Ugo Foscolo

LE ODI



Sollicitae oblivia vitae (Hor. )

Oblio della vita affannosa (Orazio)

A Giovanni Battista Niccolini
fiorentino

A te, giovinetto di belle speranze, io dedico questi versi: non perché ti siano di esempio, ché né io professo poesia, né li stampo cercando onore, ma per rifiutare così tutti gli altri da me per vanità giovenile già divolgati. Ti saranno bensì monumento della nostra amicizia e sprone, ad onta delle tue disavventure, alle lettere, veggendo che tu sei caro a chi le coltiva, forse con debole ingegno, ma con generoso animo. E la sola amicizia può vendicare gli oltraggi della fortuna, e guidare senza adulazioni gl'ingnegni sorgenti alla gloria.

Milano, 2 aprile 1803
UGO FOSCOLO



A Luigia Pallavicini caduta da cavallo



I balsami beati

per te Grazie apprestino,

per te i lini odorati

che a Citerea porgeano

quando profano spino

le punse il piè divino,



quel dì che insana empiea

il sacro Ida di gemiti,

e col crine tergea,

e bagnava di lacrime

il sanguinoso petto

al ciprio giovinetto.



Or te piangon gli Amori,

te fra le Dive liguri

Regina e Diva! e fiori

votivi all'ara portano

d'onde il grand'arco suona

del figlio di Latona.



E te chiama la danza

ove l'aure portavano

insolita fragranza,

allor che, a' nodi indocile,

la chioma al roseo braccio

ti fu gentile impaccio.



Tal nel lavacro immersa,

che fiori, dall'inachio

clivo cadendo, versa,

Palla i dall'elmo liberi

crin su la man che gronda

contien fuori dell'onda



Armonïosi accenti

dal tuo labbro volavano,

e dagli occhi ridenti

taluceano di Venere

i disdegni e le paci,

la speme, il pianto, e i baci.



De! perché hai le gentili

forme e l'ingegno docile

vôlto a studj virili?

Perché non dell'Aonie

seguivi, incauta, l'arte,

ma i ludi aspri di Marte?



Invan presaghi i venti

il polveroso agghiacciano

petto, e le reni ardenti

dell'inquïeto alipede,

ed irritante il morso

accresce impeto al corso.



Ardon gli sguardi, fuma

la bocca, agita l'ardua

testa, vola la spuma,

ed i manti volubili

lorda, e l'incerto freno,

ed il candido seno;



e il sudor piove, e i crini

sul collo irti svolazzano;

suonan gli antri marini

allo incalzato scalpito

della zampa, che caccia

polve e sassi in sua traccia.



Già dal lito si slancia

sordo ai clamori e al fremito;

già già fino alla pancia

nuota::: e ingorde si gonfiano

non più memori l'acque

che una Dea da lor nacque.



Se non che il re dell'onde

dolente ancor d'Ippolito

surse per le profonde

vie dal tirreno talamo,

e respinse il furente

col cenno onnipotente.



Quel dal flutto arretrosse

ricalcitrando e, orribile!

sovra l'anche rizzosse;

scuote l'arcion, te misera

su la pietrosa riva

strascinando mal viva.



Pera chi osò primiero

discortese commettere

a infedele corsiero

l'agil fianco femmineo,

e aprì con rio consiglio

novo a beltà periglio!



Ché or non vedrei le rose

del tuo volto sì languide;

non le luci amorose

spiar ne' guardi medici

speranza lusinghiera

della beltà primiera.



Di Cinzia il cocchio aurato

le cerve un dì traeano,

ma al ferino ululato

per terrore insanirono,

e dalla rupe etnea

precipitàr la Dea.



Gioìan d'invido riso

le abitatrici empie,

perché l'eterno viso,

silenzïoso e pallido,

cinto apparia d'un velo

ai conviti del cielo.



Me ben piansero il giorno

che dalle danze efesie

lieta facea ritorno

fra le devote vergini,

e al ciel salì più bella

di Febo la sorella.



All'amica risanata

Qual dagli antri marini

l'astro più caro a Venere

co' rugiadosi crini

fra le fuggenti tenebre

appare, e il suo vïaggio

orna col lume dell'eterno raggio;



sorgon così tue dive

membra dall'egro talamo,

e in te beltà rivive,

l'aurea beltate ond'ebbero

ristoro unico a' mali

le nate a vaneggiar menti mortali.



Fiorir sul caro viso

veggo la rosa, tornano

i grandi occhi al sorriso

insidïando; e vegliano

per te in novelli pianti

trepide madri, e sospettose amanti.



Le Ore che dianzi meste

ministre eran de' farmachi,

oggi l'indica veste

e i monili cui gemmano

effigïati Dei

inclito studio di scalpelli achei,



e i candidi coturni

e gli amuleti recano,

onde a' cori notturni

te, Dea, mirando obliano

i garzoni le danze,

te principio d'affanni e di speranze:



o quando l'arpa adorni

e co' novelli numeri

e co' molli contorni

delle forme che facile

bisso seconda, e intanto

fra il basso sospirar vola il tuo canto



più periglioso; o quando

balli disegni, e l'agile

corpo all'aure fidando,

ignoti vezzi sfuggono

dai manti, e dal negletto

velo scomposto sul sommosso petto.



All'agitarti, lente

cascan le trecce, nitide

per ambrosia recente,

mal fide all'aureo pettine

e alla rosea ghirlanda

che or con l'alma salute April ti manda.



Così ancelle d'Amore

a te d'intorno volano

invidïate l'Ore.

Meste le Grazie mirino

chi la beltà fugace

ti membra, e il giorno dell'eterna pace.



Mortale guidatrice

d'oceanine vergini,

la parrasia pendice

tenea la casta Artemide,

e fea terror di cervi

lungi fischiar d'arco cidonio i nervi.



Lei predicò la fama

Olimpia prole; pavido

Diva il mondo la chiama,

e le sacrò l'elisio

soglio, ed il certo telo,

e i monti, e il carro della luna in cielo.



Are così a Bellona,

un tempo invitta amazzone,

die' il vocale Elicona;

ella il cimiero e l'egida

or contro l'Anglia avara

e le cavalle ed il furor prepara.



E quella a cui di sacro

mirto te veggo cingere

devota il simolacro,

che presiede marmoreo

agli arcani tuoi Lari

ove a me sol sacerdotessa appari,



Regina fu, Citera

e Cipro ove perpetua

odora primavera

regnò beata, e l'isole

che col selvoso dorso

rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.



Ebbi in quel mar la culla,

ivi erra ignudo spirito

di Faon la fanciulla,

e se il notturno zeffiro

blando sui flutti spira,

suonano i liti un lamentar di lira:



ond'io, pien del nativo

Aër sacro, su l'itala

grave cetra derivo

per te le corde eolie,

e avrai divina i voti

fra gl'inni miei delle insubri nipoti.





A Bonaparte liberatore



Dove tu, diva, da l'antica e forte

dominatrice libera del mondo

felice a l'ombra di tue sacre penne,

dove fuggivi, quando ferreo pondo

di dittatoria tirannia le tenne

umìl la testa fra servaggio e morte?

Te seguìr le risorte

ombre de' Bruti, ai secoli mostrando

alteramente il brando

del padre tinto e del figliuol nel sangue;

te, o Libertà, se per le gelid'onde

del Danubio e del Reno

gisti fra genti indomite guerriere;

te se raccolse nel sanguineo seno

Brittannia e t'ascondea mortifer angue;

te se al furor di mercenarie spade

de l'Oceàno da le ignote sponde

t'invitàr meste, e del tuo nome altere

le americane libere contrade;

o le batave fonti,

o tu furo ricetto

coronati di gel gli elvezi monti;

or che del vero illuminar l'aspetto

non è delitto, or io te, diva, invoco:

scendi, e la lingua e il petto

mi snoda e infiamma di tuo santo foco.



Ma tu l'alpi da l'aërie cime,

al rintronar di trombe e di timballi

Ausonia guati e giù piombi col volo;

anelanti ti sieguono i cavalli

che Palla sferza, e sul latino suolo

Marte furente orme di foco imprime:

odo canto sublime

di mille e mille che vittoria, o morte

da l'italiche porte

giuran brandendo la terribil asta;

e guerrier veggo di fiorente alloro

cinto le bionde chiome

su cui purpuree tremolando vanno

candide azzurre piume; egli al tuo nome

suo brando snuda e abbatte, arde, devasta;

senno de' suoi corsier governa il morso,

ardir li 'ncalza, e de' marziali il coro

Genj lo irraggia, e dietro lui si stanno

in aer librate con perpetuo corso

Sorte, Vittoria, e Fama.

Or che fia dunque, o diva?

Onde tal'ira? e qual fato te chiama

a trar tant'armi da straniera riva

su questa un dì reina, or nuda e schiava

Italia, ahi! solo al vituperio viva,

al vituperio che piangendo lava!



E depor le corone in Campidoglio,

e i re in trionfo tributari e schiavi

Roma già vide, e rovesciati i troni:

re-sacerdoti or con mentite chiavi

di oro ingordi e di sangue, altri Neroni,

grandeggiar mira in usurpato soglio:

siede a destra l'Orgoglio

cinto di stola, e ferri e nappi accoglie

sotto le ricche spoglie,

vendendo il cielo, ai popoli rapite;

sgabello al seggio fanno e fondamento

cataste di frementi

capi co gli occhi ne le trecce involti,

e tepidi cadaveri innocenti,

cui sospiran nel fianco alte ferite

pel fulminar di pontificio labbro;

e misti in pianto e in sangue, atro cemento,

calcati busti e cranj dissepolti

fanvi; e lo Inganno di tal soglio è fabbro:

quindi, al Solopossente

la folgore è strappata,

eran d'Orto terrore e d'Occidente,

e si pascean di regni e di peccata.

Non più. - Dio disse: e lor possa disparve;

pur ne l'Ausonia ancor egra e acciecata

passeggian truci le adorate larve.



Passeggian truci, e 'l diadema e il manto

de' boreali Vandali ai nepoti

vestendo, al scettro sposano la croce;

onde il Tevere e l'Arno a te devoti,

Libertà santa dea, cercan la foce

sdegnosamente in suon quasi di pianto;

e la turrita Manto

offre scampo ai tiranni, e il bel Sebeto

irriga mansueto

le al Vesuvio soggette auree campagne

e ricche aduna a usurpator le messi;

abbevera il Ticino

Ungari armenti, e l'ospitali arene

non saluta il Panaro in suo cammino;

t'ode gridar oltre le sue montagne

la subalpina donna e l'elmo allaccia

e s'alza e terge i rai nel suol dimessi,

ma le gravano il piè sarde catene,

onde ricade e copresi la faccia;

e le a te care un giorno

città, nettunie, or fatte

son di mille Dionisj empio soggiorno:

Liguria avara contro sè, combatte;

e l'inerme leon prostrato avventa

ne' suoi le zampe e la coda dibatte

e gli ammolliti abitator spaventa.



De! mira, come flagellata a terra

Italia serva immobilmente giace

per disperazïon fatta secura:

or perché turbi la sua dolente pace,

e furor matto e improvida paura

le movi intorno di rapace guerra?

Piaghe immense rinserra

nel cor profondo; a che piagar suo petto,

forse d'invidia oggetto,

per chi suo gemer da lontan non sente?

ma tu, feroce Dea, non badi e passi,

e a l'armi chiami, a l'armi,

e al tuon de' bronzi e al fulminar tremendo

e a l'ululo guerrier perdonsi i carmi.

Cede Sabaudia, e in alto orribilmente

del tuo giovin Campion splende la lancia;

tutto trema e si prostra anzi i suoi passi,

e l'Aquila real fugge stridendo

ferita ne le penne e ne la pancia.

Gallia intuona e diffonde

di Libertade il nome

e mare e cielo Libertà risponde:

l'Angel di morte per le imbelli chiome

squassa ed ostende coronata testa:

Libertà! grida a le provincie dome,

del Re dei folli Re vendetta è questa.



Del Re dei Re! - Quindi tra il fumo e i lampi

s'involve in sen di tempestosa nube,

che occupa e offusca di Germania il suolo;

donde precorsa da mavorzie tube

balda rivolge e minacciosa il volo

l'Aquila, e ingombra di falangi i campi;

e par che Italia avvampi

di foco e guerra, di ruina e morte:

né spezzar sue ritorte

osa, né armarsi del francese usbergo.

Ma s'affaccia l'Eroe; sieguonlo i prodi

repubblicano in fronte

nome vantando con il sangue scritto;

ecco d'estinti e di feriti un monte,

ecco i schiavi aleman ch'offrono il tergo

e la tricolorata alta bandiera

in man del Duce che in feral conflitto

rampogna, incalza, invita, e in mille modi

passa e vola qual Dio di schiera in schiera:

pur dubbio è marte; ei dove

più de' cavalli l'ugna

nel sangue pesta, e sangue schizza e piove,

e regna morte in più ostinata pugna

co' suoi si scaglia, e la fortuna sfida

guerriero invitto, e tra le fiamme pugna

e vince; e Italia libertade grida.



E del Giove terren l'augel battuto

drizza a l'aere natio tarpati i vanni

e sotto il manto imperïal si cela:

ma il vincitor lo inceppa, e gli alemanni

colli che borea eternamente gela,

senton lo altero vertice premuto

dal Guerrier cui tributo

offre atterrita dal suo cenno e doma

la pontificia Roma,

dal Guerrier che ad Esperia i lumi terge

e falla ricca de' tuoi puri doni,

o Libertà gran dea,

e l'uom ritorna ne gli antichi dritti

che prepotente tirannia premea.

In vetta a l'Aventin Cesare s'erge

tirannic'ombra rabbuffata e fera,

e mira uscir di Libertà campioni

popoli dal suo ardir vinti e sconfitti,

ond'alza il brando, e cala la visiera...

Ombra esecranda! torna

sitibonda di soglio

ove lo stuol dei despoti soggiorna

oltre Acheronte a pascerti d'orgoglio:

eroe nel campo, di tiran corona

in premio avesti, or altro eroe ritorna,

vien, vede, vince, e libertà, ridona.



Italia, Italia, con eterei rai

su l'orizzonte tuo torna l'aurora

annunziatrice di perpetuo sole;

vedi come s'imporpora e s'indora

tuo ciel nebbioso, e par che si console

de' sacri rami dove a l'ombra stai!

I desolati lai

non odi più di vedove dolenti,

non orfani innocenti

che gridan pane ove non è chi 'l rompa: -

ve' ricomporsi i tuoi vulghi divisi

nel gran Popol che fea

prostrare i re col senno e col valore,

poi l'universo col suo fren reggea;

vedi la consolar guerriera pompa

e gli annali e le leggi e i rostri e il nome!

Come, non più del civil sangue intrisi,

vestonsi i campi di feconde messi

e di spiche alla pace ornan le chiome!

E come benedice

il cittadin villano

tergendo il fronte, Libertà felice!

Come dovizïanti a l'oceàno

fendon gl'immensi flutti onusti pini,

cui commercio stranier stende la mano

sin da gli americani ultimi fini!

Ma de l'Italia o voi genti future, me vate udite

cui divino infiamma

libero Genio e ardor santo del vero:

di Libertà la non mai spenta fiamma

rifulse in Grecia sin al dì che il nero

vapor non surse di passioni impure;

e le mura secure

stettero, e l'armi del superbo Serse

dai liberi disperse

di civico valor fur monumento:

ambizïon da le dorate piume

sanguinosa le mani,

e di argento libidine feroce,

e molli studj, piacer folli e vani

a libertà cangiar spoglia e costume.

Itale genti, se Virtù suo scudo

su voi non stende, Libertà vi nuoce;

se patrio amor non vi arma d'ardimento,

non di compre falangi, il petto ignudo,

e se furenti modi

dal pacifico tempio

voi non cacciate, e sacerdozie frodi,

sarete un dì a le età misero esempio:

vi guata e freme il regnator vicino

de l'Istro, e anela a farne orrido scempio;

e un sol Liberator dievvi il destino.

LA CAMPAGNA

AD AURELIO DE' GIORGI BERTÒLA



Questa Oda fa mandata dal Foscolo al Bertòla con la lettera seguente, e pubblicata con essa dal conte Giambattista Soardi in Rimini (tipografia Alberini, 1854) in occasione di nozze.

"Dalla Motta, 28 maggio 1794.

 " Chi venne ad importunarla ne’ pochi giorni, in cuii Ella si trovava in Venezia, ritorna con le sue lettere a rinnovarle le sue schiette proteste di stima e d’affetto verso il poeta della natura,
 " Io le scrivo dalla campagna dove un giorno dopo la di lei partenza per Rimini me ne venni con gl’Idillj del nostro Gesnero, e col tenero cantore di Laura. Questi riposi, che offre la solitaria libertà, svegliano ad ogni istante entro il mio petto sensazioni, ch’io sento alla lettura de’ campestri prospetti ne’ di lei fogli. Fra gli ondeggiamenti, e le dolcezze di un estro eccitato dalla campagna non dovea forse consacrare al suo pittore i mei canti? non dovea mostrarmi grato a quel vate, che seppe deliziarmi coi gentili suoi versi? Signore, Ella accetti quest’Ode ch’io scrissi due giorni sono fra i boschi, pieno il pensiero ed il cuore di Lei. Possa costei cattivarmi il compatimento dell'evidente cantore delle Odi che respirano i piaceri del rurale soggiorno e della semplice pace.
 " Saranno i caratteri miei d'una risposta degnati? S’anche per la indegnità mia non lo dovessi sperare, l’amabile gentilezza del Bertòla rigetterà offerta d’un giovanotto che tenta onorarlo perchè lo stima.
 " L’indirizzo sia fatto a – Venezia vicino a al campo delle Gatte, - mentre la stagione che a riscaldarsi incomincia mi spinge di nuovo in mezzo ai tumulti d’una inquieta città: inoltre fa d'uopo dirigere ogni lettera a quella parte, perchè ma vi è nè dalla Motta, nè per la Motta sicurezza di Posta. Anch'io presentemente faccio lo stesso.
 " Signore: perdoni dell’ardire mio. La stima che io ho dei di Lei talenti, e l’affetto che credo di dover nutrire per la candidezza di quell’anima, che da’ di lei scritti traspare, mi forzano a sottoscrivermi per sempre di Lei Signore umilissimo e devotissimo servitore

" Niccolò Foscolo ".

 O tu cantor di morbidi
Pratei, di dolci rivi,
Che i verdi poggi, e gli alberi
Soavemente avvivi
Con gli armonici versi
Da fresche tinte aspersi,

 Odi un poeta giovane,
Che il genio che l’ispira
Devoto siegue, e libero
Percote ardita lira,
E co' suoi canti vola
Al suo gentil Bertòla.

 Fra campestri delizie
Tranquillo e lieto io vivo.
E col pensier fantastico
Tra me canto e descrivo
Sì vaghi paeselli,
Che ognor sembran novelli.

 Pingo; ma resto attonito
Allor che su i tuoi fogli
Veggo fiorire, e sorgere
Pianto e marini scogli,
Che sembrano invitarmi
A sacrar loro i carmi.

  Da me s'invola subito
Il mio picciol soggiorno,
E sol veggo Posilipo
E il mar che vanta intorno
Di Mergellina il lido
Ameno più che Gnido.

 Estatici contemplano
Tuoi campi i cupid'occhi:
O come allor nell'anima
Sento beati tocchi,
Che mi dicono ognora:
Sì dolce vate onora.

 Salve, dunque, del tenero
Gesnèr felice alunno!
Il lor poeta adorino
D'aprile e dell'autunno
Le Grazie e i lindi Amori
Coronati di fiori.

 Il lor poeta adorino
Le serpeggianti linfe,
E dai monti scherzevoli
Scendan le gaje Ninfe,
E alternin baci in fronte
Al tòsco Anacreonte.

 Ed io tesso tra cantici
Ghirlandetta odorosa
Non d'orgogliosi lauri,
Ma sol d'umida rosa,
E il capo ombreggio al molle
Abitator del colle.

 E in cor brillante io dico:
Questa dona Natura
Al suo più ingenuo amico,
Ch'ella d'altro non cura:
Da lui schietto-dipinta
Di fior va anch'ella cinta.




A DANTE

 Composta nel 1795 fu pubblicata per la prima volta l'anno seguente nel giornale Mercurio d’Italia storico politico per l’anno 1796.

 Alto rombano i secoli
Su rapidissim'ali,
E dall'aere giù vibrano
Dritti infiammati strali
Che additano agl'ingegni
D'eterna gloria i segni:

 Ma qual nebbia! qual livido
Umor spargon dai vanni
Che in fetida caligine
Attomban nomi ed anni,
E rodono quel serto
Che ombreggia un tenue merto!

 O mio Poeta, o altissimo
Signor del sommo canto,
Che con sublime cetera
Per la casa del pianto
Girasti, e fra la gente,
Che o gioisce, o si pente,

 Tu vivi eterno. - Gloria
Di suo fulgor ti cinse,
Tuonò sua voce; un fulmine
Fu per chi ti dipinse
Testor stentato, oscuro
Di carmi e stile impuro.

 Pèra! La lingua sucida
Costui nutra nel sangue,
E per delfici lauri
Gli accerchi invece un angue,
Sanie stillante infesta,
L'abbominevol testa.

 Dicesti: ed ecco stridono
In suon ringhiante e forte
Gli aspri tartarei cardini:
Della cappa di morte
Infino a' più vestute
Ecco l'Ombre perdute.

 Io già le ascolto: echeggiano
Per l'aer senza stelle
Batter di man, bestemmie,
Orribili favelle,
Voci alte e fioche, accenti
D'ire in dolor furenti.

 O Padre! o Vate! un giovane
Cui l'estro ai cieli innalza,
Che pel genio che l'agita
Fervidamente sbalza
A inerudita cetra
Canti spargendo all'etra,

 A te si prostra: un'anima
Che in sè ognor si ravvolge,
Che in ermi boschi tacita
Fugge dall'atre bolge
Di cittadino tetto,
Gl'irraggia l'intelletto.

 Di sapienza nettare
Fra mie voglie delibo,
E, meditante, ai spiriti
Porgo l'augusto cibo
Che questa etade impura,
Famelica, non cura.

 Muta di luce eterea
Alle peccata in grembo
Fra cupo orror s'avvoltola
L'Umanità: il suo lembo
Spruzzi di sangue stilla,
Ed ella va in favilla.

 Ma ira di giustizia
Lui che può ciò che vuole
Ruggisce in cielo, e scaglia
Di spavento parole;
Vennero i giorni alfine
Di piaghe e di ruine.

 Vennero si; ma sorgere,
Giganteggiando, i nostri
Carmi vedransi, e liberi
Calpestare que’ mostri
Che tumidi d'orgoglio
Siedono ingiusti in soglio.




LA VERITÀ

 Composta nel 1795, fu stampata la prima volta nell’Anno poetico, ossia raccolta di poesie inedite di autori viventi; Venezia, dalla Tipografia presso Antonio Curti; anno IV. 1796.

 Sino al trono di Dio
anciò mio cor gli accenti,
Che in murmure tremendo
Rispondono i torrenti,
E dalla ferrea calma
Delle notti profonde
Palma battendo a palma
Ogni morto risponde.

 D'entusïasmo ho l'anima
Albergo; e sol d'un Nume
Io son cantor: degli angeli
L'impenetrabil lume
Circonda il mio pensiero,
Ch'erto su lucid'ali,
Sprezza l'invito altero
De' superbi mortali.

 E coronar di laudi
Dovrò chi turpe e folle
Splendido sol per l'auro
Sa l'orgoglio s'estolle?
Che dir deggio di lui?
Pria di giustizia il brando
Su' forti bracci sui
Vada folgoreggiando;

 E canterò. Nettarea
Da me non cerchi ei lode,
Se a lutulenta in braccio
Sorte tripudia e gode,
E tra un'immensa schiera
D'insania al carro avvinto
scioglie con sua man nera
A iniquitate il cinto.

 E tu chi sei che il titolo
Santo d'amico usurpi?
E vile d'amicizia
L'aspetto almo deturpi?
Chi sei tu che m'inviti
Di gloria a spander raggio
E a sciòrre inni graditi
A chi in virtù è selvaggio?

 Non sai che santuario
Al ver nell'alma alzai
E che io del vero antistite
Sempre d'esser giurai?
Non sai che mercar fama
Da tal canto non curo,
E più dolce m'è brama
Sul ver posarmi oscuro?

 Vero suonò di Davide
Il pastoral concento,
E a Dio piacque il veridico
Suono, e tra cento e cento
L'unse a' popoli ebrei
Rege di pace, e adorni
D'illustri eventi e bèi
Fe' dell'uom giusto i giorni.

 E immagine d'obbrobrio
Vuoi tu farmi, o profano?
Oh! quell'immonda faccia
Copriti con la mano
Lungi da me: chi fia
Cui faccian forza i detti
Ch'io l'alta cetra mia
Di ricca peste infetti!

 Garrir fole non odemi
L'atrio di adulazione,
E in questa solitudine
Dall'aurata prigione
Fuggo; esecrando il folle
Che blandisce con mèle
Il grande; e in sen gli bolle
Rancor, invidia, e fiele.

 Dunque chi vuol, d'encomio
Canti impudente intuoni
Per lo tuo eroe; ch'io cantici
Fra gli angelici suoni
Ergo al Solopossente,
Che dall'empirea sede
Gl'inni in letizia sente
Di verità e di fede. 80




LA MORTE DI ***

Fu pubblicata la prima volta nel Mercurio d’Italia (ottobre 1796). nella mia prima edizione critica delle Poesie del Foscolo io ne diedi un’altra lezione, certo anteriore, cavandola da un libretto di Lettere inedite di Ugo Foscolo, stampato a Brescia in occasione di nozze nel 1844 dal dottor Uberti. Sono le lettere al Fornasini, con una delle quali, dell’anno 1795, Ugo mandò all’amico suo la poesia manoscritta. L’edizione del Mercurio mi sfuggì. Il Mestica le riprodusse tutte e due. Il Chiarini dà il testo del Mercurio e le varianti dell’altro, nel quale il titolo è così: In morte del duca G.C.

 Odi che il bronzo rimbombando langue,
E l'ultimo momento
Morte si strappa, e sul tuo volto esangue
Stende le man: ... sei spento.

 Urlan le furie accapigliate, e intorno
Stanti con folta notte,
Chè alfine di putredine il soggiorno
Con gli abissi t'inghiotte.

 O tu, folle! sperasti altro compenso
Dall'empietà che teco
Negra impresa di sangue, e volo immenso
Tentò eretta del cieco

 Ardir su l'ali? accumulare i scempi
De' tiranni piú rei,
Non re, sapesti; ma percoton gli empi
Non chimerici Dei.

 Invan gloria sognasti, il grido invano
Tu de' secoli udisti,
Ch'or plausi turpi d'uno stuolo insano
A esecrazion van misti.

 Vincesti? e invan; regnasti? e invan, superbo,
Chè con destra di possa
De' giusti il Dio del tuo comando acerbo
La catena ha già scossa.

 Veggio l'empio seder amplo in suo orgoglio
Qual di monte ombra in campo;
Sublime al par di cedro erge suo soglio;
Ma squarcia l'aer un lampo;

 Tosto il veggio tremar, piombar, sotterra
Cacciarsi al divin foco;
Invan lo sguardo mio cercandol erra,
Nemmen conosco il loco.
 




IL MIO TEMPO

Composta, come la poesia precedente nel 1796, in occasione della monacazione della nobile veneziana Maria Toderini.

 Chi medita fra 'l tacito
Saggio orrore di grotte,
E di Giob su le pagine
Tragge vigile nette,
E chi in ribrezzo fugge
Donde la colpa rugge?

 Guai guai! d'ira e giustizia
Il Lione passeggia,
Le zampe e i labbri insanguina
Entro splendida reggia, 10
E all'universo folle
Un regicidio estolle.

 Tutto imperversa: ingemina
Il nitrir de' cavalli,
Mentre fra bronzi orrisoni
Rimbombano i timballi,
E infuriata guerra
Cittadi sfianca e atterra

 Ma qual candida Vergine
In puro ammanto ascosa
Fra gli orrori dell'eremo
In grembo a Dio riposa,
E il volto ingenuo copre
Rimpetto a orribil opre!

 Vien meco, o Eletta, a piangere
Il soqquadrato mondo,
Ch'ode gli eterei fulmini,
E corre furibondo
A trar suoi giorni eterni
Ne' spalancati averni:

 Vieni; e stringendo in lagrime
L'insanguinata Croce,
A Dio manda fra '1 gemito
Pietosa innocua voce,
Mentr'io per l'erbe intanto
Di terror spargo un canto.

 Vedilo! È Dio che l'aere
Sol con un braccio occupa,
Ed accigliato spazia
Entro tuonante e cupa
Carca di piaghe nube,
Mentre ai fulmini jube.

 Forse avverrà che al flebile
Suono di tue parole
A noi s'apra più splendido
Di sua pietade il sole,
E dall'olimpio trono
Spanda mite perdono.

 Già di sterminio l'Angelo
Su Morte accavalcato
Punìa dell'empia Ninive
Il delitto ostinato;
Già vibrava furente
Su lei brando rovete;

 Ma al suol sparsa di cenere
Penitenza prostrosse,
E squallida di Jehova
L'augusta ira rimosse,
Ed arrestò la mano
Al feritor sovrano.


 


ALTRE ODI

Virginibus puerisque. (Hor.)



I. O versi teneri, volate a Clori

 O versi teneri, volate a Clori,
E se temete, chiamate aita
Dai vanni rapidi di quell'ardita
Schiera d'Amori.
 Spero che i flebili vostri sospiri
Faran che cessi d'esser crudele;
Quanto quest'anima è a lei fedele
Sol da voi miri.
 In volto amabile a me ritorni,
E i novi amplessi, i novi baci
Sien testimonio di liete paci,
'Di dolci giorni.
 Che so gl'ingenui versi ricusa,
Che so del core la preci e i pianti,
D'Amore e Delio ai numi santi
Darolle accusa.
 E certo... Ah ditele che meglio fia
Tornar in braccio a chi l'adora;
Del piacer volasi celere l'ora,
Nè vien qual pria.
 Or siamo giovani, or siam vezzosi,
Dunque si goda: domani dietro
Vedrem sorgiungerci dei tempo tetro
I dì rugosi.
 


II. A DIANA

 Bella ch'osservi degli amanti i scherzi,
E sorridendo, quando tutto dorme,
Gli albi corsieri del tuo carro sferzi,
Diva triforme;
 Spandi nel seno dei cantor pudico
Candido raggio svegliator di modi,
Ch'ei te mirando sopra un colle aprico
Dirà tue lodi.
 Splendi tu dolce nel mio sen qual splende
Della mia Clori la beante faccia,
Che delle Grazie le virginee bende
Al petto allaccia.
 Più di Ciprigna venerabil sei
A me, o possente nel ferir le belve,
Ch'offri riposo del pensieri miei
Nelle tuo selve.
 Possa io mirarti fra le selve care
Quando passeggia con tue ninfe Aprile;
Ch'io ti prometto sul tuo casto altare
Cerva gentile.
 


III. LA GUERRA

 Vinsero gli anni: tu sperasti indarno
Gloria fiammante pel guerriero brando:
Vedila, langue di tuo nome in bando.
E il volto ha scarno.
 Odio chi ammira di Filippo il germe
Ch’ha morte al fianco devastando l'orbe,
Fossa di polve col possente assorbe.
Seco l'inerme.
 Tu cogli, amico, dal giardino umìle
Frutta, ristoro d'indigente brama;
Di gloria nostra degli eroi la fama
Sarà più vile.
 E al mormorante serpeggiar di linfa,
Al molle zirlo d'augellin su i rami
Versi cantiamo che ripeter ami
Tenera Ninfa.
 


IV. LA SERA

 Gentile Nelae, tu al collo candido
Lascia che scendano le chiome d'auro,
E alle mie tempio adatta
Sacro ad Apollo un lauro.
 Al suon armonico di nostre cetere
Vengon su i Zefiri le Grazie tenere,
Che per udir tua voce
Abbandonano Venere.
 Esci dal semplice tetto pacifico,
Dell'igneo Cintio s'ascose il raggio;
E all'umid'ombra siedi
Meco dell'ampio faggio.
 O bianca Nelae, non esser timida,
In ore tacite fra bosco atrissimo
Tu sai ch'io ti favello
Sol d'un amor purissimo.
 Di noi la candida fia testimonio
Luna che tacita irraggia l'aria;
Nè la temer, chè anch'essa
Amò il pastor di Caria.
 Ve' riscintillano nel viso garrulo
Gli astri che fulgidi sembra che ridano,
E perfin gli usignuoli
Par che a noi soli arridano.
 Fanciulla amabile, canta i bei numeri.
Ma qual per l'aere di velo a foggia
Nube si stende? - ah certo
Vicina è a noi la pioggia.
 Presto fuggiamoci dal negro turbine;
Il tempo placido oh corno è instabile!
Ah non vorrei che il fossi
Tu pur, fanciulla amabile.
 
 


V.  Fra soavissimi fioretti

 Fra soavissimi fioretti un giorno
Giaceano Amore e Venere,
E mille Genii stavan d'intorno
E mille Grazie tenere.
 Io con l'eburnea mia cetra al collo,
Scarco di cure torbide,
Passai con l'alma piena di Apollo
Per quelle sedi morbide.
 A sè chiamatomi la gaja Diva,
Con fiamma al labbro e al ciglio,
Disse: Tua cetera canti giuliva
La possa del mio figlio.
 Io pria con giubilo cantai d'Amore
Su gli altri Dii le glorie;
Soggiunsi poscia quai sul mio core
Ei riportò vittorie.
 Si attente stavano le Grazie al canto,
E que' Amorini amabili,
Che s'obliarono d'essere accanto
A' loro giochi instabili.
 Giuro per l'aurea chioma febea,
Che più dell'onda livida
Di Stigo io venero, vidi la Dea
Farsi al cantar più vivida.
 E tu, o Licoride, non mai ti pieghi
De' carmi al suon sensibile,
Invan fra lagrime io canto e prieghi,
Chè sempre so, inflessibile.
 




VI. IL PIACERE

Nox . . . . . . . . . . .

O voluptatis comes et ministra.

(Pontanus)

   

 

 Grazie, arridetemi, riso soltanto
Per noi serpeggi su la mia cetera,
Chè il soavissimo Piacer io canto.
 Coll'estro facile carme gentile
Io vo' tessendo, carme ch'è simile
A un fior ingenuo del gajo aprile.
 Ma il fior ingenuo olezza e muore;
Anche il mio canto sen muoja subito,
Purchè per l'aere dispieghi odore.
 Già posa il candido ritondo braccio
Sopra le coltri sacrate a Cipria,
Braccio che amabile tessuto ha un laccio.
 Co' piedi teneri, o biondi Amori,
No, non calcate quel roseo talamo,
Ma sparpagliatevi fragranti fiori.
 Correte rapidi, fanciulli alati,
Correte dove in danza atteggiano
Le Grazie i morbidi piè dilicati.
 Udite Venere, la Diva udite
Che vel comanda, di qui fuggitevi,
La venerabile Diva ubbidite.
 Restar sul talamo sola desìa,
Della fanciulla che sparge lagrime
Sola vuol vincere la ritrosìa
 O dense tenebre, sì desiate!
Giovane, taci, mi grida Cipria,
Ch'omai s'appressano l'ore beate.
 Taccio: ma l'anima non può tacere,
Tra sè ella canta gli accenti fervidi,
Chè invasa sentesi sol da piacere.
 Qual grato fremito le taciturne
Ombre sussurra, ombre che romponsi
Dal raggio argenteo di membra eburne.
 O tu degli esseri vivo fermento,
Sacro Piacere, per te in quest'anime
Spruzza il tuo nettare, del ciel contento.
 L'aureo Filosofo dall'urna s'alzi,
Bench'ombra cinga le bianche tempie
Di rose, e un cantico egli t'innalzi.
 Per te sol prendono, o bello Dio,
Gli augelli il canto, per te dei Zeffiri
Dolce è all'orecchio il mormorio.
 Sol per te il fervido bel garzoncello
A donzelletta vezzosa ingenua
Rivolge cupido l'amante occhiello.
 Ah! un dì le rosee vèr me tue piante
Volgi, o Piacere, de' Numi invidia,
Sarò beatissimo da quell'istante.
 


VII.  Irene candida

 Irene candida, lascia le piume,
T'affretta a cogliere leggiadri fiori
Or ch'Alba fulgida spande il suo lume
Co' nuovi albori.
 In mezzo agli alberi d'accanto il fonte
Vedrai tu sorgere bei gelsomini;
Li cogli, e adornati del vago fronte
i vaghi crini.
 Mentre innoltravasi col gajo aprile
Soave Zefiro là fur piantati,
Da me alla morbida tua man gentile
Poscia serbati.
 Il graziosissimo tuo cestellino
Empi di mammole e di viole;
Ma, bene badami, sfiora il giardino
Prima del Sol
 Indi, sovvengati, Fanciulla mia,
Che voglio un bacio al tuo ritorno,
Nè vo' che al solito tu me lo dia
Un altro giorno.
 Chè questo amabile giorno mai viene,
E se anche in seguito così faremo,
Gli anni andran rapidi, nè un giorno, o Irene,
Goduto avremo.
 




VIII.   Vassi rapido il tempo

 Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo
Della cadente età tosto succede;
Godiamo, amici: de' piacer lo stuolo
Passa e non riede.
 Assisi a umili ma contenti deschi
Colmiam le tazze di soave vino;
Altri fra l'armi follemente treschi
Col suo destino.
 Audace troppo dell'iniqua corte
Nell'onde si scatena il nembo fosco;
Da noi si cerchi più beata sorte
In mezzo a un bosco.
 Se piange un infelice, il mesto pianto
Tosto da noi si asciughi e si consoli;
Chi non esulta delle Muso al canto
A noi s'involi.
 Bell'è l'Amor, egli al piacer c'invita;
Dunque Ninfa che agli occhi e all'alma piace
Sia della nostra fuggitiva vita
Conforto e pace.
 Vassi rapido il tempo, e al tempo il duolo
Della cadente età tosto succede;
Godiamo, amici: de' piacer lo stuolo
Passa e non riede.
 


IX.  Fanciulletta bella

 Di giovinezza, Fanciulletta bella,
Dal tuo bel petto spira fresco odore,
E da quei labbri con gentil favella
Sol parla Amore.
 Vaga è tua mano; ma più vaga allora
Che a puro bacio facile s'arrende,
E allor ch'ai crini della gaja Flora
Cinge le bende.
 Questi mi detta dolci carmi Apollo,
Se mai t'ascolta, Fanciulletta bella,
Sparger di canti con la cetra al collo
Iblea favella.
 Canta, deh! canta; scenderan da Paffo
Ad ascoltarti con l'orecchie amanti
Quei stessi Amor che della mesta Saffo
Pianser ai canti.
 Io son, diceva, bella Dea di Gnido,
La giovinetta cui Faon non cura,
Per lui sol piango, mentre in ogni lido
Ride natura.
 Madre del riso, dal beante seno,
Me ch'al tuo nume sempre altari alzai,
Me ch'arsi incenso d'inni e laudi pieno,
Or traggo guai.
 Siegui di Lesbo la soave Musa,
Ma scherza, e fuggi lagrimose note,
Giacchè domarti l'almo Dio ricusa,
Perchè nol puote.
 Che val sui fogli con cipiglio tristo
Perdere i giorni che tornar non ponno,
E violare per un vano acquisto
I dritti al sonno?
 Nata agli Amori, le scïeuti carte
Abbandonando, sol la cetra tocca:
Chè di bei carmi la difficil arte
Ti siede in bocca.