Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume quattordicesimo





Cap. i

L'anno 1521 porta nuove guerre, per la gelosia di due potentissimi re, all'Italia, stata per tre anni in pace. Il pontefice assolda seimila svizzeri, senza che alcuno sappia per quale impresa. Segreti accordi del pontefice col re di Francia. Il regno di Navarra conquistato all'antico re. I successi dei francesi determinano la concordia in Ispagna. Confederazione di Cesare e del pontefice contro il re di Francia. Ragioni di Cesare sul ducato di Milano.

Sedato nel principio dell'anno mille cinquecento ventuno questo piccolo movimento, temuto piú per la memoria fresca de' fanti spagnuoli che assaltorono lo stato d'Urbino che perché apparissino cagioni probabili di timore, cominciorono, pochi mesi poi, a perturbarsi le cose d'Italia, con guerre molto piú lunghe maggiori e piú pericolose che le passate; stimolando l'ambizione di due potentissimi re, pieni tra loro di emulazione di odio e di sospetto, a esercitare tutta la sua potenza e tutti gli sdegni in Italia: la quale, stata circa tre anni in pace, benché dubbia e piena di sospizione, pareva che avesse il cielo il fato proprio e la fortuna o invidiosi della sua quiete o timidi che, riposandosi piú lungamente, non ritornasse nella antica felicità. Principio a nuovi movimenti dettono quegli i quali, obligati piú che gli altri a procurare la conservazione della pace, piú spesso che gli altri la perturbano, e accendono con tutta la industria e autorità loro il fuoco; il quale, quando altro rimedio non bastasse, doverebbono col proprio sangue procurare di spegnere. Perché, se bene tra Cesare e il re di Francia crescessino continuamente le male inclinazioni, nondimeno né avevano cagioni molto urgenti alla guerra presente né eccedevano tanto l'uno l'altro di potenza in Italia né di alcuna opportunità che, senza compagnia di qualcun altro de' príncipi italiani, fussino bastanti a offendersi. Perché il re di Francia, avendo congiunti seco i viniziani alla difesa dello stato di Milano, ed essendo i svizzeri non pronti piú a fare le guerre in nome proprio ma disposti solamente a servire come soldati chi gli pagasse, non aveva cagione di temere movimento alcuno di Cesare, né per via del reame di Napoli né per via di Germania; né da altra parte aveva facilità di offendere Cesare nel reame di Napoli, non concorrendo seco a quella impresa il pontefice; il quale ciascuno di loro, con varie offerte e arti, si cercava di conciliare: in modo che si credeva che se il pontefice, perseverando a stare di mezzo tra tutti due, stesse vigilante e sollecito a temperare, con l'autorità pontificale e con la fede che gli darebbe la neutralità, gli sdegni, e reprimere l'origine de' consigli inquieti, si avesse a conservare la pace. Né si vedeva cagione che lo necessitasse a desiderare o a suscitare la guerra, perché e prima aveva tentato l'armi infelicemente e, amendue questi príncipi tanto grandi, aveva da temere parimente della vittoria di ciascuno di loro; conoscendosi chiaramente che quello che rimanesse superiore non arebbe né ostacolo né freno a sottoporsi tutta Italia. Possedeva tranquillamente e con grandissima ubbidienza lo stato amplissimo della Chiesa, e Roma e tutta la corte era collocata in sommo fiore e felicità, piena autorità sopra lo stato di Firenze, stato potente in quegli tempi e molto ricco; ed egli per natura dedito all'ozio e a' piaceri, e ora per la troppa licenza e grandezza alieno sopramodo dalle faccende, immerso a udire tutto dí musiche facezie e buffoni, inclinato ancora troppo piú che l'onesto a' piaceri che si godevano con grande infamia, pareva dovesse essere totalmente alieno dalle guerre. Aggiugnevasi che, avendo l'animo pieno di tanta magnificenza e splendore che sarebbe stato maraviglioso se per lunghissima successione fusse disceso di re grandissimi, né avendo nello spendere o nel donare misura o distinzione, non solo aveva in breve tempo dissipato con inestimabile prodigalità il tesoro accumulato da Giulio, ma avendo, delle espedizioni della corte e di molte sorte di offici nuovi, escogitati per fare danari, tratto quantità infinita di pecunia, aveva speso tanto eccessivamente che era necessitato continuamente a pensare modi nuovi da sostenere le profuse spese sue; nelle quali non solamente perseverava ma piú presto augumentava. Non aveva stimoli di fare grandi alcuni de' suoi; e se bene lo tormentasse il desiderio di recuperare Parma e Piacenza e di acquistare Ferrara, nondimeno non parevano cagioni bastanti a indurlo a rivolgere sottosopra lo stato quieto del mondo, ma piú presto a temporeggiare e ad aspettare l'opportunità e le occasioni. Ma è vero quello che si dice: non hanno gli uomini maggiore inimico che la troppa prosperità, perché gli fa impotenti di se medesimi, licenziosi e arditi al male e cupidi di turbare il bene proprio con cose nuove. Lione, costituito in tale stato, o riputandosi a grande infamia lo avere perduto Parma e Piacenza, acquistate con tanta gloria da Giulio, o non potendo contenere lo appetito ardente allo acquisto di Ferrara o parendogli, se moriva senza avere fatto qualche cosa grande, lasciare infame la memoria del suo pontificato, o dubitando, come diceva egli, che i due re, esclusi ciascuno dalla speranza di averlo congiunto seco e per questo poco abili a offendersi insieme, condiscendessino finalmente tra loro a qualche congiunzione che fusse a depressione della Chiesa e di tutto il resto d'Italia, o sperando, come io udi' poi dire al cardinale de' Medici conscio di tutti i suoi secreti, cacciati i franzesi di Genova e del ducato di Milano, potere poi facilmente cacciare Cesare del reame napoletano, vendicandosi quella gloria della libertà d'Italia alla quale prima aveva manifestamente aspirato l'antecessore (cosa che non potendo succedere a Leone con le proprie forze, sperava, mitigato prima in qualche parte l'animo del re di Francia con eleggere qualche cardinale desiderato da lui e col dimostrarsi pronto a concedergli delle altre grazie, indurlo a dargli aiuto contro a Cesare, come se fusse per pigliare in luogo di ristoro il sollazzo che a Cesare accadesse il medesimo che era accaduto a lui); qualunque lo movesse di queste cagioni, o una o piú o tutte insieme, voltò tutti i pensieri alla guerra e a unirsi con uno di questi due príncipi, e, congiunto con lui, muovere in Italia l'armi contra a l'altro. A' quali pensieri per trovarsi preparato, né potere intratanto essere oppresso da alcuno, mentre trattava con ciascuno ma piú strettamente col re di Francia, mandò in Elvezia Antonio Pucci vescovo di Pistoia (il quale ottenne poi in altro tempo da lui la degnità del cardinalato) a soldare e condurre nello stato della Chiesa seimila svizzeri; i quali essendogli senza difficoltà conceduti da' cantoni, per la confederazione che dopo la guerra di Urbino aveva rinnovata con loro, ottenuto il passo per lo stato di Milano, gli condusse nel dominio della Chiesa, intrattenendogli piú mesi in Romagna e nelle Marche. Essendo incerto ciascuno a che proposito, non essendo movimento alcuno in Italia, sostenesse oziosamente tanta spesa, egli affermava avergli chiamati per potere vivere sicuramente, sapendo che ogni dí erano da i ribelli della Chiesa macchinate cose nuove: la quale cagione non parendo verisimile, cadevano ne' discorsi degli uomini vari concetti: chi, che egli si fusse armato per timore che egli avesse del re di Francia, chi per qualche disegno di occupare Ferrara, chi che avesse inclinazione di cacciare Cesare del reame di Napoli. Ma tra lui e il re si trattava secretamente di assaltare con l'armi congiunte insieme il regno napoletano, con condizione che Gaeta e tutto quello che si contiene tra il fiume del Garigliano e i confini dello stato ecclesiastico si acquistasse per la Chiesa, il resto del regno fusse del secondogenito del re di Francia; il quale, per essere di età minore, avesse a essere insino che e' fusse di età maggiore governato insieme col reame da uno legato apostolico, che risedesse a Napoli. Conteneva oltre a questo, la capitolazione che il re dovesse aiutarlo contro a' sudditi e i feudatari della sedia apostolica, condizione appartenente allo stabilimento delle cose possedute dalla Chiesa ma non meno alla cupidità che aveva il pontefice di acquistare Ferrara.

Nel quale tempo, molto opportunamente a questi disegni, il re di Francia, invitato dalla occasione de' tumulti di Spagna e confortatone (secondo che poi querelandosi affermava) dal pontefice, mandò uno esercito sotto Asparoth fratello di Lautrech in Navarra, per recuperare quel regno al re antico; e nel tempo medesimo [operò che] Ruberto della Marcia e il duca di Ghelleri cominciassino a molestare i confini della Fiandra. Le discordie di Spagna feceno facile ad Asparoth acquistare il regno di Navarra, destituto da ogni aiuto e nel quale non era spenta la memoria del primo re: ma avendo con le artiglierie espugnata la rocca di Pampalona, entrato ne' confini del regno di Castiglia, occupò Fonterabia e corse insino a Logrogno; donde, come spesso avviene nelle cose umane, giovò a Cesare quel che gli uomini avevano creduto dovergli nuocere. Perché le cose di Spagna, travagliate insino a quel dí con vari progressi, erano ridotte in grandissime turbolenze: essendo da una parte congiunti i popolari e plebei, dall'altra avendo prese l'armi in beneficio di Cesare molti signori, i quali per lo interesse degli stati temevano la licenza popolare: la quale proceduta a manifesta ribellione, desiderosa di avere capo di autorità, aveva tratto della rocca di Sciativa il duca di Calavria; il quale, ricusando di pigliare l'armi contro a Cesare, non volle discostarsi dalla carcere. Ma l'essere assaltato il regno proprio di Castiglia dal re di Francia commosse in modo gli animi de' popoli, i quali senza dispiacere avevano tollerata la perdita del regno di Navarra, benché diventato per la unione fatta dal re cattolico membro de' regni loro, che, parte per questa cagione parte per qualche prospero successo che aveva avuto l'esercito cesareo, tutto il reame di Spagna, deposte piú facilmente le contenzioni tra loro medesimi, ritornò all'obbedienza del suo re.

Alla prosperità del re di Francia, per la vittoria cosí facile del reame di Navarra, si aggiunse, se avesse saputo usare la occasione, maggiore successo; perché i svizzeri, appresso a' quali erano gli imbasciadori suoi e di Cesare, sforzandosi ciascuno di essi di congiugnersi con loro, rifiutata, contro la opinione di molti e contro la intenzione che avevano data, l'amicizia di Cesare, abbracciorono la congiunzione col re di Francia, obligandosi a concedere agli stipendi suoi quanti fanti volesse, a qualunque impresa, e di non ne concedere ad alcuno altro per usargli a offesa di quello re.

Restava la esecuzione della capitolazione fatta a Roma tra il pontefice e lui: della quale essendogli ricercata la ratificazione, cominciò a stare sospeso, essendogli messo sospetto da molti che, atteso la duplicità del pontefice e l'odio che, assunto al pontificato, gli aveva continuamente dimostrato, era da dubitare di qualche fraude. Non essere verisimile che il pontefice desiderasse che in lui o ne' figliuoli pervenisse il reame di Napoli, perché avendo quello regno e il ducato di Milano temerebbe troppo la sua potenza: per certo, tanta benivolenza scopertasi cosí di subito non essere senza misterio. Avvertisse bene alle cose sue dagli inganni, e che credendo acquistare il regno di Napoli non perdesse lo stato di Milano; perché mandando lo esercito a Napoli, sarebbe in potestà del pontefice che aveva seimila svizzeri, intendendosi co' capitani di Cesare, disfarlo, e disfatto quello, che difesa rimanere a Milano? Né essere da maravigliarsi che il pontefice, avendo tentato che con le forze gli fusse tolto quel ducato, disperato di poterlo ottenere altrimenti, cercasse privarnelo con gli inganni. Queste ragioni commossono il re in modo che, stando dubbio del ratificare e forse aspettando risposta di altre pratiche, non avvisava a Roma cosa alcuna, lasciando sospesi il pontefice e gli imbasciadori suoi. Ma il pontefice, o perché veramente, governandosi con le simulazioni consuete, avesse l'animo alieno dal re o perché, come vidde passati tutti i termini del rispondere, sospettasse di quel che era, e temesse che il re non scoprisse a Cesare le sue pratiche e che tra loro per questo potesse nascere congiunzione in pregiudicio suo, concitato ancora dal desiderio ardente che aveva di ricuperare Parma e Piacenza e di fare qualche cosa memorabile, sdegnato oltre a questo dalla insolenza di Lautrech e del vescovo di Tarba suo ministro, i quali non ammettendo nello stato di Milano alcuno comandamento o provisioni ecclesiastiche le dispregiavano con superbissime e insolentissime parole, deliberò di congiugnersi, contro al re di Francia, con Cesare. Il quale, irritato dalla guerra di Navarra, stimolato da molti fuorusciti di Milano, commosso ancora da alcuni del consiglio suo desiderosi di abbassare la grandezza di Ceures, che aveva sempre dissuaso il separarsi dal re di Francia, si risolvé a confederarsi col pontefice contro al re; alla qual cosa si crede lo facesse accelerare la speranza di potere facilmente, con l'autorità del pontefice e con la sua, indebolire la lega fatta co' svizzeri, innanzi che con doni e con gratificarsegli la consolidasse. Indusse anche a maggiore confidenza l'animo del pontefice che Cesare, avendo udito nella dieta di Vuormazia Martino Luther, chiamato da lui sotto salvocondotto, e fatto esaminare le cose sue da molti teologi, i quali avevano referito essere dottrina erronea e perniciosa alla religione cristiana, gli dette per gratificare al pontefice il bando imperiale. La qual cosa spaventò tanto Martino che, se le parole ingiuriose e piene di minacci che gli disse il cardinale di San Sisto legato apostolico non lo avessino condotto a ultima disperazione, si crede sarebbe stato facile, dandogli qualche degnità o qualche modo onesto di vivere, farlo partire dagli errori suoi. Ma quello che si sia di questo, fu fatta tra il pontefice e Cesare, senza saputa di Ceures il quale insino a quel tempo aveva avuto in lui somma autorità, e il quale opportunamente morí quasi ne' medesimi dí, confederazione a difesa comune, eziandio della casa de' Medici e de' fiorentini: con aggiunta [di] rompere la guerra nello stato di Milano, in quegli tempi e modi che insieme convenissino: il quale acquistandosi, restasse alla Chiesa Parma e Piacenza, che le tenesse con quelle ragioni con le quali le aveva tenute innanzi, e che, atteso che Francesco Sforza, che era esule a Trento, pretendeva ragione nello stato di Milano per la investitura paterna e per la rinunzia del fratello, che acquistandosi fusse messo alla possessione, obligati i collegati a mantenervelo e difendervelo; che il ducato di Milano non consumasse altri sali che quegli di Cervia: permesso al papa non solo di procedere contro a' sudditi e feudatari suoi, ma obligato eziandio Cesare, acquistato che fusse lo stato di Milano, ad aiutarlo contro a loro; e nominatamente allo acquisto di Ferrara. Fu accresciuto il censo del reame di Napoli; promessa al cardinale de' Medici una pensione di diecimila ducati in su l'arcivescovado di Tolleto vacato nuovamente, e uno stato nel reame di Napoli di entrata di diecimila ducati per Alessandro figliuolo naturale di Lorenzo già duca d'Urbino.

Per declarazione delle quali cose pare necessario brevemente raccontare quali Cesare pretendeva che fussino in questo tempo le ragioni dello imperio sopra il ducato di Milano. Affermavasi per la parte di Cesare che a quello stato non erano di momento alcuno le ragioni antiche de' duchi di Orliens, per non essere stato confermato con l'autorità imperiale il patto della successione di madama Valentina; e che al presente apparteneva immediatamente allo imperio, perché la investitura fatta a Lodovico Sforza per sé e per i figliuoli era stata revocata dall'avolo, con amplitudine di tante clausule che la revocazione aveva avuto giuridicamente effetto, in pregiudicio massime de' figliuoli, i quali non l'avendo mai posseduto avevano ragione in speranza e non in atto; e perciò essere stata valida la investitura fatta al re Luigi, per sé e per Claudia sua figliuola, in caso si maritasse a Carlo, e con patto che non seguendo il matrimonio senza colpa di Carlo fusse nulla, e che Milano per la via retta passasse a Carlo; il quale ne fu, in caso tale, presente il padre Filippo, investito. Da questo inferirsi che di niuno valore era stata la seconda investitura fatta al medesimo re Luigi per sé, per la medesima Claudia e per Anguelem, in pregiudicio di Carlo pupillo, e costituito sotto la tutela di Massimiliano. Nella quale non potendo fare fondamento alcuno il re presente, meno poteva allegare appartenersigli quel ducato per nuove ragioni: perché da Cesare non aveva mai né ottenuta né dimandata la investitura; ed essere manifesto non gli potere giovare la cessione fatta da Massimiliano Sforza quando gli dette il castello di Milano, perché il feudo alienato di propria autorità ricade incontinente al signore soprano, e perché Massimiliano, benché ammesso di consentimento di Cesare, morto in quello stato non n'avendo mai ricevuta la investitura, non poteva trasferire in altri quelle ragioni che a sé non appartenevano.

Cap. ii

Progetti e tentativi contro Genova e contro il ducato di Milano da parte degli spagnuoli, del pontefice, dello Sforza e dei fuorusciti. Le milizie francesi sotto Reggio; incidenti coi fuorusciti raccolti a Reggio: abboccamento dello Scudo col Guicciardini. Scoppio di polvere e rovina di mura del castello di Milano.

Fatta adunque, ma occultissimamente, la confederazione tra il pontefice e Cesare contro al re di Francia, fu consiglio comune procedere, innanzi che manifestamente si movessino l'armi, o con insidie o con assalto improviso, in un tempo medesimo, per mezzo de' fuorusciti, contro al ducato di Milano e contro a Genova. Deliberossi adunque che le galee di Cesare, che erano a Napoli, e quelle del pontefice si presentassino all'improviso nel porto di Genova, armate di duemila fanti spagnuoli, e conducendo seco Ieronimo Adorno; per l'autorità e séguito del quale, movendosi similmente nel tempo medesimo, per opera sua, gli uomini delle riviere partigiani degli Adorni, speravano che quella città tumultuasse. Da altra parte era stato trattato, per Francesco Sforza e per Ieronimo Morone che era a Trento appresso a lui, con molti de' principali de' fuorusciti, che in Parma in Piacenza e in Cremona fussino assaltate allo improviso le genti franzesi che vi erano alloggiate, e il medesimo si facesse in Milano; e che Manfredi Palavicino e il Matto di Brinzi, capo di parte in quelle montagne, conducendo fanti tedeschi per il lago di Como, assaltassino quella città, dove affermavano avere secreta intelligenza; e che succedendo queste cose o alcuna delle piú importanti, i fuorusciti di Milano, che erano molti gentiluomini (i quali si avevano occultamente a trasferire a Reggio, dove il dí destinato doveva essere Ieronimo Morone), si movessino per entrare nello stato; facendo con piú prestezza si poteva tremila fanti: al quale effetto il pontefice mandò a Francesco Guicciardini, governatore già molti anni di Modena e di Reggio, diecimila ducati, con commissione che gli desse al Morone per fare secretamente fanti che fussino preparati al successo di queste cose; alle quali il Guicciardino prestasse favore ma occultamente, e in maniera tale che dalle azioni de' ministri non potesse il re di Francia o querelarsi o fare sinistra interpretazione del pontefice. Ma non fu felice l'evento d'alcuna di queste cose. L'armata andata a Genova, di sette galee sottili quattro brigantini e alcune navi, si presentò invano al porto, perché il doge Fregoso, presentendo la loro venuta, aveva opportunamente proveduta la terra; però non sentendo muoversi cosa alcuna si ritirorno nella riviera di levante. E in Lombardia, essendo quel che si trattava, e il dovere venire Ieronimo Morone a Reggio, in bocca di molti fuorusciti, Federico da Bozzole, pervenutogli all'orecchie, andò a Milano a notificarlo allo Scudo, il quale teneva a Milano il luogo del fratello che poco innanzi era andato in Francia; il quale, raccolte le genti d'arme alloggiate in vari luoghi e dato ordine a Federico che dalle sue castella menasse mille fanti, andò subito con quattrocento lancie a Parma, certificandosi mentre andava, a ogn'ora piú, della verità di quel che Federico gli avea riferito; perché i fuorusciti, non seguitando l'ordine dato dello adunarsi secretamente, erano palesemente andati a Reggio, facendo in tutti i luoghi circostanti richieste d'uomini e dimostrazioni manifeste d'avere senza indugio a tentare cose nuove: nel quale modo di procedere continuò Ieronimo Morone venuto dopo loro, mosso per avventura perché quanto piú scopertamente si procedeva tanto piú si genererebbe inimicizia tra il pontefice e il re.

Appariva già manifestamente a tutti la vanità di queste macchinazioni; e nondimeno lo Scudo, giunto a Parma, deliberò la mattina seguente, dí solenne per la natività di san Giovanni Batista, appresentarsi alle porte di Reggio; sperando potere avere occasione di prendere tutti o parte de' fuorusciti, o mentre che essi sentendo la sua venuta fuggissino della terra o perché, non vi essendo soldati forestieri, il governatore, uomo di professione aliena dalla guerra, e gli altri, spaventati, gliene dessino, o forse nella trepidazione della città sperando avere qualche occasione di entrarvi dentro. Presentí qualche cosa il governatore di questo: e benché, non essendo ancora noto l'assalto di Genova, non gli paresse verisimile che lo Scudo senza comandamento del suo re, dando quasi principio alla guerra, entrasse con l'armi nel dominio del pontefice, nondimeno, considerando quali spesso siano gl'impeti de' franzesi, per non essere del tutto sproveduto, mandò subito a chiamare Guido Rangone che era nel modenese, che la notte medesima venisse a Reggio; ordinò che de' fanti soldati dal Morone venisse, la notte medesima, quella parte che era in alloggiamenti piú vicini; che il popolo della terra, quale sapeva essere alieno da' franzesi, al suono della campana si riducesse alla guardia delle porte, consegnata a ciascuno la cura sua. Venne lo Scudo la mattina seguente con quattrocento lancie, dietro alle quali, ma lontano per qualche miglio, veniva Federigo da Bozzole con mille fanti; e avendo, come fu vicino alla terra, mandato Buonavalle uno de' suoi capitani al governatore a dimandare di volere parlare con lui, si convennono che lo Scudo si accostasse a una portella che entra nel rivellino della porta che va a Parma e che nel luogo medesimo venisse il governatore, sicuro ciascuno di loro sotto la fede l'uno dell'altro. Cosí venuto innanzi lo Scudo, e smontato a piede, si accostò con parecchi gentiluomini a quella porta, donde uscito il governatore cominciorono a parlare insieme; lamentandosi l'uno che nelle terre della Chiesa, contro a' capitoli della confederazione, si desse ricetto e fomento a' fuorusciti, adunati per turbare lo stato del re; l'altro che egli, con esercito armato, fusse entrato allo improviso nel dominio della Chiesa. Nel quale stato avendo alcuni del popolo, contro all'ordine dato, aperto una delle porte per introdurre uno carro carico di farina, Buonavalle che era di contro a quella porta, perché le genti dello Scudo sparsesi intorno alle mura ne circondavano una parte, si spinse innanzi con alcuni uomini d'arme, per entrare dentro; ma essendone cacciato e serrata la porta con grande strepito, il romore, venuto nel luogo dove lo Scudo e il governatore parlavano, fu cagione che quegli della terra e alcuni de' fuorusciti, de' quali erano piene le mura del rivellino, scaricati gli scoppi contro a quegli che erano vicini allo Scudo, ferirno gravemente Alessandro da Triulzio, della quale ferita morí fra due giorni, indegno certamente di questa calamità perché avea dissuaso il venire a Reggio; gli altri fuggirono: né salvò lo Scudo altra cosa che il rispetto che ebbe, chi voleva tirare a lui, di non percuotere il governatore. Ma essendo egli pieno di spavento, e lamentandosi essergli mancato della fede, né sapendo risolversi o a stare fermo o a fuggire, il governatore, presolo per la mano e confortandolo che sopra la fede sua lo seguitasse, lo introdusse nel rivellino; non l'accompagnando altri de' suoi che La Motta gentiluomo franzese: e fu cosa maravigliosa che tutte le genti d'arme, come intesono lo Scudo essere entrato dentro, andata tra loro la voce che era stato fatto prigione, si messono in fuga, con tanto timore che molti di loro gittorno le lancie per le strade, pochissimi furono quegli che aspettassino lo Scudo. Il quale, dopo lungo parlamento ed essere stato certificato che il disordine era nato da' suoi, fu licenziato dal governatore; il quale, rispetto alla fede data e alle commissioni avute dal pontefice di non fare dimostrazione alcuna contro al re, non volle ritenerlo. Della quale ritenzione non sarebbe seguito lo effetto, che allora per molti si credette, della rebellione dello stato di Milano: perché le genti d'arme, se bene messe in fuga, non essendo seguitate da alcuno perché in Reggio erano pochissimi cavalli, e avendo riscontrato a' confini del reggiano Federico da Bozzole che veniva innanzi con mille fanti, si fermorono e riordinorono; e il terrore cominciato a Parma e a Milano, per essere stati i primi avvisi che lo Scudo era prigione e le genti d'arme rotte, non sarebbe andato innanzi come si fusse inteso le genti d'arme essere salve: non essendo massime, in luoghi vicini, esercito né forze da potere fare movimento alcuno, e restandovi molti altri capitani di genti d'arme. Ritirossi lo Scudo, raccolti i cavalli e i fanti, a Covriago, villa del reggiano vicina a sei miglia di Reggio, donde tra pochi dí si ritirò di là da Lenza in parmigiano; avendo mandato a Roma La Motta, a giustificare col pontefice le cagioni dello essere andato a Reggio e a fare instanza che, secondo i capitoli che erano tra il re e lui, cacciasse i rebelli del re fuora dello stato della Chiesa.

Ma ne' dí medesimi, uno caso che accadette a Milano spaventò molto l'animo de' franzesi, come se con segni manifesti fussino ammuniti dal cielo delle future calamità. Perché il dí solenne per la memoria della morte del principe degli apostoli, tramontato già il sole nel cielo sereno, cadde per l'aria da alto a guisa di uno fuoco innanzi alla porta del castello, ove erano stati condotti molti barili di polvere d'artiglieria, tratti del castello per mandargli a certe fortezze; per il che, levatosi subitamente con grande strepito grande incendio, ruinò insino da' fondamenti una torre di marmo bellissima fabbricata sopra la porta, nella sommità della quale stava l'orologio, né solamente la torre ma le mura e le camere del castello e altri edifici contigui alla torre; tremando nel tempo medesimo, per il tuono smisurato e per la ruina tanto grande, tutti gli edifici e tutta la città di Milano: e i sassi e pietre grandissime dalle ruine volavano con impeto incredibile spaventosamente in qua e in là per l'aere, ora percotendo nel balzare molte persone ora ricoprendole con le ruine, dalle quali era ricoperta, con tanti sassi che pareva cosa stupendissima, la piazza del castello; de' quali alcuni di smisurata grandezza volorono lontani per ispazio piú di cinquecento passi. Ed era l'ora propria che gli uomini, cercando di ricrearsi dal caldo, andavano passeggiando per la piazza; però furno ammazzati piú di cento cinquanta fanti del castello e il castellano della rocchetta e quello del castello, e gli altri tanto attoniti e privi di animo e di consiglio: e ruinato tanto spazio di muro che al popolo, se si fusse mosso, sarebbe stato molto facile l'occupare quella notte il castello.

Cap. iii

Lamentele del pontefice per i fatti di Reggio ed aperti suoi accordi con Cesare. Fallito tentativo contro Como. Preparativi e piani di guerra contro il ducato di Milano. Preparativi di difesa del re di Francia.

Ma il pontefice, come gli fu nota la venuta dello Scudo alle porte di Reggio, pigliandola per occasione di giustificare le sue azioni, se ne lamentò gravissimamente nel concistorio de' cardinali; e tacendo la confederazione già prima fatta secretamente con Cesare, e l'ordine dato che le galee dell'uno e dell'altro assaltassino Genova, dimostrò che lo avere voluto lo Scudo occupare Reggio significava la mala disposizione che aveva il re di Francia contro allo stato della sedia apostolica, e però essere, per difesa di quella, necessitato a congiugnersi con Cesare, del quale non si era mai veduto se non offici degni di principe cristiano, e in tutte l'altre opere sue, e nello avere ultimamente preso a Vuormazia sí ardentemente il patrocinio della religione. Cosí, simulando contrarre di nuovo, con don Gian Manuelle oratore di Cesare, la confederazione che prima era contratta, chiamorno subito a Roma Prospero Colonna, al quale era stabilito di commettere il governo della impresa, per consultare seco con che modo e con che forze si avesse a muovere l'armi apertamente, poiché erano state infelici le insidie e gli assalti improvisi.

Imperocché, né era stato piú fortunato il trattato di Como. Perché essendo Manfredi Palavicino e il Matto di Brinzi, con ottocento fanti tra italiani e tedeschi, accostatisi di notte alle mura di Como, sotto speranza che Antonio Rusco, cittadino di quella città, rompesse tanto muro vicino alla casa ove abitava che avessino facoltà di entrare nella terra, dove, perché vi erano pochi franzesi, non credevano trovare resistenza, ma avendo aspettato per grande spazio di tempo invano, il governatore della terra, adunati tutti i franzesi e alquanti comaschi che teneva per piú fedeli, ma con numero molto minore che non erano quegli di fuora, assaltatigli allo improviso, gli messe in fuga con tanta facilità che si credette per molti che avesse con danari e con promesse corrotto il capitano de' tedeschi. Affondorno nel lago tre barche, presonne sette e molti degli inimici, tra' quali Manfredi e il Matto che fuggivano per la via de' monti; e liberati tutti i fanti tedeschi, gli altri furono condotti a Milano, dove Manfredi e il Matto furono squartati publicamente: avendo prima confessato, Bartolommeo Ferrero milanese, uomo di non piccola autorità, essere conscio delle pratiche del Morone. Il quale, incarcerato insieme col figliuolo, fu condannato al medesimo supplicio, per non avere rivelato che il Morone l'aveva con occulte imbasciate stimolato a trattare cose nuove contro al re.

Nel qual tempo il pontefice, conoscendo di quanta opportunità fusse lo stato di Mantova alle guerre di Lombardia, condusse per capitano generale della Chiesa Federico marchese di Mantova, con dugento uomini d'arme e dugento cavalli leggieri; il quale, innanzi si conducesse, rinunziò all'ordine di San Michele, nel quale era stato assunto dal re di Francia, e gli rimandò il collare e il segno che dona il re a chi si assume in tale ordine. Ma a Roma, con consiglio di Prospero Colonna, fu deliberato dal pontefice e dallo oratore cesareo l'ordine e il modo di procedere nella guerra: che quanto piú presto si potesse si assaltasse dai confini della Chiesa lo stato di Milano con le genti d'arme del pontefice e de' fiorentini, le quali, computato la condotta del marchese di Mantova, ascendevano al numero vero seicento uomini d'arme; a' quali si aggiugnessino tutte le genti d'arme di Cesare che erano nel reame di Napoli, in numero quasi pari a quelle di sopra, perché si destinava che il retroguardo rimanesse alla custodia di quello reame: che si soldassino seimila fanti italiani; venissino allo esercito, che aveva a unirsi tra il modenese e il reggiano, i dumila fanti spagnuoli che con lo Adorno si trovavano nella riviera di Genova; dumila altri ne menasse del regno di Napoli il marchese di Pescara, e si conducessino a spese comuni del pontefice e di Cesare quattromila fanti tedeschi e dumila grigioni: aggiugnessinsi dumila svizzeri, i quali erano volontariamente rimasti a' soldi del pontefice: perché gli altri, infastiditi dal lungo ozio e perché si approssimava il tempo delle ricolte, erano, prima che lo Scudo venisse a Reggio, ritornati alle case loro, avendo invano procurato di ritenergli il pontefice poiché in essi aveva spesi inutilmente cento e cinquantamila ducati. Deliberossi, oltre a questi provedimenti, che con l'autorità del pontefice e di Cesare si facesse instanza appresso a' cantoni de' svizzeri che concedessino seimila fanti (tanti erano obligati concederne per le convenzioni che avea con loro il pontefice), e che al re di Francia recusassino di concederne, allegando il pontefice la confederazione sua con loro essere anteriore di tempo a quella che aveano contratta col re di Francia; e che ottenendosi queste dimande si assaltasse, dalla parte di verso Como, il ducato di Milano, nel quale si sperava avesse facilmente a nascere sollevazione, per la moltitudine grande de' fuorusciti d'onoratissime famiglie, e perché la benivolenza che i popoli solevano avere al nome del re Luigi era convertita in odio non mediocre. Conciossiaché, essendo state le genti d'arme, che ordinariamente stavano a guardia di quello stato, male pagate per i disordini del re, che era stato, parte per necessità parte per volontà, aggravato da soperchie spese, erano vivute con molta licenza; né i governatori regi, presa audacia dalla negligenza del re, amministravano quella giustizia che era solita ad amministrarsi nel tempo del re morto: il quale, affezionatissimo al ducato di Milano, aveva sempre tenuto cura particolare degli interessi suoi. Premevagli, oltre a questo, che nelle case proprie erano costretti, secondo l'uso di Francia, alloggiare continuamente gli ufficiali e i soldati franzesi; il che se bene non fusse con loro spesa, nondimeno, essendo cosa perpetua, era di somma incomodità e molestia: e avvenga che questo peso medesimo sostenessino al tempo del re passato, il quale, scusando con l'esempio della città di Parigi, non aveva mai voluto concederne grazia a' milanesi, nondimeno, accompagnato da' mali già detti, pareva al presente piú grave. E si aggiugneva la natura de' popoli desiderosi di cose nuove, e la inclinazione sí ardente, che hanno gli uomini, a liberarsi dalle molestie presenti che non considerano quel che succederà per l'avvenire.

La fama della guerra deliberata dal pontefice e da Cesare, con apparecchi tanto potenti, pervenuta agli orecchi del re di Francia lo costrinse a pensare di difendere, con non manco potenti provisioni, il ducato di Milano; delle quali la prima espedizione fu che Lautrech, andato per faccende particolari alla corte, ritornasse subito a Milano. Il quale, se bene, dubitando della varietà e della negligenza del re e di quegli che governavano, recusasse di partirsi se prima non gli erano numerati trecentomila ducati, i quali affermava bastargli a difendere quello stato, nondimeno, vinto dalla instanza grande del re e della madre, e ingannato dalla fede datagli da loro e da' ministri preposti alla amministrazione delle pecunie che non prima arriverebbe a Milano che i danari dimandati, ritornò con grandissima celerità, preparando sollecitamente le cose necessarie alla difesa; per la quale aveva insieme col re deliberato che alle genti d'arme regie che allora erano in Lombardia si unissino gli aiuti di seicento uomini d'arme e di seimila fanti a' quali erano tenuti i viniziani, che prontamente gli offerivano, e già facevano cavalcare le genti d'arme nel veronese e nel bresciano; soldare diecimila svizzeri, tenendo per certo che per virtú della nuova confederazione non sarebbono negati; e fare passare di Francia in Italia seimila venturieri, e aggiugnere qualche numero di fanti italiani. Co' quali sussidi speravano o potere senza molto pericolo tentare la fortuna di una giornata o, quando non avessino forze bastanti a questo, almeno, provedendo sufficientemente le terre e temporeggiando in sulle difese, straccare gli inimici; de' quali l'uno, per la sua naturale prodigalità e per le spese fatte nella guerra di Urbino, era esausto di danari, all'altro i regni suoi non ne somministravano copia tale che si credesse potere lungamente nutrire una guerra di tanto peso. Pensavano, oltre a questo, che Alfonso da Esti, disperando dello stato proprio se il pontefice otteneva la vittoria, o si movesse per ricuperare le cose perdute o almeno, stando armato, tenesse il pontefice in sospetto tale che e' fusse necessitato a lasciare molti soldati alla guardia delle terre vicine a' suoi confini. Questi erano i consigli e i preparamenti da ciascuna delle parti: non omettendo per ciò il re fatica o industria alcuna, ma vanamente, per mitigare l'animo del pontefice.

Cap. iv

Le milizie pontificie e spagnuole vicino a Parma; Francesco Guicciardini commissario generale dell'esercito pontificio. Arrivo delle milizie tedesche. Diversità di pareri fra i comandanti. Lentezza nell'azione ripresa dal commissario, deliberazione di porre il campo a Parma.

Era in questo tempo Prospero Colonna a Bologna: donde, non aspettate le genti che doveano venire del reame di Napoli né i fanti tedeschi, raccolti gli altri soldati e lasciate sufficientemente guardate, per sospetto del duca di Ferrara, Modona, Reggio, Bologna, Ravenna e Imola, venne ad alloggiare in sul fiume della Lenza vicino a Parma a cinque miglia; pieno di speranza che i franzesi non avessino a ottenere fanti da' svizzeri e che, per questo e per la malivolenza de' popoli, avessino a pensare piú di abbandonare che a difendere il ducato di Milano. Ma la cosa succedette altrimenti; perché i cantoni, con tutto che in contrario facessino instanza grandissima il cardinale sedunense e gli oratori del pontefice e di Cesare, deliberorno concedere al re i fanti secondo erano tenuti per l'ultime convenzioni, i quali mentre si preparavano era venuto a Milano Giorgio Soprasasso con [quattro]mila fanti vallesi: onde Lautrech, volendo difendere Parma, vi avea mandato lo Scudo suo fratello con quattrocento lancie e cinquemila fanti italiani de' quali era capitano Federico da Bozzole. Sentivasi oltre a questo che i viniziani raccoglievano le loro genti a Pontevico per mandarle in aiuto del re di Francia, e che il duca di Ferrara soldava fanti. Perciò Prospero, conoscendo essere necessarie maggiori forze, stette sette dí in quello alloggiamento; nel quale tempo si congiunsono con l'esercito [quattro]cento lancie spagnuole guidate da Antonio de Leva, che venivano del reame di Napoli, e il marchese di Mantova con parte delle sue genti: non si alterando perciò, per la venuta del marchese capitano generale di tutte le genti della Chiesa, l'autorità di Prospero Colonna, nella persona del quale, per volontà del pontefice e di Cesare, risedeva, benché senza alcuno titolo, il governo di tutto l'esercito; anzi la potestà suprema di comandare a tutte le genti della Chiesa, e al marchese di Mantova nominatamente, era in Francesco Guicciardini che aveva il nome di commissario generale dello esercito ma, sopra il consueto de' commissari, con grandissima autorità. Condusse di poi Prospero l'esercito a San Lazzero, un miglio appresso a Parma, in sulla strada che va a Reggio, con deliberazione di non procedere piú oltre insino a tanto non venisse il marchese di Pescara, il quale si aspettava del regno con [tre]cento lancie e duemila fanti spagnuoli, e insino non venivano i fanti tedeschi: nel qual tempo non si faceva a' parmigiani altra molestia che ingegnarsi, col divertire l'acque e rompere i mulini, che avessino difficoltà di macinare.

Ma l'espettazione degli uomini era volta alla venuta de' tedeschi, contro a' quali per impedire che non passassino mandavano i viniziani nel veronese, a instanza de' franzesi, parte delle loro genti: perché, venuti a [Spruch], dimandavano volere ricevere lo stipendio del primo mese a Trento, e di essere, alle radici della montagna di Monte Baldo, onde dicevano volere passare, incontrati da qualche numero di cavalli, per potere con la compagnia loro passare innanzi piú sicuramente. Però Prospero aveva mandato a Mantova dugento cavalli leggieri, perché congiunti con dumila fanti comandati del territorio mantovano e con l'artiglierie del marchese, il quale, in tutte le cose, per gratificare al pontefice e a Cesare, procedeva come in causa propria, non come soldato, si facessino innanzi. Piú difficile era il pagargli a Trento, perché numerandosi [i danari] eziandio per la parte di Cesare, dal pontefice, non si potevano mandare per il paese de' viniziani se non con grave pericolo. Intesa poi l'opposizione de' viniziani, dimandorno i tedeschi maggiori aiuti, variando eziandio nel tempo del passare la montagna e nel cammino: e perciò fu ordinato che il marchese di Pescara, che era arrivato nel modonese, si voltasse nel mantovano; al quale furno mandati dal campo cento uomini d'arme e trecento fanti spagnuoli. Ultimatamente i tedeschi, impazienti di aspettare il tempo che aveano significato, feceno di nuovo intendere volere anticipare cinque dí; affermando che aspetterebbono alle radici di Monte Baldo i cavalli un dí solamente e, non venendo, ritornerebbeno indietro. Al qual tempo non potendo esservi il marchese di Pescara, fu necessario che dal campo vi andassino con grandissima celerità Guido Rangone e Luigi da Gonzaga: provedimenti tutti fatti superfluamente, perché, come Prospero aveva sempre affermato, non potevano i viniziani impedire il passaggio a seimila fanti, quanti tra tedeschi e grigioni erano questi, l'ordinanza de' quali arebbe sostenuti i loro cavalli, né i fanti italiani arebbono avuto ardire di opporsegli. Per la quale ragione, e perché il senato, aborrente dalle occasioni di ridurre la guerra nello stato proprio, aveano voluto sodisfare a' franzesi piú con le dimostrazioni che con gli effetti, le genti de' viniziani, il dí innanzi che i tedeschi dovessino passare, si ritirorno verso Verona; donde i tedeschi, senza alcuno ostacolo, passorno a Valeggio e il dí seguente nel mantovano.

Ma arrivato che fu il marchese di Pescara nel campo, l'esercito, stato a San Lazzero tredici dí, andò il dí seguente ad alloggiare a San Martino, ... miglia appresso a Parma dalla parte di verso il Po; col quale il dí medesimo si congiunsono i fanti tedeschi e i grigioni. Cosí essendo ridotte insieme tutte le forze destinate, si cominciò a consultare quello che fusse da fare: proponendo una parte del consiglio si attendesse all'espugnazione di Parma, per essere la prima terra della frontiera, e la quale non era sicuro lasciarsi alle spalle, né per lo esercito che andasse innanzi, rispetto alla incomodità delle vettovaglie e del fare condurre i danari e l'altre provisioni che fussino necessarie, né per le terre che restavano da Parma verso Bologna. Non essere i fanti che vi erano dentro, raccolti la maggiore parte quasi tumultuariamente, di molto valore; e di quegli, per la difficoltà de' pagamenti e perché in Parma si pativa di macinato, fuggirsene ogni dí qualcuno in campo; il circuito della terra essere grande; avere il popolo male disposto, il quale benché fusse sbattuto piglierebbe animo dal sentire lo esercito alle mura; in modo che, battendosi la città da piú parti, potriano difficilmente resistere i franzesi agli inimici di fuora e guardarsi in uno tempo medesimo da quegli di dentro. Altri allegavano la città essere bene fortificata, avere difensori a sufficienza, i fanti che erano fuggiti essere tutti inutili e vili, esservi rimasti i fanti piú utili ed esperti alla guerra, tante lancie franzesi, disposti tutti a difendersi valorosamente; perché non altrimenti vi si sarebbe rinchiuso lo Scudo, Federico da Bozzole e tanti altri capitani. Sapersi, per essere mutati in breve spazio di tempo i modi della milizia e l'arti del difendere, quanto fusse divenuta difficile la espugnazione delle terre; e doversi diligentemente avvertire che, se la prima impresa che si tentasse non si ottenesse, in che grado resterebbe la reputazione di quello esercito. Presupporsi per ciascuno essere necessario piantare intorno a Parma le artiglierie in due luoghi diversi, ma dove essere in campo l'artiglierie e gli altri provedimenti a sufficienza? né si potere condurne se non dopo spazio di qualche dí; il quale indugio, oltre che se ne erano consumati pure troppi, dare tempo che con Lautrech, che di dí in dí s'aspettava a Cremona, si unissino le genti de' viniziani, maggiore numero di svizzeri, perché già ne era venuta una parte, e i fanti venturieri che si aspettavano di Francia; i quali tutti si sentiva che già s'appropinquavano. Che sarebbe se, impegnato l'esercito intorno a Parma, egli si accostasse in qualche luogo vicino, donde non si lasciando sforzare a combattere travagliasse le scorte del saccomanno e le vettovaglie che giornalmente si conducevano da Reggio? le quali già dalle genti che erano in Parma ricevevano continua molestia. Essere migliore consiglio, fatta provisione di vettovaglie per qualche dí, lasciatasi indietro Parma, andare allo improviso a Piacenza; nella quale città, di circuito molto maggiore, erano a guardia pochi soldati né vi erano ripari o artiglierie, e la disposizione del popolo la medesima che quella di Parma, ma piú abile a risentirsi non essendo stati battuti come loro ed essendovi dentro sí poca gente; né essere da dubitare, accostandosi, di non la pigliare subito. E affermava Prospero, inclinato molto a questa sentenza, sapere uno luogo donde era impossibile gli fusse proibito lo entrare: che era quello medesimo per il quale altra volta vi era, contro a' viniziani che l'aveano dopo la morte di Filippo Maria Visconte occupata, entrato vittoriosamente Francesco Sforza capitano allora del popolo milanese. In Piacenza essere abbondanza grandissima di vettovaglie, e il luogo essere tanto opportuno ad assaltare Milano che sarebbono necessitati i franzesi ritirare là quasi tutte le forze loro; e cosí non rimarrebbono in pericolo le città vicine a Parma: anzi si prometteva Prospero che, passando il Po solamente co' cavalli leggieri e conducendosi con celerità a Milano, quella città, udito il nome suo, avere a tumultuare. Ed era questa, insino innanzi partisse da Bologna, stata sentenza di Prospero; per la quale, pensando non dovere fermarsi a espugnazione di alcuna terra, non aveva voluto provedimento abbondante di artiglierie e di munizioni.

In questa varietà di pareri fu determinato, ma molto secretamente, per quegli che aveano autorità di deliberare che, come prima fussino preparate pane e farine bastanti a nutrire l'esercito almeno per quattro dí, si movessino con grandissima celerità verso Piacenza cinquecento uomini d'arme una parte de' cavalli leggieri i fanti spagnuoli e mille cinquecento fanti italiani, e che dietro a questi si movesse il rimanente dell'esercito, il quale, dovendo condurre l'artiglierie le vettovaglie e tanti impedimenti, non poteva procedere se non lentamente; e si teneva per certo che, come i primi vi arrivassino, la città chiamerebbe il nome della Chiesa; e quando pure non succedesse, che essi sarebbono causa non vi entrasse soccorso: in modo che, come giugnesse il resto dello esercito, otterrebbono la città indubitatamente. Ma accadde che, il dí precedente a quello che si doveva muovere lo esercito, alcuni cavalli de' franzesi, passato il Po, corsono insino a Busseto, donde la fama portò avere passato il Po tutto l'esercito franzese; la qual cosa perché interrompeva la deliberazione già fatta, si ritardò la partita delle genti insino a tanto se ne avesse la verità: la quale a investigare fu mandato Giovanni de' Medici, capitano de' cavalli leggieri del pontefice, con quattrocento cavalli. Ma quel che principalmente turbò questa deliberazione fu l'ambizione tra Prospero e il marchese di Pescara, eziandio innanzi a questo tempo poco concordi; perché il marchese, tirato ad alti pensieri, detraeva volentieri con le parole e co' fatti alla grandezza di Prospero. Ma in questo caso, aspirando ciascuno di loro alla gloria propria, Prospero proponeva volere menare la prima parte dello esercito, e il marchese da altra parte allegava non essere conveniente che senza sé andassino a espedizione alcuna i fanti spagnuoli de' quali era capitano generale. Per la quale emulazione tra' capitani, dannosa come spesso accade alle cose de' príncipi, ancora che si fusse, non molte ore poi, avuta notizia quella parte de' franzesi essere ritornata di là dal Po e che Lautrech non si moveva, non si seguitò la prima deliberazione; anzi, per la varietà de' pareri e per la tardità naturale di Prospero, procedevano le cose in maggiore lunghezza se il commissario apostolico non gli avesse con efficaci parole stimolati, dimostrando quanto fusse, e giustamente, molestissimo al pontefice il procedere sí lentamente, né potersi piú con alcuna scusa difendere appresso a lui tante dilazioni sostenute insino a quel dí, con l'espettazione della venuta prima degli spagnuoli poi de' tedeschi. Le quali parole a fatica dette, si deliberò, piú presto tumultuosamente che con maturo consiglio, che si ponesse il campo a Parma; affermando quegli medesimi che il dí precedente avevano affermato il contrario doversene sperare la vittoria, massime continuando pure a uscire di Parma molti fanti per mancamento di danari e di pane. Ma bisognò soprasedere ancora alcuni dí, per fare venire da Bologna due altri cannoni e provedere molte cose necessarie a chi assalta le terre con l'artiglierie, le quali, come è detto di sopra, Prospero avea prima recusate. La quale o negligenza o mutazione di consiglio portò grandissimo detrimento, perché tanto maggiore tempo ebbe Lautrech a raccorre le genti che aspettava di Francia da' viniziani e da' svizzeri. Tanto è ufficio de' savi capitani, pensando quanto spesso nelle guerre sia necessario variare le deliberazioni secondo la varietà degli accidenti, accomodare da principio, quanto si può, i provedimenti a tutti i casi e a tutti i consigli.

Cap. v

Assedio di Parma; opere di preparazione per l'assalto. Gli assedianti occupano il Codiponte abbandonato dai francesi. Il Lautrech con le sue milizie a sette miglia da Parma. Imprese fortunate del duca di Ferrara nel modenese e milizie mandate contro di lui. Dubbi dei comandanti dell'esercito ispano-pontificio; discussione del commissario generale con loro. Si leva il campo da Parma.

Nel quale tempo, dimorando oziosamente l'esercito, non si faceva intorno a Parma altro che leggerissime battaglie. Finalmente il [terzodecimo] dí poi che erano alloggiati a San Martino, l'esercito, passato la notte di là dal fiume della Parma, alloggiò in sulla strada romana, ne' borghi della porta che va a Piacenza, che si dice di Santa Croce; i quali, il dí davanti, lo Scudo, presentendo la loro venuta, avea fatti abbruciare. Divide la città di Parma, non con tali acque che non si possa, eccetto che ne' tempi molto piovosi, guadare, uno fiume del medesimo nome: la minore parte della quale, abitata da persone piú ignobili e che è circa la terza parte del tutto, detta dagli abitatori il Codiponte, rimane verso Piacenza. Elessono questo luogo i capitani per impedire piú facilmente che in Parma non entrasse soccorso, e molto piú perché la muraglia da quella parte era debole e situata in modo che non poteva percuotere per fianco. Aveva riferito il marchese, il quale il dí precedente era andato con alcuni capitani a speculare il luogo, che il dí medesimo si darebbe principio a battere la muraglia; ma essendo stato necessario, per levare le difese, battere prima, dal mezzo in su, una torre che era in sulla porta, di muro saldo e molto massiccia, si consumò tutto il dí intorno a questo, ove si roppe una colubrina grossa. Piantoronsi la notte seguente l'artiglierie alla muraglia, dalla mano sinistra della porta, secondo che si entra; ed era stato disegnato fare il medesimo dalla mano destra, mettendo con le batterie la porta in mezzo: perché, non si potendo, perché non erano stati condotti piú che sei cannoni e due colubrine grosse, piantare l'artiglierie in due luoghi separati, pareva che dal necessitare quegli di dentro a distendersi alla difesa per lungo spazio ne risultasse quasi il medesimo effetto. Ma questo non fu mandato a esecuzione, perché da quella parte era, a capo del fosso che circonda le mura, uno argine sí alto che se prima non si spianava o non si apriva (cosa da non si potere fare in tempo sí breve) impediva che l'artiglierie potessino percuotere la muraglia. Non resisteva il muro, per essere vecchio e molto debole, alla artiglieria, la quale avendo già fatte due rotture di muro assai patenti, si ragionava tra i capitani dare il dí medesimo, benché non con ferma risoluzione, la battaglia. Ma avendo il marchese, che insieme co' fanti spagnuoli aveva tutta la cura della batteria, mandato certi fanti ad affacciarsi alla rottura per vedere, se si poteva, come stessino dentro i ripari, quegli, come furono in sul muro rotto, cominciorono con alta voce a gridare che l'esercito si accostasse per entrare dentro, donde i fanti spagnuoli e italiani corsono tumultuosamente senza ordine alcuno alla muraglia; alla quale appresentatisi e già cominciando a volere salire in sul muro rotto, i capitani, corsi al romore, considerando che uno assalto, anzi tumulto, debole e disordinato non poteva partorire frutto alcuno, gli feciono ritirare: il quale accidente o raffreddò il pensiero o dette scusa di non dare, il dí, ordinatamente la battaglia. Seguitossi il dí seguente a battere il muro rimasto intero in mezzo delle due rotture, e uno fianco fatto in su la torre della porta dal lato di dentro. Ma divulgandosi per l'esercito che per i ripari grandi fatti da' franzesi sarebbe molto difficile con semplice assalto di espugnarla, mandorono i capitani due fanti di ciascheduna lingua ad affacciarsi alla rottura del muro; i quali, o occupati da troppo timore o da poca diligenza, o forse (come alcuni dubitorono) subornati da altri, riferirono restare dal muro battuto alla terra altezza di piú di cinque braccia, essere fatto dentro uno fosso profondo, e tali gli altri ripari che i capitani, diffidandosi di poterla espugnare altrimenti, determinorono che si facessino mine allato al muro rotto, che si tagliasse il muro contiguo con gli scarpelli e co' picconi, per riempiere con quelle rovine il fosso che si diceva essere fatto di dentro e fare piú facile l'entrata: le quali opere come fussino condotte alla perfezione, che, aggiunti all'artiglieria che era nello esercito due cannoni i quali venivano da Mantova, si facesse un'altra batteria, ove il muro, distesosi per linea retta per lungo spazio, dalla parte destra della porta, volgendosi, fa angolo; al quale cantone, gittandosi in terra il muro, si potevano percuotere per fianco quegli che difendessino dal lato di dentro. Cosí, dalla parte dalla quale era stato battuto, si cominciò a lavorare una trincea e pochi dí poi un'altra, per gittare con le mine in terra il muro: ma andavano adagio le opere, sí perché, per avere avuto Prospero pensieri diversi, non erano ancora in campo tutte le provisioni necessarie a questi lavori, sí perché il terreno dove si cavava riusciva difficile e duro.

Alle quali opere mentre che si attende con intenzione di non assaltare la terra innanzi che l'opere fussino finite, Lautrech, il quale era tardato tanto a muoversi per la tardità delle genti che venivano all'esercito, avendone già insieme la maggiore parte, venne cinque miglia piú innanzi, pure lungo il fiume, avendo seco cinquecento lancie, circa settemila svizzeri, quattromila fanti che il dí medesimo avea condotto monsignore di San Valerio di Francia e, sotto Teodoro da Triulzi governatore de' viniziani e Andrea Gritti proveditore, quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti; e seguitavano questo esercito il duca di Urbino e Marcantonio Colonna, questo come soldato del re ma senza titolo e senza compagnia, l'altro dietro alle speranze comuni de' fuorusciti. Aspettava ancora seimila svizzeri concedutigli da' cantoni, che erano in cammino, ma secondo l'uso loro procedevano lentamente e con molte difficoltà; i quali come fussino uniti seco non arebbe, per soccorrere Parma, ricusato di tentare la fortuna della battaglia: però, sollecitandogli e aspettandogli, soggiornava per il cammino, non si discostando dalle ripe del Po. Ma dubitando che in questo mezzo il fratello non convenisse con gli inimici, avea mandato a scusare la tardità, proceduta per aspettare maggiore numero di svizzeri, i quali erano già propinqui, e perché quegli che erano seco aveano fatto difficoltà di passare il Po; nondimeno, che al piú lungo il quinto dí di settembre verrebbe in luogo vicino a Parma, e ne farebbe segno con piú tiri di artiglieria; e il dí seguente si accosterebbe piú presso agli inimici per combattergli, mandando qualche cavallo a scaramucciare, acciò che anche egli avesse facoltà di uscire a unirsi con loro: alla quale cosa lo Scudo lo sollecitava, affermando non potersi tenere piú che due o tre dí in quella parte della terra, e poi, di là dal fiume, due altri dí; perché la terra era grande e debole, né gli restare piú di dumila fanti perché moltissimi ne erano partiti, né potere le genti d'arme, non essendo piú che trecento lancie, le quali portavano il peso di tutte le fatiche, resistere se fussino assaltate da piú parti. Venne di poi, il dí che aveva promesso di accostarsi agli inimici, a Zibello, castello vicino a Parma meno di venti miglia, onde mandò quattrocento cavalli a correre insino in su gli alloggiamenti degli inimici: l'opere de' quali essendo condotte insino alla muraglia, e dipoi voltate al luogo nel quale si avea a dare il fuoco, il conte Guido Rangone co' fanti italiani, de' quali era capitano generale, cominciò a piantare l'artiglierie dall'altra parte della muraglia. Ma i franzesi, sentito lo strepito che si faceva nel maneggiarle, abbandonato due ore innanzi dí il Codiponte, si ritirorno ordinatamente e senza tumulto insieme con le loro artiglierie di là dal fiume. La qual cosa conosciuta in sul fare del dí la mattina da quegli di fuora, entrorno dentro, parte per le aperture del muro parte per le scale; ricevuti da' parmigiani, desiderosissimi di ritornare sotto il dominio ecclesiastico, con somma letizia: la quale presto si convertí in amaro pianto perché non altrimenti che di inimici furno saccheggiate le case loro. Né si dubitò che, se qualche dí prima si fussino piantate l'artiglierie nel luogo medesimo, arebbono i franzesi, nel modo medesimo, abbandonato il Codiponte. Dettesi poi opera ad aprire e rompere le porte, le quali erano atterrate, per le quali condotta l'artiglieria alla sponda del fiume si cominciò a battere il muro che fa sponda dall'altra parte; ma essendo già sí tarda l'ora del dí che si conosceva non potersi, insino al prossimo dí, fare cosa di momento. Ma il dí medesimo Lautrech venne ad alloggiare in sul fiume del Taro, vicino a Parma a sette miglia; interpetrando alcuni che fusse venuto per combattere, altri persuadendosi per comporre col fratello (se piú non si poteva sostenere) che uscendo una notte di Parma con tutte le genti fusse raccolto da lui, o veramente perché, volendo convenire cogli inimici, ottenesse che con tutti i soldati potesse, salvo e senza alcuna obligazione, uscire di Parma: e già alcuni dí prima Federico da Bozzole, il quale andando intorno a' ripari era stato ferito di uno scoppietto nella spalla, aveva per mezzo del marchese cominciato a trattare; ma non era ancora il ragionamento proceduto tanto oltre che si potesse fare congettura certa della volontà dello Scudo. La verità è, secondo le notizie che si ebbono poi, che Lautrech non aveva animo di combattere se non venivano i svizzeri; perché, con tutto che fusse alquanto superiore di numero e di bontà di gente d'arme e piú potente d'artiglierie, prevaleva di fanti l'esercito contrario: nel quale, calcolando i numeri veri, erano novemila tra tedeschi e spagnuoli duemila svizzeri e piú di quattromila italiani.

Ma consideri ciascuno da quanto piccoli accidenti dependino le cose di grandissimo momento nelle guerre. Accadde appunto che, la notte seguente al dí che l'esercito entrò nel Codiponte, sopravennono avvisi da Modena e da Bologna che Alfonso da Esti, uscito di Ferrara con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti, tra' quali ne erano mille tra corsi e italiani mandatigli da Lautrech, e con dodici pezzi di artiglierie, aveva preso allo improviso il castello del Finale e quello di San Felice, e si temeva non si facesse piú innanzi; il che turbò assai gli animi de' capitani, ancora che molto prima, sapendosi la instanza che gli era fatta dai franzesi, si fusse temuto di questo movimento, e nondimeno non si fusse fatta a Modena tale provisione che bastasse in tale caso alla sicurtà di quella città: perché Prospero, avendo sempre difeso pertinacemente la contraria opinione, non aveva consentito che dello esercito si mandasse gente a Modena, o perché prestasse fede al duca amicissimo suo, col quale, eziandio per ordine del pontefice, si era interposto a trattare qualche accordo, o perché malvolontieri diminuisse il campo di gente, in tempo che si dubitava dell'approssimarsi degli inimici, essendo massime di natura di volere fare le cose sue sicuramente e però desiderando sempre avere forze superchie, o perché, se aveva altri fini occulti, non gli dispiacesse questa occasione. Ma la notte, avuto la nuova, congregati subito i capitani, fu deliberato che immediate vi andasse il conte Guido Rangone con dugento cavalli leggieri e ottocento fanti; i quali, aggiunti a settecento fanti che vi erano prima, parevano presidio piú che sufficiente contro alle forze di Alfonso. Ma ordinata questa espedizione, essendo ancora piú ore innanzi dí, ed essendo venuto poco prima avviso che la sera dinanzi Lautrech era alloggiato in sul Taro (ma mescolato la verità con la falsità, perché era stato riferito che il dí medesimo si erano uniti seco i svizzeri), né avendosi notizia che quegli che allora erano nello esercito, sforzati da lui con molti prieghi, non gli avevano promesso se non di venire insino in sul Taro, l'essere per altro congregati insieme i capitani, né avendo, per non essere ancora il dí, o occasione o necessità di implicarsi separatamente in altre faccende, dette occasione che tra loro si cominciò, quasi oziosamente e non per via di consiglio, a discorrere in che stato sarebbono le cose per l'approssimarsi di Lautrech. Nel quale ragionamento pareva che le parole di Prospero del marchese di Pescara e di Vitello accennassino in questa sentenza: che difficilmente si piglierebbe Parma se dall'altra parte della città non si facesse anche una batteria, perché battuta la sponda dalla parte donde si era cominciato a battere il dí precedente restava non piccola salita dal letto del fiume alla riva, né quella potersi tentare senza grave pericolo perché l'artiglierie e gli scoppietti, distribuiti in su tre ponti che ha quel fiume e negli edifici circostanti, offenderebbono per fianco chi assaltasse. Discorrevano che la vicinità di Lautrech, mettendosi in qualche alloggiamento propinquo di verso il Po, quando bene avesse l'animo alieno da tentare la fortuna, sarebbe causa che senza pericolo grande non si darebbe la battaglia; e doversi considerare che, per il sacco della parte presa di Parma, molti de' fanti con la preda si erano partiti, un'altra parte essere piú intenta a salvare le cose rubate che a combattere; né potersi soprasedere quivi senza molte difficoltà e incomodità, e anche senza pericolo, perché sarebbe necessario mandare ogni dí fuora grossissime scorte, non solo per sicurtà de' saccomanni ma eziandio de' danari e delle vettovaglie che giornalmente venivano, con circuito lunghissimo, intorno alle mura di Parma; le quali quando fussino fuora, potrebbe accadere che il resto del campo avesse in uno tempo medesimo a combattere con la gente franzese che era di fuora e con quegli che erano di dentro. Discorrevano anche che se il duca di Ferrara ingrossasse di gente sarebbe necessario levare di campo maggiori forze per la sicurtà di Modena e di Reggio, e che, eziandio correndo per il paese con le genti che aveva, potrebbe disturbare le vettovaglie; il che quando facesse sarebbe necessario levare il campo, ma forse che, riducendosi le cose tanto allo stretto, non si potrebbe fare senza pericolo: le quali ragioni, che mostravano inclinazione a levarsi, non si parlavano però in modo che alcuno scoprisse questo essere il suo consiglio. Finalmente, poiché fu parlato cosí per lungo spazio, il marchese di Pescara, parendogli avere già compresa la mente degli altri, disse: - Io veggo che in tutti noi è il medesimo parere, ma ciascuno, pensando solamente a sé proprio, tace, aspettando che un altro se ne faccia autore: pure in me non potrà questo rispetto. A me pare che noi stiamo intorno a Parma con pericolo e senza speranza di fare frutto, e però, che per minore male debbiamo partircene. - Soggiunse Prospero: - Il marchese ha detto quello che, se egli non anticipava, avevo in animo di dire io -. Confermò Vitello il medesimo. Ma Antonio de Leva, approvando che quivi piú non si dimorasse, proponeva doversi considerare se fusse meglio andare ad assaltare Lautrech. Ma a questo si replicava che senza disavvantaggio grande non si potrebbe costrignere gli inimici a combattere: dimorarvi essere impossibile, perché le difficoltà che si consideravano nello stare intorno a Parma diventerebbeno molto maggiori; e potere facilmente essere che i duemila svizzeri non gli volessino seguitare, perché, oltre all'avere ricevuto, molti dí prima, comandamento da' cantoni che si partissino dagli stipendi del pontefice, non pareva verisimile si disponessino a combattere contro a uno esercito nel quale militavano tanti fanti della medesima nazione; né si poteva negare che, per il sacco fatto il dí precedente, non fusse piú difficile il muovere la fanteria disordinata. Però, disprezzato questo consiglio, pareva che le sentenze di tutti i capitani concorressino a levarsi. Ma ristrettisi insieme Prospero e il Pescara, parlato che ebbono lungamente, dimandorono il commissario quello che credeva che dicesse il pontefice se si levavano, e dicendo il commissario al marchese: - Come non possiamo noi pigliare oggi Parma, secondo che iersera mi affermavate? - rispose il marchese con voci spagnuole: - Né oggi né domani né dopo domani. - Allora il commissario replicò non essere dubbio che il levarsi darebbe al pontefice grandissima turbazione, perché lo priverebbe totalmente della speranza della vittoria; ma il punto di questa deliberazione consistere nella verità o nella falsità de' presuppositi fatti da loro: perché, se il soprasedere fusse con pericolo e senza speranza, non essere dubbio che sarebbe imprudenza non si levare, ma quando fusse altrimenti sarebbe il partirsi grandissimo disordine; però considerassino maturamente lo stato dello esercito e la importanza delle cose, contrapesando quale fusse maggiore, o il pericolo o la speranza. Alle quali parole replicando Prospero e il marchese, che tutte le ragioni della guerra consigliavano a ritirarsi, non avendo il commissario ardire di opporsi a capitani di tanta autorità, si deliberò che il dí medesimo il campo si levasse, e che incontinente si ordinasse di fare discostare l'artiglierie dalla muraglia. La quale cosa, come fu publicata per il campo, era come troppo timida biasimata da tutti quegli che non erano intervenuti nel consiglio, in modo che il commissario e il Morone congiunti insieme si sforzorono di rimuovere Prospero da questa deliberazione. Il quale, non si mostrando alieno da consultarla di nuovo, anzi dicendo, con parole molto laudabili, e tanto piú quanto sono maggiori e piú savi quegli che le dicono, essere di natura che non si vergognava di mutare consiglio quando gli fussino dimostrate migliori ragioni, fece di nuovo chiamare quegli medesimi che si erano trovati a deliberare; ma il marchese di Pescara, occupato a ritirare le artiglierie e aborrente da mutare la prima conclusione, recusò di venirvi: in modo che, restando la cosa piú presto confusa che risoluta, si andò dietro a eseguire quel che prima era stato determinato. Cosí il dí medesimo, che fu il duodecimo poi che vi erano venuti a campo, ritornorno allo alloggiamento di San Lazzero; non senza pericolo di grandissimo disordine nel levarsi, perché i fanti tedeschi, dimandando circa i pagamenti condizioni sí inoneste che non si potevano concedere, ricusavano di seguitare l'esercito, e cassati i capitani vecchi che contradicevano aveano creato per capitano uno di loro, autore di questa sedizione; e si temeva non convenissino co' franzesi. Pure finalmente, essendo già partito l'esercito, e disperando ciascuno che avessino a mutare volontà, lo seguitorno. Nella quale confusione, essendo per la levata tanto subita e per il tumulto de' tedeschi ripieno l'esercito di terrore, non è dubbio che se fusse sopravenuto Lautrech gli metteva facilissimamente in fuga.

Cap. vi

Rammarico del pontefice e meraviglia generale per la decisione presa dai comandanti dell'esercito ispano-pontificio; posizione degli eserciti nemici. Sfortuna dell'esercito di Cesare in Fiandra. Nuovi piani di guerra degli ispano-pontifici. Cattiva fortuna e temerità dei fuorusciti milanesi. Vano tentativo di Giovanni de' Medici contro il ponte di barche sul Po. L'esercito pronto a passare al di là del fiume. Gli svizzeri lasciati nelle terre della Chiesa e contro il duca di Ferrara.

Afflisse questa deliberazione maravigliosamente il pontefice, che aspettava che i suoi fussino entrati in Parma; parendogli di essere caduto, contro a ogni ragione, della speranza della vittoria, e trovandosi entrato in profondissimo pelago e sottoposto a peso gravissimo, perché, dalle genti d'arme e fanti spagnuoli in fuora, generalmente tutta la spesa della guerra si sopportava da lui; e, quel che era peggio, dubitando della fede de' capitani cesarei. Nella quale dubitazione concorrevano ancora molti, i quali si persuadevano che il ritirare il campo da Parma non fusse stato timore ma artificio, come quegli che avessino sospetto che il pontefice, recuperata che avesse Parma e Piacenza, non gli appartenendo piú altro dello stato di Milano, raffreddasse i pensieri della guerra, né volesse per gli interessi degli altri sostenere piú tanta spesa e tanto travaglio: di che faceva fede il conoscersi quanto lentamente fussino proceduti a porre il campo a Parma; lo averlo posto in luogo impertinente, poiché presa la minore parte della terra si aveva con le medesime difficoltà a cercare di pigliare l'altra; vedere con quanta dilazione e lentezza avevano governato la oppugnazione, come se industriosamente dessino tempo alla venuta del soccorso de' franzesi; e che ultimamente, essendo già in possessione di parte della terra, al nome solo dello approssimarsi Lautrech ancora che con esercito inferiore, l'avessino vituperosamente abbandonata. Alcuni altri dubitavano che, senza coscienza di Prospero, potesse essere stato artificio del marchese di Pescara, detrattore quanto poteva e invidioso della gloria sua. Nondimeno, fu forse piú sana opinione di quegli che credettono che si fusse proceduto sinceramente; né avergli mosso altro che il timore dello essersi approssimato Lautrech, ingannati in grande parte perché i primi avvisi significorono le forze sue essere molto maggiori. Certo è che piú che gli altri se ne maravigliorno i capitani de' franzesi, ridotti in piccola speranza che Parma si difendesse; perché i svizzeri, regolandosi piú secondo la loro natura che secondo la necessità di quegli che gli pagavano, procedevano innanzi con grandissima tardità. Perciò molti di loro, non attribuendo la partita degli inimici a timore, interpretavano piú presto che Prospero come peritissimo capitano, sapendo in quanto disordine mette gli eserciti il sacco delle città e reputando molto difficile il proibire che i soldati non saccheggiassino Parma, giudicasse molto pericoloso, avendo gli inimici tanto vicini, il pigliarla. Quello che si sia, Lautrech, proveduta Parma di nuove genti, fermatosi a Fontanella, mandò tre dí poi una parte dello esercito a pigliare Roccabianca, castello del parmigiano vicino al Po; il quale poiché fu battuto con l'artiglierie, Orlando Palavicino signore del luogo, disperato di avere soccorso, arrendé la terra e la fortezza con facoltà di uscirsene. Distese poi l'esercito tra San Secondo e il Taro, per governarsi secondo i progressi degli inimici; avendo preso molto animo, parte per la difesa di Parma parte per essere i nuovi svizzeri arrivati a Cremona: la giunta de' quali, ancora che Lautrech gli avesse fatto fermare a Cremona, fu cagione che lo esercito inimico, non gli parendo stare sicuro a San Lazzero, si ritirò in su il fiume di Lenza dalla parte di verso Reggio, con intenzione di allontanarsi ancora piú se i franzesi si facessino innanzi. Anzi arebbono i capitani, senza aspettargli altrimenti, fatto maggiore ritirata se le querele del pontefice e degli agenti di Cesare, e la infamia che sentivano avere per tutto lo esercito, non gli avesse ritenuti. Stettono in questo modo molti dí gli eserciti, facendo nondimeno Lautrech molto spesso correre i suoi cavalli e quegli che erano in Parma, per la via della montagna, insino a Reggio, con non piccolo impedimento delle vettovaglie le quali da Reggio si conducevano agli inimici, e con piccola laude di Prospero, lentissimo per natura a fare correre i cavalli leggieri e a tutti i movimenti benché piccoli.

Simile fortuna aveano le cose di Cesare di là da' monti: perché, essendo dalla parte di Fiandra entrato nello stato del re di Francia con potente esercito, e posto il campo a Masera con speranza grande di ottenerla, trovando la espugnazione piú difficile e venendo il soccorso potente del re di Francia, si ritirò, con gravissimo pericolo che le genti sue non fussino rotte.

Ma in Italia non erano, per i successi infelici, allentati i pensieri della guerra; perché gli inimici de' franzesi, non pensando piú alla espugnazione di Parma né di altre terre, deliberavano di entrare piú dentro, nel ducato di Milano; aggiugnendo all'esercito tanti fanti italiani che in tutto fussino seimila, i quali continuamente si soldavano. Alla quale deliberazione gli faceva procedere piú audacemente la speranza che agli stipendi del pontefice scendessino di nuovo dodicimila svizzeri: i quali se bene, da principio, il cardinale sedunense, che nelle diete procurava apertamente contro a' franzesi, ed Ennio vescovo di Veroli nunzio apostolico e gli oratori di Cesare avessino recusati, perché non si concedevano se non per difesa dello stato della Chiesa e con espresso comandamento che non andassino a offendere lo stato del re di Francia, nondimeno, poiché altrimenti non gli potevano impetrare, gli aveano finalmente accettati eziandio con questa condizione; sperando, discesi che fussino in Italia, potere, mediante la loro avarizia e instabilità e le corruttele e l'arti che si userebbono co' capitani, indurgli a seguitare l'esercito contro al ducato di Milano. Né in questa deliberazione dell'andare innanzi era di molta dubitazione a quale parte s'avessino a dirizzare, perché nel continuare la guerra di qua dal fiume del Po apparivano manifestamente grandissime difficoltà: disperata era l'espugnazione di Parma; lasciandosi a dietro quella città bisognava andare a combattere con gli inimici, cosa evidentemente perniciosa perché erano alloggiati in luoghi forti e agli alloggiamenti disposta opportunamente copia grandissima di artiglierie; dimorare tra Parma e loro o procedere piú innanzi senza combattere non si poteva, perché stando tra le terre possedute da loro e l'esercito sarebbono in pochissimi dí mancate le vettovaglie, non si potendo né averne del paese inimico né condurne da lontano. Queste difficoltà si fuggivano trasferendo la guerra di là dal Po: perché in quel paese, abbondante per sua natura e che non avea sentiti i danni della guerra, confidavano trovare vettovaglie copiosamente, e non dovere avere ostacolo alcuno insino al fiume della Adda, perché lasciando Cremona a mano sinistra e accostandosi all'Oglio non vi erano terre da resistere; e persuadendosi che il senato viniziano non volesse sottoporre le genti sue, per gli interessi d'altri, alla fortuna di una battaglia, credevano che i franzesi non ardirebbono opporsi se non al transito dell'Adda. Anzi era speranza di molti che, approssimandosi l'esercito a' confini de' viniziani, essi per sicurtà delle cose proprie richiamerebbono la maggiore parte degli aiuti dati al re. E oltre a tutte queste cose, quel che si stimava molto, il passare di là dal Po era opportunissimo a unirsi co' svizzeri.

Ma mentre che si preparano molte cose necessarie a questa nuova deliberazione, di artiglierie di munizioni di guastatori di ponti e di vettovaglie, mentre che in Toscana e in Romagna si soldano i fanti italiani, il conte Guido Rangone, per comandamento del pontefice, con una parte de' fanti che erano già soldati e con le genti che erano appresso a sé, si mosse contro alla montagna di Modena: la quale montagna, né mentre che Modena era stata sotto Cesare né poi quando era stata dominata dalla Chiesa, aveva riconosciuto altro signore che il duca di Ferrara. Ma intesa questa mossa dagli uomini del paese, e che nel tempo medesimo si moveano molti fanti comandati di Toscana, senza aspettare di essere assaltati, chiamorno il nome della Chiesa. Nel tempo medesimo fuggí da Milano Bonifazio vescovo d'Alessandria, figliuolo già di Francesco Bernardino Visconte, perché vennono a luce alcune cose trattava contro a' franzesi. Venne medesimamente a luce un trattato tenuto in Cremona per Niccolò Varolo, uno de' principali fuorusciti di quella città; per il quale di alcuni cremonesi che ne erano consci fu preso il debito supplicio. Né so quale in questo tempo [fusse] maggiore, o la mala fortuna o la temerità e imprudenza de' fuorusciti del ducato di Milano, de' quali numero grandissimo seguitava l'esercito; perché non solamente tutte le cose tentate da loro riuscivano infelicemente ma, intenti a predare tutto il paese, difficultavano il venire delle vettovaglie: non ricompensando questi mali (io eccettuo sempre il Morone) con alcuna diligenza o intelligenza di spie. Anzi, avendo molto prima Prospero mandatigli verso Piacenza, poi che ebbono fatti danni grandissimi agli amici e agli inimici, venuti tra loro medesimi a quistione nel dividere la preda, fu da Estor Visconte e alcuni altri ammazzato Piero Scotto piacentino, uno de' principali.

Tentò Prospero, in questo tempo medesimo, di abbruciare le barche del ponte de' franzesi ridotte con poca guardia appresso a Cremona, per avere tanto maggiore spazio a procedere piú innanzi, mentre che Lautrech raccoglieva le barche necessarie a rifare il ponte; ma la lunghezza del cammino fu cagione che Giovanni de' Medici, mandato a questa fazione con dugento cavalli leggieri e trecento fanti spagnuoli, non vi potette giugnere se non passata la notte: onde i nocchieri, sentito il romore levato da' paesani, ritirorno le barche in mezzo al Po, sicuri di non essere offesi dagli inimici fermatisi in sulla riva.

Finalmente, preparate tutte le cose necessarie a passare il Po, l'esercito andò a Bresselle, ove era gittato il ponte fatto con le barche; nel qual luogo si dice il letto del fiume essere piú largo che in alcuno altro. Ma innanzi passasse, essendo a' pensieri di offendere altri congiunta la necessità di pensare a difendere sé proprio, fu mandato alla cura delle terre della Chiesa che rimanevano indietro Vitello Vitelli, con cento cinquanta uomini d'arme e altrettanti cavalli leggieri e con dumila fanti dell'ordinanze de' fiorentini: dove similmente andò il vescovo di Pistoia coi duemila svizzeri, perché non pareva sicuro menargli contro a' franzesi co' quali militavano tanti fanti della nazione medesima, conceduti per decreto e con le bandiere publiche; e tanto piú non avendo certezza quel che fussino per deliberare i nuovi svizzeri, de' quali, congregati a Coira, s'aspettava a ogn'ora la certezza che fussino mossi. Al vescovo e [a] Vitello fu commesso non solamente il difendere Modena e l'altre terre della Chiesa, se alcuno si movesse contro a quelle, ma d'assaltare il duca di Ferrara: il quale, attribuendo a sé la gloria d'avere liberata Parma, occupato il Finale e San Felice non procedeva piú oltre. Perché il pontefice, augumentato per questo insulto l'odio, procedeva, con le censure e monitori ecclesiastici contro a lui, alla privazione del ducato di Ferrara.

Cap. vii

I pontifici e gli spagnuoli a Casalmaggiore. Il cardinale de' Medici legato presso l'esercito. L'esercito sull'Oglio. Questioni fra fanti italiani e spagnuoli; fazione fra Giovanni de' Medici e gli stradiotti. Spostamenti degli eserciti nemici. Rotta delle genti del duca di Ferrara al Finale.

Passò l'esercito, il primo dí d'ottobre, di là dal Po e andò ad alloggiare a Casalmaggiore, avendo consumato nel passare non solamente tutto il dí ma non piccola parte della notte seguente, per la moltitudine inestimabile della turba inutile e degli impedimenti; rimanendo ingannato in questo non mediocremente il giudicio de' capitani, che si erano persuasi dovere essere passati tutti a mezzo 'l dí: donde, per la stracchezza degli ultimi e per le tenebre della notte, si fermorno la notte, disperse tra 'l Po e Casalmaggiore, una parte delle artiglierie molte munizioni e moltissimi soldati, esposte preda agli assalti di qualunque piccolo numero degli inimici. Anzi non si dubita che se Lautrech, il quale, raccolti tutti i svizzeri, venne ad alloggiare a Colornio il dí medesimo che gli avversari alloggiorno a Bresselle, fusse, quel dí che essi passorno, passato per il suo ponte a Casalmaggiore distante tre miglia da Colornio, o veramente avesse a mezzodí assaltata quella parte dell'esercito che ancora non era passata (sono Bresselle e Colornio distanti sei miglia), arebbe avuta qualche preclara occasione. Ma nelle guerre si perdono infinite occasioni perché a' capitani non sono sempre noti i disordini e le difficoltà degli inimici.

A Casalmaggiore pervenne, la notte medesima, il cardinale de' Medici, mandato dal pontefice legato dell'esercito. Perché il pontefice, ancora che occultissimamente avesse già cominciato a prestare l'orecchie allo imbasciadore del re di Francia, temendo che i successi avversi e l'essere rimasto sopra lui quasi tutto il peso della guerra non dessino causa a Cesare o a' ministri di dubitare che egli, per uscire di tante difficoltà e pericoli, non volgesse l'animo a nuovi pensieri, giudicò niuna cosa potergli tanto assicurare, e per conseguente indurgli a procedere piú ardentemente alla guerra. La persona del quale, perché era il piú prossimo di sangue al pontefice e perché, con tutto che dimorasse quasi continuamente in Firenze, niuna cosa grave del pontificato si spediva senza sua partecipazione, portava seco quasi quella medesima autorità che arebbe portata seco la persona propria del pontefice. Giovava questo medesimo a sostenere la riputazione declinata della impresa, e a provedere che con maggiore unione si deliberassino, per la presenza d'uomo di tanta grandezza, le cose da' capitani: perché ogni dí appariva piú manifestamente la discordia tra Prospero Colonna e il marchese di Pescara; augumentata, oltre a altre cagioni, perché il marchese, levato che fu il campo a Parma, volendo trasferire in altri la infamia di quella deliberazione, aveva significato a Roma essere stato cosí deliberato senza consiglio o saputa sua.

Da Casalmaggiore, dopo il riposo di un dí, si mosse l'esercito per il cremonese per accostarsi al fiume dell'Oglio; al quale pervenne in quattro alloggiamenti; non essendo in questo mezzo accaduta cosa alcuna di momento, eccetto che, mentre alloggiavano alla villa che si dice la Corte de' Frati, fu fatta grandissima quistione tra fanti spagnuoli e italiani, nella quale gli spagnuoli, piú col sapere usare l'opportunità dell'occasione che delle forze, ammazzorno molti di loro, pure per l'autorità e diligenza de' capitani si sopí presto la cosa; e il dí dinanzi Giovanni de' Medici, correndo verso gli inimici, i quali erano passati il Po piú alto verso Cremona, il dí medesimo che gli altri erano stati fermi a Casalmaggiore, roppe gli stradiotti de' viniziani guidati da Mercurio, co' quali erano alcuni cavalli de' franzesi; de' quali fu fatto prigione don Luigi Gaetano figliuolo di..., che ancora riteneva il nome di duca di Traietto, benché lo stato fusse posseduto da Prospero Colonna.

Ma nell'alloggiare l'esercito in sul fiume dell'Oglio, la fortuna, risguardando con lieto occhio le cose del pontefice e di Cesare, interroppe il consiglio infelice de' capitani; i quali aveano deliberato che dalla Corte de' Frati andasse l'esercito ad alloggiare alla terra di Bordellano, distante otto miglia, pure in sul fiume medesimo: ma non essendo stato possibile che, per essere la strada difficile, vi si conducessino l'artiglierie, fu necessario fermarsi alla terra di Rebecca, a mezzo il cammino; la quale da Pontevico, terra de' viniziani, divide solamente il fiume dell'Oglio. Nel quale luogo, mentre che si alloggiava, pervenne notizia che Lautrech, seguitato dalle genti de' viniziani, lasciati i carriaggi a Cremona, era venuto il dí medesimo a San Martino, distante cinque miglia; deliberato, se gli inimici procedevano innanzi, di riscontrargli il dí seguente in sulla campagna. Turbò questa cosa maravigliosamente la mente del cardinale de' Medici e de' capitani; perché avendo il senato viniziano, quando uní le genti sue a Lautrech, significata questa deliberazione con parole tali che pareva muoversi non per desiderio della vittoria del re di Francia ma per non avere causa giusta di non osservare la confederazione, si erano e prima persuasi, e la venuta del cardinale avea confermata questa opinione, che Andrea Gritti avesse occulto comandamento di non permettere che quelle genti combattessino: il quale presupposito apparendo falso, era necessario partirsi da' primi consigli; perché niuno negava essere superiore di forze l'esercito degli inimici, nel quale, oltre alla cavalleria molto potente e settemila fanti tra franzesi e italiani, erano diecimila svizzeri, ma nell'esercito del pontefice e di Cesare era tanto diminuito il numero de' tedeschi, e in qualche parte degli spagnuoli, che a fatica ascendevano al numero di settemila, e de' seimila italiani, perché erano la maggiore parte stati condotti di nuovo, si considerava piú il numero che la virtú. Deliberorno adunque Prospero e gli altri aspettare in quel luogo la venuta de' svizzeri; i quali, perché erano già mossi e perché il cardinale sedunense che gli menava avvisava che non si fermerebbono in luogo alcuno, si sperava non dovessino tardare piú che tre o quattro dí. Perciò, la mattina seguente, i capitani, considerato diligentemente il sito del luogo, ridussono a migliore forma l'alloggiamento fatto quasi tumultuariamente la sera dinanzi; non gli movendo il pericolo di potere essere aspramente offesi con l'artiglierie dalla terra opposita di Pontevico, perché il cardinale de' Medici, seguitando le prime impressioni, avea per cosa certa che i viniziani, non obligati al re di Francia ad altro che a concedere le genti per la difesa del ducato di Milano, non consentirebbono mai che dalle terre loro fusse data molestia all'esercito della Chiesa e di Cesare. Alla deliberazione di aspettare i svizzeri a Rebecca si opponeva manifestamente la difficoltà delle vettovaglie, perché quelle che si conducevano con l'esercito non potevano bastare molti dí e, per il terrore de' danni che si faceano specialmente da' fuorusciti milanesi e la fuga che era per tutto il paese, ne veniva piccolissima quantità, e questa ogni ora diminuiva. Perciò il commissario Guicciardino aveva ricordato che, non potendo per il mancamento delle vettovaglie sostenersi in quel luogo, e potendo accadere per molte cagioni che la venuta de' svizzeri procrastinasse, essere forse piú utile, non soggiornando quivi, ritirarsi cinque o sei miglia piú indietro in sul fiume medesimo, a' confini del mantovano; ove, avendo alle spalle il paese amico, non mancherebbono le vettovaglie: e questo, che al presente si poteva fare sicuramente, potrebbe essere che approssimandosi gli inimici non si potrebbe fare senza gravissimo pericolo. Non sarebbe dispiaciuto intrinsecamente questo consiglio a' capitani, ma la infamia tanto recente della ritirata da Parma riteneva ciascuno da parlare liberamente; movendogli similmente la speranza che i svizzeri non dovessero ritardare a venire, i quali potevano scendere in cinque o sei dí da Coira nel territorio di Bergamo, onde insino all'esercito era brevissimo transito. Cosí fermato di aspettargli a Rebecca, si distribuiva misuratamente per tutte le bandiere del campo la munizione delle farine condotta con l'esercito; le quali, perché col campo non erano forni portatili, e le case, nelle quali erano i forni, occupate dagli alloggiamenti de' soldati, ciascuno assava da se stesso in sulle brace la parte che gli toccava: la quale incomodità, aggiunta al distribuirsi scarsamente le farine, fu cagione che molti de' fanti italiani, con tutto che vi abbondasse il vino e il carnaggio, se ne fuggivano occultamente. Ma il terzo dí, Lautrech, il quale si era fermato a Bordellano, passata una parte dell'artiglierie a mezzodí di là da Oglio le mandò a Pontevico; consentendo, benché simulando il contrario, il proveditore viniziano: onde il medesimo dí, benché già appresso alla notte, cominciorno a tirare negli alloggiamenti degli inimici. I capitani de' quali conoscendo il pericolo manifestissimo, ancora che si fussino potuti trasferire in luogo ove alcune colline gli coprivano, nondimeno spaventati dalla carestia delle vettovaglie e augumentando il timore della tardità de' svizzeri, mosso, la mattina seguente innanzi all'aurora, tacitamente l'esercito senza suono di trombe e di tamburi, e messi i carriaggi innanzi alle genti, procedendo molto ordinatamente e apparecchiati a combattere e a camminare, andorno ad alloggiare a Gabbioneta, terra distante cinque miglia a' confini del mantovano; confessando tutti essersi salvati da gravissimo pericolo, parte per beneficio della fortuna parte per l'imprudenza degli inimici: perché certo è che, se il dí destinato a andare a Bordellano non si fussino fermati a Rebecca, rimaneva loro niuna o piccolissima speranza di salute; perché le medesime necessità o maggiori gli costrignevano a ritirarsi, e la ritirata, essendo piú lunga e con gli inimici piú vicini, aveva evidentissimo pericolo. Similmente è certo che Lautrech conseguitava indubitatamente la vittoria se il dí medesimo che mandò l'artiglierie a Pontevico fusse, come molti lo consigliorno e tra gli altri i capitani de' svizzeri, andato ad alloggiare appresso agli inimici; a' quali, per la propinquità sua, non rimaneva facoltà di partirsi sicuramente, non potendo massime, per lo impedimento che arebbono ricevuto dalle artiglierie di Pontevico, mettersi ordinatamente in battaglia né dimorare in quel luogo, per la fame, piú che tre o quattro dí. Ma mentre che, secondo la sua natura, dispregia il consiglio di tutti gli altri, accennando prima il pericolo che appresentandolo, dette loro causa di prevenire con la subita partita le sue minaccie. Dunque, non senza ragione i capitani de' svizzeri, speculato il sito del luogo (perché Lautrech, mossosi per accostarsi agli inimici, trovandogli partiti, andò ad alloggiare a Rebecca), gli dissono che meritavano d'avere la paga che si dà a' soldati vincitori della battaglia, perché per loro non era stato che e' non avesse conseguita la vittoria. A Gabbioneta, fortificato eccellentemente l'alloggiamento, soprastettono molti dí; ma parendo che continuamente si allungasse la venuta de' svizzeri e temendo della vicinità dell'esercito franzese, il quale, molto piú potente, faceva dimostrazione di volergli assaltare, passato l'Oglio, andorono ad alloggiare a Ostiano castello di Lodovico da Bozzole, con intenzione di non si muovere di quivi insino alla venuta de' svizzeri. La quale deliberazione fatta con prudenza fu anche accompagnata dalla fortuna, perché l'esercito arebbe ricevuto non piccolo detrimento nello alloggiamento di Gabbioneta, posto in sito molto basso, dalle pioggie immoderate le quali immediate sopravennono.

Ma mentre che cosí oziosamente sopraseggono, l'uno esercito a Ostiano l'altro a Rebecca, il vescovo di Pistoia e Vitello, uniti insieme i svizzeri e i fanti italiani, assaltorono le genti del duca di Ferrara le quali erano alloggiate al Finale; e benché fussino in luogo forte per natura, e per arte molto fortificato, nondimeno i svizzeri, andando ferocissimamente incontro al pericolo, le roppono e messono in fuga, ammazzandone molti (tra' quali fu morto combattendo il cavaliere Cavriana): con tanto timore del duca di Ferrara, che era al Bondino, che abbandonato subito quel castello fuggí a Ferrara; ritirando con la medesima celerità, perché gli inimici non lo seguitassino, le barche in sulle quali aveva gittato il ponte nel luogo medesimo.

Cap. viii

Discesa degli svizzeri: loro riluttanza ad assaltare il ducato di Milano: concordato con l'esercito ispano-pontificio. Partenza degli svizzeri dall'esercito francese e causa che l'ha determinata. Il Lautrec spera di far resistenza ai nemici sull'Adda. Prime milizie mandate da Prospero Colonna a passare il fiume. Gli ispano-pontifici passano l'Adda; il Lautrec si ritira a Milano.

Erano intanto i svizzeri scesi nel territorio di Bergamo, e nondimeno, pieni di dispareri e di difficoltà, ritardavano il venire piú innanzi, avendo espressamente recusato il volgersi ad assaltare il ducato di Milano, come il cardinale sedunense e gli agenti del pontefice e di Cesare facevano instanza: facevano anche difficoltà di andare a unirsi con l'esercito che gli aspettava a Ostiano, come preparato di procedere alla offesa del re di Francia, offerendo di andare in qualunque luogo paresse al pontefice nello stato della Chiesa, per la difensione del quale avevano accettato lo stipendio; e nondimeno consentendo, come spesso interpretano le cose barbaramente, di andare ad assaltare Parma e Piacenza, come città appartenenti manifestamente alla Chiesa o almeno come di ragione non certa del re di Francia. Dimandavano ancora che innanzi che si movessino fussino mandati a loro dall'esercito trecento cavalli leggieri, con l'aiuto de' quali potessino raccorre le vettovaglie per il paese donde passavano. Finalmente, pervenuti i cavalli, i quali all'improviso passorono con celerità grande per il territorio de' viniziani, si mossono per andare in luogo vicino all'esercito, dove piú comodamente si potesse consultare e risolvere quello avessino a fare; e in cammino cacciorono alcune genti de' franzesi e de' viniziani le quali, per proibire loro il passare piú innanzi, si erano fermate a Pontoglio o vero al lago Eupilo. Cominciossi, come furno approssimati all'esercito, a fare instanza per disporgli a unirsi contro a' franzesi; per la qual cosa andavano innanzi e indietro molti messi e imbasciate: e vi andò in nome del cardinale de' Medici l'arcivescovo di Capua. Finalmente, quegli del cantone di Zurich, i quali sí come hanno maggiore autorità fanno professione di governarsi con maggiore gravità, negorno costantemente; gli altri, dopo molte sospensioni, né ricusorono espressamente né accettorono la dimanda fatta, non negando di volere seguitare l'esercito ma non dichiarando se dietro alle sue vestigie fussino per entrare nel ducato di Milano: in modo che, per consiglio di Sedunense e de' capitani, la volontà de' quali era stata guadagnata con molte promesse, si deliberò di procedere innanzi, sperando che, poi che non recusavano di seguitare, avessino facilmente a essere condotti in qualunque luogo andasse lo esercito. Cosí, voltati i zuricani, i quali erano quattromila, verso Reggio, l'esercito, poi che tra Gabbioneta e Ostiano fu dimorato circa uno mese, si congiunse a Gambara cogli altri svizzeri: procedendo in mezzo di quello due legati, Sedunense e Medici, con le croci d'argento, circondate (tanto oggi si abusa la riverenza della religione), tra tante armi e artiglierie, da bestemmiatori, omicidiali e rubatori.

Andorono in tre alloggiamenti, per le terre de' viniziani, a Orcivecchio loro castello, scusandosi col senato questo essere un transito necessario e non farsi per desiderio di offendergli; cosí come essi si erano scusati essere stato sforzato Andrea Gritti loro proveditore di consentire a Lautrech che mandasse l'artiglierie a Pontevico. A Orcivecchio arrivorono corrieri mandati da' signori delle leghe a comandare a' svizzeri che partissino dello esercito; simile comandamento feciono per altri corrieri a quegli che erano nel campo franzese, allegando essere cosa indegna del nome loro che in due eserciti inimici fussino colle bandiere publiche i fanti suoi. Ma di questi comandamenti gli effetti furno diversi: perché i corrieri, fatti industriosamente ritenere nel cammino, non pervennero a quegli che erano con Sedunense; ma i svizzeri de' franzesi partirno quasi tutti improvisamente, mossi (come si credé) non tanto dai comandamenti ricevuti né dalla lunghezza della milizia, della quale sogliono sopra tutti gli altri essere impazienti, quanto perché a Lautrech, non gli essendo mandati danari di Francia né bastando quegli che acerbamente riscoteva del ducato di Milano, era mancata la facoltà di pagargli. Nel qual luogo debbe meritamente considerarsi quanto possa la malignità e la imprudenza de' ministri appresso a' príncipi che o per negligenza non vacano alle faccende o per incapacità non discernono da se stessi i consigli buoni da' cattivi: perché essendo stati ordinati trecentomila ducati per mandargli a Lautrech, secondo la promessa che gli era stata fatta, la reggente madre del re, desiderosa tanto che non crescesse la sua grandezza che si dimenticasse dell'utilità del proprio figliuolo, procurò che i generali, senza saputa del re, convertissino questa somma di danari in altri bisogni. Donde Lautrech, confuso d'animo e pieno di grandissima molestia, poiché per la partita de' svizzeri il successo delle cose, il quale prima si prometteva felice, era diventato molto dubbio, lasciata guardata Cremona e Pizzichitone, si ridusse col resto dell'esercito a Cassano; sperando di proibire agli inimici il transito dell'Adda, cosí per l'altre difficoltà che hanno gli eserciti a passare i fiumi quando in sulla ripa opposita è chi resista, come perché in quel luogo è tanto piú rilevata la ripa verso Milano che maggiore è l'offesa che con l'artiglierie si fa agli inimici che quella che si riceve. Da altra parte i legati apostolici e i capitani, partiti da Orcivecchi e passato di nuovo il fiume dell'Oglio, erano in tre alloggiamenti venuti a Rivolta; non sentendo piú la incomodità delle vettovaglie, perché le terre della Ghiaradadda abbandonate da' franzesi ne somministravano abbondantemente. Quivi intenti gli eserciti l'uno a guadagnare, l'altro a proibire il transito del fiume, Prospero e gli altri capitani preparavano di gittare il ponte tra Rivolta e Cassano; cosa molto dubbia e difficile per la opposizione degli inimici: dove avendo consumato due o tre dí in varie disputazioni e consigli, finalmente Prospero, non conferiti al marchese di Pescara i suoi pensieri acciò che non partecipasse della gloria di questa cosa e, perché non gli pervenisse a notizia, rifiutata l'opera de' fanti spagnuoli, tolte occultamente del fiume Brembo due barchette, mandò di notte con grandissimo silenzio alcune compagnie di fanti italiani a passare il fiume dirimpetto alla terra di Vauri.

È Vauri terra aperta e senza mura, posta in su la riva dell'Adda, distante cinque miglia da Casciano, ove è l'opportunità di passare il fiume; e ha nel mezzo un piccolo ridotto di mura rilevato, a uso di rocchetta. Guardava questo luogo con pochi cavalli Ugo conte de' Peppoli, luogotenente della compagnia delle lancie che aveva in condotta dal re di Francia Ottaviano Fregoso: il quale, sentito lo strepito, fattosi incontro in sulla riva, fu facilmente sforzato a dare luogo per la violenza degli scoppietti; ma si credé che arebbe fatto facilmente resistenza se a' cavalli che aveva seco fusse stato aggiunto qualche numero di scoppiettieri, come esso affermava avere dimandati a Lautrech. Raccoglievansi i fanti, secondo che passavano, in uno rilevato con un poco di forte che è nella terra sopradetta, aspettando venisse il soccorso ordinato da Prospero; il quale, subito che ebbe avviso del principio felice, si voltò quasi tutti i fanti dello esercito alloggiati in diverse castella della Ghiaradadda, con ordine che quegli che prima arrivassino, e poi gli altri successivamente, passassino subito il fiume in sulle medesime barchette, e in su due altre di quelle che seguitavano l'esercito, per gittare il ponte in su' fiumi: le quali la notte medesima erano state tirate per terra in sulla riva medesima. Andò ed egli e gli altri capitani, col cardinale de' Medici, incontinente al medesimo cammino, lasciato ordine a Rivolta che se i franzesi si discostavano si gittasse subito il ponte. Ma a Vauri fu per alquante ore incerto il successo della cosa. Perché se Lautrech, come prima ebbe notizia gli inimici essere passati, v'avesse voltata subito una parte dell'esercito, non è dubbio che gli opprimeva; ma poiché per piú ore fu stato sospeso di quello dovesse fare, mandò lo Scudo con [quattro]cento lancie e co' fanti franzesi e, dietro, alcuni pezzi d'artiglieria: i quali, camminando con celerità, cominciorno vigorosamente a combattere il luogo dove si erano ritirati gli inimici, nel tempo medesimo che in su l'altra riva compariva la gente che veniva al soccorso; per la speranza del quale si difendevano costantemente, ancora che lo Scudo, smontato a piede con tutti gli uomini d'arme, combattesse ferocemente nello stretto delle vie: né si dubita che se a tempo fussino arrivate l'artiglierie gli arebbono espugnati. Ma già dall'altra ripa sollecitavano continuamente di passare, secondo che comportava la capacità delle barche, Tegane capitano de' grigioni e due bandiere di fanti spagnuoli, mosse da' conforti del cardinale de' Medici e de' capitani. Ma senza conforto di alcuno, stimolato dalla propria magnanimità e sete grandissima della gloria, passò Giovanni de' Medici, portato da uno cavallo turco, per la profondità dell'acqua notando insino all'altra ripa; dando nel tempo medesimo terrore agli inimici e conforto agli amici. Finalmente lo Scudo, ancora che nello istante medesimo arrivassino le artiglierie, disperato della vittoria, perduta una bandiera, si ritirò a Cassano: donde Lautrech ridusse tutto l'esercito a Milano. Dove arrivato, o per non perdere l'occasione di saziare l'odio prima conceputo o per mettere con l'acerbità di questo spettacolo terrore negli animi degli uomini, fece decapitare publicamente Cristofano Palavicino: spettacolo miserabile, per la nobiltà della casa e per la grandezza della persona e per la età, e per averlo messo in carcere molti mesi innanzi alla guerra.

Cap. ix

Gloria derivata a Prospero Colonna dal successo ottenuto. L'esercito ispano-pontificio alloggia a Marignano; di qui marcia verso Milano. Entrata in Milano; anche le altre città del ducato passano agli ispano-pontifici. Sdegno degli svizzeri perché i loro fanti hanno combattuto contro i francesi.

Esaltò insino al cielo la passata dell'Adda il nome di Prospero, il quale prima, per la ritirata di Parma e per la lentezza del suo procedere, era infame a Roma e in tutto l'esercito; ma cancellandosi spesso per l'ultime cose la memoria delle prime, si celebravano popolarmente le laudi sue, che senza sangue e senza pericolo, ma totalmente con consiglio e con industria degna di peritissimo capitano, avesse furato agli inimici il passo di quel fiume; il quale Lautrech si prometteva tanto di proibirgli che, oltre a quello che ne diceva publicamente, avesse scritto al re che assolutamente lo impedirebbe. E nondimeno non mancavano di quegli che, con ragioni o vere o apparenti, si sforzassino di estenuare la gloria di questo fatto, allegando non avere avuta virtú o industria rara né la invenzione né l'esecuzione, perché la natura da se stessa insegna a ciascuno che truova opposizione a' fiumi o passi stretti di cercare di passare o di sopra o da basso, dove non sia chi impedisca; il passo di Vauri essere stato propinquo, opportunissimo e passo per l'ordinario frequentato, e Lautrech essere stato tanto negligente a farlo guardare che la negligenza sua non avea lasciato luogo alla industria; perché, in quale altra cosa potersi commendare la providenza di Prospero che nell'avere provedute occultamente le barche, e governata la cosa col silenzio necessario? Altri, forse troppo diligenti giudici delle cose, e piú pronti a riprendere gli errori dubbi che a laudare l'opere certe, non contenti di diminuire la fama della sua industria, riprendevano che in lui non fusse stata né la providenza né l'ordine conveniente; perché non avendo mandato comandamento alle genti destinate al soccorso, le quali erano alloggiate in Trevi, Caravaggio e in vari luoghi, che si movessino, se non quando ebbe notizia che i fanti mandati innanzi aveano occupato Vauri, tardorono per necessità insino a mezzo dí, i primi, ad arrivare in sulla ripa del fiume, piú di quattordici ore poi che i primi fanti erano passati: di maniera che non si dubita che se Lautrech avesse, quando n'ebbe notizia, fatto quel che fece dopo molte ore, e arebbe recuperato Vauri e rotto i fanti che erano passati, perché a soccorrergli pervenivano tardi i provedimenti ordinati. Ma non oscurorno queste interpretazioni la gloria di Prospero, perché è considerato comunemente dagli uomini l'evento delle cose; per il quale, ora con laude ora con infamia, secondo che è o felice o avverso, si attribuisce sempre a consiglio quel che spesso è proceduto dalla fortuna.

Partito Lautrech dalla ripa dell'Adda, niuno dubbio era che gli inimici, i quali il dí seguente gittorno il ponte tra Rivolta e Casciano, dovessino quanto piú presto si poteva accostarsi a Milano: nondimeno Prospero, il cui consiglio, biasimato comunemente dal volgo, fu approvato da' periti dell'arte militare, volle che il primo dí, per piú lungo circuito, si andasse ad alloggiare a Marignano, terra parimente propinqua a Milano e Pavia; perché non si potendo, per i tempi già freddi e molto piovosi, soggiornare in campagna, gli parve piú opportuno l'accostarsi a Milano da quella parte dalla quale, se come si credeva riuscisse difficile l'entrarvi, potesse subito voltarsi a Pavia, ove Lautrech, per ridurre tutte le forze a Milano, non avea lasciato alcuno presidio, per collocare in quella città, abbondante e molto opportuna, la sedia della guerra. Da altra parte Lautrech, il quale, ridotto a poco numero di fanti, era stato da principio inclinato a guardare solamente la città di Milano, considerando poi che se abbandonava i borghi dava comodità agli inimici di alloggiamento, e cosí facoltà di potere attendere oziosamente alla espugnazione, deliberò di guardare anche i borghi: consiglio certamente valoroso e prudente se fusse stato accompagnato dalla debita vigilanza, e per il quale, per gli accidenti inopinati che dopo pochissimi dí succederono, arebbono le cose sortito fine molto diverso da quello che ebbono. Ma l'esercito degli inimici, del quale la maggiore parte era alloggiata a Marignano e i svizzeri piú innanzi alla Badia di Chiaravalle, stato fermo tre dí per aspettare l'artiglierie, che per la difficoltà delle strade non si erano potute condurre, si indirizzò il decimonono dí di novembre a Milano, con intenzione, che se il dí medesimo non si entrava, di andarsene il dí seguente a Pavia; dove già, per occuparla, era stata mandata una parte de' cavalli leggieri. E accadde quella mattina cosa notabile: che essendosi fermati in uno prato appresso a Chiaravalle i legati e i principali dello esercito, per dare luogo a' svizzeri di camminare, sopragiunse uno vecchio, di presenza e di abito plebeo, il quale, affermando essere mandato dagli uomini della parrocchia di San Siro di Milano, sollecitava con grandissima esclamazione che si andasse innanzi, perché, per ordine dato, non solo gli uomini di quella parrocchia ma tutto il popolo di Milano, subito che si accostasse l'esercito, al suono delle campane di tutte le parrocchie, piglierebbe l'armi contro a' franzesi: cosa che parve poi maravigliosa perché, per qualunque diligenza che si facesse poi di ritrovarlo, non fu mai possibile sapere né chi fusse né da chi fusse stato mandato.

Camminò adunque l'esercito in ordinanza verso porta Romana, fermate l'artiglierie grosse al capo di una via che si voltava a Pavia; nella prima fronte del quale essendo il marchese di Pescara co' fanti spagnuoli, si accostò, appropinquandosi già la notte, al fosso tra porta Romana e porta Ticinese, e presentati gli scoppiettieri contro a un bastione fatto nel luogo che si dice Vicentino appresso alla porta detta Lodovico, piú per tentare che per speranza di ottenere, i fanti viniziani che n'aveano la custodia, non sostenuta non che altro la presenza degli inimici, voltate con inestimabile viltà le spalle, si messono in fuga; il medesimo feciono i svizzeri che alloggiavano appresso a loro: in modo che i fanti spagnuoli, passato senza difficoltà il fosso e il riparo, entrorno nel borgo. Nell'entrare de' quali fu preso, ricevuta nel prenderlo una leggiera ferita, Teodoro da Triulzi, che disarmato in su una muletta correva al rumore; il quale pagò poi al marchese di Pescara ventimila ducati per la sua liberazione. Salvossi con fatica grande Andrea Gritti, e unitisi fuggendo co' franzesi, tutti insieme con lungo circuito si ritirorono nella città: nella quale non avendo fatta provisione di difendersi, e avendo pochissimi fanti e l'animo del popolo inclinato alla rebellione, feciono alto intorno al castello. Da altra parte il marchese di Pescara, seguitando sollecitamente la prosperità della fortuna, accostatosi a porta Romana (ritengono le porte della città e quelle de' borghi il nome medesimo) fu da' principali della fazione ghibellina che aveano occupata la porta messo dentro; e poco dipoi entrorono nel medesimo modo, per la porta Ticinese, il cardinale de' Medici, il marchese di Mantova, Prospero e una parte dello esercito: ignorando quasi i vincitori in quale modo o per quale disordine si fusse con tanta facilità acquistata tanta vittoria. Ma la cagione principale procedette dalla negligenza de' franzesi; perché, per quello si potette comprendere poi, non aveva Lautrech avuto notizia che quel giorno l'esercito fusse mosso, anzi si credé che l'essere per le grandissime pioggie le strade molto rotte gli desse sicurtà che quel dí gli inimici non fussino per muovere l'artiglierie, senza le quali non pensava si mettessino ad assaltare i ripari: però, nel tempo medesimo che essi entrorono dentro, cavalcava con altri capitani disarmato oziosamente per Milano; e lo Scudo, stracco dalle vigilie della notte precedente, dormiva nel proprio alloggiamento. E nondimeno si credé che, poi che ebbe fuggendo raccolte le genti in sulla piazza del castello, arebbe avuta non piccola occasione di offendere gli inimici; de' quali una parte era alloggiata molto disordinatamente in Milano, un'altra restata ne' borghi col medesimo disordine, e un'altra parte alloggiata confusa e sparsa di fuora: ma impedito, dal timore e dallo errore delle tenebre, di discernere in sí breve tempo lo stato degli inimici, se ne andò la notte medesima con l'esercito a Como; dove lasciati cinquanta uomini d'arme e seicento fanti, preso il cammino per la Pieve di Inzino e passata Adda a Lecco, si ridusse in quel di Bergamo, restando il castello di Milano bene guardato e proveduto.

Seguitorono l'esempio di Milano Lodi e Pavia; e nel tempo medesimo il vescovo di Pistoia e Vitello, che, lasciata a dietro Parma, erano andati alla volta di Piacenza, furono accettati spontaneamente da quella città; e la medesima inclinazione seguitò la città di Cremona: dove, venuta nuova non solo della mutazione di Milano ma eziandio che le genti franzesi erano state rotte, il popolo levato in armi cominciò a chiamare il nome dello imperio e del duca di Milano. La quale cosa intesa da Lautrech, che già era arrivato in bergamasco, mandò lo Scudo con parte delle genti a ricuperarla: il quale, essendo ributtato dal popolo, Lautrech, ancora che, per la facilità che vi era di soccorrerla da tanti svizzeri che erano in Piacenza, avesse piccola speranza di prospero successo, vi si indirizzò con tutte le genti; avendo, per parergli essere impotente a sostenere tante cose, ordinato che Federigo da Bozzole abbandonasse Parma. E gli succedette la cosa felicemente, perché il vescovo di Pistoia, se bene avesse commissione dal cardinale de' Medici, subito che intese la rebellione di Cremona, di mandarvi, per stabilire quello acquisto, parte de' svizzeri, nondimeno, non volendo dividergli né implicargli in altre faccende, per la cupidità che aveva di andare con essi alla impresa che si destinava di Genova, ritardò tanto che Lautrech, tenendosi per lui il castello né vi essendo altra difensione che quella del popolo (il quale subito gli mandò imbasciadori a dimandare venia del delitto), la ricuperò facilmente; dalla quale cosa ripreso animo, espedí subito a Federigo da Bozzole che non abbandonasse Parma. Ma Federigo, già partitosene, aveva con tutte le genti passato il Po; e Vitello, il quale con le sue genti andava a Piacenza, essendo, quando Federigo partí, vicino a Parma, chiamato con grandissimo consenso del popolo vi era entrato dentro; e a Milano, attendendosi ad acquistare il resto dello stato, con disegno di ridursi a spesa piú temperata, fu mandato nel tempo medesimo il marchese di Pescara, con le genti spagnuole e co' tedeschi e grigioni, a campo a Como. La quale città poiché ebbe cominciato a battere con l'artiglierie, quegli che vi erano dentro non sperando soccorso si accordorono, con condizione che e le genti franzesi e gli uomini della terra con le loro robe fussino salvi; e nondimeno, quando i franzesi volevano partirsi, gli spagnuoli entrati dentro la saccheggiorono con infamia grande del marchese; il quale, non molto poi, imputato da Giovanni Cabaneo, capo di quella gente, di fede rotta, fu chiamato a duello.

Mandorono da Milano nel tempo medesimo il vescovo di Veroli a' svizzeri per fermare gli animi loro; ma essi, come fu pervenuto a Bellinzone, lo messono in custodia perché, malcontenti che i fanti loro fussino proceduti contro al re di Francia, si lamentavano non solo del cardinale sedunense e del pontefice e di tutti i ministri suoi ma, tra gli altri, particolarmente di Veroli, che essendo, quando furono levati i fanti, nunzio del pontefice appresso a loro, si fusse affaticato per indurgli a contravenire alla eccezione contro la quale erano stati conceduti.

Cap. x

Morte di Leone decimo; giudizio dell'autore. Terre e fortezze rimaste in possesso dei francesi; Tornai presa da Cesare; conseguenze della morte del pontefice nel ducato di Milano; progressi del duca di Ferrara. I francesi e i veneziani contro Parma; l'opera del commissario Francesco Guicciardini. Sue parole di fiducia e di rimprovero. Vani assalti dell'esercito nemico a Parma.

Erano le cose della guerra ridotte in questi termini, e con speranza grande del pontefice e di Cesare di stabilire la vittoria; perché il re di Francia non poteva se non con lunghezza di tempo mandare nuove genti in Italia, e la potenza di quegli i quali contro a lui avevano acquistato Milano, con la maggiore parte di quello ducato, pareva bastante non solo a conservarlo, ma ad acquistare quello che ancora restava in mano degli inimici: anzi, già il senato viniziano, spaventato di tanto successo e temendo che la guerra cominciata contro ad altri non si trasferisse nella casa propria, dava speranza al pontefice di fare partire del suo dominio le genti franzesi. Ma da accidente inopinato ebbono subitamente origine inopinati pensieri. Morí di morte inaspettata, il primo dí di dicembre, il pontefice Leone: il quale, avendo avuto alla villa della Magliana, dove spesso si riduceva per sua ricreazione, la nuova dello acquisto di Milano e ricevutone incredibile piacere, soprapreso la notte medesima da piccola febbre e fattosi il dí seguente portare a Roma, ancora che da' medici fusse riputato di piccolo momento il principio della sua infermità, morí fra pochissimi dí: non senza sospetto grande di veleno, datogli, secondo si dubitava, da Bernabò Malaspina suo cameriere deputato a dargli da bere. Il quale se bene fusse incarcerato per questa suspicione, non fu ricercata piú oltre la cosa, perché il cardinale de' Medici, come fu giunto a Roma, lo fece liberare, per non avere occasione di contrarre maggiore inimicizia col re di Francia, per opera di chi si mormorava, ma con autore e congetture incerte, Bernabò avergli dato il veleno. Morí, se tu risguardi l'opinione degli uomini, in grandissima gloria e felicità, non solo per essere liberato per la vittoria di Milano da pericoli e spese inestimabili, per le quali, esaustissimo di danari, era costretto provederne in qualunque modo, ma perché, pochi dí innanzi alla sua morte, aveva inteso l'acquisto di Piacenza e, il dí medesimo che morí, inteso quello di Parma: cosa tanto desiderata da lui che certo è, quando deliberò di pigliare la guerra contro a' franzesi, aveva detto al cardinale de' Medici che ne lo dissuadeva, muoverlo principalmente il desiderio di recuperare alla Chiesa quelle due città, la quale grazia quando conseguisse non gli sarebbe molesta la morte. Principe nel quale erano degne di laude e di vituperio molte cose, e che ingannò assai la espettazione che quando fu assunto al pontificato si aveva di lui, conciossiaché e' riuscisse di maggiore prudenza ma di molto minore bontà di quello che era giudicato da tutti.

Per la morte del pontefice indebolirono molto le cose di Cesare in Lombardia. Perché non era da dubitare che il re di Francia, ripreso animo per essergli mancato quello inimico co' danari del quale si era cominciata e sostenuta tutta la guerra, non mandasse esercito nuovo in Italia; e che i viniziani per le medesime cagioni non continuassino nella confederazione con lui: donde si interrompevano i disegni fatti di assaltare Cremona e Genova; e i ministri di Cesare, i quali avevano con difficoltà pagato insino a quel dí le genti spagnuole, erano necessitati a diminuire non senza pericolo le forze, possedendosi in nome del re di Francia Cremona e Genova, Alessandria, il castello di Milano, le fortezze di Novara e di Trezzo, Pizzichitone, Domussola, Arona e tutto il Lago Maggiore. Era anche ritornata alla sua divozione la rocca di Pontriemoli; la quale, occupata da Palavicino, fu recuperata da Sinibaldo dal Fiesco e dal conte di Noceto. Né passorono anche felicemente le cose del re di Francia di là da' monti; perché Cesare, mosse le armi contro a lui, prese la città di Tornai e poco dipoi la fortezza, nella quale era molta artiglieria e munizione.

Per la morte del pontefice si introdussono nuovi governi nuovi consigli e nuovi ordini nel ducato di Milano. I cardinali sedunense e Medici andorono subito a Roma, per ritrovarsi alla elezione del nuovo pontefice. Riservoronsi i cesarei mille cinquecento fanti svizzeri, tutti gli altri e i fanti tedeschi licenziati si partirono. Ritornoronsi le genti de' fiorentini verso Toscana; di quelle della Chiesa ne menò Guido Rangone una parte a Modena, un'altra parte rimase col marchese di Mantova nello stato di Milano, piú per deliberazione propria che per consentimento del collegio de' cardinali, il quale, diviso in se medesimo, non poteva fare determinazione di cosa alcuna: in modo che, querelandosi Lautrech con loro che i soldati della Chiesa stessino fermi nel ducato di Milano in pregiudicio del re di Francia (il quale, per le opere de' suoi predecessori tanto pietose verso la Chiesa, otteneva il titolo di protettore e di figliuolo primogenito di quella), non furono concordi a fare altra risposta o deliberazione se non che se ne rimettevano alla determinazione del pontefice futuro. De' svizzeri che erano a Piacenza n'andorono una parte col vescovo di Pistoia a Modena, per difesa di quella terra e di Reggio contro al duca di Ferrara: il quale, uscito dopo la morte di Lione in campagna, con cento uomini d'arme dumila fanti e trecento cavalli leggieri, e ricuperato per volontà degli uomini il Bondino e il Finale e la montagna di Modena e la Garfagnana e, con piccola difficoltà, Lugo, Bagnacavallo e l'altre terre di Romagna, era andato a campo a Cento.

A Piacenza restorono i svizzeri del cantone di Zurigo; da' quali, per non si volere separare, non si potette impetrare che mille di loro andassino alla guardia di Parma: la quale città essendo restata quasi sprovista, dette animo a Lautrech, che con seicento lancie e dumila cinquecento fanti era in Cremona, di tentare di ripigliarla; stimolandolo massime a questo Federigo da Bozzole, il quale per avere notizia particolare di quelle cose aveva credito grande in questa materia. Però fu disegnato che Buonavalle con trecento lancie, e Federigo e Marcantonio Colonna, l'uno con fanti soldati da' franzesi l'altro con fanti de' viniziani, in numero in tutto cinquemila, assaltassino allo improvviso quella città; dove erano settecento fanti italiani e cinquanta uomini d'arme del marchese di Mantova, il popolo bene disposto alla divozione della Chiesa ma male armato, e invilito per la memoria de' franzesi e delle acerbità usate da Federigo, e quella parte della città che era stata battuta dal campo della Chiesa, con le mura ancora per terra senza esservi stata fatta restaurazione alcuna. Aggiugnevasi la vacazione della sedia apostolica, per la quale gli animi de' popoli sogliono vacillare e i governatori attendere piú alla propria salute che alla difesa delle terre, non sapendo per chi aversi a mettere in pericolo. Con questi fondamenti adunque, mandate di notte le fanterie de' franzesi giú per il fiume del Po insino a Torricella, dove si unirono con loro le genti d'arme venute da Cremona per terra, ed essendo state condotte da Cremona molte barche, passorono la notte il Po a Torricella propinqua a Parma a dodici miglia; con ordine che Marcantonio Colonna, con le fanterie viniziane le quali erano alloggiate in su Oglio, le seguitasse: il che avendo presentito la notte medesima Francesco Guicciardini, il quale era andato da Milano per commissione del cardinale de' Medici alla custodia di Parma, convocato la notte il popolo e confortatolo alla difensione di loro medesimi, e distribuite in loro mille picche, che due dí innanzi, sospettando de' casi che potessino accadere, aveva fatto condurre da Reggio, attendeva sollecitamente a fare le provisioni necessarie per difendersi. Conoscendo molte difficoltà, per i pochi soldati che vi erano, non bastanti a sostenerla senza l'aiuto del popolo, nel quale, ne' casi inopinati e pericolosi, non si può per la natura della moltitudine fare saldo fondamento, e considerando non potere proibirsi agli inimici l'entrata nel Codiponte, ritirò i soldati e tutti quegli della terra nell'altra parte della città; ma non senza grandissima difficoltà: perché, persuadendosi molti del popolo vanamente che la si potesse difendere, e parendo duro agli abitatori di quella parte abbandonare le case proprie, non si poteva, né con ragioni né con autorità, disporgli se non quando si approssimorono gli inimici; i quali, per avere i parmigiani tardato troppo a volersi ritirare, mancò poco che insieme alla mescolata con loro non entrassino nell'altra parte della terra: dove erano molte difficoltà, e principalmente il mancamento de' danari, in tempo molto importuno, perché era appunto il dí del pagare i fanti, i quali protestavano, se fra uno dí non erano pagati, di uscirsi della terra. Entrò il primo dí Federigo da Bozzole con tremila fanti e alcuni cavalli leggieri nel Codiponte abbandonato, sopragiunse il dí seguente Buonavalle con le lancie franzesi, e Marcantonio Colonna con dumila fanti de' viniziani; non con altre artiglierie che con due sagri, perché le strade pessime che sono di quella stagione ne' luoghi bassi e pieni di acque vicini al Po facevano impossibile, o almanco molto difficile, il condurre l'artiglierie grosse da battere la muraglia; e questo non senza perdita di tempo contraria alle speranze loro fondate in su la celerità, perché tardando molto dubitavano, benché vanamente, che a Parma non fusse mandato soccorso o da Modena o da Piacenza. Nondimeno era entrato nel popolo opinione, per avvisi avuti da' contadini fuggiti del paese, venire artiglierie grosse: donde impauriti maravigliosamente, e molto piú perché, avendo Federigo preso nel contado alcuni cittadini e fattigli destramente, da certi rebelli parmigiani che erano seco, empiere di opinione che con Marcantonio e co' franzesi veniva gente molto grossa e con artiglierie, gli aveva lasciati andare in Parma; dove, avendo riferito cose assai sopra al vero delle forze degli inimici, empierono il popolo tutto di tanto spavento che non solo nella moltitudine per tutte le contrade, ma nel consiglio loro e in quegli magistrati che avevano la cura delle cose della comunità, si cominciò apertamente a pregare il governatore che, per liberare sé e i soldati suoi dal pericolo di restare prigione e la città dal pericolo di essere saccheggiata, consentisse che si accordassino: a che resistendo il governatore con le ragioni e co' prieghi, e consumandosi il tempo in dispute, si accrebbe nuova difficoltà, perché essendo il tempo di dare la paga, i fanti, sollevati, facendo segno di volere uscirsi della città, tumultuavano. Ottenne nondimeno il commissario, con molte persuasioni, dalla città che provedessino a una parte de' danari, i quali avendo prima promessi si erano raffreddati, dimostrando che questo farebbe, in ogni partito che e' pigliassino, giustificazione non piccola per ogni tempo co' pontefici futuri: co' quali danari quietò, il meglio si potette, il tumulto. Donde e nel popolo si augumentava il timore, e i soldati, vedendo che per essere pochi restavano a discrezione loro e intendendo vacillare gli animi di tutta la città, ridotti in gravissimo sospetto di non essere in uno tempo medesimo assaltati di dentro e di fuora, arebbono desiderato piú presto che di accordo si arrendesse la terra, capitolando la salvazione loro, che stare in questo pericolo.

Nel quale stato delle cose ridotte a non piccola strettezza fu molto necessaria la costanza del governatore; il quale, ora assicurando i soldati dal pericolo comune a lui con loro ora confortando i principali della terra congregati tutti in consiglio e disputando con loro, dimostrava essere vano il timore, per avere egli certezza che gli inimici non conducevano artiglierie grosse, senza le quali essere ridicolo il temere che con le scale avessino a entrare per forza nella terra; la gioventú della quale congiunta co' soldati era bastante a resistere a impeto molto maggiore. Avere mandato a Modena, dove erano i svizzeri, Vitello e Guido Rangone con le genti loro, a dimandare soccorso; né dubitare che al piú lungo per tutto il dí seguente lo arebbono tale che gli inimici sarebbono costretti a partirsi: perché il rispetto dello onore loro, e il timore che perdendosi Parma non seguitasse maggiore disordine, gli costrigneva, avendo tanta gente quanta avevano, a farsi innanzi. Avere mandato per il medesimo effetto a Piacenza, donde essergli data grandissima speranza per le medesime cagioni. Dovere considerare, che essendo morto il pontefice dal quale era stato onorato ed esaltato, non gli restare obligazione o stimolo alcuno per il quale, se le cose fussino in quello grado che essi si immaginavano, avesse a sottoporsi volontariamente a sí manifesto pericolo; perché non potevano, come sempre aveva dimostrato la esperienza, i ministri del pontefice morto aspettare dal futuro pontefice grado o remunerazione alcuna, anzi potere facilmente accadere che il nuovo pontefice fusse inimico di Firenze patria sua: però, né per rispetti publici né per rispetti privati avere cagione di desiderare la grandezza della Chiesa, ma potere bene nascere molti casi per i quali gli sarebbe gratissima la bassezza. Non avere egli in Parma moglie figliuoli o facoltà alcuna, che avesse a dubitare che, avendo a ritornare sotto il dominio de' franzesi, avessino a restare sottoposti alla libidine insolenza e rapine loro: però, non toccando a lui né sperare utilità se Parma si difendesse né temere, se la si arrendesse, de' mali che avevano provati sotto il giogo acerbo de' franzesi, e avendo, se la si perdeva per forza, sottoposta la persona a medesimi pericoli che l'avevano sottoposta gli altri, potevano essere certi che lo stare suo costante non procedeva da altro che da conoscere manifestamente, quegli di fuora, non avendo artiglierie grosse, come era certo non avevano, non essere bastanti a sforzarla; di che se dubitasse, non contradirebbe, per il desiderio che, come tutti gli altri uomini, aveva della salute propria, allo accordo, massime che essendo la sedia vacante, egli non si trovando in Parma con tanta gente che potesse opporsi alla volontà del popolo, non gli potrebbe di questa loro deliberazione resultare imputazione o carico alcuno. Colle quali ragioni, parte parlando separatamente con molti di loro, parte disputando con tutti insieme, parte togliendo loro tempo con lo andare intorno alla muraglia e fare altre provisioni, gli aveva intratenuti tutta la notte; perché aveva compreso che, benché desiderassino ardentemente di accordarsi non per altra cagione che per timore estremo che avevano di non essere sforzati e saccheggiati, nondimeno gli raffrenava il conoscere che, accordandosi senza il consentimento suo, non potevano fuggire nota di essere ribelli. Ma essendo apparita l'alba del dí, dí dedicato a san Tommaso apostolo, e già cominciatosi a conoscere, per le palle che tiravano i due sagri stati piantati quella notte, che non vi era artiglieria da battere la muraglia, credette il governatore, ritornando in consiglio, trovare variati e assicurati gli animi di tutti; ma trovò totalmente contraria disposizione, e il timore tanto piú augumentato quanto per essere già il principio del dí pareva loro approssimarsi piú al pericolo: in modo che, non udendo piú le ragioni, cominciavano, non solo con apertissima instanza ma eziandio con protesti e quasi con tacite minaccie, a strignerlo che consentisse allo accordo. A' quali avendo risposto risolutamente che, poi che non era in potestà sua proibire loro questi ragionamenti e questi pensieri, come farebbe se avesse in Parma maggiori forze, non gli restava altra sodisfazione della ingiuria che trattavano di fare alla sedia apostolica e a sé, ministro di quella, che vedere che se si risolvevano ad accordarsi non potevano fuggire la infamia di essere rebelli e mancatori di fede al loro signore; esprobrando con caldissime parole il giuramento della fedeltà che, pochi dí innanzi, avevano nella chiesa maggiore prestato solennemente in sua mano alla sedia apostolica; e che, quando bene vedesse innanzi agli occhi la morte manifestissima da loro, tenessino per certo che da lui mai arebbono altra conclusione se non quando, per sopravenire nuove genti o artiglierie grosse nel campo degli inimici o per altro accidente, conoscesse essere maggiore il pericolo del perdersi che la speranza del difendersi. Dopo le quali parole essendosi uscito del consiglio, parte perché le restassino negli orecchi e ne' petti loro con maggiore autorità, parte per dare ordine a molte cose che erano necessarie se gli inimici volessino dare, come si credeva, quel dí la battaglia, stettono sospesi e quasi attoniti per lungo spazio. Finalmente, prevalendo il timore a tutti gli altri rispetti, e risoluti in ogni caso di mandare fuora a praticare d'arrendersi, mandorono alcuni del numero loro a protestare al commissario che, se egli perseverava nella ostinazione di non consentire che si salvassino, erano disposti farlo per loro medesimi, per fuggire il pericolo evidentissimo del sacco. Ma in quel tempo medesimo che volevano esporre la imbasciata cominciorono a sentirsi i gridi di quegli che erano a guardia delle porte e delle mura, e le campane della torre piú alta della città che davano segno che gli inimici, usciti di Codiponte in ordinanza, si accostavano alle mura per dare lo assalto; donde il commissario, rivoltosi a coloro che ancora non avevano parlato, disse: - Quando bene volessimo tutti, non siamo piú a tempo ad accordarci; bisogna o difenderci onorevolmente o andare vituperosamente a sacco o restare prigioni; se non volete fare come Ravenna e Capua, saccheggiate quando con gli inimici alle mura si trattavano gli accordi. Io insino a qui ho fatto quello che poteva fare uno uomo solo, e condottivi per beneficio vostro in grado che è necessario o vincere o morire; se ora bastassi solo a difendere la città non mancherei di difenderla, ma non si può senza l'aiuto vostro: però, non siate manco gagliardi e manco caldi a difendere, come potete fare facilmente, la vita e la roba vostra e l'onore delle vostre moglie e figliuoli, che siate stati importuni a volere, senza necessità, mettervi sotto la servitú de' franzesi, che, come sapete, tutti sono capitalissimi inimici vostri.

Dopo le quali parole avendo voltato il cavallo in altra parte, restando ciascuno confuso per il timore, e per parere loro non essere piú a tempo a tentare altri rimedi, si lasciorono da parte i ragionamenti dello accordarsi, e fu necessario attendere alla difesa: perché una parte degli inimici, avendo quantità grandissima di scale, raccolta il dí dinanzi del paese, si erano accostati a uno bastione che, dalla parte di verso il Po, aveva fatto fare Federigo, quando, partito il campo degli ecclesiastici, rimase alla custodia di Parma; e lo combattevano virilmente; e nel tempo medesimo un'altra parte dava l'assalto molto feroce alla porta che va a Reggio, e medesimamente si combatteva in due altri luoghi: con tanta piú difficoltà del difendersi, quegli di dentro, quanto gli inimici erano piú freschi e stimolati con le parole da' capitani, massime da Federigo; e gli uomini della terra pieni di spavento non si accostavano, da pochissimi in fuora, alla muraglia, anzi la piú parte rinchiusi per le case, come se aspettassino di punto in punto l'estremo caso della città. Durorono questi assalti, rinfrescati piú volte, per spazio di quattro ore; diminuendosi sempre il pericolo di quegli di dentro, non solo per la stracchezza degli inimici, che battuti e feriti da piú bande diminuivano di animo, ma eziandio perché vedendo quegli della terra succedere la difesa felicemente, preso ardire, concorrevano di mano in mano prontamente alla muraglia, non mancando il commissario di fare sollecitamente per tutto le necessarie provisioni: talmente che, innanzi cessasse la battaglia, non solo era concorso tutto il popolo e i religiosi ancora a combattere alla muraglia, ma eziandio moltissime donne attendendo a portare vino e altri rinfrescamenti agli uomini suoi. In modo che quegli di fuora, disperati della vittoria, e ritiratisi con perdita e ferite di molti di loro nel Codiponte, la mattina seguente si levorono; e stati uno dí o due vicini a Parma se ne ritornorono di là dal Po; asserendo Federigo, nessuna cosa in questa espedizione, della quale era stato autore, averlo ingannato se non il non avere creduto che uno governatore, non uomo di guerra e venuto nuovamente in quella città, avesse, essendo morto il pontefice, voluto piú presto, senza alcuna speranza di profitto, esporsi al pericolo che cercare di salvarsi, potendo farlo senza suo disonore o infamia alcuna.

Cap. xi

Conseguenze della fallita impresa contro Parma; il duca di Urbino riconquista lo stato. Le milizie del duca e dei Baglioni sotto Perugia. Scorrerie delle milizie nemiche nel ducato di Milano. Il conclave per l'elezione del nuovo pontefice rimandato per la prigionia del cardinale d'Ivrea.

Nocé assai la difesa di Parma alle cose de' franzesi, perché dette maggiore animo al popolo di Milano e agli altri popoli di quello stato a difendersi che non avevano prima, e massime sapendosi esservi stati dentro pochi soldati e non avere avuto soccorso, perché né da Piacenza si mosse alcuno né i svizzeri che erano a Modena, né Guido Rangone né Vitello non vollono mandare gente al soccorso di Parma: Guido allegando che, benché il duca di Ferrara, non avendo potuto spugnare Cento difeso da' bolognesi, si fusse alla venuta de' svizzeri ritirato al Finale, nondimeno essere pericolo che spogliandosi Modona di presidio non venisse ad assaltarla; e il vescovo di Pistoia, vacillando e stando implicato e irrisoluto tra le richieste instantissime che gli faceva il Guicciardino e le persuasioni di Vitello (il quale per lo interesse proprio lo stimolava che co' svizzeri passasse in Romagna per impedire il passo al duca di Urbino), tardò tanto a risolversi che non fece né l'una cosa né l'altra; perché Parma da se medesima si difese e al duca non fu fatto impedimento alcuno in Romagna, perché, in ultimo, i svizzeri non essendo pagati non vollono muoversi. Il quale e insieme Malatesta e Orazio fratelli de' Baglioni andavano, quello per ricuperare gli stati perduti questi per ritornare in Perugia; avendo raccolto a Ferrara dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e tremila fanti i quali, parte per amicizia parte per speranza della preda, volontariamente gli seguitavano: perché né da' franzesi né da' viniziani potettono impetrare altro favore che permettere, a qualunque fusse soldato loro, di seguitargli; e i viniziani concederno a Malatesta e Orazio di partirsi dagli stipendi loro. Andati adunque da Ferrara a Lugo per il Po né trovando per lo stato della Chiesa ostacolo alcuno, come furno vicini al ducato di Urbino, il duca chiamato da' popoli ricuperò, eccetto quello che possedevano i fiorentini, incontinente ogni cosa, e voltatosi dipoi a Pesero ricuperò la terra con la medesima facilità, e in spazio di pochi giorni la rocca: e seguitando la prosperità della fortuna, cacciato da Camerino Giovanmaria da Varano antico signore, che per illustrarsi aveva conseguito da Lione il titolo di duca, vi messe dentro Gismondo, giovanetto della medesima famiglia che pretendeva di avere a quello stato migliore ragione: ritenendosi nondimeno la fortezza per il duca, il quale era rifuggito alla Aquila. Espedite queste cose, si voltò con Malatesta e Orazio Baglioni a Perugia; della quale aveano presa la difesa i fiorentini, non tanto per consiglio proprio quanto per volontà del cardinale de' Medici, mosso o dall'odio e inimicizia che aveva col duca d'Urbino e co' Baglioni o per parergli che la vicinità loro potesse mettere in pericolo l'autorità che aveva in Firenze o perché, aspirando al pontificato, volesse guadagnare la riputazione di essere lui solo difensore, nella vacazione della sedia, dello stato della Chiesa. Perché il collegio de' cardinali era al tutto senza cura di difendere, o in Lombardia o in Toscana o altrove, parte alcuna del dominio ecclesiastico; parte perché i cardinali erano distratti in diverse fazioni e immerso ciascuno di loro ne' pensieri di ascendere al pontificato, parte perché nello erario pontificale o in Castello Santo Agnolo non si trovava somma alcuna di danari lasciata da Lione: il quale, per la sua prodigalità, non solo aveva consumato i danari di Giulio e incredibile quantità tratti di offici creati nuovamente, con diminuzione di quarantamila ducati di entrata annua della Chiesa, [ma] aveva lasciato debito grande e impegnate tutte le gioie e cose preziose del tesoro pontificale: in modo che argutamente fu detto da qualcuno che gli altri pontificati finivano alla morte de' pontefici, ma quello di Lione essere per continuarsi piú anni poi. Mandò solamente il collegio a Perugia l'arcivescovo Orsino, perché trattasse di concordare insieme i Baglioni; ma essendo la persona sospetta a Gentile, per il parentado che aveva co' figliuoli di Giampaolo, e proponendosi condizioni poco sicure per lui, si trattò invano: in modo che, penultimo dí dell'anno, il duca di Urbino, Malatesta e Orazio Baglioni e Cammillo Orsino, il quale seguitato da alcuni volontari si era di nuovo unito con loro, andorono ad alloggiare al Ponte a San Ianni; donde, distesisi quivi alla Bastia e luoghi vicini, infestavano dí e notte la città di Perugia; ove, oltre a cinquecento fanti condotti da Gentile, vi aveano messi i fiorentini (a' quali l'essersi il duca voltato a Pesero dette spazio di provederla), dumila fanti, cento cavalli leggieri sotto Guido Vaina e centoventi uomini d'arme e cento cavalli leggieri sotto Vitello.

Nel quale tempo, nello stato di Milano si stava con sommo ozio; non si facendo da alcuna delle parti altro che prede e correrie: le quali per fare ancora ne' luoghi tenuti dalla Chiesa avevano i franzesi, restati in Cremona con dumila fanti, gittato il ponte in sul Po, per il quale passando spesso nel piacentino e nel parmigiano molestavano tutto il paese. E benché Prospero, stimolato dagli altri capitani, publicasse di volere andare a pigliare Trezzo, e già avesse inviato l'artiglierie, nondimeno non lo messe a effetto, allegando non essere a proposito che l'esercito fusse impegnato in luogo alcuno, per potere soccorrere lo stato della Chiesa se i franzesi avessino cominciato a farvi progresso alcuno; cosa nella quale pareva che avesse i pensieri diversi dalle parole, perché significatagli l'andata del campo a Parma, non fatto segno alcuno di volerla soccorrere, disse essere necessario aspettare l'evento. Anzi, essendo rimasta Piacenza abbandonata di ogni presidio, perché i svizzeri zuricani per comandamento de' loro signori se ne partirono subitamente, Prospero fece grandissima diligenza perché il marchese di Mantova con le sue genti non si partisse da Milano; il quale, fermatosi in Piacenza, sostenne con somma laude, co' fanti del suo dominio e col prestare qualche volta danari, quella città.

Né si provedeva a tanti pericoli per la elezione del nuovo pontefice; la quale, con tanto pregiudicio dello stato ecclesiastico, si era differita per dare tempo ai cardinali assenti di andare al conclave, e ultimamente perché il cardinale di Ivrea, andando da Turino a Roma, era stato, per ordine di Prospero Colonna, ritenuto nello stato di Milano, perché come favorevole a' franzesi non si trovasse al conclave: per il che il collegio fece decreto che tanti dí si tardasse a entrare nel conclave quanti dí fusse stato o fusse per essere impedito il cardinale di Ivrea a passare innanzi. Però, essendo stato liberato, si serrò il conclave il vigesimo settimo dí di dicembre, nel quale intervennono trentanove cardinali: tanto aveva moltiplicato il numero la promozione immoderata fatta da Lione, alla creazione del quale non erano stati presenti piú che ventiquattro cardinali.

Cap. xii

Mutamento politico in Perugia. Difficoltà nella nomina del pontefice ed ambizione del cardinale de' Medici. Elezione di Adriano sesto. Il duca d'Urbino e i Baglioni marciano verso Siena. Apprensioni e provvedimenti dei fiorentini; il fallimento dell'impresa. Tacita tregua d'armi in Umbria in Toscana e nel ducato di Milano.

Fu il primo fatto dell'anno mille cinquecento ventidue la mutazione dello stato di Perugia, succeduta, come fu giudicio comune, non meno per la viltà de' difensori che per la virtú degli assaltatori. I quali, accresciuti di numero di volontari insino alla somma di dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, ed entrati nel borgo di San Piero abbandonato da quegli di dentro, dettono, il quarto dí dell'anno nuovo, la battaglia con grandissima quantità di scale, dalla porta di San Piero da porta Sogli e da porta Brogni e da piú altre parti; avendo prima piantati, per levare le difese, in piú luoghi, sette pezzi di artiglieria da campagna commodati loro dal duca di Ferrara. La quale battaglia, cominciata all'alba del dí e rinfrescata piú volte, si può dire che continuasse quasi tutto il giorno; e ancora che da due o tre luoghi entrassino nella terra, difesa solamente da' soldati perché il popolo non si moveva, furono sempre rimessi fuora con la morte di molti di loro: onde Gentile e il commissario fiorentino, cresciuti di animo, speravano d'avere non meno felicemente a difendersi gli altri dí. Ma la timidità di Vitello fu cagione che le cose avessino esito molto diverso. Perché temendo che il popolo piú inclinato a' figliuoli di Giampagolo che a Gentile non si movesse in favore loro, né parendogli piccola importanza che avessino preso l'alloggiamento ne' borghi tra le due porte di San Piero, ma sopratutto mosso dal sospetto d'avere, se le cose succedessino sinistramente, in pericolo la vita propria, per l'odio che sapeva portargli il duca di Urbino e i figliuoli di Giampagolo, significò agli altri capitani, la notte, di volersi partire; allegando il soprasedere suo non fare utilità alcuna, perché essendo stato il dí precedente, quando si dava la battaglia, ferito da uno scoppio nel dito minore del piede destro, era tanto soprafatto dal dolore che la necessità l'aveva costretto a fermarsi nel letto; e benché Gentile e gli altri si sforzassino di rimuoverlo con molti prieghi da questa intenzione, dimostrandogli quanto invilirebbe i soldati e il popolo della città la sua partita, deliberorono, poiché stava pertinace, di seguitarlo. Cosí la notte medesima andorono a Città di Castello, e Perugia ricevette dentro i fratelli Baglioni; con ammirazione incredibile di tutti quegli che avendo avuta notizia, per lettere scritte la notte medesima, del felice successo avuto il giorno precedente contro agli inimici, intesono, poche ore poi, Vitello e gli altri averla vilmente abbandonata.

Non era a questo tempo espedita la elezione del nuovo pontefice, differita per la discordia grande de' cardinali, causata principalmente perché il cardinale de' Medici, aspirando al pontificato, e potente per la riputazione della grandezza sua e per le entrate e per la gloria guadagnata nello acquisto di Milano, aveva uniti a sé i voti di quindici altri cardinali, mossi o per interessi propri o per la amicizia che avevano seco o per la memoria de' benefici ricevuti da Lione, e alcuni per speranza che quando fusse disperato di conseguire per sé il pontificato diventerebbe fautore di quegli che fussino stati pronti a favorirlo. Ma a questo suo desiderio repugnavano molte cose: il parere a molti cosa perniciosa che a uno pontefice morto succedesse uno pontefice della medesima famiglia, come esempio di cominciare a dare il pontificato per successione: opponevansi tutti i cardinali vecchi, i quali pretendevano per sé propri a tanta degnità, né potevano tollerare che e' fusse eletto uno minore di cinquanta anni: contrari tutti quegli che seguitavano la parte franzese; alcuni di quegli che seguitavano la parte imperiale, perché il cardinale Colonna, ancora che da principio avesse dimostrato di volergli essere favorevole, aveva dipoi molto scopertamente dimostratogli opposizione; inimici accerrimi quegli cardinali che erano stati malcontenti di Lione. E nondimeno, in queste difficoltà, lo sosteneva una speranza efficacissima, perché essendo piú che la terza parte del collegio quegli che gli aderivano, non si poteva, mentre stavano uniti, fare senza consentimento loro l'elezione; donde sperava che per la lunghezza del tempo s'avessino o a straccare o a disunirsi gli avversari, tra' quali erano molti inabili per l'età a tollerare lungo disagio; e perché concordi tra loro in non creare lui erano discordi in creare altri, pensando ciascuno a eleggere o sé o amici suoi, e ostinatissimi molti di loro a non cedere l'uno all'altro. Ma mollificò alquanto la mutazione dello stato di Perugia la pertinacia del cardinale de' Medici, per la instanza del cardinale de' Petrucci, uno de' cardinali che gli aderivano; il quale, capo dello stato di Siena, temendo che per l'assenza sua le cose di quella città, alla quale si intendeva volere voltarsi il duca di Urbino con quelle genti, non facessino mutazione, sollecitava che si eleggesse il nuovo pontefice: per la instanza del quale, ed eziandio per lo interesse del pericolo nel quale mutandosi il governo di Siena incorrerebbe quello di Firenze, mosso il cardinale de' Medici, cominciò a inclinarsi al medesimo; ma non risoluto totalmente a chi volesse eleggere. Mentre che, secondo l'uso, una mattina in conclave si fa lo scrutinio, essendo proposto Adriano cardinale di Tortosa, di nazione fiammingo ma che, stato in puerizia di Cesare maestro suo e per opera sua promosso da Lione al cardinalato, rappresentava in Spagna l'autorità sua, fu proposto, senza che alcuno avesse inclinazione di eleggerlo ma per consumare invano quella mattina. Ma cominciandosegli a scoprire qualche voto, il cardinale di San Sisto, quasi con perpetua orazione, amplificò le virtú e la dottrina sua; donde, cominciando alcuni cardinali a cedergli, seguitorono di mano in mano gli altri, piú presto con impeto che con deliberazione: in modo che, co' voti concordi di tutti, fu creato quella mattina sommo pontefice; non sapendo quegli medesimi che l'avevano eletto rendere ragione per che causa, in tanti travagli e pericoli dello stato della Chiesa, avessino eletto uno pontefice barbaro e assente per sí lungo spazio di paese, e al quale non conciliavano favore né meriti precedenti né conversazione avuta con alcuni altri cardinali, da' quali appena era conosciuto il suo nome, e che mai non aveva veduto Italia, e senza pensiero o speranza di vederla. Della quale estravaganza, non potendo con ragione alcuna escusarsi, trasferivano la colpa nello Spirito Santo, solito, secondo dicevano, a ispirare nella elezione de' pontefici i cuori de' cardinali: come se lo Spirito Santo, amatore precipuamente de' cuori e degli animi mondissimi, non si sdegnasse di entrare negli animi pieni di ambizione e di incredibile cupidità, e sottoposti quasi tutti a delicatissimi, per non dire inonestissimi, piaceri. Ebbe la novella della elezione a Vittoria, città di biscaia; la quale avuta, non mutando il nome che prima aveva, si fece denominare Adriano sesto.

Mutato lo stato di Perugia, poiché, con detrimento non piccolo degli altri disegni, ebbono tardato le genti a muoversi qualche dí, partirono, per raccorre danari dagli amici di Perugia e di Todi (dove Cammillo Orsino aveva rimesso i fuorusciti), il duca d'Urbino e gli altri, lasciato Malatesta in Perugia; camminando con celerità grande verso Siena, avendo con loro [Lattanzio] Petruccio, che da Lione era stato privato del vescovado di Soana, perché Borghese e Fabio figliuoli di Pandolfo Petrucci erano stati proibiti da' ministri imperiali partire da Napoli. In Siena quegli che reggevano non aveano altra speranza che nel soccorso de' fiorentini, per la intelligenza che avevano col cardinale de' Medici: a instanza del quale, quegli che aderendo a lui governavano in sua assenza lo stato di Firenze, come intesono la partita del duca da Perugia, mandorono subito a Siena Guido Vaina con cento cavalli leggieri, e danari per aggiugnere qualche numero di fanti a quegli che erano stati soldati da' sanesi. Ma il principale fondamento era nelle forze disegnate molti dí innanzi: perché, come intesono la prima mossa del duca di Urbino e de' Baglioni, temendo alle cose di Toscana, avevano trattato di soldare i svizzeri del cantone di Berna; i quali, in numero poco piú di mille, si erano fermati col vescovo di Pistoia in Bologna, disprezzati i comandamenti fatti da' loro signori che ritornassino in Elvezia: la quale pratica, benché per molte difficoltà fatte dal vescovo di Pistoia, desideroso di presentare questa gente al futuro pontefice, fusse andata in lungo piú che non sarebbe stato di bisogno, nondimeno si era pure finalmente con gravisima spesa conchiusa; soldando eziandio quattrocento fanti tedeschi unitisi co' svizzeri in Bologna. Avevano anche chiamato di Lombardia Giovanni de' Medici, non dubitando con questo presidio, pure che arrivasse al tempo debito, di assicurare le cose di Siena; le quali erano ridotte in gravissimo pericolo per essere la maggiore parte del popolo inimica al governo presente, e per l'odio antico co' fiorentini tutti malvolentieri comportavano che le genti loro entrassino in Siena: e accresceva il pericolo l'assenza del cardinale Petruccio, in luogo del quale se bene Francesco suo nipote facesse ogni opera possibile per sostenere le cose, nondimeno non era della medesima autorità che il cardinale. Però, non repugnando i principali, intenti a fuggire o a prolungare in qualunque modo il pericolo presente, avevano già mandato imbasciadori al duca di Urbino, subito che entrò nel territorio di Siena: il quale, benché da principio avesse dimandato la mutazione dello stato e trentamila ducati, aveva dipoi mitigato le dimande, in modo che non mediocremente si dubitava che, o per consentimento di quegli che reggevano o per movimento del popolo contro alla volontà loro, non si facesse tra il duca e i sanesi composizione. Pure, entrando continuamente in Siena gente de' fiorentini e risonando la fama dello essere già vicino Giovanni de' Medici e i svizzeri, quegli che erano alieni dall'accordo impedivano con maggiore animo si conchiudesse; in modo che il duca, accostatosi alle mura di Siena, non avendo nell'esercito suo piú di settemila uomini ma di gente collettizia, poiché vi fu dimorato uno giorno, raffreddandosi le speranze dello accordo e già vicini a una giornata i svizzeri, si levò dalle mura di Siena per ritirarsi nel suo stato.

Soccorsa Siena, le medesime genti si voltorno verso Perugia; pigliando i fiorentini occasione a quel che prontamente desideravano dall'esserne stati ricercati dal collegio de' cardinali, sotto nome del quale si governava, per l'assenza del pontefice, lo stato della Chiesa: però procedeva nell'esercito personalmente il cardinale di Cortona, legato, insino a tempo di Lione, della città di Perugia. Ma nel collegio non era, dopo la creazione del pontefice, maggiore unione o stabilità che fusse stata nel conclave, anzi erano le variazioni piú apparenti, perché avevano statuito che ciascuno mese si governassino le cose per tre cardinali sotto nome di priori: l'ufficio de' quali era congregare gli altri e dare espedizione alle cose determinate. Tre adunque di questi, entrati nuovamente e oppositi al cardinale de' Medici, il quale eletto il pontefice era subito ritornato a Firenze, cominciorono a esclamare e protestare che le genti de' fiorentini non molestassino le terre della Chiesa: le quali, avendo già saccheggiato la terra di Passignano che aveva ricusato alloggiarle, e di poi alloggiate all'Olmo vicino a tre miglia di Perugia, con speranza quasi certa di ottenere, arebbono disprezzati questi comandamenti se non avessino presto conosciuta la vanità di queste speranze; perché i Baglioni avevano chiamati molti soldati in Perugia, ed era molto maggiore col popolo l'autorità loro che quella di Gentile che seguitava l'esercito. Però, disperando della vittoria e avendo tentata invano la composizione, si partirno del perugino sotto colore di non volere opporsi alla volontà del collegio, ed entrorno nel Montefeltro, che tutto, eccetto San Leo e la rocca di Maiuolo, era ritornato alla obbedienza del duca di Urbino; il quale avendo facilmente ricuperato, si posorono l'armi, come per tacita convenzione, da quella parte, perché il duca non era potente a continuare la guerra co' fiorentini né essi aveano cagione, né per comodo proprio né per sodisfare ad altri, di molestarlo: perché il collegio, nel quale potevano piú gli avversari del cardinale de' Medici, avea nel tempo medesimo convenuto con lui, per insino a tanto venisse in Italia il pontefice e piú oltre a suo beneplacito, ritenesse lo stato ricuperato, non molestasse né i fiorentini né i sanesi, né andasse agli stipendi né altrimenti in aiuto di principe alcuno.

Cap. xiii

Perdita di Alessandria e di Asti da parte dei francesi. Svizzeri al soldo del re di Francia in marcia per il ducato di Milano. Fanti tedeschi soldati da Cesare e dai milanesi. Prediche di frate Andrea Barbato contro i francesi. Provvedimenti di guerra di Prospero Colonna a Milano. Movimenti dei franco-veneziani; Giovanni de' Medici passato ai francesi. Tenacia dei milanesi nel sopportare le strettezze a cui son costretti dai provvedimenti del Lautrech.

Erano insino a ora procedute quietamente le cose di Lombardia, mancando all'una delle parti le genti all'altra i danari, e però non volendo i soldati imperiali, non pagati, partirsi da' loro alloggiamenti. Solamente fu mandato alla espugnazione di Alessandria, con la compagnia sua e con altri soldati e sudditi del ducato di Milano, Giovanni da Sassatello; il quale nel principio della guerra, avendo permutato il bene certo con le speranze incerte, partito dal soldo de' viniziani si era condotto col duca di Milano, esule ancora del suo stato: dove essendosi accostato, la temerità de' guelfi alessandrini, da' quali era difesa la terra piú che da' soldati franzesi, fece facile quel che da tutti si riputava difficile; perché non potendo sostenere gli inimici co' quali erano usciti a scaramucciare, dettono loro occasione di entrare alla mescolata nella città, la quale andò in preda de' vincitori. E con la medesima facilità furono, pochi dí poi, cacciate di Asti alcune genti de' franzesi, entratevi per introduzione di alcuni de' guelfi della terra.

Ma già a questa breve e sospetta quiete apparivano approssimarsi princípi di grandissimi travagli: perché, se bene nelle diete de' svizzeri fusse stata sopra le dimande del re di Francia grandissima contenzione, stando ostinati contro a lui i cantoni di Zurich e di Svith, quello di Lucerna disposto totalmente per lui, gli altri divisi intra se medesimi, e perturbando le cose publiche l'avarizia de' privati, de' quali molti dimandavano al re chi pensione chi crediti antichi, avevano finalmente concedutogli i fanti dimandati per la recuperazione del ducato di Milano; i quali in numero di piú di diecimila calavano già in Lombardia condotti dal bastardo di Savoia e da Galeazzo da San Severino (questo grande scudiere, quello gran maestro di Francia), per le montagne di San Bernardo e di San Gotardo.

Contro a questo movimento, Cesare, il quale aveva ricevuto in prestanza non piccola somma di danari dal re di Inghilterra, alienatosi dall'amicizia franzese, avea mandato a Trento Ieronimo Adorno a soldare seimila fanti tedeschi, per condurgli insieme con la persona di Francesco Sforza a Milano; la venuta del quale era in quel tempo stimata di molto momento, per tenere piú fermo Milano e l'altre terre dello stato che sommamente lo desideravano, e per facilitare l'esazione de' danari con l'autorità e grazia sua, de' quali vi era estrema carestia. Nel qual tempo medesimo, essendo incognito a Milano il provedimento fatto da Cesare, aveano i milanesi mandato danari a Trento per soldare quattromila fanti: i quali essendo già preparati quando l'Adorno vi pervenne, egli, mentre che gli altri seimila si soldavano, si mosse subito con questi verso Milano, per scendere per Valle Voltolina a Como; ma negandogli i grigioni il passare, passò all'improviso e con tanta celerità nel territorio di Bergamo, e di quivi nella Ghiaradadda, che i rettori de' viniziani che erano in Bergamo non furono a tempo a impedirlo; e condottigli a Milano, ritornò con la medesima celerità a Trento, per menare Francesco Sforza e gli altri fanti a Milano. Nella quale città si attendeva, oltre all'altre provisioni, con grande studio ad accrescere l'odio del popolo, che era grandissimo, contro a' franzesi, acciò che e' fussino piú pronti alla difesa e a soccorrere co' danari propri le publiche necessità; cosa molto aiutata, con lettere finte con imbasciate false e con molte arti e invenzioni, dalla diligenza e astuzia del Morone. Ma giovorono anche, piú che non si potrebbe credere, le predicazioni di Andrea Barbato frate dell'ordine di Santo Agostino; il quale, predicando con grandissimo concorso del popolo, gli confortava efficacissimamente alla propria difesa e a conservare la patria loro libera dal giogo de' barbari inimicissimi di quella città, poiché da Dio era stato conceduto loro facoltà di liberarsene. Allegava lo esempio di Parma, piccola e debole città a comparazione di Milano; ricordava gli esempli de' loro maggiori, il nome de' quali era stato glorioso in tutta Italia; quello che gli uomini erano debitori alla conservazione della patria, per la quale se i gentili, che non aspettavano altro premio che della gloria, si mettevano volontariamente alla morte, che dovevano fare i cristiani, a' quali morendo in sí santa opera era oltre alla gloria del mondo proposta per premio vita immortale nel regno celeste? Considerassino che eccidio porterebbe a quella città la vittoria de' franzesi, i quali se prima, senza alcuna cagione, erano stati tanto acerbi e molesti loro, che sarebbono ora che si reputavano sí gravemente offesi e ingiuriati? Non potere saziare la crudeltà e l'odio immenso alcuni supplíci del popolo milanese, non empiere l'avarizia tutte le facoltà di quella città, non avere a stare mai contenti se non spegnessino in tutto il nome e la memoria de' milanesi, se con orribile esempio non avanzassino la fiera immanità di Federigo Barbarossa. Donde, tanto immoderatamente era augumentato l'odio de' milanesi, tanto lo spavento della vittoria de' franzesi, che già fusse necessario attendere piú a temperargli che a provocargli.

Attendeva in questo mezzo Prospero con grandissima diligenza a riordinare e instaurare i bastioni e i ripari de' fossi, con intenzione di fermarsi in Milano; nella quale città, quando bene non fussino venuti i seimila tedeschi, sperava potersi sostenere per qualche mese: e pensando alla difensione dell'altre terre, aveva mandato in Novara Filippo Torniello, in Alessandria Monsignorino Visconte, l'uno con dumila l'altro con mille cinquecento fanti italiani, i quali per non essere pagati si sostentavano colle sostanze de' popoli; a Pavia Antonio da Leva con dumila fanti tedeschi e mille italiani; e con lui rimanevano in Milano settecento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e dodicimila fanti. Restava il pericolo imminente che i franzesi non entrassino per il castello in Milano. Al quale pericolo per provedere, e per privargli con un fatto medesimo della facoltà di mettere nel castello vettovaglie o altre provisioni, fece, con invenzione celebrata sommamente e quasi a' giudici degli uomini maravigliosa, lavorare fuora del castello, tra le porte che vanno a Vercelli e a Como, due trincee, alzando a ciascuna, della terra che si cavava da' quelle, uno argine; la lunghezza de' quali, distanti l'uno dall'altro circa venti passi, si distendeva circa un miglio, tanto quanto era il traverso del giardino dietro al castello tra le due strade predette; e a ciascuna delle teste delle trincee uno cavaliere molto alto e munito, per potere, con l'artiglierie che si piantassino sopra quegli, danneggiare gli inimici se si accostassino da quella parte: le quali trincee e ripari, difese da fanti alloggiati in mezzo di quelle, impedivano in uno tempo medesimo che nel castello non potesse entrare soccorso alcuno e che niuno degli assediati potesse uscirne. La quale invenzione dovere essere non meno felice che ingegnosa dimostrò nel principio, con lieto augurio, la fortuna, concedendo che senza danno alcuno si potesse mettere in esecuzione; perché essendo caduta in terra una neve grandissima, Prospero, usando il beneficio del cielo, fece innanzi dí lavorare di neve due argini, alla similitudine de' quali voleva si facessino i ripari, da' quali rimanevano sicuri i lavoranti di non potere essere offesi dall'artiglierie che erano nel castello: le quali opere che si conducessino a perfezione dette comodità maggiore lo impedimento che dall'essere le montagne coperte di copia grandissima di neve riceveano i svizzeri a passarle.

Nel quale tempo Lautrech, avendo con alcune genti mandate di là da Po fatto svaligiare in Firenzuola la compagnia de' cavalli leggieri di Luigi da Gonzaga, trovata negligentemente a dormire, riordinava le genti sue; e quelle de' viniziani, sotto Andrea Gritti e Teodoro da Triulzi, si raccoglievano intorno a Cremona: le quali, finalmente unite co' svizzeri, passorono il fiume dell'Adda il primo dí di marzo; essendo capo dello esercito Lautrech, all'autorità del quale non era derogato per la venuta del gran maestro e del grande scudiere. Venne a questo esercito nel tempo medesimo Giovanni de' Medici; il quale, benché condotto a soldi di Francesco Sforza si fusse mosso per andare a Milano, ove era aspettato con sommo desiderio per la espettazione grande che si aveva della sua ferocia, nondimeno, stimolato dagli stipendi maggiori e piú certi del re di Francia e allegando, per colore della sua cupidità, il non gli essere stati mandati i danari promessi da Milano, del parmigiano, ove avea saccheggiato la terra di Busseto perché ricusava di alloggiarlo, passò nel campo de' franzesi; il quale alloggiò due miglia appresso al castello tralle medesime vie Vercellina e Comasina. Messonsi, il terzo giorno che erano venuti, in ordinanza, facendo sembiante di volere dare la battaglia al riparo; il che non posono a effetto, o perché cosí fusse da principio la mente di Lautrech o perché, considerato il numero de' soldati che erano dentro, la disposizione del popolo e la prontezza che appariva de' difensori, se ne rimovesse, per la difficoltà manifesta della cosa: ma il dí medesimo, i sassi di una casa battuta dall'artiglieria di dentro ammazzorono Marcantonio Colonna, capitano di grandissima espettazione, e Cammillo Triulzio figliuolo naturale di Gianiacopo, che presso a quella casa passeggiavano insieme, ordinando di fare lavorare un cavaliere per potere tirare con l'artiglierie tra i due ripari degli inimici. Ma Lautrech, non confidando di spugnare Milano, pensava potere con la lunghezza del tempo pervenire alla vittoria; perché, per la moltitudine de' suoi cavalli e con tanti fuorusciti che lo seguitavano, facendo correre per la maggiore parte del paese, dava impedimento assai che non vi entrassino vettovaglie, avea fatto rompere tutti i mulini, e derivato l'acque de' canali da' quali quella città riceve grandissime comodità. Sperava similmente che a' soldati di dentro avessino a mancare gli stipendi; i quali si sostenevano co' danari pagati da' milanesi, perché da Cesare e del reame di Napoli e di altro luogo ne era mandata piccolissima quantità. Ma era maraviglioso l'odio del popolo milanese contro a' franzesi, maraviglioso il desiderio del nuovo duca: per le quali cose, tollerando pazientemente qualunque incomodità, non solo non mutavano volontà per tante molestie ma messa in arme la gioventú ed eletti per ciascuna parrocchia capitani, concorrendo prontissimamente dí e notte le guardie a' luoghi remoti dall'esercito, alleggerivano molto le fatiche de' soldati. Nel qual tempo essendo, per la ruina delle mulina, mancata la farina, providdono presto con le mulina a secco a questa incomodità.

Cap. xiv

Il duca di Milano da Trento a Pavia; posizioni degli eserciti nemici e fazioni di guerra; il duca a Milano; calorose accoglienze della popolazione. Il Lautrech sotto Pavia; quindi a Monza; malcontento e proteste degli svizzeri. Assalti sfortunati delle milizie francesi alla Bicocca. Conseguenze della sconfitta. Nuovi insuccessi dei francesi nel ducato di Milano. Caduta di Genova nelle mani degli imperiali.

Cosí ridotta la guerra da speranza di presta espugnazione a cure e fatiche di lungo assedio, il duca di Milano, la partita del quale per mancamento di danari si era differita molti dí, e si sarebbe differita piú lungamente se il cardinale de' Medici non l'avesse sovvenuto di novemila ducati, partito finalmente da Trento co' seimila fanti tedeschi, e occupata, per aprirsi il passo, la rocca di Croara sottoposta a' viniziani, passò senza ostacolo per il veronese; donde per il mantovano, passato Po a Casalmaggiore, giunse a Piacenza e, seguitandolo di quivi il marchese di Mantova con trecento uomini d'arme della Chiesa, si fermò a Pavia, stando intento alla occasione di passare a Milano; ove estremamente era desiderata la venuta sua, perché, diminuendo ogni dí piú la facoltà del fare danari per sostentare le genti, si giudicava necessario unirsi il piú presto che si potesse, co' tedeschi, per uscire in campagna e cercare di terminare la guerra. Ma era difficile il passare, perché Lautrech, come intese essere arrivati a Piacenza, era andato ad alloggiare a Casino, cinque miglia lontano da Milano in su la strada di Pavia; avendo messo i viniziani a Binasco in su la medesima strada, e l'uno e l'altro esercito in alloggiamento bene riparato e fortificato. Dove poi che furono dimorati qualche dí, avendo in questo tempo preso Santo Angelo e San Colombano, Lautrech, inteso che lo Scudo suo fratello, tornato con danari di Francia, dove era andato a dimostrare al re lo stato delle cose, soldati fanti a Genova, era arrivato nello stato di Milano, mandò a unirsi con lui Federigo da Bozzole con quattrocento lancie e settemila fanti tra svizzeri e italiani. Per la venuta de' quali, il marchese di Mantova, uscito di Pavia, andò a Gambalò per opporsi loro; ma o, avendo essi mostrato per il sospetto, come diceva egli, di ritirarsi verso il Tesino, non giudicando piú necessaria la stanza sua a Gambalò o, come piú presto credo, temendo di loro per essere piú grossi di quello gli era stato referito, se ne ritornò in Pavia: ma loro, venuti a Gambalò e uniti con lo Scudo, se ne andorono a Novara; e prese l'artiglierie della rocca che si teneva per loro, avendola battuta, la presono per forza al terzo assalto, con la morte della piú parte de' fanti che vi erano dentro, e restato prigione Filippo Torniello. Per il quale caso il marchese di Mantova, il quale, sollecitato da lettere e spessi messi del Torniello che andasse a soccorrerlo, era uscito di nuovo di Pavia, subito che n'ebbe notizia, cavate le sue genti di Vigevano, lasciata solamente guardata la rocca, ritornò a Pavia. Nocé, in caso piú importante, l'unirsi con lo Scudo e l'acquisto di Novara a' franzesi, perché facilitò l'andata di Francesco Sforza co' fanti tedeschi a Milano. Il quale convenutosi con Prospero, partito occultamente una notte di Pavia, alla guardia della quale restorno [dumila] fanti col marchese di Mantova, (il quale, negando d'allontanarsi tanto dallo stato della Chiesa, recusò di procedere piú oltre), e camminando per altra strada che per la diritta, fu raccolto a Sesto da Prospero; il quale, uscitogli incontro con una parte delle genti, lo condusse a Milano: dove è incredibile a dire con quanta letizia fusse ricevuto dal popolo milanese, rappresentandosi innanzi agli occhi degli uomini la memoria della felicità con la quale era stato quel popolo sotto il padre e gli altri duchi Sforzeschi, e desiderando sommamente d'avere uno principe proprio come piú amatore de' popoli suoi, come piú costretto ad avere rispetto e fare estimazione de' sudditi né disprezzargli per la grandezza immoderata.

La partita del duca da Pavia dette speranza a Lautrech di potere espugnare quella città; però, raccolto subitamente l'esercito, vi andò a campo; e da altra parte Prospero, conoscendo il pericolo manifesto, vi mandò con somma celerità mille fanti còrsi e alcuni fanti spagnuoli: i quali giunti allo improviso in su gli alloggiamenti dello esercito franzese, passati per quello, parte combattendo parte camminando, e ammazzatine molti, si ridussono salvi in Pavia; dove oltre all'altre incomodità era carestia grande di polvere di artiglierie. Batteva intanto Lautrech le mura di Pavia da due parti, cioè al borgo di Santa Maria in Pertica verso il Tesino e a Borgoratto; e avendo gittato in terra trenta braccia di muro, dicono alcuni che a' dieci dí dette l'assalto invano, altri che non lo tentò, veduto quegli di dentro bene ripararsi e disposti a difendersi. Aggiugnevansegli molte difficoltà: l'essere già cominciati a mancare i danari i quali il gran maestro aveva condotti di Francia; carestia non piccola di vettovaglie, causata dalle pioggie grandissime per le quali era molto difficile il venirne all'esercito per terra né manco difficile il venirne su per il Tesino, perché le barche urtate dall'acque del fiume troppo grosse non potevano andare innanzi contro all'impeto del suo corso. Nel quale tempo Prospero, uscito con tutto lo esercito di Milano per accostarsi a Pavia, impedito dalle pioggie medesime, si era fermato a Binasco che è a mezzo il cammino tra Milano e Pavia; donde poi essendosi spinto alla Certosa che è nel barco a cinque miglia di Pavia, monasterio forse piú bello che alcuno altro che sia in Italia, Lautrech non sperando piú di pigliare Pavia, si ritirò col campo a Landriano, non molestato nel levarsi dagli inimici se non con leggiere scaramuccie. Da Landriano andò a Moncia, per ricevere piú facilmente i danari che gli erano mandati di Francia; i quali si erano fermati ad Arona, perché Anchise Visconte, mandato da Milano a questo effetto a Busto presso ad Arona, impediva non venissino piú innanzi. Questa difficoltà ridusse in ultimo disordine le cose de' franzesi. Perché i svizzeri, i pagamenti de' quali erano ritardati già molti dí, impazienti secondo il costume loro, mandorono i loro capitani a Lautrech a querelarsi gravemente che, essendo stata quella nazione prodiga in ogni tempo del sangue proprio per la esaltazione della corona di Francia, fusse contro a ogni giustizia mancato loro de' debiti pagamenti e dimostrato, con questa ingratitudine e avarizia, a tutto il mondo quanto poco fusse stimato la virtú e la fede loro: essere deliberati, avendo aspettato tanti dí invano, non aspettare piú termine alcuno, né fidarsi di quelle promesse che replicate tante volte gli erano mancate; però volere ritornarsene assolutamente alle case loro, ma fatto prima manifesto a tutto il mondo che non gli induceva a questo il timore dello essere usciti in campagna gli inimici né il desiderio di fuggire i pericoli a' quali sono sottoposti gli uomini militari, disprezzati sempre mai, come per tante esperienze si era veduto, da' svizzeri. Notificargli che erano pronti a combattere il dí seguente, con intenzione di partirsi poi l'altro dí: menassegli a trovare gli inimici, usasse l'occasione della prontezza loro mettendogli nella prima fronte di tutto l'esercito; sperare che, avendo vinto con forze molto minori nel proprio alloggiamento lo esercito franzese intorno a Novara, vincerebbono anche nel loro alloggiamento gli spagnuoli, i quali se bene di astuzie di fraudi e di insidie avanzavano i franzesi, non gli reputavano già superiori dove si combattesse con la ferocia del cuore e con la virtú dell'armi. Sforzossi Lautrech, considerando con quanto pericolo si andasse ad assaltare li inimici nelle fortezze loro, di temperare questo furore, dimostrando non per difetto del re ma per i pericoli del cammino procedere la tardità de' danari, i quali nondimeno arriverebbono fra pochissimi dí; ma non potendo convincergli o fermargli, né con l'autorità né co' prieghi né con le promesse né con le ragioni, deliberò piú presto, avendo massime a essere il primo pericolo loro, con disavvantaggio grande tentare la fortuna della giornata che, ricusando di farla, perdere totalmente la guerra, come era manifesto che si perdeva poiché, non consentendo di combattere, i svizzeri avevano determinato di partirsi.

Alloggiava l'esercito degli inimici alla Bicocca, villa propinqua tre miglia poco piú o meno a Milano ove risiede un casamento assai spazioso, circondato di giardini non piccoli che hanno per termine fosse profonde; i campi che sono attorno sono pieni di fonti e di rivi, condotti, secondo l'uso di Lombardia, a innaffiare i prati. Verso il quale luogo camminando da Moncia Lautrech con l'esercito, e pensando che gli inimici avendo l'alloggiamento tanto forte starebbono fermi alla difesa di quello, aveva ordinato l'assalto in questo modo: che i svizzeri con l'artiglierie andassino ad assaltare la fronte dell'alloggiamento e le artiglierie degli inimici, nel quale luogo erano a guardia i fanti tedeschi guidati da Giorgio Frondsperg; che dalla mano sinistra lo Scudo, con trecento lancie e con uno squadrone di fanti franzesi e italiani, camminasse per la via che andava a Milano, verso il ponte per il quale si poteva entrare nello alloggiamento degli inimici: egli tolse l'assunto di ingegnarsi di entrare con uno squadrone di cavalli nello alloggiamento degli inimici, piú con artificio che con aperta forza, perché per ingannargli comandò che ciascuno de' suoi mettesse in su la sopravesta la croce rossa, segnale dello esercito imperiale, in cambio della croce bianca segnale dello esercito franzese. Da altra parte Prospero Colonna, tenendo, per la fortezza del sito, per certa la vittoria, e perciò deliberato di aspettare (cosí diceva) gli inimici al fossone, fatto, come intese la venuta loro, armare l'esercito e distribuito ciascuno a' luoghi suoi, mandò subito a Francesco Sforza che con la moltitudine armata del popolo venisse senza indugio all'esercito; il quale, raccolti al suono della campana quattrocento cavalli e seimila fanti, fu da lui come giunse collocato alla guardia del ponte. Ma i svizzeri, come si furno accostati all'alloggiamento, con tutto che per l'altezza delle fosse, piú eminente che essi non aveano creduto, non potessino, come era la prima speranza, assaltare l'artiglierie, non diminuita per questo l'audacia, assaltorno il fosso sforzandosi con ferocia grande di salirvi; e nel tempo medesimo lo Scudo andato verso il ponte, trovandovi fuora della opinione sua guardia sí grande, fu costretto di ritirarsi. Scoperse anche prestamente Prospero l'arte di Lautrech; e perciò, fatto comandamento a' suoi che si mettessino in su la testa fasci di spighe e di erbe, fece inutili le insidie sue: donde restando tutto il pondo della battaglia a' svizzeri, che per la iniquità del sito e per la virtú de' difensori si affaticavano senza fare frutto alcuno, ricevendo grandissimo danno non solo da quegli che combattevano alla fronte ma da molti archibusieri spagnuoli, i quali occultatisi tra le biade già presso che mature fieramente per fianco gli percotevano, furno finalmente, poi che con molta uccisione ebbono pagata la mercede della loro temerità, necessitati a ritirarsi, e uniti co' franzesi ritornorno tutti insieme, con gli squadroni ordinati e con l'artiglierie, a Moncia, non ricevendo nel ritirarsi danno alcuno. Importunavano, il marchese di Pescara e gli altri capitani, Prospero che, poi che gli inimici aveano voltate le spalle, desse il segno di seguitargli; ma egli, credendo quel che era, che si ritirassino ordinatamente e non fuggendo, e certificatone tanto piú per la relazione di alcuni che per comandamento suo salirno in su certi alberi alti, rispose sempre non volere rimettere alla potestà della fortuna la vittoria già certamente acquistata né cancellare con la temerità sua la memoria della temerità d'altri. - Il dí di domani - disse - chiaramente vi mostrerà quel che si sia fatto questo giorno, perché gli inimici, sentendo piú le ferite raffreddate, perduti d'animo passeranno i monti: cosí senza pericolo conseguiteremo quel che oggi tenteremmo ottenere con pericolo. - Morirno de' svizzeri intorno al fosso circa tremila, di quegli che per essere piú valorosi e feroci si messono piú prontamente al pericolo, e ventidue capitani; degli inimici morirno pochissimi, né persona alcuna di qualità eccetto Giovanni di Cardona conte di Culisano, percosso di uno scoppietto nell'elmetto. Il dí seguente Lautrech, perduta interamente la speranza della vittoria, si levò da Moncia per passare il fiume dell'Adda appresso a Trezzo: donde i svizzeri, preso il cammino per il territorio di Bergamo, ritornorno alle loro montagne; diminuiti di numero ma molto piú di audacia, perché è certo che il danno ricevuto alla Bicocca gli afflisse di maniera che per piú anni poi non dimostrorno il solito vigore. Partirono insieme con loro il grande scudiere e il gran maestro e molti de' capitani franzesi, Lautrech con le genti d'arme andò a Cremona per ordinare la difesa di quella terra; ove lasciato il fratello passò pochi dí poi i monti, riportando al re di Francia non vittorie o trionfi ma giustificazione di sé proprio e querele di altri, per la perdita di uno stato tale, perduto parte per colpa sua parte per negligenza e imprudenti consigli di quegli che erano appresso al re, parte, se è lecito a dire il vero, per la malignità della fortuna.

Ordinò ancora Lautrech, innanzi partisse da Cremona, che nella città di Lodi, la quale in tutta la guerra si era tenuta per il re, entrassino con sei compagnie di gente e con presidio sufficiente di fanti Buonavalle e Federigo da Bozzole, perché i capitani cesarei erano stati impediti a voltarvi subito l'armi da uno tumulto nato da' fanti tedeschi che insieme con Francesco Sforza erano venuti da Trento, i quali dimandavano che per premio della vittoria fusse donato loro lo stipendio di un mese; cosa che i capitani dicevano essere dimandata indebitamente, perché era differente il difendersi da chi assalta a vincere gli assaltatori, né potersi dire essere stati rotti o vinti gli inimici i quali si erano ritirati non fuggendo ma cogli squadroni ordinati e salve l'artiglierie e impedimenti; ma potendo piú la insolenza de' tedeschi che la ragione o l'autorità de' capitani, furno alla fine costretti di consentire, promettendo di pagargli fra certo tempo. Ma essendosi in questa cosa consumati piú dí, accadde che il dí medesimo che le lancie franzesi erano entrate nella città, dietro alle quali venivano i fanti, veniva dall'altra parte l'esercito imperiale, e innanzi a tutti il marchese di Pescara colla fanteria spagnuola, non avendo per ancora i franzesi distribuite tra loro le guardie, anzi pieni tuttavia di confusione e di tumulto, come accade quando entrano ad alloggiare le genti d'arme in una terra; la quale occasione usando il marchese, con grandissima celerità assaltò uno borgo della città cinto di muraglia, nel quale, difeso leggiermente, entrato con piccola fatica, tutti i franzesi che erano nella città, spaventati da questo caso e perché ancora non erano entrati i fanti loro, si messono tumultuosamente in fuga verso il ponte che avevano gittato in su Adda; e gli spagnuoli, entrati nel tempo medesimo nella città per le mura e per i ripari, gli seguitorono insino al fiume, presi nella fuga molti soldati e, da Federico e Buonavalle infuori, quasi tutti i capitani: e col medesimo impeto saccheggiorno quella infelice città. Da Lodi andato il marchese a Pizzichitone l'ottenne a patti, e poco dipoi Prospero passò con tutto l'esercito il fiume dell'Adda per andare a campo a Cremona. Alla quale città come fu accostato, lo Scudo inclinò l'animo alla concordia: perché non avendo altra speranza di sostentarsi che la venuta dell'ammiraglio, il quale il re, desideroso di conservare quel che per lui si teneva ancora in quello stato, mandava in Italia con quattrocento lancie e diecimila fanti, assai provedeva alle cose sue se, senza mettersi in pericolo, poteva oziosamente aspettare quel che partoriva la sua venuta; e Prospero, da altra parte, desiderava spedirsi presto delle cose di Cremona per potere, innanzi che 'l soccorso degli inimici in Italia pervenisse, tentare di rimettere i fratelli Adorni in Genova. Convennono adunque che lo Scudo si partisse fra quaranta dí, con tutti i soldati, di Cremona, avendo facoltà di uscirne con le bandiere spiegate e con l'artiglierie, se infra 'l detto tempo, il quale terminava il vigesimo sesto dí di giugno, non veniva soccorso tale che passasse per forza il fiume del Po o pigliasse una delle città dello stato di Milano nella quale fusse presidio; procurasse similmente che fusse abbandonato tutto quello che in nome del re si teneva nel ducato di Milano eccettuate da questa promessa le fortezze di Milano di Cremona e di Novara: per l'osservanza delle quali cose prestasse [quattro] statichi: restituissinsi nel caso predetto i prigioni da ciascuna delle parti, e a' franzesi fusse conceduto il passare con l'artiglierie e robe loro sicuramente in Francia. Fatta la concordia e ricevuti gli staggi, l'esercito cesareo si mosse subito verso Genova; alla quale si accostò da due lati: il marchese di Pescara co' fanti spagnuoli e italiani dalla parte del Codifaro, Prospero con le genti d'arme e co' fanti tedeschi alloggiò dalla parte opposita di Bisagna.

Reggevasi la città di Genova sotto il governo del doge Ottaviano Fregoso, principe certamente di eccellentissima virtú, e per la giustizia sua e altre parti notabili amato tanto in quella città quanto può essere amato uno principe nelle terre piene di fazioni e nelle quali non è ancora del tutto spenta nelle menti degli uomini la memoria della antica libertà. Aveva soldati [dumila] fanti italiani, ne' quali soli si collocava la speranza del difendersi, perché il popolo della terra, diviso nelle sue parti, con tutto che avesse intorno uno esercito tanto potente e mescolato di lingue tanto varie, risguardava oziosamente il progresso della cosa, con quegli occhi medesimi che era solito per il passato a riguardare gli altri travagli loro: ne' quali, senza pericolo o danno di coloro che non prendevano l'armi, traportandosi l'autorità publica di una famiglia in un'altra, non si vedeva altra mutazione che nel palagio ducale altri abitatori, altri capitani e soldati alla custodia della piazza. Accostato che fu l'esercito alla terra, cominciò subito il doge a trattare di concordia, mandato a' capitani Benedetto di Vivaldo genovese; ma si raffreddò alquanto la pratica per la venuta di Pietro Navarra, il quale, mandato dal re di Francia con due galee sottili al presidio di Genova, entrò nel tempo medesimo nel porto. Nondimeno, avendo cominciato il Davalo a percuotere con l'artiglierie la muraglia, si ritornò con maggiore efficacia a' ragionamento del convenire; e già rimasti in concordia non appariva piú alcuna difficoltà, quando i fanti spagnuoli, che avevano quel dí battuto una torre presso alla porta, essendo negligenti quegli di dentro alla guardia, forse per la speranza dello accordo, la occuporno, e parte per quella, parte per il muro rovinato, cominciorno senza indugio a entrare nella città: per il che, concorrendovi tutta quella parte dell'esercito, il marchese, messi i soldati in ordinanza e mandato a significare a Prospero il successo, dato il segno entrò nella città; nella quale, attendendo tutti i soldati e i cittadini chi a fuggire chi a rinchiudersi nelle case, non si faceva alcuna resistenza. L'arcivescovo di Salerno e il capitano della guardia con molti cittadini e soldati, saliti in su le navi, si allargorno nel mare; il doge, il quale per la infermità non si poteva muovere, fatto chiudere il palazzo mandò a costituirsi in potestà del marchese di Pescara, appresso al quale morí non molti mesi poi. Fu preso Pietro Navarra, tutte le sostanze della città andorno in preda de' vincitori; molte famiglie ricche obligandosi, chi a questa compagnia di soldati chi a quella, di pagare quantità grande di danari, e assicurandole o con pegni o con cedole di mercatanti, ricomperorno che le case loro non fussino saccheggiate. Salvossi nel medesimo modo il catino, tanto famoso, che con grandissima riverenza si conserva nella chiesa cattedrale. La preda fu inestimabile, di argenti di gioie di danari e di ricchissima supellettile, essendo quella città, per la frequentazione della mercatura, piena di infinite ricchezze. In questo fu manco acerba tanta calamità, che per i prieghi de' fratelli Adorni, perché la città non avea fatto segno alcuno di inimicizia, e perché si poteva dire che già fusse convenuta, i capitani proveddero che niuno genovese fusse fatto prigione e che non fusse violata alcuna donna. Fu eletto doge di Genova Antoniotto Adorno; il quale, partito che fu l'esercito, con l'artiglierie prestategli da' fiorentini accampatosi al Castelletto, prese il terzo dí la cittadella e la chiesa di San Francesco, e il dí seguente il Castelletto, datogli con certe condizioni dal castellano. La mutazione di Genova privò interamente il re di Francia di speranza di potere soccorrere le cose di Lombardia: perciò l'esercito mandato di nuovo da lui, il quale era pervenuto nello astigiano, ritornò di là da' monti; e lo Scudo, benché soprasedesse oltre al termine convenuto qualche dí, per alcune difficoltà che nacquono sopra le fortezze di Trezzo di Lecco e di Domodossola, resolute che furno queste, passò con le genti in Francia; osservatagli non solamente la fede, ma per tutto onde passò onoratamente ricevuto e trattato.

Cap. xv

Fallito tentativo del Bentivoglio contro Bologna. Vani tentativi di mutamenti di governo in Siena ed in Firenze. Pericoloso accidente in Lucca. Sigismondo Malatesta occupa Rimini.

Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano in Lombardia, per i travagli di quella parte e per l'assenza del pontefice, non era stata del tutto quieta Bologna; ma molto meno quieta la Toscana. Perché a Bologna Annibale Bentivoglio e con lui Annibale Rangone, raccolti nascostamente circa quattromila uomini, si accostorno una mattina in sull'aurora, con tre pezzi di artiglieria, dalla parte de' monti, e non sentendo farsi per quegli di dentro strepito alcuno, molti passorono il fosso e appoggiorono le scale alle mura: ma quegli di dentro, che il dí davanti avevano presentita la loro venuta, levato quando parve tempo il romore, e cominciato a dare fuoco all'artiglierie e uscendo molti di fuora ad assaltargli, si messono subitamente in fuga, lasciate l'artiglierie; e nel fuggire fu ferito dalla parte di dietro Annibale Rangone. Credettesi quasi per certo che questa cosa fusse stata tentata con saputa del cardinale de' Medici; il quale, temendo che il pontefice, o per proprio consiglio o per suggestione di altri, non cercasse, come fusse venuto in Italia, di diminuire la sua grandezza, avesse desiderato che, perturbato da tanta iattura dello stato ecclesiastico non solamente avesse necessità di dare opera ad altro che a perseguitarlo ma fusse costretto a ricorrere a' consigli e aiuti suoi.

Ma molto piú lunghi e maggiori erano stati i travagli e pericoli di Toscana. Perché, appena assicurato dal duca d'Urbino lo stato di Siena e posate le cose di Perugia e di Montefeltro, era stato dato nuovo ordine, per suggestione del cardinale di Volterra, dal re di Francia che Renzo da Ceri, il quale si riposava ozioso in terra di Roma, tentasse di mutare lo stato di Firenze, rimettendo in quella città i fratelli e nipoti del cardinale di Volterra, dichiarato con tutti i suoi amico e confederato del re: i danari necessari alla quale impresa, perché il re allora era costituito in somma necessità, si doveano numerare dal cardinale, ricevendo promessa dal re che gli avessino a essere restituiti a certo tempo. Le quali cose, mentre che Renzo si prepara per muoversi, pervenute a notizia del cardinale de' Medici, lo costrinsono, per timore che medesimamente il duca di Urbino non si movesse, a convenire che, senza pregiudicio delle ragioni che i fiorentini e il duca pretendevano nelle terre del Montefeltro, il duca fusse capitano generale di quella republica per uno anno fermo, e un altro di beneplacito, cominciando la sua condotta al principio del prossimo settembre. Condusse per la medesima cagione Orazio Baglione agli stipendi de' fiorentini, ma con condizione che la condotta sua non cominciasse prima che del mese di giugno, perché insino a quel tempo era obligato a' viniziani. La quale convenzione benché si facesse eziandio in nome di Malatesta suo fratello nondimeno non si ratificava da lui, perché avendo ricevuti prima danari per congiugnersi, con dumila fanti e cento cavalli leggieri, con Renzo da Ceri, né voleva mancare apertamente all'onore proprio né da altra parte provocarsi con cagioni nuove l'inimicizia del cardinale e de' fiorentini: però, fingendo di essere infermato, mandò a Renzo, che era venuto a Castel della Pieve, duemila fanti cento cavalli leggieri e quattro falconetti, scusandosi che per la infermità non poteva andare personalmente; e al cardinale dava speranza di non prendere piú dagli inimici nuovi danari, di ratificare, finito il tempo per il quale era pagato, la condotta fatta, e in quel mezzo procedere con maggiore moderazione potesse in quelle cose le quali non poteva, per i danari ricevuti, ricusare di fare. Entrò dipoi Renzo con cinquecento cavalli e settemila fanti nel territorio di Siena, seguitandolo i medesimi fuorusciti i quali avevano seguitato il duca di Urbino, per tentare la mutazione di quel governo: la quale se gli fusse succeduta, non si dubitava che, avendo per questo la facoltà di entrare per quella via nelle viscere del dominio fiorentino, gli sarebbe delle cose di Firenze succeduto il medesimo. Ma da altra parte i fiorentini, prevedendo questo pericolo e desiderando che gli inimici non si approssimassino a Siena, avevano mandato nel sanese tutte le genti loro sotto Guido Rangone, eletto per questo tumulto governatore generale dell'esercito; lo intento del quale era sforzarsi di fare perdere tempo agli inimici, a' quali si sapeva che se non avessino qualche prospero successo mancherebbono presto i danari, e nel tempo medesimo procurare quanto poteva di impedire loro le vettovaglie: però, governandosi secondo i progressi degli inimici, attendeva a mettere guardia ora in queste ora in quelle terre piú vicine del dominio sanese e fiorentino. Nella quale mutazione de' soldati da luogo a luogo accadde che andando la compagnia de' cavalli de' Vitelli da Torrita ad Asinalunga, riscontrandosi in trecento cavalli degli inimici, fu rotta, preso Ieronimo Peppolo luogotenente di Vitello con venticinque uomini d'arme e due insegne. Fu il primo movimento di Renzo contro alla città di Chiusi, città piú nobile per la memoria della sua antichità e de' fatti egregi di Porsena suo re che per le condizioni presenti; la quale terra non ottenuta, perché non avendo altre artiglierie che quattro falconetti era molto difficile lo spugnare terre difese da soldati, entrò piú innanzi tra Torrita e Asinalunga per appropinquarsi a Siena: ma non avendo nel mezzo delle terre inimiche comodità di vettovaglie, assaltò, per acquistarne per forza, il castello di Torrita guardato da cento uomini d'arme del conte Guido Rangone e da centocinquanta fanti; onde levatosi senza effetto, seguitando il suo cammino, andò a Montelifré e di quivi al Bagno a Rapolano lontano da Siena dodici miglia, nella qual città aveano i fiorentini messo insino da principio il conte di Pitigliano. Ma il conte Guido, interrompendo con la diligenza e con la celerità tutti i suoi disegni, entrò il medesimo dí in Siena con dugento cavalli leggieri, lasciato indietro l'esercito che continuamente lo seguitava. Però la vicinità del soccorso, l'essere in questa espedizione diminuita molto, e co' suoi medesimi e appresso agli inimici, la riputazione di Renzo, il sapersi essere ridotto in necessità grande di vettovaglie, toglievano l'animo a quelli che in Siena arebbono desiderato mutazione; e nondimeno si appresentò a mezzo miglio alle mura, dove poiché non si faceva sollevazione si levò in capo di uno dí: nel quale dí, ma dopo la sua levata, entrorono in Siena le genti de' fiorentini; e benché si mettessino a seguitarlo, disperate di potere giugnerlo perché aveva preso molto vantaggio, si fermorono, lasciando seguitarlo da' cavalli leggieri e da certo numero di fanti che prima erano in Siena, da' quali ricevette poco danno, ma camminando con celerità, e forse non meno per la fame che per il timore, lasciò l'artiglierie per la strada, le quali con grande infamia sua pervennono in potestà degli inimici. Fermossi, per riordinare le genti molto diminuite, ad Acquapendente, sicuro, perché sapeva le genti de' fiorentini avere rispetto a entrare nel dominio della Chiesa; ma essendogli mancati denari, e già disprezzandolo i cardinali Volterra, di Monte e di Como, co' quali per ordine del re di Francia si trattavano le cose sue, corse con quelle poche genti che gli erano restate a predare nella Maremma di Siena, dove dette invano la battaglia a Orbatello. Però i fiorentini, che avevano spinto l'esercito loro al ponte a Centina, che è il confine dello stato de' sanesi e quello della Chiesa, vedendo Renzo non dissolvere totalmente le genti, minacciavano di assaltare le terre sue; però il collegio de' cardinali, a' quali era molesto che questo incendio si appiccasse nello stato ecclesiastico, si interpose alla concordia, che fu parimenti grata a ciascuno: a' fiorentini per levarsi dalla spesa che si faceva senza frutto, a Renzo perché si trovava con piccola provisione e senza speranza di mettere insieme maggiori forze; declinando massimamente in Lombardia le cose de' franzesi. Né contenne l'accordo altro che promessa di non si offendere tra i fiorentini e sanesi da una parte e Renzo dall'altra, per la quale fu dato in Roma sicurtà di cinquantamila ducati per l'osservanza; e che delle prede fatte si stesse alla dichiarazione del pontefice quando fusse in Italia.

Era succeduto in Lucca, questa vernata medesima, pericoloso accidente. Perché Vincenzo di Poggio di famiglia nobile e Lorenzo Totti, sotto colore di discordie particolari ma incitati forse piú presto da ambizione e da povertà, prese le armi ammazzorono nel palagio publico il gonfaloniere di quella città, e di poi scorrendo per la terra ammazzorono alcuni altri cittadini loro avversari; con tanto timore universale che nessuno ardiva opporsi loro: nondimeno, cessato il primo impeto, cominciando quegli che avevano spaventati gli altri a temere, per la grandezza del delitto commesso, di se medesimi, e interponendosi molti cittadini, si uscirono con certe condizioni della città; della quale come furono usciti furono perseguitati da' lucchesi rigidissimamente per tutto.

Quietate come è detto le cose di Lombardia e di Toscana, ma essendo, per l'assenza del pontefice e per le discordie e ambizioni de' cardinali, negletta totalmente dal collegio la cura dello stato della Chiesa, Sigismondo figliuolo di Pandolfo Malatesta, antico signore di Rimini, occupò quasi solo, con debole intelligenza che aveva in Rimini, quella città: e benché, per instanza fattagli dal collegio, il cardinale de' Medici andasse a Bologna come legato di quella città, per ricuperare Rimini e riordinare l'altre cose molto turbate di Romagna, avuta promessa dal collegio che il marchese di Mantova capitano della Chiesa andrebbe in aiuto suo; nondimeno non si messe a effetto cosa alcuna, per mancamento di danari, e perché i cardinali che gli avversavano impedivano ogni deliberazione per la quale fusse per accrescersi la sua riputazione.