Ugo Foscolo

Poesie Varie

[01]

INNO ALLA NAVE DELLE MUSE

   Questa poesia fu stampata la prima volta dal Carrer nella sua edizione delle Prose e poesie edito o inedito del Foscolo. Egli la trasse, credo, dalle copie di scritti foscoliani, che il prof. Tipaldi ebbe dalla Donna gentile per una edizione delle opere del Foscolo, che promise e non fece, e fu fatta poi dal Carrer. La copia di questa poesia avuta dal Carrer dovette essere molto scorretta, e mancante del titolo, che essa ha nell'autografo nei mss. foscoliani della Nazionale di Firenze. L'Orlandini ristampò la poesia tale quale la diede il Carrer, e col medesimo titolo di Frammento dell'Alceo. Io la ristampo come sta nell'autografo, e col titolo che ha in esso. (Chiarini 1904)
    Scritto nel 1806, quest'inno è un frammento dell'Alceo, un Carme che il Foscolo disegnava di scrive «sulla storia della letteratura in Italia dalla rovina dell'Impero d'Oriente ai dì nostri».



  doni di Lieo nell'auree tazze
Coronato d'alloro, o naviganti,
Adorando, e libateli dall'alta
Poppa in onor della palmosa Delo,
Ospizio di Latona, isola cara
Al divino Timbrèo, cara alla madre
Delle Nereidi, e al forte Enosigèo.
Non ferverà per voi l'ira del flutto
Dalle Cicladi chiuso ardue di sassi,
Nè dentro al nembo suo terrà la notte
L'aure seconde, e l'orïente guida
Delle spiate nubi. Udrà le preci
Febo; dai gioghi altissimi di Cinto
Lieti d'ulivi e di vocali lauri,
Al vostro corso le cerulee vie
Spianerà tutte, e agevoli alle antenne
Devote manderà gli Eolii venti.
Però che l'occhio del figliuol di Giove,
Lieto fa ciò che mira: Apollo salva
Chi Delo onora. O stanza dell'errante
Latona! Invan la Dea liti e montagne
Dolorando cercò: fuggìanla i fiumi
E contendeano a correre col vento.
Ove più poserai dal grave fianco
Lo peso tuo? nè avrà culle e lavacri
Dell'Olimpio la prole, o dolorosa?
Ma la nuotante per l'Icario fonte
Isola, a' venti e all'acque obbedïente,
Lei ricettò, sebben in ciel si stesse
La minaccia di Giuno alla vedetta.
Amor di Febo e de' Celesti è Delo.
Immota, veneranda ed immortale,
Ricca fra tutte quante isole siede
E le sorelle a lei fanno corona.
I doni di Lieo nell'auree tazze
D'alloro inghirlandate o naviganti
Adorando; e libateli dall'alta
Poppa in onor della palmosa Delo.

 ale cantando Alceo strinse di grato
Ozio i Tritoni, e i condottieri infidi
Della nave che gìa pel grande Egeo
Italia e le Tirrene acque cercando
Onde posar nella toscana terra
Le Muse che fuggìen l'arabo insulto
E le spade e la fiamma ed il tripudio
De' nuovi numi, e del novello impero;
Come piacque all'eterna onnipotenza
Di quella calva che non posa mai
Di vendicar sul capo de' Comneni
Le vittorie di Roma, ed i tributi
D'Asia, e di Costantin gli Dei mutati.

 alìa dell'Athos nella somma vetta
Il duca, e quindi il flutto ampio guardava
E l'isole guardava e il continente
Però che si chinava all'orizzonte
Diana liberal di tutta luce.
Gli suonavano intorno il brando e l'arme
Sfolgoranti fra l'ombre, e giù dall'elmo
Gli percuoteva in fulva onda le spalle
La giuba de' corsier presi in battaglia;
Negro cimiero ondeggiavagli, e il negro
Paludamento si portavan l'aure.



[02]

A VINCENZO MONTI

 istampo questa Epistola di sul manoscritto autografo, con tutte le varie lezioni che in esso leggonsi. La pubblicò prima il Carrer sopra una copia non molto corretta cavata da quel manoscritto, introducendo nel testo alcune varianti, che a lui, o a chi copiò la poesia, parvero migliori.
   Composto tra il 1804 e il 1806 quando il Foscolo era capitano aggiunto nella Divisione italiana di stanza sulle coste della Manica per il progettato sbarco in Inghilterra. Fu pubblicato solo nel 1842.

 

 e fra' pochi mortali a cui negli anni
Che mi fuggìr, fui caro, alcun ti chiede
Novella d'Ugo; - perchè indegno fora
All'amor nostro il non saperne, o Monti
Rispondi - In terra che non apre il seno
Obbedïente al scintillar del solo
Passa la vita sua colma d'obblio,
Doma il destriero a galoppar per l'onde;
Sulle rocce piccarde aguzza il brando,
E l'oceàn traversando con gli occhi
D'Anglia le minacciate alpi saluta -
M'udrai felice benedir, m'udrai
Commiserar; tu fammi lieto ai lieti,
Dolente a' dolorosi; ognun sè pasce
Del parer suo; qual io mi viva, solo
Tu l'odi, e dove coronato libi
Al Genio e all'Ira d'Alighieri, il Fauno
Pedestre mio discreto ospite accogli.
Da [te] non laude al mio verso, nè vino
Sul desco mio, nè il tuo pregar sull'ara
Della possanza in mio favor ti chiedo.
In molti uomini lessi e in pochi libri
(Perch'io cultor di pochi libri vivo)
Questa sentenza: Amico unico è l'oro.

 e fra' mortali a' quai non vissi ignoto
Ne' dì che mi fuggiro, alcun ti chiede
Novella d'Ugo - perocchè tacerne
Indegno fora all'amor nostro, o Monti,
Rispondi - In terra che non apre il solco
Docile a' rai del sole onnipotenti
Pasce la vita sua colma d'oblio.
Doma il destriero a galoppar per l'onde
Su le rocce piccarde aguzza il brando,
E traversando l'oceàn con gli occhi
Minaccia i porti d'Albïon rostrati.

 on te desio propizïante all'are
Della Possanza in mio favor, nè chiedo
Vino al mio desco, o i tuoi plausi al mio verso
Da te non laudi al mio verso, nè vino
Al desco mio, nè il tuo pregar sull'ara
Della Possanza in mio favor ti chiedo:
Ma cor che il fuggitivo Ugo accompagni
Ove fortuna il mena aspra di guai.
Mi mentirà così, Vincenzo, quella
Che in molti uomini lessi, e in pochi libri

 Perch'io cultor di pochi libri vivo)
Ardua sentenza: Amico unico è l'oro.
Non [io] te, dolce amico, in favor mio
Sull'ara del favor propizïante
Voglio, nè chiedo a te plausi al mio verso, 50

 a te non plausi al mio verso, non vino
Sul desco mio, nè in favor mio te voglio
Propizïante del favor sull'are
Per farmi bello d'un regal sorriso

 u l'odi, e accogli la pedestre Musa, 55
Di liet....

 on te desio propizïante all'ara
Della possanza in pro nostro, nè chiedo
Da te sommo cantor plausi al mio verso
Ma cor che . . . . . . .



[03]





[04]

IN MORTE DEL PADRE

  Questi versi, di cui diedi io notizia nella mia prima edizione delle Poesie del Foscolo furono pubblicati tutti insieme per la prima volta dal prof. Antona-Traversi in un opuscolo per nozze (Recanati, 1888, tipografia Simboli), e ristampati da lui stesso nel suo volume Nuovi studi letterari pubblicati a Milano dalla Tipografia Bortolotti nel 1889. Prima della pubblicazione dell'Antana-Traversi non era noto che il secondo dei cinque Sonetti, stampato nell’Anno poetico (MDCCXCVII), e riprodotto da tutti gli editori delle Poesie del Foscolo, me compreso. ...
  Nel manoscritto precede ai versi la seguente lettera dedicatoria del poeta alla madre: "Madre. Scorsero omai sette anni dopo la morte del tuo dolce compagno e del mio tenero genitore. Tutte questo tempo fu di dolore, ed io benchè avessi appena due lustri ho saputo meco dividere le tue pene, e quelle rimembranze funeste che mi tornano innanzi, e che mi torneranno fino al sepolcro. Non sapendo in qual modo disfogare il mio affanno, raddolcire o mia tenera genitrice, il tuo, e rendere un omaggio a mio Padre, scrissi questi versi che or t’indirizzo con le mie lacrime. Addio, benefica Madre. Se i talenti e l'età non mi concessero versi migliori, il mio core, il mio core saprà comprendere, amandoti, tutti i loro difetti. Tuo figlio Nic. Ugo".
  La canzone fu scritta insieme ai sonetti nel 1795, sette anni dopo la morte del padre Andrea, come afferma il poeta stesso in una dedicatoria alla madre.

 

Ma a me che resta altro che pianger sempre
Misero e sol? che senza te son nulla.

PETRARCA.

CANZONE.

 erchè, o mie luci, l'angoscioso pianto
Voi non cessate? ed al suo cupo affanno
Non vi piace lasciar l'anima mesta?
Troppo voi siete a quella doglia inganno
Che m'è cara soffrir finchè sia infranto
Lo stame a cui s'attien mia vita infesta,
Ben innanzi accadrà che si rivesta
Di verde e fiori il prato a mezzo verno
Pria che m'incresca di mie vive doglie,
E so il destin mi toglie
Chi era de' giorni miei pace e governo,
Almeno alle sue spoglie
Che omai sotterra son cenere frale
Si dica sospirando un caldo vale.

 'amico il Padre è morto: or qual mai speme
Fia che più resti alle mie brame afflitte
Se non che la pietà m'apra la fossa?
Profondamente nel mio sen stan scritte
Le sante dolci sue parole estreme
Onde sovente quest'anima è scossa.
Mi traggon elle a visitar quest'ossa
Sparger miei voti, e forse al sordo vento;
Ah! che mai dissi? dall'Eterea sede
Ove beato ei siede
Non odo il suon del mio triste lamento?
E del dolor non vede
L'alta ferita? ah s'egli è ver cessate
Lugùbri voci, nè più duol gli date.

 roppo ci mi amava in terra, e troppo forse
Se doglia provan de' beati i spirti
Ei s'addolora alla mia intensa pena.
Dunque spargiam sulla sua tomba mirti
E so fosca per lui mia vita scorse
Per lui ritorni ancor queta e serena.
Ben troncherassi un dì questa catena
Grave al mio spirto e goderò di lui
Ove luce di Dio su ognun si spande.
Ivi fia che domande
De' Frati miei, de' dolci Figli sui,
O lieto istante, o grande
Istante, a che ver me ratto non voli
Onde in braccio al mio Padre io mi consoli?

 erchè m'adduci mai, folle desio,
A vaneggiar con tai speranze audaci?
Credi che al mio buon Padre io m'assomigli?
Ivi egli posa in grembo a liete faci
Perchè con sua saviezza il nembo rio
Seppe fuggir e del mondo i perigli.
Fuggir forse sapranli i lassi Figli
Che nel mondo imboscati a mezza notte
Soli e confusi ad erme piagge ed erte
Volgon lor pianto incerte
Ahi troppo giovanili, e troppo indotte?
Ma se fia che si merte
Un giusto grazie, ah! dal Signor dell'Etra
Consiglio e Grazie a' tuoi pupilli impetra.

 uce chieggiam e chi l'accenda, o Padre,
Forse non v'è, forse non v'è chi porga
Acqua di chiaro fonte a nostra sete.
Se per te dunque un rio puro non sgorga,
So non diradi a noi quest'ombre sì adre,
Chi fia che ci rischiari, e ci dissete?
Egra già fora in grembo a tua quiete
Ella che a noi fu Madre, a te fu Sposa;
Se non che, lassa! ancor viver si vuole
Per sua tenera prole,
Ma del suo lacrimar unqua riposa;
Anzi meco si duole
Dicendo, o Figlio, a te chiedo conforto
Poichè il mio Sposo il mio buon Sposo è morto.

  qual da me conforto? e quale io posso,
Padre, se il terzo lustro appena io varco,
Prestar sollievo a sua doglia cotanta?
Ahi che mal se di quel soave incarco
Gravar per anco il mio debile dosso
Che il tuo gravò per quasi anni quaranta.
Sol suonan pianto e muto orrore ammanta
Que' dolci lochi ov'io ti vidi un giorno
Porger a' tuoi Figliuoli e baci e pane,
E in fogge care e strane
Saltellar essi a tue ginocchia intorno.
Ed or, ahi! che rimane
Altro che aver in grembo gli orfanelli
E alle lor grida lacrimar con elli?

  cupa notte! o tenebroso istante!
O tetra bara, o feretro funebre
Ove il padre vid'io la volta estrema!
Dal duolo avvolti e da vostre tenebre
Venite agli infelici ora d'innante
Onde ognun sopra voi sospiri e gema.
Qui mia suora innocente e guarda e trema
L'istupidita genitrice nostra
Che fitti ha gli occhi al suol nè fiato manda;
Qui il fanciul che addomanda
"Che fu? che avvenne?" - e mesto indi si prostra.
E al padre raccomanda
Quinci il ritorno; e un altro che col dito
Tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito.

  a squallor tanto in mezzo io con la fronte
Dalle man sostenuta, i miei sospiri
Traggo più ardenti, e li rattengo invano.

Par che d'intorno a me l'ombra s'aggiri
E dello smorte luci il caldo fonte
Egli m'asciughi in atto dolce umano:
Rammento allora qual diemmi la mano
Qual me la strinse e qual mi benedisse
Coi sguardi ove mancavangli gli accenti!
Qual " miei Figli innocenti".
Disse, " ti raccomando " e più non disse,
Qual di Angeli fulgenti
Sull'ale io vidi sgombra del suo volo
L'alma rapita a innamorare il Cielo.

 anzon, tu oscura, dolorosa, e sola
Ove altri orfani stanno in pianto e in duolo
Drizza gemendo il volo
Et una amante vedova consola;
E siegui un Figlio che alla mesta notte
E alla tacita luna
Fra lacrime dirotte
Narra le tempre di sua rea Fortuna:
Ivi per l'aria bruna
T'innoltra, e digli in suon d'aura notturna:
Solo non piangi del tuo Padre all'urna.



[05]





[10]

LA CROCE

Vere Deus est in loco isto

Gen.


 uesto Canto e l'ode che segue ad esso, intitolata Il mio tempo, furono pubblicati dall'autore nel Canzoniere per la monacazione di nobil donzella veneta, scritto e stampato a Verona nel 1796 (seconda edizione, stamperia Giuliari), e nel Mercurio d’Italia dell’anno suddetto, secondo semestre. Il Mestica diede nel testo la lezione del Canzoniere, benchè non gli paia sempre migliore, e le varianti del Mercurio; il Chiarini dà il testo nella lezione del Mercurio, che crede l’ultima, e in nota le varianti dell'altra. Nel Canzoniere precede ai due componimenti questa dedicatoria:

Professando la regola
di Sant’Agostino
fra le eremite
la nobil donzella
Maria Toderini ora Maria Serafina
Delle Cinque Piaghe
canto
consecrato alla nobil donna
Maddalena Toderini
Pappafava
sorella amorosissima
della sacra sposa.

  Eccellenza, Offro que’ versi, che cantano la più saggia delle Donzelle, alla sorella più tenera ed alla Donna più virtuosa e sensibile. I loro pregi non degni di Voi, vengono compensati dal rispetto, con cui li consacro, e dall’augusto soggetto che ve li deve rendere cari. Ad ogni modo, se ciò pure non avvenisse, io sarò pago d’aver cantato de' versi ispiratimi dall’angelica Figlia di un egregio Patrizio, e indirizzati alla sola Donna ch’io venero. L’Autore ".

 bbracciava il Creato immensa notte,
E nel deserto con ruggir feroce
Rompeano i turbi le sonanti grotte;
 uando tuonar udii terribil voce
Che dal sonno mi scosse, e all'aer in grembo
Vidi alto balenar rovente Croce.
 iovea di sangue e di fiammelle un nembo
Cui sette Serafini a capo chino,
Onde raccôr, stendean l'aurato lembo;
  aprissi il Cielo, e scese un Cherubino
Con un Calice in mano ov'era scritto
A note di adamante: Amor Divino.
  poi ch'ebbe tre volte circoscritto
Lo spazio delle sfere, a posar venne
Sul tronco ove lavossi ogni delitto;
 ndi abbracciollo, e Cantico solenne
Coi Spiriti minori erse in dolore,
Dolce battendo di fulgor le penne.
  a me, cui maestà cerchiava il core,
Scrivi scrivi, gridò, ciò che vedrai,
Chè queste son l'alt'opre del Signore.
  lui per riverenza io m'atterrai,
E al suon di tromba vidi in Orïente
Splender igniti abbarbaglianti rai;
  venir vidi in leggiadria decente
Amabil Verginella, alla cui fronte
Ornamento facea candor lucente.
 osì non luce mai vermiglio il monte
Cui batte il Sol di sera, e sì non luce
Sul mattin odoroso l'orizzonte.
 ube che fior sparpaglia la conduce
Per l'aer leggiadramente, ed al suo lato
Fervida stassi Carità per duce.
 i mite venticel fragrante fiato
Spingea la bianca nube, e dir parea:
In uffizio sì caro io son beato.
  poi che giunse là 've risplendea
L'augusta Croce, e di Angeli uno stuolo
Radïante corona la facea;
 roncò la nube candidetta il volo,
E soffermossi a piè del Cherubino
Che scese i Cieli maestoso e solo.
 d ei sul capo riverente e chino
Dell'innocente Vergine la palma
Stese, e sparse su lei sermon divino;
  le dipinse la placida calma,
Che ascosa al mondo sotto un puro ammanto
Gode al raggio di Dio beata un'alma:
  al suo parlar svegliossi da ogni canto
Un'indistinta soave armonia,
Un dolce dolce amorosetto canto.
 inse come su i Cieli rifiorìa
D'amaranto immortale un vago serto
Per chi l'inferno ed il peccato obblìa:
  al suo parlar vezzosamente aperto
Si vide il prato ne' color più gai,
E di fioretti amabili coperto.
 el Paradiso le beltà vedrai,
Le disse; e tutta a un tratto si cosperse
L'etra di gioja, di candor, di rai.
 a tosto d'atro orror si ricoverse,
Brontolàr tuoni, serpeggiaro lampi
Quando a morte e a terror la bocca aperse,
  pinse come per i negri campi
Nelle tempeste l'alto Dio passeggia,
E qual di fiamme e di bufere avvampi
 iena d'aspri lion l'empirea reggia,
E qual su nubi negro e sanguinose
Con igneo brando la Giustizia seggia.
 remante allor con luci timorose
Si strinse alla sua duce la Donzella,
E nel suo petto il volto si nascose.
 oi s'alzava, qual dopo la procella
Pian pian tragge dal nido il collo, e guata
L'impaurita ingenua colombella.
 ndi com'ebbe alquanto confortata
L'etereo messagger dolce e clemente
La timidetta Vergine beata,
 l labbro le appressò del rifulgente
Calice l'orlo, e con i lumi al Cielo
Essa il libò pietosa e ubbidïente.
 iccome spunta il Sol senza alcun velo,
Ratto ell'arse negli occhi e nel sembiante
Splendidamente di celeste zelo;
  più che al tergo avesse ed alle piante 
D'aquila i vanni, di salute al legno
Lanciossi e affisse le sue labbia sante.
 l maggior Cherubino allor fe' segno
Ai sette Spirti, e rapidi il seguiro
Del firmamento vèr lo schiuso regno:
  in estasi di gioja e di martiro
Lasciàr quell'Angioletta su la Croce,
Che or lagrima spargeva ed or sospiro.
 oi tutto sparve, chè tremenda voce
Rintuonò intorno, e da' lor cupi abissi
Tornàr la notte e il turbine feroce,
  ancor tremando quel che vidi io scrissi.
 
 
 





[12]

IN MORTE DI AMARITTE

ELEGIA.

 critta nel 1794, fu pubblicata la prima volta, colle semplici iniziali N. U. F., nella seconda edizione di un libretto di versi In morte di Amaritte (Venezia, 1796, stamperia Fenzo), e ristampata nel 1880, in occasione di nozze veronesi, da Pietro Sgulmero, che vi aggiunse un breve discorso a dimostrarla opera giovanile del Foscolo. Amaritte è l'anagramma di Marietta de' Medici, sposa del conte Luigi Balladoro, morta a ventidue anni il 12 dicembre 1794.







 ui sorge un'urna, e qui in funereo manto
Erran le Grazie, e qui echeggiar s'ascolta
Flebili versi, fioche voci, e pianto.
  di cipressi sotto oscura volta
Cupa Malinconia muta s'aggira
Coi crin su gli occhi, e nel suo duol raccolta.
 ui gemebondo a lagrimar si mira
Vate canuto su la sorda pietra,
E ora ammuta, ora geme, ed or sospira:
 iace da un lato al suol mesta la cetra,
Che con le dolci fila tremolando
Manda intorno armonia confusa e tetra;
  i primi affanni suoi più rammentando
Al tetro suon Filomela risponde
Suoi lai soavemente modulando.
 l duol che il Vate misero diffonde
Tutto sospira, tutto s'accompagna
Tutto a piangere seco si confonde.
 rista è così de' morti la campagna
Allor che Young fra l'ombre de la notte
Sul fato di Narcisa egro si lagna.
  al suon di sue querele alte interrotte
Silenzio, Oscurità s'alzan turbati
Dal ferreo sonno di lor ampie grotte.
 ui pur regna tristezza! E al colle, ai prati
Agli alberi, alle fonti, ed agli augei
Narra il buon Veglio d'Amaritte i fati.
 nch'io, dolce Poeta, anch'io perdei
Tenera, amica, onde confondo or mesto
A' tuoi dirotti pianti i pianti miei.
 rano gli occhi suoi caro e modesto
Raggio di Luna, era il parlar gentile
Giojoso cardellino appena desto.
 h! la Ninfa più amabile d'aprile
Che inghirlanda di rose i crini a Flora
Tanto non era a sua beltà simìle.
 a come il Sol de la vezzosa Aurora
Le chiome arde e le vesti, e co' suoi dardi
Spegne i fioretti, e di Favonio l'òra;
 osì Morte accigliata i dolci sguardi
Della tenera amica d'improvviso
Chiuse, chè i voti miei furono tardi.
 allido e smorto io vidi il vago viso,
Udii gli estremi accenti, e '1 fiato estremo
Esalare fra un languido sorriso.
  un anno intanto che coi pianti io spremo
Dell'affannato cor l'immensa doglia,
Che sol trovo conforto allor ch'io gemo.
 inta di bianca radïante spoglia
Scende talora la pietosa amante
A consolarmi da l'empirea soglia.
  poco fa Ella apparve a me dinnante
A mano d'Amaritte, a cui conforme
Fu l'età, fu il costume, e fu '1 sembiante.
  le fiorite placide lor orme
Io le conobbi, ed al sereno riso,
E le conobbi a le beato forme,
 parpagliavano gigli, e dolce, e fiso
Aveano in me quel raggio, che d'intorno
Il piacer diffondea del Paradiso.
 oscia su rosea nube a lor soggiorno
Corteggiato dai Spiriti innocenti
Balenando beltà facean ritorno.
 a tu, dolce Poeta, a' tuoi lamenti
Pon modo alfine, e fa' che un lieto canto
S'unisca ai loro angelici concenti.
 r che siedi su l'urna, e un serto intanto
Di cipresso lor tessi, Elle dal Cielo
Ti guardan coronato d'amaranto.
 h! se avvolta talora in niveo volo
La gentil Coppia a raddolcir discendo
La piaga che a te fe' di morte il telo;
 eh! tu ravvisa alle Virginee bende
Al crin biondo alle cerule pupille
La mia Angioletta, e sospirando dille:
 di che il tuo Fedel piange e t'attende.
 


[13]

LE RIMEMBRANZE

 ubblicata nel citato " Anno poetico, ossia Raccolta annuale di poesie edite di autori viventi "; Venezia 1797, dalla tipografia di Antonio Curti.

  questa è l'ora! mormorar io sento
Co' miei sospiri in suon pietoso e basso
Tra fronda e fronda il solitario vento.
  scorgo il caro nome; e veggo il sasso
Ove Laura s'assise, e scorro i prati
Ch'ella meco trascorse a passo a passo.
 uest'è la pianta che le diè i beati
Fior ch'ella colse, e con le molli dita
Vaga si fe, ghirlanda ai crini aurati.
  questo è il conscio speco, e la romita
Sponda cui mesto lambe un fonte e plora,
E i ben perduti a piangere m'invita
 ui de’ più gai colori ornossi Flora,
Qui danzaro le Grazie, e qui ridente
A mirar la mia donna uscì l'Aurora. 15
  qui la Luna cheta e risplendente
Guatocci, e rise; e irradïò quel ramo
Ove ha nido usignol dolce-gemente;
  scosso l'augellin, mentre ch'io: " T'Amo "
A Laura replicava, uscir s'udia
Ne' suoi dolci gorgheggi: " Io t'amo io t'amo ".
  sacra rimembranza, o della mia
Prima felicità tenera immago,
Cui Laura forse a consolarmi invia;
 ieni: tu vedi solitario e vago
Il giovin vate, che piangendo porta
Ahi! d'affanni più gravi il cor presago.
 ià s'avanza la Sera, e la ritorta
Conca tien alla destra, e di rugiade
Le languid'erbe, e i fiori arsi conforta.
  il Sol che all'Oeeàn fiammeo ricade,
Vario-tinge le nubi, e lascia il mondo
All'atra Notte che muta lo invade.
  tutto è mesto: e dal cimmerio fondo
S'alzan con l'Ore negre e taciturne
Oscuritate e Silenzio profondo.
 ra l'istante che su squallide urne
Scapigliata la misera Eloisa
Invocava le afflitte ombre notturne;
  su1 libro del duolo u' stava incisa
ETERNITADE E MORTE, a lamentarsi
Veniasi Young sul corpo di Narcisa:
 h'io smarrito in sembiante, e aperti ed arsi
I labbri, e incerto i detti, e gli occhi in pianto,
Coi crin sul fronte impallidito sparsi,
 ddio diceva a Laura, e Laura intanto
Fise in me avea le luci, ed agli addio
Ed ai singulti rispondea col pianto
  mi stringea la man: - tutto fuggìo
Della notte l'orrore, e radïante
Io vidi in cielo a contemplarci Iddio,
  petto unito a petto palpitante,
E sospiro a sospir, e riso a riso,
La bocca le baciai tutto tremante.
  quanto io vidi allor sembrommi un riso
Dell'universo, e le candide porte
Disserrarsi vid'io del Paradiso....
 eh! a che non venne, e l'invocai, la morte?




[14]

Notturno

Sonetto

     Lo stamparono gli editori fiorentini nel vol. II dei Saggi di critica, XI delle Opere, ed. Le Monnier, con questa nota:
 Ce ne diede copia il sig. F. De Pellegrini autore delle Cantilene popolari, come di componimento che a Venezia ognuno riconosce essere del Foscolo. E veramente l’affetto, la melanconia e lo stile ci sembrano di lui".
 on v’ha dubbio che il sonetto è del Foscolo. Evidentemente è una prima lezione del sonetto maggio V, che presenta lo stesso ultimo verso, a parte la variante "t’invola / t’asconde". (Chiarini)
 critto a Venezia nel 1797, pubblicato postumo, fu poi rifuso nell'altro "Di se stesso all'amata". Il titolo "Notturno" è dell'editore. (Ludovico Magugliani)

 uando la terra è d'ombre ricoverta,
E soffia '1 vento, e in su le arene estreme
L'onda va e vien che mormorando geme,
E appar la luna tra le nubi incerta;

 orno dove la spiaggia è più deserta
Solingo a ragionar con la mia speme,
E del mio cor che sanguinando geme
Ad or ad or palpo la piaga aperta.

 asso! me stesso in me più non discerno,
E languono i miei dì come viola
Nascente ch'abbia tempestata il verno;

 hè va lungi da me colei che sola
Far potea sul mio labbro il riso eterno:
Luce degli occhi miei, chi mi t'invola?




[15]

AL SOLE

 critto e pubblicato nel 1797.

 lfin tu splendi, o Sole, o del creato
Anima e vita, immagine sublime
Di Dio, che sparse la tua faccia immensa
Di sua luce infinita! Ore e Stagioni,
Tinte a vari color danzano belle
Per l'aureo lume tuo misuratore
De' secoli, e de' secoli scorrenti,
Alfin tu splendi! tempestoso e freddo
Copria nembo la terra; a gran volute
Gravide nubi accavallate il cielo
Empian di negre liete, e brontolando
Per l'ampiezza dell'aere tremendi
Rotolavano i tuoni, e lampi lampi
Rompeano il bujo orribile. - Tacea
Spaventata natura; il ruscelletto
Timido e lamentevole fra l'erbe
Volgeva il corso, nè stormian le frondi
Per la foresta, nè dall'atre tane
Sporgean le belve l'atterrita fronte. -
Ulularono i venti, e ruinando
Fra grandini, fra folgori, fra piove
La bufera lanciosse, e riottoso
Diffuse il fiume le gonfie e spumose
Onde per le campagne, e svelti i tronchi
Striderono volando, e da’ scommossi
Ciglion dell'ondeggianti audaci rupi
Piombàr torrenti, che spiccati massi
Coll'acque strascinarono. Dal fondo
D'una caverna i fremiti e la guerra
Degli elementi udii; Morte su l'antro
Mi s'affacciò gigante; ed io la vidi
Ritta: crollò la testa e di natura
L'esterminio additommi. - In ciel spiegasti,
O Sol, tua fronte, e la procella orrenda
Ti vide e si nascose, e i paurosi
Irti fantasmi sparvero.... ma quanti
Segni di lutto su i vedovi campi,
Oimè, il nembo lasciò! Spogli di frutta,
Aridi, e mesti sono i pria sì vaghi
Alberi gravi, e le acerbette e colme
Promettitrici di liquor giocondo
Uve giacciono al suol; passa 1'armento
E le calpesta; e istupidito e muto
L'agricoltore le contempla e geme.

 ntanto scompigliata, irta e piangente
Te, o Sol, ripriega la Natura, e il tuo
Di pianto asciugator raggio saluta;
E tu la accendi, e si rallegra e nuovi
Prometto frutti e fior. Tutto si cangia,
Tutto père quaggiù! Ma tu giammai,
Eterna lampa, non ti cangi? mai?
Pur verrà dì che nell'antiquo vòto
Cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo
Ritirerà da te: non più le nubi
Corteggeranno a sera, i tuoi cadenti
Raggi su l'Oceàno; e non più l'Alba
Cinta di un raggio tuo, verrà su l'Orto
Ad annunziar che sorgi. Intanto godi
Di tua carriera: oimè! ch'io sol non godo
De' miei giovani giorni: io sol rimiro
Gloria e piacere, ma lugubri e muti
Sono per me, che dolorosa ho l'alma.
Sul mattin della vita io non mirai
Pur anco il Sole; e omai son giunto a sera
Affaticato; e sol la notte aspetto
Che mi copra di tenebre e di morte.
 
 


[16]

LA GIUSTIZIA E LA PIETÀ

Questo poemetto in due canti fu scritto nel 1797 e pubblicato la prima volta nello stesso anno  in un opuscolo in 8° col frontespizio seguente: "

La
Giustizia e la Pietà
Canti due
A Sua Eccellenza
Angelo Memmo IV
Nel suo regresso dalla Reggenza
Di Chioggia.
MDCCXCVII .
Al frontespizio segue questa dedica:
Al
giusto e pietoso
Angelo Memmo IV
benemerito
Rettore di Chioggia
la
gratitudine e la reverenza
di
Angelo Chiozzotto
D. O. C.

 l signor Tommaso Emanuele Cestari, che trovò questo opuscolo nella Marciana, ne trasse copia e la mandò al Bianchini. Il Bianchini la comunicò me, che me ne servii per la prima edizione critica delle Poesie del Foscolo; credendola esatta, non pensai a farla riscontrare con la stampa. Ciò che io non feci, lo fece poi il Mestica, il quale potè così correggere alcune inesattezze, che naturalmente ho poi corrette anch'io.
 l Bianchini, mandandomi la copia dei Canti, vi aggiungeva queste notizie estratte dalla lettera con cui il Cestari l'aveva inviata a lui:
  Nell'autunno del 1846, il signor Cestari, ordinando gli opuscoli della Marciana, ne trovò uno sulla cui copertina era scritto: Canti di Ugo Foscolo dedicati a Memmo IV da Angelo Chiozzotto. Lettili e fattili leggere ad alcuni amici, fra i quali il Carrer, che tutti li giudicarono opera del Foscolo, il signor Cestari, desideroso di accertare anche meglio la loro autenticità, si rivolse ad un suo parente in Venezia, il signor Felice Chiozzotto, figlio del nominato Angelo Chiozzotto, che avea fatti imprimere e dedicati a Memmo IV i due Canti. Felice Chiozzotto avea da fanciullo conosciuto il Foscolo, che usava frequentemente in casa del padre suo. Fatta qualche ricerca fra le carte di famiglia, il Chiozzotto vi rinvenne un'altra copia dell'opuscolo trovato dal Cestari nella Marciana, ma niente altro che potesse dar lume intorno a quella poesia. Disse però al Cestari, rammentarsi che nè suo padre nè alcuna delle persone che praticavano in casa sua erano soliti scriver versi, ad eccezione del Foscolo; il quale spesso ne componeva anche d'improvvisi e satirici, che andava poi recitando nelle allegre brigate: ritenere egli perciò che il Foscolo fosse senz'altro l'autore dei Canti.
  Il signor Cestari, avutane licenza dal Chiozzotto, voleva nel 1847 pubblicarli, e ne diede fuori l'avviso: ma il ritardo della Censura austriaca a dare il permesso di stampi e gli avvenimenti politici sopravvenuti lo distolsero da quella pubblicazione ".

CANTO PRIMO.

 uando l'Eterno passeggiò col guardo
Tutto il creato, diffondendo intorno
Riso di pace, e fiammeggiar si vide
Ne' cieli il Sole, e rotear le stelle
Dietro la dolce-radïante Luna
Tra il fresco vel di solitaria notte,
E germogliò natura, e al grigio capo
Degli altissimi monti alberi eccelsi
Fèro corona, e orrisonando udissi
L'ampio padre Oceàn fremer da lungi;
Sin da quel giorno d'aquilon su i vanni
Scese Giustizia, e i fulmini guizzando
Al fianco le strideano, i dispersi
Crini eran cinti d'abbaglianti lampi.
In alto assisa vide ergersi il fumo
D'innocuo sangue, che fraterna mano
Invida sparse, e dagli vacui abissi
A tracannarlo, e tingersi le guance
Morte ansante lanciossi: immerse allora
La Dea nel sangue il brando, e a far vendetta
Piombò su l'orbe, che tacque e crollò.
Ma fra le colpe di natura infame
Brutta d'orrore la tremenda Dea
Si fe' nel viso, e '1 lagrimato manto
E le aggruppate chiome ad ogni scossa
Grondavan sangue, e fra gemiti ed ululi
S'udia l'inferno e la potenza eterna
Bestemmiando invocati. - A un tratto sparve
Contaminata la Giustizia fera,
E al sozzo pondo dell'umane colpe
Le suo immense bilance cigolaro;
Balzò l'una alle sfere, e l'altra cadde
Inabissata nel tartareo centro.

 'Onnipossente dal più eccelso giro
Della sua gloria, d'onde tutto move,
Udì le strida del percosso mondo,
E al ciel lanciarsi la ministra eterna
Vide: accennò la fronte, e le soavi
Arpe angeliche tacquero; e la faccia
Prostraro i cherubini, e '1 firmamento
Squassato s'incurvò. - Verrà quel giorno,
Verrà quel giorno, disse Dio, che all'aere
Ondeggeranno quasi lievi paglie
L'audaci moli; le turrite cime,
D'un astro allo strisciar, cenere e fumo
Saranno a un tratto; tentennar vedrassi
Orrisonante la sferrata terra,
Che stritolata piomberà nel lembo
D'antiqua notte, fra le cui tenèbre
E Luna e Sol staran confusi e muti;
Negro e sanguigno bollirà furente
Lo spumante Oceàn, rigurgitando
Dall'imo ventre polve e fracid'ossa,
Che al rintronar di rantolosa tuba
Rivestiran lor salma, e quai giganti
Vedransi passeggiar su le ruine
De' globi inabissati! E morte e nulla
Tutto sarà: precederammi il foco,
Fia mio soglio Giustizia, e fianmi ancelle,
Armate il braccio ed infiammato il volto,
Ira e Paura! Ma Pietà sul mondo
Scenda sino a quel giorno, e di tremenda
Giustizia fermi l'instancabil brando.
Disse; e Pietà, dei Serafin tra mille
Voci di gaudio, dell'Eterno al trono
Le ginocchia piegò; stese la palma
Il Re dei re su la chinata testa,
E l'unse del suo amor. Udissi allora
Spontaneamente volteggiar pe' cieli
Inno sacro a Pietà: m'udite attenti
E terra e mar, e canterò; m'udite,
Chè questo è un inno che dal ciel discende.

CORO.

Candida al par di neve, e pura e bella
Siccome raggio di lucente aurora,
O del trono di Dio splendida ancella.

SEMICORO.

E quando il Sole l'universo indora:
Tanto col guardo tuo tu bèi Natura,
Che da lungi ti sente e che t'adora.

CORO.

Candida al par di neve, e dolce e pura
Siccome raggio d'aspettata aurora,
Che il velo rompe della notte oscura.

SEMICORO.

O dell'eterno Amore eterna Suora,
Tua mano tutto colorisce e molce,
E Dio intanto ti guarda, e s'innamora

CORO.

Candida al par di neve, e fresca e dolce
Siccome raggio di novella aurora,
Che drizza i fiori, li ravviva e folce!

SEMICORO.

Scendi tu rapida, scendi sul mondo,
Stendi pietosa le braccia, e a' miseri
Tergi le lagrime col crine biondo.

TUTTI.

Scendi tu rapida, scendi sul mondo.

 ll'arpeggiar di mille aurate cetre,
All'inneggiar di mille Angeli, e mille
Spirti di Paradiso, erse la fronte
Pietà, la bella fra le belle Dive
Che sotto l'alto padiglion del Sole
Fanno sgabello dell'Immenso al trono;
Erse la fronte, e su leggera nube,
Cui fra colori candidi e rosati
Trapelan raggi di beltà celeste,
Scese sul mondo: al suo passar di doppia
Luce brillàr le mattutine stelle,
Al suo passar piobbero fiori intorno,
E l'aer che vide quel beato riso,
Con zeffiri giocondi le rispose.
Girò lo sguardo, e di mortali eletti
Vide uno stuolo; e il manto ampio di tergo
Si cinse, e diello a quei che temprar sanno
Con pietade giustizia; indi rivolse,
Poichè sorrise su la mesta terra,
L'alata nube vèr l'empiree volte,
Il suo ricovrator manto lasciando.
 

CANTO SECONDO.

O beato colui, che il sacro manto
Di pietà stende, ed il sudor non terge
Dalla stanca sua fronte, onde in soave
Obblio sopire l'infinite angosce
Dell'infelice umanità! Beato
Tre e quattro volte! e te beato, o Memmo,
Angelo in terra, che nel sangue mai
Tingesti il ferro, che a tua rnan commise
Giustizia dura, pria che il dolce labbro
Della Pietà nel generoso petto
Con accenti caldissimi, sublimi
A pro dell'uom, che di non visti casi
Tratto è dall'urto a involontarie colpe.
Te la più bella fra le belle Dive,
Pietà, nel giorno che gl'illirj campi
In maestà calcasti, e passeggiava
A te dinanzi colla spada in alto
Giustizia fera, te Pietà clemente
Segni di retro, e benedì tua destra
Il villanello, che su i pingui còlti
Con l'innocente famigliuola il grano
A' rigidi apprestava boreali
Giorni del verno; e il pescator stillante
Dalle lacere vesti, e dalle fredde
Membra marine gocce accolte in ghiaccio
Dall'impetrita sabbia, inni ed evviva
A te lanciava, e a tua pietà! S'udiro
Quando partisti lamentose e sole
Errar le Ninfe, dell'illiria terra
Presidi eterne, e di Memmo, e di Memmo
Gir ripetendo fra sospiri il nome.
E per più giorni impietosita l'Eco
Memmo d'intorno rispondeva Memmo.

 e accompagnò Pietà quando volgesti
Leggiadramente alteramente un tempo
Per le cerulee splendidissim'onde
Dell'Ionio soggetto aurata nave
Cinta di quercia; su l'eccelsa prora
Stea tua fortuna, ed al governo attento
Presiedeva il tuo fato, augusto fato
Da Dio scolpito nell'eterno Ebro:
Zeffiro fra le vele agili piume
Spiegava, e '1 crin della superba testa
Del tuo Leon, che ti ruggiva al fianco,
Scuotea passando. Di trofei ricinta
Te Corcira adorò; d'Itaca i solchi
Al tuo apparire germinaro, offrendo
A te raro tributo; e Cefalene 160
Ancor ne serba la memoria dolce.
Ma Pietà tacque, e tuonasti vendetta
Decretata già in ciel, quando alle ricche
Zacintie spiagge tu lanciasti un guardo.
Tremaro. Ahi come abbandonate e sole
Stavan su i freddi talami le meste
Consorti cinte dai piangenti figli!
Ahi come il sangue uman sparso dell'uomo
Scorreva a rivi! ahi come in man del ladro
Era la lance di giustizia, e come
Tutto era notte, tempesta, spavento!
Ma tu sorgesti, e il lutto sparve: ancora,
Al Memmio nome, l'omicida infame
Getta il pugnale, ed all'aratro torna,
Onde sien carchi di Britannia i pini, 175
Del dolce frutto di Zacinto onore.

 a te richiama, e tua pietà, la mite
Città di Clodio, e tu rimetti il brando
Nella vagina, e col soave manto
Della pietà per le contrade umìli
Passi e sorridi, e si rallegra il retto
Popolo industre, che di frutta e fiori,
E di coralli, e di crostacei t'offre
Pieni canestri, e le navali moli
T'addita al guardo, che dal genio erette
Di non superbo artefice, vedransi
Dovizïanti, e d'ampie merci onuste
Un giorno forse primeggiar su i mari.

 uando il settentrion l'onde solleva,
Quando sul lido la procella mugge, 190
E notte casca sul turbato mondo,
Quante s'ingoja, oimè! vittime umane
L'irato mare; quante disperdendo
Vane querele nell'iante bocca
Soffoca il nome di padre e di figli!
Chè senza scorta il navigante invano
Drizza le vele, ed il timon governa
Fra il calcato notturno immenso orrore.
Ma di te, padre di tua grata gente,
Angel sublime, ell'è opra (di te degna)
La somma lampa che s'estolle, e annunzia
Di Memmo il vanto sul marmoreo ponte,
Che innanzi alla città tutto il mar guarda.
Oh quante volte il liberato amico
Baciar vedrassi su quel ponte; oh quante 205
Di benedizïon tenere voci
S'udranno sparse a te; quante corone
Su la memore lapide sacrate,
Poichè tu scorta a' naviganti ergesti,
E bastò Memmo gl'implacati flutti
Deluder solo, ed il furor dei venti!

 èra colui che il popolar diritto
Infranse primo, e calpestò la plebe
Schiava, già donna di sè stessa e d'altri.
Tu, Memmo augusto, dal suo vile fango
L'alzasti, e i dritti antiqui ormai scordati
Tu le rendesti, e di Pietà fu voce
Mista a Giustizia; e in te l'orgoglio tacque,
Che prepotente di chi regna, siede
Sul soglio, e spegne di virtù la face;
E tu mostrasti alla clodiense gente
Che mal s'accorda con virtù l'orgoglio.

 el giudizio final suoni la tromba,
E l'Eterno discenda; innanzi al santo
Giudice tremendissimo trarranti
E Giustizia e Pietà: Quest'è il ministro,
Diran, sacro a noi sole. Echeggeranno
Gli angeli tutti, e su le candid'ali
Tra plausi eterni recheran tuo spirto
Nell'increata inenarrabil luce.
 


Appendice
Poesie giovanili

[17]

A VENEZIA

 crutto nel 1796, fu stampato la prima volta, nell'Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi, Venezia, 1797, con questa nota, che probabilmente è dell'autore. " Questo sonetto fu scritto quando Venezia oligarchica si decise neutra. I patriotti che non sono del 14 maggio lo conoscono sin da quel tempo...".

Sonetto.

  di mille tiranni, a cui rapina
Riga il soglio di sangue, imbelle terra!
'Ve mentre civil fama ulula ed erra,
Siede negra Politica reina;

 immi: che mai ti val se a te vicina
Compra e vil pace dorme, e se ignea guerra
A te non mai le molli trecce afferra
Onde crollarti in nobile ruina?

 ià striscia il popol tuo scarno e fremente,
E strappa bestemmiando ad altri i panni,
Mentre gli strappa i suoi man più potente.

 a verrà il giorno, e gallico lo affretta
Sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni
Farà col loro scettro alta vendetta.
 
 
 

[19]

AI NOVELLI REPUBBLICANI

 critta nel 1797 dopo la caduta del regime oligarchico e la proclamazione della Repubblica democratica a Venezia, fu pubblicata la prima volta nel 1797 in un opuscolo con questo frontespizio:

A'
REPUBBLICANI
ODA
DEL CITTADINO
NICCOLÒ UGO FOSCOLO.
Deliberata morte ferocior.
VENEZIA
ANNO PRIMO.
Registrato al Comitato d'istruzion pubblica
dall'autore
e ristampata nell'Anno poetico dello stesso anno 1797.

 ell'opuscolo seguono al frontespizio una Lettera dedicatoria a Gioan Dionigi Foscolo ed alcune Note illustrative, che riferiamo qui appresso.
 arve al Mestica, e pare anche a me, che l'edizione dell'Anno poetico sia posteriore, e che perciò le diversità di lezione fra essa e l'opuscolo siano vere e proprie correzioni fatte dall'autore nell'Anno poetico. Per questa ragione anche nella presente nuova edizione delle Poesie del Foscolo metto nel testo la lezione dell'Anno poetico, e do nelle varianti la lezione dell'opuscolo; benchè all'Antona-Traversi, ch'ebbe il merito di scoprirlo e ristamparlo nelle sue Curiosità foscoliane, la lezione di esso sembri migliore. Ecco la Lettera dedicatoria e le Note illustrative.

A
GIOAN-DIONIGI FOSCOLO.

  Eccoti un oda che ti spetta perchè ispirata dall'amore di libertà. Ei ti guida alle schiere di Bonaparte, e tu fra i soldati repubblicani morrai forse felice veggendo le patrie bandiere annunziar la vittoria. Nè la mia sorte è già dubbia: io mi resi santo il proposito di morir con la libertà, e di espormi contro il furore della licenza prima motrice di tirannia: difficile impresa ma degna di tutti i liberi. Io gli invito a seguirmi, e sieno più feroci di me, ch'io sarò lor seguace. Ove ciò sia non dei più temere della vera repubblica. I democratici deliberati atterriscono tutti i popoli: noi sarem liberi veracemente o morremo. - Salute.
Tuo FRATELLO.

  Credo adattata a qwest'oda la lettera scritta a Tullio da Marco Bruto. Ella nel Consolo, e nell'Oratore di Ronia, ci pinge l'uomo malfermo, e quindi il non vero Repubblicano.

MARCO BRUTO A CICERONE
SALUTE.

  A te non duole il tiranno; bensì ti duole il tiranno nemico. Soffrire un servaggio piacevole: ecco il tuo scopo. Quind'è che mi pinsi fra gli ottimi l'Addottivo di Cesare. Ma sai tu pure che i nostri padri sempre abborrirono qualunque signoria benchè mite. Per me non ho ancor divisato nè riposo, nè guerra; ho bensì fermamente proposto di non servire. Meravigliomi che il timor d'una guerra civile l'orror tutto ti sgombri d'una pace dannosa ed infame. Soqquadrasti la tirannide di Marc'Antonio, e chiedi perciò in mercede quella del Figlio di Cesare, sta sano.
(Versione da Plutarco nella vita di Bruto).

  Lo spirito di quest'oda, e le stanze VI e seguenti sino alla X esigono che preceda il presente squarcio."

  La legge agraria vietava in Roma le immense ricchezze cagioni d'immensa miseria, di ineguaglianza, e d'oligarchia. Obbliata perchè non cara a potenti fu da Tiberio Gracco restituita. Il Senato s'oppose; il popolo la protesse: l'interesse piu che la santità della legge animava le due fazioni. Dopo lunghe contese Tiberio, benchè tribuno della plebe, fu ucciso, e gettato co' suoi seguaci nel Tevere.
  Caio Gracco suo Fratello minor di nov'anni vide Tiberio fra l'orror della notte: - Che stai? gli disse: non v'ha riparo; tu dei seguirmi. Questa visione la narra Tullio, e Plutarco la adotta. Tutti i veri Repubblicani hann'un genio che li rende divini; e questo genio gli offrì la larva notturna ond'ei si mosse dietro le traccie Fraterne. Propose con forza la legge Agraria e la difese con forza. Il senato mostrossi feroce ed artifizioso: il popolo seguì Gracco suo tribuno: ma quando non vinse l'oro? Successe alle dispute il sangue. Cajo sublime in campo e vincitore della Sardegna, ma nemico dell'ire interne, ne pianse. Opimio Consolo sorprese per mezzo de' mercenarj il tribuno che non volle al suo fianco la plebe armata mostrandosi inerme nel Foro.
  Assalito non chiamò i suoi: fra le stragi de' cittadini fuggì con un servo nel tempio di Diana dove previde Roma futura: ind'inseguito, corse pel ponte Sublicio nel bosco sacro alle furie. Tentò per via di trafiggersi ma fu impedito: involandosi a suoi famigliari gridava "aborro il sangue civile" Filocrate lo seguì, e per suo cenno il trafisse ma poscia immergendosi in petto il pugnale medesimo, abbracciò Cajo agonizzante, e spirò. I corpi furon del Tevere. La Madre di Caio non pianse: narrando i fatti de' suoi figli chiamavasi: "CORNELIA MADRE DEI GRACCHI".

ODE.

 uesto ch'io serbo in sen sacro pugnale,
Io l'alzo, e grido a l'universo intero:
" Fia del mio sangue un dì tepido e nero
" Ove allontani le santissim'ale
" Dal patrio cielo Libertà feroce ".
Già valica mia voce
D'Adria le timid'onde,
E la odono echeggiando
Le marsigliesi sponde.

 oi, che ignari di voi, già un tempo feste
Di mille regi sanguinarj al soglio,
Cui cingeva Terror, Morte ed Orgoglio,
Sgabello ecceIso de l'oppresse teste;
E de gli ottimi al sangue inutil pianto
(Di tirannide vanto!)
Mesceste a' piè de li empj;
Sorgete: il giorno è giunto
Di vendetta e di scempj.

  l'Armi! Enteo furor su voi discende
Che i spirti sgombra, e l'alme erge ed avvampa
E accesa in ciel di ragion la lampa,
Vi toglie a gli occhi le ingannevol bende.
Che ragion, figlia di dio, v'invita
A vera morte, e addita
I rei petti esecrandi
Ove, piantate, grida,
Infin a l'elsa i brandi.

 remate? e invece d'inimico sangue
Lacrime infami il ferro imbelle gronda?
A che di civil quercia augusta fronda
Chieder, se ardor civile in sen vi langue?
- Baciar vi veggio, e tergere col crine,
O Spartane eroine,
Le piaghe de' feriti
Figli, e vantar la morte
De' padri e de' mariti!

 a Genio intanto a noi scende di pace,
E con la destra un ramuscel di ulivo
Alza, e dolce cantando inno giulivo,
Scote con l'altra man candida face;
E de le morte età la tacit'ombra
Col puro lume ei sgombra,
E sul sublicio ponte
Mostra il secondo Gracco
Pallido e cupo in fronte:

 u fuggi, o Caio? e ov'è la tua possanza
E il tuo repubblicano almo furore?
E del divino tuo tenace core
La mai non atterrita ov'è fidanza?
Nudasti il brando; e su le sarde porte
Presentasti la morte:
Tuonasti il vero; e doma
Al tuo parlar tremonne
La senatoria Roma.

 uando a l'orror di notte taciturna
Del tuo spento fratel lo immane spetro
Coi crin su gli occhi, e sanguinoso e tetro
Surse del Tebro da l'incognit'urna,
Al lampeggiar di livido baleno
Voce da l'imo seno
Trasse e gridò: Che stai?
T'alza; tuo fato è scritto:
Di mia morte morrai.

  dal fatal suo genio a man guidato
Le agrarie leggi e le virtudi antiche
Chiamasti al popol vulgo omai nemiche,
E più nemiche del tiran senato:
Ma Roma freme; e fra tremendi carmi
Suonan tremende l'armi:
Or dove cerchi scampo?
Perchè l'acciar non vibri
Che ti fè primo in campo?

 a voce fra 'l lontan spazio degli anni
Mi dice: Infame è chi nel patrio petto
Immerge il ferro per la patria stretto 75
Onde balzar dal soglio empj tiranni:
O padre, o padre! nell'elisie sponde
Cinto di triste fronde
Scendo, ma non mi vedi
Di civil sangue lordo
Nè fra regali arredi. -

 ur non vi lece le mal-ferme spade,
O di novella libertà campioni,
Ripor, chè caldo dai calcati troni
A stilla a stilla ancora il sangue cade;
- Sia pace: - Armati di terror la faccia,
Pronte a ferir le braccia
Aggiate intanto, o prodi:
Cadran sepolte e nulle
Le tirannesche frodi.

 ile è il torpor ch'a intiepidir vostr'alme
Al molle avvezze infame empio servaggio,
Piove, e cieche le rende al divin raggio
Di Libertà ch'auro diffonde e palme:
Folle è la Fama, e mille ha orecchie e lingue
Nè il falso e il ver distingue:
Quindi ministra omai
D'oligarchica rabbia
Sogna menzogne e guai.

  guai sien pur: nè sol a Grecia e a Francia,
Nè sol a' Fabj ed ai roman cavalli,
Vincer fu dato i Sersi e gli Anniballi,
Alto-squassando la funerea lancia.
E noi liberi siam. - Ben l'universo
Sia contro noi converso.
Forse sol degno è Cato
Di morir con acciaro
A libertà sacrato?
 
 

[20]

FRAMMENTO DELLA CANTICA

IL ROBESPIERRE

 critto forse nel 1796, fu pubblicato postumo dagli editori delle opere del Foscolo (Firenze, Le Monnier) nel vol. II dei Saggi critici, pag. 343, in fine di una lettera a Paolo Costa dell'anno 1796.

 al del Giordan sul margo un di solia
Pianger l'arsa Sionne e il tempio infranto
L'ispirato dall'alto, Geremia.
  ad ogni verso del funereo canto
Contemplava le meste onde scorrenti
Tacito, immoto, colle luci in pianto.

(Robesp. c. II).

[21]

PRINCIPIO DEL PARADISO PERDUTO

DA MILTON

 u pubblicato la prima volta dal Carrer nella sua edizione delle Prose e poesie di Ergo Foscolo (Venezia, coi tipi del gondoliere, MDCCCXLII).

Dell'uom la prima inobbedienza e il frutto
Dell'arbore vietata, onde l'assaggio
Diede noi tutti a morte e all'infinite
Miserie, lungo dal perduto Edenne,
Finchè l'uomo divino alle beate
Perdute sedi redentor ne assunse,
Canta, o Musa celeste! E tu in Orebbo,
E tu del Sinai sul secreto giro
Già spiravi il pastori che....



Poesie Varie

APPENDICE

VERSI DELL'ADOLESCENZA

 ueste poesie videro tutto insieme la luce nel libretto " Poesie inedite di Nicolò Ugo Foscolo tratte da un manoscritto originale. - Neget quis carmina...? Virg. - Lugano, Ruggia, 1831 ". Un'avvertenza degli editori dice che il Foscolo offrì il manoscritto di esse poesie all'amico suo Costantino Naranzi nell'anno 1794, dal che risulterebbe ch'egli le compose nell'età fra i 14 e i 16 anni.
 recede alle Poesie questa lettera dedicatoria: "
A COSTANTINO NARANZI. Amico. L'Amore, quella divinità più benefica all'uomo, che anima la nostra esistenza, e che c'illude con delle immagini di voluttà e di speranza, l'amore mi ha dettato que' versi, ch'offro al mio sensibile amico, al compagno più tenero de' miei giorni perseguitati ed afflitti. Ei leggeralli con quell'entusiasmo che gli ecciterà l'affetto il più sacro, e gli occhi suoi, lagrimando, li contempleranno in quell'ore che la memoria di me gli richiamerà le rimembranze più care. A me basta ciò: sarò felice se quest'ingenui miei voti s'adempieranno, e se l'amicizia accoglierà i versi d'un sensibiI core. N. F. "
 ermina il libretto con questa "
Nota. Amico. Eccoti i versi che tu m' hai chiesto. Mi resta soltanto ad avvertirti che l'oda XXXIV d'Anacreonte è piuttosto parafrasi che versione; se la desideri tradotta con maggior fedeltà, eccola.

 on mi fuggir se candido
Vedi il mio crin; se il fiore
Di giovanezza adornati
Non ricusarmi amore.

 edi, fanciulla amabile,
Come ne' serti il giglio
Sovrasta col suo niveo
Di rosa al bel vermiglio

 immi, qual più ti piace?

     Altre versioni di questo vecchio, e Teocrito e Mosco ed Orazio, Tibullo, Properzio e qualch'altro alemanno od inglese mi rimanevano ad offrirti, se la picciolezza di questo volume non mi avesse astretto a tenerle dietro. Cosí un piccol saggio delle mie poesie campestri avea già divisato di scriverti; ma egual motivo deluse ogni mia speranza. Se tu accetti questi versi con quella compiacenza medesima, con la quale non te li seppi negare, e con la quale te li offro, io mi chiamerò pago e felice e dei miei versi e di mia tenue fatica. Addio".



INNI ED ELEGIE

Non vitatur amor ...

Sannaz.

[22]

I.  ALLA BELLEZZA.

  tu, cui dolce imperio
Sa i cor natura diede,
Bionda beltà, cui servono
Tenero Amore e Fede,
 e' versi miei spontanei
Accetta ingenuo dono,
Se a te i miei versi piacciono
Anch'io poeta or sono.
 'un tuo sorriso roseo
Irraggia i canti miei,
Che i tuoi sorrisi beano
Fin su l'Olimpo i Dei.
 u di leggiadra vergine
Splendi negli occhi vaghi,
Donde con dardi amabili
Soavemente impiaghi;
  tu sul labbro armonico,
O Dea, vi stai scolpita,
Che mentre accenti modula
A sospirare invita.
 ncelle tue ti sieguono
Le linde Grazie, e stanno
TuttE su un braccio latteo
Con cui tu tessi inganno;
 nganno tessi; e all'anima
D'un giovanetto amante
Rendi più dolce e tenero
Il vezzo più incostante.
 a, o bionda Dea, se furono
A te miei spirti avvinti,
Se i miei versi cantarono
Da' tuoi color dipinti;
 ietà d'un Vate: al misero
Gli arde fanciulla il seno;
Fa' ch'ella sia più stabile,
O men vezzosa almeno.
 ola ne' dì purpurei
Il garzoncel di Flora;
Vieni, ella dice, o Zefiro,
In braccio a chi t'adora;
 Vieni.... Ma sordo e celere
Ei fugge, e non l'ascolta;
Quando a lui piace è libero,
E la catena ha sciolta.
 hi che pur scioglie il laccio
Questa tiranna mia;
Ama; ma impune fuggesi
D'amor s'ella il desia.
 asso! ch'io pur desidero
Fuggir da' lacci suoi,
Ma tu, Beltade amabile,
Tu consentir non vuoi.


[23]

A VENERE.

  te, leggiadra Venere,
Te canteremo ancora,
O Dea, più fresca e rosea
Della serena Aurora;
 e, cui le Grazie morbide
Sieguon coi biondi Amori,
Te, che tra Giuno e Pallade
Avesti i primi onori.
 a non avrai di giubilo
Canti, vezzosa Dea;
Suoni giocosi ed ilari
La cetra un dì spargea;
 r già non più: chè scorsero
Que' sì beati giorni,
Sacri ad amor purissimo,
Da mutua pace adorni.
 e di fanciulla instabile
Arde l'incerta fede;
Mal possono le lagrime
Di cui le bagno il piede.
  te ricorro io supplice,
O tra la belle bella;
Almen tu, piega l'anima
Della mia rea donzella.
 e di Neera il tenero
Cantor chiamar solea,
Quando fra voti flebili
All'are tue sedea;
  con fragranti aromati,
Con fiori al suol, dispersi
Su la gemente cetera
A te innalzava i versi.
 'aitasti, o Dea? le lagrime
Tergesti a lui pietosa?
Tornò per te a quel misero
La ninfa sua ritrosa?
 h no! tu, Diva idalia,
Che in ogni dove imperi
Su l'infelice giovane
Giravi i lumi alteri.
 è Adon membrasti, e i gemiti,
E il ripercosso petto,
Allor che in sè porgeati
De' mali suoi l'aspetto,
 e pure Amor con l'aureo
Dardo, te pur ferìo;
Lo sa il tuo cor medesimo
Quanto è tiran quel Dio.
 ianti d'amor sgorgarono
Dal tuo beante ciglio;
Eppur, ch'il crede? piacquero
Quei pianti al crudo figlio
 ietà, gran Dea: d'un misero
Alleggia i tristi affanni,
Che di sua, età più florida
Consacra a te i begli anni.
 ietà! - La mesta effigie
Del volto mio tu mostra,
Tra le sognate immagini
A la fanciulla nostra.
 a' che il suo cor le palpiti
Con moto non più inteso;
Fa' che di fiamma ingenua
Sentasi il core acceso.
 h! se da quel di porpora
Labbro suonar io sento,
T'amo, per me nettareo
Per me beato accento;
 acerdotessa, o Venere,
Sempre farò che sia
Attenta ai tuoi misterii
Questa fanciulla mia.
 

[24]

III.  A SAFFO

 u che pietosi gomiti
Spargesti ognor cantando,
Che per garzone indocile
Di te vivesti in bando,
 u che fra meste tenebre
ore di duol passavi
Allor che il sonno, o il giovane
Ahi lassa! invan chiamavi,
 enera Saffo! un flebile
Poeta a te sen viene
A raccontarti il misero
Le sue amorose pene.
 e su le corde lidie
Talor piangendo invoco,
Acciò mio fiamme estinguere
Io possa almen per poco.
  te ne' carmi, o tenera
Fanciulla, ognor io chiamo,
Che al par di te fra lagrime
Son disprezzato, ed amo.
 mo: la nostra Venere
Non odo i voti miei,
Pur troppo è ver; son perfidi
Con l'infelice i Dei.
 a che mai dissi? e Cipria
Da te invitata un giorno
Con i giojosi passeri
Posò sul tuo soggiorno;
  a te tergea benefica
L'occhio dai pianti stanco
E ti porgeva ambrosia
Sedendosi al tuo fianco.
  a noi de' Numi il braccio
Aita dee prestare,
Che a noi son venerabili
Dei numi i riti e l'are,
 u pur se' Dea: memoria
Amor dei fidi serba,
E lor fa lieta l'anima
Dopo una vita acerba.
 a di'? Cessi di piangere
Là negli elisii campi?
O con le piante candide
Orme solinghe stampi?
 h! benchè spenta, o Lesbia,
Ancor sospiri ed ami,
E ancor l'ingrato giovane
Su l'arpa eolia chiami.
 e pur tra poco scendere
Fra tetre ombre vedrai;
Ma amante ancor; non spegnesi
Un vivo amor giammai.
 unerei fiori e nenie
Dell'infelice madre
Me seguiran già cenere
Fra sorde pietre ed adre,
 a amore, amor indomito,
Sia con quest'alma insieme;
Forse sarà più orribile,
Chè allor fura ogni speme.
 ur morirò: tu tenera
Fanciulla a me ti mostra;
Noi piangerem dicendoci
La mutua doglia nostra.
 oi piangerem, e i queruli
Pianti saran soavi;
Fra gl'infelici sembrano
Le pene assai men gravi.
 


[25]

IL RITRATTO.

O tu, cui gli anni rosei
Sono dai vezzi adorni,
Cui dell'etade arridono
I più beati giorni,
Desii veder l'immagine
Del tuo lontano amico?
Odi i miei versi ingenui,
Chè sempre il ver io dico.
A me, gentile, amabile
Volto non diè natura,
Ma diemmi invece un'anima
Tenera, fida e pura.
E diemmi invece un fervido
Cor, cui non sono ignoti
D'amore e d'amicizia
I più soavi moti.
E diemmi un estro rapido
Che carmi ai labbri inspira,
Per cui non è tra l'ultime
Quest'amorosa lira.
Ma a te, fanciulla ainabile,
Questo non basta, è vero,
Non basta ai guardi cupidi
L'animator pensiero.
Sì, bella amica, a pingermi
Destro verrà pittore,
Ma potrà far che ispirino
Dolce quest'occhi amore?
E le mie guance giovani
Da pelo ancor non tinte,
D'amore con l'ingenuo
Rossor saran distinte?
Saprà ritrar l'effigie
Viva del volto mio
Allor che il seno m'agita
Per te di Pafo il Dio?
E saprà far che dicano,
Tacendo, i labbri miei
Che tu mi piaci, e ch'unica
Dea del mio cor tu sei?
Ah no, nol può! la rodia
Arte a' miei carmi cede;
Che amor l'agguaglia e supera
Ella medesma il vede.
Te pinsi, o bella; e il candido
Volto ognor stammi al fianco;
Nè mai, qual te, l'immagine
Mai di mirar son stanco.
Te pinsi; e i labbri, e i lucidi
Lumi, e le trecce bionde;
Lor parlo; e tosto il turgido
Bel labbro tuo risponde.
Di Tejo il vate pingere
Volle la bella amica,
Commise a industre artefice
Sì genïal fatica;
Ma che? conobbe ei subito
Lei nel dipinto aspetto,
Ma udir non fu possibile
Dai finti labbri un detto.
 


[26]

V.  ALL'AMICA INCERTA.

 erma, che fai? l'incauto
Piede ritira, e ascolto
Porgi ad un labbro ingenuo
Fino ch'il giogo hai sciolto.
 on fremi ancor? Ahi misera!
Il precipizio è aperto;
Mira lo scritto ferreo:
Alto infortunio e certo
 ià semi-spenta lampada
Luce all'orror funèbre,
E mostra assai più orribili
L'orribili tenèbre.
 omito è il duol; le lagrime
Grondano ognor dirotte,
E sol fra veglie scorrono
L'ombre d'odiata notte.
 i', che farai? Già echeggiano
Le tombe, e i santi altari
Sol di singulti flebili,
Solo di voti amari.
 egna il digiuno; ei stringere
Aspro flagel tu vedi;
Pur disperato e languido
Geme dell'are ai piedi.
 emi tu pure; e il gemito
Ch'a me su l'alma piomba,
Ah! t'aprirà cinerea
Troppo immatura tomba.
 e or non ti penti, ahi misera!
Fia il pentimento tardo;
Odi, tel dice squallida
L'amica d'Abelardo.
 edi Eloisa: assidesi
Su scanno nero e scabro,
E bevo le sue lagrime
Collo sfiorito labro.
 bbi rispetto, o infausto
Amor, abbi rispetto
A quel tetro silenzio
Che mi dilania il petto:
 lla sì grida; e tacita
Prende la penna in mano,
E alfine ardisce scrivere
Ad amator profano.
 h scrivi! ah scrivi! un barbaro
Non è dell'alme Dio,
Te involontaria vittima
L'altrui barbarie offrio.
 ull'ara augusta e candida
Arse l'incenso impuro;
Tremàr i cerei e il tempio
A quel tremendo giuro.
 a tu, Eloisa tenera,
No, non temer; conosco
D'un cor sforzato a piangere
Dio le proterve angosce.
 Tema flagello vindice
Chi sè spontaneo gli offre,
E gli ermi dì funerei
Con pago cor non soffre.
 cco il tuo fato; in braccio
Per sempre a lui ti getta,
Ma di'? vedrai tu intrepida
L'affanno che t'aspetta?
 iedi e ne godi: o il debile
Tuo collo al giogo appresta;
Ma trema; Iddio si vendica
Del cor che lo calpesta.
 


[27]

VI.  LA COLTURA.

 on de' cantati secoli
Invidio i giorni aurati:
Purchè tu il voglia, vivere
Potremo i dì beati.
 u m'ami, io t'amo; un docile
Legame ambo ci annoda;
Tu me non credi instabile,
Da te non temo io froda.
 osì gioia con Melide
Il Pastorello un giorno
Clio per sentiero incognito
La trasse a rio soggiorno.
 a deh! ch'il puoi, l'immagini
Lascia di moda, e ognora
Sol di piacer desidera
A chi solo t'adora.
 ella tu sei, più candida
Non fin che tu sia mai,
S'anco ti desse Cinzio
I fulgidi suoi rai.
 'Amor, di Fe, di Venere
Antica è pur la face,
Ma nuova è ancor che amabile,
E nuovo è ciò che piace.
 entre, il cantor di Cintia
Seco ad amar l'invita,
Le dice.- Amor è semplice,
Odia beltà mentita.
 egletta è ver, ma lucida
La chioma è di Nerea;
Tu incolta sembri Pallade,
Colta non sembri Dea.
 resce la rosa, e innostrasi
Fresca da sè soltanto;
Più dolce è senza artefice
Degli augellini il canto.
 ari alla Dive olimpie
Elena ergea la chiome,
Ma ognor fra gli uomin d'Elena
Vive esecrato il nome.
 on perch'io tema o tenera
Amica, di tua fede:
In sì bel volto ingenuo
La purità risiede.
 isiede sì; ma candida
Di fregio altro non cura;
Ed ha ragion, chè vendica
I dritti suoi natura.
 




ANACREONTICHE E CANZONETTE

Ognuno è reo,

Se delitto è l'amor.

METASTASIO.

ANACREONTICHE

[28]

I. L'INCHIESTA.

 Il Fratellin vezzoso,
Sempre tu piangi, ei dice;
Tenera età felice
Che non conosco amor!
 a ben verran quegli anni,
Che il Fratellin vezzoso
Non troverà riposo
Nel passionato cor.
 uel roseo volto, i guardi
Sì vivi e sì innocenti
Li mirerò dolenti
In atto di pietà.
 llor dirò: i miei pianti,
Quand'eri pargoletto,
Eran d'amore effetto,
Effetto di beltà.
 

[29]

II. IL RITRATTO.

 crivo che tu sei bella,
Scrivo che tutto è accolto
Sul grazïoso volto
De' vezzi il roseo stuol.
 crivo che i tuoi dolci occhi
Vibran soave foco,
Scrivo.... Ma questo è poco
Per sì gentil beltà.
 hi mai potria le grazie
Spiegar di quei colori,
Ove si stan gli Amori
Come sul loro altar?
 ir altro io mai non seppi
So non che tanto sei
Vezzosa agli occhi miei
Ch'altra non sanno amar.
 
 


[30]

III. IL DESIDERIO.

 o non invidio ai vati
Le lodi e i sacri allori,
Nè curo i pregi e gli ori
D'un duce o d'un sovran.
 aran miei dì beati
Se avrò il mio crine cinto
Di serto vario-pinto
Tessuto di tua man.
 aran miei dì beati
Se in mezzo a bosco ombroso
Il volto tuo vezzoso
Godrommi a contemplar.
 he bel vederci allora
Mille cambiar sembianti,
E direi: O cori amanti,
Cessate il palpitar!
 
 

[31]

IV. LA FEBBRE.

 ebbre le vene accende,
O Cloe, del tuo poeta,
E tu frattanto lieta
Passi cantando i dì.
 erbi così l'affetto
Che tu giurasti a lui,
I fidi merti sui
Compensi, o Cloe, così?
 isero giovanetto,
Che ad un'ingrata credi,
Cessa d'amar; non vedi
Ch'ella t'inganna ognor?
 ruda!... Ma dir vorresti:
Nol seppi, il giuro ai Dei:
Taci, spergiura sei,
Chè te lo disse Amor.
 
 

[32]

V. IL SERTO.

 ogliete, o pastorelli,
Cogliete vaghi fiori,
Chè deggio per gli albori
A Fille un serto far.
 arlo vorrei sol io,
Ma nol permetto l'ora,
Chè in Cielo già l'Aurora
Comincia rosseggiar.
  le dirò che il serto
Tessuto è di mia mano.
Ma che? così profano
Il labbro mio sarà?
 ai menzogner non fui,
E s'anche il fossi, ah! Fille
Fra mille fiori e mille
i miei distinguerà.
 
 

[33]

VI. IL POMO.

 omo ch'io colsi, e Cloe,
Da un arbuscel gentile,
Che a quei dei verde aprile
Non può invidiare i fior,
 omo ch'effigia e mostra
Del volto tuo la rosa,
Ti dona, o Cloe vezzosa,
Con la mia mano il cor.
 el chiese or or con Clori
La bruna Nice e Irene;
Ma il pomo sol conviene,
Mia bionda amica, a te.
 osì fra Tirai e Dafni
Da te ottenessi io fede....
Ma tu ti sdegni; ahi chiede
Un cuor quel che ti diè.
 
 


CANZONETTE

[34]

I. LA PARTENZA.

 artita è Cloe: ah! volino
Le Grazie a lei d'intorno,
E lieta l'accompagnino
Al rustico soggiorno.
 r forse è giunta, e tacita
Trascorre il campo aprico:
Deh! fra soavi palpiti
Rammenti il fido amico.
 uscel che scorri limpido,
Se ascolti il nome mio,
Più dolcemente mormora,
Dille che l'amo anch'io.
 uretta solitaria,
Se intorno a lei t'aggiri,
Con flebil suono annunziale
I mesti miei sospiri.
 ispi augellini teneri,
Ito dov'ella siede,
E con gorgheggio querulo
Le rammentato fede.
 oi pure amate, e il giubilo
È a voi compagno: io solo
Amo, ma spargo lagrime,
Amo, ma in mezzo al duolo.
 ur mi son dolci i gemiti
Per questo amor pudico;
Ah! fra soavi palpiti
Rammenti il fido amico.
 
 

[35]

II. LA LONTANANZA.

 to, aure dolci, a Cloe
Che le delizie or godo
Dei boschi, e i lai lion ode
D'un tenero amatori
 a troverete al margo
Forse d'un rio cannoso,
O al rozzo d'odoroso
Arbore in grembo ai fior.
 te, aure dolci, a Cloe,
E con scherzosi giri
Recate i miei sospiri,
Le rammentate amor.
 na vezzeggi il crine,
L'altra, ogni incenso accolto,
Lambisca il roseo volto,
Soave scenda al cor.
 orna, gentil donzella,
Con flebil suon le dica,
Torna, vezzosa amica,
Al tuo poeta in sen.
 e grazïose aurette
Passano ad una ad una,
E mi prometto ognuna
Chieder pietà al mio ben.
 hinano il capo i gigli,
Scuoton le frondi i rami,
Sembrano dirmi: Ed ami
Con tanta fedeltà?
 e son pietosi i fiori,
So son pietosi i venti,
A' pianti ed a' lamenti,
Non avrà Cloe pietà?
 


[36]

III. LA SORPRESA.

 di de' versi miei,
O pastorella, il suono,
E ti prometto in dono
Un nastro porporin.
Venne fra' boschi tuoi
A soggiornar la bella?
E lei, se a lei saltella
Vicino un agnellin.
 onoscer tu la puoi
Dalle sue biondo chiome...
Ma dir vorresti: E come
Vestita qui sen va?
Odi: qual te s'ammanta
D'un gonnellin leggiero,
Chè lascia il fasto altero
All'invida città.
 a leggiadretto il labbro,
Neri e focosi i lumi,
Ha placidi i costumi
E gli atti al par di te.
Già la conosci: or vanno
A lei correndo, e dille:
Fille, vezzosa Fille,
Elpin ti chiama a sè.
 lpin? dirà... Sì Elpino,
Tu le rispondi, e ascoso
Là fra quel bosco ombroso
Te sola attende Elpin.
Vanne: già udisti quanto,
O pastorella, aspetto,
E in dono ti prometto
Un nastro porporin.
 


[37]

IV. L'ADDIO.

 r tra i romiti boschi
Men vo, ma porto scolto
Il tuo vezzoso volto
In mezzo a questo sen.
Fida ti serba: addio,
Tenera Cloe, ben mio,
Ah! d'un fedele amante,
Cara, rammenta almen.
 orgheggeran gli augelli
Fra l'inquïete frondi;
O cara, ove t'ascondi?
Io griderotti allor.
Ah! mi parrà ogni cosa
L'amica mia vezzosa,
Ma tu rammenta almeno
Il più fedele amor.
 errassi un venticello,
E con pietosi giri
Dirammi: Son sospiri
Questi del fido ben.
Ma fuggirà l'inganno,
Sospiri non saranno;
Chè forse non rammenti
Il nome mio nemmen.
 astori e forosette
Verran con faccia lieta,
E al primo lor poeta
Diran: Deh! canta amor!
 o mescerò frattanto
A' mesti versi il pianto,
Ma tu rammenta almeno
Un infelice ardor.
 e nol rammenti, ah! Cloe,
Rammentati ch'Amore
È meco a tutte l'ore,
E squarciami ogni vel;
 irà se tu se' amante,
Dirà se se' incostante,
E dir saprà se ognora
Tu mi sarai fedel.
 a di te, dolce amica,
Stolto, diffido invano,
Chè benchè in suol lontano
Mi serberai nel sen.
Cos'io ti serbo. Addio,
Tenera Cloe, ben mio:
Ah! del più fido amante,
O Cloe, rammenta almen.
 
 

[38]

V. LA ROSA TARDA.

 e bionde Grazie schiusero
Al ghirlandato aprile
Le verdi porte, e mancavi
De' fiori il più gentile?
 on le sue mani ambrosie
L'innamorata Aurora
Dal Cielo umor freschissimo
Per lui non sparse ancora?
 u, fior splendente e semplice
Come la mia vezzosa,
Tu fra le spine floride
Ancor non spunti, o Rosa.
 entre vedeati sorgere
Il gajo Anacreonte
Inni t'ergea cingendosi
Di te la calva fronte.
  in mezzo a danze e giubilo
L'altrui chiamava aita
Onde cantar tua morbida
Foglia agli Iddii gradita.
 u sei trofeo di tenere
Grazie, sei giuoco, o Rosa,
D'amor nei giorni floridi
A Citerea scherzosa.
  che fia mai d'amabile
Senza il bel fiore? infine
Le Ninfe han braccia rosee,
L'Alba le dita e il crine.
 osì cantava il vecchio
Tejo poeta; Amore
Dettava i carmi, memore
Di te suo caro fiore.
  a noi sei caro: immagine
Tu delle guance sei
Di Lei che tien l'imperio
Su tutti gli atti miei.
 i Lei che bella e fulgida
In sua bellezza or viene,
Che con un sguardo sforzami
Baciar le mie catene.
 a sorgi ormai, purpuree
Bel fiorellino, sorgi;
Tu alla mia dolce vergine
Gaja ghirlanda porgi.
 u le sue chiome d'auro
Tanto sarà più vaga
Quanto vicino al latteo
Seno che gli occhi impiaga.
 eh! sorgi, o fior! l'armonico
Plettro ch'Amor risuona
Da tuo fragranti foglie
Gentile avrà corona.
  a questo sen medesimo
Io ti porrò, bel fiore,
Come verace effigie
D'un innocente core.
 
 


ODI