Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume ottavo
Cap. i
Nuovi e piú gravi mali che affliggeranno l'Italia. Responsabilità de' veneziani e sdegno contro di loro di Massimiliano e del re di Francia. Ragioni di sdegno del pontefice contro i veneziani e timori suoi di successi francesi. Lega di Cambrai contro Venezia. Ratifica del trattato da parte del re d'Aragona. Ratifica del pontefice, dopoché i veneziani hanno respinto la richiesta sua di Faenza e di Rimini.
Non erano tali le infermità d'Italia, né sí poco indebolite le forze sue, che si potessino curare con medicine leggiere; anzi, come spesso accade ne' corpi ripieni di umori corrotti, che uno rimedio usato per provedere al disordine di una parte ne genera de' piú perniciosi e di maggiore pericolo, cosí la tregua fatta tra il re de' romani e i viniziani partorí agli italiani, in luogo di quella quiete e tranquillità che molti doverne succedere sperato aveano, calamità innumerabili, e guerre molto piú atroci e molto piú sanguinose che le passate: perché se bene in Italia fussino state, già quattordici anni, tante guerre e tante mutazioni, nondimeno, o essendosi spesso terminate le cose senza sangue o le uccisioni state piú tra' barbari medesimi, avevano patito meno i popoli che i príncipi. Ma aprendosi in futuro la porta a nuove discordie, seguitorono per tutta Italia, e contro agli italiani medesimi, crudelissimi accidenti, infinite uccisioni, sacchi ed eccidi di molte città e terre, licenza militare non manco perniciosa agli amici che agli inimici, violata la religione, conculcate le cose sacre con minore riverenza e rispetto che le profane.
La cagione di tanti mali, se tu la consideri generalmente, fu come quasi sempre l'ambizione e la cupidità de' príncipi: ma considerandola particolarmente, ebbono origine dalla temerità e dal procedere troppo insolente del senato viniziano, per il quale si rimossono le difficoltà che insino allora avevano tenuto sospesi il re de' romani e il re di Francia a convenirsi contro a loro; l'uno de' quali immoderatamente esacerbato condussono in grandissima disperazione, l'altro nel tempo medesimo concitorono in somma indegnazione, o almeno gli dettono facoltà di aprire sotto apparente colore quel che lungamente aveva desiderato. Perché Cesare, stimolato da tanta ignominia e danno ricevuto, e avendo in luogo di acquistare gli stati di altri perduto una parte de' suoi ereditari, non era per lasciare indietro cosa alcuna per risarcire tanta infamia e tanto danno; la quale disposizione accrebbono di nuovo, dopo la tregua fatta, imprudentemente i viniziani, perché, non si astenendo da provocarlo non meno con le dimostrazioni vane che con gli effetti, riceverono in Vinegia con grandissima pompa e quasi come trionfante l'Alviano: e il re di Francia, ancora che da principio desse speranza di ratificare la tregua fatta, dimostrandosene poi alterato maravigliosamente, si lamentava che i viniziani avessino presunto di nominarlo e includerlo come aderente, e che, avendo proveduto al riposo proprio, avessino lasciato lui nelle molestie della guerra: necessitato, per l'onore e utilità propria, a difendere contro a Cesare (che da Cologna andava in Fiandra per opprimerlo), il duca di Ghelleri, antico collegato suo e pronto sempre per lui a opporsi a' fiamminghi e a molestargli, e per la cui autorità ne' popoli vicini e per l'opportunità del suo paese gli era facile il fare passare nella Francia fanti tedeschi, quante volte avesse volontà di soldarne. Le quali disposizioni dell'animo dell'uno e dell'altro incominciorono in breve spazio di tempo a manifestarsi: perché Cesare, delle forze proprie non confidando, né sperando piú che per le ingiurie sue si risentissino i príncipi o i popoli di Germania, inclinava a unirsi col re di Francia contro a' viniziani, come unico rimedio a ricuperare l'onore e gli stati perduti; e il re, avendogli lo sdegno nuovo rinnovata la memoria delle offese che si persuadeva avere ricevute da loro nella guerra napoletana, e stimolato dall'antica cupidità di Cremona e dell'altre terre possedute lungo tempo da' duchi di Milano, aveva la medesima inclinazione: perciò si cominciò a trattare tra loro, per potere, rimosso l'impedimento delle cose minori, attendere insieme alle maggiori, di comporre le differenze trall'arciduca e il duca di Ghelleri.
Stimolava similmente l'animo del re contro a' viniziani nel tempo medesimo il pontefice, acceso oltre all'antiche cagioni da nuove indegnazioni; perché si persuadeva che per opera loro i fuorusciti di Furlí, i quali si riducevano a Faenza, avessino tentato di entrare in quella città, e perché nel dominio veneto aveano ricetto i Bentivogli, stati dal re scacciati del ducato di Milano; aggiugnendosi che all'autorità della corte di Roma avevano in molte cose minore rispetto che mai: nelle quali avea ultimatamente turbato molto l'animo del pontefice che avendo conferito il vescovado di Vicenza, vacato per la morte del cardinale di San Piero a Vincola suo nipote, a Sisto similmente nipote suo, surrogato da lui nella degnità del cardinalato e ne' medesimi benefici, il senato viniziano disprezzata questa collazione aveva eletto uno gentiluomo di Vinegia; il quale, recusando il pontefice di confermarlo, ardiva temerariamente nominarsi vescovo eletto di Vicenza dallo eccellentissimo consiglio de' pregati. Dalle quali cose infiammato, mandò prima al re Massimo secretario del cardinale di Nerbona e di poi il medesimo cardinale, che succeduto nuovamente per la morte del cardinale di Aus nel suo vescovado si chiamava il cardinale di Aus; i quali, uditi dal re con allegra fronte, riportorono a lui vari partiti da eseguirsi, e senza Cesare e unitamente con Cesare. Ma il pontefice era piú pronto a querelarsi che a determinarsi; perché da una parte combatteva nella sua mente il desiderio ardente che si movessino l'armi contro a' viniziani, da altra parte lo riteneva il timore di non essere costretto a spendere immoderatamente per la grandezza d'altri, e molto piú la gelosia antica conceputa del cardinale di Roano, per la quale gli era molestissimo che eserciti potenti del re passassino in Italia: e turbava in qualche parte le cose maggiori l'avere il pontefice conferito poco innanzi senza saputa del re i vescovadi d'Asti e di Piacenza, e il ricusare il re che 'l nuovo cardinale di San Piero in Vincola, a cui per la morte dell'altro era stata conferita la badia di Chiaravalle, beneficio ricchissimo e propinquo a Milano, ne conseguisse la possessione.
Nelle quali difficoltà quel che non risolveva il pontefice deliberorno finalmente Cesare e il re di Francia, i quali trattando insieme secretissimamente contro a' viniziani, si convennono nella città di Cambrai, per dare alle cose trattate perfezione, per la parte di Cesare madama Margherita sua figliuola, sotto 'l cui governo si reggevano la Fiandra e gli altri stati pervenuti per l'eredità materna nel re Filippo, seguitandola a questo trattato Matteo Lango secretario accettissimo di Cesare, e per la parte del re di Francia il cardinale di Roano; spargendo fama di convenirsi per trattare la pace tra l'arciduca e il duca di Ghelleri, tra' quali aveano fatta tregua per quaranta dí, ingegnandosi che la vera cagione non pervenisse alla notizia de' viniziani: all'oratore de' quali affermava con giuramenti gravissimi il cardinale di Roano, volere il suo re perseverare nella confederazione con loro. Seguitò il cardinale, piú tosto non contradicente che permettente, lo imbasciadore del re d'Aragona; perché se bene quel re fusse stato il primo motore di questi ragionamenti tra Cesare e il re di Francia erano stati dipoi continuati senza lui, persuadendosi l'uno e l'altro di loro essergli molesta la prosperità del re di Francia, e sospetto, per rispetto del governo di Castiglia, ogni augumento di Cesare, e che perciò i pensieri suoi non fussino in questa cosa conformi colle parole. A Cambrai si fece in pochissimi dí l'ultima determinazione, non partecipata cosa alcuna, se non dopo la conclusione fatta, con l'oratore del re cattolico; la quale il dí seguente, che fu il decimo di dicembre, fu con solenni cerimonie confermata nella chiesa maggiore, col giuramento di madama Margherita, del cardinale di Roano e dello imbasciadore spagnuolo, non publicando altro che l'essere contratta tra 'l pontefice e ciascuno di questi príncipi perpetua pace e confederazione. Ma negli articoli piú secreti si contennono effetti sommamente importanti; i quali, ambiziosi e in molte parti contrari a' patti che Cesare e il re di Francia aveano co' viniziani, si coprivano (come se la diversità delle parole bastasse a trasmutare la sostanza de' fatti) con uno proemio molto pietoso nel quale si narrava il desiderio comune di cominciare la guerra contro agli inimici del nome di Cristo, e gli impedimenti che faceva a questo l'avere i viniziani occupate ambiziosamente le terre della Chiesa. Li quali volendo rimuovere per procedere poi unitamente a cosí santa e necessaria espedizione, e per i conforti e consigli del pontefice, il cardinale di Roano come procuratore e col suo mandato e come procuratore e col mandato del re di Francia, e madama Margherita come procuratrice e col mandato del re de' romani e come governatrice dell'arciduca e degli stati di Fiandra, e l'oratore del re d'Aragona come procuratore e col mandato del suo re, convennono di muovere guerra a' viniziani, per ricuperare ciascuno le cose sue occupate da loro, che si nominavano: per la parte del pontefice, Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia; per il re de' romani, Padova, Vicenza e Verona appartenentigli in nome dello imperio, e il Friuli e Trevigi appartenenti alla casa d'Austria; per il re di Francia, Cremona e la Ghiaradadda, Brescia, Bergamo e Crema; per il re d'Aragona, le terre e i porti stati dati in pegno da Ferdinando re di Napoli. Fusse tenuto il re cristianissimo venire alla guerra in persona, e dargli principio il primo giorno del prossimo mese di aprile; al qual tempo avessino similmente a cominciare il pontefice e il re cattolico: che acciò che Cesare avesse giusta causa di non osservare la tregua fatta, il papa lo richiedesse, come avvocato della Chiesa, di aiuto; dopo la quale richiesta Cesare gli mandasse almeno uno condottiere, e fusse tenuto, fra quaranta dí che 'l re di Francia avesse rotta la guerra, assaltare personalmente lo stato de' viniziani: qualunque di loro avesse recuperato le cose proprie fusse tenuto aiutare gli altri insino che avessino interamente ricuperato, obligati tutti alla difesa di chiunque di loro fusse nelle terre ricuperate molestato da' viniziani; co' quali niuno potesse convenire senza consentimento comune: potessino essere nominati infra tre mesi il duca di Ferrara, il marchese di Mantova e ciascuno che pretendesse i viniziani occupargli alcuna terra; nominati, godessino come principali tutti i benefici della confederazione, avendo facoltà di ricuperarsi da se stessi le cose perdute: ammunisse il pontefice, sotto pene e censure gravissime, i viniziani a restituire le cose occupate alla Chiesa; e fusse giudice della differenza tra Bianca Maria moglie del re de' romani e il duca di Ferrara, per conto della eredità di Anna sorella di lei e moglie già del duca predetto: investisse Cesare il re di Francia, per sé per Francesco d'Anguelem e loro discendenti maschi, del ducato di Milano; per la quale investitura il re gli pagasse ducati centomila: non facessino né Cesare né l'arciduca, durando la guerra e sei mesi poi, novità alcuna contro al re cattolico per cagione del governo e de' titoli de' regni di Castiglia; esortasse il papa il re di Ungheria a entrare nella presente confederazione: nominasse ciascuno tra quattro mesi i collegati e aderenti suoi, non potendo nominare i viniziani né i sudditi o feudatari di alcuno de' confederati; e che ciascuno de' contraenti principali dovesse intra sessanta dí prossimi ratificare. Alla concordia universale s'aggiunse la particolare trall'arciduca e il duca di Ghelleri, nella quale fu convenuto che le terre occupate nella guerra presente allo arciduca, si restituissino, ma non già il simigliante di quelle che al duca erano state occupate. Stabilita in questa forma la nuova confederazione, ma tenendosi quanto si poteva secreto quel che apparteneva a viniziani, il cardinale di Roano si partí il dí seguente da Cambrai, mandati prima a Cesare il vescovo di Parigi e Alberto Pio conte di Carpi per ricevere da lui la ratificazione in nome del re di Francia; il quale senza dilazione ratificò e confermò con giuramento, colle solennità medesime colle quali era stata fatta la publicazione nella chiesa di Cambrai. Con questi semi di gravissime guerre finí l'anno mille cinquecent'otto.
È certo che questa confederazione, con tutto che nella scrittura si dicesse intervenirvi il mandato del papa e del re d'Aragona, fu fatta senza mandato o consentimento loro, persuadendosi Cesare e il re cristianissimo che avessino a consentire, parte per l'utilità propria parte perché, per la condizione delle cose presenti, né l'uno né l'altro di essi alla loro autorità ardirebbe repugnare: e massimamente il re d'Aragona, al quale benché fusse molesta questa capitolazione (perché temendo che non si augumentasse troppo la grandezza del re di Francia anteponeva la sicurtà di tutto il reame di Napoli alla recuperazione della parte posseduta da' viniziani), nondimeno, ingegnandosi di dimostrare con la prontezza il contrario di quello che sentiva nello animo, ratificò con le solennità medesime subitamente.
Maggiore dubitazione era nel pontefice, combattendo in lui, secondo la sua consuetudine, da una parte il desiderio di ricuperare le terre di Romagna e lo sdegno contro a' viniziani e dall'altra il timore del re di Francia; oltre che, essere pericoloso per sé e per la sedia apostolica giudicava che la potenza di Cesare cominciasse in Italia a distendersi. E però, parendogli piú utile l'ottenere con la concordia una parte di quello desiderava che il tutto con la guerra, tentò di indurre il senato viniziano a restituirgli Rimini e Faenza; dimostrando che i pericoli che soprastavano per l'unione di tanti príncipi sarebbono molto maggiori concorrendo nella confederazione il pontefice, perché non potrebbe recusare di perseguitargli con le armi spirituali e temporali, ma che, restituendo le terre occupate alla Chiesa nel suo pontificato, e cosí riavendo insieme con le terre l'onore, arebbe giusta cagione di non ratificare quel che era stato fatto in nome suo ma senza suo consentimento; e che rimovendosene l'autorità pontificale diventerebbe facilmente vana questa confederazione, che per se stessa aveva avute molte difficoltà: il che potevano essere certi che egli, quanto potesse, procurerebbe con l'autorità e con la industria, se non per altro perché in Italia non si augumentasse piú la potenza de' barbari, pericolosissima non meno alla sedia apostolica che agli altri. Sopra la quale dimanda facendosi nel senato viniziano varie consulte, e inclinando molti a consentire alle sue domande per l'utilità che risulterebbe dal separarsi l'autorità del pontefice dagli altri, molti per contrario affermando non si dovere comperare con tanta indegnità quel che non basterebbe a liberargli dalla guerra, sarebbe finalmente prevaluta l'opinione di quegli che confortavano la piú sana e migliore sentenza, se Domenico Trivisano senatore di grande autorità, e uno de' procuratori del tempio ricchissimo di San Marco, onore nella republica veneta di maggiore stima che alcun altro dopo il doge, levatosi in piedi, non avesse consigliato il contrario: il quale, con molte ragioni e con efficacia grande di parlare, si ingegnò di persuadere essere cosa molto aliena dalla degnità e dalla utilità di quella chiarissima e amplissima republica restituire le terre dimandate dal pontefice, dalla cui congiunzione o alienazione cogli altri confederati poco si accrescerebbono o alleggierirebbeno i loro pericoli. Perché se bene, acciò che apparisse meno disonesta la causa loro, avessino nel convenire usato il nome del pontefice, si erano effettualmente convenuti senza lui, in modo che per questo non diventerebbono né piú lenti né piú freddi alle esecuzioni deliberate; e per contrario, non essere l'armi del pontefice di tale valore che e' dovessino comprare con tanto prezzo il fermarle. Conciossiaché, se nel tempo medesimo fussino assaltati dagli altri, potersi con mediocre guardia difendere quelle città, le quali le genti della Chiesa (infamia della milizia, secondo il vulgatissimo proverbio) non erano per se medesime bastanti né a espugnare, né a fare inclinazione alcuna alla somma della guerra; e ne' movimenti e nel fervore delle armi temporali non sentirsi la riverenza né i minacci delle armi spirituali, le quali non essere da temere che nocessino piú loro in questa guerra che fussino nociute in molte altre e specialmente nella guerra fatta contro a Ferrara, nella quale non erano state potenti a impedire che non conseguissino la pace onorevole per sé e vituperosa per il resto d'Italia, che con consentimento tanto grande, e nel tempo che fioriva di ricchezze d'armi e di virtú, si era unita tutta contro a loro: e ragionevolmente, perché non era verisimile che il sommo Dio volesse che gli effetti della sua severità e della sua misericordia, della sua ira e della sua pace, fussino in potestà d'uno uomo ambiziosissimo e superbissimo, sottoposto al vino e a molte altre inoneste voluttà: che la esercitasse ad arbitrio delle sue cupidità, non secondo la considerazione della giustizia o del bene publico della cristianità. Già, se in questo pontificato non era piú costante la fede sacerdotale che fusse stata negli altri, non vedere che certezza potesse aversi che, conseguita da loro Faenza e Rimini, non si unisse con gli altri per recuperare Ravenna e Cervia, non avendo maggiore rispetto alla fede data che sia stato proprio de' pontefici; i quali, per giustificare le fraudi loro, hanno statuito, tra l'altre leggi, che la Chiesa, non ostante ogni contratto ogni promessa ogni beneficio conseguitone, possa ritrattare e direttamente contravenire alle obligazioni che i suoi medesimi prelati hanno solennemente fatte. La confederazione essere stata fatta tra Massimiliano e il re di Francia con grande ardore, ma non essere simili gli animi degli altri collegati, perché il re cattolico vi aderiva malvolentieri e nel pontefice apparivano segni delle sue consuete vacillazioni e sospizioni; però non essere da temere piú della lega fatta a Cambrai che di quello che altra volta a Trento e dipoi a Bles avevano convenuto, col medesimo ardore, i medesimi Massimiliano e Luigi, perché alla esecuzione delle cose determinate repugnavano molte difficoltà, le quali per sua natura erano quasi impossibili a svilupparsi. E perciò, il principale studio e diligenza di quel senato doversi voltare a cercare di alienare Cesare da quella congiunzione, il che per la natura e per le necessità sue, e per l'odio antico fisso contro a' franzesi, si poteva facilmente sperare; e alienatolo, non essere pericolo alcuno che fusse mossa la guerra, perché il re di Francia abbandonato da lui non ardirebbe d'assaltargli piú di quello che avesse ardito per il passato. Doversi in tutte le cose publiche considerare diligentemente i princípi, perché non era poi in potestà degli uomini partirsi, senza sommo disonore e pericolo, dalle deliberazioni già fatte e nelle quali si era perseverato lungo tempo. Avere i padri loro ed essi successivamente atteso in tutte l'occasioni ad ampliare l'imperio, con scoperta professione di aspirare sempre a cose maggiori: di qui essere divenuti odiosi a tutti, parte per timore parte per dolore delle cose tolte loro. Il quale odio benché si fusse conosciuto molto innanzi potere partorire qualche grande alterazione, nondimanco non si erano però né allora astenuti da abbracciare l'occasioni che se gli offerivano, né ora essere rimedio a' presenti pericoli cominciare a cedere parte di quello possedevano; conciossiaché non per questo si quieterebbono, anzi si accenderebbeno, gli animi di chi gli odiava, pigliando ardire dalla loro timidità: perché essendo titolo inveterato, già molti anni, in tutta Italia che il senato viniziano non lasciava giammai quel che una volta gli era pervenuto nelle mani, chi non conoscerebbe che il fare ora cosí vilmente il contrario procederebbe da ultima disperazione di potersi difendere dai pericoli imminenti? Cominciando a cedere qualunque cosa benché piccola, declinarsi dalla riputazione e dallo splendore antico della loro republica; onde augumentarsi grandemente i pericoli. Ed essere piú difficile, senza comparazione, conservare, eziandio da' minori pericoli, quel che rimane, a chi ha cominciato a declinare che non è a chi, sforzandosi di conservare la degnità e il grado suo, si volge prontamente, senza fare segno alcuno di volere cedere, contra chi cerca di opprimerlo. Ed essere necessario o disprezzare animosamente le prime dimande o, consentendole, pensare d'averne a consentire molte altre: dalle quali, in brevissimo spazio di tempo, risulterebbe la totale annullazione di quello imperio, e seguentemente la perdita della propria libertà. Avere la republica veneta, e ne' tempi de' padri e ne' tempi di loro medesimi, sostenuto gravissime guerre co' príncipi cristiani, e per avere sempre ritenuta la costanza e generosità dell'animo riportatone gloriosissimo fine. Doversi nelle difficoltà presenti, ancorché forse paressino maggiori, sperarne il medesimo successo; perché e la potenza e l'autorità loro era maggiore, e nelle guerre fatte comunemente da molti príncipi contro a uno solere essere maggiore lo spavento che gli effetti, perché prestamente si raffreddavano gli impeti primi, prestamente cominciando a nascere varietà di pareri indeboliva tra loro la fede; e dovere quel senato confidarsi che, oltre alle provisioni e rimedi che essi farebbono da se medesimi, Dio, giudice giustissimo, non abbandonerebbe una republica nata e nutrita in perpetua libertà, ornamento e splendore di tutta la Europa, né lascerebbe conculcare alla ambizione de' príncipi, sotto falso colore di preparare la guerra contro agli infedeli, quella città la quale, con tanta pietà e con tanta religione, era stata tanti anni la difesa e il propugnacolo di tutta la republica cristiana. Commossono in modo gli animi della maggiore parte le parole di Domenico Trivisano che, come già qualche anno era stato spesse volte quasi fatale in quello senato, fu, contro al parere di molti senatori grandi di prudenza e di autorità, seguitato il consiglio peggiore. Però il pontefice, il quale aveva differito insino all'ultimo dí assegnato alla ratificazione il ratificare, ratificò; ma con espressa dichiarazione di non volere fare atto alcuno di inimicizia contro a' viniziani se non dappoi che il re di Francia avesse dato alla guerra cominciamento.
Cap. ii
Difficili condizioni de' pisani; fallito tentativo de' genovesi e de' lucchesi di introdurre grano in Pisa; accordi fra fiorentini e lucchesi. Convenzione fra i fiorentini e i re di Francia e d'Aragona.
Erano, in questo tempo medesimo, ridotte e ogni dí piú si riduceano in grandissima strettezza le cose de' pisani: perché i fiorentini, oltre all'avere la state precedente tagliate tutte le loro ricolte, e oltre al correre continuamente le genti loro dalle terre circostanti insino in sulle porte di Pisa, aveano, per impedire che per mare non vi entrassino vettovaglie, soldato con alcuni legni il figliuolo del Bardella da Portoveneri; onde i pisani, assediati quasi per terra e per mare, né avendo per la povertà loro facoltà di condurre o legni o soldati forestieri, ed essendo da' vicini aiutati lentamente, non avevano piú quasi speranza alcuna di sostentarsi. Dalle quali cose mossi i genovesi e lucchesi deliberorono di fare esperienza che in Pisa entrasse quantità grande di grani; i quali, caricati sopra grande numero di barche e accompagnati da due navi genovesi e due galeoni, erano stati condotti alla Spezie e dipoi a Vioreggio, acciò che di quivi per ordine de' pisani, con quattordici brigantini e molte barche, si conducessino in Pisa. Ma volendo opporsi i fiorentini, perché nella condotta o esclusione di questi grani consisteva totalmente la speranza o la disperazione di conseguire quello anno Pisa, aggiunsono a' legni che aveano prima una nave inghilese, che per ventura si trovava nel porto di Livorno, e alcune fuste e brigantini; e aiutando quanto potevano, con le preparazioni terrestri, l'armata marittima, mandorno tutta la cavalleria e grande numero di fanti, raccolti subitamente del loro dominio, a tutte quelle parti donde i legni degli inimici potessino, o per la foce d'Arno o per la foce di Fiumemorto entrando in Arno, condursi in Pisa. Condussonsi gli inimici tralla foce d'Arno e...; [e] essendo i legni de' fiorentini tra la foce e Fiumemorto, e la gente di terra occupati tutti i luoghi opportuni e distese l'artiglierie in sulle ripe da ogni parte del fiume donde aveano a passare, giudicando non potere procedere piú innanzi, si ritornorno nella riviera di Genova, perduti tre brigantini carichi di frumento. Dal quale successo apparendo quasi certa per mancamento di vettovaglie la vittoria i fiorentini, per impedire piú agevolmente che per il fiume non ne potessino essere condotte, gittorono in su Arno uno ponte di legname, fortificandolo con bastioni dall'una e l'altra ripa; e nel tempo medesimo, per rimuovere gli aiuti de' vicini, convennono co' lucchesi, avendo prima, per reprimere l'audacia loro, mandato a saccheggiare, con una parte delle genti mossa da Cascina, il porto di Vioreggio e i magazzini dove erano molti drappi di mercatanti di Lucca. E per questo avendo i lucchesi impauriti mandato a Firenze imbasciadori, rimasono finalmente concordi che tra l'una e l'altra republica fusse confederazione difensiva per anni tre, escludendo nominatamente i lucchesi dalla facoltà di aiutare in qualunque modo i pisani; la quale confederazione, recuperandosi per i fiorentini Pisa infra uno anno, si intendesse prorogata per altri dodici anni, e durante questa confederazione non dovessino i fiorentini, senza pregiudicio per ciò delle loro ragioni, molestare i lucchesi nella possessione di Pietrasanta e di Mutrone.
Ma fu di momento molto maggiore a facilitare lo acquisto di Pisa la capitolazione fatta da loro coi re cristianissimo e cattolico. La quale, trattata molti mesi, aveva avuto varie difficoltà: temendo i fiorentini, per l'esperienza del passato, che questo non fusse mezzo a trarre da loro quantità grande di danari e nondimeno che le cose di Pisa rimanessino nel medesimo grado; e da altra parte interpretando il re di Francia procurarsi la dilazione artificiosamente, per la speranza che i pisani, l'estremità de' quali erano notissime, da loro medesimi cedessino, né volendo che in modo alcuno la ricuperassino senza pagargliene la mercede, comandò al Bardella suo suddito che si partisse da' soldi loro, e a Ciamonte che da Milano mandasse in aiuto de' pisani secento lancie: per la quale cosa, rimosse tutte le dubitazioni e difficoltà, convenneno in questa forma: non dessino né il re di Francia né il re d'Aragona favore o aiuto a' pisani, e operassino con effetto che da' luoghi sudditi a loro, o confederati o raccomandati, non andassino a Pisa vettovaglie né soccorso di danari né di genti né di alcun'altra cosa; pagassino i fiorentini in certi termini a ciascuno di essi, se infra un anno prossimo ricuperassino Pisa, cinquantamila ducati; e nel caso predetto si intendesse fatta tra loro lega per tre anni dal dí della recuperazione, per la quale i fiorentini fussino obligati difendere con trecento uomini d'arme gli stati che aveano in Italia, ricevendo per la difesa propria da qualunque di loro almeno trecento uomini d'arme. Alla capitolazione fatta in comune fu necessario aggiugnere, senza saputa del re, cattolico, nuove obligazioni di pagare al re di Francia, ne' tempi e sotto le condizioni medesime, cinquantamila altri ducati. Oltre che fu di bisogno promettessino di donare a' ministri de' due re venticinquemila ducati, de' quali la maggiore parte s'aveva a distribuire secondo la volontà del cardinale di Roano. Le quali convenzioni, benché fussino con gravissima spesa de' fiorentini, dettono nondimeno appresso a tutti gli uomini infamia piú grave a quei re: de' quali l'uno si dispose per danari ad abbandonare quella [città], che molte volte aveva affermato avere ricevuta nella sua protezione, e della quale, come si manifestò poi, essendosegli spontaneamente data, il gran capitano avea accettato in suo nome il dominio; l'altro, non si ricordando delle promesse fatte molte volte a' fiorentini, o vendé per brutto prezzo la libertà giusta de' pisani o costrinse i fiorentini a comperare da lui la facoltà di ricuperare giustamente le cose proprie. Tanto può oggi comunemente piú la forza della pecunia che il rispetto dell'onestà.
Cap. iii
Preparativi del re di Francia per la guerra. Sollecite misure di difesa de' veneziani; casi sfortunati per loro. Piano di guerra de' veneziani. Inizi della spedizione del re di Francia contro i veneziani.
Ma le cose de' pisani, che già solevano essere negli occhi di tutta Italia, erano in questo tempo di piccola considerazione, dependendo gli animi degli uomini da espettazione di cose maggiori. Perché, ratificata che fu la lega di Cambrai da tutti i confederati, cominciò il re di Francia a fare grandissime preparazioni; e con tutto che per ancora a protesti o minaccie di guerra non si procedesse, nondimeno, non si potendo piú la cosa dissimulare, il cardinale di Roano, presente tutto il consiglio, si lamentò con ardentissime parole con l'oratore de' viniziani che quel senato, disprezzando la lega e l'amicizia del re, faceva fortificare la badia di Cerreto nel territorio di Crema: nella quale essendo stata anticamente una fortezza, fu distrutta per i capitoli della pace fatta l'anno mille quattrocento cinquantaquattro tra, viniziani e Francesco Sforza nuovo duca di Milano, con patto che i viniziani non potessino in tempo alcuno fortificarvi; a' capitoli della quale pace si riferiva, in questo e in molte altre cose, la pace fatta tra loro e il re. E già, essendo venuto il re pochi dí poi a Lione, camminavano le genti sue per passare i monti, e si apparecchiavano per scendere nel tempo medesimo in Italia seimila svizzeri soldati da lui. E aiutandosi, oltre alle forze proprie, di quelle degli altri, avea ottenute da' genovesi quattro caracche, da' fiorentini cinquantamila ducati per parte di quegli che se gli dovevano dopo l'acquisto di Pisa; e dal ducato di Milano, desiderosissimo d'essere reintegrato nelle terre occupate da' viniziani, gli erano stati donati centomila ducati, e molti gentiluomini e feudatari di quello stato si provedevano di cavalli e d'armi per seguitare alla guerra con ornatissime compagnie la persona del re.
Da altra parte si preparavano i viniziani a ricevere con animo grandissimo tanta guerra, sforzandosi, co' danari con l'autorità e con tutto il nervo del loro imperio, di fare provisioni degne di tanta republica; e con tanto maggiore prontezza quanto pareva molto verisimile che, se sostenessino il primo impeto, s'avesse facilmente l'unione di questi príncipi, male conglutinata, ad allentarsi o risolversi: nelle quali cose, con somma gloria del senato, il medesimo ardore si dimostrava in coloro che prima aveano consigliato invano che la fortuna prospera modestamente si usasse che in quegli che erano stati autori del contrario; perché, preponendo la salute publica alla ambizione privata, non cercavano che crescesse la loro autorità col rimproverare agli altri i consigli perniciosi né con l'opporsi a' rimedi che si facevano a' pericoli nati per la loro imprudenza. E nondimeno, considerando che contro a loro si armava quasi tutta la cristianità, si ingegnorono quanto potettono di interrompere tanta unione, pentitisi già d'avere dispregiata l'occasione di separare dagli altri il pontefice, avendo massimamente avuta speranza che egli sarebbe stato paziente se gli restituivano Faenza sola. Però con lui rinnovorno i primi ragionamenti, e ne introdusseno de' nuovi con Cesare e col re cattolico; perché col re di Francia, o per l'odio o per la disperazione d'averlo a muovere, non tentorno cosa alcuna. Ma né il pontefice poteva accettare piú quel che prima avea desiderato, e al re cattolico con tutto che forse non mancasse la volontà mancava la facoltà di rimuovere gli altri; e Cesare, pieno d'odio smisurato contro al nome viniziano, non solamente non gli esaudí ma né udí l'offerte loro, perché recusò di ammettere al cospetto suo Giampiero Stella loro secretario mandatogli con amplissime commissioni. Però, voltati tutti i pensieri a difendersi coll'armi, soldavano da ogni parte quantità grandissima di cavalli e di fanti, e armavano molti legni per la custodia de' liti di Romagna, e per metterne nel lago di Garda e nel Po e negli altri fiumi vicini, per i quali fiumi temevano essere molestati dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova. Ma gli turbavano, oltre a' minacci degli uomini, molti casi o fatali o fortuiti. Percosse una saetta la fortezza di Brescia, una barca mandata dal senato a portare danari a Ravenna si sommerse con diecimila ducati nel mare, l'archivio pieno di scritture attenenti alla republica andò totalmente in terra con subita rovina; ma gli empié di grandissimo terrore che in quegli dí, e nell'ora medesima che era congregato il consiglio maggiore, appiccatosi, o per caso o per fraude occulta di qualcuno, il fuoco nel loro arzanale, nella stanza dove si teneva il salnitro, con tutto vi concorresse numero infinito d'uomini a estinguerlo, aiutato dalla forza del vento e dalla materia atta a pascerlo e ampliarlo, abbruciò dodici corpi di galee sottili e quantità grandissima di munizioni. Alle difficoltà loro si aggiunse che avendo soldato Giulio e Renzo Orsini e Troilo Savello, con cinquecento uomini d'arme e tremila fanti, il pontefice con asprissimi comandamenti, fatti come a feudatari e sudditi della Chiesa, gli costrinse a non si partire di terra di Roma, invitandogli a ritenersi quindicimila ducati ricevuti per lo stipendio, con promettere di compensargli in quello che i viniziani, per i frutti avuti delle terre di Romagna, alla sedia apostolica doveano. Volgevansi le preparazioni del senato principalmente verso i confini del re di Francia, dall'armi del quale aspettavano l'assalto piú presto e piú potente: perché dal re d'Aragona, con tutto che avesse agli altri confederati promesso molto, si spargevano dimostrazioni e romori, secondo la sua consuetudine, ma non si facevano apparati di molto momento; e Cesare, occupato in Fiandra perché i popoli sottoposti al nipote lo sovvenissino volontariamente di danari, non si credeva dovesse cominciare la guerra al tempo promesso; e il pontefice pensavano che, sperando piú nella vittoria degli altri che nell'armi proprie, avesse a regolarsi secondo i progressi de' collegati.
Non si dubitava che 'l primo assalto del re di Francia avesse a essere nella Ghiaradadda, passando il fiume dell'Adda appresso a Casciano però si raccoglieva a Pontevico, in sul fiume dell'Oglio, l'esercito veneto, del quale era capitano generale il conte di Pitigliano e governatore Bartolomeo d'Alviano, e vi erano proveditori in nome del senato Giorgio Cornaro e Andrea Gritti, gentiluomini chiari e molto onorati per l'ordinarie loro qualità, e per la gloria acquistata l'anno passato, l'uno per le vittorie del Friuli l'altro per l'opposizione fatta a Roveré contro a' tedeschi. Tra' quali consultandosi in che maniera fusse da procedere nella guerra erano varie le sentenze, non solo tra gli altri ma tra 'l capitano e il governatore. Perché l'Alviano, feroce di ingegno e insuperbito per i successi prosperi dell'anno precedente, e pronto a seguitare le occasioni sperate e di incredibile celerità cosí nel deliberare come nell'eseguire, consigliava che, per fare piú tosto la sedia della guerra nel paese degli inimici che aspettare fusse trasferita nello stato proprio, si assaltasse, innanzi che 'l re di Francia passasse in Italia, il ducato di Milano. Ma il conte di Pitigliano, o raffreddato il vigore dell'animo (come diceva l'Alviano) per la vecchiezza o considerando per la lunga esperienza con maggiore prudenza i pericoli, e alieno dal tentare senza grandissima speranza la fortuna, consigliava che disprezzata la perdita delle terre della Ghiaradadda, che non rilevavano alla somma della guerra, l'esercito si fermasse appresso alla terra degli Orci, come già nelle guerre tra' viniziani e il ducato di Milano aveano fatto Francesco Carmignuola e poi Iacopo Piccinino, famosi capitani de' tempi loro; alloggiamento molto forte per essere in mezzo tra' fiumi dell'Oglio e del Serio, e comodissimo a soccorrere tutte le terre del dominio viniziano: perché se i franzesi andassino ad assaltargli in quello alloggiamento potevano, per la fortezza del sito, sperarne quasi certa la vittoria; ma se andassino a campo [a] Cremona o Crema o Bergamo o Brescia, potrebbono per difesa di quelle accostarsi coll'esercito in luogo sicuro, e infestandogli, con tanto numero di cavalli leggieri e stradiotti che avevano, le vettovaglie e l'altre comodità, impedirebbeno loro il prendere qualunque terra importante. E cosí, senza rimettersi in potestà della fortuna, potersi facilmente difendere lo imperio viniziano da cosí potente e impetuoso assalto del re di Francia. De' quali consigli l'uno e l'altro era stato rifiutato dal senato; quello dell'Alviano come troppo audace, questo del capitano generale come troppo timido e non consideratore della natura de' pericoli presenti: perché al senato sarebbe piú piaciuto, secondo la inveterata consuetudine di quella republica, il procedere sicuramente e l'uscire il meno potessino della potestà di loro medesimi; ma da altra parte si considerava, se nel tempo che tutte quasi le loro forze fussino impegnate a resistere al re di Francia assaltasse il loro stato potentemente il re de' romani, con quali armi con quali capitani con quali forze potersi opporsegli; per il quale rispetto, quella via che per se stessa pareva piú certa e piú sicura rimanere piú incerta e piú pericolosa. Però, seguitando come spesso si fa nelle opinioni contrarie, quella che è in mezzo, fu deliberato che l'esercito s'accostasse al fiume dell'Adda, per non lasciare in preda degli inimici la Ghiaradadda; ma con espressi ricordi e precetti del senato viniziano che, senza grande speranza o urgente necessità, non si venisse alle mani con gli inimici.
Diversa era molto la deliberazione del re di Francia, ardente di desiderio che gli eserciti combattessino. Il quale, accompagnato dal duca dell'Oreno e da tutta la nobiltà del reame di Francia, come ebbe passati i monti, mandò Mongioia suo araldo a intimare la guerra al senato viniziano; commettendogli che, acciocché tanto piú presto si potesse dire intimata, facesse nel passare da Cremona il medesimo co' magistrati viniziani. E se bene, non essendo ancora unito tutto l'esercito suo, avesse deliberato che non si movesse cosa alcuna insino a tanto che egli non fusse personalmente a Casciano, nondimeno, o per gli stimoli del pontefice, che si lamentava essere passato il tempo determinato nella capitolazione, o acciocché cominciasse a correre il tempo a Cesare obligato a muovere la guerra quaranta dí poi che il re l'avesse mossa, mutata la prima deliberazione, comandò a Ciamonte desse principio, non essendo ancora le genti viniziane, perché non erano raccolte tutte, partite da Pontevico.
Cap. iv
Primi fatti di guerra. La bolla del pontefice contro i veneziani; l'intimazione di guerra del re di Francia e la risposta del doge. I francesi passano l'Adda a Cassano. I francesi a Rivolta. La battaglia di Ghiaradadda. Resa di Bergamo e di Brescia al re di Francia.
Fu il primo movimento di tanto incendio il quintodecimo dí d'aprile. Nel quale dí Ciamonte, passato a guazzo con tremila cavalli il fiume dell'Adda appresso a Casciano, e fatto passare in su battelli seimila fanti e dietro a loro l'artiglierie, si dirizzò alla terra di Trevi, lontana tre miglia da Casciano, nella quale era Giustiniano Morosino proveditore degli stradiotti de' viniziani, e con lui Vitello da Città di Castello e Vincenzio di Naldo, che rassegnavano i fanti che si doveano distribuire nelle terre vicine: i quali, credendo che i franzesi, che in piú parti si erano sparsi per la campagna, non fussino gente ordinata per assaltare la terra ma per correre il paese, mandorno fuora dugento fanti e alcuni stradiotti, co' quali appiccatasi una parte delle genti franzesi, gli seguitò scaramucciando insino al rivellino della porta; e poco dipoi sopragiugnendo gli altri, e appresentate l'artiglierie e cominciato già a battere co' falconetti le difese, o la viltà de' capi spaventati di questo impeto sí improviso o la sollevazione degli uomini della terra gli costrinse ad arrendersi allo arbitrio libero di Ciamonte. Cosí rimasono prigioni Giustiniano proveditore, Vitello e Vincenzio e il conte Braccio, e con loro cento cavalli leggieri e circa mille fanti quasi tutti di Valdilamone; essendosi solamente salvati col fuggire dugento stradiotti: e dipoi Ciamonte, a cui si erano arrendute alcune terre vicine, ritornò con le genti tutte di là da Adda. E il medesimo dí il marchese di Mantova, come soldato del re da cui avea la condotta di cento lancie, corse a Casalmaggiore; il quale castello senza fare resistenza gli fu dato dagli uomini della terra, insieme con Luigi Bono officiale viniziano. Corse eziandio il medesimo dí da Piacenza Roccalbertino, con cento cinquanta lancie e tremila fanti passati in su uno ponte di barche, fatto dove l'Adda entra nel Po nel contado di Cremona; in altra parte del quale corsono similmente le genti che erano alla guardia di Lodi, gittato uno ponte in su Adda, e tutti i paesani della montagna di Brianza insino a Bergamo. Il quale assalto fatto in uno giorno medesimo da cinque parti, senza dimostrarsi gli inimici in luogo alcuno, ebbe maggiore strepito che effetto; perché Ciamonte si ritornò subito a Milano per aspettare la venuta del re che già era vicino, e il marchese di Mantova, che preso Casalmaggiore aveva tentato Asola invano, inteso che l'Alviano con molta gente aveva passato il fiume dell'Oglio a Pontemolaro, abbandonò Casalmaggiore.
Fatto questo principio alla guerra, il pontefice incontinente publicò, sotto nome di monitorio, una bolla orribile; nella quale furno narrate tutte le usurpazioni che avevano fatte i viniziani delle terre pertinenti alla sedia apostolica, e l'autorità arrogatesi, in pregiudicio della libertà ecclesiastica e della giurisdizione de' pontefici, di conferire i vescovadi e molti altri benefici vacanti, di trattare ne' fori secolari le cause spirituali e l'altre attenenti al giudicio della Chiesa, e di molte altre cose, e tutte le inobbedienze passate. Oltre alle quali fu narrato che pochi dí innanzi, per turbare in pregiudicio della medesima sedia le cose di Bologna, avevano chiamati a Faenza i Bentivogli rebelli della Chiesa; e sottoposti, loro e chi gli ricettasse, a gravissime censure; ammonendogli a restituire, infra ventiquattro dí prossimi, le terre che occupavano della Chiesa insieme con tutti i frutti ricevuti nel tempo l'aveano tenute, sotto pena, in caso non ubbidissino, di incorrere nelle censure e interdetti, non solo la città di Vinegia ma tutte le terre che gli ubbidissino, e quelle ancora che non suddite allo imperio loro ricettassino alcuno viniziano; dichiarandogli incorsi in crimine di maestà lesa e diffidati come inimici, in perpetuo, da tutti i cristiani: a' quali concedeva facoltà di occupare per tutto le robe loro e fare schiave le persone. Contro alla quale bolla fu da uomini incogniti presentata, pochi dí poi, nella città di Roma, una scrittura in nome del principe e de' magistrati viniziani; nella quale, dopo lunga e acerbissima narrazione contro al pontefice e il re di Francia, si interponeva l'appellazione dal monitorio al futuro concilio e, in difetto della giustizia umana, a' piedi di Cristo giustissimo giudice e principe supremo di tutti. Nel quale tempo, aggiugnendosi al monitorio spirituale le denunzie temporali, l'araldo Mongioia, arrivato in Vinegia e introdotto innanzi al doge e al collegio, protestò in nome del re di Francia la guerra già cominciata, aggravandola con cagioni piú efficaci che vere o giuste: alla proposta del quale, avendo alquanto consultato, fu risposto dal doge con brevissime parole che, poi che il re di Francia aveva deliberato di muovere loro la guerra nel tempo che piú speravano di lui, per la confederazione la quale non aveano mai violata, e per aversi, per non si separare da lui, provocato inimico il re de' romani, che attenderebbeno a difendersi, sperando poterlo fare con le forze loro accompagnate dalla giustizia della causa. Questa risposta parve piú secondo la degnità della republica che distendersi in giustificazioni e querele vane contro a chi già gli avea assaltati con l'armi.
Ma unito che fu a Pontevico l'esercito viniziano, nel quale erano dumila uomini d'arme tremila tra cavalli leggieri e stradiotti, quindicimila fanti eletti di tutta Italia, e veramente il fiore della milizia italiana non meno per la virtú de' fanti che per la perizia e valore de' capitani, e quindicimila altri fanti scelti dell'ordinanza de' loro contadi, e accompagnati da copia grandissima di artiglierie, venne a Fontanella, terra vicina a Lodi a sei miglia e sedia opportuna a soccorrere Cremona, Crema, Caravaggio e Bergamo: ove giudicando avere occasione, per la ritirata di Ciamonte di là da Adda né essendo ancora unito tutto l'esercito del re, di ricuperare Trevi, si mossono per deliberazione del senato ma contro al consiglio, secondo che esso affermava poi, dell'Alviano; il quale allegava essere deliberazioni quasi repugnanti vietare che si combattesse coll'esercito degli inimici e da altra parte accostarsegli tanto, perché non sarebbe forse in potestà loro il ritirarsi, e quando pure potessino farlo, sarebbe con tanta diminuzione della reputazione di quello esercito che nocerebbe troppo alla somma di tutta la guerra; e che egli, per questo rispetto e per l'onore proprio e per l'onore comune della milizia italiana, eleggerebbe piú tosto di morire che di consentire a tanta ignominia. Occupò prima l'esercito Rivolta dove i franzesi non avevano lasciata guardia alcuna, ove messi cinquanta cavalli e trecento fanti, si accostò a Trevi, terra poco distante da Adda e situata in luogo alquanto eminente, e nella quale Ciamonte aveva lasciate cinquanta lancie e mille fanti sotto il capitano Imbalt, Frontaglia guascone e il cavaliere Bianco, e piantate l'artiglierie dalla parte di verso Casciano ove il muro era piú debole, e facendo processo grande, quegli che erano dentro il dí seguente si arrenderono, salvi i soldati ma senza armi, e rimanendo prigioni i capitani, e la terra a discrezione libera del vincitore: la quale subito andò a sacco, con danno maggiore de' vincitori che de' vinti. Perché il re di Francia, come intese il campo inimico essere intorno a Trevi, parendogli che la perdita di quel luogo quasi in su gli occhi suoi gli togliesse molto della reputazione, si mosse subitamente da Milano per soccorrerlo, e condotto, il dí poi che era stato preso Trevi che fu il nono di maggio, in sul fiume presso a Casciano, ove prima per l'opportunità di Casciano erano stati senza difficoltà gittati tre ponti in sulle barche, passò con tutto l'esercito, senza farsi dagli inimici dimostrazione alcuna di resistergli; maravigliandosi ciascuno che oziosamente perdessino tanta occasione di assaltare la prima parte delle genti che fusse passata, ed esclamando il Triulzio, quando vedde passarsi senza impedimento: - Oggi, o re cristianissimo, abbiamo guadagnato la vittoria. - La quale occasione è manifesto che medesimamente fu conosciuta e voluta usare dai capitani, ma non fu mai in potestà loro, né con autorità né con prieghi né con minaccie, fare uscire di Trevi i soldati, occupati nel sacco e nella preda: al quale disordine non bastando alcuno altro rimedio a provedere, l'Alviano per necessitargli a uscire fece mettere fuoco nella terra; ma fu fatto questo rimedio tanto tardi che già i franzesi con grandissima letizia erano interamente passati, beffandosi della viltà e del poco consiglio degli inimici.
Alloggiò il re con l'esercito poco piú di uno miglio vicino allo alloggiamento de' viniziani, posto in luogo alquanto rilevato e, per il sito e per i ripari fatti, forte in modo che non si poteva senza manifesto pericolo andare ad assaltargli; ove consultandosi in quale modo si dovesse procedere, molti di quegli che intervenivano ne' consigli del re, persuadendosi che l'armi di Cesare avessino presto a sentirsi, confortavano che si procedesse lentamente, perché essendo ne' fatti d'arme migliori le condizioni di colui che aspetta di essere assaltato che di chi cerca di assaltare altri, la necessità costrignerebbe i capitani viniziani, vedendosi impotenti a difendere quello imperio da tante parti, a cercare di fare la giornata. Ma il re sentiva diversamente, purché s'avesse occasione di combattere in luogo dove il sito non potesse prevalere alla virtú de' combattitori; mosso o perché temesse non fussino tardi i movimenti del re de' romani, o perché, trovandosi in persona con tutte le forze del suo reame, non solo avesse speranza grande della vittoria ma giudicasse disonorarsi molto il nome suo se da per sé senza aiuto d'altri non terminasse la guerra, e pel contrario essergli sommamente glorioso che per la potenza e virtú sua ottenessino non meno di lui gli altri confederati i premi della vittoria. Da altra parte il senato e i capitani de' viniziani, non accelerando per timore di Cesare i consigli loro, aveano deliberato, non si mettendo in luoghi eguali a loro e agli inimici ma fermandosi sempre in alloggiamenti forti, fuggire in un tempo medesimo la necessità del combattere e impedire a' franzesi il fare processo alcuno importante. Con queste deliberazioni stette fermo l'uno e l'altro esercito; nel quale luogo, benché tra i cavalli leggieri si facessino spessi assalti, e che i franzesi facendo piú innanzi l'artiglierie cercassino avere occasione di combattere, non si fece maggiore movimento. Mossesi il dí seguente il re verso Rivolta, per tentare se il desiderio di conservarsi quella terra facesse muovere gli italiani; i quali non si movendo, per ottenere almeno la confessione tacita che e' non ardissino di venire alla battaglia, stette fermo per quattro ore innanzi allo alloggiamento loro con tutto l'esercito ordinato alla battaglia, non facendo essi altro moto che di volgersi, senza abbandonare il sito forte, alla fronte de' franzesi in ordinanza: nel qual tempo condotta da una parte de' soldati del re l'artiglieria alle mura di Rivolta, fu in poche ore presa per forza; ove alloggiò la sera medesima il re con tutto l'esercito, angustiato nell'animo, e non poco, del modo col quale procedevano gli inimici, il consiglio de' quali tanto piú laudava quanto piú gli dispiaceva. Ma per tentare di condurgli per necessità a quel che non gli induceva la volontà, dimorato che fu un giorno a Rivolta, abbruciatala nel partirsi, mosse l'esercito per andare ad alloggiare a Vaila o a Pandino la notte prossima, sperando da qualunque di questi due luoghi potere comodamente impedire le vettovaglie che da Cremona e da Crema venivano agli inimici, e cosí mettergli in necessità di abbandonare l'alloggiamento nel quale insino ad allora erano stati. Conoscevano i capitani viniziani quali fussino i pensieri del re, né dubitavano essere necessario di mettersi in uno alloggiamento forte propinquo agli inimici, per continuare di tenergli nelle medesime difficoltà e impedimenti; ma il conte di Pitigliano consigliava che si differisse il muoversi al dí seguente; nondimeno fece instanza tanto ardente del contrario l'Alviano, allegando essere necessario il prevenire, che finalmente fu deliberato di muoversi subitamente.
Due erano i cammini, l'uno piú basso vicino al fiume dell'Adda ma piú lungo a condursi a' luoghi sopradetti andandosi per linea obliqua, l'altro piú discosto dal fiume ma piú breve perché si andava per linea diritta, e (come si dice) questo per la corda dell'arco quello per l'arco. Per il cammino di sotto procedeva l'esercito del re, nel quale si dicevano essere piú di dumila lancie seimila fanti svizzeri e dodicimila tra guasconi e italiani, munitissimo di artiglierie e che aveva copia grande di guastatori; per il cammino di sopra, e a mano destra inverso lo inimico, procedeva l'esercito viniziano, nel quale si dicevano essere dumila uomini d'arme piú di ventimila fanti e numero grandissimo di cavalli leggieri, parte italiani parte condotti da' viniziani di Grecia, i quali correvano innanzi, ma non si allargando quanto sogliono perché gli sterpi e arbuscelli, de' quali tra l'uno e l'altro esercito era pieno il paese, gli impedivano: come medesimamente impedivano che l'uno e l'altro esercito non si vedesse. Nel qual modo procedendo, e avanzando continuamente di cammino l'esercito viniziano, si appropinquorno molto in un tempo medesimo l'avanguardia franzese governata da Carlo d'Ambuosa e da Gianiacopo da Triulzi, nella quale erano cinquecento lancie e i fanti svizzeri, e il retroguardo de' viniziani guidato da Bartolomeo d'Alviano, nel quale erano [ottocento] uomini d'arme e quasi tutto il fiore de' fanti dello esercito, ma che non procedeva molto ordinato non pensando l'Alviano che quel dí si dovesse combattere. Ma come vedde essersi tanto approssimato agli inimici, o svegliatasi in lui la solita caldezza o vedendosi ridotto in luogo che era necessario fare la giornata, significata subitamente al conte di Pitigliano, che andava innanzi con l'altra parte dell'esercito, la sua o necessità o deliberazione, lo ricercò che venisse a soccorrerlo: alla qual cosa il conte rispose che attendesse a camminare, che fuggisse il combattere, perché cosí ricercavano le ragioni della guerra e perché tale era la deliberazione del senato viniziano. Ma l'Alviano, in questo mezzo, avendo collocati i fanti suoi con sei pezzi di artiglieria in su uno piccolo argine fatto per ritenere l'impeto di uno torrente, il quale non menando allora acqua passava trall'uno e l'altro esercito, assaltò gli inimici con tale vigore e con tale furore che gli costrinse a piegarsi; essendogli in questo molto favorevole l'essersi principiato il fatto d'arme in una vigna, ove per i tralci delle viti non poteano i cavalli de' franzesi espeditamente adoperarsi. Ma fattasi innanzi per questo pericolo la battaglia dell'esercito franzese, nella quale era la persona del re, si serrorono i due primi squadroni addosso alla gente dell'Alviano; il quale per il principio felice venuto in grandissima speranza della vittoria, correndo in qua e in là, riscaldava e stimolava con ardentissime voci i soldati suoi. Combattevasi da ogni parte molto ferocemente, avendo i franzesi per il soccorso de' suoi ripigliato le forze e l'animo, ed essendo la battaglia ridotta in luogo aperto ove i cavalli, de' quali molto prevalevano, si potevano liberamente maneggiare; accesi ancora assai per la presenza del re il quale, non avendo maggiore rispetto alla persona sua che se fusse stato privato soldato, esposto al pericolo dell'artiglierie non cessava, secondo che co' suoi era di bisogno, di comandare, di confortare, di minacciare: e da altra parte i fanti italiani, inanimiti da' successi primi, combattevano con vigore incredibile, non mancando l'Alviano di tutti gli offici convenienti a eccellente soldato e capitano. Finalmente, essendosi con somma virtú combattuto circa a tre ore, la fanteria italiana danneggiata maravigliosamente nel luogo aperto da' cavalli degli inimici, ricevendo oltre a questo non piccolo impedimento che nel terreno diventato lubrico per grandissima pioggia, sopravenuta mentre si combatteva, non potevano i fanti combattendo fermare i piedi, e sopratutto mancandogli il soccorso de' suoi, cominciò a combattere con grandissimo disavvantaggio; e nondimeno resistendo con grandissima virtú, ma già avendo perduta la speranza del vincere, piú per la gloria che per la salute, fece sanguinosa e per alquanto spazio di tempo dubbia la vittoria de' franzesi; e ultimatamente, perdute prima le forze che il valore, senza mostrare le spalle agli inimici, rimasono quasi tutti morti in quel luogo: tra' quali fu molto celebrato il nome di Piero, uno de' marchesi del Monte a Santa Maria di Toscana, esercitato condottiere di fanti nelle guerre di Pisa agli stipendi de' fiorentini, e allora uno de' colonnelli della fanteria viniziana. Per la quale resistenza tanto valorosa di una parte sola dell'esercito, fu allora opinione costante di molti che se tutto l'esercito de' viniziani entrava nella battaglia arebbe ottenuta la vittoria: ma il conte di Pitigliano con la maggiore parte si astenne dal fatto d'arme; o perché, come diceva egli, essendosi voltato per entrare nella battaglia fusse urtato dal seguente squadrone de' viniziani che già fuggiva, o pure, come si sparse la fama, perché non avendo speranza di potere vincere, e sdegnato che l'Alviano avesse contro alla autorità sua presunto di combattere, migliore consiglio riputasse che quella parte dell'esercito si salvasse che il tutto per l'altrui temerità si perdesse. Morirno in questa battaglia pochi uomini d'arme, perché la uccisione grande fu de' fanti de' viniziani, de' quali alcuni affermano esserne stati ammazzati ottomila; altri dicono che 'l numero de' morti da ogni parte non passò in tutto seimila. Rimase prigione Bartolomeo d'Alviano, il quale con uno occhio e col volto tutto percosso e livido fu menato al padiglione del re; presi venti pezzi d'artiglieria grossa e molta minuta; e il rimanente dell'esercito, non seguitato, si salvò. Questa fu la giornata famosa di Ghiaradadda o, come altri la chiamano, di Vaila, fatta il quartodecimo dí di maggio; per memoria della quale il re fece nel luogo ove si era combattuto edificare una cappella, onorandola col nome di Santa Maria della Vittoria.
Ottenuta tanta vittoria, il re, per non corrompere con la negligenza l'occasione acquistata con la virtú e con la fortuna, andò il dí seguente a Caravaggio; ed essendosegli arrenduta subito a patti la terra, batté con l'artiglierie la fortezza, la quale in spazio di uno dí si dette liberamente. Arrendessegli il prossimo dí, non aspettato che l'esercito s'accostasse, la città di Bergamo; nella quale lasciate cinquanta lancie e mille fanti per la espugnazione della fortezza, si indirizzò a Brescia; dove, innanzi arrivasse, la fortezza di Bergamo stata battuta uno dí con l'artiglierie si arrendé, con patto che fussino prigioni Marino Giorgio e gli altri ufficiali viniziani: perché il re, non tanto mosso da odio quanto dalla speranza d'averne a trarre quantità grande di danari, era deliberato di non accettare mai, quando se gli arrendevano le terre, patto alcuno per il quale fussino salvati i gentiluomini viniziani. Ne' bresciani non era piú quella antica disposizione con la quale avevano, al tempo degli avoli loro, sostenuto nelle guerre di Filippo Maria Visconte gravissimo assedio per conservarsi sotto lo imperio viniziano; ma inclinati a darsi a' franzesi, parte per il terrore delle armi loro parte per i conforti del conte Giovanfrancesco da Gambara, capo della fazione ghibellina, avevano il dí dopo la rotta occupate le porte della città, opponendosi apertamente a Giorgio Cornaro, il quale andato quivi con grandissima celerità voleva mettervi gente; e dipoi accostatosi alla città l'esercito diminuito assai di numero, non tanto per il danno ricevuto nel fatto d'arme quanto perché, come accade ne' casi simili, molti volontariamente se ne partivano, disprezzorono l'autorità e i prieghi di Andrea Gritti, che entrò in Brescia a persuadergli che gli accettassino per loro difesa. Però l'esercito, non si riputando sicuro in quel luogo, andò verso Peschiera; e la città di Brescia, facendosene autori i Gambereschi, si arrendé al re di Francia; e il medesimo fece due dí poi la fortezza, con patto che fussino salvi tutti quegli che vi erano dentro, eccetto i gentiluomini viniziani.
Cap. v
Dolore e spavento a Venezia dopo la disfatta e provvedimenti del governo. Nuove conquiste del re di Francia. Il pontefice acquista le terre di Romagna. Altre terre perdute da' veneziani.
Ma come a Vinegia pervenne la nuova di tanta calamità non si potrebbe immaginare non che scrivere quanto fusse il dolore e lo spavento universale, e quanto divenissino confusi e attoniti gli animi di tutti, insoliti a sentire avversità tali anzi assuefatti a riportare quasi sempre vittoria in tutte le guerre, e presentandosegli innanzi agli occhi la perdita dello imperio e il pericolo della ultima ruina della loro patria, in luogo di tanta gloria e grandezza con la quale da pochi mesi indietro si proponevano nell'animo l'imperio di tutta Italia. Però da ogni parte della città si concorreva con grandissimi gridi e miserabili lamenti al palagio publico: nel quale consultandosi per i senatori quello che in tanto caso fusse da fare, rimaneva dopo lunga consulta soprafatto il consiglio dalla disperazione, tanto deboli e incerti erano i rimedi, tanto minime e quasi nulle le speranze della salute; considerando non avere altri capitani né altre genti per difendersi che quelle che avanzavano della rotta spogliate di forze e di animo, i popoli sudditi a quello dominio o inclinati a ribellarsi o alieni da tollerare per loro danni e pericoli, il re di Francia, con esercito potentissimo e insolente per la vittoria, disposto a seguitare il corso della prospera fortuna, al nome solamente del quale essere per cedere ciascuno; e se a lui solo non avevano potuto resistere, che sarebbe venendo innanzi il re de' romani, il quale si intendeva appropinquarsi a' confini loro, e che ora invitato da tanta occasione accelererebbe il venire? mostrarsi da ogni parte pericoli e disperazione con pochissimi indizi di speranze. E che sicurtà avere che nella propria patria, piena di innumerabile moltitudine, non si suscitasse, parte per la cupidità del rubare parte per l'odio contro a' gentiluomini, qualche pericoloso tumulto? Già (quel che è l'estremo grado della timidità) reputavano certissimi tutti i casi avversi i quali si rappresentavano alla immaginazione propria che potessino succedere; e nondimeno, raccolto in tanto timore il meglio potevano l'animo, deliberorno di fare estrema diligenza di riconciliarsi per qualunque modo col pontefice col re de' romani e col re cattolico, senza pensiero alcuno di mitigare l'animo del re di Francia, perché, dell'odio suo contro a loro non manco diffidavano che e' temessino delle sue armi: né posti perciò da parte i pensieri di difendersi, attendendo a fare provisione di danari, ordinavano di soldare nuova gente per terra e, temendo della armata che si diceva prepararsi a Genova, accrescere insino in cinquanta galee l'armata loro, della quale era capitano Angelo Trevisano.
Ma preveniva tutti i consigli loro la celerità del re di Francia, al quale dopo l'acquisto di Brescia si era arrenduta la città di Cremona, ritenendosi ancora per i viniziani la fortezza; la quale benché fortissima arebbe seguitato l'esempio degli altri (avendo massime, ne' medesimi dí, fatto il medesimo la fortezza di Pizichitone)..., se il re avesse consentito che tutti ne uscissino salvi; ma essendovisi ridotti dentro molti gentiluomini viniziani, e tra gli altri Zacheria Contareno ricchissimo uomo, negava di accettarla se non con patto che questi venissino in sua potestà. Però mandatevi genti a tenerla assediata, ed essendosi le genti viniziane, che continuamente diminuivano, fermate nel Campomarzio appresso a Verona perché i veronesi non avevano voluto riceverle dentro, il re camminò innanzi a Peschiera per acquistare la fortezza, essendosi già arrenduta la terra; la quale come ebbeno cominciata a battere con l'artiglierie, vi entrorono per piccole rotture di muro con impeto grandissimo i fanti svizzeri e guasconi, ammazzando i fanti che in numero circa quattrocento vi erano dentro; e il capitano della fortezza che era medesimamente capitano della terra, gentiluomo viniziano, fatto prigione, fu per comandamento del re insieme col figliuolo a' merli medesimi impiccato: inducendosi il re a questa crudeltà acciò che quegli che erano nella fortezza di Cremona, spaventati per questo supplicio, non si difendessino insino all'ultima ostinazione. Cosí aveva, in spazio di quindici dí dopo la vittoria, acquistato il re di Francia, dalla fortezza di Cremona in fuora, tutto quello che gli apparteneva per la divisione fatta a Cambrai: acquisto molto opportuno al ducato di Milano, e per il quale s'accrescevano le entrate regie, ciascuno anno, molto piú di dugentomila ducati.
Nel quale tempo, non si sentendo ancora in luogo alcuno l'armi del re de' romani, aveva il pontefice assaltate le terre di Romagna con quattrocento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e ottomila fanti, e con artiglierie del duca di Ferrara, il quale avea eletto gonfaloniere della Chiesa, titolo, secondo l'uso de' tempi nostri, piú di degnità che di autorità; preposti a questo esercito Francesco da Castel del Rio cardinale di Pavia, con titolo di legato apostolico, e Francesco Maria della Rovere figliuolo già di Giovanni suo fratello, il quale adottato in figliuolo di Guido Ubaldo duca di Urbino, zio materno, e confermata per l'autorità del pontefice l'adozione nel concistorio, era l'anno dinanzi, morto lui senza altri figliuoli, succeduto in quel ducato. Con questo esercito avendo scorso da Cesena verso Cervia e venuti poi tra Imola e Faenza preseno la terra di Solarolo, e stati qualche dí alla bastia vicina a tre miglia di Faenza andorno a Berzighella, terra principale di Valdilamone, ove era entrato Giampaolo Manfrone con ottocento fanti e alcuni cavalli; i quali usciti fuora a combattere, condotti in uno agguato furno sí vigorosamente assaliti da Giampaolo Baglioni e Lodovico dalla Mirandola, condottieri nello esercito ecclesiastico, che rifuggendo nella terra vi entrorono mescolati insieme con loro, e con tale impeto che il Manfrone caduto da cavallo appena ebbe tempo a ritirarsi nella rocca: alla quale essendo presentata l'artiglieria, fu dal primo colpo abbruciata la munizione che vi era dentro, dal quale caso impauriti si rimessono senza alcuna condizione nell'arbitrio de' vincitori. Occupata tutta la valle, l'esercito sceso nel piano, preso Granarolo e tutte l'altre terre del contado di Faenza, andò a campo a Russi, castello situato tra Faenza e Ravenna, ma di non facile espugnazione perché, circondato da fosse larghe e profonde e forte di mura, era guardato da seicento fanti forestieri. E faceva l'espugnazione piú difficile non essere nello esercito ecclesiastico né quel consiglio né quella concordia che sarebbe stata necessaria, benché le forze vi abbondassino, conciossiaché di nuovo vi erano giunti tremila fanti svizzeri soldati dal pontefice; e però, con tutto che i viniziani non fussino potenti in Romagna, si faceva per gli ecclesiastichi poco progresso. I quali per infestare essendo uscito di Ravenna con la sua compagnia Giovanni Greco, capitano di stradiotti, fu rotto e fatto prigione da Giovanni Vitelli uno de' condottieri ecclesiastici. Pure finalmente, poi che furono stati intorno a Russi dieci dí l'ottennono per accordo; ed essendo in questo tempo medesimo succeduta la vittoria del re di Francia, la città di Faenza, la quale per esservi pochi soldati de' viniziani era in potestà di se medesima, convenne di ricevere il dominio del pontefice se infra quindici dí non fusse soccorsa: la quale convenzione poi che fu fatta, essendo usciti di Faenza cinquecento fanti de' viniziani, sotto la fede del legato, furono svaligiati per commissione del duca di Urbino. Fece il medesimo e la città di Ravenna, subito che se gli accostò l'esercito. Cosí, piú con la riputazione della vittoria del re di Francia che con le armi proprie, acquistò presto il pontefice le terre tanto desiderate della Romagna; nella quale non tenevano piú i viniziani altro che la fortezza di Ravenna.
Contro a' quali si scoprivano, dopo la rotta dello esercito loro, ogni dí nuovi inimici. Perché il duca di Ferrara, il quale insino a quel dí non si era voluto dimostrare, cacciò subito di Ferrara il bisdomino, magistrato che per antiche convenzioni, per rendere ragione a' sudditi loro, vi tenevano i viniziani, e prese l'armi recuperò senza ostacolo alcuno il Polesine di Rovigo, e sfondò con l'artiglierie l'armata de' viniziani che era nel fiume dello Adice; e al marchese di Mantova si arrenderono Asola e Lunato, occupate già da' viniziani, nelle guerre contro a Filippo Maria Visconte, a Giovanfrancesco da Gonzaga suo proavo. In Istria Cristoforo Frangiapane occupò Pisinio e Divinio, e il duca di Brunsvich, entrato per comandamento di Cesare nel Friuli con duemila uomini comandati, prese Feltro e Bellona. Alla venuta del quale e alla fama della vittoria de' franzesi, Triesti, e l'altre terre, dallo acquisto delle quali era proceduta a' viniziani l'origine di tanti mali, tornorno allo imperio di Cesare. Occuporono eziandio i conti di Lodrone alcune castella vicine; e il vescovo di Trento, con simile movimento, Riva di Trento e Agresto.
Cap. vi
Padova, Verona ed altre terre lasciate in arbitrio de' popoli. Ambasciata e orazione di Antonio Giustiniano a Massimiliano. I veneziani mandano in Puglia per la consegna dei porti al re d'Aragona e in Romagna per la consegna al pontefice di quanto ancora essi possiedono.
Ma niuna cosa aveva dopo la rotta di Vaila spaventato tanto i viniziani quanto la espugnazione della rocca di Peschiera, intorno alla quale si erano persuasi doversi per la fortezza sua fermare l'impeto dei vincitori. Però attoniti per tanti mali, e temendo estremamente che non si facesse piú innanzi il re di Francia, disperate le cose loro e astretti piú da timidità che da consiglio, ritiratesi le genti loro a Mestri, le quali senza obedienza e ordine alcuno erano ridotte a numero molto piccolo, deliberorono, per non avere piú tanti inimici, con disperazione forse troppo presta, di cedere allo imperio di terra ferma: né meno, per levare al re di Francia l'occasione di approssimarsi a Vinegia; perché non stavano senza sospetto che in quella città si facesse qualche tumulto, concitato da' popolari o dalla moltitudine innumerabile che vi abita di forestieri, questi tirati da desiderio di rubare, quegli da non volere tollerare che, essendo cittadini nati per lunga successione in una medesima città, anzi molti del medesimo sangue e delle medesime famiglie, fussino esclusi dagli onori, e in tutte le cose quasi soggetti a' gentiluomini. Della quale abiezione d'animo fu anche nel senato allegata questa ragione, che se volontariamente cedevano allo imperio per fuggire i presenti pericoli, che con piú facilità, ritornando mai la prospera fortuna, lo ricupererebbeno; perché i popoli, licenziati spontaneamente da loro, non sarebbeno cosí renitenti a tornare sotto l'antico dominio come sarebbeno se se ne fussino partiti con aperta rebellione. Dalle quali ragioni mossi, dimenticata la generosità viniziana, e lo splendore di tanto gloriosa republica, contenti di ritenersi solamente l'acque salse, commesseno agli ufficiali che erano in Padova in Verona e nelle altre terre destinate a Massimiliano, che lasciatele in arbitrio de' popoli se ne partissino. E oltre a questo, per ottenere da lui con qualunque condizione la pace, gli mandorono con somma celerità imbasciadore Antonio Giustiniano; il quale, ammesso in publica udienza al cospetto di Cesare, parlò miserabilmente e con grandissima sommissione: ma invano, perché Cesare recusava di fare senza il re di Francia convenzione alcuna. Non mi pare alieno dal nostro proposito, acciò che meglio si intenda in quanta costernazione d'animo fusse ridotta quella republica, la quale già piú di dugento anni non avea sentito avversità pari a questa, inserire la propria orazione avuta da lui innanzi a Cesare, trasferendo solamente le parole latine in voci volgari; le quali furono in questo tenore:
- È manifesto e certo che gli antichi filosofi e gli uomini principali della gentilità non errorono, quando quella essere vera, salda, sempiterna e immortale gloria affermorono la quale si acquista dal vincere se medesimo: questa esaltorono sopra tutti i regni trofei e trionfi. Di questo è laudato Scipione maggiore, chiaro per tante vittorie; e piú splendore gli dette che l'Africa vinta e Cartagine domata. Non partorí questa cosa medesima la immortalità a quel macedone grande? quando Dario vinto da lui in una battaglia grandissima pregò gli dèi immortali che stabilissino il suo regno, ma se altrimenti avessino disposto non chiese altro successore che questo tanto benigno inimico tanto mansueto vincitore. Cesare dittatore, del quale tu hai il nome e la fortuna, del quale tu ritieni la liberalità la munificenza e l'altre virtú, non meritò egli di essere descritto nel numero degli dèi per concedere per rimettere per perdonare? Il senato finalmente e il popolo romano, quello domatore del mondo, il cui imperio è in terra in te solo e in te si rappresenta la sua amplitudine e maestà, non sottopose egli piú popoli e provincie con la clemenza con la equità e mansuetudine che con le armi o con la guerra? Le quali cose poi che sono cosí, non sarà numerata trall'ultime laudi se la Maestà tua, che ha in mano la vittoria acquistata de' viniziani, ricordatasi della fragilità umana, saprà moderatamente usarla, e se piú inclinerà agli studi della pace che agli eventi dubbi della guerra. Perché quanta sia la incostanza delle cose umane, quanto incerti i casi, quanto dubbio mutabile fallace e pericoloso lo stato de' mortali, non è necessario mostrare con esempli forestieri o antichi: assai e piú che abbastanza lo insegna la republica viniziana, la quale poco innanzi florida risplendente chiara e potente, in modo che 'l nome e la fama sua celebrata non stesse dentro a' confini della Europa ma con pompa egregia corresse per l'Africa e per l'Asia, e risonando facesse festa negli ultimi termini del mondo, questa, per una sola battaglia avversa e ancora leggiera, privata della chiarezza delle cose fatte, spogliata delle ricchezze, lacerata conculcata e rovinata, bisognosa di ogni cosa, massime di consiglio, è in modo caduta che sia invecchiata la imagine di tutta l'antica virtú, e raffreddato tutto il fervore della guerra. Ma ingannansi, senza dubbio ingannansi i franzesi, se attribuiscono queste cose alla virtú loro; conciossiaché per il passato, travagliati da maggiore incomodità, percossi e consumati da grandissimi danni e ruine, non rimessono mai l'animo, e allora potissimamente quando con grande pericolo facevano guerra molti anni col crudelissimo tiranno de' turchi; anzi sempre di vinti diventorono vincitori. Il medesimo arebbono sperato che fusse stato al presente se, udito il nome terribile della Maestà tua, udita la vivace e invitta virtú delle tue genti, non fussino in modo caduti gli animi di tutti che non ci sia rimasta speranza alcuna non dico di vincere ma né di resistere. Però, gittate in terra l'armi, abbiamo riposta la speranza nella clemenza inenarrabile o piú tosto divina pietà della Maestà tua, la quale non diffidiamo dovere trovare alle cose nostre perdute. Adunque, supplicando in nome del principe, del senato e del popolo viniziano, con umile divozione ti preghiamo oriamo scongiuriamo: degnisi tua Maestà riguardare con gli occhi della misericordia le cose nostre afflitte, e medicarle con salutifero rimedio. Abbraccieremo tutte le condizioni della pace che tu ci darai, tutte le giudicheremo eque oneste conformi alla equità e alla ragione. Ma forse noi siamo degni che da noi medesimi ci tassiamo. Tornino con nostro consenso a te, vero e legittimo signore, tutte le cose che i nostri maggiori tolsono al sacro imperio e al ducato di Austria. Alle quali cose, perché venghino piú convenientemente, aggiugniamo tutto quello che possediamo in terra ferma; alle ragioni delle quali, in qualunque modo siano acquistate, rinunciamo. Pagheremo oltre a questo, ogni anno, alla Maestà tua e a' successori legittimi dello imperio, in perpetuo, ducati cinquantamila; ubbidiremo volentieri a' tuoi comandamenti decreti leggi precetti. Difendici, priego, dalla insolenza di coloro co' quali poco fa accompagnammo l'armi nostre, i quali ora proviamo crudelissimi inimici, che non appetiscono non desiderano cosa alcuna tanto quanto la ruina del nome viniziano: dalla quale clemenza conservati chiameremo te padre progenitore e fondatore della nostra città, scriveremo negli annali e continuamente a' figliuoli nostri i tuoi meriti grandi racconteremo. Né sarà piccola aggiunta alle tue laudi, che tu sia il primo a' piedi del quale la republica veneta supplichevole si prostra in terra, al quale abbassa il collo, il quale onora riverisce osserva come uno dio celeste. Se il sommo massimo Dio avesse dato inclinazione a' maggiori nostri non si fussino ingegnati di maneggiare le cose di altri, già la nostra republica piena di splendore avanzerebbe di molto l'altre città della Europa; la quale ora, marcida di squallore di sorde di corruzione, deforme di ignominia e di vituperio, piena di derisione di contumelie di cavillazioni, ha dissipato in uno momento l'onore di tutte le vittorie acquistate. Ma perché il parlare ritorni finalmente dove cominciò, è in potestà tua, rimettendo e perdonando a' tuoi viniziani, acquistare un nome, un onore, del quale niuno, vincendo, in qualunque tempo, acquistò mai il maggiore il piú splendido. Questo niuna vetustà niuna piú lunga antichità niuno corso di tempo cancellerà delle menti de' mortali, ma tutti i secoli ti chiameranno predicheranno e confesseranno pio, clemente, principe piú glorioso di tutti gli altri. Noi, tuoi viniziani, attribuiremo tutto alla tua virtú felicità e clemenza: che noi viviamo, che usiamo l'aura celeste, che godiamo il commercio degli uomini. -
Mandorono i viniziani, per la medesima deliberazione, uno uomo in Puglia a consegnare i porti al re d'Aragona; il quale, sapendo senza spesa e senza pericolo godere il frutto delle altrui fatiche, aveva mandato di Spagna una armata piccolissima, dalla quale erano state occupate alcune terre di poco momento de' contadi di quelle città. Mandorno similmente in Romagna uno secretario publico, con commissione che al pontefice si consegnasse quel che ancora si teneva per loro, in caso che e' fusse liberato Giampagolo Manfrone e gli altri prigioni, avessino facoltà di trarne l'artiglierie, e che le genti che erano in Ravenna fussino salve. Le quali condizioni mentre che il pontefice, per non dispiacere a' confederati, fa difficoltà di accettare, si arrendé la città di Ravenna. E poco dipoi i soldati, che erano nella fortezza, per loro medesimi la dettono; recusando il secretario de' viniziani che vi era entrato dentro, perché quegli che per loro trattavano a Roma davano speranza che alla fine il pontefice consentirebbe alle condizioni con le quali la restituzione aveano offerta: lamentandosi gravemente il pontefice essere stata dimostrata maggiore contumacia con lui che non era stata usata né con Cesare né col re d'Aragona. E però, addimandandogli i cardinali Grimanno e Cornaro viniziani, in nome del senato, l'assoluzione dal monitorio come debita, per avere offerta nel termine de' ventiquattro dí la restituzione, rispose non avere ubbidito, perché non l'aveano offerta semplicemente ma con limitate condizioni, e perché erano stati ammuniti a restituire oltre alle terre i frutti presi e tutti i beni che e' possedevano appartenenti alle chiese o alle persone ecclesiastiche.
Cap. vii
Sentimenti diversi in Italia per le sventure de' veneziani. Il pontefice acconsente a ricevere gli ambasciatori di Venezia. Mentre Padova, Vicenza e altre terre consegnano le chiavi agli ambasciatori di Massimiliano, Treviso si afferma fedele a Venezia. Inazione e lentezze di Massimiliano.
In questo modo precipitavano con impeto grandissimo e quasi stupendo le cose della republica viniziana, calamità sopra a calamità continuamente accumulandosi, qualunque speranza si proponevano mancando, né indizio alcuno apparendo per il quale sperare potessino almeno conservare, dopo la perdita di tanto imperio, la propria libertà. Moveva variamente tanta rovina gli animi degli italiani, ricevendone molti sommo piacere per la memoria che, procedendo con grandissima ambizione, posposti i rispetti della giustizia e della osservanza della fede e occupando tutto quello di che se gli offeriva l'occasione, aveano scopertamente cercato di sottoporsi tutta Italia: le quali cose facevano universalmente molto odioso il nome loro, odioso ancora piú per la fama che risonava per tutto della alterezza naturale a quella nazione. Da altra parte, molti considerando piú sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la servitú de' forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una tanta città, sedia sí inveterata di libertà, splendore per tutto il mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non rimaneva piú freno alcuno al furore degli oltramontani, e si spegneva il piú glorioso membro, e quel che piú che alcuno altro conservava la fama e l'estimazione comune.
Ma sopra a tutti gli altri era molesta tanta declinazione al pontefice, sospettoso della potenza del re de' romani e del re di Francia, e desideroso che l'essere implicati in altre faccende gli rimovesse da' pensieri di opprimere lui. Per la quale cagione, deliberando, benché occultamente, di sostentare quanto poteva che piú oltre non procedessino i mali di quella republica, accettò le lettere scrittegli in nome del doge di Vinegia, per le quali lo pregava con grandissima sommissione che si degnasse ammettere sei imbasciadori eletti de' principali del senato, per ricercarlo supplichevolmente del perdono e della assoluzione. Lette le lettere e proposta la dimanda in concistoro, allegando il costume antico della Chiesa di non si mostrare duro a coloro che, avendo penitenza degli errori commessi, dimandano venia, consentí d'ammettergli: repugnando molto gli oratori di Cesare e del re di Francia, e riducendogli in memoria che per la lega di Cambrai era espressamente obligato a perseguitargli, con l'armi temporali e spirituali, insino a tanto che ciascuno de' confederati avesse recuperato quello che se gli apparteneva: a' quali rispondeva avere consentito di ammettergli con intenzione di non concedere l'assoluzione se prima Cesare, che solo non avea recuperato il tutto, non conseguitava le cose che se gli appartenevano.
Dette questa cosa qualche cominciamento di speranza e di sicurtà a' viniziani. Ma gli assicurò molto piú dal terrore estremo dal quale erano oppressi la deliberazione del re di Francia, di osservare con buona fede la capitolazione fatta con Cesare e, poiché aveva acquistato tutto quello che aspettava a sé, non entrare con lo esercito piú oltre che fussino i termini suoi. Però, essendo in potestà sua non solo accettare Verona, gl'imbasciadori della quale città venneno a lui per darsegli, presa che ebbe Peschiera, ma similmente occupare senza ostacolo alcuno Padova e l'altre terre abbandonate da' viniziani, volle che gli imbasciadori de' veronesi presentassino le chiavi della terra agli imbasciadori di Cesare che erano nello esercito suo. E per questa cagione si fermò con tutte le genti a Peschiera; la quale terra, invitato dalla opportunità del luogo, ritenne per sé, non ostante che appartenesse al marchese di Mantova, perché insieme con Asola e Lunato era stata occupata da' viniziani: non avendo ardire di negarlo il marchese, al quale riservò l'entrate della terra e promesse di ricompensarlo con cosa equivalente. E aveva ne' medesimi dí ricevuta per accordo la fortezza di Cremona, con patto che a tutti i soldati fusse salva la vita e la roba, eccetto quegli che fussino sudditi suoi, e che i gentiluomini viniziani a' quali dette la fede di salvare la vita fussino suoi prigioni. Seguitorono l'esempio di Verona, Vicenza Padova e l'altre terre, eccetto la città di Trevisi; la quale, abbandonata già da' magistrati e dalle genti de' viniziani, arebbe fatto il medesimo, se di Cesare fusse apparito o forze benché minime o almeno persona di autorità. Ma essendovi andato per riceverla in suo nome, senza forze senza armi senza maestà alcuna di imperio, Lionardo da Dressina fuoruscito vicentino, che per lui aveva nel modo medesimo ricevuto Padova, ed essendo già stato ammesso dentro, gli sbanditi di quella città stati nuovamente restituiti da' viniziani, e per questo beneficio amatori del nome loro, cominciorno a tumultuare; dietro a' quali sollevandosi la plebe affezionata allo imperio viniziano, e facendosene capo uno Marco calzolaio, il quale con concorso e grida immoderate della moltitudine portò in su la piazza principale la bandiera de' viniziani, cominciorono a chiamare unitamente il nome di san Marco, affermando non volere riconoscere né altro imperio né altro signore: la quale inclinazione aiutò non poco uno oratore del re d'Ungheria, che andando a Vinegia e passando per Trevisi, scontratosi a caso in questo tumulto, confortò il popolo a non si ribellare. Però cacciato il Dressina, e messo nella città settecento fanti de' viniziani e poco dipoi tutto l'esercito che, augumentato di fanti venuti di Schiavonia e di quegli che erano ritornati di Romagna, disegnava fare uno alloggiamento forte tra Marghera e Mestri, entrò in Trevisi; dove atteseno con somma diligenza a fortificarlo, e facendo correre i cavalli per tutto il paese vicino e mettere dentro piú vettovaglie potevano, cosí per bisogno di quella città come per uso della città di Vinegia; nella quale da ogni parte accumulavano grandissima copia di vettovaglie.
Cagione principale di questo accidente e di rendere speranza a' viniziani di potere ritenere qualche parte del loro imperio, e di molti gravissimi casi che seguitorono poi, fu la negligenza e il disordinato governo di Cesare; del quale non si era insino a quel dí udito, in tanto corso di vittoria, altro che il nome: con tutto che per il timore dell'armi de' franzesi se gli fussino arrendute tante terre, le quali gli sarebbe stato facilissimo a conservare. Ma era, dopo la confederazione fatta a Cambrai, soprastato qualche dí in Fiandra, per avere spontaneamente danari da' popoli per sussidio della guerra, i quali non prima avuti che, secondo la sua consuetudine, gli spese inutilmente; e ancora che, partito da Molins armato e con tutta la pompa e ceremonie imperiali, e accostatosi a Italia, publicasse di volere rompere la guerra innanzi al termine statuitogli nella capitolazione, nondimeno oppressato dalle sue solite difficoltà e confusioni non si faceva piú innanzi: non bastando gli stimoli del pontefice che, per il terrore che aveva delle armi franzesi, lo sollecitava continuamente a venire in Italia, e perché meglio potesse farlo gli aveva mandato Costantino di Macedonia con cinquantamila ducati, avendogli prima consentito i centomila ducati che per spendere contro agli infedeli erano stati depositati piú anni innanzi in Germania. Aveva oltre a questo ricevuto dal re di Francia centomila ducati, per causa della investitura del ducato di Milano. Sopragiunselo, essendo vicino a Spruch, la nuova del fatto d'arme di Vaila; e benché mandasse subito il duca di Brunsvich a recuperare il Friuli nondimeno non si moveva, come in tanta occasione sarebbe stato conveniente, impedito dal mancamento di danari, non essendo bastati alla sua prodigalità quegli che aveva raccolti di tanti luoghi. Condussesi finalmente a Trento, donde ringraziò per lettere il re di Francia d'avere mediante l'opera sua ricuperate le sue terre; e si affermava che, per dimostrare a quel re maggiore benivolenza, e acciò che in tutto si spegnesse la memoria delle offese antiche, avea fatto ardere uno libro che si conservava a Spira, nel quale erano scritte tutte l'ingiurie fatte per il passato da' re di Francia allo imperio e alla nazione degli alamanni. A Trento venne a lui, il terzodecimo dí di giugno, per trattare delle cose comuni il cardinale di Roano, il quale raccolto con grandissimo onore gli promesse in nome del re aiuto di cinquecento lancie; e avendo espedito concordemente l'altre cose, statuirono che Cesare e il re convenissino a parlare insieme in campagna aperta appresso alla terra di Garda, ne' confini dell'uno dominio e dell'altro. Però il re di Francia si mosse per esservi il dí determinato, e Cesare per la medesima cagione venne a Riva di Trento; ma poi che vi fu stato solamente due ore ritornò subitamente a Trento, significando nel tempo medesimo al re di Francia che per accidenti nuovi nati nel Friuli era stato necessitato a partirsi, e pregandolo si fermasse a Cremona, perché presto ritornerebbe per dare perfezione al parlamento deliberato. La quale varietà, se però è possibile in uno principe tanto instabile ritrovarne la verità, molti attribuivano a sospetto stillatogli (come per natura era molto credulo) negli orecchi da altri; alcuni interpretando che, per avere seco poca corte e poca gente, non gli paresse potersi presentare con quella dignità e riputazione che si paragonasse alla pompa e alla grandezza del re di Francia. Ma il re, desideroso per alleggerirsi da tanta spesa, di dissolvere presto lo esercito, né meno di ritornarsene presto in Francia, non attesa questa proposta, si voltò verso Milano, ancora che da Matteo Lango, doventato episcopo Gurgense, che mandatogli da Massimiliano per questo effetto lo seguitò insino a Cremona, fusse molto pregato ad aspettare, promettendogli che senza fallo alcuno ritornerebbe. Il discostarsi la persona e l'esercito del re cristianissimo da' confini di Cesare tolse assai di riputazione alle cose sue; e nondimeno, con tutto che avesse seco tante genti che potesse facilmente provedere Padova e l'altre terre, non vi mandò presidio, o per instabilità della natura sua o per disegno di attendere prima ad altre imprese o perché gli paresse piú onorevole avere congiunto seco, quando scendeva in Italia, maggiore esercito: anzi, come se le prime cose avessino avuto la debita perfezione, proponeva che colle forze unite di tutti i confederati, si assaltasse la città di Vinegia; cosa udita volentieri dal re di Francia, ma molesta al pontefice e contradetta apertamente dal re di Aragona.
Cap. viii
I fiorentini svolgono piú decisamente le azioni contro Pisa. Le condizioni degli assediati sempre piú difficili; grave malcontento dei contadini. Patti di resa dei pisani ai fiorentini.
Poseno in questo tempo i fiorentini l'ultima mano alla guerra contro a' pisani: perché, poiché ebbono proibito che in Pisa entrasse il soccorso de' grani, fatta nuova provisione di gente, si messono con ogni industria e con ogni sforzo a vietare che né per terra né per acqua non vi entrassino vettovaglie; il che non si faceva senza difficoltà per la vicinità del paese de' lucchesi, i quali dove occultamente potevano osservavano con mala fede la concordia fatta nuovamente co' fiorentini. Ma in Pisa cresceva di giorno in giorno la strettezza del vivere, la quale non volendo i contadini piú tollerare, quegli capi de' cittadini in mano de' quali erano le deliberazioni publiche e che erano seguitati dalla piú parte della gioventú pisana, per addormentare i contadini con le arti consuete, introdusseno, adoperando per mezzo il signore di Piombino, pratica dello accordarsi co' fiorentini, nella quale artificiosamente consumorono molti dí; essendo andato per questo Niccolò Machiavelli, secretario de' fiorentini, a Piombino e molti imbasciadori de' pisani, eletti de' cittadini e de' contadini. Ma era molto difficile il chiudere Pisa, perché ha la campagna larga montuosa e piena di fossi e di paludi, da potere male proibire che, di notte massime, non vi entrassino vettovaglie; atteso la prontezza di darne loro del paese de' lucchesi, e la disposizione feroce de' pisani che per condurvene si esponevano a ogni fatica e a ogni pericolo: le quali difficoltà per superare determinorno i capitani de' fiorentini di fare tre parti dello esercito, acciocché diviso in piú luoghi potesse piú comodamente proibire l'entrare in Pisa. Collocoronne una parte a Mezzana fuora della porta alle Piaggie, la seconda a San Piero a Reno e a San Iacopo opposita alla porta di Lucca, la terza presso all'antichissimo tempio di San Piero in Grado che è tra Pisa e la foce d'Arno, e in ciascuno campo, bene fortificato, oltre a' cavalli mille fanti; e per guardare meglio la via de' monti, per la strada di Val d'Osole che va al monte a San Giuliano, si fece verso lo Spedale magno uno bastione capace di dugento cinquanta fanti: donde cresceva ogni dí la penuria de' pisani. I quali, cercando di ottenere con le fraudi quello che già disperavano di potere ottenere con la forza, ordinorno che Alfonso del Mutolo, giovane pisano di bassa condizione (il quale stato preso non molto prima da' soldati de' fiorentini avea ricevuto grandissimi benefici da colui [di] cui prigione era stato), offerisse per mezzo suo di dare furtivamente la porta che va a Lucca; disegnando, nel tempo medesimo che 'l campo che era a San Iacopo andasse di notte per riceverla, non solamente, messane dentro una parte, opprimere quella ma nel tempo medesimo assaltare uno degli altri campi de' fiorentini, i quali secondo l'ordine dato si avevano ad accostare piú presso alla città. I quali essendosi accostati, ma non con temerità né con disordine, i pisani non conseguirno altro di questo trattato che la morte di pochi uomini che si condusseno nello antiporto per entrare nella città al segno dato: tra' quali fu morto Canaccio da Pratovecchio (cosí si chiamava quello di cui era stato prigione Alfonso del Mutolo), quello sotto la confidenza di chi era stato tenuto il trattato e vi morí anche d'una artiglieria Paolo da Parrano capitano di una compagnia di cavalli leggieri de' fiorentini. La quale speranza mancata, né entrando piú in Pisa se non piccolissima quantità di grani, e quegli occultamente e con grandissimo pericolo di quei che ve gli conducevano, né comportando i fiorentini che di Pisa uscissino bocche disutili, perché facevano vari supplíci a coloro che ne uscivano, si comperavano con prezzo smisurato le cose necessarie al vivere umano; e non ve ne essendo tante che bastassino a tutti, molti già si morivano per non avere da alimentarsi. E nondimeno era maggiore di tanta necessità l'ostinazione di quegli cittadini che erano capi del governo; i quali, disposti a vedere prima l'ultimo esterminio della patria che cedere a sí orribile necessità, andavano di giorno in giorno differendo il convenire, ingegnandosi di dare alla moltitudine ora una speranza ora un'altra; e sopratutto che, aspettandosi a ogni ora Cesare in Italia, sarebbono i fiorentini necessitati a discostarsi dalle loro mura. Ma una parte de' contadini, e quegli massime che, stati a Piombino, avevano compreso quale fusse l'animo loro, fatta sollevazione gli costrinse a introdurre nuove pratiche co' fiorentini: le quali trattate con Alamanno Salviati, commissario di quella parte dello esercito che alloggiava a San Piero in Grado, dopo varie dispute, usando continuamente quegli medesimi ogni possibile diligenza per interrompere, si conchiuse. E nondimeno la concordia fu fatta con condizioni molto favorevoli per i pisani: conciossiaché fussino rimessi loro non solo tutti i delitti fatti ma ancora concesse molte esenzioni, rimessi tutti i debiti publici e privati, e assoluti dalla restituzione de' beni mobili de' fiorentini che avevano rapiti quando si ribellorono. Tanto era il desiderio che avevano i fiorentini di insignorirsene, tanto il timore che da Massimiliano, che aveva nella lega di Cambrai nominato i pisani, benché dal re di Francia non fusse accettata la nominazione, o da altro luogo, non sopravenisse qualche insperato impedimento che, ancora che fussino certi che i pisani erano necessitati fra pochissimi dí cedere alla fame, vollono piú presto assicurarsene con inique condizioni che, per ottenerla senza convenzione alcuna, rimettere niente della certezza alla fortuna. La quale concordia, benché cominciata a trattarsi nel campo, fu dipoi dagli imbasciadori pisani trattata e conchiusa in Firenze: e in questo fu memorabile la fede de' fiorentini che, ancorché pieni di tanto odio ed esacerbati da tante ingiurie, non furono manco costanti nell'osservare le cose promesse che facili e clementi nel concederle.
Cap. ix
Risveglio di speranze e di attività ne' veneziani; riconquista di Padova, del contado e della fortezza di Legnago. Nuove convenzioni fra il pontefice e il re di Francia. I veneziani occupano Isola della Scala e fanno prigioniero il marchese di Mantova. Modeste azioni di guerra e grandiosi progetti di Massimiliano. Vicende della lotta nel Friuli. Umile atteggiamento degli ambasciatori veneziani in Roma e loro trattative coi cardinali.
È certo che il re de' romani sentí con non piccola molestia l'essersi sottomessi i pisani, perché si era persuaso o che il dominio di quella città gli avesse a essere potente instrumento a molte occasioni o che il consentirla a' fiorentini gli avesse a fare ottenere da loro quantità non mediocre di danari: per mancamento de' quali lasciava cadere le amplissime occasioni che, senza fatica o industria sua, se gli erano offerte. Le quali mentre che sí debolmente aiuta che in Vicenza e Padova non era quasi soldato alcuno per lui, ed egli, con la sua tardità raffreddando la caldezza degli uomini delle terre, si trasferisce con poca gente, spesso e con presta variazione, da luogo a luogo, i viniziani non pretermetterono l'opportunità che se gli offerse di recuperare Padova, indotti a questo da molte ragioni: perché lo avere ritenuto Trevigi gli aveva fatto riconoscere quanto fusse stato inutile l'avere con sí precipitoso consiglio disperato sí subito dello imperio di terra ferma, e perché per la tardità degli apparati di Massimiliano si temeva manco l'uno dí che l'altro di lui; stimolati ancora non poco perché volendo condurre a Vinegia le entrate de' beni che i particolari viniziani tenevano, molti, nel contado di Padova, era stato dinegato dai padovani. In modo che, congiunto lo sdegno dei privati con la utilità publica, e invitandogli il sapere Padova essere male provista di gente, e che, per le insolenze che i gentiluomini di Padova usavano con la plebe, molti ricordatisi della moderazione del governo viniziano cominciavano a desiderare il primo dominio, deliberorono fare esperienza di recuperarla; e a questo dava loro occasione non piccola che la piú parte de' contadini del padovano era ancora a loro divozione. E perciò fu stabilito che Andrea Gritti, uno de' proveditori, lasciato a dietro l'esercito che era di quattrocento uomini d'arme piú di dumila tra stradiotti e cavalli leggieri e cinquemila fanti, andasse a Novale nel padovano, e unitosi nel cammino con una parte de' fanti che, accompagnati da molti contadini, erano stati mandati alla villa di Mirano si dirizzasse verso Padova per assaltare la porta di Codalunga; e che nel tempo medesimo dumila villani con trecento fanti e alcuni cavalli assaltassino, per confondere piú gli animi di quegli di dentro, il portello che è nella parte opposita della città: e che, per occultare piú questi pensieri, Cristoforo Moro, l'altro proveditore, dimostrasse di andare a campo alla terra di Cittadella. Il quale disegno bene ordinato non ebbe però maggiore ordine che felicità. Perché i fanti, arrivati a grande ora del dí, trovorno la porta di Codalunga mezza aperta, perché poco innanzi erano per sorte entrati dentro per quella alcuni contadini con carri carichi di fieno; in modo che occupatala senza alcuna difficoltà, e aspettata senza fare strepito la venuta delle altre genti che erano vicine, furono non solo entrate prima dentro, anzi quasi condotte in su la piazza, che in quella città, grandissima di circuito e vota di abitatori, fusse sentito il romore: camminando innanzi a tutti il cavaliere della Volpe co' cavalli leggieri, e il Zitolo di Perugia e Lattanzio da Bergamo con parte de' fanti. Ma pervenuto il romore alla cittadella, il Dressina governatore di Padova in nome di Massimiliano, con trecento fanti tedeschi che soli erano a quella guardia, uscí in piazza, e 'l medesimo fece con cinquanta cavalli Brunoro da Serego; aspettando se, col sostenere quivi lo impeto degli inimici, quegli che in Padova amavano lo imperio tedesco pigliassino l'armi in loro favore. Ma era vana questa e ogni altra speranza, perché nella città, oppressa da sí subito tumulto e nella quale era già entrata molta gente, nessuno faceva movimento; in modo che, abbandonati da ciascuno, furono in breve spazio di tempo, con perdita di molti de' suoi, costretti a ritirarsi nella rocca e nella cittadella; le quali essendo poco munite bisognò che in spazio di poche ore si arrendessino liberamente. E cosí, fattesi le genti viniziane padrone del tutto, attesono ad acquietare il tumulto e salvare la città; la maggiore parte della quale, per la imprudenza e insolenza d'altri, era diventata loro benevola: non avendo ricevuto danno se non le case degli ebrei e alcune case di padovani che si erano scoperti prima inimici del nome viniziano. Il quale dí, dedicato a santa Marina, è ogni anno in Vinegia, per deliberazione publica, celebrato solennemente, come dí felicissimo e principio della recuperazione del loro imperio. Commossesi alla fama di questa vittoria tutto il paese circostante; ed era grandissimo pericolo che Vicenza non facesse per se stessa il medesimo se Costantino di Macedonia, che a caso era quivi vicino, non vi fusse entrato con poca gente. Recuperata Padova, i viniziani recuperorno subito tutto il contado, avendo in favore loro la inclinazione della gente bassa delle terre e de' contadini; recuperorono ancora col medesimo impeto la terra e le fortezze di Lignago, terra molto opportuna a perturbare tutti i contadi di Verona di Padova e di Vicenza. Tentorno oltre a questo di pigliare la torre Marchesana distante otto miglia da Padova, passo opportuno a entrare nel Pulesine di Rovigo e offendere il paese di Mantova; ma non l'ottennono, perché il cardinale da Esti la soccorse con gente e con artiglierie.
Non ritardò il caso di Padova, come molti aveano creduto, la ritornata del re di Francia di là da' monti; il quale, mentre partiva, fece nella terra di Biagrassa col cardinale di Pavia, legato del pontefice, nuove convenzioni. Per le quali il pontefice e il re, obligatisi alla protezione l'uno dell'altro, convennono di potere ciascuno di loro con qualunque altro principe convenire, purché non fusse in pregiudicio della presente confederazione. Promesse il re non tenere protezioni, né accettarne in futuro, di alcuno suddito o feudatario o che dependesse mediatamente o immediatamente dalla Chiesa, annichilando espressamente tutte quelle che insino a quel dí avesse ricevute: promessa poco conveniente all'onore di tanto re, perché non molto innanzi essendo venuto a lui il duca di Ferrara, con tutto che prima si fusse sdegnato che senza sua saputa avesse accettato il gonfalonierato della Chiesa, riconciliatosi seco e ricevuti trentamila ducati, l'avea ricevuto nella sua protezione. Convenneno che i vescovadi che allora vacavano in tutti gli stati del re ne disponesse ad arbitrio suo il pontefice, ma che quegli che in futuro vacassino si conferissino secondo la nominazione che ne farebbe il re; al quale per sodisfare piú, mandò il pontefice per il medesimo cardinale di Pavia al vescovo di Albi le bolle del cardinalato, promettendo dargli le insegne di quella degnità subito che andasse a Roma. Fatta questa convenzione, il re senza dilazione si partí d'Italia, riportandone in Francia gloria grandissima per la vittoria tanto piena e acquistata con tanta celerità contro a' viniziani: e nondimeno, come nelle cose che dopo lungo desiderio s'ottengono non truovano quasi mai gli uomini né la giocondità né la felicità che prima s'aveano immaginata, non riportò né maggiore quiete di animo né maggiore sicurtà alle cose sue; anzi si vedeva preparata materia di maggiori pericoli e alterazioni, e piú incerto l'animo suo di quel che, negli accidenti nuovamente nati, avesse a deliberare. Se a Cesare succedevano le cose prosperamente temeva molto piú di lui che prima non avea temuto de' viniziani. Se la grandezza de' viniziani cominciava a risorgere era necessitato stare in continui sospetti e in continue spese per conservare le cose tolte loro: né questo solamente, ma gli bisognava con gente e con danari aiutare Cesare, perché abbandonandolo avea da sospettare che non si congiugnesse co' viniziani contro a lui, con timore che al medesimo non concorresse il re cattolico e per avventura il pontefice; né bastavano aiuti mediocri a conservargli l'amicizia di Cesare, ma bisognava fussino tali che ottenesse la vittoria contro a' viniziani; l'aiutarlo potentemente, oltre che con gravissimo dispendio si faceva, lo rimetteva ne' medesimi pericoli della grandezza di Cesare. Le quali difficoltà considerando, era stato sospeso da principio se gli dovesse essere grata o molesta la mutazione di Padova; benché poi, contrapesando la sicurtà che gli potesse partorire l'essere privati i viniziani dello imperio di terra ferma con le molestie e pericoli che egli temeva dalla grandezza del re de' romani, e con la speranza d'avere a ottenere da lui per mezzo delle sue necessità, con danari, la città di Verona, la quale sommamente desiderava, come opportuna a impedire i movimenti che si facessino in Germania, riputava finalmente piú sicuro e piú utile per sé che le cose rimanessino in tale stato che, dovendo verisimilmente essere lunga guerra tra Cesare e i viniziani, l'una parte e l'altra, affaticata dalle spese continue, ne divenisse piú debole: confermato molto piú in questa sentenza quando ebbe convenuto col pontefice, perché sperò dovere avere seco, stabile confederazione e amicizia. Lasciò nondimeno a' confini del veronese, sotto la Palissa, settecento lancie perché seguissino la volontà di Cesare; cosí per la conservazione delle cose acquistate come per ottenere quel che ancora possedevano i viniziani: per la andata de' quali a Vicenza, secondo il comandamento che ebbono da Cesare, si assicurò la città di Verona, la quale per il piccolo presidio che vi era dentro stava con non mediocre sospetto; e l'esercito de' viniziani che era andato a campo a Cittadella se ne partí.
Succedette innanzi alla partita del re un altro accidente favorevole a' viniziani, perché correndo continuamente i cavalli loro, che erano in Lignago, per tutto il paese e insino in sulle porte di Verona e facendo danni grandissimi, a' quali le genti che erano in Verona, per non vi essere piú di dugento cavalli e settecento fanti, non potevano resistere, il vescovo di Trento governatore per Cesare in quella città, deliberando porvi il campo, chiamò il marchese di Mantova; il quale, per aspettare le preparazioni che si facevano, fermatosi, con la compagnia de' cavalli che aveva dal re, all'Isola della Scala, casale grande in veronese non circondato di mura né di alcuna fortificazione, mentre sta quivi senza sospetto, fu esempio notabile a tutti i capitani quanto in ogni luogo e in ogni tempo debbino stare vigilanti e ordinati, e in modo possino confidarsi delle forze proprie, non si assicurando né per la lontananza né per la debolezza degli inimici. Perché essendosi il marchese convenuto con alcuni stradiotti dell'esercito de' viniziani che venissino a trovarlo in quel luogo per fermarsi agli stipendi suoi, e avendo essi, insino dal principio che furno ricercati da lui, manifestata la cosa a' loro capitani, e però essendosi dato ordine con questa occasione di assalirlo all'improviso, Luzio Malvezzo con dugento cavalli leggieri e il Zitolo da Perugia con ottocento fanti, venuti occultamente da Padova a Lignago e unitisi con le genti che erano a Lignago e con mille cinquecento de' contadini del paese, e mandati innanzi alcuni cavalli che con spesse voci gridassino Turco (era questo il cognome del marchese) per fare credere che fussino gli stradiotti aspettati, si condussono non sospettando alcuno, la mattina destinata in sul fare del dí all'Isola della Scala; ove entrati senza resistenza, trovando senza guardia alcuna tutti i soldati e gli altri che servivano e seguitavano il marchese a dormire, gli messono in preda, ove tra gli altri rimase prigione Boisí luogotenente del marchese nipote del cardinale di Roano; e il marchese, sentito il romore, essendo fuggito quasi ignudo per una finestra e occultatosi in un campo di saggina, fu manifestato agli inimici da uno contadino del luogo medesimo, il quale, anteponendo il comodo de viniziani alla propria utilità, secondo l'ardore comune degli altri del paese, mentre che simulatamente, udite l'offerte grandissime che 'l marchese gli faceva, dimostrava di attendere a salvarlo, fece il contrario: onde menato a Padova e poi a Vinegia, fu con allegrezza inestimabile di tutta la città incarcerato nella torretta del palagio publico.
Non aveva insino a ora impedito né impediva Cesare in parte alcuna i progressi de' viniziani, non avendo avuto insieme forze bastanti ad alloggiare in sulla campagna, ed essendo stato occupato molti dí nella montagna di Vicenza, ove i villani affezionati al nome viniziano, confidatisi nella asprezza de' luoghi, se gli erano manifestamente ribellati; e scendendo dipoi nella pianura, essendo già seguita la rebellione di Padova, fu non senza suo pericolo assalito da numero infinito di paesani che l'aspettavano a uno passo forte: onde avendogli scacciati venne alla Scala nel vicentino, ove l'esercito de' viniziani avea recuperata gran parte del contado di Vicenza; ed espugnata Serravalle, passo importante, avea usata crudeltà grande contro a' tedeschi: il quale luogo recuperando pochi dí poi Massimiliano, usò contro a' fanti italiani e contro agli uomini del paese la medesima crudeltà. Cosí, non essendo ancora maggiori le forze sue, si occupava in piccole imprese, procedendo all'espugnazione ora di questo castello ora di quello, con poca degnità e riputazione del nome cesareo; proponendo nel tempo medesimo agli altri confederati, come sempre erano maggiori i concetti suoi che le forze e l'occasioni, che si attendesse con le forze di tutti a occupare la città di Vinegia, usando oltre all'armi di terra l'armate marittime de' re di Francia e di Aragona e le galee del pontefice, che allora erano congiunte insieme. Alla qual cosa, non trattata nella confederazione fatta a Cambrai, arebbe acconsentito il re di Francia, pure che si proponessino condizioni tali che l'acquistarla risultasse in beneficio comune; ma era cosa molesta al pontefice, e la quale, e allora e in altro tempo che piú lungamente si trattò, fu sempre contradetta dal re cattolico, detestandola, perché gli pareva utile al re di Francia, sotto colore di essere cosa ingiustissima e inonestissima.
Ma mentre che dall'armi tedesche e italiane sono cosí vessati i contadi di Padova di Vicenza e di Verona, era ancora piú miserabilmente lacerato il paese del Friuli e quello che in Istria ubbidiva a' viniziani. Perché essendo per commissione di Cesare entrato nel Friuli il principe di Analt con diecimila uomini comandati, poi che invano ebbe tentato di pigliare Montefalcone, aveva espugnata la terra e la fortezza di Cadoro con uccisione grande di quegli che la difendevano; e all'incontro alcuni cavalli leggieri e fanti de' viniziani, seguitati da molti del paese, presono per forza la terra di Valdisera e per accordo Bellona, ove non era guardia di tedeschi; e da altra parte il duca di Brunsvich mandato medesimamente da Cesare, non avendo potuto ottenere Udine terra principale del Friuli, era andato a campo a Civitale d'Austria, terra situata in luogo eminente in sul fiume Natisone; a guardia della quale era Federico Contareno, con piccolo presidio ma confidatosi nelle forze del popolo dispostissimo a difendersi: al cui soccorso venendo con ottocento cavalli e cinquecento fanti Giampaolo Gradanico, proveditore del Friuli, fu messo in fuga dalle genti tedesche; e nondimeno, ancora che avessino battuta Civitale con l'artiglieria, non potettono, né con l'assalto feroce che gli dettono né con la fama di avere rotti coloro che venivano a soccorrerla, espugnarla. E in Istria Cristoforo Frangiapane roppe al castello di Verme gli ufficiali de' viniziani, seguitati dalle genti del paese; con l'occasione del quale successo prospero fece per tutto il paese grandissimi danni e incendi, e occupò Castelnuovo e la terra di Raspruchio. Però i viniziani mandorno Angelo Trivisano, capitano della armata loro, con sedici galee; il quale, presa per forza nella prima giunta la terra di Fiume, tentò di occupare la città di Triesti, ma non gli succedendo, ricuperò per forza Raspruchio, e dipoi si ritirò colle galee verso Vinegia: rimanendo lacrimabile lo stato del Friuli e della Istria, perché essendovi piú potenti ora i viniziani ora i tedeschi, quelle terre che prima avea preso e saccheggiato l'uno recuperava e saccheggiava poi l'altro; accadendo molte volte questo medesimo: di modo che, essendo continuamente in preda le facoltà e la vita delle persone, tutto 'l paese orribilmente si consumava e distruggeva.
Ne' quali accidenti dell'armi temporali si disputava in Roma sopra l'armi spirituali: ove, insino innanzi alla recuperazione di Padova, erano entrati con abito e con parole miserabili i sei oratori del senato viniziano; i quali, essendo consueti a entrarvi con pompa e fasto grandissimo e concorrendo loro incontro tutta la corte, non solo non erano stati né onorati né accompagnati, ma entrativi, perché cosí volle il pontefice, di notte né ammessi al cospetto suo, andavano a trattare in casa il cardinale di Napoli, con lui e con altri cardinali e prelati deputati; opponendosi grandemente perché non ottenessino l'assoluzione dalle censure gl'imbasciadori del re de' romani del re cristianissimo e del re cattolico, e in contrario affaticandosi per loro palesemente l'arcivescovo eboracense, mandato per questa cagione principalmente da Enrico ottavo, succeduto pochi mesi avanti, per la morte di Enrico settimo suo padre, nel regno di Inghilterra.
Cap. x
Preparativi de' veneziani per la difesa di Padova; orazione del doge in senato. I giovani della nobiltà veneziana accorrono alla difesa di Padova. Massimiliano corre il contado, mentre la città viene sempre piú fortificata e approvvigionata.
Ma espettazione di cose molto maggiori occupava in questo tempo gli animi di tutti gli uomini: perché Cesare, raccogliendo tutte le forze che per se stesso poteva e che gli erano concedute da molti, si preparava per andare con esercito potentissimo a campo a Padova; e da altra parte il senato viniziano, giudicando consistere nella difesa di quella città totalmente la salute sua, attendeva con somma diligenza alle provisioni necessarie a difenderla, avendovi fatto entrare, da quelle genti in fuora che erano deputate alla guardia di Trevigi, l'esercito loro con tutte quelle forze che da ogni parte aveano potute raccorre, e conducendovi numero infinito d'artiglierie di qualunque sorte, vettovaglie d'ogni ragione bastanti a sostentargli molti mesi, moltitudine innumerabile di contadini e di guastatori; co' quali, oltre all'avere con argini e con copia grande di legnami e di ferramenti riparato per non essere privati dell'acque che appresso alla terra di Limini si divertono a Padova, aveano fatto alle mura della città e faceano continuamente maravigliose fortificazioni. E con tutto che le provisioni fussino tali che quasi maggiori non si potessino desiderare, nondimeno in caso tanto importante era inestimabile la sollecitudine e la ansietà di quel senato, non cessando dí e notte i senatori di pensare, di ricordare e di proporre le cose che credevano che fussino opportune. Delle quali trattandosi continuamente nel senato, Lionardo Loredano loro doge, uomo venerabile per l'età e per la degnità di tanto grado, nel quale era già seduto molti anni, levatosi in piedi parlò in questa sentenza:
- Se, come è manifestissimo a ciascuno, prestantissimi senatori, nella conservazione della città di Padova consiste non solamente ogni speranza di potere mai recuperare il nostro imperio ma ancora di conservare la nostra libertà, e per contrario se dalla perdita di Padova ne seguita, come è certissimo, l'ultima desolazione di questa patria, bisogna di necessità confessare che le provisioni e preparazioni fatte insino a ora, ancorché grandissime e maravigliose, non siano sufficienti, né per quello che si conviene per la sicurtà di quella città né per quello che si appartiene alla degnità della nostra republica; perché in una cosa di tanta importanza e di tanto pericolo non basta che i provedimenti fatti siano tali che si possa avere grandissima speranza che Padova s'abbia a difendere, ma bisogna sieno tanto potenti che, per quel che si può provedere con la diligenza e industria umana, si possa tenere per certo che abbino ad assicurarla da tutti gli accidenti che improvisamente potesse partorire la sinistra fortuna, potente in tutte le cose del mondo ma sopra tutte l'altre in quelle della guerra. Né è deliberazione degna della antica fama e gloria del nome viniziano che da noi sia commessa interamente la salute publica, e l'onore e la vita propria e della moglie e figliuoli nostri, alla virtú di uomini forestieri e di soldati mercenari, e che non corriamo noi spontaneamente e popolarmente a difenderla co' petti e con le braccia nostre; perché se ora non si sostiene quella città non rimane a noi piú luogo d'affaticarci per noi medesimi, non di dimostrare la nostra virtú, non di spendere per la salute nostra le nostre ricchezze: però, mentre che ancora non è passato il tempo di aiutare la nostra patria, non debbiamo lasciare indietro opera o sforzo alcuno, né aspettare di rimanere in preda di chi desidera di saccheggiare le nostre facoltà, di bere con somma crudeltà il nostro sangue. Non contiene la conservazione della patria solamente il publico bene, ma nella salute della republica si tratta insieme il bene e la salute di tutti i privati, congiunta in modo con essa che non può stare questa senza quella; perché cadendo la republica e andando in servitú, chi non sa che le sostanze l'onore e la vita de' privati rimangono in preda dell'avarizia della libidine e della crudeltà degli inimici? Ma quando bene nella difesa della republica non si trattasse altro che la conservazione della patria, non è questo premio degno de' suoi generosi cittadini? pieno di gloria e di splendore nel mondo e meritevole appresso a Dio? Perché è sentenza insino de' gentili, essere nel cielo determinato uno luogo particolare il quale felicemente godino in perpetuo tutti coloro che aranno aiutato conservato e accresciuto la patria loro. E quale patria è giammai stata che meriti di essere piú aiutata e conservata da' suoi figliuoli che questa? la quale ottiene e ha ottenuto per molti secoli il principato intra tutte le città del mondo, e dalla quale i suoi cittadini ricevono grandissime e innumerabili comodità utilità e onori: ammirabile se si considerano o le doti ricevute dalla natura, o le cose che dimostrano la grandezza quasi perpetua della prospera fortuna, o quelle per le quali apparisce la virtú e la nobiltà degli animi degli abitatori. Perché è stupendissimo il sito suo; posta, unica nel mondo, tra l'acque salse, e congiunte in modo tutte le parti sue che in uno tempo medesimo si gode la comodità dell'acqua e il piacere della terra; e sicura, per non essere posta in terra ferma, dagli assalti terrestri; sicura, per non essere posta nella profondità del mare, dagli assalti marittimi. E quanto sono maravigliosi gli edifici publici e privati! edificati con incredibile spesa e magnificenza, e pieni di ornatissimi marmi forestieri e di pietre singolari condotte in questa città da tutte le parti del mondo; e quanto ci sono eccellenti le pitture le statue le sculture gli ornamenti de' musaici e di tante bellissime colonne e d'altre cose simiglianti! E quale città si truova al presente ove sia maggiore concorso delle nazioni forestiere? che vengono qui, parte per abitare in questa libera e quasi divina stanza sicuramente, parte per esercitare i loro commerci; onde Vinegia è piena di grandissime mercatanzie e faccende, onde crescono continuamente le ricchezze de' nostri cittadini, onde la republica ha tanta entrata del circuito solo di questa città quanta non hanno molti re degli interi regni loro. Lascio andare la copia de' letterati in ogni scienza e facoltà, la qualità degli ingegni e la virtú degli uomini, dalla quale congiunta con le altre condizioni è nata la gloria delle cose fatte, maggiori da questa republica e dagli uomini nostri che da' romani in qua abbia fatto patria alcuna. Lascio andare quanto sia maraviglioso vedere in una città nella quale non nasca cosa alcuna, e che sia pienissima di abitatori, abbondare ogni cosa. Fu il principio della città nostra ristretto in su questi soli scogli sterili e ignudi, e nondimeno, distesasi la virtú degli uomini nostri prima ne' mari piú vicini e nelle terre circostanti, dipoi ampliatasi con felici successi ne' mari e nelle provincie piú lontane, e corsa insino nell'ultime parti dello Oriente, acquistò per terra e per mare tanto imperio, e tennelo sí lungamente, e ampliò in modo la sua potenza che, stata tempo lunghissimo formidabile a tutte l'altre città d'Italia, sia stato necessario che ad abbatterla siano concorse le fraudi e le forze di tutti i príncipi cristiani: cose certamente procedute con l'aiuto del sommo Dio, perché è celebrata per tutto il mondo la giustizia che si esercita indifferentemente in questa città; per il nome solo della quale molti popoli si sono spontaneamente sottoposti al nostro dominio. Già a quale città, a quale imperio cede di religione e di pietà verso il sommo Dio la patria nostra? ove sono tanti monasteri, tanti templi, pieni di ricchissimi e preziosissimi ornamenti di tanti stupendi vasi e apparati dedicati al culto divino, ove sono tanti ospedali e luoghi pii ne' quali, con incredibile spesa e incredibile utilità de poveri, si esercitano assiduamente le opere della carità? È meritamente per tutte queste cose preposta la patria nostra a tutte l'altre, ma oltre a queste ce n'è una per la quale sola trapassa tutte le laudi e la gloria di se medesima. Ebbe la patria nostra in uno tempo medesimo l'origine sua e la sua libertà, né mai nacque né morí in Vinegia cittadino alcuno che non nascesse e morisse libero, né mai è stata turbata la sua libertà; procedendo tanta felicità dalla concordia civile, stabilita in modo negli animi degli uomini che in uno tempo medesimo entrano nel nostro senato e ne' nostri consigli e depongono le private discordie e contenzioni. Di questo è causa la forma del governo che, temperato di tutti i modi migliori di qualunque specie di amministrazione publica e composta in modo a guisa di armonia, proporzionato e concordante tutto a se medesimo, è durato già tanti secoli, senza sedizione civile senza armi e senza sangue tra i suoi cittadini, inviolabile e immaculato; laude unica della nostra republica, e della quale non si può gloriare né Roma né Cartagine né Atene né Lacedemone, né alcuna di quelle republiche che sono state piú chiare e di maggiore grido appresso agli antichi: anzi appresso a noi si vede in atto tale forma di republica quale quegli che hanno fatto maggiore professione di sapienza civile non seppeno mai né immaginarsi né descrivere. Adunque a tanta e a sí gloriosa patria, stata moltissimi anni antimuro della fede, splendore della republica cristiana, mancheranno le persone de' suoi figliuoli e de' suoi cittadini? e ci sarà chi rifiuti di mettere in pericolo la propria vita e de' figliuoli per la salute di quella? la quale contenendosi nella difesa di Padova, chi sarà quello che neghi di volere personalmente andare a difenderla? E quando bene fussimo certissimi essere bastanti le forze che vi sono, non appartiene egli all'onore nostro, non appartiene egli allo splendore del nome viniziano, che e' si sappia per tutto il mondo che noi medesimi siamo corsi prontissimamente a difenderla e conservarla? Ha voluto il fato di questa città che in pochi dí sia caduto delle mani nostre tanto imperio: nella quale cosa non abbiamo da lamentarci tanto della malignità della fortuna (perché sono casi comuni a tutte le republiche a tutti i regni) quanto abbiamo cagione di dolerci che, dimenticatici della costanza nostra stata insino a quel dí invitta, che perduta la memoria di tanti generosi e gloriosi esempli de' nostri maggiori, cedemmo con troppo subita disperazione al colpo potente della fortuna; né fu per noi rappresentata a' figliuoli nostri quella virtú che era stata rappresentata a noi da' padri nostri. Torna ora a noi l'occasione di recuperare quello ornamento, non perduto, se noi vorremo essere uomini, ma smarrito; perché andando incontro alla avversità della fortuna, offerendoci spontaneamente a' pericoli, cancelleremo la infamia ricevuta; e vedendo non essere perduta in noi l'antica generosità e virtú, si ascriverà piú tosto quel disordine a una certa fatale tempesta (alla quale né il consiglio né la costanza degli uomini può resistere) che a colpa e vergogna nostra. Però, se fusse lecito che tutti popolarmente andassimo a Padova, che senza pregiudicio di quella difesa e delle altre urgentissime faccende publiche si potesse per qualche giorno abbandonare questa città, io primo, senza aspettare la vostra deliberazione, piglierei il cammino; non sapendo in che meglio potere spendere questi ultimi dí della mia vecchiezza che nel partecipare, colla presenza e con gli occhi, di vittoria tanto preclara, o quando pure (l'animo aborrisce di dirlo) morendo insieme con gli altri non essere superstite alla ruina della patria. Ma perché né Vinegia può essere abbandonata da' consigli publici, ne' quali, col consigliare provedere e ordinare, non manco si difende Padova che la difendino con l'armi quegli che sono quivi, e la turba inutile de' vecchi sarebbe piú di carico che di presidio a quella città, né anche, per tutto quello che potesse occorrere, è a proposito spogliare Vinegia di tutta la gioventú, però consiglio e conforto che, avendo rispetto a tutte queste ragioni, si elegghino dugento gentiluomini de' principali della nostra gioventú, de' quali ciascuno, con quella quantità di amici e di clienti atti all'arme che tollereranno le sue facoltà, vadia a Padova, per stare quanto sarà necessario alla difesa di quella terra: due miei figliuoli, con grande compagnia, saranno i primi a eseguire quel che io, padre loro principe vostro, sono stato il primo a proporre; le persone de' quali in sí grave pericolo offerisco alla patria volentieri. Cosí si renderà piú sicura la città di Padova, cosí i soldati mercenari che vi sono, veduta la nostra gioventú pronta alle guardie e a tutti i fatti militari, ne riceveranno inestimabile allegrezza e animosità; certi che, essendo congiunti con loro i figliuoli nostri, non abbia a mancare da noi provisione o sforzo alcuno: la gioventú e gli altri che non andranno, si accenderanno tanto piú con questo esempio a esporsi, sempre che sarà di bisogno, a tutte le fatiche e pericoli. Fate voi, senatori, le parole e i fatti de' quali sono in esempio e negli occhi di tutta la città, fate, dico, a gara, ciascuno di voi che ha facoltà sufficienti, di fare descrivere in questo numero i vostri figliuoli acciò che sieno partecipi di tanta gloria; perché da questo nascerà non solo la difesa sicura e certa di Padova ma si acquisterà questa fama appresso a tutte le nazioni: che noi medesimi siamo quegli che col pericolo della propria vita difendiamo la libertà e la salute della piú degna patria e della piú nobile che sia in tutto il mondo. -
Fu udito con grandissima attenzione e approvazione, e messo con somma celerità in esecuzione, il consiglio del principe; per il quale il fiore de' nobili della gioventú viniziana, raccolti ciascuno quanti piú amici e familiari atti allo esercizio dell'armi potette, andò a Padova, accompagnati insino che entrorno nelle barche da tutti gli altri gentiluomini e da moltitudine innumerabile, e celebrando ciascuno con somme laudi e con pietosi voti tanta prontezza in soccorso della patria: né con minore letizia e giubilo di tutti furono ricevuti in Padova, esaltando i capitani e i soldati insino al cielo che questi giovani nobili, non esperimentati né alle fatiche né a' pericoli della milizia, preponessino l'amore della patria alla vita propria; e in modo che confortando l'uno l'altro aspettavano con lietissimi animi la venuta di Cesare.
Il quale, attendendo a raccorre le genti che da molte parti gli concorrevano, era venuto al ponte alla Brenta lontano tre miglia da Padova; e preso per forza Limini e interrotto il corso delle acque, aspettava l'artiglierie le quali, terribili per quantità e per qualità, venivano di Germania. Delle quali essendo condotta una parte a Vicenza, ed essendo andati Filippo Rosso e Federigo Gonzaga da Bozzole con dugento cavalli leggieri per fargli scorta, assaltati da cinquecento cavalli leggieri (che guidati dai villani, i quali in tutta la guerra feciono a' viniziani utilità maravigliosa, erano usciti di Padova) furno rotti presso a Vicenza cinque miglia, e Filippo fatto prigione; e Federigo, con grande fatica, per beneficio della notte, a piede e in camicia si era salvato. Dal ponte alla Brenta Massimiliano si allargò dodici miglia verso il Pulesine di Rovigo per aprirsi meglio la comodità delle vettovaglie, e preso di assalto e saccheggiato il castello di Esti andò a campo a Monselice; dove, essendo abbandonata la terra che è in piano, spugnò il secondo dí la fortezza situata in su la cima d'uno alto sasso. Ebbe dipoi per accordo Montagnano; donde ritornato verso Padova si fermò al ponte di Bassanello vicino a Padova, dove invano tentò di divertire la Brenta o il Bachiglione, che di quivi si conduce a Padova. Nel quale luogo essendo giunte tutte l'artiglierie e le munizioni che aspettava, e raccolte tutte le genti che erano distribuite in diversi luoghi, si accostò alla terra con tutto l'esercito; e avendo messi quattromila fanti nel borgo che si dice di Santa Croce aveva in animo di assaltarla da quella parte: ma essendo dipoi certificato che la terra in quel luogo era piú forte di sito e di muraglia e statevi fatte maggiori fortificazioni, e ricevendo ancora in quello alloggiamento dalle artiglierie di Padova molto danno, deliberò trasferirsi con tutto lo esercito alla porta del Portello che è volta verso Vinegia, perché gli era riferito la terra esservi piú debole, e per impedire i soccorsi che per terra o per acqua venissino a Padova da Vinegia. Ma non potendo, per lo impedimento de' paludi e di certe acque che inondano il paese, andarvi se non con lungo circuito, venne al ponte di Bovolenta lontano da Padova sette miglia, dove è una tenuta situata in sul fiume del Bachiglione verso la marina tra Padova e Vinegia: nel qual luogo, per essere circondato dalle acque e nella parte piú sicura del padovano, si erano ridotti tremila villani con numero grandissimo di bestiami; i quali, sforzati dalla vanguardia de' fanti spagnuoli e italiani, furono quasi tutti morti o presi. Né si attese, per due dí seguenti, ad altro che a correre tutto il paese insino al mare, pieno di quantità infinita di bestiami; e furono prese nella Brenta molte barche, che cariche di vettovaglie andavano a Padova: tanto che, finalmente, il quintodecimo dí del mese di settembre, avendo consumato tanto tempo inutilmente e dato spazio agli inimici di fortificarla ed empierla di vettovaglie, si accostò alle mura di Padova allato alla porta del Portello.
Cap. xi
Importanza del dominio di Padova per i veneziani. Forze degli avversari e fortificazioni di Padova. Assalti de' soldati di Massimiliano alle mura e valorosa difesa de' veneziani. Ritirata dell'esercito di Massimiliano; querele di questo contro gli alleati. Accordi fra Massimiliano e gli ambasciatori fiorentini. Le truppe francesi si ritirano nel ducato di Milano; i veneziani rifiutano la tregua con Massimiliano.
Non aveva mai, né in quella età né forse in molte superiori, veduto Italia tentarsi oppugnazione che fusse di maggiore espettazione e piú negli occhi degli uomini, per la nobiltà di quella città e per gli effetti importanti che dal perderla o vincerla resultavano. Conciossiaché Padova, nobilissima e antichissima città e famosa per l'eccellenza dello studio, cinta da tre ordini di mura e per la quale corrono i fiumi di Brenta e di Bachiglione, è di circuito tanto grande quanto forse sia alcuna altra delle maggiori città d'Italia; situata in paese abbondantissimo, ove è aria salubre e temperata, e benché stata allora piú di cento anni depressa sotto l'imperio de' viniziani, che ne spogliorno quegli della famiglia di Carrara, ritiene ancora superbi e grandi edifici e molti segni memorabili di antichità, da' quali si comprende la pristina sua grandezza e splendore: e dallo acquisto e difesa di tanta città dipendeva non solamente lo stabilimento o debolezza dello imperio de' tedeschi in Italia ma ancora quello che avesse a succedere della città propria di Vinegia. Perché difendendo Padova poteva facilmente sperare quella republica, piena di grandissime ricchezze e unita con animi prontissimi in se medesima né sottoposta alle variazioni alle quali sono sottoposte le cose de' príncipi, avere in tempo non molto lungo a recuperare grande parte del suo dominio; e tanto piú che la maggiore parte di quegli che avevano desiderato le mutazioni, non vi avendo trovato dentro effetti corrispondenti a' suoi pensieri, e conoscendosi per la comparazione quanto fusse diverso il reggimento moderato de' viniziani da quello de' tedeschi alieno da' costumi degli italiani e disordinato maggiormente per le confusioni e danni della guerra, cominciavano a voltare gli occhi all'antico dominio: e per contrario, perdendosi Padova, perdevano i viniziani interamente la speranza di reintegrare lo splendore della sua republica; anzi era grandissimo pericolo che la città medesima di Vinegia, spogliata di tanto imperio e vota di molte ricchezze per la diminuzione delle entrate publiche e per la perdita di tanti beni che i privati possedevano in terra ferma, o non potesse difendersi dalle armi de' príncipi confederati o almeno non diventasse, in progresso di tempo, preda non meno de' turchi (co' quali confinano per tanto spazio, e hanno sempre con loro o guerra o pace infedele e male sicura) che de' príncipi cristiani.
Ma non era minore l'ambiguità degli uomini: perché gli apparati potentissimi che da ciascuna delle parti si dimostravano tenevano molto sospesi i giudici comuni, incertissimi quale avesse ad avere effetto piú felice, o l'assalto o la difesa. Perché nell'esercito di Cesare, oltre alle settecento lancie del re di Francia le quali governava la Palissa, erano dugento uomini d'arme mandatigli in aiuto dal pontefice, dugento altri mandatigli dal duca di Ferrara sotto il cardinale da Esti, benché ancora non fussino composte le differenze tra loro, e sotto diversi condottieri secento uomini d'arme italiani soldati da lui. Né era minore il nerbo del peditato che de' cavalli, perché aveva diciottomila tedeschi seimila spagnuoli seimila venturieri di diverse nazioni e duemila italiani menatigli e pagati dal cardinale da Esti nel medesimo nome. Seguitavalo apparato stupendo di artiglierie e copia grande di munizioni, della quale una parte gli avea mandata il re di Francia. E benché i soldati suoi propri la piú parte del tempo non ricevessino danari, nondimeno, per la grandezza e autorità di tanto capitano, e per la speranza di pigliare e saccheggiare Padova e d'avere poi in preda tutto quello che ancora possedevano i viniziani, non per questo l'abbandonavano; anzi continuamente augumentava ogni dí il numero, sapendosi massime per ciascuno che egli, di natura liberalissimo e pieno di umanità co' suoi soldati, mancava di pagargli non per avarizia e volontà ma per impotenza. Era cosí potente l'esercito cesareo, benché raccolto non solo delle forze sue ma eziandio degli aiuti e forze d'altri; ma non era manco potente, per quanto fusse necessario alla difesa di Padova, l'esercito che per i viniziani si ritrovava in quella città. Perché vi erano seicento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri mille cinquecento stradiotti, sotto famosi ed esperti capitani: il conte di Pitigliano preposto a tutti, Bernardino dal Montone, Antonio de' Pii, Luzio Malvezzo, Giovanni Greco e molti condottieri minori. Aggiugnevansi a questa cavalleria dodicimila fanti de' piú esercitati e migliori di Italia, sotto Dionigi di Naldo, il Zitolo da Perugia, Lattanzio da Bergamo, Saccoccio da Spoleto e molti altri conestabili; diecimila fanti tra schiavoni greci e albanesi, tratti da le loro galee, ne' quali benché fusse molta turba inutile e quasi collettizia ve ne era pure qualche parte utile. Oltre a questi, la gioventú viniziana con quegli che l'aveano seguitata; la quale benché fusse piú chiara per la nobiltà e per la pietà verso la patria, nondimeno, per offerirsi prontamente a' pericoli e per l'esempio che faceva agli altri, non era di piccolo momento. Abbondavanvi, oltra alle genti, tutte l'altre provisioni necessarie: numero grandissimo d'artiglierie, copia maravigliosa di vettovaglie d'ogni sorte (non essendo stati meno solleciti i paesani a ridurle quivi per sicurtà loro che gli ufficiali viniziani in provedere e comandare che assiduamente ve ne entrassino) e moltitudine quasi innumerabile di contadini, i quali condotti a prezzo non cessavano mai di lavorare; talmente che quella città, fortissima per la virtú e per tanto numero di difensori, era stata riparata e fortificata maravigliosamente a quello circuito delle mura che circonda tutta la città; avendo alzata, a grande altezza per tutto il fosso, l'acqua che corre intorno alle mura di Padova, e fatti a tutte le porte della terra e in altri luoghi opportuni molti bastioni, dalla parte di fuora ma congiunti alle mura e che avevano l'entrata dalla parte di dentro; co' quali pieni di artiglierie si percotevano quegli che fussino entrati nel fosso: e nondimeno, acciò che la perdita de' bastioni non potesse portare pericolo alla terra, a tutti, dalla parte di sotto, avevano fatto una cava con bariglioni pieni di molta polvere, per potergli disfare e gittare in aria quando non si potessino piú difendere. Né confidandosi totalmente alla grossezza e bontà del muro antico, con tutto che prima l'avessino diligentemente riveduto e dove era di bisogno riparato, e tagliato tutti i merli, fatti dal lato di dentro, per quanto gira la città tutta, steccati con alberi e altri legnami distanti dal muro quanto era la sua grossezza, empierono questo vano, insino all'altezza del muro, di terra consolidatavi con grandissima diligenza. La quale opera maravigliosa e di fatica inestimabile, e nella quale si era esercitata moltitudine infinita d'uomini, non assicurando ancora alla sodisfazione intera di chi era disposto a difendere quella città, avevano, dopo il muro cosí ingrossato e raddoppiato, cavato uno fosso alto e largo sedici braccia; il quale, ristringendosi nel fondo e avendo per tutto casematte e torrioncelli pieni di artiglieria, pareva impossibile a pigliare: ed erano quegli edifici, a esempio de' bastioni, con avere la cava di sotto, disposti in modo da potersi facilmente con la forza del fuoco rovinare. E nondimeno, per essere piú preparati a ogni caso, alzorono dopo il fosso uno riparo della medesima o maggiore larghezza, che si distendeva quanto tutto il circuito della terra, da pochi luoghi infuora a' quali si conosceva essere impossibile piantare l'artiglieria; innanzi al quale riparo feciono uno parapetto di sette braccia, che proibiva che quegli che fussino a difesa del riparo non potessino essere offesi dall'artiglierie degli inimici. E perché a tanti apparati e fortificazioni corrispondessino prontamente gli animi de' soldati e degli uomini della terra, il conte di Pitigliano, convocatigli in su la piazza di Santo Antonio e confortatigli con gravi e virili parole alla salute e onore loro, astrinse se medesimo con tutti i capitani e con tutto l'esercito e i padovani a giurare solennemente di perseverare insino alla morte fedelmente nella difesa di quella città.
Con tanto apparato adunque, e contro a tanto apparato, condottosi l'esercito di Cesare sotto le mura di Padova, si distese dalla porta del Portello insino alla porta d'Ognisanti che va a Trevigi, e dipoi si allargò insino alla porta di Codalunga che va a Cittadella, contenendo per lunghezza di tre miglia. Egli, alloggiato nel monasterio di beata Elena distante per uno quarto di miglio dalle mure della città, e quasi in mezzo della fanteria tedesca, avendo distribuito a ciascuno secondo la diversità degli alloggiamenti e delle nazioni quel che avessino a fare, cominciò a fare piantare l'artiglierie; le quali per essere tante di numero e alcuna di smisurata e quasi stupenda grandezza, e per essere molto infestato dalle artiglierie di dentro tutto il campo e specialmente i luoghi dove si cercava di piantare, non si potette fare senza lunghezza di tempo e difficoltà: con tutto che egli invitto di animo, e di corpo pazientissimo alle fatiche, scorrendo il dí e la notte per tutto e intervenendo personalmente a tutte le cose, stimolasse con grandissima sollecitudine che le opere si conducessino alla perfezione. Era piantata il quinto dí quasi tutta l'artiglieria, e il dí medesimo i franzesi e i fanti tedeschi, da quella parte alla quale era preposto la Palissa, dettono uno assalto a uno rivellino della porta, ma piú per tentare che per combattere ordinatamente; onde, vedendo che era difeso animosamente, si ritirorno senza molta dilazione agli alloggiamenti. Tirava il dí seguente per tutto ferocemente l'artiglieria; la maggiore parte della quale, per la grossezza sua e per la quantità grande della polvere che se gli dava, passati i ripari, ruinava le case prossime alle mura; e già in molte parti era gittato in terra spazio grandissimo di muraglia, e quasi spianato uno bastione fatto alla porta di Ognisanti: né per ciò appariva segno alcuno di timore in quegli di dentro, i quali infestavano con l'artiglierie tutto l'esercito; e gli stradiotti, i quali alloggiati animosamente ne' borghi aveano recusato di ritirarsi ad alloggiare nella città, e i cavalli leggieri, correndo continuamente per tutto, ora correvano, quando dinanzi quando di dietro, insino in su gli alloggiamenti degl'inimici, ora assalivano le scorte del saccomanno e delle vettovaglie, ora, scorrendo e predando per tutto il paese, rompevano tutte le vie, eccetto quella che va da Padova al monte di Abano. E nondimeno il campo era copioso di vettovaglie, delle quali si trovavano piene le case e le campagne per tutto; perché né il timore de' paesani né la sollecita diligenza de' viniziani né i danni infiniti de' soldati, da ogni parte, aveano potuto essere pari alla abbondanza grande di quello bellissimo e fertilissimo contado. Uscí ancora fuora di Padova in quei dí Lucio Malvezzo con molti cavalli, per condurre dentro quarantamila ducati mandati da Vinegia; il quale, benché il suo retroguardo fusse assaltato dagli inimici nel ritornare, gli condusse salvi, benché con perdita di qualcuno de' suoi uomini d'arme. Avevano, il nono dí, l'artiglierie fatto tanto progresso che non pareva fusse necessario procedere con esse piú oltre. Però il dí seguente si messe in battaglia, per accostarsi alle mura, tutto l'esercito; ma essendosi accorti che la notte medesima quegli di dentro avevano rialzata l'acqua del fosso che innanzi era stata abbassata, non volendo Cesare mandare le genti a manifestissimo pericolo, ritornò ciascuno agli alloggiamenti. Abbassossi di nuovo l'acqua; e il dí seguente si dette, ma con piccolo successo, uno assalto al bastione che era fatto alla punta della porta di Codalunga: onde Cesare, avendo deliberato di fare somma diligenza di sforzarlo, vi voltò l'artiglieria che era piantata dalla parte de' franzesi, i quali alloggiavano tra le porte di Ognisanti e di Codalunga; con la quale avendone rovinata una parte, vi fece dare dopo due dí l'assalto dai fanti tedeschi e spagnuoli accompagnati da alcuni uomini d'arme a piede, i quali ferocemente combattendo salirono in sul bastione, e vi rizzorono due bandiere. Ma era tale la fortezza del fosso, tale la virtú de' difensori (tra' quali il Zitolo da Perugia combattendo con somma laude fu ferito gravemente), tale la copia degli instrumenti da difendersi, non solo di artiglierie ma di sassi e di fuochi lavorati, che e' furono necessitati impetuosamente scenderne, essendo feriti e morti molti di loro: donde l'esercito, che era ordinato per dare, come si credeva, subito che il bastione fusse spugnato, la battaglia alla muraglia, si disarmò senza avere tentato cosa alcuna.
Perdé Cesare per questa esperienza interamente la speranza della vittoria; e però, deliberato di partirsene, condotta che ebbe l'artiglieria in luogo sicuro, si ritirò con tutto l'esercito alla terra di Limini che è verso Trevigi, il settimo decimo dí dapoi che si era accampato a Padova, e poi continuamente si condusse in piú alloggiamenti a Vicenza; ove ricevuto il giuramento della fedeltà dal popolo vicentino, e dissoluto quasi tutto l'esercito, andò a Verona: disprezzato, perché non erano successi ma molto piú perché erano, e nello esercito e per tutta Italia, biasimati maravigliosamente i consigli suoi, e non meno le esecuzioni delle cose deliberate. Perché non era dubbio che e il non avere acquistato Trevigi e l'avere perduto Padova era proceduto per colpa sua; similmente, che la tardità del suo venire innanzi avea fatta difficile l'espugnazione di Padova, perché da questo era nato che i viniziani avevano avuto tempo a provedersi di soldati, a empiere Padova di vettovaglie e a fare quelle riparazioni e fortificazioni maravigliose. Né egli negava questa essere stata la cagione che si fusse difesa quella città, ma rimovendo la colpa dalla varietà e da' disordini suoi e trasferendola in altri si lamentava del pontefice e del re di Francia che, con l'avere l'uno di loro concesso l'andare a Roma agli oratori viniziani l'altro avere tardato a mandare il soccorso delle sue genti, avevano dato cagione di credere a ciascuno che si fussino alienati da lui, onde avere preso animo i villani delle montagne di Vicenza a ribellarsi; e che avendo consumato nel domargli molti dí aveva poi trovato per la medesima cagione le medesime difficoltà nella pianura, e che per aprirsi e assicurarsi le vettovaglie e liberarsi da molte molestie era stato necessitato a pigliare tutte le terre del paese: né solamente avergli nociuto in questo la tarda venuta de' franzesi, ma che se fussino venuti al tempo conveniente non sarebbe seguitata la ribellione di Padova; e che questo e l'avere il re di Francia e il re d'Aragona licenziate l'armate di mare aveva poi data facoltà a' viniziani, liberati d'ogni altro timore, di potere meglio provedere e fortificare Padova: querelandosi, oltre a questo, che al re d'Aragona erano grate le sue difficoltà per indurlo piú facilmente [a] consentire che a lui restasse l'amministrazione del regno di Castiglia. Le quali querele non miglioravano le sue condizioni, né gli accrescevano l'autorità perduta per non avere saputo usare sí rare occasioni; anzi, che tale opinione fusse comunemente conceputa di lui era gratissimo al re di Francia, né molesto al pontefice perché, sospettoso e diffidente di ciascuno e considerando quanto sempre fusse bisognoso di danari e importuno a dimandarne, non vedeva volentieri crescere in Italia il nome suo.
A Verona ricevette similmente il giuramento della fedeltà: e in quella città gl'imbasciadori fiorentini, tra' quali fu Piero Guicciardini mio padre, convennono con lui in nome della loro republica, indotta a questo, oltre all'altre ragioni, da' conforti del re di Francia, di pagargli in brevi tempi quarantamila ducati; per la quale promessa ottennono da lui privilegi in forma amplissima della confermazione cosí della libertà di Firenze come del dominio e giurisdizione delle terre e stati tenevano, con la quietazione di tutto quello gli dovessino per il tempo passato. E avendo Cesare deliberato di tornarsene in Germania, per ordinarsi, secondo diceva, a fare la guerra alla prossima primavera, chiamò a sé Ciamonte per trattare delle cose presenti: al quale, venuto a lui nella villa di Arse nel veronese, dimostrò il pericolo che i viniziani non recuperassino Cittadella e Bassano, i quali luoghi molto importanti, insuperbiti per la difesa di Padova, si preparavano per assaltare; e che 'l medesimo non intervenisse poi di Monselice di Montagnana e di Esti. Essere necessario pensare oltre alla conservazione di queste terre non meno alla recuperazione di Lignago, e che essendo egli per sé solo impotente a fare le provisioni necessarie a questi effetti bisognava fusse aiutato dal re; le cose del quale, non si sostenendo le sue, si mettevano in pericolo. Alle quali dimande non potendo Ciamonte dargli certa risoluzione si rimesse a darne notizia al re, dandogli speranza che la risposta sarebbe conforme al suo desiderio. Da questo parlamento Massimiliano, lasciato a guardia di Verona il marchese di Brandiborgh, andò alla Chiusa. E poco dipoi la Palissa, il quale era rimasto con cinquecento lancie nel veronese, allegando difficoltà degli alloggiamenti e molte incomodità, ottenuta quasi per importunità licenza da lui, si ritirò ne' confini del ducato di Milano; perché la intenzione del re era che avendo a stare le sue genti oziosamente alle guarnigioni stessino nello stato suo, ma che tornassino a servire Massimiliano per fare qualunque impresa gli piacesse, e specialmente quella di Lignago: la quale, desiderata e sollecitata sommamente da lui, si differí per le sue solite difficoltà tanto che essendo sopravenute per la stagione del tempo le pioggie grandi non si poteva piú campeggiare in quello paese, che per la bassezza sua è molto soprafatto dalle acque. Però Cesare, ridotto in queste difficoltà, desiderò di fare per qualche mese tregua co' viniziani: ma essi, pigliando animo da i suoi disordini e vedendolo aiutato cosí freddamente da' collegati, non giudicorno essere a loro proposito il sospendere l'armi.
Cap. xii
Dissenso fra il pontefice e il re di Francia. Cause di dissenso fra tutti i collegati per la benevolenza del pontefice verso i veneziani. Discussioni fra il pontefice e gli ambasciatori veneziani.
Ritornossene alla fine Cesare a Trento, lasciate in pericolo grave le cose sue, e lo stato di Italia in non piccola sospensione, perché era nata tra 'l pontefice e il re di Francia nuova contenzione, il principio della quale benché paresse procedere da cagioni leggiere si dubitava non avesse occultamente piú importanti cagioni. Quel che allora si dimostrava era che essendo vacato uno vescovado di Provenza, per la morte del vescovo suo nella corte di Roma, il papa l'aveva conferito contro alla volontà del re di Francia; il quale pretendeva questo essere contrario alla capitolazione fatta tra loro per mezzo del cardinale di Pavia, nella quale, se bene nella scrittura non fusse stato nominatamente espresso che il medesimo si osservasse ne' vescovadi che vacassino nella corte di Roma che in quegli che vacavano negli altri luoghi, nondimeno il cardinale avergliene promesso con le parole: il che negando il cardinale essere vero (forse piú per timore che per altra cagione) e il re affermando il contrario, il pontefice diceva non sapere quello che tacitamente fusse stato trattato, ma che avendo nella ratificazione sua riferitosi a quello che appariva per scrittura, con inserirvi nominatamente capitolo per capitolo, né comprendendo questo il caso quando i vescovi morivano in corte di Roma, non essere tenuto piú oltre. E perciò crescendo la indignazione, il re, disprezzato contro alla sua consuetudine il consiglio del cardinale di Roano, stato sempre autore della concordia col pontefice, fece sequestrare i frutti di tutti i benefici che tenevano nello stato di Milano i cherici residenti nella corte di Roma; e il papa da altra parte ricusava di dare le insegne del cardinalato ad Albi, il quale per riceverle, secondo la promessa fatta al re, era andato a Roma. E con tutto che il pontefice, vinto da' prieghi di molti, disponesse alla fine del vescovado di Provenza secondo la volontà del re e con lui convenisse di nuovo come s'avesse a procedere ne' benefici che nel tempo futuro vacassino nella corte di Roma, e che perciò dall'una parte si liberassino i sequestri fatti, dall'altra concedute le insegne del cardinalato ad Albi, nondimeno non bastavano queste cose a mollificare l'animo del pontefice, esacerbato per molte cose, ma specialmente perché avendo insino dal principio del pontificato conceduta malvolentieri al cardinale di Roano la legazione del regno di Francia, come dannosa alla corte di Roma, e con indegnità sua, gli era molestissimo essere costretto, per non irritare tanto l'animo del re di Francia, consentire la continuasse; e perché, persuadendosi che quel cardinale tendesse con tutti i suoi pensieri e arti al pontificato, sospettava d'ogni progresso e d'ogni movimento de' franzesi.
Queste erano le cagioni apparenti degli sdegni suoi: ma per quello che si manifestò poi de' suoi pensieri, avendo nell'animo piú alti fini, desiderava ardentissimamente, o per cupidità di gloria o per occulto odio contro al re di Francia o per desiderio della libertà de' genovesi, che 'l re perdesse quel che possedeva in Italia; non cessando di lamentarsi senza rispetto di lui e del cardinale, ma in modo che e' pareva che la sua mala sodisfazione procedesse principalmente da timore. E nondimeno, come era di natura invitto e feroce, e che alla disposizione dell'animo accompagnava il piú delle volte le dimostrazioni estrinseche, ancora che s'avesse proposto nella mente fine di tanto momento e tanto difficile a conseguire, rifidandosi in sé solo e nella riverenza e autorità che conosceva avere appresso a' príncipi la sedia apostolica, non dependente né congiunto con alcuno anzi dimostrando con le parole e con le opere di tenere poco conto di ciascuno, né si congiugneva con Cesare né si ristrigneva col re cattolico, ma salvatico con tutti non dimostrava inclinazione se non a' viniziani; confermandosi ogni dí piú nella volontà di assolvergli, perché giudicava il non gli lasciare perire essere molto a proposito della salute di Italia e della sicurtà e grandezza sua. Alla quale cosa molto efficacemente contradicevano gli oratori di Cesare e del re di Francia; concorrendo con loro in publico al medesimo l'oratore del re d'Aragona, benché, temendo per l'interesse del regno di Napoli della grandezza del re di Francia né confidandosi in Cesare per la sua instabilità procurasse occultissimamente il contrario col pontefice. Allegavano non essere conveniente che il pontefice facesse tanto beneficio a coloro i quali era tenuto a perseguitare con l'armi, atteso che, per la confederazione fatta a Cambrai, era ciascuno de' collegati obligato ad aiutare l'altro insino a tanto che avesse interamente acquistate tutte le cose nominate nella sua parte; dunque, non avendo mai Cesare acquistato Trevigi, non essere ancora alcuno di loro liberato da questa obligazione: oltre che, con giustizia si poteva dinegare l'assoluzione a' viniziani perché né volontari né infra 'l tempo determinato nel monitorio aveano restituite alla Chiesa le terre della Romagna; anzi non avere insino a quest'ora ubbidito interamente, imperocché erano stati ammuniti di restituire oltre alle terre i frutti presi, il che non aveano adempiuto. Ma a queste cose rispondeva il pontefice che, poi che si erano ridotti a penitenza e dimandato con umiltà grande l'assoluzione, non era ufficio del vicario di Cristo perseguitargli piú con l'armi spirituali, in pregiudicio della salute di tante anime, avendo conseguite le terre e cosí cessando la cagione per la quale erano stati sottoposti alle censure; perché la restituzione de' frutti presi era cosa accessoria e inserita piú per aggravare la inubbidienza che per altro, e che non era conveniente venisse in considerazione di tanta cosa. Diversa esser la causa del perseguitargli con l'armi temporali; alle quali, perché aveva nell'animo di perseverare nella lega di Cambrai, si offeriva parato di concorrere insieme cogli altri: benché da questo potesse ciascuno de' confederati giustamente discostarsi, perché dal re de' romani era mancato il non avere Trevigi avendo rifiutato le prime offerte fattegli da' viniziani (quando gli mandorno imbasciadore Antonio Giustiniano) di lasciargli tutto quello possedevano in terra ferma, e perché dipoi gli aveano offerto molte volte di dargli in cambio di Trevigi conveniente ricompensa.
E cosí, non lo ritenendo le contradizioni degli imbasciadori, lo ritardava solamente la generosità del suo animo; per la quale, ancora che riputasse l'assoluzione de' viniziani utile a sé e opportuna a' fini propostisi, aveva deliberato non la concedere se non con degnità grande della sedia apostolica, e in modo che le cose della Chiesa si liberassino totalmente dalle loro oppressioni: e perciò, recusando i viniziani di cedere a due condizioni le quali oltre a molte altre aveva proposte, differiva l'assolvergli. L'una era che lasciassino libera a' sudditi della Chiesa la navigazione del mare Adriatico, la quale vietavano a tutti quegli che per le robe conducevano non pagavano loro certe gabelle; l'altra, che non tenessino piú in Ferrara, città dependente dalla Chiesa, il magistrato del bisdomino. Allegavano i viniziani questo essere stato consentito da' ferraresi, non repugnando Clemente sesto pontefice romano che a quel tempo risedeva con la corte nella città d'Avignone; e la superiorità e custodia del golfo avere conceduta loro con amplissimi privilegi Alessandro quarto pontefice, mosso perché coll'armi e colla virtú e con molte spese l'aveano difeso da' saracini e da' corsali, e renduta sicura quella navigazione a' cristiani. Alle quali cose si replicava per la parte del pontefice non avere potuto i ferraresi, in pregiudicio della superiorità ecclesiastica, acconsentire che da altri fusse tenuto un magistrato o esercitata giurisdizione in Ferrara, né averlo consentito volontariamente ma sforzati da lunga e grave guerra; e dopo avere ricercato invano l'aiuto del pontefice, le censure del quale dispregiavano i viniziani, avere accettata la pace con quelle condizioni che era paruto a chi poteva contro a loro piú coll'armi che colla ragione. Né della concessione d'Alessandro pontefice apparire né in istorie né in iscritture memoria o fede alcuna, eccetto il testimonio de' viniziani, il quale in causa propria e sí ponderosa era sospetto; e quando pure ne apparisse cosa alcuna, essere piú verisimile che da lui, il quale dicevano averlo conceduto in Vinegia, fusse stato conceduto per minaccie o per timore che uno pontefice romano, a cui sopra tutti gli altri apparteneva il patrocinio della giustizia e il ricorso degli oppressi, avesse conceduto una cosa tanto imperiosa e impotente in detrimento di tutto il mondo.
Cap. xiii
I veneziani riprendono Vicenza ed altre terre. Impresa de' veneziani contro il duca d'Este; i veneziani occupano il Polesine; scacco de' ferraresi.
Nel quale stato delle cose, variazione degli animi de' príncipi, piccola potenza e riputazione del re de' romani, i viniziani mandorono l'esercito, nel quale era proveditore Andrea Gritti, a Vicenza, ove sapevano il popolo desiderare di ritornare sotto l'imperio loro; e accostativisi che era già notte, battuto con l'artiglierie il sobborgo della Posterla, l'ottennono. E nondimeno, benché nella città fussino pochi soldati, non confidavano molto di espugnarla; ma gli uomini della terra confortati (come fu fama) da Fracasso, mandati loro a mezzanotte imbasciadori, gli messono dentro, ritirandosi il principe di Analt e il Fracasso nella fortezza: e fu costante opinione che se, ottenuta Vicenza, si fusse senza differire accostato l'esercito veneto a Verona arebbe Verona fatto il medesimo, ma non parve a' capitani dovere partire da Vicenza se prima non acquistavano la fortezza. La quale benché il quarto dí venisse in potestà loro (perché il principe di Anault e Fracassa, per la debolezza sua, l'abbandonorono) entrò in questo tempo in Verona nuova gente di Cesare, e sotto Obigní trecento lancie del re di Francia; di maniera che, essendovi circa cinquecento lancie e cinquemila fanti tra spagnuoli e tedeschi, non era piú facile l'occuparla. Accostossi dipoi l'esercito veneto a Verona diviso in due parti, in ciascuna delle quali erano trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, sperando che come si fussino accostati si facesse movimento nella città: ma non si essendo presentati alle mura in uno tempo medesimo, quegli che erano nella terra fattisi incontro alla prima parte, che veniva di là dal fiume dell'Adice e già era entrata nel borgo, la costrinsono a ritirarsi; e sopravenendo poco di poi Lucio Malvezzo, dall'altra ripa del fiume coll'altra parte, si ritirò medesimamente; e amendue congiunte insieme si fermorno alla villa di San Martino, distante da Verona cinque miglia. Nel qual luogo mentre stavano, avendo inteso che duemila fanti tedeschi, partiti da Basciano erano andati a predare a Cittadella, mossisi a quella parte gli rinchiusono in Vallefidata; ma i tedeschi, avendo ricevuto soccorso da Basciano, uscirono per forza, benché non senza danno, de' passi stretti e avendo abbandonato Basciano l'occuporono i viniziani. Da Basciano andò una parte dell'esercito a Feltro e Civitale e, dopo avere ricuperate quelle terre, alla rocca della Scala, la quale spugnò, avendovi prima piantate l'artiglierie; e nel tempo medesimo Antonio e Ieronimo da Savorniano, gentiluomini, che nel Friuli seguitavano le parti viniziane, presono Castelnuovo posto in su uno monte aspro in mezzo della Patria (cosí chiamano il Friuli), di là dal fiume del Tigliavento: non si intendendo di Cesare, il quale commosso dal caso di Vicenza era venuto subitamente alla Pietra, altro che romori vari, e spesso muoversi con celerità, ma senza effetto alcuno, da uno luogo a un altro.
Andò dipoi l'esercito de' viniziani verso Monselice e Montagnana, per recuperare il Pulesine di Rovigo e per entrare nel ferrarese, insieme coll'armata, la quale il senato, disprezzato il consiglio de' senatori piú prudenti, che giudicavano essere cosa temeraria lo implicarsi in nuove imprese, aveva deliberato mandare potente per il fiume del Po contro al duca di Ferrara: mossi non tanto dalla utilità delle cose presenti quanto dallo sdegno che incredibile aveano conceputo contro a lui; parendo loro che di quel che aveva fatto per liberarsi dal giogo del bisdomino e per ricuperare il Pulesine non dovere giustamente lamentarsi, ma non potendo già tollerare che, non contento di quel che pretendeva appartenersegli di ragione, avesse, quando Cesare si levò con l'esercito da Padova, ricevuto da lui in feudo il castello di Esti, donde è l'antica origine e il cognome della famiglia da Esti, e in pegno, per sicurtà di danari prestati, il castello di Montagnana, ne' quali due luoghi non pretendeva ragione alcuna. Aggiugnevasi la memoria che le sue genti, nella recuperazione del Pulesine, concitate da odio estremo contro al nome viniziano, avevano danneggiato eccessivamente i beni de' gentiluomini, incrudelendo eziandio contro agli edifici con incendi e con ruine. Però fu determinato che l'armata loro guidata da Angelo Trevisano, e nella quale furono diciassette galee sottili con numero grandissimo di legni minori, e bene provista d'uomini atti alla guerra, andasse verso Ferrara: la quale armata, entrata nel Po per la bocca delle Fornaci e abbruciata Corbola e altre ville vicine al Po, andò predando tutto il paese insino al Lagoscuro: dal quale luogo i cavalli leggieri che per terra l'accompagnavano scorseno per insino a Ficheruolo, palazzo piú presto che fortezza, famoso per la lunga oppugnazione di Ruberto da San Severino capitano de' viniziani, nella guerra contro a Ercole padre di Alfonso.
La venuta di questa armata, e la fama d'avere a venire l'esercito di terra, spaventò molto il duca di Ferrara; il quale trovandosi con pochissimi soldati, né essendo il popolo di Ferrara, o per il numero o per la perizia della guerra, bastante a opporsi a tanto pericolo, non aveva, insino a tanto gli sopravenissino gli aiuti che sperava dal pontefice e dal re di Francia, altra difesa che impedire, con frequentissimi colpi d'artiglierie piantate in sulla ripa del Po, che gli inimici non passassino piú innanzi. Perciò il Trivisano, avendo tentato invano di passare e conoscendo non potere fare senza gli aiuti di terra maggiore progresso, fermò l'armata in mezzo al fiume del Po dietro a una isoletta che è di riscontro alla Pulisella, luogo distante da Ferrara per [undici] miglia e molto opportuno a travagliarla e tormentarla, con intenzione di aspettare quivi l'esercito; al quale si era arrenduto senza difficoltà tutto il Pulesine, recuperata prima Montagnana per accordo, per il quale furono concessi loro prigioni gli ufficiali ferraresi e i capitani de' fanti che vi erano dentro. Insino all'arrivare del quale, perché l'armata stesse piú sicura, cominciò il Trivisano a fabricare due bastioni con grandissima celerità in sulla riva del Po, l'uno dalla parte di Ferrara l'altro in sulla ripa opposita; gittando similmente uno ponte in sulle navi per il quale si potesse dall'armata soccorrere il bastione che si fabricava verso Ferrara. La perfezione del quale per impedire, il duca, ma con consiglio forse piú animoso che prudente, raccolti quanto piú giovani potette della città e i soldati che continuamente concorrevano agli stipendi suoi, mandò all'improviso ad assaltarlo; ma quegli che erano nel bastione, soccorsi dalla armata, usciti fuora a combattere, gli cominciorno a mettere in fuga; e benché il duca, sopravenendo con molti cavalli, rendesse animo e rimettesse in ordine la gente sua, imperita la piú parte e disordinata, nondimeno fu tale l'impeto degli inimici, per i quali combatteva la sicurtà del luogo e molte artiglierie piccole, che finalmente fu costretto a ritirarsi, restando o morti o presi molti de' suoi, né tanto della turba imperita e ignobile quanto de' soldati piú feroci e della nobiltà ferrarese; tra i quali Ercole Cantelmo, giovane di somma espettazione, i maggiori del quale aveano già dominato nel reame di Napoli il ducato di Sora: il quale condotto prigione in su una galea, e venuti in quistione gli schiavoni di cui di loro dovesse essere prigione, gli fu da uno di essi, con inaudito esempio di barbara crudeltà, miserabilmente troncata la testa. Per le quali cose parendo a ciascuno che la città di Ferrara non fusse senza pericolo, Ciamonte vi mandò in soccorso Ciattiglione con cento cinquanta lancie franzesi; e il pontefice, sdegnatosi che i viniziani l'avessino assaltata senza rispetto della superiorità che vi ha la Chiesa, ordinò che i suoi dugento uomini d'arme che erano in aiuto di Cesare si volgessino alla difesa di Ferrara: ma sarebbono state per avventura tarde queste provisioni se i viniziani non fussino stati costretti di pensare alla difesa delle cose proprie.
Cap. xiv
I veneziani per la minacciata espugnazione di Vicenza ritirano parte delle milizie dal ferrarese. Rotta dell'armata veneziana sul Po.
Non erano, come è detto di sopra, state moleste al re di Francia le difficoltà che aveva Massimiliano, parte per il timore che ebbe sempre delle prosperità sue parte perché, ardendo di desiderio di insignorirsi della città di Verona, sperava che per le sue necessità glien'avesse finalmente a concedere, o in vendita o in pegno; ma da altra parte gli dispiaceva che la grandezza de' viniziani risorgesse, dalla quale sarebbe risultato molestia e pericolo continuo alle cose sue: però, essendo per la penuria de' danari molto deboli le provisioni di Cesare in Verona, fu necessitato il re a procurare, con altro aiuto che con quello delle genti d'arme che vi erano entrate, che quella città non ritornasse in potestà loro. Alla qual cosa dette principio Ciamonte, venuto dopo la perdita di Vicenza a' confini del veronese; perché, cominciando a tumultuare per mancamento de' pagamenti dumila fanti spagnuoli che erano in Verona, ve gli fermò agli stipendi del re di Francia, e vi mandò per maggiore sicurtà altri fanti; seguitato in questo il consiglio del Triulzio, che dubitando Ciamonte che al re non fusse molesta questa spesa gli rispose essere minore male che il re lo imputasse di avere speso danari che d'avere perduto o messo in pericolo il suo stato. Prestò oltre a questo a Cesare, per pagare i soldati che erano in Verona, ottomila ducati, ma ricevendo, per pegno della restituzione di questi e degli altri che per beneficio suo vi spendesse in futuro, la terra di Valeggio; la quale terra, per essere uno de' passi del fiume del Mincio (anzi chi possiede quella e Peschiera domina il Mincio) e propinqua a Brescia a sei miglia, era per sicurtà di Brescia molto stimata dal re. La venuta di Ciamonte seguitato dalla maggiore parte delle lancie che alloggiavano nel ducato di Milano, il mettere genti in Verona, e il divulgarsi che si preparava per andare all'espugnazione di Vicenza, furono cagione che l'esercito de' viniziani, lasciati per difesa del Pulesine e per sussidio dell'armata quattrocento cavalli leggieri e quattrocento fanti, si partí del ferrarese e si divise tra Lignago, Soave e Vicenza, e che i viniziani, desiderando assicurarsi che Vicenza e il paese circostante non fusse molestato dalle genti che erano in Verona, lo fortificorno con una fossa di opera memorabile, larga e piena di acqua, intorniata da uno riparo in sul quale erano distribuiti molti bastioni; la quale, cominciando dalle radici della montagna sopra a Suave e distendendosi per spazio di cinque miglia, si distendeva per il piano dalla parte che da Lonigo si va a Monforte, terminando in certi paludi contigui al fiume dello Adice: e fortificato Soave e Lonigo, avevano, mentre la si guardava, assicurato, massime la vernata, tutto il paese.
Alleggerissi per la partita delle genti viniziane, ma non si levò però in tutto, il pericolo di Ferrara: perché se bene fusse cessato il timore dello essere sforzata non era cessato il sospetto che, per i danni gravissimi, o non si estenuasse troppo o non si riducesse il popolo a ultima disperazione; perché le genti dell'armata e quelle che l'accompagnavano correvano ogni dí insino in sulle porte della città, e altri legni de' viniziani, assaltato da altra parte lo stato del duca di Ferrara, avevano preso Comacchio. Sopragiunsono in questo tempo le genti del pontefice e del re di Francia; e perciò il duca, il quale prima ammunito dal danno ricevuto nell'assalto del bastione avea fermate le genti sue in alloggiamento forte appresso a Ferrara, cominciò a fare spesse cavalcate e scorrerie per condurre gli inimici a combattere: i quali, sperando che l'esercito ritornasse, recusavano prima di combattere. E accadde che essendo cavalcato un giorno insino appresso al bastione il cardinale da Esti, nel ritornarsene, un colpo d'artiglieria scaricata da uno de' legni degli inimici levò il capo al conte Lodovico della Mirandola, uno de' condottieri della Chiesa; non avendo, tra tanta moltitudine, né quello né altro colpo offeso alcuno. Finalmente, la perizia del paese e della natura e opportunità del fiume fece facile quel che da principio era paruto pericoloso e difficile. Perché, sperando il duca e il cardinale di rompere coll'artiglierie l'armata, pure che avessino facoltà di poterle sicuramente distendere in sulla ripa del fiume, ritornò il cardinale con parte delle genti ad assaltare il bastione; e avendo, con uccisione di alcuni di loro, rimessi gli inimici che erano usciti a scaramucciare, occupò e fortificò la parte prossima dell'argine, in modo che senza che gli inimici lo sapessino condusse al principio della notte l'artiglierie in sulla ripa opposita all'armata; e distesele con silenzio grande, cominciò con terribile impeto a percuoterla: e benché tutti i legni si movessino per fuggire, nondimeno essendo distese per lungo spazio molte e grossissime artiglierie, le quali maneggiate da uomini periti tiravano molto da lontano, mutavano piú tosto il luogo del pericolo che fuggissino il pericolo; essendo sopravenuto ed esercitandosi maravigliosamente la persona del duca, peritissimo e nel fabbricare e nell'usare l'artiglierie. Per i quali colpi tutti i legni inimici, con tutto che essi similmente non cessassino di tirare (ma invano, perché quegli che erano in sulla ripa erano coperti dall'argine), con vari e spaventosi casi si consumavano: alcuni de' quali non potendo piú reggere a' colpi si arrendevano; alcuni altri, appresovi il fuoco per i colpi dell'artiglierie, miserabilmente ardevano con gli uomini che vi erano dentro; altri, per non venire in mano degli inimici, messe insieme molte navi e gittandovi fuoco, si precipitavano da se medesimi in quella crudeltà che da altri temevano. Il capitano dell'armata, montato quasi al principio dell'assalto in su una scafa, fuggendo si salvò; la sua galea, fuggita per spazio di tre miglia, al continuo tirando e difendendo e provedendo alle percosse riceveva, all'ultimo tutta forata andò nel fondo. Finalmente, essendo pieno ogni cosa di sangue di fuoco e di morti, vennono in potestà del duca quindici galee, alcune navi grosse, fuste, barbotte e altri legni minori, quasi senza numero; morti circa dumila uomini o dall'artiglierie o dal fuoco o dal fiume, prese sessanta bandiere, ma non lo stendardo principale che si salvò col capitano; molti fuggiti in terra, de' quali parte raccolti da' cavalli leggieri de' viniziani si salvorono, parte seguitati dagli inimici furno presi, parte riceverono nel fuggirsi vari danni da' paesani. Furono i legni presi condotti a Ferrara, ove per memoria della vittoria acquistata si conservorno molti anni; insino a tanto che Alfonso desideroso di gratificare al senato viniziano li concedé loro. Rotta l'armata, mandò subito Alfonso trecento cavalli e cinquecento fanti per rompere l'altra armata che aveva preso Comacchio; i quali, avendo recuperato Loreto fortificato da i viniziani, si crede che arebbono rotta l'armata se quella, conosciuto il pericolo, non si fusse ritirata alle Bebie. Questo fine ebbe in spazio di uno mese l'assalto di Ferrara; nel quale lo evento, che spesso è giudice non imperito delle cose, manifestò quanto fusse piú prudente il consiglio de' pochi che confortavano che, lasciate l'altre imprese e riservati a maggiore opportunità i danari, si attendesse solamente alla conservazione di Padova e di Trevigi e dell'altre cose ricuperate, che di quegli che piú di numero ma inferiori di prudenza, concitati dall'odio e dallo sdegno, erano facili a implicarsi in tante imprese: le quali, cominciate temerariamente, partorirono alla fine spese gravissime, con non mediocre ignominia e danno della republica.
Cap. xv
Massimiliano si ritira dal Veneto. Posizione di Verona. Vane trattative di tregua tra Massimiliano e i veneziani. Accordi tra Massimiliano e il re d'Aragona per il regno di Castiglia. Nuovi sospetti del pontefice verso il re di Francia. Morte del conte di Pitigliano.
Ma dalla parte di Padova succedevano per i viniziani piú presto le cose prospere che altrimenti. Perché trovandosi Cesare nel vicentino con quattromila fanti, una parte non molto grande delle genti dei viniziani, con aiuto de' villani del paese, presono quasi in su gli occhi suoi il passo della Scala, e appresso il Cocollo e Basciano, luogo importante per impedire chi della Magna volesse passare in Italia; ed egli, lamentandosi che per la partita della Palissa fussino succeduti molti disordini, se ne andò a Bolzano, per trasferirsi alla dieta che per ordine suo si aveva a tenere in Spruch. Il cui esempio seguitando Ciamonte, omessi i pensieri caldi che aveva avuto di fare la impresa di Vicenza e di Lignago, considerato ancora i luoghi essere bene proveduti e la stagione del tempo molto contraria, si ritirò a Milano, lasciata bene guardata Brescia, Peschiera e Valeggio, e in Verona, per difesa di quella città (la quale Cesare per se stesso era impotente a difendere), seicento lancie e quattromila fanti: i quali, separati dai soldati di Cesare, alloggiavano nel borgo di San Zeno, avendo anche in potestà loro, per essere piú sicuri, la cittadella. La città di Verona, nobile e antica città, è divisa dal fiume dello Adice, fiume profondo e grossissimo; il quale, nato ne' monti della Magna, come è condotto al piano si torce in su la mano sinistra rasente i monti, ed entrando in Verona, come ne è uscito, discostandosi da' monti si allarga per bella e fertile pianura. Quella parte della città che è situata nella costa, con alquanto piano, è da l'Adice in là verso la Magna; il resto della terra, che è tutto in piano, è posto dallo Adice in qua verso Mantova. In sul monte, alla porta di San Giorgio, è posta la rocca di San Piero; e due balestrate distante da quella, piú alta in su la cima del poggio, è quella di San Felice: forte l'una e l'altra assai piú di sito che di muraglia. E nondimeno, perdute quelle, perché soprafanno, tanto la città, resterebbe Verona in grave pericolo. Queste erano guardate da' tedeschi. Ma nell'altra parte, separata da questa parte dal fiume, è Castelvecchio di verso Peschiera, posto quasi in mezzo della città e che attraversa il fiume con uno ponte; e tre balestrate distante da quello, verso Vicenza, è la cittadella e tra l'una e l'altra si congiungono le mura della città dalla parte di fuora, che rendono figura di mezzo tondo. Ma dal lato di dentro si congiugne loro uno muro edificato in mezzo di due fossi grandissimi, e lo spazio tra l'uno muro e l'altro è chiamato il borgo di San Zeno; che insieme con la guardia della cittadella fu assegnato per alloggiamento de' franzesi.
Dove mentre che stanno quasi quiete l'armi, Massimiliano continuamente trattava di fare tregua co' viniziani; interponendosene molto il pontefice, per mezzo di Achille de Grassis vescovo di Pesero, suo nunzio. Per la qual cosa si convennono allo Spedaletto sopra la Scala a trattare gli oratori suoi e Giovanni Cornaro e Luigi Mocenigo, oratori de' viniziani, ma per le dimande alte di Cesare riuscí pratica vana; con molto dispiacere del pontefice, che desiderava liberare i viniziani da tutte le molestie. E perché tra loro e sé non fusse materia da contendere, aveva operato rendessino al duca di Ferrara la terra di Comacchio la quale avevano prima abbruciata, e a sé promettessino di non molestare piú lo stato del duca di Ferrara; del quale, credendo che avesse a essere grato de' benefici che per mezzo suo aveva conseguito ed era per conseguire, teneva allora singolare protezione, sperando che avesse a dipendere piú da lui che dal re di Francia: contro al quale, stando in continui pensieri di farsi fondamenti di grandissima importanza, avea segretamente mandato uno uomo al re d'Inghilterra e cominciato a trattare con la nazione de' svizzeri, la quale allora cominciava a venire in qualche controversia col re di Francia; per il che essendo venuto a lui il vescovo di Sion (diconlo i latini sedunense), inimico del re e che aspirava per questi mezzi al cardinalato, l'avea ricevuto con animo lietissimo.
Succedette alla fine di questo anno concordia tra 'l re de' romani e il re cattolico, discordi per causa del governo de' regni di Castiglia. La quale, trattata lungamente nella corte del re di Francia e avendo molte difficoltà, fu per poco consiglio del cardinale di Roano (che non considerò quanto questa congiunzione fusse male a proposito delle cose del suo re) condotta a perfezione; perché, parendogli forse che il farsene autore gli potesse giovare a pervenire al pontificato, se ne interpose con grandissima diligenza e fatica: con la quale e con l'autorità sua indusse Massimiliano a consentire che il re cattolico, in caso non avesse figliuoli maschi, fusse governatore di quegli reami insino che Carlo nipote comune pervenisse all'età di venticinque anni, né pigliasse il nipote titolo regio vivente la madre, che aveva titolo di reina, perché in Castiglia non sono le femmine escluse da' maschi; pagasse il re cattolico a Cesare ducati cinquantamila, aiutasselo secondo i capitoli di Cambrai insino a tanto avesse acquistato e recuperato le cose sue, e a Carlo pagasse ciascuno anno quarantamila ducati. Per la quale convenzione stabilito il re di Aragona nel governo del regno di Castiglia, e avuta facoltà di acquistare fede appresso a Cesare, per essere levate via le differenze tra loro e per essere in tutti due il medesimo interesse del nipote comune, potette con maggiore animo attendere a impedire la grandezza del re di Francia, la quale per l'interesse del reame di Napoli gli era sempre sospetta.
Ebbe in questi medesimi dí sospetto il pontefice che 'l protonotario de' Bentivogli, che era a Cremona, non trattasse di ritornare furtivamente in Bologna, per il quale sospetto fece per alcuni dí ritenere nel palazzo di Bologna Giuliano de' Medici; e riferendo ogni cosa alla mala volontà del re di Francia dimostrava di temere che e' non passasse in Italia per soggiogarla, e per fare violentemente eleggere il cardinale di Roano per pontefice: e nondimeno, nel tempo medesimo, detraeva senza rispetto all'onore di Cesare, come di persona incapace di tanta degnità, e che per l'incapacità sua avesse ridotto in grande disprezzo il nome dello imperio.
Morí nella fine di questo anno il conte di Pitigliano, capitano generale de' viniziani, uomo molto vecchio e nell'arte militare di lunga esperienza; e nella fede del quale si confidavano assai i viniziani, né temevano che temerariamente mettesse in pericolo il loro imperio.
Cap. xvi
Fazioni sotto Verona. Incertezza del re di Francia intorno all'opportunità di una nuova impresa contro i veneziani per la conquista di tutta la terraferma. Politica del re per acquietare l'animo del pontefice. Condizioni con cui il pontefice concede l'assoluzione ai veneziani.
Séguita, in questa ambiguità di cose, l'anno mille cinquecento dieci; nel principio del quale procedevano da ogni parte, come anche era conforme alla stagione, le cose dell'armi freddamente. Perché l'esercito viniziano, alloggiato a San Bonifazio in veronese, teneva quasi come assediata Verona; onde essendo usciti alla scorta Carlo Baglione, Federigo da Bozzole e Sacramoro Visconte, assaltati dagli stradiotti, furono rotti e fatti prigioni Carlo e Sacramoro, perché Federigo si salvò per opera de' franzesi che al soccorso loro erano usciti da Verona; e poco dipoi ruppono un'altra compagnia di cavalli franzesi, tra' quali fu preso monsignore di Clesí; e da altra parte dugento lancie franzesi, uscite di Verona con tremila fanti, sforzorono per assalto uno bastione verso Soave guardato da seicento fanti, e nel ritorno ruppono una moltitudine grande di villani.
Ma in questa freddezza dell'armi erano angustiati da gravissimi pensieri gli animi de' príncipi, e principalmente quello del re de' romani. Il quale, non conoscendo come potesse riportare la vittoria della guerra contro a' viniziani, e traportando, come era solito, le cose sue di dieta in dieta, aveva chiamato la dieta in Augusta; e sdegnato col pontefice, perché gli elettori dello imperio, mossi dalla sua autorità, facevano instanza che prima si trattasse nella dieta della concordia co' viniziani che delle provisioni della guerra, aveva fatto partire il vescovo di Pesero suo nunzio da Augusta; e considerando avere incertitudine lunghezza e molte difficoltà le deliberazioni delle diete anzi il piú delle volte il fine dell'una partorire il principio di un'altra, e che il re di Francia dalle dimande interrotte e dalle imprese che gli erano proposte ogni dí si escusava, ora con lo allegare l'asprezza della stagione ora col dimandare assegnamento certo di quello che spendesse ora ricordando non essere solo obligato ad aiutarlo, per i capitoli di Cambrai, ma essere ancora nelle medesime obligazioni il pontefice e il re di Aragona, co' quali era conveniente si procedesse comunemente, secondo che erano comuni la confederazione e la obligazione, si risolveva niuno rimedio essere piú pronto alle cose sue che indurre il re di Francia ad abbracciare la impresa di pigliare Padova, Vicenza e Trevigi con le forze proprie, ricevendone il ricompenso conveniente: ed era nel consiglio regio questa dimanda approvata da molti; i quali, considerando che insino che i viniziani non erano esclusi totalmente di terra ferma il re starebbe sempre in continue spese e pericoli, lo confortavano a liberarsene con lo spendere una volta potentemente. Né era il re alieno totalmente da questo consiglio, mosso dalla medesima ragione; e però inclinando a passare in persona in Italia con esercito potente, il quale chiamava potente ogni volta che in esso fussino piú di mille seicento lancie e i suoi pensionari e gentiluomini, nondimeno, essendo distratto da altre ragioni in diversa sentenza, stava con l'animo sospeso: piú confuso anche che il solito perché il cardinale di Roano, uomo molto efficace e di grande animo, oppresso da lunga e grave infermità, non vacava piú a' negozi i quali solevano totalmente espedirsi col suo consiglio. Riteneva il re l'essere per natura molto alieno dallo spendere, la cupidità ardente di conseguire Verona, alla quale cosa gli pareva migliore mezzo l'essere il re de' romani implicato in continui travagli; e appunto, essendo egli impotente a pagare le genti tedesche che erano alla guardia di quella città, gli aveva il re prestato di nuovo diciottomila ducati, e obligatosi a prestargliene insino alla somma di cinquantamila: con patto che non solo tenesse, per sicurtà di riavergli, la cittadella, ma che eziandio gli fusse consegnato Castelvecchio e una porta vicina della città, per avere libera l'entrata e l'uscita; e che non gli essendo restituiti i danari infra uno anno gli rimanesse in governo perpetuo la terra di Valeggio, con facoltà di fortificare quella e la cittadella a spese di Cesare.
Tenevano perplesso lo animo del re questi rispetti, ma molto piú lo riteneva il timore di non alterare totalmente la mente del pontefice, se conducesse o mandasse nuovo esercito in Italia. Perché il pontefice, pieno di sospetto, e malcontento ancora che egli si impadronisse di Verona, oltre al perseverare nel volere assolvere i viniziani dalle censure, faceva ogni opera per congiugnersi i svizzeri, per il che aveva rimandato al paese il vescovo di Sion con danari per la nazione e con promessa per lui del cardinalato; e cercava con grandissima diligenza di alienare dal re di Francia l'animo del re di Inghilterra: il quale, se bene avesse auto per ricordo dal padre, nello articolo della morte, che per quiete e sicurtà sua continuasse l'amicizia col regno di Francia, per la quale gli erano pagati ciascuno anno cinquantamila ducati, nondimeno, mosso dalla caldezza della età e dalla pecunia grandissima lasciatagli dal padre, non pareva che avesse manco in considerazione i consigli di quegli che, cupidi di cose nuove e concitati dall'odio che quella nazione ha comunemente grandissimo contro al nome de' franzesi, lo confortavano alla guerra che la prudenza ed esempio del padre; il quale, non discordante de' franzesi, ancora che fatto re d'uno regno nuovo e perturbatissimo, aveva con grande obedienza e con grandissima quiete governato e goduto il suo regno. Le quali cose angustiando gravemente l'animo del re di Francia, il quale per essere piú propinquo alle cose d'Italia si era trasferito a Lione, e temendo che il passare suo in Italia, detestato palesemente dal pontefice, non suscitasse per sua opera cose nuove, e dissuadendolo dal medesimo il re d'Aragona, ma dimostrando dissuadernelo come amico e come amatore della quiete comune, non ebbe in queste ambiguità che lo strignevano da ogni parte piú certo e determinato consiglio che di cercare con ogni studio e diligenza di quietare l'animo del pontefice, talmente che almeno s'assicurasse di non l'avere opposito e inimico: alla qual cosa pareva lo favorisse assai l'occasione, perché si credeva che la morte del cardinale di Roano, la infermità del quale era sí grave che si poteva sperare poco di lunga vita, avesse a essere causa di levargli quella sospizione per la quale principalmente si pensavano gli uomini essere nate le sue alterazioni. E avendo il re notizia che il cardinale di Aus nipote di Roano e gli altri che trattavano le cose sue nella corte di Roma avevano temerariamente, e con parole e con fatti, atteso piú a esacerbare che a mitigare come sarebbe stato necessario la mente del pontefice, non volendo usare piú l'opera loro, mandò in poste a Roma Alberto Pio conte di Carpi, persona di grande spirito e destrezza; al quale furono date amplissime commissioni, non solo di offerirgli in tutti i casi e desideri suoi le forze e autorità del re, e usare seco tutti i rispetti e i riguardi che fussino piú secondo la mente e la natura sua, ma oltre a questo di comunicargli sinceramente lo stato di tutte le cose che si trattavano e le richieste fattegli dal re de' romani, e di rimettere finalmente in arbitrio suo il passare o non passare in Italia, l'aiutare piú lentamente o piú prontamente le cose di Cesare.
Fu commesso al medesimo che dissuadesse l'assoluzione de' viniziani; ma questa, alla venuta sua, era già deliberata e promessa dal pontefice, avendo i viniziani, poi che tra i deputati dal pontefice e gli oratori loro fu disputato molti mesi, consentito alle condizioni sopra le quali si faceva la difficoltà, perché non vedevano altro rimedio alla salute loro che l'essere congiunti seco. Furono, il vigesimoquarto dí di febbraio, lette nel concistorio le condizioni colle quali si doveva concedere l'assoluzione, presenti gli oratori viniziani e confermandole, col mandato autentico della loro republica, per instrumento. Non conferissino o in qualunque modo concedessino benefici o degnità ecclesiastiche, né facessino resistenza o difficoltà alle provisioni che sopra essi venissino dalla corte romana; non impedissino che nella corte predetta si agitassino le cause beneficiali o appartenenti alla giurisdizione ecclesiastica; non ponessino decime o alcuna specie di gravezza in su' beni delle chiese e de' luoghi esenti dal dominio temporale; rinunziassino all'appellazione interposta dal monitorio, a tutte le ragioni acquistate in qualunque modo in sulle terre della Chiesa, e specialmente alle ragioni che e' pretendessino di potere tenere il bisdomino in Ferrara; che i sudditi della Chiesa e i legni loro avessino libera la navigazione del golfo, e con facoltà sí ampia che eziandio le robe d'altre nazioni portate in su' legni loro non potessino essere molestate, né fatta dichiarazione che fussino obligate alle gabelle; non potessino in modo alcuno intromettersi di Ferrara o delle terre di quello stato che avessino dependenza dalla Chiesa; fussino annullate tutte le convenzioni che in pregiudicio ecclesiastico avessino fatto con alcuno suddito o vassallo della Chiesa; non ricettassino duchi baroni o altri sudditi o vassalli della Chiesa che fussino ribelli o inimici della sedia apostolica; e fussino obligati a restituire tutti i danari esatti da' beni ecclesiastici, e ristorare le chiese di tutti i danni che avessino fatto loro. Le quali obligazioni colle promesse e rinunzie debite ricevute nel concistorio, gli imbasciadori viniziani, il dí che fu determinato, seguitando gli esempli antichi, si condussono nel portico di San Piero; dove gittatisi in terra innanzi a' piedi del pontefice, il quale presso alle porte di bronzo sedeva in su la sedia pontificale assistendogli tutti i cardinali e numero grande di prelati, gli dimandorono umilmente perdono, riconoscendo la contumacia e i falli commessi; e dipoi, lettesi secondo il rito della Chiesa certe orazioni e fatte solennemente le cerimonie consuete, il pontefice ricevutigli a grazia gli assolvé, imponendo loro per penitenza che andassino a visitare le sette chiese. Assoluti, entrorno nella chiesa di San Piero, introdotti dal sommo penitenziere; dove avendo udita la messa, che prima era stata denegata, furono onoratamente, non piú come scomunicati o interdetti ma come buoni cristiani e divoti figliuoli della sedia apostolica, da molti prelati e altri della corte accompagnati insino alle loro abitazioni. Dopo la quale assoluzione si ritornorno a Vinegia, lasciato a Roma Ieronimo Donato uomo dottissimo, uno del numero loro; il quale, per le virtú sue e per la destrezza dello ingegno divenuto molto grato al pontefice, fu di grandissimo giovamento alla sua patria nelle cose che si ebbono poi a trattare appresso a lui.