Guido Gozzano



IL REDUCE



Totò Merùmeni


I.


Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei

balconi secentisti guarniti di verzura,

la villa sembra tolta da certi versi miei,

sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura...


Pensa migliori giorni la villa triste, pensa

gaie brigate sotto gli alberi centenari,

banchetti illustri nella sala da pranzo immensa

e danze nel salone spoglio da gli antiquari.


Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,

Casa Rattazzi, Casa d'Azeglio, Casa Oddone,

si arresta un'automobile fremendo e sobbalzando,

villosi forestieri picchiano la gorgòne.


Si ode un latrato e un passo, si schiude cautamente

la porta... In quel silenzio di chiostro e di caserma

vive Totò Merùmeni con una madre inferma,

una prozia canuta ed uno zio demente.



II.


Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,

molta cultura e gusto in opere d'inchiostro,

scarso cervello, scarsa morale, spaventosa

chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.


Non ricco, giunta l'ora di «vender parolette»

(il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere,

Totò scelse l'esilio. E in libertà riflette

ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.


Non è cattivo. Manda soccorso di danaro

al povero, all'amico un cesto di primizie;

non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro

pel tema, l'emigrante per le commendatizie.


Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,

non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche

«...in verità derido l'inetto che si dice

buono, perché non ha l'ugne abbastanza forti...»


Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca

coi suoi dolci compagni sull'erba che l'invita;

i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,

un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...



III.


La Vita si ritolse tutte le sue promesse.

Egli sognò per anni l'Amore che non venne,

sognò pel suo martirio attrici e principesse

ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.


Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,

fresca come una prugna al gelo mattutino,

giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza

su lui che la possiede, beato e resupino...



IV.


Totò non può sentire. Un lento male indomo

inaridì le fonti prime del sentimento;

l'analisi e il sofisma fecero di quest'uomo

ciò che le fiamme fanno d'un edificio al vento.


Ma come le ruine che già seppero il fuoco

esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,

quell'anima riarsa esprime a poco a poco

una fiorita d'esili versi consolatori...



V.


Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,

quasi è felice. Alterna l'indagine e la rima.

Chiuso in se stesso, medita, si accresce, esplora, intende

la vita dello Spirito che non intese prima.


Perché la voce è poca, e l'arte prediletta

immensa, perché il Tempo - mentre che io parlo! - va,

Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.

E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.




Una risorta


I.


«Chiesi di voi: nessuno

sa l'eremo profondo

di questo morto al mondo.

Son giunta! V'importuno?»


«No!... Sono un po' smarrito

per vanità: non oso

dirvi: Son vergognoso

del mio rude vestito.


Trovate il buon compagno

molto mutato, molto

rozzo, barbuto, incolto,

in giubba di fustagno!...»


«Oh! Guido! Tra di noi!

Pel mio dolce passato,

in giubba o in isparato

Voi siete sempre Voi...»


Muta, come chi pensa

casi remoti e vani,

mi strinse le due mani

con tenerezza immensa.


E in quella famigliare

mitezza di sorella

forse intravidi quella

che avrei potuto amare.



II.


«È come un sonno blando,

un ben senza tripudio;

leggo lavoro studio

ozio filosofando...


La mia vita è soave

oggi, senza perché;

levata si è da me

non so qual cosa grave...»


«Il Desiderio! Amico

il Desiderio ucciso

vi dà questo sorriso

calmo di saggio antico...


Ah! Voi beato! Io

nel mio sogno errabondo

soffro di tutto il mondo

vasto che non è mio!


Ancor sogno un'aurora

che gli occhi miei non videro;

desidero, desidero

terribilmente ancora!...»


Guardava i libri, i fiori,

la mia stanza modesta:

«È la tua stanza questa?

Dov'è che tu lavori?».


«Là, nel laboratorio

delle mie poche fedi...»

Passammo tra gli arredi

di quel mondo illusorio.


Frusciò nella cornice

severa la sottana,

passò quella mondana

grazia profanatrice...


«E questi sali gialli

in questo vetro nero??»

«Medito un gran mistero:

l'amore dei cristalli.»


«Amano?!...» - «A certi segni

pare. Già i saggi chini

cancellano i confini,

uniscono i Tre Regni.


Nel disco della lente

si apre l'ignoto abisso,

già sotto l'occhio fisso

la pietra vive, sente...


Cadono i dogmi e l'uso

della Materia. In tutto

regna l'Essenza, in tutto

lo Spirito è diffuso...»


Mi stava ad ascoltare

con le due mani al mento

maschio, lo sguardo intento

tra il vasto arco cigliare,


così svelta di forme

nella guaina rosa,

la nera chioma ondosa

chiusa nel casco enorme.


«Ed in quell'urna appesa

con quella fitta rete?»

«Dormono cento quete

crisalidi in attesa...»


«Fammi vedere... Oh! Strane!

Son d'oro come bei

pendenti... Ed io vorrei

foggiarmene collane!


Gemme di stile egizio

sembrano...» - «O gnomi od anche

mute regine stanche

sopite in malefizio...»


«Le segui per vedere

lor fasi e lor costume?»

«Sì, medito un volume

su queste prigioniere.


Le seguo d'ora in ora

con pazienza estrema;

dirò su questo tema

cose non dette ancora.»


Chini su quelle vite

misteriose e belle,

ragionavamo delle

crisalidi sopite.


Ma come una sua ciocca

mi vellicò sul viso,

mi volsi d'improvviso

e le baciai la bocca.


Sentii l'urtare sordo

del cuore, e nei capelli

le gemme degli anelli,

l'ebbrezza del ricordo...


Vidi le nari fini,

riseppi le sagaci

labbra e commista ai baci

l'asprezza dei canini,


e quel si abbandonare,

quel sogguardare blando,

simile a chi sognando

desidera sognare...




Un'altra risorta


Solo, errando così come chi erra

senza meta, un po' triste, a passi stanchi,

udivo un passo frettoloso ai fianchi;

poi l'ombra apparve, e la conobbi in terra...

Tremante a guisa d'uom che aspetta guerra,

mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi.


Ma fu l'incontro mesto, e non amaro.

Proseguimmo tra l'oro delle acace

del Valentino, camminando a paro.

Ella parlava, tenera, loquace,

del passato, di sé, della sua pace,

del futuro, di me, del giorno chiaro


«Che bel Novembre! È come una menzogna

primaverile! E lei, compagno inerte,

se ne va solo per le vie deserte,

col trasognato viso di chi sogna...

Fare bisogna. Vivere bisogna

la bella vita dalle mille offerte.»


«Le mille offerte... Oh! vana fantasia!

Solo in disparte dalla molta gente,

ritrovo i sogni e le mie fedi spente,

solo in disparte l'anima si oblìa...

Vivo in campagna, con una prozia,

la madre inferma ed uno zio demente.


Sono felice. La mia vita è tanto

pari al mio sogno: il sogno che non varia:

vivere in una villa solitaria,

senza passato più, senza rimpianto:

appartenersi, meditare... Canto

l'esilio e la rinuncia volontaria.»


«Ah! lasci la rinuncia che non dico,

lasci l'esilio a me, lasci l'oblìo

a me che rassegnata già m'avvio

prigioniera del Tempo, del nemico...

Dove Lei sale c'è la luce, amico!

Dov'io scendo c'è l'ombra, amico mio!...»


Ed era lei che mi parlava, quella

che risorgeva dal passato eterno

sulle tiepide soglie dell'inverno?...

La quarantina la faceva bella,

diversamente bella: una sorella

buona, dall'occhio tenero materno.


Tacevo, preso dalla grazia immensa

di quel profilo forte che m'adesca;

tra il cupo argento della chioma densa

ella appariva giovenile e fresca

come una deità settecentesca...

«Amico neghittoso, a che mai pensa?»


«Penso al Petrarca che raggiunto fu

per via, da Laura, com'io son la Lei...»

Sorrise, rise discoprendo i bei

denti... «Che Laura in fior di gioventù!...

Irriverente!... Pensi invece ai miei

capelli grigi... Non mi tingo più.»




L'onesto rifiuto


Un mio gioco di sillabe t'illuse.

Tu verrai nella mia casa deserta:

lo stuolo accrescerai delle deluse.

So che sei bella e folle nell'offerta

di te. Te stessa, bella preda certa,

già quasi m'offri nelle palme schiuse.


Ma prima di conoscerti, con gesto

franco t'arresto sulle soglie, amica,

e ti rifiuto come una mendica.

Non sono lui, non sono lui! Sì, questo

voglio gridarti nel rifiuto onesto,

perché più tardi tu non maledica.


Non sono lui! Non quello che t'appaio,

quello che sogni spirito fraterno!

Sotto il verso che sai, tenero e gaio,

arido è il cuore, stridulo di scherno

come siliqua stridula d'inverno,

vôta di semi, pendula al rovaio...


Per te serbare immune da pensieri

bassi, la coscienza ti congeda

onestamente, in versi più sinceri...

Ma (tu sei bella) fa che io non ti veda:

il desiderio della bella preda

mentirebbe l'amore che tu speri.


Non posso amare, Illusa! Non ho amato

mai! Questa è la sciagura che nascondo.

Triste cercai l'amore per il mondo,

triste pellegrinai pel mio passato,

vizioso fanciullo viziato,

sull'orme del piacere vagabondo...


Ah! Non volgere i tuoi piccoli piedi

verso l'anima buia di chi tace!

Non mi tentare, pallida seguace!...

Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi,

non son colui, non son colui che credi!


Curiosa di me, lasciami in pace!




Torino


I.


Quante volte tra i fiori, in terre gaie,

sul mare, tra il cordame dei velieri,

sognavo le tue nevi, i tigli neri,

le dritte vie corrusche di rotaie,

l'arguta grazia delle tue crestaie,

o città favorevole ai piaceri!


E quante volte già, nelle mie notti

d'esilio, resupino a cielo aperto,

sognavo sere torinesi, certo

ambiente caro a me, certi salotti

beoti assai, pettegoli, bigotti

come ai tempi del buon Re Carlo Alberto...


«...se 'l Cônt ai ciapa ai rangia për le rime...»

«Che a staga ciutô...» - «'L caso a l'è stupendô!...»

«E la Duse ci piace?» - «Oh! mi m'antendô

pà vaire... I negô pà, sarà sublime,

ma mi a teatrô i vad për divertime...»

«Che a staga ciutô!... A jntra 'l Reverendô!...»


Si avanza un barnabita, lentamente...

stringe la mano alla Contessa amica

siede con gesto di chi benedica...

Ed il poeta, tacito ed assente,

si gode quell'accolita di gente

che à la tristezza d'una stampa antica...


Non soffre. Ama quel mondo senza raggio

di bellezza, ove cosa di trastullo

è l'Arte. Ama quei modi e quel linguaggio

e quell'ambiente sconsolato e brullo.

Non soffre. Pensa Giacomo fanciullo

e la «siepe» e il «natìo borgo selvaggio».



II.


Come una stampa antica bavarese

vedo al tramonto il cielo subalpino...

Da Palazzo Madama al Valentino

ardono l'Alpi tra le nubi accese...

È questa l'ora antica torinese,

è questa l'ora vera di Torino...


L'ora che io dissi del Risorgimento,

l'ora in cui penso a Massimo d'Azeglio

adolescente, a I miei ricordi, e sento

d'essere nato troppo tardi... Meglio

vivere al tempo sacro del risveglio,

che al tempo nostro mite e sonnolento!



III.


Un po' vecchiotta, provinciale, fresca

tuttavia d'un tal garbo parigino,

in te ritrovo me stesso bambino,

ritrovo la mia grazia fanciullesca

e mi sei cara come la fantesca

che m'ha veduto nascere, o Torino!


Tu m'hai veduto nascere, indulgesti

ai sogni del fanciullo trasognato:

tutto me stesso, tutto il mio passato,

i miei ricordi più teneri e mesti

dormono in te, sepolti come vesti

sepolte in un armadio canforato.


L'infanzia remotissima... la scuola...

la pubertà... la giovinezza accesa...

i pochi amori pallidi... l'attesa

delusa... il tedio che non ha parola...

la Morte e la mia Musa con sé sola,

sdegnosa, taciturna ed incompresa.



IV.


Che io perseguendo mie chimere vane

pur t'abbandoni e cerchi altro soggiorno,

che io pellegrini verso il Mezzogiorno

a belle terre tiepide e lontane,

la metà di me stesso in te rimane

e mi ritrovo ad ogni mio ritorno.


A te ritorno quando si rabbuia

il cuor deluso da mondani fasti.

Tu mi consoli, tu che mi foggiasti

quest'anima borghese e chiara e buia

dove ride e singhiozza il tuo Gianduia

che teme gli orizzonti troppo vasti...


Evviva i bôgianen... Sì, dici bene,

o mio savio Gianduia ridarello!

Buona è la vita senza foga, bello

godere di cose piccole e serene...

A l'è questiôn d' nen piessla... Dici bene

o mio savio Gianduia ridarello!...




In casa del sopravissuto


I.


Dalle profondità dei cieli tetri

scende la bella neve sonnolenta,

tutte le cose ammanta come spetri;

Scende, risale, impetuosa, lenta,

di su, di giù, di qua, di là, si avventa

alle finestre, tamburella i vetri...


Turbina densa in fiocchi di bambagia,

imbianca i tetti ed i selciati lordi,

piomba dai rami curvi, in blocchi sordi...

Nel caminetto crepita la bragia

e l'anima del reduce si adagia

nella bianca tristezza dei ricordi.


Reduce dall'Amore e dalla Morte

gli hanno mentito le due cose belle!

Gli hanno mentito le due cose belle:

Amore non lo volle in sua coorte,

Morte l'illuse fino alle sue porte,

ma ne respinse l'anima ribelle.


In braccio ha la compagna: Makakita;

e Makakita trema freddolosa,

stringe il poeta e guarda quella cosa

di là dai vetri, guarda sbigottita

quella cosa monotona infinita

che tutto avvolge di bianchezza ondosa.


Forse essa pensa i boschi dove nacque,

i tamarindi, i cocchi ed i banani,

il fiume e le sorelle quadrumani,

e il gioco favorito che le piacque,

quando in catena pendula sull'acque

stuzzicava le nari dei caimani.


Con la Mamma vicina e il cuore in pace,

si aggira, canticchiando un melodramma;

sospira un po'... Ravviva dalla brace

il guizzo allegro della buona fiamma...

Canticchia. E tace con la cara Mamma;

la cara Mamma sa quel che si tace.


Egli si aggira. Toglie di sul piano-

forte un ritratto: «Quest'effigie!... Mia?...»

E fissa a lungo la fotografia

di quel se stesso già così lontano:

«Sì, mi ricordo... Frivolo... mondano...

vent'anni appena... Che malinconia!...


Mah! Come l'io trascorso è buffo e pazzo!

Mah!...» - «Che sospiri amari! Che rammenti?»

«Penso, mammina, che avrò tosto venti-

cinqu'anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo

coi versi! È tempo d'essere il ragazzo

più serio, che vagheggiano i parenti.


Dilegua il sogno d'arte che m'accese;

risano a poco a poco anche di questo!

Lungi dai letterati che detesto,

tra saggie cure e temperate spese,

sia la mia vita piccola e borghese:

c'è in me la stoffa del borghese onesto...»


Sogghigna un po'. Ricolloca sul piano-

forte il ritratto «Quest'effigie! Mia?...»

E fissa a lungo la fotografia

di quel se stesso già così lontano.

«Un po' malato... frivolo... mondano...

Sì, mi ricordo... Che malinconia!...»




Pioggia d'agosto


Nel mio giardino triste ulula il vento,

cade l'acquata a rade goccie, poscia

più precipite giù crepita scroscia

a fili interminabili d'argento...

Guardo la Terra abbeverata e sento

ad ora ad ora un fremito d'angoscia...


Soffro la pena di colui che sa

la sua tristezza vana e senza mete;

l'acqua tessuta dall'immensità

chiude il mio sogno come in una rete,

e non so quali voci esili inquiete

sorgano dalla mia perplessità.


«La tua perplessità mediti l'ale

verso meta più vasta e più remota!

È tempo che una fede alta ti scuota,

ti levi sopra te, nell'Ideale!

Guarda gli amici. Ognun palpita quale

demagogo, credente, patriota...


Guarda gli amici. Ognuno già ripose

la varia fede nelle varie scuole.

Tu non credi e sogghigni. Or quali cose

darai per meta all'anima che duole?

La Patria? Dio? l'Umanità? Parole

che i retori t'han fatto nauseose!...


Lotte brutali d'appetiti avversi

dove l'anima putre e non si appaga...

Chiedi al responso dell'antica maga

la sola verità buona a sapersi;

la Natura! Poter chiudere in versi

i misteri che svela a chi l'indaga!»


Ah! La Natura non è sorda e muta;

se interrogo il lichène ed il macigno

essa parla del suo fine benigno...

Nata di sé medesima, assoluta,

unica verità non convenuta,

dinanzi a lei si arresta il mio sogghigno.


Essa conforta di speranze buone

la giovinezza mia squallida e sola;

e l'achenio del cardo che si invola,

la selce, l'orbettino, il macaone,

sono tutti per me come personae,

hanno tutti per me qualche parola...


Il cuore che ascoltò, più non si acqueta

in visïoni pallide fugaci,

per altre fonti va, per altra meta...

O mia Musa dolcissima che taci

allo stridìo dei facili seguaci,

con altra voce tornerò poeta!




I colloqui


I.


«I colloqui»... Rifatto agile e sano

aduna i versi, rimaneggia, lima,

bilancia il manoscritto nella mano...


- Pochi giochi di sillaba e di rima:

questo rimane dell'età fugace?

È tutta qui la giovinezza prima?


Meglio tacere, dileguare in pace

or che fiorito ancora è il mio giardino,

or che non punta ancora invidia tace.


Meglio sostare a mezzo del cammino

or che il mondo alla mia Musa maldestra.

quasi a mima che canta il suo mattino,


soccorrevole ancor porge la destra.



II.


Ma la mia Musa non sarà l'attrice

annosa che si trucca e pargoleggia,

e la folla deride l'infelice;


giovine tacerà nella sua reggia,

come quella Contessa Castiglione

bellissima, di cui si favoleggia.


Allo sfiorire della sua stagione,

disparve al mondo, sigillò le porte

della dimora, e ne restò prigione.


Sola col Tempo, tra le stoffe smorte,

attese gli anni, senz'amici, senza

specchi, celando al Popolo, alla Corte


l'onta suprema della decadenza.



III.


L'immagine di me voglio che sia

sempre ventenne, come in un ritratto;

amici miei, non mi vedrete in via,


curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!

Col mio silenzio resterò l'amico

che vi fu caro, un poco mentecatto;


il fanciullo sarò tenero e antico

che sospirava al raggio delle stelle,

che meditava Arturo e Federico,


ma lasciava la pagina ribelle

per seppellir le rondini insepolte,

per dare un'erba alle zampine delle


disperate cetonie capovolte...