Ugo Foscolo
NOTIZIA INTORNO
A DIDIMO CHIERICO
I.
Un nostro concittadino mi raccomandò, mentr'io militava
fuori d'Italia, tre suoi manoscritti, affinché, se agli uomini
dotti parevano meritevoli della stampa, io ripatriando li
pubblicassi. Esso andava pellegrinando per trovare un'università,
dove, diceva egli, s'imparasse a comporre libri utili per chi
non è dotto, ed innocenti per chi non è per anche
corrotto; da che tutte le scuole d'Italia gli parevano piene o di
matematici, i quali standosi muti s'intendevano fra di loro; o di
grammatici che ad alte grida insegnavano il bel parlare e non si
lasciavano intendere ad anima nata; o di poeti che impazzavano a
stordire chi non li udiva, e a dire il benvenuto a ogni nuovo padrone
de' popoli, senza far né piangere, né ridere il mondo;
e però come fatui nojosi, furono piú giustamente d'ogni
altro esiliati da Socrate, il quale, secondo Didimo, era dotato di
spirito profetico, specialmente per le cose che accadono all'età
nostra.
II.
L'uno dei manoscritti è forse di trenta fogli, col titolo:
Didimi clerici prophetae minimi Hypercalipseos, liber singularis;
e sa di satirico. I pochi a' quali lo lasciai leggere, alle volte ne
risero; ma non s'assumevano d'interpretarmelo. E mi dispongo a
lasciarlo inedito, per non essere liberale di noia a molti lettori
che forse non penetrerebbero nessuna delle trecento trentatre
allusioni racchiuse in altrettanti versetti scritturali, di cui
l'opuscoletto è composto. Taluni fors'anche presumendo troppo
del loro acume, starebbero a rischio di parere comentatori maligni.
Però s'altri n'avesse copia, la serbi. Il farsi ministri degli
altrui risentimenti, benché giusti, è poca onestà;
massime quando pajono misti al disprezzo che la coscienza degli
scrittori teme più dell'odio.
III.
Bensí gli uomini letterati, che Didimo, scrivendo, nomina
Maestri miei, lodarono lo spirito di veracità e
d'indulgenza d'un altro suo manoscritto da me sottomesso al loro
giudizio. E nondimeno quasi tutti mi vanno dissuadendo dal
pubblicarlo; e a taluno piacerebbe ch'io lo abolissi. È un
giusto volume dettato in greco nello stile degli Atti degli
Apostoli; ed ha per titolo: Didiémou clhricou Upomnhmaétwn
bibliéa pente: e suona Didymi clerici libri memoriales
quinque. L'autore descrive schiettamente i casi per lui
memorabili dell'età sua giovenile; parla di tre donne delle
quali fu innamorato; e accusando se solo delle loro colpe, ne piange:
parla de' molti paesi da lui veduti, e si pente d'averli veduti: ma
piú che d'altro si pente della sua vita perduta fra gli uomini
letterati; e mentre par ch'ei gli esalti, fa pur sentire ch'ei li
disprezza. Malgrado la sua naturale avversione contro chi scrive per
pochi, ei dettò questi Ricordi in lingua nota a
rarissimi, affinché, com'ei dice, i soli colpevoli
vi leggessero i propri peccati, senza scandalo delle persone dabbene;
le quali non sapendo leggere che nella propria lingua, son men
soggette all'invidia, alla boria, ed alla VENALITÀ: ho
contrassegnato quest'ultima voce, perché è mezzo
cassata nel manoscritto. L'autore inoltre mi diede arbitrio di
tradurre quest'operetta, purché trovassi scrittore italiano
che avesse piú merito che celebrità di grecista. E
siccome, dicevami Didimo, uno scrittore di tal peso lavora
prudentemente a bell'agio e con gravità, i maestri miei
avranno frattanto tempo o di andarsene in pace, e non saranno più
nominati né in bene né in male o di ravvedersi di
quegli errori, attraverso dei quali noi mortali giumgiamo talvolta
alla saviezza. Farò dunque che sia tradotto; e quanto alla
stampa, mi governerò secondo i tempi, i consigli e portamenti
degli uomini dotti.
IV.
Tuttavia, affinché i lettori abbiano saggio della operetta
greca, ne feci tradurre parecchi passi, e li ho, quanto piú
opportunamente potevasi aggiunti alle postille notate da Didimo nel
suo terzo manoscritto, dove si contiene la versione dell'Itinerario
sentimentale di Yorick: libro più celebrato che inteso;
perché fu da noi letto in francese, o tradotto in italiano da
chi non intendeva l'inglese: della versione uscita di poco in Milano,
non so. Innanzi di dar alle stampe questa di Didimo, ricorsi
novamente a' letterati pel loro parere. Chi la lodò, chi la
biasimò di troppa fedeltà; altri la lesse volentieri
come liberissima: e taluno s'adirò de' troppi arbìtri
del traduttore. Molti, e fu in Bologna, avrebbero desiderato lo stile
condito di sapore piú antico: moltissimi, e fu in Pisa, mi
confortavano a ridurla in istile moderno, depurandola sovra ogni cosa
de' modi troppo toscani; finalmente in Pavia nessuno si degnò
di badare allo stile; notarono nondimeno con geometrica precisione
alcuni passi hene o male intesi dal traduttore. Ma io stampandola,
sono stato accuratamente all'autografo: e solamente ho mutato verso
la fine del capo XXXV un vocabolo; e un altro n'ho espunto
dall'intitolazione del capo seguente: perchè mi parve evidente
che Didimo contro all'intenzione dell'autore inglese offendesse, nel
primo passo il Principe della letteratura fiorentina e nell'altro i
nani innocenti della città di Milano.
V.
Di questo Itinerario del parroco Lorenzo Sterne, Didimo mi disse
due cose (da lui taciute, né so perché nell'epistola a'
suoi lettori) le quali pur giovano a intendere un autore oscurissimo
anche a' suoi concittadini e a giudicare con equità dei
difetti del traduttore. La prima si è: " Che con nuova
specie d'ironia, non epigrammatica né suasoria ma candidamente
ed affettuosamente storica, Yorick da' fatti narrati in lode de'
mortali, deriva lo scherno contro a molti difetti, segnatamente
contro la fatuità del loro carattere". L'altra: "Che
Didimo, benché scrivesse per ozio, rendeva conto a se stesso
d'ogni vocabolo; e aveva tanto ribrezzo a correggere le cose una
volta stampate (il che, secondo lui, era manifestissima
irriverenza a' lettori), che viaggiò in Fiandra a
convivere con gli Inglesi, i quali vi si trovano anche al dì
d'oggi, onde farsi spianare molti sensi intricati: e lungo il viaggio
si soffermava per l'appunto negli alberelli di cui Yorick parla nel
suo Itinerario, e ne chiedeva notizie a' vecchi che lo aveano
conosciuto; poi si tornò a dimora nel contado tra Firenze e
Pistoja, a imparare migliore idioma di quello che s'insegna nelle
città e nelle scuole.
VI.
Ora per gli uomini dotti, i quali furono dalla lettura di que'
manoscritti e da questa versione dell'Itinerario sentimentale
invogliati di sapere notizie del carattere e della vita di
Didimo, e me ne richiedono istantemente, scriverà le scarse,
ma veracissime cose che io so conte testimonio oculare. Giova a ogni
anodo premettere tre avvertenze. Primamente: avendolo io veduto per
pochi mesi e con freddissima farmgliarità, io non ho potuto
notare (il che avviene a parecchi) se non le cose piú
consonanti o dissonanti co' sentimenti e le consuetudini della mia
vita. Secondo: de' vizi e delle virtú capitali che distinguono
sostanzialmente uomo da uomo se pure ei ne aveva, non potrei dire
parola: avresti detto ch'ei lasciandosi sfuggire tutte le sue
opinioni, custodisse industriosamente nel proprio segreto tutte le
passioni dell'animo. Finalmente, reciterà le parole di Didimo,
poiché essendo un po' metafisiche, ciascheduno de' lettori le
interpreti meglio di me, e le adatti alle proprie opinioni.
VII.
Teneva irremovibilmente strani sistemi; e parevano nati con esso:
non solo non li smentiva co' fatti, ma come fossero assiomi
proponevali senza prove: non però disputava a difenderli, e
per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni rispondeva in
intercalare: opinioni. Portava anche rispetto ai sistemi altrui, o
forse anche per noncuranza, non movevasi a confutarli; certo è
ch'io in sí fatte controversie, l'ho veduto sempre tacere, ma
senza mai sogghignare; e l'unico vocabolo opinioni
lo proferiva con serietà religiosa. A me disse una volta: Che
la gran valle della vita è intersecata da molte viottole
tortuosissime; e chi non si contenta di camminare sempre per una
sola, vile e muore perplesso, né arrira mai a un luogo dove
ognuno di que' sentieri conduce l'uomo a vivere in pace seco e con
gli altri. Non trattasi di sapere quale sia la vera via; bensí
di tenere per vera una sola, e andar sempre innanzi.
Stimava fra le doti naturali all'uomo primamente la bellezza, poi la
forza dell'animo, ultimo l'ingegno. Delle acquisite, come a dire
della dottrina, non faceva conto se non erano congiunte alla
rarissima arte d'usarne. Lodava la ricchezza piú di quelle
cose ch'essa può dare; e la teneva vile, paragonandola alle
cose che non può dare. Dell'Amore aveva in un quadretto
un'immagine simbolica diversa dalle solite de' pittori e de' poeti,
su la quale egli avea fatto dipingere l'allegoria di un nuovo sistema
amoroso; ma teneva quel quadretto coperto sempre d'un velo nero. Uno
de' cinque libri de' quali è composto il manoscritto greco
citato poc'anzi, ha per intitolazione: tre amori.E i tre
capitoli di esso libro incominciano: Rimorso primo; Rimorso
secondo; Rimorso terzo: e conclude: Non essere l'Amore se non
inevitaibili tenebre corporee le quali si disperdono più
o men tardi da sè: ma dove la religione, la filosofia o la
virtú vogliano diradarle o abbellirle del loro lume, allora
quelle ravviluppano l'anima e la conducono per la via della virtù
a perdizione. Riferisco le parole; altri intenda.
VIII.
Da' sistemi e dalla perseveranza con che li applicava al suo
modo di vivere, derivavano azioni e sentenze degne di riso. Riferisco
le poche di cui mi ricordo. Celebrava Don Chisciotte come beatissimo
perché s'illudeva di gloria scevra d'invidia e d'amore scevro
di gelosia. Cacciava i gatti, perché gli parevano piú
taciturni degli altri animali; li lodava nondimeno, perché si
giovano della società come i cani, e della libertà
quanto i gufi. Teneva gli accattoni per più eloquenti di
Cicerone nella parte della perorazione, e periti fisionomi assai piú
di Lavater. [1]
Non credeva che chi abita accanto a un macellaro, o sulle piazze de'
patiboli, fosse persona da fidarsene. Credeva nell' ispirazione
profetica, anzi presumeva di saperne le fonti. Incolpava il berretto,
la vesta da camera e le pantofole de' mariti, della prima infedeltà
delle mogli. Ripeteva (e ciò piú che riso moverà
sdegno) che la favola d'Apollo scorticatore atroce di Marsia [2]
era allegoria sapientissma non tanto della pena dovuta agl'ignoranti
presuntuosi quanto della cattiva invidia de' dotti. Su di che
allegava Diodoro Siculo, lib. III. n. 59, dove, oltre la crudeltà
del Dio de' poeti, si narrano i bassi raggiri co' quali si procacciò
la vittoria. Ogni qual colta incontrava de' vecchi sospirava
esclamando: Il peggio è viver troppo! e un giorno, dopo
assai mie preghiere, me ne disse il perché: La vecchiaja
sente con atterrita coscienza i rimorsi, quando al mortale non rimane
vigore, né temo d'emendar la sua vita. Nel proferire
queste parole, le lagrime gli piovevano dagli occhi; e fu l'unica
volta che lo vidi piangere, e seguitò a dire: Ahi! la
coscienza è codarda! e quando tu se' forte da poterti
correggere, la ti dice il vero sottovoce e palliandolo di
recriminazioni contro la fortezza ed il prossimo: e quando poi tu se'
debole la ti rinfaccia con disperata superstizione, e la ti atterra
sotto il peccato, in guisa che tu non puoi risorgere alla virtù.
O codarda! non ti pentire, o codarda! Bens^ paga il debito, facendo
del bene ove hai fatto del male. Ma tu se' codarda; e non sai che o
sofisticare, o angoscianti. Quel giorno io credeva che
volesse impazzare: e stette piú d'una settimana a lasciarsi
vedere in piazza. Sí fatti erano i suoi paradossi morali.
IX.
E quanto alle scienze ed alle arti asseriva, che le scienze erano
una serie di proposizioni, le quali aveano bsogno di dimostrazioni
apparentemente evidenti, ma sostanzialmente incerte, perché le
si fondavano spesso sopra un principio ideale; che la geometria, non
applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni; e che
malgrado l'algebra, resterà scienza imperfetta e per lo più
inutile, finché non sia conosciuto il sistema incomprensibile
dell' Universo. L'umana ragione, diceva Didimo, si
travaglia su le mere astrazioni; piglia le mosse, e senza avvedersi,
a principio, dal nulla; e dopo lunghissimo viaggio, si torna a occhi
aperti e atterriti nel nulla: ed al nostro intelletto la
SOSTANZA della natura ed il NULLA furono, sono e
saranno sinonimi. Bensí le arti non solo incitano ed
albbelliscono le APPARENZE della Natura, non possono insieme
farle rivivere agli occhi di chi le vede o vanissime o fredde; e nei
poeti de' quali mi vo ricordando a ogni tratto, porto meco una
galleria di quadri, i quali mi fanno osservare le parti più
belle e più animate degli originali che trovo su la mia
strada; ed io spesso li trapassai senza accorgermi ch'e' mi stanno
tra' piedi per avvertirmi con mille nuove senzsazioni ch'io dvivo.
E però Didimo sosteneva, che le arti possono piú
che le scienze far men inutile e più gradito il vero a'
mortali; e che la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche
verità che sono c'ertissime a' sensi; perché o sono
dedotte da una serie lunga di fatti, o sono sí pronte che non
hanno bisogno di dimostrazioni scientifiche.
X.
Leggeva quanti libri gli capitavano; non rileggeva da capo a
fondo fuorché la Bibbia. Degli autori ch'ei credeva degni
d'essere studiati, aveva tratte parecchie pagine, e ricucitele in un
grosso volume. Sapeva a memoria molti versi di antichi poeti, e tutto
il poema delle Georgiche. Era devoto di Virgilio; nondimeno
diceva: Che s'era fatto prestare ogni cosa da Omero, dagli
occhi in fuori. D'Omero aveva un busto, e se lo
trasportava di paese in paese; e v'area posto per iscrizione due
versi greci che suonavano: A costui fu assai di cogliere la
verginità di tutte le Muse: e lasciò per gli altri le
altre bellezze di quelle Deità. Cantava, e
s'intendeva da per sè, quattro odi di Pindaro. Diceva, che
Eschilo era un bel rovo sopra un monte deserto; e Shakespeare,
una selva incendiata che faceva bel vedere di notte, e mandava
fumo nojoso di giorno. Paragonava Dante a un gran lago
circondato di burroni e di selve, sotto un cielo oscurissimo, sul
quale si poteva andare a vela in burrasca; e che il Petrarca
lo derivò in tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possano
sollazzarsi le gondole degli innamorati co' loro strumenti; e ve ne
sono tante, che que' canali, diceva Didimo, sono ormai
torbidi, o fatti gore stagnanti: tuttavia s'egli intendeva una
sinfonia e nominava il Petrarca, era indizio che la musica gli pareva
assai bella. Maggiore stranezza si era il panegirico ch'ei faceva di
certo poemetto latino da lui anteposto perfino alle Georgiche,
perché, diceva Didimo, mi par d'esser a nozze con tutta
l'allegra comitiva di Bacco: Didimo per altro beveva sempre acqua
pura. Aveva non so quali controversie con l'Ariosto, ma le ventilava
da sé, e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque [3]
le lunghe onde con le quali l'Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò:
Così vien poetando l'Ariosto! Tornandosi meco verso le
belle colonne che adornano la cattedrale di quella città, si
fermò sotto il peristilio [4],
e adorò. Poi volgendosi a me mi diede intenzione che sarebbe
andato alla questua a pecuniare tanto da erigere una chiesa al
PARACLETO [5]
e riporvi le ossa di Torquato Tasso; purché nessun sacerdote
che insegnasse grammatica potesse ufficiarvi, e nessun Fiorentino
Accademico della Crusca appressarvisi. Nel mese di giugno del 1804
pellegrinò da Ostenda sino a Montreuil per gli accampamenti
italiani: ed a' militari, che si dilettavano di ascoltarlo, diceva
certe sue omelie all'improvviso, pigliando sempre per testo de' versi
delle Epistole d'Orazio. Richiesto da un ufficiale perchè
non citasse mai le Odi di quel poeta, Didimo in risposta gli
regalò la sua tabacchiera fregiata d'un mosaico d'egregio
lavoro, dicendo: Fu fatto a Roma d'alcuni frammenti di
pietre preziose dissotterrate in Lesbo. [6]
XI. Ma quantunque non parlasse che di poeti, Didimo scriveva in prosa perpetuamente; e se ne teneva. Scriveva anche arringhe, e taceva da difensore ufficioso a' soldati colpevoli sottoposti a' consigli di guerra; e se mai ne vedeva per le taverne, pagava loro da bere, e spiegava ad essi il Codice militare. Oltre a' tre manoscritti raccomandatimi serbava parecchi suoi scartafacci: ma non mi lasciò leggere se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la Repubblica letteraria. In esso capitolo descriveva un'implacabile guerra tra le lettere dell'abbiccì, e le cifre araldiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi strattagemmi, tenendo ostaggi l'a, la b, la x che erano andati ambasciadori, e quindi furono tirannicamente angariate con inesprimibili e angosciose fatiche. Dopo il desinare Didimo si riduceva in una stanza appartata a ripulire i suoi manoscritti ricopiandoli per tre volte. Ma la prima composizione, com'ei diceva, la creava all'Opera seria o in mercato. Ed io in Calais lo vidi per piú ore della notte a un caffè, scrivendo in furia al lume delle lampade del biliardo, mentr'io stava giocandovi, ed ei sedeva presso ad un tavolino, intorno al quale alcuni ufficiali quistionavano di tattica, e fumavano mandandosi scambievolmente de' brindisi. Gl'intesi dire: Che la vera tribolazione degli Autori veniva a chi dalla troppa economia della penuria, e a chi dallo scialacquo dell'abbondanza, e ch'esso aveva la beatitudine di poter scrivere trenta figlia allegramente di pianta; e la maledizione di volerli ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore faceva sempre.
XII.
Ora dirà de' suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non
però assunse gli ordini sacri; e si faceva chiamare Didimo di
norme, e Chierico di cognome. ma gli rincresceva sentirsi dar
dell'abate. Richiestone, mi rispose: La fortuna m'avviò
da fanciullo al chiericato; poi la natura mi ha deviato dal
sacerdozio; mi sarebbe rimorso l'andare innanzi, e vergogna il
tornarmene addietro: e perché io tanto quanto disprezzo chi
muta istituto di vita, mi porto in pace la mia tonsura e questo mio
abito nero: così posso o ammogliarmi o aspirare ad un
vescovato. Gli chiesi a quale de' due partiti
s'apiglierebbe. Rispose: Non ci ho pensato; a chi non ha patria
non istà bene l'essere sacerdote, né padre.
Fuor dell'uso de' preti, compiacevasi della compagnia degli uomini
militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con
persone di varie nazioni; e se taluno (com'ei s'usa) professavasi
cosmopolita, edili si rizzava senz'altro. S'addomesticava alle prime;
benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto; ad a'
ricchi pareva altero: evitava le sette e le confraternite; e seppi
che rifiutò due patenti accademiche. Usava per lo piú
ne' crocchi delle donne, però ch'ei le reputava più
liberamente dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze
pacifiche le quali, diceva Didimo, temprano sole tutte le
altre forze guerriere del genere umano. Era volentieri
ascoltato: né so dove trovasse materie; perché alle
volte chiacchierava per tutta una sera, senza dire una parola di
politica, di religione, o di amori altrui. Non interrogava mai per
non indurre, diceva Didimo, le persone a dir la bugia: e alle
interrogazioni rispondea proverbi, o Guardava in viso chi gli
parlava. Non partecipava né una dramma del suo secreto ad
anima nata: Perché, diceva Didimo, il mio secreto è
la sola proprietà su la terra ch'io degni di chiamar mia, e
che, divisa, nuocerebbe agli altri e a me. Né pativa
d'essere depositario degli altrui secreti: Non ch'io non
mifidi di serbarli inviolati: ma avviene che a voler scampare dalla
perdizione qualche persona, m'è pure necessità a
rivelare alle volte il secreto che m'ha confidato: tacendolo, la mia
fede riescirebbe sinistra; e maniifestandolo, m'avvilirei davanti a
me stesso. Accoglieva lietissimo nelle sue stanze: al
passeggio voleva andar solo, o parlava a persone che non aveva veduto
mai, e che gli davano nell'idea: e se alcuno de' suoi conoscenti
accostavasi a lui, si levava di tasca un libretto, e per primo saluto
gli recitava alcuni squarci di traduzioni moderne de' poeti dieci: e
rimanevasi solo. Usava anche sentenze enigmatiche. Nessun frizzo: se
non una volta e per non ricaderci, rilesse i quattro Evangelisti. Ma
di tutti questi capricci e costumi di Didimo s'avvedevano gli altri
assai tardi, perch'ei non li mostrava, né gli occultava; onde
credo che venissero da disposizione naturale.
XIII.
Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne
traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva
amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale per cui l'uomo
s'attacca all'altro, l'aveva già data a quei poche ch'erano
giunti innanzi. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma
non m'accorsi mai ch'egli avesse fiducia nei giorni avvenire o che ne
temesse. Chiamavasi molto obbligato a un Don Jacopo Annoni, curato, a
cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia
d'Inverigo; e stando fuori di patria, carteggiava unicamente con
esso. Mostravasi gioviale e compassionevole, e benché fosse
alloramai intorno a' trent'anni, aveva aspetto assai giovanile; e
forse per queste ragioni Didimo, tuttochè forestiero, non era
guardato dal popolo di mal occhio, e le donne passando gli
sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciola a
discorrere seco, e molti fantolini, de' quali egli si compiaceva, gli
correvano lietissimi attorno. Ammirava assai; ma più con
gli occhiali, diceva egli, che col telescopio: e
disprezzava con taciturnità sì sdegnosa, da far giusto
e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti. Aveva per
altro il consenso di non patire d'invidia, la quale, in chi ammira e
disprezza, non trova mai luogo. E' diceva: La rabbia e il
disprezzo sono due grandi estremi dell'ira: le forti disprezzano: ma
tristo e beato chi non s'adira.
XIV.
Insomma, pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato
governare dall'indole sua naturale, s'accomodasse, ma senza
fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che
stiano per gli uomini; però non era orgoglioso, né
umile. Pareva verecondo, perché non era né ricco né
povero. Forse non era avido né ambizioso; perciò parea
libero. Quanto all'ingegno, non credo che la natura l'avesse
moltissimo prediletto, né poco. Ma l'aveva temprato in guisa
da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti e quel tanto che
produceva da sè, aveva certa novità che allettava, e la
primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per
avventura quell'esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la
propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre,
sembravami ch'egli sentisse non so qual dissonanza nell'armonia delle
cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca
si desume quanto meritamente si vergognasse della sua giovanile
intolleranza. Ma pareva. quando io lo vidi, piú disingannato
che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse
quietissimo e sicuro di se medesimo per la sua strada, e sostandosi
spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare, che di
toccare la meta. Queste a ogni modo sono tutte mie congetture.
XV.
Avendolo io nell'anno 1806 lasciato in Amersfort, e desiderando
di dargli avviso del giudizio de' Maestri suoi intorno ai tre
manoscritti da me recati in Italia, scrissi ad Inverigo a domandarne
novelle al reverendo Don Jacopo Annoni; e perché questi s'era
trasferito da molto tempo in una chiesa su' colli del lago di
Pusiano, presso la villa Marliani, lo visitai nell'estate dell'anno
seguente; né ho potuto riportare dalla mia gita se non una
notizia ch'io già sapeva; e i lineamenti di Didimo giovinetto.
Quel buon vecchio sacerdote, regalandomi il disegno che ho posto in
fronte a questo opuscoletto, mi disse afflittissimo: So che in
un paese lontano chiamato Bologna a mare, Didimo regalò tutti
i suoi libri e scartafacci a un altro giovine militare che ne usasse
a suo beneplacito; e fece proponimento di né più
leggere né più scrivere: da indi in qua, e egli è
pur molto tempo, non so più dov'e' sia né se viva.
XVI.
Mi diede copia di un epitaffio che Didimo s'era apparecchiato,
molti anni innanzi; ed io lo pubblico, affinché, s'egli mai
fosse morto, ed avesse agli ospiti lasciato tanto da porgli una
lapide, lo facciano scolpire sovr'essa:
DIDYMI
CLERICI
VITIA VIRTUS OSSA
HIC POST
ANNOS -
CONQUIEVERUNT.
NOTE:
[1] Lavater Giovanni Gaspare nato in Svizzera (1741-l1801), creò un sistema che portò il suo nome, secondo il quale intendeva scoprire costanti relazioni tra i caratteri degli individui e i tratti della loro fisonomia. Fu amico del Goethe.
[2] Marsia fu, secondo la favola, un satiro di Frigia, il quale, avendo raccolto un flauto sonato da Minierva, cominciò a trarne sí soavi note, che, inorgoglito, sfidò Apollo a musicale tenzone, a patto che il vincitore farebbe del vinto quel governo che piú gli piacesse. Le Muse furono giudici della gara Apollo cominciò a sonare la cetra, Marsia il flauto, ma il primo, avendo aggiunto il canto al suono, fu dichiarato vincitore, Apollo allora legò Marsia ad un albero e lo scorticò vivo, cioè come dice Dante, lo trasse "Della vagina delle membra sue". Parad., I, 20-21.
[3] Dunkerque: Città fiamminga, appartenente alla Francia, nel dipartimento del Nord. Possiede una delle più magnifiche rade dell'Europa. Il suo nome, in fiammingo, significa Chiesa delle dune.
[4] Peristilio: Cortile con colonne tutt'attorno isolate, costruito nella parte interna d'un edifizio.
[5] Paracleto: È il nome dato nel Vangelo allo Spinto Santo. Deriva dal verbo greco paraxleo, consolo
[6] È certo che Orazio nei suoi cinque libri di Odi sopra ogni qualità di argomenti, sacri, politici, morali, erotici e festevoli tolse dai lirici greci la maggior parte dei metri; e alcuni han detto che li imitasse ancora nella sostanza, in maniera da far quasi un lavoro a mosaico ma benché per la perdita dei loro carmi e segnatamente di quelli di Saffo e di Alceo, sia impossibile accertare la verità, nondimeno da molte delle sue piú belle Odi, sacre e politiche massimamente, risulta a evidenza l'originalità e il carattere tutto paesano del poetare di Orazio.