Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume terzo
Cap. i
Lodi generali al senato veneziano ed al duca di Milano per aver essi liberato l'Italia dai francesi. Lodovico Sforza mantiene fede solo ad alcune delle condizioni di pace. Fa spogliare delle scritture riguardanti i patti conclusi con Carlo VIII l'oratore fiorentino. Ambizione de' veneziani e dello Sforza al dominio di Pisa. Restituzione della terra e delle fortezze di Livorno ai fiorentini. Entraghes malgrado le lettere del re non consegna Pisa ai fiorentini ed impedisce che essi se ne impadroniscano.
La ritornata poco onorata del re di Francia di là da' monti, benché proceduta piú da imprudenza o da disordini che da debolezza di forze o da timore, lasciò negli animi degli uomini speranza non mediocre che Italia, percossa da infortunio tanto grave, avesse presto a rimanere del tutto libera dallo imperio insolente de' franzesi; onde risonavano per tutto le laudi del senato viniziano e del duca di Milano che, prese l'armi, con savia e animosa deliberazione, avessino vietato che sí preclara parte del mondo non cadesse in servitú di forestieri: i quali se, acciecati dalle cupidità particolari, non avessino, eziandio con danno e infamia propria, corrotto il bene universale, non si dubita che Italia reintegrata co' consigli e le forze loro nel pristino splendore, sarebbe stata per molti anni sicura dall'impeto delle nazioni oltramontane. Ma l'ambizione, la quale non permesse che alcuno di loro stesse contento a' termini debiti, fu cagione di rimettere presto Italia in nuove turbazioni, e che non si godesse il frutto della vittoria che ebbono poi contro all'esercito franzese, che era rimasto nel regno di Napoli; la quale vittoria la negligenza e i consigli imprudenti del re lasciorono loro facilmente conseguire, essendo il soccorso disegnato da lui, quando si partí d'Italia, restato vano, perché né le provisioni dell'armata né gli aiuti promessi da' fiorentini ebbono effetto.
Non era Lodovico Sforza condisceso con sincera fede alla pace con Carlo, perché ricordandosi, come è natura di chi offende, delle ingiurie che gli avea fatte si persuadeva non potere piú sicuramente commettersi alla sua fede, ma il desiderio di ricuperare Novara e di liberare dalla guerra lo stato proprio l'avevano indotto a promettere quello che non aveva in animo di osservare. Né si dubitò che alla pace fatta con questa simulazione fusse intervenuto il consentimento del senato viniziano, desideroso d'alleggerirsi senza infamia sua della spesa smisurata la quale per la loro republica si sosteneva intorno a Novara. E nondimeno Lodovico, per non si partire subito cosí impudentemente, ma con qualche colore, dalla capitolazione, adempié quello che e' non poteva negare che fusse in arbitrio suo: dette gli statichi, fece liberare i prigioni pagando del suo proprio le taglie loro, restituí i legni presi a Rapalle, rimosse di Pisa il Fracassa, il quale non poteva dissimulare che fusse stipendiario suo; e infra 'l mese convenuto ne' capitoli, consegnò il castelletto di Genova al duca di Ferrara, che andò in persona a riceverlo. Ma da altra parte lasciò in Pisa Luzio Malvezzo con non piccolo numero di gente, come soldato de' genovesi; permesse che andassino nel regno di Napoli due caracche che a Genova s'erano armate per Ferdinando, scusandosi che, per averle egli soldate innanzi si conchiudesse la pace, non si consentiva a Genova il negargliene; impedí occultamente che i genovesi gli dessino gli ostaggi; e, quello che fu di maggiore momento alla perdita delle castella di Napoli, poi che 'l re ebbe finito d'armare le quattro navi, ed egli proveduto alle due alle quali era tenuto, operò che i genovesi dimostrando timore ricusassino ch'elle si armassino di soldati del re, se prima non ricevevano da lui sufficiente sicurtà di non se le appropriare, né di tentare con esse di mutare il governo di Genova: delle quali cavillazioni facendo il re per uomini propri querela a Lodovico, ora rispondeva avere promesso di dare le navi ma non obligatosi che le si potessino fornire di gente franzese, ora che il dominio che aveva di Genova non era assoluto, ma limitato con tali condizioni che in potestà sua non era il costringergli a fare tutto quello che gli paresse, e specialmente le cose che essi pretendessino essere pericolose allo stato e alla città propria; le quali escusazioni per corroborare piú, operò che il pontefice comandasse a' genovesi e a lui, sotto pena delle censure, che non lasciassino cavare di Genova legni di alcuna sorte al re di Francia. Onde restò vano questo soccorso, aspettato con sommo desiderio da' franzesi che erano nel reame di Napoli. Come similmente restorono vani i danari e gli aiuti promessi da' fiorentini. Perché dopo l'accordo fatto a Turino essendo partito subito con tutte le espedizioni necessarie Guidantonio Vespucci, uno degli oratori che erano intervenuti a conchiuderlo, e passando senza sospetto per il ducato di Milano perché la republica fiorentina non si era dichiarata inimica di alcuno, fu per commissione del duca ritenuto in Alessandria, toltegli tutte le scritture, ed egli condotto a Milano; dove intesa la capitolazione e le promesse de' fiorentini, fu deliberato da' viniziani e dal duca essere bene di non lasciare perire i pisani, i quali, subito che il re di Francia era partito da Pisa, avevano per nuovi imbasciadori raccomandate a Vinegia e a Milano le cose loro: movendosi amendue, con consenso del pontefice e degli oratori degli altri confederati, sotto pretesto di impedire i danari e le genti che i fiorentini doveano, riavendo Pisa e l'altre terre, mandare nel regno di Napoli: e perché, essendo congiunti al re di Francia, potrebbono, diventati piú potenti per la recuperazione di quella città e liberatisi da quello impedimento, nuocere in molti modi alla salute d'Italia.
Ma si movevano principalmente per la cupidità d'insignorirsi di Pisa; alla quale preda, disegnata molto prima da Lodovico, incominciavano medesimamente a volgere gli occhi i viniziani, come quegli che, per essere dissoluta l'antica unione degli altri potentati e indebolita una parte di coloro che solevano opporsegli, abbracciavano già co' pensieri e con le speranze la monarchia d'Italia: alla quale cosa pareva che fusse molto opportuno il possedere Pisa, per cominciare con la comodità del porto suo, in quale si giudicava che difficilmente potessino, non avendo Pisa, conservarsi lungo tempo i fiorentini, a distendersi nel mare di sotto, e per fermare con la comodità della città un piede di non piccola importanza in Toscana. Nondimeno erano stati piú pronti gli aiuti del duca di Milano; il quale, intrattenendosi nel tempo medesimo con varie pratiche co' fiorentini, aveva ordinato che Fracassa, sotto colore di faccende private, perché avea possessioni in quello contado, andasse a Pisa, e che i genovesi vi mandassino di nuovo fanti: attendendo in questo mezzo i viniziani a confortare i pisani con promesse di mandare loro aiuto, per il che avevano mandato a Genova uno secretario a soldare fanti e a confortare i genovesi a non abbandonare i pisani; ma il mandargli a Pisa eseguivano lentamente, perché, mentre che la cittadella era tenuta per il re e, molto piú, mentre che il re era in Italia, non giudicavano essere da fare molto fondamento in quelle cose.
E da altra parte i fiorentini, intese le nuove convenzioni fatte dagli oratori loro col re a Turino, avevano augumentato l'esercito loro, per potere, subito che arrivassino l'espedizioni regie, costrignere i pisani a ricevergli: le quali mentre ritardano, per l'arrestamento fatto del loro imbasciadore, preso il castello di Palaia, poseno il campo a Vico Pisano. L'oppugnazione del qual castello riuscí vana: parte perché i capitani, o con cattivo consiglio o perché giudicassino non avere gente sufficiente a porre il campo dalla parte di verso Pisa, massime avendovi i pisani fatto uno bastione in luogo rilevato assai vicino alla terra, s'accamporono dalla banda di sotto verso Bientina, luogo poco opportuno a nuocere a Vico, e dove stando restava aperto il cammino da Pisa e da Cascina agli assediati; parte perché Pagolo Vitelli con la compagnia sua e de' fratelli, ricevuti tremila ducati da' pisani, v'entrò alla difesa, dicendo avere lettere dal re e comandamento dal generale di Linguadoca, fratello del cardinale di San Malò, il quale infermo era rimasto a Pietrasanta, di difendere, insino che altro non gli fusse ordinato, Pisa e il suo contado: ed era certamente cosa maravigliosa che in uno tempo medesimo i pisani fussino difesi dalle genti del re di Francia e aiutati similmente da quelle del duca di Milano e nutriti di speranze da' viniziani, con tutto che e quel senato e il duca fussino in manifesta guerra col re. Per il soccorso delle genti de' Vitelli si difese facilmente Vico Pisano, e con danno non piccolo del campo de' fiorentini, il quale alloggiava in luogo sí scoperto che era molto offeso dall'artiglierie state condotte in Vico da' pisani; in modo che, dopo esservi dimorato molti dí, fu necessario che i capitani disonoratamente se ne levassino. Ma essendo arrivate poi l'espedizioni regie, le quali duplicate erano state mandate occultamente per diverse vie, furno subito restituite a' fiorentini la terra e le fortezze di Livorno e del porto, da Saliente luogotenente di monsignore di Beumonte, al quale il re l'aveva date a guardia; e monsignore di Lilla, deputato commissario a ricevere da' fiorentini la ratificazione dell'accordo fatto a Turino e a fare eseguire la restituzione, cominciò a trattare con Entraghes, castellano della cittadella di Pisa e delle rocche di Pietrasanta e di Mutrone, per stabilire seco il dí e il modo del consegnarle.
Ma Entraghes, indotto o dalla medesima inclinazione che ebbono in Pisa tutti i franzesi o da secrete commissioni che avesse da Ligní, sotto 'l cui nome e come dependente da lui era, quando il re partí da Pisa, stato proposto a questa guardia, o stimolato dall'amore portava a una fanciulla figliuola di Luca del Lante cittadino pisano, perché non è credibile lo movessino solamente i danari, de' quali poteva sperare di ricevere maggiore quantità da' fiorentini, cominciò a interporre varie difficoltà; ora dando interpretazione fuora del vero senso alle patenti regie, ora affermando d'avere avuto da principio comandamento di non le restituire se non riceveva contrasegni occulti da Ligní: sopra le quali cose essendosi disputato qualche dí, fu necessario a' fiorentini fare nuova instanza col re, il quale ancora era a Vercelli, che facesse provisione a questo disordine, nato con tanta offesa della degnità e utilità propria. Dimostrò il re molestia grande della disubbidienza d'Entraghes, però non senza indegnazione comandò a Ligní che lo costrignesse a ubbidire; con intenzione di mandare, con questo ordine e con nuove patenti, e con lettere efficaci del duca d'Orliens del quale esso era suddito, un uomo d'autorità: ma potendo piú la pertinacia di Ligní e i favori suoi che il poco consiglio del re, fu prolungata l'espedizione per qualche dí, e alla fine mandato con essa non un uomo d'autorità ma Lanciaimpugno privato gentiluomo; col quale andò Cammillo Vitelli, per condurre nel reame di Napoli, con parte de' danari che avevano a sborsare i fiorentini, le genti sue, le quali, subito che arrivorono le patenti regie, s'erano unite con l'esercito loro. Non partorí questa espedizione frutto maggiore che avesse partorito la prima, benché 'l castellano avesse già ricevuto dumila ducati da' fiorentini per sostentare, insino alla risposta del re, i fanti che erano alla guardia della cittadella, e che a Cammillo fussino stati pagati tremila ducati perché aveva impedito che, altrimenti, le lettere regie si presentassino. Perché il castellano, il quale, secondo che si credé, aveva ricevute per altra via occultamente da Ligní commissioni contrarie, dopo cavillazione di molti dí, giudicando che i fiorentini, per essere in Pisa oltre agli uomini della terra e del contado mille fanti forestieri, non fussino bastanti a sforzare il borgo di San Marco, congiunto alla porta fiorentina contigua alla cittadella, alla fronte del quale aveano prima, di suo consentimento, lavorato uno bastione molto grande, e cosí potersi da sé conseguire l'effetto medesimo senza privarsi di tutte l'escusazioni appresso al re, fece intendere a' commissari fiorentini che si presentassino con l'esercito alla porta predetta, il che non potevano fare se non espugnavano il borgo, perché se i pisani non volessino mettergli dentro d'accordo, gli sforzerebbe ad abbandonarla, essendo sottoposta quella porta all'artiglierie della cittadella, in modo che contro alla volontà di chi v'era dentro non si poteva difendere. Però andativi con grande apparato, e con grande ardire e accesa disposizione di tutto il campo, che alloggiava a San Rimedio luogo vicino al borgo, assaltorono con tale valore da tre bande il bastione, della disposizione del quale e de' ripari aveano informazione da Pagolo Vitelli, che molto presto messono in fuga quegli che lo difendevano; e seguitandogli entrorono alla mescolata con essi nel borgo, per un ponte levatoio che si congiugneva col bastione, ammazzando e facendo prigioni molti di loro. Né è dubbio che col medesimo impeto e senza avere aiuto dalla cittadella arebbono nel tempo medesimo, per la porta dove già erano entrati alcuni de' loro uomini d'arme, acquistata Pisa, perché i pisani messi in fuga niuna resistenza faceano; ma il castellano, vedendo le cose riuscire a fine contrario di quello che aveva disegnato, cominciò a tirare con l'artiglierie alle genti de' fiorentini: dal quale improviso accidente sbigottiti i commissari e i condottieri, essendo già dall'artiglierie stati morti e feriti molti soldati, tra' quali Pagolo Vitelli ferito in una gamba, disperati di potere con l'opposizione della cittadella pigliare in quel dí Pisa, fatto sonare a raccolta, feciono ritirare le genti, restando in potestà loro il borgo acquistato, benché fra pochi giorni fussino necessitati di abbandonarlo, perché battuti continuamente dall'artiglierie della cittadella danno grandissimo vi ricevevano; e si ritirorno verso Cascina, attendendo che provisioni facesse piú il re contro a sí manifesta contumacia de' suoi medesimi.
Cap. ii
Difficoltà create a' fiorentini da' potentati della lega. Lotta di fazioni in Perugia e nell'Umbria. Vani tentativi di Piero de' Medici per avere aiuti sufficienti ad entrare in Firenze. Verginio Orsino passa al soldo del re di Francia.
Le quali mentre che s'aspettano, non mancavano da altre parti a' fiorentini nuovi e pericolosi travagli, suscitati principalmente da' potentati della lega. I quali, a fine di interrompere l'acquisto di Pisa e di costrignergli a separarsi dalla confederazione del re di Francia, confortorono Piero de' Medici che con l'aiuto di Verginio Orsino, il quale fuggito del campo de' franzesi il dí del fatto d'arme del Taro era tornato a Bracciano, tentasse di ritornare in Firenze; cosa facile a persuadere all'uno e all'altro, perché a Verginio era molto a proposito, in qualunque evento fusse per avere questo conato, raccorre co' danari d'altri i suoi antichi soldati e partigiani e rimettersi in sulla riputazione dell'armi; e a Piero, secondo il costume de' fuorusciti, non mancavano varie speranze, per gli amici che aveva in Firenze, ove anche intendeva dispiacere a molti de' nobili il governo popolare, e per gli aderenti e seguaci assai che per la inveterata grandezza della famiglia sua avea in tutto il dominio fiorentino. Credettesi che questo disegno avesse avuto origine a Milano, perché Verginio quando fuggí da' franzesi era andato subito a visitare il duca, ma si stabilí poi in Roma, ove fu trattato molti dí appresso al pontefice dall'oratore veneto e dal cardinale Ascanio, il quale procedeva per commissione di Lodovico suo fratello. E furono i fondamenti e le speranze di questa impresa che, oltre alle genti che metterebbe insieme Verginio de' suoi antichi soldati, e con diecimila ducati i quali Piero de' Medici aveva raccolti del suo proprio e dagli amici, Giovanni Bentivoglio, soldato de' viniziani e del duca di Milano, rompesse nel tempo medesimo la guerra da' confini di Bologna, e che Caterina Sforza, i figliuoli della quale erano agli stipendi del duca di Milano, desse dalle città di Imola e di Furlí, che confinano co' fiorentini, qualche molestia; e si promettevano non vanamente avere disposti al desiderio loro i sanesi, accesi dall'odio inveterato contro a' fiorentini e dalla cupidità di conservarsi Montepulciano, la quale terra non si confidavano di potere sostenere da loro medesimi. Perché, avendo pochi mesi innanzi, con le forze proprie e con le genti del signore di Piombino e di Giovanni Savello soldati comunemente dal duca di Milano e da essi, tentato d'insignorirsi del passo della palude delle Chiane, il quale da quella banda era confine tra i fiorentini e loro per lungo tratto, e a questo effetto cominciato a lavorare appresso al ponte a Valiano uno bastione, per battere una torre de' fiorentini posta in sulla punta del ponte di verso Montepulciano, era riuscito tutto il contrario; perché i fiorentini, commossi dal pericolo della perdita di questo ponte, che gli privava della facoltà di molestare Montepulciano, e dava adito agli inimici d'entrare ne' territori di Cortona e d'Arezzo e degli altri luoghi che dall'altra parte della Chiana appartengono al dominio loro, mandatovi potente soccorso sforzorono il bastione cominciato da' sanesi, e per stabilirsi totalmente il passo fabricorno appresso al ponte, ma di là dalla Chiana, un bastione capacissimo d'alloggiarvi molta gente: con l'opportunità del quale, scorrendo insino alle porte di Montepulciano, infestavano medesimamente tutte le terre che i sanesi tenevano da quella parte. E a questo successo s'era aggiunto che, poco poi che fu passato il re di Francia, avevano rotto appresso a Montepulciano le genti de' sanesi e fatto prigione Giovanni Savello loro capitano. Speravano inoltre Verginio e Piero de' Medici d'ottenere ricetto e qualche comodità da' perugini: non solo perché i Baglioni, i quali con l'armi e col seguito de' partigiani dominavano quasi quella città, erano congiunti a Verginio, seguitando ciascuno di loro il nome della fazione guelfa, e perché con Lorenzo padre di Piero, e poi con Piero mentre era in Firenze, avevano tenuto strettissima amicizia e stati favoriti sempre contro a' movimenti degl'inimici, ma ancora perché, essendo sottoposti alla Chiesa, benché piú nelle dimostrazioni che negli effetti, si credeva che in questo che non apparteneva principalmente allo stato loro avessino a cedere alla volontà del pontefice, aggiugnendovisi massimamente l'autorità de' viniziani e del duca di Milano.
Partiti adunque con queste speranze Verginio e Piero de' Medici di terra di Roma, persuadendosi che i fiorentini, divisi tra loro medesimi e assaltati col nome de' confederati da tutti i vicini, potessino con fatica resistere, poi che ebbono soggiornato qualche dí tra Terni e Todi e in quelle circostanze, dove Verginio attendendo ad abbassare per tutto la fazione ghibellina traeva da' guelfi danari e aiuto di genti, si pose a campo in favore de' perugini a Gualdo, terra posseduta dalla comunità di Fuligno ma venduta prima per seimila ducati dal pontefice a' perugini, accesi non tanto dal desiderio di possederla quanto dalla contenzione delle parti, per le quali tutte le terre circostanti si trovavano allora in grandissimi movimenti. Perché pochi dí innanzi gli Oddi, fuorusciti di Perugia e capi della parte avversa a' Baglioni, aiutati da quegli di Fuligno di Ascesi e d'altri luoghi vicini che seguitavano la parte ghibellina, erano entrati in Corciano, luogo forte vicino a Perugia a cinque miglia, con trecento cavalli e cinquecento fanti; per il quale accidente essendo sollevato tutto il paese, perché Spoleto Camerino e gli altri luoghi guelfi erano favorevoli a' Baglioni, gli Oddi pochi dí dopo entrorono una notte furtivamente in Perugia, e con tanto spavento de' Baglioni che già perduta la speranza del difendersi cominciavano a mettersi in fuga: e nondimeno perderono, per uno inopinato e minimo caso, quella vittoria che non poteva torre piú loro la possanza degl'inimici. Perché essendo già pervenuti senza ostacolo a una delle bocche della piazza principale, e volendo uno di loro, che a questo effetto aveva portato una scure, spezzare una catena, la quale secondo l'uso delle città faziose attraversava la strada, impedito a distendere le braccia da' suoi medesimi che calcati gli erano intorno, gridò con alta voce: - addietro, addietro - acciocché allargandosi gli dessino facoltà di adoperarsi; la quale voce, replicata di mano in mano da chi lo seguitava e intesa dagli altri come incitamento a fuggire, mésse senza altro scontro o impedimento in fuga tutta la gente, non sapendo alcuno da chi cacciati o per quale cagione si fuggissino: dal quale disordine preso animo e rimessisi insieme gli avversari, ammazzatine nella fuga molti di loro, e preso Troilo Savello, il quale per la medesima affezione della parte era stato mandato in aiuto degli Oddi dal cardinale Savello, seguitorno gli altri insino a Corciano, e lo recuperorno con l'impeto medesimo; né saziati per la morte di quegli che erano stati uccisi nel fuggire ne impiccorono in Perugia molti degli altri, con la crudeltà che tra loro medesimi usano i parziali. Da' quali tumulti essendo nate molte uccisioni nelle terre vicine per conto delle parti, sollecite ne' tempi sospetti a sollevarsi, o per sete d'ammazzare gl'inimici o per paura di non essere prevenuti da loro, i perugini concitati contro a' fulignati avevano mandato il campo a Gualdo; dove avendo data la battaglia invano, diffidatisi di poterlo ottenere con le loro forze, accettorono gli aiuti di Verginio, il quale si offerse loro acciocché al nome della guerra e delle prede concorressino piú facilmente i soldati. E nondimeno, stimolati da lui e da Piero de' Medici di aiutare scopertamente la impresa loro, o almeno di concedere qualche pezzo d'artiglieria e il ricetto per le genti loro a Castiglione del Lago, che confina col territorio di Cortona, e comodità di vettovaglie per l'esercito, non consentivano alcuna di queste dimande, ancora che delle cose medesime facesse instanza grandissima in nome del duca di Milano il cardinale Ascanio, e il pontefice con brevi veementi e minatori lo comandasse; perché essendo stati, dopo l'occupazione di Corciano, aiutati da' fiorentini con qualche somma di danari, i quali di piú avevano a Guido e a Ridolfo principali della casa de' Baglioni costituita annua provisione, e condotto a' suoi stipendi Giampagolo figliuolo di Ridolfo, si erano ristretti con loro: alieni oltre a questo dalla congiunzione del pontefice, perché temevano che il favore suo fusse inclinato agli avversari, o che per occasione delle loro divisioni aspirasse a rimettere in tutto quella città sotto l'ubbidienza della Chiesa.
Nel quale tempo Pagolo Orsino, che con sessanta uomini d'arme della compagnia vecchia di Verginio era stato molti dí a Montepulciano e dipoi trasferitosi a Castello della Pieve, teneva per ordine di Piero de' Medici trattato nella città di Cortona; con intenzione di metterlo a effetto come le genti di Verginio, il numero e la bontà delle quali non corrispondeva a' primi disegni, s'accostassino: nella quale dilazione essendosi scoperto il trattato che si teneva, per mezzo d'uno sbandito di bassa condizione, cominciorono a mancare parte de' loro fondamenti, e da altra parte a dimostrarsi maggiori ostacoli. Perché i fiorentini, solleciti a provedere a' pericoli, lasciati nel contado di Pisa trecento uomini d'arme e dumila fanti, avevano mandati ad alloggiare presso a Cortona dugento uomini d'arme e mille fanti sotto il governo del conte Rinuccio da Marciano loro condottiere; e perché le genti de' sanesi non potessino unirsi con Verginio, come tra loro si era trattato, avevano mandato al Poggio Imperiale che è a' confini del sanese, sotto il governo di Guidobaldo da Montefeltro duca d'Urbino, condotto poco innanzi da loro, trecento uomini d'arme e mille cinquecento fanti, e aggiuntivi molti de' fuorusciti di Siena per tenere quella città in maggiore terrore. Ma Verginio, poiché ebbe dato piú battaglie a Gualdo, dove fu ferito d'un archibuso Carlo figliuolo suo naturale, ricevuti, come si credette, in secreto danari da' fulignati, ne levò il campo senza menzione alcuna dello interesse de' perugini; e andò ad alloggiare alle Tavernelle e dipoi al Panicale nel contado di Perugia, facendo nuova instanza che si dichiarassino contro a' fiorentini: il che non solo gli fu negato, anzi, per la mala sodisfazione che avevano delle cose di Gualdo, costretto quasi con minaccie a uscirsi del territorio loro. Però, essendo prima Piero ed egli andati con quattrocento cavalli all'Orsaia villa propinqua a Cortona, sperando che in quella città, la quale per non essere danneggiata da' soldati non aveva voluto ricevere dentro le genti d'arme de' fiorentini, si facesse qualche movimento, poiché veddeno ogni cosa quieta passorono le Chiane, con trecento uomini d'arme e tremila fanti, ma la piú parte gente male in ordine per essere stati raccolti con pochi danari; e si ridusseno nel sanese presso a Montepulciano, tra Chianciano, Torrita e Asinalunga: dove soprastettono molti dí senza fare fazione alcuna, eccetto che qualche preda e correrie, perché le genti de' fiorentini, passate le Chiane al ponte a Valiano, si erano messe all'opposito nel Monte a Sansovino e negli altri luoghi circostanti. Né da Bologna, secondo la intenzione che era stata loro data, si faceva movimento alcuno; perché il Bentivoglio, determinato di non si implicare per gli interessi d'altri in guerra con una republica potente e vicina, ancoraché consentisse farsi molte dimostrazioni da Giuliano de' Medici, il quale venuto a Bologna cercava di sollevare gli amici che essi erano soliti di avere nelle montagne del bolognese, non volle muovere l'armi, non ostante gli stimoli de' collegati, interponendo varie dilazioni e allegando varie scuse. Anzi tra i collegati medesimi non era totalmente la medesima volontà: perché al duca di Milano era grato che i fiorentini avessino travagli tali che gli rendessino manco potenti alle cose di Pisa; ma non gli sarebbe stato grato che Piero de' Medici, offeso da lui sí gravemente, ritornasse in Firenze, se bene egli, per dimostrare di volere per l'avvenire dependere del tutto dalla sua autorità, avesse mandato a Milano il cardinale suo fratello; e i viniziani non volevano abbracciare soli questa guerra: aggiugnendosi oltre a questo l'essere intenti, il duca e loro, alle provisioni per cacciare i franzesi del reame di Napoli. Perciò mancando a Piero e a Verginio non solo le speranze le quali s'avevano proposte ma ancora i danari per sostentare le genti, diminuiti assai di fanti e di cavalli, si ritirorono al Bagno a Rapolano nel contado di Chiusi, città suddita a' sanesi. Dove fra pochi dí, tirando Verginio il suo fato, arrivorono Cammillo Vitelli e monsignore di Gemel, mandati dal re di Francia per condurlo a' soldi suoi e menarlo nel reame di Napoli; dove il re, intesa l'alienazione de' Colonnesi, desiderava di servirsene: il quale partito, non ostante la contradizione di molti de' suoi, che lo consigliavano o che si conducesse co' confederati, che ne lo ricercavano con grande instanza, o che ritornasse al servigio aragonese, fu accettato da lui; o perché sperasse di ricuperare piú facilmente con questo mezzo i contadi di Albi e di Tagliacozzo, o perché, ricordandosi delle cose intervenute nella perdita del regno e vedendo essere grande appresso a Ferdinando l'autorità de' Colonnesi suoi avversari, si diffidasse di potere piú ritornare seco nell'antica fede e grandezza, o pure lo movesse, secondo che affermava egli, la mala sodisfazione che aveva de' príncipi confederati per avergli mancato delle promesse fattegli al favore di Piero de' Medici. Fu adunque condotto con secento uomini d'arme per lui e per gli altri di casa Orsina, ma nondimeno con obligo di mandare Carlo suo figliuolo in Francia per sicurtà del re (questi sono i frutti di chi ha già fatta sospetta la fede propria); e ricevuti i danari, attendeva a prepararsi per andare insieme co' Vitelli nel regno.
Cap. iii
Nuove vicende della lotta tra francesi ed aragonesi nel reame di Napoli. La fortuna francese declina in Calabria. Carlo VIII consuma in divertimenti il tempo a Lione. Ricusa proposte fatte avanzare da' veneziani per decidere le cose del reame di Napoli.
Dove, e innanzi alla perdita delle castella e poi, si era con vari accidenti, in vari luoghi, continuamente travagliato e travagliava. Perché avendo da principio fatta testa Ferdinando nel piano di Sarni, i franzesi ritiratisi da Pié di Grotta si erano fermati a Nocera, vicini agli inimici a quattro miglia; dove essendo le forze dell'uno e l'altro esercito assai del pari consumavano il tempo inutilmente a scaramucciare, non facendosi cosa alcuna memorabile: eccetto che, essendo stati condotti con trattato doppio per entrare nel castello di Gifone, vicino alla terra di Sanseverino, circa a settecento cavalli e fanti di Ferdinando, vi rimasono quasi tutti o morti o prigioni; ma essendo sopravenute in aiuto di Ferdinando le genti del pontefice, i franzesi diventati inferiori si discostorono da Nocera: onde quella terra insieme con la sua fortezza fu presa da Ferdinando, con uccisione grande de' seguaci de' franzesi. Aveva in questo tempo Mompensieri atteso a provedere le genti, uscite seco di Castelnuovo, di cavalli e d'altre cose necessarie alla guerra; le quali riordinate, unito con gli altri venne ad Ariano, terra molto abbondante di vettovaglie: e Ferdinando da altra parte, essendo meno potente degli inimici, si fermò a Montefoscoli; per temporeggiarsi, senza tentare la fortuna, insino a tanto che da' confederati avesse maggiore soccorso. Prese Mompensieri la terra e dipoi la fortezza di San Severino, e arebbe fatti senza dubbio maggiori progressi se non l'avesse impedito la difficoltà de' danari; perché non essendogliene mandati di Francia, né avendo facoltà di cavarne del regno, e perciò non potendo pagare i soldati, e stando per questa cagione l'esercito malcontento e massimamente i svizzeri, non faceva effetti pari alle forze che avea. Consumoronsi con queste azioni, per l'uno e l'altro esercito, circa a tre mesi. Nel quale tempo e nella Puglia guerreggiava con gli aiuti del paese don Federico, con cui era don Cesare d'Aragona, essendogli oppositi i baroni e i popoli che seguitavano la parte franzese; e nell'Abruzzi Graziano di Guerra, molestato dal conte di Popoli e da altri baroni aderenti a Ferdinando, si difendeva con valore grande; e il prefetto di Roma, che dal re aveva la condotta di dugento uomini d'arme, molestava dagli stati suoi le terre di Montecasino e il paese circostante. Ma piú importanti erano le cose della Calavria, dove era declinata alquanto la prosperità de' franzesi, essendo ammalato Obigní di lunga infermità, la quale gli interroppe il corso della vittoria. Con tutto che quasi tutta la Calavria e il Principato fussino a divozione del re di Francia, Consalvo, rimesse insieme le genti spagnuole e i paesani amici degli aragonesi, i quali per l'acquisto di Napoli erano augumentati, aveva prese alcune terre, e manteneva vivo in quella provincia il nome di Ferdinando: dove per i franzesi erano le medesime difficoltà, per mancamento di danari, che nello esercito. Nondimeno essendosi ribellata da loro la città di Cosenza, la recuperorno e saccheggiorno. Né in tante necessità e pericoli de' suoi provisione alcuna di Francia compariva: perché il re, fermatosi a Lione, attendeva a giostre a torniamenti e a piaceri, deposti i pensieri delle guerre; affermando sempre di volere di nuovo attendere alle cose d'Italia ma non ne dimostrando co' fatti memoria alcuna. E nondimeno, avendogli riportato Argentone da Vinegia che il senato viniziano aveva risposto non pretendere d'avere inimicizia seco, non avendo pigliate l'armi se non dopo l'occupazione di Novara, né per altro che per la difesa del duca di Milano loro collegato, e però giudicare essere superfluo il riconfermare l'amicizia antica con nuova pace, e che da altra parte gli aveva fatto offerire per terze persone di indurre Ferdinando a dargli di presente qualche somma di danari e costituirgli censo di cinquantamila ducati l'anno, lasciandogli per sicurtà in mano Taranto per certo tempo, il re, come se avesse il soccorso preparato e potente, ricusò di prestarvi orecchi: con tutto che, oltre alle difficoltà d'Italia, non fusse a' confini della Francia senza molestia; perché Ferdinando re di Spagna, venuto personalmente a Perpignano, aveva fatto correre delle sue genti in Linguadoca, facendo prede e danni assai e continuando con dimostrazione di maggiore moto; ed era morto nuovamente il delfino di Francia, unico figliuolo del re: tutte cose da farlo piú facilmente, se in lui fusse stata capacità di determinarsi alla pace o alla guerra, inclinare a qualche concordia.
Cap. iv
Intimazione del re di Francia al castellano di Pisa d'osservare gli ordini suoi riguardo alla consegna della fortezza. Il castellano consegna la fortezza a' pisani. I pisani distruggono la fortezza e si rivolgono al re de' romani e a diversi stati d'Italia per aiuti. I pisani si pongono sotto la protezione de' veneziani. Il senato li riceve in protezione. Esaltazione in Milano della sapienza e dell'ingegno di Lodovico Sforza. Per opera di questo le fortezze di Serezana e Serezanello son consegnate a' genovesi anziché a' fiorentini.
Nella fine di questo anno si terminorono le cose della cittadella di Pisa. Perché il re, intesa la ostinazione del castellano, vi aveva ultimatamente mandato, con comandamenti minatori e aspri non solo a lui ma a tutti i franzesi che vi erano dentro, Gemel, e non molto poi Bonò cognato del castellano, acciocché dimostratagli per persona confidente la facoltà che aveva di cancellare con l'ubbidienza gli errori commessi, e da altra parte i pregiudici ne' quali incorrerebbe perseverando nella disubbidienza, si disponesse piú facilmente a eseguire i comandamenti del re; e nondimeno egli, continuando nella contumacia medesima, disprezzò le parole di Gemel: il quale vi soprasedé pochissimi dí, per la commissione che aveva dal re d'andare con Cammillo Vitelli a Verginio. Né la venuta di Bonò, il quale ritardò molti dí perché per ordine del duca di Milano fu ritenuto a Serezana, rimosse il castellano dalla sua ostinazione; anzi tirato Bonò nella sentenza sua, si convenne co' pisani, interponendosi tra loro Luzio Malvezzi in nome del duca: per virtú della quale convenzione consegnò a' pisani, il primo dí dell'anno mille quattrocento novantasei, la cittadella di Pisa, ricevuti da loro per sé dodicimila ducati e ottomila per distribuire a' soldati che vi erano dentro; de' quali danari, non essendo i pisani potenti a pagargli, n'ebbono quattromila da' viniziani quattromila da i genovesi e lucchesi e quattromila dal duca di Milano: il quale nel tempo medesimo, governandosi con le sue arti, benché poco credute, trattava simulatamente di ristrignersi co' fiorentini in ferma amicizia e intelligenza, ed era già restato d'accordo con gli oratori loro delle condizioni. Non pareva per ragione alcuna verisimile che né Ligní né Entraghes né alcuno altro avessino usata tanta trasgressione senza volontà del re, essendo massime in non piccolo detrimento suo; perché la città di Pisa, se bene Entraghes avesse capitolato che restasse suddita della corona di Francia, rimaneva manifestamente a divozione de' confederati, e per non avere effetto la restituzione si privavano i franzesi che erano nel regno di Napoli del soccorso molto necessario delle genti e de' danari promessi nella capitolazione di Turino. E nondimeno i fiorentini, i quali con somma diligenza osservorono i progressi di tutte queste cose, ancoraché da principio molto ne dubitassino, restorono finalmente in credenza che tutto fusse proceduto contro alla volontà del re: cosa da parere incredibile a ciascuno che non sapesse quale fusse la sua natura e le condizioni dello ingegno e de' costumi suoi, e la piccola autorità che egli riteneva co' suoi medesimi, e quanto si ardisca contro a uno principe che sia diventato contennendo.
I pisani, entrati nella cittadella, la distrusseno subito popolarmente insino da' fondamenti; e conoscendo di non avere forze sufficienti a difendersi per se stessi, mandorono in un tempo medesimo imbasciadori al papa al re de' romani a' viniziani al duca di Milano a' genovesi a' sanesi e a' lucchesi, dimandando soccorso da tutti, ma con maggiore instanza da' viniziani e dal duca di Milano; nel quale aveano avuto prima inclinazione di trasferire liberamente il dominio di quella città, parendo loro d'essere costretti di non avere per fine principale tanto la conservazione della libertà quanto il fuggire la necessità di ritornare in potestà de' fiorentini, e sperando in lui piú che in alcuno altro, per avergli incitati alla rebellione, per la vicinità, e perché, non avendo dagli altri collegati riportato altro che speranze, avevano ottenuti da lui pronti sussidi. Ma il duca, benché ne ardesse di desiderio, era stato sospeso ad accettarla per non sdegnare gli altri confederati, nel consiglio de' quali si erano cominciate a trattare le cose de' pisani come causa comune; ora confortandogli a differire ora proponendo che la dedizione si facesse piú tosto palesemente in nome de' Sanseverini, per iscoprirla effettualmente per sé quando giudicasse il tempo opportuno: pure, partito che fu d'Italia il re di Francia, parendogli alleggerito il bisogno che aveva de' collegati, deliberò d'accettarla. Ma era ne' pisani cominciata a raffreddarsi questa inclinazione, per la speranza grande che già aveano di essere aiutati dal senato viniziano; ed era anche dimostrato loro da altri potere piú facilmente conservarsi con l'aiuto di molti che restrignendosi a uno solo, e proposta con questo modo maggiore speranza di mantenere la libertà: le quali considerazioni potendo piú poiché ebbono ottenuta la cittadella, si sforzavano di aiutarsi co' favori di ciascuno. Alla quale intenzione era molto opportuna la disposizione degli stati d'Italia: perché i genovesi per odio de' fiorentini, i sanesi e i lucchesi per odio e per timore, erano per porgergli sempre qualche sussidio, e per farlo piú ordinatamente trattavano di convenirsi con obligazioni determinate a questo effetto; e i viniziani e il duca di Milano, per la cupidità di insignorirsene, non erano per comportare che e' ritornassino sotto il dominio fiorentino; e giovava loro appresso al pontefice e gli oratori de' re di Spagna il desiderio della bassezza de' fiorentini, come troppo inclinati alle cose franzesi. Però uditi in ciascuno luogo benignamente, e ottenuta da Cesare per privilegio la confermazione della libertà, riportorono da Vinegia e da Milano quelle medesime promesse di conservargli in libertà che avevano prima, di comune consentimento, fatte loro, per aiutargli a liberarsi da' franzesi; e il pontefice, in nome e di consenso di tutti i potentati della lega, gli confortò, per un breve, al medesimo, promettendo che da tutti sarebbono difesi potentemente: ma il soccorso efficace fu da' viniziani e dal duca di Milano, questo augumentandovi le genti che prima v'aveva, quegli mandandovene non piccola quantità. Nella quale cosa se avessino tutt'a due continuato, non arebbono avuto i pisani necessità di aderire piú all'uno che all'altro di loro, donde si sarebbe forse piú facilmente conservata la concordia comune. Ma accadde presto che il duca, alienissimo sempre dallo spendere e inclinato da natura a procedere con simulazioni e con arte, né parendogli che per allora potesse pervenire in lui il dominio di Pisa, cominciando a somministrare parcamente le cose che dimandavano i pisani, dette loro occasione di inclinare piú l'animo a' viniziani, i quali senza risparmio alcuno gli provedevano. Onde procedette che, non molti mesi poi che i franzesi avevano lasciata la cittadella, il senato viniziano, pregatone con somma instanza da' pisani, deliberò di accettare la città di Pisa in protezione, piú tosto confortandonegli che dimostrando essergli molesto Lodovico Sforza, ma senza comunicarne con gli altri confederati, benché da principio gli avessino confortati a mandarvi gente: i quali, ne' tempi seguenti, allegorono essere restati disobligati dalla promessa fatta a' pisani d'aiutargli, poi che senza consenso loro avevano convenuto particolarmente co' viniziani.
È certissimo che né il desiderio di conservare ad altri la libertà, la quale nella propria patria tanto amano, né il rispetto della salute comune, come allora e dappoi con magnifiche parole predicorono, ma la cupidità sola di acquistare il dominio di Pisa, fu cagione che i viniziani facessino questa deliberazione; per la quale non dubitavano dovere in breve tempo adempiere il desiderio loro con volontà de' pisani medesimi, i quali eleggerebbono volentieri di stare sotto l'imperio veneto per assicurarsi in perpetuo di non avere a ritornare nella servitú de' fiorentini. E nondimeno questa cosa fu piú volte disputata nel senato lungamente, ritardandosi la inclinazione quasi comune per l'autorità di alcuni senatori de' piú vecchi e di maggiore riputazione, che molto efficacemente contradicevano; affermando che 'l farsi propria la difesa di Pisa era cosa piena di molte difficoltà, per essere quella città distante molto per terra da' loro confini e molto piú distante per mare, non potendo essi andarvi se non per ricetti e porti di altri, e con lunga circuizione di tutti a due i mari da' quali è cinta Italia; e però non si potere senza gravissime spese difendere dalle molestie continue de' fiorentini. Essere verissimo che quello acquisto sarebbe molto opportuno allo imperio veneto, ma doversi prima considerare le difficoltà del conservarlo, e molto piú le condizioni de' tempi presenti e che effetti potesse partorire questa deliberazione: perché essendo tutta Italia naturalmente sospettosa della grandezza loro, non potrebbe se non estremamente dispiacere a tutti uno augumento tale, il che facilmente partorirebbe maggiori e piú pericolosi accidenti che molti per avventura non pensavano; ingannandosi non mediocremente coloro che si persuadevano che gli altri potentati avessino oziosamente a comportare che allo imperio veneto, formidabile a tutti gli italiani, si aggiugnesse l'opportunità sí grande del dominio di Pisa; i quali se bene non erano potenti come per il passato a vietarlo con le forze proprie, avevano da altra parte, poi che agli oltramontani era stata insegnata la strada del passare in Italia, maggiore occasione di opporsi loro col ricorrere agli aiuti forestieri; a' quali non essere dubbio che prontamente ricorrerebbono e per odio e per timore, essendo vizio comune degli uomini volere piú tosto servire agli strani che cedere a' suoi medesimi. E come potersi credere che 'l duca di Milano, solito a permettere tanto di sé ora alla cupidità e alla speranza ora al timore, e movendolo al presente non meno lo sdegno che l'emulazione che ne' viniziani si trasferisse quella preda che avea con tante arti procurata per sé, non fusse piú presto per conturbare di nuovo Italia che sopportare che Pisa fusse occupata da loro? E benché con le parole e consigli suoi dimostrasse altrimenti, potersi molto agevolmente comprendere non essere questa la verità del cuore suo ma insidie, e per fini non sinceri artificiosi consigli: in compagnia del quale essere prudenza il sostentare quella città, se non per altro, per interrompere che i pisani non si dessino a lui; ma farsi propria questa causa e tirare addosso a sé tanta invidia e tanto peso non essere savio consiglio. Doversi considerare quanto fussino contrari questi pensieri dall'opere nelle quali si erano affaticati tanti mesi, e continuamente s'affaticavano; perché non altre cagioni avere mosso quel senato a pigliare l'armi, con tante spese e pericoli, che 'l desiderio d'assicurare sé e tutta Italia, da' barbari: a che avendo con sí gloriosi successi dato principio, e nondimeno essendo appena il re di Francia ripassato di là da' monti, e tenendosi ancora per cui con uno esercito potente la maggiore parte del regno di Napoli, che imprudenza che infamia sarebbe, quando era il tempo di stabilire la libertà e la sicurtà d'Italia, spargere semi di nuovi travagli! che potrebbeno facilitare al re di Francia il ritornarvi, o al re de' romani l'entrarvi, che forse, come era noto a ciascuno, non avea, per quello che pretendeva contro allo stato loro, maggiore e piú ardente desiderio di questo. Non essere la republica veneta in grado che fusse costretta ad abbracciare consigli pericolosi o farsi incontro alle occasioni immature, anzi niuno in Italia potere piú aspettare l'opportunità de' tempi e la maturità delle occasioni. Perché le deliberazioni precipitose o dubbie convenivano a chi aveva difficili o sinistre condizioni, o a chi stimolato dalla ambizione e dalla cupidità di fare illustre il nome suo temeva non gli mancasse il tempo, non a quella republica, che collocata in tanta potenza degnità e autorità era temuta e invidiata da tutto 'l resto d'Italia, e la quale essendo a rispetto de' re e degli altri príncipi quasi immortale e perpetua, ed essendo sempre il medesimo nome del senato viniziano, non aveva cagione di affrettare innanzi al tempo le sue deliberazioni; e appartenere piú alla sapienza e gravità di quel senato, considerando, come era proprio degli uomini veramente prudenti, i pericoli che si ascondevano sotto queste speranze e cupidità, e piú i fini che i princípi delle cose, rifiutati i consigli temerari, astenersi, cosí nell'occasione di Pisa come nell'altre che s'offerivano, da spaventare e irritare gli animi degli altri, almeno insino a tanto che Italia fusse meglio assicurata da' pericoli e sospetti degli oltramontani; e avvertire sopratutto di non dare causa che di nuovo vi entrassino, perché l'esperienza aveva dimostrato, in pochissimi mesi, che tutta Italia quando non era oppressa da nazioni straniere seguitava quasi sempre l'autorità del senato viniziano, ma quando erano barbari in Italia, in cambio di essere seguitato e temuto dagli altri, bisognava che insieme con gli altri temesse le forze forestiere.
Queste e simili ragioni erano, oltre alla cupidità del numero maggiore, superate ancora dalle persuasioni di Agostino Barbarico doge di quella città, la cui autorità era divenuta sí grande che, eccedendo la riverenza de' dogi passati, meritava piú tosto nome di potenza che di autorità; perché, oltre all'essere stato con felici successi in quella degnità molti anni e l'avere molte preclare doti e ornamenti, aveva, procedendo artificiosamente, conseguito che molti senatori che volentieri si opponevano a quegli che, per la fama d'essere prudenti per la lunga esperienza e per l'avere ottenute le degnità supreme, erano nella republica di maggiore estimazione, congiuntisi a lui, seguitavano comunemente, piú tosto a uso di setta che con gravità o integrità senatoria, i suoi consigli. Il quale, cupidissimo di lasciare, con l'ampliazione dello imperio, chiarissima la memoria del suo nome, né terminando l'appetito della gloria l'essersi sotto il suo principato l'isola di Cipri, mancati i re della famiglia Lusignana, aggiunta al dominio viniziano, era molto inclinato che si accettasse qualunque occasione di accrescere il loro stato. Però, opponendosi a coloro che nella causa pisana consigliavano il contrario, dimostrava con efficacissime parole quanto fusse utile e opportuno a quel senato l'acquistare Pisa, e quanto importante il reprimere con questo mezzo l'audacia de' fiorentini; per opera de' quali aveano, nella morte di Filippo Maria Visconte, perduta l'occasione di insignorirsi del ducato di Milano, e che per la prontezza de' danari avevano, nella guerra di Ferrara e nelle altre imprese, nociuto piú loro che alcun altro de' potentati maggiori. Ricordava quanto rare fussino sí belle occasioni, con quanta infamia si perdessino, e quanto pungenti stimoli di penitenza seguitassino chi non l'abbracciava: non essere le condizioni d'Italia tali che gli altri potentati potessino per se stessi opporsegli; e manco essere da temere che per questa o indegnazione o timore ricorressino al re di Francia, perché né il duca di Milano che l'aveva tanto ingiuriato ardirebbe mai di confidarsene, né muovere l'animo del pontefice questi pensieri, né potere piú il re di Napoli, quando bene avesse ricuperato il regno suo, udire il nome franzese. Né l'entrare loro in Pisa, benché molesto agli altri, essere accidente sí impetuoso, né tanto propinquo il pericolo, che per questo s'avessino gli altri potentati a precipitare a' rimedi che s'usano nell'ultime disperazioni; perché nelle infermità lente non si accelerano le medicine pericolose, pensando gli uomini non dovere mancare tempo a usarle: e se in questa debolezza e disunione degli altri d'Italia essi per timidità rifiutassino tanta occasione, aspettarsi vanamente di poterlo fare con maggiore sicurtà quando gli altri potentati fussino ritornati nel pristino vigore e assicurati dal timore degli oltramontani. Doversi, per rimedio del troppo timore, considerare che l'azioni mondane erano sottoposte tutte a molti pericoli, ma conoscere gli uomini savi che non sempre viene innanzi tutto quello di male che può accadere, perché, per beneficio o della fortuna o del caso, molti pericoli diventano vani, molti sfuggirsene con la prudenza e con la industria; e perciò non doversi confondere, come molti poco consideratori della proprietà de' nomi e della sostanza delle cose affermano, la timidità con la prudenza, né riputare savi coloro che, presupponendo per certi tutti i pericoli che sono dubbi e però temendo di tutti, regolano, come se tutti avessino certamente a succedere, le loro deliberazioni. Anzi non potersi in maniera alcuna chiamare prudenti o savi coloro che temono del futuro piú che non si debbe. Convenirsi molto piú questo nome e questa laude agli uomini animosi, imperocché conoscendo e considerando i pericoli, e per questo differenti da' temerari che non gli conoscono e non gli considerano, discorrono nondimeno quanto spesso gli uomini, ora per caso ora per virtú, si liberano da molte difficoltà: dunque, nel deliberare, non chiamando meno in consiglio la speranza che la viltà, né presupponendo per certi gli eventi incerti, non cosí facilmente come quegli altri l'occasioni utili e onorate rifiutano. Però, proponendosi innanzi agli occhi la debolezza e la disunione degli altri italiani, la potenza e la fortuna grande della republica viniziana, la magnanimità e gli esempli gloriosi de' padri loro, accettassino con franco animo la protezione de' pisani, per la quale perverrebbe loro effettualmente la signoria di quella città, uno senza dubbio degli scaglioni opportunissimi a salire alla monarchia di tutta Italia.
Ricevette adunque il senato per publico decreto in protezione i pisani, promettendo espressamente di difendere la loro libertà. La quale deliberazione non fu da principio considerata dal duca di Milano quanto sarebbe stato conveniente, perché non essendo escluso per questo di potervi tenere delle sue genti gli era grato avere compagni allo spendere, e disegnando per avarizia diminuire del numero de' soldati che vi teneva non riputava alieno dal beneficio suo che Pisa, in uno tempo medesimo, fusse cagione di spese gravi a' viniziani e a' fiorentini; persuadendosi oltre a ciò che i pisani, per la grandezza e per la vicinità dello stato suo e per la memoria dell'opere fatte da lui per la loro liberazione, gli fussino tanto dediti che avessino sempre a preporlo a tutti gli altri. Accresceva questi disegni e speranze fallaci la persuasione, nella quale poco ricordandosi della varietà delle cose umane si nutriva da se stesso, d'avere quasi sotto i piedi la fortuna, della quale affermava publicamente essere figliuolo: tanto era invanito de' prosperi successi, ed enfiato che per opera e per i consigli suoi fusse passato il re di Francia in Italia, attribuendo a sé l'essere suto privato Piero de' Medici, poco ossequente alla sua volontà, dello stato di Firenze, la ribellione de' pisani da' fiorentini, e l'essere stati cacciati del regno di Napoli gli Aragonesi suoi inimici; e che poi, avendo mutata sentenza, fusse per i consigli e autorità sua proceduta la congiunzione di tanti potentati contro a Carlo, la ritornata di Ferdinando nel regno di Napoli, e la partita del re di Francia d'Italia con condizioni indegne di tanta grandezza; e che insino nel capitano che aveva in custodia la cittadella di Pisa avesse potuto piú la sua o industria o autorità che la volontà e i comandamenti del proprio re. Con le quali regole misurando il futuro, e giudicando la prudenza e lo ingegno di tutti gli altri essere molto inferiore alla prudenza e ingegno suo, si prometteva d'avere a indirizzare sempre ad arbitrio suo le cose d'Italia e di potere con la sua industria circonvenire ciascuno: la quale vana impressione non dissimulandosi né per lui né per i suoi, né con parole né con dimostrazioni, anzi essendogli grato che cosí fusse creduto e detto da tutti, risonava Milano il dí e la notte di voci vane, e si celebrava per ciascuno, con versi latini e volgari e con publiche orazioni e adulazioni, la sapienza ammirabile di Lodovico Sforza, dalla quale dependeva la pace e la guerra d'Italia; esaltando insino al cielo il nome suo e il cognome del Moro: il quale cognome, impostogli insino da gioventú, perché era di colore bruno e per l'opinione che già si divulgava della sua astuzia, ritenne volentieri mentre durò lo imperio suo.
Né fu minore l'autorità del Moro nelle altre fortezze de' fiorentini che fusse stata in quella di Pisa, parendo che ad arbitrio suo si governassino in Italia non meno gli inimici che gli amici. Perché se bene il re udite le querele gravissime fattegli dagli imbasciadori de' fiorentini se ne fusse commosso gravemente, e perché almanco fussino restituite loro l'altre avesse mandato, con nuove commissioni e con lettere di Ligní, Ruberto di Veste suo cameriere, nondimeno, non essendo appresso agli altri in maggiore prezzo l'autorità sua che ella fusse appresso a se medesimo, fu tanta l'audacia di Ligní, il quale a molti affermava non procedere cosí senza volontà del re, che per le commissioni sue, aggiunte alla mala volontà de' castellani, furono poco stimati i comandamenti regi. Però il bastardo di Bienna, il quale per ordine e sotto nome di Ligní teneva la guardia di Serezana, poiché ebbe condottevi le genti e i commissari de' fiorentini per riceverne la possessione, la consegnò per prezzo di venticinquemila ducati a' genovesi; e il medesimo fece, ricevuta certa somma di danari, il castellano di Serezanello: essendone stato autore e mezzano il Moro. Il quale, opposto a' fiorentini, benché sotto nome de' genovesi, il Fracassa con cento cavalli e quattrocento fanti, impedí che e' non ricuperassino tutte le altre terre che avevano perdute in Lunigiana; delle quali, con l'occasione delle genti mandate per ricevere Serezana, avevano recuperato una parte. E poco dipoi Entraghes, sotto la custodia del quale erano anche le fortezze di Pietrasanta e di Mutrone, e in cui mano era similmente venuta Librafatta, ritenutasi questa, la quale non molti mesi poi concedette a' pisani, vendé quelle per ventiseimila ducati a' lucchesi, come precisamente ordinò il duca di Milano: il quale aveva prima desiderato che le conseguissino i genovesi, ma mutata poi sentenza elesse gratificarne i lucchesi, acciocché avessino cagione d'aiutare piú prontamente i pisani, e per congiugnersigli piú mediante questo beneficio. Le quali cose significate in Francia, con tutto che 'l re se ne dimostrasse alterato con Ligní e facesse sbandire Entraghes di tutto il reame, nondimeno ritornando Bonò, che oltre a essere stato partecipe de' danari de' pisani aveva trattato in Genova la vendita di Serezana, furono accettate le sue giustificazioni; e raccolto gratamente uno imbasciadore de' pisani, mandato insieme con lui a persuadere di volere essere sudditi fedeli della corona di Francia, e a prestare il giuramento della fedeltà: benché non molto poi, apparendo vane le sue commissioni, fusse licenziato. Né a Ligní fu imposta altra pena che, per segno di escluderlo dal favore regio, toltagli la facoltà di dormire, secondo che era consueto, nella camera del re, alla quale fu presto restituito; rimanendo in contumacia solamente, benché per non molto lungo tempo, Entraghes: potendo in queste cose, oltre alla natura del re e gli altri mezzi e favori, la persuasione, non falsa, che i fiorentini fussino necessitati a non si separare da lui; perché essendo manifesta per tutto la cupidità de' viniziani e del duca di Milano, si teneva per certo che e' non arebbono consentito che essi fussino reintegrati di Pisa, quando bene avessino acconsentito di collegarsi con loro alla difesa d'Italia. Alla quale cosa cercavano di indurgli cogli spaventi e co' minacci, non tentando però per allora altro contro a loro, ma bastandogli, con le genti che avevano messe in Pisa, mantenere viva quella città e non gli lasciare perdere interamente il contado.
Cap. v
Ferdinando d'Aragona minacciato dalla venuta di nuove truppe nemiche. Aiuti de' veneziani e degli altri confederati a Ferdinando. Nuove vicende della guerra. Equilibrio delle forze avversarie.
Perché il pericolo del regno di Napoli da ogn'altra cura gli divertiva: atteso che Verginio, raccolti al Bagno a Rapolano e poi nel perugino, dove dimorò qualche giorno, molti soldati, andava con gli altri della casa Orsina verso lo Abruzzi; e al medesimo cammino andavano con la compagnia loro Cammillo e Pagolo Vitelli. A' quali denegando di dare vettovaglie il castello di Montelione fu da loro messo a sacco; da che spaventate l'altre terre della Chiesa donde avevano a passare, non si ritenendo per i gravi comandamenti fatti in contrario dal pontefice, concedevano loro per tutto alloggiamento e vettovaglie. Per il che, e molto piú perché si affermava che di Francia veniva per mare nuovo soccorso, parendo che le cose franzesi fussino per ricevere nel reame di Napoli grande augumento, né potendo Ferdinando, il quale era senza danari e con molte difficoltà, sostenere senza maggiori aiuti tanto peso, fu costretto di pensare per la difesa sua a nuovi rimedi.
Non avevano gli altri potentati da principio compreso Ferdinando nella loro confederazione; e ancora che, da poi che ebbe ricuperato Napoli, i re di Spagna avessino fatto instanza che e' vi fusse ammesso, i viniziani l'avevano recusato, persuadendosi le sue necessità essere mezzo atto al disegno che già facevano che in potestà loro pervenisse una parte di quel reame. Però Ferdinando, privato d'ogn'altra speranza, perché di Spagna non aspettava nuovi sussidi né volevano gli altri collegati sottomettersi a tanta spesa, convenne col senato viniziano, promettendo l'osservanza per ciascuna delle parti il pontefice e gli oratori de' re di Spagna in nome de' suoi re, che i viniziani mandassino nel regno in soccorso suo il marchese di Mantova loro capitano, con settecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, e vi mantenessino l'armata di mare la quale allora vi avevano, ma con patto di potere rivocare questi sussidi ogni volta che per difesa propria n'avessino di bisogno; e gli prestassino per le necessità presenti quindicimila ducati: e perché fussino assicurati di recuperare le spese farebbono, che Ferdinando consegnasse loro Otranto, Brindisi e Trani, e consentisse ritenessino Monopoli e Pulignano che avevano ancora in mano, ma con condizione di dovergli restituire quando ne fussino rimborsati; ma non potessino allegare che, o per conto della guerra o della guardia o delle fortificazioni che vi facessino, passassino la somma di dugentomila ducati. I quali porti, per essere nel mare di sopra, e perciò molto opportuni a Vinegia, accrescevano assai la loro grandezza: la quale, non avendo piú chi se gli opponesse, né essendo uditi piú, dopo la protezione accettata de' pisani, i consigli di coloro che arebbono voluto che a' venti che sí prosperi si dimostravano le vele piú lentamente si spiegassino, cominciava a distendersi per tutte le parti d'Italia; perché, oltre alle cose del regno di Napoli e di Toscana, avevano di nuovo condotto Astore signore di Faenza e accettata la protezione del suo stato, il quale era molto accomodato a tenere in timore i fiorentini, la città di Bologna e tutto il resto di Romagna. A questi aiuti particolari de' viniziani si aggiugnevano altri aiuti de' confederati, perché il pontefice i viniziani e il duca di Milano mandavano in soccorso di Ferdinando alcune altre genti d'arme, soldate comunemente; benché il duca, non partitosi ancora in tutto dalla simulazione di non contrafare allo accordo di Vercelli, non ostante che per consiglio suo si indirizzasse la maggiore parte di queste cose, ricusando che nelle condotte o in altre apparenze si usasse il nome suo, si era convenuto di pagare occultamente ciascuno mese per il soccorso del reame diecimila ducati.
L'andata degli Orsini e de' Vitelli fermò le cose dello Abruzzi, le quali erano in manifesto movimento contro a' franzesi, essendosi già ribellato Teramo e Civita di Chieti, e dubitandosi che l'Aquila, città principale di quella regione, non facesse il medesimo; la quale avendo eglino confermata nella divozione franzese, e avendo recuperato per accordo Teramo e saccheggiata Giulianuova, quasi tutto l'Abruzzi seguitava il nome de' franzesi: in modo che le cose di Ferdinando parevano per tutto il regno in manifesta declinazione. Perché la Calavria quasi tutta era in potestà di Obigní, con tutto che la sua lunga infermità, per la quale s'era fermato in Ghiarace, desse comodità a Consalvo di tenere, con le genti spagnuole e con le forze di alcuni signori del paese, accesa la guerra in quella provincia; Gaeta con molte terre circostanti ubbidiva a' franzesi; il prefetto di Roma con la compagnia sua e con le forze del suo stato, recuperate le castella di Montecasino, infestava Terra di Lavoro da quella banda; e Mompensieri, con tutto che molto lo impedisse a usare le forze sue il mancamento de' danari, costrigneva Ferdinando a rinchiudersi ne' luoghi forti, oppressato dalla medesima necessità di danari e di molte altre provisioni, ma fondato interamente in sulla speranza del soccorso viniziano; il quale, perché la convenzione tra loro era stata fatta poco innanzi, non poteva essere cosí presto come sarebbe stato di bisogno. Tentò Mompensieri di occupare per trattato Benevento, ma Ferdinando avutone sospetto vi entrò subitamente con le sue genti. Accostoronsi i franzesi a Benevento, alloggiando al ponte a Finocchio, e avendo preso Fenezano, Apice e molte terre circostanti. Ne' quali luoghi mancando loro le vettovaglie, e approssimandosi il tempo di riscuotere la dogana delle pecore della Puglia, entrata delle piú importanti del reame di Napoli, perché era solita ascendere ciascuno anno a ottantamila ducati, che tutti si riscotevano nello spazio quasi di uno mese, Mompensieri, per privare gli inimici di questa comodità e non meno per l'estremo bisogno delle sue genti, si voltò al cammino di Puglia, della quale regione una parte si teneva per sé un'altra ne tenevano gli inimici; né molto dietro a lui Ferdinando, intento a impedire piú presto, con qualche arte o diligenza, i progressi degli inimici che a combattere, insino a tanto che i soccorsi suoi non arrivassino. Nel quale tempo giunse a Gaeta un'armata franzese di quindici legni grossi e sette minori, in sulla quale si erano imbarcati a Savona ottocento fanti tedeschi condotti delle terre del duca di Ghelleri, e quelli svizzeri e guasconi che prima il re aveva ordinato che fussino portati in sulle navi grosse che si doveano armare a Genova; alla quale armata l'armata di Ferdinando, che era sopra a Gaeta per impedire che non vi entrassino vettovaglie, essendo per mancamento di danari male proveduta delle cose necessarie, avea dato luogo: in modo che, essendo entrata nel porto sicuramente, i fanti posti in terra presono Itri e altre terre circostanti, e fatte per il paese molte prede speravano di ottenere Sessa, per opera di Giovambatista Caracciolo che prometteva di mettergli occultamente dentro; ma don Federigo, il quale essendosi ridotto con le genti che lo seguivano intorno a Taranto era poi stato mandato da Ferdinando al governo di Napoli, avutane notizia, entratovi subito, fece prigioni il vescovo e certi altri consci del trattato.
Ma in Puglia, ove era ridotta la somma della guerra, procedevano le cose con varia fortuna; perché l'uno e l'altro esercito, distribuitosi per l'asprezza del tempo per le terre, né alcuno in una sola, per la incapacità d'esse, ma in piú, attendeva con correrie e cavalcate grosse a predare i bestiami, usando piú tosto industria e celerità che virtú d'arme. In Foggia si era fermato Ferdinando con parte delle sue genti, messe le altre parte in Troia e parte in Nocera: ove intendendo che, tra San Severo, nella quale terra alloggiava con trecento uomini d'arme Verginio Orsino, venuto a unirsi con Mompensieri, e la terra di Porcina ove era Mariano Savello con cento uomini d'arme, si era ridotta quantità quasi infinita di pecore e di altre bestie, si mosse con secento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, e arrivato, all'alba del dí, innanzi a San Severo, fermatosi quivi con gli uomini d'arme per resistere a Verginio se si movesse, fece correre i cavalli leggieri, che allargandosi per tutto il paese predorno circa sessantamila bestie; ed essendo uscito fuora della Porcina Mariano Savello a molestargli lo costrinsono a ritirarsi, perduti trenta uomini d'arme. Questo danno e la vergogna ricevuta fu cagione che Mompensieri, raccolte tutte le sue genti, andò verso Foggia per recuperare la preda e l'onore perduto: dove, succedendogli piú di quello che da principio aveva disegnato, scontrò tra Nocera e Troia ottocento fanti tedeschi, venuti prima per mare a' soldi di Ferdinando, i quali partitisi da Troia, dove era il loro alloggiamento, andavano, piú per propria temerità che per comandamento del re, e contro al consiglio di Fabrizio Colonna che alloggiava medesimamente a Troia, per unirsi a Foggia con Ferdinando; i quali, non potendo salvarsi né con la fuga né con l'armi, né volendo arrendersi, furono combattendo tutti ammazzati, non lasciata perciò la vittoria senza sangue agli inimici. Presentossi poi Mompensieri con l'esercito ordinato a combattere innanzi a Foggia, ma non lasciando Ferdinando uscire fuori altri che i cavalli leggieri, andorono ad alloggiare al bosco della Incoronata, dove stati due dí con difficoltà di vettovaglie, e riavuta la maggiore parte delle bestie predate, di nuovo tornorno innanzi a Foggia, e alloggiati quivi una notte ritornorno il dí prossimo a San Severo, non avendo condotta tutta la preda riavuta, perché nel ritornarsene ne fu tolta loro una parte da' cavalli leggieri di Ferdinando. Cosí, disperdendosi le bestie, cavò l'una parte e l'altra delle entrate della dogana piccolissima utilità.
Andorno pochi dí poi i franzesi, cacciati dalla penuria delle vettovaglie, a Campobasso che si teneva per loro, dal quale luogo presono per forza la Coglionessa o vero Grigonisa, terra vicina, dove da' svizzeri, contro alla volontà de' capitani, fu usata crudeltà tale che se bene si empiesse il paese di spavento alienò da loro gli animi di molti: e Ferdinando, attendendo a difendere il meglio poteva le cose sue e aspettando la venuta del marchese di Mantova, riordinava intanto le genti, con sedicimila ducati che gli aveva mandati il pontefice e con quegli che aveva potuti raccorre da sé. Nel qual tempo si unirono con Mompensieri i svizzeri, e gli altri fanti che erano venuti per mare a Gaeta; e da altra parte il marchese di Mantua, entrato nel regno e venuto a Capua per la via di San Germano, avendo per il cammino prese, parte per forza parte per accordo, molte terre benché di piccola importanza, si uní, circa il principio di giugno, col re a Nocera; dove don Cesare d'Aragona condusse le genti che erano state intorno a Taranto. Cosí ridotte in luoghi vicini quasi tutte le forze de' franzesi e di Ferdinando, superiori le franzesi di fanti l'italiane di cavalli, pareva molto dubbio l'evento delle cose, non si potendo discernere a quale delle due parti fusse per inclinare la vittoria.
Cap. vi
Carlo VIII, anche per sollecitazioni di altri, torna a pensare alle cose d'Italia. Deliberazioni del consiglio regio e preparativi per una nuova spedizione in Italia. Timori e azione politica di Lodovico Sforza. Indugi frapposti alla spedizione dal cardinale di San Malò. Scarsi aiuti mandati da Carlo in Italia.
Nella quale incertitudine mentre che si sta, il re di Francia, da altra parte, trattava delle provisioni di soccorrere i suoi. Perché, come ebbe intesa la perdita delle castella di Napoli, e che per non essere state restituite le fortezze a' fiorentini mancavano alle sue genti i danari e i soccorsi loro, svegliato dalla negligenza con la quale pareva fusse ritornato in Francia, cominciò di nuovo a voltare l'animo alle cose d'Italia; e per essere piú espedito da tutto quello che lo potesse ritenere, e per potere, dimostrandosi grato de' benefici ricevuti ne' suoi pericoli, ricorrere di nuovo piú confidentemente all'aiuto celeste, andò in poste a Torsi e poi a Parigi per sodisfare a' voti fatti da sé, il dí della giornata di Fornuovo, a san Martino e a san Dionigi; donde ritornato con la medesima diligenza a Lione, si riscaldava ogni dí piú in questo pensiero; al quale era per se stesso inclinatissimo, attribuendosi a grandissima gloria l'avere acquistato un reame tale, e primo di tutti i re di Francia dopo molti secoli avere personalmente rinnovata in Italia la memoria dell'armi e delle vittorie franzesi; e persuadendosi che le difficoltà le quali aveva avute nel ritornare da Napoli fussino procedute piú da' disordini suoi che dalla potenza o dalla virtú degl'italiani, il nome de' quali non era piú, nelle cose della guerra, appresso a franzesi in alcuna estimazione. E l'accendevano ancora gli stimoli degli oratori de' fiorentini, del cardinale di San Piero in Vincola e di Gian Iacopo da Triulzi, ritornato per questa cagione alla corte; in compagnia de' quali facevano la medesima instanza Vitellozzo e Carlo Orsino e dipoi il conte di Montorio, mandato per il medesimo effetto da' baroni che seguitavano le parti franzesi nel regno di Napoli; e ultimatamente vi andò da Gaeta per mare il siniscalco di Belcari, il quale dimostrava speranza grande di vittoria in caso che senza piú dilazione si mandasse il soccorso e, per contrario, che le cose di quel reame essendo abbandonate non potevano sostenersi lungamente; e oltre a questi una parte de' signori grandi, stati prima alieni dalle imprese d'Italia, confortavano il medesimo, per la ignominia che del lasciare perdere l'acquisto fatto risultava alla corona di Francia, e molto piú per il danno che tanta nobiltà franzese si perdesse nel reame di Napoli. Né si raffrenavano questi concetti per i movimenti i quali si dimostravano per i re di Spagna dalla parte di Perpignano, perché essendo apparati maggiori in nome che in fatti, e le forze di quegli re piú potenti alla difesa de' regni propri che all'offesa de' regni d'altri, si giudicava sufficiente rimedio l'avere mandate a Nerbona e nell'altre terre che sono alle frontiere di Spagna molte genti d'arme, non senza compagnia sufficiente di svizzeri.
Però convocati dal re nel consiglio tutti i signori e tutte le persone notabili che si trovavano nella corte, fu deliberato che con piú celerità che si potesse tornasse in Asti il Triulzio con titolo di luogotenente regio e con lui ottocento lancie dumila svizzeri e dumila guasconi, e che poco dopo lui passasse i monti con altre genti il duca di Orliens, e finalmente con tutte l'altre provisioni la persona del re; il quale passando potente, non si dubitava che aderirebbono alla volontà sua gli stati del duca di Savoia e de' marchesi di Monferrato e di Saluzzo, opportuni molto a fare la guerra contro al ducato di Milano; e che, dal cantone di Berna infuora, il quale aveva promesso al duca di Milano di non lo offendere, tutti i cantoni de' svizzeri andrebbono agli stipendi suoi con grandissima prontezza. Le quali deliberazioni procederono con maggiore consentimento per l'ardore del re; il quale, innanzi che entrasse nel consiglio, avea pregato strettamente il duca di Borbone che con efficaci parole dimostrasse essere necessario il fare potentissimamente la guerra, e poi nel consiglio, ribattuto con la medesima caldezza l'ammiraglio, il quale seguitato da pochi aveva, non tanto contradicendo direttamente quanto proponendo molte difficoltà, cercato di intepidire per indiretto gli animi degli altri: e affermava il re palesemente che in potestà sua non era di fare altra deliberazione, perché la volontà di Dio lo costrigneva a ritornare in Italia personalmente. Fu deliberato nel medesimo consiglio che trenta navi, tra le quali una caracca grossissima detta la Normanda e un'altra caracca grossa della religione di Rodi, passassino dalla costa del mare Oceano ne' porti di Provenza, dove si armassino trenta tra galee sottili e galeoni, per mettere con sí grossa armata nel reame di Napoli soccorso grandissimo di gente di vettovaglie di munizioni e di danari; e nondimeno che, non aspettando che questa fusse in ordine, si mandasse subito qualche navile carico di gente e di vettovaglie. Oltre a tutte le quali cose fu ordinato che a Milano andasse Rigault maestro di casa del re: perché il duca, benché non avesse dato le due caracche né permesso l'armarsi per il re a Genova, e restituito solamente i legni presi a Rapalle ma non le dodici galee state tenute nel porto di Genova, si era sforzato di scusarsi con la inubbidienza de' genovesi, e tenuto continuamente con varie pratiche uomini suoi appresso al re; al quale aveva di nuovo mandato Antonio Maria Palavicino, affermando che era disposto a osservare l'accordo fatto, dimandando gli fusse prorogato il tempo di pagare al duca d'Orliens i cinquantamila ducati promessi in quella concordia. Dalle quali arti benché riportasse piccolo frutto, essendo notissima al re la mente sua, sí per l'altre azioni sí perché, per lettere e istruzioni sue che erano state intercette, era venuto a luce essere da lui stimolati continuamente il re de' romani e i re di Spagna a muovere la guerra in Francia, nondimeno, sperandosi che forse il timore lo indurrebbe a quello da che era aliena la volontà, fu commesso a Rigault che, non disputando della inosservanza passata, gli significasse in potestà sua essere di cancellare la memoria dell'offese cominciando a osservare, rendendo le galee concedendo le caracche e permettendo l'armare a Genova; e gli soggiugnesse la deliberazione della passata del re, la quale sarebbe con gravissimo suo danno se, mentre gli era offerta la facoltà, non ritornasse a quella amicizia la quale il re si persuadeva che egli piú tosto per sospetti vani che per altra cagione avesse imprudentemente disprezzata.
Già la fama degli apparati che si facevano, trapassata in Italia, aveva dato molta alterazione a' collegati; e sopra tutti Lodovico Sforza, essendo il primo esposto all'impeto degl'inimici, si ritrovava in grandissima ansietà, inteso massime che, dopo la partita di Rigault dalla corte, il re con parole e dimostrazioni molto brusche aveva licenziato tutti gli agenti suoi. Per il che, rivoltandosi nella mente la grandezza del pericolo, e che tutti i travagli della guerra si riducevano nel suo stato, si sarebbe facilmente accomodato alle richieste del re se non l'avesse ritenuto il sospetto, per la coscienza dell'offese fattegli, per le quali era generata da ogni parte tale diffidenza, che e' fusse piú difficile trovare mezzo di sicurtà per ciascuno che convenire negli articoli delle differenze; perché togliendosi alla sicurezza dell'uno quel che si consentisse per assicurare l'altro, niuno voleva rimettere nella fede di altri quel che l'altro recusava di rimettere nella sua. Cosí stringendolo la necessità a prendere quel consiglio che gli era piú molesto, per cercare almeno d'allungare i pericoli, continuò con Rigault l'arti medesime che aveva usate insino allora; affermando molto efficacemente che farebbe ubbidire i genovesi ogni volta che il re desse nella città di Avignone sicurtà sufficiente per la restituzione delle navi, e che ciascuna delle parti promettesse, dando ostaggi per l'osservanza, che cose nuove in pregiudicio dell'altra non si tentassino: la quale pratica, continuata molti dí, ebbe finalmente, per varie cavillazioni e difficoltà che si interponevano, l'effetto medesimo che avevano avuto l'altre. Ma Lodovico non consumando questo tempo inutilmente mandò, mentre pendevano questi ragionamenti, uomini al re de' romani per indurlo a passare in Italia con l'aiuto suo e de' viniziani; e a Vinegia mandò imbasciadori a ricercargli che per provedere al pericolo comune concorressino a questa spesa, e che mandassino verso Alessandria i sussidi che fussino necessari per opporsi a' franzesi: il che da loro fu offerto di fare prontissimamente. Ma non mostrorno già la medesima facilità nella passata del re de' romani, poco amico alla loro republica, rispetto a quello possedevano in terra ferma appartenente allo imperio e alla casa di Austria; né si contentavano che a spese comuni si conducesse in Italia un esercito che in tutto dependesse da Lodovico: nondimeno, continuando Lodovico di farne instanza perché, oltre all'altre ragioni che lo movevano, le forze sole de' viniziani nello stato di Milano gli erano sospette, dubitando quel senato che egli, il quale sapevano essere grandemente impaurito, non si precipitasse a riconciliarsi col re di Francia, prestò finalmente il suo consentimento, e mandò per la cagione medesima a Cesare imbasciadori. Temevano ancora i viniziani e il duca che i fiorentini, come il re avesse passato i monti, non facessino nella riviera di Genova qualche movimento; però ricercorono Giovanni Bentivogli che con trecento uomini d'arme, co' quali era condotto da' confederati, assaltasse da' confini di Bologna i fiorentini, promettendogli che nel tempo medesimo sarebbono molestati da' sanesi e dalle genti che erano in Pisa, e offerendogli di obligarsi, in caso che occupasse la città di Pistoia, a conservarvelo: di che benché il Bentivoglio desse loro speranza, nondimeno, avendone l'animo molto lontano, e temendo non poco della venuta de' franzesi, mandò occultamente al re a scusarsi delle cose passate per la necessità del sito nel quale è posta Bologna, e a offerire di volere dependere da lui, e di astenersi per rispetto suo da molestare i fiorentini.
Ma non bastava la volontà del re, benché ardentissima, a mettere a esecuzione le cose deliberate, con tutto che l'onore proprio e i pericoli del regno di Napoli ricercassino prestissima espedizione; perché il cardinale di San Malò, in cui mano era oltre al maneggio delle pecunie la somma di tutto il governo, benché apertamente non contradicesse, differiva tanto, con allungare i pagamenti necessari, tutte l'espedizioni che provisione alcuna a effetto non si conduceva; mosso, o per parergli migliore mezzo a perpetuare la sua grandezza, non facendo spesa alcuna che non appartenesse o all'utilità presente o a' piaceri del re, non avere cagione di proporre ogni dí difficoltà di cose e necessità di danari, o perché, come molti dubitavano, corrotto da premi e da speranze, avesse secreta intelligenza o col pontefice o col duca di Milano: né a questo rimediavano i conforti e i comandamenti del re, pieni qualche volta di sdegno e di parole ingiuriose, perché conoscendo quale fusse la sua natura gli sodisfaceva con promesse contrarie agli effetti. E cosí, cominciata a ritardarsi per opera sua la esecuzione delle cose disegnate, si turborono quasi in tutto per uno accidente inaspettato che sopravenne. Imperocché alla fine del mese di maggio il re, quando ciascuno aspettava che non molto poi si movesse per passare in Italia, deliberò di andare a Parigi: allegando che, secondo il costume degli antichi re, voleva innanzi si partisse di Francia pigliare licenza con le cerimonie consuete da san Dionigi e, nel passare da Torsi, da san Martino; e che avendo disposto di passare in Italia abbondantissimo di danari, per non si ridurre nelle necessità nelle quali era stato l'anno dinanzi, bisognava che inducesse l'altre città di Francia ad accomodarlo di danari con l'esempio della città di Parigi, dalla quale non otterrebbe essere accomodato se non vi andasse personalmente; e che approssimandosi in là, farebbe piú sollecite a cavalcare le genti d'arme che si movevano di Normandia e di Piccardia: affermando che innanzi alla partita sua spedirebbe il duca d'Orliens, e che in termine di un mese sarebbe ritornato a Lione. Ma si credette che la piú vera e principale cagione fusse l'essere egli innamorato in camera della reina, la quale poco avanti era andata a Torsi con la sua corte. Né potettono i consigli de' suoi né gli stretti prieghi, e quasi lagrime, degl'italiani rimuoverlo da questa deliberazione; i quali gli dimostravano quanto fusse dannoso il perdere il tempo opportuno alla guerra, massime in tanta necessità de' suoi nel regno napoletano, e quanto fusse perniciosa la fama che volerebbe per Italia che e' si fusse allontanato quando doveva approssimarsi: variarsi per ogni piccolo accidente, per ogni leggiero romore, la riputazione delle imprese; ed essere molto difficile il ricuperarla quando è cominciata a declinare, quando bene si facessino poi effetti molto maggiori di quegli che gli uomini prima si erano promessi. I quali ricordi disprezzando, ed essendo soprastato un mese di piú a Lione, si mosse a quel cammino, non avendo espedito altrimenti il duca d'Orliens ma solo mandato in Asti con non molta gente il Triulzio, non tanto per le preparazioni della guerra quanto per stabilire nella sua divozione Filippo monsignore, succeduto nuovamente, per la morte del piccolo duca suo nipote, nella ducea di Savoia. Né si fece, innanzi alla partita sua, per le cose del regno altra provisione che di mandare con vettovaglie sei navi a Gaeta, dando speranza che presto le seguiterebbe l'armata grossa; e di provedere per mezzo di mercatanti a Firenze, benché tardi, quarantamila ducati per fargli pagare a Mompensieri: perché i svizzeri e i tedeschi avevano protestato che, non essendo pagati innanzi alla fine di giugno, passerebbono nel campo degli inimici. Rimasono a Lione il duca d'Orliens, il cardinale di San Malò e tutto il consiglio, con commissione di accelerare le provisioni: alle quali se il cardinale era proceduto lentamente in presenza del re, procedeva molto piú lentamente essendo assente.
Cap. vii
Nuove vicende della guerra nel reame di Napoli. Declina di nuovo la fortuna de' francesi. Vittoria di Consalvo in Calabria. Resa di Atella. Continui progressi degli aragonesi. Morte di Ferdinando e successione di Federico. Continuano gli indugi nella spedizione francese in Italia.
Ma non potevano le cose del reame di Napoli aspettare la tardità di questi rimedi, essendo ridotta la guerra in termine, per gli eserciti congregati da ogni banda e per molte difficoltà che da tutt'a due le parti si scoprivano, che era necessario che senza piú dilazione si terminasse la guerra. Aveva Ferdinando, poiché ebbe unite seco le genti viniziane, presa la terra di Castelfranco; dove si unirno seco con dugento uomini d'arme Giovanni Sforza signore di Pesero e Giovanni da Gonzaga fratello del marchese di Mantova condottieri de' confederati, in modo che in tutto erano nel campo suo mille dugento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e quattromila fanti; e i franzesi nel tempo medesimo si erano accampati a Circello, propinquo a dieci miglia a Benevento. Appresso a' quali accostatosi Ferdinando a quattro miglia, si pose a campo a Frangete di Monteforte; il quale luogo perché era bene proveduto non presono al primo assalto. Levoronsi i franzesi da Circello per soccorrerlo ma non arrivorono a tempo, essendosi per timore del secondo assalto arrenduti, lasciata la terra a discrezione, i fanti tedeschi che lo guardavano: la qual cosa parendo avversa a' franzesi sarebbe stata cagione della loro felicità se, o per imprudenza o per mala fortuna, non avessino perduta tanta occasione. Perché (cosí confessa quasi ciascuno) arebbeno quel dí facilmente rotto l'esercito inimico: perché, occupata la maggiore parte nel sacco di Frangete, non attendeva a' comandamenti de' capitani; i quali, vedendo che già tra i franzesi e l'alloggiamento loro non era in mezzo altro che una valle, si sforzavano con grandissima diligenza di mettergli insieme. Conobbe Mompensieri sí grande occasione, conobbela Verginio Orsino; de' quali l'uno comandava, l'altro, dimostrando la vittoria certa, pieno di lagrime pregava, che non tardassino a passare la valle mentre che nell'alloggiamento italiano era piena ogni cosa di confusione e di tumulto, mentre che i soldati, attendendo parte a rubare parte a portare via le cose rubate, non udivano l'imperio de' capitani. Ma Persí, uno de' principali, dopo Mompensieri, dell'esercito, mosso o da leggierezza giovenile o, come piú si credette, da invidia della sua gloria, allegando il disavvantaggio del passare la valle salendo sotto i piedi quasi degli inimici, e il sito forte del loro alloggiamento, e confortando scopertamente i soldati a non combattere, impedí cosí salutifero consiglio; e si crede che istigati da lui, i svizzeri e i tedeschi, domandando danari, tumultuorono. Però Mompensieri, costretto a ritirarsi, ritornò intorno a Circelle; ove dandosi il dí seguente la battaglia, Camillo Vitelli, mentre che allato alle mura fa egregiamente l'ufficio di capitano e di soldato, percosso nella testa da uno sasso terminò la vita sua: per il quale caso i franzesi, non espugnato Circelle, ne levorono il campo e se ne andorno verso Arriano; disposti nondimeno i capitani a tentare, se n'avessino avuta occasione, la fortuna della giornata. Al quale consiglio era in tutto contrario il consiglio dell'esercito aragonese; stando massime fermi, specialmente i proveditori viniziani, in questa sentenza perché, sapendo che gli inimici cominciavano a patire di vettovaglie e che erano senza danari, e vedendosi procedere in lungo i soccorsi di Francia, speravano che giornalmente avessino a crescere i sinistri e le incomodità loro, e che in altre parti del regno avessino medesimamente ad avere maggiori molestie, perché nello Abruzzi, dove nuovamente Annibale figliuolo naturale del signore di Camerino, andato volontariamente a servire Ferdinando con quattrocento cavalli a spese proprie, avea rotto il marchese di Bitonto, si aspettava con trecento uomini d'arme il duca di Urbino, condotto di nuovo da' collegati: la fortuna de' quali e le condizioni maggiori egli seguitando, aveva abbandonato la condotta de' fiorentini, alla quale era obligato ancora per piú di uno anno, scusandosi che per essere feudatario della Chiesa non poteva non ubbidire a' comandamenti del pontefice. Però, andando Graziano di Guerra per opporsegli, assaltato nel piano di Sermona dal conte di Celano e dal conte di Popoli con trecento cavalli e con tremila fanti paesani, gli messe in fuga.
Ma con la perdita della occasione del vincere intorno a Frangete era cominciata a declinare manifestamente la fortuna de' franzesi, concorrendo in uno tempo medesimo quasi infinite difficoltà; inopia estrema di danari carestia di vettovaglie odio de' popoli discordia de' capitani disubbidienza de' soldati e la partita di molti dal campo, parte per necessità parte per volontà, perché né del reame aveano avuto facoltà di cavare se non pochi danari, né di Francia erano stati di quantità alcuna proveduti, essendo stata troppo tarda la provisione de' quarantamila ducati mandati a Firenze; di maniera non potevano, per questo e per la vicinità di molte terre sostentate dalla propinquità degli inimici, fare i provedimenti necessari per avere le vettovaglie; e l'esercito era pieno di disordini, essendo indeboliti gli animi de' soldati, e i svizzeri e i tedeschi dimandando ogni dí tumultuosamente di essere pagati, e nocendo molto a tutte le deliberazioni la contradizione continua di Persí a Mompensieri. Costrinse la necessità il principe di Bisignano a partirsi con le sue genti, per andare alla guardia del proprio stato, per timore delle genti di Consalvo; e molti de' soldati del paese alla giornata si sfilavano, perché oltre al non avere ricevuti mai danari erano maltrattati da' franzesi e da' svizzeri nella divisione delle prede e nella distribuzione delle vettovaglie. Per le quali difficoltà, e sopratutto per la strettezza del vivere, era l'esercito franzese necessitato ritirarsi a poco a poco di uno luogo in uno altro, il che diminuiva grandemente la riputazione sua appresso a' popoli; e benché gli inimici gli andassino continuamente seguitando non perciò speravano d'avere facoltà di combattere, come sopratutto Mompensieri e Verginio desideravano, perché per non essere sforzati a combattere alloggiavano sempre in luoghi forti e ove non potessino essere impedite le sue comodità. Co' quali andando a unirsi Filippo Rosso condottiere de' viniziani, con la sua compagnia di cento uomini d'arme, era stato rotto dalle genti del prefetto di Roma. Finalmente, essendo i franzesi alloggiati sotto Montecalvoli e Casalarbore presso ad Arriano, Ferdinando, accostatosi loro per tanto spazio quanto è il tiro di una balestra ma alloggiando sempre in sito forte, gli ridusse in necessità grande di vettovaglie, e gli privò medesimamente dell'uso dell'acqua. Donde deliberati di andarsene in Puglia, dove speravano avere comodità di vettovaglie, e temendo, nella propinquità degl'inimici, delle difficoltà che facilmente sopravengono agli eserciti che si ritirano, levatisi tacitamente al principio della notte, camminorono, innanzi si fermassino, venticinque miglia. Seguitògli la mattina Ferdinando, ma disperandosi di potere aggiugnergli si accampò a Giesualdo; la quale terra, avendo già sostenuto quattordici mesi l'assedio di... famosissimo capitano, fu da lui espugnata in uno giorno solo: cosa che ingannò molto i franzesi, perché avendo deliberato di fermarsi in Venosa, terra forte di sito e molto abbondante di vettovaglie, la credenza che ebbono che Ferdinando non cosí presto pigliasse Giesualdo fu cagione che perdessino tempo in Atella, la quale terra aveano presa e la saccheggiavano; onde innanzi partissino, sopragiunti da Ferdinando, che preso Giesualdo accelerò il cammino, benché battessino una parte de' suoi trascorsa innanzi al campo, non potendo ridursi a Venosa vicina a otto miglia, si fermorono in Atella, con intenzione di aspettare se da parte alcuna venisse soccorso, e sperando, per la vicinità di Venosa e di molte altre terre circostanti che si tenevano per loro, poterne ricevere comodità di vettovaglie. Accampovvisi subito Ferdinando, intento tutto a impedirle loro, poiché vedeva presente la speranza di ottenere la vittoria senza pericolo e senza sangue, e perciò attendendo a fare all'intorno molte tagliate e a insignorirsi delle terre vicine. Ma le difficoltà de' franzesi gli rendevano ogni dí le cose piú facili. Perché i fanti tedeschi, non avendo, poi che furono levati del suo paese, ricevuto pagamento se non per due mesi, ed essendo passati tutti i termini invano aspettati, se n'andorono nel campo di Ferdinando; onde crescendo a lui la facoltà di infestare piú gli inimici e di piú distendervisi, vi si conducevano piú difficilmente le vettovaglie che venivano da Venosa e dall'altre terre circostanti. Né in Atella era tanto da vivere che bastasse a sostentare molti dí i franzesi, perché vi era piccola quantità di grano; e avendo gli aragonesi rovinato uno molino, il quale era in sul fiume che corre propinquo alle mura, pativano anche di macinato: non si alleggerendo le incomodità presenti per la speranza del futuro; poi che da parte alcuna non appariva segno di soccorso.
Ma l'avversità che sopravenne in Calavria messe in ultima ruina le cose loro. Perché avendo Consalvo, per l'occasione della infermità lunga di Obigní per la quale molti de' suoi erano andati all'esercito di Mompensieri, preso piú terre in quella provincia, si era ultimatamente, con gli spagnuoli e con molti soldati del paese, fermato a Castrovillole; dove avendo notizia che a Laino erano il conte di Meleto e Alberigo da San Severino e molti altri baroni con numero di gente quasi pari, e che ingrossando continuamente, disegnavano, come fussino piú potenti, d'andare ad assaltarlo, deliberò di prevenire, sperando di opprimergli incauti per la sicurtà che avevano dal sito del loro alloggiamento, perché il castello di Laino è posto in sul fiume [Sapri] che divide la Calavria dal Principato, e il borgo è dall'altra parte del fiume; nel quale alloggiando erano guardati dal castello contro a chi venisse ad assaltargli per il cammino diritto, e tra Laino e Castrovillole erano Murano e alcun'altre terre del principe di Bisignano che si tenevano per loro. Ma Consalvo, con diverso consiglio, partí con tutta la sua gente da Castrovillole poco innanzi alla notte, e uscendo della strada diritta prese il cammino largo, ancora che molto piú lungo e difficile perché s'avevano a passare alcune montagne, e condotto in sul fiume avviò la fanteria alla via del ponte che è tra 'l castello di Laino e il borgo; il qual ponte, per la medesima sicurtà, era guardato negligentemente: egli con la cavalleria, passato il fiume a guazzo due miglia piú alto, arrivò innanzi dí al borgo, e trovato gli inimici senza scolte e senza guardia gli ruppe in uno momento, pigliando undici baroni e quasi tutta la gente, perché fuggendo inverso il castello percotevano nella fanteria che aveva già occupato il passo del ponte. Da questa onorata opera, la quale fu la prima delle vittorie che ebbe Consalvo nel regno di Napoli, ricuperate alcune altre terre di Calavria, e augumentate le forze, andò con seimila uomini a unirsi col campo che era intorno ad Atella; al quale erano arrivati, pochi dí innanzi, cento uomini d'arme del duca di Candia soldato de' confederati, perché egli col resto della compagnia era rimasto in terra di Roma.
Per la venuta di Consalvo si strinse piú l'assedio, perché Atella fu circondata da tre parti, ponendosi da una le genti aragonesi dall'altra le viniziane e dalla terza le spagnuole; donde s'impedivano le vettovaglie che vi venivano, correndo massime per tutto gli stradiotti de' viniziani, i quali presono molti franzesi che ne conducevano da Venosa; né avevano piú quegli di dentro facoltà di andare al saccomanno se non a ore straordinarie e con grosse scorte: il che anche fu tolto del tutto loro, perché essendo uscito in sul mezzo dí Paolo Vitelli con cento uomini d'arme, tirato dal marchese di Mantova in uno aguato, ne perdé parte. Cosí perdute tutte le comodità, si ridussono in ultimo in tanta strettezza che non potevano, eziandio con le scorte, usare per i cavalli l'acqua del fiume, e dentro mancava l'acqua necessaria alle persone; in modo che, vinti da tanti mali e abbandonati d'ogni speranza, avendo già sopportato l'assedio trentadue dí, necessitati ad arrendersi, impetrato salvocondotto, mandorono Persí, Bartolomeo d'Alviano e uno de' capitani svizzeri a parlare a Ferdinando, col quale venneno in queste convenzioni: che l'offese si levassino tra le parti per trenta dí, non potendo nel detto tempo partirsi d'Atella alcuno degli assediati; a' quali fusse dí per dí conceduta dagli aragonesi la vettovaglia necessaria: fusse lecito a Mompensieri significare al suo re l'accordo fatto, e non avendo soccorso fra trenta dí, lasciasse Atella e tutto quello che nel regno di Napoli era in sua potestà, con tutte l'artiglierie che v'erano dentro, salve le persone e le robe de' soldati; con le quali fusse libero a ciascuno di andarsene, o per terra o per mare, in Francia; e agli Orsini e agli altri soldati italiani, di ritornarsene con le sue genti dove volessino fuora del regno: che a' baroni e agli altri che avevano seguitata la parte del re di Francia fusse, in caso che andassino fra quindici dí a Ferdinando, rimessa ogni pena e restituito tutto quello possedevano quando si principiò la guerra. Il quale termine poi che fu passato, Mompensieri con tutti i franzesi e con molti svizzeri e gli Orsini furno condotti a Castello a mare di Stabbia: disputandosi se Mompensieri, come luogotenente generale del re e superiore a tutti gli altri, fusse obligato a fare restituire, come allegava Ferdinando, tutto quello che nel reame di Napoli si possedeva in nome del re di Francia; perché Mompensieri pretendeva non essere tenuto se non a quello che era in potestà sua di restituire, e che l'autorità sua non si distendeva a comandare a' capitani e a' castellani, che nella Calavria nell'Abruzzi a Gaeta, e in molte altre terre e fortezze, l'aveano ricevute in custodia dal re e non da lui. Sopra che poi che si fu disputato alcuni dí, furono condotti a Baia, simulando Ferdinando di volergli lasciare partire: dove, sotto colore che ancora non fussino a ordine i legni per imbarcargli, furno sopratenuti tanto, che sparsi tra Baia e Pozzuolo, per la mala aria e per molte incomodità, cominciorno a infermarsi; talmente che e Mompensieri morí, e del resto della sua gente, che erano piú di cinquemila uomini, ne mancorno tanti che appena se ne condusseno cinquecento salvi in Francia. Verginio e Paolo Orsini, a requisizione del pontefice già deliberato di tôrre gli stati a quella famiglia, furono rinchiusi in Castello dell'Uovo, e le loro genti, guidate da Giangiordano figliuolo di Verginio e da Bartolomeo d'Alviano, furono per ordine del medesimo svaligiate nell'Abruzzi dal duca d'Urbino; e Giangiordano e l'Alviano, i quali prima per comandamento di Ferdinando, lasciate le genti nel cammino, erano ritornati a Napoli, furno incarcerati; benché l'Alviano, o per industria sua o per secreto consentimento di Ferdinando, da cui era stato molto amato, ebbe facoltà di fuggirsi.
Dopo la vittoria di Atella Ferdinando, dividendo per la recuperazione del resto del regno l'esercito in varie parti, mandò a campo a Gaeta don Federico e Prospero Colonna; e nell'Abruzzi, ove già l'Aquila era ritornata alla divozione aragonese, Fabrizio Colonna: egli, presa per forza la rocca di Sanseverino, e fatto per terrore degli altri decapitare il castellano e il figliuolo, andò a campo a Salerno; ove il principe di Bisignano, andato a parlargli, accordò per sé per il principe di Salerno per il conte di Capaccio e per alcuni altri baroni, con condizione di possedere i loro stati ma che Ferdinando, per sua sicurtà, tenesse per certo tempo le fortezze: il quale accordo fatto, andorno a Napoli. Né fu nello Abruzzi fatta molta difesa, perché Graziano di Guerra, che vi era con ottocento cavalli, non avendo piú facoltà di difendersi, si ridusse a Gaeta. In Calavria, della quale la maggiore parte si teneva per i franzesi, ritornò Consalvo; dove benché da Obigní fusse fatta qualche resistenza, nondimeno, ultimatamente ridotto in Groppoli, ed essendo perdute Manfredonia e Cosenza, stata prima saccheggiata da' franzesi, privato d'ogni speranza, consentí di lasciare tutta la Calavria, e gli fu conceduto il ritornarsene per terra in Francia. Certo è che molte di queste cose procederono per la negligenza e imprudenza de' franzesi: perché Manfredonia, ancora che fusse forte e posta in paese abbondante da potersi facilmente provedere di vettovaglie, e che 'l re v'avesse lasciato al governo Gabriello da Montefalcone, avuto da lui in concetto d'uomo valoroso, nondimeno dopo breve assedio fu costretto ad arrendersi per la fame; altri, potendosi difendere, si arrenderono o per viltà o per l'animo debole a sostenere le incomodità degli assedi; alcuni castellani, trovate le rocche bene provedute, avevano nel principio vendute le vettovaglie, in modo che presentandosi gli inimici erano necessitati ad arrendersi subito. Dalle quali cose perdé, nel reame di Napoli, il nome franzese quella riputazione che gli aveva data la virtú di colui che lasciato da Giovanni d'Angiò a guardia di Castel dell'Uovo, lo tenne dopo la vittoria di Ferdinando molti anni, insino a tanto che l'essere consumati del tutto gli alimenti lo costrinse ad arrendersi.
Cosí non mancando quasi altro alla recuperazione di tutto il regno che Taranto e Gaeta e alcune terre tenute da Carlo de Sanguine, e il monte di Santo Angelo, donde don Giuliano dell'Oreno infestava con somma laude i paesi circostanti, Ferdinando, collocato in somma gloria e in speranza grande di avere a essere pari alla grandezza de' suoi maggiori, andato a Somma, terra posta nelle radici del monte Vesevo, dove era la reina sua moglie, o per le fatiche passate o per disordini nuovi infermò sí gravemente che, portato già quasi senza speranza di salute a Napoli, finí fra pochi dí la vita sua, non finito l'anno dalla morte d'Alfonso suo padre: lasciato, per la vittoria acquistata, e per la nobiltà dell'animo e per molte virtú regie le quali in lui non mediocremente risplendevano, non solo in tutto il suo regno ma eziandio per tutta Italia, grandissima opinione del suo valore. Morí senza figliuoli, e però gli succedette don Federigo suo zio, avendo quel reame veduto in tre anni cinque re. Al quale, venuto subito dall'assedio di Gaeta, la reina vecchia sua matrigna consegnò Castelnuovo; benché per molti si dubitasse non lo volesse ritenere per Ferdinando re di Spagna, suo fratello. Nel quale accidente si dimostrò egregia verso Federigo non solo la volontà del popolo di Napoli ma eziandio de' príncipi di Salerno e di Bisignano e del conte di Capaccio; i quali in Napoli furono i primi che chiamorono il nome suo e, allo scendere suo di nave, i primi che, fattisigli incontro, lo salutorno come re: contenti molto piú di lui che del re morto, per la mansuetudine del suo ingegno, e perché già era nata non piccola suspizione che Ferdinando avesse in animo, come prima fussino stabilite meglio le cose sue, di perseguitare ardentemente tutti coloro che in modo alcuno si fussino dimostrati fautori de' franzesi. Donde Federigo, per riconciliarsegli interamente, restituí a tutti liberamente le loro fortezze.
Ma non riscaldorono già questi disordini, succeduti con tanta ignominia e tanto danno, né l'animo né gli apparati del re di Francia. Il quale, non si sapendo sviluppare da' piaceri, soprastette quattro mesi a ritornare a Lione; e benché da lui fusse molto spesso in questo tempo fatta instanza a' suoi che erano rimasti a Lione che si sollecitassino le provisioni marittime e terrestri, e che già il duca d'Orliens si fusse preparato a partirsi, nondimeno, per le medesime arti del cardinale di San Malò, le genti d'arme, espedite tardi de' pagamenti, camminavano verso Italia lentamente, e l'armata, che s'aveva a unire a Marsilia, sí oziosamente si ordinava che i collegati ebbono tempo di mandare, prima a Villafranca, porto amplissimo appresso a Nizza, dipoi insino alle Pomiche di Marsilia, un'armata, la quale a spese comuni avevano unita in Genova, per impedire che legni franzesi non andassino nel reame, e alla tardità causata principalmente dal cardinale di San Malò si dubitava non si aggiugnesse qualche cagione piú occulta, nutrita con molta diligenza e arte nel petto del re da quegli i quali, per varie cagioni, si sforzavano di rimuovere l'animo suo dalle cose d'Italia. Perché si sospettava che per se medesimo avesse dispiacere della grandezza del duca d'Orliens, al quale per la vittoria sarebbe pervenuto il ducato di Milano; e gli era oltre a questo persuaso non essere sicuro il partirsi di Francia se prima non facesse qualche composizione co' re di Spagna: i quali, dimostrando desiderio di riconciliarsi seco, gli avevano mandato imbasciadori a proporre tregua e altri modi di concordia. Consigliavanlo ancora molti che aspettasse il parto propinquo della reina, perché non conveniva alla prudenza sua, né all'amore che e' doveva portare a' popoli suoi, esporre la persona propria a tanti pericoli se prima non avesse un figliuolo al quale appartenesse tanta successione: ragione che diventò piú potente per il parto della reina, perché fra pochi dí morí il figliuolo maschio che di lei era nato. Cosí, parte per la negligenza e poco consiglio del re, parte per le difficoltà artificiosamente interposte da altri, si differirno tanto le provisioni che ne seguitò la distruzione delle sue genti con la perdita totale del regno di Napoli: e sarebbe succeduto il medesimo de' confederati suoi d'Italia se per se stessi non avessino costantemente difese le cose proprie.
Cap. viii
Colloqui e accordi di Lodovico Sforza con Massimiliano Cesare. Massimiliano Cesare in Italia. Fedeltà de' fiorentini ai francesi e consigli politici del Savonarola. Vicende della guerra de' fiorentini per riconquistare Pisa. Morte di Piero Capponi. Maggiori aiuti de' veneziani a Pisa e minore fiducia de' pisani in Lodovico Sforza.
È detto di sopra che, per paura degli apparati franzesi, si era cominciato, piú per sodisfazione di Lodovico Sforza che de' viniziani, a trattare di fare passare Massimiliano Cesare in Italia; col quale, mentre durava il medesimo timore, fu convenuto che i viniziani e Lodovico gli dessino per tre mesi ventimila ducati ciascuno mese perché menasse seco un certo numero di cavalli e di fanti. La quale convenzione come fu fatta, Lodovico, accompagnato dagli oratori de' collegati, andò a Manzo, luogo di là dalle Alpi a' confini di Germania, ad abboccarsi seco; nel quale luogo avendo parlato lungamente, ed essendosi il medesimo dí ritirato di qua dall'Alpi a Bormi, terra del ducato di Milano, Cesare il dí seguente, sotto specie di andare cacciando, si trasferí nel luogo medesimo: ne' quali colloqui di due dí avendo Cesare stabilito con loro il tempo e il modo del passare, se ne tornò in Germania per sollecitare l'esecuzione di quel che s'era deliberato. Ma raffreddando intanto il romore delle preparazioni franzesi, in modo che a questo effetto non pareva piú necessario il farlo passare, Lodovico disegnò di servirsi, ad ambizione, di quello che prima aveva procurato per propria sicurtà. Però continuando di sollecitarlo a passare, né volendo i viniziani concorrere a promettergli trentamila ducati, i quali dimandava oltre a' primi sessantamila che gli erano stati promessi, si obligò egli a questa dimanda; tanto che finalmente passò Cesare in Italia, poco innanzi alla morte di Ferdinando: la quale intesa quando era già vicino a Milano, ebbe qualche pensiero di favorire che il regno di Napoli pervenisse in Giovanni figliuolo unico del re di Spagna, suo genero; ma essendogli dimostrato da Lodovico che questo, essendo molesto a tutta Italia, disunirebbe i confederati e conseguentemente faciliterebbe i disegni del re di Francia, non solo se ne astenne ma favorí con lettere la successione di Federigo.
La passata sua in Italia fu con pochissimo numero di gente, dando voce che prestamente passerebbe insino alla somma la quale era obligato di menare; e si fermò a Vigevano. Ove in presenza di Lodovico e del cardinale di Santa Croce, mandatogli legato dal pontefice, e degli altri oratori de' collegati, fu ragionato che andasse nel Piemonte, per pigliare Asti e separare dal re di Francia il duca di Savoia e il marchese di Monferrato: i quali, come membri dependenti dallo imperio, ricercò che andassino a parlare seco in qualche terra del Piemonte; ma essendo le forze sue da disprezzare né corrispondendo gli effetti all'autorità del nome imperiale, né alcuno di essi consentí di andare a lui, né dell'impresa d'Asti v'era speranza che avesse a succedere prosperamente. Fece similmente instanza che andasse a lui il duca di Ferrara, il quale sotto nome di feudatario dello imperio possedeva le città di Modona e di Reggio, offerendogli per sicurtà sua la fede di Lodovico suo genero; il quale ricusò di andarvi, allegando cosí convenire all'onore suo, per tenere ancora in diposito il castelletto di Genova. Però Lodovico, il quale stimolato dalla sua antica cupidità e dal dispiacere che Pisa, tanto desiderata da sé, cadesse con pericolo di tutta Italia in potestà de' viniziani desiderava sommamente di interrompere questa cosa, confortò Cesare che andasse a quella città; persuadendosi, con discorso pieno di fallacie, che i fiorentini, impotenti a resistere a lui e alle forze de' collegati, si rimoverebbono per necessità dalla congiunzione del re di Francia, né potrebbono ricusare di dare arbitrio a Cesare che, se non per concordia almeno per via di giustizia, terminasse le differenze loro co' pisani; e che in sua mano si deponesse Pisa con tutto il contado: alle quali cose egli sperava con l'autorità sua di fare consentire i pisani, e che i viniziani, concorrendovi massime la volontà di tutti gli altri confederati, non si opporrebbono a una conclusione la quale si dimostrava con tanto beneficio comune e onestissima per sua natura. Perché, essendo Pisa anticamente terra di imperio, pareva non appartenesse ad altri che a Cesare la cognizione delle ragioni di quegli che vi pretendevano; e deposta Pisa in mano di Cesare, sperava Lodovico, con danari e con l'autorità che aveva con lui, che facilmente glien'avesse a concedere. Questo parere, proposto nel consiglio sotto colore che, poi che al presente cessava il timore della guerra [de'] franzesi, era da usare la venuta di Cesare per indurre i fiorentini a unirsi con gli altri confederati contro al re di Francia, piaceva a Cesare, malcontento che la venuta sua in Italia non partorisse effetto alcuno, e perché, avendo, per i concetti suoi vastissimi, e non meno per i suoi disordini e smisurata prodigalità, sempre necessità di danari, sperava che Pisa avesse a essere instrumento di cavarne, o da' fiorentini o da altri, grandissima quantità. Ma fu medesimamente approvato da tutti i confederati, come cosa molto utile alla sicurtà d'Italia; non contradicendo anche l'oratore veneto, perché quello senato se bene si accorgeva a che fine tendessino i pensieri di Lodovico si confidava facilmente d'interrompergli, e sperava che per l'andata di Cesare potesse facilmente acquistarsi a' pisani il porto di Livorno, il quale unito a Pisa pareva che privasse d'ogni speranza i fiorentini di potere giammai piú ricuperare quella città.
Avevano prima i collegati fatto molte volte instanza a' fiorentini che s'unissino con loro e, nel tempo che piú temevano della passata de' franzesi, data speranza di obligarsi a operare talmente che Pisa ritornasse sotto il dominio loro; ma essendo sospetta a' fiorentini la cupidità de' viniziani e di Lodovico, né volendo leggiermente alienarsi dal re di Francia, non avevano udito con molta prontezza queste offerte. Movevagli inoltre la speranza d'avere, per la passata del re, a recuperare Pietrasanta e Serezana, le quali terre non potevano sperare di ottenere da' confederati; e molto piú perché, facendo giudicio piú da' meriti loro e da quello che tolleravano per il re che dalla sua natura o consuetudine, si persuadevano d'avere a conseguire, per mezzo della sua vittoria, non solo Pisa ma quasi tutto il resto di Toscana: nutriti in questa persuasione dalle parole di Ieronimo Savonarola, il quale continuamente prediceva molte felicità e ampliazioni di imperio, destinate dopo molti travagli a quella republica, e grandissimi mali che accadrebbono alla corte romana e a tutti gli altri potentati d'Italia; al quale benché non mancassino de' contradittori, nondimeno dalla maggiore parte del popolo gli era prestata fede grande, e molti de' principali cittadini, chi per bontà chi per ambizione chi per timore, gli aderivano. In modo che essendo i fiorentini disposti a continuare nell'amicizia del re di Francia, non pareva senza ragione che i confederati tentassino di ridurgli con la forza a quello da che con la volontà erano alieni; e si giudicava impresa non difficile, perché erano odiati da tutti i vicini, non potevano sperare aiuto dal re di Francia, conciossiacosaché avendo abbandonato la salute de' suoi medesimi era credibile avesse a dimenticarsi quella degli altri, e le spese gravissime con la diminuzione dell'entrate, sopportate già tre anni, gli avevano talmente esausti che non si credeva potessino tollerare lunghi travagli.
Perché e questo anno medesimo avevano continuata sempre la guerra co' pisani: nella quale erano stati vari gli accidenti, e memorabili piú per la perizia dell'armi dimostrata in molte opere militari da ciascuna delle parti, e per l'ostinazione con la quale le cose si trattavano, che per la grandezza degli eserciti o per la qualità de' luoghi intorno a quali si combatteva, che erano castella ignobili e in sé di piccolo momento. Perché avendo le genti de' fiorentini, poco poi che la cittadella fu data a' pisani e innanzi che a Pisa sopravenissino gli aiuti de' viniziani, preso il castello di Buti e accampatisi a Calci, e innanzi lo pigliassino, per assicurarsi delle vettovaglie, cominciato a fabricare un bastione in sul monte della Dolorosa, furono i fanti che vi erano a guardia, per la negligenza loro, rotti dalle genti de' pisani; e poco dipoi, essendo Francesco Secco con molti cavalli alloggiato nel borgo di Buti, acciocché le vettovaglie potessino andare sicuramente a Ercole Bentivogli, il quale con la fanteria de' fiorentini era intorno alla piccola fortezza del monte della Verrucola, assaltato allo improviso da fanti usciti di Pisa, ed essendo in luogo difficile a adoperarsi i cavalli, ne perdé non piccola parte. Per i quali successi parendo piú prospere le cose de' pisani, e con speranza di procedere a maggiore prosperità perché già cominciavano ad arrivare gli aiuti de' viniziani, Ercole Bentivoglio che alloggiava nel castello di Bientina, inteso che Giampaolo Manfrone condottiere de' viniziani era con la prima parte delle genti loro arrivato a Vico Pisano, vicino a Bientina a due miglia, simulando timore, e ora uscendo in campagna ora, come si scoprivano le genti venete, ritirandosi in Bientina, poiché lo vedde ripieno d'audacia e di inconsiderazione, lo condusse con grande astuzia un giorno in un aguato, dove lo ruppe con perdita della piú parte de' fanti e de' cavalli, seguitandolo insino alle mura di Vico Pisano: ma perché la vittoria non fusse del tutto lieta, quando volleno ritirarsi, Francesco Secco, il quale quella mattina si era unito con Ercole, fu morto da uno archibuso. Sopravenneno poi l'altre genti de' viniziani, tra' quali erano ottocento stradiotti e con loro Giustiniano Morosino proveditore; per il che essendo i pisani molto superiori, Ercole Bentivoglio, peritissimo del sito del paese, non volendo mettersi in pericolo né abbandonare del tutto la campagna, alloggiò in luogo fortissimo tra il castello di Pontadera e il fiume dell'Era, con l'opportunità del quale alloggiamento raffrenò assai l'impeto degli inimici: i quali in tutto questo tempo non presono altro che il castello di Buti, ottenendolo a discrezione; e attendevano a predare tutto il paese co' loro stradiotti, de' quali trecento che avevano fatta una cavalcata in Val d'Era furono rotti da genti mandate loro dietro da Ercole. Ed erano i fiorentini nel tempo medesimo infestati da' sanesi; i quali, presa l'occasione de' travagli che avevano nel contado di Pisa e stimolati da' collegati, mandorono il signore di Piombino e Giovanni Savello a campo al bastione del ponte a Valiano; ma intendendo sopravenire il soccorso guidato da Renuccio da Marciano si ritirorono tumultuosamente, lasciatavi parte dell'artiglierie. Per il che i fiorentini, assicurate le cose da quella banda, voltorono Renuccio con le genti in quel di Pisa; in modo che, essendo quasi pareggiate le forze, si ridusse la guerra alle castella delle colline: le quali per essere affezionate a' pisani, procedevano piú tosto le cose con disavvantaggio de' fiorentini. E accadde anche che i pisani, entrati per trattato nel castello di Ponte di Sacco, svaligiorono una compagnia d'uomini d'arme e feceno prigione Lodovico da Marciano, benché per sospetto delle genti de' fiorentini che erano vicine subito l'abbandonassino; e per impadronirsi meglio delle colline, importanti molto per le vettovaglie che di quivi a Pisa si conducevano e perché interrompevano a' fiorentini il commercio del porto di Livorno, fortificorono la piú parte di quelle castella; delle quali fu, per accidente estraordinario, nobilitato Soiano. Perché, essendovi andato il campo de' fiorentini con intenzione d'espugnarlo il dí medesimo, e però avendo fatto guastare tutti i passi del fiume della Cascina e messo in sulla riva le genti d'arme in battaglia, acciocché gli inimici non potessino soccorrerlo, mentre che Piero Capponi, commissario de' fiorentini, procura di fare piantare l'artiglieria, percosso da uno degli archibusi della terra nella testa, perdé la vita subitamente; fine, per la ignobilità del luogo e per la piccola importanza della cosa, non conveniente alla sua virtú. Donde il campo si levò senza tentare altro; essendo anche in questo tempo stati necessitati i fiorentini a mandare gente in Lunigiana, al soccorso della rocca della Verrucola, molestata da' marchesi Malaspini con l'aiuto de' genovesi; donde facilmente gli scacciorono.
Erano state per qualche mese potenti le forze de' pisani, perché oltre agli uomini della terra e del contado, diventati già per lungo uso bellicosi, v'avevano i viniziani e il duca di Milano molti cavalli e fanti; benché assai piú numero fussino quegli de' viniziani. Cominciorono poi a diminuirsi, per non avere i debiti pagamenti, le genti tenutevi dal duca; e però i viniziani vi mandorono di nuovo cento uomini d'arme e sei galee sottili con provisione di frumenti, non perdonando a spesa alcuna necessaria alla sicurtà di quella città e opportuna a tirare a sé la benivolenza de' pisani. I quali si alienavano ogni dí piú con gli animi dalla divozione del duca di Milano, infastiditi e dalla strettezza sua allo spendere e provedergli e dalle sue variazioni; perché ora si dimostrava ardente nelle cose loro ora procedeva freddamente; talmente che, quasi insospettiti della sua volontà, attribuivano a lui che 'l Bentivoglio, secondo la commissione avuta da' collegati, non fusse cavalcato a' danni de' fiorentini; massime che si sapeva essergli mancato da lui in grande parte dei pagamenti, o per avarizia o perché gli fussino grate le molestie ma non la totale oppressione de' fiorentini. Per le quali operazioni aveva gittato da se medesimo nelle cose di Pisa i fondamenti contrari alla propria intenzione, e al fine per il quale era autore che si deliberasse nel consiglio de' collegati l'andata di Cesare a Pisa.
Cap. ix
Massimiliano Cesare chiede a' fiorentini che sia a lui rimessa la questione con Pisa. I veneziani mandano nuove genti a Pisa. Risposta de' fiorentini a Massimiliano Cesare. Colloquio de' legati fiorentini col duca di Milano.
La quale poi che fu deliberata, Cesare mandò due imbasciadori a Firenze, a significare che alla impresa, quale aveva in animo di fare potentemente contro agl'infedeli, aveva giudicato necessario passare in Italia per pacificarla e assicurarla; e per questa cagione ricercava i fiorentini che si dichiarassino insieme con gli altri confederati alla difensione d'Italia, e quando pure avessino l'animo diverso da questo, che manifestassino la loro intenzione. Volere, per la cagione medesima e per quello che si apparteneva alla autorità imperiale, conoscere le differenze tra loro e i pisani; e però desiderare che insino a tanto fussino udite da lui le ragioni di tutti si sospendessino l'offese, come era certo che farebbono i pisani, a' quali aveva comandato il medesimo; affermando con umane parole essere parato ad amministrare giustizia indifferentemente. Alla quale esposizione, commendato con parole onorevoli il proposito di Cesare e dimostrato d'avere fede grandissima nella sua bontà, fu risposto che per imbasciadori, quali subito gli manderebbono, farebbono intendere particolarmente la mente loro.
Ma in questo tempo i viniziani, per non lasciare a Cesare o al duca di Milano facoltà di occupare Pisa, vi mandorono di nuovo, con consentimento de' pisani, Annibale Bentivoglio loro condottiere con cento cinquanta uomini d'arme, e poco poi nuovi stradiotti e mille fanti; significando al duca avervegli mandati perché la loro republica, amatrice delle città libere, voleva aiutare i pisani alla recuperazione del contado loro: con l'aiuto delle quali genti i pisani finirono di recuperare quasi tutte le castella delle colline. Per i quali benefici e per la prontezza de' viniziani nelle dimande loro che erano molte, ora di gente ora di danari ora di vettovaglie e di munizioni, era la volontà de' pisani diventata tanto conforme a quella de' viniziani che, trasportata in essi quella confidenza e amore che e' solevano avere nel duca di Milano, desideravano sommamente che quel senato continuasse nella difesa loro; e nondimeno sollecitavano la venuta di Cesare, sperando, con le genti che erano in Pisa e con quelle menava seco, avere facilmente a conseguire Livorno.
Da altra parte i fiorentini, che oltre all'altre difficoltà erano stretti in quel tempo da gravissima carestia, stavano con molto timore, vedendosi soli a resistere alla potenza di tanti príncipi; perché in Italia non era alcuno che gli aiutasse, e per lettere degli oratori che avevano in Francia erano stati certificati che dal re, al quale avevano fatto grandissima instanza d'essere in tanti pericoli soccorsi almeno di qualche quantità di danari, non si poteva sperare sussidio alcuno. Solamente cessava loro la molestia di Piero de' Medici, perché il consiglio de' collegati fu di non usare in questo moto il nome e il favore suo, avendo per esperienza compreso che i fiorentini per questo timore diventavano piú uniti alla conservazione della propria libertà. Né cessava Lodovico Sforza, sotto specie d'essere geloso della salute loro e malcontento della grandezza de' viniziani, di confortargli efficacemente a rimettersi in Cesare, dimostrando molti pericoli e spaventi, e proponendo non restare altro modo a trarre di Pisa i viniziani; donde seguiterebbe subito la loro reintegrazione, come cosa molto necessaria alla quiete d'Italia, e desiderata per questa cagione da' re di Spagna e da tutti gli altri confederati. E nondimeno i fiorentini, né mossi dalla vanità di queste insidiose lusinghe né spaventati da tante difficoltà e pericoli, deliberorono di non fare con Cesare dichiarazione alcuna, né rimettere in suo arbitrio le ragioni loro se prima non erano restituiti alla possessione di Pisa; perché non confidavano né della volontà né della autorità sua, essendo noto che non avendo da se stesso né forze né danari procedeva come pareva al duca di Milano, né si vedendo ne' viniziani disposizione o necessità di lasciare Pisa: però con franco animo attendevano a fortificare e provedere quanto potevano Livorno, e a ristrignere insieme tutte le genti loro nel contado di Pisa. E nondimeno, per non si dimostrare alieni dalla concordia e sforzarsi di mitigare l'animo di Cesare, gli mandorono imbasciadori, essendo egli già arrivato a Genova, per rispondere a quello che avevano esposto gli oratori suoi in Firenze: la commissione de' quali fu di persuadergli non essere necessario di procedere ad alcuna dichiarazione, perché per la divozione che si portava al nome suo si poteva promettere della republica fiorentina tutto quello desiderasse; ricordare che al proposito santissimo che egli aveva di quietare Italia niuna cosa era piú opportuna che il restituire subito Pisa a' fiorentini, perché da questa radice nascevano tutte le loro deliberazioni che erano moleste a lui e a' confederati, e perché Pisa era cagione che qualcun altro aspirasse allo imperio d'Italia e perciò procurasse di tenerla in continui travagli; con le quali parole, benché non si esprimesse altrimenti, erano significati i viniziani; né convenire alla sua giustizia che chi era stato spogliato violentemente fusse, contro alla disposizione delle leggi imperiali, astretto a fare compromesso delle sue ragioni se prima non era reintegrato nella sua possessione: conchiudendo che, avendo da lui questo principio, la republica fiorentina, non gli restando causa di desiderare altro che la pace con ciascuno, farebbe tutte quelle dichiarazioni che a lui paressino convenienti; e confidandosi pienamente della sua giustizia rimetterebbe in lui prontamente la cognizione delle sue ragioni. La quale risposta non sodisfacendo a Cesare, desideroso che innanzi a ogni cosa entrassino nella lega, ricevendo la parola da lui della reintegrazione alla possessione di Pisa infra uno termine conveniente, non ebbono, dopo molte discussioni, da lui altra risposta se non che, in sul molo di Genova, quando già entrava in mare, rispose loro che dal legato del pontefice che era in Genova intenderebbono la sua volontà: dal quale rimessi al duca, che da Tortona, insino dove aveva accompagnato Cesare, era ritornato a Milano, andorono a quella città. E avendo già dimandata l'udienza, sopragiunseno commissioni da Firenze, dove si era saputo il progresso della loro legazione, che senza cercare altra risposta se ne tornassino alla patria: però venuti all'ora deputata innanzi al duca, convertirono la dimanda della risposta in significargli che, ritornandosene a Firenze, non avevano ricusato d'allungare il cammino per fargli, innanzi che uscissino del suo stato, riverenza, come conveniva all'amicizia che teneva seco la loro republica.
Aveva il duca, presupponendo che avessino a dimandargli la risposta, per ostentare, come faceva spesso, la sua eloquenza e le sue arti e prendersi piacere dell'altrui calamità, convocato tutti gli oratori de' collegati e tutto il suo consiglio; ma restando maravigliato e confuso di questa proposta, né potendo celare il suo dispiacere, gli dimandò che risposta avessino avuta da Cesare. Alla quale dimanda, replicando essi che, secondo le leggi della loro republica, non potevano con altro principe trattare le sue commissioni che con quello al quale erano destinati imbasciadori, rispose tutto turbato: - Dunque, se noi vi daremo la risposta per la quale sappiamo che Cesare v'ha rimesso a noi, non la vorrete udire? - Soggiunseno non essere vietato loro l'udire né potere vietare che altri non parlasse. Replicò: - Siamo contenti di darvela, ma non si può fare questo se non esponete a noi quello che esponeste a lui. - E replicando gli oratori non potere, per le medesime ragioni, ed essere superfluo, perché era necessario che Cesare avesse significata la loro proposta a quegli a' quali aveva commesso che in nome suo facessino la risposta, non potendo egli né con parole né con gesti dissimulare lo sdegno, licenziò e gli oratori e tutti coloro che aveva congregati: ricevuta in sé parte di quella derisione che aveva voluta fare agli altri.
Cap. x
Felice sbarco a Livorno di granaglie per i fiorentini. Contraria fortuna di Massimiliano Cesare nel tentativo d'impadronirsi di Livorno. Massimiliano Cesare con pochissima dignità del nome imperiale abbandona la Toscana e l'Italia e si ritira in Germania. Lodovico Sforza ritira le sue genti da Pisa.
Cesare in questo mezzo, partito del porto di Genova con sei galee che i viniziani avevano nel mare di Pisa, e con molti legni de' genovesi abbondanti d'artiglieria ma non d'uomini da combattere, perché non v'erano altro che mille fanti tedeschi, navigò insino al porto della Spezie e di quivi andò per terra a Pisa; ove raccolti cinquecento cavalli e mille altri fanti tedeschi che avevano fatto il cammino per terra, deliberò con queste genti e con quelle del duca di Milano e con parte delle viniziane andare a campo a Livorno, con intenzione di assaltarlo per terra e per mare, e che l'altre genti de' viniziani andassino a Ponte di Sacco, acciocché il campo de' fiorentini, che non era molto potente, non potesse o molestare i pisani o dare soccorso a Livorno. Ma niuna impresa spaventava i fiorentini meno che quella di Livorno, proveduto sufficientemente di gente e d'artiglierie, e ove aspettavano di dí in dí soccorso di Provenza; perché non molto prima, per accrescere le forze sue con la riputazione nella quale allora erano in Italia l'armi de' franzesi, avevano con consentimento del re di Francia soldato monsignore di Albigion, uno de' suoi capitani con cento lancie e mille fanti tra svizzeri e guasconi, acciocché per mare passassino a Livorno, in su certe navi che per ordine loro erano state caricate di grani per sollevare la carestia che ne era per tutto il dominio fiorentino. La quale deliberazione, fatta con altri pensieri e ad altri fini che per difendersi da Cesare, se bene ebbe molte difficoltà, perché e Albigion con la sua compagnia già condotto alle navi ricusò d'entrare in mare e de' fanti se ne imbarcorono solamente seicento, nondimeno fu tanto favorita dalla fortuna che né maggiore né piú opportuna provisione si sarebbe potuta desiderare; conciossiacosaché, il dí medesimo che uno commissario pisano, mandato innanzi da Cesare con molti fanti e cavalli per fare ponti e spianare le vie per l'esercito che aveva a venire, si presentò a Livorno, i legni di Provenza, che erano cinque navi e alcuni galeoni, e con essi una nave grossa di Normandia, la quale il re mandava per rinfrescare Gaeta di vettovaglie e di gente, si scopersono sopra Livorno, co' venti tanto prosperi che, non se gli opponendo l'armata di Cesare perché fu costretta dal tempo ad allargarsi sopra la Meloria (scoglio famoso, perché già appresso a quello furono in una battaglia navale afflitte in perpetuo da' genovesi le forze de' pisani), entrorono nel porto senza ricevere alcuno danno; eccetto che uno galeone carico di grano, separato dal resto dell'armata, fu preso dagl'inimici. Détte questo soccorso, sí opportuno, grande ardire a quegli che erano in Livorno, e confermò grandemente l'animo de' fiorentini, parendo loro che l'essere giunto cosí a tempo fusse segno che dove in favore loro mancassino le forze umane avesse a supplire l'aiuto divino: come molte volte in quegli dí, nel maggiore terrore degli altri, aveva, predicando al popolo, affermato il Savonarola.
Ma non cessò per questo il re de' romani d'andare col campo a Livorno: dove mandati per terra cinquecento uomini d'arme e mille cavalli leggieri e quattromila fanti, egli andò in sulle galee insino alla bocca dello Stagno che è tra Pisa e Livorno. E avendo assegnata l'oppugnazione d'una parte della terra al conte di Gaiazzo, che era stato mandato con lui dal duca di Milano, e postosi egli dall'altra, benché il primo dí s'accampasse con molta difficoltà per la molestia grande datagli dall'artiglierie di Livorno, cominciò, come colui che desiderava, la prima cosa, insignorirsi del porto, accostate le genti innanzi dí dalla banda della Fontana, a battere con molti cannoni il Magnano, il quale quegli di dentro avevano fortificato, e rovinato, come veddeno porre il campo da quella parte, il Palazzotto e la torre dal lato di mare, come cosa da non potersi guardare e abile a fare perdere la torre nuova; e nel medesimo tempo, per battere dalla parte di mare, aveva fatto appressare al porto l'armata sua, perché le navi franzesi, poiché ebbono poste in terra le genti e scaricato parte de' grani, essendo finiti i noli loro, non ostante i prieghi fatti in contrario, si erano partite per ritornare in Provenza, e la normanda per seguitare il cammino suo verso Gaeta. L'oppugnazione fatta al Magnano, per combattere poi la terra eziandio per mare, riusciva di poco frutto, per esservi munito in modo che l'artiglierie poco offendevano, e quegli di dentro spesso uscivano fuora a scaramucciare. Ma era destinato che la speranza cominciata col favore de' venti avesse col beneficio pure de' venti la sua perfezione; perché levatosi uno temporale gagliardo conquassò in modo l'armata che la nave grimalda genovese, che aveva portata la persona di Cesare, combattuta lungamente da' venti, andò a traverso, dirimpetto alla rocca nuova di Livorno, con tutti gli uomini e artiglierie che vi erano sopra, e il medesimo feceno alla punta di verso Santo Iacopo due galee venete; e gli altri legni dispersi in vari luoghi patirno tanto che non furno piú utili per la impresa presente: per il quale caso ricuperorono quegli di dentro il galeone, venuto prima in potestà degl'inimici.
Per il naufragio dell'armata ritornò Cesare a Pisa; dove, dopo molte consulte, diffidandosi per tutti di potere piú pigliare Livorno, si deliberò di levarne il campo e fare la guerra da altra parte. Però Cesare andò a Vico Pisano, e fatto ordinare uno ponte sopra Arno tra Cascina e Vico e uno sopra il Cilecchio, quando si credeva dovesse passare, partitosi allo improviso se ne ritornò per terra verso Milano; non avendo fatto altro progresso in Toscana che avere saccheggiato, quattrocento cavalli de' suoi, Borgheri castello ignobile nella Maremma di Pisa. Scusava questa subita partita per accrescersegli continuamente le difficoltà, non si sodisfacendo alle sue spesse dimande di nuovi danari, né consentendo i proveditori veneti che la maggiore parte delle genti loro uscisse piú di Pisa per sospetto conceputo di lui, né gli avevano i viniziani pagato interamente la porzione de' sessantamila ducati; onde, lodandosi molto del duca di Milano, si lamentava gravemente di loro. A Pavia, dove egli si trasferí, fu fatta nuova consulta; e benché avesse publicato volere tornarsene in Germania, consentiva di soprastare in Italia tutta la vernata con mille cavalli e dumila fanti, in caso che ogni mese se gli pagassino ventiduemila fiorini di Reno; della quale cosa mentre che s'aspetta risposta da Vinegia andò in Lomellina, nel tempo che era aspettato a Milano: essendogli, come ne' tempi seguenti dimostrorno meglio i suoi progressi, fatale di non entrare in quella città. Di Lomellina, mutato consiglio, tornò a Cusago propinquo a sei miglia a Milano, donde inopinatamente, senza saputa del duca e degli oratori che vi erano, se n'andò a Como; e quivi inteso, mentre desinava, che il legato del papa, al quale aveva mandato a dire che non lo seguitasse, era arrivato, levatosi da mensa, andò a imbarcarsi con tanta celerità che appena il legato ebbe spazio di parlargli poche parole alla barca; al quale rispose essere necessitato di andare in Germania ma che prestamente ritornerebbe. E nondimeno, poiché per il lago di Como fu condotto a Bellasio, avendo inteso che i viniziani consentivano a quello che si era trattato a Pavia, détte di nuovo speranza di ritornare a Milano; ma pochissimi giorni poi, procedendo con la sua naturale varietà, lasciata una parte de' suoi cavalli e de' fanti, se ne andò in Germania: avendo, con pochissima degnità del nome imperiale, dimostrata la sua debolezza a Italia, che già lungo tempo non aveva veduti imperadori armati.
Per la partita sua Lodovico Sforza, disperato di potere piú, se non venivano nuovi accidenti, tirare Pisa a sé né cavarla di mano de' viniziani, ne levò tutte le genti sue, pigliando per parte di consolazione del suo dispiacere che i viniziani restassino soli implicati nella guerra co' fiorentini; da che si persuadeva che la stracchezza dell'uno e dell'altro potesse col tempo porgergli qualche desiderata occasione. Per la partita delle quali genti i fiorentini, restati piú potenti nel contado di Pisa che gli inimici, recuperorono tutte le castella delle colline; e perciò i viniziani, essendo costretti per impedire i loro progressi a fare nuove provisioni, aggiunsono a quelle che vi erano tante genti che in tutto v'aveano quattrocento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e piú di dumila fanti.
Cap. xi
Resa di Taranto a' veneziani. Il re di Francia progetta d'impadronirsi di Genova. Il pontefice dichiara confiscati gli stati degli Orsini. Guerra con gli Orsini e patti che la concludono. Presa di Ostia. Consalvo accolto trionfalmente in Roma e dal pontefice.
Risolveronsi in questo mezzo nel reame di Napoli quasi tutte le reliquie della guerra de' franzesi: perché la città di Taranto con le fortezze, oppressata dalla fame, si arrendé a viniziani che l'avevano assediata con la loro armata, i quali dopo averla ritenuta molti dí, ed essendo già nato sospetto che se la volessino appropriare, la restituirono finalmente a Federigo, instandone assai il pontefice e i re di Spagna; ed essendosi inteso a Gaeta che la nave normanda, avendo combattuto sopra Porto Ercole con alcune navi de' genovesi che aveva incontrate, seguitando dipoi il suo cammino, vinta dalla tempesta del mare era andata a traverso, i franzesi che erano in quella città, alla quale il nuovo re era tornato a campo, ancora che, secondo che era la fama, avessino provisione da sostenersi qualche mese, giudicando che alla fine il re loro non sarebbe piú sollecito a soccorrergli che e' fusse stato a soccorrere tanta nobiltà e tante terre che si tenevano per lui, accordorono con Federigo per mezzo di Obigní, il quale per alcune difficoltà nate nella consegnazione delle fortezze di Calavria non era ancora partito da Napoli, di lasciare la terra e la fortezza, avendo facoltà di andarne salvi per mare in Francia con tutte le robe loro.
Per il quale accordo essendo il re di Francia alleggierito de' pensieri di soccorrere il reame, e da altra parte acceso dagli stimoli del danno e dell'infamia, deliberò di assaltare Genova, sperando nella parte che v'aveva Batistino Fregoso, stato già doge di quella città, e nel seguito che aveva il cardinale di San Piero in Vincola in Savona sua patria e in quelle riviere; e pareva gli aggiugnesse opportunità l'essere in questo tempo discordi Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, e universalmente i genovesi malcontenti del duca di Milano per essere stato autore che nella vendita di Pietrasanta i lucchesi fussino stati preferiti a loro e perché, avendo poi promesso di farla ritornare nelle loro mani e usata a questo, per mitigare lo sdegno conceputo, l'autorità de' viniziani, gli aveva pasciuti molti mesi di vane speranze. Il timore di questa deliberazione del re costrinse Lodovico, il quale per le cose di Pisa era quasi alienato da' viniziani, a unirsi di nuovo con loro, e a mandare a Genova quegli cavalli e fanti tedeschi che Cesare aveva lasciati in Italia: a' quali se non fusse sopravenuta questa necessità non sarebbe stata fatta alcuna provisione.
Le quali cose mentre che si trattano, il pontefice, parendogli di avere opportunità grande d'occupare gli stati degli Orsini poiché i capi di quella famiglia erano ritenuti a Napoli, pronunziò nel concistorio, Verginio e gli altri, rebelli, e confiscò gli stati loro, per essere andati, contro a' suoi comandamenti, agli stipendi de' franzesi; il che fatto, assaltò, nel principio dell'anno mille quattrocento novantasette, le terre loro, avendo ordinato che i Colonnesi, da piú luoghi dove confinano con gli Orsini, facessino il medesimo. Fu questa impresa confortata assai dal cardinale Ascanio per l'antica amicizia sua co' Colonnesi e dissensione con gli Orsini, e consentita dal duca di Milano; ma molesta a' viniziani i quali desideravano di farsi benevola quella famiglia; e nondimeno, non potendo con giustificazione alcuna impedire che il pontefice proseguisse le sue ragioni, né essendo utile l'alienarselo in tempo tale, consentirono che il duca d'Urbino soldato comune andasse a unirsi con le genti della Chiesa, delle quali era capitano generale il duca di Candia e legato il cardinale di Luna pavese, cardinale dependente in tutto da Ascanio. E il re Federigo vi mandò in aiuto suo Fabrizio Colonna. Questo esercito, poi che se gli furono arrendute Campagnano e l'Anguillara e molte altre castella, andò a campo a Trivignano; la quale terra, difesasi per qualche dí francamente, si dette a discrezione: ma mentre si difendeva, Bartolomeo d'Alviano uscito di Bracciano roppe, otto miglia appresso a Roma, quattrocento cavalli che conducevano artiglierie nel campo ecclesiastico; e un altro dí, essendo corso presso alla Croce a Montemari, mancò poco che non pigliasse il cardinale di Valenza, il quale, uscito di Roma a cacciare, fuggendo si salvò. Preso Trivignano, andò il campo all'Isola, e battuta con l'artiglierie una parte della rocca la conseguí per accordo. E si ridusse finalmente tutta la guerra intorno a Bracciano; dove era collocata tutta la speranza della difesa degli Orsini, perché il luogo, prima forte, era stato bene munito e riparato, e fortificato il borgo, alla fronte del quale avevano fatto un bastione; e dentro, difensori a sufficienza sotto il governo dello Alviano: che, giovane ancora ma di ingegno feroce e di celerità incredibile, ed esercitato nelle armi, dava di sé quella speranza alla quale non furono nel tempo seguente inferiori le sue azioni. Né il pontefice cessava di accrescere ogni dí il suo esercito, al quale aveva di nuovo aggiunto ottocento fanti tedeschi, di quegli che avevano militato nel reame di Napoli. Combattessi per molti dí da ogni parte con grande contenzione, avendo quegli di fuora piantate da piú luoghi l'artiglierie né mancando quegli di dentro di provedere e riparare per tutto con somma diligenza e franchezza: furono nondimeno, dopo non molti dí, costretti ad abbandonare il borgo; il quale preso, gli ecclesiastici dettono un assalto feroce alla terra, ma benché avessino già poste le bandiere in sulle mura furono sforzati a ritirarsi con molto danno: nella quale battaglia fu ferito Antonello Savello. Dimostrorono quegli di dentro la medesima virtú in uno altro assalto, ributtando con maggiore danno gli inimici, de' quali furono tra morti e feriti piú di dugento; con laude grandissima dell'Alviano a cui s'attribuiva principalmente la gloria di questa difesa, perché e dentro era prontissimo a tutte le fazioni necessarie e fuori con spessi assalti teneva in quasi continua molestia, e di dí e di notte, l'esercito degli inimici. Accrebbe le laudi sue perché, avendo ordinato che certi cavalli leggieri corressino da Cervetri, che si teneva per gli Orsini, un dí insino in sul campo, uscito fuora per l'occasione di questo tumulto, messe in fuga i fanti che guardavano l'artiglieria, della quale condusse alcuni pezzi minori in Bracciano. E nondimeno, battuti e travagliati il dí e la notte, cominciavano a sostentarsi principalmente con la speranza del soccorso; perché Carlo Orsino e Vitellozzo, congiunto per il vincolo della fazione guelfa a gli Orsini, i quali, ricevuti danari dal re di Francia per riordinare le compagnie loro dissipate nel regno di Napoli, erano passati in Italia in su' legni venuti di Provenza a Livorno, si preparavano per soccorrere a tanto pericolo. Però Carlo, andato a Soriano, attendeva a raccorre i soldati antichi e gli amici e partigiani degli Orsini; e Vitellozzo faceva a Città di Castello il medesimo de' suoi soldati e de' fanti del paese, i quali come ebbe uniti, con dugento uomini d'arme e mille ottocento fanti de' suoi, e con artiglieria in sulle carrette, all'uso franzese, si congiunse a Soriano con Carlo. Per il che i capitani ecclesiastici, giudicando pericoloso, se e' procedessino piú innanzi, il trovarsi in mezzo tra loro e quegli che erano in Bracciano, e per non lasciare in preda tutto il paese circostante nel quale avevano già saccheggiate alcune castella, levato il campo da Bracciano e ridotte l'artiglierie grosse nell'Anguillara, si indirizzorono contro degli inimici; co' quali incontratisi tra Soriano e Bassano il combatterono insieme per piú ore ferocemente, ma finalmente gli ecclesiastici, benché nel principio del combattere fusse preso da' Colonnesi Franciotto Orsino, furono messi in fuga, tolti loro i carriaggi tolta l'artiglieria, e tra morti e presi piú di cinquecento uomini; tra' quali restorono prigioni il duca d'Urbino Giampiero da Gonzaga conte di Nugolara, e molti altri uomini di condizione; e il duca di Candia, ferito leggiermente nel volto, e con lui il legato apostolico e Fabrizio Colonna, fuggendo, si salvorno in Ronciglione. Riportò la laude principale di questa vittoria Vitellozzo, perché la fanteria da Città di Castello, stata disciplinata innanzi da' fratelli e da lui al modo delle ordinanze oltramontane, fu questo dí aiutata grandemente dall'industria sua; perché avendogli armati di lancie piú lunghe circa un braccio di quello che era l'usanza comune, ebbono tanto vantaggio quando da lui furono condotte a urtarsi co' fanti degl'inimici che, offendendo loro senza essere offesi, per la lunghezza delle lancie, gli messono in fuga facilmente; e con tanto maggiore onore quanto nella battaglia contraria erano ottocento fanti tedeschi, della quale nazione avevano i fanti italiani sempre, dopo la passata del re Carlo, avuto grandissimo terrore. Dopo questa vittoria cominciorono i vincitori a correre senza ostacolo per tutto il paese di qua dal Tevere, e dipoi passata una parte delle genti di là dal fiume sotto Monte Ritondo, correvano per quella strada che sola era restata sicura. Per i quali pericoli il pontefice, soldando di nuovo molta gente, chiamò del regno di Napoli in soccorso suo Consalvo e Prospero Colonna. E nondimeno, pochi dí poi, interponendosi con grande studio gli oratori de' viniziani per beneficio degli Orsini, e lo spagnuolo per timore che da questo principio non nascesse nelle cose della lega maggiore disordine, fu fatta pace; con inclinazione molto pronta cosí del pontefice, alienissimo per natura dallo spendere, come degli Orsini, i quali, non avendo danari ed essendo abbandonati da ciascuno, conoscevano essere necessario che alla fine cedessino alla potenza del pontefice. La somma de' patti fu: che agli Orsini fusse lecito continuare insino alla fine nella condotta del re di Francia, nella quale era espresso che e' non fussino tenuti a pigliare l'armi contro alla Chiesa: riavessino tutte le terre perdute in questa guerra ma pagando al pontefice cinquantamila ducati, trentamila subito, che da Federigo fussino liberati Giangiordano e Pagolo Orsini, perché Verginio era pochi dí innanzi morto in Castel dell'Uovo, o di febbre o come alcuni credettono di veleno, e gli altri ventimila si pagassino infra otto mesi, ma depositando in mano de' cardinali [Ascanio] e di Sanseverino l'Anguillara e Cervetri, per l'osservanza del pagamento: liberassinsi i prigioni fatti nella giornata di Soriano, eccetto il duca d'Urbino; della liberazione del quale, benché s'affaticassino gli oratori de' collegati, il pontefice non fece instanza, perché sapeva gli Orsini non avere facoltà di provedere a' danari, i quali si trattava pagassino, se non mediante la taglia di quel duca; la quale fu poco poi concordata in quarantamila ducati, e aggiuntovi che non prima fusse liberato che Pagolo Vitelli, il quale quando si arrendé Atella era restato prigione del marchese di Mantova, conseguisse senza pagare alcuna cosa la sua liberazione.
Espedito il pontefice poco onorevolmente della guerra degli Orsini, dati danari alle genti che conduceva Consalvo, e unite seco le sue, lo mandò all'impresa d'Ostia che si teneva ancora in nome del cardinale di San Piero in Vincola, dove appena furono piantate l'artiglierie che il castellano si arrendé a Consalvo a discrezione. Avuta Ostia, Consalvo quasi trionfante entrò in Roma, con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, tutti soldati spagnuoli, menandosi innanzi il castellano come prigione, il quale poco poi liberò; e incontrato da molti prelati, dalla famiglia del pontefice e di tutti i cardinali, concorrendo tutto il popolo e tutta la corte, cupidissimi di vedere un capitano il nome del quale risonava già chiarissimamente per tutta Italia, fu condotto al papa residente in concistorio; il quale, ricevutolo con grandissimo onore, gli donò la rosa, solita a donarsi ogni anno da' pontefici, in testimonianza del suo valore. Ritornò poi a unirsi col re Federigo: il quale, assaltato lo stato del prefetto di Roma, aveva preso tutte le terre che, tolte nell'acquisto del regno al marchese di Pescara, gli erano state donate dal re di Francia; e presa Sora e Arci, ma non le rocche, era a campo a Rocca Guglielma, avendo per accordo conseguito lo stato del conte d'Uliveto, già, innanzi vendesse quello ducato al prefetto, duca di Sora. E nondimeno in queste prosperità non mancavano a Federigo molte molestie; non solo dagli amici, perché Consalvo teneva in nome de' suoi re una parte della Calavria, ma eziandio dagli inimici riconciliati. Perché essendo stato una sera, uscendo di Castenuovo di Napoli, ferito gravemente da uno certo greco il principe di Bisignano, entrò tanto terrore nel principe di Salerno che questo non fusse stato fatto per ordine del re, in vendetta dell'offese passate, che subito, non dissimulando la causa del sospetto, se n'andò da Napoli a Salerno; e benché il re mandasse in potestà sua il greco, che era in carcere, per giustificarlo, che egli (come era la verità) l'aveva ferito per ingiuria ricevuta molti anni innanzi da lui nella persona della sua moglie, nondimeno, come nell'antiche e gravi inimicizie è difficile stabilire fedele reconciliazione, perché è impedita o dal sospetto o dalla cupidità della vendetta, non si potette mai piú il principe disporre a fidarsi di lui. Il che dando speranza che nel regno si avessino a fare nuove sollevazioni, a' franzesi, i quali ancora tenevano il monte di Sant'Angelo e alcuni altri luoghi forti, era cagione di fargli perseverare piú costantemente al difendersi.
Cap. xii
Carlo VIII tratta la tregua co' re di Spagna e manda milizie contro il territorio di Genova e contro il ducato di Milano, occupando alcune terre. Infelice esito dell'impresa e probabili cause dell'insuccesso. Patti della tregua fra il re di Francia e i re di Spagna. I francesi perdono in Italia quasi tutte le terre recentemente occupate. I fiorentini occupati nella riconquista di Pisa accettano malvolentieri la tregua.
Maggiori pericoli si dimostravano in questo tempo in Lombardia per i movimenti de' franzesi, assicurati per allora da' minacci degli spagnuoli, perché essendo stati tra loro piú tosto leggieri assalti e dimostrazioni di guerra che alcuna cosa notabile, eccetto che da' franzesi fu presa in brevissimo tempo e abbruciata la terra di Sals, si era introdotta tra quei re pratica di concordia; e per dare maggiore facilità a trattarla, levate tra loro l'offese per due mesi. Per la quale occasione Carlo, potendo attendere piú speditamente alle cose di Genova e di Savona, avendo mandato in Asti insino al numero di mille lancie e tremila svizzeri e numero pari di guasconi, commesse al Triulzio, luogotenente suo in Italia, che aiutasse Batistino e il Vincola; disegnando oltre a questi mandare dietro con grosso esercito il duca d'Orliens a fare in nome proprio l'impresa del ducato di Milano: e per facilitare quella di Genova mandò a' fiorentini Ottaviano Fregoso a ricercargli che nel tempo medesimo assaltassino la Lunigiana e la riviera di levante, e ordinò che Pol Batista Fregoso con sei galee turbasse la riviera di ponente.
Cominciò questo movimento con tanto terrore del duca di Milano, il quale da se stesso non era preparato abbastanza, né aveva ancora gli aiuti che gli avevano promessi i viniziani, che se fusse stato continuato co' mezzi debiti arebbe partorito qualche effetto importante; e piú facilmente nel ducato di Milano che a Genova, perché a Genova, essendosi per opera di Lodovico riconciliati Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, avevano soldati molti fanti e messa in ordine un'armata per mare, a spese de' viniziani e di Lodovico: con la quale si congiunseno sei galee mandate da Federigo, perché il pontefice, ritenendo il nome di confederato piú ne' consigli e nelle dimostrazioni che nelle opere, non volle in questi pericoli concorrere a spesa alcuna, né per terra né per mare. I progressi di questa espedizione furono che Batistino e con lui il Triulzio andorno a Novi, della quale terra Batistino, statone prima spogliato dal duca di Milano, riteneva la fortezza; per la venuta de' quali il conte di Gaiazzo, che vi era a guardia con sessanta uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, diffidandosi poterla difendere si ritirò a Serravalle. Per l'acquisto di Novi si augumentò non poco la riputazione de' fuorusciti, perché oltre a essere terra capace di molta gente impedisce il transito da Milano a Genova; e per il sito nel quale è posta è molto opportuna a offendere i luoghi circostanti. Occupò dipoi Batistino altre terre vicine a Novi; e nel tempo medesimo il cardinale con dugento lancie e tremila fanti, presa Ventimiglia, s'accostò a Savona, ma non facendo quegli di dentro movimento alcuno, e inteso che Giovanni Adorno s'approssimava con molti fanti, si ritirò allo Altare, terra del marchese di Monferrato, distante otto miglia da Savona. Di maggiore momento fu il principio che si fece per il Triulzio. Il quale, desideroso di dare occasione che la guerra si accendesse nel ducato di Milano, ancora che la commissione del re fusse che prima s'attendesse alle cose di Genova e di Savona, prese il Bosco, castello importante nel contado d'Alessandria, sotto pretesto che, per sicurtà delle genti che erano andate nella riviera, fusse necessario impedire a quegli del duca di Milano la facoltà di condursi da Alessandria in quello di Genova; e nondimeno, per non contrafare manifestamente al comandamento del re, non procedé piú avanti, perdendo grandissima occasione; perché il paese circostante era tutto, per l'occupazione del Bosco, in grandissima sollevazione, altri per timore altri per cupidità di cose nuove, non essendo per il duca da quella parte piú di cinquecento uomini d'arme e seimila fanti, e cominciando Galeazzo Sanseverino, il quale era in Alessandria, [dove] medesimamente si ritirò il conte di Gaiazzo, a diffidarsi di poterla difendere senza maggiori forze: e già Lodovico, non manco timido in questa avversità che per natura fusse in tutte l'altre, ricercava il duca di Ferrara che interponesse tra il re di Francia e lui qualche concordia. Ma il soprasedere del Triulzio tra 'l Bosco e Novi dette tempo a Lodovico di provedersi, e a' viniziani, i quali concorrendo prontissimamente alla sua difesa avevano prima mandato a Genova mille cinquecento fanti, di mandare in Alessandria molti uomini d'arme e cavalli leggieri; e ultimatamente commessono al conte di Pitigliano, capo delle loro genti, perché il marchese di Mantova si era rimosso dagli stipendi veneti, che con la maggiore parte andasse in aiuto di quello stato. Cosí raffreddando le cose cominciate con grande speranza, Batistino, non fatto a Genova frutto alcuno, perché la città per le provisioni fatte stette quieta, ritornò a unirsi col Triulzio, allegando essere riusciti vani i disegni suoi perché da' fiorentini non era stata assaltata la riviera di levante; i quali non avevano giudicato prudente consiglio lo implicarsi nella guerra se prima le cose de' franzesi non si dimostravano piú prospere e piú potenti. Andò medesimamente il Vincola a unirsi col Triulzio, non avendo fatto altro che prese alcune terre del marchese del Finale, perché si era scoperto alla difesa di Savona. Unite le genti franzesi feceno alcune scorrerie verso il Castellaccio, terra vicina al Bosco, stata già fortificata da' capitani del duca; e augumentandosi continuamente l'esercito de' collegati che faceva la massa ad Alessandria, e per contrario cominciando a mancare a' franzesi danari e vettovaglie, né essendo gli altri capitani bene pazienti a ubbidire al Triulzio, fu costretto, lasciata guardia in Novi e nel Bosco, a ritirarsi con l'esercito appresso ad Asti.
Credesi che a questa impresa nocesse, come si vede molte volte intervenire, la divisione fatta delle genti in piú parti, e che se tutti si fussino nel principio dirizzati a Genova arebbono forse avuto migliore successo; perché, oltre alla inclinazione delle fazioni e lo sdegno nato per causa di Pietrasanta, parte de' cavalli e de' fanti tedeschi che il duca di Milano v'aveva mandati, soprastativi pochi dí, se ne erano tornati all'improviso in Germania. Può essere ancora che da quegli medesimi ministri da' quali, l'anno dinanzi, era stata impedita la passata del re in Italia e il soccorso del regno di Napoli, fussino usate l'arti medesime di impedire la impresa presente con la difficoltà delle provisioni; e tanto piú che era fama che 'l duca di Milano, il quale a' sudditi suoi faceva gravi esazioni, donasse assai al duca di Borbone e ad altri di quegli che potevano appresso al re: la quale infamia si distendeva non meno al cardinale di San Malò. Ma come si sia, certo è che il duca d'Orliens, destinato a passare in Asti e sollecitatone molto dal re, fece tutte le preparazioni necessarie a tale andata ma ritardò, o perché non confidasse nelle provisioni che si facevano o perché, come molti interpretavano, partisse malvolentieri del regno di Francia, essendo il re continuamente indisposto della persona, e in caso della sua morte senza figliuoli appartenendo a lui la successione della corona.
Ma il re, non gli essendo riuscita la speranza della mutazione di Genova e di Savona, ristrinse le pratiche cominciate co' re di Spagna, ritardate per una sola difficoltà: che il re di Francia, desiderando di restare espedito alle imprese di qua da' monti, recusava che nella tregua che si trattava si comprendessino le cose d'Italia; e i re di Spagna, dimostrando di non fare difficoltà di consentire alla sua volontà per altro che per rispetto del loro onore, facevano instanza che vi si comprendessino, perché, essendo la intenzione comune fare la tregua perché con maggiore facilità si trattasse la pace, potrebbono con maggiore onestà partirsi dalla confederazione che avevano con gli italiani. Alla qual cosa, poiché furono andati dall'una parte all'altra piú volte imbasciadori, prevalendo finalmente, come quasi sempre, l'arti spagnuole, contrassono tregua per sé e per i sudditi e dependenti suoi, e per quegli ancora che qualunque d'essi nominasse; la quale tregua, cominciando tra loro il quinto dí di marzo ma tra i nominati cinquanta dí poi, durasse per tutto il mese d'ottobre prossimo. Nominò ciascuno di essi quegli potentati e stati italiani che erano confederati e aderenti suoi, e i re di Spagna nominorno di piú il re Federigo e i pisani. Convenneno oltre a questo di mandare a Mompolieri uomini propri per trattare la pace dove potessino intervenire gli oratori degli altri collegati; e in questa pratica davano i re di Spagna speranza di potere con qualche giustificata occasione congiugnersi col re di Francia contro agli italiani, proponendo, insino allora, partiti di dividersi il regno di Napoli. La quale tregua benché fatta senza partecipazione de' collegati d'Italia fu nondimeno grata a tutti, e specialmente al duca di Milano, desiderosissimo che la guerra si rimovesse del suo dominio.
Ma essendo restata libera in Italia la facoltà dell'offendersi insino al vigesimo quinto dí di aprile, il Triulzio e Batistino, e con loro Serenon, ritornati con cinquemila uomini nella riviera di ponente, assaltorono la terra d'Albinga, la quale benché avessino al primo assalto quasi tutta occupata, nondimeno disordinatisi nell'entrarvi ne furno cacciati da poco numero degli inimici. Entrorno dipoi nel marchesato del Finale per dare cagione all'esercito italiano d'andare a soccorrerlo, sperando d'avere occasione di condurgli alla giornata; il che non succedendo non feceno piú cosa di momento, essendo massime accresciuta la discordia de' capitani e mancando ogni dí piú, per la tregua fatta, i pagamenti. Nel qual tempo i collegati avevano, da Novi in fuora, recuperato le terre prima perdute; e Novi finalmente, con tutto che il conte di Gaiazzo andatovi a campo ne fusse stato ributtato, ottenneno per accordo: né restò, de' luoghi acquistati, in potere de' franzesi altro che alcune piccole terre prese nel marchesato del Finale. Ne' quali travagli il duca di Savoia, infestato da tutte le parti con offerte grandi, e il marchese di Monferrato, il governo del quale era stato dal re de' romani confermato in Costantino di Macedonia, non si dichiarorono né per il re di Francia né per i confederati.
Non si era in questo anno fatta cosa di momento tra i fiorentini e i pisani, benché continuamente si proseguisse la guerra, se non che essendo andati i pisani, sotto Giampaolo Manfrone con quattrocento cavalli leggieri e con mille cinquecento fanti, per ricuperare il bastione fatto da loro al Ponte a Stagno, il quale avevano perduto quando Cesare si partí da Livorno, il conte Renuccio avutone notizia andò con molti cavalli a soccorrerlo, per la via di Livorno, non pensando i pisani dovere essere assaltati se non per la via del Pontadera; e avendogli sopragiunti che già combattevano il bastione, gli messe in fuga facilmente, pigliandone molti. Ma si posorono, per la tregua fatta, similmente l'armi tra loro; benché malvolentieri fusse accettata da' fiorentini, perché giudicavano essere inutile alle cose loro il dare spazio a' pisani di respirare, e perché, non ostante la tregua, per sospetto di Piero de' Medici che continuamente qualche cosa macchinava, e per il timore delle genti viniziane che erano in Pisa, la necessità gli costrigneva a continuare le spese medesime.
Cap. xiii
Il duca di Milano propone a' collegati di cedere Pisa a' fiorentini per staccarli dal re di Francia. Fallimento della proposta. Condizioni interne di Firenze. Vano tentativo di Piero de' Medici di rientrare in Firenze. Turpitudini e tragedie nella famiglia del pontefice. La condanna de' compromessi nel tentativo di Piero de' Medici.
Cosí essendo per tutto fermate l'armi o già in procinto di fermarsi, il duca di Milano, benché ne' prossimi pericoli avesse dimostrato grandissima sodisfazione del senato viniziano per i pronti aiuti ricevuti da quello, esaltando publicamente con magnifiche parole la virtú e la potenza veneta, e commendando la providenza di Giovan Galeazzo primo duca di Milano che avesse commesso alla fede di quello senato l'esecuzione del suo testamento, nondimeno non potendo tollerare che la preda di Pisa, levata e seguitata da lui con tanta fatica e con tante arti, restasse a loro, come appariva manifestamente avere a essere, e però tentando di conseguire col consiglio quello che non poteva ottenere con le forze, operò che 'l pontefice e gli oratori de' re di Spagna, a' quali tutti era molesta tanta grandezza de' viniziani, proponessino che, per levare d'Italia ogni fondamento a' franzesi e per ridurla tutta in concordia, sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega comune col reintegrargli di Pisa, poiché altrimenti indurre non vi si potevano; perché stando separati dagli altri non cessavano di stimolare il re di Francia a passare in Italia e, in caso passasse, potevano co' danari e con le genti loro, essendo massime situati nel mezzo d'Italia, fare effetti di non piccola importanza. Ma questa proposta fu dall'oratore viniziano contradetta come molto perniciosa alla salute comune, allegando la inclinazione de' fiorentini al re di Francia essere tale che, eziandio con questo beneficio, non era da confidarsi di loro se non davano sicurtà bastante di osservare quello promettessino, e in cose di tanto momento nessuna sicurtà bastare se non il deporre Livorno in mano de' collegati: cosa proposta artificiosamente da lui, perché, sapendo che mai consentirebbono di deporre luogo sí importante allo stato loro, gli restasse facoltà maggiore di contradire; il che essendo dipoi succeduto come pensava, s'oppose con tale caldezza che, non avendo il pontefice e l'oratore del duca di Milano ardire di contradirgli per non gli alienare dalla loro congiunzione, non si seguitò questo ragionamento; e si cominciò per il pontefice e i viniziani nuovo disegno per divertire con violenza i fiorentini dalla amicizia franzese: dando animo a chi pensava di offendergli le male condizioni di quella città, nella quale era tra' cittadini non piccola divisione causata dalla forma del governo.
Perché quando fu fondata da principio l'autorità popolare non erano stati mescolati quegli temperamenti che, insieme con l'assicurare co' modi debiti la libertà, impedissino che la republica non fusse disordinata dalla imperizia e dalla licenza della moltitudine. Però, essendo in minore prezzo i cittadini di maggiore condizione che non pareva conveniente, e sospetta da altra parte al popolo la loro ambizione, e intervenendo spesso nelle deliberazioni importanti molti che n'erano poco capaci, e scambiandosi di due mesi in due mesi il supremo magistrato al quale si referiva la somma delle cose piú ardue, si governava la republica con molta confusione. Aggiugnevasi l'autorità grande del Savonarola, gli uditori del quale si erano ristretti quasi in tacita intelligenza, ed essendo tra loro molti cittadini di onorate qualità, e prevalendo ancora di numero a quegli che erano di contraria opinione, pareva che i magistrati e gli onori publici si distribuissino molto piú ne' suoi seguaci che negli altri; e per questo essendosi manifestamente divisa la città, l'una parte con l'altra ne' consigli publici si urtava, non si curando gli uomini, come accade nelle città divise, di impedire il bene comune per sbattere la riputazione degli avversari. Faceva piú pericolosi questi disordini, che oltre a' lunghi travagli e gravi spese tollerate da quella città v'era quell'anno carestia grandissima, per il che si poteva presumere che la plebe affamata desiderasse cose nuove.
La quale mala disposizione détte speranza a Piero de' Medici, incitato oltre a queste occasioni da alcuni cittadini, di potere facilmente ottenere il desiderio suo. Però ristretti i suoi consigli con Federigo cardinale da San Severino, antico amico suo, e con l'Alviano, e stimolato occultamente da' viniziani, a' quali pareva che per i travagli de' fiorentini si stabilissino le cose di Pisa, deliberò di tentare di entrare furtivamente in Firenze; massime poi che fu avvisato essere stato creato gonfaloniere di giustizia, che era capo del magistrato supremo, Bernardo del Nero, uomo di gravità e d'autorità grande e stato lungamente amico paterno e suo, ed essere eletti al medesimo magistrato alcuni altri i quali, per le dependenze vecchie, credeva che avessino inclinazione alla sua grandezza. Assentí a questo disegno il pontefice, desideroso di separare i fiorentini dal re di Francia con le ingiurie poi che era stato impedito di separargli co' benefici; né contradisse il duca di Milano, non gli parendo potere fare fondamento o intelligenza stabile con quella città per i disordini del presente governo, se bene da altra parte non gli piacesse il ritorno di Piero, sí per l'offese fattegli come perché dubitava non avesse a dipendere troppo dall'autorità de' viniziani. Raccolti adunque Piero quanti danari potette da se medesimo e con l'aiuto degli amici, e si credette che qualche piccola quantità gli fusse somministrata da' viniziani, andò a Siena, e dietro a lui l'Alviano con cavalli e con fanti, facendo il cammino sempre di notte e fuora di strada acciocché l'andata sua fusse occultissima a' fiorentini. A Siena, per favore di Giacoppo e di Pandolfo Petrucci, cittadini principali di quel governo e amici paterni e suoi, ebbe secretamente altre genti; in modo che con seicento cavalli e quattrocento fanti eletti si partí, due dí poi che era cominciata la tregua, nella quale non si comprendevano i sanesi, verso Firenze, con speranza che, arrivandovi quasi improviso in sul fare del dí, avesse facilmente, o per disordine o per tumulto il quale sperava aversi a levare in suo favore, a entrarvi: il quale disegno non sarebbe forse riuscito vano se la fortuna non avesse supplito alla negligenza de' suoi avversari. Perché essendo al principio della notte alloggiato alle Tavernelle, che sono alcune case in sulla strada maestra, con pensiero di camminare la maggior parte della notte, una pioggia che sopravenne molto grande gli dette tale impedimento che e' non potette presentarsi a Firenze se non molte ore poi che era levato il sole; il quale indugio dette tempo a quegli che facevano professione di essergli particolari inimici, perché la plebe e quasi tutto il resto de' cittadini stava ad aspettare quietamente l'esito della cosa, di prendere l'armi con gli amici e seguaci loro, e ordinare che da' magistrati fussino chiamati e ritenuti nel palagio publico i cittadini sospetti, e farsi forti alla porta che va a Siena; alla quale, pregato da loro, andò medesimamente Pagolo Vitelli, che ritornando da Mantova era, per sorte, la sera precedente, giunto in Firenze: di modo non si movendo cosa alcuna nella città, né Piero potente a sforzare la porta alla quale s'era accostato per un tiro d'arco, poi che vi fu dimorato quattro ore, temendo che con pericolo suo non sopravenissino le genti d'arme de' fiorentini, le quali pensava, come era vero, che fussino state chiamate di quel di Pisa, se ne ritornò a Siena. Donde l'Alviano partitosi, e introdotto in Todi da' guelfi, saccheggiò quasi tutte le case de' ghibellini e ammazzò cinquantatré de' primi di quella parte; il quale esempio seguitando Antonello Savello, entrato in Terni, e i Gatteschi col favore de' Colonnesi entrati in Viterbo, feceno simiglianti mali nell'un luogo e nell'altro, e nel paese circostante contro a' guelfi: non provedendo a tanti disordini dello stato ecclesiastico il pontefice, aborrente dallo spendere in cose simili, e perché, prendendo per sua natura piccola molestia delle calamità degli altri, non si turbava di quelle cose che gli offendevano l'onore pure che l'utilità o i piaceri non si impedissino.
Ma non potette già fuggire gli infortuni domestici, i quali perturborono la casa sua con esempli tragici, e con libidini e crudeltà orribili, eziandio in ogni barbara regione. Perché avendo, insino da principio del suo pontificato, disegnato di volgere tutta la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il cardinale di Valenza il quale, d'animo totalmente alieno dalla professione sacerdotale, aspirava all'esercizio dell'armi, non potendo tollerare che questo luogo gli fusse occupato dal fratello, e impaziente oltre a questo che egli avesse piú parte di lui nell'amore di madonna Lucrezia sorella comune, incitato dalla libidine e dalla ambizione (ministri potenti a ogni grande sceleratezza), lo fece, una notte che e' cavalcava solo per Roma, ammazzare e poi gittare nel fiume del Tevere secretamente. Era medesimamente fama (se però è degna di credersi tanta enormità) che nell'amore di madonna Lucrezia concorressino non solamente i due fratelli ma eziandio il padre medesimo: il quale avendola, come fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato inferiore al suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non comportando d'avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato; avendo fatto, innanzi a giudici delegati da lui, provare con false testimonianze, e dipoi confermare per sentenza, che Giovanni era per natura frigido e impotente al coito. Afflisse sopra modo il pontefice la morte del duca di Candia, ardente quanto mai fusse stato padre alcuno nell'amore de' figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della fortuna, perché è manifesto che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in tutte le cose felicissimi successi; e se ne commosse talmente che nel concistorio, poiché ebbe con grandissima commozione d'animo e con lacrime deplorata gravemente la sua miseria, e accusato molte delle proprie azioni e il modo del vivere che insino a quel dí aveva tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro con altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de' cardinali a riformare seco i costumi e gli ordini della corte. Alla quale cosa avendo data opera qualche dí, e cominciando a manifestarsi l'autore della morte del figliuolo, la quale nel principio si era dubitato che non fusse proceduta per opera o del cardinale Ascanio o degli Orsini, deposta prima la buona intenzione e poi le lagrime, ritornò piú sfrenatamente che mai a quegli pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dí aveva consumato la sua età.
Nacqueno in questo tempo dal movimento fatto per Piero de' Medici nuovi travagli in Firenze, perché poco dipoi venne a luce la intelligenza che egli v'aveva, per il che furono incarcerati molti cittadini nobili e alcuni altri si fuggirono; e poiché legittimamente fu verificato l'ordine della congiura, furono condannati alla morte non solo Niccolò Ridolfi, Lorenzo Tornabuoni, Giannozzo Pucci e Giovanni Cambi, che l'avevano sollecitato a venire, e Lorenzo a questo effetto accomodatolo di danari, ma eziandio Bernardo del Nero, non imputato d'altro che d'avere saputa questa pratica e non l'avere rivelata: il quale errore, che per sé è punito in pena capitale dagli statuti fiorentini e dalla interpretazione data dalla maggiore parte de' giurisconsulti alle leggi comuni, fece piú grave in lui l'essere stato, quando Piero venne a Firenze, gonfaloniere, come se fusse stato maggiormente obligato a fare uffizio piú di persona publica che di privata. Ma avendo i parenti de' condannati appellato dalla sentenza al consiglio grande del popolo, per vigore d'una legge che s'era fatta quando fu ordinato il governo popolare, ristrettisi quegli che erano stati autori della condannazione, per sospetto che la compassione dell'età e della nobiltà e la moltitudine de' parenti non mitigassino negli animi del popolo la severità del giudicio, ottenneno che in numero minore di cittadini si mettesse in consulta se era da permettere il proseguire l'appellazione o proibirlo; dove prevalendo l'autorità e il numero di quegli che dicevano essere cosa pericolosa e facile a generare sedizione, e che le leggi medesime concedevano che per fuggire i tumulti potessino essere le leggi in caso simile dispensate, furono impetuosamente, e quasi per forza e con minaccie, costretti alcuni di quegli che sedevano nel supremo magistrato a consentire che, non ostante l'appello interposto, si facesse la notte medesima l'esecuzione: riscaldandosi a questo molto piú che gli altri i fautori del Savonarola, non senza infamia sua che non avesse dissuaso, a quegli massime che lo seguitavano, il violare una legge proposta, pochi anni innanzi, da lui come molto salutare e quasi necessaria alla conservazione della libertà.
Cap. xiv
Federico d'Aragona ricupera altre terre. Conclusione della tregua fra i re di Spagna e Carlo VIII. Morte di Filippo duca di Savoia. Il duca di Ferrara consegna il castello di Genova a Lodovico Sforza. Continui dubbi e negligenza del re di Francia e conseguenze che ne derivano per le cose d'Italia. Si torna a discutere fra i collegati italiani dell'opportunità di cedere Pisa a Firenze. Obiezione e opposizione de' veneziani.
In questo anno medesimo Federigo re di Napoli, ottenuta la investitura del regno dal pontefice e fatta solennemente la sua incoronazione, recuperò per accordo il monte di Santo Angelo, che era stato valorosamente difeso da don Giuliano dell'Oreno lasciatovi dal re di Francia, e Civita con alcune altre terre tenute da Carlo de Sanguine; e cacciato, finita che fu la tregua, totalmente del regno il prefetto di Roma, si voltò a fare il simile del principe di Salerno: il quale finalmente, assediato nella rocca di Diano e abbandonato da tutti, ebbe facoltà di partirsi salvo con le sue robe; lasciata quella parte dello stato che ancora non aveva perduta in mano del principe di Bisignano, con condizione di darla a Federigo, subito che intendesse egli essere condotto salvo in Sinigaglia.
Nella fine di questo anno, essendo prima interrotta per le dimande immoderate de' re di Spagna la dieta che da Mompolieri era stata trasferita a Nerbona, si ritornò tra quegli re a nuove pratiche; militando pure la medesima difficoltà, perché il re di Francia era determinato di non acconsentire piú ad accordo alcuno nel quale si comprendesse Italia; e a' re di Spagna pareva grave lasciargli libero il campo di soggiogarla e pure desideravano non avere guerra con lui di là da' monti, guerra a loro di molta molestia e senza speranza di profitto. Finalmente si conchiuse tregua tra essi, per durare insino a tanto fusse disdetta e due mesi dappoi; né vi fu compreso alcuno de' potentati d'Italia. A' quali i re di Spagna significorono la tregua fatta, allegando avere cosí potuto farla senza saputa de' collegati come era stato lecito al duca di Milano fare senza saputa loro la pace di Vercelli; e che, avendo rotto, quando fu fatta la lega, la guerra in Francia e continuatala molti mesi, né essendo stati pagati loro i danari promessi da' confederati, ancora che avessino giusta cagione di non osservare piú a chi gli aveva mancato, avevano nondimeno molte volte fatto intendere che, volendo pagare loro cento cinquantamila ducati, che se gli dovevano per la guerra che avevano fatta, erano contenti accettargli per conto di quello farebbono in futuro, con deliberazione di entrare in Francia con potentissimo esercito; ma che non avendo i confederati corrisposto sopra queste dimande né alla fede né al beneficio comune, e vedendo che la lega fatta per la libertà d'Italia si convertiva in usurparla e opprimerla, conciossiaché i viniziani, non contenti che in sua potestà fussino pervenuti tanti porti del reame di Napoli, avevano senza ragione alcuna occupato Pisa, era paruto loro onesto, poiché gli altri disordinavano le cose comuni, provedere alle proprie con la tregua; ma fatta in modo che si potesse dire piú presto ammunizione che volontà di partirsi dalla lega, perché era in potestà loro sempre di dissolverla disdicendola: come farebbono quando vedessino altra intenzione e altre provisioni ne' potentati italiani al beneficio comune. E nondimeno non potetteno gustare quegli re interamente la dolcezza della quiete, per la morte di Giovanni principe di Spagna, unico figliuolo maschio di tutti e due.
Morí in questi tempi medesimi, lasciato uno piccolo figliuolo Filippo duca di Savoia; il quale dopo lunga sospensione pareva che finalmente avesse inclinato a' collegati, che gli avevano promesso dare ciascuno anno ventimila ducati: e nondimeno la fede sua era sí dubbia appresso a tutti che ancora essi, in caso che il re di Francia facesse potente impresa, non si promettessino molto di lui.
Nella fine dell'anno medesimo il duca di Ferrara, passati già i due anni che aveva ricevuto in diposito il castello di Genova, lo restituí a Lodovico suo genero; avendo prima dimandato al re di Francia che secondo i capitoli di Vercelli gli restituisse la metà delle spese fatte in quella guardia. Le quali il re consentiva di pagare dandogli il duca il castelletto, come diceva essere tenuto per l'inosservanza del duca di Milano; a che rispondendo egli questa non essere liquidata, e che a costituire il duca di Milano in contumacia sarebbe stata necessaria la interpellazione, offeriva il re di deporle, acciocché innanzi al pagamento si vedesse di ragione se era tenuto a consegnargliene. Ma appresso a Ercole fu piú potente la instanza fatta in contrario da' viniziani e dal genero, movendolo non solo i prieghi e le lusinghe di Lodovico, che pochi dí innanzi aveva dato l'arcivescovado di Milano a Ippolito cardinale suo figliuolo, ma molto piú perché era pericoloso provocarsi la inimicizia di vicini tanto potenti, in tempo che quotidianamente diminuiva la speranza della passata de' franzesi; e però, avendo richiamato della corte di Francia don Ferrando suo figliolo, restituí a Lodovico il castelletto, sodisfatto prima da lui delle spese fatte nel guardarlo, eziandio per la porzione che toccava a pagare al re: donde i viniziani, per mostrarsegli obligati, condussono il medesimo don Ferrando agli stipendi loro con cento uomini d'arme.
La quale restituzione, fatta poco giustificatamente, benché alla riputazione del re in Italia importasse molto, nondimeno non dimostrò di risentirsene come sarebbe stato conveniente; anzi avendo mandato Ercole uno imbasciadore a lui a scusarsi che, per essere lo stato suo contiguo a' viniziani e al duca di Milano che avevano mandato a denunziargli quasi la guerra, era stato costretto a ubbidire alla necessità, l'udí con la medesima negligenza che se avesse trattato di cose leggiere, come quello che, oltre al procedere quasi a caso in tutte le sue azioni, continuava nelle consuete angustie e difficoltà. Perché era in lui ardentissima come prima la inclinazione del passare in Italia, e aveva, piú che avesse avuto mai, potentissime occasioni: la tregua fatta co' re di Spagna, l'avere i svizzeri confermata seco di nuovo la confederazione e l'essere nate tra' collegati molte cause di disunione; ma lo impediva con varie arti la maggior parte di quegli che erano intorno a lui, proponendogli, alcuni di loro, piaceri, alcuni confortandolo al fare la impresa ma con apparato sí potente per terra e per mare e con tanta provisione di danari che era necessario si interponesse lungo spazio di tempo, altri servendosi d'ogni difficoltà e occasione; né mancando il cardinale di San Malò di usare la solita lunghezza nelle espedizioni de' danari: in modo che non solo il tempo di passare in Italia era piú incerto che mai ma si lasciavano oltre a ciò cadere le cose già quasi condotte alla perfezione. Perché i fiorentini, stimolandolo continuamente a passare, erano convenuti seco, cominciata che fusse la guerra da lui, di muovere l'armi loro da altra parte, e a questo effetto concordati che Obigní con cento cinquanta lancie franzesi, cento pagate dal re e cinquanta pagate da loro, passasse per mare in Toscana per essere capo dello esercito loro; e il marchese di Mantova, stato rimosso disonorevolmente, quando vincitore ritornò del reame di Napoli, dagli stipendi de' viniziani per sospetto che e' trattasse di condursi col re di Francia, trattava ora veramente di ricevere soldo da lui, e il nuovo duca di Savoia si era confermato nella aderenza sua; prometteva il Bentivoglio, passato che e' fusse in Italia, di seguitare l'autorità sua; e il pontefice, stando ambiguo del congiugnersi seco come continuamente si trattava, aveva determinato almeno di non se gli opporre. Ma la tardità e la negligenza usata dal re raffreddava gli animi di ciascuno, perché né in Italia per congregarsi in Asti passavano le genti secondo le promesse fatte da lui, non si dava espedizione alla condotta di Obigní, né mandava danari per pagare gli Orsini e Vitelli soldati suoi: cosa, avendosi a fare la guerra, molto importante. Donde essendo i Vitelli per condursi co' viniziani, i fiorentini, non avuto tempo di avvisarnelo, gli condussono per uno anno a comune per il re e per loro; la qual cosa fu lodata da lui, ma né ratificò né provedde al pagamento per la sua porzione; anzi mandò Gemel a ricercargli che gli prestassino per la impresa cento cinquantamila ducati. Finalmente facendo, come spesso soleva, della volontà sua quella di altri, partitosi quasi allo improviso da Lione, se ne andò a Torsi e poi ad Ambuosa, con le consuete promesse di ritornare presto a Lione. Per le quali cose mancando la speranza a tutti quegli che in Italia seguitavano la parte sua, Batistino Fregoso si riconciliò col duca di Milano.
Il quale, preso animo da questi progressi, scopriva ogni dí piú la mala volontà che aveva per le cose di Pisa contro a' viniziani; stimolando il pontefice e i re di Spagna a introdurre di nuovo, ma con maggiore efficacia, il ragionamento della restituzione di quella città. Per la quale pratica i fiorentini, cosí confortati da lui, mandorono, nel principio dell'anno mille quattrocento novantotto, a Roma uno imbasciadore, ma con commissione che procedesse con tale circospezione che il pontefice e gli altri potessino comprendere che in caso che Pisa fusse renduta loro si unirebbono con gli altri alla difesa d'Italia contro a' franzesi, e nondimeno che il re di Francia, se l'effetto non seguisse, non avesse causa di prendere sospetto di loro. Continuossi questo ragionamento in Roma molti giorni, facendo instanza apertamente il pontefice e gli oratori de' re di Spagna e del duca di Milano e quello del re di Napoli con lo imbasciadore viniziano, essere necessario per sicurtà comune unire con questo mezzo i fiorentini contro a' franzesi, e dovere il suo senato consentirvi insieme con gli altri, acciocché, estirpate le radici di tutti gli scandoli, non restasse piú alcuno in Italia che avesse cagione di chiamarvi gli oltramontani; l'unione della quale quando si impedisse per questo rispetto, si darebbe forse materia a gli altri di fare nuovi pensieri, da' quali in pregiudicio di tutti nascerebbe qualche importante alterazione. Ma era al tutto diversa la deliberazione del senato viniziano. Il quale, pretendendo alla sua cupidità vari colori, e accorgendosi da chi principalmente procedesse tanta instanza, rispondeva per mezzo del medesimo oratore lamentandosi gravissimamente, tale cosa non essere mossa dal rispetto del bene universale ma da maligna inclinazione che avea qualcuno de' collegati contro a loro, perché essendo i fiorentini congiuntissimi d'animo a' franzesi, e persuadendosi di avere per il ritorno loro in Italia a occupare la maggiore parte di Toscana, non era dubbio non bastare il reintegrargli di Pisa a rimuovergli da questa inclinazione, anzi essere cosa molto pericolosa il renderla loro, perché quanto piú fussino potenti tanto piú alla sicurtà d'Italia nocerebbono. Trattarsi in questa restituzione dell'onore e della fede di tutti ma principalmente della loro republica; perché avendo i confederati promesso tutti d'accordo a' pisani d'aiutargli a difendere la libertà e dipoi, perché ciascuno degli altri spendeva malvolentieri per il bene publico, lasciato il peso a loro soli, né essi ricusato a questo effetto alcuna spesa o travaglio, essere con troppo loro disonore l'abbandonarla, e mancare della fede data, la quale se gli altri non stimavano, essi, soliti sempre a osservarla non volevano in modo alcuno violare. Essere molestissimo al senato viniziano che, senza rispetto alcuno, fussino imputati dagli altri di quello che con consentimento comune avevano cominciato e per interesse comune avevano continuato, e che con tanta ingratitudine fussino lapidati delle buone opere; né meritare questa retribuzione le spese intollerabili che avevano fatte in questa impresa e in tante altre, e tanti travagli e pericoli sostenuti da loro dappoi che era stata fatta la lega: le quali cose erano state di natura che e' potevano arditamente dire che per opera loro si fusse salvata Italia, perché né in sul fiume del Taro si era combattuto con altre armi, né con altre armi recuperato il reame di Napoli, che con le loro. E quale esercito avere costretto Novara ad arrendersi? quale avere necessitato il re di Francia ad andarsene di là da' monti? quali forze essersegli opposte nel Piemonte, qualunque volta avea fatto pruova di ritornare? Né si potere già negare che queste azioni non fussino principalmente procedute dal desiderio che avevano della salute d'Italia, perché né erano mai stati i primi esposti a' pericoli, né per cagione loro nati disordini i quali fussino debitori di ricorreggere: perché né aveano chiamato il re di Francia in Italia né accompagnatolo poi che era stato condotto di qua da' monti, né per risparmiare i danari propri lasciato cadere in pericolo le cose comuni; anzi essere stato spesse volte di bisogno che 'l senato veneto rimediasse a' disordini nati per colpa d'altri in detrimento di tutti. Le quali opere se non erano conosciute o se sí presto erano poste in oblivione, non volere perciò, seguitando l'esempio poco scusabile degli altri, maculare né la fede né la degnità della loro republica; essendo massime congiunta nella conservazione della libertà de' pisani la sicurtà e il beneficio di tutta Italia.
Cap. xv
Morte di Carlo VIII e sue conseguenze. Decadenza dell'autorità del Savonarola in Firenze. Suo conflitto col pontefice. Suo supplizio.
Le quali cose mentre che con aperta disunione si trattano tra i collegati, nuovo accidente che sopravenne partorí effetti molto diversi da' pensieri degli uomini; perché la notte innanzi all'ottavo dí d'aprile morí il re Carlo in Ambuosa, per accidente di gocciola, detto da' fisici apoplessia, sopravenuto mentre stava a vedere giocare alla palla, tanto potente che nel medesimo luogo finí tra poche ore la vita, con la quale aveva con maggiore impeto che virtú turbato il mondo, ed era pericoloso non lo turbasse di nuovo. Perché si credeva per molti che, per l'ardente disposizione che aveva di ritornare in Italia, arebbe pure una volta, o per propria cognizione o per suggestione di quegli che emulavano alla grandezza del cardinale di San Malò, rimosse le difficoltà che gli erano interposte: in modo che, se bene in Italia, secondo le sue variazioni, qualche volta augumentasse qualche volta diminuisse l'opinione della sua passata, non era però che non se ne stesse in continua sospensione; e perciò il pontefice, stimolato dalla cupidità d'esaltare i figliuoli, aveva già cominciato a trattare secretamente cose nuove con lui; e si divulgò poi, o vero o falso che fusse, che il duca di Milano, per non stare in continuo timore, aveva fatto il medesimo. Pervenne, perché Carlo morí senza figliuoli, il regno di Francia a Luigi duca di Orliens, piú prossimo di sangue per linea mascolina che alcun altro; al quale, come fu morto il re, concorse subito a Bles, dove allora era, la guardia reale e tutta la corte, e poi di mano in mano tutti i signori del regno, salutandolo e riconoscendolo per re: con tutto che per alcuno tacitamente si mormorasse che, secondo gli ordini antichi di quel reame, era diventato inabile alla degnità della corona, contro alla quale avea nella guerra di Brettagna pigliate l'armi.
Ma il dí seguente a quello nel quale terminò la vita di Carlo, dí celebrato da' cristiani per la solennità delle Palme, terminò in Firenze l'autorità del Savonarola. Il quale, essendo molto prima stato accusato al pontefice che scandalosamente predicasse contro a' costumi del clero e della corte romana, che in Firenze nutrisse discordie, che la dottrina sua non fusse al tutto cattolica, era per questo stato chiamato con piú brevi apostolici a Roma; il che avendo ricusato con allegare diverse escusazioni, era finalmente, l'anno precedente, stato dal pontefice separato con le censure dal consorzio della Chiesa. Per la quale sentenza poiché si fu astenuto per qualche mese dal predicare, arebbe, se si fusse astenuto piú lungamente, ottenuta con non molta difficoltà l'assoluzione, perché il pontefice, tenendo per se stesso poco conto di lui, si era mosso a procedergli contro piú per le suggestioni e stimoli degli avversari che per altra cagione: ma parendogli che dal silenzio declinasse cosí la sua riputazione, o si interrompesse il fine per il quale si moveva, come si era principalmente augumentato dalla veemenza del predicare, disprezzati i comandamenti del pontefice, ritornò di nuovo publicamente al medesimo uffizio; affermando le censure promulgate contro a lui, come contrarie alla divina volontà e come nocive al bene comune, essere ingiuste e invalide, e mordendo con grandissima veemenza il papa e tutta la corte. Da che essendo nata sollevazione grande, perché i suoi avversari, l'autorità de' quali ogni dí nel popolo diventava maggiore, detestavano questa inubbidienza, riprendendo che per la sua temerità si alterasse l'animo del pontefice, in tempo massimamente che trattandosi da lui con gli altri collegati della restituzione di Pisa era conveniente fare ogni opera per confermarlo in questa inclinazione, e da altra parte lo difendevano i suoi fautori, allegando non doversi per i rispetti umani turbare le opere divine né consentire che sotto questi colori i pontefici cominciassino a intromettersi nelle cose della loro republica, si stette molti dí in questa contenzione: tanto che sdegnandosi maravigliosamente il pontefice, e fulminando con nuovi brevi e con minaccie di censure contro a tutta la città, fu finalmente comandatogli da' magistrati che desistesse dal predicare; a' quali avendo egli ubbidito, facevano nondimeno molti de' suoi frati in diverse chiese il medesimo. Ma non essendo minore la divisione tra' religiosi che tra' laici, non cessavano i frati degli altri ordini di predicare ferventemente contro a lui; e proroppono alla fine in tanto ardore che uno de' frati aderenti al Savonarola e uno de' frati minori si convennono di entrare, in presenza di tutto il popolo, nel fuoco, acciocché salvandosi o abbruciando quello del Savonarola restasse certo ciascuno se egli era o profeta o ingannatore: imperocché prima aveva molte volte predicando affermato che per segno della verità delle sue predizioni otterrebbe, quando fusse di bisogno, grazia da Dio di passare senza lesione per mezzo del fuoco. E nondimeno, essendogli molesto che il ragionamento del farne di presente esperienza fusse stato mosso senza saputa sua, tentò con destrezza di interromperlo; ma essendo la cosa per se stessa andata molto innanzi, e sollecitata da alcuni cittadini che desideravano che la città si liberasse da tanta molestia, fu necessario finalmente procedere piú oltre. E però essendo, il dí deputato, venuti i due frati, accompagnandogli tutti i suoi religiosi, in sulla piazza che è innanzi al palagio publico, ove era concorso non solo tutto il popolo fiorentino ma molti delle città vicine, pervenne a notizia de' frati minori il Savonarola avere ordinato che il suo frate, quando entrava nel fuoco, portasse in mano il Sacramento; alla qual cosa cominciando a reclamare, e allegando che con questo modo si cercava di mettere in pericolo l'autorità della fede cristiana, la quale negli animi degli imperiti declinerebbe molto se quella ostia abbruciasse, e perseverando pure il Savonarola, che era presente, nella sua sentenza, nata tra loro discordia, non si procedette a farne esperienza: per la qual cosa declinò tanto del suo credito che 'l dí seguente, nato a caso certo tumulto, gli avversari suoi, prese l'armi e aggiunta all'armi loro l'autorità del sommo magistrato, espugnato il monasterio di San Marco dove abitava, lo condusseno insieme con due de' suoi frati nelle carceri publiche. Nel quale tumulto i parenti di coloro che l'anno passato erano stati decapitati ammazzorno Francesco Valori, cittadino molto grande e primo de' fautori del Savonarola, perché l'autorità sua era sopra tutti gli altri stata cagione che e' fussino stati privati della facoltà di ricorrere al giudicio del consiglio popolare. Fu dipoi esaminato con tormenti, benché non molto gravi, il Savonarola, e in sugli esamini publicato uno processo; il quale, rimovendo tutte le calunnie che gli erano state date, o di avarizia o di costumi inonesti o d'avere tenuto pratiche occulte con príncipi, conteneva le cose predette da lui essere state predette non per rivelazione divina ma per opinione propria fondata in sulla dottrina e osservazione della scrittura sacra, né essersi mosso per fine maligno o per cupidità d'acquistare con questo mezzo grandezza ecclesiastica, ma bene avere desiderato che per opera sua si convocasse il concilio universale, nel quale si riformassino i costumi corrotti del clero, e lo stato della Chiesa di Dio, tanto trascorso, si riducesse in piú similitudine che fusse possibile a' tempi che furono prossimi a' tempi degli apostoli: la quale gloria, di dare perfezione a tanta e sí salutare opera, avere stimato molto piú che 'l conseguire il pontificato, perché quello non poteva succedere se non per mezzo di eccellentissima dottrina e virtú, e di singolare riverenza che gli avessino tutti gli uomini, ma il pontificato ottenersi spesso o con male arti o per beneficio di fortuna. Sopra il quale processo, confermato da lui in presenza di molti religiosi, eziandio del suo ordine, ma con parole, se è vero quel che poi divulgorono i suoi seguaci, concise e da potere ricevere diverse interpretazioni, gli furono, per sentenza del generale di San Domenico e del vescovo Romolino, che fu poi cardinale di Surrento, commissari deputati dal pontefice, insieme con gli altri due frati, aboliti con le cerimonie instituite dalla Chiesa romana gli ordini sacri e lasciato in potestà della corte secolare; dalla quale furono impiccati e abbruciati: concorrendo allo spettacolo della degradazione e del supplicio non minore moltitudine d'uomini che il dí destinato a fare l'esperimento di entrare nel fuoco fusse concorsa nel luogo medesimo, all'espettazione del miracolo promesso da lui. La quale morte, sopportata con animo costante ma senza esprimere parola alcuna che significasse o il delitto o la innocenza, non spense la varietà de' giudici e delle passioni degli uomini; perché molti lo reputorono ingannatore, molti per contrario credettono o che la confessione che si publicò fusse stata falsamente fabricata o che nella complessione sua, molto delicata, avesse potuto piú la forza de' tormenti che la verità: scusando questa fragilità con l'esempio del principe degli apostoli, il quale, non incarcerato né astretto da' tormenti o da forza alcuna estraordinaria ma a semplici parole di ancille e di servi, negò di essere discepolo di quello maestro nel quale aveva veduto tanti santi precetti e miracoli.