Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume quindicesimo
Cap. i
Timori che il re di Francia ritenti l'impresa del ducato di Milano; gli spagnuoli impongono contribuzioni agli stati italiani. Adriano VI a Roma. Cesare mira ad accordi coi veneziani; intimazione di tregua con Cesare del re d'Inghilterra al re di Francia. Cedola di privilegi di stato di Cesare ai fiorentini. Provvedimenti di Cesare contro i colpevoli della tentata sedizione in Ispagna. Caduta di Rodi in potere di Solimano. Rimini restituita al pontefice; assoluzione dalle censure del duca d'Urbino. Rinvestitura di Ferrara al duca d'Este. Resa del castello di Milano.
La vittoria nuova contro a' franzesi, benché avesse quietato le cose di Lombardia, non aveva per ciò diminuito il sospetto che il re di Francia, essendo pacifico e intero il regno suo ed essendo ritornati salvi i capitani e le genti d'arme che aveva mandate in Italia, non avesse, innanzi passasse molto tempo, ad assaltare di nuovo il ducato di Milano; massime che erano, come prima, parati i svizzeri a andare agli stipendi suoi e il senato viniziano perseverava seco nella antica confederazione: per la considerazione del quale pericolo i capitani cesarei erano costretti a nutrire e a pagare l'esercito; cosa molto difficile, perché né da Cesare né del regno napolitano ricevevano danari, e lo stato di Milano era in modo esausto che non poteva per sé solo sostenere né tanti alloggiamenti né tante spese. Però, reclamando invano i popoli e il collegio de' cardinali, avevano mandato la maggiore parte delle genti ad alloggiare nello stato ecclesiastico; e passando per Roma don Carlo de Lanoi, destinato nuovamente, per la morte di don Ramondo di Cardona, viceré di Napoli, determinò, insieme con don Giovanni Manuel, che per tre mesi prossimi pagassino, ciascuno mese, lo stato di Milano ventimila ducati, i fiorentini quindicimila, genovesi ottomila, Siena cinquemila, Lucca quattromila: della quale tassa benché ciascuno esclamasse, nondimeno, per il timore che si aveva di quello esercito, fu necessario che fusse accettata da ciascuno; allegando essi essere cosa necessaria, perché dalla conservazione di quello dependeva la difesa d'Italia. Dopo il quale tempo fu rinnovata l'imposizione, ma di quantità molto minore.
Nel quale stato delle cose, Italia oppressa da continui mali e spaventata dal timore de' futuri maggiori, aspettava con desiderio la venuta del pontefice, come instrumento opportuno per l'autorità pontificale a comporre molte discordie e provedere a molti disordini. Il quale, supplicandolo Cesare (che passato ne' medesimi dí per mare in Spagna, e parlato in cammino col re di Inghilterra) lo aspettasse a Barzalona, dove voleva andare personalmente a riconoscerlo e adorarlo per pontefice, ricusò di aspettarlo: o dubitando per la distanza di Cesare, che ancora era nelle estreme parti della Spagna, non perdere tanto tempo che avesse poi a navigare per stagione sinistra, o per sospetto che Cesare non cercasse di fargli differire la passata sua in Italia o, come molti dissono, per non accrescere tanto l'opinione avuta di lui insino dal principio, che avesse a essere troppo dedito a Cesare, che gli difficultasse il trattare la pace universale de' cristiani, come avea deliberato di volere fare. Passò adunque per mare a Roma, dove entrò il vicesimo nono dí di agosto con concorso grandissimo del popolo e di tutta la corte; da' quali benché eccessivamente fusse desiderata la sua venuta (perché Roma senza la presenza de' pontefici è piú tosto simile a una solitudine che una città), nondimeno questo spettacolo commosse gli animi di tutti, considerando avere uno pontefice di nazione barbaro, inesperto al tutto delle cose d'Italia e della corte, né almeno di quelle nazioni le quali già per lunga conversazione erano familiari a Italia: la mestizia de' quali pensieri accrebbe che, alla venuta sua, la peste cominciata in Roma, il che era interpretato pessimo augurio del suo pontificato, fece per tutto l'autunno gravissimo danno. Fu la prima deliberazione di questo pontefice attendere alla recuperazione di Rimini, e comporre le controversie che il duca di Ferrara aveva avute co' due suoi prossimi antecessori: perciò mandò in Romagna mille cinquecento fanti spagnuoli, i quali per potere sicuramente passare il mare aveva condotti seco.
Alle quali cose mentre che attende, parendo [a] Cesare che allo stabilimento delle cose d'Italia importasse molto la separazione de' viniziani dal re di Francia, e sperando che quello senato, diminuita la speranza delle cose franzesi, avesse l'animo inclinato alla quiete né volesse per gli interessi di altri portare pericolo che la guerra si trasferisse nel suo dominio, comunicati i consigli col re di Inghilterra, il quale avendo prima prestato occultamente contro al re di Francia danari a Cesare, deposte poi le dissimulazioni, discendeva già apertamente nella causa, mandorono imbasciadori a Vinegia a ricercargli che si confederassino alla difesa d'Italia con Cesare; i quali furono, per Cesare Ieronimo Adorno, per il re di Inghilterra Riccardo Pacceo: e vi si aspettavano imbasciadori di Ferdinando fratello di Cesare, arciduca d'Austria; lo intervento del quale, per essere tra i viniziani e lui molte differenze, era necessario in qualunque accordo si facesse con loro. Mandò anche il re di Inghilterra uno araldo a protestare la guerra al re di Francia in caso non facesse tregua generale per tre anni con Cesare per tutte le parti del mondo nella quale fussino inclusi la Chiesa il ducato di Milano e i fiorentini; lamentandosi ancora che avesse cessato di pagargli i cinquantamila ducati i quali era obligato a pagargli ciascuno anno. Negò il re di volere fare la tregua, e apertamente rispose non essere conveniente pagare danari a chi aiutava con danari gli inimici suoi; donde augumentandosi tra loro gli sdegni si licenziorono gli imbasciadori da ciascuna delle parti.
Partí questo anno d'Italia don Giovanni Manuel, stato oratore cesareo a Roma con grandissima autorità. Il quale, alla partita, fece una cedola di sua mano a' fiorentini, nella quale cedola narrato che Cesare, per una cedola scritta di settembre l'anno mille cinquecento venti, promesse al pontefice Leone di riconfermare e di nuovo concedere a' fiorentini i privilegi dello stato, della autorità e delle terre possedevano, tra sei mesi dopo la prima dieta fatta dopo la incoronazione che si celebra in Aquisgrana, perché prima gli aveva promessi tra quattro mesi dalla sua elezione; e dicendo non potere espedirgli allora per giuste cause: le quali cose narrate, don Giovanni promesse in nome di Cesare. La quale cedola Cesare ratificò di marzo l'anno mille cinquecento ventitré, e ne fece l'espedizione per bolla in forma amplissima.
Passò Cesare, come è detto di sopra, questo anno in Spagna, dove arrivato, procedé severamente contro a molti che erano stati autori della sedizione, gli altri tutti assolvé e libero da tutte le pene: e per congiugnere con la giustizia e con la clemenza gli esempli della remunerazione, considerato che Ferdinando duca di Calavria, recusando di essere capitano della moltitudine concitata, non si era voluto partire della rocca di Sciativa, lo chiamò con grande onore alla corte, dandogli non molto poi per moglie Germana stata moglie del re cattolico, ricca ma sterile, acciò che in lui, ultima pregenie de' discendenti di Alfonso vecchio re di Aragona, si estinguesse quella famiglia; perché due suoi fratelli di età minore erano prima morti, l'uno in Francia l'altro in Italia.
Ma quello che fece infelice questo medesimo anno, con infamia grandissima de' príncipi cristiani, fu che, nella fine di esso, Solimanno ottomanno prese l'isola di Rodi, costituita sotto il dominio de' cavalieri di Rodi, prima chiamati cavalieri Ierosolimitani; i quali, risedendo in quel luogo poiché erano stati cacciati di Ierusalem, benché in mezzo tra il turco e il soldano príncipi di tanta potenza, l'avevano con grandissima gloria del suo ordine lunghissimo tempo conservata, e stati come uno propugnacolo, in quegli mari, della cristiana religione: benché avessino qualche nota che, trascorrendo tutto il dí a predare i legni degli infedeli, fussino qualche volta licenziosi eziandio contro a' legni de' cristiani. Stette intorno a questa isola molti mesi grandissimo esercito e il turco in persona, non perdendo mai uno minimo punto di tempo di tormentargli, ora col dare battaglie atrocissime ora col fare mine e trincee ora col fare cavalieri grandissimi di terra e di legname che soprafacessino le mura della terra: per le quali opere, tirate innanzi con grandissima uccisione de' suoi, era anche diminuito notabilmente il numero di quegli di dentro; tanto che stracchi dalle continue fatiche e mancando loro la polvere per l'artiglierie, non potendo piú resistere a tante molestie, gittato in terra dall'artiglierie grande parte delle mura e le mine passate in molti luoghi della terra, nella quale loro, per essere espugnati i primi luoghi, si andavano continuamente ristrignendo, finalmente, ridotti all'ultime necessità, capitolorono col turco che il gran maestro gli lasciasse la terra, che egli con tutti i cavalieri e rodiani potessino uscirne salvi con facoltà di portare seco quanta piú roba potevano e, per avere qualche sicurtà, che il turco facesse partire l'armata di quegli mari e discostasse da Rodi cinque miglia lo esercito di terra. Per virtú della quale capitolazione restò Rodi a' turchi, e i cristiani, essendo osservata loro la fede, passorono in Sicilia e poi in Italia; avendo trovato in Sicilia una armata di certe navi che si ordinava (ma tardi per colpa del pontefice) per mettere in Rodi, come avessino il vento prospero, rinfrescamento di vettovaglie e di munizioni: e partiti furono di Rodi, Solimanno, in maggiore dispregio della cristiana religione, fece l'entrata sua in quella città il giorno della natività del Figliuolo di Dio; nel quale dí, celebrato con infiniti canti e musiche nelle chiese de' cristiani, egli fece convertire tutte le chiese di Rodi, dedicate al culto di Cristo, in moschee; che secondo l'uso loro, esterminati tutti i riti de' cristiani, furono dedicate al culto di Maometto. Questo fine ignominioso al nome cristiano, questo frutto delle discordie de' nostri príncipi, ebbe l'anno mille cinquecento ventidue, tollerabile se almanco l'esempio del danno passato avesse dato documento per il tempo futuro. Ma continuandosi le discordie tra i príncipi, non furono minori i travagli dell'anno mille cinquecento ventitré.
Nel principio del quale, i Malatesti, conoscendosi impotenti a resistere alle forze del pontefice, per interposizione del duca d'Urbino furono contenti lasciare Rimini e la fortezza; avuta intenzione, benché incerta, di avere qualche sostentamento per la vita di Pandolfo: il che non ebbe effetto alcuno. Andò dipoi il duca di Urbino al pontefice, appresso al quale e nella maggiore parte della corte facendogli favore la memoria gloriosa di Giulio pontefice, ottenne l'assoluzione dalle censure, e d'essere rinvestito del ducato d'Urbino ma con la clausula, senza pregiudizio delle ragioni; per non pregiudicare alla applicazione che era stata fatta a' fiorentini del Montefeltro, i quali dicevano avere prestato a Lione, per difesa di quello ducato, ducati trecento cinquantamila e averne spesi dopo la morte sua in diversi luoghi, per la conservazione dello stato della Chiesa, piú di settantamila. Ricevé ancora in grazia il pontefice il duca di Ferrara, rinvestendolo non solamente di Ferrara e di tutto quello che innanzi alla guerra mossa da Lione contro a' franzesi possedeva appartenente alla Chiesa, ma lasciandogli eziandio, con grave nota sua o de' ministri che usavano male la sua imperizia, le castella di San Felice e del Finale; quali, acquistate da lui quando roppe la guerra a Lione e dipoi riperdute innanzi alla sua morte, aveva di nuovo riprese per l'occasione della vacazione della Chiesa. Obligossi il duca di Ferrara ad aiutare con certo numero di gente la Chiesa quando occorresse per la difesa del suo stato, e si astrinse con gravissime pene, sottomettendosi ancora al ricadere della investitura e alla privazione di tutte le sue ragioni, in caso che in futuro offendesse piú la sedia apostolica. Dettegli ancora il pontefice non piccola intenzione di restituirgli Modena e Reggio: benché da questo, essendogli dipoi dimostrata la importanza della cosa e, per lo esempio degli antecessori suoi, la infamia che ne perverrebbe al suo nome, si alienò con l'animo ogni dí piú.
Nel quale tempo il castello di Milano, stretto da carestia di ogni cosa eccetto che di pane, e pieno di infermità, convenne di arrendersi, salve le robe e le persone, se per tutto il dí quartodecimo di aprile non era soccorso: al quale tempo, osservata la convenzione, apparí essere morta la piú parte degli uomini che vi erano dentro. Consentí Cesare, con laude non piccola appresso agli italiani, che fusse consegnato in potestà del duca Francesco Sforza: né si teneva piú altro per i franzesi in Italia che il castello di Cremona, provisto ancora delle cose necessarie abbondantemente. E nondimeno questi successi non sollevavano la infelicità de' popoli di quello ducato, aggravato eccessivamente dallo esercito cesareo per non ricevere i pagamenti: il quale essendo andato ad alloggiare in Asti e nello astigiano, avendo tumultuato per la medesima cagione, predò tutto il paese insino a Vigevano; in modo che i milanesi, per fuggire il danno e il pericolo del paese, furono costretti promettere loro le paghe di certi tempi, che importavano circa ducati centomila. E nondimeno non si mitigava, per questa acerbità, in parte alcuna, l'odio di quello popolo contro a' franzesi; tenendogli fermi parte il timore per la memoria delle offese fatte loro parte la speranza che, se mai cessasse il pericolo che il re di
Francia di nuovo non assaltasse quello stato, cesserebbono tanti pesi, perché non sarebbe necessario che Cesare tenesse piú soldati in quel ducato.
Cap. ii
Trattative di pace fra i veneziani e Cesare; promesse del re di Francia ai veneziani per mantenerli legati a sé. Varietà di pareri nel senato veneziano; discorso di Andrea Gritti in favore del mantenimento della confederazione col re di Francia; discorso di Giorgio Cornaro a favore della confederazione con Cesare. Deliberazione dei veneziani e patti con Cesare, con l'arciduca Ferdinando e con Francesco Sforza.
Trattavasi in questo tempo medesimo continuamente la concordia tra Cesare e i viniziani; la quale, per molte difficoltà che nascevano e per varie dilazioni interposte da loro, teneva sospesi di quello che avesse a seguirne gli animi di ciascuno. Accrebbe la dilazione, e forse anche le difficoltà di questa pratica, la morte di Ieronimo Adorno il quale, persona di grande spirito ed esperienza benché giovane, la trattava con molta autorità e con destrezza singolare: in luogo del quale vi fu mandato da Milano, in nome di Cesare, Marino Caracciolo protonotario apostolico, il quale molti anni poi fu da Paolo terzo pontefice promosso alla degnità del cardinalato. Trattoronsi queste cose in Vinegia molti mesi, perché da altra parte il re di Francia faceva assiduamente, per gli imbasciadori suoi, diligenza grandissima in contrario, promettendo, ora con lettere ora con uomini propri, di passare presto con potentissimo esercito in Italia: perché tra' senatori erano varietà grandi di pareri e assidue disputazioni. Perché molti consigliavano che non si abbandonasse la confederazione del re di Francia, confidandosi che presto avesse a mandare l'esercito in Italia; la quale speranza il re sforzandosi con somma diligenza di nutrire aveva, oltre a molti altri, mandato di nuovo Renzo da Ceri a Vinegia, a promettere questo medesimo e a dimostrare che già le cose erano preparate: altri, considerando per l'esperienza delle cose passate le negligenti esecuzioni di quel re, non confidavano che avesse a passare, e questa opinione si accresceva per le lettere di Giovanni Baduero oratore loro in Francia, il quale, prestando fede a quello che gli era referito dal duca di Borbone (il quale, già congiunto occultissimamente contro al re, desiderava che i viniziani si unissino con Cesare), affermava che 'l re di Francia per quello anno non passerebbe né manderebbe esercito in Italia. Spaventava altri la mala fortuna del re di Francia la prospera di Cesare, il considerare che in Italia seguitavano Cesare il duca di Milano, i genovesi e i fiorentini con la Toscana tutta, e si credeva che avesse a fare il medesimo il pontefice; e che fuora d'Italia erano congiunti seco l'arciduca suo fratello, vicino allo stato de' viniziani, e il re d'Inghilterra, il quale continuamente faceva la guerra in Piccardia. Nella quale varietà di pareri, non meno tra i principali del senato che tra gli altri, non si potendo, per la maturità delle cose e per la instanza grandissima degli imbasciadori di Cesare, differire piú il farne deliberazione, convocato finalmente per determinarsi il consiglio de' pregati, Andrea Gritti, uomo, per importantissime amministrazioni e fatti molto egregi, di somma autorità in quella repubblica e di nome molto chiaro per tutta Italia e appresso ai príncipi esterni, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:
- Ancora che io conosca essere pericolo, prestantissimi senatori, che se io consiglierò che noi non ci partiamo dalla confederazione del re di Francia alcuni non interpretino che in me possa piú il rispetto della lunga conversazione che io ho avuta co' franzesi che quello della utilità della republica, non mi asterrò per questo da esprimere liberamente il parere mio, come è propriamente ufficio de' buoni cittadini; anzi è inutile, e cittadino e senatore, quello il quale per qualunque cagione si ritrae da persuadere agli altri quello che in se medesimo sente essere il beneficio della republica: benché io mi persuada che appresso agli uomini prudenti non arà luogo questa interpretazione, perché considereranno non solo quali siano stati in ogni tempo i costumi e le azioni mie ma che io non ho trattato, col re di Francia né cogli uomini suoi, se non come uomo vostro e per vostra commissione e comandamento; e mi giustificherà oltre a questo, se io non mi inganno, la probabilità delle ragioni le quali mi fanno condiscendere in questa sentenza. Noi trattiamo se si debba fare nuova confederazione con Cesare, contraria alla fede data da noi agli oblighi della confederazione che abbiamo col re di Francia; cosa che, a giudicio mio, non vuole dire altro che stabilire in modo la potenza di Cesare, già terribile a ciascuno, che non ci essendo mai piú rimedio di moderarla o di abbassarla cresca continuamente in nostro manifestissimo pregiudicio. Non abbiamo cagione alcuna che possa giustificare questa deliberazione, perché il re ha sempre osservato la nostra confederazione; e se gli effetti non sono stati cosí pronti a rinnovare la guerra in Italia si conosce chiaramente che, poiché a questo lo stimolavano i propri interessi, non è proceduto da altro che dagli impedimenti che ha avuti e ha nel regno di Francia; i quali hanno potuto prolungare i disegni suoi ma non potranno già annichilargli, perché la volontà è sí ardente alla recuperazione dello stato di Milano, la potenza è sí grande che sostenuti che arà questi primi impeti degli inimici, i quali sosterrà facilmente, niuna cosa lo ritarderà che di nuovo non mandi forze grandissime di qua da' monti. Vedemmo dell'una cosa e dell'altra piú volte lo esempio del re Luigi; il quale, essendo assaltata la Francia con armi molto piú potenti che non sono queste che al presente la molestano, congiuratogli contro quasi tutto il mondo, con la grandezza delle sue forze, con la fortezza de' luoghi che sono in su i confini, con la fede de' popoli, facilmente si difese; e quando era nell'opinione di tutti gli uomini che per la stracchezza della guerra gli fusse necessario il riposo di qualche tempo, mosse subito in Italia potenti eserciti. Non fece questo medesimo ne' primi anni del regno suo il presente re? quando ciascuno credeva che, per essere nuovo re, per avere trovata esausta la corona per le spese infinite dello antecessore, fusse necessitato differire la guerra a uno altro anno. Non ci debbe adunque spaventare questa tardità; né sarebbe sufficiente scusa delle nostre variazioni, perché il confederato, ritardato non dalla volontà ma dagli impedimenti sopravenuti, non dà giusta causa di querelarsi al compagno né onesto colore di partirsi dalla collegazione. Questa deliberazione ricerca da noi il rispetto della onestà il rispetto della degnità del senato viniziano, ma non la ricerca meno il rispetto della utilità anzi della salute nostra. Perché chi è che non conosca di quanto profitto ci sia e da quanti pericoli ci liberi se il re di Francia recupera lo stato di Milano, e quanto riposo partorisca per molti anni alle cose nostre? Ammuniscecene l'esempio delle cose succedute pochi anni innanzi; perché l'averlo recuperato questo re fu cagione che noi, che prima con grandissime spese e pericoli difendevamo Padova e Trevigi, recuperassimo Brescia e Verona; fu cagione che, mentre ch'egli tenne pacifico quel ducato, noi possedessimo con grandissima pace e sicurtà tutto lo imperio nostro: esempli che ci hanno a muovere molto piú che la memoria antica della lega di Cambrai, perché i re di Francia compresono per esperienza quel che non avevano compreso per le ragioni: quanto detrimento ricevessino dello essersi partiti dalla nostra congiunzione; cosa che senza comparazione conosceranno meglio nel tempo presente, nel quale ha questo re per emulo uno imperadore, principe di tanti regni e di tanta grandezza, la cui potenza lo necessita a desiderare e avere carissima la nostra confederazione. Ma per contrario, chi è quello che non vegga, che non conosca, in quanto pericolo resterebbono le cose nostre escluso che fusse totalmente il re di Francia dalle imprese d'Italia? Perché chi può proibire a Cesare che non appropri a sé o al fratello il ducato di Milano? del quale insino a ora non ha mai conceduta la investitura a Francesco Sforza; e se, come è chiarissimo, arà potestà di farlo, chi è quello che possa assicurare della volontà? chi è quello che possa promettere che, essendo il ducato di Milano una scala di salire allo imperio di tutta Italia, che abbi a potere piú in Cesare il rispetto della giustizia e dell'onestà che l'ambizione e la cupidità propria e naturale di tutti i príncipi grandi? Assicureracci forse la moderazione e la temperanza de' ministri che ha in Italia? che sono quasi tutti spagnuoli, gente infedele rapacissima insaziabile sopra tutte l'altre? Se adunque Cesare o Ferdinando suo fratello si attribuiscono Milano, in che grado rimane lo stato nostro, circondato da loro dalla parte d'Italia e di Germania? che rimedio possiamo sperare a' nostri pericoli essendo in mano sua il reame di Napoli, il pontefice e gli altri stati di Italia dependenti da lui, e ciascuno sí esausto e attrito di forze che da loro non possiamo sperare favore alcuno? Ma se il re di Francia possedesse il ducato di Milano, restando le cose bilanciate tra due tali príncipi, chi avesse da temere della potenza dell'uno sarebbe riguardato e lasciato stare per la potenza dell'altro; anzi, il timore solamente della sua venuta assicura tutti gli altri, perché costrigne gli imperiali a non si muovere, a non si impegnare a impresa alcuna. Però a me pareva piú presto ridicola che spaventosa la vanità de' minacci loro che se non ci confederiamo con Cesare ci volteranno contro l'esercito; come se il muovere la guerra contro al senato viniziano sia impresa facile e da sperarne presto la vittoria, e come se questo fusse il rimedio di fare che il re di Francia non passasse, e non piú presto cagione del contrario: perché, chi dubita che provocati da loro proporremmo per necessità condizioni tali al re che, quando bene ne avesse l'animo alieno, lo inducessino a passare? Non accadde egli questo medesimo a tempo del re Luigi? che le ingiurie e i tradimenti fattici da loro ci indussono a stimolare in modo quel re (quando io di suo prigione diventai vostro imbasciadore), che al tempo che piú temeva di essere assaltato potentissimamente in Francia mandò l'esercito suo, benché con mala fortuna, in Italia. Non crediate che se gli imperiali pensassino che la via di tirarci alla amicizia loro o di assicurarsi della venuta del re di Francia fusse lo assaltarci, che avessino differito insino a questo dí a dargli principio. Forse che non hanno i capitani loro cupidità di arricchirsi delle prede e de' guadagni delle guerre? forse che non hanno avuto necessità, per sgravare il paese degli amici e sgravandolo avere facoltà di trarne danari, di nutrire l'esercito ne' paesi d'altri? ma hanno conosciuto che per la potenza nostra è troppo difficile lo sforzarci; che per loro non fa, temendo ogni dí della guerra del re di Francia, implicarsi in una altra guerra, né dare cagione a uno stato potente di forze e di danari di stimolare con la grandezza delle offerte i franzesi a passare. Mentre che staranno in questi sospetti e in queste ambiguità non occuperanno per sé il ducato di Milano, non tratteranno se non con minaccie vane di offenderci; se noi gli assicureremo da questo timore sarà in potestà loro di fare l'uno e l'altro: e se lo faranno, come è verisimile, di chi altri potremo noi piú lamentarci che di noi medesimi e della nostra troppa timidità e del desiderio immoderato della pace? La quale è desiderabile e santa, quando assicura da' sospetti, quando non augumenta il pericolo, quando induce gli uomini a potersi riposare e alleggierirsi dalle spese; ma quando partorisse gli effetti contrari è, sotto nome insidioso di pace, perniciosa guerra; è, sotto nome di medicina salutifera, pestifero veleno. Se adunque il fare noi confederazione con Cesare esclude il re di Francia dalle imprese d'Italia, dà a lui facoltà di occupare ad arbitrio suo il ducato di Milano, occupato quello pensare a deprimere noi, ne séguita che noi comperiamo, con grandissima infamia del nome nostro con maculare la fede di questa republica, la grandezza di un principe il quale non ha manco distesa l'ambizione che la potenza e che pretende, egli e il fratello, che tutto quello che noi possediamo in terra ferma appartenga a loro; e che escludiamo da Italia uno principe che con la grandezza assicuri la libertà di tutti gli altri e che sarebbe necessitato a essere congiuntissimo con noi. Chi propone queste ragioni, tanto evidenti e tanto palpabili, non può già essere imputato che lo muova l'affezione piú che la verità, piú gli interessi propri che l'amore della republica. Della salute della quale non abbiamo da dubitare, se Dio alle vostre deliberazioni concederà tanto di felicità quanto ha conceduto di sapienza a questo eccellentissimo senato. -
Ma in contrario Giorgio Cornaro, cittadino di pari autorità e di nome celebrato di prudenza quanto alcuno altro di quel senato, si oppose con orazione tale a questo consiglio: - Grande certamente, prestantissimi senatori, e molto difficile è la presente deliberazione; nondimeno, quando io considero quale sia ne' tempi nostri l'ambizione e la infedeltà de' príncipi e quanto la natura loro sia difforme dalla natura delle republiche, le quali, non si governando con l'appetito di uno solo ma col consentimento di molti, procedono con piú moderazione e maggiori rispetti, né si partono mai sfacciatamente, come spesso fanno essi, da quel che ha qualche apparenza di giusto e di onesto, io non posso se non risolvermi che a noi sia perniciosissimo che il ducato di Milano sia di uno principe piú potente che noi, perché una tale vicinità ci necessita a stare in continui sospetti e tormenti e, ancora che siamo nella pace, quasi sempre ne' pensieri della guerra, non ostante qualunque confederazione o convenzione che abbiamo insieme. Di questo si leggono nelle istorie antiche infiniti esempli, nelle nostre qualcuno: ma quale maggiore e piú illustre che quello che, con acerba memoria, è scolpito nel cuore di tutti noi? Introdusse questo senato Luigi re di Francia nel ducato di Milano, alla quale infelice deliberazione molti di noi furno presenti; conservogli sempre intera la fede delle capitolazioni, quantunque con premi grandi e con varie occasioni fussimo invitati a discostarsi da lui dagli spagnuoli e da' tedeschi, quantunque fussimo certi che per lui si trattavano spesso molte cose contro a noi. Non piegò né il beneficio ricevuto né la fede data né tanti perpetui offici nostri l'animo suo, pieno di tanta cupidità di offenderci che finalmente, reconciliatosi per questa cagione con gli antichi e acerbissimi inimici suoi, contrasse contro a noi la collegazione perniciosissima di Cambrai. Però, per fuggire i pericoli che dalla insidiosa e fraudolenta vicinità de' príncipi grandi ci sarebbono del continuo imminenti, siamo necessitati (se io non mi inganno) dirizzare tutte le nostre deliberazioni a questo fine: che il ducato di Milano non sia né del re di Francia né dello imperadore, ma sia di Francesco Sforza o di qualunque altro che non abbia regni e imperi maggiori; donde depende nel tempo presente la sicurtà nostra, donde nel futuro può dependere, se si variassino le condizioni de' tempi presenti, grande augumento ed esaltazione del nostro stato. Noi consultiamo se è o da continuare l'amicizia col re di Francia o da confederarci con Cesare: l'una di queste due deliberazioni esclude totalmente dal ducato di Milano Francesco Sforza e dà adito di entrarvi al re di Francia, principe tanto piú potente di noi; l'altra deliberazione tende a confermare e assicurare Francesco Sforza in quello ducato, il quale Cesare propone di includere come principale nella nostra confederazione, promette la conservazione sua al re di Inghilterra: però quando tentasse di spogliarlo di quello stato non solo offenderebbe noi e gli altri d'Italia, a' quali darebbe causa di volgere di nuovo l'animo a' franzesi, ma offenderebbe il re d'Inghilterra, al quale gli conviene, come ognuno sa, avere grandissimi rispetti; provocherebbesi contro tutti i popoli del ducato di Milano inclinatissimi a Francesco Sforza. Cosí, sottoponendosi a molte difficoltà e pericoli, e a grandissima infamia, contraverrebbe alla fede sua, la quale non si è insino a ora veduto segno alcuno che mai abbia disprezzata, cosa che non possiamo già dire noi de' franzesi; anzi, avendo restituito, dopo la morte del pontefice Leone, Francesco Sforza in quello stato, consegnatogli le fortezze secondo che successivamente si sono acquistate, e ultimamente, contro alla opinione di molti, il castello di Milano, non si può dire che non abbia fatto segni contrari. Perché adunque non dobbiamo fare piú presto quella deliberazione nella quale è speranza grande di conseguire lo intento nostro che quella che manifestamente tende a fine contrario a' nostri bisogni? A questo si oppone che di maggiore pericolo sarebbe a questa republica che il ducato di Milano fusse in potestà di Cesare che se fusse in potestà del re di Francia; perché quel re, per la grandezza di Cesare e per la emulazione che ha con lui, arebbe quasi necessità di perseverare nella nostra congiunzione, ma in Cesare tutto il contrario, per la potenza sua e per le ragioni che contro allo stato nostro pretendono egli e il fratello. Credo che chi cosí sente di Cesare non si inganni, per la natura e consuetudine de' príncipi tanto grandi; volesse Dio non si ingannasse chi non sente il medesimo del re di Francia! Militavano nel suo antecessore molte delle medesime ragioni, e nondimeno potette piú la cupidità, l'ambizione, che l'onestà, che l'utilità propria. Senza che, non sono perpetue quelle cagioni che l'arebbono a conservare unito con noi, ma variabili, secondo la natura delle cose umane, di momento in momento: perché e Cesare è uomo mortale come gli altri uomini; è, secondo l'esempio di molti príncipi stati maggiori di lui, sottoposto a infiniti accidenti di fortuna. E quanto tempo è che, concitatagli contro tutta la Spagna, pareva piú presto degno di commiserazione che di invidia? E almeno non è tanta differenza dall'uno pericolo all'altro quanto è differenza da una deliberazione che ci escluda certo dal fine nostro a una che piú verisimilmente vi ci conduca. Dipoi queste ragioni risguardano il tempo futuro e lontano; ma se consideriamo lo stato presente delle cose, non è dubbio che il rifiutare la confederazione di Cesare ci mette per ora in maggiori molestie e pericoli; perché separandoci noi dal re di Francia è credibile riserberà il fare la guerra a migliori tempi e occasioni, ma stando noi congiunti con lui potrebbe pure essere che di presente la facesse, cosa che di necessità ci porterà molestie e spese. Ma in quale caso è piú pericoloso per noi l'esito della guerra? Congiugnendoci con Cesare si può quasi tenere per certo che la vittoria sarà da questa parte, cosa che non si può tanto sperare se saremo congiunti col re di Francia; e confederandoci con Cesare non ci sarebbe tanto pericolosa la vittoria del re come sarebbe per il contrario, perché in caso tale tutte l'armi de' vincitori si volterebbono contro a noi, e Cesare non solo arebbe minore freno e minori ostacoli ma quasi necessità di occupare il ducato di Milano. A quel che si dice del vincolo della confederazione è facile la risposta: perché promettemmo al re di Francia di aiutarlo a difendere gli stati che possedeva in Italia, non a recuperargli poi che gli avesse perduti. Non dice questo la scrittura delle nostre capitolazioni, né ci militano le medesime ragioni. Adempiemmo le obligazioni nostre quando, alla perdita di Milano, causata per il mancamento delle loro provisioni, ricevetteno piú danno le nostre genti d'arme che le franzesi; adempiemmole quando, tornando Lautrech co' svizzeri alla guerra, gli mandammo i nostri aiuti; abbiamle trapassate quando, pasciuti da lui con vane speranze e promesse, abbiamo aspettato tanti mesi l'esercito suo. Se la volontà lo ritiene, perché cerchiamo noi di sopportare la pena delle sue colpe? se la necessità, non basta egli questa ragione, quando bene fussimo obbligati, a giustificarci? Non so di che siamo piú oltre debitori al re di Francia poiché prima siamo stati abbandonati noi: non so a che piú oltre sia tenuto uno confederato per l'altro, né che possino giovare a lui i nostri pericoli. Non affermo che i capitani di Cesare pensino a muoverci al presente la guerra, ma né ardirei affermare il contrario, considerato la necessità che hanno del nutrire lo esercito nello stato degli altri, la speranza che potrebbono avere di tirarci per questa via alla loro congiunzione, massime se il re di Francia non passerà: di che chi dubita non ne dubita, a giudizio mio, senza ragione, per la loro negligenza, per essere esausti di danari, per la guerra che hanno di là da' monti con due tali príncipi; né può essere ripreso chi di questo presta fede al vostro imbasciadore perché gli imbasciadori sono l'occhio e l'orecchio degli stati. Replico insomma il medesimo, che con sommo studio debbiamo cercare che di Francesco Sforza sia il ducato di Milano: donde ne nasce, in conseguenza, che sia piú utile quella deliberazione che ci può condurre a questo effetto che quella che totalmente ce ne esclude. -
L'autorità di due tali uomini e la efficacia delle ragioni aveva renduto piú presto piú perplessi che piú resoluti gli animi de' senatori, donde il senato allungava quanto piú poteva il determinarsi, inducendolo a questo la natura loro, la gravità della cosa, il desiderio di vedere piú innanzi de' progressi del re di Francia; e ne erano anche causa molte difficoltà che nascevano di necessità nella concordia con l'arciduca. Accresceva la sospensione degli animi loro che il re di Francia, preparandosi sollecitamente alla guerra, avea mandato il vescovo di Baiosa a pregargli che differissino tutto il mese prossimo a deliberare, affermando che innanzi alla fine del termine passerebbe con maggiore esercito che mai avesse veduto in Italia l'età presente. Nella quale ambiguità mentre che stanno, essendo morto Antonio Grimanno doge di quella città, fu eletto in suo luogo Andrea Gritti, che piú presto nocé alle cose franzesi che altrimenti: perché egli, collocato in quel grado, lasciata meramente la deliberazione al senato, non volle mai piú né con parole né con opere dimostrarsi inclinato in parte alcuna. Finalmente, mandando il re al senato continuamente uomini nuovi con offerte grandissime, e intendendosi che per le medesime cagioni venivano Anna di Memoransi, che fu poi gran conestabile di Francia, e Federico da Bozzole, gli oratori cesareo e inghilesi, a' quali la dilazione era sospettissima, protestorono al senato che dopo tre dí prossimi si partirebbono, lasciando imperfette tutte le cose. Perciò il senato necessitato a determinarsi, e togliendo fede alle promesse del re di Francia l'essere stati tanti mesi nutriti con vane speranze, e molto piú quel che in contrario affermava lo imbasciadore residente appresso a lui, deliberò d'abbracciare l'amicizia di Cesare, col quale convenne con queste condizioni: che tra Cesare, Ferdinando arciduca d'Austria, Francesco Sforza duca di Milano da una parte e il senato viniziano dall'altra fusse perpetua pace e confederazione: dovesse il senato mandare, quando fusse il bisogno, alla difesa del ducato di Milano secento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti; il medesimo per la difesa del regno di Napoli, ma questo in caso fusse molestato da' cristiani, perché i viniziani recusavano obligarvisi generalmente per non irritare contro a sé l'armi de' turchi: la medesima obligazione avesse Cesare, per la difesa contro a qualunque, di tutte le cose che i viniziani possedevano in Italia: pagassino all'arciduca in otto anni, per conto di antiche differenze e concordia fatta a Vuormazia, dugentomila ducati. Le quali cose come furno convenute, il senato, avendo già rimosso dagli stipendi suoi Teodoro da Triulzi, elesse governatore generale della sua milizia, con le condizioni medesime, Francesco Maria duca di Urbino.
Cap. iii
Tentativi del pontefice di unire in concordia i príncipi cristiani contro i turchi. Come il cardinale di Volterra cade in disgrazia del pontefice. Confederazione di príncipi di cui fa parte il pontefice. Attentato contro Francesco Sforza. Moto nella fortezza di Valenza. Defezione del connestabile di Borbone. Spedizione del Bonnivet in Italia; occupazione delle terre alla destra del Ticino. Sorpresa di Prospero Colonna: sue prime deliberazioni. I francesi vicino a Milano. Morte di papa Adriano.
Fu giudicio quasi comune degli uomini per tutta Italia che il re di Francia, vedendo dovergli essere contrari quegli aiuti i quali primi gli doveano essere propizi, avesse a desistere d'assaltare per quello anno il ducato di Milano; nondimeno, intendendosi che non solamente continuava di prepararsi ma che già cominciava a muoversi l'esercito, quegli che temevano della vittoria sua feciono insieme per resistergli nuova confederazione, inducendo il pontefice a esserne capo e principale. Aveva il pontefice, desideroso della pace comune, ricercato, quando venne in Italia, Cesare il re di Francia e il re di Inghilterra che, atteso i successi prosperi de' turchi, deponessino l'armi tanto perniciose alla republica cristiana, e che ciascuno spedisse a Roma agli oratori suoi sopra queste cose pienissima autorità; la qual cosa da tutti fu nell'apparenza eseguita prontamente, ma cominciato poi a trattarsi le cose particolarmente fu conosciuto presto che erano fatiche vane, perché nel fare la pace si trovavano infinite difficoltà: la tregua per tempo breve non piaceva a Cesare, senza che pareva quasi di niuna utilità; e il re di Francia la rifiutava per tempo lungo. Onde il pontefice, o ridestandosi in lui l'antica benivolenza verso Cesare o parendogli che i pensieri del re di Francia fussino alieni dalla concordia, cominciò piú che il solito a inclinare l'orecchie a coloro che lo confortavano a non permettere che da quel re fusse di nuovo posseduto il ducato di Milano. Da queste cagioni preso animo il cardinale de' Medici, il quale prima, temendo le persecuzioni degli emuli suoi e specialmente del cardinale di Volterra a cui pareva che il pontefice credesse molto, dimorava a Firenze, venne a Roma, ricevuto con grandissimo onore quasi da tutta la corte: ove, congiuntamente col duca di Sessa imbasciadore di Cesare e con gli oratori del re di Inghilterra, favoriva questa medesima causa appresso al pontefice.
Nel qual tempo la mala fortuna del cardinale di Volterra, che quasi sempre perturbava la prudenza l'astuzia e gli artifici suoi, partorí a lui danno e pericolo, e al cardinale de' Medici facoltà di acquistare maggiore grazia e autorità appresso al pontefice, inclinato prima molto al volterrano, perché con la sua sagacità e con parole non meno nervose che ornate gli avea impresso nell'animo di essere molto desideroso della pace universale della cristianità. Conciossiaché, essendo stato, per opera del duca di Sessa, ritenuto a Castelnuovo appresso a Roma Francesco Imperiale, sbandito di Sicilia che andava in Francia, gli furno trovate lettere scritte dal cardinale predetto al vescovo di Santes suo nipote, per le quali confortava il re di Francia ad assaltare con armata marittima l'isola di Sicilia, perché volgendosi l'armi di Cesare a difenderla gli sarebbe piú facile a ricuperare il ducato di Milano: della qual cosa maravigliandosi molto il pontefice e riputandosi ingannato dalle sue simulazioni, incitandolo ancora ardentemente il duca di Sessa e il cardinale de' Medici, chiamatolo a sé lo fece custodire in Castel Sant'Angelo; e dipoi deputò giudici a esaminarlo come reo d'avere violato la maestà pontificale, concitando il re di Francia ad assaltare coll'armi la Sicilia feudo della sedia apostolica. Nella quale cognizione benché si procedesse lentamente, e finiti gli esamini gli fusse data facoltà di difendersi per avvocati e procuratori, non si procedé però con la medesima moderazione alla roba; perché, il dí stesso che il cardinale fu ritenuto, il pontefice occupò tutte le ricchezze che erano nella sua casa. Venne ancora a luce, per la incarcerazione del medesimo Imperiale, un trattato che per il re di Francia si teneva in Sicilia; per il quale furno squartati il conte di Camerata il maestro portulano e il tesoriere di quella isola.
Per le quali cose il pontefice commosso tanto piú contro al re di Francia, e cominciando quotidianamente a consultare col cardinale de' Medici, finalmente, risonando ogni dí piú la fama della venuta de' franzesi, deliberando di opporsi loro, narrò nel collegio de' cardinali, fatta prima la solita prefazione de' pericoli imminenti dal principe de' turchi, il re di Francia solo essere cagione che dalla cristianità non si rimovesse tanto pericolo, perché pertinacemente ricusava di consentire alla tregua che si trattava; e che appartenendo a lui, come a vicario di Cristo e successore del principe degli apostoli, provedere quanto per lui si poteva alla conservazione della pace, il zelo della salute comune lo costrigneva a unirsi con coloro che s'affaticavano acciò che Italia non si turbasse, perché dalla quiete o dalla turbazione di quella nasceva la quiete o la turbazione di tutto il mondo. In conformità del quale ragionamento, ed essendo per tale effetto venuto il viceré di Napoli a Roma, fu stipulata, il terzo dí d'agosto, lega e confederazione tra il pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra, l'arciduca d'Austria, il duca di Milano, il cardinale de' Medici e lo stato di Firenze congiunti insieme, e i genovesi, per la difesa d'Italia, da durare durante la vita de' confederati e uno anno dopo la morte di qualunque di loro; riservato luogo a ciascuno di entrarvi, pure che fusse accettato dal pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra e lo arciduca, e desse cauzione di usare nelle querele sue la via della ragione e non dell'armi. Congregassesi per opporsi contro a chi volesse assaltare in Italia alcuno de' collegati, uno esercito, nel quale il pontefice mandasse dugento uomini d'arme, Cesare ottocento, i fiorentini dugento, il duca di Milano dugento e dugento cavalli leggieri; provedessino il pontefice, Cesare e il duca di Milano l'artiglierie e le munizioni con tutte le spese appartenenti: che, per soldare i fanti necessari all'esercito e per fare l'altre spese che bisognano nelle guerre, pagasse il papa ciascuno mese ducati ventimila, altrettanti il duca di Milano e la medesima somma i fiorentini, pagassene Cesare trentamila, tra Genova Siena e Lucca diecimila, restando però i genovesi obligati all'armata e all'altre spese necessarie per la difesa loro; alla quale contribuzione fussino tutti obligati per tre mesi, e per quello tempo piú che dichiarassino il pontefice, Cesare e il re d'Inghilterra: fusse in facoltà del pontefice e di Cesare dichiarare chi avesse a essere capitano generale di tutta la guerra; il quale si trattava che fusse il viceré di Napoli, sforzandosene massime il cardinale de' Medici, l'autorità del quale appresso a' cesarei era grandissima, per l'odio che aveva contro a Prospero Colonna. A questa confederazione fu congiunto per modo indiretto il marchese di Mantova, perché il pontefice e i fiorentini lo condussono per loro capitano generale a spese comuni.
Ma non raffreddorno già, né la lega fatta da' viniziani con Cesare né l'unione di tanti príncipi fatta con tanti provedimenti, l'ardore del re di Francia; il quale, venuto a Lione, si preparava per passare con grandissimo esercito personalmente in Italia: ove già, per la fama della venuta sua, cominciavano ad apparire nuovi tumulti. Lionello fratello di Alberto Pio ricuperò furtivamente la terra di Carpi, custodita negligentemente da Giovanni Coscia prepostovi da Prospero Colonna; a cui Cesare, spogliatone Alberto come rebelle dello imperio, l'aveva donata. Ma maggiore accidente fu per succedere nel ducato di Milano, perché cavalcando in su una muletta Francesco Sforza da Moncia a Milano, ed essendosi, come facevano per l'ordinario, allontanati da lui i cavalli della sua guardia perché il principe fusse meno noiato dalla polvere, la quale per i tempi estivi si solleva grandissima da' cavalli nelle pianure di Lombardia, Bonifazio Visconte, giovane noto piú per la nobiltà della famiglia che per ricchezze onori o altre condizioni, mosso per lo sdegno conceputo perché pochi mesi innanzi era stato ammazzato per opera di Ieronimo Morone, non senza volontà, (cosí si credeva) del duca, Monsignorino Visconte in Milano; essendo propinquo a lui in su uno cavallo turco, come furono pervenuti a uno quadrivio, mosso con impeto il cavallo, l'assaltò con uno pugnale per percuoterlo in sulla testa; ma movendosi per paura la muletta né stando anche fermo per la ferocia sua il cavallo, e Bonifazio per essere di maggiore statura e per l'altezza del cavallo sopraffacendolo molto, il colpo destinato alla testa lo percosse in sulla spalla. Trasse dipoi la spada fuora per dargli un altro colpo. Ma la ferita fu piccolissima e di taglio; ed essendo già concorsi molti si messe in fuga, seguitato dai cavalli della guardia, ma avanzandogli per la velocità del suo cavallo si salvò nel Piemonte. Cosa, se allo ardire e alla industria fusse stata corrispondente la fortuna, certamente accaduta rarissime volte e forse non mai, che uno uomo solo avesse, a mezzodí, in sulla strada publica, ammazzato uno principe sí grande, accompagnato da tante armi e da tanti soldati, in mezzo dello stato suo, e si fusse fuggito a salvamento. Ritirossi il duca cosí ferito a Moncia, non potendo credere che in Milano non fusse congiurazione: dove Prospero e il Morone, per il medesimo sospetto, avevano subito fatto ritenere il vescovo di Alessandria fratello di Monsignorino, il quale, messosi volontariamente in mano di Prospero sotto la fede sua, ed essendo esaminato, fu poi mandato prigione nella fortezza di Cremona; essendo vari i giudizi degli uomini se e' fusse stato conscio o no di questa cosa. Succedette, quasi ne' medesimi dí, che Galeazzo da Birago seguitato da altri fuorusciti dello stato di Milano, con l'aiuto di alcuni soldati franzesi che già erano nel paese del Piemonte, fu dal castellano della fortezza di Valenza, di nazione savoino, introdotto nella terra: il che inteso da Antonio de Leva, il quale con una parte de' cavalli leggieri e de' fanti spagnuoli era in Asti, vi andò subito a campo; ed essendo la terra debole, la quale gli inimici non avevano avuto tempo a riparare, piantate le artiglierie, la espugnò il secondo dí, e dipoi battuta la fortezza ebbe il medesimo successo: restando nell'una e l'altra espugnazione morti circa quattrocento uomini e molti prigioni, tra' quali Galeazzo capo di questo moto.
Passava del continuo i monti l'esercito franzese, dietro al quale avea destinato passare il re; ma turbò il suo consiglio la congiurazione che venne a luce del duca di Borbone. Il quale, per la nobiltà del sangue regio per la grandezza dello stato e per la degnità dell'ufficio del gran conestabile e per la fama molto prospera del suo valore essendo il maggiore e piú stimato signore di tutto il regno di Francia, non era già, piú anni innanzi, in grazia del re, e però non promosso a quegli gradi né introdotto a quegli segreti che meritava tanta grandezza; ma si era aggiunto che la madre del re, suscitate certe ragioni antiche, gli dimandava nel parlamento di Parigi il suo stato: donde egli, poiché vedde non essere posto dal re a questa cosa alcuno rimedio, pieno di indegnazione, si era, per mezzo di Beuren gran cameriere e molto confidato di Cesare, confederato pochi mesi innanzi occultissimamente con Cesare e col re d'Inghilterra; con patto che, per stabilire le cose con vincolo piú fedele, Cesare gli congiugnesse Elionora sua sorella, rimasta per la morte di Emanuello re di Portogallo senza marito. La esecuzione de' consigli loro era fondata in sull'avere destinato il re Francesco di andare personalmente alla guerra, nella quale deliberazione perché perseverasse gli avea il re di Inghilterra artificiosamente data speranza di non molestare la Francia per quello anno. Doveva Borbone, subito che il re avesse passati i monti, entrare nella Borgogna con dodicimila fanti, che occultissimamente co' danari di Cesare e del re di Inghilterra si preparavano; né dubitava, per l'occasione della assenza del re e per la grazia universale che aveva per tutto il reame di Francia, dovere fare grandissimi progressi. Di quello che s'acquistava avea a ritenere per sé la Provenza, permutando il titolo di conte in titolo di re di Provenza; la quale contea appartenersegli per ragioni dependenti dagli Angioini pretendeva: l'altre cose tutte doveano pervenire nel re di Inghilterra. Però, per escusarsi dal seguitare in Italia il re, fermatosi a Molins terra principale del ducato di Borbone, fingeva di essere ammalato. Donde passando il re, quando andava a Lione, al quale era già pervenuto qualche leggiero indizio di questo trattato, non dissimulò seco di essere stato procurato da altri di mettergli questo sospetto, ma potere in lui sopra ogn'altra cosa l'opinione tante volte esperimentata della sua virtú e della sua fede; donde il duca, ringraziandolo efficacissimamente che con tanta libertà e sincerità di animo avesse parlato seco, e ringraziando Dio che gli avesse conceduto uno tale re, la gravità del quale non avessino forza di sollevare le accusazioni e le calunnie false, gli aveva promesso che, come prima fusse libero (il che per la leggierezza della infermità sperava dovere essere fra pochissimi dí), andrebbe a Lione per accompagnarlo dovunque andasse. Ma come il re fu venuto a Lione, inteso che a' confini della Borgogna si accumulavano fanti tedeschi, e aggiunto a questo sospetto agli indizi avuti prima e allo essersi intercette certe lettere che davano lume piú chiaro, fece incarcerare San Valerí, Boisí fratello della Palissa, il maestro delle poste, il vescovo d'Autun, consci della congiurazione, e mandò subito il gran maestro con cinquecento cavalli e quattromila fanti a Molins a prendere Borbone; ma tardi, perché egli, già insospettito e dubitando non fussino guardati i passi, era in abito incognito passato occultissimamente nella Francia Contea. Per il qual caso tanto importante deliberò il re non proseguire l'andata sua; e nondimeno, ritenute appresso a sé parte delle genti preparate alla nuova guerra, mandò in Italia [monsignore] di Bonivet ammiraglio di Francia, con mille ottocento lancie seimila svizzeri dumila grigioni dumila vallesi seimila fanti tedeschi dodicimila franzesi e tremila italiani: col quale esercito passato i monti, e accostatosi a' confini dello stato di Milano, fece dimostrazione di volere dirizzarsi a Novara. Per il che quella città, non munita né di soldati né di ripari a sufficienza, si arrendé con licenza del duca di Milano, ritenendosi per lui la fortezza; il medesimo, e per la medesima cagione, fece Vigevano: donde tutta la regione che è di là dal fiume del Tesino pervenne in potestà de' franzesi.
Non aveva creduto Prospero Colonna, già implicato in lunga infermità, che il re di Francia, essendosi confederati contro a lui i viniziani e dipoi venuta a luce la congiurazione del duca di Borbone, perseverasse nella deliberazione di assaltare per quello anno il ducato di Milano; perciò non avea con la diligenza e celerità conveniente raccolti i soldati alloggiati in vari luoghi, né fatto i provedimenti necessari a tanto movimento. Ora, approssimandosi gli inimici, chiamava con sollecitudine genti, intento tutto a proibire il passo del Tesino; il che, non si riducendo alla memoria quel che al fiume dell'Adda era succeduto a lui contro a Lautrech, si prometteva con tanta confidenza. Di riordinare i bastioni e i ripari de' borghi di Milano, de' quali la maggiore parte non essendo stati attesi erano quasi per terra, [non] poneva alcuna sollecitudine. Congregava l'esercito in sul fiume, tra Biagrassa, Bufaloro e Turbico, sito comodo a quello effetto e opportuno ancora a Pavia e a Milano. Ma i franzesi che erano venuti a Vigevano, avendo trovato l'acque del fiume piú basse che non era stata l'opinione di Prospero, cominciorono a passare, parte a guazzo parte per barche, quattro miglia lontano dal campo imperiale; gittato anche uno ponte per l'artiglierie, in luogo dove non trovorono né guardia né ostacolo alcuno. Però Prospero, mutati per questo inopinato accidente necessariamente tutti i consigli della guerra, mandò subito Antonio da Leva con cento uomini d'arme e tremila fanti alla guardia di Pavia; egli col resto dello esercito si ritirò in Milano, dove fatto consiglio co' capitani, tutti vennono concordemente in questa sentenza: non essere possibile, se i franzesi si accostavano senza indugio, difendere Milano, perché i bastioni e ripari de' borghi, strascurati dopo l'ultima guerra, erano la maggiore parte caduti per terra, e la troppa confidenza che aveva avuto Prospero di difendere il passo del Tesino era stata cagione che non si fusse data opera a rassettargli; né era possibile condurgli, se non in ispazio di tre dí, in grado da potergli difendere; doversi fare deliberazione aspettante all'uno caso e all'altro; fare lavorare con somma sollecitudine a' ripari, e nondimeno stare preparati a partirsi (se i franzesi venissino il primo il secondo o il terzo dí) per ritirarsi in Como, se i franzesi venivano per la via di Pavia; se per il cammino di Como, andare a Pavia. Ma il fato avverso a franzesi, ottenebrando come altre volte aveva fatto lo intelletto loro, non permesse che usassino cosí fortunata occasione. Perché, o per negligenza o per raccorre tutto l'esercito, del quale non piccola parte era rimasta indietro, soprastettono tre dí in su il fiume del Tesino; donde dipoi, unitisi tutti insieme tra Milano, Pavia e Binasco, vennono (credo) a Santo Cristoforo a uno miglio presso a Milano, tra porta Ticinese e porta Romana e avendo fatte le spianate, e passata l'artiglieria nella vanguardia, feciono dimostrazione di volere combattere la terra; e nondimeno, non tentato altro, fermorono in quel luogo l'alloggiamento; dal quale levatisi pochi dí poi alloggiorono alla badia di Chiaravalle, donde guastorono le mulina e tolseno l'acqua a Milano, pensando piú ad assediarlo che ad assaltarlo: perché, oltre alla moltitudine abbondantissima d'armi (nella quale si dicevano essere mille cavalli utili) e con la consueta disposizione contro al nome del re di Francia, erano allora in Milano circa ottocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri quattromila fanti spagnuoli seimila cinquecento tedeschi e tremila italiani.
In questo stato delle cose passò all'altra vita, il quartodecimo dí di settembre, il pontefice Adriano, non senza incomodo de' collegati, al favore de' quali mancava oltre alla autorità pontificale la contribuzione pecuniaria alla quale, per i capitoli della confederazione, era tenuto. Morí, lasciato di sé, o per la brevità del tempo che regnò o per essere inesperto delle cose, piccolo concetto; e con piacere inestimabile di tutta la corte, desiderosa vedere uno italiano, o almanco nutrito in Italia, in quella sedia.
Cap. iv
Disordini e fazioni di guerra nel modenese e nel reggiano. Il presidio di Modena rafforzato con fanti spagnuoli contro il duca di Ferrara. Pronti provvedimenti del commissario Guicciardini per difendere la città. Reggio e Rubiera occupate dal duca di Ferrara.
Per la morte del pontefice cominciorno a perturbarsi le terre della Chiesa; nelle quali, innanzi alla infermità sua, erano cominciate a dimostrarsi piccole faville di futuro incendio, atto ad ampliarsi vivente lui se, parte per caso parte per altrui diligenza, non vi fusse stato ovviato. Perché avendo il collegio de' cardinali, innanzi che il pontefice passasse in Italia, commessa ad Alberto Pio la custodia di Reggio e di Rubiera, si tenevano ancora da lui le fortezze di quegli luoghi; avendo, con vari colori e diverse scuse e per l'occasione della poca esperienza di Adriano, schernito molti mesi la instanza fatta da lui che gliene restituisse. Però era stato trattato che, subito che apparisse il principio della guerra, Renzo da Ceri, seguitato da alcuni cavalli e molti fanti, si fermasse in Rubiera, per correre con la opportunità di quel luogo la strada romana tra Modena e Reggio, a effetto di impedire i danari e gli spacci che da Roma, Napoli e Firenze andavano a Milano; e procedere secondo l'occasione a maggiori imprese. Ma avendo Francesco Guicciardini, governatore di quelle città, presentito a buona ora questo disegno, e dimostrato al pontefice a che fini tendessino le mansuete parole e prieghi di Alberto e il pericolo in che incorrerebbe tutto lo stato ecclesiastico da quella parte, aveva tanto operato che il pontefice, sdegnato e con minaccie e dimostrazioni di volere usare la forza, aveva costretto Alberto a restituirgliene; il quale, non essendo ancora le cose franzesi tanto innanzi, non aveva avuto ardire di opporsegli. Ma avendo dipoi i Pii recuperato la terra di Carpi, Prospero, desideroso di racquistarla, fu autore che in nome della lega si conducesse Guido Rangone con cento uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille fanti, e che si ordinasse che mille fanti spagnuoli, che il duca di Sessa aveva soldati a Roma perché andassino a unirsi con gli altri a Milano, si fermassino per la medesima cagione a Modena. Le quali cose mentre si preparavano, Renzo da Ceri, a cui per la sua autorità e per la speranza del predare concorrevano molti cavalli e fanti, cominciò a correre la strada e a perturbare tutto il paese. Assaltò anche, già morto il pontefice, una notte all'improviso con dumila fanti la terra di Rubiera; ma difendendola gli uomini francamente, ed essendo molto difficile il pigliarla d'assalto, non l'ottenne: ove fu preso Tristano Corso, uno de' capitani de' suoi fanti.
Le quali forze, raccolte per diverse cagioni in questi luoghi, dettono occasione a cose maggiori. Perché, morto il pontefice, il duca di Ferrara, stracco dalle speranze che gli erano state date della restituzione di quelle terre, e considerando per la assoluzione ottenuta da Adriano essere manco difficile ottenere la venia delle cose tolte che la restituzione delle perdute, e persuadendosi quel medesimo che comunemente si credeva per tutti, che per le discordie de' cardinali, cresciute continuamente dopo la morte di Lione, avesse molto a differirsi la elezione del pontefice futuro, deliberò di attendere alla recuperazione di Modona e di Reggio: alla qual cosa, oltre all'altre opportunità, lo invitava la comodità di unire a sé Renzo da Ceri, che già avea congregati dugento cavalli e piú di dumila fanti. Però il duca, soldati tremila fanti e mandati a Renzo tremila ducati, si mosse verso Modena, nella qual città non era altro presidio che il conte Guido Rangone colle genti con le quali era stato condotto dalla lega; e benché nel popolo fusse esoso il dominio della casa da Esti, nondimeno, essendo le mura deboli e fabbricate senza fianchi al modo antico, ripiene le fosse, né fattavi già molto tempo alcuna riparazione, pareva bisognasse maggiore presidio. Però per il governatore e per il conte, che deposte alcune dissensioni state tra loro procedevano unitamente, si faceva estrema diligenza perché, secondo la deliberazione fatta prima, entrassino in Modona i fanti spagnuoli; i quali arrivati già in Toscana camminavano lentamente, facendo varie e ambigue risposte circa al volere fermarsi in Modena o andare innanzi: pure, con molti prieghi, furono contenti finalmente di entrarvi. La qual cosa intesa dal duca di Ferrara, che con dugento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e tremila fanti era venuto al Finale, lo ritenne quasi dal procedere piú oltre; pure, non essendo la cosa intera, e sperando potergli almeno coll'unione di Renzo da Ceri succedere [di] ottenere Reggio, non disperando ancora, che per la difficoltà de' pagamenti avesse a nascere ne' fanti degli inimici qualche disordine, deliberò di andare innanzi. Né erano queste speranze concepute leggiermente, perché non facendo il collegio de' cardinali, a cui il governatore avea con celerità significato i pericoli imminenti, provedimento alcuno, anzi, non che altro, non rispondendo a' messi e alle lettere ricevute, non vi era facoltà di potere co' danari publici pagare i soldati; e per sorte era venuto al dí che gli spagnuoli doveano ricevere lo stipendio del secondo mese, e quando pure si pagassino tutti niuna vi era speranza di soldarne maggiore numero; dividendo questi tra Modona e Reggio, niuna delle due città rimaneva sicura; né erano in Reggio soldati, e la disposizione del popolo diversa da quella de' modonesi. Nelle quali difficoltà avendo il governatore e il conte Guido deliberato di conservare Modena principalmente, come terra piú importante per la vicinità di Bologna, piú congiunta collo stato della Chiesa e ove piú facilmente potevano condursi i soccorsi e i provedimenti, mandarono a Reggio cinquecento fanti sotto Vincenzio Maiato bolognese, soldato del conte Guido; al quale commessono che non si potendo difendere la terra si ritirasse nella cittadella: la quale perché speravano che si difendesse almeno per qualche dí, mandò il governatore danari a Giovambatista Smeraldo da Parma castellano, perché chiamasse trecento fanti e pregò, benché invano, la comunità di Reggio che, trattandosi non meno della sicurtà loro che dello stato della Chiesa, prestassino alcuna quantità di danari per soldarne altri fanti. Al pericolo di Modona non potendo per mancamento di danari provedere altrimenti, il governatore, convocati molti cittadini espose loro le cose essere ridotte in grado che, non si pagando i fanti spagnuoli né avendo danari per provedere a molte altre spese, era necessario lasciare cadere la terra nelle mani del duca di Ferrara; la quale se vi fusse la provisione de' danari si difenderebbe, né essere altro modo di provedervi se essi medesimi non soccorrevano al bisogno presente, perché si rendeva certo che a quello che occorresse per l'avvenire o il nuovo pontefice o il collegio de' cardinali provederebbe. Non essere in quella congregazione alcuno che non avesse provato il dominio del duca di Ferrara e quello della Chiesa; però, quale de' due fusse piú amabile o piú acerbo essere superfluo il dimostrarlo, con gli argomenti o col discorso delle ragioni, a coloro a' quali l'aveva insegnato in memoria. Pregargli solamente che non gli movesse quella piccola quantità di danari che si dimandava loro in prestanza, perché questo, e quanto allo interesse publico e quanto all'utilità de' privati, era cosa di piccolissima considerazione a comparazione dello interesse di avere uno signore che piú loro sodisfacesse. Le quali parole ricevute volentieri negli animi di quegli che avevano la medesima inclinazione, providdono, con distribuzione fatta, tra loro medesimi il medesimo dí, a cinquemila ducati: co' quali avendo pagati gli spagnuoli e fatto altri provedimenti, niuno timore aveano dell'armi del duca di Ferrara.
Il quale, non presumendo delle forze proprie piú che si convenisse, lasciata Modona a mano sinistra ed essendosi unito seco nel camino Renzo da Ceri, si accostò a Reggio; la quale città subitamente l'accettò, e il dí seguente il castellano, aspettati pochi colpi d'artiglieria, gli dette la cittadella, allegando per sua giustificazione che Vincenzio Maiato chiamato da lui aveva ricusato di entrarvi, e che i danari mandatigli dal governatore gli erano stati tolti appresso a Parma, ove avea mandato per soldare i fanti. Dal duca, come prima ebbe ottenuto Reggio, si partí Renzo da Ceri, chiamato dall'ammiraglio di Francia; onde rimasto con pochi fanti, poi che per alcuni dí fu dimorato in sul fiume della Secchia, pose il campo alla terra di Rubiera: alla custodia della quale era stato diputato, dal conte Guido, il Vecchio da Coniano con dugento fanti. Né avea il duca se non piccola speranza di ottenerla, perché il castello è piccolo e molto munito per la larghezza e profondità delle fosse, e perché alle mura che lo circondano si unisce per tutto uno terrato grande; e nondimeno, avendo il dí seguente cominciato a battere con l'artiglierie il muro contiguo alla porta, il capitano de' fanti, o secretamente convenuto o spaventato, perché già gli uomini del castello cominciavano a sollevarsi, gittatosi dalle mura si appresentò innanzi al duca, ponendo in arbitrio suo la terra e se stesso: il quale entrato subito nella terra, accostate l'artiglierie alla rocca, spaventò in modo il castellano, che si diceva Tito Tagliaferro da Parma, che, benché la rocca fusse forte e sufficientemente proveduta d'uomini, d'artiglierie e di tutte le cose necessarie, non aspettato pure un colpo d'artiglieria, la dette innanzi alla notte. La quale ricevuta, il duca fermò l'esercito, sperando che per la vacazione lunga della sedia s'avessino a dissolvere i fanti che erano in Modona, e nutrendosi nel tempo medesimo, come di sotto si dirà, di speranza d'altre cose.
Cap. v
I francesi occupano Lodi; vani tentativi contro Cremona. Fatti di guerra in Lombardia; fazioni sfavorevoli ai francesi. Accordi fra Prospero Colonna ed il duca di Ferrara per la cessione di Modena venuti a conoscenza del commissario Guicciardini. Monza ricuperata dagli imperiali; disposizione delle forze avversarie. Vano tentativo di tregua; ritirata dei francesi.
In questo mezzo, Bonivetto disperato di potere per forza prendere Milano, alloggiato a San Cristoforo tralle porte Ticinese e Romana, luogo circondato da acque e da fossi, occupata Moncia avea mandato monsignore di Baiardo e con lui Federico da Bozzole con trecento lancie e ottomila fanti a prendere Lodi; ove, con cinquecento cavalli e cinquecento fanti della condotta che avea dalla Chiesa e da' fiorentini, era venuto il marchese di Mantova: il quale temendo di se medesimo si ritirò a Pontevico, e la città abbandonata ricevette dentro i franzesi. Preso Lodi, Federigo, gittato il ponte in su Adda, passò con le genti medesime nel cremonese per soccorrere il castello; il quale stretto dalla fame, non sapendo quegli che vi erano dentro che in Italia fusse passato l'esercito del re, si era, in quegli medesimi dí che l'ammiraglio si appropinquò a Milano, convenuto di arrendersi se per tutto il dí vigesimo sesto di settembre non fussino soccorsi. Accostossi Federico al castello, e poi che l'ebbe rinfrescato di vettovaglie e d'altri bisogni deliberò di assaltare la terra, confidandosi nell'avervi Prospero Colonna lasciato piccolo presidio: benché il marchese di Mantova v'avesse, per questo timore, mandato cento uomini d'arme cento cavalli leggieri e quattrocento fanti. Battuto che ebbe Federigo coll'artiglierie le mura, dette la battaglia invano, e dipoi fatta con l'artiglierie maggiore ruina dette un'altra battaglia ma col successo medesimo; onde si ridusse a San Martino, aspettando Renzo da Ceri che con dugento cavalli e duemila fanti veniva del reggiano: il quale come fu venuto, ritornati alle mura le batterono per molte ore con grande progresso, ma impediti da grandissime pioggie e conoscendo potere difficilmente ottenere la vittoria non tentorno piú oltre. Nel qual dí Mercurio, co' cavalli leggieri de viniziani, le genti de' quali si univano a Pontevico, passato l'Oglio corse insino a' loro alloggiamenti. Tentate queste cose invano, e avendo nell'esercito strettezza di vettovaglie, e risolvendosi i fanti condotti da Renzo perché non aveano ricevuti altri danari che quegli che avea dati a Renzo il duca di Ferrara, partitisi da Cremona, andorno a campo a Sonzino, ma con evento non dissimile. Saccheggiorno dipoi la terra di Caravaggio, ove dimororno alcuni dí: dalla quale dimora nasceva o scusa o impedimento al senato viniziano di non mandare a Milano gli aiuti a' quali erano tenuti; perché scusata la lentezza del raccorre le genti per la credenza stata comune a' capitani di Cesare che, per la separazione loro dal re di Francia, i franzesi quell'anno non passerebbono, affermava di mandargli come prima quegli che erano nel cremonese avessino ripassato il fiume dell'Adda.
In questo stato delle cose, diffidando ciascuna delle parti di porre con celerità fine alla guerra, niuno tentava di mettere in pericolo la somma delle cose. L'ammiraglio, non pensando all'espugnazione di Milano, avea collocata la speranza o che gl'inimici s'avessino a dissolvere per mancamento di danari o che fussino costretti, per carestia di vettovaglie, abbandonare Milano; ove con tutto fusse copia di frumento, nondimeno, in tanto popolosa città, la moltitudine di coloro che se n'aveano a nutrire era quasi innumerabile; e avendo egli levate l'acque e impediti i mulini, vi era difficoltà grande di macinare. Per questa cagione richiamate le genti dalla Ghiaradadda le fece fermare tra Moncia e Milano, acciò che i milanesi, i quali erano privati delle vettovaglie che solevano concorrere per le strade di Lodi e di Pavia, rimanessino privati eziandio di quelle che solevano ricevere dal monte di Brianza. Ma non bastavano queste cose a fare l'effetto desiderato dallo ammiraglio. Da altra parte, per consiglio di Prospero Colonna, con tutto che avesse oppresso il corpo da grave infermità né meno affaticato l'animo, non potendo tollerare, per la cupidità di conservarsi il primo luogo, la venuta del viceré di Napoli, si faceva diligenza per interrompere le vettovaglie agli inimici, le quali venivano dalla parte di là dal fiume del Tesino, perché la fortezza del sito nel quale alloggiavano non lasciava speranza alcuna di cacciargli con l'armi. Perciò procurò Prospero che in Pavia entrasse il marchese di Mantova. Per la venuta del quale, i franzesi temendo del ponte loro gittorno un altro ponte a Torligo, distante da Pavia venticinque miglia. Sollecitava oltre a questo Vitello, che con la compagnia delle genti d'arme che avea da' fiorentini (i quali nel principio della guerra l'aveano mandato a Genova) e con tremila fanti pagati da' genovesi avea occupato, eccetto Alessandria, tutto il paese di là dal Po, passasse il fiume, per turbare le vettovaglie che della Lomellina a' franzesi si conducevano. Ma questo non consentí il doge di Genova, temendo alle cose proprie per la propinquità dell'Arcivescovo Fregoso, il quale era in Alessandria. E perché i viniziani, le genti de' quali aveano passato l'Oglio, ricusavano per il pericolo di Bergamo passare Adda, mentre che quella parte de' franzesi che era partita da Caravaggio dimorava appresso a Moncia, Prospero ottenne che a Trezzo mandassino quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti per impedire le vettovaglie con le quali si sostentavano.
Alle quali cose mentre che da ciascuna delle parti si attende non si faceva altre azioni di guerra che battaglie leggiere, prede e scorrerie; nelle quali quasi sempre rimanevano inferiori i franzesi, e talvolta con danno memorabile. Conciossiacosaché essendo uscito, per fare scorta alle vettovaglie che venivano a Milano da Trezzo, Giovanni de' Medici con dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e mille fanti, incontratosi in ottanta lancie franzesi, la maggiore parte della compagnia di Bernabò Visconte, e messosi a seguitargli e poi astutamente ritirandosi, gli condusse in una imboscata, fatta da sé, di cinquecento scoppiettieri, e rottigli con poca difficoltà ne ammazzò o prese la maggiore parte. Similmente in una altra battaglia Zucchero borgognone roppe sessanta uomini d'arme della compagnia del grande scudiere. Assaltorno ancora piú volte i fanti spagnuoli i fanti franzesi che erano a guardia delle trincee che si facevano per andare coperti insino a' ripari, e ne ammazzorno non piccolo numero; e nel tempo medesimo Paolo Luzzasco, che con cento cinquanta cavalli leggieri era rimasto a Pizzichitone, scorrendo per tutto il paese circostante, dava molestia gravissima a quegli che erano in Cremona. Né succedevano allo ammiraglio piú felicemente l'insidie che l'altre cose. Perché essendosi occultamente convenuto con Morgante da Parma, uno de' capi di squadra di Giovanni de' Medici, essendone solamente conscio Gianniccolò de' Lanzi, uno de' suoi cavalli leggieri, e quattro altri, che come prima gli toccasse la guardia del bastione di una porta, il quale usciva fuora de' ripari, vi ricevesse dentro le sue genti, accadde, la notte destinata, che Morgante, parendogli avere bisogno a eseguire tal cosa di piú compagni, lo conferí con un altro de' suoi; il quale, simulando di consentire a questa perfidia, lo consigliò che andasse a comandare in nome di Prospero Colonna alle sentinelle che sentendo cosa alcuna non si movessero, acciocché non impedissino l'uomo il quale manderebbe a chiamare i soldati del campo che doveano venire al bastione: perché l'ammiraglio avea la notte medesima accostati da quella parte cinquemila fanti, perché stessino preparati quando riceveano il segno del muoversi, e messo in arme tutto l'esercito. Ma mentre che Morgante va a dare questo ordine l'altro corse subitamente a rivelare la cosa a Giovanni de' Medici; dal quale, andato al bastione, presi i consci ed esaminati, furono secondo il costume della giustizia militare passati per le picche. Ma già pareva che da ogni parte cominciassino a declinare le cose de' franzesi: perché, per la fertilità del paese circostante a Milano e per avere con mulini domestici sollevata la difficoltà del macinato, diminuiva del continuo la speranza che in quella città avessino a mancare le vettovaglie; e per gli spessi danni ricevuti intorno a Milano si credeva che avessino perduti tra utili e inutili mille cinquecento cavalli, onde spaventati non uscivano degli alloggiamenti, se non per la necessità di fare la scorta alle vettovaglie e a' saccomanni, e sempre molto grossi. La infamia della quale viltà l'ammiraglio convertendo in gloria sua, usava dire che non governava la guerra secondo l'impeto degli altri capitani franzesi ma con la moderazione e maturità italiana: e nondimeno, qualunque volta o cavalli o fanti di loro si riscontravano con gli inimici, dimostravano prontezza molto maggiore a fuggire che a resistere.
Assicurati adunque i capitani di Cesare dal timore dell'armi e della fame, anzi sperando di mettere in difficoltà delle vettovaglie gli inimici, niuna cosa piú gli tormentava che il mancamento de' danari; senza i quali era malagevole nutrire i soldati in Milano ma quasi impossibile menargli, quando cosí ricercassino l'occorrenze della guerra, fuora. Alla quale difficoltà cercando di provedere per molte vie, ma trall'altre Prospero, consentendogli occultamente il viceré di Napoli e il duca di Sessa, avea, quasi subito dopo la morte del pontefice, cominciato a trattare col duca di Ferrara: il quale, ricusato molte offerte fattegli dall'ammiraglio perché, ottenuto che ebbe Reggio, andasse all'espugnazione di Cremona, convenne finalmente con Prospero che, ricuperando per opera sua Modona, pagasse incontinente trentamila ducati e ventimila altri fra due mesi. La cosa pareva facile a eseguire, perché comandando Prospero al conte Guido Rangone soldato della lega e a' fanti spagnuoli che si partissino di Modona niuno rimedio era che quella città abbandonata non inclinasse subito il collo al duca: e movevano Prospero con maggiore ardire a questa cosa, oltre alla causa publica, le cupidità private l'amicizia con Alfonso da Esti il desiderio comune a tutti i baroni romani di deprimere la grandezza de' pontefici e la speranza che, alienata Modona e Reggio dalla Chiesa, Parma e Piacenza piú agevolmente al duca di Milano pervenissino. La qual cosa, mentre che secretissimamente si trattava, pervenuta agli orecchi del conte Guido e da lui manifestata al Guicciardino, conobbe non potersi in alcuno modo interrompere se non si persuadeva a' capitani spagnuoli (i quali bene trattati e largamente pagati stavano volentieri in quella città) che, allegando non essere sottoposti all'autorità di Prospero Colonna insino a tanto non fussino pervenuti allo esercito, recusassino di partirsi da Modona se non per comandamento del duca di Sessa, per il cui comandamento entrati vi erano; con saputa del quale benché il governatore tenesse per certo trattarsi questa cosa, si persuadeva che, essendo oratore di Cesare a Roma e reclamando il collegio, non solamente si vergognerebbe a dare tale commissione ma non potrebbe negare, alla richiesta de' cardinali, di comandare apertamente il contrario. E succedette la cosa appunto secondo il disegno. Perché, quando Prospero mandò a comandare al conte Guido e agli spagnuoli che andassino per le necessità della guerra a Milano, il conte si scusò con molte ragioni allegando essere suddito della Chiesa e modonese, e i capitani spagnuoli, persuasi da lui e dal governatore, risposono a niuno altro che al duca di Sessa dovere in tal cosa ubbidire: le quali cose significate dal governatore al collegio de' cardinali, chiamato subito al conclave il duca di Sessa, egli, non volendo rendere sospetto sé e per conseguente Cesare, non potette negare di non comandare per sue lettere a quegli capitani che non partissino. Anzi, come spesso succedono le cose contrarie a' pensieri degli uomini, ne succedette che, leggendosi nel collegio certe lettere di Prospero intercette dal governatore, per le quali si palesava tutto il progresso della cosa, i cardinali aderenti al re di Francia, per l'opposizione de' quali si difficultavano prima le provisioni de' danari che per opera del cardinale de' Medici si erano cominciati a mandare a Modona, conoscendo essere pernicioso al re che tal cosa avesse effetto, diventorno apertamente fautori che a Modona si mandassino danari; e il simigliante fece il cardinale Colonna, per dimostrare agli altri di anteporre a ogn'altro rispetto l'utilità della sedia apostolica. La quale diligenza benché fusse bastata a differire l'esecuzione delle convenzioni fatte con Alfonso da Esti, nondimeno, non essendo perciò rimosso il fondamento di questi pensieri, avevano in animo che il viceré di Napoli, il quale benché camminando lentamente veniva a Milano con quattrocento lancie e duemila fanti, quando passava da Modena ne levasse i fanti spagnuoli.
Ma a Milano, in questi tempi medesimi, augumentò la copia delle vettovaglie: perché, temendo l'ammiraglio che da' soldati che erano in Pavia non fusse occupato il ponte fatto da lui in sul Tesino, per il quale venivano all'esercito le cose necessarie, rimosse l'esercito minore da Moncia per mandare alla custodia del ponte tremila fanti; degli altri una parte chiamò a sé, gli altri distribuí parte in Marignano parte a Biagrassa vicina al ponte; onde agli imperiali, ricuperata Moncia, perveniva piú copiosamente la facoltà del cibarsi. Erano in questo tempo nell'esercito franzese (l'alloggiamento fortissimo del quale si distendeva dalla badia di Chiaravalle insino alla strada di Pavia, accostandosi da quella strada a Milano per minore spazio di un tiro di artiglieria) ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri duemila fanti italiani diecimila tra guasconi e franzesi; aveano al ponte del Tesino mille fanti tedeschi mille italiani, il medesimo numero a Biagrassa, ove era Renzo da Ceri; in Noara dugento lancie, tra in Alessandria e in Lodi duemila fanti: in Milano erano ottocento lancie ottocento cavalli leggieri cinquemila fanti spagnuoli seimila fanti tedeschi e quattromila italiani, oltre alla moltitudine del popolo ardentissima con l'animo e con le opere contro a' franzesi; in Pavia il marchese di Mantova, con cinquecento lancie seicento cavalli leggieri dumila fanti spagnuoli e tremila italiani; a Castelnuovo di Tortonese erano con Vitello tremila fanti, benché poco dipoi, essendo passate alcune genti franzesi verso Alessandria, si ritirò a Serravalle per timore che non gli fusse impedita la facoltà del ritornarsi a Genova; e i viniziani avevano seicento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, de' quali mandorno mille fanti a Milano, a richiesta di Prospero desideroso di servirsi della fama de' loro aiuti, e poco dipoi un'altra parte a Cremona, per il sospetto di un trattato tenuto da Niccolò Varolo, il quale, per timore di non essere incarcerato, fuggí di quella città.
Finalmente l'ammiraglio, costretto dalla difficoltà delle vettovaglie, da' tempi freddissimi e nevi grandissime, e dalla instanza e protesti che gli facevano i svizzeri perché non voleano tollerare piú tante incomodità, deliberò discostarsi da Milano: ma innanzi publicasse il suo consiglio procurò che Galeazzo Visconte dimandasse facoltà di andare a vedere madonna Chiara, famosa per la forma egregia del corpo ma molto piú per il sommo amore che gli portava Prospero Colonna. Entrato in Milano introdusse ragionamenti di tregua, per i quali convennono insieme, il dí seguente, allato a' ripari, Alarcone, Paolo Vettori commissario fiorentino e Ieronimo Morone, e per l'ammiraglio Galeazzo Visconte e il generale di Normandia; i quali proposono che si sospendessino l'armi per tutto maggio, obligandosi a distribuire l'esercito per le terre: e arebbono alla fine consentito di ridursi tutti di là dal Tesino, ma dannando i capitani di Cesare l'interrompere colla tregua la speranza che aveano della vittoria risposono non potere deliberare cosa alcuna senza la volontà del viceré. Onde l'ammiraglio, due dí poi, mosse innanzi all'aurora verso la riva del Tesino l'artiglierie, seguitò, come fu chiaro il giorno, con tutto l'esercito, procedendo con tale ordine che pareva non recusasse di combattere. La qual cosa come fu veduta nella città, non solo i soldati e il popolo chiedevano con altissime voci di essere menati ad assaltargli ma i capitani e gli uomini di maggiore autorità faceano appresso a Prospero Colonna instanza del medesimo, dimostrandogli la facilità della vittoria, perché né di forze si riputavano inferiori agli inimici e di animo sarebbono molto superiori; non potendo essere che la ritirata non avesse messo timidità grande nella maggiore parte di quello esercito, della quale molti fanti italiani, che all'ora medesima si partivano, riferivano il medesimo. Ricordavangli la gloria infinita, la perpetuazione eterna del nome suo, se tante vittorie già acquistate confermasse con questa ultima gloria e trionfo. Ma nell'animo di Prospero era sempre fisso di fuggire quanto poteva di sottomettersi all'arbitrio della fortuna; e perciò, immobile nella sua sentenza non altrimenti che uno edificio solidissimo al soffiare de' venti, rispondeva non essere ufficio di savio capitano lasciarsi muovere dalle voci popolari, non menare i soldati suoi ad assaltare gli inimici quando niuna altra speranza restava loro che difendersi. Assai essersi vinto, assai gloria acquistata, avendo senza pericolo e senza sangue costretto gli inimici a partirsi; né dovere essere infinita la cupidità degli uomini, e potere ciascuno facilmente conoscere che senza comparazione maggiore sarebbe la perdita se le cose succedessino sinistramente che il guadagno se le succedessino prosperamente. Avere sempre con queste arti condotte a onorato fine le cose sue, sempre per esperienza conosciuto piú nuocere a' capitani la infamia della temerità che giovargli la gloria della vittoria: perché in parte di quella non veniva alcuno, tutta e intera s'attribuiva al capitano; ma la laude de' successi prosperi della guerra, almeno secondo la opinione degli uomini, comunicarsi a molti. Non volere, quando era già vicino alla morte, andare dietro a nuovi consigli, né abbandonare quegli i quali, seguitati da lui per tutta la vita passata, gli aveano dato gloria utilità e grandezza. Divisonsi i franzesi in due parti: l'ammiraglio con la parte maggiore si fermò a Biagrassa, terra distante da Milano quattordici miglia, gli altri mandò a Rosa distante da Milano sette miglia e, intra se medesime, miglia...
Cap. vi
Il conclave e l'elezione di Clemente VII. Aspettazione dell'opera del nuovo pontefice. Vano tentativo di Renzo da Ceri contro la rocca di Arona. Morte di Prospero Colonna; giudizio dell'autore. Variazioni nel modo di condurre le guerre dopo Carlo VIII. Fallimento dell'impresa di Cesare contro la Francia.
Ma pochissimi dí poi che l'ammiraglio si era levato di quello alloggiamento, nel quale era stato circa..., succedette la creazione del nuovo pontefice, essendo già stati nel conclave cinquanta dí: nel quale entrati da principio trentasei cardinali e sopravenuti poi tre cardinali, consumorno tanto tempo con varie contenzioni; dividendo gli animi loro non solamente le volontà diverse di Cesare e del re di Francia ma eziandio la grandezza del cardinale de' Medici. Il quale, oppugnato da tutti quegli che seguitavano l'autorità del re, da alcuni di coloro ancora che dipendevano da Cesare, aveva in arbitrio suo le voci concordi di sedici cardinali, disposti assolutamente a eleggere lui e a non eleggere alcuno altro senza il suo consentimento, e promesse occulte da cinque altri di dare il voto alla elezione che si facesse di lui proprio; e lo favorivano oltre a questo lo imbasciadore di Cesare e tutti gli altri che l'autorità d'esso seguitavano: i quali fondamenti benché avesse avuti quasi tutti alla morte del pontefice Lione, nondimeno, era ora entrato nel conclave con la deliberazione piú costante di non abbandonare, né per lunghezza di tempo né per qualunque accidente, le sue speranze, fondate principalmente perché alla elezione del pontefice è necessario concorrino i due terzi delle voci de' cardinali presenti. Né gli ritraeva da queste divisioni o il pericolo comune d'Italia o proprio dello stato della Chiesa; anzi, secondo che variavano i progressi della guerra, andava ciascuna delle parti differendo la elezione, sperando favore dalla vittoria di quegli che gli erano propizi; e si sarebbe differita molto piú tempo se ne' cardinali avversi al cardinale de' Medici, i quali erano quasi tutti dei piú vecchi del collegio, fusse stata la medesima unione a eleggere qualunque di loro che era in non eleggere lui, e deposte le cupidità particolari si fussino contentati di questo fine, che il cardinale de' Medici non ascendesse al pontificato. Ma è molto difficile che mediante la concordia nella quale è mescolata discordia e ambizione si pervenga al fine che comunemente si cerca. Il cardinale Colonna, inimico acerbissimo del cardinale de' Medici, ma per natura impetuoso e superbissimo, sdegnato co' cardinali congiunti seco perché recusavano di eleggere pontefice il cardinale Iacobaccio romano, uomo della medesima fazione e molto dependente da lui, andò spontaneamente a offerire al cardinale de' Medici di aiutarlo al pontificato: il quale, per una cedola di mano propria, secretissimamente gli promesse l'officio della vicecancelleria che risedeva in persona sua, e il palazzo suntuosissimo il quale, edificato già dal cardinale di San Giorgio, era stato conceduto a lui dal pontefice Lione: donde acceso tanto piú il cardinale della Colonna indusse nella sentenza sua il cardinale Cornaro e due altri. La inclinazione de' quali come fu nota cominciorono molti degli altri, tirati, come spesso interviene ne' conclavi, da viltà o ambizione, a fare a gara di non essere degli ultimi a favorirlo; in modo che la notte medesima fu adorato per pontefice, di concordia comune di tutti, e la mattina seguente, che fu il giorno decimonono di novembre, fatta secondo la consuetudine la elezione per solenne scrutinio; il dí medesimo precisamente che due anni innanzi era vittorioso entrato in Milano. Credettesi che trall'altre cagioni gli avesse giovato l'entrata grande di benefici e uffici ecclesiastici, perché i cardinali quando entrorno nel conclave feciono concordemente una costituzione che l'entrate di quel che fusse eletto pontefice si distribuissino con eguale divisione negli altri. Voleva continuare nel nome di Giulio; ma ammonito da alcuni cardinali essersi osservato che quegli che, eletti pontefici, non aveano mutato il nome avevano tutti finita la vita loro infra uno anno, assunse il nome di Clemente settimo, o per essere vicina la festività di quel santo o perché alludesse allo avere, subito che fu eletto, perdonato e ricevuto in grazia il cardinale di Volterra con tutti i suoi: il quale cardinale benché Adriano avesse, negli ultimi dí della vita, dichiarato inabile a intervenire nel conclave, vi era entrato per concessione del collegio, e stato insino all'estremo pertinace perché Giulio non fusse eletto.
Grandissima certamente per tutto il mondo era l'estimazione del nuovo pontefice; però la tardità della elezione, maggiore che già fusse accaduto lunghissimo tempo, pareva ricompensata con l'avere posto in quella sedia una persona di somma autorità e valore; perché aveva congiunta ad arbitrio suo la potenza dello stato di Firenze alla potenza grandissima della Chiesa, perché aveva tanti anni a tempo di Lione governato quasi tutto il pontificato, perché era riputato persona grave e costante nelle sue deliberazioni, e perché, essendo state attribuite a lui molte cose che erano procedute da Lione, ciascuno affermava esso essere uomo pieno di ambizione, di animo grande e inquieto e desiderosissimo di cose nuove; alle quali parti aggiugnendosi lo essere alieno dai piaceri e assiduo alle faccende, non era alcuno che non aspettasse da lui fatti estraordinari e grandissimi. La elezione sua ridusse subito in somma sicurtà lo stato della Chiesa. Perché il duca di Ferrara, spaventato che in quella sedia fusse asceso un tale pontefice, né sperando piú di ottenere Modena per la venuta del viceré di Napoli, meno sperando ne' franzesi, i quali prima per mezzo di Teodoro da Triulzi venuto nel campo suo gli facevano, perché aderisse a loro, grandissime offerte, lasciata sufficiente custodia in Reggio e in Rubiera, ritornò a Ferrara. Quietoronsi similmente le cose della Romagna; ove, sotto nome di opprimere la fazione inimica ma in verità stimolato da' franzesi, era col seguito de' guelfi entrato Giovanni da Sassatello, scacciatone nel pontificato di Adriano per la potenza de' ghibellini.
Ma diviso che fu l'esercito franzese tra Biagrassa e Rosa, l'ammiraglio, appresso al quale non erano rimasti piú che quattromila svizzeri, licenziò come inutili i fanti del Delfinato e di Linguadoca e mandò l'artiglierie grosse di là dal Tesino, con intenzione di aspettare in quello alloggiamento le genti che il re preparava per soccorrerlo, perché non temeva potervi essere sforzato e vi aveva abbondanza di vettovaglie: e nondimeno, per non perdere del tutto il tempo, mandò Renzo da Ceri con settemila fanti italiani a pigliare Arona, terra fortissima ne' confini del Lago Maggiore, posseduta da Anchise Visconte; in soccorso del quale Prospero Colonna mandò da Milano mille dugento fanti. La rocca di Arona soprafà tanto la terra che è inutile il possedere questa a chi non possiede quella: però Renzo attendeva a battere la rocca, e avendovi dati piú assalti ove furno morti molti de' suoi, finalmente, poiché invano v'ebbe consumato circa a un mese, si partí; confermata l'opinione, che già molti anni era ampliata per tutta Italia, che piú, in niuna parte, le azioni sue corrispondessino alla fama acquistata nella difesa di Crema.
Camminava in questo tempo alla morte Prospero Colonna, stato già ammalato otto mesi, non senza sospetto di veleno o di medicamento amatorio: però, dove prima gli era molestissima la venuta del viceré, non potendo poi piú reggere le cure della guerra, l'aveva continuamente sollecitata. Venne adunque il viceré; ma accostatosi a Milano, per mostrare reverenza alla virtú e fama di tale capitano, soprastette qualche dí a entrarvi: pure, intendendo essere ridotto allo estremo e già alienato dello intelletto, entrò, per desiderio di vederlo, in tempo che sopravisse poche ore poi; benché altri dichino che ritardò a entrarvi dopo la morte, che succedette il penultimo dí di quello anno. Capitano certamente, in tutta la sua età, di chiaro nome, ma salito negli ultimi anni della vita in grandissima riputazione e autorità; perito dell'arte militare e in quella di grandissima esperienza; ma non pronto a pigliare con celerità l'occasioni che gli potessino porgere i disordini o la debolezza degli inimici, come anche per il suo procedere cautamente non lasciava facile a loro l'occasione di opprimere lui; lentissimo per natura nelle sue azioni e a cui tu dia meritamente il titolo di cuntatore: ma se gli debbe la laude d'avere amministrato le guerre piú co' consigli che con la spada, e insegnato a difendere gli stati senza esporsi, se non per necessità, alla fortuna de' fatti d'arme. Perché all'età nostra ha avute molte varietà il governo della guerra: conciossiaché, innanzi che Carlo re di Francia passasse in Italia, sostenendosi la guerra molto piú co' cavalli di armadura grave che co' fanti, ed essendo le macchine che si usavano contro alle terre incomodissime a condurre e a maneggiare, se bene tra gli eserciti si commettevano spesso le battaglie, piccolissime erano le uccisioni, rarissimo il sangue che vi si spargeva, e le terre assaltate tanto facilmente si difendevano (non per la perizia della difesa ma per la imperizia dell'offesa) che non era alcuna terra cosí piccola o cosí debole che non sostenesse per molti dí gli eserciti grandi degli inimici: di maniera che con grandissima difficoltà si occupavano con l'armi gli stati posseduti da altri. Ma sopravenendo il re Carlo in Italia, il terrore di nuove nazioni, la ferocia de' fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra tutto il furore delle artiglierie, empié di tanto spavento tutta Italia che a chi non era potente a resistere alla campagna niuna speranza di difendersi rimaneva; perché gli uomini, imperiti a difendere le terre, subito che s'approssimavano gli inimici s'arrendevano, e se alcuna pure si metteva a resistere era in brevissimi dí spugnata. Cosí il reame di Napoli e il ducato di Milano furno quasi in un dí medesimo vinti e assaltati; cosí i viniziani, vinti in una battaglia sola, abbandonorno subitamente tutto lo imperio che aveano in terra ferma; cosí i franzesi, non veduti non che altro gli inimici, lasciorno il ducato di Milano. Cominciorno poi gli ingegni degli uomini, spaventati dalla ferocia delle offese, ad aguzzarsi a' modi delle difese, rendendo le terre munite con argini con fossi con fianchi con ripari con bastioni; onde, aiutando anche molto questo effetto la moltitudine delle artiglierie, nocive piú nelle difensioni che nelle oppugnazioni, sono ridotte a grandissima sicurtà, le terre che sono difese, di non potere essere spugnate. A queste invenzioni dette, a tempo de' padri nostri, forse in Italia principio la recuperazione di Otranto; dove Alfonso duca di Calavria entrato trovò, fatti da' turchi, molti ripari incogniti agli italiani; ma rimasono piú nella memoria degli uomini che nell'esempio. Prospero con queste arti difese due volte piú chiaramente il ducato di Milano, esso medesimo, o solo o primo di alcuno altro, e offendendo e difendendo, coll'impedire agli inimici le vettovaglie, con l'allungare la guerra, tanto che 'l tedio la lunghezza la povertà i disordini gli consumavano; e vinse e difese senza tentare giornate, senza combattere, non traendo non che altro fuori la spada, non rompendo una sola lancia: onde aperta la via da lui a quegli che seguitorno, molte guerre, continuate molti mesi, si sono vinte piú con la industria con l'arti con la elezione provida de' vantaggi, che con l'armi.
Queste cose si feciono in Italia l'anno mille cinquecento ventitré. Preparoronsi per l'anno medesimo con grande espettazione molte cose di là da' monti, le quali non partorirno effetti degni di tanti príncipi. Perché Cesare e il re di Inghilterra aveano convenuto insieme e promesso al duca di Borbone di rompere con armi potenti la guerra, l'uno in Piccardia l'altro nella Ghienna; ma i movimenti del re di Inghilterra furno nella Piccardia quasi di niuno momento, e quel che tentò il duca di Borbone nella Borgogna si dimostrò subito vano, perché, mancandogli i danari per pagare i fanti tedeschi, alcuni de' capitani convenuti col re di Francia ne ritrassero una parte, onde egli andò a Milano: ove Cesare, non gli piacendo che passasse in Ispagna forse per non dare perfezione al matrimonio, come era il suo desiderio, mandatogli per Beuren il titolo di luogotenente suo generale in Italia, lo confortò che si fermasse. Né dalla parte di Spagna procederono a Cesare le cose felicemente. Il quale, benché ardente alla guerra fusse venuto a Pampalona per entrare in Francia personalmente, e di già avesse mandato l'esercito di là da' monti Pirenei, il quale avea occupato Salvatierra non molto distante da San Gianni di Piè di Porto, nondimeno, essendo stata maggiore la prontezza che non era la potenza (perché, per mancamento di danari, né poteva sostentare tante forze quanto sarebbe stato necessario a tanta impresa né aveva, per la medesima cagione, potuto raccorre l'esercito se non quasi alla fine dell'anno, donde ne' luoghi freddi la stagione dell'anno gli moltiplicava le difficoltà, impedivano la strettezza delle vettovaglie difficili a condursi per tanto cammino), fu costretto a dissolvere l'esercito, ragunato contro al consiglio quasi di tutti: tanto che Federigo di Tolleto duca di Alva, principe vecchio e di autorità, diceva, nel fervore della guerra, Cesare, in molte cose simile al re Ferdinando avolo materno, rappresentare piú in questa deliberazione Massimiliano avolo paterno.
Cap. vii
Accordi fra i collegati per condurre a fine la guerra. Contegno del pontefice. Fortunate azioni del marchese di Pescara e di Giovanni de' Medici. Movimenti degli eserciti avversari. Azione dei veneziani a Garlasco e di Giovanni d'Urbino a Sartirana. Altri fatti di guerra nel ducato di Milano.
Séguita l'anno mille cinquecento ventiquattro; nel principio del quale, invitando le difficoltà de' franzesi i capitani cesarei a pensare di porre fine alla guerra, chiamorno a Milano il duca di Urbino e Pietro da Pesero proveditore viniziano, per consultare come s'avesse a procedere nella guerra: nel quale consiglio fu unitamente deliberato che, subito a Milano giugnessino seimila fanti tedeschi, i quali il viceré aveva mandato a soldare, l'esercito cesareo e de' viniziani unito insieme si avvicinasse agli inimici per cacciargli, o coll'armi o colla fame, di quello stato. Alla qualcosa, giudicando avere forze sufficienti, niente altro repugnava che la difficoltà de' danari; de' quali dovendosi, per gli stipendi corsi, quantità grande a' soldati, non si sperava potergli fare muovere di Milano e dell'altre terre se prima non si pagavano; né manco era necessario, avendo a stare l'esercito alla campagna, provedere che per l'avvenire corressino ordinatamente di tempo in tempo i pagamenti. Sollevorono questa difficoltà in parte i milanesi, desiderosi di liberarsi dalle molestie della guerra, i quali prestorno al duca [novanta]mila ducati: disponendogli a questo piú facilmente l'esempio de' danari prestati quando Lautrech stette intorno a Milano, [i quali] erano stati dipoi, dell'entrate ducali, restituiti prontamente. Porse similmente a questa difficoltà la mano il pontefice; il quale, avendo sospettissima per la memoria delle cose passate la vittoria del re di Francia (benché con sommo artificio agli uomini che il re gli avea mandati dimostrasse il contrario), numerò occultissimamente all'oratore di Cesare ventimila ducati, e volle che i fiorentini, a' quali il viceré dimandava, per virtú della confederazione fatta vivente Adriano, nuova contribuzione, pagassino come per ultimo residuo trentamila ducati.
Né aveva perciò il pontefice nell'animo di dimostrarsi per l'avvenire piú favorevole all'una parte che all'altra; anzi, con tutto che Cesare e il re, mandatogli, subito che e' fu assunto al pontificato, l'uno Beuren l'altro San Marsau, si sforzassino congiugnerlo a sé, deliberava, rimossi che fussino i pericoli presenti, usando quella moderazione che nelle discordie de' cristiani conviene a' pontefici, attendere come non inclinato piú all'uno che all'altro a procurare la pace: la quale deliberazione, grata al re, che aveva temuto che pontefice non avesse contro a lui la medesima disposizione che aveva avuto cardinale, dispiaceva per il contrario a Cesare, parendogli che, per la passata congiunzione, per l'averlo favorito dopo la morte di Lione e nella assunzione al pontificato, fusse conveniente che non si separasse da lui. Però gli fu molestissimo quel che gli fu significato per parte del pontefice, che, benché non spogliasse l'animo della benivolenza portatagli insino a quel dí, nondimeno, che avendo deposta la persona privata e diventato padre comune, era necessitato in futuro a non fare offici se non comuni.
Ma mentre che il viceré si prepara per andare contro agli inimici mandò Giovanni de' Medici a campo a Marignano, la quale terra insieme con la fortezza si arrendé; e non molti dí poi il marchese di Pescara, il quale, disposto a non militare sotto Prospero Colonna, non prima che nell'estremità della sua vita era venuto alla guerra, avendo notizia che nella terra di Robecco alloggiavano con monsignore di Baiardo quattrocento cavalli leggieri e molti fanti, chiamato in compagnia Giovanni de' Medici, assaltatigli improvisamente, presa la maggiore parte degli uomini e de' cavalli, e dissipati e messi in fuga gli altri, ritornò subito a Milano, per non dare tempo agli inimici, che erano a Biagrassa, di seguitarlo: lodato in questo fatto di industria e di ardore ma molto piú di celerità, perché Robecco, distante non piú che due miglia da Biagrassa, è distante da Milano, donde erano partiti, diciassette miglia.
Ridotte a questo grado le cose della guerra, che la speranza de' franzesi consisteva che agli inimici avessino a mancare danari, quella degli imperiali che a' franzesi avessino a mancare le vettovaglie, perché non speravano potergli cacciare per forza dello alloggiamento fortissimo di Biagrassa, e nondimeno aspettando ciascuno soccorso, questi de' fanti tedeschi quegli de' svizzeri e altri fanti, l'ammiraglio, fatto abbruciare Rosa, ritirò quelle genti a Biagrassa, attendendo per incomodare gli inimici a fare correre e abbruciare tutto il paese. Ma venuti finalmente i fanti tedeschi, l'esercito imperiale, nel quale erano principali il duca di Milano il duca di Borbone il viceré di Napoli il marchese di Pescara, con mille secento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri settemila fanti spagnuoli dodicimila tedeschi e mille cinquecento italiani, lasciati alla guardia di Milano quattromila fanti, andò ad alloggiare a Binasco; ove, non molti dí poi, si uní con loro il duca di Urbino con secento uomini d'arme secento cavalli leggieri e seimila fanti de' viniziani. Nel quale tempo il castello di Cremona, non potendo piú resistere alla fame e avendo Federigo da Bozzole, che era in Lodi, tentato invano di soccorrerlo, s'arrendé agli imperiali. Andò dipoi l'esercito a Casera, terra propinqua a cinque miglia a Biagrassa; dove l'ammiraglio, il quale aveva distribuito tra Lodi, Novara e Alessandria dugento lancie e cinquemila fanti, stava fermo, con ottocento lancie, ottomila svizzeri (a' quali pochi dí poi se ne aggiunsono piú di tremila altri) e con quattromila fanti italiani e dumila tedeschi; né ancora esausto di vettovaglie, perché n'avevano nell'esercito e ne' luoghi vicini copia per due mesi. Impossibile era l'assaltargli, senza grandissimo pericolo, in alloggiamento tanto forte. Però gli imperiali, avendo piú volte tentato di passare il Tesino, per interrompere che da quella parte non passassino vettovaglie, per insignorirsi delle terre tenevano di là dal Tesino e per impedire che venendo soccorso di Francia non si unisse con loro, ma soprastando per timore che Milano non restasse in pericolo, finalmente deliberorno di passare, giudicando che per la confidenza che avevano nel popolo milanese non fusse necessario molto presidio di soldati. Però ritornò il duca a Milano e con lui Giovanni de' Medici, e vi restorno seimila fanti. Cosí passorno, il secondo dí di marzo, il fiume del Tesino sotto Pavia, in su tre ponti: alloggiò la battaglia a Gambalò, il resto dello esercito nelle ville vicine. Per la passata de' quali, l'ammiraglio mandò subito Renzo da Ceri alla guardia di Vigevano; e temendo di non perdere quella terra e gli altri luoghi di Lomellina, i quali perduti sarebbe restato quasi assediato, passò egli, a' cinque dí, con tutto lo esercito, lasciati a Biagrassa cento cavalli e mille fanti, e alloggiò la vanguardia sua intorno a Vigevano, la battaglia a Mortara a due miglia di Gambalò, dove era il viceré; nel quale alloggiamento, molto sicuro, aveva comode le vettovaglie, perché avevano sicura la strada di Monferrato, Vercelli e Novara, e le vettovaglie venivano di terra in terra, tutte vicine l'una a l'altra e quasi per condotto. Presentò l'ammiraglio, due dí continui, la battaglia agli inimici; i quali, benché si conoscessino superiori di numero e di virtú di soldati, recusorno di farla, non volendo mettere in pericolo la speranza del vincere quasi certa, perché per lettere intercette aveano presentito che a essi cominciavano a mancare danari.
Passato che ebbe l'esercito imperiale il Tesino, il duca di Urbino con le genti viniziane andò a campo a Garlasco, terra forte di sito, fossi e ripari, dove erano quattrocento fanti italiani; il quale, posto tra Pavia e Trumello di là dal Tesino, dove egli aveva disegnato di alloggiare, interrompeva non solo a lui ma a tutto il resto dello esercito le vettovaglie: e fatta la batteria gli dette il dí medesimo l'assalto, nel quale essendo quasi ributtato, molti de' suoi passorono per l'acqua de' fossi insino alla gola, essendovi ancora alcuni de' fanti di Giovanni de' Medici; e assaltorono con tale impeto che vi entrorono per forza, con grandissima uccisione di quegli di dentro. Accostossi dipoi l'esercito a San Giorgio verso la Pieve al Cairo, per accostarsi a Sartirano, terra forte situata in sulla riva di qua dal Po, e opportuna a impedire loro le vettovaglie; alla custodia della quale erano Ugo de' Peppoli e Giovanni da Birago con alcuni cavalli e con [secento] fanti. Ma andatovi Giovanni d'Urbina, coll'artiglierie e con dumila fanti spagnuoli, espugnò prima la terra e poi la rocchetta, uccisi quasi tutti i fanti e presi i capitani. Mossonsi i franzesi per soccorrere Sartirano, ma prevenuti dalla celerità degli inimici, inteso nel cammino quel che era succeduto, fermorno tutto l'esercito a Mortara.
Né ancora nell'altre parti del ducato di Milano procedevano felicemente le cose loro. I soldati lasciati in Milano costrinsono ad arrendersi la terra di San Giorgio sopra Moncia, dalla quale andavano vettovaglie a Biagrassa; Vitello ricuperò la terra della Stradella, gli uomini della quale costretti dalla iniquità de' soldati aveano chiamato fanti da Lodi; Paolo Luzzasco scontratosi in molti cavalli de' franzesi gli messe in fuga; e Federico da Bozzole andato da Lodi ad assaltare Pizzichitone ne riportò, in cambio della vittoria, ferite e morti di molti de' suoi. Solamente, alcuni cavalli de' franzesi, scorrendo tra Piacenza e Tortona, tolsono quattordicimila ducati mandati allo esercito di Cesare.
Cap. viii
I grigioni assoldati dai francesi giunti a Cravina ritornano in patria. I francesi perdono Biagrassa; la peste a Milano. Bonnivet a Novara, quindi a Romagnano, ed al di là della Sesia inseguito dai nemici; assalti e scaramuccie; ferita e morte di Baiardo. Ritorno di Bonnivet in Francia. L'Italia liberata pel momento dalle molestie della guerra, ma non dal sospetto che si rinnovino.
In queste difficoltà due erano le speranze dell'ammiraglio, l'una della diversione l'altra del soccorso; perché il re mandava per la montagna di Monginevra quattrocento lancie alle quali doveano unirsi diecimila svizzeri, e Renzo da Ceri conduceva per la via di Val di Sasina nel territorio di Bergamo cinquemila fanti grigioni, onde doveano passare a Lodi a congiugnersi con Federico da Bozzole col quale erano molti fanti italiani: persuadendosi l'ammiraglio che l'esercito di Cesare sarebbe costretto a ripassare, per la sicurtà di Milano, il fiume del Tesino. Incontro a questi mandò il duca di Milano Giovanni de' Medici con cinquanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri e tremila fanti; il quale, unitosi con trecento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e quattromila fanti de' viniziani, si accostò agli inimici venuti alla villa di Cravina, tra i fiumi dell'Adda e del Brembo, e lontana otto miglia da Bergamo; e corse con una parte delle genti insino a' loro alloggiamenti: i quali, il terzo dí dappoi, querelandosi non avere trovato a Cravina né danari né cavalli né altri fanti, come dicevano essere stato promesso da Renzo, ritornorno al paese loro. Risoluto il movimento de' grigioni, Giovanni de' Medici spugnò Caravaggio, e di poi passato Adda messe con l'artiglierie in fondo il ponte che i franzesi aveano a Bufaloro in sul Tesino. Rimaneva ancora in potestà de' franzesi, tra Milano e il Tesino, la terra di Biagrassa, ove erano molte vettovaglie e a guardia mille fanti sotto Ieronimo Caracciolo napoletano. Alla spugnazione della quale, perché posta in sul canale grande impediva le vettovaglie che molte [si] sogliono per quello canale condurre a Milano, si mosse Francesco Sforza, chiamato a sé Giovanni de' Medici; e seguitandolo oltre a' soldati tutta la gioventú del popolo milanese. Dettono l'assalto alla terra, avendola prima battuta con l'artiglierie da' primi raggi del sole insino a mezzo il giorno, e l'espugnarono il dí medesimo; con singolare laude di Giovanni de' Medici, nel quale apparí quel dí non solamente la ferocia, colla quale avanzava tutti gli altri, ma prudenza e maturità degna di sommo capitano. Fu preso il Caracciolo, ammazzati molti fanti, molti ne fece sospendere Giovanni de' Medici per punizione di essersi prima fuggiti da lui. Spugnata la terra s'arrendé la rocca, pattuita la salute di quegli che vi erano dentro. Fu lietissima questa vittoria al popolo milanese; ma senza comparazione maggiore fu la infelicità che la letizia, perché da Biagrassa, dove era cominciata la peste, furno, per il commercio delle cose saccheggiate trasportate a Milano sparsi in quella città i semi di tanto pestifera contagione; la quale, pochi mesi poi, si ampliò tanto che solamente in Milano tolse la vita a piú di cinquantamila persone.
Ma di là dal Tesino, ove era la somma delle cose, l'ammiraglio, dopo la perdita di Sartirano essendosegli di nuovo approssimati gli inimici, abbandonata Mortara si ritiro in due alloggiamenti a Novara; diminuito molto di forze, perché non solamente de' fanti ma assai degli uomini d'arme erano alla sfilata ritornati in Francia: onde niuno altro intento era in lui che temporeggiarsi insino a tanto venisse il soccorso de' svizzeri, i quali in numero circa ottomila erano già vicini a Ivrea. Da altra parte i capitani [imperiali] intenti a impedire la venuta loro, intenti a ridurre gli inimici in difficoltà di vettovaglie, occupavano le terre vicine a Novara, ammazzando i franzesi ove gli trovavano lasciati alla guardia delle terre; e avendo messo presidio in Vercelli, per torre la facoltà a' svizzeri di entrarvi, si fermorno a Biandrà tra Vercelli e Novara, in uno alloggiamento circondato da ogni parte di fossi d'alberi e acque. Finalmente l'ammiraglio, intendendo i svizzeri passata Ivrea essersi fermati in sul fiume della Sesia, il quale per la copia che in quelli dí vi era d'acque non aveano potuto passare, desideroso di unirsi con loro, piú (come si credeva) per partirsi sicuro che per combattere, andò da Novara ad alloggiare a Romagnana in sul fiume medesimo; ove, patendo di vettovaglie e diminuendo continuamente il numero delle sue genti, fece gittare il ponte tra Romagnana e Gattinara: e da altra parte gli inimici, venuti da Biandrà a Briona, andorno ad alloggiare appresso a Romagnana a due miglia. In queste angustie passorno i franzesi il fiume il dí seguente: la mossa de' quali se fusse stata sollecitamente vegghiata dagli inimici, si crede che quel dí n'arebbono riportata pienissima vittoria. Ma erano diverse le sentenze de' capitani, alcuni desiderando che si combattesse, alcuni che senza molestargli si lasciassino partire. Né pareva che nell'esercito fusse la providenza e il governo conveniente. Solo il marchese di Pescara, procedendo in tutte l'azioni col solito valore, pareva degno che a lui si riferisse la somma delle cose; gli altri, invidiosi della virtú e gloria sua, cercavano di oscurarla piú presto col detrarre e contradire che con la concorrenza delle opere.
Tardi pervenne allo esercito imperiale la notizia della partita de' franzesi: la quale come fu intesa, molti cavalli leggieri e molti fanti, senza ordine senza insegne, guadato il fiume gli seguitorno; i quali pervenuti all'ultimo squadrone cominciorno a scaramucciare, e benché i franzesi, combattendo e camminando, gli sostenessino per lungo spazio di tempo, lasciorno finalmente sette pezzi di artiglieria e copia di munizioni e di vettovaglie, oltre a molte insegne di cavalli e di fanti, morti eziandio di essi non pochi nel combattere. Feciono i franzesi dimostrazione di alloggiare a Gattinara, terra distante un miglio da Romagnana, e intratanto facevano occultamente andare innanzi i carriaggi e l'artiglierie; ma come gli inimici, credendo che alloggiassino, furno cominciati a ritirarsi, andorno piú oltre circa sei miglia ad alloggiare a Ravisingo verso Ivrea. Alloggiorno la sera medesima gli imperiali senza impedimenti in sul fiume, il quale passorno come prima cominciò a lucere la luna; non gli seguitando i viniziani, a' quali, essendo entrati nel territorio del duca di Savoia, pareva avere trapassati gli oblighi della confederazione, per la quale non erano tenuti a altro che alla difesa del ducato di Milano. Procedevano i franzesi in battaglia bene ordinata con lento passo, avendo collocati nel retroguardo i svizzeri; da' quali furno rimessi i primi cavalli e fanti che venendo disordinatamente gli assaltorno, essendo già i franzesi discostati da Ravisingo circa due miglia. Ma sopravenendo il marchese di Pescara co' cavalli leggieri si rinnovò la battaglia, non tale che fermasse il camminare de' franzesi; de' quali in questo ultimo congresso fu ammazzato Giovanni Cabaneo e fatto prigione monsignore di Baiardo, percosso da uno scoppietto, della quale ferita morí poco di poi. Parve al marchese, ancora che già fussino sopravenuti molti soldati, non seguitare gli inimici piú oltre, perché non avea seco artiglierie né altro che una parte sola dell'esercito. Cosí, rimasti i franzesi senza molestia ritornorno, insieme co' svizzeri, alle case loro; avendo lasciato a Bauri di là da Ivrea quindici pezzi d'artiglieria alla custodia di trecento svizzeri e di uno de' signori del paese: ma né queste si salvorno, perché i capitani di Cesare, avutane notizia, mandorno a prenderle. Divisonsi poi i vincitori in piú parti: a Lodi fu mandato il duca di Urbino, ad Alessandria il marchese di Pescara; le quali città sole si tenevano in nome del re, perché Novara, accostandovisi il duca di Milano e Giovanni de' Medici, si era arrenduta: al viceré rimase la cura di andare incontro al marchese del Rotellino, il quale con quattrocento lancie aveva passato i monti: ma questo, intesa la partita dell'ammiraglio, ritornò subito in Francia. Né feciono resistenza alcuna Boisí e Giulio da San Severino preposti alla guardia di Alessandria. Similmente Federico, dimandato tempo di pochi dí per certificarsi se era vero che l'ammiraglio avesse passato i monti, convenne di lasciare Lodi; riservatasi facoltà, come eziandio era stato conceduto a quegli di Alessandria, di condurre in Francia i fanti italiani: i quali, in numero circa cinquemila (che tanti erano nell'una e l'altra città), furno poi alle cose del re di grandissimo giovamento.
Questo fine ebbe la guerra fatta contro al ducato di Milano sotto il governo dell'ammiraglio: per il quale non essendo indebolita la potenza del re di Francia né stirpate le radici de' mali, non si rimovevano ma solamente si differivano in altro tempo tante calamità; rimanendo in questo mezzo Italia liberata dalle molestie presenti ma non dal sospetto delle future. Tentossi nondimeno per Cesare, stimolato dal duca di Borbone e invitato dalla speranza che l'autorità di quel duca avesse a essere di grandissimo momento, di trasferire la guerra in Francia, dimostrandosi pronto al medesimo il re di Inghilterra.
Cap. ix
I soldati di Cesare prendono Fonterabia; vani tentativi del pontefice di condurre i príncipi alla pace o alla tregua; pretese del re d'Inghilterra al trono di Francia, e ambizione del cardinale eboracense. Accordi di Cesare e del re d'Inghilterra per muovere la guerra in Francia; il pontefice avverso all'impresa. Occupazione di Nizza. Vicende della guerra in Provenza. Deliberazione del re di Francia di portare la guerra in Italia. Ritirata dei soldati di Cesare dalla Provenza. Gli eserciti nemici nel ducato di Milano.
Aveva Cesare, nel principio dell'anno presente, mandato il campo a Fonterabia, terra di brevissimo spazio, posta in sull'estuario che divide il regno di Francia dalla Spagna; e ancora che quel luogo fusse munitissimo d'uomini di artiglierie e di vettovaglie, né mancasse tempo a coloro che lo difendevano di ripararlo, nondimeno, per la imperizia de' franzesi, i ripari furno fatti tanto inavvertentemente che, rimanendo esposti alle offese degli inimici, la necessità gli costrinse a convenire di uscirsene salvi. Recuperata Fonterabia si distendevano piú oltre i suoi pensieri, rifiutati i conforti e l'autorità del pontefice; il quale, avendo mandato nel principio dell'anno, per trattare o pace o sospensione dell'armi, a Cesare al re di Francia e al re di Inghilterra, aveva trovato gli animi mal disposti: perché il re, acconsentendo alla tregua per due anni, ricusava la pace, non sperando potere ottenere in quella condizioni che gli soddisfacessino; Cesare, dannando la tregua per la quale si dava tempo al re di Francia a riordinarsi a nuova guerra, desiderava la pace; e al re d'Inghilterra era molesta qualunque convenzione si facesse per mezzo del pontefice, per il desiderio che avea che il trattamento della concordia finalmente del tutto si referisse a lui, inducendolo a questo gli ambiziosi consigli del cardinale eboracense. Il quale, veramente esempio a' nostri dí di immoderata superbia, benché nato di infima condizione e di sangue sordidissimo, era salito appresso a quel re in tanta autorità che era manifestissimo a ciascuno che la volontà del re senza la approvazione di Eboracense fusse di niuno momento, e per contrario fusse validissimo tutto quello che Eboracense solo deliberasse. Ma dissimulavano il re e il cardinale con Cesare questo pensiero, dimostrandosi ardenti a muovere la guerra contro al reame di Francia; il quale il re di Inghilterra pretendeva legittimamente appartenersegli per varie ragioni, pigliandone la prima origine da Adovardo cognominato..., re d'Inghilterra. Il quale essendo, insino nell'anno della salute nostra mille [trecento ventotto], morto senza figliuoli maschi Carlo quarto, cognominato bello, re di Francia, della sorella del quale era nato Adovardo, aveva fatto instanza, come piú prossimo de' parenti maschi al re morto, essere dichiarato re di quel reame; ma escluso dal parlamento universale di tutto il regno, nel quale fu determinato che per virtú della legge salica, legge antichissima di quel reame, fussino inabili a succedere non solo le femmine ma ciascuno nato per linea femminina, assunto non molto dipoi il titolo di re di Francia, assaltò il regno con esercito potente; dove ottenute molte vittorie, e contro a Filippo di Valois, il quale con consentimento comune era stato dichiarato successore di Carlo bello, e contro a Giovanni suo figliuolo il quale condusse prigione in Inghilterra, contrasse finalmente pace con lui; per la quale, rimanendogli molte provincie e stati del reame di Francia, rinunziò al titolo regio. Ma essendo a questa pace, che non fu lungamente osservata, succedute ora lunghe guerre ora lunghe tregue, ultimamente Enrico quinto re d'Inghilterra, confederatosi con Filippo duca di Borgogna, alienato dalla corona di Francia per la uccisione del duca Giovanni suo padre, ebbe successi tanto prosperi contro a Carlo sesto, re alienato dallo intelletto, che insieme con la città di Parigi occupò quasi tutto il reame di Francia; nella quale città avendo trovato il re insieme con la moglie e con Caterina sua figliuola, si congiunse in matrimonio con quella, facendo al re demente consentire che, nonostante vivesse Carlo suo figliuolo, il regno, morto il padre, si trasferisse in lei e ne' suoi figliuoli: per virtú del quale titolo, benché invalido e inetto, fu, dopo la morte di Enrico, coronato solennemente in Parigi Enrico sesto suo figliuolo re di Francia e di Inghilterra. Ma ancoraché poi Carlo, dopo la morte del padre nominato Carlo settimo, per l'occasione dell'essere suscitate in Inghilterra tra quegli del sangue regio gravissime guerre, cacciasse gli Inghilesi, eccettuata la terra di Calès, di là dal mare Oceano, nondimeno non omessono per questo i re di Inghilterra di usare il titolo di re di Francia. Queste cagioni potevano muovere Enrico ottavo alla guerra, sicuro piú che fusse stato alcuno degli antecessori nel suo reame: perché essendo stati depressi dai re della famiglia di Iorch (era questo il nome d'una fazione) i re della famiglia di Lancastro, nome dell'altra, i seguaci della casa di Lancastro, non vi essendo superstite piú alcuno di quel sangue, sollevorono al regno Enrico di Richemont, come piú prossimo a loro; il quale, superati ed estinti i re avversari, per regnare con maggiore fermezza e autorità si copulò legittimamente con una figliuola di Adovardo penultimo re della casa di Iorch, donde pareva che in Enrico ottavo, nato di questo matrimonio, fussino trasferite tutte le ragioni dell'una e dell'altra famiglia; le quali, per le insegne portavano, si chiamavano volgarmente la rosa rossa e la rosa bianca. Nondimeno, non incitava principalmente il re di Inghilterra la speranza di conseguire con l'armi il reame di Francia, perché in questo conosceva innumerabili difficoltà, quanto la cupidità di Eboracense che la lunghezza de' travagli e la necessità delle guerre avesse finalmente a partorire che nel suo re avesse a essere rimesso l'arbitrio della pace, quale sapendo dovere dependere dalla sua autorità, pensava, in uno tempo medesimo, e fare risonare gloriosamente per tutto il mondo il nome suo e stabilirsi la benivolenza del re di Francia, al quale occultamente inclinava. Però non proponeva di obligarsi a quelle condizioni alle quali, se avesse [avuto] l'animo ardente a tanta guerra, era conveniente si obligasse.
Questa occasione incitava Cesare alla guerra, e molto piú la speranza che la grazia l'autorità e il seguito grande che il duca di Borbone soleva avere in quel reame avesse a sollevare molto il paese. Perciò, con tutto che molti de' suoi lo consigliassino che, mancandogli danari e avendo compagni di fede incerta, deposti i pensieri di cominciare una guerra tanto difficile, consentisse che il pontefice trattasse la sospensione dell'armi, convenne col re di Inghilterra e col duca di Borbone: che il duca passasse nel reame di Francia con parte dello esercito che era in Italia; al quale, come avesse passato i monti, pagasse il re di Inghilterra ducati centomila per le spese della guerra del primo mese, restando in arbitrio suo o continuare di mese in mese questa contribuzione o di passare in Francia con esercito potente, per fare guerra dal primo dí di luglio per tutto il mese di dicembre, ricevendo dallo stato di Fiandra tremila cavalli e mille fanti con sufficiente artiglieria e munizione: che ottenendosi la vittoria, si restituisse al duca di Borbone lo stato toltogli dal re di Francia; acquistassesi per lui la Provenza, alla quale pretendeva per la cessione fatta dopo la morte di Carlo ottavo dal duca dell'Oreno ad Anna duchessa di Borbone, la quale tenesse con titolo di re; giurasse, innanzi al pagamento de' centomila ducati, il re di Inghilterra in re di Francia e prestassegli omaggio, il che non facendo, questa capitolazione fusse nulla; né potesse Borbone trattare, senza consenso di tutti due, col re di Francia: rompesse Cesare la guerra nel tempo medesimo da' confini di Spagna, e che gli oratori di Cesare e del re di Inghilterra procurassino che i potentati di Italia, per assicurarsi in perpetuo dalla guerra de' franzesi, concorressino con denari a questa impresa; cosa che riuscí vana, perché il pontefice non solo recusò di contribuire ma dannò espressamente questa impresa, predicendo che non solo non arebbe in Francia prospero successo ma che eziandio sarebbe cagione che la guerra ritornasse in Italia piú potente e piú pericolosa che prima.
La quale confederazione come fu fatta, benché il duca di Borbone, il quale costantemente recusò di riconoscere il re di Inghilterra in re di Francia, confortasse che piú presto si andasse con l'esercito verso Lione per accostarsi al suo stato, nondimeno fu deliberato si passasse in Provenza, per la facilità che arebbe Cesare di mandargli soccorso di Spagna e per servirsi dell'armata che, per comandamento e co' danari di Cesare, si preparava a Genova. I progressi di questa spedizione furno che Borbone e con lui il marchese di Pescara, dichiarato a quella guerra (perché di ubbidire a Borbone si sdegnava) capitano generale di Cesare, passorno a Nizza; ma con forze molto minori di quelle che erano destinate: perché a cinquecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri quattromila fanti spagnuoli tremila fanti italiani e cinquemila tedeschi si doveano aggiugnere trecento uomini d'arme dell'esercito di Italia e cinquemila altri fanti tedeschi, ma questi per mancamento di danari non vennono; e il viceré, impotente a soldare nuovi fanti, come era stato deliberato ne' primi consigli, per opporsi a Michelantonio marchese di Saluzzo (il quale, cacciato del suo stato, era con mille fanti in sulla montagna), riteneva gli uomini d'arme per la guardia del paese. Aggiugnevasi che l'armata di Cesare, una delle principali speranze, guidata da don Ugo di Moncada allievo del Valentino, uomo di pravo ingegno e di pessimi costumi, appariva inferiore alla armata del re di Francia; la quale partita da Marsilia si era fermata nel porto di Villafranca. Entrorno nondimeno nella Provenza; la Palissa la Foglietta Renzo da Ceri e Federigo da Bozzole, capitani del re, perché non aveano forze sufficienti a opporsi si andavano continuamente ritirando. Una parte, camminando allato al mare, spugnò la torre imminente al porto di Tolone, dalla quale furno condotti all'esercito due cannoni. Arrendessi Asais, città, per la sua degnità e perché vi risiede il parlamento, principale della Provenza, e molte altre terre del paese. Desiderava il duca di Borbone che da Asais, discostandosi dal mare, si cercasse di passare il fiume del Rodano, per entrare piú nelle viscere dello stato del re di Francia, mentre che erano deboli le sue provisioni; perché le genti d'arme sue, avendo patito molto e maltrattate ne' pagamenti dal re, molto esausto di danari e che non aspettava che gli inimici di Lombardia passassino in Francia, erano ridotte in tale disordine che non si potevano cosí presto riordinare; e diffidando, come sempre, della virtú de' fanti del suo reame era necessitato aspettare, innanzi uscisse in campagna, la venuta di fanti svizzeri e tedeschi: nel quale spazio di tempo pensava Borbone di potere, passando il Rodano, fare qualche progresso importante. Ma altra fu la sentenza del marchese di Pescara e degli altri capitani spagnuoli; i quali per l'opportunità del mare desideravano, come sapevano essere la intenzione di Cesare, che si acquistasse Marsilia, porto opportunissimo a molestare con l'armate marittime la Francia e a passare di Spagna in Italia. Alla volontà de' quali non potendo repugnare il duca di Borbone, posero il campo a Marsilia; nella quale città era entrato Renzo da Ceri con quegli fanti italiani che da Alessandria e da Lodi erano stati menati in Francia. Intorno a Marsilia dimororno vanamente quaranta dí, perché, benché battessino da piú parti le mura con l'artiglierie e tentassino di fare le mine, nondimeno si opponevano alla spugnazione molte difficoltà: la muraglia assai forte di antica struttura, la virtú de' soldati, la disposizione del popolo, divotissimo a' re di Francia e inimicissimo al nome spagnuolo, per la memoria che Alfonso vecchio d'Aragona, ritornando da Napoli con armata marittima in Ispagna, avea all'improviso saccheggiata quella città, la speranza del soccorso cosí dalla parte del mare come perché il re di Francia, venuto in Avignone città del pontefice posta in sul Rodano, raccoglieva continuamente grande esercito. Aggiugnevasi che all'esercito mancavano danari. Mancavano similmente le speranze che il re di Francia, assaltato da altre parti, fusse impedito a volgere a una parte sola tutti i suoi provedimenti: perché il re di Inghilterra, con tutto che appresso a Borbone avesse mandato Riccardo Pacceo, ricusava di pagare i centomila ducati per il secondo mese; meno faceva segni di muovere la guerra nella Piccardia, anzi, avendo ricevuto nell'isola Giovan Giovacchino dalla Spezie mandatogli dal re di Francia, e rispondendo il cardinale sinistramente agli oratori di Cesare, dava dell'animo suo non mediocre sospetto. Né dalla parte di Spagna corrispondeva la potenza alla volontà: perché, avendo le corti di Castiglia (cosí chiamano la congregazione de' deputati in nome di tutto il regno) negato a Cesare di sovvenirlo di quattrocentomila ducati, come sogliono fare ne' casi gravi del re, non avea potuto mandare danari all'esercito che era in Provenza, né fare da' confini suoi contro al re di Francia se non deboli movimenti e di pochissima riputazione. Onde i capitani cesarei, disperati di ottenere Marsiglia e temendo, come il re si accostava, non incorrere in gravissimo pericolo, levorno il campo da Marsilia, il medesimo dí nel quale il re, raccolti seimila svizzeri (la venuta de' quali aspettando avea tardato), si mosse d'Avignone con tutto l'esercito. Levato il campo da Marsilia, i capitani di Cesare voltorono subito la fronte a Italia, procedendo con grandissima celerità, perché conoscevano in quanto pericolo si ridurrebbono se nel paese inimico si fusse accostato loro o tutto o parte dell'esercito del re di Francia; e da altra parte il re, giudicando d'avere occasione molto opportuna di ricuperare il ducato di Milano per l'esercito potente che avea, perché sapeva essere deboli le cose degli inimici, e perché sperava andando per il cammino diritto dovere essere in Italia innanzi all'esercito che si partiva da Marsilia, deliberò seguitare quel beneficio che la fortuna gli porgeva; la qual cosa manifestò agli uomini suoi con queste parole: - Io ho stabilito di volere, senza indugio, passare in Italia personalmente; qualunque mi conforterà al contrario non solo non sarà udito da me ma mi farà cosa molto molesta. Attenda ciascuno a eseguire sollecitamente quel che gli sarà commesso, o che appartiene all'ufficio suo. Iddio, amatore della giustizia, e la insolenza e temerità degli inimici ci ha finalmente aperta la via di ricuperare quel che indebitamente ci era stato rapito. -
A queste parole corrispose e la costanza nella determinazione e la celerità dell'esecuzione. Mosse subito l'esercito, nel quale erano dumila lancie e ventimila fanti; fuggito il congresso della madre, che da Avignone veniva per confortarlo che non passando i monti amministrasse la guerra per capitani. Commesse a Renzo da Ceri che co' fanti che erano stati seco a Marsilia salisse in sull'armata e, o per non prestare l'orecchie a' ragionamenti della concordia o diffidando del pontefice, vietò che l'arcivescovo di Capua, mandato a lui per passare poi a Cesare, procedesse piú oltre, ma che o trattasse seco per lettere, aspettando in Avignone appresso alla madre, o ritornasse al pontefice. E se (come scrisse iattabondo in Italia, presupponendo forse, secondo l'uso di molti, le cose ragionate e disegnate per già fatte o eseguite) avesse col medesimo ardore fatto seguitare gli inimici che si partivano, sarebbe per avventura, con poco sangue e senza pericolo, rimasto vincitore di tutta la guerra. Ma essi disprezzando le molestie date da' paesani e seguitati da piccole forze del re, procedendo con grandissimo ordine per la riviera del mare si condussono a Monaco; ove rotte in molti pezzi l'artiglierie e caricatele in su' muli, per condurle piú facilmente, pervennero al Finale: nel qual luogo intesa la mossa del re, raddoppiorno, per essere a tempo a difendere il ducato di Milano, nel quale non erano rimaste forze sufficienti a resistere, quella celerità che prima aveano usata per salvarsi. Cosí, procedendo l'uno e l'altro esercito verso Italia, pervennono, in un dí medesimo, il re di Francia a Vercelli, il marchese di Pescara co' cavalli e co' fanti spagnuoli ad Alva; seguitando il duca di Borbone co' fanti tedeschi per intervallo di una giornata; il quale, non dando spazio di respirare a se stesso, andò il dí seguente da Alva a Voghiera, cammino di quaranta miglia, per andare il prossimo dí a Pavia; ove si congiunse col viceré, venuto da Alessandria, ove avea lasciato alla custodia duemila fanti, con grandissima prestezza, in tempo che già l'esercito del re cominciava a toccare le ripe del Teseno. Quivi consultando tra loro e con Ieronimo Morone delle cose comuni, ebbono il primo pensiero, lasciata sufficiente guardia in Pavia, di fermarsi come l'altre volte aveano fatto in Milano: però ordinorno che subito vi andasse il Morone per provedere alle cose necessarie, e che il duca di Milano, il quale aveano mandato a chiamare, lo seguitasse; essi, lasciato Antonio de Leva a Pavia con trecento uomini d'arme e circa cinquemila fanti, da pochi spagnuoli in fuori, tutti tedeschi, si mossono verso Milano.
Cap. x
Misere condizioni di Milano dopo la peste. Parole del Morone ai milanesi. I francesi sotto Milano, dove pongono un presidio per l'assedio del castello. Difficoltà di Cesare: contegno degli antichi confederati. Vano assalto del re di Francia a Pavia; vani tentativi di deviare le acque del Ticino; assedio della città.
Ma la città di Milano, afflitta dalla peste grandissima che l'avea vessata quella state, non pareva piú simile a se medesima: perché del popolo era morto numero grandissimo, di quegli che aveano fuggito tanto infortunio molti erano assenti, non ridotta dentro la copia delle vettovaglie consueta, difficili i modi del fare provedimenti di danari; de' ripari, non avendo alcuni atteso a conservargli, la maggiore parte per terra: e nondimeno, in tante difficoltà, sarebbe stata la antica prontezza degli uomini alle medesime fatiche e pericoli. Ma il Morone, conoscendo che il mettere l'esercito in Milano piú tosto partorirebbe la ruina di quello che la difesa della città, fatta altra deliberazione, fermatosi in mezzo della moltitudine, parlò cosí: - Noi possiamo oggi dire, né con minore molestia di animo, le parole medesime che nelle angustie sue disse il Salvatore: "lo spirito certamente è pronto, la carne inferma". Voi avete il medesimo ardore che avete avuto sempre di conservarvi per signore Francesco Sforza; a lui trafiggono, come sempre, il cuore i pericoli e le calamità del suo diletto popolo; egli è parato a mettere la vita propria per salvarvi, voi con non minore prontezza l'esporreste al presente che molte volte l'avete esposta per il passato. Ma alla volontà non corrispondono da parte alcuna le forze; perché per l'essere la città quasi vota d'abitatori, esserci strettezza di vettovaglie, mancamento di danari e i bastioni quasi per terra, non ci è modo di proibire che i franzesi non ci entrino. Duole al duca quanto la morte l'essere necessitato ad abbandonarvi, ma molto piú che la morte gli dorrebbe che il volervi difendere fusse cagione dell'ultimo eccidio vostro, come senza dubbio alcuno sarebbe. Ne' mali tanto gravi è tenuto prudente chi elegge il male minore, chi non si dispera tanto che abbandoni con una sola deliberazione tutte le sue speranze. Però il duca vi conforta a cedere alla necessità, che ubbidiate al re di Francia per riserbarvi a tempi migliori; i quali abbiamo grandissime cagioni di sperare che presto ritorneranno. Non abbandonerà il duca al presente se medesimo, non abbandonerà in futuro voi. La potenza di Cesare è grandissima, la fortuna inestimabile; la causa è giustissima, gli inimici sono quegli medesimi che tante volte sono stati vinti da noi. Risguarderà Iddio la pietà vostra verso il duca, la pietà del duca verso la patria; e dobbiamo tenere per certo che, permettendo ora a qualche buon fine quello a che ci costrigne la necessità presente, ci darà presto contro all'inimico superbissimo vittoria tale che felicemente con lunga pace ci ristoreremo da tante molestie. - Dopo le quali parole, avendo fatto mettere vettovaglie in castello, si uscí della città. Andava e il duca a Milano, non sapendo quel che avesse fatto il Morone; ma a fatica uscito di Pavia, scontrò Ferrando Castriota che guidava l'artiglieria, dal quale avvertito che una grande parte degli inimici avea passato il Tesino, e che avendo scontrato in sul fiume Zucchero borgognone co' suoi cavalli leggieri l'aveano rotto, temendo non trovare il cammino impedito, ritornò a Pavia. Nelle quali cose benché il duca e il Morone fussino proceduti sinceramente, nondimeno i capitani di Cesare, che erano coll'esercito a Binasco, insospettiti che occultamente non fussero convenuti col re di Francia, mandorno Alarcone con dugento lancie a Milano, per seguitarlo o no secondo gli avvisi ricevessino da lui. Alla giunta del quale, il popolo, che già concordava con alcuni fuorusciti che convenivano in nome del re, ripreso animo chiamò il nome di Cesare e di Francesco Sforza. Ma Alarcone, conoscendo essere vana la speranza del difendersi e presentito approssimarsi già l'avanguardia franzese, uscí per la porta Romana alla via di Lodi; ove eziandio si era voltato tutto l'esercito imperiale, nel tempo medesimo che gli inimici cominciavano a entrare per le porte Ticinese e Vercellina: i quali, se non si volgendo a Milano avessino atteso a seguitare l'esercito di Cesare, stracco per la lunghezza del cammino nel quale aveano perdute molte armi e cavalli, si crede per certo che con somma facilità l'arebbono dissipato; e se pure, poi che erano accostati a Milano, fussino andati subito verso Lodi, non arebbono avuto i capitani di Cesare ardire di fermarvisi; e forse, passando con celerità il fiume dell'Adda, arebbono con la medesima facilità messo in disordine grande le reliquie degli inimici. Ma il re, o parendogli forse di molta importanza lo stabilire alla sua divozione Milano, nella quale città gli era sempre stata fatta la resistenza principale, o non conoscendo l'occasione o movendolo altra cagione, non solamente si accostò a Milano, dove né entrò egli né volle che l'esercito entrasse, ma si fermò per mettervi il presidio necessario e ordinare l'assedio del castello, nel quale erano settecento fanti spagnuoli; avendo, con laude grande di modestia e benignità, proibito che a' milanesi non fusse fatta molestia alcuna.
Ordinate che ebbe le cose di Milano voltò l'esercito a Pavia, giudicando essere inutile alle cose sue lasciarsi dopo le spalle una città nella quale erano tanti soldati: e avea il re, secondo che era la fama, computati quegli che rimanevano a Milano, dumila lancie ottomila fanti tedeschi seimila svizzeri seimila venturieri quattromila italiani, i quali italiani dipoi molto si augumentorono. Nel qual tempo, de' capitani di Cesare, si era fermato il marchese di Pescara in Lodi con duemila fanti; e il viceré, lasciate guardate Alessandria, Como e Trezzo, si era ridotto a Sonzino, insieme con Francesco Sforza e con Carlo di Borbone; i quali, intra tante difficoltà e angustie ripreso alquanto d'animo per la andata del re a Pavia, e pensando al riordinarsi se la difesa di quella città dava loro tempo (perché altrimenti niuno rimedio conoscevano), mandorno in Alamagna a soldare seimila fanti; allo stipendio de' quali, e a altre spese necessarie, si provedeva con cinquantamila ducati che Cesare, perché nella guerra di Provenza si spendessino, a Genova mandati avea. Ma sopra tutte le cose disturbava i consigli loro la penuria di danari, non avendo facoltà di trarne del ducato di Milano, né sperando d'avere, per la impotenza sua, da Cesare altro provedimento che commissione che a Napoli si vendesse il piú si poteva dell'entrate del regno. Piccolo o forse niuno sussidio, o di soldati o di danari, speravano dagli antichi confederati; perché dal pontefice e dai fiorentini, richiesti di porgere danari, ottenevano parole generali: perché il papa, dopo la partita dell'ammiraglio di Italia deliberato al tutto di non si mescolare nelle guerre tra Cesare e il re di Francia, non aveva mai voluto rinnovare la confederazione fatta coll'antecessore né fare lega nuova con alcun principe; anzi, benché si dimostrasse inclinato a Cesare e al re di Inghilterra, aveva occultamente prima promesso al re di Francia di non se gli opporre quando assaltasse il ducato di Milano; e i viniziani, ricercati dal viceré che ordinassino le genti alle quali erano tenuti per i capitoli della lega, benché non negassino rispondevano freddamente, come quegli che aveano nell'animo di accomodare i consigli a' progressi delle cose, o perché appresso a molti di loro risorgesse la memoria della congiunzione antica col re di Francia, o perché credessino egli passato in Italia con tante forze contro a inimici imparatissimi dovere essere vittorioso, o perché piú che il solito avessino a sospetto la ambizione di Cesare, conciossiaché, con ammirazione e quasi querela di tutta Italia, non avesse investito Francesco Sforza del ducato di Milano. Movevagli oltre a questo l'autorità del pontefice, i cui consigli ed esempio in questo tempo non mediocremente risguardavano.
Ma il re di Francia, accostatosi a Pavia dalla parte di sopra, tra il fiume del Tesino e la strada per la quale si va a Milano, fermata la vanguardia nel borgo di Santo Antonio di là dal Tesino, in sulla strada che conduce a Genova, egli alloggiato alla abbazia di San Lanfranco lontana un miglio dalle mura, batté con l'artiglierie da due parti due dí le mura, e dipoi con l'esercito ordinato cominciò a dare la battaglia; ma apparendo la terra dentro essere bene riparata e dimostrandosi gli inimici molto valorosi a difendersi, e per contrario vedendosi ne' suoi manifesti segni di temenza e già essendone stati ammazzati molti, dette il segno di ritirarsi; e comprendendo quanto fusse difficile l'espugnare una città, difesa da tanti uomini di guerra, coll'impeto delle battaglie, si voltò a opere di trincee e di cavalieri con grandissimo numero di guastatori, intento a tagliare i fianchi perché i soldati piú sicuramente vi si accostassino. A questa opera che si dimostrava lunga e difficile aggiunse il fare le mine, per pigliarla, se altrimenti non gli riuscisse, a palmo a palmo; e ultimatamente, facendolo molto diffidare la virtú e il numero de' difensori, avuto il consiglio di molti ingegnieri e periti del corso del fiume, il quale due miglia sopra a Pavia si divide in due corni, e poi un miglio di sotto, innanzi che entri nel Po, si ricongiugne, deliberò di divertire il ramo che passa allato a Pavia nel ramo minore detto il Gravalone, sperando dovergli poi essere facile spugnarla da quella parte donde il muro, per la sicurtà che dava la profondità dell'acque, niuno riparo aveva. Nella quale opera, tentata con moltitudine quasi innumerabile d'uomini e con grandissima spesa, né senza timore di quegli di dentro, consumò molti dí; ora rovinando l'impeto dell'acqua, la quale per le pioggie immoderate grossissima era divenuta, gli argini, che nel letto dove il fiume si divide si lavoravano per sforzarlo a volgersi nel ramo minore, ora sperando il re di superare con la possanza degli uomini e de' danari la violenza del fiume. Finalmente l'esperienza dimostrò quel che quasi sempre apparisce che piú può la rapidità del fiume che la fatica degli uomini o la industria de' periti. Però il re, privato della speranza, della forza e delle opere, determinò di perseverare nell'assedio, colla lunghezza del quale sperava ridurre quegli di dentro in necessità di arrendersi.
Cap. xi
Nuovi e inutili tentativi di concordia del pontefice: suoi accordi col re di Francia; nuove angustie e difficoltà di Cesare.
Ma mentre che queste cose si fanno e si preparano, il pontefice, poi che ebbe inteso il re avere occupato Milano, commosso dal principio tanto prospero e perciò desideroso di assicurare le cose proprie, mandò a lui Gianmatteo Giberto vescovo di Verona suo datario, uomo a sé confidentissimo ma né anche ingrato al re. Commessegli che prima andasse a Sonzino a confortare il viceré e gli altri capitani alla concordia, dimostrando dovere andare al re di Francia per la medesima cagione; i quali, già cresciuti di speranza per la resistenza di Pavia, gli risposono ferocemente non volere prestare orecchie ad alcuna composizione per la quale il re avesse a ritenere un palmo di terra nel ducato di Milano. Simile e forse piú dura disposizione trovò nel re di Francia, enfiato per la grandezza dell'esercito e per la facoltà non solamente di sostentarlo ma di accrescerlo; col quale fondamento principalmente affermava essere passato in Italia e non per la speranza sola d'avere a prevenire gli inimici, benché dicesse e questo essergli in buona parte succeduto. Sperare al certo di ottenere Pavia, la quale tuttavia continuava di battere aspramente, per l'opere faceva intorno alle mura; alle quali confidava che gli inimici, avendo, come si comprendeva per la infrequenza del tirare, mancamento di munizioni, non potrebbono resistere, e per la derivazione che ancora non era disperata del Tesino e per la carestia del pane che era dentro; né stimare premio degno di tante fatiche e di spesa cosí immoderata la ricuperazione sola del ducato di Milano e di Genova, ma pensare non meno ad assaltare il regno di Napoli.
Trattossi dipoi tra loro, e con piccola difficoltà se gli dette la perfezione, la cagione principale per la quale il datario era stato mandato; perché il pontefice s'obligò a non dare aiuto manifesto o occulto contro al re e che il medesimo farebbono i fiorentini, e il re ricevette in protezione il pontefice e i fiorentini, inserendovi specialmente l'autorità che avea in Firenze la famiglia de' Medici: la quale concordia convennono non si publicasse se non quando paresse al pontefice; e nondimeno, ancora che non pervenisse allora alla notizia de' capitani di Cesare, cresceva in essi continuamente il sospetto conceputo di lui. Però, per certificarsi al tutto della sua mente, mandorno a lui Marino abate di Nagera commissario del campo, a proporgli insieme speranza e timore: perché da una parte gli offerivano cose grandissime, dall'altra gli dimostravano che, essendo Cesare e il re venuti all'ultima contenzione, non poteva Cesare altro che riputare che fusse stato contro a sé chiunque non fusse stato con lui. Ma il pontefice rispondeva, niuna cosa meno convenire a sé che il partire dalla neutralità nelle guerre tra príncipi cristiani, perché cosí richiedeva lo ufficio pastorale e perché potrebbe con maggiore autorità trattare la pace: per la quale, nel tempo medesimo, procurava con Cesare; a cui, avuta licenza dalla madre del re di passare da Lione in Spagna, dopo l'acquisto di Milano, pervenne l'arcivescovo di Capua, e scusato che ebbe con le medesime ragioni il pontefice del non avere voluto rinnovare la lega, come Cesare, intesa la andata del re verso Italia aveva instantemente dimandato, lo confortò efficacemente in suo nome che o con la tregua o con la pace si deponessino l'armi. Inclinavano l'animo suo alla concordia le difficoltà nelle quali vedeva essere ridotto: non avere modo di fare in Ispagna provedimento alcuno di danari per le cose di Italia, la prosperità che si dimostrava del re di Francia, il sospetto che il re di Inghilterra non fusse occultamente convenuto con l'inimico; perché quel re non solamente ricusava che cinquantamila ducati, i quali finalmente aveva proveduti a Roma per la guerra di Provenza, si mandassino all'esercito di Lombardia, ma (quel che causava sospetto maggiore) dimandava a Cesare, costituito in tante necessità, che gli restituisse i danari prestati e che gli pagasse tutti quegli a' quali era tenuto: perché Cesare, insino quando passò in Ispagna, cupidissimo della sua congiunzione, per rimuovere tutte le difficoltà che lo potevano tenere sospeso, si obligò a pagargli la pensione che ciascuno anno gli dava il re di Francia e ventimila ducati per le pensioni che il medesimo re pagava al cardinale eboracense e ad alcuni altri, e trentamila ducati che per il doario si pagavano alla reina bianca, stata moglie del re Luigi; delle quali promesse non avea insino a quel dí pagata cosa alcuna. E nondimeno Cesare, con tutto che alla afflizione dell'animo si aggiugnesse la infermità del corpo, perché il dolore conceputo quando cominciorno ad apparire le difficoltà della spugnazione di Marsilia gli avea generata la quartana, o perché la mente sua indisposta a cedere all'inimico non si piegasse naturalmente per alcune difficoltà o perché confidasse nella virtú del suo esercito, se si conducessino mai a fare giornata con gli inimici, o promettendosi dovere essere per l'avvenire favorito non meno immoderatamente dalla fortuna che per il passato stato fusse, rispondeva non essere secondo la degnità sua fare alcuna convenzione mentre che il re di Francia vessava coll'armi il ducato di Milano.
Cap. xii
Disegni e preparativi del re di Francia per la spedizione contro il reame di Napoli: obiezioni del pontefice. I preparativi sospesi e ripresi; proposte del pontefice al viceré. Discussione nel consiglio dell'esercito di Cesare. Risposta del viceré al pontefice. Breve del pontefice a Cesare; risposta dell'oratore pontificio alle querele di Cesare.
Avea in questo mezzo deliberato il re di Francia di assaltare il reame di Napoli, sperando o che il viceré, mosso dal pericolo perché non vi era rimasto presidio alcuno, abbandonerebbe, per andare a difenderlo, lo stato di Milano, o almeno cederebbe a deporre l'armi con inique condizioni; il che il re, mosso dalle difficoltà di ottenere Pavia cominciava a desiderare. Destinò che a questa guerra andasse Giovanni Stuardo duca d'Albania, del sangue de' re di Scozia, con dugento lancie [secento] cavalli leggieri e quattromila fanti che si levassino dall'esercito, la metà italiani quattrocento svizzeri e gli altri tedeschi; e che, per unirsi a lui, Renzo da Ceri scendesse a Livorno co' fanti destinati per l'armata, la quale ritardata dalle difficoltà de' provedimenti necessari dimorava ancora nel porto di Villafranca; e che Renzo medesimo e gli altri Orsini soldassino nel paese di Roma [quattro]mila fanti: la quale deliberazione fece, per Alberto conte di Carpi oratore suo, nota al pontefice, ricercandolo che permettesse che a Roma si soldassino i fanti e consentisse che l'esercito passasse per lo stato della Chiesa. Grave era questa dimanda al pontefice, a cui sarebbe stato molestissimo che al re di Francia pervenisse oltre al ducato di Milano il regno di Napoli, ma, non avendo ardire apertamente di negarla, confortava il re che per allora non facesse questa impresa, né mettesse lui in necessità di non gli concedere quello che per giusti rispetti non poteva consentire; dimostrandogli con prudente discorso questo pensiero essere contro alla propria utilità: perché se la cupidità di ricuperare il ducato di Milano gli avea per il passato concitati tanti inimici, che farebbe ora il vedersi che aspirasse anche al regno di Napoli? che maraviglia sarebbe se questo movesse i viniziani a prendere la guerra per Cesare, trapassando ancora gli oblighi della loro confederazione? Considerasse che, se per disavventura si difficultassino i progressi suoi in Lombardia, con che riputazione potrebbono procedere nel regno di Napoli, e che la declinazione in qualunque di questi luoghi partorirebbe la caduta nell'altro; e che in ultimo si ricordasse d'averlo commendato di essersi ritirato all'ufficio del pontefice, però non convenire che ora lo astrignesse a fare il contrario. Ma invano si dicevano queste cose, perché il duca, non aspettata la risposta, avea, come certo della concessione del pontefice, passato il Po al passo della Stellata che è nello stato di Milano: benché il quinto dí poi ritornò indietro, perché il re, avendo notizia che già cominciavano ad arrivare agli inimici i fanti tedeschi e che il duca di Borbone era andato nella Alamagna per muoverne maggiore quantità, volle serbarsi intero l'esercito insino non venisse nuovo supplemento di svizzeri e grigioni, i quali avea mandati a soldare.
Nel quale tempo procedevano le cose di ciascuna delle parti quasi oziosamente. Il re continuava l'assedio di Pavia, non intermettendo i lavori delle trincee e il molestarla con l'artiglierie; gli imperiali, aspettando il ritorno di Borbone, si riposavano: eccetto che il marchese di Pescara, nella providenza e ardire del quale la maggiore parte de' consigli ma certamente tutte l'esecuzioni si riposavano, uscito una notte di Lodi con dugento cavalli e dumila fanti, entrato all'improviso nella terra di Melzi, guardata negligentemente da Ieronimo e da Gianfermo da Triulzi con dugento cavalli, fece prigioni i capitani con la maggiore parte de' soldati; de' quali Ieronimo, poco poi, morí di una ferita ricevuta nel combattere. Arrivorno dipoi all'esercito del re i svizzeri e grigioni; alla venuta de' quali il duca di Albania, mosso di nuovo, passò il Po alla Stradella del piacentino.
Dalla quale inclinazione non potendo il pontefice divertire il re, né forse, per non lo insospettire, non ne facendo molta instanza, gli parve tempo opportuno a manifestare agli imperiali le convenzioni fatte prima con lui e a rinnovare la menzione della concordia; alla quale, per la difficoltà dell'ottenere Pavia e per il pericolo del regno di Napoli, sperava dovere trovare minore durezza in ciascuna delle parti. A' quali effetti mandò Paolo Vettori, capitano delle sue galee, a significare al viceré: non avere mai potuto, benché n'avesse fatto grandissima diligenza, rimuovere il re dalla deliberazione di assaltare il reame di Napoli; né potere, per non trasferire la guerra in sé (alla quale non potrebbe resistere) vietargli il passo, anzi essere necessitato ad assicurarsi con nuove convenzioni da lui; nelle quali non consentirebbe mai condizione alcuna nociva a Cesare, a cui conoscere niuna cosa essere piú utile, in tante difficoltà, che la pace; la quale perché si potesse trattare innanzi che i disordini piú oltre procedessino, confortare il viceré a consentire che l'armi si sospendessino; deponendo (perché altrimenti il re non vi condiscenderebbe) in mano di persona non sospetta quel che in nome di Cesare e del duca si teneva ancora nel ducato di Milano. Sperare che, fatto questo, si converrebbe in qualche modo onesto della pace: per la quale proponeva che il ducato di Milano, separandosi in tutto dalla corona di Francia, fusse con l'investitura di Cesare (il quale in ricompenso ne ricevesse somma conveniente di pecunia) conceduto al secondogenito del re; che con onesto modo si provedesse al duca di Milano e al duca di Borbone; e che il pontefice i viniziani e i fiorentini si obligassino a unirsi con Cesare contro al re, in caso non osservasse le cose promesse.
Conoscevano i capitani di Cesare la grandezza delle difficoltà e de' pericoli, avendo in un tempo medesimo a sostenere in tanta penuria di danari la guerra in Lombardia e a pensare al regno di Napoli, abbandonati manifestamente da' sussidi del pontefice e de' fiorentini, e già certi che i viniziani farebbono il medesimo; i quali, se bene soldando nuovi fanti si ingegnassino dare speranza di volere osservare la lega, differivano con varie scuse l'esecuzione. Però il viceré, non alieno con l'animo dalla concordia, inclinava per la sicurtà del regno di Napoli a ritirarvisi con l'esercito. Ma prevalse nel consiglio il parere del marchese di Pescara; il quale, procedendo parimente con audacia e con prudenza, dimostrò essere necessario, dispregiati gli altri pericoli, fermarsi alla guerra di Lombardia, dalla vittoria della quale tutte l'altre cose dipendevano. Non essere destinate tali forze ad assaltare il regno di Napoli, né potere con tal celerità condursi là, ove erano molte terre forti, e la resistenza di coloro la salute de' quali consisteva nel difenderlo, che almeno non si dovesse per piú e piú mesi sostenere; nel qual tempo verisimilmente si imporrebbe alla guerra di Milano l'ultima mano: se con vittoria, chi dubitava che vincendo libererebbono subito il reame di Napoli, quando bene per Cesare non si tenesse altro che una torre sola? Stando fermi in Lombardia potere essere vincessino a Milano e a Napoli, andando a Napoli si perdeva al certo Milano né si liberava il regno dal pericolo, ove incontinente tutta la guerra si trasferirebbe: e con quale speranza, ritornandovi come vinti? donde con tanta riputazione vi entrerebbono gli inimici, tanta sarebbe l'inclinazione de' popoli (che per natura per odio per paura si fanno incontro alla fortuna del vincitore), che non piú si difenderebbe il regno di Napoli che il ducato di Milano. Né muovere altro il re di Francia, dubbio ancora de' successi di Lombardia, a dividere l'esercito, a cominciare una guerra nuova mentre pendeva la prima, che la speranza che per troppa sollecitudine del regno di Napoli gli lasciassino in preda tutto lo stato di Milano: per i cui consigli deliberarsi, per i cui cenni muoversi l'esercito tante volte vincitore, che essere altro che con eterna infamia concedere alle minaccie de' vinti quella gloria che tante volte contro a loro s'aveano con l'armi acquistata? La quale sentenza seguitando finalmente il viceré mandò a Napoli il duca di Traietto, con ordine che, raccolti piú danari che si potesse, Ascanio Colonna e gli altri baroni del regno attendessino a difenderlo; e ancora che alla imbasciata fattagli in nome del pontefice avesse risposto modestamente scrisse con molta acerbità a Roma, ricusando volere udire ragionamento alcuno di concordia donde il pontefice, mostrando essere menato dalla necessità, perché il duca di Albania continuamente andava innanzi, publicò, non come cosa fatta prima, essere convenuto col re di Francia con una semplice promessa di non offendere l'uno l'altro: il che significò eziandio per uno breve agli atti di Cesare, allegando le cagioni e specialmente la necessità che l'avea indotto. Il quale breve presentato da Giovanni Corsi oratore fiorentino e aggiunte quelle parole che convenivano a tale materia, Cesare, il quale prima dimostrava non si potere persuadere che il pontefice in tanto pericolo l'abbandonasse, commosso molto di animo, rispose che né odio né ambizione né alcuna privata cupidità l'avea indotto a pigliare da principio la guerra contro al re di Francia, ma le persuasioni e l'autorità del pontefice Leone, confortato a questo (come si diceva) dal presente pontefice che allora era il cardinale de' Medici, dimostrandogli importare molto alla salute publica che quel re non possedesse cosa alcuna in Italia: il medesimo cardinale essere stato autore della confederazione che, innanzi alla morte di Adriano pontefice, si fece per la medesima cagione. Però essergli sommamente molesto che colui che sopra tutti gli altri era tenuto a non si separare da lui, ne' pericoli ne' quali era stato autore che entrasse, avesse fatto una mutazione che tanto gli noceva, e senza alcuna necessità: perché a che si potere attribuire altro che a soperchio timore, mentre che Pavia si difendeva? Ricordò quel che avea sempre, dopo la morte di Lione e specialmente in due conclavi, operato per la sua grandezza, e il desiderio che avea avuto che e' fusse assunto al pontificato, per mezzo del quale avea creduto s'avesse a stabilire la libertà e il bene comune d'Italia; né si persuadere che al pontefice fusse uscito della memoria la poca fede del re di Francia, né quel che dalla sua vittoria potesse o temere o sperare. Conchiuse che né per la deliberazione del pontefice, benché indebita e inaspettata, né per qualunque altro accidente abbandonerebbe se medesimo, né confidasse alcuno che per mancamento di danari avesse a mutare sentenza, perché metterebbe prima a ogni pericolo tutti i regni e la vita propria: ed essere tanto fisso in questo che supplicava Iddio non fusse cagione della dannazione della sua anima. Alle quali querele replicava l'oratore fiorentino: il papa, poi che fu eletto alla suprema degnità, essere stato obligato a procedere non piú come cardinale de' Medici ma come pontefice romano, l'ufficio del quale era pensare e affaticarsi per la pace de' cristiani; perciò non avere mai ricordato altro che la necessità che se n'avea, scrittone sí spesso a lui e mandatogli l'arcivescovo di Capua due volte, e protestato che il debito suo era non aderire ad alcuno; avere ricordato il medesimo quando l'ammiraglio partí di Italia, non si potendo in tempo alcuno trattare con maggiore onore per lui: né avere riportata altra risposta che non si potere fare senza consentimento del re di Inghilterra. Ricordassesi Cesare quanto il pontefice avesse dissuaso il passare nella Provenza, perché si turbava in tutto la speranza della pace e perché, come indovino delle cose che erano succedute, avea predetto che la necessità che si poneva al re di Francia di armarsi potrebbe essere occasione di suscitare incendio in Italia di maggiori pericoli. Avere per il vescovo di Verona confortato il re, già possessore di Milano, e il viceré, alla concordia; ma in niuno avere trovato inclinazione alla pace. Avere dipoi negato, con molte ragioni e con grandissima efficacia, di consentire il passo per lo stato della Chiesa alle genti che andavano contro al regno di Napoli; ma il re non solo essere stato sordo alle parole sue ma, non aspettata la sua risposta, averle già fatte passare nel piacentino. Perciò avere ultimamente mandato Paolo Vettori a confortare il viceré alla sospensione dell'armi, proponendogli le condizioni conformi al tempo; e a certificarlo della necessità che avea di assicurarsi dal pericolo imminente, vedendo massime stare sospesi i viniziani, e il re di Inghilterra alieno dal concorrere alla difesa del ducato di Milano se, nel tempo medesimo, per Cesare e per lui non si muoveva la guerra di là da' monti: ma vedendo il viceré ricusare tutti i modi proposti e le genti del re procedere sempre innanzi, era stato costretto pigliare la fede e sicurtà da lui, non si obligando ad altro che a non l'offendere. Lamentavasi Cesare, la condizione proposta al viceré essere stata molto dura: aversi a dipositare dalla sua parte quello si teneva, senza fare menzione che dal re di Francia si facesse il medesimo. E finalmente, ancora che il marchese di Pescara, confortandolo alla concordia, gli avesse significato essere nel campo molti disordini e le cose in gravissimo pericolo, nondimeno non piegava l'animo alla pace, sperando per il valore de' suoi soldati la vittoria se gli eserciti si conducessino l'un contr'all'altro a combattere.
Cap. xiii
Invio di munizioni del duca di Ferrara al re di Francia; il duca di Albania, capo della spedizione contro il reame di Napoli, presso Lucca. Fazione di Varagine. Il duca di Albania a Siena: riordinamento del governo della città. Fanti assoldati in Roma e dal duca e dai Colonnesi suoi avversari.
Perseverava in questo tempo l'assedio di Pavia, benché cessato alquanto per mancamento di munizioni il molestarla con l'artiglierie. Alla quale difficoltà il re per provedere era stato contento che il duca di Ferrara, ricevuto nuovamente da lui in protezione, con obligo di pagargli in pecunia numerata settantamila ducati, ne convertisse ventimila in valore di tante munizioni; le quali si conducevano per il parmigiano e piacentino, con animali e carra de' paesani prestate per commissione del pontefice: non senza grave querela del viceré, come se questo fusse prestare espressamente aiuto al re di Francia. Le quali perché sicuramente si conducessino avea mandato a incontrarle, con dugento cavalli e mille cinquecento fanti, Giovanni de' Medici: il quale, nel principio della guerra, querelandosi di essere veduto con malo occhio dal viceré né gli essere dati tanti danari che bastassino a muovere i soldati, era dagli stipendi di Cesare passato agli stipendi del re. E pareva che ad assicurare le munizioni bastasse questo presidio, per la propinquità del duca di Albania il quale nel tempo medesimo avea passato il Po; ma il viceré e il marchese di Pescara per impedirle, gittato il ponte presso a Cremona, passorno il Po con secento uomini d'arme e ottomila fanti, alloggiando a Monticelli il primo dí: nondimeno, ritornorno presto di là dal fiume, avendo sentito che il re per opporsi loro mandava Tommaso di Fois con una parte dello esercito. Dopo la partita de' quali il duca di Albania passò, per il territorio di Reggio e la Carfagnana, l'Apennino; ma procedendo con lentezza tale che confermava l'opinione che il re, piú per indurre con questo timore i capitani di Cesare o a concordia o ad abbandonare le cose di Lombardia che per speranza di fare progressi, tentasse questa impresa. Unissi con lui presso a Lucca Renzo da Ceri con [tre]mila fanti venuti in sulla armata, alla quale nel passare si era arrenduta Savona e Varagine; e ritornata l'armata nella riviera occidentale di Genova teneva in sospetto quella città.
Séguita l'anno mille cinquecento venticinque. Nel principio del quale don Ugo di Moncada, partito da Genova con l'armata, scese in terra con tremila fanti a Varagine, dove erano a guardia alcuni fanti de' franzesi; ma venendovi al soccorso l'armata franzese, della quale era capitano il marchese di Saluzzo, l'armata inimica essendo restata senza fanti si ritirò, però i fanti franzesi, scesi in terra, assaltati gli inimici e mortine molti, gli roppono, e presono don Ugo.
Nel principio dell'anno medesimo, il duca di Albania astrinse i lucchesi a pagargli dodicimila ducati e a prestargli certi pezzi di artiglierie; e dipoi proceduto piú innanzi per il dominio de' fiorentini, da' quali fu raccolto come amico, si fermò con lo esercito appresso a Siena: pregato a questo dal pontefice, il quale, poi che né con l'autorità né con le armi poteva ovviare a quel che gli era molesto, si sforzava di condurre i suoi disegni con l'arte e con la industria. Non dispiaceva al pontefice che il re di Francia conseguisse il ducato di Milano, parendogli che, mentre stavano in Italia Cesare e il re, che la sedia apostolica e il suo pontificato fussino sicuri dalla grandezza di ciascuno di loro. Questa medesima ragione causava che gli fusse molesto che il re di Francia acquistasse il regno di Napoli, acciò che in mano di uno principe tanto potente non fusse in uno tempo medesimo quello reame e il ducato di Milano: però, cercando occasione di differire l'andata del duca di Albania, fece instanza col re che nel transito riordinasse il governo di Siena; il quale il pontefice, essendo quella città situata in mezzo tra Roma e Firenze, desiderava sommamente che fusse in mano degli amici suoi, come per opera sua era stato pochi mesi innanzi. Perché essendo, nel pontificato di Adriano morto il cardinale Petruccio e pretendendo alla successione sua nel governo Francesco suo nipote, se gli opposono per la sua insolenza i principali del Monte de' nove, con tutto che fussero della medesima fazione; facendo instanza col duca di Sessa, oratore cesareo, e col cardinale de' Medici che fusse data altra forma al governo, o riducendola a libertà o volgendo quella autorità a Fabio figliuolo di Pandolfo Petrucci, benché non molto innanzi si fusse occultamente fuggito da Napoli: la quale cosa, ventilata lungamente, fu finalmente, come Clemente fu assunto al pontificato, per consentimento comune suo e di Cesare, restituito Fabio nel luogo paterno. Ma non avendo l'autorità che aveva avuta il padre, la città quasi tutta inclinata alla libertà, quegli del Monte de' nove non molto uniti con lui né molto concordi tra loro, la debolezza che ha la potenza di uno quando non è fondata in sulla benivolenza de' cittadini né si regge totalmente e senza rispetti a uso di tiranno, partorí (non ostante che alla piazza fusse la guardia dependente da lui) che suscitato uno giorno per opera de' suoi avversari, senza aiuto alcuno de' forestieri, tumulto popolare, fu con piccola difficoltà cacciato della città; donde il pontefice, il quale non confidava né nella moltitudine né in altra fazione, deliberò ridurre in loro l'autorità, per costituirne poi capo o Fabio o chi altri di loro gli paresse: cosa che agli imperiali (come il sospetto cominciato fa che tutte le cose si ripigliano in mala parte) accrebbe l'opinione che la capitolazione tra il pontefice e il re di Francia contenesse da ogni parte maggiori effetti e obligazioni che di neutralità. Dal fermarsi il duca d'Albania intorno a Siena procedette che i sanesi, per liberarsi dalle molestie dell'esercito, dettono amplissima autorità a quegli cittadini che erano confidenti al pontefice sopra l'ordinazione del governo: la qual cosa come fu fatta, ricevute da' sanesi artiglierie e certa quantità di danari, passò piú oltre, ma procedendo colla consueta tardità. Andò da Montefiascone a Roma a parlare al pontefice, e di poi passato il Tevere a Fiano si fermò nelle terre degli Orsini, dove si raccoglievano i fanti che si soldavano in Roma con permissione del pontefice; il quale permetteva medesimamente che i Colonnesi, i quali per la difesa del regno di Napoli facevano la massa a Marino, soldassino in Roma fanti. Ma per la tardità del procedere, e perché da ogni parte apparivano pochissimi danari, era questo movimento in piccolissimo concetto: gli occhi l'orecchie gli animi degli uomini erano tutti attenti alle cose di Lombardia; le quali cominciando ad affrettarsi al fine, accrescevano per vari accidenti a ciascuna delle parti ora la speranza ora il timore.
Cap. xiv
Difficoltà degli assediati in Pavia; risposta dei veneziani all'oratore di Cesare. Scarsezza di danari nell'esercito di Cesare. Milizie cesaree in marcia verso Pavia. Diversità di pareri nel consiglio del re di Francia. Il re delibera di perseverare nell'assedio della città; nuove disposizioni delle forze assedianti. Le forze del re di Francia. Gli imperiali prendono il castello di Sant'Angelo. Casi sfortunati per i francesi. Perché i grigioni richiamano gli uomini propri soldati dal re. Appoggio del re d'Inghilterra a Cesare.
Erano gli assediati in Pavia angustiati dalla carestia de' danari, aveano strettezza di munizioni per l'artiglierie, cominciava a mancare il vino e, dal pane in fuori, tutte l'altre vettovaglie; onde i fanti tedeschi già quasi tumultuosamente dimandavano danari, concitati dal capitano loro, oltre a quello che per se stessi faceano: del quale si temeva che secretamente non fusse convenuto col re di Francia. Da altra parte il viceré, avvicinandosi il duca di Borbone, il quale conduceva dell'Alamagna cinquecento cavalli borgognoni e seimila fanti tedeschi, soldati co' danari del re de' romani, era andato a Lodi, ove pensavano raccorre tutto l'esercito; riputando dovere avere esercito non inferiore agli inimici. Ma per muovere i soldati e per sostentargli non aveano né danari né facoltà alcuna di provederne, degli aiuti del pontefice e de' fiorentini erano del tutto disperati, medesimamente di quegli de' viniziani. I quali, dopo aver interposto varie scuse e dilazioni, aveano finalmente risposto al protonotario Caracciolo, oratore di Cesare appresso a loro, volere procedere secondo che procedesse il pontefice, per mezzo del quale si credeva che secretamente avessino convenuto col re di Francia di stare neutrali; anzi confortavano occultamente il pontefice a fare scendere in Italia agli stipendi comuni diecimila svizzeri, per non avere a temere della vittoria di ciascuno de' due eserciti: cosa approvata da lui, ma per carestia di danari e per sua natura, eseguita tanto lentamente che molto tardi mandò in Elvezia il vescovo di Veroli a preparare gli animi loro.
Sollevò alquanto le difficoltà di Pavia la industria del viceré e degli altri capitani: perché mandati nel campo franzese alcuni a vendere vino, Antonio de Leva, avuto il segno, mandò a scaramucciare da quella parte; donde levato il romore, i venditori, rotto il vaso grande, corsono in Pavia con uno piccolo vasetto messo in quello, nel quale erano rinchiusi tremila ducati: per la quale piccola somma fatti capaci, i tedeschi della difficoltà del mandargli, stettono in futuro piú pazienti. E levò anche il fomento de' tumulti la morte del capitano, proceduta in tempo tanto opportuno che si credette fusse stato, per opera di Antonio de Leva, morto di veleno. Nel qual tempo, o poco prima, il marchese di Pescara, andato a campo a Casciano, alla custodia della qual terra erano cinquanta cavalli e quattrocento fanti italiani, gli costrinse ad arrendersi senza alcuna condizione. Ma essendo venuto co' soldati tedeschi il duca di Borbone, niuna altra cosa ritardava i capitani, ansii del pericolo di Pavia, che il mancamento tanto grande di danari che non solamente non potevano pensare agli stipendi dell'esercito ma aveano difficoltà de' danari necessari a condurre le munizioni e l'artiglierie: nella quale necessità, proponendo a' fanti la gloria e le ricchezze che perverrebbono loro della vittoria, riducendo in memoria quel che vincitori aveano conseguito per il passato, accendendogli con gli stimoli dell'odio contro a' franzesi, indussono i fanti spagnuoli a promettere di seguitare un mese intero l'esercito senza ricevere danari, e i tedeschi a contentarsi di tanti che bastassino a comperare le vettovaglie necessarie. Maggiore difficoltà era negli uomini d'arme e ne' cavalli leggieri alloggiati per le terre del cremonese e della Ghiaradadda; perché non avendo, già molto tempo, ricevuti danari allegavano non potere, seguitando l'esercito ove sarebbe necessario comperare tutte le vettovaglie, sostentare sé e i cavalli. Lamentavansi essere meno grata e meno stimata l'opera loro che quella de' fanti, ne' quali era stata, pur qualche volta, distribuita alcuna quantità di danari, in essi, già tanto tempo, niuna; e nondimeno non essere inferiori né di virtú né di fede, ma molto superiori di nobiltà e di meriti passati. Mitigò, gli animi di costoro il marchese di Pescara, andato a' loro alloggiamenti; ora scusando ora consolandogli ora riprendendogli: che quanto erano di virtú piú chiari, quanto piú era manifesto il loro valore, tanto piú si doveano sforzare di non essere superati da' fanti né di fede né di affezione verso Cesare, di cui si trattava non solamente l'onore e la gloria ma di tutti gli stati che aveva in Italia: la cui grandezza quanto amassino, a cui quanto desiderassino servire, non dovere mai avere maggiore occasione di dimostrarlo; e se tante volte aveano per Cesare esposta la vita propria, che vergogna essere, che cosa nuova, che ora recusassino mettere per lui vile quantità di pecunia? Dalle quali persuasioni e dalla autorità del marchese mossi, consentirono di ricevere per un mese quasi minima quantità di danari. Cosí raccolto tutto l'esercito, nel quale si diceano essere settecento uomini d'arme, pari numero di cavalli leggieri, mille fanti italiani e piú di sedicimila tra spagnuoli e tedeschi, partiti da Lodi il vigesimo quinto dí di gennaio, andorno il dí medesimo a Marignano; dimostrando volere andare verso Milano, o perché il re mosso dal pericolo di quella città si levasse da Pavia o per dare causa di partirsi da Milano a' soldati che vi erano alla custodia: nondimeno, passato poi appresso a Vidigolfo il fiume del Lambro, si dirizzorno manifestamente verso Pavia.
Pagava il re nell'esercito [mille trecento] lancie diecimila svizzeri quattromila tedeschi cinquemila franzesi e settemila italiani, benché, per le fraudi de' capitani e per la negligenza de' suoi ministri, il numero de' fanti era molto minore. Alla guardia di Milano era Teodoro da Triulzi con [trecento] lancie semila fanti tra grigioni e vallesi e tremila franzesi; ma quando gli imperiali si voltorno verso Pavia richiamò, da duemila in fuori, tutti i fanti all'esercito. All'uscita degli imperiali alla campagna, si disputava nel consiglio del re quello che fusse da fare; e... della Tramoglia,... della Palissa, Tommaso di Fois e molti altri capitani confortavano che il re si levasse coll'esercito dall'assedio di Pavia, e si fermasse o al monasterio della Certosa o a Binasco, alloggiamenti forti (come ne sono spessi nel paese) per i canali dell'acque derivate per annaffiare i prati. Dimostravano che in questo modo si otterrebbe presto, e senza sangue e senza pericolo, la vittoria; perché l'esercito inimico, non avendo danari, non poteva sostentarsi insieme molti dí ma era necessitato o a dissolversi o a ridursi ad alloggiare sparso per le terre: che i tedeschi che erano in Pavia, i quali, per non essere imputati di coprire la timidità con la scusa del non essere pagati, sopportavano pazientemente, creditori già dello stipendio di molti mesi, subito che e' fusse levato l'assedio dimanderebbono il pagamento; al quale non avendo i capitani modo di provedere né speranza apparente colla quale gli potessino, benché vanamente, nutrire, conciterebbono qualche pericoloso tumulto: non conservarsi insieme gli inimici con altro che colla speranza di fare presto la giornata; i quali, come vedessino allungarsi la guerra e discostarsi l'opportunità del combattere, si empierebbono di difficoltà e di confusione. Dimostravano quanto fusse pericoloso stare con l'esercito in mezzo di una città, nella quale erano cinquemila fanti di nazione bellicosissima, e di uno esercito che veniva per soccorrerla, potente e di numero d'uomini e di virtú e di esperienza di capitani e di soldati, e feroce per le vittorie ottenute per il passato, e il quale avea collocato tutte le speranze sue nel combattere. Non essere infamia alcuna il ritirarsi quando si fa per prudenza non per timidità, quando si fa per ricusare di non mettere in dubbio le cose certe, quando il fine propinquo della guerra ha a dimostrare a tutto il mondo la maturità del consiglio; e niuna vittoria essere piú utile piú preclara piú gloriosa che quella che s'acquista senza danno e senza sangue de' suoi soldati; e la prima laude nella disciplina militare consistere piú nel non si opporre senza necessità a' pericoli, nel rendere, con la industria con la pazienza e con l'arti, vani i conati degli avversari, che nel combattere ferocemente. Il medesimo era consigliato al re dal pontefice, a cui il marchese di Pescara, temendo di tanta povertà, aveva prima significato, le difficoltà dell'esercito di Cesare essere tali che gli troncavano quasi tutta la speranza di prosperi successi. Nondimeno il re, le cui deliberazioni si reggevano solamente co' consigli dell'ammiraglio, avendo piú innanzi agli occhi i romori vani, e per ogni leggiero accidente variabili, che la sostanza salda degli effetti, si riputava ignominia grande che l'esercito, nel quale egli si trovava personalmente, dimostrando timore cedesse alla venuta degli inimici; e lo stimolava (quello di che quasi niuna cosa fanno piú imprudentemente i capitani) che si era quasi obligato a seguitare co' fatti le parole dette vanamente: perché e palesemente aveva affermato, e molte volte in Francia e per tutta Italia significato, che prima eleggerebbe la morte che muoversi senza la vittoria da Pavia. Sperava nella facilità di fortificare il suo alloggiamento di maniera che non potria essere disordinato allo improviso da assalto alcuno; sperava che, per l'inopia de' danari, ogni piccola dilazione disordinerebbe gli inimici, i quali, non avendo facoltà di comperare le vettovaglie e necessitati di andare predando i cibi per il paese, non potrebbono stare fermi agli alloggiamenti; sperava similmente dare impedimento alle vettovaglie che s'arebbono a condurre al campo, delle quali sapeva la maggiore parte essere destinata da Cremona, perché di nuovo avea soldato Giovanlodovico Palavicino, acciò che o occupasse Cremona, dove era piccolo presidio, o almeno interrompesse la sicurtà che da quella città si movessino le vettovaglie. Queste ragioni confermorno il re nella pertinacia di perseverare nell'assedio di Pavia, e per impedire agli inimici l'entrarvi ridusse in altra forma l'alloggiamento dell'esercito. Alloggiava prima il re, dalla parte di Borgoratto, alla badia di San Lanfranco, posta circa un mezzo miglio di là da Pavia e oltre alla strada per la quale da Pavia si va a Milano e in sul fiume del Tesino, vicino al luogo dove fu tentata la diversione dell'acque; la Palissa, e con l'avanguardia e co' svizzeri, alle Ronche, nel borgo appresso alla porta di Santa Iustina, fortificatosi alle chiese di San Piero di Sant'Appollonia e di San Ieronimo; alloggiava Giovanni de' Medici, co' cavalli e fanti suoi, alla chiesa di San Salvadore. Ma intesa la partita degli inimici da Lodi, andò ad alloggiare nel barco, al palagio di Mirabello situato di qua da Pavia; lasciati a San Lanfranco i fanti grigioni, ma non mutato l'alloggiamento della avanguardia. Ultimatamente, passò il re ad alloggiare a' monasteri di San Paolo e di San Iacopo luoghi comodi ed eminenti e cavalieri alla campagna, vicinissimi a Pavia ma alquanto fuori del barco; trasferito ad alloggiare a Mirabello [monsignore] d'Alansone col retroguardo. E per potere soccorrere l'un l'altro roppono il muro del barco da quella parte, occupando lo spazio del campo insino al Tesino, dalla parte di sotto, e dalla parte di sopra insino alla strada milanese; di maniera che, tenendo circondata intorno intorno Pavia, e il Gravelone e il Tesino e la Torretta, che è dirimpetto alla darsina in mano del re, non potevano gli imperiali entrare in Pavia se o non passavano il Tesino o non entravano per il barco.
Risedeva il peso del governo dell'esercito nell'ammiraglio: il re, consumando la maggiore parte del tempo in ozio e in piaceri vani, né ammettendo faccende o pensieri gravi, dispregiati tutti gli altri capitani, si consigliava con lui; udendo ancora Anna di Memoransí, Filippo Ciaboto di Brione e... di San Marsau, persone al re grate ma di piccola esperienza nella guerra. Né corrispondeva il numero dell'esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio a quello che ne credeva esso medesimo: perché, essendo della cavalleria una parte andata col duca di Albania un'altra parte rimasta con Teodoro da Triulzi alla guardia di Milano, molti alloggiando sparsi per le ville e terre circostanti, non alloggiavano fermamente nel campo oltre ottocento lancie, e de' fanti, de' quali si pagava, per le fraudi de' capitani e per la negligenza de' ministri del re, numero immoderato, era diversissima la verità dall'opinione, ingannando sopra tutti gli altri i capitani italiani, i quali lo stipendio per moltissimi fanti ricevevano ma pochissimi ne tenevano: il medesimo accadeva ne' fanti franzesi. Duemila valligiani, che alloggiavano a San Salvadore tra San Lanfranco e Pavia, assaltati all'improviso da quegli di dentro, erano stati dissipati.
In questo stato delle cose i capitani imperiali, passato che ebbero il Lambro, si accostorno al castello di Santangelo; il quale, situato tra Lodi e Pavia, arebbe dato, se non fusse stato in potestà loro, impedimento grandissimo al condurre delle vettovaglie da Lodi allo esercito. Guardavalo Pirro fratello di Federico da Bozzole con [du]cento cavalli e [otto]cento fanti; e il re, pochi dí prima, per non mettere i suoi temerariamente in pericolo, aveva mandato a considerare il luogo il medesimo Federico e Iacopo Cabaneo, i quali riferirono quel presidio essere bastante a difenderlo. Ma l'esperienza dimostrò la fallacia de' discorsi loro: perché essendovisi accostato Ferdinando Davalo co' fanti spagnuoli e avendo con l'artiglierie levate alcune difese, quegli di dentro impauriti si ritirorno il dí medesimo nella rocca, e poche ore dappoi pattuirono che, rimanendo prigioni Pirro, Emilio Cavriana e tre figliuoli di Febus da Gonzaga, gli altri tutti, lasciate l'armi e i cavalli e promesso non militare per un mese contro a Cesare, si partissero.
Chiamò ancora il re dumila fanti italiani di quegli di Marsilia, che erano a Savona; i quali (secondo scrive il Capella) essendo arrivati nello alessandrino presso al fiume di Urbe, Gaspar Maino, che con mille settecento fanti era a guardia di Alessandria, uscito fuora con poca gente, gli assaltò; e avendogli trovati stracchi per il cammino e senza guardie, perché non avevano sospetto di essere assaltati, gli ruppe con poca fatica; e fuggendo nel Castellaccio, entrò dentro alla mescolata con loro: i quali si arrenderono con diciassette insegne. Né ebbe migliore successo la cura data a Gian Lodovico Palavicino; il quale, entrato con quattrocento cavalli e dumila fanti in Casalmaggiore, dove non erano mura, e fattivi ripari e occupato dipoi San Giovanni in Croce, cominciò di quel luogo a correre il paese, attendendo quanto poteva a rompere le vettovaglie. Però Francesco Sforza, che era a Cremona, fatto con difficoltà mille quattrocento fanti, gli mandò con pochi cavalli di Ridolfo da Camerino e co' cavalli della sua guardia verso Casalmaggiore, sotto Alessandro Bentivoglio; i quali accostatisi, il Palavicino col quale era Niccolò Varolo soldato de' franzesi, il decimo ottavo dí di febbraio, confidando nello avere piú gente, non aspettato Francesco Rangone che doveva venire con altri fanti e cavalli, uscito fuora si attaccò con loro; e volendo sostenere i suoi che già si ritiravano, fatto cadere da cavallo, fu fatto prigione e tutti i suoi rotti e dissipati.
Aggiunsesi alle cose del re di Francia un'altra difficoltà: perché Gian Iacopo de' Medici da Milano, castellano di Mus, dove era stato mandato dal duca di Milano per l'omicidio fatto di Monsignorino Ettor Visconte, posto di notte uno agguato a canto alla rocca di Chiavenna, situata in su uno colle a capo del lago e distante dalle case del castello, prese il castellano, uscito fuora a passeggiare, e condotto subito alla porta della rocca minacciando di ammazzarlo, indusse la moglie a dargli la rocca; il che fatto, egli, immediate, scopertosi di un altro agguato con trecento fanti ed entrato per la rocca nella terra, la prese: donde le leghe de' grigioni, pochi dí innanzi al conflitto, revocorno i seimila grigioni che erano nello esercito del re.
Arrivò in questo tempo nello esercito imperiale il cavaliere da Casale, mandato dal re d'Inghilterra con promesse grandi, e con ordine di levare i cinquantamila ducati di Viterbo: perché quel re, cominciando ad avere invidia alla prosperità del re di Francia, e mosso ancora che nel mare di verso Scozia erano state prese dai franzesi certe navi inghilesi, minacciava rompere la guerra in Francia, e desiderava sostenere l'esercito imperiale. Però commesse al Pacceo, che era a Trento, che andasse a Vinegia a protestare in nome suo la osservanza della lega; alla quale si sperava gli avesse a indurre piú facilmente che Cesare aveva mandato la investitura di Francesco Sforza in mano del viceré, con ordine ne disponesse secondo le occorrenze delle cose. Fece ancora il re d'Inghilterra pregare dall'oratore suo il pontefice che aiutasse le cose di Cesare; a che il pontefice si scusò per la capitolazione fatta col re di Francia, per sua sicurtà, senza offesa di Cesare; dolendosi ancora che, dopo il ritorno dello esercito di Provenza, era stato venti dí innanzi avesse potuto intendere i loro disegni, e se avevano animo di difendere o di abbandonare lo stato di Milano.
Cap. xv
Gli imperiali, occupati i luoghi vicini a Pavia, si accostano all'esercito nemico; sussidio di munizioni agli assediati. Scaramuccie fra i soldati nemici; trattative di tregua per opera dei nunzi del pontefice presso i due eserciti. Ferita di Giovanni de' Medici. Battaglia di Pavia.
Ma erano già di piccolo momento i trattamenti e le pratiche de' príncipi e le diligenze e sollecitudini degli imbasciadori, perché approssimandosi gli eserciti si riduceva la somma di tutta la guerra, e delle difficoltà e pericoli sostenuti molti mesi, alla fortuna di poche ore. Conciossiaché l'esercito imperiale, dopo l'acquisto di Santo Angelo, spingendosi innanzi andò ad alloggiare, il primo dí di febbraio, a Vistarino e il secondo dí a Lardirago, Santo Alesso e le due porte del barco, passato la Lolona piccolo fiumicello; il quale alloggiamento era propinquo quattro miglia a Pavia e a tre miglia del campo franzese: e il terzo o quarto dí di febbraio venne ad alloggiare in Prati, credo verso porta Santa Iustina, distendendosi tra Prati, Trelevero e la Motta, e in uno bosco a canto a San Lazzero; alloggiamenti vicini a due miglia e mezzo di Pavia, a uno miglio della vanguardia franzese e a mezzo miglio de' ripari e fosse del campo loro, e tanto vicini che molto si danneggiavano con l'artiglierie. Avevano gli imperiali occupato Belgioioso e tutte le terre e il paese che avevano alle spalle eccetto San Colombano, nel quale perseverava la guardia franzese, ma assediata, che niuno poteva uscirne: avevano in Santo Angelo e in Belgioioso trovata quantità grande di vettovaglie; e si sforzavano, per esserne piú copiosi, acquistare il Tesino come avevono acquistato il Po, donde le impedivano a' franzesi: tenevano Santa Croce; e avendo il re, quando andò ad alloggiare a Mirabello, abbandonata la Certosa, non vi andavano gli imperiali perché non fussino impedite loro le vettovaglie. Tenevano San Lazzero i franzesi, ma per l'artiglierie degli inimici non ardivano di starvi. Correva in mezzo tra l'uno e l'altro alloggiamento una roza, cioè uno rivolo di acqua corrente detto la Vernacula, che ha origine nel barco; il quale passando in mezzo tra San Lazzero e San Piero in Verge entra nel Tesino: il quale, come molto importante, sforzandosi gli imperiali di passare per potere con minore difficoltà procedere piú innanzi, i franzesi valorosamente lo difendevano; e ciascuno sollecitamente il proprio alloggiamento fortificava. Il canale della Vernacula era alquanto profondo, con le ripe alte in modo non si poteva passare senza ponte; e passava tra Santa Croce e San Lazzero. Aveva lo alloggiamento del re grossi ripari a fronte alle spalle e al fianco sinistro, circondati da fossi e fortificati con bastioni, e al fianco destro il muro del barco di Pavia; in modo era riputato fortissimo. Simigliante fortificazione aveva l'alloggiamento degli imperiali, quali tenevano tutto il paese da San Lazzero verso Belgioioso insino al Po; in modo che l'esercito abbondava di vettovaglie. Vicini i ripari dell'uno alloggiamento all'altro a quaranta passi, e i bastioni sí propinqui che si tiravano con gli archibusi. In questo modo stavano alloggiati gli eserciti l'ottavo dí di febbraio, e scaramucciavano a ogn'ora; ma ciascuno teneva il campo nel forte suo, non volendo fare giornata a disavvantaggio; e pareva a' capitani imperiali avere insino a quel dí guadagnato assai, poiché si erano accostati tanto a Pavia che facendosi giornata potevano essere aiutati dalle genti che vi erano dentro. Pativasi in Pavia di munizioni; però gli imperiali mandorno cinquanta cavalli, ciascuno con uno valigiotto in groppa pieno di polvere; i quali entrati di notte per la via di Milano, aspettando che per ordine di quegli del campo si facesse dare all'arme a' franzesi, si condussono salvi in Pavia: donde spesso uscendo Antonio de Leva, e infestando quegli di fuora, assaltati i grigioni che erano alla guardia di Borgoratto e di San Lanfranco, tolse loro tre pezzi di artiglieria e parecchie carra cariche di munizioni. I quali, pochi dí poi, revocati da' loro superiori si partirno dall'esercito.
In questo stato delle cose era incredibile la vigilanza la industria e le fatiche del corpo e dell'animo del marchese di Pescara, il quale dí e notte non cessava, con scaramuccie col dare all'arme con fare nuovi lavori, di infestare gli inimici; spingendosi sempre innanzi, con cavamenti con fossi e con bastioni. Lavoravano uno cavaliere sopra il canale, e danneggiandogli molto i franzesi con due pezzi piantati a San Lazzero, voltatavi l'artiglieria lo rovinorno, e gli costrinsono ad abbandonarlo. Però pativano i franzesi molto da uno cavaliere fatto nel campo, e il simigliante da un altro che era fatto a Pavia. Ed eransi fortificati in modo con bastioni e con ripari, e fatti tali cavalieri, che offendevano assai il campo franzese ed erano poco offesi: però i franzesi mutavano artiglierie, per battergli per fianco, facendo continuamente ogni opera gli spagnuoli per andare innanzi a palmo a palmo. Erano anche, in tanta vicinità, frequenti le scaramuccie, nelle quali quasi sempre i franzesi restavano inferiori; non si intermettendo in parte alcuna le fazioni per la pratica della tregua, la quale continuamente si trattava per i nunzi del pontefice che erano nell'uno esercito e nell'altro; né mancando anche, assiduamente, molti de' piú intimi del re, e il pontefice molte volte, di confortarlo che per fuggire tanto pericolo si discostasse con l'esercito da Pavia, per essere necessario che, per la penuria che avevano gli inimici di danari, ottenesse in brevissimo tempo e senza sangue la vittoria. Il decimo settimo dí di febbraio, quegli di Pavia usciti fuora scaramucciorno con la compagnia di Giovanni de' Medici, il quale onorevolmente gli rimesse dentro; e ritornando poi a mostrare all'ammiraglio il luogo e le cose accadute nella fazione, essendo ascosti alcuni scoppettieri in una casa, fu ferito con uno scoppio sopra 'l tallone e rottogli l'osso, con dispiacere grande del re; per la quale ferita fu necessitato farsi portare a Piacenza. Per la ferita del quale si rimesse, nelle scaramuccie e negli assalti subiti, tutta la ferocia del campo franzese; e quegli di Pavia, uscendo ogni dí fuora con maggiore ardire, e avendo abbruciata la badia di San Lanfranco, sempre battevano i franzesi, i quali parevano molto inviliti; e la notte de' diciannove venendo i venti, il marchese di Pescara con tremila fanti spagnuoli assaltò i bastioni de' franzesi, e salito (secondo scrive il Numaio) su per i ripari, ammazzò piú di cinquecento fanti e inchiodò tre pezzi di artiglieria.
Finalmente, non essendo possibile a' capitani imperiali sostenere piú, per mancamento di danari, l'esercito loro in quello alloggiamento, e considerando che ritirandosi non solo si perdeva Pavia ma restavano senza speranza di difendere l'altre cose che possedevano del ducato di Milano, avendo anche grandissima confidenza di ottenere la vittoria per la virtú de' soldati loro e perché nell'esercito franzese erano moltissimi disordini, e oltre a esserne partiti molti fanti non corrispondendo il numero, di lunghissimo intervallo, a quegli che erano pagati: la notte avanti il vigesimoquinto dí di febbraio, giorno dedicato secondo il rito de' cristiani all'apostolo Matteo e il medesimo dí natale di Cesare, deliberati, secondo dicono alcuni, di assaltare l'esercito del re, altri dicono, di andare a Mirabello dove alloggiavano alcune compagnie di cavalli e di fanti, con intenzione, non si movendo i franzesi, di avere liberato lo assedio di Pavia, e movendosi, tentare la fortuna della giornata, - però avendo (secondo scrivono alcuni) fatto dare nelle prime parti della notte piú volte all'armi per straccare i franzesi, fingendo volergli assaltare verso il Po, Tesino e San Lazzero, dipoi, a mezza notte, essendosi per comandamento de' capitani tutti i soldati messi una camicia bianca sopra l'armi per segno di riconoscersi da' franzesi, fatto (secondo scrive il Cappella) due squadre di cavalli e quattro di fanti, nella prima seimila fanti divisi in parti eguali di tedeschi spagnuoli e italiani sotto il marchese del Guasto, la seconda solo di fanti spagnuoli, la terza e quarta di tedeschi; - e arrivati al muro del barco, con muratori ed eziandio con aiuto de' soldati, essendo qualche ora innanzi giorno, gittorno in terra sessanta braccia di muro, secondo il Cappella: il Numaio, che andorno alle due porte del barco, presonle ed etiam gittorno a terra piú braccia di mura secondo il Barba, roppeno in piú luoghi il muro del barco per fare in uno tempo tre assalti: uno con tremila fanti tra lanzi e spagnuoli alla volta di Mirabello, dove (secondo lui) alloggiava il re con parte dello esercito; l'altro nel resto delle genti d'arme che erano piú a basso co' svizzeri, nel bosco grande del barco, e questi due assalti non con grande sforzo ma tanto che intratenesse; e col resto del campo assaltare al traverso del campo franzese. E scrive il Cappella che il muro fu gittato in terra con tanto silenzio che i franzesi non sentirno, ma di questo il re poi disse il contrario; e che entrati nel barco, la prima squadra andò alla volta di Mirabello, il resto dello esercito alla volta del campo; ma che il re, intesa la entrata nel barco, pensando andassino a Mirabello, uscí degli alloggiamenti e venne a combattere in su la campagna, la quale credo fusse aperta e spianata dal re, desideroso si combattesse piú presto quivi che altrove, per la superiorità di cavalli. E secondo il Numaio, presono il cammino verso Mirabello e castel di Pavia; e che i franzesi, credendo volessino andare a Milano, voltorno subito l'artiglierie e feciono grande danno al retroguardo; e che gli imperiali avevano nella vanguardia quattrocento cavalli leggieri e quattromila tra archibusieri e scoppiettieri, che si attaccorno con lo squadrone del re, che ordinariamente era la battaglia ma, secondo camminavano gli spagnuoli, fu la vanguardia. Scrive il Cappella che, scontrato il re nella prima squadra degli spagnuoli, i suoi furno costretti dagli scoppi a piegare, insino a tanto che, sopravenendo i svizzeri, gli spagnuoli furno ributtati da' svizzeri e dalla cavalleria che gli assaltò per fianco; e che sopragiunsero i tedeschi e ruppeno con molta uccisione i svizzeri: ed essendo il re con grande numero di gente d'arme entrato nella battaglia, e sforzandosi fermare i suoi, dopo avere combattuto alquanto, ferito il cavallo ed egli caduto in terra, fu preso da cinque soldati che non lo conoscevano; ma sopravenendo il viceré, dandosi a conoscere venne in sua mano. Nel quale tempo, il Guasto con la prima squadra aveva rotto i cavalli che erano a Mirabello; e il Leva, il quale (secondo dicono alcuni) aveva a questo effetto gittato in terra tanto spazio di muro che potevano uscirne in uno tempo medesimo cento e cinquanta cavalli, uscito di Pavia aveva assaltato i franzesi alle spalle, in modo che tutti si messono in fuga, e quasi tutti svaligiati eccetto il retroguardo de' cavalli, il quale, sotto Alanson, nel principio della battaglia si ritirò intero. Scrive il Barba che quella terza parte piú grossa, che assaltò al traverso del campo franzese, fu piegata dalle artiglierie di sorte che se il viceré, per avviso di Pescara, non soccorreva erano rotti, ma la sua giunta gli ricompose e seguitò lo assalto gagliardo; che la scoppietteria spagnuola dette ne' svizzeri, e gli voltò di sorte che fece fare il medesimo alla gente d'arme; che quegli di Pavia con sei bandiere assaltorono i fanti franzesi che alloggiavano quasi al diritto del castello, e con l'aiuto dell'artiglierie gli ruppeno subito; che al re fu morto il cavallo sotto, e ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente nel volto. Il Numaio: che lo squadrone del re, assaltato da detti scoppiettieri, si messe in rotta, e nel ritirarsi disordinò gli altri fanti e il resto dello esercito; che al re fu morto il cavallo sotto, ed essendo in mezzo di molti che lo volevano prigione vi corse il viceré, e con molte riverenze gli baciò la mano, e [lo] ricevé prigione in nome dello imperadore, ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente nel volto; e che di Pavia uscirno tutti i cavalli e tremila fanti. Il Cappella: che in questa giornata morirno, tra di ferro e di essere affogati, fuggendo, nel Tesino, piú di ottomila nel campo franzese e circa venti de' primi signori di Francia, tra' quali l'ammiraglio, Iacopo Cabanneo, il marisciallo di Francia (credo sia la Palissa), la Tramoglia, il grande scudiere, Obigní, Boisí e lo Scudo; il quale, pervenuto ferito in potestà degli inimici, espirò presto. Furono fatti prigioni il re di Navarra, il bastardo di Savoia, Memoransí, San Polo, Brione, La Valle, Ciandé, Ambricort, Galeazzo Visconte, Federigo da Bozzole, Bernabò Visconte, Guidanes e infiniti gentiluomini, e quasi tutti i capitani che non furono ammazzati; fu preso anche Ieronimo Leandro vescovo di Brindisi, nunzio del pontefice, ma per comandamento del viceré fu liberato: de' quali prigioni San Polo e Federigo da Bozzole, condotti nel castello di Pavia, non molto dipoi, corrotti gli spagnuoli che gli guardavano, si liberorno con la fuga. Che degli imperiali morirno circa settecento, ma nessuno capitano eccetto Ferrando Castriota marchese di Santo Angelo; e che la preda fu sí grande che mai furno in Italia soldati piú ricchi. Il marchese di Pescara ebbe due ferite di picca e una di scoppio, e Antonio da Leva fu ferito leggiermente in una gamba. E de' franzesi annegorno molti nel Tesino; e Pavia si poteva poco piú tenere, mancandovi massime il vino. E i genovesi avevano poco innanzi fatto tregua co' franzesi per tempo di uno mese. E il Numaio: che nella giornata morirno in tutto seimila uomini. Salvossi di tanto esercito il retroguardo guidato da Alanson, di [quattrocento] lancie; il quale, senza combattere o essere assaltato o seguitato, intero, ma lasciati i carriaggi, si ritirò con grandissima celerità nel Piamonte. Della quale vittoria subito che fu pervenuto il rumore a Milano, Teodoro da Triulzi restatovi in presidio con quattrocento lancie, se ne partí verso Musocco, seguitandolo tutti i soldati alla sfilata: in modo che, il dí medesimo che fu fatta la giornata, restò libero dai franzesi tutto il ducato di Milano. Fu il re condotto, il dí seguente dopo la vittoria, nella rocca di Pizzichitone; perché il duca di Milano per sicurtà propria malvolentieri consentiva che e' fusse condotto nel castello di Milano: dove, dalla libertà [in fuori], che era guardato con somma diligenza, era in tutte l'altre cose trattato e onorato come re.
E fu di questo successo attribuita per tutto colpa grande o alla avarizia o alla pusillanimità del pontefice: il quale, se al desiderio che ebbe di sospendere l'armi tra gli eserciti, insino a tanto che tra i príncipi si fusse convenuto delle differenze principali, avesse accompagnato l'armarsi potentemente e spignere le genti a Parma e Piacenza, non solo arebbe conservato sé in maggiore riputazione, e con piú sicurtà per tutti i casi che potessino succedere, ma eziandio arebbe maneggiato con piú autorità la concordia: trattandola in modo che ciascuna delle parti avesse causa di dubitare che egli pigliasse l'arme in favore di coloro che fussino manco alieni dalla concordia. Ma mentre che, rinvolto nelle sue irresoluzioni e nella cupidità di non spendere, differisce di dí in dí l'armarsi, e però con piccola autorità si interpone alla concordia, avendo la giornata posto fine alla guerra, e in tempo che stimolato dai viniziani e confortato da molti altri e ammonito dal pericolo che gli era imminente da chi restasse vincitore si risolveva a soldare in compagnia de' viniziani diecimila svizzeri...