.

“Sofferenze, don Giuseppe” diss'ella finalmente. “Ecco... sì, già, sofferenze; e nessun vantaggio... Ma già, quasi quasi...” Tacque e gli occhi le brillarono ancora di pianto. Don Giuseppe credette intendere il suo pensiero; ella non desiderava, quasi, che sua figlia guarisse, che sapesse, che vedesse. Parve che la marchesa non dubitasse di essere stata intesa, perchè senz'aver proferite le parole amare le confermò con un “proprio!” pieno di dolore, di severità e di disgusto. Diceva tutto, quel proprio; e don Giuseppe fece il gesto di chi vorrebbe pur contraddire e non sa. "Possibile' pensò, "recar tale afflizione a una povera, santa creatura sventurata come questa!' Mansueto alla fragilità umana, si astenne da giudizi più acerbi di così; ma la faccia dilettosa della passione colpevole mai non gli era parsa meno lusinghiera, nè più spiacente l'altra egoistica sua faccia crudele.

“Eppure” diss'egli, “quel giorno in Duomo l'ho veduto nella cappella con Lei...”

Più dal volto che dalle avviluppate risposte della marchesa don Giuseppe capì che se quel giorno il contegno di Maironi era stato buono, nulla di mutato appariva nelle sue relazioni con la Dessalle. L'eloquio della marchesa era sempre difficile, ma poi a nominare non che a descrivere le passioni illegittime le mancavano addirittura i vocaboli o almeno essi le bruciavano le labbra e nessuno ne aveva mai udito da lei.

Devota religiosamente al marito dal dì delle nozze, professava nel cuore il più duro disprezzo per le colpe di amore, non avendone conosciuta mai la tentazione, non avendo saputo mai, neppure al tempo della sua florida giovinezza, che fosse immaginazione. Al suo sesso era più severa e severissimamente giudicava Jeanne benchè non con parole, chè ne la tratteneva un alto senso di dignità signorile. Nel nominarla, nell'alludere a lei, si faceva tetra in viso e la sua voce si coloriva della stessa ombra; niente altro. Agli uomini era meno severa perchè, secondo una delle sue massime piuttosto ferree che auree, li credeva tutti per lo meno altrettanto sedotti quanto seduttori, non ammetteva che alla vera virtù femminile alcuno ponesse assedio. Però, se giudicava Piero un sedotto, neppure le veniva in mente che la lunga separazione dalla moglie potesse scusarlo nè poco nè molto. Chi gliel'avesse detto non sarebbe riuscito che a nausearla e a perdere la sua stima.

“Io lo tratto sempre” diss'ella “come se non sapessi niente. E così parlo di lui agli altri: questa è la mia regola”.

Infatti in città chi rideva, chi sorrideva, chi si rattristava pietosamente di certe ingenue frasi della marchesa in lode del genero.

“Ho anche pensato” soggiunse con infiniti stenti, “sì... non so... ecco, sì, tante cose... tante piccole cose... tanti piccoli mezzi... sì, non so... m'intenda, don Giuseppe!”

“Sì, sì, eh sì” fece don Giuseppe che non aveva inteso niente, cercando d'indovinare o almeno di aiutare con una spinta spirituale.

“Ecco, questo!” ricominciò la vecchia signora; e si pose a dire e non dire, nel suo inimitabile stile, le fini trame ordite da lei intorno al genero, finora invano, per tirarne quindi a sè tutte le fila e staccarlo dalla Dessalle. Piero si era sempre occupato pochissimo delle proprie faccende, affidate prima al marchese Scremin, cattivo amministratore anche lui, e poi ad agenti. Il grosso patrimonio gli rendeva assai meno del ragionevole. Prima della malattia di sua moglie la suocera gli era sempre ai fianchi col pungolo delle campagne da visitare, degli agenti da sorvegliare, dei registri da esaminare. Poi lo aveva lasciato in pace. Appena informata del pericolo di villa Diedo, si era accinta ad un occulto molteplice lavoro. La sostanza stabile di suo genero, tutta nella provincia di Brescia, era amministrata da un vecchio ragioniere che veniva di tempo in tempo a conferire con Maironi come prima aveva conferito col suo tutore Zaneto. Persona proba e devota al nome Maironi, costui non aveva taciuto a Piero in passato la propria opinione che il miglior partito di provvedere ai suoi interessi fosse anzi tutto quello di prendere dimora nella stessa loro sede principale: discorso ingrato, in quel tempo, alla marchesa, e che le aveva fatto prender l'uomo in uggia.

Più tardi, simulando preoccupazioni sue proprie circa gli affari del genero, la vecchia signora fece dire da un amico di casa al ragioniere che quanto più egli insistesse per attirare Maironi a Brescia, tanto più si renderebbe gradito; e in pari tempo, conoscendo non in tutto ma in parte gl'imbarazzi finanziari di Zaneto, cominciò a insinuargli che sarebbe opportuno di mutare dimora, che lontano dai parenti e dai conoscenti certe economie sarebbero riescite più facili, che l'Elisa avrebbe preferito, ritornando in famiglia, un soggiorno dove non fosse tanto conosciuta. Il sindacato di Piero era un enorme macigno nella sua via. Appena saputo della crisi e ringraziatone Iddio nel suo cuore, ebbe spavento dei paceri che si sarebbero interposti fra il sindaco e i suoi colleghi, pensò all'uomo acido e senza fiatarne con lui gli fece dire all'orecchio ch'era impensierita dallo stato degli affari Maironi, che considerava la crisi una vera fortuna per suo genero, nè sarebbe affatto riconoscente a chi cercasse di mettere pace nel Municipio: un modo questo di aizzar l'uomo a spruzzar il suo acido con zelo anche maggiore del solito. Al genero aveva parlato due volte degl'imbarazzi economici nei quali si trovava impigliato il marito. La prima volta gli aveva fatto balenare con placidezza quasi scherzosa la sua idea: un giorno o l'altro, caro te, andiamo tutti a star a “cossa xela”, intendendo Brescia. La seconda volta era stata più ardita e più assurda, aveva parlato di vender palazzi e poderi, di andar a vivere a Brescia, in casa di Maironi: “E se no te voli vegner ti andaremo noaltri pori veci”.

Nel dire e non dire, a modo suo, tante sottili fila di artifici santi, le ingarbugliò siffattamente che a un certo punto don Giuseppe non ne aveva capito nulla ed ella stessa vi si era avviluppata dentro a segno da togliere al suo interlocutore ogni speranza che potesse uscirne. Ella continuò invece senza scomporsi il suo discorso rotto e oscuro peggio che mai, annaspando, annaspando, spremendosi dalla gola parole che cozzavano insieme, ferma in qualche idea recondita della sua mente, cui pure voleva dire e non dire. Don Giuseppe si fece un po' inquieto. Lo stesso crescente annaspare della marchesa dentro a tenebre sempre più fitte e il lampo di qualche "bisognerebbe' gli diedero l'idea di un disegno chiaro nella mente di lei che, per abitudine, non metteva mai fuori il suo pensiero intimo alla prima, e l'idea ch'ell'avesse assegnato un cómpito anche a lui, un cómpito non facile, non rispondente al reale poter suo. La marchesa venne a questa conclusione tanto più paurosa quanto più inattesa: “Capisce, don Giuseppe, quel che m'intendo?”

“Eh!” diss'egli, nella sua riverenza; e tacque. Poichè il silenzio si prolungava, riprese imbarazzato: “Ecco, forse, tutto no”.

La marchesa ebbe un triste sorriso di preghiera: “Bisognerebbe che parlasse Lei, don Giuseppe”. Parlare a chi? Don Giuseppe, dopo essersi passata replicatamente la mano sulla fronte come per pulirsi e liberarsi d'una preoccupazione molesta, si arrischiò a domandarlo.

“Ecco” rispose la marchesa, “intanto a Zaneto.”

Don Giuseppe tentennò, storse un poco la bocca. La marchesa ricominciò paziente, stavolta molto meno nebulosa, il suo dire e non dire.

“Ecco, mi no so. Lu ga in mente sto Senato. Una fissazion, ghe digo mi. Metemo che i lo fazza, che no credo. Cossa vien fora? Spese.”

Qui la marchesa espresse come potè una sua particolare amarezza. Zaneto mendicava raccomandazioni in quella casa! “Lu el dise che così se fa capir che no ghe xe gnente de male, ma mi digo che no ghe andaria.” E ritornò alle spese. Parlò degli imbarazzi del marito. Tutto per soverchia bontà “perchè lu carità, perchè lu tegner afituali che no paga, lu questo e lu quelo.” Guai se non avesse messo lei un po' di freno a tante larghezze! Adesso veniva il peggio.

Un galantuomo innominato, “un berechin, ghe digo mi”, aveva soffiato nell'orecchio di Zaneto che non lo si creava "cossa xelo', ossia senatore, per la cattiva riputazione delle sue finanze e ch'egli per esser sicuro della nomina, dovrebbe regalare “mi no so quanto a mi no so chi”, ai cronici, o agli orfani, o ai derelitti, o ai tignosi, “a quelo che ghe comoderà a lu, mi digo.” Figurarsi!

Sì, don Giuseppe si rammaricava di questi guai ma non vedeva quale rimedio ci potesse recar egli, con qual veste si sarebbe presentato al marchese per sciorinargli un sermone.

“Ma Lei, marchesa?” diss'egli. “Come potrei riuscire io a smuoverlo se non ci riesce Lei?”

La marchesa scosse il capo, sospirò, confessò la propria impotenza. “Mi no, sala, don Giuseppe. Bonissimo, ma no se intendemo.”

Infatti se la eloquenza della povera vecchia signora era scarsa e grossa, quella di suo marito era invece delle più sottili e pronte. Ella vedeva in ogni questione le diritte ragioni della semplice giustizia, egli ci vedeva le ragioni contorte di una giustizia che facesse alle braccia con l'opportunità. Ella pigliava i propri argomenti in un'angusta cerchia di notizie e d'idee, egli nel campo maggiore della sua cultura e della sua retorica.

Per lei il seggio di senatore significava soltanto vanità e spese. Il suo più filosofico argomento contro le ambizioni del marito somigliava molto, per un curioso incontro, nel suo scetticismo pratico, all'argomento col quale Jeanne, nel suo scetticismo teorico, aveva quasi deriso le nascenti idee socialiste dell'amico: per la presenza di Zaneto nel palazzo Madama e in fondo neppure per le chiacchiere degli altri, la menoma fra le incamminate cose del mondo non avrebbe certo mutato strada! Invano il buon Zaneto, non osando rispondere ch'egli era dispostissimo a rispettare del tutto i prefissi itinerari delle cose del mondo, si metteva a distinguere l'ambizione legittima, sentimento doveroso, dalle ambizioni riprovevoli; invano le parlava di servigi alla religione, possibili a rendere anche col semplice voto. Nel dir questo egli si credeva sincero e arrivò sino a dimostrarlo alla incredula sposa che batteva e ribatteva il chiodo dell'ambizione e della vanità. Le spiegò ch'egli era della stessa pasta di tutti gli altri uomini e non si credeva immune da certi stimoli non tanto nobili; ma che siccome sopra gli stimoli forse nascosti gli appariva nella coscienza una bellezza di buone ragioni, egli non aveva obbligo d'investigar se stesso più a fondo perchè anche a sè stesso l'uomo deve usare carità, anche in sè stesso deve astenersi dalle investigazioni che sarebbe odioso di praticare in altrui.

Sua moglie, intontita e sdegnosa, respinse da sè tutta questa psicologia e questa casistica, come incomprensibili logogrifi.

Ell'aveva dunque rinunciato a tentare direttamente la conversione di Zaneto e lo ripetè a don Giuseppe, il quale fece e rifece, sospirando, l'atto di alzar con le spalle e con il capo un gran peso.

“Come faccio?” diss'egli. Senza tener conto de' suoi gesti nè della sua parola, la impavida vecchia signora, come se fosse bell'e inteso che don Giuseppe sarebbe l'ambasciatore, s'incamminò a metter fuori un'ambasciata nuova, che quegli era ben lontano dall'immaginare. Annaspò un bel pezzo intorno ai suoi beni extradotali che aveva gelosamente e quasi avaramente amministrati a parte per amore della figliuola, perchè non andassero, come ella disse a don Giuseppe, “nel caldieron”, nel caldaione Scremin tutto screpolato di debiti. Era una sostanza ragguardevole e finora la brava marchesa non aveva mai voluto aiutare a saldar il caldaione nè con un soldo nè con una firma.

“Ma se occorre, don Giuseppe” diss'ella, “vada.”

Ecco, l'intimo pensiero della marchesa Nene, il pensiero taciuto fino all'ultimo, cagione vera, unica, della sua visita, era finalmente giunto per le vie più strane e distorte sul suo labbro, n'era uscito quasi a caso, quasi come un'idea che le fosse germinata allora allora nel cervello.

Ella lo aveva concepito da lungo tempo e condotto silenziosamente a maturità nell'attesa di metterlo alla luce quando ne venisse il destro. Il pensiero era questo: offrire a Zaneto il versamento della propria sostanza nel famoso “caldieron” del quale un abile amministratore avrebbe poi tenuto il mestolo, a patto di vendere tutta la sostanza stabile Scremin, palazzo e fondi, e di trasferirsi a Brescia. Aveva in pari tempo intrapreso indagini occulte sul reale stato degli affari di suo marito, sul valore commerciale dei beni stabili di lui e dei propri. Udito che il Genio Civile stava cercando una residenza più comoda, si era arrischiata a muovere una pedina in Prefettura per saggiare cautamente il terreno con la mira di offrire, quando ne fosse il caso, il palazzo Scremin. Aveva persino portato a Venezia i propri brillanti per farli stimare. Dal medico che le aveva recato la parola preziosa, si era fatto scrivere una specie di monito ufficiale che se l'Elisa uscisse guarita converrebbe collocarla in un soggiorno affatto nuovo per essa. Quando le fu riferito che certo amministratore di un Istituto pio, persona intima di Zaneto, lavorava per indurlo a una munificenza, si spaventò, stimò giunto il momento di agire e parlò a Zaneto. Zaneto si commosse, pianse di gratitudine, abbracciò sua moglie e le disse in tono patetico, chiamandola “vecia mia”, il suo affetto, non tanto alla casa e alle terre de' suoi avi quanto alla città nativa. Se Iddio concedesse loro la straordinaria grazia di quella guarigione, poteva bastare un'assenza temporanea, un viaggio, un breve soggiorno altrove. A ogni modo ci si sarebbe pensato allora. Perchè affrontare un trambusto simile, un vero cataclisma, nella previsione di avvenimenti pur troppo incerti? La marchesa volle far allusione al pericolo di villa Diedo ma si spiegò così disgraziatamente male che il bravo Zaneto non durò fatica a sgominarla con una carica di rettorica ottimista.

Egli chiese poi, tutto umile, il perchè di questo imporgli condizioni. Qui trovò duro. La cara “vecia mia” gli rispose risolutamente che voleva vederlo “meterse quieto” e che il solo modo per lui di “mettersi quieto” era quello proposto da lei. Allora Zaneto si ritirò accigliato dentro le trincee della propria dignità. Nemmanco intendeva ciò che questo “mettersi quieto” significasse. Non sapeva di aver mancato, per grazia di Dio, ai suoi doveri familiari. Se un dovere familiare gli prescrivesse di trasferirsi altrove, saprebbe compierlo senza bisogno di condizioni e di patti fermati prima. Non capiva, madama, che questa sua condizione era un'offesa? Madama non volle saperne di capirlo e tenne più duro che mai, cosicchè Zaneto non volle saperne alla sua volta di continuare il discorso.

Ora ella espose a don Giuseppe il suo piano, il messaggio ch'egli avrebbe dovuto portare a Zaneto; e, fedele all'abitudine sua della reticenza, non fiatò del suo tentativo diretto, della disfatta. Temeva che don Giuseppe, se sapesse, declinasse l'incarico o almeno lo eseguisse senza quella fiducia ch'è sempre una forza. Don Giuseppe guardava stupito e ammirato la vecchia signora della quale aveva creduto sino a quel momento che apprezzasse sufficientemente i beni terreni, che avesse un certo affetto alla proprietà e sopra tutto che sarebbe morta prima di lasciare la sua casa, la sua chiesa, le sue vecchie amiche, le sue abitudini. Ella, che solo per affetto alla figliuola e per una ascetica devozione all'ordine si era sempre governata da custode tenace degli interessi propri, se ne stava lì confusa davanti a lui, lontana dal pensare di aver detto cose ammirabili come dal credere di aver parlato greco. Don Giuseppe non sapeva come avrebbe fatto a compiere la missione propostagli ma sentì, davanti a Dio, di non poterla rifiutare. Accettò e ricominciò ad abbrancarsi la fronte con le cinque dita spiegate della destra, premendole forte e lentamente raccogliendole in un cuneo per dispiegarle e raccoglierle ancora, come uno che si trova invischiato in calcoli astrusi e non ci si raccapezza. Durante questo suo faticoso meditare la marchesa uscì molto impensatamente a dirgli che aveva bisogno di un altro favore, da lui; ed egli alzò il viso con una ingenua espressione di sbalordimento come se dicesse: un altro? Le par poco quello che ho già sullo stomaco? La marchesa non parve avvedersene, e gli parlò imperterrita dell'altissima stima in che Piero teneva il Commendatore, per le relazioni avute con esso durante il sindacato. Se il Commendatore volesse, potrebbe forse esercitare su Piero una influenza buona. Bisognerebbe raccomandarglielo, far sì che egli procacciasse di vederlo spesso, di legarselo quanto fosse possibile. Si sapeva che il Commendatore professava il più riverente ossequio a don Giuseppe; chi prendere per quest'ufficio meglio di don Giuseppe? Qui non c'erano difficoltà e don Giuseppe non ebbe a ridire che sul riverente ossequio. Per verità non disse parola, fece solamente un atto di compassione per il triste inganno sul conto suo in che viveva quel bravo signore. Intanto venne il solito domestico rurale con il solito caffè e la cauta signora tirò subito in campo, rifacendosi un viso placido, le oche del laghetto.

Bisognava poi vederle da vicino, quelle oche, prima di partire! Nell'alzarsi insieme a don Giuseppe, nel disporsi a una passeggiata in giardino, la marchesa pregò il domestico rurale di avvertire Giacomo e stimò di aver così trasmesso a Giacomo l'ordine di attaccare. “Giacomo?” disse fra sè il rurale. “Sarà il cocchiere. Avvertirlo di che? Ci penserà lui.” E se ne andò con la intenzione lodevole di riferirgli tal quale il messaggio della sua padrona. Ma Giacomo non era il cocchiere che aveva condotto la marchesa Nene a villa Flores, era il nome di un defunto cocchiere antico di casa Scremin, l'emblematico nome col quale la marchesa chiamava imperturbata, nove volte su dieci, piacesse o non piacesse loro, i Beppi, i Toni, i Tita venuti poi, il Checco attuale.


Limpidi ricami di note intorno al mover pacato di una melodia tranquilla, nè lieta nè triste, avrebbero potenza di esprimere quell'inafferrabile interno che sfugge al poeta nel dire l'andar lento di don Giuseppe e della marchesa per l'erbe tutte vive di vento nell'ombra chiara delle nuvole argentee, fra le macchie tutte bisbigli di frondi, rotti dalle note insistenti e gravi, dalle volate acute degli usignoli. I due non scambiavano, quasi, parola; e appunto la sola musica potrebbe dire il loro silenzio pieno di senso, le comunicazioni non inconscie delle loro anime, comunicazioni di pietà vicendevole, pensando la marchesa come il vecchio prete, con soave poesia di speranze, avesse preparato ai suoi cari, discesi poi nel sepolcro, tanta bellezza di cose; pensando don Giuseppe quanta bontà fosse nella donna addolorata e stanca che per essergli cortese mostrava interesse al suo giardino; blanditi l'una e l'altro, in pari tempo, nel cuore, da un'ultima dolcezza terrena, da un gentile compiacimento della bellezza, non ancora fatto straniero alle loro anime afflitte. Perchè la marchesa nel suo complicato cervello ci aveva pure una cellula per il senso della bellezza dei fiori, degli alberi e dei giardini; alla quale cellula mettevano capo molti finissimi nervi del pensiero, un solo grosso paralitico nervo della parola.

“Ecco le oche” diss'ella con la sua serenità blanda nell'appressarsi al microbo giallognolo e inquieto che si pigliava con beata vanagloria il nome di lago. “Ecco le oche. Le xe arene.” Don Giuseppe le spiegò pazientemente che le oche non erano anitre, che i suoi palmipedi erano un duplice popolo.

In quel momento un languido raggio di sole avvivò la scena pastorale, le acque inquiete, il gruppo di pioppi tremoli che le fiancheggia, il verde ovale della prateria cui l'obliquo poggio boscoso e una diga di alta verzura corrono a chiudere insieme in uno sfondo nero di abeti. Quel tale grosso nervo paralitico della marchesa si contrasse un poco. “Belo” diss'ella “don Giuseppe, el cossa xelo, el prà.”

Don Giuseppe non rispose. Contemplava. Quel posto del giardino era il suo prediletto. Aveva sognato un tempo giuochi e risa, nella prateria, di bambini del suo sangue, nipoti e pronipoti. Adesso, ammirando con la sua perenne freschezza di spirito i capricciosi amori della luce e del verde, ripensava il proprio testamento, fatto da pochi mesi, dopo lunghe incertezze e meditazioni, la villa e il podere diventati residenza e ricchezza di sei vecchi parroci della diocesi e di sei vecchi medici condotti della provincia, impotenti e bisognosi; immaginava i suoi eredi squallidi a passeggio nel prato.

La marchesa soggiunse che per l'Elisa, se mai avesse a uscire di là, ci sarebbe voluto un soggiorno simile. Don Giuseppe s'infiammò subito, offerse villa e giardino con tanto fuoco che la marchesa, sorridendo fra le lagrime, gli prese un braccio al polso, glielo tenne stretto a lungo in silenzio, per fargli capire che lo ringraziava e insieme che non c'era da correr tanto con le speranze. Don Giuseppe, turbato del turbamento di lei, s'imbarazzò, non sapeva che dire. Ella era forte, tanto forte che molti la credevano poco sensibile, ma ora che aveva aperto il cuore a don Giuseppe come a nessuno mai, la sua forza, fatta in gran parte di silenzio, era venuta meno. Vide a due passi, fra i pioppi, alcuni sedili.

“S'el permete” diss'ella con voce soffocata “qua xe belo.”

E sedette. Don Giuseppe le sedette accanto e il suo smarrimento, la sua inquietudine, il suo timore di peggio dovettero apparir tanto che la marchesa gli disse con uno sforzo: “Gnente, salo, don Giuseppe”.

Poco a poco la innocente pace del verde e delle acque solitarie, i sussurri miti degli alberi chetarono l'afflitta come in una casa ov'entrò la sventura, inconscia festività di bambini talvolta cheta, poco a poco, un amaro pianto.

“Ecco” diss'ella, asciugandosi gli occhi con il fazzoletto. “Figurarme!”

Voleva dire che s'era commossa nell'immaginar l'Elisa in quel giardino. Don Giuseppe non capì e non cercò di capire. La pregò, un po' a caso, ad aver cura della propria salute. “Ghe n'ò tanta!” gli rispose: e soggiunse con insolita energia che non voleva morire, proprio no.

Oh povera grama creatura, sarebbe stata beata di riposare nella morte, poichè credeva in Dio! Ma se la sua cara uscisse? Chi la proteggerebbe, chi la difenderebbe contro colei? Che saprebbe fare Zaneto? Non c'era che la sua mamma per assisterla, e la sua mamma doveva, voleva vivere.


Più tardi il contadino di don Giuseppe interrogato dalla marchesa se avesse avvertito Giacomo, balbettò parole incomprensibili; e invitato dal suo padrone a spiegarsi meglio, invece di rispondere alla marchesa rispose a lui, sottovoce, con una faccia sbalordita: “Signor, el ga dito ch'el xe morto”. Infatti il cocchiere impertinente, uditosi chiamare “Ohe, Giacomo!” aveva gridato: “El xe morto!”. La marchesa capì, sorrise con serena commiserazione, scotendo il capo, del bello spirito suo cocchiere.

Prima di salire in carrozza ella raccomandò alle preghiere di don Giuseppe la sua figliuola.

“El me creda, don Giuseppe, Piero no la ga mai conossuda.”

Solamente lei la conosceva, solamente lei sapeva i tesori di quell'anima.

Rimasto solo, il vecchio prete ricordò che un amico suo, poeta, parlando un giorno con lui della marchesa Nene, l'aveva rassomigliata a un cartoccino di gemme come ne tengono i gioiellieri, a un gruppetto di sassolini preziosi, chiusi in un pezzo di vecchio quaderno da scuola strappato a caso, rabescato di storti caratteri puerili senza senso; e anche a un ordine mirabile di cavità sotterranee disposte per qualche occulto lavoro sapiente e benefico sotto il disordine di vecchie culture mezzo abbandonate.

Ma, dileguato appena il rumore delle ruote che si portavan lontano quel riverito problema psicologico, dimenticò le similitudini poetiche, rientrò in casa pensoso, curvo, sotto il peso di altri problemi, di un messaggio difficile.



III


Dieci minuti dopo il suo ritorno da Roma, l'ottimo Commendatore sedette fresco, sereno, davanti a un mucchio enorme di lettere e stampe, suonò per la cameriera e le ordinò un caffè forte. Nello stesso momento il cuoco annunciò il signor Soldini. “Portane due” disse il Commendatore alla cameriera. La cameriera capitò a suo tempo con due caffè, ma tosto aperto l'uscio alle spalle del Soldini, vide ch'era venuta con lui anche la sua signora, ripiegò silenziosamente in cucina e si consultò con il collega. Doveva tornar dal padrone con tre caffè? “Per quei musi?” rispose il cuoco radicale. “Ma no, ma no!” Non sarebbero più partiti! E Ciotti Çeóla saliva le scale in quel momento per avere anche lui la sua udienza. Il secondo caffè poteva servire benissimo per lui. La cameriera, liberale moderata, cedette sul primo punto ma protestò che sarebbe morta piuttosto di portare il caffè a Ciotti Çeóla.

Soldini era venuto infatti con la signora e con molte scuse per questa sopraggiunta complicazione del colloquio. Siccome fra la signora e lui c'era qualche disparità di vedute circa l'argomento di che avrebbero parlato in seguito, siccome la signora credeva fosse in potere del Commendatore un modo di togliere ogni ragione di dissidio, siccome confidavano entrambi pienamente nella rettitudine della sua coscienza morale e religiosa, così il marito aveva detto alla moglie: “Vieni anche tu, parliamogli insieme”. Mentre Soldini spiegava ciò al Commendatore con la sua parola eletta e lucida, chiamandolo, tra scherzosamente e rispettosamente, avversario politico, la signora, tutta confusa, rossa, ridente, si scusava di una propria supposta sfacciataggine con dei “cosa dirà Lei? cosa dirà Lei?” e il Commendatore, ripetendo “un piacere! un piacere!” si cercava frettolosamente, con qualche angustia, nel capo tutte le possibili vie, facili e difficili, pacifiche e malsicure, che il discorso avrebbe potuto prendere.

Ecco, intanto; proprio di politica non si trattava. A questo esordio del marito la signora esclamò che se si trattasse proprio di politica ella non se ne vorrebbe immischiare. Il Commendatore, esperto degli uomini e delle cose, pensò tosto, pure ammettendo la buona fede degli interlocutori suoi, che dunque nel discorso atteso la politica c'entrava molto. Infatti gli amici politici del Soldini credevano sapere che gli avversari lavorassero per lo scioglimento del Consiglio comunale e predisponessero la candidatura liberale di Maironi servendosi del consigliere delegato Bassanelli, reggente la Prefettura da pochi giorni, compagno d'armi, nel 1859, di Maironi padre. Se ciò avvenisse, il giornale clericale avrebbe fatto a Maironi, per volontà di certi capi del partito, una guerra a coltello.

“Tu no!” esclamò la signora.

“Ecco il punto!” rispose il marito, sorridendo. E proseguì a dimostrare che in quel caso il diritto di guerra a coltello ci sarebbe stato.

Quindi spiegò al Commendatore che mentre le altre signore del partito erano inviperite contro Maironi e lo avrebbero mangiato vivo, sua moglie non pensava che alla salute di quell'anima e tremava di vederla buttarsi senza ritegno all'errore e al male, tremava che una parte di responsabilità ne avesse a pesare anche su di lui, Soldini; forse la parte maggiore perchè Soldini non userebbe mai l'ingiuria spregevole, ma con la sua fredda, misurata urbanità recherebbe ferite più profonde.

“Mia moglie mi fa quest'onore” diss'egli ridendo. E soggiunse che a suo avviso ell'aveva torto. “La diserzione al nemico è sempre atto moralmente colpevole. Un atto immorale pubblico dev'essere pubblicamente e severissimamente biasimato nella forma che il tempo e il luogo consentono. Questo me l'accorderà. Ebbene, abbia pazienza. I liberali, quando ci combattono, amano fare un grande sfoggio di Vangelo. Non parlo di Lei, che non lo fa; ma gli altri ho paura che ne sappiano di Vangelo quanto ne so io di astronomia, cioè quattro o cinque cose grosse, la strapazzata ai Farisei, il perdono dell'adultera e, sopra tutto, regnum meum non est de hoc mundo. Ora nel Vangelo si vede usata da Cristo l'invettiva senza femminili timidezze, contro quei colpevoli appunto che lo movevano a sdegno per un carattere di viltà che aveva la loro colpa; solamente... badi bene, perchè io non voglio essere accusato di scarsa carità cristiana verso Maironi! solamente non contro Giuda. I Farisei avevano molto del buono, per essi ci poteva essere rimedio ancora e Cristo scagliò l'invettiva. Contro Giuda no perchè lì non c'era più rimedio, in Giuda era entrato Satana.”

“Peuh peuh peuh” fece il Commendatore, mostrando di gustar poco questi sottili ragionamenti. “Ci sarebbe alquanto a ridire su alcune cose che Lei ha detto; sulla viltà di certe diserzioni, per esempio, e sulle invettive evangeliche paragonate con le invettive giornalistiche.” Qui il Commendatore cominciò a gonfiarsi di riso. “Se Lei” diss'egli “vuole assumersi la parte di Cristo, ci pensi Lei; ma insomma, cosa c'entro io con Satana?” E diede in una risata sonora.

“Non ha mai picchiato al suo uscio?” disse la signora ridendo pure. “Almeno perchè Lei gli faccia avere una commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro? o un posto al Ministero dell'Istruzione pubblica? Adesso parlo io, vero? Vede, certi amici di mio marito, ottime persone ma poco pratiche del mondo, hanno condotta male tutta questa faccenda di Maironi fin da principio. E l'hanno condotta male per non avere ascoltato mio marito.”

Soldini la interruppe. “Eh, se non mi ascolta sempre neppure mia moglie!”

“Parliamo” continuò la signora “con la libertà dei nostri capelli grigi.”

“Il primo chiasso grande per questa disgraziata relazione lo hanno fatto i liberali, e si capisce, trattandosi di un clericale. Io sono convinta che il chiasso era peggiore del male e che usando prudenza e carità verso un uomo fortemente tentato, bisogna dirlo, verso un giovine in quelle condizioni, si poteva salvare tutto. Invece quegli amici hanno incominciato con imprudenti smentite, quasi solenni, poi hanno avuto una reazione di ferocia più imprudente ancora e adesso Lei sente che intenzioni hanno. Sarà il loro diritto ma questo è il modo di perdere le anime, non di riguadagnarle. Lei dirà: perchè questa donna ci si riscalda tanto? Mi ci riscaldo perchè Maironi, prima, veniva qualche volta da noi e mi ero posta in capo che quel giovane, che pure trovavo un po' eccessivo, impulsivo, come dicono adesso, un giorno o l'altro sarebbe diventato qualcuno.”

La cameriera fece capolino da un uscio laterale e disse piano al padrone con un sorrisetto sarcastico:

“Ghe xe el signor conte Çeóla.”

“Santi numi!” brontolò il Commendatore mentre a Soldini sfuggiva un lievissimo sorriso. “Aspetti! Aspetti!” E accennò alla signora, che si era alzata, di rimettersi a sedere.

“Ah, Commendatore!” diss'ella, “Lei solo può metterci d'accordo!”

“Io?”

Questa poi, davvero, il Commendatore non se l'aspettava.

“Certamente” fece Soldini. E pigliò a spiegare l'enigma. Si sapeva che lo scioglimento del Consiglio comunale stava sul tappeto della Prefettura. Qualcuno pretendeva che Bassanelli avesse già sollecitato il decreto reale. Ora se il decreto reale veniva, occorreva che il Commendatore persuadesse Maironi a declinare la candidatura. “Il pensiero di mia moglie” conchiuse il cavaliere Soldini “è questo: se non si posa una candidatura liberale Maironi, il giornale cattolico sta zitto. Il Commendatore impedirà in qualunque modo, o premendo sullo stesso Maironi o premendo sul partito liberale, che quella candidatura si posi.”

“Eh, eh, eh, Lei mi fa un'intimazione da barcaiuolo veneziano!” disse il Commendatore, cacciandosi ridente le mani in tasca e articolando quasi con uno sforzo le parole scherzose. “Scià premi! Scià premi! Ma io ho voglia di stalìr! Di stalìr!” E fuori la sua solita risatina. Soggiunse poi, serio, che di elezioni non si era mai occupato e non intendeva occuparsi.

“Abbia pazienza” replicò il cavaliere. “Quello è il pensiero di mia moglie. Francamente, il pensiero mio è un poco diverso. Ecco. Io non credo nè che Maironi ascolterebbe Lei nè che accetterà una candidatura liberale. Vi è una cosa che non ho detta neppure a mia moglie e che dirò adesso. Io dubito che Maironi sia per entrare in quella strana categoria di gran signori socialisti che abbiamo in Italia. Badi, sa; fra quelli di buona fede e non fra quelli che si fanno socialisti per assicurarsi dall'incendio; ecco, Lei mi capisce. Maironi è appunto un impulsivo di buona fede. Io questo lo desumo da varie piccole, piccolissime cose che so e anche da certo discorso ch'egli deve aver fatto al Bassanelli, il quale non gli è poi tanto cordiale amico, per certe sue intime ragioni...”

“Non so niente, non so niente” s'affrettò a dire il Commendatore con il tono di uno che neppure vuol sapere. “Ma io so” riprese l'altro. “Ora se per caso, avendo luogo le elezioni generali, Maironi fosse portato e si lasciasse portare dai socialisti, pensi come lo dovrei garbatamente malmenare! Lei vede ora, Commendatore, dove riesco e in qual modo Ella può evitare a mia moglie e a me, forse per la salute di un'anima e certo per la nostra pace domestica, il dissidio di cui abbiamo parlato!”

Così dicendo, il cavalier Soldini rideva e il Commendatore rispose “no no no, non vedo, non vedo, non vedo” ridendo anche lui, come uno che vedesse benissimo.

“Ho sbagliato di grosso” riprese il primo “poco fa. Lo scioglimento del Consiglio non è sul tappeto della Prefettura, è sul tappeto di un tavolino molto più visibile agli occhi miei!”

“Oh, che salti!” esclamò il Commendatore, ridendo ancora. “Oh che salti! Lei mi crea, un momento fa, gondoliere veneziano e adesso mi nomina ministro dell'interno.

“Oh che salti!” E più di questa esclamazione, cinque o sei volte ripetuta di poi, “oh che salti, oh che salti!” il cavalier Soldini con tutta l'abilità sua e la signora Soldini con tutta la sua foga sincera non poterono cavare al Commendatore; il quale, malgrado quel fare scherzoso, era stato fin da principio del colloquio attentissimamente in guardia, nel dubbio di una premeditata architettura di tutta la scena per lo scopo clericale: evitare lo scioglimento del Consiglio. In questo egli faceva torto almeno alla signora. Per compenso ricondusse cavallerescamente fino alla scala i suoi visitatori, molto curiosi di vedere l'annunciato autore putativo della crisi municipale, un giovinotto dalla faccia poco simpatica che stava nell'anticamera, duro come uno che non può liberarsi da certo imbarazzo, da certa soggezione e non vorrebbe parere timido nè ossequiente e ha per giunta in testa un discorsino da recitare. Egli cominciò la sua recita troppo presto, appena il Commendatore rientrò nell'anticamera dall'aver accompagnato il Soldini alla scala, la interruppe, la ricominciò, parlando in italiano: “Prima di tutto... Ella crederà... prima di tutto... Ella crederà forse...” mentre il Commendatore, con la sua umile affabilità, insisteva perchè egli entrasse nello studio, perchè sedesse, costringendolo a rifarsi da capo ogni momento. Finalmente gli riuscì di condurre innanzi, sotto gli occhi pacifici e benevoli dell'onnipotente abbandonato fra le braccia della sua poltrona, il discorsino.

“Prima di tutto, Ella crederà forse che io sia venuto a raccomandarmi, ma questo non è vero. Io son venuto per la giustizia, per causa della iniquità di persone che non meritano di essere il Municipio, non meritano, di una città, infatti, gloriosa, dirò. Credo che Lei saprà chi sono e cosa mi è toccato a me.”

Il paziente Commendatore, che lo guardava sempre tra blando e serio, accennò di sì. Egli sapeva che Ricciotti Pomato, da ragazzo, si era gittato nel fiume per salvare un compagno e che il suo bell'atto gli era stato fatale perchè, trattandosi di un povero figliuolo, il Municipio, la stampa, i cittadini cospicui, a forza di suonargli intorno tutte le trombe dell'adulazione, gli avevano intronato in piena regola il cervello che continuava a suonare e suonare di queste lodi, come una conchiglia marina suona e suona in perpetuo dell'Oceano che un giorno la empì di fragore.

La prima iniquità del Municipio clericale era questa che dopo la sciagurata faccenda delle brache, il tale assessore non voleva più favorire, secondo aveva prima promesso, nel conferimento di certe doti municipali, l'Annetta Pomato, sorella di Ciotti. La seconda era che il tale altro assessore intendeva proporre per una di quelle doti la figlia di una sua ganza. “Ohi, ohi!” fece il Commendatore, sgomentato: “No, no, no! non dica di queste cose!”. “Sacrosanta!” esclamò l'altro e continuò a snocciolare il rosario delle iniquità. Si preferisce il tal fornitore, con danno del Comune, perchè è clericale o anche solo perchè la domenica tiene il negozio chiuso. Si nega una gratificazione al tale impiegato perchè scrive nel giornale dei socialisti.

Alla Biblioteca, invece di Ricciotti si nomina il fratello di un sagrestano, che neppure sa parlare in buona lingua. Chi sa quando la buona lingua di Çeóla si sarebbe chetata, se il Commendatore, che pareva stare sui carboni ardenti, non l'avesse interrotto.

“Tutto questo sarà e non sarà, ma che ci posso far io?”

L'altro fece il sordo e tirò via. Si era licenziato un libraio inquilino del Comune perchè vendeva le Memorie di Garibaldi.

Ecco all'uscio il naso della cameriera.

“Signor, ghe sarìa el signor Maroni.”

Il Commendatore significò a Çeóla piuttosto con un gesto che con parole come non vedesse alcuna ragione di prolungare un tale colloquio. Allora finalmente Çeóla voltò la sua carta coperta. “La perdoni!” diss'egli. “Tutto il paese dice che lo scioglimento del Consiglio comunale dipende da Lei e che Lei è contrario.” “Ma che, ma che!” esclamò il Commendatore. L'altro continuò imperterrito, malgrado interruzioni continue. “Adesso io Le dico che siamo molti...” “Ma sì, ma sì...” “... che se le elezioni si fa subito voteremo per i liberali senza domandare posti per noi, senza domandare...” “Va bene, va bene, ma se io non c'entro!” “... e se le elezioni non si fa subito ci teniamo liberi...” “Ma sì, ma sì, è inutile dirle a me, queste cose, facciano quel che vogliono!” “... e se ci teniamo liberi vuol dire che ci sarà dei conti da fare perchè potrebbe succedere fatti strepitosi, e questa è una cosa che potrebbe anche interessare giusto il signor Maironi che credo che sarà lui e che la serva avrà fallato a dire.”

Se la cameriera Rosina avesse udito Ricciotti Çeóla chiamarla serva, lo serviva lei. Ma la Rosina, considerato che adesso nell'anticamera ci stava un signore per bene e non mal veduto dal feroce collega di cucina, si disponeva lietamente a portare i due caffè nello studio di quel povero santo Giobbe del padrone appena fosse partito l'odioso Ciotti. Uditolo scender la scala, si mosse dall'alto del terzo piano. Appena toccato il secondo incontrò un amico e parente della famiglia, che allungò, con un viso beato, le mani cupide al vassoio: “Brava ciò! quel che ghe vol per mi che go magnà i gnochi!”. La Rosina si difese accanitamente e l'altro incalzò con l'attacco. “No, che l'è per el signor Maroni!”

“Te ghe ne scaldarè un altro.”

“No ghe n'è più!”

“E ti falo fresco!” L'amico si trangugiò la sua tazza di caffè caldo con molti voluttuosi muggiti e soffi e la Rosina ritornò brontolando in cucina.

Maironi aveva fatto alcune visite al Commendatore durante il suo sindacato per consultarlo in argomenti di amministrazione o per raccomandargli qualche interesse pubblico. N'era sempre stato accolto cordialmente. Adesso era venuto a malincuore, sospettando che gli si volesse parlare di politica. Sapeva che i liberali speravano di approfittare della sua defezione dagli amici antichi e gli sarebbe spiaciuto di aver a sostenere un assalto condotto da quell'uomo tanto rispettabile e buono, al quale non avrebbe potuto rispondere così vigoroso come ad altri. E dal cedere abborriva. Ne abborriva non solamente per l'attrazione che l'idea socialista esercitava sopra di lui, ma più ancora perchè la compagnia dei liberali gli pareva sonnolenta e il programma impotente a generare l'azione intensa di cui sentiva più e più il bisogno nella inquietudine divorante dell'anima tormentata dalla più profonda scontentezza di sè, dalla impotenza dell'amore a infonderle la pace.

Il Commendatore, licenziato Çeóla non bruscamente ma tuttavia senza troppe cerimonie, sdegnando i sommessi lamenti dei propri nervi per il caffè loro negato malgrado tanti fedeli servigi, fece al nuovo venuto un'accoglienza festosissima. Andò a raccoglierlo nell'anticamera, e prima di farselo sedere vicino, gli mostrò dei libri pervenutigli di recente; fra gli altri, un trattato di trigonometria.

“Vede, vede?” diss'egli. “Tu non credevi ch'io geometra fossi.” Ci aveva pure Le socialisme intègral. “Questo lo conoscerà? Sogni, sogni sentimentali!”

Maironi lo conosceva infatti. Già nell'anteriore suo stato d'animo, preso dalla curiosità del socialismo, aveva letto un compendio francese del Capitale di Marx, Progress and Poverty di George e il libro di Benoît Malon.

“Saranno sogni” diss'egli vivacemente “ma Lei creda pure che ci è stato qualche sogno rivelatore del futuro!”

“Si accomodi, si accomodi” fece il Commendatore, ritraendo in fretta la mano indagatrice dal tocco di quel sangue che bolliva.

Ed entrò subito nel discorso delle due cose per le quali aveva pregato Piero di venire. A sussidio di certi suoi studi storici, intanto, gli occorrevano alcune copie di documenti dell'archivio municipale di Brescia. Si rivolgeva, per averle, alla cortesia di Maironi. Supponeva che Maironi facesse gite frequenti a Brescia; non possedeva egli grandi poderi nel Bresciano? Pigiò molto su questi grandi poderi e poi toccò dei fastidi della vita cittadina, della sorte beata di chi può vivere sulle proprie terre occupandosi di esse, studiando, magari anche sognando un poco! E qui mise a posto una delle sue risatine discrete. Queste parole, cercate con intenzione più profonda, volendo dire e non dire, gli servirono di passaggio all'argomento delicato dove poi, con abbondanti cautele, mise il piede.

L'argomento era la candidatura senatoria di Zaneto. Il Commendatore pigliò le mosse appunto da Brescia, dalle condizioni politiche di quella città e della provincia, dalla importanza che il Ministero attribuiva, ragionevolmente, a certa elezione politica che avrebbe avuto luogo colà in epoca non lontana. Egli calò con lente e larghe ruote del discorso, come un alato diffidente, a toccare, a sfiorare appena certo messaggio portato da un membro del Parlamento circa supposte condizioni alla nomina di Zaneto, soffiate da un ministro nell'orecchio dell'onorevole, tra le quali vi era l'appoggio di Maironi al candidato ministeriale in quel collegio del Bresciano. Maironi, mal soffrendo gli avvolgimenti di parole del prudente Commendatore, sentendo che sola cagione del suo parlare involuto era la paura di toccare Jeanne, di alludere a Jeanne cui l'onorevole Berardini aveva tenuto quel discorso, risentendosi di questi riguardi quasi offensivi per Jeanne e per lui, non attese altro e protestò che questo non era possibile, che egli non prendeva impegno, assolutamente, nè di sostenere nè di combattere alcuno. “Abbia pazienza” fece il Commendatore, desideroso, in quel momento, non tanto d'indurre Piero a una risoluzione qualsiasi quanto di appagare se stesso conducendo i propri studiati periodi a fine.

E li condusse a fine spiegando lungamente e minutamente, non senza rifarsi talvolta da capo per amore di chiarezza, che forse in tutto questo vi era, quanto all'esito, un eccesso di ottimismo, che neppure quel ministro, forse, era in grado di promettere, ma che una probabilità, una probabilità - il Commendatore insistette sul vocabolo - c'era senza dubbio e che, senza dubbio, l'elezione di Brescia poteva pesar molto sulla bilancia.

“Ecco” diss'egli, soddisfatto, sorridente, liberato dal suo gomitolo di ragionamenti, da ogni scrupolo di silenzi male serbati. “E spero di non aver meritato l'epigramma di un mio carissimo amico briccone, molto briccone: longus esse laborat, obscurus fit.”

L'altro rinnovò anche più vibrante le sue proteste, le quali adesso vennero accolte in pace con un “faccia Lei, faccia Lei, cosa Le posso dire?”. Tanto in pace che Maironi n'ebbe l'impressione di certa spiacevole indifferenza e gli venne una gran voglia di scuoter l'uomo con qualche audace parola.

“Non è per la questione di Brescia” diss'egli “è perchè ho fatto altre idee.”

“Bene! bene! bene!” fece il Commendatore col viso di chi pensasse "male! male! male!' come certo confessore veneto andava dicendo - ben! ben! - ad ogni nuovo peccato che gli snocciolava il penitente.

“Senta” diss'egli alquanto solenne e come uscendo con autorità da una breve meditazione: “non s'impegni troppo presto con queste idee che dice. Vita doctrix! Frequenti un poco di più la scuola della vita, ma proprio da scolaro che sta sul banco ad ascoltare e guardare. E poi... e poi... e poi!...”

Il Commendatore scosse la mano destra in aria come benedicendo il soffitto, per significare che poi gli avrebbe dato anche licenza di salire sulla cattedra.

Il naso di Rosina. “Signor, ghe xe el signor Prefeto.”

Maironi si alzò, promise di occuparsi dei documenti desiderati e partì contento di aver detto abbastanza chiaro, posto quel buon intenditore, l'animo suo. S'incontrò nell'anticamera con il zoppicante Bassanelli, consigliere delegato reggente la Prefettura dopo il trasloco del Prefetto. Si scambiarono un saluto freddo.

"Che ghe porta el cafè a quel zoto?' pensò Rosina, riparato il guasto di quell'altro libero bevitore. Il padrone suonò per ordinare che non si lasciasse più passar nessuno e Rosina ebbe soltanto il coraggio di origliar un poco all'uscio. Udì Bassanelli dir forte: “Commendatore mio, andemo zoti!” e il padrone ridere. Poi non le riuscì di afferrare altro e se ne andò brontolando contro il Governo, che nominava Prefetti di quel genere, senza un po' di sussiego, di dignità.

La faccia, il pelo e la gamba sinistra, la gamba di Palestro, del cavaliere Bassanelli avevano cambiato molto da quella sera del 1859 passata trincando nella gaia compagnia dei Sette Sapienti all'Isola Bella, dove uno dei Sette, Franco Maironi, era venuto ad abbracciar sua moglie prima di arruolarsi per la guerra. Nello spirito egli era ancora il bonario e rude originale dell'Isola Bella. La molta cultura, la qualità dell'ufficio, la dimestichezza con persone affabili e corrette gli avevano alquanto levigato il linguaggio senza cancellarne tutte le pittoresche audacie.

Scettico fino all'osso, saturo fino alle midolla di senso del reale e del pratico, mangiaradicali quanto pochi e mangiapreti nell'intimo del suo stomaco quanto nessuno, corteggiatore e disprezzatore delle donne, il padovano copriva i propri sentimenti sin là dove le convenienze dell'ufficio volevano e non più oltre. Aveva moltissimo rispetto e non altrettanta simpatia per il Commendatore, uomo troppo religioso per lui, troppo legato con ecclesiastici, troppo cauto nella parola, troppo schivo del giudicar franco, del chiamar le cose con il loro nome. Non gli piaceva interamente di averlo nella sede della Prefettura, benchè lo conoscesse mitissimo e il navigare fra i deputati gli riuscisse più difficile, più pericoloso assai che l'accordarsi con lui, al quale il Ministero rinviava sempre la Prefettura nelle faccende più delicate. Ora la faccenda delicata era lo scioglimento del Consiglio comunale, invocato dai liberali e possibile a giustificarsi con la composizione del Consiglio stesso dove la maggioranza clericale prevaleva per pochi voti e pareva impotente a trovare un sindaco. Bassanelli era trattenuto nella sua buona volontà di mandare i clericali all'aria dal timore di una coalizione, nelle elezioni generali, del partito costituzionale con i partiti estremi. Per questo gli importava di assicurarsi che la direzione del movimento elettorale capitasse, nel caso, in mani sicure. E qui le faccende zoppicavano per causa di certe iniziative prese da persone ambiziose di nessuna autorità: gente che faceva montare in furore Bassanelli. “Almanco, se no se pol drizzarghe la testa, che se potesse slongarghe el colo!” Erano liberali avanzati, liberali “non dei miei”, diceva Bassanelli con il suo sale grosso “ma dei calzoni altrui, dei calzoni senza filettatura”. Avevano applaudito all'eroe della Biblioteca, avrebbero fatto anche più per un sorrisetto, per una paroletta, per un articolino di Pomato padre, figlio, e comp.

“Senta, Commendatore” proruppe il feroce spirito padovano “ieri un moderato marmotta mi diceva: "Se la va da petrolio a candeloto, meio el candeloto!' Bene, io non solamente sono anticlericale, ma non ho neppure, per mia disgrazia, la fede che ha Lei, questo mondo cane mi pare tanto sconfinato che non so capire come ve ne possa essere un altro; per vivere da galantuomo non mi sento alcun bisogno di preti; ma in verità di Dio quasi quasi, piuttosto che vedere in Municipio certi liberali, mi terrei questo povero mucchietto di sacrestanelli mezzo rabbiosi e mezzo tabaccosi!”

Durante un discorso tanto eretico il povero Commendatore si era molto rannuvolato. “Adesso concludiamo qualche cosa” diss'egli grave, senza guardare Bassanelli. E consigliò di non fare ancora proposte al Ministero, di star a vedere. Avvertì che il deputato del collegio si adoperava molto, a Roma, per lo scioglimento e che poteva forse venire all'improvviso da Roma l'ordine più o meno esplicito di proporlo. Nell'alzarsi per partire Bassanelli gli chiese perdono di averlo scandolezzato con il suo ateismo e ricordò Franco Maironi, il padre dell'ex-sindaco, che lo strapazzava per l'ateismo come per “certe altre cosettine” ma gli voleva un gran bene; e quando lo strapazzava pareva insieme un diavolo e un santo.

“A proposito, bravo; cosa mi racconta dell'ex_sindaco?” disse il Commendatore scrutando il viso dell'altro, anche per certa curiosità del segreto al quale aveva accennato il Soldini. Bassanelli esplose, rosso come un gambero: “Non me ne parli! Non me ne parli! Quello è un pazzo! Quello non è degno...”.

“Ah ta ta ta, ohi ohi ohi” interruppe il Commendatore.

“... Non è degno di suo padre, no! Gli ho già detto qualche cosa di simile e un'altra volta, se mi capita, glielo dirò più chiaro! A meno che non ritorni indietro!”

“Come come come come? Che non torni clericale?” Il buon Commendatore rideva sperando ammorzare con un po' d'ilarità quel furore.

“Ma che clericale! Se va dritto ai socialisti! Quello è un pazzo, Le dico. Mi ha fatto discorsi da pazzo, uno di questi giorni, appunto sulle elezioni comunali, con certe idee impossibili ad afferrare. La se provi a rancurar col cucchiaio il chiaro d'uovo ne la supa: istesso! Il clericale era la crisalide di un anarchico; vedrà! E ci farà del male, qui. Ci farà del male, per i quattrini, per il nome e per un certo ingegno che ha.”

Il Commendatore afferrò il momento buono.

“Mandiamolo via” diss'egli.

“Io lo manderei al Polo antartico, anima mia, col diretto delle cinque; ma come si fa?”

In città si diceva che Bassanelli, malgrado i suoi cinquantaquattro anni, il suo cinismo, le sue affermazioni di non gustare, in fatto di donne, che “le ochete bianche e molesine”, fosse innamorato di Jeanne Dessalle ch'egli aveva conosciuto da ragazza e visitava spesso a villa Diedo. Bassanelli non sapeva che ciò si dicesse e neppure lo sapeva il Commendatore.

“E se... e se... e se...” cominciò quest'ultimo. Si arenò nel terzo se. “Pensavo una cosa” diss'egli. “Se Lei, ch'è in relazione con villa Diedo, cercasse di persuadere quella benedetta signora... santo cielo!... basta!” Espresso con queste due esclamazioni di biasimo e di carità il suo giudizio sulla condotta della “benedetta signora” egli proseguì a dire che forse Bassanelli avrebbe potuto persuaderla della convenienza per Maironi di allontanarsi dalla città quando si aprisse il periodo elettorale, e di non accettare alcuna candidatura.

“Io?” fece Bassanelli. “Glielo dirò a nome Suo, se vuole.”

“Misericordia!” esclamò il Commendatore, spaventato. “No, no, cosa Le viene in mente! Misericordia!”

“Caro Commendatore” disse Bassanelli “la femmina è l'impugnatura del maschio; Lei lo saprebbe se non vivesse fra i cori degli angeli, dei Principati e delle Dominazioni; e se mostrasse di saperlo non intendo come si farebbe torto. Questa impugnatura può essere l'amante, ma può essere anche la moglie, può essere la cuoca. Si figuri che la mia cuoca, la quale sta in casa mia da trent'anni, fa di me quello che vuole; e i suoi seduttori sono quindi miei padroni. Se fosse un cuoco gli vorrei forse bene ma non sarebbe il mio padrone. È la femminilità di quel piccolo cartoccio di grinze che mi soggioga.”

Ancora il naso di Rosina. “Signor! Don Giuseppe Flores!”

“Siamo intesi, dunque!” disse Bassanelli.

“Parlo in Suo nome!” E mentre il Commendatore lo inseguiva con la voce, “no no, non facciamo scherzi!”, e gli giungevano sempre più fievoli i “sì! sì! sì!” del padovano fuggente per le anticamere, don Giuseppe Flores entrò nello studio. Il Commendatore si affrettò a incontrarlo col più sorpreso e riverente viso. Alle spalle di don Giuseppe Rosina faceva dei gesti al padrone per chiedergli se dovesse portare ora i due caffè. Il Commendatore non pose attenzione ai suoi gesti e immaginando che don Giuseppe, rarissimo visitatore, avesse a fargli qualche discorso riservato, le rinnovò invece l'ordine di non lasciar entrare nessuno. Seduti l'uno accanto all'altro nella ricreante coscienza dei loro felici consensi religiosi e morali, di una mutua devozione, senza familiarità ma tuttavia profonda, i due uomini di Dio, tanto diversi fra loro, tanto bene conformati nella loro natura e anche nelle particolari virtù ai cómpiti, pure affatto diversi, loro assegnati dal Padre, si parlarono a lungo, sottovoce. Prima parlò don Giuseppe, porgendosi tutto, tratto tratto, e sorridendo allora di un vivo sorriso al Commendatore che l'ascoltava più grave, pensava cose attinenti al soggetto del discorso e non sapute dal prete, le cose apprese dalla bocca del Soldini e del Bassanelli, che gli lasciavano poca speranza di poter corrispondere ai desideri della marchesa Nene. Egli le disse poi, queste cose. Disse anche del consiglio dato a Bassanelli, e della bizzarra pensata di costui che gli procacciava della molestia. Via, questo invocare l'azione della signora Dessalle, era in certo modo un riconoscere ufficialmente, per trarne giovamento, uno stato di cose che per nessun conto andava riconosciuto. Che ne diceva don Giuseppe? Don Giuseppe parve un poco incerto, masticò alquanto, non si spiegò bene, parendogli che in fatto non fosse opportuno di cercare quell'appoggio e insieme non volendo troppo turbare il venerato amico.

“E Lei, don Giuseppe?” disse questi. “Lei che conosce Maironi, che ha conosciuto, credo, i suoi genitori, perchè non potrebbe tentar qualche cosa?”

Don Giuseppe sospirò, si passò una mano sugli occhi. “Povero me” rispose, “non so far niente, non so agire, non so parlare; una miseria!”

Il Commendatore, pur protestando, si tenne sicuro ch'egli avrebbe invece fatto qualche cosa. Tacque, però, questa fiducia.

“Allora” diss'egli, “se noi non ci possiamo far niente, speriamo bene. Vedrà che adesso il Signore piglia in mano la cosa Lui.”


Finalmente, liberato il campo, la Rosina entrò portando il caffè.

“Xela stà una procession, signor!”

“Ti pare?” fece il mansueto padrone.

“Mi digo!” rispose Rosina. “E l'ultimo xe stà el santo.”

Soggiunse che un momento prima si erano trovati a salir la scala insieme il marchese Scremin e quel tale ch'era venuto a raccomandarsi un'altra volta per l'appalto dei pozzi neri delle caserme di Verona. Ella li aveva licenziati ambedue.

La fedele cameriera stette a guardare con materna compiacenza il padrone che sorbiva pian piano i meritati conforti della bevanda spirituale. Gli propose di aprire le finestre; c'era un tale odore! Di che? Il Commendatore non sentiva niente.

Altro che odore! Odore “de siori e de poareti, del mistrà de Çeóla e della tintura del Prefeto”. Il padrone non credeva a questa tintura del consigliere Bassanelli e Rosina rise arditamente della ingenuità di lui. E non meno arditamente gli domandò cosa gli avesse raccontato “quel dalla Biblioteca”. Intanto gli avrà raccomandata la sua sorella Artemide. Rosina sapeva che quest'Artemide, cameriera pur lei, avrebbe dovuto venire col fratello ma che la sua signora l'aveva fatta stare a letto perchè il medico condotto le ordinasse l'olio di ricino. L'Artemide, nella sua qualità di povera, aveva diritto alle medicine gratuite e l'olio di ricino ordinato a lei lo avrebbe invece preso il padroncino che s'era rimpinzato di paste.

“Ohi ohi ohi!” fece il Commendatore, ridendo.

Rosina cantò poi le lodi dei Soldini. Clericali ma però brave persone, tanto di buone maniere, tanto nobili. E quel Quaiotto che voleva farli andar via! “Un vilan, madre mia!” E il Commendatore: “Zitto, zitto, zitto!”. E il signor Maironi? Aveva egli raccontato che sua moglie stava molto meglio ma per causa di quella brutta... E il Commendatore da capo: “Zitto, zitto, basta, basta!”. Rosina si meravigliò. Che male c'era? “L'è tropo santo, Elo.” E quell'altro povero zoppo, con la sua cuoca che gli rubava fin le camicie per regalarle al suo amoroso vecchio!

“Basta insomma! Porta via!”

Il Commendatore diede una spinta al vassoio del caffè, intendendo spingere così anche Rosina fuori dell'uscio. Rosina si difese. Non era meglio di saperle le cose? “Saperle sì; dirle no.” E come avrebbe fatto lui a saperle se nessuno gliele diceva?

“Ma!, figlia mia, c'è molti modi di venire a sapere le cose. Ascolta, del resto.”

Qui il Commendatore mostrò a Rosina un libriccino legato in pelle nera. “C'è più sapienza in una paginetta di questo libro che in tutte le teste di tutti i commendatori e di tutte le loro cameriere. E se tu potessi capire il latino ti darei da leggere qui de evitatione curiosae...”

“Sì signore” saltò su a dire la Rosina, pronta, “ma mi no son curiosa!”

“Va va va!”

Quando Rosina, mogia mogia, si fu incamminata verso l'uscio brontolando “mi no che no son curiosa”, il padrone la richiamò.

“Senti, Rosina. Chi ti ha detto che la signora Maironi sta tanto meglio?”

Trionfo dell'ancella. “Vèdelo vèdelo vèdelo che l'è curioso anca Lu?”

E la impertinente creatura trottò via senz'altra risposta con il vassoio del caffè.




CAPITOLO V


NUMINA, NON NOMINA


I


“Cara” disse Carlino Dessalle, “e i fiori? Sono quasi le cinque, sai!”

Jeanne stava scrivendo nella sala dell'Ariosto, in faccia all'affresco dove la bella, tenera Angelica, legata le gambe ignude allo scoglio, spasima fra la mostruosa Orca, la ghiottona del mare, che sale, e il mostruoso ippogrifo con Ruggero, il ghiottone del cielo, che scende.

“Non si pranza alle sette?” diss'ella, senz'alzare il capo.

“Sta bene, ma ti hai poi anche a vestire, eh?”

Jeanne non rispose e non si mosse.

“Senti, Jeanne” fece suo fratello un po' stizzito. “Io non te li ho imposti, questi ospiti. Ti ho domandato s'eri contenta di averli, tu mi hai detto di sì, dunque...”

“Ma sì, ma sì, son contenta, ecco, vado” rispose Jeanne, nervosa. Si alzò di botto, piegò il foglio scritto, lo pose in una busta frettolosamente, vibrando d'impazienza. Carlino la guardò; aveva gli occhi rossi. “Oh santo cielo!” diss'egli sottovoce, seccato. “Bella disposizione per un pranzo!”

“Ma che? Ma cosa? Ma se non ho niente! Se sono contenta, contentissima! Se sono allegra! Adesso vado a far cogliere i fiori. Dimmi che fiori vuoi.”

Ella protestava così, pentita, quasi atterrita di avergli dato segno del suo soffrire interno, tenendogli le mani alle spalle, fissandolo negli occhi, ansiosa di vederlo rasserenarsi, di udire una parola buona.

“Stai zitta, è una cosa che non può andare!” replicò Carlino. “Te l'ho detto sempre, tu ti figuri quello che non è. Tu ti struggi per uno che non si strugge niente affatto per te. O forse aveva in principio certe idee e ha capito che con te non si riesce!”

Jeanne arrossì fino al collo, gli turò la bocca.

“No, Carlo, non dir queste cose!”

“Bene, che ti ha scritto, allora? Perchè piangi? Tu piangi per causa della lettera ch'è venuta oggi, non dire di no!”

“Prima, non piango, poi, lo so io perchè piango!”

Carlino rise. “Bellina, questa!” Rise anche Jeanne e ne approfittò subito. “Vedi se sono allegra! Dimmi, dimmi che fiori vuoi!”

Egli scosse il capo, rassegnato, non persuaso: e rispose negligentemente, dopo un silenzio lungo:

“Rose. Niente altro che rose. Rose, ma in copia grande.”

“In copia? Dove sono? Sono sfiorite tutte.”

“Che! Queste della terrazza, sono sfiorite. Le spalliere sotto la Foresteria sono cariche di fiori bellissimi. Ma dunque, perchè piangevi?”

“Piangevo di tenerezza. Sì sì sì! Sono felice!”

Ella gli diede un bacio impetuoso, sonoro, ritrasse un po' il viso a guardarlo sorridendo, sussurrò: “Quando vai a Milano?”.

“Io? Domani.”

“Se ti accompagno, mi porti posdomani al Quartetto?”

“Cosa c'è posdomani al Quartetto?”

Jeanne nominò un grande artista straniero.

“Benissimo, non lo sapevo. Felicissimo di accompagnarti. Ma sai che per i miei affari mi occorrono almeno quattro giorni.”

“Io me ne vengo via il terzo, sabato.”

“Sola?”

“Credo!”

“E sia. Ma che capriccio ti è venuto?”

“Grazie!” fece Jeanne e corse via.

Suo fratello la richiamò. “Scusa” diss'egli. “E` per un incontro?”

“Anche per un incontro.”

“Potevi dirlo.”

“Ma non sono sicura.”

“Senti, corrergli dietro, no!”

“Non gli corro dietro!”

Carlino parve poco persuaso e insistette. “Capisci, la tua dignità, anche in faccia al mondo!”

Jeanne fu per rispondere: “Che me ne importa?” ma si trattenne, disse solo:

“Non temere.”

“Basta.”

Ella uscì rapida, palpitante, nella speranza inattesa di questo prossimo incontro.

Maironi era partito da otto giorni e proprio per le istanze pressanti di lei. Bassanelli non s'era tenuto dal comunicarle l'opinione del Commendatore che fosse bene di allontanare il giovane, posto che il Consiglio venisse sciolto, durante il periodo elettorale. Aveva soggiunto che il decreto reale di scioglimento era in viaggio, che sarebbe savio di prevenirlo perchè molto probabilmente il Commissario Regio, a fronte di certe questioni cittadine gravi, bandirebbe le elezioni assai presto e l'agitazione comincerebbe subito. Jeanne non s'illuse circa le intime cagioni di questo zelo, ma si compiacque molto che il Commendatore pigliasse interesse a Piero. Ambiva un tale patronato per l'amico suo, una guida tanto autorevole che lo avrebbe trattenuto sulla via dove lo vedeva incamminarsi, verso un partito spiacente a lei per le idee e più ancora per la gente poco pulita. Ambiva di entrare in grazia del Commendatore per poter un giorno congiurare insieme. Comprendeva bene quanto poca speranza vi fosse di riuscire a ciò con quell'uomo rigido e pio. Ma insomma, sentendosi degna della stima, del rispetto di chicchessia, non voleva disperare e intanto aveva promesso a Bassanelli di fare del suo meglio perchè il desiderio del Commendatore venisse soddisfatto, lo aveva pregato di non tacere al Commendatore stesso questa sua buona volontà.

Si era indotta più facilmente al sacrificio per veder Piero malcontento di sè, della vita inerte che conduceva, rôso da inquietudini strane, ch'egli le diceva di non sapere spiegare a se stesso. Ella lo amava ora immensamente più di quando aveva dato al vento l'immaginario veleno dall'alto della loggia di Praglia significando in silenzio il proposito di vivere per lui. Lo amava molto più di quando, la sera dell'eclissi, gli aveva porte le labbra, premendo, per prudenza, il bottone del campanello elettrico. Le pareva che il suo amore non potesse più crescere e insieme che crescesse sempre. Non pensava che lui, non sentiva che lui e se nei primi tempi la tormentava inesprimibilmente il sospetto di non essere amata che a parole o come un fantasma, un'idea impersonale dell'amore, o come un vaso chiuso di piacere, adesso le pareva persino, qualche volta, che le sarebbe bastato di amare, di amare, di amare, le pareva di poter rinunciare a essere amata. Quando la sua salute delicata era buona, l'aspettazione di lui e la sua presenza e il partirsene la facevano soffrire; quando invece non si sentiva bene non vi era per lei ristoro maggiore che il vederlo. Le avveniva di sognare ch'erano sposi in un altro paese, in un'altra casa, in mezzo ad altra gente, ch'egli le parlava sottovoce, con dolcezza ma con autorità, di cose serie, che ciascuno aveva le proprie stanze, ch'ella neppure osava di fargli una carezza e ch'era tuttavia beata di appartenergli così.

Amava tanto e non però ciecamente. Credeva conoscere Piero, i difetti e gli eccessi della sua natura, meglio di qualunque altro, meglio, sopra tutto, di lui stesso. Credeva leggergli nel cuore il segreto di quelle inquietudini ch'egli forse non sinceramente le diceva di non sapere spiegare a se stesso. Confidava sì di essere amata ma si teneva sicura che l'amore di lui non pareggiasse più nel cuore le proteste che le labbra ne facevano ancora; e la coscienza di questa scarsa sincerità doveva riuscirgli tormentosa. Si teneva pure sicura che tanti anni di educazione religiosa, di ardente fede cattolica, di pratiche pie avessero impresso a quell'anima una forma che, modificata dalla ragione dentro l'ambito della coscienza, le permaneva intatta nelle inconscie profondità; e attribuiva le inquietudini strane a un vago sentimento di rimorso asceso da quel Profondo, religioso ancora. Certa di possedere l'amara verità, ella non desiderava tuttavia di comunicare all'amico uno scetticismo cui lo vedeva ripugnante; le piaceva di udirlo difendere con appassionata parola le sue convinzioni religiose superstiti, Iddio e l'anima immortale; desiderava soltanto e sperava che nella innocenza del loro legame quei vapori di rimorso finissero con venir meno.

Lo aveva dunque incuorato a occuparsi sul serio de' propri affari, ad assecondare gl'insistenti richiami onde l'agente di Brescia, sobillato dalla marchesa Nene, lo molestava senza posa. E gli aveva ricordato la sua consueta gita del maggio in Valsolda. Egli era già in ritardo, quest'anno! Qui seguì fra loro un po' di contrasto. Piero non pareva disposto ad andare in Valsolda. Perchè? Non lo disse, non lo sapeva. Non ne aveva voglia, ecco. Jeanne sospettò di esserne involontariamente in colpa. Se nel bollore della passione Piero le aveva parlato del lago come la notte dell'eclissi, sui colli, adesso invece i vapori del rimorso gli suggerivano forse di star lontano dalla casa di suo padre e di sua madre, dove si sarebbero fatti più neri e acri. Lo incalzò di domande, d'istanze, volendo strappargli qualche espressione dell'ingiusto sentimento, che le permettesse di lottare apertamente con esso. Non le riuscì. Giunse a pregarlo, con parole di tenerezza e di riverenza per le memorie a lui sacre. Egli la ringraziò affettuosamente e troncò il discorso.

Sulle prime neppure voleva saperne di andare a Brescia. Meditava un viaggio in Francia e nel Belgio, a scopo di studiarvi certe società cooperative di produzione, le case fondate da Leclaire e da Godin, il Vooruit di Gand, non alieno dall'indossarvi per qualche tempo, se occorresse, le blusa dell'operaio. Non tenendosi ancora sufficientemente preparato a questo viaggio, finì con piegare e partì per Brescia. Aveva scritto, dopo la partenza, tre volte e l'ultima sua lettera era veramente in colpa degli occhi rossi di Jeanne.

Ella scese per questa gran vendemmia di fiori nel viale che corre diritto fra una lunga riga di thuye e le spalliere delle rose aggrappate a quel fianco della Foresteria, che guarda la valle del Silenzio. Il giardiniere Pomato, che con tutto il suo anarchismo coperto aveva una soggezione manifesta della padrona, così buona conoscitrice di fiori, così ragionevole e ferma negli ordini, così dignitosa e umana nei modi, così signorile nella figura e negli atti, quel giorno era nero addirittura e si nascondeva poco.

Si era portata con sè alla vendemmia la sua figliuola maggiore Partenope, maestra disoccupata da due anni. Poichè Jeanne, veduta una lagrima negli occhi di Partenope, le ne aveva domandato due volte, e sempre invano, la ragione, rispose lui per la figliuola. Rispose, stroncando rabbiosamente disgraziati gambi di fiori, che le canaglie della Commissione scolastica municipale l'avevano respinta in un esame di concorso perchè sorella di Ciotti e perchè “no la xe sampatica.” La povera Partenope, una ragazzona tozza, infagottata negli abiti civili, con la tinta giallognola della grammatica e dell'aritmetica sulla grossa faccia villana, non era però antipatica; solo faceva pensare a una puledrona da carretta nei finimenti di un cavallo da calesse. Jeanne, benchè avesse pieno il cuore della lettera di Piero, di ansie, di foschi presentimenti, del vicino sperato incontro, parlò con pietà sorridente a quell'amaro dolore che a lei pareva tanto piccola cosa, tanto indegna di lagrime, e non era, perchè la vita di famiglia correva ben dura per la grossa Pape, come la chiamavano i suoi, fra il padre violento, il fratello sprezzante, la madre avara; e qualche gentile, fragile sogno era pur fiorito nella sua rozza mente come le rose su quella rustica muraglia, e come le rose ne cadeva stroncato, povera Pape. Jeanne, soddisfatta di averle detto due parole con bontà, si avvicinò, in attesa che i panieri fossero pieni di fiori, verso il gran leccio del bosco, che le faceva invito laggiù in capo al viale caldo nell'ombra dorata delle thuye, nel riflesso dei muri sfolgorati in alto dal sole scendente. Giunta nel bosco fresco e scuro, pendente alla valle del Silenzio, dove le pareva che l'erbe e le frondi basse le mormorassero “sola?” si levò dal seno la lettera di Piero, incominciò a rileggerne, tremandole le mani, l'ultima pagina e subito, come volendo sfuggire a qualche amaro di quella chiusa, risalì alla data - Oria - vi fermò lungamente gli occhi, ridiscese alle parole prime:


“Vedi dove sono, perdonami di non averti scritto che ci venivo, è stata una cosa inesplicabile. L'altra notte, a Brescia, mi sono svegliato di soprassalto con quest'idea, con la memoria viva delle parole tue quando mi esortavi al viaggio di Valsolda, forse le avevo riudite in un sogno che non ricordo, con la trepidazione, quasi, di subire un impulso del soprannaturale. Cercai di liberarmene, avrei voluto andare, la mattina, a Monzambano. Non ci fu verso, dovetti pigliare il treno di Lecco.

“Viaggiai, sino a Lecco, in uno stato di torpore che si mutò in agitazione grande appena fui sul battello. Mi sono domandato se non ero sulla via d'impazzire! A Menaggio mi tranquillai alquanto. Invece quando il lago di Como disparve in basso e il treno entrò nella valle alta, fra le montagne ombrose, guardando passare pratelli, campicelli, macchie di bosco, casine attorniate di abeti, stradicciuole, tetti lontani, tante cose note al loro noto posto, mi sentii un intenerimento, uno struggimento, una voglia di piangere da non dire; e insieme, Dio sa perchè, un disgusto immenso degli uomini, una stanchezza immensa della vita.”

Ella si ripose la lettera in seno, pensò a quel che veniva in seguito, ferma sul sentiero, con la mano inquieta in un fresco fogliame di alloro; e solo si mosse quando udì il giardiniere chiamar la Pape, dimandarle se là dov'ella era fossero ancora molte rose da cogliere e la Pape rispondergli che v'erano soltanto spine. “Boni per nualtri, i spini!” replicò suo padre. "E per me no?' pensò Jeanne con un intimo sorriso amaro.


Mentre nella sala dell'Eneide il giardiniere disponeva le rose, secondo i cenni di Jeanne, nel grande vaso antico sulla consolle in faccia a Didone in trono, intorno all'erma di Virgilio nell'angolo fra le due finestre di ponente e di mezzogiorno, nei cristalli opachi, negli argenti bruniti, sulla stessa tovaglia cenerognola della mensa onde Carlino voleva bandito ogni candore vivo, ella confessò a se stessa che non avrebbe volentieri scambiato spine con la Pape. No, era un soffrire caldo e caro, il suo. Era come un fuoco di febbre senza dolore che assopisce i sensi e travaglia lo spirito in un lavoro d'immaginazioni intense e vane. Se la pungeva una vera e propria spina, era l'idea di non poter più avere sino a tarda notte un momento di solitudine o almeno di doverlo rubare. Benedetto Carlino che non poteva vivere senza società, senz'aver gente a colazione, gente a pranzo, gente alla sera! Adesso gli era venuto in mente d'invitare una brigata di conoscenti fiorentini avviati al Garda. Erano giunti alla mattina da Venezia, egli aveva mostrata loro la città, li aveva ricondotti all'albergo e li aspettava a pranzo. La società indigena era invitata per le nove e mezzo, molto largamente, a udire della musica e una conferenza di Carlino stesso sul tema misterioso Numina, non nomina, con proiezioni. Carlino aveva pensato questa conferenza per il Circolo cittadino di letture, ma poi aveva smesso l'idea di tenerla in quel posto, sia per certo carattere personale della conferenza, sia perchè la sala del Circolo gli era parsa tanto umida da fare ammuffire le fiamme del gas, sia perchè ci era andato una volta con sua sorella e una graziosa brunetta dell'uditorio, vedendo passare Jeanne col mantello guarnito di chinchilla, aveva udibilmente sussurrato a una graziosa biondina: “Gnao, ciò!”.


“Come li metti a posto, questa gente?” diss'egli a Jeanne. “Bada che io non vorrei vicina quella iettatrice terribile di Bertha.”

Jeanne gli rimproverò la sua ingratitudine verso la signorina Bertha Rothenbaum, l'antica istitutrice di Jeanne, adesso traduttrice di romanzi italiani e corrispondente di giornali tedeschi, ch'era sempre stata buonissima per Carlino. “Non sarebbe neanche possibile!” diss'ella.

A destra e a sinistra di Carlino ci dovevano stare le due dame della compagnia che i Dessalle chiamavano familiarmente Laura e Bice. “Non ci mettere Destemps accanto a Bice” disse Carlino, “altrimenti addio Bice, io dovrò prendermi un torcicollo e un torcicuore con Laura che mi parlerà tutto il tempo di bouchées de pain o di crèches o di asili per tifosi o di ospizi per catarrosi o di altre porcheriole pie, se non sarà invece del voto plurimo e della riforma del Senato, o di qualche uomo celebre, esquimese o cafro, che avrà pranzato da lei.”

Era pure facile non mettere Destemps accanto a Bice. La comitiva forestiera si componeva delle due nobili dame e dell'antica istitutrice, sempre chiamate dai Dessalle con il solo nome, d'una damigella e di quattro cavalieri borghesi, sempre designati con il solo cognome. Oltre a quella turbolenta mouche du coche di Laura, danzante sulle ruote, sul timone, sulle briglie dello Stato e qualche volta intorno agli automedonti impassibili della Chiesa; oltre alla sventata, bonaria Bice, molto franca e audace nella sua maturità ufficiale di suocera e di nonna, maturità proclamata con le labbra tanto più volentieri quanto più la rinnegava il cuore fidente in una tenace bellezza; oltre al terribile Destemps dai capelli di biondo antico, dagli azzurri occhi mistici e sarcastici, v'era il fiorentino professor Gonnelli, l'Yorick delle allegre brigate a cui si concedeva ogni libertà di parola, v'era la sua figliuola, una Gonnellina di diciassette anni, con la lingua legata e i vivacissimi occhi sciolti, con un'ardente sete di vivere, la qual sete, tuttavia nel primo stadio, le bruciava il cervello in forma di entusiasmo per i libri che rispecchiavan la vita e per coloro che li scrivono. V'era la signorina Bertha, piccola magra, senza sopracciglia, con un nasetto vermiglio e due occhietti grigi, con un sorriso fine pieno di bontà. V'era il grande, grosso, barbuto e occhialuto Bessanesi, il paesista sempre intento a cogliere le finezze recondite negli aspetti volgari delle cose ossia quella bellezza che gli eletti sono sicuramente, felicemente, soli a sentire; Bessanesi, l'uomo curioso di ogni arte e di ogni scienza, il parlatore arguto, proclive alla freddura ma correttissimo nel gusto. V'era finalmente il professore Dane della Università di Dublino, il celebre professore Dane, dagli abiti mezzo mondani e mezzo ecclesiastici, sempre ben ravvolto e chiuso, per cura di molte fini mani femminili, nella bambagia di un'adorazione perpetua, squisito alla sua volta con le signore, e con cinque o sei delle più intellettuali fra i trenta o i quarant'anni addirittura petrarchesco, storico illustre, conoscitore profondo di pittura e di musica. Dane figurava il sacro e venerabile stendardo della comitiva. Convalescente in Fiesole di una colica epatica, aveva espresso a donna Laura il desiderio di un viaggetto al Garda e molto ribrezzo di andarvi solo. “Solo?” rispose donna Laura. “Mai!” La turbinosa dama cui non sarebbe garbato affatto un lunghetto passo a due con il prezioso invalido, saettò per ogni verso biglietti e bigliettini invitando mezzo mondo a pigliar posto nel corteo del professore. Donna Bice e Bertha acconsentirono in omaggio a Dane, Destemps accettò perchè accettava donna Bice, Bessanesi per una curiosità estetica della compagnia, Gonnelli per far divertire la sua Eleonora e anche per pigliarsi spasso dell'idolo e delle svaporate adoratrici. Alla Gonnellina poi l'idea di viaggiare con Destemps aveva messo la febbre addirittura, benchè il biondo genio fosse sdegnoso dei palpiti immaturi d'un Backfisch come lei.



II


In principio del pranzo, siccome i fratelli Dessalle, le dame, la signorina Bertha e il professore avevano avviato la conversazione in inglese, Gonnelli, un Yorick che non sapeva l'inglese, apostrofò così a mezza voce il magnifico Enea di Tiepolo: “Eheu, Troiae fili, nonne tibi quoque...” esprimendo il suo fastidio dell'inglese con un latino gonnelliano che nè le dame potevano intendere nè i cavalieri tradurre. Donna Laura e donna Bice, vedendo Destemps e Bessanesi ridere, Carlino Dessalle arricciare il naso, capirono benissimo che non era latino spiegabile. Invece Bertha, punta, curiosa e ingenua, si volse per aiuto all'onnisciente Dane il quale non aveva raccapezzato niente dell'apostrofe maccheronica e disse a Gonnelli col suo sottile sorriso e col suo italiano grosso: “Questa era forse lingua troica, signor?” - “Sì, sì, latino troico” fece Gonnelli. “Troicissimo. E giuro per quella sperlungona di Didone, scusami, Carlino, non l'hai dipinta tu, che Destemps, Bessanesi e io si parlerà e mia figlia tacerà troico tutto il pranzo, vivaddio, se non la smettete con l'anglico! C'è qui la signorina Bertha che parla lungarnico come il Baccelli di Palazzo Vecchio o come una Bertuccia di Mercato, c'è il nostro veneratissimo professore Dane che si arrabatta per benino in un fiesolaico un poco suo proprio, diciamola, in un dannato di fiesolaico, che però insomma è toscanico. Eh dunque!”

Rise anche il professore e la conversazione continuò in italiano, vivacissima. Le due dame, che nei convegni aristocratici portavano con dignità cosciente l'uniforme ideale, per così dire, prescritta dal luogo e dal grado, se ne scioglievano qui assai volentieri nella società preferita degl'intellettuali. Tra loro e Jeanne non correva troppa simpatia, ma di Carlino andavano pazze apertamente come tutte le signore, forse perchè con un uomo come lui, di maniere squisite, musicista eccellente, intelligente di ogni arte, paradossale nelle idee e pieno di vita nella parola ma gelido nel fondo e schivo della passione, non v'era pericolo di andar oltre un piacevole vellicamento dello spirito. Laura, del resto, vedova da qualche anno, sdegnava la galanteria. I suoi amici dicevano ch'ella permetteva a Dane di petrarcheggiare un po' con lei per ricordarsi di esser donna, perchè non le avvenisse di mettere in isbaglio un cappello di ministro o un zucchetto di cardinale; e più innocuo memento non si sarebbe trovato. Bice, orgogliosa di aver ispirato un vero amore a Destemps, molto più savia che talvolta non sembrasse, lo teneva legato ma in rispetto.

Si parlò della piccola città dove Bessanesi diceva di sentire, Dio sa perchè, uno spirituale odore di mare, tanto da immaginare il malinconico Adriatico dietro a ogni cresta diroccata di muro tagliante il cielo. Destemps era innamorato di tutto che aveva visto, anche di un vecchio sagrestano guercio, storpio, gobbo, sudicio, adoratore devoto della sua chiesa, che a un'uscita di Gonnelli “Puzzolenta la tua chiesa!” aveva risposto: “Eh no signor, son mi che spuzzo”.

Gonnelli che non aveva mai passato il Po, compativa molto. “Carino questo, carino quello, ma non è Toscana, via! Somiglia, ma non è!”

“Eppure” gli disse Carlino Dessalle, “hai veduto sulla facciata di quella bella chiesa gotica gli avelli dei fiorentini che posero dimora proprio qui, nel Trecento.”

“Sì, ma per forza, e che moccoli fiorentini avran tirato! Non vedi che l'arciprete li ha posti fuori?”

Allora Bice protestò ch'era fiorentina, che adorava le città piccole e che sarebbe stata felice di abitare quella lì sei mesi l'anno. Dane, stentando le parole, compiendole in aria con il gesto della mano femminilmente bella e bianca, fece un discorsino finissimo. La città era incantabile. Aveva una piccola vecchia anima geniale di vecchio prete italiano, furbo, culto di classici, spirituoso, voglioso del queto vivere bene nonchè con qualche piccolo episodio tenero, un poco scettico, un poco unto la collana, un poco bianco i gomiti de' manichi. Tale idea curiosa suggerivano a Dane “tutte queste piccole strade perfidette che fingono sempre andare a destra per arrivare a sinistra e andare a sinistra per arrivare a destra, e tutto questo vecchio latino un poco di Seminario, un poco rimasticato dall'antico, di tutti questi vecchi palazzi di Cinquecento e anche di Settecento, e questi contrasti molto spirituosi di queste piccole architetture eccessivamente pretty con vicine case stupide, e questi silenzi dove qua e là spunta erba con un verde così dolce che uno si sente anche dolcemente vivere con esso e non pensare niente e diventare dentro tutto tenero e primaverico.”

La città morta era così, ma com'era la città vivente? Com'era la società? Bice voleva pure saperlo. “Se ci vengo a stare!” E rise del suo riso breve, giovanile ancora, che faceva palpitare e impallidire Destemps. Carlino rispose che la città vivente era un mondo infinitamente più grande, vario e curioso di quel mondo piccolo dove “si vive noi”, nelle città grandi, eccetto forse in Roma e in Parigi. “E` questo delizioso mondo provinciale” soggiunse “che vedrete alla mia conferenza, stasera; e qui ne sarà tutto pieno.”

“Non la fare, la conferenza” disse Jeanne. “E` una cosa che non va. Vedrai, accontentati delle proiezioni. Saranno cancans da non dire. Si è già cominciato, io lo so. Scandali addirittura!”

Bice battè le mani. “La faccia, la faccia!” Gli occhi della Gonnellina scintillarono e le sfuggí un “sì, sì!” fra le risate di tutti, le proteste di suo padre “birbaccione di Carlino che mi ammalizia la figliuola!” e i giuramenti di Carlino: “Ma se la mia conferenza sarà una Filotea dell'amabilità e della verecondia!”.

“Con quelle proiezioni?” fece Jeanne. Qui successe uno scoppio di allegra curiosità. Anche la franca Bice voleva sapere. La Gonnellina taceva rossa rossa, e Laura, la gelida, taceva con indifferenza sprezzante, mentre Carlino si sbracciava a protestare contro sua sorella, la quale spiegò subito che nemmanco avrebbe supposto di poter venire fraintesa a quel modo, che le proiezioni rappresentavano persone conosciute della città, cosa innocente senza commenti del conferenziere ma pericolosa con i commenti, per quanto amabili. Appena caduto questo discorso, donna Laura uscì a dire:

“E socialismo, qui, ne avete molto?”

Carlino rispose che non ne sapeva niente, che viveva perfettamente fuori della politica. Sapeva solamente che il Municipio della città era in mano dei clericali e che il suo proprio giardino era in mano degli anarchici.

“Sì” fece la dama, “ma per poco tempo ancora, il Municipio.”

Parlava col tono di una persona sicura, che sa tutto, l'avvenire come il passato. Ne sapeva infatti, circa le condizioni politiche della piccola città, molto più di Carlino, e perchè questi n'era ammirato, volle abbagliarlo addirittura.

“E come sta quel vostro raccomandato, quel marchese ambiziosetto che ha una figlia pazza? E come sta il genero, ex-sindaco, ex-clericale? È a Brescia? Ci lavora per noi?”

Udito da Jeanne che il genero era infatti andato a Brescia, ma per affari suoi e non per occuparsi di elezioni politiche, la dama scattò:

“Ma come! Bisogna che lavori! Si lavora tutti per quel collegio! E` una febbre!”

Jeanne fremeva, Bice rideva. “Eh, si capisce!” disse Gonnelli. “Una Vittoria di Brescia! Capperi, non sarebbe piccola cosa.” “Una Vittoria di stucco” osservò Bessanesi. Donna Laura si adirò: “Già Lei, Bessanesi, per un calembour darebbe anche quella di bronzo!”. “Forse, contessa: ma la darei a Lei! Al Ministero darei quella di stucco.” Donna Laura si riscaldò tanto che Carlino, per placarla, le promise di mandar subito un biglietto al marchese con l'invito di salire a villa Diedo per un affare urgente. Donna Laura gli parlerebbe, lo impegnerebbe, con paroline verdeggianti di lusinghe, a lanciare il genero sul campo di battaglia. Donna Laura, dissimulando una vaga notizia degli amori di Maironi, pervenutale attraverso il Ministero dell'Interno, domandò se questo signor Maironi avesse ingegno, se si occupasse di studi sociali. Invece Destemps domandò della Demente. Egli e donna Bice credevano aver conosciuto i Maironi ai Bagni di Bormio. Lui, non era un giovane alto, bruno, con una selva di capelli indocili e con gli occhi grigi che avevano una espressione singolare di avidità intellettuale? Lei era sottile e di statura media, secondo Destemps, aveva gli occhi color del Rodano, una fisionomia di Sfinge che non vuol proporre il suo enigma. Gli altri, compresa donna Bice, la trovavano insipida; Destemps no. Vero che parlava poco e che le sue parole non avevano mai un'individualità; ma Destemps paragonava queste parole bigie a crittogame di un'acqua stagnante, che ne celano il colore vero e la profondità. Egli la giudicava infatti una creatura profonda e chiusa certo anche a suo marito. Donna Bice si burlava di questa psicologia. Già donna Bice e Destemps si contraddicevano sempre a questo modo, regolarmente. “Sì” diss'egli, “una creatura singolare, profonda e chiusa. E infatti è impazzita. Ho ragione io. E scommetto che nessuno sa perchè sia impazzita.” No, i Dessalle non lo sapevano. Carlino aveva udito che si trattava di eredità. Jeanne l'aveva udito smentire. Bessanesi le domandò se ci fossero speranze di guarigione. “Eh no” diss'ella con una conveniente gravità del volto e della voce. Si dubitò ipocrita, trasalì nel cuore e passò oltre: “Non c'è speranza”. Allora Dane raccontò d'una sua conoscente russa, guarita dopo vent'anni di manicomio e uscitane in mal punto perchè i suoi l'avevano pianta come una persona morta e poi se n'erano consolati, ne godevano i beni, si erano accomodati nella vita come s'ella non esistesse più.

Dane descrisse con arte delicata, squisitamente, il momento in cui la povera signora, rientrando in casa, potè osservare tracce di mutamenti fatti scomparire in fretta e senza parlarne, tracce della sala da musica che l'antica sua camera da letto era diventata, indizi e segni di altri mutamenti più offensivi ancora che cercavano celarsi a lei. Jeanne parve pigliare al racconto lo stesso interesse tranquillo che ci pigliavano gli altri. In fatto ascoltava con quel misto di raccapriccio e di piacere con cui ci s'immagina una cosa terribile che non succederà mai. Ma un'occhiata, una sola involontaria occhiata di Carlino le diede noia come un raggio elettrico saettatole nelle ombre del cuore. Tolse dal calice di cristallo davanti a lei una rosa e la porse a Dane.

“Per l'artista” diss'ella sorridendo; e si alzò da tavola.

Uscirono a fumare sulla terrazza di levante. Nell'attraversare la sala d'Ifigenia, donna Bice disse a Destemps: “Guardate che questo signor Maironi e la padrona di casa... credo, sì. Ditelo anche a Laura”, mentre alle loro spalle Bessanesi esclamava: “Ecco il mare, ecco il mare! Thalatta, thalatta!”.

Non era il mare la sterminata pianura che appariva per l'uscio aperto della sala, laggiù nell'Oriente, fasciata in giro al curvo confine del cielo di freddi vapori; ma tutti lo sentivano il mare, in quel fosco, profondo Oriente, e Bessanesi chiedeva se qualche volta non se ne vedessero, splendendo il sole o la luna, scintille. Altri nominò Venezia. La Gonnellina sfavillò negli occhi di desiderio, osò sussurrare a suo padre che si sarebbe potuto tornare a Venezia, poi fare l'Adriatico fino a Ravenna, si udì rispondere secco:

“Io faccio l'Oceano indiano.”

Invece Destemps ammirava le volute bianche di una grossa fumata di nuvole sospesa là di contro, sopra l'angolo della Foresteria con il pomposo colonnato che vi si appoggia, sopra più lontane chiome tondeggianti d'ippocastani, tagliate da sottili aste di cipressi, e sopra una villetta giallognola, ritta sull'orlo dei poggi, scolta del palazzo signorile, vigile sul piano immenso.

“Come è goethiano questo Settecento!” disse Carlino. “Quelle nuvole mi figurano la sacrosanta parrucca del dio.” Le bianche nuvole diedero un baleno d'oro, si gridò alla parrucca miracolosa, si pose mano ai turiboli e all'incenso. Donna Bice, che dell'opera goethiana serbava memorie lontane e non l'aveva, del resto, ben penetrata mai, che andava a messa quasi tutte le domeniche e pigliava Pasqua regolarmente, plaudì a Carlino incensante Goethe come il vero Uomo-Dio di una religione superiore, fatta per chi sente tutta la bellezza di tutto l'umano, compreso il senso del divino. Difese poi contro Destemps gli esteti moderni che egli chiamava piccoli concertisti di flauto e clarinetto, piccoli bravi gonfiagote, rispetto alla grande orchestra del Goethe. “Gonfiagoethe tu!” gli fece Bessanesi. Bice difese gli esteti, godendo in cuor suo, sentendo che Destemps parlava per gelosia di un giovanissimo esteta fiorentino, ammiratore di lei. Il discorso passò naturalmente all'amore nella religione goethiana e nella religione degli esteti e donna Laura si pigliò la Gonnellina, scese con lei dalla terrazza nel giardino, perchè i signori avevano preso a discutere, Bice inorridendo forte per il suo diritto di donna desiderabile, e ridendo più forte ancora per il suo diritto di suocera e di nonna, intorno a ciò che chiamavano la moralità sessuale.

Bessanesi negava la validità delle leggi religiose, con parole velate, di fronte alle leggi fisiologiche, Destemps voleva che l'amore tutto renda lecito, puro e santo, Carlino sosteneva che l'amore verrebbe così a distruggere il suo proprio piacere, che una legge è necessaria per la deliziosa trepidazione dell'infrangerla e per il dolor piacevole dell'averla infranta, in che uno sentiva il potere proprio, si sentiva uomo veramente. Il solo Gonnelli, gran raccontatore di storielle allegre, difendeva il concetto morale antico, protestando però di non farlo per bigottismo.

“Scusate molto” gli disse Dane, che aveva ascoltato fumando silenziosamente. “Io dico quello che dite voi del concetto morale cristiano. Lo dico perchè lo penso ed anche perchè sono bigottista nel modo che voi fareste bene di essere, e anche tutti questi signori pagani che hanno detto cose tanto eleganti e di colori vivi, come fiori giovani spuntati di rovine vecchie, un poco imputrite; belli fiori, scusate molto, che io non vorrei mettere in occhiello. Ma dov'è la signora Dessalle?”

“Già” esclamò donna Bice. “Jeanne, dov'è?”

“E` andata a scrivere un biglietto” disse Carlino. “Temo che starebbe col professore Dane, e particolarmente contro di me.”

“Lo credo bene!” fece la signora. “Lei ha detto cose orribili!”

E su queste cose orribili la discussione continuò.


Appena staccatasi dal professore Dane, che nell'uscire dalla sala da pranzo le aveva piuttosto cavallerescamente che teologicamente offerto il braccio, Jeanne salì nelle proprie stanze per scrivere al marchese. Avida dei brevi, preziosi momenti di solitudine, non si sentiva più nella memoria quel che aveva detto Destemps della Maironi e l'altro racconto della pazza guarita, se non come ombre languide nello sfondo di un quadro che son vedute ma non richiamano l'occhio a sè. Il pensiero della lettera, il pensiero dell'incontro l'avevano ripresa con violenza; e smarrì, affissandosi nel proprio interno, il senso delle cose esteriori e del tempo. L'improvviso rombo delle grandi campane del Santuario non la scosse ma le entrò nel cuore, vi fece vibrare un ricordo della lettera. Sospirò, tolse quella lettera e ne riprese la lettura.

“Nessuno mi aspettava, naturalmente. La casa era chiusa, dovetti mandare ad Albogasio, non c'eran candele e neppure acqua, ci volle del tempo non poco a prepararmi un caffè, una stanza per la notte e quando, finalmente, mi trovai solo col custode, verso le dieci, nella casa silenziosa, l'emozione del viaggio mi era passata, un po' per la fatica, un po' per la seccatura, interamente; anzi mi meravigliai, quasi mi dolsi, di trovarmi così freddo. Uscii sul terrazzino che fu costruito, secondo mi raccontò una vecchia del paese, certa Leu, da mio padre, e dove il mio povero zio Ribera, "el poer scior ingegner' come qui lo chiamano ancora, morto prima ch'io venissi al mondo, soleva passare lunghe ore e prendere qualche volta sulle ginocchia la mia povera sorellina, quella che annegò a quattro anni. Mi vennero in mente certe espressioni affettuose della Leu a loro riguardo: "lü che l'era inscí mai bon, lee che l'era inscí mai graziosa!'.

Pensando queste parole così soletto, in quella casa vuota, su quella terrazza dove la passiflora che diede ombra in antico a mio padre, a mia madre, a mio zio, alla mia sorellina, si abbarbica tuttavia, morta, alle aste di un padiglione di ferro, mi si cominciò a mover dentro qualche cosa che non so dire e finalmente ho pianto un pianto amaro sulla mia casa derelitta e taciturna, sulla mia famiglia spenta e anche su me stesso, non degno di quelle anime. "Lü che l'era inscí mai bon, lee che l'era inscí mai graziosa!' Povera cara sorellina innocente! Era una notte delle più buie, neppure si vedeva sotto la terrazza il lago nero e immobile come le montagne avviluppate la fronte di mostruose nuvole che sole avevano un fioco albore. Dato sfogo a quel gran bisogno di piangere, provai l'intenso desiderio accorato di un segno che mi dessero di sè i miei morti, stetti sospeso, in ascolto, pur con la coscienza della mia follia. Mi parve udir un bacio dell'acqua sulla riva, prima; poi una voce di uccello notturno nei boschi della sponda opposta; poi niente, niente, niente. Stavo per levarmi, sospirando, di là, quando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi...”

Jeanne non proseguì a leggere, si alzò pallida, quasi cupa, scrisse in fretta il biglietto al marchese Scremin e discese in tempo di udire Carlino difendere contro Dane e donna Bice la sua tesi sull'amore e la legge. Sentì che in quel momento Maironi avrebbe sofferto di vederla prendere le parti di Carlino e, pur sapendo che poi se ne sarebbe pentita, cedette a uno spirito di ribellione, disse con voce vibrante che certi sentimenti erano molto belli, molto buoni, molto poetici, che la verità era cattiva, dura e fredda ma che l'aveva detta Carlino. Donna Bice ebbe un tocco del suo riso argentino e guardò Dessalle.



III


Gl'invitati della città, un nuvolo, perchè Carlino voleva riempire per la sua conferenza la sala grandissima della Foresteria, cominciarono a venire dopo le nove e mezzo, a piedi e in carrozza. Venivano per le due stradicciuole che mettono a villa Diedo, così atrocemente selciate che la nobile signora Colomba Raselli, palpitante di timidezza e di orgoglio, come un vero piccione, nella sua toeletta cenere guernita di pizzi neri, scendendo di carrozza presso la scuderia e affacciandosi al ciottolato che sale, sospirò, disse a due signorine di cui teneva faticosamente la tutela: “Oh Dio, tose, gavìo cali? Mi sì, savìo”. E alla sua volta l'uomo acido, nel mettere il piede col maestro di musica Bragozzo sul ciottolato che scende dal colle, storse incredibilmente la bocca, il naso, le sopracciglia e dolendosi di non possedere le estremità marmoree di certo illustre uomo grandeggiante nel mezzo di una piazza della città, brontolò contro la buaggine propria di venire a rompersi i piedi per avere poi il piacere di rompersi anche le tasche. Le carrozze salivano cariche di dame sfarzose, di nereggianti e biancheggianti cavalieri. La contessa De Altis ne aveva tre nel suo landau. Due di costoro in abito nero e cravatta bianca, torturavano il terzo per il suo smoking e la sua cravatta nera. Non sapeva egli che la sera prima, al caffè, si era deciso di andare tutti in frac? Il disgraziato, uso venerare nonchè le sacre sentenze anche le auguste opinioni del caffè, si difendeva tra umilmente, allegramente e dispettosamente, descriveva con brio la scena della sua "vestizione' in casa, le apostrofi delle figliuole: “Papà, la velada, sètu!”. “No, papà, che la xe onta!”; i consigli della moglie: “El veladon ch'el te stà tanto ben!” e finalmente i bisbigli della cameriera: “El se meta el smochi, conte!”. “E mi aseno” conchiudeva il narratore “meteme el smochi.”

In tutte le carrozze si criticavano i Dessalle per non aver indicato l'ora in cui sarebbe finito il trattenimento e per gl'inviti troppo larghi. Il cavalier faceto supponeva di aver a star in cucina. Nelle carrozze di soli uomini si passavano in rassegna i relativi abiti neri, se ne pubblicavano l'età, le origini e i fasti e non mancò chi vi andasse fiutando la carbolina. Ma tutti, cavalieri e dame, erano curiosissimi della conferenza e delle proiezioni, perchè si diceva che la conferenza fosse in parte un madrigale all'indirizzo di parecchie belle, amabili e spiritose signore della città, delle quali si sarebbero visti i ritratti, e in parte una pittura innocentemente scherzosa di parecchi signori che pure sarebbero comparsi in effigie.

Si pretendeva di conoscere i nomi delle signore, si parlava di peccati mortali di ommissione e di indiscrezione, di miscele inopportune, di certe signorine molto leggiadre, molto mondane, fieramente impermalite per la risaputa esclusione di tutte le signorine, tranne una, dalle proiezioni e dalla conferenza. Si commentava l'assenza di Maironi, si discuteva di una possibile rottura, con accenni agli Scremin e a un miglioramento della Demente. Il cavalier faceto prometteva raccontare cose graziosissime durante la musica noiosa del maestro Bragozzo.

Si rideva della signora che la sera dell'eclissi andava giurando di non rimetter piede a villa Diedo e che, ricevuto l'invito, aveva telegrafato a Venezia per una toilette. Si rideva degli infruttuosi sforzi della contessa Importanza per appioppare a Carlino la contessina Importanzèta, sforzi caritatevolmente secondati da certa benigna dama senza figliuole.

La Raselli entrò ultima con le due signorine nella villa perchè, giunta al cancello, si avvide di avere smarrita la nappina del ventaglio, e con grandissima rabbia delle compagne volle a ogni costo, malgrado le confessate imperfezioni delle piante, rifare la via sino al fondo: “Via, tose, tasì, ch'el gera tanto un bel fiocheto. Tasì, çerchè, disì el si quaeris anca vualtre”, che fu poi tutto invano.


Villa Diedo, il bel dado a trafori dal diadema di statue, saliva biancastro, con i trafori tutti accesi, sopra le due terrazze brune di gente, verso un caos fosco di nuvole senza luna, simile nel suo culminare a un alto, enorme fiore del poggio. E nel fiore e intorno al fiore animato di fiamme era un fervore di piccoli viventi, accorsi al lume e all'odore di godimento. Molte farfallucce vane, qualche fatua falena, molti moscerini curiosi, qualche maligna zanzara, non pochi scarabei di pregio, non poche nobili api vi facevano un ronzìo continuo, molesto, forse, alle cose immobili, adoranti, nella notte augusta, come ai devoti nelle cattedrali un pertinace battibecco di sagrestani e di femminucce. Solo i rosai abbracciati ai balaustri della terrazza di ponente avevano fremiti e moti come se la domesticità lunga avesse loro propagato il senso del piacere umano. Così osservò passeggiando sulla terrazza un poeta indigeno alla dama pure indigena cui dava il braccio. “Ma Lei” diss'ella “trova che c'è tanto piacere umano, qui? Tranne io, in questo momento” soggiunse con una voce strascicata e ridente che attenuava la dolcezza delle parole “tranne forse un pochino anche Lei, più o meno si seccan tutti. Non ha visto che mutrie? Pare gente che aspetti il suo turno nella sala di un dentista. Per fortuna c'è quel signore color carota che si diverte!”

Quel signore color carota, l'uomo acido, errava soletto per le sale, in abito di mattina, fra le code di rondine e le toilettes chiare, scollate, fiutando i mobili a uno a uno, regalando a ciascuno una particolare smorfia, e non pareva infatti il ritratto del piacere umano; ma convien dire che la bella, nobile dama, squisitamente aristocratica nell'intelletto e nel gusto, non molto ricca, soffriva un pochino del lusso sfoggiato da questi Dessalle, sangue di banchieri, e del prosternarsi, come diceva lei, di una città intera ai loro milioni. Perciò il suo giudizio che tutti si seccassero era volontariamente malignetto e fece sorridere il poeta nel proprio non meno maligno cuore. La folla degli invitati, alcuni dei quali non erano mai entrati nella villa e moltissimi non l'avevano visitata dopo che n'era stato rinnovato l'arredamento, fluiva, finite le presentazioni, per le cinque sale tiepolesche e si divertiva di se stessa, del magnifico ambiente, dove la signora malignetta non faceva grazia che a Tiepolo, giudicava piuttosto pretenzioso che ricco il mobilio, vedeva punte borghesi in ogni eleganza.

Giovava a lei e a qualche altro, per malignare, che certo borghesuccio vanitosetto, per aver conosciuto i Dessalle da qualche settimana e aver veduta la villa minutamente, si affannasse a gittar qua e là rapidi bisbigli: “Tutte stoffe tessute apposta perchè armonizzassero con le decorazioni di Tiepolo - qui tutto è antico, preso a Roma - qui tutto è copiato da una sala del palazzo X di Venezia - qui tutto è lavorato su disegni del pittore Fusarin. - L'erma di Omero, nella sala da musica, è antica. - L'erma di Virgilio, nella sala da pranzo, è di uno scultore russo - quelle dell'Ariosto e del Tasso sono di... di... di... adesso lo domando a Carlino”. Subito il cavalier faceto lo battezzò per queste sue ambiziose familiarità ridicole "el fiolo de la balia de Carleto' e per tutta quella sera il nomignolo gli rimase.

C'eran bene alcuni buoni conoscitori e alcune fini conoscitrici, che gustavano le armonie squisite degli arredi e delle pitture e sostavano a considerare i fregi dorati sul cuoio bianco degli usci antichi, nè attraversavano il corridoio fra la sala di Virgilio e la sala del Tasso senz'ammirare alle pareti il ricchissimo soprariccio di Venezia. Ma i più si compiacevano di altre cose, della folla elegante, della gran luce, della grande ricchezza, di trovarcisi come invitati; benchè quest'ultimo godimento fosse molto attenuato dalla copia degli inviti, non fosse condito di esclusioni saporose. Molti signori si compiacevano inoltre, in diversa misura, secondo il grado, la bellezza e la giovinezza della compagna, di dare il braccio a una dama; e altri signori si compiacevano di piantarsi ai passaggi fra sala e sala, indagando dall'alto le spalle e i palpiti di quelle che talvolta erano costrette a sostarvi.

“Il nostro Olimpo” disse con voce nasale un vecchio signore elegante a Gonnelli, passate che furono quattro o cinque dame, una delle quali, l'ultima, era molto scollata. Bessanesi, che stava dietro Gonnelli, brontolò: “Quello mi pare l'Ossa”.

La voce nasale: “Perdoni, dice?”.

“Oh, niente.”

Le signore tutte, tranne qualcuna poco soddisfatta della propria toilette, si compiacevano pure della riunione, ma si mostravano ancora, nella gravità e nella solennità del contegno, molto comprese dei loro strascichi, delle loro gemme, dell'avvenimento cui partecipavano. Invece le signorine erano raggianti, perchè il "fiolo de la balia' aveva raccontato a qualcuna che nella sala della conferenza si era stesa una tela e portato un piano; e perchè fra i possibili ballerini vi erano alcuni giovani ufficiali di cavalleria non mai venuti, prima di quella sera, in società. Un gruppo di esse, nella sala dell'Ariosto, commentava queste notizie. Un signore maturo che passava di lì, allargate le braccia a cingere confidenzialmente due sottili vite che trasalirono, ficcò il naso nel gruppo: “Ohe digo, sémoi bone putele? Sémoi de religion? Quanti Ave marìo gavemoi dito ancò?”. E scappò ridendo, con una ventagliata della più anziana sul viso. Le signorine ripigliarono a parlare degli ufficiali ponendo in comune la loro scienza, indicandoli per nome, cognome, titoli, quattrini, età, spirito, abitudini e peso.

Il primato del peso era stato tenuto per un pezzo dal capitano X con novantatrè chili, ma ora c'era il tenente Y che ne pesava novantacinque. Peccato, il tenente non aveva altro difetto che questo eccesso. Jeanne aveva raccolto la Gonnellina in un angolo della terrazza di levante dove stava con la signorina Bertha e con Destemps, l'aveva portata alle pupille della Raselli perchè la pigliassero nella loro compagnia; ma Eleonora, venutaci contro voglia, non fu briosa nè troppo amabile, cosicchè le fu presto conferito graziosamente il titolo di "palo numero uno'. Jeanne, del resto, recitava la propria parte da eccellente attrice, concedendosi poco a chi l'avrebbe desiderata molto, scusandosi con le amiche, distribuendosi largamente agli invitati più modesti e meno conosciuti da lei, componendo acconce conversazioni al professore Dane e a donna Laura, lasciando che Bice, Destemps, Bertha, Bessanesi e Gonnelli se la sbrigassero come volevano e potevano.

S'era dovuto modificare il programma della serata. Non si cominciava più con la conferenza, si cominciava con la musica, per causa del maestro Bragozzo, il quale, fiutato in aria l'odor di ballo, aveva dichiarato netto a Carlino di non voler far udire il promesso atto della sua opera inedita dopo la conferenza, quando tutti sarebbero stati impazienti di ballare. E per la musica non c'era da uscire dalla villa perchè il maestro preferiva quella piccola sala alla grande sala della Foresteria: pochi uditori ma scelti!

“Cosa vuole?” diss'egli alla contessa malignetta. “Qui saremo, si figuri, cento persone. Di cinquanta uomini che mi applaudiranno, ve ne saranno venti capaci di dirmi quando saremo fuori: "La diga, maestro; bela quela roba, ma longheta'. Altri venti, e questi saranno i miei amici, mi diranno: "Fiol de na pipa, la finivistu gnanca più!'. Altri cinque mi domanderanno se ho suonato Wagner o se ho suonato la Traviata; per loro è presso a poco la stessa cosa. Gli ultimi cinque ho piacere che vengano a udirmi. Quanto alle signore, mettiamo da parte Lei, la De Altis, forse anche la padrona di casa, non lo so, e tre o quattro delle quattordici o quindici allieve che ho qui, mettiamo dieci in tutto. E` molto! Per le altre quaranta, quand'anche sapessi far cantare e piangere il piano, avrei la consolazione di vedere quaranta ventagli andare e venire regolarmente, come quaranta metronomi, dal principio alla fine. Qualche signorina, poi, sarebbe capacissima di venirmi a dire, come mi è toccato ancora dopo aver suonato Beethoven, o Schumann, o Mendelssohn: "Bravo maestro: ma ora ci suoni qualche cosa di bello'.”

“E` così dappertutto, sa” gli rispose la contessa, ridendo.


Mentr'egli suonava e, contro il suo desiderio, la piccola sala era stipata e due grosse code di pubblico vi restavano prese negli usci aperti, il cavalier faceto raccontava in un angolo della terrazza di levante, a un piccolo gruppo di uditori e di uditrici, le scene di casa Scremin promesse alla contessa De Altis, la quale aveva preferito la musica. Egli le sapeva dalla propria cameriera, una sorella della quale aveva sposato il figlio di Federico di casa Scremin.

Dunque, scena prima. Personaggi: il marchese Torototèla, come il cavaliere chiamava Zaneto per certe sue antiche colascionate poetiche, la marchesa Nene, don Giuseppe Flores e un topo. Arriva don Giuseppe in carrozza, dalla sua villa, domanda del marchese, è introdotto e Federico riceve l'ordine di non lasciar passare nessuno. La marchesa suona il campanello. Chi è venuto? Don Giuseppe Flores. Dov'è? Nello studio, col padrone. Passano cinque minuti. La marchesa esce dalla sua camera e "roa' ossia gira inquieta per la casa. Va finalmente a capitare scura e ansiosa in viso presso uno dei due usci dello studio del marchese. Cosa succede mai? Federico si trova per caso presso l'altro uscio. Ode don Giuseppe che parla; non si capisce niente. Torototèla "fifòta' ossia piagnucola. Federico, per caso, accosta l'occhio al buco della chiave e vede la padrona entrare tutta blanda e sorridente. Proprio in quel momento il padrone si alza spiritato, tira una scampanellata fissando qualche cosa in un angolo dello studio. Federico fa un giro, entra dall'altro uscio, dietro la padrona. “Comandi?” “Un sorze!” La padrona che solo teme Iddio e i topi, volta silenziosamente le spalle e via. “Un sorze, signor?” esclama Federico. “Ma sì, un sorze, un sorze!” Il marchese, tutto tremante, si fa una barricata della sedia. “La scusi, don Giuseppe! La scusi, don Giuseppe!” Don Giuseppe al vedere quella baraonda per un topo, resta di stucco. Federico non riesce a veder topi. Il marchese non si rassicura, vuole continuare le ricerche: “La scusi, don Giuseppe! La scusi, don Giuseppe! Mi rincresce!”. E tanto dice e tanto ripete “mi rincresce, mi rincresce” che il povero don Giuseppe, mogio mogio, se ne va. Trova la marchesa nell'anticamera, discorrono.

A questa placida svolta del racconto si udirono gli eroi del maestro Bragozzo delirare di passione con lo strepito più indiavolato, e un signore grosso uscì sulla terrazza, si accostò al gruppo. “Mi son sordo” disse egli. Poi raccontò ch'era arrivato Zaneto Scremin con un frac del quarantotto e una cravatta bianca che pareva una salvietta.

La venuta di Zaneto aguzzò l'appetito curioso degli uditori e il racconto fu ripreso. Cosa si fossero detto la marchesa e don Giuseppe non si sapeva. Certo la marchesa, nel congedar il prete, aveva sospirato: “Ga d'esser anca i sorzi!”, quasi quasi compassionando Domeneddio per questa debolezza di aver inventato i topi. Quanto poi al fondo della cosa...

“Mi so tuto!” interruppe il signore ch'era diventato sordo. Era infatti abbastanza bene informato. A Zaneto, per esser fatto senatore, occorreva regolare i propri affari, unificare i debiti con un grosso mutuo per ridurne l'interesse e per non avere intorno tante lingue inquiete, tanti occhi attenti di creditori. Un'operazione col Credito fondiario della Cassa di risparmio di Milano non si era potuta concludere, per difetto di cauzione. L'avvocato di Zaneto aveva proposto a Carlo Dessalle un mutuo di settecentomila lire al quattro per cento. Dessalle per il momento non aveva fondi e a ogni modo voleva il quattro e mezzo.

Saputo ciò, la marchesa, piuttosto di vedere suo marito legato ai Dessalle, aveva deciso di sacrificarsi e di cedergli una larga parte dei propri beni, però a condizione di far sapere in alto che non si aspirava più al senato, di trasferirsi a Brescia, di viverci quietamente con il genero. Don Flores era l'ambasciatore. “Ma Zaneto duro; e fra lu e el sorze i ga mandà a monte tuto.” Nel dialetto del paese "sorze' si dice un uomo astuto e a questo fondamento filologico il cavalier faceto appoggiò la rispettabile ipotesi che gridando "un sorze!' il buon Zaneto avesse voluto designare non un topo ma se stesso.

Intanto Jeanne aveva presentato il marchese a donna Laura, li aveva avviati entrambi, senza parere, alla terrazza di ponente dove potevano discorrere in pace. All'orologio del Santuario suonavano le dieci e mezzo. Jeanne scivolò nella sala da pranzo, si affacciò a una finestra aperta sulla valle del Silenzio, guardando i colli foschi, le nere nuvole pesanti, immaginando la terrazza lontana, alta sopra le acque oscure, la passiflora morta, il suono delle grandi campane, il cuore a lei caro, pieno di memorie, di rimpianti, di terrori, di desideri indistinti che lo contendevano a lei. Si slanciò mentalmente colà dov'egli era e sentendo che non avrebbe osato serrarlo nelle sue braccia per timore di riuscirgli sgradita, tutta dentro si rammollì di pianto e lasciò la finestra.

Nel voltarsi vide Bassanelli fermo davanti a lei. “Sono indiscreto?” diss'egli. “Ho pensato che forse questa sera avrete tempo e orecchi anche per gli amici. Vorrei dirvi una parola.”

Jeanne non si sdegnò dell'allusione all'assenza di Maironi, avvezza com'era da un pezzo alle punture gelose del povero Bassanelli, per il quale aveva molta stima e anche simpatia.

“E la mia società?” diss'ella.

“Ci pensa Bragozzo” rispose Bassanelli. “Sentite; ieri l'altro, a Venezia, ho veduto vostro marito.”

Jeanne ebbe un sussulto di appassionato disprezzo. “Ebbene!” diss'ella. “Che me ne importa?”

Bassanelli non pretendeva che le ne importasse molto, ma in fin dei conti l'uomo gli aveva fatto pietà. Era in pessime condizioni di salute, pareva mutato, conscio delle sue abbiezioni passate, soffriva, soffriva molto, anche di certe voci arrivate sino a lui.

“Di quali voci?”

“Eh, mia cara!”

“Bassanelli! Siete venuto per dirmi questo?” fece Jeanne, fieramente.

“No, ma insomma trovo che stasera vi si legge troppo nel viso l'assenza di qualcuno, e trovo che non è necessario di mettersi poi anche a sospirare alla finestra!”

“Bassanelli, vi ho permesso finora di maltrattarmi circa questo punto perchè siete un vecchio amico, ma badate di non farmi pentire! Del resto, non è vero che si legga. Non si legge niente. E poi, quando anche si leggesse? Io non faccio il male!”

Bassanelli la fissò negli occhi, pallido, in silenzio, l'afferrò bruscamente al polso, le alzò il braccio. “Non fate il male?” diss'egli. “Sentite! Sono sempre stato un asino da quando ho sofferto la fame e mi sono fatto storpiare per questa maledetta Italia. Sono un asino anche in questo momento e il perchè lo so io; ma vi giuro che quando penso al povero Franco Maironi, al padre, un cuor di leone, puro, per D..., come il cuor d'un santo, e mi figuro quel che soffrirebbe se vedesse, se sapesse, preferisco esser io che voi!”

Così dicendo liberò e scosse da sè il polso prigioniero. Nello stesso momento si udì un sonoro applauso salutar l'ultima battuta dell'opera di Bragozzo.

“Zitto!” disse Jeanne, quasi atterrita, pallida quanto lui. “Voi siete un cattivo geloso e niente altro!”

Ella corse nella sala d'Ifigenia; e Bassanelli la seguì fremente, mezzo contento, mezzo malcontento di essersi sfogato.

Donna Laura e il marchese Scremin conversavano ancora sulla terrazza di ponente quando tutta la società si rovesciò a coppie sulla terrazza di levante, scese la gradinata, si avviò per il giardino alla porta lucente della Foresteria. Alcune coppie aristocratiche si sbandarono per aggrupparsi poi fra loro secondo un'intesa, desiderando pigliar posto nella sala a parte dagli altri. Subito ne corse per le ombre qualche femminino dispettoso sussurro. Sussurri correvano pure nel gruppo eletto; sussurri sull'assenza di Maironi, sussurri sulle toilettes delle due gran dame forestiere, che parevano insolentemente semplici. Una signora che aveva trovato modo, stando seduta presso un uscio della sala di musica, di farsi vento con la destra e di saggiare occultamente, con la sinistra, la stoffa delle toilettes che passavano, era fuori di sè contro certe sue amiche avare. Un'altra signora si compiacque di osservare alle due fanatiche adoratrici di Jeanne, perchè non si illudessero circa gli affetti di lei, che l'assenza di Maironi la rendeva persino brutta.

Jeanne entrò l'ultima nella sala della conferenza con il professore Dane, che un bello spirito indigeno aveva già battezzato, per i calzoni laici e per certa femminilità del vecchio viso imberbe, pretoides brachyfera. Quando essi entravano, Carlino, addossato al quadrato bianco delle proiezioni, stava spiegando al pubblico che il suo discorso, di soggetto fantastico, richiedeva una introduzione musicale. Pregò di non applaudire la musica quantunque di un grande maestro e ben eseguita. Le lampade elettriche mancarono a un punto, sul quadrato bianco apparvero nuvole notturne soffuse di albori lunari e un'orchestrina invisibile attaccò le prime battute del Sogno di una notte d'estate di Mendelssohn. Donna Bice, la buona signora Colomba Raselli, la Gonnellina, suo padre, Dane, Bessanesi, il maestro Bragozzo fecero: “Oh!”. Destemps disse forte: “Bene!”. Tutti gli altri, signore e signori, stettero duri, con l'aria di gente avvezza e difficile. La Raselli si attentò di domandar sottovoce a una maestosa vicina impassibile: “Cossa xeli, contessa, quei spegazzi?”.

La vicina rispose maestosamente:

“Mi no so.”

Una vispa signorina seduta presso la Raselli mormorò:

“El sarà el caldiero de le strie che fuma.”

"Al manco' pensò la Raselli "che le strie me trovasse el me fiocheto'. Appena finita la musica, le nuvole notturne tremolarono e sparvero, le lampade elettriche mandarono una fioca luce crepuscolare e Carlino salì sopra una piccola tribuna che tagliava l'angolo della sala fra il quadrato delle proiezioni e l'uscio aperto della stanza battezzata da lui per le decorazioni tiepolesche La Cina dei mostri, dove stavano i musicisti.

“La baraca de Purincinèla” mormorò l'uomo acido.

“Porta dei sogni” incominciò Carlino, senza enfasi, con quel nervoso accento toscano che agli orecchi veneti suonava già singolare e magico. “Porta delle Sfingi, janua clara! Apparisci!”

Le lampade si spensero, tremò sul quadrato luminoso e vi si fermò la immagine di una elegantissima porta fine Quattrocento. La base del pilastro destro recava sul plinto: JANUA CLARA.


Qualcuno riconobbe il motto e le sfingi dell'architrave, mormorò il nome di un palazzo della città.

“Degna” continuò Carlino “del palagio di Atlante, io ti scelgo per esordio. Sanguigne, informi, dall'utero di un'alpe selvaggia cavò le tue membra il nerbo di braccia violente; e l'anima tua pura balenava intanto nell'anima dell'antico artefice come favilla in fiamma e nel faticoso congiungimento dello spirito con la pietra lento ascese e declinò l'arco tuo, simile al corso di una vita florida e piena, alla via della bellezza nel tempo, della speranza in un cuor sapiente.”

“Vardè l'orologio” mormorò l'uomo acido al suo vicino “ca vedemo quanto che se ghe mete a passar sta porta.”

“Come ora” proseguì nell'ombra la voce di Carlino “nel dì sacro al Tonante, tu cingi di un pago sorriso le turbe che per te affluiscono, recando incensi, all'interna Dea...”

Qui la porta tremò e disparve. Scattò al suo posto, fra gli oh, le risa e gli applausi, il busto splendido di una dama presente, dal profilo imperatorio, dal grande occhio nero, dall'omero potente e squisito. “Somiglia un poco a donna Laura” disse il professore Dane. Jeanne trasalì. Donna Laura e il marchese Scremin erano in sala? Sarebbero stati dimenticati sulla terrazza? Mentre si applaudiva e si rideva, mentre la dama si schermiva dai complimenti degli amici e Carlino attendeva di poter ripigliare la sua stiracchiata similitudine dell'adorna porta con l'adorno esordio di una favola romantica, Jeanne uscì lesta e incontrò in giardino donna Laura, sola. Il marchese (Dio, che senatore meschinetto!) era partito lasciando molte scuse. E dunque? Dunque Scremin si era impegnato a far lavorare suo genero per la elezione di Brescia. Siccome Jeanne, udito questo, fece un piccolo "hm!' dubitativo, donna Laura si arrischiò a dire, sorridendo: “Basta che tu voglia!”. Era forse più facile, al buio, di osare così.

“Te l'ha detto Scremin, questo?” fece Jeanne.

“No, lo penso io.”

“Bene, non è vero.”

E che non fosse vero, Jeanne, affermandolo, era convinta.

“Dei suoi imbarazzi non ti avrà mica parlato?” soggiunse.

“No, gliene ho parlato io.”

“Tu?”

Già, donna Laura era famosa per le sue prudenze di educatrice e per le sue audacie di maleducata.

“Quando si vuole un fine straordinario” diss'ella “bisogna gittare i riguardi ordinari.”

Aveva fatto cenno al marchese di altre difficoltà che il suo nome incontrava, difficoltà di carattere molto positivo, forse per effetto di voci sicuramente false ma ch'era necessario di ridurre subito al silenzio. Il marchese si era turbato alquanto, aveva risposto con un tortuoso viluppo di frasi mal connesse, volendo far intendere che per effetto di certe trattative i Dessalle conoscevano la solidità della sua posizione economica e avrebbero potuto attestarne.

“È vero?” chiese donna Laura. Jeanne credeva infatti che suo fratello fosse stato richiesto di un grosso mutuo, che la cauzione offerta fosse non larga ma sufficiente, che l'affare avesse naufragato per il saggio dell'interesse.

“Ecco” disse donna Laura “egli vorrebbe che io inducessi il ministro a chiedere informazioni, circa questo punto, al Prefetto o che al Prefetto ne parlaste voi. Del resto” soggiunse “capisci bene che io non ci tengo. Io tengo alla elezione di Brescia.”

Jeanne non rispose. L'altra sentì il gelo di quel silenzio e il pregio del momento fugace.

“Scusa” diss'ella “parliamo un poco. Non voglio entrare nelle tue faccende, ma insomma credo che dovresti aiutarmi.”

“Ancora?”

“Sì, ancora. Questa volta si fa conoscere nel collegio lavorando per un altro; un'altra volta lavorerà per sè. E lo aiuteremo.”

Questo parlare senza riguardi e il tono di protezione irritarono Jeanne.

“Scusa, sai” diss'ella “t'inganni molto e poi è un discorso inutile. Andiamo, io debbo rientrare.”

Donna Laura, delusa, pensò: che si sieno guastati? E si propose di saperne qualcosa la sera stessa.

Intanto il successo di Carlino andava crescendo. Egli aveva imbastita la più assurda delle fiabe e intorno alla bocca dell'uomo acido il muscolo orbiculare, il buccinatorio e il risorio facevano insieme, a ragione, una tregenda furiosa. Ma le proiezioni levavano il pubblico a rumore. Il soggetto della fiaba era questo. Una bella, gentile e nobile giovinetta della città, presente nella sala e realmente fidanzata a un signore straniero, figurava già sposa in un castello superbo sul Reno presso allo scoglio della Lorelei, felice ma non senza qualche ombra di mestizia per il ricordo della patria lontana. La Lorelei, impietosita da quei sospiretti, le recava in dono e le piantava in giardino la svelta vecchia torre all'ombra della quale era nata, la Torre di città. Seguiva la desolazione dei cittadini per la scomparsa della loro Torre. Qui c'era un anacronismo. Maironi usciva sul bianco quadrato con la sciarpa da sindaco, nell'atto di andar cercando, con una lanterna in mano, la Torre. Jeanne si crucciò di quest'apparizione, che fece ridere assai, e del silenzio serbatone con lei da Carlino che pure le aveva prima raccontata la fiaba. Si vide l'arresto di un noto signore altissimo sospettato di aver inghiottito la Torre, lo svenire di un altro signore erudito che aveva pubblicato una Biografia documentata della Torre di città, il suicidio di alcuni patrizi amici di Carlino che saltavano capofitti nel profondo buco aperto al posto del patrio monumento. Seguiva un concilio di Fate protettrici della città. Mai, nel racconto che le proiezioni commentavano, il conferenziere, fedele al titolo della sua cicalata, non aveva pronunziato nomi. I nomi li proclamava il pubblico davanti alle figure dei Numi. Anche la Lorelei era una bella signora di Rolandseck, accasata nella città della Torre. La galanteria e insieme la prudenza di Carlino furono particolarmente ammirate nella descrizione, detta e figurata, di questo concilio dove il potere magico era conferito alle più belle e illustri dame della città, le quali, descritte una per una con frasi ampollose ma enigmatiche, comparvero sul quadrato pure in una forma enigmatica, col viso in tutto o in parte velato, e ne balenarono via rapidamente nè vi ricomparvero malgrado i richiami del pubblico.

Erano dodici. Delle trentasei signore presenti trentacinque sperarono essere del numero, fidando anche le vecchie nei titoli, nei palazzi, nella cortesia cavalleresca dell'oratore e nel velo completo. La sola carissima signora Colomba Raselli era umilmente persuasa di non potersi consolare con tali speranze del perduto “fiocheto”. Le fate congiuravano nel palazzo della janua clara e con incantesimi riportavano la Torre dal Reno a casa, conducevano la giovine sposa e lo sposo a dimorarvi presso, facevan prigione la Lorelei e graziosamente l'assumevano a loro compagna e sorella. Il racconto e lo spettacolo finivano con un frenetico ballo pubblico intorno alla Torre rimessa in posto.

Cancaneggiavano con la folla il sindaco, il signore altissimo, il signore erudito e anche i patrizi suicidi. Un inno alla gentile città ospitale, soggiorno eletto di Grazie e Genii, fu la chiusa gradita della conferenza. L'orchestrina intuonò un'aria popolare locale allargandone il tempo a segno di renderla solenne, non riconoscibile a prima vista; e sul quadrato uscì la immagine di Carlino stesso, inclinata verso il pubblico in atto di riverenza, con le braccia conserte e una piccola Torre stretta sul cuore. Tutte le lampade brillarono a un punto fra lo scrosciar degli applausi.

La sala era già sgombra per il ballo e poche persone vi passeggiavano, mentre gli altri invitati si pigiavano ancora, fumando sigarette, sorbendo gelati, nelle stanze che fronteggiano la valle del Silenzio, dipinte pure dal Tiepolo con l'estro più fantasioso e denominate da Carlino la Cina dei mostri, la Georgica, la Galante, l'Olimpo, la Darwiniana, l'Anacreontea. Il successo della fiaba era stato così grande che soltanto le signorine parevano impazienti di ballare. Si faceva un gran chiasso intorno a Carlino e intorno alle più sicure delle presunte fate.

Ah Lorelei

Rapir vorrei!

mormorò a Gonnelli il cupido Bessanesi, molto ammirando lo scollato della signora tedesca. “Ah, Bessanesi, Bessanesi, che dice mai?” fece alle sue spalle, battendolo col ventaglio, donna Bice.

“Sì, lor e Lei - Rapir vorrei!” rispose il pittore, pronto.

Donna Laura prese a braccetto una delle fate, una piccola fata irrequieta e nervosa, sua compagna di classe a Poggio Imperiale, e col pretesto di vedere i Tiepolo si fece portare nell'Anacreontea, il mirabile salottino dei putti, l'ultimo delle stanze verso levante, dove non c'era nessuno. La interrogò sugli amori di Maironi e di Jeanne.

“Ma non se ne parla più!” rispose la fata spensieratella, tutta scintillante per essersi fatta vedere a braccetto della gran dama. “Me ne domandi perchè non lo vedi qui? E` a Brescia per affari. E` una cosa accettata, un matrimonio. Si trova che lei potrebbe qualche volta dissimulare un po' meglio, fare come fa lui ch'è irreprensibile in questo, ma poi in fondo si pensa: un marito senza moglie... una moglie senza marito... non per loro colpa... giovani... scusa, siamo proprio sinceri, cosa tanto difficile!... è una fortuna che si siano legati fra loro e non abbiano guastate delle altre unioni. Se si è morali ma non ipocriti bisogna dire così! Qualcuno critica Dessalle che dovrebbe fare, dovrebbe dire! Oh, è tanto simpatico Dessalle! Come è simpatico! Ma qui si è severi, pedanti! Oh, non ne hai un'idea come si è severi! Ma senza giustizia, però; a qualcuna si perdona tutto, ma proprio tutto, e a qualcun'altra si perdona niente.”

Ell'aveva l'aria, così parlando, d'insinuare un po' con risentimento, un po' con soddisfazione, che era esperta particolarmente di tale severità e di tale ingiustizia. Infatti era di quelle che accostano volentieri la mano al frutto vietato, ma nel punto di spiccarlo si sentono forse, con un'ombra di rammarico, più oneste di quanto avrebbero creduto e ritirano la mano.

Proprio in quel momento il maestro Bragozzo e una giovine signora sua allieva, due pure cellule sane di quel mobile tessuto umano, si confidavano certi loro ingenui comuni moti religiosi e morali dell'animo. Il maestro era beato di non vedere "quell'amigo' che egli, come buon cristiano, come buon marito e come buon clericale, non poteva soffrire.

“Me par de respirar” diceva.

E la giovine signora, tutta fremente di speranze sante:

“Crede, maestro, che ci sia un principio di rottura?”

“Mi no so gnente. So che stasera no se sente quel solito odorin de pastizzo vecio che a mi me rebalta el stomego. Ghe xe un prete co le braghe, ghe xe tre o quattro vergognose de signore che a meterghe un piè su la coa intanto che le camina se ghe tira zo tuto, ma basta!” La giovane signora sorrise.

“Crede proprio, maestro, che qui non ci siano altri pasticcetti stasera?”

“Ghe ne sarà, ma i xe in credenza, e quell'altro, invece, el saria in tavola.”

Il maestro concluse che non vedeva l'ora di essere a casa sua dove non c'erano pasticci nè in tavola nè in credenza e dove le sue donne “siben che le ghi n'a puchi” benchè avessero pochi quattrini, vestivano più abbondantemente di queste.

Sopraggiunse Jeanne, sorrise al maestro e disse alla giovine signora che forse avrebbe il piacere di passare una parte dell'estate a Vena di Fonte Alta, vicino a lei che ci aveva una villetta. Alla giovine signora balenò subito che ci sarebbe venuto anche Maironi. Arrossì molto nel rispondere, intimidita, una parola gentile, tanto quell'idea la turbava; benchè Jeanne le ispirasse, con la soggezione, una segreta simpatia, una idea vaga che quel cuore non fosse mondano quanto le abitudini esterne, un senso pietoso delle tentazioni preparatele da sfortunati casi, dal piccolo presidio cui probabilmente aveva trovato in una religione male insegnata con la parola e punto con gli esempi.


Il ballo ferveva, il “fiolo de la balia de Carleto” si copriva d'ignominia conducendo a rovina una quadriglia, e intanto alcuni uomini serii, consiglieri del Comune, liberali, stavano a fumare, a discorrere di elezioni sul terrazzo attiguo all'Anacreontea. Un telegramma del deputato aveva loro appreso lo scioglimento del Consiglio e l'avvocato Moretti era poco persuaso di una candidatura liberale Maironi che taluno intendeva porre innanzi. “Che uomo è costui, in fatto?” si diceva l'avvocato. “Lo si era visto sindaco clericale e come sindaco faceva bene, non c'era che dire. S'innamora, fa benone, perchè la Dessalle è una bellissima donna e perchè a trent'anni, quando si ha e non si ha moglie, non si può fare che di peggio. Se la Dessalle fosse una signora del mondo clericale tutto sarebbe passato in silenzio come una cosa di famiglia.

Così invece, per il fatto più naturale del mondo, i clericali feroci, notate bene, i feroci e non gli altri, hanno condotte le cose in modo da costringere quest'uomo a ritirarsi. Quest'uomo si è ritirato e ammettiamo pure che abbia rotto col suo partito del tutto e sinceramente, ma in fondo in fondo sarà egli proprio trasformato? Il commercio che ha qui è affare di fisiologia e non conta. Si dice che ha smesso le pratiche religiose, che si è dato al libero pensiero, alla filosofia positiva o che so io. Son cose che non si sanno mai bene e sopra tutto non si sa mai bene quanto possano durare certi eccessi. Per me dubito molto che un uomo allevato nelle idee in cui fu allevato Maironi, e nutrito di esse per ventotto anni o giù di lì, possa repentinamente diventare un altro uomo, e in questo caso consiglierei il caute negotiari. Aspettiamo una prova più lunga e più decisiva. Ecco.”

Il dottor Pinton non era di questo parere. Secondo lui, appunto per il dubbio che i nuovi sentimenti di Maironi non fossero solidi e duraturi, conveniva prenderlo subito e legarlo. Prenderlo e legarlo, anche per impedire che lo prendessero i socialisti. A lui constava che Maironi aveva tenuto discorsi molto sospetti, che quel pericolo c'era, che il maggior freno era per Maironi una certa aristocrazia d'ingegno, di cultura e di camicia pulita. Bisognava legarlo! I due non si poterono accordare e alzarono la voce per modo che il terzo, l'avvocato Bonato, dovette ammonirli, per prudenza. Qualcuno si affacciò in quel punto al terrazzo del salottino, chiamò: “Cavaliere!”. Tutti e tre gl'interlocutori si mossero a un tempo. In fatto si voleva il più giovane, il cavaliere Moretti, per una coppia di lanciers che mancava.

“Tu non sai” disse il cavaliere Pinton al cavaliere Bonato, appena uscito il cavaliere Moretti “perchè si riscaldava! Quaiotto deve aver detto che se i liberali non portano Maironi, i clericali non combatteranno Moretti. Altrimenti lo combatteranno a oltranza, e Moretti... insomma... ha paura.”

L'avvocato Bonato sapeva perfettamente che il dottor Pinton alla sua volta era malcontento di Moretti, membro della Commissione direttiva dell'Ospitale, perchè aveva osteggiato la nomina di un suo fratello a ragioniere dell'Opera Pia.

“Ho capito” diss'egli. “Vuol dire che si potrebbe portare Maironi e non Moretti.”

Ciò non gl'impedì di dire più tardi a Moretti che si sarebbe potuto rinviare la candidatura Maironi alle prime elezioni suppletive, ossia portare Moretti e non Maironi. Egli non era disonesto, ma filosofo e amico del quieto vivere. Non si accorse della contraddizione che dopo esservi incappato e si liberò del brucior lieve della coscienza con una ideale scrollatina di spalle e con un bicchiere di Rüdesheimer centellinato nella Darwiniana. Il battesimo strano di quella stanza era stato ispirato a Dessalle dalla scimmia che Tiepolo vi mostra aggrappata ai balaustri di uno scalone e dal negro che ne sale faticosamente un altro. Le pareti hanno quadretti deliziosi di costumi veneziani e chioggiotti.

"Bella cosa l'ascendere!' pensò l'avvocato guardando l'aguzza nera barbetta di un sottile, nero Pantalone dei Bisognosi che inarca ossequioso la flessibile spina dorsale davanti a sfarzose dame.

"Ma se si deve faticar tanto per arrivare poi a far la commedia mascherata, come la fa quel Pantalone lì o come, in fondo, la facciamo tutti, io e gli altri, ho paura che quest'idea di ascendere sia stata proprio l'idea di una bestia. Di buono c'è questo.'

Voleva dire il Rüdesheimer.

Anche donna Bice aveva trovato un'amica, la moglie del maggiore di artiglieria Alberto D'Ambiveri, una giovane signora romana, buona di cuore e, nei momenti gai, terribile di lingua. Seduta accanto a Bice sur un divano della Cina, aveva un motto, un maligno sussurro per ciascuna delle signore e per molti fra i cavalieri che sfilavano loro davanti, entrando nella sala da ballo. Bice, naturalmente, non conosceva nessuno e la D'Ambiveri le faceva sottovoce le presentazioni. “Signorina... rapa - Conte... oca pomposa - Signorina... suor Preziosa, guardatemi e non toccatemi - Contessa... suor Severa, toccatemi e non guardatemi. - Signora... suor Tenera, guardatemi e toccatemi. - Contessa... sangue reale, imperatrice di Ciampino - Tenente... uccellin bel verde - Signorina Carolina... Carlamagna - Signorino e signorina... scoiattolo e scoiattola - Madama... la virtù in gloria.” Quando passò Destemps che dava il braccio alla padrona di casa, non si tenne dal mormorare: “Baciate il piede al successor di Piero”. Donna Bice sorrise di un sorriso profondo e si affrettò a informarsi di Maironi. Era veramente interessante?

“Qui non piace” rispose la D'Ambiveri. “Lo trovano troppo serio. Adesso questo amore lo ha riabilitato un poco, ma non basta. Bisognerebbe che piantasse Jeanne e ne pigliasse un'altra.”

“Ti lasceresti pigliare, tu?”

“Io? Ma che dici? Povero Alberto! Capisco Jeanne, del resto. Poichè poi Maironi ha una figura aristocraticissima e non è bello, veste bene e non è un elegante nè dev'essere di quelli che ti schiccherano una dichiarazione due ore dopo averti conosciuta. Aggiungi che quell'uomo lì, con la rapa di moglie che ha avuto, dicono, e, con la vita che ha fatto, deve aver portato a Jeanne tesori intatti di passione. Insomma capisco Jeanne e non farmi dire altre sciocchezze.”



IV


Un improvviso rombo di tuono troncò il ballo. Invano Bertha Rothenbaum, con una familiarità di zitellona esperta e bonaria, propose alle pupille della Raselli di aspettare la pioggia per battezzare un bel giovane israelita che ballava il dancing a meraviglia. Le carrozze erano state annunciate da un pezzo e gli invitati presero la fuga. Ad una ad una le coppie di fanali si vennero spiccando dal mobile guazzabuglio che ne luceva davanti all'ingresso della villa, corsero via velocemente lungo il muro di cinta, scomparvero nelle tenebre. Un altro lungo rombo di tuono empì le ombre del giardino, entrò per le finestre aperte nelle sale della villa come la voce formidabile di un minaccioso Padrone che dalla sua nera tenda di nuvole chiedesse conto alle vanità umane, alle cose spaurite e mute, di averlo dimenticato. Le finestre furono chiuse, gli ultimi passi e le ultime voci dei servi tacquero. Appoggiata al balcone della sua camera da letto, Jeanne, stanca e insonne, ascoltò inconscia i fremiti delle frondi inquiete nel basso, guardando il continuo lampeggiar silenzioso sul ciglio nero dei colli, simile a un continuo febbrile chiudersi e aprirsi di un grande occhio di fuoco nel cielo. Assaporava la solitudine libera, il dolce alleviamento di un incomportabile peso di simulazione. Se Maironi fosse stato presente ella non avrebbe sentito che il piacere di venire ammirata davanti a lui per la sua bellezza, per l'eleganza, per lo splendore dell'ospitalità. Tutto gli avrebbe offerto nella sua mente questo tributo di omaggi altrui! Anche a lui assente avrebbe potuto offrirli con gioia, senza la lettera dolorosa. Così, quelle lunghe ore non le avevano dato che fatica e tedio. Mai la gente non le era parsa tanto sciocca e falsa, mai non si era parsa tanto sciocca e falsa ella medesima. Il fragore del tuono, i fruscii delle frondi, l'occhieggiare continuo dei lampi la ristoravano, con la sincerità loro, di tanto simulare e veder simulare. E piacevano a lui! Dio, che le aveva detto Bassanelli? Suo padre! In passato ella ne avrebbe sorriso; ma ora! Incominciò a piovere quietamente, silenziosamente. Si ritrasse dal balcone, aperse il cassetto dello scrittoio. La lettera era lì, presso la teca di argento dove Jeanne custodiva le altre di lui, il suo tesoro. Ne soleva rileggere qualcuna ogni sera, e il profumo di héliotrope che usciva dal cassetto aperto le ridiceva le parole dolcissime a cui era solita di ritornare. Oh non questa sera! Questa sera gli occhi suoi ritornarono alle parole tristi.

“... quando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi che parevano incommensurabilmente lontane. Venivano dall'alto e non so dire la impressione che facevano in quel gran buio, in quel gran silenzio. Stetti in ascolto con la mano all'orecchio, trattenendo il respiro. Non udii più niente. Ossia, udii una voce vicina dire nel dialetto del paese: "I campann de Püria'. Era il custode della casa, il sindaco di Albogasio. Pensai che si fosse annoiato di aspettarmi, gli dissi che poteva andarsi a coricare. "C'è qui la Leu', dice. "La Leu?' faccio io. "A quest'ora?' - "Ma', dice, "è un po'!...' e compie la frase sorridendo, col solito gesto della mano alla fronte.

"È un pezzo' dice, "che va dietro a domandarmi quando viene e quando viene perchè ha da dirgli delle cose, delle cose vecchie e io domando cosa sono e lei risponde che non le può dire a nessuno, ma io, già credo... eh!' Gli diedi l'ordine di condurmela. Poco dopo udii la voce della Leu: "Avete capito che non dovete star qui, voi? Avete capito che non dovete stare ad ascoltare? Eh? Avete capito?'. Infatti il sindaco se ne andò ridendo.

“La povera vecchia incominciò con offrirmi un canestro di prugne verdi e poi mi fece un mondo di ciarle sulla buona salute mia e sulla cattiva salute sua, sul desiderio, che la tormentava, di vedermi e sulla paura di morire prima ch'io venissi, sulla malignità de' suoi parenti e anche del Tognin, il custode, che la credono mentecatta. Si commosse, ricordando, come sempre me lo ricorda, il caffè che aveva portato a mio padre proprio lì dove stavamo, la notte ch'egli venne segretamente da Lugano, per la montagna, e trovò la mia povera sorellina morta. Io non pensavo che avesse cose nuove a dirmi, supponevo che finisse col domandarmi qualche soccorso e mi feci raccontare da capo tante cose dei miei genitori che sempre mi fa piacere udire da lei, la condussi a ripetere certo suo discorso abituale: "Lü l'è on bel scior e on bon scior, ma i Soeu vecc i eren bej e bon al doppi'. Finalmente mi disse che aveva paura di venire sgridata dal Tognin se si fermava troppo e che doveva darmi la cosa, per la quale era venuta.

“Qui cominciò a parlarmi di quel che accadde in casa mia negli ultimi giorni della malattia di mia madre e nei primi giorni dopo la sua morte, avvenuta il 26 gennaio 1862 per una polmonite presa al cimitero, di ritorno da una corsa al villaggio nativo, Castello, soffiando la breva. Secondo la Leu ci sarebbe stato allora qui un vero saccheggio. La casa era sempre piena di gente e chi pigliava una cosa e chi ne pigliava un'altra. Mio padre era morto due anni prima, io avevo poco più di due anni. Venne da Brescia un incaricato di mia nonna, chiuse la casa, nominò un custode, il padre di Tognin, e mi portò via.

“La Leu pretende avere avuto in dono da questo incaricato i mobili della sua camera da letto e un vecchio tavolino ch'ella giura e spergiura esserle stato promesso dalla povera mamma. In questo tavolino trovò un grande portafogli ricamato dalla mamma per mio zio Ribera. Danaro non ce n'era, dice lei. Lo credette vuoto e lo tenne anche per memoria del signor ingegnere. L'inverno scorso capitò a Oria un notaio di Porlezza e la Leu, che ha una casetta, un po' di bosco e qualche piccolo risparmio, pensò di fare testamento, di lasciare a me, forse per uno scrupolo di coscienza, quei mobili e anche il portafogli, che mostrò al notaio. Il notaio vi frugò dentro, si accorse che vi erano delle carte, diede loro un'occhiata e le disse di restituirmele subito perchè, senza valore per lei, a me sarebbero state care. Ella mi pregò di accettare la restituzione delle carte e anche del portafogli. Mi disse che lo aveva portato di nascosto per non lasciarlo vedere dal Tognin.

Infatti lo levò, per darmelo, di sotto le prugne.

“La congedai e salii palpitante a chiudermi nella mia camera con il prezioso portafogli. Non è veramente un portafogli, è una cartella montata in velluto nero, con la scritta ricamata in oro "Ingegnere Pietro Ribera ' e con molte guaine interne, due delle quali contenevano appunto delle carte.

“Oh Jeanne, Jeanne, quale lettura! Quale tenera, pacata commozione in principio e poi quale calda, torbida tempesta!

“S'indovina che mio zio non si serví mai della cartella e che dopo la morte di lui, avvenuta alla Isola Bella, pochi mesi prima ch'io nascessi, se n'è servita la povera mamma come di un reliquiario.

“Prima mi vennero alle mani alquante lettere scambiate fra lei e mio padre quando mio padre era emigrato e mia madre con la mia sorellina, con lo zio e la sua governante dimorarono a Oria, stentando la vita egli a Torino e loro qui. Son lettere piene di vita e di freschezza, specialmente quelle di mia madre, che mi hanno fatto spesso sorridere per certi tocchi di vivace comicità, per certi schizzi di figure umane tanto vive ch'ella vi butta giù alla brava, senza pretese, mentre mio padre adopera un linguaggio più letterario. La figura patriarcale dello zio Piero, la figura soave della piccola Ombretta, come la mia sorellina Maria è chiamata in queste lettere, n'escono così piene di bontà e di grazia! Ah! e anche così semplici! Sentivo, leggendo, come una nostalgia di quel mondo povero e puro e un disgusto del nostro; non solamente di quello tanto moderno dove vivi tu ma di quell'altro pure dove fui allevato io, del mondo Scremin con la sua vecchia parrucca e la sua vecchia cipria, con le sue grettezze segrete e le sue livree pubbliche. Ma poi un'altra rivelazione mi sorprese e mi commosse; la rivelazione di un profondo dissidio religioso tra mio padre e mia madre. Mi pare che mia madre avesse presso a poco le idee alle quali sono venuto io adesso. Invece mio padre era un fervido credente. Ma quanta vita nella sua fede, quanta purezza, quanto calore, quanto umile, tenero amore per la sua compagna incredula! Niente la superbia di chi si pretende solo possessore della verità; fede, semplice fede, fede di uno che crede come una pianta piega verso il sole, perchè non potrebbe fare altrimenti. Quindi trovai lettere dello zio e della nonna Rigey, meno interessanti. Poi una busta con una ciocca di capelli di mia sorella. Quale commozione dopo aver letto di lei quello che avevo letto, povera piccina! Ma più ancora pensando a mio padre e a mia madre che a lei. Poi un'altra busta con la scritta di pugno della mia povera mamma: Preziose reliquie.

“L'apro; un poco di cenere in un foglietto bianco. Preziose reliquie! Cosa potevano essere? Pensai e mi venne in mente questo, non so dire con quale tremito di riverenza; le lettere di amore di mio padre. Ah che cosa, Jeanne, che parole, che cenere casta e santa! Che unione è stata quella di mio padre e di mia madre, quanto era dolce questo mio pensiero e quanto era amaro! Mi son sentito come soffocare, prender via dal mondo dei vivi, portar là dentro fra quelle ombre di un mondo passato.

Dovetti aprir la finestra, star lì un pezzo con le mani alle imposte, respirar l'aria notturna, sentendo la realtà delle cose presenti senza pensare a niente. Non vi erano più che due carte da guardare. Fui incerto se leggerle o no, mi pareva di essere esausto, di non poter più accostarmi a quelle reliquie con attenzione degna. Vinse un sentimento di ossequio. La prima delle due carte era di affari, molto importante, tale da poter influire profondamente sulla mia vita. Ora non è il momento di parlarne. L'altra era un foglietto aperto, con questa intestazione di pugno della povera mamma:

Parole scritte da lui per mia preghiera, un giorno felice.

“Jeanne, sono brevi, ma io non le posso trascrivere. Forse lo potrò un giorno; nello stato presente dell'animo mio, tenebroso e tempestoso, non ne son degno. Non voglio dare la mia mano alla parola religiosa di mio padre e sentire che non posso darle impero nella mia mente. Il "giorno felice' era il 15 ottobre 1859. Le anime di mio padre e di mia madre si erano ricongiunte nella stessa fede, in un atto sincero di culto, nel giorno di S. Teresa, onomastico della povera nonna Rigey. Mio padre si sentiva meglio, speranze fallaci rinascevano in lui e intorno a lui; le sue parole sono soavissime e vi ho parte anch'io che stavo per nascere.

“Quando il foglio mi cadde di mano e io mi volsi per un istintivo moto alla finestra aperta, a guardar le cose stesse che avevano guardato mio padre e mia madre, ecco ancora il fievole suono delle campane grandi che parevano incommensurabilmente lontane. Oh Jeanne, io vi ho sentita la voce di mio padre, tanto triste, tanto severa! Comprendi?

“Partirò sabato col primo battello, per Lecco e Rovato. Vorrei pure informarmi di tante cose, prima, di tante persone del tempo passato. Addio! Come penso io a te e all'avvenire? Lo so io ancora? E sarebbe stato degno, sarebbe stato possibile che io tacessi con te tutte queste cose e la mia dolorosa tempesta interna?”

Le Fate, che in quel momento, felici della loro serata trionfale, ne parlavano, facendosi spogliare, alle cameriere dormigliose e loro lodavano, per pungerne l'amor proprio, l'acconciatura di Jeanne, non sospettavan certo che lei, la maggior trionfatrice, chiusa la persona in una veste da camera, sciolti i capelli magnifici, piegata la fronte sopra una lettera, piangesse, come la notte, un silenzioso pianto.




CAPITOLO SESTO


VENA DI FONTE ALTA



I


Il treno diretto diurno di Milano giunse a Rovato, sabato, con venti minuti di ritardo, perchè a Treviglio s'era dovuto aggiungere una carrozza. Jeanne aveva telegrafato a Maironi da Milano, venerdì mattina, che sarebbe partita sabato con quel treno e che sperava incontrarlo a Rovato dove il treno ch'egli avrebbe preso a Lecco arriva in coincidenza col diretto per Venezia. Nessuna risposta era giunta. Per verità il telegramma non richiedeva risposta; tuttavia le angoscie di Jeanne si erano strette ora in una sola, nel dubbio di non trovare Maironi a Rovato. Ella era venuta alla Stazione centrale assai per tempo e aveva preso posto in un coupé vuoto; ma prima della partenza vi eran salite altre cinque persone, un cruccio! E il treno era zeppo; impossibile allogarsi meglio. I suoi compagni di viaggio erano, per giunta, italiani, loquaci e curiosi. Due signore noiose, molto eleganti, studiavano la sua toilette, e un signore noiosissimo, elegantissimo, studiava lei. Ell'aveva preso un angolo di sinistra, e appena il treno fischiò appressandosi alla stazione di Rovato, si alzò in piedi, si affacciò, pallida, alla portiera. Ah, c'era, e la cercava con gli occhi. La vide, ed ella gli accennò con un sorriso di venire; gli disse che c'era posto. Nel sorriso, nel saluto ell'apparve padrona di sè più assai che non lo fosse lui. Ma poi, dietro al dorso del facchino che gli collocava la valigetta nella rete si trasfigurò in una larva di angoscia; gli sussurrò presso al volto: “Pietà di me!”.

L'angolo in faccia era occupato. Piero le sedette accanto, scambiando alcune frasi indifferenti con il lei. Ella lo fece meravigliare dicendo che aveva il biglietto per Venezia. Per Venezia? Sì, certo. Jeanne sorrise, aperse un giornale, sussurrò dietro il foglio “per riguardo a Lei”, e gli occhi le si velarono di lagrime. Si morse le labbra, si vinse subito, sorrise ancora, parlò della serata di villa Diedo riuscita così bene, della graziosa fiaba di suo fratello. Piero non sapeva ascoltare, neppure le domandò il soggetto della fiaba. Ed ella continuò a discorrere. Carlino intendeva ritornare da Milano martedì. Giovedì, o al più tardi sabato, sarebbe ripartito con lei. Per dove? Per Vena di Fonte Alta, un bel nome di una bella montagna. Carlino s'era fatto analizzare una goccia di sangue, aveva voluto che il dottore pungesse un dito anche a sua sorella, che analizzasse ancora. E il dottore aveva trovato poveri di globuli rossi l'uno e l'altro sangue, voleva mandare i fratelli a Recoaro. Jeanne non aveva voluto saperne di Recoaro, nè di Saint_Moritz nè di altre acque; e così era stato deciso di andare a Vena per una semplice cura climatica. Piero non sapeva dove questa Vena fosse, quale via si dovesse tenere per andarvi. Ne parlarono quietamente. Cinque ore dalla città, due di ferrovia e tre di vettura, mille metri sul mare, boschi di abeti, boschi di faggi, solitudine, quiete. I Dessalle avevano impegnate quattro stanze dell'unico, piccolo albergo. Altre sei erano libere. Jeanne disse queste ultime parole quasi timidamente.

Piero non rispose, e la conversazione cadde. Guardando l'uno e l'altra per lo stesso finestrino il verde fuggente, luccicante di sole, sentendo che là, in una linea dei campi parallela al corso del treno, i loro sguardi s'incontravano, si univano, correvano insieme. Forse anche nel ritmico fragore che li portava con sè si toccavano i loro segreti pensieri. Faceva molto caldo. A Brescia Piero offerse una bevanda, che fu accettata, non per sete, con un sorriso di gratitudine, tanto umile, tanto parlante che il viaggiatore seduto dirimpetto a Jeanne guardò subito negli occhi l'uomo a cui la bellissima signora sorrideva così.

“E l'elezione?” diss'ella. Sulle prime Piero non intese. Ah, sì! Il suocero gli aveva scritto e telegrafato a Brescia supplicandolo di lavorare o almeno di far lavorare. Lettera e telegramma gli erano stati trasmessi in Valsolda. Proprio per questo, neppure voleva fermarsi a Brescia fra un treno e l'altro. Nella galleria di Lonato Jeanne gli prese una mano, se ne recò il polso scoperto alle labbra e poi agli occhi umidi. La mano si arrendeva senza resistere nè secondare. Usciti dalla galleria, guardavano entrambi in silenzio, per il finestrino, i poggi ridenti, ma un lieve ansare li tradiva. Quando apparvero le sfumate montagne grandi e il marino azzurro del Garda, Jeanne domandò: “Com'era il Suo lago, stamattina?”. Piero rispose ch'era drammatico, tutto un tremolio di brillanti a levante nei vapori azzurrini, tutto verde cupo a ponente sotto nere minacce di nuvoloni. Descrisse le battaglie della luce e dell'ombra sulle montagne che cingono il lago, con molto calore, con abbondanza di parole, come rifacendosi del silenzio serbato riguardo ad altre battaglie. Jeanne si fece coraggio. “Quella persona, come l'ha lasciata?” E accennò impercettibilmente del capo a lui stesso. Piero sospirò e rispose con un atto silenzioso di sconsolata incertezza. “Dio!” fece ancora lei, come tra sè, dolorosamente, ma pure rianimata nell'intimo. “E` una cosa tanto diversa!” Piero la interrogò con gli occhi ed ella gli chiese quanti minuti di fermata si avessero a... Venti minuti. Piero intese, si affrettò a dire che aveva colà un convegno col dottor... e gli era necessario di trattenersi, durante la fermata, con lui. Jeanne conosceva il nome del dottor... e il suo ufficio presso la Demente. Approvò di cuore, mostrando che posponeva il desiderio proprio e se stessa all'interesse doveroso di lui per sua moglie.

“Sì, sì, fa bene.”

E cercò da capo lo sguardo, l'anima cara là fuori, sulle acque serene del Garda. Aveva temuto il peggio, adesso le pareva di sentire indecisa quell'anima, e sperava, sperava appassionatamente, pronta ad incontrar con gioia ogni sacrificio, a vederlo meno, a interdirsi la dolcezza delle carezze, la dolcezza del tu, s'egli lo avesse chiesto, pur di non perdere il suo amore, pur di non esserne abbandonata. Sperava con timore e tremore, coprendo di triste soavità, chiudendosi nel cuore la sua fragile speranza. In fatto Piero fluttuava tuttavia. Nello scrivere a Jeanne lo aveva agitato un tempestoso ritorno della sua giovinezza credente, un assalto di dolore e di amore, un inenarrabile anelare dello spirito a Dio.

Passata la prima violenza di quest'onda, egli si era posto in difesa contro se stesso, contro le proprie tendenze mistiche, contro tutto che potesse condurlo ad abbandonare la sua prefissa via di un apostolato per la giustizia sociale, senza odio alla Chiesa cattolica, ma del tutto indipendente da essa; la via che avrebbe dovuto sognare per lui sua madre quando non credeva che nella idea di giustizia, non adorava che l'idea di giustizia. Egli riconosceva in se stesso il sangue di lei e il sangue del padre, il loro fatale conflitto rinascente. Gli venne il sospetto che la sottomissione di sua madre fosse stata piuttosto amorosa e pietosa che sincera. Subito pensò a quella gran lealtà di lei, a quella fierezza. Come avrebbe mentito? Malgrado tutto, il sospetto ritornava. Gli era tuttavia duro il lottare contro il sangue di suo padre. Gli balenavano nel cuore incerto immagini di vita solitaria, contemplativa, consolata di pratiche religiose, nella casa de' suoi vecchi, gli balenava nella memoria il consiglio di don Giuseppe Flores. E tosto rompeva con questi sogni. A poco a poco si venne formando in lui la convinzione che il cimento fosse decisivo, che se gli riuscisse di vincere, sarebbe poi rimasto fermo per sempre nel concetto più razionale della vita e del suo fine; che in lui, sciolto da vincoli di dogmi e di Chiese, ma interamente sacro a una causa di giustizia, il sangue di suo padre si sarebbe alfine pacificato; molto più se sapesse prendere certa risoluzione coraggiosa, compiere certo grande sacrificio alla giustizia di cui aveva trovato, e non riferito a Jeanne, la ragione e la proposta nel portafogli. Ma quando anche Jeanne, da lontano, gli avesse letto nell'animo questa vittoriosa riscossa dell'elemento razionale sul mistico, non ci sarebbe stato, per lei, da rallegrarsene molto. Poteva il suo amore accordarsi con i doveri di un apostolato sociale quale Piero lo concepiva? Non era da sacrificare questa debole passione per una donna che non sapeva comprendere la grandezza, la bellezza della sua idea? Non ne sarebbe pure contenta sua madre, se sapesse? Doveva essere austera, sua madre, doveva essere inesorabile per chi, cedendo alla passione, rompe, anche solo momentaneamente, una fede giurata e stringe legami non confessabili, legami che non si coprono senza mentire.

Seduto, nel pomeriggio del venerdì, sul muricciuolo dell'orto fra le rose piantate da suo padre, che gli parevano tanto più soavemente spirituali di quelle voluttuose e orgogliose di villa Diedo, egli stava pensando che, se Jeanne non gli avesse resistito, non sarebbe stato possibile di lasciarla mai più, quando gli portarono il telegramma di lei da Milano. Molesto, quel telegramma. Gli garbava poco d'incontrarsi con Jeanne così presto, prima di aver fermata dentro di sè la via da tenere. Riflettendo su questa impressione sgradevole, si domandò: "L'amo io ancora?'. E subito sentì dentro di sè il freddo della risposta, lo sgomento di una propria possibile ipocrisia. Altre volte, però, nel contatto dello scetticismo di lei, del suo spirito di contraddizione, gli era parso di non amarla più ed erano state freddezze passeggere.

Partire o non partire, l'indomani mattina? Finì col dirsi ch'era meglio affrontare presto questo incontro quasi temuto. Rientrando pensoso in casa dove un giardiniere di Lugano lo attendeva per intendersi circa i rampicanti da sostituire alla passiflora morta, non potè a meno di paragonare il sentimento proprio, anche nel passato, a quello di Jeanne, di riconoscerlo tanto minore di forze e di nobiltà, di dubitare che se non fossero state, nel principio, le appassionate audacie di lei, se non fosse stato in lui un cieco desiderio di libertà, di vita e di amore, il primo incontro in ferrovia non avrebbe avuto alcun seguito.

Il sabato mattina, venuta l'ora della partenza voci pie di memorie, voci tenere di cose gli ammollirono l'anima come nella sera memorabile. L'arancio, il mandarino del giardinetto, le finestre aperte della sua povera casetta vuota, le rose, il bel pino dell'orto gli parevan guardare a lui mentr'egli passava sul battello, con il dolce sguardo accorato dei dolenti che non han voce. A misura che si allontanava, i richiami del presente più e più potevano contro i richiami del passato, del romito asilo di pace; ma correndo in ferrovia Val Porlezza, lo riprese improvviso nella memoria il senso del turbamento premonitorio che, giorni prima, passando di là e durante tutto il viaggio, aveva provato. Era egli dunque stato tratto in Valsolda da una energia soprannaturale? O forse il primo impulso n'era venuto da un sogno dimenticato? Forse gli eccitamenti di Jeanne e l'abitudine di recarsi sul lago in primavera erano stati causa del sogno? Passata Grandola, all'apparire dell'orientale seno di cielo che oltre il sottile colle di Bellagio si sprofonda fra due ali di montagne in fuga più giù verso Lecco, trasalì come se già gli fosse apparsa Jeanne, non pensò più che lei e il prossimo incontro. A Rovato, passeggiando in attesa del treno di Milano, il cuore gli batteva forte. Al primo vederla si sentì più tranquillo. Gli fu gradito di non trovarla sola. Il mormorato "pietà di me', benchè giungesse previsto in quella o in una simile forma, gli strinse il cuore. Ella era bellissima nel suo abito di crêpe crème, guernito di velluto nero, col suo cappello Rembrandt a piume nere, con i guanti neri e due larghi cerchi d'oro liscio ai polsi. L'umido fuoco dolce de' grandi occhi aveva una mestizia implorante, e se il braccio si scostava timido da un lieve contatto col braccio di lui, era con un visibile palpito del seno, con un commento di soavità infinita. Quando ella, nelle tenebre, gli prese e gli baciò il polso, se ne sfiorò gli occhi umidi, egli non ne provò alcuna dolcezza voluttuosa, ma piuttosto una tenerezza riverente. Chi lo avrebbe amato di un amore tanto umile e grande? Non era esso degno di riverenza quanto ogni altra cosa al mondo? E che succederebbe s'ella ora gli dicesse: "Non sono più scettica, mi sono convertita agli ideali tuoi, ne ardo come te, e, nonchè impedirti nell'azione, ti resisterei se tu posponessi il tuo dovere all'amore'?

Alla stazione di... che precede di pochi minuti quella dove Piero aveva dato convegno al medico, il viaggiatore seduto dirimpetto a Jeanne discese e Piero si alzò per chiudere lo sportello.

Il medico era lì, lo vide, salì nella carrozza, sedette a fianco di lui che, per non parere accompagnar la signora, aveva preso il posto rimasto libero. Subito venne in mente a Piero che forse il dottore, pensando essere tra sconosciuti, entrerebbe in argomento senza riguardi e fu per presentarlo a Jeanne o per rivolgerle la parola; ma poi non lo fece. Il dottore, non udendosi interrogare, si guardò attorno e solo quando il treno si mosse, disse sottovoce:

“Qualche piccola novità; non buona.”

Piero rispose, pure sottovoce:

“Parleremo.”

Gli occhi suoi e quelli di Jeanne s'incontrarono, s'interrogarono, si sfuggirono. Alla prossima stazione il medico e Maironi scesero, si perdettero nel viavai della gente. Maironi ritornò alla carrozza cinque minuti prima che il treno ripartisse. Jeanne era sola ora. Aveva mutato posto, si era seduta nell'angolo di destra, con le spalle alla locomotiva, per la stessa ragione che le aveva consigliato di prolungare il suo viaggio fino a Venezia, per non essere veduta, possibilmente, quando egli, forse atteso da qualcuno, discenderebbe a sinistra. Era un riguardo per lui, nuovo, tristemente nuovo.

“Venga venga venga” diss'ella, piano. E quando Piero le sedette accanto gli piegò la fronte sur una spalla, gli prese una mano, se la strinse al petto, dimenticando adesso, secondo la propria natura, ogni cautela, rispondendo alle prudenti rimostranze di lui con voce piena d'affanno e di lagrime: “Non importa, non importa, non abbandonarmi, non abbandonarmi, quanto male mi hai fatto, Dio, quanto male! Non senti che cosa diversa è, non senti che il tuo matrimonio, la tua unione non è, non ha mai potuto essere come quella di tuo padre e di tua madre, li amo tanto anch'io, sai, caro, i tuoi morti, tanto tanto, ma perchè devono desiderare la mia disperazione, non importa, non c'è nessuno, lasciami dire, perchè, perchè? Cosa ho fatto io a loro, povera creatura? E` mia colpa se loro sono morti e se io sono una povera creatura viva che ti ama tanto, non ama che te, non pensa che te, non vive che di te, caro amore mio, amore amore amore?...”

S'interruppe, rialzò il capo un momento, stava per cingere con un braccio il collo dell'amato, ma egli lo impedì; qualcuno entrava. Jeanne si ricompose, il treno partì. Ella tacque, con gli occhi lagrimosi, fino alla prima stazione. Allora mormorò:

“Quello era il medico?”

“Sì.”

“E cosa c'è di nuovo?”

“Qualche leggero, fugace segno di intelligenza da capo e lagrime, molte lagrime, mentre in passato non ha mai pianto; ma un grave deperimento fisico, progrediente.”

La sommessa voce di Piero suonò accorata.

“Vorrei che guarisse, sa?” disse Jeanne. “Non mi creda cattiva!”

Egli le strinse la mano così forte ch'ella ne fremè di gioia. Per lungo tempo nessuna parola fu più scambiata fra loro.

Jeanne ruppe la prima il silenzio.

“Verrà bene a Vena?”

“Ma...”

“Sì sì sì sì!” Ella aveva preso coraggio e insistette. “Me lo prometta! Che progetti ha, Lei, per l'estate?”

“Io? Un viaggio, ma non per l'estate solo.

Il viaggio ch'Ella sa.”

Jeanne fece una boccuccia fra crucciata e sdegnosa.

“Ancora quell'idea?” diss'ella in uno de' suoi accessi inesplicabili di malignità contro gli altri e contro se stessa, non sospettando fino a qual segno fosse disgraziata la sua uscita. Piero si accese in viso, guardò l'altro viaggiatore, tenne deliberatamente, ostinatamente volto il capo a quella parte mentre lei, pentita, si accusava, chiedeva perdono, supplicava, scongiurava con una rapidità febbrile di parole sommesse, concitate, tanto ch'egli alfine aperse rumorosamente un giornale e le intimò: “Basta!”.

Jeanne obbedì sull'atto e Piero sentì di essere stato troppo aspro, n'ebbe rimorso.

“Non mi parli più così” diss'egli con dolcezza. Ella non rispose; volto il viso al finestrino, piangeva. Piero mormorò dietro il giornale: “Mi perdoni Lei adesso”. Jeanne rispose quasi inintelligibilmente “grazie” senza togliere il viso dal finestrino. Egli riprese con dolcezza maggiore ancora: “Se può, non pensi più così”. La risposta fu: “Vorrei morire”.

Egli non osò replicar parola. Parvero assorti l'una e l'altro nel ritmico battito che durante il loro silenzio mortale misurava precipitosamente la fuga degli angosciosi momenti.

Quando il treno rallentò e Piero si alzò a raccogliere il proprio bagaglio, Jeanne trovò modo di chiedergli sottovoce, a mani giunte, la promessa di salire a Vena. Lo guardò, perchè egli esitava, con una inesprimibile supplica negli occhi, ebbe la promessa, la volle ripetuta, solenne, baciò con soavità umile di gratitudine la mano amata. Si lasciarono così.


II


Piero recò subito alla suocera le notizie della figliuola, un po' attenuate nella parte più triste. Ella lo accolse affettuosamente, serena come sempre, ascoltò il suo racconto, e poi, placida, quasi sorridente, disse una parola di fede: “Mi digo che el Signor ne fa la grazia”, come se avesse udito solamente le parole più gradite e non le altre. Negli occhi le tremavano due lagrime: due lagrime dolci per la consolazione di quell'atto di suo genero, di quella gravità commossa ch'egli aveva mostrato parlando: due lagrime anche pregne di affanno per le parole cui pareva non avere udite. Lo pregò di restare a pranzo, ma egli si scusò non garbandogli la compagnia del suocero che avrebbe tirato in campo le elezioni di Brescia e provando un gran desiderio di solitudine. Allora la marchesa volle chiamare il marito perchè udisse le notizie dell'Elisa dalla viva voce di Piero. Il suo studio, parlando col genero, era sempre stato di guidarlo, con un roseo lumicino in mano, nelle viscere di Zaneto, indicandogli una per una le finezze, le squisitezze di pensiero e d'intenzione cui la gente non poteva vedere in certi atti, in certe parole di lui, cui vi scorgeva lei e che in fatto erano molto spesso infuse al vetro della lanterna. “Tuto el resto” soggiunse nel suo linguaggio ellittico, intendendo chi sa che, forse anche il lavoro per il Senato, “no xe che per distrarse.” Zaneto venne, fece a suo genero molte dimostrazioni affettuose e, udite le notizie, si mise a singhiozzare rumorosamente. Quando Piero se n'andò, lo accompagnò fuori e sul pianerottolo della scala, gli domandò, con voce ancora lagrimosa, se avesse ricevuto una lettera dell'avvocato Marchiaro. Piero non l'aveva ricevuta. Allora Zaneto si diede a masticare, a masticare, tentennando fra il desiderio di parlare della lettera e il senso del momento inopportuno. “Bene” diss'egli troncando il masticare. “Insomma, l'avrai.” E passò all'argomento Brescia. Aveva Piero fatto qualche cosa? Piero rispose “scusa, no” risolutamente, pronto a rendere ragione della risposta. Ma Zaneto non la chiese. Voltò le spalle e trottò via curvo con un trotto conforme di “ben, ben, ben.”


Dopo pranzo, mentre Piero stava leggendo le lettere rimandategli da Brescia durante il suo soggiorno in Valsolda, capitò da lui la marchesa. Le prime parole che disse, con l'aria di annunciare una novità interessante e di metterci anche della fretta, furono:

“El papà ga pianto tanto, dopo, poro omo.”

Piero capì subito, seccandosi di questi avvolgimenti eterni della vecchia signora, ch'ella non era venuta per apprendergli un tale avvenimento. Per verità ell'aveva indovinate le occulte cagioni dell'uscita di Zaneto sul pianerottolo della scala, temeva che di queste importunità fuori di luogo e di tempo il genero serbasse una impressione sinistra e voleva passarvi sopra la sua spugna ottimista, inzuppata di lagrime del marchese. Ma c'era di più. Pranzando, o piuttosto simulando di pranzare, perchè non toccò cibo, aveva escogitato uno de' suoi sapienti artifici per allontanare Piero, adesso che le sue disposizioni parevan buone, da villa Diedo.

Detto delle lagrime, soggiunse, nel consueto stile, che Zaneto avrebbe voluto andare ma ch'era meglio di no.

“Dove andare?” fece Piero, non senza malignità. “A Brescia?”

“Eh no, no! A cossa xelo, a...”

La signora nominò il luogo doloroso. Piero non parlò ed ella, dopo un lungo silenzio imbarazzato, fece:

“Ecco.”

Piero la sentiva impigliata nelle spine di un esordio e non aveva voglia di aiutarla. Tuttavia, essendo entrato il domestico per accendere il gas, lo licenziò. Era quasi un invito a parlare. Infatti la suocera gli domandò se fosse contento.

“Di che, mamma?”

“Del servitor.”

Una risposta indifferente e un'altra pausa. Piero, tanto per fare qualche cosa, gettò nel cestino alcune buste lacerate. Allora la marchesa fece questa osservazione acuta: “Lettere. Ghe n'ò avudo una anca mi”.

Ella si mise a parlare confusamente di una lettera scrittale dalla villa dov'era venuta apprestando un quartiere per la sua figliuola, quando uscisse dal manicomio. I bambini del gastaldo avevano il morbillo. “Dunque mi digo che no convien.” Questo primo piccolo garbuglio uscì alla luce dalla occulta matassa dei suoi pensieri.

“Che cosa non conviene, mamma?”

“De condurla là.”

Piero fece per domandare: chi? ma comprese in tempo che si trattava dell'Elisa, certo. Silenzio.

“Che ghe sia malanni a cossa xela?”

“Dove?”

“A Valsolda.”

L'inatteso nome, l'inattesa proposta che balenava nei disordinati discorsi della marchesa, lo colpirono.

“Non lo so” rispose. E si vide nel paese mistico, nella conscia casa, sulla terrazza dello zio Piero e di Ombretta, cinto di solitudine, di silenzio insieme a sua moglie stupefatta, come uscita da un sogno. Per un istante; il sogno, adesso, era la guarigione di Elisa. La marchesa mise finalmente fuori la segreta sua idea: non potrebbe il genero recarsi in Valsolda, disporvi la casa per un soggiorno anche invernale? Ella, che non aveva mai veduto la Valsolda, si pose a discorrere come se l'avesse familiare, mettendo assieme brandelli di cose udite e rimastele malconce nella memoria, confondendo la casa di Oria con la casa di Cressogno, il lago di Lugano con quello di Como, l'Italia con la Svizzera, ma tirando via impavida a scovar tutte le perfezioni di quel paese per la congiuntura presente, se le speranze si avverassero; a trovarvi ogni possibile accordo con i gusti della sua figliuola, che in fatto ne aveva riportato una impressione molto sfavorevole. Chiuse gli arruffati ragionamenti con pregare il genero di allestire una camera in Valsolda anche per lei, ma non verso il lago; perchè a Venezia - ella disse così - il tremolìo dell'acqua le faceva venire il capogiro. Il genero, durante un discorso tanto fantastico, era venuto pensando altra cosa: e invece di rispondere alla povera vecchia signora, la interrogò:

“Senta, mamma. Per tutto questo c'è tempo a pensarvi. Adesso Le vorrei domandare di una cosa molto antica. Nei primi anni del Suo matrimonio, avrebbe Lei mai udito parlare in casa Scremin di una grossa lite che i vecchi Maironi avrebbero vinta contro l'Ospitale Maggiore di Milano?”

“Io?” fece la signora, trasognata.

“Sì, Lei. Ci pensi bene.”

Ci pensò e rispose: “Non saprei.”

Appena ebbe risposto così, ricordò di avere udito il suocero Scremin parlare delle ricchezze di casa Maironi come di roba male acquistata, male sottratta a un Istituto pio.

“Aspetta” diss'ella. “Forse.”

Le balenò il sospetto di essere stata imprudente e soggiunse: “No, non so”.

Piero si tenne sicuro ch'ella sapesse.

“Ho trovato qui una lettera dell'avvocato Marchiaro” diss'egli. “Questo sì, lo sa?”

Questo non lo sapeva davvero.

“L'avvocato Marchiaro” riprese Maironi “mi scrive che ha negoziato con Carlo Dessalle un mutuo per papà, grossissimo; che per il momento le trattative sono interrotte e che vorrebbe riprenderle offrendo la mia firma. Ora io non potrei dare oggi la mia firma neppure se in massima vi fossi disposto, perchè di questi giorni ho scoperto certe cose gravi che riguardano la mia sostanza e che m'impediscono, almeno per ora, di disporne. Lo dica Lei a papà.”

Alla povera donna cadde il cuore. Un mutuo con i Dessalle! Ah, Zaneto, Zaneto! Non trovò niente a dire e si alzò, angosciata, scura. Oltre al maggior dolore le cuoceva di non poter cavare a difesa del marito i soliti arzigogoli d'interpretazioni benigne, di trovarsi, davanti a Piero e per opera sua, così disfatta. Se ne andò silenziosa, seguita rispettosamente da lui fino alla soglia del suo appartamento, dove lo congedò con queste asciutte parole senza voltarsi:

“Mi no ghe digo gnente, sètu.”


Piero ritornò alle sue lettere. Gli era venuta prima fra le mani una carta da visita di don Giuseppe Flores. Ecco adesso anche una lettera sua. La guardò a lungo, invaso come quel giorno in Duomo da redivive immagini e ombre della sua confessione al vecchio prete, là nello stanzino della solitaria villa, dal senso molesto del giudizio che quell'uomo doveva portare di lui. V'era tuttavia una differenza. In Duomo l'incontro con don Giuseppe gli era stato sgradevole; adesso la vista dei suoi caratteri lo turbava di un turbamento che non era senza mistura di un desiderio e di una particolare commozione, perchè sempre don Giuseppe gli aveva ricondotto le immagini dei suoi genitori e ora gliele riconduceva tanto più note e vive e parlanti all'anima sua parole di amore imperioso. Aperse la lettera e lesse:


Caro signore e amico, ero venuto da Lei per la silenziosa preghiera d'una poveretta che il Signore ha creato augusta e, vorrei dire, sacra, con doni mirabili di dolore e di sommessione al dolore. Essa non osò espressamente affidare a questo disutile, cadente prete un messaggio per Lei, prezioso e grave di sapienza non umana. Altre mani erano da questo, io lo tolsi all'insaputa della persona che dico; e adesso lodo Chi non permise che io lo portassi con la mia voce malviva, con la mia parola rotta. Penso perciò di non ritornare a Lei, d'inviarle dove mi han detto ch'Ella ora è il messaggio prezioso senza pronunciarlo, chiuso in un ideale vaso suggellato ch'Ella facilmente aprirà se mi ascolta bene. Pensi anzi tutto le confessioni dolorose che in un'ora di travagliata coscienza Ella venne a portarmi nella mia solitudine con tale generoso abbandono, con tale generoso impeto che in quel momento io mi sentii umiliato davanti a Dio di accettare da Lei parole riverenti.

Pensi quindi la creatura desolata che, non lontana da Lei, soffre nel suo cuore materno più di quanto il mondo veda e creda o possa mai credere. La pensi ora se mai qualche volta l'avesse, non del tutto involontariamente, dimenticata. Pensi quanto Ella è pur troppo sola nel suo dolore immenso nè dubiti che labbra crudeli non Le sussurrino continuamente crudeli parole, non Le parlino di amare offese alla sua diletta infelice. Pensi finalmente che la silenziosa preghiera mi viene da Lei, e altro ad aprire il vaso chiuso, a leggere il messaggio ascoso non Le bisogna. Prossimo al sepolcro, io sento con tremore e speranza venirmi incontro anime care e sante che partirono prima di me. Stamani all'altare pregai la Divina Misericordia che mi concedesse di partire alla mia volta con un altro messaggio, con un messaggio dolcissimo per due di quelle anime ascese in Dio, per due anime che nel loro cammino terreno santificarono a Lei, caro amico, una simile casa fra due cipressi, in riva ad acque solitarie, accanto a una povera chiesina che neppure io so dimenticare. Suo D. Giuseppe Flores


Era una commovente lettera e aveva in sè dolcezza di conforto che lo scrittore non aveva sospettata. Non era Piero già disposto ad allontanarsi da Jeanne? Non era egli anche avviato a compiere un grande atto di giustizia, il sacrificio di quella ricchezza che suo padre e sua madre non avevano toccata, e non era questo pure un atto di figlio degno, non era un messaggio di gioia da portare alle due anime ascose in Dio? Vero, a suo padre ciò non sarebbe bastato. Forse neppure a sua madre. E neanche poteva bastare a quel venerando don Giuseppe. Ma! Ah s'egli non avesse conosciuto altri cattolici! Se non fosse vissuto, da bambino in poi, nel contatto di tanta meschinità cattolica, intellettuale e morale! Come non pensare che suo padre, don Giuseppe Flores e qualche altro cuore alto, qualche altro intelletto forte, se la Chiesa cattolica ne possedeva, non si potevano propriamente dire cattolici, che la loro era un'altra religione, una religione superiore al comune gretto cattolicismo, pauroso della ragione, schiavo in tutto dell'autorità dispotica deificata, tanto aspro a chi ne sta fuori, tanto impastoiato negl'interessi terreni, antiquato nello spirito come nel linguaggio! Egli aveva una volta discorso di religione, a villa Diedo, con un certo scrittore francese, di grande ingegno, che si professava cattolico e concepiva il dogma cattolico in modo così ardito e nuovo che Piero gli aveva detto: “Ma Lei non è cattolico!”. Colui aveva risposto: “Come il vocabolo è comunemente inteso, no, non lo sono”. Don Giuseppe Flores era prudentissimo, ma si poteva giurare che non intendeva il cattolicismo alla maniera dei Quaiotto nè dei Záupa, nè della teologia ufficiale, nè dei temporalisti vaticani. E allora perchè gli uomini come lui, come quel francese, non parlano alto? Perchè non richiamano i loro fratelli al vero? Perchè non tentano una riforma della loro Chiesa, perchè non si levano, se occorre, contro i despoti, almeno contro quelli anonimi? Piero lo aveva detto a quel francese e il francese aveva risposto: “Per far questo bisogna essere santi”. E perchè non lo sono, santi? Perchè non lo diventano? E` tanto difficile spogliarsi degli averi e dei piaceri?

Egli ebbe un momento di orgoglio pensando che questo appunto stava per fare benchè non fosse santo nè legato, di fatto, ad alcuna Chiesa, ad alcun Credo ufficiale.



III


Quella sera stessa, molto più tardi, scrisse al suo avvocato per chiedergli un colloquio. Era una notte afosa, in casa si soffocava. Piero sentiva che se si fosse coricato non avrebbe potuto, un po' per il caldo, un po' per l'agitazione, pigliare sonno. Risolse di recar egli stesso il biglietto alla Posta. Ma prima tolse dalla valigia e rilesse per la centesima volta la carta d'affari trovata nel portafogli, che gli era stata causa di scrivere all'avvocato. Era una lettera di sua madre incominciata a scrivere il 17 gennaio 1862, nove giorni prima che morisse, e non finita, nella quale affidava ad una cara amica l'incarico d'informare suo figlio, quand'ella venisse a morte durante l'infanzia di lui, che a detta del povero padre suo la sostanza Maironi aveva origine da una lite mal vinta contro l'Ospitale Maggiore di Milano. Le ultime parole della lettera interrotta erano queste: "Io spero...'. Certo ella aveva sperato in un cuor fiero e forte del figlio suo. E il figlio suo si proponeva di conferire, l'indomani, con l'avvocato X per incaricarlo di ricerche nell'Archivio dell'Ospitale Maggiore circa questa lite con la famiglia Maironi e, in quanto fosse possibile, di un platonico giudizio di appello. Delle proprie intenzioni nel caso che il giudizio riescisse favorevole all'Ospitale, nè scrisse nè intendeva parlarne all'avvocato.

Si recò alla Posta dopo le undici. Il cielo era minaccioso, le strade vuote risuonavano al suo passo nello scarso lume dei radi fanali accesi per la intera notte. Dalla Posta si avviò lentamente verso la Piazza Maggiore per un indistinto desiderio di pensare, tratto quel dado, al futuro nelle ombre della notte, in cospetto delle nuvole, fra i silenzi solenni di case dormenti, dove si sentiva più solo che nella propria camera. Aveva il senso di un imminente ingrandimento delle proprie sorti, d'una imminente, profonda trasformazione di sè, d'un prossimo compiersi dell'antico presentimento, d'un prossimo apparire della via prefissagli dall'Inconoscibile. Il cuore gli batteva, dilatato e forte, battiti di aspettazione avida incontro a questa volontaria uscita dalla ricchezza nella povertà, incontro alla dura, necessaria lotta per la vita, non disgiunta dalla lotta per l'idea. Un sottile piacere d'orgoglio gli tendeva tutte le corde del volere e dell'ardire. Si fermò serrando i pugni; avrebbe giurato che gli occhi gli lucessero. Ebbe allora il conscio senso di una essenziale deficienza di Jeanne come amante poichè, amando piuttosto con lo spirito che con i sensi, non aveva però potuto unificarsi con lui nel più alto, nel più profondo dell'anima sua. Le vampe dell'orgoglio, della sovreccitazione intellettuale gli assorbivano il calore della vita inferiore. Egli considerava con disprezzo superbo il pericolo di cadere, lasciando Jeanne, nelle sensualità basse, si credeva immune per sempre da quelle febbri. Lo colpì bene il ricordo della fallace sicurezza cui gli aveva dato nelle ore mistiche lo schifo delle colpe sensuali; ma perchè non avrebbe fine una volta la vicenda degli ardori e chi poteva dire che non fosse già finita?

Cacciò quel ricordo ed entrò nella deserta Piazza Maggiore in faccia alla magnificenza spettrale delle grandi occhiute logge nere che un glorioso maestro antico cinse all'opera decrepita e cieca di un confratello antichissimo, come qualche umanista potè cingere di splendore idee medioevali.

Pensò ch'era forse suo destino di abbandonare fra poco e per sempre la città onde il genio tutelare risiede in quelle meravigliose logge e nella sottile, altissima torre che vi sorge accanto e serve loro, secondo diceva Carlino Dessalle, di punto ammirativo. Venticinque anni di ricordi gli s'illuminarono nella mente, come ai moribondi il corso intero della lor vita. Rivide nel bagliore di un lampo infiniti luoghi della città congiunti a memorie indelebili, dal cortile di casa Scremin dove fanciulletto aveva giocato col figlio dell'autentico Giacomo, al caffè dov'era condotto, le domeniche di quel tempo antico, a prendere il gelato, ai passeggi suburbani che don Paolo prediligeva, alle chiese che frequentavano insieme, al Seminario dove, per desiderio dello stesso don Paolo, aveva più volte, con vere angoscie, subìto esami di latino e d'italiano, alle stanze dei giorni più felici, dei più dolorosi e dei più aridi, agli uffici del Municipio, alla sala delle adunanze consiliari, a villa Diedo.

Villa Diedo! E Vena di Fonte Alta? E la promessa data? Farebbe una visita di poche ore, il più tardi possibile fra quindici o venti giorni, verso la metà di luglio. Sarebbe stato più opportuno astenersene poichè il legame si doveva allentare; ma la promessa? Una semplice visita, un saluto! Sì, una semplice visita, un saluto; però l'idea di questa visita, di questo saluto, che poteva essere l'ultimo, gli tolse la voglia di fantasticare più oltre.



IV


Pensate un cornuto arcavolo mostruoso degli elefanti, invadente a muso basso l'ampia sua via, pôrto l'occipite nel sole di sotto la soma d'una piramide enorme, affondati i fianchi rigonfi nell'ombra. Così, fra le due strette valli incise dai fendenti di un dio, lo sperone che porta Vena di Fonte Alta si protende dalle radici di Picco Astore a fronteggiar con due corna il gran cavo di Villascura. Lassù nella loro cintura di abissi ondulano supini al cielo i pineti e i faggeti di Vena, macchiati di smeraldo chiaro dove il prato li rompe e dilaga, picchiettati di rosso e di bianco dove stormi di casucce si annidano. Chi li contempla dall'alto dell'obliquo alato Picco Astore o delle grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina, non legge il loro minuto poema squisito. Ma il viandante vagabondo per i sinuosi lor grembi si domanda se ivi non siansi amate un momento, sull'aurora del mondo, meste Intelligenze delle montagne e gaie Intelligenze dell'aria; se la terra obbediente ai loro mobili sensi non siasi composta e ricomposta intorno ad esse continuamente in talami oscuri, in alti seggi di riposo meditabondo, in scene di malinconia e di riso, di alti pensieri e di scherzi, che poi fermate al repentino sparir degli amanti abbian serbato per sempre l'ultima forma. Ogni cosa vi ha l'impronta di un sentimento, di una personale idea di bellezza, che ci movono a sospirare per un triste, indefinibile senso dell'assenza di qualcuno che ivi passò e che avremmo amato. All'erboso velluto di un pratolino appuntato nel faggeto fra due curve ali di scaglioni petrigni dove grandi abeti montarono, scena di preludi amorosi, segue, sotto le dense, distorte braccia dei faggi, un dedalo cadente di muscosi giacigli cavi nell'ombra chiara e verde come acqua immobile di lago in un vallone del fondo. Il sentiero che gira l'omero ignudo di un colle a scoprir lontane conche di pascoli, lontane guardie di acuti abeti allineati su alture terminali di quel paradiso, sdrucciola di là verso l'orlo di una coppa vuota incavata nel prato quasi dal roteare di un vortice, ove fu dolce a qualcuno giacer sul fondo, contemplar il cratere imminente in giro, le felci pendule, gli ellebori, i ciclami, e sopra, nel bianco disco di cielo, il veleggiar eterno delle nubi. Il viandante ode tratto tratto nel vento vagabondo le diverse voci degli alberi diversi, le umili e le superbe, le tenere e le gravi. Vede sparsi nel bosco sedili di pietre candide, radi sedili di contemplatori solitari, adunati sedili di assemblee, scolpiti di geroglifici indecifrabili come i colloqui degli alberi, forse lavoro di uditori antichi, note di canti aerei fermate nel sasso, forse ricordo ai venturi di chi passò. Ma sopra il verde lucente dei faggi, sopra le conche dei pascoli e gli omeri ignudi dei colli ricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poema, l'obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nudità ricompaiono, dovunque i sentieri cavalcano un dorso prominente, assise nei loro manti come gli amici di Job, le grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina. E in un selvaggio burrato dell'Astore che si cercano piangendo nel nascere le polle divise dell'Acqua Barbarena, la Fonte Alta, e tosto si appagano nel vaso di pietra onde corrono quindi, ridivise, a dolersi dolcemente ancora negli sparsi casali di Vena e nel giardino della signora che a villa Diedo, fra la conferenza di Carlino e il ballo, apprese con inquietudine pia il progetto di Jeanne, il pericolo, se Maironi la seguisse, d'una infezione mondana nella sua casta solitudine alpestre.

Presso la chiesa, sull'orlo di Val di Rovese, è un piccolo albergo non posto dalle Intelligenze delle montagne nè da quelle dell'aria, rustico al pian terreno dove il vino fermenta la domenica in canzoni e vocii, borghesemente lindo le scale sonore di abete, le stanze dall'impiantito di abete, che assiti di abete dividono, odorate di abete, dov'è gradevole, forse per la funebre somiglianza, sentirsi vivere. Capitano colà l'estate dal piano modesti clienti, visini anemici, stomacuzzi inerti, piccole borse di artisti e di poeti, uno dei quali ultimi, innamorato di Vena, dell'Acqua Barbarena e di Picco Astore, ci viene tutti gli anni e ha imposto a ciascun sasso, a ciascuna zolla dell'altipiano, nomi che nessuna carta topografica riproduce e che tuttavia trovano favore. Così si spiega lo sbalordimento di un ingegnere del Catasto, che recatosi all'Hôtel Astore in cerca di Carlino, una domenica, quindici giorni dopo l'arrivo dei Dessalle a Vena, si udì rispondere dalla cameriera che il signore non era in casa e che forse lo avrebbe trovato nel Covile del Cinghiale.

Il Covile del Cinghiale si cela tra gli anfratti di una costa selvosa a pochi passi dall'albergo e dal villino dei Faggi dove la signora Cerri, la confidente del candido maestro Bragozzo, stava con la sua famiglia da dodici giorni. Fra una lama scoperta di ripido prato e una profonda coppa, la "Pentola degli Stregoni', onde sopra minute plebi di arbusti salgono abeti a glorificarsi presso le nuvole, tre macigni si porgono dal pendio come tre scarnati menti di vecchioni. Nel mediano il poeta fantastico raffigurò un grugno di cinghiale. Dal destro e dal sinistro pendono i due capi della breve semicorona di faggi che forma il Covile. Due giovani abeti ne fiancheggiano la stretta bocca, altri due si disegnano nell'intervallo dei tronchi un finestrino che guarda, oltre la lama verde, una muraglia di tozzi faggi fogliuti e bassi.

Nell'ombra mobile del Covile, sforacchiata di sole, stavano a conversare, seduti, Carlino Dessalle, la signora Cerri, il maestro Bragozzo, ospite dei Cerri, Bassanelli sfuggito per due giorni alle cure del Governo, il poeta fantastico e il notaio di Vena, un savio, lento di gambe e di parola. I cinque bambini della signora Cerri facevano il chiasso nella "Pentola degli Stregoni'.

La signora lodava l'aria di Vena, così penetrata di spirito puro e anche ilare. Soggiunse timidamente, arrossendo nel dubbio di fare un discorso pretenzioso, alcune parole sulla purezza ilare di certi Santi, di certe anime elette che tuttavia s'incontrano qualche volta nel mondo. Allora il candido maestro la guardò con una faccia illuminata di ricordi sottintesi e le disse, pensando alla conversazione di villa Diedo, che nell'aria di Vena non c'era odore di quei tali pasticci.

“A pian!” fece il notaio, esperto dei costumi venaschi. Non potè metter fuori la sua esperienza perchè Bassanelli saltò in mezzo a dire che l'odor di pasticcio a lui non dispiaceva e che invece l'aria di Vena era salubre perchè non vi era mai odore di abiti neri nè a coda nè senza coda; “nè de velade nè de veladoni!” La signora Cerri osservò, approvando la chiusa del discorso Bassanelli e deplorando in cuor suo l'esordio, che già nel paese degli abiti neri una punta di putrido c'era sempre nell'aria.

Allora Carlino ribattè che si doveva dire molto maturo invece di putrido e che questo odore di avanzata maturità non era un difetto ma una squisitezza perchè conteneva in sè l'idea della perfezione più che perfetta. Perciò gli faceva molto piacere di apprendere dal signor notaio che fra l'aria di Vena e l'aria della città, riguardo a certi odori, non ci fosse differenza. “A pian, a pian!” esclamò il notaio. E subito la signora invocò il poeta. Che ne pensava il poeta?

Il poeta, che solo appariva tale nella zazzera e nella cravatta male composta, che si chiudeva, quando la gente pareva curarsi poco di lui, in accigliati silenzi e invece quando gli si mostrava deferente sfrenava subito la sua parola incomposta quanto la cravatta e la zazzera, cominciava a rodersi che nessuno lo introducesse ossequiosamente nella discussione; per cui lodò molto in cuor suo la intelligenza superiore della signora Cerri e prese le parti di lei con tutto il fervore delle sue opinioni e del suo irritabile amor proprio, mescolati insieme, spumanti. Mediocre artista, si diceva piccolo a parole, si teneva grande nel cuore. Gli pareva esser male apprezzato nel paese degli abiti neri mentre negli alberi e nei macigni di Vena aveva trovato sempre, quando parlava a voce alta, nei suoi vagabondaggi solitari, un'attenzione piena di stima e di simpatia. Egli disse che realmente quest'odor di putrido l'aria cittadina lo aveva ma ch'era un odore gradito al suo naso e non per le considerazioni estetiche dell'amico Dessalle. Gli era gradito come l'annuncio ufficiale che tante cose odiose e fastidiose marcivano e che una salutare fase della evoluzione nuova era prossima; perchè il poeta era un trasformista fanatico e non sapeva, quasi, ordinarsi il pranzo senz'arringare il cameriere con l'evoluzione. Puzzava di putrido nel paese degli abiti neri l'accattonaggio universale, quello lurido delle strade, quello poco pulito delle anticamere, quello schifoso dei gabinetti. Il puzzo annunciava che gli attuali ordini economici, gli ordini amministrativi, gli ordini parlamentari erano marci e si sarebbero presto sfasciati. Puzzavano i partiti politici; il partito socialista con le sue camicie sporche plebee e i suoi capi unti di grasso borghese; il partito liberale con la sua rettorica ammuffita della bocca e la sua feccia scettica, egoista, del cuore (qui il notaio fece invano “a pian!”), il partito clericale con la sua religione guasta, mal conservata nell'aceto. Il triplice puzzo annunciava una prossima trasformazione pure di questi organismi. Puzzavano di putrido le classi ricche con i loro titoli morti, con i loro fumi di vanità, con le loro corruzioni eleganti del corpo e dello spirito. Il poeta aveva tartassato i socialisti ma in fondo parlava come un socialista e la conversazione passò dai malanni sociali alle medicine socialiste. Anche il buon maestro volle dire la sua: se tutte le note musicali volessero essere il la perchè il la comanda, addio musica! La signora batteva il chiodo della giustizia, dei torti che le sono pur fatti nella società del nostro tempo; e Carlino, dopo avere rimbeccato il poeta mettendo avanti che praticamente l'avvenire non esiste ma esiste soltanto una serie di presenti, sostenendo quindi che vera scienza della vita è il godimento e la interpretazione ottimista del presente, uscì a dire che in fin de' conti esistono infiniti concetti individuali della giustizia, ma proprio la giustizia non esiste.

“A pian!” fece il giureconsulto. Era destino ch'egli non potesse mai passare oltre il suo consueto esordio. Jeanne si affacciò all'entrata del Covile con Maironi.

La signora Cerri arrossì. Ella non sapeva che Maironi fosse a Vena. Non vedendolo comparire aveva sperato e osservato Jeanne. Jeanne assisteva, ogni domenica, alla messa parrocchiale e vi teneva un'attitudine perfetta. Veniva quasi tutti i giorni da lei, le mostrava tale simpatia da potersi dire affezione, e ne ricercava la confidenza, si era amicata i bambini, s'intratteneva volentieri col signor Cerri di agricoltura e di politica, si compiaceva visibilmente di un ambiente nuovo per lei, semplice nella larghezza degli agi, gaio dentro le frontiere severamente custodite della morale e dell'ortodossia cattolica, cristiano e moderno. La giovine signora non intendeva quanto potesse ella stessa sull'animo di Jeanne Dessalle con il suo alto candore rilucente nella dolcezza dell'aspetto, con la sua religiosità penetrante in tutti gli atti della vita, pura di piccinerie ascetiche e di piccinerie morali. Era lieta e quasi sorpresa della serietà, delle buone inclinazioni, dei sentimenti elevati che veniva scoprendo in lei. Non le pareva possibile, nella sua rettitudine, nella sua inesperienza delle cose umane, che una persona impigliata in relazioni colpevoli mostrasse tanta bontà; e fantasticava di un pentimento dell'amica, di una rottura già successa. Perciò quando vide Maironi alle spalle di Jeanne non potè nascondere il proprio turbamento doloroso.

Jeanne aveva negli occhi quella luce indicibile che la presenza dell'amato vi metteva sempre.

“Certo” diss'ella, prima di mettere il piede sull'entrata del Covile “certo che la giustizia è un'opinione! Chi è l'avversario di mio fratello?”

“Io” rispose la signora Cerri con voce fredda di celato rimprovero. Jeanne non l'aveva veduta e la intese sino al fondo. Appena scambiati i saluti, si dolse di Carlino che non l'avesse avvertita prima di uscire, si dolse di non aver saputo dove raggiungere la comitiva e vantò la propria intuizione. Al fremente Bassanelli sfuggí un ironico “famosa!”. Carlino, seccato della parte di distratto affibbiatagli dalla sorella per coprire l'ottenuto suo intento di restar sola con Maironi, mise il broncio. La Cerri si alzò, ricordò al maestro ch'era vicina l'ora della lezione alle bambine e prese commiato. Il buon Bragozzo, scandalizzato dalle tesi di Carlino, dalla simpatia di Bassanelli per i pasticci, dal discorso del poeta sui clericali e dalla comparsa di Piero in quella compagnia, si sfogò, appena passata la Pentola degli Stregoni, con la signora e le confessò che a lui quel così detto Covile del Cinghiale era parso un bel porcile: “El staloto del mas'cio”.

Intanto Jeanne cercava di riaccendere la discussione. Bassanelli dichiarò ruvidamente che se altri voleva la giustizia non assoluta, a lui bastavano i carabinieri assoluti e che intendeva ritornare all'albergo col notaio per bere un'assoluta porcheria qualsiasi che gli facesse digerire la metafisica. Zoppicò giù per il sentiero con tanta sdegnosa fretta che il povero notaio, non potendo tenergli dietro e volendo pure comunicargli una sua riflessione, frutto prezioso del silenzio, lo richiamò.

“A pian! La diga! A pian! Per quela signora xe relativi anca i marii.” E spruzzate sull'arguzia due risate grosse e corte, descrisse con un cipiglio severissimo lo scandalo dato da "quella signora', che all'arrivo di Maironi, la sera precedente, si era tradita per modo davanti alla gente dell'albergo da imbarazzare visibilmente il suo stesso amante. “Che amante!” fece Bassanelli. L'altro si scusò. Aveva detto quello che tutti dicevano.

Maironi non desiderando, nel suo stato d'animo, nè parlare nè udir parlare accademicamente di giustizia quasi per passatempo, lasciò in asso il poeta, che combatteva i fratelli Dessalle guardando spesso lui come uno sperato sostegno, e uscì a considerare la Pentola. Jeanne lo raggiunse.

“Ripigliamo il nostro discorso” diss'ella sottovoce, movendo un passo di tacito invito ad allontanarsi di lì. “Se ciascuno di noi andasse a ricercare le origini del proprio avere, non crede che si troverebbe tutti della roba mal venuta? Scusi, non vi sarebbe qui un po' di romanticismo? Può far tanto più bene Lei, colla Sua ricchezza, che l'Ospitale Maggiore di Milano!”

Invece di rispondere, Piero la interrogò fremente:

“Come si può dire che la giustizia è un'opinione?”

“Eh, sicuro!” diss'ella, pure concitata. “Ed è proprio questo il caso! A Lei pare giustizia spogliarsi del Suo contro una sentenza di giudici e a me pare giustizia di non sostituirmi ai giudici. Opinione la Sua, opinione la mia, opinione quella dei giudici!”

Appena detto questo si raumiliò al solito, chiese perdono con tenerezza affannata.

“Non so pensarla povero” diss'ella, “non so pensare che Le manchino gli agi cui è abituato, sarei contenta di vivere miserabilmente io in uno di questi abituri purchè a Lei non mancasse la pienezza della vita e il mezzo di essere generoso secondo il Suo cuore e la Sua mente!”

Volle sapere come proprio si fosse espresso l'avvocato. Piero le rispose freddo, col tono di chi non è più disposto a discutere. Secondo l'avvocato, l'Ospitale Maggiore aveva perduto la lite contro i Maironi per un puro vizio di forma nel testamento di un marchese Reyna, cugino di Alessandro Maironi, bisavolo di Piero.

“Nessun socialista” diss'ella, piano, “farebbe quello che vuol fare Lei e come socialista...”

Non si arrischiò a compiere la frase, a dire che un socialista avrebbe ragione, come tale, di non agire secondo un religioso rispetto dell'idea di proprietà, del diritto di testare, che avrebbe ragione di non favorire Opere pie, istituzioni che attenuando i guai prodotti da un sistema economico ingiusto, lo tengono in vita.

“Io non sono un socialista come gli altri” disse Piero. “Certe teorie non comincio ad applicarle a mio beneficio.”

Presso al fondo del valloncello che va da settentrione a mezzodì, fra il Covile del Cinghiale e la chiesa, sull'orlo di un pendio breve ma ripidissimo, Jeanne si fermò.

“Mi dia la mano!”

Afferrò la mano concessa, sorrise, la strinse, discese, sussurrò: “Come sei forte!”.

Era la prima volta che ritornava al tu, dopo l'arrivo di Piero. All'ultimo passo, toccando il piano, si abbandonò col petto sul dolce sostegno, avviluppò la persona cara con l'aura odorosa e tepida della propria.

Aveva tanto tremato ch'egli mancasse alla promessa! Gioiva tanto della sua presenza, sperava tanto! Dirimpetto a loro, sul ciglio dell'alta costa, l'albergo biancheggiava fra gli abeti. Piero, pallido e silenzioso, prendeva già quella via. “No!” diss'ella con una voce, con una boccuccia di bimba viziata; e accennò del capo al sentiero che risale il valloncello verso mezzodì. “All'albergo c'è Bassanelli, c'è tanta gente! Lei mi deve dire cosa farà poi che avrà ceduto tutto il Suo.” E non potè a meno di trasalire ancora all'idea di questa follia.

“Bene” disse Piero, risoluto a un discorso definitivo. “Andiamo. Lei non ha ombrello?”

Un velo era sceso sullo smeraldo dei prati, le ombre degli alberi si erano sciolte nel chiaror diffuso del sole nascosto, il nebbione fumato su dalle valli, si riversava lento per gli alti grembi di Vena, per le vette delle selve, affiochiva nei pascoli i suoni sparsi dei campani, fasciava le pendici nereggianti di Picco Astore. A Jeanne pareva che un bianco mantello umido venisse avvolgendo silenziosamente lei e Piero, sul prato soffice, dentro le sue lane flosce, venisse dividendoli pian piano dal mondo delle cure umane, dal passato, dall'avvenire, spirando loro il dolce senso di essere anime d'un altro pianeta. Sentì che giungeva un'ora suprema, che erano in giuoco non tanto la felicità propria e le proprie sorti, che importavano mai?, quanto le sorti, la felicità dell'amato, illuso da funesti sogni. Gli passò timidamente una mano sotto il braccio, mormorò: “Ti dispiace?”. E benchè il “no” di lui sonasse freddo, gli serrò forte sul braccio la bella persona. “Caro!” diss'ella.

In quel momento Piero si diceva: “Come questa donna non comprende!”. La resistenza dura di lei alle sue idee, il tenace scetticismo, quelle fredde ragioni opposte al suo divisamento generoso e che in fondo, pur non volendolo confessare a se stesso, trovava giuste, almeno in parte; sopra tutto quel non avergli detto una sola parola di ammirazione, finivano di staccarlo da lei, lo rendevano quasi sdegnoso, impaziente dei dolci atti e dei dolci detti.

“Intanto” diss'egli ex abrupto, per troncare le dolcezze, “non cederò tutto il mio. Conserverò una piccola proprietà Maironi, antica, non venuta da casa Reyna, e conserverò la casa di Oria che mia madre ha ereditato da mio zio Ribera. Sarà la povertà, ma non la miseria. Appena stipulata la cessione andrò in Francia a studiare e forse anche a lavorare con le mie mani. Sarà il primo passo per servire la mia opinione della giustizia, per diventare, in tutto, l'uomo che l'anima grande, unica, di mia madre deve avere desiderato in me. Perchè oramai la mia stella è d'incarnare l'ideale di mia madre. Mia madre sarebbe felice di vedermi abbandonare una classe sociale dove non si vuol saperne della giustizia eterna per non sentirsene obbligati a sacrifici duri, oppure se ne fa un Dio personale col quale non è poi tanto difficile di accomodare i conti; una classe dove non si vuole che godere giorno per giorno, non si vuole che...”

Non compiè la frase. Alle prime parole crude Jeanne aveva lasciato il suo braccio; alle ultime, sentendosi mancare, smorta socchiuse gli occhi, cercava con mano incerta, vagante, di aggrapparsi a lui per non cadere.

Atterrito, egli le cinse la vita, si guardò attorno, non vide nessuno, il nebbione era tanto denso! La sostenne, la incuorò e la rimproverò insieme, affannato. Ella si provava di respingere il suo braccio, mormorava quasi inintelligibilmente: “No, no, mi lasci, non son degna, non son degna...”. Cingendole sempre la vita, Piero si mosse pian piano per ritornare all'albergo. La povera Jeanne aveva orrore dell'albergo. “No, no!” Piero voleva farla sedere un momento, almeno, sul prato. “No, no, mi conduca alla fontana, mi conduca alla fontana!” Pareva rianimarsi, la voce si rialzava e si rinfrancava. Piero non sapeva dove questa fontana fosse e Jeanne non riusciva a spiegarsi.

Si provò di camminare, di guidarlo. Questo le riusciva meno difficile che il parlare. Si avviò sorretta da lui, vacillando, ansando, sostando a ogni passo. Avrebbe voluto anche parlare, ma non poteva, e allora lo guardava in viso con il dolore di questa impotenza, con uno sguardo indimenticabile. Ebbe anche, nel far sosta per lo sfinimento mortale, un sorriso infinitamente triste. Una volta le parve udir voci che le venissero incontro per la nebbia, si tolse dal sentiero, sgomentata, con uno sforzo. Le voci si dileguarono. “Vuole aspettar un poco?” diss'ella affranta dallo sgomento e dallo sforzo. Passarono certi casolari e piegarono a destra in un picciol cavo ombreggiato di noci dove convergono altri sentieri e chiama con fioca dolente voce una sottile polla dell'Acqua Barbarena, cascando nella vasca disposta ivi per le mandre. Piero fece sedere Jeanne sull'orlo della vasca. Non aveva tazza, raccolse l'acqua della polla con le mani. Ella bevve, impresse la bocca nella commessura delle palme, ebbe un singhiozzo arido e alla domanda di lui se desiderasse bere ancora, scosse il capo senza levarlo. Egli disgiunse le mani adagio adagio, le ne sfiorò il viso pietosamente ed ella subito se lo coperse con le proprie. Poi cavò il fazzoletto e glielo porse tenendosi ancora l'altra mano sugli occhi, pregò di bagnarlo, se ne deterse le ciglia, tacque col viso basso e le mani giunte in grembo. Egli cercò una parola pia, le disse accorato che non aveva creduto di farle tanto male.

“Mi permette” mormorò Jeanne “di seguirla dove andrà, senza mai farmi vedere da Lei?”

Egli non rispose ed ella lo interrogò da capo con l'oscuro fuoco dei grandi occhi aridi.

“Jeanne! Come può pensare a questo se mi disapprova?”

Ella gli sarebbe caduta ai piedi se Piero non l'avesse impedito a forza. Gli prese e raccolse i polsi, gli parlò affannosa, porgendogli il viso, affissandosi in lui con la espressione di un morente che cerchi negli occhi del medico la speranza:

“No, no, Dio, Dio mio, no, Lei non sa, Lei non sa! Io ho nella mente delle oscurità disgraziate, io La contraddico anche qualche volta per una specie di spirito maligno che mi prende, che mi fa parlare per la mia sventura, ma L'ammiro tanto tanto tanto, onoro tanto in Lei quella fede in un ideale che vorrei pur avere e non posso, sento quanto è bello il Suo proposito, quanto è grande, darei tutto il mio perchè servisse ai Suoi studi, al trionfo delle Sue idee, di ciò ch'Ella chiama la giustizia assoluta.

Non vi è sacrificio che non farei! Non merito proprio, creda creda, ch'Ella mi dica quelle cose terribili, non tengo alla ricchezza, non tengo ai godimenti, non tengo al mio ambiente, lo domandi alla signora Cerri, non tengo neppure all'eleganza se non per Lei, perchè anche se Lei non mi vede, voglio sempre figurarmi di esserle presente. Se Lei me lo permette, io lascio tutto. Cedo tutto a mio fratello e vengo a servire Lei se vuole; se non vuole vengo a starle vicino, vivrò di lavoro e forse Lei qualche volta avrà pietà di me!”

Ella s'interruppe, lasciò le mani di Piero; i belli occhi parlanti si velarono di pianto. Maironi ebbe il senso di un'anima che non avesse mai conosciuto bene, resistente per la sua potenza di amore a una profonda infezione di scetticismo, lampeggiante dall'interno delle sue nuvole una luce purissima.

“In principio” riprese Jeanne “l'idea di lasciare mio fratello non mi avrebbe potuto venir in mente. Lei, per le discordanze nostre, mi ha amato sempre meno e io l'ho amato sempre più, perchè io non avrei mai voluto ch'Ella diventasse come me, avrei voluto invece diventar io come Lei!”

Tacque e dopo brevi momenti di silenzio alzò gli occhi lagrimosi aspettando una risposta. Piero teneva i suoi fissi nel vaporar lento della nebbia, nelle foglie dei noci, gravi di umidore. La tristezza delle cose pareva conscia di quel silenzio doloroso. “Dio, Dio!” gemette Jeanne, sottovoce. “Oggi” soggiunse dopo un'altra pausa “se quest'acqua fosse veleno non Le chiederei se la dovrei bere.” Piero la guardò, attonito. Appena ella ebbe detto amaramente, come parlando a se stessa, “Neppure si ricorda!” gli venne in mente Praglia, il bicchier d'acqua sparso.

“Sì” diss'egli, commosso. “Mi ricordo. Neppure oggi Le direi di bere.”

Ella sospirò: “Per pietà, forse”.

“Oh no!”

Jeanne ebbe un sussulto di speranza, ma poi ripetè malinconicamente: “Sì, sì, per pietà”.

Parole calde parvero salire alle labbra di lui e arrestarsi. Non ne uscirono che queste: “Non lo dica!”.

Jeanne si voltò sul fianco e con la punta dell'indice tracciò sull'acqua la parola: pietà.

“Lei” disse con una tranquillità nuova, guardando lo specchio dell'acqua ricomposta “ha perduto la poesia dell'amore, ricadrà nelle tentazioni di prima, si cercherà delle amanti o piuttosto se ne compererà.”

“Non ho perduto la poesia dell'amore.”

Ricominciò un silenzio eterno.

Piero guardò l'orologio, osservò sommessamente ch'erano quasi le tre e mezzo. Aveva ordinato che la vettura fosse pronta per le quattro, volendo prendere a Villascura il treno delle sei. Jeanne non lo sapeva, trasalì, ma si chetò subito. Però non si mosse e siccome egli pareva stare in attesa, disse:

“Vada, io resto qui.”

A lui quella tranquillità parve sospetta. Aveva udito parlare di precipizi vicini, vaghe apprensioni gli salirono in cuore. Insistette perchè Jeanne si alzasse, perchè scendesse all'albergo. Jeanne ripeteva: “Vada! vada!” senza muoversi.

“Ma non posso” diss'egli “lasciarla così!” E soggiunse teneramente: “Vieni, vieni, forse un giorno...”.

“Forse un giorno...?” diss'ella in un lampo di dolcezza e di amore.

“Forse un giorno ci sarà fra noi quella concordia di anime che può giustificare una unione stretta.”

Esprimeva egli il proprio intimo pensiero oppure lo avevano quelle apprensioni vaghe tratto più in là? Jeanne tornò a oscurarsi, mormorò scuotendo incredula il capo:

“Pietà.”

Egli si guardò attorno, si chinò, le pose sui capelli un bacio e sussurrò:

“No, cara, speranza.”

Ella piegò la testa per prendere quanto poteva del bacio, un fugace lume di beatitudine le si diffuse sul viso.

“Se è vero” disse “che lo speri, resta fino a domani. Altrimenti penserò che non è vero.”

Egli aveva respirato i soffici, morbidi, fragranti capelli, la dolce offerta, e gliene tremava il cuore. Rispose con voce malferma:

“Resterò.”

Jeanne si alzò in piedi, fece “grazie!”, mise un lungo sospiro, guardò Piero come talora una madre guarda scherzando il suo bambino, con un tenero, gioioso viso infantile; perchè a lui piaceva, in passato, di farsi guardare da lei così. Gli piaceva ancora! Ella rise un breve sommesso riso, un riso inconsciamente voluttuoso che pareva dire: “Riconosco la fiamma degli occhi tuoi, un giorno a me sgradita, adesso mi dai un bacio, lo so, e non sui capelli”. Infatti, lentamente lentamente, il viso del giovane si accostò al suo che lentamente lentamente si disponeva, si porgeva grave all'incontro.

Allora le due anime salite sulle labbra si dissero tale una cosa che poi, quando le labbra si disgiunsero, gli occhi non sostennero di guardarsi. Altre volte Jeanne e Piero si erano incontrati senza parole in quel pensiero segreto, ma ostilmente. Ora non fu così. Ora la donna sentiva che vi era un ripugnante modo di trattenere il suo amore per sempre; l'uomo sentiva che vi era un dolce modo d'incatenarsi per sempre e che lei non era più tanto ferma nella sua resistenza. Ambedue, attratti e respinti, trepidavano.

Intanto si era levato un vento molesto che soffiava loro la nebbia in viso. Campani di mucche scendenti all'abbeveratoio suonaron vicino. Jeanne e Piero si avviarono verso Rio Freddo, la prima breve passeggiata di tutti i visitatori di Vena, lei camminando avanti, in silenzio, col senso dello sguardo fisso di lui, volgendosi con un sorriso quando lo sentiva tanto forte da soffrirne. Poco a poco la nebbia si aperse, apparve a destra, nero, imminente, il tragico Picco Astore, apparvero in un chiarore di sole pallido pendenti grembi e molli dorsi di pascoli, alture nere gremite di abeti, profili grandi delle creste di Val Posina. E presto intorno ai due silenziosi ruppe il sereno da ogni parte, l'erbe imperlate brillarono, lo smeraldo dei pascoli si ravvivò, le cervici calve di Picco Astore diventaron fulve, gli umidi aromi della montagna odorarono. Jeanne sedette sur un muricciuolo diroccato che troncava il sentiero dove si gitta dal prato in una macchia. Pallida, spossata dall'ultima ripida salita, non poteva parlare, sorrideva guardando lui. Lì presso era un cespuglio di nascenti faggi misti ad abeti. Jeanne sospirò, guardandolo: “Che piacere vivere uniti qui, sempre, sempre, dimenticare il mondo basso! Ah! che gioia, che gioia!”. Attese invano una parola di Piero, mormorò ancora, con gli occhi bassi: “Non dici niente?”.

Piero non parlò.

Neppure parve udirla. Pareva guardasse l'ombra del proprio capo sull'erba. Ella si alzò, si fece aiutare a scavalcare il muricciuolo, si mise risolutamente, seguita da lui, nella macchia. Pochi passi per intricati rami, su pietroni affondati nei muschi, sconnessi dalle radici degli abeti e dei rododendri ed ecco, a destra e a sinistra, l'orribile Profondo, la mostruosa cintura di scogli, lunata e rientrante sotto le creste coronate di abeti, come una colossale onda che frangendo si rovescia all'indietro; ecco Rio Freddo, il pauroso confine del paradiso verde di Vena, la valle dell'Ombra della Morte. Jeanne mise il piede sopra un lastrone sporgente fra gli abissi. Piero l'afferrò alla vita ed ella si rovesciò indietro alle sue braccia, chiudendo gli occhi. La strinse a sè, la coperse, tacendo sempre, di carezze così violente, che Jeanne, atterrita, supplicò:

“No, no, no!”

Allora il giovine, di botto, lottando con se stesso, ristette; ella gli sgusciò dalle braccia e scavalcato il muricciuolo, saltò dalla macchia sul prato aperto.

Qualcuno saliva verso di lei e le domandò da lontano del "signor conte'. Era il vetturale piantato in asso da Piero. Il signor conte, partiva o non partiva? Perchè lui doveva partire a ogni modo. Piero cercò inutilmente di persuaderlo a restare fino all'indomani mattina. Quegli, regolato il suo conto, se ne andò. Maironi guardò Jeanne.

“Dovevo partire stasera?” diss'egli.

Ella chinò gli occhi e non rispose.

Discesero in silenzio, ella seria, egli triste. Ripassando presso la fontana dei noci Jeanne lo guardò alla sfuggita come per dire: "Il principio è stato qui'. Poi non lo guardò più. Raggiunto il posto dove, per andare al Covile del Cinghiale, conveniva prendere a sinistra, esitò un momento. Prese invece il sentiero che sale verso il villino dei Faggi e di là conduce all'albergo. Non una sola parola fu scambiata fra loro fin presso al villino. Allora Piero domandò alla sua compagna se fosse proprio in collera con lui.

“Non lo so” diss'ella, e lo guardò teneramente, dubitando di averlo offeso. Lo vide così turbato che si smentì subito, affannosamente:

“No no, caro, non sono in collera, ti amo troppo!”.

Nel villino si faceva musica. Jeanne si fermò al cancello, ascoltando. Era un pezzo per violino e piano. L'arco, impugnato da una mano potente, strappava dallo strumento, alternandole a un fine cinguettio di sussurri, apostrofi grandiose che parvero a Jeanne di tragico rimprovero e di scongiuro. Un attimo le bastò per pensare che la signora Cerri, se sapesse, le parlerebbe così e che se lei, Jeanne, avesse avuto la sorte di suggere col latte la fede religiosa e la rigidezza morale come la signora Cerri, non avrebbe meritato, nè sarebbe per meritare, un tale rimprovero. I bambini giuocavano in giardino, la videro, corsero a lei battendo le mani, gridandole di entrare. Ah, entrare lì, in quel momento! Ella fe' loro cenno che tacessero e si allontanò con Piero mentre il violino riattaccava l'apostrofe ardente che parve adesso quel che forse immaginò l'autore del pezzo, il vecchio Tartini, un demoniaco, amaro grido di trionfo.




V


Quella sera gli ospiti dell'Hôtel Astore si ritirarono di buon'ora. Carlino era molto seccato della scomparsa di sua sorella con Piero dal Covile del Cinghiale, era seccato che fosse andata fino a Rio Freddo con la nebbia, senza mantello, senza uno scialle; era seccato che non avesse preso con lui, all'ora solita, il Kephir, il portentoso farmaco orientale che di lui doveva fare un Ercole e di lei una Giunone; era seccatissimo che Bassanelli avesse osato alludere con lui alle imprudenze di sua sorella. Bassanelli, venuto con la certezza di trovare Jeanne e di non trovare Maironi, era nero. Jeanne, dopo ritornata all'albergo, non aveva più potuto star sola con Piero se non un momento prima del pranzo. Allora gli aveva detto in fretta, con un'appassionata stretta di mano, quasi furtiva: “Non partirà, vero, domani?”. E a lui era mancato il tempo di rispondere, o forse, nel tumulto dell'animo, gli era mancata la parola. Dopo pranzo, nel salottino dove i Dessalle tenevano conversazione e offrivano il thè ogni sera, si era conversato poco e non piacevolmente. Bassanelli aveva condotto il discorso all'elezione di Brescia, andata bene per il Governo grazie all'attività del candidato ministeriale, non d'altri. Si capì che voleva alludere a Maironi e questi cominciò a bollire. Certe nebulose frasi dello stesso Bassanelli, venute poi, gli parvero accennare a un altro aiuto invocato inutilmente da quel pover uomo del marchese, cui era pur lecito aver debolezze che tanti hanno. Allora egli scattò, eccitò Bassanelli a parlar franco, gli negò il diritto di giudicare atti privati di cui non conosceva le ragioni. Bassanelli lo rimbeccò aspramente: chi gli aveva detto di prendere quelle parole per sè? Carlino, vedendo sua sorella fremere, tenersi a stento dal pigliar con impeto le parti di Maironi, troncò il discorso:

“Basta” diss'egli “adesso si prende il thè.”

Mentre si prese il thè non furono scambiate che poche parole gelide. Poi tutti si ritirarono.



VI


La camera di Piero metteva sul largo andito centrale dell'albergo in faccia a quella di Jeanne. Accanto a Piero dormiva Bassanelli e le due camere erano divise da un semplice assito. Il geloso Bassanelli uscì dal salotto Dessalle, appena uscito Piero, volendo sapere dove questi dormisse e non piacendogli di domandarlo, nè a lui nè ad altri. Trattenuto un momento sull'angusta scala da una cameriera che scendeva, non vide in quale camera fosse entrato e finse di sbagliare, aperse più di un uscio prima del buono, e brontolata una scusa, entrò rumorosamente nella camera propria. Quell'appartarsi replicato di Piero e di Jeanne la mattina, e a pranzo un che d'inquieto, di febbrile negli occhi loro, certi sguardi scambiati, certe distrazioni dell'una e dell'altro, gli avevano ispirato amarissimi sospetti da vecchio conoscitore d'intrighi notturni. Era fermo di vegliare, di spiare, d'impedire.

Piero si buttò in un seggiolone davanti alla finestra aperta, alle stelle tremolanti là in faccia sopra un nero culmine di bosco, immaginando la cosa detta senza parole da labbro a labbro, sentita sull'orlo degli abissi di Rio Freddo, nello stesso sfuggirgli di Jeanne dalle braccia e poi nei suoi silenzi, nel turbamento del suo sguardo, quando lo incontrava, nelle strette di mano, nell'ultima, sopra tutto, così lunga, parlante. La cosa era fatale, forse; era diritto e volontà ineluttabile della natura. Il suo sangue acceso, pieno di violento impeto, si sottometteva la sua ragione, le faceva dire così. Intanto al pianterreno dell'albergo le voci andavano spegnendosi. La porta di strada fu chiusa, passi pesanti suonarono sulle scale di legno, poi sopra il suo capo. Finalmente la casa si addormentò. Piero spense la candela. Non senza rifiutare ascolto ai deboli richiami della coscienza, non senza un oscuro disprezzo di se stesso, si stese a terra per vedere, prima di aprir l'uscio, se fra l'uscio e il pavimento entrasse lume, se la lampada a petrolio del corridoio ardesse ancora. Era spenta. Si rialzò palpitando. A misura che si preparava così, l'idea che Jeanne vegliasse, che immaginasse, che stesse in ascolto palpitando come lui, lo guadagnava sempre più. Nell'alzarsi da terra fece scricchiolar lievemente l'impiantito. Tosto udì rumore nella camera di Bassanelli. Ascoltò trattenendo il respiro; Bassanelli si era messo a camminare su e giù, dall'uscio alla finestra, senza riguardi. Alla fine si chetò. Quando Piero, dopo avere lungamente aspettato, si mosse ancora, quegli ricominciò il passeggio, si fece ad aprire il suo uscio, a camminare anche nell'andito. Piero sapeva della sua passione per Jeanne e non dubitò di una intenzione gelosa, di un avvertimento diretto a lui. Si buttò a giacere sul letto e, benchè avesse cura di non muoversi affatto, Bassanelli continuò a dare segni, di tempo in tempo, della sua insonnia.

Fra il tocco e le due, Piero si lasciò prendere da un sopor lieve, da un'ombra di sogno. Gli parve che venisse lei, che toccasse il suo uscio con un dito e scese affannoso dal letto per aprirle, per dirle che Bassanelli spiava. Appena ebbe i piedi a terra dubitò di aver sognato.

Ecco invece due colpettini secchi all'uscio. Trasalì, aperse pian piano senza domandare chi fosse. Vide il padrone dell'albergo, vestito a metà, con un lume in una mano e una lettera nell'altra. Trasognato, tardò molto a capire che la lettera era per lui, che l'aveva portata un vetturino, il quale gli faceva dire di esser pronto a scendere, se il signore lo desiderasse, anche subito.

Lesse, spalancando gli occhi, il brevissimo scritto, rimase interdetto, immobile. L'altro attese un poco e poi gli domandò se avesse ordini. Piero si scosse, rispose che ci avrebbe pensato, che intanto il vetturale aspettasse; e si fece accendere il lume.

Uscito l'albergatore, rilesse. Scriveva la marchesa, così:

Domenica ore 7 p.

Carissimo Piero,

il direttore telegrafa a papà: - Condizioni fisiche aggravate. Ora, perfettamente lucida, chiede vedere genitori, marito, don Giuseppe Flores - Noi partiamo subito. Don Giuseppe ci raggiungerà questa notte. Prega!

La mamma


Piero si strinse i pugni sugli occhi, tanto forte che le braccia gli tremarono. Dopo due minuti scostò e alzò lentamente i pugni, fissando il lume, ansando. Poi, come per uno scatto improvviso di volontà, raccolse le sue robe a precipizio, a precipizio discese, chiamò il vetturale, commise all'albergatore di scusarlo presso i signori Dessalle, dicendo che un richiamo dalla città lo aveva costretto a partire così. E saltò nella carrozzella pronta davanti alla porta dell'albergo.

Giù giù nelle tenebre, al trotto di una brenna, sopra un biroccino sconquassato, accanto a un compagno muto; spariscono in alto per sempre i boschi, i pascoli con i sentieri, le macchie e le fontane che tanto sanno, sparisce Picco Astore; giù, giù sotto le stelle pure, per una costa ignuda, per nere strette di capanne; sparisce in alto, per sempre, la casa dove dorme Jeanne, inconsapevole; giù, giù, al trotto stanco della brenna, per un fitto di faggi addormentati, per avanguardie di radi abeti veglianti, per orli di baratri; giù, giù, da destra a sinistra e da sinistra a destra, con l'orrore di aver cupidamente pensato al tradimento mentre la poveretta fedele lo chiamava al suo letto, con il senso di una potenza oscura che lui cieco fosse andata lentamente avvolgendo nelle sue fila e ora lo afferrasse violenta, con l'amaro ineffabile di quella vana parola: prega; giù, giù, dal vento freddo delle alture nell'aria sempre più afosa, con la visione di tutta la triste sua vita, della lugubre meta; giù, giù, da sinistra a destra, da destra a sinistra, senza fine, al trotto stanco della brenna, col biroccino sconquassato, accanto al compagno muto; giù, giù, sino al fondo, al suono di ombrose correnti, a una prima sosta.

Quante ora ancora?

Sei ore.




CAPITOLO VII


IN LUMINE VITAE


I


Arrivò allo Stabilimento poco dopo le nove. In portineria c'era l'ordine di accompagnarlo dal Direttore. Questi, avvertito col portavoce, gli venne incontro sulla scala, ripetendo premurosamente “bravo, bravo, bravo” e alla muta domanda di lui rispose con un sospiro, con un gesto di dubbio e di sconforto! Era dunque in pericolo? Eh sì, pur troppo lo era. E la mente? Perfettissima.

“Oh” soggiunse il Direttore con l'affettuosa deferenza del medico di cuore e insieme con il sorriso sereno dell'uomo avvezzo: “domanda tanto di Lei, La desidera tanto, poveretta!”.

E gli fe' cenno di entrare nel suo studio. Piero sapeva che quella non era la via.

“Ma come?” diss'egli. “Non andiamo là?”

“Non subito, se permette” rispose il Direttore, sorridendo con dolcezza. “Non subito. Le ho fatto preparare qui nel mio studio da rifocillarsi un po'. E` Sua suocera, sa, che ci ha pensato. Oh che donna, Sua suocera! Che santa!” Piero protestò che non aveva bisogno di niente, che non voleva prender niente, che voleva vedere sua moglie subito, subito! E perchè l'altro insisteva, cominciò a presentire qualche mistero, a temere che gli si volesse forse nascondere...

“No, no” fece il Direttore vivacemente “nemmeno per sogno!” e proseguì con un certo imbarazzo appoggiandogli le mani alle braccia, fissandolo negli occhi:

“Adesso Le dirò tutto. C'è qui un vecchio sacerdote desiderato dalla Sua signora, che ci terrebbe a parlare con Lei prima ch'Ella entrasse in camera. Questa sarebbe pure l'idea della signora marchesa. Ecco!”

“Va bene.”

Prima di far avvertire don Giuseppe, il Direttore informò Piero, sommariamente, della malattia. Il deperimento risaliva al maggio e nelle due ultime settimane si era fatto più rapido. La notte dal sabato alla domenica era sopraggiunta la febbre. Nel primo entrare del male l'inferma aveva molto parlato di un bambino, di un suo caro bambino che aveva portato in casa la pace. Il Direttore si scusò, ripeteva parole dell'ammalata. Essa ne aveva quindi parlato sempre meno e finalmente non più. Nel pomeriggio della domenica, con la febbre a 39.5, aveva, dopo un lunghissimo silenzio, domandato improvvisamente, con intelligenza piena, di vedere i genitori, il marito e don Giuseppe Flores. “Povera signora, avrebbe voluto venire fuori dello Stabilimento, in qualche casa vicina, ma io proprio, considerando il grado della febbre e altre cose, non ho creduto di consentire. Stamattina è ritornata su questo punto. Bastò, poveretta, che quel sacerdote, un santo anche lui, le dicesse di offrire il suo desiderio al Signore per i suoi peccati; ha subito risposto di sì, di sì e che ne ha tanti.”

Piero strinse convulso la mano al Direttore, che uscì, volle andar egli stesso in cerca di don Giuseppe.

Rimasto solo, il giovine si sforzò di fare attenzione alle cose esterne per dominarsi. Si accostò a una finestra. Faceva già caldo, fuori le cicale cantavano nel gran sole, nella gran tristezza delle campagne deserte. Quando si sentì più sicuro di sè, Piero si avvicinò all'uscio, lo aperse un poco aspettando il noto passo di don Giuseppe.

Che mai, che mai gli voleva dire don Giuseppe? Stette in ascolto.

Silenzio.

Voci d'inservienti. Si ritrasse, si chinò macchinalmente a guardare un libro aperto sulla scrivania del Direttore. Hamlet, nell'originale inglese: la scena del teatro. Aperse l'uscio da capo. Dio, quelle cicale! Altre voci; finalmente, la voce del Direttore, la voce di don Giuseppe. Lo prese un tremito, ritornò alla finestra per ricomporsi, si voltò ed ecco davanti a lui, solo, con la gran fronte pia, con gli occhi scuri, solenne e dolce, il vecchio prete. Egli alzò le braccia senza proferir parola, e senza proferir parola Piero aperse le sue, gli si avvinghiò al collo. Don Giuseppe si sciolse il primo dall'abbraccio muto, e tenendo le mani sulle spalle di Piero gli disse a voce bassa che avrebbe trovato l'inferma in uno stato di spirito da non potersi immaginare, sicura di morire, piena di gratitudine verso Dio, di tenerezza per i suoi, e così alta nella espressione di questi sentimenti, così acuta nei riflessi sul suo stato presente e passato, nei consigli a sua madre e a suo padre, nelle osservazioni su quanto si diceva e si faceva intorno a lei! Oh! Una cosa! La voce di don Giuseppe si abbassava così parlando, gli occhi s'ingrandivano, si accendevano, il gesto commosso accompagnava le parole. Si capiva ch'egli era stupefatto di aver trovato una Elisa diversa dalla Elisa conosciuta in casa Scremin.

Sedette sul canapè destinato ai visitatori del Direttore, si fece sedere Maironi accanto, si passò una mano sugli occhi.

“Senta” diss'egli.

Parve dibattere fra sè con qualche rotta voce, con qualche scossa del capo, con gli occhi raccolti in basso le parole da dire o il punto dal quale muovere il discorso.

“Bisogna” riprese finalmente ritornando al suo gesto familiare della mano alla fronte onde spremeva stentatamente le parole difficili “che La informi di qualche cosa.”

Trovata la via, continuò, un poco più sciolto, penetrato però sempre la voce e il viso quasi da un rivivere, dentro di lui, delle cose passate che narrava.

“Ricevette il viatico” diss'egli “alle cinque di stamattina, con la serenità di un angioletto, si raccolse per qualche minuto e pregò i suoi genitori di lasciarla sola con me.”

Qui don Giuseppe cinse con un braccio il collo di Piero, gli sorrise con gli occhi umidi.

“Mi parlò di Lei” diss'egli. Piero si celò il viso fra le mani.

“Pare” riprese don Giuseppe sospirando “che qui o gli assistenti o le infermiere, chi sa, udendola delirare, non pensando mai che potesse comprendere, abbiano parlato fra loro, in presenza sua... di cose che la poveretta non avrebbe dovuto sapere. Ha udito, ha compreso tutto, ricorda tutto, mi ha ripetuto tutto. Si figuri se non cercai di rimediare, di smentire! Mi troncò la parola in bocca. "Non dica, non dica, so che è vero. Le leggo negli occhi che è vero.' Volle sapere se quella signora fosse libera e si afflisse molto che non lo fosse. Mi domandò se credevo che Lei sarebbe venuto, che avrebbe accolto bene una parola sua di perdono e di preghiera.

Le risposi che n'ero certo.”

Don Giuseppe tacque. Piero piangeva.

“Dio mio, don Giuseppe” diss'egli “non potrebbe Lei evitarle questa pena, dirle che io considero la sua parola come detta, come udita, dirle a nome mio tutto quello che la può consolare?”

Don Giuseppe gli pose una mano sulle ginocchia ed ebbe ancora, senza guardarlo, un lievissimo sorriso, un sospiro, una inarticolata voce sommessa di dubbio, una voce che Piero intese a questo modo: “Non è meglio, per qualche ragione da tacere, che parli proprio Lei?”

Si bussa all'uscio. Un'inserviente avverte ch'è giunto il professore chiamato per telegrafo da Bologna.



II


Era una lunga via dallo studio del Direttore al piccolo quartiere appartato dove la povera Elisa aveva così lungamente sofferto e ora stava morendo. C'erano scale da scendere e salire, lunghi corridoi da percorrere, cortili da attraversare. Vi passeggiavano persone tranquille di aspetto assai civile, molte delle quali salutarono rispettosamente don Giuseppe. Una di queste, un vecchio signore dall'aria distinta, riconobbe Maironi per essergli stato presentato una volta dal Direttore e lo fermò.

“Come sta la Sua signora? Soffre tanto, eh, poverina. Già la fedeltà è femmina, non può essere mascolina. Qui ci dicono matti ma si sa tutto di tutti. C'è qualcuno che veramente non ha prudenza nel parlare. Bisogna compatire! Grazie a Dio, se sono stato anch'io così, adesso non lo sono più. Vedo che Lei è con lo Spirito Santo; dicano, dicano al signor Direttore come ragiono bene, e ch'è un delitto di tenermi ancora qui!”

Il signor Direttore era poco lontano, udì, promise amorevolmente a colui di licenziarlo presto, gli consigliò di andare intanto a pigliar il suo caffè e latte. L'infelice obbedì silenziosamente, dominato, come un essere inferiore, da un senso, fra pauroso e sdegnoso, dell'autorità. Il Direttore si unì ai due, parlò allo smarrito Piero, con la sua filosofia serena, di Amleto, che stava leggendo, delle geniali divinazioni di Shakespeare nel rappresentare le frenosi, di quel curiosissimo Amleto che simula la pazzia e non si accorge di essere davvero non solamente un nevrastenico ma proprio un deficiente.

Sulla piccola scala del quartierino abitato dalla inferma incontrarono la marchesa Nene, che accolse il genero con un sorriso tranquillo, con un che di risoluto nel viso e nella voce, non riuscendo però a reprimere e nascondere quella sovreccitazione nervosa che la teneva continuamente in moto. Gli accennò di affrettarsi. L'Elisa desiderava vederlo almeno un momento prima di essere visitata dal professore di Bologna. Presto! Si capiva che la marchesa non voleva parole affettuose nè lagrime, che resisteva eroicamente all'angoscia perchè intorno all'ammalata tutto fosse tranquillo, nessuno perdesse la testa. Aveva mandato il piagnoloso Zaneto a riposare. Resistette al genero che voleva abbracciarla. “Vieni, vieni!” diss'ella. “Sii forte, forte!” come se parlasse al più innamorato dei mariti.

Ella lo precedette nella stanza sacra del dolore, calda, scura, silenziosa. Mormorò con tenerezza sorridente: “È qui Piero, sai; un momento, un momento solo!” e si fece da parte. Egli entrò, scorse appena, nell'ombra, il biancor fioco del letto, la figura fosca della suora infermiera, che si era levata in piedi, udì una debole voce dolce dire: “Apra un poco” e mentre la marchesa diceva piano: “un pochetto, sa suora, un pochetto solo” si appressò in punta di piedi al letto, la vide.

Erano quasi tre anni che non la vedeva così da presso e gli parve trasfigurata. Il viso, da bianco e roseo ch'era stato, mostrava ora sotto le accensioni della febbre il pallore caldo dell'avorio, il naso si era venuto affilando, gli occhi parevan tanto più grandi, più scuri e più lucenti.

Mai quel viso non era stato così bello, così penetrato d'anima.

Gli tese le braccia, gli prese il capo, lo raccolse a sè, gli sussurrò sulla bocca “grazie” ed egli la baciò appena, quasi non osando.

“Che ti veda!” diss'ella a stento, tanto il respiro era affannoso; e ravviandogli lentamente con la mano i capelli sulla fronte ch'egli aveva rialzata, lo guardò, lo guardò con i grandi occhi scuri fissi, dove scattavano, alternandosi, scintille di dolore, scintille di tenerezza, sorrisi di pace.

“Basta, Elisa, basta” mormorò la mamma.

L'inferma piegò il viso a destra, posò le labbra sul braccio del marito.

“Addio!” diss'ella. “Dopo, vero, torni? Ho tante cose!”

Piero si chinò a baciarle l'orecchio scoperto, vi mormorò: “Per sempre tuo, sai”.

Ella chiuse gli occhi, beata, e rispose:

“Del Signore.”



III


Nel corso della giornata si manifestò un lieve miglioramento. Il professore di Bologna aveva necessariamente stancata l'inferma con gl'interrogatori e le auscultazioni; le aveva quindi prescritto il più assoluto riposo. La diagnosi era stata conforme a quella dei due medici curanti, la prognosi meno pessimista. Il pericolo era che al cader della febbre l'ammalata si spegnesse per esaurimento, ma il professore confidava nelle risorse di un organismo giovane e anche nei mezzi dell'arte. Egli aveva tenuto il suo discorso nel salottino attiguo alla camera dell'ammalata, rivolgendosi particolarmente alla persona che gli era stata presentata come il marito. Riuscì duro a Piero di sostenere quello sguardo, di accettare quella preferenza immeritata. Avrebbe voluto dire: "Parli a sua madre, io non son degno'. Neppure si credeva degno di mostrare la sua commozione vera; ne vergognava quasi come d'una ipocrisia. Il professore non intendeva ripartire prima di sera. In città si era subito saputo della sua venuta e tre o quattro richieste di consulti erano arrivate allo Stabilimento prima di lui. Piero desiderava che ritornasse da sua moglie, e uscì con esso dal salotto per dirglielo fuori, da solo a solo, con tutto quel fuoco d'affanno che sentiva in sè, che non avrebbe voluto mostrare agli altri. E lo supplicò di aprirgli la verità intera. Il professore l'aveva detta, non poteva che confermare le sue parole precedenti. “Speriamo, speriamo” diss'egli. “Vedo che lo meritano tanto tutti e due, poveretti.” Piero strinse e scosse le mani, senza parlare, a quell'uomo buono che sempre più si persuase del proprio intuito, della diagnosi morale improvvisata così sui due piedi.

Verso le quattro del pomeriggio l'inferma dormiva, vegliata da sua madre. Nel salottino don Giuseppe stava leggendo il breviario e Zaneto, molto confortato, parlava sottovoce a Piero, rimescolava certi suoi vecchi ricordi del luogo, d'una sua zia che vi era stata curata in gioventù. Egli mise poi il discorso sull'asilo campestre che sua moglie era venuta disponendo per la figliuola, sulla opportunità di passarvi l'autunno, sul soggiorno da scegliere per l'inverno. Quando ebbe sparse tutte queste rose sull'entrata d'un discorso spinoso, si arrischiò a mettervi un piede.

“Mi è stato parlato” diss'egli “di dubbi che avresti circa la provenienza della tua sostanza, dubbi che ti impedirebbero un atto di assoluta proprietà. Non lo dico per niente, sai! Non lo dico per niente! Te ne parlo per il puro tuo interesse. Si tratta di una questione che conosco. Ne ho udito discorrere in casa mia da giovinetto, più volte, e anche poi, da uomo. E` una questione che non è questione. Si tratta di un testamento annullato per non so quale difetto, se di data, se di forma, se d'altro. Ora questo considerar poco i difetti di forma sarà generoso ma non è giusto. Il difetto di forma riflette sempre un dubbio sulla sostanza! Domanda a qualunque direttore di coscienza...”

"Nessuno di costoro farà mai per me' pensò Piero; notò in pari tempo che l'ascetico suocero e la scettica Jeanne venivano per vie diverse a incontrarsi con l'egoismo sulla stessa cattedra di consiglio.

La marchesa Nene porse il capo dall'uscio e chiamò Piero. L'Elisa si era svegliata, lo voleva. Mentre il genero entrava ella uscì, gli disse sorridendo con un'aria di compiacenza quasi affettata che l'Elisa la cacciava di camera. E soggiunse piano: “Poco, poco, poco!”.

La suora era uscita prima. L'inferma accennò al marito di sedere presso il letto, dal lato opposto alla finestra, gli sorrise, gli stese la mano. Egli baciò la piccola mano di avorio, arida, calda, e la tenne fra le sue.

“Meglio, non è vero, cara?”

Ella porse le labbra nel disegno di un bacio e mormorò come se non avesse udito:

“Mi rincresce tanto, adesso, di non avere avuto un bambino.”

Piero protestò. Perchè parlava così? Non sapeva che guarirebbe? Che i medici n'erano sicuri? L'inferma non rispose, gli accarezzò le mani, guardandole, e dopo un momento disse con voce appena intelligibile:

“Domani sera...”

“Cosa, domani sera?”

“Fra le sette e le nove” diss'ella.

Piero ebbe una stretta al cuore. Forse la mente di lei si oscurava da capo? La richiamò:

“Elisa!”

Allora ella lo guardò un momento in viso e gli ridiscese quindi con gli occhi alle mani continuando l'amoroso moto delle sue, aperse le labbra. Piero non intese, si chinò, raccolse, durando ella sempre, grave in viso, a guardargli e accarezzargli le mani, questo alito:

“Domani sera, fra le sette e le nove, vi lascio.”

Egli si sentì gelare il sangue, pensò alla divinazione dei morenti, non seppe lì per lì articolar parola. Poi la contraddisse appassionatamente. Ella gli fe' segno, col dito alle labbra, di tacere, come s'egli alzasse la voce contro Dio che voleva così. Poi mosse un po' il capo su per il guanciale, gli abbandonò la mano sul braccio, lo guardò affannata, supplichevole. Non gli pareva che Dio fosse stato abbastanza buono con lei?

“Una grazia grande, sai, del Signore, avermi svegliata, avermi chiamata così. Una grazia grande avervi qui tutti, anche quel santo don Giuseppe che mi aiuta. Zitto, caro, zitto.”

Ella tacque, lo trasse a sè, fece un visino afflitto, gli bisbigliò senza guardarlo:

“Non sono stata una buona moglie - zitto caro, zitto - no, ti volevo tanto bene, tanto tanto e non ho saputo dimostrarlo, devi avermi creduta fredda, è stato un gran male, adesso lo capisco.”

Gli cinse il collo con ambe le braccia, gli mormorò all'orecchio:

“Caro, vuoi che ci perdoniamo tutto? Proprio tutto, tutto? Anche quello che tu non sai di me? Anche quello che io non so di te?”

Egli si staccò dolcemente dal collo, piangendo, le sottili braccia, s'inginocchiò, si strinse sulle labbra una mano di lei che pure lacrimava. In quel momento la marchesa, impaziente della lunga dimora di Piero, aperse l'uscio per richiamarlo. Vide, tacque, si ritirò. Don Giuseppe alzò gli occhi dal breviario a lei, credette che uscisse dalla camera dell'inferma, le domandò notizie. Ella rispose col suo solito sorriso: “Non so, vedo che non mi vogliono”. E anche a lei caddero due dolci lagrime.

Intanto l'inferma fece alzare suo marito, gli parlò ancora:

“Sei tanto giovane, non hai nessuno, col tempo...”

Si commosse, non potè compiere la frase. Finalmente gli cinse un'altra volta le braccia al collo, gli disse ansando:

“Ti ricorderai di me, vero? Pregherai per me anche allora? Preghi come una volta, caro?”

Piero non rispondeva.

“Non preghi più come una volta?”

Nessuna risposta.

“Non preghi più? Hai perduto la religione?”

Egli non potè mentire, benchè ne fosse tentato.

“Perdonami!” supplicò accorato. “Perdonami!”

Solo udì, nel silenzio mortale, l'affannoso respiro dell'inferma. Ella giunse alfine le mani dicendo piano:

“Oh Piero!”

Alzò gli occhi pieni di angoscia, pregò dal fondo dell'anima, ineffabilmente, offerse per lui le pene sue presenti e quelle attese della purificazione futura.

"Signore, Signore' pensò "non lasciatemi morire così!' E subito ebbe un momento quasi di rimorso, si affrettò a soggiungere dentro di sè: "Però sia fatta la Vostra santa Volontà'.

Poi chiamò con voce fievole:

“Caro.”

Chiese il fazzoletto. Avutolo, cercò di recarselo agli occhi e la mano le ricadde sulle lenzuola.

“Non ho più la forza” diss'ella. E aperse la mano.

Allora, tremante, straziato, volendo pur dire una parola consolatrice e non riuscendovi, egli le terse col fazzoletto gli occhi lagrimosi. La poveretta potè appena dirgli:

“Grazie. Chiamami la mamma.”



IV


Gli Scremin, don Giuseppe Flores e Maironi alloggiavano in un piccolo albergo vicino allo Stabilimento. Dopo la visita del professore, che trovò la febbre ancora piuttosto alta, una penosa inquietudine e il cuore depresso ma nessun pericolo imminente, don Giuseppe e Zaneto si ritirarono. La marchesa si accinse a passar la notte nella camera di sua figlia con la suora. Piero rimase nel salotto attiguo, sdraiato sul canapè, solo, al buio. Era stanco, aveva il capo grave di sopore e tuttavia non si era voluto allontanare di lì. Si addormentò verso le due, sognò un caos di figure assurde, di avvenimenti impossibili, tanto complicati e lenti che allo svegliarsi credette aver dormito un secolo. Si rizzò, quasi atterrito, a sedere sul canapè, chiedendosi dove fosse. Nel vano della finestra spalancata luceva un grande pianeta. Tese l'orecchio. Dalla camera dell'ammalata non il più lieve rumore; dalla finestra fievoli vocii confusi come di una moltitudine discorde. Andò ad ascoltare: grida, urla delle agitate, da una casa lontana. Ora si udivan forte, ora, col mutar dell'aria, venivano meno. La campagna scura, immensa, era silenziosa come il cielo. Nessun segno di vita. Piero aveva dormito mezz'ora. Gli venne languida in mente l'idea che le medesime stelle lucevano sui pascoli, sui boschi di Vena; e passò. Gl'infiniti occhi delle stelle parevano conoscere la domanda dell'inferma: “Hai perduta la religione?” e guardar tutti a lui tristamente. Cosa volevano da lui? Egli pure guardò fiso il pianeta, pensando, senza volontà, pensieri che avevano un ordine in sè ma gli venivano disordinati nella coscienza e misti ad impressioni dei sensi, come, insieme a qualche curioso, si affrettano confusi gli invitati di ogni grado al convegno d'un corteo predisposto in ogni sua parte, giusta norme fisse di precedenza.

"Potevo dire: ho la religione della giustizia.' Dio, se a Vena fosse successa quella cosa! Che orrore, poi, esser baciato, esser abbracciato da te, povera creatura! "Che vile, che vile, che vile!'

In questo violento disprezzo di sè gli occulti pensieri gli salivano stridenti sulle labbra. Poi ridiscesero.

"Che sarebbe successo di me? - Tutto sarebbe caduto. Che vile! - Niente niente niente; la religione della giustizia non mi ha difeso niente. - E` stato il caso: Bassanelli. Proprio un caso? - Jeanne è tanto migliore di me, con tutto il suo scetticismo. Se Jeanne credesse in Dio sarebbe tutta sua. - E i miei presentimenti? Dove finivano i miei presentimenti? - Tutto un giuoco, tutto un caso? - Dio mio, Dio mio, se io perdessi la mente, se io dovessi proprio star per sempre qui dentro, finire come queste che urlano! - Padre mio, sei tu in quel pianeta? - No no no, padre mio, padre mio, credo, sai, credo in Dio, credo, credo, ho creduto sempre, forse vengo anch'io dove sei tu, dov'è la mamma! L'Elisa viene da voi ma forse un giorno vengo anch'io!'

Represse a forza l'onda dei singhiozzi irrompenti dalla gola. Si strinse sul petto le braccia incrociate, si morse il labbro inferiore, le grosse lagrime gocciarono silenziose.

Quando infine potè dischiuder le labbra e, ansando, asciugarsi il pianto, ripetè più volte, con infinita dolcezza interna ma piuttosto ancora macchinalmente che con deliberato consenso, che con deliberato proposito, le parole di Elisa: “Del Signore - del Signore - del Signore”. I singhiozzi ritornavano, li soffocò, alzò il viso al grande spettrale pianeta, alle stelle. Ah, la morte d'Elisa era scritta negli infiniti occhi tristi del cielo! Pensò, pensò, pensò, gli attraversò i pensieri, lenta, la visione di Praglia, del grande monastero abbandonato, delle logge dove fanciullo aveva creduto sentire un appello arcano. La visione passò, il pensiero gli venne meno in una nebbia interna, le stelle gli si oscurarono, non ebbe più senso che del proprio smarrimento, della frescura umida e delle grida, degli urli, dei pianti dal riparto delle agitate.

Trasalì, una mano gli si era posata sulla spalla, lievemente. Si voltò; la marchesa. Era entrata, aveva acceso il lume senza ch'egli se ne avvedesse. Elisa desiderava don Giuseppe. Niente di nuovo. Era un desiderio, così; voleva dirgli qualche cosa, temeva forse di scordarsene. “Che bellezza di notte!” soggiunse dolcemente la vecchia signora, uditi i gridii lontani delle pazze; e chiuse la finestra. Dopo aver veduto Piero ginocchioni al letto della sua figliuola in quell'atto di amore e di dolore, ella gli parlava come un forte a un debole, con una profonda vena di tenerezza, con la più delicata cura di non allarmarlo, di non affliggerlo. Gli disse di andar a chiamare don Giuseppe, di restare poi all'albergo, di dormire un paio d'ore, almeno.

“Fai chiamare il papà verso le sei” diss'ella, “e guarda che col caffè gli portino un po' di latte perchè c'è abituato.”

Piero le baciò la mano ch'ella ritirò, in fretta, per troncare, per tornarsene subito dalla figliuola. Le sarebbe caduto ginocchioni ai piedi perchè sentiva che la povera donna non sperava più, che la sua calma, la sua dolcezza, le sue vigili attenzioni erano un miracolo di volontà santa. Andò all'albergo e ritornò con don Giuseppe. Questi entrò dall'inferma; la marchesa e la suora vennero ad attendere nel salottino, con Piero, che il colloquio finisse. La suora cercava stentatamente qualche parola buona; la signora aveva preso bene questo, aveva preso bene quello, aveva la sua fisionomia solita. Si stancava col continuo pregare, poveretta. Dopo che ci era stato il signore, non aveva fatto che pregare. Mentalmente, magari; ma si vedeva lo sforzo, povera creatura.

La marchesa osservò che in complesso la notte non era stata cattiva. Avrebbe voluto poter pigliare una messa, la mattina. La chiesa del villaggio era a due passi. A che ora si diceva la prima messa? Meglio non andare a quella di don Giuseppe, per non trovarsi fuori nello stesso tempo. La prima messa si diceva alle quattro e mezzo.

Nessuno trovava parole più, e si fece un silenzio penoso perchè ciascuno sentiva che il colloquio dell'inferma con don Giuseppe pareva lungo a tutti. La finestra, mal chiusa, si aperse a un soffio di vento, furono uditi i gridii confusi.

In quel momento il vecchio prete rientrò. Subito la suora si avviò a ripigliare il suo posto e la marchesa non potè trattenere un “dunque, don Giuseppe?”, non potè interamente dissimulare, sul suo povero vecchio viso stanco, l'ansia dell'aspettazione. Don Giuseppe rispose tranquillo:

“Niente, poveretta. Cose di pietà.”

“E che Le pare?”

“Oh, nessun cambiamento. Forse forse un po' di maggiore debolezza. Vorrebbe avere l'Estrema Unzione fra le sei e le sette, dice, perchè a quell'ora si sente sempre meglio. Questo non può che giovare, le ho detto di sì.”

La marchesa fece sommessamente “sì”. Nei grandi occhi gravi si dipinsero la riverenza del sacramento e la rassegnazione. Non disse più nulla, rimase per qualche momento immobile, accasciata; poi, per la prima volta, si asciugò gli occhi. Mosse in pari tempo verso quell'uscio e le sue spalle curve, il suo capo basso esprimevano il piegar mansueto di un dolore immenso ai voleri di Dio.

Rimasto solo con Piero, don Giuseppe lo fissò silenziosamente in volto. Piero non se ne accorse, prima; quindi credette che gli si volesse leggere nel pensiero. Poi nel vederlo mutato, più triste, più solenne, gli balenò che, parlando alla marchesa, le avesse taciuto qualche cosa. Lo interrogò ansioso con gli occhi.

“Ha il presentimento” disse piano don Giuseppe “di morire stasera; indica persino l'ora.”

Piero chinò il viso.

“Lo so” diss'egli.

“Lo sa? Ma poi c'è un'altra cosa.”

Silenzio. Parve che il vecchio non osasse dire, che il giovine non osasse chiedere. Finalmente don Giuseppe si fece animo.

“Prega” diss'egli “di venir sepolta in Valsolda.”

Piero giunse le mani, sbalordito.

“In Valsolda? In Valsolda?”

“In Valsolda, per due ragioni. Per il rimorso di non aver secondato il Suo affetto a quel paese, di aver mancato, in certo modo, anche verso la memoria de' Suoi genitori che sono sepolti là; e poi perchè dice di sentirsi ora tanto unita ad essi nel domandare al Signore una grande grazia. Sì, sì - m'ha detto - preghi Piero che mi lasci andar con loro...”

La voce del vecchio discese a un soffio, a un lieve alito.

“... come una figlia.”

Piero lo abbracciò stretto singhiozzando.

“Credo... che la grazia...” E più non potè dire.

Rimasero così abbracciati, a lungo. Finalmente il giovane rialzò il viso, mormorò:

“E mia suocera, poveretta? Cosa dirà? Non sarà un altro dolore?”

“Ne ho detto una parola anch'io alla Sua signora. Mi ha risposto: "Oh, la mamma è una santa'. E adesso zitto che non ci sentano.”


Le campane della chiesetta vicina suonano l'Ave Maria dell'alba, l'inferma chiede che ore sono, chiede di vedere il cielo, dice alla sua mamma che ha dormito, che ha sognato di stare in paradiso con il suo Piero, con lei, con il suo papà, e anche, soggiunge sorridendo alla suora, con suor Eletta; che la mamma e suor Eletta erano tanto luminose ma Piero molto più ancora. La mamma dice “va là, va là” con bonaria placidezza. Essa le risponde di prepararsi e che sarà presto presto e che n'è tanto contenta.

La mamma tace, le campane suonano, suor Eletta apre un poco le imposte, l'inferma vede l'oriente imbiancarsi per lei l'ultima volta.



V


Don Giuseppe celebrò la messa verso le cinque e mezzo. Il parroco del luogo raccontò poi, tutto edificato, che non aveva veduto alcuno celebrare con tanto fervore nella voce, con tanta pietà nel volto, con tanto profondi sospiri e aneliti, come quel vecchio prete forestiero. Pareva, diss'egli, che avesse la visione di Cristo! Dopo la messa, come lo ebbe aiutato a spogliarsi, lo lasciò.

Immerso nelle preghiere di ringraziamento, don Giuseppe non s'accorse che alcuno entrasse in sagrestia. Alzandosi dall'inginocchiatoio restò sbalordito e sgomento; Piero gli stava davanti, tanto acceso nel volto di ansia e di supplica, tanto visibilmente tremante le mani congiunte, ch'egli subito pensò: "è morta!' e i suoi occhi atterriti lo dissero. “No, no, no, devo parlare!” fu l'affannosa risposta. Don Giuseppe mandò fuori dalla sagrestia il chierichetto, che aspettava. Intanto Piero si buttò sull'inginocchiatoio e, copertisi con una mano gli occhi, batteva e ribatteva con l'altra la logora poltrona disposta lì accanto per le confessioni.

Don Giuseppe, non sapendo cosa fosse per succedere, fra proclive e renitente, dopo un momento di esitazione, obbedì.

“Non posso parlar che qui, non posso parlar che qui” singhiozzò Piero, raccoltesi ambo le mani sul viso. “Ero già scosso... quando Lei stanotte, mi parlava della grazia... ma dopo... ma dopo...”

Non poteva proseguire. Don Giuseppe gli passò e ripassò una mano sui capelli, dolcemente...

“Aspetti, aspetti, si sfoghi, si calmi.”

Ma Piero neppur poteva tacere e la sua voce, poco a poco, si rinfrancò.

“Dopo... appena Lei era uscito per venir qua... mi son sentito prendere a un tratto da un'inquietudine, da un'aspettazione ansiosa senza saper di che, da uno struggimento interno, da un desiderio di piangere senza poter piangere. A un tratto mi vidi dentro la fronte, o dentro il petto, non lo so, per un momento, per un solo momento, queste parole: "perchè mi resisti?'. Me ne sgomentai, ma poi mi son detto subito: sarà un caso, una reminiscenza involontaria, niente altro. Mia suocera, rientrando dalla prima messa, aveva posato sul tavolino del salotto il suo libro di preghiere. Lo apro. Era una Imitazione. Gli occhi mi cadono sul principio del libro quarto dove sono le parole di Cristo: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos”.

A don Giuseppe sfuggì una esclamazione sommessa. Piero lo interrogò, avido. Niente, niente; don Giuseppe non aveva niente a dire. Il giovine continuò:

“Mi prese un tremito, un gran tremito, come se avessi udito il Signore chiamarmi. Venni diritto in chiesa. Per la strada mi pareva di camminare dentro un'aria piena di Dio. Mettere il piede sulla soglia della chiesa, veder Lei all'altare e sentire un risveglio di tutta la mia fede di fanciullo, un dolore acuto del mio allontanamento da Dio, delle mie ripulse ai suoi richiami, una tenerissima gratitudine della sua paziente bontà, è stato un punto solo.

“La messa era al Sanctus. Mi sono inginocchiato. Alla consacrazione mi copersi il viso con le mani e mi vidi, veramente mi vidi scritte nel palmo delle mani cinque parole, proprio le parole che da giovinetto, nei miei fervori mistici, quando mi figuravo di morire, avrei desiderato leggere sulla parete in faccia al mio letto: MAGISTER ADEST ET VOCAT TE.

“Le vedevo grandi, bianche sopra un fondo nero. Poi, verso la fine della messa, stando sempre inginocchiato e con gli occhi coperti, mi successe questa cosa terribile: ebbi la visione istantanea, fulminea della mia vita nel futuro e della mia morte. Se chiudo gli occhi la vedo ancora! O mi dica, mi dica, don Giuseppe, ho sete di darmi tutto a Dio, ma debbo proprio credere che la visione mi viene da Lui, che significa la sua volontà? Perchè se credo è un comando preciso. Si tratta per ora di una rinuncia completa e, più tardi, quando Iddio vorrà, di una responsabilità gravissima da impormi, di un'azione personale straordinaria da esercitare pubblicamente nella Chiesa. Sì, non è vero? Debbo crederlo!”

“Deve prima di tutto rimettersi l'anima in pace” rispose don Giuseppe. “Deve ringraziare il Signore che La richiama e pregarlo, pregarlo con la maggiore insistenza che La illumini, che Le faccia conoscere la sua volontà con tutta quella certezza di cui è capace la natura nostra, finita com'è nelle sue comunicazioni con la sapienza infinita. Perchè tante volte certa presunzione umana trova modo di mescolarsi a movimenti pii dell'anima nostra e ci induce a scambiare per fatti di origine soprannaturale fatti che derivano invece da condizioni anomale del nostro spirito e del nostro corpo, operati da Dio sempre, perchè Dio opera tutto in tutto, s'intende, con i suoi metodi, per i suoi fini imperscrutabili, ma fatti non diretti a farci conoscere la sua volontà. Vede...”

Qui don Giuseppe parve esitare per un certo imbarazzo e la sua voce diventò più tenera: “... non domandiamo noi al Signore che ci conservi la Sua Elisa? Pensi, questa grazia, quanto deve influire sulla Sua vita, se ci è fatta o non ci è fatta!”

“Oh sì, sì, Dio mio, è vero, ma la visione l'ho avuta!”

“Ma sì, ma sì!” fece don Giuseppe. “E il Signore potrà confermarla. Intanto vi hanno cose che egli sicuramente vuole: rimetterle tutto il Suo debito, piccolo o grande che sia...”

“Grande, grande, grande!” interruppe il giovine, desolato.

“... essere conosciuto e amato da Lei come una volta, meglio di una volta. Forse ha qualche altro gran dono in serbo per Lei. Preghiamo e speriamo! E adesso andiamo a consolare quella poveretta, non è vero? Andiamo a dirle che le sue preghiere sono state esaudite!”

Piero si recò alle labbra una mano, riluttante, del vecchio:

“Vada Lei, vada Lei” rispose. “Glielo dica Lei, adesso!”

Il chierichetto entrò per avvertire don Giuseppe, a nome del parroco, ch'era vicina l'ora fissata per l'amministrazione dell'Olio Santo all'inferma. Piero uscì dalla sagrestia sentendo che don Giuseppe inclinava a prender le sue visioni per effetti di una sovreccitazione nervosa, per apparenze vane. Malgrado se stesso, ne soffriva. Mentre don Giuseppe gli aveva esposte quelle considerazioni prudenti, aveva dubitato anche lui. Poi l'anima sua si venne lentamente componendo in una pace piena di certezza, come acque agitate posando poco a poco fermano in sè le immagini delle cose imminenti.



VI


Il sacramento è amministrato, il male precipita, l'inferma non parla più, la speranza terrena esce a capo chino dalle camere silenziose, le speranze celesti entrano solenni e soavi, annunciando col dito alle labbra un angelo vicino, spirando pace e mansueta riverenza persino alle cose. In ogni volto è una compostezza grave, nulla si domanda più ai medici, essi pure hanno in viso il rispetto del mistero; don Giuseppe legge, presso al letto, parole sante, non si ode altra voce, neppure si osa piangere. Di fronte alla morente, all'arcano che si compie su quel letto, alla solennità delle sante parole, solo grandeggia la madre. Hanno studiato di prepararla, le hanno detto vagamente il presentimento della figliuola, tacendo l'ora; ed ella, come se non volesse sapere o se già sapesse, neppure volse a chi le parlava i suoi grandi occhi neri sgomenti e severi, fissi nella divina Volontà. Ha risposto in piedi, piegata sulla spalliera di una seggiola, alle preghiere del rosario che don Giuseppe disse nel salottino. Nessuna parola le esce più di bocca, non si move ad atti di dolore mai. La prima volta nella sua vita siede per lente, interminabili ore allo stesso posto e i medici, l'infermiera la guardano di tratto in tratto come un'augusta cosa, evitando di passarle troppo vicino e nel passare piegano la fronte.

L'inferma non parla più ma comprende ancora. Ha compreso dolcissime parole di letizia che don Giuseppe, subito dopo il sacramento, le ha dette all'orecchio; ha sorriso, ha cercato Piero con lo sguardo, lo ha visto ritto là, le povere labbra si agitarono a più riprese per parlare, non lo poterono; gli occhi allora dissero tutto, la gioia, la tenerezza, persino un umile ossequio; si alzarono al cielo; ridiscesero; ancora le povere labbra si mossero invano. E a don Giuseppe, che lo guardava, il viso di Piero apparve trasfigurato, non dal dolore, da un'energia spirituale sovrumana, luminosa e muta.

Le ore passano lente, interminabili, brevi soste interrompono il cammino della morte, i medici tentano qualche penosa inutile difesa; Piero li prega con autorità che lascino il bramoso spirito uscire in pace. Vengono lettere, vengono telegrammi chiedenti notizie, bene auguranti, nè la marchesa nè Piero li voglion vedere, son messi da parte. Viene dalla stazione, alle cinque di sera, il fattore di casa Scremin col pretesto di prender notizie, in fatto perchè pensa che se la signora muore si avrà bisogno di lui. Domanda se si debba trattenere. Si trema, si evita di guardarsi, non si risponde. Quegli si ritira senza richiamo nè saluto ed è il Direttore che gli dice di restare, di aspettare all'albergo. Suonano le sei. Coloro che sanno pensano:

"Forse un'ora, forse due, forse tre ancora, non più.'

Il Direttore insiste perchè la famiglia e don Giuseppe prendano qualche cibo ch'egli ha fatto preparar loro nel suo proprio quartiere. Don Giuseppe e il marchese si fanno portar qualche cosa nel salottino; Piero e la marchesa non si muovono dalla camera. Suonano le sette. Forse due ore ancora.

Per le finestre spalancate si vedono spegnersi nel settentrione ad una ad una le cime accese delle montagne, salire l'ombra.

Le campane della chiesetta vicina, della città lontana, suonano l'Ave Maria della sera e posano. Stelle, stelle, stelle si accendono in oriente. La campana della chiesetta ricomincia a suonare, suona ad agonia.

Sono le otto e cinquanta minuti. Don Giuseppe recita ad alta voce le preghiere per i moribondi, accosta e riaccosta il crocifisso alle labbra smorte della travagliata che non ode, non vede più, tutti della famiglia e suor Eletta pregano ginocchioni, l'angelo di Dio entra. Si fa un silenzio sepolcrale, è udito il passo di un viandante, un canto lontano nei campi. Il medico si china sul volto più bianco del guanciale ove posa, illuminato da un sorriso, semiaperta la bocca e immobile; guarda don Giuseppe, tacendo. Don Giuseppe si china pure, giunge le mani, si rialza, dice con voce sommessa, devota come all'altare:

“Non è morte. E` lume di vita eterna.”

Un solo fiore non perdette per lei l'ora sua breve, la madre non ne volle sul letto funebre.



VII


Verso mezzanotte, in uno stanzino dell'albergo ammorbato di muffe, al lume di una candela di sego, Piero e don Giuseppe ragionavano insieme, a bassa voce, della morta, dell'occulto tesoro spirituale ch'era stato in lei.

“Aveva in questo la natura di sua madre” disse Piero.

Allora don Giuseppe sospirò.

Stette per qualche momento immobile e muto, quasi a considerar mentalmente la madre mirabile, e poi si levò di tasca un astuccio, dicendo che gli doveva consegnare qualche cosa da parte di lei appunto. Tempo addietro, quando era venuto dal manicomio quel s'ofro pieno di angoscia e di speranza, la marchesa aveva segretamente incaricato don Giuseppe di far incidere in una medaglia d'oro parole appropriate a un dono che l'Elisa risanata ne farebbe, in memoria del beneficio divino, al marito. Partendo al richiamo del Direttore ell'aveva preso con sè, come un augurio, la medaglia che ora don Giuseppe era per consegnare in nome di lei a Piero come una reliquia. Sopra una faccia della medaglia si leggevano, in giro, le parole di Cristo:

VENITE AD ME OMNES QUI LABORATIS ET ONERATI ESTIS ET EGO REFICIAM VOS.


Sull'altra era inciso, nel mezzo:


REFECIT NOS

ME REDDIDIT TIBI

ET TE MIHI.


Piero prese la medaglia e, leggendovi le parole di Cristo, mise una esclamazione, come nella sagrestia della chiesetta l'aveva messa don Giuseppe udendo da lui che il caso gli aveva posto sott'occhio quelle stesse parole. Le considerò a lungo e, abbracciato il venerando vecchio, lo pregò di farvi aggiungere qualche cosa, una cosa ch'egli stesso aveva detto.

“Vorrei” soggiunse “che si leggesse così:


REFECIT NOS

ME REDDIDIT TIBI

ET TE MIHI

IN LUMINE VITAE”.


Stavolta fu don Giuseppe che cinse d'un braccio il collo del giovane, teneramente.

“E sa la mamma” disse Piero dopo un lungo silenzio “dove sarà portata?”

“Lo sa.”

“Quando crede che partano i miei suoceri?”

“Domattina alle cinque. Partiamo insieme.”

“Oh, don Giuseppe, don Giuseppe!” esclamò Piero. “Io ho bisogno di Lei!”

“Posso restare fino alle undici” disse don Giuseppe “o anche fino alle quattro.”

“No, no! Ho bisogno ch'Ella venga in Valsolda con me. Con me e con lei! Ne ho bisogno per cominciare quello che Iddio mi comanda!”

“Bisogno di me?” Don Giuseppe esitava.

“Non ho dubbi, ora, sa” disse Piero interpretando quell'esitare appunto come un dubbio circa il carattere delle sue visioni, della sua vocazione.

“Ma se non son buono a nulla! Se non ho nè attività, nè testa, nè...”

Don Giuseppe s'interruppe. La mano del Signore pareva essere su quel giovane, adesso. Poteva il più guasto, il più misero strumento dire a una tal Mano: "Con me tu non farai niente'? Le sue proteste finirono in un borbottamento di parole rotte come la sua resistenza. Intanto nè lui nè Piero si erano accorti di un reiterato bussare. La persona che bussava, non ottenendo ascolto, aperse l'uscio. I due si alzarono in piedi; entrava la marchesa, curva e nera, col cappello in testa, col velo calato. Come? Adesso, partiva? Sì, avevano pensato, suo marito e lei, per tante ragioni, di rinunciare alla ferrovia, di prendere una carrozza.

Si poteva così partire subito, arrivare a casa prima del sole. Detto questo con voce grave, ma tranquilla, sedette e tacque, ansando. Don Giuseppe sentì che la sua presenza in quel momento non era opportuna, uscì silenziosamente.

Piero s'inginocchiò ai piedi della suocera, le prese una mano, se la strinse sulla bocca, ed ella gli posò sul capo, ansando un po' più di prima, l'altra mano, il muto suo perdono, la sua muta benedizione, la sua muta carezza nel nome della figliuola morta. Tutto quello che i due avevano a dirsi fu detto così, a lungo, a lungo, senza voce, senza moto. La vecchia signora non avrebbe voluto parlare altrimenti.

Finalmente anche per liberarsi dal timore che parlasse lui, che toccasse il passato, l'argomento abborrito, gli consigliò di andar a riposare.

“Avrai il viaggio” diss'ella.

Intendeva il viaggio in Valsolda con la salma, il viaggio che non era possibile prima di altre ventiquattr'ore almeno. Ma Piero non si mosse. Pareva pure attenderla, una parola, o forse volerla dire. La marchesa cercò ritirar la mano ch'egli stringeva fra le proprie e poichè la sentì trattenuta, suppose uno spasimo di dolore, disse teneramente che certo il Signore aveva disposto così per il maggior bene.

Ma Piero non voleva liberarle la mano. Ell'attese un poco e poi gli osservò, esitando, ch'era forse venuto per suo marito e per lei il momento di partire.

Piero non lasciò la mano. La marchesa pensò che per il giovane ella era come una parte sopravvissuta della sua Elisa, che doveva riuscirgli amaro di separarsi da lei ora, per questo. Gli domandò quando sarebbe ritornato; e subito, senza confessarne a se stessa il pauroso perchè, si affrettò a soggiungere che sarebbe andata lei a trovarlo in Valsolda. Prima disse pietosamente: “A trovarvi”. Poi si corresse: “A trovarti”. E parlò di un'epoca lontana, del novembre, ammettendo che l'assenza di lui si protraesse anche più in là.

“Una parola, mamma. Non so quando ci rivedremo.”

“Come?”

Piero si rizzò in piedi e appoggiate lievemente le mani alle spalle di lei, le parlò sottovoce all'orecchio.

Ella, sulle prime non comprende, interroga. Non comprende ancora e da capo interroga. I grandi occhi neri si empiono di stupore, di sgomento e, finalmente, di lagrime. Qualche altra domanda, qualche breve sommessa domanda; egli le parla, le parla all'orecchio, le lagrime sdrucciolano sul volto rugoso.

Una domanda ancora.

“Dove?”

Egli ancora non risponde.

“Hai parlato a don Giuseppe?”

“Sì.”

Sonagliere di cavalli al piccolo trotto, lontane; crescente suono di ruote e di zoccoli sul ciottolato: rallentar del trotto e del fracasso fin sotto la finestra; silenzio.

“Allora” dice alzandosi la marchesa “vederti, mai più?”

“Questo lo sa il Signore.”

Oh, anche per lei, anche per lei, adesso, Piero era come una parte di Elisa! Si asciuga gli occhi, il fazzoletto le trema nelle mani, povera creatura. Abbraccia suo genero così stretto che di questa cosa tanto nuova egli ha una commozione infinita. Passi sulla scala.

Il marchese che viene in cerca di sua moglie. Ella riprende subito il ferreo dominio di sè, si richiama al dovere verso il marito, quale lo ha sempre inteso. Mormora:

“Non dirlo al papà, povero papà.”

Zaneto entra.



VIII


Don Giuseppe si meravigliò molto, ritornando nella sua camera, di trovarvi il Direttore del manicomio che lo aspettava. Aveva un discorso riservatissimo, delicatissimo, a fargli. Don Giuseppe non sapeva immaginare di che potesse trattarsi.

“Lo faccio a Lei” disse il Direttore “per il concetto che mi son fatto di Lei in questi due giorni e perchè proprio non mi son sentito il coraggio di farlo agli Scremin in questo momento, nè forse sarebbe mai stato opportuno. Mi dica, don Giuseppe; cosa pensa Lei di Maironi!”

“Io?”

Don Giuseppe, sbalordito, si domandò il perchè di una domanda simile.

“Non so” diss'egli. “Penso che ha sentito molto questo colpo, molto più, forse, di quanto si sarebbe potuto credere.”

“E niente altro?”

Possibile, pensò il prete, che sappia delle visioni? No, non è possibile. “Niente altro” diss'egli.

Il Direttore sospirò e don Giuseppe gli domandò cosa fosse nel suo pensiero.

“Nel mio pensiero” rispose quegli “vi è che bisogna portar via quell'uomo il più presto possibile, e poi non abbandonarlo a sè.”

“Perchè?”

Don Giuseppe non riusciva ancora a capire.

“Perchè, a mio vedere, le sue disposizioni di spirito sono tali da non escludere la possibilità, lo dico chiaro, che un giorno o l'altro egli prenda qui il posto lasciato da sua moglie.”

Don Giuseppe mise un'esclamazione di stupore e di protesta, ma il Direttore non ne fu scosso.

“Senta” diss'egli “Piero Maironi m'interessa da un pezzo, per il mio mestiere, e, quando veniva qui spesso, l'ho studiato molto. Non dico che sia un nevrastenico, ma insomma, lasciamo i termini scientifici da parte, è un nervoso per eccellenza. Quando veniva più spesso, io, studiandolo in certi suoi fervori religiosi, perchè ne ho avuto prove anche qui nella nostra chiesetta interna, in certe intolleranze di ogni minima parola un po' libera, in certi atti strani come il costante suo rifiuto di visitare il riparto delle pazze, mi sono formato un concetto di lui come di un uomo pio, austero, ma non fatto per il celibato, che soffrisse della sua forzata separazione dalla moglie e ne soffrisse tanto da poterne avere il sistema nervoso profondamente offeso. Poi, avendo udito parlare di una relazione, pensai - mi perdoni, parlo da medico - che forse tutto il male non veniva per nuocere. Ma oggi qui è successo qualche cosa che mi ha fatto paura. Stamattina fra le dieci e le dieci e mezzo, forse Loro non se ne sono accorti, Maironi è andato nella nostra chiesina dove credeva che non ci fosse nessuno, mentre invece in sagrestia v'era un inserviente. Ora l'inserviente gli ha veduto fare delle stranezze gravissime, gemere, guardar il Crocifisso con una faccia di allucinato. Lei mi dirà che anche i santi facevano cose simili. Io rispetto i santi, non voglio discutere nemmeno santa Teresa; ma crede Lei che ve ne siano ancora, santi? Ne dubito! Adesso vi è l'isterismo e vi è la manìa religiosa. Per me, quelli di stamattina erano atti di manìa religiosa; può darsi benissimo che restino sempre dentro certi limiti di tempo e di misura, ma può anche darsi che progrediscano.

E adesso Lei capisce la ragione del mio discorso. Credo proprio di aver compiuto un dovere.”

“Eh!” fece don Giuseppe, tristemente, a capo chino, come persona che in materia grave non ha nè può avere la certezza desiderata, ma inclinerebbe a un'opinione diversa da quella che lo fa pensoso: “Grazie”.

L'altro prese congedo.



IX


Finito di recitare il rosario col marito, consigliatogli di prender sonno se poteva, accomodatogli il suo scialle sulle ginocchia, la povera vecchia marchesa si rincantuccia in un angolo della vettura chiusa e prega tuttavia. Prega per l'Elisa benchè non dubiti che sia in paradiso; e prega perchè Piero non s'inganni, perchè maturi una risoluzione che a lei pare quasi pazza. E pensa, pensa questa cosa incredibile, pensa che ne scriverà a don Giuseppe. La sua mente va mulinando disegni di avvenire per il genero, per il marito. Se lei morisse e Zaneto restasse solo! Lo colloca nella sua villa, colloca Piero nel quartierino ch'era disposto per l'Elisa, ordina la loro vita, fa e disfà combinazioni senza fine, ordisce, pure senza fine, sottili fila di complicati disegni che il vento notturno disperde, secondata dall'eguale monotono trotto dei cavalli, dalle scosse cadenzate delle sonagliere, che paiono battere anch'esse una via senza fine, senza fine.



X


Poco prima di quella stessa mezzanotte, Jeanne esce quasi furtivamente dal salotto di villa Cerri dove il maestro e una violinista fortissima suonano un turbinoso allegro che va, per le finestre aperte, ai boschi e ai prati della montagna. Esce nelle tenebre fredde, si appoggia alla sbarra che corona il bastione semicircolare sulla fronte della villa. Non sa perchè Piero sia partito; sa che non ha scritto poi, che non vorrebbe più amarlo e invece non può amare altro al mondo, non può pensare ad altro. Si china verso l'abisso profondo e piange. Sente ch'è finito, che quell'ultimo baleno di passione è passato invano, più nei sensi che nel cuore di lui. Si dice che forse potrebbe riconquistarlo simulando una conversione, ma che il morire le sarebbe possibile, il mentire no. Dalla nera valle ai suoi piedi risale con lo sguardo l'opposta montagna fino al cielo, trova una fascia di nebbione, l'aperto sereno e le stelle. Da fanciulla credeva in Dio. Sarebbe un dolce rifugio, adesso! Ma come credere in Dio? Come da esseri così mobili, così miseri, così effimeri può essere fondato un Assoluto così grande? Come può essere Dio altro che un desiderio di quello che a noi manca? E se veramente Dio esistesse anche solo come quell'assoluta giustizia di cui Maironi è diventato fanatico, non si dovrebbe vedere questa giustizia in tutto che non dipende, neppure in parte, dalla volontà umana, in tutto che dipende da lei sola? E invece dov'è? Perchè dovrebbe soffrir tanto, lei? Questo amore, se lo è forse dato?

Il pezzo è finito ed ella si ricompone quanto può, rientra, chiede distrattamente:

“Che musica è?”

Suo fratello si scandolezza. Come non ha riconosciuto il primo allegro della Kreutzersonate?

“Lo chiamano un allegro” soggiunse. “Io lo chiamo un impasto dei dolori di due anime, quella del piano e quella del violino, dolori che sono necessari per far nascere una cosa grande.”

“Mi pare” osserva timidamente la signora Cerri parlando a Jeanne “che qualche volta succeda così anche nella vita. Non ti pare?”

Jeanne tace.




CAPITOLO OTTAVO


SENZA TRACCIA


I


Da tre giorni la gracile spoglia dello spirito asceso alla Vita posava dentro il piccolo cimitero bianco fra le viti, gli ulivi e gli allori della terra gentile, poco sopra lo specchio del lago. La notte cadente era inquieta. Raffiche alternate a lunghi silenzi delle cose suonavano sul lago, per le rive, per gli oleandri e i rosai dell'orto Maironi, chini sulle onde; rombavano nel pino a ombrello sopra la panca dove Piero e don Giuseppe stavano a colloquio, curvavano le sottili aste nere dei cipressi allineati a monte dell'orto, lungo il muro di cinta. Il chiarore della luna traspariva per un latteo drappo di nuvole, teso dai profili morbidi della Galbiga e del Bisgnago alle rupi selvagge del picco di Cressogno e alla fronte uniforme del Boglia; e talvolta ne traspariva un momento la stessa velata immagine dell'astro, imbiancando la neve degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia del viale, l'alto fianco della chiesetta di Oria, il vecchio rustico campanile imminente all'orto. Era una notte inquieta nel cielo come sulla terra; e anche il colloquio sotto il pino era interrotto da silenzi pieni di aspettazione, agitato da repentini soffi dello Spirito, illuminato da qualche cosa di nascosto che ora traspariva ora si ritraeva. Don Giuseppe di tratto in tratto pareva accasciato sotto un gran peso, oscurato nell'anima; di tratto in tratto si trasfigurava, si rialzava tutto acceso la gran fronte, gli occhi, l'accento, il gesto. Il contegno di Piero era invece costantemente grave; il fuoco de' suoi occhi ardenti pareva più interno, le parole avevano un che di pacato e di fermo, affatto nuovo in lui. Sempre, quando tacevan le cose, don Giuseppe era il primo a rompere il silenzio in cui egli e Piero si accordavano quando esse rumoreggiavan più forte nel vento. E allora era quasi sempre una specie di soliloquio che gli usciva di bocca, un cruccioso ritorno del pensiero alle difficoltà di certo còmpito accettato irrevocabilmente, oramai. Cinque ore prima, mediante un atto rogato dal notaio di Porlezza, Piero gli aveva ceduto tutti i suoi beni; e la intelligenza fra loro era che don Giuseppe si sarebbe associate certe persone già designategli, le quali lo avrebbero aiutato a istituire una specie di Cooperativa di produzione agraria, capace di estendersi e aperta, entro certi limiti, ai volonterosi, nella quale la terra, considerata come uno strumento di produzione, finirebbe col diventare proprietà sociale e le norme statutarie avrebbero un carattere cristiano, cosicchè il fine cristiano dell'associazione compenetrerebbe in sè, dominandolo, il fine economico. Se l'esperimento non venisse approvato dai consiglieri di don Giuseppe o non riuscisse, la sostanza mobile e stabile verrebbe divisa in lotti, che si assegnerebbero prima in usufrutto e, dopo un certo periodo di prova, in proprietà, a famiglie scelte di contadini. Quest'ultima disposizione era stata suggerita da don Giuseppe che solamente così si era indotto ad accettare la cessione e l'incarico di un esperimento nel quale non aveva fiducia. Se Piero non lo aveva ben fatto persuaso della opportunità di creare un tipo di associazione aperta, dentro i limiti del possibile, dove il capitale sociale fosse essenzialmente la terra, lo aveva però fatto persuaso, col tranquillo vigore del ragionare e con la gravità del contegno, che l'intelletto suo era ben solido e fermo.

Gliene aveva dimostrato l'acume sereno anche con lo scrupolo espressogli che questo suo disporre dei beni ceduti per date opere fosse un trattenerne indebitamente la proprietà ideale; ciò che in coscienza don Giuseppe non aveva potuto ammettere.

“Mi perdoni” uscì a dire il vecchio prete “se ardisco farle una domanda indiscreta. Nella Sua visione, c'era questa idea?”

Mai non si era accennato fra loro alla visione dopo il giorno doloroso e solenne. Nè don Giuseppe si era più avventurato a parlarne, nè Piero vi aveva alluso.

“No” diss'egli “quest'idea è frutto di un lungo lavoro mentale e si è ora come rinvigorita in me di sentimento cristiano perchè io penso che realmente la confisca della terra a beneficio di pochi sia una cosa ingiusta e che se si formassero dei nuclei così ordinati sarebbero elementi di risanamento sociale. Ma per me si tratta solamente di dare il mio ai poveri non a caso, di darlo secondo un'idea di giustizia. Ho avuto in mente un mese fa di spogliarmi, senza sentimento religioso, per una giustizia particolare, come Le ho raccontato. Adesso comprendo che non era ragionevole e che faccio meglio a spogliarmi per una giustizia generale. La visione non riguarda che il mio avvenire dopo la rinuncia.”

“Mi pare” osservò don Giuseppe, timidamente “ch'Ella mi accennasse a due parti distinte della visione.”

“Sì” rispose Piero “ma nella seconda parte...”

Rumori di remi e di voci. Una barca si appressava, passò lenta sotto il muro dell'orto. Ritornato il silenzio, Piero cinse d'un braccio il collo a don Giuseppe.

“Mi perdoni” diss'egli “preferisco non parlarne. Intendo della mia visione. Me ne sento anche indegno!”

“Una sola parola: Ella persiste a crederla soprannaturale?”

“Quello che m'appare oggi è che la visione sia soprannaturale in quanto si accorda con certe voci misteriose che mi hanno parlato di tempo in tempo, una volta; e in quanto mi addita una via di povertà, di penitenza e di preghiera. La credo anche soprannaturale in quanto mi addita un'azione futura, esterna. In quanto invece mi preannuncia dati avvenimenti, io non presumo niente, accetterò dalla mano di Dio quel ch'Egli vorrà. Ho però creduto debito mio di scrivere la visione. Sta già in un plico suggellato ch'Ella custodirà perchè si apra dopo la mia morte.”

Don Giuseppe sorrise, fece un gesto come per dire ch'egli morrebbe certamente prima.

“Ella sceglierà, in ogni caso” soggiunse Piero “la persona fidata che lo apra.”

Le ombre che il nome della morte sempre vapora, le ombre di un immaginato avvenire, solenne e tragico, avvolsero i seduti. Don Giuseppe venne ripensando e comparando certe parole dettegli da Piero subito dopo la visione, certe parole del colloquio presente. A quale missione nella Chiesa di Dio poteva essere chiamato quel giovane? Gli sorgevano nella mente profonda tante supposizioni diverse, vi si levavano tanti dubbiosi desideri antichi circa una riforma cattolica della Chiesa, non espressi mai chiaramente ad alcuno, forse neppure chiaramente concepiti, anche per impedimenti di ossequio e di umiltà. Uno stormir fischiante corse per la costa, uno strepito per le rive, una veloce ombra nera sul lago, cui l'alto fragore del pino rispose; e in pari tempo uscì la luna curiosa, irradiando le nevi degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia dei viali, l'alto fianco della chiesa, il rustico campanile imminente all'orto.

Nel pensiero profondo di don Giuseppe disposto alle intime comunioni con la natura come alle intime comunioni con Dio, il dramma del vento, della luna e delle onde, il dramma di quell'anima, prima oscurata dalle passioni, ora misteriosamente illuminata dallo Spirito, si confondevano, si compenetravano in uno solo.

Qualcuno entrò nell'orto. Il custode veniva a dire che le chiavi del camposanto, richieste dal signor padrone, erano state portate in casa e che vi era pure stato portato per lui da S. Mamette un pacco postale.

Passando, nell'avviarsi verso casa, presso il vecchio rosaio dalle rose incarnatine, Piero si fermò.

“Le lascerò scritto anche questo” diss'egli “ma Le raccomando pure a voce che le suore abbiano ogni cura degli oleandri che sono ancora quelli piantati da mio padre, delle rose e particolarmente dell'arancio e del mandarino, nel giardinetto.”

La villetta dove Franco e Luisa avevano tanto amato e sofferto, dove la epica bontà, la serenità magnanima dello zio Piero eran passate beneficando, dove la piccola Ombretta era morta, avrebbe accolto le suore convalescenti di un Ordine scelto da don Giuseppe, con una scuola di lavoro e di economia domestica per le giovinette del Comune di Albogasio.

“Ella potrà tenersene informato” suggerì don Giuseppe. Il giovane, per tutta risposta, si chinò, posò le labbra sopra una rosa.

“Ah, don Giuseppe” diss'egli uscendo dall'orto “quanto posso dire al Signore: quaerens me sedisti lassus! Quante volte non mi ha richiamato e io mi ostinavo a perdermi! Anche con la Sua cara ultima lettera! E` stato perchè tutto io debba riconoscere da Lui e niente, proprio niente, da me.”



II


Il pacco venuto dalla posta era in sala. Piero lesse sul timbro, accostandolo al lume: VENA DI FONTE ALTA.

Lo posò e, prese le chiavi del Camposanto, disse a don Giuseppe che usciva per alcuni minuti. Rincasando, lo troverebbe alzato? Don Giuseppe si sentiva stanco e desiderava scrivere una lettera prima di coricarsi. A proposito di questa lettera: che intenzione aveva Piero? Don Giuseppe avrebbe desiderato partire presto e intanto annunciare il suo arrivo.

“Faccia come crede” rispose Piero “scriva come vuole.”

Il vecchio riguardoso amico non osò domandare più in là.

Piero si avviò soletto al Camposanto. Il vento e il lago tacevano. Colonne di cipressi, frondose vette di ulivi, fronti di montagne nereggiavano sull'eguale albore del drappo sottile di nuvole. Il sentiero, il pendìo erboso a sinistra, i campicelli a destra lungo l'acqua dormente eran grigi di luna velata. Per via Piero non incontrò anima viva. Sugli scalini del Camposanto, presso il cancello, era inginocchiato un vecchione cencioso che, udito Piero salire, si alzò e guardatolo gli disse timidamente con un sorriso d'idiota: “S'era chí a di sü on poo de ben per i me vecc. Lü l'è ben el fioeu de la poera sciora Lüisa? La me n'a faa inscí tanto, del ben, la Soa mamm! L'era ona gran donna!”

Avuta una copiosa elemosina se ne andò zoppicando e borbottando: “Vardè on poo, vardè un poo!”.

Piero aperse il cancello e, scopertosi il capo, entrò. Quasi in faccia al cancello, a sinistra, nel muro addossato al monte stavano quattro lapidi di marmo bianco. Nella prima era inciso:

LA PICCIOLETTA VESTE GENTILE

DI MARIA MAIRONI.



Nella seconda:


INGEGNERE PIETRO RIBERA

GRANDE CUORE PROBO

IN PACE.



La Morte aveva disposto, con le sue discese ordinate, che la bambina soave e il vecchio uso tenerla sulle ginocchia, cantarle “Ombretta, sdegnosa” fossero ancora vicini. Nella terza lapide si leggeva:


A FRANCO

IN DIO

LA SUA LUISA.



Nella quarta:


A LUISA MAIRONI RIGEY

PIERO MAIRONI

IGNARO DELL'ASCOSO MATERNO VOLTO

SOSPIRANDO

POSE

1882



Nella notte chiara i caratteri neri delle epigrafi si leggevano distintamente. A sinistra dell'ultima lapide la terra smossa indicava il riposo della povera Elisa.

Piero s'inginocchiò sull'erba e piegò il viso. Le sue labbra non si movevano, neppure una fibra della persona si moveva. Parve impietrato nella preghiera riverente, nell'attitudine di chi sentisse pendersi sul capo diafane mani benedicenti. Quando alzò il viso la luna era discesa occultamente al tramonto, il campo sacro e le mura si erano oscurate, le quattro epigrafi non si leggevano più, le mani benedicenti si erano raccolte su al loro soggiorno di mistero.



III


Don Giuseppe si attardò a contemplare il lago, le ombre della notte, un lontano lume alle falde del San Salvatore. Quanto, pensava, erano mutati gli uomini in Valsolda, da buon tempo antico e quanto poco le cose! Al tornare di Piero gli porse le mani per una stretta silenziosa che significava: so di dove vieni.

“Lei non ha aperto ancora il Suo pacco postale” diss'egli.

Il custode si offerse di aprire questo pacco e Piero gli disse che facesse pure. Poi, accesa una candela, condusse don Giuseppe nella vicina camera dell'alcova, gli disse che il pacco veniva certamente da “quella persona”. Erano certamente fiori, per il Camposanto. Egli non ve li avrebbe portati, si era interdetto poco prima, nell'orto, di cogliere una rosa per suo padre. Ma desiderava parlare a don Giuseppe della “persona”.

“Credo” diss'egli “che tornerà in principio di settembre a villa Diedo e allora vorrei che Lei la vedesse.”

Entrò il custode con il pacco aperto. Era infatti una scatola di fiori sciolti. Accompagnava i fiori questa sola carta di visita:

CARLO DESSALLE.

Di Jeanne vi era l'anima; e i recisi, moribondi fiori, i ciclami odorosi dei boschi di Vena, i rhododendron di Rio Freddo, gli edelweiss di Picco Astore non dicevano che lei, l'amore, il dolore, la timida offerta, il silenzio di lei.

Piero lesse il biglietto, guardò i fiori, pensoso.

“La carta è di suo fratello” diss'egli, dopo un breve silenzio. “Così Ella potrà presentarsi a villa Diedo per ringraziarlo in mio nome. Ma cerchi di vedere anche lei; meglio se la può vedere sola. Probabilmente questo sarà desiderato da lei stessa. Le dica che lascio i miei amici ma che spero di rivederli nella vita vera e che intanto domando loro perdono del male fatto ad essi, in qualunque modo. Le dica che uscito dal mondo pregherò particolarmente per qualche anima inferma di scetticismo, che, se ponesse in Dio l'amore posto in una creatura, diventerebbe sublime. Gliel'ho detto, don Giuseppe, che se il mio peccato mentale non è stato anche reale lo debbo a lei?”

Don Giuseppe taceva a capo chino, pensoso non di questo difficile colloquio con la signora Dessalle, ma del mistero nel quale Piero chiudeva le sue risoluzioni future. In quale Ordine religioso intendeva egli entrare? Anzi, entrerebbe egli in un Ordine o disporrebbe liberamente la sua vita? Come? Quando? Finalmente si alzarono ambedue, uscirono insieme dalla camera. Mentre si congedavano per la notte il custode chiese a don Giuseppe da parte del parroco d'Albogasio a quale ora desiderasse di celebrare l'indomani mattina. Don Giuseppe guardò Piero come per conoscere il suo desiderio, ma Piero non parlò. Egli rispose allora:

“Alle sette.”

I fiori delle montagne lontane rimasero nella camera dell'alcova, tristi e deserti come la donna che aveva loro spirato in segreto il suo cupo affanno. Così tanti anni prima, in quella stessa camera dell'alcova, si era infuso a recisi moribondi fiori l'affanno cupo di Luisa.



IV


Prima di coricarsi don Giuseppe scrisse alla marchesa Nene la seguente lettera:


Ottima signora Marchesa,

abbiamo deposto la diletta Sua nel campo di riposo che il santo, gentile desiderio di lei nominò. E` stato un momento solenne. Il campo, la gradinata che vi sale, l'angusta via di sotto eran gremiti di gente silenziosa, commossa. Io dissi alla Eletta del Signore poche parole come seppi, nel nome di noi ch'ella precedette nella morte, e nel nome di coloro ai quali ascese come una pia figliuola. Vidi la gente piangere per la pietà di questa giovine sconosciuta che ha scelto il loro umile Camposanto a sua ultima dimora e anche per l'affetto che tutti qui portano ancora alla memoria delle persone che le sono vicine in terra come nel cielo. Il luogo è bello, fra viti e ulivi, presso alla riva del lago. Il cielo sereno, il lago tutto lucente nel vento estivo, il gaio stormir delle frondi parevano dirci di non piangere perchè la nostra morta era nella gioia immensa della visione divina. Ricevetti oggi la Sua lettera. Creda che io stesso accolsi con certa diffidenza l'annuncio del proposito concepito da Suo genero di uscire dal mondo per abbracciare uno stato di assoluta povertà e penitenza; nè penso aver mancato al mio dovere di consigliargli riflessione, preghiere, paziente attesa di una conferma della divina Volontà. Le confesserò pure che forse, posto il suo ingegno, la cultura, la condizione sociale e questo inatteso ritorno alla fede cristiana che Iddio ha occultamente disposto, io avrei desiderato da lui un'attiva partecipazione alla vita pubblica, anche per il bene particolare di questa nostra povera patria. Ho presto conosciuto incrollabile la risoluzione del signor Piero, nè sarei ora sicuro di fare, combattendola, opera buona. Egli è impazientissimo di recarla ad effetto e io accettai ch'egli mi cedesse la proprietà de' suoi beni perchè ne disponessi secondo le sue intenzioni. L'atto fu rogato dal notaio di qui oggi stesso, e il signor Piero mi darà domani in iscritto le istruzioni che mi ha, del resto, già fatto conoscere a voce. Forse domani mi dirà pur qualche cosa circa la sua partenza di qua come circa l'Ordine religioso che avrà scelto. Fino ad ora non ho potuto penetrare affatto nulla. A rigore, neppur potrei asserire ch'egli abbia il proposito di entrare in un Ordine religioso. Comunque sia, le disposizioni del signor Piero, certe sue oscure allusioni all'avvenire che Le riferirò a voce, e sopra tutto il grande dolore, gli eventi mirabili ond'è nato questo mutamento, mi fanno sperare, ottima signora Marchesa, tale un frutto dell'afflizione Sua che Ella ne debba dar lode a Dio per vista come di tutto che Le accade gli dà lode per fede; tale un frutto che dissipi certi giudizi e sospetti e timori circa il carattere del fervore religioso di Suo genero pervenuto sino a me e, secondo la sapienza del mondo, non del tutto infondati nelle parvenze. A fructibus eorum cognoscetis eos. Iddio continui a benedirla di santi pensieri e conservi a noi lungamente chi tanto ci riflette della sua luce e della sua pace. Domani celebrerò in suffragio della Sua Elisa.


Devotissimo Don Giuseppe Flores



V


L'indomani mattina, prima di uscire con la messa, don Giuseppe domandò se il signor Maironi fosse in chiesa, e, udito che no, attese, così parato, alquanto. Finalmente, tardando ancora Maironi a venire, uscì. Rientrato in sagrestia vi trovò il custode il quale aspettò a mala pena che finisse il ringraziamento per dirgli con voce tremante e con faccia turbata di venire a casa subito subito. Cosa era mai successo? Il custode non rispose che quando ebbe chiuso dietro di sè l'uscio di casa. La risposta fu uno scoppio di pianto.

“Ma santo cielo, cosa c'è?” esclamò don Giuseppe, “parlate!”

Impossibile; il pover uomo non riusciva, fra i singhiozzi, a spiegarsi.

“Guardi qua!” diss'egli a stento. E gli porse un biglietto.

Don Giuseppe lo lesse, comprese, non mostrò meraviglia, si fece accompagnare nella camera dove Piero aveva dormito.

Era una cameretta dell'ultimo piano, con due finestre, una a mezzogiorno, sopra il tetto della sala, verso monte Bisgnago, l'altra a ponente, sopra il giardinetto pensile, in faccia allo specchio lungo e stretto delle acque, che va sino a Gandria e al San Salvatore. Ambedue le finestre erano aperte, la pace del lago e delle montagne entrava nella camera vuota. Una valigetta e un soprabito di Piero erano sul cassettone, l'ombrello e il bastone in un angolo, onde a prima giunta don Giuseppe, sorpreso, esclamò:

“Se la sua roba è qui!”

Ma poi trovò sulla scrivania una lettera con questa soprascritta:

Per Lei, don Giuseppe, e Iddio Le renda il bene che mi ha fatto.

Il letto era intatto, don Giuseppe domandò al custode se non avesse udito alcuno scender le scale durante la notte, aprir la porta di casa. No, non aveva udito. In fatto alle sette e mezzo la porta era ancora chiusa. Invece don Giuseppe, alle sei e mezzo, aveva trovato aperto il cancello del giardinetto. Piero doveva essere uscito di là. Don Giuseppe lesse la sua lettera; non vi erano che le istruzioni promesse, la conferma delle intelligenze prese a voce e una busta suggellata, con la scritta: Da aprirsi dopo la morte di Piero Maironi. Il biglietto al custode conteneva un affettuoso saluto di commiato, una lode, un ringraziamento e l'ordine di considerare don Giuseppe Flores come suo padrone. Il custode non sapeva, non capiva niente, temeva un atto disperato per la morte della signora, parlava di far subito ricerche a Porlezza e a Lugano.

“No no” gli disse don Giuseppe, “non temete disgrazie. E` il Signore che lo conduce. Se il Signore vorrà, lo rivedremo. Egli desidera intanto nascondersi al mondo. Rispettiamo il suo desiderio.”

In quel momento il fedele custode tacque, ma poi non si tenne dall'andar cercando le tracce del padrone. Mai non gli fu possibile di trovarne alcuna. Nessuno lo aveva incontrato, nessuno lo aveva veduto, nessuno ne aveva udito i passi. Se mai sia per venire il giorno in cui la occulta via dell'uomo scomparso si riveli, in cui ci si apprenda il perchè di tanto mistero, solo Chi lo ha chiamato alle proprie battaglie lo sa.