Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume nono
Cap. i
Attività del pontefice per suscitare nemici al re di Francia. Difficoltà di accordi fra il re e gli svizzeri. Intimazioni del pontefice al duca di Ferrara per la lavorazione del sale a Comacchio.
Dell'assoluzione de' viniziani, fatta con animo tanto costante del pontefice, si perturbò molto Cesare al quale questa cosa principalmente apparteneva. Ma non se ne perturbò quasi meno il re di Francia, perché per l'utilità propria desiderava che la grandezza de' viniziani non risorgesse. Non si accorgeva perciò interamente quali fussino gli ultimi fini del pontefice; ma nutrendosi, nelle difficoltà che se gli preparavano, con vane speranze, si persuadeva che 'l pontefice si movesse per sospetto dell'unione sua con Cesare, e che temporeggiando con lui e non gli dando causa di maggiore timore, contento della assoluzione fatta, non procederebbe piú oltre. Ma il pontefice, confermandosi piú l'un dí che l'altro nelle sue deliberazioni, dette licenza, con tutto che molto contradicessino gli oratori de' confederati, a' feudatari e sudditi della Chiesa che si conducessino agli stipendi de' viniziani; i quali soldorno Giampaolo Baglione con titolo di governatore delle loro genti, rimaste per la morte del conte di Pitigliano senza capitano generale, e Giovanluigi e Giovanni Vitelli figliuoli già di Giovanni e di Cammillo, e Renzo da Ceri per capitano di tutti i fanti loro; e avendo cosí scopertamente preso il patrocinio de' viniziani, procurava di concordargli con Cesare, sperando per questo mezzo non solo di separarlo dal re di Francia ma che, unito seco e co' viniziani, gli moverebbe la guerra; la qual cosa perché, per le necessità di Cesare, gli succedesse piú facilmente interponeva l'autorità sua con gli elettori dello imperio e colle terre franche che nella dieta di Augusta non gli deliberassino alcuna sovvenzione. Ma quanto piú si maneggiava questa materia tanto piú si trovava dura e difficile; perché Cesare non voleva concordia alcuna se non ritenendosi Verona, e i viniziani, ne' quali il papa avea sperato dovere essere maggiore facilità, promettendosi in qualunque caso d'avere a difendere Padova e che tenendo quella città dovesse il tempo porgere loro molte occasioni, dimandavano ostinatamente la restituzione di Verona, offerendo di pagare, in ricompenso di quella, quantità grandissima di danari. Né cessava il pontefice di stimolare occultamente il re di Inghilterra a muovere guerra contro al re di Francia, rinnovando la memoria delle inimicizie antiche tra quegli regni, dimostrando l'occasione d'avere successi felicissimi, perché se egli pigliava l'armi contro al re, molt'altri, a' quali era o sospetta o odiosa la sua potenza, le piglierebbono; e confortandolo ad abbracciare con quella divozione che era stata propria de' re di Inghilterra la gloria che se gli offeriva, di essere protettore e conservatore della sedia apostolica, la quale altrimenti era per l'ambizione del re di Francia in manifestissimo pericolo: alla qual cosa lo confortava medesimamente, ma molto occultamente, il re d'Aragona.
Ma quel che importava piú, il pontefice continuando co' svizzeri le pratiche cominciate per mezzo del vescovo di Sion (la cui autorità era grande in quella nazione, e il quale non cessava con somma efficacia di orare a questo effetto ne' consigli e di predicare nelle chiese), avea finalmente ottenuto che i svizzeri accettando pensione di fiorini mille di Reno l'anno per ciascuno cantone, si fussino obligati alla protezione sua e dello stato della Chiesa, permettendogli di soldare, per difendersi da chi lo molestasse, certo numero de' fanti loro: la qual cosa gli avea renduta piú facile la discordia che cominciava a nascere tra loro e il re di Francia. Perché i svizzeri, insuperbiti per l'estimazione che universalmente si faceva di loro, e presumendo che tutte le vittorie che il re presente e il re Carlo suo antecessore aveano ottenute in Italia fussino principalmente procedute per la virtú e per il terrore dell'armi loro, e perciò dalla corona di Francia meritare molto, aveano dimandato, ricercandogli il re di rinnovare insieme la confederazione che finiva, che accrescesse loro le pensioni; le quali erano di sessantamila franchi l'anno, cominciate dal re Luigi undecimo e continuate insino a quel tempo, oltre alle pensioni che secretamente si davano a molti uomini privati: le quali cose dimandando superbamente, il re sdegnato della insolenza loro e che da villani nati nelle montagne (cosí erano le parole sue) gli fusse cosí imperiosamente posta la taglia, cominciò, piú secondo la degnità reale che secondo l'utilità presente, con parole alterate a ribattergli e dimostrare quasi di disprezzargli. Alla qual cosa gli dava maggiore animo, che nel tempo medesimo, per opera dí Giorgio Soprasasso, i vallesi sudditi di Sion, che si reggono in sette comunanze chiamate da loro le corti, corrotti da' donativi e da promesse dí pensioni, in publico e in privato si erano confederati con lui, obligandosi di dare il passo alle sue genti, negarlo agli inimici suoi e andare al soldo suo con quel numero di fanti che comportavano le forze loro; e in simigliante modo si erano confederati seco i signori delle tre leghe che si chiamano i grigioni; e benché una parte de' vallesi non avesse ancora ratificato, sperava il re indurgli co' mezzi medesimi alla ratificazione: onde si persuadeva non gli essere piú tanto necessaria l'amicizia de' svizzeri; avendo determinato, oltre a' fanti che gli concederebbono i vallesi e i grigioni, di condurre nelle guerre fanti tedeschi; temendo medesimamente poco de' movimenti loro, perché non credeva potessino assaltare il ducato di Milano se non per la via di Bellinzone e altre molte anguste, per le quali venendo molti potevano facilmente essere ridotti in necessità di vettovaglie da pochi, venendo pochi basterebbono similmente pochi a fargli ritirare. Cosí stando ostinato a non augumentare le pensioni, non si otteneva ne' consigli de' svizzeri di rinnovare seco la confederazione, con tutto che confortata da molti di loro, a' quali privatamente ne perveniva grandissima utilità; e per la medesima cagione piú facilmente consentirono alla confederazione dimandata dal pontefice.
Per la quale nuova confederazione parendogli avere fatto fondamento grande a' pensieri suoi, e oltre a questo procedendo per natura in tutte le cose come se fusse superiore a tutti e come se tutti fussino necessitati a ricevere le leggi da lui, seminava origine di nuovo scandolo col duca di Ferrara: o mosso veramente dalla cagione che venne in disputa tra loro o per lo sdegno conceputo contro di lui che, ricevuti da sé tanti benefici e onori, dependesse piú dal re di Francia che da lui. Quale si fusse la cagione, cercando principio di controversie, comandò imperiosamente ad Alfonso che desistesse da fare lavorare sali a Comacchio, perché non era conveniente che quel che non gli era lecito fare quando i viniziani possedevano Cervia gli fusse lecito possedendo la sedia apostolica, di cui era il diretto dominio di Ferrara e di Comacchio: cosa di grande utilità, perché dalle saline di Cervia, quando non si lavorava a Comacchio, si diffondeva il sale in molte terre circostanti. Ma piú confidava Alfonso nella congiunzione che aveva col re di Francia e nella sua protezione che non temeva delle forze del pontefice; e lamentandosi d'avere a essere costretto di non ricôrre il frutto il quale nella casa propria con pochissima fatica gli nasceva, anzi avere per uso de' popoli suoi a comperare da altri quello di che poteva riempiere i paesi forestieri, né dovere passare in esempio quello a che i viniziani non con la giustizia ma con l'armi l'aveano indotto a consentire, recusava di ubbidire a questo comandamento: onde il pontefice mandò a protestargli, sotto gravi pene e censure, non gli era lecito fare quando i viniziani possedevano Cervia gli fusse lecito possedendo la sedia apostolica, di cui era il diretto dominio di Ferrara e di Comacchio: cosa di grande utilità, perché dalle saline di Cervia, quando non si lavorava a Comacchio, si diffondeva il sale in molte terre circostanti. Ma piú confidava Alfonso nella congiunzione che aveva col re di Francia e nella sua protezione che non temeva delle forze del pontefice; e lamentandosi d'avere a essere costretto di non ricôrre il frutto il quale nella casa propria con pochissima fatica gli nasceva, anzi avere per uso de' popoli suoi a comperare da altri quello di che poteva riempiere i paesi forestieri, né dovere passare in esempio quello a che i viniziani non con la giustizia ma con l'armi l'aveano indotto a consentire, recusava di ubbidire a questo comandamento: onde il pontefice mandò a protestargli, sotto gravi pene e censure, che desistesse.
Cap. ii
Massimiliano e il re di Francia si accordano per assalire di nuovo i veneziani; contrarietà del pontefice. Vano tentativo de' veneziani per prendere Verona. Nuove querele e minaccie del pontefice contro il duca di Ferrara. Discussione fra il pontefice e il re di Francia per la controversia col duca.
Questi erano i pensieri e l'opere del pontefice, intento con tutto l'animo alla sollevazione de' viniziani. Ma da altra parte il re de' romani e il re di Francia, desiderosi parimenti della loro depressione e malcontenti delle dimostrazioni che faceva per essi il pontefice, e perciò venuti insieme in maggiore unione, convennono di assalire quella state con forze grandi i viniziani: mandando da una parte il re di Francia Ciamonte con potente esercito, al quale si unissino le genti tedesche che erano in Verona; e da altra parte Cesare, con le genti le quali sperava ottenere dallo imperio nella dieta di Augusta, entrasse nel Friuli, e presolo procedesse ad altre imprese secondo che gli mostrasse il tempo e l'occasioni. Alla qual cosa ricercorno il pontefice che, come obligato per la lega di Cambrai, concorresse coll'armi insieme con loro; ma esso a cui era sommamente molesta questa cosa rispose apertamente non essere tenuto a quella confederazione, che aveva già avuta perfezione poiché era stato in potestà di Cesare avere prima Trevigi e poi ricompenso di danari. Ricercò similmente Massimiliano il re cattolico di sussidio per le obligazioni medesime di Cambrai, e per le convenzioni fatte seco particolarmente quando gli consentí il governo di Castiglia, ma con prieghi che l'accomodasse piú tosto di danari che di genti; ma egli, non si disponendo a sovvenirlo di quel che piú aveva di bisogno, gli promesse mandargli quattrocento lancie, sussidio a Cesare di poca utilità perché nell'esercito franzese e suo abbondavano cavalli.
Nel quale tempo, essendo la città di Verona molto vessata da' soldati che la guardavano perché non erano pagati, le genti viniziane, chiamate occultamente da alcuni cittadini, partitesi da San Bonifazio, si accostorono di notte alla città per scalare castello San Piero essendo entrati per la porta San Giorgio dove mentre dimorano, per congiugnere insieme le scale, perché separate non ascendevano all'altezza delle mura, o sentiti da quegli che guardavano il castello di San Felice o parendo loro vanamente udire romore, impauriti, lasciate le scale si discostorono; donde l'esercito si ritornò a San Bonifazio, e in Verona venuta a luce la congiurazione ne furono puniti molti.
Inclinò in questo tempo l'animo del pontefice a riunirsi col re di Francia, mosso non da volontà ma da timore; perché Massimiliano dimandava superbamente che gli prestasse dugentomila ducati, minacciandolo che altrimenti si unirebbe col re di Francia contro a lui; e perché era fama che nella dieta di Augusta si determinerebbe di concedergli aiuti grandi, e perché di nuovo tra il re di Inghilterra e il re di Francia era stata fatta e publicata con solennità grande la pace: e perciò molto strettamente cominciò a trattare con Alberto da Carpi, col quale era proceduto insino a quel dí con parole e speranze generali. Ma perseverò poco tempo in questa sentenza: perché la dieta di Augusta, senza le forze della quale erano in piccola estimazione i minacci di Cesare, non corrispondendo all'espettazione, non gli determinò altro aiuto che di trecentomila fiorini di Reno, sopra il quale assegnamento aveva già fatte molte spese; e dal re di Inghilterra gli fu significato avere nella pace inserito uno capitolo ch'ella si intendesse annullata qualunque volta il re di Francia offendesse lo stato della Chiesa. Dalle quali cose ripreso animo e ritornato a' primi pensieri, aggiunse contro al duca di Ferrara nuove querele. Perché quel duca, dappoi che 'l golfo fu liberato, avea poste nuove gabelle alle robe che per il fiume del Po andavano a Vinegia; le quali, allegando il pontefice che secondo la disposizione delle leggi non si potevano imporre dal vassallo senza licenza del signore del feudo, e che erano in pregiudicio grande de' bolognesi suoi sudditi, faceva instanza che si levassino; minacciando altrimenti assaltarlo con l'armi: e per fargli maggiore timore fece passare le sue genti d'arme nel contado di Bologna e in Romagna.
Turbavano queste cose molto l'animo del re: perché da una parte gli era molestissimo il pigliare l'inimicizia col pontefice, da altra parte lo moveva l'infamia d'abbandonare il duca di Ferrara, dal quale per obligarsi alla protezione avea ricevuto trentamila ducati; né meno lo moveva il rispetto della propria utilità, perché dependendo totalmente Alfonso da lui e augumentando tanto piú nella sua divozione quanto piú vedeva perseguitarsi dal pontefice, ed essendo lo stato suo alle cose di Lombardia molto opportuno, riputava interesse suo il conservarlo. Però si interponeva col pontefice perché tra loro si introducesse qualche concordia. Ma al pontefice pareva giusto che 'l re si rimovesse da questa protezione, allegando averla presa contro a' capitoli di Cambrai: per i quali, fatti sotto colore di restituire quello che era occupato alla Chiesa, si proibiva che alcuno de' confederati pigliasse la protezione de' nominati dall'altro, e da sé essere stato nominato il duca di Ferrara: e di piú, che alcuno non si intromettesse delle cose appartenenti alla Chiesa. Confermarsi il medesimo per la confederazione fatta particolarmente tra loro a Biagrassa, nella quale espressamente si diceva che 'l re non tenesse protezione alcuna di stati dependenti dalla Chiesa e non ne accettasse in futuro, annullando tutte quelle che per il passato avesse preso. Alle quali cose benché per la parte del re si rispondesse, contenersi nella medesima convenzione che ad arbitrio suo si conferissino i vescovadi di qua da' monti, il che il pontefice avere violato nel primo vacante, avere medesimamente contravenuto in favore de' viniziani a' capitoli fatti a Cambrai, onde essergli lecito non osservare a lui le cose promesse; nondimeno, per non avere per gli interessi del duca di Ferrara a venire all'armi col pontefice, proponeva condizioni per le quali, non si contravenendo totalmente né direttamente al suo onore, potesse il pontefice restare in maggiore parte sodisfatto negli interessi che la Chiesa ed egli pretendevano contro ad Alfonso; ed era oltre a questo contento obligarsi, secondo una richiesta fatta dal pontefice, che le genti franzesi non passassino il fiume del Po, se non in quanto fusse tenuto per la protezione de' fiorentini o per dare molestia a Pandolfo Petrucci e a Giampaolo Baglione, sotto pretesto de' danari promessigli dall'uno e intercettigli dall'altro.
Cap. iii
Resa di Vicenza e di altre terre alle milizie francesi e tedesche. Discorso del capo della legazione de' vicentini. Inumana risposta del principe di Analt. Intercessione benevola di Ciamonte; crudeltà dei tedeschi.
Le quali cose mentre che si agitavano, Ciamonte con mille cinquecento lancie e con diecimila fanti di varie nazioni, tra' quali erano alcuni svizzeri, condotti privatamente non per concessione de' cantoni, seguitandolo copia grande d'artiglierie e tremila guastatori e co' ponti preparati per passare i fiumi, ed essendogli congiunto il duca di Ferrara con dugento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e duemila fanti, e avendo senza ostacolo occupato (perché i viniziani l'abbandonorno) il Pulesine di Rovigo, e presa la torre Marchesana posta in su la ripa dell'Adice di verso Padova, venuto a Castel Baldo, ebbe con semplici messi le terre di Montagnana ed Esti, appartenenti l'una ad Alfonso da Esti per donazione di Massimiliano, l'altra impegnatagli da lui per sicurtà di danari prestati; i quali luoghi recuperato che ebbe Alfonso, sotto pretesto di certe galee de' viniziani che venivano su per il Po, ne rimandò la piú parte delle sue genti. Unissi con Ciamonte il principe di Anault luogotenente di Cesare, uscito di Verona con trecento lancie franzesi dugento uomini d'arme e tremila fanti tedeschi, seguitandolo sempre dietro uno alloggiamento; e lasciatosi addietro Monselice tenuto da' viniziani, vennono in quel di Vicenza, dove Lunigo e tutto il paese senza contradizione se gli arrendé: perché l'esercito viniziano, che si diceva essere di seicento uomini d'arme quattromila tra cavalli leggieri e stradiotti e ottomila fanti, sotto Giampaolo Baglione governatore e Andrea Gritti proveditore, partitosi prima da Soave e andatosi continuamente ritirando, secondo i progressi degli inimici, ne' luoghi sicuri, finalmente messa sufficiente guardia in Trevigi, e a Mestri posto mille fanti, si era ritirato alle Brentelle luogo vicino a tre miglia di Padova, in alloggiamento molto forte, perché il paese è pieno di argini e quel luogo circondato dall'acque di tre fiumi, Brenta, Brentella e Bacchiglione. Per la ritirata del quale, i vicentini del tutto abbandonati e impotenti per se stessi a difendersi, non rimanendo loro altra speranza che la misericordia del vincitore, e confidando potere piú facilmente ottenerla per mezzo di Ciamonte, mandorono a dimandargli salvocondotto per mandare imbasciadori a lui e al principe di Anault; il quale ottenuto, si presentorono in abito miserabile e pieni di mestizia e di spavento innanzi all'uno e l'altro di loro, che erano al Ponte a Barberano propinquo a dieci miglia a Vicenza. Ove, presenti tutti i capitani e persone principali degli eserciti, il capo della legazione parlò, secondo si dice, cosí:
- Se fusse noto a ciascuno quello che la città di Vicenza, invidiata già per le ricchezze e felicità sua da molte città vicine, ha patito, poiché, piú per errore e stoltizia degli uomini e forse piú per una certa fatale disposizione che per altra cagione, ritornò sotto il dominio de' viniziani, e i danni infiniti e intollerabili che ha ricevuto, ci rendiamo certissimi, invittissimi capitani, che ne' petti vostri sarebbe maggiore la pietà delle nostre miserie che lo sdegno e l'odio per la memoria della ribellione: se ribellione merita d'essere chiamata lo errore di quella notte, nella quale, essendo spaventato il popolo nostro, perché lo esercito inimico aveva per forza espugnato il borgo della Postierla, non per ribellarsi né per fuggire lo imperio mansueto di Cesare ma per liberarsi dal sacco e dagli ultimi mali delle città, uscirono fuora imbasciadori ad accordarsi con gli inimici; movendo sopratutto gli uomini nostri, non assuefatti all'armi e a' pericoli della guerra, l'autorità del Fracassa; il quale, capitano esperimentato in tante guerre e soldato di Cesare, o per fraude o per timore (il che a noi non appartiene di ricercare), ci consigliò che mediante l'accordo provedessimo alla salute delle donne e figliuoli nostri e della nostra afflitta patria. In modo che si conosce che non alcuna malignità ma solo il timore, accresciuto per l'autorità di tale capitano, fu cagione non che si deliberasse ma piú tosto che in breve spazio di tempo, in tanto tumulto in tanti strepiti d'arme in tanti tuoni d'artiglierie nuovi agli orecchi nostri, si precipitasse ad arrenderci a viniziani; la felicità de' quali e la potenza non era tale che ci dovesse per se stessa invitare a questo: e quanto sieno diversi i falli nati dal timore e dallo errore da quegli peccati che sono mossi dalla fraude e dalla mala intenzione è manifestissimo a ciascuno. Ma quando bene la nostra fusse stata non paura ma volontà di rebellarsi, e fusse stato consiglio e consentimento universale di tutti, non, in tanta confusione, piú presto movimento e ardire di pochi non contradetto dagli altri, e che i peccati di quella infelice città fussino del tutto inescusabili, le nostre calamità da quel tempo in qua sono state tali che si potrebbe veramente dire che la penitenza fusse senza comparazione stata maggiore che il peccato: perché dentro alle mura, per le rapine de' soldati stati alla guardia nostra, siamo stati miserabilmente spogliati di tutte le facoltà; e chi non sa quel che, di fuora, per la guerra continua abbiamo patito? e che rimane piú in questo misero paese che sia salvo? Arse tutte le case delle nostre possessioni, tagliati tutti gli alberi, perduti gli animali, non condotte al debito fine già due anni le ricolte, impedite in grande parte le semente, senza entrate e senza frutti, senza speranza che mai piú possa risorgere questo distruttissimo paese, siamo ridotti in tante angustie, in tanta miseria che, avendo consumato per sostentare la vita nostra, per resistere a infinite spese che per necessità abbiamo fatte, tutto quello che occultamente ci avanzava, non sappiamo piú come in futuro possiamo pascere noi medesimi e le famiglie nostre. Venga qualunque piú inimico animo e piú crudele, ma che in altri tempi abbia veduto la patria nostra, a vederla di presente; siamo certi non potrà contenere le lagrime, considerando che quella città che, benché piccola di circuito, soleva essere pienissima di popolo, superbissima di pompe, illustre per tante magnifiche e ricche case, ricetto continuo di tutti i forestieri, quella città dove non si attendeva ad altro che a conviti a giostre e a piaceri, sia ora quasi desolata di abitatori, le donne e gli uomini vestiti vilissimamente, non vi essere piú aperta casa alcuna, non vi essere alcuno che possa promettersi di avere modo di sostentare sé e la famiglia sua pure per uno mese, e in cambio di magnificenze, di feste e di piaceri non si vedere e sentire altro che miserie, lamentazioni publiche di tutti gli uomini, pianti miserabili per tutte le strade di tutte le donne: le quali sarebbono ancora maggiori se non ci ricordassimo che dalla volontà tua, gloriosissimo principe di Anault, depende o l'ultima desolazione di quella afflittissima nostra patria o la speranza di potere, sotto l'ombra di Cesare, sotto il governo della sapienza e clemenza tua, non diciamo respirare o risorgere, perché questo è impossibile, ma, consumando la vita per ogni estremità, fuggire almeno l'ultimo eccidio. Speriamo, perché ci è nota la benignità e umanità tua, perché è verisimile che tu vogli imitare Cesare, degli esempli, della clemenza e mansuetudine del quale è piena tutta l'Europa. Sono consumate le sostanze nostre, sono finite tutte le nostre speranze, non ci è piú altro che le vite e le persone: nelle quali incrudelire, che frutto sarebbe a Cesare? che laude a te? Supplichiamti con umilissimi prieghi, (i quali immaginati essere mescolati con pianti miserabili d'ogni sesso, d'ogni età, d'ogni ordine della nostra città) che tu voglia che Vicenza infelice sia esempio a tutti gli altri della mansuetudine dello imperio tedesco, sia simile alla clemenza e alla magnanimità de' vostri maggiori; che trovandosi vittoriosi in Italia conservorono le città vinte, eleggendole molti di loro per propria abitazione: donde, con gloria grande del sangue germanico, discesono tante case illustri in Italia, quegli da Gonzaga quegli da Carrara quegli dalla Scala, antichi già signori nostri. Sia esempio, in uno tempo medesimo, Vicenza, che i viniziani nutriti e sostentati da noi ne' minori pericoli l'abbino ne' maggiori pericoli, ne' quali erano tenuti a difenderla, vituperosamente abbandonata; e che i tedeschi, che avevano qualche causa di offenderla, l'abbino gloriosamente conservata. Piglia il patrocinio nostro tu, invittissimo Ciamonte, e commemora l'esempio del tuo re, nel quale fu maggiore la clemenza verso i milanesi e verso i genovesi, che senza causa o necessità alcuna si erano spontaneamente ribellati, che non fu il fallo loro; a' quali avendo del tutto perdonato, essi, ricomperati da tanto beneficio, gli sono stati sempre divotissimi e fedelissimi. Vicenza conservata, o principe di Analt, se non sarà a Cesare a comodità sarà almeno a gloria, rimanendo come esempio della sua benignità; distrutta non potrà essergli utile a cosa alcuna, e la severità usata contro a noi sarà molesta a tutta Italia, la clemenza farà appresso a tutti piú grato il nome di Cesare: e cosí, come nelle opere militari e nel guidare gli eserciti si riconosce in lui la similitudine dello antico Cesare, sarà riconosciuta similmente la clemenza; dalla quale fu piú esaltato insino al cielo e fatto divino il nome suo, piú perpetuata appresso a' posteri la sua memoria, che da l'armi. Vicenza, città antica e chiara, e già piena di tanta nobiltà, è in mano tua; da te aspetta la sua conservazione o la sua distruzione, la sua vita o la sua morte. Muovati la pietà di tante persone innocenti, di tante infelici donne e piccoli fanciulli i quali, quella calamitosa notte e piena di insania e di errori, non intervennono a cosa alcuna; e i quali ora con pianti e lamenti miserabili aspettano la tua deliberazione. Manda fuora quella voce, tanto desiderata, di misericordia e di clemenza; per la quale, risuscitata, la infelicissima patria nostra ti chiamerà sempre suo padre e suo conservatore. -
Non potette orazione sí miserabile, né la pietà verso la infelice città, mitigare l'animo del principe di Analt in modo che, pieno di insolenza barbara e tedesca crudeltà, non potendo temperarsi che le parole fussino manco feroci che i fatti, non facesse inumanissima risposta; la quale per suo comandamento fu pronunziata da uno dottore suo auditore, in questa sentenza:
- Non crediate, o ribelli vicentini, che le lusinghevoli parole vostre sieno bastanti a cancellare la memoria dei delitti commessi in grandissimo vilipendio del nome di Cesare: alla cui grandezza e alla benignità con la quale vi aveva ricevuto non avendo rispetto alcuno, comunicato insieme da tutta la città di Vicenza il consiglio, chiamaste dentro l'esercito viniziano; il quale avendo con grandissima difficoltà sforzato il borgo, diffidando di potere vincere la città, pensava già di levarsi; chiamastelo contro alla volontà del principe che rappresentava l'imperio di Cesare, costrignestelo a ritirarsi nella fortezza; e pieni di rabbia e di veleno saccheggiaste l'artiglierie e la munizione di Cesare, laceraste i suoi padiglioni, spiegati da lui in tante guerre e gloriosi per tante vittorie. Non feciono queste cose i soldati viniziani ma il popolo di Vicenza, scoprendo sete smisurata del sangue tedesco. Non mancò per la perfidia vostra che l'esercito viniziano, se conosciuta l'occasione avesse seguitato la vittoria, non pigliasse Verona. Né furono questi i consigli o conforti di Fracassa, il quale circonvenuto dalle vostre false calunnie ha giustificata chiaramente la sua innocenza; fu pure la vostra malignità, fu l'odio che senza cagione avete al nome tedesco. Sono i peccati vostri inescusabili, sono sí grandi che non meritano rimessione; sarebbe non solo di gravissimo danno ma eziandio vituperabile quella clemenza che si usasse con voi, perché si conosce chiaramente che in ogni occasione fareste peggio. Né sono stati errori i vostri ma sceleratezze; né i danni che voi avete ricevuti sono stati per penitenza de' delitti ma perché contumacemente avete voluto perseverare nella rebellione: e ora chiedete la pietà e la misericordia di Cesare, il quale avete tradito, quando abbandonati da' viniziani non avete modo alcuno di difendervi. Aveva deliberato il principe di non vi udire: cosí era la mente e la commissione di Cesare; non ha potuto negarlo perché cosí è stata la volontà di Ciamonte; ma non per questo si altererà quella sentenza che, dal dí della vostra rebellione, è stata sempre fissa nella mente di Cesare: non vi vuole il principe altrimenti che a discrezione delle facoltà, della vita e dell'onore. Né sperate che questo si faccia per avere facoltà di dimostrare piú la sua clemenza, ma si fa per potere piú liberamente farvi esempio a tutto il mondo della pena che si conviene contro a coloro che sí sceleratamente hanno mancato al principe suo della loro fede. -
Attoniti per sí atroce risposta i vicentini, poiché per alquanto spazio furono stati immobili, come privi di tutti i sentimenti, cominciorno di nuovo con lagrime e con lamenti a raccomandarsi alla misericordia del vincitore; ma essendo ribattuti dal medesimo dottore, che gli riprese con parole piú inumane e piú barbare che le prime, non sapevano né che rispondere né che pensare. Se non che Ciamonte gli confortò che ubbidissino alla necessità, e col rimettersi liberamente nello arbitrio del principe cercassino di placare la sua indegnazione: la mansuetudine di Cesare essere grandissima, né doversi credere che il principe, nobile di sangue ed eccellente capitano, avesse a fare cosa indegna della sua nobiltà e della sua virtú: né dovergli spaventare l'acerbità della risposta, anzi essere da desiderare che gli animi generosi e nobili si traportino con le parole, perché spesso, avendo sfogato parte dello sdegno in questo modo, alleggieriscono l'asprezza de' fatti: offersesi intercessore a mitigare l'ira del principe, ma che essi prevenissino col rimettersi in lui liberamente. Il consiglio del quale e la necessità seguitando i vicentini, distesisi in terra, rimesseno assolutamente sé e la loro città alla potestà del vincitore. Le parole de' quali ripigliando Ciamonte, confortò il principe che nel punirgli avesse piú rispetto alla grandezza e alla fama di Cesare che al delitto loro; né facesse esempio, agli altri che fussino caduti o per potere cadere in simili errori, tale che, disperata la misericordia, avessino a perseverare insino all'ultima ostinazione. Sempre la clemenza avere dato a' príncipi benivolenza e riputazione; la crudeltà, dove non fusse necessario, avere sempre fatto effetti contrari, né rimosso, come molti imprudentemente credevano, gli ostacoli e le difficoltà ma accresciutele, e fattele maggiori. Con l'autorità del quale, e co' prieghi di molti altri e le miserabili lamentazioni de' vicentini, fu contento finalmente Analt promettere loro la salute delle persone, restando libera allo arbitrio e volontà sua la disposizione di tutte le sostanze: preda maggiore in opinione che in effetti, perché già la città era rimasta quasi vota di persone e di robe. Le quali ricercando la ferità tedesca, inteso che in certo monte vicino a Vicenza erano ridotti molti della città e del contado con le loro robe, in due caverne dette la grotta di Masano, ove per la fortezza del luogo e difficoltà dello entrarvi si reputavano essere sicuri, i tedeschi andati per pigliargli, combattuta invano e non senza qualche loro danno la caverna maggiore, andati alla minore né potendo sforzarla altrimenti, fatti fuochi grandissimi la ottennono con la forza del fumo; dove è fama morissino piú di mille persone.
Cap. iv
Presa di Legnago da parte de' francesi. Nuove terre abbandonate da' veneziani; guerra devastatrice e indecisa nel Friuli. Nuovi accordi fra Massimiliano e il re di Francia. Presa di Monselice. L'esercito francese si ritira nel ducato di Milano.
Presa Vicenza, si mostrava maggiore la difficoltà delle altre cose che da principio non era stato disegnato. Perché Massimiliano non solamente non si moveva contro a' viniziani, come aveva promesso, ma le genti che aveva in Italia, per mancamento di danari, continuamente diminuivano; in modo che Ciamonte era necessitato di pensare non che altro alla custodia di Vicenza; e nondimeno deliberò di andare a campo a Lignago, la quale terra se non si acquistava riuscivano di niuno momento tutte le cose fatte insino a quel giorno. Passa per la terra di Lignago il fiume dello Adige, rimanendo verso Montagnana la parte minore detta da loro il Porto; ove i viniziani, confidandosi non tanto nella fortezza della terra e nella virtú de' difensori quanto nello impedimento dell'acque, aveano tagliato il fiume in uno luogo; dalla ripa di là è la parte maggiore, dalla quale l'aveano tagliato in due luoghi; per le quali tagliate il fiume avendo sparso ne' luoghi piú bassi alcuni rami aveva coperto in modo il paese circostante che, per essere stato soffocato dall'acque molti mesi, era diventato quasi palude. Facilitò in qualche parte le difficoltà, la temerità e il disordine degli inimici: perché venendo Ciamonte con l'esercito ad alloggiare a Minerbio distante tre miglia da Lignago, e avendo mandati innanzi alcuni cavalli e fanti de' suoi, scontrorono, al passare dell'ultimo ramo propinquo a mezzo miglio a Lignago, i fanti che stavano a guardia di Porto, usciti per vietare loro il passare; ma i fanti guasconi e spagnuoli, entrati ferocemente nell'acqua insino al petto, gli urtorono, e poi gli seguitorno con tale impeto che alla mescolata insieme con loro entrorono in Porto; salvatasi piccola parte di quegli fanti, perché alcuni ne furno ammazzati nel combattere e la piú parte degli altri, studiando di ritirarsi in Lignago, era annegata nel passare lo Adice. Per il quale successo, Ciamonte mutato il disegno di alloggiare a Minerbio, alloggiò la sera medesima in Porto; e fatte condurre l'artiglierie grosse sotto l'acqua (le quali il fondo del terreno reggeva), la notte medesima fece serrare da' guastatori la tagliata del fiume: e conoscendo che dalla parte di Porto era Lignago inespugnabile, per la larghezza del fiume sí grosso che con difficoltà si poteva battere da quella parte (benché tra Lignago e Porto, per essere infra gli argini, non sia sí grosso come di sotto), comandò si gittasse il ponte per passare dalla parte di là l'artiglierie e la maggiore parte dello esercito; ma trovato che le barche condotte da lui non erano pari alla larghezza del fiume, fermato l'esercito appresso al fiume all'opposito di Lignago, di là dall'Adice fece passare in sulle barche il capitano Molardo, con quattromila fanti guasconi e con sei pezzi di artiglieria. Il quale passato, si cominciò da l'una parte e l'altra del fiume a percuotere il bastione fatto in su l'argine alla punta della terra, dalla banda di sopra; ed essendone già abbattuta una parte, ancora che quegli di dentro non omettessino di riparare sollecitamente, la notte seguente il proveditore viniziano, avendo maggiore timore delle offese degli inimici che speranza nella difesa de' suoi, si ritirò improvisamente con alcuni gentiluomini viniziani nella rocca: la ritirata del quale intesasi come fu dí, il capitano de' fanti che era nel bastione si arrendé a Molardo, salvo l'avere e le persone; e nondimeno, uscitone, fu co' fanti svaligiato da quegli del campo. Preso il bastione, fu da Molardo saccheggiata la terra; e i fanti che erano a guardia d'uno bastione fabricato in su l'altra punta della terra se ne fuggirono per quegli paludi, lasciate l'armi all'entrare dell'acque: e cosí, per la viltà di quegli che vi erano dentro, riuscí piú facile e piú presto che non si era stimato l'acquisto di Lignago. Né fece maggiore resistenza il castello che avesse fatto la terra; perché essendo il dí seguente levate con l'artiglieria le difese, e cominciato a tagliare da basso co' picconi uno cantone d'uno torrione, con intenzione di dargli poi fuoco, si arrenderono: con patto che, rimanendo i gentiluomini viniziani in potestà di Ciamonte, i soldati lasciate l'armi se ne andassino salvi in giubbone. Mescolò la fortuna nella vittoria con amaro fiele l'allegrezza di Ciamonte, perché quivi ebbe avviso della morte del cardinale di Roano suo zio, per l'autorità somma del quale appresso al re di Francia esaltato a grandissime ricchezze e onori sperava continuamente cose maggiori. In Lignago, per essere i tedeschi impotenti a mettervi gente, lasciò Ciamonte a guardia cento lancie e mille fanti; e avendo dipoi licenziato i fanti grigioni e vallesi, si preparava per ritornare col rimanente dello esercito nel ducato di Milano per comandamento del re, inclinato a non continuare piú in tanta spesa, dalla quale, per non corrispondere alle deliberazioni prima fatte le provisioni dalla parte di Cesare, non risultava effetto alcuno importante. Ma gli comandò poi il re che ancora soprasedesse per tutto giugno, perché Cesare venuto a Spruch, pieno di difficoltà secondo il solito ma pieno di disegni e di speranze, faceva instanza non si partisse, promettendo di passare d'ora in ora in Italia.
Nel quale tempo, desiderando i tedeschi di recuperare Morostico, Cittadella, Basciano e altre terre circostanti, per fare piú facile a Cesare il venire da quella parte, Ciamonte si fermò coll'esercito a Lungara in sul fiume del Bacchiglione, per impedire alle genti de' viniziani l'entrare in Vicenza, rimasta senza guardia, e similmente l'opporsi a' tedeschi; ma inteso quivi le genti viniziane essersi ritirate in Padova, congiunti seco di nuovo i tedeschi, vennono alle Torricelle, in sulla strada maestra che va da Vicenza a Padova: onde lasciata Padova a mano destra, si condussono a Cittadella, con non piccola incomodità di vettovaglie, impedite da i cavalli leggieri che erano in Padova e molto piú da quegli che erano a Monselice. Arrendessi Cittadella senza contrasto, e il medesimo fece poi Morostico, Bassano e l'altre terre circostanti, abbandonate dalle genti viniziane: però espedite le cose da quella parte, gli eserciti, ritornati alle Torricelle, lasciato Padova in su la destra e girando alla sinistra verso la montagna, si fermorno in su la Brenta accanto alla montagna, a dieci miglia di Vicenza; condottisi in quel luogo perché i tedeschi desideravano di occupare la Scala, passo opportuno per le genti che avevano a venire di Germania, e che solo di tutte le terre da Trevigi insino a Vicenza rimaneva in mano de' viniziani. Dal quale alloggiamento partito il principe di Analt, co' tedeschi e con cento lancie franzesi, si dirizzò alla Scala lontana venti miglia; ma non potendo passare innanzi, perché i villani pieni di incredibile affezione verso i viniziani, e in tanto che. fatti prigioni, eleggevano piú tosto di morire che di rinnegare o bestemmiare il nome loro, avevano occupato molti passi nella montagna, ottenuto per accordo Castelnuovo, passo medesimamente della montagna, se ne ritornò allo alloggiamento della Brenta; avendo mandato molti fanti per altra via verso la Scala: i quali, secondo l'ordine avuto da lui, schifando la via di Bassano per sfuggire il Covolo, passo forte in quelle montagne, girorno piú basso per il cammino di Feltro; e trovato in Feltro pochissima gente e saccheggiatolo e abbruciatolo, si condusseno al passo della Scala, il quale insieme con quello del Covolo trovorno abbandonato da ciascuno. Né erano in questo tempo minori ruine nel paese del Friuli, perché assaltato ora da' viniziani ora da' tedeschi, ora difeso ora predato da' gentiluomini del paese, e facendosi ora innanzi questi ora ritirandosi quegli secondo l'occasione, non si sentiva per tutto altro che morti, sacchi e incendi; accadendo che spesso uno luogo medesimo saccheggiato prima da una parte fu poi saccheggiato e abbruciato dall'altra: e da pochissimi luoghi, che erano forti, in fuora, sottoposto tutto il resto a questa miserabile distruzione. Le quali cose non avendo avuto in sé fatto alcuno memorabile, sarebbe superfluo raccontare particolarmente e fastidioso a intendere tanto varie rivoluzioni, le quali non partorivano effetto alcuno alla somma e importanza della guerra.
Ma approssimandosi il tempo determinato alla partita dell'esercito franzese, fu di nuovo convenuto tra Cesare e il re di Francia che l'esercito suo soprasedesse per tutto 'l mese seguente, ma che le spese straordinarie (cioè quelle che corrono oltre al pagamento delle genti), le quali aveva insino ad allora pagate il re, si pagassino per l'avvenire da Cesare, e similmente i fanti per il mese predetto; ma, perché Cesare non aveva danari, che, fatto il calcolo quel che importassino queste spese, il re gli prestasse, computate queste spese, insino in cinquantamila ducati; e che se Cesare non restituiva, infra uno anno prossimo, questi e gli altri cinquantamila che gli erano stati prestati prima, il re avesse, insino ne fusse rimborsato, a tenere in mano Verona con tutto il suo territorio.
Avuto Ciamonte il comandamento dal re di soprasedere, voltò l'animo all'espugnazione di Monselice; e perciò, subito che furno unite co' tedeschi quattrocento lancie spagnuole guidate dal duca di Termini, le quali mandate dal re cattolico in aiuto di Massimiliano avevano, secondo le consuete arti loro, camminato tardissimamente, gli eserciti, passato il fiume della Brenta e dipoi alla villa della Purla il fiume del Bacchiglione, presso a cinque miglia di Padova, arrivorono a Monselice; avendo in questo tempo patito molto nelle vettovaglie e ne' saccomanni, per le correrie de' cavalli che erano in Padova e in Monselice: da' quali anche fu preso Sonzino Benzone da Crema condottiere del re di Francia, che con pochi cavalli andava a rivedere le scorte; il quale, perché era stato autore della ribellione di Crema, Andrea Gritti, avendo piú in considerazione l'essere suddito de' viniziani che l'essere soldato degl'inimici, fece subito impiccare. Sorge nella terra di Monselice, posta nella pianura, come uno monte di sasso (dal quale è detta Monselice) che si distende molto in alto; nella sommità del quale è una rocca, e per il dosso del monte, che tuttavia si ristrigne, sono tre procinti di muraglia, il piú basso de' quali abbraccia tanto spazio che a difenderlo da esercito giusto sarebbeno necessari duemila fanti. Abbandonorno gli inimici subitamente la terra; nella quale alloggiati i franzesi piantorno l'artiglieria contro al primo procinto, con la quale essendosi battuto assai e da piú lati, i fanti spagnuoli e guasconi cominciorono senza ordine ad accostarsi alla muraglia, tentando di salire dentro da molte parti. Eranvi a guardia settecento fanti; i quali, pensando fusse battaglia ordinata né essendo sufficienti per il numero a potere resistere quando fussino assaltati da piú luoghi, fatta leggiera difesa cominciorono a ritirarsi, per deliberazione fatta, secondo si credé, prima tra loro: ma lo feciono tanto disordinatamente che gli inimici che erano già cominciati a entrare dentro, scaramucciando con loro e seguitandogli per la costa, entrorno seco mescolati negli altri due procinti e dipoi insino nel castello della fortezza; dove essendo ammazzata la maggiore parte di loro, gli altri, ritiratisi nella torre e volendo arrendersi salve le persone, non erano accettati da' tedeschi: i quali dettono alla fine fuoco al mastio della torre, in modo che di settecento fanti con cinque conestabili, e principale di tutti Martino dal Borgo a San Sepolcro di Toscana, se ne salvorono pochissimi; avendo ciascuno minore compassione della loro calamità per la viltà che avevano usata. Né si dimostrò minore la crudeltà tedesca contro agli edifici e alle mura, perché non solo, per non avere gente da guardarla, rovinorono la fortezza di Monselice ma abbruciorono la terra. Dopo il qual dí non feceno piú questi eserciti cosa alcuna importante, eccetto che una correria di quattrocento lancie franzesi insino in su le porte di Padova.
Partí in questo tempo medesimo dal campo il duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, mandato da Ciamonte con dugento cinquanta lancie per la custodia di Ferrara, dove era non piccola sospezione per la vicinità delle genti del pontefice: e nondimeno i tedeschi stimolavano Ciamonte che, secondo che prima si era trattato tra loro, andasse a campo a Trevigi, dimostrando essere di piccola importanza le cose fatte con tanta spesa se non si espugnava quella città, perché di potere spugnare Padova non s'avea speranza alcuna. Ma in contrario replicava Ciamonte: non essere passato Cesare contro a' viniziani con quelle forze che avea promesse, quegli che erano congiunti seco essere ridotti a piccolo numero, in Trevigi essere molti soldati, la città munita con grandissime fortificazioni, non si trovare piú nel paese vettovaglie ed essere molto difficile il condurne di luoghi lontani al campo per le assidue molestie de' cavalli leggieri e degli stradiotti de' viniziani; i quali, avvisati per la diligenza de' villani di ogni piccolo loro movimento ed essendo tanto numero, apparivano sempre dovunque potessino danneggiargli. Levò queste disputazioni nuovo comandamento venuto di Francia a Ciamonte che, lasciate quattrocento lancie e mille cinquecento fanti spagnuoli, pagati dal re, in compagnia de' tedeschi, oltre a quegli che erano alla guardia di Lignago, ritornasse subito coll'esercito nel ducato di Milano: perché già, per opera del pontefice, si cominciavano a scoprire molte molestie e pericoli. Però Ciamonte, lasciato Persis al governo di queste genti, seguitò il comandamento del re; e i tedeschi, diffidando di potere fare piú effetto alcuno importante, si fermorono a Lunigo.
Cap. v
Cresce sempre piú l'odio del pontefice contro il re di Francia per la protezione di questo al duca di Ferrara. Nuove manifestazioni dell'avversione del pontefice al duca ed al re. Sospetti e gelosia di Ferdinando d'Aragona per il re di Francia.
Aveva il pontefice propostosi nell'animo, e in questo fermati ostinatamente tutti i pensieri suoi, non solo di reintegrare la Chiesa di molti stati, i quali pretendeva appartenersegli, ma oltre a questo di cacciare il re di Francia di tutto quello possedeva in Italia; movendolo o occulta e antica inimicizia che avesse contro a lui o perché il sospetto avuto tanti anni si fusse convertito in odio potentissimo, o la cupidità della gloria di essere stato, come diceva poi, liberatore di Italia da' barbari. A questi fini aveva assoluto dalle censure i viniziani, a questi fini fatta la intelligenza e stretta congiunzione co' svizzeri; simulando di procedere a queste cose piú per sicurtà sua che per desiderio di offendere altri: a questi fini, non avendo potuto rimuovere il duca di Ferrara dalla divozione del re di Francia, aveva determinato di fare ogni opera per occupare quello ducato, pretendendo di muoversi solamente per le differenze delle gabelle e de' sali. E nondimeno, per non manifestare totalmente, insino che avesse le cose meglio preparate, i suoi pensieri, trattava continuamente con Alberto Pio di concordarsi col re di Francia; il quale, persuadendosi non avere seco altra differenza che per causa della protezione del duca di Ferrara e desideroso sopramodo di fuggire la sua inimicizia, consentiva, di fare con lui nuove convenzioni, riferendosi a capitoli di Cambrai, ne' quali si esprimeva che nessuno de' confederati potesse ingerirsi nelle cose appartenenti alla Chiesa, e inserendovi tali parole e tali clausule che al pontefice fusse lecito procedere contro al duca quanto apparteneva alle particolarità de' sali e delle gabelle, a' quali fini solamente pensava il re distendersi i pensieri suoi: interpretando talmente l'obligo che avea della protezione del duca, che e' paresse quasi potesse convenire in questo modo lecitamente. Ma quanto piú il re si accostava alle dimande del pontefice tanto piú egli si discostava: non lo piegando in parte alcuna la morte succeduta del cardinale di Roano, perché a quegli che, arguendo essere finito il sospetto, lo confortavano alla pace rispondeva vivere il medesimo re e però durare il medesimo sospetto; allegando in confermazione di queste parole, sapersi che l'accordo fatto dal cardinale di Pavia era stato violato del re per propria sua deliberazione, contro alla volontà e consiglio del cardinale di Roano: anzi, a chi piú perspicacemente considerò i progressi suoi, parve se ne accrescessino il suo animo e le speranze. Né senza cagione: perché, essendo tali le qualità del re che aveva piú bisogno di essere retto che e' fusse atto a reggere, non è dubbio che la morte di Roano indebolí molto le cose sue; conciossiaché in lui oltre alla lunga esperienza fusse nervo grande e valore, e tanta autorità appresso al re che quasi non mai si discostasse dal consiglio suo, donde egli confidando nella grandezza sua ardiva spesse volte risolvere e dare forma alle cose per se stesso; condizione che non militando in alcuno di quegli che succedettono nel governo, non ardivano non che deliberare ma né pure di parlare al re di cose che gli fussino moleste, né egli prestava la medesima fede a' consigli loro; ed essendo piú persone e avendo rispetto l'uno a l'altro, né confidandosi all'autorità ancora nuova, procedevano piú lentamente e piú freddamente che non ricercava la importanza delle cose presenti e che non sarebbe stato necessario contro alla caldezza e impeto del pontefice. Il quale, non accettando niuno dei partiti proposti dal re, lo ricercò alla fine apertamente che rinunziasse, non con condizione o limitazione ma semplicemente e assolutamente, alla protezione presa del duca di Ferrara; e cercando il re di persuadergli essergli di troppa infamia una tale rinunziazione, rispose in ultimo che, poi che il re recusava di renunziare semplicemente, non voleva convenire seco né anche essergli opposito, ma conservandosi libero da ogni obligazione con ciascuno, attenderebbe a guardare quietamente lo stato della Chiesa: lamentandosi piú che mai del duca di Ferrara che, confortato da amici suoi a soprasedere di fare il sale, aveva risposto non potere seguitare questo consiglio per non pregiudicare alle ragioni dello imperio, al quale apparteneva il dominio diretto di Comacchio. Ma fu oltre a questo dubitazione e opinione di molti, la quale in progresso di tempo si augumentò, che Alberto Pio imbasciadore del re di Francia, non procedendo sinceramente nella sua legazione, attendesse a concitare il pontefice contro al duca di Ferrara; movendolo il desiderio ardentissimo, nel quale continuò insino alla morte, che Alfonso fusse spogliato del ducato di Ferrara: perché avendo Ercole padre di Alfonso ricevuto, non molti anni avanti, da Giberto Pio la metà del dominio di Carpi, datogli in ricompenso il castello di Sassuolo con alcune altre terre, dubitava Alberto di non avere (come bisogna spesso che 'l vicino manco potente ceda alla cupidità del piú potente) a cedergli alla fine l'altra metà che apparteneva a sé. Ma quel che di questo sia la verità, il pontefice, dimostrando segni piú implacabili contro ad Alfonso e avendo già in animo di muovere l'armi, si preparava di procedergli contro con le censure, attendendo di giustificare i fondamenti, e specialmente avendo trovato, secondo diceva, nelle scritture della camera apostolica la investitura fatta da' pontefici alla casa da Esti della terra di Comacchio.
Questi erano palesemente gli andamenti del pontefice; ma occultamente trattava di cominciare movimenti molto maggiori, parendogli avere fondato le cose sue con l'amicizia de' svizzeri, con l'essere in piede i viniziani e ubbidienti a' cenni suoi, vedere inclinato a' medesimi fini o almeno non congiunto col re di Francia sinceramente il re di Aragona, deboli in modo le forze e l'autorità di Cesare che non gli dava causa di temerne, né essendo senza speranza di potere concitare il re di Inghilterra. Ma sopratutto gli accresceva l'animo quello che arebbe dovuto mitigarlo, cioè il conoscere che il re di Francia, aborrente di fare la guerra con la Chiesa, desiderava sommamente la pace; in modo che gli pareva che sempre dovesse essere in potestà sua il fare concordia seco, eziandio poiché gli avesse mosso contro l'armi. Per le quali cose diventando ogni dí piú insolente, e moltiplicando scopertamente nelle querele e nelle minaccie contro al re di Francia e contro al duca di Ferrara, recusò il dí della festività di san Piero, nel quale dí secondo l'antica usanza si offeriscono i censi dovuti alla sedia apostolica, accettare il censo dal duca di Ferrara; allegando che la concessione di Alessandro sesto, che nel matrimonio della figliuola l'aveva da quattromila ducati ridotto a cento, non era valida in pregiudicio di quella sedia: e nel dí medesimo, avendo prima negato licenza di ritornarsene in Francia al cardinale di Aus e agli altri cardinali franzesi, inteso che quello di Aus era uscito con reti e con cani in campagna, avendo sospetto vano che occultamente non si partisse, mandato precipitosamente a pigliarlo, lo ritenne prigione in Castel Santo Agnolo. Cosí, già scoprendosi in manifesta contenzione col re di Francia, e però costretto tanto piú a fare fondamenti maggiori, concedette al re cattolico la investitura del regno di Napoli, col censo medesimo col quale l'avevano ottenuta i re di Aragona; avendo prima negato di concederla se non col censo di quarantottomila ducati, col quale l'avevano ottenuta i re franzesi: seguitando il pontefice in questa concessione non tanto l'obligazione la quale, secondo il consueto dell'antiche investiture, gli fece quel re di tenere ciascuno anno per difesa dello stato della Chiesa, qualunque volta ne fusse ricercato, trecento uomini d'arme, quanto il farselo benevolo: e la speranza che questi aiuti potessino, in qualche occasione, essere cagione di condurlo a inimicizia aperta col re di Francia. Della quale erano già sparsi i semi, perché il re cattolico, insospettito della grandezza del re di Francia, e ingelosito della sua ambizione, poiché non contento a' termini della lega di Cambrai cercava di tirare sotto il dominio suo la città di Verona, mosso ancora dalla antica emulazione, desiderava non mediocremente che qualche impedimento s'opponesse alle cose sue; e perciò non cessava di confortare la concordia tra Cesare e i viniziani, molto desiderata dal pontefice: nelle quali cose benché occultissimamente procedesse non era possibile che del tutto si coprissino i pensieri suoi; onde essendo sorta in Sicilia la sua armata, destinata ad assaltare l'isola delle Gerbe (è questa appresso a' latini la Sirte maggiore), faceva sospetto al re e metteva negli animi degli uomini, consci della astuzia sua, diverse dubitazioni.
Cap. vi
Disegni del pontefice contro il re di Francia. Inizi della guerra contro Ferrara. Insuccesso della spedizione veneto pontificia contro Genova. Successi dell'esercito pontificio nel ferrarese.
Ma cominciorono al re di Francia le molestie onde manco pensava, e in tempo che non pareva che alcuno movimento d'arme potesse essere preparato contro a sé. Perché il pontefice, procedendo con grandissimo secreto, trattava che in uno tempo medesimo fusse assaltata Genova per terra e per mare, e che nel ducato di Milano scendessino dodicimila svizzeri, che i viniziani unite tutte le forze loro si movessino per ricuperare le terre che si tenevano per Cesare, e che l'esercito suo entrasse nel territorio di Ferrara, con intenzione di farlo dipoi passare nel ducato di Milano se a' svizzeri cominciassino a succedere le cose felicemente: sperando che Genova, assaltata all'improviso, avesse facilmente a fare mutazione, per la volontà di molti avversa allo imperio de' franzesi e perché si solleverebbe la parte Fregosa, procedendosi sotto nome di fare doge Ottaviano, il padre e il zio del quale erano stati nella medesima degnità; che i franzesi, spaventati per il movimento di Genova e assaltati da' svizzeri, rivocherebbono nel ducato di Milano tutte le genti che aveano in aiuto di Cesare e del duca di Ferrara, onde i viniziani facilmente ricupererebbono Verona, e recuperatala procederebbono contro al ducato di Milano; il medesimo farebbono le genti sue, ottenuta facilmente, come sperava, Ferrara abbandonata dagli aiuti de' franzesi; talmente che non potrebbe difendersi contro a tanti inimici, e da una guerra tanto repentina, lo stato di Milano.
Cominciò in un tempo medesimo la guerra contro a Ferrara e contro a Genova. Perché, con tutto che 'l duca di Ferrara, contro al quale procedeva, per accelerare l'esecuzione, come contro a notorio delinquente, gli offerisse di dargli i sali fatti a Comacchio e obligarsi che non vi se ne lavorasse in futuro, licenziati di corte i suoi oratori, mosse le genti contro a lui; le quali, con la denunzia solamente di uno trombetto ottennono, non le difendendo Alfonso, Cento e la Pieve: le quali castella, appartenenti prima al vescovado di Bologna, erano state da Alessandro, nel matrimonio della figliuola, applicate al ducato di Ferrara; data ricompensa a quel vescovado di altre entrate. Contro a Genova andorno undici galee sottili de' viniziani, delle quali era capitano Grillo Contareno, e una di quelle del pontefice, in sulle quali erano Ottaviano Fregoso Ieronimo Doria e molti altri fuorusciti, e nel tempo medesimo per terra Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme e settecento fanti; il quale, partitosi dagli stipendi de' fiorentini e soldato dal pontefice, si era fermato nel territorio di Lucca sotto nome di fare la compagnia, spargendo voce d'avere poi a passare a Bologna: la stanza del quale benché avesse dato a Ciamonte qualche sospetto delle cose di Genova, nondimeno, non sapendo dovere venire l'armata, ed essendosi astutamente, per opera del pontefice, divulgato che le preparazioni per muoversi che già facevano i svizzeri e il soprasedere di Marcantonio fussino per assaltare all'improviso Ferrara, non aveva Ciamonte fatto altra provisione a Genova che di mandarvi pochi fanti. Accostossi Marcantonio con le sue genti in val di Bisagna, uno miglio presso alle mura di Genova, con tutto non fusse stato ricevuto, come il pontefice si era persuaso, né in Serezana né nella terra della Spezie; e nel tempo medesimo l'armata di mare, che aveva occupato Sestri e Chiaveri, era venuta da Rapalle alla foce del fiume Entello, che entra in mare appresso al porto di Genova. Nella quale città, al primo romore dello appropinquarsi degli inimici, era entrato in favore del re di Francia con ottocento uomini del paese il figliuolo di Gianluigi dal Fiesco, e con numero non minore uno nipote del cardinale del Finale; per i quali presidi essendo confermata la città non vi si fece dentro movimento alcuno: onde cessata la speranza principale de' fuorusciti e del pontefice, e sopravenendovi tuttavia gente di Lombardia e della riviera di ponente, ed essendo entrato nel porto Preianni con sei galee grosse, parve senza frutto e non senza pericolo il dimorarvi piú; in modo che e l'armata di mare e il Colonna per terra si ritirorono a Rapalle, tentato nel ritorno di occupare Portofino, dove fu morto Francesco Bollano, padrone di una galea de' viniziani. E partendosi dipoi l'armata per ritirarsi a Civitavecchia, Marcantonio Colonna, non confidando di potere condursi salvo per terra perché era sollevato tutto il paese, ardente, secondo l'usanza de' villani, contro a' soldati quando disfavorevolmente si ritirano, montato in su le galee con sessanta cavalli de' migliori, rimandò gli altri per terra alla Spezie; i quali furono, la maggiore parte, in quel di Genova, dipoi in quel di Lucca e ne' confini de' fiorentini, svaligiati. Passò questo assalto con piccola laude di Grillo e di Ottaviano, perché per timore si astennono da investire l'armata di Preianni, alla quale superiori, si credette che innanzi entrasse nel porto l'arebbono con vantaggio grande assaltata. Uscí del porto di Genova, dopo la partita loro, il Preianni con sette galee e quattro navi, seguitando l'armata viniziana; la quale, superiore di galee, era inferiore di numero di navi e meglio armate. Toccò l'una e l'altra all'isola dell'Elba, la viniziana in Portolungaro, la franzese in Portoferrato; e dipoi l'armata franzese, costeggiata la inimica insino al monte Argentaro, si ritornò a Genova.
Erano in questo tempo le genti del pontefice, sotto il duca d'Urbino, entrate contro al duca di Ferrara in Romagna; dove, avendo preso la terra di Lugo, Bagnacavallo e tutto quello che il duca teneva di qua dal Po, erano a campo alla rocca di Lugo. Alla quale mentre che stanno con poca diligenza e poco ordine, sopravenendo avviso che il duca di Ferrara, con le genti franzesi e con cento cinquanta uomini d'arme de' suoi, con molti cavalli leggieri e con tremila fanti tra guasconi spagnuoli e italiani, veniva per soccorrerla, il duca d'Urbino, levatosi subitamente e lasciate in preda agli inimici tre bocche d'artiglierie, si ritirò a Imola; e Alfonso con questa occasione recuperò tutto quello che in Romagna gli era stato occupato. Ma rimessosi in ordine e ingrossato di nuovo il campo ecclesiastico, ripigliò facilmente le terre medesime; e poco dipoi pigliò la rocca di Lugo, dopo averla battuta molti dí: la quale spugnata, si presentò loro occasione di maggiore successo. Perché non essendo in Modona presidio alcuno, non avendo il duca, occupato nella difesa dell'altre cose ove il pericolo era piú propinquo, potuto provedervi da se stesso né ottenere da Ciamonte che vi mandasse dugento lancie, il cardinale di Pavia, passato con l'esercito a Castelfranco, ottenne subitamente d'accordo quella città; invitato a andarvi da Gherardo e Francesco Maria conti de' Rangoni, gentiluomini modonesi, di tale autorità che ne potevano, massime Gherardo, disporre ad arbitrio loro: i quali si mosseno, secondo si credette, piú per ambizione e per cupidità di cose nuove che per altra cagione. Perduta Modona, il duca, temendo che Reggio non facesse il medesimo, vi messe subito gente; e Ciamonte, facendo dopo il danno ricevuto quel che piú utilmente arebbe fatto da principio, vi mandò dugento lancie: con tutto che già fusse occupato per il movimento de' svizzeri.
Cap. vii
Gli svizzeri soldati dal pontefice giungono a Varese. Azione de' francesi contro gli svizzeri. Ritirata degli svizzeri.
Era molti mesi prima finita la confederazione tra i svizzeri e il re di Francia, avendo il re perseverato nella sentenza di non accrescere loro le pensioni (benché contro al consiglio di tutti i suoi, i quali gli ricordavano considerasse di quanta importanza fusse il farsi inimiche quelle armi colle quali prima avea spaventato ciascuno); e perciò essi, sollevati dalla autorità e promesse del pontefice e istigati dal vescovo di Sion, e accendendogli sopratutto lo sdegno, per le dimande negate, contro al re, aveano con consentimento grande della moltitudine, in una dieta tenuta a Lucerna deliberato di muoversi contro a lui. Il movimento de' quali avendo presentito Ciamonte avea posto guardia a' passi verso Como, rimosso del lago tutte le barche, ritirato le vettovaglie a' luoghi sicuri e levato i ferramenti de' mulini; e incerto se i svizzeri volessino scendere nello stato di Milano o, calato il monte di San Bernardo, entrare per Val di Augusta nel Piemonte per andare a Savona, con intenzione di molestare le cose di Genova, o di condursi di quivi, passato lo Apennino, contro al duca di Ferrara, aveva indotto il duca di Savoia a negare loro il passo e, per potergli impedire, mandato di consentimento suo a Ivrea cinquecento lancie: non cessando però in questo mezzo di fare ogni opera per corrompere con doni o con promesse i príncipi della nazione, per divertirgli da questo moto. Ma questo vanamente si tentava, tanto odio avevano e tanto erano concitati, massime la moltitudine, contro al nome del re di Francia: talmente che, reputando la causa quasi propria, non ostante le difficoltà che aveva il pontefice di mandare loro denari (perché i Fucheri, mercatanti tedeschi, che avevano prima promesso di pagargli, aveano poi ricusato, per non offendere l'animo del re de' romani), si mossono al principio di settembre seimila, soldati dal pontefice, tra' quali erano quattrocento cavalli, la metà scoppiettieri, dumila cinquecento fanti con gli scoppietti e cinquanta con gli archibusi, senza artiglieria senza provedimento o di ponti o di navi; e voltatisi al cammino di Bellinzone, e preso il ponte della Tresa abbandonato da seicento fanti de' franzesi che vi erano alla guardia, si fermorno a Varese, per aspettare, secondo publicavano, il vescovo di Sion con nuove genti.
Turbava molto questa cosa l'animo de' franzesi, e per il terrore ordinario che avevano de' svizzeri e piú particolarmente perché allora era piccolo numero di gente d'arme a Milano; essendone distribuita una parte alla guardia di Brescia, Lignago, Valeggio e Peschiera, trecento lancie erano andate in aiuto al duca di Ferrara, cinquecento congiunte con l'esercito tedesco contro a' viniziani: nondimeno Ciamonte, ristrette le forze sue, venne con cinquecento lancie e quattromila fanti nel piano di Castiglione distante da Varese due miglia; avendo mandato nel monte di Brianza Gianiacopo da Triulzi, acciocché non tanto con la gente che menò seco, che fu piccola quantità, quanto col favore degli uomini del paese si sforzasse di impedire che i svizzeri non facessino quel cammino. I quali, subito che arrivorono a Varese, avevano mandato a dimandare il passo a Ciamonte, dicendo volere andare in servigio della Chiesa; e perciò si dubitava che o per il ducato di Milano volessino passare a Ferrara, per il quale cammino, oltre alle opposizioni delle genti franzesi, arebbono avuto la difficoltà di passare i fiumi del Po e dell'Oglio, o che volgendosi a mano sinistra girassino per le colline sotto Como e dipoi sotto Lecco, per passare Adda in quegli luoghi dove è stretto e poco corrente, e che dipoi per le colline del bergamasco e del bresciano, passato il fiume dell'Oglio, scendessino o per il bresciano o per la Ghiaradadda nel mantovano, paese largo e dove non si trovavano terre o fortezze che gli potessino impedire: e in qualunque di questi casi era la intenzione di Ciamonte, ancora che scendessino nella pianura (tanta era la riputazione della ferocia e della ordinanza di quella nazione), di non gli assaltare, ma uniti insieme i cavalli e i fanti e con molte artiglierie da campagna andargli costeggiando, per impedire loro le vettovaglie e difficultare, in quanto si potesse fare senza tentare la fortuna, i passi de' fiumi. E in questo mezzo, avendo bene proveduti di cavalli e di fanti i luoghi vicini a Varese, col fare nascere spesso la notte romori vani e costrignergli a dare all'arme, gli tenevano infestati tutta la notte.
A Varese, dove già si pativa molto di vettovaglie, si unirno di nuovo insieme cogli altri quattromila svizzeri; dopo la venuta de' quali il quarto dí tutti si mossono verso Castiglione e si voltorono alla mano sinistra per le colline, camminando sempre stretti e in ordinanza con lento passo, essendo in ciascuna fila ottanta o cento di loro e nell'ultime file tutti gli scoppiettieri e gli archibusieri: col quale modo procedendo si difendevano valorosamente dallo esercito franzese, il quale gli andava continuamente costeggiando e scaramucciando alla fronte e alle spalle; anzi uscivano spesso cento o centocinquanta svizzeri dello squadrone per andare a scaramucciare, andando, stando e ritirandosi senza che nascesse nella loro ordinanza uno minimo disordine. Arrivorono con questo ordine il primo dí al passo del ponte di Vedan, guardato dal capitano Molard co' fanti guasconi; donde avendolo fatto ritirare con gli scoppietti, alloggiorono la notte ad Appiano distante otto miglia da Varese; e Ciamonte si fermò ad Assaron, villa grossa verso il monte di Brianza lontana sei miglia da Appiano. Il dí seguente si dirizzorno per le colline al cammino di Cantú, costeggiandogli pure Ciamonte con dugento lancie, perché, per l'asprezza de' luoghi, l'artiglierie e alla guardia di quelle i fanti erano restati piú al basso: e nondimeno, a mezzo il cammino, o per le molestie, come si gloriava Ciamonte, avute il dí da' franzesi o perché tale fusse stato il disegno loro, lasciato il cammino di Cantú, voltatisi piú alla sinistra, si andorono per luoghi alti ritirando verso Como; in uno borgo della quale città e nelle ville vicine alloggiorono quella notte. Dal borgo di Como feciono l'altro alloggiamento al Chiasso, tre miglia piú innanzi, tenendo sospesi i franzesi se per la valle di Lugana se ne ritornerebbeno a Bellinzone o se pure si condurrebbeno in su l'Adda, dove benché non avessino ponte era opinione di molti che si sforzerebbono passare tutti il fiume in uno tempo medesimo in su foderi di legname; ma levata l'altro giorno questa dubitazione, se ne andorono ad alloggiare al ponte a Tressa, e di quivi sparsi alle case loro; ridotti già in ultima estremità di pane e con carestia grandissima di danari: la quale subita ritirata si credette procedesse per la carestia di danari, per la difficoltà del passare i fiumi e molto piú per la necessità delle vettovaglie. Cosí si liberorono per allora i franzesi da quel pericolo, non stimato poco da loro: ancora che il re, magnificando sopra la verità le cose sue, affermasse stare ambiguo se fusse stato utile alle cose il lasciargli passare, e che cosa facesse piú debole il pontefice, o essere senza armi o avere armi che lo offendessino come offenderebbono i svizzeri; i quali egli, con tante forze e con tanti danari, aveva avuto infinite difficoltà a maneggiare.
Cap. viii
Rapida riconquista da parte de' veneziani delle terre precedentemente perdute. Vano tentativo contro Verona. Liberazione dalla prigionia del marchese di Mantova.
Ma maggiore sarebbe stato il pericolo de' franzesi se in uno tempo medesimo fussino concorse contro a loro le offese disegnate dal pontefice. Ma come fu prima l'assalto di Genova che il movimento de' svizzeri cosí tardò a farsi innanzi, piú che non era disegnato, l'esercito de' viniziani; ancora che avessino avuto molto opportuna occasione. Perché essendo molto diminuite le genti de' tedeschi che alla partita di Ciamonte erano restate in vicentino, con le quali erano i fanti spagnuoli e le cinquecento lancie franzesi, l'esercito viniziano, uscito di Padova, recuperò senza fatica Esti, Monselice, Montagnana, Morostico, Bassano; e fattisi innanzi, ritirandosi continuamente i tedeschi alla volta di Verona, entrorno in Vicenza abbandonata da loro: e cosí avendo ricuperato, da Lignago in fuora, tutto quello che con tanta spesa e travaglio de' franzesi avevano perduto in tutta la state, vennono a San Martino a cinque miglia di Verona; nella quale città si ritirorno gli inimici. La ritirata de' quali non fu senza pericolo se (come affermano i viniziani) in Luzio Malvezzo, il quale allora, per la partita di Giampagolo Baglione dagli stipendi veneti, governava le genti loro, fusse stato maggiore ardire: perché essendo i viniziani venuti alla villa della Torre, gli inimici lasciate nello alloggiamento molte vettovaglie si indirizzorono verso Verona, seguitandogli tutto l'esercito veneto e infestandogli continuamente i cavalli leggieri; e nondimeno sostenendo i franzesi, massime con l'artiglierie, valorosamente il retroguardo, passato il fiume Arpano si condussono senza danno a Villanuova, alloggiando i viniziani propinqui a mezzo miglio; e il seguente dí non gli seguitando sollecitamente i viniziani, perché allegavano i fanti non potere pareggiare la prestezza de' cavalli, si ritirorno in Verona.
Da San Martino, poiché vi furono stati alquanti dí, accostatisi a Verona, non senza biasimo che il differire fusse stato inutile, cominciorno a battere con l'artiglierie piantate in sul monte opposito il castello di San Felice e la muraglia vicina: eletto forse quel luogo perché vi si può difficilmente riparare, e perché non vi possono se non molto incomodamente adoperare i cavalli. Erano nell'esercito veneto ottocento uomini d'arme tremila cavalli leggieri, la maggiore parte stradiotti, e diecimila fanti, oltre a quantità grandissima di villani; e in Verona erano trecento lancie spagnuole, cento tra tedesche e italiane, piú di quattrocento lancie franzesi, millecinquecento fanti pagati dal re, e quattromila tedeschi, non piú sotto il principe di Analt morto non molti giorni avanti; e il popolo veronese di mala disposizione contro a' tedeschi aveva l'armi in mano, cosa nella quale aveano sperato molto i viniziani: la cavalleria leggiera de' quali, nel tempo medesimo, passando l'Adice a guazzo sotto Verona, scorreva per tutto il paese. Batteva con grande impeto la muraglia l'artiglieria de' viniziani, ancora che l'artiglieria piantata dentro da' franzesi e coperta co' suoi ripari facesse a quegli di fuora, che non erano riparati, gravissimo danno: da uno colpo della quale essendo state levate le natiche a Lattanzio da Bergamo, uno de' piú stimati colonnelli de' fanti viniziani, morí fra pochi giorni. Finalmente, avendo fatto maraviglioso progresso l'artiglieria di fuora e rovinata una parte grande del muro insino al principio della scarpa e battute tutte le cannoniere in modo che l'artiglierie di dentro non potevano piú fare effetto alcuno, non stavano i tedeschi senza timore di perdere il castello, ancora che bene riparato; alla perdita del quale perché non fusse congiunta la perdita della città, disegnavano, in caso di necessità, ritirarsi a certi ripari i quali avevano fatti in luogo propinquo, per battere subito co' loro cannoni, quali già v'avevano tutti piantati, la facciata di dentro del castello, sperando aprirla in modo che gli inimici non potessino fermarvisi. Ma era molto superiore la virtú delle genti che erano in Verona, perché nell'esercito viniziano non erano altri fanti che italiani; e quegli, pagati per l'ordinario ogni quaranta dí, stavano a quel servizio piú per trovare in altri luoghi piccola condizione che per altre cagioni: conciossiaché la fanteria italiana, non assueta all'ordinanze oltramontane né stabile in campagna, fusse allora quasi sempre rifiutata da coloro che avevano facoltà di servirsi di fanti forestieri, massimamente di fanti svizzeri di tedeschi e di spagnuoli. Però, essendo con maggiore virtú sostentata la difesa che fatta l'offesa, usciti una notte ad assaltare l'artiglieria circa mille ottocento fanti con alcuni cavalli de' franzesi, e messi in fuga facilmente i fanti che vi erano alla guardia, ne chiavorono due pezzi; e sforzandosi di condurgli dentro, ed essendo già levato il romore per tutto il campo, soccorse con molti fanti il Zitolo da Perugia, il quale combattendo valorosamente finí la vita con molta gloria: ma sopragiugnendo Dionigi di Naldo e la maggiore parte dello esercito, furno costretti quegli di dentro, lasciata quivi l'artiglieria, a ritirarsi; ma con laude non piccola, avendo da principio rotti i fanti che la guardavano, ammazzato parte di quegli che primi vennono al soccorso e tra gli altri il Zitolo colonnello molto stimato di fanti, e preso Maldonato capitano spagnuolo, e ultimamente ritiratisi salvi quasi tutti. Finalmente, i capitani viniziani, inviliti da questo accidente né sentendo farsi per il popolo movimento alcuno, giudicando anche non solo inutile ma pericoloso il soprastarvi perché l'alloggiamento era male sicuro, essendo alloggiati i fanti in sul monte e i cavalli nella valle assai lontani da' fanti, deliberorono di ritirarsi allo alloggiamento vecchio di San Martino: la quale deliberazione fece accelerare il presentirsi che Ciamonte, essendo già partiti i svizzeri, inteso il pericolo di Verona veniva a soccorrerla. Nel levarsi il campo entrorono i saccomanni di Verona, accompagnati da grossa scorta, nella Valle Pollienta contigua al monte di San Felice; ma, essendo venuti al soccorso molti cavalli leggieri de' viniziani, i quali presono la bocca della valle, furono tutti quegli che erano usciti di Verona o ammazzati o fatti prigioni. Da San Martino, per la fama della venuta di Ciamonte, l'esercito veneto si ritirò a San Bonifazio. Nel quale tempo le genti che erano alla guardia di Trevigi presono per accordo la terra di Assilio propinqua al fiume Musone, dove erano ottocento fanti tedeschi, e poi la rocca. E nel Friuli si procedeva con le medesime variazioni e con le crudeltà consuete, non piú guerreggiando con gli inimici ma attendendosi da ogni parte alla distruzione ultima degli edifici e del paese: i quali mali consumavano medesimamente la Istria.
Succedette in questo tempo, per modo molto notabile, la liberazione dalla carcere del marchese di Mantova, trattata dal pontefice, mosso dalla affezione che prima gli aveva e da disegno di usare l'opera sua e servirsi delle comodità del suo stato nella guerra contro al re di Francia: e si credette per tutta Italia egli essere stato causa della sua liberazione. Nondimeno io intesi già da autore degno di fede, e per mano del quale passava allora tutto il governo dello stato di Mantova, essere stata molto diversa la cagione. Perché dubitandosi, come era la verità, che i viniziani, per l'odio che gli avevano e per il sospetto che avevano di lui, non fussino inclinati a tenerlo perpetuamente incarcerato, ed essendosi invano tentato molti rimedi, fu determinato nel consiglio di Mantova di ricorrere a Baiset principe de' turchi; l'amicizia del quale il marchese, col mandargli spessi messi e vari presenti, aveva molti anni intrattenuta. Il quale, intesa la sua calamità, chiamato a sé il bailo de' mercatanti viniziani che negoziavano in Pera appresso a Costantinopoli, lo ricercò gli promettesse che 'l marchese sarebbe liberato; e recusando il bailo di promettere quel che non era in potestà sua e offerendo scriverne a Vinegia, ove non dubitava si farebbe deliberazione conforme al desiderio suo, Baiset replicandogli superbamente essere la sua volontà che egli assolutamente lo promettesse, fu necessitato a prometterlo: il che essendo significato dal bailo a Vinegia, il senato, considerando non essere tempo a irritare principe tanto potente, determinò di liberarlo; ma per occultare il suo disonore, e riportare qualche frutto della sua liberazione, prestò orecchi al desiderio del pontefice. Per mezzo del quale essendo, benché occultamente, conchiuso che, per assicurare i viniziani che 'l marchese non si moverebbe loro contro, il figliuolo primogenito fusse custodito in mano del pontefice, il marchese condotto a Bologna, poiché quivi ebbe consegnato il figliuolo agli agenti del pontefice, liberato se ne andò a Mantova: scusando sé appresso a Cesare e al re di Francia se, per la necessità di riordinare lo stato suo, non andava ne' loro eserciti a servirgli, come feudatario dell'uno e soldato dell'altro (perché dal re di Francia gli era stata sempre conservata la solita condotta e provisione), ma veramente avendo nell'animo di stare neutrale.
Cap. ix
Altra vana spedizione veneto pontificia contro Genova. Ostinata pertinacia del pontefice malgrado gli insuccessi e sua deliberazione di recarsi a Bologna perché sian condotte piú efficacemente le imprese. Il re di Francia pensa alla convocazione di un concilio.
Ma le cose tentate infelicemente non aveano diminuito in parte alcuna le speranze del pontefice; il quale, promettendosi piú che mai la mutazione dello stato di Genova, deliberò di nuovo d'assaltarla. Però, avendo i viniziani, i quali piú per necessità seguitavano che approvavano questi impetuosi movimenti, accresciuta l'armata loro che era a Civitavecchia con quattro navi grosse, persuadendosi che il nome suo inducesse piú facilmente i genovesi a ribellarsi, aggiuntavi una sua galeazza con alcuni altri legni, benedisse publicamente con le solennità pontificali la sua bandiera: maravigliandosi ciascuno che, ora che scoperti i pensieri suoi erano in Genova molti soldati e nel porto potente armata, egli sperasse ottenere quello che non aveva ottenuto quando il porto era disarmato e nella città pochissima guardia, né si aveva sospetto alcuno di lui. All'armate marittime, le quali seguitavano i medesimi fuorusciti e di piú il vescovo di Genova figliuolo di Obietto dal Fiesco, si doveano congiugnere forze terrestri: perché Federico arcivescovo di Salerno, fratello di Ottaviano Fregoso, soldava co' danari del pontefice nelle terre della Lunigiana cavalli e fanti; e Giovanni da Sassatello e Rinieri della Sassetta, suoi condottieri, aveano avuto comandamento di fermarsi colle compagnie loro al Bagno della Porretta, per potere quando fusse di bisogno accostarsi a Genova. Ma in quella città erano state fatte per terra e per mare potenti provisioni: e perciò alla fama dell'approssimarsi dell'armata degli inimici, nella quale erano quindici galee sottili tre galee grosse una galeazza e tre navi biscaine l'armata franzese uscita con ventidue galee sottili del porto di Genova si fermò a Porto Venere; facendogli sicurtà la diversità de' legni, perché, inferiore agli inimici uniti insieme ma superiore o almeno pari di forze alle galee, poteva sempre con la prestezza del discostarsi salvarsi dalle navi. Accostoronsi l'armate l'una all'altra sopra Porto Venere quanto pativa il tiro delle artiglierie, e poi che alquanto si furono battute, l'armata del pontefice andò a Sestri di Levante donde si presentò innanzi al porto di Genova, entrando insino nel porto con uno brigantino Gianni Fregoso; ma essendo la terra guardata in modo che chi era di contrario animo non poteva fare sollevazione, e tirando gagliardamente all'armata la torre di Codifà, fu necessitata partirsi. Andò dipoi a Portovenere, e avendolo per parecchie ore combattuto senza frutto, disperati del successo di tutta la impresa ritornorno a Civitavecchia: onde partita l'armata viniziana, di consentimento del pontefice, per ritornarsene ne' suoi mari, fu assaltata nel Faro di Messina da gravissima tempesta; andorono a traverso cinque galee, l'altre scorsono verso la costa di Barberia, riducendosi alla fine molto conquassate ne porti de' viniziani. Non concorsono in questo assalto le forze disegnate per terra: perché le genti che si soldavano di Lunigiana, giudicando per la fama delle provisioni fatte da' franzesi pericoloso l'entrare nella riviera di levante, non si mossono; e quelle che erano al Bagno della Porretta, scusandosi che i fiorentini avessino denegato loro il passo, non si feciono piú innanzi, ma entrati nella montagna di Modona, che ancora ubbidiva al duca di Ferrara, assaltorono la terra di Fanano: la quale benché nel principio non ottenessino, nondimeno alla fine tutta la montagna, non sperando essere soccorsa dal duca, si arrendé loro.
Cosí non era, insino a questo dí, riuscita al pontefice cosa alcuna tentata contro al re di Francia: perché né le cose di Genova avevano fatto, come egli si era promesso certissimamente, mutazione; né i viniziani, tentata invano Verona, speravano piú di fare progresso da quella parte; né i svizzeri, avendo piú presto mostrate che mosse l'armi, erano passati innanzi; né Ferrara aiutata prontamente dai franzesi, e sopravenendo la stagione del verno, si giudicava che fusse in alcuno pericolo: solamente gli era succeduto furtivamente l'acquisto di Modena, premio non degno di tanti moti. E nondimeno al pontefice, ingannato di tante speranze, pareva che intervenisse quello che di Anteo hanno lasciato gli scrittori fabulosi alla memoria de' posteri, che quante volte domato dalle forze di Ercole toccava la terra tanto si dimostrava in lui maggiore vigore: il medesimo operavano l'avversità nel pontefice, che quando pareva piú depresso e piú conculcato risorgeva con l'animo piú costante e piú pertinace, promettendosi del futuro piú che mai; non avendo per ciò quasi altri fondamenti che se medesimo, e il presupporsi (come diceva publicamente) che, per non essere l'imprese sue mosse da interessi particolari ma da mero e unico desiderio della libertà d'Italia, avessino per l'aiuto di Dio ad avere prospero fine. Imperocché egli, spogliato di valorose e fedeli armi, non aveva altri amici certi che i viniziani, che correvano per necessità la medesima fortuna; de' quali, per essere esausti di danari e oppressi da assai difficoltà e angustie, non poteva sperare molto; e dal re cattolico riceveva piú tosto occulti consigli che palesi aiuti, perché secondo l'astuzia sua si intratteneva con Massimiliano e col re di Francia, facendo a lui varie promesse ma sospese da molte condizioni e dilazioni. La diligenza e fatiche usate con Cesare per alienarlo dalla amicizia del re di Francia e indurlo a concordia co' viniziani apparivano del continuo piú inutili; perché Cesare, quando l'esercito del pontefice si mosse contro al duca di Ferrara, v'aveva mandato uno araldo a protestare che non lo molestassino, ed essendo andato in nome del pontefice Costantino di Macedonia per trattare tra lui e i viniziani aveva ricusato udirlo, e dimostrando di volere unirsi maggiormente col re di Francia ordinava di mandargli, per convenire seco della somma delle cose, il vescovo Gurgense: né gli elettori dello imperio, benché inclinati al nome del pontefice e alla divozione della sedia apostolica, alieni dallo spendere e volti co' pensieri loro solo alle cose di Germania, erano di momento in questi travagli. Poco piú pareva potesse sperare del re d'Inghilterra, benché giovane e desideroso di cose nuove, e che faceva professione di amare la grandezza della Chiesa e che aveva non senza inclinazione d'animo udite le sue imbasciate; perché, essendo separato da Italia per tanto spazio di terra e di mare, non poteva solo deprimere il re di Francia: oltre che, aveva ratificato la pace fatta con lui e per una solenne imbasceria, che a questo effetto gli mandò, ricevuta la sua ratificazione. Nessuno certamente, avendo sí deboli fondamenti e tanti ostacoli, non arebbe rimesso l'animo; avendo massime facoltà di ottenere la pace dal re di Francia, con quelle condizioni che, vincitore, appena arebbe dovuto desiderare maggiori. Perché il re consentiva di abbandonare la protezione del duca di Ferrara, se non direttamente, per onore suo, almanco indirettamente, rimettendola di giustizia ma in giudici che avessino pronunziato secondo la volontà del pontefice; il quale, come fu certo di potere ottenere questo, aggiunse volere che oltre a questo lasciasse libera Genova: procedendo in queste cose con tanta pertinacia che nessuno, eziandio de' suoi piú intrinsechi, ardiva di parlargli in contrario; anzi, tentato per ordine del re dallo oratore de' fiorentini, si alterò maravigliosamente; ed essendo venuto a lui per altre faccende uno uomo del duca di Savoia, e offerendo che il suo principe, quando gli piacesse, si intrometterebbe in qualche pratica di pace, proruppe in tanta indegnazione che, esclamando che era stato mandato per spia non per negoziatore, lo fece sopra questo incarcerare ed esaminare con tormenti. E finalmente, diventando ogni dí piú feroce nelle difficoltà e non conoscendo né impedimenti né pericoli, risoluto di fare ogni opera possibile per pigliare Ferrara e omettere per allora tutti gli altri pensieri, deliberò di trasferirsi personalmente a Bologna, per strignere piú con la sua presenza e dare maggiore autorità alle cose, e accrescere la caldezza de' capitani inferiore allo impeto suo; affermando che a espugnare Ferrara gli bastavano le forze sue e de' viniziani: i quali, temendo che alla fine, disperato di buono successo, non si concordasse col re di Francia, si sforzavano di persuadergli il medesimo.
Da altra parte il re di Francia, già certo per tante esperienze dell'animo del pontefice contro a sé, e conoscendo essere necessario provedere che non sopravenissino allo stato suo nuovi pericoli, deliberò di difendere il duca di Ferrara, stabilire quanto poteva la congiunzione con Cesare, e col consentimento suo perseguitare con l'armi spirituali il pontefice; e sostentate le cose insino alla primavera, passare allora in Italia personalmente con potentissimo esercito, per procedere o contro a' viniziani o contro al pontefice, secondo lo stato delle cose. Perciò, proponendo a Cesare non solo di muoversi altrimenti che per il passato contro a' viniziani ma ancora di aiutarlo, secondo si sapeva essere suo antico desiderio, a occupare Roma e tutto lo stato della Chiesa come appartenente di ragione allo imperio, e similmente tutta Italia, dal ducato di Milano, Genova, lo stato de' fiorentini e del duca di Ferrara in fuora, lo indusse facilmente nella sentenza sua; e specialmente che si chiamasse, con l'autorità di ambidue e delle nazioni germanica e franzese, a uno concilio universale; non essendo senza speranza che, per non avere ardire di discostarsi dalla volontà sua e di Cesare, concorrerebbe al medesimo il re di Aragona e la nazione spagnuola: alla qual cosa si aggiugneva un altro grandissimo fondamento, che molti cardinali italiani e oltramontani di animo ambizioso e inquieto promettevano di farsene scopertamente autori. Per ordinare queste cose aspettava il re con sommo desiderio la venuta del vescovo Gurgense, destinato a sé da Cesare; ma in questo mezzo, per dare principio alla instituzione del concilio e levare di presente al pontefice l'ubbidienza del suo reame, aveva fatto convocare tutti i prelati di Francia, che a mezzo settembre convenissino nella città di Orliens. Queste erano le deliberazioni e i preparamenti del re di Francia, non approvati in tutto dal suo consiglio e dalla sua corte; i quali, considerando quanto possa essere inutile il dare spazio di tempo allo inimico, lo stimolavano a non differire il muovere dell'armi insino al tempo nuovo: il consiglio de' quali se fusse stato seguitato si metteva subito il pontefice in tante molestie, e si perturbavano di maniera le cose sue, che non gli sarebbe per avventura stato facile, come poi fu, concitare tanti príncipi contro a lui. Ma il re perseverò in altra sentenza, o dominato dalla avarizia o raffrenato da timore che facendo da sé solo guerra al pontefice non si ritenessino gli altri príncipi, o avendolo forse in orrore per essere cosa contraria al cognome del cristianissimo e alla professione di difendere la Chiesa, che sempre ne' tempi antichi aveano fatta i suoi predecessori.
Cap. x
Accanimento del pontefice per prendere Ferrara. Fazione franco veneziana presso Montagnana. I francesi minacciano Modena. Il duca di Ferrara occupa Cento e altre terre; quindi accorre ad impedire a' veneziani il passaggio del Po. Le armi spirituali usate dal pontefice contro il duca di Ferrara e i suoi aderenti. Decisioni del clero gallicano; cardinali dissidenti dal pontefice.
Entrò il pontefice in Bologna alla fine di settembre, disposto ad assaltare con tutte le forze sue e de' viniziani Ferrara, per terra e per acqua. Però i viniziani, ricercatine da lui, mandorono due armate contro a Ferrara; le quali entrate nel fiume del Po, l'una per le Fornaci l'altra per il porto di Primaro, facevano nel ferrarese gravissimi danni: non mancando nel tempo medesimo le genti del pontefice di scorrere e predare per tutto il paese, ma non si accostando a Ferrara, nella quale città oltre alle genti del duca erano dugento cinquanta lancie franzesi. Perché, se bene gli ecclesiastici fussino pagati per ottocento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti, nondimeno, oltre a essere la maggiore parte gente collettizia, il numero (come i pontefici comunemente sono malserviti nelle cose della guerra) era molto minore; e si aggiugneva che, avendo Ciamonte dopo la perdita di Modona mandate tra Reggio e Rubiera dugento cinquanta lancie e dumila fanti, erano per comandamento del pontefice andati con l'esercito alla guardia di Modena Marcantonio Colonna e Giovanni Vitelli, con dugento uomini d'arme e ottocento fanti. Però il pontefice faceva instanza che dell'esercito viniziano, il quale, essendo molto diminuite a Verona e per tutto le forze di Cesare, aveva senza difficoltà recuperato quasi tutto il Friuli, ne passasse una parte nel ferrarese, che di nuovo avea recuperato il Polesine di Rovigo, abbandonato per le molestie che il duca aveva intorno a Ferrara. Aspettava similmente il pontefice trecento lancie spagnuole, quali dimandate da lui per l'obligo della investitura gli erano mandate dal re d'Aragona, sotto Fabrizio Colonna; disegnando che, unite queste con l'esercito suo, assaltassino da una parte Ferrara e dall'altra l'assaltassino le genti de' viniziani; e persuadendosi che 'l popolo di Ferrara, subito che l'esercito si accostasse alle mura, piglierebbe l'armi contro al duca: con tutto che i capitani suoi gli dimostrassino, il presidio che vi era dentro essere tale che facilmente poteva difendere la città contro agli inimici e contenere il popolo, quando bene avesse inclinazione di tumultuare. Perciò, con incredibile sollecitudine, soldava in molti luoghi quantità grande di fanti. Ma tardavano a venire, piú che non arebbe voluto, le genti de' viniziani; perché avendo condotto per il Po in mantovano molte barche per gittare il ponte, il duca di Ferrara con le genti franzesi, assaltatele allo improviso, le tolse loro. Prese anche in certi canali del Pulesine molte barche e altri legni, insieme col proveditore viniziano. Nel quale tempo essendo venuto a luce uno trattato che avevano in Brescia per farla ribellare al re di Francia, vi fu decapitato il conte Giovanmaria da Martinengo. Ma molto piú tardavano a venire le lancie spagnuole; le quali condotte in su' confini del regno di Napoli recusavano, per comandamento del re loro, di passare il fiume del Tronto se prima non si consegnava allo imbasciadore suo la bolla della investitura conceduta: la quale il papa, sospettando che ricevuta la bolla le genti promesse non venissino, faceva difficoltà di concedere se prima non giugnevano a Bologna. E nondimeno, né per le ragioni allegate da' capitani né per queste difficoltà, diminuiva della speranza di ottenere con le sue genti sole Ferrara; attendendo con maraviglioso vigore a tutte l'espedizioni della guerra: non ostante che gli fusse sopravenuta nel tempo medesimo grave infermità, la quale, reggendosi contro al consiglio de' medici, non meno che l'altre cose disprezzava; promettendosi la vittoria di quella come della guerra, perché affermava essere volontà divina che per opera sua Italia si riducesse in libertà. Procurò similmente che 'l marchese di Mantova, il quale chiamato a Bologna da lui era stato onorato del titolo di gonfaloniere della Chiesa, si conducesse con titolo di capitano generale agli stipendi de' viniziani, partecipando il pontefice in questa condotta con cento uomini d'arme e con mille dugento fanti, ma con patto che questa cosa si tenesse occulta; ricercando cosí il marchese, sotto colore di essere necessario che prima riordinasse e provedesse il paese suo, acciò che i franzesi avessino minore facilità di offenderlo, ma in verità perché il marchese, sottomettendosi a questo peso non per volontà ma per necessità delle promesse fatte, cercava di interporre tempo all'esecuzione per potere, con qualche occasione che sopravenisse, liberarsene.
Ma l'ardore che aveva il pontefice di offendere altri si convertí in necessità di difendere le cose proprie, la quale sarebbe stata ancora piú presta e maggiore se nuovi accidenti non avessino costretto Ciamonte a differire le sue deliberazioni. Perché, poi che l'esercito viniziano si era levato d'intorno a Verona, Ciamonte, il quale era venuto a Peschiera per andare a soccorrere quella città, deliberò voltarsi subito con l'esercito alla recuperazione di Modena, dove le genti che erano a Rubiera avevano presa la terra di Formigine di assalto; il che se avesse fatto arebbe facilmente, come si crede, ottenutala, perché dentro erano piccole forze, la terra non fortificata né tutti amatori del dominio della Chiesa: ma accadde che, quando era per muoversi, i fanti tedeschi che erano in Verona, per essere mal pagati da Cesare, tumultuorno; onde Ciamonte, perché non rimanesse abbandonata quella città, fu costretto a soprasedere insino a tanto avesse fermato gli animi loro, per la qual cosa pagò novemila ducati per lo stipendio presente e promesse di pagargli medesimamente per il mese seguente. Ma non rimediato prima a questo disordine, sopravenne subito un altro accidente. Perché essendosi le genti de' viniziani ritirate verso Padova, La Grotta che in suo nome era governatore di Lignago, parendogli avere occasione di saccheggiare la terra di Montagnana, vi spinse tutte le lancie e quattrocento fanti; da' quali mentre che gli uomini della terra, impauriti del sacco, si difendono, sopravenneno molti cavalli leggieri de' viniziani, e, trovandogli disordinati, facilmente gli ruppono con gravissimo danno, perché era stata impedita la fuga per la rottura fatta dagli inimici di uno ponte: per il quale caso, essendo spogliato quasi Lignago di gente, non è dubbio che se vi si fussino volte subito le genti viniziane l'arebbeno preso; la quale opportunità passò presto perché Ciamonte, inteso il caso, vi mandò con grandissima celerità nuova gente. Ma tolsono a lui questi impedimenti l'occasione di recuperare Modena, nella quale in questo spazio di tempo erano entrati molti fanti e fatte sollecitamente molte reparazioni. E nondimeno, per la venuta sua a Rubiera, fu costretto il pontefice mandare a Modena l'esercito destinato contro a Ferrara: dove, essendo unite tutte le forze sue sotto il duca di Urbino capitano generale, e legato il cardinale di Pavia, e condottieri di autorità Giampaolo Baglione Marcantonio Colonna e Giovanni Vitelli, faceva instanza che si combattesse cogli inimici; cosa molto detestata da' capitani, perché erano senza dubbio maggiori le forze de' franzesi e di numero e di virtú, perché la fanteria ecclesiastica era raccolta subitamente e nell'esercito non era né ubbidienza né ordine conveniente, e tra 'l duca di Urbino e il cardinale di Pavia discordia manifesta. La quale procedette tanto oltre che il duca, accusandolo di infedeltà appresso al pontefice, o di propria autorità o per comandamento avuto da lui, lo condusse come prigione a Bologna; ma purgate con la presenza sola tutte le calunnie, rimase appresso a lui in maggiore grado e autorità che prima.
Mentre che queste genti stanno a fronte l'una dell'altra, Ciamonte alloggiato con la cavalleria a Rubiera, i fanti a Marzaglia, gli ecclesiastici a Modena nel borgo verso Rubiera, facendosi tra loro spesse correrie e scaramuccie, il duca di Ferrara, il quale aveva prima senza resistenza recuperato il Polesine di Rovigo, con Ciattiglione e con le lancie franzesi, riprese senza ostacolo il Finale; e dipoi entrato nella terra di Cento, occupata prima dal pontefice, per la rocca la quale si teneva per lui, la saccheggiò e abbruciò, e si preparava per andare a unirsi con Ciamonte: per il quale timore le genti della Chiesa si ritirorno in Modona, avendo messo una parte delle fanterie nel borgo che è volto alla montagna. Ma essendo il duca appena mosso, fu necessitato di fermarsi a difendere le cose proprie; perché le genti viniziane, in numero di trecento uomini d'arme molti cavalli leggieri e quattromila fanti, erano venute per acquistare il passo del Po e dipoi unirsi colle genti del pontefice, a campo a Ficheruolo, castello in sul Po, piccolo e debole ma celebrato molto nella guerra che ebbeno i viniziani con Ercole duca di Ferrara, per la lunga oppugnazione di Ruberto da San Severino e per la difesa di Federigo duca di Urbino, capitani famosissimi di quella età. Ottennonlo i viniziani per accordo avendolo prima battuto con l'artiglierie, e dipoi presono la terra della Stellata che è in su la riva opposita; e avendo libero il passo del Po, non mancava a passare altro che gittare il ponte. Il quale Alfonso, che dopo la perdita della Stellata si era con lo esercito ridotto al Bondino, impediva si gittasse, con artiglierie piantate in su una punta donde facilmente si batteva quel luogo; e scorreva oltre a questo il fiume del Po con due galee. Le quali presto si ritirorono, perché l'armata viniziana, impedita da principio di entrare nel Po perché le bocche del fiume erano guardate per ordine del duca, venuta per l'Adice contr'acqua vi entrò: in modo che dalle due armate de' viniziani era infestato gravemente il paese di Ferrara. Ma cessò presto questa molestia, perché il duca uscito di Ferrara assaltò quella che, entrata per Primaro, si era condotta a Adria con due galee due fuste e molte barche minori; e rottala senza difficoltà si voltò a quella che non avendo se non fuste e legni minori, entrata per le Fornaci, era venuta alla Pulisella. La quale, volendo per uno rivo vicino ridursi nello Adice, fu impedita di entrarvi per la bassezza dell'acque; donde assaltata e battuta dall'artiglierie degli inimici, la gente che vi era non potendo difenderla l'abbandonò, attendendo a salvare sé e l'artiglierie.
In questi movimenti dell'armi temporali cominciavano a risentirsi da ogni parte l'armi spirituali. Perché il pontefice avea sottoposti publicamente alle censure Alfonso da Esti e insieme tutti quegli che si erano mossi o moveano in aiuto suo, e nominatamente Ciamonte e tutti i principali dell'esercito franzese: e in Francia la congregazione de' prelati, trasferita da Orliens a Torsi, aveva, benché piú per non si opporre alla volontà del re, che molte volte intervenne con loro, che per propria volontà o giudicio, consentito a molti articoli proposti contro al pontefice; modificato solamente che, innanzi se gli levasse la obbedienza, si mandassino oratori a fargli noti gli articoli che aveva determinati il clero gallicano e ad ammunirlo che in futuro gli osservasse, e che in caso che dipoi contravenisse fusse citato al concilio; al quale si facesse instanza con gli altri príncipi che concorressino tutte le nazioni de' cristiani. Concesseno ancora al re facoltà di fare grande imposizione di danari sopra le chiese di Francia; e poco poi, in una altra sessione che fu tenuta il vigesimo settimo dí di settembre, intimorono il concilio per al principio di marzo prossimo a Lione: nel qual dí entrò in Torsi il vescovo di Gursia, ricevuto con sí raro ed eccessivo onore che apparí quanto la sua venuta fusse stata lungamente desiderata e aspettata. Scoprivasi ancora già la divisione de' cardinali contro al pontefice. Perché i cardinali di Santa Croce e di Cosenza spagnuoli, e i cardinali di Baiosa e San Malò franzesi, e Federigo cardinale di Sanseverino, lasciato il pontefice che per la via di Romagna andò a Bologna, visitando per il cammino il tempio di Santa Maria dell'Oreto nobilissimo per infiniti miracoli, andorono con sua licenza per la Toscana; ma condotti a Firenze e ottenuto salvocondotto da' fiorentini, non per alcuno tempo determinato ma per insino a tanto che lo revocassino e quindici dí dappoi che la revocazione fusse intimata, soprasedevano con varie scuse lo andare piú innanzi: del soprastare de' quali insospettito il pontefice, dopo molte instanze fatte che andassino a Bologna, scrisse uno breve al cardinale di San Malò e a quello di Baiosa e al cardinale di Sanseverino che sotto pena della sua indignazione si trasferissino alla corte; e procedendo con piú mansuetudine col cardinale di Cosenza e col cardinale di Santa Croce, cardinale chiaro per nobiltà per lettere e per costumi, e per le legazioni che in nome della sedia apostolica aveva esercitate, gli confortò con uno breve a fare il medesimo. I quali, disposti a non ubbidire, avendo invano tentato che i fiorentini concedessino, non solo a loro ma a tutti i cardinali che vi volessino venire, salvocondotto fermo per lungo tempo, se ne andorono per la via di Lunigiana a Milano.
Cap. xi
Gli ecclesiastici perdono Carpi. Confusione e tumulto in Bologna per l'avvicinarsi de' francesi coi Bentivoglio. Timori de' cardinali; energia del pontefice, che conforta i bolognesi alla fedeltà alla Chiesa. L'esercito francese trattenuto per le speranze della concordia col pontefice. Vane trattative di concordia. Commenti e critiche all'azione dei comandanti francesi.
Ciamonte infratanto, per recuperare Carpi, che prima era stato occupato dalle genti della Chiesa, vi mandò Alberto Pio e la Palissa con quattrocento lancie e quattromila fanti; innanzi a quali essendosi mosso Alberto con uno trombetto e con pochi cavalli, la terra che molto l'amava, intesa la venuta sua, cominciò a tumultuare: per il quale timore gli ecclesiastici, che in numero di quaranta cavalli leggieri e cinquecento fanti vi erano a guardia, si partirono, dirizzandosi a Modona, ma seguitati dalle genti franzesi che erano sopravenute poco poi, e a furore al prato del Cortile che è quasi in mezzo tra Carpi e Modona, messi in fuga; salvandosi i cavalli ma perdendosi la piú parte de' fanti. Pareva utile a Ciamonte combattere con gl'inimici innanzi che arrivassino le lancie spagnuole (le quali il papa per sollecitare aveva depositato in mano del cardinale Regino la bolla della investitura), e innanzi che le genti viniziane si unissino con loro; le quali, avendo fatto certi ripari contro alle artiglierie di Alfonso, speravano di avere gittato presto il ponte: perciò si accostò a Modona, dove essendosi scaramucciato assai tra' cavalli leggieri dell'una parte e dell'altra, non vollono mai gli ecclesiastici, conoscendosi inferiori, uscire con tutte le forze fuora.
Perduta questa speranza, deliberò di mettere a esecuzione quel che molti, e principalmente i Bentivogli, con varie offerte lo stimolavano; che e' non fusse da consumare inutilmente il tempo intorno a cose delle quali era molto maggiore la difficoltà che l'utilità, ma da assaltare all'improviso la sedia della guerra, il capo principale dal quale procedevano tante molestie e pericoli: essere di questo molto opportuna occasione, perché in Bologna erano pochi soldati forestieri, nel popolo molti fautori de' Bentivogli, la maggiore parte degli altri inclinata piú presto ad aspettare l'esito delle cose che a pigliare l'armi per sottoporsi a pericoli o contrarre inimicizie nuove; se ora non si tentasse, passare la presente occasione, perché sopravenendo le genti che aspettavano, o de' viniziani o degli spagnuoli, non si potere sperare, quando bene vi si andasse con potentissimo esercito, quel che ora con forze molto minori era facilissimo a ottenere. Raccolto adunque insieme tutto l'esercito, e seguitandol'i Bentivogli con alcuni cavalli e con mille fanti pagati da loro, preso il cammino tra 'l monte e la strada maestra, assaltò Spilimberto castello de' conti Rangoni, nel quale erano quattrocento fanti mandati dal pontefice, ma poi che ebbe battuto alquanto l'ottenne il dí medesimo a patti; e arrendutosegli il dí seguente Castelfranco, alloggiò a Crespolano castello distante dieci miglia da Bologna, con intenzione di appresentarsi il prossimo dí alle porte di quella città: nella quale, divulgata la sua venuta e che erano con esso i Bentivogli, ogni cosa si era piena di confusione e di tumulto, grandissima sollevazione nella nobiltà e nel popolo, temendo una parte desiderando l'altra la ritornata de' Bentivogli; altri stando sospesi, o incerti dell'animo o veramente mossi cosí leggiermente o dal desiderio [o] dal timore che oziosamente fussino per risguardare il processo di questa cosa.
Ma maggiore confusione e molto maggiore terrore occupava gli animi de' prelati e de' cortigiani, avvezzi non a' pericoli delle guerre ma all'ozio e alle dilicatezze di Roma. Correvano i cardinali mestissimi al pontefice, lamentandosi che avesse condotto sé, la sedia apostolica e loro in tanto pericolo, e aggravandolo con somma instanza o che facesse provedimenti bastanti a difendersi (il che in tanta brevità di tempo stimavano impossibile) o che tentasse di comporre con condizioni meno gravi che fusse possibile le cose cogli inimici, i quali si giudicava non doverne essere alieni, o che insieme con loro si partisse da Bologna; considerando almeno, se pure il pericolo proprio non lo moveva, quanto importasse all'onore della sedia apostolica e di tutta la cristiana religione se nella persona sua accadesse sinistro alcuno: del medesimo lo supplicavano tutti i piú intrinsechi e piú grati ministri e servitori suoi. Egli solo, in tanta confusione e in tanto disordine di ogni cosa, incerto dell'animo del popolo e mal sodisfatto della tardità de' viniziani, resisteva pertinacemente a queste molestie; non potendo neanche la infermità che conquassava il corpo piegare la fortezza dell'animo. Aveva nel principio fatto venire Marcantonio Colonna con una parte de' soldati che erano a Modona, e chiamato a sé Ieronimo Donato imbasciadore de' viniziani, si era con esclamazioni ardentissime lamentato che per la tardità degli aiuti promessigli tante volte si era lo stato e la persona sua condotta in tanto pericolo; non solamente con ingratitudine abominevole in quanto a lui, che principalmente per salvargli aveva presa la guerra e che, con gravissime spese e pericoli e con l'aversi provocati inimici lo imperadore e il re di Francia, era stato cagione che la libertà loro si fusse conservata insino a quel dí, ma oltre a questo con imprudenza inestimabile in quanto a se stessi, perché, dappoi che egli o fusse vinto o necessitato di cedere a qualche composizione, in che speranza di salute in che grado rimarrebbe quella republica? protestando in ultimo con ardentissime parole che farebbe concordia co' franzesi se per tutto il dí seguente non entrava in Bologna il soccorso delle loro genti che erano alla Stellata; avendo, per la difficoltà di gittare il ponte, passato in su varie barche e legni il Po. Convocò ancora il reggimento e i collegi di Bologna, e con gravi parole gli confortò che, ricordandosi de' mali della tirannide passata e quanto piú perniciosi ritornerebbono i tiranni stati scacciati, volessino conservare il dominio della Chiesa, nel quale aveano trovato tanta benignità; concedendo per fargli piú pronti, oltre alle concedute prima, esenzioni della metà delle gabelle delle cose che si mettevano dentro per il vitto umano, e promettendo di concederne in futuro delle maggiori; notificando le cose medesime per publico bando, nel quale invitò il popolo a pigliare l'armi per la difesa dello stato ecclesiastico: ma senza frutto, perché niuno si moveva, niuno faceva in favore suo segno alcuno. Perciò conoscendo finalmente in quanto pericolo fusse ridotto, ed espugnato dalla importunità e lamentazioni di tanti, e instando oltre a ciò molto appresso a lui gli oratori di Cesare del re cattolico e del re di Inghilterra, pregati da' cardinali, consentí si mandasse a domandare a Ciamonte che concedesse facoltà di andare a lui sicuramente, in nome del pontefice, a Giovanfrancesco Pico conte della Mirandola; e poche ore dipoi mandò egli medesimo uno de' suoi camerieri a ricercarlo che mandasse a lui Alberto da Carpi, non sapendo che non fusse nello esercito: e nel tempo medesimo, acciò che in ogni caso si salvassino le cose piú preziose del pontificato, mandò Lorenzo Pucci, suo datario, col regno (chiamano cosí la mitria principale) che era pieno di gioie nobilissime, perché si custodissino nel famoso monasterio delle Murate di Firenze. Sperò Ciamonte per le richieste fattegli che il pontefice inclinasse alla concordia, la quale esso, perché sapeva essere cosí la mente del re, molto desiderava; e per non perturbare questa disposizione ritenne il dí seguente l'esercito nel medesimo alloggiamento: benché permettesse che i Bentivogli con molti cavalli di amici e seguaci loro, seguitandogli alquanto da lontano cento cinquanta lancie franzesi, corressino insino appresso alle mura di Bologna. Per la venuta de' quali, con tutto che Ermes, minore ma il piú feroce de' fratelli, si appresentasse allato alla porta, non si fece dentro movimento alcuno.
Udí Ciamonte benignamente Giovanfrancesco dalla Mirandola, e lo rimandò il dí medesimo a Bologna, a significare le condizioni con le quali era contento di convenire: che 'l pontefice assolvesse Alfonso da Esti dalle censure, e tutti quegli che per qualunque cagione si erano intromessi nella difesa sua o nell'offesa dello stato ecclesiastico: liberasse medesimamente i Bentivogli dalle censure e dalle taglie, restituendo i beni che manifestamente a essi appartenevano: degli altri posseduti innanzi all'esilio si conoscesse in giudicio; e che avessino facoltà d'abitare in qualunque luogo piacesse loro, pure che non si appropinquassino a ottanta miglia a Bologna: non si alterasse nelle cose de' viniziani quel che si disponeva nella confederazione fatta a Cambrai: che tra il pontefice e Alfonso da Esti si sospendessino l'armi almanco per sei mesi, ritenendo ciascuno quello possedeva; nel quale tempo le differenze loro si decidessino per giudici che si dovessino deputare concordemente; riservando a Cesare la cognizione delle cose di Modena, la qual città si deponesse incontinente in sua mano: Cotignuola si restituisse al re cristianissimo: liberassesi il cardinale di Aus, perdonassesi a' cardinali assenti; e le collazioni de' benefici di tutto il dominio del re di Francia si facessino secondo la sua nominazione. Con la quale risposta essendo ritornato il Mirandolano, ma non senza speranza che Ciamonte non persisterebbe rigorosamente in tutte queste condizioni, udiva pazientemente il pontefice, contro alla sua consuetudine, la relazione, e insieme i prieghi de' cardinali che con ardore inestimabile lo supplicavano che, quando non potesse ottenere meglio, accettasse in questa maniera la composizione; ma da altra parte, lamentandosi essergli proposte cose troppo esorbitanti, e mescolando in ogni parola doglienze gravissime de' viniziani, e dimostrando di stare sospeso consumava il dí senza esprimere quale fusse la sua deliberazione. Alzò la speranza sua che alla fine del dí entrò in Bologna Chiappino Vitello, con seicento cavalli leggieri de viniziani e una squadra di turchi che erano a' soldi loro; il quale partito la notte dalla Stellata era venuto galoppando per tutto il cammino, per la somma prestezza impostagli dal proveditore viniziano. La mattina seguente alloggiò Ciamonte con tutto l'esercito al Ponte a Reno vicino a tre miglia a Bologna, dove andorno subito a lui i segretari degli oratori de' re de' romani di Aragona e di Inghilterra, e poco dipoi gli imbasciadori medesimi; i quali quel giorno, e con loro Alberto Pio venuto da Carpi, ritornorno piú volte al pontefice e a Ciamonte. Ma era, nell'uno e nell'altro variata non mediocremente la disposizione: perché Ciamonte, mancandogli per l'esperienza del dí dinanzi la speranza di sollevare per mezzo de' Bentivogli il popolo bolognese, e cominciando a sentire strettezza di vettovaglie la quale era per diventare continuamente maggiore, diffidava della vittoria; e il pontefice, inanimito perché il popolo, scoprendosi favorevole alla Chiesa, aveva, finalmente il giorno medesimo pigliato l'armi, e perché s'aspettava che innanzi al principio della notte entrasse in Bologna, oltre a dugento altri stradiotti de' viniziani, Fabbrizio Colonna con dugento cavalli leggieri e una parte degli uomini d'arme spagnuoli, non solo conosceva essere liberato dal pericolo ma, ritornato nella consueta elazione, minacciava di assaltare gli inimici, subito che fussino giunte tutte le genti spagnuole che erano vicine: per la qual confidenza rispose sempre quel dí, niuno mezzo esservi di concordia se il re di Francia non si obligava ad abbandonare totalmente la difesa di Ferrara. Proposonsi il dí seguente nuove condizioni, per le quali ritornorono a Ciamonte i medesimi imbasciadori; le quali si disturborno per varie difficoltà: di maniera che Ciamonte, disperato di potere fare piú, o coll'armi o per i trattati della pace, frutto alcuno, ed essere difficile a dimorare quivi, diminuendogli le vettovaglie e cominciando a essere per il sopravenire della vernata i tempi sinistri, ritornò il dí medesimo a Castelfranco e il dí prossimo a Rubiera; dimostrando di farlo mosso da' prieghi degli oratori, e per dare al pontefice spazio di pensare sopra le cose proposte, e a sé di intendere la mente del re.
Accusorno in questo tempo molti la deliberazione di Ciamonte di imprudenza, l'esecuzione di negligenza: come se, non avendo forze sufficienti a spugnare Bologna, conciossiaché nell'esercito non fussino piú di tremila fanti, fusse stato inconsiderato consiglio il muoversi per i conforti de' fuorusciti; le speranze de' quali, misurate piú col desiderio che con le ragioni, riescono quasi sempre vanissime. Avere dovuto almeno, se pure deliberava di tentare questa impresa, ristorare colla prestezza la debolezza delle forze, ma per contrario avere corrotta l'opportunità con la tardità; perché dopo l'indugio del muoversi da Peschiera aveva perduti inutilmente tre o quattro dí, mentre che considerando la impotenza del suo esercito stava sospeso o di tentare da se medesimo o di aspettare le genti del duca di Ferrara e Ciattiglione con le lancie franzesi: potersi forse questo difendere; ma come mai potersi scusare che preso Castelfranco non si fusse subito accostato alle porte di Bologna, né dato spazio di respirare a una città dove non era ancora entrato alcuno soccorso, il popolo sospeso, e maggiore (come accade nelle cose súbite) la confusione e il terrore? mezzo unico, se alcuno ve ne era, a fargli ottenere o vittoria o onesta composizione. Ma sarebbe, per avventura, minore spesso l'autorità di quegli che riprendono le cose infelicemente succedute se nel tempo medesimo si potesse sapere quel che sarebbe accaduto se si fusse proceduto diversamente; perché molte volte si conoscerebbe che sarebbe seguito altrimenti di quello che da se stessa si presuppone la fallacia de' discorsi umani, quando, giudicando le cose incerte, affermano che se si fusse proceduto in questa forma, o se si fusse proceduto altrimenti, sarebbe risultato l'effetto che si desiderava o non arebbe avuto luogo quel che ora è accaduto.
Cap. xii
Il pontefice sempre piú indignato contro il re di Francia; milizie veneziane in suo aiuto. Terre occupate da' pontifici. Il pontefice fa decidere l'impresa contro Ferrara e la Mirandola. Massimiliano e il re di Francia deliberano di accertarsi delle intenzioni del re d'Aragona; risposta di Ferdinando. Nuova convenzione fra Massimiliano e il re di Francia. L'esercito pontificio, presa Concordia, si reca alla Mirandola. Congiura contro Pier Soderini in Firenze.
Partito Ciamonte, il pontefice, infiammato sopra modo contro al re, si lamentò con tutti i príncipi cristiani che il re di Francia, usando ingiustamente e contro alla verità de' fatti il titolo e il nome di cristianissimo, sprezzando ancora la confederazione con tante solennità fatta a Cambrai, mosso da ambizione di occupare Italia, da sete scelerata del sangue del pontefice romano, aveva mandato lo esercito ad assediarlo con tutto il collegio de' cardinali e con tutti i prelati in Bologna; e ritornando con animo molto maggiore a' pensieri della guerra negò agli imbasciadori, i quali, seguitando i ragionamenti cominciati con Ciamonte, gli parlavano della concordia, volere udire piú cosa alcuna se prima non gli era data Ferrara: e con tutto che, per le fatiche sopportate in tanto accidente e col corpo e coll'animo, fusse molto aggravata la sua infermità, cominciò di nuovo a soldare gente e a stimolare i viniziani, che finalmente avevano gittato il ponte tra Ficheruolo e la Stellata, che mandassino sotto il marchese di Mantova parte delle loro genti a Modena a unirsi con le sue, e con l'altra parte molestassino Ferrara; affermando che in pochissimi dí acquisterebbe Reggio, Rubiera e Ferrara. Tardorono le genti viniziane a passare il fiume, per il pericolo nel quale sarebbeno incorsi se (come si dubitava) fusse sopravenuta la morte del pontefice; ma costretti finalmente cedere alle sue voglie, lasciate l'altre genti in su le rive di là dal Po, mandorono verso Modona cinquecento uomini d'arme mille seicento cavalli leggieri e cinquemila fanti, ma senza il marchese di Mantova. Il quale, fermatosi a Sermidi a soldare cavalli e fanti, per andare, come diceva, dipoi all'esercito, benché sospetta già a' viniziani la sua tardità, si condusse a San Felice castello del Modonese: dove avuto avviso che i franzesi che erano in Verona erano entrati a predare nel contado di Mantova, allegando la necessità di difendere lo stato suo, se ne tornò con licenza del pontefice a Mantova; ma con querela grave de' viniziani, perché, ancora che avesse promesso di ritornare presto, insospettiti della sua fede, credevano, come similmente fu creduto quasi per tutta Italia, che Ciamonte, per dargli scusa di non andare all'esercito, avesse con suo consentimento fatto correre i soldati franzesi nel mantovano. La quale suspizione si accrebbe, perché da Mantova scrisse al pontefice essere, per infermità sopravenutagli, impedito a partirsi.
Unite che furno intorno a Modena le genti del pontefice le viniziane e le lancie spagnuole, non si dubita che, se senza indugio si fussino mosse, che Ciamonte, il quale, quando si partí del bolognese, aveva per diminuire la spesa licenziati i fanti italiani, arebbe abbandonata la città di Reggio, ritenendosi la cittadella; ma ripreso animo per la tardità del muoversi, cominciò di nuovo a soldare fanti, con deliberazione di attendere solamente a guardare Sassuolo, Rubiera, Reggio e Parma. Ma mentre che quello esercito soggiorna intorno a Modena, incerto ancora se avesse a andare innanzi o volgersi a Ferrara, correndo alcune squadre di quelle della Chiesa verso Reggio, messe in fuga da' franzesi, perderono cento cavalli e fu fatto prigione il conte di Matelica. Nel qual tempo, essendo il duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, con le genti franzesi, alloggiati in sul fiume del Po tra lo Spedaletto e il Bondino, opposito alle genti de' viniziani che erano di là dal Po, l'armata loro, volendo, per l'asprezza del tempo e per essere male proveduta da Vinegia, ritirarsi, assaltata da molte barche di Ferrara che con l'artiglieria messono in fondo otto legni, si condusse con difficoltà a Castelnuovo del Po, nella fossa che va nel Tartaro e nello Adice; dove come fu condotta si disperse. Comandò poi il pontefice che l'esercito il quale, non vi essendo venuto il marchese di Mantova, governava Fabrizio Colonna, lasciato a guardia di Modona il duca di Urbino, andasse a dirittura a Ferrara; dando a' capitani, che unitamente dannavano questo consiglio, speranza quasi certa che il popolo tumultuerebbe. Ma il dí medesimo che si erano mossi ritornorono indietro per suo comandamento, non si sapendo quel che l'avesse indotto a sí subita mutazione; e lasciati i primi disegni, andorono a campo alla terra di Sassuolo, ove Ciamonte avea mandati cinquecento fanti guasconi: la quale avendo battuto due dí, con giubilo grande del pontefice, che sentiva della camera medesima il tuono delle artiglierie sue intorno a Sassuolo della quale aveva, pochi dí innanzi, sentito con gravissimo dispiacere il tuono di quelle degli inimici intorno a Spilimberto, gli dettono l'assalto, il quale con piccolissima difficoltà succedette felicemente, perché si disordinorono i fanti che vi erano dentro; e appresentate poi subito l'artiglierie alla fortezza dove si erano ritirati, e cominciata a batterla, si arrenderono quasi subito senza alcuno patto: con la medesima infamia e infelicità di Giovanni da Casale (che era loro capitano) che avea sentita quando il Valentino occupò la rocca di Furlí; uomo di vilissima nazione, ma pervenuto a qualche grado onorato perché nel fiore della età era stato grato a Lodovico Sforza, e poi famoso per l'amore noto di quella madonna. Espugnato Sassuolo, prese l'esercito Formigine; e volendo il pontefice che andassino a pigliare Montecchio, terra forte e importante situata tra la strada maestra e la montagna in sui confini di Parma e di Reggio, e che era tenuta dal duca di Ferrara ma parte del territorio di Parma, recusò Fabrizio Colonna, dicendo essergli proibito dal suo re il molestare le giurisdizioni dello imperio. Non provedeva a questi disordini Ciamonte; il quale, lasciato in Reggio Obigní con cinquecento lancie e con dumila fanti guasconi sotto il capitano Molard, si era fermato a Parma, avendo ricevute nuove commissioni dal re di astenersi dalle spese. Perché il re, perseverando nel proposito di temporeggiarsi insino alla primavera, non faceva allora per le cose di qua da' monti provedimento alcuno. Onde declinando in Italia la sua riputazione e diventandone maggiore l'animo degl'inimici, il pontefice, impaziente che le sue genti non procedessino piú oltre né ammettendo le scuse che della stagione del tempo e dell'altre difficoltà gli facevano i suoi capitani, chiamatigli tutti a Bologna, propose si andasse a campo a Ferrara: approvando il parere suo solamente gli imbasciadori viniziani, o per non lo sdegnare contradicendogli o perché i soldati loro ritornassino piú vicini a' suoi confini; dannandolo tutti gli altri, ma invano, perché non consultava piú ma comandava. Fu adunque deliberato che si andasse col campo a Ferrara, ma con aggiunta che per impedire a' franzesi il soccorrerla si tentasse, in caso non apparisse molto difficile, la Mirandola: la quale terra, insieme con la Concordia, signoreggiata da' figliuoli del conte Lodovico Pico, [e da Francesca,] madre e nutrice loro, conservava sotto la divozione del re di Francia; seguitando l'autorità di Gianiacopo da Triulzi suo padre naturale, per cui opera i piccoli figliuoli n'aveano da Cesare ottenuta la investitura. Aveva il pontefice molto prima ricevutigli, come appariva per uno breve, nella sua protezione, ma si scusava che le condizioni de' tempi presenti lo costrignevano a procurare che quelle terre non fussino tenute da persone sospette a sé; offerendo, se volontariamente gli erano concedute, di restituirle come prima avesse acquistato Ferrara. Fu dubitato insino allora (la quale dubitazione si ampliò poi molto piú) che il cardinale di Pavia, sospetto già d'avere occulto intendimento col re di Francia, fusse stato artificiosamente autore di questo consiglio, per interrompere con la impresa della Mirandola l'andare a campo a Ferrara; la quale città non era allora molto fortificata né aveva presidio molto grande, e i soldati franzesi stracchi col corpo e con l'animo dalle fatiche, il duca impotente e il re alieno dal farvi maggiori provedimenti.
Ma mentre che il pontefice attendeva con tanto ardore all'espedizione della guerra, il re di Francia, intento piú alle pratiche che all'armi, continuava di trattare col vescovo di Gursia le cose cominciate: le quali, dimostratesi al principio molto facili, procedetteno in maggiore lunghezza per la tardità delle risposte di Cesare e perché, dubitando del re di Aragona (il quale, oltre all'altre azioni, aveva di nuovo, sotto colore che verso Otranto si fusse scoperta l'armata de' turchi, rivocato nel regno di Napoli le genti sue che erano a Verona), giudicorno Cesare e il re di Francia necessario di accertarsi della mente sua, cosí circa la continuazione nella lega di Cambrai come in quello che si avesse a fare col pontefice, perseverando egli nella congiunzione co' viniziani e nella cupidità di acquistare immediatamente alla Chiesa il dominio di Ferrara. Alle quali dimande rispose dopo spazio di qualche dí il re cattolico, pigliando in uno tempo medesimo occasione di purgare molte querele che da Cesare e dal re di Francia si facevano di lui: avere conceduto le trecento lancie al pontefice per l'obligazione della investitura, e a effetto solamente di difendere lo stato della Chiesa e recuperare le cose che erano antico feudo di quella; avere revocato le genti d'arme da Verona perché era passato il termine per il quale le aveva promesse a Cesare, e nondimeno che non l'arebbe revocate se non fusse stato il sospetto de' turchi; essersi interposto l'oratore suo a Bologna con Ciamonte insieme con gli altri oratori allo accordo non per dare tempo a' soccorsi del pontefice ma per rimuovere tanto incendio della cristianità, sapendo massimamente essere al re molestissima la guerra con la Chiesa; essere stato sempre nel medesimo proposito di adempiere quel che era stato promesso a Cambrai, e volerlo fare in futuro molto piú, aiutando Cesare con cinquecento lancie e dumila fanti contro a' viniziani: non essere già sua intenzione di legarsi a nuove obligazioni né ristrignersi a capitolazioni nuove, perché non ne vedeva alcuna urgente cagione e perché, desideroso di conservarsi libero per potere fare la guerra contro agli infedeli d'Affrica, non voleva accrescere i pericoli e gli affanni della cristianità che aveva bisogno di riposo: piacergli il concilio e la riformazione della Chiesa quando fusse universale e che i tempi non repugnassino, e di questa sua disposizione niuno essere migliore testimonio del re di Francia, per quello che insieme ne avevano ragionato a Savona; ma i tempi essere molto contrari, perché il fondamento de' concili era la pace e la concordia tra i cristiani, non potendosi senza l'unione delle volontà convenire cosa alcuna in beneficio comune, né essere degno di laude cominciare il concilio in tempo e in maniera che e' paresse cominciarsi piú per sdegno e per vendetta che per zelo o dell'onore di Dio o dello stato salutifero della republica cristiana. Diceva oltre a questo separatamente agli oratori di Cesare, parergli grave aiutarlo a conservare le terre perché dipoi per danari le concedesse al re di Francia, significando espressamente di Verona. Intesa adunque per questa risposta la intenzione del re cattolico, non tardorno piú, Gurgense da una parte in nome di Cesare e il re di Francia dall'altra, di fare nuova confederazione; riserbata facoltà al pontefice di entrarvi infra due mesi prossimi, e al re cattolico e al re d'Ungheria infra quattro. Obligossi il re di pagare a Cesare (fondamento necessario alle convenzioni che si facevano con lui), parte di presente parte in tempi, centomila ducati: promesse Cesare di passare alla primavera in Italia con tremila cavalli e diecimila fanti contro a' viniziani; nel quale caso il re fusse obligato a spese proprie mandargli mille dugento lancie e ottomila fanti con provedimento sufficiente d'artiglierie, e per mare due galee sottili e quattro bastarde: osservassino la lega fatta a Cambrai, e ricercassino in nome comune alla osservanza del medesimo il pontefice e il re cattolico; e se il pontefice facesse difficoltà per le cose di Ferrara fusse il re tenuto a stare contento a quello che fusse consentaneo alla ragione, ma in caso denegasse la richiesta loro si proseguisse il concilio; per il quale Cesare dovesse congregare i prelati di Germania, come aveva il re di Francia fatto de' prelati suoi, per procedere piú innanzi secondo che fusse poi deliberato da loro. Non si trattò in questa convenzione de' danari prestati dal re a Cesare né dell'obligazione acquistata sopra Verona, ma si credeva il re avesse rimosso l'animo dallo appropriarsela, sapendo quanto Cesare fusse desideroso di ritenersela. Publicate le convenzioni, Gurgense, molto onorato e ricevuti grandissimi doni, se ne ritornò al suo principe; e il re, col quale nuovamente i cinque cardinali che procuravano il concilio avevano convenuto che né egli senza consenso loro né essi senza consenso suo concorderebbeno col pontefice, dimostrandosi con le parole molto acceso a passare personalmente in Italia con tale potenza che per molto tempo assicurasse le cose sue, le quali perché prima non cadessino in maggiore declinazione, commesse a Ciamonte che non lasciasse perire il duca di Ferrara. Il quale aggiunse ottocento fanti tedeschi alle dugento lancie che prima vi erano con Ciattiglione.
Da altra parte l'esercito del pontefice, poiché furono fatte benché lentamente le provisioni necessarie, lasciato alla guardia di Modona Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e dumila cinquecento fanti, andò a campo alla Concordia; la quale presa per forza, il medesimo dí che vi furono piantate l'artiglierie, e poi ottenuta a patti la fortezza, si accostò alla Mirandola. Approssimavasi già la fine del mese di dicembre e, per sorte, la stagione di quello anno era molto piú aspra che ordinariamente non suole essere: per il che e per essere la terra forte, e perché si credeva che i franzesi non dovessino lasciare perdere uno luogo tanto opportuno, i capitani principalmente diffidavano di ottenerla; e nondimeno tanto certamente si prometteva il pontefice la vittoria di tutta la guerra che mandando, per la discordia che era tra 'l duca di Urbino e il cardinale di Pavia, legato nuovo nell'esercito il cardinale di Sinigaglia gli commesse, in presenza di molti, che sopra tutto procurasse che, quando l'esercito entrava in Ferrara, si conservasse quanto si poteva quella città. Cominciorno a tirare contro alla Mirandola l'artiglierie il quarto dí poi che l'esercito si fu accostato; ma patendo molti sinistri e incomodità de' tempi e delle vettovaglie, le quali venivano al campo scarsamente del modenese, perché essendo state messe in Guastalla cinquanta lancie de' franzesi, altrettante in Coreggio, e in Carpi dugento cinquanta, e avendo rotto per tutto i ponti e occupati i passi donde potevano venire del mantovano, facevano impossibile il condurle per altra via. Ma s'allargò prestamente alquanto questa strettezza, perché quegli che erano in Carpi, essendo pervenuto falso romore che l'esercito inimico andava per assaltargli, spaventati perché non vi avevano artiglierie, se ne partirono.
Ebbe nella fine di questo anno qualche infamia la persona del pontefice, come se fusse stato conscio e fautore che, per mezzo del cardinale de' Medici, si trattasse, con Marcantonio Colonna e alcuni giovani fiorentini, che fusse ammazzato in Firenze Piero Soderini gonfaloniere; per opera del quale si diceva i fiorentini seguitare le parti franzesi: perché, avendo il pontefice procurato con molte persuasioni di congiugnersi quella republica, non gli era mai potuto succedere; anzi non molto prima avevano, a richiesta del re di Francia, disdetta la tregua a' sanesi, con molestia grandissima del pontefice, benché avessino recusato non muovere l'armi se non dopo i sei mesi della disdetta, come il re desiderava per mettere in sospetto il pontefice; e oltre a questo aveano mandato al re dugento uomini d'arme perché stessino a guardia del ducato di Milano, cosa dimandata dal re per virtú della loro confederazione, non tanto per l'importanza di tale aiuto quanto per desiderio di inimicargli col pontefice.
Cap. xiii
Il pontefice presso l'esercito all'assedio della Mirandola. Pericoli corsi dal pontefice; presa della Mirandola. Il re di Francia ordina una piú decisa azione di guerra.
Finí in questo stato delle cose l'anno mille cinquecento dieci. Ma il principio dell'anno nuovo fece molto memorabile una cosa inaspettata e inaudita per tutti i secoli. Perché, parendo al pontefice che l'oppugnazione della Mirandola procedesse lentamente, e attribuendo parte alla imperizia parte alla perfidia de' capitani, e specialmente del nipote, quel che procedeva maggiormente da molte difficoltà, deliberò di accelerare le cose con la presenza sua; anteponendo l'impeto e l'ardore dell'animo a tutti gli altri rispetti, né lo ritenendo il considerare quanto fusse indegno della maestà di tanto grado che il pontefice romano andasse personalmente negli eserciti contro alle terre de' cristiani, né quanto fusse pericoloso, disprezzando la fama e il giudicio che appresso a tutto il mondo si farebbe di lui, dare apparente colore e quasi giustificazione a coloro che, sotto titolo principalmente di essere pernicioso alla Chiesa il reggimento suo e scandolosi e incorriggibili i suoi difetti, procuravano di convocare il concilio e suscitare i príncipi contro a lui. Risonavano queste parole per tutta la corte: ciascuno si maravigliava, ciascuno grandemente biasimava, né meno che gli altri gli imbasciadori de' viniziani; supplicavanlo i cardinali con somma instanza che non andasse. Ma vani erano i prieghi di tutti, vane le persuasioni. Partí il secondo dí di gennaio da Bologna, accompagnato da tre cardinali; e giunto nel campo alloggiò in una casetta di uno villano sottoposta a' colpi dell'artiglierie degli inimici, perché non era piú lontana dalle mura della Mirandola che tiri in due volte una balestra comune. Quivi, affaticandosi ed esercitando non meno il corpo che la mente e che lo imperio, cavalcava quasi continuamente ora qua ora là per il campo, sollecitando che si desse perfezione al piantare dell'artiglierie, delle quali insino a quel dí era piantata la minore parte; essendo impedite quasi tutte l'opere militari da' tempi asprissimi e dalla neve quasi continua, e perché niuna diligenza bastava a ritenere che i guastatori non si fuggissino, essendo oltre alla acerbità del tempo molto offesi dall'artiglierie, di quegli di dentro. Però, essendo necessario fare ne' luoghi dove s'avevano a piantare l'artiglierie, per sicurtà di coloro che vi s'adoperavano, nuovi ripari e fare venire al campo nuovi guastatori, il pontefice, mentre che queste cose si provedevano, andò, per non patire in questo tempo delle incomodità dell'esercito, alla Concordia: nel quale luogo venne a lui, per commissione di Ciamonte, Alberto Pio, proponendo vari partiti di composizione; i quali, benché piú volte andasse dall'uno all'altro, furno tentati vanamente, o per la solita durezza sua o perché Alberto, del quale sempre crescevano i sospetti, non negoziasse con la sincerità conveniente. Stette alla Concordia pochi giorni, riconducendolo all'esercito la medesima impazienza e ardore, il quale non raffreddò punto nel cammino la neve grossissima che tuttavia cadeva dal cielo né i freddi cosí smisurati che appena i soldati potevano tollerargli; e alloggiato in una chiesetta propinqua alle sue artiglierie e piú vicina alle mura che non era l'alloggiamento primo, né gli sodisfacendo cosa alcuna di quelle che si erano fatte e che si facevano, con impetuosissime parole si lamentava di tutti i capitani, eccetto che di Marcantonio Colonna, il quale di nuovo avea fatto venire da Modona: né procedendo con minore impeto per l'esercito, ora questi sgridando ora quegli altri confortando, e facendo colle parole e co' fatti l'ufficio del capitano, prometteva che se i soldati procedevano virilmente che non accetterebbe la Mirandola con alcuno patto ma lascierebbe in potestà loro il saccheggiarla. Ed era certamente cosa notabile, e agli occhi degli uomini molto nuova, che il re di Francia, principe secolare, di età ancora fresca e allora d'assai prospera disposizione, nutrito dalla giovanezza nell'armi, al presente riposandosi nelle camere, amministrasse per capitani una guerra fatta principalmente contro a lui; e da altra parte vedere che il sommo pontefice, vicario di Cristo in terra, vecchio e infermo e nutrito nelle comodità e ne' piaceri, si fusse condotto in persona a una guerra suscitata da lui contro a cristiani, a campo a una terra ignobile; dove sottoponendosi, come capitano d'eserciti, alle fatiche e a' pericoli, non riteneva di pontefice altro che l'abito e il nome.
Procedevano, per la sollecitudine estrema per le querele per le promesse per le minaccie, le cose con maggiore celerità che altrimenti non arebbono fatto; e nondimeno, repugnando molte difficoltà, procedevano lentamente, per il piccolo numero de' guastatori, perché nell'esercito non erano molte artiglierie né quelle de' viniziani molto grosse, e perché per l'umidità del tempo le polveri facevano con fatica l'ufficio consueto. Difendevansi arditamente quegli di dentro, a' quali era preposto Alessandro da Triulzio con [quattrocento] fanti forestieri, sostenendo con maggiore virtú i pericoli per la speranza del soccorso promesso da Ciamonte: il quale, avendo avuto comandamento dal re di non lasciare occupare al pontefice quella terra, aveva chiamati a sé i fanti spagnuoli che erano in Verona; e raccogliendo da ogni parte le genti sue e soldando continuamente fanti, e il medesimo facendo fare al duca di Ferrara, prometteva d'assaltare, innanzi che passasse il vigesimo dí di gennaio, il campo inimico. Ma molte cose facevano difficile e pericoloso questo consiglio: la strettezza del tempo breve a raccorre tanti provvedimenti, lo spazio dato agli inimici di fortificare l'alloggiamento, la fatica di condurre, nella stagione tanto fredda, per vie pessime e per le nevi, maggiori che molti anni fussino state, l'artiglierie le munizioni e le vettovaglie: e augumentò le difficoltà colui che doveva, ricompensando con la prestezza il tempo perduto, diminuirle. Perché Ciamonte corse subitamente in su' cavalli delle poste a Milano, affermando andarvi per provedere piú sollecitamente danari e l'altre cose che bisognavano; ma essendosi divulgato e creduto averlo indotto a questo l'amore di una gentildonna milanese, raffreddò molto l'andata sua, con tutto che presto ritornasse, gli animi de' soldati e le speranze di quegli che difendevano la Mirandola: onde non oscuramente molti dicevano, nuocere forse non meno che la negligenza o la viltà di Ciamonte l'odio suo contro a Gianiacopo da Triulzi; e che perciò, preponderando (come spesso si fa) la passione propria alla utilità del re, gli fusse grato che i nipoti fussino privati di quello stato. Da altra parte il pontefice non perdonava a cosa alcuna per ottenere la vittoria, acceso in maggiore furore perché da uno colpo di cannone tirato da quegli di dentro erano stati ammazzati nella cucina sua due uomini: per il quale pericolo partitosi di quello alloggiamento, e dipoi, perché non poteva temperare se medesimo, il dí seguente ritornatovi, era stato costretto per nuovi pericoli ridursi nell'alloggiamento del cardinale Regino; dove quegli di dentro, sapendo per avventura egli esservisi trasferito, indirizzorno una artiglieria grossa non senza pericolo della sua vita. Finalmente gli uomini della terra, perduta interamente la speranza di essere soccorsi e avendo l'artiglierie fatto processo grande, essendo oltre a questo cosí profondamente le fosse congelate che sostenevano i soldati, temendo di non potere resistere alla prima battaglia che si ordinava di dare infra due giorni, mandorno, in quel medesimo dí, nel quale Ciamonte avea promesso di accostarsi, imbasciadori al pontefice per arrendersi, con patto che fussino salve le persone e le robe di tutti. Il quale, benché da principio rispondesse non volere obligarsi a salvare la vita de' soldati, pure alla fine, vinto da' prieghi di tutti i suoi, gli accettò con le condizioni proposte; eccettuato che Alessandro da Triulzi con alcuni capitani de' fanti rimanessino prigioni suoi, e che la terra, per ricomperarsi dal sacco stato promesso a' soldati, pagasse certa quantità di danari: e nondimeno, parendo loro essergli debito quel che era stato promesso, non fu piccola fatica al pontefice rimediare non la saccheggiassino; il quale fattosi tirare in sulle mura, perché le porte erano atterrate, discese da quelle nella terra. Arrendessi insieme la rocca, data facoltà alla contessa di partirsene con tutte le robe sue. Restituí il pontefice la Mirandola al conte Giovanfrancesco, e gli cedette le ragioni de' figliuoli del conte Lodovico come acquistate da sé con guerra giusta; ricevuta da lui obligazione (e, per sicurtà dell'osservanza, la persona del figliuolo) di pagargli fra certo tempo, per la restituzione delle spese fatte, ventimila ducati; e vi lasciò, perché, partito che fusse l'esercito i franzesi non l'occupassino, cinquecento fanti spagnuoli e trecento italiani. Dalla Mirandola andò a Sermidi nel mantovano, castello posto in sulla riva del Po, pieno di grandissima speranza di acquistare senza dilazione alcuna Ferrara; per il che, il dí medesimo che ottenne la Mirandola, aveva molto risolutamente risposto ad Alberto Pio non volere piú porgere l'orecchie a ragionamento alcuno di concordia se, innanzi che si trattassino l'altre condizioni della pace, non gli era consegnata Ferrara.
Ma per nuova deliberazione de' franzesi variorno i suoi pensieri. Perché il re, considerando quanto per la perdita della Mirandola fusse diminuita la riputazione delle cose sue, e disperando che l'animo del papa si potesse piú ridurre spontaneamente a quieti consigli, comandò a Ciamonte che non solamente attendesse a difendere Ferrara ma che oltre a questo non si astenesse, presentandosegli occasione opportuna, da offendere lo stato della Chiesa; onde raccogliendo Ciamonte da ogni parte le genti, il pontefice per consiglio de' capitani si ritirò a Bologna: dove stato pochi dí o per timore o per sollecitare, secondo diceva, di luogo piú vicino l'oppugnazione della bastia del Genivolo, contro alla quale disegnava mandare alcuni soldati che aveva in Romagna, venne a Lugo; e se ne andò finalmente a Ravenna, non gli parendo forse sí piccola espedizione degna della presenza sua.
Cap. xiv
Discussione e deliberazioni de' capitani francesi e del duca di Ferrara. Parere del Triulzio. Il pontefice consegna Modena al re de' romani. Morte di Ciamonte e giudizio dell'autore su di lui. Insuccesso de' pontifici.
Eransi le genti viniziane, non comportando la propinquità degli inimici assaltare Ferrara, fermate al Bondino, e tra Cento e il Finale l'ecclesiastiche e le spagnuole; le quali, con tutto che fusse passato il termine de' tre mesi, soprasedevano a' prieghi del pontefice. Da altra parte Ciamonte, raccolto l'esercito, superiore agli inimici di fanti, superiore ancora per la virtú degli uomini da cavallo ma inferiore di numero, consultava quello fusse da fare; e proponevano i capitani franzesi che, congiunte all'esercito le genti del duca di Ferrara, si andasse a trovare gli inimici, i quali benché fussino alloggiati in luoghi forti si doveva sperare con la virtú dell'armi e coll'impeto dell'artiglierie avergli facilmente a costrignere a ritirarsi; e succeduto questo, non solamente rimaneva Ferrara liberata da ogni pericolo ma si ricuperava interamente la riputazione perduta insino a quel dí. Allegavasi, per la medesima opinione, che nel passare con l'esercito per il mantovano si rimoverebbono le scuse del marchese, e gli impedimenti da' quali affermava essere stato ritenuto a non pigliare l'armi come feudatario di Cesare e soldato del re; e che la dichiarazione sua era molto utile alla sicurtà di Ferrara e molto nociva in questa guerra agli inimici, perdendone comodità non piccole gli eserciti de' viniziani di vettovaglie di ponti e di passi di fiumi, e perché il marchese incontinente rivocherebbe i soldati che aveva nel campo della Chiesa. Ma in contrario consigliava il Triulzio, il quale ne' dí medesimi che la Mirandola si perdette era ritornato di Francia; dimostrando essere pericoloso il cercare di assaltare nella fortezza de' suoi alloggiamenti l'esercito degli inimici, pernicioso il sottomettersi a necessità di procedere dí per dí secondo i processi loro. Piú utile e piú sicuro essere il voltarsi verso Modona o verso Bologna: perché se gli inimici, temendo di non perdere qualcuna di quelle città, si movessino, si conseguiterebbe il fine che si cercava, di liberare Ferrara dalla guerra; non si movendo, si poteva facilmente acquistare o l'una o l'altra, il che succedendo, maggiore necessità gli tirerebbe a difendere le cose proprie; e forse che, uscendo di sito sí forte, s'arebbe occasione di ottenere qualche preclara vittoria. Questa era la sentenza del Triulzo: nondimeno, per la inclinazione di Ciamonte e degli altri capitani franzesi a detrarre alla sua autorità, fu approvato l'altro consiglio; affaticandosene oltre a questo sommamente Alfonso da Esti, perché sperava che gli inimici sarebbono necessitati a discostarsi dal suo stato, il quale afflitto e consumato diceva essere impossibile che sostenesse piú lungamente sí grave peso; perché temeva che se i franzesi s'allontanavano non entrassino le genti inimiche nel Polesine di Ferrara, onde la infermità di quella città, privata di tutto lo spirito che gli rimaneva, irrimediabilmente s'aggravava.
Andò adunque l'esercito franzese per il cammino di Lucera e di Gonzaga ad alloggiare a Razzuolo e alla Moia, ove soggiornò per l'asprezza del tempo tre dí; rifiutando il consiglio di chi proponeva s'assaltasse la Mirandola, perché era impossibile alloggiare alla campagna, e alla partita del pontefice erano stati abbruciati i borghi e tutte le case all'intorno. Non piacque similmente l'assaltare la Concordia lontana cinque miglia, per non perdere tempo in cosa di piccola importanza. Però venne a Quistelli, e passato il fiume della Secchia in su uno ponte fatto colle barche alloggiò il dí prossimo a Revere, in sul fiume del Po: il quale alloggiamento fu cagione che Andrea Gritti, che, ricuperato prima il Pulesine di Rovigo e lasciata una parte de' soldati viniziani sotto Bernardino dal Montone a Montagnana per resistere alle genti che guardavano Verona, si era con trecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e mille fanti accostato al fiume del Po per andare a unirsi con l'esercito della Chiesa, si ritirò a Montagnana; avendo prima saccheggiata la terra di Guastalla. Da Revere andorno i franzesi a Sermidi, distendendosi, ma ordinatamente, per le ville circostanti: i quali come furono alloggiati, andò Ciamonte con alcuni de' capitani, ma senza il Triulzo, a [la terra della Stellata], nel quale luogo l'aspettava Alfonso da Esti, per deliberare con qual modo s'avesse a procedere contro agli inimici, i quali tutti si erano ridotti ad alloggiare al Finale; e fu deliberato che, unite le genti d'Alfonso colle franzesi intorno al Bondino, andassino tutti ad alloggiare in certe ville vicine a tre miglia al Finale, per procedere dipoi secondo la natura de' luoghi e quel che facessino gl'inimici. Ma a Ciamonte, come fu tornato a Sermidi, fu detto essere molto difficile il condursi a quello alloggiamento, perché per l'impedimento dell'acque, delle quali era pieno il paese intorno al Finale, non si poteva andarvi se non per la strada e per gli argini del canale, il quale gli inimici aveano tagliato in piú luoghi e messevi le guardie per impedire non si passasse; il che pareva dovesse riuscire molto difficile, aggiunta l'opposizione loro a' tempi tanto sinistri: onde stando Ciamonte molto dubbio, Alfonso, avendo appresso a sé alcuni ingegneri e uomini periti del paese, e dimostrando il sito e la disposizione de' luoghi, si ingegnava di persuadere il contrario; affermando che con la forza dell'artiglierie sarebbeno costretti quegli che guardavano i passi tagliati ad abbandonargli, e che perciò sarebbe molto facile gittare, ove fusse necessario, i ponti per passare. Le quali cose essendo referite da Ciamonte e disputate nel consiglio, era approvato il parere di Alfonso, piú tosto non impugnando che consentendo il Triulzio: e forse che la taciturnità sua mosse piú gli uomini che non arebbe fatto la contradizione. Perché considerandosi piú dappresso che le difficoltà si dimostravano maggiori, e che quel capitano, vecchio e di sí lunga esperienza, aveva sempre riprovata tale andata, e che se ne intervenisse alcuno sinistro sarebbe imputato dal re chi contro al parere suo ne fusse stato autore, Ciamonte, richiamato l'altro dí sopra la medesima deliberazione il consiglio, pregò efficacemente il Triulzio che non con silenzio, come aveva fatto il dí precedente, ma con aperto parlare esprimesse la sua sentenza. Egli incitato da questa instanza, e molto piú dall'essere deliberazione di tanto peso, stando tutti attentissimi a udirlo, parlò cosí:
- Io tacetti ieri perché per esperienza molte volte ho veduto essere tenuto piccolo conto del consiglio mio, il quale se si fusse seguitato da principio non saremmo al presente in questi luoghi, né aremmo perduto invano tanti giorni che si potevano spendere con piú profitto; e sarei oggi nella medesima sentenza di tacere se non mi spronasse la importanza della cosa, perché siamo in procinto di volere mettere sotto il punto incertissimo di uno dado questo esercito, lo stato del duca di Ferrara e il ducato di Milano, posta troppo grande senza ritenersi niente in mano: e mi invita oltre a questo a parlare il parermi comprendere che Ciamonte desideri che il primo a consigliare sia io quello che già comincia a andare a lui per l'animo, cosa che non mi è nuova, perché altre volte ho compreso essere manco disprezzati i consigli miei quando si tratta di ritirare qualche cosa forse non troppo maturamente deliberata che quando si fanno le prime deliberazioni. Noi trattiamo di andare a combattere con gli inimici; e io ho sempre veduto essere fondamento immobile de' grandi capitani, il quale io medesimamente ho con l'esperienza imparato, che mai debbe tentare la fortuna della battaglia chi non è invitato da molto vantaggio o stretto da urgente necessità; oltre che è secondo la ragione della guerra che agli inimici che sono gli attori, poiché si muovono per acquistare Ferrara, tocchi il cercare di assaltare noi, e non che a noi, a' quali basta il difendersi, tocchi contro a tutte le regole della disciplina militare sforzarci d'assaltare loro. Ma vediamo quale sia il vantaggio o la necessità che ci induce. A me pare ed è, se io non mi inganno del tutto, cosa molto evidente che non si possa tentare quel che propone il duca di Ferrara se non con grandissimo disavvantaggio nostro; perché non possiamo andare a quello alloggiamento se non per uno argine e per una stretta e pessima strada, dove non si possono spiegare tutte le forze nostre, e dove loro possono con poche forze resistere a numero molto maggiore. Bisognerà che per l'argine camminiamo cavallo per cavallo, che per la strettezza dell'argine conduciamo l'artiglierie i carriaggi le carra e i ponti: e chi non sa che, nel cammino stretto e cattivo, ogni artiglieria ogni carro che inciampi fermerà almanco per una ora tutto l'esercito? e che, essendo inviluppati in tante incomodità, ogni mediocre sinistro potrà facilmente disordinarci? Alloggiano i nimici al coperto, provisti di vettovaglie e di strami; noi alloggieremo quasi tutti allo scoperto e ci bisognerà portarci dietro gli strami, né potremo se non con gran fatica condurne la metà del bisogno. Non abbiamo a rapportarci a quel che dichino gl'ingegneri e i villani pratichi del paese, perché le guerre si fanno con le armi de' soldati e col consiglio de' capitani; fannosi combattendo in su la campagna, non co' disegni che dagli uomini imperiti della guerra si notano in su le carte, o si dipingono col dito o con una bacchetta nella polvere. Non mi presuppongo io i nimici sí deboli, non le cose loro in tale disordine, né che abbino nello alloggiarsi e nel fortificarsi saputo sí poco valersi dell'opportunità dell'acque e de' siti, che io mi prometta che subito che saremo giunti nello alloggiamento che si disegna, quando bene vi ci conducessimo agevolmente, abbia a essere in potestà nostra l'assaltargli. Potranno molte difficoltà sforzarci a soprasedervi due o tre dí, e, se non altra difficoltà, le nevi e le pioggie, in sí sinistra e sí rotta stagione: in che grado saremo delle vettovaglie e degli strami se ci accadrà soprastarvi? E quando pure fusse in potestà nostra l'assalirgli, chi è quello che si prometta tanto facile la vittoria? chi è quello che non consideri quanto sia pericoloso l'andare a trovare gli inimici alloggiati in luogo forte, e l'avere in uno tempo medesimo a combattere con loro e con le incomodità del sito del paese? Se non gli costrigniamo a levarsi subito di quello alloggiamento saremo necessitati a ritirarci; e questo con quante difficoltà si farà, per il paese che tutto ci è contrario, e ove diventerebbe grandissimo ogni piccolissimo disfavore? Meno veggo la necessità di mettere tutto lo stato del re in questo precipizio; perché ci siamo mossi principalmente non per altro che per soccorrere la città di Ferrara, nella quale se mettiamo a guardia piú genti, possiamo starne sicurissimi, quando bene noi dissolvessimo l'esercito; e se si dicesse che è tanto consumata che, rimanendogli addosso l'esercito degli inimici, è impossibile che in breve tempo non caggia per se stessa, non abbiamo noi il rimedio della diversione, rimedio potentissimo nelle guerre, con la quale, senza mettere pure uno cavallo in pericolo, gli necessitiamo ad allargarsi da Ferrara? Io ho sempre consigliato, e consiglio piú che mai, che noi ci voltiamo o verso Modona o verso Bologna, pigliando il cammino largo e lasciando Ferrara, per questi pochi dí, che per piú non sarà necessario, bene proveduta. Piacemi ora piú l'andare a Modena, alla qual cosa ci stimola il cardinale da Esti, persona tale, e che afferma avervi dentro intelligenza, proponendo lo acquisto molto facile: e conquistando uno luogo sí importante, gli inimici sarebbeno costretti a ritirarsi subito verso Bologna; e quando bene non si pigliasse Modona, il timore di quella e delle cose di Bologna gli costrignerà a fare il medesimo; come indubitatamente arebbono fatto, già molti dí, se da principio si fusse seguitato questo parere. -
Conobbeno tutti per le efficaci ragioni del savio capitano, quando le difficoltà erano già presenti, quello che egli, quando erano ancora lontane, aveva conosciuto. Però approvato da tutti il suo parere, Ciamonte, lasciato al duca di Ferrara per sicurtà sua maggiore numero di gente, si mosse coll'esercito per il cammino medesimo verso Carpi; non avendo né anche conseguito che il marchese di Mantova si dichiarasse, che era stata una delle cagioni allegata principalmente da coloro che aveano consigliato contro all'opinione del Triulzo. Perché il marchese, desiderando conservarsi in queste turbolenze neutrale, come s'approssimava il tempo nel quale aveva data speranza di dichiararsi, pregava con varie scuse che gli fusse permesso il differire ancora qualche dí: al pontefice dimostrando il pericolo evidente che gli soprastava dall'esercito franzese; a Ciamonte supplicando che non gli interrompesse la speranza che aveva, che 'l papa, in brevissimo spazio di tempo, gli renderebbe il figliuolo. Ma né anche il disegno di occupare Modona procedette felicemente, facendo maggiore impedimento l'astuzia e i consigli occulti del re d'Aragona che l'armi del pontefice. Era stato molesto a Cesare che il pontefice avesse occupato Modona, città stata riputata lunghissimo tempo di giurisdizione dello imperio, e tenuta moltissimi anni dalla famiglia da Esti co' privilegi e investiture de' Cesari; e con tutto che con molte querele avesse fatta instanza che la gli fusse conceduta, il pontefice, che delle ragioni di quella città o sentiva o pretendeva altrimenti, era stato da principio renitente, massimamente mentre sperò dovergli essere facile l'occupare Ferrara. Ma scoprendosi poi manifestamente in favore da Esti l'armi franzesi, né potendo sostenere Modona se non con gravi spese, aveva cominciato a gustare il consiglio del re d'Aragona; il quale lo confortò che, per fuggire tante molestie, mitigare l'animo di Cesare e tentare di fare nascere alterazione tra il re di Francia e lui, lo consentisse, atteso massimamente che quando in tempo piú comodo desiderasse di riaverla gli sarebbe sempre facile, dando a Cesare quantità mediocre di danari: il quale ragionamento era stato prolungato molti dí, perché secondo la variazione delle speranze si variava la deliberazione del pontefice; ma sempre era stata ferma questa difficoltà, che Cesare ricusava riceverla se nell'instrumento della consegnazione non s'esprimeva chiaramente quella città essere appartenente all'imperio, il che al pontefice pareva durissimo consentire. Ma come, occupata che ebbe la Mirandola, vedde Ciamonte uscito potente alla campagna, e che a lui ritornavano le medesime difficoltà e spese della difesa di Modona, omessa la disputazione delle parole, consentí che nello instrumento si dicesse, restituirsi Modona a Cesare della cui giuridizione era: la possessione della quale come Vitfrust, oratore di Cesare appresso al papa, ebbe ricevuta, persuadendosi dovere essere sicura per l'autorità cesarea, licenziò Marcantonio Colonna e le genti con le quali l'avea prima guardata in nome della Chiesa: e a Ciamonte significò, Modona non appartenere piú al pontefice ma essere giustamente ritornata sotto il dominio di Cesare. Non credette Ciamonte questo essere vero, e però stimolava il cardinale da Esti all'esecuzione del trattato che diceva avere in quella città: per ordine del quale, i soldati franzesi che Ciamonte aveva lasciati alla guardia di Rubiera, essendosi una notte accostati piú tacitamente potettono a uno miglio appresso a Modona, si ritirorno la notte medesima a Rubiera, non corrispondendo gli ordini dati da quegli di dentro, o per qualche difficoltà sopravenuta o perché i franzesi si fussino mossi innanzi al tempo. Uscirono dipoi un'altra notte di Rubiera per accostarsi pure a Modona, ma dalla grossezza e furore dell'acque furno impediti di passare il fiume della Secchia che corre innanzi a Rubiera. Dalle quali cose insospettito Vitfrust, avendo fatti incarcerare alcuni modonesi, incolpati che macchinassino col cardinale da Esti, impetrò dal pontefice che Marcantonio Colonna col medesimo presidio vi ritornasse; il che non arebbe ritenuto Ciamonte, che già era venuto a Carpi, di andarvi a campo, se la qualità del tempo non gli avesse impedito il condurre l'artiglierie, per quella via, non piú lunga di dieci miglia, che è tra Ruolo e Carpi, la quale è peggiore di tutte le strade di Lombardia; le quali, la invernata, sfondate dall'acque e piene di fanghi, sono pessime. Certificossi oltre a questo ogni dí piú Ciamonte, Modona essere stata data veramente a Cesare; perciò convenne con Vitfrust di non offendere Modona né 'l suo contado, ricevuta all'incontro promessa da lui che ne' movimenti tra 'l pontefice e il re cristianissimo non favorisse né l'una né l'altra parte.
Sopravenne pochi dí poi infermità grave a Ciamonte, il quale portato a Coreggio finí dopo quindici giorni l'ultimo dí della vita sua; avendo innanzi morisse dimostrato con divozione grande di pentirsi sommamente dell'offese fatte alla Chiesa, e supplicato per instrumento publico al pontefice che gli concedesse l'assoluzione: la quale, conceduta che ancora viveva, non potette, sopravenendo la morte, pervenire alla sua notizia. Capitano, mentre visse, di grande autorità in Italia, per la potenza somma del cardinale di Roano e per l'amministrazione quasi assoluta del ducato di Milano e di tutti gli eserciti del re, ma di valore inferiore molto a tanto peso: perché, costituito nel grado infimo degli uomini non sapeva da se stesso l'arti della guerra né prestava fede a quegli che le sapevano. Di maniera che, non essendo dopo la morte del zio sostentata piú la insufficienza dal favore, era negli ultimi tempi venuto quasi in dispregio de' soldati; a' quali perché non rapportassino male dí lui al re, permetteva grandissima licenza: in modo che 'l Triulzo, capitano nutrito nella antica disciplina, affermava spesso con sacramento, non volere mai piú andare negli eserciti franzesi se non vi fusse o il re proprio o egli superiore a tutti. Aveva nondimeno il re destinato, prima, di dargli successore... monsignore di Lungavilla, benché illegittimo, del sangue regio; non seguitando tanto la virtú quanto, per la nobiltà e per le ricchezze, l'autorità e l'estimazione della persona.
Per la morte di Ciamonte ricadde, secondo gli instituti di Francia, insino a nuova ordinazione del re, il governo dell'esercito a Gianiacopo da Triulzi, uno de' quattro mariscialli di quel reame; il quale, non sapendo se in lui avesse a continuare o no, non ardiva di tentare cosa alcuna di momento. Ritornò nondimeno coll'esercito a Sermidi, per andare a soccorrere la bastia del Genivolo; la quale il pontefice molestava colle genti che erano in Romagna, avendo similmente procurato che nel tempo medesimo vi si appressasse l'armata de' viniziani di tredici galee sottili e molti legni minori. Ma non fu necessitato a procedere piú oltre, perché, mentre che le genti di terra vi stanno intorno con piccola ubbidienza e ordine, ecco che all'improviso sopravengono il duca di Ferrara e Ciattiglione coi soldati franzesi; i quali, usciti da Ferrara con maggiore numero di genti che non aveano gli inimici, i fanti per il Po alla seconda, i capitani co' cavalli camminando per terra in sulla riva del Po, arrivorno in sul fiume del Santerno, in sul quale gittato il ponte che aveano condotto seco furono in un momento addosso agl'inimici: i quali disordinati, non facendo resistenza alcuna altri che trecento fanti spagnuoli deputati a guardare l'artiglierie, si messono in fuga: salvandosi con difficoltà Guido Vaina, Brunoro da Furlí e Meleagro suo fratello, condottieri di cavalli, perdute l'insegne e l'artiglierie. Per il che l'armata viniziana, discostatasi per fuggire il pericolo, s'allargò nel Po.
Cap. xv
Massimiliano per consiglio del re d'Aragona si fa propugnatore di pace. Timori e sospetti del re di Francia verso Ferdinando. Il re di Francia manda il cardinale di Parigi a Mantova per le eventuali trattative. Fazioni di guerra vicino al Po e nel mirandolese. L'ambasciatore di Massimiliano, per invito del pontefice, si reca presso di lui a Bologna.
Variavano in questo modo le cose dell'armi, non si vedendo ancora indizio da potere fondatamente giudicare quale dovesse essere l'esito della guerra. Ma non meno né con minore incertitudine variavano i pensieri de' príncipi, principalmente di Cesare; il quale inaspettatamente deliberò di mandare il vescovo Gurgense a Mantova a trattare la pace. Erasi, come è detto di sopra, stabilito per mezzo del vescovo prefato tra 'l re di Francia e Cesare di muovere potentemente alla primavera la guerra contro a' viniziani e che in caso che 'l pontefice non consentisse d'osservare la lega di Cambrai, di convocare il concilio: al quale Cesare molto inclinato, aveva dopo il ritorno di Gurgense chiamato i prelati degli stati suoi patrimoniali, perché trattassino in quali modi e in qual luogo si dovesse celebrare. Ma, come naturalmente era vario e incostante e inimico del nome franzese, avea dipoi prestato l'orecchie al re d'Aragona; il quale, considerando che l'unione di Cesare e del re, e la depressione con l'armi comuni de' viniziani, medesimamente la ruina del pontefice per mezzo del concilio, accrescerebbeno immoderatamente la grandezza del re di Francia, si era ingegnato persuadergli essere piú a proposito suo la pace universale, pure che con quella conseguisse o in tutto o in maggiore parte quello che gli occupavano i viniziani; confortandolo che a questo effetto mandasse a Mantova una persona notabile con ampia autorità e che operasse che il re di Francia facesse il medesimo, e che egli simigliantemente vi manderebbe; onde il pontefice non potrebbe dinegare di fare il simile, né finalmente deviare dalla volontà di tanti príncipi; dalla cui deliberazione dependendo la deliberazione de' viniziani (perché per non rimanere soli erano necessitati seguitare la sua autorità), potersi verisimilmente sperare che Cesare, senza difficoltà senza armi senza accrescere la riputazione o la potenza del re di Francia, otterrebbe con somma laude insieme con la pace universale lo intento suo. E quando pure non ne succedesse quel che ragionevolmente ne doveva succedere, non per questo rimanere privato della facoltà di muovere, al tempo determinato e coll'opportunità medesime, la guerra: anzi, essendo egli il capo di tutti i príncipi cristiani e avvocato della Chiesa, augumentarsi molto le giustificazioni ed esaltarsi assai da questo consiglio la gloria sua; perché a tutto il mondo manifestamente apparirebbe avere principalmente desiderato la pace e l'unione de' cristiani, ma averlo costretto alla guerra l'ostinazione e perversi consigli degli altri. Furno capaci a Cesare le ragioni addotte dal re cattolico, e perciò nel tempo medesimo scrisse al pontefice e al re di Francia. Al pontefice, avere deliberato di mandare il vescovo Gurgense in Italia, perché, come conveniva a principe religioso, e per la degnità imperiale avvocato della Chiesa e capo di tutti i príncipi cristiani, aveva statuito procurare quanto potesse la tranquillità della sedia apostolica e la pace della cristianità; e confortare lui che, come apparteneva a vicario vero di Cristo, procedesse con la medesima intenzione, acciò che, non facendo quel che era ufficio del pontefice, non fusse costretto egli a pensare a' rimedi necessari per la quiete de' cristiani. Non approvare che e' trattasse di privare i cardinali assenti della degnità del cardinalato, perché non si essendo assentati per maligni pensieri né per odio contro a lui non meritavano tale pena; né appartenere al papa solo la privazione de' cardinali. Ricordargli oltre a questo, essere cosa molto indegna e inutile creare in tante turbazioni cardinali nuovi, come similmente gli era proibito per i capitoli fatti da' cardinali nel tempo della sua elezione al pontificato; esortandolo a riservare tal cosa a tempo piú tranquillo, nel quale non arebbe o necessità o cagione di promuovere a tanta degnità se non persone approvatissime per prudenza per dottrina e per costumi. Al re di Francia scrisse che, sapendo la inclinazione che sempre avea avuta alla pace onesta e sicura, avea deliberato di mandare a Mantova il vescovo Gurgense a trattare la pace universale, alla quale credeva con fondamenti non leggieri che il pontefice, l'autorità del quale erano costretti a seguitare i viniziani, fusse inclinato; il medesimo prometterebbono gli oratori del re d'Aragona; e che perciò lo ricercava che egli similmente vi mandasse imbasciadori con ampio mandato: i quali come fussino congregati, Gurgense richiederebbe il pontefice che facesse il medesimo, e in caso lo denegasse se gli denunzierebbe in nome di tutti il concilio: mandando che per procedere con maggiore giustificazione e porre fine alle controversie di tutti, Gurgense udirebbe le ragioni di tutti; ma che, in qualunque caso, tenesse per certo che giammai co' viniziani non farebbe concordia alcuna se nel tempo medesimo non si terminassino col pontefice le differenze sue.
Fu grata questa cosa al pontefice, non a fine di pace o di concordia ma perché, persuadendosi potere disporre il senato viniziano a comporsi con Cesare, sperava che Cesare liberato per questo mezzo dalla necessità di stare unito col re di Francia si separerebbe da lui; onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione di molti príncipi. Ma questa improvisa deliberazione fu molestissima al re di Francia; perché, non avendo speranza che ne avesse a risultare la pace universale, giudicava che il minore male che ne potesse succedere sarebbe interporre lunghezza all'esecuzione delle cose convenute da sé con Cesare. Temeva che il pontefice, promettendo a Cesare di aiutarlo acquistare il ducato di Milano e a Gurgense la degnità del cardinalato e altre grazie ecclesiastiche, non l'alienasse da lui; o almeno, essendo mezzo che la composizione co' viniziani non fusse piú favorevole a Cesare, mettesse lui in necessità d'accettare la pace con inonestissime condizioni. Accrescevagli il sospetto l'essersi Cesare confederato di nuovo co' svizzeri, benché solamente a difesa. Persuadevasi, il re cattolico essere stato autore a Cesare di questo nuovo consiglio; della cui mente sospettava grandemente per molte cagioni. Sapeva che l'oratore suo appresso a Cesare si era affaticato e affaticava scopertamente per la concordia tra Cesare e i viniziani: credeva che occultamente desse animo al pontefice, nell'esercito del quale erano state le genti sue molto piú tempo che quello che per i patti della investitura del regno di Napoli era tenuto: sapeva che, per impedire l'azioni sue, si opponeva efficacemente alla convocazione del concilio; e sotto specie d'onestà dannava palesemente che, ardendo Italia di guerre, e con la mano armata, si trattasse di fare una opera che senza la concordia di tutti i príncipi non poteva partorire altro che frutti velenosissimi: aveva notizia prepararsi da lui nuovamente in mare una armata molto potente, e con tutto che publicasse di volere passare in Affrica personalmente non si poteva però sapere se ad altri fini si preparava. Facevanlo molto piú sospettare le dolcissime parole sue colle quali pregava quasi fraternalmente il re che facesse la pace col pontefice, rimettendo eziandio, quando altrimenti fare non si potesse, delle sue ragioni, per non si dimostrare persecutore della Chiesa, contro all'antica pietà della casa di Francia, e per non interrompere a lui la guerra destinata per esaltazione del nome di Cristo contro a' mori di Affrica, turbando in uno tempo medesimo tutta la cristianità; soggiugnendo essere stata sempre consuetudine de' príncipi cristiani, quando preparavano l'armi contro agli infedeli, domandare in causa tanto pia sussidio dagli altri, ma a lui bastare non essere impedito, né ricercarlo d'altro aiuto se non che consentisse che Italia stesse in pace. Le quali parole, benché porte al re dall'oratore suo e da lui proprio dette all'oratore del re risedente appresso a lui, molto destramente e con significazione grande di amore, pareva perciò che contenessino uno tacito protesto di pigliare l'armi in favore del pontefice: il che al re non pareva verisimile che ardisse di fare senza speranza di indurre Cesare al medesimo.
Angustiavano queste cose non mediocremente l'animo del re, e l'empievano di sospetto che il trattare la pace per mezzo del vescovo Gurgense sarebbe opera o vana o perniciosa a sé; nondimeno, per non dare causa di indegnazione a Cesare, si risolvé a mandare a Mantova il vescovo di Parigi, prelato di grande autorità e dotto nella scienza delle leggi. In questo tempo medesimo significò il re a Gianiacopo da Triulzi, il quale fermatosi a Sermidi avea, per maggiore comodità dell'alloggiare e delle vettovaglie, distribuito in piú terre circostanti l'esercito, essere la volontà sua che da lui fusse amministrata la guerra; con limitazione che, per l'espettazione della venuta di Gurgense, non assaltasse lo stato ecclesiastico: alla qual cosa repugnando anche l'asprezza inusitata del tempo, per la quale, con tutto che fusse cominciato il mese di marzo, era impossibile alloggiare allo scoperto.
Perciò il Triulzo, poi che non s'aveva occasione di tentare altro e che era ne' luoghi tanto vicini, deliberò di tentare se si poteva offendere l'esercito inimico; il quale, allargatosi quando Ciamonte ritornò da Sermidi a Carpi, alloggiava al Bondino quasi tutta la fanteria, e la cavalleria al Finale e per le ville vicine. Però, ricevuta la commissione del re, andò il dí seguente alla Stellata e l'altro dí alquanto piú innanzi; ove distribuí al coperto per le ville circostanti l'esercito, e facendo gittare il ponte con le barche tra la Stellata e Ficheruolo in su tutto il fiume del Po: avendo ordinato che 'l duca di Ferrara ne gittasse un altro un miglio di sotto ove si dice la Punta, in su quello ramo del Po che va a Ferrara; e che con l'artiglierie venisse allo Spedaletto, luogo in sul Polesine di Ferrara che è di riscontro al Bondino. Ebbe in questo mezzo il Triulzio notizia dalle sue spie che molti cavalli leggieri, di quella parte dell'esercito de' viniziani che era di là dal Po, dovevano la notte prossima venire appresso alla Mirandola a ordinare certe insidie; perciò vi mandò occultamente molti cavalli: i quali giunti a Bellaere, palagio del contado mirandolano, vi trovorno fra' Lionardo napoletano capitano de' cavalli leggieri de' viniziani, uomo chiaro in quello esercito, il quale non temendo dovessino venirvi gli inimici, smontato quivi con cento cinquanta cavalli ne aspettava molti altri che lo doveano seguitare; ma oppresso all'improviso, volendosi difendere, fu ammazzato con molti de' suoi. Venne Alfonso da Esti, come era destinato, allo Spedaletto, e la notte seguente cominciò a tirare con l'artiglierie contro al Bondino; e nel tempo medesimo il Triulzio mandò Gastone monsignore di Fois, figliuolo di una sorella del re (il quale, giovanetto, era l'anno dinanzi venuto all'esercito), a correre, con cento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti, insino alle sbarre dell'alloggiamento degli inimici: il quale messe in fuga cinquecento fanti destinati alla guardia di quella fronte; onde gli altri tutti, lasciato guardato il Bondino, si ritirorno di là dal canale nel sito forte. Ma non succedette al Triulzo alcuna delle cose destinate; perché l'artiglieria piantata contro al Bondino, essendovi in mezzo il Po, faceva per la distanza del luogo piccolo progresso, e molto piú perché cresciuto il fiume, e tagliato l'argine da quegli che erano nel Bondino, allagò talmente il paese che dalla fronte degli alloggiamenti franzesi al Bondino non si poteva piú andare se non colle barche: di maniera che 'l capitano, disperato di potere piú condursi per quella via agli alloggiamenti degli inimici, chiamò da Verona dumila fanti tedeschi e ordinò si soldassino tremila grigioni, per accostarsi loro per la via di San Felice; in caso che, per opera del vescovo Gurgense, non si introducesse la pace.
La cui venuta era stata alquanto piú tarda perché a Salò, in sul lago di Garda, aveva aspettato piú dí invano la risposta del pontefice; il quale aveva per lettere ricercato che mandasse imbasciadori a trattare. Venne finalmente a Mantova, accompagnato da don Petro d'Urrea, il quale per il re d'Aragona risedeva ordinariamente appresso a Cesare ove pochi dí poi sopravenne il vescovo di Parigi; persuadendosi il re di Francia (il quale, per essere piú vicino alle pratiche della pace e a provedimenti della guerra, era venuto a Lione) che medesimamente il pontefice dovesse mandarvi. Il quale, da altra parte, faceva instanza che Gurgense andasse a lui; mosso non tanto perché gli paresse questo essere piú secondo la degnità pontificale quanto perché sperava, e coll'onorarlo e col caricarlo di promesse, e con l'efficacia e autorità della presenza, averlo a indurre nella sua volontà, alienissima piú che mai dalla concordia e dalla pace: il che per persuadergli piú facilmente procurò che andasse a lui Ieronimo Vich valenziano, oratore del re cattolico appresso a sé. Non negava Gurgense di volere andare al pontefice; ma diceva, essere richiesto di fare prima quel che era conveniente fare dipoi; affermando che piú facilmente si rimoverebbono le difficoltà se si trattasse prima a Mantova, con intenzione di andare poi al pontefice con le cose digerite e quasi conchiuse. Astrignerlo a questo medesimo non meno la necessità che il rispetto della facilità: perché come era egli conveniente lasciare solo il vescovo di Parigi, mandato dal re di Francia a Mantova per l'instanza fatta da Cesare? con che speranza potersi trattare da lui le cose del suo re? come conveniente richiederlo che andasse insieme con lui al pontefice? perché né secondo la commissione né secondo la degnità del re poteva andare in casa dello inimico, se prima non fussino composte, o quasi composte, le differenze loro. In contrario argomentavano i due imbasciadori aragonesi, dimostrando che tutta la speranza della pace dipendeva dal comporre le cose di Ferrara; perché composte quelle, non rimanendo al pontefice piú causa alcuna di sostentare i viniziani, sarebbono essi del tutto necessitati di cedere alla pace con quelle leggi che volesse Cesare medesimo. Pretendere il pontefice che la sedia apostolica avesse in sulla città di Ferrara potentissime ragioni: riputare, oltre a questo, Alfonso da Esti avere usato seco grande ingratitudine, avergli fatte molte ingiurie; e per mollificare l'animo suo gravemente sdegnato essere piú conveniente e piú a proposito che il vassallo dimandasse piú tosto clemenza al superiore che disputasse della giustizia. Dunque, avendosi a impetrare clemenza, essere non solamente onesto ma quasi necessario il trasferirsi a lui; il che facendo non dubitavano che molto mitigato diminuirebbe il rigore; né essi giudicare essere utile che quella diligenza industria e autorità che s'aveva a usare per disporre il pontefice alla pace si spendesse nel persuaderlo a mandare. Soggiugnevano, con parole bellissime, non si potere né disputare né terminare le differenze se non intervenivano tutte le parti, ma in Mantova non essere altri che una, perché Cesare il re cristianissimo e il re cattolico erano in tanta congiunzione di leghe, di parentadi e di amore che si dovevano riputare come fratelli, e che gli interessi di ciascuno di loro fussino comuni di tutti. Assentí finalmente Gurgense, con intenzione che 'l vescovo di Parigi, aspettando a Parma che partorisse l'andata sua, vi andasse anch'egli, se cosí piacesse al suo re, di andare al pontefice.
Cap. xvi
Nomina di nuovi cardinali. Entrata dell'ambasciatore di Massimiliano in Bologna e suo superbo contegno. Sue trattative di accordo coi veneziani. Avversione del pontefice alla pace coi francesi e subito fallimento delle trattative. Gli ambasciatori aragonesi per invito dell'inviato di Massimiliano ritirano le milizie spagnole dall'esercito pontificio.
Il quale non aveva in questo tempo, per le cose che si trattavano attenenti alla pace, deposti i pensieri della guerra: perché di nuovo tentava l'espugnazione della bastia del Genivolo, avendo preposto a questa impresa Giovanni Vitelli. Ma essendo, per la strettezza de' pagamenti, il numero de' fanti molto minore di quel che aveva disegnato, ed essendo per le pioggie grandi, e perché quegli che erano nella bastia aveano rotto gli argini del Po, inondato il paese all'intorno, non si faceva progresso alcuno: e per acqua vi erano superiori le cose d'Alfonso da Esti; perché avendo con una armata di galee e di brigantini assaltata appresso a Santo Alberto l'armata de' viniziani, quella, spaventata perché mentre combattevano si scoperse una armata di legni minori che veniva da Comacchio, si rifuggí nel porto di Ravenna, avendo perduto due fuste tre barbotte e piú di quaranta legni minori. Onde il papa, perduta la speranza di pigliare la bastia, mandò quelle genti nel campo che alloggiava al Finale, diminuito molto di fanti perché strettissimamente erano pagati. Creò nel tempo medesimo il pontefice otto cardinali, parte per conciliarsi gli animi de' príncipi, parte per armarsi, contro alle minaccie del concilio, di prelati dotti ed esperimentati e di autorità nella corte romana, e di persone confidenti a sé, tra' quali fu l'arcivescovo d'Iorch (diconlo i latini eboracense) imbasciadore del re di Inghilterra, e il vescovo di Sion: questo come uomo importante a muovere la nazione de' svizzeri; quello perché ne fu ricercato dal suo re, il quale aveva già non piccola speranza di concitare contro a' franzesi. E per dare arra quasi certa della medesima degnità a Gurgense, e renderselo con questa speranza piú facile, si riservò, col consentimento del concistorio, facoltà di nominarne un altro riservato nel petto suo.
Ma inteso che ebbe, Gurgense avere consentito di andare a lui, disposto a onorarlo sommamente, e parendogli niuno onore potere essere maggiore che il pontefice romano farsegli incontro, e oltre a questo dargli maggiore comodità d'onorarlo il riceverlo in una magnifica città, andò da Ravenna a Bologna; dove, il terzo dí dopo l'entrata sua, entrò il vescovo Gurgense, ricevuto con tanto onore che quasi con maggiore non sarebbe stato ricevuto re alcuno: né si dimostrò da lui pompa e magnificenza minore; perché, venendo con titolo di luogotenente di Cesare in Italia, aveva seco grandissima compagnia di signori e di gentiluomini, tutti colle famiglie loro, vestiti e ornati molto splendidamente. Alla porta della città se gli fece incontro, con segni di grandissima sommissione, l'imbasciadore che 'l senato viniziano teneva appresso al pontefice: contro al quale egli, pieno di fasto inestimabile, si voltò con parole e gesti molto superbi, sdegnandosi che uno che rappresentava gli inimici di Cesare avesse avuto ardire di presentarsi al cospetto suo. Con questa pompa accompagnato insino al concistorio publico, ove con tutti i cardinali l'aspettava il pontefice, propose con breve ma superbissimo parlare, Cesare averlo mandato in Italia per il desiderio che aveva di conseguire le cose sue piú tosto per la via della pace che della guerra; la quale non poteva avere luogo se i viniziani non gli restituivano tutto quello che in qualunque modo se gli apparteneva. Parlò dopo l'udienza publica col pontefice privatamente, nella medesima sentenza e con la medesima alterezza: alle quali parole e dimostrazioni accompagnò, il seguente dí, fatti non meno superbi. Perché avendo il pontefice, con suo consentimento, diputati a trattare seco tre cardinali, San Giorgio, Regino e quel de' Medici, i quali aspettandolo all'ora che erano convenuti di essere insieme, egli, come se fusse cosa indegna di lui trattare con altri che col pontefice, mandò a trattare con loro tre de' suoi gentiluomini, scusandosi di essere occupato in altre faccende: la quale indegnità divorava insieme con molt'altre il pontefice, vincendo la sua natura l'odio incredibile contro a' franzesi.
Ma nella concordia tra Cesare e i viniziani, della quale cominciò a trattarsi prima, erano molte difficoltà. Perché se bene Gurgense, il quale aveva dimandato prima tutte le terre, consentisse alla fine che a loro rimanessino Padova e Trevigi con tutti i loro contadi e appartenenze, voleva che in ricompenso dessino a Cesare quantità grandissima di danari; che da lui in feudo le riconoscessino, e le ragioni dell'altre terre gli cedessino: le quali cose erano nel senato ricusate; ove tutti unitamente conchiudevano piú utile essere alla republica (poi che aveano talmente fortificate Padova e Trevigi che non temevano di perderle) conservarsi i danari; perché, se mai passava questa tempesta, potrebbe offerirsi qualche occasione che facilmente recupererebbono il loro dominio. Da altra parte il pontefice ardeva di desiderio convenissino con Cesare, sperando che da questo avesse a succedere che egli si alienasse dal re di Francia; però gli stimolava, parte con prieghi parte con minaccie, che accettassino le condizioni proposte. Ma era minore appresso a loro la sua autorità, non solamente perché conoscevano da quali fini procedesse tanta caldezza ma perché, sapendo quanto gli fusse necessaria la compagnia loro in caso non si riconciliasse col re di Francia, tenevano per certo che mai gli abbandonerebbe. Pure, da poi che fu disputato molti dí, rimettendo il vescovo Gurgense qualche parte della sua durezza e i viniziani cedendo piú di quel che aveano destinato alla instanza ardentissima del pontefice, interponendosi medesimamente gli oratori del re d'Aragona, che a tutte le pratiche intervenivano, pareva che finalmente fussino per convenire; pagando i viniziani, per ritenersi con consentimento di Cesare Padova e Trevigi, ma in tempi lunghi, quantità grandissima di danari.
Rimaneva la causa della riconciliazione tra 'l pontefice e il re di Francia, tra i quali non appariva altra controversia che per le cose del duca di Ferrara; la quale Gurgense per risolvere (perché Cesare senza questa aveva deliberato non convenire) andò a parlare al pontefice, al quale rarissime volte era stato; persuadendosi, per le speranze avute dal cardinale di Pavia e dagli oratori del re cattolico, dovere essere materia non difficile, perché da altra parte sapeva, il re di Francia, avendo minore rispetto alla degnità che alla quiete, essere disposto a consentire molte cose di non piccolo pregiudicio al duca. Ma il pontefice, interrompendogli quasi nel principio del parlare il ragionamento, cominciò per contrario a confortarlo che, concordando co' viniziani, lasciasse pendenti le cose di Ferrara; lamentandosi che Cesare non conoscesse l'occasione paratissima di vendicarsi, con l'altrui forze e danari, di tante ingiurie ricevute da' franzesi, e che aspettasse d'essere pregato di quel che ragionevolmente doveva con somma instanza supplicare. Alle quali cose Gurgense poi che con molte ragioni ebbe replicato, né potendo rimuoverlo dalla sentenza sua, gli significò volersi partire senza dare altrimenti perfezione alla pace co' viniziani; e baciatigli secondo il costume i piedi, il dí medesimo, che fu il quintodecimo dalla venuta sua a Bologna, se ne andò a Modona; avendo invano il pontefice mandato a richiamarlo subito che fu uscito della città: onde si indirizzò verso Milano, lamentandosi in molte cose del pontefice, e specialmente che, mentre che per la venuta sua in Italia erano quasi sospese l'armi, avesse mandato secretamente per turbare lo stato di Genova... vescovo di Ventimiglia figliuolo già di Paolo cardinale Fregoso. Dell'andata del quale essendo penetrata notizia a' franzesi, lo feciono, cosí incognito come andava, pigliare nel Monferrato; onde condotto a Milano manifestò interamente le cagioni e i consigli della sua andata.
Ricercò Gurgense, quando partí da Bologna, gli imbasciadori aragonesi (i quali, essendosi per quel che appariva affaticati molto per la pace comune, si dimostravano sdegnati della durezza del pontefice) che facessino ritornare nel reame di Napoli le trecento lancie spagnuole; il che essi prontamente acconsentirono. Donde ciascuno tanto piú si maravigliava che, nel tempo che si trattava del concilio, e che si credeva dovere essere potenti in Italia, con la presenza d'amendue i re, l'armi franzesi e tedesche, il pontefice, oltre all'inimicizia del re di Francia, si alienasse Cesare e si privasse degli aiuti del re cattolico. Dubitavano alcuni che in questo come in molte altre cose fussino diversi i consigli del re d'Aragona dalle dimostrazioni, e che altro avessino in publico operato gli oratori suoi altro in secreto col pontefice; perché avendo provocato il re di Francia con nuove offese, e per quelle risuscitata la memoria delle antiche, pareva che dovesse temere che la pace di tutti gli altri non producesse gravissimi pericoli contro a sé, rimanendo indeboliti di stato di danari e di riputazione i viniziani, poco potente in Italia il re de' romani e vario instabile e prodigo piú che mai: altri, discorrendo piú sottilmente, interpretavano potere per avventura essere che il pontefice, quantunque il re cattolico gli protestasse d'abbandonarlo e richiamasse le sue genti, confidasse che egli, considerando quanto nocerebbe a sé proprio la sua depressione, avesse sempre ne' bisogni maggiori a sostenerlo.
Cap. xvii
I francesi, occupata Concordia, si portano vicino a Bologna. Il pontefice abbandona Bologna per Ravenna. Eccitazione degli animi in Bologna. Il legato del papa abbandona la città, ove vengono chiamati i Bentivoglio. Ritirata e perdite degli eserciti ecclesiastico e veneziano. I francesi in attesa di istruzioni del re. Consegna della fortezza di Bologna ai cittadini; terre ricuperate dal duca di Ferrara.
Per la partita di Gurgense, perturbate le speranze della pace, ancora che il pontefice gli avesse quattro dí poi mandato dietro il vescovo di Moravia, oratore appresso a sé del re di Scozia, per trattare della pace col re di Francia, si rimossono le cagioni che aveano ritardato Gianiacopo da Triulzi; il quale ardeva di onesta ambizione di fare qualche opera degna della virtú e antica gloria sua, e donde al re si dimostrasse con quanto danno proprio si commetta il governo delle guerre (cosa tra tutte l'azioni umane la piú ardua e la piú difficile, e che ricerca maggiore prudenza ed esperienza) non a capitani veterani ma a giovani inesperti, e della virtú de' quali niuna altra cosa fa testimonianza che il favore. Però, continuando nelle prime deliberazioni, ancora che non fussino arrivati i fanti grigioni, perché il generale di Normandia dal quale dipendevano l'espedizioni, sperando nella pace e cercando di farsi piú grato al re con la parsimonia dello spendere, aveva differito il mandare a soldargli, pose al principio del mese di maggio, con mille dugento lancie e settemila fanti, il campo alla Concordia; la quale ottenne il dí medesimo, perché avendo gli uomini della terra, impauriti perché aveano già cominciato a tirare l'artiglierie, mandato imbasciadori a lui per arrendersi, ed essendo perciò allentata la diligenza delle guardie, i fanti dell'esercito saltati dentro la saccheggiorno. Presa la Concordia, per non dare occasione agli emuli suoi di calunniarlo che attendesse piú alla utilità propria che a quella del re, lasciata indietro la Mirandola si dirizzò verso Buonporto, villa posta in sul fiume del Panaro, per accostarsi tanto agli inimici che con l'impedire loro le vettovaglie gli costrignesse a diloggiare, o a combattere fuora della fortezza del loro alloggiamento. Entrato nel contado di Modena e alloggiato alla villa del Cavezzo, inteso che a Massa presso al Finale alloggiava Giampaolo, Manfrone con trecento cavalli leggieri de' viniziani, mandò là Gastone di Fois con trecento fanti e cinquecento cavalli; contro a' quali Giampaolo, sentito il romore, si messe sopra uno ponte in battaglia: ma non corrispondendo la virtú de' suoi all'ardire e animosità sua, abbandonato da loro, restò con pochi compagni prigione. Accostossi poi l'esercito a Buonporto, avendo in animo il Triulzio gittare il ponte dove il canale, derivato di sopra a Modona dal fiume del Panaro, si unisce col fiume. Ma già l'esercito inimico, per impedirgli il passo del fiume, era venuto ad alloggiare in luogo tanto vicino che si offendevano con l'artiglierie: da uno colpo delle quali fu ammazzato, passeggiando lungo l'argine del fiume, il capitano Perault spagnuolo, soldato dello esercito ecclesiastico. Sono in quello luogo le ripe del fiume altissime, e perciò era agli inimici facilissimo lo impedirlo; onde il Triulzio, preso nuovo consiglio, gittò il ponte piú alto, uno miglio solamente sopra al canale. Passato il canale si dirizzò verso Modena, camminando lungo lo argine del Panaro, cercando luogo dove fusse piú facile il gittare il ponte; e avendo sempre vista de' cavalli e de' fanti degli inimici, i quali erano alloggiati vicini a Castelfranco in su la strada Romea, ma in uno alloggiamento cinto da argini e da acque, entrò in su la medesima strada al ponte di Fossalta presso a due miglia a Modena; e piegatosi a mano destra verso la montagna, passò senza contrasto il Panaro a guazzo, che in quel luogo ha il letto largo e senza ripa: il quale passato, alloggiò nel luogo dove si dice la Ghiara di Panaro, distante tre miglia dallo esercito ecclesiastico. Camminò il dí seguente verso Piumaccio, accomodato di vettovaglie, con consentimento di Vitfrust, da' Modonesi; e nel medesimo dí l'esercito ecclesiastico, non avendo ardire di opporsi alla campagna, e giudicando essere necessario l'accostarsi a Bologna perché in quella città non si facesse movimento, atteso che i Bentivogli seguitavano l'esercito franzese, andò ad alloggiare al ponte a Casalecchio tre miglia di sopra a Bologna, in quel luogo medesimo nel quale, nell'età de' proavi nostri, Giovan Galeazzo Visconte potentissimo duca di Milano, superiore molto di forze agli inimici, ottenne contro a' fiorentini bolognesi e altri confederati una grandissima vittoria; ma alloggiamento di sito molto sicuro tra 'l fiume del Reno e il canale, e che ha la montagna alle spalle, e per il quale si impedisce che Bologna non sia privata della comodità del canale che, derivato dal fiume, passa per quella città. Arrendessi il dí seguente al Triulzio Castelfranco. Il quale, soprastato tre dí nello alloggiamento di Piumaccio, per le pioggie e per ordinarsi delle vettovaglie delle quali non aveano molta copia, venne ad alloggiare in su la strada maestra tra la Samoggia e Castelfranco; nel quale luogo stette sospeso quello avesse a fare, per molte difficoltà le quali in qualunque deliberazione se gli rappresentavano: perché conosceva essere vano l'assaltare Bologna se dentro il popolo non tumultuava, e accostandosi in sulle speranze de' moti popolari dubitava non essere costretto a ritirarsi presto, come avea fatto Ciamonte, con la reputazione diminuita; piú imprudente e pericoloso andare a combattere cogli inimici, fermatisi in alloggiamento tanto forte; l'accostarsi a Bologna dalla parte di sotto non avere altra speranza se non che gli inimici, per timore che e' non assaltasse la Romagna, forse si moverebbono, onde potersi dare occasione o a lui di combattere o a' bolognesi di fare tumulto. Pure alla fine, deliberando di tentare se alcuna cosa partorisse o la disposizione universale della città o le intelligenze particolari de' Bentivogli, condusse l'esercito (l'avanguardia del quale guidava Teodoro da Triulzio, la battaglia egli, e il retroguardo Gastone di Fois) ad alloggiare al ponte a Lavino, luogo in su la strada maestra distante cinque miglia da Bologna, e famoso per la memoria dello abboccamento di Lepido, Marcantonio e Ottaviano, i quali quivi (cosí affermano gli scrittori), sotto nome del triumvirato, stabilirono la tirannide di Roma e quella non mai abbastanza detestata proscrizione.
Non era in questo tempo piú il pontefice in Bologna: il quale, dopo la partita di Gurgense, quando dimostrando superchia audacia quando timore, come intese essersi mosso il Triulzio, con tutto che non vi fussino piú le lancie spagnuole, si partí da Bologna per andare all'esercito, a fine di indurre con la presenza sua i capitani a combattere con gli inimici; alla qual cosa non gli aveva potuti disporre né con lettere né con imbasciate. Partí con intenzione di alloggiare il primo dí a Cento; ma fu necessitato alloggiare nella terra della Pieve, perché mille fanti de' suoi entrati in Cento non volevano partirsene se prima non ricevevano lo stipendio: dalla qual cosa forse stomacato, o considerando piú da presso il pericolo, mutata sentenza, ritornò il dí seguente in Bologna. Ove crescendogli, per l'approssimarsi del Triulzio, il timore, deliberato di andarsene a Ravenna, chiamato a sé il magistrato de' quaranta, ricordò loro che, per beneficio della sedia apostolica e per opera e fatica sua, usciti dal giogo di una acerbissima tirannide, avevano conseguita la libertà, ottenuto molte esenzioni, ricevute da sé in publico e in privato grandissime grazie ed essere per conseguirne ogni dí piú; per le quali cose, dove prima, oppressi da dura servitú e vilipesi e conculcati da' tiranni, non erano negli altri luoghi di Italia in considerazione alcuna, ora esaltati di onori e di ricchezze, e piena di artifici e mercatanzie la città, e sollevati alcuni di loro ad amplissime dignità, erano in pregio e in estimazione per tutto; liberi di se medesimi, padroni interamente di Bologna e di tutto il suo contado, perché loro erano i magistrati, loro gli onori, tra essi e nella loro città si distribuivano le entrate publiche, non avendo la Chiesa quasi altro che il nome e tenendovi solo per segno della superiorità uno legato o governatore, il quale senza essi non poteva deliberare delle cose importanti, e di quelle che pure erano rimesse ad arbitrio suo si referiva assai a' loro pareri e alle loro volontà: e che se per questi benefici, e per il felice stato che avevano, erano disposti a difendere la propria libertà, sarebbono da lui non altrimenti aiutati e difesi che sarebbe in caso simile aiutata e difesa Roma. Necessitarlo la gravità delle cose occorrenti a andare a Ravenna, ma non per questo essersi dimenticato o per dimenticarsi la salute di Bologna; per la quale avere ordinato che le genti viniziane, che con Andrea Gritti erano di là dal Po e per questo gittavano il ponte a Sermidi, andassino a unirsi con l'esercito suo. Essere sufficientissimi questi provedimenti a difendergli; ma non quietarsi l'animo suo se anche non gli liberava dalla molestia della guerra: e perciò, per necessitare i franzesi a tornare a difendere le cose proprie, erano già preparati diecimila svizzeri per scendere nello stato di Milano; i quali perché si movessino subitamente erano stati mandati da lui a Vinegia ventimila ducati, e ventimila altri averne ordinati i viniziani. E nondimeno, quando a loro fusse piú grato tornare sotto la servitú de' Bentivogli che di godere la dolcezza della libertà ecclesiastica, pregargli che gli aprissino liberamente la loro intenzione, perché sarebbe seguitata da lui; ma ricordare bene che, quando si risolvessino a difendersi, era venuto il tempo opportuno a dimostrare la loro generosità e obligarsi in eterno la sedia apostolica, sé e tutti i pontefici futuri. Alla quale proposta, fatta secondo il costume suo con maggiore efficacia che eloquenza, poiché ebbono consultato tra loro medesimi, rispose in nome di tutti con la magniloquenza bolognese il priore del reggimento, magnificando la fede loro, la gratitudine de' benefici ricevuti, la divozione infinita al nome suo; conoscere il felice stato che avevano e quanto per la cacciata de' tiranni fussino amplificate le ricchezze e lo splendore di quella città, e dove prima avevano la vita e le facoltà sottoposte allo arbitrio d'altri ora sicuri da ciascuno godere quietamente la patria, partecipi del governo partecipi dell'entrate, né essere alcuno di loro che privatamente non avesse ricevuto da lui molte grazie e onori; vedere nella città loro rinnovata la degnità del cardinalato, vedere nelle persone de' suoi cittadini molte prelature molti uffici de' principali della corte romana: per le quali grazie innumerabili e singolarissimi benefici, essere disposti prima consumare tutte le facoltà, prima mettere in pericolo l'onore e la salute delle moglie e de' figliuoli, prima perdere la vita propria che partirsi dalla divozione sua e della sedia apostolica. Andasse pure lieto e felice senza timore o scrupolo alcuno delle cose di Bologna, perché prima intenderebbe essere corso il canale tutto di sangue del popolo bolognese che quella città chiamare altro nome o ubbidire altro signore che papa Giulio. Detteno queste parole maggiore speranza che non conveniva al pontefice: il quale, lasciatovi il cardinale di Pavia, se ne andò a Ravenna, non per il cammino diritto (con tutto che accompagnato dalle lancie spagnuole che se ne tornavano a Napoli) ma pigliando, per paura del duca di Ferrara, la strada piú lunga di Furlí.
Venuto il Triulzio al ponte a Lavino, si dimostrava grandissima sollevazione nella città di Bologna, empiendosi gli animi degli uomini di molti e diversi pensieri. Perché molti, assuefatti al vivere licenzioso della tirannide e a essere sostentati con la roba e co' danari d'altri, avendo in odio lo stato ecclesiastico, desideravano ardentemente il ritorno de' Bentivogli; altri, per i danni ricevuti e che temevano di ricevere vedendo condotti in su le loro possessioni e nel tempo propinquo alle ricolte due tali eserciti, ridotti in grave disperazione, desideravano ogni cosa che fusse per liberargli da questi mali; altri, sospettando che per qualche tumulto che nascesse nella città o per i prosperi successi de' franzesi (la memoria dello impeto de' quali, quando vennono sotto Ciamonte la prima volta a Bologna, era ancor loro innanzi agli occhi) non andasse la città a sacco, proponevano la liberazione da questo pericolo a qualunque governo o dominio potessino avere; pochi, dimostratisi prima inimici de' Bentivogli, favorivano ma quasi piú con la volontà che con le opere il dominio della Chiesa: ed essendo tutto il popolo, chi per desiderio di cose nuove chi per sicurtà e salute sua, messosi in su l'arme ogni cosa era piena di timore e di spavento; né nel cardinale di Pavia legato di Bologna era animo o consiglio bastante a tanto pericolo. Perché non avendo in quella città, sí grande e sí popolosa, piú che dugento cavalli leggieri e mille fanti, e perseverando piú che mai nella discordia col duca d'Urbino che era con l'esercito a Casalecchio, aveva, menato o dal caso o dal fato, soldati, del numero de' cittadini, quindici capitani; a' quali, insieme con le compagnie loro e col popolo, aveva dato cura della guardia della terra e delle porte: de' quali, non avendo egli avuto prudenza nello eleggergli, era la maggiore parte di quegli che erano affezionati a' Bentivogli; e tra questi Lorenzo degli Ariosti, il quale prima incarcerato e tormentato in Roma, per sospetto che avesse congiurato co' Bentivogli, era poi stato lungamente guardato in Castel Santo Agnolo. I quali come ebbeno l'armi in mano, cominciando a fare occulti ragionamenti e conventicole, e seminando nel popolo scandalose novelle, cominciò il legato ad accorgersi tardi della propria imprudenza; e per fuggire il pericolo nel quale da se medesimo si era posto, fatta finzione che cosí ricercasse il duca d'Urbino e gli altri capitani, volle che andassino con le compagnie loro nello esercito: ma rispondendo essi non volere abbandonare la guardia della terra, tentò di mettere dentro con mille fanti Ramazzotto, ma gli fu dal popolo vietato l'entrarvi. Onde ínvilito maravigliosamente il cardinale, e ricordandosi essere in sommo odio del popolo il governo suo, e avere nella nobiltà molti inimici, perché non molto innanzi aveva (benché, secondo disse, per comandamento del pontefice) fatto, procedendo con la mano regia, decapitare tre onorati cittadini come fu notte, uscito occultamente in abito incognito per uno uscio segreto del palazzo, si ritirò nella cittadella: e con tanta precipitazione che si dimenticasse di portarne le sue gioie e i suoi danari: le quali cose avendo poi subitamente mandato a pigliare, come l'ebbe ricevute, se ne andò per la porta del soccorso verso Imola, accompagnato con cento cavalli da Guido Vaina marito della sorella, capitano de' cavalli deputati alla sua guardia; e poco dopo lui uscí della cittadella Ottaviano Fregoso, non con altra compagnia che di una guida. Intesa la fuga del legato, si cominciò per tutta la città a chiamare con tumulti grandissimi il nome del popolo: la quale occasione non volendo perdere Lorenzo degli Ariosti e Francesco Rinucci, anche egli uno del numero de' quindici capitani e seguace de' Bentivogli, seguitandogli molti della medesima fazione, corsi alle porte che si chiamano di San Felice e delle Lame, piú comode al campo de' franzesi, le roppono con l'accette, e occupatele mandorno senza indugio a chiamare i Bentivogli; i quali, avuti dal Triulzio molti cavalli franzesi, per fuggire il cammino diritto del Ponte a Reno, alla cui custodia era Raffaello de' Pazzi uno de' condottieri ecclesiastici, passato il fiume, piú basso, e accostatisi alla porta delle Lame, furno subitamente introdotti.
Alla ribellione di Bologna fu congiunta la fuga dello esercito: perché, alla terza ora della notte il duca d'Urbino, le genti del quale dal ponte da Casalecchio si distendevano insino alla porta detta di Siragosa, avendo, come si crede, intesa la fuga del legato e il movimento del popolo, si levò tumultuosamente, lasciando la piú parte de' padiglioni distesi, con quasi tutto l'esercito; eccetto quegli che deputati alla guardia del campo erano dalla parte del fiume verso i franzesi, a' quali non dette avviso alcuno della partita. Ma sentita la mossa sua i Bentivogli, che erano già dentro, avvisatone subitamente il Triulzio, mandorono fuora della terra parte del popolo a danneggiargli; da' quali, e da' villani che già calavano da ogni parte, con smisurati gridi e romori assaltato il campo che passava lungo le mura, furono tolte loro l'artiglierie e le munizioni con quantità grande di carriaggi; benché sopravenendo i franzesi, tolseno al popolo e a' villani delle cose guadagnate la maggiore parte. E già era arrivato al Ponte a Reno con la vanguardia Teodoro da Triulzi; dove Raffaello de' Pazzi combattendo valorosamente gli sostenne per alquanto spazio di tempo, ma non potendo finalmente resistere al numero tanto maggiore rimase prigione: avendo, come confessava ciascuno, con la resistenza sua dato comodità non piccola a' soldati della Chiesa di salvarsi. Ma le genti de viniziani e con loro Ramazzotto, che alloggiava in sul monte piú eminente di Santo Luca, non avendo se non tardi avuta notizia della fuga del duca d'Urbino, preseno per salvarsi la via de' monti; per la quale, ancora che ricevessino danno gravissimo, si condussono in Romagna. Furono in questa vittoria, acquistata senza combattere, tolti quindici pezzi d'artiglieria grossa e molti minori tra del pontefice e de' viniziani, lo stendardo del duca proprio con piú altre bandiere, grande parte de' carriaggi degli ecclesiastici e quasi tutti quegli de' viniziani; svaligiati qualcuno degli uomini d'arme della Chiesa, ma de' viniziani piú di cento cinquanta, e dell'uno e dell'altro esercito dissipati quasi tutti i fanti; preso Orsino da Mugnano Giulio Manfrone e molti condottieri di minore condizione. In Bologna non furno commessi omicidi, né fatta violenza ad alcuno né della nobiltà né del popolo; solamente fatti prigioni il vescovo di Chiusi e molti altri prelati, secretari e altri officiali che assistevano al cardinale, rimasti nel palagio della residenza del legato, perché a tutti aveva celata la sua partita. Insultò il popolo bolognese, la notte medesima e il dí seguente, a una statua di bronzo del pontefice, tirandola per la piazza con molti scherni e derisioni: o perché ne fussino autori i satelliti de' Bentivogli o pure perché il popolo, infastidito da' travagli e danni della guerra (come è per sua natura ingrato e cupido di cose nuove), avesse in odio il nome e la memoria di chi era stato cagione della liberazione e della felicità della loro patria.
Soprastette il dí seguente, che fu il vigesimo secondo di maggio, il Triulzio nel medesimo alloggiamento; e l'altro dí lasciatasi indietro Bologna andò in su il fiume dello Idice, e poi si fermò a Castel San Piero, terra posta in sull'estremità del territorio bolognese, per aspettare, innanzi passasse piú oltre, quale fusse la intenzione del re di Francia, o di procedere avanti contro allo stato del pontefice o se pure, bastandogli avere assicurato Ferrara e levato alla Chiesa Bologna che per opera sua aveva acquistata, volesse fermare il corso della vittoria. Però avendogli Giovanni da Sassatello condottiere del pontefice, e che cacciata di Imola la parte ghibellina quasi dominava come capo de' guelfi quella città, offerto occultamente di dargli Imola, non volle insino alla risposta del re accettarla.
Restava la cittadella di Bologna nella quale era il vescovo Vitello, cittadella ampia e forte ma proveduta secondo l'uso delle fortezze della Chiesa, perché vi erano pochi fanti poche vettovaglie e quasi niuna munizione. Nella quale, udito il caso di Bologna, era venuto la notte da Modona Vitfrust a persuadere al vescovo con promesse grandi che la desse a Cesare; ma il vescovo, pattuito il quinto dí co' bolognesi che fussino salve le persone e la roba di quegli che vi erano, e ricevuta obligazione che a lui in certo tempo fussino pagati tremila ducati, la dette loro: la quale avuta corsono subito popolarmente a rovinarla, incitandogli al medesimo i Bentivogli, non tanto per farsi benevoli i cittadini quanto per sospetto che il re di Francia non la volesse in potestà sua, come era stato già parere di qualcuno de' capitani di domandarla; ma il Triulzio, giudicando essere alieno dalla utilità del re il credersi che egli volesse insignorirsi di Bologna, l'aveva contradetto.
Ricuperò con l'occasione di questa vittoria il duca di Ferrara, oltre a Cento e la Pieve, Cutignuola, Lugo e l'altre terre di Romagna; e nel tempo medesimo cacciò Alberto Pio di Carpi, il [quale] lo possedeva con lui comunemente.
Cap. xviii
Il pontefice per timore de' nemici vincitori avanza richieste di pace. Il duca d'Urbino uccide il cardinale legato. Viene indetto il concilio di Pisa. Ragioni della scelta di Pisa. Concessione de' fiorentini. Giudizi di fautori e di avversari del concilio.
Ricevette della perdita di Bologna grandissima molestia, come era conveniente, il pontefice; affliggendolo non solamente l'essere alienata da sé la principale e piú importante città, eccettuata Roma, di tutto lo stato ecclesiastico, e il parergli essere privato di quella gloria che, grande appresso agli uomini e nel concetto suo massimamente, gli aveva data l'acquistarla, ma, oltre a questo, per il timore che l'esercito vincitore non seguitasse la vittoria al quale conoscendo non potere resistere, e desideroso di rimuovere l'occasioni che lo invitassino a passare piú innanzi, sollecitava che le reliquie de' soldati viniziani, richiamate già dal senato, si imbarcassino al Porto Cesenatico; e per la medesima cagione commesse gli fussino restituiti i ventimila ducati i quali, mandati prima a Vinegia per fare muovere i svizzeri, si ritrovavano ancora in quella città. Ordinò ancora che il cardinale di Nantes di nazione brettone invitasse, come da sé, il Triulzio alla pace, dimostrando essere al presente il tempo opportuno a trattarla; il quale rispose, non convenire il procedere con questa generalità ma essere necessario venire espressamente alle particolarità: avere il re quando desiderava la pace, proposto le condizioni; dovere ora il pontefice fare il medesimo, poi che tale era lo stato delle cose che a lui apparteneva il desiderarla. Procedeva in questo modo il pontefice piú per fuggire il pericolo presente che perché avesse veramente disposto del tutto l'animo alla pace, combattendo insieme nel petto suo la paura la pertinacia l'odio e lo sdegno.
Nel quale tempo medesimo sopravenne un altro accidente che gli raddoppiò il dolore. Accusavano appresso a lui molti il cardinale di Pavia, alcuni di infedeltà altri di timidità altri di imprudenza: il quale, per scusarsi da se stesso venuto a Ravenna, mandò, come prima arrivò, a significargli la sua venuta e a dimandargli l'ora della udienza; della qual cosa il pontefice, che l'amava sommamente, molto rallegratosi, rispose che andasse a desinare seco. Dove andando, accompagnato da Guido Vaina e dalla guardia de' suoi cavalli, il duca di Urbino, per l'antica inimicizia che aveva con lui, e acceso dallo sdegno che per colpa sua (cosí diceva) fusse proceduta la ribellione di Bologna e per quella la fuga dell'esercito, fattosegli incontro accompagnato da pochi, ed entrato tra' cavalli della sua guardia che per riverenza gli davano luogo, ammazzò di sua mano propria con uno pugnale il cardinale: degno, forse, per tanta degnità di non essere violato ma degnissimo, per i suoi vizi enormi e infiniti, di qualunque acerbissimo supplizio. Il romore della morte del quale pervenuto subitamente al papa, cominciò con grida insino al cielo e urli miserabili a lamentarsi; movendolo sopramodo la perdita di uno cardinale che gli era tanto caro, e molto piú l'essere in su gli occhi suoi e dal proprio nipote, con esempio insolito, violata la degnità del cardinalato, cosa tanto piú molesta a lui quanto piú faceva professione di conservare ed esaltare l'autorità ecclesiastica: il quale dolore non potendo tollerare, né temperare il furore, partí il dí medesimo da Ravenna per ritornarsene a Roma. Né giunto a fatica a Rimini, acciocché da ogni parte in uno tempo medesimo lo circondassino infinite e gravissime calamità, ebbe notizia che in Modona in Bologna e in molte altre città erano appiccate, ne' luoghi publici, le cedole per le quali se gli intimava la convocazione del concilio, con la citazione che vi andasse personalmente. Perché il vescovo Gurgense, benché partito che fu da Modona avesse camminato alquanti dí lentamente, aspettando risposta dallo oratore del re di Scozia (ritornato da lui a Bologna) sopra le proposte che 'l pontefice medesimo gli aveva fatte, nondimeno essendo venuto con risposte molto incerte, mandò subito tre procuratori in nome di Cesare a Milano; i quali, congiunti co' cardinali e co' procuratori del re di Francia, indissono il concilio, per il primo dí di settembre prossimo, nella città di Pisa.
Voltorono i cardinali l'animo a Pisa come luogo comodo, per la vicinità del mare, a molti che aveano a venire al concilio, e sicuro per la confidenza che il re di Francia avea ne' fiorentini, e perché molti altri luoghi, che ne sarebbeno stati capaci, erano o incomodi o sospetti a loro, o da potere essere con colore giusto ricusati dal pontefice. In Francia non pareva onesto il chiamarlo, o in alcuno luogo sottoposto al re; Gostanza, una delle terre franche di Germania proposta da Cesare, benché illustre per la memoria di quel famoso concilio nel quale, privati tre che procedevano come pontefici, fu estirpato lo scisma continuato nella Chiesa [circa quaranta] anni, pareva molto incomodo; sospetto all'una parte e all'altra Turino, per la vicinità de' svizzeri e degli stati del re di Francia; Bologna, innanzi si alienasse dalla Chiesa, non era sicura per i cardinali, dipoi era il medesimo per il pontefice. E fu ancora, nella elezione di Pisa, seguitata in qualche parte la felicità dello augurio, per la memoria di due concili che vi erano stati celebrati prosperamente: l'uno quando quasi tutti i cardinali, abbandonati Gregorio [duodecimo] e Benedetto [tredecimo] che contendevano del pontificato, celebrando il concilio in quella città, elessono in pontefice Alessandro quinto; l'altro piú anticamente quando... Aveano prima i fiorentini consentitolo al re di Francia, il quale gli aveva ricercati, proponendo essere autore della convocazione del concilio non meno Cesare che egli, e consentirvi il re d'Aragona: degni di essere lodati forse piú del silenzio che della prudenza o della fortezza dell'animo; perché, o non avendo ardire di dinegare al re quel che era loro molesto o non considerando quante difficoltà e quanti pericoli potesse partorire uno concilio che si celebrava contro alla volontà del pontefice, tennono tanto secreta questa deliberazione, fatta in un consiglio di piú di cento cinquanta cittadini, che e fusse incerto a' cardinali (a' quali il re di Francia ne dava speranza ma non certezza) se l'avessino conceduto, e al pontefice non ne pervenisse notizia alcuna.
Pretendevano i cardinali potersi giuridicamente convocare da loro il concilio senza l'autorità del pontefice, per la necessità evidentissima che aveva la Chiesa di essere riformata (come dicevano) non solamente nelle membra ma eziandio nel capo, cioè nella persona del pontefice; il quale, (secondo che affermavano) inveterato nella simonia e ne' costumi infami e perduti né idoneo a reggere il pontificato, e autore di tante guerre, era notoriamente incorrigibile, con universale scandolo della cristianità, alla cui salute niun altra medicina bastava che la convocazione del concilio: alla qual cosa essendo stato il pontefice negligente, essersi legittimamente devoluta a loro la potestà del convocarlo; aggiugnendovisi massimamente l'autorità dell'eletto imperadore e il consentimento del re cristianissimo, col concorso del clero della Germania e della Francia. Soggiugnevano, lo usare frequentemente questa medicina essere non solamente utile ma necessario al corpo infermissimo della Chiesa, per istirpare gli errori vecchi, per provedere a quegli che nuovamente pullulavano, per dichiarare e interpretare le dubitazioni che alla giornata nascevano, e per emendare le cose che da principio ordinate per bene si dimostravano talvolta per l'esperienza perniciose. Perciò avere i padri antichi, nel concilio di Gostanza, salutiferamente statuito che perpetuamente per l'avvenire, di dieci anni in dieci anni, si celebrasse il concilio. E che altro freno che questo avere i pontefici di non torcere della via retta? e come altrimenti potersi, in tanta fragilità degli uomini, in tanti incitamenti che aveva la vita nostra al male, stare sicuri, se chi aveva somma licenza sapesse non avere mai a rendere conto di se medesimo? Da altra parte molti, impugnando queste ragioni e aderendo piú alla dottrina de' teologi che de' canonisti, asserivano l'autorità del convocare i concili risedere solamente nella persona del pontefice, quando bene fusse macchiato di tutti i vizi, pure che non fusse sospetto di eresia; e che altrimenti interpretando, sarebbe in potestà di pochi (il che in modo niuno si doveva consentire), o per ambizione o per odii particolari palliando la intenzione corrotta con colori falsi, l'alterare ogni dí lo stato quieto della Chiesa: le medicine tutte per sua natura essere salutifere, ma non date con le proporzioni debite né a' tempi convenienti essere piú tosto che medicine veleno; e però, condannando coloro che sentivano diversamente, chiamavano questa congregazione non concilio ma materia di divisione della unità della sedia apostolica, principio di scisma nella Chiesa d'Iddio e diabolico conciliabolo.