Ugo Foscolo



INNI ED ELEGIE





Non vitatur amor ...

Sannaz.



ALLA BELLEZZA

 O tu, cui dolce imperio
Sa i cor natura diede,
Bionda beltà, cui servono
Tenero Amore e Fede,
 De' versi miei spontanei
Accetta ingenuo dono,
Se a te i miei versi piacciono
Anch'io poeta or sono.
 D'un tuo sorriso roseo
Irraggia i canti miei,
Che i tuoi sorrisi beano
Fin su l'Olimpo i Dei.
 Tu di leggiadra vergine
Splendi negli occhi vaghi,
Donde con dardi amabili
Soavemente impiaghi;
 E tu sul labbro armonico,
O Dea, vi stai scolpita,
Che mentre accenti modula
A sospirare invita.
 Ancelle tue ti sieguono
Le linde Grazie, e stanno
TuttE su un braccio latteo
Con cui tu tessi inganno;
 Inganno tessi; e all'anima
D'un giovanetto amante
Rendi più dolce e tenero
Il vezzo più incostante.
 Ma, o bionda Dea, se furono
A te miei spirti avvinti,
Se i miei versi cantarono
Da' tuoi color dipinti;
 Pietà d'un Vate: al misero
Gli arde fanciulla il seno;
Fa' ch'ella sia più stabile,
O men vezzosa almeno.
 Vola ne' dì purpurei
Il garzoncel di Flora;
Vieni, ella dice, o Zefiro,
In braccio a chi t'adora;
  Vieni.... Ma sordo e celere
Ei fugge, e non l'ascolta;
Quando a lui piace è libero,
E la catena ha sciolta.
 Ahi che pur scioglie il laccio
Questa tiranna mia;
Ama; ma impune fuggesi
D'amor s'ella il desia.
 Lasso! ch'io pur desidero
Fuggir da' lacci suoi,
Ma tu, Beltade amabile,
Tu consentir non vuoi.
 


A VENERE

 E te, leggiadra Venere,
Te canteremo ancora,
O Dea, più fresca e rosea
Della serena Aurora;
 Te, cui le Grazie morbide
Sieguon coi biondi Amori,
Te, che tra Giuno e Pallade
Avesti i primi onori.
 Ma non avrai di giubilo
Canti, vezzosa Dea;
Suoni giocosi ed ilari
La cetra un dì spargea;
 Or già non più: chè scorsero
Que' sì beati giorni,
Sacri ad amor purissimo,
Da mutua pace adorni.
 Me di fanciulla instabile
Arde l'incerta fede;
Mal possono le lagrime
Di cui le bagno il piede.
 A te ricorro io supplice,
O tra la belle bella;
Almen tu, piega l'anima
Della mia rea donzella.
 Te di Neera il tenero
Cantor chiamar solea,
Quando fra voti flebili
All'are tue sedea;
 E con fragranti aromati,
Con fiori al suol, dispersi
Su la gemente cetera
A te innalzava i versi.
 L'aitasti, o Dea? le lagrime
Tergesti a lui pietosa?
Tornò per te a quel misero
La ninfa sua ritrosa?
 Ah no! tu, Diva idalia,
Che in ogni dove imperi
Su l'infelice giovane
Giravi i lumi alteri.
 Nè Adon membrasti, e i gemiti,
E il ripercosso petto,
Allor che in sè porgeati
De' mali suoi l'aspetto,
 Te pure Amor con l'aureo
Dardo, te pur ferìo;
Lo sa il tuo cor medesimo
Quanto è tiran quel Dio.
 Pianti d'amor sgorgarono
Dal tuo beante ciglio;
Eppur, ch'il crede? piacquero
Quei pianti al crudo figlio
 Pietà, gran Dea: d'un misero
Alleggia i tristi affanni,
Che di sua, età più florida
Consacra a te i begli anni.
 Pietà! - La mesta effigie
Del volto mio tu mostra,
Tra le sognate immagini
A la fanciulla nostra.
 Fa' che il suo cor le palpiti
Con moto non più inteso;
Fa' che di fiamma ingenua
Sentasi il core acceso.
 Ah! se da quel di porpora
Labbro suonar io sento,
T'amo, per me nettareo
Per me beato accento;
 Sacerdotessa, o Venere,
Sempre farò che sia
Attenta ai tuoi misterii
Questa fanciulla mia.
 


A SAFFO

 Tu che pietosi gomiti
Spargesti ognor cantando,
Che per garzone indocile
Di te vivesti in bando,
 Tu che fra meste tenebre
ore di duol passavi
Allor che il sonno, o il giovane
Ahi lassa! invan chiamavi,
 Tenera Saffo! un flebile
Poeta a te sen viene
A raccontarti il misero
Le sue amorose pene.
 Te su le corde lidie
Talor piangendo invoco,
Acciò mio fiamme estinguere
Io possa almen per poco.
 E te ne' carmi, o tenera
Fanciulla, ognor io chiamo,
Che al par di te fra lagrime
Son disprezzato, ed amo.
 Amo: la nostra Venere
Non odo i voti miei,
Pur troppo è ver; son perfidi
Con l'infelice i Dei.
 Ma che mai dissi? e Cipria
Da te invitata un giorno
Con i giojosi passeri
Posò sul tuo soggiorno;
 E a te tergea benefica
L'occhio dai pianti stanco
E ti porgeva ambrosia
Sedendosi al tuo fianco.
 E a noi de' Numi il braccio
Aita dee prestare,
Che a noi son venerabili
Dei numi i riti e l'are,
 Tu pur se' Dea: memoria
Amor dei fidi serba,
E lor fa lieta l'anima
Dopo una vita acerba.
 Ma di'? Cessi di piangere
Là negli elisii campi?
O con le piante candide
Orme solinghe stampi?
 Ah! benchè spenta, o Lesbia,
Ancor sospiri ed ami,
E ancor l'ingrato giovane
Su l'arpa eolia chiami.
 Me pur tra poco scendere
Fra tetre ombre vedrai;
Ma amante ancor; non spegnesi
Un vivo amor giammai.
 Funerei fiori e nenie
Dell'infelice madre
Me seguiran già cenere
Fra sorde pietre ed adre,
 Ma amore, amor indomito,
Sia con quest'alma insieme;
Forse sarà più orribile,
Chè allor fura ogni speme.
 Pur morirò: tu tenera
Fanciulla a me ti mostra;
Noi piangerem dicendoci
La mutua doglia nostra.
 Noi piangerem, e i queruli
Pianti saran soavi;
Fra gl'infelici sembrano
Le pene assai men gravi.




IL RITRATTO

O tu, cui gli anni rosei
Sono dai vezzi adorni,
Cui dell'etade arridono
I più beati giorni,
Desii veder l'immagine
Del tuo lontano amico?
Odi i miei versi ingenui,
Chè sempre il ver io dico.
A me, gentile, amabile
Volto non diè natura,
Ma diemmi invece un'anima
Tenera, fida e pura.
E diemmi invece un fervido
Cor, cui non sono ignoti
D'amore e d'amicizia
I più soavi moti.
E diemmi un estro rapido
Che carmi ai labbri inspira,
Per cui non è tra l'ultime
Quest'amorosa lira.
Ma a te, fanciulla ainabile,
Questo non basta, è vero,
Non basta ai guardi cupidi
L'animator pensiero.
Sì, bella amica, a pingermi
Destro verrà pittore,
Ma potrà far che ispirino
Dolce quest'occhi amore?
E le mie guance giovani
Da pelo ancor non tinte,
D'amore con l'ingenuo
Rossor saran distinte?
Saprà ritrar l'effigie
Viva del volto mio
Allor che il seno m'agita
Per te di Pafo il Dio?
E saprà far che dicano,
Tacendo, i labbri miei
Che tu mi piaci, e ch'unica
Dea del mio cor tu sei?
Ah no, nol può! la rodia
Arte a' miei carmi cede;
Che amor l'agguaglia e supera
Ella medesma il vede.
Te pinsi, o bella; e il candido
Volto ognor stammi al fianco;
Nè mai, qual te, l'immagine
Mai di mirar son stanco.
Te pinsi; e i labbri, e i lucidi
Lumi, e le trecce bionde;
Lor parlo; e tosto il turgido
Bel labbro tuo risponde.
Di Tejo il vate pingere
Volle la bella amica,
Commise a industre artefice
Sì genïal fatica;
Ma che? conobbe ei subito
Lei nel dipinto aspetto,
Ma udir non fu possibile
Dai finti labbri un detto.
 


V.  ALL'AMICA INCERTA

 Ferma, che fai? l'incauto
Piede ritira, e ascolto
Porgi ad un labbro ingenuo
Fino ch'il giogo hai sciolto.
 Non fremi ancor? Ahi misera!
Il precipizio è aperto;
Mira lo scritto ferreo:
Alto infortunio e certo
 Già semi-spenta lampada
Luce all'orror funèbre,
E mostra assai più orribili
L'orribili tenèbre.
 Romito è il duol; le lagrime
Grondano ognor dirotte,
E sol fra veglie scorrono
L'ombre d'odiata notte.
 Di', che farai? Già echeggiano
Le tombe, e i santi altari
Sol di singulti flebili,
Solo di voti amari.
 Regna il digiuno; ei stringere
Aspro flagel tu vedi;
Pur disperato e languido
Geme dell'are ai piedi.
 Gemi tu pure; e il gemito
Ch'a me su l'alma piomba,
Ah! t'aprirà cinerea
Troppo immatura tomba.
 Se or non ti penti, ahi misera!
Fia il pentimento tardo;
Odi, tel dice squallida
L'amica d'Abelardo.
 Vedi Eloisa: assidesi
Su scanno nero e scabro,
E bevo le sue lagrime
Collo sfiorito labro.
 Abbi rispetto, o infausto
Amor, abbi rispetto
A quel tetro silenzio
Che mi dilania il petto:
 Ella sì grida; e tacita
Prende la penna in mano,
E alfine ardisce scrivere
Ad amator profano.
 Ah scrivi! ah scrivi! un barbaro
Non è dell'alme Dio,
Te involontaria vittima
L'altrui barbarie offrio.
 Sull'ara augusta e candida
Arse l'incenso impuro;
Tremàr i cerei e il tempio
A quel tremendo giuro.
 Ma tu, Eloisa tenera,
No, non temer; conosco
D'un cor sforzato a piangere
Dio le proterve angosce.
  Tema flagello vindice
Chi sè spontaneo gli offre,
E gli ermi dì funerei
Con pago cor non soffre.
 Ecco il tuo fato; in braccio
Per sempre a lui ti getta,
Ma di'? vedrai tu intrepida
L'affanno che t'aspetta?
 Riedi e ne godi: o il debile
Tuo collo al giogo appresta;
Ma trema; Iddio si vendica
Del cor che lo calpesta.
 
 
 

VI.  LA COLTURA.

 Non de' cantati secoli
Invidio i giorni aurati:
Purchè tu il voglia, vivere
Potremo i dì beati.
 Tu m'ami, io t'amo; un docile
Legame ambo ci annoda;
Tu me non credi instabile,
Da te non temo io froda.
 Così gioia con Melide
Il Pastorello un giorno
Clio per sentiero incognito
La trasse a rio soggiorno.
 Ma deh! ch'il puoi, l'immagini
Lascia di moda, e ognora
Sol di piacer desidera
A chi solo t'adora.
 Bella tu sei, più candida
Non fin che tu sia mai,
S'anco ti desse Cinzio
I fulgidi suoi rai.
 D'Amor, di Fe, di Venere
Antica è pur la face,
Ma nuova è ancor che amabile,
E nuovo è ciò che piace.
 Mentre, il cantor di Cintia
Seco ad amar l'invita,
Le dice.- Amor è semplice,
Odia beltà mentita.
 Negletta è ver, ma lucida
La chioma è di Nerea;
Tu incolta sembri Pallade,
Colta non sembri Dea.
 Cresce la rosa, e innostrasi
Fresca da sè soltanto;
Più dolce è senza artefice
Degli augellini il canto.
 Pari alla Dive olimpie
Elena ergea la chiome,
Ma ognor fra gli uomin d'Elena
Vive esecrato il nome.
 Non perch'io tema o tenera
Amica, di tua fede:
In sì bel volto ingenuo
La purità risiede.
 Risiede sì; ma candida
Di fregio altro non cura;
Ed ha ragion, chè vendica
I dritti suoi natura.