Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume secondo





Cap. i

I pisani avversi al dominio de' fiorentini chiedono aiuti a Siena a Lucca a Venezia e a Lodovico Sforza. Aspirazione di questo al dominio di Pisa. Burgundio Lolo, pisano, denuncia a Carlo in Roma il malgoverno de' fiorentini nella sua città. Risponde in difesa de' fiorentini Francesco Soderini. Subdola condotta di Carlo verso i fiorentini. Aiuti del duca di Milano a' pisani.

Mentre che queste cose si facevano in Roma e nel reame napoletano, crescevano in altra parte d'Italia le faville d'uno piccolo fuoco, destinato a partorire alla fine grandissimo incendio in danno di molti, ma principalmente contro a colui che per troppa cupidità di dominare l'avesse suscitato e nutrito. Perché, ancoraché il re di Francia si fusse convenuto in Firenze, che tenendo lui Pisa insino all'acquisto di Napoli, la giurisdizione e l'entrate appartenessino a' fiorentini, nondimeno, partendosi da Firenze, non aveva lasciato provisione, o posto ordine alcuno, per la osservanza di tale promessa; in modo che i pisani, a' quali inclinava il favore del commissario e de' soldati lasciati dal re alla guardia di quella città, deliberati di non ritornare piú sotto il dominio fiorentino, avevano cacciati gli ufficiali e tutti i fiorentini che v'erano rimasti, alcuni n'aveano incarcerati, occupate le robe e tutti i beni loro, e confermata totalmente con le dimostrazioni e con l'opere la ribellione. Nella quale per potere perseverare non solo mandorono imbasciadori al re, da poi che fu partito da Firenze, che difendessino la causa loro, ma disposti a fare ogni opera per ottenere aiuto da ciascuno, ne mandorono, incontinente che furno ribellati, a Siena e a Lucca; le quali città, essendo inimicissime al nome fiorentino, non potevano con animi piú allegri la pisana ribellione avere udito, e perciò insieme gli proveddono di qualche quantità di danari, e i sanesi vi mandorono subito alcuni cavalli. Tentorono medesimamente i pisani, mandati oratori a Vinegia, l'animo di quel senato; dal quale, benché ricevuti benignamente, non riportorono speranza alcuna. Ma il principale fondamento facevano nel duca di Milano, perché non dubitavano che, sí come era stato autore della loro ribellione, sarebbe disposto a mantenergli; il quale, benché a' fiorentini dimostrasse altrimenti, attese in segreto a mettere loro animo con molti conforti e offerte, e persuase occultamente a' genovesi che provedessino i pisani d'armi e di munizioni, e che mandassino uno commissario in Pisa e trecento fanti. I quali, per la inimicizia grande che avevano co' fiorentini, nata dal dispiacere che ebbono dell'acquisto di Pisa, e quando poi comperorono, a tempo di Tommaso Fregoso loro doge, il porto di Livorno il quale essi possedevano, e accresciuta ultimatamente quando i fiorentini tolsono loro Pietrasanta e Serezana, non solo furono pronti a queste cose ma avevano già occupata la maggiore parte delle terre le quali i fiorentini nella Lunigiana possedevano, e già sotto pretesto d'una lettera regia, ottenuta per la restituzione di certi beni confiscati, nelle cose di Pietrasanta si intromettevano. Delle quali azioni querelandosi i fiorentini a Milano, il duca rispondeva non essere in sua potestà, secondo i capitoli che aveva co' genovesi, di proibirle, e sforzandosi di sodisfare loro con le parole e dando varie speranze, non cessava d'operare co' fatti tutto il contrario; come quello che sperava, non si recuperando Pisa per i fiorentini, avere facilmente a ridurla sotto il suo dominio, il che per la qualità della città e per l'opportunità del sito ardentissimamente desiderava: cupidità non nuova in lui ma incominciata insino quando, cacciato da Milano poco dopo la morte di Galeazzo suo fratello, per sospetto che ebbe di lui madonna Bona madre e tutrice del piccolo duca, vi stette confinato molti mesi. Stimolavalo oltre a questo la memoria che Pisa, innanzi venisse in potestà de' fiorentini, era stata dominata da Giovan Galeazzo Visconte primo duca di Milano; per il che e stimava essergli glorioso recuperare quel che era stato posseduto da' suoi maggiori e gli pareva potervi pretendere colore di ragione, come se a Giovan Galeazzo non fusse stato lecito lasciare per testamento, in pregiudicio de' duchi di Milano suoi successori, a Gabrielmaria suo figliuolo naturale Pisa, acquistata da sé ma con le pecunie e con le forze del ducato di Milano. Né contenti i pisani d'avere levato la città dalla ubbidienza de' fiorentini attendevano a occupare le terre del contado di Pisa; le quali quasi tutte seguitando, come quasi sempre fanno i contadi, l'autorità della città, riceverono ne' primi dí della ribellione i loro commissari, non si opponendo da principio i fiorentini, occupati, insino non composono col re, in pensieri piú gravi, e aspettando, dopo la partita sua di Firenze, che il re, obligato con sí publico e solenne giuramento, vi provedesse. Ma poiché da lui si differiva il rimedio, mandatavi gente, recuperorno, parte per forza parte per accordo, tutto quello che era stato occupato, eccetto Cascina, Buti e Vicopisano: nelle quali terre i pisani, non essendo potenti a resistere per tutto, avevano ristrette le forze loro.

Né a Carlo in secreto era molesto il procedere de' pisani, la causa de' quali aveva fautori scopertamente molti de' suoi, indotti alcuni da pietà, per la impressione già fatta in quella corte che e' fussino stati dominati acerbamente, altri per opporsi al cardinale di San Malò il quale si dimostrava favorevole a' fiorentini; e sopra tutti il siniscalco di Belcari, corrotto con danari da' pisani ma molto piú perché, malcontento dell'essersi augumentata troppo la grandezza del cardinale, cominciava, secondo le variazioni delle corti, a essere discordante da lui, per la medesima ambizione per la quale, per avere compagnia a sbattere gli altri, l'aveva prima fomentato: e questi, non avendo rispetto a quello che convenisse all'onore e alla fede di tanto re, dimostravano essergli piú utile tenere i fiorentini in questa necessità e conservare Pisa in quello stato, almeno insino a tanto che avesse acquistato il regno di Napoli. Le persuasioni de' quali prevalendo appresso a lui, e però sforzandosi di nutrire l'una parte e l'altra con speranze varie, introdusse, mentre era in Roma, gl'imbasciadori de' fiorentini a udire in presenza sua le querele che gli facevano i pisani; per i quali parlò Burgundio Lolo cittadino di Pisa, avvocato concistoriale nella corte di Roma, lamentandosi acerbissimamente, i pisani essere stati tenuti, ottantotto anni, in sí iniqua e atroce servitú che quella città, la quale aveva già con molte nobilissime vittorie disteso lo imperio suo insino nelle parti dell'Oriente, e la quale era stata delle piú potenti e piú gloriose città di tutta Italia, fusse, per la crudeltà e avarizia de' fiorentini, condotta all'ultima desolazione. Essere Pisa quasi vota d'abitatori, perché la maggiore parte de' cittadini, non potendo tollerare sí aspro giogo, l'aveva spontaneamente abbandonata; il consiglio de' quali essere stato prudentissimo, avere dimostrato le miserie di coloro i quali v'aveva ritenuti l'amore della patria, perché per l'acerbe esazioni del publico e per le rapine insolenti de' privati fiorentini erano rimasti spogliati di quasi tutte le sostanze; né avere piú modo alcuno di sostentarsi, perché con inaudita empietà e ingiustizia si proibiva loro il fare mercatanzie, l'esercitare arti di alcuna sorte eccetto le meccaniche, non essere ammessi a qualità alcuna d'uffici o d'amministrazioni nel dominio fiorentino, eziandio di quelle le quali alle persone straniere si concedevano. Già incrudelirsi da' fiorentini contro alla salute e le vite loro; avendo, per spegnere in tutto le reliquie de' pisani, fatto intermettere la cura di mantenere gli argini e i fossi del contado di Pisa, conservata sempre dai pisani antichi con esattissima diligenza, perché altrimenti era impossibile che per la bassezza del paese, offeso immoderatamente dalle acque, ogn'anno non fussino sottoposti a gravissime infermità. Per queste cagioni cadere per tutto in terra le chiese e i palagi e tanti nobili edifici publichi e privati, edificati con magnificenza e bellezza inestimabile da' maggiori loro. Non essere vergogna alle città preclare se dopo il corso di molti secoli cadevano finalmente in servitú, perché era fatale che tutte le cose del mondo fussino sottoposte alla corruzione; ma la memoria della nobiltà e della grandezza loro dovere piú presto generare nella mente de' vincitori compassione che accrescere acerbità e asprezza, massime che ciascuno aveva a considerare, potere anzi dovere, a qualche tempo, accadere a sé quel medesimo fine che è destinato che accaggia a tutte le città e a tutti gl'imperi. Non restare a' pisani piú cosa alcuna dove potesse distendersi piú la empietà e appetito insaziabile de' fiorentini, ed essere impossibile sopportare piú tante miserie; e perciò avere tutti unitamente determinato d'abbandonare prima la patria, d'abbandonare prima la vita, che ritornare sotto sí iniquo, sotto sí empio dominio. Pregare il re con le lacrime, le quali egli s'immaginasse essere lacrime abbondantissime di tutto il popolo pisano prostrato miserabilmente innanzi a' suoi piedi, che si ricordasse con quanta pietà e giustizia avesse restituita a' pisani la libertà usurpata ingiustissimamente; che, come costante e magnanimo principe, conservasse il beneficio fatto loro, eleggendo piú tosto d'avere il nome di padre e di liberatore di quella città che, rimettendogli in tanto pestifera servitú, diventare ministro della rapacità e della immanità de' fiorentini. Alle quali accusazioni con non minore veemenza rispose Francesco Soderini vescovo di Volterra, il quale fu poi cardinale, uno degli oratori de' fiorentini, dimostrando il titolo della sua republica essere giustissimo, perché avevano, insino nell'anno mille quattrocento quattro, comperato Pisa da Gabriel Maria Visconte legittimo signore; dal quale non prima stati messi in possessione, i pisani avernegli violentemente spogliati ; e però essere stato necessario cercare di ricuperarla con lunga guerra, della quale non era stato manco felice il fine che fusse stata giusta la cagione, né manco gloriosa la pietà de' fiorentini che la vittoria: conciossiaché, avendo avuta occasione di lasciare morire per se stessi i pisani consumati dalla fame, avessino, per rendere loro gli spiriti ridotti all'ultime estremità, nell'entrare con l'esercito in Pisa, condotto seco maggiore quantità di vettovaglia che d'armi. Non avere in tempo alcuno la città di Pisa ottenuto grandezza in terra ferma, anzi, non avendo mai, non ch'altro, potuto dominare Lucca città tanto vicina, essere stata sempre rinchiusa in angustissimo territorio; e la potenza marittima essere stata breve, perché per giusto giudicio di Dio, concitato per molte loro iniquità e scelerate operazioni, e per le lunghe discordie civili e inimicizie tra essi medesimi, era, molt'anni prima che fusse venduta a' fiorentini, caduta d'ogni grandezza e di ricchezze e d'abitatori, e diventata tanto debole che e' fusse riuscito a ser Iacopo d'Appiano, notaio ignobile del contado di Pisa, di farsene signore, e dopo averla dominata piú anni lasciarla ereditaria a' figliuoli. Né importare il dominio di Pisa a'fiorentini se non per l'opportunità del sito e per la comodità del mare, perché l'entrate le quali se ne traevano erano di piccola considerazione, essendo le esazioni sí leggiere che di poco sopravanzavano alle spese che per necessità vi si facevano; con tutto che la piú parte si riscotesse da' mercatanti forestieri, e per beneficio del porto di Livorno. Né essere, circa le mercatanzie arti e uffici, legati i pisani con altre leggi che fussino legate l'altre città suddite de' fiorentini; le quali, confessando essere governate con imperio moderato e mansueto, non desideravano mutare signore, perché non avevano quella alterigia e ostinazione la quale era naturale a' pisani, né anche quella perfidia che in loro era tanto notoria che fusse celebrata per antichissimo proverbio di tutta la Toscana. E se quando i fiorentini acquistorono Pisa molti pisani spontaneamente e subito se ne partirono, essere proceduto dalla superbia loro, impaziente ad accomodare l'animo alle forze proprie e alla fortuna, non per colpa de' fiorentini, i quali gli avevano retti con giustizia e con mansuetudine, e trattati talmente che sotto loro non era Pisa diminuita né di ricchezze né d'uomini; anzi avere con grandissima spesa ricuperato da' genovesi il porto di Livorno, senza il quale porto quella città era restata abbandonata d'ogni comodità ed emolumento: e con l'introdurvi lo studio publico di tutte le scienze e con molt'altri modi, ed eziandio col fare continuare diligentemente la cura de' fossi, essersi sempre sforzati di farla frequente d'abitatori. La verità delle quali cose era sí manifesta che con false lamentazioni e calunnie oscurare non si poteva. Essere permesso a ciascuno il desiderare di pervenire a migliore fortuna, ma dovere anche ciascuno pazientemente tollerare quello che la sorte sua gli ha dato; altrimenti confondersi tutte le signorie e tutti gl'imperi, se a ciascuno che è suddito fusse lecito il cercare di diventare libero. Né riputare necessario a' fiorentini l'affaticarsi per persuadere a Carlo, cristianissimo re di Francia, quel che appartenesse a lui di fare; perché, essendo re sapientissimo e giustissimo, si rendevano certi non si lascerebbe sollevare da querele e calunnie tanto vane e si ricorderebbe da se stesso quel ch'avesse promesso innanzi che l'esercito suo fusse ricevuto in Pisa, quel che sí solennemente avesse giurato in Firenze; considerando che quanto un re è piú potente e maggiore tanto gli è piú glorioso l'usare la sua potenza per conservazione della giustizia e della fede.

Appariva manifestamente che da Carlo erano con piú benigni orecchi uditi i pisani, e che per beneficio loro desiderava che, durante la guerra di Napoli, l'offese tra tutte due le parti si sospendessino, o che i fiorentini consentissino che il contado tutto si tenesse da lui, affermando che, acquistato che avesse Napoli, metterebbe subito a esecuzione le cose convenute in Firenze; il che i fiorentini, essendo già sospette loro tutte le parole del re, costantemente recusavano, ricercandolo con grande instanza dell'osservanza delle promesse. A' quali per mostrare di sodisfare, ma veramente per fare opera d'avere da loro innanzi al tempo debito i settantamila ducati promessigli, mandò, nel tempo medesimo partí da Roma, il cardinale di San Malò a Firenze, simulando co' fiorentini di mandarlo per sodisfare alle dimande loro; ma in segreto gli ordinò che, pascendogli di speranza insino che gli dessino i danari, lasciasse finalmente le cose nel grado medesimo: della quale fraude se bene i fiorentini avessino non piccola dubitazione, nondimeno gli pagorono quarantamila ducati, de' quali il termine era propinquo; ed egli, ricevuto che gli ebbe, andato a Pisa, promettendo di restituire i fiorentini nella possessione della città, se ne ritornò senza avere fatto effetto alcuno; scusandosi d'avere trovati i pisani sí pertinaci che l'autorità non era stata sufficiente a disporgli, né avere potuto costrignergli, perché dal re non aveva ricevuta questa commissione, né a sé, che era sacerdote, essere stato conveniente pigliare deliberazione alcuna della quale avesse a nascere effusione di sangue cristiano. Forní nondimeno di nuove guardie la cittadella nuova, e arebbe fornito la vecchia se glien'avessino consentito i pisani: i quali crescevano ogni dí d'animo e di forze, perché il duca di Milano, giudicando essere necessario che in Pisa fusse maggiore presidio e un condottiere di qualche esperienza e valore, v'aveva, benché coprendosi, con le solite arti, del nome de' genovesi, mandato Lucio Malvezzo con nuove genti. Né recusando occasione alcuna di fomentare le molestie de' fiorentini, acciocché fussino piú impediti a offendere i pisani, condusse Iacopo d'Appiano signore di Piombino e Giovanni Savello, a comune co' sanesi, per dare loro animo a sostenere Montepulciano; la quale terra essendosi nuovamente ribellata da' fiorentini a' sanesi, era stata accettata da loro senza rispetto della confederazione che avevano insieme.

 

Cap. ii

Discorso di Paolantonio Soderini intorno all'ordinamento interno di Firenze. Discorso di Guidantonio Vespucci sul medesimo argomento. Autorità di Gerolamo Savonarola in Firenze. Ordinamento della repubblica.

Né erano in questo tempo i fiorentini in minore ansietà e travaglio per le cose intestine; perché, per riordinare il governo della republica, avevano, subito dopo la partita da Firenze del re, nel parlamento, che secondo gli antichi costumi loro è una congregazione della università de' cittadini in sulla piazza del palagio publico, i quali con voci scoperte deliberano sopra le cose proposte dal sommo magistrato, costituita una specie di reggimento che, sotto nome di governo popolare, tendeva in molte parti piú alla potenza di pochi che a partecipazione universale. La qual cosa essendo molesta a molti che s'avevano proposta nell'animo maggiore larghezza, e concorrendo al medesimo privata ambizione di qualche principale cittadino, era stato necessario trattare di nuovo della forma del governo. Della quale consultandosi un giorno tra i magistrati principali e gli uomini di maggiore riputazione, Pagol'Antonio Soderini, cittadino savio e molto stimato, parlò, secondo che si dice, cosí:

- E' sarebbe certamente, prestantissimi cittadini, molto facile a dimostrare che, ancora che da coloro che hanno scritto delle cose civili il governo popolare sia manco lodato che quello di uno principe e che il governo degli ottimati, nondimeno, che per essere il desiderio della libertà desiderio antico e quasi naturale in questa città, e le condizioni de' cittadini proporzionate all'egualità, fondamento molto necessario de' governi popolari, debba essere da noi preferito senza alcuno dubbio a tutti gli altri: ma sarebbe superflua questa disputa, poi che in tutte le consulte di questi dí si è sempre con universale consentimento determinato che la città sia governata col nome e con l'autorità del popolo. Ma la diversità de' pareri nasce, che alcuni nell'ordinazione del parlamento si sono accostati volentieri a quelle forme di republica con le quali si reggeva questa città innanzi che la libertà sua fusse oppressa dalla famiglia de' Medici; altri, nel numero de' quali confesso di essere io, giudicando il governo cosí ordinato avere in molte cose piú tosto nome che effetti di governo popolare, e spaventati dagli accidenti che da simili governi spesse volte resultorono, desiderano una forma piú perfetta, e per la quale si conservi la concordia e la sicurtà de' cittadini, cosa che né secondo le ragioni né secondo l'esperienza del passato si può sperare in questa città se non sotto uno governo dependente in tutto dalla potestà del popolo ma che sia ordinato e regolato debitamente: il che consiste principalmente in due fondamenti. Il primo è che tutti i magistrati e uffici, cosí per la città come per il dominio, siano distribuiti, tempo per tempo, da uno consiglio universale di tutti quegli che secondo le leggi nostre sono abili a partecipare del governo; senza l'approvazione del quale consiglio leggi nuove non si possino deliberare. Cosí non essendo in potestà di privati cittadini, né d'alcuna particolare cospirazione o intelligenza, il distribuire le degnità e le autorità, non ne sarà escluso alcuno né per passione né a beneplacito d'altri, ma si distribuiranno secondo le virtú e secondo i meriti degli uomini; e però bisognerà che ciascuno si sforzi, con le virtú co' costumi buoni col giovare al publico e al privato, aprirsi la via agli onori; bisognerà che ciascuno s'astenga da' vizi, dal nuocere ad altri, e finalmente da tutte le cose odiose nelle città bene instituite: né sarà in potestà d'uno o di pochi, con nuove leggi o con l'autorità d'un magistrato, introdurre altro governo, non si potendo alterare questo se non di volontà del consiglio universale. Il secondo fondamento principale è che le deliberazioni importanti, cioè quelle che appartengano alla pace e alla guerra, alla esaminazione di leggi nuove, e generalmente tutte le cose necessarie alla amministrazione d'una città e dominio tale, si trattino da' magistrati preposti particolarmente a questa cura, e da uno consiglio piú scelto di cittadini esperimentati e prudenti che si deputi dal consiglio popolare; perché non cadendo nello intelletto d'ognuno la cognizione di queste faccende, bisogna sieno governate da quegli che n'hanno la capacità; e ricercando spesso prestezza o secreto, non si possono né consultare né deliberare con la moltitudine. Né è necessario alla conservazione della libertà che le cose tali si trattino in numeri molto larghi, perché la libertà rimane sicura ogni volta che la distribuzione de' magistrati e la deliberazione delle leggi nuove dependino dal consentimento universale. Proveduto adunque a queste due cose, resta ordinato il governo veramente popolare, fondata la libertà della città, stabilita la forma laudabile e durabile della republica. Perché molte altre cose, che tendono a fare il governo del quale si parla piú perfetto, è piú a proposito differire ad altro tempo, per non confondere tanto in questi princípi le menti degli uomini, sospettosi per la memoria della tirannide passata, e i quali, non assuefatti a trattare governi liberi, non possono conoscere interamente quello che sia necessario ordinare alla conservazione della libertà: e sono cose che, per non essere tanto sostanziali, si differiscono sicuramente a piú comodo tempo e a migliore occasione. Ameranno ogni dí piú i cittadini questa forma di republica, ed essendo per la esperienza ogni dí piú capaci della verità, desidereranno che il governo continuamente sia limato e condotto alla intera perfezione: e in questo mezzo si sostenterà mediante i due fondamenti sopradetti. I quali quanto sia facile ordinare, e quanto frutto partorischino, non solo si può dimostrare con molte ragioni ma eziandio apparisce chiarissimamente per l'esempio. Perché il reggimento de' viniziani, se bene è proprio de' gentil'uomini, non sono però i gentil'uomini altro che cittadini privati, e tanti in numero e di sí diverse condizioni e qualità che egli non si può negare che e' non partecipi molto del governo popolare, e che da noi non possa essere imitato in molte parti; e nondimeno è fondato principalmente in su queste due basi, in sulle quali quella republica, conservata per tanti secoli insieme con la libertà l'unione e la concordia civile, è salita in tanta gloria e grandezza. Né è proceduta dal sito, come molti credono, l'unione de' viniziani, perché e in quel sito potrebbono essere, e sono state qualche volta, discordie e sedizioni, ma dall'essere la forma del governo sí bene ordinata e bene proporzionata a se medesima che per necessità produce effetti sí preziosi e ammirabili. Né ci debbono manco muovere gli esempli nostri che gli alieni, ma considerandogli per il contrario: perché il non avere mai la città nostra avuto forma di governo simile a questo è stato causa che sempre le cose nostre sono state sottoposte a sí spesse mutazioni, ora conculcate dalla violenza delle tirannidi ora lacerate dalla discordia ambiziosa e avara di pochi ora conquassate dalla licenza sfrenata della moltitudine; e dove le città furono edificate per la quiete e felice vita degli abitatori, i frutti de' nostri governi le nostre felicità i nostri riposi sono stati le confiscazioni de' nostri beni, gli esili, le decapitazioni de' nostri infelici cittadini. Non è il governo introdotto nel parlamento diverso da quegli che altre volte sono stati in questa città, i quali sono stati pieni di discordie e di calamità, e dopo infiniti travagli publici e privati hanno finalmente partorito le tirannidi; perché, non per altro che per queste cagioni oppresse, appresso a nostri antichi, la libertà il duca di Atene, non per altro l'oppresse ne' tempi seguenti Cosimo de' Medici. Né si debbe averne ammirazione: perché, come la distribuzione de' magistrati e la deliberazione delle leggi non hanno bisogno quotidianamente del consenso comune ma dependono dall'arbitrio di numero minore, allora, intenti i cittadini non piú al beneficio publico ma a cupidità e fini privati, sorgono le sette e le cospirazioni particolari, alle quali sono congiunte le divisioni di tutta la città, peste e morte certissima di tutte le republiche e di tutti gli imperi. Quanto è adunque maggiore prudenza fuggire quelle forme di governo le quali, con le ragioni e con l'esempio di noi medesimi, possiamo conoscere perniciose! e accostarsi a quelle le quali, con le ragioni e con l'esempio d'altri, possiamo conoscere salutifere e felici! Perché io dirò pure, sforzato dalla verità, questa parola: che nella città nostra, sempre, un governo ordinato in modo che pochi cittadini vi abbino immoderata autorità sarà un governo di pochi tiranni; i quali saranno tanto piú pestiferi d'un tiranno solo quanto il male è maggiore e nuoce piú quanto piú è moltiplicato, e, se non altro, non si può, per la diversità de' pareri e per l'ambizione e per le varie cupidità degli uomini, sperarvi concordia lunga: e la discordia, perniciosissima in ogni tempo, sarebbe piú perniciosa in questo, nel quale voi avete mandato in esilio un cittadino tanto potente, nel quale voi siete privati d'una parte tanto importante del vostro stato, nel quale Italia, avendo nelle viscere eserciti forestieri, è tutta in gravissimi pericoli. Rare volte, e forse non mai, è stato assolutamente in potestà di tutta la città ordinare se medesima ad arbitrio suo: la quale potestà poiché la benignità di Dio v'ha conceduta, non vogliate, nocendo sommamente a voi stessi e oscurando in eterno il nome della prudenza fiorentina, perdere l'occasione di fondare un reggimento libero, e sí bene ordinato che non solo, mentre che e' durerà, faccia felici voi ma possiate promettervene la perpetuità; e cosí lasciare ereditario a' figliuoli e a' discendenti vostri tale tesoro e tale felicità, che giammai né noi né i passati nostri l'hanno posseduta o conosciuta. -

Queste furono le parole di Pagolantonio. Ma in contrario Guidantonio Vespucci, giurisconsulto famoso e uomo di ingegno e destrezza singolare, parlò cosí:

- Se il governo ordinato, prestantissimi cittadini, nella forma proposta da Paolantonio Soderini producesse sí facilmente i frutti che si desiderano, come facilmente si disegnano, arebbe certamente il gusto molto corrotto chi altro governo nella patria nostra desiderasse. Sarebbe perniciosissimo cittadino chi non amasse sommamente una forma di republica nella quale le virtú i meriti e il valore degli uomini fussino sopra tutte l'altre cose riconosciuti e onorati. Ma io non conosco già come si possa sperare che uno reggimento collocato totalmente nella potestà del popolo abbia a essere pieno di tanti beni. Perché io so pure che la ragione insegna, che l'esperienza lo dimostra e l'autorità de' valent'uomini lo conferma, che in tanta moltitudine non si truova tale prudenza tale esperienza tale ordine per il quale promettere ci possiamo che i savi abbino a essere anteposti agli ignoranti, i buoni a' cattivi, gli esperimentati a quegli che non hanno mai maneggiato faccenda alcuna. Perché, come da uno giudice incapace e imperito non si possono aspettare sentenze rette cosí da uno popolo che è pieno di confusione e di ignoranza non si può aspettare, se non per caso, elezione o deliberazione prudente o ragionevole. E quello che ne' governi publici gli uomini savi, né intenti ad alcuno altro negozio, possono appena discernere noi crediamo che una moltitudine inesperta imperita composta di tante varietà d'ingegni di condizioni e di costumi, e tutta dedita alle sue particolari faccende, possa distinguere e conoscere? Senza che, la persuasione immoderata che ciascuno arà di se medesimo gli desterà tutti alla cupidità degli onori, né basterà agli uomini nel governo popolare godere i frutti onesti della libertà, ché aspireranno tutti a gradi principali, e a intervenire nelle deliberazioni delle cose piú importanti e piú difficili; perché in noi manco che in alcuna altra città regna la modestia del cedere a chi piú sa, a chi piú merita. Ma persuadendoci che di ragione tutti, in tutte le cose, dobbiamo essere eguali, si confonderanno, quando sarà in facoltà della moltitudine, i luoghi della virtú e del valore; e questa cupidità distesa nella maggiore parte farà potere piú quegli che manco sapranno o manco meriteranno, perché essendo molto piú numero aranno piú possanza, in uno stato ordinato in modo che i pareri s'annoverino non si pesino. Donde che certezza arete voi che, contenti della forma la quale introdurrete al presente, non disordinino presto i modi, prudentemente pensati, con nuove invenzioni e con leggi imprudenti? alle quali gli uomini savi non potranno resistere. E queste cose sono in ogni tempo pericolose in un governo tale, ma saranno molto piú ora, perché è natura degli uomini, quando si partono da uno estremo nel quale sono stati tenuti violentemente, correre volonterosamente, senza fermarsi nel mezzo, all'altro estremo. Cosí chi esce da una tirannide, se non è ritenuto, si precipita a una sfrenata licenza; la quale anche si può giustamente chiamare tirannide, perché e un popolo è simile a un tiranno quando dà a chi non merita, quando toglie a chi merita, quando confonde i gradi e le distinzioni delle persone; ed è forse tanto piú pestifera la sua tirannide quanto è piú pericolosa l'ignoranza, perché non ha né peso né misura né legge che la malignità, che pure si regge con qualche regola con qualche freno con qualche termine. Né vi muova l'esempio de' viniziani, perché in loro e il sito fa qualche momento e la forma del governo inveterata fa molto, e le cose vi sono ordinate in modo che le deliberazioni importanti sono piú in potestà di pochi che di molti; e gl'ingegni loro, non essendo per natura forse cosí acuti come sono gli ingegni nostri, sono molto piú facili a quietarsi e a contentarsi. Né si regge il governo viniziano solamente con quegli due fondamenti i quali sono stati considerati, ma alla perfezione e stabilità sua importa molto lo esservi uno doge perpetuo, e molte altre ordinazioni, le quali chi volesse introdurre in questa republica arebbe infiniti contradittori; perché la città nostra non nasce al presente, né ha ora la prima volta la sua instituzione. Però, repugnando spesso alla utilità comune gli abiti inveterati, e sospettando gli uomini che sotto colore della conservazione della libertà si cerchi di suscitare nuova tirannide, non sono per giovargli facilmente i consigli sani; cosí come in uno corpo infetto e abbondante di pravi umori non giovano le medicine come in uno corpo purificato. Per le quali cagioni, e per la natura delle cose umane, che comunemente declinano al peggio, è da temere che quello che sarà in questo principio ordinato imperfettamente, in progresso di tempo in tutto si disordini, piú che da sperare che o col tempo o con le occasioni si riduca alla perfezione. Ma non abbiamo noi gli esempli nostri senza cercare di quegli d'altri? ché mai il popolo ha assolutamente governata questa città che ella non si sia piena di discordie, che ella non si sia in tutto conquassata, e finalmente che lo stato non abbia presto avuto mutazione: e se pure vogliamo ricercare per gli esempli d'altri, perché non ci ricordiamo noi che il governo totalmente popolare fece in Roma tanti tumulti che se non fusse stata la scienza e la prontezza militare sarebbe stata breve la vita di quella republica? perché non ci ricordiamo noi che Atene, floridissima e potentissima città, non per altro perdé l'imperio suo, e poi cadde in servitú di suoi cittadini e di forestieri, che per disporsi le cose gravi con le deliberazioni della moltitudine? Ma io non veggo per quale cagione si possa dire che nel modo introdotto nel parlamento non si ritruovi interamente la libertà, perché ogni cosa è riferita alla disposizione de' magistrati, i quali non sono perpetui ma si scambiano, né sono eletti da pochi: anzi, approvati da molti, hanno, secondo l'antica consuetudine della città, a essere rimessi ad arbitrio della sorte: però, come possono essere distribuiti per sette o per volontà di cittadini particolari? Aremo bene maggiore certezza che le faccende piú importanti saranno esaminate e indiritte dagli uomini piú savi piú pratichi e piú gravi, i quali le governeranno con altro ordine con altro segreto con altra maturità che non farebbe il popolo, incapace delle cose, e talvolta, quando manco bisogna, profusissimo nello spendere, talvolta ne' maggiori bisogni tanto stretto che spesso, per piccolissimo risparmio, incorre in gravissime spese e pericoli. È importantissima, come ha detto Pagolantonio, la infermità d'Italia, e particolarmente quella della patria nostra: però che imprudenza sarebbe, quando bisognano i medici piú periti e piú esperti, rimettersi in quegli che hanno minore perizia ed esperienza. E da considerare in ultimo che in maggiore quiete manterrete il popolo vostro, piú facilmente lo condurrete alle deliberazioni salutifere a se stesso e al bene universale, dandogli moderata parte e autorità; perché rimettendo a suo arbitrio assolutamente ogni cosa, sarà pericolo non diventi insolente, e troppo difficile e ritroso a’ consigli de' vostri savi e affezionati cittadini. -

Arebbe ne' consigli, ne' quali non interveniva numero molto grande di cittadini, potuto piú quella sentenza che tendeva alla forma non tanto larga del governo se nella deliberazione degli uomini non fusse stata mescolata l'autorità divina, per la bocca di Ieronimo Savonarola da Ferrara, frate dell'ordine de' predicatori. Costui, avendo esposto publicamente il verbo di Dio piú anni continui in Firenze, e aggiunta a singolare dottrina grandissima fama di santità, aveva appresso alla maggiore parte del popolo vendicatosi nome e credito di profeta; perché, nel tempo che in Italia non appariva segno alcuno se non di grandissima tranquillità, avea nelle sue predicazioni predetto molte volte la venuta d'eserciti forestieri in Italia, con tanto spavento degli uomini che e' non resisterebbono loro né mura né eserciti: affermando non predire questo e molte altre cose, le quali continuamente prediceva, per discorso umano né per scienza di scritture ma semplicemente per divina revelazione. E aveva accennato ancora qualche cosa della mutazione dello stato di Firenze; e in questo tempo, detestando publicamente la forma deliberata nel parlamento, affermava la volontà di Dio essere che e' s'ordinasse uno governo assolutamente popolare, e in modo che non avesse a essere in potestà di pochi cittadini alterare né la sicurtà né la libertà degli altri: talmente che, congiunta la riverenza di tanto nome al desiderio di molti, non potettono quegli che sentivano altrimenti resistere a tanta inclinazione. E però, essendosi ventilata questa materia in molte consulte, fu finalmente determinato che e' si facesse uno consiglio di tutti i cittadini, non vi intervenendo, come in molte parti d'Italia si divulgò, la feccia della plebe ma solamente coloro che per le leggi antiche della città erano abili a partecipare del governo; nel qual consiglio non s'avesse a trattare o a disporre altro che eleggere tutti i magistrati per la città e per il dominio, e confermare i provedimenti de' danari, e tutte le leggi ordinate prima ne' magistrati e negli altri consigli piú stretti. E acciocché si levassino l'occasioni delle discordie civili, e si assicurassino piú gli animi di ciascuno, fu per publico decreto proibito, seguitando in questo l'esempio degli ateniesi, che de' delitti e delle trasgressioni commesse per il passato circa le cose dello stato non si potesse riconoscere. In su' quali fondamenti si sarebbe forse costituito un governo ben regolato e stabile se si fussino, nel tempo medesimo, introdotti tutti quegli ordini che caddono, insino allora, in considerazione degli uomini prudenti: ma non si potendo queste cose deliberare senza consenso di molti, i quali per la memoria delle cose passate erano pieni di sospetto, fu giudicato che per allora si costituisse il consiglio grande, come fondamento della nuova libertà; rimettendo, a fare quel che mancava, all'occasione de' tempi e quando l'utilità publica fusse, mediante la esperienza, conosciuta da quegli che non erano capaci di conoscerla mediante la ragione e il giudicio.

Cap. iii

Carlo VIII s'impadronisce di Castelnuovo di Castel dell'Uovo e della rocca di Gaeta. Prima della resa di Castel dell'Uovo chiama a sé don Federigo d'Aragona e fa proposte di stati nel regno di Francia a favore di Ferdinando. Risposta di Federigo. Ferdinando da Ischia dove s'era ritirato si reca in Sicilia. Morte di Gemin ottomanno, fratello del gran turco, consegnato a Carlo da Alessandro VI.

Travagliavano in maniera tale le cose di Toscana. Ma in questo mezzo il re di Francia, acquistato che ebbe Napoli, attendeva, per dare perfezione alla vittoria, a due cose principalmente: l'una, a espugnare Castelnuovo e Castel dell'Uovo, fortezze di Napoli le quali si tenevano ancora per Ferdinando, perché con piccola difficoltà aveva ottenuta la Torre di San Vincenzio, edificata per guardia del porto; l'altra, a ridurre a ubbidienza sua tutto il reame: nelle quali cose la fortuna la medesima benignità gli dimostrava. Perché Castelnuovo, abitazione de' re, posto in sul lito del mare, per la viltà e avarizia de' cinquecento tedeschi che v'erano a guardia, fatta leggiera difesa, s'arrendé, con condizione che n'uscissino salvi, con tutta la roba che essi medesimi potessino portarne; nel quale essendo copia grandissima di vettovaglie, Carlo, senza considerazione di quello che potesse succedere, le donò ad alcuni de' suoi; e Castel dell'Uovo, il quale, fondato dentro al mare in su un masso già contiguo alla terra, ma separatone anticamente per opera di Lucullo, si congiugne con uno stretto ponte al lito poco lontano da Napoli, battuto continuamente dall'artiglierie franzesi, benché potessino offendere la muraglia ma non il vivo del masso, si convenne dopo non molti dí d'arrendersi, in caso che fra otto dí non fusse soccorso. E a' capitani e alle genti d'arme, mandate in diverse parti del reame, andavano incontro, parecchie giornate, i baroni e i sindichi delle comunità, facendo a gara tra loro d'essere i primi a ricevergli, e con tanta o inclinazione o terrore di ciascuno che i castellani delle fortezze quasi tutti senza resistenza le dettono; e la rocca di Gaeta, che era bene proveduta, combattuta leggiermente, s'arrendé a discrezione. In modo che in pochissimi dí, con inestimabile facilità, tutto il regno si ridusse in potestà di Carlo: eccetto l'isola d'Ischia, e le fortezze di Brindisi e di Galipoli in Puglia, e in Calavria la fortezza di Reggio, città posta in sulla punta d'Italia all'incontro di Sicilia, tenendosi la città per Carlo; e la Turpia e la Mantia le quali da principio rizzorono le bandiere di Francia, ma recusando di stare in dominio d'altri che del re, il quale l'aveva donate ad alcuni de' suoi, mutato consiglio ritornorono al primo signore. E il medesimo fece poco dipoi la città di Brindisi, alla quale non avendo Carlo mandato gente, anzi per negligenza non solo non espediti ma appena uditi i sindici suoi mandati a Napoli per capitolare, ebbono quegli che erano per Ferdinando nelle fortezze facoltà di ritirare spontaneamente la città alla divozione aragonese: per il quale esempio la città di Otranto che aveva chiamato il nome di Francia, non v'andando alcuno a riceverla, non continuò nella medesima disposizione.

Andorono, da Alfonso Davalo marchese di Pescara in fuora, il quale, lasciato in Castelnuovo da Ferdinando, l'aveva, come si accorse della inclinazione de' tedeschi ad arrendersi, seguitato, e due o tre altri che per avere Carlo donati gli stati loro s'erano fuggiti in Sicilia, tutti i signori e baroni del reame a fare omaggio al nuovo re. Il quale, desideroso di stabilire totalmente per via di concordia sí grande acquisto, aveva, innanzi che ottenesse Castel dell'Uovo, chiamato a sé sotto salvocondotto don Federigo, il quale per essere dimorato piú anni nella corte del padre, e per la congiunzione del parentado avuta col re, era grato a tutti i signori franzesi; al quale offerse di dare a Ferdinando, in caso rilasciasse quello che gli restava nel reame, stati ed entrate grandi in Francia, e a lui dare ricompenso abbondante di tutto quello vi possedeva. Ma essendo nota a don Federigo la deliberazione del nipote, di non accettare partito alcuno se non restandogli la Calavria, rispose con gravi parole: che poi che Dio la fortuna e la volontà di tutti gli uomini erano concorse a dargli il reame di Napoli, che Ferdinando, non volendo fare resistenza a questa fatale disposizione, né riputandosi vergogna il cedere a un tanto re, voleva non manco che gli altri stare a sua ubbidienza e divozione, pure che da lui gli fusse conceduta qualche parte del reame, accennando della Calavria, nella quale stando, non come re ma come uno de' suoi baroni, potesse adorare la clemenza e la magnanimità del re di Francia; al cui servigio sperava d'avere qualche volta occasione di dimostrare quella virtú che la mala fortuna gli aveva vietato di potere per la salute di se medesimo esercitare. Questo consiglio non potere essere a Carlo di maggiore gloria, e simile a' consigli di quegli re memorabili appresso all'antichità, i quali con tali opere aveano fatto immortale il nome loro e conseguito appresso a' popoli gli onori divini; ma non essere consiglio manco sicuro che glorioso, perché, ridotto Ferdinando alla sua divozione, arebbe il regno stabilito, né arebbe a temere della mutazione della fortuna, della quale era proprio, ogni volta che le vittorie non s'assicuravano con moderazione e con prudenza, maculare con qualche caso inopinato la gloria guadagnata.

Ma parendo a Carlo che il concedere parte alcuna del reame al suo competitore mettesse tutto il resto in manifestissimo pericolo, don Federigo si partí discorde da lui; e Ferdinando, poiché furono arrendute le castella, se n'andò con quattordici galee sottili male armate, con le quali s'era partito da Napoli, in Sicilia, per essere parato a ogni occasione, lasciato a guardia della rocca d'Ischia Inico Davalo fratello d'Alfonso, uomini amendue di virtú e di fede egregia verso il suo signore. Ma Carlo, per privare gl'inimici di quello ricettacolo, molto opportuno a turbare il reame, vi mandò l'armata, che finalmente era arrivata nel porto di Napoli; la quale, trovata la terra abbandonata, non combatté la rocca, disperandosi per la fortezza sua di poterla ottenere: però deliberò il re far venire altri legni di Provenza e da Genova per pigliare Ischia, e assicurare il mare infestato qualche volta da Ferdinando. Ma non era pari alla fortuna la diligenza o il consiglio, governandosi tutte le cose freddamente e con grandissima negligenza e confusione: perché i franzesi, diventati per tanta prosperità piú insolenti che 'l solito, lasciando portare al caso le cose di momento, non attendevano ad altro che al festeggiare e a' piaceri; e quegli che erano grandi appresso al re, a cavare privatamente della vittoria piú frutto potevano, senza considerazione alcuna della degnità o dell'utilità del suo principe.

Nel qual tempo morí in Napoli Gemin ottomanno, con sommo dispiacere di Carlo, perché lo reputava grandissimo fondamento alla guerra la quale aveva in animo di fare contro allo imperio de' turchi; e si credette, molto costantemente, che la sua morte fusse proceduta da veleno, datogli a tempo terminato dal pontefice, o perché avendolo conceduto contro alla sua volontà, e per questo privatosi de' quarantamila ducati che ciascuno anno gli pagava Baiset suo fratello, pigliasse per consolazione dello sdegno che chi ne l'aveva privato non ricevesse di lui comodità, o per invidia che e' portasse alla gloria di Carlo; e forse temendo che avendo prosperi successi contro agl'infedeli volgesse poi i pensieri suoi, come, benché per interessi privati, era stimolato continuamente da molti, a riformare le cose della Chiesa: le quali, allontanatesi totalmente dagli antichi costumi, facevano ogni dí minore l'autorità della cristiana religione, tenendo per certo ciascuno che avesse a declinare molto piú nel suo pontificato; il quale, acquistato con pessime arti, non fu forse giammai, alla memoria degli uomini, amministrato con peggiori. Né mancò chi credesse, perché la natura facinorosa del pontefice faceva credibile in lui qualunque iniquità, che Baiset, come intese il re di Francia prepararsi a passare in Italia, l'avesse, per mezzo di Giorgio Bucciardo, corrotto con danari a privare Gemin della vita. Ma non cessando per la sua morte Carlo, il quale piú con prontezza d'animo che con prudenza e consiglio procedeva, di pensare alla guerra contro a' turchi, mandò in Grecia l'arcivescovo di Durazzo di nazione albanese, perché gli dava speranza di suscitare, per mezzo di certi fuorusciti, qualche movimento in quella provincia. Ma nuovi accidenti lo costrinsono a volgere l'animo a nuovi pensieri.

Cap. iv

Preoccupazioni e timori di Lodovico Sforza e di Venezia per la nuova condizione politica d'Italia. Preoccupazioni del pontefice e di Massimiliano. Confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i veneziani e il duca di Milano. Carlo VIII continua a non tener fede ai patti concordati co' fiorentini. Principia il malcontento nei sudditi del reame di Napoli contro i francesi.

E detto di sopra che la cupidità d'usurpare il ducato di Milano, e la paura che aveva degli Aragonesi e di Piero de' Medici, indussono Lodovico Sforza a procurare che 'l re di Francia passasse in Italia; per la venuta del quale, poiché ebbe ottenuto il suo ambizioso desiderio, e che gli Aragonesi furono ridotti in tante angustie che con difficoltà poteano la propria salute sostentare, cominciò a presentarsigli innanzi agli occhi il secondo timore molto piú potente e molto piú giusto che 'l primo, cioè la servitú imminente a sé e a tutti gli italiani se alla potenza del re di Francia il reame di Napoli s'aggiugnesse. Però aveva desiderato che Carlo trovasse nel dominio de' fiorentini maggiore difficoltà; e veduto essergli stato facilissimo il congiugnersi quella republica, e che con la medesima facilità aveva superato l'opposizione del pontefice, e che senza intoppo alcuno entrava nel regno di Napoli, gli pareva ogni dí tanto maggiore il suo pericolo quanto riusciva maggiore e piú facile il corso della vittoria de' franzesi. Il medesimo timore cominciava a occupare l'animo del senato viniziano; il quale, essendo perseverato nella prima deliberazione di conservarsi neutrale, si era con tanta circospezione astenuto non solo da i fatti ma da tutte le dimostrazioni che lo potessino fare sospetto di maggiore inclinazione all'una parte che all'altra che, avendo eletti imbasciadori al re di Francia Antonio Loredano e Domenico Trivisano, non però prima che quando intese che aveva passato i monti, aveva tardato tanto a mandargli che 'l re prima di loro era arrivato in Firenze. Ma vedendo poi l'impeto di tanta prosperità, e che il re come un folgore, senza resistenza alcuna, per tutta Italia discorreva, cominciò a riputare pericolo proprio il danno alieno e a temere che alla ruina degli altri avesse a essere congiunta la sua; e massime che l'avere Carlo occupata Pisa e l'altre fortezze de' fiorentini, lasciata guardia in Siena e fatto poi il medesimo nello stato della Chiesa, pareva segno pensasse piú oltre che solamente al regno napoletano. Però prontamente prestò gli orecchi alle persuasioni di Lodovico Sforza; il quale, subito che a Carlo cederono i fiorentini, aveva cominciato a confortare che insieme con lui rimediassino a' pericoli comuni. E si crede che se Carlo, o in terra di Roma o nell'entrata del regno di Napoli, avesse riscontrato in qualche difficoltà, arebbono prese l'armi congiuntamente contro a lui. Ma la vittoria succeduta con tanta celerità prevenne tutte le cose che si trattavano per impedirla. E già Carlo, insospettito degli andamenti di Lodovico, avea, dopo l'acquisto di Napoli, condotto Gian Iacopo da Triulzio con cento lancie e con onorata provisione, e congiuntisi con molte promesse il cardinale Fregoso e Obietto dal Fiesco; questi per instrumenti potenti a travagliare le cose di Genova, quello per essere capo della parte guelfa in Milano e avere l'animo alienissimo da Lodovico: al quale similmente recusava di dare il principato di Taranto, allegando non essere obligato se non quando avesse conquistato tutto il reame. Le quali cose essendo molestissime a Lodovico, fece ritenere dodici galee che per il re si armavano a Genova, e proibí che alcuni legni per lui non vi si armassino; da che il re si lamentò essere proceduto che e' non avesse tentato di nuovo con maggiore apparato di espugnare Ischia.

Crescendo adunque da ogni parte continuamente i sospetti e gli sdegni, e avendo l'acquisto tanto súbito di Napoli rappresentato al senato viniziano e al duca di Milano il pericolo maggiore e piú propinquo, furono necessitati a non differire di mettere in esecuzione i loro pensieri: alla quale deliberazione gli faceva procedere con maggiore animo la compagnia potente che avevano; perché al medesimo non era manco pronto il pontefice, impaurito sopramodo de' franzesi; né manco pronto Massimiliano Cesare, al quale, per molte cagioni che aveva di inimicizia con la corona di Francia e per le ingiurie gravissime ricevute da Carlo, furono in ogni tempo piú che a tutti gli altri molestissime le prosperità franzesi. Ma quegli ne' quali i viniziani e Lodovico maggiore e piú fermo fondamento facevano erano Ferdinando e Isabella re e reina di Spagna; i quali essendosi poco innanzi, non per altro effetto che per riavere da lui la contea di Rossiglione, obligati a Carlo a non gli impedire l'acquisto di Napoli, s'avevano astutamente insino ad allora lasciata libera la facoltà di fare il contrario: perché (se è vero quel che essi publicorono) fu apposta ne' capitoli fatti per quella restituzione una clausula di non essere tenuti a cosa alcuna che il pregiudicio della Chiesa concernesse; con la quale eccezione inferivano che se 'l pontefice, per l'interesse del suo feudo, gli ricercasse ad aiutare il regno di Napoli, era in potestà loro il farlo senza contravenire alla fede data e alle promesse. Aggiunsono poi che, per i medesimi capitoli, era proibito loro l'opporsi a Carlo in caso constasse quel reame appartenersi a lui giuridicamente. Ma quale sia di queste cose la verità, certo è che subito che ebbono recuperate quelle terre non solo cominciorno a dare speranza agli Aragonesi di aiutargli, e a fare occultamente instanza col pontefice che non abbandonasse la causa loro, ma avendo nel principio confortato il re di Francia, con moderate parole e come amatori della gloria sua e mossi dal zelo della religione, a voltare piú tosto l'armi contro agl'infedeli che contro a' cristiani, continuavano nel confortarlo al medesimo, ma con maggiore efficacia e con parole piú sospette quanto piú procedeva innanzi quella espedizione: le quali perché avessino piú autorità, e per nutrire con maggiore speranza il pontefice e gli Aragonesi, e nondimeno da altra parte spargendo fama di pensare solamente alla custodia della Sicilia, preparavano di mandarvi per mare una armata, che vi arrivò dopo la perdita di Napoli; benché con apparato, secondo il costume loro, maggiore nelle dimostrazioni che negli effetti, perché non condusse piú che ottocento giannettari e mille fanti spagnuoli. Con queste simulazioni erano proceduti insino a tanto che l'avere i Colonnesi occupata Ostia, e le minaccie che dal re di Francia si facevano contro al pontefice, dettono loro piú onesta occasione di mandare fuora quel che aveano conceputo nell'animo: la quale abbracciando prontamente, feciono da Antonio Fonsecca loro imbasciadore protestare apertamente al re, quando era in Firenze, che secondo l'ufficio di príncipi cristiani piglierebbono la difensione del pontefice e del regno napoletano, feudo della Chiesa romana; e già avendo cominciato a trattare co' viniziani e col duca di Milano di collegarsi, intesa che ebbono la fuga degli Aragonesi, gli sollecitavano con grandissima instanza a intendersi con loro, per la sicurtà comune, contro a' franzesi. Però finalmente, del mese di aprile, nella città di Vinegia, dove erano gli imbasciadori di tutti questi príncipi, fu contratta confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i viniziani e il duca di Milano; il titolo e la publicazione della quale fu solamente a difesa degli stati uno dell'altro, riserbando luogo a chiunque volesse entrarvi con le condizioni convenienti. Ma giudicando tutti necessario di operare che 'l re di Francia non tenesse il reame di Napoli, fu ne' capitoli piú secreti convenuto: che le genti spagnuole venute in Sicilia aiutassino Ferdinando di Aragona alla recuperazione di quel reame, il quale con speranza grande della volontà de' popoli trattava di entrare nella Calavria, e che i viniziani nel tempo medesimo assaltassino con l'armata loro i luoghi marittimi; sforzassesi il duca di Milano, per impedire se di Francia venisse nuovo soccorso, di occupare la città di Asti, nella quale con piccole forze era rimasto il duca di Orliens; e che a' re de' romani e di Spagna fusse data dagli altri confederati certa quantità di danari, acciocché ciascuno di loro rompesse con potente esercito la guerra nel regno di Francia.

Desiderorno oltre a queste cose i confederati che tutta Italia fusse unita in una medesima volontà, e perciò feceno instanza che i fiorentini e il duca di Ferrara entrassino nella medesima confederazione. Ricusò il duca, richiestone innanzi che la lega si publicasse, di pigliare l'armi contro al re; e da altra parte, con cautela italiana, consentí che don Alfonso suo primogenito si conducesse col duca di Milano con cento cinquanta uomini d'arme, con titolo di luogotenente delle sue genti. Diversa era la causa de' fiorentini, invitati alla confederazione con offerte grandi, e che aveano giustissime cagioni di alienarsi dal re: perché, publicata che fu la lega, Lodovico Sforza offerse loro in nome di tutti i confederati, in caso vi entrassino, tutte le forze loro per resistere al re, se ritornando da Napoli tentasse di offendergli, e di aiutargli come prima si potesse alla recuperazione di Pisa e di Livorno; e da altra parte il re, disprezzate le promesse fatte in Firenze, né da principio gli aveva reintegrati nella possessione delle terre né dopo l'acquisto di Napoli restituite le fortezze, posponendo la fede propria e il giuramento al consiglio di coloro che, favorendo la causa de' pisani, persuadevano che i fiorentini, subito che ne fussino reintegrati, si unirebbono con gli altri italiani; a' quali si opponeva freddamente il cardinale di San Malò, benché avesse ricevuti molti danari, per non venire per causa loro in controversia con gli altri grandi. Né solo in questa ma in molte altre cose aveva dimostrato il re non tenere conto né della fede né di quello che gli potesse, in tempo tale, importare l'aderenza de' fiorentini; in modo che, querelandosi gli oratori loro della ribellione di Montepulciano, e facendo instanza che, come era tenuto, costrignesse i sanesi a restituirlo, rispose, quasi deridendo: - Che poss'io fare se i sudditi vostri per essere male trattati si ribellano? E nondimeno i fiorentini, non si lasciando traportare dallo sdegno contro alla propria utilità, deliberorno di non udire le richieste de' collegati; sí per non provocare di nuovo contro a sé, nel ritorno del re, l'armi franzesi, come perché potevano sperare piú la restituzione di quelle terre da chi l'aveva in mano; e perché confidavano poco in queste promesse, sapendo di essere esosi a' viniziani per l'opposizioni fatte in diversi tempi alle imprese loro, e conoscendosi manifestamente che Lodovico Sforza v'aspirava per sé.

Nel quale tempo era già la riputazione de' franzesi cominciata a diminuire molto nel regno di Napoli, perché occupati da' piaceri, e governandosi a caso, non avevano atteso a cacciare gli aragonesi di quegli pochi luoghi che si tenevano per loro, come, se avessino seguitato il favore della fortuna, sarebbe succeduto facilmente. Ma molto piú era diminuita la grazia: perché se bene a' popoli il re molto liberale e benigno dimostrato si fusse, concedendo per tutto il reame tanti privilegi ed esenzioni che ascendevano ciascuno anno a piú di dugentomila ducati, nondimeno non erano state l'altre cose indirizzate con quell'ordine e prudenza che si doveva; perché egli, alieno dalle fatiche e dall'udire le querele e i desideri degli uomini, lasciava totalmente il peso delle faccende a' suoi, i quali, parte per incapacità parte per avarizia, confusono tutte le cose: perché la nobiltà non fu raccolta né con umanità né con premi, difficoltà grandissima a entrare nelle camere e udienze del re, non fatta distinzione da uomo a uomo, non riconosciuti se non a caso i meriti delle persone, non confermati gli animi di coloro che naturalmente erano alieni dalla casa d'Aragona, interposte molte difficoltà e lunghezze alla restituzione degli stati e de' beni della fazione angioina e degli altri baroni che erano stati scacciati da Ferdinando vecchio, fatte le grazie e i favori a chi gli procurava con doni e con mezzi straordinari, a molti tolto senza ragione a molti dato senza cagione, distribuiti quasi tutti gli uffici e i beni di molti ne' franzesi, donate con grandissimo dispiacere loro quasi tutte le terre di dominio (cosí chiamano quelle che sono solite a ubbidire immediatamente a' re), e la maggiore parte a' franzesi; cose tanto piú moleste a' sudditi quanto piú erano assuefatti a' governi prudenti e ordinati de' re aragonesi, e quanto piú del nuovo re promesso s'aveano. Aggiugnevasi il fasto naturale de' franzesi, accresciuto per la facilità della vittoria, per la quale tanto di se stessi conceputo aveano che teneano tutti gl'italiani in niuna estimazione; la insolenza e impeto loro nell'alloggiare, non manco in Napoli che nell'altre parti del regno dove erano distribuite le genti d'arme, le quali per tutto facevano pessimi trattamenti: in modo che l'ardente desiderio che avevano avuto gli uomini di loro era già convertito in ardente odio; e per contrario, in luogo dell'odio contro agli Aragonesi era sottentrata la compassione di Ferdinando, l'espettazione avutasi sempre generalmente della sua virtú, la memoria di quel dí che con tanta mansuetudine e costanza avea, innanzi si partisse, parlato a' napoletani. Donde e quella città e quasi tutto il reame non con minore desiderio aspettavano occasione di potere richiamare gli Aragonesi che pochissimi mesi innanzi avessino desiderato la loro distruzione. Anzi già cominciava a essere grato il nome tanto odioso d'Alfonso, chiamando giusta severità quella che, insino quando vivente il padre attendeva alle cose domestiche del regno, solevano chiamare crudeltà, e sincerità d'animo veridico quella che molt'anni avevano chiamata superbia e alterezza. Tale è la natura de' popoli, inclinata a sperare piú di quel che si debbe e a tollerare manco di quel ch'è necessario, e ad avere sempre in fastidio le cose presenti; e specialmente degli abitatori del regno di Napoli, i quali tra tutti i popoli d'Italia sono notati di instabilità e di cupidità di cose nuove.

Cap. v

Deliberazioni di Carlo VIII per la confederazione degli stati italiani. Carlo prima della partenza da Napoli distribuisce le cariche e gli uffici. Ardore del re e della corte di ritornare in Francia. Trattative fra Carlo e il pontefice per l'investitura del regno di Napoli. Carlo dopo aver assunto il titolo e le insegne reali parte da Napoli. Gli Orsini chiedono invano d'esser lasciati in libertà. Il pontefice per evitare d'incontrarsi con Carlo si reca a Orvieto e, quindi, a Perugia. Nuovi tentativi de' fiorentini di riavere le fortezze. Carlo prende, ma per breve tempo, in protezione Siena.

Aveva il re, insino innanzi si facesse la nuova lega, quasi stabilito di ritornarsene presto in Francia; mosso piú da leggiera cupidità e dal desiderio ardente di tutta la corte che da prudente considerazione, perché nel reame restavano indecise innumerabili e importanti faccende di príncipi e di stati, né avea la vittoria avuta perfezione, non essendo conquistato tutto il regno. Ma inteso che ebbe essere fatta contro a sé confederazione di tanti príncipi, commosso molto di animo, consultava co' suoi quel che in tanto accidente fusse da fare; affermandosi verissimamente per ciascuno essere già molte età che tra i cristiani non si era fatta unione tanto potente. Per consiglio de' quali fu principalmente deliberato che si accelerasse la partita, dubitando che quanto piú si soprastava tanto piú si accrescessino le difficoltà, perché si darebbe tempo a' collegati di fare preparazioni maggiori (e già era fama che per ordine loro passerebbe in Italia numero grande di tedeschi, e si cominciava a vociferare della persona di Cesare); che 'l re provedesse che di Francia passassino con prestezza in Asti nuove genti, per conservare quella città e per necessitare il duca di Milano ad attendere a difendere le cose proprie, e perché fussino pronte a passare piú innanzi quando il re giudicasse che cosí fusse necessario. E fu nel medesimo consiglio deliberato di affaticarsi con ogni diligenza e con offerte grandissime per separare il pontefice dagli altri collegati, e per disporlo a concedere [a Carlo] la investitura del regno di Napoli; la quale benché a Roma avesse convenuto di concedere assolutamente, avea insino a quel dí ricusato di concedere, eziandio con dichiarazione che per questa concessione non si facesse pregiudicio alle ragioni degli altri. Né in tanto grave deliberazione, e tra sí importanti pensieri, cadde la memoria delle cose di Pisa; perché desiderando, per molti rispetti, che in potestà sua fusse il disporne, e dubitando che dal popolo pisano non gli fusse con l'aiuto de' collegati tolta la cittadella, vi mandò per mare, insieme con gli imbasciadori pisani che erano appresso a lui, seicento fanti di quegli del regno suo. I quali, come arrivorono in Pisa, presa la medesima affezione che avevano presa gli altri lasciati in quella città, e mossi da cupidità di rubare, andorono con le genti de' pisani, da' quali ebbono danari, a campo al castello di Librafatta; dove i pisani, de' quali era capitano Lucio Malvezzo, essendosi accampati non molti dí prima, preso animo per avere i fiorentini mandata una parte delle genti verso Montepulciano, inteso dipoi approssimarsi gl'inimici si erano levati innanzi dí: ma ritornativi di nuovo con questo presidio franzese l'espugnorono in pochi dí; essendo stato l'esercito fiorentino, il quale ritornava per soccorrerla, impedito dalla grossezza dell'acque a passare il fiume del Serchio, né avendo avuto ardire di pigliare il cammino allato alle mura di Lucca, per la disposizione del popolo lucchese, concitato molto in favore della libertà de' pisani. Con le genti de' quali, dopo l'acquisto di Librafatta, scorsono i franzesi, che si riserborono Librafatta, per tutto il contado di Pisa, come inimici manifesti de' fiorentini; a' quali, quando si querelavano, non rispondeva altro Carlo se non che, come fusse arrivato in Toscana, osserverebbe loro le cose promesse, confortandogli che questa breve dilazione senza molestia tollerassino.

Ma non era a Carlo sí facile la deliberazione del partirsi com'era pronto il desiderio, perché non aveva tanto esercito che, diviso in due parti, potesse senza pericolo contro alla opposizione de' confederati condurlo in Asti, e che fusse bastante a difendere, in tanti movimenti che si preparavano, facilmente il regno di Napoli. Nelle quali difficoltà fu costretto, e perché il regno non rimanesse spogliato di difensori diminuire delle provisioni opportune alla sua salute, e per non mettere se in pericolo sí manifesto non vi lasciare quel potente presidio che sarebbe stato di bisogno. Però deliberò lasciarvi la metà de' svizzeri e una parte de' fanti franzesi, ottocento lancie franzesi, e circa a cinquecento uomini d'arme italiani, condotti a' soldi suoi parte sotto il preletto di Roma parte sotto Prospero e Fabrizio Colonna e Antonello Savello, tutti capitani beneficati da lui nella distribuzione che fece di quasi tutte le terre e stati del regno; e massimamente i Colonnesi, perché a Fabrizio aveva conceduto i contadi d'Albi e di Tagliacozzo, posseduti prima da Verginio Orsino, e a Prospero il ducato di Traietto e la città di Fondi con molte castella, che erano della famiglia Gaetana, e Montefortino con altre terre circostanti, tolte alla famiglia de' Conti: con le quali genti pensava che in ogni bisogno si unissino le forze di quegli baroni i quali, per la sicurtà propria, erano necessitati di desiderare la sua grandezza, e sopra tutti del principe di Salerno, restituito da lui all'ufficio dell'ammiraglio, e del principe di Bisignano. Luogotenente generale di tutto il regno diputò Giliberto di Mompensieri, capitano piú stimato per la grandezza sua e per essere del sangue reale che per proprio valore; e diputò oltre a lui vari capitani in molte parti del regno, a' quali tutti aveva donato stati ed entrate: e di questi furono i principali Obigní al governo della Calavria, fatto da lui gran conestabile; a Gaeta il siniscalco di Belcari, al quale aveva dato l'ufficio del gran camarlingo; nell'Abruzzi Graziano di Guerra, valoroso e riputato capitano. A queste genti promesse di mandare danari e presto soccorso, ma non lasciò altra provisione che l'assegnamento di quegli che giornalmente si riscotessino dell'entrate del regno. Il quale già vacillava, cominciando a risorgere in molti luoghi il nome aragonese: perché Ferdinando era, ne' dí medesimi che 'l re voleva partire da Napoli, smontato in Calavria, accompagnato dagli spagnuoli venuti in sull'armata nell'isola di Sicilia; a cui concorseno subito molti degli uomini del paese, e se gli arrendé incontinente la città di Reggio, la fortezza della quale si era sempre tenuta in nome suo; e nel tempo medesimo si scoperse ne' liti di Puglia l'armata viniziana, della quale era capitano Antonio Grimanno, uomo in quella republica di grande autorità. Ma non per questo, né per molti altri segni dell'alterazione futura, si rimosse o pure si ritardò in parte alcuna la deliberazione del partirsi; perché, oltre a quello a che gli persuadeva forse la necessità, era incredibile l'ardore che il re e tutta la corte avevano di ritornarsene in Francia: come se il caso che era stato bastante a fare acquistare tanta vittoria fusse bastante a farla conservare. Nel quale tempo si tenevano per Ferdinando l'isola d'Ischia e l'isole di Lipari, membro, benché propinque alla Sicilia, del regno di Napoli, Reggio recuperato nuovamente; e nella medesima Calavria, Terranuova e la fortezza, con alcun'altre fortezze e luoghi circostanti; Brindisi, dove si era fermato don Federigo, Galipoli, la Mantia e la Turpia.

Ma innanzi che 'l re partisse si trattorono tra il pontefice e lui varie cose, non senza speranza di concordia; per le quali andò dal pontefice al re, e dipoi ritornò a Roma, il cardinale di San Dionigi, e dal re a lui Franzi monsignore: perché il re desiderava sommamente la investitura del regno di Napoli; desiderava che il pontefice, se non voleva essere congiunto seco, almeno non aderisse cogli inimici suoi, e che si contentasse di riceverlo in Roma come amico. Alle quali cose benché il pontefice da principio prestasse orecchi, nondimeno, avendo l'animo alieno da confidarsi di lui, e perciò non volendo separarsi da' collegati, né concedergli la investitura, non la reputando mezzo sufficiente a fare fedele reconciliazione, interponeva all'altre dimande varie difficoltà; e a quella della investitura, benché il re si riducesse ad accettarla senza pregiudicio delle ragioni d'altri, rispondeva volere che prima si vedesse giuridicamente a chi di ragione apparteneva: e da altra parte, desiderando di proibire con l'armi che 'l re non entrasse in Roma, ricercò il senato viniziano e il duca di Milano che gli mandassino aiuto; i quali gli mandorono mille cavalli leggieri e dumila fanti, e promessono mandargli mille uomini d'arme; con le quali genti aggiunte alle forze sue sperava potere resistere. Ma, parendo poi loro troppo pericoloso il discostare tanto le genti dagli stati propri, né avendo ancora in ordine tutto l'esercito disegnato, ed essendo parte delle genti occupate alla impresa di Asti, e riducendosi oltre a ciò in memoria la infedeltà del pontefice, e l'avere, quando passò Carlo, chiamato in Roma con l'esercito Ferdinando e poi fattolo partire, mutato consiglio, cominciorono a persuadergli che piú tosto si riducesse in luogo sicuro che, per sforzarsi di difendere Roma, esporre la sua persona a sí grave pericolo; atteso che quando bene il re entrasse in Roma se ne partirebbe subito, senza lasciarvi gente alcuna. Le quali cose accrebbono la speranza del re di potere venire seco a qualche composizione.

Partí adunque il re da Napoli il vigesimo dí di maggio; ma perché prima non aveva assunto con le cerimonie consuete il titolo e le insegne reali, pochi dí innanzi si partisse ricevé solennemente nella chiesa catedrale, con grandissima pompa e celebrità secondo il costume de' re napoletani, le insegne reali, e gli onori e i giuramenti consueti prestarsi a' nuovi re; orando in nome del popolo di Napoli Giovanni Ioviano Pontano. Alle laudi del quale, molto chiarissime per eccellenza di dottrina e di azioni civili e di costumi, détte quest'atto non piccola nota; perché essendo stato lungamente segretario de' re aragonesi e appresso a loro in grandissima autorità, precettore ancora nelle lettere e maestro d'Alfonso, parve che, o per servare le parti proprie degli oratori o per farsi piú grato a' franzesi, si distendesse troppo nella vituperazione di quegli re, da' quali era sí grandemente stato esaltato: tanto è qualche volta difficile osservare in se stesso quella moderazione e quegli precetti co' quali egli, ripieno di tanta erudizione, scrivendo delle virtú morali, e facendosi, per l'universalità dello ingegno suo in ogni specie di dottrina, maraviglioso a ciascuno, aveva ammaestrato tutti gli uomini. Andorono con Carlo ottocento lancie franzesi e dugento gentil'uomini della sua guardia, il Triulzio con cento lancie tremila fanti svizzeri mille franzesi e mille guasconi; e con ordine che in Toscana seco si unissino Cammillo Vitelli e i fratelli con dugento cinquanta uomini d'arme, e che l'armata di mare se ne ritornasse verso Livorno.

Seguitorono il re, non con altra guardia che data la fede di non partirsi senza licenza, Verginio Orsino e il conte di Pitigliano. La causa de' quali, perché si querelavano non essere stati fatti giustamente prigioni, era stata prima commessa al consiglio reale; innanzi al quale avevano allegato che al tempo che s'arrenderono era già stato agli uomini mandati da loro non solo conceduto per la bocca propria del re il salvocondotto, ma eziandio ridotto in scrittura e sottoscritto dalla sua mano; e che avendone ricevuto avviso da' suoi che aspettavano l'espedizione de' secretari, avevano, sotto questa fidanza, al primo araldo che andò a Nola, alzato le bandiere del re, e al primo capitano, il quale aveva seco pochissimi cavalli, consegnato le chiavi: non ostante che, avendo con loro piú di quattrocento uomini d'arme, avessino facilmente potuto resistere. Raccontavano l'antica divozione della famiglia degli Orsini, la quale avendo sempre tenuta la parte guelfa, aveano, e loro e chiunque era mai nato o nascerebbe di quella casa, scolpito nel cuore il nome e il segno della corona di Francia. Da questo essere proceduto l'avere con tanta prontezza ricevuto il re negli stati loro di terra di Roma. E perciò non convenire né essere giusto, né attesa la fede data dal re né attese l'opere loro, che e' fussino ritenuti prigioni. Ma non meno prontamente si rispondeva per la parte di Ligní, dalle cui genti erano stati presi a Nola: il salvocondotto, benché deliberato e sottoscritto dal re, non intendersi perfettamente conceduto insino a tanto non fusse corroborato col sigillo regio e con le soscrizioni de' secretari, e dipoi consegnato alla parte. Questo essere in tutte le concessioni e patenti il costume antichissimo di tutte le corti, acciocché si potesse moderare quel che dalla bocca del principe, o per la moltiplicità de' pensieri e delle faccende o per non essere stato informato pienamente delle cose, inconsideratamente fusse caduto. Né avere questa fidanza mosso gli Orsini ad arrendersi a sí piccolo numero di gente ma la necessità e il timore, perché non rimaneva loro facoltà né di difendersi né di fuggirsi, essendo già tutto 'l paese circostante occupato dall'armi de' vincitori; ed essere falso quel che aveano allegato de' meriti loro, i quali quando fussino affermati da altri doverebbono essi medesimi per l'onore proprio negare, perché era manifestissimo a tutto il mondo che, non per volontà ma per fuggire il pericolo, partendosi nell'avversità dagli Aragonesi da' quali nelle prosperità aveano ricevuti grandissimi benefici, apersono al re le terre loro. Dunque, essendo agli stipendi degli inimici e di animo alienissimo dal nome franzese, né avendo ricevuta perfettamente sicurtà alcuna, essere stati per giusta ragione di guerra fatti prigioni. Queste cose si dicevano contro agli Orsini, le quali essendo sostentate dalla potenza di Ligní e dall'autorità de' Colonnesi, i quali per l'antiche emulazioni e diversità delle fazioni apertamente gli impugnavano, non era stata mai data sentenza ma deliberato che seguitassino il re: benché data speranza di liberargli, come fusse arrivato in Asti.

Ma il pontefice, benché per l'averlo i collegati confortato a partirsi, non fusse stato senza inclinazione di riconciliarsi con Carlo, col quale continuamente trattava, nondimeno, prevalendo finalmente il sospetto conceputo di lui, con tutto che al re avesse dato qualche speranza di aspettarvelo, due dí innanzi che egli entrasse in Roma, accompagnato dal collegio de' cardinali e da dugento uomini d'arme mille cavalli leggieri e tremila fanti, e messo sufficiente presidio in Castel Santo Angelo se ne andò a Orvieto; lasciato legato in Roma il cardinale di Santa Anastasia a ricevere e onorare il re; il quale, entrato per Trastevere per sfuggire Castel Santo Angelo, andò ad alloggiare nel borgo, rifiutato l'alloggiamento offertogli per commissione del pontefice nel palagio di Vaticano. Da Orvieto il pontefice, come intese il re approssimarsi a Viterbo, benché gli avesse di nuovo data speranza di convenire seco in qualche luogo comodo tra Viterbo e Orvieto, se ne andò a Perugia, con intenzione, se Carlo si dirizzava a quel cammino, di andare ad Ancona, per potere con la comodità del mare ridursi in luogo totalmente sicuro. E nondimeno il re, benché sdegnato molto con lui, rilasciò le fortezze di Civitavecchia e di Terracina, riserbandosi Ostia, la quale, alla partita sua d'Italia, lasciò in potestà del cardinale di San Piero a Vincola vescovo ostiense: passò medesimamente per il paese della Chiesa come per paese amico; eccetto che l'antiguardia, ricusando gli uomini di Toscanella di alloggiarla nella terra, entratavi dentro per forza, la messe a sacco con uccisione di molti.

Dimorò poi il re, senza alcuna cagione, sei giorni in Siena, non considerando, né per se stesso né per essergli instantemente ricordato dal cardinale di San Piero in Vincola e dal Triulzio, quanto fusse pernicioso il dare tanto tempo agli inimici di provedersi, e di unire le forze loro. Né ricompensò perciò la perdita del tempo con l'utilità delle deliberazioni. Perché in Siena si trattò la restituzione delle fortezze de' fiorentini, dal re alla partita sua di Napoli efficacemente promessa, e poi nel cammino piú volte confermata; per la quale i fiorentini, oltre a essere parati a pagargli trentamila ducati che restavano della somma convenuta in Firenze, offerivano di prestargliene settantamila, e mandare seco insino in Asti Francesco Secco loro condottiere con trecento uomini d'arme e dumila fanti: in modo che la necessità che aveva il re di danari, l'essergli molto utile l'augumentare l'esercito suo, il rispetto della fede e del giuramento reale, indusse quasi tutti quegli del consiglio a confortare efficacemente la restituzione, riservandosi Pietrasanta e Serezana, quasi come instrumento a volgere alla divozione sua piú agevolmente l'animo de’ genovesi. Ma era destinato che in Italia rimanesse accesa la materia di nuove calamità. Ligní, giovane e inesperto, ma che era nato d'una sorella della madre del re e molto favorito da lui, mosso o da leggierezza o da sdegno che i fiorentini si fussino accostati al cardinale di San Malò, impedí questa deliberazione, non allegando altra ragione che la compassione de' pisani, e disprezzando gli aiuti de' fiorentini, per essere (come diceva) l'esercito franzese potente a battere tutte le genti di guerra italiane unite insieme; e a Ligní acconsentiva monsignore di Pienes, perché sperava ch'il re gli concedesse il dominio di Pisa e di Livorno.

Trattossi ancora in Siena del governo di quella città; perché molti degli ordini del popolo e de' riformatori, per deprimere la potenza dell'ordine del Monte de' nove, instavano che, introdotta una forma nuova di governo, e levata la guardia tenuta dal Monte de' nove al palagio publico, vi restasse una guardia di franzesi sotto la cura di Ligní: la quale offerta benché nel consiglio regio, come cosa poco durabile e impertinente al tempo presente, rifiutata fusse, nondimeno Ligní, il quale vanamente disegnava di farsene signore, ottenne che Carlo pigliasse in protezione con certi capitoli quella città, obligandosi alla difesa di tutto lo stato possedevano; eccetto che di Montepulciano, del quale disse non volere né per i fiorentini né per i sanesi intromettersi; e la comunità di Siena, con tutto che di questo non si facesse menzione nella capitolazione, elesse, con consentimento di Carlo, Ligní per suo capitano, promettendogli ventimila ducati per ciascun anno, con obligazione di tenervi un luogotenente con trecento fanti per guardia della piazza: che vi lasciò di quegli che erano con l'esercito franzese. La vanità delle quali deliberazioni presto apparí, perché non molto dipoi l'ordine de' nove, vendicatasi con l'armi la solita autorità, cacciò di Siena la guardia, e licenziò monsignore di Lilla che Carlo v'aveva lasciato per suo imbasciadore.

Cap. vi

I preparativi de' collegati contro i francesi. Intimazioni e minacce di Lodovico Sforza al duca d'Orliens che si fortifica in Asti. Il duca d'Orliens occupa Novara. Fazione di Vigevano.

Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano; perché da' viniziani e da Lodovico Sforza, il quale aveva ne' medesimi dí ricevuto da Cesare con grandissima solennità i privilegi della investitura del ducato di Milano, e prestato, agli imbasciadori che gli aveano portati, publicamente l'omaggio e il giuramento della fedeltà, si facevano grandissime provisioni per impedire a Carlo la facoltà di ritornarsene in Francia, o almeno per assicurare il ducato di Milano, per il quale egli aveva ad attraversare per tanto spazio di paese: e a questo effetto, avendo ciascun di loro riordinato le sue genti, avevano, parte a comune parte in proprio, condotto di nuovo molti uomini d'arme, e dopo varie difficoltà ottenuto che Giovanni Bentivogli, preso lo stipendio comune da loro, aderisse alla lega, con la città di Bologna. Armava ancora a Genova Lodovico, per sicurtà di quella città, dieci galee a spese sue proprie, e quattro navi grosse a spese comuni del papa de' viniziani e sue; e intanto, per eseguire quello che era obligato per i capitoli della confederazione, alla espugnazione di Asti, aveva mandato a soldare in Germania dumila fanti, e voltato a quella espedizione Galeazzo da San Severino con settecento uomini d'arme e tremila fanti: promettendosene con tanta speranza la vittoria che, come era per natura molto insolente nelle prosperità, per schernire il duca d'Orliens, mandò a ricercarlo che in futuro non usurpasse piú il titolo di duca di Milano, il quale titolo avea dopo la morte di Filippo Maria Visconte assunto Carlo suo padre; non permettesse che nuove genti franzesi passassino in Italia; facesse ritornare quelle che erano in Asti di là da' monti; e che per sicurtà dell'osservanza di queste cose depositasse Asti in mano di Galeazzo da San Severino, del quale il suo re poteva confidare non meno di lui, avendo l'anno dinanzi in Francia ammessolo nella confraternita e ordine suo di San Michele: magnificando, oltre a questo, con la medesima iattanza le forze sue, le provisioni de' collegati per opporsi al re in Italia, e gli apparati che faceano il re de' romani e i re di Spagna per muovere la guerra di là da' monti. Ma poco moveva Orliens la vanità di queste minaccie. Il quale, subito che aveva avuto notizia trattarsi di fare la nuova confederazione, aveva atteso a fortificare Asti, e con grande instanza sollecitato che di Francia venissino nuove genti; le quali, essendo state dimandate dal re che venissino in soccorso proprio, cominciavano con prestezza a passare i monti: e perciò Orliens, non temendo degli inimici, uscito alla campagna, prese nel marchesato di Saluzzo la terra e la rocca di Gualfinara, posseduta da Antonio Maria da San Severino; donde Galeazzo, che prima aveva prese alcune piccole castella, si ritirò con l'esercito ad Anon, terra del ducato di Milano vicina ad Asti, non avendo né speranza di potere offendere né timore di essere offeso. Ma la natura di Lodovico, inclinatissima a implicarsi prontamente in imprese che ricercavano grandissime spese, e per contrario alienissima, benché nelle maggiori necessità, dallo spendere, fu cagione di mettere lo stato suo in gravissimi pericoli; perché per la scarsità de' pagamenti erano venuti pochissimi de' fanti alamanni, e per la medesima strettezza le genti che erano con Galeazzo ogni giorno diminuivano: e per contrario, sopravenendo continuamente gli aiuti di Francia, i quali, per essere chiamati al soccorso della persona del re, passavano con grande prontezza, il duca d'Orliens aveva già insieme trecento lancie tremila fanti svizzeri e tremila guasconi: e benché da Carlo gli fusse stato precisamente comandato che, astenendosi da ogni impresa, stesse preparato a potere, quando fusse chiamato, farsegli incontro, nondimeno, come è difficile il resistere agli interessi propri, deliberò di accettare l'occasione d'occupare la città di Novara, nella quale offerivano di metterlo due Opizini Caza, l'uno cognominato nero l'altro cognominato bianco, gentil'uomini di quella città; a' quali era molto odioso il duca di Milano, perché a loro e a molti altri novaresi aveva, con false calunnie e con giudici ingiusti, usurpato certi condotti di acque e possessioni. Però Orliens, composta la cosa con loro, accompagnato da Lodovico marchese di Saluzzo, passato di notte il fiume del Po al ponte a Stura, giurisdizione del marchese di Monferrato, fu con le sue genti da' congiurati, senza alcuna resistenza, ricevuto in Novara, donde avendo subito fatto scorrere parte delle sue genti insino a Vigevano, si crede che se con tutto l'esercito fusse sollecitamente andato verso Milano si sarebbono suscitati grandissimi movimenti: perché, intesa la perdita di Novara, si veddono molto sollevati a cose nuove gli animi de' milanesi; e Lodovico, non manco timido nell'avversità che immoderato nelle prosperità (come quasi sempre è congiunta in uno medesimo subietto la insolenza con la timidità), dimostrava con inutili lagrime la sua viltà; né le genti che erano con Galeazzo, nelle quali sole consisteva la sua difesa, restate indietro, si dimostravano in luogo alcuno.

Ma non essendo sempre note a' capitani le condizioni e i disordini degli inimici, si perdono spesso nelle guerre bellissime occasioni: né anche pareva verisimile che contro a uno principe tanto potente potesse succedere sí subita mutazione. Orliens, per stabilire l'acquisto di Novara, si fermò all'espugnazione della rocca, la quale il quinto dí convenne d'arrendersi se infra uno dí non fusse soccorsa; per il quale intervallo di tempo ebbe spazio il Sanseverino di ridursi con le sue genti in Vigevano, e il duca, che per riconciliarsi gli animi de' popoli aveva, per bando publico, levati molti dazi che prima aveva imposti, di accrescere l'esercito. E nondimeno Orliens, accostatosi con le sue genti alle mura di Vigevano, presentò la battaglia agli inimici; i quali erano in tanto terrore che ebbono inclinazione d'abbandonare Vigevano, e passare il fiume del Tesino per il ponte che v'avevano fatto in sulle barche. Ma ritiratosi Orliens a Trecas, poi che essi recusavano di combattere, cominciorono le cose di Lodovico Sforza a prosperare, sopravenendo continuamente all'esercito suo cavalli e fanti, perché i viniziani, contenti che a loro rimanesse quasi tutto il peso di opporsi a Carlo, consentirono che Lodovico richiamasse parte delle genti che avea mandate in parmigiano, e gli mandorono oltre a ciò quattrocento stradiotti; talmente che a Orliens fu tolta la facoltà di passare piú innanzi, e avendo fatto correre di nuovo cinquecento cavalli insino a Vigevano, uscendo fuora ad assaltargli i cavalli degli inimici, riceverono quegli di Orliens grave danno. Andò dipoi il Sanseverino, già superiore di forze, a presentargli la battaglia a Trecas; e ultimamente, raccolto tutto l'esercito, nel quale oltre a soldati italiani erano arrivati mille cavalli e dumila fanti tedeschi, alloggiò appresso a un miglio a Novara, ove Orliens si era con tutte le genti ritirato.

Cap. vii

A Poggibonsi Gerolamo Savonarola incita inutilmente Carlo VIII a restituire le terre ai fiorentini. Contrastanti promesse del re ai pisani ed ai fiorentini. Carlo manda parte delle truppe contro Genova. Saccheggio di Pontremoli.

La nuova della ribellione di Novara sollecitò Carlo, che era a Siena, ad accelerare il cammino; e perciò, per fuggire qualunque occasione che lo potesse ritardare, avendo notizia che i fiorentini, ammuniti da' pericoli passati e insospettiti perché Piero de' Medici lo seguitava, benché ordinassino di riceverlo in Firenze con grandissimi onori, empievano per sicurtà loro la città d'armi e di genti, passò a Pisa per il dominio fiorentino, lasciata la città di Firenze alla mano destra. Al quale si fece incontro, nella terra di Poggibonzi, Ieronimo Savonarola, e interponendo, come era solito, nelle parole sue l'autorità e il nome divino, lo confortò con grandissima efficacia a restituire le terre a' fiorentini; aggiugnendo alle persuasioni gravissime minaccie, che se e' non osservava quel che con tanta solennità, toccando con mano gli evangeli e quasi innanzi agli occhi di Dio, avea giurato, sarebbe presto punito da Dio rigidamente. Fecegli il re, secondo la sua incostanza, quivi, e il dí seguente in Castelfiorentino, varie risposte: ora promettendo di restituirle come fusse arrivato in Pisa, ora allegando in contrario della fede data, perché affermava di avere, innanzi al giuramento prestato in Firenze, promesso a' pisani di conservargli in libertà; e nondimeno dando continuamente agli oratori de' fiorentini speranza della restituzione, come a Pisa fusse arrivato. In Pisa fu di nuovo questa materia proposta nel consiglio reale; perché accrescendosi ogni dí piú la fama degli apparati e dell'unirsi appresso a Parma le forze de' collegati, si cominciavano pure a considerare le difficoltà del passare per Lombardia, e però erano desiderati da molti i danari e gli aiuti offerti da' fiorentini. Ma a questa deliberazione furono contrari i medesimi che in Siena l'avevano contradetta, allegando che, se pure avessino, per l'opposizione degli inimici, qualche disordine o qualche difficoltà di passare per Lombardia, era meglio d'avere in sua potestà quella città, dove potrebbono ritirarsi, che lasciarla in mano de' fiorentini; i quali, come avessino ricuperate quelle terre, non sarebbono di maggiore fede che fussino stati gli altri italiani: soggiugnendo che, per la sicurtà del reame di Napoli, era molto opportuno il tenere il porto di Livorno; perché succedendo al re il disegno di mutare lo stato di Genova, come era da sperare, sarebbe padrone di quasi tutte le marine, dal porto di Marsilia insino al porto di Napoli. Potevano certamente nell'animo del re, poco capace di eleggere la piú sana parte, qualche cosa queste ragioni: ma molto piú potenti furono i prieghi e le lagrime de' pisani, i quali popolarmente, insieme con le donne e co' piccoli fanciulli, ora prostrati innanzi a' suoi piedi ora raccomandandosi a ciascuno, benché minimo, della corte e de' soldati, con pianti grandissimi e con urla miserabili deploravano le loro future calamità, l'odio insaziabile de' fiorentini, la desolazione ultima di quella patria, la quale non arebbe causa di lamentarsi d'altro che d'avergli il re conceduta la libertà e promesso di conservargliene; perché questo, credendo essi la parola del re cristianissimo di Francia essere parola ferma e stabile, aveva dato loro animo di provocarsi tanto piú l'inimicizia de' fiorentini. Co' quali pianti ed esclamazioni commossono talmente insino a' privati uomini d'arme, insino agli arcieri dell'esercito e molti ancora de' svizzeri, che andati in grandissimo numero e con tumulto grande innanzi al re, parlando in nome di tutti Salazart uno de' suoi pensionari, lo pregorono ardentemente che, per l'onore della persona sua propria, per la gloria della corona di Francia, per consolazione di tanti suoi servidori parati a mettere a ogn'ora la vita per lui, e che lo consigliavano con maggiore fede che quegli che erano corrotti da' danari de' fiorentini, non togliesse a' pisani il beneficio che egli stesso aveva loro fatto; offerendogli che, se per bisogno di danari si conduceva a deliberazione di tanta infamia, pigliasse piú presto le collane e argenti loro, e ritenesse i soldi e le pensioni che ricevevano da lui. E procedette tanto oltre questo impeto de' soldati che uno arciere privato ebbe ardire di minacciare il cardinale di San Malò, e alcuni altri dissono altiere parole al marisciallo di Gies e al presidente di Gannai, i quali era noto che consigliavano questa restituzione: in modo che 'l re, confuso da tanta varietà de' suoi, lasciò la cosa sospesa, tanto lontano da alcuna certa resoluzione che, in questo tempo medesimo, promettesse di nuovo a' pisani di non gli rimettere giammai in potestà de' fiorentini e agli oratori fiorentini, che aspettavano a Lucca, facesse intendere che quello che per giuste cagioni non faceva al presente farebbe subito che e' fusse arrivato in Asti; e però non mancassino di fare che la loro republica gli mandasse in quel luogo imbasciadori.

Partí da Pisa, mutato il castellano e lasciata la guardia necessaria nella cittadella, e il medesimo fece nelle fortezze dell'altre terre. Ed essendo acceso per se stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Genova, e stimolato da' cardinali San Piero a Vincola e Fregoso e da Obietto del Fiesco e dagli altri fuorusciti, i quali gli davano speranza di facile mutazione, mandò da Serezana con loro a quella impresa, contra 'l parere di tutto il consiglio, che biasimava il diminuire le forze dell'esercito, Filippo monsignore con cento venti lancie e con cinquecento fanti, che nuovamente per mare erano venuti di Francia; e con ordine che le genti d'arme de' Vitelli, che per essere rimaste indietro non potevano essere a tempo a unirsi seco, gli seguitassino, e che alcuni altri fuorusciti con genti date dal duca di Savoia entrassino nella riviera di ponente, e che l'armata di mare, ridotta a sette galee due galeoni e due fuste, della quale era capitano Miolans, andasse a fare spalle alle genti di terra. Era intanto l'avanguardia, guidata dal marisciallo di Gies, arrivata a Pontriemoli; la qual terra, licenziati trecento fanti forestieri che vi erano a guardia, si arrendé subito per i conforti del Triulzio, con patto di non ricevere offesa né nelle persone né nella roba: ma vana fu la fede data da' capitani, perché i svizzeri, entrativi impetuosamente dentro, per vendicarsi che quando l'esercito passò nella Lunigiana vi erano stati, per certa quistione nata a caso, uccisi dagli uomini di Pontriemoli circa quaranta di loro, saccheggiorono e abbruciorono la terra, ammazzati crudelmente tutti gli abitatori.

Cap. viii

L'esercito francese e quello dei collegati di fronte, a Fornovo. Dubbi e dispareri nell'esercito de' collegati. Incertezze in quello di Carlo.

Nel qual tempo si raccoglieva sollecitamente nel territorio di Parma l'esercito de' collegati, in numero di dumila cinquecento uomini d'arme ottomila fanti e piú di dumila cavalli leggieri, la maggiore parte albanesi e delle provincie circostanti di Grecia; i quali, condotti in Italia da' viniziani, ritenendo il nome medesimo che hanno nella patria, sono chiamati stradiotti. Del quale esercito il nervo principale erano le genti de' viniziani, perché quelle del duca di Milano, avendo egli voltate quasi tutte le sue forze a Novara, non ascendevano alla quarta parte di tutto l'esercito. Alle genti venete, tra le quali militavano molti condottieri di chiaro nome, era preposto sotto titolo di governatore generale Francesco da Gonzaga, marchese di Mantua, molto giovane, nel quale, per essere stimato animoso e cupido di gloria, la espettazione superava l'età; e con lui proveditori due de' principali del senato, Luca Pisano e Marchionne Trivisano. I soldati sforzeschi comandava, sotto il medesimo titolo di governatore, il conte di Gaiazzo, confidato molto al duca ma che, non pareggiando nell'armi la gloria di Ruberto da Sanseverino suo padre, aveva acquistato nome piú di capitano cauto che di ardito; e con lui commissario Francesco Bernardino Visconte, principale della parte ghibellina in Milano, e perciò opposito a Gianiacopo da Triulzi. Tra' quali capitani e altri principali dell'esercito consultandosi se e' fusse da andare ad alloggiare a Fornuovo, villa di poche case alle radici della montagna, fu deliberato, per la strettezza del luogo, e forse (secondo divulgorono) per dare facoltà agli inimici di scendere alla pianura, di alloggiare alla badia della Ghiaruola, distante da Fornuovo tre miglia: la quale deliberazione dette luogo di alloggiare a Fornuovo all'avanguardia franzese, che avea passata la montagna molto innanzi al resto dell'esercito, ritardato per lo impedimento dell'artiglieria grossa, la quale con grandissima difficoltà si conduceva per quella montagna aspra dello Apennino; e sarebbe stata condotta con difficoltà molto maggiore se i svizzeri, cupidi di scancellare l'offesa fatta all'onore del re nel sacco di Pontriemoli, non si fussino con grandissima prontezza affaticati a farla passare. Arrivata l'avanguardia a Fornuovo, il marisciallo di Gies mandò uno trombetta nel campo italiano a domandare il passo per l'esercito in nome del re, il quale, senza offendere alcuno e ricevendo le vettovaglie a prezzi convenienti, voleva passare per ritornarsene in Francia; e nel tempo medesimo fece correre alcuni de' suoi cavalli per prendere notizia degli inimici e del paese, i quali furono messi in fuga da certi stradiotti che mandò loro incontro Francesco da Gonzaga: in sulla quale occasione, se le genti italiane si fussino mosse insino all'alloggiamento de' franzesi, si crede che arebbono rotta facilmente l'antiguardia, e rotta questa non poteva piú farsi innanzi l'esercito regio. La quale occasione non era ancora fuggita il dí seguente, benché il marisciallo, conosciuto il pericolo, avesse ritirato i suoi in luogo piú alto; ma non ebbono i capitani italiani ardire d'andare ad assaltargli, spaventati dalla fortezza del sito dove s'erano ridotti, e dal credere che l'antiguardia fusse piú grossa, e forse piú vicino il resto dell'esercito. Ed è certo che, in questo dí, non erano ancora finite di raccorsi insieme tutte le genti viniziane; le quali avevano tardato tanto a unirsi tutte nell'alloggiamento della Ghiaruola che è manifesto che se Carlo non avesse soggiornato tanto per il cammino, come in Siena in Pisa e in molti luoghi soggiornò, senza bisogno, sarebbe passato innanzi senza impedimento o contrasto alcuno. Il quale, unito alla fine con l'antiguardia, alloggiò il dí prossimo con tutto l'esercito a Fornuovo.

Non aveano creduto mai i príncipi confederati che il re, con esercito tanto minore, ardisse di passare per il cammino diritto l'Apennino; e però si erano da principio persuasi che egli, lasciata la piú parte delle genti a Pisa, se n'andrebbe col resto in sull'armata marittima in Francia: e dipoi inteso che pure seguitava il cammino per terra, avevano creduto che egli, per non si appropinquare al loro esercito, disegnasse di passare la montagna per la via del borgo di Valditaro e del monte di Centocroce, monte molto aspro e difficile, per condursi nel tortonese, con speranza d'avere a essere rincontrato dal duca d'Orliens nelle circostanze d'Alessandria. Ma come si vedde certamente che egli si dirizzava a Fornuovo, l'esercito italiano, che prima, per i conforti di tanti capitani e per la fama del piccolo numero degl'inimici, era molto inanimito, rimesse qualche parte del suo vigore, considerando il valore delle lancie franzesi, la virtú de' svizzeri a' quali senza comparazione la fanteria italiana era tenuta inferiore, il maneggio espedito dell'artiglierie, e, quel che muove assai gli uomini quando hanno fatto contraria impressione, l'ardire inaspettato de' franzesi d'approssimarsi loro con tanto minore numero di gente. Per le quali considerazioni raffreddati eziandio gli animi de' capitani, era stato messo in consulta tra loro quel che s'avesse a rispondere al trombetto mandato dal marisciallo; parendo, da una parte, molto pericoloso il rimettere a discrezione della fortuna lo stato di tutta Italia, dall'altra, che e' fusse con grande infamia della milizia italiana dimostrare di non avere animo d'opporsi all'esercito franzese, che tanto inferiore di numero ardiva di passare innanzi agli occhi loro. Nella quale consulta essendo diversi i pareri de' capitani, dopo molte dispute determinorono finalmente dare della domanda del re avviso a Milano, per eseguire quello che quivi concordemente dal duca e dagli oratori de' confederati fusse determinato. Tra' quali consultandosi, il duca e l'oratore veneto che erano piú propinqui al pericolo concorsono nella medesima sentenza: che all'inimico, quando voleva andarsene, non si doveva chiudere la strada, ma piú presto, secondo il vulgato proverbio, fabbricargli il ponte d'argento; altrimenti essere pericolo che la timidità, come si poteva comprovare con infiniti esempli, convertita in disperazione, non si aprisse il cammino con molto sangue di quegli che poco prudentemente se gli opponevano, Ma l'oratore de' re di Spagna, desiderando che senza pericolo de' suoi re si facesse esperienza della fortuna, instette efficacemente, e quasi protestando, che non si lasciassino passare, né si perdesse l'occasione di rompere quell'esercito, il quale se si salvava restavano le cose d'Italia ne' medesimi anzi in maggiori pericoli che prima; perché tenendo il re di Francia Asti e Novara, ubbidiva a' comandamenti suoi tutto il Piemonte, e avendo alle spalle il reame di Francia, reame tanto potente e tanto ricco, i svizzeri vicini e disposti ad andare a' soldi suoi in quel numero volesse, e trovandosi accresciuto di riputazione e d'animo, se l'esercito della lega, tanto superiore al suo, gli desse cosí vilmente la strada, attenderebbe a travagliare Italia con maggiore ferocità: e che a' suoi re sarebbe quasi necessario fare nuove deliberazioni, conoscendo che gl'italiani o non volevano o non avevano animo di combattere co' franzesi. Nondimeno, prevalendo in questo consiglio la piú sicura opinione, determinarono scriverne a Vinegia, dove sarebbe stato il medesimo parere.

Ma già si consultava indarno: perché i capitani dell'esercito, poiché ebbono scritto a Milano, considerando essere difficile che le risposte arrivassino a tempo, e quanto restasse disonorata la milizia italiana se si lasciasse libero il transito a' franzesi, licenziato il trombetto senza risposta certa, deliberorono come gli inimici camminavano d'assaltargli; concorrendo in questa sentenza i proveditori viniziani, ma piú prontamente il Trivisano che il collega. Da altra parte si facevano innanzi i franzesi, pieni di arroganza e d'audacia, come quegli che, non avendo trovato insino ad allora in Italia riscontro alcuno, si persuadevano che l'esercito inimico non s'avesse a opporre, e quando pure s'opponesse avere senza fatica a metterlo in fuga: tanto poco conto tenevano dell'armi italiane. Nondimeno, quando cominciando a calare la montagna scopersono l'esercito alloggiato con numero infinito di tende e di padiglioni, e in alloggiamento sí largo che, secondo il costume d'Italia, poteva dentro a quello mettersi tutto in battaglia, considerando il numero degli inimici sí grande, e che se non avessino avuto volontà di combattere non si sarebbono condotti in luogo tanto vicino, cominciò a raffreddarsi in modo tanta arroganza che arebbono avuto per nuova felice che gli italiani si fussino contentati di lasciargli passare; e tanto piú che, avendo Carlo scritto al duca d'Orliens che si facesse innanzi per incontrarlo, e che il terzo dí di luglio si trovasse con piú genti potesse a Piacenza, e da lui avuto risposta che non mancherebbe d'esservi al tempo ordinatogli, ebbe poi nuovo avviso dal duca medesimo che l'esercito sforzesco opposto a lui, nel quale erano novecento uomini d'arme mille dugento cavalli leggieri e cinquemila fanti, era sí potente che senza manifestissimo pericolo non poteva farsi innanzi, essendo massime necessitato a lasciare parte della sua gente alla guardia di Novara e d'Asti. Però il re, necessitato a fare nuovi pensieri, commesse a Filippo monsignore di Argenton, il quale, essendo stato poco innanzi imbasciadore per lui appresso al senato viniziano, aveva nel partirsi da Vinegia offerto al Pisano e al Trivisano, già diputati proveditori, d'affaticarsi per disporre l'animo del re alla pace, che mandasse un trombetto a detti proveditori, significando per una lettera d'avere desiderio per beneficio comune di parlare con loro; i quali accettorono di ritrovarsi seco, la mattina seguente, in luogo comodo tra l'uno e l'altro esercito. Ma Carlo, o perché in quello alloggiamento patisse di vettovaglie o per altra cagione, mutato proposito, deliberò di non aspettare quivi l'effetto di questo ragionamento.

Cap. ix

Le posizioni de' due eserciti. La battaglia di Fornovo e le sue vicende; il pericolo corso dal re di Francia. Tanto i veneziani quanto i francesi si attribuiscono la vittoria. Confutazione di voci diffusesi intorno al contegno di Lodovico Sforza. Carlo giunge ad Asti senza perdite per quanto incalzato da truppe nemiche. Il fallimento del tentativo dei francesi contro Genova.

Era la fronte degli alloggiamenti dell'uno e dell'altro esercito distante manco di tre miglia, distendendosi in sulla ripa destra del fiume del Taro, benché piú presto torrente che fiume, il quale nascendo nella montagna dello Apennino, poi che ha corso alquanto per una piccola valle ristretta da due colline, si distende nella pianura larga di Lombardia insino al fiume del Po. In sulla destra di queste due colline, scendendo insino alla ripa del fiume, alloggiava l'esercito de' collegati, fermatosi, per consiglio de' capitani, piú presto da questa parte che dalla ripa sinistra onde aveva a essere il cammino degli inimici, per non lasciare loro facoltà di volgersi a Parma; della quale città, per la diversità delle fazioni, non stava il duca di Milano senza sospetto, accresciuto perché il re si era fatto concedere da' fiorentini insino in Asti Francesco Secco, la cui figliuola era maritata nella famiglia de' Torelli, famiglia nobile e potente nel territorio di Parma. Ed era l'alloggiamento de' collegati fortificato con fossi e con ripari, e abbondante d'artiglierie: innanzi al quale i franzesi, volendo ridursi nello astigiano, e però passando il Taro accanto a Fornuovo, erano necessitati di passare, non restando in mezzo tra loro altro che 'l fiume. Stette tutta la notte l'esercito franzese con non mediocre travaglio, perché per la diligenza degli italiani, che facevano correre gli stradiotti insino in sullo alloggiamento, si gridava spesso all'arme nel campo loro, che tutto si sollevava a ogni strepito, e perché sopravenne una repentina e grandissima pioggia mescolata con spaventosi folgori e tuoni e con molte orribili saette, la quale pareva che facesse pronostico di qualche tristissimo accidente; cosa che commoveva molto piú loro che l'esercito italiano, non solo perché, essendo in mezzo delle montagne e degli inimici, e in luogo dove avendo qualche sinistro non restava loro speranza alcuna di salvarsi, erano ridotti in molto maggiore difficoltà, e perciò avevano giusta cagione d'avere maggiore terrore, ma ancora perché pareva piú verisimile che i minacci del cielo, non soliti a dimostrarsi se non per cose grandi, accennassino piú presto a quella parte dove si ritrovava la persona d'un re di tanta degnità e potenza.

La mattina seguente, che fu il dí sesto di luglio, cominciò a l'alba a passare il fiume l'esercito franzese, precedendo la maggior parte dell'artiglierie seguitate dall'antiguardia; nella quale il re, credendo che contro a quella avesse a volgersi l'impeto principale degl'inimici, aveva messo trecento cinquanta lancie franzesi, Gianiacopo da Triulzio con le sue cento lancie, e tremila svizzeri che erano il nervo e la speranza di quello esercito, e con questi a piede Engiliberto fratello del duca di Cleves e il baglí di Digiuno che gli aveva condotti: a' quali aggiunse il re a piede trecento arcieri e alcuni balestrieri a cavallo delle sue guardie, e quasi tutti gli altri fanti che aveva seco. Dietro all'avanguardia seguitava la battaglia, in mezzo della quale era la persona del re armato di tutte armi in su uno feroce corsiere; e appresso a lui, per reggere col consiglio e con l'autorità sua questa parte dell'esercito, monsignore della Tramoglia, capitano molto famoso nel regno di Francia. Dietro a questi seguitava la retroguardia condotta dal conte di Fois, e nell'ultimo luogo i carriaggi. E nondimeno il re, non avendo l'animo alieno dalla concordia, sollecitò, nel tempo medesimo che il campo cominciò a muoversi, Argentone che andasse a trattare co' proveditori veneti; ma essendo già, per la levata sua, tutto in arme l'esercito italiano e deliberati i capitani di combattere, non lasciava piú la brevità del tempo e la propinquità degli eserciti né spazio né comodità di parlare insieme: e già cominciavano a scaramucciare da ogni parte i cavalli leggieri, già a tirare da ogni parte orribilmente l'artiglierie, e già gli italiani, usciti tutti degli alloggiamenti, distendevano i loro squadroni preparati alla battaglia in sulla ripa del fiume. Per le quali cose non intermettendo i franzesi di camminare, parte in sul greto del fiume, parte, perché nella stretta pianura non si potevano spiegare l'ordinanze, per la spiaggia della collina, ed essendo già la avanguardia condotta al dirimpetto dell'alloggiamento degli inimici, il marchese di Mantova, con uno squadrone di seicento uomini d'arme de' piú fioriti dell'esercito e con una grossa banda di stradiotti e d'altri cavalli leggieri e con cinquemila fanti, passò il fiume dietro alla retroguardia de' franzesi; avendo lasciato in sulla ripa di là Antonio da Montefeltro, figliuolo naturale di Federigo già duca d'Urbino, con uno grosso squadrone, per passare, quando fusse chiamato, a rinfrescare la prima battaglia; e avendo oltre a ciò ordinato che, come si era cominciato a combattere, un'altra parte della cavalleria leggiera percotesse negli inimici per fianco, e che il resto degli stradiotti, passando il fiume a Fornuovo, assaltasse i carriaggi de' franzesi: i quali, o per mancamento di gente o per consiglio (come fu fama) del Triulzio, erano restati senza guardia, esposti a qualunque volesse predargli. Da altra parte, passò il Taro con quattrocento uomini d'arme, tra' quali era la compagnia di don Alfonso da Esti, venuta in campo, perché cosí volle il padre, senza la sua persona, e con dumila fanti il conte di Gaiazzo, per assaltare l'antiguardia franzese; lasciato similmente in sulla ripa di là Annibale Bentivoglio con dugento uomini d'arme, per soccorrere quando fusse chiamato: e a guardia degli alloggiamenti restorono due grosse compagnie di gente d'arme e mille fanti, perché i proveditori viniziani volleno riserbarsi intero, per tutti i casi, qualche sussidio. Ma vedendo il re venire sí grande sforzo addosso al retroguardo, contro a quello che si erano persuasi i suoi capitani, voltate le spalle all'avanguardia, cominciò ad accostarsi con la battaglia al retroguardo, sollecitando egli, con uno squadrone innanzi agli altri, tanto il camminare che quando l'assalto incominciò si ritrovò essere nella fronte de' suoi tra' primi combattitori. Hanno alcuni fatto memoria che non senza disordine passorono il fiume le genti del marchese, per l'altezza delle ripe e per gli impedimenti degli alberi e degli sterpi e virgulti, da' quali sono vestite comunemente le ripe de' torrenti; e aggiungono altri che i fanti suoi, per questa difficoltà e per l'acque del fiume ingrossate per la pioggia notturna, arrivorono alla battaglia piú tardi, e che tutti non vi si condussono ma ne restorono non pochi di là dal fiume. Ma come si sia, certo è che l'assalto del marchese fu molto furioso e feroce, e che gli fu corrisposto con simigliante ferocia e valore: entrando da ogni parte nel fatto d'arme gli squadroni alla mescolata e non secondo il costume delle guerre d'Italia, che era di combattere una squadra contro a un'altra e in luogo di quella che fusse stracca o che cominciasse a ritirarsi scambiarne un'altra, non facendo se non all'ultimo uno squadrone grosso di piú squadre: in modo che 'l piú delle volte i fatti d'arme, ne' quali sempre si faceva pochissima uccisione, duravano quasi un giorno intero, e spesso si spiccavano cacciati dalla notte senza vittoria certa d'alcuna delle parti. Rotte le lancie, nello scontro delle quali caddono in terra da ogni parte molti uomini d'arme, molti cavalli, cominciò ciascuno a adoperare con la medesima ferocia le mazze ferrate gli stocchi e l'altre armi corte, combattendo co' calci co' morsi con gli urti i cavalli non meno che gli uomini; dimostrandosi certamente nel principio molto egregia la virtú degli italiani, per la fierezza massime del marchese, il quale, seguitato da una valorosa compagnia di giovani gentiluomini e di lancie spezzate (sono questi soldati eletti tenuti fuora delle compagnie ordinarie a provisione), e offerendosi prontissimamente a tutti i pericoli, non lasciava indietro cosa alcuna, che a capitano animosissimo appartenesse. Sostenevano valorosamente sí feroce impeto i franzesi, ma essendo oppressati da moltitudine tanto maggiore cominciavano già quasi manifestamente a piegarsi, non senza pericolo del re, appresso al quale pochi passi fu fatto prigione, benché combattesse fieramente, il bastardo di Borbone: per il caso del quale sperando il marchese avere il medesimo successo contro alla persona del re, condotto improvidamente in luogo di tanto pericolo senza quella guardia e ordine che conveniva a principe sí grande, faceva con molti de' suoi grandissimo sforzo di accostarsegli. Contro a' quali il re, avendo intorno a sé pochi de' suoi, dimostrando grande ardire si difendeva nobilmente, piú per la ferocia del cavallo che per l'aiuto loro. Né gli mancorono in tanto pericolo quelli consigli che sogliono, nelle cose difficili, essere ridotti alla memoria dal timore perché vedendosi quasi abbandonato da' suoi, voltatosi agli aiuti celesti, fece voto a san Dionigi e a san Martino, reputati protettori particolari del reame di Francia, che se passava salvo con l'esercito nel Piemonte andrebbe, subito che fusse ritornato di là da' monti, a visitare con grandissimi doni le chiese dedicate al nome loro, l'una appresso a Parigi l'altra a Torsi; e che ciascuno anno farebbe, con solennissime feste e sacrifici, testimonianza della grazia ricevuta per opera loro: i quali voti come ebbe fatti, ripreso maggiore vigore, cominciò piú animosamente a combattere sopra le forze e sopra la sua complessione. Ma già il pericolo del re aveva infiammato talmente quegli che erano manco lontani che, correndo tutti a coprire con le persone proprie la persona reale, ritenevano pure indietro gli italiani; e sopravenendo in questo tempo la battaglia sua che era restata indietro, uno squadrone di quella urtò ferocemente gli inimici per fianco, da che si raffrenò assai l'impeto loro. E si aggiunse che Ridolfo da Gonzaga, zio del marchese di Mantova, condottiere di grande esperienza, mentre che i suoi confortando e dove apparisse principio di disordine riordinando, e ora in qua ora in là andando, fa l'ufficio di egregio capitano, avendo per sorte alzato l'elmetto, ferito da uno franzese con uno stocco nella faccia e caduto a terra del cavallo, non potendo in tanta confusione e tumulto e nella moltitudine sí stretta di ferocissimi cavalli aiutarlo i suoi, anzi cadendogli addosso altri uomini e altri cavalli, piú tosto soffocato nella calca che per l'armi degli inimici perdé la vita: caso certamente indegno di lui, perché e ne' consigli del dí dinanzi e la mattina medesima, giudicando imprudenza il mettere, senza necessità, tanto in potestà della fortuna, avea contro alla volontà del nipote consigliato che si fuggisse il combattere. Cosí variandosi con diversi accidenti la battaglia, né si scoprendo piú per gli italiani che per i franzesi vantaggio alcuno, era piú che mai dubbio chi dovesse essere vincitore; e però, pareggiata quasi la speranza e il timore, si combatteva da ogni parte con ardore incredibile, riputando ciascheduno che nella sua mano destra e nella sua fortezza fusse collocata la vittoria. Accendeva gli animi de' franzesi la presenza e il pericolo del re, perché non altrimenti, appresso a quella nazione, per inveterata consuetudine, è venerabile la maestà de' re che si adori il nome divino, l'essere in luogo che con la vittoria sola potevano sperare la loro salute; accendeva gli animi degli italiani la cupidità della preda, la ferocia e l'esempio del marchese, l'avere cominciato a combattere con prospero successo, il numero grande del loro esercito per il quale aspettavano soccorso da molti de' suoi; cosa che non speravano i franzesi, perché le genti loro o erano mescolate tutte nel fatto d'arme o veramente aspettavano a ogn'ora di essere assaltate dagli inimici. Ma è grandissima (come ognuno sa) in tutte l'azioni umane la potestà della fortuna, maggiore nelle cose militari che in qualunque altra, ma inestimabile immensa infinita ne' fatti d'arme; dove uno comandamento male inteso, dove una ordinazione male eseguita, dove una temerità, una voce vana, insino d'uno piccolo soldato, traporta spesso la vittoria a coloro che già parevano vinti; dove improvisamente nascono innumerabili accidenti i quali è impossibile che siano antiveduti o governati con consiglio del capitano. Però in tanta dubietà, non dimenticatasi del costume suo, operò quello che per ancora non operava né la virtú degli uomini né la forza dell'armi. Perché avendo gli stradiotti, mandati ad assaltare i carriaggi de' franzesi, cominciato senza difficoltà a mettergli in preda, e attendendo a condurre chi muli chi cavalli chi altri arnesi di là dal fiume, non solo quell'altra parte degli stradiotti che era destinata a percuotere i franzesi per fianco, ma quegli ancora che già erano entrati nel fatto d'arme, vedendo i compagni suoi ritornarsene agli alloggiamenti carichi di spoglie, incitati dalla cupidità del guadagno, si voltorono a rubare i carriaggi; l'esempio de' quali seguitando i cavalli e i fanti, uscivano per la medesima cagione a schiere della battaglia: donde mancando agli italiani non solo il soccorso ordinato ma inoltre diminuendosi con tanto disordine il numero de' combattenti, né movendosi Antonio da Montefeltro, perché, per la morte di Ridolfo da Gonzaga che aveva la cura, quando fusse il tempo, di chiamarlo, niuno lo chiamava, cominciorno a pigliare tanto di campo i franzesi che niuna cosa piú sostentava gli italiani, che già manifestamente declinavano, che 'l valore del marchese; il quale combattendo fortissimamente sosteneva ancora l'impeto degli inimici, accendendo i suoi, ora con l'esempio suo ora con voci caldissime, a volere piú tosto essere privati della vita che dell'onore. Ma non era piú possibile che pochi resistessino a molti; e già moltiplicando addosso a loro da ogni parte i combattitori, mortine già una gran parte e feritine molti, massime di quegli della compagnia propria del marchese, furno necessitati tutti a mettersi in fuga per ripassare il fiume: il quale per l'acqua piovuta la notte, e che con grandine e tuoni piovve grandissima mentre si combatteva, era cresciuto in modo che dette difficoltà assai a chi fu costretto a ripassarlo. Seguitornogli i franzesi impetuosamente insino al fiume, non attendendo se non ad ammazzare con molto furore coloro che fuggivano senza farne alcuno prigione, e senza attendere alle spoglie e al guadagno; anzi si udivano per la campagna spesse voci di chi gridava: - Ricordatevi, compagnoni, di Guineguaste. - È Guineguaste una villa in Piccardia presso a Terroana, dove, negli ultimi anni del regno di Luigi undecimo, l'esercito franzese, già quasi vincitore in una giornata tra loro e Massimiliano re de' romani, disordinato per avere cominciato a rubare, fu messo in fuga. Ma nel tempo medesimo che da questa parte dell'esercito con tanta virtú e ferocia si combatteva, l'avanguardia franzese, contro alla quale il conte di Gaiazzo mosse una parte de' cavalli, si presentava alla battaglia con tanto impeto che, impauriti, vedendo massime non essere seguitati da' suoi, si disordinorono quasi per loro medesimi, in modo che essendo già morti alcuni di loro, tra i quali Giovanni Piccinino e Galeazzo da Coreggio, ritornorono con fuga manifesta al grosso squadrone. Ma il marisciallo di Gies, vedendo che oltre allo squadrone del conte era in sulla ripa di là dal fiume un altro colonnello di uomini di arme ordinato alla battaglia, non permesse a' suoi che gli seguitassino: consiglio che dapoi ne' discorsi degli uomini fu da molti riputato prudente, da molti, che consideravano forse meno la ragione che l'evento, piú presto vile che circospetto; perché non si dubita che se gli avesse seguitati, il conte col suo colonnello voltava le spalle, empiendo di tale spavento tutto 'l resto delle genti rimaste di là dal fiume che sarebbe stato quasi impossibile a ritenerle che non fuggissino. Perché il marchese di Mantova, il quale, fuggendo gli altri, ripassò con una parte de' suoi di là dal fiume, piú stretto e ordinato che e' potette, le trovò in modo sollevate che, cominciando ognuno a pensare di salvare sé e le sue robe, già la strada maestra per la quale si va da Piacenza a Parma era piena d'uomini di cavalli e di carriaggi che si ritiravano a Parma: il quale tumulto si fermò in parte con la presenza e autorità sua, perché mettendogli insieme andò riordinando le cose. Ma le fermò molto piú la giunta del conte di Pitigliano, il quale, in tanta confusione dell'una parte e dell'altra, presa l'occasione se ne fuggí nel campo italiano, dove confortando, ed efficacemente affermando che in maggiore disordine e spavento si trovavano gl'inimici, confermò e assicurò assai gli animi loro. Anzi fu affermato quasi comunemente che, se non fussino state le parole sue, che o allora o almeno la notte seguente, si levava con grandissimo terrore tutto l'esercito. Ritirati gli italiani nel campo loro, da coloro in fuora che menati (come interviene ne' casi simili) dalla confusione e dal tumulto, e spaventati dalle acque grosse del fiume, erano fuggiti dispersi in vari luoghi, molti de' quali scontrandosi nelle genti franzesi sparse per la campagna, furono ammazzati da loro, il re co' suoi andò a unirsi all'antiguardia, che non si era mossa del luogo suo; dove consigliò co' capitani se e' fusse da passare subito il fiume per assaltare agli alloggiamenti suoi l'esercito inimico, e fu consigliato dal Triulzio e da Cammillo Vitelli, il quale, mandata la compagnia sua dietro a coloro che andavano all'impresa di Genova, avea con pochi cavalli seguitato il re per ritrovarsi al fatto d'arme, che si assaltassino: il che piú efficacemente di tutti confortava Francesco Secco, dimostrando che la strada che si vedeva da lontano era piena d'uomini e di cavalli, che denotava o che fuggissino verso Parma o che, avendo incominciato a fuggire, se ne tornassino al campo. Ma era pure non piccola la difficoltà di passare il fiume, e la gente, che parte avea combattuto parte stata armata in sulla campagna, affaticata in modo che per consiglio de' capitani franzesi fu deliberato che s'alloggiasse. Cosí andorno ad alloggiare alla villa del Medesano in sulla collina, distante non molto piú d'uno miglio dal luogo nel quale si era combattuto; ove fu fatto l'alloggiamento senza divisione o ordine alcuno, e con non piccola incomodità, perché molti carriaggi erano stati rubati dagli inimici.

Questa fu la battaglia fatta tra gl'italiani e franzesi in sul fiume del Taro, memorabile perché fu la prima che, da lunghissimo tempo in qua, si combattesse con uccisione e con sangue, in Italia; perché innanzi a questa morivano pochissimi uomini in uno fatto d'arme. Ma in questa, se bene dalla parte de' franzesi ne morirono meno di dugento uomini, degli italiani furno morti piú di trecento uomini d'arme, e tanti altri che ascesono al numero di tremila uomini; tra' quali Rinuccio da Farnese, condottiere de' viniziani, e molti gentiluomini di condizione: e rimase in terra per morto, percosso di una mazza ferrata in su l'elmetto, Bernardino dal Montone, condottiere medesimamente de' viniziani, ma chiaro piú per la fama di Braccio dal Montone suo avolo, uno de' primi illustratori della milizia italiana, che per propria fortuna o virtú. E fu piú maravigliosa agli italiani tanta uccisione perché la battaglia non durò piú di una ora, e perché, combattendosi da ogni parte con la fortezza propria e con l'armi, s'adoperorno poco l'artiglierie. Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sé la lama della vittoria e dell'onore di questo giorno. Gl'italiani, per essere stati salvi i loro alloggiamenti e carriaggi, e per il contrario l'averne i franzesi perduti molti e tra gli altri parte de' padiglioni propri del re; gloriandosi, oltre a questo, che arebbono sconfitti gl'inimici se una parte delle genti loro, destinata a entrare nella battaglia, non si fusse voltata a rubare; il che essere stato vero non negavano i franzesi. E in modo si sforzorono i viniziani d'attribuirsi questa gloria che, per comandamento publico, se ne fece per tutto il dominio loro, e in Vinegia principalmente, fuochi e altri segni d'allegrezza; né seguitorono nel tempo avvenire piú negligentemente l'esempio publico i privati, perché nel sepolcro di Marchionne Trivisano, nella chiesa de' frati minori, furno alla sua morte scritte queste parole: - che in sul fiume del Taro combatté con Carlo re di Francia prosperamente. - E nondimeno, il consentimento universale aggiudicò la palma a' franzesi: per il numero de' morti tanto differente, e perché scacciorono gl'inimici di là dal fiume, e perché restò loro libero il passare innanzi, che era la contenzione per la quale proceduto si era al combattere.

Soggiornò il dí seguente il re nel medesimo alloggiamento, e in questo dí si seguitò, per mezzo del medesimo Argenton, qualche parlamento con gl'inimici: e però si fece tregua insino alla notte: desiderando, da una parte, il re la sicurtà del passare, perché, sapendo che molti dell'esercito italiano non avevano combattuto e vedendo stargli fermi nel medesimo alloggiamento, gli pareva il cammino di tante giornate per il ducato di Milano pericoloso, con gl'inimici alla coda; e da altra parte, non si sapeva risolvere, per il debole consiglio il quale, disprezzati i consigli migliori, usava spesso nelle sue deliberazioni. Simile incertitudine era negli animi degli italiani: i quali, benché da principio fussino molto spaventati, si erano rassicurati tanto che la sera medesima della giornata ebbono qualche ragionamento, proposto e confortato molto dal conte di Pitigliano, d'assaltare la notte il campo franzese, alloggiato con molto disagio e senza fortezza alcuna d'alloggiamento: pure, contradicendo molti degli altri, fu come troppo pericoloso posto da parte questo consiglio.

Sparsesi allora fama per tutta Italia che le genti di Lodovico Sforza, per ordine suo secreto, non avevano voluto combattere, perché essendo sí potente esercito de' viniziani nel suo stato non avesse forse manco in orrore la vittoria loro che de' franzesi, i quali desiderasse che non restassino né vinti né vincitori, e che, per essere piú sicuro in ogni evento, volesse conservare intere le forze sue; il che s'affermava essere stato causa che l'esercito italiano non avesse conseguita la vittoria: la quale opinione fu fomentata dal marchese di Mantova, e dagli altri condottieri de' viniziani per dare maggiore riputazione a se medesimi, e accettata volentieri da tutti quegli che desideravano che la gloria della milizia italiana si accrescesse. Ma io udi' già da persona gravissima, e che allora era a Milano in grado tale che aveva notizia intera delle cose, confutare efficacemente questo romore, perché avendo Lodovico voltate quasi tutte le forze sue all'assedio di Novara, non aveva tante genti in sul Taro che fussino di molto momento alla vittoria; la quale arebbe ottenuta l'esercito de' confederati se non gli avessino nociuto piú i disordini propri che il non avere maggiore numero di gente, massime che molte delle viniziane non entrorono nella battaglia. E se bene il conte di Gaiazzo mandò contro agli inimici una parte sola, e quella freddamente, potette procedere perché era tanto gagliarda l'antiguardia franzese che e' conobbe essere di molto pericolo il commettersi alla fortuna; e in lui, per l'ordinario, arebbono dato piú ammirazione l'azioni animose che le sicure. E nondimeno non furono al tutto inutili le genti sforzesche, perché, ancora che non combattessino, ritennono l'antiguardia franzese che non soccorresse dove il re, con la minore e molto piú debole parte dello esercito, sosteneva con gravissimo pericolo tutto il peso della giornata. Né è questa opinione confermata, se io non mi inganno, piú dall'autorità che dalla ragione. Perché, come è verisimile che se in Lodovico Sforza fusse stata questa intenzione, non avesse piú presto ordinato a' capitani suoi che dissuadessino l'opporsi al transito de' franzesi? conciossiaché, se il re avesse ottenuta la vittoria non sarebbono state piú salve che l'altre le genti sue, tanto propinque agli inimici, ancora che non si fussino mescolate nella battaglia; e con che discorso, con che considerazione, con che esperienza delle cose, si poteva promettere che, combattendosi, avesse a essere tanto pari la fortuna che il re di Francia non avesse a essere né vinto, né vincitore? Né contro al consiglio de' suoi si sarebbe combattuto, perché le genti viniziane, mandate in quello stato solamente per sicurtà e salute sua, non arebbono discrepato dalla volontà de' suoi capitani.

Levossi Carlo con l'esercito, la seguente mattina innanzi giorno, senza sonare trombette, per occultare il piú poteva la sua partita; né fu per quel dí seguitato dall'esercito de' collegati, impedito, quando bene avesse voluto seguitarlo, dall'acque del fiume, ingrossato tanto la notte per nuova pioggia che non si potette, per una grande parte del dí, passarlo. Solamente, declinando già il sole, passò, non senza pericolo per l'impeto dell'acque, il conte di Gaiazzo con dugento cavalli leggieri; co' quali seguitando le vestigie de' franzesi, che camminavano per la strada diritta verso Piacenza, dette loro, massime il prossimo dí, molti impedimenti e incomodità: e nondimeno essi, benché stracchi, seguitorono, senza disordine alcuno e senza perdere un uomo solo, il suo cammino; perché le vettovaglie erano assai abbondantemente somministrate dalle terre vicine, parte per paura di non essere danneggiate parte per opera del Triulzio, il quale, cavalcando innanzi a questo effetto, co' cavalli leggieri, moveva gli uomini ora co' minacci ora con l'autorità sua, grande in quello stato appresso a tutti ma grandissima appresso a' guelfi; né l'esercito della lega, mossosi il dí seguente alla partita de' franzesi, e poco disposto, massime i proveditori viniziani, a rimettersi piú in arbitrio della fortuna, s'accostò loro mai tanto che n'avessino uno minimo disturbo. Anzi, essendo il secondo dí alloggiati in sul fiume della Trebbia poco di là da Piacenza, ed essendo, per piú comodità dell'alloggiare restate tra il fiume e la città di Piacenza dugento lancie i svizzeri e quasi tutta l'artiglieria, la notte il fiume per le pioggie crebbe tanto che, nonostante l'estrema diligenza fatta da loro, fu impossibile che o fanti o cavalli passassino se non dopo molte ore del dí, né questo senza difficoltà benché l'acqua fusse cominciata a diminuire: nondimeno non furono assaltati né dall'esercito inimico che era lontano, né dal conte di Gaiazzo, che era entrato in Piacenza per sospetto che e' non vi si facesse qualche movimento: sospetto non al tutto senza cagione, perché si crede che se Carlo, seguitando il consiglio del Triulzio, avesse spiegate le bandiere e fatto chiamare il nome di Francesco, piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, sarebbe nata in quello ducato facilmente qualche mutazione; tanto era grato il nome di colui che avevano per legittimo signore e odioso quello dell'usurpatore, e di momento il credito e l'amicizie del Triulzio. Ma il re, essendo intento solamente al passare innanzi, non voluto udire pratica alcuna, seguitò con celerità il suo cammino; con non piccolo mancamento, da' primi dí in fuora, di vettovaglie, perché di mano in mano trovava le terre meglio guardate, avendo Lodovico Sforza distribuiti, parte in Tortona, sotto Guasparri da San Severino cognominato il Fracassa, parte in Alessandria, molti cavalli e mille dugento fanti tedeschi levati dal campo di Novara; ed essendo i franzesi, poi che ebbono passata la Trebbia, stati sempre infestati alla coda dal conte di Gaiazzo, che aveva aggiunto a' suoi cavalli leggieri cinquecento fanti tedeschi che erano alla guardia di Piacenza: non avendo potuto ottenere che gli fussino mandati dall'esercito tutto il resto de' cavalli leggieri e quattrocento uomini d'arme, perché i proveditori viniziani, ammuniti dal pericolo corso in sul fiume del Taro, non vollono consentirlo. Pure i franzesi, avendo quando furno vicini ad Alessandria preso il cammino piú alto verso la montagna, dove ha meno acqua il fiume del Tanaro, si condusseno senza perdita d'uomini o altro danno, in otto alloggiamenti, alle mura d'Asti; nella quale città entrato il re alloggiò la gente di guerra in campagna, con intenzione di accrescere il suo esercito, e fermarsi tanto in Italia che avesse soccorso Novara; e il campo della lega che l'aveva seguitato insino in tortonese, disperato di potergli piú nuocere, s'andò a unire con la gente sforzesca intorno a quella città: la quale pativa già molto di vettovaglie, perché dal duca di Orliens e da' suoi non era stata usata diligenza alcuna di provederla, come, per essere il paese molto fertile, arebbono potuto fare abbondantissimamente; anzi, non considerando il pericolo se non quando era passata la facoltà del rimedio, avevano atteso a consumare senza risparmio quelle che vi erano.

Ritornorono, quasi ne' medesimi dí, a Carlo i cardinali e i capitani i quali, con infelice evento, avevano tentato le cose di Genova. Perché l'armata, presa che ebbe, nella prima giunta, la terra della Spezie, s'indirizzò a Rapalle, il qual luogo facilmente occupò; ma uscita del porto di Genova una armata di otto galee sottili di una caracca e di due barche biscaine, pose di notte in terra settecento fanti, i quali senza difficoltà presono il borgo di Rapalle con la guardia de' franzesi che v'era dentro; e accostatasi poi all'armata franzese che s'era ritirata nel golfo, dopo lungo combattere presono e abbruciorono tutti i legni, restando prigioni il capitano, e fatti piú famosi con questa vittoria quegli luoghi medesimi ne' quali l'anno precedente erano stati rotti gli aragonesi. Né fu questa avversità de' franzesi ristorata da quegli che erano andati per terra: perché, condotti per la riviera orientale insino in val di Bisagna e a' borghi di Genova, trovandosi ingannati dalla speranza che avevano conceputa che in Genova si facesse tumulto, e intesa la perdita dell'armata, passorno quasi fuggendo per la via de' monti, via molto aspra e difficile, in valle di Pozzeveri, che è all'altra parte della città; donde, con tutto che di paesani e di genti mandate in loro favore dal duca di Savoia molto ingrossati fussino, s'indirizzorono con la medesima celerità verso il Piemonte: né è dubbio che se quegli di dentro non si fussino astenuti da uscire fuora, per sospetto che la parte Fregosa non facesse novità, che gli arebbono interamente rotti e messi in fuga. Per il quale disordine, i cavalli de' Vitelli che si erano condotti a Chiavari, inteso il successo di coloro co' quali andavano a unirsi, se ne ritornorono tumultuosamente né senza pericolo a Serezana; e dalla Spezie in fuora, l'altre terre della riviera ch'erano state occupate da' fuorusciti richiamorono subito i genovesi: come similmente fece nella riviera di ponente la città di Ventimiglia, che ne' medesimi dí era stata occupata da Pol Battista Fregoso e da alcuni altri fuorusciti.

Cap. x

Vicende di guerra tra francesi e ispano - aragonesi nel reame di Napoli. Ritorno di Ferdinando d'Aragona in Napoli. Terre che si ribellano ai francesi. I veneziani occupano alcuni punti delle Puglie. La resa di Castelnuovo a Ferdinando. Patti di resa di Castel dell'Uovo. Morte di Alfonso d'Aragona.

Travagliavasi in questo tempo medesimo, ma con fortuna piú varia, non meno nel reame di Napoli che nelle parti di Lombardia; perché Ferdinando attendeva, poi che ebbe preso Reggio, alla recuperazione de' luoghi circostanti, avendo seco circa seimila uomini, tra quegli che e del paese e di Sicilia volontariamente lo seguitavano, e i cavalli e fanti spagnuoli de' quali era capitano Consalvo Ernandes di casa d'Aghilar, di patria cordovese, uomo di molto valore ed esercitato lungamente nelle guerre di Granata: il quale, nel principio della venuta sua in Italia, cognominato dalla iattanza spagnuola il gran capitano per significare con questo titolo la suprema potestà sopra loro, meritò, per le preclare vittorie che ebbe poi, che per consentimento universale gli fusse confermato e perpetuato questo sopranome, per significazione di virtú grande e di grande eccellenza nella disciplina militare. A questo esercito, il quale aveva già sollevato non piccola parte del paese, si fece incontro, appresso a Seminara terra vicina al mare, Obigní con le genti d'arme franzesi, che erano rimaste alla guardia della Calavria, e con cavalli e fanti avuti da' signori del paese i quali seguitavano il nome del re di Francia; ed essendo venuti alla battaglia, prevalse la virtú de' soldati di ordinanza ed esercitati all'imperizia degli uomini poco esperti, perché non solo gli italiani e siciliani, raccolti tumultuariamente da Ferdinando, ma eziandio gli spagnuoli erano gente nuova e con poca esperienza della guerra: e nondimeno si combatté per alquanto spazio di tempo ferocemente, perché la virtú e l'autorità de' capitani, che non mancavano d'ufficio alcuno appartenente a loro, sosteneva quegli che per ogn'altro conto erano inferiori. E sopra gli altri Ferdinando, combattendo come si conveniva al suo valore, ed essendogli stato ammazzato il cavallo sotto, sarebbe senza dubbio restato o morto o prigione se Giovanni di Capua fratello del duca di Termini, il quale, insino da puerizia suo paggio, era stato nel fiore della età molto amato da lui, smontato del suo cavallo non avesse fatto salirvi sopra lui, e con esempio molto memorabile di preclarissima fede e amore esposta la propria vita, perché fu subito ammazzato, per salvare quella del suo signore.

Fuggí Consalvo a traverso de' monti a Reggio, Ferdinando a Palma, che è in sul mare vicina a Seminara; dove montato in sull'armata si ridusse a Messina, cresciutagli per le cose avverse la volontà e l'animo di tentare di nuovo la fortuna; conciossiaché non solo gli fusse noto il desiderio che tutta la città di Napoli aveva di lui, ma ancora da molti de' principali della nobiltà e del popolo fusse occultamente chiamato. Però temendo che la dilazione e la fama della rotta avuta in Calavria non raffreddasse questa disposizione, raccolti, oltre alle galee che aveva condotte d'Ischia e quelle quattro con le quali s'era partito da Napoli Alfonso suo padre, i legni dell'armata venuta di Spagna, e quanti piú potette raccorne dalle città e da' baroni di Sicilia, si mosse del porto di Messina, non lo ritardando il non avere uomini da armargli, come quello che, non avendo forze convenienti a tanta impresa, era necessitato d'aiutarsi non meno con le dimostrazioni che con la sostanza delle cose. Partí adunque di Sicilia con sessanta legni di gaggia e con venti altri legni minori, e con lui Ricaiensio catelano, capitano dell'armata spagnuola, uomo nelle cose navali di grande virtú ed esperienza; ma con tanti pochi uomini da combattere che nella maggiore parte non erano quasi altri che i destinati al servigio del navigare. In questo modo erano piccole le forze sue, ma grande per lui il favore e la volontà de' popoli. Perciò arrivato alla spiaggia di Salerno, subito Salerno la costa di Malfi e la Cava alzorno le sue bandiere. Volteggiò di poi due giorni sopra a Napoli, aspettando, ma indarno, che nella terra si facesse qualche tumulto, perché i franzesi, prese presto l'armi e messe buone guardie ne' luoghi opportuni, repressono la ribellione che già bolliva; e arebbono rimediato a tutti i loro pericoli se avessino arditamente seguitato il consiglio di alcuni di loro i quali, congetturando i legni aragonesi essere male forniti di combattenti, confortavano Mompensieri che, ripiena l'armata franzese, che era nel porto, di soldati e d'uomini atti a combattere, assaltasse con essa gl'inimici. Ma Ferdinando, il terzo dí, disperato che nella città si facesse alterazione, si allargò in mare per ritirarsi a Ischia: onde i congiurati, considerando che per essere la congiurazione quasi scoperta era diventata causa propria la causa di Ferdinando, ristrettisi insieme e deliberati di fare della necessità virtú, mandorono segretamente uno battello a richiamarlo; pregandolo che, per dare piú facilità e animo a chi voleva levarsi in suo favore, mettesse in terra o tutta o parte della sua gente. Però di nuovo ritornato sopra a Napoli, il dí seguente a quello nel quale fu fatta la giornata in sulla ripa del fiume del Taro, si accostò al lito con l'armata, per porre in terra alla Maddalena, luogo propinquo a Napoli a uno miglio, dove entra in mare il picciolo piú presto rio che fiumicello chiamato Sebeto, incognito a ciascuno se non gli avessino dato nome i versi de' poeti napoletani. Il che vedendo Mompensieri, non manco pronto a procedere con audacia quando era necessario il timore che fusse stato pronto a procedere con timore quando era necessaria, il dí dinanzi, l'audacia, uscí fuora della città con quasi tutti i soldati per vietargli lo scendere in terra: il che fu cagione che avendo i napoletani tale opportunità quale appena arebbono saputa desiderare si levorono subito in arme, fatto il principio di sonare a martello dalla chiesa del Carmino vicina alle mura della città, e successivamente seguitando tutte l'altre, e occupate le porte, cominciorono scopertamente a chiamare il nome di Ferdinando. Spaventò questo subito tumulto i franzesi in modo che, non parendo loro sicuro lo stare in mezzo tra la città già ribellata e le genti inimiche, e manco sperando di potere per quella via donde erano usciti ritornarvi, deliberorno, attorniando le mura della città (cammino lungo montuoso e molto difficile), entrare in Napoli per la porta contigua a Castelnuovo. Ma Ferdinando, in questo mezzo entrato in Napoli, e messo con alcuni de' suoi a cavallo da' napoletani, cavalcò per tutta la terra con incredibile allegrezza di ciascuno; ricevendolo la moltitudine con grandissime grida, né si saziando le donne di coprirlo dalle finestre di fiori e d'acque odorifere, anzi molte delle piú nobili correvano nella strada ad abbracciarlo e ad asciugargli dal volto il sudore.

E nondimeno non si intermettevano per questo le cose necessarie alla difesa, perché 'l marchese di Pescara, insieme co' soldati che erano entrati con Ferdinando e con la gioventú napoletana, attendeva a sbarrare e a fortificare le bocche delle vie donde i franzesi potessino assaltare da Castelnuovo la terra. I quali, poiché furono ridotti in sulla piazza del castello, feciono ogni sforzo per rientrare nello abitato della città; ma essendo molestati con balestre e artiglierie minute, e trovata a tutti i capi delle strade sufficiente difesa, sopravenendone la notte, si ritirorono nel castello, lasciati i cavalli, che furono tra utili e inutili poco manco di dumila, in sulla piazza, perché nel castello non era né capacità di ricevergli né facoltà di nutrirgli. Rinchiusonvisi dentro, con Mompensieri, Ivo d'Allegri riputato capitano e Antonello principe di Salerno, e molt'altri franzesi e italiani di non piccola condizione; e benché per qualche dí facessino spesse scaramuccie in sulla piazza e intorno al porto, e traessino alla città con l'artiglierie, nondimeno, ributtati sempre dagl'inimici, restorno esclusi di speranza di potere da se stessi recuperare quella città. Seguitorono subito l'esempio di Napoli Capua, Aversa, la rocca di Mondragone e molte altre terre circostanti, e si voltò la maggiore parte del reame a nuovi pensieri: tra' quali il popolo di Gaeta, avendo prese l'armi con maggiore animo che forze, per essere comparite innanzi al porto alcune galee di Ferdinando, fu con molta uccisione superato da' franzesi che v'erano a guardia, i quali con l'impeto della vittoria saccheggiorono tutta la terra. E nel tempo medesimo l'armata viniziana accostatasi a Monopoli, città di Puglia, e posti in terra gli stradiotti e molti fanti, gli dette la battaglia per terra e per mare; nella quale Pietro Bembo, padrone di una galea viniziana, fu morto da quelli di dentro di uno colpo d'artiglieria. Prese finalmente la città per forza, e la rocca gli fu data per timore dal castellano franzese che vi era dentro; e di poi ebbe per accordo Pulignano.

Ma Ferdinando era intento ad acquistare Castelnuovo e Castel dell'Uovo, sperando che presto avessino ad arrendersi per la fame, perché a proporzione del numero degli uomini che vi era dentro vi era piccola provisione di vettovaglie; e attendendo continuamente a occupare i luoghi circostanti al castello, si sforzava di mettergli del continuo in maggiore strettezza. Perché i franzesi, non potendo stare sicura nel porto l'armata loro, che era di cinque navi quattro galee sottili una galeotta e uno galeone, l'aveano ritirata tra la Torre di San Vincenzio, Castel dell'Uovo e Pizzifalcone che si tenevano per loro, e tenendo le parti dietro a Castelnuovo, dove erano i giardini reali, si distendevano insino a Cappella; e fortificato il monasterio della Croce, correvano insino a Pié di Grotta e San Martino. Contro a' quali Ferdinando, avendo presa e messa in fortezza la cavalleria e fatte vie coperte per la Incoronata, occupò il monte di Sant'Ermo e dipoi il poggio di Pizzifalcone, tenendosi per i franzesi la fortezza posta in sulla sommità; alla quale per levare il soccorso, perché pigliandola arebbono potuto infestare di luogo eminente l'armata degli inimici, assaltorno le genti di Ferdinando il monasterio della Croce, ma ricevuto nell'accostarsi danno grande dall'artiglierie, disperati di ottenerlo per forza, si voltorono a ottenerlo per trattato, infelice a chi ne fu autore. Perché avendo uno moro che vi era dentro promesso fraudolentemente al marchese di Pescara, stato già suo padrone, di metterlo dentro, e perciò condottolo una notte in su una scala di legno appoggiata alle mura del monasterio a parlare seco, per stabilire l'ora e il modo di entrare la notte medesima, fu quivi con trattato doppio ammazzato con una freccia di una balestra che gli passò la gola. Né fu alle cose di Ferdinando poco importante la mutazione, prima di Prospero e poi di Fabbrizio Colonna; i quali, benché durante l'obligazione della condotta col re di Francia, passorono, quasi subito che ebbe recuperato Napoli, agli stipendi suoi, scusandosi non gli essere stati fatti a' tempi debiti i pagamenti promessi, e che Verginio Orsino e il conte di Pitigliano erano stati, con poco rispetto de' meriti loro, molto carezzati dal re: ragione che a molti parve inferiore alla grandezza de' benefici ricevuti da lui. Ma chi sa se quello che ragionevolmente doveva essere il freno a ritenergli fusse lo stimolo a fargli fare il contrario: perché quanto erano maggiori i premi che possedevano tanto fu, per avventura, piú potente in loro, poiché vedevano cominciare già a declinare le cose franzesi, la cupidità del conservargli. Ristretto in questo modo il castello, e serrato il mare da' navili di Ferdinando, cresceva continuamente il mancamento delle vettovaglie; e si sostentava solo con la speranza d'avere soccorso per mare, di Francia; perché Carlo, subito che era giunto in Asti, mandato Perone di Baccie, aveva fatto partire, dal porto di Villafranca appresso a Nizza, un'armata marittima che portava dumila tra guasconi e svizzeri e provedimento di vettovaglie; fattone capitano monsignore di Arbano, uomo bellicoso ma non esperimentato nel mare. La quale, condottasi insino all'isola di Ponzo, avendo scoperta all'intorno l'armata di Ferdinando che aveva trenta vele e due navi grosse genovesi, subito si messe in fuga; e seguitata insino all'isola dell'Elba, avendo perduta una navetta biscaina, si rifuggí con tanto spavento nel porto di Livorno che e' non fu in potestà del capitano ritenere che la piú parte de' fanti non scendessino in terra, e dipoi contro alla volontà sua andassino in Pisa. Per la ritirata di questa armata, Mompensieri e gli altri, stretti dalla carestia delle vettovaglie, patteggiorno di dare a Ferdinando il castello, dove erano stati assediati già tre mesi, e di andarsene in Provenza, se infra trenta dí non fussino soccorsi, salvo la roba e le persone di tutti quegli che v'erano dentro; e per l'osservanza dettono statichi Ivo di Allegri e tre altri a Ferdinando. Ma non si poteva, in tempo sí breve, sperare soccorso alcuno se non dalle genti medesime che erano nel regno. Però monsignore di Persí, uno de' capitani regi, avendo seco i svizzeri e una parte delle lancie franzesi, e accompagnato dal principe di Bisignano e da molti altri baroni, si mosse verso Napoli. La venuta del quale presentendo Ferdinando, mandò loro incontro a Eboli il conte di Matalona, con uno esercito la maggiore parte tumultuario, raccolto di confidati e d'amici: il quale, benché molto maggiore di numero, riscontratosi con gli inimici al lago Pizzolo vicino a Eboli, subito come si accostorono si messe in fuga senza combattere, restando nel fuggire prigione Venanzio figliuolo di Giulio da Varano signore di Camerino: ma perché non furono seguitati molto da' franzesi, si ridussono, ricevuto pochissimo danno, a Nola e dipoi a Napoli. Seguitorono i vincitori l'impresa del soccorrere le castella, e con tanta riputazione per la vittoria acquistata, che Ferdinando ebbe inclinazione d'abbandonare un'altra volta Napoli. Ma ripreso animo per i conforti de' napoletani, mossi non meno dal timore proprio, causato dalla memoria della ribellione, che dall'amore di Ferdinando, si fermò a Cappella; e per proibire che gli inimici non si accostassino al castello, finita una tagliata grande già cominciata dal monte di Santo Ermo insino a Castello dell'Uovo, providde di artiglierie e di fanti tutti i poggi insino a Cappella e sopra a Cappella: in modo che, con tutto che i franzesi, i quali erano venuti per la via di Salerno a Nocera per la Cava e per il monte di Pié di Grotta, si conducessino in Chiaia presso a Napoli, nondimeno essendo ogni cosa bene difesa, e dimostrandosi valorosamente Ferdinando e molestandogli molto l'artiglierie, massimamente quelle che erano piantate in sul poggio di Pizzifalcone, il qual poggio è imminente a Castel dell'Uovo, e dove già furono le delicatezze e le suntuosità tanto famose di Lucullo, non potettono passare piú innanzi né accostarsi a Cappella, né avendo facoltà di soggiornarvi, perché la natura, benignissima a quella costiera di tutte l'altre amenità, gli ha dinegato l'acque dolci, furono costretti a ritirarsi piú presto che non arebbono fatto, lasciati nel levarsi due o tre pezzi d'artiglieria e parte delle vettovaglie condotte per mettere nelle castella, e se ne andorono verso Nola: a' quali per opporsi, Ferdinando, lasciato assediato il castello, si fermò con le sue genti nel piano di Palma presso a Sarni. Ma Mompensieri, privato per la partita loro di ogni speranza di essere soccorso, lasciati in Castelnuovo trecento uomini, numero proporzionato non meno alla scarsità delle vettovaglie che alla difesa, e lasciato guardato Castel dell'Uovo, montato di notte, insieme con gli altri che erano dumila cinquecento soldati, in su' legni della sua armata, se ne andò a Salerno: non senza gravissime querele di Ferdinando, il quale pretendeva non gli essere stato lecito, pendente il termine dello arrendersi, partirsi con quelle genti di Castelnuovo se nel tempo medesimo non gli consegnava quello e Castel dell'Uovo; e perciò non fu senza inclinazione, seguitando il rigore de' patti, di vendicarsi, col sangue degli statichi, di questa ingiuria e del mancamento di Mompensieri, perché al termine convenuto non furono arrendute le castella. Ma passato il tempo circa a uno mese, quegli che erano rimasti in Castelnuovo, non potendo piú resistere alla fame, si arrenderono con condizione che fussino liberati gli statichi; e quasi ne' dí medesimi patteggiorno, per la medesima cagione, quegli che erano in Castel dell'Uovo, di arrendersi il primo dí della prossima quadragesima, se prima non fussino soccorsi.

Morí quasi circa a questo tempo a Messina Alfonso di Aragona, nel quale, asceso al regno napoletano, si era convertita in somma infamia e infelicità quella gloria e fortuna per la quale, mentre era duca di Calavria, fu molto illustrato per tutto il nome suo. È fama che poco innanzi alla morte avea fatto instanza col figliuolo di ritornare a Napoli, ove l'odio già avuto contro a lui era quasi convertito in benivolenza; e si dice che Ferdinando, potendo piú in lui, come è costume degli uomini, la cupidità del regnare che la riverenza paterna, non meno mordacemente che argutamente gli rispose, che aspettasse insino a tanto che da sé gli fusse consolidato talmente il regno che egli non avesse un'altra volta a fuggirsene. E per corroborare Ferdinando le cose sue con piú stretta congiunzione col re di Spagna, tolse per moglie, con la dispensa del pontefice, Giovanna sua zia, nata di Ferdinando suo avolo e di Giovanna sorella del prelato re.

Cap. xi

Le milizie de' veneziani e di Lodovico Sforza assediano Novara. Carlo VIII assolda nuovi svizzeri. Timori e provvedimenti de' collegati per gli appoggi della duchessa di Savoia a Carlo. Intimazione del pontefice a Carlo ed ironica risposta di questo. Patti conclusi tra Carlo e i fiorentini.

Ma mentre che l'assedio si teneva con vari progressi, come è detto, intorno alle castella di Napoli, l'assedio di Novara si riduceva in grande strettezza; perché e il duca di Milano v'aveva intorno potente esercito, e i viniziani l'avevano soccorso con tanta prontezza che rare volte è memoria che in impresa alcuna perdonassino manco allo spendere: in modo che, in breve tempo, si ritrovorono nel campo de' collegati tremila uomini d'arme tremila cavalli leggieri mille cavalli tedeschi e cinquemila fanti italiani. Ma quello in che consisteva la fortezza principale dell'esercito erano diecimila lanzechenech (cosí chiamano volgarmente i fanti tedeschi), soldati dal duca di Milano, la maggiore parte, per opporgli a' svizzeri; perché, non che altro, non sosteneva il nome loro la fanteria italiana, diminuita maravigliosamente di riputazione e di ardire dopo la venuta de' franzesi. Governavangli molti valorosi capitani, tra i quali era di maggiore nome Giorgio di Pietrapanta nativo d'Austria; il quale, essendo pochi anni innanzi soldato di Massimiliano re de' romani, aveva, con laude grande, tolto in Piccardia la terra di Santo Omero al re di Francia. Né solo era stato sollecito il senato viniziano a mandare molta gente a quello assedio ma ancora, per dare maggiore animo a' suoi soldati, aveva di governatore fatto capitano generale del loro esercito il marchese di Mantova, onorando la fortezza dimostrata da lui nel fatto d'arme del Taro; e con esempio molto grato e degno d'eterna laude, non solo accresciuto le condotte a quegli che s'erano portati valentemente, ma a' figliuoli di molti de' morti nella battaglia date provisioni e vari premi, e statuito le doti alle figliuole. Attendevasi con questo esercito sí potente allo assedio, perché era il consiglio de' collegati, i quali di questo si riferivano principalmente alla volontà di Lodovico Sforza, di non tentare, se non erano necessitati la fortuna della battaglia col re di Francia, ma fortificandosi allo intorno di Novara, ne' luoghi opportuni, proibire che vettovaglie non v'entrassino, sperando che, per esservene dentro piccola quantità e bisognarvene assai, non si potesse molti giorni sostenere: perché, oltre al popolo della città e i paesani che v'erano rifuggiti, v'aveva il duca d'Orliens, tra franzesi e svizzeri, piú di settemila uomini di gente molto eletta. Però Galeazzo da San Severino con l'esercito duchesco, deposto eziandio ogni pensiero della oppugnazione della città poi che era tanto copiosa di difensori, era alloggiato alle Mugne, luogo in sulla strada maestra molto opportuno a impedire le provisioni che venissino da Vercelli; e il marchese di Mantova con le genti viniziane, avendo in sulla giunta sua preso per forza alcune terre circostanti, e pochi dí poi il castello di Brione che era di qualche importanza, aveva fornito Camariano e Bolgari, luoghi tra Novara e Vercelli: e per impedire piú comodamente le vettovaglie avevano distribuito l'esercito in molti luoghi intorno a Novara, e fortificato gli alloggiamenti di tutti.

Da altra parte il re di Francia, per essere piú propinquo a Novara, s'era da Asti trasferito a Turino; e ancora che spesso andasse insino a Chieri, preso dall'amore d'una gentildonna che vi abitava, non si intermettevano per questo le provisioni della guerra, sollecitando continuamente le genti che passavano di Francia, con intenzione di mettere in sulla campagna dumila lancie franzesi. Ma con non minore studio s'attendeva a sollecitare la venuta di diecimila svizzeri, a soldare i quali era stato mandato il baglí di Digiuno; disegnando, subito che e' fussino arrivati allo esercito, fare lo sforzo possibile per soccorrere Novara, ma senza quegli non avendo ardire di tentare cosa alcuna memorabile. Perché il regno di Francia, potentissimo in questo tempo di cavalleria e instruttissimo di copia grande d'artiglierie e di grandissima perizia di maneggiarle, era debolissimo di fanteria propria; perché ritenute l'armi e gli esercizi militari solo nella nobiltà, era mancata nella plebe e negli uomini popolari l'antica ferocia di quella nazione, per avere lungamente cessato dalle guerre e datisi all'arti e a' guadagni della pace: conciossiaché molti de' re passati, temendo dell'impeto de' popoli, per l'esempio di varie congiurazioni e rebellioni che erano accadute in quel reame, avevano atteso a disarmargli e alienargli dagli esercizi militari. E però i franzesi, non confidando piú della virtú de' fanti propri, si conducevano timidamente alla guerra se nell'esercito loro non era qualche banda di svizzeri. La quale nazione, in ogni tempo indomita e feroce, aveva circa venti anni innanzi augumentato molto la sua riputazione; perché essendo assaltati con potentissimo esercito da Carlo duca di Borgogna, quello che per la potenza e per la fierezza sua era al regno di Francia e a tutti i vicini di grandissimo terrore, gli avevano in pochi mesi dato tre rotte e nell'ultima, o mentre combatteva o nella fuga (perché fu oscuro il modo della sua morte) privatolo della vita. Per la virtú loro adunque, e perché con essi non avevano i franzesi emulazione o differenza alcuna, né per propri interessi causa di sospettarne, come avevano de' tedeschi, non conducevano altri fanti forestieri che svizzeri, e usavano in tutte le guerre gravi l'opera loro; e in questo tempo piú volentieri che negli altri, per conoscere che il soccorrere Novara, circondata da tanto esercito e contro a tanti fanti tedeschi, che guerreggiavano con la medesima disciplina che i svizzeri, era cosa difficile e piena di pericoli.

È posta in mezzo tra Turino e Novara la città di Vercelli, membro già del ducato di Milano ma conceduta da Filippo Maria Visconte, nelle lunghe guerre che ebbe co' viniziani e co' fiorentini, ad Amideo duca di Savoia, perché s'alienasse da loro; nella quale città non era ancora entrata gente d'alcuna delle parti, perché la duchessa, madre e tutrice del piccolo duca di Savoia, e d'animo totalmente franzese, non aveva voluto scoprirsi per il re insino che non fusse piú potente, dando in questo mezzo parole grate e speranza al duca di Milano. Ma come il re, ingrossato già di gente, si trasferí a Turino città del medesimo ducato, consentí che in Vercelli entrassino de' suoi soldati; donde e a lui, per l'opportunità di quel luogo, era accresciuta la speranza di potere, come fussino arrivati tutti suoi sussidi, soccorrere Novara, e i confederati cominciavano a starne con non piccola dubitazione. E però, per stabilire con maggiore maturità come in queste difficoltà si avesse a procedere, andò all'esercito Lodovico Sforza, e con lui Beatrice sua moglie che gli era assiduamente compagna non manco alle cose gravi che alle dilettevoli; alla presenza del quale, e, come fu fama, per consiglio suo principalmente, fu dopo molte disputazioni conchiuso unitamente da' capitani: che per maggiore sicurtà di tutti l'esercito veneto si unisse con lo sforzesco alle Mugne, lasciando sufficiente guardia in tutti i luoghi vicini a Novara che fussino opportuni all'ossidione: che Bolgari s'abbandonasse, perché essendo vicino tre miglia a Vercelli, era necessario, se i franzesi vi fussino andati potenti per espugnarlo, o lasciarlo ignominiosamente perdere o, contro alle deliberazioni già fatte, andare a soccorrerlo con tutto l'esercito: che in Camariano, distante per tre miglia all'alloggiamento delle Mugne, si accrescesse il presidio; e che, fortificato il campo tutto con fossi e con ripari e con copia grande d'artiglierie, si pigliassino giornalmente l'altre deliberazioni secondo che insegnassino gli andamenti degl'inimici; non omettendo di dare il guasto e tagliare tutti gli alberi insino quasi alle mura di Novara, per dare incomodo e agli uomini e al saccomanno de' cavalli, de' quali nella città era grande moltitudine.

Queste cose deliberate, e fatta la mostra generale di tutto l'esercito, Lodovico Sforza se ne tornò a Milano, per fare piú prontamente le provisioni che di dí in dí fussino necessarie. E per favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze temporali, operorono, i viniziani ed egli, che 'l pontefice mandasse uno de' suoi mazzieri a Carlo, a comandargli che fra dieci dí si partisse d'Italia con tutto l'esercito, e fra altro termine breve levasse le genti sue del regno di Napoli; altrimenti, che sotto quelle pene spirituali con le quali minaccia la Chiesa comparisse a Roma innanzi a lui personalmente; rimedio tentato altre volte dagli antichi pontefici, perché, secondo che si legge, non con altre armi che queste Adriano, primo di quel nome, costrinse Desiderio re de' longobardi, che con esercito potente andava a perturbare Roma, a ritirarsi da Terni, dove già era pervenuto, a Pavia. Ma mancata la riverenza e la maestà che dalla santità della vita loro ne' petti degli uomini nascevano, era ridicolo sperare da costumi e esempli tanto contrari gli effetti medesimi. Però Carlo, deridendo la vanità di questo comandamento, rispose che, non avendo il pontefice voluto quando tornava da Napoli aspettarlo in Roma, dove era andato per baciargli divotamente i piedi, si maravigliava che al presente ne facesse tanta instanza: ma che per ubbidirlo attendeva ad aprirsi la strada, e lo pregava che, acciocché invano non pigliasse questa incomodità, fusse contento d'aspettarvelo.

Conchiuse in questo tempo il Carlo, in Turino, con gli imbasciadori de' fiorentini nuovi capitoli, non senza molta contradizione di quegli medesimi che altre volte gli avevano impugnati: a' quali dette maggiore occasione di contradire, che, avendo i fiorentini, dopo l'avere ricuperato l'altre castella delle colline di Pisa perdute nella ritornata di Carlo, posto il campo a Ponte di Sacco, e ottenutolo per accordo salve le persone de' soldati, erano stati contro alla fede data ammazzati nell'uscire quasi tutti i fanti guasconi che v'erano co' pisani, e usate contro a' morti molte crudeltà. Il che, se bene fusse avvenuto contro alla volontà de' commissari fiorentini, i quali con difficoltà grande ne salvorono una parte, ma per opera d'alcuni soldati, i quali stati prima prigioni dell'esercito franzese erano stati trattati molto acerbamente, nondimeno nella corte del re questo caso, interpretandosi dagli avversari loro per segno manifesto di animo inimicissimo al nome di tutti i franzesi, accrebbe difficoltà alla pratica dell'accordo: il quale pure finalmente si conchiuse, prevalendo a ogn'altro rispetto non la memoria delle promesse e del giuramento prestato solennemente ma la necessità urgente di danari e del soccorrere alle cose del regno di Napoli. Convennesi adunque in questa sentenza: che senza alcuna dilazione fussino restituite a' fiorentini tutte le fortezze e le terre che erano in mano di Carlo, con condizione che e' fussino obligati di dare infra due anni prossimi, quando cosí piacesse al re, e ricevendone conveniente ricompenso, Pietrasanta e Serezana a' genovesi, in caso venissino alla ubbidienza del re; sotto la quale speranza gl'imbasciadori de' fiorentini pagassino subito i trentamila ducati della capitolazione fatta in Firenze, ma ricevendo gioie in pegno per sicurtà del riavergli in caso non si restituissino per qualunque cagione le terre loro: che fatta la restituzione, prestassino al re sotto l'obligazione de' generali del reame di Francia (è questo il nome di quattro ministri regi che ricevono l'entrate di tutto il regno) settantamila ducati, pagandogli per lui alle genti che erano nel regno di Napoli, e intra gli altri una parte a' Colonnesi in caso non fussino accordati con Ferdinando; di che al re, benché avesse già dell'accordo di Prospero qualche indizio, non era pervenuta ancora la intera certezza: che non avendo guerra in Toscana, mandassino nel reame, in aiuto dell'esercito franzese, dugento cinquanta uomini d'arme; e in caso che avessino guerra in Toscana, ma non altra che quella di Montepulciano, fussino obligati a mandargli ad accompagnare insino nel regno le genti de' Vitelli, che erano nel contado pisano, ma non fussino obligati a tenervegli piú oltre che tutto il mese di ottobre: che a' pisani fussino perdonati tutti i delitti commessi, e data certa forma alla restituzione delle robe tolte, e fatte alcune abilità appartenenti all'arti e agli esercizi: e che per sicurtà dell'osservanza si dessino per statichi sei de' principali cittadini di Firenze, a elezione del re, per dimorare certo tempo nella sua corte. Il quale accordo conchiuso, e pagati col pegno delle gioie i trentamila ducati, che furono subito mandati per levare i svizzeri, furono espedite le lettere e i comandamenti regi a' castellani delle fortezze, che le restituissino immediate a' fiorentini.

Cap. xii

Condizioni difficili de' francesi in Novara. Segrete pratiche di concordia fra il re di Francia e il duca di Milano. Patti di pace proposti al re di Francia e discussione di essi nel consiglio del re. Carlo VIII, fatta la pace col duca di Milano, ritorna in Francia.

Ma le cose dentro a Novara diventavano ogni dí piú dure e piú difficili, con tutto che la virtú de' soldati fusse grande, e grandissima, per la memoria della ribellione, l'ostinazione de' novaresi a difendersi; perché erano già diminuite le vettovaglie talmente che la gente cominciava a patire molto de' cibi necessari: e benché Orliens, poiché si vidde ristretto, avesse mandate fuora le bocche inutili, non era tanto rimedio che bastasse; anzi de' soldati franzesi e de' svizzeri, poco abili a tollerare queste incomodità, incominciavano a infermarsene ogni dí molti. Onde Orliens, oppresso anche egli di febbre quartana, con messi spessi e lettere sollecitava Carlo a non prolungare il soccorso; il quale, non essendo ancora insieme tante genti che fussino abbastanza, non poteva essere sí presto che alla necessità sua cosí urgente sodisfacesse. Tentorono nondimeno i franzesi piú volte di mettere di notte in Novara vettovaglia, condotta da grosse scorte di cavalli e di fanti, ma scoperti sempre dagl'inimici furno costretti a ritirarsi, e qualche volta con danno non piccolo di coloro la conducevano. E per chiudere da ogni parte a quegli di dentro la via delle vettovaglie, il marchese di Mantova assaltò il monasterio di San Francesco propinquo alle mura di Novara, ed espugnatolo vi messe in guardia dugento uomini d'arme e tremila fanti tedeschi: donde gli eserciti si sgravorono di molte fatiche, restando assicurata la strada per la quale si conducevano le loro vettovaglie e serrata la via della porta di verso il monte di Biandrana, che era la via piú facile a entrare in Novara. Espugnò di piú il dí seguente il bastione fatto da' franzesi alla punta del borgo di San Nazaro, e la notte prossima tutto il borgo e l'altro bastione contiguo alla porta; nel quale messe la guardia, e fortificò il borgo: dove il conte di Pitigliano, che era stato condotto da' viniziani con titolo di governatore, ferito d'uno archibuso appresso alla cintura, stette in grave pericolo di morte. Per i quali progressi il duca d'Orliens, diffidandosi di potere piú difendere gli altri borghi, i quali quando si ritirò in Novara aveva fortificati, fattovi mettere fuoco, la notte seguente ridusse tutti i suoi alla guardia solamente della città, sostentandosi nella estremità della fame con la speranza del soccorso, che gli cresceva; perché essendo pure cominciati ad arrivare i svizzeri, l'esercito franzese, passato il fiume della Sesia, era uscito ad alloggiare in campagna un miglio fuora di Vercelli, e messa guardia in Bolgari aspettava il resto de' svizzeri, credendosi che come fussino arrivati si andrebbe subitamente a soccorrere Novara: cosa piena di molte difficoltà, perché le genti italiane erano alloggiate in forte sito e con gagliardi ripari, e il cammino da Vercelli a Novara era cammino copioso d'acque, e difficile per i fossi molto larghi e profondi de' quali è pieno il paese; e tra Bolgari, guardato da' franzesi, e l'alloggiamento degli italiani era Camariano, guardato da essi. Per le quali difficoltà non appariva nell'animo del re né degli altri molta prontezza. E nondimeno, se tutto il numero de' svizzeri fusse arrivato piú presto, arebbono tentata la fortuna della battaglia: l'evento della quale non poteva essere se non molto dubbio per ciascuna delle parti. E però, conoscendosi il pericolo da tutti, non mancavano continuamente tra il re di Francia e il duca di Milano secrete pratiche di concordia; benché con poca speranza, per la diffidenza grande che era tra loro, e perché l'uno e l'altro, per mantenersi in maggiore riputazione, dimostrava di non averne desiderio.

Ma il caso aperse uno altro mezzo piú espedito a tanta conclusione. Perché essendo in quegli medesimi dí morta la marchesana di Monferrato, e trattandosi di chi dovesse pigliare il governo di un piccolo figliuolo che aveva lasciato, al quale governo aspiravano il marchese di Saluzzo e Costantino fratello della marchesana morta, uno degli antichi signori di Macedonia, occupata molti anni innanzi da Maumeth ottomanno, il re, desideroso della quiete di quello stato, mandò, per ordinarlo secondo il consenso de' sudditi, Argenton a Casale Cervagio; dove essendo similmente andato, per condolersi della medesima morte, un maestro di casa del marchese di Mantova, nacque, tra questi due, ragionamento del beneficio che riporterebbe ciascuna delle parti della pace; il quale ragionamento procedé tanto avanti che, avendo Argenton, per conforto suo scritto sopra il medesimo a' proveditori viniziani, ripetendo le cose cominciate a trattare con loro insino in sul Taro, essi prestando orecchi e comunicando co' capitani del duca di Milano, finalmente tutti concordi mandorono a ricercare il re, il quale era venuto a Vercelli, che deputasse alcuni de' suoi, acciocché in qualche luogo comodo si conducessino a parlamento con quegli i quali sarebbono deputati da loro: il che avendo il re consentito, si congregorno il dí seguente, tra Bolgari e Camariano, per i viniziani il marchese di Mantova e Bernardo Contarino proveditore de' loro stradiotti, per il duca di Milano Francesco Bernardino Visconte, e per il re di Francia il cardinale di San Malò, il principe d'Oranges, il quale passato nuovamente di qua da' monti aveva per commissione del re la cura principale di tutto l'esercito, il marisciallo di Gies, Pienes e Argenton. I quali essendosi convenuti insieme piú volte; e inoltre andati, in diversi dí, alcuni di essi, dall'uno esercito all'altro, si ristrignevano principalmente le differenze alla città di Novara: perché il re, non ponendo difficoltà nell'effetto della restituzione ma nel modo, per minore offesa dell'onore proprio faceva instanza che, in nome del re de' romani, diretto signore del ducato di Milano, si dipositasse in mano d'uno di quegli capitani tedeschi che erano nel campo italiano; ma i collegati instavano si rilasciasse liberamente. Né si potendo questa e l'altre difficoltà che accadevano risolvere cosí presto come arebbono avuto di bisogno quegli che erano in Novara, ridotti tanto allo estremo che già per la fame, e per le infermità causate da quella, vi erano morti circa dumila uomini della gente di Orliens, fu fatto tregua per otto dí; dando facoltà a lui e al marchese di Saluzzo di andare con piccola compagnia a Vercelli, ma con promessa di ritornare dentro con la medesima compagnia se la pace non si facesse: per sicurtà del quale, avendo a passare per le forze degli inimici, il marchese di Mantova andò a una torre presso a Bolgari, in potestà del conte di Fois. Né arebbeno i soldati, i quali restorono in Novara, lasciatolo partire se da lui non avessino avuta la fede che, fra tre dí, o vi ritornerebbe o che essi arebbono per opera sua facoltà d'uscirsene; e dal marisciallo di Gies, che era andato a Novara per condurlo fuora, un suo nipote per statico: perché erano consumati non solo i cibi consueti al vitto umano ma eziandio gli immondi, da' quali gli uomini in tanta estremità non si erano astenuti. Ma come il duca d'Orliens fu arrivato al re si prolungò la tregua per pochi dí, con patto che tutta la gente sua uscisse di Novara, lasciando la terra in potestà del popolo, sotto giuramento di non la dare ad alcuna delle parti senza il consentimento comune; e che nella rocca rimanessino per Orliens trenta fanti, a' quali fusse dal campo italiano giornalmente mandata la vettovaglia. Cosí uscirono di Novara tutti i soldati, accompagnati, insino che furono in luogo sicuro dal marchese di Mantova e da Galeazzo da San Severino, ma tanto indeboliti e consumati dalla fame che non pochi di loro morirono appena arrivati a Vercelli e gli altri restorno inutili a adoperarsi in questa guerra. E in quegli dí medesimi arrivò il baglí di Digiuno col resto de' svizzeri; de' quali se bene non n'avesse dimandati piú che diecimila, non aveva potuto proibire che alla fama de' danari del re di Francia non concorressino quasi popolarmente, in modo che ascendevano al numero di ventimila: de' quali la metà si congiunse col campo che era appresso a Vercelli, l'altra metà si fermò discosto dieci miglia, non si giudicando totalmente sicuro che tanta quantità di quella nazione stesse insieme nel medesimo esercito. La cui venuta se fusse stata qualche dí prima arebbe facilmente interrotte le pratiche dell'accordo, perché nell'esercito del re erano, oltre a questi, ottomila fanti franzesi, dumila svizzeri di quegli che erano stati a Napoli, e le compagnie di mille ottocento lancie; ma essendo la materia tanto avanti, e già abbandonata Novara, non si intermessono i ragionamenti; con tutto che il duca di Orliens facesse opera efficace in contrario, e che nella sua sentenza molti altri concorressino. E perciò erano ogni dí i deputati nel campo italiano a praticare col duca di Milano, ritornatovi nuovamente per trattare da se medesimo cosa di tanta importanza, benché in presenza continuamente degli imbasciadori de' collegati; e finalmente i deputati ritornorono al re, riportando, per ultima conclusione di quello in che si poteva convenire: che tra il re di Francia e il duca di Milano fusse perpetua pace e amicizia, non derogando per questo il duca all'altre sue confederazioni; consentendo che la terra di Novara gli fusse restituita dal popolo e rilasciatagli la rocca da' fanti, e si restituissino la Spezie e gli altri luoghi occupati da ciascheduna delle parti: che al re fusse lecito armare a Genova, suo feudo, quanti legni volesse, e servirsi di tutte le comodità di quella città, eccetto che in favore degl'inimici di quello stato; e che per sicurtà di questo i genovesi gli dessino certi statichi: che 'l duca di Milano gli facesse restituire i legni perduti a Rapallo e le dodici galee ritenute a Genova, e gli armasse di presente a spese proprie due caracche grosse genovesi, le quali, insieme con quattro altre armate in nome suo, disegnava di mandare al soccorso del regno di Napoli; e che l'anno futuro fusse tenuto a dargliene tre nel modo medesimo: concedesse passo alle genti che 'l re mandasse per terra al medesimo soccorso, ma non passando per lo stato suo piú che dugento lancie per volta; e in caso che il re ritornasse a quella impresa personalmente dovesse il duca seguitarlo con certo numero di genti: avessino i viniziani facoltà d'entrare fra due mesi in questa pace, ed entrandovi ritirassino l'armata loro del regno di Napoli né potessino dare soccorso alcuno a Ferdinando; il che quando non osservassino, se il re volesse muovere loro la guerra fusse obligato il duca ad aiutarlo, per il quale si acquistasse tutto quello che si pigliasse dello stato de' viniziani: pagasse il duca, per tutto marzo prossimo, ducati cinquantamila a Orliens per le spese fatte a Novara; e de' danari prestati al re quando passò in Italia lo liberasse d'ottantamila ducati, gli altri, ma con termine piú lungo, gli fussino restituiti: fusse assoluto dal bando avuto dal duca, e rendutogli i suoi beni, il Triulzio; e il bastardo di Borbone preso nella giornata del Taro, e Miolans che era stato preso a Rapalle e tutti gli altri prigioni, fussino liberati: che il duca facesse partire di Pisa il Fracassa il quale poco innanzi v'aveva mandato, e tutte le genti sue e de' genovesi; né potesse impedire la recuperazione delle terre a' fiorentini: deponesse infra un mese il castelletto di Genova nelle mani del duca di Ferrara, che chiamato, per questo, dall'uno e dall'altro era venuto nel campo italiano; il quale l'avesse a guardare due anni a spese comuni, obligandosi con giuramento di consegnarlo, eziandio durante il tempo predetto, al re di Francia in caso che 'l duca di Milano non gli osservasse le promesse; il quale, conchiusa che fusse la pace, avesse a dare subito statichi al re per sicurtà di deporre al tempo convenuto il castelletto. Queste condizioni, riferite al re dai suoi che l'avevano trattate, furono da lui proposte nel suo consiglio; nel quale, variando gli animi di molti, monsignore della Tramoglia parlò in questa sentenza:

- Se nella presente deliberazione non si trattasse, magnanimo re, se non d'accrescere con opere valorose nuova gloria alla corona di Francia, io mi moverei per avventura piú lentamente a confortare che la persona vostra reale si esponesse a nuovi pericoli; ancora che l'esempio di voi medesimo vi dovesse consigliare in contrario, perché non mosso da altro che dalla cupidità della gloria deliberaste, contro a' consigli e contro a' prieghi di quasi tutto il vostro reame, di passare l'anno precedente in Italia al conquisto del regno di Napoli: ove avendo con tanta fama e onore avuto sí prospero successo la impresa vostra, è cosa manifestissima che oggi non viene solo in consulta se s'ha a rifiutare l'occasione d'acquistare onori e gloria nuova, ma se s'ha a deliberarsi di disprezzare e di lasciare perdere quella che con sí gravi spese e con tanti pericoli avete conseguita, e convertire l'onore acquistato in grandissima ignominia, ed essere voi quello che riprendiate e condanniate le deliberazioni fatte da voi medesimo. Perché poteva la Maestà Vostra senza alcuno carico suo starsene in Francia, né poteva quello che al presente sarà attribuito da tutto il mondo a somma timidità e viltà essere allora attribuito ad altro che a negligenza, o alla età occupata ne' piaceri. Poteva la Maestà Vostra, subito che fu giunta in Asti, con molto minore vergogna sua ritornarsene in Francia, dimostrando che a lei le cose di Novara non attenessino; ma ora, poiché fermata qui con l'esercito suo ha publicato d'essersi fermata per liberare dallo assedio Novara e, per questo, fatto venire di Francia tanta nobiltà, e con intollerabile spesa condotti tanti svizzeri, chi può dubitare che, non la liberando, la gloria vostra e del vostro reame non si converta in eterna infamia? Ma ci sono piú potenti o (se ne' petti magnanimi de' re non può essere maggiore né piú ardente stimolo che la cupidità della fama e de la gloria) almanco piú necessarie ragioni: perché la ritirata nostra in Francia, consentendo per accordo la perdita di Novara, non vuole dire altro che la perdita di tutto il regno di Napoli, che la distruzione di tanti capitani, di tanta nobiltà franzese, rimasta sotto la speranza vostra, sotto la fede data da voi di presto soccorrergli, alla difesa di quel reame; i quali resteranno disperati del soccorso come intenderanno che voi, trovandovi in sulle frontiere d'Italia con tanto esercito, con tante forze, cediate agl'inimici. Dependono in grande parte, come ognuno sa, dalla riputazione i successi delle guerre; la quale quando declina, declina insieme la virtú de' soldati diminuisce la fede de' popoli annichilansi l'entrate deputate a sostenere la guerra, e per contrario cresce l'animo degl'inimici alienansi i dubbii e augumentansi in infinito tutte le difficoltà. Però mancando, con nuova sí infelice, all'esercito nostro il suo vigore, e diventando maggiori le forze e la riputazione degl'inimici, chi dubita che presto sentiremo la ribellione di tutto il regno di Napoli? presto la disfazione del nostro esercito? e che quella impresa, cominciata e proseguita con tanta gloria, non ci arà partorito altro frutto che danno e infamia inestimabile? Perché chi si persuade che questa pace si faccia con buona fede dimostra di considerare poco le condizioni delle cose presenti, dimostra di conoscere poco la natura di coloro co' quali si tratta; essendo facile a comprendere che, come aremo voltate le spalle all'Italia, non ci sarà osservata cosa alcuna di quelle che si capitolano, e che in cambio di darci gli aiuti promessi sarà mandato soccorso a Ferdinando; e quelle genti medesime che si glorieranno d'averci fatto vilmente fuggire d'Italia andranno a Napoli ad arricchirsi delle spoglie de' nostri. La quale ignominia io tollererei piú facilmente se per alcuna probabile cagione si potesse dubitare della vittoria. Ma come può nascere in alcuno questo sospetto che, considerando la grandezza del nostro esercito, l'opportunità che abbiamo del paese circostante, si ricordi che, stracchi della lunghezza del cammino, assediati delle vettovaglie, pochissimi di numero e in mezzo di tutto il paese inimico, combattemmo sí ferocemente contro a grossissimo esercito in sul fiume del Taro? il quale fiume corse quel dí con grande impeto, piú grosso di sangue degli inimici che d'acqua propria; aprimmoci col ferro la strada, e vittoriosi cavalcammo otto giorni per il ducato di Milano, che tutto ci era contrario? Abbiamo al presente il doppio piú cavalleria e tanti piú fanti franzesi che allora non avevamo, e in cambio di tremila svizzeri n'abbiamo ora ventiduemila: gl'inimici, se bene augumentati di fanti tedeschi, si può dire che a comparazione nostra siano poco augumentati, perché la cavalleria loro è quasi la medesima, sono i medesimi capitani; e battuti una volta con tanto danno da noi, ritorneranno con grande spavento a combattere. E forse i premi della vittoria sono sí piccoli che abbino a essere vilipesi da noi? e non piú presto tali che debbiamo cercare di conseguirgli con qualunque pericolo? Perché non si combatte solamente la conservazione di tanta gloria acquistata, la conservazione del regno di Napoli, la salute di tanti vostri capitani e di tanta nobiltà, ma sarà posto in mezzo della campagna lo imperio di tutta Italia; la quale, vincendo qui, sarà per tutto preda della vittoria nostra: perché, che altre genti che altri eserciti restano agli inimici? nel campo de' quali sono tutte l'armi tutti i capitani che hanno potuto mettere insieme. Un fosso che noi passiamo, un riparo che noi spuntiamo, ci mette in seno cose sí grandi: lo imperio e le ricchezze di tutta Italia, la facoltà di vendicarci di tante ingiurie. I quali due stimoli, soliti ad accendere gli uomini pusillanimi e ignavi, se non moveranno la nazione nostra bellicosa e feroce potremo dire certamente esserci mancata piú presto la virtú che la fortuna; la quale ci ha arrecato occasione di guadagnare in sí piccolo campo, in sí poche ore, premi tanto grandi e tanto degni che né piú grandi né piú degni n'aremmo saputo noi medesimi desiderare. -

Ma in contrario il principe di Oranges parlò cosí:

- Se le cose nostre, cristianissimo re, non fussino ridotte in tanta strettezza di tempo, ma fussino in grado che ci dessino spazio d'accompagnare le forze con la prudenza e con la industria, e non ci necessitassino, se vogliamo perseverare nell'armi, a procedere impetuosamente e contro a tutti i precetti dell'arte militare, sarei ancora io uno di quegli che consiglierei che si rifiutasse l'accordo; perché in verità molte ragioni ci confortano a non l'accettare, non si potendo negare che il continuare la guerra sarebbe molto onorevole e molto a proposito delle cose nostre di Napoli. Ma i termini ne' quali è ridotta Novara e la rocca, dove non è da vivere pure per un giorno, ci costringono, se la vogliamo soccorrere, ad assaltare gl'inimici subitamente; e quando pure, lasciandola perdere, pensiamo a trasferire in altra parte dello stato di Milano la guerra, la stagione del verno che si appropinqua, molto incomoda a guerreggiare in questi luoghi bassi e pieni di acqua, la qualità del nostro esercito il quale, per la natura e moltitudine sí grande de' svizzeri, se non sarà adoperato presto potrebbe essere piú pernicioso a noi che agl'inimici, la carestia grandissima de' danari per la quale è impossibile il mantenerci qui lungamente, ci necessitano, non accettando l'accordo, a cercare di terminare presto la guerra: il che non si può fare altrimenti che andando a dirittura a combattere con gl'inimici. La qual cosa, per le condizioni loro e del paese, è tanto pericolosa che e' non si potrà dire che il procedere in questo modo non sia somma temerità e imprudenza: perché l'alloggiamento loro è tanto forte per natura e per arte, avendo avuto tempo sí lungo a ripararlo e a fortificarlo, i luoghi circostanti, che gli hanno messo in guardia sono sí opportuni alla difesa loro e sí bene muniti, il paese per la fortezza de' fossi e per l'impedimento dell'acque è sí difficile a cavalcare, che chi disegna d'andare distesamente a trovargli, e non d'accostarsi loro di passo in passo con le comodità e co' vantaggi e (come si dice) guadagnando il paese e gli alloggiamenti opportuni a palmo a palmo, non cerca altro che avventurarsi con grandissimo e quasi certissimo pericolo. Perché con quale discorso, con quale ragione di guerra, con quale esempio di eccellenti capitani, si debbe egli impetuosamente assaltare un esercito sí grosso che sia in uno alloggiamento sí forte, e sí copioso d'artiglierie? Bisogna, chi vuole procedere altrimenti che a caso, cercare di diloggiargli del forte loro, col prendere qualche alloggiamento che gli soprafaccia o con l'impedire loro le vettovaglie; delle quali cose non veggo se ne possa sperare alcuna se non procedendo maturamente e con lunghezza di tempo, il quale ciascuno conosce che abilità abbiamo di aspettare: senza che, la cavalleria nostra non è né di quel numero né di quel vigore che molti forse si persuadono, essendone, come ognuno sa, ammalati molti, molti ancora, e con licenza e senza licenza, ritornatisene in Francia, e la maggiore parte di quegli che restano, stracchi per la lunga milizia, sono piú desiderosi d'andarsene che di combattere; e il numero grande de' svizzeri, che è il nervo principale del nostro esercito, ci è forse cosí nocivo come sarebbe inutile il piccolo numero. Perché chi è quello che, esperto della natura e de' costumi di quella nazione e che sappia quanto sia difficile, quando sono tanti insieme, il maneggiargli, ci assicuri che non faccino qualche pericoloso tumulto, massime procedendo le cose con lunghezza? nella quale, per cagione de' pagamenti ne' quali sono insaziabili, e per altri accidenti, possono nascere mille occasioni di alterargli. Cosí restiamo incerti se gli aiuti loro ci abbino a essere medicina o veleno; e in questa incertitudine come possiamo noi fermare i nostri consigli? come possiamo noi risolverci a deliberazione alcuna animosa e grande? Nessuno dubita che piú onorevole sarebbe, piú sicura per la difesa del regno di Napoli, la vittoria che l'accordo; ma in tutte le azioni umane, e nelle guerre massimamente, bisogna spesso accomodare il consiglio alla necessità, né, per desiderio di ottenere quella parte che è troppo difficile e quasi impossibile, esporre il tutto a manifestissimo pericolo; né è manco ufficio del valoroso capitano fare operazione di savio che d'animoso. Né è stata l'impresa di Novara principalmente impresa vostra, né appartiene se non per indiretto a voi che non pretendete diritto al ducato di Milano; né fu la partita vostra da Napoli per fermarsi a fare la guerra nel Piemonte ma per ritornare in Francia, a fine di riordinarvi di danari e di genti, da potere piú gagliardamente soccorrere il regno di Napoli: il quale, in questo mezzo, col soccorso dell'armata partita da Nizza, con le genti vitellesche con gli aiuti e co' danari de' fiorentini, si intratterrà tanto che potrà facilmente aspettare le potenti provisioni che, ricondotto in Francia, voi farete. Non sono già io di quegli che affermi che il duca di Milano osserverà questa capitolazione; ma essendovi da lui e da' genovesi dati gli ostaggi, e depositando il castelletto secondo la forma de' capitoli, n'arete pure qualche arra e qualche pegno. Né sarebbe però da maravigliarsi molto che egli, per non avere a essere sempre il primo percosso da voi, desiderasse la pace; né hanno per sua natura le leghe, dove intervengono molti, tale fermezza o tale concordia che non si possa sperare d'averne a raffreddare o a disunire dagli altri qualcuno: ne' quali ogni piccola apertura che noi facessimo, ogni piccolo spiraglio che ci apparisse, aremmo la vittoria facile e sicura. Io finalmente vi conforto, re cristianissimo, all'accordo, non perché per se stesso sia utile o laudabile ma perché appartiene a' príncipi savi, nelle deliberazioni difficili e moleste, approvare per facile e desiderabile quella che sia necessaria o che sia manco di tutte l'altre ripiena di difficoltà e di dispiacere. -

Ripigliò il duca d'Orliens le parole del principe di Oranges, e con tanta acerbità che, trascorrendo l'uno e l'altro impetuosamente dalle parole calde alle ingiuriose, Orliens, presenti tutti, lo smentí; e nondimeno la inclinazione della maggiore parte del consiglio e quasi di tutto l'esercito era che s'accettasse la pace, potendo tanto in tutti, e non meno nel re che negli altri, la cupidità del ritornarsene in Francia che impediva il conoscere il pericolo del regno di Napoli, e quanto fusse ignominioso il lasciare perdere innanzi agli occhi propri Novara, e la partita d'Italia con condizioni, per la incertitudine della osservanza, cosí inique: la quale deliberazione fu con tanta caldezza favorita dal principe di Oranges che molti dubitorono che a requisizione del re de' romani, al quale era deditissimo, non riguardasse meno all'interesse del duca di Milano che a quello del re di Francia. Ed era grande appresso a Carlo la sua autorità, parte per lo ingegno e valore suo, parte perché facilmente da' príncipi sono riputati savi quegli consigli che si conformano piú alla loro inclinazione. Fu adunque stipulata la pace, la quale non prima giurata dal duca di Milano, il re, tutto intento al ritorno di Francia, se ne andò subito a Turino; sollecitato anche al partirsi da Vercelli perché quella parte de' svizzeri che era nel campo suo, per assicurarsi d'avere lo stipendio per tre mesi interi, come dicevano avere sempre osservato seco Luigi undecimo, con tutto che e' non fusse stato loro promesso, e che non avessino militato tanto tempo per lui, trattavano di ritenere o il re o i principali della sua corte: dal quale pericolo benché liberatosi con la súbita partita, nondimeno, avendo essi fatto prigioni il baglí di Digiuno e gli altri capi che gli avevano condotti fu alla fine necessitato d'assicurargli, con statichi e con promesse, della dimanda la quale facevano. Da Turino il re, desideroso di stabilire la pace fatta, mandò al duca di Milano il marisciallo di Gies il presidente di Gannai e Argenton, per indurlo a parlamento seco, il che egli dimostrava di desiderare ma dubitare di qualche fraude; e o per questo sospetto, o forse studiosamente interponendo difficoltà per non ingelosire gli animi de' collegati, o per ambizione di condurvisi come non inferiore al re di Francia, proponeva di fare l'abboccamento in mezzo di qualche riviera, in sulla quale, essendo stabilito un ponte o con le barche o con altra materia, restasse tra loro uno steccato forte di legname: nel qual modo si erano altre volte abboccati insieme i re di Francia e di Inghilterra, e altri príncipi grandi di ponente. Il che essendo ricusato dal re come cosa indegna di sé, e avendo ricevuto da lui gli statichi, mandò Perone di Baccie a Genova, per ricevere le due caracche promessegli e per armarne a spese proprie quattro altre, per soccorrere le castella di Napoli; le quali era già certificato non avere ricevuto il soccorso dell'armata mandata da Nizza, e perciò avere convenuto di arrendersi se fra trenta dí non fussino soccorse: disegnando mettervi su tremila svizzeri, e congiugnerle con l'armata ritiratasi a Livorno e con alcuni altri legni che s'aspettavano di Provenza, i quali senza le navi grosse genovesi non sarebbono stati bastanti a questo soccorso, essendo già ripieno il porto di Napoli di grossa armata; perché, oltre a' legni condottivi da Ferdinando, vi avevano i viniziani mandate venti galee e quattro navi di quella che aveva espugnato Monopoli. Mandò ancora il re Argenton a Vinegia per ricercargli che entrassino nella pace; e dipoi prese il cammino di Francia, con tanta celerità e ardore, egli e tutta la corte, d'esservi presto che, non che altro, non volesse soprasedere in Italia pochi dí per aspettare che i genovesi gli dessino gli statichi promessi, come senza dubbio non si partendo cosí presto fatto arebbono: e cosí, alla fine d'ottobre dell'anno mille quattrocento novantacinque, si ritornò di là da' monti, simile piú tosto, non ostante le vittorie ottenute, a vinto che a vincitore; lasciato in Asti, la quale città simulò d'avere comperata dal duca d'Orliens, governatore Gianiacopo da Triulzi con cinquecento lancie franzesi, le quali quasi tutte, fra pochi dí, di propria autorità lo seguitorono; né avendo lasciato al soccorso del regno di Napoli altra provisione che l'ordine delle navi che si armavano a Genova e in Provenza, e l'assegnamento degli aiuti e de' danari promessigli da' fiorentini.

Cap. xiii

Manifestazione del male detto da' francesi: "di Napoli", e dagli italiani: "francese". Suo luogo d'origine e sua diffusione.

Né pare, dopo la narrazione dell'altre cose, indegno di memoria che, essendo in questo tempo fatale a Italia che le calamità sue avessino origine dalla passata de' franzesi, o almeno a loro fussino attribuite, che allora ebbe principio quella infermità che, chiamata da' franzesi il male di Napoli, fu detta comunemente dagli italiani le bolle o il male franzese; perché, pervenuta in essi mentre erano a Napoli, fu da loro, nel ritornarsene in Francia, diffusa per tutta Italia: la quale infermità o del tutto nuova o incognita insino a questa età nel nostro emisperio, se non nelle sue remotissime e ultime parti, fu massime per molti anni tanto orribile che, come di gravissima calamità, merita se ne faccia menzione. perché scoprendosi o con bolle bruttissime, le quali spesse volte diventavano piaghe incurabili, o con dolori intensissimi nelle giunture e ne' nervi per tutto il corpo, né usandosi per i medici, inesperti di tale infermità, rimedi appropriati ma spesso rimedi direttamente contrari e che molto la facevano inacerbire, privò della vita molti uomini di ciascuno sesso e età, molti diventati d'aspetto deformissimi restorono inutili e sottoposti a cruciati quasi perpetui; anzi la maggiore parte di coloro che pareva si liberassino ritornavano in breve spazio di tempo nella medesima miseria; benché, dopo il corso di molti anni, o mitigato lo influsso celeste che l'aveva prodotta cosí acerba, o essendosi per la lunga esperienza imparati i rimedi opportuni a curarla, sia diventata molto manco maligna; essendosi anche per se stessa trasmutata in piú specie diverse dalla prima. Calamità della quale certamente gli uomini della nostra età si potrebbono piú giustamente querelare se pervenisse in essi senza colpa propria: perché è approvato, per consentimento di tutti quegli che hanno diligentemente osservata la proprietà di questo male, che o non mai o molto difficilmente perviene in alcuno se non per contagione del coito. Ma è conveniente rimuovere questa ignominia dal nome franzese, perché si manifestò poi che tale infermità era stata traportata di Spagna a Napoli, né propria di quella nazione ma condotta quivi di quelle isole le quali, come in altro luogo piú opportunamente si dirà, cominciorono, per la navigazione di Cristofano Colombo genovese, a manifestarsi, quasi in questi anni medesimi, al nostro emisperio. Nelle quali isole, nondimeno, questo male ha prontissimo, per benignità della natura, il rimedio; perché beendo solamente del succo d'un legno nobilissimo per molte doti memorabili, che quivi nasce, facilissimamente se ne liberano.