Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
Volume diciassettesimo
Cap. i
Viva attesa in Italia delle decisioni del re di Francia liberato dalla prigionia. Ragioni di rammarico contro Cesare esposte dal re di Francia agli inviati del pontefice e dei veneziani; veri intenti del re. Difficili condizioni del duca di Milano assediato nel castello, e gravezze degli abitanti del ducato per il mantenimento dei soldati di Cesare. Malcontento e tumulti in Milano.
La liberazione del re di Francia, ancora che alla solennità dei capitoli fatti e alla religione de' giuramenti e delle fedi date tra loro, e al vincolo del nuovo parentado, fusse aggiunto il pegno di due figliuoli, e in quegli il primogenito destinato a tanta successione, sollevò i príncipi cristiani in grandissima espettazione, e fece volgere inverso di lui gli occhi di tutti gli uomini, i quali prima erano solamente volti verso Cesare; dependendo diversissimi né manco importanti effetti dalla deliberazione sua dello osservare o no la capitolazione fatta a Madril. Perché, osservandola, si vedeva che Italia impotente a difendersi per se medesima se ne andava senza rimedio in servitú, e si accresceva maravigliosamente l'autorità e la grandezza di Cesare: non osservando, era necessitato Cesare o dimenticare, per la inosservanza del re di Francia, le macchinazioni fattegli contro dal duca di Milano, restituirgli quel ducato perché il pontefice e i viniziani non avessino causa di congiugnersi col re, e perdere tanti guadagni sperati dalla vittoria; o pure, potendo piú in lui la indegnazione conceputa col duca di Milano e il desiderio di non avere in Italia l'ostacolo de' franzesi, stabilire la concordia col re, convertendo in pagamento di danari l'obligazione della restituzione della Borgogna; o veramente, non volendo cedere né all'una cosa né all'altra, ricevere contro a tanti inimici una guerra, eziandio quasi per confessione sua molto difficile, poiché per fuggirla si era ridotto a lasciare con tanto pericolo il re di Francia.
Ma non si stette lungamente in ambiguità quale fusse la mente del re. Perché essendo, subito che arrivò a Baiona, ricercato da uno uomo del viceré di ratificare lo appuntamento, come aveva promesso di fare subito che e' fusse in luogo libero, differiva di giorno in giorno con varie escusazioni: con le quali per nutrire la speranza di Cesare, mandò uno uomo proprio a significargli non avere fatta subito la ratificazione, perché era necessario, innanzi procedesse a questo atto, mollificare gli animi [de'] suoi, malcontenti delle obligazioni che tendevano alla diminuzione della corona di Francia; ma che non ostante tutte le difficoltà osserverebbe indubitatamente quanto aveva promesso. Da che potendosi assai comprendere quello che avesse nello animo, sopravenneno pochi dí poi gli uomini mandati dal pontefice e da' viniziani; a' quali non fu necessario usare molta diligenza per chiarirsi della sua inclinazione. Perché il re, avendogli ricevuti benignamente, ne' primi ragionamenti che poi ebbe con l'uno e con l'altro di loro separatamente, si querelò molto della inumanità che, nel tempo che era stato prigione, lo imperadore gli aveva usata, non trattandolo come principe tale quale era, né con quello animo che doverebbe fare uno principe che avesse commiserazione delle calamità di uno altro principe, o considerazione che quello che era accaduto a lui potesse anche accadere a se medesimo. Allegava lo esempio di Adovardo, re d'Inghilterra, quello che fu chiamato Adovardo Gambiglione: che, essendogli presentato Giovanni re di Francia, preso nella giornata di Pottieri, dal principe di Gales suo figliuolo, non solo lo aveva ricevuto benignamente ma eziandio lasciatolo in libera custodia in tutto il tempo che stette prigione nella isola, aveva sempre familiarmente, conversato seco, ammessolo alle sue caccie e a suoi conviti; né però per questo avere perduto il prigione, o conseguito accordo manco favorevole per lui: da che essere nato tra loro tanta dimestichezza e confidenza che Giovanni, eziandio poi che, liberato, era stato piú anni in Francia, ritornasse volontariamente in Inghilterra per desiderio di rivedere l'ospite suo. Aversi memoria solo di due re di Francia che fussino stati fatti prigioni in battaglia, Giovanni e lui; ma essere non manco notabile la diversità degli esempli, poiché l'uno poteva essere allegato per esempio della benignità, l'altro per esempio della acerbità del vincitore. Ma non avere trovato animo piú placato o mansueto verso gli altri; anzi essersi, per i parlamenti avuti seco a Madril, certificato che egli, occupato da somma ambizione, non pensava ad altro che a mettere in servitú la Chiesa, Italia tutta e gli altri príncipi. Desiderare che il papa e i viniziani avessino animo di pensare alla salute propria, perché dimostrerebbe loro quanto fusse desideroso di concorrere alla salute comune, e di restrignersi con loro a pigliare l'armi contro a Cesare; non per ricuperare per sé lo stato di Milano o accrescere altrimenti la sua potenza, ma solo perché, col mezzo della guerra, potesse conseguire i figliuoli e Italia la libertà: poi che la troppa cupidità non aveva lasciato lume a Cesare di obligarlo in modo che e' fusse tenuto a stare nella capitolazione. Conciossiaché, e prima quando era nella rocca di Pizzichitone e poi in Spagna nella fortezza di Madril, avesse molte volte protestato a Cesare, poiché vedeva la iniquità delle dimande sue, che, se stretto dalla necessità cedesse a inique condizioni o quali non fusse in potestà sua di osservare, che non solo non le osserverebbe, anzi, reputandosi ingiuriato da lui per averlo astretto a promesse inoneste e impossibili, se ne vendicherebbe se mai ne avesse l'occasione. Né avere mancato di dire molte volte quello che per loro stessi potevano sapere, e che credeva anche essere comune a gli altri regni: che in potestà del re di Francia non era obligarsi, senza consentimento degli stati generali del reame, ad alienare cosa alcuna appartenente alla corona: non permettere le leggi cristiane che uno prigione di guerra stesse in carcere perpetua, per essere pena conveniente agli uomini di male affare, non trovata per supplizio di chi fusse battuto dalla acerbità della fortuna; sapersi per ciascuno essere di nessuno valore le obligazioni fatte violentemente in prigione, ed essendo invalida la capitolazione non restare anche obligata la sua fede, accessoria e confermatrice di quella; precedere i giuramenti fatti a Remes, quando con tanta cerimonia e con l'olio celeste si consacrano i re di Francia, per i quali si obligano di non alienare il patrimonio della corona: però non essere manco libero che pronto a moderare la insolenza di Cesare. E il medesimo desiderio mostrò di avere la madre, e la sorella di Alanson, che per essere stata vanamente in Spagna si lamentava assai della asprezza di Cesare, e tutti i principali della corte che intervenivano nelle faccende segrete; conchiudendo che, se e' venivano i mandati del pontefice e de' viniziani, si verrebbe subito alla conclusione della lega: la quale dicevano essere bene si maneggiasse in Francia, per avere piú facilità di tirarvi il re d'Inghilterra, come mostravano speranza grande dovesse succedere. Queste cose si dicevano con grande asseverazione dal re di Francia e da' suoi, ma in secreto erano molto diversi i suoi pensieri: perché, disposto totalmente a non dare a Cesare la Borgogna, aveva anche l'animo alieno di non muovere, se non costretto da necessità, le armi contro a lui; ma trattando di confederarsi con gli italiani, sperava che Cesare, per non cadere in tante difficoltà si indurrebbe a convertire in obligazione di danari l'articolo della restituzione della Borgogna; nel quale caso nessuno rispetto delle cose d'Italia l'arebbe ritenuto, per desiderio di riavere [i figliuoli], a convenire seco.
Ma i messi del pontefice e i viniziani, ricevuta tanta speranza da lui, significorono subito la risposta avuta, in tempo che in Italia crescevano la necessità e l'occasione del congiugnersi contro a Cesare. La necessità, perché il duca di Milano, il quale da principio, parte per colpa de' ministri suoi parte per il breve tempo che ebbe a provedersi, aveva messo poca vettovaglia in castello, né quella poca era stata dispensata con quella moderazione che si suole usare per gli uomini collocati in tale stato, faceva tutto dí intendere (come ebbe sempre mezzo di scrivere, ancora che e' fusse assediato nel castello) non avere da mangiare per tutto il mese di giugno prossimo, e che non si facendo altra provisione sarebbe necessitato rimettersi alla discrezione di Cesare: e se bene si credeva che, come è costume degli assediati, proponesse maggiore strettezza che in fatto non aveva, nondimeno si avevano molti riscontri che gli avanzava poco da vivere; e il lasciare andare il castello in mano di Cesare, oltre alla riputazione che si accresceva, faceva molto piú difficile la recuperazione di quello stato. Ma non meno pareva che crescesse l'occasione, per essere ridotti i popoli tutti in estrema disperazione. Conciossiaché, non mandando Cesare denari per pagare la sua gente, alla quale si dovevano già molte paghe, né vi essendo modo di provederne di altro luogo, avevano i capitani distribuito gli alloggiamenti della gente d'arme e de' cavalli per tutto il paese, gravandolo a contribuire, qual terra a questa compagnia quale a quell'altra; le quali erano necessitate ad accordare co' capitani e co' soldati questo peso con denari: il che si esercitava sí intollerabilmente che allora fusse costante fama, affermata da molti che avevano notizia delle cose di quello stato, che il ducato di Milano pagasse ciascuno dí a' soldati di Cesare ducati cinquemila, e si diceva che Antonio de Leva riscoteva per sé solo trenta ducati ciascuno giorno. La fanteria ancora, alloggiata in Milano e per l'altre terre, non solo voleva essere provista da' padroni delle case dove abitavano di tutto il vitto loro ma, riducendosi spesso molti fanti in una casa medesima, era il padrone di quella necessitato di provedere al vivere di tutti; e l'altre case, non avendo da dare loro gli alimenti, bisognava si componessino con denari: e toccavano talvolta a uno fante solo piú alloggiamenti, che, da uno in fuora che gli provedeva del vitto, gravava gli altri a pagargli denari.
Questa condizione miserabile, ed esercitata con tanta crudeltà, aveva disperato gli animi di tutto il ducato e specialmente quegli del popolo di Milano, non assuefatto, innanzi alla entrata del marchese di Pescara in Milano, a essere gravato di alimenti o di contribuzione per gli alloggiamenti de' soldati; e il quale, essendo potente di numero e di armi, ancoraché non in quella frequenza che soleva essere innanzi alla peste, non poteva tollerare tanta insolenza e acerbissime esazioni: dalle quali per liberarsi, o almeno per moderarle in qualche parte, benché i milanesi avevano mandati a Cesare imbasciadori, erano stati espediti con parole generali ma senza alcuna provisione. Né mancava anche Milano, non gravato secondo la sua proporzione di quel numero di soldati che l'altre terre, avere a pagare denari per le spese publiche, cioè di quelle che accadesse fare per ordine de' capitani per conservazione delle cose di Cesare: i quali denari esigendosi difficilmente, si usavano per i ministri proposti alle esazioni molte acerbità. Per le quali cose essendo condotto il popolo in estrema disperazione si convenneno popolarmente tra loro medesimi di resistere con l'armi in mano alle esazioni, e che ciascuno che fusse gravato dagli esattori chiamasse i vicini a difenderlo; i quali tutti, e dietro a loro gli altri che fussino chiamati, concorressino, al comandamento de' capitani deputati per molte parti della città, per resistere a quegli che facessino le esazioni e a' soldati che volessino favorirgli. Il quale ordine poi che fu dato, accadde che uno fabbro della città, essendo andati gli esattori a gravarlo, concitò per sua difesa i vicini; dietro a' quali concorrendo gli altri del popolo si fece per la città grandissima sollevazione: per la quale sedare essendo concorsi Antonio de Leva e il marchese del Guasto, e in compagnia loro alcuni de' principali gentiluomini di Milano, si quietò finalmente il tumulto, ma ricevuta promessa da' capitani che, contenti delle entrate publiche, non graverebbeno alcuno per altre imposizioni né metterebbeno in Milano altri soldati. Non durò questa concordia se non insino a l'altro giorno, perché essendo venuto avviso che alla città si accostavano nuovi soldati il popolo di nuovo prese l'armi, ma con maggiore tumulto e molto piú ordinato e con maggiore concorso che non si era fatto il dí precedente. Al quale impeto cominciando i capitani a temere di non potere resistere, ebbeno (cosí affermano molti) inclinazione di partirsi con la gente da Milano; e si crede che cosí arebbeno messo in esecuzione se il popolo avesse unitamente dimostrato di volere procedere alla offensione loro e de' soldati. Ma cominciorno imperitamente a saccheggiare la corte vecchia, dove risedeva il capitano della giustizia criminale con certo numero di fanti; cominciando a volere fare il principio da quello che doveva essere l'ultimo della loro esecuzione: dal quale disordine i capitani imperiali avendo ripreso animo, fortificate le loro strade e chiamata la maggiore parte de' fanti che stavano allo assedio del castello, si congregorono insieme per resistere se il popolo volesse assaltargli. Questo dette occasione a quegli che erano assediati di uscire fuora del castello ad assaltare i ripari fatti dalla parte di dentro, ma si ritirorono presto non vedendo avere soccorso dal popolo; il quale, parte per essere inesperto all'armi parte per portare alle case loro le robe guadagnate nel sacco di corte vecchia, non solo non faceva l'operazioni convenienti ma si andava piú presto risolvendo: con la quale occasione i capitani, interponendosi alcuni de' gentiluomini, sedorono anche questo tumulto, ma con promissione di cavare tutti i soldati della città e del contado di Milano, eccetto i fanti tedeschi che erano allo assedio del castello. Cosí facilmente dalla astuzia degli uomini militari si era fuggito uno gravissimo pericolo, elusa la imperizia dell'armi de' popolari, e i disordini ne' quali facilmente la moltitudine tumultuosa, e che non ha capi prudenti o valorosi, si confonde. Ma non essendo per queste concordie né dissolute le intelligenze né deposte l'armi del popolo, anzi dimostrandosi ogni dí disposizione di maggiore sollevazione, pareva a chi pensava di travagliare le cose di Cesare occasione di grandissimo momento; considerando massime le poche forze e l'altre difficoltà che avevano gli imperiali, e ricordandosi che, nelle guerre prossime, l'ardore maraviglioso che il popolo di Milano e dell'altre terre avevano avuto in favore loro era stato grandissimo fondamento alla difensione di quello stato.
Cap. ii
Ragioni per cui il pontefice propende ad accordi col re di Francia contro Cesare. Decisione del pontefice e dei veneziani di conchiudere la confederazione col re di Francia. Assoldamento di milizie.
Erano in questi termini le cose d'Italia quando sopravenneno gli avvisi di Francia della pronta disposizione e offerte del re, e della richiesta fatta da lui che e' si mandassino i mandati; e nel tempo medesimo gli imbasciadori del re d'Inghilterra che erano appresso al pontefice lo confortorono assai a pensare che si moderasse la grandezza di Cesare, e a dare animo al re di Francia di non osservare la capitolazione. Per le quali cose non solo i viniziani, che in ogni tempo e in occasioni molto minori avevano confortato a pigliare l'armi, ma il pontefice ancora, che molto difficilmente si disponeva a entrare in questo travaglio, gli parve essere necessitato a raccorre la somma de' discorsi suoi e non differire piú di fare qualche deliberazione. Le ragioni, che a' mesi passati l'avevano inclinato alla guerra, non solo erano le medesime ma ancora piú considerabili e piú potenti: perché e quanto tempo piú si erano allungate le pratiche Cesare aveva potuto scoprire meglio l'animo del pontefice essere alieno dalla grandezza sua; e il pontefice, per lo accordo che egli aveva fatto col re di Francia, era entrato in giusto sospetto di non potere ottenere condizioni eque da lui, e che gli avesse in animo di opprimere il resto d'Italia; e il pericolo ogni dí piú era presente, approssimandosi il castello di Milano alla dedizione. Incitavano l'animo suo le ingiurie che si rinnovavano dai capitani imperiali; i quali, dopo la capitolazione fatta a Madril, avevano mandato ad alloggiare nel piacentino e nel parmigiano uno colonnello di fanti italiani, dove facevano infiniti danni; e querelandosene il pontefice, rispondevano che per non essere pagati vi erano venuti di propria autorità. Commovevanlo eziandio le cose forse piú leggiere ma interpretate, come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte peggiore: perché Cesare aveva publicato in Spagna certi editti pragmatici contro alla autorità della sedia apostolica, per virtú de' quali essendo proibito a' sudditi suoi trattare cause beneficiali di quegli regni nella corte romana, ebbe ardire uno notaio spagnuolo, entrato nella ruota di Roma il dí deputato alla udienza, intimare in nome di Cesare ad alcuni che desistessino di litigare in quello auditorio. Né solo pareva che per la liberazione del cristianissimo fusse sciolto quel nodo che aveva tenuto implicati gli animi di ciascuno, che i franzesi per riavere il suo re fussino per abbandonare la lega, e la compagnia del re di Francia si conosceva di molto piú importanza alla impresa che non sarebbe stata quella della madre e del governo, ma ancora si vedevano maggiori l'altre occasioni. Perché la sollevazione del popolo di Milano pareva di non piccolo momento e, per la carestia che era di vettovaglie in quello stato, si giudicava fusse vantaggio grande assaltare gl'imperiali innanzi che per la ricolta avessino comodità di vettovagliare le terre forti, innanzi si perdesse il castello di Milano e che Cesare avesse piú tempo di mandare in Italia nuove genti o provisione di danari. E veniva in considerazione che il re di Francia, il quale per la memoria delle cose passate verisimilmente si diffidava del pontefice, non vedendo in lui ardore alla guerra, non si risolvesse a osservare la concordia fatta a Madril o a rifermarla di nuovo; né si dubitava che, congiunte insieme tante forze terrestri e marittime e la facoltà di continuare nelle spese, benché gravi, lungamente, che le condizioni di Cesare, abbandonato da tutti gli altri ed esausto di danari, sarebbeno molto inferiori nella guerra. Solamente faceva scrupolo in contrario il timore che il re, per il rispetto de' figliuoli non abbandonasse gli altri collegati, come si era dubitato non facesse il governo di Francia quando il re era prigione. Pure il caso si riputava diverso: perché, pigliando l'armi contro a Cesare con tante occasioni, pareva che sí grande fusse la speranza di ricuperargli con le forze, e con questo avesse a succedere con tanta sua riputazione, che e' non avesse causa di prestare orecchi a concordia particolare, la quale succederebbe non solo con ignominia sua ma eziandio con pregiudicio proprio, se non presente almeno futuro; perché il permettere che Cesare riducesse Italia ad arbitrio suo non poteva, alla fine, essere se non molto pericoloso al reame di Francia. Dalla quale ragione si inferiva similmente che avesse a esercitare ardentissimamente la guerra: perché pareva inutilissimo consiglio, confederandosi contro a Cesare, privarsi della recuperazione de' figliuoli con l'osservanza della concordia; e nondimeno, da altra parte, pretermettere quelle cose per le quali poteva sperare di conseguirgli gloriosamente con l'armi.
Considerorno forse, quegli che discorsono in questo modo, piú quello che ragionevolmente si doveva fare che non considerorno quale sia la natura e la prudenza de' franzesi: errore, nel quale certamente spesso si cade nelle consulte e ne' giudizi che si fanno della disposizione e volontà di altri. Anzi forse non considerorono perfettamente quanto i príncipi, consci il piú delle volte della inclinazione propria ad anteporre l'utilità alla fede, siano facili a persuadersi il medesimo degli altri príncipi; e che però il re di Francia, sospettando che il pontefice e i viniziani, come per l'acquisto del ducato di Milano fussino assicurati della potenza di Cesare, diventassino negligenti o alieni dagli interessi suoi, giudicasse essergli piú utile la lunghezza della guerra che la vittoria, come mezzo piú facile a indurre Cesare, stracco dai travagli e dalle spese, a restituirgli con nuova concordia i figliuoli. Ma movendo il pontefice le ragioni precedenti, e molto piú la penitenza di avere aspettato oziosamente il successo della giornata di Pavia, e lo essere statone morso e ripreso di timidità da ciascuno, le voci di tutti i suoi ministri, di tutta la corte, di tutta Italia, che lo increpavano che la sedia apostolica e Italia tutta fussino ridotte in tanti pericoli per colpa sua, deliberò finalmente non solo di confederarsi col re di Francia e con gli altri contro a Cesare ma di accelerarne la conclusione, e per gli altri rispetti e per questo massime, che le provisioni potessino essere a tempo a soccorrere il castello di Milano innanzi che per la fame si arrendesse agli inimici. La quale necessità fu cagione di tutti i mali che seguitorono: perché altrimenti, procedendo piú lentamente, il pontefice, dalla autorità del quale dependevano in questa agitazione non poco i viniziani, arebbe aspettato se Cesare, commosso dalla inosservanza del re di Francia, proponesse per sicurtà comune quelle condizioni che prima aveva denegate. E quando pure fusse stato necessitato a pigliare le armi, non essendo costretto a dimostrarne al re di Francia tanta necessità, arebbe facilmente ottenute da lui per sé e per i viniziani migliori condizioni; ma senza dubbio sarebbono stati meglio distinti gli articoli della confederazione, stabilita maggiore sicurtà della osservanza, e ultimatamente non cominciata la guerra se prima non si fussino mossi i svizzeri e ridotte in essere tutte le provisioni necessarie, e forse entrato nella confederazione il re di Inghilterra: col quale, per la distanza del cammino, non s'ebbe tempo a trattare. Ma parendo al pontefice e al senato viniziano, per il pericolo del castello, di somma importanza la celerità, espedirono subito ma secretissimamente i mandati di fare la confederazione agli uomini loro; con condizione che, per minore dilazione, si riferissino quasi a quegli medesimi capitoli che prima erano stati trattati con madama la reggente.
Ma sopravenendo pure tuttavia avvisi nuovi della necessità del castello, entrò il pontefice in considerazione che, essendo necessario che, per essere impedito il cammino diritto da Roma alla corte di Francia, gli spacci andassino con lungo circuito per il cammino de' svizzeri, e che essendo facil cosa che nel capitolare nascesse qualche difficoltà per la quale di necessità si interponesse tempo, che potrebbe accadere che e' si tardasse tanto a conchiudere la confederazione che, se si differisse a cominciare dopo la conclusione a fare le provisioni per soccorrere il castello, era da dubitare non fussino fuora di tempo: e però, consultato questo pericolo co' viniziani, stimolati ancora dagli agenti del duca di Milano che erano a Roma e a Vinegia e da molti partigiani suoi che proponevano vari partiti, si risolverono preparare tante forze che paressino bastanti a soccorrere il castello, per usarle subito che di Francia si fusse avuta la conclusione della lega; e intratanto dare speranza al popolo di Milano, e fomentare varie pratiche proposte loro nelle terre di quello stato. Però unitamente conchiuseno che i viniziani spignessino a' confini loro, verso il fiume dell'Adda, il duca d'Urbino con le loro genti d'arme e seimila fanti italiani; e il pontefice mandasse a Piacenza il conte Guido Rangone con seimila fanti. E perché e' pareva necessario avere uno grosso numero di svizzeri (anzi il duca di Urbino faceva intendere a' viniziani essere necessario a conseguire totalmente la vittoria avere dodicimila svizzeri), e il pontefice e i viniziani, per non si scoprire tanto contro a Cesare insino non avessino certezza che la lega fusse fatta, non volevano mandare in Elvezia uomini loro a levargli, fu udito Gianiacopo de' Medici milanese; il quale, mandato dal duca di Milano (per essere intervenuto allo omicidio di Monsignorino Visconte) castellano della rocca di Mus, conosciuta l'occasione de' tempi e la fortezza del luogo, se ne era fatto padrone. Il quale, facendo intendere che molti mesi innanzi aveva tenute pratiche con vari capitani svizzeri per questo effetto, offerse di fare muovere, subito che gli fussino mandati seimila ducati, seimila svizzeri, non soldati per decreto de' cantoni ma particolarmente; a' quali come fussino scesi nel ducato di Milano s'avesse a dare il compimento della paga. E, come accade nelle imprese che da uno canto sono reputate facili dall'altro sono sollecitate dalla strettezza del tempo, non solo l'offerta di costui, essendo massime approvata dai ministri del duca di Milano e da Ennio vescovo di Veroli, al quale il pontefice prestava fede nelle cose de' svizzeri per averle in nome della Chiesa trattate lungamente, e però era stato per suo ordine molti mesi a Brescia, e allora stava appresso al proveditore viniziano, donde continuamente trattava con molti di quella nazione, fu senza pensare piú innanzi accettata dal papa e da' viniziani; ma ancora fu udito in Vinegia Ottaviano Sforza vescovo di Lodi che offeriva di levarne facilmente numero grande, e da loro, subito, senza consultarne altrimenti col pontefice, spedito in Elvezia per soldarne altri seimila, nel modo medesimo e co' medesimi pagamenti. Dalle quali cose male intese nacque, come di sotto si dirà, principio grande di mettere in disordine la impresa che con tanta speranza si cominciava.
Cap. iii
Dichiarazioni e proposta del re di Francia al viceré riguardo alle condizioni concluse con Cesare, e indugio della conclusione degli accordi col pontefice e coi veneziani. Sdegno di Cesare per la proposta del re di Francia e sue deliberazioni. Conclusione e patti della lega fra il pontefice i veneziani ed il re di Francia. Il pontefice ed i veneziani deliberano la rottura della guerra.
Ma mentre che queste cose si preparano in Italia, cominciando Cesare a sospettare delle dilazioni interposte alla ratificazione, il viceré di Napoli, il quale insieme con gli statichi e con la regina Elionora si era fermato nella terra di Vittoria per condurgli al re subito che avesse adempiuto le cose contenute nella capitolazione, andò e con lui Alarcone, per commissione di Cesare, al re di Francia, il quale da Baiona si era trasferito a Cugnach, per certificarsi interamente della sua intenzione. Dal quale benché e' fusse ricevuto con grandissimo onore e carezze, e come ministro di Cesare e come quello da chi il re cristianissimo riconosceva in grande parte la sua liberazione, lo trovò in tutto alieno da volere rilasciare la Borgogna; scusandosi ora che non potrebbe mai avere il consentimento del regno, ora che non arebbe mai volontariamente consentito a una promessa che per essere di tanto pregiudizio alla corona di Francia era impossibile a lui l'osservarla: ma che, desiderando quanto poteva di mantenersi l'amicizia cominciata con Cesare e dare perfezione al parentado, sarebbe contento, tenendo fermo tutte l'altre cose convenute tra loro, pagare a Cesare in luogo del dargli la Borgogna due milioni di scudi; dimostrando che non altro lo indurrebbe a confermare con questa moderazione la confederazione fatta a Madril che la inclinazione grande che aveva di essere in bona intelligenza con Cesare, perché non gli mancavano né offerte né stimoli del pontefice, del re d'Inghilterra e de' viniziani per incitarlo a rinnovare la guerra. La quale risposta e ultima sua deliberazione e il viceré significò a Cesare, e il re vi mandò uno de' suoi segretari a esporgli il medesimo. Donde procedette che, benché i mandati del pontefice e de' viniziani, prima molto desiderati, fussino arrivati nel tempo medesimo, il re, inclinato piú alla concordia con Cesare, e però deliberato di aspettare la risposta sopra questo partito nuovo del quale il viceré gli aveva dato speranza, cominciò apertamente a differire la conclusione della confederazione: non dissimulando totalmente, perché era impossibile tenerlo occulto, di trattare nuova concordia con Cesare, la quale essendogli stata proposta dal viceré non poteva fare nocumento alcuno l'udirla; e affermando efficacemente, benché altrimenti avesse in animo, che non farebbe mai conclusione alcuna se con la restituzione de' figliuoli non fusse anche congiunta la relassazione del ducato di Milano e la sicurtà di tutta Italia. La quale cosa sarebbe stata bastante a intepidire l'animo del pontefice se, per il sospetto fisso nell'animo, non avesse giudicato che il confederarsi col re di Francia fusse unico rimedio alle cose sue.
Ma è cosa maravigliosa quanto l'animo di Cesare si perturbasse ricevuto che ebbe l'avviso del viceré, e intesa la esposizione del segretario franzese; perché gli era molestissimo cadere della speranza della recuperazione della Borgogna desiderata sommamente da lui, per la amplificazione della sua gloria e per la opportunità di quella provincia a cose maggiori. Indegnavasi grandemente che il re di Francia, partendosi dalle promesse e dalla fede data, facesse dimostrazione manifesta a tutto il mondo di disprezzarlo; e gli pungeva anche l'animo non mediocremente una certa vergogna che, avendo contro al consiglio di quasi tutti i suoi, contro al giudicio universale di tutta la corte, contro a quello che, poi che si era inteso l'accordo fatto, gli era stato predetto di Fiandra da madama Margherita sorella del padre suo e da tutti i ministri suoi di Italia, misurata male la importanza e la condizione delle cose, si fusse persuaso che il re di Francia avesse a osservare. Ne' quali pensieri, calcolato diligentemente quel che convenisse alla degnità propria e in quali pericoli e difficoltà rimanessino in qualunque caso le cose sue, deliberò di non alterare il capitolo che parlava della restituzione di Borgogna: piú presto, concordandosi col pontefice, consentire alla reintegrazione di Francesco Sforza, come se piú fusse secondo il decoro suo perdonare a uno principe minore che, cedendo alla volontà di uno principe potente ed emulo della grandezza sua, fare quasi confessione di timore; piú presto avere la guerra pericolosissima con tutti che rimettere la ingiuria ricevuta dal re di Francia. Perché dubitava che il pontefice, vedendo essere stata sprezzata l'amicizia sua, non avesse alienato totalmente l'animo da lui; e gli accresceva il sospetto lo intendere che oltre allo avere mandato uno uomo in Francia a congratularsi, vi mandava publicamente uno imbasciadore; e molto piú che nuovamente aveva condotto a' soldi suoi, sotto colore di assicurare le marine dello stato della Chiesa dai mori, Andrea Doria con otto galee e con trentacinquemila ducati di provisione l'anno: la quale condotta, per la qualità della persona e per non avere mai prima il pontefice pensato a potenza marittima, e per essere egli stato piú anni agli stipendi del re di Francia, gli dava sospizione non fusse fatta con intenzione di turbare le cose di Genova. Però, preparandosi a qualunque caso, fece in uno tempo medesimo molte provisioni: sollecitò la passata in Italia del duca di Borbone, la quale prima procedeva lentamente, ordinando che di Italia venissino a Barzalona sette galee sue che erano a Monaco per aggiugnerle alle tre galee di Portondo, e sollecitando che in Italia portasse provisione di centomila ducati, perché l'andata sua senza denari sarebbe stata vana; destinò don Ugo di Moncada al pontefice, con commissione, secondo publicava, da sodisfargli: ma questo limitatamente, perché volle andasse prima alla corte del re di Francia, acciò che, inteso dal viceré se vi era speranza alcuna che il re volesse osservare, o non passasse piú innanzi o, passando, variasse le commissioni secondo lo stato e la necessità delle cose.
Ma a ogni consiglio salutifero del pontefice si opponeva il pericolo dello arrendersi il castello di Milano, già vicino alla consunzione; il timore che tra il re di Francia e Cesare non si stabilisse, con qualche mezzo, la congiunzione; la incertitudine di quel che avesse a partorire la venuta di don Ugo di Moncada, nella quale era sospetto l'avere prima a passare per la corte di Francia; sospette di poi, quando bene passasse in Italia, le simulazioni e le arti loro. Però, sollecitando insieme co' viniziani la conclusione della confederazione, il re finalmente, poiché per la venuta di don Ugo ebbe compreso Cesare essere alieno da alterare gli articoli della capitolazione, temendo che il differire piú a confederarsi non inducesse il pontefice a nuove deliberazioni, e giudicando che per questa confederazione sarebbeno appresso a Cesare in maggiore esistimazione le cose sue, e che forse il timore piegherebbe in qualche parte l'animo suo, stimolato ancora a questo medesimo dal re d'Inghilterra, il quale piú con le persuasioni che con gli effetti favoriva questa conclusione, ristrinse le pratiche della lega. La quale il decimosettimo dí di maggio dell'anno millecinquecentoventisei si conchiuse, in Cugnach, tra gli uomini del consiglio procuratori del re da una parte, e gli agenti del pontefice e de viniziani dall'altra, in questa sentenza: che tra il pontefice il re di Francia i viniziani e il duca di Milano (per il quale il pontefice e i viniziani promesseno la ratificazione) fusse perpetua lega e confederazione, a effetto di fare lasciare libero il ducato di Milano a Francesco Sforza e di ridurre in libertà i figliuoli del re: che a Cesare si intimasse la lega fatta, e fusse in facoltà sua di entrarvi in termine di tre mesi, restituendo i figliuoli al re, ricevuta per la liberazione loro una taglia onesta che avesse a essere dichiarata dal re di Inghilterra, e rilasciando anche il ducato di Milano interamente a Francesco Sforza, e gli altri stati di Italia nel grado che erano innanzi si cominciasse l'ultima guerra: che di presente, per la liberazione di Francesco Sforza assediato nel castello di Milano e per la ricuperazione di quello stato, si movesse la guerra con ottocento uomini d'arme settecento cavalli leggieri e ottomila fanti per la parte del pontefice, e per la parte de viniziani con ottocento uomini d'arme mille avalli leggieri e ottomila fanti, e del duca di Milano con quattrocento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e quattromila fanti, come prima ne avesse la possibilità; e intratanto mettessino per lui i quattromila fanti il pontefice e i viniziani: il re di Francia mandasse subito in Italia cinquecento lance, e durante la guerra pagasse ogni mese al pontefice e a' viniziani quarantamila scudi, co' quali si conducessino fanti svizzeri: che il re rompesse subito la guerra a Cesare di là da i monti, da quella banda che piú gli paresse opportuno, con esercito almanco di dumila lance e di diecimila fanti e numero sufficiente d'artiglierie; armasse dodici galee sottili e i viniziani tredici a spese proprie; unisse il pontefice a queste le galee con le quali aveva condotto Andrea Doria; e che la spesa delle navi necessarie per detta armata fusse comune; con la quale armata si navigasse contro a Genova; e dipoi vinto o indebolito in Lombardia l'esercito cesareo si assaltasse potentemente per terra e per mare il reame di Napoli; del quale, quando si acquistasse, avesse a essere investito re chi paresse al pontefice, benché in uno capitolo separato si aggiugnesse che non potesse disporne senza consenso de' collegati, riservatogli nondimeno i censi antichi che soleva avere la sedia apostolica e uno stato per chi paresse a lui, di entrata di quarantamila ducati: che, acciò che il re di Francia avesse certezza che la vittoria che si ottenesse in Italia e l'acquisto del reame di Napoli faciliterebbe la liberazione de' figliuoli, che in tale caso, volendo Cesare infra quattro mesi dopo la perdita di quel reame entrare nella confederazione con le condizioni soprascritte, gli fusse restituito, ma non accettando questa facoltà, avesse il re di Francia in perpetuo sopra il reame di Napoli uno censo di ducati settantacinquemila l'anno: non potesse il re di Francia, in tempo alcuno né per qualunque cagione, molestare Francesco Sforza nel ducato di Milano, anzi fusse obligato insieme con gli altri a difenderlo contro a ciascuno e a procurare quanto potesse che tra i svizzeri e lui si facesse nuova confederazione, ma avesse da lui censo annuo di quella quantità che paresse al pontefice e a' viniziani, non potendo però arbitrare manco di cinquantamila ducati l'anno: avesse Francesco Sforza a ricevere ad arbitrio del re moglie nobile di sangue franzese, e fusse obligato ad alimentare condecentemente Massimiliano Sforza suo fratello in luogo della pensione annua la quale riceveva dal re: fusse restituita al re la contea di Asti, e ricuperandosi Genova vi avesse quella superiorità che vi soleva avere per il passato; e che volendo Antoniotto Adorno, che allora ne era doge, accordarsi con la lega, fusse accettato, ma riconoscendo il re di Francia per superiore, nel modo che pochi anni innanzi aveva fatto Ottaviano Fregoso: che da tutti i collegati fusse richiesta a Cesare la restituzione de' figliuoli regi, e ricusando farlo gli fusse dinunziato, in nome di tutti, che i confederati non pretermetterebbeno cosa alcuna per conseguirla; e che finita la guerra di Italia, o almanco preso il regno di Napoli, e indebolito talmente lo esercito cesareo che e' non fusse da temerne, fussino obligati aiutare il re di Francia di là da' monti contro a Cesare, con mille uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e diecimila fanti, o di danari in luogo delle genti, a elezione del re: non potesse alcuno de' confederati senza consentimento degli altri convenire con Cesare; al quale fusse permesso, in caso entrasse nella confederazione, andare a Roma per la corona imperiale, con numero di gente non formidabile, da dichiararsi dal pontefice e da' viniziani: che morendo eziandio alcuno de' collegati la lega restasse ferma, e che il re di Inghilterra ne fusse protettore e conservatore, con facoltà di entrarvi; ed entrandovi si desse a lui nel regno di Napoli uno stato di entrata annua di ducati trentacinquemila, e uno di diecimila, o nel regno medesimo o in altra parte d'Italia, al cardinale eboracense. Recusò il pontefice che in questa confederazione fusse compreso il duca di Ferrara, ancora che desiderato dal re di Francia e da' viniziani; anzi ottenne che nella confederazione si esprimesse, benché sotto parole generali, che i confederati fussino obbligati ad aiutarlo alla recuperazione di quelle terre delle quali era in disputa con la Chiesa. De' fiorentini non fu dubbio che effettualmente non fussino compresi nella confederazione, disegnando il pontefice non solo valersi delle genti d'arme e di tutte le forze loro ma ancora di fargli concorrere seco, anzi sostentare per la maggiore parte le spese della guerra: ma per non turbare a quella nazione i commerci che avevano nelle terre suddite a Cesare, né mettere in pericolo i mercatanti loro, non furono nominati come principalmente collegati ma detto solamente che, per rispetto del pontefice, godessino tutte le esenzioni privilegi e benefici della confederazione come espressamente compresi, promettendo il pontefice per loro che per modo alcuno non sarebbeno contro alla lega. Né si providde chi avesse a essere capitano generale dello esercito e della guerra, perché la brevità del tempo non patí che si disputasse in sulle spalle di chi, per l'autorità e qualità sua, e per essere confidente di tutti, fusse bene collocato tanto peso, non essendo massime facile trovare persona in chi concorressino tante condizioni.
Stipulata la lega, il re, il quale non aveva ancora in fatto rimosso l'animo dalle pratiche col viceré di Napoli, differí di ratificarla e di dare principio alla espedizione delle genti d'arme e de' quarantamila ducati per il primo mese, insino a tanto venisse la ratificazione del pontefice e de' viniziani; la quale dilazione benché turbasse la mente loro, nondimeno, strignendoli a andare innanzi le medesime necessità, fatta la ratificazione, deliberorno di cominciare subitamente, sotto titolo di volere soccorrere il castello di Milano, la rottura della guerra. E però il pontefice, il quale prima aveva mandato a Piacenza con le sue genti d'arme e con cinquemila fanti il conte Guido Rangone governatore generale dello esercito della Chiesa, vi mandò di nuovo con altri fanti e con le genti d'arme de' fiorentini Vitello Vitelli, che ne era governatore, e Giovanni de' Medici, quale fece capitano generale della fanteria italiana; e per luogotenente suo generale nello esercito e in tutto lo stato della Chiesa, con pienissima e quasi assoluta potestà, Francesco Guicciardini, allora presidente della Romagna. E i viniziani da altra parte augumentorno l'esercito loro, del quale era capitano generale il duca d'Urbino e proveditore Pietro da Pesero, fermandolo a Chiari in bresciano, con commissione che l'uno e l'altro esercito procedesse al danno de' cesarei senza rispetto o dilazione alcuna.
Cap. iv
Tentativi di accordi di Ugo di Moncada a nome di Cesare col duca di Milano. Tentativi di accordi di Ugo di Moncada a nome di Cesare col pontefice. Lettere di Antonio de Leva intercette dal luogotenente del pontefice. Attesa in Italia di soldati svizzeri e ragioni del loro ritardo. Tumulti provocati a Milano dai capitani cesarei.
Era intratanto arrivato a Milano don Ugo di Moncada; il quale, benché la lega stipulata fusse ancora occulta al viceré e a lui, nondimeno, diffidando per le risposte del re che le cose si potessino piú ridurre alla sodisfazione di Cesare aveva seguitato il suo cammino in Italia: dove, menato seco nel castello il protonotario Caracciolo, fatta al duca ampia fede della benignità di Cesare, lo tentò che si rimettesse alla volontà sua. Ma rispondendo il duca che, per le ingiurie fattegli dai suoi capitani, era stato necessitato a ricorrere agli aiuti del pontefice e de' viniziani, senza partecipazione de' quali non era conveniente disponesse di se medesimo, gli dette don Ugo speranza la intenzione di Cesare essere che le imputazioni che egli erano date si vedessino sommariamente per il protonotario Caracciolo, prelato confidentissimo a lui; accennando farsi questo piú presto per restituirgli lo stato con maggiore conservazione della riputazione di Cesare che per altra cagione, e che parlato che avesse col pontefice darebbe perfezione a queste cose: e nondimeno non consentí che prima si levasse l'assedio, e si promettesse di non innovare cosa alcuna, come il duca faceva instanza. Credettesi, e cosí divulgò poi la fama, che le facoltà date da Cesare a don Ugo fussino molto ampie, non solo di convenire col pontefice con la reintegrazione del duca di Milano ma eziandio di convenire col duca solo, assicurandosi che, restituito nello stato, non nocesse alle cose di Cesare; ma non commesso cosí se non con limitazione di quello che consigliassino i tempi e la necessità; e che don Ugo, considerando in che estremità fusse ridotto il castello, e che la concordia col duca non giovava alle cose di Cesare se non quanto fusse mezzo a stabilire la concordia col pontefice e co' viniziani, giudicasse inutile il comporre con lui solo. Feciono dipoi don Ugo e il protonotario condurre a Moncia il Morone, che era prigione nella rocca di Trezo piú presto perché il protonotario pigliasse informazione da lui, avendo a essere giudice della causa, che per altra cagione.
Da Milano andò da poi don Ugo a Roma, avendo prima scritto a Vinegia che mandassino autorità sufficiente allo oratore loro di Roma per potere trattare le cose occorrenti: dove arrivato si presentò insieme col duca di Sessa innanzi al pontefice, proponendogli con parole magnifiche essere in potestà sua accettare la pace o la guerra; perché Cesare, ancora che per la sua buona mente avesse inclinazione piú alla pace, era nondimeno e con l'animo e con le forze parato e a l'una e a l'altra. A che avendogli risposto il pontefice generalmente, dolendosi però che i mali termini usati seco dai suoi ministri e la tardità della venuta sua fussino cagione che, dove prima era libero di se medesimo, si trovasse ora obligato ad altri, ritornati a lui il dí seguente, gli esposeno la intenzione di Cesare essere: lasciare libero il ducato di Milano a Francesco Sforza, deponendosi però il castello in mano del protonotario Caracciolo insino a tanto che, per onore di Cesare, avesse conosciuto la causa, non sostanzialmente, ma per apparenza e cerimonia; terminare con modo onesto le differenze sue co' viniziani; levare lo esercito di Lombardia co' pagamenti altre volte ragionati; né, in contracambio di queste cose, ricercare altro da lui se non che non si intromettesse tra Cesare e il re di Francia. A questa proposta rispose il pontefice: credere che e' fusse noto a tutto il mondo quanto avesse sempre desiderato di conservare l'amicizia con Cesare, né avere mai ricercatolo di maggiori cose di quelle che spontaneamente gli offeriva; le quali, desiderando lui piú il bene comune che lo interesse proprio, non potevano essere piú secondo la sua sodisfazione: continuare e ora nel medesimo proposito, ancora che gli fussino state date molte cagioni di alterarlo; e nondimeno udire al presente con maggiore molestia d'animo che le gli fussino concedute che non aveva udito quando gli erano state denegate, perché non era piú in potestà sua, come era stato prima, di accettarle: il che non essere proceduto per colpa sua ma per l'avere Cesare tardato tanto a risolversene: la quale [tardità] aveva causato che, non gli essendo mai stata porta speranza alcuna di assicurare le cose comuni d'Italia, e in questo mezzo [vedendo] consumarsi il castello di Milano, era stato necessitato, per la salute sua e degli altri, confederarsi col re di Francia; senza il quale, non volendo mancare alla osservanza della fede, non poteva piú determinare cosa alcuna. Nella quale risposta avendo, non ostante molte replicazioni in contrario, perseverato costantemente, don Ugo, poiché gli ebbe parlato piú volte invano, malcontento, ed egli e i capitani imperiali, che, esclusa la speranza della pace, le cose tendessino a manifesta guerra, la quale, per la potenza della lega e per le condizioni disordinate che avevano, riputavano molto difficile il sostenere, [se ne andò nelle terre dei Colonnesi].
Furono dal luogotenente del pontefice intercette lettere che Antonio de Leva scriveva al duca di Sessa, avvisandolo della mala disposizione del popolo di Milano, e che la cosa non teneva altro rimedio che l'aiuto di Dio; e lettere di lui medesimo e del marchese del Guasto scritte a don Ugo dopo la partita sua da Milano, dove lo sollecitavano della pratica dello accordo, facendo instanza che e' gli avvisasse subito del seguito, con ricordargli il pericolo loro e dello esercito di Cesare.
Ma non era già tanta confidenza negli animi di chi aveva a disporre delle forze della lega quanto era il timore de' capitani imperiali. Perché il duca di Urbino, nel quale aveva in fatto a consistere il governo degli eserciti, per il titolo di capitano generale che aveva delle genti viniziane, e per non vi essere uomo eguale a lui di stato, di autorità e di reputazione, stimando forse piú che non era giusto la virtú delle genti spagnuole e tedesche e diffidando smisuratamente de' soldati italiani, aveva fisso nello animo di non passare il fiume della Adda se con l'esercito non erano almanco cinquemila svizzeri; anzi dubitando che, se solamente con le genti de' viniziani passava il fiume dell'Oglio, gli imperiali passassino Adda e andassino ad assaltarlo, faceva instanza che lo esercito ecclesiastico, che già era a Piacenza, passato il Po sotto Cremona, si andasse a unire con quello de' viniziani, per accostarsi poi a Adda e aspettare in su le rive di quel fiume e in alloggiamento forte la venuta de' svizzeri. La quale, oltre alla natura loro, aveva riscontrato in molte difficoltà, essendo stata data imprudentemente al castellano di Mus e al vescovo di Lodi la cura del condurli: perché la vanità del vescovo di Lodi era poco efficace a questo maneggio, e il castellano era intento principalmente a fraudare una parte de' danari mandatigli per pagarne i svizzeri; né avevano, l'uno o l'altro di loro, tanta autorità appresso a quella nazione che fusse bastante a farne levare, massime con sí piccola quantità di danari, numero sí grande, cosí presto come sarebbe stato di bisogno; e questa anche si corrompeva per la emulazione nata tra loro, intenti piú ad ambizione e a gli interessi particolari che ad altro. Aggiunsono anche qualche difficoltà gli agenti che erano per il re di Francia nelle leghe di Elvezia, perché non avevano notizia quale fusse sopra questa cosa la mente del re né se era contraria o conforme alla sua intenzione; perché, non per inavvertenza ma studiosamente, per quegli consigli che spesso parendo molto prudenti riescono troppo acuti, si era pretermesso di dare notizia al re di questa espedizione. Perché Alberto Pio, oratore regio appresso al pontefice, aveva dimostrato essere pericolo che se il re intendesse, innanzi alla conclusione della lega, l'ordine dato di soldare i svizzeri non andasse piú tardo a conchiuderla, parendogli già a ogni modo che senza lui fusse cominciata dal pontefice e da' viniziani la guerra con Cesare. Cosí ritardandosi la venuta de' svizzeri si ritardava il piú principale e il piú potente de' fondamenti disegnati per soccorrere il castello di Milano, non ostante che il vescovo e il castellano della venuta loro prestissima dessino quotidianamente certa e presentissima speranza.
Ma i capitani cesarei, poi che veddeno prepararsi scopertamente la guerra, per non avere in uno tempo medesimo a combattere con gli inimici di dentro e di fuora, [deliberorono] di assicurarsi del popolo di Milano; il quale diventando ogni dí piú insolente non solo negava loro tutte le provisioni dimandavano, ma eziandio se alcuno de' soldati spagnuoli fusse trovato per la città separato dagli altri era ammazzato da i milanesi. Captata adunque occasione dai disordini che si facevano per la terra, dimandorno che alcuni capitani del popolo si uscissino di Milano; donde nata sollevazione furono alcuni spagnuoli che andavano per Milano ammazzati da certi popolari: e però Antonio de Leva e il marchese, fatto tacitamente accostare le genti a Milano, protestato non essere piú obligati agli accordi fatti a' dí passati, il dí decimosettimo di giugno fatto ammazzare in loro presenza, per dare principio al tumulto, uno della plebe che non aveva fatto loro reverenza, e dopo lui tre altri, e usciti degli alloggiamenti con una squadra di fanti tedeschi, detteno cagione al popolo di dare all'armi. Il quale, se bene nel principio sforzò la corte vecchia e il campanile del vescovado dove era guardia di fanti italiani, combattendo alla fine senza ordine, come fanno i popoli imperiti, piú con le grida che con l'armi, ed essendo offesi molto dagli scoppiettieri, posti ne' luoghi eminenti che prima avevano occupati, ne erano feriti e ammazzati molti di loro: in modo che, crescendo continuamente i disordini e il terrore, e avendo i fanti tedeschi cominciato a mettere fuoco nelle case vicine, e già approssimandosi alla città le fanterie spagnuole chiamate da capitani, il popolo, temendo degli estremi mali, convenne che i suoi capitani e molti altri de' popolari, i quali vi consentirono, si partissino di Milano, e che la moltitudine deponesse l'armi sottomettendosi alla obbedienza de' capitani. I quali accelerorono di fare cessare con queste condizioni il tumulto innanzi che i fanti spagnuoli entrassino dentro, dubitando che, se entravano mentre che l'una e l'altra parte era in su l'armi, non fusse in potestà loro di raffrenare l'impeto militare che la non andasse a sacco: dalla quale cosa aveano l'animo alieno, e per timore che lo esercito arricchito di sí grossa preda non si dissolvesse o diminuisse notabilmente, come perché, considerando la carestia de' danari e l'altre difficoltà che arebbeno nella guerra, giudicavano essere piú utile conservare quella città, per potervi lungamente dentro pascere lo esercito, che consumare in uno giorno tutto il nervo e lo spirito che aveva.
Cap. v
Acquisto di Lodi da parte dei collegati. Importanza di tale acquisto; attesa degli svizzeri e spostamenti dell'esercito veneto-pontificio; dispareri fra i capi dell'esercito. Arrivo di soldati svizzeri all'esercito dei collegati; deliberazione di accostarsi a Milano per gli aiuti al castello.
Pareva adunque che le cose della lega non procedessino con quella prosperità che gli uomini si avevano promesso da principio, essendosi già trovate tante difficoltà nella venuta de' svizzeri e mancato il fondamento del popolo di Milano. Ma nuovo accidente che sopravenne gli rendé la riputazione e la facilità del vincere molto maggiore e piú manifesta che prima. Eransi, in tanta mala contentezza anzi nella estrema disperazione del ducato di Milano, tenute, già qualche mese, per mezzo di varie persone, diverse pratiche di novità quasi in ogni città di quello stato; ma riuscendo l'altre vane, ne ebbe effetto una, tenuta dal duca d'Urbino e dal proveditore viniziano, nella città di Lodi, con Lodovico Vistarino gentiluomo di quella città. Il quale, movendosi o per essere stato antico servidore della casa Sforzesca o dalla compassione della sua patria, trattata da Fabbrizio Maramaus, colonnello di mille cinquecento (il Capella dice di settecento) fanti napoletani, con la medesima asperità che dagli spagnuoli e da i tedeschi era trattato Milano, deliberò di mettere dentro le genti de' viniziani, non ostante che (secondo scrive il Capella) fusse soldato degli imperiali: ma egli affermava, e il duca di Urbino lo confermava, che aveva prima dimandato e ottenuto licenza, sotto escusazione di non potere piú intrattenere senza danari i fanti a' quali era preposto. L'ordine della cosa fu stabilito in questo modo: che la notte de' ventiquattro di giugno, Malatesta Baglione, con tre o quattromila fanti de' viniziani, si accostasse, quasi in sul fare del dí, alle mura, dalla banda di certo bastione, per essere messo dentro dal Vistarino. Il quale poco [innanzi], accostatosi con due compagni a quello bastione il quale guardavano sei fanti, come per rivedergli, e seguitato da alcuni i quali aveva occultati in certe case vicine, occupò il bastione, ammazzate (secondo scrive il Capella) con tanta prestezza le guardie che non fu sentito strepito alcuno; perché, se bene aveva dato prima il nome secondo il costume militare, essi sospettando erano venuti seco all'armi: né fu senza pericolo, essendo concorsi alcuni allo strepito, di non riperdere il bastione, perché cominciorno a combattere; nella quale quistione Lodovico fu ferito. Ma essendo già ridotto all'ultima necessità, arrivò Malatesta con le genti; le quali salite in sul bastione medesimo con le scale entrorono nella terra: donde Fabrizio Maramaus, il quale, sentito lo strepito, veniva verso le mura con una parte de' suoi fanti, fu costretto a ritirarsi nella rocca. La terra fu vinta; e la piú parte de' suoi fanti, che erano alloggiati separatamente per la città, svaligiati e fatti prigioni. Nella quale arrivò non molto poi, con una parte delle genti, il duca di Urbino; il quale essendo, per approssimarsi piú, il dí precedente andato ad alloggiare a Orago in sul fiume dell'Oglio, e passatolo per ponte fatto a tempo la notte medesima, come intese l'entrata di Malatesta passò per ponte simile il fiume dell'Adda, e posto in Lodi maggiore presidio perché si difendesse se per la rocca entrava soccorso, ritornò subito all'esercito: ma non perciò vi andò, secondo riferiva Pietro da Pesero, senza qualche titubazione e perplessità. Ma venuto l'avviso a Milano, il marchese del Guasto con alcuni cavalli leggieri e con tremila fanti spagnuoli, co' quali era Giovanni d'Urbina, si spinse a Lodi senza tardare; e messa la fanteria senza ostacolo per la porta del soccorso nella rocca, situata in modo che si poteva entrarvi per una via coperta naturale, senza pericolo di essere battuto o offeso, da i fianchi della città (essendo già, come io credo, statovi e partito il duca di Urbino), dalla rocca entrò subito nella città, e si condusse insino in sulla piazza; in sulla quale la gente menata da Malatesta e il rinfrescamento che era venuto poi aveva fatto la sua testa, poste in guardia molte case e la strada che andava alla porta donde erano entrati, per potersene uscire salvi se gli imperiali gli soprafacessino. Combattessi al principio gagliardamente, e fu opinione di molti che se gli spagnuoli avessino perseverato nel combattere arebbeno ricuperato Lodi; perché i soldati viniziani, ne' quali per l'ordinario non era molta virtú, si trovavano assai stracchi. Ma il marchese diffidando, o per avervi trovato piú numero di gente che da principio non aveva creduto o per immaginarsi che lo esercito viniziano fusse propinquo, si staccò presto dal combattere, e lasciata la guardia nel castello si ritirò a Milano. Sopravenne dipoi il duca d'Urbino, il quale si gloriava di avere fatto passare l'esercito, senza fermarsi, per ponti in su due fiumi grossi; e attese a stabilire piú la vittoria, ingrossandovi di gente, per resistere se gli inimici di nuovo vi ritornassino, e facendovi piantare l'artiglierie; ma quegli di dentro, perché non aspettavano soccorso e potevano difficilmente difendere il castello, capace per il piccolo circuito di poca gente, la notte seguente, essendo raccolti da i cavalli che a questo effetto furno mandati da Milano, abbandonorono il castello.
Lo acquisto di Lodi fu di grandissima opportunità e di riputazione non minore alle cose della lega, perché la città era bene fortificata e una di quelle che sempre si era disegnato che gli imperiali avessino a difendere insino allo estremo. Da Lodi si poteva, senza alcuno ostacolo, andare insino in su le porte di Milano e di Pavia; perché queste città, situate come in triangolo, sono vicine l'una a l'altra venti miglia (però gli imperiali vi mandorono subito da Milano mille cinquecento fanti tedeschi); e trovavasi guadagnato il passo d'Adda, che prima era riputato di qualche difficoltà; levato ogni impedimento dell'unione degli eserciti; tolta la facoltà di soccorrere, quando fusse assaltata, Cremona (nella quale città era a guardia il capitano Curradino con mille cinquecento fanti tedeschi); e privati gli inimici di uno luogo opportunissimo a travagliare lo stato della Chiesa e quello de' viniziani: donde era voce comune per tutto l'esercito che, procedendosi innanzi con prestezza, gli imperiali si ridurrebbono in grandissima perplessità e confusione. Ma altrimenti sentiva il duca d'Urbino, già risoluto che l'accostarsi a Milano senza una grossa banda di svizzeri fusse cosa di molto pericolo. Ma non volendo scoprire agli altri totalmente questa sua opinione, deliberò, con fare poco cammino e soprasedere sempre almanco uno dí per alloggiamento, dare tempo alla venuta de' svizzeri; sperando dovessino arrivare allo esercito in pochissimi dí, e disprezzando tutto quello che si proponeva fusse da fare in caso non venissino, non ostante che per i progressi succeduti insino a quel dí fusse da dubitarne. Perciò, essendo lo esercito ecclesiastico, il dí dopo l'acquisto di Lodi, andato ad alloggiare a San Martino, a tre miglia appresso a Lodi, fu conchiuso nel consiglio comune che, soprastati ancora uno dí gli ecclesiastici e i viniziani ne' medesimi alloggiamenti, andassino poi il dí prossimo ad alloggiare a Lodi Vecchio, lontano da Lodi cinque miglia (dove dicono essere stato edificato Lodi da Pompeio magno) e distante tre miglia dalla strada maestra verso Pavia, a cammino che accennava a Milano e a Pavia, per tenere in piú sospensione i capitani imperiali: il quale dí gli eserciti ecclesiastici e viniziani camminando si unirono in su la campagna, pari quasi di fanteria (che in tutto erano poco manco di ventimila fanti), ma i viniziani piú abbondanti di genti d'arme e di cavalli leggieri, de' quali gli ecclesiastici tuttavia si provedevano, e ancora con molto maggiore provisione di artiglieria e di munizioni e di tutte le cose necessarie. A Lodi Vecchio, dove si dimorò il giorno seguente, mutato consiglio, fu deliberato di camminare in futuro in su la strada maestra, per fuggire il paese che fuora della strada è troppo forte di fosse e di argini, e perché era riputato piú facile il soccorrere il castello per quella via, che aveva a voltare verso porta Comasina, che per la via di Landriano che aveva a voltare a porta Verzellina, dove il condursi, per la qualità del paese, era piú difficile; e perché, andando da quella banda era piú sicuro il condurre le vettovaglie e piú facile il ricevere i svizzeri, perché erano piú alle spalle. Con questa risoluzione si condusse, l'ultimo di giugno, l'esercito unito a Marignano; dove consigliandosi quello si avesse a fare, inclinava il duca d'Urbino ad aspettare la venuta de' svizzeri, la quale era nella medesima e forse maggiore incertitudine che prima; parendogli che senza queste spalle di ordinanza ferma fusse molto pericoloso, con gente nuova e raccolta tumultuariamente, accostarsi a Milano; benché vi fussino pochi cavalli, tremila fanti tedeschi e cinque in seimila fanti spagnuoli, e questi senza denari e con poca provisione di vettovaglie. Dal quale parere discrepavano i pareri di molti degli altri capitani: i quali giudicavano che, procedendo con la gente ordinata e con gli alloggiamenti sempre il dí precedente riconosciuti, si potesse accostarsi a Milano senza pericolo, perché il paese è per tutto sí forte che senza difficoltà si poteva sempre alloggiare in sito munitissimo; né pareva loro verisimile che l'esercito cesareo fusse per uscire in campagna ad assaltargli, perché essendo necessario che e' lasciassino assediato il castello, né potendo anche per sospetto del popolo spogliare al tutto di gente la città di Milano, restava di numero troppo piccolo ad assaltare uno esercito sí grosso; il quale, benché fusse raccolto nuovamente, abbondava pure di molti fanti sperimentati alla guerra e dove erano tanti capitani de' piú riputati di Italia. Ed essendo l'accostarsi a Milano senza pericolo, non essere ancora senza speranza della vittoria lo accostarsi: perché non essendo i borghi di Milano fortificati, anzi, per la negligenza usata a riordinargli, aperti da qualche parte, non pareva credibile che gli imperiali si avessino a fermare a difendere circuito tanto grande (della quale [cosa] pareva si vedessino indizi manifesti, con ciò sia che, atteso poco alla riparazione de' borghi, si fussino tutti volti alla fortificazione della città); e abbandonando i borghi, ne' quali l'esercito andrebbe subito ad alloggiare, non pareva che la città potesse avere lunga difesa; non solo per trovarsi lo esercito senza denari e con poca vettovaglia, ma perché e Prospero Colonna e molti altri capitani avevano sempre giudicato essere molto difficile il difendere Milano contro a chi avesse occupato i borghi, si perché la città è debolissima di muraglia (facendo muro in molti luoghi le case private) sí eziandio perché i borghi sono vantaggiosi alla città: e si aggiugneva l'avere il castello a sua divozione.
Dependevano principalmente questa e l'altre deliberazioni dal duca di Urbino; perché, se bene fusse solamente capitano de' viniziani, gli ecclesiastici, per fuggire le contenzioni e perché altrimenti non si poteva fare, aveano deliberato di riferirsi a lui come a capitano universale. Ma egli, benché non lo movessino queste ragioni a andare innanzi, per le instanze efficacissime le quali, per ordine de' loro superiori, gliene facevano il luogotenente del pontefice e il proveditore viniziano (al parere de' quali poiché anche aderivano molti altri capitani, gli pareva che il soprasedere quivi lungamente, non avendo maggiore certezza della venuta de' svizzeri, potesse essere con grave suo carico e infamia), però, sopraseduto l'esercito due dí a Marignano, si condusse il terzo dí di luglio a San Donato lontano cinque miglia da Milano, deliberato di andare innanzi piú per sodisfare al desiderio e al giudizio di altri che per propria deliberazione; ma con intenzione di mettere sempre uno dí in mezzo tra l'uno alloggiamento e l'altro, per dare piú tempo alla venuta de' svizzeri: de' quali mille, finalmente, scesi in bergamasco, venivano alla via dello esercito; e continuavano, secondo il solito, gli avvisi spessi della venuta degli altri. Però, il quinto dí di luglio, andò l'esercito ad alloggiare a tre miglia di Milano, passato San Martino, fuora di strada in su la mano destra, in alloggiamento forte e bene sicuro; dove il dí medesimo si fece una fazione piccola contro ad alcuni archibusieri spagnuoli fattisi forti in una casa, e il dí seguente, stando il campo nel medesimo alloggiamento, un altra simile: e il medesimo dí arrivorono nel campo cinquecento svizzeri, condotti da Cesare Gallo. Quivi si consultò del modo del procedere piú innanzi; e ancoraché la prima intenzione fusse stata di andare dirittamente a soccorrere il castello di Milano, dove le trincee che lo serravano di fuora non erano sí gagliarde che non si potesse sperare di superarle, nondimeno parve al duca d'Urbino, il consiglio del quale era alla fine approvato da tutti gli altri (e che ne' consigli proponeva e non aspettando che gli altri rispondessino diceva l'opinione sua, o almanco nel proporre usava tali parole che per se stessa veniva a scoprirsi, in modo che gli altri capitani non pigliavano assunto di contradirgli) che gli eserciti camminassino per la diritta a' borghi di Milano; allegando che, per le spianate che sarebbe necessario di fare per la fortezza del paese, il volere condursi fuori della strada maestra al soccorso del castello sarebbe cosa lunga né senza pericolo di qualche disordine, perché si arebbe a mostrare troppo dappresso il fianco agli inimici e si darebbe loro facoltà di fare piú potente resistenza, perché unirebbeno tutte le forze loro dalla banda del castello, dove, altrimenti, sarebbeno necessitati stare divisi per resistere agli inimici e non abbandonare la guardia del castello; e perché, conducendosi con gli eserciti a porta Romana, sarebbe sempre in potestà de' capitani della lega voltarsi facilmente, secondo che alla giornata apparisse essere opportuno, a quale banda volessino. Secondo il quale consiglio si fece deliberazione che il settimo dí si alloggiasse a Bufaleta e Pilastrelli, ville vicine a mezzo miglio di Milano, sotto i tiri dell'artiglierie loro, e le quali sono circostanti alla strada maestra; con intenzione da quegli alloggiamenti pigliare i partiti che fussino dimostrati buoni dall'occasione e da i progressi degli inimici: i quali era opinione di molti che, veduto gli eserciti alloggiati in luogo sí vicino, non avessino a volere mettersi alla difesa, massime notturna, de' borghi, per essere in piú luoghi ripieni i fossi e spianati i ripari, e da qualche banda tanto aperti che difficilmente si potevano difendere.
Cap. vi
Arrivo del duca di Borbone con milizie spagnuole in Milano. L'esercito veneto-pontificio sotto Milano; scaramuccie coi nemici. Improvvisa deliberazione del duca d'Urbino di scostarsi da Milano. Meraviglia generale per la ritirata dei collegati.
Ma la notte precedente al dí nel quale doveva farsi innanzi l'esercito, il duca di Borbone, il quale pochi dí innanzi era arrivato a Genova con sei galee e con lettere di mercatanti per centomila ducati, entrò con circa ottocento o... fanti spagnuoli, quali aveva condotti seco, in Milano; sollecitatone molto dal marchese del Guasto e da Antonio de Leva: dalla venuta del quale i soldati pigliorono molto animo. E per la medesima si potette comprendere la negligenza o la fredda disposizione, studiosamente, del re di Francia alla guerra. Perché avendo il pontefice, nel principio quando condusse agli stipendi suoi Andrea Doria, consultato seco con che forze e apparati si dovessino tentare le cose di Genova, propose molta facilità tentandola in tempo che già fusse cominciata la guerra nel ducato di Milano, e che con le sue otto galee si congiugnessino le galee le quali il re di Francia aveva nel porto di Marsilia, o che almanco impedissino la venuta, con le galee, del duca di Borbone; perché, restando in tale caso con le sue otto galee signore del mare, non poteva la città di Genova stare molti dí col mare serrato per le mercatanzie, per gli esercizi e per le vettovaglie: e benché il re promettesse che impedirebbe la venuta del duca di Borbone furono parole vane, perché l'armata sua non era in ordine, e i capitani delle galee, parte per carestia di danari parte per negligenza e forse per volontà, erano stati espediti tardi de' pagamenti; come poi anche succedette delle genti d'arme.
Ma essendo incognita di fuori la venuta del duca di Borbone, la deliberazione dello andare innanzi con l'esercito fu pervertita dal duca di Urbino, o per avvisi ricevuti, secondo si credette, da Milano o per relazione di qualche esploratore. Mutata la diffidenza avuta insino a quel dí [in speranza] non minore, affermò al luogotenente del pontefice, presente il proveditore veneto, tenere per certo che il dí seguente sarebbe felicissimo; perché se gli inimici uscivano a combattere (il che non credeva dovessino fare) indubitatamente sarebbono vinti, ma non uscendo, che certamente, o il dí medesimo abbandonerebbono Milano ritirandosi in Pavia o almanco, abbandonata la difesa de' borghi, si ridurrebbono nella città; la quale, perduti i borghi, non potrebbono totalmente difendere: e ciascuna di queste tre cose bastare a conseguire la vittoria della guerra. Però il dí seguente, che fu il settimo di luglio, lasciato lo alloggiamento disegnato il dí dinanzi, con speranza di guadagnare i borghi senza contrasto, e aspirando alla gloria d'avergli presi camminando d'assalto, spinse qualche banda di scoppiettieri a porta Romana e a porta Tosa; dove, non ostante gli avvisi avuti i dí precedenti e il dí medesimo del volersi partire, gli spagnuoli si erano fermi in quella parte de' borghi, non per fare quivi, secondo si disse, continua resistenza ma per ritirarsi in Milano piú presto come uomini militari, e con avere mostrato il volto agli inimici, che volere che e' trovassino i borghi vilmente abbandonati. Dalla quale resistenza non solo si conservava piú la riputazione del loro esercito, essendo massime in facoltà sua ritirarsi sempre nella città senza disordine, ma eziandio poteva nascere loro occasione da pigliare animo a perseverare nella difesa de' borghi; il che era di grandissima importanza, perché il ritirarsi nella città era partito piú presto necessario che da eleggere spontaneamente, e per l'altre ragioni e perché, riducendosi dentro a circuito sí stretto, era piú facile impedire che vettovaglie non entrassino in Milano; senza le quali non potevano, per non essere ancora condotte le biade nuove, sostenersi lungamente. Appresentatosi adunque [con] gli scoppiettieri alle due porte, dove gli spagnuoli oltre al difendersi non cessavano continuamente di lavorare, il duca, trovata, fuora dell'opinione che aveva avuta, la resistenza, fece accostare a uno tiro di balestro a porta Romana tre cannoni, quali piantati bravamente cominciò a battere la porta e fare pruova di fare levare uno falconetto, il quale fu levato; fece smontare molti de' suoi per dare l'assalto, e ordinò si accostassino le scale: nondimeno, non continuando nel proposito di dare l'assalto, si ridusse la fazione in scaramuccie leggiere di scoppietti e di archibusi a' ripari; dove, avendo quelli di dentro vantaggio grande rispetto al sito, furno morti di quegli di fuora circa quaranta fanti e feritine molti. La porta era stata battuta [con] molti colpi ma con poco danno per essere i cannoni lontani: ma dicendo essere l'ora tarda ad alloggiare il campo non dette l'assalto, e alloggiò lo esercito nel luogo medesimo, benché, per la brevità del tempo, con qualche confusione; lasciò a' tre cannoni buona guardia, e il resto del campo alloggiò quasi tutto a mano destra della strada; sperando ciascuno molto della vittoria, perché, per avvisi di molti e per relazione di prigioni presi da Giovanni di Naldo soldato de' viniziani, si aveva nuove gl'imperiali, caricate molte bagaglie, essere piú presto in moto di partirsi che altrimenti; e a tempo arrivorno in campo la sera medesima cannoni de' viniziani.
Ma si variò poco poi non solo la speranza ma tutto lo stato della cosa. Perché essendo, quasi in su il principio della notte, usciti fuora alcuni fanti spagnuoli ad assaltare l'artiglieria, furno rimessi dentro da' fanti italiani che erano a guardia di quella: ancora che il duca d'Urbino dicesse che erano stati messi in disordine. Il quale, passate già poche ore della notte, trovandosi ingannato dalla speranza conceputa che alle porte e a' ripari de' borghi gli fusse stata fatta resistenza, e ritornandogli in considerazione il timore che prima aveva della fanteria degli inimici, fece precipitosamente deliberazione di discostarsi con lo esercito; e cominciatala subito a mettere in esecuzione col dare principio a fare partire l'artiglierie e le munizioni, e comandato alle genti viniziane che si ordinassino per partirsi, mandò per il proveditore a significare al luogotenente e ai capitani ecclesiastici la deliberazione che aveva fatta; confortandogli a fare anche essi, senza dilazione, il medesimo. Alla quale voce, come di cosa non solo nuova ma contraria alla espettazione di ciascuno, confusi e quasi attoniti, andorono a trovarlo, per intendere piú particolarmente i suoi pensieri e fare pruova di indurlo a non si partire. Il quale, con parole molto determinate e risolute, si lamentò che contro al parere suo, solamente per sodisfare ad altri, si fusse tanto accostato a Milano, ma che era piú prudenza ricorreggere l'errore fatto che perseverarvi dentro; conoscere che, per non essere stato per la brevità del tempo alloggiato il dí dinanzi ordinatamente, e per la viltà de' fanti italiani dimostratasi la sera medesima allo assalto delle artiglierie, che il dimorare l'esercito quivi insino alla luce prossima sarebbe la distruzione non solo della impresa ma di tutto lo stato della lega; perché era sí certo vi sarebbeno rotti che, non ci avendo una minima dubitazione, non voleva disputarla con alcuno; con ciò sia che gl'imperiali avevano la sera medesima piantato uno sagro tra porta Romana e porta Tosa, che batteva per fianco lo alloggiamento pericolosissimo de' fanti de' viniziani, e che la notte medesima ne pianterebbono degli altri, e come fusse il giorno, fatto dare all'arme, e necessitato l'esercito a mettersi in ordinanza, lo batterebbeno per fianco, e cosí disordinatolo, usciti fuora ad assaltarlo, lo romperebbeno con grandissima facilità: dolergli che la brevità del tempo, e lo essere nell'esercito suo molto maggiori impedimenti di artiglierie e di munizioni che nello esercito ecclesiastico, l'avesse costretto a cominciare prima a levarsi che a comunicarlo con loro; ma ne' partiti che si pigliano per necessità essere superfluo il fare escusazione: avere fatto maggiore esperienza che avesse fatto mai capitano alcuno, essendosi messo di cammino a dare lo assalto a Milano; bisognare ora usare la prudenza, né disperare, per la ritirata, della vittoria della impresa: essersi Prospero Colonna, e con forse manco giuste cagioni, levato da Parma già mezza presa; e nondimeno avere poco poi gloriosamente acquistato tutto il ducato di Milano: confortare gli ecclesiastici a seguitare la sua deliberazione, né differire il levarsi; perché replicava loro di nuovo che, trovandogli il sole in quello alloggiamento, resterebbeno rotti senza rimedio; e che però ciascuno ritornasse allo alloggiamento di San Martino. Rispose il luogotenente che, benché ciascuno pensasse le deliberazioni sue essere fatte con somma prudenza, nondimeno che nessuno di quegli capitani conosceva cagione che necessitasse a levarsi con tanta prestezza; e ridurgli in memoria quel che, veduta la ritirata loro, farebbe il duca di Milano disperato di essere soccorso; quanto animo perderebbeno il pontefice e i viniziani, e le imaginazioni che per la declinazione delle imprese, massime ne' princípi, sogliono nascere nelle menti de' príncipi; potersi, se lo alloggiamento fatto disordinatamente era causa di tanto pericolo, rimediarvi facilmente, senza tôrre tanta riputazione a quello esercito, con lo alloggiarlo di nuovo con migliore ordine e con discostarlo tanto che bastasse ad assicurarlo da' sagri piantati dagli inimici. Confermò il duca di nuovo la prima conclusione; né potersi, secondo la ragione della guerra, pigliare altra deliberazione: volere assumere in sé questo carico, e che e' si sapesse per tutto il mondo egli esserne stato autore: né essere bene consumare piú il tempo vanamente in parole, perché era necessario essersi levati innanzi alla fine della notte. Con la quale conclusione ciascuno, tornato a' suoi alloggiamenti, attese a espedirsi e a sollecitare la partita delle genti. Delle quali quelle che erano dinanzi si levorono con tanto spavento che, partendosi quasi con dimostrazione di essere rotti, si sfilorono molti fanti e molti cavalli de' viniziani, de' quali alcuni non si fermorono insino fussino condotti a Lodi; e l'artiglierie de' viniziani passorono di là da Marignano, ma rivocate si fermorono quivi: il resto della gente, e il retroguardo massime, partí ordinato. Né volle Giovanni de' Medici, che con la fanteria ecclesiastica era nella ultima parte dello esercito, muoversi insino a tanto non fusse bene chiaro il giorno, non gli parendo conveniente riportarne in cambio della sperata vittoria la infamia del fuggirsi di notte: il che fare non essere stato necessario dimostrò l'esperienza, perché degli imperiali non uscí alcuno fuora de' ripari ad assaltare la coda dello esercito; anzi, avendo, come fu dí, veduto tanto tumultuosa levata, restorono pieni di somma ammirazione, non sapendo immaginarne la cagione. E accrebbe ancora la infamia di questa ritirata che, benché il duca avesse detto volere che le genti si fermassino a San Martino, nondimeno ordinò tacitamente che i maestri del campo de' viniziani conducessino le loro a Marignano, mosso dal timore o che gli inimici non andassino ad assaltarlo allora in quello alloggiamento, o almeno, come esso medesimo confessò poi, tenendo per certo che il castello di Milano, veduto discostarsi il soccorso dimostrato (di che niuna cosa spaventa piú gli assediati), s'avesse ad arrendere (nel quale caso non arebbe avuto ardire di stare fermo a San Martino), giudicasse essere manco disonorevole ritirarsi in una sola volta che fare in sí breve spazio di tempo due ritirate: e però, non si fermando le artiglierie e le bagaglie e le prime squadre dello esercito viniziano a San Martino, camminavano verso Marignano. Di che ricercando il luogotenente di intendere dal duca la cagione, rispose che non faceva, in quanto alla sicurtà, differenza dall'uno all'altro, perché giudicava tanto sicuro dagli inimici l'alloggiamento di San Martino quanto quello di Marignano; ma essere per questo da anteporre l'alloggiamento di Marignano, perché le genti stracche dalle fazioni dei dí precedenti, non ricevendo quivi travagli dagli inimici, potrebbeno con piú comodità riposarsi e riordinarsi. E replicandosi, quanto, nella sicurtà pari dell'uno e dell'altro alloggiamento, togliesse piú la speranza del soccorso agli assediati nel castello di Milano il ritirarsi l'esercito a Marignano che se si fermasse a San Martino, rispose, con parole concitate, non volere, mentre che aveva in mano il bastone de viniziani, lasciare usare ad altri l'autorità sua; volere andare ad alloggiare a Marignano. In modo che l'uno e l'altro esercito, assai disonoratamente e con grandissimi gridi di tutti i soldati, potendo usare, ma per contrario, le parole di Cesare: - Veni, vidi, fugi - si condusse ad alloggiare a Marignano; con deliberazione del duca di stare fermo quivi insino a tanto che nel campo arrivassino non solo il numero di cinquemila svizzeri, a' quali si erano ristrette le promesse del castellano di Mus e del vescovo di Lodi (che nell'ora medesima che il campo si levava era arrivato con cinquecento), ma eziandio tanti altri che facessino il numero di dodicimila; perché giudicava non si potere fare piú fondamento nel castello di Milano, non si potere o sforzare o ridurre alla necessità di arrendersi quella città, per mancamento delle cose necessarie, senza due eserciti, e ciascuno da per sé sí potente che fusse bastante a difendersi da tutte le forze unite degli inimici.
Cosí si ritirorno dalle mura di Milano gli eserciti l'ottavo di luglio; commovendo molti non solo l'effetto della cosa ma eziandio la infelicità dello augurio, perché il dí medesimo, di consentimento comune de' collegati, si publicava a Roma a Vinegia e in Francia, con le cerimonie e solennità consuete, la lega. E a giudizio della maggiore parte degli uomini ebbe sí poca necessità il pigliare uno partito di tanta ignominia che molti dubitassino che il duca non fusse stato mosso da ordinazione occulta del senato viniziano, il quale, a qualche proposito incognito agli altri, desiderasse la lunghezza della guerra; altri dubitassino che il duca, ritenendo alla memoria le ingiurie ricevute da Lione e dal presente pontefice quando era cardinale, e temendo che la grandezza sua non gli mettesse in pericolo lo stato, non gli fusse o per odio o per timore grata la vittoria sí presta della guerra; massime che gli dava giusta cagione di timore dello animo del pontefice il tenere i fiorentini Santo Leo con tutto il Montefeltro, e sapere che la piccola figliuola restata di Lorenzo de' Medici riteneva continuamente il nome di duchessa d'Urbino. Nondimeno, il luogotenente del pontefice si certificò per mezzi indubitatissimi che a' viniziani fu molestissima la ritirata, e che non avevano cessato mai di sollecitare lo accostarsi lo esercito a Milano sperando molto nella facilità della vittoria; e considerato non essere verisimile che il duca, se avesse sperato di ottenere Milano, avesse voluto privarsi di gloria tanto maggiore di quella che molto innanzi avesse avuto alcuno altro capitano, quanto era maggiore la fama e la riputazione dello esercito imperiale di quella che molti anni innanzi avesse avuto alcuno altro esercito in Italia (alla quale gloria seguiva dietro quasi per necessità la sicurtà del suo stato, perché il pontefice, e per fuggire tanta infamia e per non fare tale offesa a' viniziani, non arebbe avuto ardire di assaltarlo); e considerato anche diligentemente i progressi di tutti quegli dí, ebbe per piú verisimile (nella quale sentenza concorsono molti altri) che il duca, caduto dalla speranza la quale due giorni innanzi aveva conceputa del dovere gl'imperiali abbandonare almanco i borghi, ritornasse con tanta veemenza alla sua prima opinione (per la quale aveva temuto piú le forze loro e piú diffidatosi della virtú de' fanti italiani che non facevano gli altri capitani) che, rappresentandosegli maggiore timore che agli altri, cadesse precipitosamente in quella deliberazione.
Cap. vii
Preoccupazione del pontefice per le vicende della guerra e per il pericolo di tumulti in Roma. Vano tentativo del pontefice di mutare il governo in Siena; milizie pontificie, fiorentine e di fuorusciti sotto le mura della città.
Confuse questa ritirata molto il pontefice e i viniziani, condotti già con la speranza in termine che di dí in dí aspettavano l'avviso dello acquisto di Milano, ma il pontefice massime, non preparato né co' denari né con la costanza dell'animo alla lunghezza della guerra; al quale anche, a Roma e altrove nello stato suo, si scoprivano di molte difficoltà. Perché essendo alla guardia di Carpi trecento fanti spagnuoli e qualche numero di cavalli, cominciorono a scorrere con gravissimi danni per tutto il paese circonstante della Chiesa, dando anche impedimento grande a' corrieri e a' denari che da Roma e da Firenze andavano allo esercito; a' quali non si poteva, con mettere piccola guardia nelle terre, ovviare: e il pontefice, entrato nella guerra con pochi denari e soprafatto dalle spese grandissime, difficilmente poteva co' denari suoi e con quegli che continuamente gli erano per conto della guerra porti da Firenze, fare provedimenti bastanti a reprimergli; essendo massime occupato in impresa nuova in Toscana, e necessitato a stare in sull'arme dalla parte di Roma. Perché don Ugo, il duca di Sessa partitosi dalla legazione, Ascanio, e Vespasiano Colonna ridottosi nelle castella de' Colonnesi propinque a Roma, facevano molte dimostrazioni di volere suscitare dalla parte di Roma qualche travaglio; e già alcuni de' loro partigiani si erano fatti forti in Alagna, terra della Campagna: i movimenti de' quali era sforzato a stimare il pontefice, per rispetto della fazione ghibellina di Roma quanto perché, pochi dí innanzi, si erano scoperti segni della mala disposizione della plebe romana contro a lui. Perché avendo, quando condusse Andrea Doria, sotto colore di assicurare i mari di Roma dalle fuste de' mori, dalle quali era impedita non mediocremente l'abbondanza della città, augumentati per sostentare quella spesa certi dazi, i macellari, essendo renitenti a pagargli, si erano tumultuosamente congregati all'abitazione del duca di Sessa, che ancora non era partito da Roma; alla quale concorseno armati quasi tutti gli spagnuoli che abitavano in Roma: benché questo tumulto facilmente si quietasse.
Ma alla impresa [del] mutare lo stato di Siena era stato ambiguo il pontefice, essendo vari i consigli di quegli che gli erano appresso. Perché alcuni, confidandosi nel numero grande de' fuorusciti e nella confusione del governo popolare, gli persuadevano fusse molto facile il mutarlo, ricordando di quanta importanza fusse in questo tempo l'assicurarsene, perché, in ogni disfavore che sopravenisse, il ricetto che vi potessino avere gli inimici sarebbe molto pericoloso alle cose di Roma e di Firenze; altri affermavano essere consiglio piú prudente dirizzare le forze in uno luogo solo che implicarsi in tante imprese, con piccola anzi quasi niuna diversificazione degli effetti, perché alla fine quegli che rimanessino superiori in Lombardia rimarrebbono superiori per tutto; né doversi tanto confidare delle forze o del seguito de' fuorusciti (le speranze de' quali riuscivano quasi sempre vanissime) che la mutazione di quello stato si tentasse senza potenti provisioni, le quali gli era difficile il fare, sí per la grandezza della spesa come perché aveva mandati tutti i suoi capitani principali alla guerra di Lombardia: le quali ragioni sarebbeno forse prevalute appresso a lui se quegli che reggevano in Siena fussino proceduti con quella moderazione la quale, nelle cose che importano poco, debbono usare i minori verso i maggiori, avendo piú rispetto alla necessità che alla giusta indegnazione. Ma accadde che, avendo molto prima uno certo Giovambatista Palmieri sanese, il quale aveva dalla republica la condotta in Siena di cento fanti, datogli speranza come le genti sue si accostassino a Siena di introdurle per una fogna che passava sotto le mura appresso a uno bastione, e avendo il pontefice mandatovi, a sua richiesta, due fanti confidati, all'uno de' quali Giovambatista commesse il portare la sua bandiera, i magistrati della città (con saputa de' quali Giovambatista eludendo il pontefice trattava questa cosa), quando parve loro il tempo opportuno, presi i due fanti e fattone solennemente il processo, e divulgato per tutto il trattato, ne presono publicamente il debito supplicio, per infamare il pontefice quanto potettono. Aggiunsesi che pochi dí poi mandorono gente ad assediare Giovanni Martinozzi, uno de' fuorusciti, quale dimorava nel contado di Siena alla tenuta sua di Montelifré. Dalle quali cose, come fatte in ingiuria sua, esacerbato l'animo del pontefice, deliberò tentare di rimettere i fuorusciti in Siena con le forze sue e de' fiorentini, ma con provisioni piú deboli che non conveniva, massime di fanti pagati; e perché alla debolezza dell'esercito non supplisse il valore o la autorità de' capitani, vi prepose [Virginio] Orsino conte della Anguillara, Lodovico conte di Pitigliano e [Giovan Francesco] suo figliuolo, Gentile Baglione e Giovanni da Sassatello. I quali, fatta la massa delle genti al ponte a Centina, e dipoi trasferitisi alle Tavernelle in sul fiume della Arbia, fiume famoso appresso agli antichi per la vittoria memorabile de' ghibellini contro a' guelfi di Firenze, si accostorono, il decimo settimo dí di giugno, alle mura di Siena con nove pezzi d'artiglieria de' fiorentini milledugento cavalli e con piú di ottomila fanti, ma quasi tutti o comandati del dominio della Chiesa e de' fiorentini o mandati senza danari ai fuorusciti da amici loro del perugino e di altri luoghi: e nel tempo medesimo Andrea Doria, con le galee e con mille fanti di sopracollo, assaltò i porti de' sanesi. Ma non essendosi, nello accostarsi alle mura di Siena, fatto dentro segno alcuno di tumulto, come avevano sperato i fuorusciti, fu necessario fermarsi con l'esercito per attendere alla espugnazione della città; nella quale erano sessanta cavalli e trecento fanti forestieri: però, accostatisi alla porta di Camollia, cominciorno a battere con l'artiglierie le mura da quella parte. Ma nella città forte di sito e la quale era stata fortificata, e di circuito sí grande che la minore parte circondava l'esercito, era il popolo (prevalendo piú in, lui l'odio del pontefice e de' fiorentini che l'affezione a' fuorusciti) disposto e unito alla conservazione di quel governo; e pel contrario nello esercito di fuora inutile la gente non pagata, i capitani di poca riputazione e tra loro non piccole divisioni, i fuorusciti divisi non solo nelle deliberazioni e nelle provisioni quotidiane ma discordanti eziandio per la forma del futuro governo, volendo già dividere e ordinare di fuora quel che non si poteva stabilire se non da chi era di dentro. Per le quali condizioni, ed essendo state battute le mura invano né avendo ardire di dare la battaglia, si cominciava già a sperare poco nella vittoria.
Cap. viii
Difficoltà del re di Francia di ottenere soldati svizzeri. Tristi condizioni dei milanesi alla mercé delle soldatesche cesaree; speranze nel duca di Borbone e parole d'un milanese a lui. Vane promesse del duca di Borbone ai milanesi. Licenza riprovevole delle milizie de' collegati.
Ma, in questo tempo medesimo, in Lombardia crescevano le difficoltà de' collegati. Perché se bene de' svizzeri condotti dal castellano di Mus e dal vescovo di Lodi ne fussino finalmente arrivati allo esercito cinquemila, nondimeno, non parendo numero bastante al duca di Urbino, si aspettavano quegli i quali, in nome del re di Francia, erano stati mandati a dimandare da' cantoni; sperando che, se non per altro, almeno che per cancellare la ignominia ricevuta nella giornata di Pavia, avessino a essere prontissimi a concedergli; e che per la medesima cagione i fanti conceduti avessino a procedere alla guerra (massime in tanta speranza della vittoria) con immoderato ardore. Ma in quella nazione, la quale pochi anni innanzi, per la ferocia sua e per la autorità acquistata, aveva avuto opportunità grandissima ad acquistare amplissimo imperio, non era piú né cupidità di gloria né cura degli interessi della republica, ma pieni di incredibile cupidità si proponevano per ultimo fine dello esercizio militare ritornare a casa carichi di danari: però, trattando la milizia secondo il costume de' mercatanti, e i cantoni, o pigliando publicamente le necessità di altri per occasioni di loro utilità o pieni di uomini venali e corrotti, concedevano o negavano i fanti secondo questi fini; e i capitani che erano ricercati di condursi, per avere migliore condizione quanto maggiore vedevano il bisogno di altri, piú si tiravano in alto facendo dimande impudentissime e intollerabili. Per queste cagioni, avendo il re ricercato i cantoni, secondo i capitoli della confederazione che aveva con loro, che gli concedessino i fanti i quali di consenso comune si avevano a pagare co' quarantamila ducati che sborsava il re di Francia, avevano i cantoni, dopo lunghe consulte, risposto, secondo l'uso loro, non volergli concedere se prima non erano sodisfatti dal re di tutto quello doveva loro per conto delle pensioni che era obligato a pagare ciascuno anno: la quale essendo somma grande, e difficile a pagare con brevità di tempo, furno necessitati, ottenuta anche non senza difficoltà licenza dai cantoni, a soldare capitani particolari. Le quali cose, oltre alla dilazione molto perniciosa, nello stato che erano le cose, non riuscirno con quella stabilità e riputazione che se si fussino ottenuti dalle leghe.
Con la quale occasione gli imperiali, non ricevendo intratanto molestia alcuna dagli inimici, i quali oziosamente dimoravano a Marignano, attendevano con somma sollecitudine a fortificare Milano; non la città, come facevano da principio della guerra, ma i ripari e i bastioni de' rifossi; non diffidando piú, per l'animo che avevano preso e per la riputazione diminuita degli avversari, di potergli difendere. E avendo spogliato delle armi il popolo di Milano e mandate fuora le persone sospette, non solo non n'avevano piú scrupolo o timore ma, avendolo ridotto in asprissima servitú, erano restati senza pensieri de' pagamenti de' soldati; i quali, alloggiati per le case de' milanesi, non solo costrignevano i padroni delle case a provederli quotidianamente del vitto abbondante e delicato ma eziandio a somministrare loro denari per tutte l'altre cose delle quali avevano o necessità o appetito; non pretermettendo, per esserne provisti, di usare ogni estrema acerbità. I quali pesi essendo intollerabili, non avevano i milanesi altro rimedio che cercare di fuggirsi occultamente di Milano, perché il farlo palesemente era proibito: donde, per assicurarsi di questo, molti de' soldati, massime gli spagnuoli, perché ne' fanti tedeschi era piú modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de' loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposta alla libidine loro la maggiore parte di ciascuno sesso e età. Però, tutte le botteghe di Milano stavano serrate, ciascuno aveva occultate in luoghi sotterranei o altrimenti reconditi le robe delle botteghe le ricchezze delle case e le ricchezze e ornamenti delle chiese; le quali neanche per questo erano in tutto sicure, perché i soldati, sotto specie di cercare dove fussino l'armi, andavano diligentemente investigando per tutti i luoghi della città, sforzando ancora i servi delle case a manifestarle: delle quali, quando le trovavano, ne lasciavano a' padroni quella parte pareva loro. Donde era sopramodo miserabile la faccia di quella città, miserabile l'aspetto degli uomini ridotti in somma mestizia e spavento: cosa da muovere estrema commiserazione, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l'avevano veduta pochi anni innanzi pienissima di abitatori, e per la richezza de' cittadini, per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per l'abbondanza e delicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e suntuosissimi ornamenti cosí delle donne come degli uomini, per la natura degli abitatori inclinati alle feste e a' piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia ma floridissima e felicissima sopra tutte l'altre città di Italia; e ora si vedeva restata quasi senza abitatori, per il danno gravissimo che vi aveva fatto la peste, e per quegli che si erano fuggiti e continuamente si fuggivano; gli uomini e le donne con vestimenti inculti e poverissimi, non piú vestigio o segno alcuno di botteghe o di esercizi per mezzo de' quali soleva trapassare grandissima ricchezza in quella città, e l'allegrezza e ardire degli uomini convertito tutto in sommo dolore e timore.
Confortògli nondimeno alquanto la venuta del duca di Borbone, persuadendosi che, poi che secondo era fama aveva portato provisione di denari e che per la ritirata dello esercito de' collegati parevano alquanto diminuite le necessità e i pericoli, avessi anche in parte a mitigarsi tante gravezze e acerbità; e molto piú sperorono che il duca, al quale era publicato essere dato da Cesare il ducato di Milano, avesse, per benefizio suo e per conservarsi per interesse proprio piú intere l'entrate e le condizioni della città, a provedere che e' non fussino piú cosí miserabilmente lacerati. La quale speranza restava loro sola, perché per gli imbasciadori mandati a Cesare comprendevano non potere aspettare da lui rimedio alcuno, o perché per essere troppo lontano non potesse per la salute loro fare quelle provisioni che fussino necessarie o, per essere in lui (come piú volte aveva dimostrato l'esperienza) molto minore la compassione delle oppressioni e miserie de' popoli che il desiderio di mantenere, per interesse dello stato suo, l'esercito; al quale non provedendo, a' tempi, de' pagamenti debiti, non poteva né egli né i capitani proibire che si astenessino dalle insolenze e dalle ingiurie: e tanto piú che i capitani, e per acquistare la benivolenza de' soldati e perché lo essere ogni cosa in preda era anche con emolumento loro, non avevano ingrata questa licenza militare; poiché, per mancare i pagamenti, avevano qualche scusa di tollerarla. Però, congregati insieme in numero grande tutti quegli che in Milano avevano qualche condizione piú eminente che gli altri, dimostrando nel volto negli abiti ne' gesti lo stato miserabile della patria e di ciascuno di loro, si condusseno con molte lacrime e lamenti innanzi al duca di Borbone; al quale uno di loro, a chi fu imposto dagli altri, parlò, secondo intendo, in questa sentenza:
- Se questa patria miserabile, la quale ha sempre per giustissime cagioni desiderato d'avere uno principe proprio, non fusse al presente oppressa da calamità piú acerbe e piú atroci che abbia mai alla memoria degli uomini tollerato alcuna città, sarebbe stata, illustrissimo duca, ricevuta con maraviglioso gaudio la vostra venuta: perché quale maggiore felicità poteva avere la città di Milano che ricevere uno principe datogli da Cesare, di sangue nobilissimo, e del quale la sapienza la giustizia il valore la benignità la liberalità abbiamo, in vari tempi, noi medesimi molte volte esperimentata? Ma la iniquissima fortuna nostra ci costrigne a esporre a voi, perché da altri non speriamo né aspettiamo rimedio alcuno, le nostre estreme miserie, maggiori senza comparazione di quelle che le città debellate per forza dagli inimici sogliono patire dalla avarizia dall'odio dalla crudeltà dalla libidine e da tutte le cupidità de' vincitori. Le quali cose, per se stesse intollerabili, rende ancora piú gravi l'esserci a ogni ora rimproverato che le si fanno [in] pena della infedeltà del popolo di Milano verso Cesare; come se i tumulti concitati a' dí passati fussino stati concitati con publico consentimento e non, come è notorio, da alcuni giovani sediziosi i quali temerariamente sollevorono la plebe, sicura, per la povertà, di potere perdere, cupida sempre per sua natura di cose nuove; e la quale, facile a essere ripiena di errori vani, di false persuasioni, si sospigne all'arbitrio di chi la concita, come si sospigne al soffio de' venti l'onda marina. Noi non vogliamo, per escusare o alleggerire le imputazioni presenti, raccontare quali siano state gli anni passati le operazioni del popolo milanese, dalla prima nobiltà insino alla infima plebe, per servizio di Cesare: quando la città nostra, per la devozione inveterata al nome cesareo, si sollevò con tanta prontezza contro a governatori e contro all'esercito del re di Francia; quando poi con tanta costanza sostenemmo due gravissimi assedi, sottomettendo volontariamente le nostre vettovaglie le nostre case alle comodità de' soldati, sostentandogli, perché mancavano gli stipendi di Cesare, prontissimamente co' danari propri, esponendo con tanta alacrità in compagnia de' soldati le nostre persone, il dí e la notte, a tutte le guardie a tutte le fazioni militari a tutti i pericoli; quando, il dí che si combatté alla Bicocca, il popolo di Milano con tanta ferocia difese il ponte, per il quale passo solo speravano i franzesi potere penetrare negli alloggiamenti dell'esercito cesareo. Allora da Prospero Colonna dal marchese di Pescara dagli altri capitani, insino da Cesare medesimo, era magnificata la nostra fede, esaltata insino al cielo la nostra costanza. Delle quali cose chi è migliore e piú certo testimonio che voi che, presente nella guerra dello ammiraglio, vedesti, lodasti, anzi spesso vi maravigliasti di tanta fedeltà, di tanto ardente disposizione? Ma cessi in tutto la memoria di queste cose, non si compensino i demeriti co' benemeriti. Considerinsi le azioni presenti: non recusiamo pena alcuna se nel popolo di Milano apparisce vestigio di malo animo contro a Cesare. Amava certamente il popolo di Milano grandemente Francesco Sforza come principe stato dato da Cesare, come quello del quale il padre l'avolo il fratello erano stati nostri signori, e per l'espettazione che s'aveva della sua virtú; e per queste cagioni ci fu molestissimo lo spoglio suo, fatto subitamente senza conoscere la causa, non essendo noi certificati che avesse macchinato contro a Cesare, anzi affermandosi, per lui e per molti altri, essere stata piú presto cupidità di chi allora governava l'esercito che commissione cesarea: e nondimeno la città tutta giurò in nome di Cesare, sottoponendosi alla ubbidienza de' capitani. Questa è stata la deliberazione della città di Milano, questo il consentimento publico, questo il consiglio, e specialmente della nobiltà; la quale che ragione, che giustizia, che esempio consente che abbia a essere per i delitti particolari con tanta atrocità lacerata? Ma non apparí anche ne' dí medesimi de' tumulti la fede nostra? perché, nella sollevazione della moltitudine, chi altri che noi si interpose con l'autorità e co' prieghi a fargli deporre l'armi? chi altri che noi, l'ultimo dí del tumulto, persuase a' capi e a' giovani sediziosi che si partissino della città? alla moltitudine, che si sottomettesse alla ubbidienza de' capitani? Ma e la commemorazione delle opere nostre e la giustificazione dalle calunnie opposteci sarebbe forse necessaria o conveniente se i supplíci che noi patiamo fussino corrispondenti a' delitti de' quali siamo accusati, o almanco se non li trapassassino di molto; ma che differenza è dall'una cosa all'altra! Perché noi abbiamo ardire di dire, giustissimo principe, che se i peccati di ciascuno di noi fussino piú gravi che fussino mai stati i peccati e le sceleratezze commesse da alcuna città verso il suo principe, che le pene, anzi l'acerbità de' supplíci che noi immeritamente sopportiamo, sarebbono maggiori senza proporzione di quello che avessimo meritato. Abbiamo ardire di dire che tutte le miserie tutte le crudeltà tutte le immanità (taciamo per onore nostro delle libidini) che abbia mai, alla memoria degli uomini, sopportate alcuna città alcuno popolo alcuna congregazione d'abitatori, raccolte insieme tutte, siano una piccola parte di quelle che, ogni dí ogni ora ogni punto di tempo, sopportiamo noi; spogliati in uno momento di tutta la roba nostra, costretti gli uomini liberi, con tormenti con carceri private con catene messe a' corpi di molti de' nostri dai soldati, a provedergli del vitto continuamente, a uso non militare ma di príncipi, a provedergli di tutte quelle cose che caggiono nella cupidità loro, a pagare ogni dí a loro nuovi danari; li quali essendo impossibile a pagare, gli costringono con minacci con ingiurie con battiture con ferite: in modo che non è alcuno di noi che non ricevesse per somma grazia, per somma felicità, nudo, a piede, lasciate in preda tutte le sostanze, potersi salvo della persona fuggire da Milano, con condizione di perdere in perpetuo e la patria e i beni. Desolò, a tempo de' proavi nostri, Federigo Barbarossa questa città, crudelissimo contro agli abitatori contro agli edifici contro alle mura: e nondimeno, che furono le miserie di quegli tempi comparate alle nostre? non solo per tollerarsi piú facilmente la crudeltà dello inimico come piú giusta che la crudeltà ingiusta dell'amico, ma eziandio perché uno dí, due dí, tre dí, saziorono l'ira e la acerbità del vincitore, finirono i supplíci de' vinti; noi già perseveriamo piú di uno mese in queste acerbissime miserie, accrescono ogni ora i nostri tormenti e, simili a dannati nell'altra vita, sopportiamo senza speranza di fine quello che prima aremmo creduto essere impossibile che la condizione umana tollerasse. Speriamo pure che la magnanimità tua, la tua clemenza abbia a soccorrere a tanti mali, che abbia a provedere che una città diventata leggittimamente tua, commessa alla tua fede, non sia con tanta immanità totalmente distrutta; che comperando con questa pietà gli animi nostri, meritando perpetua memoria di padre e risuscitatore di una città sí memorabile per tutto il mondo, fonderai piú in uno dí il principato tuo con la benivolenza e con la divozione de' sudditi che non fanno gli altri príncipi nuovi in molti anni con l'armi e con le forze. La somma della orazione nostra è che, se per qualunque cagione la volontà tua è aliena da liberarci da tanta crudeltà, se qualche impedimento ti interrompe, che noi ti supplichiamo con tutti gli spiriti che voi spigniate addosso a tutto questo popolo, a tutti noi a ognuno a ogni sesso a ogni età, il furore l'armi il ferro e l'artiglierie dello esercito: perché a noi sarà incredibile felicità essere impetuosamente morti, piú presto che continuare nelle miserie e ne' supplíci presenti; né sarà manco celebrata la pietà tua, se in altro modo non puoi soccorrerci, che infamata la loro immanità; né a noi manco lieto il terminare in questo modo la nostra infelicissima vita, né manco allegra a quegli che ci amano la nostra morte che soglia essere a' padri e a' parenti la natività de' figliuoli e degli altri congiunti cari. -
Seguitorono queste parole miserabili le lamentazioni e i pianti di tutti gli altri. A' quali il duca rispose con grandissima mansuetudine, dimostrando avere sommo dispiacere delle loro infelicità né minore desiderio di sollevare e beneficare quella città e tutto il ducato di Milano; scusando che quello che si faceva non solo era contro alla volontà di Cesare ma ancora contro alla intenzione di tutti i capitani, e che la necessità, per non avere avuto modo a pagare i soldati, gli aveva indotti piú presto a consentire questo che ad abbandonare Milano, o mettere in pericolo la salute dello esercito, e tutto lo stato che aveva Cesare in Italia in preda degli inimici. Avere portato seco qualche provisione di denari, ma non tanta che bastasse, per l'essere creditori di molte paghe; nondimeno, che se la città di Milano gli provedesse di trentamila ducati per la paga di uno mese, che condurrebbe l'esercito ad alloggiare fuora di Milano: affermando che, se bene sapeva che altre volte fussino stati ingannati di simili promesse, potrebbeno starne sicurissimi alla parola e alla fede sua; e aggiugnendo, pregare Dio che se mancasse loro gli fusse levato il capo dal primo colpo dell'artiglieria degli inimici. La quale somma, benché alla città tanto esausta fusse gravissima, nondimeno trapassando tutte l'altre calamità la miseria dello alloggiare i soldati, accettata la condizione proposta, cominciorono con quanta piú prestezza potettono a provedergli. Ma benché una parte de' soldati, ricevuti i danari secondo che si pagavano, fusse mandata ad alloggiare ne' borghi di porta Romana e di porta Tosa, per guardare i ripari e attendere a fortificargli (come anche si lavorava alla trincea di verso il giardino, nel luogo nel quale fu fatta da Prospero Colonna), nondimeno ritenevano, non meno che quegli che erano restati dentro, i medesimi alloggiamenti e continuavano nelle medesime acerbità; o non tenendo conto Borbone della sua promessa o non potendo, come si crede, resistere alla volontà e alla insolenza de' soldati, fomentati anche da alcuni de' capitani, che volentieri, o per ambizione o per odio, difficultavano i suoi consigli. Della quale speranza privato il popolo di Milano, non avendo piú né dove sperare né dove ricorrere, cadde in tanta disperazione che è cosa certissima alcuni, per finire tante acerbità e tanti supplizi morendo, poiché vivendo non potevano, si gittorono da luoghi alti nelle strade, alcuni miserabilmente si sospeseno da se stessi: non bastando però questo a mitigare la rapacità e la fiera immanità de' soldati.
Erano in questo tempo molto miserabili le condizioni del paese, lacerato con grandissima empietà dai soldati de' collegati; i quali, aspettati prima con grandissima letizia da tutti gli abitatori, aveano per le rapine ed estorsioni loro convertita la benivolenza in sommo odio: corruttela generale della milizia del nostro tempo, la quale, preso esempio dagli spaguoli, lacera e distrugge non manco gli amici che gli inimici. Perché se bene per molti secoli fusse stata grande in Italia la licenza de' soldati, nondimeno l'avevano in infinito augumentata i fanti spagnuoli, ma per causa se non giusta almeno necessaria, perché in tutte le guerre di Italia erano stati malissimo pagati: ma (come [per] gli esempli, benché abbino principio escusabile, si procede sempre di male in peggio) i soldati italiani, benché non avessino la medesima necessità perché erano pagati, seguitando l'esempio degli spagnuoli, cominciorono a non cedere in parte alcuna alle loro enormità. Donde, con grande ignominia della milizia del secolo presente, non fanno i soldati piú alcuna distinzione dagli inimici agli amici; donde non manco desolano i popoli e i paesi quegli che sono pagati per difendergli che quegli che sono pagati per offendergli.
Cap. ix
L'esercito de' collegati, per le condizioni difficili della guarnigione del castello, si accosta di nuovo a Milano. Meraviglia dei capitani svizzeri per la lentezza e l'indecisione dell'esercito. Resa del castello di Milano; patti della resa. Ritirata dell'esercito pontificio da Siena. L'Ungheria assalita dai turchi.
Andavansi in questo tempo consumando tanto le vettovaglie del castello che già gli assediati si appropinquavano alla necessità della dedizione; la quale desiderando di allungare quanto potevano, perché erano da alcuni capi dello esercito de' collegati nutriti con speranza di soccorso, la notte venendo il decimo settimo dí di luglio, messeno fuora per la porta del castello, di verso le trincee che lo serravano di fuora, piú di trecento tra fanti donne e fanciulli e bocche disutili: allo strepito delle quali benché dalla guardia degli inimici fusse dato all'arme, nondimeno, non essendo fatta loro altra opposizione, ed essendo le trincee sí strette che con l'aiuto delle picche si potevano passare, le passorono tutte salve. Erano due trincee lontane due tiri di mano dal castello, e tra l'una e l'altra uno riparo di altezza circa quattro braccia: il quale riparo, cosí come faceva guardia contro al castello, dava sicurtà a chi dal canto di fuora avesse assaltato le trincee. I quali usciti del castello, andati a Marignano dove era l'esercito, e fatto fede della estremità grande in che si trovavano gli assediati e della debolezza delle trincee, poiché insino alle donne e fanciulli le avevano passate, costrinseno i capitani a ritornare per fare pruova di soccorrerlo; consentendo il duca di Urbino, per non ricevere in sé solo questa infamia, di escusazione non tanto facile quanto prima, perché, essendo nello esercito piú di cinquemila svizzeri, non militava piú la causa principale che aveva allegata, di essere pericoloso l'accostarsi senza altri fanti [che] italiani a Milano. Perciò fu determinato nel consiglio, unitamente, che lo esercito non piú da altra parte ma dirittamente si accostasse al castello e che, preso, le chiese di San Gregorio e di Santo Angelo vicine a' rifossi, alloggiasse sotto Milano. Con la quale deliberazione partiti da Marignano si condusseno in quattro dí, per cammino difficile a camminare per la fortezza delle fosse e degli argini, il vigesimo secondo dí di luglio tra la badia di Casaretto e il fiume del Lambro, in luogo detto volgarmente l'Ambra; nel quale luogo il duca, variando quel che prima era stato deliberato nel consiglio, volle che si facesse l'alloggiamento, ponendo la fronte dello esercito alla badia a Casaretto vicina manco di due miglia a Milano, col fiume del Lambro alle spalle, e distendendosi da mano destra insino al navilio, dalla sinistra insino al ponte: in modo che si poteva dire alloggiato tra porta Renza e porta Tosa, perché teneva poco di porta Nuova e, per questi rispetti e per la natura del paese, alloggiamento molto forte. E allegava il duca d'avere fatto mutazione da questo alloggiamento a quello de' monasteri per la vicinità del castello, per non essere tanto sotto le mura che fusse necessitato a mettersi in pericolo e privato della facoltà di voltarsi dove gli paresse, e perché il minacciargli da piú parti gli necessitava a fare in piú luoghi guardie grandi; donde, rispetto al numero delle genti che avevano, si augumentavano le loro difficoltà.
Condotto in questo alloggiamento l'esercito (del quale una piccola parte, mandata il dí medesimo alla terra di Moncia, la ottenne per accordo, e il dí seguente espugnò con l'artiglierie la fortezza nella quale erano cento fanti napoletani), si ristrinseno i consigli di quello fusse da fare per metter vettovaglie nel castello di Milano, ridotto come si intendeva in estrema necessità; con intenzione di farne uscire Francesco Sforza. E benché molti de' capitani, o perché veramente cosí sentissino o per dimostrarsi animosi e feroci in quelle cose che si avevano a determinare con piú pericolo dello onore e della estimazione di altri che sua, consigliassino che si assaltassino le trincee, nondimeno il duca di Urbino il quale giudicava fusse cosa pericolosissima, non contradicendo apertamente ma proponendo difficoltà e mettendo tempo in mezzo, impediva il farne conclusione: donde essendo rimessa la deliberazione al dí prossimo, i capitani svizzeri dimandorono di essere introdotti nel consiglio, nel quale ordinariamente non intervenivano. Le parole fece per loro il castellano di Mus, che avendone condotto la maggiore parte riteneva titolo di capitano generale tra loro. Il quale, avendo esposto che i capitani svizzeri si maravigliavano che, essendosi cominciata questa guerra per soccorrere il castello di Milano e trovandosi le cose in tanta necessità, si stesse, dove era bisogno di animo e di esecuzione, a consumare il tempo vanamente in disputare se era da soccorrere o no, [disse] non potere credere non si facesse deliberazione opportuna alla salute comune e all'onore di tanti capitani e di tanto esercito; nel quale caso essi fare intendere che riceverebbeno per grandissima vergogna e ingiuria se, nello accostarsi al castello, non fusse dato loro quello luogo della fatica e del pericolo che meritava la fede e l'onore della nazione degli elvezi; né volere mancare di ricordare che, nel pigliare questa deliberazione, non avessino tanto memoria di quegli che avevano perduto con ignominia le imprese cominciate, che si dimenticassino la gloria e la fortuna di coloro che avevano vinto.
Nelle quali consulte mentre che il tempo si consuma, conoscendosi chiaramente per tutti la intenzione del duca aliena dal soccorrere, sopravenneno nuove, benché non ancora in tutto certe, che il castello era o accordato o in procinto di accordarsi: al quale avviso il duca prestando fede, disse, presente tutto il consiglio, questa cosa, se bene perniciosa per il duca di Milano, essere desiderabile e utile per la lega; perché la liberava dal pericolo che la cupidità o la necessità di soccorrere il castello non inducesse quello esercito a fare qualche precipitazione, essendo stata imprudenza grande di quegli che si erano mai persuasi che e' si potesse soccorrere; che ora, essendo liberati da questo pericolo, si aveva di nuovo a consultare, e ordinare la guerra nel medesimo modo che se fusse il primo dí del principio di essa. Ebbesi poco poi la certezza dello accordo: perché il duca di Milano, essendo ridotto il castello in tanta estremità di vivere che appena poteva sostenersi uno giorno, e disperato totalmente del soccorso, poi che dallo esercito della lega, arrivato due dí innanzi in alloggiamento sí vicino, non vedeva farsi movimento alcuno, continuate le pratiche che già piú dí, per trovarsi preparato a questo caso, aveva tenute col duca di Borbone (il quale, ritirato che fu l'esercito, aveva mandato in castello a visitarlo), conchiuse lo accordo il vigesimoquarto dí di luglio. Nel quale si contenne: che senza pregiudizio delle sue ragioni desse il castello di Milano a' capitani, riceventilo in nome di Cesare, avuta facoltà da loro di uscirne salvo insieme con tutti quegli che erano nel castello; e gli fusse lecito fermarsi a Como, deputatogli per stanza, col suo governo ed entrate, insino a tanto che si intendesse sopra le cose sue la deliberazione di Cesare; aggiugnendogli tante altre entrate che a ragione di anno ascendessino in tutto a trentamila ducati: dessigli salvocondotto per potere personalmente andare a Cesare; e si obligorono pagare i soldati che erano nel castello di quel che si doveva loro per gli stipendi corsi insino a quel dí, che si dicevano ascendere a ventimila ducati: dessinsi in mano del protonotario Caracciolo, Giannangiolo Riccio e il Poliziano, perché gli potesse esaminare; avuta la fede da lui di rilasciargli poi e fargli condurre in luogo sicuro: liberasse il duca di Milano il vescovo di Alessandria, che era prigione nel castello di Cremona; e a Sforzino fusse dato Castelnuovo di Tortonese. Non si parlò in questa convenzione cosa alcuna del castello di Cremona; il quale il duca, non potendo piú resistere alla fame, aveva commesso a Iacopo Filippo Sacco mandato da lui al duca di Borbone che, non potendo ottenere l'accordo altrimenti, lo promettesse loro. Ma egli accorgendosi, per le parole e modi del loro maneggio, del desiderio grande che avevano di convenire, mostrando il duca non essere mai per cedere questo, ottenne non se ne parlasse: perché i capitani imperiali, ancora che per molte congetture comprendessino non essere nel castello molte vettovaglie, e che la necessità presto era per fargli ottenere lo intento loro, nondimeno, desiderosi di assicurarsene, avevano deliberato di accettarlo con ogni condizione, non essendo certi che lo esercito della lega appropinquatosi non tentasse di soccorrerlo; nel quale caso, non confidando del potersi bene difendere le trincee, erano risoluti di uscire in su la campagna a combattere: il quale evento dubbio della fortuna fuggirono volentieri con accettare dal duca quello che potessino avere. Il quale, uscito il dí seguente del castello e accompagnato da molti di loro insino alle sbarre dello esercito, poiché vi fu dimorato uno dí, si indirizzò al cammino di Como; ma allegando, gli imperiali avergli promesso di dargli la stanza sicura in Como ma non già di levarne le genti che vi avevano a guardia, non volendo piú fidarsi di loro, se bene prima avesse deliberato non fare cosa che potesse irritare piú l'animo di Cesare, se ne andò a Lodi: la quale città fu dai confederati liberamente rimessa in sua mano. Né gli essendo stato de' capitoli fatti osservata cosa alcuna, eccetto che lo avere lasciato partire salvi egli con tutti i suoi e con le robe loro, ratificò per instrumento publico la lega fatta dal pontefice e dai viniziani in nome suo.
Ma in questo tempo medesimo il pontefice, benché per i movimenti de' Colonnesi avesse publicato il monitorio contro al cardinale e contro agli altri della famiglia della Colonna, nondimeno, vedendo molto diminuita la speranza di mutare il governo di Siena, ed essendogli molesto avere travagli nel territorio di Roma, prestò cupidamente orecchi a don Ugo di Moncada; il quale, non con animo di convenire ma per renderlo piú negligente alle provisioni, proponeva che sotto certe condizioni si rimovessino le offese contro a' sanesi e tra i Colonnesi e lui: a trattare le quali cose essendo venuto a Roma Vespasiano Colonna, uomo confidente al pontefice, fu cagione che il pontefice, il quale perduta in tutto la speranza di felice successo intorno a Siena trattava di fare levare dalle mura l'esercito, differí l'esecuzione di questo consiglio salutifero, aspettando, per minore ignominia, di farlo partire subito che fusse conchiuso questo accordo; e nondimeno moltiplicando continuamente i disordini e le confusioni di quello esercito, fu deliberato in Firenze di farlo ritirare. Accadde che il dí precedente a quello che era destinato a partirsi, essendo usciti della città quattrocento fanti verso l'artiglieria alla quale era a guardia Iacopo Corso, egli, subito, con la sua compagnia voltò le spalle; e levato il romore e cominciata la fuga, tutto il resto dello esercito nel quale non era né ubbidienza né ordine, non avendo chi gli seguitasse né chi gli assaltasse, si messe da se medesimo in fuga, facendo a gara i capitani i commissari i soldati a cavallo e i fanti, ciascuno, di levarsi piú presto dal pericolo, lasciate agli inimici le vettovaglie i carriaggi e l'artiglierie; delle quali dieci pezzi, tra grossi e piccoli, de' fiorentini e sette de' perugini furono condotti con grandissima esultazione e quasi trionfando in Siena: rinnovandosi con clamori grandi di quello popolo la ignominia delle artiglierie le quali, grandissimo tempo innanzi perdute da i fiorentini pure alle mura di Siena, si conservavano ancora in sulla piazza publica di quella città. Ricevettesi questa rotta il dí seguente nel quale in potestà de' capitani cesarei pervenne il castello di Milano. E ne' medesimi dí il pontefice, acciò che alle afflizioni particolari si aggiugnessino le calamità della republica cristiana, ebbe avvisi di Ungheria, Solimanno ottomanno, il quale si era mosso di Costantinopoli con potentissimo esercito per andare ad assaltare quel reame, poiché aveva passato il fiume del Savo senza contrasto (perché pochi anni innanzi aveva espugnato Belgrado), avere ora espugnato il castello, credo, di Pietro Varadino passato il fiume della Drava: donde, non gli ostando né monti né impedimenti de' fiumi, si conosceva tutta l'Ungheria essere in manifestissimo pericolo.
Cap. x
Richiesta del duca d'Urbino che venga nominato un capitano generale di tutta la lega; deliberazione di attendere gli svizzeri assoldati dal re di Francia e di assalire Cremona. Ragioni di timori e di apprensione del pontefice. Sollecitazioni e incitamenti del pontefice al re di Francia. Trattative del pontefice anche col re d'Inghilterra. Trattative col duca di Ferrara.
Ma in Italia l'essere pervenuto in potestà di Cesare il castello di Milano pareva che avesse variato molto dello stato della guerra; essendo necessario, come diceva il duca di Urbino, fare nuovi disegni e nuove deliberazioni, come si arebbe avuto a fare se al principio non fusse stato in mano di Francesco Sforza il castello. Con la quale occasione, il dí medesimo che fu fatta la dedizione, discorrendo al luogotenente del pontefice e al proveditore veneto lo stato delle cose, soggiunse bisognare uno capitano generale di tutta la lega, al quale fusse commesso il governo degli eserciti; né dimandare questo piú per sé che per altri, ma avere bene deliberato di non prendere piú, senza questa autorità, pensiero alcuno se non di comandare alle genti viniziane; ricercandogli lo significassino a Roma e a Vinegia: dalla quale dimanda, fatta in tempo tanto importuno e con grandissima iracondia del pontefice, per rimuoverlo fu necessario che il senato viniziano mandasse in campo Luigi Pisano, gentiluomo di grande autorità; per opera del quale si moderò, piú presto alquanto che si estinguesse, questo ardore. Ma quanto al modo del procedere in futuro nella guerra, si deliberò che l'esercito non si rimovesse di quello alloggiamento insino a tanto venissino i svizzeri i quali si soldavano col nome e per mezzo del re di Francia; alla venuta de' quali affermava il duca essere necessario fare due alloggiamenti da due bande diverse intorno a Milano, non per assaltare né per tentare di sforzarlo ma per farlo cadere per mancamento delle vettovaglie, il che diceva confidare potere succedere in termine di tre mesi: ribattendo sempre caldamente l'opinione di quegli che consigliavano che, fatti che fussino questi alloggiamenti, si tentasse di espugnare quella città; perché, essendo la lega potentissima di danari e avendone gli imperiali grandissima difficoltà, tutte le ragioni promettevano la vittoria della impresa, nessuna fare timore del contrario se non il desiderio di accelerarla, perché col tempo e con la pazienza consumandosi gli avversari non poteva mancare che le cose non si conducessino a felice fine. Ed essendogli qualche volta risposto, il discorso essere verissimo ogni volta che si potesse stare sicuro che di Germania non venisse soccorso di nuovi fanti (il quale quando venisse, tale che gli imperiali potessino uscire alla campagna, non si potere negare che le cose restassino totalmente sottoposte allo arbitrio della fortuna), replicava, in quello caso promettersi la vittoria non manco certa, perché conoscendo la caldezza di Borbone giudicava che ogni volta che e' si reputasse pari di forze allo esercito de' confederati si spignerebbe tanto innanzi che e' darebbe a loro occasione di avere con facilità qualche prospero successo che accelererebbe la vittoria. Ma perché, per le difficoltà che si intendevano essere nella condotta de' svizzeri, si dubitava che la venuta loro non tardasse molti dí, e però essere molto dannosa la perdita di tanto tempo, fu deliberato, per consiglio principalmente del duca di Urbino e instando anche al medesimo il duca di Milano, di mandare subito Malatesta Baglione, con trecento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, alla espugnazione di Cremona; impresa giudicata facile, perché vi erano dentro poco piú di cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri mille elettissimi fanti tedeschi e trecento spagnuoli, pochissime artiglierie e minore copia di munizioni, non molta vettovaglia, il popolo della città, benché invilito e sbattuto, inimico, il castello contrario; il quale benché fusse stato separato dalla città con una trincea, nondimeno, per relazione di Annibale Picinardo castellano, si poteva sperare di torgli i fianchi, e però facilmente di espugnarla. Andò Malatesta con questi consigli a Cremona: per la partita del quale essendo diminuite le genti dello esercito, non stava il duca di Urbino con leggiero sospetto che le genti che erano in Milano non assaltassino una notte gli alloggiamenti, tanto erano lontane le cose dalla speranza della vittoria. Commettevansi nondimeno spessissime scaramuccie, per ordine di Giovanni de' Medici; nelle quali benché apparisse molto la sua ferocia e la sua virtú, e il valore de' fanti italiani stati oscuri insino che cominciorno a essere retti da lui; nondimeno non giovavano, anzi piú presto nocevano, alla somma della guerra, per le frequenti uccisioni de' fanti esercitati e di maggiore animo.
Ma in questo mezzo i successi avversi delle cose avevano indebolito molto dell'animo del pontefice, non bene proveduto di danari alla lunghezza, la quale già appariva, della guerra, né disposto a provederne con quegli modi che ricercava la importanza delle cose, e co' quali erano soliti a provederne gli altri pontefici, non era bene sicuro della fede del duca di Urbino, né confidava molto della sua virtú: ricevuta anche grandissima alterazione che nella declinazione delle cose avesse dimandato il capitanato generale, onore solito a dimandarsi piú presto per premio della vittoria. Ma lo turbava ancora molto piú il non si vedere che gli effetti del re di Francia corrispondessino alle obligazioni della lega, e a quello che ciascuno si era promesso di lui. Perché, oltre all'essere proceduto molto lentamente al pagamento de' quarantamila ducati per il primo mese, e la tardità usata alle provisioni necessarie per la espedizione de' svizzeri, non si vedeva preparazione alcuna per dare principio a muovere la guerra di là da' monti, allegando essere necessario che prima si facesse la intimazione a Cesare, secondo che si disponeva per i capitoli della confederazione; perché, facendo altrimenti, il re di Inghilterra, il quale aveva lega particolare con Cesare a difensione comune, per avventura lo aiuterebbe, ma fatta la intimazione cesserebbe questo rispetto; e che però prontamente moverebbe la guerra, e sperava che il re di Inghilterra farebbe il medesimo: il quale prometteva, subito che fusse fatta la intimazione, protestare a Cesare, e dipoi entrare nella confederazione fatta a Cugnach. Procedeva anche il re freddamente a preparare l'armata marittima, e, quel che manifestava piú l'animo suo, tardavano molto a passare i monti le cinquecento lancie le quali era obligato a mandare in Italia. E benché si allegasse procedere questa tardità o dalla negligenza de' franzesi o dalla impotenza de' danari e dal credito perduto negli anni prossimi co' mercatanti di Lione, o dallo essere le genti d'arme in grandissimo disordine per il danno ricevuto nella giornata di Pavia, e perché da poi avevano avuto niuno o pochissimi denari, in modo che, avendosi a rimettere quasi del tutto in ordine, non potevano espedirsi senza lunghezza di tempo, nondimeno chi considerava piú intrinsecamente i progressi delle cose cominciava a dubitare che il re avesse piú cara la lunghezza della guerra che la celerità della vittoria, dubitando (com'è piccola la fede e confidenza che è tra' príncipi) che gli italiani, ricuperato che avessino il ducato di Milano, tenendo piccolo conto degli interessi suoi, o non facessino senza lui concordia con Cesare o veramente fussino negligenti a travagliarlo in modo che avesse a restituirgli i figliuoli. Accresceva la sospensione del pontefice che il re di Inghilterra, ricercato di entrare nella confederazione, della quale era stato confortatore, non corrispondendo alle persuasioni e promesse che aveva fatto prima, dimandava, piú presto per interporre dilazione che per altra cagione, che i confederati si obligassino a pagargli i danari dovutogli da Cesare, e che lo stato e l'entrata promessagli nel regno di Napoli si trasferisse nel ducato di Milano. Temeva anche il pontefice che i Colonnesi, i quali con vari moti lo tenevano in continuo sospetto, con le forze del reame di Napoli non l'assaltassino. Però, raccolte insieme tutte le difficoltà, tutti i pericoli, faceva instanza co' collegati che, oltre al sollecitare ciascuno per la sua parte le provisioni terrestri e marittime espresse ne' capitoli della lega, si assaltasse comunemente il regno di Napoli con mille cavalli leggieri e dodicimila fanti e con qualche numero di gente d'arme; giudicando, per gli effetti succeduti insino a quel dí, che le cose non potessino succedere prosperamente se Cesare non fusse molestato in altro luogo che nel ducato di Milano.
Per le quali cagioni mandò al re di Francia Giovambatista Sanga romano, uno de' suoi secretari, per incitarlo a pigliare la guerra con maggiore caldezza, dimostrandogli quanto esso si trovasse esausto e impotente a continuare nelle spese medesime se non era anche soccorso da lui di qualche quantità di denari: che, non ostante che nella confederazione non fusse stato trattato di assaltare il reame di Napoli mentre durava la guerra di Lombardia, si disponesse a fare questa impresa di presente; alla quale benché i viniziani, per non si aggravare di tante spese, avessino da principio fatto difficoltà, nondimeno, vinti dalla sua instanza, avevano consentito di concorrervi, eziandio senza il re ma con tanto minore numero di gente quanto importava la sua porzione: che il re per questa cagione, oltre alle cinquecento lance, alle quali aveva disegnato per capo il marchese di Saluzzo, mosso piú, secondo diceva, dalla buona fortuna che dalla virtú dell'uomo, mandasse altre trecento lance in Lombardia, per poterne trasferire una parte nel reame di Napoli: che si sollecitasse la venuta dell'armata di mare, o per strignere con essa Genova o per voltarla al regno di Napoli; la quale benché dai franzesi fusse spedita con la medesima lentezza che si spedivano l'altre provisioni, nondimeno si andava continuamente sollecitando. Ed era l'armata del re quattro galeoni e sedici galee sottili, i viniziani tredici galee, il papa undici; della quale tutta era deputato capitano generale, a instanza del re, Pietro Navarra, non ostante che il papa avesse avuta piú inclinazione a Andrea Doria. Fu oltre a tutte queste [cose] commesso al Sanga, secretissimamente, che tentasse il re a fare la impresa di Milano per sé, per dargli cagione che con tutte le forze sue si risentisse alla guerra.
Ebbe anche il Sanga commissione di andare poi al re di Inghilterra, per domandargli sussidio di denari: con ciò sia che quel re, che da principio desiderava tanto la guerra contro a Cesare che se la lega si fusse trattata in Inghilterra, come egli ed Eboracense desideravano, si crede sarebbe entrato nella confederazione; ma non avendo patito il tempo e la necessità del castello di Milano che si facesse lunga pratica, poiché vidde fatta la lega per gli altri, gli parve potersi stare di mezzo come spettatore e giudice.
Trattava anche il pontefice, stimolato da' viniziani e non meno dal re di Francia, il quale a questo effetto aveva mandato il vescovo di Baiosa a Ferrara, di comporre le differenze con quello duca, benché piú presto in apparenza che in effetto; opponendogli diversi partiti, e tra gli altri di dargli Ravenna in contracambio di Modona e di Reggio: cosa disprezzata dal duca, non solo perché, avendo già preso animo dalla ritirata dello esercito dalle porte di Milano, si rendeva piú difficile che il solito a' partiti propostigli, e a questo di Ravenna specialmente; e per essere molto diverse le entrate, e perché questo gli pareva mezzo da farlo venire, a qualche tempo, in contenzione co' viniziani.
Cap. xi
Provvedimenti di Cesare per la guerra. Vani assalti di milizie dei collegati a Cremona. Deliberazione del duca d'Urbino di recarvisi con nuove milizie. Giudizi sfavorevoli intorno al modo con cui è stata condotta l'impresa contro Milano. Le armate veneziana, pontificia e francese dominano il mare intorno a Genova. Resa di Cremona.
Queste erano le pratiche le preparazioni e le opere de' confederati, differite interrotte e variate, secondo le forze secondo i fini e i consigli de' príncipi. Ma non era già in Cesare, le deliberazioni del quale dependevano da se stesso, né negligenza né irresoluzione di quello che comportassino le forze sue. Perché avendo il re di Francia, a instanza degli oratori de' confederati, denegato licenza al viceré (che la dimandò insino con le lacrime) di passare in Italia, egli, rifiutati doni di valore di ventimila ducati, se ne era ritornato in Spagna, portando seco (publicò lui) cedola di mano del re di Francia di essere parato all'osservanza dell'accordo di Madril, permutando la restituzione della Borgogna in pagamenti di due milioni di ducati: al ritorno del quale, Cesare, perduta ogni speranza che il re di Francia osservasse la capitolazione, deliberò mandarlo in Italia con una armata che portasse i fanti tedeschi, i quali in numero poco manco di tremila si stavano a Perpignano, e tanti altri fanti spagnuoli che in tutto facessino il numero di seimila; provedeva di mandare di nuovo a Milano centomila ducati, sollecitando la espedizione dell'armata, la quale non poteva essere sí presto perché, oltre al tempo che andava a metterla insieme e a preparare i fanti spagnuoli, era necessario pagare a' tedeschi centomila ducati de' quali erano creditori per gli stipendi passati; commetteva anche assiduamente in Germania che a Milano si mandasse soccorso di nuovi fanti, ma non vi provedendo a' denari per pagargli, ed essendo il fratello per la povertà sua impotente a provedergli, procedeva molto tardi questa espedizione.
E nondimeno la tardità e i successi poco prosperi de' confederati facevano che si potesse aspettare ogni dilazione. Perché Malatesta, condotto a Cremona, piantò, la notte de' sette di agosto, l'artiglierie alla porta della Mussa, giudicando quel luogo essere debole perché era male fiancheggiato e senza terrapieno; e volendo nel tempo medesimo dare lo assalto dalla banda del castello, giudicava a proposito battere in luogo lontano, perché fussino necessitati quegli di dentro a dividere tanto piú le genti loro. Nondimeno, battuto che ebbe, parendogli che quel luogo fusse forte e bene riparato, e (credo) la batteria fatta tanto alto che restava troppo eminente da terra l'altezza del muro, si risolvé di non gli dare lo assalto ma cominciare, con consiglio diverso, una batteria nuova vicina al castello, in luogo detto Santa Monica, dove già aveva battuto Federigo da Bozzole: e nel tempo medesimo faceva due trincee in su la piazza del castello, una che tirava a mano destra verso il Po, dove quegli di dentro avevano fatto due trincee; e sperava, con la sua, tôrre loro uno bastione al quale già si era avvicinato a sei braccia, il quale bastione quale già si era avvicinato a sei braccia, il quale bastione era nella prima trincea loro appresso alla muraglia della terra; e pigliandolo, disegnava servirsene per cavaliere a battere a lungo della muraglia dove batterono i franzesi. Però gli imperiali facevano un altro bastione dietro all'ultima trincea loro. L'altra trincea di Malatesta era da mano sinistra verso la muraglia, e già tanto vicina alla loro che si aggiugnevano co' sassi. E condotto le trincee al disegno suo, determinava fare la batteria. Né lo impedivano a fare lavorare l'artiglierie degli inimici, perché in Cremona non erano piú che quattro falconetti, poca munizione, e traevano molto poco. Nondimeno i fanti di dentro non restavano, uscendo fuora, di travagliare quegli che lavoravano alle trincee, mettendogli spesso, non ostante avessino grossa guardia, in molte difficoltà: donde Malatesta, quasi incerto di quello che avesse da fare, confondeva, con non molta sua laude, con vari giudíci scritti nelle sue lettere, i capitani dello esercito. I quali, vedendo la oppugnazione riuscire continuamente piú difficile, feciono andare nel campo suo mille dugento fanti tedeschi, condotti di nuovo dai viniziani a spese comuni del pontefice e loro, sotto Michele Gusmuier rebelle di Cesare e del fratello; e pochi dí poi, per provedere alla discordia ed emulazione che era tra Malatesta e Giulio Manfrone, vi andò dallo esercito con tremila fanti il proveditore Pesero, che di somma benivolenza era già diventato poco accetto al duca di Urbino. Ma la notte venendo i tredici dí di agosto, fece Malatesta piantare quattro pezzi di artiglieria tra la porta di santo Luca e il castello, per pigliare uno bastione; dove, essendosi battuto quasi tutto il dí, fece sboccare la trincea con speranza di pigliare la notte medesima il bastione. Ma alla quarta ora della notte, pochi fanti tedeschi assaltorno la guardia delle trincee che era, tra dentro e fuora, piú di mille fanti, e disordinati gli costrinseno ad abbandonarla (benché il dí seguente furono costretti a partirsene); in modo che la trincea, fatta con tanta fatica restò abbandonata dall'una parte e dall'altra. Ma la fortuna volle mostrarsi favorevole a quegli di fuori, se avessino saputo o conoscere o pigliare l'occasione: perché la notte, venendo i quindici, cascorono da se medesime circa cinquanta braccia di muraglia tra la porta di Santo Luca e il castello, insieme con uno pezzo della loro artiglieria; dove se con prestezza, venuto che fu il dí, si fusse presentata la battaglia erano quegli di dentro, spaventati da accidente sí improviso, senza speranza di resistere, perché il luogo dove arebbeno avuto a stare alla difesa restava scoperto dall'artiglieria del castello. Ma mentre che Malatesta tarda, prima a risolversi poi a mettere in ordine di dare lo assalto, i soldati, lavorando di dentro sollecitamente, e copertisi, la prima cosa, co' ripari dalla artiglieria del castello, si riparorono anche alla fronte degli inimici; in modo che quando fu presentato lo assalto, che erano già venti ore del dí, ancora che a quella banda si voltasse la maggiore parte del campo, nondimeno si accostorono, perché andavano troppo scoperti, con gravissimo danno; e accostatisi, erano, oltre all'altre difese, battuti da infiniti sassi gittati da quegli di dentro, in modo vi restò morto Giulio Manfrone il capitano Macone e molti altri soldati di condizione. Dettesi anche nel tempo medesimo un altro assalto per la via del castello, dove furno ributtati, benché con poco danno: ed era anche ordinato che alla batteria fatta da Santa Monica si desse un altro assalto, con ottanta uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille fanti; ma, avendo trovato il fosso pieno di acqua e il luogo bene fortificato, si ritirorono senza tentare. Sopravenne poi il proveditore Pesero, con tremila fanti italiani con piú di mille svizzeri e con nuova artiglieria, per potere fare due batterie gagliarde; in modo che, trovandosi piú di ottomila fanti, disegnavano fare due batterie, dando l'assalto a ciascuna con tremila fanti, e assaltare anche dalla parte del castello con dumila fanti: e avendo condotto in campo grandissima quantità di guastatori, lavoravano sollecitamente alle trincee; delle quali essendo spuntata una a' ventitré di agosto, ottenneno dopo lunga battaglia di coprire uno fianco degli inimici. La notte dipoi, precedente al dí vigesimo sesto, furno fatte due batterie; una guidata da Malatesta, di là dal luogo dove aveva battuto Federigo, l'altra alla porta della Mussa, guidata da Cammillo Orsino: l'una e l'altra delle quali ebbe poco successo; perché il terreno dove piantò Malatesta, per essere paludoso, non teneva ferma l'artiglieria, e acconsentendo, ogni volta che la tirava, i colpi battevano troppo alto; quella di Cammillo fu bassa, ma si trovò che vi era la fossa con l'acqua e tanti fianchi di archibusi che non si poteva andare innanzi. Però, ancora che non ostante queste difficoltà si desse la battaglia, si ricevé quivi molto danno; e benché dal canto di Malatesta i fanti si conducessino alla muraglia, passati una fossa dove era l'acqua dentro piú profonda che non si era inteso, furono facilmente ributtati. Fu anche dal canto del castello tirata giú una parte del cavaliere, e vi montorono su i fanti; ma la scesa dal lato di dentro era troppo alta, e avevano fatto gli imperiali da quella parte innanzi al castello tre mani di trincee con due mani di cavalieri e con fianchi, e dopo quegli ancora ripari: però da ogni banda, e da un altro canto ancora sotto uno riparo, furono ributtati gli assaltatori, che per tutto avevano assaltato con poco ordine e con piccolissimo danno degli inimici, morti e feriti molti di loro.
Costrinseno questi disordini e il perdersi la speranza di pigliare altrimenti Cremona (perché in quel campo mancava governo e obbedienza) il duca di Urbino a andarvi personalmente. Il quale, levato dello esercito che era intorno a Milano quasi tutti i fanti de' viniziani, e lasciatavi una parte delle genti d'arme con tutte le genti ecclesiastiche e i svizzeri, che erano già arrivati in numero di tredicimila, sprezzando (ora che vi restava minore numero di gente, e spogliata di uno capo di tale autorità) quello pericolo che prima, quando vi era egli con maggiori forze, dimostrava continuamente di temere, e affermando non essere uso di genti di guerra, e degli spagnuoli manco che degli altri, assaltare altre genti di guerra nella fortezza de' loro alloggiamenti, si condusse intorno a Cremona; disegnando di vincerla non per forza sola di batteria e di assalti, perché i ripari degli inimici erano troppo gagliardi, ma col cercare con numero grandissimo di guastatori accostarsi alle trincee e bastioni loro, e con la forza delle zappe piú che con l'armi insignorirsene.
Fu imputato il governo di questa impresa contro allo stato di Milano dai capitani imperiali in molte cose, e principalmente della ritirata da porta Romana, ma non manco dello avere tentata da principio debolmente e con poche forze la oppugnazione di Cremona, confidandosi vanamente che fusse facile il pigliarla, e che dipoi scoprendosi le difficoltà avessino, continuandola, impegnatovi tale parte dello esercito che avesse impedito loro le occasioni maggiori che nel tempo che si consumò quivi si presentorono. Perché, essendo già arrivato in campo il numero intero tanto desiderato de' svizzeri, si poteva facilmente, serrando Milano (secondo che sempre si era disegnato) con due eserciti, impedire la copia grande delle vettovaglie che per la via di Pavia continuamente vi entravano; le quali l'esercito solo che era a Lambrà, per avere a fare circuito grande, non poteva impedire. Ma molto piú importò perdere l'occasione che si aveva, forse, di sforzare Milano; perché nella gente che vi era dentro erano sopravenute tante infermità che, bastando con difficoltà quegli che erano sani a fare le fazioni e le guardie ordinarie, fu giudicio di molti, e degli imperiali medesimi, che se in quel tempo fussino stati travagliati strettamente portavano pericolo grande di non si perdere.
Ma maggiore e piú certa occasione era anche quella di pigliare Genova. Perché essendo l'armata viniziana congiunta con quella del pontefice a Civitavecchia, e di poi fermatesi nel porto di Livorno per aspettare l'armata franzese, la quale con sedici galee quattro galeoni e quattro altri navili, condotta nella riviera di ponente, aveva, per accordo anzi per volontà della città, ottenuta Savona e tutta la riviera di ponente, e presi dipoi piú navili carichi di grano che andavano a Genova, passò a Livorno a unirsi con l'altre. Erasi anche deliberato che, a spese comuni de' collegati, si armassino nel porto di Marsilia dodici navi grosse, o per assaltare, secondo il consiglio di Pietro Navarra, insieme con le galee franzesi, l'armata la quale si preparava nel porto di Cartagenia, o almeno per rincontrarla nel mare. Dove fatta vela le tre armate, a' ventinove di agosto, si fermorono l'ecclesiastica e la viniziana a Portofino, la franzese ritornò a Savona; donde senza contrasto, scorrendo tutti i mari, strignevano in modo Genova, dove era mancamento di vettovaglie, che non potendo entrarvi piú per mare cosa alcuna non è dubbio che, se si fusse mandato qualche numero di gente per la via di terra a impedire quello che era solo il loro rifugio, bisognava che Genova s'accordasse: né i capitani delle armate, ora con lettere ora con messi propri, facevano instanza di altro; chiedendo che almanco si mandassino per la via di terra quattromila fanti. Ma né del campo di Cremona si poteva levare gente, e parendo al duca e agli altri pericoloso il diminuire l'esercito che era a Milano, si intrattenevano con la speranza che, spedita Cremona, si manderebbe una banda di gente sufficiente.
La quale impresa (come era gagliarda la virtú de' difensori, e come le opere grandi che si fanno co' guastatori ricercano molto tempo) procedeva ogni dí con maggiore lunghezza che non era stato creduto. Perché il duca, avendo voluto avere in campo dumila guastatori, molte artiglierie e munizioni e grandissima copia di instrumenti atti a lavorare, di ogni sorte, faceva assiduamente lavorare nelle trincee del castello e al bastione di verso il Po, per guadagnarlo e servirsene per cavaliere; ancora che gli inimici, avendone dubitato piú dí, si erano tirati addietro con uno riparo gagliardo. E si lavorava ancora alle due teste della trincea che attraversava la piazza del castello, per rovinare i cavalieri che vi avevano; e tra le due trincee del campo si lavorava un'altra trincea larga sei braccia, coprendosi col terreno, innanzi e dal lato, per fare uno cavaliere, come si arrivasse alla fossa della trincea degli inimici. Lavoravasi ancora uno fosso fuora del castello verso il muro della terra, per andare a trovare il bastione di verso la muraglia rovinata; e dalla porta di Santo Luca insino alla muraglia medesima si lavorava un altra trincea, né si cessava di battere con l'artiglierie piantate nel castello i ripari degli inimici; i quali per la malignità del terreno, che era terra molto trita, erano passati facilmente da quelle: non stando anco oziosi quegli di dentro, perché, per diffidenza di potere tenere lungamente le loro trincee e cavalieri, lavoravano uno fosso verso le case della città; e nondimeno uscivano spesso fuora con molto vigore, assaltando i lavori. E la notte venendo i sette, assaltorno le trincee che si lavoravano dalla banda del castello, da tre parti: dove trovato i fanti che le guardavano quasi tutti a dormire ne ammazzorono piú di cento e parecchi capitani, e si condussero insino al rivellino del castello. E nondimeno le cose loro continuamente si strignevano. Perché fattosi il duca d'Urbino la via con le trincee insino a' ripari loro, che separavano il castello dalla città, assaltandogli dipoi con qualche scoppiettiere e con qualche buono soldato coperto con gli scudi, faceva loro grande danno; e l'artiglieria anche, dalle torri del castello, faceva il medesimo. Però gli imperiali abbruciorono il loro riparo che si faceva di contro al cavaliere, perché non fusse parapetto a quelli di fuora; ed essendosi, a' diciannove, sboccate due trincee nelle fosse loro, si ritiravano con altre trincee: delle quali il duca d'Urbino teneva poco conto, perché per la brevità del tempo non potevano essere bene fortificate e perché, ritirandosi piú al largo, era necessaria a difenderle maggiore guardia; e nondimeno dalla banda del campo, se bene le opere fussino finite, si procedeva con qualche lentezza, essendo necessario riordinare e rinnovare i fanti de' viniziani, stati molto tempo senza danari e però diminuiti molto di numero, sopravenendo sempre nelle cose de' collegati disordine sopra disordine. A che mentre si attendeva uscivano spesso la notte a tentare le trincee, ma indarno, perché l'esperienza della percossa ricevuta aveva insegnato agli altri. Ma ricondotti i fanti a bastanza, cominciò il duca di Urbino, a' ventidue, a battere a una torre a canto alla batteria di Federigo; dove avendo battuto pochissimi colpi, conoscendo gli inimici essere ridotti in termine che non potevano ricusare di accordarsi, mandò dentro uno trombetto a ricercare la città, col quale usciti fuora uno capitano tedesco uno capitano spagnuolo e Guido Vaina, il dí seguente fu fatta capitolazione: che, non avendo soccorso per tutto il mese, avessino a lasciare Cremona, e che a' tedeschi fusse permesso andarsene in Germania, agli spagnuoli nel regno di Napoli, promettendo non andare fra quattro mesi alla difesa dello stato di Milano; lasciassino tutte le artiglierie e munizioni, e partissinsi con le bandiere serrate senza sonare tamburi o trombe, eccetto che nel levarsi.
Cap. xii
Risultato delle pratiche del pontefice coi re di Francia e d'Inghilterra. Grigioni al servizio dei collegati. Tiepide azioni di guerra fra gli avversari in Lombardia. Gravezze dei fiorentini e molestie dei senesi.
Aveva in questo mezzo il re di Francia, alla corte del quale si fermò, pochi dí poi, come legato, il cardinale de' Salviati, partitosi di Spagna con licenza di Cesare, risposto alle richieste fattegli in nome del pontefice, escusandosi se le opere non sarebbono eguali alla volontà, per essere molto esausto di danari; ma nondimeno, se gli concedeva facoltà di riscuotere una decima dell'entrate beneficiali per tutto il regno, lo sovverrebbe, con una parte de' danari che se ne riscotessino, di ventimila ducati il mese, e che concorrerebbe alla guerra di Napoli: cosa che ebbe molta dilazione, perché il pontefice, allegando la degnità della sedia apostolica, recusava di concederla. Denegava, benché da principio vi dimostrasse inclinazione, di attendere per sé all'acquisto del ducato di Milano, dissuadendonelo massime Lautrech e la madre: del rompere la guerra di là da' monti dava speranza, ma diceva (il che si negava) essere necessario che precedesse la intimazione; la quale fatta, offeriva di muovere la guerra a' confini della Fiandra e di Perpignano, benché si comprendeva non v'avesse disposizione, non essendo in questo diverso l'animo suo da quello del re di Inghilterra. Appresso al quale l'espedizione fatta per parte del pontefice fece piccolissimo frutto: perché volendo il cardinale eboracense intrattenere ciascuno ed essere pregato da tutti, non procedevano a conclusione alcuna; anzi e il re e il cardinale rispondevano spesso: - A noi non appartengono le cose di Italia. - Anzi il re di Francia offeriva, consentendogli il pontefice le decime, volere convertire tutti i danari nella guerra di Italia; non lo consentendo, ne offeriva il mese ventimila, con condizione che non si spendessino se non o contro a Milano o contro al regno di Napoli.
Nel quale tempo temendosi che i grigioni, i quali nell'assedio del castello di Milano avevano recuperato e spianato Chiavenna, non si conducessino col duca di Borbone, o almanco permettessino che i tedeschi che si aspettavano al soccorso suo passassino per il paese loro, il pontefice e i viniziani si obligorno di condurre dumila fanti grigioni agli stipendi loro, pagare al castellano di Mus (il quale, temendo del duca di Milano quando venne nell'esercito, si era fuggito di campo, e dipoi, pretendendo essere creditore per i pagamenti fatti a' svizzeri, aveva fatti prigioni due imbasciadori viniziani che andavano in Francia) ducati cinquemila cinquecento che sforzati gli avevano promessi, restituirne a loro altrettanti che aveva estorti; fargli liberare da' dazi nuovi imposti a chi navigava per il lago di Como da lui. I quali si obligorno di impedire il passo a tedeschi, e operorno che Tegane, condotto dal duca di Borbone con dumila fanti, non andasse.
Ma intanto procedevano l'altre cose di Lombardia tiepidamente. Perché l'esercito intorno a Milano, nel quale era diminuito molto il numero, ma non le paghe, de' svizzeri, stava ozioso, non facendo altro che le consuete scaramuccie. Piú sollecite e maggiori molestie partorivano l'opere degli spagnuoli che erano in Carpi; i quali, avendo tacitamente avvisi di spie e comodità di ricetti nel territorio del duca di Ferrara, davano impedimento grandissimo a' corrieri e all'altre persone che andavano all'esercito; e correndo per tutti i paesi circostanti, insino nel bolognese e nel mantovano, non però contro ad altri che contro a' sudditi ecclesiastici, facevano danni innumerabili. Era pure, finalmente, il marchese di Saluzzo con le cinquecento lancie franzesi passato nel Piemonte; per la venuta del quale Fabrizio Maramaus, che posto a campo a Valenza, nella quale era a guardia Giovanni da Birago, la batteva con l'artiglierie, si ritirò a Basignana: ma recusando il marchese passare piú innanzi se dai confederati non gli erano pagati, per eguale porzione, quattromila fanti, i quali aveva con questa intenzione menati di Francia, e facendone il re grandissima instanza, per sicurtà delle sue genti d'arme e per maggiore riputazione del marchese, fu necessario acconsentirlo. Occupò nel tempo medesimo Sinibaldo dal Fiesco la terra di Pontriemoli, posseduta da Sforzino; ma con la medesima facilità fu presto recuperata per mezzo della rocca. In Milano pativano assai di danari, perché da Cesare non ne veniva provisione alcuna; e la povertà e le spese intollerabili de' milanesi erano tali che con difficoltà si riscotevano i trentamila ducati stati promessi dal popolo al duca di Borbone: col quale si condussono, per non essere accettati agli stipendi de' confederati per le spese grandissime che avevano, Galeazzo da Birago e Lodovico conte da Belgioioso i quali insino a quel dí avevano in ogni accidente seguitata la parte franzese. Giovanni da Birago occupò Novi. Ne' quali movimenti lo stato del marchese di Mantova era come comune a ciascuno, scusandosi per essere soldato del pontefice e feudatario di Cesare; anzi, essendo propinqua al fine la condotta sua, si ricondusse per altri quattro anni col pontefice e co' fiorentini, con espressa condizione di non essere tenuto di fare né con la persona né con lo stato suo contro a Cesare: benché nel principio della guerra avesse desiderato di andare personalmente nello esercito; il che non piacendo al pontefice perché non confidava del suo governo, gli aveva risposto che, essendo feudatario di Cesare, non voleva metterlo in questo pericolo.
Questo era allora lo stato delle cose di Lombardia. In Toscana i fiorentini, non avendo né eserciti né armi nel territorio loro, sentivano con lo spendere le molestie della guerra; [perché il pontefice], non avendo co' modi ordinari danari, e ostinato a non ne provedere con gli estraordinari, lasciava con grandissima empietà addosso a loro quasi tutte le spese che si facevano in Lombardia. I sanesi non stavano senza molestia nelle parti marittime, perché Andrea Doria, il quale da principio aveva occupato Talamone e Portoercole, gli faceva continuamente guardare, benché Talamone, non molto poi, dal capitano preposto alla guardia fusse dato a' sanesi; e i fuorusciti, fomentati dal pontefice, facevano nella Maremma qualche molestia: nella quale Giampaolo figliuolo di Renzo da Ceri, soldato del pontefice, presa furtivamente con alcuni cavalli la porta della terra di Orbatello, sopravenendo poi con i suoi cavalli e fanti occupò la terra.
Cap. xiii
Capitolazione fra il pontefice ed i Colonna. Notizia della vittoria dei turchi sugli ungheresi; effetti sul pontefice. Perfidia dei Colonnesi contro il pontefice; tumulto provocato in Roma; tregua fra il pontefice, gli imperiali ed i Colonnesi. Conseguenza di essa in Lombardia; partenza dei soldati tedeschi e spagnuoli da Cremona.
Ma a Roma succederono cose di grandissimo momento, causate non per virtú di armi ma per
insidie e per fraude, con ignominia grande del pontefice e con disordinare le speranze di Lombardia; dove si sperava, per l'acquisto di Cremona, condurre a fine la impresa di Genova e di potere, secondo i disegni fatti prima, fare due diversi alloggiamenti intorno a Milano. Perché dopo la rotta ricevuta a Siena, non sperando il pontefice potere travagliare con grandi effetti i Colonnesi, e avendo volto l'animo ad assaltare con maggiori forze, come è detto, il regno di Napoli, e da altro canto non sperando i Colonnesi né gli agenti di Cesare potere fare effetti notabili contro a lui, e desiderando ancora di torgli tempo insino a tanto venisse il viceré con l'armata di Spagna, mandato a Roma Vespasiano Colonna, alla fede del quale il papa credette, avevano, a' ventidue di agosto, capitolato insieme: che i Colonnesi rendessino Anagnia e gli altri luoghi presi; ritirassino le genti nel reame di Napoli, né tenessino piú soldati nelle terre le quali posseggono nel dominio ecclesiastico; non pigliassino l'armi a offesa del pontefice se non come soldati di Cesare, nel quale caso fussino tenuti a deporre in mano del pontefice gli stati che hanno nella giurisdizione ecclesiastica; potessino liberamente servire Cesare contro a ciascuno alla difensione del reame napoletano; e da altro canto il pontefice perdonasse a tutti l'offese fatte, abolisse il monitorio fatto al cardinale Colonna, non offendesse gli stati loro né gli lasciasse offendere dagli Orsini. Sotto la quale capitolazione mentre che il papa, tenendo conto piú che di altro della fede di Vespasiano, incauto si riposa, avendo licenziato i cavalli e quasi tutti i fanti che aveva soldato, e quegli pochi che gli restavano mandati ad alloggiare nelle terre circostanti, e raffreddato anche i disegni dello assaltare il regno di Napoli, le spesse querele e protesti che avevano da Cremona e da Genova (donde era significato che, se i progressi de' confederati non si interrompevano con potente diversione, quelle città non potevano piú sostenersi); però, non avendo modo a fare scopertamente guerra gagliarda e che partorisse rimedi sí subiti, volsono l'animo e i pensieri a opprimere con insidie il pontefice.
Le quali mentre che si preparano, acciò che alla afflizione che aveva per le cose proprie si aggiugnesse anche l'afflizione per le cose publiche, sopravenneno nuove che Solimanno ottomanno principe de' turchi aveva rotto in battaglia ordinata Lodovico re di Ungheria, conseguendo la vittoria non manco per la temerità degli inimici che per le forze sue; perché gli ungheri, ancora che pochissimi di numero a comparazione di tanti inimici, confidatisi piú nelle vittorie avute qualche volta per il passato contro a' turchi che nelle cose presenti, persuasono al re, giovane di età ma di consiglio anche inferiore alla età, che per non oscurare la fama e l'antica gloria militare de' popoli suoi, non aspettato il soccorso che veniva di Transilvania, si facesse incontro agli inimici, non recusando anche di combattere in campagna aperta, nella quale i turchi per la moltitudine innumerabile de' cavalli sono quasi invitti. Corrispose adunque l'evento alla temerità e imprudenza: fu rotto l'esercito raccolto di tutta la nobiltà e uomini valorosi di Ungheria, commessa di loro grandissima uccisione, morto il re medesimo e molti de' principali prelati e baroni del regno. Per la quale vittoria tenendosi per certo che il turco avesse a stabilire per sé tutto il regno di Ungheria con grandissimo pregiudizio di tutta la cristianità, della quale quello reame era stato moltissimi anni lo scudo e lo antemurale, si commosse il pontefice maravigliosamente: come negli animi già perturbati e afflitti fanno maggiore impressione i nuovi dispiaceri che non fanno negli animi vacui dalle altre passioni. Però, rivolgendo nella mente sua nuovi pensieri, e dimostrando ne' gesti nelle parole e nella effigie del volto smisurato dolore, chiamati i cardinali in concistorio, si lamentò efficacissimamente con loro di tanto danno e ignominia della republica cristiana; alla quale non era mancato egli di provedere, sí col confortare e supplicare assiduamente i príncipi cristiani della pace sí col soccorrere in tanti altri gravi bisogni suoi quel regno di non piccola quantità di denari. Essere stata, per la difesa di quel regno e per il pericolo del resto de' cristiani, molto incomoda e importuna la guerra presente, e averlo egli detto e conosciuto insino da principio; ma la necessità averlo indotto (poiché vedeva essere sprezzate tutte le condizioni oneste della quiete e sicurtà della sedia apostolica e di Italia) a pigliare l'armi, contro a quello che sempre era stata sua intenzione: perché e la neutralità usata per lui innanzi a questa necessità, e le condizioni della lega che aveva fatta, risguardanti tutte al benefizio comune, dimostrare a bastanza non lo avere mosso alcuna considerazione degli interessi propri e particolari suoi e della sua casa. Ma poiché a Dio, forse a qualche buono fine, era piaciuto che e' fusse ferito il corpo della cristianità, e in tempo che tutti gli altri membri di questo corpo erano distratti da altri pensieri che da quello della salute comune, credere la volontà sua essere che per altra via si cercasse di sanare sí grave infermità. E però, toccando questa cura piú allo offizio suo pastorale che ad alcuno altro, avere disposto, posposte tutte le considerazioni della incomodità del pericolo e della dignità sua, procurata il piú presto potesse e con qualunque condizione una sospensione dell'armi in Italia, salire in su l'armata e andare personalmente a trovare i príncipi cristiani, per ottenere da loro, con persuasioni con prieghi con lagrime, la pace universale de' cristiani. Confortare i cardinali ad accingersi a questa espedizione, e ad aiutare il padre comune in sí pietoso offizio; pregare Dio che fusse favorevole a sí santa opera: la quale quando per i peccati comuni non si potesse condurre a perfezione, gli piacesse almeno concedergli grazia che, nel trattarla, innanzi ne fusse escluso dalla speranza gli sopravenisse la morte; perché nissuna infelicità nissuna miseria gli potrebbe essere maggiore che perdere la speranza e la facoltà di potere porgere la mano salutare in incendio tanto pernicioso e tanto pestifero. Fu udita con grande attenzione ed eziandio con non minore compassione la proposta del pontefice, e commendata molto; ma sarebbe stata commendata anche molto piú se le parole sue avessino avuta tanta fede quanta in sé avevano degnità; perché la maggiore parte de' cardinali interpretava che, avendo prese l'armi contro a Cesare nel tempo che già, per le preparazioni palesi de' turchi, era imminente e manifesto il pericolo dell'Ungheria, lo commovesse piú la difficoltà nella quale era ridotta la guerra che il pericolo di quel reame: di che non si potette fare vera esperienza.
Perché i Colonnesi, cominciando a eseguire la perfidia disegnata, avevano mandato Cesare Filettino seguace loro con dumila fanti ad Anagnia, dove per il pontefice erano dugento fanti pagati; con dimostrazione, per occultare i loro pensieri, di volere pigliare quella terra. Ma avendo in fatto altro animo, occupati tutti i passi, e fatto estrema diligenza che a Roma non venissino altri avvisi de' progressi loro, raccolte le genti mandate intorno ad Anagnia, e con quelle e con l'altre loro, che erano in tutto circa ottocento cavalli e tremila fanti, ma quasi tutte genti comandate, camminando con grande celerità, né si presentendo in Roma cosa alcuna della venuta loro, arrivativi la notte che precedeva il dí vigesimo di settembre, preseno improvisamente tre porte di Roma; ed entrati per quella di San Giovanni Laterano, essendovi in persona non solo Ascanio e don Ugo di Moncada, perché il duca di Sessa era morto molti giorni innanzi a Marino, ma ancora Vespasiano, stato mezzano della concordia e interpositore, per sé e tutti gli altri, della sua fede, e il cardinale Pompeio Colonna, traportato tanto dalla ambizione e dal furore che avesse cospirato nella morte violenta del pontefice, disegnando anche, come fu comune e costante opinione, costretti con la violenza e con l'armi i cardinali a eleggerlo, occupare con le mani sanguinose e con l'operazioni scelerate e sacrileghe la sedia vacante del pontefice. Il quale, intesa che già era giorno la venuta loro, che già erano raccolti intorno a San Cosimo e Damiano, pieno di terrore e di confusione, cercava, vanamente, di provedere a questo tumulto; perché né aveva forze proprie da difendersi, né il popolo di Roma, parte lieto de' suoi sinistri parte giudicando non attenere a sé il danno publico, faceva segno di muoversi. Perciò, accresciuto l'animo degli inimici, venuti innanzi, si fermorono con tutte le genti a Santo Apostolo, donde spinseno per ponte Sisto in Trastevere circa cinquecento fanti con qualche cavallo; i quali, ributtato dopo qualche resistenza Stefano Colonna di Pilestrina dal portone di Santo Spirito, che soldato del pontefice era ridotto quivi con dugento fanti, si indirizzorono per Borgo vecchio alla volta di San Piero e del palazzo pontificale, essendovi ancora dentro il pontefice. Il quale, invano chiamando l'aiuto di Dio e degli uomini, inclinando a morire nella sua sedia, si preparava, come già aveva fatto Bonifazio ottavo nello insulto di Sciarra Colonna, di collocarsi con l'abito e con gli ornamenti pontificali nella cattedra pontificale; ma rimosso con difficoltà grande da questo proposito dai cardinali che gli erano intorno, che lo scongiuravano a muoversi, se non per sé almanco per la salute di quella sedia e perché nella persona del suo vicario non fusse sí sceleratamente offeso l'onore di Dio, si ritirò insieme con alcuni di loro, de' suoi piú confidenti, in Castello, a ore diciassette, e in tempo che già non solo i fanti e i cavalli venuti prima ma eziandio tutto il resto della gente saccheggiavano il palazzo e le cose e ornamenti sagri della chiesa di San Piero: non avendo maggiore rispetto alla maestà della religione e allo orrore del sacrilegio che avessino avuto i turchi nelle chiese del regno di Ungheria. Entrorono dipoi nel Borgo, del qual saccheggiorono circa la terza parte; non procedendo piú oltre per timore dell'artiglierie del Castello. Sedato poi il tumulto, che durò poco piú di tre ore perché in Roma non fu fatto danno o molestia alcuna, don Ugo, sotto la fede del pontefice e ricevuti per statichi della sicurtà sua i cardinali Cibo e Ridolfi nipoti cugini del pontefice, andò a parlargli in Castello; dove usate parole convenienti a vincitore, propose condizioni di tregua. Sopra che, essendo differita la risposta al dí seguente, fu conchiusa la concordia, cioè tregua, tra il pontefice in nome suo e de' confederati e tra Cesare, per quattro mesi, con disdetta di due altri mesi, e con facoltà a' confederati di entrarvi infra due mesi; nella quale fussino inclusi non solo lo stato ecclesiastico e il regno di Napoli ma eziandio il ducato di Milano i fiorentini i genovesi i sanesi e il duca di Ferrara, e tutti i sudditi della Chiesa mediate e immediate. Fusse obligato il pontefice ritirare subito di qua da Po le genti sue che erano intorno a Milano, e rivocare dall'armata Andrea Doria con le sue galee, e gli imperiali e i Colonnesi a levare le genti di Roma e di tutto lo stato della Chiesa e ritirarle nel reame di Napoli; perdonare a Colonnesi e a chiunque fusse intervenuto in questo insulto; dare per statichi della osservanza Filippo Strozzi e uno de' figliuoli di Iacopo Salviati, il quale si obligò a mandarlo a Napoli infra due mesi, sotto pena di trentamila ducati. Alla quale tregua concorse l'una parte e l'altra cupidamente: il pontefice per non essere in Castello vettovaglia da sostentarsi; don Ugo, benché reclamando i Colonnesi, perché gli pareva fatto assai a benefizio di Cesare, e perché quasi tutta la gente con che era entrato in Roma, carica della preda, si era dissipata in diverse parti.
Da questa tregua si interroppeno tutti i disegni di Lombardia e tutto il frutto della vittoria di Cremona: perché non ostante che, quasi ne' medesimi dí, arrivasse allo esercito con le lancie franzesi il marchese di Saluzzo, nondimeno, mancando le genti del pontefice, che per la tregua, il settimo dí di ottobre, si ritirorono la maggiore parte a Piacenza, si disordinò non meno il disegno del mandare gente a Genova che il disegno fatto di strignere Milano con due eserciti. Dette anche qualche disturbo che il duca d'Urbino, fatto che ebbe l'accordo con quegli di Cremona, non aspettata la consegnazione andò in mantovano, ancora che già sapesse la tregua fatta a Roma, a vedere la moglie; e avendo consentito alle genti che erano in Cremona prorogazione di tempo a partirsi, aspettò la partita loro intorno a Cremona tanto tempo che non fu allo esercito prima che a mezzo il mese di ottobre, con gravissimo detrimento di tutte le faccende; perché si trattava di mandare gente a Genova, ricercate piú che mai da Pietro Navarra e dal proveditore dell'armata viniziana, ed essendo nello esercito, ricongiunte vi fussino le genti viniziane, tante forze che bastavano a fare questo effetto senza partirsi di quello alloggiamento. Perché e col marchese di Saluzzo erano venute cinquecento lancie e quattromila fanti, e vi si aspettavano di giorno in giorno i duemila fanti grigioni condotti per l'accordo che si fece con loro; e il pontefice, ancora che facesse palese dimostrazione di volere osservare la tregua, nondimeno, avendo occultamente diversa intenzione, aveva lasciato nello esercito quattromila fanti sotto Giovanni de' Medici, sotto pretesto che fussino pagati dal re di Francia: scusa che aveva apparente colore, perché Giovanni de' Medici era continuamente soldato del re, e sotto suo nome riteneva la compagnia delle genti d'arme. Partironsi finalmente le genti di Cremona, della quale città fu consegnata la possessione a Francesco Sforza; e i tedeschi col capitano Curadino se ne andorono alla volta di Trento: ma i cavalli e i fanti spagnuoli, avendo passato Po per tornarsene nel regno di Napoli, ed essendo fatta loro qualche difficoltà dal luogotenente di concedere le patenti e i salvocondotti sufficienti (perché era molesto al pontefice che andassino a Napoli), preso allo improviso il cammino per la montagna di Parma e di Piacenza, e dipoi ripassato con celerità il Po alla Chiarella, si condussono salvi nella Lomellina e dipoi a Milano. Né solo partí dalle mura di Milano, per l'osservanza della tregua, il luogotenente con le genti del pontefice, ma eziandio si discostò da Genova Andrea Doria con le sue galee: contro alle quali erano, pochi dí prima, usciti di Genova seimila fanti tra pagati e volontari (perché in Genova erano quattromila fanti pagati), con ordine di assaltare prima secento fanti, i quali con Filippino dal Fiesco erano in terra, sperando che rotti quegli le galee, perché il mare era molto turbato, non si potessino salvare; ma Filippino aveva fatto, nella sommità delle montagne appresso a Portofino, tali fortificazioni di ripari e di bastioni che gli costrinse a ritirarsi con non piccolo danno. E nondimeno, non molti dí poi, non so sotto quale colore, Andrea Doria con sei galee ritornò a Portofino, per continuare insieme con gli altri nell'assedio marittimo di Genova.
Cap. xiv
Intimazione a Cesare della lega conclusa fra il pontefice il re di Francia ed i veneziani. Spostamenti delle milizie dei collegati in Lombardia. Il Frondsperg raccoglie in Germania milizie per scendere in Italia; nuove deliberazioni del duca d'Urbino.
Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano con vari eventi in Italia, gli oratori del pontefice del re di Francia e de' viniziani intimorono il quarto dí di settembre (tanta dilazione era stata interposta a fare questo atto), a Cesare la lega fatta, e la facoltà che gli era data di entrarvi con le condizioni espresse ne' capitoli; al quale atto essendo stato presente l'oratore del re di Inghilterra, gli dette una lettera del suo re che lo confortava modestamente a entrare nella lega. Il quale, udita la intimazione, rispose agli imbasciadori, non comportare la degnità sua che entrasse in una confederazione fatta principalmente contro allo stato e onore suo; ma che, essendo stato sempre dispostissimo alla pace universale, di che aveva fatto dimostrazione sí evidente, si offeriva a farla di presente se essi avevano i mandati sufficienti: da che si credeva avesse l'animo alieno, ma che proponesse questa pratica per maggiore sua giustificazione, e per dare causa al re di Inghilterra di soprasedere l'entrare nella lega; raffreddare con questa speranza le provisioni de' collegati; e indurre poi, co' mezzi del trattarla, qualche gelosia e diffidenza tra loro. E nondimeno sollecitava da altro canto le provisioni dell'armata, che si diceva essere di quaranta navi e di seimila fanti pagati. Per sollecitare la partita della quale, che si metteva insieme nel porto tanto memorabile di Cartagenia, partí a' ventiquattro dí di settembre dalla corte il viceré; dimostrandosi Cesare molto piú pronto e piú sollecito alle faccende che non faceva il re di Francia: il quale, ancora che stretto da interessi sí gravi, consumava la maggiore parte del tempo in piaceri di caccie di balli e di intrattenimenti di donne. I figliuoli del quale, disperata la osservanza dell'accordo, erano stati condotti a Vagliadulit. Costrinse la venuta di questa armata il pontefice, sospettoso della fede del viceré e degli spagnuoli, ad armarsi. Però non solo chiamò a Roma Vitello con la compagnia sua e de' nipoti, ma eziandio cento uomini d'arme del marchese di Mantova e cento cavalli leggieri di Pieromaria Rosso, e dallo esercito gli furono mandati dumila svizzeri a spese sue e tremila fanti italiani; e nondimeno continuava in affermare di volere andare in Spagna ad abboccarsi con Cesare: da che lo dissuadevano quasi tutti i cardinali, massime non andando a cosa certa, e confortandolo a mandare prima legati.
Ritornato il duca d'Urbino all'esercito, e senza speranza alcuna di ottenere o con la forza dell'armi o con la fame Milano, e facendo i capitani dell'armate grandissima instanza che si mandassino genti a molestare per terra Genova, deliberò, per potere fare questo effetto, discostarsi con l'esercito dalle mura di Milano; ma disposte le cose in modo che continuamente fussino impedite le vettovaglie che andassino a quella città. Però dette principio alla fortificazione di Moncia, per potervi lasciare genti le quali attendessino a molestare le vettovaglie che si conducevano del monte di Brianza e di altri luoghi circostanti; e fortificata l'avesse, trasferire l'esercito in uno alloggiamento donde si impedissino le vettovaglie che continuamente vi andavano da Biagrassa e da Pavia: il quale alloggiamento come fusse fortificato, andasse verso Genova il marchese di Saluzzo co' fanti suoi e con una banda di svizzeri. Ma essendo, o per arte o per natura del duca, tali queste deliberazioni che non si potevano mettere a esecuzione se non con lunghezza molto maggiore che non conveniva allo stato delle cose e alla necessità nella quale era Genova, ridotta in tanta estremità di vettovaglie che con difficoltà si poteva piú sostenere, né mancando a ottenerla altro che il dare impedimento alle vettovaglie che vi si conducevano per terra, non si conducevano le cose disegnate a effetto; non ostante che nello esercito si trovassino quattromila svizzeri, dumila grigioni, quattromila fanti del marchese di Saluzzo, quattromila pagati dal pontefice sotto Giovanni de' Medici, e i fanti de' viniziani; i quali secondo gli oblighi e secondo l'affermazione loro erano diecimila, ma secondo la verità numero molto minore. Levossi finalmente lo esercito, l'ultimo dí di ottobre, dallo alloggiamento nel quale era stato lungamente, e si ridusse a Pioltello, lontano cinque miglia dal primo alloggiamento; essendosi nel levare fatto una grossa scaramuccia con quegli di Milano, co' quali uscí Borbone in persona. Ed era la intenzione del duca soprastare a Pioltello tanto che fusse dato fine alla fortificazione di Moncia, nella quale pensava lasciare dumila fanti con alcuni cavalli, e dipoi condursi a Marignano; dove deliberato l'altro alloggiamento, e presolo e fortificato, e forse prima, secondo diceva, preso Biagrassa, mandare dipoi le genti a Genova: cose di tanta lunghezza che davano giustissima cagione o di accusarlo di timidità o di avere sospetto di qualche fine piú importante, non ostante che egli allegasse per parte di sua scusa le male provisioni de' viniziani; i quali non pagando i fanti a' tempi debiti non avevano mai se non molto difettivo il numero promettevano, e partendosene, di quegli che avevano, sempre, per il soprastare delle paghe, molti, erano necessitati rimetterne di nuovo molti quando davano la paga: in modo che, come verissimamente diceva, aveva sempre una nuova milizia e uno nuovo esercito.
Ma quella dilazione, che insino a qui pareva stata volontaria, cominciò ad avere cagione e colore di necessità. Perché, dopo molte pratiche tenute in Germania di mandare soccorso di fanti in Italia, le quali per la impotenza dello arciduca e per non avere Cesare mandatovi provisione di danari erano state vane, Giorgio Fronspergh, affezionato alle cose di Cesare e alla gloria della sua nazione, e che due volte capitano di grosse bande di fanti era stato con somma laude in Italia per Cesare contro a' franzesi, deliberato con le facoltà private sostenere quello in che mancavano i príncipi, concitò con l'autorità sua molti fanti e col mostrare la occasione grande di predare e di arricchirsi in Italia, che, con ricevere da lui uno scudo per uno, lo seguitassino al soccorso di Cesare; e ottenuto dallo arciduca sussidio di artiglierie e di cavalli si preparava a passare, facendo la massa di tutte le genti tra Bolzano e Marano. In Lomellina erano stati qualche mese cavalli e fanti della lega. La fama del quale apparato, penetrata in Italia, dette cagione al duca di Urbino di levare il pensiero da molestare Genova, ridotta quasi in ultima estremità; non ostante che Andrea Doria, diminuite le dimande [fatte] prima, non facesse instanza di avere piú di mille cinquecento fanti, disegnando di farne egli altrettanti: i quali anche il duca gli negò, allegando per scusa la necessità che aveva avuto di fare andare dallo esercito mille cinquecento fanti de' viniziani in vicentino, per timore che i viniziani avevano che il soccorso tedesco non si dirizzasse a quel cammino; la quale opinione il duca confutava, persuadendosi farebbeno la via di Lecco. Per la quale cagione stava fermo a Pioltello, per essere piú propinquo a Adda; publicando volere andare a incontrargli e combattere con loro di là da Adda, all'uscita di Valle di Sarsina.
Cap. xv
Nuovi inviati del pontefice al re di Francia; trattative con lui e col re d'Inghilterra. Milizie pontificie contro le terre dei Colonna. Vani tentativi di trattative del pontefice col duca di Ferrara. L'esercito del Frondspergh nel mantovano; deliberazioni del duca d'Urbino.
Cosí, cominciando a tornare in nuove e maggiori difficoltà le cose di Lombardia, era anche acceso nuovo fuoco in terra di Roma. Perché il pontefice, costernato di animo per lo accidente de' Colonnesi, inclinato con l'animo alla pace, e allo andare con l'armata a Nerbona per trattarla personalmente con Cesare, aveva, subito partiti che furono gli inimici di Roma, mandato Paolo da Arezzo suo cameriere al re di Francia perché, con consentimento suo, passasse a Cesare, per la pratica della pace e per fare anche intendere al re le sue necessità e i suoi pericoli e dimandargli centomila ducati per sua difesa. Nelle quali cose era tanto discordante da se medesimo che, volendo dal re denari e maggiore prontezza alla guerra, non solo gli negava le decime, instando di volerne per sé la metà (il che il re recusava, dicendo non si essere mai costumato nel reame di Francia), ma ancora non si risolveva a creare cardinale il gran cancelliere; il quale, per l'autorità che aveva ne' consigli del re, e perché per sua mano passavano tutte le espedizioni di denari, poteva essergli in tutti i suoi disegni di grandissimo momento. Non mancò il re condolersi con Paolo e con gli altri nunzi del caso di Roma, offerire le forze sue alla sua difesa, mostrargli che non poteva piú fidarsi di Cesare, dargli animo e confortarlo a non perseverare nella tregua; nel quale caso, e non altrimenti, diceva volere pagare i ventimila ducati promessi per ciascuno mese: a che anche, e a non andare a Nerbona, lo confortò il re di Inghilterra; il quale, inteso lo accidente seguito, gli mandò venticinquemila ducati. Sconfortava il re di Francia l'andata del pontefice a' príncipi, come cosa che per la importanza sua meritava molta considerazione; e dinegò da principio che Paolo andasse a Cesare, o perché avesse sospetto che il pontefice non cominciasse con lui pratiche separate o perché, come diceva, fusse piú onorevole trattare la pace per mezzo del re di Inghilterra che parere di mendicarla da Cesare: benché, non molto poi, essendo fatta da Roma di nuovo instanza della sua andata, la consentí, o perché pure desiderava la pace o perché cominciasse a dispiacergli che la fusse trattata dal re di Inghilterra. I progressi del quale erano tali che meritamente dubitava di non essere, per gli interessi suoi propri, tirato a condizioni non convenienti: con ciò sia che quel re, anzi sotto il suo nome il cardinale eboracense, pieno di ambizione e desideroso di essere giudice del tutto, proponesse condizioni estravaganti; e avendo anche fini diversi da' fini degli altri, si lasciasse dare parole da Cesare, [e] non avesse l'animo alieno che il ducato di Milano fusse, per mezzo della pace, del duca di Borbone, pure che a lui si congiugnesse la sorella di Cesare, acciò che a sé restasse facoltà libera di maritare la figliuola al re di Francia. I conforti adunque fatti al pontefice dall'uno e l'altro re, il dubbio di non perdere la fede co' collegati, e privato degli appoggi loro restare in preda di Cesare e de' suoi ministri, gli stimoli de' consultori suoi medesimi, lo sdegno conceputo contro a' Colonnesi e il desiderio, col farne giusta vendetta, di ricuperare in qualche parte l'onore perduto, lo indusseno a volgere contro alle terre, de' Colonnesi quelle forze che prima solamente per sua sicurtà aveva chiamate a Roma; giudicando nessuna ragione costrignerlo a osservare quello accordo il quale aveva fatto non volontariamente ma ingannato dalle loro fraudi e sforzato, sotto la fede ricevuta, dalle loro armi.
Mandò adunque il pontefice Vitello con le genti sue a' danni de' Colonnesi, disegnando di abbruciare e fare spianare tutte le terre loro, perché, per l'affezione inveterata de' popoli e della parte, il pigliarle solamente era di piccolo pregiudizio; e nel medesimo tempo publicò uno monitorio contro al cardinale e agli altri della casa, per virtú del quale privò poi (che fu il vigesimo primo dí di...) il cardinale della dignità del cardinalato: il quale prima, volendosi difendere con la bolla della simonia, aveva in Napoli fatto publiche appellazioni e appellato al futuro concilio. Contro agli altri Colonnesi, i quali nel reame di Napoli soldavano cavalli e fanti, soprasedette la pronunziazione della sentenza. Le genti entrate nelle terre loro abbruciorono Marino e Montefortino, la fortezza del quale si teneva ancora per i Colonnesi, spianorono Gallicano e Zagarolo; non pensando i Colonnesi a difendere altro che i luoghi piú forti e specialmente la terra di Paliano, la quale terra [è] di sito forte e da potere con difficoltà condurvi l'artiglieria; né vi si poteva andare per altro che per tre vie che l'una non poteva soccorrere l'altra; e ha la muraglia grossissima, e gli uomini della terra bene disposti a difenderla: e nondimeno si credette che se Vitello con prestezza fusse andato ad assaltarla, non ostante vi fussino rifuggiti molti delle terre prese, l'arebbe ottenuta, perché non vi erano dentro soldati. Ma mentre differisce lo andarvi, secondando la natura sua, piena, nello eseguire, di difficoltà e di pericoli, entratovi dentro cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli mandativi del reame di Napoli (i quali vi entrorono di notte), e dugento cavalli, la renderono in modo difficile che Vitello, che nel tempo medesimo aveva gente intorno a Grottaferrata, non ardito di tentare piú la impresa di Paliano, né anche quella di Rocca di Papa, ma mandate alcune genti a battere con l'artiglierie la rocca di Montefortino guardata da' Colonnesi, deliberò di unire tutte le genti a Valmontone, piú per attendere alla difesa del paese, se del reame si movesse cosa alcuna, che con speranza di potere fare effetto importante: di che appresso al pontefice acquistò imputazione assai. Il quale, ne' tempi che aveva disegno assaltare il regno di Napoli, e poi quando chiamò le genti a Roma per sua difesa, aveva desiderato che vi andassino Vitello e Giovanni de' Medici, capitani congiunti di benivolenza e di parentado, e dell'uno de' quali la timidità pareva bastante a temperare e a essere temperata dalla ferocia dell'altro: ma tirando i fati Giovanni a presta morte in Lombardia, aveva, per consiglio del luogotenente, servendosi intratanto nelle cose minori di Vitello, differito a chiamarlo insino a tanto avesse cagione o di maggiore necessità o di maggiore impresa, per non privare in questo mezzo lo esercito di Lombardia di lui, che per lo animo e virtú sua era di molto terrore agli inimici e di presidio agli amici; e tanto piú, riscaldando la venuta de' fanti tedeschi.
La quale, congiunta agli avvisi che si avevano dello essere in procinto di partirsi del porto di Cartagenia l'armata di Spagna, costrinseno il pontefice, stimolatone molto da' collegati e dai consiglieri suoi medesimi, a pensare a fare qualche composizione (da che sempre era stato alienissimo) col duca di Ferrara; non tanto per assicurarsi de' movimenti suoi quanto per trarne somma grande di denari, e per indurlo a cavalcare nello esercito come capitano generale di tutta la lega. Sopra che avendo praticato molte volte con Matteo Casella faventino, oratore del duca appresso a lui, e parendogli trovarne desiderio nel duca, commesse al luogotenente suo che era a Parma che andasse a Ferrara, dandogli, in dimostrazione uno breve di mandato amplissimo ma ristrignendo la commissione, a consentire di reintegrare il duca di Modena e di Reggio, col ricevere da lui in brevi tempi dugentomila ducati, obligarlo a scoprirsi e cavalcare come capitano della lega, e che il figliuolo suo primogenito pigliasse per moglie Caterina figliuola di Lorenzo de' Medici; trattandosi anche se vi fusse modo di dare con dote equivalente una figliuola del duca per moglie a Ippolito de' Medici, figliuolo già di Giuliano; e con molte altre condizioni: le quali non solo erano per se stesse quasi inestricabili, per la brevità del tempo, ma ancora il pontefice, che non ci conscendeva se non per ultima necessità, aveva commesso che non si facesse, senza suo nuovo avviso e commissione, la intera conclusione. La quale commissione allargò pochi dí poi, cosí nelle condizioni come nella facoltà del conchiudere, perché ebbe avviso che il viceré di Napoli era con trentadue navi arrivato nel golfo di San Firenze in Corsica, con trecento cavalli dumila cinquecento fanti tedeschi e tre in quattromila fanti spagnuoli. Ma era già diventata vana la volontà del pontefice, perché in su l'armata medesima era uno uomo del duca di Ferrara il quale, spedito dal luogo predetto con grande diligenza, non solo significò al duca la venuta della armata ma gli portò ancora da Cesare la investitura di Modena e di Reggio, e la promissione, sotto parole del futuro, del matrimonio di Margherita di Austria, figliuola naturale di Cesare, in Ercole primogenito del duca. Per le quali cose Alfonso, che prima con grandissimo desiderio aspettava la venuta del luogotenente, mutato consiglio, parendogli anche che per l'approssimarsi i fanti tedeschi e l'armata le cose di Cesare cominciassino molto a esaltarsi, significò, per Iacopo Alvarotto padovano suo consigliere, al luogotenente (che partito il vigesimo quarto dí da Parma era già condotto a Cento) la espedizione ricevuta di Spagna; per la quale se bene non fusse obligato a offendere né il pontefice né la lega, nondimeno, avendo ricevuto tanto beneficio da Cesare, non era conveniente trattasse piú di operargli contro; e che, essendo interrotta per quella la negoziazione per la quale andava a Ferrara, aveva voluto significargliene perché la taciturnità sua non desse giusta cagione di sdegno al pontefice: non gli negando però ma rimettendo in lui lo andare o non andare a Ferrara. Dalla quale proposta compreso il luogotenente essere vana l'andata sua, non volendo mettervi piú senza speranza di frutto della riputazione del pontefice, richiamato anche dalla necessità delle cose di Lombardia, si ritornò, interposti però nuovi ragionamenti di concordia in altra forma, subito a Modena: riducendosi ogni dí piú tutto lo stato della Chiesa da quella banda in maggiore pericolo. Conciossiaché Giorgio Fronspergh co' fanti tedeschi, in numero di tredici in quattordicimila, preso il cammino per Valdisabbio e per la Rocca di Anfo, condotti verso Salò, erano già arrivati a Castiglione dello Strivieri in mantovano. Contro a' quali il duca d'Urbino, che pochi dí innanzi per essere spedito a andargli a incontrare aveva condotto l'esercito a Vauri sopra Adda, tra Trezzo e Cassano, e gittato quivi il ponte e fortificato lo alloggiamento, lasciatovi il marchese di Saluzzo con le genti franzesi e co' svizzeri, grigioni e co' suoi fanti, partí il decimonono di novembre da Vauri, conducendo seco Giovanni de' Medici, seicento uomini d'arme molti cavalli leggieri e otto in novemila fanti; con disegno non di assaltargli direttamente alla campagna ma, infestandogli e incomodandogli delle vettovaglie (il quale modo solo diceva essere a vincere gente di tale ordinanza), condurgli in qualche disordine. Condussesi a' ventiuno a Sonzino, donde spinse Mercurio con tutti i cavalli leggieri e una banda di uomini d'arme per infestargli, e dare tempo allo esercito di raggiugnergli; dubitando già, per essere quel dí medesimo alloggiati alla Cavriana, di non arrivare tardi: di che, scusando la tardità della partita sua da Vauri, trasferiva la colpa nella negligenza e avarizia del proveditore Pisani, per la quale era stato necessitato soprastare uno dí o due piú, per aspettare che in campo fussino i buoi per levare l'artiglierie; dal quale difetto diceva poi essere proceduto grandissimo disordine e quasi la rovina di tutta la impresa.
Cap. xvi
Fazione di Borgoforte; ferita e morte di Giovanni de' Medici. Scontro delle flotte nemiche vicino a Codemonte; la flotta di Cesare a Gaeta. Marcia dell'esercito tedesco; truppe imperiali inviate da Milano a Pavia. Provvedimenti difensivi dei collegati; i tedeschi alla Trebbia.
Si era insino a ora stato in ambiguo quale dovesse essere il cammino de' tedeschi: perché si credette prima che per il bresciano e per il bergamasco andassino alla volta di Adda, con disegno di essere incontrati dalle genti imperiali, e accompagnati con loro andarsene a Milano; erasi creduto di poi volessino passare Po a Casalmaggiore e di quivi trasferirsi alla via di Milano. Ma essendo a' ventidua dí venuti a Rivalta, otto miglia da Mantova tra il Mincio e Oglio (nel quale dí alloggiò il duca a Prato Albuino), e non avendo passato il Mincio a Goito, dava indizio volessino passare il Po a Borgoforte o Viadana piú presto che a Ostia e nelle parti piú basse, e passando a Ostia sarebbe stato segno di pigliare il cammino di Modena e di Bologna; dove, nell'uno luogo e nell'altro, si soldavano fanti e facevano provisioni. Preseno dipoi i tedeschi, a' ventiquattro, la via di Borgoforte; dove, non avendo loro artiglieria, arrivorono quattro falconetti, mandati loro per Po dal duca di Ferrara: aiuto in sé piccolo ma che riuscí grandissimo per benefizio della fortuna. Perché essendo il duca di Urbino, seguitandogli, entrato nel serraglio di Mantova nel quale erano ancora loro, corse, nell'accostarsi a Borgoforte, alla coda loro, benché con poca speranza di profitto, Giovanni de' Medici co' cavalli leggieri; e accostatosi piú arditamente perché non sapeva che avessino avute artiglierie, avendo essi dato fuoco a uno de' falconetti, il secondo tiro roppe la gamba alquanto sopra al ginocchio a Giovanni de' Medici; del quale colpo, essendo stato portato a Mantova, morí pochi dí poi, con danno gravissimo della impresa, nella quale non erano state mai dagli inimici temute altre armi che le sue. Perché, se bene giovane di ventinove anni e di animo ferocissimo, la esperienza e la virtú erano superiori agli anni e, mitigandosi ogni dí il fervore della età e apparendo molti indizi espressi di industria e di consiglio, si teneva per certo che presto avesse a essere nella scienza militare famosissimo capitano. Camminorono dipoi i tedeschi, non infestati piú da alcuno, lasciato indietro Governo, alla via di Ostia lungo il Po, essendo il duca d'Urbino a Borgoforte; e a' venti otto dí, passato il Po a Ostia, alloggiorono a Revere: dove, soccorsi di qualche somma di denari dal duca di Ferrara e di alcuni altri pezzi di artiglieria da campagna, essendo già in tremore grandissimo Bologna e tutta la Toscana, perché il duca di Urbino, ancoraché innanzi avesse continuamente affermato che passando essi Po lo passerebbe ancora egli, se ne era andato a Mantova, dicendo volere aspettare quivi la commissione del senato viniziano se aveva a passare Po o no. Ma i tedeschi, passato il fiume della Secchia, si volseno al cammino di Lombardia per unirsi con le genti che erano a Milano.
Nel quale tempo, il viceré partito da Corsica con venticinque vaselli, perché due [navi] erano, per l'ira del mare, innanzi arrivasse a San Firenze, andate a traverso e cinque sferrate dalle altre andavano vagando, riscontrò a' ventidue dí, sopra Sestri di Levante, con sei galee del re di Francia cinque del Doria e cinque de' viniziani; le quali appiccatesi insieme, sopra Codemonte, combatterono da ventidue ore del dí, insino alla notte: e scrisse il Doria avere buttato in fondo una loro nave dove erano piú di trecento uomini, e con l'artiglieria trattata male tutta l'armata; e che per il tempo tristo le galee erano state sforzate a ritirarsi sotto il monte di Portofino, e che aspettavano la notte medesima l'altre galee che erano a Portovenere; e venendo o non venendo volevano, alla diana, andare a cercarla. Nondimeno, benché la seguitassino insino a Livorno, non potetteno raggiugnerla perché si era dilungata dinanzi a loro per molte miglia: conciossiaché gli inimici, credendo fusse corso o in Corsica o in Sardigna, non furono presti a seguitarlo. Seguitò poi il cammino suo il viceré, ma travagliato dalla fortuna; sparsa l'armata sua: una parte, dove era don Ferrando da Gonzaga, stracorse in Sicilia, che dipoi si ridusseno a Gaeta, dove poseno in terra certi fanti tedeschi; egli col resto dell'armata arrivò al Porto di Santo Stefano. Donde, non avendo certezza de' termini in che si trovassino le cose, mandò a Roma al pontefice il comandatore Pignalosa, con buone parole della mente di Cesare; egli, come il mare lo permesse, si condusse con l'armata a Gaeta.
I fanti tedeschi intanto, passata Secchia e andati verso Razzuolo e Gonzaga, alloggiorono il terzo di dicembre a Guastalla, il quarto a Castelnuovo e Povi lontano dieci miglia da Parma; dove si congiunse con loro il principe di Oranges, passato da Mantova con due compagni, a uso di archibusiere privato. A' cinque, passato il fiume dell'Enza al ponte in su la strada maestra, alloggiorno a Montechiarucoli, standosi ancora il duca d'Urbino, non mosso da' pericoli presenti, a Mantova con la moglie; e a' sette, i tedeschi passato il fiume della Parma alloggiorno alle ville di Felina, essendo le pioggie grandi e i fiumi grossi. Erano trentotto bandiere, e per lettere intercette del capitano Giorgio al duca di Borbone, si mostrava molto irresoluto di quello avesse a fare. Passorono agli undici dí il Taro, alloggiorono a' dodici al Borgo a San Donnino, dove contro alle cose sacre e l'immagini de' santi avevano dimostrato il veleno luterano; a' tredici a Firenzuola, donde con lettere sollecitavano quegli di Milano a congiugnersi con loro: ne' quali era il medesimo desiderio, ma gli riteneva il mancamento de' denari, perché gli spagnuoli minacciavano non volere uscire di Milano se non erano pagati del vecchio, e già cominciavano a saccheggiare. Ma finalmente furono accordati, con difficoltà, da' capitani in cinque paghe: per le quali fu necessario spogliare le chiese degli argenti e incarcerare molti cittadini. E secondo gli pagavano gli mandavano a Pavia, con difficoltà grandissima perché non volevano uscire di Milano. Le quali cose ricercando tempo, mandorono di là da Po, per accostarsi a' tedeschi, alcuni cavalli e fanti italiani.
Aveva fatta instanza il luogotenente che, per sicurtà dello stato della Chiesa da quella banda, il duca di Urbino passasse Po con le genti viniziane, il quale non solo aveva differito, ora dicendo aspettare avviso della volontà de' viniziani ora allegando altre cagioni, ma dimostrando al senato essere pericolo che, passando egli il Po, gli imperiali non assaltassino lo stato loro, aveva ottenuto gli commettessino che non passasse; anzi aveva intrattenuto piú dí i fanti che erano stati di Giovanni de' Medici, sollecitati dal luogotenente a passare Po per difesa delle cose della Chiesa. E avendo il marchese di Saluzzo, richiesto dal luogotenente di soccorso, passato Adda, mosso ancora perché, essendo diminuiti i svizzeri e i fanti grigioni, gli pareva essere debole nello alloggiamento di Vauri, i viniziani, che prima avevano consentito che 'l marchese passasse Po in soccorso del pontefice con diecimila fanti tra svizzeri e i suoi, pagati da loro de' quarantamila ducati del re di Francia (de' quali ricevere e spendere restata la cura a loro, quando il pontefice fece la tregua, era sospizioni, e fu poi molto maggiore, che ne convertissino nel pagamento delle genti loro qualche parte), lo pregavano, per consiglio del duca di Urbino, che non passasse; e perciò il duca, chiamatolo a parlamento a Sonzino, soprastette tanto a venirvi che il marchese si partí; nondimeno, non solo fece ogni opera di farlo soprastare, per vedere meglio che facessino i tedeschi, ma eziandio lo confortò apertamente a non passare. A che lo ritardava anche che i pagamenti de' svizzeri, che in condotta erano seimila ma in fatto poco piú di quattromila, non erano in ordine: i quali pagare, insieme co' quattromila fanti del marchese, apparteneva a' viniziani. Per la quale cagione se bene si differisse insino al vigesimo settimo di dicembre il passare suo, mandò nondimeno parte della cavalleria franzese con qualche fante ad alloggiare in diversi luoghi del paese, per disturbare le vettovaglie a' fanti tedeschi, stati già molti dí a Firenzuola. Per quella cagione medesima fu mandato Guido Vaina con cento cavalli leggieri al Borgo a San Donnino, e Paolo Luzasco uscito di Piacenza si accostò a Firenzuola; donde una parte de' tedeschi, per piú comodità del vivere, andò ad alloggiare a Castello Arquà. Per sospetto de' quali si era prima proveduta Piacenza, ma non con quelle forze le quali parevano convenienti; perché il luogotenente, avendo sempre, dopo la venuta de' tedeschi, temuto che la difficoltà del fare progresso in Lombardia non sforzasse gli imperiali al passare in Toscana, desiderava pigliassino animo di andare a campo a Piacenza. Per la quale cagione, incognita a qualunque altro, eziandio al pontefice, differiva il provedere Piacenza talmente che si disperassino di espugnarla, provedendola perciò in modo non potessino occuparla con facilità, e sperando che quando v'andassino non avesse a mancare modo di mettervi soccorso. Ma la lunga dimora de' tedeschi ne' luoghi vicini, esclamando ciascuno del pericolo di quella città, lo costrinse a consentire che vi andasse il conte Guido con grossa gente: dove anche per ordine de' viniziani, che avevano promesso, per soccorrere alle necessità del pontefice, mandarvi a guardia mille fanti, vi fu mandato Babone di Naldo, uno de' loro capitani; ma per i mali pagamenti tornorono presto a quattrocento. Passò finalmente Saluzzo, non avendo in fatto piú che quattromila tra svizzeri e grigioni e tremila fanti de' suoi; e condotto al Pulesine, ancora che si desiderasse non partisse di quivi per infestare lo alloggiamento di Firenzuola, dove anche spesso scorreva il Luzasco, si ridusse per piú sicurtà a Torricella e a Sissa. Ma due dí poi i tedeschi, partiti da Firenzuola, andorono a Carpineti e luoghi circostanti; e il conte di Gaiazzo, presa Rivolta, passò la Trebbia: né si intendeva quale fusse il disegno del duca di Borbone, o di andare a campo a Piacenza, come fusse uscito di Milano, o pure passare innanzi alla volta di Toscana. Passorono poi, l'ultimo dí dell'anno, i tedeschi la Nura, per passare la Trebbia e aspettare quivi Borbone, essendo alloggiamento manco infestato dagli inimici.
Cap. xvii
Brevi del pontefice a Cesare e risposte di questo; offerte del generale di San Francesco al pontefice di trattare la tregua a nome di Cesare; trattative di tregua e provvedimenti di guerra del pontefice; mutamento di contegno del viceré verso il pontefice. Maggiori esigenze di Cesare per la pace coi collegati. Capitolazione del duca di Ferrara con Cesare.
Nella quale freddezza delle cose di Lombardia, procedente non tanto dalla stagione asprissima dell'anno quanto dalla difficoltà che aveva Borbone di pagare le genti, per la quale erano, per la provisione de' denari, vessati e tormentati maravigliosamente i milanesi (per la quale necessità Ieronimo Morone, condannato alla morte, compose, la notte precedente alla mattina destinata al supplicio, di pagare ventimila ducati, al quale effetto era stata fatta la simulazione di decapitarlo; co' quali uscito di carcere diventò subito, col vigore del suo ingegno, di prigione del duca di Borbone suo consigliere e, innanzi passassino molti dí, quasi assoluto suo governatore), erano tra il papa e il viceré grandi i trattati di tregua o di pace; ma piú veri e piú sostanziali i disegni del viceré di fare la guerra, preso animo, poi che fu arrivato a Gaeta, dai conforti de' Colonnesi e dallo intendere che il pontefice, perduto totalmente d'animo ed esausto di denari, appetiva grandemente l'accordo, e predicando a tutti la sua povertà e il suo timore, né volendo creare cardinali per denari come era confortato da tutti, accresceva l'ardire e la speranza di chi disegnava di offenderlo. Perché il pontefice, il quale non era entrato nella guerra con la costanza dell'animo conveniente, aveva scritto insino il vigesimo sesto dí di giugno [un brieve a Cesare] acerbo e pieno di querele, escusandosi di essere stato necessitato da lui alla guerra; ma parendogli, poi che l'ebbe espedito, che fusse troppo acerbo, ne scrisse subito un altro piú mansueto, commettendo a Baldassare da Castiglione suo nunzio che ritenesse il primo; il quale, già arrivato, era stato presentato il decimosettimo dí di settembre; fu dipoi presentato l'altro, e Cesare separatamente, benché in una espedizione medesima, rispose all'uno e all'altro secondo le proposte: allo acerbo acerbamente, al dolce dolcemente. Aveva avidamente prestato orecchi al generale di San Francesco, il quale, andandosene, quando si mosse la guerra, in Spagna, ebbe dal papa imbasciate dolci a Cesare; e di nuovo ritornato a Roma, per commissione di Cesare, aveva riferito assai della sua buona mente: e che sarebbe contento venire in Italia con cinquemila uomini e, presa la corona dello imperio, passare subito in Germania per dare forma alle cose di Luter, senza parlare del concilio; accordare co' viniziani con oneste condizioni; rimettere in due giudici diputati dal papa e da lui la causa di Francesco Sforza, il quale se fusse condannato, dare quello stato al duca di Borbone; levare lo esercito di Italia, pagando il papa e i viniziani trecentomila scudi o piú per le paghe corse (pure, che questo si tratterebbe per ridurlo a somma piú moderata); restituire al re i figliuoli, avuto da lui in due o piú termini due milioni d'oro: mostrava essere facile lo accordare col re d'Inghilterra, per non essere somma grande e il re di Francia averla già offerta. E per trattare queste cose, le quali il pontefice comunicò tutte con gli oratori franzesi e viniziani, offeriva il generale tregua per otto o dieci mesi, dicendo avere da Cesare il mandato amplissimo in sé e nel viceré o in don Ugo. Per la quale esposizione il pontefice, udito Pignalosa e intesa la partita del viceré dal Porto di Santo Stefano, mandò il generale a Gaeta per trattare seco; perché e i viniziani non arebbono recusata la tregua, pure che vi avesse consentito il re di Francia: il quale non se ne dimostrava alieno, anzi la madre aveva mandato a Roma Lorenzo Toscano, dimostrando inclinazione alla concordia nella quale fussino compresi tutti. E parendogli nissuna pratica potere essere bene sicura senza la volontà di Borbone, mandò a lui per le medesime cagioni uno suo limosiniere che era a Roma; il quale il duca poco dipoi rimandò al pontefice a trattare. E nondimeno, nel tempo medesimo, non abbandonando la provisione dell'armi, mandò Agostino Triulzio cardinale legato allo esercito di Campagna; e preparandosi ad assaltare eziandio per mare il regno di Napoli, e per difesa propria, arrivò, il terzo di dicembre, a Civitavecchia Pietro Navarra, con ventotto galee del pontefice de' franzesi e de' viniziani: nel quale tempo, o poco poi, era, con l'armata delle vele quadre arrivato Renzo da Ceri a Savona, mandato dal re di Francia per cagione della impresa disegnata contro al reame di Napoli. E da altro canto, Ascanio Colonna con dumila fanti e trecento cavalli venne in Valbuona, a quindici miglia di Tivoli, dove sono terre dello abate di Farfa e di Giangiordano. Mandò anche il pontefice, pochi dí poi, l'arcivescovo di Capua al viceré; il quale anche, insino al vigesimo dí di ottobre, aveva mandato a Napoli, sotto nome delle cose degli statichi, e particolarmente di Filippo Strozzi. Ma il viceré, intesa la debolezza del pontefice, non parlava piú umanamente. Preseno a' dodici di dicembre i Colonnesi, co' quali era il cardinale, Cepperano, che non era guardato, e le genti loro sparse per le castella di Campagna; e da altro canto Vitello, con le genti del pontefice, ridotto fra Tivoli, Palestrina e Velletri. Presono poi Pontecorvo, non guardato, e Ascanio poi dette la battaglia invano a Scarpa, castello della badia di Farfa, luogo piccolo e debole: ed egli e il cardinale con quattromila fanti correvano per Campagna, ma ributtati da qualunque voleva difendersi. Accostossi dipoi Cesare Filettino con mille cinquecento fanti, di notte, ad Alagnia; nella quale intromessi già furtivamente da alcuni uomini della terra cinquecento fanti, per una casa congiunta alle mura, furono ributtati da Gianlione da Fano, capo de' fanti che vi aveva il pontefice. Tornò poi il generale dal viceré, e riportò che egli consentirebbe alla tregua per qualche mese, acciò che intratanto si trattasse la pace, ma dimandare denari e, per sicurtà, le fortezze di Ostia e di Civitavecchia. Ma in contrario di lui scrisse l'arcivescovo di Capua (giunto a Gaeta dopo la partita sua, e forse mandatovi con malo consiglio dal pontefice) che il viceré non voleva, piú tregua ma pace col pontefice solo o con il pontefice e co' viniziani, pagandogli denari per mantenere lo esercito per sicurtà della pace, e poi trattare tregua con gli altri: o perché veramente avesse mutato sentenza o per le persuasioni, come molti dubitorono, dello arcivescovo.
Nel quale tempo Paolo da Arezzo, arrivato alla corte di Cesare co' mandati del pontefice, de' viniziani e di Francesco Sforza (dove anche il re di Inghilterra volle che per la medesima causa della pace andasse l'auditore della camera, perché vi era anche prima il mandato del re di Francia), lo trovò variato di animo, per avere avuto avviso della arrivata de' tedeschi e dell'armata in Italia. Però, partendosi dalle condizioni ragionate prima, dimandava che il re di Francia osservasse in tutto l'accordo di Madril, e che la causa di Francesco Sforza si vedesse per giustizia da i giudici deputati da lui. Cosí la intenzione di Cesare riceveva variazione dai successi delle cose; e le commissioni date lui a' ministri suoi che erano in Italia avevano, per la distanza del luogo, o espressa o tacita condizione di governarsi secondo la varietà de' tempi e delle occasioni. Però il viceré, avendo deluso piú dí con pratiche vane il pontefice, né voluto consentire una sospensione d'armi per pochi dí, tanto si vedesse l'esito di questo trattato, partí, a' venti, da Napoli per andare alla volta dello stato della Chiesa, proponendo nuove condizioni estravaganti dello accordo. Seguitò, l'ultimo dí dell'anno, la capitolazione del duca di Ferrara, fatta per mezzo di uno oratore suo, col viceré e con don Ugo, che aveva il mandato da Cesare; benché con poca sodisfazione di quello oratore, astretto quasi con minacce e con acerbe parole dal viceré di consentire: che il duca di Ferrara fusse obligato con la persona e con lo stato contro a ogni inimico di Cesare; fusse capitano generale di Cesare in Italia con condotta di cento uomini d'arme e di dugento cavalli leggieri, ma obligato a mettergli insieme co' danari propri, i quali gli avessino a essere o restituiti o accettati ne' conti suoi: che per la dota della figliuola naturale di Cesare, promessa al figliuolo, ricevesse di presente la terra di Carpi e la fortezza di Novi, appartenente già ad Alberto Pio, ma che le entrate, insino alla consumazione del matrimonio, si compensassino con gli stipendi suoi; e che Vespasiano Colonna e il marchese del Guasto rinunziassino alle ragioni vi pretendevano: pagasse, recuperato che avesse Modona, dugentomila ducati, ma che in questi si computassino quegli che dopo la giornata di Pavia aveva pagati al viceré; ma non recuperando Modona gli fussino restituiti tutti i denari che prima aveva sborsato: fusse Cesare obligato alla sua protezione, né potesse fare pace senza comprendervi dentro lui, con l'assoluzione delle censure e delle pene incorse poi che si era declarato confederato di Cesare; e delle incorse innanzi, fare ogni opera per fargliene consentire. Cosí, nella fine dell'anno mille cinquecento ventisei, tutte le cose si preparavano a manifesta guerra.