Ugo Foscolo
Sonetti
Sollicitae oblivia vitae
Hor.
Oblio della vita affannosa
Orazio
Forse
perché della fatal quiete
tu sei l'immago a me sì
cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive
e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre
e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le
secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co'
miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto
fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure
onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.
Non
son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avvanza è
sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie
sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.
Perché
dal dì ch'empia licenza e Marte
vestivan me del lor
sanguineo manto,
cieca e la mente e guasto il core, ed arte
la
fame d'oro, arte e in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di
morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di
gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e
d'altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi
appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.
[III]
- Per la sentenza capitale
proposta nel gran Consiglio
cisalpino
contro la lingua latina
Te
nudrice alle muse, ospite e Dea
le barbariche genti che ti han
doma
nomavan tutte; e questo a noi pur fea
lieve la varia,
antiqua, infame soma.
Ché se i tuoi vizi, e gli anni,
e sorte rea
ti han morto il senno ed il valor di Roma,
in te
viveva il gran dir che avvolgea
regali allori alla servil tua
chioma.
Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie
estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste
ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più
che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero.
Perché
taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme, e di amor
vivo,
e di silenzio; ché pietà mi affrena
se con
lei parlo, o di lei penso e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o
solitario rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena,
qui affido il
pianto e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la
piena.
E narro come i grandi occhi ridenti
arsero
d'immortal raggio il mio core,
come la rosea bocca, e i rilucenti
odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i
cari accenti
m'insegnaron alfin pianger d'amore.
Così
gl'interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! ma poi quando la
bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il freddo
aer di mute ombre è coverto;
dove selvoso è il
piano e più deserto
allor lento io vagando, ad una ad
una
palpo le piaghe onde la rea fortuna,
e amore, e il mondo
hanno il mio core aperto.
Stanco mi appoggio or al troncon
d'un pino,
ed or prostrato ove strepitan l'onde,
con le
speranze mie parlo e deliro.
Ma per te le mortali ire e il
destino
spesso obbliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli
occhi miei chi mi t'asconde?
Meritamente,
però ch'io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde
che batton l'alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i
venti.
Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
in
lungo esilio fra spergiure genti
dal bel paese ove or meni sì
rei,
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,
sperai che il
tempo, e i duri casi, e queste
rupi ch'io varco anelando, e le
eterne
ov'io qual fiera dormo atre foreste,
sarien ristoro
al mio cor sanguinente;
ahi vota speme! Amor tra l'ombre
inferme
seguirammi immortale, onnipotente.
[VII]
- Il proprio ritratto
1802
Solcata
ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance,
ardito aspetto,
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo
chino, bel collo, e largo petto;
giuste membra; vestir
semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli
accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al
mondo, avversi a me gli eventi:
talor di lingua, e spesso di
man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor
pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace:
di vizi ricco
e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor
piace:
morte sol mi darà fama e riposo.
[VII-bis]
- Il proprio ritratto
1824
Solcata
ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance,
ardito aspetto,
tumidi labbri ed al sorriso lenti,
capo chino,
bel collo, irsuto petto;
membra esatte; vestir semplice,
eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio,
ostinato, uman, prodigo, schietto,
avverso al mondo, avversi a me
gli eventi.
Mesto i più giorni e solo, ognor
pensoso;
alle speranze incredulo e al timore,
il pudor mi fa
vile e prode l'ira:
cauta in me parla la ragion; ma il
cuore,
ricco di vizj e di virtù, delira -
Morte, tu mi
darai fama e riposo.
E
tu ne' carmi avrai perenne vita
sponda che Arno saluta in suo
cammino
partendo la città che del latino
nome accogliea
finor l'ombra fuggita.
Già dal tuo ponte all'onda
impaurita
il papale furore e il ghibellino
mescean gran sangue,
ove oggi al pellegrino
del fero vate la magion si addita.
Per
me cara, felice, inclita riva
ove sovente i pie' leggiadri
mosse
colei che vera al portamento Diva
in me volgeva sue
luci beate,
mentr'io sentia dai crin d'oro commosse
spirar
ambrosia l'aure innamorate.
Né
più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo
fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del
greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole
feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide
nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò
fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di
sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non
altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi
prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
[X] - In morte del fratello Giovanni
Un
dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in
gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio,
gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.
La Madre or
sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti
saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al
viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto
quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere
genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
Pur
tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia
Diva,
quando de' miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e
dietro erale intanto
questa, che meco per la via del
pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t'invoco;
ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
o Dea! tu pur mi
lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.
Però
mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade,
operose
rime il dolor che deve albergar meco.
Che
stai? già il secol l'orma ultima lascia
dove del tempo son
le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi
lustri e obblio freddo li fascia.
Che se vita è
l'error, l'ira, e l'ambascia,
troppo hai del viver l'ore prodotte;
or meglio vivi e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi
lascia.
Figlio infelice, e disperato amante,
e senza
patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d'anni e rugoso in
sembiante,
che stai? breve è la vita, e lunga è
l'arte;
a chi altamente oprar non è concesso
fama
tentino almen libere carte.
[XII]
- Alla Donna gentile
igile
è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
E qual tu il pingi,
Artefice elegante,
Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto
Libertà con incerte orme vagante.
rmi
vaneggio, e il docile intelletto
Contesi alle febee Vergini
sante;
Armi, armi grido; e Libertade affretto
Più
ognor deluso e pertinace amante.
oce
inerme che può? Marte raccende,
Vedilo, all'opre e a sacra
ira le genti:
Siede Italia, e al flagel l'omero tende.
Pur,
se nell'onta della Patria assorte
Fien mie speranze, e i dì
taciti e spenti,
Per te il mio volto almen vince la morte.
SONETTI
IN MORTE DEL PADRE
[XIII] - I.
Padre,
quand'io per la tua muta tomba
Che da sett'anni te per sempre
asconde
Passo gemendo e il gemer si confonde
Al bronzo che di
morte il suon rimbomba;
Trista
memoria allor nel sen, mi piomba
E ti veggo del letto fra le
sponde
Quel calice libar che in cor t'infonde
L'ultimo
istante che a te intorno romba:
E
veggo il scarso lacrimato pane
Che dal tuo dipartir a' tuoi
Figlioli
E alla Vedova tua più non rimane.
E
veggo.... ahi lasso! tutto veggo, e tutto
Che sei morto mi dice,
e che a noi soli
Non altro avanza che miseria e lutto.
[XIV]
- II.
Era
la notte; e sul funereo letto
Agonizzante il genitor vid'io
Tergersi gli occhi, e con pietoso aspetto
Mirarmi, e dir in
suon languido: Addio.
Indi
obbliato ogni terreno obbietto
Erger la fronte ed affisarsi in
dio,
Mentre avvolta dai crin batteasi il petto
La Madre
rispondendo al pianto mio.
E
volte a noi le luci lacrimose
Deh basti! disse: e alla mal ferma
palma
Appoggiò il capo, tacque e si nascose.
E
tacque ognun: ma già spirata lalma
Cessò il
silenzio, e alle strida amorose
La notturna gemea, terribil
calma.
[XV] - II bis
Rotte
da tetro raggio le tenèbre
Cingeano il genitor che si
giacea
Agonizzando sul letto funèbre
E i moribondi
sguardi al ciel volgea.
E
in me che dal sudor freddo tergea
Sua smorta fronte affisso le
palpèbre,
E aprì le labbra, e addio dir mi
volea....
Ma un Ahi sol trasse dall'ime latebre.
Poi
mie querele udendo lacrimose
Deh basti! disse, e alla mal
ferma palma
Appoggiò il capo, tacque, e si nascose.
E
anch'io pur tacqui.... ma spirata l'alma
Cessò il silenzio,
e alle strida pietose
La notturna gemea terribil calma.
[XVI]
- III.
Fu
tutto pianto: e con un grido acuto
In braccio al Figlio disperata
corse
La trista moglie, e a me stretta s'attorse
Quasi
chiedendo a sua sventura ajuto.
Parlar
voll'io: ma, ogni accento perduto,
Un bacio solo il labbro mio le
porse
E seco infin che trista l'alba sorse
Abbracciato io mi
stetti muto muto.
A
lei scorrean mie lacrime sul seno
Tacitamente; e come ella
staccosse
Vidimi il volto di sue stille pieno.
Da
quel dì sempre all'urna del consorte,
Surta di notte,
squallida si mosse
A dir sue pene e ad invocar la morte.
[XVII]
- IV.
Oh!
qual'orror! un fremito funèbre
Scuote la terra ed apresi
la Fossa,
Ove in mezzo a tetrissime tenèbre
Stan
biancheggiando del mio padre l'ossa.
Le
guato allor con incerte palpebre;
Scendo d'un salto e alla feral
percossa
Gemono le profonde alte latebre
Ove ogni parte della
tomba è smossa.
E
già stendo la man; già il cener santo
Raccolgo....
ahi tremo.... la più cupa notte
Mi casca intorno, e il cor
gelo mi stringe:
E
par che un suono, un pianto, mi rimbrotte,
Ond'io mi fuggo, e
tutto mi dipinge
L' ossa, l'orror, l'oscuritade il pianto.