Giacomo Leopardi
OPERETTE MORALI
Sommario
Dialogo della Moda e della Morte
Proposta di premi fatta dall'accademia dei Sillografi
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
Dialogo di Malambruno e Farfarello
Dialogo della Natura e di un'anima
Dialogo della Terra e della Luna
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare
Dialogo della Natura e di un Islandese
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
Detti memorabili di Filippo Ottonieri
Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco
Dialogo di Timandro e di Eleandro
Dialogo di Plotino e di Porfirio
Dialogo di un Venditore d'almanacchi e di un Passeggere
Dialogo di Tristano e di un Amico
Narrasi
che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero
creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini, e fossero
nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti
favoleggiarono dell'educazione di Giove. E che la terra fosse molto
più piccola che ora non è, quasi tutti i paesi piani,
il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel
mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi non vi si
scuopre. Ma nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di
riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene
sopra modo e riputando l'uno e l'altra bellissimi e, non che vasti,
ma infiniti, così di grandezza come di maestà e di
leggiadria; pascendosi oltre a ciò di lietissime speranze, e
traendo da ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti,
crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di
felicità. Così consumata dolcissimamente la
fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più
ferma, incominciarono a provare alcuna mutazione. Perciocché
le speranze, che eglino fino a quel tempo erano andati rimettendo di
giorno in giorno, non si riducendo ancora ad effetto, parve loro che
meritassero poca fede; e contentarsi di quello che presentemente
godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene, non pareva
loro di potere, massimamente che l'aspetto delle cose naturali e
ciascuna parte della vita giornaliera, o per l'assuefazione o per
essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità, non
riusciva loro di gran lunga così dilettevole e grata come a
principio. Andavano per la terra visitando lontanissime contrade,
poiché lo potevano fare agevolmente, per essere i luoghi
piani, e non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà;
e dopo non molti anni, i più di loro si avvidero che la terra,
ancorché grande, aveva termini certi, e non così larghi
che fossero incomprensibili; e che tutti i luoghi di essa terra e
tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi gli
uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala contentezza
di modo che essi non erano ancora usciti della gioventù, che
un espresso fastidio dell'esser loro gli aveva universalmente
occupati. E di mano in mano nell'età virile, e maggiormente in
sul declinare degli anni, convertita la sazietà in odio,
alcuni vennero in sì fatta disperazione, che non sopportando
la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto
amore, spontaneamente, quale in uno e quale in altro modo, se ne
privarono.
Parve
orrendo questo caso agli Dei, che da creature viventi la morte fosse
preposta alla vita, e che questa medesima in alcun suo proprio
soggetto, senza forza di necessità e senza altro concorso,
fosse a disfarlo. Né si può facilmente dire quanto si
maravigliassero che i loro doni fossero tenuti così vili ed
abbominevoli, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarseli e
rigettarli; parendo loro aver posta nel mondo tanta bontà e
vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quella stanza avesse ad
essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia
animale, e dagli uomini massimamente, il qual genere avevano formato
con singolare studio a maravigliosa eccellenza. Ma nel medesimo
tempo, oltre all'essere tocchi da non mediocre pietà di tanta
miseria umana quanta manifestavasi dagli effetti, dubitavano eziandio
che rinnovandosi e moltiplicandosi quei tristi esempi, la stirpe
umana fra poca età, contro l'ordine dei fati, venisse a
perire, e le cose fossero private di quella perfezione che risultava
loro dal nostro genere, ed essi di quegli onori che ricevevano dagli
uomini.
Deliberato
per tanto Giove di migliorare, poiché parea che si
richiedesse, lo stato umano, e d'indirizzarlo alla felicità
con maggiori sussidi, intendeva che gli uomini si querelavano
principalmente che le cose non fossero immense di grandezza, né
infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come
essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte
imperfette, e pressoché di una forma; e che dolendosi non solo
dell'età provetta, ma della matura, e della medesima gioventù,
e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano
ferventemente di essere tornati nella fanciullezza, e in quella
perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non potea Giove
soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della natura, ed
a quegli uffici e quelle utilità che gli uomini dovevano,
secondo l'intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre. Né
anche poteva comunicare la propria infinità colle creature
mortali, né fare la materia infinita, né infinita la
perfezione e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli
parve conveniente di propagare i termini del creato, e di
maggiormente adornarlo e distinguerlo: e preso questo consiglio,
ringrandì la terra d'ogn'intorno, e v'infuse il mare,
acciocché, interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse la
sembianza delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero
facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo i cammini,
ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine
dell'immensità. Nel qual tempo occuparono le nuove acque la
terra Atlantide, non sola essa, ma insieme altri innumerabili e
distesissimi tratti, benché di quella resti memoria speciale,
sopravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti luoghi depresse,
molti ricolmò suscitando i monti e le colline, cosperse la
notte di stelle, rassottigliò e ripurgò la natura
dell'aria, ed accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò
e contemperò più diversamente che per l'addietro i
colori del cielo e delle campagne, confuse le generazioni degli
uomini in guisa che la vecchiezza degli uni concorresse in un
medesimo tempo coll'altrui giovanezza e puerizia. E risolutosi di
moltiplicare le apparenze di quell'infinito che gli uomini sommamente
desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della
sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni,
dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere
proceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i
molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare),
creato l'eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle
selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle
loro cime. Creò similmente il popolo de' sogni, e commise loro
che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini,
figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità,
che egli non vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immagini
perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe
voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva
produrre alcun esempio reale.
Fu
per questi provvedimenti di Giove ricreato ed eretto l'animo degli
uomini, e rintegrata in ciascuno di loro la grazia e la carità
della vita, non altrimenti che l'opinione, il diletto e lo stupore
della bellezza e dell'immensità delle cose terrene. E durò
questo buono stato più lungamente che il primo, massime per la
differenza del tempo introdotta da Giove nei nascimenti, sicché
gli animi freddi e stanchi per l'esperienza delle cose, erano
confortati vedendo il calore e le speranze dell'età verde. Ma
in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e
risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si
ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si
crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni
popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano
i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel
giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi
coll'estinto. All'ultimo tutti i mortali si volsero all'empietà,
o che paresse loro di non essere ascoltati da Giove, o essendo
propria natura delle miserie indurare e corrompere gli animi eziandio
più bennati, e disamorarli dell'onesto e del retto. Perciocché
s'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata
primieramente l'infelicità umana dall'iniquità e dalle
cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d'altronde
ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro
calamità.
Ora
poiché fu punita dagli Dei col diluvio di Deucalione la
protervia dei mortali e presa vendetta delle ingiurie, i due soli
scampati dal naufragio universale del nostro genere, Deucalione e
Pirra, affermando seco medesimi niuna cosa potere maggiormente
giovare alla stirpe umana che di essere al tutto spenta, sedevano in
cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo desiderio, non
che temessero né deplorassero il fato comune. Non per tanto,
ammoniti da Giove di riparare alla solitudine della terra; e non
sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare
opera alla generazione; tolto delle pietre della montagna, secondo
che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le spalle,
restaurarono la specie umana. Ma Giove fatto accorto, per le cose
passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro
bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni
dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque
stato l'impossibile, tanto più si travagliano con questo
desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali;
deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero
genere: le quali furono principalmente due. L'una mescere la loro
vita di mali veri; l'altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad
effetto d'intrattenere gli uomini, e divertirli quanto più si
potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di
quella loro incognita e vana felicità.
Quindi
primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un
infinito genere di altre sventure: parte volendo, col variare le
condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà
e crescere colla opposizione dei mali il pregio de' beni; parte
acciocché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti
esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non
aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di
rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare
il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più
facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi
affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai
travagli propri, l'acume e la veemenza del desiderio. Oltre di
questo, conosceva dovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e
dalle calamità, fossero meno pronti che per l'addietro a
volgere le mani contra se stessi, perocché sarebbero
incodarditi e prostrati di cuore, come interviene per l'uso dei
patimenti. I quali sogliono anche, lasciando luogo alle speranze
migliori, allacciare gli animi alla vita: imperciocché
gl'infelici hanno ferma opinione che eglino sarebbero felicissimi
quando si riavessero dei propri mali; la qual cosa, come è la
natura dell'uomo, non mancano mai di sperare che debba loro succedere
in qualche modo. Appresso creò le tempeste dei venti e dei
nembi, si armò del tuono e del fulmine, diede a Nettuno il
tridente, spinse le comete in giro e ordinò le eclissi; colle
quali cose e con altri segni ed effetti terribili, instituì di
spaventare i mortali di tempo in tempo: sapendo che il timore e i
presenti pericoli riconcilierebbero alla vita, almeno per breve ora,
non tanto gl'infelici, ma quelli eziandio che l'avessero in maggiore
abbominio, e che fossero più disposti a fuggirla.
E
per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il
bisogno e l'appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali cose
non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove
insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano
pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori
somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e
facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidì
alcuni popoli, e particolarmente quelli di California. Assegnò
ai diversi luoghi diverse qualità celesti, e similmente alle
parti dell'anno, il quale insino a quel tempo era stato sempre e in
tutta la terra benigno e piacevole in modo, che gli uomini non
avevano avuto uso di vestimenti; ma di questi per l'innanzi furono
costretti a fornirsi, e con molte industrie riparare alle mutazioni e
inclemenze del cielo. Impose a Mercurio che fondasse le prime città,
e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e lingue, ponendo
gara e discordia tra loro; e che mostrasse agli uomini il canto e
quelle altre arti, che sì per la natura e sì per
l'origine, furono chiamate, e ancora si chiamano, divine. Esso
medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in
ultimo volendo con un incomparabile dono beneficarle, mandò
tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai
quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di
esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor
patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu
medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente,
siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi
all'uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non
dissimile negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei
bruti, spingeva l'uno sesso verso l'altro, nella guisa che è
tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano
veramente, ma si appetiscono.
Fu
cosa mirabile quanto frutto partorissero questi divini consigli alla
vita mortale, e quanto la nuova condizione degli uomini, non ostante
le fatiche, gli spaventi e i dolori, cose per l'addietro ignorate dal
nostro genere, superasse di comodità e di dolcezza quelle che
erano state innanzi al diluvio. E questo effetto provenne in gran
parte da quelle maravigliose larve; le quali dagli uomini furono
riputate ora geni ora iddii, e seguite e culte con ardore
inestimabile e con vaste e portentose fatiche per lunghissima età;
infiammandoli a questo dal canto loro con infinito sforzo i poeti e i
nobili artefici; tanto che un grandissimo numero di mortali non
dubitarono chi all'uno e chi all'altro di quei fantasmi donare e
sacrificare il sangue e la vita propria. La qual cosa, non che fosse
discara a Giove, anzi piacevagli sopra modo, così per altri
rispetti, come che egli giudicava dovere essere gli uomini tanto meno
facili a gittare volontariamente la vita, quanto più fossero
pronti a spenderla per cagioni belle e gloriose. Anche di durata
questi buoni ordini eccedettero grandemente i superiori; poiché
quantunque venuti dopo molti secoli in manifesto abbassamento,
nondimeno eziandio declinando e poscia precipitando, valsero in
guisa, che fino all'entrare di un'età non molto rimota dalla
presente, la vita umana, la quale per virtù di quegli ordini
era stata già, massime in alcun tempo, quasi gioconda, si
mantenne per beneficio loro mediocremente facile e tollerabile.
Le
cagioni e i modi del loro alterarsi furono i molti ingegni trovati
dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo ai propri
bisogni; lo smisurato accrescimento della disparità di
condizioni e di uffici constituita da Giove tra gli uomini quando
fondò e dispose le prime repubbliche; l'oziosità e la
vanità che per queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo
esilio, occuparono la vita; l'essere, non solo per la sostanza delle
cose, ma ancora da altra parte per l'estimazione degli uomini, venuta
a scemarsi in essa vita la grazia della varietà, come sempre
suole per la lunga consuetudine; e finalmente le altre cose più
gravi, le quali per essere già descritte e dichiarate da
molti, non accade ora distinguere. Certo negli uomini si rinnovellò
quel fastidio delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il
diluvio, e rinfrescossi quell'amaro desiderio di felicità
ignota ed aliena dalla natura dell'universo.
Ma
il totale rivolgimento della loro fortuna e l'ultimo esito di quello
stato che oggi siamo soliti di chiamare antico, venne principalmente
da una cagione diversa dalle predette: e fu questa. Era tra quelle
larve, tanto apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costoro
lingue Sapienza; la quale onorata universalmente come tutte le sue
compagne, e seguita in particolare da molti, aveva altresì al
pari di quelle conferito per la sua parte alla prosperità dei
secoli scorsi. Questa più e più volte, anzi
quotidianamente, aveva promesso e giurato ai seguaci suoi di voler
loro mostrare la Verità, la quale diceva ella essere un genio
grandissimo, e sua propria signora, né mai venuta in sulla
terra, ma sedere cogli Dei nel cielo; donde essa prometteva che
coll'autorità e grazia propria intendeva di trarla, e di
ridurla per qualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini: per
l'uso e per la familiarità della quale, dovere il genere umano
venire in sì fatti termini, che di altezza di conoscimento,
eccellenza d'instituti e di costumi, e felicità di vita, per
poco fosse comparabile al divino. Ma come poteva una pura ombra ed
una sembianza vota mandare ad effetto le sue promesse, non che menare
in terra la Verità? Sicché gli uomini, dopo lunghissimo
credere e confidare, avvedutisi della vanità di quelle
profferte; e nel medesimo tempo famelici di cose nuove, massime per
l'ozio in cui vivevano; e stimolati parte dall'ambizione di
pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di quella beatitudine che
per le parole del fantasma si riputavano, conversando colla Verità
essere per conseguire; si volsero con instantissime e presuntuose
voci dimandando a Giove che per alcun tempo concedesse alla terra
quel nobilissimo genio, rimproverandogli che egli invidiasse alle sue
creature l'utilità infinita che dalla presenza di quello
riporterebbero; e insieme si rammaricavano con lui della sorte umana,
rinnovando le antiche e odiose querele della piccolezza e della
povertà delle cose loro. E perché quelle speciosissime
larve, principio di tanti beni alle età passate, ora si
tenevano dalla maggior parte in poca stima; non che già
fossero note per quelle che veramente erano, ma la comune viltà
dei pensieri e l'ignavia dei costumi facevano che quasi niuno oggimai
le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scelleratamente il
maggior dono che gli eterni avessero fatto e potuto fare ai mortali,
gridavano che la terra non era degnata se non dei minori geni; ed ai
maggiori, ai quali la stirpe umana più condecentemente
s'inchinerebbe, non essere degno né lecito di porre il piede
in questa infima parte dell'universo.
Molte
cose avevano già da gran tempo alienata novamente dagli uomini
la volontà di Giove; e tra le altre gl'incomparabili vizi e
misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di
lunghissimo intervallo lasciate addietro le malvagità
vendicate dal diluvio. Stomacavalo del tutto, dopo tante esperienze
prese, l'inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; alla
tranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva
oramai per certo, niun provvedimento condurre, niuno stato convenire,
niun luogo essere bastante; perché quando bene egli avesse
voluto in mille doppi aumentare gli spazi e i diletti della terra, e
l'università delle cose, quella e queste agli uomini,
parimente incapaci e cupidi dell'infinito, fra breve tempo erano per
parere strette, disamene e di poco pregio. Ma in ultimo quelle stolte
e superbe domande commossero talmente l'ira del dio, che egli si
risolse, posta da parte ogni pietà, di punire in perpetuo la
specie umana, condannandola per tutte le età future a miseria
molto più grave che le passate. Per la qual cosa deliberò
non solo mandare la Verità fra gli uomini a stare, come essi
chiedevano, per alquanto di tempo, ma dandole eterno domicilio tra
loro, ed esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi
avea collocati, farla perpetua moderatrice e signora della gente
umana.
E
maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio, come quelli ai
quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento dello
stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza, Giove li
rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i
geni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere
tale l'ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi
effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove
agl'immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli
uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi
agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a
questo, non come opera solamente della fortuna, ma come tale che per
niuno accidente e niuno rimedio non la possano campare, né
mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro
mali questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti
essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso
gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo nocumento
sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali
niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di
tutti i beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni
cosa fuorché dei propri dolori. Per queste cagioni saranno
eziandio privati della speranza; colla quale dal principio insino al
presente, più che con altro diletto o conforto alcuno,
sostentarono la vita. E nulla sperando, né veggendo alle
imprese e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza
ed abborrimento da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la
comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei
sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza non potranno fuggire
che il desiderio di un'immensa felicità, congenito agli animi
loro, non li punga e cruci tanto più che in addietro, quanto
sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure
e dall'impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno essere
destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola poteva
per alcuna parte soddisfarli di questa felicità non possibile
e non intesa, né da me, né da loro stessi che la
sospirano. E tutte quelle somiglianze dell'infinito che io
studiosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli,
conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e indeterminati,
riusciranno insufficienti a quest'effetto per la dottrina e per gli
abiti che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la
terra e le altre parti dell'universo, se per addietro parvero loro
piccole, parranno da ora innanzi menome: perché essi saranno
instrutti e chiariti degli arcani della natura; e perché
quelle, contro la presente aspettazione degli uomini, appaiono tanto
più strette a ciascuno, quanto egli ne ha più notizia.
Finalmente, perciocché saranno stati ritolti alla terra i suoi
fantasmi, e per gl'insegnamenti della Verità, per li quali gli
uomini avranno piena contezza dell'essere di quelli, mancherà
dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così di
pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità, ma
il nome stesso delle nazioni e delle patrie sarà spento per
ogni dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati
di dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio, e
facendo professione di amore universale verso tutta la loro specie;
ma veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli quanti
saranno uomini. Perciocché non si proponendo né patria
da dovere particolarmente amare, né strani da odiare;
ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il
suo genere, se medesimo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi
sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta
e sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di
abbandonare la luce spontaneamente: perocché l'imperio di
questo genio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo
oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del
valore di rifiutarla.
Per
queste parole di Giove parve agli Dei che la nostra sorte fosse per
essere troppo più fiera e terribile che alla divina pietà
non si convenisse di consentire. Ma Giove seguitò dicendo.
Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi
chiamano Amore; il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli altri,
lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità,
quantunque potentissima e combattendolo di continuo, né
sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se non di rado.
Sicché la vita degli uomini, parimente occupata nel culto di
quel fantasma e di questo genio, sarà divisa in due parti; e
l'uno e l'altro di quelli avranno nelle cose e negli animi dei
mortali comune imperio. Tutti gli altri studi, eccetto che alcuni
pochi e di picciolo conto, verranno meno nella maggior parte degli
uomini. Alle età gravi il difetto delle consolazioni di Amore
sarà compensato dal beneficio della loro naturale proprietà
di essere quasi contenti della stessa vita, come accade negli altri
generi di animali, e di curarla diligentemente per sua cagione
propria, non per diletto né per comodo che ne ritraggano.
Così
rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo solamente Amore, il manco
nobile di tutti, Giove mandò tra gli uomini la Verità,
e diedele appo loro perpetua stanza e signoria. Di che seguitarono
tutti quei luttuosi effetti che egli avea preveduto. E intervenne
cosa di gran maraviglia; che ove quel genio prima della sua discesa,
quando egli non avea potere né ragione alcuna negli uomini,
era stato da essi onorato con un grandissimo numero di templi e di
sacrifici; ora venuto in sulla terra con autorità di principe,
e cominciato a conoscere di presenza, al contrario di tutti gli altri
immortali, che più chiaramente manifestandosi, appaiono più
venerandi, contristò di modo le menti degli uomini e
percossele di così fatto orrore, che eglino, se bene sforzati
di ubbidirlo, ricusarono di adorarlo. E in vece che quelle larve in
qualunque animo avessero maggiormente usata la loro forza, solevano
essere da quello più riverite ed amate; esso genio riportò
più fiere maledizioni e più grave odio da coloro in che
egli ottenne maggiore imperio. Ma non potendo perciò né
sottrarsi, né ripugnare alla sua tirannide, vivevano i mortali
in quella suprema miseria che eglino sostengono insino ad ora, e
sempre sosterranno.
Se non che la pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta, commosse, non e gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infelicità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d'intelletto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio. Avevano usato gli Dei negli antichi tempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi governavano le cose umane, visitare alcuna volta le proprie fatture, scendendo ora l'uno ora l'altro in terra, e qui significando la loro presenza in diversi modi: la quale era stata sempre con grandissimo beneficio o di tutti i mortali o di alcuno in particolare. Ma corrotta di nuovo la vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnarono quelli per lunghissimo tempo la conversazione umana. Ora Giove compassionando alla nostra somma infelicità, propose agl'immortali se alcuno di loro fosse per indurre l'animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a sé, indegni della sciagura universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo; si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l'ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l'avanti non si era tolto; non sofferendo il concilio degl'immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo iddio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all'imperio della Verità. Dopo il qual tempo, non suole anco scendere se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell'animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de' suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl'immortali, contenti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell'insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari offese degli uomini; né d'altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl'ingiusti e i dispregiatori degli Dei, che di essere alieni anche per proprio nome dalla grazia di quelli.
Ercole:
Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte,
e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi
per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono, tanto
che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante: Ti
ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà
di Giove. Ma il mondo è fatto così leggero, che questo
mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più; e
se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare qui
fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la porrei
sotto l'ascella o in tasca, o me l'attaccherei ciondolone a un pelo
della barba, e me n'andrei per le mie faccende.
Ercole:
Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che
ha mutato figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e
non è più tonda, come era al tempo che io studiai la
cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti:
ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.
Atlante: Della causa non so. Ma della leggerezza
ch'io dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che tu voglia
torre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.
Ercole:
In fe' d'Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere.
Ma che è quest'altra novità che vi scuopro? L'altra
volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore
degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un
vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che
abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.
Atlante: Anche di questo non ti so dire altro, se
non ch'egli è già gran tempo, che il mondo finì
di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con
grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in
giorno che m'infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo
potessi seppellire, e l'epitaffio che gli dovessi porre. Ma poi
veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si
fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo
nascesse che non si moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra
poco non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.
Ercole: Io piuttosto credo che dorma, e che questo
sonno sia della qualità di quello di Epimenide , che durò
un mezzo secolo e più; o come si dice di Ermotimo , che
l'anima gli usciva del corpo ogni volta che voleva, e stava fuori
molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava,
finché gli amici per finire questa canzona, abbruciarono il
corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò
che la casa gli era disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto,
gliene conveniva pigliare un'altra a pigione, o andare all'osteria.
Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o
benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io
voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.
Atlante:
Bene, ma che modo?
Ercole: Io gli farei toccare una
buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di
schiacciare, e che io non ne facessi una cialda; o che la crosta,
atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto
assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E
anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano a
corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla
percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la
clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa
sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette
che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o
nell'orto: ma le pugna basteranno.
Atlante: Appunto;
acciocché tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli
voglia di entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti
tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.
Ercole:
Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo
figliuolo proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti popolarono
le città col suono della lira, a me basta l'animo di spopolare
il cielo e la terra a suono di clava. E la sua palla, con un calcio
che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all'ultima soffitta
del cielo empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia
di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di
trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola
per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco
del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la
nostra intenzione con questo giuoco e di far bene al mondo, e non
come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona
alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul carro;
e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e
colle altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel
passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di luce
confettate; e di fare una bella mostra di sé tra gli Dei del
cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In somma, della
collera di mio padre non te ne dare altro pensiero, che io m'obbligo,
in ogni caso, a rifarti i danni; e senza più cavati il
cappotto e manda la palla.
Atlante: O per grado o
per forza, mi converrà fare a tuo modo; perché tu sei
gagliardo e coll'arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di
non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o
qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si
schiantò dall'Italia e l'Affrica dalla Spagna; o non ne
saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno,
tanto che ne nascesse una guerra.
Ercole: Per la
parte mia non dubitare.
Atlante: A te la palla. Vedi
che ella zoppica, perché l'è guasta la figura.
Ercole:
Via dàlle un po' più sodo, ché le tue non
arrivano.
Atlante: Qui la botta non vale, perché
ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento, perch'è
leggera.
Ercole: Cotesta è sua pecca vecchia,
di andare a caccia del vento.
Atlante: In verità
non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non
balza d'in sul pugno più che un popone.
Ercole:
Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e
saltava come un capriolo.
Atlante: Corri presto in
là; presto ti dico; guarda per Dio, ch'ella cade: mal abbia il
momento che tu ci sei venuto.
Ercole: Così
falsa e terra terra me l'hai rimessa, che io non poteva essere a
tempo se m'avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina,
come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s'ode un fiato e non si
vede muovere un'anima e mostra che tutti dormano come prima.
Atlante:
Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi
sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a
scusarmi con Giove di questo caso, ch'è seguito per tua
cagione.
Ercole: Così farò. È
molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome
Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era
stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere
alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue
canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si
muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini
sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s'è
mosso.
Atlante: Chi dubita della giustizia degli
uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto
a scolparmi con tuo padre, ché io m'aspetto di momento in
momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.
DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE
Moda:
Madama Morte, madama Morte.
Morte: Aspetta che sia
l'ora, e verrò senza che tu mi chiami.
Moda:
Madama Morte.
Morte: Vattene col diavolo. Verrò
quando tu non vorrai.
Moda: Come se io non fossi
immortale.
Morte: Immortale? Passato è già
più che 'lmillesim'anno che sono finiti i tempi
degl'immortali.
Moda: Anche Madama petrarcheggia
come fosse un lirico italiano del cinque o dell'ottocento?
Morte:
Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo,
e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma
levamiti d'attorno.
Moda: Via, per l'amore che tu
porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e
guardami.
Morte: Ti guardo.
Moda:
Non mi conosci?
Morte: Dovresti sapere che ho mala
vista, e che non posso usare occhiali, perché gl'Inglesi non
ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me
gl'incavalcassi.
Moda: Io sono la Moda, tua
sorella.
Morte: Mia sorella?
Moda:
Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla
Caducità?
Morte: Che m'ho a ricordare io che
sono nemica capitale della memoria.
Moda: Ma io me
ne ricordo bene; e so che l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare
e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu
vadi a questo effetto per una strada e io per un'altra.
Morte:
In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi
dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le
parole; che se mi vai borbottando tra' denti con quella vocina da
ragnatelo, io t'intenderò domani, perché l'udito, se
non sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda:
Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si
usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e
tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu
vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare
continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle
persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe,
dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose
tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non
manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come
verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e
stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori;
abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo
che essi v'improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con
fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini
del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in
America e in Asia ; storpiare la gente colle calzature snelle;
chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura
dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente
parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a
sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori
e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l'amore che mi
portano. Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature,
delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane,
quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di
tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio,
difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e
fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro
danno.
Morte: In conclusione io ti credo che mi sii
sorella e, se tu vuoi, l'ho per più certo della morte, senza
che tu me ne cavi la fede del parrocchiano.' Ma stando così
ferma, io svengo; e però, se ti dà l'animo di corrermi
allato, fa di non vi crepare, perch'io fuggo assai, e correndo mi
potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela,
ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e
rimanti col buon anno.
Moda: Se noi avessimo a
correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova,
perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in
un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo
a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi
nostri.
Morte: Sia con buon'ora. Dunque poiché
tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi
giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.
Moda:
Io l'ho fatto già per l'addietro più che non pensi.
Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le
altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica
di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a
oggi dal principio del mondo.
Morte: Gran miracolo,
che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!
Moda:
Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.
Morte: Ben bene: di cotesto saremo a tempo a
discorrere quando sarà venuta l'usanza che non si muoia. Ma in
questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m'aiutassi a ottenere
il contrario più facilmente e più presto che non ho
fatto finora.
Moda: Già ti ho raccontate
alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie
per comparazione a queste che io ti vo' dire. A poco per volta, ma il
più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in
disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben
essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che
abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo
ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,
così per rispetto del corpo come dell'animo, e più
morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità
che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu
non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e
polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai
terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co' loro
piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché
tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più,
dove per l'addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera
mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti
pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che
sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore
speranza. Finalmente perch'io vedeva che molti si erano vantati di
volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché
una buona parte di sé non ti sarebbe capitata sotto le mani,
io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o
altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da
burla, e non godevano della loro fama più che si patissero
dell'umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che
questo negozio degl'immortali ti scottava, perché parea che ti
scemasse l'onore e la riputazione, ho levata via quest'usanza di
cercare l'immortalità, ed anche di concederla in caso che pure
alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta
sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli
conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che
sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste
cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte
finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra,
com'è seguito. E per quest'effetto sono disposta a far ogni
giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono
andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l'avanti non ci
partiamo dal fianco l'una dell'altra, perché stando sempre in
compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere
migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad
esecuzione.
Morte: Tu dici il vero, e così
voglio che facciamo.
PROPOSTA DI PREMI FATTA DALL'ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI
L'Accademia dei Sillografi attendendo di continuo, secondo il suo principale instituto, a procurare con ogni suo sforzo l'utilità comune, e stimando niuna cosa essere più conforme a questo proposito che aiutare e promuovere gli andamenti e le inclinazioni
Del fortunato secolo in cui siamo,
come
dice un poeta illustre; ha tolto a considerare diligentemente le
qualità e l'indole del nostro tempo, e dopo lungo e maturo
esame si è risoluta di poterlo chiamare l'età delle
macchine, non solo perché gli uomini di oggidì
procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i
passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle
macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto
giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi,
che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire,
trattano le cose umane e fanno le opere della vita. Del che la detta
Accademia prende sommo piacere, non tanto per le comodità
manifeste che ne risultano, quanto per due considerazioni che ella
giudica essere importantissime, quantunque comunemente non avvertite.
L'una si è che ella confida dovere in successo di tempo gli
uffici e gli usi delle macchine venire a comprendere oltre le cose
materiali, anche le spirituali; onde nella guisa che per virtù
di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei
fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così
di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e
facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia,
qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di
salute o altro ingegno che ci scampi dall'egoismo, dal predominio
della mediocrità, dalla prospera fortuna degl'insensati, de'
ribaldi e de' vili, dall'universale noncuranza e dalla miseria de'
saggi, de' costumati e de' magnanimi, e dagli altri sì fatti
incomodi, i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a
distornare che già non furono gli effetti dei fulmini e delle
grandini. L'altra cagione e la principale si è che disperando
la miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del
genere umano, i quali, come si crede, sono assai maggiori e in più
numero che le virtù; e tenendosi per certo che sia piuttosto
possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire
in suo luogo un altro, che di emendarlo; perciò l'Accademia
dei Sillografi reputa essere espedientissimo che gli uomini si
rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a
poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. E
deliberata di concorrere con ogni suo potere al progresso di questo
nuovo ordine delle cose, propone per ora tre premi a quelli che
troveranno le tre macchine infrascritte.
L'intento
della prima sarà di fare le parti e la persona di un amico, il
quale non biasimi e non motteggi l'amico assente; non lasci di
sostenerlo quando l'oda riprendere o porre in giuoco; non anteponga
la fama di acuto e di mordace, e l'ottenere il riso degli uomini, al
debito dell'amicizia; non divulghi, o per altro effetto o per aver
materia da favellare o da ostentarsi, il segreto commessogli; non si
prevalga della familiarità e della confidenza dell'amico a
soppiantarlo e soprammontarlo più facilmente; non porti
invidia ai vantaggi di quello; abbia cura del suo bene e di ovviare o
di riparare a' suoi danni, e sia pronto alle sue domande e a' suoi
bisogni, altrimenti che in parole. Circa le altre cose nel comporre
questo automato si avrà l'occhio ai trattati di Cicerone e
della Marchesa di Lambert sopra l'amicizia. L'Accademia pensa che
l'invenzione di questa così fatta macchina non debba essere
giudicata né impossibile, né anche oltre modo
difficile, atteso che, lasciando da parte gli automati del
Regiomontano, del Vaucanson e di altri, e quello che in Londra
disegnava figure e ritratti, e scriveva quanto gli era dettato da
chiunque si fosse; più d'una macchina si e veduta che giocava
agli scacchi per sé medesima. Ora a giudizio di molti savi, la
vita umana è un giuoco, ed alcuni affermano che ella è
cosa ancora più lieve, e che tra le altre, la forma del giuoco
degli scacchi è più secondo ragione, e i casi più
prudentemente ordinati che non sono quelli di essa vita. La quale
oltre a ciò, per detto di Pindaro, non essendo cosa di più
sostanza che un sogno di un'ombra, ben debbe esserne capace la veglia
di un automato. Quanto alla favella, pare che non si possa volgere in
dubbio che gli uomini abbiano facoltà di comunicarla alle
macchine che essi formano, conoscendosi questa cosa da vari esempi, e
in particolare da ciò che si legge della statua di Mennone e
della testa fabbricata da Alberto magno, la quale era sì
loquace, che perciò san Tommaso di Aquino, venutagli in odio,
la ruppe. E se il pappagallo di Nevers , con tutto che fosse una
bestiolina, sapeva rispondere e favellare a proposito, quanto
maggiormente è da credere che possa fare questi medesimi
effetti una macchina immaginata dalla mente dell'uomo e construtta
dalle sue mani; la quale già non debbe essere così
linguacciuta come il pappagallo di Nevers ed altri simili che si
veggono e odono tutto giorno, né come la testa fatta da
Alberto Magno, non le convenendo infastidire l'amico e muoverlo a
fracassarla. L'inventore di questa macchina riporterà in
premio una medaglia d'oro di quattrocento zecchini di peso, la quale
da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste,
dall'altra il nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE
FAVOLE ANTICHE.
La
seconda macchina vuol essere un uomo artificiale a vapore, atto e
ordinato a fare opere virtuose e magnanime. L'Accademia reputa che i
vapori, poiché altro mezzo non pare che vi si trovi, debbano
essere di profitto a infervorare un semovente e indirizzarlo agli
esercizi della virtù e della gloria. Quegli che intraprenderà
di fare questa macchina, vegga i poemi e i romanzi, secondo i quali
si dovrà governare circa le qualità e le operazioni che
si richieggono a questo automato. Il premio sarà una medaglia
d'oro di quattrocento cinquanta zecchini di peso, stampatavi in sul
ritto qualche immaginazione significativa della età d'oro e in
sul rovescio il nome dell'inventore della macchina con questo titolo
ricavato dalla quarta egloga di Virgilio, QVO FERREA PRIMVM DESINET
AC TOTO SVRGET GENS AVREA MVNDO.
La
terza macchina debbe essere disposta a fare gli uffici di una donna
conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar Castiglione,
il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano, parte da
altri, i quali ne ragionarono in vari scritti che si troveranno senza
fatica, e si avranno a consultare e seguire, come eziandio quello del
Conte. Né anche l'invenzione di questa macchina dovrà
parere impossibile agli uomini dei nostri tempi, quando pensino che
Pigmalione in tempi antichissimi ed alieni dalle scienze si poté
fabbricare la sposa colle proprie mani, la quale si tiene che fosse
la miglior donna che sia stata insino al presente. Assegnasi
all'autore di questa macchina una medaglia d'oro in peso di
cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una
faccia l'araba fenice del Metastasio posata sopra una pianta di
specie europea, dall'altra parte sarà scritto il nome del
premiato col titolo: INVENTORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA FELICITÀ
CONIUGALE.
L'Accademia
ha decretato che alle spese che occorreranno per questi premi,
suppliscasi con quanto fu ritrovato nella sacchetta di Diogene, stato
segretario di essa Accademia, o con uno dei tre asini d'oro che
furono di tre Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio,
del Firenzuola e del Macchiavelli; tutte le quali robe pervennero ai
Sillografi per testamento dei suddetti, come si legge nella storia
dell'Accademia.
DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
Folletto:
Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Gnomo:
Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano
macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con
gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e
in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli
apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse
tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento;
o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta,
come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come
fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di
Licurgo, che gli pare il meno credibile.
Folletto:
Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di
una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo:
Che vuoi tu inferire?
Folletto: Voglio inferire che
gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo:
Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s'è
veduto che ne ragionino.
Folletto: Sciocco, non
pensi che, morti gli uomini, non si stampano più
gazzette?
Gnomo: Tu dici il vero. Or come faremo a
sapere le nuove del mondo?
Folletto: Che nuove? che
il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua
o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché,
mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi
gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle
braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più
mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che
vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti
sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno
all'altro come uovo a uovo.
Gnomo: Né anche
si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si
stamperanno più lunari.
Folletto: Non sarà
gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo: E i giorni della settimana non avranno più
nome.
Folletto: Che, hai paura che se tu non li
chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché
sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo:
E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto:
Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non
misurando l'età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando
saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in
giorno.
Gnomo: Ma come sono andati a mancare quei
monelli?
Folletto: Parte guerreggiando tra loro,
parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi
non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte
stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e
disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far
contro la propria natura e di capitar male.
Gnomo: A
ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di
animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto:
Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è
nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente
che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che
quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che,
come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o
due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che
penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato
il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi
credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro
soli.
Folletto: E non volevano intendere che egli è
fatto e mantenuto per li folletti.
Gnomo: Tu
folleggi veramente, se parli sul sodo.
Folletto:
Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo: Eh,
buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo e fatto per gli gnomi?
Folletto: Per gli gnomi, che stanno sempre
sotterra? Oh questa e la più bella che si possa udire. Che
fanno agli gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?
Gnomo: Che fanno ai folletti le cave d'oro e
d'argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
Folletto: Ben bene, o che facciano o che non
facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che
anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia
fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si
rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per
parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto,
io mi dispererei.
Gnomo: Lo stesso accadrebbe a me
se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero
gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che
facevano a questo e a quello, s'inabissavano le mille braccia
sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si
apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva nascosta e
sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la
troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto:
Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del
mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma
facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una
bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano
rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del
mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini
della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma
solamente di animali, quanti capi d'uomini vivi: i quali animali, che
erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però
mai che il mondo si rivoltasse.
Gnomo: Anche le
zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
Folletto:
Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come
essi dicevano.
Gnomo: In verità che mancava
loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le
pulci.
Folletto: Ma i porci, secondo Crisippo ,
erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine
e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero,
conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo: Io
credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco
di sale in vece dell'anima, non avrebbe immaginato uno sproposito
simile.
Folletto: E anche quest'altra è
piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né
conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in
luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute
che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di
moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi.
Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille
altri. Parimente di tratto in tratto, per via de' loro cannocchiali,
si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per
migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai saputo che fosse al
mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché
s'immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli
da lanterna piantati lassù nell'alto a uso di far lume alle
signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Gnomo:
Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle
fiammoline che certe notti vengono giù per l'aria, avranno
detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio
degli uomini.
Folletto: Ma ora che ei sono tutti
spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono
stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più
da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si
rasciughi.
Gnomo: E le stelle e i pianeti non
mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto: E il sole non s'ha intonacato il viso di
ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della
quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò
la statua di Pompeo.
DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO
Malambruno:
Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte,
Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di
Belzebù, e vi comando per la virtù dell'arte mia, che
può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il
cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e
piena potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio
servigio.
Farfarello: Eccomi.
Malambruno:
Chi sei?
Farfarello: Farfarello, a' tuoi
comandi.
Malambruno: Rechi il mandato di Belzebù?
Farfarello: Sì recolo; e posso fare in tuo
servigio tutto quello che potrebbe il Re proprio, e più che
non potrebbero tutte l'altre creature insieme.
Malambruno:
Sta bene. Tu m'hai da contentare d'un desiderio.
Farfarello:
Sarai servito. Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli
Atridi?
Malambruno: No.
Farfarello:
Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città
di Manoa quando sarà scoperta?
Malambruno:
No.
Farfarello: Un impero grande come quello che
dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?
Malambruno:
No.
Farfarello: Recare alle tue voglie una donna
più salvatica di Penelope?
Malambruno: No. Ti
par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?
Farfarello:
Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?
Malambruno:
Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il
contrario.
Farfarello: In fine, che mi
comandi?
Malambruno: Fammi felice per un momento di
tempo.
Farfarello: Non posso.
Malambruno:
Come non puoi?
Farfarello: Ti giuro in coscienza
che non posso.
Malambruno: In coscienza di demonio
da bene.
Farfarello: Sì certo. Fa conto che
vi sia de' diavoli da bene come v'è degli uomini.
Malambruno:
Ma tu fa conto che io t'appicco qui per la coda a una di queste
travi, se tu non mi ubbidisci subito senza più
parole.
Farfarello: Tu mi puoi meglio ammazzare, che
non io contentarti di quello che tu domandi.
Malambruno:
Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebù in
persona.
Farfarello: Se anco viene Belzebù
con tutta la Giudecca e tutte le Bolge, non potrà farti felice
né te né altri della tua specie, più che abbia
potuto io.
Malambruno: Né anche per un
momento solo?
Farfarello: Tanto è possibile
per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la
millesima parte; quanto per tutta la vita.
Malambruno:
Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l'animo
almeno di liberarmi dall'infelicità?
Farfarello:
Se tu puoi fare di non amarti supremamente.
Malambruno:
Cotesto lo potrò dopo morto.
Farfarello: Ma
in vita non lo può nessun animale: perché la vostra
natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.
Malambruno: Così è.
Farfarello:
Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei
capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità
propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo
tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per
nessun verso di non essere infelice.
Malambruno: Né
anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perché
nessun diletto mi farà né felice né pago.
Farfarello: Nessuno veramente.
Malambruno:
E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità
che mi sta fisso nell'animo, non sarà vero diletto; e in quel
tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di
essere infelice.
Farfarello: Non lascerai: perché
negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità,
quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di
quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.
Malambruno: Tanto che dalla nascita insino alla
morte, l'infelicità nostra non può cessare per ispazio,
non che altro, di un solo istante.
Farfarello: Sì:
cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno
sfinimento o altro che v'interrompa l'uso dei sensi.
Malambruno:
Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria
vita.
Farfarello: Non mai.
Malambruno:
Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre
meglio del vivere.
Farfarello: Se la privazione
dell'infelicità è semplicemente meglio
dell'infelicità.
Malambruno:
Dunque?
Farfarello: Dunque se ti pare di darmi
l'anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN'ANIMA
Natura:
Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per
lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.
Anima:
Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta
pena?
Natura: Che pena, figliuola mia?
Anima:
Non mi prescrivi tu di essere infelice?
Natura: Ma
in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo
senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano;
e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono
infelici.
Anima: Ma in contrario saria di ragione
che tu provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità;
o non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da porli al
mondo.
Natura: Né l'una né l'altra
cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il
quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né
tu né io non la possiamo intendere. Ora, come tu sei stata
creata e disposta a informare una persona umana, già
qualsivoglia forza, né mia né d'altri, non e potente a
scamparti dall'infelicità comune degli uomini. Ma oltre di
questa, te ne bisognerà sostenere una propria, e maggiore
assai, per l'eccellenza della quale io t'ho fornita.
Anima:
Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto:
e da ciò dee provenire ch'io non t'intendo. Ma dimmi,
eccellenza e infelicità straordinaria sono sostanzialmente una
cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare
l'una dall'altra?
Natura: Nelle anime degli uomini,
e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può
dire che l'una e l'altra cosa sieno quasi il medesimo: perché
l'eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita;
la qual cosa importa maggior sentimento dell'infelicità
propria; che e come se io dicessi maggiore infelicità.
Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore efficacia di
amor proprio, dovunque esso s'inclini, e sotto qualunque volto si
manifesti: la qual maggioranza di amor proprio importa maggior
desiderio di beatitudine, e però maggiore scontento e affanno
di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che
sopravvengono. Tutto questo è contenuto nell'ordine primigenio
e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare. Oltre
di ciò, la finezza del tuo proprio intelletto, e la vivacità
dell'immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della
signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai fini
che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli
uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti
ordinariamente dalla ragione e dall'immaginativa; le quali creano
mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell'eseguire.
I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi,
sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i più
efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e
come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e
quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo
all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è
l'uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi
che mentre per l'eccellenza delle tue disposizioni trapasserai
facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie
nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco
difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre o impossibile o
sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime
cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri
uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente
ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te,
ma spregevoli in ogni modo. Queste ed altre infinite difficoltà
e miserie occupano e circondano gli animi grandi. Ma elle sono
ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che
frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità
della ricordanza che essi lasciano di sé ai loro posteri.
Anima: Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici,
gli avrò io dal cielo, o da te, o da chi altro?
Natura:
Dagli uomini: perché altri che essi non li può dare.
Anima: Ora vedi, io mi pensava che non sapendo fare
quello che è necessarissimo, come tu dici, al commercio cogli
altri uomini, e che riesce anche facile insino ai più poveri
ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata, dai
medesimi uomini; o certo fossi per vivere sconosciuta a quasi tutti
loro, come inetta al consorzio umano.
Natura: A me
non è dato prevedere il futuro, né quindi anche
prenunziarti infallibilmente quello che gli uomini sieno per fare e
pensare verso di te mentre sarai sulla terra. Ben è vero che
dall'esperienza del passato io ritraggo per lo più verisimile.
che essi ti debbano perseguitare coll'invidia; la quale è
un'altra calamità solita di farsi incontro alle anime eccelse;
ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e la noncuranza. Oltre
che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere inimici
delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come avvenne ad uno
chiamato Camoens, o al più di quivi ad alcuni anni, come
accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai celebrata e levata al
cielo, non dirò da tutti, ma, se non altro, dal piccolo numero
degli uomini di buon giudizio. E forse le ceneri della persona nella
quale tu sarai dimorata, riposeranno in sepoltura magnifica; e le sue
fattezze, imitate in diverse guise, andranno per le mani degli
uomini; e saranno descritti da molti, e da altri mandati a memoria
con grande studio, gli accidenti della sua vita; e in ultimo, tutto
il mondo civile sarà pieno del nome suo. Eccetto se dalla
malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle
tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di
mostrare agli uomini alcun proporzionato segno del tuo valore: di che
non sono mancati per verità molti esempi, noti a me sola ed al
fato.
Anima: Madre mia, non ostante l'essere ancora
priva delle altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi
il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità.
E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti
posso appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non
solamente come felicità, o come utile ad acquistarla. Ora,
secondo le tue parole, l'eccellenza della quale tu m'hai dotata, ben
potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento della
gloria; ma non però mena alla beatitudine, anzi tira
violentemente all'infelicità. Né pure alla stessa
gloria è credibile che mi conduca innanzi alla morte:
sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mi potrà
pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può
facilmente accadere, come tu dici, che questa sì ritrosa
gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi venga ottenuta in
maniera alcuna, eziandio dopo la morte. Di modo che dalle tue stesse
parole io conchiudo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come
affermavi a principio, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza
maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò
nel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così
calamitoso dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti. La
quale Sarà l'uno dei principali ostacoli che mi vieteranno di
giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine.
Natura:
Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono
assegnate in preda all'infelicità, senza mia colpa. Ma
nell'universale miseria della condizione umana, e nell'infinita
vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è
giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia
concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano
proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio, ma per
vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di
prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano
in mio potere.
Anima: Dimmi: degli animali bruti,
che tu menzionavi, e per avventura alcuno fornito di minore vitalità
e sentimento che gli uomini?
Natura: Cominciando da
quelli che tengono della pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più,
gli altri meno, inferiori all'uomo; il quale ha maggior copia di
vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di
tutti i viventi il più perfetto.
Anima:
Dunque alluogami, se tu m'ami, nel più imperfetto: o se questo
non puoi, spogliata delle funeste doti che mi nobilitano, fammi
conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu
producessi in alcun tempo.
Natura: Di cotesta
ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poiché
tu rifiuti l'immortalità, verso la quale io t'aveva
indirizzata.
Anima: E in cambio dell'immortalità,
pregoti di accelerarmi la morte il più che si possa.
Natura:
Di cotesto conferirò col destino.
DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA
Terra:
Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una
persona; secondo che ho inteso molte volte da' poeti: oltre che i
nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi,
come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in
quell'età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a
me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né
meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci
molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi
parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata
vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho
fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno
tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare.
Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire
che vanno co' loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia:
però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi
molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua
molestia.
Luna: Non dubitare di cotesto. Così
la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che
tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo
piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi,
io t'ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti
servigio.
Terra: Senti tu questo suono
piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna:
A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra: Né
pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da'
miei poli all'equatore, e dall'equatore ai poli, e non mostra saper
niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un
certo suono così dolce ch'è una maraviglia; e che anche
tu vi hai la tua parte, e sei l'ottava corda di questa lira
universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però
non l'odo.
Luna: Anch'io senza fallo sono
assordata; e, come ho detto, non l'odo: e non so di essere una
corda.
Terra: Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei
tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi
antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi
sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e
picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone;
non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal
Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta
certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna: Delle
tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra:
Di che colore sono cotesti uomini?
Luna: Che uomini?
Terra: Quelli che tu contieni. Non dici tu d'essere
abitata?
Luna: Sì, e per questo?
Terra:
E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.
Luna: Né bestie né uomini; che io non
so che razze di creature si sieno né gli uni né
l'altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta
accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non
ho compreso un'acca.
Terra: Ma che sorte di popoli
sono coteste?
Luna: Moltissime e diversissime, che
tu non conosci, come io non conosco le tue.
Terra:
Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l'udissi da te
medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai
conquistata da niuno de' tuoi?
Luna: No, che io
sappia. E come? e perché?
Terra: Per
ambizione, per cupidigia dell'altrui, colle arti politiche, colle
armi.
Luna: Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti
politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra:
Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché,
poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che
sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì
una bella fortezza, co' suoi bastioni diritti; che è segno che
le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali.
Luna: Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un
poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua
suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio
che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del
mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto
altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico
di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei
debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che
sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità
e gli stessi casi de' tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non
so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre
cose, io crederò che abbiano la buona vista de' tuoi
fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io
non so dove me gli abbia.
Terra: Dunque non sarà
né anche vero che le tue province sono fornite di strade
larghe e nette; e che tu sei coltivata; cose che dalla parte della
Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente .
Luna:
Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le
veggo
Terra: Cara Luna, tu hai a sapere che io sono
di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che
gli uomini m'ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non
si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza
pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù
si posero in animo di conquistarti esse; e a quest'effetto fecero
molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e
levandosi sulle punte de' piedi, e stendendo le braccia, non ti
poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io
veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de' tuoi
paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de' quali sappiamo anche
i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch'io ti porto, mi è
paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di
provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata
da' cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano
altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente
ne fu varia opinione . È vero o no che gli Arcadi vennero al
mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba
chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù
non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come
crede un fisico moderno? che sei fatta, come affermano alcuni
Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che
fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon
tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come
stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del
bairam?
Luna: Va pure avanti; che mentre seguiti
così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio
mio solito. Se hai caro d'intrattenerti in ciance, e non trovi altre
materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso
intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un
altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla
tua maniera. Tu non sai parlare altro che d'uomini e di cani e di
cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande
grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.
Terra:
Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi
da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci
avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a
tirarmi l'acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?
Luna:
Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque
altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per
quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che
debbono essere tanto maggiori de' miei, quanto tu mi vinci di
grandezza e di forza.
Terra: Di cotesti effetti
veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te
la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume
nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte . Ma io mi
dimenticava una cosa che importa più d'ogni altra. Io vorrei
sapere se veramente, secondo che scrive l'Ariosto, tutto quello che
ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la
bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei
buoni studi per essere onorati dagli altri, nell'indirizzare i
fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni
utili; tutto sale e si raguna costà: di modo che vi si trovano
tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli
uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere
così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente
che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose
(verbigrazia l'amor patrio, la virtù, la magnanimità,
la rettitudine), non già solo in parte, e l'uno o l'altro di
loro, come per l'addietro, ma tutti e interamente. E certo che se
elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro
luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione,
per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte
queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere
sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì
un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli
anni una buona somma di danari.
Luna: Tu ritorni
agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta
da' tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il
giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si
sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene
che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu
chiedi.
Terra: Almeno mi saprai tu dire se costì
sono in uso i vizi, i misfatti, gl'infortuni, i dolori, la
vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
Luna:
Oh cotesti sì che gl'intendo; e non solo i nomi, ma le cose
significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta
piena, in vece di quelle altre che tu credevi.
Terra:
Quali prevalgono ne' tuoi popoli, i pregi o i difetti?
Luna:
I difetti di gran lunga.
Terra: Di quali hai maggior
copia, di beni o di mali?
Luna: Di mali senza
comparazione.
Terra: E generalmente gli abitatori
tuoi sono felici o infelici?
Luna: Tanto infelici,
che io non mi scambierei col più fortunato di loro.
Terra:
Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi
sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.
Luna:
Anche nella figura, e nell'aggirarmi, e nell'essere illustrata dal
sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella
che questa: perché il male è cosa comune a tutti i
pianeti dell'universo, o almeno di questo mondo solare, come la
rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più
né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi
udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro
mondo; e gl'interrogassi se in loro abbia luogo l'infelicità,
e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe
come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose
Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo
più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete
che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho
detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella
risponderebbero altrettanto.
Terra: Con tutto
cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono
per l'avvenire molte felicità.
Luna: Spera a
tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno.
Terra:
Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore:
perché dalla parte della quale io ti favello, è notte,
come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e
allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran
paura.
Luna: Ma qui da questa parte, come tu vedi, è
giorno.
Terra: Ora io non voglio essere causa di
spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il
maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo.
Addio dunque; buon giorno.
Luna: Addio; buona notte.
L'anno
ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il
collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei
luoghi pubblici della città e dei borghi d'Ipernéfelo,
diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e minori,
e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in
antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o
effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati
da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota povertà non
si poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto,
prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più
bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di
poterla portare in capo il dì e la notte, privatamente e
pubblicamente, in città e fuori; e poter essere dipinto,
scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e materia, col
segno di quella corona dintorno al capo.
Concorsero
a questo premio non pochi dei celesti per passatempo; cosa non meno
necessaria agli abitatori d'Ipernéfelo, che a quelli di altre
città; senza alcun desiderio di quella corona; la quale in sé
non valeva il pregio di una berretta di stoppa; e in quanto alla
gloria, se gli uomini, da poi che sono fatti filosofi, la
disprezzano, si può congetturare che stima ne facciano gli
Dei, tanto più sapienti degli uomini, anzi soli sapienti
secondo Pitagora e Platone. Per tanto, con esempio unico e fino
allora inaudito in simili casi di ricompense proposte ai più
meritevoli, fu aggiudicato questo premio, senza intervento di
sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né
di artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per
l'invenzione del vino; Minerva per quella dell'olio, necessario alle
unzioni delle quali gli Dei fanno quotidianamente uso dopo il bagno;
e Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica, che
serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente. Così,
dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un
ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono così la parte
come il tutto; perché Vulcano allegò che stando il più
del tempo al fuoco della fucina con gran fatica e sudore, gli sarebbe
importunissimo quell'ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in
pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura qualche
scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi mettesse il fuoco.
Minerva disse che avendo a sostenere in sul capo un elmo bastante,
come scrive Omero, a coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento
città, non le conveniva aumentarsi questo peso in alcun modo.
Bacco non volle mutare la sua mitra, e la sua corona di pampini, con
quella di lauro: benché l'avrebbe accettata volentieri se gli
fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua taverna;
ma le Muse non consentirono di dargliela per questo effetto: di modo
che ella si rimase nel loro comune erario.
Niuno
dei competitori di questo premio ebbe invidia ai tre Dei che
l'avevano conseguito e rifiutato, né si dolse dei giudici, né
biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che fu Prometeo,
venuto a parte del concorso con mandarvi il modello di terra che
aveva fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una
scrittura che dichiarava le qualità e gli uffici del genere
umano, stato trovato da esso. Muove non poca maraviglia il
rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, che da tutti gli
altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò
investigandone la cagione, si è conosciuto che quegli
desiderava efficacemente, non già l'onore, ma bene il
privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria. Alcuni pensano
che intendesse di prevalersi del lauro per difesa del capo contro
alle tempeste; secondo si narra di Tiberio, che sempre che udiva
tonare, si ponea la corona; stimandosi che l'alloro non sia percosso
dai fulmini . Ma nella città d'Ipernéfelo non cade
fulmine e non tuona. Altri più probabilmente affermano che
Prometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare i capelli; la
quale sventura sopportando, come accade a molti, di malissima voglia,
e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da Sinesio, o non
essendone persuaso, che e più credibile, voleva sotto il
diadema nascondere, come Cesare dittatore, la nudità del capo.
Ma per tornare al
fatto, un giorno tra gli altri ragionando Prometeo con Momo, si
querelava aspramente che il vino, l'olio e le pentole fossero stati
anteposti al genere umano, il quale diceva essere la migliore opera
degl'immortali che apparisse nel mondo. E parendogli non persuaderlo
bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che ragioni in
contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente verso
la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle
cinque parti di quella scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima
reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i luoghi, o nei
più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che l'uomo
sia la più perfetta creatura dell'universo Il che accettato da
Momo, e convenuti del prezzo della scommessa, incominciarono senza
indugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primieramente al
nuovo mondo; come quello che pel nome stesso, e per non avervi posto
piede insino allora niuno degl'immortali, stimolava maggiormente la
curiosità. Fermarono il volo nel paese di Popaian, dal lato
settentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo dove
apparivano molti segni di abitazione umana: vestigi di cultura per la
campagna; parecchi sentieri, ancorché tronchi in molti luoghi,
e nella maggior parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e
particolarmente alcune che parevano sepolture, e qualche ossa
d'uomini di tratto in tratto. Ma non perciò poterono i due
celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la vista per
ogn'intorno, udire una voce né scoprire un'ombra d'uomo vivo.
Andarono, parte camminando parte volando, per ispazio di molte
miglia; passando monti e fiumi; e trovando da per tutto i medesimi
segni e la medesima solitudine. Come sono ora deserti questi paesi,
diceva Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere
stati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i
tremuoti, i temporali, le piogge strabocchevoli, che sapeva essere
ordinarie nelle regioni calde: e veramente in quel medesimo tempo
udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami degli alberi che,
agitati dall'aria, stillavano continuamente acqua. Se non che Momo
non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta
alle inondazioni del mare, così lontano di là, che non
appariva da alcun lato; e meno intendeva per qual destino i tremuoti,
i temporali e le piogge avessero avuto a disfare tutti gli uomini del
paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a' formichieri, a'
cerigoni, alle aquile, a' pappagalli, e a cento altre qualità
di animali terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni. In
fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono, come a dire, un
piccolo mucchio di case o capanne di legno, coperte di foglie di
palma, e circondata ognuna da un chiuso a maniera di steccato:
dinanzi a una delle quali stavano molte persone, parte in piedi,
parte sedute, dintorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco. Si
accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo, salutati
tutti cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il
principale, interrogollo: che si fa?
Selvaggio: Si
mangia, come vedi.
Prometeo: Che buone vivande
avete?
Selvaggio: Questo poco di carne.
Prometeo:
Carne domestica o salvatica?
Selvaggio: Domestica,
anzi del mio figliuolo.
Prometeo: Hai tu per
figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
Selvaggio:
Non un vitello ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.
Prometeo:
Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?
Selvaggio:
La mia propria no, ma ben quella di costui che per questo solo uso io
l'ho messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.
Prometeo:
Per uso di mangiartelo?
Selvaggio: Che maraviglia? E
la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri
figliuoli, penso di mangiarla presto.
Momo: Come si
mangia la gallina dopo mangiate le uova.
Selvaggio:
E l'altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire,
le mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse
che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando de'
loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li
mangerò anche loro a uno a uno, se io campo .
Prometeo:
Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche
altra?
Selvaggio: D'un'altra.
Prometeo:
Molto lontana di qua?
Selvaggio: Lontanissima: tanto
che tra le loro case e le nostre, ci correva un rigagnolo. E
additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito dov'ella
era; ma i nostri l'hanno distrutta . In questo parve a Prometeo che
non so quanti di coloro lo stessero mirando con una cotal guardatura
amorevole, come è quella che fa il gatto al topo: sicché,
per non essere mangiato dalle sue proprie fatture, si levò
subito a volo; e seco similmente Momo: e fil tanto il timore che
ebbero l'uno e l'altro, che nel partirsi, corruppero i cibi dei
barbari con quella sorta d'immondizia che le arpie sgorgarono per
invidia sulle mense troiane. Ma coloro, più famelici e meno
schivi de' compagni di Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo,
malissimo soddisfatto del mondo nuovo, si volse incontanente al più
vecchio, voglio dire all'Asia: e trascorso quasi in un subito
l'intervallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero
ambedue presso ad Agra in un campo pieno d'infinito popolo, adunato
intorno a una fossa colma di legne: sull'orlo della quale, da un
lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il
fuoco; e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di
vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici,
la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima
allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco stesso una nuova
Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle figliuole di
Eretteo, delle Ifigenie, de' Codri, de' Menecei, dei Curzi e dei
Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo, s'immolasse
volontariamente per la sua patria. Intendendo poi che la cagione del
sacrificio della donna era la morte del marito, pensò che
quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di se medesima,
ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non s'induceva ad
abbruciarsi se non perché questo si usava di fare dalle donne
vedove della sua setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e
che era ubbriaca, e che il morto, in cambio di risuscitare, aveva a
essere arso in quel medesimo fuoco; voltato subito il dosso a quello
spettacolo, prese la via dell'Europa; dove intanto che andavano, ebbe
col suo compagno questo colloquio.
Momo: Avresti tu
pensato quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo
per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali
per cuocersi l'un l'altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi
spontaneamente?
Prometeo: No per certo. Ma
considera, caro Momo, che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono
barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura degli
uomini; ma bene dagl'inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho
ferma opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti
parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore.
Momo:
Io per me non veggo, se gli uomini sono il più perfetto genere
dell'universo, come faccia di bisogno che sieno inciviliti perché
non si abbrucino da se stessi, e non mangino i figliuoli propri:
quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non
ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorché la
fenice, che non si trova; rarissimi si mangiano alcun loro simile; e
molto più rari si cibano dei loro figliuoli, per qualche
accidente insolito, e non per averli generati a quest'uso. Avverti
eziandio, che delle cinque parti del mondo una sola, né tutta
intera, e questa non paragonabile per grandezza a veruna delle altre
quattro, è dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte
alcune piccole porzioncelle di un'altra parte del mondo. E già
tu medesimo non vorrai dire che questa civiltà sia compiuta,
in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadelfia
abbiano generalmente tutta la perfezione che può convenire
alla loro specie. Ora, per condursi al presente stato di civiltà
non ancora perfetta, quanto tempo hanno dovuto penare questi tali
popoli? Tanti anni quanti si possono numerare dall'origine dell'uomo
insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che erano o di
maggiore necessità o di maggior profitto al conseguimento
dello stato civile, hanno avuto origine, non da ragione, ma da casi
fortuiti: di modo che la civiltà umana è opera della
sorte più che della natura: e dove questi tali casi non sono
occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che
abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io
dunque: se l'uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a
qualunque altro animale; se la civiltà, che è l'opposto
della barbarie, non è posseduta né anche oggi se non da
una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa
parte non è potuta altrimenti pervenire al presente stato
civile, se non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per
beneficio massimamente del caso, piuttosto che di alcun'altra
cagione; all'ultimo, se il detto stato civile non è per anche
perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il genere
umano fosse più vera acconciandola in questa forma: cioè
dicendo che esso è veramente sommo tra i generi, come tu
pensi; ma sommo nell'imperfezione, piuttosto che nella perfezione;
quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino
continuamente l'una coll'altra; argomentando da certi cotali
presupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per verità
palpabili. Certo che gli altri generi di creature fino nel principio
furono perfettissimi ciascheduno in se stesso. E quando eziandio non
fosse chiaro che l'uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri
animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che
l'essere naturalmente imperfettissimo nel proprio genere, come pare
che sia l'uomo, s'abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di
tutte l'altre. Aggiungi che la civiltà umana, così
difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a compimento,
non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere: come in
effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi
popoli, che ne avevano acquistato una buona parte. In somma io
conchiudo che se tuo fratello Epimeteo recava ai giudici il modello
che debbe avere adoperato quando formò il primo asino o la
prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito.
Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l'uomo sia
perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si
rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale,
diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma perché
il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le
altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si
trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo
rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo
presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili. Non si dubita
che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta,
precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente
certo che non la diede: perché in questo medesimo punto si
trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi, e veduto
gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata,
messisi tra la folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra un
letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola;
ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini,
medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa,
e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale
scriveva.
Prometeo: Chi sono questi sciagurati?
Un
famiglio: Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo:
Chi gli ha uccisi?
Famiglio: Il padrone tutti e
tre.
Prometeo: Tu vuoi dire i figliuoli e se
stesso? Famiglio. Appunto.
Prometeo: Oh che è
mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere
accaduta.
Famiglio: Nessuna, che io
sappia.
Prometeo: Ma forse era povero, o disprezzato
da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?
Famiglio:
Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne
curava, e in corte aveva molto favore.
Prometeo:
Dunque come e caduto in questa disperazione?
Famiglio:
Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.
Prometeo:
E questi giudici che fanno?
Famiglio: S'informano se
il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la
sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si
potrà fare che non ricada.
Prometeo: Ma,
dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare
questi fanciullini, in cambio d'ammazzarli?
Famiglio:
Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco,
al quale ha raccomandato il suo cane. Momo stava per congratularsi
con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la
contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva
anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell'uomo, si
uccide volontariamente esso medesimo, né spegne per
disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza
curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò
la scommessa.
DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO
Fisico:
Eureca, eureca .
Metafisico: Che è?
che hai trovato?
Fisico: L'arte di vivere lungamente
.
Metafisico: E cotesto libro che porti?
Fisico:
Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo
tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne
acquisterò gloria immortale.
Metafisico: Fa
una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto
libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il
luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando
sarà trovata l'arte di vivere felicemente.
Fisico:
E in questo mezzo?
Metafisico: In questo mezzo non
sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse
l'arte di viver poco.
Fisico: Cotesta è già
saputa da un pezzo; e non fu difficile a trovarla.
Metafisico:
In ogni modo la stimo più della tua.
Fisico:
Perché?
Metafisico: Perché se la vita
non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci
torna averla breve che lunga.
Fisico: Oh cotesto no:
perché la vita è bene da se medesima, e ciascuno la
desidera e l'ama naturalmente.
Metafisico: Così
credono gli uomini; ma s'ingannano: come il volgo s'inganna pensando
che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono
degli oggetti, ma della luce. Dico che l'uomo non desidera e non ama
se non la felicità propria. Però non ama la vita, se
non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità.
In modo che propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorché
spessissimo attribuisca all'una l'amore che porta all'altra. Vero è
che questo inganno e quello dei colori sono tutti e due naturali. Ma
che l'amore della vita negli uomini non sia naturale, o vogliamo dire
non sia necessario, vedi che moltissimi ai tempi antichi elessero di
morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la
morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che
non potrebbero essere se l'amore della vita per se medesimo fosse
natura dell'uomo. Come essendo natura di ogni vivente l'amore della
propria felicità, prima cadrebbe il mondo, che alcuno di loro
lasciasse di amarla e di procurarla a suo modo. Che poi la vita sia
bene per se medesima, aspetto che tu me lo provi, con ragioni o
fisiche o metafisiche o di qualunque disciplina. Per me, dico che la
vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita.
La vita infelice, in quanto all'essere infelice, è male; e
atteso che la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e
infelicità non si possono scompagnare, discorri tu medesimo
quello che ne segua.
Fisico: Di grazia, lasciamo
cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante
sottigliezze, rispondimi sinceramente: se l'uomo vivesse e potesse
vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che
non gli piacesse?
Metafisico: A un presupposto
favoloso risponderò con qualche favola: tanto più che
non sono mai vissuto in eterno, sicché non posso rispondere
per esperienza; né anche ho parlato con alcuno che fosse
immortale; e fuori che nelle favole, non trovo notizia di persone di
tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forse ci potrebbe
dare un poco di lume; essendo vissuto parecchi secoli: se bene,
perché poi morì come gli altri, non pare che fosse
immortale. Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio,
coll'andar del tempo si annoiò della vita, pigliò
licenza da Giove di poter morire, e morì . Or pensa, se
l'immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini.
Gl'Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può
penetrare, né per terra né per acqua; ricchi di ogni
bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare
ecatombe; potendo, se io non m'inganno, essere immortali; perché
non hanno infermità né fatiche né guerre né
discordie né carestie né vizi né colpe;
contuttociò muoiono tutti: perché, in capo a mille anni
di vita o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una
certa rupe in mare, e vi si annegano . Aggiungi quest'altra favola.
Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto
le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di
Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che
rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene che possa
cadere negli uomini. Giunone, in vece di farli immortali, come
avrebbe potuto; e allora si costumava; fece che l'uno e l'altro pian
piano se ne morirono in quella medesima ora. Il simile toccò
ad Agamede e a Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero instanza
ad Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare fra
sette giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro
spese. La settima notte, mandò loro un dolce sonno, dal quale
ancora s'hanno a svegliare; e avuta questa, non dimandarono altra
paga. Ma poiché siamo in sulle favole, eccotene un'altra,
intorno alla quale ti vo' proporre una questione. Io so che oggi i
vostri pari tengono per sentenza certa, che la vita umana, in
qualunque paese abitato, e sotto qualunque cielo, dura naturalmente,
eccetto piccole differenze, una medesima quantità di tempo,
considerando ciascun popolo in grosso. Ma qualche buono antico
racconta che gli uomini di alcune parti dell'India e dell'Etiopia non
campano oltre a quarant'anni; chi muore in questa età, muor
vecchissimo; e le fanciulle di sette anni sono di età da
marito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso a poco, si
verifica nella Guinea, nel Decan e in altri luoghi sottoposti alla
zona torrida. Dunque, presupponendo per vero che si trovi una o più
nazioni, gli uomini delle quali regolarmente non passino i
quarant'anni di vita; e ciò sia per natura, non, come si è
creduto degli Ottentotti, per altre cagioni; domando se in rispetto a
questo, ti pare che i detti popoli debbano essere più miseri o
più felici degli altri?
Fisico: Più
miseri senza fallo, venendo a morte più presto.
Metafisico:
Io credo il contrario anche per cotesta ragione. Ma qui non consiste
il punto. Fa un poco di avvertenza. Io negava che la pura vita, cioè
a dire il semplice sentimento dell'esser proprio, fosse cosa amabile
e desiderabile per natura. Ma quello che forse più degnamente
ha nome altresì di vita, voglio dire l'efficacia e la copia
delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti
gli uomini: perché qualunque azione o passione viva e forte,
purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere
viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra
qualità dilettevole. Ora in quella specie d'uomini, la vita
dei quali si consumasse naturalmente in ispazio di quarant'anni, cioè
nella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uomini;
essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio
di questa nostra: perché, dovendo coloro crescere, e giungere
a perfezione, e similmente appassire e mancare, nella metà del
tempo; le operazioni vitali della loro natura, proporzionatamente a
questa celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza
per rispetto a quello che accade negli altri; ed anche le azioni
volontarie di questi tali, la mobilità e la vivacità
estrinseca, corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo
che essi avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità
di vita che abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero
d'anni basterebbe a riempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove
ella non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di
coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più
stretto, sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la
loro età; dove che nella nostra, molto più lunga,
restano spessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e
affezione viva. E poiché non il semplice essere, ma il solo
essere felice, è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di
chicchessia non si misura dal numero dei giorni; io conchiudo che la
vita di quelle nazioni, che quanto più breve, tanto sarebbe
men povera di piacere, o di quello che è chiamato con questo
nome, si vorrebbe anteporre alla vita nostra, ed anche a quella dei
primi re dell'Assiria, dell'Egitto, della Cina, dell'India, e d'altri
paesi; che vissero, per tornare alle favole, migliaia d'anni. Perciò,
non solo io non mi curo dell'immortalità, e sono contento di
lasciarla a' pesci; ai quali la dona il Leeuwenhoek, purché
non sieno mangiati dagli uomini o dalle balene; ma, in cambio di
ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per
allungare la vita, come propone il Maupertuis , io vorrei che la
potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla
misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si
dice che i più vecchi non passano l'età di un giorno, e
contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli. Nel qual caso, io
stimo che non ci rimarrebbe luogo alla noia. Che pensi di questo
ragionamento?
Fisico: Penso che non mi persuade; e
che se tu ami la metafisica, io m'attengo alla fisica: voglio dire
che se tu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne
contento. Però senza metter mano al microscopio, giudico che
la vita sia più bella della morte, e do il pomo a quella,
guardandole tutte due vestite.
Metafisico: Così
giudico anch'io. Ma quando mi torna a mente il costume di quei
barbari, che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano
in un turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una
bianca ; penso quanto poco numero delle bianche è verisimile
che fosse trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e
quanto gran moltitudine delle nere. E desidero vedermi davanti tutte
le pietruzze dei giorni che mi rimangono; e, sceverandole, aver
facoltà di gittar via tutte le nere, e detrarle dalla mia
vita; riserbandomi solo le bianche: quantunque io sappia bene che non
farebbero gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbido.
Fisico.
Molti, per lo contrario, quando anche tutti i sassolini fossero neri,
e più neri del paragone; vorrebbero potervene aggiungere,
benché dello stesso colore: perché tengono per fermo
che niun sassolino sia così nero come l'ultimo. E questi tali,
del cui numero sono anch'io, potranno aggiungere in effetto molti
sassolini alla loro vita, usando l'arte che si mostra in questo mio
libro.
Metafisico: Ciascuno pensi ed operi a suo talento:
e anche la morte non mancherà di fare a suo modo. Ma se tu
vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini veramente; trova
un'arte per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le
sensazioni e le azioni loro. Nel qual modo, accrescerai propriamente
la vita umana, ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei
quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere, ti
potrai dar vanto di prolungarla. E ciò senza andare in cerca
dell'impossibile, o usar violenza alla natura, anzi secondandola. Non
pare a te che gli antichi vivessero più di noi, dato ancora
che, per li pericoli gravi e continui che solevano correre, morissero
comunemente più presto? E farai grandissimo beneficio agli
uomini: la cui vita fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno
infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte
occupata, senza dolore né disagio. Ma piena d'ozio e di tedio,
che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella
sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non e divario. Il che
se io credessi, ti giuro che la morte mi spaventerebbe non poco. Ma
in fine, la vita debb'esser viva, cioè vera vita; o la morte
la supera incomparabilmente di pregio.
DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE
Genio:
Come stai, Torquato?
Tasso: Ben sai come si può
stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.
Genio:
Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e
ridiamone insieme.
Tasso: Ci son poco atto. Ma la tua
presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui
accanto.
Genio: Che io segga? La non è già
cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch'io sto seduto.
Tasso:
Oh potess'io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna
alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi
si stende fino all'ultima punta de' piedi; e non resta in me nervo né
vena che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano
nell'animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco
tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima
di aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io
piango tante volte per morto. In vero, io direi che l'uso del mondo,
e l'esercizio de' patimenti, sogliono come profondare e sopire dentro
a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in
tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di rado quanto è
il progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il
nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché
durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio
come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per
così dire, l'anima, e farmi dimenticare tante calamità.
E se non fosse che io non ho più speranza di rivederla,
crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.
Genio: Quale delle due cose stimi che sia più
dolce: vedere la donna amata, o pensarne?
Tasso: Non so.
Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana,
mi pareva e mi pare una dea.
Genio: Coteste dee sono così
benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la
loro divinità, si spiccano i raggi d'attorno, e se li pongono
in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.
Tasso:
Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran
peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così
diverse da quelle che noi le immaginavamo?
Genio: Io non
so vedere che colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne e
sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha
pure un'ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate
che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non
facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè
creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere
come accada, che le donne in fatti non sieno angeli.
Tasso:
Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di
riparlarle.
Genio: Via, questa notte in sogno io te la
condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in
modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e
spedito che non ti venne fatto mai per l'addietro: anzi all'ultimo le
stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà
nell'animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per
tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti
sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
Tasso: Gran
conforto: un sogno in cambio del vero.
Genio: Che cosa è
il vero?
Tasso: Pilato non lo seppe meno di quello che lo
so io.
Genio: Bene, io risponderò per te. Sappi che
dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo
può qualche volta essere molto più bello e più
dolce, che quello non può mai.
Tasso: Dunque tanto
vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?
Genio: Io
credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se
gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il
giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla;
sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell'immagine che
il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli
dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne
ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto più
solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di
godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di
procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni;
né Pitagora è da riprendere per avere interdetto il
mangiare delle fave, creduto contrario alla tranquillità dei
medesimi sogni, ed atto a intorbidarli ; e sono da scusare i
superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far libazioni
a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei
lieti; l'immagine del quale tenevano a quest'effetto intagliata in
su' piedi delle lettiere . Così, non trovando mai la felicità
nel tempo della vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e
credo che in parte, e in qualche modo, l'ottenessero; e che da
Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
Tasso:
Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere,
o del corpo o dell'animo; se da altra parte il piacere è
solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a
vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso
ridurre.
Genio: Già vi sei ridotto e determinato,
poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è
il piacere?
Tasso: Non ne ho tanta pratica da poterlo
conoscere che cosa sia.
Genio: Nessuno lo conosce per
pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è
un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un
sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir
meglio, un concetto, e non un sentimento. Non vi accorgete voi che
nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché
desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie
indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di
quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più
vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi
riportandovi di continuo agl'istanti futuri di quel medesimo diletto?
Il quale finisce sempre innanzi al giunger dell'istante che vi
soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di
goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto
di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo
anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al
persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque
consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con
altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a
godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso:
Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?
Genio:
Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se
in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena
sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e
dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con
sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è
sempre o passato o futuro, e non mai presente.
Tasso: Che e
quanto dire e sempre nulla.
Genio: Così pare.
Tasso:
Anche nei sogni.
Genio: Propriamente parlando.
Tasso:
E tuttavia l'obbietto e l'intento della vita nostra, non pure
essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per
piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere; da
qualunque cosa ella abbia a procedere.
Genio:
Certissimo.
Tasso: Laonde la nostra vita, mancando sempre
del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è
di sua propria natura uno stato violento.
Genio:
Forse.
Tasso: Io non ci veggo forse. Ma dunque perché
viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?
Genio:
Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.
Tasso:
Io per me ti giuro che non lo so.
Genio: Domandane altri
de' più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto
dubbio.
Tasso: Così farò. Ma certo questa
vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché
lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.
Genio:
Che cosa è la noia?
Tasso: Qui l'esperienza non mi
manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia
della natura dell'aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti
alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di
loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi
ella succede immediatamente. Così tutti gl'intervalli della
vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla
noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i
Peripatetici, non si dà vòto alcuno; così nella
vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per
qualsivoglia causa intermette l'uso del pensiero. Per tutto il resto
del tempo, l'animo considerato anche in se proprio e come disgiunto
dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui
l'essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di
noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e
il diletto.
Genio: E da poi che tutti i vostri diletti
sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e
trasparente; perciò come l'aria in questi, così la noia
penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia
non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della
felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso
apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco
innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non
si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, e composta e
intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una delle quali
passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra. E questo non è
tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.
Tasso:
Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio: Il
sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente
di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per
niuna maniera.
Tasso: In cambio di cotesta medicina, io mi
contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle
azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera
dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò
la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal
commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per
passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e
i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento,
trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla
stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi
scemi in alcun parte il carico della noia.
Genio: Dimmi:
quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?
Tasso:
Più settimane, come tu sai.
Genio: Non conosci tu
dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio
che ella ti reca?
Tasso: Certo che io lo provava maggiore a
principio: perché di mano in mano la mente, non occupata da
altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco
medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e
acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa,
anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una
compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo
soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e
me una gran diceria.
Genio: Cotesto abito te lo vedrai
confermare e accrescere di giorno in giorno per modo, che quando poi
ti si renda la facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà
essere più disoccupato stando in compagnia loro, che in
solitudine. E quest'assuefazione in sì fatto tenore di vita,
non credere che intervenga solo a' tuoi simili, già consueti a
meditare; ma ella interviene in più o men tempo a chicchessia.
Di più, l'essere diviso dagli uomini e, per dir così,
dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo,
eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per
l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da
lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne
che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna
a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e
desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o
il potere o il confidare di restituirsi alla società degli
uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a' suoi primi
anni. Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù;
o certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera
l'immaginazione, e rinnuova nell'uomo esperimentato i beneficii di
quella prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che
il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno
che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai
consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla;
che questo e l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e
l'unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo
svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co' tarla in sul
dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a
correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di
chi ti opprime. Addio.
Tasso: Addio. Ma senti. La tua
conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la
mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è
come una notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son
teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.
Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi
bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.
Genio: Ancora
non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE
Un
Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e
soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l'interiore
dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non
mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che
intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza;
quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece
incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle
nuove acque . Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio
immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi
colossali veduti da lui, molti anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma
fattosi più da vicino, trovò che era una forma
smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il
dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo
tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale
guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza
parlare, all'ultimo gli disse.
Natura: Chi sei? che cerchi
in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
Islandese:
Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala
quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la
fuggo adesso per questa.
Natura: Così fugge lo
scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da
se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
Islandese: La
Natura?
Natura: Non altri.
Islandese: Me ne
dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior disavventura
di questa non mi potesse sopraggiungere.
Natura: Ben potevi
pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non
ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che
era che ti moveva a fuggirmi?
Islandese: Tu dei sapere che
io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso
e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli
uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per
l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano;
sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e
infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più
si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano.
Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai,
non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di
avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del
mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri,
come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che
di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io
pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali:
che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal viver
quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera
questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se
tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che
gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e
contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato
un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma
dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla
loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola
mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà.
Fatto questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non
poteva mantenermi però senza patimento: perché la
lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e l'ardore
estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi
travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva
passare una gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava
gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo
aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche
potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le
tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del
monte Ecla, il sospetto degl'incendi, frequentissimi negli alberghi,
come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di
turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre
conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e
speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di
non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono
apparire quando la maggior parte dell'animo nostro è occupata
dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che
provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi
ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che
l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo;
meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e
tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in
alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e
non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da
un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al
genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a
ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e
certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero
prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da
dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando
eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero
prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il
mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre
osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature,
se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità
della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso
dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza
dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove.
Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza
temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un
assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te
di nessun'ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del
cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla
moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo
di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e
nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell'aria. Tal volta io
mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della
neve, tal altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra,
fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte
mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che
m'inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria.
Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa,
mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi
luoghi è mancato poco che gl'insetti volanti non mi abbiano
consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre
imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo
antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole
della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le
infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come
sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del
corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu
ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità
del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò
che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra
parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le
cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del
corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna
persona, e la più contraria alla durabilità della
stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e
totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in
molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in
pericolo della morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di
condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e
tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e
l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché
ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per
lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole
(come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per
l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo, alcuni
tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia
cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per
grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato
per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro
patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla
nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati
di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con
altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto
che l'uomo non può mai senza qualche maggiore o minore
incomodità o danno, starsene esposto all'una o all'altro di
loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della
vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho
consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è
destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto
impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere
inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica
scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere
tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora
ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e
che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria
famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e
delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo
compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o
si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma
che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché
ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre
della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di
miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato
da te per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno
di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal
quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e
perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli
uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità
e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne
seguono.
Natura: Immaginavi tu forse che il mondo fosse
fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e
nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho
l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o
all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con
qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come,
ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non
ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali
azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi
avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne
avvedrei.
Islandese: Ponghiamo caso che uno m'invitasse
spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per
compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella
tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere
oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non
che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi
alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse
somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi
lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi
figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi
mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa
per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per
tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di
farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome
tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua
facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente
hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in
modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno
senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che
tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto
crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli.
Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi
vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua
volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva
sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi
hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi
lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi
sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo
che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri
animali e di ogni creatura.
Natura: Tu mostri non aver
posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo
circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé
di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o
l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto
risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da
patimento.
Islandese: Cotesto medesimo odo ragionare a
tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto,
patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è
distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire:
a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo,
conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che
sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri
dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese;
come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per
quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un
fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a
terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia:
sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella
mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo
di non so quale città di Europa.
CAPITOLO PRIMO
Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all'eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente: cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d'animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall'oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla poesia. Tra gli altri, a un giovane d'indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza.
Tu
cerchi, o figliuolo, quella gloria che sola, si può dire, di
tutte le altre, consente oggi di essere colta da uomini di nascimento
privato: cioè quella a cui si viene talora colla sapienza, e
cogli studi delle buone dottrine e delle buone lettere. Già
primieramente non ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri
sommi antenati non fosse negletta, fu però tenuta in piccolo
conto per comparazione alle altre: e bene hai veduto in quanti luoghi
e con quanta cura Cicerone, suo caldissimo e felicissimo seguace, si
scusi co' suoi cittadini del tempo e dell'opera che egli poneva in
procacciarla; ora allegando che gli studi delle lettere e della
filosofia non lo rallentavano in modo alcuno alle faccende pubbliche,
ora che sforzato dall'iniquità dei tempi ad astenersi dai
negozi maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente
l'ozio suo; e sempre anteponendo alla gloria de' suoi scritti quella
del suo consolato, e delle cose fatte da sé in beneficio della
repubblica. E veramente, se il soggetto principale delle lettere è
la vita umana, il primo intento della filosofia l'ordinare le nostre
azioni; non è dubbio che l'operare è tanto più
degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è
più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti
importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi, niun
ingegno è creato dalla natura agli studi; né l'uomo
nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più
degli scrittori eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa
medesima età; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri;
furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni:
alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna
propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono
propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e
virtù di farne. E puoi facilmente considerare in Italia, dove
quasi tutti sono d'animo alieno dai fatti egregi quanto pochi
acquistino fama durevole colle scritture. Io penso che l'antichità,
specialmente romana o greca, si possa convenevolmente figurare nel
modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa,
guerriera e salvatrice della patria. La quale statua rappresentavala
con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di
compiacersene, in atto di volerlosi recare in capo; e a' piedi,
alcuni volumi, quasi negletti da lei, come piccola parte della sua
gloria .
Ma tra noi moderni, esclusi comunemente da ogni altro cammino di celebrità, quelli che si pongono per la via degli studi, mostrano nella elezione quella maggiore grandezza d'animo che oggi si può mostrare, e non hanno necessità di scusarsi colla loro patria. Di maniera che in quanto alla magnanimità, lodo sommamente il tuo proposito. Ma perciocché questa via, come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si può seguire senza pregiudizio del corpo, né senza moltiplicare in diversi modi l'infelicità naturale del proprio animo; però innanzi ad ogni altra cosa, stimo sia conveniente e dovuto non meno all'ufficio mio, che all'amor grande che tu meriti e che io ti porto, renderti consapevole sì di varie difficoltà che si frappongono al conseguimento della gloria alla quale aspiri, e sì del frutto che ella è per produrti in caso che tu la conseguisca; secondo che fino a ora ho potuto conoscere coll'esperienza o col discorso: acciocché, misurando teco medesimo, da una parte, quanta sia l'importanza e il pregio del fine, e quanta la speranza dell'ottenerlo; dall'altra, i danni, le fatiche e i disagi che porta seco il cercarlo (dei quali ti ragionerò distintamente in altra occasione); tu possa con piena notizia considerare e risolvere se ti sia più spediente di seguitarlo, o di volgerti ad altra via.
CAPITOLO SECONDO
Potrei qui nel principio distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà nel cammino che hai cominciato. I quali ostacoli, sempre malagevolissimi a superare, spesso insuperabili, fanno che più di uno scrittore, non solo in vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato al tutto dell'onore che se gli dee. Perché, vissuto senza fama per l'odio o l'invidia altrui, morto si rimane nell'oscurità per dimenticanza; potendo difficilmente avvenire che la gloria d'alcuno nasca o risorga in tempo che, fuori delle carte per sé immobili e mute, nessuna cosa ne ha cura. Ma le difficoltà che nascono dalla malizia degli uomini, essendone stato scritto abbondantemente da molti, ai quali potrai ricorrere, intendo di lasciarle da parte. Né anche ho in animo di narrare quegl'impedimenti che hanno origine dalla fortuna propria dello scrittore, ed eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni: i quali non di rado fanno che alcuni scritti degni di somma lode, e frutto di sudori infiniti, sono perpetuamente esclusi dalla celebrità, o stati pure in luce per breve tempo, cadono e si dileguano interamente dalla memoria degli uomini; dove che altri scritti o inferiori di pregio, o non superiori a quelli, vengono e si conservano in grande onore. Io ti vo' solamente esporre le difficoltà e gl'impacci che senza intervento di malvagità umana, contrastano gagliardamente il premio della gloria, non all'uno o all'altro fuor dell'usato, ma per l'ordinario, alla maggior parte degli scrittori grandi.
Ben
sai che niuno si fa degno di questo titolo, né si conduce a
gloria stabile e vera, se non per opere eccellenti e perfette, o
prossime in qualche modo alla perfezione. Or dunque hai da por mente
a una sentenza verissima di un autore nostro lombardo; dico
dell'autore del Cortegiano : la quale è che rare volte
interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che
egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie
degli scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenza degli
stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli
antichi. E qui primieramente pensa, quanto piccolo numero di persone
sieno assuefatte ed ammaestrate a scrivere; e però da quanto
poca parte degli uomini, o presenti o futuri, tu possa in qualunque
caso sperare quell'opinione magnifica, che ti hai proposto per frutto
della tua vita. Oltre di ciò considera quanta sia nelle
scritture la forza dello stile; dalle cui virtù
principalmente, e dalla cui perfezione, dipende la perpetuità
delle opere che cadono in qualunque modo nel genere delle lettere
amene. E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una
scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse
nelle sentenze, tu la riduci in istato che ella ti par cosa di niuna
stima. Ora la lingua è tanta parte dello stile, anzi ha tal
congiunzione seco, che difficilmente si può considerare l'una
di queste due cose disgiunta dall'altra; a ogni poco si confondono
insieme ambedue, non solamente nelle parole degli uomini, ma eziandio
nell'intelletto; e mille loro qualità e mille pregi o
mancamenti, appena, e forse in niun modo, colla più sottile e
accurata speculazione, si può distinguere e assegnare a quale
delle due cose appartengano, per essere quasi comuni e indivise tra
l'una e l'altra. Ma certo niuno straniero è, per tornare alle
parole del Castiglione, assueto a scrivere elegantemente nella tua
lingua. Di modo che lo stile, parte sì grande e sì
rilevante dello scrivere, e cosa d'inesplicabile difficoltà e
fatica, tanto ad apprenderne l'intimo e perfetto artificio, quanto ad
esercitarlo, appreso che egli sia; non ha propriamente altri giudici,
né altri convenevoli estimatori, ed atti a poter lodarlo
secondo il merito, se non coloro che in una sola nazione del mondo
hanno uso di scrivere. E verso tutto il resto del genere umano,
quelle immense difficoltà e fatiche sostenute circa esso
stile, riescono in buona e forse massima parte inutili e sparse al
vento. Lascio l'infinita varietà dei giudizi e delle
inclinazioni dei letterati; per la quale il numero delle persone atte
a sentire le qualità lodevoli di questo o di quel libro, si
riduce ancora a molto meno.
Ma
io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i
pregi di un'opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace
veramente dell'immortalità, non basta essere assuefatto a
scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente
come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché
l'esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu verrai
conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali
consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si
provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une
e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna
differenza sarà dal conoscerle, all'imparare e possedere il
detto modo; anzi saranno l'una e l'altra una cosa sola. Di maniera
che l'uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente
l'eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la
facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché
quell'eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non
per mezzo dell'uso e dell'esercizio proprio, e quasi, per così
dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per
verità intende, che e quale sia propriamente il perfetto
scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche
avere la debita ammirazione agli scrittori sommi. E la più
parte di quelli che attendono agli studi, scrivendo essi facilmente,
e credendosi scriver bene, tengono in verità per fermo, quando
anche dicano il contrario, che lo scriver bene sia cosa facile. Or
vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere
ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori e con
disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un'opera
egregia e perfetta. Io ti so dire (e credi a questa età
canuta) che appena due o tre sono oggi in Italia, che abbiano il modo
e l'arte dell'ottimo scrivere. Il qual numero se ti pare
eccessivamente piccolo, non hai da pensare contuttociò che
egli sia molto maggiore in tempo né in luogo alcuno.
Più volte io mi maraviglio meco medesimo come, ponghiamo caso, Virgilio, esempio supremo di perfezione agli scrittori, sia venuto e mantengasi in questa sommità di gloria. Perocché, quantunque io presuma poco di me stesso, e creda non poter mai godere e conoscere ciascheduna parte d'ogni suo pregio e d'ogni suo magistero; tuttavia tengo per certo che il massimo numero de' suoi lettori e lodatori non iscorge ne' poemi suoi più che una bellezza per ogni dieci o venti che a me, col molto rileggerli e meditarli, viene pur fatto di scoprirvi. In vero io mi persuado che l'altezza della stima e della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata, che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa un merito tale. E mi ricordo del tempo della mia giovinezza; quando io leggendo i poemi di Virgilio con piena libertà di giudizio da una parte, e nessuna cura dell'autorità degli altri, il che non è comune a molti; e dall'altra parte con imperizia consueta a quell'età, ma forse non maggiore di quella che in moltissimi lettori è perpetua; ricusava fra me stesso di concorrere nella sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano. Vedi che la moltitudine dei lettori, non solo nei secoli di giudizio falso e corrotto, ma in quelli ancora di sane e ben temperate lettere, è molto più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte; più dall'ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall'apparente più che dal sostanziale; e per l'ordinario più dal mediocre che dall'ottimo. Leggendo le lettere di un Principe, raro veramente d'ingegno, ma usato a riporre nei sali, nelle arguzie, nell'instabilità, nell'acume quasi tutta l'eccellenza dello scrivere, io m'avveggo manifestissimamente che egli, nell'intimo de' suoi pensieri, anteponeva l'Enriade all'Eneide; benché non si ardisse a profferire questa sentenza, per solo timore di non offendere le orecchie degli uomini. In fine, io stupisco che il giudizio di pochissimi, ancorché retto, abbia potuto vincere quello d'infiniti, e produrre nell'universale quella consuetudine di stima non meno cieca che giusta. Il che non interviene sempre, ma io reputo che la fama degli scrittori ottimi soglia essere effetto del caso più che dei meriti loro: come forse ti sarà confermato da quello che io sono per dire nel progresso del ragionamento.
CAPITOLO TERZO
Si
è veduto già quanto pochi avranno facoltà di
ammirarti quando sarai giunto a quell'eccellenza che ti proponi Ora
avverti che più d'un impedimento si può frapporre anco
a questi pochi, che non facciano degno concetto del tuo valore,
benché ne veggano i segni. Non è dubbio alcuno, che gli
scritti eloquenti o poetici, di qualsivoglia sorta, non tanto si
giudicano dalle loro qualità in se medesime, quanto
dall'effetto che essi fanno nell'animo di chi legge. In modo che il
lettore nel farne giudizio, li considera più, per così
dire, in se proprio, che in loro stessi. Di qui nasce, che gli uomini
naturalmente tardi e freddi di cuore e d'immaginazione, ancorché
dotati di buon discorso, di molto acume d'ingegno, e di dottrina non
mediocre, sono quasi al tutto inabili a sentenziare convenientemente
sopra tali scritti; non potendo in parte alcuna immedesimare l'animo
proprio con quello dello scrittore; e ordinariamente dentro di sé
li disprezzano; perché leggendoli, e conoscendoli ancora per
famosissimi, non iscuoprono la causa della loro fama; come quelli a
cui non perviene da lettura tale alcun moto, alcun'immagine, e quindi
alcun diletto notabile. Ora, a quegli stessi che da natura sono
disposti e pronti a ricevere e a rinnovellare in sé qualunque
immagine o affetto saputo acconciamente esprimere dagli scrittori,
intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza, languidezza
d'animo, impenetrabilità, e disposizione tale, che, mentre
dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi; e ciò
per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti allo
spirito o al corpo, transitorie o durevoli. In questi cotali tempi,
niuno, se ben fosse per altro uno scrittore sommo, è buon
giudice degli scritti che hanno a muovere il cuore o l'immaginativa.
Lascio la sazietà dei diletti provati poco prima in altre
letture tali; e le passioni, più o meno forti, che
sopravvengono ad ora ad ora; le quali bene spesso tenendo in gran
parte occupato l'animo, non lasciano luogo ai movimenti che in altra
occasione vi sarebbero eccitati dalle cose lette. Così, per le
stesse o simili cause, spesse volte veggiamo che quei medesimi
luoghi, quegli spettacoli naturali o di qualsivoglia genere, quelle
musiche, e cento sì fatte cose, che in altri tempi ci
commossero, o sarebbero state atte a commuoverci se le avessimo
vedute o udite; ora vedendole e ascoltandole, non ci commuovono
punto, né ci dilettano; e non perciò sono men belle o
meno efficaci in sé, che fossero allora.
Ma
quando, per qualunque delle dette cagioni, l'uomo è mal
disposto agli effetti dell'eloquenza e della poesia, non lascia egli
nondimeno né differisce il far giudizio dei libri attenenti
all'un genere o all'altro, che gli accade di leggere allora la prima
volta. A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o
Cicerone o il Petrarca, e non sentirmi muovere da quella lettura in
alcun modo. Tuttavia, come già consapevole e certo della bontà
di scrittori tali, sì per la fama antica e sì per
l'esperienza delle dolcezze cagionatemi da loro altre volte; non fo
per quella presente insipidezza, alcun pensiero contrario alla loro
lode. Ma negli scritti che si leggono la prima volta, e che per
essere nuovi, non hanno ancora potuto levare il grido, o
confermarselo in guisa, che non resti luogo a dubitare del loro
pregio; niuna cosa vieta che il lettore, giudicandoli dall'effetto
che fanno presentemente nell'animo proprio, ed esso animo non
trovandosi in disposizione da ricevere i sentimenti e le immagini
volute da chi scrisse, faccia piccolo concetto d'autori e d'opere
eccellenti. Dal quale non è facile che egli si rimuova poi per
altre letture degli stessi libri, fatte in migliori tempi: perché
verisimilmente il tedio provato nella prima, lo sconforterà
dalle altre; e in ogni modo, chi non sa quello che importino le prime
impressioni, e l'essere preoccupato da un giudizio, quantunque falso?
Per lo contrario, trovansi gli animi alcune volte, per una o per altra cagione, in istato di mobilità, senso, vigore e caldezza tale, o talmente aperti e preparati, che seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni leggero tocco, e coll'occasione di ciò che leggono, creano in sé mille moti e mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di sé. Da questo facilmente avviene, che guardando ai diletti avuti nella lettura, e confondendo gli effetti della virtù e della disposizione propria con quelli che si appartengono veramente al libro; restino presi di grande amore ed ammirazione verso quello, e ne facciano un concetto molto maggiore del giusto, anche preponendolo ad altri libri più degni, ma letti in congiuntura meno propizia. Vedi dunque a quanta incertezza è sottoposta la verità e la rettitudine dei giudizi, anche delle persone idonee, circa gli scritti e gl'ingegni altrui, tolta pure di mezzo qualunque malignità o favore. La quale incertezza è tale, che l'uomo discorda grandemente da se medesimo nell'estimazione di opere di valore uguale, ed anche di un'opera stessa, in diverse età della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno.
CAPITOLO QUARTO
A
fine poi che tu non presuma che le predette difficoltà,
consistenti nell'animo dei lettori non ben disposto, occorrano rade
volte e fuor dell'usato; considera che niuna cosa è
maggiormente usata, che il venir mancando nell'uomo coll'andar
dell'età, la disposizione naturale a sentire i diletti
dell'eloquenza e della poesia, non meno che dell'altre arti
imitative, e di ogni bello mondano. Il quale decadimento dell'animo,
prescritto dalla stessa natura alla nostra vita, oggi è tanto
maggiore che egli si fosse agli altri tempi, e tanto più
presto incomincia ed ha più rapido progresso, specialmente
negli studiosi, quanto che all'esperienza di ciascheduno, si aggiunge
a chi maggiore a chi minor parte della scienza nata dall'uso e dalle
speculazioni di tanti secoli passati. Per la qual cosa e per le
presenti condizioni del viver civile, si dileguano facilmente
dall'immaginazione degli uomini le larve della prima età, e
seco le speranze dell'animo e colle speranze gran parte dei
desiderii, delle passioni, del fervore, della vita, delle facoltà.
Onde io piuttosto mi maraviglio che uomini di età matura,
dotti massimamente, e dediti a meditare sopra le cose umane, sieno
ancora sottoposti alla virtù dell'eloquenza e della poesia,
che non che di quando in quando elle si trovino impedite di fare in
quelli alcun effetto. Perciocché abbi per certo, che ad essere
gagliardamente mosso dal bello e dal grande immaginato, fa mestieri
credere che vi abbia nella vita umana alcun che di grande e di bello
vero, e che il poetico del mondo non sia tutto favola. Le quali cose
il giovane crede sempre, quando anche sappia il contrario, finché
l'esperienza sua propria non sopravviene al sapere; ma elle sono
credute difficilmente dopo la trista disciplina dell'uso pratico,
massime dove l'esperienza è congiunta coll'abito dello
speculare e colla dottrina.
Da
questo discorso seguirebbe che generalmente i giovani fossero
migliori giudici delle opere indirizzate a destare affetti ed
immagini, che non sono gli uomini maturi o vecchi. Ma da altro canto
si vede che i giovani non accostumati alla lettura, cercano in quella
un diletto più che umano, infinito, e di qualità
impossibili; e tale non ve ne trovando, disprezzano gli scrittori: il
che anco in altre età, per simili cause, avviene alcune volte
agl'illetterati. Quei giovani poi, che sono dediti alle lettere,
antepongono facilmente, come nello scrivere, così nel
giudicare gli scritti altrui, l'eccessivo al moderato, il superbo o
il vezzoso dei modi e degli ornamenti al semplice e al naturale, e le
bellezze fallaci alle vere; parte per la poca esperienza, parte per
l'impeto dell'età. Onde i giovani, i quali senza alcun fallo
sono la parte degli uomini più disposta a lodare quello che
loro apparisce buono, come più veraci e candidi; rade volte
sono atti a gustare la matura e compiuta bontà delle opere
letterarie. Col progresso degli anni, cresce quell'attitudine che
vien dall'arte, e decresce la naturale. Nondimeno ambedue sono
necessarie all'effetto.
Chiunque
poi vive in città grande, per molto che egli sia da natura
caldo e svegliato di cuore e d'immaginativa, io non so (eccetto se,
ad esempio tuo, non trapassa in solitudine il più del tempo)
come possa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle
lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine sublime o
leggiadra. Perciocché poche cose sono tanto contrarie a quello
stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la
conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo
spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti,
della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più
misero, che vi regnano. Quanto al volgo dei letterati, sto per dire
che quello delle città grandi sappia meno far giudizio dei
libri, che non sa quello delle città piccole: perché
nelle grandi come le altre cose sono per lo più false e vane,
così la letteratura comunemente è falsa e vana, o
superficiale. E se gli antichi reputavano gli esercizi delle lettere
e delle scienze come riposi e sollazzi in comparazione ai negozi,
oggi la più parte di quelli che nelle città grandi
fanno professione di studiosi, reputano, ed effettualmente usano, gli
studi e lo scrivere, come sollazzi e riposi degli altri sollazzi.
Io penso che le opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d'infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll'animo connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito. Oltre che la moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l'animo in guisa, che non attendendo a niuna di loro se non poco, non può ricevere un sentimento vivo; o genera tal sazietà, che elle si contemplano colla stessa freddezza interna, che si fa qualunque oggetto volgare. Il simile dico della musica: la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni altro luogo. Ma nondimeno alle arti è necessario il domicilio delle città grandi sì a conseguire, e sì maggiormente a porre in opera la loro perfezione: e non per questo, da altra parte, è men vero che il diletto che elle porgono quivi agli uomini, è minore assai, che egli non sarebbe altrove. E si può dire che gli artefici nella solitudine e nel silenzio, procurano con assidue vigilie, industrie e sollecitudini, il diletto di persone, che solite a rivolgersi tra la folla e il romore, non gusteranno se non piccolissima parte del frutto di tante fatiche. La qual sorte degli artefici cade anco per qualche proporzionato modo negli scrittori.
CAPITOLO QUINTO
Ma
ciò sia detto come per incidenza. Ora tornando in via, dico
che gli scritti più vicini alla perfezione, hanno questa
proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono
più che alla prima. Il contrario avviene in molti libri
composti con arte e diligenza non più che mediocre, ma non
privi però di un qual si sia pregio estrinseco ed apparente; i
quali, riletti che sieno, cadono dall'opinione che l'uomo ne avea
conceputo alla prima lettura. Ma letti gli uni e gli altri una volta
sola, ingannano talora in modo anche i dotti ed esperti, che gli
ottimi sono posposti ai mediocri. Ora hai a considerare che oggi,
eziandio le persone dedite agli studi per instituto di vita, con
molta difficoltà s'inducono a rileggere libri recenti, massime
il cui genere abbia per suo proprio fine il diletto. La qual cosa non
avveniva agli antichi; atteso la minor copia dei libri. Ma in questo
tempo ricco delle scritture lasciateci di mano in mano da tanti
secoli, in questo presente numero di nazioni letterate, in questa
eccessiva copia di libri prodotti giornalmente da ciascheduna di
esse, in tanto scambievole commercio fra tutte loro; oltre a ciò,
in tanta moltitudine e varietà delle lingue scritte, antiche e
moderne, in tanto numero ed ampiezza di scienze e dottrine di ogni
maniera, e queste così strettamente connesse e collegate
insieme, che lo studioso è necessitato a sforzarsi di
abbracciarle tutte, secondo la sua possibilità; ben vedi che
manca il tempo alle prime non che alle seconde letture. Però
qualunque giudizio vien fatto dei libri nuovi una volta,
difficilmente si muta. Aggiungi che per le stesse cause, anche nel
primo leggere i detti libri, massime di genere ameno, pochissimi e
rarissime volte pongono tanta attenzione e tanto studio, quanto è
di bisogno a scoprire la faticosa perfezione, l'arte intima e le
virtù modeste e recondite degli scritti. Di modo che in somma
oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri
perfetti, che dei mediocri; le bellezze o doti di una gran parte dei
quali, vere o false, sono esposte agli occhi in maniera, che per
piccole che sieno, facilmente si scorgono alla prima vista. E
possiamo dire con verità, che oramai l'affaticarsi di scrivere
perfettamente, è quasi inutile alla fama. Ma da altra parte, i
libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente, e
rimoti da qualunque perfezione; ancorché sieno celebrati per
qualche tempo, non possono mancar di perire in breve: come si vede
continuamente nell'effetto. Ben è vero che l'uso che oggi si
fa dello scrivere è tanto, che eziandio molti scritti
degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a
poco, e avanti che abbiano potuto (per dir così) radicare la
propria celebrità, dall'immenso fiume dei libri nuovi che
vengono tutto giorno in luce, periscono senz'altra cagione, dando
luogo ad altri, degni o indegni, che occupano la fama per breve
spazio. Così, ad un tempo medesimo, una sola gloria è
dato a noi di seguire, delle tante che furono proposte agli antichi;
e quella stessa con molta più difficoltà si consegue
oggi, che anticamente.
Soli
in questo naufragio continuo e comune non meno degli scritti nobili
che de' plebei, soprannuotano i libri antichi; i quali per la fama
già stabilita e corroborata dalla lunghezza dell'età,
non solo si leggono ancora diligentemente, ma si rileggono e
studiano. E nota che un libro moderno, eziandio se di perfezione
fosse comparabile agli antichi, difficilmente o per nessun modo
potrebbe, non dico possedere lo stesso grado di gloria, ma recare
altrui tanta giocondità quanta dagli antichi si riceve: e
questo per due cagioni. La prima si è, che egli non sarebbe
letto con quell'accuratezza e sottilità che si usa negli
scritti celebri da gran tempo, né tornato a leggere se non da
pochissimi, né studiato da nessuno; perché non si
studiano libri, che non sieno scientifici, insino a tanto che non
sono divenuti antichi. L'altra si è, che la fama durevole e
universale delle scritture, posto che a principio nascesse non da
altra causa che dal merito loro proprio ed intrinseco, ciò non
ostante, nata e cresciuta che sia, moltiplica in modo il loro pregio,
che elle ne divengono assai più grate a leggere, che non
furono per l'addietro; e talvolta la maggior parte del diletto che vi
si prova, nasce semplicemente dalla stessa fama. Nel qual proposito
mi tornano ora alla mente alcune avvertenze notabili di un filosofo
francese; il quale in sostanza, discorrendo intorno alle origini dei
piaceri umani, dice così. Molte cause di godimento compone e
crea l'animo stesso nostro a se proprio, massime collegando tra loro
diverse cose. Perciò bene spesso avviene che quello che
piacque una volta, piaccia similmente un'altra; solo per essere
piaciuto innanzi; congiungendo noi coll'immagine del presente quella
del passato. Per modo di esempio, una commediante piaciuta agli
spettatori nella scena, piacerà verisimilmente ai medesimi
anco nelle sue stanze; perocché sì del suono della sua
voce, sì della sua recitazione, sì dell'essere stati
presenti agli applausi riportati dalla donna, e in qualche modo
eziandio del concetto di principessa aggiunto a quel proprio che le
conviene, si comporrà quasi un misto di più cause, che
produrranno un diletto solo. Certo la mente di ciascuno abbonda tutto
giorno d'immagini e di considerazioni accessorie alle principali. Di
qui nasce che le donne fornite di riputazione grande, e macchiate di
qualche difetto piccolo, recano talvolta in onore esso difetto, dando
causa agli altri di tenerlo in conto di leggiadria. E veramente il
particolare amore che ponghiamo chi ad una chi ad altra donna, è
fondato il più delle volte in sulle sole preoccupazioni che
nascono in colei favore o dalla nobiltà del sangue, o dalle
ricchezze, o dagli onori che le sono renduti o dalla stima che le è
portata da certi; spesso eziandio dalla fama, vera o falsa, di
bellezza o di grazia, e dallo stesso amore avutole prima o di
presente da altre persone. E chi non sa che quasi tutti i piaceri
vengono più dalla nostra immaginativa, che dalle proprie
qualità delle cose piacevoli?
Le quali avvertenze quadrando ottimamente agli scritti non meno che alle altre cose, dico che se oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco all'Iliade; letto anche attentissimamente da qualunque più perfetto giudice di cose poetiche, gli riuscirebbe assai meno grato e men dilettevole di quella; e per tanto gli resterebbe in molto minore estimazione: perché le virtù proprie del poema nuovo, non sarebbero aiutate dalla fama di ventisette secoli, né da mille memorie e mille rispetti, come sono le virtù dell'Iliade. Similmente dico, che chiunque leggesse accuratamente o la Gerusalemme o il Furioso, ignorando in tutto o in parte la loro celebrità; proverebbe nella lettura molto minor diletto, che gli altri non fanno. Laonde in fine, parlando generalmente, i primi lettori di ciascun'opera egregia, e i contemporanei di chi la scrisse, posto che ella ottenga poi fama nella posterità, sono quelli che in leggerla godono meno di tutti gli altri: il che risulta in grandissimo pregiudizio degli scrittori.
CAPITOLO SESTO
Queste sono in parte le difficoltà che ti contenderanno l'acquisto della gloria appresso agli studiosi, ed agli stessi eccellenti nell'arte dello scrivere e nella dottrina. E quanto a coloro che se bene bastantemente instrutti di quell'erudizione che oggi è parte, si può dire, necessaria di civiltà, non fanno professione alcuna di studi né di scrivere, e leggono solo per passatempo, ben sai che non sono atti a godere più che tanto della bontà dei libri: e questo, oltre al detto innanzi, anche per un'altra cagione, che mi resta a dire. Cioè che questi tali non cercano altro in quello che leggono, fuorché il diletto presente. Ma il presente è piccolo e insipido per natura a tutti gli uomini. Onde ogni cosa più dolce, e come dice Omero,
Venere, il sonno, il canto e le carole
presto e di necessità vengono a noia, se colla presente occupazione non è congiunta la speranza di qualche diletto o comodità futura che ne dipenda. Perocché la condizione dell'uomo non è capace di alcun godimento notabile, che non consista sopra tutto nella speranza, la cui forza è tale, che moltissime occupazioni prive per sé di ogni piacere, ed eziandio stucchevoli o faticose, aggiuntavi la speranza di qualche frutto, riescono gratissime e giocondissime, per lunghe che sieno; ed al contrario, le cose che si stimano dilettevoli in sé, disgiunte dalla speranza, vengono in fastidio quasi, per così dire, appena gustate. E in tanto veggiamo noi che gli studiosi sono come insaziabili della lettura, anco spesse volte aridissima, e provano un perpetuo diletto nei loro studi, continuati per buona parte del giorno; in quanto che nell'una e negli altri, essi hanno sempre dinanzi agli occhi uno scopo collocato nel futuro, e una speranza di progresso e di giovamento, qualunque egli si sia; e che nello stesso leggere che fanno alcune volte quasi per ozio e per trastullo, non lasciano di proporsi, oltre al diletto presente, qualche altra utilità, più o meno determinata. Dove che gli altri, non mirando nella lettura ad alcun fine che non si contenga, per dir così, nei termini di essa lettura; fino sulle prime carte dei libri più dilettevoli e più soavi, dopo un vano piacere, si trovano sazi: sicché sogliono andare nauseosamente errando di libro in libro, e in fine si maravigliano i più di loro, come altri possa ricevere dalla lunga lezione un lungo diletto. In tal modo, anche da ciò puoi conoscere che qualunque arte, industria e fatica di chi scrive, è perduta quasi del tutto in quanto a queste tali persone: del numero delle quali generalmente si è la più parte dei lettori. Ed anche gli studiosi, mutate coll'andare degli anni, come spesso avviene, la materia e la qualità dei loro studi, appena sopportano la lettura di libri dai quali in altro tempo furono o sarebbero potuti essere dilettati oltre modo; e se bene hanno ancora l'intelligenza e la perizia necessaria a conoscerne il pregio, pure non vi sentono altro che tedio; perché non si aspettano da loro alcuna utilità.
CAPITOLO SETTIMO
Fin
qui si è detto dello scrivere in generale, e certe cose che
toccano principalmente alle lettere amene, allo studio delle quali ti
veggo inclinato più che ad alcun altro. Diciamo ora
particolarmente della filosofia; non intendendo però di
separar quelle da questa; dalla quale pendono totalmente. Penserai
forse che derivando la filosofia dalla ragione, di cui l'universale
degli uomini inciviliti partecipa forse più che
dell'immaginativa e delle facoltà del cuore; il pregio delle
opere filosofiche debba essere conosciuto più facilmente e da
maggior numero di persone, che quello de' poemi, e degli altri
scritti che riguardano al dilettevole e al bello. Ora io, per me,
stimo che il proporzionato giudizio e il perfetto senso, sia poco
meno raro verso quelle, che verso queste. Primieramente abbi per cosa
certa, che a far progressi notabili nella filosofia, non bastano
sottilità d'ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma
si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes,
Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all'innata
disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e
per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi. Ma
perché questa materia, a dichiararla e trattarla appieno,
vorrebbe molte parole, e ci dilungherebbe assai dal nostro proposito;
perciò contentandomi pure di questo cenno, e passando innanzi,
dico che solo i filosofi possono conoscere perfettamente il pregio, e
sentire il diletto, dei libri filosofici. Intendo dire in quanto si è
alla sostanza, non a qualsivoglia ornamento che possono avere, o di
parole o di stile o d'altro. Dunque, come gli uomini di natura, per
modo di dire, impoetica, se bene intendono le parole e il senso, non
ricevono i moti e le immagini de' poemi; così bene spesso
quelli che non sono dimesticati al meditare e filosofare seco
medesimi, o che non sono atti a pensare profondamente, per veri e per
accurati che sieno i discorsi e le conclusioni del filosofo, e chiaro
il modo che egli usa in espor gli uni e l'altre, intendono le parole
e quello che egli vuol dire, ma non la verità de' suoi detti.
Perocché non avendo la facoltà o l'abito di penetrar
coi pensieri nell'intimo delle cose, né di sciorre e dividere
le proprie idee nelle loro menome parti, né di ragunare e
stringere insieme un buon numero di esse idee, né di
contemplare colla mente in un tratto molti particolari in modo da
poterne trarre un generale, né di seguire indefessamente
coll'occhio dell'intelletto un lungo ordine di verità connesse
tra loro a mano a mano, né di scoprire le sottili e recondite
congiunture che ha ciascuna verità con cento altre; non
possono facilmente, o in maniera alcuna, imitare e reiterare colla
mente propria le operazioni fatte, né provare le impressioni
provate, da quella del filosofo; unico modo avedere, comprendere, ed
estimare convenientemente tutte le cause che indussero esso filosofo
a far questo o quel giudizio, affermare o negare questa o quella
cosa, dubitar di tale o di tal altra. Sicché quantunque
intendano i suoi concetti, non intendono che sieno veri o probabili;
non avendo, e non potendo fare, una quasi esperienza della verità
e della probabilità loro. Cosa poco diversa da quella che agli
uomini naturalmente freddi accade circa le immaginazioni e gli
affetti espressi dai poeti. E ben sai che egli è comune al
poeta e al filosofo l'internarsi nel profondo degli animi umani, e
trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli
andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti
dell'une e degli altri: nelle quali cose, quelli che non sono atti a
sentire in sé la corrispondenza de' pensieri poetici al vero,
non sentono anche, e non conoscono, quella dei filosofici.
Dalle dette cause nasce quello che veggiamo tutto dì, che molte opere egregie, ugualmente chiare ed intelligibili a tutti, ciò non ostante, ad alcuni paiono contenere mille verità certissime; ad altri, mille manifesti errori: onde elle sono impugnate, pubblicamente o privatamente; non solo per malignità o per interesse o per altre simili cagioni, ma eziandio per imbecillità di mente, e per incapacità di sentire e di comprendere la certezza dei loro principii, la rettitudine delle deduzioni e delle conclusioni, e generalmente la convenienza, l'efficacia e la verità dei loro discorsi. Spesse volte le più stupende opere filosofiche sono anche imputate di oscurità, non per colpa degli scrittori, ma per la profondità o la novità dei sentimenti da un lato, e dall'altro l'oscurità dell'intelletto di chi non li potrebbe comprendere in nessun modo. Considera dunque anche nel genere filosofico quanta difficoltà di aver lode, per dovuta che sia. Perocché non puoi dubitare, se anche io non lo esprimo, che il numero dei filosofi veri e profondi, fuori dei quali non e chi sappia far convenevole stima degli altri tali, non sia piccolissimo anche nell'età presente, benché dedita all'amore della filosofia più che le passate. Lascio le varie fazioni, o comunque si convenga chiamarle, in cui sono divisi oggi, come sempre furono, quelli che fanno professione di filosofare: ciascuna delle quali nega ordinariamente la debita lode e stima a quei delle altre; non solo per volontà, ma per avere l'intelletto occupato da altri principii.
CAPITOLO OTTAVO
Se
poi (come non è cosa alcuna che io non mi possa promettere di
cotesto ingegno) tu salissi col sapere e colla meditazione a tanta
altezza, che ti fosse dato, come fu a qualche eletto spirito, di
scoprire alcuna principalissima verità, non solo stata prima
incognita in ogni tempo, ma rimota al tutto dall'espettazione degli
uomini, e al tutto diversa o contraria alle opinioni presenti, anco
dei saggi; non pensar di avere a raccorre in tua vita da questo
discoprimento alcuna lode non volgare. Anzi non ti sarà data
lode, né anche da' sapienti (eccettuato forse una loro menoma
parte), finché ripetute quelle medesime verità, ora da
uno ora da altro, a poco a poco e con lunghezza di tempo, gli uomini
vi assuefacciano prima gli orecchi e poi l'intelletto. Perocché
niuna verità nuova, e del tutto aliena dai giudizi correnti;
quando bene dal primo che se ne avvide, fosse dimostrata con evidenza
e certezza conforme o simile alla geometrica; non fu mai potuta, se
pure le dimostrazioni non furono materiali, introdurre e stabilire
nel mondo subitamente; ma solo in corso di tempo, mediante la
consuetudine e l'esempio: assuefacendosi gli uomini al credere come
ad ogni altra cosa; anzi credendo generalmente per assuefazione, non
per certezza di prove concepita nell'animo: tanto che in fine essa
verità, cominciata a insegnare ai fanciulli, fu accettata
comunemente, ricordata con maraviglia l'ignoranza della medesima, e
derise le sentenze diverse o negli antenati o nei presenti. Ma ciò
con tanto maggiore difficoltà e lunghezza, quanto queste sì
fatte verità nuove e incredibili, furono maggiori e più
capitali, e quindi sovvertitrici di maggior numero di opinioni
radicate negli animi. Né anche gl'intelletti acuti ed
esercitati, sentono facilmente tutta l'efficacia delle ragioni che
dimostrano simili verità inaudite, ed eccedenti di troppo
spazio i termini delle cognizioni e dell'uso di essi intelletti;
massime quando tali ragioni e tali verità ripugnano alle
credenze inveterate nei medesimi. Il Descartes al suo tempo, nella
geometria, la quale egli amplificò maravigliosamente,
coll'adattarvi l'algebra e cogli altri suoi trovati, non fu né
pure inteso, se non da pochissimi. Il simile accadde al Newton. In
vero, la condizione degli uomini disusatamente superiori di sapienza
alla propria età, non è molto diversa da quella dei
letterati e dotti che vivono in città o province vacue di
studi: perocché né questi, come dirò poi, da'
lor cittadini o provinciali, né quelli da' contemporanei, sono
tenuti in quel conto che meriterebbero; anzi spessissime volte sono
vilipesi, per la diversità della vita o delle opinioni loro da
quelle degli altri, e per la comune insufficienza a conoscere il
pregio delle loro facoltà ed opere.
Non
è dubbio che il genere umano a questi tempi, e insino dalla
restaurazione della civiltà, non vada procedendo innanzi
continuamente nel sapere. Ma il suo procedere e tardo e misurato:
laddove gli spiriti sommi e singoli, che si danno alla speculazione
di quest'universo sensibile all'uomo o intelligibile, ed al
rintracciamento del vero, camminano, anzi talora corrono,
velocemente, e quasi senza misura alcuna. E non per questo è
possibile che il mondo, in vederli procedere così spediti,
affretti il cammino tanto, che giunga con loro o poco più
tardi di loro, colà dove essi per ultimo si rimangono. Anzi
non esce del suo passo; e non si conduce alcune volte a questo o a
quel termine, se non solamente in ispazio di uno o di più
secoli da poi che qualche alto spirito vi si fu condotto.
È
sentimento, si può dire, universale, che il sapere umano debba
la maggior parte del suo progresso a quegl'ingegni supremi, che
sorgono di tempo in tempo, quando uno quando altro, quasi miracoli di
natura. Io per lo contrario stimo che esso debba agl'ingegni ordinari
il più, agli straordinari pochissimo. Uno di questi,
ponghiamo, fornito che egli ha colla dottrina lo spazio delle
conoscenze de' suoi contemporanei, procede nel sapere, per dir così,
dieci passi più innanzi. Ma gli altri uomini, non solo non si
dispongono a seguitarlo, anzi il più delle volte, per tacere
il peggio, si ridono del suo progresso. Intanto molti ingegni
mediocri, forse in parte aiutandosi dei pensieri e delle scoperte di
quel sommo, ma principalmente per mezzo degli studi propri, fanno
congiuntamente un passo; nel che per la brevità dello spazio,
cioè per la poca novità delle sentenze, ed anche per la
moltitudine di quelli che ne sono autori, in capo di qualche anno,
sono seguitati universalmente. Così, procedendo, giusta il
consueto, a poco a poco, e per opera ed esempio di altri intelletti
mediocri, gli uomini compiono finalmente il decimo passo; e le
sentenze di quel sommo sono comunemente accettate per vere in tutte
le nazioni civili. Ma esso, già spento da gran tempo, non
acquista pure per tal successo una tarda e intempestiva riputazione;
parte per essere già mancata la sua memoria, o perché
l'opinione ingiusta avuta di lui mentre visse, confermata dalla lunga
consuetudine, prevale a ogni altro rispetto; parte perché gli
uomini non sono venuti a questo grado di cognizioni per opera sua; e
parte perché già nel sapere gli sono uguali, presto lo
sormonteranno, e forse gli sono superiori anche al presente, per
essersi potute colla lunghezza del tempo dimostrare e dichiarare
meglio le verità immaginate da lui, ridurre le sue congetture
a certezza, dare ordine e forma migliore a' suoi trovati, e quasi
maturarli. Se non che forse qualcuno degli studiosi, riandando le
memorie dei tempi addietro, considerate le opinioni di quel grande, e
messe a riscontro con quelle de' suoi posteri, si avvede come e
quanto egli precorresse il genere umano, e gli porge alcune lodi, che
levano poco romore, e vanno presto in dimenticanza.
Se bene il progresso del sapere umano, come il cadere dei gravi, acquista di momento in momento, maggiore celerità; nondimeno egli è molto difficile ad avvenire che una medesima generazione d'uomini muti sentenza, o conosca gli errori propri, in guisa, che ella creda oggi il contrario di quel che credette in altro tempo. Bensì prepara tali mezzi alla susseguente, che questa poi conosce e crede in molte cose il contrario di quella. Ma come niuno sente il perpetuo moto che ci trasporta in giro insieme colla terra, così l'universale degli uomini non si avvede del continuo procedere che fanno le sue conoscenze, né dell'assiduo variare de' suoi giudizi. E mai non muta opinione in maniera, che egli si creda di mutarla. Ma certo non potrebbe fare di non crederlo e di non avvedersene, ogni volta che egli abbracciasse subitamente una sentenza molto aliena da quelle tenute or ora. Per tanto, niuna verità così fatta, salvo che non cada sotto ai sensi, sarà mai creduta comunemente dai contemporanei del primo che la conobbe.
CAPITOLO NONO
Facciamo
che superato ogni ostacolo, aiutato il valore dalla fortuna, abbi
conseguito in fatti, non pur celebrità, ma gloria, e non dopo
morte ma in vita. Veggiamo che frutto ne ritrarrai. Primieramente
quel desiderio degli uomini di vederti e conoscerti di persona,
quell'essere mostrato a dito, quell'onore e quella riverenza
significata dai presenti cogli atti e colle parole, nelle quali cose
consiste la massima utilità di questa gloria che nasce dagli
scritti, parrebbe che più facilmente ti dovessero intervenire
nelle città piccole, che nelle grandi; dove gli occhi e gli
animi sono distratti e rapiti parte dalla potenza, parte dalla
ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all'intrattenimento e
alla giocondità della vita inutile. Ma come le città
piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri
venga all'eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e come tutto il
raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città grandi;
perciò le piccole, di rado abitate dai dotti, e prive
ordinariamente di buoni studi, sogliono tenere tanto basso conto, non
solo della dottrina e della sapienza, ma della stessa fama che alcuno
si ha procacciata con questi mezzi, che l'una e l'altre in quei
luoghi non sono pur materia d'invidia. E se per caso qualche persona
riguardevole o anche straordinaria d'ingegno e di studi, si trova
abitare in luogo piccolo; l'esservi al tutto unica, non tanto non le
accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando anche
famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo. Come là
dove l'oro e l'argento fossero ignoti e senza pregio, chiunque
essendo privo di ogni altro avere, abbondasse di questi metalli, non
sarebbe più ricco degli altri, anzi poverissimo, e per tale
avuto; così là dove l'ingegno e la dottrina non si
conoscono, e non conosciuti non si apprezzano, quivi se pur vi ha
qualcuno che ne abbondi, questi non ha facoltà di soprastare
agli altri, e quando non abbia altri beni, è tenuto a vile. E
tanto egli e lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che
bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in
fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che,
giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio;
conosciutosi per la terra ch'io soleva attendere agli studi, e mi
esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano
poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e
perito di tutte le lingue del mondo; e m'interrogavano, senza fare
una menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia
disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel ragionare.
E non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi
credevano minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi.
Ma se io li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure
un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora
moltissimo nel loro concetto, e all'ultimo si persuadevano che essa
mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.
Nelle città grandi, quanti ostacoli si frappongano, siccome all'acquisto della gloria, così a poter godere il frutto dell'acquistata, non ti sarà difficile a giudicare dalle cose dette alquanto innanzi. Ora aggiungo, che quantunque nessuna fama sia più difficile a meritare, che quella di egregio poeta o di scrittore ameno o di filosofo, alle quali tu miri principalmente, nessuna con tutto questo riesce meno fruttuosa a chi la possiede. Non ti sono ignote le querele perpetue, gli antichi e i moderni esempi, della povertà e delle sventure de' poeti sommi. In Omero, tutto (per cosi dire) è vago e leggiadramente indefinito, siccome nella poesia, così nella persona; di cui la patria, la vita, ogni cosa, è come un arcano impenetrabile agli uomini. Solo, in tanta incertezza e ignoranza, si ha da una costantissima tradizione, che Omero fu povero e infelice: quasi che la fama e la memoria dei secoli non abbia voluto lasciar luogo a dubitare che la fortuna degli altri poeti eccellenti non fosse comune al principe della poesia. Ma lasciando degli altri beni, e dicendo solo dell'onore, nessuna fama nell'uso della vita suol essere meno onorevole, e meno utile a esser tenuto da più degli altri, che sieno le specificate or ora. O che la moltitudine delle persone che le ottengono senza merito, e la stessa immensa difficoltà di meritarle, tolgano pregio e fede a tali riputazioni; o piuttosto perché quasi tutti gli uomini d'ingegno leggermente culto, si credono avere essi medesimi, o potere facilmente acquistare, tanta notizia e facoltà sì di lettere amene e sì di filosofia, che non riconoscono per molto superiori a sé quelli che veramente vagliono in queste cose; o parte per l'una, parte per l'altra cagione; certo si è che l'aver nome di mediocre matematico, fisico, filologo, antiquario; di mediocre pittore, scultore, musico; di essere mezzanamente versato anche in una sola lingua antica o pellegrina; è causa di ottenere appresso al comune degli uomini, eziandio nelle città migliori, molta più considerazione e stima, che non si ottiene coll'essere conosciuto e celebrato dai buoni giudici per filosofo o poeta insigne, o per uomo eccellente nell'arte del bello scrivere. Così le due parti più nobili, più faticose ad acquistare, più straordinarie, più stupende; le due sommità, per così dire, dell'arte e della scienza umana; dico la poesia e la filosofia; sono in chi le professa, specialmente oggi, le facoltà più neglette del mondo; posposte ancora alle arti che si esercitano principalmente colla mano, così per altri rispetti, come perché niuno presume né di possedere alcuna di queste non avendola procacciata, né di poterla procacciare senza studio e fatica. In fine, il poeta e il filosofo non hanno in vita altro frutto del loro ingegno, altro premio dei loro studi, se non forse una gloria nata e contenuta fra un piccolissimo numero di persone. Ed anche questa è una delle molte cose nelle quali si conviene colla poesia la filosofia, povera anch'essa e nuda, come canta il Petrarca , non solo di ogni altro bene ma di riverenza e di onore.
CAPITOLO DECIMO
Non
potendo nella conversazione degli uomini godere quasi alcun beneficio
della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai, sarà
di rivolgerla nell'animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio
della tua solitudine, con pigliarne stimolo e conforto a nuove
fatiche, e fartene fondamento a nuove speranze. Perocché la
gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli uomini,
riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai,
si può dire, presente a chi la possiede, e non si ritrova in
nessun luogo.
Dunque
per ultimo ricorrerai coll'immaginativa a quell'estremo rifugio e
conforto degli animi grandi, che è la posterità. Nel
modo che Cicerone, ricco non di una semplice gloria, né questa
volgare e tenue, ma di una moltiplice, e disusata, e quanta ad un
sommo antico e romano, tra uomini romani e antichi, era conveniente
che pervenisse; nondimeno si volge col desiderio alle generazioni
future, dicendo, benché sotto altra persona: pensi tu che io
mi fossi potuto indurre a prendere e a sostenere tante fatiche il dì
e la notte, in città e nel campo, se avessi creduto che la mia
gloria non fosse per passare i termini della mia vita? Non era molto
più da eleggere un vivere ozioso e tranquillo, senza alcuna
fatica o sollecitudine? Ma l'animo mio, non so come, quasi levato
alto il capo, mirava di continuo alla posterità in modo, come
se egli, passato che fosse di vita, allora finalmente fosse per
vivere. Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento
dell'immortalità degli animi propri, ingenerato da natura nei
petti umani. Ma la cagione vera si è, che tutti i beni del
mondo non prima sono acquistati, che si conoscono indegni delle cure
e delle fatiche avute in procacciarli; massimamente la gloria, che
fra tutti gli altri è di maggior prezzo a comperare, e di meno
uso a possedere. Ma come, secondo il detto di Simonide,
La
bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate;
Onde ciascuno
indarno si affatica;
Altri l'aurora amica, altri l'etate
O la
stagione aspetta:
E nullo in terra il mortal corso affretta,
Cui
nell'anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La
mente non prometta;
così, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della vanità della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in ultimo non avendo più dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non perciò vien meno, ma passata di là dalla stessa morte, si ferma nella posterità. Perocché l'uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro, così come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è così felice oggi, che disprezzando la vana felicità presente, non si conforti col pensiero di quella parimente vana, che egli si promette nell'avvenire.
CAPITOLO UNDECIMO
Ma
in fine, che è questo ricorrere che facciamo alla posterità?
Certo la natura dell'immaginazione umana porta che si faccia dei
posteri maggior concetto e migliore, che non si fa dei presenti, né
dei passati eziandio; solo perché degli uomini che ancora non
sono, non possiamo avere alcuna contezza, né per pratica né
per fama. Ma riguardando alla ragione, e non all'immaginazione,
crediamo noi che in effetto quelli che verranno, abbiano a essere
migliori dei presenti? Io credo piuttosto il contrario, ed ho per
veridico il proverbio, che il mondo invecchia peggiorando. Miglior
condizione mi parrebbe quella degli uomini egregi, se potessero
appellare ai passati; i quali, a dire di Cicerone , non furono
inferiori di numero a quello che saranno i posteri, e di virtù
furono superiori assai. Ma certo il più valoroso uomo di
questo secolo non riceverà dagli antichi alcuna lode.
Concedasi che i futuri, in quanto saranno liberi dall'emulazione,
dall'invidia, dall'amore e dall'odio, non già tra se stessi,
ma verso noi, sieno per essere più diritti estimatori delle
cose nostre, che non sono i contemporanei. Forse anco per gli altri
rispetti saranno migliori giudici? Pensiamo noi, per dir solamente di
quello che tocca agli studi, che i posteri sieno per avere un maggior
numero di poeti eccellenti, di scrittori ottimi, di filosofi veri e
profondi? poiché si è veduto che questi soli possono
fare degna stima dei loro simili. Ovvero, che il giudizio di questi
avrà maggior efficacia nella moltitudine di allora, che non ha
quello dei nostri nella presente? Crediamo che nel comune degli
uomini le facoltà del cuore, dell'immaginativa,
dell'intelletto, saranno maggiori che non sono oggi?
Nelle
lettere amene non veggiamo noi quanti secoli sono stati di sl
perverso giudizio, che disprezzata la vera eccellenza dello scrivere,
dimenticati o derisi gli ottimi scrittori antichi o nuovi, hanno
amato e pregiato costantemente questo o quel modo barbaro; tenendolo
eziandio per solo convenevole e naturale; perché qualsivoglia
consuetudine, quantunque corrotta e pessima, difficilmente si
discerne dalla natura? E ciò non si trova essere avvenuto in
secoli e nazioni per altro gentili e nobili? Che certezza abbiamo noi
che la posterità sia per lodar sempre quei modi dello scrivere
che noi lodiamo? se pure oggi si lodano quelli che sono lodevoli
veramente. Certo i giudizi e le inclinazioni degli uomini circa le
bellezze dello scrivere, sono mutabilissime, e varie secondo i tempi,
le nature dei luoghi e dei popoli, i costumi, gli usi, le persone.
Ora a questa varietà ed incostanza è forza che
soggiaccia medesimamente la gloria degli scrittori.
Anche
più varia e mutabile si è la condizione così
della filosofia come delle altre scienze: se bene al primo aspetto
pare il contrario: perché le lettere amene riguardano al
bello, che pende in gran parte dalle consuetudini e dalle opinioni;
le scienze al vero, ch'è immobile e non patisce cambiamento.
Ma come questo vero è celato ai mortali, se non quanto i
secoli ne discuoprono a poco a poco; però da una parte,
sforzandosi gli uomini di conoscerlo, congetturandolo, abbracciando
questa o quella apparenza in sua vece, si dividono in molte opinioni
e molte sette: onde si genera nelle scienze non piccola varietà.
Da altra parte, colle nuove notizie e coi nuovi quasi barlumi del
vero, che si vengono acquistando di mano in mano, crescono le scienze
di continuo: per la qual cosa, e perché vi prevagliono in
diversi tempi diverse opinioni, che tengono luogo di certezze,
avviene che esse, poco o nulla durando in un medesimo stato, cangiano
forma e qualità di tratto in tratto. Lascio il primo punto,
cioè la varietà; che forse non è di minore
nocumento alla gloria dei filosofi o degli scienziati appresso ai
loro posteri, che appresso ai contemporanei. Ma la mutabilità
delle scienze e della filosofia, quanto pensi tu che debba nuocere a
questa gloria nella posterità? Quando per nuove scoperte
fatte, o per nuove supposizioni e congetture, lo stato di una o di
altra scienza sarà notabilmente mutato da quello che egli è
nel nostro secolo; in che stima saranno tenuti gli scritti e i
pensieri di quegli uomini che oggi in essa scienza hanno maggior
lode? Chi legge ora più le opere di Galileo? Ma certo elle
furono al suo tempo mirabilissime; né forse migliori, né
più degne di un intelletto sommo, né piene di maggiori
trovati e di concetti più nobili, si potevano allora scrivere
in quelle materie. Nondimeno ogni mediocre fisico o matematico
dell'età presente, si trova essere, nell'una o nell'altra
scienza, molto superiore a Galileo. Quanti leggono oggidì gli
scritti del cancellier Bacone? chi si cura di quello del
Mallebranche? e la stessa opera del Locke, se i progressi della
scienza quasi fondata da lui, saranno in futuro così rapidi,
come mostrano dover essere, quanto tempo andrà per le mani
degli uomini?
Veramente la stessa forza d'ingegno, la stessa industria e fatica, che i filosofi e gli scienziati usano a procurare la propria gloria, coll'andar del tempo sono causa o di spegnerla o di oscurarla. Perocché dall'aumento che essi recano ciascuno alla loro scienza, e per cui vengono in grido, nascono altri aumenti, per li quali il nome e gli scritti loro vanno a poco a poco in disuso. E certo è difficile ai più degli uomini l'ammirare e venerare in altri una scienza molto inferiore alla propria. Ora chi può dubitare che l'età prossima non abbia a conoscere la falsità di moltissime cose affermate oggi o credute da quelli che nel sapere sono primi, e a superare di non piccolo tratto nella notizia del vero l'età presente?
CAPITOLO DUODECIMO
Forse in ultimo luogo ricercherai d'intendere il mio parere e consiglio espresso, se a te, per tuo meglio, si convenga più di proseguire o di omettere il cammino di questa gloria, sì povera di utilità, sì difficile e incerta non meno a ritenere che a conseguire, simile all'ombra, che quando tu l'abbi tra le mani, non puoi né sentirla, né fermarla che non si fugga. Dirò brevemente, senz'alcuna dissimulazione, il mio parere. Io stimo che cotesta tua maravigliosa acutezza e forza d'intendimento, cotesta nobiltà, caldezza e fecondità di cuore e d'immaginativa, sieno di tutte le qualità che la sorte dispensa agli animi umani, le più dannose e lacrimevoli a chi le riceve. Ma ricevute che sono, con difficoltà si fugge il loro danno: e da altra parte, a questi tempi, quasi l'unica utilità che elle possono dare, si è questa gloria che talvolta se ne ritrae con applicarle alle lettere e alle dottrine. Dunque, come fanno quei poveri, che essendo per alcun accidente manchevoli o mal disposti di qualche loro membro, s'ingegnano di volgere questo loro infortunio al maggior profitto che possono, giovandosi di quello a muovere per mezzo della misericordia la liberalità degli uomini; così la mia sentenza è, che tu debba industriarti di ricavare a ogni modo da coteste tue qualità quel solo bene, quantunque piccolo e incerto, che sono atte a produrre. Comunemente elle sono avute per benefizi e doni della natura, e invidiate spesso da chi ne è privo, ai passati o ai presenti che le sortirono. Cosa non meno contraria al retto senso, che se qualche uomo sano invidiasse a quei miseri che io diceva, le calamità del loro corpo; quasi che il danno di quelle fosse da eleggere volentieri, per conto dell'infelice guadagno che partoriscono. Gli altri attendono a operare, per quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale. Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani; privi di altri molti per volontà; non di rado negletti nel consorzio degli uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi; hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l'ottengono, dopo sepolti. Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano.
DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE
Coro
di morti
nello studio di Federico Ruysch
Sola
nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te,
morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma
sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il
pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena
mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è
sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio
consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A
lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal
memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il
rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe
nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier
nostro, e tale
Qual de' vivi al pensiero
L'ignota morte appar.
Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla
fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però
ch'esser beato
Nega ai mortali e nega a' morti il fato.
Ruysch
fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell'uscio. Diamine.!
Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte
come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono
più morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho
preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant'è:
con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo
che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi
fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l'uscio, o non
escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto?
Chiamare aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via, facciamoci
coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro.
Entrando.
Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti?
che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la
visita dello Czar , e vi pensate di non essere più soggetti
alle leggi di prima? Io m'immagino che abbiate avuto intenzione di
far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con
voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai
morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che
si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da
bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi
sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene . In
somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete
stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi
mancherà niente; se no, avvertite ch'io piglio la stanga
dell'uscio, e vi ammazzo tutti.
Morto: Non andare in
collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo,
senza che tu ci ammazzi.
Ruysch: Dunque che è
cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto:
Poco fa sulla mezza notte appunto, si e compiuto per la prima volta
quell'anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante
cose; e questa similmente è la prima volta che i morti
parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù
nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in
qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno
cantato come noi quella canzoncina che hai sentita.
Ruysch:
E quanto dureranno a cantare o a parlare?
Morto: Di
cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per
un quarto d'ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto che si
compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch: Se cotesto è
vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un'altra volta.
Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da
parte, e vi ascolterò volentieri, per curiosità, senza
disturbarvi.
Morto: Non possiamo parlare altrimenti, che
rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi,
finita che ha la canzone, si accheta.
Ruysch: Mi dispiace
veramente: perché m'immagino che sarebbe un gran sollazzo a
sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare
insieme.
Morto: Quando anche potessimo, non sentiresti
nulla; perché non avremmo che ci dire.
Ruysch:
Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo
è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere
in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d'animo nel punto
della morte.
Morto: Del punto proprio della morte, io non
me ne accorsi. Gli altri morti. Né anche noi.
Ruysch:
Come non ve n'accorgeste?
Morto: Verbigrazia, come tu non
ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta
attenzione ci vogli porre.
Ruysch: Ma l'addormentarsi è
cosa naturale.
Morto: E il morire non ti pare naturale?
mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.
Ruysch:
Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non
vi accorgeste di morire.
Cosi
colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice
un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della
morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi.
Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto di
morte?
Morto: Che dolore ha da essere quello del quale chi
lo prova, non se n'accorge?
Ruysch: A ogni modo, tutti si
persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.
Morto:
Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il
contrario.
Ruysch: E tanto quelli che intorno alla natura
dell'anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che
tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono
in quello ch'io dico; cioè nel credere che la morte sia per
natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.
Morto: Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e
agli altri: se l'uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in
cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non
più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o
per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le
medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di
tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere
che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa
morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la
facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma
ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi
che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo
medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che
debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli
che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull'appressarsi della
morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si
riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita,
ridotta a piccola quantità, non e più sufficiente al
dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da
parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto
di morte.
Ruysch: Agli Epicurei forse potranno bastare
coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della
sostanza dell'anima; come ho fatto io per lo passato, e farò
da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i
morti. Perché stimando che il morire consista in una
separazione dell'anima dal corpo, non comprenderanno come queste due
cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che
constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano separare
senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
Morto:
Dimmi: lo spirito e forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con
qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a
rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del
corpo, in modo che n'abbia a essere schiantato o reciso
violentemente? Non vedi che l'anima in tanto esce di esso corpo, in
quanto solo è impedita di rimanervi, e non v'ha più
luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi?
Dimmi ancora: forse nell'entrarvi, ella vi si sente conficcare o
allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché
dunque sentirà spiccarsi all'uscirne, o vogliamo dire proverà
una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e
l'uscita dell'anima sono parimente quiete, facili e molli.
Ruysch:
Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
Morto:
Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come
l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è
che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo
la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell'ultimo
di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere
alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può
generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi
dell'uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la
morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente
attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché
il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte
dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo
che i sensi dell'uomo sono capaci di piacere anche presso
all'estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza e
piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai
che la cessazione di qualunque dolore o disagio, e piacere per se
medesima. Sicché il languore della morte debbe esser più
grato secondo che libera l'uomo da maggior patimento. Per me, se bene
nell'ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva,
perché mi era proibito dai medici di affaticare il cervello;
mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto
dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore
del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.
Gli altri
morti: Anche a noi pare di ricordarci altrettanto.
Ruysch:
Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta
occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto
diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro
esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre
sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto
fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra
cosa?
Morto: Finché non fui morto, non mi persuasi
mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino
all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi
avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti,
quando muoiono.
Gli altri morti: A noi successe il
medesimo.
Ruysch: Così Cicerone dice che nessuno è
talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma
come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo?
Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non
m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un
poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da
far paura un'altra volta: torniamocene a letto.
DETTI MEMORABILI DI FILIPPO OTTONIERI
CAPITOLO PRIMO
Filippo Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti notabili, che parte ho uditi dalla sua propria bocca, parte narrati da altri; nacque, e visse il più del tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdivento; dove anche morì poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che fosse ingiuriato da lui, né con fatti né con parole. Fu odiato comunemente da' suoi cittadini; perché parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini; benché non facesse alcun segno di avere in poca stima o di riprovare quelli che più di lui se ne dilettavano e le seguivano. Si crede che egli fosse in effetto, e non solo nei pensieri, ma nella pratica, quel che gli altri uomini del suo tempo facevano professione di essere; cioè a dire filosofo. Perciò parve singolare dall'altra gente; benché non procurasse e non affettasse di apparire diverso dalla moltitudine in cosa alcuna. Nel quale proposito diceva, che la massima singolarità che oggi si possa trovare o nei costumi, o negl'instituti, o nei fatti di qualunque persona civile; paragonata a quella degli uomini che appresso agli antichi furono stimati singolari, non solo e di altro genere, ma tanto meno diversa che non fu quella, dall'uso ordinario de' contemporanei, che quantunque paia grandissima ai presenti, sarebbe riuscita agli antichi o menoma o nulla, eziandio ne' tempi e nei popoli che furono anticamente più inciviliti o più corrotti. E misurando la singolarità di Gian Giacomo Rousseau, che parve singolarissimo ai nostri avi, con quella di Democrito e dei primi filosofi cinici, soggiungeva, che oggi chiunque vivesse tanto diversamente da noi quanto vissero quei filosofi dai Greci del loro tempo, non sarebbe avuto per uomo singolare, ma nella opinione pubblica, sarebbe escluso, per dir così, dalla specie umana. E giudicava che dalla misura assoluta della singolarità possibile a trovarsi nelle persone di un luogo o di un tempo qualsivoglia, si possa conoscere la misura della civiltà degli uomini del medesimo luogo o tempo.
Nella
vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per
ischerzo più che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che
ai tempi e nella nazione di colui, molto maggior diletto si poteva
trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall'ozio,
dalla negligenza, e dall'uso delle voluttà del corpo; nelle
quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava
che la dottrina epicurea, proporzionatissima all'età moderna,
fu del tutto aliena dall'antica.
Nella
filosofia, godeva di chiamarsi socratico; e spesso, come Socrate,
s'intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente
ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra
qualunque materia gli era somministrata dall'occasione. Ma non
frequentava, come Socrate, le botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli,
de' fabbri e degli altri simili; perché stimava che se i
fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere in
filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto altrettanto,
sarebbero morti di fame. Né anche ragionava, al modo di
Socrate, interrogando e argomentando di continuo; perché
diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti degli
antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere a un
migliaio di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di
conclusioni. E per verità non avea di Socrate altro che il
parlare talvolta ironico e dissimulato. E cercando l'origine della
famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo assai
gentile, e però con disposizione grandissima ad amare; ma
sciagurato oltre modo nella forma del corpo; verisimilmente fino
nella giovanezza disperò di potere essere amato con altro
amore che quello dell'amicizia, poco atto a soddisfare un cuore
delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto molto
più dolce. Da altra parte, con tutto che egli abbondasse di
quel coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse fornito
bastantemente di quello che viene dalla natura, né delle altre
qualità che in quei tempi di guerre e di sedizioni, e in
quella tanta licenza degli Ateniesi, erano necessarie a trattare
nella sua patria i negozi pubblici. Al che la sua forma ingrata e
ridicola gli sarebbe anche stata di non piccolo pregiudizio appresso
a un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza
dal buono al bello, e oltre di ciò deditissimo a motteggiare.
Dunque in una città libera, e piena di strepito, di passioni,
di negozi, di passatempi, di ricchezze e di altre fortune; Socrate
povero, rifiutato dall'amore, poco atto ai maneggi pubblici; e
nondimeno dotato di un ingegno grandissimo, che aggiunto a condizioni
tali, doveva accrescere fuor di modo ogni loro molestia; si pose per
ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei costumi e delle
qualità de' suoi cittadini: nel che gli venne usata una certa
ironia; come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito
di aver parte, per dir così, nella vita. Ma la mansuetudine e
la magnanimità della sua natura, ed anche la celebrità
che egli si venne guadagnando con questi medesimi ragionamenti, e
dalla quale dovette essergli consolato in qualche parte l'amor
proprio; fecero che questa ironia non fu sdegnosa ed acerba, ma
riposata e dolce.
Così
la filosofia per la prima volta, secondo il famoso detto di Cicerone,
fatta scendere dal cielo, fu introdotta da Socrate nelle città
e nelle case; e rimossa dalla speculazione delle cose occulte, nella
quale era stata occupata insino a quel tempo, fu rivolta a
considerare i costumi e la vita degli uomini, e a disputare delle
virtù e dei vizi, delle cose buone ed utili, e delle
contrarie. Ma Socrate da principio non ebbe in animo di fare
quest'innovazione, né d'insegnar che che sia, né di
conseguire il nome di filosofo; che a quei tempi era proprio dei soli
fisici o metafisici; onde egli per quelle sue tali discussioni e quei
tali colloqui non lo poteva sperare: anzi professò apertamente
di non saper cosa alcuna; e non si propose altro che d'intrattenersi
favellando dei casi altrui; preferito questo passatempo alla
filosofia stessa, niente meno che a qualunque altra scienza ed a
qualunque arte, perché inclinando naturalmente alle azioni
molto più che alle speculazioni, non si volgeva al discorrere,
se non per le difficoltà che gl'impedivano l'operare. E nei
discorsi, sempre si esercitò colle persone giovani e belle più
volentieri che cogli altri; quasi ingannando il desiderio, e
compiacendosi d'essere stimato da coloro da cui molto maggiormente
avrebbe voluto essere amato. E perciocché tutte le scuole dei
filosofi greci nate da indi in poi, derivarono in qualche modo dalla
socratica, concludeva l'Ottonieri, che l'origine di quasi tutta la
filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso
rincagnato, e il viso da satiro, di un uomo eccellente d'ingegno e
ardentissimo di cuore. Anche diceva, che nei libri dei Socratici, la
persona di Socrate è simile a quelle maschere, ciascuna delle
quali nelle nostre commedie antiche, ha da per tutto un nome, un
abito, un'indole; ma nel rimanente varia in ciascuna commedia.
Non lasciò scritta cosa alcuna di filosofia, né d'altro che non appartenesse a uso privato. E dimandandolo alcuni perché non prendesse a filosofare anche in iscritto, come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle carte, rispose: il leggere è un conversare, che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che non sono o non credono di esser parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.
CAPITOLO SECONDO
Non
ammetteva distinzione dai negozi ai trastulli; e sempre che era stato
occupato in qualunque cosa, per grave che ella fosse, diceva
d'essersi trastullato. Solo se talvolta era stato qualche poco d'ora
senza occupazione, confessava non avere avuto in quell'intervallo
alcun passatempo.
Diceva
che i diletti più veri che abbia la nostra vita, sono quelli
che nascono dalle immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il
tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto.
Assomigliava
ciascuno de' piaceri chiamati comunemente reali, a un carciofo di
cui, volendo arrivare alla castagna, bisognasse prima rodere e
trangugiare tutte le foglie. E soggiungeva che questi tali carciofi
sono anche rarissimi; che altri in gran numero se ne trovano, simili
a questi nel di fuori, ma dentro senza castagna; e che esso,
potendosi difficilmente adattare a ingoiarsi le foglie, era contento
per lo più di astenersi dagli uni e dagli altri.
Rispondendo
a uno che l'interrogò, qual fosse il peggior momento della
vita umana, disse: eccetto il tempo del dolore, come eziandio del
timore, io per me crederei che i peggiori momenti fossero quelli del
piacere: perché la speranza e la rimembranza di questi
momenti, le quali occupano il resto della vita, sono cose migliori e
più dolci assai degli stessi diletti. E paragonava
universalmente i piaceri umani agli odori: perché giudicava
che questi sogliano lasciare maggior desiderio di sé, che
qualunque altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto; e
di tutti i sensi dell'uomo, il più lontano da potere esser
fatto pago dai propri piaceri, stimava che fosse l'odorato. Anche
paragonava gli odori all'aspettativa de' beni; dicendo che quelle
cose odorifere che sono buone a mangiare, o a gustare in qualunque
modo, ordinariamente vincono coll'odore il sapore; perché
gustati piacciono meno ch'a odorarli, o meno di quel che dall'odore
si stimerebbe. E narrava che talvolta gli era avvenuto di sopportare
impazientemente l'indugio di qualche bene, che egli era già
certo di conseguire; e ciò non per grande avidità che
sentisse di detto bene, ma per timore di scemarsene il godimento con
fare intorno a questo troppe immaginazioni, che glielo
rappresentassero molto maggiore di quello che egli sarebbe riuscito.
E che intanto aveva fatta ogni diligenza, per divertire la mente dal
pensiero di quel bene, come si fa dai pensieri de' mali.
Diceva
altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è
come uno che si corica in un letto duro e disagiato: dove subito
posto, sentendosi stare incomodamente, comincia a rivolgersi sull'uno
e sull'altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco; e dura
così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla
fine un poco di sonno, e alcune volte credendo essere in punto di
addormentarsi; finché venuta l'ora, senza essersi mai
riposato, si leva.
Osservando
insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende,
disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità.
Non
credeva che si potesse né contare tutte le miserie degli
uomini, né deplorarne una sola bastantemente.
A
quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è
contento del proprio stato, rispondeva: la cagione è, che
nessuno stato è felice. Non meno i sudditi che i principi, non
meno i poveri che i ricchi, non meno i deboli che i potenti, se
fossero felici, sarebbero contentissimi della loro sorte, e non
avrebbero invidia all'altrui: perocché gli uomini non sono più
incontentabili, che sia qualunque altro genere: ma non si possono
appagare se non della felicità. Ora, essendo sempre infelici,
che maraviglia è che non sieno mai contenti?
Notava
che posto caso che uno si trovasse nel più felice stato di
questa terra, senza che egli si potesse promettere di avanzarlo in
nessuna parte e in nessuna guisa; si può quasi dire che questi
sarebbe il più misero di tutti gli uomini. Anche i più
vecchi hanno disegni e speranze di migliorar condizione in qualche
maniera. E ricordava un luogo di Senofonte , dove consiglia che
avendosi a comperare un terreno, si compri di quelli che sono male
coltivati; perché, dice, un terreno che non è per darti
più frutto di quello che dà, non ti rallegra tanto,
quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in meglio; e tutti
quegli averi che noi veggiamo che vengono vantaggiando, ci danno
molto più contento che gli altri.
All'incontro
notava che niuno stato è così misero, il quale non
possa peggiorare; e che nessun mortale, per infelicissimo che sia,
può consolarsi né vantarsi, dicendo essere in tanta
infelicità, che ella non comporti accrescimento. Ancorché
la speranza non abbia termine, i beni degli uomini sono terminati;
anzi a un di presso il ricco e il povero, il signore e il servo, se
noi compensiamo le qualità del loro stato colle assuefazioni e
coi desiderii loro, si trovano avere generalmente una stessa quantità
di bene. Ma la natura non ha posto alcun termine ai nostri mali; e
quasi la stessa immaginativa non può fingere alcuna tanta
calamità, che non si verifichi di presente, o già non
sia stata verificata, o per ultimo non si possa verificare, in
qualcuno della nostra specie. Per tanto, laddove la maggior parte
degli uomini non hanno in verità che sperare alcuno aumento
della quantità di bene che posseggono; a niuno mai nello
spazio di questa vita, può mancar materia non vana di timore:
e se la fortuna presto si riduce in grado, che ella veramente non ha
virtù di beneficarci da vantaggio, non perde però in
alcun tempo la facoltà di offenderci con danni nuovi e tali da
vincere e rompere la stessa fermezza della disperazione.
Ridevasi
spesse volte di quei filosofi che stimarono che l'uomo si possa
sottrarre dalla potestà della fortuna, disprezzando e
riputando come altrui tutti i beni e i mali che non è in sua
propria mano il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e
non riponendo la beatitudine e l'infelicità propria in altro,
che in quel che dipende totalmente da esso lui. Sopra la quale
opinione, tra le altre cose, diceva: lasciamo stare che se anche fu
mai persona che cogli altri vivesse da vero e perfetto filosofo,
nessuno visse né vive in tal modo seco medesimo; e che tanto è
possibile non curarsi delle cose proprie più che delle altrui,
quanto curarsi delle altrui come fossero proprie. Ma dato che quella
disposizione d'animo che dicono questi filosofi, non solo fosse
possibile, che non è, ma si trovasse qui vera ed attuale in
uno di noi; vi fosse anche più perfetta che essi non dicono,
confermata e connaturata da uso lunghissimo, sperimentata in mille
casi; forse perciò la beatitudine e l'infelicità di
questo tale, non sarebbero in potere della fortuna? Non soggiacerebbe
alla fortuna quella stessa disposizione d'animo, che questi presumono
che ce ne debba sottrarre? La ragione dell'uomo non e sottoposta
tutto giorno a infiniti accidenti? innumerabili morbi che recano
stupidità, delirio, frenesia, furore, scempiaggine, cento
altri generi di pazzia breve o durevole, temporale o perpetua; non la
possono turbare, debilitare, stravolgere, estinguere? La memoria,
conservatrice della sapienza, non si va sempre logorando e scemando
dalla giovanezza in giù? quanti nella vecchiaia tornano
fanciulli di mente! e quasi tutti perdono il vigore dello spirito in
quella età. Come eziandio per qualunque mala disposizione del
corpo, anco salva ed intera ogni facoltà dell'intelletto e
della memoria, il coraggio e la costanza sogliono, quando più,
quando meno, languire; e non di rado si spengono. In fine, è
grande stoltezza confessare che il nostro corpo è soggetto
alle cose che non sono in facoltà nostra, e contuttociò
negare che l'animo, il quale dipende dal corpo quasi in tutto,
soggiaccia necessariamente a cosa alcuna fuori che a noi medesimi. E
conchiudeva, che l'uomo tutto intero, e sempre, e irrepugnabilmente,
è in potestà della fortuna.
Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato.
CAPITOLO TERZO
In
proposito di certa disavventura occorsagli, disse: il perdere una
persona amata, per via di qualche accidente repentino, o per malattia
breve e rapida, non è tanto acerbo, quanto è vedersela
distruggere a poco a poco (e questo era accaduto a lui) da una
infermità lunga, dalla quale ella non sia prima estinta, che
mutata di corpo e d'animo, e ridotta già quasi un'altra da
quella di prima. Cosa pienissima di miseria: perocché in tal
caso la persona amata non ti si dilegua dinanzi lasciandoti, in
cambio di sé, la immagine che tu ne serbi nell'animo, non meno
amabile che fosse per lo passato; ma ti resta in sugli occhi tutta
diversa da quella che tu per l'addietro amavi: in modo che tutti
gl'inganni dell'amore ti sono strappati violentemente dall'animo; e
quando ella poi ti si parte per sempre dalla presenza, quell'immagine
prima, che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere scancellata
dalla nuova. Così vieni a perdere la persona amata
interamente; come quella che non ti può sopravvivere né
anche nella immaginativa: la quale, in luogo di alcuna consolazione,
non ti porge altro che materia di tristezza. E in fine, queste simili
disavventure non lasciano luogo alcuno di riposarsi in sul dolore che
recano.
Dolendosi
uno di non so qual travaglio, e dicendo: se potessi liberarmi da
questo, tutti gli altri che ho, mi sarebbero leggerissimi a
sopportare; rispose: anzi allora ti sarebbero gravi, ora ti sono
leggeri.
Dicendo
un altro: se questo dolore fosse durato più, non sarebbe stato
sopportabile; rispose: anzi, per l'assuefazione, l'avresti sopportato
meglio.
E
in molte cose attenenti alla natura degli uomini, si discostava dai
giudizi comuni della moltitudine, e da quelli anco dei savi talvolta.
Come, per modo di esempio, negava che al dimandare e al pregare,
sieno opportuni i tempi di qualche insolita allegrezza di quelli a
cui le dimande o le preghiere sono da porgere. Massimamente, diceva,
quando la instanza non sia tale, che ella, per la parte di chi è
pregato o richiesto, si possa soddisfare presentemente, con solo o
poco più che un semplice acconsentirla; io reputo che nelle
persone il giubilo, sia cosa, a impetrar che che sia da esse, non
manco inopportuna e contraria, che il dolore. Perciocché l'una
e l'altra passione riempiono parimente l'uomo del pensiero di se
medesimo in guisa, che non lasciano luogo a quelli delle cose altrui.
Come nel dolore il nostro male, così nella grande allegrezza
il bene, tengono intenti e occupati gli animi, e inetti alla cura dei
bisogni e desiderii d'altri. Dalla compassione specialmente, sono
alienissimi l'uno e l'altro tempo; quello del dolore, perché
l'uomo è tutto volto alla pietà di se stesso; quello
della gioia, perché allora tutte le cose umane, e tutta la
vita, ci si rappresentano lietissime e piacevolissime; tanto che le
sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni vane, o certo se ne
rifiuta il pensiero, per essere troppo discorde dalla presente
disposizione del nostro animo. I migliori tempi da tentar di ridurre
alcuno a operar di presente, o a risolversi di operare, in altrui
beneficio, sono quelli di qualche allegrezza placida e moderata, non
istraordinaria, non viva; o pure, ed anco maggiormente, quelli di una
cotal gioia, che, quantunque viva, non ha soggetto alcuno
determinato, ma nasce da pensieri vaghi, e consiste in una tranquilla
agitazione dello spirito. Nel quale stato, gli uomini sono più
disposti alla compassione che mai, più facili a chi li prega,
e talvolta abbracciano volentieri l'occasione di gratificare gli
altri, e di volgere quel movimento confuso e quel piacevole impeto
de' loro pensieri, in qualche azione lodevole.
Negava
similmente che l'infelice, narrando o come che sia dimostrando i suoi
mali, riporti per l'ordinario maggior compassione e maggior cura da
quelli che hanno con lui maggiore conformità di travagli. Anzi
questi in udire le tue querele, o intendere la tua condizione in
qualunque modo, non attendono ad altro, che ad anteporre seco stessi,
come più gravi, i loro a' tuoi mali: e spesso accade che,
quando più ti pensi che sieno commossi sopra il tuo stato,
quelli t'interrompono narrandoti la sorte loro, e sforzandosi di
persuaderti che ella sia meno tollerabile della tua. E diceva che in
tali casi avviene ordinariamente quello che nella Iliade si legge di
Achille, quando Priamo supplichevole e piangente gli e prostrato ai
piedi: il quale finito che ha quel suo lamento miserabile, Achille si
pone a piangere seco, non già dei mali di quello, ma delle
sventure proprie, e per la ricordanza del padre, e dell'amico ucciso.
Soggiungeva, che ben suole alquanto conferire alla compassione
l'avere sperimentato altre volte in sé quegli stessi mali che
si odono o veggono essere in altri, ma non il sostenerli al presente.
Diceva
che la negligenza e l'inconsideratezza sono causa di commettere
infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di
malvagità o crudeltà: come, a cagione di esempio, in
uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia
i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo
duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente il
loro disagio. E stimava che negli uomini l'inconsideratezza sia molto
più comune della malvagità, della inumanità e
simili; e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive
opere: e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti
degli uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità
morale, non sieno veramente altro che inconsiderati.
Disse
in certa occasione, essere manco grave al benefattore la piena ed
espressa ingratitudine, che il vedersi rimunerare di un beneficio
grande con uno piccolo, col quale il beneficato, o per grossezza di
giudizio o per malvagità, si creda o si pretenda sciolto
dall'obbligo verso lui; ed esso apparisca ricompensato, o per civiltà
gli convenga far dimostrazione di tenersi tale: in modo che dall'una
parte, venga ad essere defraudato anche della nuda e infruttuosa
gratitudine dell'animo, la quale verisimilmente egli si aveva
promessa in qualunque caso; dall'altra parte, gli sia tolta la
facoltà di liberamente querelarsi dell'ingratitudine, o di
apparire, siccome egli è nell'effetto, male e ingiustamente
corrisposto.
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a presupporre in quelli coi quali ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c'immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra virtù d'ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
CAPITOLO QUARTO
Notava
che talora gli uomini irresoluti sono perseverantissimi nei loro
propositi, non ostante qualunque difficoltà; e questo per la
stessa loro irresolutezza; atteso che a lasciare la deliberazione
fatta, converrebbe si risolvessero un'altra volta. Talora sono
prontissimi ed efficacissimi nel mettere in opera quello che hanno
risoluto: perché temendo essi medesimi d'indursi di momento in
momento ad abbandonare il partito preso, e di ritornare in quella
travagliosissima perplessità e sospensione d'animo, nella
quale furono prima di determinarsi; affrettano la esecuzione, e vi
adoprano ogni loro forza; stimolati più dall'ansietà e
dall'incertezza di vincere se medesimi, che dal proprio oggetto
dell'impresa, e dagli altri ostacoli che essi abbiano a superare per
conseguirlo.
Diceva
alle volte ridendo, che le persone assuefatte a comunicare di
continuo cogli altri i propri pensieri e sentimenti, esclamano, anco
essendo sole, se una mosca le morde, o che si versi loro un vaso, o
fugga loro di mano; e che per lo contrario quelle che sono usate di
vivere seco stesse e di contenersi nel proprio interno, se anco si
sentono cogliere da un'apoplessia, trovandosi pure in presenza
d'altri, non aprono bocca.
Stimava
che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono
riputati grandi o straordinari, conseguissero questa riputazione in
virtù principalmente dell'eccesso di qualche loro qualità
sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito
sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o
straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà far
cose degne dell'uno o dell'altro titolo, ed apparire ai presenti o ai
futuri né grande né straordinario.
Distingueva
nelle moderne nazioni civili tre generi di persone. Il primo, di
quelle in cui la natura propria, ed anco in gran parte la natura
comune degli uomini, si trova mutata e trasformata dall'arte, e dagli
abiti della vita cittadinesca. Di questo genere di persone diceva
essere tutte quelle che sono atte ai negozi privati o pubblici; a
partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e
riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si abbattono a
convivere, o a praticare personalmente in uno o altro modo; in fine,
all'uso della presente vita civile. E a questo solo genere, parlando
universalmente, diceva toccare ed appartenere nelle dette nazioni la
stima degli uomini. Il secondo, essere di quelli in cui la natura non
si trova mutata bastantemente dalla sua prima condizione; o per non
essere stata, come si dice, coltivata; o perciocché, per sua
strettezza e insufficienza, fu poco atta a ricevere e a conservare le
impressioni e gli effetti dell'arte, della pratica e dell'esempio.
Questo essere il più numeroso dei tre; ma disprezzato non
manco da se medesimo che dagli altri, degno di piccola
considerazione; e in somma consistere in quella gente che ha o merita
nome di volgo, in qualunque ordine e stato sia posta dalla fortuna.
Il terzo, incomparabilmente inferiore di numero agli altri due, quasi
così disprezzato come il secondo, e spesso anco maggiormente,
essere di quelle persone in cui la natura per soprabbondanza di
forza, ha resistito all'arte del nostro presente vivere, ed esclusala
e ributtata da sé; non ricevutone se non così piccola
parte, che questa alle dette persone non è bastante per l'uso
dei negozi e per governarsi cogli uomini, né per sapere anco
riuscire conversando, né dilettevoli né pregiate. E
suddivideva questo genere in due specie: l'una al tutto forte e
gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è portato
universalmente, e spesso più lieta di questo, che se ella
fosse onorata; diversa dagli altri non per sola necessità di
natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota dalle
speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria nel
mezzo delle città, non meno perché fugge essa
dall'altra gente, che per essere fuggita. Di questa specie
soggiungeva non si trovare se non rarissimi. Nella natura dell'altra,
diceva essere congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e
di timidità; in modo che essa natura combatte seco medesima.
Perocché gli uomini di questa seconda specie, non essendo di
volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando
in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del
primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si
veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente
inferiori a sé d'ingegno e d'animo; non vengono a capo, non
ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all'uso
pratico della vita, né di rendersi nella conversazione
tollerabili a sé, non che altrui. Tali essere stati negli
ultimi tempi, ed essere all'età nostra, se bene l'uno più,
l'altro meno, non pochi degl'ingegni maggiori e più delicati.
E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau; aggiungendo a
questo un altro esempio, ricavato dagli antichi, cioè
Virgilio: del quale nella Vita latina che porta il nome di Donato
grammatico , è riferito coll'autorità di Melisso pure
grammatico, liberto di Mecenate, che egli fu nel favellare
tardissimo, e poco diverso dagl'indotti. E che ciò sia vero, e
che Virgilio, per la stessa maravigliosa finezza dell'ingegno, fosse
poco atto a praticare cogli uomini, gli pareva si potesse raccorre
molto probabilmente, sì dall'artificio sottilissimo e
faticosissimo del suo stile, e sì dalla propria indole di
quella poesia; come anche da ciò che si legge in sulla fine
del secondo delle Georgiche. Dove il poeta, contro l'uso dei Romani
antichi, e massimamente di quelli d'ingegno grande, si professa
desideroso della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal
guisa, che si può comprendere che egli vi e sforzato dalla sua
natura, anzi che inclinato; e che l'ama più come rimedio o
rifugio, che come bene. E perciocché, generalmente parlando,
gli uomini di questa e dell'altra specie, non sono avuti in pregio,
se non se alcuni dopo morte, e quelli del secondo genere vivi, non
che morti, sono in poco o niun conto; giudicava potersi affermare in
universale, che ai nostri tempi, la stima comune degli uomini non si
ottenga in vita con altro modo, che con discostarsi e tramutarsi di
gran lunga dall'essere naturale. Oltre di questo, perciocché
nei tempi presenti tutta, per dir così, la vita civile
consiste nelle persone del primo genere, la natura del quale tiene
come il mezzo tra quelle de' due rimanenti; conchiudeva che anche per
questa via, come per altre mille, si può conoscere che oggidì
l'uso, il maneggio, e la potestà delle cose, stanno quasi
totalmente nelle mani della mediocrità.
Distingueva ancora tre stati della vecchiezza considerata in rispetto alle altre età dell'uomo. Nei principii delle nazioni, quando di costumi e d'abito, tutte le età furono giuste e virtuose; e mentre la esperienza e la cognizione degli uomini e della vita, non ebbero per proprietà di alienare gli animi dall'onesto e dal retto; la vecchiezza fu venerabile sopra le altre età: perché colla giustizia e con simili pregi, allora comuni a tutte, concorreva in essa, come e natura che vi si trovi, maggior senno e prudenza che nelle altre. In successo di tempo, per lo contrario, corrotti e pervertiti i costumi, niuna età fu più vile ed abbominabile della vecchiezza; inclinata coll'affetto al male più delle altre, per la più lunga consuetudine, per la maggior conoscenza e pratica delle cose umane, per gli effetti dell'altrui malvagità, più lungamente e in maggior numero sopportati, e per quella freddezza che ella ha da natura; e nel tempo stesso impotente a operarlo, salvo colle calunnie, le frodi, le perfidie, le astuzie, le simulazioni, e in breve con quelle arti che tra le scellerate sono abbiettissime. Ma poiché la corruttela delle nazioni ebbe trapassato ogni termine, e che il disprezzo della rettitudine e della virtù precorse negli uomini l'esperienza e la cognizione del mondo e del tristo vero; anzi, per dir così, l'esperienza e la cognizione precorsero l'età, e l'uomo già nella puerizia fu esperto, addottrinato e guasto; la vecchiezza divenne, non dico già venerabile, che da indi innanzi molto poche cose furono capaci di questo titolo, ma più tollerabile delle altre età. Perocché il fervore dell'animo e la gagliardia del corpo, che per l'addietro, giovando all'immaginativa, ed alla nobiltà dei pensieri, non di rado erano state in qualche parte cagione di costumi, di sensi e di opere virtuose; furono solamente stimoli e ministri del mal volere o del male operare, e diedero spirito e vivezza alla malvagità: la quale nel declinare degli anni, fu mitigata e sedata dalla freddezza del cuore, e dall'imbecillità delle membra; cose per altro più conducenti al vizio che alla virtù. Oltre che la stessa molta esperienza e notizia delle cose umane, divenute al tutto inamabili, fastidiose e vili; in luogo di volgere all'iniquità i buoni come per lo passato, acquistò forza di scemarne e talvolta spegnerne l'amore nei tristi. Laonde, in quanto ai costumi, parlando della vecchiezza a comparazione delle altre età, si può dire che ella fosse nei primi tempi, come è al buono il migliore; nei corrotti, come al cattivo il pessimo; nei seguenti e peggiori, al contrario.
CAPITOLO QUINTO
Ragionava
spesso di quella qualità di amor proprio che oggi è
detta egoismo; porgendosegli, credo io, frequentemente l'occasione di
entrarne in parole. Nella qual materia narrerò qualcuna delle
sue sentenze. Diceva che oggidì, qualora ti è lodato
alcuno, o vituperato, di probità o del contrario, da persona
che abbia avuto a fare seco, o che di presente abbia; tu non ricevi
di quel tale altra contezza, se non che questa persona che lo biasima
o loda, è bene o male soddisfatta di lui: bene, se lo
rappresenta per buono; male, se per malvagio.
Negava
che alcuno a questi tempi possa amare senza rivale; e dimandato del
perché, rispondeva: perché certo l'amato o l'amata è
rivale ardentissimo dell'amante.
Facciamo
caso, diceva, che tu richiegga di un piacere una qualsivoglia
persona; della qual dimanda non ti si possa soddisfare senza
incorrere nell'odio o nella mala volontà di un terzo; e questo
terzo, tu e la persona richiesta, supponghiamo che in istato e in
potere, siete tutti e tre uguali, poco più o meno. Io dico che
verisimilmente la tua dimanda non ti verrà conseguita per
nessun modo; posto eziandio che il gratificartene avesse dovuto
obbligarti grandemente al gratificatore, e fargli anche più
benevolo te, che inimico quel terzo. Ma dall'odio e dall'ira degli
uomini si teme assai più che dall'amore e dalla gratitudine
non si spera: e ragionevolmente: perché in generale si vede,
che quelle due prime passioni operano più spesso, e
nell'operare mostrano molto maggiore efficacia, che le contrarie. La
cagione è, che chi si sforza di nuocere a quelli che egli
odia, e chi cerca vendetta, opera per sé; chi si studia di
giovare a quelli che egli ama, e chi rimerita i benefizi ricevuti,
opera per gli amici e i benefattori.
Diceva
che universalmente gli ossequi e i servigi che si fanno agli altri
con isperanze e disegni di utilità propria, rade volte
conseguiscono il loro fine; perché gli uomini, massimamente
oggi, che hanno più scienza e più senno che per
l'addietro, sono facili a ricevere e difficili a rendere. Nondimeno,
che di tali ossequi e servigi, quelli che sono prestati da alcuni
giovani a vecchie ricche o potenti, ottengono il loro fine, non solo
più spesse volte che gli altri, ma il più delle volte.
Queste
considerazioni infrascritte, che concernono principalmente i costumi
moderni, mi ricordo averle udite dalla sua bocca. Oggi non è
cosa alcuna che faccia vergogna appresso agli uomini usati e
sperimentati nel mondo, salvo che il vergognarsi; né di cosa
alcuna questi sì fatti uomini si vergognano, fuorché di
questa, se a caso qualche volta v'incorrono.
Maraviglioso
potere è quel della moda: la quale, laddove le nazioni e gli
uomini sono tenacissimi delle usanze in ogni altra cosa, e
ostinatissimi a giudicare, operare e procedere secondo la
consuetudine, eziandio contro ragione e con loro danno; essa sempre
che vuole, in un tratto li fa deporre, variare, assumere usi, modi e
giudizi, quando pur quello che abbandonano sia ragionevole, utile,
bello e conveniente, e quello che abbracciano, il contrario.
D'infinite
cose che nella vita comune, o negli uomini particolari, sono ridicole
veramente, è rarissimo che si rida; e se pure alcuno vi si
prova, non gli venendo fatto di comunicare il suo riso agli altri,
presto se ne rimane. All'incontro, di mille cose o gravissime o
convenientissime, tutto giorno si ride, e con facilità grande
se ne muovono le risa negli altri. Anzi le più delle cose
delle quali si ride ordinariamente, sono tutt'altro che ridicole in
effetto; e di moltissime si ride per questa cagione stessa, che elle
non sono degne di riso o in parte alcuna o tanto che basti.
Diciamo
e udiamo dire a ogni tratto: i buoni antichi, i nostri buoni
antenati; e uomo fatto all'antica, volendo dire uomo dabbene e da
potersene fidare. Ciascuna generazione crede dall'una parte, che i
passati fossero migliori dei presenti; dall'altra parte, che i popoli
migliorino allontanandosi dal loro primo stato ogni giorno più;
verso il quale se eglino retrocedessero, che allora senza dubbio
alcuno peggiorerebbero.
Certamente
il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può spesse
volte porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello è
da preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da
preferire ad ogni altra cosa. Ora nelle città grandi, tu sei
lontano dal bello: perché il bello non ha più luogo
nessuno nella vita degli uomini. Sei lontano anche dal vero: perché
nelle città grandi ogni cosa è finta, o vana. Di modo
che ivi, per dir così, tu non vedi, non odi, non tocchi, non
respiri altro che falsità, e questa brutta e spiacevole. Il
che agli spiriti delicati si può dire che sia la maggior
miseria del mondo.
Quelli
che non hanno necessità di provvedere essi medesimi ai loro
bisogni, e però ne lasciano la cura agli altri, non possono
per l'ordinario provvedere, o in guisa alcuna, o solo con grandissima
difficoltà, e meno suffcientemente che gli altri, a un bisogno
principalissimo che in ogni modo hanno. Dico quello di occupare la
vita: il quale è maggiore assai di tutti i bisogni particolari
ai quali, occupandola, si provvede; e maggiore eziandio che il
bisogno di vivere. Anzi il vivere, per se stesso, non è
bisogno; perché disgiunto dalla felicità, non è
bene. Dove che posta la vita, è sommo e primo bisogno il
condurla con minore infelicità che si possa. Ora dall'una
parte, la vita disoccupata o vacua, è infelicissima.
Dall'altra parte, il modo di occupazione col quale la vita si fa
manco infelice che con alcun altro, si è quello che consiste
nel provvedere ai propri bisogni.
Diceva
che il costume di vendere e comperare uomini, era cosa utile al
genere umano: e allegava che l'uso dell'innestare il vaiuolo venne in
Costantinopoli, donde passò in Inghilterra, e di là
nelle altre parti d'Europa, dalla Circassia; dove la infermità
del vaiuolo naturale, pregiudicando alla vita o alle forme dei
fanciulli e dei giovani, danneggiava molto il mercato che fanno quei
popoli delle loro donzelle.
Narrava di se medesimo, che quando prima uscì delle scuole ed entrò nel mondo, propose, come giovanetto inesperto e amico della verità, di non voler mai lodare né persona né cosa che gli occorresse nel commercio degli uomini, se non se qualora ella fosse tale, che gli paresse veramente lodevole. Ma che passato un anno, nel quale, mantenendo il proposito fatto, non gli venne lodata né cosa né persona alcuna; temendo non si dimenticare al tutto, per mancamento di esercizio, quello che nella rettorica non molto prima aveva imparato circa il genere encomiastico o lodativo, ruppe il proposito; e indi a poco se ne rimosse totalmente.
CAPITOLO SESTO
Usava
di farsi leggere quando un libro quando un altro, per lo più
di scrittore antico; e interponeva alla lettura qualche suo detto, e
quasi annotazioncella a voce, sopra questo o quel passo, di mano in
mano. Udendo leggere nelle Vite dei filosofi scritte da Diogene
Laerzio , che interrogato Chilone in che differiscano gli
addottrinati dagl'indotti, rispose che nelle buone speranze; disse:
oggi e tutto l'opposto; perché gl'ignoranti sperano, e i
conoscenti non isperano cosa alcuna.
Similmente,
leggendosi nelle dette Vite come Socrate affermava essere al mondo un
solo bene, e questo essere la scienza; e un solo male, e questo
essere l'ignoranza; disse: della scienza e dell'ignoranza antica non
so; ma oggi io volgerei questo detto al contrario.
Nello
stesso libro riportandosi questo dogma della setta degli Egesiaci: il
sapiente, che che egli si faccia, farà ogni cosa a suo
beneficio proprio; disse: se tutti quelli che procedono in questo
modo sono filosofi, oramai venga Platone, e riduca ad atto la sua
repubblica in tutto il mondo civile.
Commendava
molto una sentenza di Bione boristenite, posta dal medesimo Laerzio ;
che i più travagliati di tutti, sono quelli che cercano le
maggiori felicità. E soggiungeva che, all'incontro, i più
beati sono quelli che più si possono e sogliono pascere delle
minime, e anco da poi che sono passate, rivolgerle e assaporarle a
bell'agio colla memoria.
Recava
alle varie età delle nazioni civili quel verso greco che
suona: i giovani fanno, i mezzani consultano, i vecchi desidera no;
dicendo che in vero non rimane all'età presente altro che
desiderio.
A
un passo di Plutarco , che e trasportato da Marcello Adriani giovane
in queste parole: molto meno arieno ancora gli Spartani patito
l'insolenza e buffonerie di Stratocle: il quale avendo persuaso il
popolo (ciò furono gli Ateniesi) a sacrificare come vincitore;
che poi, sentito il vero della rotta, si sdegnava; disse: qual
ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per
ispazio di tre giorni? soggiunse l'Ottonieri: il simile si potrebbe
rispondere molto convenientemente a quelli che si dolgono della
natura, gravandosi che ella, per quanto è in sé, tenga
celato a ciascuno il vero, e coperto con molte apparenze vane, ma
belle e dilettevoli: che ingiuria vi fa ella a tenervi lieti per tre
o quattro giorni? E in altra occasione disse, potersi appropriare
alla nostra specie universalmente, avendo rispetto agli errori
naturali dell'uomo, quello che del fanciullo ridotto ingannevolmente
a prendere la medicina, dice il Tasso: e da l'inganno suo vita
riceve.
Nei
Paradossi di Cicerone essendogli letto un luogo, che in volgare si
ridurrebbe come segue: forse le voluttà fanno la persona
migliore o più lodevole? e hacci per avventura alcuno che del
goderle si magnifici o pavoneggi? disse: caro Cicerone, che i moderni
divengano per la voluttà o migliori o più lodevoli, non
ardisco dire; ma più lodati, sì bene. Anzi hai da
sapere che oggi questo solo cammino di lode si propongono e seguono
quasi tutti i giovani; cioè quello che mena per le voluttà.
Delle quali non pure si vantano, ottenendole, e ne fanno infinite
novelle cogli amici e cogli strani, con chi vuole e con chi non
vorrebbe udire; ma oltre di ciò, moltissime ne appetiscono e
ne procacciano, non come voluttà, ma come cagione di lode e di
fama, e come materia da gloriarsi; moltissime eziandio se ne
attribuiscono o non ottenute, o anco pure non cercate, o finte del
tutto.
Notava
nell'istoria che scrisse Arriano delle imprese di Alessandro Magno ,
che alla giornata dell'Isso, Dario collocò i soldati mercenari
greci nella fronte dell'esercito, e Alessandro i suoi mercenari pur
greci alle spalle; e stimava che da questa circostanza sola senza
più, si fosse potuto antivedere il successo della battaglia.
Non riprendeva, anzi lodava ed amava, che gli scrittori ragionassero molto di se medesimi: perché diceva che in questo, sono quasi sempre e quasi tutti eloquenti, e hanno per l'ordinario lo stile buono e convenevole, eziandio contro il consueto o del tempo, o della nazione, o proprio loro. E ciò non essere maraviglia; poiché quelli che scrivono delle cose proprie, hanno l'animo fortemente preso e occupato dalla materia; non mancano mai né di pensieri né di affetti nati da essa materia e nell'animo loro stesso, non trasportati di altri luoghi, né bevuti da altre fonti, né comuni e triti; e con facilità si astengono dagli ornamenti frivoli in sé, o che non fanno a proposito, dalle grazie e dalle bellezze false, o che hanno più di apparenza che di sostanza, dall'affettazione, e da tutto quello che è fuori del naturale. Ed essere falsissimo che i lettori ordinariamente si curino poco di quello che gli scrittori dicono di se medesimi: prima, perché tutto quello che veramente e pensato e sentito dallo scrittore stesso, e detto con modo naturale e acconcio, genera attenzione, e fa effetto; poi, perché in nessun modo si rappresentano o discorrono con maggior verità ed efficacia le cose altrui, che favellando delle proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, in quel che dipende dalla sorte; e che le cose umane, a considerarle in se stesso, si veggono molto meglio e con maggior sentimento che negli altri. In confermazione dei quali pensieri adduceva, tra le altre cose, l'aringa di Demostene per la Corona, dove l'oratore parlando di sé continuamente, vince se medesimo di eloquenza: e Cicerone, al quale, il più delle volte, dove tocca le cose proprie, vien fatto altrettanto: il che si vede in particolare nella Miloniana, tutta maravigliosa, ma nel fine maravigliosissima, dove l'oratore introduce se stesso. Come similmente bellissimo ed eloquentissimo nelle orazioni del Bossuet sopra tutti gli altri luoghi, è quello dove chiudendo le lodi del Principe di Condé, il dicitore fa menzione della sua propria vecchiezza e vicina morte. Degli scritti di Giuliano imperatore, che in tutti gli altri è sofista, e spesso non tollerabile, il più giudizioso e più lodevole è la diceria che s'intitola Misopogone, cioè contro alla barba; dove risponde ai motti e alle maldicenze di quelli di Antiochia contro di lui. Nella quale operetta, lasciando degli altri pregi, egli non è molto inferiore a Luciano né di grazia comica, né di copia, acutezza e vivacità di sali; laddove in quella dei Cesari, pure imitativa di Luciano, è sgraziato, povero di facezie, ed oltre alla povertà, debole e quasi insulso. Tra gl'Italiani, che per altro sono quasi privi di scritture eloquenti, l'apologia che Lorenzino dei Medici scrisse per giustificazione propria, è un esempio di eloquenza grande e perfetta da ogni parte; e Torquato Tasso ancora è non di rado eloquente nelle altre prose, dove parla molto di se stesso, e quasi sempre eloquentissimo nelle lettere, dove non ragiona, si può dire, se non de' suoi propri casi.
CAPITOLO SETTIMO
Si
ricordano anche parecchi suoi motti e risposte argute: come fu quella
ch'ei diede a un giovanetto, molto studioso delle lettere, ma poco
esperto del mondo; il quale diceva, che dell'arte del governarsi
nella vita sociale, e della cognizione pratica degli uomini,
s'imparano cento fogli il dì. Rispose l'Ottonieri: ma il libro
fa cinque milioni di fogli.
A
un altro giovane inconsiderato e temerario, il quale per ischermirsi
da quelli che gli rimproveravano le male riuscite che faceva
giornalmente, e gli scorni che riportava, era usato rispondere, che
della vita non è da fare più stima che di una commedia;
disse una volta l'Ottonieri: anche nella commedia è meglio
riportare applausi che fischiate; e il commediante male instrutto
nell'arte sua, o mal destro in esercitarla, all'ultimo si muore di
fame.
Preso
dai sergenti della corte un ribaldo omicida, il quale per essere
zoppo, commesso il misfatto, non era potuto fuggire; disse: vedete,
amici, che la giustizia, se bene si dice che sia zoppa, raggiunge
però il malfattore, se egli è zoppo.
Viaggiando
per l'Italia, essendogli detto, non so dove, da un cortigiano che lo
voleva mordere: io ti parlerò schiettamente, se tu me ne dai
licenza; rispose: anzi avrò caro assai di ascoltarti; perché
viaggiando si cercano le cose rare.
Costretto
da non so quale necessità una volta, a chiedere danari in
prestanza a uno, il quale scusandosi di non potergliene dare,
concluse affermando, che se fosse stato ricco, non avrebbe avuto
maggior pensiero che delle occorrenze degli amici; esso replicò:
mi rincrescerebbe assai che tu stessi in pensiero per causa nostra.
Prego Dio che non ti faccia mai ricco.
Da
giovane, avendo composto alcuni versi, e adoperatovi certe voci
antiche; dicendogli una signora attempata, alla quale, richiesto da
essa, li recitava, non li sapere intendere, perché quelle voci
al tempo suo non correvano; rispose: anzi mi credeva che corressero;
perché sono molto antiche.
Di
un avaro ricchissimo, al quale era stato fatto un furto di pochi
danari, disse, che si era portato avaramente ancora coi ladri.
Di
un calcolatore, che sopra qualunque cosa gli veniva udita o veduta,
si metteva a computare, disse: gli altri fanno le cose, e costui le
conta.
Ad
alcuni antiquari che disputavano insieme dintorno a una figurina
antica di Giove, formata di terra cotta; richiesto del suo parere;
non vedete voi, disse, che questo è un Giove in Creta?
Di
uno sciocco il quale presumeva saper molto bene raziocinare, e ne'
suoi discorsi, a ogni due parole, ricordava la logica; disse: questi
è propriamente l'uomo definito alla greca; cioè un
animale logico.
Vicino a morte, compose esso medesimo questa inscrizione, che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura.
OSSA
Dl
FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA
GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON
IGNARO DELLA NATURA
NÉ DELLA FORTUNA
SUA
DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ
Colombo:
Bella notte, amico.
Gutierrez: Bella in verità: e
credo che a vederla da terra, sarebbe più bella.
Colombo:
Benissimo: anche tu sei stanco del navigare.
Gutierrez: Non
del navigare in ogni modo; ma questa navigazione mi riesce più
lunga che io non aveva creduto, e mi dà un poco di noia.
Contuttociò non hai da pensare che io mi dolga di te, come
fanno gli altri. Anzi tieni per certo che qualunque deliberazione tu
sia per fare intorno a questo viaggio, sempre ti seconderò,
come per l'addietro, con ogni mio potere. Ma, così per via di
discorso, vorrei che tu mi dichiarassi precisamente, con tutta
sincerità, se ancora hai così per sicuro come a
principio, di avere a trovar paese in questa parte del mondo; o se,
dopo tanto tempo e tanta esperienza in contrario, cominci niente a
dubitare.
Colombo: Parlando schiettamente, e come si può
con persona amica e segreta, confesso che sono entrato un poco in
forse: tanto più che nel viaggio parecchi segni che mi avevano
dato speranza grande, mi sono riusciti vani; come fu quel degli
uccelli che ci passarono sopra, venendo da ponente, pochi dì
poi che fummo partiti da Gomera, e che io stimai fossero indizio di
terra poco lontana. Similmente, ho veduto di giorno in giorno che
l'effetto non ha corrisposto a più di una congettura e più
di un pronostico fatto da me innanzi che ci ponessimo in mare, circa
a diverse cose che ci sarebbero occorse, credeva io, nel viaggio.
Però vengo discorrendo, che come questi pronostici mi hanno
ingannato, con tutto che mi paressero quasi certi; così
potrebbe essere che mi riuscisse anche vana la congettura principale,
cioè dell'avere a trovar terra di là dall'Oceano. Bene
è vero che ella ha fondamenti tali, che se pure e falsa, mi
parrebbe da un canto che non si potesse aver fede a nessun giudizio
umano, eccetto che esso non consista del tutto in cose che si veggano
presentemente e si tocchino. Ma da altro canto, considero che la
pratica si discorda spesso, anzi il più delle volte, dalla
speculazione: e anche dico fra me: che puoi tu sapere che ciascuna
parte del mondo si rassomigli alle altre in modo, che essendo
l'emisfero d'oriente occupato parte dalla terra e parte dall'acqua,
seguiti che anche l'occidentale debba essere diviso tra questa e
quella? che puoi sapere che non sia tutto occupato da un mare unico e
immenso? o che in vece di terra, o anco di terra e d'acqua, non
contenga qualche altro elemento? Dato che abbia terre e mari come
l'altro, non potrebbe essere che fosse inabitato? anzi inabitabile?
Facciamo che non sia meno abitato del nostro: che certezza hai tu che
vi abbia creature razionali, come in questo? e quando pure ve ne
abbia, come ti assicuri che sieno uomini, e non qualche altro genere
di animali intellettivi? ed essendo uomini; che non sieno
differentissimi da quelli che tu conosci? ponghiamo caso, molto
maggiori di corpo, più gagliardi, più destri; dotati
naturalmente di molto maggiore ingegno e spirito; anche, assai meglio
inciviliti, e ricchi di molta più scienza ed arte? Queste cose
vengo pensando fra me stesso. E per verità, la natura si vede
essere fornita di tanta potenza, e gli effetti di quella essere così
vari e moltiplici, che non solamente non si può fare giudizio
certo di quel che ella abbia operato ed operi in parti lontanissime e
del tutto incognite al mondo nostro, ma possiamo anche dubitare che
uno s'inganni di gran lunga argomentando da questo a quelle, e non
sarebbe contrario alla verisimilitudine l'immaginare che le cose del
mondo ignoto, o tutte o in parte, fossero maravigliose e strane a
rispetto nostro. Ecco che voi veggiamo cogli occhi propri che l'ago
in questi mari declina dalla stella per non piccolo spazio verso
ponente: cosa novissima, e insino adesso inaudita a tutti i
navigatori; della quale, per molto fantasticarne, io non so pensare
una ragione che mi contenti. Non dico per tutto questo, che si abbia
a prestare orecchio alle favole degli antichi circa alle maraviglie
del mondo sconosciuto, e di questo Oceano; come, per esempio, alla
favola dei paesi narrati da Annone , che la notte erano pieni di
fiamme, e dei torrenti di fuoco che di là sboccavano nel mare:
anzi veggiamo quanto sieno stati vani fin qui tutti i timori di
miracoli e di novità spaventevoli, avuti dalla nostra gente in
questo viaggio; come quando, al vedere quella quantità di
alghe, che pareva facessero della marina quasi un prato, e
c'impedivano alquanto l'andare innanzi, pensarono essere in sugli
ultimi confini del mar navigabile. Ma voglio solamente inferire,
rispondendo alla tua richiesta, che quantunque la mia congettura sia
fondata in argomenti probabilissimi, non solo a giudizio mio, ma di
molti geografi, astronomi e navigatori eccellenti, coi quali ne ho
conferito, come sai, nella Spagna, nell'Italia e nel Portogallo;
nondimeno potrebbe succedere che fallasse: perché, torno a
dire, veggiamo che molte conclusioni cavate da ottimi discorsi, non
reggono all'esperienza; e questo interviene più che mai,
quando elle appartengono a cose intorno alle quali si ha pochissimo
lume.
Gutierrez: Di modo che tu, in sostanza, hai posto la tua
vita, e quella de' tuoi compagni, in sul fondamento di una semplice
opinione speculativa.
Colombo: Così è: non
posso negare. Ma, lasciando da parte che gli uomini tutto giorno si
mettono a pericolo della vita con fondamenti più deboli di
gran lunga, e per cose di piccolissimo conto, o anche senza pensarlo;
considera un poco. Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri
compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in
questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si
voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in
che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse più
lietamente? o non saremmo anzi in qualche maggior travaglio o
sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato libero
da incertezza e pericolo? se contento e felice, quello è da
preferire a qualunque altro; se tedioso e misero, non veggo a quale
altro stato non sia da posporre. Io non voglio ricordare la gloria e
l'utilità che riporteremo, succedendo l'impresa in modo
conforme alla speranza. Quando altro frutto non ci venga da questa
navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto
che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita,
ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in
considerazione. Scrivono gli antichi, come avrai letto o udito, che
gli amanti infelici, gittandosi dal sasso di Santa Maura (che allora
si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone;
restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io
non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma so
bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco
senza il favore di Apollo, avuta cara la vita che prima avevano in
odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna navigazione e, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe
di Leucade; producendo le medesime utilità, ma più
durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella
è superiore assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare
e di guerra, essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno
stima della vita propria, che non fanno gli altri della loro. Io per
lo stesso rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche
persone in tanto amore e pregio come da' navigatori e soldati. Quanti
beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur
nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per
esserne privi! Chi pose mai nel numero dei beni umani l'avere un poco
di terra che ti sostenga? Niuno, eccetto i navigatori, e massimamente
noi, che per la molta incertezza del successo di questo viaggio, non
abbiamo maggior desiderio che della vista di un cantuccio di terra;
questo è il primo pensiero che ci si fa innanzi allo
svegliarci, con questo ci addormentiamo; e se pure una volta ci verrà
scoperta da lontano la cima di un monte o di una foresta, o cosa
tale, non capiremo in noi stessi dalla contentezza; e presa terra,
solamente a pensare di ritrovarci in sullo stabile, e di potere
andare qua e là camminando a nostro talento, ci parrà
per più giorni essere beati.
Gutierrez: Tutto
cotesto è verissimo: tanto che se quella tua congettura
speculativa riuscirà così vera come è la
giustificazione dell'averla seguita, non potremo mancar di godere
questa beatitudine un giorno o l'altro.
Colombo: Io per me,
se bene non mi ardisco più di promettermelo sicuramente,
contuttociò spererei che fossimo per goderla presto. Da certi
giorni in qua, lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità
di quella materia che gli vien dietro, mi pare indizio buono. Verso
sera, le nuvole intorno al sole, mi si dimostrano d'altra forma e di
altro colore da quelle dei giorni innanzi. L'aria, come puoi sentire,
è fatta un poco più dolce e più tepida di prima.
Il vento non corre più, come per l'addietro, così
pieno, né così diritto, né costante; ma
piuttosto incerto, e vario, e come fosse interrotto da qualche
intoppo. Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e
mostra essere tagliata di poco; e quel ramicello di albero con quelle
coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli uccelli, benché
mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano,
e così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno;
che penso vi si possa fare qualche fondamento; massime che vi si
veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla forma, non mi paiono
dei marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per
molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa
grande e buona.
Gutierrez: Voglia Dio questa volta,
ch'ella si verifichi.
Amelio
filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co' suoi libri,
seduto all'ombra di una sua casa in villa, e leggendo; scosso dal
cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad
ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all'ultimo pose mano alla
penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono.
Sono
gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo. Non
dico ciò in quanto se tu li vedi o gli odi, sempre ti
rallegrano; ma intendo di essi medesimi in sé, volendo dire
che sentono giocondità e letizia più che alcuno altro
animale. Si veggono gli altri animali comunemente seri e gravi; e
molti di loro anche paiono malinconici: rade volte fanno segni di
gioia, e questi piccoli e brevi; nella più parte dei loro
godimenti e diletti, non fanno festa, né significazione alcuna
di allegrezza; delle campagne verdi, delle vedute aperte e leggiadre,
dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci, se anco sono
dilettati, non ne sogliono dare indizio di fuori: eccetto che delle
lepri si dice che la notte, ai tempi della luna, e massime della luna
piena, saltano e giuocano insieme, compiacendosi di quel chiaro,
secondo che scrive Senofonte . Gli uccelli per lo più si
dimostrano nei moti e nell'aspetto lietissimi; e non da altro procede
quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che
le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per
natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare
godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e
ingannevole. Per ogni diletto e ogni contentezza che hanno, cantano;
e quanto è maggiore il diletto o la contentezza, tanto più
lena e più studio pongono nel cantare. E cantando buona parte
del tempo, s'inferisce che ordinariamente stanno di buona voglia e
godono. E se bene è notato che mentre sono in amore, cantano
meglio, e più spesso, e più lungamente che mai; non è
da credere però, che a cantare non li muovano altri diletti e
altre contentezze fuori di queste dell'amore. Imperocché si
vede palesemente che al dì sereno e placido, cantano più
che all'oscuro e inquieto: e nella tempesta si tacciono, come anche
fanno in ciascuno altro timore che provano; e passata quella, tornano
fuori cantando e giocolando gli uni cogli altri. Similmente si vede
che usano di cantare in sulla mattina allo svegliarsi; a che sono
mossi parte dalla letizia che prendono del giorno nuovo, parte da
quel piacere che è generalmente a ogni animale sentirsi
ristorati dal sonno e rifatti. Anche si rallegrano sommamente delle
verzure liete, vallette fertili, delle acque pure e lucenti, del
paese bello. Nelle quali cose è notabile che quello che pare
ameno e leggiadro a noi, quello pare anche a loro; come si può
conoscere dagli allettamenti coi quali sono tratti alle reti o alle
panie, negli uccellari e paretai. Si può conoscere altresì
dalla condizione di quei luoghi alla campagna, nei quali per
l'ordinario è più frequenza di uccelli, e il canto loro
assiduo e fervido. Laddove gli altri animali, se non forse quelli che
sono dimesticati e usi a vivere cogli uomini, o nessuno o pochi fanno
quello stesso giudizio che facciamo noi, dell'amenità e della
vaghezza dei luoghi. E non è da maravigliarsene: perocché
non sono dilettati se non solamente dal naturale. Ora in queste cose,
una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è;
anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati,
gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi
stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose
simili, non hanno quello stato né quella sembianza che
avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da
qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le
città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare
insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che
sarebbe in natura. Dicono alcuni, e farebbe a questo proposito, che
la voce degli uccelli è più gentile e più dolce,
e il canto più modulato, nelle parti nostre, che in quelle
dove gli uomini sono selvaggi e rozzi; e conchiudono che gli uccelli,
anco essendo liberi, pigliano alcun poco della civiltà di
quegli uomini alle cui stanze sono usati.
O
che questi dicano il vero o no, certo fu notabile provvedimento della
natura l'assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il
volo; in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi
colla voce, fossero per l'ordinario in luogo alto; donde ella si
spandesse all'intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior
numero di uditori. E in guisa che l'aria, la quale si è
l'elemento destinato al suono, fosse popolata di creature vocali e
musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per
mio parere, agli altri animali che agli uomini, l'udire il canto
degli uccelli. E ciò credo io che nasca principalmente, non
dalla soavità de' suoni, quanta che ella si sia, né
dalla loro varietà, né dalla convenienza scambievole;
ma da quella significazione di allegrezza che è contenuta per
natura, sì nel canto in genere, e sì nel canto degli
uccelli in ispecie. Il quale è, come a dire, un riso, che
l'uccello fa quando egli si sente star bene e piacevolmente.
Onde
si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del
privilegio che ha l'uomo di ridere: il quale non hanno gli altri
animali; e perciò pensarono alcuni che siccome l'uomo è
definito per animale intellettivo o razionale, potesse non meno
sufficientemente essere definito per animale risibile; parendo loro
che il riso non fosse meno proprio e particolare all'uomo, che la
ragione. Cosa certamente mirabile è questa, che nell'uomo, il
quale infra tutte le creature è la più travagliata e
misera, si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro
animale. Mirabile ancora si è l'uso che noi facciamo di questa
facoltà: poiché si veggono molti in qualche fierissimo
accidente, altri in grande tristezza d'animo, altri che quasi non
serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di
ogni bene umano, presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni
speranza; nondimeno ridere. Anzi, quanto conoscono meglio la vanità
dei predetti beni, e l'infelicità della vita; e quanto meno
sperano, e meno eziandio sono atti a godere; tanto maggiormente
sogliono i particolari uomini essere inclinati al riso. La natura del
quale generalmente, e gl'intimi principii e modi, in quanto si è
a quella parte che consiste nell'animo, appena si potrebbero definire
e spiegare; se non se forse dicendo che il riso e specie di pazzia
non durabile, o pure di vaneggiamento e delirio. Perciocché
gli uomini, non essendo mai soddisfatti né mai dilettati
veramente da cosa alcuna, non possono aver causa di riso che sia
ragionevole e giusta. Eziandio sarebbe curioso a cercare, donde e in
quale occasione più verisimilmente, l'uomo fosse recato la
prima volta a usare e a conoscere questa sua potenza. Imperocché
non è dubbio che esso nello stato primitivo e selvaggio, si
dimostra per lo più serio, come fanno gli altri animali; anzi
alla vista malinconico. Onde io sono di opinione che il riso, non
solo apparisse al mondo dopo il pianto, della qual cosa non si può
fare controversia veruna; ma che penasse un buono spazio di tempo a
essere sperimentato e veduto primieramente. Nel qual tempo, né
la madre sorridesse al bambino, né questo riconoscesse lei col
sorriso, come dice Virgilio. Che se oggi, almeno dove la gente è
ridotta a vita civile, incominciano gli uomini a ridere poco dopo
nati; fannolo principalmente in virtù dell'esempio, perché
veggono altri che ridono. E crederei che la prima occasione e la
prima causa di ridere, fosse stata agli uomini la ubbriachezza; altro
effetto proprio e particolare al genere umano. Questa ebbe origine
lungo tempo innanzi che gli uomini fossero venuti ad alcuna specie di
civiltà; poiché sappiamo che quasi non si ritrova
popolo così rozzo, che non abbia provveduto di qualche bevanda
o di qualche altro modo da inebbriarsi, e non lo soglia usare
cupidamente. Delle quali cose non è da maravigliare;
considerando che gli uomini, come sono infelicissimi sopra tutti gli
altri animali, eziandio sono dilettati più che qualunque
altro, da ogni non travagliosa alienazione di mente, dalla
dimenticanza di se medesimi, dalla intermissione, per dir così,
della vita; donde o interrompendosi o per qualche tempo scemandosi
loro il senso e il conoscimento dei propri mali, ricevono non piccolo
benefizio. E in quanto al riso, vedesi che i selvaggi, quantunque di
aspetto seri e tristi negli altri tempi, pure nella ubbriachezza
ridono profusamente; favellando ancora molto e cantando, contro al
loro usato. Ma di queste cose tratterò più distesamente
in una storia del riso, che ho in animo di fare: nella quale, cercato
che avrò del nascimento di quello, seguiterò narrando i
suoi fatti e i suoi casi e le sue fortune, da indi in poi, fino a
questo tempo presente; nel quale egli si trova essere in dignità
e stato maggiore che fosse mai; tenendo nelle nazioni civili un
luogo, e facendo un ufficio, coi quali esso supplisce per qualche
modo alle parti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla
giustizia, dall'onore e simili; e in molte cose raffrenando e
spaventando gli uomini dalle male opere. Ora conchiudendo del canto
degli uccelli, dico, che imperocché la letizia veduta o
conosciuta in altri, della quale non si abbia invidia, suole
confortare e rallegrare; però molto lodevolmente la natura
provvide che il canto degli uccelli, il quale è dimostrazione
di allegrezza, e specie di riso, fosse pubblico; dove che il canto e
il riso degli uomini, per rispetto al rimanente del mondo, sono
privati: e sapientemente operò che la terra e l'aria fossero
sparse di animali che tutto dì, mettendo voci di gioia
risonanti e solenni, quasi applaudissero alla vita universale, e
incitassero gli altri viventi ad allegrezza, facendo continue
testimonianze, ancorché false, della felicità delle
cose.
E
che gli uccelli sieno e si mostrino lieti più che gli altri
animali, non è senza ragione grande. Perché veramente,
come ho accennato a principio, sono di natura meglio accomodati a
godere e ad essere felici. Primieramente, non pare che sieno
sottoposti alla noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese
a paese quanto tu vuoi lontano, e dall'infima alla somma parte
dell'aria, in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile;
veggono e provano nella vita loro cose infinite e diversissime;
esercitano continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo della
vita estrinseca. Tutti gli altri animali, provveduto che hanno ai
loro bisogni, amano di starsene quieti e oziosi; nessuno, se già
non fossero i pesci, ed eccettuati pure alquanti degl'insetti
volatili, va lungamente scorrendo per solo diporto. Così
l'uomo silvestre, eccetto per supplire di giorno in giorno alle sue
necessità, le quali ricercano piccola e breve opera; ovvero se
la tempesta, o alcuna fiera, o altra sì fatta cagione non lo
caccia; appena è solito di muovere un passo: ama
principalmente l'ozio e la negligenza: consuma poco meno che i giorni
intieri sedendo neghittosamente in silenzio nella sua capannetta
informe, o all'aperto, o nelle rotture e caverne delle rupi e dei
sassi. Gli uccelli, per lo contrario, pochissimo soprastanno in un
medesimo luogo; vanno e vengono di continuo senza necessità
veruna; usano il volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto
più centinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, il
dì medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccolo
tempo che soprasseggono in un luogo, tu non li vedi stare mai fermi
della persona; sempre si volgono qua e là, sempre si aggirano,
si piegano, si protendono, si crollano, si dimenano; con quella
vispezza, quell'agilità, quella prestezza di moti indicibile.
In somma, da poi che l'uccello è schiuso dall'uovo, insino a
quando muore, salvo gl'intervalli del sonno, non si posa un momento
di tempo. Per le quali considerazioni parrebbe si potesse affermare,
che naturalmente lo stato ordinario degli altri animali, compresovi
ancora gli uomini, si è la quiete; degli uccelli, il moto.
A
queste loro qualità e condizioni esteriori corrispondono le
intrinseche, cioè dell'animo; per le quali medesimamente sono
meglio atti alla felicità che gli altri animali. Avendo
l'udito acutissimo, e la vista efficace e perfetta in modo, che
l'animo nostro a fatica se ne può fare una immagine
proporzionata; per la qual potenza godono tutto giorno immensi
spettacoli e variatissimi, e dall'alto scuoprono, a un tempo solo,
tanto spazio di terra, e distintamente scorgono tanti paesi
coll'occhio, quanti, pur colla mente, appena si possono comprendere
dall'uomo in un tratto; s'inferisce che debbono avere una grandissima
forza e vivacità, e un grandissimo uso d'immaginativa. Non di
quella immaginativa profonda, fervida e tempestosa, come ebbero
Dante, il Tasso; la quale è funestissima dote, e principio di
sollecitudini e angosce gravissime e perpetue; ma di quella ricca,
varia, leggera, instabile e fanciullesca; la quale si è
larghissima fonte di pensieri ameni e lieti, di errori dolci, di vari
diletti e conforti; e il maggiore e più fruttuoso dono di cui
la natura sia cortese ad anime vive. Di modo che gli uccelli hanno di
questa facoltà, in copia grande, il buono, e l'utile alla
giocondità dell'animo, senza però partecipare del
nocivo e penoso. E siccome abbondano della vita estrinseca, parimente
sono ricchi della interiore: ma in guisa, che tale abbondanza risulta
in loro benefizio e diletto, come nei fanciulli; non in danno e
miseria insigne, come per lo più negli uomini. Perocché
nel modo che l'uccello quanto alla vispezza e alla mobilità di
fuori, ha col fanciullo una manifesta similitudine; così nelle
qualità dell'animo dentro, ragionevolmente è da credere
che lo somigli. I beni della quale età se fossero comuni alle
altre, e i mali non maggiori in queste che in quella; forse l'uomo
avrebbe cagione di portare la vita pazientemente. A parer mio, la
natura degli uccelli, se noi la consideriamo in certi modi, avanza di
perfezione quelle degli altri animali. Per maniera di esempio, se
consideriamo che l'uccello vince di gran lunga tutti gli altri nella
facoltà del vedere e dell'udire, che secondo l'ordine naturale
appartenente al genere delle creature animate, sono i sentimenti
principali; in questo modo seguita che la natura dell'uccello sia
cosa più perfetta che sieno le altre nature di detto genere.
Ancora, essendo gli altri animali, come è scritto di sopra,
inclinati naturalmente alla quiete, e gli uccelli al moto; e il moto
essendo cosa più viva che la quiete, anzi consistendo la vita
nel moto, e gli uccelli abbondando di movimento esteriore più
che veruno altro animale; e oltre di ciò, la vista e l'udito,
dove essi i eccedono tutti gli altri, e che maggioreggiano tra le
loro potenze, essendo i due sensi più particolari ai viventi,
come anche più vivi e più mobili, tanto in se medesimi,
quanto negli abiti e altri effetti che da loro si producono
nell'animale dentro e fuori; e finalmente stando le altre cose dette
dinanzi; conchiudesi che l'uccello ha maggior copia di vita esteriore
e interiore, che non hanno gli altri animali. Ora, se la vita è
cosa più perfetta che il suo contrario, almeno nelle creature
viventi; e se perciò la maggior copia di vita è
maggiore perfezione; anche per questo modo seguita che la natura
degli uccelli sia più perfetta. Al qual proposito non è
da passare in silenzio che gli uccelli sono parimente acconci a
sopportare gli estremi del freddo e del caldo; anche senza intervallo
di tempo tra l'uno e l'altro: poiché veggiamo spesse volte,
che da terra, in poco più che un attimo, si levano su per
l'aria insino a qualche parte altissima, che è come dire a un
luogo smisuratamente freddo; e molti di loro, in breve tempo,
trascorrono volando diversi climi.
In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell'uno e mezzo nell'altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo . Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d'un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d'intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l'oda cantare, o chi l'abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all'uso delle lingue, e massime dei poeti, d'oriente.
Su,
mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in
sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la
soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Ciascuno
in questo tempo raccoglie e ricorre coll'animo tutti i pensieri della
sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i
negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per
intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo
è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua
mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono
soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è
danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle
mani dell'infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno,
a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L'una e l'altra
insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e
salva; ma in questa, o manca o declina.
Se
il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita;
se sotto l'astro diurno, languendo per la terra in profondissima
quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di
buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né
canto di uccelli per l'aria, né susurro d'api o di farfalle
scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle
acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo
l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia
minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi
si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della
vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui
sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi
essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute
finora, pensi tu che pur una ottenesse l'intento suo, che fu la
soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la
produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità
dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco,
in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in
qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse
si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell'imo delle spelonche, o nel
profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual
pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o
sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che
quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza
sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è
prescritto; sei tu beato o infelice?
Mortali,
destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo,
che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà
dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente
riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto
in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una
somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe
conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo
difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé
mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che
a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un
poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di
morte.
Pare
che l'essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il
morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla
scaturirono le cose che sono. Certo l'ultima causa dell'essere non è
la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero
e che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera
loro; ma da niuna l'ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi,
adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e
non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della
natura, che è la morte.
A
ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più
comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente
pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano
di presente: perocché gli animi in quell'ora, eziandio senza
materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi
alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal
sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta
novamente nell'animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli
convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e
di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la
sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono
volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori,
e d'immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia;
per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza:
questo per lo più racconsolato e confidente; la sera trista,
scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù
della vita intera, così quella che i mortali provano in
ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche
il dì si riduce per loro in età provetta.
Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell'universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l'universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell'autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l'universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi .
FRAMMENTO APOCRIFO DI STRATONE DA LAMPSACO
PREAMBOLO
Questo Frammento, che io per passatempo ho recato dal greco in volgare, è tratto da un codice a penna che trovavasi alcuni anni sono, e forse ancora si trova, nella libreria dei monaci del monte Athos. Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro; laddove Stratone da Lampsaco, filosofo peripatetico, detto il fisico, visse da trecento anni avanti l'era cristiana. È ben vero che il capitolo della origine del mondo concorda a un di presso con quel poco che abbiamo delle opinioni di quel filosofo negli scrittori antichi. E però si potrebbe credere che il primo capitolo, anzi forse ancora il principio dell'altro, sieno veramente di Stratone; il resto vi sia stato aggiunto da qualche dotto Greco non prima del secolo passato. Giudichino gli eruditi lettori.
DELLA ORIGINE DEL MONDO
Le
cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così
tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno
incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua
propria forza ab eterno. Imperocché se dal vedere che le cose
materiali crescono e diminuiscono e all'ultimo si dissolvono,
conchiudesi che elle non sono per sé né ab eterno, ma
incominciate e prodotte, per lo contrario quello che mai non cresce
né scema e mai non perisce, si dovrà giudicare che mai
non cominciasse e che non provenga da causa alcuna. E certamente in
niun modo si potrebbe provare che delle due argomentazioni, se questa
fosse falsa, quella fosse pur vera. Ma poiché noi siamo certi
quella esser vera il medesimo abbiamo a concedere anco dell'altra.
Ora noi veggiamo che la materia non si accresce mai di una eziandio
menoma quantità, niuna anco menoma parte della materia si
perde, in guisa che essa materia non è sottoposta a perire.
Per tanto i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono
in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e
passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità
si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che
ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le
bisogni alcuna causa o forza fuori di sé. Il mondo, cioè
l'essere della materia in un cotal modo, è cosa incominciata e
caduca. Ora diremo della origine del mondo.
La materia in universale, siccome in particolare le piante e le creature animate, ha in sé per natura una o più forze sue proprie, che l'agitano e muovono in diversissime guise continuamente. Le quali forze noi possiamo congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in sé, né scoprir la natura loro. Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più, e se per contrario quelle forze che noi significhiamo con diversi nomi, sieno veramente diverse forze, o pure una stessa. Siccome tutto dì nell'uomo con diversi vocaboli si dinota una sola passione o forza: per modo di esempio, l'ambizione, l'amor del piacere e simili, da ciascuna delle quali fonti derivano effetti talora semplicemente diversi, talora eziandio contrari a quei delle altre, sono in fatti una medesima passione, cioè l'amor di se stesso, il quale opera in diversi casi diversamente. Queste forze adunque o si debba dire questa forza della materia, movendola, come abbiamo detto, ed agitandola di continuo, forma di essa materia innumerabili creature, cioè la modifica in variatissime guise. Le quali creature, comprendendole tutte insieme, e considerandole siccome distribuite in certi generi e certe specie, e congiunte tra sé con certi tali ordini e certe tali relazioni che provengono dalla loro natura, si chiamano mondo. Ma imperciocché la detta forza non resta mai di operare e di modificar la materia, però quelle creature che essa continuamente forma, essa altresì le distrugge, formando della materia loro nuove creature. Insino a tanto che distruggendosi le creature individue, i generi nondimeno e le specie delle medesime si mantengono, tutte o le più, e che gli ordini e le relazioni naturali delle cose non si cangiano o in tutto o nella più parte, si dice durare ancora quel cotal mondo. Ma infiniti mondi nello spazio infinito della eternità, essendo durati più o men tempo, finalmente sono venuti meno, perdutisi per li continui rivolgimenti della materia, cagionati dalla predetta forza, quei generi e quelle specie onde essi mondi si componevano, e mancate quelle relazioni e quegli ordini che li governavano. Né perciò la materia è venuta meno in qual si sia particella, ma solo sono mancati que' suoi tali modi di essere, succedendo immantinente a ciascuno di loro un altro modo, cioè un altro mondo, di mano in mano.
DELLA FINE DEL MONDO
Questo
mondo presente del quale gli uomini sono parte, cioè a dir
l'una delle specie delle quali esso è composto, quanto tempo
sia durato fin qui, non si può facilmente dire, come né
anche si può conoscere quanto tempo esso sia per durare da
questo innanzi. Gli ordini che lo reggono paiono immutabili, e tali
sono creduti, perciocché essi non si mutano se non che a poco
a poco e con lunghezza incomprensibile di tempo, per modo che le
mutazioni loro non cadono appena sotto il conoscimento, non che sotto
i sensi dell'uomo. La quale lunghezza di tempo, quanta che ella si
sia, è ciò non ostante menoma per rispetto alla
durazione eterna della materia. Vedesi in questo presente mondo un
continuo perire degl'individui ed un continuo trasformarsi delle cose
da una in altra; ma perciocché la distruzione è
compensata continuamente dalla produzione, e i generi si conservano,
stimasi che esso mondo non abbia né sia per avere in sé
alcuna causa per la quale debba né possa perire, e che non
dimostri alcun segno di caducità. Nondimeno si può pur
conoscere il contrario, e ciò da più d'uno indizio, ma
tra gli altri da questo.
Sappiamo
che la terra, a cagione del suo perpetuo rivolgersi intorno al
proprio asse, fuggendo dal centro le parti dintorno all'equatore, e
però spingendosi verso il centro quelle dintorno ai poli, è
cangiata di figura e continuamente cangiasi, divenendo intorno
all'equatore ogni dì più ricolma, e per lo contrario
intorno ai poli sempre più deprimendosi. Or dunque da ciò
debbe avvenire che in capo di certo tempo, la quantità del
quale, avvengaché sia misurabile in sé, non può
essere conosciuta dagli uomini, la terra si appiani di qua e di là
dall'equatore per modo, che perduta al tutto la figura globosa, si
riduca in forma di una tavola sottile ritonda. Questa ruota
aggirandosi pur di continuo dattorno al suo centro, attenuata
tuttavia più e dilatata, a lungo andare, fuggendo dal centro
tutte le sue parti, riuscirà traforata nel mezzo. Il qual foro
ampliandosi a cerchio di giorno in giorno, la terra ridotta per cotal
modo a figura di uno anello, ultimamente andrà in pezzi; i
quali usciti della presente orbita della terra, e perduto il
movimento circolare, precipiteranno nel sole o forse in qualche
pianeta.
Potrebbesi
per avventura in confermazione di questo discorso addurre un esempio,
io voglio dire dell'anello di Saturno, della natura del quale non si
accordano tra loro i fisici. E quantunque nuova e inaudita, forse non
sarebbe perciò inverisimile congettura il presumere che il
detto anello fosse da principio uno dei pianeti minori destinati alla
sequela di Saturno; indi appianato e poscia traforato nel mezzo per
cagioni conformi a quelle che abbiamo dette della terra, ma più
presto assai, per essere di materia forse più rara e più
molle, cadesse dalla sua orbita nel pianeta di Saturno, dal quale
colla virtù attrattiva della sua massa e del suo centro, sia
ritenuto, siccome lo veggiamo essere veramente, dintorno a esso
centro. E si potrebbe credere che questo anello, continuando ancora a
rivolgersi, come pur fa, intorno al suo mezzo, che è
medesimamente quello del globo di Saturno, sempre più si
assottigli e dilati, e sempre si accresca quello intervallo che è
tra esso e il predetto globo, quantunque ciò accada troppo più
lentamente di quello che si richiederebbe a voler che tali mutazioni
fossero potute notare e conoscere dagli uomini, massime così
distanti. Queste cose, o seriamente o da scherzo, sieno dette circa
all'anello di Saturno.
Ora
quel cangiamento che noi sappiamo essere intervenuto e intervenire
ogni giorno alla figura della terra, non è dubbio alcuno che
per le medesime cause non intervenga somigliantemente a quella di
ciascun pianeta, comeché negli altri pianeti esso non ci sia
così manifesto agli occhi come egli ci è pure in quello
di Giove. Né solo a quelli che a similitudine della terra si
aggirano intorno al sole, ma il medesimo senza alcun fallo interviene
ancora a quei pianeti che ogni ragion vuole che si credano essere
intorno a ciascuna stella. Per tanto in quel modo che si è
divisato della terra tutti i pianeti in capo di certo tempo, ridotti
per se medesimi in pezzi, hanno a precipitare gli uni nel sole, gli
altri nelle stelle loro. Nelle quali fiamme manifesto è che
non pure alquanti o molti individui, ma universalmente quei generi e
quelle specie che ora si contengono nella terra e nei pianeti,
saranno distrutte insino, per dir così, dalla stirpe. E questo
per avventura, o alcuna cosa a ciò somigliante, ebbero
nell'animo quei filosofi, così greci come barbari, i quali
affermarono dovere alla fine questo presente mondo perire di fuoco.
Ma perciocché noi veggiamo che anco il sole si ruota dintorno
al proprio asse, e quindi il medesimo si dee credere delle stelle,
segue che l'uno e le altre in corso di tempo debbano non meno che i
pianeti venire in dissoluzione, e le loro fiamme dispergersi nello
spazio. In tal guisa adunque il moto circolare delle sfere mondane,
il quale è principalissima parte dei presenti ordini naturali,
e quasi principio e fonte della conservazione di questo universo,
sarà causa altresì della distruzione di esso universo e
dei detti ordini.
Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degl'innumerabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare.
DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
Timandro:
Io ve lo voglio anzi debbo pur dire liberamente. La sostanza e
l'intenzione del vostro scrivere e del vostro parlare, mi paiono
molto biasimevoli.
Eleandro: Quando non vi paia tale
anche l'operare, io non mi dolgo poi tanto: perché le parole e
gli scritti importano poco.
Timandro: Nell'operare,
non trovo di che riprendervi. So che non fate bene agli altri per non
potere, e veggo che non fate male per non volere. Ma nelle parole e
negli scritti, vi credo molto riprensibile; e non vi concedo che oggi
queste cose importino poco; perché la nostra vita presente non
consiste, si può dire, in altro. Lasciamo le parole per ora, e
diciamo degli scritti. Quel continuo biasimare e derider che fate la
specie umana, primieramente è fuori di moda.
Eleandro:
Anche il mio cervello è fuori di moda. E non è nuovo
che i figliuoli vengano simili al padre.
Timandro:
Né anche sarà nuovo che i vostri libri, come ogni cosa
contraria all'uso corrente, abbiano cattiva fortuna.
Eleandro:
Poco male. Non per questo andranno cercando pane in sugli usci.
Timandro: Quaranta o cinquant'anni addietro, i
filosofi solevano mormorare della specie umana; ma in questo secolo
fanno tutto al contrario.
Eleandro: Credete voi che
quaranta o cinquant'anni addietro, i filosofi, mormorando degli
uomini, dicessero il falso o il vero?
Timandro:
Piuttosto e più spesso il vero che il falso.
Eleandro:
Credete che in questi quaranta o cinquant'anni, la specie umana sia
mutata in contrario da quella che era prima?
Timandro:
Non credo; ma cotesto non monta nulla al nostro proposito.
Eleandro:
Perché non monta? Forse è cresciuta di potenza, o
salita di grado; che gli scrittori d'oggi sieno costretti di
adularla, o tenuti di riverirla?
Timandro: Cotesti
sono scherzi in argomento grave.
Eleandro: Dunque
tornando sul sodo, io non ignoro che gli uomini di questo secolo,
facendo male ai loro simili secondo la moda antica, si sono pur messi
a dirne bene, al contrario del secolo precedente. Ma io, che non fo
male a simili né a dissimili, non credo essere obbligato a dir
bene degli altri contro coscienza.
Timandro: Voi
siete pure obbligato come tutti gli altri uomini, a procurar di
giovare alla vostra specie.
Eleandro: Se la mia
specie procura di fare il contrario a me, non veggo come mi corra
cotesto obbligo che voi dite. Ma ponghiamo che mi corra. Che debbo io
fare, se non posso?
Timandro: Non potete, e pochi
altri possono, coi fatti. Ma cogli scritti, ben potete giovare, e
dovete. E non si giova coi libri che mordono continuamente l'uomo in
generale; anzi si nuoce assaissimo.
Eleandro:
Consento che non si giovi, e stimo che non si noccia. Ma credete voi
che i libri possano giovare alla specie umana?
Timandro:
Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.
Eleandro:
Che libri?
Timandro: Di più generi; ma
specialmente del morale.
Eleandro: Questo non è
creduto da tutto il mondo; perché io, fra gli altri, non lo
credo; come rispose una donna a Socrate. Se alcun libro morale
potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici:
dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri
destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che
di versi. Ora io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata,
non lascia al lettore nell'animo un tal sentimento nobile, che per
mezz'ora, gl'impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare
un'azione indegna. Ma se il lettore manca di fede al suo principale
amico un'ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò quella
tal poesia: perché altrimenti mi converrebbe disprezzare le
più belle, più calde e più nobili poesie del
mondo. Ed escludo poi da questo discorso i lettori che vivono in
città grandi: i quali, in caso ancora che leggano
attentamente, non possono essere giovati anche per mezz'ora, né
molto dilettati né mossi, da alcuna sorta di poesia.
Timandro:
Voi parlate, al solito vostro, malignamente, e in modo che date ad
intendere di essere per l'ordinario molto male accolto e trattato
dagli altri: perché questa il più delle volte è
la causa del mal animo e del disprezzo che certi fanno professione di
avere alla propria specie.
Eleandro: Veramente io
non dico che gli uomini mi abbiano usato ed usino molto buon
trattamento: massime che dicendo questo, io mi spaccerei per esempio
unico. Né anche mi hanno fatto però gran male: perché,
non desiderando niente da loro, né in concorrenza con loro, io
non mi sono esposto alle loro offese più che tanto. Ben vi
dico e vi accerto, che siccome io conosco e veggo apertissimamente di
non saper fare una menoma parte di quello che si richiede a rendersi
grato alle persone; e di essere quanto si possa mai dire inetto a
conversare cogli altri, anzi alla stessa vita; per colpa o della mia
natura o mia propria; però se gli uomini mi trattassero meglio
di quello che fanno, io gli stimerei meno di quel che gli
stimo.
Timandro: Dunque tanto più siete
condannabile: perché l'odio, e la volontà di fare, per
dir così, una vendetta degli uomini, essendone stato offeso a
torto, avrebbe qualche scusa. Ma l'odio vostro, secondo che voi dite,
non ha causa alcuna particolare; se non forse un'ambizione insolita e
misera di acquistar fama dalla misantropia, come Timone: desiderio
abbominevole in sé, alieno poi specialmente da questo secolo,
dedito sopra tutto alla filantropia.
Eleandro:
Dell'ambizione non accade che io vi risponda; perché ho già
detto che non desidero niente dagli uomini: e se questo non vi par
credibile, benché sia vero; almeno dovete credere che
l'ambizione non mi muova a scriver cose che oggi, come voi stesso
affermate, partoriscono vituperio e non lode a chi le scrive.
Dall'odio poi verso tutta la nostra specie, sono così lontano,
che non solamente non voglio, ma non posso anche odiare quelli che mi
offendono particolarmente; anzi sono del tutto inabile e
impenetrabile all'odio. Il che non è piccola parte della mia
tanta inettitudine a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso
emendare: perché sempre penso che comunemente, chiunque si
persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia, far comodo o
piacere a se proprio; s'induce ad offendere; non per far male ad
altri (che questo non è propriamente il fine di nessun atto o
pensiero possibile), ma per far bene a sé; il qual desiderio è
naturale, e non merita odio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io
veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me
stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze
convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o macchiato o
capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene.
Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità
che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho
potuto vedere. Finalmente il concetto della vanità delle cose
umane, mi riempie continuamente l'animo in modo, che non mi risolvo a
mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l'ira e l'odio mi paiono
passioni molto maggiori e più forti, che non è
conveniente alla tenuità della vita. Dall'animo di Timone al
mio, vedete che diversità ci corre. Timone, odiando e fuggendo
tutti gli altri, amava a accarezzava solo Alcibiade, come causa
futura di molti mali alla loro patria comune. Io, senza odiarlo,
avrei fuggito più lui che gli altri, ammoniti i cittadini del
pericolo, e confortati a provvedervi. Alcuni dicono che Timone non
odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza umana. Io non odio né
gli uomini né le fiere.
Timandro: Ma né
anche amate nessuno.
Eleandro: Sentite, amico mio.
Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può
mai cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come
vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco
tepida; non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me
stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è
possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di
patire piuttosto io, che esser cagione di patimento agli altri. E di
questo, per poca notizia che abbiate de' miei costumi, credo mi
possiate essere testimonio.
Timandro: Non ve lo
nego.
Eleandro: Di modo che io non lascio di
procurare agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il rispetto
proprio, quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto a desiderare
per me stesso, cioè di non patire.
Timandro:
Ma confessate voi formalmente, di non amare né anche la nostra
specie in comune?
Eleandro: Sì, formalmente.
Ma come tuttavia, se toccasse a me, farei punire i colpevoli, se bene
io non gli odio; così, se potessi, farei qualunque maggior
benefizio alla mia specie, ancorché io non l'ami.
Timandro:
Bene, sia così. Ma in fine, se non vi muovono ingiurie
ricevute, non odio, non ambizione; che cosa vi muove a usare cotesto
modo di scrivere?
Eleandro: Diverse cose. Prima,
l'intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione: alle quali mi
piego talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché
spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a
scrivere; e quando avessi a dire quel che non penso, non mi darebbe
un gran sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti i savi
si ridono di chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella
lingua, e pochi la intendono. Io non veggo come non sia parimente
ridicolo questo continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando,
certe qualità umane che ciascun sa che oramai non si trovano
in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già
lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi
gli nomina, e da chi gli ode a nominare. Che si usino maschere e
travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti;
non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa
forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare
l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce una
fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti;
non faranno minori effetti di prima, e staranno più a loro
agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché
inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima dalla
propria, non si può fare senza impaccio e fastidio grande. Se
gli uomini dallo stato primitivo, solitario e silvestre, fossero
passati alla civiltà moderna in un tratto, e non per gradi;
crediamo noi che si troverebbero nelle lingue i nomi delle cose dette
dianzi, non che nelle nazioni l'uso di ripetergli a ogni poco, e di
farvi mille ragionamenti sopra? In verità quest'uso mi par
come una di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime dai
costumi presenti, le quali contuttociò si mantengono, per
virtù della consuetudine. Ma io che non mi posso adattare alle
cerimonie, non mi adatto anche a quell'uso; e scrivo in lingua
moderna, e non dei tempi troiani. In secondo luogo; non tanto io
cerco mordere ne' miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del
fato. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che
l'infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa
infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo
pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché
non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e
liberamente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi piangendo (e questa
si è la terza causa che mi muove), darei noia non piccola agli
altri, e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali,
trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso
modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere
dei nostri mali sia l'unico profitto che se ne possa cavare, e
l'unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione
ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non
compatisca all'infelicità umana. Ma non potendovisi riparare
con nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto;
stimo assai più degno dell'uomo, e di una disperazione
magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare,
lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare
altrettanto. In ultimo mi resta a dire, che io desiderio quanto voi,
e quanto qualunque altro, il bene della mia specie in universale; ma
non lo spero in nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe
buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo;
e la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata in un
giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni e
immaginazioni liete circa il futuro, né animo d'intraprendere
cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto. E ben sapete che l'uomo
non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli
succedere, e quando vi si disponga, opera di mala voglia e con poca
forza; e che scrivendo in modo diverso o contrario all'opinione
propria, se questa fosse anco falsa, non si fa mai cosa degna di
considerazione.
Timandro: Ma bisogna ben riformare
il giudizio proprio quando sia diverso dal vero; come è il
vostro.
Eleandro: Io giudico quanto a me di essere
infelice, e in questo so che non m'inganno. Se gli altri non sono, me
ne congratulo seco loro con tutta l'anima. Io sono anche sicuro di
non liberarmi dall'infelicità, prima che io muoia. Se gli
altri hanno diversa speranza di sé, me ne rallegro
similmente.
Timandro: Tutti siamo infelici, e tutti
sono stati: e credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza
sia delle più nuove. Ma la condizione umana si può
migliorare di gran lunga da quel che ella è, come e già
migliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate non
ricordarvi, o non volervi ricordare, che l'uomo è
perfettibile.
Eleandro: Perfettibile lo crederò
sopra la vostra fede; ma perfetto, che e quel che importa
maggiormente, non so quando l'avrò da credere né sopra
la fede di chi.
Timandro: Non è giunto
ancora alla perfezione, perché gli e mancato tempo; ma non si
può dubitare che non vi sia per giungere.
Eleandro:
Né io ne dubito. Questi pochi anni che sono corsi dal
principio del mondo al presente, non potevano bastare; e non se ne
dee far giudizio dell'indole, del destino e delle facoltà
dell'uomo: oltre che si sono avute altre faccende per le mani. Ma ora
non si attende ad altro che a perfezionare la nostra
specie.
Timandro: Certo vi si attende con sommo
studio in tutto il mondo civile. E considerando la copia e
l'efficacia dei mezzi, l'una e l'altra aumentate incredibilmente da
poco in qua, si può credere che l'effetto si abbia veramente a
conseguire fra più o men tempo: e questa speranza è di
non piccolo giovamento a cagione delle imprese e operazioni utili che
ella promuove o partorisce. Però se fu mai dannoso e
riprensibile in alcun tempo, nel presente è dannosissimo e
abbominevole l'ostentare cotesta vostra disperazione, e l'inculcare
agli uomini la necessità della loro miseria, la vanità
della vita, l'imbecillità e piccolezza della loro specie, e la
malvagità della loro natura: il che non può fare altro
frutto che prostrarli d'animo; spogliarli della stima di se medesimi,
primo fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa; e
distorli dal procurare il proprio bene.
Eleandro: Io
vorrei che mi dichiaraste precisamente, se vi pare che quello che io
credo e dico intorno all'infelicità degli uomini, sia vero o
falso.
Timandro: Voi riponete mano alla vostra
solita arme; e quando io vi confessi che quello che dite è
vero, pensate vincere la questione. Ora io vi rispondo, che non ogni
verità è da predicare a tutti, né in ogni
tempo.
Eleandro: Di grazia, soddisfatemi anche di
un'altra domanda. Queste verità che io dico e non predico,
sono nella filosofia, verità principali, o pure
accessorie?
Timandro: Io, quanto a me, credo che
sieno la sostanza di tutta la filosofia.
Eleandro:
Dunque s'ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la
perfezione dell'uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i
suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il
genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o
i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello
solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono
poco meno che tutti i filosofi antichi e moderni. Ecco che a giudizio
vostro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la
filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli uomini; e
credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o
dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell'animo,
non possono altro che nuocere. Il che è quanto dire che la
filosofia si debba estirpare dal mondo. Io non ignoro che l'ultima
conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è,
che non bisogna filosofare. Dal che s'inferisce che la filosofia,
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non
filosofare, non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è
dannosissima, perché quella ultima conclusione non vi s'impara
se non alle proprie spese, e imparata che sia, non si può
mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le
verità conosciute, e deponendosi più facilmente
qualunque altro abito che quello di filosofare. In somma la
filosofia, sperando e promettendo a principio di medicare i nostri
mali, in ultimo si riduce a desiderare invano di rimediare a se
stessa. Posto tutto ciò, domando perché si abbia da
credere che l'età presente sia più prossima e disposta
alla perfezione che le passate. Forse per la maggior notizia del
vero; la quale si vede essere contrarissima alla felicità
dell'uomo? O forse perché al presente alcuni pochi conoscono
che non bisogna filosofare, senza che però abbiano facoltà
di astenersene? Ma i primi uomini in fatti non filosofarono, e i
selvaggi se ne astengono senza fatica. Quali altri mezzi o nuovi, o
maggiori che non ebbero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci
alla perfezione?
Timandro: Molti, e di grande
utilità: ma l'esporgli vorrebbe un ragionamento
infinito.
Eleandro: Lasciamoli da parte per ora: e
tornando al fatto mio, dico, che se ne' miei scritti io ricordo
alcune verità dure e triste, o per isfogo dell'animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di
quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o
di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo, iniquità
e disonestà di azioni, e perversità di costumi:
laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché
false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi,
virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni
belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le
illusioni naturali dell'animo; e in fine gli errori antichi, diversi
assai dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli,
sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e
della filosofia. Ma queste, secondo me, trapassando i termini (come è
proprio e inevitabile alle cose umane); non molto dopo sollevati da
una barbarie, ci hanno precipitati in un'altra, non minore della
prima; quantunque nata dalla ragione e dal sapere, e non
dall'ignoranza; e però meno efficace e manifesta nel corpo che
nello spirito, men gagliarda nelle opere, e per dir così, più
riposta ed intrinseca. In ogni modo, io dubito, o inclino piuttosto a
credere, che gli errori antichi, quanto sono necessari al buono stato
delle nazioni civili, tanto sieno, e ogni dì più
debbano essere, impossibili a rinnovarveli. Circa la perfezione
dell'uomo, io vi giuro, che se fosse già conseguita, avrei
scritto almeno un tomo in lode del genere umano. Ma poiché non
è toccato a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in mia
vita, sono disposto di assegnare per testamento una buona parte della
mia roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se
gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e
anche gli sia rizzato un tempietto all'antica, o una statua, o quello
che sarà creduto a proposito.
Scena prima
L'Ora
prima
e il Sole
Ora
prima: Buon giorno, Eccellenza.
Sole: Sì:
anzi buona notte.
Ora prima: I cavalli sono in
ordine.
Sole: Bene.
Ora prima: La
diana è venuta fuori da un pezzo.
Sole: Bene:
venga o vada a suo agio.
Ora prima: Che intende di
dire vostra Eccellenza?
Sole: Intendo che tu mi
lasci stare.
Ora prima: Ma, Eccellenza, la notte già
è durata tanto, che non può durare più; e se noi
c'indugiassimo, vegga, Eccellenza, che poi non nascesse qualche
disordine.
Sole: Nasca quello che vuole, che io non
mi muovo.
Ora prima: Oh, Eccellenza, che è
cotesto? si sentirebbe ella male?
Sole: No no, io
non mi sento nulla; se non che io non mi voglio muovere: e però
tu te ne andrai per le tue faccende.
Ora prima: Come
debbo io andare se non viene ella, ché io sono la prima Ora
del giorno? e il giorno come può essere, se vostra Eccellenza
non si degna, come è solita, di uscir fuori?
Sole:
Se non sarai del giorno, sarai della notte; ovvero le Ore della notte
faranno l'uffizio doppio, e tu e le tue compagne starete in ozio.
Perché, sai che è? io sono stanco di questo continuo
andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono In su un
pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho buona vista, non lo
arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di non volere altra fatica
per questo; e che se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i
loro fuochi accesi, o proveggano in altro modo.
Ora prima:
E che modo, Eccellenza, vuole ella che ci trovino i poverini? E a
dover poi mantenere le loro lucerne, o provvedere tante candele che
ardano tutto lo spazio del giorno, sarà una spesa eccessiva.
Che se fosse già ritrovato di fare quella certa aria da
servire per ardere, e per illuminare le strade, le camere, le
botteghe, le cantine e ogni cosa, e il tutto con poco dispendio;
allora direi che il caso fosse manco male. Ma il fatto è che
ci avranno a passare ancora trecento anni, poco più o meno,
prima che gli uomini ritrovino quel rimedio: e intanto verrà
loro manco l'olio e la cera e la pece e il sego; e non avranno più
che ardere.
Sole: Andranno a caccia delle lucciole,
e di quei vermicciuoli che splendono.
Ora prima: E
al freddo come provvederanno? che senza quell'aiuto che avevano da
vostra Eccellenza, non basterà il fuoco di tutte le selve a
riscaldarli. Oltre che si morranno anco dalla fame: perché la
terra non porterà più i suoi frutti. E così, in
capo a pochi anni, si perderà il seme di quei poveri animali:
che quando saranno andati un pezzo qua e là per la Terra, a
tastone, cercando di che vivere e di che riscaldarsi; finalmente,
consumata ogni cosa che si possa ingoiare, e spenta l'ultima
scintilla di fuoco, se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come
pezzi di cristallo di roccia.
Sole: Che importa
cotesto a me? che, sono io la balia del genere umano; o forse il
cuoco, che gli abbia da stagionare e da apprestare i cibi? e che mi
debbo io curare se certa poca quantità di creaturine
invisibili, lontane da me i milioni delle miglia, non veggono, e non
possono reggere al freddo, senza la luce mia? E poi, se io debbo anco
servir, come dire, di stufa o di focolare a questa famiglia umana, è
ragionevole, che volendo la famiglia scaldarsi, venga essa intorno
del focolare, e non che il focolare vada dintorno alla casa. Per
questo, se alla Terra fa di bisogno della presenza mia, cammini ella
e adoprisi per averla: che io per me non ho bisogno di cosa alcuna
dalla Terra, perché io cerchi di lei.
Ora prima:
Vostra Eccellenza vuol dire, se io intendo bene, che quello che per
lo passato ha fatto ella, ora faccia la Terra.
Sole:
Sì: ora, e per l'innanzi sempre.
Ora prima:
Certo che vostra Eccellenza ha buona ragione in questo: oltre che
ella può fare di sé a suo modo. Ma pure contuttociò,
si degni, Eccellenza, di considerare quante cose belle è
necessario che sieno mandate a male, volendo stabilire questo nuovo
ordine. Il giorno non avrà più il suo bel carro dorato,
co' suoi bei cavalli, che si lavavano alla marina: e per lasciare le
altre particolarità, noi altre povere Ore non avremo più
luogo in cielo, e di fanciulle celesti diventeremo terrene; se però,
come io aspetto, non ci risolveremo piuttosto in fumo. Ma sia di
questa parte come si voglia: il punto sarà persuadere alla
Terra di andare attorno; che ha da esser difficile pure assai:
perch'ella non ci è usata; e le dee parere strano di aver poi
sempre a correre e affaticarsi tanto, non avendo mai dato un crollo
da quel suo luogo insino a ora. E se vostra Eccellenza adesso, per
quel che pare, comincia a porgere un poco di orecchio alla pigrizia;
io odo che la Terra non sia mica più inclinata alla fatica
oggi che in altri tempi.
Sole: Il bisogno, in
questa cosa, la pungerà, e la farà balzare e correre
quanto convenga. Ma in ogni modo, qui la via più spedita e la
più sicura è di trovare un poeta ovvero un filosofo che
persuada alla Terra di muoversi, o che quando altrimenti non la possa
indurre, la faccia andar via per forza. Perché finalmente il
più di questa faccenda è in mano dei filosofi e dei
poeti; anzi essi ci possono quasi il tutto. I poeti sono stati quelli
che per l'addietro (perch'io era più giovane, e dava loro
orecchio), con quelle belle canzoni, mi hanno fatto fare di buona
voglia, come per un diporto, o per un esercizio onorevole, quella
sciocchissima fatica di correre alla disperata, così grande e
grosso come io sono, intorno a un granellino di sabbia. Ma ora che io
sono maturo di tempo, e che mi sono voltato alla filosofia, cerco in
ogni cosa l'utilità, e non il bello; e i sentimenti dei poeti,
se non mi muovono lo stomaco, mi fanno ridere. Voglio, per fare una
cosa, averne buone ragioni, e che sieno di sostanza: e perché
io non trovo nessuna ragione di anteporre alla vita oziosa e agiata
la vita attiva; la quale non ti potria dar frutto che pagasse il
travaglio, anzi solamente il pensiero (non essendoci al mondo un
frutto che vaglia due soldi); perciò sono deliberato di
lasciare le fatiche e i disagi agli altri, e io per la parte mia
vivere in casa quieto e senza faccende. Questa mutazione in me, come
ti ho detto, oltre a quel che ci ha cooperato l'età, l'hanno
fatta i filosofi; gente che in questi tempi è cominciata a
montare in potenza, e monta ogni giorno più. Sicché,
volendo fare adesso che la Terra si muova, e che diasi a correre
attorno in vece mia; per una parte veramente sarebbe a proposito un
poeta più che un filosofo: perché i poeti, ora con una
fola, ora con un'altra, dando ad intendere che le cose del mondo
sieno di valuta e di peso, e che sieno piacevoli e belle molto, e
creando mille speranze allegre, spesso invogliano gli altri di
faticare; e i filosofi gli svogliano. Ma dall'altra parte, perché
i filosofi sono cominciati a stare al di sopra, io dubito che un
poeta non sarebbe ascoltato oggi dalla Terra, più di quello
che fossi per ascoltarlo io; o che, quando fosse ascoltato, non
farebbe effetto. E però sarà il meglio che noi
ricorriamo a un filosofo: che se bene i filosofi ordinariamente sono
poco atti, e meno inclinati, a muovere altri ad operare; tuttavia può
essere che in questo caso così estremo, venga loro fatta cosa
contraria al loro usato. Eccetto se la Terra non giudicherà
che le sia più espediente di andarsene a perdizione, che avere
a travagliarsi tanto: che io non direi però che ella avesse il
torto: basta, noi vedremo quello che succederà. Dunque tu
farai una cosa: tu te n'andrai là in Terra; o pure vi manderai
l'una delle tue compagne, quella che tu vorrai: e se ella troverà
qualcuno di quei filosofi che stia fuori di casa al fresco,
speculando il cielo e le stelle; come ragionevolmente ne dovrà
trovare, per la novità di questa notte così lunga; ella
senza più, levatolo su di peso, se lo gitterà in sul
dosso; e così torni, e me lo rechi insin qua: che io vedrò
di disporlo a fare quello che occorre. Hai tu inteso bene?
Ora
prima: Eccellenza sì. Sarà servita.
Scena seconda
Copernico
in sul terrazzo di casa sua, guardando in cielo a levante, per
mezzo d'un cannoncello di carta; perché non erano ancora
inventati i cannocchiali.
Gran
cosa è questa. O che tutti gli oriuoli fallano, o il sole
dovrebbe esser levato già è più di un'ora: e qui
non si vede né pure un barlume in oriente; con tutto che il
cielo sia chiaro e terso come uno specchio. Tutte le stelle
risplendono come fosse la mezza notte. Vattene ora all'Almagesto o al
Sacrobosco, e dì che ti assegnino la cagione di questo caso.
Io ho udito dire più volte della notte che Giove passò
colla moglie d'Anfitrione: e così mi ricordo aver letto poco
fa in un libro moderno di uno Spagnuolo, che i Peruviani raccontano
che una volta, in antico, fu nel paese loro una notte lunghissima,
anzi sterminata; e che alla fine il sole uscì fuori da un
certo lago, che chiamano di Titicaca. Ma insino a qui ho pensato che
queste tali, non fossero se non ciance; e io l'ho tenuto per fermo;
come fanno tutti gli uomini ragionevoli. Ora che io m'avveggo che la
ragione e la scienza non rilevano, a dir proprio, un'acca; mi risolvo
a credere che queste e simili cose possano esser vere verissime: anzi
io sono per andare a tutti i laghi e a tutti i pantani che io potrò,
e vedere se io m'abbattessi a pescare il sole. Ma che è questo
rombo che io sento, che par come delle ali di uno uccello grande?
Scena terza
L'Ora
ultima e Copernico
Ora ultima: Copernico, io
sono l'Ora ultima.
Copernico: L'ora ultima? Bene:
qui bisogna adattarsi. Solo, se si può, dammi tanto di spazio,
che io possa far testamento, e dare ordine a' fatti miei, prima di
morire.
Ora ultima: Che morire? io non sono già
l'ora ultima della vita.
Copernico: Oh, che sei tu
dunque? l'ultima ora dell'ufficio del breviario?
Ora ultima:
Credo bene io, che cotesta ti sia più cara che l'altre, quando
tu ti ritrovi in coro.
Copernico: Ma come sai tu
cotesto, che io sono canonico? E come mi conosci tu? che anche mi hai
chiamato dianzi per nome.
Ora ultima: Io ho preso
informazione dell'esser tuo da certi ch'erano qua sotto, nella
strada. In breve, io sono l'ultima ora del giorno.
Copernico:
Ah, io ho inteso: la prima Ora è malata; e da questo e che il
giorno non si vede ancora.
Ora ultima: Lasciami
dire. Il giorno non è per aver luogo più, né
oggi né domani né poi, se tu non provvedi.
Copernico:
Buono sarebbe cotesto; che toccasse a me il carico di fare il
giorno.
Ora ultima: Io ti dirò il come. Ma la
prima cosa, è di necessità che tu venga meco senza
indugio a casa del Sole, mio padrone. Tu intenderai ora il resto per
via; e parte ti sarà detto da sua Eccellenza, quando noi
saremo arrivati.
Copernico: Bene sta ogni cosa. Ma
il cammino, se però io non m'inganno, dovrebbe esser lungo
assai. E come potrò io portare tanta provvisione che mi basti
a non morire affamato qualche anno prima di arrivare? Aggiungi che le
terre di sua Eccellenza non credo io che producano di che
apparecchiarmi solamente una colazione.
Ora ultima:
Lascia andare cotesti dubbi. Tu non avrai a star molto in casa del
Sole; e il viaggio si farà in un attimo; perché io sono
uno spirito, se tu non sai.
Copernico: Ma io sono
un corpo.
Ora ultima: Ben bene: tu non ti hai da
impacciare di cotesti discorsi, che tu non sei già un filosofo
metafisico. Vien qua: montami in sulle spalle; e lascia fare a me il
resto.
Copernico: Orsù: ecco fatto. Vediamo
a che sa riuscire questa novità.
Scena quarta
Copernico
e il Sole
Copernico: Illustrissimo
Signore.
Sole: Perdona, Copernico, se io non ti fo
sedere; perché qua non si usano sedie. Ma noi ci spacceremo
tosto. Tu hai già inteso il negozio dalla mia fante. Io dalla
parte mia, per quel che la fanciulla mi riferisce della tua qualità,
trovo che tu sei molto a proposito per l'effetto che si
ricerca.
Copernico: Signore, io veggo in questo
negozio molte difficoltà.
Sole: Le
difficoltà non debbono spaventare un uomo della tua sorte.
Anzi si dice che elle accrescono animo all'animoso. Ma quali sono
poi, alla fine, coteste difficoltà?
Copernico:
Primieramente, per grande che sia la potenza della filosofia, non mi
assicuro che ella sia grande tanto, da persuadere alla Terra di darsi
a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; e darsi ad
affaticare, in vece di stare in ozio: massime a questi tempi; che non
sono già i tempi eroici.
Sole: E se tu non la
potrai persuadere, tu la sforzerai.
Copernico:
Volentieri, illustrissimo, se io fossi un Ercole, o pure almanco un
Orlando; e non un canonico di Varmia.
Sole: Che fa
cotesto al caso? Non si racconta egli di un vostro matematico antico,
il quale diceva che se gli fosse dato un luogo fuori del mondo, che
stando egli in quello, si fidava di smuovere il cielo e la terra? Or
tu non hai a smuovere il cielo; ed ecco che ti ritrovi in un luogo
che è fuor della Terra. Dunque, se tu non sei da meno di
quell'antico, non dee mancare che tu non la possa muovere, voglia
essa o non voglia.
Copernico: Signor mio, cotesto si
potrebbe fare: ma ci si richiederebbe una leva; la quale vorrebbe
essere tanto lunga, che non solo io, ma vostra signoria
illustrissima, quantunque ella sia ricca, non ha però tanto
che bastasse a mezza la spesa della materia per farla, e della
fattura. Un'altra difficoltà più grave è questa
che io vi dirò adesso; anzi egli è come un groppo di
difficoltà. La Terra insino a oggi ha tenuto la prima sede del
mondo, che è a dire il mezzo; e (come voi sapete) stando ella
immobile, e senza altro affare che guardarsi all'intorno, tutti gli
altri globi dell'universo, non meno i più grandi che i più
piccoli, e così gli splendenti come gli oscuri, le sono iti
rotolandosi di sopra e di sotto e ai lati continuamente; con una
fretta, una faccenda, una furia da sbalordirsi a pensarla. E così,
dimostrando tutte le cose di essere occupate in servizio suo, pareva
che l'universo fosse a somiglianza di una corte; nella quale la Terra
sedesse come in un trono; e gli altri globi dintorno, in modo di
cortigiani, di guardie, di servitori, attendessero chi ad un
ministero e chi a un altro. Sicché, in effetto, la Terra si è
creduta sempre di essere imperatrice del mondo: e per verità,
stando così le cose come sono state per l'addietro, non si può
mica dire che ella discorresse male; anzi io non negherei che quel
suo concetto non fosse molto fondato. Che vi dirò poi degli
uomini? che riputandoci (come ci riputeremo sempre) più che
primi e più che principalissimi tra le creature terrestri;
ciascheduno di noi se ben fosse un vestito di cenci e che non avesse
un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto per certo di
essere uno imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania,
ovvero della metà della Terra, come erano gl'imperatori
romani, ma un imperatore dell'universo; un imperatore del sole, dei
pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale
delle stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di
tutte le cose. Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel
suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli,
che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né
più né meno, che si è fatto di qui addietro
dagli altri globi; in fine, che ella divenga del numero dei pianeti;
questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro
maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar
l'impero; restandosene però tuttavia co' loro cenci, e colle
loro miserie, che non sono poche.
Sole: Che vuol
conchiudere in somma con cotesto discorso il mio don Niccola? Forse
ha scrupolo di coscienza, che il fatto non sia un crimenlese?
Copernico: No, illustrissimo; perché né
i codici, né il digesto, né i libri che trattano del
diritto pubblico, né del diritto dell'Imperio, né di
quel delle genti, o di quello della natura, non fanno menzione di
questo crimenlese, che io mi ricordi. Ma voglio dire in sostanza, che
il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale,
come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non
apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà
i gradi delle dignità delle cose, e l'ordine degli enti;
scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un
grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello
che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà
che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si
troveranno essere tutt'altra roba da quello che sono stati fin qui, o
che si hanno immaginato di essere.
Sole: Figliuol
mio, coteste cose non mi fanno punto paura: ché tanto rispetto
io porto alla metafisica, quanto alla fisica, e quanto anche
all'alchimia, o alla negromantica, se tu vuoi. E gli uomini si
contenteranno di essere quello che sono: e se questo non piacerà
loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto
della evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in
questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o
duchi o imperatori o altro di più che si vogliano: che essi ne
staranno più consolati, e a me con questi loro giudizi non
daranno un dispiacere al mondo.
Copernico: Orsù,
lasciamo degli uomini e della Terra. Considerate, illustrissimo, quel
ch'è ragionevole che avvenga degli altri pianeti. Che quando
vedranno la Terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di
loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici
e disadorni, così deserti e tristi, come sono stati sempre; e
che la Terra sola abbia quei tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi
i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le piante, e fra le altre
cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere
essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro
rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie
e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da
tutte le bande, come funghi.
Sole: E tu le lascerai
che vengano; e sieno quante sapranno essere: ché la mia luce e
il calore basterà per tutte, senza che io cresca la spesa
però; e il mondo avrà di che cibarle, vestirle,
alloggiarle, trattarle largamente, senza far debito.
Copernico:
Ma pensi vostra signoria illustrissima un poco più oltre, e
vedrà nascere ancora un altro scompiglio. Che le stelle,
vedendo che voi vi siete posto a sedere, e non già su uno
sgabello, ma in trono; e che avete dintorno questa bella corte e
questo popolo di pianeti; non solo vorranno sedere ancor esse e
riposarsi, ma vorranno altresì regnare: e chi ha da regnare,
ci hanno a essere i sudditi: però vorranno avere i loro
pianeti, come avrete voi; ciascuna i suoi propri. I quali pianeti
nuovi, converrà che sieno anche abitati e adorni come è
la Terra. E qui non vi starò a dire del povero genere umano,
divenuto poco più che nulla già innanzi, in rispetto a
questo mondo solo; a che si ridurrà egli quando scoppieranno
fuori tante migliaia di altri mondi, in maniera che non ci sarà
una minutissima stelluzza della via lattea, che non abbia il suo. Ma
considerando solamente l'interesse vostro, dico che per insino a ora
voi siete stato, se non primo nell'universo, certamente secondo, cioè
a dire dopo la Terra, e non avete avuto nessuno uguale; atteso che le
stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in questo nuovo stato
dell'universo avrete tanti uguali, quante saranno le stelle coi loro
mondi. Sicché guardate che questa mutazione che noi vogliamo
fare, non sia con pregiudizio della dignità vostra.
Sole:
Non hai tu a memoria quello che disse il vostro Cesare quando egli,
andando per le Alpi, si abbatté a passare vicino a quella
borgatella di certi poveri Barbari: che gli sarebbe piaciuto più
se egli fosse stato il primo in quella borgatella, che di essere il
secondo in Roma? E a me similmente dovrebbe piacer più di
esser primo in questo mondo nostro, che secondo nell'universo. Ma non
è l'ambizione quella che mi muove a voler mutare lo stato
presente delle cose: solo è l'amor della quiete, o per dir più
proprio, la pigrizia. In maniera che dell'avere uguali o non averne,
e di essere nel primo luogo o nell'ultimo, io non mi curo molto:
perché, diversamente da Cicerone, ho riguardo più
all'ozio che alla dignità.
Copernico:
Cotesto ozio, illustrissimo, io per la parte mia, il meglio che io
possa, m'ingegnerò di acquistarvelo. Ma dubito, anche
riuscendo la intenzione, che esso non vi durerà gran tempo. E
prima, io sono quasi certo che non passeranno molti anni, che voi
sarete costretto di andarvi aggirando come una carrucola da pozzo, o
come una macina; senza mutar luogo però. Poi, sto con qualche
sospetto che pure alla fine, in termine di più o men tempo, vi
convenga anco tornare a correre: io non dico, intorno alla Terra; ma
che monta a voi questo? e forse che quello stesso aggirarvi che voi
farete, servirà di argomento per farvi anco andare. Basta, sia
quello che si voglia; non ostante ogni malagevolezza e ogni altra
considerazione, se voi perseverate nel proposito vostro, io proverò
di servirvi; acciocché, se la cosa non mi verrà fatta,
voi pensiate ch'io non ho potuto, e non diciate che io sono di poco
animo.
Sole: Bene sta, Copernico mio:
prova.
Copernico: Ci resterebbe una certa difficoltà
solamente.
Sole: Via, qual è?
Copernico:
Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato vivo, a uso
della fenice: perché accadendo questo, io sono sicuro di non
avere a risuscitare dalle mie ceneri come fa quell'uccello, e di non
vedere mai più, da quell'ora innanzi, la faccia della signoria
vostra.
Sole: Senti, Copernico: tu sai che un tempo,
quando voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che
la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso
tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di
quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque
che forse, dopo te ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai
fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra
cosa simile; ma che tu per conto di questa impresa, a quel ch'io
posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere più
sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo
proposito, dedicarlo al papa . In questo modo, ti prometto che né
anche hai da perdere il canonicato.
DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO
Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.
Plotino:
Porfirio, tu sai ch'io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei
maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il
tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da
questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni
che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura,
e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza
aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.
Porfirio: Come, che vuoi tu dire?
Plotino:
Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto e stimato cattivo
augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non
far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da
tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo
discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo
proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e
tu non dovresti avere a male di conferirla con persona che ti vuol
tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e
andiamo pensando le ragioni: tu sfogherai l'animo tuo meco, ti
dorrai, piangerai; che io merito da te questo: e in ultimo io non
sono già per impedirti che tu non facci quello che noi
troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.
Porfirio:
Io non ti ho mai disdetto cosa che tu domandassi, Plotino mio. Ed ora
confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non
confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu
immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace
che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benché
l'animo mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni
pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in
così fatti pensieri ami di essere solitaria e ristretta in se
medesima più che mai; pure io sono disposto di fare anche di
ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò
che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia
intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un
fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente,
che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente
conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa
che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto
mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di
dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E
qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non
sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in
buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella
nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni
degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si
vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza;
sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano
in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è
più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti vani. Il
dolore stesso, parlo di quel dell'animo, per lo più è
vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a
considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna.
Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la
qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai
vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso. E
si può dire che, essendo tutto l'altro vano, alla noia
riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di
sostanzievole e di reale.
Plotino: Sia così.
Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo
adesso considerare il fatto che tu vai disegnando: dico, considerarlo
più strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a
dire che sia sentenza di Platone, come tu sai, che all'uomo non sia
lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità
da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà
degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.
Porfirio:
Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue
dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, comentare,
difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è
seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato
lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché
tale è l'usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io
piuttosto gli abbomino. So ch'egli si dice che Platone spargesse
negli scritti suoi quelle dottrine della vita avvenire, acciocché
gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo
la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità
future, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre
male opere . Che se io stimassi che Platone fosse stato autore di
questi dubbi, e di queste credenze; e che elle fossero sue
invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato
o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora
dell'universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla
nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno
contendere quella maggioranza che noi, per altri titoli, ci
arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà
che le tolga quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva;
dico il principato della infelicità. Tuttavia la natura ci
destinò per medicina di tutti i mali la morte: la quale da
coloro che non molto usassero il discorso dell'intelletto, saria poco
temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo
nella vita nostra, piena di tanti dolori, 'aspettazione é il
pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile, suscitato
da te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo pensiero ogni
dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei
cagione che si veggano gl'infelicissimi mortali temere più il
porto che la tempesta, e rifuggire coll'animo da quel solo rimedio e
riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei
stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità
o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun modo sciorre, né
le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi
simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena
d'affanno, e più misera che la vita. Perciocché per
opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore
alcuno, la quiete e la sicurtà dell'animo sono escluse in
perpetuo dall'ultima ora dell'uomo. Questo mancava, o Platone, a
tanta infelicità della specie umana.
Lascio
che quello effetto che ti avevi proposto, di ritenere gli uomini
dalle violenze e dalle ingiustizie, non ti è venuto fatto.
Perocché quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli
uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a nuocere: nel
corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, i quali hanno
volontà non di nuocere, ma di giovare; spaventano le persone
timide, e le deboli di corpo, le quali alle violenze e alle iniquità
non hanno né la natura inclinata, né sufficiente il
cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e quelli che poco
sentono la potenza della immaginativa; in fine coloro ai quali in
generalità si richiederebbe altro freno che della sola legge;
non ispaventano esse, né tengono dal male operare: come noi
veggiamo per gli esempi quotidianamente, e come la esperienza di
tutti i secoli, da' tuoi dì per insino a oggi, fa manifesto.
Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura dei
costumi e delle menti, conservano nella società degli uomini
la giustizia e la mansuetudine: perocché gli animi dirozzati e
rammorbiditi da un poco di civiltà, ed assuefatti a
considerare alquanto le cose, e ad operare alcun poco l'intendimento;
quasi di necessità e quasi sempre abborriscono dal por mano
nelle persone e nel sangue dei compagni; sono per lo più
alieni dal fare ad altri nocumento in qualunque modo; e rare volte e
con fatica s'inducono a correre quei pericoli che porta seco il
contravvenire alle leggi. Non fanno già questo buono effetto
le immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose fiere e
spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà
dei supplizi che si usino dagli stati, così ancora quelle
accrescono, in un lato la viltà dell'animo, in un altro la
ferocità; principali inimiche e pesti del consorzio umano.
Ma
tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual
guiderdone? Uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno
tollerabile che questa vita. A ciascheduno è palese l'acerbità
di que' tuoi supplicii; ma la dolcezza de' tuoi premii è
nascosa, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d'uomo.
Onde nessuna efficacia possono aver così fatti premii di
allettarci alla rettitudine e alla virtù. E in vero, se molto
pochi ribaldi, per timore di quel suo spaventoso Tartaro si astengono
da alcuna mala azione: mi ardisco io di affermare che mai nessun
buono, in un suo menomo atto, si mosse a bene operare per desiderio
di quel tuo Eliso. Che non può esso alla immaginazione nostra
aver sembianza di cosa desiderabile. Ed oltre che di molto lieve
conforto sarebbe eziandio la espettazione certa di questo bene, quale
speranza hai tu lasciato che ne possano avere anco i virtuosi e i
giusti; se quel tuo Minosse e quello Eaco e Radamanto, giudici
rigidissimi e inesorabili, non hanno a perdonare a qualsivoglia ombra
o vestigio di colpa? E quale uomo è che si possa sentire o
credere così netto e puro come lo richiedi tu? Sicché
il conseguimento di quella qual che si sia felicità viene a
esser quasi impossibile: e non basterà la coscienza della più
retta e della più travagliosa vita ad assicurare l'uomo in
sull'ultimo, dalla incertezza del suo stato futuro, e dallo spavento
dei gastighi. Così per le tue dottrine il timore, superata con
infinito intervallo la speranza, è fatto signore dell'uomo: e
il frutto di esse dottrine ultimamente è questo; che il genere
umano, esempio mirabile d'infelicità in questa vita, si
aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere a
essere dopo quella, assai più infelice. Con che tu hai vinto
di crudeltà, non pur la natura e il fato, ma ogni tiranno più
fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse al mondo.
Ma
con qual barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che
all'uomo non sia lecito di por fine a' suoi patimenti, ai dolori,
alle angosce, vincendo l'orrore della morte, e volontariamente
privandosi dello spirito? Certo non ha luogo negli altri animali il
desiderio di terminar la vita; perché le infelicità
loro hanno più stretti confini che le infelicità
dell'uomo: né avrebbe anco luogo il coraggio di estinguerla
spontaneamente. Ma se pur tali disposizioni cadessero nella natura
dei bruti, nessuno impedimento avrebbero essi al poter morire; nessun
divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi
dai loro mali. Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori
alle bestie: e quella libertà che avrebbero i bruti se loro
accadesse di usarla; quella che la natura stessa, tanto verso noi
avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell'uomo. In
guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser capace del
desiderio della morte, quello solo non abbia in sua mano il morire.
La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo
sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu
accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni i piedi;
sicché non ci sia possibile né schermirci né
ritrarci indietro dai loro colpi. In vero, quando io considero la
grandezza della infelicità umana, io penso che di quella si
debbano più che veruna altra cosa, incolpare le tue dottrine;
e che si convenga agli uomini, assai più dolersi di te che
della natura. La quale se bene, a dir vero, non ci destinò
altra vita che infelicissima; da altro lato però ci diede il
poter finirla ogni volta che ci piacesse. E primieramente non si può
mai dire che sia molto grande quella miseria la quale, solo che io
voglia, può di durazione esser brevissima: poi, quando ben la
persona in effetto non si risolvesse a lasciar la vita, il pensiero
solo di potere ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal
conforto e tale alleggerimento di qualunque calamità, che per
virtù di esso, tutte riuscirebbero facili a sopportare. Di
modo che la gravezza intollerabile della infelicità nostra,
non da altro principalmente si dee riconoscere, che da questo dubbio
di potere per avventura, troncando volontariamente la propria vita,
incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo
maggiore, ma di tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che
posto che il presente sia certo, e quelle pene incerte, nondimeno
ragionevolmente debba il timore di quelle, senza proporzione o
comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si voglia
male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a te agevole a
suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe degli uomini,
che egli sia risoluto. Però nessuna cosa nacque, nessuna è
per nascere in alcun tempo, così calamitosa e funesta alla
specie umana, come l'ingegno tuo.
Queste
cose io direi, se credessi che Platone fosse stato autore o inventore
di quelle dottrine; che io so benissimo che non fu. Ma in ogni modo,
sopra questa materia, s'è detto abbastanza, e io vorrei che
noi la ponessimo da canto.
Plotino: Porfirio,
veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per
questo, che io voglia discorrere per autorità; massimamente
poi teco e in una questione tale: ma io voglio discorrere per
ragione. E se ho toccato così alla sfuggita quella tal
sentenza platonica, io l'ho fatto più per usare come una sorta
di proemio, che per altro. E ripigliando il ragionamento ch'io aveva
in animo, dico che non Platone o qualche altro filosofo solamente, ma
la natura stessa par che c'insegni che il levarci dal mondo di mera
volontà nostra, non sia cosa lecita. Non accade che io mi
distenda circa questo articolo: perché se tu penserai un poco,
non può essere che tu non conosca da te medesimo che
l'uccidersi di propria mano senza necessità, è contro
natura. Anzi, per dir meglio, e l'atto più contrario a natura,
che si possa commettere. Perché tutto l'ordine delle cose
saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che
abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita,
che l'essere ci serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci
è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella
strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente
a qualsivoglia creatura dell'universo, di attendere alla
conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch'è
il contrario appunto dell'uccidersi. E senza altri argomenti, non
sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e
ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto
nostro? Or dunque, poiché questo atto dell'uccidersi, è
contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; io non mi
saprei risolvere che fosse lecito.
Porfirio: Io ho
considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è
impossibile che l'animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi
a pensare sopra questo proposito. Mi pare che alle tue ragioni si
possa rispondere con molte altre, e in più modi: ma studierò
d'esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di morire senza necessità:
io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura
vieta l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o
volontà o potere di farmi né felice né libero da
miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo se la
natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio
della morte; essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e
amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più
principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la
felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni
nostro amore e odio; e che non si fugge la morte, né la vita
si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio e
odio del male e del danno nostro. Come dunque può esser
contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo
modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi
dal mondo: perché mentre son vivo, io non la posso schifare. E
come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi alla
morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar
la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala; poiché
non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per
necessità mi vale e mi conduce in fatto.
Plotino:
A ogni modo queste cose non mi persuadono che l'uccidersi da se
stesso non sia contro natura: perché il senso nostro porta
troppo manifesta contrarietà e abborrimento alla morte: e noi
veggiamo che le bestie; le quali (quando non sieno forzate dagli
uomini o sviate) operano in ogni cosa naturalmente; non solo non
vengono mai a questo atto, ma eziandio per quanto che sieno tribolate
e misere, se ne dimostrano alienissime. E in fine non si trova, se
non fra gli uomini soli qualcuno che lo commette: e non mica fra
quelle genti che hanno un modo di vivere naturale; che di queste non
si troverà niuno che non lo abbomini, se pur ne avrà
notizia o immaginazione alcuna; ma solo fra queste nostre alterate e
corrotte, che non vivono secondo natura.
Porfirio:
Orsù, io ti voglio concedere anco, che questa azione sia
contraria a natura, come tu vuoi. Ma che val questo; se noi non siamo
creature naturali, per dir così? intendo degli uomini
inciviliti. Paragonaci, non dico ai viventi di ogni altra specie che
tu vogli, ma a quelle nazioni là delle parti dell'India e
della Etiopia, le quali, come si dice, ancora serbano quei costumi
primitivi e silvestri; e a fatica ti parrà che si possa dire,
che questi uomini e quelli sieno creature di una specie medesima. E
questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa mutazion di
vita, e massimamente d'animo; io quanto a me, ho avuto sempre per
fermo che non sia stata senza infinito accrescimento d'infelicità.
Certo che quelle genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir
la vita; né anco va loro per la fantasia che la morte si possa
desiderare: dove che gli uomini costumati a questo modo nostro e,
come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte, e alcune se la
procacciano. Ora, se è lecito all'uomo incivilito, e vivere
contro natura, e contro natura essere così misero; perché
non gli sarà lecito morire contro natura? essendo che da
questa infelicità nuova, che risulta a noi dall'alterazione
dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che colla
morte. Che quanto a ritornarci in quello stato primo, e alla vita
disegnataci dalla natura; questo non si potrebbe appena, e in nessun
modo forse, circa l'estrinseco; e per rispetto all'intrinseco, che è
quello che più rileva, senza alcun dubbio sarebbe impossibile
affatto. Qual cosa è manco naturale della medicina? così
di quella che si esercita con la mano, come di quella che opera per
via di farmachi. Che l'una e l'altra, la più parte, sì
nelle operazioni che fanno, e sì nelle materie, negli
strumenti e nei modi che usano, sono lontanissime dalla natura: e i
bruti e gli uomini selvaggi non le conoscono. Nondimeno, perocché
ancora i morbi ai quali esse intendono di rimediare, sono fuor di
natura, e non hanno luogo se non per cagione della civiltà,
cioè della corruttela del nostro stato; perciò queste
tali arti, benché non sieno naturali, sono e si stimano
opportune, e anco necessarie. Così questo atto dell'uccidersi,
il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione,
perché sia contrario alla natura, non seguita che sia
biasimevole: bisognando a mali non naturali, rimedio non naturale. E
saria pur duro ed iniquo che la ragione, la quale per far noi più
miseri che naturalmente non siamo, suol contrariar la natura nelle
altre cose; in questa si confederasse con lei, per torci quello
estremo scampo che ci rimane; quel solo che essa ragione insegna; e
costringerci a perseverare nella miseria.
La
verità è questa, Plotino. Quella natura primitiva degli
uomini antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più
la natura nostra: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi
un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di
quella prima. Non era naturale all'uomo da principio il procacciarsi
la morte volontariamente: ma né anco era naturale il
desiderarla. Oggi e questa cosa e quella sono naturali; cioè
conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo essa ancora e
movendosi necessariamente come l'antica, verso ciò che
apparisce essere il nostro meglio; fa che noi molte volte desideriamo
e cerchiamo quello che veramente è il maggior bene dell'uomo,
cioè la morte. E non è maraviglia: perciocché
questa seconda natura è governata e diretta nella maggior
parte dalla ragione. La quale afferma per certissimo, che la morte,
non che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva;
anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più
desiderabile agli uomini, e la migliore. Adunque domando io: misurano
gli uomini inciviliti le altre azioni loro dalla natura primitiva?
Quando, e quale azione mai? Non dalla natura primitiva, ma da
quest'altra nostra, o pur vogliamo dire dalia ragione. Perché
questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non
dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva? Perché
dovrà la natura primitiva, la quale non dà più
legge alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee
la ragione governar la morte, poiché regge la vita? E noi
veggiamo che in fatto, sì la ragione, e sì le
infelicità del nostro stato presente, non solo estinguono,
massime negli sfortunati e afflitti, quello abborrimento ingenito
della morte che tu dicevi; ma lo cangiano in desiderio e amore, come
io ho detto innanzi. Nato il qual desiderio e amore, che secondo
natura, non sarebbe potuto nascere; e stando la infelicità
generata dall'alterazione nostra, e non voluta dalla natura; saria
manifesta repugnanza e contraddizione, che ancora avesse luogo il
divieto naturale di uccidersi. Questo pare a me che basti, quanto a
sapere se l'uccider se stesso sia lecito. Resta se sia utile.
Plotino: Di cotesto non accade che tu mi parli,
Porfirio mio: che quando cotesta azione sia lecita (perché una
che non sia giusta né retta non concedo che possa esser di
utilità), io non ho dubbio nessuno che non sia utilissima.
Perché la quistione in somma si riduce a questo: quale delle
due cose sia la migliore; il non patire, o il patire. So ben io che
il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe eletto da quasi
tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non godere:
tanto è il desiderio, e per così dir, la sete, che
l'animo ha del godimento. Ma la deliberazione non cade fra questi
termini: perché il godimento e il piacere, a parlar proprio e
diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è
inevitabile. E dico un patimento così continuo, come è
continuo il desiderio e il bisogno che abbiamo del godimento e della
felicità, il quale non è adempiuto mai: lasciando
ancora da un lato i patimenti particolari ed accidentali che
intervengono a ciascun uomo, e che sono parimente certi; intendo
dire, è certo che ne debbono intervenire (più o meno, e
d'una qualità o d'altra), eziandio nella più
avventurosa vita del mondo. E per verità, un patimento solo e
breve, che la persona fosse certa che, continuando essa a vivere, le
dovesse accadere; saria sufficiente a fare che, secondo ragione, la
morte fosse da anteporre alla vita: perché questo tal
patimento non avrebbe compensazione alcuna; non potendo occorrere
nella vita nostra un bene o un diletto vero.
Porfirio:
A me pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza
di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar
desiderio di finir la vita, anco a chi si trovi in istato e in
fortuna, non solamente non cattiva, ma prospera. E più volte
mi sono maravigliato che in nessun luogo si vegga fatta menzione di
principi che sieno voluti morire per tedio solamente, e per sazietà
dello stato proprio; come di genti private e si legge, e odesi
tuttogiorno. Quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico,
recitare quelle sue lezioni della miseria della vita; uscendo della
scuola, andavano e si uccidevano: onde esso Egesia fu detto per
soprannome il persuasor di morire; e si dice, come credo che
tu sappi, che all'ultimo il re Tolomeo gli vietò che non
disputasse più oltre in quella materia . Che se bene si trova
di alcuni, come del re Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano, e
forse di alquanti altri principi, che si uccisero da se stessi;
questi tali si mossero per trovarsi allora in avversità e in
miseria, e per isfuggirne di più gravi. Ora a me sarebbe
paruto credibile che i principi più facilmente che gli altri,
concepissero odio del loro stato, e fastidio di tutte le cose; e
desiderassero di morire. Perché, essendo eglino in sulla cima
di quella che chiamasi felicità umana, avendo pochi altri a
sperare, o nessuno forse, di quelli che si dimandano beni della vita
(poiché li posseggono tutti); non si possono prometter
migliore il domani che il giorno d'oggi. E sempre il presente, per
fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può
piacere. Ma come che sia di ciò; in fine, noi possiamo
conoscere che (eccetto il timor delle cose di un altro mondo) quello
che ritiene gli uomini che non abbandonino la vita spontaneamente; e
quel che gl'induce ad amarla, e a preferirla alla morte; non è
altro che un semplice e un manifestissimo errore, per dir così,
di computo e di misura: cioè un errore che si fa nel
computare, nel misurare, e nel paragonar tra loro, gli utili o i
danni. Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte,
quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero
acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla
volontà, o sia col fatto solo.
Plotino: Così
è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch'io
ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie,
intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione.
E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e
dell'universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene
ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e
malefica, che non siamo stati noi coll'ingegno proprio, colla
curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi
discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e
particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra
infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior
parte. E quantunque sia grande l'alterazione nostra, e diminuita in
noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla,
né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in
ciascuno gran parte dell'uomo antico. Il che, mal grado che n'abbia
la stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco,
questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno
grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli
stupidi solamente e dagl'idioti, ma dagl'ingegnosi, dai dotti, dai
saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha
prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il
raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a
me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso
della nullità delle cose, della vanità delle cure,
della solitudine dell'uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che
possa durare assai: benché queste disposizioni dell'animo
sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma
contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la
disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito,
per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto
alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane
ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche
cura; non veramente all'intelletto; ma sì, per modo di dire,
al senso dell'animo. E ciò basta all'effetto di fare che la
persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità,
nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e
proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso
(si può dire), e non l'intelletto, è quello che ci
governa.
Sia
ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla
vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee
piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché
anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei
congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della
moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati
di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e
non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né
terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di
persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene
che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né
lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che
egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno
come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni
della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento
della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in
quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si
possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre,
della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver
per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti,
degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì
fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro.
Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e
i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di
se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura
né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità
propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del
privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più
sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo,
che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosi, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.
DIALOGO DI UN VENDITORE D'ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE
Venditore:
Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore,
almanacchi?
Passeggere: Almanacchi per l'anno
nuovo?
Venditore: Si signore.
Passeggere:
Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore:
Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere: Come
quest'anno passato?
Venditore: Più più
assai.
Passeggere: Come quello di là?
Venditore:
Più più, illustrissimo.
Passeggere: Ma
come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come
qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore: Signor
no, non mi piacerebbe.
Passeggere: Quanti anni
nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore:
Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere: A
quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno
venturo?
Venditore: Io? non saprei.
Passeggere:
Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse
felice?
Venditore: No in verità,
illustrissimo.
Passeggere: E pure la vita è
una cosa bella. Non è vero?
Venditore:
Cotesto si sa.
Passeggere: Non tornereste voi a
vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando
da che nasceste?
Venditore: Eh, caro signore,
piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere: Ma se
aveste a rifare la vita che avete fatta né più né
meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete
passati?
Venditore: Cotesto non vorrei.
Passeggere:
Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella
del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il
principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto;
e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno
vorrebbe tornare indietro?
Venditore: Lo credo
cotesto.
Passeggere: Né anche voi tornereste
indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore:
Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere: Oh che
vita vorreste voi dunque?
Venditore: Vorrei una vita
così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere:
Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno
nuovo?
Venditore: Appunto.
Passeggere:
Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così
tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno,
ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è
d'opinione che sia stato più o di più peso il male che
gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima,
con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere.
Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si
conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la
futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene
voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice.
Non è vero?
Venditore: Speriamo.
Passeggere:
Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore:
Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere:
Ecco trenta soldi.
Venditore: Grazie, illustrissimo:
a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO
Amico:
Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano:
Sì, al mio solito.
Amico: Malinconico,
sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran
brutta cosa.
Tristano: Che v'ho a dire? io aveva
fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico:
Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
Tristano:
No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi
cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era
tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorché
sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel
proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere
prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che
nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali
osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le
mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in
cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non
qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non
è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto
d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima
rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più
giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me
stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in
generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è
necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così
fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero e
tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda
uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini
universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e
pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa
altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre,
non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a
proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante
scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla,
né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare.
Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe
fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché,
oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due
prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le
altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E
gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili
sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le
opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro
vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca , alla loro
fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque
sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che
loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad
accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più
iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa
desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e
ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del
mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti
innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano
innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi
ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono,
essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre
degl'inganni non dell'immaginazione, ma dell'intelletto. Se questi
miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano,
calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e
ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di
ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non
dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare
tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se
non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera
compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa
crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me,
quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia;
vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose
nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai
ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e
i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono
pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti
l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l'uomo è
il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è
non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno
che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose
infinite su questo andare . E anche mi ricordai che da quei tempi
insino a ieri o all'altr'ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli
scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano
ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di
nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e
il riso passai molto tempo: finché studiando più
profondamente questa materia, conobbi che l'infelicità
dell'uomo era uno degli errori inveterati dell'intelletto, e che la
falsità di questa opinione, e la felicità della vita,
era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora
m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a credere quello ch'io
credeva.
Amico: E avete cambiata opinione?
Tristano:
Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle verità scoperte dal
secolo decimonono?
Amico: E credete voi tutto quello
che crede il secolo?
Tristano: Certamente. Oh che
maraviglia?
Amico: Credete dunque alla
perfettibilità indefinita dell'uomo?
Tristano:
Senza dubbio.
Amico: Credete che in fatti la specie
umana vada ogni giorno migliorando?
Tristano: Sì
certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi
valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il
corpo e l'uomo; perché (lasciando tutto il resto) la
magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la
potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita,
dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che
sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio;
perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che
vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è
per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu
ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già
da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo,
cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo
coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando
questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse
rimediare in ciò all'educazione, non si potrebbe mai senza
mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare
rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e
pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono
anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano
a depravarlo. L'effetto è che a paragone degli antichi noi
siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto
nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo
così degl'individui paragonati agl'individui, come delle masse
(per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle
masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più
virili di noi anche ne' sistemi di morale e di metafisica. A ogni
modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo
costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.
Amico:
Credete ancora, già s'intende, che il sapere, o, come si dice,
i lumi, crescano continuamente.
Tristano:
Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà
d'imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa
maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano
contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più
tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello
dell'età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi
perché in generale le cognizioni non sono più
accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che la copia di
questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono
come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la
stessa somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perché la
scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione
superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma
comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a
chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati
i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso
individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto
ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora,
eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata
ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi
uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste
riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o
forse sofisticare; non ch'io non sia persuaso di ciò che voi
dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d'ignoranti
impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall'altro, nondimeno
crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di
continuo.
Amico: In conseguenza, credete che questo
secolo sia superiore a tutti i passati.
Tristano:
Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche
i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con
lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri
secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che
appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico: In somma, per ridurre il tutto in due
parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle
cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di
politica) quello che ne pensano i giornali?
Tristano:
Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i
quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio,
massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età
presente. Non è vero?
Amico: Verissimo. Se
cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete
diventato de' nostri.
Tristano: Sì
certamente, de' vostri.
Amico: Oh dunque, che farete
del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così
contrari alle opinioni che ora avete?
Tristano: Ai
posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile
che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo
mio, ma a riguardo d'individui o di cose individuali del secolo
decimonono, intendete bene che non v'è timore di posteri, i
quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl'individui
sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori
moderni. Il che vuol dire ch'è inutile che l'individuo si
prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né
anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare
né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le
quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte
d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti
d'individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare
al proposito del libro e de' posteri, i libri specialmente, che ora
per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a
leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così
durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il
secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l'immensa
bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho
biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali
trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro.
Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che
da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò
più che leggere, allora metterò mano ai libri
improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi,
e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere
per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E
questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli
altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così
a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il
grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l'indole
del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in
perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per
divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico,
uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è
divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti
insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità
o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che
consista in parte la differenza ch'è da questo agli altri
secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato
rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in
questo la nullità. Onde è tale il romore e la
confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna
attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali,
nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più
possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl'infimi
si credono illustri, l'oscurità e la nullità dell'esito
diviene il fato comune e degl'infimi e de' sommi. Ma viva la
statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le
enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del
nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di
cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno
ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni,
questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue
ragioni.
Amico: Voi parlate, a quanto pare, un poco
ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che questo è
un secolo di transizione.
Tristano: Oh che
conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono
stati e saranno di transizione, perché la società umana
non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel
quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta
bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale
scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare,
andando la società per la via che oggi si tiene, a che si
debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal
bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la
presente è transizione per eccellenza, cioè un
passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro
diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di
cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni
conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un
tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi
rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La
ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la
natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio,
quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma
non reali.
Amico: Vi prego, non fate di cotesti
discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti
nemici.
Tristano: Poco importa. Oramai né
nimici né amici mi faranno gran male.
Amico:
O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente
della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà
e dei lumi.
Tristano: Mi dispiace molto, ma che s'ha
a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
Amico:
Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s'ha egli a fare di
questo libro?
Tristano: Bruciarlo è il
meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni
poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come
un'espressione dell'infelicità dell'autore: perché in
confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli
altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono
infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non
mi persuaderanno il contrario.
Amico: Io non conosco
le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia
felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la
persona stessa, e il giudizio di questa non può
fallare.
Tristano: Verissimo. E di più vi
dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità,
né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno
gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra
ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta
credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da
pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo
che, giunta l'ora, il fatto non ismentirà le mie parole;
perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia
vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l'ora
ch'io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi
pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono
spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola
della vita, durare ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono
minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io
rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per
così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare
un sogno e un'illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno
mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non
posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la
via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è
il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi
maraviglio d'aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di
gloria e d'immortalità, sono cose delle quali è anche
passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo
secolo non rido: desidero loro con tutta l'anima ogni miglior
successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e
sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i
posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In
altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che
hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato
con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né
savi, né grandi né piccoli, né deboli né
potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni
immaginazione piacevole, ogni pensiero dell'avvenire, ch'io fo, come
accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo,
consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in
questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il
pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come
solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e
così contento, come se mai null'altro avessi sperato né
desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio che può
riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna
e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro
di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non
vorrei tempo a risolvermi.