Giacomo Leopardi
PENSIERI
Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui
sotto, perché, oltre che la natura mia era troppo rimota da
esse, e che l'animo tende sempre a giudicare gli altri da se
medesimo, la mia inclinazione non è stata mai d'odiare gli
uomini, ma di amarli. In ultimo l'esperienza quasi violentemente me
le ha persuase: e sono certo che quei lettori che si troveranno aver
praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che
quello ch'io sono per dire è vero tutti gli altri lo terranno
per esagerato, finché l'esperienza, se mai avranno occasione
di veramente fare esperienza della società umana, non lo ponga
loro dinanzi agli occhi.
Dico
che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene,
e di vili contro i generosi. Quando due o più birbanti si
trovano insieme la prima volta, facilmente e come per segni si
conoscono tra loro per quello che sono; e subito si accordano; o se i
loro interessi non patiscono questo, certamente provano inclinazione
l'uno per l'altro, e si hanno gran rispetto. Se un birbante ha
contrattazioni e negozi con altri birbanti, spessissimo accade che si
porta con lealtà e che non gl'inganna, se con genti onorate, è
impossibile che non manchi loro di fede, e dovunque gli torna comodo,
non cerchi di rovinarle; ancorché sieno persone animose, e
capaci di vendicarsi, perché ha speranza, come quasi sempre
gli riesce, di vincere colle sue frodi la loro bravura. Io ho veduto
più volte uomini paurosissimi, trovandosi fra un birbante più
pauroso di loro, e una persona da bene piena di coraggio, abbracciare
per paura le parti del birbante: anzi questa cosa accade sempre che
le genti ordinarie si trovano in occasioni simili: perché le
vie dell'uomo coraggioso e da bene sono conosciute e semplici, quelle
del ribaldo sono occulte e infinitamente varie. Ora, come ognuno sa,
le cose ignoto fanno più paura che le conosciute; e facilmente
uno si guarda dalle vendette del generosi, dalle quali la stessa
viltà e la paura ti salvano; ma nessuna paura e nessuna viltà
è bastante a scamparti dalle persecuzioni segrete, dalle
insidie, né dai colpi anche palesi che ti vengono dai nemici
vili. Generalmente nella vita quotidiana il vero coraggio è
temuto pochissimo; anche perché, essendo scompagnato da ogni
impostura, è privo di quell'apparato che rende le cose
spaventevoli; e spesso non gli e creduto; e i birbanti sono temuti
anche come coraggiosi perché, per virtù d'impostura,
molte volte sono tenuti tali.
Rari sono i birbanti poveri: perché, lasciando tutto l'altro,
se un uomo da bene cade in povertà, nessuno lo soccorre, e
molti se ne rallegrano, ma se un ribaldo diventa povero, tutta la
città si solleva per aiutarlo. La ragione si può
intendere di leggeri: ed è che naturalmente noi siamo tocchi
dalle sventure di chi ci è compagno e consorte, perché
pare che sieno altrettante minacce a noi stessi; e volentieri,
potendo, vi apprestiamo rimedio, perché il trascurarle pare
troppo chiaramente un acconsentire dentro noi medesimi che,
nell'occasione, il simile sia fatto a noi. Ora i birbanti, che al
mondo sono i più di numero, e i più copiosi di facoltà,
tengono ciascheduno gli altri birbanti, anche non cogniti a se di
veduta, per compagni e consorti loro, e nei bisogni si sentono tenuti
a soccorrerli per quella specie di lega, come ho detto, che v'è
tra essi. Ai quali anche pare uno scandalo che un uomo conosciuto per
birbante sia veduto nella miseria, perché questa dal mondo,
che sempre in parole è onoratore della virtù,
facilmente in casi tali è chiamata gastigo, cosa che ritorna
in obbrobrio, e che può ritornare in danno, di tutti loro.
Però in tor via questo scandalo si adoperano tanto
efficacemente, che pochi esempi si vedono di ribaldi, salvo se non
sono persone del tutto oscure, che caduti in mala fortuna, non
racconcino le cose loro in qualche modo comportabile
All'opposto i buoni e i magnanimi, come diversi dalla generalità,
sono tenuti dalla medesima quasi creature d'altra specie, e
conseguentemente non solo non avuti per consorti né per
compagni, ma stimati non partecipi dei diritti sociali, e, come
sempre si vede, perseguitati tanto più o meno gravemente,
quanto la bassezza d'animo e la malvagità del tempo e del
popolo nei quali si abbattono a vivere, sono più o meno
insigni; perché come nei corpi degli animali la natura tende
sempre a purgarsi di quegli umori e di quei principii che non si
confanno con quelli onde propriamente si compongono essi corpi, così
nelle aggregazioni di molti uomini la stessa natura porta che
chiunque differisce grandemente dall'universale di quelli, massime se
tale differenza è anche contrarietà, con ogni sforzo
sia cercato distruggere o discacciare. Anche sogliono essere
odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono
sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal
genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il
male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte,
mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina
è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi
a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché
in parole ne sieno salvi.
Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che
sono tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica
pochissimi veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella
prima età. Lascio stare che, parlando di quelli che vivono di
entrata, colui che ha il padre vivo, comunemente è un uomo
senza facoltà; e per conseguenza non può nulla nel
mondo: tanto più che nel tempo stesso è facoltoso in
aspettativa, onde non si dà pensiero di procacciarsi roba
coll'opera propria; il che potrebbe essere occasione a grandi fatti;
caso non ordinario però, poiché generalmente quelli che
hanno fatto cose grandi, sono stati o copiosi o certo abbastanza
forniti de' beni della fortuna insino dal principio. Ma lasciando
tutto questo, la potestà paterna appresso tutte le nazioni che
hanno leggi, porta seco una specie di schiavitù de' figliuoli;
che, per essere domestica, è più stringente e più
sensibile della civile; e che, comunque possa essere temperata o
dalle leggi stesse, o dai costumi pubblici, o dalle qualità
particolari de]le persone, un effetto dannosissimo non manca mai di
produrre: e questo è un sentimento che l'uomo, finché
ha il padre vivo, porta perpetuamente nell'animo; confermatogli
dall'opinione che visibilmente ed inevitabilmente ha di lui la
moltitudine. Dico un sentimento di soggezione e di dependenza, e di
non essere libero signore di se medesimo, anzi di non essere, per dir
così, una persona intera, ma una parte e un membro solamente,
e di appartenere il suo nome ad altrui più che a se. Il qual
sentimento, più profondo in coloro che sarebbero più
atti alle cose, perché avendo lo spirito più svegliato,
sono più capaci Gi sentire, e più oculati ad accorgersi
della verità della propria condizione, è quasi
impossibile che vada insieme, non dirò col fare, ma col
disegnare checchessia di grande. E passata in tal modo la gioventù,
l'uomo che in età di quaranta o di cinquant'anni sente per la
prima volta di essere nella potestà propria, è
soverchio il dire che non prova stimolo, e che, se ne provasse, non
avrebbe più impeto né forze né tempo sufficienti
ad azioni grandi. Così anche in questa parte si verifica che
nessun bene si può avere al mondo, che non sia accompagnato da
mali della stessa misura: poiché l'utilità inestimabile
del trovarsi innanzi nella giovanezza una guida esperta ed amorosa,
quale non può essere alcuno così come il proprio padre,
è compensata da una sorte di nullità e della giovanezza
e generalmente della vita.
La sapienza economica di questo secolo si può misurare dal
corso che hanno le edizioni che chiamano compatte, dove è poco
il consumo della carta, e infinito quello della vista. Sebbene in
difesa del risparmio della carta nei libri, si può allegare
che l'usanza del secolo è che si stampi molto e che nulla si
legga. Alla quale usanza appartiene anche l'avere abbandonati i
caratteri tondi, che si adoperarono comunemente in Europa ai secoli
addietro, e sostituiti in loro vece i caratteri lunghi, aggiuntovi il
lustro della carta; cose quanto belle a vederle, tanto e più
dannose agli occhi nella lettura; ma ben ragionevoli in un tempo nel
quale i libri si stampano per vedere e non per leggere.
Questo che segue, non è un pensiero, ma un racconto, ch'io
pongo qui per isvagamento del lettore. Un mio amico, anzi compagno
della mia vita, Antonio Ranieri, giovane che, se vive, e se gli
uomini non vengono a capo di rendere inutili i doni ch'egli ha dalla
natura, presto sarà significato abbastanza dal solo nome,
abitava meco nel 1831 in Firenze. Una sera di state, passando per Via
buia, trovò in sul canto, presso alla piazza del Duomo, sotto
una finestra terrena del palazzo che ora è de' Riccardi,
fermata molta gente, che diceva tutta spaventata: ih, la fantasima! E
guardando per la finestra nella stanza, dove non era altro lume che
quello che vi batteva dentro da una delle lanterne della città,
vide egli stesso come un'ombra di donna, che scagliava le braccia di
qua e di là, e nel resto immobile. Ma avendo pel capo altri
pensieri, passò oltre, e per quella sera né per tutto
il giorno vegnente non si ricordò di quell'incontro.
L'altra sera, alla stessa ora, abbattendosi a ripassare dallo stesso
luogo, vi trovò raccolta più moltitudine che la sera
innanzi, e udì che ripetevano collo stesso terrore: ih, la
fantasima! E riguardando per entro la finestra, rivide quella stessa
ombra, che pure, senza fare altro moto, scoteva le braccia. Era la
finestra non molto più alta da terra che una statura d'uomo, e
uno tra la moltitudine che pareva un birro, disse: s'i' avessi
qualcuno che mi sostenessi 'n sulle spalle, i' vi monterei, per
guardare che v'è là drento. Al che soggiunse il
Ranieri: se voi mi sostenete, monterò io. E dettogli da
quello, montate, montò su, ponendogli i piedi in su gli omeri,
e trovò presso all'inferriata della finestra, disteso in sulla
spalliera di una seggiola, un grembiale nero, che agitato dal vento,
faceva quell'apparenza di braccia che si scagliassero; e sopra la
seggiola, appoggiata alla medesima spalliera, una rocca da filare,
che pareva il capo dell'ombra: la quale rocca il Ranieri presa in
mano, mostrò al popolo adunato, che con molto riso si
disperse.
A che questa
storiella? Per ricreazione, come ho detto, de' lettori, e inoltre per
un sospetto ch'io ho, che ancora possa essere non inutile alla
critica storica ed alla filosofia sapere che nel secolo decimonono,
nel bel mezzo di Firenze, che è la città più
culta d'Italia, e dove il popolo in particolare è più
intendente e più civile, si veggono fantasmi, che sono creduti
spiriti, e sono rocche da filare. E gli stranieri si tengano qui di
sorridere, come fanno volentieri delle cose nostre; perché
troppo è noto che nessuna delle tre grandi nazioni che, come
dicono i giornali, marchent à la tete de la civilisation,
crede agli spiriti meno dell'italiana.
Nelle cose occulte vede meglio sempre il minor numero, nelle palesi
il maggiore. È assurdo l'addurre quello che chiamano consenso
delle genti nelle quistioni metafisiche: del qual consenso non si fa
nessuna stima nelle cose fisiche, e sottoposte ai sensi; come per
esempio nella quistione del movimento della terra, e in mille altre.
Ed all'incontro è temerario, pericoloso, ed, al lungo andare,
inutile, il contrastare all'opinione del maggior numero nelle materie
civili.
La morte non è male: perché libera l'uomo da tutti i
mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è
male sommo: perché priva l'uomo di tutti i piaceri,
lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno
gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza.
Havvi, cosa strana a dirsi, un disprezzo della morte e un coraggio più abbietto e più disprezzabile che la paura: ed è quello de' negozianti ed altri uomini dediti a far danari, che spessissime volte, per guadagni anche minimi, e per sordidi risparmi, ostinatamente ricusano cautele e provvidenze necessarie alla loro conservazione, e si mettono a pericoli estremi, dove non di rado, eroi vili, periscono con morte vituperata. Di quest'obbrobrioso coraggio si sono veduti esempi insigni, non senza seguirne danni e stragi de' popoli innocenti, nell'occasione della peste, chiamata più volentieri cholera morbus, che ha flagellata la specie umana in questi ultimi anni.
Uno degli errori gravi nei quali gli uomini incorrono giornalmente, è
di credere che sia tenuto loro il segreto. Né solo il segreto
di ciò che essi rivelano in confidenza, ma anche di ciò
che senza loro volontà, o mal grado loro, è veduto o
altrimenti saputo da chicchessia, e che ad essi converrebbe che fosse
tenuto occulto. Ora io dico che tu erri ogni volta che sapendo che
una cosa tua è nota ad altri che a te stesso, non tieni già
per fermo che ella sia nota al pubblico, qualunque danno o vergogna
possa venire a te di questo. A gran fatica per la considerazione
dell'interesse proprio, si tengono gli uomini di non manifestare le
cose occulte; ma in causa d'altri, nessuno tace: e se vuoi
certificarti di questo, esamina te stesso, e vedi quante volte o
dispiacere o danno o vergogna che ne venga ad altri, ti ritengono di
non palesare cosa che tu sappi; di non palesarla, dico, se non a
molti, almeno a questo o a quell'amico, che torna il medesimo. Nello
stato sociale nessun bisogno è più grande che quello di
chiacchierare, mezzo principalissimo di passare il tempo, ch'è
una delle prime necessità della vita. E nessuna materia di
chiacchiere è più rara che una che svegli la curiosità
e scacci la noia: il che fanno le cose nascoste e nuove. Però
prendi fermamente questa regola: le cose che tu non vuoi che si
sappia che tu abbi fatte, non solo non le ridire, ma non le fare. E
quelle che non puoi fare che non sieno o che non sieno state, abbi
per certo che si sanno, quando bene tu non te ne avvegga.
Chi contro all'opinione d'altri ha predetto il successo di una cosa
nel modo che poi segue, non si pensi che i suoi contraddittori,
veduto il fatto, gli dieno ragione, e lo chiamino più savio o
più intendente di loro: perché o negheranno il fatto, o
la predizione, o allegheranno che questa e quello differiscano nelle
circostanze, o in qualunque modo troveranno cause per le quali si
sforzeranno di persuadere a se stessi e agli altri che l'opinione
loro fu retta, e la contraria torta.
La maggior parte delle persone che deputiamo a educare i figliuoli,
sappiamo di certo non essere state educate. Né dubitiamo che
non possano dare quello che non hanno ricevuto, e che per altra via
non si acquista.
V'è qualche secolo che, per tacere del resto, nelle arti e
nelle discipline presume di rifar tutto, perché nulla sa fare.
Colui che con fatiche e con patimenti, o anche solo dopo molto
aspettare, ha conseguito un bene, se vede altri conseguire il
medesimo con facilità e presto, in fatti non perde nulla di
ciò che possiede, e nondimeno tal cosa è naturalmente
odiosissima, perché nell'immaginativa il bene ottenuto scema a
dismisura se diventa comune a chi per ottenerlo ha speso e penato
poco o nulla. Perciò l'operaio della parabola evangelica si
duole come d'ingiuria fatta a se, della mercede uguale alla sua, data
a quelli che avevano lavorato meno; e i frati di certi ordini hanno
per usanza di trattare con ogni sorte di acerbità i novizi,
per timore che non giungano agiatamente a quello stato al quale essi
sono giunti con disagio.
Bella ed amabile illusione è quella per la quale i dì
anniversari di un avvenimento, che per verità non ha a fare
con essi più che con qualunque altro dì dell'anno,
paiono avere con quello un'attinenza particolare, e che quasi
un'ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci
sia davanti: onde è medicato in parte il tristo pensiero
dell'annullamento di ciò che fu, e sollevato il dolore di
molte perdite, parendo che quelle ricorrenze facciano che ciò
che è passato, e che più non torna, non sia spento né
perduto del tutto. Come trovandoci in luoghi dove sieno accadute cose
o per se stesse o verso di noi memorabili, e dicendo, qui avvenne
questo, e qui questo, ci reputiamo, per modo di dire, più
vicini a quegli avvenimenti, che quando ci troviamo altrove; così
quando diciamo, oggi è l'anno, o tanti anni, accadde la tal
cosa, ovvero la tale, questa ci pare, per dir così, più
presente, o meno passata, che negli altri giorni. E tale
immaginazione è sì radicata nell'uomo, che a fatica
pare che si possa credere che l'anniversario sia così alieno
dalla cosa come ogni altro dì: onde il celebrare annualmente
le ricordanze importanti, sì religiose come civili, sì
pubbliche come private, i dì natalizi e quelli delle morti
delle persone care, ed altri simili, fu comune, ed è, a tutte
le nazioni che hanno, ovvero ebbero, ricordanze e calendario. Ed ho
notato, interrogando in tal proposito parecchi, che gli uomini
sensibili, ed usati alla solitudine, o a conversare internamente,
sogliono essere studiosissimi degli anniversari, e vivere, per dir
così, di rimembranze di tal genere, sempre riandando, e
dicendo fra sé: in un giorno dell'anno come il presente mi
accadde questa o questa cosa.
Non sarebbe piccola infelicità degli educatori, e soprattutto
dei parenti, se pensassero, quello che è verissimo, che i loro
figliuoli, qualunque indole abbiano sortita, e qualunque fatica,
diligenza e spesa si ponga in educarli, coll'uso poi del mondo, quasi
indubitabilmente, se la morte non li previene, diventeranno malvagi.
Forse questa risposta sarebbe più valida e più
ragionevole di quella di Talete, che dimandato da Solone perché
non si ammogliasse, rispose mostrando le inquietudini dei genitori
per gl'infortunii e i pericoli de' figliuoli. Sarebbe, dico, più
valido e più ragionevole lo scusarsi dicendo di non volere
aumentare il numero dei malvagi.
Chilone, annoverato fra i sette sapienti della Grecia, ordinava che
l'uomo forte di corpo, fosse dolce di modi, a fine, diceva,
d'ispirare agli altri più riverenza che timore. Non è
mai soverchia l'affabilità, la soavità de' modi, e
quasi l'umiltà in quelli che di bellezza o d'ingegno o d'altra
cosa molto desiderata nel mondo, sono manifestamente superiori alla
generalità: perché troppo grave è la colpa della
quale hanno a impetrar perdono, e troppo fiero e difficile il nemico
che hanno a placare; l'una la superiorità, e l'altro
l'invidia. La quale credevano gli antichi, quando si trovavano in
grandezze e in prosperità, che convenisse placare negli stessi
Dei, espiando con umiliazioni, con offerte e con penitenze volontarie
il peccato appena espiabile della felicità o dell'eccellenza.
Se al colpevole e all'innocente, dice Ottone imperatore appresso
Tacito, è apparecchiata una stessa fine, è più
da uomo il perire meritamente. Poco diversi pensieri credo che sieno
quelli di alcuni, che avendo animo grande e nato alla virtù,
entrati nel mondo, e provata l'ingratitudine, l'ingiustizia, e
l'infame accanimento degli uomini contro i loro simili, e più
contro i virtuosi, abbracciano la malvagità, non per
corruttela, né tirati dall'esempio, come i deboli; né
anche per interesse, né per troppo desiderio dei vili e
frivoli beni umani; né finalmente per isperanza di salvarsi
incontro alla malvagità generale; ma per un'elezione libera, e
per vendicarsi degli uomini, e rendere loro il cambio, impugnando
contro di essi le loro armi. La malvagità delle quali persone
è tanto più profonda, quanto nasce da esperienza della
virtù; e tanto più formidabile, quanto è
congiunta, cosa non ordinaria, a grandezza e fortezza d'animo, ed è
una sorte d'eroismo.
Come le prigioni e le galee sono piene di genti, a dir loro,
innocentissime, così gli uffizi pubblici e le dignità
d'ogni sorte non sono tenute se non da persone chiamate e costrette a
ciò loro mal grado. È quasi impossibile trovare alcuno
che confessi di avere o meritato pene che soffra, o cercato né
desiderato onori che goda: ma forse meno possibile questo, che
quello.
Io vidi in Firenze uno che strascinando, a modo di bestia da tiro,
come colà è stile, un carro colmo di robe, andava con
grandissima alterigia gridando e comandando alle persone di dar
luogo; e mi parve figura di molti che vanno pieni d'orgoglio,
insultando agli altri, per ragioni non dissimili da quella che
causava l'alterigia in colui, cioè tirare un carro.
V'ha alcune poche persone al mondo, condannate a riuscir male cogli
uomini in ogni cosa, a cagione che, non per inesperienza né
per poca cognizione della vita sociale, ma per una loro natura
immutabile, non sanno lasciare una certa semplicità di modi,
privi di quelle apparenze e di non so che mentito ed artifiziato, che
tutti gli altri, anche senza punto avvedersene, ed anche gli
sciocchi, usano ed hanno sempre nei modi loro, e che è in loro
e ad essi medesimi malagevolissimo a distinguere dal naturale. Quelli
ch'io dico, essendo visibilmemte diversi dagli altri, come riputati
inabili alle cose del mondo, sono vilipesi e trattati male anco
dagl'inferiori, e poco ascoltati o ubbiditi dai dipendenti: perché
tutti si tengono da più di loro, e li mirano con alterigia.
Ognuno che ha a fare con essi, tenta d'ingannarli e di danneggiarli a
profitto proprio più che non farebbe con altri, credendo la
cosa più facile, e poterlo fare impunemente: onde da tutte le
parti è mancato loro di fede, e usate soverchierie, e conteso
il giusto e il dovuto. In qualunque concorrenza sono superati, anche
da molto inferiori a loro, non solo d'ingegno o d'altre qualità
intrinseche, ma di quelle che il mondo conosce ed apprezza
maggiormente, come bellezza, gioventù, forza, coraggio, ed
anche ricchezza. Finalmente qualunque sia il loro stato nella
società, non possono ottenere quel grado di considerazione che
ottengono gli erbaiuoli e i facchini. Ed è ragione in qualche
modo; perché non è piccolo difetto o svantaggio di
natura, non potere apprendere quello che anche gli stolidi apprendono
facilissimamente, cioè quell'arte che sola fa parere uomini
gli uomini ed i fanciulli: non potere, dico, non ostante ogni sforzo.
Poiché questi tali, quantunque di natura inclinati al bene,
pure conoscendo la vita e gli uomini meglio di molti altri, non sono
punto, come talora paiono, più buoni di quello che sia lecito
essere senza meritare l'obbrobrio di questo titolo; e sono privi
delle maniere del mondo non per bontà, o per elezione propria,
ma perché ogni loro desiderio e studio d'apprenderle ritorna
vano. Sicché ad essi non resta altro, se non adattare l'animo
alla loro sorte, e guardarsi soprattutto di non voler nascondere o
dissimulare quella schiettezza e quel fare naturale che è loro
proprio: perché mai non riescono così male, né
così ridicoli, come quando affettano l'affettazione ordinaria
degli altri.
Se avessi l'ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare,
come egli la Spagna dall'imitazione de' cavalieri erranti, così
io l'Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio che, avendo
rispetto alla mansuetudine dei costumi presenti, e forse anche in
ogni altro modo, non è meno crudele né meno barbaro di
qualunque avanzo della ferocia de' tempi medii castigato dal
Cervantes. Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i
componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli
addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che
il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è
trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una
calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana.
E non è scherzo ma verità il dire, che per lui le
conoscenze sono sospette e le amicizie pericolose, e che non v'è
ora né luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di
essere assaltato, e sottoposto quivi medesimo, o strascinato altrove,
al supplizio di udire prose senza fine o versi a migliaia, non più
sotto scusa di volersene intendere il suo giudizio, scusa che già
lungamente fu costume di assegnare per motivo di tali recitazioni, ma
solo ed espressamente per dar piacere all'autore udendo, oltre alle
lodi necessarie alla fine. In buona coscienza io credo che in
pochissime cose apparisca più, da un lato, la puerilità
della natura umana, ed a quale estremo di cecità, anzi di
stolidità, sia condotto l'uomo dall'amor proprio; da altro
lato, quanto innanzi possa l'animo nostro fare illusione a se
medesimo; di quello che ciò si dimostri in questo negozio del
recitare gli scritti propri. Perché, essendo ciascuno
consapevole a se stesso della molestia ineffabile che è a lui
sempre l'udire le cose d'altri; vedendo sbigottire e divenire smorte
le persone invitate ad ascoltare le cose sue, allegare ogni sorte
d'impedimenti per iscusarsi, ed anche fuggire da esso e nascondersi a
più potere, nondimeno con fronte metallica, con perseveranza
meravigliosa, come un orso affamato, cerca ed insegue la sua preda
per tutta la città, e sopraggiunta, la tira dove ha destinato.
E durando la recitazione, accorgendosi, prima allo sbadigliare, poi
al distendersi, allo scontorcersi, e a cento altri segni, delle
angosce mortali che prova l'infelice uditore, non per questo si
rimane né gli dà posa; anzi sempre più fiero e
accanito, continua aringando e gridando per ore, anzi quasi per
giorni e per notti intere, fino a diventarne roco, e finché,
lungo tempo dopo tramortito l'uditore, non si sente rifinito di forze
egli stesso, benché non sazio. Nel qual tempo, e nella quale
carnificina che l'uomo fa del suo prossimo, certo è ch'egli
prova un piacere quasi sovrumano e di paradiso: poiché
veggiamo che le persone lasciano per questo tutti gli altri piaceri,
dimenticano il sonno e il cibo, e spariscono loro dagli occhi la vita
e il mondo. E questo piacere consiste in una ferma credenza che
l'uomo ha, di destare ammirazione e di dar piacere a chi ode:
altrimenti il medesimo gli tornerebbe recitare al deserto, che alle
persone. Ora, come ho detto, quale sia il piacere di chi ode
(pensatamente dico sempre ode, e non ascolta), lo sa per esperienza
ciascuno, e colui che recita lo vede, e io so ancora, che molti
eleggerebbero, prima che un piacere simile, qualche grave pena
corporale. Fino gli scritti più belli e di maggior prezzo,
recitandoli il proprio autore, diventano di qualità di
uccidere annoiando: al qual proposito notava un filologo mio amico,
che se è vero che Ottavia, udendo Virgilio leggere il sesto
dell'Eneide, fosse presa da uno svenimento, è credibile che le
accadesse ciò, non tanto per la memoria, come dicono, del
figliuolo Marcello, quanto per la noia del sentir leggere.
Tale è l'uomo. E questo vizio ch'io dico, sì barbaro e
sì ridicolo, e contrario al senso di creatura razionale, è
veramente un morbo della specie umana: perché non v'è
nazione così gentile, né condizione alcuna d'uomini, né
secolo, a cui questa peste non sia comune. Italiani, Francesi,
Inglesi, Tedeschi; uomini canuti, savissimi nelle altre cose, pieni
d'ingegno e di valore; uomini espertissimi della vita sociale,
compitissimi di modi, amanti di notare le sciocchezze e di
motteggiarle; tutti diventano bambini crudeli nelle occasioni di
recitare le cose loro. E come è questo vizio de' tempi nostri,
così fu di quelli d'Orazio, al quale parve già
insopportabile; e di quelli di Marziale, che dimandato da uno perché
non gli leggesse i suoi versi, rispondeva: per non udire i tuoi: e
così anche fu della migliore età della Grecia, quando,
come si racconta, Diogene cinico, trovandosi in compagnia d'altri,
tutti moribondi dalla noia, ad una di tali lezioni, e vedendo nelle
mani dell'autore, alla fine del libro, comparire il chiaro della
carta, disse: fate cuore, amici; veggo terra.
Ma oggi la cosa è venuta a tale, che gli uditori, anche
forzati, a fatica possono bastare alle occorrenze degli autori. Onde
alcuni miei conoscenti, uomini industriosi, considerato questo punto,
e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de' bisogni
della natura umana, hanno pensato di provvedere a questo, e ad un
tempo di volgerlo, come si volgono tutti i bisogni pubblici, ad
utilità particolare. Al quale effetto in breve apriranno una
scuola o accademia ovvero ateneo di ascoltazione; dove, a qualunque
ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate da loro,
ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che
saranno per la prosa, la prima ora, uno scudo, la seconda due, la
terza quattro, la quarta otto, e così crescendo con
progressione aritmetica. Per la poesia il doppio. Per ogni passo
letto, volendo tornare a leggerlo, come accade, una lira il verso.
Addormentandosi l'ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza
parte del prezzo debito. Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti
leggeri o gravi, che avvenissero all'una parte o all'altra nel tempo
delle letture, la scuola sarà fornita di essenze e di
medicine, che si dispenseranno gratis. Così rendendosi materia
di lucro una cosa finora infruttifera, che sono gli orecchi, sarà
aperta una nuova strada all'industria, con aumento della ricchezza
generale.
Parlando, non si prova piacere che sia vivo e durevole, se non quanto
ci è permesso discorrere di noi medesimi, e delle cose nelle
quali siamo occupati, o che ci appartengono in qualche modo. Ogni
altro discorso in poca d'ora viene a noia; e questo, ch'è
piacevole a noi, è tedio mortale a chi l'ascolta. Non si
acquista titolo di amabile, se non a prezzo di patimenti: perché
amabile, conversando, non è se non quegli che gratifica
all'amor proprio degli altri, e che, in primo luogo, ascolta assai e
tace assai, cosa per lo più noiosissima; poi lascia che gli
altri parlino di se e delle cose proprie quanto hanno voglia; anzi li
mette in ragionamenti di questa sorte, e parla egli stesso di cose
tali; finché si trovano, al partirsi, quelli contentissimi di
se, ed egli annoiatissimo di loro. Perché, in somma, se la
miglior compagnia è quella dalla quale noi partiamo più
soddisfatti di noi medesimi, segue ch'ella è appresso a poco
quella che noi lasciamo più annoiata. La conchiusione è,
che nella conversazione, e in qualunque colloquio dove il fine non
sia che intertenersi parlando, quasi inevitabilmente il piacere degli
uni è noia degli altri, né si può sperare se non
che annoiarsi o rincrescere, ed è gran fortuna partecipare di
questo e di quello ugualmente.
Assai difficile mi pare a decidere se sia o più contrario ai
primi principii della costumatezza il parlare di se lungamente e per
abito, o più raro un uomo esente da questo vizio.
Quello che si dice comunemente, che la vita è una
rappresentazione scenica, si verifica soprattutto in questo, che il
mondo parla costantissimamente in una maniera, ed opera
costantissimamente in un'altra. Della quale commedia oggi essendo
tutti recitanti, perché tutti parlano a un modo, e nessuno
quasi spettatore, perché il vano linguaggio del mondo non
inganna che i fanciulli e gli stolti, segue che tale rappresentazione
è divenuta cosa compiutamente inetta, noia e fatica senza
causa. Però sarebbe impresa degna del nostro secolo quella di
rendere la vita finalmente un'azione non simulata ma vera, e di
conciliare per la prima volta al mondo la famosa discordia tra i
detti e i fatti. La quale, essendo i fatti, per esperienza oramai
bastante, conosciuti immutabili, e non convenendo che gli uomini si
affatichino più in cerca dell'impossibile, resterebbe che
fosse accordata con quel mezzo che è, ad un tempo, unico e
facilissimo, benché fino a oggi intentato: e questo è,
mutare i detti, e chiamare una volta le cose coi nomi loro.
O io m'inganno, o rara è nel nostro secolo quella persona
lodata generalmente, le cui lodi non sieno cominciate dalla sua
propria bocca. Tanto è l'egoismo, e tanta l'invidia e l'odio
che gli uomini portano gli uni agli altri, che volendo acquistar
nome, non basta far cose lodevoli, ma bisogna lodarle, o trovare, che
torna lo stesso, alcuno che in tua vece le predichi e le magnifichi
di continuo, intonandole con gran voce negli orecchi del pubblico,
per costringere le persone sì mediante l'esempio, e sì
coll'ardire e colla perseveranza, a ripetere parte di quelle lodi.
Spontaneamente non isperare che facciano motto, per grandezza di
valore che tu dimostri, per bellezza d'opere che tu facci. Mirano e
tacciono eternamente; e, potendo, impediscono che altri non vegga.
Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando
alla modestia.
Ancora in questa
parte il mondo è simile alle donne: con verecondia e con
riserbo da lui non si ottiene nulla.
Nessuno è sì compiutamente disingannato del mondo, né lo conosce sì addentro, né tanto l'ha in ira, che guardato un tratto da esso con benignità, non se gli senta in parte riconciliato; come nessuno è conosciuto da noi sì malvagio, che salutandoci cortesemente. non ci apparisca meno malvagio che innanzi. Le quali osservazioni vagliono a dimostrare la debolezza dell'uomo, non a giustificare né i malvagi né il mondo.
L'inesperto della vita, e spesso anche l'esperto, in sui primi
momenti che si conosce colto da qualche infortunio, massime dove egli
non abbia colpa, se pure gli corrono all'animo gli amici e i
familiari, o in generale gli uomini, non aspetta da loro altro che
commiserazione e conforto, e, per tacere qui d'aiuto, che gli abbiano
o più amore o più riguardo che innanzi, né cosa
alcuna è sì lungi dal cadergli in pensiero, come
vedersi, a causa della sventura occorsagli, quasi degradato nella
società, diventato agli occhi del mondo quasi reo di qualche
misfatto, venuto in disgrazia degli amici, gli amici e i conoscenti
da tutti i lati in fuga, e di lontano rallegrarsi della cosa, e porre
lui in derisione. Similmente, accadendogli qualche prosperità,
uno de' primi pensieri che gli nascono, è di avere a dividere
la sua gioia cogli amici, e che forse di maggior contento riesca la
cosa a loro che a lui, né gli sa venire in capo che debbano
all'annunzio del suo caso prospero, i volti de' suoi cari distorcersi
ed oscurarsi, e alcuno sbigottire; molti sforzarsi in principio di
non credere, poi di rappiccinire nell'estimazione sua, e nella loro
propria e degli altri, il suo nuovo bene; in certi, a causa di
questo, intepidirsi l'amicizia, in altri mutarsi in odio; finalmente
non pochi mettere ogni loro potere ed opera per ispogliarlo di esso
bene. Così è l'immaginazione dell'uomo ne' suoi
concetti, e la ragione stessa, naturalmente lontana e aborrente dalla
realtà della vita.
Nessun maggior segno d'essere poco filosofo e poco savio, che volere
savia e filosofica tutta la vita.
Il genere umano e, dal solo individuo in fuori, qualunque minima
porzione di esso, si divide in due parti: gli uni usano prepotenza, e
gli altri la soffrono. Né legge né forza alcuna, né
progresso di filosofia né di civiltà potendo impedire
che uomo nato o da nascere non sia o degli uni o degli altri, resta
che chi può eleggere, elegga. Vero è che non tutti
possono, né sempre.
Nessuna professione è sì sterile coìne quella
delle lettere. Pure tanto è al mondo il valore dell'impostura,
che con l'aiuto di essa anche le lettere diventano fruttifere.
L'impostura è anima, per dir così, della vita sociale,
ed arte senza cui veramente nessun'arte e nessuna facoltà,
considerandola in quanto agli effetti suoi negli animi umani, è
perfetta. Sempre che tu esaminerai la fortuna di due persone che
sieno l'una di valor vero in qualunque cosa, l'altra di valor falso,
tu troverai che questa è più fortunata di quella; anzi
il più delle volte questa fortunata, e quella senza fortuna.
L'impostura vale e fa effetto anche senza il vero; ma il vero senza
lei non può nulla. Né ciò nasce, credo io, da
mala inclinazione della nostra specie, ma perché essendo il
vero sempre troppo povero e difettivo, è necessaria all'uomo
in ciascuna cosa, per dilettarlo o per muoverlo, parte d'illusione e
di prestigio, e promettere assai più e meglio che non si può
dare. La natura medesima è impostora verso l'uomo, né
gli rende la vita amabile o sopportabile, se non per mezzo
principalmente d'immaginazione e d'inganno.
Come suole il genere umano, biasimando le cose presenti, lodare le
passate, così la più parte de' viaggiatori, mentre
viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo, e lo preferiscono
con una specie d'ira a quelli dove si trovano. Tornati al luogo
nativo, colla stessa ira lo pospongono a tutti gli altri luoghi dove
sono stati.
In ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società
umana, sono notati come particolari del luogo. Io non sono mai stato
in parte dov'io non abbia udito: qui le donne sono vane e incostanti,
leggono poco, e sono male istruite; qui il pubblico è curioso
de' fatti altrui, ciarliero molto e maldicente; qui i danari, il
favore e la viltà possono tutto; qui regna l'invidia, e le
amicizie sono poco sincere; e così discorrendo; come se
altrove le cose procedessero in altro modo. Gli uomini sono miseri
per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente.
Venendo innanzi nella cognizione pratica della vita, l'uomo rimette
ogni giorno di quella severità per la quale i giovani, sempre
cercando perfezione, e aspettando trovarne, e misurando tutte le cose
a quell'idea della medesima che hanno nell'animo, sono sì
difficili a perdonare i difetti, ed a concedere stima alle virtù
scarse e manchevoli, ed ai pregi di poco momento, che occorrono loro
negli uomini. Poi, vedendo come tutto è imperfetto, e
persuadendosi che non v'è meglio al mondo di quel poco buono
che essi disprezzano, e che quasi nessuna cosa o persona è
stimabile veramente, a poco a poco, cangiata misura, e ragguagliando
ciò che viene loro avanti, non più al perfetto, ma al
vero, si assuefanno a perdonare liberalmente, e a fare stima di ogni
virtù mediocre, di ogni ombra di valore, di ogni piccola
facoltà che trovano; tanto che finalmente paiono loro lodevoli
molte cose e molte persone che da prima sarebbero parute loro appena
sopportabili. La cosa va tant'oltre, che, dove a principio non
avevano quasi attitudine a sentire stima, in progresso di tempo
diventano quasi inabili a disprezzare; maggiormente quanto sono più
ricchi d'intelligenza. Perché in vero l'essere molto
disprezzante ed incontentabile passata la prima giovinezza, non è
buon segno: e questi tali debbono, o per poco intelletto, o certo per
poca esperienza, non aver conosciuto il mondo; ovvero essere di
quegli sciocchi che disprezzano altrui per grande stima che hanno di
se medesimi. In fine apparisce poco probabile, ma è vero, né
viene a significare altro che l'estrema bassezza delle cose umane il
dire, che l'uso del mondo insegna più a pregiare che a
dispregiare.
Gl'ingannatori mediocri, e generalmente le donne, credono sempre che
le loro frodi abbiano avuto effetto, e che le persone vi sieno
restate colte: ma i più astuti dubitano, conoscendo meglio da
un lato le difficoltà dell'arte, dall'altro la potenza, e come
quel medesimo che vogliono essi, cioè ingannare, sia voluto da
ognuno; le quali due cause ultime fanno che spesso l'ingannatore
riesce ingannato. Oltre che questi tali non istimano gli altri così
poco intendenti, come suole immaginarli chi intende poco.
I giovani assai comunemente credono rendersi amabili fingendosi
malinconici. E forse, quando è finta, la malinconia per breve
spazio può piacere, massime alle donne. Ma vera, è
fuggita da tutto il genere umano; e al lungo andare non piace e non è
fortunata nel commercio degli uomini se non l'allegria: perché
finalmente, contro a quello che si pensano i giovani, il mondo, e non
ha il torto, ama non di piangere, ma di ridere.
In alcuni luoghi tra civili e barbari, come è, per esempio,
Napoli, è osservabile più che altrove una cosa che in
qualche modo si verifica in tutti i luoghi: cioè che l'uomo
riputato senza danari, non è stimato appena uomo; creduto
denaroso, è sempre in pericolo della vita. Dalla qual cosa
nasce, che in sì fatti luoghi è necessario, come vi si
pratica generalmente, pigliare per partito di rendere lo stato
proprio in materia di danari un mistero; acciocché il pubblico
non sappia se ti dee disprezzare o ammazzare; onde tu non sii se non
quello che sono gli uomini ordinariamente, mezzo disprezzato e mezzo
stimato, e quando voluto nuocere e quando lasciato stare.
Molti vogliono e condursi teco vilmente, e che tu ad un tempo, sotto
pena del loro odio, da un lato sii tanto accorto, che tu non dia
impedimento alla loro viltà, dall'altro non li conoschi per
vili.
Nessuna qualità umana è più intollerabile nella
vita ordinaria, né in fatti tollerata meno, che
l'intolleranza.
Come l'arte dello schermire è inutile quando combattono
insieme due schermitori uguali nella perizia, perché l'uno non
ha più vantaggio dall'altro, che se fossero ambedue imperiti;
così spessissime volte accade che gli uomini sono falsi e
malvagi gratuitamente, perché si scontrano in altrettanta
malvagità e simulazione, di modo che la cosa ritorna a quel
medesimo che se l'una e l'altra parte fosse stata sincera e retta.
Non è dubbio che, al far de' conti, la malvagità e la
doppiezza non sono utili se non quando o vanno congiunte alla forza,
o si abbattono ad una malvagità o astuzia minore, ovvero alla
bontà. il quale ultimo caso è raro; il secondo, in
quanto a malvagità, non è comune; perché gli
uomini, la maggior parte sono malvagi a un modo, poco più o
meno. Però non è calcolabile quante volte potrebbero
essi, facendo bene gli uni agli altri, ottenere con facilità
quel medesimo che ottengono con gran fatica, o anche non ottengono,
facendo ovvero sforzandosi di far male.
Baldassar Castiglione nel Cortegiano assegna molto convenientemente
la cagione perché sogliano i vecchi lodare il tempo in cui
furono giovani, e biasimare il presente. "La causa adunque,
dice, di questa falsa opinione nei vecchi, estimo io per me ch'ella
sia perché gli anni, fuggendo, se ne portan seco molte
comodità, e tra l'altre levano dal sangue gran parte degli
spiriti vitali, onde la complession si muta, e divengon debili gli
organi per i quali l'anima opera le sue virtù. Però dei
cuori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi,
caggiono i soavi fiori di contento, e nel luogo dei sereni e chiari
pensieri entra la nubilosa e torbida tristizia, di mille calamità
compagnata: di modo che non solamente il corpo, ma l'animo ancora è
infermo, né dei passati piaceri riserva altro che una tenace
memoria, e la immagine di quel caro tempo della tenera età,
nella quale quando ci ritroviamo, ci pare che sempre il cielo e la
terra ed ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri e
nel pensiero, come in un delizioso e vago giardino, fiorisca la dolce
primavera d'allegrezza. Onde forse saria utile, quando già
nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita,
spogliandoci di quei piaceri, andarsene verso l'occaso, perdere
insieme con essi ancor la loro memoria, e trovar, come disse
Temistocle, un'arte che a scordar insegnasse; perché tanto
sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il
giudicio della mente. Però parmi che i vecchi siano alla
condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in
terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta; e pur è
il contrario, che il porto, e medesimamente il tempo e i piaceri,
restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalità
fuggendo, n'andiamo l'un dopo l'altro per quel procelloso mare che
ogni cosa assorbe e divora; né mai più ripigliar terra
ci è concesso, anzi, sempre da contrari venti combattuti, al
fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per esser adunque l'animo
senile subietto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli può;
e come ai febbricitanti, quando dai vapori corrotti hanno il palato
guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benché preziosi e
delicati siano, così ai vecchi per la loro indisposizione,
alla qual però non manca il desiderio, paion i piaceri
insipidi e freddi e molto differenti da quelli che già provati
aver si ricordano, benché i piaceri in se siano i medesimi.
Però, sentendosene privi, si dolgono, e biasimano il tempo
presente come malo; non discernendo che quella mutazione da se e non
dal tempo procede. E, per contrario, recandosi a memoria i passati
piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però
lo laudano come buono; perché pare che seco porti un odore di
quello che in esso sentiano quando era presente. Perché in
effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono
compagne de' nostri dispiaceri, ed amano quelle che state sono
compagne dei piaceri".
Così il Castiglione, esponendo con parole non meno belle che
ridondanti, come sogliono i prosatori italiani, un pensiero
verissimo. A confermazione del quale si può considerare che i
vecchi pospongono il presente al passato, non solo nelle cose che
dipendono dall'uomo, ma ancora in quelle che non dipendono,
accusandole similmente di essere peggiorate, non tanto, com'è
il vero, in essi e verso di essi, ma generalmente e in se medesime.
Io credo che ognuno si ricordi avere udito da' suoi vecchi più
volte, come mi ricordo io da' miei, che le annate sono divenute più
fredde che non erano, e gl'inverni più lunghi; e che, al tempo
loro, già verso il dì di pasqua si solevano lasciare i
panni dell'inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione
oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno,
si può patire. E non ha molti anni, che fu cercata seriamente
da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle
stagioni, ed allegato da chi il diboscamento delle montagne, e da chi
non so che altre cose, per ispiegare un fatto che non ha luogo:
poiché anzi al contrario è cosa, a cagione d'esempio,
notata da qualcuno per diversi passi d'autori antichi, che l'Italia
ai tempi romani dovette essere più fredda che non è
ora. Cosa credibilissima anche perché da altra parte è
manifesto per isperienza, e per ragioni naturali, che la civiltà
degli uomini venendo innanzi, rende l'aria, ne' paesi abitati da
essi, di giorno in giorno più mite: il quale effetto è
stato ed è palese singolarmente in America, dove, per così
dire, a memoria nostra, una civiltà matura è succeduta
parte a uno stato barbaro, e parte a mera solitudine. Ma i vecchi,
riuscendo il freddo all'età loro assai più molesto che
in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che
provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va
scemando in loro, scemi nell'aria o nella terra. La quale
immaginazione è così fondata, che quel medesimo appunto
che affermano i nostri vecchi a noi, affermavano i vecchi, per non
dir più, già un secolo e mezzo addietro, ai
contemporanei del Magalotti, il quale nelle Lettere familiari
scriveva: "egli è pur certo che l'ordine antico delle
stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e
querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo
smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista
terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a
Roma, la mattina di pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da
state. Adesso chi non ha bisogno d'impegnar la camiciuola, vi so dire
che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di
quelle ch'ei portava nel cuor dell'inverno". Ouesto scriveva il
Magalotti in data del 1683. L'Italia sarebbe più fredda oramai
che la Groenlandia, se da quell'anno a questo, fosse venuta
continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava
allora.
È quasi
soverchio l'aggiungere che il raffreddamento continuo che si dice
aver luogo per cagioni intrinseche nella massa terrestre, non ha
interesse alcuno col presente proposito, essendo cosa, per la sua
lentezza, non sensibile in decine di secoli, non che in pochi anni.
Cosa odiosissima è il parlar molto di se. Ma i giovani, quanto
sono più di natura viva, e di spirito superiore alla
mediocrità, meno sanno guardarsi da questo vizio: e parlano
delle cose proprie con un candore estremo, credendo per certissimo
che chi ode, le curi poco meno che le curano essi. E così
facendo, sono perdonati; non tanto a contemplazione
dell'inesperienza, ma perché è manifesto il bisogno che
hanno d'aiuto, di consiglio e di qualche sfogo di parole alle
passioni onde è tempestosa la loro età. Ed anco pare
riconosciuto generalmente che ai giovani si appartenga una specie di
diritto di volere il mondo occupato nei pensieri loro.
Rade volte è ragione che l'uomo si tenga offeso di cose dette
di lui fuori della sua presenza, o con intenzione che non dovessero
venirgli alle orecchie: perché se vorrà ricordarsi, ed
esaminare diligentemente l'usanza propria, egli non ha così
caro amico, e non ha personaggio alcuno in tanta venerazione, al
quale non fosse per fare gravissimo dispiacere d'intendere molte
parole e molti discorsi che fuggono a lui di bocca intorno ad esso
amico o ad esso personaggio assente. Da un lato l'amor proprio è
così a dismisura tenero, e così cavilloso, che quasi è
impossibile che una parola detta di noi fuori della presenza nostra,
se ci è recata fedelmente, non ci paia indegna o poco degna di
noi, e non ci punga; dall'altro è indicibile quanto la nostra
usanza sia contraria al precetto del non fare agli altri quello che
non vogliamo fatto a noi, e quanta libertà di parlare in
proposito d'altri sia giudicata innocente.
Nuovo sentimento è quello che prova l'uomo di età di
poco più di venticinque anni, quando, come a un tratto, si
conosce tenuto da molti de' suoi compagni più provetto di
loro, e, considerando, si avvede che v'è in fatti al mondo una
quantità di persone giovani più di lui, avvezzo a
stimarsi collocato, senza contesa alcuna, come nel supremo grado
della giovinezza, e se anche si reputava inferiore agli altri in ogni
altra cosa, credersi non superato nella gioventù da nessuno;
perché i più giovani di lui, ancora poco più che
fanciulli, e rade volte suoi compagni, non erano parte, per dir così,
del mondo. Allora incomincia egli a sentire come il pregio della
giovinezza, stimato da lui quasi proprio della sua natura e della sua
essenza, tanto che appena gli sarebbe stato possibile d'immaginare se
stesso diviso da quello, non è dato se non a tempo; e diventa
sollecito di così fatto pregio, sì quanto alla cosa in
se, e sì quanto all'opinione altrui. Certamente di nessuno che
abbia passata l'età di venticinque anni, subito dopo la quale
incomincia il fiore della gioventù a perdere, si può
dire con verità, se non fosse di qualche stupido, ch'egli non
abbia esperienza di sventure; perché se anco la sorte fosse
stata prospera ad alcuno in ogni cosa, pure questi, passato il detto
tempo, sarebbe conscio a se stesso di una sventura grave ed amara fra
tutte l'altre, e forse più grave ed amara a chi sia dalle
altre parti meno sventurato; cioè della decadenza o della fine
della cara sua gioventù.
Uomini insigni per probità sono al mondo quelli dai quali,
avendo familiarità con loro, tu puoi, senza sperare servigio
alcuno, non temere alcun disservigio.
Se tu interroghi le persone sottoposte ad un magistrato, o ad un
qualsivoglia ministro del governo, circa le qualità e i
portamenti di quello, massime nell'ufficio; anche concordando le
risposte nei fatti, tu ritroverai gran dissensione
nell'interpretarli; e quando pure le interpretazioni fossero
conformi, infinitamente discordi saranno i giudizi, biasimando gli
uni quelle cose che gli altri esalteranno. Solo circa l'astenersi o
no dalla roba d'altri e del pubblico, non troverai due persone che,
accordandosi nel fatto, discordino o nell'interpretarlo o nel farne
giudizio, e che ad una voce, semplicemente, non lodino il magistrato
dell'astinenza, o per la qualità contraria, non lo condannino
E pare che in somma il buono e il cattivo magistrato non si conosca
né si misuri da altro che dall'articolo dei danari; anzi
magistrato buono vaglia lo stesso che astinente, cattivo lo stesso
che cupido. E che l'ufficiale pubblico possa disporre a suo modo
della vita, dell'onestà e d'ogni altra cosa dei cittadini; e
di qualunque suo fatto trovare non solo scusa ma lode, purché
non tocchi i danari. Quasi che gli uomini, discordando in tutte
l'altre opinioni, non convengano che nella stima della moneta: o
quasi che i danari in sostanza sieno l'uomo; e non altro che i
danari: cosa che veramente pare per mille indizi che sia tenuta dal
genere umano per assioma costante, massime ai tempi nostri. Al qual
proposito diceva un filosofo francese del secolo passato: i politici
antichi parlavano sempre di costumi e di virtù; i moderni non
parlano d'altro che di commercio e di moneta. Ed è gran
ragione, soggiunge qualche studente di economia politica, o allievo
delle gazzette in filosofia: perché le virtù e i buoni
costumi non possono stare in piedi senza il fondamento
dell'industria; la quale provvedendo alle necessità
giornaliere e rendendo agiato e sicuro il vivere a tutti gli ordini
di persone renderà stabili le virtù, e proprie
dell'universale. Molto bene. Intanto, in compagnia dell'industria, la
bassezza dell'animo, la freddezza, l'egoismo, l'avarizia, la falsità
e la perfidia mercantile, tutte le qualità e le passioni più
depravatrici e più indegne dell'uomo incivilito, sono in
vigore, e moltiplicano senza fine; ma le virtù si aspettano.
Gran rimedio della maldicenza, appunto come delle afflizioni d'animo,
è il tempo. Se il mondo biasima qualche nostro istituto o
andamento, buono o cattivo, a noi non bisogna altro che perseverare.
Passato poco tempo, la materia divenendo trita, i maledici
l'abbandonano, per cercare delle più recenti. E quanto più
fermi ed imperturbati ci mostreremo noi nel seguitar oltre,
disprezzando le voci, tanto più presto ciò che fu
condannato in principio, o che parve strano, sarà tenuto per
ragionevole e per regolare: perché il mondo, il quale non
crede mai che chi non cede abbia il torto, condanna alla fine se, ed
assolve noi. Onde avviene, cosa assai nota, che i deboli vivono a
volontà del mondo, e i forti a volontà loro.
Non fa molto onore, non so s'io dica agli uomini o alla virtù
vedere che in tutte le lingue civili, antiche e moderne, le medesime
voci significano bontà e sciocchezza, uomo da bene e uomo da
poco. Parecchie di questo genere, come in italiano dabbenaggine, di
buoni costumi, prive del significato proprio, nel quale forse
sarebbero poco utili, non ritengono, o non ebbero dal principio,
altro che il secondo. Tanta stima della bontà è stata
fatta in ogni tempo dalla moltitudine i giudizi della quale, e
gl'intimi sentimenti, si manifestano, anche mal grado talvolta di lei
medesima, nelle forme del linguaggio. Costante giudizio della
moltitudine, non meno che, contraddicendo al linguaggio il discorso,
costantemente dissimulato, è, che nessuno che possa eleggere,
elegga di esser buono: gli sciocchi sieno buoni, perché altro
non possono.
L'uomo è condannato o a consumare la gioventù senza
proposito, la quale è il solo tempo di far frutto per l'età
che viene, e di provvedere al proprio stato, o a spenderla in
procacciare godimenti a quella parte della sua vita, nella quale egli
non sarà più atto a godere.
Quanto sia grande l'amore che la natura ci ha dato verso i nostri
simili, si può comprendere da quello che fa qualunque animale,
e il fanciullo inesperto, se si abbatte a vedere la propria immagine
in qualche specchio; che, credendola una creatura simile a se, viene
in furore e in ismanie, e cerca ogni via di nuocere a quella creatura
e di ammazzarla. Gli uccellini domestici, mansueti come sono per
natura e per costume, si spingono contro allo specchio stizzosamente,
stridendo, colle ali inarcate e col becco aperto, e lo percuotono; e
la scimmia, quando può, lo gitta in terra, e lo stritola co'
piedi.
Naturalmente l'animale odia il suo simile, e qualora ciò è
richiesto all'interesse proprio, l'offende. Perciò l'odio né
le ingiurie degli uomini non si possono fuggire: il disprezzo si può
in gran parte. Onde sono il più delle volte poco a proposito
gli ossequi che i giovani e le persone nuove nel mondo prestano a chi
viene loro alle mani, non per viltà, né per altro
interesse, ma per un desiderio benevolo di non incorrere inimicizie e
di guadagnare gli animi. Del qual desiderio non vengono a capo, e in
qualche modo nocciono alla loro estimazione; perché
nell'ossequiato cresce il concetto di se medesimo, e quello
dell'ossequioso scema. Chi non cerca dagli uomini utilità o
grido, né anche cerchi amore, che non si ottiene; e, se vuole
udire il mio consiglio, mantenga la propria dignità intera,
rendendo non più che il debito a ciascheduno. Alquanto più
odiato e perseguitato sarà così che altrimenti, ma non
molte volte disprezzato.
In un libro che hanno gli Ebrei di sentenze e di detti vari, tradotto, come si dice, d'arabico, o più verisimilmente, secondo alcuni, di fattura pure ebraica, fra molte altre cose di nessun rilievo, si legge, che non so qual sapiente, essendogli detto da uno, io ti vo' bene, rispose: oh perché no? se non sei né della mia religione, né parente mio, né vicino, né persona che mi mantenga. L'odio verso i propri simili, è maggiore verso i più simili. I giovani sono, per mille ragioni, più atti all'amicizia che gli altri. Nondimeno è quasi impossibile un'amicizia durevole tra due che menino parimente vita giovanile; dico quella sorte di vita che si chiama così oggi, cioè dedita principalmente alle donne. Anzi tra questi tali è meno possibile che mai, sì per la veemenza delle passioni, sì per le rivalità in amore e le gelosie che nascono tra essi inevitabilmente, e perché, come è notato da Madama di Staël, gli altrui successi prosperi colle donne sempre fanno dispiacere, anche al maggior amico del fortunato. Le donne sono, dopo i danari, quella cosa in cui la gente è meno trattabile e meno capace di accordi, e dove i conoscenti, gli amici, i fratelli cangiano l'aspetto e la natura loro ordinaria: perché gli uomini sono amici e parenti, anzi sono civili e uomini, non fino agli altari, giusta il proverbio antico, ma fino ai danari e alle donne: quivi diventano selvaggi e bestie. E nelle cose donnesche, se è minore l'inumanità, l'invidia è maggiore che nei danari: perché in quelle ha più interesse la vanità; ovvero, per dir meglio, perché v'ha interesse un amor proprio, che fra tutti è il più proprio e il più delicato. E benché ognuno nelle occasioni faccia altrettanto, mai non si vede alcuno sorridere o dire parole dolci a una donna, che tutti i presenti non si sforzino, o di fuori o fra se medesimi, di metterlo amaramente in derisione. Onde, quantunque la metà del piacere dei successi prosperi in questo genere, come anche per lo più negli altri, consista in raccontarli, è al tutto fuori di luogo il conferire che i giovani fanno le loro gioie amorose, massime con altri giovani: perché nessun ragionamento fu mai ad alcuno più rincrescevole; e spessissime volte, anche narrando il vero, sono scherniti.
Vedendo quanto poche volte gli uomini nelle loro azioni sono guidati
da un giudizio retto di quello che può loro giovare o nuocere,
si conosce quanto facilmente debba trovarsi ingannato chi
proponendosi d'indovinare alcuna risoluzione occulta, esamina
sottilmente in che sia posta la maggiore utilità di colui o di
coloro a cui tale risoluzione si aspetta. Dice il Guicciardini nel
principio del decimosettimo libro, parlando dei discorsi fatti in
proposito dei partiti che prenderebbe Francesco primo, re di Francia,
dopo la sua liberazione dalla fortezza di Madrid: "considerarono
forse quegli che discorsero in questo modo, più quello che
ragionevolmente doveva fare, che non considerarono quale sia la
natura e la prudenza dei Franzesi; errore nel quale certamente spesso
si cade nelle consulte e nei giudizi che si fanno della disposizione
e volontà di altri". Il Guicciardini è forse il
solo storico tra i moderni, che abbia e conosciuti molto gli uomini,
e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della
natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata
dalla scienza dell'uomo, e per lo più chimerica, della quale
si sono serviti comunemente quegli storici, massime oltramontani ed
oltramarini, che hanno voluto pur discorrere intorno ai fatti, non
contentandosi, come la maggior parte, di narrarli per ordine, senza
pensare più avanti.
Nessuno si creda avere imparato a vivere, se non ha imparato a tenere
per un purissimo suono di sillabe le profferte che gli sono fatte da
chicchessia, e più le più spontanee, per solenni e per
ripetute che possano essere: né solo le profferte, ma le
istanze vivissime ed infinite che molti fanno acciocché altri
si prevalga delle facoltà loro; e specificano i modi e le
circostanze della cosa, e con ragioni rimuovono le difficoltà.
Che se alla fine, o persuaso, o forse vinto dal tedio di sì
fatte istanze, o per qualunque causa, tu ti conduci a scoprire ad
alcuno di questi tali qualche tuo bisogno, tu vedi colui subito
impallidire, poi mutato discorso, o risposto parole di nessun
rilievo, lasciarti senza conchiusione; e da indi innanzi, per lungo
tempo, non sarà piccola fortuna se, con molta fatica, ti verrà
fatto di rivederlo, o se, ricordandotegli per iscritto, ti sarà
risposto. Gli uomini non vogliono beneficare, e per la molestia della
cosa in se, e perché i bisogni e le sventure dei conoscenti
non mancano di fare a ciascuno qualche piacere; ma amano l'opinione
di benefattori, e la gratitudine altrui, e quella superiorità
che viene dal benefizio. Però quello che non vogliono dare,
offrono: e quanto più ti veggono fiero, più insistono,
prima per umiliarti e per farti arrossire, poi perché tanto
meno temono che tu non accetti le loro offerte. Così con
grandissimo coraggio si spingono oltre fino all'ultima estremità,
disprezzando il presentissimo pericolo di riuscire impostori, con
isperanza di non essere mai altro che ringraziati; finché alla
prima voce che significhi domanda, si pongono in fuga.
Diceva Bione, filosofo antico: è impossibile piacere alla
moltitudine, se non diventando un pasticcio, o del vino dolce. Ma
questo impossibile, durando lo stato sociale degli uomini, sarà
cercato sempre, anco da chi dica, ed anco da chi talvolta creda di
non cercarlo: come, durando la nostra specie, i più conoscenti
della condizione umana, persevereranno fino alla morte cercando
felicità, e promettendosene.
Abbiasi per assioma generale che, salvo per tempo corto, l'uomo, non
ostante qualunque certezza ed evidenza delle cose contrarie, non
lascia mai tra se e se, ed anche nascondendo ciò a tutti gli
altri, di creder vere quelle cose, la credenza delle quali gli è
necessaria alla tranquillità dell'animo, e, per dir così,
a poter vivere. Il vecchio, massime se egli usa nel mondo, mai fino
all'estremo non lascia di credere nel segreto della sua mente, benché
ad ogni occasione protesti il contrario, di potere, per un'eccezione
singolarissima dalla regola universale, in qualche modo ignoto e
inesplicabile a lui medesimo, fare ancora un poco d'impressione alle
donne: perché il suo stato sarebbe troppo misero, se egli
fosse persuaso compiutamente di essere escluso in tutto e per sempre
da quel bene in cui finalmente l'uomo civile, ora a un modo ora a un
altro, e quando più quando meno aggirandosi, viene a riporre
l'utilità della vita. La donna licenziosa, benché vegga
tutto giorno mille segni dell'opinione pubblica intorno a se, crede
costantemente di essere tenuta dalla generalità per donna
onesta; e che solo un piccolo numero di suoi confidenti antichi e
nuovi (dico piccolo a rispetto del pubblico) sappiano, e tengano
celato al mondo, ed anche gli uni di loro agli altri, il vero
dell'esser suo. L'uomo di portamenti vili, e, per la stessa sua viltà
e per poco ardire, sollecito dei giudizi altrui, crede che le sue
azioni sieno interpretate nel miglior modo, e che i veri motivi di
esse non sieno compresi. Similmente nelle cose materiali, il-Buffon
osserva che il malato in punto di morte non dà vera fede né
a medici né ad amici, ma solo all'intima sua speranza, che gli
promette scampo dal pericolo presente. Lascio la stupenda credulità
e incredulità de' mariti circa le mogli, materia di novelle,
di scene, di motteggi e di riso eterno a quelle nazioni appresso le
quali il matrimonio è irrevocabile. E così discorrendo,
non è cosa al mondo tanto falsa né tanto assurda, che
non sia tenuta vera dagli uomini più sensati, ogni volta che
l'animo non trova modo di accomodarsi alla cosa contraria, e di
darsene pace. Non tralascerò che i vecchi sono meno disposti
che i giovani a rimuoversi dal credere ciò che fa per loro, e
ad abbracciare quelle credenze che gli offendono: perché i
giovani hanno più animo di levare gli occhi incontro ai mali,
e più attitudine o a sostenerne la coscienza o a perirne.
Una donna è derisa se piange di vero cuore il marito morto, ma
biasimata altamente se, per qualunque grave ragione o necessità,
comparisce in pubblico, o smette il bruno, un giorno prima dell'uso.
È assioma trito, ma non perfetto, che il mondo si contenta
dell'apparenza. Aggiungasi per farlo compiuto, che il mondo non si
contenta mai, e spesso non si cura, e spesso è
intollerantissimo della sostanza. Quell'antico si studiava più
d'esser uomo da bene che di parere, ma il mondo ordina di parere uomo
da bene, e di non essere.
La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad
arte, o quando, per la sua rarità, non l'è data fede.
Gli uomini si vergognano, non delle ingiurie che fanno, ma di quelle
che ricevono. Però ad ottenere che gl'ingiuriatori si
vergognino, non v'è altra via, che di rendere loro il cambio.
I timidi non hanno meno amor proprio che gli arroganti; anzi più, o vogliamo dire più sensitivo; e perciò temono: e si guardano di non pungere gli altri, non per istima che né facciano maggiore che gl'insolenti e gli arditi, ma per evitare d'esser punti essi, atteso l'estremo dolore che ricevono da ogni puntura.
È cosa detta più volte, che quanto decrescono negli
stati le virtù solide, tanto crescono le apparenti. Pare che
le lettere sieno soggette allo stesso fato, vedendo come, al tempo
nostro più che va mancando, non posso dire l'uso, ma la
memoria delle virtù dello stile, più cresce il nitore
delle stampe. Nessun libro classico fu stampato in altri tempi con
quella eleganza che oggi si stampano le gazzette, e l'altre ciance
politiche, fatte per durare un giorno: ma dell'arte dello scrivere
non si conosce più né s'intende appena il nome. È
credo che ogni uomo da bene, all'aprire o leggere un libro moderno,
senta pietà di quelle carte e di quelle forme di caratteri
così terse, adoperate a rappresentar parole sì orride,
e pensieri la più parte sì scioperati.
Dice il La Bruyère una cosa verissima, che è più
facile ad un libro mediocre di acquistar grido per virtù di
una riputazione già ottenuta dall'autore, che ad un autore di
venire in riputazione per mezzo di un libro eccellente. A questo si
può soggiungere, che la via forse più diritta di
acquistar fama, è di affermare con sicurezza e pertinacia, e
in quanti più modi è possibile, di averla acquistata.
Uscendo della gioventù, l'uomo resta privato della proprietà
di comunicare e, per dir così, d'ispirare colla presenza se
agli altri; e perdendo quella specie d'influsso che il giovane manda
ne' circostanti, e che congiunge questi a lui, e fa che sentano verso
lui sempre qualche sorte d'inclinazione, conosce, non senza un dolore
nuovo, di trovarsi nelle compagnie come diviso da tutti, e intorniato
di creature sensibili poco meno indifferenti verso lui che quelle
prive di senso.
Il primo fondamento dell'essere apparecchiato in giuste occasioni a
spendersi, è il molto apprezzarsi.
Il concetto che l'artefice ha dell'arte sua o lo scienziato della sua
scienza, suol essere grande in proporzione contraria al concetto
ch'egli ha del proprio valore nella medesima.
Quell'artefice o scienziato o cultore di qualunque disciplina, che
sarà usato paragonarsi, non con altri cultori di essa, ma con
essa medesima, più che sarà eccellente, più
basso concetto avrà di se: perché meglio conoscendo le
profondità di quella, più inferiore si troverà
nel paragone.
Così
quasi tutti gli uomini grandi sono modesti: perché si
paragonano continuamente, non cogli altri, ma con quell'idea del
perfetto che hanno dinanzi allo spirito, infinitamente più
chiara e maggiore di quella che ha il volgo; e considerano quanto
sieno lontani dal conseguirla. Dove che i volgari facilmente, e forse
alle volte con verità, si credono avere, non solo conseguita,
ma superata quell'idea di perfezione che cape negli animi loro.
Nessuna compagnia è piacevole al lungo andare, se non di
persone dalle quali importi o piaccia a noi d'essere sempre più
stimati. Perciò le donne, volendo che la loro compagnia non
cessi di piacere dopo breve tempo, dovrebbero studiare di rendersi
tali, che potesse essere desiderata durevolmente la loro stima.
Nel secolo presente i neri sono creduti di razza e di origine
totalmente diversi da' bianchi, e nondimeno totalmente uguali a
questi in quanto è a diritti umani. Nel secolo decimosesto i
neri, creduti avere una radice coi bianchi, ed essere una stessa
famiglia, fu sostenuto, massimamente da' teologi spagnuoli, che in
quanto a diritti, fossero per natura, e per volontà divina, di
gran lunga inferiori a noi. E nell'uno e nell'altro secolo i neri
furono e sono venduti e comperati, e fatti lavorare in catene sotto
la sferza. Tale è l'etica, e tanto le credenze in materia di
morale hanno che fare colle azioni.
Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è
l'essere disoccupato, o sfaccendato per dir meglio; non annoiato. La
noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche
cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia
è frequente, penosa e terribile. La massima parte degli uomini
trova bastante occupazione in che che sia, e bastante diletto in
qualunque occupazione insulsa; e quando è del tutto
disoccupata, non prova perciò gran pena. Di qui nasce che gli
uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e
fanno il volgo talvolta maravigliare e talvolta ridere, quando
parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di
parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più
inevitabili della vita.
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti
umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano
quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma
nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena,
né, per dir così, dalla terra intera; considerare
l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole
maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino
alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei
mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il
desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto
universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità,
e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior
segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura
umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.
Dalla famosa lettera di Cicerone a Lucceio, dove induce questo a
comporre una storia della congiura di Catilina, e da un'altra lettera
meno divulgata e non meno curiosa, in cui Vero imperatore prega
Frontone suo maestro a scrivere, come fu fatto, la guerra partica
amministrata da esso Vero; lettere somigliantissime a quelle che oggi
si scrivono ai giornalisti, se non che i moderni domandano articoli
di gazzette, e quelli, per essere antichi, domandavano libri; si può
argomentare in qualche piccola parte di che fede sia la storia,
ancora quando è scritta da uomini contemporanei e di gran
credito al loro tempo.
Moltissimi di quegli errori che si chiamano fanciullaggini, in cui
sogliono cadere i giovani inesperti del mondo, e quelli che, o
giovani o vecchi, sono condannati dalla natura ad essere più
che uomini e parere sempre fanciulli, non consistono, a considerarli
bene, se non in questo; che i sopraddetti pensano e si governano come
se gli uomini fossero meno fanciulli di quel che sono. Certamente
quella cosa che prima e forse più di qualunque altra percuote
di maraviglia l'animo de' giovani bene educati, all'entrare che fanno
nel mondo, è la frivolezza delle occupazioni ordinarie, dei
passatempi, dei discorsi, delle inclinazioni e degli spiriti delle
persone: alla qual frivolezza eglino poi coll'uso a poco a poco si
adattano, ma non senza pena e difficoltà, parendo loro da
principio di avere a tornare un'altra volta fanciulli. E così
è veramente; che il giovane di buona indole e buona
disciplina, quando incomincia, come si dice, a vivere, dee per forza
rifarsi indietro, e rimbambire, per dir così, un poco; e si
trova molto ingannato dalla credenza che aveva, di dovere allora in
tutto diventar uomo, e deporre ogni avanzo di fanciullezza. Perché
al contrario gli uomini in generalità, per quanto procedano
negli anni, sempre continuano a vivere in molta parte
fanciullescamente.
Dalla sopraddetta opinione che il giovane ha degli uomini, cioè perché li crede più uomini che non sono, nasce che si sgomenta ad ogni suo fallo, e si pensa aver perduta la stima di quelli che ne furono spettatori o consapevoli. Poi di là a poco si riconforta, non senza maraviglia vedendosi trattare da quei medesimi coi modi di prima. Ma gli uomini non sono sì pronti a disistimare, perché non avrebbero mai a far altro, e dimenticano gli errori, perché troppi ne veggono e ne commettono di continuo. Né sono sì consentanei a se stessi, che non ammirino facilmente oggi chi forse derisero ieri. Ed è manifesto quanto spesso da noi medesimi sia biasimata, anche con parole assai gravi, o messa in burla questa o quella persona assente, né perciò privata in maniera alcuna della nostra stima, o trattata poi, quando è presente, con altri modi che innanzi.
Come il giovane è ingannato dal timore in questo, così
sono ingannati dalla loro speranza quelli che avvedendosi di essere o
caduti o abbassati nella stima d'alcuno, tentano di rilevarsi a forza
di uffici e di compiacenze che fanno a quello. La stima non è
prezzo di ossequi: oltre che essa, non diversa in ciò
dall'amicizia, è come un fiore, che pesto una volta
gravemente, o appassito, mai più non ritorna. Però da
queste che possiamo dire umiliazioni, non si raccoglie altro frutto
che di essere più disistimato. Vero è che il disprezzo,
anche ingiusto, di chicchessia è sì penoso a tollerare,
che veggendosene tocchi, pochi sono sì forti che restino
immobili, e non si dieno con vari mezzi, per lo più
inutilissimi, a cercare di liberarsene. Ed è vezzo assai
comune degli uomini mediocri, di usare alterigia e disdegno
cogl'indifferenti e con chi mostra curarsi di loro, e ad un segno o
ad un sospetto che abbiano di noncuranza, divenire umili per non
soffrirla, e spesso ricorrere ad atti vili. Ma anche per questa
ragione il partito da prendere se alcuno mostra disprezzarti, è
di ricambiarlo con segni di altrettanto disprezzo o maggiore: perché,
secondo ogni verisimiglianza, tu vedrai l'orgoglio di quello
cangiarsi in umiltà. Ed in ogni modo non può mancare
che quegli non senta dentro tale offensione, e al tempo medesimo tale
stima di te, che sieno abbastanza a punirlo.
Come le donne quasi tutte, così ancora gli uomini assai
comunemente, e più i più superbi, si cattivano e si
conservano colla noncuranza e col disprezzo, ovvero, al bisogno, con
dimostrare fintamente di non curarli e di non avere stima di loro.
Perché quella stessa superbia onde un numero infinito d'uomini
usa alterigia cogli umili e con tutti quelli che gli fanno segno
d'onore, rende lui curante e sollecito e bisognoso della stima e
degli sguardi di quelli che non lo curano, o che mostrano non
badargli. Donde nasce non di rado, anzi spesso né solamente in
amore, una lepida alternativa tra due persone o l'una o l'altra, con
vicenda perpetua, oggi curata e non curante, domam curante e non
curata. Anzi si può dire che simile giuoco ed alternativa
apparisce in qualche modo, più o manco, in tutta la società
umana; e che ogni parte della vita è piena di genti che mirate
non mirano, che salutate non rispondono, che seguitate fuggono, e che
voltando loro le spalle, o torcendo il viso, si volgono, e
s'inchinano, e corrono dietro ad altrui.
Verso gli uomini grandi, e specialmente verso quelli in cui risplende una straordinaria virilità, il mondo è come donna. Non gli ammira solo, ma gli ama: perché quella loro forza l'innamora. Spesso, come nelle donne, l'amore verso questi tali è maggiore per conto ed in proporzione del disprezzo che essi mostrano, dei mali trattamenti che fanno, e dello stesso timore che ispirano agli uomini. Così Napoleone fu amatissimo dalla Francia, ed oggetto, per dir così, di culto ai soldati, che egli chiamò carne da cannone, e trattò come tali. Così tanti capitani che fecero degli uomini simile giudizio ed uso, furono carissimi ai loro eserciti in vita, ed oggi nelle storie fanno invaghire di se i lettori. Anche una sorte di brutalità e di stravaganza piace non poco in questi tali, come alle donne negli amanti. Però Achille è perfettamente amabile; laddove la bontà di Enea e di Goffredo, e la saviezza di questi medesimi e di Ulisse, generano quasi odio.
In più altri modi la donna è come una figura di quello
che è il mondo generalmente: perché la debolezza è
proprietà del maggior numero degli uomini; ed essa, verso i
pochi forti o di mente o di cuore o di mano, rende le moltitudini
tali, quali sogliono essere le femmine verso i maschi. Perciò
quasi colle stesse arti si acquistano le donne e il genere umano: con
ardire misto di dolcezza, con tollerare le ripulse, con perseverare
fermamente e senza vergogna, si viene a capo, come delle donne, così
dei potenti, dei ricchi, dei più degli uomini in particolare,
delle nazioni e dei secoli. Come colle donne abbattere i rivali, e
far solitudine dintorno a se, così nel mondo è
necessario atterrare gli emuli e i compagni, e farsi via su pei loro
corpi: e si abbattono questi e i rivali colle stesse armi; delle
quali due sono principalissime, la calunnia e il riso. Colle donne e
cogli uomini riesce sempre a nulla, o certo è malissimo
fortunato, chi gli ama d'amore non finto e non tepido e chi antepone
gl'interessi loro ai propri. E il mondo è, come le donne, di
chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta.
Nulla è più raro al mondo, che una persona abitualmente
sopportabile.
La sanità del corpo è riputata universalmente come
ultimo dei beni, e pochi sono nella vita gli atti e le faccende
importanti, dove la considerazione della sanità, se vi ha
luogo, non sia posposta a qualunque altra. La cagione può
essere in parte, ma non però in tutto, che la vita è
principalmente dei sani, i quali, come sempre accade, o disprezzano o
non credono poter perdere ciò che posseggono. Per recare un
esempio fra mille, diversissime cause fanno e che un luogo è
scelto a fondarvi una città, e che una città cresce di
abitatori; ma tra queste cause non si troverà forse mai la
salubrità del sito. Per lo contrario non v'è sito in
sulla terra tanto insalubre e tristo, nel quale, indotti da qualche
opportunità, gli uomini non si acconcino di buon grado a
stare. Spesso un luogo saluberrimo e disabitato è in
prossimità di uno poco sano ed abitatissimo: e si veggono
continuamente le popolazioni abbandonare città e climi
salutari, per concorrere sotto cieli aspri, e in luoghi non di rado
malsani, e talora mezzo pestilenti, dove sono invitate da altre
comodità. Londra Madrid e simili, sono città di
condizioni pessime alla salute, le quali, per essere capitali, tutto
giorno crescono della gente che lascia le abitazioni sanissime delle
province. E senza muoverci de' paesi nostri, in Toscana Livorno, a
causa del suo commercio, da indi in qua che fu cominciato a popolare,
è cresciuto costantemente d'uomini, e cresce sempre; e in
sulle porte di Livorno, Pisa, luogo salutevole, e famoso per aria
temperatissima e soave, già piena di popolo, quando era città
navigatrice e potente, è ridotta quasi un deserto, e segue
perdendo ogni giorno più.
Due o più persone in un luogo pubblico o in un'adunanza
qualsivoglia, che stieno ridendo tra loro in modo osservabile, né
sappiano gli altri di che, generano in tutti i presenti tale
apprensione, che ogni discorso tra questi divien serio, molti
ammutoliscono, alcuni si partono, i più intrepidi si accostano
a quelli che ridono, procurando di essere accettati a ridere in
compagnia loro. Come se si udissero scoppi di artiglierie vicine,
dove fossero genti al buio: tutti n'andrebbero in scompiglio, non
sapendo a chi possano toccare i colpi in caso che l'artiglieria fosse
carica a palla. Il ridere concilia stima e rispetto anche
dagl'ignoti, tira a se l'attenzione di tutti i circostanti, e dà
fra questi una sorte di superiorità. E se, come accade, tu ti
ritrovassi in qualche luogo alle volte o non curato o trattato con
alterigia o scortesemente, tu non hai a far altro che scegliere tra i
presenti uno che ti paia a proposito, e con quello ridere franco e
aperto e con perseveranza, mostrando più che puoi che il riso
ti venga dal cuore: e se forse vi sono alcuni che ti deridano, ridere
con voce più chiara e con più costanza che i derisori.
Tu devi essere assai sfortunato se, avvedutisi del tuo ridere, i più
orgogliosi e i più petulanti della compagnia, e quelli che più
torcevano da te il viso, fatta brevissima resistenza, o non si danno
alla fuga, o non vengono spontanei a chieder pace, ricercando la tua
favella, e forse profferendotisi per amici. Grande tra gli uomini e
di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno
nella sua coscienza trova se munito da ogni parte. Chi ha coraggio di
ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è
preparato a morire.
Il giovane non acquista mai l'arte del vivere, non ha, si può
dire, un successo prospero nella società, e non prova nell'uso
di quella alcun piacere, finché dura in lui la veemenza dei
desiderii. Più ch'egli si raffredda, più diventa abile
a trattare gli uomini e se stesso. La natura, benignamente come
suole, ha ordinato che l'uomo non impari a vivere se non a
proporzione che le cause di vivere gli s'involano; non sappia le vie
di venire a suoi fini se non cessato che ha di apprezzarli come
felicità celesti, e quando l'ottenerli non gli può
recare allegrezza più che mediocre; non goda se non divenuto
incapace di godimenti vivi. Molti si trovano assai giovani di tempo
in questo stato ch'io dico, e riescono non di rado bene perché,
desiderano leggermente; essendo nei loro animi anticipata da un
concorso di esperienza e d'ingegno, l'età virile. Altri non
giungono al detto stato mai nella vita loro: e sono quei pochi in cui
la forza de' sentimenti è sì grande in principio, che
per corso d'anni non vien meno: i quali più che tutti gli
altri godrebbero nella vita, se la natura avesse destinata la vita a
godere. Questi per lo contrario sono infelicissimi, e bambini fino
alla morte nell'uso del mondo, che non possono apprendere.
Rivedendo in capo di qualche anno una persona ch'io avessi conosciuta
giovane, sempre alla prima giunta mi è paruto vedere uno che
avesse sofferto qualche grande sventura L'aspetto della gioia e della
confidenza non è proprio che della prima età: e il
sentimento di ciò che si va perdendo, e delle incomodità
corporali che crescono di giorno in giorno, viene generando anche nei
più frivoli o più di natura allegra, ed anco similmente
nei più felici, un abito di volto ed un portamento, che si
chiama grave, e che per rispetto a quello dei giovani e dei
fanciulli, veramente è tristo.
Accade nella conversazione come cogli scrittori: molti de' quali
principio, trovati nuovi di concetti, e di un color proprio,
piacciono grandemente; poi, continuando a leggere, vengono a noia,
perché una parte dei loro scritti è imitazione
dell'altra. Così nel conversare, le persone nuove spesse volte
sono pregiate e gradite pei loro modi e pei loro discorsi; e le
medesime vengono a noia coll'uso e scadono nella stima: perché
gli uomini necessariamente, alcuni più ed alcuni meno quando
non imitano gli altri, sono imitatori di se medesimi Però
quelli che viaggiano, specialmente se sono uomini di qualche ingegno
e che posseggano l'arte del conversare, facilmente lasciano di se nei
luoghi da cui passano, un'opinione molto superiore al vero, atteso
l'opportunità che hanno di celare quella che è difetto
ordinario degli spiriti, dico la povertà. Poiché quel
tanto che essi mettono fuori in una o in poco più occasioni,
parlando principalmente delle materie più appartenenti a loro,
in sulle quali, anche senza usare artifizio sono condotti dalla
cortesia o dalla curiosità degli altri, è creduto, non
la loro ricchezza intera, ma una minima parte di quella, e, per dir
così, moneta da spendere alla giornata, non già, come è
forse il più delle volte, o tutta la somma, o la maggior parte
dei loro danari. E questa credenza riesce stabile, per mancanza di
nuove occasioni che la distruggano. Le stesse cause fanno che i
viaggiatori similmente dall'altro lato sono soggetti ad errare,
giudicando troppo altamente delle persone di qualche capacità,
che ne' viaggi vengono loro alle mani.
Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di
se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l'opinione
sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo
stato suo nella vita. A questa grande esperienza, insino alla quale
nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo, il
vivere antico porgeva materia infinita e pronta: ma oggi il vivere
de' privati è sì povero di casi, e in universale di tal
natura, che, per mancamento di occasioni, molta parte degli uomini
muore avanti all'esperienza ch'io dico, e però bambina poco
altrimenti che non nacque. Agli altri il conoscimento e il possesso
di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche
passione grande, cioè forte; e per lo più dall'amore;
quando l'amore è gran passione; cosa che non accade in tutti
come l'amare. Ma accaduta che sia, o nel principio della vita, come
in alcuni, ovvero più tardi, e dopo altri amori di minore
importanza, come pare che occorra più spesse volte, certo
all'uscire di un amor grande e passionato, l'uomo conosce già
mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto
aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse non
provati innanzi; conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché
una di loro che arda, infiamma tutte l'altre; conosce la natura e il
temperamento proprio, sa la misura delle proprie facoltà e
delle proprie forze; e oramai può far giudizio se e quanto gli
convenga sperare o disperare di se, e, per quello che si può
intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. In fine
la vita a' suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui
di cosa udita in veduta, e d'immaginata in reale; ed egli si sente in
mezzo ad essa, forse non più felice, ma per dir così,
più potente di prima, cioè più atto a far uso di
se e degli altri.
Se quei pochi uomini di valor vero che cercano gloria, conoscessero
ad uno ad uno tutti coloro onde è composto quel pubblico dal
quale essi con mille estremi patimenti si sforzano di essere stimati,
è credibile che si raffredderebbero molto nel loro proposito,
e forse che l'abbandonerebbero. Se non che l'animo nostro non si può
sottrarre al potere che ha nell'immaginazione il numero degli uomini:
e si vede infinite volte che noi apprezziamo, anzi rispettiamo, non
dico una moltitudine, ma dieci persone adunate in una stanza, ognuna
delle quali da se reputiamo di nessun conto.
Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli
uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte,
detrattore e persecutore di tutte le vere; quell'avversario d'ogni
grandezza intrinseca e veramente propria dell'uomo; derisore d'ogni
sentimento alto, se non lo crede falso, d'ogni affetto dolce, se lo
crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore
degl'infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col
nome di mondo, che gli dura in tutte le lingue colte insino al
presente. Questa idea generale, che è di tanta verità,
e che poscia è stata e sarà sempre di tanto uso, non
credo che avanti quel tempo fosse nata ad altri, né mi ricordo
che si trovi, intendo dire sotto una voce unica o sotto una forma
precisa, in alcun filosofo gentile. Forse perché avanti quel
tempo la viltà e la frode non fossero affatto adulte, e la
civiltà non fosse giunta a quel luogo dove gran parte
dell'esser suo si confonde con quello della corruzione.
Tale in somma quale ho detto di sopra, e quale fu significato da Gesù
Cristo, è l'uomo che chiamiamo civile: cioè quell'uomo
che la ragione e l'ingegno non rivelano, che i libri e gli educatori
annunziano, che la natura costantemente reputa favoloso, e che sola
l'esperienza della vita fa conoscere, e creder vero. E notisi come
quell'idea che ho detto, quantunque generale, si trovi convenire in
ogni sua parte a innumerabili individui.
Negli scrittori pagani la generalità degli uomini civili, che
noi chiamiamo società o mondo, non si trova mai considerata né
mostrata risolutamente come nemica della virtù, né come
certa corruttrice d'ogni buona indole, e d'ogni animo bene avviato.
Il mondo nemico del bene, è un concetto, quanto celebre nel
Vangelo, e negli scrittori moderni, anche profani, tanto o poco meno
sconosciuto agli antichi. E questo non farà maraviglia a chi
considererà un fatto assai manifesto e semplice, il quale può
servire di specchio a ciascuno che voglia paragonare in materia
morale gli stati antichi ai moderni: e ciò è che
laddove gli educatori moderni temono il pubblico, gli antichi lo
cercavano; e dove i moderni fanno dell'oscurità domestica,
della segregazione e del ritiro, uno schermo ai giovani contro la
pestilenza dei costumi mondani, gli antichi traevano la gioventù,
anche a forza, dalla solitudine, ed esponevano la sua educazione e la
sua vita agli occhi del mondo, e il mondo agli occhi suoi, riputando
l'esempio atto più ad ammaestrarla che a corromperla.
Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio
sapere, è di non trapassarli.
Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti
delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che esse
acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è
dato loro se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha questo
svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche
parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali ogni
sua memoria si riferisce.
Avviene non di rado che gli uomini vani e pieni del concetto di se
medesimi, in cambio d'essere egoisti e d'animo duro, come parrebbe
verisimile, sono dolci, benevoli, buoni compagni, ed anche buoni
amici e servigievoli molto. Come si credono ammirati da tutti, così
ragionevolmente amano i loro creduti ammiratori, e gli aiutano dove
possono, anche perché giudicano ciò conveniente a
quella maggioranza della quale stimano che la sorte gli abbia
favoriti. Conversano volentieri, perché credono il mondo pieno
del loro nome; ed usano modi umani, lodandosi internamente della loro
affabilità, e di sapere adattare la loro grandezza ad
accomunarsi ai piccoli. Ed ho notato che crescendo nell'opinione di
se medesimi, crescono altrettanto in benignità. Finalmente la
certezza che hanno della propria importanza, e del consenso del
genere umano in confessarla, toglie dai loro costumi ogni asprezza,
perché niuno che sia contento di se stesso e degli uomini, è
di costumi aspri; e genera in loro tale tranquillità, che
alcune volte prendono insino aspetto di persone modeste.
Chi comunica dopo cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri
misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché
l'uso pratico della vita, e non già la filosofia, è
quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira
dalla società, perde nel ritiro la misantropia.
Io conobbi già un bambino il quale ogni volta che dalla madre
era contrariato in qualche cosa, diceva: ah, ho inteso, ho inteso: la
mamma è cattiva. Non con altra logica discorre intorno ai
prossimi la maggior parte degli uomini, benché non esprima il
suo discorso con altrettanta semplicità.
Chi t'introduce a qualcuno, se vuole che la raccomandazione abbia
effetto, lasci da canto quelli che sono tuoi pregi più reali e
più propri, e dica i più estrinseci e più
appartenenti alla fortuna. Se tu sei grande e potente nel mondo, dica
grande e potente; se ricco, dica ricco; se non altro che nobile, dica
nobile: non dica magnanimo, né virtuoso, né costumato,
né amorevole, né altre cose simili, se non per giunta,
ancorché siano vere ed in grado insigne. E se tu fossi
letterato, e come tale fossi celebre in qualche parte, non dica
dotto, né profondo, né grande ingegno, né sommo;
ma dica celebre: perché, come ho detto altrove, la fortuna è
fortunata al mondo, e non il valore.
Dice Giangiacomo Rousseau che la vera cortesia de' modi consiste in
un abito di mostrarsi benevolo. Questa cortesia forse ti preserva
dall'odio, ma non ti acquista amore, se non di quei pochissimi ai
quali l'altrui benevolenza è stimolo a corrispondere. Chi
vuole, per quanto possono le maniere, farsi gli uomini amici, anzi
amanti, dimostri di stimarli. Come il disprezzo offende e spiace più
che l'odio, così la stima è più dolce che la
benevolenza; e generalmente gli uomini hanno maggior cura, o certo
maggior desiderio, d'essere pregiati che amati. Le dimostrazioni di
stima, vere o false (che in tutti i modi trovano fede in chi le
riceve), ottengono gratitudine quasi sempre: e molti che non
alzerebbero il dito in servigio di chi gli ama veramente, si
gitteranno ad ardere per chi farà vista di apprezzarli. Tali
dimostrazioni sono ancora potentissime a riconciliare gli offesi,
perché pare che la natura non ci consenta di avere in odio una
persona che dica di stimarci. Laddove, non solo è possibile,
ma veggiamo spessissime volte gli uomini odiare e fuggire chi gli
ama, anzi chi li benefica. Che se l'arte di cattivare gli animi nella
conversazione consiste in fare che gli altri si partano da noi più
contenti di se medesimi che non vennero, è chiaro che i segni
di stima saranno più valevoli ad acquistare gli uomini, che
quelli di benevolenza. E quanto meno la stima sarà dovuta, più
sarà efficace il dimostrarla. Coloro che hanno l'abito della
gentilezza ch'io dico, sono poco meno che corteggiati in ogni luogo
dove si trovano; correndo a gara gli uomini, come volano le mosche al
mele, a quella dolcezza del credere di vedersi stimati. E per lo più
questi tali sono lodatissimi: perché dalle lodi che essi,
conversando, porgono a ciascuno, nasce un gran concento delle lodi
che tutti danno a loro, parte per riconoscenza, e parte perché
è dell'interesse nostro che siano lodati e stimati quelli che
ci stimano. In tal maniera gli uomini senza avvedersene, e ciascuno
forse contro la volontà sua, mediante il loro accordo in
celebrare queste tali persone, le innalzano nella società
molto di sopra a se medesimi, ai quali esse continuamente accennano
di tenersi inferiori.
Molti, anzi quasi tutti gli uomini che da se medesimi e dai
conoscenti si credono stimati nella società, non hanno altra
stima che quella di una particolar compagnia, o di una classe, o di
una qualità di persone, alla quale appartengono e nella quale
vivono. L'uomo di lettere, che si crede famoso e rispettato nel
mondo, si trova o lasciato da un canto o schernito ogni volta che si
abbatte in compagnie di genti frivole, del qual genere sono tre
quarti del mondo. Il giovane galante, festeggiato dalle donne e dai
pari suoi, resta negletto e confuso nella società degli uomini
d'affari. Il cortigiano, che i suoi compagni e i dipendenti
colmeranno di cerimonie, sarà mostrato con riso o fuggito
dalle persone di bel tempo. Conchiudo che, a parlar proprio, l'uomo
non può sperare, e quindi non dee voler conseguire la stima,
come si dice, della società, ma di qualche numero di persone;
e dagli altri, contentarsi di essere, quando ignorato affatto, e
quando, più o meno, disprezzato; poiché questa sorte
non si può schivare.
Chi non è mai uscito di luoghi piccoli, dove regnano piccole
ambizioni ed avarizia volgare, con un odio intenso di ciascuno contro
ciascuno, come ha per favola i grandi vizi, così le sincere e
solide virtù sociali. E nel particolare dell'amicizia, la
crede cosa appartenente ai poemi ed alle storie, non alla vita. E
s'inganna. Non dico Piladi o Piritoi, ma buoni amici e cordiali, si
trovano veramente nel mondo, e non sono rari. I servigi che si
possono aspettare e richiedere da tali amici, dico da quelli che dà
veramente il mondo, sono, o di parole, che spesso riescono
utilissime, o anco di fatti qualche volta: di roba, troppo di rado; e
l'uomo savio e prudente non ne dee richiedere di sì fatti. Più
presto si trova chi per un estraneo metta a pericolo la vita, che uno
che, non dico spenda, ma rischi per l'amico uno scudo.
Né sono gli uomini in ciò senza qualche scusa: perché
raro è chi veramente abbia più di quello che gli
bisogna; dipendendo i bisogni in modo quasi principale dalle
assuefazioni, ed essendo per lo più proporzionate alle
ricchezze le spese, e molte volte maggiori. E quei pochi che
accumulano senza spendere, hanno questo bisogno di accumulare; o per
loro disegni, o per necessità future o temute. Né vale
che questo o quel bisogno sia immaginario; perché troppo poche
sono le cose della vita che non consistano o del tutto o per gran
parte nella immaginazione.
L'uomo onesto, coll'andar degli anni, facilmente diviene insensibile
alla lode e all'onore, ma non mai, credo, al biasimo né al
disprezzo. Anzi la lode e la stima di molte persone egregie non
compenseranno il dolore che gli verrà da un motto o da un
segno di noncuranza di qualche uomo da nulla. Forse ai ribaldi
avviene al contrario; che, per essere usati al biasimo, e non usati
alla lode vera, a quello saranno insensibili, a questa no, se mai per
caso ne tocca loro qualche saggio.
Ha sembianza di paradosso, ma coll'esperienza della vita si conosce
essere verissimo, che quegli uomini che i francesi chiamano
originali, non solamente non sono rari, ma sono tanto comuni che sto
per dire che la cosa più rara nella società è di
trovare un uomo che veramente non sia, come si dice, un originale. Né
parlo già di piccole differenze da uomo a uomo: parlo di
qualità e di modi che uno avrà propri, e che agli altri
riusciranno strani, bizzarri, assurdi: e dico che rade volte ti
avverrà di usare lungamente con una persona anche civilissima,
che tu non iscuopra in lei e ne' suoi modi più d'una stranezza
o assurdità o bizzarria tale, che ti farà maravigliare.
A questa scoperta arriverai
più presto in altri che nei francesi, più presto forse
negli uomini maturi o vecchi che ne' giovani, i quali molte volte
pongono la loro ambizione nel rendersi conformi agli altri, ed
ancora, se sono bene educati, sogliono fare più forza a se
stessi. Ma più presto o più tardi scoprirai questa cosa
alla fine nella maggior parte di coloro coi quali praticherai. Tanto
la natura è varia: e tanto è impossibile alla civiltà,
la quale tende ad uniformare gli uomini, di vincere in somma la
natura.
Simile alla soprascritta osservazione è la seguente, che
ognuno che abbia o che abbia avuto alquanto a fare cogli uomini,
ripensando un poco, si ricorderà di essere stato non molte ma
moltissime volte spettatore, e forse parte, di scene, per dir così,
reali, non differenti in nessuna maniera da quelle che vedute ne'
teatri, o lette ne' libri delle commedie o de' romanzi, sono credute
finte di là dal naturale per ragioni d'arte. La qual cosa non
significa altro, se non che la malvagità, la sciocchezza, i
vizi d'ogni sorte, e le qualità e le azioni ridicole degli
uomini, sono molto più solite che non crediamo, e che forse
non è credibile, a passare quei segni che stimiamo ordinari,
ed oltre ai quali supponghiamo che sia l'eccessivo.
Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere
ciò che non sono. Il povero, l'ignorante, il rustico, il
malato, il vecchio, non sono mai ridicoli mentre si contentano di
parer tali, e si tengono nei limiti voluti da queste loro qualità,
ma sì bene quando il vecchio vuol parer giovane, il malato
sano, il povero ricco, l'ignorante vuol fare dell'istruito, il
rustico del cittadino. Gli stessi difetti corporali, per gravi che
fossero, non desterebbero che un riso passeggero, se l'uomo non si
sforzasse di nasconderli, cioè non volesse parere di non
averli, che è come dire diverso da quel ch'egli è. Chi
osserverà bene, vedrà che i nostri difetti o svantaggi
non sono ridicoli essi, ma lo studio che noi ponghiamo per
occultarli, e il voler fare come se non gli avessimo.
Quelli che per farsi più amabili affettano un carattere morale
diverso dal proprio, errano di gran lunga. Lo sforzo che dopo breve
tempo non è possibile a sostenere, che non divenga palese, e
l'opposizione del carattere finto al vero, il quale da indi innanzi
traspare di continuo, rendono la persona molto più disamabile
e più spiacevole ch'ella non sarebbe dimostrando francamente e
costantemente l'esser suo. Qualunque carattere più infelice,
ha qualche parte non brutta, la quale, per esser vera, mettendola
fuori opportunamente, piacerà molto più, che ogni più
bella qualità falsa.
E
generalmente, il voler essere ciò che non siamo, guasta ogni
cosa al mondo: e non per altra causa riesce insopportabile una
quantità di persone, che sarebbero amabilissime solo che si
contentassero dell'esser loro. Né persone solamente, ma
compagnie, anzi popolazioni intere: ed io conosco diverse città
di provincia colte e floride, che sarebbero luoghi assai grati ad
abitarvi, se non fosse un'imitazione stomachevole che vi si fa delle
capitali, cioè un voler esser per quanto è in loro
piuttosto città capitali che di provincia.
Tornando ai difetti o svantaggi che alcuno può avere, non nego
che molte volte il mondo non sia come quei giudici ai quali per legge
è vietato di condannare il reo, quantunque convinto, se da lui
medesimo non si ha confessione espressa del delitto. E veramente non
per ciò che' l'occultare con istudio manifesto i propri
difetti è cosa ridicola, io loderei che si confessassero
spontaneamente, e meno ancora, che alcuno desse troppo ad intendere
di tenersi a causa di quelli inferiore agli altri. La qual cosa non
sarebbe che un condannare se stesso con quella sentenza finale, che
il mondo, finché tu porterai la testa levata, non verrà
mai a capo di profferire. In questa specie di lotta di ciascuno
contro tutti, e di tutti contro ciascuno, nella quale, se vogliamo
chiamare le cose coi loro nomi, consiste la vita sociale; procurando
ognuno di abbattere il compagno per porvi su i piedi, ha gran torto
chi si prostra, e ancora chi s'incurva, e ancora chi piega il capo
spontaneamente: perché fuori d'ogni dubbio (eccetto quando
queste cose si fanno con simulazione, come per istratagemma) gli sarà
subito montato addosso o dato in sul collo dai vicini, senza né
cortesia né misericordia nessuna al mondo. Questo errore
commettono i giovani quasi sempre, e maggiormente quanto sono
d'indole più gentile: dico di confessare a ogni poco, senza
necessità e fuori di luogo, i loro svantaggi e infortuni;
movendosi parte per quella franchezza che è propria della loro
età, per la quale odiano la dissimulazione, e provano
compiacenza nell'affermare, anche contro se stessi, il vero; parte
perché come sono essi generosi, così credono con questi
modi ottener perdono e grazia dal mondo alle loro sventure. E tanto
erra dalla verità delle cose umane quella età d'oro
della vita, che anche fanno mostra dell'infelicità, pensandosi
che questa li renda amabili, ed acquisti loro gli animi. Né, a
dir vero, è altro che ragionevolissimo che così
pensino, e che solo una lunga e costante esperienza propria persuada
a spiriti gentili che il mondo perdona più facilmente ogni
cosa che la sventura; che non l'infelicità, ma la fortuna è
fortunata e che però non di quella, ma di questa sempre, anche
a dispetto del vero, per quanto è possibile, s'ha a far
mostra, che la confessione de' propri mali non cagiona pietà
ma piacere, non contrista ma rallegra, non i nemici solamente ma
ognuno che l'ode, perché è quasi un'attestazione
d'inferiorità propria, e d'altrui superiorità, e che
non potendo l'uomo in sulla terra confidare in altro che nelle sue
forze, nulla mai non dee cedere né ritrarsi indietro un passo
volontariamente, e molto meno rendersi a discrezione, ma resistere
difendendosi fino all'estremo, e combattere con isforzo ostinato per
ritenere o per acquistare, se può, anche ad onta della
fortuna, quello che mai non gli verrà impetrato da generosità
de' prossimi né da umanità. Io per me credo che nessuno
debba sofferire né anche d'essere chiamato in sua presenza
infelice né sventurato: i quali nomi quasi in tutte le lingue
furono e sono sinonimi di ribaldo, forse per antiche superstizioni,
quasi l'infelicità sia pena di scelleraggini; ma certo in
tutte le lingue sono e saranno eternamente oltraggiosi per questo,
che chi li profferisce, qualunque intenzione abbia, sente che con
quelli innalza se ed abbassa il compagno, e la stessa cosa è
sentita da chi ode.
Confessando i propri mali, quantunque palesi, l'uomo nuoce molte
volte ancora alla stima, e quindi all'affetto, che gli portano i suoi
più cari: tanto è necessario che ognuno con braccio
forte sostenga se medesimo, e che in qualunque stato, e a dispetto di
qualunque infortunio, mostrando di se una stima ferma e sicura, dia
esempio di stimarlo agli altri, e quasi li costringa colla sua
propria autorità. Perché se l'estimazione di un uomo
non comincia da esso, difficilmente comincerà ella altronde: e
se non ha saldissimo fondamento in lui, difficilmente starà in
piedi. La società degli uomini è simile ai fluidi; ogni
molecola dei quali, o globetto, premendo fortemente i vicini di sotto
e di sopra e da tutti i lati, e per mezzo di quelli i lontani, ed
essendo ripremuto nella stessa guisa, se in qualche posto il
resistere e il risospingere diventa minore, non passa un attimo, che,
concorrendo verso colà a furia tutta la mole del fluido, quel
posto è occupato da globetti nuovi.
Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di ciascheduno, quasi
i tempi favolosi della sua vita, come, nella memoria delle nazioni, i
tempi favolosi sono quelli della fanciullezza delle medesime.
Le lodi date a noi, hanno forza di rendere stimabili al nostro
giudizio materie e facoltà da noi prima vilipese, ogni volta
che ci avvenga di essere lodati in alcuna di così fatte.
L'educazione che ricevono, specialmente in Italia, quelli che sono
educati (che a dir vero, non sono molti), è un formale
tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza
contro la gioventù. I vecchi vengono a dire ai giovani:
fuggite i piaceri propri della vostra età, perché tutti
sono pericolosi e contrari ai buoni costumi, e perché noi che
ne abbiamo presi quanti più abbiamo potuto, e che ancora, se
potessimo, ne prenderemmo altrettanti, non ci siamo più atti,
a causa degli anni. Non vi curate di vivere oggi; ma siate
ubbidienti, sofferite, e affaticatevi quanto più sapete, per
vivere quando non sarete più a tempo. Saviezza e onestà
vogliono che il giovane si astenga quanto è possibile dal far
uso della gioventù, eccetto per superare gli altri nelle
fatiche. Della vostra sorte e di ogni cosa importante lasciate la
cura a noi, che indirizzeremo il tutto all'utile nostro. Tutto il
contrario di queste cose ha fatto ognuno di noi alla vostra età,
e ritornerebbe a fare se ringiovanisse: ma voi guardate alle nostre
parole, e non ai nostri fatti passati, né alle nostre
intenzioni. Così facendo, credete a noi conoscenti ed esperti
delle cose umane, che voi sarete felici. Io non so che cosa sia
inganno e fraude, se non è il promettere felicità
agl'inesperti sotto tali condizioni.
L'interesse della tranquillità comune, domestica e pubblica, è
contrario ai piaceri ed alle imprese dei giovani; e perciò
anche l'educazione buona, o così chiamata, consiste in gran
parte nell'ingannare gli allievi, acciocché pospongano il
comodo proprio all'altrui. Ma senza questo, i vecchi tendono
naturalmente a distruggere, per quanto è in loro, e a
cancellare dalla vita umana la gioventù, lo spettacolo della
quale abborrono. In tutti i tempi la vecchiaia fu congiurata contro
la giovinezza, perché in tutti i tempi fu propria degli uomini
la viltà di condannare e perseguitare in altri quei beni che
essi più desidererebbero a se medesimi. Ma però non
lascia d'esser notabile che, tra gli educatori, i quali, se mai
persona al mondo, fanno professione di cercare il bene dei prossimi,
si trovino tanti che cerchino di privare i loro allievi del maggior
bene della vita, che è la giovinezza. Più notabile è,
che mai padre né madre, non che altro istitutore, non sentì
rimordere la coscienza del dare ai figliuoli un'educazione che muove
da un principio così maligno. La qual cosa farebbe più
maraviglia, se già lungamente, per altre cause, il procurare
l'abolizione della gioventù, non fosse stata creduta opera
meritoria.
Frutto di tale
cultura malefica, o intenta al profitto del cultore con rovina della
pianta, si è, o che gli alunni, vissuti da vecchi nell'età
florida, si rendono ridicoli e infelici in vecchiezza, volendo vivere
da giovani; ovvero, come accade più spesso, che la natura
vince, e che i giovani vivendo da giovani in dispetto
dell'educazione, si fanno ribelli agli educatori, i quali se avessero
favorito l'uso e il godimento delle loro facoltà giovanili,
avrebbero potuto regolarlo, mediante la confidenza degli allievi, che
non avrebbero mai perduta.
L'astuzia, la quale appartiene all'ingegno, è usata moltissime
volte per supplire la scarsità di esso ingegno, e per vincere
maggior copia del medesimo in altri.
Il mondo a quelle cose che altrimenti gli converrebbe ammirare ride;
e biasima, come la volpe d'Esopo, quelle che invidia. Una gran
passione d'amore, con grandi consolazioni di grandi travagli, è
invidiata universalmente; e perciò biasimata con più
calore. Una consuetudine generosa, un'azione eroica, dovrebb'essere
ammirata: ma gli uomini se ammirassero, specialmente negli uguali, si
crederebbero umiliati; e perciò, in cambio d'ammirare, ridono.
Questa cosa va tant'oltre, che nella vita comune è necessario
dissimulare con più diligenza la nobilità dell'operare,
che la viltà: perché la viltà è di tutti,
e però almeno è perdonata; la nobiltà è
contro l'usanza, e pare che indichi presunzione, o che da se
richiegga lode; la quale il pubblico, e massime i conoscenti, non
amano di dare con sincerità.
Molte scempiataggini si dicono in compagnia per voglia di favellare.
Ma il giovane che ha qualche stima di se medesimo quando da principio
entra nel mondo, facilmente erra in altro modo: e questo è,
che per parlare aspetta che gli occorrano da dir cose straordinarie
di bellezza o d'importanza. Così, aspettando, accade che non
parla mai. La più sensata conversazione del mondo, e la più
spiritosa, si compone per la massima parte di detti e discorsi
frivoli o triti, i quali in ogni modo servono all'intento di passare
il tempo parlando. Ed è necessario che ciascuno si risolva a
dir cose la più parte comuni, per dirne di non comuni solo
alcune volte.
Grande studio degli uomini finché sono immaturi, è di
parere uomini fatti, e poiché sono tali, di parere immaturi.
Oliviero Goldsmith, l'autore del romanzo The Vicar of Wakefield,
giunto all'età di quarant'anni, tolse dal suo indirizzo il
titolo di dottore; divenutagli odiosa in quel tempo tale
dimostrazione di gravità, che gli era stata cara nei primi
anni.
L'uomo è quasi sempre tanto malvagio quanto gli bisogna. Se si
conduce dirittamente, si può giudicare che la malvagità
non gli è necessaria. Ho visto persone di costumi dolcissimi,
innocentissimi, commettere azioni delle più atroci, per
fuggire qualche danno grave, non evitabile in altra guisa.
È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che vagliono
molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere
semplici sono prese per indizio di poco valore.
Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è
lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si
richiede e ardimento e attitudine a parlare.