Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume tredicesimo





Cap. i

Vane speranze di pace e di quiete per l'Italia. Francesco Maria della Rovere assolda milizie straniere per la riconquista del ducato d'Urbino. Timori e sospetti del pontefice. Il pontefice e Lorenzo de' Medici inviano soldati in Romagna. Liete accoglienze delle popolazioni a Francesco Maria entrato nel ducato; riconquista di Urbino. Tentativi contro Fano. Posizione di Pesaro.

Pareva che deposte l'armi tra Cesare e i viniziani, e rimosse dal re di Francia l'occasioni di fare la guerra con Cesare e col re cattolico, avesse Italia, vessata e conquassata da tanti mali, a riposarsi per qualche anno: perché e i svizzeri, potente instrumento a chi desiderasse turbare le cose, parevano ritornati nella amicizia antica col re di Francia, non avendo per questo l'animo alieno dagli altri príncipi; e nella concordia fatta a Noion si dimostrava tale speranza che, per stabilire congiunzione maggiore tra i due re, si trattava che insieme convenissino a Cambrai, dove per ordinare il congresso loro erano andati innanzi Ceures, il gran maestro di Francia e Rubertetto; e in Cesare non si dimostrava minore prontezza, il quale oltre all'avere restituita Verona aveva mandato al re di Francia due imbasciadori a confermare e a giurare la pace fatta. Dunque, non senza giusta cagione si giudicava che la concordia e la pace tra i príncipi tanto potenti avesse a spegnere tutti i semi delle discordie e delle guerre italiane. E nondimeno, o per la infelicità del fato nostro o perché, per essere Italia divisa in tanti príncipi e in tanti stati, fusse quasi impossibile, per le varie volontà e interessi di quegli che l'avevano in mano, che ella non stesse sottoposta a continui travagli, ecco che appena deposte l'armi tra Cesare e i viniziani, anzi non essendo ancora consegnata la città di Verona, si scopersono princípi di nuovi tumulti, causati da Francesco Maria dalla Rovere, il quale aveva sollevato i fanti spagnuoli che avevano militato in Verona e nello esercito franzese e viniziano intorno a quella città, che lo seguitassino alla recuperazione degli stati, de' quali la state medesima era stato cacciato dal pontefice: cosa persuasa con grandissima facilità, perché a soldati forestieri, assuefatti nelle guerre a' sacchi delle terre e alle prede e rapine de' paesi, nessuna cosa era piú molesta che la pace alla quale vedevano disposte tutte le cose d'Italia. Però deliberorno seguitarlo circa cinquemila fanti spagnuoli, de' quali era il principale Maldonato, uomo della medesima nazione ed esercitato in molte guerre; a' quali s'aggiunsono circa ottocento cavalli leggieri sotto Federigo da Bozole, Gaioso spagnuolo, Zuchero borgognone, Andrea Bua e Costantino Boccola albanese, tutti condottieri esercitati e di nome non disprezzabile nelle armi: tra i quali di riputazione molto maggiore, per la nobiltà della casa e per i gradi che insino da tenera età aveva avuti nella milizia, era Federigo da Gonzaga signore di Bozole, stato uno de' piú efficaci instrumenti a persuadere questa unione, mosso non solamente per il desiderio di accrescere con nuove guerre la fama sua nell'esercizio dell'armi e per la amicizia grande che e' teneva con Francesco Maria, ma ancora per l'odio che aveva contro a Lorenzo de' Medici; perché quando in Lorenzo de' Medici fu trasferita, per la infermità di Giuliano suo zio, l'autorità di tutte l'armi della Chiesa e de' fiorentini, gli avea denegato il capitanato generale delle fanterie concedutogli prima da Giuliano. Questo esercito adunque, da essere stimato per la virtú molto piú che per il numero o per gli apparati che avessino di sostentare la guerra (perché non avevano né danari né artiglierie né munizioni né, da cavalli e armi in fuora, alcuna di quelle tante provisioni che sogliono seguitare gli eserciti), si partí per andare nello stato d'Urbino, il dí medesimo che a' viniziani fu consegnata la città di Verona.

Della quale cosa, come fu sentita dal pontefice, ne ricevé grandissima perturbazione: perché considerava la qualità dello esercito, formidabile per l'odio de' capitani e per la virtú e riputazione de' fanti spagnuoli: sapeva la inclinazione che avevano i popoli di quel ducato a Francesco Maria, per essere stati lungamente sotto il governo mansueto della casa da Montefeltro, l'affezione della quale avevano trasferita in lui, nutrito in quello stato e nato di una sorella del duca Guido. Dava, oltre a questo, molestia grandissima al pontefice l'avere a fare la guerra con uno esercito che, senza potere perdere cosa alcuna, si moveva solamente per desiderio di prede e di rapine; per la dolcezza delle quali temeva che molti soldati, restati per la pace fatta senza guadagni, non si unissino con loro. Ma quello che sopra tutto tormentava l'animo suo era il sospetto che questo movimento non fusse con partecipazione del re di Francia. Perché, oltre al sapere essergli stata molesta la guerra fatta contro a Francesco Maria, era conscio a se medesimo quante cagioni avesse date a quel re di essere malcontento di lui: per non gli avere osservato nella passata di Cesare la confederazione fatta dopo l'acquisto di Milano; per avergli, poi che fu ritornato a Roma, mandata una bolla sopra la collazione de' benefici del regno di Francia e del ducato di Milano di tenore diverso dalla convenzione che n'aveva fatta in Bologna (la quale per la brevità del tempo non era stata sottoscritta), la quale il re sdegnato recusò d'accettare; per le cose trattate occultamente con gli altri príncipi e con i svizzeri contro a lui; per avere poco innanzi, desiderando di impedire direttamente la recuperazione di Verona, permesso che i fanti spagnuoli che da Napoli andavano a soccorrerla passassino separatamente per lo stato della Chiesa, scusandosi non volere dare loro causa di passare uniti perché non era sufficiente a impedirgli; non avere, secondo le promesse fatte a Bologna, concedutagli la decima se non con implicate condizioni; non restituito le terre al duca di Ferrara. Le quali ragioni gli davano giustissima causa di sospettare della volontà del re, ma gli pareva anche vederne certi indizi; perché essendo stata questa sollevazione ordinata intorno a Verona, era impossibile non fusse venuta molti dí innanzi a notizia di Lautrech, e avendolo taciuto si poteva prosumere del consenso suo. A che si aggiugneva che Federigo da Bozole era stato insino a quello dí agli stipendi del re, ma non si sapeva essere vero quello che in escusazione sua affermava Lautrech, che fusse finita la sua condotta. Dubitava ancora il pontefice della volontà de' viniziani, i proveditori de' quali si diceva essersi affaticati in fare questa unione; essendo quello senato, per la memoria delle cose passate, male sodisfatto di lui né contento della grandezza sua, perché succeduto in tanta potenza e riputazione del pontificato disponeva dello stato de' fiorentini ad arbitrio suo. Spaventavanlo queste cose, ma non lo confortava già né gli dava speranza la confidenza o congiunzione che avesse con gli altri príncipi: perché, oltre a essersi nuovamente o pacificati o confederati col re di Francia, non era stato grato ad alcuno il modo del procedere suo con occulti consigli e artifici; ne' quali, se bene fusse stato inclinato alla parte loro, nondimeno, andando renitente allo scoprirsi e lentamente a mettere in effetto le intenzioni o le promesse fatte loro, aveva sodisfatto poco a ciascuno; anzi, temendo spesse volte di tutti, aveva poco innanzi mandato frate Niccolò tedesco, secretario del cardinale de' Medici, al re cattolico per divertirlo dallo abboccamento che si trattava col re di Francia, dubitando che tra essi non si facesse maggiore congiunzione in pregiudicio suo.

In questa sospensione di animo non cessavano né Lorenzo suo nipote né lui di mandare continuamente gente in Romagna, parte di fanti che si soldavano di nuovo parte di battaglioni dell'ordinanza fiorentina; acciocché uniti con Renzo da Ceri e con Vitello, i quali erano con le loro genti d'arme a Ravenna, facessino resistenza al transito degli inimici. Ma essi, passato Po a Ostia, prevenendo con la celerità loro gli apparati degli altri, erano per la via di Cento e di Butrio, attraversato il contado di Bologna, entrati nelle terre sottoposte al duca di Ferrara. Da' quali luoghi, saccheggiato Granarolo castello del faventino, si accostorono a Faenza per tentare se, per nome di uno giovane de' Manfredi che era in quello esercito, facessino i faventini qualche mutazione; ma non si movendo dentro cosa alcuna passorono piú oltre, senza tentare alcuna altra delle terre di Romagna, nelle quali tutte erano a guardia o genti d'arme o fanterie: e per meglio assicurarsi di Rimini, Renzo e Vitello vi erano andati per mare. Venne e Lorenzo a Cesena per raccorre quivi e a Rimini le sue genti, ma essendo già passati gli inimici; né cessava in questo mezzo di soldare genti in molti luoghi, le quali gli abbondorno sopra la volontà e consiglio suo; perché partendosi da Lautrech, per ritornarsene alle case loro, dumila cinquecento fanti tedeschi e piú di quattromila guasconi, Giovanni da Poppi secretario di Lorenzo, stato per lui piú mesi appresso a Lautrech, o essendosi vanamente lasciato mettere sospetto che questa fanteria, non avendo stipendio da altri, seguiterebbe Francesco Maria o persuadendosi leggiermente che con queste forze si otterrebbe presto la vittoria, gli condusse di propria autorità, usando l'autorità di Lautrech co' capitani; e gli voltò subito verso Bologna: di maniera che al pontefice e a Lorenzo, a' quali, per il sospetto che aveano del re, fu questa cosa molestissima, non rimase luogo di recusargli; temendo che, poi che erano venuti tanto innanzi, non andassino a unirsi cogli inimici.

Procedeva in questo mezzo Francesco Maria, ed entrato nello stato d'Urbino era ricevuto per tutto con letizia grande de' popoli, non essendo nelle terre soldato alcuno; perché Lorenzo, non avendo avuto tempo a provedere in tanti luoghi, aveva solamente pensato alla difesa della città di Urbino, sedia e capo principale di quel ducato. Perciò per consiglio di Vitello v'avea mandato duemila fanti da Città di Castello, e in luogo di Vitello, che ricusò di andarvi, Iacopo Rossetto da Città di Castello: il quale, consigliando molti che, essendo il popolo sospettissimo, si cacciassero della città tutti coloro che erano abili a portare arme, ricusò di farlo. Voltossi adunque Francesco Maria, non perduto tempo altrove, a Urbino; e se bene la prima volta che si accostò alle mura fusse vano il conato suo, nondimeno la seconda volta che vi si accostò, Iacopo Rossetto convenne di dargli la terra, mosso o da infedeltà, come molti credevono, o da timore, per essere il popolo tutto sollevato; perché delle forze sole degli inimici, che non aveano né artiglierie né apparati da spugnare terre, non avea causa di temere. Uscirno, secondo le convenzioni, i soldati salvi con le robe loro: il vescovo Vitello, che in nome del nuovo duca governava quello stato, e sotto il quale pareva che niuna cosa succedesse mai prosperamente, rimase prigione. Seguitò l'esempio di Urbino, da Santo Leo in fuora, che per il sito munitissimo con piccolo presidio si difendeva, tutto il ducato. La città di Agobbio, che da principio avea chiamato il nome di Francesco Maria, e di poi, pentendosi, ritornata alla ubbidienza di Lorenzo, veduti i successi tanto prosperi, fece il medesimo che l'altre. Rimanevano in potestà di Lorenzo Pesero, Sinigaglia, Gradara e Mondaino, terre separate dal ducato.

Ricuperato Urbino, voltò Francesco Maria l'animo a insignorirsi di qualche luogo posto in sulla marina; e perché in Pesero e in Sinigaglia erano entrati molti soldati, fatta dimostrazione di andare a Pesero, si mosse verso Fano, piú facile per l'ordinario a espugnare, e della quale città, non essendo mai stata dominata da lui, meno si temeva: ma Renzo da Ceri che era a Pesero, avuta notizia de' suoi pensieri, vi mandò subito Troilo Savello con cento uomini d'arme e con seicento fanti. Accostoronsi gli inimici con cinque pezzi di artiglieria non molto grossa, li quali aveano trovati in Urbino; e avendo anche carestia di polvere non gittorno in terra piú che circa venti braccia di muro, né queste senza difficoltà; pure dettono la battaglia, nella quale perderono circa cento cinquanta uomini. Non spaventati da questo, assaltorno di nuovo il dí seguente, e con tanto valore che l'apertura della muraglia fu quasi abbandonata; ed entravano senza dubbio se non fusse stata la virtú di Fabiano da Gallese luogotenente di Troilo, il quale rimasto alla muraglia con pochi uomini d'arme, facendo maravigliosa difesa, gli sostenne. Arebbono il dí seguente data un'altra battaglia, ma inteso che la notte vi erano entrati per mare da Pesero cinquecento fanti, si levorno e andorno ad alloggiare al castello di Monte Baroccio posto in su uno monte molto alto e di sito munitissimo, donde è facile la scesa verso Fossombrone e Urbino, difficile e asprissima verso Pesero; nel qual luogo stando, poi che non avevano per allora alcuna opportuna occasione, guardavano il ducato di Urbino che rimaneva loro alle spalle. Da altra parte essendo venuti a Rimini, ove era Lorenzo de' Medici, i fanti tedeschi e guasconi, soldato oltre a questo moltissimi fanti italiani e mille cinquecento altri fanti tedeschi, di quegli che erano stati alla difesa di Verona, e raccolta insieme quasi tutta la cavalleria del pontefice e de' fiorentini, Lorenzo, il quale inesperto della guerra si reggeva col consiglio de' capitani, venuto con le genti d'arme a Pesero, mandò ad alloggiare i fanti ne' monti oppositi agli inimici.

È la città di Pesero situata in sulla bocca d'una vallata che viene di verso Urbino, della quale uscendo il fiume che dagli abitatori è chiamato Porto, perché per la profondità sua entrano in quello luogo le barche, si accosta alla città dalla parte di verso Rimini: la rocca è di verso il mare, e tra il fiume e la città sono molti magazzini; i quali Renzo, per la sicurtà della terra, aveva rovinati. Circondano parte grande della città monti da ogni parte, i quali non si distendono insino al mare ma tra loro e il mare resta qualche spazio di pianura, la quale dalla parte di verso Fano si allarga circa due miglia; e in sulla collina sono due monti rilevati l'uno a rincontro dell'altro: quello che è di verso la marina si chiama Candelara, l'altro di verso Urbino Nugolara; e nella sommità di ciascuno d'essi è uno castello del medesimo nome che ha il monte. Alloggiorno adunque i fanti italiani al castello di Candelara, i tedeschi e guasconi a quello di Nugolara, piú vicino agli inimici. Né si faceva questo con intenzione di combattere, se non con leggiere scaramuccie, con loro ma per impedirgli che non vagassino per il paese liberamente se si determinassero a fare impresa alcuna; perché il consiglio del pontefice era che, ove non gli tirasse la speranza quasi certa della vittoria, non si facesse battaglia giudicata con gli inimici, conoscendo pericoloso il combattere con soldati valorosi e, per essere ineguale il premio della prosperità, facili ad avventurarsi; dannosissimo l'essere vinto il suo esercito, perché si metteva in pericolo manifesto lo stato della Chiesa e de' fiorentini; e sicuro il temporeggiare attendendo a difendersi, potendosi con evidenti ragioni sperare che il mancamento de' danari e delle vettovaglie, in paese tanto sterile, avesse a disordinargli, né meno perché l'esercito suo, per l'esperienza e perché di mese in mese si empieva di soldati piú eletti, diventava migliore, e perché sperava doversi augumentare di dí in dí le cose sue.

 

Cap. ii

Lamentele del pontefice coi príncipi e richieste di aiuti. Risposte diverse dei príncipi al pontefice, e nuova convenzione di questo col re di Francia. Patti stabiliti nella convenzione.

Conciossiaché, nel principio di questo movimento, procurando di aiutarsi eziandio con l'autorità pontificale, avesse istantemente dimandato aiuto da tutti i príncipi, querelandosi con gli oratori loro che erano in Roma e, per brevi apostolici e per messi, co' príncipi medesimi. Ma [non] con tutti nel modo medesimo: perché significando a Cesare e al re di Spagna la cospirazione fatta da Francesco Maria dalla Rovere e da' fanti spagnuoli, nel campo del re di Francia e in su gli occhi del suo luogotenente, inserí ne' brevi tali parole che si poteva comprendere avere non piccola dubitazione che queste cose fussino state ordinate con saputa di quel re; ma col re cristianissimo, dimostrando qualche sospetto di Lautrech, non passorno piú oltre le sue querele.

Fu questa cosa da' príncipi predetti accettata diversamente. Perché Cesare e il nipote intesono molto lietamente che il pontefice riputasse questa ingiuria dal re di Francia; conciossiaché Cesare, alienandosi già, per l'odio antico e per la sua incostanza, dal re di Francia, si era confederato di nuovo col re di Inghilterra, e convenuto col nipote appresso ad Anversa l'aveva confortato a non si abboccare col re di Francia, il che finalmente fu intermesso con consentimento dell'uno e dell'altro re; e nel re di Spagna non bastava a cancellare l'emulazione e il sospetto la confederazione fatta con lui. Però offersono al pontefice prontamente l'opera loro, comandorno a tutti i loro sudditi che si partissino dalla guerra che si faceva contro al pontefice; e il re cattolico mandò il conte di Potenza nel regno di Napoli perché, riordinate le genti d'arme, conducesse quattrocento lancie in aiuto suo, e per maggiore testimonianza della sua volontà, spogliò come inobbediente Francesco Maria del ducato di Sora, il quale comperato dal padre possedeva ne' confini di Terra di Lavoro. Ma al re di Francia furno grati per altra cagione gli affanni del pontefice, come di principe che avesse l'animo alieno da lui: però nel principio, seguitando l'esempio suo, deliberando nutrirlo con vane speranze, rispondeva averne ricevuto molestia grande promettendo di operare che Lautrech darebbe favore alle cose sue; soggiugnendo nondimeno che il pontefice pativa di quel che era stato causato da se medesimo, perché gli spagnuoli non arebbono avuto tanto ardire se non fusse cresciuto il numero loro, per quegli che con licenza sua erano passati da Napoli a Verona. Questa fu da principio la intenzione del re. Ma dipoi, considerando che il pontefice abbandonato da lui precipiterebbe senza alcuno freno alla amicizia del re di Spagna, deliberò di dargli favore; ma traendo nel tempo medesimo qualche frutto delle sue necessità. Però, ricercandolo il pontefice di aiuto, ordinò che da Milano vi andassino trecento lancie; e insieme propose doversi fare nuova confederazione tra loro, perché quella che era stata fatta a Bologna, essendo stata violata dal pontefice in molti modi, non era piú di alcuna considerazione. Aggiugneva alle offerte molte querele: perché ora si lamentava che il pontefice gli desse carico appresso agli altri príncipi; ora che, per fare ingiuria a sé e cosa grata al cardinale sedunense, avesse scomunicato Giorgio Soprasasso, il quale favoriva ne' svizzeri le cose sue. Oltre a questo, la reggente, madre del re e appresso a lui di grande autorità, riprendeva senza rispetto la empietà del pontefice, che non gli bastando l'avere cacciato uno principe dello stato proprio l'avesse poi ancora tenuto sottoposto alle censure, e denegando dare le doti o gli alimenti di quelle alla duchessa vedova e alla duchessa giovane sua moglie, fusse cagione che elle non avessino modo di sostentarsi: le quali parole ritornando agli orecchi del pontefice gli augumentavano il sospetto. Ma costituito in tante difficoltà, e desiderando gli aiuti suoi non per l'effetto ma per la riputazione e per il nome, le trecento lancie, partite sotto... di Sise da Milano, furno fatte dal pontefice, che non poteva dissimulare il sospetto, soprasedere molti dí nel modonese e nel bolognese, e poi da Lorenzo fatte fermare a Rimini: perché essendo quella città lontana agli inimici aveano, stando quivi, minore facoltà di nuocergli. Né si alleggierirono questi sospetti per la confederazione, la quale, quasi in questo tempo medesimo, si conchiuse in Roma; perché il re, innanzi ratificasse, fece nuove difficoltà per le quali la cosa stette sospesa molti dí. Finalmente, cedendo a molte cose il pontefice, il re ratificò.

Contenne la confederazione obligazione reciproca tra 'l pontefice e il re a difesa degli stati loro con certo numero di gente, e di dodicimila ducati per ciascuno mese: che tra il re di Francia e i fiorentini, co' quali si congiugneva l'autorità di Lorenzo de' Medici con inclusione del ducato di Urbino, fusse la medesima obligazione, ma con minore numero di genti, e di seimila ducati per ciascuno mese: fusse tenuto il re ad aiutare il pontefice quando volesse procedere contro a' sudditi e feudatari della Chiesa. Al re fu conceduta la nominazione de' benefici e la decima, secondo le promesse fatte a Bologna, con patto che si deponessino i danari per spendergli contro a' turchi (concedevasi sotto l'onestà di questo colore la decima) ma con tacita speranza data al re che, fatto il diposito di tutta la quantità, licenziata per un altro breve la condizione apposta, si convertissino liberamente in uso del re. Promesse il pontefice al re, per uno breve separato, di non lo richiedere mai di aiuto contro al duca di Ferrara, anzi essere contento che il re lo ricevesse nella sua protezione. Lunga altercazione fu sopra la restituzione di Reggio, Modona e Rubiera, dimandata con somma instanza dal re secondo le promesse ricevute a Bologna, né dal pontefice dinegata ma riservata ad altro tempo, allegando essergli molto indegno, e quasi confessione di ultima necessità, il restituirle quando era oppressato dalla guerra; e il re facendo instanza ch'elle si restituissino di presente. All'ultimo, dimostrandosi grande, se piú volesse strignerlo, l'alterazione del pontefice, ed essendo al re inimico il re di Inghilterra, sospetti Cesare il re di Spagna e i svizzeri, accettò che il pontefice, per uno breve il quale fusse consegnato a lui, promettesse di restituire al duca di Ferrara Modena, Reggio e Rubiera infra sette mesi prossimi: avendo il pontefice nell'animo, se prima cessavano i suoi pericoli, non fare maggiore stimazione del breve che delle parole dette in Bologna; e al re, poi che senza pericolo di grandissima indegnazione non poteva piú ottenere, parendo pure di qualche momento che le promesse e la fede apparissino per iscrittura.

Cap. iii

Scorrerie dell'esercito di Lorenzo nel territorio del ducato. Ambasciatore di Francesco Maria trattenuto prigione da Lorenzo. Efficienza dell'esercito di Lorenzo. Fossombrone e il Vicariato. Prima occasione di buon successo perduta dall'esercito di Lorenzo.

Ma mentre che queste cose si trattavano, essendo augumentato assai l'esercito di Lorenzo, perché oltre a molti, soldati di nuovo da lui, il pontefice aveva soldato a Roma mille fanti spagnuoli e mille tedeschi, pareva fusse già maturo il tempo di tentare di liberarsi da questa guerra; alla qual cosa, per la fortezza dello alloggiamento degli inimici, era unica speranza il costringerli, per la penuria delle vettovaglie, a partirsi: però fu mandato Cammillo Orsino con settecento cavalli leggieri a scorrere il paese che si dice il Vicariato, le vettovaglie del quale per la maggior parte gli sostentavano.

Nel qual tempo, per uno trombetto venuto a Pesero dell'esercito inimico, fu domandato a Lorenzo salvocondotto per il quale potesse venire a lui il capitano Suares spagnuolo e uno altro, che non si nominava, in sua compagnia; il quale Lorenzo facilmente concedette, credendo fusse uno capitano col quale aveva secreta intelligenza. Ma venne uno altro capitano del medesimo nome, e con lui Orazio da Fermo secretario di Francesco Maria; e dimandata publica udienza, Suares offerse in nome di Francesco Maria che, potendosi decidere le differenze con abbattimento a corpo a corpo o di determinato numero con ciascuno di loro, era più conveniente eleggere uno di questi modi che perseverare in quella via, per la quale si distruggevano empiamente i popoli e in pregiudicio di qualunque ne avesse a essere signore; però Francesco Maria offerire quale più gli piacesse di questi modi. Dopo le quali parole, volendo leggere la scrittura che aveva in mano gli fu proibito. Rispose Lorenzo, con consiglio de' suoi capitani, che volentieri accettava questa proposta purché Francesco Maria lasciasse prima quel che violentemente gli aveva occupato: dopo le quali parole, stimolato da Renzo da Ceri, gli fece amendue incarcerare; perché Renzo affermava meritare punizione per avere fatto uno atto troppo insolente. Ma riprendendosi la violazione della fede dagli altri capitani, liberato Suares, ritenne solamente Orazio; scusando la infamia della fede rotta con false cavillazioni, come se fusse stato necessario nominare espressamente nel salvocondotto Orazio, suddito per origine della Chiesa e secretario dello inimico: ma si faceva per intendere da lui i secreti di Francesco Maria, e specialmente con consiglio o per la autorità di chi avesse mossa la guerra. Sopra le quali cose esaminato con tormenti, si divulgò la confessione sua essere stata tale che avea augumentato il sospetto conceputo del re di Francia.

Ma il desiderio di Lorenzo, di impedire agli spagnuoli le vettovaglie del Vicariato, avea bisogno di sforzo maggiore, perché dalle correrie de' cavalli leggieri non succedevano se non effetti di piccolo momento; e già l'esercito era tale che poteva arditamente opporsi agli inimici, perché avea raccolti Lorenzo, oltre a mille uomini d'arme e mille cavalli leggieri, quindicimila fanti di varie nazioni, tra i quali erano più di dumila spagnuoli soldati a Roma; fanteria tutta esercitata nell'armi e molto eletta, perché i fanti italiani, non si facendo guerra in altro luogo e perché i capitani aveano avuto comodità di permutare di mano in mano in fanti più utili la piena degli inutili raccolta al primo stipendio tumultuariamente, erano il fiore de' fanti di tutta Italia. Deliberossi adunque di andare ad alloggiare a Sorbolungo, castello del contado di Fano distante cinque miglia da Fossombrone, dal quale alloggiamento le vettovaglie del Vicariato facilmente si impedivano agli inimici.

È la città di Fossombrone situata in sul fiume del Metro, fiume famoso per la vittoria de' romani contro ad Asdrubale cartaginese; il quale fiume, avendo corso insino a quello luogo per alveo ristretto tra' monti, come ha passato Fossombrone comincia a correre per una vallata più larga; la quale tanto più si dilata quanto più si appropinqua al mare, distante da Fossombrone quindici miglia, nel quale entra il Metro appresso a Fano, ma dalla parte di verso Sinigaglia. Da mano destra, secondo il corso del fiume, è quel paese che si denomina il Vicariato, pieno tutto di colline fertili e di castella, il quale si distende per lungo spazio verso la Marca; e dalla mano sinistra del fiume sono eziandio colline, ma allontanandosi si trovano monti alti e aspri; e lo spazio della pianura che si distende verso Fano è largo più di tre miglia.

Quando adunque Lorenzo deliberò di andare ad alloggiare a Sorbolungo, dubitando che gli inimici, sentendo muoversi il campo suo non prevenissino, mandò la mattina innanzi giorno a pigliare il castello Giovanni de' Medici Giovambattista da Stabbia e Brunoro da Furlì con quattrocento cavalli leggieri; e ordinato a' fanti che erano a Candelara e Nugolara che attraversando i monti andassino per unirsi con gli altri verso il Metro, egli con tutto il rimanente dell'esercito, lasciato Guido Rangone alla guardia di Pesero con cento cinquanta uomini d'arme, a levata di sole prese il cammino da Pesero verso Fano per il lito della marina, e voltatosi verso Fossombrone, dove comincia la valle, arrivò a mezzodì a uno luogo detto il mulino di Madonna in sul fiume, il quale tutti i cavalli e i fanti italiani guadorono: ma i guasconi e i tedeschi passorno tanto tardamente per il ponte preparato a questo che, non potendo l'esercito condursi il dì medesimo, secondo la deliberazione fatta, a Sorbolungo, fu necessario che alloggiassino a San Giorgio, Orciano e Mondavio, castelli distanti mezzo miglio l'uno dall'altro. Ma non ebbe migliore fortuna quello che era stato commesso a' cavalli leggieri; perché parendo, nel camminare, a Giovanni de' Medici (nel quale in questa sua prima esercitazione della milizia apparivano segni della futura ferocia e virtù) che per errore si pigliasse la via più lunga, abbandonati gli altri i quali disprezzorono il consiglio suo, entrò, più ore innanzi che sopravenisse la notte, in Sorbolungo; gli altri due capitani, dopo lungo circuito, ingannati secondo dicevano dalla guida, ritornorno finalmente all'esercito. Né potette Giovanni de' Medici rimasto con la sua compagnia sola fermarsi la notte in Sorbolungo, perché la mattina medesima Francesco Maria, presentita la mossa degli inimici, immaginando dove andassino, si era con grandissima celerità mosso con tutto l'esercito; il quale non ricevendo impedimento dal transito del fiume, perché lo passorno a Fossombrone dove è il ponte di pietra, pervenne innanzi fusse la notte a Sorbolungo; per la venuta de' quali Giovanni, vedendosi impotente a resistere, si ritirò verso Orciano, seguitandolo i cavalli degli inimici da' quali furno presi molti de' suoi. A Orciano, entrato nell'alloggiamento di Lorenzo, disse a lui, con grandissima indegnazione, o la negligenza o la viltà di Brunoro e di Giovambatista da Stabbia, i quali erano presenti, avergli tolta quel dì la vittoria della guerra. Questa fu la prima ma non già sola occasione di prospero successo che perdesse l'esercito di Lorenzo, perché e di poi ne perdé dell'altre maggiori; e seguitorono continuamente più perniciosi disordini, accompagnandosi con la fortuna avversa i cattivi consigli.

Cap. iv

Ritirata dell'esercito di Lorenzo verso Monte Baroccio; scaramuccie coi nemici, che li prevengono nell'occupazione del luogo. Posizione dei due eserciti. Nuovo spostarsi dell'esercito di Lorenzo. Presa di San Gostanzo. L'esercito di Lorenzo sotto Mondolfo; ferita di Lorenzo. Resa del castello.

Le castella di Orciano e Sorbolungo, poste in luogo eminente, sono distanti l'uno dall'altro poco piú di due miglia; nel mezzo sono tutte colline e monticelli, e uno castello chiamato Barti, dove era alloggiata parte della gente di Francesco Maria: nella quale propinquità degli eserciti si attese tutto il dí seguente a scaramucciare. Vari erano i consigli tra i capitani dell'esercito di Lorenzo: perché alcuni, e quegli massime dalla sentenza de' quali non pendeva la deliberazione, confortavano che si andasse ad assaltare gli inimici, parendo forse loro, senza mettere né sé né altri a pericolo, col proporre vanamente consigli arditi acquistare nome di coraggiosi; ma Renzo e Vitello, il parere de' quali era sempre seguitato da Lorenzo, dissuaseno questo consiglio, perché gli inimici erano alloggiati in sito forte, avevano il castello a ridosso dove non poteva andarsi se non per cammino difficile: dannando ancora il soprasedere in quegli luoghi come cosa inutile e da non partorire l'effetto per il quale si erano mossi da Pesero; perché essendo Sorbolungo in potestà di Francesco Maria, era molto difficile impedire le vettovaglie del Vicariato. Con le quali ragioni, avendo dannata ogn'altra deliberazione, ottenevano per necessità che si dovesse ritornare indietro. E perché la ritirata non avesse similitudine di fuga, proponevano non che l'esercito ritornasse agli alloggiamenti di prima ma che si andasse a occupare Montebaroccio e i luoghi da' quali si erano partiti gli inimici, donde si poteva procedere inverso Urbino. Con la quale deliberazione partí lo esercito la mattina seguente al fare del dí, ma si credeva questa essere non ritirata ma fuga. Dalla quale opinione, divulgata per tutto il campo, procedette che due uomini d'arme fuggiti a Francesco Maria gli riferirono gli inimici pieni di spavento levarsi quasi fuggendo. Però parendogli d'avere la vittoria quasi certa, mosse subito l'esercito per il cammino a traverso de' monti, sperando di pervenire a loro come fussino calati nella pianura; i quali credeva dovessino andare per la via piú breve e piú facile: per la quale se andavano, non poteva né l'una parte né l'altra fuggire il combattere. Ma la fortuna volle che per salvare un cannone, rimasto indietro il dí dinanzi perché alla carretta si era rotta una ruota, l'esercito di Lorenzo andasse a ripassare il Metro al medesimo Mulino di Madonna, luogo piú basso piú di quattro miglia che quello al quale lo conduceva la strada piú facile e piú breve. Da cause e da accidenti tanto piccoli si variano nelle guerre eventi di grandissimo momento! Passorono tutti i cavalli e i fanti a guazzo ma con grandissima tardità, e quegli che erano passati si voltavano subito in ordinanza per il piano verso Fossombrone. Era già passata tutta la fanteria; e dovendo passare le genti d'arme e i cavalli leggieri che camminavano nell'ultima parte del campo, cominciorono i cavalli leggieri degli inimici, che erano molti ed eletti, a scaramucciare con loro: nella quale scaramuccia fu preso Gostantino, figliuolo, anzi non manco nipote che figliuolo, di Giampaolo Baglione, perché era nato di lui e d'una sorella sua. Però Giampaolo, il quale venuto non molti dí prima all'esercito conduceva l'avanguardia, attendendo a fare ogni sforzo per recuperarlo, tardò tanto che di avanguardia diventò retroguardo, succedendo nel primo luogo Lorenzo che menava la battaglia, e nel luogo della battaglia Troilo Savello che menava il retroguardo; perché Renzo e Vitello andavano innanzi co' fanti. Ma come Francesco Maria e i suoi capitani veddono che gli inimici, secondo che avevano passato il fiume, si voltavano verso Fossombrone, si accorsono non essersi mossi per fuggire ma per occupare il Monte Baroccio: però cessando la cupidità prima del combattere, fondata in sul terrore immaginato degli inimici, lasciate le bagaglie, corseno subito con somma celerità, senza ordine alcuno e con le bandiere in su le spalle, per occupare uno passo forte del fiume chiamato le Tavernelle, dove la natura ha fatto uno fossato dirupato che piglia tutto il traverso d'uno piano insino al monte, né si può passare se non a uno passo che è fatto per la strada; al quale se gli inimici, che secondo passavano si voltavano a quella parte, fussino prevenuti, si riducevano in manifestissimo pericolo. E benché Lodovico figliuolo di Liverotto da Fermo il quale il dí medesimo era con mille fanti venuto nell'esercito di Lorenzo, e uno sergente spagnuolo, pratichi del paese, ne avvertissino Lorenzo e i suoi capitani, non feciono frutto alcuno; perché con tutto che i fanti tedeschi e guasconi si dimostrassino prontissimi a combattere, il medesimo si gridasse per tutto il campo, e apparisse Lorenzo non ne essere alieno, nondimeno Renzo da Ceri e Vitello consigliorno non essere bene farsi incontro agli inimici ma doversi ritirare a uno colle vicino, donde senza sottoporsi ad alcuno pericolo farebbono loro, nel passare il fiume, co' cavalli espediti, danno gravissimo. Cosí, lasciato quel passo forte, Renzo si voltò verso il monte, e gli spagnuoli, come ebbono occupato quel passo, salutati con gli archibusi i tedeschi a' quali erano piú propinqui, significorno con allegrissimo grido di conoscere di essere di manifesto pericolo ridotti alla salute quasi certa. Cosí, o per imprudenza o per viltà (se già la malignità non vi ebbe parte), perdé Lorenzo quello dí, a giudicio di tutti, l'occasione della vittoria. Alloggiò la notte l'esercito suo a uno castello vicino detto Saltara; ma l'esercito di Francesco Maria, continuando con grandissima celerità il cammino insino a non piccola parte della notte, si condusse all'alloggiamento di Montebaroccio, prevenendo duemila fanti mandativi da Lorenzo per occuparlo: il quale andò, il dí seguente, ad alloggiare due miglia piú alto da Saltara verso il monte, luogo volto verso Montebaroccio, ma piú basso e dalla parte del mare. Stettono in questi luoghi amendue gli eserciti, vicini circa a uno miglio; ma con incomodità maggiore quello di Lorenzo, il quale pativa spesso di vettovaglie: perché, portandosi da Pesero a Fano per mare, bisognava, quando i venti contrari impedivano la navicazione, condurle per terra, e a questo davano molti impedimenti i cavalli leggieri di Francesco Maria; i quali avvertiti da' paesani di ogni andamento, benché minimo, degli inimici correvano continuamente per tutto.

Nel qual tempo mandò Francesco Maria uno trombetto a mostrare a' fanti guasconi certe lettere trovate nelle scritture de' secretari di Lorenzo, le quali, il dí che e' si partí dal castello di Saltara, erano state insieme con una parte de' suoi carriaggi tolte da' cavalli degli inimici; per le quali lettere si comprendeva che il pontefice, infastidito delle disoneste taglie de' guasconi, a' quali era stato necessario accrescere ciascuno mese immoderatissimamente i pagamenti, desiderava si facesse ogni opera per indurgli a tornarsene di là da' monti: per le quali lettere era pericolo che il dí medesimo non facessino qualche tumulto se Carbone guascone loro capitano e Lorenzo de' Medici, ingegnandosi di persuadere essere lettere finte e inganni degli inimici, non gli avessino raffrenati. Nondimeno il sospetto di questa cosa, la difficoltà delle vettovaglie, e lo essere alloggiati in luogo dove senza comparazione si mostrava maggiore il pericolo di perdere che la speranza di acquistare, fece deliberare di levarsi (ancorché non paresse senza vergogna il discostarsi tanto spesso dagli inimici) ed entrare nel Vicariato da quella parte che è piú vicina al mare, e procedere insino al fine verso Fossombrone: deliberazione approvata da tutto il campo, ma non senza infamia grande di Renzo e di Vitello; perché le voci di tutti i soldati risonavano che se da principio avessino deliberato questo medesimo arebbeno messo gli inimici in grande difficoltà di vettovaglie. Anzi Lorenzo medesimo gli riprendeva piú che gli altri; lamentandosi che, o per allungare per utilità propria la guerra o per impedire a lui il farsi famoso nell'armi, forse temendo dalla grandezza sua effetti simili a quegli i quali aveva contro alle case loro prodotta la grandezza del duca Valentino avessino condotto in tante difficoltà e in tanti pericoli uno esercito sí potente e tanto superiore di numero e di forze agli inimici.

Andò adunque l'esercito a campo a San Gostanzo, castello del Vicariato; gli uomini del quale benché cercassino, battendosi già le mura con l'artiglierie, di arrendersi, nondimeno, conoscendosi la facilità dello sforzarlo e desiderando di mitigare gli animi gonfiati de' guasconi, ritirati tutti gli altri soldati dalla muraglia, fu lasciata la facoltà di assaltarlo a' guasconi soli, acciò che soli lo saccheggiassino. Preso San Gostanzo, andò il dí medesimo il campo a Mondolfo distante due miglia, castello piú forte e migliore del Vicariato, situato in su una collina in luogo eminente, cinto da fossi e di muraglia da non disprezzare, alla quale il sito del luogo fa terrapieno, e dove erano a guardia dugento fanti spagnuoli. Piantoronsi la notte medesima l'artiglierie dalla parte di verso mezzodí, ma o per negligenza o per inconsiderazione di Renzo da Ceri, il quale ebbe questa cura, furono piantate in luogo scoperto e senza ripari; in modo che, innanzi che il sole fusse stato una ora sopra la terra, furono dall'artiglierie di dentro ammazzati otto bombardieri e molti guastatori, e ferito Antonio Santa Croce capitano della artiglieria. Per il che commosso molto di animo Lorenzo, ancora che sconfortato da tutti i capitani, che quello che poteva commettere ad altri non volesse eseguire da se stesso con tanto pericolo, andò in persona a fare fare i ripari; dove essendosi affaticato insino a mezzodí, avendo proveduto opportunamente, si tirò indietro per andare a riposarsi sotto certi alberi, parendogli essere coperto dalla sommità del monte: ma nello andare, mancando l'altezza del colle, scoperse la rocca per fianco situata dalla parte di ponente, né prima l'ebbe scoperta che vidde dare fuoco a uno archibuso; il colpo del quale per schifare gittandosi in terra bocconi, innanzi che arrivasse a terra, il colpo, che altrimenti gli arebbe dato nel corpo, gli percosse nella sommità del capo, toccando l'osso e riuscendo lungo la cotenna verso la nuca. Ferito Lorenzo, i capitani accorgendosi che, ancora che fusse battuto il muro, restava troppa altezza del terrapieno, cominciorono a fare una mina, con la quale entrati sotto uno torrione che era contiguo al muro battuto gli dettono il quinto dí il fuoco; il quale avendo con grande impeto gittato in terra a mezzodí il torrione e uno pezzo grande della muraglia congiunta a quello, si cominciò subito a dare la battaglia, ma con poco ordine e quasi a caso, la quale non partorí altro frutto che quello che sogliono comunemente partorire gli assalti male ordinati: nondimeno, essendo venuta la notte, i soldati non sperando soccorso, perché Francesco Maria, o per non perdere quello sito o per altra cagione, non si era partito dallo alloggiamento di Montebaroccio, si arrenderono salvo l'avere e le persone, lasciando in preda bruttamente gli uomini della terra.

Cap. v

Il cardinale di Santa Maria in Portico legato pontificio all'esercito; tumulti per questioni fra soldati tedeschi e italiani; conseguente sospensione delle operazioni. Defezione di soldati spagnuoli dall'esercito pontificio. Strage di soldati tedeschi. Defezione di guasconi e di tedeschi dall'esercito pontificio. Consiglio dei capi dell'esercito di rimettere i Bentivoglio in Bologna e sdegno del pontefice per tale proposta.

Per la ferita di Lorenzo, costituito in gravissimo pericolo della vita, il pontefice mandò legato allo esercito il cardinale di Santa Maria in Portico; il quale, congiunta già la fortuna a' pessimi governi, cominciò con infelici auspici a esercitare quella legazione. Perché il dí seguente che e' fu arrivato allo esercito, essendo nata a caso una quistione tra uno fante italiano e uno tedesco, e correndovi i piú vicini e ciascuno chiamando il nome della sua nazione, si ampliò il tumulto per tutto il campo, in modo che, non si sapendo che origine avesse o che cagione, tutti i fanti per armarsi si ritiravano tumultuosamente agli alloggiamenti de' suoi; ma quegli che nel ritirarsi si riscontravano in fanti di altre lingue erano molte volte ammazzati da loro: e, quel che fu cagione di maggiore disordine, essendo i fanti italiani andati in ordinanza verso il luogo nel quale era cominciata la quistione, furono da' fanti guasconi saccheggiati gli alloggiamenti loro. Concorsono i capitani principali dello esercito, i quali allora erano nel consiglio, per porre rimedio a tanto disordine; ma vedendo il tumulto grande e pericoloso, ciascuno abbandonando i pensieri delle cose comuni per lo interesse particolare si ritirò a' suoi alloggiamenti; e messe subito in ordine le loro genti d'arme, non pensando se non a salvare quelle, si discostorono con esse dal campo circa uno miglio. Solo il legato Bibbiena, con la costanza e prontezza che apparteneva all'officio e all'onore suo, non abbandonò la causa comune, riducendosi molte volte, per il furore della moltitudine concitata, in pericolo non piccolo della vita; per opera del quale, non senza molte difficoltà e interponendosene molti de' capitani de' fanti, cessò finalmente il tumulto; nel quale erano stati, in diversi luoghi del campo, morti piú di cento fanti tedeschi, piú di venti italiani e qualche fante spagnuolo. Questo accidente fu cagione che, dubitandosi che se l'esercito stava insieme i fanti esacerbati per le offese ricevute non combattessino per ogni piccolo caso l'uno contro all'altro, si deliberasse non procedere per allora a impresa alcuna ma tenere separato l'esercito. Però furono alloggiate nella città di Pesero le genti d'arme della Chiesa e de' fiorentini e i fanti italiani; perché le lancie franzesi, non essendo ancora risolute le difficoltà tra il pontefice e il re, non si erano mai mosse da Rimini. Alloggiorono i fanti guasconi nel piano, presso a mezzo miglio di quella città; gli altri fanti furono distribuiti in su il monte della Imperiale, monte sopra Pesero dalla parte di verso Rimini, in su il quale è uno palazzo fabricato dagli antichi Malatesti. E furono alloggiati con questo ordine: gli spagnuoli in su la sommità del monte, i tedeschi piú a basso secondo che il monte scende, e i corsi alle radici del monte.

Cosí stettono ventitré dí, non si facendo in quel mezzo altro che scaramuccie di cavalli leggieri; perché Francesco Maria, non potendo sperare di rompere alla campagna sí grosso esercito né tentare, per la vicinità loro, l'espugnazione di alcuna terra, attendendo a conservare quello che aveva acquistato, si stava fermo. Ma il vigesimo quarto dí, partito di notte da Montebaroccio, arrivò all'alba del dí in su la sommità del monte negli alloggiamenti degli spagnuoli; co' quali, o con tutti o con parte di loro, si credette, per quello che dimostrò il progresso della cosa, che avesse avuta secreta intelligenza. Venuto quivi, subito i suoi spagnuoli gridorno agli altri che se volevano salvarsi gli seguitassino, alla quale voce la maggiore parte, messosi ciascuno in sul capo uno ramuscello di fronde verdi come aveano loro, gli seguitò: soli i capitani con circa ottocento fanti si ritirorono a Pesero. Cosí uniti andorono agli alloggiamenti de' tedeschi, i quali non facevano da quella parte custodia alcuna, per la sicurtà che dava loro la vicinità de' fanti spagnuoli; trovatigli cosí incauti n'ammazzorno e ferirno piú di secento, gli altri fuggendo negli alloggiamenti de' corsi si discostorono insieme verso Pesero: i guasconi, sentito il tumulto, messisi in ordinanza, non volleno mai muoversi del luogo loro. Uccisi i tedeschi e tirata a sé la maggiore parte de' fanti spagnuoli, Francesco Maria fermò l'esercito tra Urbino e Pesero; pieno di speranza che con lui s'avessino a unire i guasconi e quegli fanti tedeschi i quali, levati nel tempo medesimo del campo di Lautrech, erano sempre andati, alloggiati e proceduti insieme.

Era tra' guasconi Ambra, emulo del capitano Carbone; il quale, giovane di sangue piú nobile e parente di Lautrech, aveva appresso a loro autorità maggiore. Costui aveva trattato occultamente, molti giorni, di passare con quei fanti a Francesco Maria; e gli dava occasione che, non contenti di avere accresciuti immoderatamente gli stipendi, dimandavano di nuovo insolentemente condizioni molto maggiori: alle quali repugnando i ministri del pontefice, si interponevano per concordargli Carbone e il capitano delle lancie franzesi, venuto da Rimini a Pesero per questa cagione. Ma cinque o sei dí da poi che era succeduto il caso degli spagnuoli e tedeschi al monte della Imperiale, Francesco Maria con tutto l'esercito si scoperse vicino a loro. Una parte de' quali insieme con Ambra, messasi in battaglia, con sei sagri e seguitata da' tedeschi, si uní con lui; ingegnandosi invano Carbone con prieghi e con parole ardenti di ritenergli: col quale rimasono sette capitani con mille trecento fanti; gli altri tutti, insieme co' tedeschi, l'abbandonorno. E come nelle cose della guerra si aggiungono sempre a' disordini nuovi disordini, i fanti italiani, vedendo la necessità che s'avea di loro, la mattina seguente tumultuorno: i quali per quietare bisognò, ne' pagamenti, concedere dimande immoderate; non essendo né piú vergogna né minore avarizia ne' capitani che ne' fanti. Ed era certo cosa maravigliosa che nello esercito di Francesco Maria, nel quale a' soldati non si davano mai i danari, fusse tanta concordia ubbidienza e unione; non dependendo tanto questo, come con somma laude si dice di Annibale cartaginese, dalla virtú o autorità del capitano quanto dallo ardore e ostinazione de' soldati: e per contrario, che nello esercito della Chiesa, ove a' tempi debiti non mancavano eccessivi pagamenti, fussino tante confusioni e disordini, e tanto desiderio ne' fanti di passare agli inimici. Donde apparisce che non tanto i danari quanto altre cagioni mantengono spesso la concordia e l'ubbidienza negli eserciti.

Spaventati da tanti accidenti, il legato e gli altri che intervenivano nel consiglio, esaminato lungamente quello che per rimedio delle cose afflitte fusse da fare, né essendo piú prudenti o abbondanti di modi abili a provedere dopo i disordini seguiti che fussino stati a provedere che non seguissino, movendogli ancora gli interessi e le cupidità particolari, conchiuseno essere da confortare il pontefice che restituisse i Bentivogli in Bologna innanzi che essi, preso animo dalla declinazione delle cose o incitati da altri, facessino qualche movimento: al quale come si potrebbe resistere, mostrarlo le difficoltà che avevano di sostenere la guerra in uno luogo solo. Però avendo, per dare maggiore autorità a tale consiglio o per piú giustificazione, in ogni evento, di tutti, fatto distendere in iscrittura il parere comune e sottoscrittolo di mano del legato e dell'arcivescovo Orsino (l'uno de' quali era congiunto d'antica amicizia a' Bentivogli, l'altro di parentado) e da tutti i capitani, mandorono, per il conte Ruberto Boschetto gentiluomo modonese, al papa questa scrittura. La quale non solo fu disprezzata da lui, ma si lamentò con parole molto acerbe che i ministri suoi, e quegli che da lui avevano ricevuti tanti benefici o potevano sperare a ogn'ora di riceverne, gli proponessino, con tanto piccola fede e amore, consigli non manco perniciosi che i mali i quali gli facevano gli inimici; risentendosene principalmente contro all'arcivescovo Orsino, per essere forse stato principale stimolatore degli altri a questo consiglio: il quale sdegno si crede che forse fusse cagione di torgli la dignità del cardinalato, la quale gli era promessa da tutti nella prima promozione.

Cap. vi

Francesco Maria si volge verso Perugia. Esecuzione di capi di milizie spagnuole colpevoli di accordi coi nemici. Provvedimenti dei pontifici per far fallire l'impresa del duca di Urbino. Accordi di Giampaolo Baglioni con Francesco Maria. I progressi dei nemici costringono Francesco Maria a ritornare nel ducato.

Ma Francesco Maria, essendo tanto accresciute le forze sue e diminuite quelle degli avversari, alzò l'animo a maggiori pensieri, stimolato ancora dalla necessità; perché i fanti venuti seco erano stati tre mesi quasi senza danari, a questi venuti nuovamente niuna facoltà avea di darne; ed essendo il ducato di Urbino esausto e quasi tutto spogliato, non solo non vi avevano i soldati facoltà di predare ma con difficoltà vi erano vettovaglie bastanti a nutrirgli. Ma nella elezione della impresa gli bisognò seguitare la volontà di altri. Perché esso, per lo stabilimento del suo stato, desiderava, innanzi tentasse altra cosa, assaltare di nuovo Fano o qualcun'altra delle terre poste in sul mare; ma per l'inclinazione de' soldati cupidi delle prede e delle rapine deliberò voltarsi piú presto in Toscana, dove, per essere pieno il paese, che era senza sospetto, ed esservi piccoli provedimenti, speravano potere fare grandissimi guadagni. Incitavalo oltre a questo la speranza di potere, per mezzo di Carlo Baglione e di Borghese Petrucci, fare mutazione in Perugia e in Siena, donde sarebbono augumentate assai le cose sue, e le molestie e i pericoli del pontefice e del nipote. Perciò, il dí seguente a quello nel quale ebbe raccolti i guasconi, mosse l'esercito verso Perugia, ma come fu nel piano di Agobbio, deliberò manifestare il sospetto suo, anzi scienza quasi certa, che avea, della perfidia del colonnello Maldonato e di alcuni altri congiunti nella medesima causa con lui.

Era la cosa nata e venuta a luce in questo modo. Quando l'esercito passò per la Romagna, Suares, uno de' capitani spagnuoli, rimasto indietro sotto finzione di essere ammalato, si era lasciato studiosamente fare prigione; e menato a Cesena a Lorenzo, gli disse, per parte di Maldonato e di due altri capitani spagnuoli, la causa di congiugnersi con Francesco Maria non essere stata per altro che per avere occasione di fare qualche servizio notabile al pontefice e a lui, poiché non era stato in potestà di essi ovviare che questo movimento si facesse; promettendogli in nome loro che, subito che avessino opportunità di farlo, lo metterebbono a esecuzione. Le quali cose non essendo note a Francesco Maria, cominciò a sospettare per alcune parole dette incautamente da Renzo da Ceri a uno tamburino degli spagnuoli; perché, come motteggiando, lo dimandò: - Quando vorranno quegli spagnuoli darci prigione il vostro duca? - La quale voce, entrata piú altamente nel petto di Francesco Maria, gli avea data cagione di osservare diligentemente se nello esercito fusse fraude alcuna. Ma finalmente, per le scritture intercette ne' carriaggi di Lorenzo, comprese, Maldonato essere autore di qualche insidia. La quale cosa avendo dissimulata insino a quello dí, né gli parendo doverla piú dissimulare, chiamati a parlamento tutti i fanti spagnuoli, egli stando in luogo rilevato in mezzo di tutti, cominciò a ringraziargli con efficacissime parole delle opere che con tanta prontezza avevano fatto per lui, confessando non essere, o ne' tempi moderni o nelle istorie antiche, memoria di principe o di capitano alcuno che avesse tante obligazioni a gente di guerra quante conosceva egli d'avere con loro: conciossiaché, non avendo denari né modo di promettere loro remunerazione, essendo, quando bene avesse recuperato tutto il suo stato, piccolo signore, non fatto mai loro alcuno beneficio, non essendo della medesima nazione né avendo mai militato ne' campi loro, si fussino sí prontamente disposti a seguitarlo contro a uno principe di tanta grandezza e riputazione; né tirati dalla speranza della preda, perché sapevano essere condotti in uno paese povero e sterile. Delle quali operazioni non avendo facoltà di rendere loro grazie se non con la sincerità della volontà e dell'animo, essersi sommamente rallegrato che avessino acquistato, non solo per tutta Italia ma per tutte le provincie di Europa, maravigliosa fama, alzando insino al cielo ciascuno la loro egregia fede e virtú, che pochissimi di numero, senza danari senza artiglierie senza alcuna delle provisioni necessarie alla guerra, avessino tante volte fatto voltare le spalle a uno esercito abbondantissimo di danari e di tutte l'altre cose, nel quale militavano tante bellicose nazioni, e contro alla potenza di uno pontefice grandissimo e dello stato de' fiorentini, a' quali era congiunta l'autorità e il nome de' re di Francia e di Spagna: disprezzati, per mantenere la fede e la fama degli uomini militari, i comandamenti de' propri signori. Le quali cose come per la gloria del nome loro gli davano incredibile piacere, cosí per contrario avergli dato e dargli molestia incredibile tutte le cose che potessino oscurare tanto splendore. Malvolentieri e con inestimabile dolore indursi a manifestare cose che gli costrignessino a offendere alcuno di quegli a ciascuno de' quali aveva prima fatta deliberazione di essere, mentre gli durava la vita, schiavo particolarmente; nondimeno, perché per il tacere suo il disordine cominciato non diventasse maggiore, e perché la malignità di alcuni non spegnesse tanta gloria acquistata da quello esercito, ed essendo anche conveniente che in lui potesse piú l'onore di tutti che il rispetto di pochi, manifestare loro essere in quello esercito quattro persone che tradivano la gloria e la salute di tutti. Della sua non fare menzione né lamentarsi, perché, travagliato da tanti casi e stato perseguitato senza sua colpa sí acerbamente dalla fortuna, essere qualche volta manco desideroso della vita che della morte; ma non patire le obligazioni che aveva con loro, non l'amore smisurato che meritamente gli portava che non facesse loro palese che il colonnello Maldonato (quello in cui doveva essere maggiore cura della salute e gloria di tutti), il capitano Suares (quello che per ordire tanta tristizia, simulando di essere infermato, si era fatto in Romagna pigliare dagli inimici), e due altri capitani, avevano con scelerati consigli promesso tradirgli a Lorenzo de' Medici: i quali consigli erano stati interrotti dalla vigilanza sua, per la quale rendendosi sicuro, non avere prima voluto manifestare tanto peccato; ma non gli parendo di tenere piú sottoposto sé e tutti gli altri a sí grave pericolo, avere aperto loro quello che molto innanzi era stato saputo da lui. Apparire queste cose per lettere autentiche trovate nelle scritture che furono intercette di Lorenzo, apparire per molti indizi e congetture; le quali tutte volere proporre loro, acciò che fussino giudici di tanto delitto, e udito le cose proposte, quello che in defensione loro dicessino questi accusati, potessino risolversi a quella deliberazione che paresse loro piú conforme alla giustizia, e alla gloria e utilità dello esercito. Finito che ebbe di parlare fece leggere le lettere ed esporre gli indizi. Le quali cose udite da tutti con grandissima attenzione, non fu dubbio che per giudicio comune non fussino, senza udirgli altrimenti, Maldonato, Suares e gli altri due capitani, condannati alla morte; la quale subito, fattigli passare in mezzo delle file delle picche, fu messa a esecuzione: e purgato, secondo dicevano, con questo supplizio tutta la malignità che era nell'esercito, seguitorono il cammino verso Perugia.

Nella quale era già entrato Giampaolo Baglione, partitosi da Pesero subito che ebbe inteso il disegno loro, e si preparava per difendersi, avendo armati gli amici e messi dentro molti del contado e de' luoghi vicini; e gli aveva mandato il legato in aiuto Cammillo Orsino suo genero condottiere de' fiorentini, con gli uomini d'arme della condotta sua e con dugento cinquanta cavalli leggieri: con le quali forze si credeva che avesse a sostenere l'impeto degli inimici, massime essendosi fatto molti provedimenti per interrompere i progressi loro. Perché a Città di Castello era andato Vitello con la compagnia sua delle genti d'arme e Sise con le lancie franzesi, le quali, perché tra 'l pontefice e il re era stabilita la confederazione, non erano piú sospette; e Lorenzo de' Medici, che guarito della sua ferita era nuovamente venuto da Ancona a Pesero, erane andato in poste a Firenze per fare di là le provisioni che fussino necessarie alla conservazione di quello dominio e delle città vicine; e si era deliberato che il legato col resto dello esercito, per necessitare Francesco Maria ad abbandonare la impresa di Toscana, entrasse nel ducato di Urbino, alla guardia del quale non erano restati altri che gli uomini delle terre.

Accostossi Francesco Maria a Perugia, non senza speranza di qualche intelligenza. Dove cavalcando Giampaolo per la città, fu assaltato in mezzo della strada da uno della terra; il quale, non gli essendo riuscito il ferirlo, fu subito ammazzato dal concorso di quegli che accompagnavano Giampaolo: il quale, in questo tumulto, fece ammazzare alcuni altri di quegli che gli erano sospetti; e liberato dalle insidie, pareva liberato da ogni pericolo, perché gli inimici, stati già intorno a Perugia piú dí, non avevano facoltà di sforzarli. E nondimeno Giampaolo, quando manco il pontefice aspettava questo, allegando in giustificazione sua che il popolo di Perugia, al quale non era in potestà sua di resistere, non voleva piú tollerare i danni che si facevano nel paese, convenne con quello esercito di pagare diecimila ducati, concedere vettovaglia per quattro dí, non pigliare arme contro a Francesco Maria in quella guerra, e che essi si uscissino subito del perugino: cosa molto molesta e ricevuta in sinistra parte dal pontefice, perché confermò la opinione insino da principio della guerra conceputa di lui, quando molto lentamente andò allo esercito con gli aiuti promessi, che per essergli sospetta la potenza di Lorenzo desiderasse che Francesco Maria si conservasse il ducato di Urbino; aggiugnendosi l'essergli stato molesto che, mentre stette nel campo appresso a Lorenzo, fusse stata molto maggiore l'autorità di Renzo e di Vitello che la sua. La memoria delle quali cose fu nel tempo seguente, per avventura, cagione in gran parte delle sue calamità.

Convenuto Francesco Maria co' perugini, si voltò verso Città di Castello; dove avendo fatto qualche scorreria, con intenzione di entrare dalla parte del Borgo a San Sepolcro nel dominio fiorentino, il pericolo dello stato proprio lo indusse ad altra deliberazione. Perché il legato Bibbiena, avendo di nuovo soldato molti fanti italiani, seguitando la deliberazione fatta a Pesero, [si] era col resto dell'esercito accostato a Fossombrone: la quale città, battuta dalle artiglierie, fu il terzo dí espugnata e saccheggiata. Andò dipoi a campo alla Pergola, dove il secondo dí si uní coll'esercito il conte di Potenza, con quattrocento lancie spagnuole mandate dal re di Spagna in aiuto del pontefice. Non era nella Pergola soldato alcuno, ma solamente uno capitano spagnuolo e molti uomini del paese, i quali impauriti cominciorono a trattare di arrendersi; ma mentre che si trattava essendo stato ferito nel volto il capitano che stava in sul muro, voltatisi i soldati, senza ordine alcuno e senza comandamento de' capitani, alla muraglia, preseno per forza la terra. Dalla Pergola si disegnava di andare a campo a Cagli; ma essendo venuto avviso che Francesco Maria, intesa la perdita di Fossombrone, ritornava con celerità grande in quello stato, deliberorono di ritirarsi. Però la notte medesima che il legato ebbe questa notizia si levorono dalla Pergola, e venuti a Montelione e già cominciato a farvi lo alloggiamento per stare quivi la notte, avuti avvisi nuovi che la prestezza degli inimici riusciva maggiore di quello che si erano persuasi, e che mandava innanzi mille cavalli con un fante in groppa per uno, acciò che, costrignendogli a camminare piú lentamente, avesse tempo l'esercito a sopragiugnergli, andorono sette miglia piú innanzi, a uno luogo detto il Bosco; donde partiti la mattina seguente innanzi al giorno, si ridussono la sera a Fano; avendo già quasi alla coda i cavalli degli inimici, venuti con tanta prestezza che se solamente quattro ore fusse stata piú tarda la ritirata non sarebbe stato senza difficoltà il fuggire la necessità del combattere.

Cap. vii

Congiura del cardinale Alfonso Petrucci contro il pontefice. Esami e pene dei congiurati. Nomine numerose di nuovi cardinali, di cui alcuni appartenenti a famiglie nobili romane.

Ma non procedevano in questo tempo piú felicemente le cose del pontefice nelle altre azioni che ne' travagli della guerra: alla vita del quale insidiava Alfonso cardinale di Siena, sdegnato che il pontefice, dimenticatosi delle fatiche e de' pericoli sostenuti già per Pandolfo Petrucci suo padre perché i fratelli e lui fussino restituiti nello stato di Firenze, e delle opere fatte da sé, insieme con gli altri cardinali giovani nel conclave, perché e' fusse assunto al pontificato, avesse in ricompensazione di tanti benefici fatto cacciare di Siena Borghese suo fratello e lui; donde privato eziandio delle facoltà paterne non poteva sostenere splendidamente, come soleva, la degnità del cardinalato. Però ardendo di odio, e quasi ridotto in disperazione, aveva avuto pensieri giovenili di offenderlo egli proprio violentemente con l'armi; ma ritenendolo il pericolo e la difficoltà della cosa piú che lo esempio o lo scandolo comune in tutta la cristianità, se uno cardinale avesse di sua mano ammazzato uno pontefice, aveva voltato tutti i pensieri suoi a torgli la vita col veleno, per mezzo di Batista da Vercelli, famoso chirurgico e molto intrinseco suo. Del quale consiglio, se tal nome merita cosí scelerato furore, questo aveva a essere l'ordine: sforzarsi, col celebrare, poiché altra occasione non ne aveva, con somme laudi la sua perizia, che il pontefice, il quale per una fistola antica che aveva sotto le natiche usava continuamente l'opera di medici di quella professione, pigliandone buono concetto lo chiamasse alla cura sua. Ma la impazienza di Alfonso difficultò molto la speranza di questa cosa. La quale mentre che si tratta con lunghezza, Alfonso non sapendo contenersi di lamentarsi molto palesemente della ingratitudine del pontefice, diventando ogni dí piú esoso, e venuto in sospetto che non macchinasse qualche cosa contro allo stato, fu finalmente quasi costretto di partirsi, per sicurtà di se stesso, da Roma. Ma vi lasciò Antonio Nino suo secretario; tra il quale e lui essendo continuo commercio di lettere, comprese il pontefice, per alcune che furono intercette, trattarsi contro alla vita sua. Però, sotto colore di volere provedere alle cose di Alfonso, lo chiamò a Roma, concedutogli salvocondotto, e data, per la bocca propria, fede di non lo violare allo oratore del re di Spagna. Sotto la quale sicurtà, ancora che conscio di tanta cosa, andato imprudentemente innanzi al pontefice, furono, egli e Bandinello cardinale de' Sauli genovese, fautore anche esso della assunzione di Lione al pontificato ma intrinseco tanto di Alfonso che si pensava fusse conscio d'ogni cosa, ritenuti nella camera medesima del papa, donde furono menati prigioni in Castello Santo Agnolo; e subitamente ordinato che Batista da Vercelli, il quale allora medicava in Firenze, fusse incarcerato e incontinente mandato a Roma. Sforzossi con ardentissime querele e pretesti di fare liberare Alfonso l'oratore del re di Spagna, allegando la fede data a lui come a oratore di quel re non essere altro che la fede data al re proprio. Ma il pontefice rispondeva che in uno salvocondotto, quantunque amplissimo e pieno di clausule forti e speciali, non si intende mai assicurato il delitto contro alla vita del principe se non vi è nominatamente specificato: avere la medesima prerogativa la causa del veleno, aborrito tanto dalle leggi divine e umane e da tutti i sentimenti degli uomini che aveva bisogno di particolare e individua espressione.

Prepose il pontefice all'esamina loro Mario Perusco romano, procuratore fiscale, dal quale rigorosamente esaminati confessorono il delitto macchinato da Alfonso con saputa di Bandinello; la quale confessione fu confermata da Batista cerusico e da Pocointesta da Bagnacavallo, il quale sotto Pandolfo suo padre e sotto Borghese suo fratello era stato lungamente capitano della guardia che stava alla piazza di Siena; i quali due furono publicamente squartati. Ma dopo questa confessione fu, nel prossimo concistorio, ritenuto e condotto nel castello Raffaello da Riario cardinale di San Giorgio, camarlingo della sedia apostolica; il quale per le ricchezze, per la magnificenza della sua corte e per il tempo lungo che era stato in quella dignità, era senza dubbio principale cardinale del collegio: il quale confessò non gli essere stata comunicata questa macchinazione, ma il cardinale di Siena, lamentandosi e minacciando il pontefice, avergli detto piú volte parole per le quali aveva potuto comprendere avere in animo, se ne avesse occasione, di offenderlo nella persona. Querelossi dipoi il pontefice, in uno altro concistorio, nel quale i cardinali, non assuefatti a essere violati, erano tutti smarriti di animo e spaventati, che cosí crudelmente e sceleratamente fusse stato insidiato alla vita sua da quegli i quali, costituiti in tanta degnità e membri principali della sedia apostolica, erano sopra tutti gli altri obligati a difenderla; lamentandosi efficacemente del suo infortunio, e che non gli fusse giovato l'essere stato e l'essere continuamente benefico e grato con ognuno, eziandio insino a grado che da molti ne fusse biasimato: soggiugnendo che in questo peccato erano ancora degli altri cardinali, i quali se innanzi che fusse licenziato il concistorio confessassino spontaneamente il loro delitto, essere parato a usare la clemenza e a perdonare loro, ma che finito il concistorio si userebbe contro a chi fusse congiunto a tanta sceleratezza la severità e la giustizia. Per le quali parole Adriano cardinale di Corneto e Francesco Soderino cardinale di Volterra, inginocchiati innanzi alla sedia del pontefice, dissono, il cardinale di Siena avere con loro usate delle medesime parole che aveva usate col cardinale di San Giorgio.

Finiti e publicati nel concistorio gli esamini, furono Alfonso e Bandinello, per sentenza data nel concistorio publico, privati della degnità del cardinalato, degradati e dati alla corte secolare. Alfonso, la notte prossima, fu occultamente nella carcere strangolato; la pena di Bandinello permutata, per grazia del pontefice, dalla morte a perpetua carcere: il quale, non molto poi, non solo lo liberò dalla carcere ma, pagati certi danari, lo restituí alla degnità del cardinalato; benché con lui avesse piú giusta causa di sdegno perché, beneficato sempre da lui e veduto molto benignamente, non si era alienato per altro che per la amicizia grande che aveva con Alfonso, e per sdegno che il cardinale de' Medici gli fusse stato anteposto nella petizione di certi benefici. E nondimeno non mancorono interpretatori, forse maligni, che innanzi fusse liberato dalla carcere gli fusse stato dato, per commissione del pontefice, veleno, di quella specie che non ammazzando subitamente consuma in progresso di tempo la vita di chi lo riceve. Col cardinale di San Giorgio, per essere il delitto minore, ancora che le leggi fatte e interpretate da' príncipi per sicurtà de' loro stati voglino che nel crimine della maestà lesa sia sottoposto all'ultimo supplicio non solo chi macchina ma chi sa chi accenna contro allo stato, e molto piú quando si tratta contro alla vita del principe, procedette il pontefice piú mansuetamente; avendo rispetto alla sua età e autorità, e alla congiunzione grande che innanzi al pontificato era lungamente stata tra loro. Però, se bene fusse, per ritenere l'autorità della severità, nella sentenza medesima privato del cardinalato, fu quasi incontinente, obligandosi egli a pagare quantità grandissima di danari, restituito per grazia eccetto che alla voce attiva e passiva; alla quale fu, innanzi passasse uno anno, reintegrato. A Adriano e Volterra non fu dato molestia alcuna, eccetto che tacitamente pagorno certa quantità di danari: ma non si confidando, né l'uno né l'altro, di stare in Roma sicuramente né con la conveniente dignità, Volterra con licenza del pontefice se ne andò a Fondi, dove sotto l'ombra di Prospero Colonna stette insino alla morte del pontefice; e Adriano, partitosi occultamente quello che si avvenisse di lui non fu mai piú che si sapesse né trovato né veduto in luogo alcuno.

Costrinse l'acerbità di questo caso il pontefice a pensare alla creazione di nuovi cardinali, conoscendo quasi tutto il collegio, per il supplizio di questi e per altre cagioni, avere l'animo alienissimo da lui: alla quale procedé tanto immoderatamente che pronunziò, in una mattina medesima, in concistorio, consentendo il collegio per timore e non per volontà, trentuno cardinali; nella abbondanza del quale numero ebbe facoltà di sodisfare a molti fini e di eleggere di ogni qualità di uomini. Perché promosse due figliuoli di sorelle sue, e alcuni di quegli che, stati e nel ponteficato e prima a' servizi suoi, e grati al cardinale de' Medici e a lui per diverse cagioni, non erano per altro rispetto capaci di tanta degnità; sodisfece nella creazione di molti a príncipi grandi, creandogli a istanza loro; molti ne creò per danari, trovandosi esausto e in grandissima necessità: furonvene alcuni chiari per opinione di dottrina, e tre generali, è questo tra loro il supremo grado, delle religioni di Santo Agostino di Santo Domenico e di Santo Francesco; e, quello che fu rarissimo in una medesima promozione, due della famiglia de' Triulzi, movendolo nell'uno l'essere suo cameriere e il desiderio di sodisfare a Gianiacopo, nell'altro la fama della dottrina aiutata da qualche somma di danari. Ma quello che dette maggiore ammirazione fu la creazione di Franciotto Orsino e di Pompeio Colonna e di cinque altri romani delle famiglie principali che seguitavano o questa o quella fazione: con consiglio contrario alle deliberazioni dell'antecessore, ma riputato imprudente e che riuscí poco felice per i suoi. Perché, essendo sempre la grandezza de' baroni di Roma depressione e inquietudine de' pontefici, Giulio, essendo mancati i cardinali antichi di quelle famiglie, le quali Alessandro sesto per spogliarle degli stati propri aveva acerbamente perseguitate, non aveva mai voluto rimettere in alcuna di loro quella degnità; Lione tanto immoderatamente fece il contrario: non potendo però dirsi che fusse stato tirato da' meriti delle persone; perché Franciotto fu promosso dalla professione della milizia alla degnità del cardinalato, e a Pompeio doveva nuocere la memoria che, con tutto fusse vescovo, avea, per occasione della infermità [di Giulio], cercato di fare tumultuare il popolo romano contro allo imperio de' sacerdoti, e dipoi si era ribellato apertamente con l'armi dal medesimo pontefice, dal quale era stato per questo privato della degnità episcopale.

Cap. viii

Francesco Maria nella Marca. Offerte d'aiuto del re di Francia al pontefice; sospetti reciproci e sospetti anche del re di Spagna. Battaglia ai borghi di Rimini; Francesco Maria passa in Toscana; difficoltà di Francesco Maria e del pontefice. Concordia fra il pontefice e Francesco Maria. Considerazioni dell'autore sulla guerra e sul modo con cui è stata condotta. Il re di Spagna prende possesso dei suoi stati; i veneziani riconfermano la lega difensiva col re di Francia.

Ma in questo tempo Francesco Maria, poiché per la ritirata, anzi piú presto fuga, degli inimici non aveva avuto facoltà di combattere, avendo l'esercito molto potente, perché alla fama del non avere resistenza nella campagna concorrevano continuamente nuovi soldati, tirati dalla speranza delle prede, entrò nella Marca; dove Fabriano e molte altre terre si composono con lui, ricomperando con danari il pericolo del sacco e delle rapine de' loro contadi. Saccheggionne alcune altre, tra le quali Iesi, mentre trattava di comporsi; e dipoi accostatosi ad Ancona, alla difesa della quale città il legato aveva mandato gente, vi stette fermo intorno piú dí, con detrimento grande, per la perdita del tempo, delle cose sue, non combattendo ma trattando di accordarsi con gli anconitani: i quali finalmente, per non perdere le ricolte già mature, gli pagorono ottomila ducati, non deviando in altro dalla ubbidienza solita della Chiesa. Assaltò dipoi la città di Osimo poco felicemente. Messe finalmente il campo alla terra di Corinaldo, dove erano dugento fanti forestieri; da' quali e dagli uomini della terra fu difesa sí francamente che, statovi intorno ventidue dí, alla fine, disperato di pigliarla, si levò: con grande diminuzione del terrore di quello esercito, che non avesse espugnato terra alcuna di quelle che avevano recusato di comporsi; il che non procedeva né dalla imperizia de' capitani né dalla ignavia de' soldati, ma perché non avevano artiglierie se non piccolissima quantità, e piccoli pezzi e quasi senza munizione. E nondimeno era stato necessario, alle terre le quali non avevano voluto cedergli, dimostrare da se stesse la sua costanza e il suo valore: perché i capitani dell'esercito ecclesiastico, de' quali era principale il conte di Potenza, se bene avessino mandato gente a predare insino in su le mura di Urbino, e Sise, ritornato da Città di Castello in Romagna, fusse dipoi entrato nel Montefeltro e preso per forza Secchiano e alcune altre piccole terre, si erano ridotti ad alloggiare cinque miglia presso a Pesero, deliberati di non soccorrere luogo alcuno né di muoversi se non quanto gli facesse muovere la necessità del ritirarsi; perché essendo, quando erano tanto superiori di forze, succedute cosí infelicemente le cose, trovandosi ora tanto manco potenti di fanterie, non arebbeno non che altro ardito di sostenere la fama dello approssimarsi degli inimici.

Nella quale deliberazione, fatta secondo la mente del pontefice, gli confermava la speranza della venuta di seimila svizzeri, i quali il papa, seguitando il consiglio del re di Francia, avea mandato a soldare: perché quel re, dopo la confederazione fatta, desiderava la vittoria del pontefice, e nel tempo medesimo aveva di lui il medesimo sospetto che prima. Conservavanlo nel sospetto le relazioni fattegli da Galeazzo Visconte e da Marcantonio Colonna; l'uno de' quali restituito dall'esilio nella patria, l'altro per non gli parere che da Cesare fussino riconosciute l'opere sue, condotti con onorate condizioni agli stipendi del re, aveano riferito il papa essersi molto affaticato con Cesare e co' svizzeri contro a lui: e molto piú moveva il re, che il pontefice aveva occultamente fatta nuova confederazione con Cesare col re di Spagna e col re di Inghilterra; la quale benché gli fusse stato lecito di fare, perché era stata fatta solamente a difesa, turbava pure non poco l'animo suo. Facevagli desiderare che si liberasse dalla guerra il timore che se il pontefice non vedeva pronti gli aiuti suoi non facesse co' príncipi già detti maggiore congiunzione; e oltre a questo gli cominciava a essere molesta e sospetta la prosperità di quello esercito, il nervo del quale erano fanti spagnuoli e tedeschi. Però, oltre ad avere consigliato il pontefice di armarsi di fanti svizzeri, gli aveva offerto di mandare di nuovo trecento lancie sotto Tommaso di Fois monsignore dello Scudo fratello di Odetto; allegando che, oltre alla riputazione e valore della persona, gli sarebbe utile a fare partire da Francesco Maria i fanti guasconi, co' quali questi fratelli di Fois, nati di sangue nobilissimo in Guascogna, aveano grande autorità. Aveva il pontefice accettata questa offerta ma con l'animo molto sospeso, perché dubitava come prima della volontà del re, della quale gli aveva accresciuto il sospetto la fuga de' fanti guasconi, temendo che occultamente non fusse proceduta per opera di Lautrech. E certamente, chi osservò in questo tempo i progressi de' príncipi potette apertamente conoscere che niuno intrattenimento niuno beneficio niuna congiunzione è bastante a rimuovere de' petti loro la diffidenza che hanno l'uno dell'altro; perché non solamente era il sospetto reciproco tra il re di Francia e il pontefice, ma il re di Spagna, intendendo trattarsi della andata de' svizzeri e di Tommaso di Fois, non era senza timore che il pontefice e il re congiunti insieme pensassino di spogliarlo del regno di Napoli: le quali cose si crede che giovassino alle cose del pontefice, perché ciascuno di loro, per non gli dare causa o giustificazione di alienarsi da sé, cercava di confermarlo e di assicurarsene co' benefici e con gli aiuti.

Ma Francesco Maria, partito da Corinaldo, ritornò nello stato d'Urbino, per fare spalle a' popoli suoi che facessino le ricolte: donde, desiderando assai, come sempre aveva desiderato, l'acquisto di Pesero, nella quale città era il conte di Potenza con le sue genti, vi si accostò con l'esercito; e per impedirgli le vettovaglie messe in mare alcuni navili. Ma all'opposito si preparorno a Rimini sedici legni tra barche brigantini e schirazzi; i quali come furno armati, andando a Pesero per sicurtà di certe barche che vi conducevano vettovaglie, si riscontrorno con quegli di Francesco Maria, co' quali venuti alle mani, messo in fondo il navilio principale presono tutti gli altri: per il che egli, disperato di pigliare Pesero, si partí. Facevasi in questo mezzo lo Scudo innanzi con le trecento lancie; ma tardavano i svizzeri, perché i cantoni recusavano di concedergli se prima non erano pagati da lui del residuo delle pensioni vecchie: dalla quale disposizione non si potendo rimuovergli, e il pontefice impotente per le gravissime spese a sodisfargli, i ministri del pontefice, dopo avere consumato in questa instanza molti dí, soldorno, senza decreto publico, duemila fanti particolari di quella nazione e quattromila altri tra tedeschi e grigioni. I quali essendo finalmente venuti e alloggiati a Rimini ne' borghi (i quali, divisi dal fiume dal resto della città, sono circondati di mura), Francesco Maria, entrato di notte sotto le pile del ponte egregio di marmo che unisce i borghi colla città, non potette passare il fiume, ingrossato per il ricrescimento del mare. Fu la battaglia grande tralle sue genti e i fanti alloggiati ne' borghi, nella quale fu ammazzato Gaspari, capitano della guardia del papa che gli aveva condotti; ma fu maggiore il danno degli inimici: ammazzati Balastichino e Vinea capitani spagnuoli, ferito Federico da Bozzole e Francesco Maria di uno scoppietto nella corazza. Voltò dipoi l'esercito verso Toscana, menato piú dalla necessità che dalla speranza, perché nello stato tanto consumato non si poteva sí grande esercito sostentare. In Toscana dimorato qualche dí, tralla Pieve di Santo Stefano, il Borgo a Sansepolcro e Anghiari, terre de' fiorentini, e occupato Montedoglio, luogo debole e poco importante, dette una lunghissima battaglia ad Anghiari, terra piú forte per la fede e virtú degli uomini che per la fortezza della muraglia o per altra munizione; la quale non avendo ottenuta, si ridusse sotto l'Apennino, tra il Borgo e Città di Castello, dove fatti venire quattro pezzi d'artiglieria da Mercatello, alloggiò meno di un mezzo miglio presso al Borgo, in sulla strada per la quale si va a Urbino, incerto di quel che avesse a fare: perché, essendo gli inimici passati dietro a lui in Toscana, [erano] entrati nel Borgo molti de' soldati italiani, in Città di Castello si era fermato Vitello con un'altra parte, in Anghiari, nella Pieve a Santo Stefano e nelle altre terre convicine erano entrati i fanti tedeschi i corsi i grigioni e i svizzeri. Venne similmente, benché piú tardi, Lorenzo de' Medici da Firenze al Borgo; ove stette intorno Francesco Maria oziosamente molti dí: ne' quali luoghi cominciando ad avere incomodità grande di vettovaglie, né si vedendo presente speranza alcuna di potere fare effetto buono, anzi diventato l'esercito suo (il quale era necessario si sostentasse di prede e di rapine) non manco formidabile agli amici che agli inimici, cominciava egli medesimo a non conoscere fine lieto alle cose sue; e i fanti che l'avevano seguitato, non avendo pagamento, non speranza di potere piú molto predare per non avere artiglierie e munizioni di qualità da sforzare le terre, sopportando carestia di vettovaglie, vedendo gli inimici accresciuti di forze e di riputazione, poiché si era scoperto loro tanto favore de' príncipi, cominciavano a infastidirsi della lunghezza della guerra, non sperando piú poterne avere, né col combattere presto né con la lunghezza del tempo, felice successo. E al pontefice, da altra parte, accadeva il medesimo: esausto di danari, poco potente per se stesso a fare le provisioni necessarie nel campo suo, e dubbio, come mai, della fede de' re e specialmente del re di Francia, il quale tardamente provedeva al sussidio de' danari dovutogli per la capitolazione, e perché lo Scudo, fermatosi secondo la volontà del papa in Romagna, aveva recusato di mandare parte delle sue genti in Toscana, allegando non le volere dividere.

Però, e prima che gli eserciti passassino l'Apennino, e molto piú ridotte le cose in questo stato, erano stati vari ragionamenti d'accordo tra il legato e Francesco Maria insieme co' suoi capitani, interponendosene lo Scudo e don Ugo di Moncada viceré di Sicilia, mandato dal re cattolico per questo effetto; ma niente era succeduto insino a quel dí, per la durezza delle condizioni proposte da Francesco Maria. Finalmente i fanti spagnuoli, indotti dalle difficoltà che si dimostravano e dalla instanza di don Ugo, il quale trasferitosi a loro e aggiugnendo le minaccie alla autorità avea dimostrato questa essere precisamente la volontà del re di Spagna, inclinorno alla concordia: la quale, prestando il consentimento benché malvolentieri Francesco Maria, e intervenendovi per il pontefice il vescovo d'Avellino mandato dal legato, si conveniva in questo modo, consentendo ancora i fanti guasconi per la interposizione dello Scudo: che il pontefice pagasse a' fanti spagnuoli quarantacinque mila ducati, dovuti secondo dicevano per lo stipendio di [quattro] mesi, a' guasconi e a' tedeschi uniti con loro ducati [sessanta] mila, partissino tutti, fra otto dí, dallo stato della Chiesa, de' fiorentini e di Urbino: che Francesco Maria, abbandonato nel termine medesimo tutto quello possedeva, fusse lasciato passare sicuramente a Mantova; potessevi condurre l'artiglierie, tutte le robe sue, e nominatamente quella famosa libreria che con tanta spesa e diligenza era stata fatta da Federigo suo avolo materno, capitano di eserciti chiarissimo di tutti ne' tempi suoi ma chiaro ancora, intra molte altre egregie virtú, per il patrocinio delle lettere: assolvesselo il pontefice dalle censure, e perdonasse a tutti i sudditi dello stato d'Urbino e a qualunque gli fusse stato contrario in questa guerra. La sostanza delle quali cose mentre che piú prolissamente si riduce nella scrittura, voleva Francesco Maria vi si inserissino certe parole per le quali si inferiva, gli spagnuoli essere quegli che promettevano lasciare al pontefice lo stato di Urbino; la qual cosa essi ricusando, come contraria all'onore loro, vennono insieme a contenzione; onde Francesco Maria, insospettito che non lo vendessino al pontefice, se ne andò all'improviso nel pivieri di Sestina, con parte de' cavalli leggieri co' fanti italiani guasconi e tedeschi e con quattro pezzi di artiglieria. Gli spagnuoli, data perfezione alla concordia e ricevuti i danari promessi andorno nel regno di Napoli, essendo quando partirno poco piú o meno di secento cavalli e quattromila fanti; feciono il medesimo gli altri fanti, ricevuto il premio della loro perfidia; agli italiani soli non fu né data né promessa cosa alcuna. Perciò e Francesco Maria, della salute del quale parve che lo Scudo tenesse cura particolare, poiché si vedde abbandonato da tutti, aderendo alla concordia trattata prima, se ne andò per la Romagna e per il bolognese a Mantova, accompagnato da Federico da Bozzole e cento cavalli e secento fanti.

In questa maniera si terminò la guerra dello stato di Urbino, continuata otto mesi, con gravissima spesa e ignominia de' vincitori. Perché dalla parte del pontefice furono spesi ottocentomila ducati, la maggiore parte de' quali, per la potenza che aveva in quella città, furno pagati dalla republica fiorentina; e i capitani appresso a' quali era la somma delle cose furono da tutti imputati di grandissima viltà, governo molto disordinato, e da alcuni di maligna intenzione: perché nel principio della guerra, essendo molto potenti le forze di Lorenzo e deboli quelle degli inimici, non seppeno mai, né con aperto valore né con industria o providenza, usare occasione alcuna. A' quali princípi, succeduta, per la perduta loro riputazione, la confusione e la disubbidienza dello esercito, si aggiunse nel progresso della guerra il mancamento in campo di molte provisioni; e in ultimo, avendo la fortuna voluto pigliare piacere de' loro errori, moltiplicorono per opera di quella tanti disordini che si condusse la guerra in luogo che il pontefice, scopertesegli insidie alla vita, travagliato nel dominio della Chiesa, temendo qualche volta e non poco dello stato di Firenze, necessitato a ricercare con prieghi e con nuove obligazioni gli aiuti di ciascuno, non potette anche liberarsi da tanti affanni se non pagando col suo proprio quelle genti dello esercito inimico o che erano state origine della guerra o che condotte a' soldi suoi, dopo avergli fatto molte estorsioni, si erano bruttamente rivoltate contro a lui.

In questo anno medesimo, e quasi alla fine, il re di Spagna andò, con felice navigazione, a pigliare la possessione de' regni suoi; avendo ottenuto dal re di Francia (tra l'uno e l'altro de' quali, palliando la disposizione intrinseca, erano dimostrazioni molto amichevoli) che gli prorogasse per sei mesi il pagamento de' primi centomila ducati che era tenuto a dargli per l'ultimo accordo fatto tra loro: e i viniziani riconfermorono per due anni la lega difensiva, che avevano col re di Francia, col quale stando congiuntissimi tenevano poco conto dell'amicizia di tutti gli altri; in tanto che ancora non avevano mai mandato a dare l'ubbidienza al pontefice. Il quale fu molto imputato che avesse mandato legato a Vinegia Altobello vescovo di Pola, come cosa indegna della sua maestà.

Cap. ix

Il 1518 anno di quiete e di pace per l'Italia: trattative fra i príncipi per una spedizione contro i turchi. Delitti domestici e progressi di Selim; i mammalucchi. Potenza di Selim. Appello del pontefice ai príncipi cristiani, e disegni per la spedizione; pubblicazione in concistorio d'una tregua di cinque anni fra i príncipi cristiani. Scarso entusiasmo dei príncipi per l'impresa; morte di Selim.

Séguita l'anno mille cinquecento diciotto, nel quale Italia (cosa non accaduta già molti anni) non sentí movimento alcuno, benché minimo, di guerra. Anzi appariva la medesima disposizione in tutti i príncipi cristiani; tra' quali, essendone autore il pontefice, si trattava, ma piú presto con ragionamenti apparenti che con consigli sostanziali, la espedizione universale di tutta la cristianità contro a Selim principe de' turchi: il quale aveva l'anno precedente ampliata tanto la sua grandezza che, considerando la sua potenza e non meno la cupidità del dominare, la virtú e la ferocia, si poteva meritamente dubitare che, non prevenendo i cristiani di assaltarlo, avesse, innanzi passasse molto tempo, a voltare le armi vittoriose contro a loro.

Perché Selim, avendo innanzi compreso che Baiset suo padre, già molto vecchio, pensava di stabilire la successione dello imperio in Acomath suo primogenito, ribellatosi da lui, lo costrinse con l'armi, e con l'avere corrotto i soldati pretoriani, a rinunziargli la signoria; e si credette anche universalmente che, per assicurarsi totalmente di lui, lo facesse morire sceleratamente di veleno. Vincitore dipoi in uno fatto d'arme contro al fratello, lo privò apertamente della vita; il medesimo fece a Corcú fratello minore di tutti: né contento d'avere fatto ammazzare, secondo il costume degli ottomanni, i nipoti e qualunque viveva di quella stirpe, si credé, tanto fu di ingegno acerbo e implacabile, che qualche volta pensasse di privare della vita Solimanno suo unico figliolo. Da questi princípi continuando di guerra in guerra, vinti gli aduliti popoli montani e feroci, trapassato in Persia contro al sofí, e venuto con lui a giornata lo ruppe, occupò la città di Tauris, sedia di quello imperio, con la maggiore parte della Persia: la quale fu costretto ad abbandonare, non per virtú degli inimici (che diffidandosi di potere sostenere l'esercito suo si erano ritirati a' luoghi montuosi e salvatichi), ma perché, essendo stato quello anno sterilissimo, gli mancavano le vettovaglie. Da questa espedizione poiché ritornato in Costantinopoli, e puniti molti soldati autori di sedizione, ebbe restaurato per qualche mese l'esercito, simulando di volere ritornare a debellare la Persia, voltò le armi contro al soldano re della Soria e dello Egitto, principe non solo di antichissima riverenza e degnità appresso a quella religione ma potentissimo, per la amplitudine del dominio per le entrate grandi e per la milizia de' mammalucchi, dalle armi de' quali era stato posseduto quello imperio con grandissima riputazione [trecento] anni. Perché essendo retto da soldani, i quali non per successione ma per elezione ascendevano al supremo grado, e dove non erano esaltati se non uomini di manifesta virtú, e provetti per tutti i gradi militari, al governo delle provincie e degli eserciti, e constando il nervo delle armi loro non di soldati mercenari e forestieri ma di uomini eletti, i quali, rapiti da fanciulli delle provincie vicine, e nutriti per molti anni con parcità di vitto, tolleranza delle fatiche e con esercitarsi continuamente nelle armi nel cavalcare e in tutte le esercitazioni appartenenti alla disciplina militare, erano ascritti nello ordine de' mammalucchi (succedendo di mano in mano in quello ordine non i figliuoli de' mammalucchi morti ma altri, che presi da fanciulli per schiavi vi pervenivano con la medesima disciplina e con le medesime arti che erano di mano in mano pervenuti gli antecessori) questi, in numero non piú di sedici o diciottomila, tenevano soggiogati con acerbissimo imperio tutti i popoli dello Egitto e della Soria, spogliati di tutte l'armi e proibiti di non cavalcare cavalli. Ed essendo uomini di tanta virtú e ferocia e che facevano la guerra per sé propri, perché del numero loro e da loro si eleggevano i soldani, loro gli onori le utilità e l'amministrazione di tutto quello opulentissimo e ricchissimo imperio, non solo avevano domate molte nazioni vicine, battuti gli arabi, ma, fatte molte guerre co' turchi, erano rimasti molte volte vittoriosi ma rare volte o non mai vinti da loro. Contro a questi adunque mossosi con l'esercito suo Salim e rottogli in piú battaglie in campagna, nelle quali fu ammazzato il soldano, e dipoi preso in una battaglia l'altro soldano suo successore, il quale fece morire publicamente con ignominioso supplicio, e fatta uccisione grandissima anzi quasi spento il nome de' mammalucchi, debellato il Cairo, città popolosissima nella quale risedevano i soldani, occupò in brevissimo tempo tutta la Soria e tutto lo Egitto; in modo che, avendo cosí presto accresciuto tanto lo imperio, duplicate quasi le entrate, levatosi lo ostacolo di emuli tanto potenti e di tanta riputazione, era non senza cagione formidabile a' cristiani. E accresceva meritamente il timore l'essere congiunta a tanta potenza e valore una ardente cupidità di dominare e di fare gloriosissimo a' posteri con le vittorie il suo nome; per la quale, leggendo spesso, come era la fama, le cose fatte da Alessandro magno e da Giulio Cesare, si cruciava nello animo mirabilmente che le cose fatte da sé non fussino in parte alcuna comparabili a tante vittorie e trionfi loro. E riordinando continuamente i suoi eserciti e la sua milizia, fabricando di nuovo numero grandissimo di legni e facendo molte provisioni necessarie alla guerra, si temeva pensasse di assaltare, quando fusse preparato, chi diceva Rodi, propugnacolo de' cristiani nelle parti dell'Oriente, chi diceva il regno d'Ungheria, già per la ferocia degli abitatori temuto da' turchi ma in questo tempo indebolito per essere in mano d'uno re pupillo, governato da' prelati e da' baroni del regno discordanti tra loro medesimi. Altri affermavano essere i suoi pensieri volti tutti a Italia; come se ad assaltarla gli desse audacia la discordia de' príncipi e il sapere quanto fusse lacerata da lunghe guerre, e lo incitasse la memoria di Maumeth suo avolo che, con potenza molto minore e con piccola armata mandata nel regno di Napoli, aveva con assalto improviso espugnata la città d'Otranto, e apertasi, se non gli fusse sopravenuta la morte, una porta e stabilita una sedia da vessare continuamente gli italiani.

Però il pontefice insieme con tutta la corte romana spaventato da tanto successo, e dimostrando, per provedere a sí grave pericolo, volere prima ricorrere agli aiuti divini, fece celebrare per Roma devotissime supplicazioni, alle quali andò egli co' piedi nudi; e dipoi voltatosi a pensare e a trattare degli aiuti umani scrisse brevi a tutti i príncipi cristiani, ammonendogli di tanto pericolo e confortandogli che, deposte le discordie e contenzioni, volessino prontamente attendere alla difesa della religione e della salute comune, la quale stava continuamente sottoposta a gravissimi pericoli se con gli animi e con le forze unite di tutti non si trasferisse la guerra nello imperio del turco e assaltassesi lo inimico nella casa propria. Sopra la quale cosa essendo stati esaminati molti pareri d'uomini militari e di persone perite de' paesi, della disposizione delle provincie e delle forze e armi di quello imperio, si risolveva essere necessario che, fatta grossissima provisione di danari con la contribuzione volontaria de' príncipi e con imposizione universale a tutti i popoli cristiani, Cesare accompagnato dalla cavalleria degli ungheri e de' polloni, nazioni bellicose ed esercitate in continue guerre contro a' turchi, e con uno esercito, quale si convenisse a tanta impresa, di cavalli e di fanti tedeschi, navigasse per il Danubio nella Bossina (dicevasi anticamente Misia) per andare di quivi in Tracia e accostarsi a Costantinopoli sedia dello imperio degli ottomanni; che il re di Francia, con tutte le forze del regno suo, de' viniziani e degli altri d'Italia, accompagnato dal peditato de' svizzeri, passasse dal porto di Brindisi in Albania, passaggio facile e brevissimo, per assaltare la Grecia piena di abitatori cristiani, e per questo e per la acerbità dello imperio de' turchi dispostissima a ribellarsi; che i re di Spagna di Portogallo e d'Inghilterra, congiunte l'armate loro a Cartagenia e ne' porti vicini, si dirizzassino con dugento navi piene di fanti spagnuoli e d'altri soldati allo stretto di Galipoli, per assaltare, espugnati che fussino i Dardanuli (altrimenti le castella poste in su la bocca dello stretto), Gostantinopoli: al quale cammino navigasse medesimamente il pontefice, movendosi da Ancona, con cento navi rostrate. Co' quali apparati essendo coperta la terra e il mare, e assaltato da tante parti lo stato de' turchi, i quali fanno principalmente il fondamento di difendersi alla campagna, pareva, aggiunto massimamente l'aiutorio divino, potersi sperare di guerra tanto pietosa felicissimo fine. Queste cose per trattare, o almanco per non potere essere imputato di mancare allo officio pontificale, Lione, tentati prima gli animi de' príncipi, publicò in concistorio tregue universali per cinque anni tra tutti i potentati cristiani, sotto pena di gravissime censure a chi contravenisse; e perché fussino accettate, e trattate le cose appartenenti a tanta impresa, le quali anche consultava continuamente con gli oratori de' príncipi, destinò legati il cardinale di Santo Sisto a Cesare, quello di Santa Maria in Portico al re di Francia, il cardinale Egidio al re di Spagna e Lorenzo cardinale Campeggio al re d'Inghilterra; cardinali tutti di autorità, o per esperienza di faccende o per opinione di dottrina o per essere intrinsechi al pontefice. Le quali cose benché cominciate con grande espettazione, e ancora che la tregua universale fusse stata accettata da tutti, e che tutti contro a' turchi, con ostentazione e magnificenza di parole, si dimostrassino, se gli altri concorrevano, di essere pronti con tutte le forze loro a causa tanto giusta, nondimeno, essendo reputato da tutti il pericolo incerto e molto lontano, e appartenente piú agli stati dell'uno che dell'altro, ed essendo molto difficile e che ricercava tempo lungo l'introdurre uno ardore e una unione tanto universale, prevalevano i privati interessi e comodità: in modo che queste pratiche non solo non si condusseno a speranza alcuna ma non si trattorono se non leggiermente e quasi per cerimonia: essendo anche naturale degli uomini che le cose che ne' princípi si rappresentano molto spaventose si vadino di giorno in giorno in modo diminuendo e cancellando che, non sopravenendo nuovi accidenti che rinfreschino il terrore, se ne rendino in progresso di non molto tempo gli uomini quasi sicuri. La quale negligenza alle cose publiche, e affezione immoderata alle particolari, confermò piú la morte che succedette, non molto poi, di Salim: il quale, avendo per lunga infermità sospesi gli apparati della guerra, consumato finalmente da quella, passò all'altra vita, lasciato tanto imperio a Solimanno suo figliuolo; giovane di età ma riputato di ingegno piú mansueto e di animo, benché gli effetti dimostrorono poi altrimenti, non acceso alla guerra.

Cap. x

Manifestazioni di cordialità fra il pontefice e il re di Francia. Proroga della tregua dei veneziani con Cesare. Lega e parentado fra i re di Francia e d'Inghilterra. Conferma della pace fra i re di Francia e di Spagna. Morte di Gianiacopo da Triulzi; giudizio dell'autore.

Nel quale tempo tra il pontefice e il re di Francia si dimostrava grandissima congiunzione. Perché il re dette per moglie a Lorenzo suo nipote la damigella di Bologna, nata di sangue molto nobile, e con entrata di scudi diecimila, parte donatagli dal re parte appartenentegli del patrimonio suo; ed essendo nato al re uno figliuolo maschio, richiese il pontefice che lo facesse tenere al battesimo in nome suo. Per la quale cagione Lorenzo, che si ordinava per andare a sposare la nuova moglie, accelerando l'andata, si condusse in poste; dove fu molto carezzato e onorato dal re; al quale egli dimostrando di darsi tutto, e promettendo di seguitare in ogni caso la sua fortuna, acquistò molto della sua grazia. Portò al re uno breve del pontefice per il quale gli concedeva che, insino a tanto che i danari riscossi della decima e della crociata non si avessino a spendere contro a' turchi, potesse spendergli ad arbitrio suo, promettendo restituirgli ogni volta che allo effetto per che era stata posta ne fusse di bisogno; convertendone però in uso di Lorenzo scudi cinquantamila: e il re, che insino a quel dí aveva dissimulato il non eseguire il pontefice la promessa, fattagli per breve, della restituzione di Modena e di Reggio, ancora che fusse passato il termine de' sette mesi, conoscendo non potere fare al pontefice cosa piú molesta che fargli instanza di questa restituzione, e tenendo, come spesso accade, piú conto de' maggiori che de' minori, rimesse in mano di Lorenzo il breve della promessa.

Prorogorono anche, quasi nel tempo medesimo, i viniziani per mezzo del re di Francia, la tregua loro con Cesare per cinque anni, con condizione gli pagassino, ciascuno de' cinque anni, scudi ventimila; e nella quale era espresso che ciascuno anno pagassino a' fuorusciti delle terre loro, i quali avevano seguitato Cesare, il quarto delle entrate de' beni che prima possedevano; tassando pagassino per questa causa ducati cinquemila. E si sarebbe Cesare indotto per avventura, se gli avessino dato maggiore somma di danari, a fare la pace; ma al re era piú grata la tregua perché i viniziani, non assicurati del tutto, avessino maggiore cagione di tenere cara la sua amicizia, e perché a Cesare non fusse data facoltà di fare co' danari che avesse da loro qualche innovazione.

E dirizzandosi le cose da ogni banda a concordia, si composono anche le differenze tra il re di Francia e d'Inghilterra, confermandole, acciocché la convenzione fusse piú stabile, con nuovo parentado; perché il re d'Inghilterra promesse dare la figliuola sua unica (alla quale, non avendo altri figliuoli, si sperava doversi appartenere la successione del regno) al delfino figliuolo primogenito del re di Francia, con ducati quattrocentomila di dota; l'uno e l'altra di età sí tenera che infiniti accidenti potevano nascere innanzi che, per l'abilità della età, si potesse stabilire il matrimonio. Fu fatta lega difensiva tra loro, nominandovi per contraenti principali Cesare e il re di Spagna in caso ratificassino infra certo tempo: e il re d'Inghilterra si obligò a restituire Tornai, la guardia del quale gli era di spesa molto grave, ricevendo da lui di presente per le spese fatte ducati dugento sessantamila; trecentomila ne confessasse d'avere ricevuti per la dota della nuora, e pagandone trecentomila altri in tempo di dodici anni; promettendo eziando di rendergli indietro Tornai se la pace e il parentado non seguitasse. Per la quale lega e parentado essendo andati da l'una parte a l'altra imbasciadori a ricevere le ratificazioni e i giuramenti, furono espediti questi atti nell'una e nell'altra corte con grandissima solennità e cerimonia, e stabilito che i due re si abboccassino insieme tra Calès e Bologna, né molto poi fatta la restituzione di Tornai.

Nel medesimo tempo, essendo morta la figliuola del re di Francia destinata a essere sposa del re di Spagna, fu riconfermata tra loro la pace e prima capitolazione, con la promessa del matrimonio della seconda figliuola; celebrando l'uno e l'altro principe questa congiunzione con grandissime dimostrazioni estrinseche di benivolenza: il re di Spagna, che aveva già fattogli pagare in Lione i centomila ducati, portò publicamente l'ordine di San Michele il dí della sua festività; e il re di Francia, il dí dedicato a santo Andrea, portò publicamente l'ordine del tosone.

Cosí stando quiete le cose d'Italia e d'oltre a' monti, solo Gianiacopo da Triulzi travagliava, non gli giovando né la età ridotta quasi a ultima vecchiezza né la virtú esperimentata tante volte in servigio della casa di Francia. Perché, dandone forse cagione in qualche parte l'ambizione e la inquietudine sua, essendo combattuto da' sottili umori degli emoli suoi e perseguitato in molte cose da Lautrech, era stato fatto sospetto al re che egli e la casa sua, per l'interesse della fazione guelfa e per antichi intrattenimenti, fusse troppo accetto a' viniziani, delle genti de' quali era governatore Teodoro da Triulzi, e che avevano nuovamente soldato Renato della medesima famiglia: però il re, essendo dopo la morte di Francesco Bernardino Visconte rimasto capo della fazione ghibellina Galeazzo Visconte, per opporlo al Triulzio con maggiore autorità gli aveva dato l'ordine di San Michele, costituito pensione, ed egli e Lautrech in ogni occasione gli davano riputazione; le quali cose non passando senza depressione del Triulzio, male paziente a dissimulare e che si lamentava frequentemente, diventava ogni dí piú esoso e piú sospetto. Ma dette occasione a Lautrech e agli altri, che lo calunniavano appresso al re, l'essersi fatto borghese de' svizzeri, come se e' volesse per mezzo loro avere patrocinio contro al re e forse aspirasse a maggiori pensieri: delle quali calunnie essendo, cosí vecchio come era, andato in Francia a giustificarsi, non solo Lautrech, come egli fu partito, per ordinazione avuta dal re, ritenne a Vigevano con onesta custodia la moglie e il nipote nato del conte di Musocco suo unico figliuolo già morto, ma eziandio dal re non fu raccolto né con benignità né con l'onore solito; anzi riprendendolo di essersi fatto svizzero, gli disse che da punirlo, secondo sarebbe stato conveniente, non lo riteneva altro che la fama divulgata per tutto, ma sopra la verità, de' meriti suoi verso la corona di Francia. Fu necessitato ritrattare quello che aveva fatto; e pochi dí poi, seguitando la corte, ammalato a Ciartres, passò all'altro secolo. Uomo a giudizio di tutti (come avevano confermato molte esperienze) di valore grande nella disciplina militare, e sottoposto per tutta la vita alla incostanza della fortuna, che ora lo abbracciava con prosperi successi ora lo esagitava con avversi; e a chi meritatamente si convenisse quello che, per ordine suo, fu inscritto nel suo sepolcro: riposarsi in quello sepolcro Gianiacopo da Triulzi, che innanzi non si era mai riposato.

Cap. xi

Desiderio di Cesare che venga designato un suo nipote a re dei romani; sue preferenze per Ferdinando, e preferenze dei suoi consiglieri per Carlo. Azione del re di Francia contraria all'incoronazione imperiale di Cesare. Morte di Cesare; giudizio dell'autore.

In questo anno medesimo Cesare, desideroso di stabilire la successione dello imperio romano, dopo la morte, in uno de' nipoti, trattava con gli elettori di farne eleggere uno in re de' romani; la quale degnità chi ha conseguito succede immediatamente senza altra elezione o confermazione, morto lo imperadore, allo imperio: e perché a questa elezione non si può pervenire insino a tanto che chi è stato eletto allo imperio non ha ottenuto la corona imperiale, faceva instanza col pontefice che con esempio nuovo lo facesse, per mano di alcuni cardinali deputati legati apostolici a questo atto, incoronare in Germania. E benché Cesare avesse prima desiderato che questa degnità fusse conferita a Ferdinando suo nipote, parendogli conveniente che, poiché al fratello maggiore erano concorsi tanti stati e tanta grandezza, egli si sostentasse con questo grado, e giudicando, che per mantenere piú illustre la casa sua e per tutti i casi sinistri che nella persona del maggiore potessino succedere, essere meglio avervi due persone grandi che una sola; nondimeno, stimolato in contrario da molti de' suoi e dal cardinale sedunense, e da tutti quegli i quali temevano e odiavano la potenza de' franzesi, rifiutato il primo consiglio, voltò l'animo a fare opera che a questa degnità fusse assunto il re di Spagna: dimostrandogli questi tali essere molto piú utile alla esaltazione della casa di Austria accumulare tutta la potenza in uno solo che, dividendola in piú parti, fargli manco potenti a conseguitare i disegni loro. Essere tanti e tali i fondamenti della grandezza di Carlo che, aggiugnendosegli la degnità imperiale, si potesse sperare che avesse a ridurre Italia tutta e grande parte della cristianità in una monarchia; cosa non solo appartenente alla grandezza de' suoi discendenti ma ancora alla quiete de' sudditi e, per rispetto delle cose degli infedeli, a beneficio di tutta la republica cristiana. Ed essere ufficio e debito suo pensare allo augumento e alla esaltazione della degnità imperiale, stata tanti anni nella persona sua e nella famiglia di Austria; la quale, insino a quello dí, stata per la impotenza sua e de' suoi antecessori maggiore in titolo e in nome che in sostanza e in effetti, non si poteva sperare aversi a sollevare né ritornare al pristino splendore se non trasferendosi nella persona di Carlo e congiugnendosi alla sua potenza: la quale occasione, portatagli dall'ordine della natura e della fortuna, non essere ufficio suo di impedire anzi di augumentare. Vedersi per gli esempli degli antichi imperadori, Giulio Cesare, Augusto e molti de' suoi successori, che mancando di figliuoli e di persone della medesima stirpe, gelosi che non [si] spegnesse o diminuisse la degnità riseduta nella persona loro, avere cercato successori, remoti di congiunzione o non attenenti eziandio in parte alcuna per mezzo delle adozioni; ed essere fresco l'esempio del re cattolico, che amando come figliuolo Ferdinando, allevato continuamente appresso a lui, né avendo non che altro mai veduto Carlo, anzi provatolo nella sua ultima età poco ubbidiente a' precetti suoi, nondimeno, non avuta compassione della povertà di quello che amava come figliuolo, non gli aveva fatto parte alcuna di tanti stati suoi, né di quegli eziandio che per essere acquistati da lui proprio era in facoltà sua di disporre, anzi avere lasciato tutto a quello che quasi non conosceva se non per strano. Ricordarsi Cesare il medesimo re averlo sempre confortato ad acquistare a Ferdinando stati nuovi ma a lasciare la degnità imperiale a Carlo; ed essersi veduto che per fare maggiore la grandezza del successore aveva, forse con consiglio dannato da molti e per avventura ingiusto ma non mosso da altra cagione che da questo, spogliato del regno d'Aragona il casato suo proprio tanto nobile e tanto illustre, e consentito, contro al desiderio comune della maggiore parte degli uomini, che il nome della casa sua si spegnesse e si annichilasse.

A questa instanza di Cesare si opponeva con ogni arte e industria il re di Francia, essendogli molestissimo che a tanti regni e stati del re di Spagna si aggiugnesse ancora l'autorità imperiale, che ripigliando vigore da tanta potenza diventerebbe formidabile a ciascuno: però cercando di disturbarla occultamente appresso agli elettori, faceva instanza col pontefice che non consentisse di mandare, con esempio nuovo, a Cesare la corona; e a' viniziani aveva mandato imbasciadori perché si unissino seco a fare opposizione: ammonendo e il pontefice e loro del pericolo porterebbono di tanta grandezza. Nondimeno, e già gli elettori erano in grande parte tirati nella sentenza di Cesare, e già quasi assicurati de' danari che per questa elezione si promettevano loro dal re di Spagna, il quale avea mandato per questo dugentomila ducati nella Alamagna, non potendo anche con onestà, né forse senza pericolo di scandolo, avuto rispetto agli esempli passati, denegare questa petizione; né si credeva che il pontefice, ancora che gli fusse molestissimo, recusasse di concedere che per mano di legati apostolici Cesare ricevesse in Germania in suo nome la corona dello imperio, con ciò sia che lo andare a incoronarsi a Roma, se bene con maggiore autorità della sedia apostolica, fusse per ogn'altro rispetto piú presto cerimonia che sostanzialità.

Con questi pensieri e con queste azioni si consumò l'anno mille cinquecento diciotto, non essendo ancora fatta la deliberazione dagli elettori; la quale, per nuovo accidente, diventò piú dubbia e piú difficile: per la morte di Cesare, succeduta ne' primi dí dell'anno mille cinquecento diciannove. Morí a Linz, terra posta ne' confini dell'Austria, intento come sempre alle caccie delle fiere; e con la medesima fortuna con la quale era vivuto quasi sempre; e la quale, statagli benignissima in offerirgli grandissime occasioni, non so se gli fusse parimente avversa in non gliene lasciare conseguire, o se pure quello che insino alla casa propria gli era portato dalla fortuna ne lo privasse la incostanza sua, e i concetti male moderati e differenti spesso dai giudíci degli altri uomini, congiunti ancora con smisurata prodigalità e dissipazione di danari; le quali cose gli interroppono tutti i successi e l'occasioni. Principe, altrimenti, peritissimo della guerra, diligente secreto laboriosissimo, clemente benigno e pieno di molte egregie doti e ornamenti.

Cap. xii

Aspirazione del re di Francia e del re di Spagna all'impero. Speranze dell'uno e dell'altro sovrano. Preoccupazioni e prudenza del pontefice. Allestimento di armate da parte dei due re e simulazione d'amicizia. Morte di Lorenzo de' Medici; il ducato d'Urbino passa alla sedia apostolica.

Morto Massimiliano, cominciorno ad aspirare allo imperio apertamente il re di Francia e il re di Spagna: la quale controversia, benché fusse di cosa sí importante e tra príncipi di tanta grandezza, nondimeno fu esercitata tra loro modestamente, non procedendo né a contumelie di parole né a minaccie d'armi ma ingegnandosi ciascuno, con l'autorità e mezzi suoi, tirare a sé gli animi degli elettori. Anzi il re di Francia, molto laudabilmente, parlando sopra questa elezione con gli imbasciadori del re di Spagna, disse essere commendabile che ciascuno di loro cercasse onestamente di ornarsi dello splendore di tanta degnità, la quale in diversi tempi era stata nelle case delle persone e degli antecessori loro; ma non per questo doverselo l'uno di loro ripigliare dall'altro per ingiuria, né diminuirsi per questo la benivolenza e congiunzione, anzi dovere seguitare lo esempio che qualche volta si vede di due giovani amanti che, benché amino una dama medesima e si sforzi ciascuno di loro, con ogni arte e industria possibile, di ottenerla, non per questo vengono tra loro a contenzione.

Pareva al re di Spagna appartenersegli lo imperio debitamente per essere continuato molti anni nella casa di Austria, né essere stato costume degli elettori privarne i discendenti del morto senza evidente cagione della inabilità loro. Non era alcuno in Germania di tanta autorità e potenza che avesse a competere seco in questa elezione, né gli pareva giusto o verisimile che gli elettori avessino a trasferire in uno principe forestiero tanta degnità continuata già molti secoli nella nazione germanica; e quando alcuno, corrotto con danari o per altra cagione, fusse di intenzione diversa, sperava e di spaventargli con le armi preparate in tempo opportuno e che gli altri elettori se gli opporrebbono, e almanco che tutti gli altri príncipi e l'altre terre franche di Germania non tollererebbono tanta infamia e ignominia di tutti, e massime trattandosi di trasferirla nella persona d'uno re di Francia, con accrescere la potenza d'uno re inimico alla loro nazione e donde si poteva tenere per certo che quella degnità non ritornerebbe mai in Germania. Stimava facile ottenere la perfezione di quello che era già stato trattato collo avolo, essendo già convenuto de' premi e de' donativi con ciascuno degli elettori. Da altra parte non era minore né la cupidità né la speranza del re di Francia, fondata principalmente in sulla credenza dello acquistare con grandissima somma di danari i voti degli elettori; de' quali alcuni, congiunti seco per antica amicizia e intrattenimento, mostrandogli la facilità della cosa, lo incitavano a farne impresa: la quale speranza (come sono pronti gli uomini a persuadersi quello che desiderano) nutriva con ragioni piú presto apparenti che vere. Perché sapeva che ordinariamente a' príncipi di Germania era molesto che gl'imperadori fussino molto potenti, per il sospetto che non volessino in tutto o in qualche parte riconoscere le giurisdizioni e autorità imperiali occupate da molti; e però si persuadeva che in modo alcuno non fussino per consentire alla elezione del re di Spagna, sottomettendosi da se medesimi a uno imperadore piú potente che dalla memoria degli antichi in qua fusse stato imperadore alcuno, cosa che non pareva al tutto simile in lui, perché non avendo stati né aderenze antiche in Germania non potevano avere tanto sospetta la sua grandezza: per la quale ragione, comune similmente alle terre franche, stimava non solo contrapesarsi ma opprimersi il rispetto della gloria della nazione, come sogliono comunemente potere piú negli uomini senza comparazione gli stimoli dello interesse proprio che il rispetto del beneficio comune. Eragli noto essere molestissimo a molte case illustri in Germania, che pretendevano essere capaci di quella degnità, che lo imperio fusse continuato tanti anni in una casa medesima, e che quello che oggi a l'una domani a l'altra dovevano dare per elezione fusse cominciato, quasi per successione, a perpetuarsi in una stirpe medesima; e potersi chiamare successione quella elezione che non ardiva discostarsi da' piú prossimi della stirpe degli imperadori: cosí da Alberto d'Austria essere passato lo imperio in Federigo suo fratello, da Federigo in Massimiliano suo figliuolo, e ora trattarsi di trasferirlo da Massimiliano nella persona di Carlo suo nipote. I quali umori e indegnazioni de' príncipi di Germania gli davano speranza che le discordie ed emulazioni tra loro medesimi potessino aiutare la causa sua, accadendo spesso nelle contenzioni che chi vede escluso sé, o chi è favorito da sé, si precipiti, posposti tutti i rispetti, piú presto a qualunque terzo che cedere a chi è stato opposito alla sua intenzione. Sperò oltre a questo il re di Francia nel favore del pontefice, cosí per la congiunzione e benivolenza che gli pareva avere contratta seco come perché non credeva che a lui potesse piacere che Carlo, principe di tanta potenza e che, contiguo col regno di Napoli allo stato della Chiesa, aveva per l'aderenza de' baroni ghibellini aperto il passo insino alle porte di Roma, conseguisse anche la corona dello imperio; non considerando che questa ragione, verissima contro a Carlo, militava ancora contro a lui: perché e al pontefice e a ciascuno altro non aveva a essere manco formidoloso lo imperio congiunto in lui che in Carlo; con ciò sia che se l'uno di loro possedeva forse piú regni e piú stati, l'altro non era da stimare manco, perché non aveva sparsa e divulsa in vari luoghi la sua potenza ma il regno tutto raccolto e unito insieme, con ubbidienza maravigliosa de' popoli suoi e pieno di grandissime ricchezze. Nondimeno, non conoscendo in sé quello che facilmente considerava in altri, ricorse al pontefice supplicandolo volesse dargli favore, perché di sé e de' regni suoi si potrebbe valere come di proprio figliuolo.

Premeva grandissimamente il pontefice la causa di questa elezione, essendogli molestissimo, per la sicurtà della sedia apostolica e del resto di Italia, qualunque de' due re fusse assunto allo imperio; né essendo tale l'autorità sua appresso agli elettori che sperasse con quella potere giovare molto, giudicò essere necessario adoperare in cosa di tanto momento la prudenza e le arti. Persuadevasi che il re di Francia, ingannato da qualcuno degli elettori, non avesse parte alcuna in questa elezione; né avere, benché in uomini venali, a potere tanto le corruttele che avessino sí disonestamente a trasferire lo imperio dalla nazione germanica nel re di Francia. Parevagli che al re di Spagna, per essere della medesima nazione, per le pratiche cominciate da Massimiliano e per molti altri rispetti, fusse molto facile conseguire lo intento suo, se non se gli faceva opposizione molto potente; la quale giudicava non potere farsi in altro modo se non che il re di Francia si disponesse a voltare in uno degli elettori quelli medesimi favori e danari che usava per eleggere sé. Parevagli impossibile indurre il re a questo mentre che era nel fervore delle speranze vane; però sperava che quanto piú ardentemente e con piú speranza si ingolfasse in questa pratica tanto piú facilmente, quando cominciasse ad accorgersi riuscirgli vani i pensieri suoi, trovandosi già scoperto e irritato, e in su la gara, aversi a precipitare a favorire la elezione d'uno terzo con non minore ardore che avesse favorito quella di se medesimo; e potere in questo tempo, acquistata che avesse fede col re di essergli favorevole e d'avere desiderato quel medesimo che lui, essere udita l'autorità e il consiglio suo; e potere similmente accadere, favorendosi gagliardamente ne' princípi le cose del re di Francia, che l'altro re, veduto difficultarsi il desiderio suo e dubitando che il re avversario non vi avesse qualche parte, si precipitasse medesimamente a uno terzo. Però non solo dimostrò al re di Francia di avere sommo desiderio che in lui pervenisse lo imperio, ma lo confortò con molte ragioni a procedere vivamente in questa impresa, promettendogli amplissimamente di favorirlo con tutta la autorità del pontificato. Né parendogli potere fare maggiore impressione, che questa fusse la sua intenzione, che usare in questa azione uno instrumento il quale il re di Francia giudicasse dependere piú da sé che da altri, destinò subitamente nunzio suo in Germania Ruberto Orsino arcivescovo di Reggio, persona confidente al re: con commissione che, e da per sé e insieme con gli agenti che vi erano per il re, favorisse quanto poteva appresso agli elettori la sua intenzione: avvertendolo perciò a procedere o con maggiore o con minore moderazione secondo che in Germania trovasse la disposizione degli elettori e lo stato delle cose. Le quali azioni, discorse dal pontefice prudentemente e coperte con somma simulazione, arebbono avuto bisogno che nel re di Francia e ne' ministri suoi che erano in Germania fusse stata maggiore prudenza, e ne' ministri del pontefice maggiore gravità e maggiore fede.

Ma mentre che queste cose si trattano con le pratiche e non con le armi, il re di Francia ordinò che Pietro Navarra uscisse in mare con una armata di venti galee e di altri legni e con quattromila fanti pagati, sotto nome di reprimere le fuste de' mori (le quali avendo già molti anni scorso senza ostacolo i nostri mari scorrevano in questo anno medesimo piú che mai) e di assaltare, se cosí paresse al pontefice, i mori di Africa; ma principalmente perché il pontefice, scopertosi totalmente per lui nella causa dello imperio, non avesse causa di temere delle forze del re cattolico; il quale, piú per timore che aveva di essere offeso che per desiderio che avesse di offendere altri, preparava sollecitamente una armata per mandarla alla custodia del reame di Napoli. E nondimeno, in queste diffidenze e sospetti, continuandosi tra l'uno e l'altro re nella simulazione di amicizia, si convennono in nome loro a Mompolieri il gran maestro di Francia e monsignore di Ceures, in ciascuno de' quali consisteva quasi tutto il consiglio e l'animo del suo re, per trattare sopra lo stabilimento del matrimonio della seconda figliuola del re di Francia col re di Spagna; e molto piú per risolvere le cose del reame di Navarra, la restituzione del quale all'antico re, promessa nella concordia fatta a Noion, benché molto sollecitata dal re di Francia, era stata insino a quel dí differita dal re di Spagna con varie escusazioni: ma la morte del gran maestro, succeduta innanzi parlassino insieme, interroppe la speranza di questa andata.

Morí in questo tempo Lorenzo de' Medici, oppressato da infermità quasi continua da poi che, consumato con infelici auspici il matrimonio, era ritornato di Francia; perché, e pochissimi dí innanzi alla morte sua la moglie, avendo partorito, gli aveva morendo preparata la strada. Per la morte di Lorenzo, il pontefice, desideroso di tenere congiunta, mentre viveva, la potenza de' fiorentini a quella della Chiesa, disprezzati i consigli di alcuni che lo consigliavano che, non restando piú, eccetto lui, alcuno de' discendenti legittimi per linea mascolina di Cosimo de' Medici fondatore di quella grandezza, restituisse alla sua patria la libertà, propose il cardinale de' Medici alla amministrazione di quello stato; o per desiderio di perpetuare il nome della sua casa o per odio, causato per l'esilio, contro al nome della republica. E pensando che il ducato di Urbino si potesse difficilmente, per l'amore de' popoli all'antico duca, tenere sotto nome della figliuola restata unica di Lorenzo compresa nella investitura paterna, lo restituí insieme con Pesero e Sinigaglia alla sedia apostolica: né parendogli che questo bastasse a raffrenare l'ardore de' popoli, fece gittare in terra le mura della città di Urbino e degli altri luoghi principali del ducato, eccetto di Agobbio, alla quale città, per non essere, per la emulazione che aveva con la città di Urbino, tanto inclinata con l'animo a Francesco Maria, voltò favore e riputazione, costituendola come capo di quello ducato. Il quale per indebolire tanto piú, dette a' fiorentini, in pagamento de' danari spesi per lui nella guerra d'Urbino, de' quali gli aveva fatti prima creditori in camera apostolica, la fortezza di Santo Leo con tutto il Montefeltro e il pivieri di Sestina, che soleva essere territorio di Cesena: contentandosi poco i fiorentini di questa sodisfazione ma non potendo opporsi alla sua volontà.

Cap. xiii

Sforzi del re di Francia per guadagnarsi il favore degli elettori dell'impero, e inclinazione dei popoli di Germania contraria a un sovrano straniero. Ancora dell'atteggiamento del pontefice. Elezione a imperatore del re di Spagna. Impressione per l'elezione di Carlo; ragioni di dissensi col re di Francia.

Restava la controversia dello imperio, con grandissima sospensione di tutta la cristianità, proseguita da l'uno e l'altro re con maggiore caldezza che mai: nella quale il re di Francia si ingannava ogni dí piú, indotto dalle promesse grandi del marchese di Brandiborg, uno degli elettori; il quale, avendo ricevuto da lui offerte grandissime di danari, e forse qualche somma di presente, si era non solo obligato, con occulte capitolazioni, a dargli il voto suo ma promesso che l'arcivescovo di Magunza suo fratello, uno de' tre prelati elettori, farebbe il medesimo. Promettevasi eziandio il re molto di un'altra parte degli elettori, e sperava, in caso che i voti fussino pari, nel voto del re di Boemia; per il voto del quale, discordando i sei elettori (che tre ne sono prelati, tre príncipi) si decide la controversia: però mandò allo ammiraglio, il quale era andato prima per queste cose in Germania, quantità grandissima di danari per dare agli elettori. E intendendo che molte delle terre franche insieme col duca di Vertimbergh, minacciando chi volesse trasferire lo imperio in forestieri, congregavano molte genti, faceva provisione di altri danari per opporsi con le armi a chi volesse impedire che gli elettori non lo eleggessino. Ma era grande la inclinazione de' popoli di Germania perché la degnità imperiale non si rimovesse di quella nazione, anzi, insino a' svizzeri, mossi dallo amore della patria comune germanica, avevano supplicato il pontefice che non favorisse a questa elezione alcuno che non fusse di lingua tedesca. Il quale, perseverando nondimeno nel favorire il re di Francia, aveva, sotto pretesto della bolla delle tregue quinquennali, publicata l'anno precedente, ammonito per brevi il duca di Vertimbergh e molte delle terre franche che desistessino dall'armi; sperando pure che, dimostrandosi cosí ardente per lui, il re avesse a udire con maggiore fede i consigli suoi, co' quali alla fine si sforzò di persuadergli che, deposta la speranza d'avere a essere eletto lui, procurasse con quella instanza medesima la elezione di qualunque altro de' príncipi di Germania: consiglio dato senza alcuno frutto, perché l'ammiraglio e Ruberto Orsino, ingannati dalle promesse di quegli che per trarre danari di mano de' franzesi davano certissime intenzioni, e occupati dalla passione, l'uno per essere di ingegno franzese e ministro del re, l'altro di natura leggiero e desideroso di acquistare la grazia sua, lo confermavano con avvisi vani, ogni dí piú, nella speranza di ottenere. Con le quali pratiche essendosi condotti, secondo l'uso antico a Franchefort, terra della Germania inferiore, quegli a' quali, non per piú antica consuetudine o fondata ragione ma per concessione di Gregorio [quinto] pontefice romano di nazione tedesco, appartiene la facoltà di eleggere lo imperadore romano, mentre che stanno in varie dispute per venire, al tempo debito, secondo gli ordini loro, alla elezione, uno esercito messo in campagna per ordine del re di Spagna, il quale fu piú pronto a spendere i danari in raccorre gente che a dargli agli elettori, avvicinatosi a Francofort sotto nome di proibire chi procurasse di violentare la elezione, accrebbe l'animo agli elettori che favorivano la causa sua, tirò nella sentenza degli altri quegli che erano dubbi, e spaventò il brandiburgense, inclinato al re di Francia, talmente che disperato che a questo concorressino gli altri elettori, e volendo fuggire l'odio e la infamia appresso di tutta la nazione, non ebbe ardire di scoprire la sua intenzione: in modo che, venendosi allo atto della elezione, fu eletto, il dí vigesimo ottavo di giugno, imperadore Carlo d'Austria re di Spagna da' voti concordi di quattro elettori, l'arcivescovo di Magunza e quello di Cologna, dal conte palatino e dal duca di Sassonia. Ma l'arcivescovo di Treveri elesse il marchese di Brandiborg, il quale concorse anche egli alla elezione di se stesso. Né si dubita che se, per la egualità de' voti, la elezione fusse pervenuta alla gratificazione del settimo elettore, che sarebbe succeduto il medesimo; perché Lodovico re di Boemia, il quale era anche re di Ungheria, aveva promesso a Carlo il voto suo.

Depresse questa elezione molto l'animo del re di Francia e di quegli che in Italia dependevano da lui, e per contrario inanimí molto chi aveva speranze o pensieri contrari, vedendo congiunta tanta potenza in uno principe solo, giovane, e al quale si sentiva per molti vaticini essere promesso grandissimo imperio e stupenda felicità; e se bene non fusse copioso di danari quanto era il re di Francia, nondimeno era tenuto di grandissima importanza il potere empiere gli eserciti suoi di fanteria tedesca e spagnuola, fanteria di molta estimazione e valore: cosa che per il contrario accadeva al re di Francia, perché non avendo nel regno suo fanti da opporre a questi non poteva implicarsi in guerre potenti, se non cavando, con grandissima spesa e qualche volta con grandissima difficoltà, fanteria di paesi forestieri; la quale cosa lo necessitava a intrattenere con grande spesa e diligenza i svizzeri, tollerare da loro molte ingiurie, e nondimeno non essere mai totalmente sicuro né della loro costanza né della loro fede. Né si dubitava che tra' due príncipi, giovani, e tra' quali erano molte cause di emulazione e di contenzione, avesse finalmente a nascere gravissima guerra. Perché nel re dí Francia risedeva il desiderio di recuperare il regno di Napoli, pretendendo avervi giusto titolo: eragli a cuore la reintegrazione del re don Giovanni al regno di Navarra, della quale comprendeva oramai essergli state date vane speranze: molesto era a Cesare il pagamento de' centomila ducati promessi nello accordo di Noion; e gli pareva che il re, sprezzato l'accordo prima fatto a Parigi, usando immoderatamente la occasione dello essere egli necessitato a passare in Spagna, l'avesse quasi per forza costretto a fare concordia nuova: era sempre fresca tra loro la causa del duca di Ghelleri, la quale sola, per averne il re di Francia la protezione, e lo stato di Fiandra riputarlo inimicissimo, poteva essere bastante a eccitargli all'armi. Ma sopratutto generava nell'animo del nuovo Cesare stimoli ardentissimi il ducato di Borgogna, il quale occupato da Luigi undecimo per l'occasione della morte di Carlo duca di Borgogna, avolo materno del padre di Cesare, aveva sempre tormentato l'animo de' successori. Né mancavano stimoli o cause di controversie per cagione del ducato di Milano, del quale non avendo il presente re, dopo la morte di Luigi duodecimo, ottenuta né dimandata la investitura, e pretendendosi molte eccezioni alle ragioni che gli nascevano della investitura fatta allo antecessore e di invalidità e di perdita di ragioni, era bastante questo a suscitare guerra tra loro. Nondimeno, né i tempi né l'opportunità consentivano che per allora facessino movimento: perché, oltre che a Cesare era necessario ripassare prima in Germania, per pigliare in Aquisgrana, secondo l'uso degli altri eletti, la corona dello imperio, si aggiugneva che, essendo ciascuno di loro di tanta potenza, la difficoltà dello offendersi l'uno l'altro gli riteneva dallo assaltarsi se prima non intendevano perfettamente la mente e la disposizione degli altri príncipi, e specialmente (se si avesse a fare guerra in Italia) quella del pontefice. La quale, recondita dalle simulazioni e arti sue, non era nota ad alcuno e forse talvolta non resoluta in se medesimo: benché, piú presto per non avere occasione di negargliene senza offendere gravemente l'animo suo che per libera volontà, avesse dispensato Carlo ad accettare la elezione fattagli dello imperio, contro al tenore della investitura del regno di Napoli; nella quale, fatta secondo la forma delle antiche investiture, gli era proibito espressamente.

Cap. xiv

Aspirazione del pontefice all'acquisto di Ferrara. Il vescovo di Ventimiglia muove con milizie con il disegno occulto di dar l'assalto alla città. Ragione del fallimento dell'impresa. Scioglimento dell'esercito.

Conservavasi adunque Italia in pace per queste cagioni: benché nella fine di questo medesimo anno il pontefice tentasse di occupare la città di Ferrara, non con armi manifeste ma con insidie. Perché se bene si fusse creduto che, per la morte di Lorenzo suo nipote, mancando già alla casa sua piú presto uomini che stati, avesse levato il pensiero dalla occupazione di Ferrara alla quale prima avea sempre aspirato, nondimeno, o stimolato dall'odio conceputo contro a quel duca o dalla cupidità di pareggiare o almanco approssimarsi quanto piú poteva alla gloria di Giulio, non aveva, per la morte del fratello e del nipote, rimesso parte alcuna di questo ardore: donde che facilmente si può comprendere che l'ambizione de' sacerdoti non ha maggiore fomento che da se stessa. Né comportando la qualità de' tempi, e il sito e la fortezza di quella città, la quale Alfonso con grandissima diligenza aveva renduta munitissima, che si pensasse a espugnarla con aperta forza, avendo lui massime quantità quasi infinita di bellissime artiglierie e munizioni, e avendo, con limitare tutte le spese, aggiugnere nuovi dazi e gabelle, fare vive in qualunque modo l'entrate sue e, esercitandosi con la industria, rappresentare in molte cose piú il mercatante che il principe, accumulato, secondo si credeva, grandissima quantità di danari, non restava al pontefice, se non si mutavano le condizioni de' tempi, altra speranza di ottenerla che con occulte insidie e trattati. De' quali avendone per il passato tentato con Niccolò da Esti e con molti altri vanamente, ed essendosi Alfonso, per non avere notizia che attendesse piú a queste pratiche, quasi assicurato non della sua volontà ma delle insidie, parve al pontefice (per partiti che gli furono proposti e per essere Alfonso, oppresso da lunga infermità, ridotto in termine che quasi si disperava la sua salute, e il cardinale suo fratello, per non stare con poca grazia nella corte di Roma, trovandosi in Ungheria) tempo opportuno di tentare di eseguire qualche disegno che gli era proposto da alcuni fuorusciti di Ferrara, e per mezzo loro da Alessandro Fregoso vescovo di Ventimiglia, abitante allora a Bologna perché, aspirando a essere doge come era stato il cardinale suo padre, era sospetto a Ottaviano Fregoso; il quale, stato poco felice ne' trattati che aveva fatto per sé per rientrare nella propria patria, prometteva piú prospero successo in quegli che faceva per altri nelle patrie forestiere.

Sotto colore adunque di volere entrare con l'armi in Genova, il vescovo, ricevuti occultamente dal pontefice diecimila ducati, soldò, parte del paese di Roma parte nella Lunigiana, duemila fanti. Al romore della quale adunazione essendosi, per sospetto di sé, armato per terra e per mare Ottaviano Fregoso, egli, come se per essere scoperti i suoi disegni restasse escluso di speranza di potere per allora voltare lo stato di Genova, fatto intendere a Federigo da Bozzole (con l'aiuto di chi si manteneva in grande parte la Concordia contro al conte Giovanfrancesco della Mirandola) poterlo servire di quelle genti insino non fusse finita la paga loro la quale durava presso a uno mese, passato l'Apennino scese in quello di Coreggio, pigliando lentamente il cammino della Concordia. Ed era il fondamento di questo trattato il passare il fiume del Po; al quale effetto certi ministri di Alberto da Carpi, conscio di questa pratica, avevano noleggiato, sotto nome di mercatanti di grani, molte barche che erano nella bocca del fiume della Secchia (cosí chiamano i circonvicini quel luogo dove l'acque della Secchia entrano nel Po), con le quali passando Po, disegnava il vescovo accostarsi prestamente a Ferrara: dove egli stato pochi mesi innanzi aveva speculato uno luogo della terra in sul Po dove erano in terra piú di quaranta braccia di muro, luogo aperto e molto facile a entrarvi. Il quale muro essendo caduto non molto prima non si era restaurato cosí presto, perché la vicinità del fiume e lo starsi senza timore avevano nutrito la negligenza di chi soleva sollecitamente provedere a questi disordini.

Ma come fu sentito per il paese circostante il Ventimiglia con queste genti avere passato l'Apennino, il marchese di Mantova, non per alcuno sospetto particolare ma per consuetudine antica di difficultare alle genti forestiere i passi de' fiumi, ritirò a Mantova tutte le barche che erano in bocca di Secchia; in modo che il Ventimiglia, non potendo servirsi delle barche noleggiate né avendo comodità di provederne cosí presto dell'altre, massime perché i governatori vicini della Chiesa non erano avvertiti di questa pratica, né avevano commissione, quando bene l'avessino saputa, di intromettersene, mentre che cerca di qualche rimedio, egli e i ministri di Alberto soggiornò con le genti verso Coreggio e ne' luoghi vicini: dove avendo parlato con molti incautamente, e con alcuni scoperto tutti i particolari del suo disegno, il marchese di Mantova, avvertitone, notificò per uno uomo suo la cosa al duca di Ferrara. Il quale era tanto alieno da questo sospetto che con difficoltà si indusse a prestargli fede; pure, movendolo piú che altro quello riscontro del muro rotto, cominciò a prepararsi di gente; né mostrando avere sospetto del pontefice, benché sentisse in sé altramente, fattogli intendere le insidie che gli erano ordinate dal vescovo Ventimiglia, lo supplicò che e' commettessi ai governatori vicini che, occorrendogli di bisogno, gli porgessino aiuto: la quale cosa fu dal pontefice con favorevoli brevi eseguita prontamente, ma data però nel tempo medesimo occultamente altra commissione.

La fama che a Ferrara si cominciasse a fare provisione, aggiunta alla difficoltà di passare Po, tolse al vescovo ogni speranza: però condottosi con le genti presso alla Concordia, mentre che con quegli che vi erano dentro, insospettiti già di lui, tratta di volere offendere la Mirandola, presentatosi allo improvviso una notte alle mura della Concordia, gli fece dare la battaglia, ma per dare cagione agli uomini di credere che non per andare a Ferrara ma per occupare la Concordia fusse venuto in quegli luoghi. Fu vano questo assalto: dopo il quale i fanti con sua licenza si dissolverono; lasciata opinione in molti e in Alfonso medesimo che se non gli era interrotto la facoltà di passare Po, arebbe ottenuta, per il muro rotto, Ferrara, dove non era gente alcuna, non sospetto, il duca ammalato gravemente, e il popolo in modo male sodisfatto di lui che pochissimi, in uno tumulto quasi improviso, arebbono prese l'armi o oppostisi al pericolo.

 

Cap. xv

Primo diffondersi delle idee luterane; occasione offerta dalla corte pontificia e scandalo della vendita delle indulgenze in Germania. Come Lutero passò a negare i princípi della Chiesa. Misure prese dal pontefice contro Lutero; perché poco giovarono.

Séguita l'anno mille cinquecento venti: nel quale, continuandosi per le medesime cagioni per le quali era stata conservata l'anno precedente la pace di Italia, cominciorono molto ad ampliarsi dottrine nate di nuovo, prima contro all'autorità della Chiesa romana dipoi contro alla autorità della cristiana religione. Il quale pestifero veleno ebbe origine nella Alamagna, nella provincia di Sassonia, per le predicazioni di Martino Lutero, frate professo dell'ordine di Santo Augustino, suscitatore per la maggiore parte, ne' princípi suoi, degli antichi errori de' boemi; i quali, reprobati per il concilio universale della Chiesa celebrato a Costanza, e abbruciati con l'autorità di quello Giovanni Hus e Ieronimo da Praga, due de' capi principali di questa eresia, erano stati lungamente ristretti ne' confini di Boemia. Ma a suscitargli nuovamente in Germania aveva dato occasione l'autorità della sedia apostolica, usata troppo licenziosamente da Lione; il quale, seguitando, nelle grazie che sopra le cose spirituali e beneficiali concede la corte, il consiglio di Lorenzo de' Pucci cardinale di Santi Quattro, aveva sparso per tutto il mondo, senza distinzione di tempi e di luoghi, indulgenze amplissime, non solo per potere giovare con esse a quegli che ancora sono nella vita presente ma con facoltà di potere oltre a questo liberare l'anime de' defunti dalle pene del purgatorio: le quali cose non avendo in sé né verisimilitudine né autorità alcuna, perché era notorio che si concedevano solamente per estorquere danari dagli uomini che abbondano piú di semplicità che di prudenza, ed essendo esercitate impudentemente da' commissari deputati a questa esazione, la piú parte de' quali comperava dalla corte la facoltà di esercitarle, avevano concitato in molti luoghi indegnazione e scandolo assai; e specialmente nella Germania, dove molti de' ministri erano veduti vendere per poco prezzo, o giuocarsi in su le taverne, la facoltà del liberare le anime de' morti dal purgatorio. E accrebbe [l'indegnazione] che il pontefice, il quale per la facilità della natura sua esercitava in molte cose con poca maestà l'officio pontificale, donò a Maddalena sua sorella lo emolumento e l'esazione delle indulgenze di molte parti di Germania, la quale, avendo fatto deputare commissario il vescovo Arcimboldo, ministro degno di questa commissione, che l'esercitava con grande avarizia ed estorsione, e sapendosi per tutta la Germania che i danari che se ne cavavano non andavano al pontefice o alla camera apostolica (donde pure sarebbe forse stato possibile che qualche parte se ne fusse spesa in usi buoni), ma era destinata a sodisfare all'avarizia d'una donna, aveva fatto detestabile non solo la esazione e i ministri di quella ma il nome ancora e l'autorità di chi tanto inconsultamente le concedeva. La quale occasione avendo presa il Lutero, e avendo cominciato a disprezzare queste concessioni e a tassare in queste l'autorità del pontefice, moltiplicandogli in causa favorevole agli orecchi de' popoli numero grande di uditori, cominciò ogni dí piú scopertamente a negare l'autorità del pontefice.

Da questi princípi forse onesti o almanco, per la giusta occasione che gli era data, in qualche parte scusabili, traportandolo l'ambizione e l'aura popolare, e il favore del duca di Sassonia, non solo fu troppo immoderato contro alla potestà de' pontefici e autorità della Chiesa romana; ma trascorrendo ancora negli errori de' boemi, cominciò in progresso di tempo a levare le immagini delle chiese, a spogliare i luoghi ecclesiastichi de' beni, permettere a' monachi e alle monache professe il matrimonio, convalidando questa opinione non solo con l'autorità e con gli argomenti ma eziandio con l'esempio di se medesimo; negare la potestà del papa distendersi fuora dello episcopato di Roma, e ogn'altro episcopo avere nella diocesi sua quella medesima autorità che aveva il papa nella romana; disprezzare tutte le cose determinate ne' concili, tutte le cose scritte da quegli che si chiamano i dottori della Chiesa, tutte le leggi canoniche e i decreti de' pontefici, riducendosi solo al Testamento Vecchio al libro degli Evangeli agli Atti degli apostoli e a tutto quello che si comprende sotto il nome del Testamento Nuovo e alle epistole di san Paolo, ma dando a tutte queste nuovi e sospetti sensi e inaudite interpretazioni. Né stette in questi termini la insania di costui e de' seguaci suoi, ma seguitata si può dire da quasi tutta la Germania, trascorrendo ogni dí in piú detestabili e perniciosi errori, penetrò a ferire i sagramenti della Chiesa, disprezzare i digiuni le penitenze e le confessioni; scorrendo poi alcuni de' suoi settatori, ma diventati già in qualche parte discrepanti dalla autorità sua, a fare pestifere e diaboliche invenzioni sopra la eucarestia. Le quali cose, avendo tutte per fondamento la reprobazione della autorità de' concili e de' sacri dottori, hanno dato adito a ogni nuova e perversa invenzione o interpretazione; e ampliatosi in molti luoghi, eziandio fuora della Germania, per contenere dottrina di sorte che, liberando gli uomini da molti precetti, trovati per la salute universale dai concili universali della Chiesa dai decreti de' pontefici dalla autorità de' canoni e dalle sane interpretazioni de' sacri dottori, gli riducono a modo di vita quasi libero e arbitrario.

Sforzavasi ne' princípi suoi di spegnere questa pestifera dottrina il pontefice, non usando per ciò i rimedi e le medicine convenienti a sanare tanta infermità. Perché citò a Roma Martino Luther sospeselo dallo officio del predicare, e dipoi per la inobbedienza sua lo sottopose alle censure ecclesiastiche; ma non si astenne da molte cose di pessimo esempio, e che dannate ragionevolmente da lui erano molestissime a tutti: donde il procedergli contro con l'armi ecclesiastiche non diminuí appresso a' popoli, anzi augumentò la riputazione di Martino, come se le persecuzioni nascessino piú dalla innocenza della sua vita e dalla sanità della dottrina che da altra cagione. Mandò il pontefice molti religiosi a predicare in Germania contro a lui, scrisse molti brevi a príncipi e a prelati; ma non giovando né questo né molti altri modi usati per reprimerlo (per la inclinazione de' popoli, e per il favore grande che nelle terre sue aveva dal duca di Sassonia), cominciava a parere in corte di Roma, ogni dí piú, questa causa piú grave, e a crescere la dubitazione che alla grandezza de' pontefici alla utilità della corte romana e alla unità della religione cristiana non ne nascesse grandissimo detrimento. Per questo si facevano quello anno a Roma spessi concistori, spesse consulte di cardinali e teologi deputati nella camera del pontefice, per trovare i rimedi a questo male che continuamente cresceva: e ancora che non mancasse chi riducesse in memoria che la persecuzione fattagli insino a quello dí, poi che non era accompagnata col correggere in loro medesimi le cose dannabili, gli aveva cresciuto la riputazione e la benivolenza de' popoli, e che minore male sarebbe stato dissimulare di non sentire questa insania, che forse per se medesima si dissolverebbe, che soffiando nel fuoco accenderlo e farlo maggiore; nondimeno, come è natura degli uomini di procedere volentieri a' rimedi caldi, non solo furono accresciute le persecuzioni contro a lui e contro agli altri suoi settatori, chiamati volgarmente i luterani, ma ancora deliberato uno monitorio gravissimo contro al duca di Sassonia, dal quale esacerbato diventò fautore piú veemente della causa sua. La quale, in spazio di piú anni, andò in modo moltiplicando che sia stato molto pericoloso che da questa contagione non resti infetta quasi tutta la cristianità. Né ha tanto raffrenato il corso suo cosa alcuna quanto lo essersi conosciuto, i settatori di questa dottrina non essere manco infesti alla potestà de' príncipi temporali che alla autorità de' pontefici romani; il che ha fatto che molti príncipi hanno, per lo interesse proprio, con vigilanza e con severità proibito che ne' regni suoi non entri questa contagione: e per contrario, nessuna cosa ha sostenuto tanto la pertinacia di questi errori (i quali qualche volta, per la troppa trasgressione de' capi di queste eresie e per la varietà ed eziandio contrarietà dell'opinioni tra loro medesimi, sono stati vicini a confondersi e a cadere) quanto la licenziosa libertà che nel modo del vivere ne hanno acquistato i popoli, e l'avarizia de' potenti per non restare spogliati de' beni che hanno occupati delle chiese.

Cap. xvi

Giampaolo Baglioni invitato a Roma dal pontefice, incarcerato e giustiziato. Nuove insidie del pontefice contro il duca di Ferrara. Incoronazione di Cesare in Aquisgrana; sue ragioni di preoccupazione. Minaccie di fanti spagnoli alle terre della Chiesa.

Non accadde questo anno in Italia cosa degna di memoria: salvo che, essendo in Perugia Giampaolo e Gentile della medesima famiglia de' Baglioni, o perché nascesse tra loro contenzione o perché Giampaolo, non gli bastando avere piú parte e piú autorità nel governo, volesse arrogarsi il tutto, cacciò Gentile di Perugia: il che essendo molesto al pontefice, lo fece citare che personalmente comparisse a Roma. Il quale, temendo a andarvi, mandò Malatesta suo figliuolo a giustificarsi, e a offerire a essere presto a obbidire a tutti i suoi comandamenti: ma instando pure il pontefice della venuta sua, poiché fu stato molti dí perplesso, si risolvé a andare, confidatosi parte nella antica servitú che in ogni tempo aveva avuto con la sua casa, parte persuaso da Cammillo Orsino suo genero e da altri amici suoi; i quali, usando l'autorità loro e valendosi di mezzi potenti appresso al pontefice, o ottennono fede espressa da lui (benché non per scrittura) o almanco furono dal pontefice usate tali parole con somma astuzia e fatte tali dimostrazioni che quegli che si confidavano potere ritrarre da lui la mente sua gli dettono animo a comparire, dandosi a intendere che egli potesse farlo sicuramente. Ma arrivato a Roma, trovò che il pontefice, sotto specie di sue ricreazioni come altre volte era solito di fare, era andato pochi dí innanzi in Castello Santo Angelo. Dove andando la mattina seguente Giampaolo per presentarsegli fu, innanzi arrivasse al cospetto suo, incarcerato dal castellano, e dipoi per giudici diputati esaminato rigorosamente confessò molti gravissimi delitti, sí per cose attenenti alla conservazione della tirannide come per piaceri nefandi e altri suoi interessi particolari; per i quali, poi che fu stato in carcere piú di due mesi, fu decapitato secondo l'ordine della giustizia: movendosi, secondo si credette, il pontefice a questo per avere, nella guerra d'Urbino, compreso per molti segni Giampaolo essere d'animo alieno da lui, avere tenuto pratiche con Francesco Maria, né potere in qualunque accidente gli sopravenisse fare fondamento fermo in lui, e conseguentemente, mentre che egli era in quello stato, nelle cose di Perugia. Le quali per riordinare a suo proposito, essendosi i figliuoli di Giampaolo fuggiti come ebbono nuove della sua retenzione, dette quella legazione a Silvio cardinale di Cortona, antico servidore e allievo suo; restituí Gentile in Perugia, al quale donò i beni che erano stati posseduti da Giampaolo, e appoggiandosi a uno subietto molto debole voltò la riputazione e grandezza a lui.

Continuò medesimamente questo anno il pontefice (attribuendo piú al caso o alla poca prudenza che ad altro l'occasione perduta del vescovo di Ventimiglia) di tentare nuove insidie contro al duca di Ferrara, per mezzo di Uberto da Gambara protonotario apostolico, con Ridolfel tedesco, capitano di alcuni fanti tedeschi che Alfonso teneva alla sua guardia; il quale gli aveva promesso dargli a suo piacere la entrata della porta di Castello Tialto. Dove potendo pervenire le genti che si mandassino da Bologna e da Modena, senza avere a passare il Po se non per il ponte di legname che è innanzi a quella porta, fu dato ordine a Guido Rangone e al governatore di Modena che, raccolte certe genti sotto altri colori, andassino allo improviso a occupare quella porta, per difenderla tanto che giugnessino gli aiuti da Modena e da Bologna; dove era posto ordine che la gente si movesse quasi popolarmente. Ma già statuito il dí dello assaltarla, si scoperse che Ridolfel, a chi per ordine del pontefice erano stati dati da Uberto da Gambara circa dumila ducati, aveva da principio comunicato ogni cosa con Alfonso; il quale, poi che ebbe scoperto assai della mente del pontefice e de' suoi disegni, non volendo che la cosa procedesse piú innanzi, tenne modo che la fraude di Ridolfel si publicasse.

In questo anno medesimo passò Cesare, per mare, di Spagna in Fiandra; avendo nel passare, non per necessità come aveva fatto il padre, ma volontariamente, toccato in Inghilterra, per parlare con quel re col quale restò in buona concordia. Di Fiandra andato in Germania ricevé, del mese d'ottobre, in Aquisgrana, città nobile per l'antica residenza e per il sepolcro di Carlo Magno, con grandissimo concorso, la prima corona, quella medesima, secondo che è la fama, con la quale fu incoronato Carlo Magno; datagli, secondo il costume antico, con l'autorità de' príncipi di Germania. Ma questa sua felicità era turbata dagli accidenti nati di nuovo in Spagna. Perché a' popoli di quei regni era stata molesta la promozione sua allo imperio, perché conoscevano che, con grandissima incomodità e detrimento di tutti, sarebbe per varie cagioni necessitato a stare non piccola parte del tempo fuora di Spagna; ma molto piú gli aveva mossi l'odio grande che avevano conceputo contro alla avarizia di quegli che lo governavano, massime contro a Ceures, il quale dimostratosi insaziabile aveva per tutte le vie accumulato somma grandissima di danari; il medesimo, avevano fatto gli altri fiamminghi, vendendo per prezzo a' forestieri gli uffici soliti darsi agli spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie privilegi ed espedizioni che si dimandavano alla corte: in modo che, concitati tutti i popoli contro al nome de' fiamminghi, avevano, alla partita di Cesare, tumultuato quegli di Vagliadulit; e appena uscito di Spagna, sollevati tutti, non, secondo dicevano, contro al re ma contro a' cattivi governatori, e comunicati insieme i consigli, non prestando piú ubbidienza agli offiziali regi, avevano fatta congregazione della maggiore parte de' popoli: i quali, data forma al governo, si reggevano in nome della santa giunta (cosí chiamavano il consiglio universale de' popoli). Contro a' quali essendosi levati in arme i capitani e ministri regi, ridotte le cose in manifesta guerra, erano tanto moltiplicati i disordini che Cesare piccolissima autorità vi riteneva: donde in Italia e fuora cresceva la speranza di coloro che arebbono desiderato diminuire tanta grandezza. Aveva nondimeno l'armata sua acquistato contro a' mori l'isola delle Gerbe, e in Germania era stata repressa in qualche parte la riputazione del re di Francia. Perché dando egli, per notrire discordie in quella provincia, favore al duca di Vertimberg discordante con la lega di Svevia, quegli popoli risentitisi potentemente lo cacciorono del suo stato e acquistato che lo ebbono lo venderono a Cesare, desideroso di abbassare i seguaci del re di Francia, obligandosi alla difesa contro a qualunque lo molestasse. Per il che quello duca, trovandosi distrutto sotto la speranza degli aiuti franzesi, fu necessitato ricorrere alla clemenza di Cesare, e da lui accettare quelle leggi, che gli furono date: non rimesso però per questo nella possessione del suo ducato.

Nella fine di questo anno medesimo, circa tremila fanti spagnuoli stati piú mesi in Sicilia, non volendo ritornare in Spagna secondo il comandamento avuto da Cesare, disprezzata l'autorità de' capitani, passorono a Reggio di Calavria; e procedendo con fare per tutto gravissimi danni verso lo stato della Chiesa, messono in grave terrore il pontefice (nell'animo del quale era fissa la memoria degli accidenti di Urbino) che, o sollevati da altri príncipi o accompagnandosi con il duca Francesco Maria, co' figliuoli di Giampaolo Baglione e con gli altri inimici della Chiesa, non suscitassino qualche incendio: massime recusando le offerte fatte dal viceré di Napoli e da lui di soldarne una parte, e agli altri fare donativo di danari. Dalle quali offerte preso maggiore animo, si movevano verso il fiume del Tronto, non per il paese stretto del Capitanato ma per il cammino largo di Puglia; e aggiugnendosi continuamente altri fanti e qualche cavallo, diventavano sempre piú formidabili. Nondimeno, si risolvé piú facilmente e piú presto che gli uomini non credevano questo movimento; perché passato il Tronto per entrare nella Marca anconitana, nella quale il pontefice aveva mandate molte genti, e andati a campo a Ripatransona, avendovi dato uno assalto gagliardo, perduti molti di loro, furno costretti a ritirarsi: per il che, diminuiti molto di animo e di riputazione, accettorono cupidamente da' ministri di Cesare condizioni molto minori di quelle le quali prima avevano disprezzate.