Carlo Goldoni
IL TEATRO COMICO
Commedia in tre atti in prosa scritta in Venezia nell'anno 1750, perché servisse di prima recita. Come seguì nell'autunno dell'anno medesimo: rappresentata in Milano nel mese di settembre antecedente la prima volta.
L'AUTORE A CHI LEGGE.
Questa, che io intitolo Il Teatro Comico, piuttosto che una Commedia, prefazione può dirsi alle mie Commedie.
In questa qualunque siasi composizione, ho inteso di palesemente notare una gran parte di què difetti che ho procurato sfuggire, e tutti què fondamenti sù quali il metodo mio ho stabilito, nel comporre le mie Commedie, né altra evvi diversità fra un proemio e questo mio componimento, se non che nel primo si annoierebbono forse i leggitori più facilmente, e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di qualche azione.
Io perciò non .intesi di dar nuove regole altrui, ma solamente di far conoscere, che con lunghe osservazioni, e con esercizio quasi continuo, son giunto al fine di aprirmi una via da poter camminare per essa con qualche specie di sicurezza maggiore; di che non fia scarsa prova il gradimento che trovano fra gli spettatori le mie Commedie. Io avrei desiderio che qualunque persona si dà a comporre, in ogni qualità di studio, altrui notificasse per qual cammino si è avviata, percioché alle arti servirebbe sempre di lume e miglioramento.
Così bramo io parimente, che qualche nobile bell'ingegno d'Italia diasi a perfezionare l'opera mia e a rendere lo smarrito onore alle nostre scene con le buone Commedie, che sieno veramente Commedie, e non scene insieme accozzate senz'ordine e senza regola; e io, che fin ad ora sembrerà forse a taluno che voglia far da maestro, non mi vergognerò mai di apprendere da chichessia, quando abbia capacità d'insegnare, Questa Commedia fu fatta da me rappresentare nell'anno 1750 la prima sera delle recite dell'Autunno, come apertura di Teatro. Eranvi in essa innestati quei complimenti che sogliono fare i Comici agli uditori la prima sera, le quali cose furono poscia da me levate, come parti disutili della stessa Commedia.
Per adattarmi anche al costume, e metter in grazia la Compagnia, e le Maschere principalmente, le ho introdotte dapprima cogli abiti loro di casa e coi loro volti, poscia vestiti e mascherati da scena. Questa però mi parve in appresso una burattinata, ed ora, nella ristampa che io fo di questa Commedia, ho anche assegnato a ciaschedun personaggio un nome proprio, riserbando chiamarlo col nome comico, alloraché nella prova supposta della Commedia rappresenta il tal personaggio. Questa è una correzione di più, cadutami in mente ora, e sarà un difetto di più nella edizione imperfetta del Bettinelli.
Personaggi
ORAZIO, capo della compagnia dè comici, detto OTTAVIO in commedia;
PLACIDA, prima donna, detta ROSAURA;
BEATRICE, seconda donna;
EUGENIO, secondo amoroso, detto FLORINDO;
LELIO, poeta;
ELEONORA, cantatrice;
VITTORIA, servetta di teatro, detta COLOMBINA;
Tonino: veneziano, poi Pantalone: in commedia;
Petronio: che fa il Dottore: in commedia;
Anselmo: che fa il Brighella;
Gianni: che fa l'Arlecchino ;
IL SUGGERITORE;
Uno Staffiere: della cantatrice, che parla;
Servitori di teatro, che non parlano.
La scena stabile è il teatro medesimo, in cui si rappresentano le commedie, con scene e prospetto di cortile, figurandosi esser di giorno, senza lumi e senza spettatori.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA.
Si alza la tenda. E prima che intieramente sia alzata, esce ORAZIO, poi EUGENIO.
Orazio: Fermatevi, fermatevi, non alzate la tenda, fermatevi. (verso la scena) Eugenio Perché, signor Orazio, non volete, che si alzi la tenda?
Orazio: Per provare un terzo atto di commedia non ci è bisogno di alzar la tenda.
Eugenio: E non ci è ragione di tenerla calata.
Orazio: Signor sì, che vi è ragione di tenerla calata, signor sì. Voi altri signori non pensate a quello che penso io. Calate giù quella tenda. (verso la scena) Eugenio Fermatevi. (verso la scena) Se si cala la tenda, non ci si vede più, onde per provare le nostre scene, signor capo di compagnia, vi converrà far accender dè lumi.
Orazio: Quand'è così, sarà meglio alzare la tenda. Tiratela su, che non voglio spendere in lumi. (verso la scena) Eugenio Bravo, viva l'economia.
Orazio: Oh amico caro, se non avessi un poco d'economia, le cose anderebbero in precipizio. I comici non si arrichiscono. Quanti ne acquistano, tanti ne spendono. Felici quelli che in capo all'anno la levano del pari; ma per lo più l'uscita è maggiore dell'entrata.
Eugenio: Vorrei sapere per qual causa non volevate alzare la tenda.
Orazio: Acciocché non si vedesse da nessuno a provare le nostre scene.
Eugenio: A mezza mattina, chi ha da venire al teatro?
Orazio: Oh vi sono dè curiosi, che si leverebbero avanti giorno.
Eugenio: La nostra compagnia è stata altre volte veduta, non vi sarà poi tanta curiosità.
Orazio: Abbiamo dè personaggi nuovi.
Eugenio: è vero; questi non si dee lasciarli vedere alle prove.
Orazio: Quando si vuol mettere in grazia un personaggio, conviene farlo un poco desiderare, e per farlo comparire, bisogna dargli poca parte, ma buona.
Eugenio: Eppur vi sono di quelli, che pregano i poeti, acciocché facciano due terzi di commedia sopra di loro.
Orazio: Male, malissimo. Se sono buoni annoiano, se sono cattivi, fanno venir la rabbia.
Eugenio: Ma qui si perde il tempo, e non si fa cosa alcuna. Questi signori compagni non vengono.
Orazio: L'uso comune dè commedianti, levarsi sempre tardi.
Eugenio: La nostra maggior pena sta nelle prove.
Orazio: Ma le prove sono quelle, che fanno buono il comico.
Eugenio: Ecco la prima donna.
Orazio: Non è poco, che sia venuta prima degli altri. Per usanza le prime donne hanno la vanità di farsi aspettare.
SCENA SECONDA
PLACIDA, e detti.
Placida: Ecco qui; io son la prima di tutti. Queste signore donne non favoriscono? Signor Orazio, se tardano io me ne vado.
Orazio: Cara signora, siete venuta in questo momento, e di già v'inquietate? Abbiate pazienza; ne ho tanta io; abbiatene un poca voi ancora.
Placida: Parmi, che a me si potesse mandarne l'avviso, quando tutti stati fossero ragunati.
Eugenio: (Sentite? Parla da prima donna). (piano ad Orazio)
Orazio: (Ci vuol politica; convien sofferirla). Signora mia, vi ho pregata a venir per tempo, e ho desiderato, che veniste prima degli altri, per poter discorrere fra voi e me, qualche cosa toccante la direzione delle nostre commedie.
Placida: Non siete il capo della compagnia? Voi potete disporre senza dipendere.
Orazio: Posso disporre, egli è vero, ma ho piacere, che tutti siano di me contenti; e voi specialmente, per cui ho tutta la stima.
Eugenio: (Volete voi dipendere dà suoi consigli?). (piano ad Orazio)
Orazio: (Questa è la mia massima; ascolto tutti, e poi fo a mio modo).
(piano)
lacida: Ditemi, signor Orazio, qual'è la commedia, che avete destinato di fare domani a sera?
Orazio: Quella nuova intitolata: Il Padre rivale del figlio. Ieri abbiamo provato il primo, e il secondo atto, e oggi proveremo il terzo.
Placida: Per provarla non ho difficoltà, ma per farla domani a sera, non sono persuasa.
Eugenio: (Sentite? Non l'approva). (piano ad Orazio)
Orazio: (E che sì, che l'approverà). Qual altra commedia credereste voi, che fosse meglio rappresentare?
Placida: Il poeta, che somministra a noi le commedie, ne ha fatte in quest'anno sedici tutte nuove, tutte di carattere, tutte scritte.
Facciamone una di quelle.
Eugenio: Sedici commedie in un anno? Pare impossibile.
Orazio: Sì certamente, egli le ha fatte. Si è impegnato di farle, e le ha fatte.
Eugenio: Quali sono i titoli delle sedici commedie fatte in un anno?
Placida: Ve le dirò io: Il teatro comico, I puntigli delle donne, La bottega del caffè, Il bugiardo, L'adulatore, I poeti, La Pamela, Il cavalier di buon gusto, Il giuocatore, Il vero amico, La finta ammalata, La donna prudente, L'incognita, L'avventuriere onorato, La donna volubile, I pettegolezzi delle donne, comedia veneziana.
Eugenio: Fra queste non è la commedia, che abbiamo a fare domani a sera. Non è forse anche essa del medesimo autore?
Orazio: Sì, è sua; ma è una picciola farsa, che egli non conta nel numero delle sue commedie.
Placida: Perché dunque vogliamo fare una farsa, e non più tosto una delle migliori commedie?
Orazio: Cara signora, sapete pure, che ci mancano due parti serie, un uomo, ed una donna. Questi si aspettano, e se non giungono, non si potranno fare commedie di carattere.
Placida: Se facciamo le Commedie dell'Arte, vogliamo star bene. Il mondo è annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli uditori sanno cosa deve dir l'Arlecchino, prima che egli apra la bocca. Per me, vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche reciterò; sono invaghita del nuovo stile, e questo solo mi piace: dimani a sera reciterò, perché, se la commedia non è di carattere, è almeno condotta bene, e si sentono ben maneggiati gli affetti. Per altro, se non si compie la compagnia, potete anche far di meno di me.
Orazio: Ma frattanto...
Placida: Orsù signor Orazio, sono stata in piedi tanto che basta. Vado nel mio camerino a sedere. Quando si prova, chiamatemi, e dite a coteste signore comiche, che non si avvezzino a far aspettare la prima donna. (parte)
SCENA TERZA
Orazio: ed EUGENIO.
Eugenio: Io crepo dalle risa.
Orazio: Voi ridete, e io bestemmierei.
Eugenio: Non mi avete detto, che ci vuoi pazienza?
Orazio: Sì, la pazienza ci vuole, ma il veleno mi rode.
Eugenio: Ecco il Pantalone.
Orazio: Caro amico, fatemi un piacere, andate a sollecitar le donne.
Eugenio: Volentieri, anderò. Già preveggo di ritrovarle, o in letto, o alla tavoletta. Queste sono le loro principali incombenze, o riposare, o farsi belle. (parte)
SCENA QUARTA
Orazio: poi TONINO.
Orazio: Ben levato signor Tonino.
Tonino: Patron reverito.
Orazio: Che avete, che mi parete turbato?
Tonino: No so, gnanca mi. Me sento un certo tremazzo a torno, che me par d'aver la freve.
Orazio: Lasciate, che io senta il polso.
Tonino: Tolè pur, Compare, sappième dir, se el bate a tempo ordinario, o in tripola.
Orazio: Voi non avete febbre, ma il polso è molto agitato; qualche cosa avete, che vi disturba.
Tonino: Saveu cosa, che gh'ho? Una paura, che non so in che mondo che sia.
Orazio: Avete paura? Di che?
Tonino: Caro sior Orazio, buttemo le burle da banda, e parlemo sul sodo. Le commedie de carattere le ha butà sottossora el nostro mistier. Un povero commediante, che ha fatto el so studio segondo l'arte, e che ha fatto l'uso de dir all'improvviso ben o mal quel che vien, trovandose in necessità de studiar, e de dover dir el premedità, se el gh'ha reputazion, bisogna, che el ghe pensa, bisogna, che el se sfadiga a studiar, e che el trema sempre ogni volta, che se fa una nova commedia, dubitando, o de no saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere come xè necessario.
Orazio: Siamo d'accordo, che questa nuova maniera di recitare esige maggior fatica, e maggior attenzione; ma quanto maggior riputazione ai comici acquista? Ditemi di grazia, con tutte le commedie dell'arte, avreste mai riscosso l'applauso, che avete avuto nell'Uomo Prudente, nell'Avvocato, nei Due gemelli, e in tante altre, nelle quali il poeta si è compiaciuto di preeleggere il Pantalone?
Tonino: Xè vero; son contentissimo, ma tremo sempre. Me par sempre, che el sbalzo sia troppo grando, e me recordo quei versi del Tasso:
Mentre ai voli troppo alti e repentini Sogliono i precipizi esser vicini.
Orazio: Sapete il Tasso? Si vede, che siete pratico di Venezia, e del gusto di essa quanto al Tasso, che vi si canta quasi comunemente.
Tonino: Oh in materia de Venezia, so anca mi de barca menar.
Orazio: Vi siete divertito in essa da giovine?
Tonino: Che cade! Ho fatto un poco de tutto.
Orazio: Colle belle donne come ve la siete passata?
Tonino: E porto in me di quelle donne istesse le onorate memorie ancora impresse.
Orazio: Bravo signor Pantalone; mi piace il vostro brio, la vostra giovialità; spesse volte vi sento cantare.
Tonino: Sior sì; co no gh'ho bezzi, canto sempre.
Orazio: Fatemi un piacere, fino a tanto, che i nostri carissimi signori compagni ci favoriscono di venire, cantatemi una canzonetta.
Tonino: Dopo, che ho studià tre ore, volè che canta? Compatime, no ve posso servir.
Orazio: Già siamo soli, nessuno ci sente.
Tonino: In verità, che no posso; un'altra volta ve servirò.
Orazio: Fatimi questo piacere. Bramo di sentire, se state bene di voce.
Tonino: E se stago ben, me voleu farsi far cantar in teatro?
Orazio: Perché no?
Tonino: Voleu, che ve diga? Mi fazzo da Pantalon, e no da musico, e se avesse volesto far da musico, no gh'averia l'incomodo della barba.
(parte).
SCENA QUINTA
ORAZIO, poi VITTORIA.
Orazio: Dice così, ma è compiacente. Se farà di bisogno, son certo, che ei canterà.
Vittoria: Riverisco il signor Orazio.
Orazio: Oh, signora Vittoria, vi sono schiavo; voi siete delle più diligenti.
Vittoria: Io faccio sempre volentieri il mio debito, e che ciò sia la verità osservate: siccome la parte, che mi è toccata nella commedia, che oggi si prova, è lunga un dito, ne ho presa un altra in mano, e la vado studiando.
Orazio: Bravissima, così mi piace. Di che commedia è la parte, che avete in mano?
Vittoria: Questa è la parte di Cate nella Putta onorata.
Orazio: Ah, ah! vi piace quel caratterino di pelarina?
Vittoria: Sulla scena sì, ma fuori della scena no.
Orazio: Eh! o poco, o molto, le donne pelano sempre.
Vittoria: Una volta pelavano, ma adesso son finiti i pollastri.
Orazio: E pure si vede anche adesso dei giovanotti pelati fino all'osso.
Vittoria: Sapete perché? Ve lo dirò io. Prima di tutto perché le penne son poche, poi una penna al giuoco, un'altra alla crapola, una ai teatri, una ai festini; per le povere donne non restano che le piccole penne matte, e qualche volta tocca a noi altre a rivestire cotesti poveri spennacchiati.
Orazio: Voi ne avete mai rivestito alcuno?
Vittoria: Oh, io non son gonza.
Orazio: Certo, che saprete il fatto vostro; siete commediante.
Vittoria: So il fatto mio quanto basta per non lasciarmi infinocchiare, per altro circa l'essere commediante, vi sono di quelle, che non girano il mondo; vi sono delle casalinghe, che ne sanno cento volte più di noi.
Orazio: Sicché dunque per esser furba, basta esser donna.
Vittoria: è vero, ma sapete perché, le donne son furbe?
Orazio: Perché?
Vittoria: Perché gli uomini insegnano loro la malizia.
Orazio: Per altro, se non fossero gli uomini, sareste innocentissime.
Vittoria: Senza dubbio.
Orazio: E noi saremmo innocenti se non foste voi altre donne.
Orazio: Eh galeotti maledetti!
Orazio: Eh streghe indiavolate!
Vittoria: Orsù, signor Orazio, cosa facciamo? Si prova, o non si prova?
Orazio: Mancano ancora le signore donne, l'Arlecchino, e il Brighella.
SCENA SESTA
ANSELMO, e detti.
Anselmo: Brighella l'è qua per servirla.
Orazio: Oh bravo.
Anselmo: Son stà fin adesso a discorrer con un poeta.
Orazio: Poeta? Di qual genere?
Anselmo: Poeta comico.
Vittoria: è un certo signor Lelio?
Anselmo: Giusto el sior Lelio.
Vittoria: è stato anche a trovar me, e subito che l'ho veduto, l'ho raffigurato per poeta.
Orazio: Per qual ragione?
Vittoria: Perché era miserabile, e allegro.
Orazio: Da questi segni l'avete raffigurato per poeta?
Vittoria: Sì, signore. I poeti a fronte delle miserie, si divertiscono colle Muse, e stanno allegri.
Anselmo: Oh ghe n'è dei altri, che fa cusì.
Orazio: E quali sono?
Anselmo: I commedianti.
Vittoria: è vero, è vero; anche essi, quando non hanno danari, vendono e impegnano per star allegri.
Anselmo: Ghe n'è de quei, che i è pieni de cucche, e i va intrepidi come paladini.
Orazio: Perdonatemi, signori miei, fate torto a voi stessi parlando così. In tutta l'arte comica vi saranno pur troppo dè malviventi; ma di questi il mondo è pieno, e in tutte le arti qualcheduno se ne ritrova. Il vero comico deve essere, come tutti gli altri onorato, deve conoscere il suo dovere, e deve essere amante dell'onore, e di tutte le morali virtù.
Anselmo: El comico pol aver tutte le virtù, fora d'una.
Orazio: E qual'è quella virtù, che non può avere?
Anselmo: L'economia.
Vittoria: Appunto come il poeta.
Orazio: Eppure, se vi è nessuno, che abbia bisogno dell'economia, il recitante delle commedie dovrebbe essere quegli; perché essendo l'arte comica soggetta a infinite peripezie, l'utile è sempre incerto, e le disgrazie succedono facilmente.
Anselmo: Sto poeta lo volemio sentir?
Orazio: Noi non ne abbiamo bisogno.
Anselmo: N'importa; sentimolo per curiosità.
Orazio: Per semplice curiosità non lo sentirei. Degli uomini dotti dobbiamo aver rispetto. Ma perché voi me lo proponete, lo sentirò volentieri: e se averà qualche buona idea, non sarò lontano dall'accettarla.
Vittoria: E il nostro autore non se l'avrebbe a male?
Orazio: Niente. Conosco il suo carattere. Egli se l'avrebbe a male se cotesto signor Lelio volesse strapazzare i componimenti suoi, ma se sarà un uomo di garbo, e un savio e discreto critico, son certo, che gli sarà buon amico.
Anselmo: Donca lo vado a introdur?
Orazio: Sì, e fatemi il piacere d'avvisare gli altri, acciocché si trovino tutti qui a sentirlo. Ho piacere, che ognuno dica il suo sentimento. I commedianti, ancorché non abbiano l'abilità di comporre le commedie, hanno però bastante cognizione per discernere le buone dalle cattive.
Anselmo: Sì, ma gh'è de quelli, che pretende giudicar della commedia dalla so parte. Se la parte l'è breve, i dise, che la commedia l'è cattiva, ognun vorria esser in grado de far la prima figura, e el comico giubila, e gode, col sente le risade, e le sbattude de man.
Poiché se el popol ride, e lieto applaude el comico sarà degno di laude. (parte)
SCENA SETTIMA
Orazio: e VITTORIA.
Orazio: Ecco i soliti versi. Una volta tutte le scene si terminavano così.
Vittoria: è verissimo; tutti i dialoghi si finivano in canzonetta.
Tutti i recitanti all'improvviso diventavano poeti.
Orazio: Oggidì essendosi rinnovato il gusto delle commedie, si è moderato l'uso di tali versi.
Vittoria: Gran novità si sono introdotte nel teatro comico!
Orazio: Pare a voi, che chi ha introdotto tali novità abbia fatto più male, o più bene?
Vittoria: Questa è una quistione, che non è per me. Ma però vedendo, che il mondo vi applaudisce, giudico, che avrà fatto più bene, che male. Vi dico ciò non ostante, che per noi ha fatto male, perché abbiamo da studiare assai più, e per voi ha fatto bene, perché la cassetta vi frutta meglio.(parte)
SCENA OTTAVA
Orazio: poi GIANNI.
Orazio: Tutti fanno i conti sulla cassetta, e non pensano alle gravi spese, che io ho! Se un anno va male, addio signor capo. Oh ecco l'Arlecchino.
Gianni: Signor Orazio, siccome ho l'onore di favorirla colla mia insufficienza, così son venuto a ricever l'incomodo delle so grazie.
Orazio: Viva il signor Gianni. (No so se parli da secondo zanni, o creda di parlar bene).
Gianni: Mi hanno detto, che io venga allo sconcerto, e non ho mancato, anzi ero in una bottega, che bevevo il caffè, e per far presto, ho rotto la chicchera per servirla...
Orazio: Mi dispiace d'essere stato cagione di questo male.
Gianni: Niente, niente, Post factum nullum consilium.
Orazio: (è un bell'umore davvero). Mi dica, signor Gianni, come gli piace Venezia?
Gianni: Niente affatto.
Orazio: No! Perché?
Gianni: Perché ieri sera son cascado in canale.
Orazio: Povero signor Gianni, come ha fatto?
Gianni: Vi dirò: siccome la navicella...
Orazio: Ma ella parla toscano?
Gianni: Sempre a rotta de collo.
Orazio: Il secondo zanni non deve parlar toscano.
Gianni: Caro signor, la me diga, in che linguaggio parla el secondo zane?
Orazio: Dovrebbe parlare bergamasco.
Gianni: Dovrebbe! Lo so anche io dovrebbe. Ma come parla?
Orazio: Non lo so nemmen io.
Gianni: Vada dunque a imparare come parlano gli Arlecchini, e poi venga a correggere noi. La lara, la lara. (canticchiando con brio)
Orazio: (Fa ridere ancora me). Ditemi un poco, come avete fatto a cadere in acqua?
Gianni: In tel smontar da una gondola, ho messo un piede in terra, e l'altro sulla banda della barca. La barca si ha slontanà dalla riva, e mi de bergamasco son diventà venezian.
Orazio: Signor Gianni, domani a sera bisogna andar in scena colla commedia nuova.
Gianni: Son qua, muso duro, fazza tosta, gnente paura.
Orazio: Arriccordatevi, che non si recita più all'antica.
Gianni: E nu reciteremo alla moderna.
Orazio: Ora si è rinnovato il buon gusto.
Gianni: El bon, el piase anca ai bergamaschi.
Orazio: E gli uditori non si contentano di poco.
Gianni: Vu fè de tutto per metterme in suggezion, e no farè gnente. Mi fazzo un personaggio, che ha da far rider, se ho da far rider i altri, bisogna prima, che rida mi, onde no ghe vòi pensar. La sarà co la sarà, d'una cosa sola pregherò, supplicherò la mia carissima, la mia pietosissima udienza, per carità, per cortesia, che se i me vol onorar de qualche dozena de pomi, in vece de crudi, che i li toga cotti.
Orazio: Lodo la vostra franchezza. In qualche altra persona potrebbe dirsi temerità, ma in un Arlecchino, il quale, come dite voi, deve far ridere, questa giovialità, questa intrepidezza è un bel capitale.
Gianni: Audaces fortuna iuvat, timidosque, con quel che segue.
Orazio: Tra poco devo sentire un poeta, e poi voglio, che proviamo qualche scena.
Gianni: Se volì un poeta, son qua mi.
Orazio: Siete anche poeta?
Gianni: Eccome!
Anche io dè pazzi ho il triplicato onore.
Son poeta, son musico, e pittore. (parte)
Orazio: Buono, buono. Mi piace assai. In un Arlecchino anche i versi son tollerabili. Ma cotesti signori non vengono. Anderò io a sollecitargli. Gran pazienza ci vuole a far il capo di compagnia. Chi non lo crede provi una settimana, e protesto, che gliene anderà via subito la volontà. (parte)
SCENA NONA
Beatrice: e PETRONIO.
Beatrice: Via signor Dottore favoritemi, andiamo. Voglio che siate voi il mio cavaliere servente.
Petronio: Il Cielo me ne liberi.
Beatrice: Per qual cagione?
Petronio: Perché in primo luogo, io non son così pazzo che voglia assoggettarmi all'umore stravagante di una donna. In secondo, perché se volessi farlo, lo farei fuori di compagnia, ché chi ha giudizio porta la puzza lontano da casa; e in terzo luogo, perché con lei farei per l'appunto la parte dal Dottore nella commedia intitolata: La Suocera e la Nuora.
Beatrice: Che vuol dire?
Petronio: Per premio della mia servitù, non potrei attendere altro, che un bicchier d'acqua nel viso.
Beatrice: Sentite, io non bado a queste cose. Serventi non ne ho mai avuto, e non ne voglio, ma quando dovessi averne, gli vorrei giovani.
Petronio: Le donne si attaccano sempre al loro peggio.
Beatrice: Non è mai peggio quello che piace.
Petronio: Non si ha da cercar quel che piace, ma quel che giova.
Beatrice: Veramente non siete buono da altro, che da dar buoni consigli.
Petronio: Io son buono per dargli, ma ella a quanto veggo non è buona da ricevergli.
Beatrice: Quando sarò vecchia, gli riceverò.
Petronio: Principiis obsta; sero medicina paratur.
SCENA DECIMA
EUGENIO, ORAZIO, Rosaura: e detti.
Beatrice: Buon giorno, signora Placida.
Placida: Riverisco la signora Beatrice.
Beatrice: Come sta? Sta bene?
Placida: Benissimo per servirla. Ed ella come sta?
Beatrice: Eh così, così! Un poco abbattuta dal viaggio.
Placida: Oh! gran patimenti sono questi viaggi!
Beatrice: Mi fanno ridere quelli che dicono, che noi andiamo a spasso, a divertirci pel mondo.
Placida: Spasso eh? Si mangia male, si dorme peggio, si patisce ora il caldo, e ora il freddo. Questo spasso lo lascierei pur volentieri.
Orazio: Signore mie, hanno terminato i loro complimenti?
Placida: I miei complimenti gli finisco presto.
Beatrice: Io pure non m'ingolfo colle cerimonie.
Orazio: Sediamo dunque. Servitori, dove siete. Portate da sedere. (i servitori portano le sedie, tutti siedono; le donne stanno vicine) Or ora sentiremo un poeta nuovo.
Placida: Lo sentirò volentieri.
Eugenio: Eccolo, che viene.
Petronio: Poverino! è molto magro.
SCENA UNDICESIMA
LELIO, e detti.
Lelio: Servitor umilissimo a loro signori. (tutti lo salutano) Mi favoriscano di grazia; qual è di queste signore la prima donna?
Orazio: Ecco qui la signora Placida.
Lelio: Permetta, che con tutto il rispetto eserciti un atto del mio dovere. (le bacia la mano) Placida: Mi onora troppo, signore io non lo merito.
Lelio: Ella, signora, è forse la seconda donna?. (a Beatrice)
Beatrice: Per servirla.
Lelio: Permetta, che ancora seco... (come sopra)
Beatrice: No certamente. (la ritira)
Lelio: La supplico... (torna a provare)
Beatrice: Non si incomodi. (come sopra)
Lelio: è mio debito. (gliela bacia)
Beatrice: Come comanda.
Orazio: Questo poeta è molto cerimonioso. (a Eugenio) Eugenio I poeti colle donne sono quasi tutti così. (ad Orazio)
Orazio: Ella dunque è il signor Lelio, celebre compositore di commedie, non è così?
Lelio: A suoi comandi. Chi è V. S. se è lecito di saperlo?
Orazio: Sostengo la parte di primo amoroso, e sono il capo della compagnia.
Lelio: Lasci dunque, che eserciti seco gli atti del mio rispetto. (Lo riverisce con affettazione) Orazio: La prego non si incomodi. Eh là, dategli da sedere.
Lelio: Ella mi onora con troppa bontà. (i servi portano una sedia, e partono)
Orazio: Si accomodi.
Lelio: Ora, se mi permette anderò vicino a queste belle signore.
Orazio: Ella sta volentieri vicino alle donne.
Lelio: Vede bene. Le Muse son femmine. Viva il bel sesso. Viva il bel sesso.
Petronio: Signor poeta, gli son servitore.
Lelio: Schiavo suo. Chi è ella, mio padrone?
Petronio: Il Dottore, per servirla.
Lelio: Bravo, me ne rallegro. Ho una bella commedia fatta per lei.
Petronio: Com'è intitolata?
Lelio: Il Dottore ignorante.
Petronio: Mi diletto anche io sa ella di comporre, ed ho fatto ancor io una commedia.
Lelio: Sì? Com'è intitolata?
Petronio: Il Poeta matto.
Lelio: Viva il signor Dottore. Madama, ho delle scene di tenerezza, fatte apposta per voi, che faranno piangere non solo gli uditori, ma gli scanni stessi. (a Placida) Signora, ho per voi delle scene di forza, che faranno battere le mani anco ai palchi medesimi. (a Beatrice) Eugenio (Piangere li scanni, battere le mani à palchi. Questo è un poeta del Seicento).
Orazio: Ci favorisca di farci godere qualche cosa di bello.
Lelio: Questa è una commedia a soggetto, che ho fatta in tre quarti d'ora.
Petronio: Si può ben dire, che è fatta precipitevolissimevolmente.
Lelio: Senta il titolo. Pantalone padre amoroso, con Arlecchino servo fedele, Brighella mezzano per interesse, Ottavio economo in villa, e Rosaura delirante per amore. Ah, che ne dite? è bello? Vi piace? (alle donne)
Placida: è un titolo tanto lungo, che non me lo ricordo più.
Beatrice: è un titolo che comprende quasi tutta la compagnia.
Lelio: Questo è il bello; far che il titolo serva d'argomento alla commedia.
Orazio: Mi perdoni, signor Lelio. Le buone commedie devono avere l'unità dell'azione; uno deve essere l'argomento, e semplice deve essere il loro titolo.
Lelio: Bene. Meglio è abbondare, che mancare. Questa commedia ha cinque titoli, prendete di essi qual più vi piace. Anzi fate così, ogni anno che tornate a recitarla, mutate il titolo, e averete per cinque anni una commedia, che parerà sempre nuova.
Orazio: Andiamo avanti. Sentiamo come principia.
Lelio: Ah Madama, gran piacere proverò io, se avrò l'onore di scrivere qualche cosa per voi. (a Placida)
Placida: Mi dispiace, che io le farò poco onore.
Lelio: Quanto mi piace la vostra idea! Siete fatta apposta per sostenere il carattere di una bellezza tiranna. (a Beatrice)
Beatrice: Il signor poeta mi burla.
Lelio: Lo dico con tutto il core.
Petronio: Signor poeta, di grazia, ha ella mai recitato?
Lelio: Ho recitato nelle più celebri accademie d'Italia.
Petronio: Mi pare, che V. S. sia fatto appunto per le scene di caricatura.
Orazio: E così, signore si può sentire questo soggetto?
Lelio: Eccomi, subito vi servo: Atto primo. Strada. Pantalone, e Dottore. Scena d'amicizia.
Orazio: Anticaglia, anticaglia.
Lelio: Ma di grazia ascoltatemi. Il Dottore chiede la figlia a Pantalone.
Eugenio: E Pantalone gliela promette.
Lelio: Bravo, è vero. E Pantalone gliela promette. Il Dottore si ritira. Pantalone picchia, e chiama Rosaura.
Orazio: E Rosaura viene in istrada.
Lelio: Sì signore; e Rosaura viene in istrada.
Orazio: Con sua buona grazia, non voglio sentir altro.(si alza)
Lelio: Perché? Cosa c'è di male?
Orazio: Questa enorme improprietà di far venire le donne in istrada, è stata tollerata in Italia per molti anni con iscapito del nostro decoro. Grazie al Cielo l'abbiamo corretta, l'abbiamo abolita, e non si ha più da permettere sul nostro teatro.
Lelio: Facciamo così. Pantalone va in casa della figlia, e il Dottor resta.
Orazio: E frattanto che Pantalone sta in casa, cosa deve dire il Dottore?
Lelio: Mentre Pantalone è in casa, il Dottore... dice quel, che vuole.
In questo, sentite. In questo Arlecchino servo del Dottore viene pian piano, e dà una bastonata al padrone.
Orazio: Oibò, oibò sempre peggio.
Petronio: Se il poeta facesse da Dottore, il lazzo anderebbe bene.
Orazio: Che il servo bastoni il padrone è una indignità. Purtroppo è stato praticato dà comici questo bel lazzo, ma ora non si usa più. Si può dare maggior inezia? Arlecchino bastona il padrone, e il padrone lo soffre perché è faceto? Signor poeta, se non ha qualche cosa di più moderno, la prego, non si incomodi più oltre.
Lelio: Sentite almeno questo dialogo.
Orazio: Sentiamo il dialogo.
Lelio: Dialogo primo. Uomo prega, donna scaccia. (Uomo) Tu sorda più del vento, non odi il mio lamento? (Donna) Olà, vammi lontano, insolente qual mosca, o qual tafano. (Uomo) Idolo mio diletto...
Orazio: Non posso più.
Lelio: Abbiate compassione...
Orazio: Andategli a cantar sul colascione. (parte)
Lelio: (Donna) Quanto più voi mi amate, tanto più mi seccate. (Uomo) Barbaro cuore ingrato.
Eugenio: Anche io signor poeta, son seccato. (parte)
Lelio: (Donna) Và pure amante insano, già tu mi preghi invano.
(Uomo) Sentimi o Donna o Dea.
Petronio: Oh, mi ha fatto venir la diarrea. (parte)
Lelio: (Donna). Fuggi vola sparisci. (Uomo) Fermati, o cruda Arpia.
Beatrice: Vado via, vado via. (parte)
Lelio: Non far di me strapazzo.
Placida: Signor Poeta mio, voi siete pazzo. (parte)
Lelio: (Donna) Non sperar da me pietà, che pietà di te non ho. (Uomo) Se pietà da te non ho, disperato morirò. Come! tutti si sono partiti?
Mi hanno piantato? Così scherniscono un uomo della mia sorta? Giuro al Cielo mi vendicherò. Farò loro vedere chi sono. Farò recitare le mie commedie a dispetto loro, e se altro luogo non troverò per esporle, le farò recitar sopra un banco in piazza da una compagnia di valorosissimi cerretani. Chi sono costoro, che pretendono tutto a un tratto di rinnovare il teatro comico? Si danno ad intendere per aver esposto al pubblico alcune commedie nuove di cancellare tutte le vecchie? Non sarà mai vero, e con le loro novità, non arriveranno mai a far tanti danari, quanti ne ha fatti per tanti anni il gran Convitato di Pietra. (parte)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA.
Lelio: ed ANSELMO.
Lelio: Signor Anselmo, son disperato.
Anselmo: Ma, caro signor, la ghe va a proponer per prima commedia una strazza d'un soggetto, che no l'è gnanca bon per una compagnia de burattini.
Lelio: In quanto al soggetto mi rimetto, ma il mio dialogo, non lo dovevano strapazzare così.
Anselmo: Ma no sàla, che dialoghi, uscite, soliloqui, rimproveri, concetti, disperazion, tirade, le son cosse, che no le usan più?
Lelio: Ma presentemente che cosa si usa?
Anselmo: Commedie de carattere.
Lelio: Oh, delle commedie di carattere, ne ho quante ne voglio.
Anselmo: Perché donca no ghe n'àla proposto qualcheduna al nostro capo?
Lelio: Perché non credeva, che gli Italiani avessero il gusto delle commedie di carattere.
Anselmo: Anzi l'Italia adesso corre drio unicamente a sta sorte de commedie, e ghe dirò de più, che in poco tempo ha tanto profità el bon gusto nell'animo delle persone, che adesso anca la zente bassa decide francamente sui caratteri, e su i difetti delle commedie.
Lelio: Quella è una cosa assai prodigiosa.
Anselmo: Ma ghe dirò anca el perché. La commedia l'è stada inventada per corregger i vizi, e metter in ridicolo i cattivi costumi; e quando le commedie dai antighi se faceva così, tuto el popolo decideva, perché vedendo la copia d'un carattere in scena, ognun trovava, o in se stesso, o in qualchedun'altro l'original. Quando le commedie son deventade meramente ridicole, nissun ghe abbadava più, perché, col pretesto de far rider, se ammetteva i più alti, i più sonori spropositi. Adesso che se torna a pescar le commedie nel mare magnum della natura, i omeni se sente a bisegar in tel cor, e investindose della passion, o del carattere, che se rappresenta, i sa discerner se la passion sia ben sostegnuda, se il carattere sia ben condotto, e osservà.
Lelio: Voi parlate in una maniera, che parete più poeta, che commediante.
Anselmo: Ghe dirò, patron. Colla maschera son Brighella, senza maschera son un omo, che se non è poeta per l'invenzion, ha però quel discernimento, che basta per intender el so mestier. Un comico ignorante no pol riuscir in nessun carattere.
Lelio: (Ho gran timore, che questi comici ne sappiano più di me). Caro amico, fatemi il piacere di dire al vostro capo di compagnia, che ho delle commedie di carattere.
Anselmo: Ghe lo dirò, e la pol tornar stassera, o domattina, che gh'averò parlà.
Lelio: No; avrei fretta di farlo adesso.
Anselmo: La vede; si ha da concertar alcune scene de commedia per doman de sera; adesso nol ghe poderà abbadar.
Lelio: Se non mi ascolta subito, vado via, e darò le mie commedie a qualche altra compagnia.
Anselmo: La se comodi pur. Nu no ghe n'avemo bisogno.
Lelio: Il vostro teatro perderà molto.
Anselmo: Ghe vorrà pazienza.
Lelio: Domani devo partire; se ora non mi ascolta non faremo più a tempo.
Anselmo: La vaga a bon viazo.
Lelio: Amico, per dirvi tutto col cuore sulle labbra, non ho denari, e non so come far a mangiare.
Anselmo: Questa l'è una bella rason, che me persuade.
Lelio: Mi raccomando alla vostra assistenza; dite una buona parola per me.
Anselmo: Vado da sior Orazio, e spero, che el vegnirà a sentir subito cossa che la gh'ha, circa ai caratteri. (Ma credo, che el più bel carattere de commedia sia el suo, cioè el poeta affamado). (parte)
SCENA SECONDA
Lelio: e poi PLACIDA.
Lelio: Sono venuto in una congiuntura pessima. I comici sono oggidì illuminati; ma non importa. Spirito, e franchezza. Può darsi, che mi riesca di far valere l'impostura. Ma ecco la prima donna che torna. Io credo di aver fatta qualche impressione sullo spirito di lei.
Placida: Signor Lelio ancora qui?
Lelio: Sì mia signora, qual invaghita farfalla mi vo raggirando intorno al lume delle vostre pupille.
Placida: Signore, se voi seguiterete questo stile, vi farete ridicolo.
Lelio: Ma i vostri libri, che chiamate "generici" non sono tutti pieni di questi concetti?
Placida: I miei libri, che contenevano tali concetti gli ho tutti abbruciati, e così hanno fatto tutte quelle recitanti, che sono dal moderno gusto illuminate. Noi facciamo per lo più commedie di carattere, premeditate, ma quando ci accade di parlare all'improvviso, ci serviamo dello stil familiare, naturale, e facile, per non distaccarsi dal verisimile.
Lelio: Quand'è così, vi darò io delle commedie scritte con uno stile sì dolce, che nell'impararle v'incanteranno.
Placida: Basta che non sia stile antico, pieno d'"antitesi", e di "traslati".
Lelio: L'"antitesi" forse non fa bell'udire? Il contrapposto delle parole non suona bene all'orecchio?
Placida: Fin che l'"antitesi" è "figura", va bene; ma quando diventa "vizio" è insoffribile.
Lelio: Gli uomini della mia sorta, sanno dai "vizi" trar le "figure", e mi dà l'animo di rendere una graziosa figura di "repetizione" la più ordinaria "cacofonia".
Placida: Sentirò volontieri le belle produzioni dello spirito di lei.
Lelio: Ah, signora Placida, voi avete ad essere la mia sovrana, la mia stella, il mio nume.
Placida: Questa "figura" mi pare "iperbole".
Lelio: Andrò investigando colla mia più fina "retorica" tutti i "luoghi topici" del vostro cuore.
Placida: (Non vorrei, che la sua "retorica" intendesse di passare più oltre).
Lelio: Dalla vostra bellezza "argomento fiosoficamente" la vostra bontà.
Placida: Piuttosto che "filosofo", mi parete un bel "matematico".
Lelio: Mi renderò "speculativo" nelle prerogative del vostro merito.
Placida: Fallate il "conto", siete un cattivo "aritmetico".
Lelio: Spero, che colla perfezione dell'"optica" potrò "speculare" la vostra bellezza.
Placida: Anche in questo siete un pessimo "astrologo".
Lelio: è possibile, che non vogliate esser "medica" amorosa delle mie piaghe?
Placida: Sapete cosa sarò? Un "giudice legale", che vi farà legare, e condurre allo spedale dè pazzi. (Se troppo stessi con lui, farebbe impazzire ancora me. Mi ha fatto dire di quei concetti, che sono proibiti, come le pistole corte). (parte)
SCENA TERZA
Lelio: e poi ORAZIO.
Lelio: Queste principesse di teatro pretendono d'aver troppa sovranità su i poeti, e se non fossimo noi, non riscuoterebbero dall'udienza gli applausi. Ma ecco il signor capo; conviene contenersi con esso con umiltà. Oh fame, fame, sei pur dolorosa!
Orazio: Mi ha detto il signor Brighella, che V. S. ha delle commedie di carattere, e ancorché io non ne abbia bisogno, tuttavolta per farle piacere, ne prenderò qualcheduna.
Lelio: Le sarò eternamente obbligato.
Orazio: Da sedere. (i servi portano due sedie, e partono)
Lelio: (Fortuna aiutami).
Orazio: Favoritemi, e mostratemi qualche cosa di bello.
Lelio: Ora vi servo subito. Questa è una commedia tradotta dal francese, ed è intitolata...
Orazio: Non occorre altro. Quando è una commedia tradotta non fa per me.
Lelio: Perché? Disprezzate voi l'opere dei Francesi?
Orazio: Non le disprezzo; le lodo, le stimo, le venero, ma non sono il caso per me. I Francesi hanno trionfato nell'arte delle commedie per un secolo intiero; sarebbe ormai tempo, che l'Italia facesse conoscere non essere in ella spento il lume dè buoni autori, i quali dopo i Greci, ed i Latini sono stati i primi ad arricchire, e ad illustrare il teatro. I Francesi nelle loro commedie, non si può dire che non abbiano dè bei caratteri, e ben sostenuti, che non maneggiano bene le passioni, e che i loro concetti non siano arguti, spiritosi, e brillanti, ma gli uditori di quel paese si contentano del poco. Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione ben maneggiata e condotta, raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell'esprimere prendono aria di novità. I nostri Italiani vogliono molto più. Vogliono, che il carattere principale sia forte, originale, e conosciuto, che quasi tutte le persone, che formano gli episodi siano altrettanti caratteri; che l'intreccio sia mediocremente fecondo d'accidenti, e di novità.
Vogliono la morale mescolata coi sali, e colle facezie. Vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia.
Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle, e solamente, coll'uso, colla pratica, e col tempo si può arrivar a conoscerle, e ad eseguirle.
Lelio: Ma quando poi una commedia ha tutte queste buone qualità, in Italia, piace a tutti?
Orazio: Oh signor no. Perché, siccome ognuno, che va alla commedia pensa in un modo particolare, così fa in lui vario effetto, secondo il modo suo di pensare. Al malinconico non piace la barzeletta; all'allegro non piace la moralità. Questa è la ragione per cui le commedie non hanno mai, e mai non avranno l'applauso universale. Ma la verità però si è, che quando sono buone, alla maggior parte piacciono, quando sono cattive quasi a tutti dispiacciono.
Lelio: Quand'è così, io ho una commedia di carattere di mia invenzione, che son sicuro che piacerà alla maggior parte. Mi pare d'avere osservati in essa tutti i precetti, ma quando non li avessi tutti adempiuti, son certo d'avere osservato il più essenziale, che è quello della scena stabile.
Orazio: Chi vi ha detto, che la scena stabile sia un precetto essenziale?
Lelio: Aristotile.
Orazio: Avete letto Aristotile?
Lelio: Per dirla, non l'ho letto, ma ho sentito a dire così.
Orazio: Vi spiegherò io cosa dice Aristotile. Questo buon filosofo intorno alla commedia ha principiato a scrivere, ma non ha terminato, e non abbiamo di lui, sopra tal materia, che poche imperfette pagine.
Egli ha prescritta nella sua poetica l'osservanza della scena stabile rispetto alla tragedia, e non ha parlato della commedia. Vi è chi dice, che quanto ha detto della tragedia si debba intendere ancora della commedia, e che se avesse terminato il trattato della commedia, avrebbe prescritta la scena stabile. Ma a ciò rispondesi, che se Aristotile fosse vivo presentemente, cancellerebbe egli medesimo quest'arduo precetto, perché da questo ne nascono mille assurdi, mille improprietà, e indecenze. Due sorti di Commedia distinguo: "commedia semplice", e "commedia d'intreccio". La commedia "semplice" può farsi in iscena stabile. La commedia d'"intreccio" così non può farsi senza durezza, e improprietà. Gli antichi non hanno avuta la facilità, che abbiamo noi di cambiar le scene, e per questo ne osservano l'unità.
Noi avremo osservata l'unità del luogo, semprecché si farà la commedia in una stessa città, e molto più se si farà in un'istessa casa; basta che non si vada da Napoli in Castiglia come senza difficoltà solevano praticar gli Spagnuoli, i quali oggidì principiano a correggere quest'abuso, e a farsi scrupolo della distanza, e del tempo. Onde concludo, che se la commedia senza stiracchiature, o improprietà può farsi in iscena stabile, si faccia; ma se per l'unità della scena, si hanno a introdurre degli assurdi; è meglio cambiar la scena, e osservare le regole del verisimile.
Lelio: Ed io ho fatto tanta fatica per osservare questo precetto.
Orazio: Può essere, che la scena stabile vada bene. Qual è il titolo della vostra commedia?
Lelio: Il padre mezzano delle proprie figliuole.
Orazio: Oimè! Cattivo argomento. Quando il protagonista della commedia è di cattivo costume, o deve cambiar carattere contro i buoni precetti, o deve riescire la commedia stessa una scelleraggine.
Lelio: Dunque non si hanno a mettere sulla scena i cattivi caratteri per correggerli, e svergognarli?
Orazio: I cattivi caratteri si mettono in iscena, ma non i caratteri scandolosi, come sarebbe questo di un padre, che faccia il mezzano alle proprie figliuole. E poi quando si vuole introdurre un cattivo carattere in una commedia, si mette di fianco, e non in prospetto, che vale a dire, per episodio, in confronto del carattere virtuoso, perché maggiormente si esalti la virtù, e si deprima il vizio.
Lelio: Signor Orazio, non so più cosa dire. Io non ho altro da offerirvi.
Orazio: Mi spiace infinitamente, ma quanto mi avete offerito non fa per me.
Lelio: Signor Orazio, le mie miserie sono grandi.
Orazio: Mi rincresce, ma non so come soccorrervi.
Lelio: Una cosa mi resta a offerirvi, e spero, che non vi darà il cuore di sprezzarla.
Orazio: Ditemi in che consiste?
Lelio: Nella mia stessa persona.
Orazio: Che cosa dovrei fare di voi?
Lelio: Farò il comico, se vi degnate accettarmi.
Orazio: (si alza) Voi vi esibite per comico? Un poeta, che deve esser maestro dè comici, discende al grado di recitante? Siete un impostore, e come siete stato un falso poeta; così sareste un cattivo comico. Onde rifiuto la vostra persona come ho le opere vostre già rifiutate, dicendovi per ultimo, che v'ingannate, se credete che i comici onorati, come noi siamo, diano ricetto à vagabondi. (parte)
Lelio: Vadano al diavolo i soggetti, le commedie, e la poesia. Era meglio, che mi mettessi a recitare alla prima. Ma se ora il capo mi scaccia, e non mi vuole, chi sa! col mezzo del signor Brighella può essere, che mi accetti. Tant'è; mi piace il teatro. Se non son buono per comporre, mi metterrò a recitare. Come quel buon soldato, che non potendo essere capitano, si contentò del grado di tamburino. (parte)
SCENA QUARTA
Il Suggeritore: con fogli in mano e cerino acceso; poi Placida ed EUGENIO.
Suggeritore: Animo, signori, che l'ora vien tarda. Vengano a provare le loro scene. Tocca a Rosaura, e a Florindo.
Placida: Eccomi, io son pronta.
Eugenio: Son qui, suggerite. (al Suggeritore)
Placida: Avvertite bene, signor suggeritore: dove so la parte, suggerite piano, dove non la so, suggerite forte.
Suggeritore: Ma come farò io a conoscere dove la sa, e dove non la sa?
Placida: Se sapete il vostro mestiere, l'avete a conoscere. Andate, e se mi farete sbagliare, povero voi.
Suggeritore: (Già, è l'usanza dè commedianti: quando non sanno la parte, danno la colpa al suggeritore). (entra e va a suggerire)
SCENA QUINTA
Rosaurae FLORINDO.
Rosaura: Caro Florindo, mi fate torto se dubitate della mia fede. Mio padre non arriverà mai a disporre della mia mano.
Florindo: Non mi fa temer vostro padre, ma il mio. Può darsi che il signor Dottore, amandovi teneramente, non voglia la vostra rovina; ma l'amore, che ha per voi mio padre, mi mette in angoscia, e non ho cuore per dichiararmi ad esso rivale.
Rosaura: Mi credete voi tanto sciocca, che voglia consentire alle nozze del signor Pantalone? Ho detto che sarò sposa in casa Bisognosi ma fra me intesi del figliuolo, e non del padre.
Florindo: Eppure egli si lusingava di possedervi, e guai a me, se discoprisse la nostra corrispondenza.
Rosaura: Terrò celato il mio amore fino a tanto, che dal mio silenzio mi venga minacciata la vostra perdita.
Florindo: Addio, mia cara, conservatemi la vostra fede.
Rosaura: E mi lasciate sì tosto?
Florindo: Se il vostro genitore vi sorprende, sarà svelato ogni arcano.
Rosaura: Egli non viene a casa per ora.
SCENA SESTA
Pantalone e detti.
Pantalone: (di dentro)O de casa; se pol vegnìr?
Florindo: Oimè. mio padre.
Rosaura: Nascondetevi in quella camera.
Florindo: Verrà a parlarvi d'amore.
Rosaura: Lo seconderò per non dar sospetto.
Florindo: Secondatelo fino a certo segno.
Rosaura: Presto, presto, partite.
Florindo: Oh amor fatale, che mi obbliga ad essere geloso di mio padre medesimo! (si ritira) Pantalone: Gh'è nissun? Se pol vegnìr?
Rosaura: Venga, venga, signor Pantalone.
Pantalone: Siora Rosaura, patrona reverita. Xèla sola?
Rosaura: Sì, signore, son sola. Mio padre è fuori di casa.
Pantalone: Se contentela, che me ferma un pochetto con ela, o vorla, che vaga via?
Rosaura: Ella è il padrone di andare, e di stare, a suo piacere.
Pantalone: Grazie, la mia cara fia. Benedetta quella bocchetta, che dise quele bele parole.
Rosaura: Mi fa ridere, signor Pantalone.
Pantalone: Cuor allegro el Ciel l'aiuta. Gh'ho gusto, che ridè, che stè alegra, e quando ve vedo de bona vogia, sento propriamente, che el cuor me bagola.
Rosaura: M'imagino che sarà venuto per ritrovare mio padre.
Pantalone: No, colonna mia, no speranza mia, che no son vegnù per el papà, son vegnù per la tata.
Rosaura: E chi è questa tata?
Pantalone: Ah furbetta! Ah ladra de sto cuor! Lo savè, che spasemo, che muoro per vu?
Rosaura: Vi sono molto tenuta del vostro amore.
Pantalone: Ale curte. Za che semo soli, e nissun ne sente, ve contenteu, ve degneu, de compagnarve in matrimonio con mi?
Rosaura: Signore, bisognerà parlarne a mio padre.
Pantalone: Vostro sior pare xè mio bon amigo, e spero che nol me dirà de no. Ma vorave sentir da vu le mie care viscere, do parole, che consolasse el mio povero cuor. Vorrave, che vu me disessi: Sior sì; sior Pantalon lo torò, ghe voggio tutto el mio ben; sibben, che l'è vecchio, el me piase tanto; se me disè cusì, me fè andar in bruo de lasagne.
Rosaura: Io queste cose non le so dire.
Pantalone: Disè, fia mia, aveu mai fatto l'amor?
Rosaura: Non, signore, mai.
Pantalone: No savè, come che se fazza a far l'amor?
Rosaura: Non lo so, in verità.
Pantalone: Ve l'insegnerò mi, cara; ve l'insegnerò mi.
Rosaura: Queste non mi paiono cose per la sua età.
Pantalone: Amor no porta respetto a nissun. Tanto el ferisce i zoveni, quanto i vecchi; e tanto i vecchi, quanto i zoveni bisogna compatirli co i xè innamorai.
Florindo: Dunque avrete compassione ancora a me, se sono innamorato.
Pantalone: Come? Qua ti xè?
Florindo: Sì; signore, son qui per quella stessa cagione, che fa qui essere voi.
Pantalone: Confesso el vero, che tremo dala colera, e dal rossor vedendo in fazza de mio fio scoverte le mie debolezze. Xè granda la temerità da comparirme davanti in t'una congiuntura tanto pericolosa, ma sta sorpresa, sto scoprimento, servirà de fren ai to dessegni, e alle mie passion. Per remediar al mal esempio, che t'ho dà in sta occasion, sappi che me condanno da mi medesimo, che confesso esser stà tropo debole, tropo facile, tropo matto. Se ho dito, che i vecchi, e i zoveni che si innamora, merita compatimento, l'è stà un trasporto dell'amorosa passion. Per altro i vecchi, che gh'ha fioi, no i si ha da innamorar con pregiudizio della so famegia. I fioi, che gh'ha pare, no i si ha da incapriziar senza el consenso de quello, che li ha messi al mondo. Onde fora tutti do desta casa. Mi per elezion, ti per obbedienza. Mi per remediar al scandalo, che t'ho dà: ti per imparar a viver con cautela, con più giudizio, e con più respetto a to pare.
Florindo: Ma, signore...
Pantalone: Animo, digo, fora subito de sta casa.
Florindo: Permetetemi...
Pantalone: Obedissi, o te trarrò zoso della scala con le mie man.
Florindo: (Maledettissima gelosia, che mi rendesti impaziente).
Pantalone: Siora Rosaura, no so cossa dir. V'ho volesto ben, ve ne vogio ancora, e ve ne vorrò. Ma un momento solo ha deciso de vu, e de mi. De vu, che no sarè più tormentada da sto povero vecchio; de mi, che morirò quanto prima, sacrificando la vita al mio decoro, alla mia estimazion.
Rosaura: Oimè! Qual gelo mi ricerca le vene? In qual'agitazione si ritrova il mio core? (Dite piano, che la parte la so). (verso il Suggeritore) Florindo, scoperto dal padre, non verrà più in mia casa, non sarà più mio sposo? Ahi, che il dolore mi uccide. Ahi, che l'affanno... (Suggerite, che non me ne ricordo) Ahi che l'affanno m'opprime, Infelice Rosaura, e potrai vivere senza il tuo diletto Florindo? E soffrirai questa dolorosa... Zitto. (al Suggeritore) Questa dolorosa separazione? Ah no. A costo di perder tutto, a costo di perigli, e di morte, voglio andare in traccia dell'idol mio, voglio superare l'avverso... l'avverso fato... E voglio far conoscere al mondo... Maledetto suggeritore, che non si sente; non voglio dir altro. (parte)
SCENA SETTIMA
Il Suggeritore: col libro in mano, poi VITTORIA.
Suggeritore: Animo Colombina. Tocca a Colombina, e poi ad Arlecchino.
Non la finiscono mai. Maladetto questo mestiere! Bisogna star qui tre, o quattr'ore a sfiatarsi, e poi i signori comici sempre gridano, e non si contentano mai. Sono vent'ore sonate, e sa il Cielo, se il signor capo di compagnia mi darà nemmeno da pranzo. Colombina. (chiama forte)
Vittoria: Son qui, son qui.
Suggeritore: Animo, che è tardi. (entra e va a suggerire)
Colombina: Povera signora Rosaura, povera la mia padrona! Che cosa mai ha che piange, e si dispera? Eh so ben io cosa vi vorrebbe pel suo male! Un pezzo di giovinotto ben fatto, che le facesse passare la malinconia. Ma il punto sta, che anche io ho bisogno dello stesso medicamento. Arlecchino, e Brighella sono ugualmente accesi delle mie strepitose bellezze, ma non saprei a qual di loro dar dovessi la preferenza. Brighella è troppo furbo, Arlecchino è troppo sciocco.
L'accorto vorrà fare a modo suo, l'ignorante non saprà fare a modo mio. Col furbo starò male di giorno, e collo sciocco starò male di notte. Se vi fosse qualcheduno a cui potessi chiedere consiglio, glielo chiederei volontieri.
SCENA OTTAVA
Brighella e Arlecchino che ascoltano, e detta.
Colombina: Basta, andrò girando per la città, e a quante donne incontrerò, voglio dimandare, se sia meglio prendere un marito accorto, o un marito ignorante.
Brighella: Accorto, accorto. (si avanza)
Arlecchino: Ignorante, ignorante. (si avanza)
Colombina: Ognuno difende la propria causa.
Brighella: Mi digo el vero.
Arlecchino: Mi gh'ho rason.
Brighella: E te lo proverò con argomenti in forma.
Arlecchino: E mi lo proverò con argomenti in scarpa.
Colombina: Bene, chi di voi mi persuaderà, sarà mio marito.
Brighella: Mi come omo accorto, sfadigherò, suderò, perché in casa no te manca mai da magnar.
Colombina: Questo è un buon capitale.
Arlecchino: Mi, come omo ignorante, che no sa far gnente, lasserò che i boni amici porta in casa da magnar, e da bever.
Colombina: Anche così, potrebbe andar bene.
Brighella: Mi, come omo accorto, che sa sostegnir el ponto d'onor, te farò respettar da tutti.
Colombina: Mi piace.
Arlecchino: Mi, come omo ignorante, e pacifico, farò, che tutti te voia ben.
Colombina: Non mi dispiace.
Brighella: Mi, come omo accorto, regolerò perfettamente la casa.
Colombina: Buono.
Arlecchino: Mi, come omo ignorante, lasserò che ti la regoli ti.
Colombina: Meglio.
Brighella: Se ti vorrà divertimenti, mi te condurrò da per tutto.
Colombina: Benissimo.
Arlecchino: Mi, se ti vorrà andar a spasso, te lasserò andar sola dove ti vol.
Colombina: Ottimamente.
Brighella: Mi, se vederò, che qualche zerbintoto vegna per insolentarte, lo scazzerò colle brutte.
Colombina: Bravo.
Arlecchino: Mi, se vederò qualchedun, che te zira d'intorno darò logo alla fortuna.
Colombina: Bravissimo.
Brighella: Mi, se troverò qualchedun in casa el copperò!
Arlecchino: E mi torrò ed candelier, e ghe farò lume.
Brighella: Cossa dixeu?
Arlecchino: Cossa te par?
Colombina: Ora, che ho sentite le vostre ragioni, concludo, che Brighella pare troppo rigoroso, e Arlecchino troppo paziente. Onde, fate così, impastatevi tutti due, fate di due pazzi un uomo savio, ed allora vi sposerò.
Brighella: Arlecchin?
Arlecchino: Brighella?
Brighella: Com'ela?
Arlecchino: Com'ela?
Brighella: Ti, che ti è un maccaron, ti te pol impastar facilmente.
Arlecchino: Piuttosto ti, che ti è una lasagna senza dreto e senza roverso.
Brighella: Basta, no l'è mio decoro, che me metta in competenza con ti.
Arlecchino: Sastu cossa che podemo far? Colombina sa far la furba, e l'accorta, quando che la vol; ergo impastemose tutti do con ela, e faremo de tre paste una pasta da far biscotto per le galere. (parte)
SCENA NONA
BRIGHELLA, poi Orazio ed EUGENIO.
Brighella: Costù per quel che vedo, l'è goffo e destro; ma no saria mio decoro, che me lassasse da lu superar. Qua ghe vol spirito, ghe vol inzegno. Qual piloto, che trovandose in alto mar colla nave, osservando dalla bussola della calamita, che el vento sbalza da garbin a sirocco, ordena ai marineri zirar le vele; cusì anca mi, ai marineri dei mii pensieri...
Orazio: Basta così, basta così.
Anselmo: Obbligatissimo alle sue grazie. Perché no volela, che fenissa la mia scena?
Orazio: Perché queste comparazioni, queste allegorie non si usano più.
Anselmo: E pur quando le se fa, la zente sbate le man.
Orazio: Bisogna vedere chi è, che batte. La gente dotta non si appaga di queste freddure. Che diavolo di bestialità? paragonare l'uomo innamorato al piloto, che è in mare, e poi dire: I marinari dei miei pensieri! Queste cose il poeta non le ha scritte. Questo è un paragone recitato di vostra testa.
Anselmo: Donca non ho da dir paralleli?
Orazio: Signor no.
Anselmo: Non ho da cercar allegorie?
Orazio: Nemmeno.
Anselmo: Manco fadiga, e più sanità. (parte)
SCENA DECIMA
Orazio: ed EUGENIO.
Orazio: Vedete? Ecco la ragione per cui bisogna procurar di tenere i commedianti legati al premeditato, perché facilmente cadono nell'antico, e nell'inverisimile.
Eugenio: Dunque si hanno da abolire intieramente le commedie all'improviso?
Orazio: Intieramente no; anzi va bene, che gli Italiani si mantengano in possesso di far quello, che non hanno avuto coraggio di far le altre nazioni. I Francesi sogliono dire, che i comici italiani sono temerari, arrischiandosi a parlare in pubblico all'improvviso; ma questa, che può dirsi temerità nei comici ignoranti è una bella virtù nè comici virtuosi; e ci sono tuttavia dè personaggi eccellenti, che ad onor dell'Italia, e a gloria dell'arte nostra, portano in trionfo con merito e con applauso l'ammirabile prerogativa di parlare a soggetto, con non minor eleganza di quello che potesse fare un poeta scrivendo.
Eugenio: Ma le maschere ordinariamente patiscono a dire il premeditato.
Orazio: Quando il premeditato è grazioso, e brillante, bene adattato al carattere del personaggio, che deve dirlo, ogni buona maschera volentieri lo impara.
Eugenio: Dalle nostre commedie di carattere non si potrebbero levar le maschere?
Orazio: Guai a noi, se facessimo una tal novità: non è ancor tempo di farla. In tutte le cose non è da mettersi di fronte contro all'universale. Una volta il popolo andava alla commedia solamente per ridere, e non voleva vedere altro che le maschere in iscena, e se le parti serie avevano un dialogo un poco lungo, si annoiavano immediatamente; ora si vanno avvezzando a sentir volentieri le parti serie, e godono le parole, e si compiacciono degli accidenti, e gustano la morale, e ridono dei sali, e dei frizzi, cavati dal serio medesimo, ma vedono volentieri anco le maschere, e non bisogna levarle del tutto, anzi convien cercare di bene allogarle, e di sostenerle con merito nel loro carattere ridicolo anco a fronte del serio più lepido, e più grazioso.
Eugenio: Ma questa è una maniera di comporre assai difficile.
Orazio: è una maniera ritrovata, non ha molto, alla di cui comparsa tutti si sono invaghiti, e non andrà gran tempo, che si sveglieranno i più fertili ingegni a migliorarla, come desidera di buon cuore, chi l'ha inventata.
SCENA UNDICESIMA
Petronio: e detti.
Petronio: Servitor di lor signori.
Orazio: Riverisco il signor Petronio.
Petronio: Voleva provar ancor io le mie scene, ma parmi, che ci sia poco buona disposizione.
Orazio: Per questa mattina basta così. Proveremo qualche altra cosa dopo pranzo.
Petronio: Io sto lontano di casa, mi rincresce aver d'andare, e tornare.
Eugenio: Eh resterete qui a pranzo dal signor Orazio: già faccio conto di restarvi ancor io.
Orazio: Padroni; si accommodino.
SCENA DODICESIMA
Il Suggeritore della scena; e poi ANSELMO, LELIO e detti.
Suggeritore: Quand'è così, starò anche io a ricevere le sue grazie. (ad Orazio)
Orazio: Sì signore, mi maraviglio. (il Suggeritore entra)
Anselmo: Sior Orazio, so che l'ha tanta bontà per mi, che no la me negherà una grazia.
Lelio (fa riverenze)
Orazio: Dite pure; in quel che posso, vi servirò.
Lelio: (come sopra)
Anselmo: L'è qua el sior Lelio. El desidera de far el comico: el gh'ha del spirito, dell'abilità; sta compagnia la gh'ha bisogno d'un altro moroso; la me fazza sta finezza; la lo riceva in grazia mia.
Orazio: Per compiacere il mio caro signor Anselmo, lo farei volentieri, ma chi mi assicura, che possa riuscire?
Anselmo: Fermo cusì, provemolo. Se contentela sior Lelio, de far una piccola prova?
Lelio: Sono contentissimo. Mi rincresce, che ora non posso, mentre non avendo bevuto la cioccolata, sono di stomaco, e di voce un poco debole.
Orazio: Faremo così; torni dopo pranzo, e si proverà.
Lelio: Ma frattanto dove avrei io d'andare?
Orazio: Vada a casa, poi torni.
Lelio: Casa io non ne ho.
Orazio: Ma dove è alloggiato?
Lelio: In nessun luogo.
Orazio: Quant'e, che è in Venezia?
Lelio: Da ieri in qua.
Orazio: E dove ha mangiato ieri?
Lelio: In nessun luogo.
Orazio: Ieri non ha mangiato?
Lelio: Né ieri, né stamattina.
Orazio: Ma dunque come farà...
Eugenio: Signor poeta, venga a pranzo dal capo di compagnia.
Lelio: Riceverò le sue grazie, signor capo; perché questi appunto sono gli incerti dè poeti.
Orazio: Io non la ricevo per poeta, ma per comico.
Petronio: Venga, venga, signore, questo è un incerto anco dei comici quando si fa la prova.
Orazio: Oh mi perdoni! Mi tornerebbe un bel conto.
Lelio: Questa è fatta, non se ne parla più. Oggi vedrà la mia abilità.
Petronio: E la principieremo a vedere alla tavola.
SCENA TREDICESIMA
Vittoria: e detti.
Vittoria: Signor Orazio, è arrivata alla porta una forestiera piena di ricciolini, tutta brio, col tabarrino, col cappellino, e domanda del capo di compagnia.
Orazio: Venga avanti.
Lelio: Non sarebbe meglio riceverla dopo desinare?
Orazio: Sentiamo cosa vuole.
Vittoria: Ora la faccio passare.
Orazio: Mandiamo un servitore.
Vittoria: Eh io fo la serva da burla, la farò anche davvero.
SCENA QUATTORDICESIMA.
PLACIDA, Beatrice e detti.
Placida: Grand'aria! grand'aria!
Beatrice: Bellezze grandi! bellezze grandi!
Orazio: Che cosa c'è, signore mie?
Placida: Vien su della scala una forestiera, che incanta.
Beatrice: Ha il servitore colla livrea, sarà qualche gran signora.
Orazio: Or ora la vedremo. Eccola.
SCENA QUINDICESIMA.
ELEONORA, con un SERVITORE, e detti.
Eleonora: Serva a lor signori.
Orazio: Servitor ossequiosissimo, mia signora. (le donne le fanno riverenza, e tutti gli uomini stanno col cappello in mano)
Eleonora: Sono comici, lor signori?
Orazio: Sì, signora, per servirla.
Eleonora: Chi è il capo della compagnia?
Orazio: Io per obbedirla.
Eleonora: è questa è la prima donna? (verso Placida)
Placida: A suoi comandi. (con una riverenza)
Eleonora: Brava; so che vi fate onore.
Placida: Grazie alla sua bontà.
Eleonora: Io pure vado volentieri alle commedie, e quando vedo le vostre buffonerie, rido, come una pazza.
Orazio: Ci favorisca di grazia, acciò che io non mancassi del mio dovere; mi dica con chi ho l'onor di parlare.
Eleonora: Sono una virtuosa di musica.
Orazio: Ella è dunque una cantatrice?
Eleonora: Cantatrice? Sono una virtuosa di musica. (tutti si guardano fra di loro, e si mettono il cappello in testa)
Orazio: Insegna forse la musica?
Eleonora: No, signore, canto.
Orazio: Dunque è cantatrice.
Placida: Fate voi da prima donna? (ad Eleonora)
Eleonora: Qualche volta.
Placida: Brava ragazza, vi verrò a vedere. (burlandola)
Petronio: Anche io, signora, quando sento le smorfie delle cantatrici, crepo dalle risa.
Lelio: Perdoni in grazia, non è ella la signora Eleonora?
Eleonora: Sì signore per l'appunto.
Lelio: Non si ricorda, che ha recitato in un mio dramma?
Eleonora: Dove? Non mi sovviene.
Lelio: A Firenze.
Eleonora: Il dramma com'era intitolato?
Lelio: La Didone in bernesco.
Eleonora: Sì, signore, è vero. Io faceva la prima parte. Anzi l'impressario andò fallito per cagione del libro.
Lelio: Tutti dicevano a cagione della prima donna; per altro, mi rimetto.
Beatrice: Dunque ella recita in opere buffe?
Eleonora: Sì signora, qualche volta.
Beatrice: E viene a ridere delle buffonerie dei commedianti?
Eleonora: Vi dirò. Mi piace tanto il vostro modo di trattare, che verrei volentieri ad unirmi con voi.
Orazio: Vuol fare la commediante?
Eleonora: Io la commendiante!
Orazio: Ma dunque cosa vuol fare con noi?
Eleonora: Verrò a cantar gli intermezzi.
Orazio: Obbligatissimo alle sue grazie.
Eleonora: Il compagno lo troverò io, e con cento zecchini vi assolverete dalla spesa di tutti due.
Orazio: Non più di cento zecchini?
Eleonora: Viaggi, alloggi, piccolo vestiario, queste sono cose, che ci si intendono.
Orazio: Eh benissimo, cose che si usano.
Eleonora: Gli intermezzi gli abbiamo noi; ne faremo quattro per obbligo in ogni piazza, e volendone di più, ci farete un regalo di dieci zecchini per ogni muta.
Orazio: Anche qui non c'è male.
Eleonora: L'orchestra poi, deve esser sufficiente.
Orazio: Questo si intende.
Eleonora: Abiti sempre nuovi.
Orazio: Ho il sarto in casa.
Eleonora: Il mio staffiere fa la parte muta, e si contenterà di quello che gli darete.
Orazio: Anche il servitore è discreto.
Eleonora: Tutto va bene.
Orazio: Va benissimo.
Eleonora: La cosa è aggiustata, mi pare
Orazio: Aggiustatissima.
Eleonora: Dunque...
Orazio: Dunque, signora, non abbiamo bisogno di lei.
Tutti: Bravo, bravo. (con allegria)
Eleonora: Come! Mi disprezzate così?
Orazio: Cosa credete, signora mia, che i comici abbiano bisogno, per far fortuna, dell'animo della vostra musica? Pur troppo per qualche tempo l'arte nostra si è avvilita a segno di mendicar dalla musica i suffragi per tirar la gente al teatro. Ma grazie al Cielo, si sono tutti disingannati, ed è stata intieramente sbandita dai nostri teatri. Io non voglio entrare nel merito, o nel demerito dè professori di canto, ma vi dico, che tanto è virtuoso il musico, quanto il comico, quando ognuno sappia il suo mestiere; con questa differenza, che noi per comparire, dobbiamo studiare per necessità, ma voi altre piccole cantatrici, vi fate imboccare un paio di arie, come i pappagalli, e a forza d'impegni vi fate batter le mani. Signora virtuosa, la riverisco. (parte)
Eleonora: Ecco qui. I comici sono sempre nemici dei virtuosi di musica.
Placida: Non è vero, signora, non è vero. I comici sanno rispettare quei musici, che hanno del merito e della virtù; ma i musici di merito, e virtuosi rispettano altresì i comici onorati, e dabbene. Se foste voi una virtuosa di grado, non verreste a offerirvi a cantare gli intermezzi nella commedia. Ma quando ciò vi riuscisse, avreste migliorato assai di condizione, mentre è molto meglio vivere frà comici mediocri, come siamo noi, che fra i cattivi musici, coi quali sarete sin'ora stata. Signora virtuosa a lei m'inchino. (parte)
Eleonora: Questa prima donna avrà fatto da principessa, e si crede di esser ancora tale.
Beatrice: Come voi, che avrete veduti i cartoni di qualche libro di musica, e vi date a credere di essere virtuosa. è passato il tempo, signora mia, che la musica si teneva sotto i piedi l'arte comica.
Adesso abbiamo anche noi il teatro pieno di nobiltà, e se prima venivano da voi per ammirare, e da noi per ridere; ora vengono da noi per goder la commedia, e da voi per la conversazione. (parte)
Eleonora: Sono ardite davvero queste commedianti, signori miei, non mi credeva d'avere un simile trattamento.
Eugenio: Sareste stata meglio trattata, se foste venuta con miglior maniera.
Eleonora: Noi altre virtuose parliamo quasi tutte così.
Eugenio: E noi altri comici rispondiamo così. (parte)
Eleonora: Sia maladetto quando son qui venuta.
Petronio: Certo che ha fatto male a venir a sporcare i virtuosi suoi piedi sulle tavole della commedia.
Eleonora: Voi, chi siete?
Petronio: Il Dottor per servirla.
Eleonora: Dottor di commedia.
Petronio: Com'ella virtuosa di teatro.
Eleonora: Che vuol dire, dottore senza dottrina.
Petronio: Che vuol dire: virtuosa senza saper né legger; né scrivere. (parte)
Eleonora: Ma questo è troppo; se qui resto, ci va della mia riputazione. Staffiere, voglio andar via.
Anselmo: Siora virtuosa, se la volesse restar servida a magnar quattro risi coi commedianti, l'è padrona.
Eleonora: Oh voi siete un uomo proprio, e civile.
Anselmo: Mi no son padron de casa, mal el capo di compagnia l'è tanto mio amigo, che se ghe la condurrò, so che el la vederà volentiera.
Eleonora: Ma le donne, mi perderanno il rispetto.
Anselmo: Basta che la se contegna con prudenza, e la vederà, che tutte le ghe farà ciera.
Eleonora: Andate, ditelo al capo di compagnia, e si egli m'invita, può essere, che mi lasci indurre a venire.
Anselmo: Vado subito. (Ho inteso. La musica de sta patrona, l'è compagna della poesia del sior Lelio. Fame tanta, che fa paura).
(parte)
Lelio: Signora Eleonora, a me che sono vostro conoscente antico, potete parlare con libertà. Come vanno le cose vostre?
Eleonora: Male assai. L'impresario dell'opera, in cui io recitava, è fallito; ho perduta la paga, ho dovuto far il viaggio a mie spese, e per dirvi tutto, non ho altro che quello che mi vedete intorno.
Lelio: Anche io, signora mia, sono nello stesso caso, e se volete prendere il partito, che ho preso io, starete bene ancor voi.
Eleonora: A che cosa vi siete voi appigliato?
Lelio: A fare il comico.
Eleonora: Ed io dovrò abbassarmi a tal segno?
Lelio: Signora mia, come state d'appetito?
Eleonora: Alquanto bene.
Lelio: Ed io benissimo. Andiamo a desinare, che poi ne parleremo.
Eleonora: Il capo di compagnia non mi ha mandato l'invito.
Lelio: Non importa: andiamo, che è galantuomo. Non vi rifiuterà.
Eleonora: Ho qualche difficoltà.
Lelio: Se avete difficoltà voi, non l'ho io. Vado a sentire l'armonia dè cucchiai, che è la più bella musica di questo mondo. (parte)
Eleonora: Staffiere, che facciamo?
Staffiere: Io ho una fame, che non posso più.
Eleonora: Andiamo, o non andiamo?
Staffiere: Andiamo per amor del Cielo.
Eleonora: Bisognerà superar la vergogna. Ma che farò? Mi lascierò persuadere a far la comica? Mi regolerò secondo la tavola dei commedianti. Già, per dirla, è tutto teatro, e di cattiva musica, può essere, che io diventi, mediocre comica. Quante mie compagne farebbero così, se potessero! è meglio guadagnarsi il pane colle sue fatiche, che dar occasione di mormorare. (parte collo Staffiere)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Orazio ed EUGENIO.
Eugenio Ora la compagnia è veramente compiuta. Il signor Lelio, e la signora Eleonora suppliscono a due persone, che erano necessarie.
Orazio: Chi sa se saranno buoni da recitare?
Eugenio: Gli proverete; ma io giudico, che abbiano a riuscire ottimamente.
Orazio: Poi converrà osservare il loro modo di vivere. Uno ha in capo la poesia, l'altra la musica; non vorrei che m'inquietassero colle loro idee. Sapete, che io sopra tutto fo capitale della quiete nella mia compagnia, che stimo più un personaggio di buoni costumi, che un bravo comico, che sia torbido, e di mal talento.
Eugenio: E così va fatto. La buona armonia fra compagni contribuisce al buon esito delle commedie. Dove sono dissensioni, gare, invidie, gelosie, tutte le cose vanno male.
Orazio: Io non so come la signora Eleonora siasi indotta in un momento a voler far la comica.
Eugenio: La necessità la conduce a procacciarsi questo poco di pane.
Orazio: Quando sarà rimessa in buono stato, farà come tanti altri, non si ricorderà del benefizio, e ci volterà le spalle.
Eugenio: Il mondo è sempre stato così.
Orazio: L'ingratitudine è una gran colpa.
Eugenio: Eppure tanti sono gli ingrati.
Orazio: Osservate il signor Lelio, che medita qualche cosa per far prova della sua abilità.
Eugenio: Ora verrà da voi a farsi sentire. Non gli voglio dar soggezione.
Orazio: Sì, fate bene a partire. Andate dalla signora Eleonora, e quando mi sarò sbrigato dal poeta, mandatemi la virtuosa.
Eugenio: Poeta salvatico, e virtuosa ridicola. (parte)
SCENA SECONDA
ORAZIO, poi LELIO.
Orazio: Ecco il signor Lelio, che viene con passo grave. Farà probabilmente qualche scena.
Lelio: Sono stato per rivedere la mia bella, e non avendo avuto la fortuna di ritrovarla, voglio portarmi a rintracciarla al mercato.
Orazio: Signor Lelio, con chi intendete di parlare?
Lelio: Non vedete, che io recito?
Orazio: Capisco, che recitate; ma recitando, con chi parlate?
Lelio: Parlo da me stesso. Questa è un'uscita, un soliloquio.
Orazio: E parlando da voi medesimo, dite: Sono stato a riveder la mia bella? Un uomo da se stesso, non parla così. Pare, che venghiate in scena a raccontare a qualche persona dove siete stato.
Lelio: Ebbene, parlo col popolo.
Orazio: Qui vi voleva. E non vedete, che col popolo non si parla? Che il comico deve immaginarsi, quando è solo, che nessuno lo senta, e che nessuno lo veda? Quello di parlare col popolo è un vizio intollerabile, e non si deve permettere in verun conto.
Lelio: Ma se quasi tutti quelli, che recitano all'improvviso fanno così. Quasi tutti, quando escono soli vengono a raccontare al popolo dove sono stati, e dove vogliono andare.
Orazio: Fanno male, malissimo, e non si devono seguitare
Lelio: Dunque non si faranno mai soliloqui.
Orazio: Signor sì, i soliloqui sono necessari per ispiegare gli interni sentimenti del cuore, dar cognizione al popolo del proprio carattere, e mostrar gli effetti, e i cambiamenti delle passioni.
Lelio: Ma come si fanno i soliloqui senza parlare al popolo?
Orazio: Con una somma facilità: sentite il vostro discorso regolato, e naturale. Invece di dire: Sono stato dalla mia bella, e non l'ho ritrovata; voglio andarla a ricercare, ecc. Si dice così: Fortuna ingrata, tu che mi vietasti il contento di rivedere nella propria casa il mio bene, concedimi che possa rinvenirla...
Lelio: Al mercato.
Orazio: Oh questa è più graziosa! Volete andar a ritrovare la vostra bella al mercato?
Lelio: Sì signore, al mercato. Mi figuro, che la mia bella sia una rivendugliola, e se mi aveste lasciato finire, avreste sentito nell'argomento, chi sono io, chi è colei, come ci siamo innamorati, e come penso di conchiudere le nostre nozze.
Orazio: Tutta questa roba volevate dire da voi solo? Vi serva di regola, che mai non si fanno gli argomenti della commedia da una sola persona in scena, non essendo verisimile, che un uomo, che parla solo, faccia a se stesso l'istoria dè suoi amori, o dei suoi accidenti. I nostri comici solevano per lo più nella prima scena far dichiarare l'argomento, o dal Pantalone col Dottore; o dal padrone con il servo, o dalla donna colla cameriera. Ma la vera maniera di far l'argomento delle commedie senza annoiare il popolo, si è dividere l'argomento stesso in più scene, e a poco, a poco andarlo dilucidando, con piacere, e con sorpresa degli ascoltanti.
Lelio: Orsù, signor Orazio, all'improvviso non voglio recitare. Voi avete delle regole, che non sono comuni, ed io che sono principiante, le so meno degli altri. Reciterò nelle commedie studiate.
Orazio: Bene; ma vi vuol tempo avanti che impariate una parte, e che io vi possa sentire.
Lelio: Vi reciterò qualche cosa del mio.
Orazio: Benissimo; dite su, che v'ascolto.
Lelio: Vi reciterò un pezzo di commedia in versi.
Orazio: Recitateli pure. Ma ditemi in confidenza, sono vostri?
Lelio: Ho paura di no.
Orazio: E di chi sono?
Lelio: Ve lo dirò poi. Questa è una scena, che fa il padre colla figlia, persuadendola a non maritarsi.
Figlia, che mi sei cara quanto mai
Dir si possa, e per te sai quanto ho fatto.
Prima di vincolarti con il durissimo
Laccio del matrimonio, ascolta quanti
Pesi trae seco il coniugal diletto.
Bellezza, e gioventù preziosi arredi
Della femmina, son dal matrimonio
Oppressi e posti in fuga innanzi al tempo.
Vengono i figli. Oh dura cosa i figli!
Il portarli nel seno, il darli al mondo,
L'allevarli, il nudrirli sono cose,
Che fanno inorridir! Ma chi t'accerta,
Che il marito non sia geloso, e voglia
A te vietar quel che egli andrà cercando?
Pensaci, figlia, pensaci, e poi quando
Avrai meglio pensato; sarò padre
Per compiacerti come ora lo sono
Per consigliarti.
Orazio: Questi effettivamente non paiono versi, e duro fatica a credere, che siano versi.
Lelio: Volete sentire se sono versi? Ecco, udite, come si fanno conoscere quando si vuole. (recita i medesimi versi declamandoli, per far conoscere il metro)
Orazio: è vero, sono versi, e non paiono versi. Caro amico, ditemi di chi sono?
Lelio: Voi gli dovreste conoscere.
Orazio: Eppure non gli conosco.
Lelio: Sono dell'autore delle vostre commedie.
Orazio: Com'è possibile, si egli non ha mai fatto commedie in versi, e ha protestato di non volerne fare?
Lelio: Effettivamente non ne vol fare; ma a me, che sono poeta mi ha confidato questa sua scena.
Orazio: Dunque lo conoscete?
Lelio: Lo conosco, e spero arrivar anche io a comporre delle commedie com'egli ha fatto.
Orazio: Eh figliuolo, bisogna prima consumar sul teatro tanti anni, quanti ne ha egli consumati, e poi potrete sperare di far qualche cosa. Credete che egli sia diventato compositore di commedie ad un tratto? L'ha fatto a poco a poco, ed è arrivato ad essere compatito dopo un lungo studio, una lunga pratica, ed una continova instancabile osservazione del teatro; dei costumi, e del genio delle nazioni.
Lelio: Alle corte, sono buono da recitare?
Orazio: Siete sufficiente.
Lelio: Mi accettate nella vostra compagnia?
Orazio: Vi accetto con ogni soddisfazione.
Lelio: Quand'è così, son contento. Attenderò a recitare, e lascierò l'umore del comporre; giacché per quel, che sento, sono tanti i precetti d'una commedia, quante sono per così dire le parole, che la compongono. (parte)
SCENA TERZA
ORAZIO, poi ELEONORA.
Orazio: Questo giovine ha del brio. Pare un poco girellaio, come dicono i Fiorentini, ma per la scena vi vuole sempre uno, a cui addattar si possano i caratteri più brillanti.
Eleonora: Serva, signor Orazio.
Orazio: Riverisco la signora virtuosa.
Eleonora: Non mi mortificate d'avvantaggio. So benissimo, che con poco garbo mi sono a voi presentata, che aveva necessità di soccorso, ma l'aria musicale influisce così; il contegno, l'affabilità, la modestia delle vostre donne, ha fatto che io mi sono innamorata di loro, e di tutti voi. Vedesi veramente smentita la massima di chi crede, che le femmine del teatro, siano poco ben costumate, e traggano il loro guadagno parte dalla scena, e parte dalla casa.
Orazio: Per nostra consolazione, non solo è sbandito qualunque reo costume nelle persone, ma ogni scandalo dalla scena. Più non si sentono parole oscene, equivoci sporchi, dialoghi disonesti. Più non si vedono lazzi pericolosi, gesti scorretti, scene lubriche, di mal esempio. Vi possono andar le fanciulle, senza timor d'apprendere cose immodeste, o maliziose.
Eleonora: Orsù, signor Orazio, io voglio essere comica, e mi raccomando alla vostra assistenza.
Orazio: Raccomandatevi a voi medesima; che vale a dire, studiate, osservate gli altri, imparate bene le parti, e sopra tutto, se vi sentite a fare un poco d'applauso, non v'insuperbite, e non vi date subito a credere di essere una gran donna. Se sentite a battere le mani, non ve ne fidate. Un tale applauso suol essere equivoco. Molti battono per costume, altri per passione, alcuni per genio, altri per impegno, e molti ancora, perché sono pagati dai protettori.
Eleonora: Io protettori non ne ho.
Orazio: Siete stata cantatrice, e non avete protettori?
Eleonora: Io non ne ho, e mi raccomando a voi.
Orazio: Io sono il capo di compagnia; io amo tutti ugualmente, e desidero, che tutti si facciano onore per il loro, e per il mio interesse: ma non uso parzialità a nessuno, e specialmente alle donne, perché, per quanto siano buone, fra loro si invidiano.
Eleonora: Ma non volete nemmeno provarmi, se sono capace di sostenere il posto, che mi date di terza donna?
Orazio: Oh questo poi sì, mentre il mio interesse vuole, che mi assicuri della vostra abilità.
Eleonora: Vi dirò qualche pezzo di recitativo, che so.
Orazio: Ma non in musica.
Eleonora: Lo dirò senza musica. Reciterò una scena della Didone bernesca, composta dal signor Lelio.
Orazio: Di quella, che ha fatto fallire l'impresario?
Eleonora: Sentite: (si volta verso Orazio a recitare)
Enea d'Asia splendore...
Orazio: Con vostra buona grazia. Voltate la vita verso l'udienza.
Eleonora: Ma se ho da parlare con Enea.
Orazio: Ebbene; si tiene il petto verso l'udienza, e con grazia si gira un poco il capo verso il personaggio; osservate:
Enea d'Asia splendore...
Eleonora: In musica, non mi hanno insegnato così.
Orazio: Eh lo so, che voi altre non badate ad altro, che alle cadenze.
Eleonora:
Enea d'Asia splendore,
Caro figliuol di Venere,
E solo Amor di queste luci tenere;
Vedi come in Cartagine bambina,
Consolate del tuo felice arrivo,
Ballano la furlana anco le torri?
Orazio: Basta così; non dite altro per amor del Cielo.
Eleonora: Perché? recito tanto male?
Orazio: No quanto al recitare sono contento, ma non posso sofferire di sentir a porre in ridicolo i bellissimi, e dolcissimi versi della Didone; e se avessi saputo che il signor Lelio ha strappazzati i drammi d'un così celebre, e venerabile poeta, non l'avrei accettato nella mia compagnia: ma si guarderà egli di farlo mai più. Troppo obbligo abbiamo alle opere di lui, dalle quali tanto profitto abbiamo noi ricavato.
Eleonora: Dunque vi pare, che io possa sufficientemente passare per recitante?
Orazio: Per una principiante siete passabile; la voce non è ferma, ma questa si fa coll'uso del recitare. Badate bene di battere le ultime sillabe, che si intendano. Recitate piuttosto adagio, ma non troppo, e nelle parti di forza, caricate la voce, e accelerate più del solito le parole. Guardatevi sopra tutto dalla cantilena, e dalla declamazione, ma recitate naturalmente, come se parlaste, mentre essendo la commedia una imitazione della natura, si deve fare tutto quello, che è verisimile. Circa al gesto, anche questo deve essere naturale. Movete le mani secondo il senso della parola. Gestite per lo più colla dritta, e poche volte colla sinistra, e avvertite di non moverle tutte due in una volta, se non quando un impeto di collera, una sorpresa, una esclamazione lo richiedesse; servendovi di regola, che principiando il periodo con una mano, mai non si finisce coll'altra, ma con quella con cui si principia, terminare ancora si deve.
D'un'altra cosa molto osservabile, ma da pochi intesa voglio avvertirvi. Quando un personaggio fa scena con voi, badategli, e non vi distraete cogli occhi e colla mente; e non guardate qua e là per le scene, o per i palchetti, mentre da ciò ne nascono tre pessimi effetti. Il primo, che l'udienza si sdegna, e crede, o ignorante, o vano il personaggio distratto. Secondo, si commette una mala creanza verso il personaggio con cui si deve far scena; e per ultimo, quando non si bada al filo del ragionamento, arriva inaspettata la parola del suggeritore, e si recita con sgarbo, e senza naturalezza; tutte cose che tendono a rovinar il mestiere, e a precipitare le commedie.
Eleonora: Vi ringrazio dei buoni documenti, che voi mi date; procurerò di metterli in pratica.
Orazio: Quando siete in libertà; e che non recitate, andate agli altri teatri. Osservate come recitano i buoni comici, mentre questo è un mestiere, che si impara più colla pratica, che colle regole.
Eleonora: Anche questo non mi dispiace.
Orazio: Un altro avvertimento voglio darvi, e poi andiamo, e lasciamo, che i comici provino il resto della commedia, che si ha da fare.
Signora Eleonora, siate amica di tutti, e non date confidenza a nessuno. Se sentite dir male dei compagni, procurate di metter bene.
Se vi riportano qualche cosa, che sia contro di voi, non credete, e non badate loro. Circa alle parti, prendete quello, che vi si dà; non crediate che sia la parte lunga quella che fa onore al comico, ma la parte buona. Siate diligente, venite presto al teatro, procurate di dar nel genio a tutti, e se qualcheduno vi vede mal volentieri, dissimulate; mentre l'adulazione è vizio, ma una savia dissimulazione è sempre stata virtù. (parte)
Eleonora: Questo capo di compagnia, mi ha dato più avvertimenti di quello, che faccia un maestro di collegio il primo giorno, che riceve un nuovo scolare. Però gli sono obbligata. Procurerò di valermene al caso, e giacché mi sono eletta questa professione, cercherò di essere, se non delle prime, non delle ultime almeno. (parte)
SCENA QUARTA
Il SUGGERITORE, poi PLACIDA e PETRONIO.
Suggeritore: Animo, signori, che il tempo passa, e vien sera. Tocca a Rosaura, e al Dottore.(entra)
Dottore: Figliuola mia, da che procede mai questa tua malinconia? è possibile, che tu non lo voglia confidare ad un padre, che ti ama?
Rosaura: Per amor del Cielo, non mi tormentate.
Dottore: Vuoi un abito? Te lo farò. Vuoi che andiamo in campagna? Ti condurrò. Vuoi una festa di ballo? La ordinerò. Vuoi marito? Te lo...
Rosaura: Ahi!.(sopirando)
Dottore: Sì, te lo darò. Dimmi un poco, la mia ragazza, sei tu innamorata?
Rosaura: Signor padre, compatite la mia debolezza, sono innamorata purtroppo. (piangendo) Dottore: Via, non piangere, ti compatisco. Sei in età da marito, ed io non lascierò di consolarti, se sarà giusto. Dimmi; chi è l'amante, per cui sospiri?
Rosaura: è il figlio del signor Pantalone dè Bisognosi.
Dottore: Il giovane non può essere migliore. Son contentissimo. Si egli ti brama, te lo darò.
Rosaura: Ahi! (respirando)
Dottore: Sì, te lo darò, te lo darò.
SCENA QUINTA
COLOMBINA, e detti.
Colombina: Poverino! Non ho cuore da vederlo penare.
Dottore: Cosa c'è Colombina?
Colombina: Vi è un povero giovinotto, che passeggia sotto le finestre di questa casa, e piange, e si dispera, e dà la testa per le muraglie.
Rosaura: Oimè! Chi è egli? Dimmelo.
Colombina: è il povero signor Florindo.
Rosaura: Il mio bene, il mio cuore, l'anima mia. Signor padre, per carità.
Dottore: Sì, cara figlia voglio consolarti. Presto, Colombina, chiamalo, e digli, che io gli voglio parlare.
Colombina: Subito, non perdo tempo; quando si tratta di far servizio alla gioventù, mi consolo tutta.
Rosaura: Caro il mio caro padre, che mi vuol tanto bene.
Dottore: Sei l'unico frutto dell'amor mio.
Rosaura: Me lo darete per marito?
Dottore: Te lo darò, te lo darò.
Rosaura: Ma vi è una difficoltà.
Dottore: E quale?
Rosaura: Il padre di Florindo non si contenterà.
Dottore: No? Per qual ragione?
Rosaura: Perché anche il buon vecchio è innamorato di me.
Dottore: Lo so, lo so, ma non importa; rimedieremo anche a questo.
SCENA SESTA
FLORINDO, e detti.
Colombina: Ecco, eccolo, che muore dalla consolazione.
Rosaura: (Benedetti quegli occhi; mi fanno tutta sudare).
FLORIANO Signor Dottore, perdoni, incorraggito da Colombina... perché se la signora Rosaura... Ma anzi il suo signor padre... Compatisca, non so che cosa mi dica.
Dottore: Intendo, intendo; siete innamorato della mia figliuola, e la vorreste per moglie, non è così?
FLORIANO Altro non desidero.
Dottore: Ma sento a dire, che vostro padre abbia delle pretensioni ridicole.
FLORIANO Il padre è rivale del figlio.
Dottore: Dunque non si ha da perder tempo. Bisogna levargli la speranza di poterla ottenere.
FLORIANO Ma come?
Dottore: Dando immediatamente la mano a Rosaura.
FLORIANO Questa è una cosa, che mi rallegra.
Rosaura: Questa è una cosa, che mi consola.
Colombina: Questa è una cosa, che mi fa crepar dall'invidia.
Dottore: Animo dunque, che si conchiuda, datevi la mano.
FLORIANO Eccola, unita al mio cuore.
Rosaura: Eccola, in testimonio della mia fede.
Colombina: Oh cari! Oh che bella cosa! Mi sento venir l'acqua in bocca.
SCENA SETTIMA
PANTALONE, e detti.
Pantalone: Com'èla? Cossi è sto negozio?
Dottore: Signor Pantalone, benché non vi siete degnato di parlar meco, ho rilevata la vostra intenzione, ed io ciecamente l'ho secondata.
Pantalone: Come? Intenzion de cossa?
Dottore: Ditemi di grazia; non avete voi desiderato, che mia figlia fosse sposa del signor Florindo?
Pantalone: No xè vero gnente.
Dottore: Avete pur detto a lei di volerla maritare in casa vostra.
Pantalone: Sior sì, ma no co mio fio.
Dottore: Dunque con chi?
Pantalone: Con mi, con mi.
Dottore: Non credeva mai, che in questa età vi sorprendesse una simile malinconia. Compatitemi, ho equivocato; ma questo equivoco ha prodotto il matrimonio di vostro figlio con Rosaura mia figlia.
Pantalone: No sarà mai vero, no l'accorderò mai.
Dottore: Anzi sarà senz'altro. Se non l'accordate voi, l'accordo io.
Voi, e vostro figlio avete fatto all'amore con la mia figliuola; dunque o il padre, o il figlio l'aveva a sposare. Per me, tanto m'era uno, quanto l'altro. Ma siccome il figlio è più giovine, è più lesto di gamba, egli è arrivato prima, e voi, che siete vecchio, non avete potuto finir la corsa, e siete rimasto a mezza strada.
Colombina: è il solito dè vecchi: dopo quattro passi bisogna che si riposino.
Pantalone: Ve digo, che questa la xè una baronada, che un pare, non ha da far el mezzan alla putta, per trappolar el fio d'un galantomo, d'un omo d'onor.
FLORIANO Via, signor padre, non andate in collera. (a Pantalone)
Dottore: E un galantuomo, un uomo d'onore, non ha da sedurre la figlia di un buon amico, contro le leggi dell'ospitalità, e della buona amicizia.
Rosaura: Per amor del Cielo, non vi alterate. (al Dottore)
SCENA OTTAVA
LELIO, Tonino: e detti
Lelio: Bravi, signori comici, bravi. Veramente questa è una bella scena. Il signor capo di compagnia mi va dicendo che il teatro si è riformato, che ora si osservano tutte le buone regole: e pur questa vostra scena è uno sproposito; non può stare, e non si può fare così.
Eugenio: Perché non può stare? Qual è lo sproposito, che notate voi in questa scena?
Lelio: è uno dei più grandi, e dei più massicci, che dir si possa.
Tonino: Chi èla ela, patron? El proto delle commedie?
Placida: è un poeta famosissimo. (fa il cenno che mangia bene) Eugenio Sa perfettamente a memoria la Buccolica di Virgilio.
Lelio: So, e non so; ma so che questa è una cattiva scena.
SCENA NONA
ORAZIO, e detti.
Orazio: Cosa c'è? non si finisce di provare?
Eugenio: Abbiamo quasi finito, ma il signor Lelio grida, e dice, che questa scena va male.
Orazio: Per qual cagione lo dice, signor Lelio?
Lelio: Perché ho inteso dire, che Orazio nella sua Poetica dia per precetto, che non si facciano lavorare in scena più di tre persone in una volta, e in questa scena sono cinque.
Orazio: Perdonatemi, dite a chi ve l'ha dato ad intendere, che Orazio non va inteso così. Egli dice: Nec quarta loqui persona laboret.
Alcuni intendono, che egli dica: Non lavorino più di tre. Ma egli ha inteso dire, che se sono quattro, il quarto non si affatichi, cioè, che non si diano incommodo i quattro attori un con l'altro, come succede nelle scene all'improvviso, nelle quali, quando sono quattro, o cinque persone in scena, fanno subito una confusione. Per altro le scene si possono fare anche di otto, e di dieci persone, quando sieno ben regolate; e che tutti i personaggi si facciano parlare a tempo, senza che uno disturbi l'altro, come accordano tutti i migliori autori, li quali hanno interpretato il passo d'Orazio da voi allegato.
Lelio: Anche qui dunque ho detto male.
Orazio: Prima di parlare sopra i precetti degli antichi, conviene considerare due cose; la prima: il vero senso, con cui hanno scritto.
La seconda, se à nostri tempi convenga quel che hanno scritto; mentre siccome si è variato il modo di vestire, di mangiare, e di conversare, così è anche cangiato il gusto, e l'ordine delle commedie.
Lelio: E così questo gusto varierà ancora, e le commedie da voi adesso portate in trionfo, diverranno anticaglie, come la Statua, il Finto Principe, e Madama Pataffia.
Orazio: Le commedie diverranno antiche dopo averle fatte e rifatte; ma la maniera di far le commedie spererei, che avesse sempre da crescere in meglio. I caratteri veri, e conosciuti piaceranno sempre, e ancorché non siano i caratteri infiniti in genere, sono infiniti in spezie, mentre ogni virtù, ogni vizio, ogni costume, ogni difetto, prende aria diversa dalla varietà delle circostanze.
Lelio: Sapete cosa piacerà sempre sul teatro?
Orazio: E che cosa?
Lelio: La critica.
Orazio: Basta che sia moderata. Che prenda di mira l'universale, e non il particolare, il vizio, e non il vizioso; che sia mera critica, e non inclini alla satira.
Vittoria: Signor capo di compagnia, con sua buona grazia, una delle due, o ci lasci finir di provare, o permetta, che ce n'andiamo.
Orazio: Avete ragione. Questo signor comico novello, mi fa usare una mala creanza. Quando i comici provano, non si interrompono.
Lelio: Io credeva, che avessero finito quando Florindo, e Rosaura si sono sposati, mentre si sa, che tutte le commedie finiscono coi matrimoni.
Orazio: Non tutte, non tutte.
Lelio: Oh quasi tutte, quasi tutte.
Tonino: Sior Orazio, mi fenisso in te la commedia prima dei altri, se contentela, che diga la mia scena, e che vaga via?
Orazio: Sì, fate come volete.
SCENA DECIMA
Il Suggeritore e detti.
Suggeritore: Cospetto del diavolo! Si finisce, o non si finisce questa maledetta commedia?
Orazio: Ma voi sempre gridate. Quando si prova, vorreste che si andasse per le poste per finir presto. Quando si fa la commedia, se qualcheduno parla dietro le scene, taroccate, che vi si sentono da per tutto.
Suggeritore: Se tarocco, ho ragione, mentre la scena è sempre piena di gente, che fa romore, e mi maraviglio di lei, che lasci venir tanta gente in scena, che non ci possiamo movere.
Orazio: Per l'avvenire non sarà così. Voglio assolutamente la scena sgombrata.
Eugenio: Io non so, che piacere abbiano a venire a veder la commedia in scena.
Vittoria: Lo fanno per non andare nella platea.
Eugenio: Eppure la commedia si gode meglio in platea, che in scena.
Vittoria: Sì, ma taluni dai palchi sputano, e infastidiscono le persone che sono giù.
Orazio: Veramente, per perfezionare il buon ordine dè teatri, manca l'osservanza di questa onestissima pulizia.
Eugenio: Manca un'altra cosa, che non ardisco dirla.
Orazio: Siamo tra di noi, potete parlare con libertà.
Eugenio: Che nei palchetti non facciano tanto romore.
Orazio: è difficile assai.
Placida: Per dirla è una gran pena per noi altri comici recitare allora quando si fa strepito nell'udienza. Bisogna sfiatarsi per farsi sentire, e non basta.
Vittoria: In un pubblico bisogna aver pazienza. E alle volte, che si sentono certi fischietti, certe cantatine da gallo? Gioventù allegra; vi vuol pazienza.
Orazio: Mi dispiace, che disturbano gli altri.
Petronio: E quando si sentono sbadigliare?
Orazio: Segno, che la commedia non piace.
Petronio: Eh qualche volta lo fanno con malizia; e per lo più nelle prime sere delle commedie nuove, per rovinarle, se possono.
Lelio: Sapete cosa cantano quelli, che vanno alla commedia? La canzonetta d'un intermezzo:
Signor mio, non vi è riparo,
io qui spendo il mio denaro,
voglio far quel che mi par.
Suggeritore: Vado, o non vado?
Tonino: Via, andè, che ve mando.
Suggeritore: Come parla, signor Pantalone?
Tonino: Colla bocca, compare.
Suggeritore: Avverta bene, e mi porti rispetto, altrimenti si pentirà.
Le farò dire degli spropositi in scena, se non mi tratterà bene.
Mentre se i commedianti si fanno onore, è a cagione della mia buona maniera di suggerire. (entra) Orazio: Certamente, tutto contribuisce al buon esito delle cose.
Suggeritore: So, che non vorreste, che vostro figlio... (di dentro, suggerendo) So che non vorreste, che vostro figlio...
Tonino: Dottor, a vu.
Dottore: Ah son qui. So, che non vorreste, che vostro figlio si ammogliasse, perché voi siete innamorato della mia figliuola, ma questa vostra debolezza fa torto al vostro carattere, alla vostra età.
Rosaura non si sarebbe mai persuasa di sposar voi; dunque era inutile il vostro amore, ed è un atto di giustizia, che contentiate il vostro figlio; e se amate Rosaura, farete un'azione eroica, da uomo onesto, da uomo savio, e prudente a cederla a una persona che la renderà felice e contenta, e avrete voi la consolazione di essere stato la causa della sua più vera felicità.
Pantalone: Sì ben, son un galantomo, son un omo d'onor, voggio ben a sta puta, e voggio far un sforzo per demostrarghe l'amor che ghe porto. Florindo sposerà vostra fia, ma perché vostra fia l'ho vardada con qualche passion, e no me la posso desmentegar, no voggio metterme a rischio, avendola in casa, de viver continuamente all'inferno.
Florindo, fio mio, el Cielo te benediga. Sposa siora Rosaura, che la lo merita, e resta in casa con ela, e co so sior pare, fina che vivo mi, e te passerò un onesto e comodo trattamento. Niora, za che no m'avè volesto ben a mi, voggiè ben a mio fio. Trattèlo con amor, e con carità, e compatì le debolezze de un povero vecchio, orbà più dal vostro merito, che dalle vostre bellezze. Dottor caro, vegnì da mi, che metteremo in carta ogni cossa. Se ve bisogna robba, bezzi, son qua. Spenderò, farò tutto, ma in sta casa no ghe vegno mai più. Oimè!
gh'ho el cuor ingropà me sento, che no posso più. (parte)
Rosaura: Povero padre mi fa pietà.
SCENA UNDICESIMA
BRIGHELLA, Arlecchino e detti.
Arlecchino: E cusì per tornar al nostro proposito, Colombina, dame la man.
Brighella: Colombina non farà sto torto a Brighella.
Lelio: Signor Orazio, ecco appunto, come termina il mio soggetto, che voi non avete voluto sentire. (cava i foglietti e legge) Florindo sposa Rosaura. Arlecchino Colombina; e coi matrimoni termina la commedia.
Orazio: Siete veramente spiritoso.
Lelio: Anzi vi dirò di più...
Gianni: Sior Orazio, gh'è altro da provar?
Orazio: Per ora basta così.
Gianni: La podeva aver anca la bontà de sparagnarme sta gran fadiga.
Orazio: Perché?
Gianni: Perché sta sorte de scene, le fazzo co dormo.(si cava la maschera)
Orazio: Non dite così, signor Arlecchino, non dite così. Anco nelle piccole scene si distingue l'uomo di garbo. Le cose quando sono fatte, quando sono dette con grazia, compariscono il doppio, e quanto le scene sono più brevi, tanto più piacciono. L'Arlecchino deve parlar poco, ma a tempo. Deve dire la sua botta frizzante, e non stiracchiata. Stroppiar qualche parola naturalmente, ma non stroppiarle tutte, e guardarsi da quelle stroppiature, che sono comuni a tutti i secondi zanni. Bisogna crear sempre qualche cosa del suo, e per creare bisogna studiare.
Gianni: La me perdona, che se pol crear anca senza studiar.
Orazio: Ma come?
Gianni: Far come che ho fatto mi, maridarse, e far nascer dei fioi.
(parte)
Orazio: Questa non è stata cattiva.
Placida: Se non si prova altro, anderò via ancor
Orazio: Ora andremo tutti.
Eugenio: Possiamo andare dal nostro signor capo, che ci darà il caffè.
Orazio: Padroni, vengano pure.
Lelio: Una cosa voleva dirvi per ultimo, e poi ho finito.
Orazio: Dica pure.
Lelio: Il mio soggetto finiva con un sonetto, vorrei, che mi diceste, se sia ben fatto, o malfatto terminare la commedia con un sonetto.
Orazio: Dirò: i sonetti in qualche commedia stanno bene, e in qualche commedia stanno male. Anche il nostro poeta alcune volte li ha usati con ragione, e alcune volte ne potea far di meno. Per esempio: nella Donna di Garbo, si termina la commedia in un'accademia, ed è lecito chiuderla con un sonetto. Nella Putta onorata, Bettina termina con un brindesi, e lo fa in un sonetto. Nella Buona Moglie, dice in un sonetto finale, qual esser debba la moglie buona. Nella Vedova Scaltra, e nei Due gemelli veneziani, si potevano risparmiare; e nelle altre non ha fatto sonetti al fine, perché questi assolutamente senza una ragione non si possono, e non si devono fare.
Lelio: Manco male, che ha errato anche il vostro poeta.
Orazio: Egli è uomo, come gli altri, e può facilmente ingannarsi, anzi colle mie stesse orecchie l'ho sentito dir più, e più volte, che trema sempre allorché deve produrre una nuova sua commedia su queste scene.
Che la commedia è un componimento difficile, che non si lusinga d'arrivare a conoscere, quanto basta, la perfezione della commedia, e che si contenta di aver dato uno stimolo alle persone dotte, e di spirito, per rendere un giorno la riputazione al Teatro Italiano.
Placida: Signor Orazio, sono stanca di star in piedi, avete ancor finito di chiaccherare?
Orazio: Andiamo pure: è terminata la prova, e da quanto abbiamo avuto occasione di discorrere, e di trattare in questa giornata, credo che ricavare si possa, qual abbia ad essere, secondo l'idea nostra, il nostro Teatro Comico.
Fine della Commedia.