Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume sedicesimo
Cap. i
Apprensioni dei governi italiani per la potenza di Cesare dopo la battaglia di Pavia. Particolari ragioni di apprensione dei veneziani e del pontefice. Ragioni del pontefice di temere dell'inimicizia di Cesare. Proposte di accordi dei veneziani al pontefice.
Essendo adunque, nella giornata fatta nel barco di Pavia, non solo stato rotto dall'esercito cesareo l'esercito franzese ma restato ancora prigione il re cristianissimo e morti o presi appresso al suo re la maggiore parte de' capitani e della nobiltà di Francia, portatisi cosí vilmente i svizzeri i quali per il passato aveano militato in Italia con tanto nome, il resto dello esercito spogliato degli alloggiamenti non mai fermatosi insino al piede de' monti, e (quello che maravigliosamente accrebbe la riputazione de' vincitori) avendo i capitani imperiali acquistato una vittoria sí memorabile con pochissimo sangue de' suoi, non si potrebbe esprimere quanto restassino attoniti tutti i potentati d'Italia; a' quali, trovandosi quasi del tutto disarmati, dava grandissimo terrore l'essere restate l'armi cesaree potentissime in campagna, senza alcuno ostacolo degli inimici: dal quale terrore non gli assicurava tanto quel che da molti era divulgato della buona mente di Cesare, e della inclinazione sua alla pace e a non usurpare gli stati di altri, quanto gli spaventava il considerare essere pericolosissimo che egli, mosso o da ambizione, che suole essere naturale a tutti i príncipi, o da insolenza che comunemente accompagna le vittorie, spinto ancora dalla caldezza di coloro che in Italia governavano le cose sue, dagli stimoli finalmente del consiglio e di tutta la corte, voltasse, in tanta occasione bastante a riscaldare ogni freddo spirito, i pensieri suoi a farsi signore di tutta Italia; conoscendosi massime quanto sia facile a ogni principe grande, e molto piú degli altri a uno imperadore romano, giustificare le imprese sue con titoli che apparischino onesti e ragionevoli.
Né erano travagliati da questo timore solamente quegli di autorità e forze minori ma, quasi piú che gli altri, il pontefice e i viniziani: questi, non solo per la coscienza di essergli mancati, senza giusta causa, ai capitoli della loro confederazione ma molto piú per la memoria degli antichi odii e delle spesse ingiurie state tra loro e la casa d'Austria e delle gravi guerre avute, pochi anni innanzi, con l'avolo suo Massimiliano, per le quali si era, nello stato che e' posseggono in terra ferma, rinfrescato maravigliosamente il nome e la memoria delle ragioni, quasi dimenticate, dello imperio; e per conoscere che ciascuno che avesse in animo di stabilire grandezza in Italia era necessitato a pensare di battere la potenza loro, troppo eminente: il papa, perché, dalla maestà del pontificato in fuora, la quale ne' tempi ancora della antica riverenza che ebbe il mondo alla sedia apostolica fu spesso mal sicura dalla grandezza degli imperadori, si trovava per ogn'altro conto molto opportuno alle ingiurie, perché era disarmato, senza danari e con lo stato della Chiesa debolissimo nel quale sono rarissime terre forti, non popoli uniti o stabili alla divozione del suo principe, ma diviso quasi tutto il dominio ecclesiastico in parte guelfa e ghibellina e i ghibellini, per inveterata e quasi naturale impressione, inclinati al nome degli imperadori, e la città di Roma sopra tutte l'altre debole e infetta di questi semi. Aggiugnevasi il rispetto delle cose di Firenze, le quali, dependendo da lui ed essendo grandezza propria e antica della sua casa, non gli erano forse manco a cuore che quelle della Chiesa; né era manco facile lo alterarle, perché quella città, poiché nella passata del re Carlo ne furono cacciati i Medici, avendo sotto nome della libertà gustato diciotto anni il governo popolare, era stata malcontenta del ritorno loro, in modo che pochi vi erano a' quali piacesse veramente la loro potenza.
Alle quali occasioni, tanto potenti, temeva sommamente il pontefice che non si aggiugnesse volontà non mediocre di offenderlo, non tanto perché dalla ambizione de' piú potenti non è mai sicuro in tutto chi è manco potente quanto perché temeva che, per diverse cagioni, non fusse in questo tempo esoso a Cesare il nome suo: discorrendo seco medesimo che, se bene, e vivente Lione e poi mentre era cardinale, si fusse affaticato molto per la grandezza di Cesare, anzi Lione ed egli con grandissime spese e pericoli gli avessino aperta in Italia la strada a tanta potenza, e che, come fu assunto al pontificato, avesse dato danari, mentre che l'ammiraglio era in Italia, a' suoi capitani e fattone dare da' fiorentini, né levate dell'esercito le genti della Chiesa e di quella republica; nondimeno, che presto, o considerando che allo offizio suo si apparteneva essere padre e pastore comune tra i príncipi cristiani, e piú presto autore di pace che fomentatore di guerre, o cominciando tardi a temere di tanta grandezza, si era ritirato da correre la medesima fortuna; in modo che non aveva voluto rinnovare la confederazione fatta per la difesa d'Italia dal suo antecessore; e quando, l'anno dinanzi, l'esercito suo entrò col duca di Borbone in Provenza non aveva voluto aiutarlo con denari; il che se bene non dette giusta querela a' ministri di Cesare (non essendo egli, anche per la lega di Adriano, tenuto a concorrere contro a' franzesi [che] nelle guerre di Italia), nondimeno erano stati princípi di fare che non lo riputassino piú una cosa medesima con Cesare, anzi diminuissino assai della fede che insino a quel dí in lui avuta avevano; come quegli che, menati solo o dallo appetito o dal bisogno, avevano quasi per offesa se alle imprese loro particolari, fatte per occupare la Francia, non mettevano le spalle anche gli altri, come prima si era fatto alle universali cominciate sotto titolo di assicurare Italia dalla potenza de' franzesi. Ma cominciorono e scopersonsi le querele e i dispiaceri quando il re di Francia passò alla impresa di Milano. Perché se bene il papa, secondo che scrisse poi nel breve suo querelatorio a Cesare, desse occultamente qualche quantità di danari nel ritorno di Marsilia, nondimeno dipoi non si era stretto e inteso con loro, ma subito che il re ebbe acquistato la città di Milano, parendogli che le cose sue procedessino prosperamente, aveva capitolato con lui; e ancora che egli se ne scusasse con Cesare, allegando che in quel tempo, non avendo i capitani suoi per spazio di venti dí significatogli alcuno de' loro disegni, e dipoi disperando della difesa di quello stato e temendo eziandio di Napoli, e spingendosi il duca d'Albania con le genti verso Toscana, era stato necessitato pensare alla sicurtà sua, ma non avere però potuto in lui tanto il rispetto del proprio pericolo che e' non avesse accordato con condizioni per le quali non manco si provedeva alle cose di Cesare che alle sue, e che e' non avesse disprezzato partiti grandissimi offertigli dal re di Francia perché entrasse seco in confederazione; nondimeno non avevano operato le sue escusazioni che e' non se ne fusse turbato molto Cesare e i suoi ministri, non tanto perché e' si veddono privati al tutto della speranza di avere piú da lui sussidio alcuno quanto perché e' dubitorno che la capitolazione non contenesse piú oltre che obligazione di neutralità, e perché e' parve loro che in ogni caso l'avesse dato troppa riputazione alla impresa franzese, e perché temerono ancora che il papa non fusse mezzo che i viniziani seguitassino lo esempio suo; il che essere stato vero si certificorono dipoi, per lettere e per brevi che dopo la vittoria furono trovati nel padiglione del re prigione. Aveva in ultimo acceso questi sospetti e mala sodisfazione quando il papa acconsentí che per il dominio suo passassino, e fussino aiutate a condurre, le munizioni delle quali il duca di Ferrara accomodò il re di Francia mentre era a campo a Pavia, ma molto piú l'andata del duca di Albania alla impresa del reame di Napoli, perché non solo come amico fu per tutto lo stato della Chiesa e de' fiorentini ricettato e onorato, ma ancora si fermò molti giorni intorno a Siena per riformare a stanza sua il governo di quella città: il che se bene allungava l'andata del duca al reame di Napoli, e a questo effetto principalmente era stato procurato da lui per essergli molesto che uno medesimo diventasse signore di Napoli e di Milano; nondimeno gli imperiali avevano per questo fatta interpretazione che tra il re di Francia e lui fusse stato fatto altro legame che semplice promessa di non offendere. Però temeva giustamente il pontefice non solo di essere offeso, come temevano tutti gli altri, dai cesarei, col tempo e con l'occasione, ma che ancora, senza aspettare opportunità maggiore, non assaltassino subito o lo stato della Chiesa o quello di Firenze. E gli accrebbe il timore che, essendosi il duca d'Albania, come ebbe avviso della calamità del re, ritirato, per salvarsi, da Monteritondo verso Bracciano, e fatti ancora andare là cento cinquanta cavalli che erano in Roma, i quali il papa fece accompagnare insino là dalla sua guardia, perché il duca di Sessa e gli imperiali si preparavano per rompere le genti sue, accadde che, venendo da Sermoneta circa quattrocento cavalli e mille dugento fanti delle genti degli Orsini, seguitati da Giulio Colonna con molti cavalli e fanti, furno rotti da lui alla abbazia delle Tre Fontane; ed entrati fuggendo in Roma per la porta di San Paolo e di San Sebastiano, le genti di Giulio, entrate dentro con loro, ne ammazzorono insino in Campo di Fiore e in altri luoghi della città: la quale con tumulto grande si levò tutta in arme, prima con grande timore e poi con grande indignazione del pontefice, che all'autorità sua non fusse avuto né rispetto né riverenza alcuna.
Ma in questa sospensione e ansietà grandissima dell'animo, gli sopravenneno i conforti e offerte de' viniziani: i quali, costituiti nel medesimo timore di se medesimi, con efficacissima instanza si sforzavano persuadergli che, congiunti insieme, facessino calare subito in Italia diecimila svizzeri, e soldato una grossa banda di genti italiane si opponessino a cosí gravi pericoli; promettendo, come è costume loro, di fare per la loro parte molto piú che poi non sogliono osservare. Allegavano che i fanti tedeschi che erano stati alla difesa di Pavia, né avevano, già molti mesi, avuto denari, veduto che dopo la vittoria continuavano le medesime difficoltà de' pagamenti che prima, si erano ammutinati, avevano tolto l'artiglierie e fattisi forti in Pavia; che per la medesima cagione tutto il resto dello esercito di Cesare era sollevato e per sollevarsi ogni dí piú, non avendo i capitani facoltà di pagarlo: in modo che, armandosi e loro e lui potentemente, e si assicuravano gli stati comuni e si nutriva l'occasione che gli imperiali, impegnati in queste difficoltà e necessitati a tenere del continuo grosse forze alla guardia del re prigione, si disordinassino per loro medesimi. Aggiugnersi, che e' non era da dubitare che madama la reggente, in mano della quale era il governo di Francia, desiderosissima di questa unione, non solo farebbe subito cavalcare, a stanza loro, il duca di Albania con le sue genti e quelle quattrocento lancie del retroguardo che si erano ritirate dalla giornata a salvamento, ma ancora, con volontà di tutto il regno di Francia, concorrerebbe alla salute d'Italia con grossa somma di denari, conoscendo che da quella dependeva in grande parte la speranza della recuperazione del re suo figliuolo. Essere ottima senza dubbio questa deliberazione se si facesse con prestezza, ma la lunghezza dare a' cesarei facoltà di riordinarsi; e tanto piú che chi non si risolveva ad armarsi era necessitato di accordarsi con loro e porgergli denari, che non era altro che essere instrumento di liberargli da tutte le difficoltà e stabilirsi da se medesimo in perpetua suggezione. Davano anche speranza d'avere a essere seguitati dal duca di Ferrara, il quale, e per la dependenza antica da' franzesi e per gli aiuti dati in questa guerra al re, non era senza grandissimo timore: la congiunzione del quale pareva di non piccolo momento, per la opportunità grande del suo stato alle guerre di Lombardia; [per essere] la città di Ferrara fortissima ed egli abbondantissimo di munizioni e di artiglierie e, come era fama, ricchissimo di denari.
Cap. ii
Il pontefice si volge con tutto l'animo alla concordia con Cesare. Difficoltà di comprendere nella concordia i veneziani. Ritorno del duca d'Albania in Francia. Confederazione fra il pontefice e Cesare. Diversità di giudizi sulla confederazione; giudizio dell'autore.
Né la speranza di avere a vincere una impresa sí difficile né la considerazione de' pericoli piú lontani, a' quali il tempo suole spesso partorire rimedi non pensati, arebbe inclinato Clemente a prestare orecchi a questi ragionamenti, se non l'avesse indotto il timore di non essere assaltato di presente, a volere piú presto esporsi al pericolo manco certo che al pericolo che appariva maggiore e piú presente; e perciò si ristrinsono tanto le pratiche tra loro che, essendosi condotte insino allo estendere i capitoli, si aspettava che a ogn'ora si stipulassino; e in modo che il papa, persuadendosene la conclusione, spedí in poste al re d'Inghilterra Ieronimo Ghinuccio sanese, auditore della camera apostolica, per cercare destramente di disporlo a opporsi a tanta grandezza di Cesare. Quando opportunamente sopravenne lo arcivescovo di Capua, antico segretario e consigliere suo, e che molti anni era stato appresso a lui di grandissima autorità; il quale, subito che aveva udito la vittoria degli imperiali, era da Piacenza andato in campo a don Carlo del Lanoi viceré di Napoli, e risoluto della sua intenzione corse subito in poste al pontefice, portandogli speranza certa di accordo. Perché il viceré e gli altri capitani avevano per allora due pensieri: l'uno di provedere a' denari per sodisfare l'esercito, col quale per non avere modo di pagarlo si trovavano in grandissima confusione; l'altro di condurre la persona del re di Francia in luogo che la difficoltà del guardarlo non gli avesse a tenere in continuo travaglio; e stabilite bene queste due cose, giudicavano restare in grado da potere sempre mettere a effetto i disegni loro: però desideravano l'accordo col papa, presupponendo di cavarne quantità grande di denari. E per disporvelo tanto piú col fargli spavento, e anche per sgravare degli alloggiamenti de' soldati lo stato di Milano che era molto consumato, avevano mandata ad alloggiare in piacentino quattrocento uomini d'arme e ottomila tedeschi, non come inimici, ma ora dicendo che il ducato di Milano non poteva nutrire sí grosso esercito ora minacciando di volergli fare passare in terra di Roma a trovare il duca di Albania, in caso che le genti condotte dagli Orsini non si dissolvessino. Ma erano superflue queste diligenze; perché come il papa fu certificato potere fuggire i pericoli presenti, lasciati gli altri pensieri, si voltò con tutto l'animo alla concordia: perciò, subito udito l'arcivescovo, fece fermare l'auditore della camera per il cammino; e per levare tutte l'occasioni che potessino interromperla operò che il duca di Albania dissolvesse, dai cavalli e fanti oltramontani in fuora, tutto 'l resto dello esercito e gli dette le stanze a Corneto, ricevuta promessa da' ministri di Cesare di licenziare anche essi le genti loro che erano intorno a Roma, e fermare Ascanio Colonna e altre genti che venivano del regno; e si interpose ancora che i Colonnesi, che cominciavano a molestare le terre degli Orsini, desistessino dall'armi.
Desiderava il pontefice e faceva ogni opera perché nella concordia che e' trattava col viceré si includessino i viniziani, ma la difficoltà era che essi ricusavano di volere pagare i denari dimandati loro dal viceré; perché dimandava che gli pagassino tanti danari quanti arebbono spesi nelle genti che avevano a contribuire, e che in futuro contribuissino non con gente, ma con danari; dimandando anche il medesimo a tutti quegli i quali erano compresi nella confederazione fatta con Adriano. Ma la durezza de' viniziani facevano beneficio al pontefice, dando sospizione al viceré che pensassino a nuovi movimenti. Le quali cose mentre si trattano, con speranza certissima d'aversi a conchiudere, i fiorentini, per ordine del pontefice, mandorono al marchese di Pescara, per intrattenimento dello esercito, venticinquemila ducati; ricevuta promessa il pontefice da Giambartolomeo da Gattinara, il quale appresso a lui trattava per il viceré, che questa quantità sarebbe computata nella somma maggiore che arebbono a pagare per vigore della nuova capitolazione.
La quale innanzi si conchiudesse, pochissimi dí, il duca di Albania, il quale per tornarsene in Francia aveva aspettato l'armata, venuta quella al Porto di Santo Stefano e mandategli le galee, si imbarcò a Civitavecchia sopra quelle e sopra le galee del pontefice, prestategli con consentimento del viceré, benché né all'armata né alle galee non dessino salvocondotto; e con lui Renzo da Ceri, con l'artiglieria avuta da Siena e da Lucca, con quattrocento cavalli mille fanti tedeschi e pochi italiani, perché il resto della gente si era sfilata e il resto de' cavalli parte venduti parte lasciati. I progressi del quale erano stati tali che si comprese apertamente essere stato mandato, o perché gli imperiali, temendo del regno di Napoli, partissino, per soccorrerlo, del ducato di Milano o perché per questo timore si inducessino alla concordia; e per questa cagione essere proceduto lentamente, mancando forse al re [denari] bastanti a mandarlo con esercito potente.
Ma finalmente, lasciati da parte i viniziani, si conchiuse il primo dí di aprile in Roma, tra il pontefice e il viceré di Napoli come luogotenente cesareo generale in Italia (per il quale era in Roma con pieno mandato Giambartolomeo da Gattinara, nipote del gran cancelliere di Cesare), confederazione per sé e per i fiorentini da una parte e per Cesare dall'altra. La somma de' capitoli piú importanti fu: che tra il papa e Cesare fusse perpetua amicizia e confederazione, per la quale l'uno e l'altro di loro fusse obligato a difendere da ciascuno con certo numero di gente il ducato di Milano, posseduto allora sotto l'ombra di Cesare da Francesco Sforza, il quale fu nominato come principale in questa capitolazione; e che l'imperadore avesse in protezione tutto lo stato che teneva la Chiesa, quello che possedevano i fiorentini, e particolarmente la casa de' Medici con l'autorità e preminenze che aveva in quella città; pagandogli però i fiorentini, di presente, centomila ducati per ricompenso quello che arebbono auto a contribuire nella guerra prossima, per virtú della lega fatta con Adriano, la quale pretendeva non essere estinta per la sua morte, per essere specificato ne' capitoli che la durasse uno anno dopo la morte di ciascuno de' confederati: che i capitani cesarei levassino genti dello stato ecclesiastico, né mandassino di nuovo ad alloggiarvene dell'altre senza consentimento del pontefice: a' viniziani fu lasciato luogo di entrare in questa confederazione, in termine di venti dí, con oneste condizioni, che avessino a essere dichiarate dal papa e da Cesare: e che il viceré fusse tenuto a fare venire, fra quattro mesi, la ratificazione di Cesare di tutti questi capitoli. E obligorono i mandatari del viceré, in uno capitolo da parte confermato con giuramento, che, caso che Cesare non ratificasse fra il tempo questi capitoli, avesse il viceré a restituire i centomila ducati; dovendosi però, insino che i danari non si restituissino, osservare la lega interamente. Alla quale furono aggiunti tre articoli, non connessi nella capitolazione ma posti in scrittura separata, confermati eziandio per giuramento, che contennono: che in tutte, le cose beneficiali del regno di Napoli fusse permesso a' pontefici usare quella autorità e giurisdizione che si disponeva per le investiture del regno; che il ducato di Milano pigliasse in futuro il sale delle saline di Cervia, per quel prezzo e modi che altre volte fu convenuto tra Lione e il presente re di Francia, e confermato nella capitolazione che l'anno mille cinquecento ventuno fece il medesimo Lione con l'imperadore; e che il viceré fusse obligato a fare sí e talmente che il duca di Ferrara restituisse, immediate, alla Chiesa Reggio, Rubiera, l'altre terre che aveva prese, vacante la sedia romana per la morte di Adriano; e che per questo il pontefice, subito che e' ne fusse reintegrato, avesse a pagare a Cesare centomila ducati, e a ogni sua requisizione assolvere il duca dalle censure e privazioni nelle quali era incorso, ma non già dalla pena di centomila ducati promessa in caso di contravenzione allo instrumento fatto con Adriano: e nondimeno, ricuperata che il papa ne avesse la possessione, si avesse a vedere di ragione se quelle terre e Modena appartenevano alla Chiesa o allo imperio; e appartenendosi allo imperio si avessino a riconoscere in feudo da Cesare, appartenendosi alla Chiesa restassino libere alla sedia apostolica.
Fu questa deliberazione del pontefice interpretata variamente dagli uomini, secondo che sono varie le passioni e i giudizi. La moltitudine massime, alla quale sogliono piacere piú i consigli speciosi che i maturi, e che spesso ha per generosi quegli che non misurano le cose prudentemente, tutti coloro ancora che facevano professione di desiderare la libertà di Italia, lo biasimorono, come se per viltà d'animo avesse lasciato l'occasione di unirla contro a Cesare, e aiutato co' danari propri l'esercito suo a liberarsi da tutti i disordini; ma la maggiore parte degli uomini piú prudenti giudicorono molto diversamente, perché consideravano che il volersi opporre con genti nuove a uno esercito grossissimo e vincitore non era consiglio prudente. Non potere essere che la venuta de' svizzeri non fusse cosa lunga, e da arrivare facilmente passato che fusse il bisogno, quando bene fussino prontissimi a venire: di che, atteso la natura loro e la percossa ricevuta sí di fresco, non si aveva certezza alcuna. Né si dovere sperare meglio del reame di Francia, dove per tanta rotta non era restato né animo né consiglio; non vi era in pronto provisione di danari, non di gente d'arme, e quelle poche ancora che si erano salvate il dí della giornata, avendo perduto i carriaggi, avevano bisogno di tempo e di denari a riordinarsi: però, non avere questa unione altro probabile fondamento che la speranza che l'esercito inimico, per non essere pagato, non avesse a muoversi; il che quando bene succedesse non restare per questo privati del ducato di Milano, il quale mentre si reggeva a divozione di Cesare arebbe sempre il pontefice causa grandissima di temerne. Ma questa essere anche speranza molto incerta, perché era da temere che i capitani, con l'autorità e arti loro, col proporre il sacco di qualche città ricca della Chiesa o di Toscana, non lo disponessino a camminare: essersi già veduto che una parte de' tedeschi, solo per avere piú grassi alloggiamenti, aveva passato il fiume del Po e venuta in parmigiano e piacentino; in modo che se si fussino deliberati di spingersi innanzi non potere essere se non tardi rimedio alcuno, e fondarsi con troppo pericolo una tanta deliberazione in su la speranza sola de' disordini degli inimici, dalla volontà de' quali dependevano finalmente lo svilupparsene. Fu adunque il consiglio di Clemente, secondo il tempo che correva, prudente e bene considerato. Ma sarebbe stato forse piú laudabile se in tutti gli articoli della capitolazione avesse usato la medesima prudenza, e voltato l'animo piú presto a saldare tutte le piaghe di Italia che ad aprire e inasprirne qualcuna di momento; imitando i savi medici, i quali, quando i rimedi che si fanno per sanare la indisposizione degli altri membri accrescono la infermità del capo o del cuore, posposto ogni pensiero de' mali piú leggieri e che aspettano tempo, attendono con ogni diligenza a quello che è piú importante e piú necessario alla salute dello infermo. Il che perché s'intenda meglio è necessario ripetere piú da alto parte delle cose già narrate, ma sparsamente, di sopra, riducendole in uno luogo medesimo.
Cap. iii
La politica dei pontefici verso il duca d'Este, e loro ambizione su Ferrara. Apprensioni del duca dopo l'elezione di Clemente; timori di suoi accordi con Cesare.
La casa da Esti, oltre ad avere tenuto lunghissimamente sotto titolo di vicari della Chiesa il dominio di Ferrara, aveva molto tempo posseduto Reggio e Modena con le investiture degli imperadori, non si facendo allora dubbio che quelle due città non fussino di giurisdizione imperiale; e le possedé pacificamente insino che Giulio secondo, suscitatore delle ragioni già morte della sedia apostolica e sotto pietoso titolo autore di molti mali, per ridurre totalmente Ferrara in dominio della Chiesa, roppe guerra al duca Alfonso: nella quale avendo avuto occasione di torgli Modena, la ritenne al principio per sé, come cosa che insieme con tutte l'altre terre insino al fiume del Po appartenesse alla sedia apostolica, per essere parte dello esarcato di Ravenna; ma poco poi, per timore de' franzesi, la dette a Massimiliano imperadore. Né per questo cessò la guerra contro ad Alfonso; ma avendogli, non molto poi, tolto ancora Reggio, si crede che se fusse vivuto piú lungamente arebbe preso Ferrara; inimico acerbissimo di Alfonso, sí per la pietà che e' pretendeva alla ambizione di volere ricuperare alla Chiesa ciò che si dicesse essere mai stato suo in tempo alcuno, come per lo sdegno che egli avesse seguitato piú presto l'amicizia franzese che la sua; e forse ancora per l'odio implacabile portato da lui alla memoria e alle reliquie di Alessandro sesto suo predecessore, Lucrezia figliuola del quale era maritata ad Alfonso ed eranne di questo matrimonio nati già parecchi figliuoli. Lasciò Giulio, morendo, a' successori suoi non solo l'eredità di Reggio ma la medesima cupidità di acquistare Ferrara, stimolandogli la memoria gloriosa che pareva che appresso ai posteri avesse lasciata di sé. Però, fu piú potente in Lione suo successore questa ambizione che il rispetto della grandezza che aveva in Firenze la casa de' Medici, alla quale pareva piú utile che si diminuisse la potenza della Chiesa che, aggiugnendogli Ferrara, farla piú formidabile a tutti i vicini: anzi, avendo comperato Modena, indirizzò totalmente l'animo ad acquistare Ferrara, piú con pratiche e con insidie che con aperta forza; perché questo era diventato troppo difficile, avendo Alfonso, poi che si vidde in tanti pericoli, atteso a farla fortissima, lavorato numero grandissimo di artiglierie e di munizioni, e trovandosi, come si credeva, quantità grossa di denari. E furono le inimicizie sue forse maggiori ma trattate piú occultamente che quelle di Giulio; e oltre a molte pratiche tenute spesso da lui per pigliarla, o allo improviso o con inganni, obligò sempre i príncipi, co' quali si congiunse, in modo che almanco non potevano impedirgli quella impresa; né solo viventi Giuliano suo fratello e Lorenzo suo nipote, per l'esaltazione de' quali si credeva che avesse avuto questa cupidità, ma non manco dopo la morte loro: donde si può facilmente comprendere che da niuna cosa ha l'ambizione de' pontefici maggiore fomento che da se stessa. Il quale desiderio fu tanto ardente in lui che molti si persuasono che quella sua ultima, piú presto precipitosa che prudente, deliberazione di unirsi con Cesare contro al re di Francia fusse in grande parte spinta da questa cagione. In modo che la necessità costrinse Alfonso per sodisfare al re di Francia, unico fondamento e speranza sua, di rompere la guerra in modenese quando lo esercito di Lione e di Cesare era accampato intorno a Parma; nella quale avendo cattivo successo si sarebbe presto ridotto in gravissime difficoltà se, in ne' medesimi dí, non fusse inopinatamente, nel corso delle vittorie, morto Lione; morte certo per lui non manco salutifera che quella di Giulio. Né io so se, alla fine, fusse totalmente mancato Adriano suo successore di questa cupidità; benché per essere nuovo e inesperto nelle cose d'Italia [lo] avesse, ne' primi mesi che e' venne a Roma, assoluto dalle censure, concessagli di nuovo la investitura e permesso che e possedesse eziandio tutto quello che aveva occupato nella vacazione della Chiesa, e gli avesse ancora dato speranza di restituirgli Modena e Reggio: da che di poi, informato meglio delle cose, si alienò con l'animo ogni dí piú. In modo che Alfonso, avendo compreso che piú facilmente si induce a perdonare chi è offeso che a restituire chi possiede, fu piú ardito, vacando la sedia per la morte di Adriano, che non era stato prima nelle altre occasioni che aveva avute. Ma per la creazione di Clemente entrò in grandissimo timore che per lui non fussino ritornati gli antichi tempi; e meritamente, perché in lui, se gli fussino succedute le cose prospere, sarebbe stata la medesima disposizione che era stata in Giulio e in Lione: ma non avendo ancora occasione per Ferrara, era tutto intento a riavere Reggio e Rubiera, come cosa piú facile e piú giustificata per la possessione fresca che ne aveva avuto la Chiesa, e come se per questo gli risultasse ignominia non piccola del non le ricuperare. Da questo nacque che, prima in molti altri modi e ultimamente nella capitolazione col viceré, ebbe piú memoria di questo che non desideravano molti; i quali, conoscendo il pericolo che soprastava a tutti della grandezza di Cesare e che nissuno rimedio era piú salutifero che una unione molto sincera e molto pronta di tutta Italia, e che tutto dí potevano succedere o occasioni o necessità di pigliare l'armi, arebbono giudicato essere meglio che il pontefice non esasperasse né mettesse in necessità di gittarsi in braccio allo imperadore il duca di Ferrara, principe che, per la ricchezza per l'opportunità del sito e per l'altre sue condizioni, era, in tempi tali, da tenerne molto conto; e che piú presto l'avesse abbracciato, e fatto ogni diligenza di levargli l'odio e la paura: se però il fare benefizio a chi si persuade avere ricevute tante ingiurie è bastante a cancellare degli animi, sí male disposti e inciprigniti, la memoria delle offese; massime quando il benefizio si fa in tempo che pare causato piú da necessità che da volontà.
Cap. iv
Il vescovo di Pistoia inviato dal pontefice a visitare e consolare il re di Francia. Cesare riceve in protezione i lucchesi; nuovo mutamento di govemo in Siena. Accordi di altri principi italiani con Cesare; rinvio di soldati tedeschi in Germania.
Fatta la capitolazione, il pontefice, per non mancare degli offici convenienti verso tanto principe, mandò, con permissione del viceré, il vescovo di Pistoia a visitare e consolare in nome suo il re di Francia. Il quale, dopo le parole generali avute insieme presente il capitano Alarcone, e l'avere il re supplicato il pontefice che per lui facesse buono officio con Cesare, gli domandò con voce sommessa quel che fusse del duca di Albania; udendo con grandissima molestia la risposta, che risoluta una parte dell'esercito era con l'altra passato in Francia.
Convennono in questo tempo medesimo i lucchesi col viceré, il quale gli ricevé nella protezione di Cesare, di pagare diecimila ducati. Convennono e i sanesi di pagarne quindicimila, senza obligarlo a mantenere piú una forma che un'altra di governo: perché da uno canto quegli del Monte de' nove, a instanza del pontefice, per mezzo del duca d'Albania, avevano riassunta, benché non ancora consolidata, l'autorità; da altro, quegli che per fare professione di desiderare la libertà si chiamavano volgarmente i libertini, preso, per la giornata di Pavia, animo contro al governo introdotto per le forze del re di Francia, avevano mandato diversamente uomini al viceré per renderlo propizio a' disegni loro; né auta da lui certa risoluzione circa la forma del governo, avevano tutti sollecitata prontissimamente la composizione. La quale essendo fatta, e venuti a ricevere i danari gli uomini mandati dal viceré, nel tempo medesimo che i danari si annoveravano, e in presenza loro, Girolamo Severini cittadino sanese, che era stato appresso al viceré, ammazzò Alessandro Bichi, principale del nuovo reggimento e a chi il pontefice aveva disegnato che per allora si volgesse tutta la riputazione; donde preso l'armi da altri cittadini che erano congiurati seco, e levato in arme il popolo che era male contento che il governo ritornasse alla tirannide, cacciati i principali del Monte de' nove, riformorono la città a governo del popolo, inimico del pontefice e aderente di Cesare: essendo procedute queste cose non senza saputa, come si credette, del viceré, o almeno con somma approbazione di quello che era stato fatto, per considerare quanto fusse opportuno alle cose di Cesare avere a sua divozione quella città potente, che ha opportunità di porti di mare, fertile di paese, vicina al reame di Napoli e situata tra Roma e Firenze; non ostante che il viceré e il duca di Sessa avessino dato speranza al pontefice di non alterare il governo introdotto col favore suo.
Seguitorono molti altri di Italia la inclinazione de' sopradetti e la fortuna de' vincitori: co' quali il marchese di Monferrato compose in quindicimila ducati; e il duca di Ferrara, non si potendo sí presto stabilire le cose sue per i rispetti che avevano alla capitolazione fatta col pontefice, e perché era necessario intenderne prima la volontà di Cesare, fu contento di prestare al viceré cinquantamila ducati, con promessa di riavergli se non capitolassino insieme. Co' quali danari, e con centomila ducati promessi loro dallo stato di Milano e quegli che promessono i genovesi e i lucchesi, e con quegli ancora rimessi da Cesare a Genova per sostentazione della guerra ma arrivati dopo la vittoria, attendevano i capitani, secondo che i danari venivano, a pagare i soldi corsi dello esercito; rimandando di mano in mano, secondo che erano pagati, i tedeschi in Germania. In modo che, non si vedendo segni che avessino in animo di seguitare contro ad alcuno per allora il corso della vittoria, anzi avendo il viceré ratificato la capitolazione fatta con suo mandato col pontefice, e trattando nel tempo medesimo di fare appuntamento nuovo co' viniziani il quale molto desiderava, si voltorono gli occhi di tutti a risguardare in che modo Cesare ricevesse sí liete novelle e a che fini si indirizzassino i suoi pensieri.
Cap. v
Come Cesare accoglie la notizia della vittoria sul nemico; convocazione del consiglio; parole del vescovo di Osma; parole del duca d'Alba. Cesare fa notificare al re di Francia a quali condizioni gli concederebbe la libertà; risposta del re.
Nel quale, per quello che si potette comprendere dalle dimostrazioni estrinseche, apparirono indizi grandi di animo molto moderato e atto a resistere facilmente alla prosperità della fortuna, e tale che non era da credere in uno principe sí potente, giovane e che mai aveva sentito altro che felicità. Perché avuto avviso di tanta vittoria, che gli pervenne il decimo dí di marzo, e con esso lettere di mano propria del re di Francia, scritte supplichevolmente e piú presto con animo di prigione che con animo di re, andò subito alla chiesa a rendere grazie a Dio, con molte solennità, di tanto successo, e con segni di somma devozione prese la mattina seguente il sagramento della eucarestia e andò in processione alla chiesa di Nostra Donna fuora di Madril, dove allora si trovava con la corte; né consentí che, secondo l'uso degli altri, si facessino, con campane o con fuochi o in altro modo, dimostrazioni di allegrezza, dicendo essere conveniente fare feste delle vittorie avute contro agl'infedeli non di quelle che si avevano contro a cristiani. E non mostrando ne' gesti o nelle parole segno alcuno di troppa letizia o di animo gonfiato, rispose alle congratulazioni degli imbasciadori e uomini grandi che erano appresso a lui, che ne aveva preso piacere perché lo aiutarlo Dio sí manifestamente gli pareva pure indizio di essere, benché immeritamente, nella sua grazia; e perché sperava che ora sarebbe l'occasione di mettere la cristianità in pace, e di apparecchiare la guerra contro agli infedeli; e perché arebbe facoltà maggiore di fare beneficio agli amici e di perdonare agli inimici. Soggiugnendo che benché questa vittoria gli potesse parere giustamente tutta sua, per non essere stato seco ad acquistarla alcuno degli amici, voleva nondimeno che la fusse comune a tutti; anzi, avendo udito l'oratore viniziano che gli giustificava le cose fatte dalla sua republica, disse poi a' circostanti, le scuse sue non essere vere ma che voleva accettarle e riputarle per vere. Nelle quali parole e dimostrazioni, significatrici di somma sapienza e bontà, poiché si fu continuato qualche dí, egli, per procedere maturamente come era consueto, chiamato uno giorno il consiglio, propose lo consigliassino in che modo fusse da governarsi col re di Francia e a che fine dovesse indirizzarsi questa vittoria; comandando che per ciascuno si consigliasse liberamente alla presenza sua. Dopo il quale comandamento il vescovo di Osma, che teneva la cura del confessarlo, parlò cosí:
- Se bene, gloriosissimo principe, tutte le cose che accaggiono in questo mondo inferiore procedono dalla providenza del sommo Dio e da quella hanno giornalmente il moto suo, pure questo talvolta in qualcuna si scorge piú chiaramente: ma se si vedde mai manifestamente in alcuna, si è veduto nella presente vittoria; perché, per la grandezza sua e per la facilità con la quale è stata acquistata, e per essersi vinti inimici potentissimi e molto piú abbondanti di noi delle provisioni necessarie alla guerra, non può negare alcuno che non sia stata espressa volontà di Dio e quasi miracolo. Però, quanto il beneficio suo è stato piú manifesto e maggiore tanto piú è obligata la Maestà vostra a riconoscerlo e a dimostrarne la debita gratitudine; il che principalmente consiste nello indirizzare la vittoria secondo che piú sia il servigio di Dio, e a quel fine per il quale si può credere che egli ve la abbia conceduta. E certamente, quando io considero in che grado sia ridotto lo stato della cristianità, non veggo che cosa alcuna sia né piú santa né piú necessaria né piú grata a Dio che la pace universale tra i príncipi cristiani: conciossiaché si tocchi con mano che senza questa la religione, la fede sua, il bene vivere degli uomini ne vanno in manifestissima ruina. Abbiamo da una parte i turchi, che per le nostre discordie hanno fatto contro a' cristiani tanto progresso, e ora minacciano l'Ungheria, regno del marito della sorella vostra; e se pigliano l'Ungheria (come, se i príncipi cristiani non si uniscono, senza dubbio piglieranno) aranno aperta la strada alla Germania e alla Italia. Dall'altra parte, questa eresia luteriana, tanto inimica a Dio, tanto vituperosa a chi la può opprimere, tanto pericolosa a tutti i príncipi, ha già preso tale piede che se non si provede si empie il mondo di eretici, né si può provedere se non con l'autorità e potenza vostra; le quali mentre che voi siate impegnato in altre guerre non possono adoperarsi a estirpare questo perniciosissimo veleno. Dipoi, quando bene al presente né di turchi né di eretici si temesse, che cosa piú brutta piú scelerata piú pestifera, che tanto sangue de' cristiani, che si potrebbe spendere gloriosamente per augumentare la fede di Cristo o almanco riserbare a tempi piú necessari, si spanda per le passioni nostre inutilmente, accompagnato da tanti stupri da tanti sacrilegi e opere nefande: mali che chi ne è cagione per volontà non può sperarne da Dio perdono alcuno, chi gli fa per necessità non merita di essere escusato, se almanco non ha determinata intenzione di rimediare come prima ne arà la facoltà. Debbe adunque essere il fine e la mira vostra la pace universale de' cristiani, come cosa sopra tutte l'altre onorevole santa e necessaria. La quale vediamo ora in che modo si possa conseguire. Tre sono le deliberazioni che può prendere la Maestà vostra del re di Francia: l'una, di tenerlo perpetuamente prigione; l'altra, di liberarlo amorevolmente e fraternalmente, senza altre convenzioni che quelle che appartenghino a fermare tra voi perpetua pace e amicizia e a sanare i mali della cristianità; la terza, liberarlo ma cercando di trarne piú profitto che sia possibile: delle quali, se io non mi inganno, l'altre due prolungano e accrescono le guerre, la liberazione amorevole e fraterna è solo quella che le estirpa in eterno. Perché chi può dubitare che il re di Francia, usandosegli tanta generosità, sí singolare liberalità, non rimanga per tanto beneficio piú legato coll'animo e piú in potestà vostra che non è al presente col corpo? e se tra voi e lui sarà vera unione e concordia tutto il resto de' cristiani andrà a quello cammino che da voi due sarà mostrato. Ma il risolversi a tenerlo sempre prigione, oltre che sarebbe pure con infamia troppo grande di crudeltà e segno di animo che non conoscesse la potestà della fortuna, non fa egli nascere guerre di guerre? perché presuppone volere acquistare o tutta o parte della Francia, che senza nuove e grandissime guerre non si può fare. Se si piglia il partito di mezzo, cioè liberarlo ma con piú vantaggiosi patti che si possa, credo che sia il piú implicato il piú pericoloso partito di tutti gli altri; perché, faccisi che parentado che capitoli che obligazioni si voglia, resterà sempre inimico, né gli mancherà mai la compagnia di tutti quegli che temano della grandezza vostra; in modo che ecco nuove guerre, e piú sanguinose e piú pericolose che le passate. Conosco quanto questa opinione sia diversa dal gusto degli uomini, quanto sia nuova e senza esempli; ma si convengono bene a Cesare deliberazioni estraordinarie e singolari. Né è da maravigliarsi che l'animo cesareo sia capacissimo di quello a che i concetti degli altri uomini non arrivano, i quali quanto avanza di degnità tanto debbe avanzare di magnanimità; e però conoscere, sopra tutti gli altri, quanto sia piena di vera gloria una tanta generosità, quanto sia piú officio di Cesare il perdonare e il beneficare che l'acquistare; che non invano Dio gli ha dato quasi miracolosamente la potestà di mettere la pace nel mondo; che a lui si appartiene, dopo tante vittorie, dopo tante grazie che Dio gli ha fatte, dopo il vedere inginocchiato a' piedi suoi ognuno, procedere non piú come inimico di persona ma provedere come padre comune alla salute di tutti. Piú fece glorioso il nome di Alessandro magno, il nome di Giulio Cesare, la magnanimità di perdonare agli inimici, di restituire i regni a' vinti, che tante vittorie e tanti trionfi; lo esempio de' quali debbe molto piú seguitare chi, non avendo per fine unico la gloria, ancora che sia premio grandissimo, desidera principalmente di fare quel che è il proprio il vero ufficio di ciascuno principe cristiano. Ma consideriamo piú innanzi, per convincere coloro che misurano le cose umane solamente con fini umani, quale deliberazione sia piú conforme ancora a questi. Io certamente giudico che in tutta la grandezza della Maestà vostra non sia la piú maravigliosa la piú degna parte che questa gloria di essere stato insino a oggi invitto, di avere condotto a felicissimo fine, con tanta riputazione con tanta prosperità, tutte le imprese vostre. Questa è senza dubbio la piú preziosa gioia, il piú singolare tesoro che sia tra tutti i vostri tesori; adunque, come meglio si stabilisce come meglio si assicura come piú certamente si conserva che col posare le guerre con fine sí generoso e sí magnanimo, col levare la gloria acquistata dalla potestà della fortuna, e di mezzo il mare ridurre in sicuro porto questo navilio carico di mercie di inestimabile valore? Ma diciamo piú oltre: non è piú desiderabile quella grandezza che si conserva volontariamente che quella che si mantiene con violenza? Niuno ne dubita, perché è piú stabile piú facile piú piacevole piú onorevole. Se Cesare si obliga il re di Francia con tanta liberalità, con tanto beneficio, non sarà egli sempre padrone di lui e del regno suo? se e' dà sí manifesta certezza al papa e agli altri príncipi di contentarsi dello stato che ha, né avere altro pensiero che della salute universale, non resteranno eglino senza sospetto? e non avendo piú né da temere né da contendere con lui, non solo ameranno ma adoreranno tanta bontà. Cosí con volontà di tutti darà le leggi a tutti, e senza comparazione disporrà piú de' cristiani con la benivolenza e con l'autorità che non farebbe con le forze e con l'imperio. Arà facoltà, aiutato e seguitato da tutti, voltare le armi contro a luterani e contro agl'infedeli, con piú gloria e con piú occasione di maggiori acquisti; i quali non so perché non si debbino anche desiderare nella Affrica o nella Grecia o nel levante, quando bene lo ampliare il dominio fra i cristiani avesse quella facilità che molti, a giudizio mio, vanamente si immaginano. Perché la potenza della Maestà vostra è augumentata tanto che è troppo formidabile a ciascuno; e come si vegga che si disegni maggiore progresso tutti di necessità si uniranno contro a voi. Ne teme il papa, ne temono i viniziani, ne teme Italia tutta; e, per i segni che spesso si sono veduti, è da credere che abbia a essere molesta al re d'Inghilterra. Potrannosi intrattenere qualche mese, con speranze e pratiche vane, i franzesi, ma bisognerà in ultimo che il re si liberi o che si disperino; disperati, si uniranno con tutti questi altri. Se il re si libera con condizioni per la Maestà vostra di poca utilità, e che guadagno si sarà fatto a perdere l'occasione di usare tanta magnanimità? la quale se non si mostra in questo principio, ancora che si mostrasse poi, non arà seco piú né laude né gloria né grazia pari; se con condizioni che vi sieno utili, non le osserverà, perché nessuna sicurtà che vi abbia data gli potrà importare tanto che non gli importi molto piú che lo inimico suo non diventi sí grande che poi lo possi opprimere: cosí aremo o una inutile pace o una pericolosa guerra, i fini delle quali sono incerti; ed [è] da temere piú da chi ha avuto sí lunga felicità la mutazione della fortuna, e da dispiacere piú quando le cose succedono male a chi ha avuto potestà di stabilirle tutte bene. Penso, Cesare, avere sodisfatto al comandamento vostro, se non con la prudenza almanco con l'affezione e con la fede; né mi resta altro che pregare Dio che vi dia mente e facoltà di fare quella deliberazione che sia piú secondo la sua volontà, sia piú secondo la vostra gloria, piú, finalmente, secondo il bene della republica cristiana: della quale, e per la degnità suprema che voi avete e perché si vede essere cosí la volontà divina, a voi conviene esserne padre e protettore. -
Fu udito questo consiglio da Cesare con grande attenzione, e senza fare segno alcuno di dispiacergli o di approvarlo; ma, poi che stato alquanto tacito ebbe accennato che gli altri seguitassino di parlare, [Federico duca d'Alva, uomo] e appresso a Cesare di grande autorità, disse cosí:
- Io sarò scusato, invittissimo imperadore, se io confesserò che in me non sia giudizio diverso dal giudizio comune, né capacità di aggiugnere con lo intelletto a quello a che gl'intelletti degli altri uomini non arrivano; anzi sarò forse piú lodato se consiglierò che si proceda per quelle vie medesime che sono proceduti sempre i padri e gli avoli vostri, perché i consigli nuovi e inusitati possono al primo aspetto parere forse piú gloriosi e piú magnanimi ma riescono poi senza dubbio piú pericolosi e piú fallaci di quegli che in ogni tempo ha, appresso a tutti gli uomini, approvato la ragione e l'esperienza. La volontà di Dio principalmente, e dipoi la virtú de' vostri capitani e del vostro esercito, vi ha data la maggiore vittoria che avesse, già sono molte età, alcuno principe cristiano; ma tutto il frutto dello avere vinto consiste nello usare la vittoria bene, e il non fare questo è tanto maggiore infamia che il non vincere, quanto è piú colpa lo essere ingannato da quelle cose che sono in potestà di chi si inganna che da quelle che dependono dalla fortuna: dunque, tanto piú è da avvertire di non fare deliberazione che vi abbia alla fine a dare appresso agli altri vergogna, appresso a voi medesimo penitenza; e quanto piú grave è la importanza di quello che si tratta tanto si debbe procedere piú circospetto, e fare maturamente quelle deliberazioni che, errate una volta, non si possano piú ricorreggere: e ricordarsi che se il re si libera non si può piú ritenere, ma mentre che è in prigione è sempre in potestà vostra il liberarlo: né doverrebbe la tardità dargli ammirazione, perché, se io non mi inganno, è conscio a se medesimo quel che farebbe se Cesare fusse suo prigione. È stata certo cosa grandissima a pigliare il re di Francia, ma chi considererà bene la troverà senza comparazione maggiore a lasciarlo; né sarà mai tenuto prudenza il fare una deliberazione di tanto momento senza lunghissime consulte e senza rivoltarsela infinite volte per la mente. Né sarei forse in questa sentenza se io mi persuadessi che il re, liberato al presente, riconoscesse tanto benefizio con la debita gratitudine; e che il papa e gli altri d'Italia deponessino insieme col sospetto la cupidità e l'ambizione: ma chi non conosce quanto sia pericoloso fondare una risoluzione tanto importante in su uno presupposito tanto fallace e tanto incerto? anzi, chi considera bene la condizione e costumi degli uomini ha piú presto a giudicare il contrario, perché di sua natura niuna cosa è piú breve niuna ha vita minore che la memoria de' benefici; e quanto sono maggiori tanto piú, come è in proverbio, si pagano con la ingratitudine: perché chi non può o non vuole scancellargli con la remunerazione, cerca spesso di scancellargli o col dimenticarsegli o col persuadere a se medesimo che e' non sieno stati sí grandi; e quegli che si vergognano di essersi ridotti in luogo che abbino avuto bisogno del benefizio si sdegnano ancora di averlo ricevuto, in modo che può piú in loro l'odio, per la memoria della necessità nella quale sono caduti, che l'obligazione per la considerazione della benignità che a loro è stata usata. Dipoi, di chi è piú naturale la insolenza piú propria la leggerezza, che de' franzesi? dove è la insolenza è la cecità; dove è la leggerezza non è cognizione di virtú, non giudizio di discernere le azioni d'altri, non gravità da misurare quello che convenga a se stesso. Che adunque si può sperare di uno re di Francia, enfiato di tanto fasto quanto ne può capere in uno re de' franzesi, se non che arda di sdegno e di rabbia di essere prigione di Cesare, nel tempo che e' pensava di avere a trionfare di lui? sempre gli sarà innanzi agli occhi la memoria di questa infamia né, liberato, crederà mai che il mezzo di spegnerla sia la gratitudine, anzi il cercare sempre di esservi superiore: persuaderà a se medesimo che voi lo abbiate lasciato per le difficoltà del ritenerlo, non per bontà o per magnanimità. Cosí è quasi sempre la natura di tutti gli uomini, cosí sempre quella de' franzesi, da' quali chi aspetta gravità o magnanimità aspetta ordine e regola nuova nelle cose umane. In luogo adunque di pace e di riordinare il mondo sorgeranno guerre maggiori e piú pericolose che le passate, perché la vostra riputazione sarà minore e lo esercito vostro che aspetta il frutto debito di tanta vittoria, ingannato delle speranze sue, non arà piú la medesima virtú e vigore, né le cose vostre la medesima fortuna, la quale difficilmente sta con chi la ritiene non che con chi la scaccia. Né sarà di altra sorte la bontà del papa e de' viniziani; anzi, pentiti di avervi lasciato conseguire la passata vittoria, cercheranno di impedirvi le future, e la paura che hanno ora di voi gli sforzerà a fare ogni opera di non avere a ritornare in nuova paura; e, dove è in potestà vostra di tenere legato e attonito ognuno, voi medesimo con una dissoluta bontà sarete quello che gli farete sciolti e arditi. Non so quale sia la volontà di Dio, né credo la sappino gli altri; perché e' si suole pure dire che i giudíci suoi sono occulti e profondi. Ma, se si può congetturare da quello che tanto chiaramente si dimostra, credo che sia favorevole alla vostra grandezza; non credo già che abbondino tante sue grazie a fine che voi le dissipiate da voi medesimo ma per farvi superiore agli altri, cosí in effetto come siete in titolo e in ragione: però, perdere sí rara occasione che Dio vi manda non è altro che tentarlo, e farvi indegno della sua grazia. Ha sempre dimostrato l'esperienza, e lo dimostra la ragione, che mai succedino bene le cose che dependano da molti; però, chi crede con l'unione di molti príncipi spegnere gli eretici o domare gl'infedeli non so se misura bene la natura del mondo. Sono imprese che hanno bisogno di uno principe sí grande che dia la regola agli altri; senza questo, se ne tratterà e farà per l'innanzi con quello successo che se ne è trattato e fatto per l'addietro. Per questo credo che Dio vi mandi tante vittorie, per questo credo che Dio vi apra la via alla monarchia, con la quale sola si possono fare sí santi effetti; e meglio è che si tardi a dare loro principio per fargli con migliori e piú certi fondamenti. Né vi alieni da questa deliberazione il timore di tante unioni che si minacciano, perché troppo grande è l'occasione che avete in mano; né mai, se le cose saranno bene negoziate, la madre del re, per la pietà materna e per la necessità di ricuperare il figliuolo, si spiccherà dalle speranze di riaverlo da voi per accordo; né mai i príncipi d'Italia si unirarno col governo di Francia, conoscendo che sempre sia in potestà vostra, col liberare il re, separarlo anzi voltarlo contro a loro. Bisogna stieno attoniti e sospesi, e alla fine faccino a gara di ricevere le leggi da voi: a quali sarà glorioso usare la clemenza, e la magnanimità quando le cose restino in grado che e non possino mancare di riconoscervi per superiore. Cosí la usorono Alessandro e Cesare, che furno liberali a perdonare le ingiurie, non inconsiderati a rimettersi da se stessi in quelle difficoltà e pericoli che avevano già superati. È laudabile chi fa cosí perché fa cosa che ha pochi esempli, ma per avventura imprudente chi fa quello che non ha alcuno esempio. Però, Cesare, il parere mio è che di questa vittoria si tragga piú frutto che si può; e che perciò il re, trattandolo sempre con onori convenienti a re, sia condotto, se non si può in Spagna, almeno a Napoli. In risposta della lettera sua si mandi a lui uno uomo con benignissime parole, per il quale si proponghino le condizioni della sua liberazione; tali che, come particolarmente si potrà consultare, sieno premi degni di tanta vittoria. Cosí, fermati questi fondamenti e questi fini del vostro procedere, la giornata e gli accidenti che si scopriranno, farà piú presta o piú tarda la liberazione del re, lo stare in guerra o in pace con gl'italiani; a' quali si diano per ora buone speranze: e si augumenti quanto si può il favore e la riputazione dell'armi con l'arte e con la industria, per non avere a tentare ogni dí di nuovo la fortuna; e stiamo parati ad accordare con questo o con quello o con tutti insieme o con nessuno, secondo che le occasioni consiglieranno. Queste sono le vie per le quali sempre sono camminati i savi príncipi, e particolarmente quegli che vi hanno fondato tanta grandezza; i quali non hanno mai gittato via gli instrumenti del crescere né allentato, quando l'hanno avuto propizio, il favore della fortuna. Cosí dovete fare voi, al quale appartiene per giustizia quello che in qualcuno di loro poteva parere ambizione. Ricordatevi, Cesare, che voi siete principe e che è ufficio vostro di procedere per la via de' príncipi; e che nessuna ragione, o divina o umana, vi conforta a omettere l'opportunità di fare risorgere l'autorità usurpata e oppressa dello imperio, ma vi obliga solamente ad avere animo e intenzione di usarla rettamente. E ricordatevi sopra tutto quanto sia facile a perdere l'occasioni grandi e quanto sia difficile ad acquistarle; e però, mentre che si hanno, essere necessario di fare ogni opera per ritenerle né fondarsi in su la bontà o in su la prudenza de' vinti, poi che il mondo è pieno di imprudenza e di malignità, e giudicando che o dalla grandezza vostra o da nessuno altro mezzo si ha a difendere la religione cristiana, accrescerla quanto si può, non piú per interesse della autorità e gloria vostra che per servigio di Dio e per zelo del bene universale. -
Impossibile sarebbe esprimere con quanto favore di tutto il consiglio fusse udito [il duca d'Alva], avendosi già ciascuno proposto nell'animo lo imperio di quasi tutti i cristiani: però, non fu alcuno degli altri che senza replica non confermasse la medesima sentenza; approvandola ancora Cesare, piú presto sotto specie di non volere discostarsi dal consiglio de' suoi che con dichiarare quale fusse per se stessa la sua inclinazione. Espedí adunque, Beuren, cameriere intimo e molto accetto, a notificare a' capitani la sua deliberazione e a visitare in suo nome il re di Francia, e a proporre le condizioni con le quali poteva ottenere la liberazione. Il quale, fatto il cammino per terra (perché la madre del re, acciò che piú comodamente si potessino trattare le cose del figliuolo, non impediva piú il transito agli uomini e a' corrieri che andassino e venissino da Cesare), andò insieme col Borbone e col viceré a Pizzichitone, dove era ancora il re, [e] gli offerse la liberazione; ma con condizioni tanto gravi che dal re furono udite con grandissima molestia: perché, oltre alla cessione delle ragioni quali pretendeva avere in Italia, gli dimandava la restituzione del ducato di Borgogna come cosa propria, che al duca di Borbone desse la Provenza, e per il re di Inghilterra e per sé altre condizioni di grandissimo momento. Alle quali dimande rispose il re, costantemente, avere deliberato piú presto morire prigione che di privare i figliuoli di parte alcuna del reame di Francia; ma, che quando bene avesse deliberato altrimenti, che in potestà sua non sarebbe di eseguirlo, non comportando l'antiche costituzioni di Francia che si alienasse cosa alcuna appartenente alla corona senza il consentimento de' parlamenti, e degli altri appresso a' quali risedeva l'autorità di tutto il reame; i quali erano consueti, in casi simiglianti, anteporre la salute universale allo interesse particolare delle persone de' re. Dimandassingli condizioni che gli fussino possibili, perché non potrebbono trovare in lui maggiore prontezza e a congiugnersi con Cesare e a favorire la sua grandezza: né cessò di proporre condizioni diverse, non facendo difficoltà di concedere larghissimamente degli stati di altri pure che ottenesse la liberazione, senza promettere de' suoi. La somma fu: offerirsi a pigliare per moglie la sorella di Cesare che era restata vedova del re di Portogallo, confessando di avere la Borgogna in nome di sua dote, nella quale succedessino i figliuoli che nascerebbono di questo matrimonio; restituire al duca di Borbone il ducato che gli era stato confiscato e aggiugnergli qualche altro stato, e in ricompenso della sorella di Cesare che gli era stata promessa dargli la sorella sua, restata nuovamente vedova per la morte di Alanson: sodisfare al re d'Inghilterra con danari, e a Cesare pagarne per la taglia sua grandissima quantità; cedergli le ragioni del regno di Napoli e del ducato di Milano; promettere di farlo accompagnare con armata di mare e con esercito per terra quando andasse a Roma a pigliare la corona dello imperio, che era come promettere di dargli in preda tutta Italia. Con la quale forma di capitoli Beuren ritornò a Cesare: e vi andò con lui monsignore di Memoransí, persona insino allora accettissima al re, e il quale fu dipoi promosso da lui prima all'uficio del gran maestro e poi alla degnità del gran conestabile di Francia.
Cap. vi
Dolore in Francia per la sconfitta e la prigionia del re; proposte della reggente a Cesare; proposte ai veneziani e al papa. Difficoltà di accordi fra Cesare e il re d'Inghilterra. Accordi fra il re d'Inghilterra e la reggente di Francia. Insolenza dei capitani cesarei in Italia.
Ma venuta in Francia la nuova della rotta dello esercito e della cattura del re, sarebbe quasi impossibile immaginare quanta fusse la confusione e la disperazione di tutti; perché al dolore smisurato che dava il caso miserabile del suo re a quella nazione, affezionatissima naturalmente e devotissima al nome reale, si aggiugnevano infiniti dispiaceri privati e publici: privati, perché nella corte e nella nobiltà pochissimi erano quegli che non avessino perduto, nella giornata, figliuoli fratelli o altri congiunti o amici non volgari; publichi, per tanta diminuzione dell'autorità e dello splendore di sí glorioso regno (cosa tanto piú loro molesta quanto piú per natura si arrogano e presumono di se medesimi), e perché temevano che tanta calamità non fusse principio di rovina maggiore, trovandosi prigione il re, e con lui o presi o morti nella giornata i capi del governo e quasi tutti i capitani principali della guerra, disordinato il regno di danari e circondato da potentissimi inimici. Perché il re di Inghilterra, ancora che avesse tenuto diverse pratiche e dimostrato in molte cose variazione di animo, nondimeno, pochi dí innanzi alla giornata, esclusi tutti i maneggi che aveva avuti col re, aveva publicato di volere passare in Francia se in Italia succedesse qualche prosperità: però era grande il timore che, in tanta opportunità, Cesare ed egli non rompessino la guerra in Francia; dove, per non essere altro capo che una donna e i piccoli figliuoli del re, del quale il primogenito non aveva ancora finiti otto anni, e per avere loro seco il duca di Borbone, signore di tanta potenza e autorità nel regno di Francia, era pericolosissimo ogni movimento che e' facessino. Né alla madre, in tanti affanni che aveva per l'amore del figliuolo e per i pericoli del regno, mancavano le passioni sue proprie; perché, ambiziosa e tenacissima del governo, dubitava che, allungandosi la liberazione del re e sopravenendo in Francia qualche nuova difficoltà, non fusse costretta cedere l'amministrazione a quegli che fussino deputati dal regno. Nondimeno, in tanta perturbazione raccolto l'animo da lei e da quegli che gli erano piú appresso, oltre al provedere, piú presto potettono, le frontiere di Francia e ordinare gagliarde provisioni di danari, scrisse madama la reggente, per ordine e in nome della quale si spedivano tutte le faccende, a Cesare lettere supplichevoli e piene di compassione, con introdurre e poi sollecitare, di mano in mano, quanto potette le pratiche dello accordo. Per le quali anche, poco dipoi liberato don Ugo di Moncada, lo mandò a Cesare a offerire: che il figliuolo rinunzierebbe alle ragioni del regno di Napoli e dello stato di Milano; sarebbe contento che si vedesse di ragione a chi apparteneva la Borgogna, e in caso che appartenesse a Cesare, riconoscerla in nome di dota della sorella; restituire a Borbone lo stato suo, co' mobili di grandissimo valore e i frutti stati occupati dalla camera reale; dargli per donna la sorella, e consentire che avesse la Provenza se fusse giudicato avervi migliore ragione. Le quali pratiche perché fussino piú facili, piú che per avere volto l'animo a' pensieri della guerra, spedí madama subito in Italia a raccomandare al papa e a' viniziani la salute del figliuolo; offerendo, se per la sicurtà propria volevano ristrignersi seco e pigliare l'armi contro a Cesare, cinquecento lancie e grossa contribuzione di danari. Ma il principale suo desiderio e di tutto il regno di Francia sarebbe stato di mitigare l'animo del re d'Inghilterra; giudicando, come era vero, che non avendo inimico lui il regno di Francia non avesse a essere molestato, ma che se egli da uno canto dall'altro Cesare movessino l'armi, avendo con loro Borbone e tante occasioni, che ogni cosa si empierebbe di difficoltà e di pericoli.
Ma di questo cominciò presto a dimostrarsi a madama qualche speranza. Perché, se bene il re di Inghilterra avesse, subito che intese la nuova della vittoria, fatti segni grandissimi di allegrezza e publicato di volere passare in Francia personalmente, mandati anche a Cesare oratori per trattare e sollecitare di muovere comunemente la guerra, nondimeno, procedendo in questo tempo col medesimo stile che altre volte aveva proceduto, ricercò anche madama che gli mandasse uno uomo proprio; la quale lo spedí subito con amplissime commissioni, usando tutte le sommissioni e arti possibili a mitigare l'animo di quel re: il quale, non partendo dal consiglio del cardinale eboracense, pareva che avesse per fine principale di diventare talmente cognitore delle differenze tra gli altri príncipi che tutto il mondo potesse conoscere dependere da lui il momento della somma delle cose. Però, e nel tempo medesimo offeriva a Cesare di passare in Francia con esercito potente, offeriva di dare perfezione al parentado conchiuso altre volte tra loro e, per levarne ogni scrupolo, consegnare di presente a Cesare la figlia, che non era ancora negli anni nubili. Ma avevano queste cose non piccole difficoltà, parte dependenti da lui medesimo parte dependenti da Cesare, non pronto a convenire con lui come era stato per il passato; perché quel re dimandava per sé quasi tutti i premi della vittoria, la Piccardia la Normandia la Ghienna e la Guascogna, con titolo di re di Francia; e che Cesare, ancora che i premi fussino ineguali, passasse personalmente in Francia, partecipe egualmente delle spese e de' pericoli. Turbava la inegualità di queste condizioni l'animo di Cesare, e molto piú che, ricordandosi che negli anni prossimi aveva ne' maggiori pericoli del re di Francia allentato sempre l'armi contro a lui, si persuadeva non potere fare fondamento in questa congiunzione; ed essendo esaustissimo di danari e stracco da tanti travagli e da tanti pericoli, sperava potere conseguire piú dal re di Francia col mezzo della pace che col mezzo delle armi, movendole in compagnia del re di Inghilterra. Né era piú appresso a lui in tanta estimazione in quanta soleva essere il matrimonio della figliuola, collocata ancora negli armi minori, e nella dota della quale s'aveva a computare quel che Cesare aveva ricevuto in prestanza dal re di Inghilterra: anzi, mosso dal desiderio d'avere figliuoli, dalla cupidità de' danari, aveva inclinazione a congiugnersi con la sorella di [Giovanni] re di Portogallo, di età nubile e dalla quale sperava ricevere in dote grandissima quantità di danari; e molti ancora, in caso facesse questo matrimonio, gliene offerivano i popoli suoi, desiderosi di avere una regina della medesima lingua e nazione, e che presto procreasse figliuoli. Per le quali cose difficultandosi ogni dí piú la pratica tra l'uno e l'altro principe, e aggiugnendosi la inclinazione che ordinariamente aveva al re di Francia il cardinale eboracense, le querele ancora che già palesemente faceva di Cesare, sí per gli interessi del suo re come perché gli pareva cominciare a essere disprezzato da Cesare, il quale, solendo innanzi alla giornata di Pavia non mandargli mai se non lettere scritte tutte di sua mano sottoscrivendosi: "il vostro figliuolo e cugino Ciarles", avuta quella vittoria, cominciò a fargli scrivere lettere nelle quali non vi era piú scritto di mano propria altro che la sottoscrizione, non piú piena di titoli di tanta riverenza e sommissione ma solamente con il proprio suo nome: "Ciarles"; tutte queste cose furono cagione che il re d'Inghilterra, raccolto con umanissime parole e dimostrazioni l'uomo mandatogli da madama la reggente, e confortatola a sperare bene delle cose future, non molto poi, alienato totalmente l'animo dalle cose di Cesare, contrasse confederazione con madama contraente in nome del figliuolo; nella quale volle inserisse espressa condizione che non si potesse concedere a Cesare, eziandio per la liberazione del re, cosa alcuna posseduta allora dal reame di Francia. Questa fu la prima speranza di salute che cominciasse ad avere il regno di Francia, questo il principio di respirare da tante avversità augumentato poi continuamente per i progressi de' capitani cesarei in Italia: i quali, diventati insolentissimi per tanta vittoria, e persuadendosi che alla volontà loro avessino a cedere tutti gli uomini e tutte le difficoltà, perderono l'occasione di concordare i viniziani, contravennono al pontefice nelle cose gli avevano promesse, ed empiendo lui il duca di Milano e tutta Italia di sospetto sparsono i semi di nuove turbazioni; le quali messono finalmente Cesare in necessità di fare deliberazione precipitosa, con pericolo grandissimo dello stato suo d'Italia, se non avesse potuto piú la sua antica felicità o il fato malignissimo del pontefice: cose certamente degnissime di particolare notizia, perché di accidenti tanto memorabili si intendino i consigli e i fondamenti; i quali spesso sono occulti, e divulgati il piú delle volte in modo molto lontano da quel che è vero.
Cap. vii
Il pontefice pubblica l'accordo concluso col viceré; sue ragioni di malcontento verso il viceré. Cesare ratifica solo in parte l'accordo col pontefice, il quale ricusa perciò le lettere di ratifica. Atteggiamento di attesa dei veneziani. Il re di Francia condotto in Ispagna; contegno di Cesare verso di lui. Tregua fra Cesare ed il governo di Francia; disposizioni riguardanti le cose d'Italia e le milizie cesaree.
Non aveva adunque il pontefice capitolato appena col viceré che sopravennono le offerte grandi di Francia per incitarlo alla guerra; e se bene non gli mancassino allo effetto medesimo i conforti di molti, né gli fusse diminuita la diffidenza che prima aveva degli imperiali, deliberò di procedere in tutte le cose talmente che dalle azioni sue non avessino cagione di prendere sospetto alcuno. Perciò, subito che intese il viceré avere accettato e publicato lo appuntamento fatto in Roma, lo fece ancora egli publicare in San Giovanni Laterano, senza aspettare che prima fusse venuta la ratificazione promessa di Cesare, onorando, per piú efficace dimostrazione dell'animo suo, la publicazione, che fu fatta il primo dí di maggio, con la presenza sua e con la solennità della sua incoronazione; sollecitò che i fiorentini pagassino i danari promessi, e si interpose quanto potette perché i viniziani appuntassino ancora loro co' cesarei. Ma da altra parte, gli furono date da loro molte giuste cause di querelarsi: perché nel pagamento de' danari promessi non vollono accettare i venticinquemila ducati pagati per ordine suo da' fiorentini mentre si trattava l'accordo, allegando il viceré, impudentemente, se altrimenti fusse stato promesso essere stato fatto senza sua commissione; non rimossono i soldati del dominio della Chiesa, anzi empierono il piacentino di guarnigioni. Alle quali cose, che si potevano forse in qualche parte scusare per la carestia che avevano di danari e di alloggiamenti, aggiunsono che non solo, nella mutazione dello stato di Siena, dettono sospetto di avere l'animo alieno dal pontefice, ma ancora dipoi comportorono che i cittadini del Monte de' nove fussino male trattati e spogliati de' beni loro da i libertini, non ostante che molte volte, lamentandosene lui, gli dessino speranza di provedervi. Ma quello che sopra ogni cosa gli fu molestissimo fu l'avere subito prestato il viceré orecchi al duca di Ferrara, e datagli speranza di non lo sforzare a lasciare Reggio e Rubiera e di operare che Cesare piglierebbe in protezione lo stato suo; e ancora che ogni dí promettesse al pontefice che finito il pagamento de' fiorentini lo farebbe reintegrare di quelle terre, e che il pontefice, per sollecitare lo effetto e per ottenere che le genti si levassino dello stato della Chiesa, mandasse a lui il cardinale Salviati, legato suo in Lombardia e deputato legato a Cesare, al quale il viceré dette intenzione di fargli restituire Reggio con le armi se il duca ricusasse di farlo volontariamente, nondimeno gli effetti non corrispondevano alle parole: cosa che, non si potendo scusare con la necessità de' danari, perché maggiore quantità perveniva loro per la restituzione di quelle, dava materia di interpretare, probabilmente procedere dal desiderio che avessino della bassezza sua o di guadagnarsi il duca di Ferrara, o perché e' s'andassino continuamente preparando alla oppressione d'Italia. Davano queste cose sospezione e molestia di animo quasi incredibile al pontefice, ma molto maggiore il parergli non essere da queste operazioni diversa la mente di Cesare. Il quale, avendo mandato al pontefice le lettere della ratificazione della confederazione fatta in suo nome dal viceré, differiva di ratificare i tre articoli stipulati separatamente dalla capitolazione, allegando che quanto alla restituzione delle terre tenute dal duca di Ferrara non aveva facoltà di pregiudicare alle ragioni dello imperio, né sforzare quel duca che asseriva tenerle in feudo dallo imperio; e però offeriva che questa differenza si trattasse per via di giustizia o di amicabile composizione: e si intendeva che il desiderio suo sarebbe stato che le restassino al duca sotto la investitura sua, per la quale gli pagasse centomila ducati, pagandone anche al pontefice centomila altri per la investitura di Ferrara e per la pena apposta nel contratto che aveva fatto con Adriano. Allegava essere stato impertinente convenire co' ministri suoi sopra il dare i sali al ducato di Milano, perché il dominio utile di quel ducato, per la investitura concessa benché non ancora consegnata, apparteneva a Francesco Sforza; e però, che il viceré non si era obligato semplicemente, nello articolo, a farlo obligare a pigliargli ma a curare che e' consentisse; la quale promessa, per contenere il fatto del terzo, era notoriamente, quanto allo effetto dello obligare o sé o altri, invalida; e nondimeno, che per desiderio di gratificare al pontefice arebbe procurato di farvi consentire il duca, se non fusse fatto e interesse non piú suo ma alieno, perché già il duca di Milano, in ricompenso degli aiuti avuti dallo arciduca, aveva convenuto di pigliare i sali da lui: e pure che si interporrebbe perché il fratello, ricevendo ricompenso onesto di danari, consentisse, non in perpetuo, come diceva l'articolo, ma durante la vita del pontefice. Né ammetteva anche l'articolo delle cose beneficiali, se con quello che si esprimeva nelle investiture non si congiugneva quel che fusse stato osservato dai re suoi antecessori. Per queste difficoltà recusò il pontefice di accettare le lettere della ratificazione e di mandare a Cesare le sue; dimandando che poi che Cesare non aveva ratificato nel termine de' quattro mesi secondo la promessa del viceré, fussino restituiti a' fiorentini i centomila ducati: alla quale dimanda si rispondeva (piú presto cavillosamente che con solidi fondamenti) la condizione della restituzione de' centomila ducati non essere stata apposta nello instrumento ma promessa per uno articolo da parte dagli agenti del viceré con giuramento, né referirsi alla ratificazione de' tre articoli stipulati separatamente dalla confederazione ma alla ratificazione della confederazione, la quale Cesare aveva nel termine de' quattro mesi ratificata e mandatone le lettere nella forma debita. Perveniva anche alla notizia del pontefice che le parole di tutta la corte di Cesare erano piene di mala disposizione contro alle cose d'Italia; e seppe anche che i capitani dello esercito suo cercavano di persuadergli che, per assicurarsi totalmente d'Italia, era bene fare restituire Modena al duca di Ferrara, rimettere i Bentivogli in Bologna, pigliare il dominio di Firenze di Siena e di Lucca come di terre appartenenti allo imperio. Però, trovandosi pieno di ansietà e di sospetto ma non avendo dove potersi appoggiare, e sapendo che i franzesi [si] offerivano a dargli Italia in preda, andava per necessità temporeggiando e simulando.
Trattavasi in questo tempo continuamente l'accordo tra i viniziani e il viceré; il quale, oltre al riobligargli alla difesa in futuro del ducato di Milano, dimandava, per sodisfazione della inosservanza della confederazione passata, grossissima somma di danari. Molte erano le ragioni che inclinavano i viniziani a cedere alla necessità, molte che incontrario gli confortavano a stare sospesi; in modo che i consigli loro erano pieni di varietà e di irresoluzione: pure, alla fine, dopo molte dispute, attoniti come gli altri per tanta vittoria di Cesare e vedendosi restare soli da ogni banda, commessono all'oratore suo Pietro da Pesero, che era appresso al viceré, che riconfermasse la lega nel modo che era stata fatta prima ma pagando a Cesare, per sodisfazione del passato, ottantamila ducati. Ma instando determinatamente il viceré di non rinnovare la confederazione se non ne pagavano centomila, accadde, come interviene spesso nelle cose che si deliberano male volontieri, che in disputare questa piccola somma si interpose tanto tempo che a' viniziani pervenne la notizia che il re d'Inghilterra non era piú contro a' franzesi in quella caldezza di che da principio si era temuto; e già, per avere ricevuto i pagamenti, erano stati licenziati tanti fanti tedeschi dell'esercito imperiale che il senato viniziano, assicurato di non avere per allora a essere molestato, deliberò di stare ancora sospeso, e riservare in sé, piú che poteva, la facoltà di pigliare quelle deliberazioni che per il progresso delle cose universali potessino conoscere essere migliori.
Queste cagioni, oltre al desiderio che n'avevano avuto continuamente, stimolavano tanto piú l'animo del viceré e degli altri capitani di trasferire la persona del re di Francia in luogo sicuro; giudicando che, per la mala disposizione di tutti gli altri, non si custodisse senza pericolo nel ducato di Milano: però deliberorono di condurlo a Genova e da Genova per mare a Napoli, per guardarlo nel Castelnuovo, nel quale già si preparavano l'abitazioni per lui. La qual cosa era sommamente molestissima al re, perché insino dal principio aveva ardentemente desiderato di essere condotto in Spagna; persuadendosi (non so se per misurare altri dalla natura sua medesima, o pure per gli inganni che facilmente si fanno gli uomini da se stessi in quello che e' desiderano) che, se una volta era condotto al cospetto di Cesare, d'avere, o per la benignità sua o per le condizioni che egli pensava di proporre, a essere facilmente liberato. Desiderava e il medesimo, per amplificare la gloria sua, ardentemente il viceré; ma ritenendosene per timore della armata de' franzesi, andò, di comune consentimento, Memoransí a madama la reggente, e avute da lei sei galee sottili, di quelle che erano nel porto di Marsilia, con promissione che, subito che e' fusse arrivato in Spagna, sarebbono restituite, ritornò con esse a Portofino, dove era già condotta la persona del re: le quali aggiunte a sedici galee di Cesare, con le quali avevano prima deliberato di condurlo a Napoli, e armatele tutte di fanti spagnuoli, preso a' sette dí di giugno il cammino di Spagna, in tempo che non solo i príncipi d'Italia ma tutti gli altri capitani cesarei e Borbone tenevano per certo che il re si conducesse a Napoli, si condussono con prospera navigazione, l'ottavo giorno, a Roses porto della Catalogna, con grandissima letizia di Cesare, ignaro insino a quel dí di questa deliberazione. Il quale, subito che n'ebbe notizia, comandato che per tutto donde passava fusse ricevuto con grandissimi onori, commesse nondimeno, insino a tanto che altro se ne determinasse, che fusse custodito nella rocca di Sciativa appresso a Valenza, rocca usata anticamente da i re di Aragona per custodia degli uomini grandi, e nella quale era stato tenuto ultimamente piú anni il duca di Calavria. Ma parendo questa deliberazione inumana al viceré e molto aliena dalle promesse che in Italia gli aveva fatte, ottenne per lettere da Cesare che insino a nuova deliberazione fusse fermato in una villa vicina a Valenza, dove erano comodità di caccie e di piaceri. Nella quale poi che l'ebbe con sufficiente guardia collocato, lasciato con lui il capitano Alarcone, il quale continuamente aveva avuta la sua custodia, andò insieme con Memoransí a Cesare, a referirgli lo stato di Italia e le cose trattate col re insino a quel dí, confortandolo con molte ragioni a voltare l'animo alla concordia con lui, perché con gli italiani non poteva avere fedele amicizia e congiunzione. Donde Cesare, udito che ebbe il viceré e Memoransí, determinò che il re di Francia fusse condotto in Castiglia nella fortezza di Madril, luogo molto lontano dal mare e da' confini di Francia; dove, onorato con la cerimonia e con le riverenze convenienti a tanto principe, fusse nondimeno tenuto con diligente e stretta guardia, avendo facoltà di uscire qualche volta il dí fuora della fortezza cavalcando in su una mula. Né consentiva Cesare di ammettere il re al cospetto suo se prima la concordia non fusse o stabilita o ridotta in speranza certa di stabilirsi: la quale perché si trattasse per persona onorata e che quasi fusse la medesima che il re, fu espedito in Francia con grandissima celerità Memoransí, per fare venire la duchessa di Alanson sorella vedova del re, con mandato sufficiente a convenire; e perché non avessino a ostare nuove difficoltà si fece, poco poi, tra Cesare e il governo di Francia tregua per tutto dicembre prossimo. Ordinò ancora Cesare che una parte delle galee venute col viceré ritornassino in Italia, per condurre il duca di Borbone in Spagna, senza la presenza del quale affermava non volere fare alcuna convenzione (benché per mancamento di danari si spedivano lentamente); e dimostrandosi molto disposto alla pace universale de' cristiani, e volere in uno tempo medesimo dare forma alle cose d'Italia, sollecitava con molta instanza il pontefice che accelerasse l'andata del cardinale de' Salviati o di altri con sufficiente mandato: al quale anche, essendo già deliberato di pigliare per moglie la infante di Portogallo, cugina sua carnale e cosí congiunta seco in secondo grado, espedí Lopes Urtado a dimandare al pontefice la dispensa; essendosi prima scusato col re di Inghilterra di non potere resistere alla volontà de' popoli suoi. Per il medesimo Lopes, il quale partí alla fine di luglio, mandò i privilegi della investitura del ducato di Milano a Francesco Sforza, con condizione che di presente pagasse centomila ducati e si obligasse a pagarne cinquecentomila altri in vari tempi, e a pigliare i sali dall'arciduca suo fratello: e il medesimo portò commissione che, dai fanti spagnuoli in fuora, i quali alloggiassino nel marchesato di Saluzzo, si licenziassino tutti gli altri; e che secento uomini d'arme ritornassino nel reame di Napoli, gli altri rimanessino nel ducato di Milano; e che del suo esercito fusse capitano generale il marchese di Pescara. Aggiunse Cesare a questa commissione che certi danari, quali aveva mandati a Genova per armare quattro caracche con intenzione di passare subito in Italia personalmente, si convertissino ne' bisogni dello esercito, perché deliberava di non partire per allora di Spagna; e che il protonotario Caracciolo andasse da Milano a Vinegia in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almeno perché ciascuno restasse certificato tutte le azioni sue tendere alla pace universale de' cristiani.
Cap. viii
Diverse ragioni di malcontento, pel trasferimento del re di Francia in Ispagna, dei veneziani del pontefice del Borbone e del marchese di Pescara. Condizione di soggezione a Cesare del duca di Milano; malcontento dei sudditi; occulte proposte del Morone contro Cesare al marchese di Pescara, al pontefice ed ai veneziani. Contegno del marchese di Pescara: sua rivelazione della congiura a Cesare. Promesse della reggente di Francia. Cesare invia la patente di capitanato al marchese di Pescara. Investitura del ducato a Francesco Sforza. Infermità del duca; raccolta di nuove milizie da parte del marchese di Pescara.
Ma l'andata del re di Francia in Spagna aveva dato grandissima molestia al pontefice e a' viniziani. Perché, poi che lo esercito cesareo era assai diminuito, pareva loro che, in qualunque luogo di Italia si fermasse la persona del re, che la necessità di guardarlo bene tenesse molto implicati i cesarei, in modo che o facilmente si potesse presentare qualche occasione di liberarlo o almanco che la difficoltà di condurlo in Spagna e la poca sicurtà di tenerlo in Italia costrignesse Cesare a dare alle cose universali onesta forma. Ma vedutolo andare in Spagna, e che egli medesimo, ingannato da vane speranze, aveva dato agli inimici facoltà di condurlo in sicura prigione, si accorsono che tutto quello che si trattava era assolutamente in mano di Cesare, e che nelle pratiche e offerte de' franzesi non si poteva fare alcuno fondamento; donde, augumentandosi ogni dí la riputazione di Cesare, si cominciò ad aspettare da quella corte le leggi di tutte le cose. Né so se e' fusse minore il dispiacere che ebbono, benché per diverse cagioni, il duca di Borbone e il marchese di Pescara, che il viceré senza saputa loro avesse condotto il re cristianissimo in Spagna: Borbone, perché trovandosi per l'amicizia fatta con l'imperadore scacciato di Francia aveva piú interesse che nissuno altro di intervenire a tutte le pratiche dello accordo, e però si dispose a passare ancora egli in Spagna (benché, essendo necessitato aspettare il ritorno delle galee che erano andate col viceré, tardò a partirsi piú che non arebbe desiderato); e il marchese era sdegnato per la poca estimazione che aveva fatta di lui il viceré, ma ancora male contento di Cesare, dal quale gli pareva che e' non fussino riconosciuti quanto si conveniva i meriti suoi e l'opere egregie fatte da lui in tutte le prossime guerre, e specialmente nella giornata di Pavia, della vittoria della quale aveva il marchese solo conseguito piú gloria che tutti gli altri capitani: e nondimeno era paruto che Cesare, con molte laudi e dimostrazioni, l'avesse riconosciuta assai dal viceré. Il che non potendo tollerare scrisse a Cesare lettere contumeliosissime contro al viceré lamentandosi di essere stato immeritamente tanto disprezzato da lui che non l'avesse giudicato degno di essere almeno conscio di una tale deliberazione; e che se nella guerra e ne' pericoli avesse riferito al consiglio e arbitrio proprio la deliberazione delle cose non solo non sarebbe stato preso il re di Francia ma, subito che fu perduto Milano, lo esercito cesareo, abbandonata la difesa di Lombardia, si sarebbe ritirato a Napoli. Essere il viceré andato a trionfare di una vittoria nella quale era notissimo a tutto l'esercito che esso non aveva parte alcuna, e che essendo nell'ardore della giornata restato senza animo e senza consiglio, molti gli avevano udito dire piú volte: - noi siamo perduti; - il che quando negasse si offeriva parato a provargliene, secondo le leggi militari, con l'arme in mano. Accresceva la mala contentezza del marchese che avendo, subito dopo la vittoria, mandato a pigliare la possessione di Carpi, con intenzione di ottenere quella terra per sé da Cesare, non era ammesso questo suo desiderio; perché Cesare, avendola conceduta due anni innanzi a Prospero Colonna, affermava che benché mai ne avesse avuta la investitura, volere, in beneficio di Vespasiano suo figliuolo, conservare alla memoria di Prospero morto quella remunerazione che aveva fatto alla virtú e opere di lui vivo: la quale ragione ancora che fusse giusta e grata, e al marchese dovessino piacere gli esempli di gratitudine se non per altro perché gli accrescevano la speranza che avessino a essere remunerate tante sue opere, non era nondimanco accettata da lui; il quale, come sentiva molto di se medesimo, giudicava conveniente che questo suo appetito, nato da cupidità e da odio implacabile che e' portava al nome di Prospero, fusse anteposto a ogni altro benché giustissimo rispetto. Però, e con Cesare e con tutto il consiglio erano gravissime le sue querele, e tanto palesi in Italia i suoi lamenti, e con tale detestazione della ingratitudine di Cesare, che dettono animo ad altri di tentare nuovi disegni: donde a Cesare, se e' non pensava a occupare piú oltre in Italia, si presentò giusta cagione anzi quasi necessità di fare altri pensieri; e se pure aveva fini ambiziosi ebbe occasione di coprirgli con la piú onesta occasione e col piú giustificato colore che avesse saputo desiderare. Il che, poiché fu origine di grandissimi movimenti, è necessario che molto particolarmente si dichiari.
La guerra che, vivente Leone decimo, fu cominciata da lui e da Cesare per cacciare il re di Francia d'Italia fu presa sotto titolo di restituire Francesco Sforza nel ducato di Milano; e benché in esecuzione di questo, ottenuta la vittoria, gli fusse consegnata la ubbidienza dello stato e il castello di Milano e l'altre fortezze, quando si recuperorono, nondimeno, essendo quello ducato tanto magnifico e tanto opportuno, non cessava il timore avuto nel principio da molti che Cesare aspirasse a insignorirsene, interpretando che lo ostacolo potente che aveva del re di Francia fusse cagione che per ancora tenesse occulta questa cupidità, perché arebbe alterato i popoli che ardentemente desideravano Francesco Sforza per signore, e concitatasi contro tutta Italia che non sarebbe stata contenta di tanto suo augumento. Teneva adunque Francesco Sforza quello ducato, ma con grandissima suggezione e pesi quasi incredibili: perché, consistendo tutto il fondamento della difesa sua dai franzesi in Cesare e nel suo esercito, era necessitato non solo a osservarlo come suo principe ma ancora a stare sottoposto alla volontà de' capitani; e gli bisognava sostentare quelle genti che non erano pagate da Cesare, ora col dare loro danari, che si traevano dai sudditi con grandissime angherie e difficoltà, ora col lasciargli vivere a discrizione quando in una quando in un'altra parte, eccetto la città di Milano, dello stato: le quali cose, per sé gravissime, faceva intollerabili la natura degli spagnuoli avara e fraudolente e, quando hanno facoltà di scoprire gli ingegni loro, insolentissima; nondimeno il pericolo che si correva da' franzesi, a' quali i popoli erano inimicissimi, e la speranza che queste cose avessino qualche volta finalmente a terminare facevano tollerare agli uomini sopra le forze ancora, e sopra la loro possibilità. Ma dopo la vittoria di Pavia non potevano i popoli piú tollerare che non continuando le medesime necessità, poiché era prigione il re, continuasse nondimeno il pericolo delle medesime calamità; e perciò dimandavano che di quello ducato si rimovesse o tutto o la maggiore parte dello esercito: il medesimo ardentemente desiderava il duca, non avendo insino allora sentito del dominare altro che il nome, e non manco perché temeva che Cesare, assicurato del re di Francia, o non lo occupasse per sé o non lo concedesse a persone che da lui totalmente dependessino. Alla quale suspizione, procreata dalla natura stessa delle cose, davano non piccolo nutrimento le parole insolenti dette dal viceré, innanzi che conducesse il re di Francia in Spagna, e cosí dagli altri capitani, e le dimostrazioni che e' facevano di disprezzare il duca e di desiderare apertamente che Cesare lo opprimesse; e molto piú che, avendo Cesare dopo molte dilazioni mandati in mano del viceré i privilegi della investitura, egli, offerendola al duca, aveva dimandato che, per ristoro delle spese fatte da Cesare per lo acquisto e per la difesa di quello stato, si pagassino in certi tempi uno milione e dugento migliaia di ducati, peso tanto eccessivo che il duca fu costretto ricorrere a Cesare perché si riducesse a quantità tollerabile. Ma queste difficoltà facevano dubitare che le dimande sí esorbitanti fussino interposte per differire. Allegoronsi poi, da quegli i quali si sforzavano di escusare la necessità di Francesco Sforza, molte altre cagioni di averlo fatto giustamente sospettare, e particolarmente di avere auto notizia che i capitani avevano ordinato di ritenerlo; per il che egli, chiamato dal viceré a certa dieta, aveva ricusato di andarvi fingendosi ammalato, e il medesimo aveva osservato in tutti i luoghi dove essi potessino fargli violenza. Il quale sospetto, o vero o vano che e fusse, fu cagione che egli, vedendo che nello stato di Milano non erano restate molte genti, per essere andata una parte de' fanti spagnuoli prima col viceré e poi con Borbone in Spagna, e perché molti ancora, arricchiti per tante prede, si erano alla sfilata ritirati in vari luoghi, considerando ancora la indegnazione grandissima la quale si dimostrava nel marchese di Pescara, voltato l'animo ad assicurarsi da questo pericolo, entrò in speranza che, con consentimento suo, si potesse disfare quello esercito. Autore di questo consiglio fu Ieronimo Morone, suo gran cancelliere e appresso a lui di somma autorità; il quale, per ingegno eloquenza prontezza invenzione ed esperienza, e per avere fatto molte volte egregia resistenza alla acerbità della fortuna, fu uomo a' tempi nostri memorabile; e sarebbe ancora stato piú se queste doti fussino state accompagnate da animo piú sincero e amatore dello onesto, e da tale maturità di giudizio che i consigli suoi non fussino spesso stati piú presto precipitosi o impudenti che onesti o circospetti. Costui, odorando la mente del marchese, si condusse co' ragionamenti seco tanto innanzi che venneno in parole di tagliare a pezzi quelle genti e di fare il marchese re di Napoli, pure che il pontefice e i viniziani vi concorressino. Al quale consiglio il pontefice, essendo pieno di sospetto e di ansietà, tentato per ordine del Morone, non si mostrò punto alieno; benché da altra parte, non per scoprire la pratica ma per prepararsi qualche rifugio se la cosa non succedesse, avvertí sotto specie di affezione Cesare che tenesse bene contenti i suoi capitani. Mostroronsi i viniziani caldissimi: e si persuadevano anche tutti che v'avesse a essere non manco pronta la madre del re di Francia; la quale già si accorgeva che, arrivato il figliuolo in Spagna, la sua liberazione non procedeva con quella facilità che si erano immaginati.
Non è dubbio che tali consigli sarebbono facilmente succeduti se il marchese di Pescara fusse, in questa congiurazione contro a Cesare, proceduto sinceramente; il quale se da principio ci prestasse orecchi, con simulazione o no, sono state varie le opinioni insino tra gli spagnuoli, e nella corte medesima di Cesare; e i piú, calcolando i tempi e gli andamenti delle cose, hanno creduto che egli da principio concorresse veramente con gli altri ma che poi, considerando molte difficoltà che potevano sorgere in progresso di tempo, e spaventandolo massime il trattare continuamente i franzesi con Cesare, e dipoi la deliberazione della andata della duchessa di Alanson a Cesare, facesse nuove deliberazioni. Anzi, affermano alcuni avere tardato tanto a dare avviso a Cesare del trattarsi in Italia cose nuove che, avendone già ricevuto avviso da Antonio de Leva e da Marino abate di Nagera commissario nello esercito cesareo, non si stava nella corte senza ammirazione del silenzio del marchese. Ma quel che fusse allora, certo è che, non molto poi, mandato Giovambatista Castaldo suo uomo a Cesare, gli manifestò tutto quello che si trattava, e con consentimento suo continuò la medesima pratica: anzi, per avere notizia de' pensieri di ciascuno e a tutti levare la facoltà di potere mai negare di avervi acconsentito, ne parlò da se medesimo col duca di Milano, e operò che il Morone procurasse tanto che il pontefice, il quale poco innanzi gli aveva dato in governo perpetuo la città di Benevento, e con chi egli intratteneva grandissima amicizia e servitú, mandò Domenico Sauli con uno breve di credenza a parlargli del medesimo. Le conclusioni che si trattavano erano: che tra il papa il governo di Francia e gli altri di Italia si facesse una lega della quale fusse capitano generale il marchese di Pescara, e che egli, avendo prima alloggiata la fanteria spagnuola separatamente in diversi luoghi del ducato di Milano, ne tirasse seco quella parte che lo volesse seguitare; gli altri con Antonio de Leva, che dopo lui era restato il primo dello esercito, fussino svaligiati e ammazzati; e che con le forze di tutti i confederati si facesse per lui la impresa del regno di Napoli, del quale il papa gli concedesse la investitura. Alle quali cose il marchese dimostrava di non interporre altra difficoltà che il volere, innanzi a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l'onore e la fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a Cesare, che per la investitura Alle quali cose il marchese dimostrava di non interporre altra difficoltà che il volere, innanzi a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l'onore e la fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a Cesare, che per la investitura avuta dalla Chiesa aveva il dominio utile di quel regno, o al pontefice, che per esserne supremo signore aveva il dominio diretto. Sopra il quale articolo, e a Milano per ordine di Francesco Sforza, e a Roma per ordine di Clemente, ne furono, segretissimamente e con soppressione de' nomi veri, fatti consigli da eccellenti dottori. Accrescevansi queste speranze contro a Cesare per le offerte di madama la reggente; la quale, giudicando che la necessità o almanco il timore di Cesare fusse utile a quel che per la liberazione del figliuolo si trattava con lui, sollecitava il pigliare l'armi, promettendo di mandare cinquecento lance in Lombardia e concorrere alle spese della guerra con somma grande di danari: né cessava il Morone di confermare gli animi degli altri in questa sentenza; perché, oltre al dimostrare la facilità che si aveva, senza l'aiuto ancora del marchese di Pescara, di disfare quello esercito che era diminuito assai di numero, prometteva in nome del duca, se il marchese non stesse fermo nelle cose trattate, subito che gli altri disegni fussino in ordine, fare prigione nel castello di Milano lui e gli altri capitani che vi andavano quotidianamente a consultare. Le quali occasioni, se bene paressino grandi, non sarebbono però state bastanti a fare che il pontefice pigliasse l'armi senza il marchese di Pescara, se nel medesimo tempo, intesa la provisione mandata a Genova per armare le quattro caracche, non avesse anche avuto indizio di Spagna della inclinazione di Cesare di passare in Italia; la quale cosa affliggendolo maravigliosamente, e per le condizioni del tempo presente e per la disposizione inveterata de' pontefici romani, a' quali niuna cosa soleva essere piú spaventosa che la venuta degli imperadori romani armati in Italia, desiderando di ovviare a questo pericolo spacciò, con consenso de' viniziani, segretamente in Francia, per conchiudere le cose trattate con madama la reggente, Sigismondo segretario di Alberto da Carpi, uomo destro e molto confidato al pontefice. Il quale, correndo la posta fu di notte da certi uomini di male affare ammazzato, per cupidità di rubare, appresso al lago di Iseo nel territorio bresciano: il che, essendo stato occultissimo molti dí, non fu piccola la dubitazione del pontefice che e' non fusse stato preso secretamente in qualche luogo per ordinazione de' capitani imperiali, e forse del marchese medesimo; il procedere del quale, per le dilazioni che interponeva, cominciava non mediocremente a essere sospetto.
In questo stato delle cose sopravenne la espedizione data da Cesare a Lopes Urtado; il quale, essendo ammalato in Savoia, la mandò subito per messo proprio a Milano, con la patente del capitanato nella persona del marchese di Pescara (il quale, per continuare nella simulazione medesima con gli altri, dimostrò non essergli molto grata, ancora che subito accettasse il capitanato), e commissione ancora al protonotario Caracciolo che andasse a Vinegia in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almanco perché ciascuno restasse giustificato del desiderio che aveva Cesare di stare in pace con tutti. Accettò Francesco Sforza, al quale era già cominciata infermità di non piccolo momento, la investitura del ducato, e ne pagò cinquantamila ducati; ma non perciò pretermesse di continuare le pratiche medesime col marchese. Varie sono state le opinioni se questa espedizione di Cesare fusse sincera o artificiosa; perché molti credettono che avesse volto veramente l'animo ad assicurare quegli di Italia, altri dubitorono che egli, per paura di nuovi movimenti, volesse tenere gli uomini sospesi con varie speranze e andare guadagnando tempo, col concedere la investitura e col dare in apparenza la commissione del levare lo esercito, tanto grata a tutta Italia; ma che da parte avesse dato a' suoi capitani ordinazione che non lo rimovessino. Né mancò dipoi chi credesse che egli avesse già notizia dal marchese delle pratiche tenute col Morone, e però commettesse cosí non per essere ubbidito ma per acquistare qualche giustificazione, e posare con queste speranze gli animi degli uomini insino a tanto gli paresse il tempo opportuno a eseguire i suoi disegni. Nella quale dubietà essendo molto difficile il pervenirne alla vera notizia, massime non sapendo se al tempo che Giovambatista Castaldo, mandato dal marchese a significare il trattato, arrivò alla corte, fusse ancora stato espedito Lopes Urtado, e considerato quali in molte cose siano poi stati i progressi di Cesare, è senza dubbio manco fallace il tenere per vera la migliore e piú benigna interpretazione.
Non cessava intratanto il marchese di intrattenere con le speranze medesime il Morone e gli altri, e nondimeno differire con varie scuse la esecuzione: alla qual cosa gli dette occasione l'essere talmente aggravata la infermità del duca di Milano che si fece per tutti giudizio quasi certo della sua morte. Perché pretendendo tutti i capitani che, in caso tale, quello stato ricadesse a Cesare, supremo signore del feudo, non solo gli fu lecito non rimuovere l'esercito ma ebbe necessità di chiamarvi di nuovo dumila fanti tedeschi, e ordinare che ne stesse preparato maggiore numero: donde, essendo nel ducato di Milano i soldati tanto potenti, restava privato della facoltà di dissolvergli di offendergli; dando speranza di eseguire i consigli della congiurazione come prima ne ritornasse la facoltà. La quale mentre che si aspetta, publicando di volere procedere con rispetto grandissimo col pontefice, levò dello stato della Chiesa le guarnigioni delle quali egli si querelava gravemente.
Cap. ix
Infermità del re di Francia; visita e promessa di Cesare. Difficoltà di trattative fra Cesare e madama d'Alanson. Trattative fra il pontefice e Cesare.
Ma nel tempo medesimo, per nuovo accidente succeduto in Spagna, si variorono quasi tutte le cose. Perché il re di Francia, pieno di gravissimi dispiaceri, poiché invano aveva desiderata la presenza di Cesare, si ridusse, per infermità sopravenutagli nella rocca di Madril, in tale estremità della vita che i medici deputati alla sua curazione feciono intendere a Cesare diffidarsi totalmente della salute, se già non veniva egli in persona a confortarlo e dargli speranza della liberazione. Dove preparandosi di andare, il gran cancelliere suo lo dissuase, dicendo che lo onore suo ricercava di non vi andare se non con disposizione di liberarlo subito e senza alcuna convenzione, altrimenti essere una umanità non regia ma mercenaria, e uno desiderio di farlo guarire non per carità della salute sua ma mosso solamente da interesse proprio, per non perdere per la sua morte la occasione de' guadagni sperati dalla vittoria; consiglio certamente memorabile e degno di essere accettato da tanto principe: nondimeno, consigliato diversamente da altri, andò in poste a visitarlo. La visitazione fu breve, perché il cristianissimo era già quasi allo estremo, ma piena di parole grate, e di speranza certissima, come e' fusse sanato, di liberarlo; e, quel che ne fusse cagione, o questo conforto o che la gioventú fusse per se stessa superiore alla natura della infermità, cominciò dopo questa visitazione ad alleggierirsi in modo che in pochi dí restò liberato dal pericolo, ancora che non ritornasse se non con tardità alla prima valitudine.
Ma né le difficoltà che apparivano dell'animo di Cesare né le speranze date dagli italiani avevano impedita la andata di madama di Alanson in Spagna; perché niuna cosa era piú difficile a' franzesi che abbandonare le pratiche della concordia con quegli che potevano restituirgli il suo re, niuna piú facile a Cesare che, col dare speranza a' franzesi, divertirgli dai pensieri del pigliare l'armi e con questa arte tenere sospesi gli italiani in modo che non ardissino di fare nuove deliberazioni; e cosí, ora allentando ora strignendo, tenere confusi e implicati gli animi di tutti. Fu madama di Alanson ricevuta da Cesare con grate dimostrazioni e speranze, ma gli effetti riuscirono duri e difficili. Perché gli parlò, il quarto dí di ottobre, ricercandolo del matrimonio della sorella vedova col re; alla quale dimanda rispose Cesare non potere farlo senza consentimento del duca di Borbone. L'altre particolarità si trattavano da' deputati dell'una parte e dell'altra, facendo Cesare ostinatamente instanza che, come proprio, gli fusse restituito il ducato di Borgogna, i franzesi non consentendo se non o di accettarla per dote o che giuridicamente si vedesse a quale de' due príncipi apparteneva. Nelle altre condizioni si sarebbono facilmente concordati; ma restando tanta discrepanza nelle cose della Borgogna, madama di Alanson alla fine se ne ritornò in Francia, senza avere riportato altro che facoltà di vedere il fratello. Il quale, alla partita di lei, diffidando già ogni dí piú della sua liberazione, si dice avergli commesso che per sua parte ricordasse alla madre e agli uomini del consiglio che pensassino bene al beneficio della corona di Francia, non avendo considerazione alcuna della persona sua come se piú non vivesse. Né si troncorono perciò per la partita sua al tutto le pratiche, perché vi rimasono il presidente di Parigi i vescovi di Ambrone e di Tarba, i quali insino ad allora l'avevano trattate, ma con leggiera speranza, non si inclinando Cesare a condizione alcuna senza la restituzione della Borgogna, né consentendo il re di concederla se non per ultima necessità.
Arrivò adunque il cardinale alla corte, dove, ricevuto da Cesare con grandissimo onore, trattava le sue commissioni, le quali principalmente contenevano la ratificazione degli articoli promessi dal viceré; confortando anche che al duca di Milano fusse conceduta la investitura per la sicurtà comune. Ma il viceré medesimo dissuadeva la restituzione di Reggio e di Rubiera; per i conforti e sotto la speranza del quale, il duca di Ferrara, desideroso di trattare per se medesimo appresso a Cesare la causa sua, ottenuta dal pontefice promessa che per sei mesi non sarebbe molestato da lui lo stato suo, si condusse insino a' confini del regno di Francia, con determinazione di passare piú innanzi; ma negandogli madama il salvocondotto, se ne ritornò finalmente a Ferrara. Trattavasi ancora tra il pontefice e Cesare la causa della dispensazione, per potere fare matrimonio con la sorella del re di Portogallo; il quale Cesare, non ostante che al re di Inghilterra avesse già promesso con giuramento di non ricevere per moglie altri che la figliuola, era determinato di contrarre. Alla quale dispensazione concedere il pontefice procedeva lentamente, essendogli persuaso da molti che il desiderio di ottenere questa grazia renderebbe Cesare piú facile a' desideri suoi nelle cose che si trattavano; o almeno essere cosa imprudente, in caso s'avesse a fare guerra seco, dargli facoltà di accumulare tanti danari quanti accumulerebbe per mezzo di questo matrimonio: perché il re di Portogallo gli offeriva in dote novecentomila ducati, de' quali, detratta quella parte che s'aveva d'accordo a compensare in debiti contratti con lui, si pensava gliene perverebbono in mano almanco cinquecentomila ducati; e oltre a quattrocentomila ducati consentivano di dargli i popoli di Castiglia, per quello che essi chiamavano servizio, quale, cominciato anticamente dalla volontà propria de' popoli per soccorrere alle necessità de' suoi re, era ridotto in ordinaria prestazione, offerivano di donargli quattrocentomila altri ducati in caso desse perfezione a questo matrimonio. Da altra parte il pontefice non sapeva resistere alla importunità del duca di Sessa oratore cesareo, perché in lui era quasi sempre repugnanza grande dalla disposizione alla esecuzione; conciossiaché, alienissimo per sua natura dal concedere qualunque grazia dimandatagli, non sapeva anche difficultarle, o negarle costantemente; ma lasciando spesso vincere la volontà sua dalla importunità di quegli che dimandavano, e in modo che e' pareva che il piú delle volte concedesse piú per paura che per grazia, non procedeva in questo con quella costanza né con quella maestà che ricercava la grandezza della sua degnità né la importanza delle faccende che si trattavano. Cosí accadde nella dispensa dimandata; che combattendo in lui da uno canto la utilità propria dall'altro la sua mollizie, scaricò, come spesso era usato di fare, addosso ad altri quello che a lui non bastava non so se la fronte o l'animo di sostenere. Spedí per uno breve la dispensa nella forma dimandata da Cesare, e la mandò al cardinale de' Salviati, con commissione che, se le cose sue si risolvevano con Cesare secondo la speranza che aveva data di volere fare, subito che il cardinale arrivasse alla corte, gli desse il breve, altrimenti lo ritenesse: commissione nella quale il ministro, come in suo luogo si dirà, non fu né piú nervoso né piú costante che fusse stato il padrone.
Cap. x
Il Morone fatto prigione dal marchese di Pescara. Il Pescara, occupato il ducato, costringe i milanesi a giurare fedeltà a Cesare, e cinge con trincee il castello di Milano ove trovasi il duca; timori d'Italia tutta per la potenza di Cesare; come fu giudicato l'operato del marchese di Pescara. Risposta dei veneziani all'inviato di Cesare.
Ma mentre che il cardinale trattava le commissioni del pontefice con Cesare, essendogli data continuamente speranza di desiderata espedizione, succederono in Lombardia effetti molto diversi. Perché essendo il duca di Milano alleggierito in modo della infermità che si teneva per certo che almanco fusse liberato dal pericolo di presta morte, deliberò il marchese di Pescara (il quale per il Castaldo medesimo aveva avuto commissione da Cesare di provedere a questi pericoli, secondo che gli paresse piú opportuno) di impadronirsi del ducato di Milano, sotto colore che il duca, per le pratiche tenute per il mezzo del Morone, era caduto dalle ragioni della investitura, e che il feudo era ricaduto a Cesare supremo signore. Però, essendo il marchese a Novara, benché oppresso da non piccola infermità, e avendo una parte dello esercito in Pavia, i tedeschi alloggiati appresso a Lodi (le quali due città aveva fatte fortificare), chiamò inaspettatamente a Novara il resto delle genti che alloggiavano nel Piemonte e nel marchesato di Saluzzo, il quale quasi subito dopo la vittoria avevano occupato; e sotto specie di volere compartire gli alloggiamenti per tutto lo stato di Milano, chiamò a Novara il Morone, nella persona del quale si può dire che consistesse la importanza d'ogni cosa; perché era certo che, come egli fusse fatto prigione, il duca di Milano, spogliato d'uomini e di consiglio, non farebbe resistenza alcuna; dove, se fusse libero, poteva dubitare che, con lo ingegno con l'esperienza con la riputazione, difficultasse molto i suoi disegni. Era ancora necessario che Cesare avesse in potestà sua la persona del Morone, stato autore e instrumento di tutte le pratiche, per potere col suo processo giustificare le imputazioni che si davano al duca di Milano. Non è cosa alcuna piú difficile a schifare che il fato, nessuno rimedio è contro a' mali determinati. Poteva già conoscere il Morone che la pratica tenuta col marchese di Pescara era vana; sapeva di essere in grandissimo odio appresso a tutti i soldati spagnuoli, tra i quali già molte cose della sua infedeltà si dicevano; e che Antonio de Leva publicamente minacciava di farlo ammazzare; non è credibile non considerasse la importanza della sua persona, che non vedesse in che grado si trovava il duca di Milano, inutile allora e quasi come morto; tra loro, già molti dí innanzi, era ogni cosa sospesa e piena di sospizione: ognuno lo confortava a non andare, egli medesimo ne stette ambiguo. Nondimeno, o avendo ancora occupato l'animo dalle simulazioni e dalle arti del marchese o facendo fondamento nella amicizia grande che gli pareva avere contratta con lui, o confidandosi della fede la quale disse poi avere avuta per una sua lettera, o per dire meglio tirato da quella necessità, che trascina gli uomini che non vogliono lasciarsi menare, si risolvé di andare quasi a una carcere manifesta: cosa a me tanto piú maravigliosa quanto mi restava in memoria avermi il Morone detto piú volte nello esercito, al tempo di Leone, non essere uomo in Italia né di maggiore malignità né di minore fede del marchese di Pescara. Fu ricevuto da lui benignamente; e soli, in camera, parlorono delle prime pratiche e di ammazzare gli spagnuoli e Antonio de Leva, ma in luogo che Antonio, che dal marchese era stato occultato dietro a uno panno d'arazzo, udiva tutti i ragionamenti; dal quale, partito che fu dal marchese, che fu il quartodecimo dí di ottobre, fu fatto prigione e mandato nel castello di Pavia. Nel quale luogo andò il marchese proprio a esaminarlo sopra quelle cose che insieme avevano trattate; messe in processo tutto l'ordine della congiurazione, accusando il duca di Milano come conscio di ogni cosa; che era quello che principalmente si cercava.
Incarcerato il Morone, il marchese, in mano del quale erano prima Lodi e Pavia, ricercò il duca che per sicurtà dello stato dello imperadore gli facesse consegnare Cremona e le fortezze di Trezzo, Lecco e Pizzichitone, che per essere in su il passo di Adda sono tenute le chiavi del ducato di Milano; promettendo, avute queste, di non innovare piú altro: le quali il duca, trovandosi ignudo di ogni cosa, abbandonato di consiglio e di speranza, gli fece subito consegnare. Avute queste, ricercò piú oltre di essere ammesso in Milano (diceva) per parlare seco; che gli fu consentito con la medesima facilità: ed entrato che fu in Milano, gli mandò a fare instanza che gli facesse consegnare il castello di Cremona; e che non ricercava il medesimo di quello di Milano per non essere dimanda conveniente, poi che vi era dentro la sua persona, ma che dimandava bene che, per sicurtà dello esercito di Cesare, il duca consentisse che il castello fusse serrato con le trincee. Dimandò ancora che gli desse in mano Gian Angelo Riccio suo segretario e Poliziano segretario del Morone, acciò che si potessino esaminare sopra le imputazioni che erano date a lui di avere macchinato contro a Cesare. Alle quali dimande rispose il duca che teneva le castella di Milano e di Cremona in nome e a instanza di Cesare, al quale era stato sempre fedelissimo vassallo, e che non le voleva consegnare ad alcuno se prima non intendeva la sua volontà; la quale per intendere chiaramente gli manderebbe subito uno uomo proprio, pure che il marchese gli concedesse sicurtà di passare; e che non gli pareva onesto consentire di essere, in questo mezzo, serrato in castello; dalla quale violenza si difenderebbe in qualunque modo potesse. Avere bisogno per sé di Gian Angelo, per essere egli instrutto di tutte le cose sue importanti, né essere per allora appresso a sé altro ministro; e avere anche maggiore necessità di quello del Morone per poterlo presentare innanzi a Cesare, e giustificare con questo mezzo che, nella infermità sua, il padrone aveva fatto in suo nome, senza saputa sua, molte espedizioni che gli potrebbono essere di carico, se con questo mezzo non giustificasse la innocenza sua; e che le pratiche del Morone erano diverse e separate dalle pratiche sue. Lo effetto fu che, dopo molte repliche e protesti fatti da l'uno a l'altro per scrittura, il marchese costrinse il popolo di Milano a giurare fedeltà allo imperadore contro alla volontà sua, e con incredibile dispiacere di tutti messe per tutto lo stato officiali in nome di Cesare, e cominciò con le trincee a serrare il castello di Cremona e quello di Milano; nel quale il duca, con grandissimi conforti e speranze di soccorso dategli dal pontefice e da' viniziani, era risoluto di fermarsi, avendovi seco ottocento fanti eletti, e messevi quelle vettovaglie che comportò la brevità del tempo. Né mancò di impedire, quanto potette, con l'artiglierie che e' non si lavorasse alle trincee; le quali si lavoravano dalla parte di fuora, col fosso piú lontano dal castello che non aveva fatto Prospero Colonna. Spaventò, e ragionevolmente, l'occupazione del ducato di Milano Italia tutta; la quale conosceva andarne in manifesta servitú ogni volta che Cesare fusse padrone di Milano e di Napoli; e sopra tutti afflisse il pontefice, vedendo scoperte quelle pratiche con le quali aveva trattato non solo di assicurare Milano ma ancora di distruggere l'esercito di Cesare e torgli il regno di Napoli. Al marchese di Pescara conciliò forse grazia appresso a Cesare, ma nel cospetto di tutti gli altri eterna infamia; non solo perché restò nella opinione della maggiore parte che da principio avesse avuto intenzione di mancare a Cesare, ma ancora perché, quando gli fusse stato sempre fedele, parve cosa di grande infamia che avesse dato animo agli uomini, e allettatigli con tanta arte e con tante fraudi a fare pratiche seco, per avere occasione di manifestargli, e farsi grande de' peccati d'altri procurati con le lusinghe e con l'arti sue.
Difficultò questa innovazione la speranza della concordia la quale si trattava per il protonotario Caracciolo col senato viniziano, ridotta già in termini che pareva propinqua alla conclusione, di rinnovare la prima confederazione con le medesime condizioni e di pagare a Cesare, per ricompensazione della omissione del passato, ottantamila ducati; escluse in tutto le dimande di contribuire in futuro con danari, e di restituire i fuorusciti di Padova e dell'altre terre che avevano seguitato Massimiliano. Ma il caso sopravenuto di Milano empié quello senato di grandissima perplessità, essendo da una parte molestissimo restare soli in Italia contro a Cesare, con pericolo che, come minacciava il marchese di Pescara di volere fare, la guerra non si trasferisse nel loro dominio (e già ne appariva qualche preparazione), da altra, non manco, di accrescere col loro accordo la facilità a Cesare di insignorirsi totalmente di quel ducato; il quale, aggiuntogli a tanti stati e a tante altre opportunità, era la scala di soggiogare loro con tutto il resto d'Italia. Né cessava di confortargli al medesimo efficacemente il vescovo di Baiosa, mandato da madama la reggente per trattare la unione sua con gli italiani contro a Cesare; nel quale frangente le consulte loro erano spesse ma dubbie, e piene di varie opinioni; e se bene lo accettare l'accordo fusse piú conforme alla consuetudine loro, perché rimoveva i pericoli presenti, donde potevano sperare nella lunghezza del tempo e nelle occasioni che possono aspettare le republiche, le quali a comparazione de' príncipi sono immortali, pure pareva anche loro troppo importante che Cesare si confermasse nello stato di Milano, e che i franzesi restassino esclusi di ogni speranza di avere alcuna congiunzione in Italia. Però, determinati finalmente di non si obligare a cosa alcuna, risposono al protonotario Caracciolo che i progressi loro passati facevano fede a tutto il mondo (ed egli ancora, che si era trovato a conchiudere la confederazione, ne era buono testimonio) quanto avessino sempre desiderato la amicizia di Cesare, col quale si erano collegati in tempo che lo accostarsi loro a' franzesi sarebbe stato, come sapeva ciascuno, di grandissimo momento; e che sempre avevano perseverato e ora piú che mai perseveravano nella medesima disposizione; ma che di necessità gli teneva sospesi il vedere che in Lombardia si fusse fatta innovazione di tanta importanza, e massime ricordandosi che e la confederazione loro con Cesare e tanti altri movimenti, che si erano fatti a questi anni in Italia, non avevano avuto altro fine che il volere che il ducato di Milano fusse di Francesco Sforza, come fondamento necessario alla libertà d'Italia e alla sicurtà universale: e però pregare Sua Maestà che, imitando in questo caso se medesima e la sua bontà, volesse rimuovere questa innovazione e stabilire la quiete d'Italia come era in potestà sua di fare, perché gli troverebbe sempre dispostissimi, e con l'autorità e con le forze, a seguitare questa santa inclinazione; né gli darebbono mai causa che da loro avesse a desiderare uffizio alcuno cosí al proposito del bene universale come degli interessi suoi particolari. La quale risposta essendo senza speranza alcuna di conclusione non partorí però rottura di guerra, perché e lo aggravare tutto dí la infermità del marchese di Pescara e il desiderio di insignorirsi prima di tutto lo stato di Milano e di stabilire bene quello acquisto, e il volere prima Cesare risolvere tante altre cose che aveva in mano, non lasciava dare principio a impresa di tanto momento.
Cap. xi
Il Borbone in Ispagna; disprezzo dei nobili spagnuoli per lui; morte del marchese di Pescara; giudizio dell'autore. Incertezza del pontefice sull'opportunità della confederazione contro Cesare.
Era in questo tempo arrivato Borbone (il quale arrivò il quintodecimo dí di novembre) alla corte di Cesare. Circa il quale non merita di essere preterito con silenzio che, benché da Cesare fusse ricevuto con tutte le dimostrazioni e onori possibili e carezzato come cognato, nondimeno, che tutti i signori della corte, soliti come sempre accade a seguitare nell'altre cose l'esempio del suo principe, l'aborrivano come persona infame, nominandolo traditore al proprio re; anzi uno di loro, ricercato in nome di Cesare che consentisse che il suo palazzo gli fusse conceduto per alloggiamento, rispose, con grandezza di animo castigliana: non potere dinegare a Cesare quanto voleva, ma che sapesse che, come Borbone se ne fusse partito, l'abbrucierebbe, come palazzo infetto dalla infamia di Borbone e indegno di essere abitato da uomini d'onore. Ma gli onori fatti da Cesare al duca di Borbone accrescevano la diffidenza de' franzesi; i quali, per questo, e piú per il ritorno senza effetto di madama di Alanson, sperando poco nello accordo, ancora che continuamente per uomini propri che avevano appresso a Cesare si praticasse, instavano quanto potevano di fare la lega col pontefice: a che intervenivano i conforti e l'autorità del re d'Inghilterra, le spesse ed efficaci instanze de' viniziani. E si aggiunse una opportunità senza dubbio grande, che in questi dí, che fu al principio di dicembre, morí il marchese di Pescara; forse per giusto giudizio di Dio, che non comportò che egli godesse il frutto di quel seme che aveva seminato con tanta malignità.
Era costui di casa di Avalos, di origine catelano; i maggiori suoi erano venuti in Italia col re don Alfonso di Aragona, che primo di quella casa acquistò il reame di Napoli; e cominciando dalla giornata di Ravenna, nella quale ancora giovanetto fu fatto prigione, era intervenuto in tutte le guerre che avevano fatte gli spagnuoli in Italia; in modo che, giovane di età, che non passava trentasei anni, era già vecchio di esperienza. Ingegnoso, animoso, molto sollecito e molto astuto, e in grandissimo credito e benivolenza appresso alla fanteria spagnuola, della quale era stato lungamente capitano generale; in modo che e la vittoria di Pavia e, già qualche anno, tutte le onorevoli fazioni fatte da quello esercito erano principalmente succedute per il consiglio e per la virtú sua. Capitano certamente di valore grande, ma che con artifici e simulazioni sapeva assai favorire e augumentare le cose sue. Il medesimo, altiero insidioso maligno, senza alcuna sincerità, e degno, come spesso diceva desiderare, di avere avuto per patria piú presto Spagna che Italia.
Confuse adunque assai la morte sua quello esercito, appresso al quale egli era in tanta grazia e riputazione, e agli altri dette speranza di poterlo molto piú facilmente opprimere poiché gli era mancato uno capitano di tale autorità e valore. Però appresso al pontefice erano tanto piú calde e importune le instanze di coloro che desideravano che la lega si facesse; ma non erano minori le sue sospensioni e debitamente, perché da ogni parte combattevano ragioni efficacissime, e da tenere confuso ogn'uomo bene caldo e deliberato non che Clemente, che nelle cose sue procedé sempre tardo e sospeso. Non si aspettava piú da Cesare deliberazione alcuna che assicurasse Italia: vedevasi attentissimo a pigliare il castello di Milano, quale preso, tutti gli altri e il papa massime, che aveva lo stato debole e posto in mezzo della Lombardia e del regno di Napoli, gli restavano manifestamente in preda; e presupposto che in facoltà sua fusse di opprimerlo, era molto dubitabile che e' non l'avesse a fare, o per ambizione (che è quasi naturale agli imperadori contro a' pontefici) o per assicurarsi o per vendicarsi; trovandosi, come era credibile, pieno di sdegno e di diffidenza per le pratiche tenute col marchese di Pescara: e se la necessità di provedere a questo pericolo era grande non parevano anche leggieri i fondamenti e le speranze di poterlo fare, perché o il rimedio aveva a succedere per mezzo di una lega e congiunzione sí potente o si aveva a disperarsene in eterno. Prometteva il governo di Francia cinquecento lance, e ogni mese, mentre durava la guerra, quarantamila ducati; co' quali si ragionava soldare diecimila svizzeri. Disegnavasi che il papa e i viniziani mettessino insieme mille ottocento uomini d'arme ventimila fanti e dumila cavalli leggieri, uscissino i franzesi e i viniziani in mare con una grossa armata per assaltare o Genova o il reame di Napoli. Prometteva madama la reggente di rompere subito con potente esercito la guerra alle frontiere di Spagna, acciò che Cesare fusse impedito a mandare gente e danari per la guerra d'Italia. Lo esercito restato in Lombardia non era grosso, non aveva capitani della autorità soleva, essendo morto il marchese, e il Borbone e il viceré di Napoli in Spagna; non vi era modo di danari non abbondanza di vettovaglie; i popoli inimicissimi per il desiderio del suo duca e per le intollerabili esazioni che si facevano dai soldati e nella città di Milano e in tutto lo stato, il castello di Milano e di Cremona in mano del duca; e i viniziani davano speranza che anche il duca di Ferrara entrerebbe in questa confederazione, pure che Clemente si contentasse di concedergli Reggio, quale a ogni modo possedeva. Da altro canto faceva difficoltà la astuzia, la virtú degli inimici, lo essere soliti a stare lungamente, quando era necessario, con pochi danari e a tollerare molti disagi e incomodità, le terre fortificate in che erano e la facilità, per essere terre in piano, da potere anche meglio ripararle e fortificarle, nelle quali potersi intrattenere tanto che gli venisse soccorso di Germania, di qualità da ridurre tutta la guerra alla fortuna d'una giornata; le genti della lega non potere essere altro che genti nuove e di poco valore a comparazione di quello esercito veterano e nutrito in tante vittorie. Aversi difficoltà di capitano generale, non avendo il marchese di Mantova, che allora era capitano della Chiesa, spalle da sostenere tanto peso; né potendo sicuramente commettersi alla fede del duca di Ferrara né di quello di Urbino, che avevano ricevuto tante offese, né potevano essere contenti della grandezza del pontefice. Tagliare male di sua natura l'arme della Chiesa, tagliare medesimamente male l'arme de' viniziani; e se ciascuna male, separata e dispersa, quanto peggio accompagnate e congiunte insieme? E negli eserciti delle leghe non concorrere mai le provisioni in uno tempo medesimo; e tra tante volontà, dove sono vari interessi e vari fini, nascere facilmente disordini sdegni dispareri e diffidenze; e, almanco, non vi essere mai né prontezza a seguitare gagliardamente, quando si mostra benigno, il favore della fortuna, né disposizione da resistere costantemente quando si volge il disfavore. Ma quello che sopratutto causava, in questa deliberazione, difficoltà grandissima e timore era il sospetto che i franzesi, ogni volta che Cesare vedendosi strignere offerisse di liberare il loro re, non solo abbandonassino la lega ma ancora lo aiutassino contro a' collegati. E se bene il re d'Inghilterra obligava per loro la fede sua, che e' non si accorderebbono, e si trattava che e' dessino, in Roma in Firenze o in Vinegia, sicurtà di pagamenti per tre mesi, nondimeno non si trovava mezzo alcuno da assicurare da questa sospizione: perché non avendo essi altro fine che la ricuperazione del re, ed essendo notorio che e' non avevano inclinazione alla guerra se non quando non avevano speranza dell'accordo, pareva verisimile che ogni volta che Cesare volesse consentirlo loro preporrebbono la concordia seco a ogn'altro interesse e rispetto, anzi si conosceva che quanto fussino maggiori gli apparati e le forze della lega tanto piú inclinerebbe Cesare ad accordare col re di Francia. E però pareva pericolosissimo partito collegarsi a una guerra nella quale le provisioni potenti de' confederati potessino cosí nuocere come giovare. Combattevano il pontefice da ogni parte con queste ragioni gl'imbasciadori e agenti de' príncipi ma non manco i ministri suoi medesimi, perché la casa e il consiglio suo era diviso; de' quali ciascuno favoriva la propria inclinazione con tanto minore rispetto quanto era maggiore l'autorità che s'avevano arrogata con lui, ed egli insino a quel tempo assuefattosi a lasciarsi in grande parte portare da coloro che arebbono avuto a obbedire a' cenni suoi, né essere altro che ministri ed esecutori delle volontà e ordini del padrone. Per intelligenza di che, e di molte altre cose che occorsono, è necessario dichiarare piú da alto.
Cap. xii
Diversità dei caratteri di Leone decimo e di Giulio de' Medici; stima generale delle doti di Giulio e grande attesa per la sua elezione a pontefice; sua incertezza nel deliberare e nell'eseguire. Suoi consiglieri e loro modo d'agire. Il pontefice già deciso alla confederazione contro Cesare sospende gli accordi per la notizia dell'arrivo d'un ambasciatore cesareo.
Lione, che portò primo grandezza ecclesiastica nella casa de' Medici, e con l'autorità del cardinalato sostenne tanto sé e quella famiglia, caduta di luogo eccelso in somma declinazione, che e' potetteno aspettare il ritorno della prospera fortuna, fu uomo di somma liberalità; se però si conviene questo nome a quello spendere eccessivo che passa ogni misura. In costui, assunto al pontificato, apparí tanta magnificenza e splendore e animo veramente regale che e' sarebbe stato maraviglioso eziandio in uno che fusse per lunga successione disceso di re o di imperadori: né solo profusissimo di danari ma di tutte le grazie che sono in potestà di uno pontefice; le quali concedeva sí smisuratamente che faceva vile l'autorità spirituale, disordinava lo stile della corte, e per lo spendere troppo si metteva in necessità di avere sempre a cercare danari per vie estraordinarie. A questa tanta facilità era aggiunta una profondissima simulazione, con la quale aggirava ognuno nel principio del suo pontificato, e lo fece parere principe ottimo; non dico di bontà apostolica, perché ne' nostri corrotti costumi è laudata la bontà del pontefice quando non trapassa la malignità degli altri uomini; ma era riputato clemente, cupido di beneficare ognuno e alienissimo da tutte le cose che potessino offendere alcuno. Il medesimo fu deditissimo alla musica alle facezie e a' buffoni; ne' quali sollazzi teneva il piú del tempo immerso l'animo, che altrimenti sarebbe stato volto a fini e faccende grandi, delle quali aveva lo intelletto capacissimo. Credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e' fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli piaceri che con onestà non si possono nominare. Ebbe costui, tra le altre sue felicità, che furono grandissime, non piccola ventura di avere appresso di sé Giulio de' Medici suo cugino; quale, di cavaliere di Rodi, benché non fusse di natali legittimi, esaltò al cardinalato. Perché essendo Giulio di natura grave, diligente, assiduo alle faccende, alieno da' piaceri, ordinato e assegnato in ogni cosa, e avendo in mano per volontà di Lione tutti i negozi importanti del pontificato, sosteneva e moderava molti disordini che procedevano dalla sua larghezza e facilità; e quel che è piú, non seguendo il costume degli altri nipoti e fratelli de' pontefici, preponendo l'onore e la grandezza di Lione agli appoggi potesse farsi per dopo la sua morte, gli era in modo fedelissimo e ubbidientissimo che pareva che veramente fusse un altro lui; per il che fu sempre piú esaltato dal pontefice, e rimesse a lui ogni dí piú le faccende: le quali, in mano di due nature tanto diverse, mostravano quanto qualche volta convenga bene insieme la mistura di due contrari. L'assiduità la diligenza l'ordine la gravità di costui, la facilità la prodigalità i piaceri e la ilarità di quell'altro, facevano credere a molti che Lione fusse governato da Giulio, e che egli per se stesso non fusse uomo da reggere tanto peso, non da nuocere ad alcuno e desiderosissimo di godersi i comodi del pontificato; e allo incontro, che in Giulio fusse animo ambizione cupidità di cose nuove, in modo che tutte le severità tutti i movimenti tutte le imprese che si feceno a tempo di Lione si credeva procedessino per istigazione di Giulio, riputato uomo maligno ma di ingegno e di animo grande. La quale opinione del valore suo si confermò e accrebbe dopo la morte di Lione; perché, in tante contradizioni e difficoltà che ebbe, sostenne con tanta dignità le cose sue che pareva quasi pontefice, e si conservò in modo l'autorità appresso a molti cardinali che, entrato in due conclavi assoluto padrone di sedici voti, aggiunse finalmente, nonostante infinite contradizioni della maggiore parte e de' piú vecchi del collegio, dopo la morte di Adriano, al pontificato, non finiti ancora due anni dalla morte di Lione: dove entrò con tanta espettazione che fu fatto giudizio universale che avesse a essere maggiore pontefice e a fare cose maggiori che mai avesse fatte alcuni di coloro che avevano insino a quel dí seduto in quella sedia. Ma si conobbe presto quanto erano stati vani i giudizi fatti di Lione e di lui. Perché in Lione fu di grande lunga piú sufficienza che bontà, ma Giulio ebbe molte condizioni diverse da quello che prima era stato creduto di lui: con ciò sia che e' non vi fusse né quella cupidità di cose nuove né quella grandezza e inclinazione di animo a fini generosi e magnanimi che prima era stata l'opinione, e fusse stato piú presto appresso a Lione esecutore e ministro de' suoi disegni che indirizzatore e introduttore de' suoi consigli e delle sue volontà. E ancora che avesse lo intelletto capacissimo e notizia maravigliosa di tutte le cose del mondo, nondimeno non corrispondeva nella risoluzione ed esecuzione; perché, impedito non solamente dalla timidità dell'animo, che in lui non era piccola, e dalla cupidità di non spendere ma eziandio da una certa irresoluzione e perplessità che gli era naturale, stesse quasi sempre sospeso e ambiguo quando era condotto alla determinazione di quelle cose le quali aveva da lontano molte volte previste, considerate e quasi risolute. Donde, e nel deliberarsi e nello eseguire quel che pure avesse deliberato, ogni piccolo rispetto che di nuovo se gli scoprisse, ogni leggiero impedimento che se gli attraversasse, pareva bastante a farlo ritornare in quella confusione nella quale era stato innanzi deliberasse; parendogli sempre, poi che aveva deliberato, che il consiglio stato rifiutato da lui fusse il migliore: perché, rappresentandosegli allora innanzi solamente quelle ragioni che erano state neglette da lui, non rivocava nel suo discorso le ragioni che l'avevano mosso a eleggere, per la contenzione e comparazione delle quali si sarebbe indebolito il peso delle ragioni contrarie; né avendo, per la memoria di avere temuto molte volte vanamente, presa esperienza di non si lasciare soprafare al timore. Nella quale natura implicata e modo confuso di procedere, lasciandosi spesso trasportare da' ministri, pareva piú presto menato da loro che consigliato.
Di questi furono appresso a lui in somma potenza Niccolò Scombergh germano e Giammatteo Giberto da Genova: quello reverito e quasi temuto dal pontefice, questo gratissimo e molto amato da lui. Quello, seguitando l'autorità di Ieronimo Savonarola, dedicatosi, mentre studiava nelle leggi, nell'ordine de' frati predicatori, ma dipoi partitosi dalla religione benché ritenendo l'abito e il nome, [aveva] seguitate le faccende secolari; questo, nella età puerile dedicatosi alla religione ma dipoi partitosene per la autorità paterna, benché non fusse di legittimi natali, aveva abdicato in tutto, e con l'abito e col nome, quella professione. Questi, concordi nel suo cardinalato e poi nel principio del pontificato, guidorono ad arbitrio loro il pontefice; ma cominciando poi a discordare, o per ambizione o per la diversità delle nature, lo distrassono e lo confusono. Perché fra' Niccolò, affezionatissimo, per il vincolo della nazione o per qualunque altro rispetto, al nome di Cesare, e per natura fisso nelle opinioni proprie, le quali spesso discordavano dalle opinioni degli altri uomini, favoriva tanto immoderatamente le cose di Cesare che spesso venne in sospetto al pontefice come piú amatore degli interessi di altri che de' suoi; l'altro, non conoscendo in verità né altro amore né altro padrone, ma per natura ardente nelle cose sue, se in qualche cosa errava, procedeva piú presto da volontà che da giudicio; e se bene nel tempo di Lione fusse stato inimico acerrimo de' franzesi e fautore delle cose di Cesare, morto Leone, era diventato tutto l'opposito: donde, essendo questi due ministri potentissimi tra loro in manifesta dissensione né procedendo con maturità o con rispetto dell'onore del pontefice, e facendo notorio a tutta la corte la sua freddezza e irresoluzione, lo rendevano appresso alla maggiore parte degli uomini disprezzabile e quasi ridicolo.
Essendo egli adunque di natura irresoluto, e in una deliberazione sí perplessa e sí difficile aiutato confondere da coloro che dovevano aiutarlo risolvere, non sapeva egli medesimo dove si volgere: finalmente, piú perché era necessario deliberare qualche cosa che per risoluzione e giudicio fermo, trovandosi massime in termine che anche il non deliberare era specie di deliberare, si inclinò a fare la lega, e a rompere in compagnia degli altri la guerra a Cesare. Concordoronsi e distesonsi i capitoli, né mancava altro che lo stipulargli, quando ebbe nuove che a Genova era arrivato il comandatore Errera mandato a lui da Cesare; quale avvisava che veniva subito in diligenza, e con grata e buona espedizione: deliberò adunque di aspettarlo, con gravissima querela degli imbasciadori, a' quali aveva dato ferma intenzione di stipulare il dí medesimo la confederazione.
Cap. xiii
Ragioni dell'invio dell'ambasciatore di Cesare al pontefice. Obiezioni del pontefice alle proposte di Cesare e promesse dell'ambasciatore. Accordo provvisorio fra il pontefice e Cesare.
La cagione della venuta sua fu che Cesare, poi che ebbe dato commissione tale al marchese di Pescara che almanco era in arbitrio suo lo occupare lo stato di Milano, dubitando che per questo non si facessino in Italia nuovi movimenti, ristrinse le pratiche dell'accordo col legato Salviato: in modo che tra loro fu fatta capitolazione, riservata però la condizione della ratificazione del pontefice, nella quale se gli sodisfaceva della restituzione di Reggio e di Rubiera, e vi si includeva la difesa e conservazione del duca di Milano, che erano le cose state principalmente desiderate da Clemente, ma con condizione espressa che, nel caso della sua morte, non potesse ritenere per sé quel ducato né darlo allo arciduca suo fratello, ma ne investisse monsignore di Borbone; il quale il pontefice medesimo, assai inconsideratamente, per conforti dello arcivescovo di Capua, gli aveva, insieme con Giorgio di Austria fratello naturale di Massimiliano Cesare, proposto, nel tempo che per la infermità fu quasi disperata la vita di Francesco Sforza. La quale capitolazione fatta, il legato, non aspettato che da Clemente avesse la perfezione, non potette o non seppe negare di dare a Cesare il breve tanto desiderato della dispensa: la quale essendo stata fatta prima con espressione solamente dello impedimento in secondo grado senza nominare la figliuola del re di Portogallo, per manco offendere il re di Inghilterra, o perché, essendo tra loro vincolo doppio di affinità, non fusse fatta menzione se non del vincolo piú potente, fu necessario farne un'altra che con espressa nominazione delle persone comprendesse tutti gli impedimenti.
Con la espedizione di questa confederazione partí il comandatore Errera dalla corte cesarea, uno giorno o due dipoi che Cesare aveva ricevuto l'avviso della cattura del Morone: e condotto, il sesto dí di dicembre, innanzi al pontefice, oltre a molte offerte e fede larghissima della buona disposizione di Cesare, gli presentò i capitoli [dell'accordo]; del quale se bene i capitoli che trattavano del sale e delle cose beneficiali del reame di Napoli erano discrepanti da quello che aveva appuntato col viceré, pure, perché il principale suo fine era di assicurarsi da' sospetti, gli arebbe accettati se avesse conosciuto procedersi sinceramente nelle cose del ducato di Milano. Ma poi che nel capitolo che trattava di Francesco Sforza non si faceva menzione della imputazione che gli era stata data, né si prometteva di restituire lo stato tolto né di perdonargli gli errori che avesse commesso (anzi Cesare, nella conclusione fatta col legato e nella istruzione data a questo suo agente, non aveva dimostrato di saperne cosa alcuna), fu conosciuta facilmente la astuzia e arte loro: perché la confederazione e la promessa di conservare e difendere Francesco Sforza nel ducato di Milano non privava Cesare della potestà di procedergli contro come suo vassallo, e dichiarare il feudo divoluto, per la imputazione dello avere macchinato contro alla Maestà sua; e Borbone, surrogato in caso della sua morte, veniva anche a succedere in caso della sua privazione, perché dalle leggi è considerata la morte naturale e la morte civile, della quale dicono morire chi è condennato per tale delitto. Però rispose il pontefice, con gravissime parole: non avere con Cesare causa alcuna particolare di discordia, anzi, che di ogni differenza e disputa che potesse essere tra loro non eleggerebbe mai altro giudice che lui; ma che era anche necessario fermare in modo le cose comuni che Italia restasse sicura, il che non poteva essere se non si rilasciava a Francesco Sforza il ducato di Milano; e gli mostrò le ragioni per le quali quello capitolo cosí generale non era bastante; conchiudendo che a lui sarebbe grandissimo dispiacere di essere necessitato a pigliare nuove deliberazioni, e discostarsi da Cesare col quale era stato sempre congiuntissimo. Replicò il duca di Sessa che la mente di Cesare era sincerissima, e che senza dubbio era contento che, non ostante tutto quello fusse accaduto, il ducato di Milano restasse a Francesco Sforza, ma che per inavvertenza non era stato disteso il capitolo in ampia forma; ma facesse il pontefice riformarlo a modo suo, che gli promettevano presentargli in termine di due mesi la ratificazione, pure che anche egli promettesse che, durante questo tempo, non conchiuderebbe la lega che si trattava col governo di Francia e co' viniziani. Fu conosciuto chiaramente per ciascuno che questa offerta non aveva altro fondamento che il desiderio di guadagnare dilazione di due mesi, acciò che Cesare avesse spazio di potere meglio deliberarsi e provedere i rimedi contro a tanta unione; e nondimeno il pontefice, dopo molte dispute e con grandissimo dispiacere degli altri imbasciadori, acconsentí a questa dimanda, sí per desiderio di allungare quanto poteva lo entrare nelle spese e nelle molestie come perché gli pareva che, mentre che il cristianissimo era prigione, fusse pericolosissima ogni congiunzione che si facesse con la madre, essendo in potestà di Cesare dissolverla ogni volta che gli piacesse; e questa dilazione potere pure portare, ancorché poco se ne sperasse, la conclusione desiderata; e se pure causasse la concordia tra i due re, considerò profondamente (ancora che molti altri giudicassino in contrario) che meglio era che si facesse in tempo che Cesare avesse minore necessità; perché quanto fusse in grado migliore tanto sarebbono piú gravi le condizioni che egli porrebbe al re di Francia; l'asprezza delle quali dava speranza che il re, poiché fusse liberato, non le avesse a osservare. Fu aggiunto ancora in questo trattato che nel medesimo tempo non si innovasse né di lavorare né di altro contro al castello di Milano, se Francesco Sforza si obligava a non offendere e molestare quegli di fuora; la quale condizione egli non volle accettare.
Cap. xiv
Lettera del pontefice a Cesare a favore del duca di Milano. Matrimonio di Cesare con la principessa di Portogallo. Discussione nel consiglio di Cesare sulla politica da seguirsi riguardo al re di Francia, ed in Italia; parole del gran cancelliere; parole del viceré.
Consumato con queste azioni, disposte piú alla guerra che alla pace, l'anno della natività del Figliuolo del sommo Dio mille cinquecento venticinque, cominciò l'anno mille cinquecento ventisei, pieno di grandi accidenti e di maravigliose perturbazioni. Nel principio del quale anno ritornando Errera a Cesare, il pontefice gli scrisse una lunga lettera di propria mano, nella quale, non negando totalmente né confessando le cose trattate contro a lui ma trasferendone la colpa nel marchese di Pescara, si sforzò di escusare Francesco Sforza, sedotto, se aveva fatto errore alcuno, dai consigli di Ieronimo Morone; e supplicandolo efficacissimamente che, per quiete e beneficio di tutta la cristianità, fusse contento di perdonargli. Nel quale tempo Cesare, aspettando la risposta del pontefice, teneva sospese tutte le pratiche degli altri; e ancora che Borbone, che era carezzato assai e confermatagli la speranza del parentado, instesse di consumare il matrimonio, gli era interposta dilazione, allegando che Cesare voleva prima consumare il matrimonio suo con la sposa di Portogallo, la quale di giorno in giorno aspettava: ma si faceva per lasciarsi libera la facoltà di fare l'accordo col re di Francia, nel quale si trattava dargli per moglie la medesima promessa a Borbone; prevalendo, come è l'uso di tutti i príncipi, l'utilità alla onestà. Sopravenne dipoi, avendo già Cesare consumato il matrimonio in Sibilia, Errera da Roma, con la minuta del capitolo amplissimo disteso dal pontefice in benefizio di Francesco Sforza: in modo che Cesare, certificato anche che il legato non aveva commissione da parte, diversa da quel capitolo, e concorrendo tutto il consiglio in questa sentenza, che e' fusse necessario interrompere la lega che si trattava e pericoloso l'avere a sostenere in uno tempo medesimo tanti inimici, si ridusse in necessità o di sodisfare al pontefice e a' viniziani della restituzione di Francesco Sforza o di concordarsi col re di Francia. Il quale finalmente, dopo molte contenzioni avute sopra la Borgogna, non potendo altrimenti sperare da Cesare la liberazione, offeriva di restituirla con i contadi e pertinenze sue, e cedere alle ragioni che aveva sopra il regno di Napoli e sopra il ducato di Milano; e dare statichi, per l'osservanza delle promesse, due suoi figliuoli.
Grandissime dispute erano in su la elezione dell'una o dell'altra deliberazione. Il viceré, che aveva condotto in Spagna il re cristianissimo, e dategli tante speranze e procurato sí ardentemente la sua liberazione, faceva piú efficace instanza che mai; e l'autorità sua, almanco per fede e per benivolenza, era grande appresso a Cesare. Ma in contrario piú presto esclamava che disputava Mercurio da Gattinara, gran cancelliere; uomo, benché nato di vile condizione nel Piamonte, di molto credito ed esperienza, e il quale già piú anni sosteneva tutte le faccende importanti di quella corte. I quali essendo uno giorno ridotti in consiglio, presente Cesare, per determinare finalmente tutte le cose che si erano trattate tanti mesi, il gran cancelliere parlò cosí:
- Io ho bene sempre dubitato, invittissimo Cesare, che la nostra troppa cupidità, e lo averci proposto noi fini male misurati, non fusse causa che di vittoria tanto preclara e tanto grande noi non riportassimo alla fine né gloria né utilità; ma non credetti perciò già mai che l'avere vinto avesse a condurre in pericolo la reputazione e lo stato vostro, come io veggo che manifestamente si conduce: poi che si tratta di fare un accordo per il quale Italia tutta si disperi e il re di Francia si liberi, ma con sígravi condizioni che, se non per volontà almanco per necessità, ci resti maggiore inimico che prima. Desidererei e io, con ardore pari a quello degli altri, che in uno tempo medesimo si recuperasse la Borgogna e si stabilissino i fondamenti di dominare Italia, ma conosco che chi cosí presto vuole tanto abbracciare va a pericolo di non stringere cosa alcuna, e che nessuna ragione comporta che il re di Francia, liberato, vi attenda tanto importanti capitoli. Non sa egli, che se e' vi restituisce la Borgogna, che vi apre una porta di Francia? e che in potestà vostra sarà sempre di correre insino a Parigi? e, che avendo voi facoltà di travagliare la Francia da tante parti, che sarà impossibile che e' vi resista? Non sa egli, e ognuno, che il consentirvi che voi andiate armato a Roma, che voi mettiate il freno a Italia, che voi riduciate in arbitrio vostro lo stato spirituale e temporale della Chiesa, è cagione di raddoppiare la vostra potenza, che mai piú vi possino mancare né danari né armi da offenderlo, e che egli sia necessitato ad accettare tutte le leggi che a voi parrà d'imporgli? Adunque, ci è chi crede che vi abbia a osservare uno accordo per il quale egli diventi vostro schiavo e voi diventiate suo signore? Gli mancheranno i lamenti e le esclamazioni di tutto il reame di Francia, le persuasioni del re d'Inghilterra, gli stimoli di tutta Italia? l'amore forse che è tra voi due sarà cagione che e' si fidi di voi, o vegga volentieri la vostra potenza? O dove furono mai due príncipi tra i quali fussino piú cause di odio e di contenzione? Ci è non solo la emulazione della grandezza, che suole mettere l'armi in mano a' fratelli, ma antiche e gravissime inimicizie cominciate insino dai padri e dagli avoli degli avoli vostri, tante guerre state lungamente tra queste due case, tante paci e accordi non osservati, tante ingiurie e offese fatte e ricevute. Non crediamo noi che gli arda di sdegno quando e' si ricorda di essere stato tanti mesi vostro prigione? tenuto sempre con guardie sí strette, non avere mai avuto grazia di essere stato condotto al cospetto vostro? che in questa carcere, per i dispiaceri e incomodità, è stato vicino alla morte? e che ora non si libera per magnanimità o per amore ma per paura di tanta unione che si tratta contro a voi? Crediamo noi che sia piú potente di tanti stimoli il parentado fatto per necessità? E chi non sa quanto i príncipi stimano questi legami? e chi è migliore testimonio del conto che si tiene de' parentadi che noi? Parrà forse a qualcuno che assai ci assicuri la fede che e' darà di ritornare in prigione! e che fondamenti inconsiderati, che speranze imprudenti sarebbeno queste? Cosí mi sforza, Cesare, a parlare il dolore estremo che io ho che e' si pensi di prendere uno partito tanto dannoso e pericoloso. Sappiamo pure tutti quanto sia stimata la fede negli interessi degli stati, che vagliano le promesse de' franzesi, i quali, aperti in tutto il resto, sono maestri perfettissimi di ingannare; che questo re è per natura tanto piú scarso di fatti quanto è piú abbondante di parole. Però conchiudiamo pure che, non benivolenza tra due príncipi che hanno per antichissima eredità le ingiurie e le inimicizie, non memoria de' benefizi de' quali non ci è nissuno, non fede o promesse (che nelle importanze dello stato sono appresso di molti di poco peso, appresso a' franzesi di niuno) lo indurranno a eseguire un accordo che metta in cielo lo inimico suo, e sé e il suo reame in manifesta suggezione. Risponderassi, sento, che per timore di queste cose se gli dimanda la sicurtà di due figliuoli e tra loro il primogenito, l'amore de' quali bisognerà che gli stimi piú che la Borgogna; e io temo che l'amore de' figliuoli opererà piú presto il contrario, quando se gli presenterà nell'animo la memoria loro e la considerazione che l'osservare lo accordo sarebbe il principio di fargli vostri schiavi. Non so se questo pegno bastasse quando e' fusse al tutto disperato di recuperargli in altro modo, perché troppo importa il mettere in pericolo il regno suo, il quale perduto una volta è difficillimo il recuperare; ma si può bene sperare di recuperare col tempo i figliuoli o con accordo o con altra occasione, e per l'età loro tenera sarà manco molesta la dilazione. Ma potendo egli avere uniti seco contro a voi quasi tutti i príncipi cristiani, chi dubita che si ristringerà con loro e cercherà di moderare questo accordo con la via dell'armi? e che il guadagno che noi aremo conseguito di questa vittoria sarà una guerra gagliardissima e pericolosissima? concitata dall'odio, dalla necessità e dalla disperazione del re d'Inghilterra, del re di Francia e di tutta Italia. Da' quali tutti ci difenderemo, se Dio non si straccherà di fare ogni dí per noi di quegli miracoli che tante volte ha fatti insino al presente, se la fortuna muterà natura per noi, e la sua incostanza e mutazione diventeranno in noi, contro a tutti gli esempli delle cose passate, uno esempio di costanza e di stabilità. Abbiamo conchiuso, già tanti mesi, in tutti i consigli nostri, che si faccia ogni opera perché gl'italiani non si unischino col governo di Francia, e ora ci precipitiamo a una deliberazione che leva tutte le difficoltà che insino a ora gli hanno tenuti sospesi, che moltiplica i pericoli nostri che moltiplica le forze degli inimici. Perché chi non sa quanto piú potente sarà la lega che abbia per capo il re di Francia, libero e nel regno suo, che quella che si facesse col governo di Francia restando il re vostro prigione? Chi non sa che nissuna ragione ha tenuto insino a ora il papa ambiguo a confederarsi contro a voi se non il timore che voi non separiate i franzesi da loro con offerirgli il suo re? di che temeranno manco quando aremo i figliuoli e non lui. Cosí la medicina che noi prepariamo usare per fuggire il pericolo sarà quella che senza comparazione lo accrescerà, e in cambio di interrompere questa unione saremo il mezzo noi che la si faccia, e piú stabile e piú potente. Sarammi detto: che parere è adunque il tuo? consigli tu che di tanta vittoria non si tragga alcuno profitto? abbiamo noi a stare continuamente in queste perplessità? Io confermo quel che ho detto molte volte: che è troppo nocivo il prendere in una volta tanto cibo che lo stomaco non sia potente a comportarlo, e che è necessario o, reintegrandosi con Italia (che non dimanda altro da noi che di essere assicurata), cercare di avere dal re di Francia la Borgogna e quel piú che noi possiamo, o fare uno accordo con lui per il quale ci resti Italia a discrezione, ma sí dolce, in quanto agli interessi suoi, che gli abbi causa di osservarlo; e nella elezione tra queste due vie bisogna, Cesare, che la prudenza e la bontà vostra preponga quello che è stabile e piú giusto a quello che al primo aspetto paresse forse piú utile e maggiore. Confesso che piú ricco stato e piú opportuno a molte cose è quel di Milano che la Borgogna, e che non si può fare amicizia con Italia che non si lasci Milano o a Francesco Sforza o a uno altro del quale il papa si contenti; e nondimeno lodo molto piú il fare questo che lo accordare co' franzesi: perché di giustizia piú è vostra la Borgogna che non è Milano, piú facile a mantenere che quella, dove non è alcuno che vi voglia. Cercare la Borgogna, vostra antica eredità, è somma laude; volere Milano, o per voi o per uno che dependa in tutto da voi, non è senza nota di ambizione: il primo ricerca da voi la memoria di tanti gloriosi vostri progenitori, l'ossa de' quali sepolte in cattività non gridano altro che essere da voi liberate e ricuperate: e sí giusti sí pietosi sí santi prieghi sono forse cagione di farvi Dio piú propizio. Piú prudente e piú facile consiglio è cercare di stabilire una amicizia con chi malvolentieri vi diventa inimico che con chi in tempo alcuno non vi può essere amico. Perché nel re di Francia non sarà mai se non odio e desiderio di opporsi a disegni vostri; ma il papa e gli altri d'Italia, come si leva l'esercito di Lombardia, assicurati dal sospetto, non aranno da contendere con voi né per emulazione né per timore, e restandovi amici ne arete, ora e sempre, comodità e profitto. Vi inclina dunque piú a questa amicizia l'onore l'utilità la sicurtà, ma, se io non mi inganno, non meno la necessità: perché, quando bene voi facciate accordo col re senza obligarlo ad altro che ad aiutarvi alle imprese d'Italia, a me non è verisimile che e' ve lo abbia a osservare; perché gli parrà che il lasciarvi Italia in preda metta in troppo pericolo il suo reame, e da altro canto grandissime saranno le opportunità e le speranze che, per mezzo di sí potente unione, gli parrà avere di travagliarvi e ridurvi a uno accordo di manco gravi condizioni. Cosí di uno re prigione lo faremo libero e inimico nostro, e daremo capo al regno di Francia acciò che, congiunto a tanti altri, vi faccia con piú forze e con maggiore autorità la guerra. Quanto è meglio accordare con gl'italiani! fare una buona e vera congiunzione col pontefice, che l'ha continuamente desiderata, e levare a franzesi ogni speranza della compagnia degli italiani! perché allora non la necessità o il timore di nuove leghe, ma la volontà vostra e la qualità delle condizioni, vi arà a tirare ad accordo co' franzesi; allora vedrete che il bisogno e la disperazione gli sforzerà non solo a rendervi la Borgogna e farvi patti maggiori ma ancora a mettervi in mano tale sicurtà che non abbiate a temere dell'osservanza. Perché non bastano i figliuoli mentre che e' possono sperare tanta congiunzione, né basterebbe, appena, se vi mettessino in mano Baiona, Nerbona e l'armata. A questo modo caverete frutto grande, onorevole, giusto e sicuro, di questa vittoria; altrimenti, o io non ho intelligenza di cosa alcuna o questo accordo metterà lo stato vostro in sí grave pericolo che io non so conoscere che cosa ve ne possa liberare, se già la imprudenza del re di Francia non sarà maggiore che la nostra. -
Aveva il gran cancelliere, con questo parlare accurato e veemente e con la riputazione della prudenza sua, commosso gli animi di una grande parte del consiglio, quando il viceré, autore della contraria opinione, parlò, secondo si dice, cosí:
- Non è già da lodare, gloriosissimo Cesare, chi, per appetito di avere troppo, abbraccia piú che non può tenere, ma non merita di essere manco biasimato chi, per superchio sospetto e diffidenza, si priva da se stesso delle occasioni grandi acquistate con tante difficoltà e pericoli; anzi, essendo l'uno e l'altro errore gravissimo, è piú dannabile, in uno tanto principe, quello che procede da timidità e abiezione di animo che quello che nasce da generosità e grandezza, e piú laudabile è cercare, con pericolo, di acquistare troppo che, per fuggire pericolo, annichilare le occasioni rarissime che l'uomo ha: e questo è proprio il consiglio del cancelliere, che dubitando non si possa conseguire con questo accordo la Borgogna e Milano (perché di lui non è già da sospettare che lo muova o l'amore di Italia sua patria o la benivolenza che ha al duca di Milano) si risolve a una via che, secondo lui, si guadagna la Borgogna e si perde Milano, stato senza comparazione di maggiore importanza, ma, secondo me, si perde Milano e non si guadagna la Borgogna; e dove questa vittoria vi ha aperta gloriosissimamente la strada al principato de' cristiani, non ci resterà, se seguiteremo il consiglio suo, altro che danno e infamia. E certo io non veggo nel consiglio suo sicurtà alcuna, anzi pericolo grandissimo, piccolissima utilità, e quella facile a uscirci di mano, veggola piena di indegnità e di vergogna; e, per contrario, nell'accordo col re di Francia mi pare che sia grandissima gloria, grandissima utilità, e sicurtà bastante. Perché io vi dimando, cancelliere: che ragione avete voi, che sicurtà che fede, che gl'italiani, poi che aremo lasciata la ducea di Milano, abbino a osservare l'accordo nostro né si intromettere tra il re di Francia e noi? e non piú presto, poiché aranno abbassato la nostra riputazione, poiché aranno dissoluto quello esercito che è il freno della loro malignità, poiché saranno sicuri che in Italia non possino venire nuovi tedeschi (perché non sarà in Lombardia luogo che gli riceva né dove si possino raccorre), che sicurtà, dico, avete voi che gl'italiani, allora, continuando le sue pratiche, non abbino, col minacciarci il regno di Napoli, che resterà quasi alla loro discrezione, a sforzarci a liberare il re di Francia? Fidatevi voi, cancelliere, nella gratitudine di Francesco Sforza? che dopo tanti benefici vi ha rimeritato, Cesare, con sí scellerato tradimento! che farà ora che vi ha conosciuto desideroso di punire con la giustizia tanta iniquità, ora che da voi teme la pena, dagli inimici vostri aspetta la salute? Fidatevi voi, cancelliere, della amicizia de' viniziani, che nascono inimici dello imperio e della casa d'Austria; e tremano ricordandosi che, quasi ieri, Massimiliano vostro avolo tolse loro tante terre di quelle che ora posseggono? Fidatevi voi della bontà di Clemente o della inclinazione sua allo imperadore, col quale il principio della congiunzione di Lione fu, dopo avere tentato contro a noi molte cose, per desiderio di vendicarsi e di assicurarsi de' franzesi, e per ambizione di occupare Ferrara? Morto Lione, costui, cardinale, inimicato da mezzo il mondo, continuò per necessità la nostra amicizia; ma fatto papa, ritornato subito al naturale de' pontefici, che è di temere e di odiare gli imperadori, non ha cosa alcuna piú in orrore che il nome di Cesare. Scusansi tutti questi che le macchinazioni loro non sono procedute da odio o da altra cupidità ma solamente dal sospetto della vostra grandezza, e che cessato questo, cesseranno tutte le pratiche: il che o non è vero o, se pure da principio fu vero, è necessario che abbia fatto poi altre radici e sia diventato altro umore; perché è naturale che dietro al sospetto viene l'odio, dietro all'odio l'offese, con l'offese la congiunzione e intrinsichezza con gli inimici di chi si offende, i disegni non solo di assicurarsi ma ancora di guadagnare della ruina dello offeso, la memoria delle ingiurie, maggiore senza dubbio e piú implacabile in chi le fa che in chi le riceve. Però, quando bene da principio si fussino mossi solo dal sospetto, sarebbe questo stato causa diventassino inimici vostri, volgessino gli animi e le speranze alle cose franzesi, cominciassino poi, in tutte le convenzioni che hanno trattate, a dividersi il reame di Napoli. Ora, séguiti quale si voglia sicurtà e accordo con noi, resterà sempre acceso ne' petti loro l'odio e il timore; né confidando di quello che parrà loro fatto per necessità, e parendogli avere maggiore facilità di strignerci alle voglie loro, timidi che alla fine non si faccia tra il re di Francia e noi uno nuovo appuntamento simile a quello che fu fatto a Cambrai, cupidi di liberare (per usare i loro vocaboli) Italia da' barbari, ardiranno di volere porvi le leggi, di dimandare la liberazione del re di Francia: se la negherete, Cesare, come difenderete da loro il regno di Napoli? se la concederete, perduti tutti i frutti della vittoria, resterete il piú disonorato il piú sbattuto principe che fusse mai. Ma pogniamo che Italia fusse per osservarvi l'accordo, e che voi strignesse la necessità o di lasciare Milano o di non riavere la Borgogna, che comparazione è tra l'uno partito e l'altro? La Borgogna è piccola provincia, di poca entrata, né anche tanto opportuna quanto molti si persuadono; il ducato di Milano, per la ricchezza e bellezza di tante città, per il numero e nobiltà de' sudditi, per l'entrate grandi, per la capacità di notrire tutti gli eserciti del mondo, è superiore a molti reami: ma, ancora che e' sia sí ampio e sí potente, sono da stimare piú le opportunità che nascono da acquistarlo che quello che e' vale per se medesimo; perché, essendo a vostra divozione Milano e Napoli, bisognerà che i pontefici dependino, come già solevano, dagli imperadori, la Toscana tutta il duca di Ferrara e il marchese di Mantova vi sieno sudditi; i viniziani, circondati dalla Lombardia e dalla Germania, saranno necessitati ad accettare le leggi vostre. Cosí, non dico con l'armi o con gli eserciti ma con la riputazione del vostro nome, con uno araldo solo, con le insegne imperiali comanderete Italia tutta. E chi non sa che cosa sia Italia? provincia regina di tutte l'altre, per l'opportunità del sito per la temperie dell'aria per la moltitudine e ingegni degli uomini, attissimi a tutte le imprese onorevoli, per la fertilità di tutte le cose convenienti al vivere umano, per la grandezza e bellezza di tante nobilissime città, per le ricchezze per la sedia della religione per l'antica gloria dello imperio, per infiniti altri rispetti; la quale se voi dominerete tremeranno sempre di voi tutti gli altri príncipi. Cercare questo si appartiene piú alla grandezza, piú alla gloria vostra, piú è grato all'ossa degli avoli vostri: poi che questi anche hanno a venire in consiglio; i quali, e per la bontà e per la pietà loro, non è da credere desiderino altro che quello che è piú comodo a voi e piú glorioso al vostro nome. Seguitando adunque il consiglio del cancelliere perderemmo uno acquisto grandissimo per uno acquisto piccolo, e questo piccolo è incertissimo: di che ci doverebbe pure ammonire quel che fu per accadere a' mesi passati. Non ci ricorda egli, quando il re di Francia fu in tanto pericolo di morte, in quanto dispiacere noi stemmo? per conoscere che con la morte sua si perdeva tutto il frutto sperato per la vittoria: chi ci assicura che ora non possa intervenire il medesimo? e piú facilmente, perché gli restano le reliquie del male di allora, perché, mancandogli la speranza che insino al presente l'ha sostentato, gli torneranno maggiori i dispiaceri da' quali la infermità sua ebbe cagione; e massime che, avendosi a trattare di condizioni e di sicurtà inestricabili, le pratiche nuove bisognerà che abbino lunghezza, che sarà sottoposta a questo accidente e forse ad altri non minori né manco facili. Non sappiamo noi che nessuna cosa ha tanto tenuto fermo il governo di Francia quanto opinione della sua presta liberazione? per la quale i grandi di quel regno sono stati quieti e ubbidienti alla madre: come questa speranza mancasse, sarebbe facile cosa che il regno si risenta, e alteri il governo; e quando i grandi ne avessino la briglia in mano non sarà in loro cura alcuna di liberare il re, anzi, per mantenersi sciolti e padroni, aranno piacere della sua cattività. Cosí, in cambio della Borgogna e di tanti acquisti, non potremmo piú sperare né della sua prigione né della sua liberazione. Ma io dimando piú oltre, cancelliere: ha Cesare, in questa deliberazione, a tenere conto alcuno della dignità e maestà sua? e che maggiore infamia può egli avere, che piú diminuzione di onore, che essere costretto a perdonare a Francesco Sforza? che uno uomo mezzo morto, rebelle vostro, esempio singolare di ingratitudine, non con l'umiliarsi e fuggire alla vostra misericordia ma col gettarsi in braccio agli inimici vostri, vi sforzi a cedergli a restituirgli lo stato, sí giustamente toltogli, a pigliare le leggi da lui? Meglio è, Cesare, e piú conviene alla dignità dello imperio, alla vostra grandezza, sottoporsi di nuovo alla fortuna, mettere di nuovo ogni cosa in pericolo, che, dimenticatovi il grado vostro, l'autorità di principe supremo di tutti i príncipi e il nome cesareo, e vincitore tante volte d'un potentissimo re, accettare da preti e da mercatanti quelle condizioni che, se voi fussi stato vinto, né piú gravi né piú indegne vi sarebbono state poste. Però, considerando io tutte queste ragioni, e quanto sia piccola l'utilità che ci può risultare dello accordo con gl'italiani e per quanti accidenti ci possa facilmente uscire di mano, e quanto sia poco sicuro il fidarsi di loro, e di quanta indignità sia pieno il lasciare lo stato di Milano, e che a noi è necessario risolversi e avere una volta considerazione del fine, e che la carcere del re non ci dà utilità se non per i frutti che si possono trarre della liberazione, ho confortato e conforto l'accordare prima con lui che con gli italiani; che nessuno può negare non essere piú glorioso piú ragionevole piú utile: pure che ci assicuriamo della osservanza (in che io fo qualche fondamento) e della gratitudine sua, per il beneficio che egli riceverà da voi, e del vincolo del parentado e della virtú della sorella vostra, instrumento abile a mantenere questa amicizia, ma molto piú del pegno de' due figliuoli, e tra questi il primogenito; del quale non so che maggiore pegno, né piú importante a lui, si possa ricevere. E, poi che la necessità ci strigne a deliberarci, si debbe pure fidarsi piú di uno re di Francia con tanto pegno che degli italiani senza alcuno pegno, piú della fede e parola di uno tanto re che della cupidità immoderata de' preti e della sospettosa viltà de' mercatanti; e piú facilmente possiamo avere, come molte volte hanno avuto i passati nostri, congiunzione per qualche tempo co' franzesi che con gli italiani, inimici nostri naturali ed eterni. Né solo in questa via veggo maggiore speranza che ci abbia a essere atteso, ma ancora minore pericolo in caso vi fusse mancato. Perché quando bene il re non vi desse la Borgogna non ardirà, restando per ostaggio i suoi figliuoli, di farvi nuove offese, ma cercherà, con pratiche e con prieghi, di moderare l'accordo: senza che, vinto da voi ieri, e oggi uscito di prigione, temerà ancora dell'armi vostre né arà piú ardire di tentare la vostra fortuna; e se egli non piglia l'armi contro a voi, Cesare, certo e che tutti gli altri staranno fermi, tanto che acquisterete il castello di Milano e vi confermerete in modo in quello stato che non arete piú da temere di malignità di alcuno. Ma agl'italiani, se accordate ora seco e vi voglino mancare, non resta freno alcuno che gli ritenga; e cresciuta la facoltà dello offendervi, sarà libera e crescerà la volontà. Però, a giudicio mio, sarebbe somma e timidità e imprudenza perdere, per troppo sospetto, uno accordo pieno di tanta gloria di tanta grandezza e con sicurtà bastante, pigliando in cambio di quello di una deliberazione pericolosissima, se io non mi inganno, e dannosissima. -
Cap. xv
Cesare delibera di accordarsi col re di Francia. Patti dell'accordo. Impressioni destate dalle condizioni dell'accordo; rifiuto del gran cancelliere di sottoscriverle. Dimostrazioni di familiarità fra Cesare e il re di Francia.
Varie furono l'opinioni degli altri del consiglio, parlato che ebbe il viceré; parendo a tutti quelli che erano di sincero giudizio che lo accordare col re di Francia, nel modo proposto, fusse deliberazione molto pericolosa. Nondimeno, poteva ne' fiamminghi tanto il desiderio di recuperare la Borgogna, come antico patrimonio e titolo de' príncipi suoi, che non gli lasciava discernere la verità; e fu anche fama che in molti potessino assai i donativi e le promesse larghe fatte da' franzesi. E sopra tutto Cesare, o perché cosí fusse la prima sua inclinazione o perché appresso a lui l'autorità del viceré, congiunta massime con quella di Nassau che sentiva il medesimo, fusse di grandissimo momento, o perché gli paresse troppa indegnità essere costretto di perdonare a Francesco Sforza, udiva volentieri chi consigliava l'accordo col re di Francia: in modo che, poi che di nuovo ebbe fatto tentare il legato Salviato se e' voleva consentire che lo stato di Milano si desse al duca di Borbone e si certificò che non aveva commissione di accettare questo partito (nel quale caso arebbe preposta l'amicizia del pontefice), deliberò di concordarsi col re di Francia. Col quale, essendo già innanzi le cose discusse e quasi resolute, si venne in pochissimi dí alla conclusione; non intervenendo a cosa alcuna il legato del pontefice: avendo prima Cesare ottenuto dal duca di Borbone il consentimento che la sorella promessa a lui si maritasse al re di Francia. Il quale, pregato assai, consentí, non tanto per la cupidità di avere il ducato di Milano, come, contro alla autorità del gran cancelliere e del viceré, benché con obligazione di gravi pagamenti, gli fu promesso, quanto per essere le cose sue ridotte in termine che, non avendo né potendo avere dependenza da altri che da Cesare, era necessitato accomodarsi alla sua volontà: e consentito che ebbe, perché in tempo tanto incomodo non si trovasse alla corte, partí subito, per ordine di Cesare, alla volta di Barzalona, per aspettare le provisioni necessarie a passare in Italia; le quali, per mancamento di navili (non essendo allora in Spagna altre galee sottili che tre) e di danari, erano per procedere lentamente.
Contenne la capitolazione, stipulata il quartodecimo dí di febbraio dell'anno mille cinquecento ventisei: che tra Cesare e il re di Francia fusse pace perpetua, nella quale fussino compresi tutti quegli i quali di consentimento comune si nominassino: che il re di Francia, a dieci dí di marzo prossimo, fusse posto libero ne' suoi confini, nella costa di Fonterabia e, in termine di sei settimane seguenti, consegnasse a Cesare la ducea di Borgogna, la contea di Ciarolois, la signoria di Neiers e Castello Chimu, dependenti della detta ducea, la viscontea di Ausonia, il Resort di San Lorenzo, dependenti dalla Francia Contea, tutte le pertinenze solite della detta ducea e viscontea; quali tutte fussino in futuro separate ed esenti dalla sovranità del regno di Francia: che, nell'ora e nel punto medesimo che il re si liberasse, si mettessino in mano di Cesare il Delfino e, oltre a lui, o il duca di Orliens secondogenito del re o dodici de' principali signori di Francia, i quali furono nominati da Cesare, rimettendo in elezione di madama la reggente [di] dare o il secondogenito o i dodici baroni; i quali avessino a stare per statichi insino a tanto fusse fatta la restituzione delle terre predette, e ratificata e giurata la pace con tutti i suoi capitoli dagli stati generali di Francia, e registrata (il che essi dicono interinata) in tutti i parlamenti di quel reame, con le solennità necessarie, alle quali era prefisso termine di quattro mesi; al quale tempo, facendosi la restituzione degli staggi, si consegnasse a Cesare Angolem, il terzo figliuolo del re, acciò che per maggiore intrattenimento della pace si nutrisse appresso a lui: rinunziasse il re cristianissimo e cedesse a Cesare tutte le ragioni del regno di Napoli, eziandio quelle che gli fussino pervenute per le investiture della Chiesa; e il medesimo facesse delle ragioni dello stato di Milano, di Genova, di Asti, di Arazo e di Tornai, di Lilla e di Douai: restituisse ancora la terra e castello di Esdin, come membro della contea di Artois, con tutte le munizioni, artiglierie e mobili che vi erano quando ultimamente era stato preso; rinunziasse alla sovranità di Fiandra e di Artois e di ogni altro luogo posseduto da Cesare: e da altra parte, cedesse Cesare a tutte le ragioni di qualunque luogo posseduto da' franzesi, e specialmente di Perona, Mondiviere e Roia, e della contea di Bologna e di Pontieuri, e le terre di qua e di là della riviera di Somma: fusse tra loro lega e confederazione perpetua a difesa degli stati, con obligazione di aiutare l'uno l'altro, quando fusse di bisogno, con cinquecento uomini d'arme e diecimila fanti: che Cesare promettesse madama Elionora sua sorella per moglie al re cristianissimo, della quale, subito che fusse ottenuta dal pontefice la dispensa, si facesse lo sposalizio con parole obligatorie di presente, e si conducesse in Francia per consumare il matrimonio, nel tempo medesimo che, secondo i capitoli, si avevano a liberare gli ostaggi; e la sua dote fusse scudi dugentomila con i donamenti convenienti, da pagarsi la metà tra sedici mesi l'altra metà di poi infra uno anno prossimo: che tra il Delfino e la figliuola del re di Portogallo, nata di madama Elionora, si facesse sposalizio come fussino in età abile: facesse il re di Francia il possibile che il re antico di Navarra cedesse a Cesare le ragioni di quel reame, e non volendo cedere non potesse il re dargli aiuto alcuno: che il duca di Ghelleri e conte di Zulf e le terre principali di quegli stati promettessino, con sicurtà sufficiente, che dopo la morte sua si dessino a Cesare: che il re non desse aiuto al duca di Vertimberg né eziandio a Ruberto della Marcia; desse a Cesare, quando vorrà passare in Italia e infra due mesi che ne sarà ricercato da lui, dodici galee quattro navi e quattro galeoni, proviste di tutto a spese sue eccetto che di uomini di guerra, che gli avessino a essere restituite infra tre mesi dal dí che s'imbarcasse: che in luogo delle genti di terra offertegli per Italia gli desse scudi dugentomila, la metà infra sedici mesi l'altra infra uno anno prossimo; e al tempo della liberazione degli ostaggi fusse tenuto a dargli cedole di banchi della paga di seimila fanti per sei mesi, subito che arrivasse in Italia; servendolo eziandio a spese sue di cinquecento lance con una banda di artiglierie: cavasselo di danno della promessa fatta al re d'Inghilterra per le pensioni gli pagava il re di Francia, che importavano cinquecentomila scudi, o vero gli desse a Cesare in denari contanti: supplicasse l'uno e l'altro di loro il pontefice a intimare, piú presto si potesse, uno concilio universale, per trattare la pace de' cristiani e la impresa contro agli infedeli ed eretici, a tutti concedere la crociata per tre anni: restituisse il re, fra sei settimane, il duca di Borbone, in ampla forma, eziandio in tutti gli stati, beni mobili e immobili e frutti presi, né potesse molestarlo per le cose passate né astrignerlo ad abitare o a andare nel reame di Francia, lasciandogli la facoltà di potere procedere per giustizia sopra la contea di Provenza; e restituisse tutti quegli che lo avevano seguitato, e nominatamente il vescovo di Autun e San Valerio: liberassinsi da ogni parte, fra quindici dí, i prigioni presi per conto di guerra; e a madama Margherita fusse restituito tutto quello possedeva innanzi alla guerra: fusse libero il principe di Oranges, e gli fusse restituito il principato di Oranges e quanto possedeva alla morte del padre, statogli tolto per avere seguitato le parti di Cesare; e medesimamente, alcuni altri baroni: che al marchese di Saluzzo fusse restituito il suo stato: che il re, come arrivasse nella prima terra del regno suo, ratificasse questa capitolazione, e fusse obligato farla ratificare al Dalfino come pervenisse alla età di quattordici anni. Nominoronsi molti di comune consentimento, eziandio i svizzeri, ma nessuno de' potentati italiani, eccetto il pontefice, quale chiamorono per conservatore di questa concordia; cosa piú presto di cerimonia che di sostanzialità. Aggiunsesi la fede data dal re di ritornare spontaneamente in carcere quando, per qualunque cagione, non adempiesse le cose promesse.
Grandissima fu l'ammirazione che ebbe di questo accordo tutta la cristianità: perché, come si intese che la prima esecuzione aveva a essere la liberazione del cristianissimo, fu giudizio universale di ciascuno che, liberato, non avesse a dare la Borgogna, per essere membro di troppa importanza al reame di Francia; e, da quegli pochi in fuora che ne avevano confortato Cesare, la corte sua tutta ebbe la medesima opinione. E il gran cancelliere, sopra gli altri, riprendeva e detestava, e con tale veemenza che ancora che avesse comandamento di sottoscrivere la capitolazione, come è uffizio de' gran cancellieri, ricusò di farlo, allegando che l'autorità che gli era stata data non doveva essere usata da lui nelle cose pericolose e perniciose come questa; né si potette rimuoverlo dal suo proposito con tutta la indegnazione di Cesare: il quale, poi che lo vidde stare in questa pertinacia, egli proprio la sottoscrisse; e pochi dí poi andò a Madril per stabilire il parentado, e con famigliari e dimestichi parlamenti fondare col re amicizia e benivolenza. Grandi furono le cerimonie e le dimostrazioni di timore tra loro: stetteno molte volte insieme in publico, ebbono soli in segreto piú volte lunghissimi ragionamenti; andorono, portati da una medesima carretta, a uno castello vicino a mezza giornata, dove era la regina Elionora, con la quale contrasse, credo, lo sposalizio. Ma non però, in tanti segni di pace e di amicizia, gli furono allentate le guardie, non allargata la libertà ma, in uno tempo medesimo, carezzato da cognato e guardato da prigione; in modo che si potesse facilmente giudicare che questa fusse una concordia piena di discordia, uno parentado senza amore, e che, in ogni occasione, potrebbeno piú le antiche emulazioni e passioni tra loro che il rispetto delle cose fatte piú per violenza che per altra cagione. Ma avendo consumato piú dí in questi andamenti, ed essendo già venuta la ratificazione di madama la reggente, con la dichiarazione che in compagnia del Delfino di Francia darebbeno piú presto il secondogenito che i dodici signori, il re partí da Madril, per trovarsi a' confini dove si aveva a fare il baratto della persona sua co' piccoli figlioli, e in compagnia sua il viceré autore della sua liberazione; al quale Cesare aveva donato la città di Asti e altri stati in Fiandra e nel reame di Napoli.
Cap. xvi
Cesare comunica al pontefice l'accordo col re di Francia e le intenzioni sue riguardo al ducato di Milano. Il pontefice delibera di mantenersi libero nelle decisioni e spedisce in Francia un proprio ambasciatore per conoscere le intenzioni del re. Identica politica dei veneziani.
Nel quale tempo Cesare scrisse al pontefice una lettera cerimoniale, significandogli che, per il desiderio della pace e del bene comune della cristianità, dimenticate tante ingiurie e inimicizie, aveva restituita la libertà al re di Francia e datagli la sorella sua per moglie, e che aveva eletto lui per conservadore della pace, di chi sempre voleva essere obedientissimo figliuolo. E gli scrisse, pochi dí poi, un'altra lettera di mano propria, la quale gli mandò per il medesimo Errera che aveva portato la lettera scritta a lui di mano propria del pontefice; rispondendogli parte con parole dolci, parte mescolate di qualche acerbità: conchiudendo che restituirebbe il ducato a Francesco Sforza in caso non avesse fatto il delitto di che era imputato, e che voleva che questo si vedesse per giustizia dai giudici deputati da sé come da suo superiore; ma constando che avesse fallito non poteva mancare di investirne il duca di Borbone, a chi egli medesimo era stato cagione che e' lo avesse promesso, avendogliene nel tempo della infermità di Francesco Sforza proposto; e che per sodisfare a lui, e per assicurare dello animo [suo] Italia, non aveva voluto né ritenerlo per sé né darlo al fratello proprio; affermando, sopra la fede sua, questa essere veramente la sua intenzione; la quale pregava efficacemente che approvasse, offerendogli sempre l'autorità e le forze sue, come obbediente figliuolo della sedia apostolica. Portò ancora il medesimo Errera la risposta alla minuta del capitolo stato disteso dal pontefice in favore di Francesco Sforza, il quale Cesare, perseverando nella sua prima deliberazione, non aveva voluto approvare; anzi indirizzò per lui al duca di Sessa la forma dello accordo al quale per ultimo si risolveva, con autorità di stipularlo in caso che da lui fusse accettato. Contenevasi in essa che Francesco Sforza fusse compreso nella loro confederazione in caso non avesse lesa la maestà di Cesare, ma in caso della sua morte o privazione succedesse nella confederazione il duca di Borbone, investito da lui del ducato di Milano: confermavasi la obligazione fatta dal viceré della restituzione delle terre che teneva il duca di Ferrara, ma con condizione che il pontefice fusse tenuto a concedergli la investitura di Ferrara e rimettergli la pena della contravenzione; cosa contraria ai pensieri del pontefice, che aveva disegnato di esigere la pena de' centomila ducati, per pagare con questa i centomila promessi a Cesare in caso di quella restituzione: non ammetteva che lo stato di Milano avesse a levare i sali della Chiesa, né di riferirsi, in quanto alle collazioni benefiziali del reame di Napoli, al tenore delle investiture ma allo uso de' re passati, i quali in molti casi avevano disprezzato le ragioni e l'autorità della sedia apostolica. E perché col legato era stato trattato che, per levare di Lombardia lo esercito, grave a tutta Italia, si pagassino dal papa e da lui, come re di Napoli, e dagli altri d'Italia, ducati cento cinquantamila, e si conducesse a Napoli o dove, fuora d'Italia, paresse a Cesare, che diceva volerlo fare passare in Barberia, fu aggiunto che, essendo lo esercito creditore di maggiore quantità che non era allora, fussino ducati dugentomila.
Presentorono il duca di Sessa ed Errera al pontefice la copia di questi capitoli, con protestazione che in potestà loro non era di variarne pure una sillaba; e nondimeno arebbeno facilmente preso forma tutte l'altre difficoltà pure che del ducato di Milano fusse stato disposto in modo che il pontefice e gli altri non avessino causa d'avere sospetto. Ma si considerava che il duca di Borbone era inimico cosí implacabile del re di Francia che, o per sicurtà sua o per cupidità di entrare in Francia, starebbe sempre soggettissimo a Cesare, né si potrebbe mai sperare che la troppa grandezza sua gli fusse molesta; e che il capitolo di levare lo esercito di Lombardia, che tanto era stato desiderato da tutti, e per il quale effetto non sarebbe paruto grave pagare ogni quantità di denari, riusciva di nissuna utilità, poiché a Milano restava uno duca che non solo a ogni cenno di Cesare ve lo arebbe accettato, anzi forse, per interesse proprio, desiderato e stimolatolo. Però il pontefice, il quale, perché nella concordia fatta col re di Francia non si faceva menzione sostanziale di lui, né della sicurtà degli stati di Italia memoria alcuna, si era confermato nella persuasione fattasi prima che la grandezza di Cesare avesse a essere la servitú sua, deliberò di non accettare lo accordo nel modo che gli era proposto, ma di conservarsi libero insino a tanto che avesse certezza quello che facesse il re di Francia circa alla osservazione del suo appuntamento: nella quale sentenza si determinò con maggiore animo perché, oltre a quello che pareva verisimile, gli penetrò agli orecchi, per parole dette dal re innanzi fusse liberato, e da altri a' quali erano noti i consigli suoi, egli avere l'animo alieno dalla osservanza delle cose promesse a Cesare. Nella quale deliberazione per confermarlo, come cosa dalla quale avesse a dependere la sicurtà propria, espedí in Francia in poste Paolo Vettori fiorentino, capitano delle sue galee, acciò che nel tempo medesimo che arriverebbe il re fusse alla corte: usando questa celerità non solo per sapere, il piú presto si poteva, la mente sua ma perché il re, avuta subito speranza di potersi congiugnere il pontefice e i viniziani contro a Cesare, avesse causa di deliberare piú prontamente. Fu adunque commesso a Paolo che in nome del pontefice si rallegrasse seco della sua liberazione, facessegli intendere l'opere fatte da lui perché seguisse questo effetto, e quanto le pratiche tenute di collegarsi con la madre avessino fatto inclinare Cesare a liberarlo; mostrassegli poi, il pontefice essere desiderosissimo della pace universale de' cristiani, e che Cesare ed egli facessino unitamente la impresa contro al turco; quale si intendeva prepararsi molto potentemente per assaltare l'anno medesimo il reame di Ungheria. Queste furono le commissioni apparenti, ma la sostanziale e segreta fu che, tentato prima destramente di sapere bene la inclinazione del cristianissimo, in caso lo trovasse volto a osservare lo accordo fatto non passasse piú innanzi, per non fare vanamente piú perdita con Cesare che si fusse fatta per il passato; ma trovandolo inclinato altrimenti, o vero ambiguo, si sforzasse confermarvelo e con ogni occasione lo confortasse a questo cammino; mostrando il desiderio che il pontefice aveva, per benefizio comune, di congiugnersi seco. Spedí ancora in Inghilterra il protonotario da Gambara, per fare uffizio con quel re al medesimo fine; e per ricordo suo i viniziani mandorono in Francia, con le medesime commissioni, Andrea Rosso suo segretario. E perché Paolo, subito che fu arrivato in Firenze, si ammalò e morí, il pontefice, benché pigliasse in malo augurio che già due volte i ministri mandati da lui in Francia per questa pratica fussino periti nel cammino, vi mandò in luogo suo Capino da Mantova. Né mancavano intratanto, i viniziani e lui, di usare ogni diligenza per tenere confortato e in piú speranza che e' si potesse il duca di Milano, acciò che la paura della pace di Madril non lo facesse precipitare a qualche accordo con Cesare.
Cap. xvii
Come avvenne la liberazione del re di Francia dalla prigionia e la consegna dei figliuoli; il re si reca prestamente a Baiona, donde spedisce lettere al re d'Inghilterra.
Era arrivato in questo tempo il re di Francia a Fonterabia, terra di Cesare che è posta in sul mare Oceano in su i confini tra la Biscaia e il ducato di Ghienna; e da altro canto la madre co' due figliuoli era venuta a Baiona presso a Fonterabia a poche leghe, soggiornata qualche dí piú che il dí determinato a fare la permutazione, perché era stata in cammino oppressata dalla podagra. Adunque, il decimo ottavo dí di marzo, il re, accompagnato dal viceré e dal capitano Alarcone e da circa cinquanta cavalli, si condusse in su la riva del fiume che divide il reame di Francia dal reame di Spagna; e al medesimo tempo, si presentò in su l'altra riva Lautrech con gli due figlioletti e con numero pari di cavalli: in mezzo al fiume era una barca grande, fermata con le ancore, in su la quale non era persona alcuna. Accostossi a questa barca il re in su uno battello, dove era egli, il viceré e Alarcone e otto altri, armati tutti di armi corte; e dall'altra banda della barca si accostò in su un altro battello Lautrech, gli statichi e altri otto compagni, armati nel modo medesimo. Montò dipoi in su la barca il viceré con tutti i suoi e con loro il re, e immediate poi Lautrech con gli otto compagni; in modo che in su la barca si trovò il numero pari da ogni parte, essendo col viceré Alarcone e otto altri, e col re Lautrech e altri otto. I quali come furono saliti tutti nella barca, Lautrech tirò del battello in barca il Delfino; quale, consegnato al viceré e da lui ad Alarcone, fu posto subito nel loro battello; e nel medesimo istante era tirato in barca il piccolo duca d'Orliens. Il quale non vi fu prima che il cristianissimo saltò di barca in su il suo battello, con tanta prestezza che questa permutazione venne a essere fatta in uno momento medesimo; e tiratosi a riva, montò subito, come se temesse di aguato, in su uno cavallo turco di maravigliosa velocità, preparato per questo effetto, e senza fermarsi corse a San Giovanni del Lus, terra sua, vicina a quattro leghe; dove rinfrescatosi prestamente, si condusse con la medesima velocità a Baiona, raccolto con incredibile letizia di tutta la corte. Donde subito espedí in diligenza uno uomo al re di Inghilterra, significandogli con lettere di mano propria la sua liberazione, e con umanissime commissioni di riconoscerla totalmente dalle opere che aveva fatte; offerendo di volere essere seco una cosa medesima e di procedere in tutte le occorrenze co' suoi consigli: e poco dipoi gli espedí altri imbasciadori per ratificare solennemente la pace fatta dalla madre con lui, perché nella amicizia di quel re faceva grandissimo fondamento.