Guido Gozzano



ALLE SOGLIE




Alle soglie


I.


Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,


pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia... Sono i dottori.


Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m'auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.


E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli..


«Appena un lieve sussulto all'apice... qui... la clavicola...»

E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.


«Nutrirsi... non fare più versi... nessuna notte più insonne...

non più sigarette... non donne... tentare bei cieli più tersi:


Nervi... Rapallo... San Remo... cacciare la malinconia;

e se permette faremo qualche radioscopia...»



II.


O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,

la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?


Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,

trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace


e l'ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo d'un bosco, coi minimi intrichi dei rami.


E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.



III.


Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,


mio cuore dubito forte - ma per te solo m'accora -

che venga quella Signora dall'uomo detta la Morte.


(Dall'uomo: ché l'acqua la pietra l'erba l'insetto l'aedo

le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.)


È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.

Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.


Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;

ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.


Ti svegli dagli incubi innocui, diverso ti senti, lontano;

né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.


Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,

sereno come uno sposo e placido come un novizio.




Il più atto


Adolescente forte, quadre le spalle e il busto,

irride al mio tramonto con chiari occhi sereni;

sdegna i pensieri torpidi, gli studi vani, i freni;

tempra in cimenti rudi il bel corpo robusto.


Il ramo è che rallevi già sullo stesso fusto

accanto al ramo spoglio, Morte che sopravvieni...

A lui vada la vita! A lui le rose, i beni,

le donne ed i piaceri! Madre Natura, è giusto.


Ed egli sia quell'uno felice che io non fui!

Questa speranza non m'addolcirà lo strazio

del Nulla... Sulle soglie del Tempo e dello Spazio

è pur dolce conforto rivivere in altrui.


Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui;

di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio.

Sorrido al mio fratello... Poi, rassegnato e sazio,

a lui cedo la coppa. E già mi sento lui.




Salvezza


Vivere cinque ore?

Vivere cinque età?...

Benedetto il sopore

che m'addormenterà...


Ho goduto il risveglio

dell'anima leggiera:

meglio dormire, meglio

prima della mia sera.


Poi che non ha ritorno

il riso mattutino.

La bellezza del giorno

è tutta nel mattino.




Paolo e Virginia


I figli dell'infortunio


Amanti, miserere

miserere di questa mia giocosa

aridità larvata di chimere!


I.


Io fui Paolo già. Troppo mi scuote

il nome di Virginia. Ebbro e commosso

leggo il volume senza fine amaro;

chino su quelle pagine remote

rivivo tempi già vissuti e posso

piangere (ancora!) come uno scolaro...

Splende nel sogno chiaro

l'isola dove nacqui e dove amai;

rivedo gli orizzonti immaginari

e favolosi come gli scenari,

la rada calma dove i marinai

trafficavano spezie e legni rari...

Virginia ride al limite del bosco

e trepida saluta...

Risorge chiara dal passato fosco

la patria perduta

che non conobbi mai, che riconosco...



II.


O soave contrada! O palme somme

erette verso il cielo come dardi,

flabelli verdi sibilanti ai venti!

Alberi delle manne e delle gomme,

ebani cupi, sandali gagliardi,

liane contorte, felci arborescenti!

Virginia, ti rammenti

di quella sempiterna primavera?

Rammenti i campi d'indaco e di the,

e le Missioni e il Padre e il Viceré,

quel Tropico rammenti, di maniera,

un poco falso, come piace a me?...

Ti rammenti il colore

del Settecento esotico, l'odore

di pace, filtro di non so che frutto

e di non so che fiore,

il filtro che dismemora di tutto?...



III.


Ti chiamavo sorella, mi chiamavi

fratello. Tutto favoriva intorno

le nostre adolescenze ignare e belle.

Era la vita semplice degli avi,

la vita delle origini, il Ritorno

sognato da Gian Giacomo ribelle.

Di tutto ignari: delle

Scienze e dell'Indagine che prostra

e della Storia, favola mentita,

abitavamo l'isola romita

senz'altro dove che la terra nostra

senz'altro quando che la nostra vita.

Le dolci madri a sera

c'insegnavano il Bene, la Pietà.

la Fede unica e vera;

e lenti innalzavamo la preghiera

al Padre Nostro che nei cieli sta...



IV.


Seduti in coro, nelle sere calme,

seguivamo i piròfori che ardeano

nella verzura dell'Eremitaggio;

fra i dolci intercolunni delle palme

scintillava la Luna sull'oceano,

giungeva un canto flebile e selvaggio...

Tra noi sedeva il Saggio

e ci ammoniva con forbiti esempi

ispirati da Omero e da Virgilio...

L'isola si chiamò per suo consiglio

secondo la retorica dei tempi:

Rivo dell'Amistà, Colle del Giglio,

Fonte dei Casti Accenti...

Era il tempo dei Nestori morali,

dei saggi ammonimenti,

era il tempo dei buoni sentimenti,

delle virtù, dei semplici ideali.



V.


Immuni dalla gara che divampa

nel triste mondo, crescevamo paghi

dei beni della rete e della freccia;

belli e felici come in una stampa

del tuo romanzo, correvamo i laghi

nella svelta piroga di corteccia;

sull'ora boschereccia

numeravamo l'ora il giorno l'anno:

- Quanti anni avrete poi? - Quanti n'avranno

quei due palmizi dispari, alle soglie...

- Verrete? - Quando i manghi fioriranno...

- Sorella, già si chiudono le foglie,

trema la prima stella...

- Il sicomoro ha l'ombra alle radici:

è mezzodì, sorella...

Era la nostra vita come quella

dei Fauni e delle Driadi felici.



VI.


Ma giunse l'ora che non ha conforto.

Seco ti volle nei suoi feudi vasti

la zia di Francia, perfida in vedetta.

Il Viceré ti fece trarre al porto

dalle sue genti barbare! E lasciasti

lacrimando la terra benedetta,

ogni cosa diletta

più caramente, per la nave errante!

Solo, malcerto della mia sciagura,

vissi coi negri e le due madri affrante;

ti chiamavo; nei sassi e nelle piante

rivedevo la tua bianca figura

che non avrei rivista...

E volse l'anno disperato... Un giorno

il buon Padre Battista

annunciò la tua fuga e il tuo ritorno,

ed una nave, il San Germano, in vista!



VII.


Folle di gioia, con le madri in festa,

scesi alla rada: - Giunge la mia sposa,

ritorna a me Virginia mia fedele!...

Or ecco sollevarsi la Tempesta,

una tempesta bella e artificiosa

come il Diluvio delle vecchie tele.

Appaiono le vele

del San Germano al balenar frequente,

stridono procellarie gemebonde,

albàtri cupi. Il mare si confonde

col cielo apocalittico. La gente

guata la nave tra il furor dell'onde.

Tutto l'Oceano Indiano

ribolle spaventoso, ulula, scroscia,

ma sul fragore si alza un grido umano

terribile d'angosca:

- Virginia è là! Salvate il San Germano!... -



VIII.


Il San Germano affonda. I marinai

tentano indarno il salvataggio. Tutti

balzano in mare, da che vana è l'arte.

Rotto ha la nave contro i polipai,

sovra coperta già fremono i flutti,

spezza il vento governi alberi sarte...

Virginia ecco in disparte

pallida e sola!... Un marinaio nudo

tenta svestirla e seco darsi all'onda;

si rifiuta Virginia pudibonda

(retorica del tempo!) e si fa scudo

delle due mani... Il San Germano affonda;

il San Germano affonda... Un sciabordare

ultimo, cupo, mozzo:

e non rivedo al chiaro balenare

la nave!... Il mio singhiozzo

disperde il vasto singhiozzar del mare.



IX.


Era l'alba e il tuo bel corpo travolto

stava tra l'alghe e le meduse attorte,

placido come in placido sopore.

Muto mi reclinai sopra quel volto

dove già le viole della morte

mescevansi alle rose del pudore...

Disperato dolore!

Dolore senza grido e senza pianto!

Morta giacevi col tuo sogno intatto,

tornavi morta a chi t'amava tanto!

Nella destra chiudevi il mio ritratto,

con la manca premevi il cuore infranto...

- Virginia! O sogni miei!

Virginia! - E ti chiamai, con occhi fissi...

- Virginia! Amore che ritorni e sei

la Morte! Amore... Morte... - E più non dissi.



X.


Morii d'amore. Oggi rinacqui e vivo,

ma più non amo. Il mio sogno è distrutto

per sempre e il cuore non fiorisce più.

E chiamo invano Amore fuggitivo,

invano piange questa Musa a lutto

che porta il lutto a tutto ciò che fu.

Il mio cuore è laggiù,

morto con te, nell'isola fiorente,

dove i palmizi gemono sommessi

lungo la Baia della Fede Ardente...

Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi

amare, canterei sì novamente!

Ma l'anima corrosa

sogghigna nelle sue gelide sere...

Amanti! Miserere,

miserere di questa mia giocosa

aridità larvata di chimere!




La signorina Felicita ovvero la Felicità


10 luglio: Santa Felicita.


I.


Signorina Felicita, a quest'ora

scende la sera nel giardino antico

della tua casa. Nel mio cuore amico

scende il ricordo. E ti rivedo ancora,

e Ivrea rivedo e la cerulea Dora

e quel dolce paese che non dico.


Signorina Felicita, è il tuo giorno!

A quest'ora che fai? Tosti il caffè:

e il buon aroma si diffonde intorno?

O cuci i lini e canti e pensi a me,

all'avvocato che non fa ritorno?

E l'avvocato è qui: che pensa a te.


Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,

Vill'Amarena a sommo dell'ascesa

coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa

dannata, e l'orto dal profumo tetro

di busso e i cocci innumeri di vetro

sulla cinta vetusta, alla difesa...


Vill'Amarena! Dolce la tua casa

in quella grande pace settembrina!

La tua casa che veste una cortina

di granoturco fino alla cimasa:

come una dama secentista, invasa

dal Tempo, che vestì da contadina.


Bell'edificio triste inabitato!

Grate panciute, logore, contorte!

Silenzio! Fuga dalle stanze morte!

Odore d'ombra! Odore di passato!

Odore d'abbandono desolato!

Fiabe defunte delle sovrapporte!


Ercole furibondo ed il Centauro,

le gesta dell'eroe navigatore,

Fetonte e il Po, lo sventurato amore

d'Arianna, Minosse, il Minotauro,

Dafne rincorsa, trasmutata in lauro

tra le braccia del Nume ghermitore...


Penso l'arredo - che malinconia! -

penso l'arredo squallido e severo,

antico e nuovo: la pirografia

sui divani corinzi dell'Impero,

la cartolina della Bella Otero

alle specchiere... Che malinconia!


Antica suppellettile forbita!

Armadi immensi pieni di lenzuola

che tu rammendi pazïente... Avita

semplicità che l'anima consola,

semplicità dove tu vivi sola

con tuo padre la tua semplice vita!



II.


Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -

quasi bifolco, m'accoglieva senza

inquietarsi della mia frequenza,

mi parlava dell'uve e del massaio,

mi confidava certo antico guaio

notarile, con somma deferenza.


«Senta, avvocato...» E mi traeva inqueto

nel salone, talvolta, con un atto

che leggeva lentissimo, in segreto.

Io l'ascoltavo docile, distratto

da quell'odor d'inchiostro putrefatto,

da quel disegno strano del tappeto,


da quel salone buio e troppo vasto...

«...la Marchesa fuggì... Le spese cieche...»

da quel parato a ghirlandette, a greche...

«dell'ottocento e dieci, ma il catasto...»

da quel tic-tac dell'orologio guasto...

«...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche...»


Capiva poi che non capivo niente

e sbigottiva: «Ma l'ipotecario

è morto, è morto!!...». - «E se l'ipotecario

è morto, allora...» Fortunatamente

tu comparivi tutta sorridente:

«Ecco il nostro malato immaginario!».



III.


Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,

ma la tua faccia buona e casalinga,

ma i bei capelli di color di sole,

attorti in minutissime trecciuole,

ti fanno un tipo di beltà fiamminga...


E rivedo la tua bocca vermiglia

così larga nel ridere e nel bere,

e il volto quadro, senza sopracciglia,

tutto sparso d'efelidi leggiere

e gli occhi fermi, l'iridi sincere

azzurre d'un azzurro di stoviglia...


Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi

rideva una blandizie femminina.

Tu civettavi con sottili schermi,

tu volevi piacermi, Signorina:

e più d'ogni conquista cittadina

mi lusingò quel tuo voler piacermi!


Ogni giorno salivo alla tua volta

pel soleggiato ripido sentiero.

Il farmacista non pensò davvero

un'amicizia così bene accolta,

quando ti presentò la prima volta

l'ignoto villeggiante forestiero.


Talora - già la mensa era imbandita -

mi trattenevi a cena. Era una cena

d'altri tempi, col gatto e la falena

e la stoviglia semplice e fiorita

e il commento dei cibi e Maddalena

decrepita, e la siesta e la partita...


Per la partita, verso ventun'ore

giungeva tutto l'inclito collegio

politico locale: il molto Regio

Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;

ma - poiché trasognato giocatore -

quei signori m'avevano in dispregio...


M'era più dolce starmene in cucina

tra le stoviglie a vividi colori:

tu tacevi, tacevo, Signorina:

godevo quel silenzio e quegli odori

tanto tanto per me consolatori,

di basilico d'aglio di cedrina...


Maddalena con sordo brontolio

disponeva gli arredi ben detersi,

rigovernava lentamente ed io,

già smarrito nei sogni più diversi,

accordavo le sillabe dei versi

sul ritmo eguale dell'acciottolio.


Sotto l'immensa cappa del camino

(in me rivive l'anima d'un cuoco

forse...) godevo il sibilo del fuoco;

la canzone d'un grillo canterino

mi diceva parole, a poco a poco,

e vedevo Pinocchio e il mio destino...


Vedevo questa vita che m'avanza:

chiudevo gli occhi nei presagi grevi;

aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,

ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi

dei giocatori, da quell'altra stanza.



IV.


Bellezza riposata dei solai

dove il rifiuto secolare dorme!

In quella tomba, tra le vane forme

di ciò che è stato e non sarà più mai,

bianca bella così che sussultai,

la Dama apparve nella tela enorme:


«È quella che lasciò, per infortuni,

la casa al nonno di mio nonno... E noi

la confinammo nel solaio, poi

che porta pena... L'han veduta alcuni

lasciare il quadro; in certi noviluni

si ode il suo passo lungo i corridoi...».


Il nostro passo diffondeva l'eco

tra quei rottami del passato vano,

e la Marchesa dal profilo greco,

altocinta, l'un piede ignudo in mano,

si riposava all'ombra d'uno speco

arcade, sotto un bel cielo pagano.


Intorno a quella che rideva illusa

nel ricco peplo, e che morì di fame,

v'era una stirpe logora e confusa:

topaie, materassi, vasellame,

lucerne, ceste, mobili: ciarpame

reietto, così caro alla mia Musa!


Tra i materassi logori e le ceste

v'erano stampe di persone egregie;

incoronato dalle frondi regie

v'era Torquato nei giardini d'Este.

«Avvocato, perché su quelle teste

buffe si vede un ramo di ciliege?»


Io risi, tanto che fermammo il passo,

e ridendo pensai questo pensiero:

Oimè! La Gloria! un corridoio basso,

tre ceste, un canterano dell'Impero,

la brutta effigie incorniciata in nero

e sotto il nome di Torquato Tasso!


Allora, quasi a voce che richiama,

esplorai la pianura autunnale

dall'abbaino secentista, ovale,

a telaietti fitti, ove la trama

del vetro deformava il panorama

come un antico smalto innaturale.


Non vero (e bello) come in uno smalto

a zone quadre, apparve il Canavese:

Ivrea turrita, i colli di Montalto,

la Serra dritta, gli alberi, le chiese;

e il mio sogno di pace si protese

da quel rifugio luminoso ed alto.


Ecco - pensavo - questa è l'Amarena,

ma laggiù, oltre i colli dilettosi,

c'è il Mondo: quella cosa tutta piena

di lotte e di commerci turbinosi,

la cosa tutta piena di quei «cosi

con due gambe» che fanno tanta pena...


L'Eguagliatrice numera le fosse,

ma quelli vanno, spinti da chimere

vane, divisi e suddivisi a schiere

opposte, intesi all'odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,

così come ci son formiche nere...


Schierati al sole o all'ombra della Croce,

tutti travolge il turbine dell'oro;

o Musa - oimè! - che può giovare loro

il ritmo della mia piccola voce?

Meglio fuggire dalla guerra atroce

del piacere, dell'oro, dell'alloro...


L'alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,

dal cuore in mano e dalla fronte alta!

Oggi l'alloro è premio di colui

che tra clangor di buccine si esalta,

che sale cerretano alla ribalta

per far di sé favoleggiar altrui...


«Avvocato, non parla: che cosi ha?»

«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,

a piccole miserie, alla città...

Sarebbe dolce restar qui, con Lei!...»

«Qui, nel solaio?...» - «Per l'eternità!»

«Per sempre? Accetterebbe?...» - «Accetterei!»


Tacqui. Scorgevo un atropo soletto

e prigioniero. Stavasi in riposo

alla parete: il segno spaventoso

chiuso tra l'ali ripiegate a tetto.

Come lo vellicai sul corsaletto

si librò con un ronzo lamentoso.


«Che ronzo triste!» - «È la Marchesa in pianto...

La Dannata sarà che porta pena...»

Nulla si udiva che la sfinge in pena

e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:

O mio carino tu mi piaci tanto,

siccome piace al mar una sirena...


Un richiamo si alzò, querulo e rôco:

«È Maddalena inqueta che si tardi:

scendiamo; è l'ora della cena!». - «Guardi,

guardi il tramonto, là... Com'è di fuoco!...

Restiamo ancora un poco!» - «Andiamo, è tardi!»

«Signorina, restiamo ancora un poco!...»


Le fronti al vetro, chini sulla piana,

seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;

giunse col vento un ritmo di campana,

disparve il sole fra le nubi rotte;

a poco a poco si annunciò la notte

sulla serenità canavesana...


«Una stella!...» - «Tre stelle!...» - «Quattro stelle!...»

«Cinque stelle!» - «Non sembra di sognare?...»

Ma ti levasti su quasi ribelle

alla perplessità crepuscolare:

«Scendiamo! È tardi: possono pensare

che noi si faccia cose poco belle...»



V.


Ozi beati a mezzo la giornata,

nel parco dei marchesi, ove la traccia

restava appena dell'età passata!

Le Stagioni camuse e senza braccia,

fra mucchi di letame e di vinaccia,

dominavano i porri e l'insalata.


L'insalata, i legumi produttivi

deridevano il busso delle aiole;

volavano le pieridi nel sole

e le cetonie e i bombi fuggitivi...

Io ti parlavo, piano, e tu cucivi

innebriata dalle mie parole.


«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!

Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,

terminare la vita che m'avanzi

tra questo verde e questo lino bianco!

Se Lei sapesse come sono stanco

delle donne rifatte sui romanzi!


Vennero donne con proteso il cuore:

ognuna dileguò, senza vestigio.

Lei sola, forse, il freddo sognatore

educherebbe al tenero prodigio:

mai non comparve sul mio cielo grigio

quell'aurora che dicono: l'Amore...»


Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi

leggevo uno sgomento indefinito;

le mani ti cercai, sopra il cucito,

e te le strinsi lungamente, e dissi:

«Mia cara Signorina, se guarissi

ancora, mi vorrebbe per marito?».


«Perché mi fa tali discorsi vani?

Sposare, Lei, me brutta e poveretta!...»

E ti piegasti sulla tua panchetta

facendo al viso coppa delle mani,

simulando singhiozzi acuti e strani

per celia, come fa la scolaretta.


Ma, nel chinarmi su di te, m'accorsi

che sussultavi come chi singhiozza

veramente, né sa più ricomporsi:

mi parve udire la tua voce mozza

da gli ultimi singulti nella strozza:

«Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!»


«Piange?» E tentai di sollevarti il viso

inutilmente. Poi, colto un fuscello,

ti vellicai l'orecchio, il collo snello...

Già tutta luminosa nel sorriso

ti sollevasti vinta d'improvviso,

trillando un trillo gaio di fringuello.


Donna: mistero senza fine bello!



VI.


Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi

luceva una blandizie femminina;

tu civettavi con sottili schermi,

tu volevi piacermi, Signorina;

e più d'ogni conquista cittadina

mi lusingò quel tuo voler piacermi!


Unire la mia sorte alla tua sorte

per sempre, nella casa centenaria!

Ah! Con te, forse, piccola consorte

vivace, trasparente come l'aria,

rinnegherei la fede letteraria

che fa la vita simile alla morte...


Oh! questa vita sterile, di sogno!

Meglio la vita ruvida concreta

del buon mercante inteso alla moneta,

meglio andare sferzati dal bisogno,

ma vivere di vita! Io mi vergogno,

sì, mi vergogno d'essere un poeta!


Tu non fai versi. Tagli le camicie

per tuo padre. Hai fatta la seconda

classe, t'han detto che la Terra è tonda,

ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...

Mi piaci. Mi faresti più felice

d'un'intellettuale gemebonda...


Tu ignori questo male che si apprende

in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,

tutta beata nelle tue faccende.

Mi piace. Penso che leggendo questi

miei versi tuoi, non mi comprenderesti,

ed a me piace chi non mi comprende.


Ed io non voglio più essere io!

Non più l'esteta gelido, il sofista,

ma vivere nel tuo borgo natio,

ma vivere alla piccola conquista

mercanteggiando placido, in oblio

come tuo padre, come il farmacista...


Ed io non voglio più essere io!



VII.


Il farmacista nella farmacia

m'elogiava un farmaco sagace:

«Vedrà che dorme le sue notti in pace:

un sonnifero d'oro, in fede mia!»

Narrava, intanto, certa gelosia

con non so che loquacità mordace.


«Ma c'è il notaio pazzo di quell'oca!

Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!

La Signorina è brutta, senza seno,

volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...

E la dote... la dote è poca, poca:

diecimila, chi sa, forse nemmeno...»


«Ma dunque?» - «C'è il notaio furibondo

con Lei, con me che volli presentarla

a Lei; non mi saluta, non mi parla...»

«È geloso?» - «Geloso! Un finimondo!...»

«Pettegolezzi!...» - «Ma non Le nascondo

che temo, temo qualche brutta ciarla...»


«Non tema! Parto.» - «Parte? E va lontana?»

«Molto lontano... Vede, cade a mezzo

ogni motivo di pettegolezzo...»

«Davvero parte? Quando?» - «In settimana...»

Ed uscii dall'odor d'ipecacuana

nel plenilunio settembrino, al rezzo.


Andai vagando nel silenzio amico,

triste perduto come un mendicante.

Mezzanotte scoccò, lenta, rombante

su quel dolce paese che non dico.

La Luna sopra il campanile antico

pareva «un punto sopra un I gigante».


In molti mesti e pochi sogni lieti,

solo pellegrinai col mio rimpianto

fra le siepi, le vigne, i castagneti

quasi d'argento fatti nell'incanto;

e al cancello sostai del camposanto

come si usa nei libri dei poeti.


Voi che posate già sull'altra riva,

immuni dalla gioia, dallo strazio,

parlate, o morti, al pellegrino sazio!

Giova guarire? Giova che si viva?

O meglio giova l'Ospite furtiva

che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?


A lungo meditai, senza ritrarre

la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno

si udiva il grido delle strigi alterno...

La Luna, prigioniera fra le sbarre,

imitava con sue luci bizzarre

gli amanti che si baciano in eterno.


Bacio lunare, fra le nubi chiare

come di moda settant'anni fa!

Ecco la Morte e la Felicità!

L'una m'incalza quando l'altra appare;

quella m'esilia in terra d'oltremare,

questa promette il bene che sarà...



VIII.


Nel mestissimo giorno degli addii

mi piacque rivedere la tua villa.

La morte dell'estate era tranquilla

in quel mattino chiaro che salii

tra i vigneti già spogli, tra i pendii

già trapunti da bei colchici lilla.


Forse vedendo il bel fiore malvagio

che i fiori uccide e semina le brume,

le rondini addestravano le piume

al primo volo, timido, randagio;

e a me randagio parve buon presagio

accompagnarmi loro nel costume.


«Vïaggio con le rondini stamane...»

«Dove andrà?» - «Dove andrò? Non so... Vïaggio,

vïaggio per fuggire altro vïaggio...

Oltre Marocco, ad isolette strane,

ricche in essenze, in datteri, in banane,

perdute nell'Atlantico selvaggio...


Signorina, si io torni d'oltremare,

non sarà d'altri già? Sono sicuro

di ritrovarla ancora? Questo puro

amore nostro salirà l'altare?»

E vidi la tua bocca sillabare

a poco a poco le sillabe: giuro.


Giurasti e disegnasti una ghirlanda

sul muro, di viole e di saette,

coi nomi e con la data memoranda:

trenta settembre novecentosette...

Io non sorrisi. L'animo godette

quel romantico gesto d'educanda.


Le rondini garrivano assordanti,

garrivano garrivano parole

d'addio, guizzando ratte come spole,

incitando le piccole migranti...

Tu seguivi gli stormi lontananti

ad uno ad uno per le vie del sole...


«Un altro stormo si alza!...» - «Ecco si avvia!»

«Sono partite...» - «E non le salutò!...»

«Lei devo salutare, quelle no:

quelle terranno la mia stessa via:

in un palmeto della Barberia

tra pochi giorni le ritroverò...»


Giunse il distacco, amaro senza fine,

e fu il distacco d'altri tempi, quando

le amate in bande lisce e in crinoline,

protese da un giardino venerando,

singhiozzavano forte, salutando

diligenze che andavano al confine...


M'apparisti così come in un cantico

del Prati, lacrimante l'abbandono

per l'isole perdute nell'Atlantico;

ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono

sentimentale giovine romantico...


Quello che fingo d'essere e non sono!




L'amica di nonna Speranza


28 giugno 1850

«...alla sua Speranza

la sua Carlotta...»

(dall'album: dedica d'una fotografia)


I.


Loreto impagliato ed il busto d'Alfieri, di Napoleone

i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),


il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti,

i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,


un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,

gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di

cocco,


Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po' scialbi,

le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,


le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature,

i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,


il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone

e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,


il cùcu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco

chèrmisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!



II.


I fratellini alla sala quest'oggi non possono accedere

che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili. È giorno di gala).


Ma quelli v'irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza

la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.


Ha diciassett'anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:

da poco hanno avuto il permesso d'aggiungere un cerchio alla

gonna,


il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine.

Più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.


Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a

ghirlande;

divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance.


Han fatto l'esame più egregio di tutta la classe. Che affanno

passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.


Silenzio, bambini! Le amiche - bambini, fate pian piano! -

le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.


Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto

di Arcangelo del Leùto e d'Alessandro Scarlatti.


Innamorati dispersi, gementi il core e l'augello,

languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:


...

...caro mio ben

credimi almen!

senza di te

languisce il cor!

Il tuo fedel

sospira ognor,

cessa crudel

tanto rigor!

...


Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita

si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.


O musica. Lieve sussurro! E già nell'animo ascoso

d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,


lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio

sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!



III.


Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo,

ligio al Passato, al Lombardo-Veneto, all'Imperatore;


giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,

ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna...


«Baciate la mano alli Zii!» - dicevano il Babbo e la Mamma,

e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.


«E questa è l'amica in vacanza: madamigella Carlotta

Capenna: l'alunna più dotta, l'amica più cara a Speranza.»


«Ma bene... ma bene... ma bene...» - diceva gesuitico e tardo

lo Zio di molto riguardo «Ma bene... ma bene... ma bene...


Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...

Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro...»


«Gradiscono un po' di moscato?» «Signora sorella magari...»

E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.


«...ma la Brambilla non seppe...» - «È pingue già per

lErnani...»

«La Scala non ha più soprani...» - «Che vena quel Verdi...

Giuseppe!...»


«...nel marzo avremo un lavoro alla Fenice, m'han detto,

nuovissimo: il Rigoletto. Si parla d'un capolavoro.»


«...Azzurri si portano o grigi?» - «E questi orecchini? Che bei

rubini! E questi cammei...» - «la gran novità di Parigi...»


«...Radetzki? Ma che? L'armistizio... la pace, la pace che

regna...»

«...quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!»


«È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro...»

«È bello?» - «Non bello: tutt'altro.» - «Gli piacciono molto le

donne...»


«Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po' sibillino)

«Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano!»


Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto

inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.



IV.


Oimè! che giocando un volano, troppo respinto all'assalto,

non più ridiscese dall'alto dei rami d'un ippocastano!


Si inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago

sognando l'amore presago nei loro bei sogni trilustri.


«Ah! se tu vedessi che bei denti!» - «Quant'anni?...» -

«Vent'otto.»

«Poeta?» - «Frequenta il salotto della Contessa Maffei!»


Non vuole morire, non langue il giorno. Si accende più ancora

di porpora: come un'aurora stigmatizzata di sangue;


si spenge infine, ma lento. I monti si abbrunano in coro:

il Sole si sveste dell'oro, la Luna si veste d'argento.


Romantica Luna fra un nimbo leggiero, che baci le chiome

dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo,


il sogno di tutto un passato nella tua curva si accampa:

non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?


Vedesti le case deserte di Parisina la bella?

Non forse non forse sei quella amata dal giovine Werther?


«...mah! Sogni di là da venire!» - «Il Lago si è fatto più denso

di stelle» - «...che pensi?» - «...Non penso.» - «...Ti piacerebbe

morire?»


«Sì!» - «Pare che il cielo riveli più stelle nell'acqua e più

lustri.

Inchìnati sui balaustri: sognamo così, tra due cieli...»


«Son come sospesa! Mi libro nell'alto...» - «Conosce Mazzini...»

- «E l'ami?...» - «Che versi divini!» - «Fu lui a donarmi quel

libro,


ricordi? che narra siccome, amando senza fortuna,

un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome.»



V.


Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l'essenze

risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline...


Amica di Nonna, conosco le aiuole per ove leggesti

i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.


Ti fisso nell'albo con tanta tristezza, ov'è di tuo pugno

la data: vent'otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.


Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo

e l'indice al labbro, secondo l'atteggiamento romantico.


Quel giorno - malinconia - vestivi un abito rosa,

per farti - novissima cosa! - ritrarre in fotografia...


Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei

o sola che, forse, potrei amare, amare d'amore?




Cocotte


I.


Ho rivisto il giardino, il giardinetto

contiguo, le palme del viale,

la cancellata rozza dalla quale

mi protese la mano ed il confetto...



II.


«Piccolino, che fai solo soletto?»

«Sto giocando al Diluvio Universale.»


Accennai gli stromenti, le bizzarre

cose che modellavo nella sabbia,

ed ella si chinò come chi abbia

fretta d'un bacio e fretta di ritrarre

la bocca, e mi baciò di tra le sbarre

come si bacia un uccellino in gabbia.


Sempre che io viva rivedrò l'incanto

di quel suo volto tra le sbarre quadre!

La nuca mi serrò con mani ladre;

ed io stupivo di vedermi accanto

al viso, quella bocca tanto, tanto

diversa dalla bocca di mia Madre!


«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?

Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»

«Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?»

Subito mi lasciò, con negli sguardi

un vano sogno (ricordai più tardi)

un vano sogno di maternità...


«Una cocotte!...»

«Che vuol dire, mammina?»

«Vuol dire una cattiva signorina:

non bisogna parlare alla vicina!»

Co-co-tte... La strana voce parigina

dava alla mia fantasia bambina

un senso buffo d'ovo e di gallina...


Pensavo deità favoleggiate:

i naviganti e l'Isole Felici...

Co-co-tte... le fate intese a malefici

con cibi e con bevande affatturate...

Fate saranno, chi sa quali fate,

e in chi sa quali tenebrosi offici!



III.


Un giorno - giorni dopo - mi chiamò

tra le sbarre fiorite di verbene:

«O piccolino, non mi vuoi più bene!...»

«È vero che tu sei una cocotte?»

Perdutamente rise... E mi baciò

con le pupille di tristezza piene.



IV.


Tra le gioie defunte e i disinganni,

dopo vent'anni, oggi si ravviva

il tuo sorriso... Dove sei, cattiva

Signorina? Sei viva? Come inganni

(meglio per te non essere più viva!)

la discesa terribile degli anni?


Oimè! Da che non giova il tuo belletto

e il cosmetico già fa mala prova

l'ultimo amante disertò l'alcova...

Uno, sol uno: il piccolo folletto

che donasti d'un bacio e d'un confetto,

dopo vent'anni, oggi ti ritrova


in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!

Da quel mattino dell'infanzia pura

forse ho amato te sola, o creatura!

Forse ho amato te sola! E ti richiamo!

Se leggi questi versi di richiamo

ritorna a chi t'aspetta, o creatura!


Vieni! Che importa se non sei più quella

che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,

o vestita di tempo! Oggi ho bisogno

del tuo passato! Ti rifarò bella

come Carlotta, come Graziella,

come tutte le donne del mio sogno!


Il mio sogno è nutrito d'abbandono,

di rimpianto. Non amo che le rose

che non colsi. Non amo che le cose

che potevano essere e non sono

state... Vedo la case, ecco le rose

del bel giardino di vent'anni or sono!


Oltre le sbarre il tuo giardino intatto

fra gli eucalipti liguri si spazia...

Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.

Fa che io riveda il tuo volto disfatto;

ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,

sulla tua bocca l'ultima tua grazia.


Vieni! Sarà come se a me, per mano,

tu riportassi me stesso d'allora.

Il bimbo parlerà con la Signora.

Risorgeremo dal tempo lontano.

Vieni! Sarà come se a te, per mano,

io riportassi te, giovine ancora.