Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume quinto
Cap. i
Preoccupazioni di Massimiliano per i successi del re di Francia. Il re dà aiuti a' fiorentini per la riconquista di Pisa. Le milizie francesi ricevono Pietrasanta da' lucchesi. L'esercito francese dopo una sola azione contro Pisa tumultua e si scioglie; i pisani espugnano Librafatta. Turbamento del re di Francia per l'accaduto; i fiorentini rifiutano nuove offerte del re; peggioramento delle condizioni de' fiorentini.
Dalla vittoria tanto piena e tanto prospera del ducato di Milano era augumentata di maniera l'ambizione e l'ardire del re di Francia che arebbe facilmente, la state medesima, assaltato il reame di Napoli se non l'avesse ritenuto il timore de' movimenti de' tedeschi. Perché se bene l'anno dinanzi avesse ottenuta la tregua da Massimiliano Cesare con inclusione dello stato di Milano, nondimeno quel re, considerando meglio quanto per la alienazione di uno feudo tale si diminuisse la maestà dello imperio, e specialmente la ignominia che ne perveniva a lui, d'avere lasciato, quasi sotto la sua protezione e sotto le speranze dategli e dopo tanti danari ricevuti da lui, spogliarne Lodovico Sforza, non avea piú voluto udire gli imbasciadori né del re di Francia né de' viniziani, come occupatori delle giurisdizioni imperiali; e acceso ultimatamente molto piú per la cattività miserabile de' due fratelli, ridestandosi nell'animo suo l'antiche emulazioni e la memoria delle ingiurie fatte in diversi tempi a sé e a' suoi predecessori da' re di Francia e dalla republica viniziana, congregava spesse diete per concitare gli elettori e gli altri príncipi tedeschi a risentirsi con l'armi di tanta ingiuria, fatta non meno alla nazione germanica, della quale era propria la degnità imperiale, che a sé: anzi dimostrava il pericolo che il re di Francia, presumendo ogni dí piú per tanta pazienza de' príncipi dello imperio, e insuperbito per tanto favore della fortuna, non indirizzasse l'animo a procurare con qualche modo indiretto che la corona imperiale ritornasse, come altre volte era stata, ne' re di Francia; alla qualcosa arebbe il consentimento del pontefice, parte per necessità, non potendo resistere alla potenza sua, parte per la cupidità che aveva della grandezza del figliuolo.
Le quali cose furono cagione che il re, incerto che fine avessino ad avere queste pratiche, differisse ad altro tempo i pensieri della guerra di Napoli: e perciò, non essendo occupate ad altra impresa le genti sue, fu contento, benché non senza molta difficoltà e dubitazione, di concedere le genti dimandate da' fiorentini per la recuperazione di Pisa e di Pietrasanta, perché in contrario faceano instanza grande i pisani, e insieme con loro i genovesi i sanesi e i lucchesi, offerendo pagare al re al presente centomila ducati in caso che Pisa Pietrasanta e Montepulciano rimanessino libere dalle molestie de' fiorentini, e aggiugnerne cinquantamila in perpetuo ciascuno anno se per l'autorità sua conseguivano i pisani le fortezze del porto di Livorno e tutto il contado di Pisa. Alle quali cose pareva che, per la cupidità de' danari, fusse inclinato non poco l'animo del re; nondimeno, come era solito di fare nelle cose gravi, rimesse al cardinale di Roano, che era a Milano, questa deliberazione: appresso al quale, oltre a' sopradetti, intercedevano per i pisani Gianiacopo da Triulzi e Gianluigi dal Fiesco, desideroso ciascuno di farsi signore di Pisa, offerendo di pagare al re, perché lo permettesse, non piccola somma di danari, e dimostrando appartenere alla sicurtà sua tenere deboli, quando n'avea l'occasione, i fiorentini e gli altri potentati d'Italia. Ma nel cardinale potette piú il rispetto della fede del re e i meriti freschi de' fiorentini, i quali aveano aiutato il re prontamente nella recuperazione del ducato di Milano, convertendo a sua richiesta le genti, le quali in tal caso erano obligati di dargli, in pagamento di danari. Però fu deliberato che a' fiorentini si dessino per la recuperazione di Pisa, e con promissione del cardinale che nel passare restituirebbono Pietrasanta e Mutrone, secento lancie pagate dal re, e a spese loro proprie cinquemila svizzeri sotto il baglí di Digiuno, e certo numero di guasconi, e tutta l'artiglieria e le munizioni necessarie a quella impresa; e vi si aggiunsono, contro alla volontà del re e de' fiorentini, secondo il costume loro, dumila altri svizzeri. Delle quali genti deputò capitano Beumonte, dimandatogli da' fiorentini, perché per essere stato pronto a restituire loro Livorno confidavano molto in lui, non considerando che nel capitano dell'esercito, se bene è necessaria la fede è necessaria l'autorità e la perizia delle cose belliche: benché il re, con piú sano e piú utile consiglio, avesse destinato Allegri, capitano molto piú perito nella guerra, e al quale, per essere di sangue piú nobile e di maggiore riputazione, sarebbe stata piú pronta l'ubbidienza dello esercito.
Ma si cominciorono prestamente a scoprire le molestie e le difficoltà che accompagnavano gli aiuti de' franzesi: perché, essendo cominciato a correre il pagamento de' fanti il primo dí di maggio, dimororno tutto il mese in Lombardia per gli interessi propri del re, desideroso, con l'occasione del transito di questo esercito, di trarre danari dal marchese di Mantova e da' signori di Carpi, di Coreggio e della Mirandola, per pena degli aiuti dati a Lodovico Sforza; in modo che i fiorentini, cominciati a insospettire di questo indugio, e parendo oltre a ciò darsi a' pisani troppo tempo di ripararsi e provedersi, ebbono inclinazione di abbandonare la impresa. Pure, pretermettendo malvolentieri tale occasione, data la seconda paga, attendevano a sollecitare il farsi innanzi. Finalmente, essendosi signori di Carpi, della Mirandola e di Coreggio, intercedendo per loro il duca di Ferrara, composti di pagare ventimila ducati, né potendo perdere tempo a sforzare il marchese di Mantova, il quale da una parte si fortificava, da altra, allegando la impotenza di pagare danari, mandati imbasciadori al re, lo supplicava della venia, andorno a campo a Montechierucoli, castello de' Torelli in parmigiano, i quali aveano aiutato Lodovico Sforza; non tanto mossi dal desiderio di punire loro quanto per minacciare, con lo approssimarsi a Bologna, Giovanni Bentivogli, per i favori similmente prestati a Lodovico Sforza: il quale, per fuggire il pericolo, compose di pagare quarantamila ducati; e il re l'accettò di nuovo nella sua protezione insieme con la città di Bologna, ma con espressa limitazione di non pregiudicare alle ragioni che vi aveva la Chiesa. Accordata Bologna e preso per forza Montechierucoli, tornorno le genti indietro a passare l'Apennino per la via di Pontriemoli; ed entrati in Lunigiana, avendo piú rispetto agli appetiti e comodi loro che all'onesto, tolseno, a instanza de' Fregosi, ad Alberigo Malaspina raccomandato de' fiorentini il castello di Massa e l'altre terre sue. E passati piú innanzi, i lucchesi (benché reclamando la plebe, ne fussino tra se stessi in gravi tumulti) consegnorono a Beumonte Pietrasanta, in nome del re; il quale, lasciata guardia nella fortezza, non rimosse della terra gli ufficiali loro, perché il cardinale di Roano, disprezzando in questo le promesse fatte a' fiorentini, ricevuta da' lucchesi certa quantità di danari, gli avea accettati nella protezione del re, convenendo che il re tenesse Pietrasanta in diposito insino a tanto che 'l re avesse dichiarato a chi di ragione si appartenesse.
Ma in questo tempo i pisani, ostinati a difendersi, avevano avuto da Vitellozzo, col quale erano per l'inimicizia comune co' fiorentini in grandissima congiunzione, alcuni ingegneri per indirizzare le loro fortificazioni; alle quali lavoravano popolarmente gli uomini e le donne. E nondimeno, non pretermettendo di intrattenere con le solite arti i franzesi, avevano nel consiglio di tutto il popolo sottomessa la città al re; della quale dedizione mandorono instrumenti publici non solo a Beumonte ma eziandio a Filippo di Ravesten, governatore regio in Genova, che temerariamente l'accettò in nome del re. E avendo Beumonte mandato in Pisa uno araldo a dimandare la terra, gli risposono non avere maggiore desiderio che vivere sudditi del re di Francia, e però essere paratissimi a darsegli, pure che promettesse di non gli mettere sotto il dominio de' fiorentini; sforzandosi, e con le lagrime delle donne e con ogni arte, di fare impressione all'araldo di essere osservantissimi e divotissimi della corona di Francia dalla quale aveano ricevuta la libertà. Ma Beumonte, avendo esclusi gli imbasciadori pisani mandati a lui con la medesima offerta, pose il penultimo dí di giugno il campo a quella città, tra la porta alle Piagge e la porta Calcesana, dirimpetto al cantone detto il Barbagianni; e avendo la notte medesima battuto con grande impeto, e continuato di battere insino alla maggiore parte del dí seguente, gittorono in terra, per la bontà dell'artiglieria loro, circa sessanta braccia della muraglia. E come ebbono cessato di tirare, corsono subito i fanti e i cavalli, mescolati senza ordine o disciplina alcuna, per dare la battaglia; non avendo pensato in che modo avessino a superare uno fosso profondo, fatto da' pisani tra il muro battuto e il riparo che era lavorato di dentro; di maniera che, come lo scopersono, spaventati dalla sua larghezza e profondità, consumorono il resto del dí piú presto spettatori della difficoltà che assaltatori. Dopo il quale dí diminuí sempre la speranza della vittoria: parte perché avevano i franzesi, per la qualità de' ripari e per l'ostinazione de' difensori perduto l'ardire; parte perché, per le arti usate, si era ridesta l'antica inclinazione avuta da quella nazione a' pisani, in modo che, cominciando a parlare e a dimesticarsi con quegli di dentro, che continuavano la medesima offerta di darsi al re, pure che non ritornassino sotto il giogo de' fiorentini, ed entrando sicuramente molti di loro in Pisa e uscendone come di terra d'amici, difendevano per tutto il campo e appresso a' capitani la causa de' pisani; confortandogli similmente molti di loro a difendersi. E a questo, oltre a' franzesi, detteno animo assai Francesco da Triulzi luogotenente della compagnia di Gianiacopo e Galeazzo Palavicino che con la compagnia sua era nel campo franzese. Con l'occasione de' quali disordini entrò in Pisa, dalla parte di verso il mare, permettendolo quegli di fuori, Tarlatino da Città di Castello insieme con alcuni soldati esperimentati alla guerra, mandato da Vitellozzo in aiuto de' pisani; uomo allora non conosciuto ma che dipoi, fatto capitano da loro, perseverò insino all'ultimo con non piccola lode nella difesa di quella città. A queste inclinazioni, comuni cosí a' fanti come a' cavalli, succederono molti disordini, perché, desiderando di avere occasione di levarsi dalla impresa, cominciorono a saccheggiare le vettovaglie che si conducevano al campo; a' quali disordini non bastando a provedere l'autorità del capitano, moltiplicorno ogni dí tanto che finalmente i fanti guasconi tumultuosamente si partirno dall'esercito; l'esempio de' quali seguitorno tutti gli altri. E nel partirsi, alcuni fanti tedeschi, venuti per ordine del re da Roma, feciono prigione Luca degli Albizi commissario fiorentino, con allegare che altra volta, stati in servigio de' fiorentini a Livorno, non erano stati pagati. Partironsi subito i svizzeri e gli altri fanti, ma le genti d'arme si fermorono propinque a Pisa, dove soprastate pochi dí, non aspettato di intendere la volontà del re, se ne tornorono in Lombardia: lasciato in grave disordine le cose de' fiorentini, perché, per potere supplire al pagamento de' svizzeri e de' guasconi, avevano licenziato tutti i loro fanti. La quale occasione conoscendo i pisani andorono a campo a Librafatta, la quale facilmente espugnorno, non meno per l'imprudenza degli inimici che per le forze proprie; perché dandovi la battaglia, ed essendo concorsi dove si combatteva tutti i fanti che vi erano dentro, alcuni di quelli di fuora salirno con le scale nel piú alto luogo della fortezza che non era guardata, da che spaventati i fanti si arrenderono; e dipoi subitamente accampatisi al bastione della Ventura, mentre vi davano la battaglia, i fanti, o per viltà o per fraude di San Brandano conestabile de' fiorentini, di nazione lucchese, che vi era dentro, s'arrenderono. L'acquisto de' quali luoghi fu molto utile a' pisani, perché rimasono allargati e liberi dalla parte di verso Lucca.
Turbò questo successo delle cose di Pisa piú che non sarebbe credibile l'animo del re, conoscendo quanto ne rimanesse diminuita la riputazione del suo esercito, né potendo tollerare che all'armi de' franzesi, che avevano con tanto spavento d'ognuno corso per tutta Italia, avesse fatto resistenza una città sola, non difesa da altri che dal popolo proprio e ove non era alcuno capitano di guerra famoso; e come spesso fanno gli uomini nelle cose che sono loro moleste, si ingegnava, ingannando se stesso, di credere che il non avere i fiorentini fatte le debite provisioni di vettovaglie di guastatori e di munizioni, come affermavano i suoi per scarico proprio, fusse stato causa che e' non avessino ottenuta la vittoria, e che all'esercito fusse mancata ogn'altra cosa che la virtú: lamentandosi oltre a ciò che dall'avergli fatto instanza imprudentemente i fiorentini che mandasse le genti piú tosto sotto Beumonte che sotto Allegri erano proceduti molti disordini. E da altra parte, desiderando di recuperare l'estimazione perduta, mandò Corcú suo cameriere a Firenze non tanto per informarsi se le cose referite da' capitani erano vere quanto per ricercare i fiorentini che, non perdendo la speranza d'avere per l'avvenire migliore successo, consentissino che le sue genti d'arme ritornassino ad alloggiare nel contado di Pisa, per tenere la vernata seguente infestata continuamente quella città, e con intenzione, come apparisse la primavera, di ritornare con esercito giusto e meglio ordinato di capitani e di ubbidienza a oppugnarla; la quale offerta fu rifiutata da' fiorentini, disperati di potere coll'armi de' franzesi ottenere migliori effetti; onde diventorno continuamente peggiori le condizioni loro, perché, divulgandosi il re essere alienato da essi, cominciorno i genovesi i sanesi e i lucchesi a sovvenire i pisani scopertamente con genti e con danari e a pigliare animo qualunque desiderava di offendergli. Onde crescevano eziandio in Firenze le divisioni de' cittadini, in modo che non solo non erano bastanti a ricuperare le cose perdute ma né anche provedevano a' disordini del loro dominio; perché essendosi levate in arme in Pistoia le parti Panciatica e Cancelliera, e procedendo tra loro nella città e nel contado a grandissimi incendi e uccisioni, quasi a modo di guerra ordinata e con aiuti forestieri, non vi facevano alcuna provisione, con ignominia grande della republica.
Cap. ii
Accordi fra il pontefice ed il re di Francia; progressi del Valentino in Romagna. Insuccesso del Valentino contro Faenza per l'eroica resistenza del popolo. Il giubileo del 1500 e gli aiuti di danaro del pontefice al Valentino.
Procedeano in questo tempo prosperamente le cose di Cesare Borgia: perché se bene il re, mal sodisfatto del pontefice per non l'avere aiutato nella ricuperazione del ducato di Milano, avesse tardato a dargli aiuto a proseguire la impresa cominciata contro a' vicari di Romagna, nondimeno lo indusse finalmente in altra sentenza il desiderio di conservarsi benevolo il pontefice per il timore che avea de' movimenti di Germania, non trovando mezzo alcuno di concordia con Cesare, e molto piú l'autorità del cardinale di Roano per la cupidità di ottenere la legazione del regno di Francia. Promesse adunque il pontefice al re di aiutarlo, con le genti e con la persona del figliuolo, quando volesse fare l'impresa del regno di Napoli, e concedette al cardinale di Roano per [diciotto] mesi la legazione del regno di Francia; concessione che, per essere cosa nuova, e perché divertiva ancora che non vi fusse compresa la Brettagna, molte faccende e molti guadagni dalla corte di Roma, fu riputata cosa molto grande: e da altra parte il re mandò in aiuto suo, sotto Allegri, trecento lancie e dumila fanti, significando a ciascuno che riputerebbe per propria ingiuria se alcuno si opponesse alla impresa del pontefice. Con la quale reputazione, e con le forze proprie che erano settecento uomini d'arme e seimila fanti, entrato il Valentino in Romagna, prese senza resistenza alcuna le città di Pesero e di Rimini, fuggendosene i suoi signori; e dipoi si voltò verso Faenza, non difesa da altri che dal popolo medesimo: perché non solo Giovanni Bentivogli, avolo materno di Astore piccolo fanciullo, si asteneva, per non irritare l'armi del pontefice e del figliuolo e per il comandamento avuto dal re, dal porgergli aiuto, e i fiorentini e il duca di Ferrara per le medesime cagioni facevano il medesimo, ma ancora i viniziani, obligati alla sua difesa, gli intimorono, perché cosí furono ricercati dal re, di avere rinunziato alla protezione che avevano di lui, come similmente aveano fatto prima per la medesima cagione a Pandolfo Malatesta signore di Rimini; anzi, per maggiore dimostrazione di essere favorevoli alle cose del pontefice, creorono in questo tempo medesimo il duca Valentino loro gentiluomo, dimostrazione solita farsi da quella republica o per recognizione di benefici ricevuti o per segno di stretta benivolenza.
Aveva il Valentino condotto a' soldi suoi Dionigi di Naldo da Bersighella, uomo di seguito grande in Valdilamona, per opera del quale occupò senza difficoltà la terra di Bersighella e quasi tutta la valle; e avendo espugnata la rocca vecchia conseguí la nuova per accordo dal castellano, e sperò, per trattato tenuto dal medesimo Dionigi col castellano di Faenza, uomo della valle medesima e che lungamente avea governato lo stato di Astore, entrare nella rocca di quella città; ma venuto il trattato a luce, fu fatto prigione da' faventini. I quali, né sbigottiti per essere abbandonati da ciascuno né per la perdita molto importante della valle, avevano deliberato di correre ogni pericolo per conservarsi nella soggezione della famiglia de' Manfredi, dalla quale erano stati moltissimi anni signoreggiati; e però avevano atteso con grandissima sollecitudine alla fortificazione della terra. Dalla quale disposizione il Valentino non potendo rimuovergli né con promesse né con minaccie, si accampò alle mura della città tra i fiumi di Lamone e di Marzano, e piantò l'artiglierie a quella parte che è verso Furlí, la quale, benché circondata di mura, volgarmente si chiama il borgo, ove i faventini avevano fatto uno gagliardo bastione; e battuto che ebbe a sufficienza, massime al portone che è tra 'l borgo e la terra, dette il quinto dí la battaglia, dalla quale difendendosi valorosamente ridusse i suoi agli alloggiamenti con molto danno, tra' quali restò morto Onorio Savello. Né erano quieti gli altri dí, essendo infestato continuamente l'esercito dalle artiglierie di dentro, e perché gli uomini della terra, se bene non aveano se non piccolissimo numero di soldati forestieri, uscivano spesso ferocemente a scaramucciare. Ma sopra tutte l'altre cose, ancora che non fusse finito il mese di novembre, se gli opponeva l'acerbità del tempo, asprissimo sopra quella stagione, perché erano nevi grandissime e freddi intollerabili, per i quali si impedivano quasi del tutto le fatiche militari e l'alloggiare sotto 'l cielo scoperto; avendo i faventini, innanzi che 'l campo si accostasse alle mura, abbruciate tutte le case e tagliati tutti gli alberi propinqui alla città. Dalle quali difficoltà necessitato il Valentino, levato il campo il decimo dí, distribuí le genti alle stanze per le terre vicine: pieno di sommo dolore che, avendo, oltre alle forze franzesi, uno esercito molto fiorito di capitani e soldati italiani, perché vi erano Pagolo e Giulio Orsini, Vitellozzo, e Giampagolo Baglioni, con molti uomini eletti, e avendosi promesso, co' suoi concetti smisurati, che né mari né monti gli avessino a resistere, gli fusse oscurata la fama de' princípi della sua milizia da uno popolo vivuto in lunga pace, e che in quel tempo non aveva altro capo che un fanciullo; giurando efficacemente e con molti sospiri che, come prima la stagione lo comportasse, tornerebbe alla medesima impresa, con animo deliberato di riportarne o la vittoria o la morte.
Nel qual tempo Alessandro suo padre, acciocché tutte le opere proprie corrispondessino a uno medesimo fine, avendo questo anno medesimo creati, con grandissima infamia, dodici cardinali non de' piú benemeriti ma di quegli che gli offersono prezzo maggiore, per non pretermettere specie alcuna di guadagno, spargeva per tutta Italia e per le provincie forestiere il giubileo, celebrato in Roma con concorso grande, massimamente delle nazioni oltramontane; dando facoltà di conseguirlo a ciascuno che, non andato a Roma, porgesse qualche quantità di danari: i quali tutti, insieme con gli altri che in qualunque modo poteva cavare de' tesori spirituali e del dominio temporale della Chiesa, somministrava al Valentino. Il quale, fermatosi a Furlí, preparava le cose necessarie all'oppugnazione per l'anno futuro: né con minore prontezza attendevano i faventini alla fortificazione della città.
Cap. iii
Tregua tra Massimiliano e il re di Francia. Il re di Francia ed il re di Spagna si accordano segretamente per la conquista e la spartizione del reame di Napoli. Il re di Francia comincia scopertamente i preparativi per l'impresa.
Queste cose si feciono l'anno mille cinquecento. Ma molto piú importanti cose si ordinavano per l'anno mille cinquecent'uno dal re di Francia: alle quali per essere piú espedito aveva sempre procurato di fare concordia col re de' romani, per la quale oltre a ottenere da lui l'investitura del ducato di Milano gli fusse lecito assaltare il regno di Napoli; usando in questo il mezzo dell'arciduca suo figliuolo, inclinato alla pace perché i popoli suoi, per non interrompere il commercio delle mercatanzie, malvolentieri guerreggiavano co' franzesi, e perché il re che non aveva figliuoli maschi proponeva di dare Claudia sua figliuola per moglie a Carlo figliuolo dell'arciduca, e per dota, quando fussino di età abile a consumare il matrimonio, perché l'uno e l'altro erano minori di tre anni, il ducato di Milano. Per la cui intercessione, non si potendo cosí prestamente risolvere molte difficoltà che intervenivano nella pratica della pace, ottenne, nel principio dell'anno mille cinquecent'uno, tregua per molti mesi da Massimiliano, dandogli per ottenerla certa quantità di danari. Nella quale non fu fatta menzione alcuna del re di Napoli; con tutto che Massimiliano, avendo ricevuto da lui quarantamila ducati, e obligazione di pagargli, accadendo il bisogno, quindicimila ducati ogni mese, gli avesse promesso di non fare accordo alcuno senza includervelo, e di rompere la guerra, se fusse necessario il fare diversione, nello stato di Milano. Perciò rimanendo il re di Francia sicuro per allora de' movimenti di Germania, e sperando di ottenere, innanzi passasse molto tempo, per mezzo del medesimo arciduca, la investitura e la pace, voltò tutti i suoi pensieri alla impresa del regno di Napoli. Alla quale temendo non se gli opponessino i re di Spagna, e dubitando che a quelli re non si unissino, per timore della sua grandezza, i viniziani e forse il pontefice, rinnovò con loro le pratiche, cominciate a tempo del re Carlo, della divisione di quel reame, al quale Ferdinando re di Spagna pretendeva similmente avere ragione. Perché se bene Alfonso re di Aragona l'avesse acquistato per ragioni separate dalla corona di Aragona, e però come di cosa propria ne avesse disposto in Ferdinando figliuolo suo naturale, nondimeno in Giovanni suo fratello che gli succedette nel regno di Aragona, e in Ferdinando figliuolo di Giovanni, era stata insino allora querela tacita che, avendolo Alfonso conquistato con l'armi e co' danari del reame di Aragona, apparteneva legittimamente a quella corona: la quale querela aveva Ferdinando coperta con astuzia e pazienza spagnuola, non solo non pretermettendo con Ferdinando re di Napoli, e poi con gli altri che succederono di lui, gli uffici debiti tra parenti ma eziandio augumentandogli con vincolo di nuova affinità, perché a Ferdinando di Napoli dette per moglie Giovanna sua sorella e consentí poi che Giovanna figliuola di quella si maritasse a Ferdinando giovane; e nondimeno non aveva però conseguito che la cupidità sua non fusse, molto tempo prima, stata nota a' re napoletani. Concorrendo adunque in Ferdinando e nel re di Francia la medesima inclinazione, l'uno per rimuoversi gli ostacoli e le difficoltà, l'altro per acquistare parte di quello che lungamente aveva desiderato, poiché a conseguire il tutto non appariva alcuna occasione, si convenneno di assaltare in uno tempo medesimo il reame di Napoli, il quale tra loro si dividesse in questo modo: che al re di Francia toccasse la città di Napoli con tutta la Terra di Lavoro e la provincia dello Abruzzi, e a Ferdinando le provincie di Puglia e di Calavria; e che ciascuno si conquistasse da se stesso la sua parte, non essendo l'altro obligato ad aiutarlo ma solamente a non impedirlo. E sopra tutto convenneno che questa concordia si tenesse segretissima, insino a tanto che l'esercito che il re di Francia mandasse a quella impresa fusse arrivato a Roma: al qual tempo gli imbasciadori di amendue, allegando essersi fatta per beneficio della cristianità questa convenzione e per assaltare gli infedeli, unitamente ricercassino al pontefice che concedesse la investitura secondo la divisione convenuta tra loro; investendo Ferdinando sotto titolo di duca di Puglia e di Calavria e il re di Francia sotto titolo non piú di Sicilia ma di re di Ierusalem e di Napoli. Il quale titolo del regno ierosolimitano, pervenuto una volta in Federigo secondo, imperadore romano e re di Napoli, per dote della sua moglie figliuola di Giovanni re di Ierusalem, in nome ma non in effetto, era stato continuamente usato da' re seguenti; benché in uno tempo medesimo se l'avessino, per diverse ragioni, non meno cupidamente appropriato i re di Cipri della famiglia Lusignana: tanto sono avidi i príncipi di abbracciare colori da potere con apparente onestà vessare, benché spesso indebitamente, gli stati posseduti da altri. La quale capitolazione tra i due re come fu fatta, il re di Francia cominciò scopertamente a preparare l'esercito.
Cap. iv
Dopo aver inflitte nuove e gravi perdite agli assalitori i faentini si arrendono al Valentino. Sdegno del re di Francia verso i fiorentini e intenzioni avverse a Firenze del Valentino. Accordi fra il Bentivoglio e il Valentino. Il Valentino abbandona il territorio fiorentino per unirsi alle milizie francesi in marcia verso Napoli.
Il quale mentre che si prepara, il Valentino, che ne' primi dí dell'anno, accostatosi di notte con quantità grande di scale al borgo di Faenza e avendovi secondo si credeva intelligenza, avea invano tentato di occuparlo, non avendo piú speranza nella fraude, prese pochi dí poi Russi e l'altre terre di quel contado; e ultimatamente vi ritornò col campo nel principio della primavera, ponendosi di verso la rocca; e da quella parte battuta la muraglia, fece dare mescolatamente la battaglia dalle genti franzesi e dagli spagnuoli che erano a' soldi suoi. I quali essendosi presentati con disordine, si ritirorono senza fare frutto alcuno; ma in capo di tre dí ne fece dare un'altra con le forze di tutto il campo, della quale il primo assalto toccò a Vitellozzo e agli Orsini, che scelto il fiore de' loro soldati assaltorno con grande virtú e con grande ordine, spingendosi tanto innanzi che talvolta ebbono speranza di ottenere. Ma non era minore il valore di quegli di dentro e gagliarda la riparazione fatta da loro, in modo che trovandosi gli assaltatori avere innanzi a sé uno fosso grande, ed essendo battuti per fianco da molta artiglieria, furono costretti a ritirarsi; e vi restò morto di loro Ferrando da Farnese e molti uomini di conto, e numero grande di feriti. E nondimeno i faventini, avendo ricevuto danno non piccolo in questo assalto, cominciorono talmente a considerare come alla fine, abbandonati da ciascuno, potessino contro a tanto esercito sostenersi, e con quanto danno e male condizioni verrebbono o espugnati per forza o costretti per l'ultima necessità a darsi in potestà del vincitore, che, raffreddato tanto ardore e sottentrando la paura, si arrenderono, pochi dí poi, al Valentino; salvo l'avere e le persone, e pattuita la libertà di Astore suo signore, e che gli fusse lecito di andare dove gli paresse, rimanendogli salva l'entrata delle proprie possessioni. Le quali cose Valentino, quanto agli uomini di Faenza, osservò fedelmente: ma Astore, che era minore di diciotto anni e di forma eccellente, cedendo l'età e la innocenza alla perfidia e crudeltà del vincitore, fu, sotto specie di volere rimanesse nella sua corte, ritenuto appresso a lui, con onorevoli dimostrazioni; ma non molto tempo poi condotto a Roma, saziata prima (secondo si disse) la libidine di qualcuno, fu occultamente insieme con uno suo fratello naturale privato della vita.
Acquistato che ebbe il Valentino Faenza si mosse verso Bologna, avendo in animo non solo di occupare quella città ma di molestare dipoi i fiorentini; i quali erano in molta declinazione, essendosi allo sdegno primo del re di Francia aggiunte nuove cagioni. Conciossiaché, affaticati dalle gravi spese che aveano fatte e che continuamente erano necessitati di fare, per la guerra co' pisani e per il sospetto che aveano delle forze del pontefice e del Valentino, non pagavano al re, con tutto che ne facesse grande instanza, il residuo de' danari prestati loro dal duca di Milano, né quegli che e' pretendeva dovere avere per conto de' svizzeri mandati contro a Pisa; perché avendo i fiorentini negato di pagare loro, secondo che a Milano aveano convenuto col cardinale di Roano, una paga per ritornarsene alla patria, perché si erano partiti molti dí prima che avessino finito di servire lo stipendio ricevuto, il re, per conservarsi benevola quella nazione, l'aveva pagata del suo proprio: e gli dimandava con grande acerbità di parole, non ammettendo scusa alcuna della impotenza loro. Alle quali cose faceva piú difficile il provedere la discordia civile, nata da' disordini del governo popolare, nel quale, non essendo alcuno che avesse cura ferma delle cose, e molti de' cittadini principali sospetti, o come amici de' Medici o come desiderosi di altra forma di governo, si reggevano piú con confusione che con consiglio. Onde non facendo provisione alle dimande del re, anzi lasciate passare senza effetto le dilazioni impetrate da lui, l'aveano acceso in gravissima indegnazione; dimandando, oltre a questo, che si preparassino a dargli i danari e gli aiuti promessi per la impresa di Napoli, perché se bene, secondo le convenzioni, non si doveano se non dopo la recuperazione di Pisa, doversi in quanto a lui avere per recuperata, poiché per colpa loro era proceduto il non ottenerla: movendolo o la cupidità de' danari, de' quali era per natura molto amatore, o lo sdegno che ne' tempi conceduti loro non gli aveano pagati o l'essergli persuaso che, per i disordini del governo e per i molti amici che v'aveano i Medici, non poteva nelle occorrenze sue fare fondamento alcuno in quella città. E per condurgli con l'asprezza e con l'acerbità a quello a che non gli conduceva l'autorità usava publicamente sinistri termini allo imbasciadore che aveano appresso a lui, affermando non essere piú tenuto alla loro protezione, perché avendo essi mancato di adempiere la capitolazione fatta a Milano, poiché non gli avevano pagati a' tempi promessi i danari convenuti in quella, non era obligato a osservarla loro: per il che, essendo per istigazione del pontefice andato alla corte sua Giuliano de' Medici, a supplicarlo, in nome suo e de' fratelli, della restituzione alla patria, promettendogli quantità grandissima di danari, l'avea udito gratissimamente, trattando con esso assiduamente sopra il loro ritorno. E perciò il Valentino, preso animo da queste cose, e stimolato da Vitellozzo e dagli Orsini soldati suoi e inimicissimi de' fiorentini, quello per la ingiuria della morte del fratello questi per la congiunzione che aveano co' Medici, aveva prima mandato in aiuto de' pisani Liverotto da Fermo con cento cavalli leggieri, e dopo l'acquisto di Faenza deliberato di molestargli: con tutto che da loro il padre ed egli non avessino ricevuto offese ma piú tosto grazie e comodità; perché a richiesta loro aveano rinunziato alla protezione degli stati de' Riari, alla quale erano obligati, e consentito che allo esercito suo andassino vettovaglie, continuamente, del dominio fiorentino.
Partito adunque di Romagna con questa deliberazione, dichiarato già dal pontefice dopo l'acquisto di Faenza, con approvazione del concistorio, duca di Romagna, e ottenutane l'investitura, entrò con l'esercito nel territorio di Bologna, con grandissima speranza di occuparla. Ma il dí medesimo che alloggiò a Castel San Piero, terra posta quasi ne' confini tra Imola e Bologna, ricevé comandamento dal re di Francia di non procedere né alla occupazione di Bologna né a cacciarne Giovanni Bentivogli, perché allegava essere obligato alla protezione e della città e di lui; e quella eccezione espressa nell'accettazione della protezione, di non pregiudicare alle ragioni della Chiesa, doversi intendere di quelle ragioni e preminenze che allora vi possedeva la Chiesa, perché intendendosi indistintamente e non secondo il suono delle parole, come pretendeva il pontefice, sarebbe stata cosa vana e di niuno momento a' bolognesi e a' Bentivogli il ricevergli nella sua protezione. Però il Valentino, deposto per allora, con gravissima querela del pontefice e sua, la speranza conceputa, convenne col Bentivoglio, per mezzo di Pagolo Orsino, che gli concedesse passo e vettovaglia per il bolognese, pagassegli ogni anno novemila ducati, servisselo di certo numero di uomini d'arme e di fanti per andare in Toscana, e gli lasciasse la terra di Castel Bolognese, che, posta tra Imola e Faenza, è giurisdizione di Bologna; che da lui fu donata a Pagolo Orsini. Il quale accordo come fu fatto, il Bentivoglio, o per sospetto che avesse da sé proprio o perché, secondo che fu fama, il Valentino, per concitargli maggiore odio in quella città, gli avesse rivelato essere stato invitato ad accostarsi a Bologna dalla famiglia de' Mariscotti, famiglia potente di clientele e partigiani, e che per questo e per l'insolenza loro gli era molto sospetta, fece ammazzare quasi tutti quegli di loro che erano in Bologna; usando per ministri di questa crudeltà, insieme con Ermes suo figliuolo, molti giovani nobili, acciò che per la memoria di avere imbrattate le mani nel sangue de' Mariscotti fussino, essendo divenuti inimici di quella famiglia, costretti a desiderare la conservazione dello stato suo.
Non seguitorno piú oltre il Valentino le genti franzesi, perché aspettavano di unirsi con l'esercito regio, il quale in numero di mille lancie e di diecimila fanti andava sotto Obigní alla impresa di Napoli. Ma il Valentino si dirizzò per il bolognese verso il dominio fiorentino con settecento uomini d'arme e cinquemila fanti di gente molto eletta, e di piú con cento uomini d'arme e dumila fanti che sotto il protonotario suo figliuolo gli dette il Bentivoglio; e avendo mandato a chiedere a' fiorentini passo e vettovaglia per il loro dominio, andò innanzi non aspettata la risposta, dando agli imbasciadori che gli erano stati mandati da' fiorentini benigne parole, insino che ebbe passato lo Apennino. Ma come fu condotto a Barberino, mutata la benignità in asprezza, dimandò facessino confederazione seco, conducessinlo con quel numero di genti d'arme e con quelle condizioni che convenissino al grado suo, e che mutato il governo presente ne costituissino un altro nel quale piú potesse confidare; e pigliava animo a queste dimande non tanto per la potenza sua, non avendo seco maggiore esercito né artiglieria da battere terre, quanto per le male condizioni de' fiorentini, avendo poca gente d'arme, né altri fanti che i paesani che giornalmente comandavano, e in Firenze timore sospetto e disunione assai, per essere nel campo suo Vitellozzo e gli Orsini, e perché per ordine suo Piero de' Medici si era fermato a Logliano nel bolognese, e il popolo pieno di gelosia che i cittadini potenti non avessino procurata la sua venuta per ordinare uno governo a loro sodisfazione. Ma in Valentino non era desiderio di rimettere Piero de' Medici, perché non giudicava a suo proposito la grandezza degli Orsini e di Vitellozzo, co' quali sapeva che Piero ritornato nella patria sarebbe stato congiuntissimo. E ho, oltre a questo, udito da uomini degni di fede che nell'animo suo era fissa la memoria di uno antico sdegno conceputo contro a lui, insino quando arcivescovo di Pampalona, non promosso ancora il padre al pontificato, dava opera alle leggi canoniche nello studio pisano: perché essendo andato a Firenze per parlargli sopra uno caso criminale di uno suo familiare, poiché per piú ore ebbe aspettato invano d'avere udienza da lui, occupato o in negozi o in piaceri, si era ritornato a Pisa senza avergli parlato, riputandosi disprezzato e non mediocremente ingiuriato. E nondimeno, per compiacere a' Vitelli e agli Orsini, simulava altrimenti; e molto piú per accrescere il terrore e la disunione de' fiorentini, mediante la quale sperava o ottenere da loro migliori condizioni o potere avere occasione di occupare qualche terra importante di quel dominio. Ma presentendo già che lo insulto suo era molesto al re di Francia, condotto che fu a Campi, presso a sei miglia a Firenze, fece convenzione con loro in questa sentenza: che tra la republica fiorentina e lui fusse confederazione a difesa degli stati, essendo proibito l'aiutare i ribelli l'uno dell'altro, e nominatamente al Valentino i pisani; perdonassino i fiorentini tutti i delitti fatti per qualunque nella venuta sua, né se gli opponessino in difesa del signore di Piombino, il quale era sotto la loro protezione; conducessinlo agli stipendi loro per tre anni con trecento uomini d'arme, e con soldo di trentaseimila ducati per ciascuno anno, li quali fusse tenuto mandare in aiuto loro qualunque volta n'avessino di bisogno o per difesa propria o per offesa d'altri. Il quale accordo fatto, andò a Signa, facendo piccole giornate, e dimorando in ogni alloggiamento qualche dí e danneggiando con incendi e con prede il paese non manco che se fusse stato scoperto inimico, dimandava, secondo l'uso de' pagamenti che si fanno alle genti d'arme, la quarta parte de' danari che si dovevano in uno anno, e di essere accomodato di artiglierie per condurle contro a Piombino: una delle quali dimande ricusavano apertamente i fiorentini perché non vi erano obligati, l'altra differivano perché erano in animo di non osservare le promesse fatte per forza, e per avvisi che aveano ricevuti dallo oratore loro che era appresso al re di Francia speravano essere, con l'autorità sua, liberati da questa molestia. La quale speranza non riuscí vana, perché al re era stato grato che il Valentino gli minacciasse ma non che gli assaltasse; e o gli sarebbe stata molesta la mutazione del governo presente o, se pure avesse desiderata altra forma di reggimento in Firenze, gli sarebbe dispiaciuto fusse stato introdotto con altre forze o con altra autorità che con la sua: e però, come gli pervenne la notizia che 'l Valentino era entrato nel dominio fiorentino, gli comandò che ne uscisse subitamente, e a Obigní, che era già in Lombardia con l'esercito, che, in caso non ubbidisse, andasse con tutte le forze a farlo partire. Per il che Valentino, non avuto il quartiere, si dirizzò verso Piombino; e ordinò che i pisani, i quali per opera di Vitellozzo, mandato a Pisa da lui per condurre allo esercito artiglierie, erano andati a campo alle Ripomarancie castello de' fiorentini, se ne levassino. Entrato nel territorio di Piombino, prese Sughereto, Scarlino e l'isole dell'Elba e di Pianosa; e lasciate ne' luoghi occupati genti sufficienti a difenderli e a molestare continuamente Piombino, se ne andò con l'altre in terra di Roma, per seguitare all'impresa di Napoli l'esercito del re: del quale una parte condotta da Obigní era per la via di Castrocaro entrata in Toscana, l'altra per la Lunigiana; contenendo tutto l'esercito, quando era unito, mille lancie quattromila svizzeri e seimila altri tra fanti franzesi e guasconi, e, secondo il solito loro, provisione grande d'artiglierie. E fu cosa notabile che quella parte che venne per la Lunigiana passò amichevolmente per la città di Pisa, con grandissima letizia cosí de' franzesi come de' pisani. E nel tempo medesimo partiva di Provenza per la medesima impresa, sotto Ravesten governatore di Genova, l'armata marittima, con tre caracche genovesi e sedici altre navi e molti legni minori carichi di molti fanti.
Cap. v
Federigo d'Aragona si prepara alla difesa. Gli ambasciatori di Francia e di Spagna notificano al pontefice gli accordi conclusi: impressione in Italia. Federigo delibera di tentare la sorte delle armi. I francesi occupano Capua; patti fra Federigo e i francesi. Sventure della famiglia di Federigo. Federigo in Francia. Il duca di Calabria in Ispagna.
Contro a' quali movimenti il re Federigo, non sapendo che l'armi spagnuole fussino sotto specie di amicizia preparate contro a lui, sollecitava Consalvo Ferrando, il quale con la armata de' re di Spagna era, sotto simulazione di dargli aiuto, fermatosi in Sicilia, che venisse a Gaeta; avendogli messe in mano alcune terre di Calavria, dimandate da lui per farsi piú facile l'acquisto della sua parte, ma sotto colore di volerle per sicurtà delle sue genti. E sperava Federigo, congiunto che fusse Consalvo con l'esercito suo, il quale, parte d'uomini soldati da sé parte che da' Colonnesi si soldavano a Marino, disegnava che fusse di settecento uomini d'arme seicento cavalli leggieri e seimila fanti, avere esercito potente a resistere, senza essere necessitato a rinchiudersi per le terre, a' franzesi: con tutto gli mancassino gli aiuti sperati dal principe de' turchi, al quale aveva con grandissima instanza dimandato soccorso, dimostrandogli dalla vittoria del re presente quel medesimo anzi maggiore pericolo di quello che aveva temuto dalla vittoria del re passato. E per assicurarsi dalle fraudi, essendogli accusati il principe di Bisignano e il conte di Meleto d'avere occulte pratiche col conte di Caiazzo, che era con l'esercito franzese, gli aveva fatti incarcerare. Con le quali speranze, avendo perciò prima mandato Ferdinando suo primogenito, ancora fanciullo, a Taranto, piú per sicurtà sua, se caso avverso succedesse, che per difesa di quella città, si fermò con l'esercito a San Germano; ove aspettando gli aiuti spagnuoli e le genti che gli conducevano i Colonnesi, sperava d'avere con piú felice successo a difendere l'entrata del regno che non aveva, nella venuta di Carlo, fatto Ferdinando suo nipote.
Nel quale stato delle cose era certamente Italia ripiena di incredibile sospensione, giudicandosi per ciascuno che questa impresa avesse a essere principio di gravissime calamità; perché né l'esercito preparato dal re di Francia pareva sí potente che dovesse facilmente superare le forze unite di Federigo e di Consalvo, e si giudicava che cominciando a irritarsi gli animi di re sí potenti avesse l'una parte e l'altra a continuare la guerra con maggiori forze, onde facilmente potessino sorgere per tutta Italia, per le varie inclinazioni degli altri potentati, gravi e pericolosi movimenti. Ma si dimostrorno vani questi discorsi subito che l'esercito franzese fu giunto in terra di Roma. Perché gli oratori franzesi e spagnuoli, entrati insieme nel concistorio, notificorono al pontefice e a' cardinali la lega e la divisione fatta tra' loro re, per potere attendere, come dicevano, all'espedizione contro agli inimici della religione cristiana; dimandandone la investitura secondo il tenore della convenzione che avevano fatta, che fu senza dilazione conceduta dal pontefice. E perciò, non si dubitando piú quale avesse a essere il fine di questa guerra e convertito il timore degli uomini in somma ammirazione, era molto desiderata da ciascuno la prudenza del re di Francia, che avesse piú tosto voluto che la metà di quel reame cadesse nelle mani del re di Spagna e messo in Italia, dove prima era solo arbitro delle cose, uno re emulo suo, al quale potessino ricorrere tutti gli inimici e malcontenti di lui e congiunto oltre a questo al re de' romani con interessi molto stretti, che comportare che Federigo restasse nel tutto, riconoscendolo da lui e pagandogliene tributo, come per vari mezzi aveva cercato di ottenere. Ma non era nel concetto universale meno desiderata la integrità e la fede di Ferdinando, maravigliandosi tutti gli uomini che, per cupidità di ottenere quella parte del reame, si fusse congiurato contro a uno re del sangue suo, e che per potere piú facilmente sovvertirlo l'avesse sempre pasciuto di promissioni false di aiutarlo; e oscurato lo splendore del titolo di re cattolico (il quale titolo egli e la reina Elisabetta avevano, pochi anni innanzi, conseguito dal pontefice), e quella gloria con la quale era stato esaltato insino al cielo il nome loro, di avere, non meno per zelo della religione che per proprio interesse, cacciato i mori del reame di Granata. Alle quali calunnie, date all'uno e all'altro re, non si rispondeva, in nome del re di Francia, se non che la possanza franzese era bastante a dare rimedio, quando fusse il tempo, a tutti i disordini; ma in nome di Ferdinando si diceva che se bene da Federigo gli fusse stata data giusta cagione di muoversi contro a lui, per sapere che egli molto prima aveva tenuto pratiche secrete col re di Francia in suo pregiudicio, nondimeno non averlo mosso questo ma la considerazione che, avendo quel re deliberato di fare a ogni modo la impresa del reame di Napoli, si riduceva in necessità o di difenderlo o di abbandonarlo. Pigliando la difesa, era principio di incendio sí grave che sarebbe stato molto pernicioso alla republica cristiana, e massimamente trovandosi l'armi de' turchi sí potenti contro a' viniziani per terra e per mare; abbandonandolo, conoscere che il regno suo di Sicilia restava in grave pericolo e, senza questo, risultare in danno suo notabile che il re di Francia occupasse il regno di Napoli appartenente a sé giuridicamente, e che gli poteva anche pervenire con nuove ragioni in caso mancasse la linea di Federigo. Però in queste difficoltà avere eletto la via della divisione, con speranza che per i cattivi governi de' franzesi gli potrebbe in breve tempo pervenire medesimamente la parte loro: il che quando succedesse, secondo che lo consigliasse il rispetto dell'utilità publica, alla quale sempre piú che allo interesse proprio aveva riguardato, o lo riterrebbe per sé o lo restituirebbe a Federigo; anzi piú presto a' figliuoli, perché non negava d'avere quasi in orrore il nome suo, per quello che e' sapeva che, insino innanzi che il re di Francia pigliasse il ducato di Milano, aveva trattato co' turchi.
La nuova della concordia di questi re spaventò in modo Federigo che, ancora che Consalvo, mostrando di disprezzare quello che si era publicato a Roma, gli promettesse con la medesima efficacia di andare al soccorso suo, si partí dalle prime deliberazioni; e ritirato da San Germano verso Capua, aspettava le genti che per ordine suo avevano soldate i Colonnesi: i quali, lasciata guardata Amelia e Rocca di Papa, abbandonorono tutto il resto di quello tenevano in terra di Roma, perché il pontefice, con consentimento del re di Francia, aveva mosso l'armi per occupare gli stati loro. Nelle quali difficoltà, avendo pure Consalvo, come intese l'esercito franzese avere passato Roma, scoperte le sue commissioni e mandato a Napoli sei galee per levarne le due reine vecchie, sorella l'una l'altra nipote del suo re, consigliava Prospero Colonna che Federigo ritenesse quelle galee, e unite tutte le forze sue si opponesse in sulla campagna agli inimici; perché nel tentare la fortuna poteva pure essere qualche speranza di vittoria, essendo incertissimi piú che di tutte l'altre azioni degli uomini gli eventi delle battaglie, ma in qualunque altro modo essere certissimo che e' non aveva facoltà alcuna di resistere a due potentissimi re che l'assaltavano in diverse parti del reame; nondimeno Federigo, giudicando anche di piccolissima speranza questo consiglio, deliberò di ridursi alla guardia delle terre. Però essendo, già innanzi che Obigní uscisse di Roma, ribellato San Germano e altri luoghi vicini, determinò di fare la prima difesa nella città di Capua; nella quale, con trecento uomini d'arme alcuni cavalli leggieri e tremila fanti, messe Fabrizio Colonna, e con lui Rinuccio da Marciano condotto nuovamente agli stipendi suoi. A guardia di Napoli lasciò Prospero Colonna, ed egli col resto delle genti si fermò ad Aversa.
Ma Obigní, partito di Roma, fece nel passare innanzi abbruciare Marino, Cavi e certe altre terre de' Colonnesi, sdegnato perché Fabrizio aveva fatto in Roma ammazzare i messi di alcuni baroni del regno seguaci della parte franzese, che erano andati a convenire con lui. Dirizzossi poi a Montefortino, dove si pensava che Giulio Colonna facesse resistenza; ma avendolo abbandonato con poca laude, Obigní procedendo piú oltre occupò tutte le terre circostanti alla via di Capua insino al Volturno, il quale non si potendo guadare presso a Capua, andò con lo esercito a passarlo piú alto verso la montagna: il che inteso per Federigo si ritirò in Napoli, abbandonata Aversa; la quale città, insieme con Nola e molti altri luoghi, si dette a' franzesi. Lo sforzo de' quali si ridusse totalmente intorno a Capua, dove si accamporono parte di qua parte di là dal fiume, dalla banda di sopra dove il fiume comincia a passare accanto alla terra; e avendola battuta da ogni parte gagliardamente, detteno uno assalto molto feroce, il quale benché non riuscisse prospero, anzi si ritirassino dalle mura con molto danno, nondimeno, non essendo stato senza grave pericolo di quegli di dentro, cominciorono gli animi de' capitani e de' soldati a inclinarsi all'accordo, massime vedendo sollevazione grande nel popolo della città e negli uomini del paese, ché ve ne era rifuggito grandissimo numero. Ma avendo, l'ottavo dí poi che era stato posto il campo, cominciato a parlare, da uno bastione, sopra le condizioni dello arrendersi, Fabrizio Colonna col conte di Gaiazzo, la mala guardia di quegli di dentro, come spesso è intervenuto nella speranza propinqua degli accordi, dette occasione agli inimici di entrarvi; i quali, per la cupidità di rubare e per lo sdegno del danno ricevuto quando dettono l'assalto, la saccheggiorno tutta con molta uccisione, ritenendo prigioni quelli che avanzorono alla loro crudeltà. Ma non fu minore la empietà efferatissima contro alle donne, che d'ogni qualità, eziandio le consecrate alla religione, furno miserabile preda della libidine e della avarizia de' vincitori; molte delle quali furono poi per minimo prezzo vendute a Roma: ed è fama che in Capua alcune, spaventandole manco la morte che la perdita dell'onore, si gittorno chi ne' pozzi chi nel fiume. Divulgossi, oltre all'altre sceleratezze degne di eterna infamia, che essendone rifuggite in una torre molte che avevano scampato il primo impeto, il duca Valentino, il quale con titolo di luogotenente del re seguitava l'esercito, non con altre genti che co' suoi gentiluomini e con la sua guardia, le volle vedere tutte, e consideratele diligentemente ne ritenne quaranta delle piú belle. Rimasono prigioni Fabrizio Colonna don Ugo di Cardona e tutti gli altri capitani e uomini di condizione, tra' quali Renuccio da Marciano, che il dí che si dette l'assalto era stato ferito da una freccia di balestra; ed essendo in mano d'uomini del Valentino sopravisse due dí, non senza sospetto di morte procurata. Con la perdita di Capua fu troncata ogni speranza di potere piú difendere cosa alcuna. Arrendessi senza dilazione Gaeta; ed essendo Obigní venuto con l'esercito ad Aversa, Federigo, abbandonata la città di Napoli, la quale si accordò subito con condizione di pagare sessantamila ducati a' vincitori, si ritirò in Castelnuovo; e pochi dí poi convenne con Obigní di consegnargli fra sei dí tutte le terre e le fortezze che si tenevano per lui, della parte la quale, secondo la divisione fatta, apparteneva al re di Francia, ritenendosi solamente l'isola di Ischia per sei mesi: nel quale spazio di tempo gli fusse lecito di andare in qualunque luogo gli paresse eccetto che per il regno di Napoli, e di mandare a Taranto cento uomini d'arme; potesse cavare qualunque cosa di Castelnuovo e di Castel dell'Uovo, eccetto che l'artiglierie che vi rimasono del re Carlo; fusse data venia a ciascuno delle cose fatte dappoi che Carlo acquistò Napoli, e i cardinali Colonna e di Aragona godessino l'entrate ecclesiastiche che avevano nel regno.
Ma nella rocca di Ischia certamente si veddono accumulate, con miserabile spettacolo, tutte le infelicità della progenie di Ferdinando vecchio. Perché oltre a Federigo, spogliato nuovamente di regno sí preclaro, ansio ancora piú della sorte di tanti figliuoli piccoli e del primogenito rinchiuso in Taranto che della propria, era nella rocca Beatrice sua sorella; la quale, poiché dopo la morte di Mattia famosissimo re di Ungheria, suo marito, ebbe promessa di matrimonio da Uladislao re di Boemia per indurla a dargli aiuto a conseguire quello regno, era stata da lui poiché ebbe ottenuto il desiderio suo ingratamente repudiata, e celebrato con dispensazione di Alessandro pontefice un altro matrimonio. Eravi ancora Isabella già duchessa di Milano, non meno infelice di tutti gli altri, essendo stata, quasi in uno tempo medesimo, privata del marito, dello stato e dell'unico suo figliuolo.
Né è forse da pretermettere una cosa grandissima, tanto piú rara quanto è piú raro a' tempi nostri l'amore de' figliuoli verso il padre: e questo è che essendo andato a Pozzuolo per vedere il sepolcro paterno [uno] figliuolo di Giliberto di Mompensieri, commosso da gravissimo dolore, poi che ebbe sparse infinite lacrime cadde morto in sul sepolcro medesimo.
Ma Federigo, risoluto per l'odio estremo che e' portava al re di Spagna di rifuggire piú tosto nelle braccia del re di Francia, mandò al re a dimandargli salvocondotto; e ottenutolo, lasciati tutti i suoi nella rocca d'Ischia, dove rimasono anche Prospero e Fabrizio Colonna, che pagata la taglia era stato liberato da' franzesi, e lasciata l'isola, come prima era, sotto il governo del marchese del Guasto e della contessa di Francavilla, e mandate parte delle sue genti alla difesa di Taranto, se ne andò con cinque galee sottili in Francia: consiglio certamente infelice, perché se fusse stato in luogo libero arebbe forse, nelle guerre che poi nacqueno tra i due re, avuto molte occasioni di ritornare nel suo reame. Ma eleggendo la vita piú quieta, e forse sperando questa essere la via migliore, accettò dal re il partito di rimanere in Francia, dandogli il re la ducea d'Angiò e tanta provisione che ascendeva l'anno a trentamila ducati; e comandò a quegli che aveva lasciati al governo d'Ischia che la dessino al re di Francia; i quali, recusando di ubbidire, la ritenneno lungamente, benché sotto le insegne di Federigo.
Era nel tempo medesimo passato Consalvo in Calavria; dove, benché quasi tutto il paese desiderasse piú presto il dominio de' franzesi, nondimeno, non avendo chi gli difendesse, tutte le terre lo riceverono volontariamente, eccetto Manfredonia e Taranto. Ma avuta Manfredonia e la fortezza per assedio, si ridusse col campo intorno a Taranto, dove era maggiore difficoltà; ma l'ottenne finalmente per accordo, perché il conte di Potenza, sotto la cui custodia era stato dato dal padre il piccolo duca di Calavria, e fra Lionardo napoletano cavaliere di Rodi governatore di Taranto, non vedendo speranza di potere piú difendersi, convennono di dargli la città e la rocca se in tempo di quattro mesi non fussino soccorsi: ricevuto da lui giuramento solennemente in su la ostia consegrata di lasciare libero il duca di Calavria, il quale aveva segreto ordine dal padre di andarsene, quando piú non si potesse resistere alla fortuna, a ritrovarlo in Francia. Ma né il timore di Dio né il rispetto della estimazione degli uomini potette piú che lo interesse dello stato: perché Consalvo, giudicando che in molti tempi potrebbe importare assai il non essere in potestà de' re di Spagna la sua persona, sprezzato il giuramento, non gli dette facoltà di partirsi, ma come prima potette lo mandò bene accompagnato in Ispagna; dove dal re raccolto benignamente fu tenuto appresso a lui, nelle dimostrazioni estrinseche, con onori quasi regi.
Cap. vi
Il Valentino prende Piombino. Matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este. Il re di Francia tratta la pace con Massimiliano. Trattative del re di Francia coi governi della Toscana. Trattative fra Massimiliano e il cardinale di Roano a Trento. Morte del doge Agostino Barbarigo. Rinnovata la confederazione col re di Francia i fiorentini riprendono la guerra contro Pisa.
Procedevano in questi tempi medesimi le cose del pontefice con la consueta prosperità: perché aveva acquistato con grandissima facilità tutto lo stato che i Colonnesi e i Savelli tenevano in terra di Roma, del quale donò una parte agli Orsini; e il Valentino, continuando la impresa sua contro a Piombino, vi mandò Vitellozzo e Giovampagolo Baglioni con nuove genti, per la venuta de' quali spaventato Jacopo da Appiano che ne era signore, lasciata guardata la fortezza e la terra, se ne andò per mare in Francia, per tentare di ottenere dal re, il quale molto prima l'aveva ricevuto nella sua protezione, che per rispetto dell'onore proprio non lo lasciasse perire. Alla qual cosa il re, non velando con artificio alcuno la infamia sua, rispose molto liberamente avere promesso al pontefice di non se gli opporre, né potersegli opporre senza fare detrimento a se medesimo. Ma in questo mezzo la terra, per opera di Pandolfo Petrucci, si arrendé al Valentino; e il medesimo fece poco dipoi la fortezza. Congiunse ancora il pontefice Lucrezia sua figliuola, stata già destinata a tre altri mariti, e allora vedova per la morte di Gismondo principe di Biselli e già figliuolo naturale di Alfonso re di Napoli, il quale era stato ammazzato dal duca Valentino, ad Alfonso primogenito d'Ercole da Esti con dota di centomila ducati in pecunia numerata e con molti donamenti di grandissimo valore. Al quale matrimonio, molto indegno della famiglia da Esti, solita a fare parentadi nobilissimi, e perché Lucrezia era spuria e coperta di molte infamie, acconsentirono Ercole e Alfonso perché il re di Francia, desideroso di sodisfare in tutte le cose al pontefice, ne fece estrema instanza; e gli mosse oltre a ciò il desiderio di assicurarsi con questo mezzo (se però contro a tanta perfidia era bastante sicurtà alcuna) dall'armi e dall'ambizione del Valentino: il quale, potente di danari e di autorità della sedia apostolica e per il favore che aveva dal re di Francia, era già formidabile a una grande parte d'Italia, conoscendosi che le sue cupidità non avevano termine e freno alcuno.
Continuava in questi tempi medesimi con grandissima sollecitudine il re di Francia di trattare la pace con Massimiliano Cesare, non solo per speranza di sollevarsi da spese e da sospetti, e ottenere da lui la investitura molto desiderata del ducato di Milano, ma eziandio per avere facoltà di offendere i viniziani; movendolo il sapere che a loro erano moleste le sue prosperità, e il persuadersi che secretamente si fussino affaticati per interrompere la pace tra Cesare e lui. Ma lo moveva piú la cupidità che, per se stesso e per gli stimoli de' milanesi, aveva di recuperare Cremona e la Ghiaradadda, cose state poco innanzi concedute loro da esso medesimo, e Brescia Bergamo e Crema, state già del ducato di Milano, e occupate da' viniziani nelle guerre che ebbeno con Filippo Maria Visconte. E per trattare piú da presso queste cose, e per fare le provisioni necessarie alla impresa di Napoli, aveva mandato molto prima a Milano il cardinale di Roano, la cui lingua e autorità era la lingua e l'autorità propria del re, il quale vi era dimorato piú mesi non avendo ancora potuto, per le spesse variazioni del re de' romani, fermare seco cosa alcuna.
Per mezzo del cardinale, trattorono i fiorentini in questo tempo di essere di nuovo ricevuti nella protezione del re, ma senza effetto, perché proponeva condizioni molto difficili; anzi dimostrando d'avere totalmente l'animo alieno da loro e pretendendo, il re, non essere piú obligato alle convenzioni fatte a Milano, fece consegnare a' lucchesi, accettati di nuovo in protezione, Pietrasanta e Mutrone, come cose per antiche ragioni appartenenti a quella città: ma ricevuti da loro, come signore di Genova, ventiquattromila ducati, perché i lucchesi possessori anticamente di Pietrasanta l'aveano, per certe necessità, impegnata per tanta quantità a' genovesi, da' quali era poi per forza d'armi pervenuta ne' fiorentini. Trattò ancora co' sanesi co' lucchesi e co' pisani di unirgli insieme per rimettere i Medici in Firenze, disegnando che il re conseguisse da ciascuno non piccola somma di danari: le quali pratiche benché si conducessino insino quasi alla stipulazione, nondimeno non ebbeno effetto perché non erano tutti pronti a pagare la quantità de' danari dimandata, e perché si conosceva essere piú facilità a valersi de' fiorentini.
Sopravenne finalmente speranza piú certa dal re de' romani, e però il cardinale andò a convenirsi [con lui] a Trento dove trattorono molte cose concernenti di stabilire il matrimonio di Claudia figliuola del re di Francia e di Carlo primogenito dello arciduca, con la concessione all'uno e l'altro di loro della investitura del ducato di Milano. Trattossi similmente di muovere guerra a' viniziani, per ricuperare ciascuno quello che pretendeva essergli occupato da loro; e di convocare uno concilio universale per riordinare le cose della Chiesa, non solo, come dicevano, nelle membra ma eziandio nel capo: e a questo simulava di consentire il re de' romani per dare speranza di conseguire il pontificato al cardinale di Roano, il quale ardentemente vi aspirava; avendone il suo re, per l'interesse della grandezza propria, non minore cupidità di lui. Acconsentivasi ancora per la parte del re di Francia, nella inclusione degli aderenti e confederati suoi, la clausula "salve le ragioni dello imperio"; per la quale si permetteva a Massimiliano il riconoscerle eziandio contro a quegli che fussino o ora nominati dal re o prima accettati sotto la sua protezione. Rimaneva solamente la difficoltà principale nella investitura, perché Cesare recusava di concederla a' figliuoli maschi, se alcuni ne nascessino, del re; e vi era qualche difficoltà sopra la restituzione de' fuorusciti del ducato di Milano, la quale dimandata instantemente da Cesare non era consentita dal re, perché erano molti e persone di seguito e di autorità: benché astretto da' prieghi del medesimo non recusasse di liberare Ascanio Sforza, e desse speranza di fare il medesimo di Lodovico Sforza, assegnandogli provisione di ventimila ducati l'anno, co' quali onestamente vivesse nel regno di Francia. Sopra le quali difficoltà non essendo interamente concordi ma con speranza di introdurre qualche forma conveniente, e perciò prolungata di nuovo la tregua, ritornò il cardinale in Francia, presupponendosi quasi per certo che le cose trattate avessino ad avere presto perfezione: la quale [speranza] si augumentò, perché non molto poi l'arciduca, dovendo andare in Ispagna per ricevere da' popoli, nella persona sua e di Giovanna sua moglie figliuola primogenita di quegli re, il giuramento, come destinati alla successione, fatto con la moglie il cammino per terra, si convenne a Bles col re di Francia; dove ricevuto con grandissimo onore rimasono insieme concordi del matrimonio de' figliuoli.
In questo anno medesimo morí Augustino Barbarico doge de' viniziani, avendo esercitato molto felicemente il suo principato, e con tale autorità che pareva che in molte cose avesse trapassato il grado de' suoi antecessori. Però, limitata con leggi nuove la potestà de' successori, fu eletto in suo luogo Leonardo Loredano; non sentendo, per la forma molto eccellente del governo loro, le cose publiche, né per la morte del principe né per la elezione del nuovo, variazione alcuna.
Erano state in questo anno medesimo, fuora dell'uso degli anni precedenti, assai quiete l'armi tra' fiorentini e i pisani; perché i fiorentini, non essendo piú sotto la protezione del re di Francia e stando in continuo sospetto del pontefice e del Valentino, avevano piú atteso a guardare le cose proprie che a offendergli; e i pisani, impotenti da se stessi a travagliargli, non potevano farlo con aiuto d'altri, perché niuno si moveva se non per sostenergli quando erano in pericolo di perdersi. Ma nell'anno mille cinquecento due ritornorono a movimenti consueti, perché i fiorentini, quasi nel principio del detto anno, convennono di nuovo col re di Francia, superate tutte le difficoltà piú per beneficio della fortuna che per benignità del re o per altre cagioni. Conciossiacosaché essendo il re de' romani entrato, dopo la partita del cardinale di Roano da lui, in nuovi disegni, e recusando di concedere al re la investitura del ducato di Milano eziandio per le figliuole femmine, aveva mandato in Italia oratori Ermes Sforza, liberato di carcere dal re di Francia per la intercessione della reina de' romani sua sorella, e il proposto di Brissina, a trattare, col pontefice e con gli altri potentati, della passata sua per pigliare la corona dello imperio: i quali, dimorati alquanti dí in Firenze, avevano ottenuto che la città gli promettesse aiuto di cento uomini d'arme e di trentamila ducati quando fusse entrato in Italia: e però il re, sospettando che i fiorentini disperati dell'amicizia sua non volgessino l'animo alle cose di Massimiliano, partendosi dalle dimande immoderate che aveva fatte, si ridusse a piú tollerabili condizioni. La somma delle quali fu: che il re, ricevendogli in protezione, fusse obligato, per tre anni prossimi, a difendergli con l'armi a spese proprie contro a ciascuno che o direttamente o indirettamente gli molestasse nello stato e dominio che in quel tempo possedevano; che i fiorentini gli pagassino ne' detti tre anni, ogn'anno la terza parte, centoventimila ducati; intendessinsi annullate tutte l'altre capitolazioni fatte tra loro e gli oblighi dependenti da quelle; che a' fiorentini fusse lecito procedere con l'armi contro a' pisani, e contro a tutti gli altri occupatori delle terre loro. Dalla quale confederazione avendo preso animo, deliberorono dare il guasto de' grani e delle biade al contado di Pisa, per ridurre i pisani a ubbidienza con la lunghezza del tempo e con la fame, poiché le espugnazioni erano state tentate infelicemente. Questo consiglio era stato il primo anno della loro ribellione proposto da qualche savio cittadino, confortando che con questi modi piú certi, benché piú lunghi, si cercasse di affliggere e consumare i pisani, con minore spesa e pericolo; perché nelle condizioni tanto perturbate d'Italia, conservandosi i danari potrebbeno aiutarsene a molte occasioni, ma cercando di sforzargli sarebbe impresa difficile per essere quella città forte di muraglie e piena di abitatori ostinati a difenderla, e perché, qualunque volta la fusse in pericolo di perdersi, tutti quegli che desideravano che la non si perdesse gli darebbeno aiuto; in modo che le spese sarebbeno grandi e la speranza piccola, anzi con pericolo evidente di suscitarsi gravi travagli: il quale consiglio, rifiutato da principio come dannoso, fu conosciuto utile dopo il corso di piú anni, ma in tempo che per ottenerne la vittoria si era già spesa quantità grande di danari e sostenuti molti pericoli. Dato il guasto, sperando che per rispetto della protezione del re nessuno si avesse a muovere, mandorno il campo a Vico Pisano: perché la terra, pochi dí innanzi, per tradimento di alcuni soldati che vi erano dentro, era stata tolta loro da' pisani, e il castellano della rocca, non aspettato il soccorso che sarebbe arrivato in poche ore, l'avea con grandissima viltà data loro. Né dubitavano ottenerne la vittoria facilmente, sapendo non essere dentro vettovaglie bastanti a sostentargli per quindici dí, e confidando di impedire che non ve ne entrasse perché, fabricati bastioni in su' monti e in piú luoghi, aveano occupati tutti i passi. E nel tempo medesimo, avendo notizia che Fracassa, il quale povero e senza soldo stava nel mantovano, andava per entrare in Pisa con pochi cavalli, in nome e con lettere, benché quasi mendicate, di Massimiliano, detteno ordine che in quel di Barga fusse assaltato nel passare: dove, benché rifuggito in una chiesa vicina nel territorio del duca di Ferrara, fu da quegli che lo seguitavano fatto prigione.
Cap. vii
Cause di discordia e principio di guerra tra francesi e spagnuoli nel reame di Napoli. Nuove milizie inviate dal re di Francia.
Queste cose si moveano in Toscana, non apparendo ancora quel che fuori dell'espettazione degli uomini aveano a partorire. Ma maggiori e molto piú pericolosi movimenti, e da' quali avevano a procedere importantissimi effetti, cominciavano a scoprirsi nel reame di Napoli, per le discordie che insino nell'anno precedente erano nate tra' capitani franzesi e spagnuoli: le quali ebbono origine perché, essendo nella divisione fatta tra i due re aggiudicata all'uno la Terra di Lavoro e l'Abruzzi all'altro la Puglia e la Calavria, non furono espressi bene nella divisione i confini e i limiti delle provincie, donde ciascuno cominciò a pretendere che a sé appartenesse quella parte che è detta il Capitanato; dando occasione a questa disputazione l'essere stata variata la denominazione antica delle provincie da Alfonso di Aragona primo re di Napoli di quel nome, il quale, avendo rispetto a facilitare le esazioni delle entrate, divise tutto il reame in sei provincie principali, cioè in Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calavria, Puglia e Abruzzi; delle quali la Puglia era divisa in tre parti, cioè in Terra di Otranto, Terra di Bari e Capitanato. Il quale Capitanato essendo contiguo all'Abruzzi, e diviso dal resto della Puglia dal fiume di Lofanto già detto Aufido, pretendevano i franzesi (i quali non avendo in considerazione la denominazione moderna avevano, nel dividere, avuto rispetto alla antica) o che il Capitanato non si comprendesse sotto alcuna delle quattro provincie divise o che piú tosto fusse parte dell'Abruzzi che della Puglia; movendogli non tanto quello che in sé importasse il paese quanto perché, non possedendo il Capitanato, non apparteneva a loro parte alcuna dell'entrate della dogana delle pecore, membro importante dell'entrate del regno, e perché, essendo privato l'Abruzzi e Terra di Lavoro de' frumenti che nascono nel Capitanato, potevano ne' tempi sterili esserne facilmente quelle provincie ridotte in grandissima estremità, qualunque volta dagli spagnuoli fusse proibito loro il trarne della Puglia e della Sicilia: ma in contrario si allegava non potere il Capitanato appartenere a' franzesi, perché l'Abruzzi terminato ne' luoghi alti non si distende nelle pianure, e perché nelle differenze de' nomi e de' confini delle provincie si attende sempre all'uso presente. Sopra la quale altercazione erano stati contenti, l'anno dinanzi, di partire in parti eguali l'entrata della dogana; ma il seguente anno, non contenti alla medesima divisione, ne aveva ciascuno occupato il piú che aveva potuto. E si erano aggiunte poi nuove contenzioni, nutricate insino allora (cosí era la fama) piú per volontà de' capitani che per consentimento de' re: perché gli spagnuoli pretendevano che il Principato e Basilicata si includesse in Calavria, che si divide in due parti, Calavria citra e Calavria ultra cioè l'una di sopra l'altra di sotto, e che Val di Benevento che tenevano i franzesi fusse parte di Puglia; e però mandorono ufficiali a tenere la giustizia alla Tripalda vicina a due miglia ad Avellino, ove dimoravano gli ufficiali de' franzesi. I quali princípi di manifesta dissensione essendo molesti a' baroni principali del regno, si intromesseno tra Consalvo Ernandes e Luigi d'Ormignacca duca di Nemors viceré del re di Francia; ed essendo venuti, per opera loro, Luigi a Melfi e Consalvo a Atella, terra del principe di Melfi, dopo pratiche di qualche mese, nelle quali anche i due capitani parlorno insieme, non trovandosi tra loro forma di concordia, convennono aspettare la determinazione de' loro re, e che in questo mezzo non si innovasse cosa alcuna. Ma il viceré franzese, insuperbito perché era molto superiore di forze, avendo pochi dí poi fatta altra deliberazione, protestò la guerra a Consalvo in caso non rilasciasse subito il Capitanato, e dipoi immediate fece correre le genti sue alla Tripalda; dalla quale incursione, che fu fatta il decimonono dí del mese di giugno, ebbe principio la guerra: la quale continuamente proseguendo, cominciò senza rispetto a occupare per forza, nel Capitanato e altrove, le terre che si tenevano per gli spagnuoli. Le quali cose non solamente non furono emendate dal suo re ma, avendo già notizia che il re di Spagna era determinato a non gli cedere il Capitanato, voltato con tutto l'animo alla guerra, gli mandò in soccorso per mare dumila svizzeri, e fece condurre agli stipendi suoi i príncipi di Salerno e di Bisignano e alcuni altri de' principali baroni. Venne oltre a questo il re a Lione, per potere di luogo piú propinquo fare le provisioni necessarie all'acquisto di tutto il reame, al quale, non contento de' luoghi della differenza, già manifestamente aspirava, e con intenzione di passare, se bisognasse, in Italia.
Cap. viii
Ribellione di Arezzo a' fiorentini. I fiorentini sospettano della complicità del pontefice e del Valentino. Il re di Francia manda aiuti ai fiorentini e fa intimazioni perché non siano offesi.
Ma a questo fare piú prestamente lo costrinseno nuovi tumulti che sopravennono in Toscana, concitati da Vitellozzo, con saputa di Giampaolo Baglione e degli Orsini e con consiglio e autorità principalmente di Pandolfo Petrucci, desiderosi tutti che Piero de' Medici ritornasse nello stato di Firenze. Ebbe la cosa origine in questo modo: che essendo pervenuto a notizia di Guglielmo de' Pazzi, commissario fiorentino in Arezzo, che alcuni cittadini aretini si erano convenuti con Vitellozzo di fare ribellare a' fiorentini quella città, egli, non credendo che l'animo di tutti fusse corrotto e persuadendosi che la autorità del nome publico supplisse al mancamento delle forze, non aspettato di fare provisione sufficiente a opprimere i congiurati e chi gli volesse resistere, come in breve spazio di tempo poteva fare, fece subito incarcerare due de' consapevoli; per il che il popolo sollevato dagli altri congiurati, e per l'ordinario di sinistro animo contro al nome fiorentino, tumultuando ricuperò i due prigioni e fece prigione il commissario e gli altri ufficiali, e gridando per tutto Arezzo il nome della libertà si scoperse in manifesta ribellione; rimanendo sola la cittadella a divozione de' fiorentini, nella quale, nel principio del tumulto, si era rifuggito Cosimo vescovo di quella città, figliuolo del commissario. E dopo questo mandorno subitamente gli aretini a chiamare Vitellozzo, non contento che innanzi al tempo determinato da lui co' congiurati fusse succeduto questo accidente, perché non aveva ancora in ordine le provisioni disegnate per resistere alle genti de' fiorentini se, come era verisimile, fussino venute per entrare in Arezzo per la fortezza: per il quale timore, benché subito andasse ad Arezzo con la compagnia sua delle genti d'arme e con molti fanti comandati da Città di Castello, e che Giampaolo Baglioni gliene mandasse da Perugia e Pandolfo Petrucci gli porgesse segretamente qualche somma di danari, nondimeno, lasciatevi quelle genti, e dato ordine che attendessino a chiudere sollecitamente la cittadella acciocché di quella non si potesse entrare nella città, se ne ritornò a Città di Castello, sotto colore di andarvi per ritornare presto in Arezzo con maggiore provisione. Ma in Firenze, per quegli a' quali apparteneva il fare deliberazione per provedervi, non fu da principio considerato sufficientemente quanto importasse questo accidente. Perché avendo i cittadini principali, col consiglio de' quali solevano deliberarsi le cose importanti della republica, consigliato che subito le genti che erano a campo a Vico Pisano, in tal numero che movendosi con celerità non arebbeno avuto resistenza potente, si voltassino ad Arezzo, molti imperiti che risedevano ne' maggiori magistrati, vociferando questo essere caso leggiero e da potersi medicare con le forze degli altri sudditi vicini a quella città ma dimostrarsi il pericolo molto maggiore da coloro i quali, d'animo alieno dal presente governo, desideravano che Vico Pisano non si pigliasse, acciocché non si potesse quell'anno attendere alla ricuperazione di Pisa, differirono tanto il muovere delle genti che Vitellozzo, ripreso animo dalla loro tardità e già accresciuto di forze, ritornò in Arezzo; ove dopo lui andorno con altre genti Giampagolo Baglione e Fabio figliuolo di Pagolo Orsini, e il cardinale e Piero de' Medici. E avuto da Siena munizione per l'artiglieria cominciorno a battere la cittadella, nella quale, secondo l'uso di molti, piú solleciti a edificare nuove fortezze che diligenti a conservare le edificate, era mancamento di vettovaglie e dell'altre cose necessarie a difenderla; e oltre a questo la serrorono con fossi e argini dal lato di fuora, per proibire che non vi entrasse soccorso: in modo che quegli di dentro, mancando loro le cose necessarie, e sapendo che le genti de' fiorentini guidate da Ercole Bentivogli, venute finalmente a Quarata castello vicino ad Arezzo, non ardivano farsi piú innanzi, disperati di avere soccorso, per necessità si arrenderono, il quartodecimo dí dal dí della ribellione con patto che, salvi gli altri, il vescovo con otto eletti dagli aretini rimanessino prigioni, per permutargli con alcuni de' loro cittadini che erano stati incarcerati in Firenze. Disfeciono gli aretini popolarmente la cittadella; e le genti fiorentine, temendo che Vitellozzo e Giampagolo, già piú potenti di loro, non andassino ad assaltargli, si ritirorono a Montevarchi, lasciata facoltà agli inimici di pigliare tutte le terre circostanti. Credesi che questo assalto fusse fatto senza partecipazione del pontefice e del Valentino, a' quali sarebbe stato molesto il ritorno di Piero de' Medici in Firenze per la congiunzione sua con Vitellozzo e con gli Orsini, i quali aveano già nell'animo, ma occultamente, di opprimere; e nondimeno, avendo sempre dato loro speranza del contrario, consentirono che Vitellozzo, Giampagolo e Fabio, soldati suoi, proseguissino questa impresa: anzi non dissimulorono poi d'avere ricevuto della ribellione di Arezzo sommo piacere, sperando dalle molestie de' fiorentini potere facilmente succedere o che essi acquistassino qualche parte del dominio loro o costrignerli in beneficio proprio a qualche dura condizione. Ma a' fiorentini era difficile credere che essi non ne fussino stati autori; e però, spaventati tanto piú e confidando poco ne' rimedi che potessino fare da se medesimi, perché avevano per la mala disposizione della città poco numero di genti d'arme a' soldi loro, né era possibile provedersene tanto presto quanto sarebbe in pericolo cosí subito stato necessario, ricorsono con estrema diligenza agli aiuti del re di Francia, ricordandogli non solo quello che apparteneva all'onore suo, per essere egli obligatosi sí frescamente alla loro protezione, ma eziandio il pericolo imminente al ducato di Milano se il pontefice e il Valentino, per opera de' quali non era dubbio essere stato fatto questo movimento, riducessino in loro arbitrio le cose di Toscana. Trovarsi molto potenti in su l'armi e con esercito fiorito di capitani e di soldati eletti, e già apparire manifestamente che a saziare la loro infinita ambizione non era bastante né la Romagna né la Toscana ma essersi proposti fini vasti e smisurati; e poi che avevano offeso l'onore del re, assaltando quegli che erano sotto la sua protezione, costrignerli ora la necessità a pensare non meno alla sicurtà propria e a tôrre a lui la facoltà di vendicarsi di tanta ingiuria.
Commossono molto il re queste ragioni, già prima cominciato a infastidire della insolenza e ambizione del pontefice e del figliuolo; e, considerando essere cominciata nel regno di Napoli la guerra tra lui e i re di Spagna, interrotta la concordia trattata con Massimiliano, né potersi per molte cagioni confidare de' viniziani, cominciò a dubitare che lo insulto di Toscana non avesse, con occulto consiglio d'altri contro a sé, fini maggiori: nella quale dubitazione lo confermorono molto le lettere di Carlo di Ambuosa signore di Ciamonte, nipote del cardinale di Roano e luogotenente suo in tutto il ducato di Milano, il quale insospettito di questa novità lo confortava che al pericolo proprio sollecitamente provedesse. Però, deliberato di accelerare il passare in Italia e di non interporre tempo alcuno a sostenere le cose de' fiorentini, commesse al medesimo monsignore di Ciamonte che subito mandasse quattrocento lancie in soccorso loro: e mandò subito in poste Normandia suo araldo a comandare non solamente a Vitellozzo a Giampagolo a Pandolfo e agli Orsini ma similmente al duca Valentino, che desistessino dalle offese de' fiorentini, e del medesimo fece egli stesso grande instanza con l'oratore del pontefice, e minacciò con parole molto ingiuriose Giuliano de' Medici e gli agenti per Pandolfo e per Vitellozzo che erano nella sua corte.
Cap. ix
Il Valentino s'impadronisce del ducato di Urbino. Vitellozzo Vitelli occupa alcune terre de' fiorentini. Timori del Baglione di Vitellozzo del Petrucci e degli Orsini per il procedere del Valentino. Vitellozzo cede Arezzo a' francesi che la consegnano ai fiorentini. Il gonfaloniere di giustizia a vita in Firenze.
Ma in questo tempo il Valentino, che dopo il caso di Arezzo era uscito con l'esercito di Roma, simulando di volere attendere alla espugnazione di Camerino, ove aveva prima mandato a dare il guasto e a tenerlo assediato il duca di Gravina e Liverotto da Fermo con parte delle sue genti, ma in verità intento ad acquistare con insidie il ducato di Urbino, poiché ebbe raccolto il resto dello esercito ne' confini di Perugia, dimandò a Guidobaldo duca di Urbino artiglierie e aiuto di genti; il che gli fu conceduto facilmente, perché a principe che avea l'armi tanto vicine non era sicuro il negare, e perché avendo prima composte col pontefice alcune differenze de' censi non avea cagione di temerne: e cosí, rendutolo manco sufficiente a difendersi partito subito da Nocera, e camminando con tanta celerità che non che altro non dette nel cammino spazio alle sue genti di cibarsi, si condusse il dí medesimo a Cagli, città del ducato di Urbino. La quale subita sua venuta, e il trovarsi sproveduti, spaventò tanto ciascuno che il duca con Francesco Maria dalla Rovere prefetto di Roma suo nipote, avuto con difficoltà spazio di salvarsi, se ne fuggirono: di maniera che, dalla rocca di San Leo e di Maiuolo in fuora, conseguí in poche ore tutto quello stato, con grandissimo dolore e terrore di Pandolfo Petrucci di Vitellozzo e degli Orsini, i quali per il male d'altri cominciavano chiaramente a conoscere il pericolo proprio.
Acquistato il ducato di Urbino furono vari i suoi pensieri, o di volgersi a ultimare la impresa di Camerino o di assaltare scopertamente i fiorentini, alla qual cosa sarebbe stato inclinato con tutto l'animo se non l'avesse ritenuto il comandamento già avuto dal re, e l'essere certificato che 'l re, non ostante qualunque opera fatta dal pontefice perché non si opponesse a questi moti, mandava le genti d'arme in favore de' fiorentini, disposto in tutto a difendergli, e, quel che piú lo moveva, che il re passava personalmente in Italia. Nella quale ambiguità mentre che sta, fermatosi in Urbino per prendere giornalmente consiglio da quel che succedeva, si trattavano nel tempo medesimo per il pontefice e per lui varie cose co' fiorentini, sperando indurgli a qualche loro desiderio; e da altra parte permetteva che continuamente de' suoi soldati andassino nel campo di Vitellozzo. Il quale, avendo insieme ottocento cavalli e tremila fanti e, perché le cose procedessino con maggiore estimazione, chiamando l'esercito suo esercito ecclesiastico, aveva, dopo che si era arrenduta la cittadella di Arezzo, occupato il Monte a San Sovino, Castiglione Aretino e la città di Cortona, con tutte l'altre terre e castella di Valdichiana; delle quali niuna aveva aspettato l'assalto, non vedendo pronti gli aiuti de' fiorentini, e perché essendo il tempo della ricolta non volevano perdere le loro entrate, e si scusavano non per questo ribellarsi da' fiorentini, poiché nello esercito era Piero de' Medici per la restituzione del quale si publicava essere fatta questa impresa. Né è dubbio, che se dopo l'acquisto di Cortona Vitellozzo fusse sollecitamente entrato nel Casentino, che in potestà sua sarebbe stato di andare insino alle mura di Firenze, non vi essendo ancora giunte le genti de' franzesi, e dissipata la maggiore parte delle fanterie de' fiorentini perché, essendo quasi tutte delle terre perdute, se ne erano ritornate alle case loro. Ma la cupidità di acquistare per sé il Borgo a San Sepolcro, terra propinqua a Città di Castello (benché per velarla allegasse non essere sicuro lasciarsi dietro alle spalle terra alcuna degli inimici), impedí il migliore consiglio; e però si voltò ad Anghiari, la quale terra, poiché, sola in questa costanza, ebbe aspettato che vi fussino piantate l'artiglierie, impotente del tutto a difendersi, si arrendé con alcuni soldati che vi erano, senza alcuna eccezione, all'arbitrio suo. Avuto Anghiari, ottenne subito il Borgo a San Sepolcro per accordo, e dipoi ritornò verso il Casentino; e giunto alla villa di Rassina, mandò uno trombetto a dimandare la terra di Poppi, nella quale, forte di sito, erano dentro pochi soldati.
Ma la riputazione dell'armi franzesi operò quel che ancora non erano bastanti a operare le forze loro. Perché essendo già condotte presso a Firenze sotto il capitano Imbalt dugento lancie, non avendo ardire per mancamento di fanti di accostarsi agli inimici, erano andate a castel San Giovanni nel Valdarno con intenzione che in quel luogo si unissino tutte le genti; ma Vitellozzo, come ebbe intesa la mossa loro verso il Valdarno, temendo per l'assenza sua alle cose di Arezzo, si ritirò con grandissima prestezza dalla Vernia alla collina di Ciciliano presso a due miglia a Quarata, e dipoi fattosi piú innanzi tre miglia, per mostrare animo e assicurare Rondine e altri luoghi circostanti, si pose in forte alloggiamento a canto a Rondine, lasciati alcuni fanti a guardia di Gargonsa e di Civitella, che erano le porte onde le genti de' fiorentini potevano entrare nel paese. Le quali, essendo arrivate già sotto il capitano Lancre dugento altre lancie, si congregavano tra Montevarchi e Laterina, con intenzione, come avessino messo insieme tremila fanti, di andare ad alloggiarsi appresso a Vitellozzo in su qualche colle eminente; il che egli non volendo aspettare, perché né arebbe potuto dimorarvi né levarsene senza grandissimo pericolo, si ritirò alle mura di Arezzo. Ma essendo usciti i franzesi con tutto l'esercito in campagna e postisi a fronte di Quarata, si ritirò dentro in Arezzo; e ancora che sempre avesse detto di volere fare in quella città una difesa memorabile, fu necessitato, sopravenendo nuovi casi, a fare nuovi pensieri. Perché Giampaolo Baglione si era ritirato in Perugia con le sue genti, temendo per l'esempio di Urbino delle cose proprie: per il quale esempio, né meno per quello che succedette di Camerino, erano molto confusi gli animi di Vitellozzo di Pandolfo Petrucci e degli Orsini; perché il Valentino, mentre trattava accordo con Giulio da Varano signore di Camerino, conseguitò con inganni quella città, ed essendo Giulio con due figliuoli venuto in potestà sua, gli fece, con la medesima immanità che usava contro agli altri, strangolare.
Ma quel che a Vitellozzo e agli altri dava maggiore terrore era che 'l re di Francia, arrivato già in Asti, mandava Luigi della Tramoglia in Toscana con dugento lancie e con molte artiglierie; il quale già condotto a Parma aspettava quivi tremila svizzeri mandati dal re per la recuperazione d'Arezzo, a spese de' fiorentini. Perché il re, commosso maravigliosamente contro al pontefice, aveva nell'animo di spogliare Valentino della Romagna e degli altri stati i quali aveva occupati; e a questo effetto avendo chiamati a sé tutti quegli che o temevano della potenza sua o erano stati offesi da lui, affermava volervi andare in persona, dicendo publicamente con grande ardore che era impresa sí pietosa e sí santa che né piú pietosa né piú santa sarebbe la impresa contro a' turchi: disegnando oltre a questo, nel tempo medesimo, cacciare di Siena Pandolfo Petrucci, perché a Lodovico Sforza quando ritornò a Milano avea mandato danari, e dipoi sempre fatto aperta professione di aderire a Cesare. Ma il pontefice e il Valentino, conoscendo non potere resistere a sí grave tempesta, si aiutavano con le loro arti; scusando il movimento d'Arezzo essere stato fatto da Vitellozzo senza saputa loro, né essere stati di autorità bastante a ritirarlo né a fare che gli Orsini e Giampagolo Baglione, benché soldati suoi, mossi dagli interessi propri, si astenessino da dargli aiuto. Anzi, per mitigare piú l'animo del re, aveva Valentino mandato a minacciare Vitellozzo che se non abbandonava subito Arezzo e l'altre terre de' fiorentini gli andrebbe contro con le sue genti. Per le quali cose spaventato Vitellozzo, e temendo che, come accade quasi sempre, riconciliatisi tra loro i piú potenti, lo sdegno del re non si volgesse contro a sé, manco potente, chiamato in Arezzo il capitano Imbalt, invano contradicendo i fiorentini i quali volevano che le terre perdute fussino restituite loro subito liberamente, convenne: che Vitellozzo, partendosi incontinente con le sue genti, consegnasse Arezzo e tutte l'altre terre a' capitani franzesi per tenerle in nome del re, insino a tanto che il cardinale Orsino che andava al re avesse parlato con lui; e che in questo mezzo non entrasse in Arezzo altra gente che uno de' capitani franzesi con quaranta cavalli, per sicurtà del quale, e non meno della osservanza delle promesse, Vitellozzo desse a Imbalt due suoi nipoti per statichi. Ma fatto l'accordo se ne andò subito con tutte le genti e artiglierie che erano in Arezzo, lasciando libera a' franzesi la possessione di tutte le terre; le quali per commissione del re furono subito restituite a' fiorentini, verificandosi quel che, mentre si trattava la concordia, aveva, non senza derisione, alle querele loro risposto Imbalt: non sapere dove si consistesse lo ingegno tanto celebrato de' fiorentini, che non conoscessino che, per assicurarsi subito della vittoria senza difficoltà e senza spesa, e per fuggire il pericolo de' disordini i quali per la natura de' franzesi potrebbono nascere per mancamento delle vettovaglie o per altre cagioni, aveano da desiderare che Arezzo in qualunque modo venisse in mano del re; il quale non sarebbe obligato a attendere piú che gli paresse le promesse fatte da' suoi capitani a Vitellozzo.
E cosí, essendo liberati con facilità grande, benché con non piccola spesa, da sí grave e improviso assalto, dirizzorono l'animo a riordinare il governo della republica, per la confusione e per i disordini del quale essere nato tanto pericolo era per l'esperienza manifesto già insino alla moltitudine; perché per la spessa mutazione de' magistrati, e per essere il nome de' pochi sospetto al popolo, non erano né persone publiche né particolari che tenessino cura assidua delle cose. Ma perché la città quasi tutta aborriva la tirannide e alla moltitudine era sospettissima l'autorità degli ottimati, né era possibile ordinare con una medesima deliberazione la forma perfetta del governo, non si potendo convincere gli uomini incapaci solamente con le ragioni, fu deliberato di introdurre per allora di nuovo una cosa sola, cioè che il gonfaloniere della giustizia, capo della signoria e che insieme con quella si creava per tempo di due mesi, si eleggesse in futuro per tutta la vita sua, acciò che con pensieri perpetui vegghiasse e procurasse le cose publiche in modo che per essere neglette non cadessino piú in tanti pericoli. E si sperò che, con l'autorità che gli darebbe la qualità della sua persona e l'avere a stare perpetuo in tanta degnità, acquisterebbe tale fede appresso al popolo che facilmente potrebbe riordinare alla giornata l'altre parti del governo; e mettendo in qualche onesto grado i cittadini di maggiore condizione, costituirebbe uno mezzo tra se medesimo e la moltitudine, per il quale, temperandosi la imperizia e la licenza popolare e raffrenandosi chi succedesse a lui in quella degnità, se volesse arrogarsi troppo, si stabilirebbe uno reggimento prudente e onorato, con molte circostanze da tenere concorde la città. Dopo la quale deliberazione fu nel consiglio maggiore, con concorso e consenso grande de' cittadini, eletto gonfaloniere Piero Soderini, uomo di matura età di sufficienti ricchezze di stirpe nobile e di fama di essere integro e continente, e che nelle cose publiche si era molto affaticato, ed era senza figliuoli, il che, per non dare occasione a chi fusse eletto di pensare a cose maggiori, era assai considerato.
Cap. x
Omaggi di príncipi e di governi al re di Francia in Asti. Il re di Francia, contro l'aspettazione di tutti, riceve onorevolmente a Milano il Valentino. Vicende della guerra nel reame di Napoli. Il re delibera inopportunamente di ritornare in Francia. Sorpresa per gli accordi conclusi fra il re ed il Valentino.
Ma, per ritornare alle cose comuni, al re di Francia come fu giunto in Asti concorsono, secondo il consueto, tutti i príncipi e tutte le città libere di Italia, chi in persona chi per imbasciadori; tra' quali il duca di Ferrara e il marchese di Mantova, benché questo né confidato né molto accetto, e Batista cardinale Orsino, andatovi contro alla volontà del pontefice per giustificare i suoi e Vitellozzo delle cose di Arezzo, e per incitare il re contro al pontefice e al Valentino; contro a' quali, atteso l'ardore dimostrato prima dal re, si aspettava con sommo desiderio di tutta Italia che l'armi franzesi si movessino. Ma l'esperienza dimostra essere verissimo che rare volte succede quel che è desiderato da molti; perché dipendendo comunemente gli effetti delle azioni umane dalla volontà di pochi, ed essendo l'intenzioni e i fini di questi quasi sempre molto diversi dall'intenzioni e da' fini de' molti, possono difficilmente succedere le cose altrimenti che secondo la intenzione di coloro che danno loro il moto. Cosí intervenne in questo caso, nel quale gli interessi e fini particolari indussono il re a deliberazione contraria al desiderio universale. Mosse il re non tanto la diligenza del pontefice, il quale non cessò mai, mandandogli spesso uomini propri, di cercare di mitigare l'animo suo, quanto il consiglio del cardinale di Roano, desideroso, come sempre era stato, di conservare l'amicizia tra il pontefice e il re; inducendolo a questo forse, oltre all'utilità del re, in qualche parte l'utilità particolare: perché e dal pontefice gli fu prorogata la legazione di Francia per diciotto mesi, e perché, attendendo sollecitamente a farsi fondamenti per ascendere al pontificato, voleva potere ottenere da lui promozione di parenti e dependenti da sé al cardinalato. E giudicava servirgli alla medesima intenzione l'avere fama di amatore e di protettore dello stato ecclesiastico.
Concorrevano le condizioni de' tempi presenti a indurre piú facilmente il re in questa sentenza. Conciossiaché e di Cesare avesse sospetto, il quale non quietando l'animo aveva mandato di nuovo a Trento molti cavalli e certo numero di fanti, e faceva offerte grandi al pontefice per essere aiutato da lui a passare in Italia per la corona dello imperio; ed era ogni suo moto in maggiore considerazione perché sapeva il re essere molesto a' viniziani che in mano sua fusse il ducato di Milano e il regno di Napoli. Aggiugnevasi l'essere in discordia co' quattro cantoni de' svizzeri che dimandavano la cessione delle ragioni di Bellinzone e che oltre a questo desse loro Vallevoltolina, Scafusa, e altre cose immoderate; minacciando altrimenti di accordarsi con Massimiliano. Le quali difficoltà faceva piú gravi l'essere allora escluso di ogni speranza di composizione col re di Spagna; perché se bene quel re gli avea proposta la restituzione del re Federico a quello reame, e perciò egli l'avesse condotto seco in Italia, e si fusse anche trattato di fare tregua per certo tempo ritenendo ciascuno quello possedeva, nondimeno l'una e l'altra pratica ebbe tante difficoltà che il re di Francia, con grandissima indegnazione, licenziò gli oratori spagnuoli dalla sua corte. Per le quali cagioni, avendogli il pontefice ultimatamente mandato Troccies cameriere suo confidatissimo, e promettendogli Valentino ed egli di aiutarlo quanto potessino nella guerra napoletana, si dispose di continuare nell'amicizia del pontefice; e però, come Troccies fu ritornato a Roma, il Valentino, in sulla relazione fatta da lui, montato secretamente in sulle poste andò al re, che era venuto a Milano: da cui, contro all'espettazione e con gravissimo dispiacere di tutti, fu ricevuto con eccessive carezze e onori. Onde, non gli essendo piú necessarie le genti che aveva in Toscana, le richiamò in Lombardia; avendo prima ricevuto nella sua protezione i sanesi e Pandolfo Petrucci, con condizione che, parte di presente parte in certi tempi, gli pagassino quarantamila ducati. -
Raffreddoronsi poi prestamente i movimenti di Massimiliano, in modo che al re rimaneva quasi solo il pensiero delle cose di Napoli. E queste pareva che succedessino insino allora prosperamente, e si sperava per l'avvenire maggiore prosperità, avendovi il re, subito che giunse in Italia, mandati di nuovo per mare dumila svizzeri e piú di dumila guasconi; i quali uniti col viceré, che già aveva, eccetto Manfredonia e Santo Angelo, occupato tutto il Capitanato, si accamporono a Canosa, guardata da Pietro Navarra con seicento fanti spagnuoli: il quale, poiché per molti dí si fu difeso egregiamente, commettendogli Consalvo, perché non si perdessino quegli fanti, che non aspettasse gli ultimi pericoli, arrendé la terra a' franzesi, salve le robe e le persone. Donde, non si tenendo piú né in Puglia né in Calavria né nel Capitanato terra alcuna per gli spagnuoli eccetto le sopradette, e Barletta, Dati, Andria, Galipoli, Taranto, Cosenza, Ghiarace, Seminara e poche altre vicine al mare, e trovandosi molto inferiori di gente, Consalvo si ridusse con l'esercito in Barletta, senza danari, con poca vettovaglia e carestia di munizioni; benché a questo fu alquanto sollevato per tacito consenso del senato viniziano, il quale non proibí che in Vinegia facesse comperare molti salnitri: di che querelandosi il re di Francia, rispondevano essere stato fatto senza saputa loro da mercatanti privati, e che in Vinegia, città libera, non era stato mai vietato ad alcuno che non esercitasse le sue negoziazioni e i suoi commerci.
Presa Canosa, i capitani franzesi, allegando che per molte cagioni, massime per carestia di acqua, non si poteva fermarsi con tutto l'esercito intorno a Barletta (benché, come molti affermano, contro al consiglio e i protesti di Obigní) deliberorno che le genti, le quali era fama che fussino mille dugento lancie e diecimila fanti tra italiani e oltramontani, rimanendone una parte ad assedio largo intorno a Barletta, l'altre attendessino alla recuperazione del resto del reame: cosa che, come molti hanno creduto, aggiunta alla negligenza de' franzesi, dette alle cose loro grandissimo nocumento. Dopo la quale deliberazione il viceré si insignorí di tutta la Puglia, eccetto Taranto Otranto e Galipoli; benché scorrendo insino in sulle porte di Taranto fu morto di uno colpo di artiglieria monsignore della Banda, capitano di quaranta lancie. Dopo il quale successo ritornò all'assedio di Barletta. E nel tempo medesimo Obigní, entrato in Calavria con l'altra parte dell'esercito, prese e saccheggiò la città di Cosenza, rimanendo la rocca in potere degli spagnuoli; e dipoi, essendosi uniti tutti gli spagnuoli di quella provincia con altre genti venute di Sicilia, venuto con loro alle mani gli ruppe. Queste prosperità, o sopravenute tutte o già nel corso di succedere mentre che il re era in Italia, non solo lo feceno negligente a continuare le debite provisioni, nelle quali continuando sollecitamente arebbe facilmente cacciato gli inimici di tutto il regno, ma gli rimossono ogni dubitazione di ritornarsene in Francia; tanto piú che già sperava d'ottenere, come poco dipoi ottenne, tregua lunga dal re de' romani.
Ma nella partita sua di Italia cominciò, con somma ammirazione universale, a venire a luce quel che aveva trattato col duca Valentino; il quale, ammessagli la giustificazione delle cose di Arezzo, non solo avea ricevuto in grazia ma, ricevuta promissione e fede dal pontefice e da lui di aiutarlo, quando gli fusse di bisogno, nella guerra del regno di Napoli, gli aveva all'incontro promesso di concedergli trecento lancie per aiutarlo ad acquistare, in nome della Chiesa, Bologna e opprimere Giampaolo Baglioni e Vitellozzo: movendolo a favorire cosí immoderatamente la grandezza del pontefice o perché imprudentemente si persuadesse averselo a fare con tanti benefici sinceramente amico, e, stante questa congiunzione, niuno dovere ardire di tentare contro a lui in Italia cose nuove, o perché non tanto confidasse della sua amicizia quanto temesse della inimicizia. E si aggiugneva che contro a Giampaolo, Vitellozzo e gli Orsini aveva sdegno particolare, perché tutti aveano disprezzato i comandamenti suoi di levarsi dalle offese de' fiorentini; e Vitellozzo specialmente avea recusato l'artiglierie occupate in Arezzo, e oltre a questo, avendogli dimandato salvocondotto per andare sicuramente a lui e ottenutolo, aveva poi recusato di andarvi. Né reputava il re essere inutile alle cose sue che i capitani italiani fussino oppressi: senza che, o per l'astuzia del pontefice e del Valentino o per persuasioni di altri, avea cominciato a temere che questi medesimi e gli Orsini non aderissino finalmente e seguitassino gli stipendii de' re di Spagna.
Cap. xi
Timori di príncipi e di governi per il ritorno del Valentino in Romagna. Giustifica tali timori il contegno del re di Francia specialmente verso il Bentivoglio. Inutili rimostranze di Venezia al re. Confederazione contro il Valentino. Arti del pontefice e del Valentino per disunire i collegati. Colloquio del Valentino con Paolo Orsini. Accordi fra il Valentino e Paolo Orsini e fra il Valentino e il Bentivoglio. Le genti del Valentino prendono Sinigaglia. Vitellozzo Vitelli e Liverotto da Fermo fatti strangolare dal Valentino. Lodovico e Federico de' Pichi spogliano del potere il fratello Giovan Francesco.
Ritornò adunque il Valentino, licenziato in Asti dal re, in Romagna, con tutto che prima avesse dato speranza, a quegli che temeano di lui, di condurlo seco per sicurtà comune in Francia. La cui ritornata commosse non solamente gli animi di coloro contro a' quali si indirizzava il suo primo impeto ma eziandio di molti altri: perché il medesimo timore avevano Pandolfo Petrucci e gli Orsini, congiunti quasi nella medesima causa con Vitellozzo e con Giampaolo Baglione; e al duca di Ferrara dava maggiore spavento la perfidia e l'ambizione sua e del padre che non dava confidenza il parentado; e i fiorentini, ancora che avessino ricuperato le terre col favore del re, stavano con molto timore trovandosi poco proveduti di gente d'arme, perché il re, non confidandosi interamente del marchese di Mantova per la dependenza che avea avuta, quando temeva le sue armi, con lo imperadore, benché a Milano l'avesse ricevuto in grazia, non aveva consentito lo conducessino per loro capitano generale; e conoscevano [per] molti segni che avessino la consueta volontà contro a di loro, e specialmente perché, per tenergli in continuo sospetto, ricettavano ne' luoghi vicini tutti i fuorusciti di Arezzo e di quell'altre terre.
Accresceva il timore di tutti questi il considerare quanto con l'armi co' danari e con l'autorità fussino potenti tali inimici, quanto in tutte le cose loro si dimostrasse propizia la fortuna, e che per tanti acquisti non si era moderata in parte alcuna la loro cupidità, anzi, come se al fuoco fussino somministrati continuamente nuovi alimenti, era diventata immoderata e infinita. Temevasi che essi, conoscendo quanto rispetto avesse loro il re di Francia, non pigliassino animo a tentare qualunque cosa, eziandio contro alla sua volontà; e già dicevano il padre e il figliuolo, palesemente, pentirsi de' troppi rispetti e dubitazioni che avevano avute nelle cose d'Arezzo, affermando che 'l re, secondo la natura de' franzesi, e i mezzi potenti che avevano nella sua corte, tollererebbe sempre le cose fatte benché gli fussino moleste. Né assicurava alcuno di questi che temevano, l'essere il re obligato alla sua protezione; perché erano freschi gli esempli che aveva permesso che sotto quella fusse spogliato il signore di Piombino, né risentitosi che il medesimo fusse accaduto al duca d'Urbino, accettatovi da lui quando mandò l'esercito a Napoli, perché dette in servigio suo cinquanta uomini d'arme. Ma piú presente e piú tremendo era l'esempio di Giovanni Bentivogli; perché, con tutto che il re avesse ne' prossimi anni comandato al Valentino che non molestasse Bologna, allegando che le obligazioni che aveva col pontefice non si intendevano se non per le preeminenze e autorità le quali, nel tempo che si confederorno insieme, vi possedeva la Chiesa, nondimeno in questo tempo, ricercandolo il Bentivoglio di aiuto per le preparazioni che si facevano contro a lui, variando la interpretazione delle parole secondo la varietà de' fini suoi, e commentando le capitolazioni fatte piú tosto come giurisconsulto che come re, rispondeva che la protezione per la quale si era obligato a difenderlo non impediva la impresa del pontefice se non per la persona e beni suoi particolari; perché, se bene le parole erano generali, vi era specificato che la si intendesse senza pregiudicio delle ragioni della Chiesa, alla quale niuno negava appartenere la città di Bologna; e perché nella confederazione che aveva fatta col pontefice, anteriore di tempo a tutte quelle che aveva fatte in Italia, si era obligato, in qualunque convenzione facesse per l'avvenire con altri, eccettuare sempre ch'elle non si intendessino in pregiudicio delle ragioni della Chiesa. Nella quale deliberazione perseverò in modo senza vergogna che, confortandolo a cosí fare il cardinale di Roano, contro al parere di tutti gli altri del suo consiglio, mandò a Bologna uno uomo proprio a intimare che, essendo quella città appartenente alla Chiesa, non poteva mancare di non favorire la impresa del pontefice, e che per virtú della sua protezione sarebbe lecito a' Bentivogli abitare privatamente in Bologna e godersi le loro sostanze.
Né solamente a tutti questi, ma insino a' viniziani, cominciava a essere sospetta tanta prosperità del duca Valentino; sdegnati eziandio che pochi mesi innanzi, dimostrando essere in piccola estimazione appresso a lui l'autorità di quel senato, aveva fatto rapire la moglie di Giovambattista Caracciolo capitano generale delle loro fanterie, la quale, andando da Urbino a congiugnersi col marito, passava per la Romagna. Però, per dare causa al re di procedere piú moderatamente a' suoi favori, dimostrando di muoversi come amici e gelosi dell'onore suo, gli ricordorono per gli oratori loro, con parole degne della gravità di tanta republica, che considerasse di quanto carico gli fusse il dare tanto favore al Valentino, e quanto poco convenisse allo splendore della casa di Francia e al cognome tanto glorioso di re cristianissimo favorire uno tiranno tale, distruttore de' popoli e delle provincie e sitibondo sí immoderatamente del sangue umano, ed esempio a tutto il mondo di orribile immanità e perfidia; dal quale, come da publico ladrone, erano stati ammazzati sí crudelmente sotto la fede tanti nobili e signori, e che non si astenendo ancora dal sangue de' fratelli e de' congiunti, ora con ferro ora con veleno, avesse incrudelito nelle età miserabili eziandio alla barbarie de' turchi. Alle quali parole il re, confermandosi forse piú nella sentenza sua per la intercessione de' viniziani, rispondeva non volere né dovere impedire il pontefice che non disponesse ad arbitrio suo delle terre che appartenevano alla Chiesa. In modo che, astenendosi gli altri per rispetto suo da opporsi all'armi del Valentino, quegli che erano già prossimi allo incendio deliberorono provedervi per loro medesimi. Però gli Orsini, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, con tutto che come soldati del Valentino, il quale simulava di volere muovere l'armi solamente contro a Bologna, avessino ricevuto di nuovo danari da lui, ritirorno le genti delle loro condotte in luoghi sicuri, con intenzione di unirsi insieme per la difesa comune. Alla qual cosa gli fece accelerare la perdita della fortezza di Santo Leo, la quale per trattato di uno del paese, proposto quivi a certa muraglia, ritornò in potestà di Guido duca di Urbino; e da questo principio, richiamandolo quasi tutti i popoli di quello stato, egli, andato da Vinegia, dove era rifuggito, per mare a Sinigaglia, ricuperò subito, dalle fortezze in fuora, tutto il ducato.
Congregornosi adunque alla Magione, in quel di Perugia, il cardinale Orsino (il quale dopo la partita del re, temendo di ritornare a Roma, si era stato a Monteritondo), Pagolo Orsino, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, e per Giovanni Bentivogli Ermes suo figliuolo, e in nome de' sanesi Antonio da Venafro ministro confidentissimo di Pandolfo Petrucci; dove, discorsi i pericoli loro sí evidenti, e l'opportunità che avevano per la ribellione dello stato d'Urbino e perché al Valentino abbandonato da loro restavano pochissime genti, feciono confederazione a difesa comune e a offesa di Valentino e a soccorso del duca d'Urbino, obligandosi a mettere tra tutti in campo settecento uomini d'arme e novemila fanti, con patto che il Bentivoglio rompesse la guerra nel territorio d'Imola, e gli altri con maggiore sforzo procedessino verso Rimini e verso Pesero. Nella quale confederazione, avendo grandissimo rispetto a non irritare l'animo del re di Francia, e sperando che forse non gli sarebbe molesto che il Valentino fusse travagliato con l'armi di altri, espressono volere essere obligati a muoversi prontamente con le persone proprie e con le genti a sua requisizione contro a ciascuno; e per la medesima cagione non ammessono in questa unione i Colonnesi, ancora che tanto inimici e perseguitati dal pontefice. Ricercorono oltre a questo il favore de' viniziani e de' fiorentini, offerendo a questi la restituzione di Pisa, la quale dicevano essere in arbitrio di Pandolfo Petrucci per la autorità che avea co' pisani; ma i viniziani stetteno sospesi aspettando di vedere prima la inclinazione del re di Francia, e i fiorentini ancora, per la medesima cagione e perché avendo l'una parte e l'altra per inimici temevano della vittoria di ciascuno.
Sopravenne questo accidente improviso al duca Valentino, in tempo che tutto attento a occupare gli stati altrui niente meno pensava che all'essere assaltati gli stati suoi. Ma non perduto per la grandezza del pericolo né l'animo né 'l consiglio, e confidando sommamente, come diceva, nella sua prospera fortuna, attese con somma industria e prudenza a' rimedi opportuni. Principalmente trovandosi quasi disarmato, mandò senza dilazione a domandare con grande instanza aiuto al re di Francia, ricordandogli quanto in ogni caso potesse valersi piú del pontefice e di lui che degli inimici suoi, e quanto poco potesse confidarsi di Vitellozzo e di Pandolfo, che era principale capo e consultore di tutti gli altri, e che prima aveva aiutato il duca di Milano contro a lui e dipoi sempre avuta dependenza dal re de' romani; e nondimeno attendeva sollecitamente a provedersi di nuove genti, non dimenticando però né 'l padre né egli l'insidie e l'arti fraudolente: perché il pontefice, ora scusando le cose palesi ora negando le dubbie, cercava con grandissima diligenza di mitigare l'animo del cardinale Orsino, per mezzo di Giulio suo fratello; e il Valentino, con varie lusinghe e promesse, si ingegnava di placare e assicurare ora l'uno ora l'altro di essi, cosí per fargli piú negligenti alle provisioni come per speranza che queste pratiche separate avessino a generare tra loro sospetto e disunione; deliberato, insino non avesse esercito potente, non si partire da Imola ma attendere a guardare l'altre terre, non dando soccorso alcuno al ducato d'Urbino. Per il che comandò a don Ugo di Cardona e don Michele uomini suoi, che erano in quegli confini con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, che si ritirassino a Rimini: il che non eseguirono, per l'occasione che si presentò loro di ricuperare e saccheggiare la Pergola e Fossombrone, dove furono introdotti da' castellani delle fortezze. Ma l'effetto dimostrò quanto sarebbe stato piú utile seguitare la deliberazione del duca; perché andando verso Cagli scontrorono appresso a Fossombrone Pagolo e il duca di Gravina, tutti due della famiglia Orsina, co' quali erano seicento fanti di Vitellozzo, ed essendo venuti alle mani restorno rotti quegli di Valentino con morte di molti e molti prigioni; tra' quali fu morto Bartolomeo da Capranica capitano di settanta uomini d'arme, e preso don Ugo di Cardona. Rifuggissi don Michele a Fano, onde per commissione di Valentino si ritirò a Pesero, lasciata Fano, come terra piú fedele, in potestà del popolo, poi che non avea tante forze che potesse difenderle amendue. E in questi dí medesimi le genti de' bolognesi, che erano alloggiate a Castel San Piero, corseno a Doccia luogo vicino a Imola: e si riducevano certamente le cose del Valentino in molto pericolo se i collegati avessino usato piú prestezza a offenderlo.
Ma mentre che loro, o per non essere a ordine con le genti convenute nella dieta o tenuti sospesi dalle pratiche della concordia, guardano nel volto l'uno l'altro, cominciò a passare l'occasione che prima si era dimostrata favorevole; perché il re di Francia aveva commesso a Ciamonte che mandasse quattrocento lancie al Valentino, e si ingegnasse con tutti i modi possibili dare riputazione alle cose sue: il che come fu inteso da' collegati, trovandosi molto confusi, cominciò ciascuno a pensare alle cose proprie. Però il cardinale Orsino continuava le pratiche cominciate col pontefice, e Antonio da Venafro mandato da Pandolfo Petrucci andò a Imola a trattare col Valentino; col quale trattava medesimamente Giovanni Bentivogli, avendo nel tempo medesimo mandato Carlo degli Ingrati oratore al pontefice e fatte restituire le cose predate a Doccia. Le quali pratiche essendo con sommo artificio aiutate e nutrite dal Valentino, e giudicando Pagolo Orsino dovere essere mezzo opportuno a disporre gli altri, simulando di confidare molto in lui, lo chiamò a Imola: per sicurtà del quale il cardinale Borgia andò nelle terre degli Orsini. Con Pagolo usò il Valentino dolcissime parole, lamentandosi non tanto di lui e degli altri, che avendolo insino a quel dí servito con tanta fede si fussino per sospetti vani alienati sí leggiermente da sé, quanto della imprudenza propria, non avendo saputo procedere di maniera che avesse data loro causa di non ammettere queste vane dubitazioni; ma sperare che questa diffidenza, nata al tutto senza cagione, in luogo di inimicizia partorirebbe tra sé e loro perpetua e indissolubile congiunzione: perché ed essi già si dovevano accorgere che non potevano opprimerlo, poiché il re di Francia era tanto disposto a sostenere la sua grandezza, ed egli da altra parte, avendo meglio aperti gli occhi per la esperienza di questo moto, confessava ingenuamente di conoscere che dai consigli e dal valore dell'armi loro era proceduta tutta la sua felicità e riputazione. Però, desiderosissimo di ritornare nell'antica fede con loro, essere parato ad assicurargli in qualunque modo volessino, e a finire, purché con qualche sua degnità, le controversie co' bolognesi ad arbitrio loro. Aggiunse, a quello che apparteneva a tutti, dimostrazione d'avere confidenza grandissima in Pagolo, empiendolo di speranze e di promesse per sé proprio, e con tanto artificio che facilmente gli persuase tutto quello che si esprimeva per lui, efficace molto per natura nelle parole e prontissimo di ingegno.
Le quali cose mentre che si trattavano, il popolo di Camerino richiamò Giovanmaria da Varano figliuolo del signore passato, che era all'Aquila, e Vitellozzo, con grave querela sua e di Pagolo Orsino, prese la rocca di Fossombrone; ed essendo similmente perduta la fortezza d'Urbino e poi quelle di Cagli e di Agobbio, non gli rimaneva in quello stato altro che Santa Agata, oltre ad avere perduto tutto il contado di Fano. E nondimeno Pagolo, continuando la pratica cominciata, poiché piú volte per dare forma alle cose de' Bentivogli parenti suoi (era la figliuola maritata a Ermes figliuolo di Giovanni) fu andato da Imola a Bologna, convenne seco in questa sentenza, ma con condizione se la convenzione fusse approvata dal cardinale Orsino, all'autorità del quale quasi tutti gli altri si riferivano. Cancellassinsi gli odii conceputi e la memoria di tutte le ingiurie passate; confermassinsi a' collegati l'antiche condotte, con obligazione di andare come soldati del Valentino alla recuperazione del ducato di Urbino e degli altri stati ribellati, ma per sicurtà loro non fussino obligati ad andare a servirlo personalmente se non uno per volta, né il cardinale Orsino obligato a stare in corte di Roma; e che delle cose di Bologna si facesse compromesso libero nel duca Valentino nel cardinale Orsino e in Pandolfo Petrucci. Con la quale conclusione essendo andato Pagolo Orsino, fatto, ogni dí piú, capacissimo della buona intenzione di Valentino, a trovare gli altri per indurgli a ratificare, il Bentivoglio, non gli parendo né sicuro né onorevole né ragionevole che le cose sue in arbitrio d'altrui rimanessino, mandato il protonotario suo figliuolo a Imola e ricevuti uomini dal Valentino, conchiuse accordo col pontefice e con lui; al quale piú facilmente condiscesono perché comprendevano che il re di Francia, considerando meglio o la infamia o quel che importasse che la città di Bologna fusse in potestà loro, e però rimosso dalla prima deliberazione, non era piú per comportare che l'ottenessino. Le condizioni furno: lega perpetua tra il Valentino da una parte e i Bentivogli insieme con la comunità di Bologna dall'altra; avesse il Valentino da' bolognesi condotta di cento uomini d'arme per otto anni, che si convertiva in pagamento di dodicimila ducati l'anno; obligati i bolognesi a servirlo di cento uomini d'arme e di cento balestrieri a cavallo, ma solamente per uno anno prossimo; e che il re di Francia e i fiorentini promettessino l'osservanza per l'una parte e per l'altra; e che per maggiore stabilità della pace si maritasse al figliuolo di Annibale la sorella del vescovo di Enna nipote del pontefice. Né cessava perciò Valentino di sollecitare la venuta delle genti franzesi e di tremila svizzeri condotti a suo soldo, sotto specie di usarle non piú contro a' collegati ma per la ricuperazione del ducato di Urbino e di Camerino: perché i collegati si erano già risoluti a ratificare l'accordo fatto, essendo stato tirato in questa sentenza il cardinale Orsino, che era allo Spedaletto in quello di Siena, dalle persuasioni di Pagolo e confortatone molto da Pandolfo Petrucci; a che, benché dopo lunga contradizione, consentirono Vitellozzo e Giampagolo Baglione a' quali era sospettissima la fede del Valentino. Dopo la ratificazione de' quali avendo medesimamente ratificato il pontefice, il duca d'Urbino, benché dal popolo che gli prometteva volere morire per la conservazione sua fusse pregato di non partirsi, nondimeno temendo piú dell'armi militari che non confidava delle voci popolari, ritornandosene a Vinegia, dette luogo all'impeto degli inimici, avendo prima fatte rovinare tutte le fortezze di quello stato eccetto che quelle di Santo Leo e di Maiuolo; e i popoli, essendovi andato per commissione del Valentino i popoli Antonio dal Monte a Sansovino, che fu poi cardinale, con facoltà di concedere loro venia, ritornorono d'accordo sotto il suo giogo: il che fece anche la città di Camerino, perché il signore se ne fuggí nel reame di Napoli, impaurito perché Vitellozzo e gli altri, levate le genti loro del contado di Fano, si preparavano per andare come soldati di Valentino a quella impresa. Nel quale tempo il pontefice mandò il campo a Palombara, ricuperata da' Savelli insieme con Senzano e altre loro castella, nell'occasione dell'armi mosse da questi altri.
Ma il duca Valentino, volendo mettere a fine i suoi occulti pensieri, andò da Imola a Cesena; dove non quasi arrivato che le lancie franzesi, venute non molti dí prima, si partirno subitamente da lui, rivocate da Ciamonte, non per commissione del re ma o, come si affermava, per indegnazione particolare nata tra lui e il Valentino o pure perché cosí fusse stato procurato da lui, per essere manco formidabile a quegli i quali sommamente desiderava di assicurare. A Cesena attese a riordinare le genti sue, maggiori in numero che non era la fama, perché industriosamente aveva fatto poche condotte grosse ma soldato, e continuamente soldava, molte lancie spezzate e gentiluomini particolari: e nel medesimo tempo Vitellozzo e gli Orsini, andati per suo comandamento a campo a Sinigaglia, ottenneno la terra e la rocca; onde la prefettessa sorella del duca d'Urbino si fuggí, abbandonata da ciascuno, non ostante che il figliuolo pupillo fusse sotto la protezione del re di Francia, il quale si scusava di non la aiutare perché si era aderita alla lega fatta alla Magione. Presa Sinigaglia, Valentino andò a Fano; dove poi che fu soprastato qualche dí per mettere insieme tutte le genti sue, fece intendere a Vitellozzo e agli Orsini che il dí seguente voleva andare ad alloggiare in Sinigaglia, e però che allargassino fuori della terra i soldati che erano con loro, i quali alloggiavano dentro: il che subitamente eseguirono, alloggiando le fanterie ne' borghi della città e le genti d'arme distribuendo per il contado. Venne il dí ordinato Valentino a Sinigaglia, al quale si feciono incontro Pagolo Orsino e il duca di Gravina, Vitellozzo e Liverotto da Fermo, e da lui raccolti con grandissime carezze l'accompagnorono insino alla porta della città, innanzi alla quale si erano fermate tutte le genti del Valentino in ordinanza. Nel qual luogo volendo essi licenziarsi da lui, per ridursi agli alloggiamenti loro che erano di fuora, insospettiti già per vedere che avea maggiore gente di quella che credevano avesse, gli ricercò venissino dentro perché aveva di bisogno di ragionare con loro; il che non potendo ricusare, benché con l'animo già quasi indovino del futuro male, lo seguitorno nel suo alloggiamento, e con lui ritirati in una camera, dopo poche parole, perché, sotto scusa di volere pigliare altre vesti, si partí presto da loro, furono da genti che sopravenneno nella camera fatti tutti a quattro prigioni; e in uno tempo medesimo mandati a svaligiare i loro soldati. E il dí seguente, che fu l'ultimo dí di dicembre, acciò che l'anno mille cinquecento due terminasse in questa tragedia, riservando gli altri in prigione, fece strangolare in una camera Vitellozzo e Liverotto: de' quali l'uno non aveva potuto fuggire il fato di casa sua, di morire di morte violenta, come erano morti tutti gli altri suoi fratelli, in tempo che avevano già nell'armi grande esperienza e riputazione, e successivamente l'uno dopo l'altro, secondo l'ordine della età, Giovanni di uno colpo di artiglieria nel campo che Innocenzio pontefice mandò contro alla città di Osimo, Cammillo soldato de' franzesi di uno sasso intorno a Cercelle, e Pagolo decapitato in Firenze; ma di Liverotto non potette negare alcuno che non avesse fine condegno delle sceleratezze sue, essendo molto giusto che e' morisse per tradimento chi poco innanzi aveva per tradimento ammazzato crudelissimamente in Fermo, per farsi grande in quella città, Giovanni Frangiani suo zio con molti altri de' cittadini principali di quella terra, avendogli nella casa sua propria condotti a uno convito.
Non accadde in questo anno altra cosa memorabile, eccetto che Lodovico e Federico della famiglia de' Pichi conti della Mirandola, essendo stati prima cacciati da Giovanfrancesco loro fratello, e pretendendo avervi, con tutto che fusse maggiore di età, le medesime ragioni che lui, ottenute genti in aiuto loro dal duca di Ferrara, di una sorella naturale del quale erano nati, e da Gianiacopo da Triulzi suocero di Lodovico ne cacciorono per forza il fratello: cosa non tanto degna di memoria per se stessa quanto perché poi, negli anni seguenti, le controversie tra questi fratelli produssono effetti di qualche momento.
Cap. xii
Gli Orsini prigioni del pontefice; morte sospetta del cardinale Orsini. Intimazione del Valentino ai senesi e risposta di questi. Interessamento del re di Francia alle cose di Toscana. Il Valentino nel Lazio contro gli Orsini. Nuove terre occupate dal Valentino.
Séguita l'anno mille cinquecento tre, pieno se mai niuno de' precedenti di cose memorabili e di gravissimi accidenti; al quale dette principio la perfidia e la empietà del principe della cristiana religione, ignaro di quel che avesse, questo anno medesimo, a succedere a sé e alle cose sue. Perché avendo il Valentino, con somma celerità come erano convenuti tra loro, significato al pontefice quanto felice fine avessino conseguito a Sinigaglia le insidie sue, egli, tenuto l'avviso segretissimo e procurato che per altre vie non potesse penetrare ad altri, chiamò subito sotto colore di altre faccende nel palagio di Vaticano il cardinale Orsino, il quale, fidandosi dello accordo fatto e della fede di chi era noto a tutto il mondo che mai non aveva avuto fede, tirato piú dal fato che dalla ragione era pochi dí innanzi andato a Roma; e arrivato in palazzo fu subito fatto prigione: e nel tempo medesimo presi alle loro case Rinaldo Orsino arcivescovo di Firenze, il protonotario Orsino, l'abate d'Alviano fratello di Bartolomeo, e Iacopo da Santa Croce gentiluomo romano de' principali di quella fazione. I quali come furono condotti in Castello Santo Agnolo, il pontefice mandò il principe di Squillaci suo figliuolo a pigliare la possessione delle terre di Pagolo e degli altri, e con lui il protonotario e Iacopo da Santa Croce perché le facessino consegnare; i quali furono dipoi rimessi sotto la medesima custodia. E aveva il pontefice motteggiato con arguzia spagnuola sopra quello che aveva fatto il figliuolo, dicendo che essendo stati Pagolo Orsino e gli altri i primi a mancargli della fede, perché si erano obligati di andare a lui uno per volta e vi erano andati tutti insieme, non era stato meno lecito a lui mancare a loro. Stette circa venti dí prigione il cardinale, pretendendo il pontefice alla incarcerazione di uno cardinale sí antico e di tale età e autorità varie cagioni; e finalmente, sparsa voce che fusse ammalato, morí in palazzo, come si credette certissimamente, di veleno: la quale opinione il pontefice per alleggierire, ancora che fusse assueto a non curarsi delle infamie, volle che di giorno fusse portato scoperto alla sepoltura, accompagnato dalla sua famiglia e di tutti i cardinali. E gli altri prigioni furono, non molto dipoi, data sicurtà di rappresentarsi, liberati.
Ma Valentino, non volendo essere stato scelerato senza premio, si partí senza indugio da Sinigaglia e si dirizzò a Città di Castello; e trovata quella città abbandonata da quegli che vi restavano della famiglia de' Vitelli, i quali intesa la morte di Vitellozzo si erano fuggiti, continuò il cammino verso Perugia; onde fuggí Giampagolo, il quale, destinato a piú tardo ma a maggiore supplizio, era per sospetto stato piú cauto che gli altri a andare a Sinigaglia. Lasciò l'una e l'altra città sotto il nome della Chiesa, avendo rimesso in Perugia Carlo Baglione gli Oddi e tutti gli altri inimici di Giampagolo; e volendo con sí grande occasione tentare di insignorirsi di Siena, seguitandolo alcuni fuorusciti di quella città andò con l'esercito, nel quale erano arrivati di nuovo gli aiuti promessi dal Bentivoglio, a Castel della Pieve; dove intesa la cattura del cardinale Orsino, fece strangolare il duca di Gravina e Pagolo Orsini, e mandò imbasciadori a Siena a ricercare che cacciassino Pandolfo Petrucci, come inimico suo e turbatore della quiete di Toscana, promettendo che, cacciato che fusse lui, se ne andrebbe con l'esercito in terra di Roma senza molestare altrimenti i loro confini: e da altra parte il pontefice ed egli, ardenti di desiderio che Pandolfo, cosí come era stato compagno di quegli altri nella vita fusse eziandio compagno nella morte, si ingegnavano di addormentarlo con le medesime arti con le quali avevano addormentati tutti gli altri, scrivendogli brevi e lettere molto umane, e mandandogli per messi propri imbasciate piene di affezione e di dolcezza. Ma il sospetto entrato nel popolo di Siena che non tendessino a occupare quella città faceva piú difficile il disegno loro contro a Pandolfo, perché molti cittadini, malcontenti per l'ordinario di lui, si riducevano a volere piú tosto temporeggiarsi sotto la tirannide di uno cittadino che cadere in servitú forestiera; in modo che di là non gli era dato nel principio risposta alcuna per la quale potesse sperare della partita di Pandolfo: ed egli nondimeno, continuando nella medesima simulazione di non volere altro che questo, procedeva avanti nel territorio loro, ed era già arrivato a Pienza, e Chiusi e l'altre terre vicine arrendutesegli d'accordo. Donde crescendo in Siena il timore, e cominciandosi a spargere nel popolo ed eziandio tra alcuni de' principali non essere conveniente che, per mantenere la potenza di uno cittadino, si mettesse tutta la città in sí grave pericolo, Pandolfo deliberò di fare con buona grazia di tutti quello che dubitava non avere a fare alla fine con odio universale, e con maggiore pericolo e danno proprio; e però, con consentimento suo, fu significato in nome publico al Valentino essere contenti compiacerlo della dimanda fatta, pure che si partisse con le sue genti de' terreni loro: la quale risoluzione, ancoraché il pontefice ed egli avessino aspirato a maggiore disegno, fu accettata, per la difficoltà conoscevano di espugnare Siena, terra grossa, forte di sito, nella quale erano Giampagolo Baglioni e molti soldati; e dove il popolo, quando fusse restato certificato che Valentino avesse altro fine che la partita di Pandolfo, sarebbe stato unito a resistergli. Aggiunsesi che al pontefice parve, per la sicurtà propria, necessario che il figliuolo riducesse l'esercito in terra di Roma, dove non si stava senza sospetto di qualche movimento: perché a Pitigliano si erano ridotti Giulio e alcuni degli Orsini, e in Cervetri erano con molti cavalli Fabio e Organtino Orsini; e Muzio Colonna, partito del reame di Napoli, era entrato in Palombara in soccorso de' Savelli, i quali avevano fatto di nuovo intelligenza e parentado con gli Orsini. Ma perdé piú l'uno e l'altro di loro la speranza di occupare Siena, perché già si comprendeva che al re di Francia, benché da principio ne fusse stato molto ambiguo, era molesta questa impresa come quello che, se bene avesse desiderato che fussino battuti Vitellozzo e gli altri confederati, gli pareva pure che la totale loro ruina, con l'aggiunta di tanti stati, facesse troppo potenti il pontefice e Valentino; ed essendo la città di Siena e Pandolfo sotto la sua protezione, e non appartenente alla Chiesa ma allo imperio, gli pareva potere molto giustificatamente opporsi a questo acquisto. Ebbeno anche speranza che per la partita di Pandolfo il governo di quella città rimanesse in qualche confusione, e per questo potersegli in progresso di tempo presentare occasione da colorire il disegno loro.
Partí adunque Pandolfo da Siena, ma lasciatavi la medesima guardia e la medesima autorità negli amici e dipendenti da lui, in modo non appariva fatta mutazione del governo; e il Valentino si dirizzò verso Roma, per andare alla distruzione degli Orsini. I quali, insieme co' Savelli, avevano preso il Ponte a Lamentano e correvano per tutto il paese; ma si raffrenorono per la giunta di Valentino, il quale assaltò subito lo stato di Giangiordano, non avendo rispetto che egli, che non si era dimostrato contro a lui, avesse la condotta l'ordine di San Michele e la protezione del re di Francia e fusse allora nel reame di Napoli a' servigi suoi: di che si giustificava il pontefice col re, non muoversi per cupidità di spogliarlo del suo stato ma perché, essendo tante ingiurie e offese tra lui e la famiglia Orsina, non poteva averlo sicuramente sí propinquo; però essere contento di dargli in ricompenso il principato di Squillaci e altre terre equivalenti. E nondimeno il re, non accettando queste ragioni, si risentí molto di tale insulto, non tanto perché in lui potesse piú che il solito il rispetto della protezione quanto perché, non continuando piú nella prima prosperità le cose sue nel regno di Napoli, cominciava avere a sospetto l'ardire e la insolenza del pontefice e di Valentino; ritornandogli in memoria l'assalto dell'anno passato di Toscana, e quel che poi, contro alla sua protezione, nelle cose di Siena tentato avevano, e considerando che quanto piú avevano ottenuto, e per l'avvenire otterrebbono da lui, tanto era diventata e per diventare sempre maggiore la loro cupidità: e però mandò con aspra imbasciata a comandare a Valentino che desistesse da molestare lo stato di Giangiordano, il quale per vie incognite, non senza grave pericolo, s'era condotto a Bracciano. E parendogli necessario assicurarsi che le cose di Toscana non facessino qualche variazione, inteso massime che in Siena appariva principio di discordia civile, cominciò per consiglio de' fiorentini a trattare che Pandolfo Petrucci, il quale si era fermato in Pisa, tornasse in Siena, e che tra fiorentini sanesi e bolognesi si facesse unione a difesa comune, restituendosi, per levare tutte le cause della dissensione, a' fiorentini Montepulciano; e che ciascuno di questi si provedesse, secondo la sua possibilità, di genti d'arme per difesa comune, acciocché si interrompesse al pontefice e al Valentino la facoltà di distendersi piú in Toscana. Avea in questo mezzo il Valentino preso con parte delle sue genti Vicovaro, dove erano per Giangiordano secento fanti; ma avuto il comandamento del re, levatosi, con molto sdegno del pontefice e suo, dalla impresa di Bracciano, andò a porre il campo a Ceri; ove con Giovanni Orsino signore di quel luogo era Renzo suo figliuolo, e Giulio e Franciotto della medesima famiglia; e nel tempo medesimo il padre procedeva per via di giustizia contro a tutta la casa degli Orsini, eccettuato Giangiordano e il conte di Pitigliano, il quale i viniziani non volevano comportare che fusse molestato.
È Ceri terra antichissima e per la fortezza del sito suo molto celebrata, perché è posta in su uno masso anzi piú presto in su uno poggio tutto d'un sasso intero; però da' romani, quando rotti da' franzesi al fiume di Allia, oggi detto [Caminate], si disperorono di potere difendere Roma, vi furno mandate, come in luogo sicurissimo, le vergini vestali e i simulacri piú secreti e piú venerandi degli dei, con molte altre cose sacre e religiose; e per la medesima cagione non fu ne' tempi seguenti violata dalla ferocia de' barbari, quando per la declinazione dello imperio romano inondorno con tanto impeto tutta Italia. E per questo, e per esservi copia di valorosi difensori, riusciva a Valentino impresa difficile; il quale per espugnarla né diligenza né industria pretermetteva, aiutandosi, oltre a molte altre macchine belliche, per superare l'altezza delle mura, con gatti e con vari instrumenti di legname. Dove mentre che sta, Francesco da Narni, mandato a Siena dal re di Francia, significò la mente regia essere che Pandolfo ritornasse; dal quale aveva prima ricevuto promessa di perseverare nella divozione del re e per sua sicurtà mandargli in Francia il figliuolo maggiore, pagargli quello di che rimaneva debitore per la convenzione de' quarantamila ducati e restituire a fiorentini Montepulciano: il che inteso in Siena, fu piccola difficoltà al ritorno suo, aggiugnendosi alla riputazione del nome del re il favore scoperto de' fiorentini e la disposizione de' cittadini amici suoi; i quali, avendo anticipato di pigliare l'armi la notte innanzi al dí destinato alla venuta sua, feciono stare fermi tutti quegli che sentivano altrimenti. Succedette questo con grandissimo dispiacere del pontefice: le cose del quale, per altro, felicemente procedevano, perché se gli erano arrendute Palombara e l'altre terre de' Savelli, e quegli che erano in Ceri, vessati dí e notte in molti modi e con molti assalti, finalmente si arrenderono, con patto che a Giovanni signore della terra fusse pagata dal pontefice certa quantità di danari, e lui e tutti gli altri fussino lasciati andare salvi a Pitigliano; le quali cose, fuora della consuetudine del papa e contro all'espettazione universale, furono osservate sinceramente.
Cap. xiii
Vicende della guerra franco spagnola nel reame di Napoli. Arrivo di nuovi aiuti spagnoli. Insuccessi de' francesi. La disfida di Barletta e la gloriosa vittoria degli italiani.
Non procedevano già con simile prosperità le cose de' franzesi nel regno di Napoli, avendo insino nel principio di questo anno cominciato a difficultarsi. Imperocché, essendo il conte di Meleto con gente de' príncipi di Salerno e di Bisignano a campo a Terranuova, passò da Messina in Calavria don Ugo di Cardona con ottocento fanti spagnuoli, i quali stati a' soldi di Valentino aveva condotti da Roma, e con cento cavalli e ottocento fanti tra siciliani e calavresi; e giunto a Seminara si mosse verso Terranuova, per soccorrerla: il che intendendo il conte di Meleto, levatosi da Terranuova, andò per incontrargli. Camminavano gli spagnuoli per una pianura ristretta tra la montagna e una fiumana che mena pochissima acqua ma che si congiugne alla strada con uno argine; e i franzesi, superiori di numero, allo incontro, camminavano di sotto al fiume, desiderosi di tirargli nel luogo largo; ma vedendogli procedere stretti e in ferma ordinanza, dubitando che se non tagliavano loro la strada non si conducessino salvi a Terranuova, passorno per assaltargli di là dal fiume: dove, prevalendo la virtú de' fanti spagnuoli esercitati nella guerra e nocendo molto a' franzesi il disavvantaggio dell'argine, furono rotti. Né molto poi arrivorono di Spagna a Messina, per mare, dugento uomini d'arme dugento giannettieri e dumila fanti guidati da Manuello di Benavida: col quale passò allora in Italia Antonio de Leva, che salito poi di privato soldato, per tutti i gradi militari, al capitanato generale, acquistò in Italia molte vittorie. I quali, passati da Messina a Reggio di Calavria, preso non molto prima dagli spagnuoli, essendo allora Obigní in altra parte della Calavria che quasi tutta si teneva per lui, andorno ad alloggiare a Losarno propinquo a cinque miglia a Calimera, nella quale terra due dí innanzi era entrato Ambricort con trenta lancie e il conte di Meleto con mille fanti: e presentativisi la mattina seguente in sul fare del dí, dove non erano porte ma solamente la sbarra, prese e morte prima le sentinelle, la espugnorono al secondo assalto, benché francamente si difendessino: dove restò morto il capitano Spirito, Ambricort prigione; e il conte di Meleto rifuggito nella rocca si salvò, perché i vincitori si ritirorno subitamente a Terranuova, temendo di Obigní, che con trecento lancie tremila fanti forestieri e dumila del paese si approssimava. Dopo il quale accidente, essendo Obigní fermatosi a Pollistrine castello propinquo, gli spagnuoli, mancando loro le vettovaglie, si partirno una notte occultamente per andare a Ghiarace; ma seguitati dalla gente di Obigní insino alla montata d'una difficile montagna, perderno sessanta uomini d'arme e molti fanti: benché de' franzesi vi morí, per essersi messo troppo innanzi, Grugní, uomo stimato assai da loro e che guidava la compagnia stata del conte di Gaiazzo, il quale poco dopo la espugnazione di Capua era morto di morte naturale.
Sopravenne in questo tempo di Spagna in Sicilia un'altra armata, che condusse dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e duemila fanti, che n'era capitano Porto Carrera; il quale essendo morto a Reggio, dove era passato con le genti, rimase la cura a don Ferrando d'Andrada suo luogotenente. Per la giunta de' quali ripreso animo gli spagnuoli che s'erano ridotti a Ghiarace, ritornati a Terranuova, si fortificorno nella parte della terra contigua alla fortezza tenuta per loro, che è al capo d'una valle, alla qual valle si congiugne il resto della terra; temendo e non invano della venuta di Obigní, perché egli, venuto subito da Pollistrine, alloggiò in quella parte che non era occupata dagli spagnuoli: fortificandosi ciascuno, e mettendo le sbarre dal canto suo. Ma intendendo poi Obigní che gli spagnuoli, che erano smontati a Reggio, s'accostavano per unirsi con gli altri, si ritirò a Losarno; e gli inimici, seguitando la comodità delle vettovaglie, si poseno tutti insieme a Seminara.
Ma mentre che nella Calavria le cose in questa maniera procedevano, il viceré franzese, ritornato verso Barletta e fermatosi a Matera, aveva distribuito le genti in piú luoghi circostanti, attendendo a impedire che non vi entrassino vettovaglie, e sperando che per la peste e carestia che era in Barletta gli spagnuoli non potessino piú dimorarvi, né ridursi a Trani dove erano le difficoltà medesime. Ma era maravigliosa in tante incomodità e pericoli la perseveranza loro, confermata dalla virtú e dalla diligenza di Consalvo; il quale, ora dando speranza della venuta presta di dumila fanti tedeschi, a soldare i quali aveva mandato Ottaviano Colonna in Germania, e di altri soccorsi, ora spargendo fama di volere ritirarsi per mare a Taranto, gli sostentava; ancora molto piú con lo esempio, tollerando in se medesimo con allegro animo tutte le fatiche e tutta la strettezza del vivere e di tutte le cose necessarie; alle quali cose sopportare persuadeva gli altri con le parole. In tale stato essendo ridotta la guerra, cominciorono, per la negligenza e per gli insolenti portamenti de' franzesi, a essere superiori quegli che insino a quel dí erano stati inferiori: perché gli uomini di Castellaneta, terra vicina a Barletta, disperati per i danni e ingiurie che pativano da cinquanta lancie franzesi che v'alloggiavano, prese popolarmente l'armi gli svaligiorno; e pochi dí poi Consalvo, avendo notizia che monsignore della Palissa, il quale con cento lancie e trecento fanti alloggiava nella terra di Rubos distante da Barletta dodici miglia, faceva guardie negligenti, uscito una notte di Barletta e condottosi a Rubos, e piantate con grandissima celerità l'artiglierie, le quali per essere il cammino piano aveva facilmente condotte seco, l'assaltò con tale impeto che i franzesi, i quali aspettavano ogn'altra cosa, spaventati dallo assalto improviso, fatta debole difesa, si perderono, rimanendo insieme con gli altri la Palissa prigione; e il dí medesimo se ne ritornò Consalvo a Barletta, senza pericolo di ricevere nel ritirarsi, da Nemors, il quale pochi dí innanzi era venuto a Canosa, danno alcuno, perché le genti sue, alloggiate, per tenere Barletta assediata da piú lati e forse per maggiore loro comodità, in vari luoghi, non potevano essere a tempo a congregarsi. E si aggiunse che, come scrivono alcuni, cento cinquanta lancie de' franzesi, mandate per pigliare certi danari che si conducevano da Trani a Barletta, furono rotte da genti le quali per assicurare i danari erano state mandate da Consalvo.
Seguitò appresso a questi un altro accidente che diminuí assai l'ardire de' franzesi, non potendo attribuire alla malignità della fortuna quello che era stato opera propria della virtú. Perché essendo, sopra la recuperazione di certi soldati che erano stati presi in Rubos, andato un trombetto a Barletta per trattare di riscuotergli, furono dette contro a' franzesi da alcuni uomini d'arme italiani certe parole che, riportate dal trombetto nel campo franzese e da quegli fatto risposta agli italiani, acceseno tanto ciascuno di loro che, per sostenere l'onore della propria nazione, si convenneno che in campo sicuro, a battaglia finita, combattessino insieme tredici uomini d'arme franzesi e tredici uomini d'arme italiani; e il luogo del combattere fu statuito in una campagna tra Barletta, Andria e Quadrato, dove si conducessino accompagnati da determinato numero di gente: nondimeno, per assicurarsi dalle insidie, ciascuno de' capitani con la maggiore parte dell'esercito accompagnò i suoi insino a mezzo il cammino: confortandogli che, essendo stati scelti di tutto l'esercito, corrispondessino con l'animo e con l'opere alla espettazione conceputa, che era tale che nelle loro mani e nel loro valore si fusse con comune consentimento di tutti collocato l'onore di sí nobili nazioni. Ricordava il viceré franzese a' suoi, questi essere quegli medesimi italiani che non avendo ardire di sostenere il nome de' franzesi, avevano, senza fare mai esperienza della sua virtú, dato loro sempre la via quante volte dall'Alpi avevano corso insino all'ultima punta d'Italia; né ora accendergli nuova generosità d'animo o nuovo vigore, ma trovandosi agli stipendi degli spagnuoli e sottoposti a' loro comandamenti non avere potuto contradire alla volontà d'essi, i quali, assueti a combattere non con virtú ma con insidie e con fraudi, si facevano volentieri oziosi riguardatori degli altrui pericoli: ma come gli italiani fussino condotti in sul campo, e si vedessino a fronte l'armi e la ferocia di coloro da' quali erano stati sempre battuti, ritornati al consueto timore, o non ardirebbono combattere o combattendo timidamente sarebbeno facile preda loro, non essendo sufficiente scudo contro al ferro de' vincitori il fondamento fatto in su le parole e braverie vane degli spagnuoli. Da altra parte Consalvo infiammava con non meno pungenti stimoli gli italiani, riducendo in memoria gli antichi onori di quella nazione e la gloria dell'armi loro, con le quali già tutto il mondo domato avevano: essere ora in potestà di questi pochi, non inferiori alla virtú de' loro maggiori, fare manifesto a ciascuno che se Italia, vincitrice di tutti gli altri, era da pochi anni in qua stata corsa da eserciti forestieri esserne stata cagione non altro che la imprudenza de' suoi príncipi, i quali per ambizione discordanti fra loro medesimi, per battere l'un l'altro, l'armi straniere chiamate avevano: non avere i franzesi ottenuto in Italia vittoria alcuna per vera virtú, ma o aiutati dal consiglio e dall'armi degli italiani o per essere stato ceduto alle loro artiglierie; con lo spavento delle quali, per essere stata cosa nuova in Italia, non per il timore delle loro armi, essergli stata data la strada: avere ora occasione di combattere col ferro e con la virtú delle proprie persone; trovandosi presenti a sí glorioso spettacolo le principali nazioni de' cristiani, e tanta nobiltà de' suoi medesimi, i quali, cosí dall'una parte come dall'altra, avere estremo desiderio della vittoria loro. Ricordassinsi essere stati tutti allievi de' piú famosi capitani d'Italia, nutriti continuamente sotto l'armi, e avere ciascuno d'essi fatto in vari luoghi onorevoli esperienze della sua virtú: e però, o essere destinata a questi la palma di rimettere il nome italiano in quella gloria nella quale era stato non solo a tempo de' loro maggiori ma ve l'avevano veduto essi medesimi o, non si conseguendo per queste mani tanto onore, aversi a disperare che Italia potesse rimanere in altro grado che di ignominiosa e perpetua servitú. Né erano minori gli stimoli che dagli altri capitani e da' soldati particolari dell'uno e dell'altro esercito erano dati a ciascuno di loro, accendendogli a essere simili di se medesimi, a esaltare con la propria virtú lo splendore e la gloria della sua nazione. Co' quali conforti condotti al campo, pieni ciascuno d'animo e di ardore, essendo l'una delle parti fermatasi da una banda dello steccato opposita al luogo dove s'era fermata l'altra parte, come fu dato il segno, corseno ferocemente a scontrarsi con le lancie: nel quale scontro non essendo apparito vantaggio alcuno, messo con grandissima animosità e impeto mano all'altre armi, dimostrava ciascuno di loro egregiamente la sua virtú: confessandosi tacitamente per tutti gli spettatori che di tutti gli eserciti non potevano essere eletti soldati piú valorosi, né piú degni a fare sí glorioso paragone. Ma essendosi già combattuto per non piccolo spazio e coperta la terra di molti pezzi d'armadure e di molto sangue di feriti da ogni parte, e ambiguo ancora l'evento della battaglia, risguardati con grandissimo silenzio, ma quasi con non minore ansietà e travaglio d'animo che avessino loro, da' circostanti, accadde che Guglielmo Albimonte, uno degli italiani, fu gittato da cavallo da uno franzese; il quale mentre che ferocemente gli corre col cavallo addosso per ammazzarlo, Francesco Salamone correndo al pericolo del compagno ammazzò con uno grandissimo colpo il franzese, che intento a opprimere l'Albimonte da lui non si guardava; e di poi insieme con l'Albimonte che s'era sollevato, e col Miale che era in terra ferito, presi in mano spiedi che a questo effetto portati avevano, ammazzorono piú cavalli degl'inimici: donde i franzesi, cominciati a restare inferiori, furono chi da uno chi da un altro degli italiani fatti tutti prigioni. I quali, raccolti con grandissima letizia da' suoi, e rincontrando poi Consalvo che gli aspettava a mezzo il cammino, ricevuti con incredibile festa e onore, ringraziandogli ciascuno come restitutori della gloria italiana, entrorono come trionfanti, conducendosi i prigioni innanzi, in Barletta; rimbombando l'aria di suono di trombe e di tamburi, di tuoni d'artiglierie e di plauso e grida militari: degni che ogni italiano procuri, quanto è in sé, che i nomi loro trapassino alla posterità mediante lo instrumento delle lettere. Furono adunque Ettore Fieramosca capuano, Giovanni Capoccio, Giovanni Bracalone e Ettore Giovenale romani, Marco Corellario da Napoli, Mariano da Sarni, Romanello da Furlí, Lodovico Aminale da Terni, Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte siciliani, Miale da Troia, e il Riccio e Fanfulla parmigiani; nutriti tutti nell'armi, o sotto i re d'Aragona o sotto i Colonnesi. Ed è cosa incredibile quanto animo togliesse questo abbattimento all'esercito franzese e quanto n'accrescesse allo esercito spagnuolo, facendo ciascheduno presagio, da questa esperienza di pochi, del fine universale di tutta la guerra.
Cap. xiv
Gli svizzeri occupano Lucherna e la Murata. Lotta che ne consegue fra svizzeri e francesi. Accordi fra gli svizzeri ed i francesi.
Era in questo tempo medesimo il re di Francia molestato in Lombardia da' svizzeri, fatto il principio non da tutta la nazione ma dai tre cantoni occupatori di Bellinzone; i quali, volendo indurlo a consentire che quella terra fusse loro propria, assaltorono Lucherna e la Murata, muro di lunghezza grande in sul Lago maggiore presso a Lucherna, per il quale si proibisce lo scendere di quelle montagne alla pianura se non per una porta che sola è in quel muro: e benché nel principio non l'ottenessino, per la difesa de' franzesi che vi stavano a guardia, e che Ciamonte, il quale con ottocento lancie e tremila fanti s'era fermato a Varese e a Galera, sperasse ch'ella s'avesse a difendere, nondimeno cresciuti poi i svizzeri di numero, perché ebbono soccorso da' grigioni, dopo molti assalti dati invano, saliti una parte di loro in su uno aspro monte che soprafà la Murata, costrinsono a levarsene coloro che la guardavano; e preso poi il borgo di Lucherna ma non la rocca, ogni dí augumentavano, perché gli altri nove cantoni, se bene da principio avessino offerte genti al re per la confederazione che avevano con lui, cominciorono poi a dare soccorso a' tre cantoni, allegando non potere mancare d'aiutare i loro compagni e fratelli, ed esserne tenuti per le leghe antiche che erano tra loro, anteriori alle obligazioni che avevano con tutti gli altri. E mentre che già in numero quindicimila sono intorno alla rocca, non potendo i franzesi soccorrerla per la strettezza de' passi e per le diligenti guardie vi facevano, attendevano a predare il paese circostante; e sdegnati che il castellano di Musocco, terra di Gianiacopo da Triulzi, recusava di prestare loro l'artiglierie per battere la rocca di Lucherna, saccheggiorono la terra di Musocco, non molestando la rocca perché era inespugnabile. Da altra parte i franzesi, facendo stima non piccola di questo moto, e avendo raccolte tutte le forze che aveano in Lombardia e ottenuti aiuti da Bologna da Ferrara e da Mantova, ricercorono viniziani de' sussidi debiti per la difesa dello stato di Milano; i quali avendogli promessi prontamente, gli espedirono sí lentamente che non furono necessari: e attendeva Ciamonte, avendo bene provedute le fortezze che erano ne' luoghi montuosi, a tenere le genti alla pianura, sperando che i svizzeri, che non ardivano per non avere né cavalli né artiglierie scendere ne' luoghi aperti, si straccherebbono per la difficoltà delle vettovaglie, e perché erano senza danari e senza speranza di fare effetto alcuno importante. Nel quale stato essendo i svizzeri dimorati molti dí, e crescendo la penuria delle vettovaglie, perché i franzesi, armati molti legni, aveano sommerse molte barche che conducevano vettovaglie a' svizzeri e impedivano che per il lago non ne potessino avere, e cominciando a disunirsi tra loro, perché la impresa non atteneva se non ai cantoni che possedevano Bellinzone, corrotti ancora i capitani da' danari de' franzesi, furono alla fine contenti di ritirarsi, restituite, da Musocco infuora come cosa non appartenente al re, tutte le terre occupate in questa espedizione, e ottenuta dal re promessa di non molestare Bellinzone fra certo tempo. Tanto erano i franzesi alieni da volere l'inimicizia de' svizzeri che non si vergognavano, non solamente in questo tempo che avevano guerra co' re di Spagna temevano del re de' romani e avevano sospetti i viniziani ma eziandio in ogni altro tempo, comperare l'amicizia di quella nazione, con pagare provisioni annue in publico e in privato e fare accordi con loro con indegne condizioni; movendogli, oltre al non confidare della virtú de' fanti propri, il conoscere che con disavvantaggio grande si fa la guerra con chi non ha che perdere.
cap.15
Patti di pace stabiliti fra il re di Francia e l'arciduca Filippo come procuratore dei re di Spagna. La guerra continua nel reame di Napoli. Sfortuna delle armi francesi. Francesi e spagnoli a Cerignola. La sconfitta de' francesi. Consalvo a Napoli.
Cosí liberato il re di Francia dalla guerra de' svizzeri, non aveva nel tempo medesimo minore speranza di liberarsi dalla guerra che era nel reame di Napoli: perché, dopo molte pratiche di pace tenute vanamente tra l'uno e l'altro re, volendosene ritornare di Spagna in Fiandra Filippo arciduca di Austria e principe di Fiandra, deliberò, benché contro a molti prieghi de' suoceri, ritornarsene per terra; da' quali ottenne ampia facoltà e libero mandato di fare la pace col re di Francia, stata molto, mentre che era in Ispagna, procurata da lui, ma accompagnandolo due loro imbasciadori, senza la partecipazione de' quali non voleva cosa alcuna né conchiudere né trattare. È incredibile con quanta magnificenza e onore fusse per ordine del re ricevuto per tutto il regno di Francia, non solo per desiderare di farselo propizio nella pratica dell'accordo ma per conciliarsi per ogni tempo l'animo di quel principe, giovane e in espettazione di somma potenza, perché era il piú prossimo alla successione dello imperio romano e de' reami di Spagna con tutte le dependenze loro; e con la medesima liberalità furono raccolti e fatti molti donativi a quegli che erano grandi appresso a lui: alle quali dimostrazioni corrispose con magnanimità reale Filippo; perché avendo il re, oltre alla fede datagli che e' potesse passare per Francia sicuramente, mandato per sua sicurtà a stare in Fiandra, tanto che e' fusse passato, alcuni de' primi signori del reame, Filippo, come e' fu entrato in Francia, per dimostrare di confidarsi in tutto della sua fede, ordinò che gli statichi fussino liberati. Né a queste dimostrazioni di amicizia tanto grandi succederono, per quanto fu in loro, effetti minori; perché convenutisi a Bles, dopo discussione di qualche dí, conchiuseno la pace con queste condizioni: che il reame tutto di Napoli si possedesse secondo la prima divisione, ma lasciando in diposito a Filippo le provincie per la differenza delle quali si era venuto all'armi, e che di presente Carlo figliuolo suo e Claudia figliuola del re, tra' quali si stabiliva lo sposalizio altre volte trattato, s'intitolassino re di Napoli e duchi di Puglia e di Calavria; che la parte che toccava al re di Spagna fusse in futuro governata dall'arciduca, quella del re di Francia da chi deputasse il re, ma tenendosi l'una e l'altra sotto nome de' due fanciulli, a' quali quando consumavano il matrimonio il re consegnasse, per dota della figliuola, la sua porzione. La quale pace fu solennemente publicata nella chiesa maggiore di Bles, e confermata con giuramento del re, e di Filippo come procuratore de' re suoi suoceri: pace certamente, se avesse avuto effetto, di momento grandissimo, perché non solo si posavano l'armi tra re tanto potenti ma dietro a questa sarebbe seguitata la pace tra il re de' romani e il re di Francia; onde contro a' viniziani nascevano nuovi pensieri, e il pontefice, sospetto a tutti e in pessimo concetto di ciascuno, non rimaneva senza timore di concili e d'altri disegni a depressione della sua autorità. Ma avendo subito il re e Filippo mandato nel regno di Napoli a intimare la pace fatta, e a comandare a' capitani che insino a tanto venisse la ratificazione de' re di Spagna, possedendo come possedevano, s'astenessino dalle offese, offersesi il capitano franzese di ubbidire al suo re, ma lo spagnuolo, o perché piú sperasse nella vittoria o perché l'autorità sola di Filippo non gli bastasse, rispose che insino non avesse il medesimo comandamento da' suoi re non poteva omettere di fare la guerra: alla continuazione della quale gli dava maggiore animo, che il re di Francia, sperando prima nelle pratiche e poi nella conclusione della pace e presupponendo per certo quel che ancora era incerto, aveva non solamente raffreddato l'altre provisioni ma sopratenuto tremila fanti che prima aveva ordinato che a Genova s'imbarcassino, e trecento lancie, destinate che sotto Persí andassino a quella impresa; e per contrario, a Barletta erano arrivati i duemila fanti tedeschi i quali, soldati con favore del re de' romani e imbarcatisi a Triesti, erano con grave querela del re di Francia passati sicuramente per il golfo de' viniziani. E però il duca di Nemors, non potendo promettersi la sospensione dell'armi e indebolito per i danni ricevuti poco innanzi, per essere sufficiente, se l'occasione lo invitasse o la necessità lo costrignesse, a combattere con gl'inimici, mandò a chiamare tutte le genti franzesi che erano divise in vari luoghi, da quelle in fuori che sotto Obigní militavano in Calavria; e tutti gli aiuti de' signori del regno: ma ebbe nel raccorle avversa la fortuna. Perché avendo il duca d'Atri e Luigi d'Ars, uno de' capitani franzesi che avevano le genti loro sparse in Terra di Otranto, deliberato d'andare insieme a unirsi col viceré, perché presentivano che Pietro Navarra con molti fanti spagnuoli era in luogo da potere loro nuocere se fussino andati separati, accadde che Luigi d'Ars, avendo avuta opportunità di condursi sicuro da se stesso, partí senza curarsi del pericolo del duca d'Atri; al quale, rimasto solo, essendo pervenuta notizia che Pietro Navarra si era mosso verso Matera per andare a unirsi con Consalvo, si messe ancora esso in cammino con la sua gente. Ma non bastano i consigli umani a resistere alla fortuna: perché avendo gli uomini di Rutiliano terra in quello di Bari, i quali in quegli medesimi dí si erano ribellati dai franzesi, chiamato Pietro Navarra, e però egli volgendosi dal cammino cominciato di Matera verso Rutiliano, si scontrò nel duca d'Atri; il quale, spaventato di questo accidente, stette sospeso di quello che avessi a fare, pure, non essendo sicura in tutto la ritirata e confidandosi che se bene era inferiore di numero di fanti aveva piú cavalli, e stimando che la fanteria spagnuola per avere la notte fatto lungo cammino fusse stracca, appiccò la battaglia; nella quale essendosi da ogni parte combattuto valentemente, fu alla fine rotta la gente sua, morto Giovann'Antonio suo zio ed egli fatto prigione. E, come pare ch'il piú delle volte le avversità non vadino sole, quattro galee franzesi, delle quali era capitano Pregianni Provenzale cavaliere di Rodi, sorseno nel porto d'Otranto, con licenza dell'offiziale viniziano, che promesse non patirebbe fussino molestate dall'armata di Spagna, la quale sotto Villamarina volteggiava ne' luoghi vicini; ma essendo poco dipoi entrata nel porto medesimo, Pregianni inferiore di forze, temendo non l'investissino, acciò che almanco il danno suo non fusse con guadagno degli inimici, liberata la ciurma e messe in fondo le galee, salvò sé e i suoi per la via di terra. Aveva il re di Francia commesso a' suoi capitani che standosi in su le difese fuggissino il venire alle mani, perché arebbono presto o lo stabilimento della pace o soccorso grande. Ma era difficile, essendo potenti e vicini tutti gli eserciti, raffrenare la caldezza de' franzesi e fargli stare pazienti a menare la guerra in lungo; anzi era destinato che, senza differire piú, si decidesse la somma delle cose. Di che nacque il principio in Calavria: perché, uniti che furono gli spagnuoli a Seminara, Obigní, raccolte tutte le genti sue e quelle de' signori che seguitavano la parte franzese, alloggiò le fanterie nella terra di Gioia vicina a tre miglia a Seminara, e la cavalleria a Losarno lontano tre miglia da Gioia; e fortificatosi con quattro pezzi d'artiglieria in su la riva del fiume in sul quale è posta Gioia, stava preparato per opporsi agl'inimici se e' tentassino di passare il fiume. Ma gli spagnuoli, fatto pensiero diverso dal suo, il dí che deliberorono passare, mossono per la strada diritta la vanguardia, condotta da Manuel di Benavida, alla via del fiume, il quale giunto alla riva cominciò a parlare con Obigní, che aveva condotto tutto l'esercito suo in su la riva opposita; e in detto tempo la retroguardia spagnuola, seguitata dalla battaglia, si volse per altro cammino a passare il fiume un miglio e mezzo di sopra a Gioia. Del qual tratto accorgendosi Obigní si mosse con grande celerità e senza artiglieria, per giugnergli innanzi che tutti avessino passato: ma erano già passati tutti; e ordinatisi, benché senza artiglierie, in ferma e stretta battaglia si mossono contro a' franzesi, i quali, accelerando il cammino e avendo, come dicono alcuni, molto minore numero di fanti, andavano disordinati; in modo che presto gli roppeno, innanzi che passasse il fiume l'antiguardia spagnuola. Nel quale conflitto restò prigione Ambricort con alcuni altri capitani franzesi e il duca di Somma con molti baroni del regno; e Obigní, benché fuggisse nella rocca di Angitola, rinchiusovi dentro, fu costretto ad arrendersi prigione, rotto e preso in quegli luoghi medesimi dove pochi anni innanzi aveva con tanta gloria superato e rotto il re Ferdinando e Consalvo: tanto è poco costante la prosperità della fortuna. Né a lui, che fu de' piú eccellenti capitani che Carlo conducesse in Italia, e di ingegno libero e nobile, aveva nociuto altro che il procedere con troppa caldezza alla speranza della vittoria. La qual cosa medesima nocette in Puglia al viceré, traportato forse a maggiore caldezza per avere intesa la rotta ricevuta in Calavria; perché Consalvo, essendogli incognita la vittoria de' suoi, né potendo piú per la fame e per la peste perseverare in Barletta, se ne partí, lasciatavi poca guardia, e si dirizzò alla Cirignola, terra lontana dieci miglia e quasi in triangolo tra Canosa, dove era il viceré, e Barletta.
Era già stato disputato prima nel consiglio del viceré se era da cercare o da fuggire l'occasione della giornata, e molti de' capitani avevano detta questa sentenza, che essendo gli spagnuoli accresciuti di gente e i suoi diminuiti, e cominciati a invilire per i disordini succeduti prima a Rubos e a Castellaneta e poi in Terra di Otranto e ultimatamente in Calavria, non fusse da commettersi alla fortuna ma, ritirandosi in Melfi o in qualche altra terra grossa e abbondante, aspettare che di Francia venisse o nuovo soccorso o lo stabilimento della pace; al quale modo di temporeggiarsi astrignergli anche il comandamento ricevuto nuovamente dal re: ma aveva questo consiglio avuto molti contradittori, a' quali pareva pericoloso l'aspettare che l'esercito vincitore di Calavria si unisse con Consalvo, o si voltasse a qualche impresa importante, dove non troverebbono chi resistesse. Ricordavansi che frutto avesse partorito l'avere eletto, l'esercito di Mompensieri, piú tosto il ritirarsi nelle terre che 'l combattere, e gli esempli passati gli ammonivano di quello che de' soccorsi lunghi e incerti di Francia sperare potessino; e se, essendo le cose ambigue, né Consalvo aveva consentito di levare le offese né i re di Spagna accettata la pace, tanto manco essere per farlo ora che erano in tanta speranza della vittoria. Non essere l'esercito loro inferiore di forze e di virtú a quello degl'inimici, né doversi arguire da' disordini ricevuti per propria negligenza a quello esperimento che col ferro e col valore dell'animo, non con l'astuzia o con gli inganni, si farebbe in campagna aperta; ed essere piú sicuro e piú glorioso partito fare, con speranza almanco eguale, esperienza della fortuna che, fuggendola e lasciandosi a poco a poco consumare, concedere agl'inimici la vittoria senza sangue e senza pericolo; e i comandamenti del re, che era lontano, doversi piú presto per ricordi che per precetti ripigliare, i quali erano fatti prudentemente se fussino stati seguitati da Obigní, ma essendo variato per quel disordine lo stato della guerra essere necessario che medesimamente le deliberazioni si variassino. Era prevaluta nel consiglio questa sentenza; e però, come ebbono notizia dalle spie che le genti spagnuole, o tutte o parte, erano uscite di Barletta, prese similmente Nemors il cammino verso la Cirignola, cammino all'uno e all'altro esercito molto incomodo; perché, per essere quegli paesi sterilissimi d'acqua, e la state sopravenuta molto piú tosto che non suole essere al principio di maggio, è fama che quel dí ne perirono nel camminare, di sete, molti di ciascuna delle parti: né sapevano i franzesi se quel che si era mosso era tutto o parte dello esercito spagnuolo, perché Fabrizio Colonna co' cavalli leggieri non lasciava penetrare a loro notizia alcuna, e le lancie ritte degli uomini d'arme, e i gambi de' finocchi che in quel paese sono altissimi, impedivano loro la vista. Arrivorono prima gli spagnuoli alla Cirignola, che si guardava per i franzesi; e ponendosi ad alloggiare tra certe vigne, allargorono per consiglio di Prospero Colonna un fosso che era alla fronte del loro alloggiamento. Sopragiunseno poi i franzesi mentre che l'alloggiamento si faceva, ed essendo già vicina la notte stettono dubbi o d'appiccare subito il fatto d'arme o di differire la battaglia al dí seguente; e consigliavano Ivo d'Allegri e il principe di Melfi che si indugiasse al dí seguente, nel qual dí speravano che gli spagnuoli, necessitati dal mancamento delle vettovaglie, avessino a muoversi, onde fuggirsi oltre alla propinquità della notte il disavvantaggio di assaltargli nel proprio alloggiamento, non sapendo massimamente la disposizione di quello; ma, disprezzando impetuosamente Nemors il consiglio piú salutifero, assaltorono gli spagnuoli con furore grande; combattendo con la medesima ferocità i svizzeri. Ed essendosi, o per caso o per altro, attaccato il fuoco alla munizione degli spagnuoli, Consalvo, abbracciato l'augurio, con franco animo gridò: - Noi abbiamo vinto; Iddio ci annunzia manifestamente la vittoria, dandoci segno che non ci bisogna piú adoperare l'artiglieria. -
Varia è la fama del progresso della battaglia. I franzesi publicorono, le genti loro avere nel primo congresso rotta la fanteria spagnuola, arrivati alla artiglieria avere arsa la polvere ed essersene insignoriti; ma che, sopravenuta la notte, le genti d'arme avevano percosso per errore nella fanteria propria, per il quale disordine gli spagnuoli essersi rifatti. Ma dagli altri fu publicato che, per la difficoltà di passare il fosso, i franzesi cominciando ad avvilupparsi tra loro medesimi si messeno in fuga, non meno per disordine proprio che per virtú degl'inimici; essendo massime spaventati per la morte di Nemors, il quale combattendo ferocemente tra i primi, e riscaldando i suoi a passare il fosso, cadde percosso d'uno scoppio. Altri, piú particolarmente, che Nemors, disperato di spuntare il fosso, volendo girare la gente al fianco del campo per fare pruova d'entrare da quella banda, fece gridare: - a dietro, a dietro, - la qual voce a chi non sapeva la cagione dava segno di fuggire; e la morte sua, che essendo nel primo squadrone nel medesimo tempo sopravenne, voltò tutto l'esercito in fuga manifesta. Rimuovono alcuni altri dal viceré la infamia d'avere contro al consiglio degli altri combattuto, anzi la trasferiscono in Allegri che, essendo inclinato il viceré a non combattere quel dí, riprendendolo di timidità lo indusse a contrario consiglio. Durò la battaglia per brevissimo spazio; e ancora che gli spagnuoli, passato il fosso, gli seguitassino, ne fu, per essere già notte oscura, presi e morti pochissimi, specialmente di uomini a cavallo; tra' quali fu morto monsignore di Ciandeu: il resto, perduti i carriaggi perduta l'artiglieria, si salvò con la fuga, spargendosi i capitani e i soldati in varie parti. È fama che, essendo già cacciati per tutto gli inimici, che Consalvo, non vedendo in luogo alcuno Prospero Colonna ne dimandava con instanza, dubitava non fusse stato ammazzato nel fatto d'arme; e che Fabrizio, volendo tassarlo di timidità, ridendo gli rispose non essere da temere che Prospero fusse entrato in luogo pericoloso. Acquistossi questa vittoria otto dí dopo la rotta di Obigní; e l'una e l'altra in venerdí, giorno osservato per felice dagli spagnuoli.
Feciono i franzesi, come furono raccolti dalla fuga, vari disegni, o di unirsi con le reliquie dello esercito in qualche luogo opportuno a impedire a' vincitori l'andare a Napoli o di fermarsi alla difesa di Napoli; nondimeno, come nelle cose avverse diventano ogni dí maggiori il timore e le difficoltà di chi è stato vinto, niuno di questi partiti si messe a esecuzione, perché e in altri luoghi aveano difficoltà di fermarsi, e Napoli giudicavano non potere difendere per la carestia delle vettovaglie: alla quale per provedere aveano prima i franzesi fatto comperare a Roma quantità grande di frumenti, ma il popolo romano impedí non si traessino, o per conservare Roma abbondante o per suggestione occulta (come molti credettono) del pontefice. Però Allegri, il principe di Salerno e molti altri baroni si ritirorno tra Gaeta e Traietto, ove si raccolse dietro al nome loro la maggiore parte delle reliquie dell'esercito. Ottenuta Consalvo tanta vittoria, non allentando il favore della fortuna, si dirizzò con l'esercito a Napoli; e passando da Melfi offerse al principe la facoltà di ritenersi il suo stato in caso volesse seguitare la divozione spagnuola: il quale, accettando piú tosto d'essere lasciato partire con la moglie e co' figliuoli, andò a congiugnersi con Luigi d'Ars che s'era fermato a Venosa. Avuto Melfi, seguitò Consalvo il cammino a Napoli; ove come cominciò ad accostarsi, i franzesi che v'erano dentro si ritirorno in Castelnuovo, e i napoletani abbandonati, il quartodecimo dí di maggio, riceverono Consalvo: come feceno, nel tempo medesimo, Aversa e Capua.