Francesco Guicciardini

STORIA D'ITALIA

Volume diciottesimo





Cap. i

L'anno mille cinquecento ventisette ricco di avvenimenti e di sciagure. Movimenti delle milizie imperiali riunitesi nell'Emilia. Vicende di guerra nello stato pontificio. Richieste di aiuti del pontefice ai collegati e al re d'Inghilterra; dubbi dei collegati per le trattative del pontefice col viceré.

Sarà l'anno mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già per piú secoli non uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di príncipi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte di fuga e di rapine. Alle quali calamità nessuna difficoltà ritardava a dare il principio che le difficoltà che aveva il duca di Borbone di potere muovere di Milano i fanti spagnuoli. Perché avendo convenuto insieme che Antonio de Leva rimanesse alla difesa del ducato di Milano con tutti i fanti tedeschi che prima vi erano (nella sostentazione de' quali si erano consumati tutti i danari raccolti da' milanesi, e quegli riscossi per virtú delle lettere che aveva portate di Spagna) e con mille dugento fanti spagnuoli e con qualche numero di fanti italiani sotto Lodovico da Belgioioso e altri capi, e forse con qualche parte dei fanti tedeschi, restavano i fanti spagnuoli; i quali, non avendo ricevuti danari in nome di Cesare, ma sostentati con le taglie e con le contribuzioni, e avendo in preda le case e le donne de' milanesi, continuavano volentieri nel vivere con tanta licenza; ma non potendo negarlo direttamente, dimandavano di essere prima sodisfatti degli stipendi corsi insino a quello dí. Promessono finalmente di seguitare la volontà del duca, ricevute prima da lui cinque paghe: ma era molto difficile il farne provisione, non bastando né i minacci né il votare delle case né le carceri a riscuotere danari da' milanesi: dove anche, per nutrire l'esercito, erano citati gli assenti, e i beni di quelli che non comparivano erano donati a' soldati. Finalmente, superate tutte le difficoltà, passorno le genti imperiali, il penultimo dí di gennaio, il fiume del Po, e il seguente dí una parte de' tedeschi, i quali prima avevano passata la Trebbia, ripassatala, andorono ad alloggiare a Pontenuro; il resto dell'esercito si fermò di là da Piacenza: essendo allo incontro il marchese di Saluzzo a Parma, e con tutte le genti distese per il paese. E il duca di Urbino, venuto a Casalmaggiore (avendo i viniziani rimesso in arbitrio suo il passare Po), cominciava a fare passare le genti; affermando, in caso che gli imperiali andassino, come da Milano si aveva avvisi, alla volta di Toscana, di volere passare in persona con seicento uomini d'arme novemila fanti e cinquecento cavalli leggieri, ed essere prima di loro a Bologna; e che il simile facesse, con la sua gente e con quella della Chiesa, il marchese di Saluzzo. Soprastette l'esercito imperiale circa venti dí, parte di qua parte di là da Piacenza, sopratenendolo in parte la difficoltà de' denari (de' quali insino a quel dí non avevano i tedeschi avuto alcuno dal duca di Borbone) parte l'avere egli inclinazione di porsi a campo a Piacenza, forse piú per le difficoltà del procedere innanzi che per altra cagione. Però instava col duca di Ferrara che lo accomodasse di polvere per l'artiglierie e che venisse a congiugnersi seco, offerendo mandargli incontro cinquecento uomini d'arme e il capitano Giorgio con seimila fanti. Alla quale dimanda rispose il duca essere impossibile mandargli la polvere per il paese inimico, né potere senza pericolo tentare di unirsi seco per essere tutte le genti della lega in luogo vicino; ma quando tutte queste cose fussino facili, dovere considerare, Borbone, non potere fare cosa piú comoda agli inimici e piú desiderata da loro che attendere a perdere tempo intorno a quelle terre a una a una; e considerare, quando non pigliasse Piacenza, o se pure la pigliasse ma con lunghezza di tempo, dove resterebbe la sua riputazione, dove il modo di proseguire la guerra, avendo tanto mancamento di denari e di tutte le provisioni: il benefizio di Cesare, la via unica della vittoria essere camminare verso il capo, condursi, lasciato ogni altra impresa indietro, una volta, a Bologna; donde potrebbe deliberare o di cercare di sforzare quella terra, a che non gli mancherebbeno gli aiuti suoi, o di passare piú innanzi alla volta di Firenze o di Roma.

Le quali cose mentre si trattano, e che Borbone provede a denari non solo per finire il pagamento degli spagnuoli ma eziandio per dare qualche cosa a' fanti tedeschi, a' quali credo che al partire da Piacenza desse due scudi per uno, era accesa gagliardamente la guerra nello stato della Chiesa; essendo nel campo ecclesiastico andato nuovamente Renzo da Ceri che era venuto di Francia, e il campo del papa era vicino al viceré che era a' confini di Cepperano; dove alcuni fanti italiani roppono trecento fanti spagnuoli. Ma nel modo della difesa dello stato ecclesiastico era varietà di opinioni. Perché Vitello, innanzi alla venuta di Renzo, aveva consigliato il pontefice che, abbandonata la provincia della Campagna, si mettessino in Tivoli dumila fanti, in Pelistrina dumila altri, e che il resto dello esercito si fermasse a Velletri per impedire l'andata del viceré a Roma. La qual cosa essendo già deliberata, Renzo, sopravenendo, dannò il riserrarsi in Velletri, per essere terra grande e male reparabile, e per non lasciare procedere gli inimici tanto innanzi; ma che l'esercito si fermasse a Fiorentino, che non avendo a guardare tanti luoghi sarebbe piú grosso, ed era luogo per proibire che gli inimici non venissino piú innanzi: il quale consiglio approvato, si messeno in Frusolone, residenza principale della Campagna, lontano da Fiorentino cinque miglia, mille ottocento fanti, di quegli di Giovanni de' Medici la piú parte, che avevano preso il cognome delle bande nere, con Alessandro Vitello, Giovambatista Savello e Pietro da Birago condottieri di cavalli leggieri. Ma in questo mezzo i Colonnesi avevano occultamente indotto Napolione Orsino, abbate di Farfa, a pigliare l'armi in terra di Roma, come soldato di Cesare; la quale cosa dissimulando il pontefice, al quale ne era penetrata occultamente la notizia, e da chi prima aveva ricevuto danari, tiratolo con arte a andare a incontrare Valdemonte, quando veniva di Francia, lo fece prendere appresso a Bracciano e metterlo prigione in Castello Santangelo.

Attendeva il pontefice a provedere danari, né gli bastando i modi ordinari vendeva i beni di molte chiese e luoghi pii; e supplicando a' príncipi, ottenne di nuovo dal re di Inghilterra trentamila ducati, i quali gli portò maestro Rossello suo cameriere: col quale venne Robadanges, con diecimila scudi mandati dal re di Francia per conto della decima; la quale il papa stretto dalla necessità gli aveva concesso, con promissione di dargli, oltre a' pagamenti de' quarantamila scudi alla lega e de' ventimila al papa ciascuno mese, trentamila ducati di presente e trentamila altri fra uno mese. Commesse anche il re di Inghilterra a maestro Rossello che intimasse al viceré e al duca di Borbone una sospensione d'armi, per dare tempo al trattato della pace che secondo la volontà di Cesare si teneva in Inghilterra, altrimenti protestargli la guerra: e pareva allora che quel re, cupido del matrimonio della figliuola col re di Francia, inclinasse al favore de' collegati; il quale matrimonio subito che fusse succeduto, prometteva di entrare nella lega e rompere la guerra in Fiandra. Pareva anche molto inclinato particolarmente al beneficio del pontefice; ma non si potevano sperare i rimedi pronti da uno principe che non misurava bene le forze sue e le condizioni presenti d'Italia, e che anche non si era fermato in una determinata volontà; ritirandolo sempre in parte la speranza datagli da Cesare di mettere in sua mano la pratica della pace, benché non corrispondessino gli effetti: perché essendo andato a lui per questo effetto l'auditore della camera, ancora che Cesare si sforzasse di persuadergli con molte arti questa essere la sua intenzione, nondimeno, aspettando di intendere prima quel che per la passata de' tedeschi e dell'armata fusse succeduto in Italia, non dava risposta certa, mettendo eccezione ne' mandati de' collegati come se non fussino sufficienti. Mandò anche il re a Roma, per favorire la impresa del regno di Napoli, Valdemonte fratello del duca del Loreno, che per l'antiche ragioni del re Renato pretendeva alla successione di quello reame. Ma al pontefice noceva appresso a confederati il trattare continuamente la concordia col viceré, dubitando che a ogn'ora non convenisse seco, e però parendo quasi inutile al re di Francia e a' viniziani tutto quello che spendessino per sostenerlo: la quale suspizione accresceva il timore estremo che appariva in lui e i protesti cotidiani di non potere piú sostenere la guerra, aggiunto all'ostinazione di non volere creare cardinali per denari, né aiutarsi, in tanta necessità e in tanto pericolo della Chiesa, co' modi consueti, eziandio nelle imprese ambiziose e ingiuste, agli altri pontefici. Donde il re e i viniziani, per essere preparati a qualunque caso, si erano particolarmente riobligati di non fare concordia con Cesare l'uno senza l'altro; per la quale cagione il re, e per la speranza grande datagli dal re di Inghilterra di fare con lui, se convenivano del parentado, movimenti grandi alla prossima primavera, diventava piú negligente a' pericoli d'Italia.

Cap. ii

Inutili tentativi del viceré contro Frosinone. Tregua fra il pontefice e il viceré, e offerte di Cesare al pontefice. Ritirata dell'esercito del viceré da Frosinone.

Sollecitava in questo tempo il viceré di assaltare lo stato della Chiesa: dal quale essendo stati mandati dumila fanti spagnuoli a dare la battaglia a uno piccolo castello di Stefano Colonna, ne furono ributtati; e per lo spignersi egli innanzi, gli ecclesiastici lasciorno indietro la deliberazione fatta di battere Rocca di Papa; le genti del quale luogo avevano occupato Castel Gandolfo, posseduto dal cardinale di Monte, per essere male guardato. Finalmente il viceré, messi insieme dodicimila fanti, de' quali, dagli spagnuoli e tedeschi infuora condotti in su l'armata, la maggiore parte erano fanti comandati, si pose con tutto lo esercito, il vigesimo primo dí di dicembre, a campo a Frusolone, terra debole e senza muraglia ma alla quale succedono in luogo di mura le case private e la grotta, e stata messa in guardia dai capitani della Chiesa per non gli lasciare pigliare piede nella Campagna; e vi era anche vettovaglia per pochi dí: nondimeno il sito della terra, che è posta in su uno monte, dà facoltà a chi è dentro di potere sempre salvarsi da una parte avendo qualche poco di spalle; il che faceva piú arditi alla difesa i fanti che vi erano dentro, oltre a essere de' migliori fanti italiani che allora prendessino soldo. Né si potevano anche, per l'altezza del monte, accostare tanto l'artiglierie degli inimici (i quali vi avevano piantati tre mezzi cannoni e quattro mezze colubrine) che vi facessino molto danno: ma delle diligenze principali loro era lo impedire, quanto potevano, che non vi entrassino vettovaglie. Da altro canto il pontefice, benché esaustissimo di denari, e piú pronto a tollerare la indignità di pregare di esserne proveduto da altri che la indignità di provederne con modi estraordinari, augumentava quanto poteva le genti sue di fanti pagati e comandati; e aveva di nuovo condotto Orazio Baglione, dimenticate le ingiurie fatte prima al padre e poi a lui: il quale, come disturbatore della quiete di Perugia, aveva lungamente tenuto prigione in Castello Santo Agnolo. Con questi augumenti andava l'esercito del pontefice accostandosi per fare la massa a Fiorentino, e dare speranza di soccorso agli assediati. Fu finita a' ventiquattro la batteria di Frusolone, ma non essendo tale che desse al viceré speranza di vittoria non fu dato l'assalto; e nondimeno Alarcone, travagliandosi intorno alle mura, fu ferito d'uno archibuso, e vi fu anche ferito Mario Orsino. Ed era la principale speranza del viceré nel sapere essere dentro poche vettovaglie: delle quali anche pativa lo esercito che si ammassava a Fiorentino, perché le genti de' Colonnesi, che erano in Paliano, Montefortino e Rocca di Papa, che soli si tenevano per loro, travagliavano assai la strada; e andando Renzo allo esercito, avevano rotto la compagnia de' fanti di Cuio che gli faceva scorta. Uscirono nondimeno, uno giorno, trecento fanti di Frusolone e parte de' cavalli, con Alessandro Vitello Giambatista Savello e Pietro da Birago; e approssimatisi a mezzo miglio di Larnata dove erano alloggiate cinque insegne di fanti spagnuoli, ne tirorono due insegne in una imboscata e gli ruppeno con la morte del capitano Peralta con ottanta fanti, e prigioni molti fanti con le due insegne. Attendeva intratanto il viceré a fare mine a Frusolone, e quegli di dentro contraminavano tanto sicuri delle forze degli inimici che ricusorono quattrocento fanti che i capitani volevano mandare dentro in loro soccorso.

E nondimeno, nel tempo medesimo, non erano manco calde le pratiche dello accordo: perché a Roma erano tornati il generale e lo arcivescovo di Capua: co' quali era venuto Cesare Fieramosca napoletano, il quale Cesare aveva, dopo la partita del viceré, espedito di Spagna al pontefice, dandogli commissione che affermasse principalmente essergli stata molestissima l'entrata di don Ugo e de' Colonnesi in Roma, con gli accidenti che ne erano seguiti; facessegli fede, Cesare essere desiderosissimo di comporre seco tutte le controversie, e che trattasse in nome suo la pace, alla quale dimostrandosi inclinato anche con gli altri collegati, diceva (secondo scriveva il nunzio) che se il pontefice eseguiva, come aveva detto, di andare a Barzalona, gli darebbe libera facoltà di pronunziarla ad arbitrio suo. Proponevano questi per parte del viceré sospensione d'armi per due o tre anni col pontefice e co' viniziani, possedendo ciascuno come di presente possedeva, e pagando il pontefice cento cinquantamila ducati e i viniziani cinquantamila: cosa che benché fusse grave al pontefice, nondimeno tanto era inclinato a liberarsi dai travagli della guerra che, per indurre i viniziani a consentirvi, offeriva di pagare per loro i cinquantamila ducati. La risposta de' quali per aspettare fece tregua, l'ultimo dí di gennaio, col viceré per otto dí, con patto che le genti della Chiesa non passassino Fiorentino, quelle del viceré non passassino Frusolone né lavorassino contro alla terra; essendo medesimamente proibito a quegli di dentro non fortificare, né mettere dentro vettovaglia se non dí per dí. E parendo al Fieramosca avere scoperto assai la intenzione del pontefice, e potere con degnità di Cesare scoprirgli la sua, gli presentò una lunga lettera di mano propria di Cesare, piena di buona mente, di offerte e divozione verso il pontefice; e partito dipoi, per significare al viceré e al legato la sospensione fatta e ordinare che la si mettesse a esecuzione, trovò il dí seguente l'esercito che mosso da Fiorentino camminava alla volta di Frusolone; e avendo fatto intendere al legato la cosa, egli, non volendo interrompere la speranza grande che avevano i suoi della vittoria, date a lui parole, mandò occultamente a dire alla gente che continuasse di camminare.

Non poteva l'esercito arrivare a Frusolone se non si insignoriva di uno passo a modo di uno ponte, situato alle radici del primo colle di Frusolone, al quale erano a guardia quattro bandiere di fanti tedeschi; ma arrivata la vanguardia guidata da Stefano Colonna, e venuta con loro alle mani, gli roppe e messe in fuga, ammazzati circa dugento di loro e presine quattrocento con le insegne; e cosí guadagnato il primo colle, gli altri si ristrinseno in luogo piú forte, lasciata libera l'entrata in Frusolone agli ecclesiastici. I quali, essendo già vicina la notte, feceno l'alloggiamento in faccia loro; con speranza grande di Renzo e di Vitello (le azioni del quale in questa impresa procedevano con mala sodisfazione del pontefice) di avergli a rompere, o fermandosi o ritirandosi; come si crede che senza dubbio sarebbe seguito se avessino o fatto lo alloggiamento in su il colle preso o se fussino stati avvertiti e desti a sentire la ritirata degli inimici. Perché il viceré, non il giorno seguente ma l'altro giorno, due ore innanzi dí, senza fare segno o suono di levarsi, si partí con l'esercito, abbruciata certa munizione che gli restava e lasciate molte palle di artiglierie, e ancora che, intesa la partita sua, gli ecclesiastici gli spignessino dietro i cavalli leggieri, che preseno delle bagaglie e qualche prigione di poco conto, non furono a tempo a fargli danno notabile. Lasciò nondimeno addietro qualche munizione, e si ritirò a Cesano e di quivi a Cepperano.

Cap. iv

Piano d'azione propostosi dal duca d'Urbino. Fazioni militari in Emilia e defezione del conte di Gaiazzo. Gli imperiali muovono il campo dalla Trebbia; meravigliosa costanza dei soldati. Movimenti degli eserciti avversari. Occupazione di Monza da parte del duca di Milano, e subito abbandono della città da parte dei suoi. Difficoltà dell'esercito tedesco in Emilia; inattività delle milizie dei collegati e del duca d'Urbino. Malattia del Frundsperg.

Ma quello che lo moveva piú era il vedere farsi continuamente innanzi Borbone con lo esercito imperiale, né le risoluzioni del duca d'Urbino né le provisioni de' viniziani essere tali che lo rendessino sicuro delle cose di Toscana; il timore delle quali lo affliggeva sopramodo. Perché il duca d'Urbino, stando ancora le genti imperiali parte di qua parte di là da Piacenza, mutata la prima opinione di volere essere a Bologna con l'esercito veneto innanzi a loro, aveva risoluto ne' suoi consigli che, come si intendesse la mossa degli inimici, lo esercito ecclesiastico, lasciato Parma e Modena bene guardate, si riducesse a Bologna; e che egli con l'esercito de' viniziani camminasse alla coda degli inimici, lontano però sempre da loro, per sicurtà delle sue genti, venticinque o trenta miglia: col quale ordine, volendo gli inimici pigliare poi la via di Romagna e di Toscana, si procedesse continuamente, camminando sempre innanzi a loro l'esercito ecclesiastico, col marchese di Saluzzo con le lance franzesi e co' fanti suoi e de' svizzeri, lasciando sempre guardia nelle terre donde gli inimici avessino dopo loro a passare, e raccogliendole poi di mano in mano secondo fussino passati. Del quale consiglio suo, mal capace agli altri capitani, allegava molte ragioni; prima, non essere sicuro il mettersi con gli eserciti uniti in campagna per fare ostacolo agli imperiali che non passassino, perché sarebbe o pericoloso o inutile: pericoloso volendo combattere, perché essendo superiore di forze e di virtú se non di numero conseguirebbero la vittoria; inutile, perché se gli imperiali non volessino combattere sarebbe in facoltà loro lasciare indietro l'esercito de' collegati, ed essendo dipoi sempre innanzi a loro in ogni luogo farebbeno grandissimi progressi. Parergli, quando bene le cose fussino in potestà sua, migliore di tutte questa deliberazione; ma costrignerlo a questo medesimo la necessità: perché essendo già, secondo si credeva, quasi in moto l'esercito inimico, non essere tanto pronte le provisioni delle genti sue che e' fusse certo di potere essere a tempo a andare innanzi; e anche avere a considerare, poi che i viniziani avevano rimessa in lui liberamente questa deliberazione, di non lasciare lo stato loro in pericolo, il quale se gli inimici vedessino sprovisti, potrebbeno, preso nuovo consiglio da nuova occasione, passato Po, voltarsi a' danni loro. Con la quale ragione convinceva il senato viniziano, che per natura ha per obietto di procedere nelle cose sue cautamente e sicuramente; ma non sodisfaceva già al pontefice, considerando che con questo consiglio si apriva la via allo esercito imperiale di andare insino a Roma o in Toscana, o dove gli paresse; perché l'esercito che aveva a precedere, inferiore di forze, e diminuendone ogni dí per avere a mettere guardia nelle terre, non gli potrebbe resistere; né era certo che i viniziani, restando una volta indietro, avessino a essere cosí pronti a seguitargli co' fatti come sonavano le parole del duca, considerando massime i modi con che si era proceduto in tutta la guerra; e giudicando che uniti tutti gli eserciti insieme, ne' quali erano molto piú genti che in quello degli imperiali, potessino piú facilmente proibire loro il passare innanzi, impedire le vettovaglie e usare tutte le occasioni che si presentassino; né avere mai a essere tanto lontani da loro che non fussino a tempo a soccorrere, se si voltassino nelle terre de' viniziani. La quale deliberazione gli dispiacque molto piú quando intese che il duca d'Urbino, venuto il terzo dí di gennaio a Parma, sopravenutagli leggiera malattia, si ritirò il quartodecimo dí a Casalmaggiore; e di quivi, cinque dí poi, sotto nome di curarsi, a Gazzuolo; dove già alleggierito della febbre ma aggravato, secondo diceva, della gotta, aveva fatto venire la moglie. Il quale procedere, sospetto molto al pontefice, chi voleva tirare a migliore senso arguiva che le pratiche sue degli accordi erano causa del suo procedere con questa sospensione. Ma il luogotenente, comprendendo, parte da quello che era verisimile parte per relazione di parole dette da lui, che a questi modi sinistri lo induceva anche il desiderio della recuperazione del Montefeltro e di Santo Leo posseduto da' fiorentini, giudicando che, se non si sodisfaceva di questo, sarebbeno il pontefice e i fiorentini nelle maggiori necessità abbandonati da lui, né gli parendo che queste terre fussino premio degno di esporsi a tanto pericolo, sapendo anche che il medesimo si desiderava a Firenze, gli dette speranza certa della restituzione come se n'avesse commissione dal pontefice: la quale cosa non fu approvata dal pontefice, indulgente piú, in questo caso, all'odio antico e nuovo che alla ragione.

Stavano intanto gl'imperiali, avendo dato a' tedeschi pochissimi denari, alloggiati vicini a Piacenza, dove era il conte Guido Rangone con seimila fanti; donde correndo qualche volta Paolo Luzasco e altri cavalli leggieri della Chiesa, uno giorno, accompagnati da qualche numero di fanti e da alcuni uomini d'arme, roppono gli inimici che correvano, preseno ottanta cavalli e cento fanti, e restorono prigioni i capitani Scalengo, Zucchero e Grugno borgognone. Mandò dipoi Borbone, il nono dí di febbraio, dieci insegne di spagnuoli a vettovagliare Pizzichitone, e a' quindici dí, il conte di Gaiazzo co' cavalli leggieri e fanti suoi venne ad alloggiare al Borgo a San Donnino, abbandonato dagli ecclesiastici. Il quale, il dí seguente, per pratica tenuta prima con lui, e pretendendo egli di essere, perché non era pagato, libero dagli imperiali, passò nel campo ecclesiastico: condotto dal luogotenente, piú per sodisfare ad altri che per seguitare il giudizio suo proprio, con mille ducento fanti e centotrenta cavalli leggieri, i quali aveva seco, e con condizione che, essendogli tolto da Cesare il contado suo di Gaiazzo, avesse dopo otto mesi il pontefice, insino lo ricuperasse, a pagargli ciascuno anno l'entrata equivalente.

Desiderava Borbone, seguitato il consiglio del duca di Ferrara (il quale nondimeno recusò di cavalcare nello esercito) di andare piú presto a Bologna e a Firenze che soprasedere in quelle terre, di partire a ogn'ora; ma a' diciassette dí si ammutinorno i fanti spagnuoli dimandando denari, e ammazzorno il sergente maggiore mandato da lui a quietargli: e nondimeno, quietato il meglio possette il tumulto, a' venti dí passò con tutto l'esercito la Trebbia e alloggiò a tre miglia di Piacenza; avendo seco cinquecento uomini d'arme e molti cavalli leggieri, i quali la piú parte erano italiani, non mai pagati, i fanti tedeschi venuti nuovamente, quattro o cinquemila fanti spagnuoli di gente eletta e circa dumila fanti italiani, sbandati e non pagati; essendo restati de' tedeschi vecchi una parte a Milano, gli altri andati verso Savona, per dare favore alle cose di Genova, ridotta in grandissima angustia. Ed era certo maravigliosa la deliberazione di Borbone e di quello esercito, che, trovandosi senza danari senza munizioni senza guastatori senza ordine di condurre vettovaglie, si mettesse a passare innanzi in mezzo a tante terre inimiche e contro a inimici che avevano molto piú gente di loro; e piú maravigliosa la costanza de' tedeschi, che partiti di Germania con uno ducato solo per uno, e avendo tollerato tanto tempo in Italia con non avere avuto in tutto il tempo piú che due o tre ducati per uno, si mettessino, contro a l'uso di tutti i soldati e specialmente della loro nazione, a camminare innanzi, non avendo altro premio o assegnamento che la speranza della vittoria; ancora che si comprendesse manifestamente che, riducendosi in luogo stretto le vettovaglie e avendo i nimici propinqui, non potrebbeno vivere senza denari: ma gli faceva sperare e tollerare assai l'autorità grande che aveva il capitano Giorgio con loro, che proponeva loro in preda Roma e la maggiore parte di Italia.

Spinsonsi, a' ventidue dí, al Borgo a San Donnino; e il dí seguente, il marchese di Saluzzo e le genti ecclesiastiche, lasciato a guardia di Parma alcuni fanti de' viniziani, si partirono da Parma per la volta di Bologna, con undici in dodicimila fanti; lasciato ordine al conte Guido che da Piacenza venisse a Modena e i fanti delle bande nere a Bologna, restando in Piacenza guardia sufficiente. Cosí per il reggiano si condusseno, in quattro alloggiamenti, tra Anzuola e il ponte a Reno. Nel quale tempo Borbone era intorno a Reggio. E il duca di Urbino, il quale, proponendogli il luogotenente a Casalmaggiore che si accrescesse il numero de' svizzeri, l'aveva come cosa inutile recusato, ora instava seco che si proponesse a Roma e a Vinegia che si conducessino di nuovo quattromila svizzeri e dumila tedeschi; scusando la contradizione fatta allora perché la stagione non consentiva che si uscisse alla campagna, e avere creduto che gli inimici si risolvessino prima: a' quali, con questo augumento, prometteva di accostarsi. Consiglio disprezzato da tutti, perché a' pericoli presenti non soccorrevano rimedi tanto tardi; potendo anche egli essere certissimo che queste cose, per le difficoltà de' denari e volontà già disunite de' collegati, non si potevano mettere a esecuzione.

Nel quale tempo il duca di Milano, che fatti tremila fanti difendeva Lodi e Cremona e tutto il di là da Adda, e scorreva nel milanese, occupò con subito impeto la terra di Moncia; ma fu presto abbandonata da i suoi, avuto avviso che Antonio da Leva, che aveva accompagnato Borbone, ritornato a Milano andava a quella volta; e si diceva avere seco dumila fanti tedeschi de' vecchi, mille cinquecento de' nuovi, mille fanti spagnuoli e cinquemila fanti italiani sotto piú capi.

Ma Borbone, passata Secchia, presa la mano sinistra, si condusse, a' cinque di marzo, a Buonoporto; dove lasciato le genti andò al Finale ad abboccarsi col duca di Ferrara, che lo confortò assai a indirizzarsi, lasciati da parte tutti gli altri pensieri, alla volta di Firenze o di Roma: anzi si crede che lo consigliasse a indirizzarsi, lasciata ogni altra impresa, verso Roma. Nella quale deliberazione cruciavano l'animo del duca di Borbone molte difficoltà, e specialmente il timore che l'esercito, condotto in terra di Roma, o per necessità o per desiderio di rinfrescarsi, o incontrando in qualche difficoltà (come senza dubbio sarebbe incontrato se il pontefice non si fusse disarmato) non pigliasse per alloggiamento il regno di Napoli. Nel quale dí le genti de' viniziani passorono Po, senza la persona del duca d'Urbino (il quale benché quasi guarito era ancora a Gazzuolo) ma con intenzione di camminare presto. Alloggiò, il settimo dí, Borbone a San Giovanni in bolognese, donde mandò uno trombetto a Bologna, dove si erano ritirate le genti ecclesiastiche, a dimandare vettovaglie, dicendo volere andare al soccorso del reame; e il dí medesimo si unirono seco gli spagnuoli che erano in Carpi, consegnata quella terra al duca di Ferrara: e le genti de' viniziani erano in su la Secchia, risolute a non passare piú innanzi se prima non intendevano la partita di Borbone da San Giovanni. Al quale veniva vettovaglia di quello di Ferrara, ma avendola a pagare e non avendo quasi denari, alloggiavano, per mangiare il paese, molto larghi, e correvano per tutto predando uomini e bestie, donde traevano il modo di pagare le vettovaglie: in modo che si conosceva certissimo che se avessino avuto riscontro potente, o se l'esercito ecclesiastico, il quale era in Bologna e all'intorno, avesse potuto mettersi in uno alloggiamento vicino a loro, si sarebbeno gli imperiali ridotti presto in molte angustie; perché continuando di alloggiare cosí larghi sarebbeno stati con molto pericolo, e ristrignendosi non arebbeno avuto il modo a pagare le vettovaglie. Ma nelle genti che erano a Bologna erano molti disordini, sí per la condizione del marchese, atto piú a rompere una lancia che a fare offizio di capitano, sí ancora perché i svizzeri e i fanti suoi non erano pagati a' tempi debiti da' viniziani; e Borbone, per potere camminare piú innanzi, attendeva a provedersi da Ferrara di vettovaglie per piú dí, di munizioni, di guastatori e di buoi, avendo seco insino allora quattro cannoni: e ancora che facesse varie dimostrazioni di quello che avesse in animo, nondimeno si ritraeva per cosa piú certa avere in animo di passare in Toscana per la via del Sasso; e il medesimo confermava Ieronimo Morone il quale, già molti dí, teneva segreta pratica col marchese di Saluzzo, benché, a giudizio di molti, simulatamente e con fraude. Ma già avendo statuito dovere partire a' quattordici dí di marzo, e perciò rimandato al Bondino i quattro cannoni il dí precedente, i fanti tedeschi, delusi da varie promesse de' pagamenti e seguitati poi da' fanti spagnuoli, gridando denari, si ammutinorono con grandissimo tumulto, e con pericolo non mediocre della vita di Borbone se non fusse stato sollecito a fuggirsi occultamente del suo alloggiamento; dove concorsi lo svaligiorno, ammazzatovi uno suo gentiluomo: per il che il marchese del Vasto andò subito a Ferrara, donde tornò con qualche somma, benché piccola, di denari. E sopravenne, a' diciasette dí neve e acqua smisurata, in modo che era impossibile che per la grossezza de' fiumi e per le male strade l'esercito per qualche dí camminasse; e uno accidente di apoplessia sopravenuto al capitano Giorgio lo condusse quasi alla morte con maggiore speranza che non fu poi il successo che, avendo almeno a restare inutile a seguitare il campo i fanti tedeschi, per la partita sua, non avessino a sopportare piú le incomodità e il mancamento de' denari. Erano in questo tempo le genti de' viniziani a San Faustino presso a Rubiera: alle quali arrivò, il decimo ottavo dí di [marzo] il duca di Urbino; promettendo, secondo l'uso suo, al senato viniziano, quando era lontano dal pericolo, la vittoria quasi certa, non perciò per virtú dell'armi de' confederati ma per le difficoltà degli inimici.

Cap. v

Sfiducia del pontefice per l'esito della guerra e per gli scarsi aiuti del re di Francia e degli altri collegati; suoi timori per Firenze e per lo stato della Chiesa; suoi accordi con i rappresentanti di Cesare. Incauti provvedimenti del pontefice, troppo fiducioso negli accordi conchiusi; ostinazione dell'esercito imperiale nel volere seguitare la guerra. Inosservanza della tregua da parte dell'esercito imperiale. Il viceré, rassicurato il pontefice, tratta a Firenze con inviati del Borbone.

In questo stato essendo da ogni banda ridotte le cose, il pontefice, invilito per non avere denari (alla quale difficoltà non voleva porre rimedio col creare nuovi cardinali), invilito per non succedere secondo i primi disegni la impresa del regno, perché già le genti sue per mancamento di vettovaglia si erano ritirate a Piperno, invilito perché le provisioni de' franzesi amplissime di parole riuscivano, ogni dí piú, scarsissime di effetti, come continuamente avevano fatto dal primo dí insino all'ultimo di tutta la guerra. Perché, oltre alla tardità usata per il re in mandare il primo mese della guerra i quarantamila ducati, in espedire le cinquecento lancie e l'armata marittima, oltre al non avere voluto rompere, come era obligato, la guerra di là da' monti, disegnato per uno de' fondamenti principali di ottenere la vittoria, mancò eziandio nelle promesse fatte quotidianamente. Aveva promesso di pagare al pontefice, oltre alla contribuzione ordinaria, ventimila ducati ciascuno mese, perché rompesse la guerra al reame di Napoli; ed essendo dipoi succeduta la tregua fatta per lo insulto di don Ugo e de' Colonnesi, confortandolo a non osservare la tregua, gli aveva riconfermato la medesima promessa, per servirsene o per la guerra di Napoli o per la difesa propria, e mandargli Renzo da Ceri, venuto appresso a lui per la difesa di Marsilia in grande estimazione: le quali cose, benché promesse insino al quinto dí di ottobre, si differirono tanto, per la tardità loro per i pericoli terrestri e per gli impedimenti del mare, che Renzo non prima che 'l quarto dí di gennaio arrivò a Roma senza danari, e dieci dí poi arrivorono ventimila ducati; de' quali avendone ritenuti Renzo quattromila per le spese fatte da sé e sua pensione, diecimila per la impresa dello Abruzzi, soli seimila ne pervennono nel pontefice: il quale sotto queste promesse aveva, quasi tre mesi innanzi, rotta la tregua. Promesse il re di pagargli per la concessione della decima, fra otto dí, scudi venticinquemila e trentacinquemila altri fra due mesi; ma di questi non ricevé mai il pontefice se non novemila portati da Robadanges. Partí dal re di Francia, il duodecimo dí di febbraio, Pagolo d'Arezzo; al quale, per dare maggiore animo alla guerra, promesse, oltre a tutti i predetti, ducati ventimila: i quali, mandati dietro a Langes non passorono mai Savona. Era obligato il re per i capitoli della confederazione a mandare dodici galee sottili; diceva averne mandate sedici, ma il piú del tempo tanto male provedute e senza uomini da porre in terra che non partivano da Savona: le quali se, nel principio che si roppe la guerra contro al reame di Napoli, si fussino congiunte subito con le galee del pontefice e de' viniziani, arebbono, secondo il giudicio comune, fatto grandissimi progressi. L'armata de' grossi navili, certamente molto potente, benché molte volte promettesse mandarla verso il regno, per quale si fusse cagione, non si discostò mai dalla Provenza o da Savona; e dopo avere concorso a dare due paghe a' fanti del marchese di Saluzzo, concordò co' viniziani, i quali tenevano minore numero di gente che quelle alle quali erano obligati, che 'l pagamento loro si traesse della contribuzione de' quarantamila ducati. E i conforti e gli aiuti del re di Inghilterra erano troppo lontani e troppo incerti. Vedeva i viniziani tardi ne' pagamenti delle genti; per colpa de' quali i fanti di Saluzzo e i svizzeri, che alloggiavano in Bologna, erano quasi inutili. Spaventavano le variazioni e il modo del procedere del duca d'Urbino, per la quale [cosa] conosceva non si avere a fare ostacolo alcuno che l'esercito imperiale non passasse in Toscana; donde, per la mala disposizione del popolo fiorentino, per lo avere i cesarei aderente la città di Siena, comprendeva cadere in gravissimo pericolo lo stato di Firenze ed eziandio quello della Chiesa. Queste ragioni lo commosseno: benché dopo molte pratiche e fluttazioni di animo, perché conosceva anche quanto fusse pernicioso e pericoloso il separarsi da' collegati e rimettersi alla discrizione degli inimici. Nondimeno, non essendo aiutato a bastanza da altri né volendo aiutarsi quanto arebbe potuto da se medesimo, e prevalendo in lui il timore piú presente, né sapendo fare con l'animo resistenza alle difficoltà e a' pericoli, [si risolvé] ad accordare col Fieramosca e con Serone, che erano in Roma per questo effetto in nome del viceré, di sospendere l'armi per otto mesi, pagando allo esercito imperiale sessantamila ducati: restituissensi le cose tolte della Chiesa e del regno di Napoli e de' Colonnesi, e a Pompeio Colonna la degnità del cardinalato, con l'assoluzione dalle censure (delle quali condizioni niuna fu piú grave al pontefice, e alla quale condiscendesse con maggiore difficoltà): e avessino facoltà il re di Francia e i viniziani a entrarvi fra certo tempo; nel quale entrandovi, uscissino i fanti tedeschi di Italia; non vi entrando, uscissino dello stato della Chiesa ed eziandio di quello di Ferrara: pagassensi quarantamila ducati a' ventidue del presente, il resto per tutto il mese; e che il viceré venisse a Roma: il che al papa pareva quasi uno assicurarsi della osservanza di Borbone.

Fatto l'accordo, si richiamorono subito da ciascuna delle parti tutte le genti e l'armata del mare, e si restituirono le terre occupate, procedendo il pontefice con buona fede alla osservanza (le condizioni del quale erano molto superiori nel regno di Napoli); ma all'Aquila i figliuoli del conte di Montorio, diffidando potervi stare sicuri altrimenti, liberorono il padre, il quale subito, col favore della fazione imperiale, ne scacciò i figliuoli e la fazione avversa. Arrivò poi il viceré a Roma; per la venuta del quale il pontefice, giudicandosi assicurato del tutto della osservanza della concordia, licenziò con pessimo consiglio tutte le genti che nelle parti di Roma erano agli stipendi suoi, riservandosi solamente cento cavalli leggieri e dumila fanti delle bande nere: dandogli a questo maggiore animo il persuadersi che il duca di Borbone fusse inclinato alla concordia, per le difficoltà che aveva a procedere nella guerra (perché sempre aveva dimostrato a lui desiderarla) e per una sua lettera al viceré, intercetta dal luogotenente, per la quale lo confortava a concordare col pontefice quando si potesse farlo con onore di Cesare. Al quale ritornò, pochi dí dopo la giunta del viceré, a significare le cose fatte e a trattare della pace [il generale di San Francesco].

Ma molto diversamente procedevano le cose intorno a Bologna: perché avendo il pontefice, subito dopo la stipulazione della tregua, espedito Cesare Fieramosca a Borbone perché approvasse la concordia, e ricevuto che avesse i danari levasse l'esercito del territorio della Chiesa, si scopersono, forse in Borbone ma senza dubbio ne' soldati, infinite difficoltà, dimostrandosi ostinati a volere seguitare la guerra, o perché s'avessino proposto speranza di grandissimo guadagno o perché i danari promessi del pontefice non bastassino a sodisfargli di due paghe; e però molti credettono che se fussino stati centomila ducati arebbono facilmente accettata la tregua. Quel che ne fusse la cagione certo è che, dopo la venuta del Fieramosca, non cessavano di predare il bolognese come prima e fare tutte le dimostrazioni degli inimici; e nondimeno Borbone, il quale faceva fare le spianate verso Bologna, e il Fieramosca davano speranza al luogotenente che non ostante tutte le difficoltà l'esercito accetterebbe la tregua, affermando Borbone essere necessitato a fare le spianate per intrattenere l'esercito con la speranza del procedere innanzi, insino a tanto l'avesse ridotto al desiderio suo, il quale era di conservarsi amico del pontefice. E nondimeno, nel tempo medesimo, venivano, per ordine del duca di Ferrara, allo esercito provisioni di farine guastatori carri polvere e instrumenti simili; il quale si gloriò poi né i danari dati loro né tutti questi aiuti passare il valore di sessantamila ducati. E da altra parte, il duca di Urbino, simulando di temere che quello esercito, accettata la tregua, non si volgesse al Pulesine di Rovigo, ritirò le genti viniziane di là dal Po a Casale Maggiore.

Stettono cosí sospese le cose otto dí. Finalmente, o perché questa fusse stata sempre la intenzione del duca di Borbone o perché non fusse in potestà sua comandare all'esercito, scrisse Borbone al luogotenente che la necessità lo costrigneva, poiché non poteva ridurre alla volontà sua i soldati, di camminare innanzi; e cosí mettendo a esecuzione andò, il dí seguente che fu l'ultimo dí di marzo, ad alloggiare al ponte a Reno, con tanto ardore della fanteria che venendo nel campo uno uomo mandato dal viceré per sollecitare Borbone che accettasse la tregua sarebbe, se non si fusse fuggito, stato ammazzato dagli spagnuoli. Ma maggiore fu la dimostrazione contro al marchese del Guasto; il quale, essendosi partito dallo esercito per andare nel reame di Napoli, mosso o da indisposizione della persona o per non contravenire, secondo che scrisse al luogotenente, alla volontà di Cesare come gli altri, o da altra cagione, fu bandito dallo esercito per rebelle. Per la venuta del duca di Borbone al ponte a Reno, il marchese di Saluzzo e il luogotenente, essendo già certi che gli inimici andavano verso la Romagna, lasciata una parte de' fanti italiani alla guardia di Bologna, non senza difficoltà di condurre i svizzeri (per il pagamento de' quali fu necessitato il luogotenente prestare a Giovanni Vitturio diecimila ducati), si indirizzorono, la notte medesima, col resto dello esercito a Furlí, dove entrorono il terzo dí di aprile, lasciato in Imola presidio sufficiente a difenderla. Sotto la quale città passò, il quinto dí, il duca di Borbone per alloggiare piú basso sotto la strada maestra. Ma come a Roma pervenne la certezza che Borbone non aveva accettata la tregua, il viceré, dimostrandone grandissima molestia, e persuadendosi che, secondo aveva ricevuto gli avvisi primi, procedesse perché fusse necessaria maggiore somma di danari, mandò uno suo uomo a offerire, di piú, ventimila ducati, quali pagava delle entrate di Napoli; ma dipoi, inteso essere stato in pericolo, partí il terzo dí d'aprile da Roma per abboccarsi con Borbone, avendo promesso al pontefice che costrignerebbe Borbone ad accettare la tregua, se non con altro modo, col separare da lui le genti d'arme e la maggiore parte de' fanti spagnuoli. Ma arrivato a sei dí in Firenze, si fermò quivi per trattare con uomini mandati da Borbone, come in luogo piú opportuno; essendo già certo non si potere fermare lo esercito se non pagandogli molto maggiore somma di denari, e avendo questi a pagarsi da' fiorentini, sopra i quali il pontefice aveva lasciato tutto il carico di provedervi.

Cap. vi

Vanità delle speranze del pontefice per la conclusione della tregua; opera del suo luogotenente perché non sia abbandonato dai collegati; incertezza di questi. Terre di Romagna prese dal Borbone; comunicazione del viceré al Borbone della conferma della capitolazione conchiusa a Roma. Il Borbone passa l'Apennino; il luogotenente del pontefice convince i collegati a passare in Toscana; maggior sicurezza di Firenze e maggior pericolo per Roma. Il pontefice fiducioso nella tregua licenzia le milizie.

Augumentavano queste varietà sommamente le difficoltà e i pericoli del pontefice, anzi già l'avevano augumentate molti dí: perché, nella incertitudine delle deliberazioni del duca di Borbone e di quello che avesse a partorire la venuta del viceré, aveva necessità degli aiuti de' collegati; i quali raffreddavano le azioni sue, sollecitandogli in contrario la instanza e gli stimoli del suo luogotenente perché il pontefice con tutte le parole e dimostrazioni manifestava il desiderio sommo che aveva dello accordo e la speranza grande che aveva che per l'opere del viceré dovesse succedere; e il luogotenente, da altro canto, comprendendo per molti segni che la speranza del pontefice era vana, e conoscendo che il raffreddarsi le provisioni de' collegati metteva in manifestissimo pericolo le cose di Firenze e di Roma, faceva estrema instanza col marchese di Saluzzo e co' viniziani per persuadere loro che l'accordo non arebbe effetto e confortargli che, se non per rispetto di altri almanco per interesse loro proprio, non abbandonassino le cose del pontefice e di Toscana; né dissimulando, per avere maggiore fede, che il papa ardentemente desiderava e cercava la tregua, e imprudentemente, non conoscendo le fraudi aperte degli imperiali, vi sperava; e che quando bene, col dargli aiuto, non ottenessino altro che facilitargli le condizioni dello accordo, essere questo a loro grandissimo benefizio, perché il papa, aiutato da loro, accorderebbe per sé e per i fiorentini con condizioni che nocerebbeno poco alla lega, abbandonato, sarebbe costretto per necessità obligarsi a dare agli imperiali somma grandissima di denari e qualche contribuzione grossa mensuale, che sarebbeno quelle armi con le quali in futuro si farebbe la guerra contro a loro: e però dovere, se non volevano nuocere a se stessi, qualunque volta Borbone si movesse per offendere la Toscana, muoversi anche essi con tutte le forze loro per difenderla. Stava molto perplesso il marchese di Saluzzo in questa deliberazione; ma molto piú vi stavano perplessi i viniziani, perché, scoperta a tutti la pusillanimità del pontefice, tenevano per certo che, eziandio dopo gli aiuti avuti di nuovo da loro, qualunque volta potesse conseguire lo accordo lo abbraccierebbe senza rispetto de' confederati, e che però fussino astretti a cosa molto nuova: aiutarlo per fargli facile il convenire con gli inimici comuni. Consideravano che lo abbandonarlo causerebbe maggiore pregiudizio alle cose comuni; ma giudicavano mettersi in manifesto pericolo le genti loro, tra l'Apennino e gli inimici e nel paese già diventato avverso, se, mentre che erano in Toscana, il pontefice stabilisse o di nuovo facesse l'accordo; e poteva anche nel senato quella dubitazione che il pontefice non facesse instanza che le genti loro passassino in Toscana, per costrignergli ad accettare, per pericolo di non le perdere, la sospensione. Le quali perplessità aveva con minore difficoltà rimosse il luogotenente dall'animo del marchese, ancora che molti del suo consiglio, per timore di non mettere le genti in pericolo, lo confortassino al contrario: però, come prima era stato pronto a venire a Furlí cosí non recusava, se il bisogno lo ricercasse, di passare in Toscana. Stavanne molto piú sospesi i viniziani; i quali, per tenere il papa e i fiorentini in qualche speranza e da altro canto essere pronti a pigliare i partiti di giorno in giorno, ordinorno che il duca di Urbino partisse il quarto dí di aprile da Casalmaggiore, mandando la cavalleria per la via di Po dalla parte di là e la fanteria per il fiume. Il quale, dimostrando qualche timore per la andata degli imperiali in Romagna, mandò dumila fanti de' viniziani a guardia del suo stato; benché per molti si dubitasse, e per il pontefice particolarmente, che secretamente non avesse promesso a Borbone di non gli dare impedimento al passare in Toscana.

Il duca di Borbone in questo mezzo, cercando da ogni parte vettovaglie, delle quali era in somma necessità, mandò una parte dello esercito a Cotignuola: la quale terra benché forte di muraglia, battuta che l'ebbe [con] pochi colpi, ottenne per accordo: perché gli uomini della terra, come molti altri luoghi di Romagna, temendo delle rapine de' soldati amici, gli avevano recusati. Presa Cotignuola, mandò a Lugo i quattro cannoni; e per provedersi di vettovaglie e per impedimento dell'acque, soprastette tre o quattro dí in su il fiume di Lamone; dipoi, il terzodecimo dí di aprile, passato il Montone, alloggiò a Villafranca, lontana cinque miglia da Furlí: nel quale dí il marchese di Saluzzo svaligiò cinquecento fanti, quasi tutti spagnuoli, che andavano sbandati cercando da vivere, verso Monte Poggiuoli, come andava per la necessità quasi tutto il resto dello esercito. Alloggiò Borbone, il quartodecimo dí, sopra strada alla volta di Meldola, cammino da passare in Toscana per la via di Galeata e di Val di Bagno; sollecitandolo molto i sanesi, che gli offerivano copia di vettovaglie e di guastatori; e camminando con l'abbruciare i tedeschi tutti i paesi donde passavano, assaltorono la terra di Meldola, che si arrendé e nondimeno fu abbruciata. Il quale dí ebbe la nuova che il viceré, con consentimento del La Motta mandato a questo effetto da lui, aveva, il dí dinanzi, capitolato in Firenze: che, non si partendo nelle altre cose anzi riconfermando la capitolazione fatta in Roma, dovesse il duca di Borbone cominciare infra cinque dí prossimi a ritirarsi con l'esercito e, che, subito si fusse ritirato al primo alloggiamento, gli fussino pagati da' fiorentini ducati sessantamila, a' quali il viceré ne aggiugneva ventimila; pagassinsegli altri settantamila per tutto maggio prossimo, de' quali il viceré per cedola di mano propria obligò Cesare a restituirne cinquantamila: ma questi ultimi non si pagassino se prima non fusse liberato Filippo Strozzi, e assoluto Iacopo Salviati dalla pena de' trentamila ducati, come il viceré aveva promesso al pontefice, non ne' capitoli della tregua ma sotto semplici parole.

Non ritardò questa notizia il duca di Borbone dallo andare innanzi, né la notizia ancora che il viceré si era partito di Firenze per condursi a lui e per stabilire tutte le cose che fussino necessarie: perché il viceré e per molte altre cagioni desiderava la concordia, e perché (per quello che io ho udito da uomini degni di fede) trattava che l'esercito si voltasse subito contro a' viniziani, non per occupare le città del loro imperio ma per occupare la città medesima di Vinegia; sperando, con le barche e con gli uomini periti di quella navigazione che arebbe dal duca di Ferrara, e con le zatte che essi fabbricherebbono, poterla opprimere. E benché il viceré avesse promesso a Roma di rimuovere da Borbone la cavalleria e la maggiore parte de' fanti spagnuoli, nondimeno, mentre che si trattava in Firenze, recusava di farlo, dicendo non volere essere causa della ruina dello esercito di Cesare: anzi andò ad alloggiare il sesto[decimo] dí, a Santa Sofia, terra della valle di Galeata suddita a' fiorentini; e sforzandosi, con la celerità e con la fraude, di prevenire che nel passare delle alpi non gli fusse fatto ostacolo alcuno (nelle quali, per il mancamento delle vettovaglie, qualunque sinistro avesse avuto era bastante a disordinarlo), avendo ricevuto, il decimo settimo dí, a San Piero in Bagno, lettere dal viceré e dal luogotenente, della venuta sua, rispose all'uno e all'altro di loro averlo quello avviso trovato in alloggiamento tanto disagiato che era impossibile aspettarlo quivi, ma che il dí seguente l'aspetterebbe a Santa Maria in Bagno sotto l'alpi: mostrandosi, massime nelle lettere al luogotenente, desiderosissimo dello accordo e di fare conoscere al pontefice il suo buono animo e la sua divozione, benché altrimenti avesse nella mente. Andò il viceré il dí destinato; e il medesimo dí il luogotenente, insospettito del camminare di Borbone, acciò che non prima entrassino gli inimici in Toscana che il soccorso, persuaso al marchese di Saluzzo con molte ragioni l'andare innanzi, e confutati efficacemente Giovanni Vitturio proveditore viniziano appresso al marchese e gli altri (i quali, per timore che le genti non si mettessino in pericolo, dimandavano che innanzi che si passasse in Toscana si desse sicurtà per dugentomila ducati o pegni di fortezze), lo condusse con tutte le genti a Berzighella: donde scrisse al pontefice avere tanto pronta la disposizione del marchese che non dubitava piú di farlo passare con le sue genti in Toscana, e che teneva per certo che quelle de' viniziani farebbono il medesimo; ma che quanto per la passata loro si assicuravano le cose di Firenze tanto si mettevano in pericolo quelle di Roma, perché Borbone, non gli restando altra speranza, sarebbe necessitato voltarsi a quella impresa, e trovandosi piú propinquo a Roma, sarebbe difficile che il soccorso che si mandasse pareggiasse la sua prestezza, per passare in due alloggiamenti l'Apennino.

Al quale caso essendosi anche prima preparati, co' viniziani e col duca d'Urbino, i fiorentini, avevano dato speranza e poi promesso, in caso che le genti loro passassino in Toscana, entrare nella lega, obligarsi a pagare certo numero di fanti, e non accordare con Cesare eziandio quando volesse il pontefice; e al duca d'Urbino, che passato il Po a Ficheruolo si era condotto a' tredici dí al Finale e poi a Corticella, avevano, per Palla Rucellai mandato a trattare queste cose, offerto di restituirgli le fortezze di Santo Leo e di Maiuolo. Però fu manco difficile avere gli aiuti pronti come venne l'avviso che il viceré non solo non aveva trovato nel luogo destinato il duca di Borbone (il quale facendosi beffe di lui aveva, il dí medesimo, atteso a passare l'alpi) ma ancora era stato in grave pericolo di non essere morto dai contadini del paese, sollevati e tumultuosi per i danni e per le ingiurie ricevute dallo esercito: perché il marchese ancora che il duca d'Urbino, tiratolo a parlamento a Castel San Piero, cercasse di interporre o difficoltà o dilazione, fu pronto a passare l'alpi, in modo che a' ventidue alloggiò al Borgo a San Lorenzo in Mugello; e il duca di Urbino, non potendo onestamente discostarsene né volendo tirare a sé tutto il carico, veduta la prontezza de' franzesi, e sapendosi i viniziani essersi rimessi in lui (con commissione però, se subito che arrivasse in Toscana i fiorentini non facessino la confederazione, di ripassare subito l'esercito), passò ancora egli e alloggiò, il vigesimo quinto dí del mese, a Barberino.

Borbone intanto, passate il medesimo dí l'alpi, alloggiò alla Pieve a Santo Stefano; la quale terra dallo assalto de' suoi si difese francamente: e al pontefice, per intrattenerlo con le medesime arti e avere maggiore occasione di offenderlo, mandò uno uomo suo a confermare il desiderio che aveva di accordare seco, ma che veduta la pertinacia delle sue genti l'accompagnava per minore male; ma che lo confortava a non rompere le pratiche dello accordo, né guardare in qualche somma piú di denari. Ma era superfluo l'usare col pontefice queste diligenze: il quale, credendo troppo a quello desiderava, e troppo desiderando di alleggerirsi della spesa, subito che ebbe avviso della conclusione fatta in Firenze, con la presenza e consentimento del mandatario di Borbone, aveva imprudentissimamente licenziati quasi tutti i fanti delle bande nere; e Valdemonte, come in sicurissima pace, se ne era andato per mare alla volta di Marsilia.

Cap. vii

Il Borbone presso ad Arezzo; deliberazioni dei collegati. Tumulto in Firenze; pericolosa condizione della città; come il tumulto viene sedato; calunnie contro il luogotenente del pontefice. Gravi conseguenze del tumulto per le operazioni dei collegati. Nuova confederazione del pontefice col re di Francia e coi veneziani.

Trovandosi adunque tutti gli eserciti in Toscana, e intendendosi da i collegati che Borbone era andato in uno dí dalla Pieve a Santo Stefano ad alloggiare alla Chiassa presso ad Arezzo, che fu il vigesimoterzo dí, cammino di diciotto miglia, si consultò tra' capitani, che convenneno a Barberino, quello che fusse da fare, e facendo instanza molti di loro, e gli agenti del pontefice e de' fiorentini, che gli eserciti uniti si trasferissino in qualche alloggiamento di là da Firenze, per tôrre a Borbone la facoltà di accostarsi a quella città, fu risoluto che il dí seguente, lasciate le genti per riposarle ne' medesimi alloggiamenti, i capitani andassino a l'Ancisa lontana tredici miglia da Firenze, per trasferirvi dipoi le genti se lo trovassino alloggiamento da fermarvisi sicuramente, come affermava Federico da Bozzole autore di questo consiglio. Ma essendo l'altro dí in cammino, e già propinqui a Firenze, uno accidente improviso e da partorire, se non si fusse proveduto, gravissimi effetti, dette impedimento grande a questa e all'altre esecuzioni che si sarebbeno fatte.

Perché, essendo in Firenze grandissima sollevazione d'animo e quasi in tutto il popolo malissima contentezza del presente governo, e instando la gioventú che, per difendersi, secondo dicevano, da' soldati, i magistrati concedessino loro l'armi, innanzi se ne facesse deliberazione, il dí ventisei, nato nella piazza publica certo tumulto quasi a caso, la maggiore parte del popolo e quasi tutta la gioventú armata cominciò a correre verso il palagio publico. E dette fomento non piccolo a questo tumulto o la imprudenza o la timidità di Silvio cardinale di Cortona; il quale avendo ordinato di andare insino fuora della città a incontrare il duca di Urbino per onorarlo, non mutò sentenza, ancora che, innanzi che si movesse, avesse inteso essere cominciato questo tumulto: donde spargendosi per la città egli essere fuggito, furono molti piú pronti a correre al palazzo; il quale occupato dalla gioventú e piena la piazza di moltitudine armata, costrinseno il sommo magistrato a dichiarare rebelli con solenne decreto Ippolito e Alessandro nipoti del pontefice, con intenzione di introdurre di nuovo il governo popolare. Ma intratanto, entrati in Firenze il duca e il marchese con molti capitani e con loro il cardinale di Cortona e Ippolito de' Medici, e messi in arme mille cinquecento fanti, che per sospetto erano stati tenuti piú dí nella città, fatta testa insieme si indirizzorono verso la piazza; la quale, abbandonata subito dalla moltitudine, pervenne in potestà loro: benché, tirandosi sassi e archibusi da quegli che erano nel palagio, nessuno ardiva di fermarvisi, ma tenevano occupate le strade circostanti. Ma parendo al duca d'Urbino le genti che erano in Firenze non essere abbastanza a espugnare il palazzo e giudicando essere pericoloso, se non si espugnasse innanzi alla notte, che il popolo ripreso animo non tornasse di nuovo in su l'armi, deliberò, con consentimento di tre cardinali che erano presenti, Cibo, Cortona e Ridolfi, e del marchese di Saluzzo e de' proveditori viniziani, congregati tutti nella strada del Garbo contigua alla piazza, chiamare una parte delle fanterie viniziane che erano alloggiate nel piano di Firenze vicine alla città. Donde preparandosi pericolosa contesa, perché lo espugnare il palazzo non poteva succedere senza la morte di quasi tutta la nobiltà che vi era dentro, e anche era pericolo che, cominciandosi a mettere mano all'armi e all'uccisioni, i soldati vincitori non saccheggiassino tutto il resto della città, si preparava dí molto acerbo e infelice per i fiorentini; se il luogotenente con presentissimo consiglio non avesse espedito questo nodo molto difficile, perché avendo veduto venire inverso loro Federigo da Bozzole, immaginandosi quel che era, partendosi subito dagli altri, se gli fece incontro per essere il primo a parlargli: della quale cosa, benché paresse di niuno momento, ebbe origine principale il liberarsi quel dí la città di Firenze da cosí evidente pericolo. Era Federigo nel principio del tumulto andato in palagio, sperando di quietare, con l'autorità sua e con la grazia che aveva appresso a molti della gioventú, questo tumulto; ma non facendo frutto, anzi essendogli dette da alcuni parole ingiuriose, non aveva avuto piccola difficoltà a ottenere, dopo spazio di piú ore, che lo lasciassino partire. Però uscito del palagio pieno di sdegno, e sapendo quanto, per le piccole forze e piccolo ordine che vi era, fusse facile di espugnarlo, veniva per incitare gli altri a combatterlo subitamente. Ma il luogotenente, dimostrandogli con brevissime parole quanto sarebbono molesti al pontefice tutti i disordini che succedessino, e di quanto detrimento alle cose comuni de' confederati, e quanto fusse meglio l'attendere piú tosto a quietare che ad accendere gli animi, e perciò essere pernicioso il dimostrare al duca di Urbino e agli altri tanta facilità di espugnare il palagio, lo tirò senza difficoltà talmente nella sentenza sua che Federico, parlando agli altri come precisamente volle il luogotenente, propose la cosa in modo e dette tale speranza di posare le cose senza armi che, eletta questa per migliore via, pregorono l'uno e l'altro di loro che andando insieme in palazzo, attendessino a quietare il tumulto, assicurando ciascuno da quello che potessino essere imputati di avere macchinato, il dí, contro allo stato: dove andati, col salvocondotto di quegli che erano dentro, non senza molta difficoltà, gli indusseno ad abbandonare il palagio il quale erano inabili a difendere. Cosí, posato il tumulto, tornorono le cose allo essere di prima. E nondimeno (come è piú presente la ingratitudine e la calunnia che la rimunerazione e la laude alle buone opere) se bene allora ne fusse il luogotenente celebrato con somme laudi da tutti, nondimeno e il cardinale di Cortona si lamentò, poco poi, che egli, amando piú la salute de' cittadini che la grandezza de' Medici, procedendo artificiosamente, fusse stato cagione che in quel dí non si fusse stabilito in perpetuo, con l'armi e col sangue de' cittadini, lo stato alla famiglia de' Medici; e la moltitudine poi lo calunniò che, dimostrando, quando andò in palagio, i pericoli maggiori che non erano, gli avesse indotti, per beneficio de' Medici, a cedere senza necessità.

La tumultuazione di Firenze, benché si quietasse il dí medesimo e senza uccisione, fu nondimeno origine di gravissimi disordini; e forse si può dire che se non fusse stato questo accidente, non sarebbe succeduta quella ruina che poi prestissimamente succedette: perché il duca di Urbino e il marchese di Saluzzo, fermatisi in Firenze per la occasione di questo tumulto (benché senza necessità), non andorono a vedere, secondo la deliberazione che era stata fatta, l'alloggiamento dell'Ancisa; e il seguente dí Luigi Pisano e Marco Foscaro, oratore veneto appresso a' fiorentini, veduta la instabilità della città, protestorono non volere che l'esercito passasse Firenze se prima non si conchiudeva la confederazione trattata, nella quale dimandavano contribuzione di diecimila fanti, parendo loro tempo da valersi delle necessità de' fiorentini. Ma si conchiuse finalmente il vigesimo ottavo dí, rimettendosi a quella contribuzione che sarebbe dichiarata dal pontefice; il quale si credeva che già si fusse ricongiunto co' collegati. Aggiunsesi che, essendo venuto il tempo de' pagamenti de' svizzeri, né avendo Luigi Pisano, secondo le male provisioni che facevano i viniziani, danari da pagargli, passò qualche dí innanzi gli provedesse; in modo che si pretermesse il consiglio salutifero di andare con gli eserciti ad alloggiare all'Ancisa.

Nel quale stato delle cose il pontefice, inteso lo inganno usato al viceré da Borbone e la passata sua in Toscana, volto per necessità a' pensieri della guerra, aveva conchiuso, a' venticinque dí, di nuovo confederazione col re di Francia e co' viniziani, obligandogli a sovvenirlo di grosse somme di denari, né volendo obligare i fiorentini o sé ad altro che a quello che comportassino le loro facoltà; allegando la stracchezza in che era l'uno e l'altro di loro per avere speso eccessivamente. Le quali condizioni, benché gravi, approvate dagli oratori de' confederati per separare totalmente il pontefice dagli accordi fatti col viceré, non erano approvate da' principali: i viniziani improbavano Domenico Venereo, oratore loro, di avere conchiuso senza commissione del senato una confederazione di grave spesa e di piccolo frutto, per la vacillazione del pontefice, il quale pensavano che a ogni occasione tornerebbe alla prima incostanza e desiderio dello accordo, e il re di Francia esausto di danari, e intento piú a straccare Cesare con la lunghezza della guerra che alla vittoria, giudicava bastare ora che la guerra si nutrisse con piccola spesa; anzi, se bene nel principio, quando intese la tregua fatta dal pontefice, gli fusse molestissima, nondimeno, considerando poi meglio lo stato delle cose, desiderava che il pontefice disponesse i viniziani, senza i quali egli non voleva fare convenzione alcuna, ad accettare la tregua fatta.

Cap. viii

Deliberazione del Borbone di marciare contro Roma, e lentezza del pontefice nel prendere provvedimenti. Scarsa sollecitudine dei romani alla richiesta d'aiuti del pontefice. Deliberazioni dei collegati di inviare milizie a Roma; fiducia di Renzo da Ceri nella possibilità di difendere Roma, e fiducia del pontefice in lui. Assalto dell'esercito tedesco a Roma, morte del Borbone; sacco della città. Milizie de' collegati sotto Roma, donde subito si ritirano.

Ma in questo tempo il pontefice, al quale era molesto essersi trasferita la guerra in Toscana ma pure manco molesto che se si fusse trasferita in terra di Roma, soldava fanti e provedeva a' denari, ma lentamente; disegnando di mandare Renzo da Ceri con gente contro a' sanesi e anche assaltargli per mare, acciò che Borbone, implicato in Toscana, fusse impedito a pigliare il cammino di Roma: benché di questo gli diminuisse ogni dí il timore, sperando che, per le difficoltà che aveva Borbone di condurre inverso Roma le genti senza vettovaglie e senza denari, e per l'opportunità che aveva dello stato di Siena, dove almanco si nutrirebbono i soldati, fusse per fermarsi alla impresa contro a' fiorentini. Ma, o fusse stato altro il suo primo consiglio, stabilito, come molti hanno detto, segretissimamente, insino al Finale, con l'autorità del duca di Ferrara e di Ieronimo Morone, o diffidando, poiché alla difesa di Firenze erano condotte le forze di tutta la lega, di potere fare frutto in quella impresa, né potendo anche sostentare piú l'esercito senza denari, condotto insino a quel dí per tante difficoltà con vane promesse e vane speranze, e però necessitato o a perire o a tentare la fortuna, deliberò di andare improvisamente e con somma prestezza ad assaltare la città di Roma; dove e i premi della vittoria e per Cesare e per i soldati sarebbono inestimabili, e la speranza del conseguirgli non era piccola, poi che [il papa], con cattivo consiglio, aveva licenziato prima i svizzeri e poi i fanti delle bande nere, e ricominciato sí lentamente (disperato che fu l'accordo) a provedersi che giudicava non sarebbe a tempo a raccorre presidio sufficiente.

Partí adunque il duca di Borbone con tutto l'esercito, il dí vigesimo [sesto] di aprile, spedito, senza artiglierie senza carriaggi; e camminando con incredibile prestezza, non lo ritardando né le pioggie, le quali in quegli dí furono smisurate, né il mancamento delle vettovaglie, si appropinquò a Roma in tempo che appena il pontefice avesse certa la sua venuta, non trovato ostacolo alcuno né in Viterbo, dove il papa non era stato a tempo a mandare gente, né in altro luogo. Però il pontefice, ricorrendo (come prima gli era stato predetto avere a essere da uomini prudentissimi) nelle ultime necessità, e quando non gli potevano piú giovare, a quegli rimedi i quali, fatti in tempo opportuno, sarebbono stati alla salute sua di grandissimo momento, creò per danari tre cardinali; i quali per l'angustia delle cose non gli potettono essere numerati, né, gli fussino stati numerati, potevano, per la vicinità del pericolo, partorire piú frutto alcuno. Convocò anche i romani, ricercandogli che in tanto pericolo della patria pigliassino prontamente l'armi per difenderla, e i piú ricchi prestassino danari per soldare fanti, alla quale cosa non trovò corrispondenza alcuna. Anzi è restato alla memoria che Domenico di Massimo, ricchissimo sopra a tutti i romani, offerse di prestare cento ducati: della quale avarizia patí le pene, perché le figliuole andorono in preda de' soldati, egli co' figliuoli fatti prigioni ebbono a pagare grandissime taglie.

Ma in Firenze, avuta la nuova della partita di Borbone, la quale, scritta da Vitello che era in Arezzo, ritardò uno dí piú che non era conveniente a venire, si deliberò da' capitani che il conte Guido Rangone, con i cavalli suoi e con quelli del conte di Gaiazzo e con cinquemila fanti de' fiorentini e della Chiesa, andasse subito, spedito, alla volta di Roma, seguitasse l'altro esercito appresso: sperando che, se Borbone andava con artiglierie, sarebbe questo soccorso a Roma innanzi a lui; se andava spedito, sarebbe sí presto dopo lui che, non avendo artiglierie ed essendo mediocre difesa in Roma, dove il papa aveva scritto avere seimila fanti, sarebbe sopratenuto tanto che arrivasse questo primo soccorso; il quale arrivato, non era pericolo alcuno che Roma si perdesse. Ma la celerità di Borbone e le piccole provisioni di Roma pervertirono tutti i disegni. Perché Renzo da Ceri, al quale il pontefice aveva dato il carico principale della difesa di Roma, avendo per la brevità del tempo condotto pochi fanti utili ma molta turba imbelle e imperita, raccolta tumultuariamente dalle stalle de' cardinali e de' prelati e dalle botteghe degli artefici e delle osterie, e avendo fatto ripari al Borgo deboli, a giudizio di tutti, ma a giudizio suo sufficienti, confidava tanto nella difesa che né permettesse che si tagliassino i ponti del Tevere per salvare Roma, se pure il Borgo e Trastevere non si potessino difendere; anzi, giudicando essere superfluo il soccorso, presentita la venuta del conte Guido, gli fece il quarto dí di maggio scrivere dal vescovo di Verona in nome del pontefice che, per essere Roma provista e fortificata a bastanza, vi mandasse solamente seicento o ottocento archibusieri, egli col resto delle genti andasse a unirsi con l'esercito della lega, col quale unito farebbe piú frutto che rinchiuso in Roma: la quale lettera se bene non fece nocumento alcuno, perché il conte non era tanto innanzi che potesse essere a tempo, certificò pure quanto male si calcolassino da lui i pericoli presenti. Ma non fu manco maraviglioso, se è maraviglia che gli uomini non sappino o non possino resistere al fato, che il pontefice, che soleva disprezzare Renzo da Ceri sopra tutti gli altri capitani, si rimettesse ora totalmente nelle sue braccia e nel suo giudizio; e molto piú che, solito a temere ne' minori pericoli, era stato piú volte inclinato ad abbandonare Roma quando il viceré andò col campo a Frusolone, ora, in tanto pericolo, spogliatosi della natura sua, si fermasse costantemente in Roma, e con tanta speranza di difendersi che, diventato quasi come procuratore degli inimici, proibisse non solo agli uomini di partirsene ma eziandio ordinasse non fussino lasciate uscirne le robe, delle quali molti mercatanti e altri cercavano per la via del fiume di alleggierirsi.

Alloggiò Borbone con l'esercito, il quinto dí di maggio, ne' Prati presso a Roma, con insolenza militare mandò uno trombetto a dimandare il passo al pontefice (ma per la città di Roma) per andare con l'esercito nel reame di Napoli, e la mattina seguente in su il fare del dí, deliberato o di morire o di vincere (perché certamente poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al Borgo della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra battaglia; avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare piú sicuramente, per beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi al giorno, gli coperse insino a tanto si accostorno al luogo dove fu cominciata la battaglia. Nel principio della quale Borbone, spintosi innanzi a tutta la gente per ultima disperazione, non solo perché non ottenendo la vittoria non gli restava piú refugio alcuno ma perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande a dare l'assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso, cadde in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò l'ardore de' soldati, anzi combattendo con grandissimo vigore, per spazio di due ore, entrorno finalmente nel Borgo; giovando loro non solamente la debolezza grandissima de' ripari ma eziandio la mala resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale, come molte altre volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non hanno ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtú degli uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati di turba collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla difesa una parte della gioventú romana sotto i loro caporioni e bandiere del popolo; benché molti ghibellini e della fazione colonnese deliberassino o almanco non temessino la vittoria degli imperiali, sperando per il rispetto della fazione di non avere a essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa piú freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre senza artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di fuora. I quali come si ebbeno aperta la via di entrare dentro, mettendosi ciascuno in manifestissima fuga, e molti concorrendo al Castello, restorono i borghi totalmente abbandonati in preda de' vincitori; e il pontefice, che aspettava il successo nel palazzo di Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggí subito con molti cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi quivi, o pure, per la via di Roma, accompagnati da' cavalli leggieri della sua guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio delle calamità che possono sopravenire a' pontefici e anco quanto sia difficile a estinguere l'autorità e maestà loro, avuto nuove per Berardo da Padova, che fuggí dello esercito imperiale, della morte di Borbone e che tutta la gente, costernata per la morte del capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare co' capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di partirsi; non stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle provisioni del difendersi che fussino nelle espedizioni. Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v'entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma: dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della fazione, e da alcuni cardinali che per avere nome di avere seguitato le parti di Cesare credevano essere piú sicuri che gli altri, tutto il resto della corte e della città, come si fa ne' casi tanto spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all'autorità e degnità de' prelati, ma eziandio a' templi a' monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella città, destinata per ordine de' cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni; perché era l'anno......... che era stata saccheggiata da' goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero grande de' prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da' soldati, massime da' fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne' tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non era con l'esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose la marchesana di Mantova il suo palazzo in cinquantaduemila ducati, che furono pagati da' mercatanti e da altri che vi erano rifuggiti: de' quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo ne partecipasse di diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica eredità de' suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da' tedeschi; e si ebbe, poi che gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in Borgo col capo nudo con molte pugna, a riscuotere da loro con cinquemila ducati. Quasi simile calamità patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da' tedeschi pagorono la taglia, menati prima l'uno e l'altro di loro a processione per tutta Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati non manco acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da' soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a' mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose piú vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a piú di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore. Arrivò, il dí medesimo che gli imperiali preseno Roma, il conte Guido co' cavalli leggieri e ottocento archibusieri al ponte di Salara, per entrare in Roma la sera medesima; ma inteso il successo si ritirò a Otricoli, dove si congiunse seco il resto della sua gente; perché, non ostante le lettere avute di Roma che disprezzavano il suo soccorso, egli, non volendo disprezzare la fama di essere quello che avesse soccorso Roma, aveva continuato il suo cammino. Né mancò (come è natura degli uomini, benigni e mansueti estimatori delle azioni proprie ma severi censori delle azioni d'altri) chi riprendesse il conte Guido di non avere saputo conoscere una preclarissima occasione, perché gli imperiali, intentissimi tutti a sí ricca preda, a votare le case, a ritrovare le cose occultate, a fare prigioni e a ridurre in luogo salvo i fatti, erano dispersi per tutta la città, senza ordine di alloggiamenti senza riconoscere le loro bandiere senza ubbidire i segni de' capitani; in modo che molti credetteno che se la gente che era col conte Guido si fusse condotta con prestezza in Roma non solo arebbeno conseguito, presentandosi al Castello non assediato né custodito di fuora da alcuno, la liberazione del pontefice ma ancora sarebbe succeduta loro piú gloriosa fazione, occupati tanto gli inimici alla preda che con difficoltà, per qualunque accidente, se ne sarebbe messo insieme numero notabile: essendo massime certo che, ancora poi per qualche dí, quando per comandamento de' capitani o per qualche accidente si dava alle armi, non si rappresentava alle bandiere alcuno soldato. Ma gli uomini si persuadono spesso che se si fusse fatta o non fatta una cosa tale sarebbe succeduto certo effetto, che se si potesse vederne la esperienza si troverebbeno molte volte fallaci simili giudizi.

 

Cap. ix

Avanzata dell'esercito dei collegati verso Roma; fallimento del tentativo di liberare il pontefice. Lentezza dell'esercito dei collegati; indugi nella conclusione degli accordi per la resa fra il pontefice e gli imperiali. Inattività dell'esercito dei collegati; inutili istanze del luogotenente del pontefice.

Restava adunque a' rinchiusi nel Castello solamente la speranza del soccorso dello esercito della lega; il quale, partito da Firenze, non prima (credo) che 'l terzo o il quarto dí di maggio (perché i viniziani erano stati lenti a pagare i svizzeri), camminava, precedendo una giornata il marchese di Saluzzo alle genti viniziane ma con ordine accordato tra il duca e lui che seguitassino per il medesimo cammino. Nondimeno, il settimo dí, il duca, contro all'ordine dato, si dirizzò dallo alloggiamento di Cortona alla volta di Perugia, per arrivare a Todi e poi a Orti, e quivi passato il Tevere unirsi con gli altri. I quali, camminando per il cammino disegnato, sforzorono e saccheggiorono Castello della Pieve, che aveva recusato di alloggiare dentro i svizzeri, con morte di seicento o ottocento uomini di quegli della terra. Per il quale disordine, intenta la gente alla preda, non si condusseno prima che a' dieci dí al ponte a Cranaiuolo, dove ebbeno avviso della perdita di Roma, e agli undici a Orvieto: dove, per consiglio di Federigo da Bozzole, si spinse il marchese di Saluzzo, egli e Ugo de' Peppoli, con grossa cavalcata alla volta del Castello; disegnando egli e Ugo andare insino al Castello, e restando il marchese dietro per fare loro spalle; sperando trovare sprovisti gli imperiali e avere, col subito arrivare, occasione di cavare di Castello il pontefice e i cardinali: sapendosi massime i soldati, per la grandezza della preda, posposti gli altri pensieri, non essere intenti ad altro. Ma il disegno riuscí vano, perché a Federigo, non essendo già molto lontani da Roma, cadde il cavallo addosso, dal quale offeso molto non potette andare piú innanzi; e Ugo presentatosi presso al Castello essendo già fatto il dí, dove l'ordine era dovessino arrivare di notte, si ritirò: conoscendo, secondo diceva egli, scoperta l'occasione, ma secondo diceva Federigo, temendo piú che non sarebbe stato di bisogno.

Il duca di Urbino intratanto, inteso l'accidente di Roma, ancora che affermasse volere soccorrere con tutte le forze il pontefice, nondimeno, parendogli occasione di levare lo stato di Perugia di mano di Gentile Baglione, mantenutovi con l'autorità del pontefice, e rimetterlo in arbitrio de' figliuoli di Giampaolo, accostatosi con le genti de' viniziani a Perugia, costrinse con minacce Gentile a partirsene; e lasciatavi guardia sotto capi dependenti da Malatesta e da Orazio, de' quali l'uno era rinchiuso in Castello Santo Agnolo l'altro era in Lombardia con le genti de' viniziani, poiché, in questa fazione ebbe consumato tre dí, si condusse, a' quindici o a' sedici, a Orvieto, essendo stato causa di molta dilazione il cammino preso da lui dall'alloggiamento di Cortona per andare di là dal Tevere alla volta di Roma. A Orvieto si convenneno insieme tutti i capi dello esercito per risolvere le fazioni future. Sopra le quali il duca di Urbino, mostrato nel preambolo delle parole caldezza grande, proponeva molte difficoltà, ricordando sopra tutto il pensare alla sicurtà della ritirata se non riuscisse il soccorso del Castello; però volle statichi da Orvieto, per assicurarsi che nel ritorno non mancherebbeno di dare le vettovaglie allo esercito; e interponendo a tutte le cose lunghezza di tempo, risolvé finalmente di essere a' diciannove a Nepi, e che il dí medesimo il marchese con le sue genti e il conte Guido co' fanti italiani fussino a Bracciano, per andare tutti il dí seguente all'Isola, luogo lontano da Roma nove miglia: dove non furono gli eserciti (perché il duca soprastette a Nepi) prima che a' ventidue. La quale dilazione fu causata dall'andata di Perugia, da essere stato alloggiato tre dí a' piedi di Orvieto, e fermatosi uno dí nello alloggiamento di Nepi. La venuta de' quali intendendosi dal pontefice, per lettere del luogotenente scrittegli da Viterbo, fu cagione che, essendo quasi conclusa la concordia tra gli imperiali e lui, recusò di sottoscrivere i capitoli, non tanto per la speranza che egli raccogliesse dalle lettere (le quali, benché scritte cautamente, gli accennavano quel che, discorrendo il passato, potesse sperare del futuro) quanto per fuggire la ignominia che alla sua o timidità o precipitazione si potesse attribuire il non essere stato soccorso.

Era ne' franzesi prontezza di soccorrere, e i viniziani con lettere calde augumentavano la medesima disposizione, avendone parlato ardentemente il principe nel consiglio de' pregati; però, non restando al duca altra scusa, volle che il dí seguente si facesse la mostra di tutti gli eserciti; sperando trovare il numero diminuito in modo che gli desse giusta cagione di ricusare il combattere: disegno che riuscí vano, perché nello esercito, ancora che molti se ne fussino partiti, erano restati piú di quindicimila fanti, e tutta la gente dispostissima maravigliosamente a combattere. Consultossi, fatto la mostra, quello che fusse da fare; ed essendo molti disposti che si andasse a fare lo alloggiamento alla Croce di Montemari (come con grande instanza ricercavano quegli del Castello), allegando che, per essere alloggiamento forte e lontano da Roma tre miglia né essere da temere che gli imperiali uscissino ad alloggiare fuora di Roma, lo stare quivi e il ritirarsi potersi fare senza pericolo, e da quello alloggiamento potersi meglio conoscere e meglio eseguire l'occasione di soccorrere il Castello. Ma non piacendo al duca questa risoluzione, accettò uno partito proposto innanzi al tempo da Guido Rangone, che offeriva con tutti i cavalli e le fanterie ecclesiastiche accostarsi la notte medesima al Castello per fare pruova di trarne il pontefice; pure che il duca d'Urbino col resto dello esercito si conducesse insino alle Tre Capanne per fargli spalle. Ma non si eseguí la notte questo disegno, perché il duca, stimolato dagli altri, cavalcò per riconoscere l'alloggiamento di Montemari: e nondimeno, appropinquatosi la notte, non passò le Tre Capanne. Ma essendosi per questa andata perdute molte ore vanamente, fu necessario differire l'eseguire la deliberazione fatta alla notte futura. Ma il dí medesimo, avendo il duca fatto riferire a certe spie (o vere o subornate) che fussino le trincee fatte in Prati piú gagliarde, che non era la verità, e lo avere rotto (il che anche era falso) in piú luoghi il muro del corridore donde si va dal palazzo di Vaticano a Castello Santo Angelo, per potere, se si scopriva gente, soccorrere subito da piú bande, e proposto da lui molte difficoltà, che tutte furono consentite da Guido e approvate da quasi tutti gli altri capitani, si conchiuse essere cosa impossibile di soccorrere allora il Castello; ributtati agramente dal duca alcuni degli altri capitani che si sforzavano, disputando, di sostentare la contraria opinione. Cosí restava in preda il pontefice, non si rompendo pure solamente una lancia per cavare di carcere colui che per soccorrere altri aveva soldato tanta gente e speso somma infinita di denari e commosso alla guerra quasi tutto il mondo. Trattossi nondimeno se quel che non si faceva di presente si potesse fare in futuro con maggiori forze: alla qual cosa, proposta dal duca, rispose esso medesimo che indubitatamente soccorrerebbe il Castello qualunque volta nello esercito fusse il numero vero di sedicimila svizzeri, condotti per ordinazione de' cantoni, non computando in questi quegli che allora erano nello esercito, come già fatti inutili per la lunga dimora in Italia; e oltre a' svizzeri, diecimila archibusieri italiani tremila guastatori e quaranta pezzi di artiglieria; ricercando il luogotenente che confortasse il pontefice (che si intendeva avere da vivere per qualche settimana) che aspettasse ad accordarsi tanto che si mettessino insieme queste forze. E replicando il luogotenente che intendeva la proposta sua in caso non si variasse intratanto lo stato delle cose, ma essendo verisimile che, in questo tempo, quegli che erano in Roma, con nuove trincee e fortificazioni, farebbeno il soccorso piú difficile, e anche che del reame di Napoli verrebbeno a Roma le genti che erano state condotte dal viceré in su l'armata, desiderare di sapere che speranza potesse dare al pontefice quando, come era verisimile, succedessino queste cose, rispose che in tale caso si farebbe il possibile; e soggiugneva che congiungendosi le genti che erano a Napoli a quelle di Roma sarebbeno in tutto piú di dodicimila fanti tedeschi e otto in diecimila fanti spagnuoli: però, perdendosi il Castello, non si potere disegnare di vincere la guerra se non si avessino veramente almeno ventidue o ventiquattromila svizzeri. Le quali dimande essendo come impossibili sprezzate da tutti, lo esercito, il primo dí di giugno, molto diminuito di fanti, si ritirò a Monteruosi; non ostante che il papa, per favorirsene nelle pratiche dell'accordo, avesse fatto molta instanza che e' soprasedesse a levarsi: e la notte medesima, Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con dugento cavalli leggieri passorono a Roma agli inimici.

Cap. x

Accordi fra il Pontefice e gli imperiali; stretta sorveglianza del pontefice in Castel Sant'Angelo. Città che malgrado l'accordo rimangono alla devozione del pontefice; il duca di Ferrara occupa Modena, i veneziani Ravenna e Cervia, e Sigismondo Malatesta Rimini. Restaurazione del governo popolare in Firenze. Ragioni di odio dei fiorentini contro i Medici, e persecuzione ai loro fautori.

Aveva il pontefice, sperando sempre poco del soccorso, e temendo alla vita propria da' Colonnesi e da' fanti tedeschi, mandato a Siena a chiamare il viceré, sperando, anche, da lui migliore condizione: il quale andò cupidamente, credendo essere capitano dell'esercito. Arrivato a Roma, dove passò con salvocondotto de' capitani dello esercito, veduto essere contro a sé mala disposizione de' fanti tedeschi e spagnuoli, i quali dopo la morte di Borbone avevano eletto per capitano generale il principe di Oranges, non ebbe ardire di fermarvisi; ma andando verso Napoli, incontrato nel cammino dal marchese del Guasto, don Ugo e Alarcone, vi ritornò per consiglio loro: e nondimeno, non essendo grato all'esercito, non ebbe piú autorità né nelle cose della guerra né nel trattato della concordia col pontefice. Il quale finalmente, destituto di ogni speranza, convenne il sesto dí di giugno con gli imperiali, quasi con quelle medesime condizioni con le quali aveva potuto convenire prima: che il pontefice pagasse allo esercito ducati quattrocentomila, cioè centomila di presente, che si pagavano di denari argento e oro rifuggito nel Castello, cinquantamila fra venti dí, dugento cinquantamila fra due mesi, assegnando per il pagamento di questi una imposizione pecuniaria da farsi per tutto lo stato della Chiesa; mettesse in potestà di Cesare, per ritenerlo quanto paresse a lui, Castel Santo Angelo, le rocche di Ostia di Civitavecchia e di Civita Castellana, e le città di Piacenza di Parma e di Modona; restasse egli prigione in Castello con tutti i cardinali, che erano seco tredici, insino a tanto che fussino pagati i primi cento cinquantamila, dipoi andassino a Napoli o a Gaeta per aspettare quello che di loro determinasse Cesare; desse statichi allo esercito per l'osservanza de' pagamenti (de' quali la terza parte apparteneva agli spagnuoli) gli arcivescovi sipontino e pisano, i vescovi di Pistoia e di Verona, Iacopo Salviati, Simone da Ricasoli e Lorenzo fratello del cardinale de' Ridolfi: avessino facoltà di partirsi sicuramente del Castello Renzo da Ceri, Alberto Pio, Orazio Baglione, il cavaliere Casale oratore del re di Inghilterra; e tutti gli altri che vi erano rifuggiti, eccetto il pontefice e i cardinali: assolvesse il pontefice dalle censure incorse i Colonnesi, e che quando fusse menato fuori di Roma vi restasse uno legato in nome suo, e l'auditorio della ruota proposto a rendere ragione. Il quale accordo come fu fatto, entrò nel Castello con tre compagnie di fanti spagnuoli e tre compagnie di fanti tedeschi il capitano Alarcone; il quale, deputato alla guardia del Castello e della persona del pontefice, lo guardava con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste e con piccolissima libertà.

Ma non furono con la medesima facilità consegnate l'altre fortezze e terre promesse: perché quella di Civita Castellana era custodita in nome de' collegati; quella di Civitavecchia recusò di consegnare Andrea Doria, benché n'avesse comandamento dal pontefice, se prima non gli erano pagati quattordicimila ducati, de' quali diceva di essere creditore per gli stipendi suoi. A Parma e a Piacenza andò in nome del pontefice Giuliano Leno romano, architettore, in nome de' capitani Lodovico conte di Lodrone, con comandamento alle città di obbedire alla volontà di Cesare; benché da altra parte avesse fatto occultamente intendere loro il contrario: le quali città, aborrendo lo imperio degli spagnuoli, recusorono di volergli ammettere. Ma i modonesi non erano piú in potestà propria, perché il duca di Ferrara, non pretermettendo l'occasione che gli davano le calamità del pontefice, minacciando di dare il guasto alle biade già mature, gli costrinse a dargli il sesto dí di giugno la città; non senza infamia del conte Lodovico Rangone, il quale, benché il duca avesse seco poca gente, se ne partí, non fatto segno alcuno di resistenza: e disprezzò in questo il duca l'autorità de' viniziani, i quali lo confortavano a non fare, in tempo tale, innovazione alcuna contro alla Chiesa. E nondimeno essi, non contenendo se medesimi da quello che dissuadevano agli altri, avuta intelligenza co' guelfi di Ravenna, mandativi fanti sotto colore di guardarla per timore di quelli di Cotignuola, appropriorono a sé quella città; e ammazzato furtivamente il castellano, occuporono anche la fortezza, publicando volerla tenere in nome di tutta la lega; occuporono e, pochi dí poi, Cervia e i sali che vi erano del pontefice. Nello stato del quale, non essendo né chi lo guardasse né chi lo difendesse, se non quanto da se stessi per interesse proprio facevano i popoli, occupò Sigismondo Malatesta con la medesima facilità la città e la rocca di Rimini.

Ma non avevano le cose sue avuta nella città di Firenze migliore fortuna. Perché, come vi fu la nuova della perdita di Roma, il cardinale di Cortona, impaurito per trovarsi abbandonato da' cittadini che facevano professione di essere amici de' Medici, non avendo modo, senza termini violenti ed estraordinari, di provedere a' denari, né volendo per avarizia mettere mano a' suoi, almeno insino a tanto che si intendesse il progresso degli eserciti che andavano per soccorrere il pontefice, non lo movendo alcuna necessità, perché nella città erano molti soldati, e il popolo spaventato per l'accidente seguito della occupazione del palazzo non arebbe avuto ardire di muoversi, deliberò di cedere alla fortuna; e, convocati i cittadini, lasciò libera a loro l'amministrazione della republica, ottenuti certi privilegi ed esenzioni, e facoltà a' nipoti del pontefice di stare come cittadini privati in Firenze, e abolizione per ciascuno di tutte le cose perpetrate per il passato contro allo stato. Le quali cose conchiuse, il sestodecimo dí di maggio, egli co' nipoti se ne andò a Lucca; dove pentitosi presto del partito preso con tanta timidità, fece pruova di ritenersi le fortezze di Pisa e di Livorno, le quali erano in mano di castellani confidenti al pontefice; e nondimeno questi, fra pochi giorni, non sperando per la cattività del papa soccorso alcuno, ricevuta anche qualche somma di denari, consegnorono quelle fortezze a' fiorentini. I quali in questo mezzo, avendo ridotta la città al governo popolare, creorono gonfaloniere di giustizia per uno anno, e con facoltà di essere confermato insino in tre anni, Niccolò Capponi, cittadino di grande autorità e amatore della libertà; il quale, desiderando sopra modo la concordia de' cittadini e che il governo si riducesse a forma piú perfetta che si potesse di republica, convocato il prossimo dí il consiglio maggiore, nel quale risedeva la potestà assoluta del deliberare le leggi e di creare tutti i magistrati, parlò in questa sentenza.

Furono gravissime le parole del gonfaloniere e prudentissimi certamente i consigli, a' quali se i cittadini avessino prestato fede sarebbe forse durata piú lungamente la nuova libertà. Ma essendo maggiore lo sdegno in chi ricupera la libertà che in chi la difende, e grande l'odio contro al nome de' Medici per molte cagioni, e massime per avere avuto a sostentare in gran parte co' danari propri le imprese cominciate da loro (perché è manifesto avere i fiorentini speso, nella occupazione e poi nella difesa del ducato di Urbino, ducati piú di cinquecentomila, altanti nella guerra mossa da Leone contro al re di Francia, e nelle cose che succederono dopo la morte sua dependenti da detta guerra ducati trecentomila, pagati a' capitani imperiali e al viceré, innanzi la creazione di Clemente e poi, e ora piú di secentomila nella guerra mossa contro a Cesare), cominciorono a perseguitare immoderatamente quegli cittadini che erano stati amici de' Medici, perseguitare il nome del pontefice. Scancellorno per tutta la città impetuosamente le insegne della famiglia de' Medici, affisse eziandio negli edifizi fabbricati da loro; roppeno le immagini di Leone e di Clemente che stavano nel tempio della Annunziata, celebrato per tutto il mondo; costrinseno i beni del pontefice, a esazione di debiti vecchi, non pretermettendo cosa alcuna, la maggiore parte di loro, appartenente a concitare lo sdegno del pontefice, e a nutrire divisione e discordia nella città: e arebbono moltiplicato a maggiori disordini se non si fusse interposta l'autorità e prudenza del gonfaloniere, la quale però non bastava a rimediare a' molti disordini.

Cap. xi

Disordine e pestilenza fra le milizie imperiali in Roma; invio di milizie francesi in Italia. Confederazione tra i re di Francia e d'Inghilterra; accordi fra i collegati contro Cesare. Pestilenza in molte parti d'Italia. Partenza dell'esercito francese per l'Italia. Fazioni di guerra in Lombardia.

Ma in Roma erano venuti, col marchese del Guasto e con don Ugo, tutti i fanti tedeschi e spagnuoli i quali erano nel reame di Napoli, in modo si dicevano essere, raccolti insieme, ottomila fanti spagnuoli dodicimila tedeschi e quattromila italiani; esercito, per la riputazione acquistata, per il terrore degli altri, per le deboli provisioni che si avevano da opporsi loro, da fare in Italia qualunque progresso. Ma essendone capitano in titolo e in nome solamente il principe di Oranges, ma in fatto governandosi da se stesso, e intento tutto alle prede e alle taglie e a riscuotere i danari promessi dal pontefice, non aveva pensiero alcuno degli interessi di Cesare; però non voleva partirsi di Roma. Dove governandosi tumultuosamente, il viceré e il marchese del Guasto, temendo da' fanti alle persone proprie, se ne fuggirono: essi restorono esposti alla pestilenza, la quale già cominciata vi fece poi gravissimo danno; perderono la occasione di molte cose, e specialmente di Bologna (la quale città, benché vi fusse, dopo la perdita del Borgo, andato con mille fanti pagati da' viniziani il conte Ugo de' Peppoli, tumultuando Lorenzo Malvezzi, con assenso tacito di Ramazzotto e col seguito della fazione de' Bentivogli, non senza difficoltà si conservò nella ubbidienza della sedia apostolica); e, quel che non importò forse meno, dettono spazio al re di Francia di mandare esercito potentissimo in Italia, con pericolo grandissimo che Cesare, dopo avere acquistata tanta vittoria, non perdesse il reame napoletano.

Perché indirizzandosi in Francia le cose a provisioni di nuova guerra, si era conchiusa, il vigesimoquarto dí di aprile, la confederazione trattata molti mesi tra il re di Francia e il re di Inghilterra, con condizione: che la figliuola di Inghilterra si maritasse al re di Francia o al duca di Orliens suo secondo genito, e che nello abboccamento de' due re, disegnato di farsi alla Pentecoste tra Cales e Bologna, convenissino a chi di loro due si avesse a dare; rinunziasse il re di Inghilterra al titolo del regno di Francia, ricevendo in ricompensa una pensione di cinquantamila ducati l'anno; entrasse nella lega fatta a Roma, obligandosi a muovere, per tutto luglio prossimo, la guerra a Cesare di là da' monti con novemila fanti, e il re di Francia con diciottomila e con numero di lance e di artiglierie conveniente; e che in questo mezzo mandassino, l'uno e l'altro di loro, oratori a Cesare a intimargli la confederazione fatta, a ricercargli la liberazione de' figli, e lo entrare nella pace con oneste condizioni, e in caso non accettasse infra uno mese, protestargli la guerra e dargli principio: e fatto questo accordo, il re di Inghilterra entrò subito nella lega; ed egli e il re di Francia mandorono in poste due uomini a fare le intimazioni convenute a Cesare. I quali atti si feciono con piú prontezza per Tarba e per l'oratore anglo, andati in poste, che non si erano fatti per commissione del pontefice; perché Baldassarre da Castiglione nunzio suo, dicendo non essere da esacerbare tanto l'animo di Cesare, aveva recusato che se gli protestasse la guerra. Ma dipoi, avuto in Francia l'avviso della perdita di Roma, temperandosi il dispiacere minore del caso del pontefice con l'allegrezza maggiore della morte di Borbone, non parendo al re da lasciare cadere le cose di Italia, convenne a' quindici di maggio co' viniziani di soldare a comune diecimila svizzeri, pagando lui la prima paga e i viniziani la seconda e cosí seguitando successivamente; e mandare diecimila fanti sotto Pietro Navarra, e i viniziani ne soldassino diecimila altri tra loro e il duca di Milano; mandare di nuovo cinquecento lance e diciotto pezzi di artiglieria. E perché il re di Inghilterra, non ostante le convenzioni fatte, non concorreva prontamente a rompere la guerra di là da' monti, la quale anche non sodisfaceva al re di Francia, desiderando ciascuno di loro di tenerla lontana da' regni suoi, liberatisi da quella obligazione, convennono che quel re pagasse per la guerra di Italia, per tempo di mesi [sei], diecimila fanti. Per la instanza del quale principalmente, Lautrech, benché quasi contro alla sua volontà, fu dichiarato capitano generale di tutto l'esercito.

Il quale mentre si prepara per passare con le provisioni convenienti di danari e delle altre cose necessarie, non succedeva in Italia accidente alcuno di momento. Perché l'esercito imperiale non si partiva di Roma, non ostante che quotidianamente ne morissino molti per la acerbità della pestilenza, la quale nel tempo medesimo faceva grandissimi progressi in Firenze e in molte parti di Italia; e l'esercito della lega, nella quale, con offensione gravissima di Cesare (perché, avendo per instanza fatta da loro commesso al duca di Ferrara il comporre in nome suo co' fiorentini, ebbe quasi subito notizia della contraria deliberazione), erano, per la instanza del marchese di Saluzzo e de' viniziani, entrati di nuovo i fiorentini, con obligazione di pagare cinquemila fanti, diminuito molto di numero, per essere i fanti de' viniziani, quegli del marchese e i svizzeri male pagati, ritiratosi a canto a Viterbo, attendeva a temporeggiarsi; sforzandosi di mantenere alla divozione della lega Perugia, Orvieto, Spuleto e l'altre terre vicine: dove avendo dipoi inteso una parte dell'esercito imperiale essere uscito di Roma, benché lo facessino per respirare alquanto collo allargarsi dubitando non uscissino tutti, fatto il primo pagamento, si ritirò a Orvieto e dipoi presso a Castello della Pieve; e sarebbesi ritirato ne' terreni de' fiorentini se loro lo avessino consentito. Era anche entrata la pestilenza in Castel Santo Angelo, con pericolo grande della vita del pontefice; intorno [al quale] morirno alcuni di quegli che servivano la sua persona. Il quale, afflitto da tanti mali, né avendo speranza in altro che nella clemenza di Cesare, gli destinò legato, con consentimento de' capitani, Alessandro cardinale di Farnese: benché egli, uscito con questa occasione del Castello e di Roma, recusò di andare alla legazione. Desideravano i capitani condurre il pontefice a Gaeta coi tredici cardinali che erano con lui; ma egli, con molta diligenza con prieghi e con arte, procurava il contrario.

Finalmente Lautrech, fatte l'espedizioni necessarie, partí dalla corte l'ultimo dí di giugno con ottocento lance, e con titolo, perché cosí aveva voluto il re, di capitano generale di tutta la lega; e il re di Inghilterra, in luogo de' diecimila fanti, si era tassato a pagare, cominciando al principio di giugno, scudi trentaduemila ciascuno mese, co' quali si pagassino diecimila fanti tedeschi sotto Valdemonte, ottima banda e molto esercitata, per avere rotto piú volte i luterani: e i diecimila fanti di Pietro Navarra erano parte franzesi parte italiani. Condusse ancora il re di Francia Andrea Doria, con otto galee e trentaseimila scudi l'anno.

Ma innanzi che Lautrech avesse passato i monti, le genti de' viniziani e del duca di Milano congiunte andorono a Marignano: donde Antonio de Leva, uscito di Milano co' fanti tedeschi con ottocento spagnuoli e altanti italiani, e con non molti cavalli, gli costrinse a ritirarsi. Nel quale tempo il castellano di Mus, condotto agli stipendi del re di Francia, mentre che in sul lago di Como aspetta la venuta de' svizzeri, occupò per inganno la rocca di Monguzzo posta tra Lecco e Como, nella quale abitava Alessandro Bentivogli come in casa propria. Mandò Antonio de Leva Lodovico da Belgioioso a recuperarla, il quale assaltatala invano tornò a Moncia. Ma avendo dipoi Antonio de Leva sentito che il castellano con dumila cinquecento fanti era venuto alla villa di Carato, distante da Milano quattordici miglia, ritornò a Milano; dove lasciati solo dugento uomini, benché i viniziani vi fussino propinqui a dieci miglia, partitosi di notte col resto dell'esercito, assaltò all'improviso in sul levare del sole le genti del castellano; le quali sentito il romore, uscite delle case dove alloggiavano, si ritirorno in uno piano circondato da siepi presso alla villa, non credendo esservi tutte le genti inimiche; e benché si mettessino in ordinanza, furono in quel luogo basso come in carcere senza difesa presi e morti, eccetto molti i quali nel principio si fuggirono, essendosi accorti che il castellano aveva subito fatto il medesimo.

Cap. xii

Azione di príncipi presso Cesare per la liberazione del pontefice. Il cardinale eboracense in Francia e suoi accordi col re. Condizioni ed inattività degli eserciti avversari in Italia. Atto degno d'infamia compiuto a Perugia dai capitani dei confederati. Azioni dei collegati nel Lazio e nell'Umbria.

Aveva in questo mezzo Cesare, per lettere del gran cancelliere, il quale mandato da lui veniva in Italia, scrittegli da Monaco (il quale richiamò subito), intesa la cattura del pontefice; e benché con le parole dimostrasse essergli molestissima, nondimeno si raccoglieva che in secreto gli era stata gratissima; anzi, non si astenendo totalmente dalle dimostrazioni estrinseche, non aveva per questo intermesso le feste cominciate prima per la natività del figliuolo. Ma essendo la liberazione del pontefice desiderata ardentissimamente dal re di Inghilterra e dal cardinale eboracense, e per la autorità loro risentendosene anche il re di Francia (il quale altrimenti, se avesse recuperato i figliuoli, si sarebbe poco commosso per i danni del pontefice e di tutta Italia), mandorono congiuntamente, l'uno e l'altro, oratori a Cesare a dimandargli la sua liberazione, come cosa appartenente comunemente a tutti i príncipi cristiani, e come debita particolarmente da Cesare, sotto la fede del quale era stato da' suoi capitani e dal suo esercito ridotto in tanta miseria; e in questo tempo medesimo ricercorono i cardinali che erano in Italia, che insieme co' cardinali che erano di là da' monti si congregassino in Avignone, per consultare in tempo tanto difficile quel che s'avesse a fare per beneficio della Chiesa: i quali, per non si mettere tutti in mano di príncipi tanto potenti, recusorono, benché con diverse escusazioni, di andarvi. E da altra parte il cardinale de' Salviati, legato appresso al re di Francia, ricercato dal pontefice che andasse a Cesare per aiutare le cose sue, alla venuta di don Ugo (il quale si era convenuto nella capitolazione che vi andasse), ricusò di farlo, come se fusse cosa perniciosa che tanti cardinali fussino in potestà di Cesare, ma mandò per uno suo cameriere la istruzione ricevuta da Roma allo auditore della camera; il quale riportò benignissime parole ma incerta e varia risoluzione. Arebbe Cesare desiderato che la persona del pontefice fusse condotta in Spagna; nondimeno, e perché era pure cosa piena di infamia e per non irritare tanto l'animo del re di Inghilterra, e perché tutti i regni di Spagna, i quali, e principalmente i prelati e i signori, detestavano molto che dallo imperadore romano, protettore e avvocato della Chiesa, fusse, con tanta ignominia di tutta la cristianità, tenuto in carcere quello che rappresentava la persona di Cristo in terra, però, avendo risposto a quegli oratori benignamente, e alla instanza che gli facevano della pace essere contento che la trattasse il re di Inghilterra (il che da loro fu accettato), mandò il terzo dí di agosto il generale in Italia e, di poi quattro dí, [Veri] di Migliau, l'uno e l'altro, secondo si diceva, con commissione al viceré per la liberazione del pontefice e restituzione di tutte le terre e fortezze occupategli. Per la sostentazione del quale consentí anche che il nunzio suo gli mandasse certa somma di danari, esatta dalla collettoria di quegli reami i quali nelle corti avevano denegato di dare a Cesare danari.

Passò in questo tempo, che era di luglio, il cardinale eboracense a Cales con milledugento cavalli; incontra il quale il re di Francia, volendo riceverlo onoratissimamente, mandò il cardinale del Loreno. Andò dipoi il re in Amiens a' tre di agosto, dove il seguente dí entrò Eboracense con grandissima pompa; accrescendogli ancora la estimazione lo avere portato seco trecentomila scudi per le spese occorrenti, e per prestarne al re di Francia, bisognando. Trattossi tra loro quel che apparteneva alla pace e quello che apparteneva alla guerra. E ancora che i fini del re di Francia fussino diversi da quegli del re di Inghilterra (perché per conseguire i figliuoli arebbe lasciato il pontefice e Italia in preda) nondimeno era stato necessitato promettergli di non fare accordo alcuno con Cesare senza la liberazione del pontefice. Però, avendo mandato Cesare al re di Inghilterra gli articoli della pace, gli fu risposto, in nome comune, che accetterebbono la pace con la restituzione de' figliuoli, pagandogli in certi tempi due milioni di ducati, la liberazione del pontefice e dello stato ecclesiastico, la conservazione di tutti gli stati e governi di Italia come erano di presente, e finalmente la pace universale. E si convenne tra loro che, accettando Cesare questi articoli, la figlia di Inghilterra si desse per moglie al duca d'Orliens, perché andrebbe innanzi il matrimonio del re con la sorella di Cesare; ma non succedendo la pace, si desse per moglie al re; i quali articoli mandati, denegorono di concedere salvocondotto a uno uomo quale Cesare dimandava di mandarvi, rispondendo bastare gli fussino stati mandati quegli articoli. La quale conclusione fatta, fu, il decimo ottavo dí di agosto, giurata e publicata solennemente la pace e la confederazione tra l'uno re e l'altro. Deliberorono che la guerra di Italia si facesse gagliardamente, avendo per obietto principale la liberazione del pontefice, ma rimettendo liberamente i modi e i mezzi del proseguirla nel consiglio di Lautrech; il quale, innanzi alla partita sua, aveva ottenuto dal re tutte l'espedizioni domandate: perché il re si metteva a fare sforzo ultimo, e quasi perentorio. Volle ancora Eboracense che in campo andasse per il suo re il cavaliere Casale, al quale si indirizzassino i trentacinquemila ducati pagava ciascuno mese, per essere certo vi fusse il numero intero degli alamanni. Cosí stabilito il modo della guerra di Italia, e mandate unitamente le risposte in Spagna, partí Eboracense, spedito alla partita sua il protonotario Gambero al pontefice, per confortare a farlo suo vicario universale in Francia in Inghilterra e in Germania, mentre stava in prigione: a che il re di Francia dimostrava consentire ma in segreto contradiceva.

Facevansi intratanto poche fazioni di guerra in Italia, essendo grande l'espettazione della venuta di Lautrech. Perché l'esercito imperiale, disordinato e deposta l'ubbidienza a' capitani, grave agli amici e alle terre arrendute, non si movendo, non era agli inimici di alcuno terrore; i fanti spagnuoli e gli italiani, fuggendo la contagione della peste, si stavano sparsi intorno a Roma; il principe di Oranges con cento cinquanta cavalli era andato a Siena, per quale si voglia cagione; dove prima aveva mandato alcuni fanti, perché il popolo di quella città, sollevato da capi sediziosi, aveva tumultuosamente saccheggiate le case de' cittadini del Monte de' nove e ammazzato Pietro Borghesi, cittadino di autorità, insieme con uno figliuolo e sedici o diciotto altri. In Roma restavano solamente i tedeschi pieni di peste; i quali essendo stati sodisfatti con grandissima difficoltà dal pontefice de' primi cento cinquantamila ducati, parte con danari parte con partiti fatti con mercatanti genovesi sopra le decime del regno di Napoli e sopra la vendita di Benevento, dimandavano, per il resto de' denari dovuti, altre sicurtà e altro assegnamento che la imposizione in su lo stato ecclesiastico, cose impossibili al pontefice incarcerato; [e] dopo molti minacci fatti agli statichi, e il tenergli incatenati con grandissima acerbità, gli condussono ignominiosamente in Campo di Fiore, dove rizzate le forche, come se incontinente volessino prendere di loro quello supplicio. Uscirono dipoi tutti di Roma senza capitani di autorità, per allargarsi e rinfrescarsi piú che per fare fazioni di importanza: e avendo saccheggiato le città di Terni e Narni, Spuleto si accordò di dare loro passo e vettovaglia. Però l'esercito de' collegati, per sicurtà di Perugia, andò ad alloggiare a Pontenuovo di là da Perugia; il quale prima alloggiava in sul lago di Perugia, ma diminuito, rispetto alle obligazioni de' collegati, molto di numero; perché col marchese di Saluzzo erano trecento lancie e trecento arcieri franzesi tremila svizzeri e mille fanti italiani, col duca d'Urbino cinquanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri mille fanti alamanni e dumila italiani: scusandosi, impudentemente e contro alla verità, i viniziani, che supplivano alle loro obligazioni con le genti tenevano nel ducato di Milano. Avevanvi i fiorentini ottanta uomini d'arme cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila fanti, necessitandogli a stare meglio proveduti che gli altri il timore che avevano continuamente che l'esercito imperiale non assaltasse la Toscana: però pagavano a' tempi debiti le genti loro, di che facevano il contrario tutti gli altri. Ma il duca d'Urbino, oltre alle sue antiche difficoltà, era in grandissimo dispiacere e quasi disperazione, sapendo che il re di Francia e Lautrech, tassandolo eziandio di infedeltà, non parlavano onoratamente di lui, ma molto piú perché era in malissimo concetto appresso a' viniziani; i quali, insospettiti o della fede o della instabilità sua, avevano messa diligente guardia alla moglie e al figliuolo, che erano in Vinegia, perché non partissino senza licenza loro; e dannavano scopertamente il suo consiglio, che era che Lautrech, senza tentare le cose di Lombardia, andasse verso Roma. Però dormiva ogni cosa oziosamente in quello esercito, avendo per grazia che gli imperiali non venissino piú innanzi: i quali, non molto poi, ricevuti dal marchese del Guasto, che andò all'esercito, due scudi per uno, se ne ritornorono, i tedeschi, male concordi con gli spagnuoli, a Roma, restando gli spagnuoli e gli italiani distesi ad Alviano, Attigliano, Castiglione della Teverina e verso Bolsena; ma diminuito tanto il numero massime de' tedeschi, per la peste, che si credeva che in tutto l'esercito di Cesare non fussino restati piú che diecimila fanti.

Ma innanzi alla partita loro feciono i capitani de' confederati uno atto degno di eterna infamia. Perché essendo Gentile Baglione ritornato in Perugia con volontà di Orazio, il quale, affermando che le discordie tra loro erano perniciose a tutti, aveva dimostrato di riconciliarsi seco, vi andò, con consentimento di tutti i capitani, Federigo da Bozzole a fargli intendere che, avendo presentito che egli trattava occultamente con gli inimici, intendevano di assicurarsi di lui; [e] ancoraché egli si giustificasse, e promettesse di andare a Castiglione del Lago, lo lasciò in guardia a Gigante Corso, colonnello de' viniziani; ma la sera medesima fu ammazzato, con due nipoti, da alcuni satelliti di Orazio, e per sua commissione: il quale fece, ne' medesimi dí, ammazzare fuora di Perugia Galeotto fratello di Braccio e nipote anche egli di Gentile.

Mandorono di poi gente per entrare in Camerino, inteso essere morto il duca; ma era prevenuto Sforza Baglione in nome degli imperiali, e vi entrò dipoi Sciarra Colonna per conto di Ridolfo genero suo, figliuolo naturale del duca morto. Assaltorono dipoi il marchese di Saluzzo e Federico con molti cavalli e con mille fanti, di notte, la badia di San Piero vicina a Terni, dove erano Pietromaria Rosso e Alessandro Vitello con dugento cavalli e quattrocento fanti: la quale impresa per sé temeraria, perché con tale presidio non era espugnabile se non con l'artiglierie, rendé felice o la fortuna o la imprudenza o l'avarizia di quegli condottieri; i quali, avendo il dí medesimo mandati cento cinquanta archibusieri a spogliare uno castello vicino, si erano privati delle genti necessarie alla difesa. Però, benché si fussino difesi molte ore, si detteno a discrezione; salvo però Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con le robe loro, feriti l'uno e l'altro di archibusi, il primo in una gamba l'altro in una mano. Nel quale tempo avendo rotto il fiume del Tevere per tre o quattro bocche, inondò con grandissimo danno il campo della lega; il quale andò ad alloggiare verso Ascesi, essendo ancora gli imperiali fra Terni e Narni. Per la partita loro i collegati fattisi innanzi, alloggiò il duca di Urbino a Narni, i franzesi a Bevagna; le bande nere, governate da Orazio Baglione, capitano generale della fanteria de' fiorentini, non avendo ricevuto alloggiamento, entrate nella terra di Montefalco la saccheggiorono. Assaltò poi una parte di questi fanti le Presse, nel quale castello erano ritirati Ridolfo da Varano e Beatrice sua moglie; i quali non potendo difendersi si arrenderono a discrezione: benché poco dipoi recuperassino la libertà, perché Sciarra, non potendo piú sostenersi in Camerino per le molestie riceveva da quello esercito, si convenne di relassarlo, ricuperando il genero e la figliuola. Tentorono anche il marchese di Saluzzo e Federigo, con la cavalleria franzese e con dumila fanti, di svaligiare furtivamente la cavalleria spagnuola, alloggiata in Monte Ritondo, e in Lamentano, senza guardie e senza scolte, secondo riferiva Mario Orsino, cammino di tre giornate; ma scoperti, perché procedettono con poco ordine, non tentata la fazione tornorno indietro, avendo disegnato, per privargli della facoltà del fuggire, di tagliare in uno tempo medesimo il ponte del Teverone.

Cap. xiii

Scarsa attività degli eserciti in Lombardia. Azioni del Lautrech in Piemonte. Resa di Genova al re di Francia. Resa di Alessandria ai francesi. L'acquisto di Alessandria causa di discordia fra i collegati. Presa e sacco di Pavia; deliberazione del Lautrech di marciare verso Roma e verso il reame di Napoli. Condizioni poste da Cesare per la concordia e sue speranze di lieti successi.

Non erano state molto diverse da queste, tutta la state, le operazioni de' soldati di Lombardia: dove le genti de' viniziani e del duca, congiunte insieme appresso a Milano con intenzione di tagliare i grani di quello contado, avevano rotto la scorta delle vettovaglie, morti cento fanti, presi trenta uomini d'arme e trecento cavalli tra utili e inutili; ma non procederono piú oltre contro a' frumenti, perché le genti de' viniziani, secondo il costume loro, presto diminuirono. Andrea Doria con l'armata sua si era ritirato verso Savona, i genovesi avevano recuperata la Spezie.

Ma cominciorono poi a riscaldare le cose di Lombardia per la passata di Lautrech nel Piemonte con una parte dell'esercito; il quale per non stare ozioso, mentre aspetta il resto, si pose a campo, ne' primi dí del mese di agosto, alla terra del Bosco nel contado di Alessandria, nella quale erano a guardia mille fanti, la maggiore parte tedeschi. Difendevansi con somma ostinazione, perché Lautrech, sdegnato che avevano morti alcuni svizzeri, recusava di accettargli se non si rimettevano liberamente alla sua discrezione; e somministrava loro spessi aiuti e dava animo Lodovico conte di Lodrone, proposto alla difesa di Alessandria, perché nel Bosco erano rinchiusi la moglie e i figliuoli. Finalmente, vessati dí e notte dalle artiglierie, e temendo delle mine, poi che ebbono tollerato dieci dí tanto travaglio, si rimessono in arbitrio di Lautrech: il quale ritenne prigioni i capitani, salvò la vita a' fanti, ma con condizione che gli spagnuoli ritornassino in Spagna per via di Francia, i tedeschi in Germania per il paese de' svizzeri; e che ciascuno d'essi, secondo l'uso della iattanza militare, uscisse del Bosco senza arme con una canna in mano; ma al conte Lodovico restituí liberalmente la moglie e i figliuoli.

Seguitorono questo acquisto successi prosperi delle cose di Genova. Perché essendo arrivate in Portofino cinque navi che andavano a Genova, cariche quattro di frumenti e una di mercatanzie, e perché si conducessino salve essendo andate nove galee da Genova per accompagnarle, accadde che, avendo avuto avviso che Cesare Fregoso si accostava per terra a Genova con dumila fanti, vi si ridussono quasi tutti quegli che erano in Portofino, abbandonando l'armata; il che dette occasione a Andrea Doria, condotto con tutte le condizioni che aveva dimandate agli stipendi del re di Francia, di serrarle con le galee sue nel porto medesimo; dove, conoscendo non potere resistere, disarmorono le galee e messeno le genti in terra. Cosí delle nove galee essendone abbruciata una, l'altre vennono in potestà degli inimici, con le navi cariche di frumenti e con la caracca Iustiniana, che venuta di levante si diceva essere ricca di centomila ducati. Alla quale fazione furono anche altre galee franzesi; le quali avendo prese prima cinque navi cariche di grani, che andavano a Genova, si erano dipoi poste alla Chiappa a ridosso di Codemonte, fra Portofino e Genova. Ne' quali dí ancora, certi fanti condotti dagli Adorni per mettergli in Genova furno rotti a Priacroce, luogo situato in quei monti. Questa calamità, oltre a tante altre perdite e danni di vari legni, privò i genovesi, ridotti in ultima estremità, totalmente di speranza di potersi piú sostenere; non ostante che ne' medesimi dí Cesare Fregoso, accostatosi a San Piero della Arena, fusse stato costretto a ritirarsi: ma spaventandogli piú la fame che le forze degli inimici, costretti dalla ultima necessità, mandorno a Lautrech imbasciadori a capitolare. Ritirossi Antoniotto Adorno doge nel Castelletto; e posati i tumulti, per opera massime di Filippino Doria che vi era prigione, la città ritornò sotto il dominio del re di Francia, il quale vi deputò governatore Teodoro da Triulzi. Ma il Capella scrive che, infestando Cesare Fregoso Genova per terra, Andrea Doria con diciassette galee aveva rinchiuso certe navi cariche di frumenti in uno porto tra Genova e Savona; e mandando i genovesi sei galee per soccorrerle, il vento spinse Andrea Doria a Savona: però le navi andorno a Genova, e i soldati uscirno fuora contro al Fregoso. Col quale mentre combattevano, il popolo genovese cominciò a chiamare Francia; e ritornando i soldati dentro a fermare il tumulto, gli inimici seguitandogli entrorno nella città con loro.

Accostossi dipoi Lautrech ad Alessandria, avendo nell'esercito suo la condotta di ottomila svizzeri, i quali continuamente diminuivano, diecimila fanti di Pietro Navarra e tremila guasconi, condotti di nuovo in Italia dal barone di Bierna, e tremila fanti del duca di Milano. Erano in Alessandria mille cinquecento fanti, i quali per la perdita degli alamanni che erano nel Bosco si erano molto inviliti; ma essendovi poi entrati, per i colli che erano vicini alla città, cinquecento fanti con Alberigo da Belgioioso, avevano ripreso animo, e difendevansi gagliardamente: ma raddoppiata la batteria da piú parti, per la venuta all'esercito delle artiglierie e delle genti de' viniziani (benché né per terra né per mare corrispondessino al numero al quale erano obligati), e molestandola ferocemente nel tempo medesimo con le trincee e con le mine, come sempre in qualunque oppugnazione faceva Pietro Navarra, Batista da Lodrone, non potendo piú difenderla, accordò di potersene andare in Piemonte, e gli alamanni con le loro robe in Germania, non potendo per sei mesi pigliare soldo contro allo esercito franzese.

L'acquisto di Alessandria dimostrò tra i confederati principio di qualche contenzione. Perché, disegnando Lautrech lasciarvi a guardia cinquecento fanti perché avessino in qualunque caso uno ricetto sicuro le genti sue, e quelle che venivano di Francia comodità di raccôrsi e riordinarsi in quella città, insospettito l'oratore del duca di Milano che questo non fusse principio di volere occupare per il suo re quello stato, contradisse con parole efficaci e con protesti; e risentendosene quasi non meno di lui l'oratore viniziano, interponendosene ancora quello di Inghilterra, cedé Lautrech, benché con grave indignazione, di lasciarla libera al duca di Milano: cosa che fu forse di molto pregiudizio a quella impresa, perché è opinione di molti che piú negligentemente attendesse allo acquisto di Milano o per sdegno o per riservarlo a tempo che, senza rispetto d'altri, potesse tirarlo a suo profitto.

Dopo la perdita di Alessandria, non essendo dubbio che Lautrech si dirizzerebbe alla impresa di Milano o di Pavia, è fama che Antonio de Leva, col quale erano centocinquanta uomini d'arme e cinquemila fanti tra tedeschi e spagnuoli, diffidandosi di potere difendere Milano con sí poca gente e con tante difficoltà, pensò di ritirarsi a Pavia; nondimeno, considerando essere poche vettovaglie in Pavia, né potersi in quella città sostentare l'esercito con le estorsioni, come acerbissimamente aveva fatto a Milano, deliberò finalmente di fermarvisi, e mandò alla guardia di Pavia Lodovico da Belgioioso; e a' milanesi, i quali vollono comperare con danari la licenza di partirsi, la concedette. Ma Lautrech, per rimuovere le difficoltà le quali potessino ritardarlo, fatta tregua con Cerviglione spagnuolo il quale era alla guardia di Case, benché molto diminuito di svizzeri, procedendo innanzi occupò Vigevano; e dipoi fatto uno ponte sopra il Tesino, e per quello (secondo credo) passato l'esercito, si inviò verso Benerola, villa propinqua a quattro miglia a Milano; dimostrando di volere andare, come lo confortavano i viniziani, a campo a quella città, ma veramente risoluto a quella deliberazione che gli paresse piú facile. Ma avendo inteso, come fu appropinquato a otto miglia a Milano, il Belgioioso avervi la notte dinanzi mandati quattrocento fanti, in modo che in Pavia non erano restati se non ottocento, voltato il cammino, andò il dí seguente, che fu il vigesimo ottavo dí di settembre, al monasterio della Certosa e dipoi con celerità grande si pose a campo a Pavia; al soccorso della quale città avendo Antonio de Leva, come intese la mutazione di Lautrech, mandato tre bandiere di fanti, non potettono entrarvi, in modo che per il piccolo numero de' difensori non pareva potersi resistere: e nondimeno il Belgioioso, supplicandolo il popolo della città che permettesse loro che per fuggire il sacco e la distruzione della città si accordassino, lo recusò. Ma avendo Lautrech continuato di battere quattro dí, e gittato in terra tanto muro che i pochi difensori non bastavano a ripararlo, alla fine il Belgioioso mandò uno trombetto a Lautrech; il quale non avendo potuto parlargli cosí presto, perché per sorte era andato nel campo de' viniziani, i soldati accostatisi entrorono nella terra per le rovine del muro: il che vedendo il Belgioioso, aperta la porta, uscí fuora ad arrendersi a' franzesi, da' quali fu mandato prigione a Genova. La città andò a sacco, e vi fu per otto dí continui usata da' franzesi crudeltà grande e fatti molti incendi, per memoria della rotta ricevuta nel barco. Disputossi poi se era da andare alla impresa di Milano o da procedere verso Roma. Instavano i fiorentini che andasse innanzi, per timore che, fermandosi Lautrech in Lombardia, lo esercito imperiale non uscisse di Roma a' danni loro; contradicevano i viniziani e il duca di Milano, venuto personalmente a Pavia a fare questa instanza, allegando la opportunità grande che si aveva di pigliare Milano e il profitto che se ne traeva ancora alla impresa di Napoli, perché preso Milano non restava speranza agli imperiali di avere soccorso di Germania, ma restando aperta questa porta si aveva sempre a temere che, venuto da quella banda grosso esercito, o non mettesse in pericolo Lautrech o non lo divertisse dalla impresa di Napoli: il quale rispose essere necessitato a andare innanzi per i comandamenti del suo re e del re d'Inghilterra, che principalmente l'avevano mandato in Italia per la liberazione del pontefice. Alla quale deliberazione si crede lo potesse indurre il sospetto che, se si acquistava il ducato di Milano, i viniziani, riputandosi assicurati dal pericolo della grandezza di Cesare, non fussino negligenti ad aiutarlo alla impresa del regno di Napoli; e forse non meno il parere al re essere utile alle cose sue che Francesco Sforza non ricuperasse interamente quello stato, acciò che, restando a lui facoltà di offerire di lasciarlo a Cesare, conseguisse piú facilmente la liberazione de' figliuoli per via di accordo: il quale continuamente si trattava, appresso a Cesare, per gli oratori franzesi e inghilesi e viniziani.

Ma in questo trattato nascevano molte difficoltà, perché Cesare faceva instanza che la causa di Francesco Sforza si vedesse di ragione, e che pendente la cognizione fusse posseduto da sé tutto lo stato; promettendo in ogni caso di non lo appropriare a se medesimo: dimandava che i viniziani pagassino allo arciduca il resto de' dugentomila ducati dovutigli per i capitoli di Vormazia; il che l'oratore veneto non ricusava, adempiendo l'arciduca e restituendo i luoghi a che era obligato: dimandava che a' fuorusciti loro, come già era stato convenuto, o restituissino centomila ducati o consegnassino entrata di cinquemila; pagassino a lui quello erano debitori per la confederazione fatta seco, la quale voleva si rinnovasse: restituissino alla Chiesa Ravenna, e rilasciassino quanto tenevano nello stato di Milano: dimandava a' fiorentini trecentomila ducati, per le spese fatte e danni avuti per la loro inosservanza: consentiva che il re di Francia pagasse al re di Inghilterra per lui il debito de' quattrocento cinquantamila ducati; del resto, insino in due milioni, dimandava staggi: voleva le dodici galee dal re di Francia per l'andata sua in Italia, ma non piú né cavalli né fanti: e che, subito che fusse stipulata la concordia, si partissino tutte le genti franzesi di Italia, il che il re recusava se prima non gli erano restituiti i suoi figliuoli. Le quali dimande quando si sperava mitigasse, lo fece (secondo il costume suo di non cedere alle difficoltà) piú pertinace la perdita di Alessandria e di Pavia, in modo che, essendo venuto a lui il quintodecimo dí di ottobre, di Inghilterra, l'auditore della camera, a sollecitare in nome di quello re la liberazione del pontefice, rispose avere proveduto per il generale; e che quanto allo accordo non voleva, né per amore né per forza, alterare le condizioni che aveva proposte prima. Ma certamente si comprendeva non essere Cesare molto inclinato alla pace, perché contro alla potenza degli inimici gli davano animo molte cagioni: perché confidava avere a resistere in Italia, per la virtú del suo esercito e per la facilità del difendere le terre; potere sempre con piccola difficoltà fare passare nuovi fanti tedeschi; essere esausti il re di Francia e i viniziani per le lunghe spese, le provisioni loro (come è consueto nelle leghe) interrotte e diminuite; confidarsi di potere esigere danari di Spagna a bastanza, con ciò sia che sostentava la guerra con spese molto minori (per le rapine de' soldati) che gli avversari, e perché sperava di disunire o di fare piú negligenti i collegati con qualche arte; e finalmente perché molto si prometteva della sua grandissima felicità, comprovata con la esperienza di molti anni, e pronunziatagli con innumerabili vaticini insino da puerizia.

Cap. xiv

Indugi di Lautrech per ordini del re di Francia. Condizioni con cui il duca di Ferrara si allea ai confederati; entrata del marchese di Mantova nella confederazione. Posizioni degli eserciti nemici nell'Italia centrale; ancora della lentezza del Lautrech. Accordi per la liberazione del pontefice dalla prigionia. Il pontefice a Orvieto.

Ma in questo tempo Lautrech (per l'autorità del quale, come arrivò in Italia, il duca di Ferrara aveva operato che i Mariscotti restituissino a' bolognesi Castelfranco, e che i Bentivogli deponessino l'armi) sollecitava che l'armate marittime, destinate a assaltare o la Sicilia o il reame di Napoli, procedessino innanzi; delle quali la viniziana, non essendo le provisioni loro né per terra né per mare pari alle obligazioni, era a Corfú, e sedici galee dovevano andare a unirsi con Andrea Doria, il quale aspettava nella riviera di Genova Renzo da Ceri, destinato co' fanti a quella impresa. Rimandò di poi Lautrech in Francia quattrocento lancie e tremila fanti, e convenne co' viniziani, i quali confortava a restituire Ravenna al collegio de' cardinali, e col duca di Milano che, per difendere quello che si era acquistato, tenessino le genti loro, con le quali erano Ianus Fregoso e il conte di Caiazzo, in alloggiamento molto fortificato a Landriano, villa vicina a due miglia a Milano; per la vicinità de' quali non potendo allargarsi le genti che erano in Milano, si stimava aversi facilmente a guardare Pavia, Moncia, Biagrassa, Marignano, Binasco, Vigevano e Alessandria: egli, stabilite queste cose, passò, con mille cinquecento svizzeri, altanti tedeschi e seimila tra franzesi e guasconi, il decimo ottavo dí di ottobre, il Po a riscontro di Castel San Giovanni, con intenzione di aspettare i fanti tedeschi, de' quali era arrivata insino a quel dí piccola parte, e un'altra banda pure di fanti della medesima nazione, i quali il re di Francia aveva mandato a soldare di nuovo in luogo de' svizzeri, già resoluti quasi tutti. Dal quale luogo fu necessitato fare ritornare di là dal Po Pietro Navarra co' fanti guasconi e italiani, al soccorso di Biagrassa; alla quale terra, custodita dal duca di Milano, Antonio de Leva, intendendo essere male proveduta, era, il vigesimo ottavo dí di ottobre, andato a campo con quattromila fanti e sette pezzi d'artiglierie, e ottenutola il secondo dí per accordo, si preparava per passare nella Lomellina alla recuperazione di Vigevano e di Novara; ma intesa la venuta di Pietro Navarra con maggiori forze, si ritornò a Milano: donde al Navarra fu facile recuperare Biagrassa, nella quale Francesco Sforza messe migliori provisioni. Vedevasi già manifestamente differire industriosamente Lautrech il partirsi; e benché allegasse averlo ritenuto la espettazione de' fanti tedeschi, con una banda de' quali era pure finalmente venuto Valdemonte (gli altri si aspettavano), e si lamentasse per tutto delle piccole provisioni de' viniziani, nondimeno si dubitava ne fusse stato cagione l'aspettare danari di Francia: ma la cagione piú vera e piú potente era che il re, sperando la pace, la pratica della quale era stretta con Cesare, gli aveva commesso che, dissimulando questa cagione, procedesse lentamente. Da che anche era nato che il re non era stato pronto a pagare la parte sua degli alamanni, che si conducevano in luogo de' svizzeri, né quegli che prima erano destinati a venire con Valdemonte.

Con queste o necessità o escusazioni soprastando Lautrech a Piacenza con le genti alloggiate tra Piacenza e Parma, si rimosse la difficoltà avuta prima del duca di Ferrara: il quale che entrasse nella confederazione aveva Lautrech, subito che arrivò in Italia, fatto instanza grande; cosa da una parte desiderata dal duca per il parentado che gli era proposto col re di Francia, da altra ritenendolo la diffidenza che aveva del valore de' franzesi, e il sospetto che il re finalmente per recuperare i figliuoli non concordasse con Cesare; ma temendo de' minacci di Lautrech, aveva dimandato che le cose sue si trattassino a Ferrara, perché voleva maneggiare le cose che tanto gli importavano da se medesimo. Perciò andorono a Ferrara gli imbasciadori di tutti i collegati, e in nome de' cardinali congregati a Parma il cardinale Cibo: dove, alla fine, mosso il duca dal procedere innanzi di Lautrech, sforzatosi di fare capaci il capitano Giorgio e Andrea di Burgo, che molto onorati e intrattenuti da lui erano a Ferrara, accordò, ma con condizioni che dimostrorno o la industria sua nel sapere bene negoziare, e che non invano avesse voluto tirare la pratica alla presenza sua, o la cupidità grande che ebbeno gli altri di tirarlo nella confederazione. Nella quale entrò con obligazione di pagare ogni mese, per tempo di sei mesi, da sei a diecimila scudi secondo la dichiarazione del re di Francia, il quale dichiarò poi di seimila; e dare a Lautrech cento uomini d'arme pagati: e da altra parte, si obligorno i confederati alla protezione di lui e del suo stato; a dargli Cotignuola, tolta poco innanzi da' viniziani agli spagnuoli, in cambio della città antica e quasi disabitata di Adria, la quale instantemente dimandava; fargli restituire i palazzi che già possedeva in Vinegia e in Firenze; permettergli contro ad Alberto Pio l'acquisto della fortezza di Novi, posta appresso a' confini del Mantuano, la quale allora teneva assediata; pagassingli i frutti dello arcivescovado di Milano, se gli imperiali gli molestassino all'arcivescovo suo figliuolo. Obligò il cardinale Cibo, in nome de' cardinali i quali promettevano la ratificazione del collegio, il pontefice a rinnovare la investitura di Ferrara, a renunziare alle ragioni di Modena per la compra fatta da Massimiliano, ad annullare le obligazioni de' sali, a consentire alla protezione che i collegati preseno di lui, a promettere per bolle apostoliche di lasciare possedere a lui e a' suoi successori tutto quello possedeva; e che il pontefice farebbe cardinale il figliuolo, e gli conferirebbe il vescovado di Modena, vacante per la morte del cardinale Rangone. Con la quale confederazione si congiunse il parentado di Renea, figliuola del re Luigi, in Ercole suo primogenito, col ducato di Ciartres in dota e altre onorate condizioni. Entrò anche il marchese di Mantova, per la instanza di Lautrech, nella confederazione, benché prima si fusse condotto agli stipendi di Cesare.

Ma era in questo tempo indebolito molto l'altro esercito de' confederati, il quale stette ozioso molti dí tra Fuligno, Montefalco e Bevagna; del quale il duca di Urbino, intesa la custodia che si faceva in Vinegia della moglie e del figliuolo, partitosi contro alla commissione del senato per andare in poste a giustificarsi, ricevuto in cammino avviso della loro liberazione, e che il senato sodisfatto di lui desiderava non andasse piú innanzi, ritornò allo esercito: nel quale i svizzeri e i fanti del marchese non erano pagati; e i viniziani, né quivi né in Lombardia, dove erano obligati a tenere novemila fanti, ne tenevano la terza parte. Ritiroronsi di poi in quello di Todi e all'intorno; e gli spagnuoli, alla fine di novembre, erano verso Corneto e Toscanella; i tedeschi a Roma, a' quali era ritornato il principe di Oranges da Siena: dove, andato vanamente per riordinare quello governo, dimorò poco. Né si dubita, che se l'esercito imperiale si fusse fatto innanzi, che il duca di Urbino e il marchese di Saluzzo si sarebbono ritirati con l'esercito alle mura di Firenze; benché per iattanza spesso parlassino che, per impedire a loro la venuta in Toscana, farebbeno uno alloggiamento o tra Orvieto e Viterbo o nel territorio sanese, verso Chiusi e Sartiano. Ma Lautrech, non ostante fussino arrivati i fanti tedeschi, procedendo, per la espettazione della pratica della pace, con la consueta tardità, si era fermato a Parma: nella quale città, benché vi fussino i cardinali, ridotte in potestà sua le fortezze, e riscossi da tutt'a due quelle città e de' territori loro circa cinquantamila ducati, si credeva che avesse in animo non solo tenere in potestà sua Parma e Piacenza ma, perché Bologna dependesse dalla autorità del re, volgere il primato di quella città nella famiglia de' Peppoli. I quali disegni fece vani la liberazione del pontefice. Alla quale benché da principio non paresse che Cesare condiscendesse prontamente, perché dopo la nuova della cattività aveva tardato piú di uno mese a farne deliberazione alcuna, nondimeno, intesa poi la andata di Lautrech in Italia e la prontezza del re di Inghilterra alla guerra, aveva mandato in Italia il generale di San Francesco e Veri di Migliau con commissione sopra questo negozio al viceré; il quale essendo, in quegli dí che arrivò il generale, morto a Gaeta, fu necessario trattare il negozio con don Ugo di Moncada, al quale anche si distendeva il mandato di Cesare, e il quale il viceré aveva sostituito in suo luogo insino a tanto che sopra il governo del regno venisse da Cesare nuova ordinazione: e avendo il generale comunicato con don Ugo, andò a Roma, e insieme con lui [Migliau] venuto di Spagna con le medesime commissioni che il generale. Conteneva questo negozio due articoli principali: l'uno, che il pontefice sodisfacesse all'esercito creditore di somma grossissima di denari; l'altro, la sicurtà di Cesare che il pontefice, liberato, non si aderisse co' suoi inimici; e in questo si proponevano dure condizioni di statichi e di sicurtà di terre. Trattossi per queste difficoltà la cosa lungamente: la quale per facilitare, il pontefice aveva spesso sollecitato e continuamente sollecitava, ma occultamente, Lautrech a farsi innanzi, affermando essere sua intenzione di non promettere cosa alcuna agl'imperiali se non forzato, e che in tale caso, uscito di carcere, non osserverebbe, come prima potesse condursi in luogo sicuro; il che cercherebbe di fare col dare loro manco comodità potesse; e se pure accordasse, lo pregava che la compassione de' suoi infortuni e delle necessità facessino la scusa per lui. La qual cosa mentre che si trattava, gli statichi, con indegnazione gravissima de' fanti tedeschi, fuggirono occultamente di Roma, alla fine di novembre. Lunga fu la discettazione sopra questa materia, non essendo anche di una medesima sentenza quegli che avevano a determinare: perché don Ugo, benché avesse mandato a Roma Serone suo secretario insieme con gli altri, v'aveva, per la malignità della sua natura e per avere l'animo alieno dal pontefice, piccola inclinazione; il generale, tutto il contrario, per la cupidità di diventare cardinale; Migliau contradiceva come a cosa pericolosa a Cesare, e non potendo resistere se ne andò, a Napoli; della quale empietà patí le pene, perché ne' primi dí dello assedio, scaramucciando, fu morto di uno archibuso. Né mancava il pontefice a se medesimo; perché tirò nella sentenza sua Ieronimo Morone, il consiglio del quale era in tutte le deliberazioni di grande autorità; conferito il vescovado di Modena al figliuolo, e promessi a lui certi frumenti suoi che erano a Corneto, di valore di piú di dodicimila ducati. Ma non con minore industria si fece propizio il cardinale Colonna; promessagli la legazione della Marca, e dimostrandogli, quando, venuto a Roma, l'andò a visitare nel Castello, di volere essere a lui principalmente debitore di tanto beneficio; e artificiosamente instillandogli negli orecchi: che maggiore gloria o che maggiore felicità potesse desiderare che farsi noto a tutto il mondo essere in potestà sua deprimere i pontefici, in potestà sua, quando erano annichilati, fargli ritornare nella pristina grandezza. Dalle quali cose commosso quel cardinale, elatissimo e ventosissimo per natura, aiutò prontamente la liberazione; credendo fusse cosí facile al pontefice, liberato, dimenticarsi di tante ingiurie come facilmente gli aveva, prigione, raccomandato umilissimamente con prieghi e con lacrime la sua liberazione. Alleggerí in qualche parte le difficoltà la nuova commissione di Cesare, il quale instava che il pontefice si liberasse con piú sodisfazione sua che fusse possibile: soggiugnendo bastargli che, liberato, non aderisse piú a' collegati che a lui. Ma si crede giovasse piú che alcuna altra cosa la necessità che avevano, per il timore della venuta di Lautrech, di condurre quello esercito alla difesa del reame di Napoli; cosa impossibile se prima non era assicurato degli stipendi decorsi, in ricompenso de' quali recusavano ammettere tante prede e tanti guadagni fatti nel tempo medesimo. Questa necessità del provedere a' pagamenti fu anche cagione che manco si pensasse allo assicurarsi, per il tempo futuro, del pontefice. Conchiusesi finalmente, credo l'ultimo dí di ottobre dopo lunga pratica, la concordia in Roma col generale e con Serone in nome di don Ugo, che poi ratificò: non avversasse il papa a Cesare nelle cose di Milano e di Napoli; concedessegli la crociata in Spagna, e una decima delle entrate ecclesiastiche in tutti i suoi regni; rimanessino, per sicurtà della osservanza, in mano di Cesare Ostia e Civitavecchia, stata prima rilasciata da Andrea Doria; consegnassegli Civita Castellana, la quale terra, essendo entrato nella rocca per commissione secretissima del pontefice, benché simulasse il contrario, Mario Perusco procuratore fiscale, aveva ricusato di ammettere gli imperiali; consegnassegli eziandio la rocca di Furlí, e per statichi Ippolito e Alessandro suoi nipoti, e insino a tanto venissino a Parma, i cardinali Pisano, Triulzio e Gaddi, che furono condotti da loro nel regno di Napoli; pagasse subito a' tedeschi credo ducati sessantasettemila, agli spagnuoli trentacinquemila, con questo che lo lasciassino libero con tutti i cardinali, e uscissinsi di Roma e del Castello, chiamandosi libero ogni volta fusse condotto salvo in Orvieto, Spoleto o Perugia; e fra quindici dí dopo l'uscita di Roma pagasse altanti danari a' tedeschi, e il resto poi (che credo ascendeva, co' primi, a ducati piú di trecento cinquantamila) pagasse infra tre mesi a' tedeschi e spagnuoli, secondo le rate loro. Le quali cose per potere osservare, il pontefice, ricorrendo per uscire di carcere a quegli rimedi a' quali non era voluto ricorrere per non vi entrare, creò per danari [alcuni] cardinali, persone la maggiore parte indegne di tanto onore; per il resto, concedette nel reame di Napoli decime e facoltà di alienare de' beni ecclesiastici: convertendosi per concessione del vicario di Cristo (cosí sono profondi i giudíci divini) in uso e in sostentazione di eretici quel che era dedicato al culto di Dio. Co' quali modi avendo stabilito e assicurato di pagare a' tempi promessi, dette anche per statichi, per la sicurtà de' soldati, i cardinali Cesis e Orsino, che furono condotti dal cardinale Colonna a Grottaferrata; ed essendo spedite tutte le cose, e stabilito che il nono dí di dicembre dovessino gli spagnuoli accompagnarlo in luogo sicuro, egli, temendo di qualche variazione per la mala volontà che sapeva avere don Ugo, e per ogni altra cagione che potesse interrompere, la notte dinanzi, uscito segretamente al principio della notte, in abito di mercatante, del Castello, fu da Luigi da Gonzaga soldato degli imperiali, che con grossa compagnia di archibusieri l'aspettava ne' Prati, accompagnato insino a Montefiascone: dove licenziati quasi tutti i fanti, Luigi medesimo l'accompagnò insino a Orvieto, nella quale città entrò di notte, non accompagnato da alcuno de' cardinali. Esempio certamente molto considerabile e forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande, accaduto: uno pontefice, caduto di tanta potenza e riverenza, essere custodito prigione, perduta Roma, e tutto lo stato ridotto in potestà d'altri: il medesimo, in spazio di pochi mesi, restituito alla libertà, rilasciatogli lo stato occupato, e in brevissimo tempo poi ritornato alla pristina grandezza. Tanta è appresso a' príncipi cristiani l'autorità del pontificato, e il rispetto che da tutti gli è avuto.

Cap. xv

Fazioni di guerra in Lombardia. Sfortunata impresa delle navi dei collegati contro la Sardegna; il Lautrech a Bologna e sue trattative col pontefice. Condotta contradditoria del pontefice verso gli alleati. Vane pratiche di pace fra gli ambasciatori dei collegati e Cesare; intimazione di guerra.

Nel quale tempo Antonio de Leva, dopo la partita di Lautrech da Piacenza, mandò fuora di Milano i fanti spagnuoli e italiani, perché si pascessino, perché recuperassino i luoghi piú deboli del paese, e perché aprissino le comodità del condursi le vettovaglie a Milano; quali presono quella parte del contado di sopra che si chiama Sepri. Mandò anche Filippo Torniello con mille dugento fanti e con alcuni cavalli a Novara, nella quale città erano quattrocento fanti del duca di Milano. Entrovvi il Torniello per la rocca, tenutasi sempre in nome di Cesare; de' fanti sforzeschi si ridusse una parte in Arona l'altra in Mortara. A' quali avendo il duca aggiunti altri fanti per la difesa della Lomellina e del paese, non era libero al Torniello lo allargarsi molto: in modo che, non si facendo per quella vernata altre fazioni che spesse scaramuccie, attendevano tutti a rubare, gli amici e i nimici, conducendo a ultimo eccidio tutto il paese.

Eransi anche in questo tempo congiunte, a Livorno, [le galee d']Andrea Doria e quattordici galee franzesi con le sedici galee de' viniziani; e avendo ricevuto Renzo da Ceri con tremila fanti per porre in terra, partirono il terzodecimo dí di novembre da Livorno: e benché prima fusse stato determinato che assaltassino l'isola di Sicilia, mutato consiglio, si voltorono alla impresa di Sardigna, per i conforti, secondo si credette, di Andrea Doria, e perché già avesse nel petto nuovi concetti. Acconsentí a questa impresa Lautrech, per la speranza che presa la Sardigna si facilitasse molto l'acquisto della Sicilia. Quello che ne fusse la cagione, travagliate in mare da tristissimi tempi, separate, andorno vagando per mare: una delle galee franzesi andò a traverso appresso a' liti di Sardigna; quattro delle galee viniziane, molto battute, ritornorono a Livorno; le franzesi scorsono per l'impeto de' venti in Corsica, dove poi in Porto Vecchio si ricongiunsono seco quattro galee de' viniziani; l'altre otto furono traportate a Livorno. Finalmente la impresa risolvette, restando insieme in molta discordia Andrea Doria e Renzo da Ceri. Ma Lautrech, il quale ricevé quando era in Reggio avviso della, liberazione del pontefice, rilasciata la fortezza di Parma a' ministri ecclesiastici, andò a Bologna; nella quale città, arrivato il vigesimo dí del mese medesimo, si fermò aspettando la venuta degli ultimi fanti tedeschi; i quali pochi dí poi si condussono nel bolognese, non in numero seimila, come era destinato, ma solamente tremila: e nondimeno soggiornò venti dí in Bologna, aspettando avviso dal re di Francia dell'ultima risoluzione circa la pratica della pace, e instando intratanto con somma diligenza col pontefice, insieme con l'autorità del re di Inghilterra, perché apertamente aderisse a' collegati.

Al quale ne' primi che arrivò a Orvieto, essendo andati a lui a congratularsi il duca di Urbino il marchese di Saluzzo, Federigo da Bozzole (il quale pochi dí poi morí di morte naturale a Todi) e Luigi Pisano proveditore viniziano, gli aveva con grandissima instanza ricercati che levassino le genti loro dello stato ecclesiastico, affermando gli imperiali avergli promesso che si partirebbono ancora essi dello stato della Chiesa in caso che l'esercito de' confederati facesse il medesimo. Aveva anche scritto uno breve a Lautrech, [ringraziandolo] dell'opere fatte per la sua liberazione e dell'averlo confortato a liberarsi in qualunque modo; le quali opere erano state di tanto momento a costrignere gli imperiali a determinarsi che non meno si pretendeva obligato al re e a lui che se fusse stato liberato con l'armi loro, i progressi delle quali arebbe volentieri aspettato se la necessità non l'avesse indotto, perché continuamente gli erano mutate in peggio le condizioni proposte, e perché apertamente aveva compreso non potere se non per mezzo della concordia conseguire la sua liberazione; la quale quanto piú si differiva tanto procedeva in maggiore precipizio la autorità e lo stato della Chiesa: ma sopra tutto averlo mosso la speranza d'avere a essere instrumento opportuno a trattare col suo re e con gli altri príncipi cristiani il bene comune. Queste furono da principio le sue parole, sincere e semplici come pareva convenire allo officio pontificale, e di uno pontefice specialmente che avesse avuto da Dio sí gravi e sí aspre ammonizioni: nondimeno, ritenendo la sua natura solita, né avendo per la carcere deposte né le sue astuzie né le sue cupidità, arrivati che furono a lui (già cominciato l'anno mille cinquecento ventotto) gli uomini mandati da Lautrech e Gregorio da Casale oratore del re di Inghilterra, a ricercarlo che si confederasse con gli altri, cominciò a dare varie risposte: ora dando speranza ora scusandosi che, non avendo né danari né gente né autorità, sarebbe a loro inutile il suo dichiararsi, e nondimeno a sé potrebbe essere nocivo perché darebbe causa agli imperiali di offenderlo in molti luoghi, ora accennando di volere sodisfare a questa dimanda se Lautrech venisse innanzi: cosa molto desiderata da lui perché i tedeschi avessino necessità di partirsi di Roma; i quali, consumando le reliquie di quella misera città e di tutto il paese circostante, e deposta totalmente la obbedienza de' capitani, tumultuando spesso tra loro, ricusavano di partirsi, dimandando nuovi denari e pagamenti.

Ma alla fine dell'anno precedente, e molto piú nel principio dell'anno medesimo, cominciorono manifestamente ad apparire vane le pratiche della pace, per le quali si esacerborono molto piú gli animi de' príncipi: perché, essendo risolute quasi tutte le difficoltà (con ciò sia che Cesare non negasse di restituire il ducato di Milano a Francesco Sforza, e di comporre co' viniziani e co' fiorentini e con gli altri confederati), si disputava solamente quale cosa s'avesse prima a mettere in esecuzione, o la partita dello esercito del re di Francia di Italia o la restituzione de' figliuoli. Negava il re di obligarsi a Cesare, restando a lui Genova, Asti e Edin, a levare l'esercito di Italia, se prima non recuperava i figli, ma offeriva statichi in mano del re di Inghilterra, per sicurtà della osservanza delle pene alle quali si obligava se recuperati i figli non levasse subito l'esercito; Cesare instava del contrario, offerendo le medesime cauzioni in mano del re di Inghilterra. E disputandosi chi fusse piú onesto che si fidasse dell'altro, diceva Cesare non si potere fidare di chi una volta l'aveva ingannato; a che rispondevano argutamente gli oratori franzesi che quanto piú si pretendeva ingannato dal re di Francia tanto manco poteva il re di Francia fidarsi di lui; né la offerta di Cesare, di dare le sicurtà medesime in mano del re di Inghilterra che offeriva di dare il re di Francia, essere offerta pari perché anche non era pari il caso, con ciò sia che fusse di tanto maggiore momento quello che Cesare prometteva di fare che quello che prometteva il re di Francia, e però non assicurare le sicurtà medesime. Soggiunseno in ultimo che gli oratori del re di Inghilterra, quali avevano mandato dal suo re di obligarlo a fare osservare quello che promettesse il re di Francia, non avevano mandato a obligarlo per l'osservanza di quello promettesse Cesare; e che, essendo le facoltà loro terminate e con tempo prefisso, non potevano né trasgredire né aspettare. Sopra la quale disputa non si trovava risoluzione alcuna, perché Cesare non aveva la medesima inclinazione alla pace che aveva il suo consiglio, persuadendosi, eziandio perduto Napoli, poterlo riavere con la restituzione de' figliuoli: ed era imputato molto il gran cancelliere, ritornato molto prima in Ispagna, di avere turbato con punti e con sofistiche interpretazioni. Finalmente gli oratori franzesi e inghilesi deliberorono, secondo le commissioni che avevano in caso della disperazione della concordia, di dimandare a Cesare licenza di partirsi, e poi subito fare intimare la guerra. Con la quale conclusione presentatisi, il vigesimo primo dí di gennaio, seguitandogli gli oratori de' viniziani del duca di Milano e de' fiorentini, innanzi a Cesare, residente allora con la corte a Burgus, gli oratori inghilesi gli dimandorono i quattrocento cinquantamila ducati prestatigli dal loro re, seicentomila per la pena nella quale era incorso per il ripudio della figliuola e cinquecentomila per le pensioni del re di Francia e per altre cagioni: le quali cose proposte per maggiore giustificazione, tutti gli oratori de' collegati gli dimandorono licenza di partirsi. A' quali rispose che consulterebbe la risposta che avesse a fare, ma essere necessario che, anche innanzi alla partita loro, gli oratori suoi fussino in luogo sicuro. E partiti da lui gli imbasciadori, entrorono subito gli araldi del re di Francia e del re di Inghilterra a intimargli la guerra: la quale avendo accettata con lieto animo, ordinò che gli imbasciadori del re di Francia de' viniziani e de' fiorentini fussino condotti a una villa lontana trenta miglia dalla corte, dove fu posta loro guardia di arcieri e alabardieri, proibito ogni commercio e la facoltà dello scrivere; a quello del duca di Milano, come a suo suddito, fece fare comandamento che non partisse dalla corte; a l'inghilese non fu fatta innovazione alcuna. E cosí, rotta ogni pratica della pace, restorono accesi solamente i pensieri della guerra, condotta e stabilita tutta in Italia.

Cap. xvi

Il Lautrech muove con l'esercito da Bologna per il regno di Napoli. Ragioni di diffidenza fra il pontefice e i collegati. Il Lautrech sul Tronto; accordi fra il re di Francia e quello d'Inghilterra restio a portare la guerra in Fiandra. Sfida dei re di Francia e d'Inghilterra a Cesare. Desiderio del re d'Inghilterra che sia annullato il matrimonio suo con Caterina d'Aragona e sue richieste al pontefice. Atteggiamento del pontefice.

Dove Lautrech, stimolato dal suo re ma molto piú dal re di Inghilterra, poiché cominciò a indebolire la speranza della pace, era il nono dí di gennaio partito da Bologna, indirizzandosi al reame di Napoli per il cammino della Romagna e della Marca; cammino eletto da lui, dopo molta consultazione, contro alla instanza del pontefice, desideroso, con l'occasione della passata sua, di fare rimettere in Siena Fabio Petrucci e il Monte de' nove: e contro alla instanza ancora de' fiorentini, i quali, per fuggire i danni del loro paese, e nondimeno perché quello esercito fusse piú pronto a soccorrergli se gli imperiali, per fare diversione, si movessino per assaltare la Toscana, approvavano il cammino della Marecchia. Ma Lautrech elesse di entrare piú tosto per la via del Tronto nel regno di Napoli, per essere cammino piú comodo a condurre l'artiglierie e piú copioso di vettovaglie, e per non dare occasione agli inimici di fare testa a Siena o in altro luogo; desiderando di entrare, innanzi che avesse alcuno ostacolo, nel regno di Napoli.

Ma come fu mosso da Bologna, Giovanni da Sassatello restituí la rocca di Imola al pontefice, la quale quando era prigione aveva occupata; e accostandosi dipoi a Rimini, Sigismondo Malatesta figliuolo di Pandolfo si convenne seco di restituire quella città al pontefice, con patto che fusse obligato a lasciare godere alla madre la dota, a dare seimila ducati alla sorella non maritata e a consegnare, tra il padre e lui, ducati dumila di entrata; partisse subito di Rimini Sigismondo, e vi restasse il padre insino a tanto che il pontefice avesse ratificato, e in questo mezzo stesse la rocca in mano di Guido Rangone suo cugino; il quale, condotto agli stipendi del re di Francia, seguitava Lautrech alla guerra. Ma differendo il pontefice a adempiere queste promesse, Sigismondo occupò di nuovo la rocca, non senza querela grave del pontefice contro a Guido Rangone, come se tacitamente l'avesse permesso, né senza sospetto ancora che non vi avessino consentito Lautrech e i viniziani, come desiderassino tenerlo in continue difficoltà: i viniziani per causa di Ravenna, la quale avendo il pontefice, subito che fu liberato di Castello, mandato l'arcivescovo sipontino a dimandare a quel senato, aveva riportato risposta generale, con rimettersi a quello che gli esporrebbe Gaspare Contareno eletto oratore a lui; perché se bene avessino prima affermato che la ritenevano per la sedia apostolica, nondimeno aveano totalmente l'animo alieno dal restituirla, mossi dallo interesse publico e dallo interesse privato; perché quella città era molto opportuna ad ampliare lo imperio in Romagna, fertile da se stessa di frumenti, e per la fertilità delle terre vicine dava opportunità grande a condurne ciascuno anno in Vinegia, e perché molti viniziani avevano in quel territorio ampie possessioni. Sospettava dell'animo di Lautrech: perché avendo Lautrech, oltre a molte instanze fattegli prima, mandato, da poi che era partito da Bologna, Valdemonte capitano generale di tutti i fanti tedeschi e Longavilla, a ricercarlo strettissimamente che si dichiarasse contro a Cesare, potendo, massime per l'approssimarsi l'esercito, farlo sicuramente, non aveva potuto ottenerlo, non lo denegando il pontefice espressamente ma differendo e escusando; per la quale cagione aveva offerto al re di Francia di consentirvi, ma con condizione che i viniziani gli restituissino Ravenna: condizione quale sapeva non dovere avere effetto, non essendo i viniziani per muoversi a questo per le persuasioni del re, né comportando il tempo che egli, per sodisfare al pontefice, se gli provocasse inimici. Aggiugnevasi che anche non udiva la instanza di Lautrech fatta perché ratificasse la concordia fatta col duca di Ferrara, allegando essere cosa molto indegna lo approvare, quando era vivo, le convenzioni fatte in nome suo mentre che era morto; ma che non recuserebbe di convenire con lui: donde il duca di Ferrara, pigliando questa occasione, faceva difficoltà, benché ricevuto nella protezione del re di Francia e de' viniziani, mandare a Lautrech i cento uomini d'arme e di pagargli i danari promessi; come quello che, dubitando dell'esito delle cose, si sforzava di non aderire tanto al re di Francia che non gli restasse luogo di placare in qualunque evento l'animo di Cesare, appresso al quale si era escusato della sua necessità; e intratteneva continuamente a Ferrara Giorgio Fronspergh e Andrea de Burgo.

Procedeva nondimeno innanzi Lautrech con l'esercito, col quale arrivò il decimo dí di febbraio in sul fiume del Tronto, confine tra lo stato ecclesiastico e il regno di Napoli. Ma in Francia il re, intesa la retenzione del suo imbasciadore, messe quello di Cesare nel castelletto di Parigi, e ordinò che per tutta Francia fussino ritenuti i mercatanti sudditi di Cesare. Il medesimo in quanto allo oratore di Cesare fece il re di Inghilterra; benché, inteso dipoi il suo non essere stato ritenuto, lo liberò. Ed essendo già bandita la guerra in Francia in Inghilterra e in Spagna, instava il re in Inghilterra che si rompesse comunemente la guerra in Fiandra; alla quale egli per dare principio, aveva fatto correre e predare alcune sue genti in sul paese della Fiandra: non si facendo per questo da quegli di Fiandra movimento alcuno se non per difendersi; perché madama Margherita, sforzandosi quanto poteva di estinguere le occasioni di entrare in guerra col re di Francia, non permetteva che gli uomini suoi uscissino del suo paese. Ma al re di Inghilterra era anche molestissimo l'avere la guerra co' popoli di Fiandra: perché, non ostante che acquistandosi certe terre promessegli prima da Cesare, per sicurtà de' danari prestati, avessino a essere consegnate a lui, nondimeno e alle entrate sue e al suo regno era di molto pregiudizio lo interrompere il commercio de' suoi mercatanti in quella provincia; ma non potendo per le convenzioni fatte apertamente recusarlo, differiva quanto poteva, allegando che, secondo i capitoli di quella obligazione, gli era lecito tardare quaranta dí dopo la intimazione fatta, per dare tempo a' mercatanti di ritirarsi. La quale sua volontà e la cagione essendo conosciuta dal re cristianissimo, dopo avere trattato insieme di assaltare, in luogo della guerra di Fiandra, con armate marittime le marine della Spagna, affermando il re di Francia avere intelligenza in quelle parti. Le quali cose partorirono finalmente che il re d'Inghilterra, avendo mandato in Francia il vescovo batoniense per persuadere a lasciare le imprese di là da' monti e a crescere le forze e la guerra d'Italia, per consigli e conforti suoi si [convenne] che, per tempo di otto mesi prossimi, si levassino le offese tra il re di Francia il re di Inghilterra e il paese di Fiandra, con gli altri stati circostanti sottoposti a Cesare: alla quale [tregua] perché il re di Francia condiscendesse piú facilmente si obligò il re di Inghilterra a pagare, ogni mese, trentamila ducati per la guerra di Italia, per la quale era finita la contribuzione promessa prima per sei mesi.

Ma cosí come continuamente si accrescevano le preparazioni alla guerra si accendevano molto piú gli odii tra i príncipi, pigliando qualunque occasione di ingiuriarsi e di contendere, non meno con l'animo e con la emulazione che con l'armi. Perché avendo Cesare, circa due anni innanzi, in Granata, in tempo che similmente si trattava la pace tra il re di Francia e lui, detto al presidente di Granopoli oratore del re di Francia certe parole le quali inferivano che, volentieri, acciò che delle differenze loro non avessino a patire piú i popoli cristiani e tante persone innocenti, le diffinirebbe seco con battaglia singolare, e dipoi replicate all'araldo, quando ultimatamente gli aveva intimata la guerra, le parole medesime, aggiugnendogli di piú, il suo re essersi portato bruttamente a mancargli della fede data, il re di Francia, avendo intese queste parole, e parendogli di non potere senza sua ignominia passarle con silenzio, ancora che la richiesta di Cesare fusse richiesta forse piú degna tra cavalieri che tra tali príncipi, convocati il vigesimo settimo dí di marzo in una grandissima sala del palazzo suo (credo di Parigi) tutti i príncipi tutti gli imbasciadori e tutta la corte, nella quale presentatosi dipoi lui con grandissima pompa di vestimenti ricchissimi e di molto ornata compagnia, e postosi a sedere nella sedia regale, fece chiamare l'oratore di Cesare il quale, perché si era determinato che, condotto a Baiona, fusse liberato nel tempo medesimo che fussino liberati gli imbasciadori de' confederati, i quali per questo si conducevano a Baiona, dimandava di espedirsi da lui. Parlò il re scusandosi che principalmente Cesare, per avere con esempio nuovo e inumano ritenuto gli imbasciadori suoi e de' suoi collegati, era stato causa che anche egli fusse ritenuto; ma che dovendo ora andare a Baiona, perché in uno tempo medesimo si facesse la liberazione di tutti, desiderava portasse a Cesare una sua lettera ed esponesse una ambasciata di questo tenore: che avendo Cesare detto allo araldo che egli aveva mancato alla sua fede, aveva detto cosa falsa, e che tante volte mentiva quante volte lo replicava; e che in luogo di risposta, per non tardare la diffinizione delle loro differenze, gli mandasse il campo dove avessino tutti due insieme a combattere. E ricusando lo imbasciadore di portare e la lettera e la imbasciata, soggiunse che gli manderebbe, a fare intendere il medesimo, l'araldo; e che sapendo anche che aveva detto parole contro all'onore del re di Inghilterra suo fratello, non parlava di questo perché sapeva quel re essere bastante a difenderlo, ma che, se per indisposizione del corpo fusse impedito, che offeriva di mettere al cimento la sua persona per lui. La medesima disfida fece, pochi dí poi, con le medesime solennità e cerimonie, il re d'Inghilterra: non passando però con molto onore de' primi príncipi della cristianità che, avendo insieme guerra tanto importante e di tanto pregiudizio a tutta la cristianità, implicassino anche l'animo in simili pensieri.

E nondimeno, in tanto ardore di guerra e d'armi, non si divertiva il re di Inghilterra dalle cure amatorie: le quali, cominciando a empiere il petto suo di furore, partorirono in ultimo crudeltà e sceleratezze orrende e inaudite; con infamia grandissima e eterna del nome suo, che acquistato da Leone il titolo di difensore della fede per dimostrarsi osservantissimo della sedia apostolica, e per avere fatto scrivere in nome suo uno libro contro alla empietà e velenosa eresia di Martino Luter, acquistò titolo e nome di empio oppugnatore e persecutore della cristiana religione. Aveva per moglie il re d'Inghilterra Caterina figliuola già di Ferdinando e di Elisabella, re di Spagna, regina certamente degna di tali genitori, e che per le virtú e prudenza sua era in sommo amore e venerazione appresso a tutto quel regno: la quale, vivente Enrico padre suo, era stata prima maritata ad Artú figliuolo suo primogenito; col quale poi che ebbe dormito, restata vedova per la immatura morte del marito, fu di comune consentimento del padre e del suocero maritata a Enrico minore fratello, precedente, per l'impedimento della affinità tanto stretta, la dispensazione di Giulio pontefice. Del quale matrimonio essendone nato uno figliuolo maschio, che con immatura morte fu tolto loro, non ne nacque altri figliuoli che una figliuola femmina: susurrando già, massime alcuni per la corte, che, per essere il matrimonio illecito e non dispensabile in primo grado, erano miracolosamente privati di figliuoli maschi. Da che, e dal desiderio che sapeva avere il re di figliuoli, presa occasione il cardinale eboracense, cominciò a persuadere al re che, ripudiata la prima moglie che giustamente non era moglie, contraesse un altro matrimonio: movendolo a questo non la coscienza, né la cupidità per se stessa che il re avesse successori maschi, ma il persuadersi di potere indurre il re a pigliare Renea figliuola del re Luigi; il che desiderava estremamente, perché, conoscendo essere esoso a tutto il regno, desiderava di prepararsi a tutto quello che potesse succedere e in vita e dopo la morte del re; e inducendolo anche l'odio grande che aveva conceputo contro a Cesare, perché né con dimostrazioni né con fatti sodisfaceva alla maravigliosa sua superbia: né dubitava, per l'autorità grande che avevano il re ed egli nel pontefice, di non ottenere da lui la facoltà di fare giuridicamente il divorzio. Prestò gli orecchi il re a questo consiglio, non indotto a quel fine che disegnava Eboracense ma mosso, come molti dissono, non tanto dal desiderio di avere figliuoli quanto perché era innamorato di una donzella della regina, nata di basso luogo, la quale inchinò l'animo a pigliare per moglie; non essendo né a Eboracense né ad altri noto questo suo disegno, il quale quando cominciò o a scoprirsi o a congetturarsi non ebbe facoltà Eboracense di dissuadergli il fare divorzio, perché non arebbe avuto autorità a consigliargli il contrario di quello che prima gli aveva persuaso: e già il re, avendo dimandato parere da teologi da giureconsulti e da religiosi, aveva avuto risposta da molti che il matrimonio non era valido, o perché cosí credessino o per gratificare, come è costume degli uomini, al principe. Però, come il pontefice fu liberato di prigione, gli destinò imbasciadori per confortarlo a entrare nella lega, per operarsi, secondo che da lui fusse ordinato loro, per la restituzione di Ravenna, ma principalmente per ottenere la facoltà di fare il divorzio: che non si cercava per via di dispensa, ma per via di dichiarazione che il matrimonio con Caterina fusse nullo. E si persuase il re che il pontefice, per trovarsi debole di forze e di riputazione né appoggiato alla potenza di altri príncipi, e mosso ancora dal benefizio fresco de' favori grandi avuti da lui per la sua liberazione, avesse facilmente a consentirgli; sapendo massime che il cardinale, per avere favorito sempre le cose sue e prima quelle di Lione, poteva molto in lui: e acciò che il pontefice non potesse allegare scusa di timore per la offesa che ne risultava a Cesare, figliuolo d'una sorella di Caterina, e per allettarlo con questo dono, offerse pagargli per sua sicurtà una guardia di quattromila fanti. Udí il pontefice questa proposta; ma ancora che considerasse la importanza della cosa e la infamia grande che gliene potesse risultare, nondimeno trovandosi a Orvieto, e neutrale ancora tra Cesare e il re di Francia e in poca confidenza con ciascuno di loro, e però stimando assai il conservarsi l'amicizia del re d'Inghilterra, non ebbe ardire di contradire a questa dimanda; anzi, dimostrandosi desideroso di compiacere al re ma allungando, col difficultare i modi che si proponeva, accese la speranza e la importunità del re e de' suoi ministri, la quale, origine di molti mali, continuamente augumentava.

Ma quando il pontefice ebbe udito Valdemonte e Longavilla, il quale gli era stato mandato dal re [di Francia], risposto a loro parole generali, mandò al re insieme con Longavilla il vescovo di Pistoia, per farlo capace che, per l'essere senza danari senza forze e senza autorità, la dichiarazione sua non sarebbe di frutto alcuno a' collegati; potergli solamente giovare nel trattare la pace, e che però aveva commissione di andare a Cesare per esortarnelo con parole rigorose: il che il re, benché non restasse male sodisfatto della neutralità del pontefice, nondimeno, dubitando non lo mandasse per trattare altro, non consentí. Né Cesare anche si lamentava del pontefice se stava neutrale.

Cap. xvii

Difficoltà delle armate alleate; cause di malcontento del Doria e dei genovesi verso il re di Francia. Progressi delle milizie di terra; deficienza di danari; occupazione dell'Abruzzi. Partenza delle milizie imperiali da Roma; condizioni della città. L'esercito dei collegati in Puglia. Azioni di guerra; presa di Melfi. Il papa a Viterbo; occupazione dei castelli già appartenenti a Vespasiano Colonna.

Ma nel tempo che Lautrech andava innanzi, e che era destinato che l'armate facessino il medesimo, si opponevano a questo molte difficoltà. Perché le dodici galee viniziane che prima si erano ridotte a Livorno, avendo patito molto nella impresa di Sardigna, e per i travagli del mare e per la carestia delle vettovaglie, partirono il decimo dí di febbraio da Livorno per andare a Corfú a rifornirsi: benché i viniziani promettevano mandarne in luogo loro dodici altre, per unirsi con l'armata franzese. La quale anche aveva delle difficoltà, per quello che aveva patito e per le differenze nate tra Andrea Doria e Renzo da Ceri; per le quali, benché Renzo si fusse fermato in Pisa ammalato, si trattava che il Doria, il quale con tutte le galee aveva toccato a Livorno, andasse con le sue galee a Napoli, Renzo con l'altre franzesi, con quattro di fra Bernardino e con le quattro de' viniziani, che tutte erano insieme, assaltasse la Sicilia: ma il Doria, con le otto sue galee e otto altre dell'armata del re di Francia, si ritirò a Genova, allegando essere necessario e alle galee e a lui concedere riposo; o perché questa fusse veramente la cagione, o perché gli interessi delle cose di Genova gli inclinassino già l'animo a nuovi pensieri. Con ciò sia che, avendosi a Genova dimandato al re che concedesse loro che si governassino liberamente da se stessi, offerendogli per il dono della libertà dugentomila ducati, e avendolo il re recusato, si credeva che al Doria, autore o almeno confortatore che facessino queste dimande, non fusse grato che il re acquistasse la Sicilia se la libertà non si concedeva a' genovesi. E pullulava anche un'altra causa importante di controversia: perché, avendo il re smembrato la città di Savona da' genovesi, si dubitava che, voltandosi infra non molto tempo, per il favore del re e per la opportunità del sito, a Savona la maggiore parte del commercio delle mercatanzie, e quivi facendo scala l'armate regie, quivi fabricandosi i legni per lui, Genova non si spogliasse di frequenza d'abitatori e di ricchezze: però il Doria si affaticava molto col re che Savona fusse rimessa nella antica subiezione de' genovesi.

Ma con maggiore felicità che le espedizioni marittime procedevano le cose di Lautrech: il quale, come fu arrivato ad Ascoli, inviò Pietro Navarra co' suoi fanti alla volta dell'Aquila; essendosi già, alla fama della sua venuta, arrenduti Teramo e Giulianuova. Seguitavalo, per la via della Lionessa, il marchese di Saluzzo con le sue genti; e piú addietro cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila fanti delle bande nere de' fiorentini, con Orazio Baglione. Avevono anche i viniziani promesso mandargli, senza la persona del duca d'Urbino, quattrocento cavalli leggieri e quattromila fanti, delle genti le quali avevano in terra di Roma; e, in supplemento delle altre con le quali erano obligati di aiutare la guerra del regno di Napoli, si erano convenuti di pagargli ciascuno mese ventitremila ducati; e affermavano che, con l'armata disegnata per la impresa della Sicilia, arebbono in mare trentasei legni; e nondimeno apparendo manifestamente che erano stracchi, procedevano molto lentamente allo spendere. Come similmente era il re di Francia; perché a Lautrech, in questo tempo, vennono avvisi che l'assegnamento fattogli dal re, quando partí di Francia, di cento trentamila scudi il mese per le spese della guerra, e del quale aveva ancora a riscuoterne circa dugentomila, era stato ridotto, né per piú che per tre mesi futuri, solamente a ragione di sessantamila scudi il mese: di che era in grandissima disperazione, lamentandosi che il re non si commovesse né dalla ragione né dalla fede né dalla memoria ed esempio del danno proprio; perché diceva che l'avere voltato il re i denari e le forze che avevano a servire a lui, per la difesa del ducato di Milano, alla impresa di Fonterabia, era stato cagione di fargli perdere quello stato. Succedette la cosa dell'Aquila felicemente: perché, come Pietro Navarra, il quale Lautrech vi aveva mandato insino da Fermo, vi si accostò, il principe di Melfi se ne partí, e vi entrò in nome del re di Francia il vescovo della città, figliuolo del conte di Montorio. Occuporono per accordo e i fanti tedeschi de' viniziani Civitella, piccola terra ma forte, posta di là dal Tronto sette miglia; prevenuti dugento archibusieri spagnuoli i quali camminavano per entrarvi dentro. Seguitò l'esempio della Aquila tutto lo Abruzzi; e arebbe fatto il simigliante, in brevissimo tempo, tutto il reame di Napoli se l'esercito imperiale non fusse uscito di Roma.

Il quale, dopo molte difficoltà e molti tumulti, nati perché i soldati dimandavano di essere pagati del tempo corso dopo la liberazione del pontefice, uscí di Roma il decimosettimo dí di febbraio; dí di grandissimo respiramento alle miserie tanto lunghe del popolo romano se, subito dopo la partita loro, non vi fussino entrati l'abate di Farfa e altri Orsini co' villani delle terre loro, i quali vi feciono per molti dí gravissimi danni. Restò Roma spogliata, dall'esercito, non solo di una parte grande degli abitatori, con tante case desolate e distrutte, ma eziandio spogliata di statue di colonne di pietre singolari e di molti ornamenti della antichità; e nondimeno, non volendo partire i tedeschi senza i danari di due paghe, perché gli spagnuoli consentirono di uscirne senza altro pagamento, fu necessitato il pontefice, desideroso che Roma restasse vacua, pagare prima ventimila ducati, i quali pagò sotto colore di liberare i due cardinali statichi, e poi ventimila altri ne riceverono sotto nome del popolo romano; dubitandosi che anche questi non fussino pagati dal pontefice, ma sotto questo nome per dare minore causa di querelarsi a Lautrech: il quale nondimeno si querelò gravissimamente che, co' danari suoi, fusse stato cagione della partita da Roma dell'esercito, per la quale la vittoria manifestissima si riduceva agli eventi dubbi della guerra. Uscirono, secondo che è fama, di Roma mille cinquecento cavalli quattromila fanti spagnuoli dumila in tremila fanti italiani e cinquemila fanti tedeschi, tanti di questi aveva diminuiti la pestilenza.

La partita dell'esercito imperiale da Roma costrinse Lautrech, il quale altrimenti sarebbe andato per il cammino piú diritto verso Napoli, a pigliare il cammino piú lungo di Puglia a canto alla marina, per la difficoltà di condurre l'artiglierie, se avesse avuto in quegli luoghi l'opposizione degli inimici, per la montagna; e molto piú per fare provisione di vettovaglie, acciò che non gli mancassino se fusse necessitato fermare il corso della vittoria alle mura di Napoli. Però venne a Civita di Chieta, capo dello Abruzzi citra (perché il fiume di Pescara divide lo Abruzzi citra dallo Abruzzi ultra), dove se gli erano date Sermona e molte altre terre del paese, e con tanta inclinazione, o per l'affezione al nome de' franzesi o per l'odio a quello degli spagnuoli, che quasi tutte le terre anticipavano a darsi venticinque o trenta miglia innanzi alla giunta dello esercito. Procedeva nondimeno piú lentamente di quello arebbe potuto, per andare innanzi con maggiore stabilità e sicurezza; e si credeva che, per assicurarsi di riscuotere per tutto marzo l'entrata della dogana di Puglia, entrata di ottantamila ducati la quale consisteva in cinque terre, v'avesse a mandare Pietro Navarra co' suoi fanti, per la stranezza del quale, essendo Lautrech necessitato a comportarla, non era nello esercito molto ordine. Ma essendo partito dal Guasto, e inteso che una parte dell'esercito inimico, col quale si era unito il principe di Melfi con mille fanti tedeschi, di quegli che aveva menati di Spagna don Carlo viceré, e con dumila fanti italiani usciti della Aquila, era venuta a Nocera, lontana quaranta miglia da Termini verso la marina, e un'altra a Campobasso, lontana trenta miglia da Termini in sul cammino proprio di Napoli, mandato innanzi Pietro Navarra co' suoi fanti, egli l'ultimo dí di febbraio andò alla Serra, lontana diciotto miglia da Termini, donde il quarto dí di marzo arrivò a San Severo. Ma Pietro Navarra, procedendo innanzi, entrò l'uno dí in Nocera e l'altro dí in Foggia, entrando per una porta quando gli spagnuoli, che si erano ritirati a Troia, Barletta e Manfredonia, volevano entrarvi per l'altra: che giovò assai per le vettovaglie dell'esercito. Erano con Lautrech in tutto quattrocento lancie e dodicimila fanti, né di gente molto eletta; ma dovevansi unire seco il marchese di Saluzzo, il quale camminava innanzi a tutti, le genti de' viniziani e le bande nere de' fiorentini, desiderate molto da Lautrech perché, avendo fama di essere fanteria destra e ardita agli assalti quanto fanteria che allora fusse in Italia, facevano come uno condimento [al suo esercito], nel quale erano genti ferme e stabili a combattere. Ma inteso, per relazione di Pietro Navarra mandato da lui a speculare il sito, che in Troia e all'intorno erano cinquemila alamanni cinquemila spagnuoli e tremila cinquecento italiani, e tra Manfredonia e Barletta mille cinquecento italiani, né potendosi per i freddi grandissimi stare in campagna, Lautrech, agli otto dí di marzo, andò a Nocera con tutti i fanti e cavalli leggieri, e il marchese di Saluzzo nuovamente arrivato messe con le genti d'arme e con mille fanti in Foggia; affermando di volere fare, se la occasione si presentava, la giornata, e per altre ragioni e perché, essendogli stati diminuiti dal re gli assegnamenti, non poteva sostentare molto tempo le spese della guerra: e in San Severo lasciò gl'imbasciadori e le genti non atte alla guerra, con poca guardia. Cosí gli pareva stare sicuro né essere necessitato a fare giornata se non con vantaggio. Né gli mancavano vettovaglie, benché si pativa di macinato. Uscí dipoi, a dodici dí di marzo, in campagna, tre miglia di là da Nocera e cinque miglia presso a Troia, perché Nocera e Barletta distanti intra sé dodici miglia distano non piú che otto miglia da Troia; e gli imperiali, i quali avevano raccolte quasi tutte le genti che erano in Manfredonia e in Barletta, ma non pagate eccetto i fanti tedeschi, e che in Troia aveano copia di vettovaglie, uscirono a scaramucciare: dipoi il dí seguente si messeno in campagna, senza artiglieria, in uno alloggiamento forte in su il colle di Troia. Lautrech, a quattordici dí, girò quello colle dalla banda di sopra che risguarda mezzodí verso la montagna, e voltando il viso a Troia cominciò a salire, e guadagnato il poggio con grossa scaramuccia fece uno alloggiamento cavaliere a loro, e gli costrinse a colpi di artiglierie a ritirarsi, guadagnando per sé lo alloggiamento loro, parte in Troia parte a ridosso: in modo che Troia e lo esercito imperiale restorono tra l'esercito franzese e San Severo, il che difficultava i soccorsi che e' potessino avere da Napoli, e anche in grande parte impediva le vettovaglie che potessino condursi a loro; benché, per essere scarichi di bagaglie e di gente inutile, non consumassino molto. E da altra parte erano impedite da essi le vettovaglie che andavano da San Severo al campo franzese; e anche tenevano in pericolo San Severo, il quale potevano assaltare con una parte delle loro genti senza che i franzesi se ne accorgessino.

Cosí stando alloggiati gli eserciti, i franzesi di là da Troia di verso la montagna, gl'imperiali dalla banda di qua verso Nocera a ridosso della terra, in su la spiaggia molto fortificata, ed essendo la piú parte de' luoghi circostanti in mano de' franzesi, dimororono cosí insino a' diciannove dí, dandosi tutta notte all'arme e ogni dí facendo scaramuccie, in una delle quali fu preso Marzio Colonna; e interrompendo spesso le vettovaglie che andavano da San Severo e da Foggia allo esercito franzese (che per questo ebbe qualche stretta), né si potevano condurre senza grossa scorta. Nel quale tempo (secondo scrive il Borgia), il marchese del Guasto consigliò che si facesse la giornata, perché l'esercito franzese cresceva ogni giorno e il loro diminuiva; ma ebbe piú autorità il consiglio di Alarcone, che mostrava essere piú speranza nella vittoria nel stare alla difesa, consumando tempo, che nel rimettersi allo arbitrio della fortuna. A' diciannove dí, gli imperiali, per essere danneggiati dall'artiglieria inimica, si ritirorono in Troia; ma riparato poi il loro alloggiamento dalla artiglieria, al tempo buono vi ritornavano, al sinistro si ritornavano in Troia. Ma a' ventuno, in su il fare del dí, si levorono, e andorono verso la montagna ad Ariano con non piccola giornata, ed essendosi, contro a quello che prima credevano i franzesi, trovate in Troia vettovaglie assai, da che, per avere serrato i passi da condurle, s'erano promessi vanamente la vittoria, si interpretavano fussino levati o per volergli tirare in luogo dove patissino di vettovaglie o per avere inteso che il dí seguente si aspettavano nel campo franzese le bande nere: le quali, nel venire innanzi, essendo alloggiate per transito nell'Aquila, aveano, senza essere stati o ingiuriati o provocati ma meramente per cupidità di rubare, saccheggiata sceleratamente quella città. A' ventidue, Lautrech alloggiò alla Lionessa in su il fiume dello Ofanto, detto da' latini Aufido, lontano sei miglia da Ascoli, mandate le bande nere, e Pietro Navarra co' fanti suoi e con due cannoni, alla oppugnazione di Melfi; dove, avendo fatto piccola rottura, i guasconi s'appresentorono alle mura, e le bande nere con maggiore impeto, contro all'ordine de' capitani, feciono il medesimo: e facendo l'una nazione a gara con l'altra, battendogli gli archibusi de' fianchi, furono ributtati, con morte di molti guasconi e di circa sessanta delle bande nere. Ed ebbeno la sera medesima un altra battitura quasi eguale, essendo tornati al tardi, poiché era stata continuata la batteria, a dare un altro assalto. Ma la notte venneno in campo nuove artiglierie da Lautrech, con le quali avendo la mattina seguente fatte due batterie grandi, i villani, che ne erano dentro molti, cominciorono per paura a tumultuare. Per timore del quale tumulto occupati i soldati, che erano circa seicento, abbandonorono la difesa; donde quegli del campo entrati dentro ammazzorono tutti i villani e gli uomini della terra. Ritiroronsi i soldati nel castello, col principe; e poco poi si arrenderono, secondo disseno quegli del campo, a discrezione, benché essi pretendessino esserne eccettuata la vita. Fu salvato il principe con pochi de' suoi, gli altri tutti ammazzati, saccheggiata la terra e morti in tutto tremila uomini. Nella quale si trovò vettovaglie assai, con grandissimo comodo de' franzesi che avevano, per le loro male provisioni, somma necessità in Puglia di quello di che vi è somma abbondanza. A' ventiquattro, gli spagnuoli partirono da Ariano e si fermorono alla Tripalda, lontana venticinque miglia da Napoli in su il cammino diritto, e quaranta miglia da l'Ofanto: co' quali si uní il viceré il principe di Salerno e Fabbrizio Maramaus, con tremila fanti e con dodici pezzi di artiglieria; e si diceva che Alarcone usciva di Napoli con dumila fanti, per soccorrere la dogana. Soprastava nondimeno Lautrech in su l'Ofanto, per fare prima grossa provisione di vettovaglie; e tutta la gente sua era alloggiata tra Ascoli e Melfi: e dopo il caso di Melfi se gli erano date Barletta, Trani e tutte le terre circostanti, eccetto Manfredonia, dove erano mille fanti: donde mandato Pietro Navarra con quattromila fanti a combattere la rocca di Venosa, guardata da dugento cinquanta fanti spagnuoli che la difendevano gagliardamente, l'ottenne a discrezione; e ritenuti prigioni i capitani, licenziò gli altri senza armi. E aveva dato ordine tale che per lui si riscoteva l'entrata della dogana di Puglia, ma per gli impedimenti che dà la guerra non ascendeva alla metà di quello che era consueto riscuotersi. In questo alloggiamento arrivò il proveditore Pisani con le genti de' viniziani, che furno in tutto circa dumila fanti (ma non so se i lanzi loro, che erano circa mille, si computino in questo numero o se pure erano prima con Lautrech, come credo). Cosí attendeva ad assicurarsi delle vettovaglie: di che ebbe piú facilità poi che, per opera delle genti viniziane, ebbe Ascoli in suo potere.

Nel quale tempo, preso animo dalla prosperità de' successi, strigneva con parole alte il papa a dichiararsi. Il quale, se bene prima i viterbesi, per opera di Ottaviano degli Spiriti, non avevano voluto ricevere il suo governatore, nondimeno, avendo poi per timore ceduto, aveva trasferita la corte a Viterbo. Ed essendo nel tempo medesimo morto Vespasiano Colonna, e disposto nella sua ultima volontà che Isabella, sua unica figliuola, si maritasse a Ippolito de' Medici, il pontefice occupò tutte le castella che possedeva in terra di Roma: benché Ascanio pretendesse che, mancata la linea mascolina di Prospero Colonna, appartenessino a lui.

Cap. xviii

Resa di Monopoli ai veneziani. Il duca di Ferrara invia il figliuolo in Francia per la perfezione del matrimonio. Raccolta di nuove milizie imperiali da inviarsi in Italia; provvedimenti dei collegati per far fronte ad esse. Miserrime condizioni e sofferenze dei milanesi; defezione del castellano di Mus. Il Lautrech nella Campania; la flotta dei Doria davanti al porto di Napoli; l'esercito dei collegati sotto le mura della città.

Erasi in questo tempo Monopoli arrenduto a' viniziani, per i quali, secondo l'ultime convenzioni fatte col re di Francia, si acquistavano tutti quegli porti del regno di Napoli i quali possedevano innanzi alla rotta ricevuta dal re Luigi nella Ghiaradadda.

Indussono queste prosperità de' franzesi il duca di Ferrara a mandare il figliuolo in Francia, per la perfezione del matrimonio: il che prima, ricusando eziandio di essere capitano della lega, aveva industriosamente differito.

Ma Cesare, non provedendo con le genti di Spagna a tanti pericoli del regno napoletano, perché da quella parte mandò solamente seicento fanti non molto utili in Sicilia, aveva ordinato che di Germania passassino in Italia, per soccorso di quel reame, sotto il duca di Brunsvich, nuovi fanti tedeschi; i quali si preparavano con tanto maggiore sollecitudine quanto si intendeva essere maggiore, per i progressi di Lautrech, la necessità del soccorso. Alla venuta de' quali per opporsi, acciò che non perturbasse la speranza della vittoria, fu, con consentimento comune del re di Francia del re di Inghilterra e de' viniziani, destinato che in Italia passasse, per seguitare i tedeschi se andavano nel reame di Napoli, se non per fare la guerra con le genti de' viniziani e di Francesco Sforza contro a Milano, Francesco monsignore di San Polo della famiglia di Borbone, con quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri cinquemila fanti franzesi dumila svizzeri e dumila tedeschi: alla spesa del quale esercito, che si disegnava di sessantamila ducati il mese, concorreva il re di Inghilterra con trentamila ducati ciascuno mese. E i viniziani avevano fatto, nel consiglio de' pregati, decreto di soldare diecimila fanti: aiuto molto incerto e molto lento perché, secondo l'uso loro, non succedeva cosí presto il soldare al deliberare. Tardava il muoversi, poi che erano soldati; mossi che erano, restava la difficoltà, quasi inestricabile, del passare i fiumi; e ultimamente, il volere mettersi al pericolo di uscire alla campagna e lo impedire i passi de' monti, per l'esperienze passate, era difficile, perché avevano infiniti modi e vie da passare. Però il duca di Ferrara consigliava non si tentasse neanche di combattergli in campagna, per essere gente animosa ed efferata, ma che con uno esercito grosso gli andassino secondando, per impedire loro le vettovaglie e l'unirsi con le genti che erano in Milano.

Nella quale città, per l'acerbità di Antonio de Leva, era estremità e suggezione miserabile; perché, per provedere a' pagamenti de' soldati, aveva tirato in sé tutte le vettovaglie della città, delle quali, fatti fondachi publichi e vendendole in nome suo, cavava i denari per i pagamenti loro; essendo costretti tutti gli uomini, per non morire di fame, di pagarle a' prezzi che paresse a lui: il che non avendo la gente povera modo di poterlo fare, molti perivano quasi per le strade. Né bastando anche questi denari a' soldati tedeschi che erano alloggiati per le case, costrignevano i padroni ogni dí a nuove taglie, tenendo incatenati quegli che non pagavano: e perché, per fuggire queste acerbità e pesi intollerabili, molti erano fuggiti e fuggivano continuamente della città, non ostante l'asprezza de' comandamenti e la diligenza delle guardie, si procedeva contro agli assenti alle confiscazioni de' beni; che erano in tanto numero che, per fuggire il tedio dello scrivere, si mettevano in stampa. Ed era stretta in modo la vettovaglia che infiniti poveri morivano di fame, i nobili male vestiti e poverissimi; e i luoghi già piú frequenti, pieni di ortiche e di pruni. E nondimeno, a chi era autore di tante acerbità e di tanti supplizi succedevano tutte le cose felicemente: perché essendo il castellano di Mus accampatosi a Lecco come soldato della lega, con seicento fanti, e tolte le navi, perché gli spagnuoli che erano in Como non potessino soccorrerlo per la via del lago, Antonio de Leva, chiamati i fanti di Novara, uscito di Milano, si fermò a quindici miglia di Milano co' tedeschi; ed espugnata la rocca di Olgina che è in ripa di Adda, stata presa prima da Mus, mandò Filippo Torniello co' fanti italiani e spagnuoli a soccorrere Lecco, che è in su l'altra ripa del lago; dove Mus, con aiuti fatti venire da' viniziani e dal duca di Milano, e con artiglieria avuta da' viniziani, aveva preso tutti i passi e fortificatogli, che per l'asprezza de' luoghi e de' monti sono difficili. Ma gl'imperiali, occupato allo opposito il monte imminente a Lecco, poi che ebbeno fatto pruova invano di passare in piú luoghi, sforzorno finalmente dove le genti de' viniziani guardavano; le quali Mus, o per confidare manco nella virtú loro o per mettergli in manco pericolo, aveva, posto ne' luoghi piú aspri. Però Mus, con l'artiglieria e co' suoi salito in su le navi, salvò la gente; non stando senza sospetto che i viniziani avessino fatto leggiera difesa per gratificare al duca di Milano, al quale non piaceva che egli pigliasse Lecco: e poco poi, per conseguire con la concordia quello che non aveva potuto conseguire con l'armi, passato nelle parti imperiali, ebbe, per virtú dell'accordo, Lecco e altri luoghi da Antonio de Leva, ottenuto anche da Ieronimo Morone, che per lettere era stato autore di questa pratica, la cessione delle sue ragioni. Dal quale accordo ebbe Antonio de Leva, nella strettezza della fame, grandissima comodità di vettovaglie e di danari; perché il castellano, il quale aspirando a concetti piú alti assunse poi il titolo di marchese, pagò trentamila ducati, e a Milano mandò tremila sacca di frumento.

Procedeva intanto Lautrech, e a' tre di aprile era a Rocca Manarda, lasciati a guardia di Puglia cinquanta uomini d'arme dugento cavalli leggieri mille cinquecento in dumila fanti, tutte genti de' viniziani: dove non si teneva altro che Manfredonia in nome di Cesare. Ma l'esercito imperiale, risoluto di attendere (abbandonato tutto il paese circostante) [a difendere] Napoli e Gaeta, poi che, per tôrre alimenti agli inimici, ebbe saccheggiato Nola e condotto a Napoli le vettovaglie che erano in Capua, alloggiò in sul monte di San Martino, donde di poi entrò in Napoli con diecimila fanti tra tedeschi e spagnuoli, e licenziati tutti i fanti italiani, eccetto secento i quali militavano sotto Fabrizio Maramaus, perché Sciarra Colonna co' fanti suoi era andato nell'Abruzzi. Restorono in Napoli pochissimi abitatori, perché tutti quegli che avevano o facoltà o qualità si erano ritirati a Ischia a Capri e altre isole vicine: dicevasi esservi frumento per poco piú di due mesi, ma di carne e di strami piccola quantità. Arrenderonsi a Lautrech Capua, Nola, l'Acerra, Aversa e tutte le terre circostanti. Il quale dimorò con l'esercito quattro dí alla badia dell'Acerra distante sette miglia da Napoli, essendo proceduto e procedendo lentamente per aspettare le vettovaglie impedite da' cattivi cammini e dalle pioggie per le quali era la campagna piena d'acqua; bisognandogli provederne quantità grandissima perché era fama che nello esercito suo, secondo la corruttela moderna della milizia, fussino piú di ventimila cavalli e di ottantamila uomini, i due terzi gente inutile: e di quivi mandò alla impresa della Calavria Simone Romano, con cento cinquanta cavalli leggieri e cinquecento côrsi, non pagati, venuti del campo imperiale. E già Filippino Doria, con otto galee di Andrea Doria e due navi, venuto alla spiaggia di Napoli, aveva preso una nave carica di grani, e fatto con l'artiglierie sdiloggiare gl'imperiali dalla Maddalena; e benché poco di poi pigliasse due altre navi cariche di grani, e fusse cagione di molte incomodità agli inimici, nondimeno non bastavano le sue galee sole a tenere totalmente assediato il porto di Napoli. Perciò Lautrech sollecitava le sedici galee de' viniziani che venissino a unirsi con quelle; le quali, dopo essersi lentamente rimesse in ordine a Corfú, erano venute nel porto di Trani: ma esse, benché già si fussino arrendute loro le città di Trani e di Monopoli, preponendo i negozi propri agli alieni, benché dalla vittoria di Napoli dependessino tutte le cose, ritardavano, per pigliare prima Pulignano, Otranto e Brindisi. A' diciassette, Lautrech a Caviano, cinque miglia presso a Napoli; e il dí medesimo gl'imperiali che abbondavano di cavalli leggieri, dimostrandosi maggiore la sollecitudine e la diligenza per la negligenza de' franzesi, tolseno loro le vettovaglie, delle quali pativano; e avevano fortificato Santo Erasmo, posto nella sommità del monte di San Martino, per tôrlo a' franzesi, essendo cavaliere a Napoli da poterlo danneggiare assai con l'artiglieria, e perché, essendo padroni di quel monte, impedivano che quasi alla maggiore parte della città non si potevano accostare i franzesi. A' quali dette qualche speranza di discordia tra gli inimici l'avere il marchese del Guasto, pure per cause private, ferito il conte di Potenza e ammazzatogli il figliuolo. A' ventuno, a Casoria, a tre miglia di Napoli in su la via di Aversa: nel quale dí si scaramucciò sotto le mura di Napoli, e vi fu morto Migliau, quello che aveva accerrimamente contradetto alla liberazione del pontefice; della quale aveva esso medesimo portata la commissione di Cesare a' capitani. A' ventidue, a uno miglio e mezzo di Napoli; dove Lautrech proibí lo scaramucciare come inutile: e già se gli era arrenduto Pozzuolo. Finalmente, il penultimo dí di aprile, pervenuto alla città di Napoli, alloggiò l'esercito tra Poggio Reale, palazzo molto magnifico, edificato da Alfonso secondo di Aragona, quando era duca di Calavria, e il monte di San Martino; distendendosi le genti insino a mezzo miglio di Napoli; la persona sua piú innanzi di Poggioreale alla masseria del duca di Montealto: nel quale luogo si era fortificato allargandosi verso la via di Capua: alloggiamento fatto in sito molto forte, e dal quale si impediva a Napoli la comodità degli aquedotti che si partono da Poggio Reale; donde disegnava fare poi un altro alloggiamento piú innanzi, in sul colle che è sotto il monte di Santo Ermo, per tôrre piú le comodità a Napoli, e molestare di luogo piú propinquo la città. Delle quali cose per intelligenza piú chiara, pare necessario descrivere il sito della città di Napoli e del paese circostante.