Niccolò Machiavelli
DISCORSI
SOPRA LA PRIMA DECADE
DI TITO LIVIO
LIBRO PRIMO
DEDICA
Niccolò Machiavelli a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai salute.
Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo né voi né altri desiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere; e della fallacia del giudicio, quando io in molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch'io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare essere uscito fuora dell'uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e, accecati dall'ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono, non quelli che possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli scrittori laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone ad essere principe non mancava altro che il principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie opinioni Vi siano grate, non mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi promissi. Valete.
Ancora
che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non
altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse
cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti
a biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da
quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno
respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo
suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e
difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante
quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino. E
se lo ingegno povero, la poca esperienzia delle cose presenti e la
debole notizia delle antique faranno questo mio conato difettivo e di
non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con
più virtù, più discorso e iudizio, potrà
a questa mia intenzione satisfare: il che, se non mi arrecherà
laude, non mi doverebbe partorire biasimo.
Considerando
adunque quanto onore si attribuisca all'antiquità, e come
molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento
d'una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo, per averlo
appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a
coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli dipoi con ogni
industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e
veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le
storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche
antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che
si sono per la loro patria affaticati, essere più presto
ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa
fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto
alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga.
E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra
cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini
incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii
che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati: perché le
leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui
iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a' presenti nostri
iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è
altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali
fondano e' medici presenti e' loro iudizii. Nondimanco, nello
ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e'
regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel
iudicare e' sudditi, nello accrescere l'imperio, non si truova
principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra.
Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la
presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto
a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto
dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne,
leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le
hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono
piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si
contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la
imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il
sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di
potenza, da quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto,
trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere,
sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de'
tempi non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le
cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere
necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che
coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più
facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare
la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia
difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare
sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che ad un
altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.
Cap.
1
Quali siano stati universalmente i principii di qualunque
città, e quale fusse quello di Roma.
Coloro
che leggeranno quale principio fusse quello della città di
Roma, e da quali latori di leggi e come ordinato, non si
maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli
mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello
imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere
prima il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o
dagli uomini natii del luogo dove le si edificano o dai forestieri.
Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in molte e
piccole parti non pare vivere securi, non potendo ciascuna per sé,
e per il sito e per il piccolo numero, resistere all'impeto di chi le
assaltasse; e ad unirsi per loro difensione, venendo il nimico, non
sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro lasciare abbandonati
molti de' loro ridotti; e così verrebbero ad essere subita
preda dei loro inimici: talmente che, per fuggire questi pericoli,
mossi o da loro medesimi, o da alcuno che sia infra loro di maggiore
autorità, si ristringono ad abitare insieme in luogo eletto da
loro, più commodo a vivere e più facile a
difendere.
Di queste, infra molte altre,
sono state Atene e Vinegia. La prima, sotto l'autorità di
Teseo, fu per simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata;
l'altra, sendosi molti popoli ridotti in certe isolette che erano
nella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni
dì, per lo avvenimento di nuovi barbari, dopo la declinazione
dello Imperio romano, nascevano in Italia, cominciarono infra loro,
sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a vivere sotto
quelle leggi che parevono loro più atte a mantenerli. Il che
successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro,
non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli, che
affliggevano Italia, navigli da poterli infestare: talché ogni
piccolo principio li poté fare venire a quella grandezza nella
quale sono.
Il secondo caso, quando da
genti forestiere è edificata una città, nasce o da
uomini liberi o che dependono da altri: come sono le colonie mandate
o da una republica o da uno principe per isgravare le loro terre
d'abitatori, o per difesa di quel paese che, di nuovo acquistato,
vogliono sicuramente e sanza ispesa mantenersi; delle quali città
il Popolo romano ne edificò assai, e per tutto l'imperio suo:
ovvero le sono edificate da uno principe, non per abitarvi, ma per
sua gloria; come la città di Alessandria, da Alessandro. E per
non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre
che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi dei regni
numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze, perché
(o edificata da' soldati di Silla, o, a caso, dagli abitatori dei
monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto
Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel piano sopra
Arno) si edificò sotto l'imperio romano: né poté,
ne' principii suoi, fare altri augumenti che quelli che per cortesia
del principe gli erano concessi.
Sono
liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto
uno principe o da per sé, sono constretti, o per morbo o per
fame o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e crearsi nuova
sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e' truovono ne'
paesi ch'egli acquistano, come fe' Moises; o e' ne edificano di
nuovo, come fe' Enea. In questo caso è dove si conosce la
virtù dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la
quale è più o meno maravigliosa, secondo che più
o meno è virtuoso colui che ne è stato principio. La
virtù del quale si conosce in duo modi: il primo è
nella elezione del sito; l'altro nella ordinazione delle leggi. E
perché gli uomini operono o per necessità o per
elezione; e perché si vede quivi essere maggior virtù
dove la elezione ha meno autorità; è da considerare se
sarebbe meglio eleggere, per la edificazione delle cittadi, luoghi
sterili, acciocché gli uomini, constretti a industriarsi, meno
occupati dall'ozio, vivessono più uniti avendo, per la povertà
del sito, minore cagione di discordie; come interviene in Raugia, e
in molte altre cittadi in simili luoghi edificate: la quale elezione
sarebbe sanza dubbio più savia e più utile, quando gli
uomini fossero contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di
comandare altrui. Pertanto, non potendo gli uomini assicurarsi se non
con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità
del paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, potendo per la
ubertà del sito ampliare, possa e difendersi da chi
l'assaltasse e opprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse. E
quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si debbe ordinare che a
quelle necessità le leggi la costringhino, che il sito non la
costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato
in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre uomini oziosi
ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per ovviare a quelli danni
i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio, arebbe causati,
hanno posto una necessità di esercizio a quelli che avevano a
essere soldati; di qualità che, per tale ordine, vi sono
diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente
sono stati aspri e sterili. Intra i quali fu il regno degli Egizi,
che, non ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella
necessità, ordinata dalle leggi, che ne nacque uomini
eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono dalla antichità
spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero più laude che
Alessandro Magno, e molti altri de' quali ancora è la memoria
fresca. E chi avesse considerato il regno del Soldano, e l'ordine de'
Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti che da Salì, Gran
Turco, fusse stata spenta, arebbe veduto in quello molti esercizi
circa i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto quanto essi
temevano quell'ozio a che la benignità del paese li poteva
condurre, se non vi avessono con leggi fortissime ovviato.
Dico,
adunque, essere più prudente elezione porsi in luogo fertile,
quando quella fertilità con le leggi infra i debiti termini si
ristringa. Ad Alessandro Magno, volendo edificare una città
per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli mostrò come
e' la poteva edificare sopra il monte Atho, il quale luogo, oltre
allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città
si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e
degna della sua grandezza. E domandandolo Alessandro di quello che
quelli abitatori viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che
quello si rise, e, lasciato stare quel monte, edificò
Alessandria, dove gli abitatori avessero a stare volentieri per la
grassezza del paese, e per la commodità del mare e del Nilo.
Chi esaminerà, adunque, la edificazione di Roma, se si
prenderà Enea per suo primo progenitore, sarà di quelle
cittadi edificate da' forestieri; se Romolo di quelle edificate dagli
uomini natii del luogo; ed in qualunque modo, la vedrà avere
principio libero, sanza dependere da alcuno: vedrà ancora,
come di sotto si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da
Romolo, Numa, e gli altri, la costringessono; talmente che la
fertilità del sito, la commodità del mare, le spesse
vittorie, la grandezza dello imperio, non la potero per molti secoli
corrompere, e la mantennero piena di tanta virtù, di quanta
mai fusse alcun'altra città o republica ornata.
E
perché le cose operate da lei, e che sono da Tito Livio
celebrate, sono seguite o per publico o per privato consiglio, o
dentro o fuori della cittade; io comincerò a discorrere sopra
quelle cose occorse dentro e per consiglio publico, le quali degne di
maggiore annotazione giudicherò, aggiungendovi tutto quello
che da loro dependessi; con i quali Discorsi questo primo libro,
ovvero questa prima parte, si terminerà.
Cap.
2
Di quante spezie sono le republiche, e di quale fu la
republica romana.
Io
voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto
il loro principio sottoposto a altrui; e parlerò di quelle che
hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma
si sono subito governate per loro arbitrio, o come republiche o come
principato: le quali hanno avuto, come diversi principii, diverse
leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse, o
dopo non molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un
tratto; come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune
le hanno avute a caso, ed in più volte e secondo li accidenti,
come ebbe Roma. Talché, felice si può chiamare quella
republica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che gli dia
leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle,
possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le
osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o
sanza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche
grado d'infelicità quella città, che, non si sendo
abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da sé
medesima riordinarsi. E di queste ancora è più infelice
quella che è più discosto dall'ordine; e quella ne è
più discosto che co' suoi ordini è al tutto fuori del
diritto cammino, che la possa condurre al perfetto e vero fine.
Perché quelle che sono in questo grado, è quasi
impossibile che per qualunque accidente si rassettino: quelle altre
che, se le non hanno l'ordine perfetto, hanno preso il principio
buono, e atto a diventare migliore, possono per la occorrenzia degli
accidenti diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si
ordineranno sanza pericolo; perché gli assai uomini non si
accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella
città se non è mostro loro da una necessità che
bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza
pericolo, è facil cosa che quella republica rovini, avanti che
la si sia condotta a una perfezione d'ordine. Di che ne fa fede
appieno la republica di Firenze, la quale fu dallo accidente
d'Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel di Prato, nel dodici,
disordinata.
Volendo, adunque, discorrere
quali furono li ordini della città di Roma, e quali accidenti
alla sua perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto
delle republiche dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati
da loro Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro che ordinano
una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare
loro più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la opinione di
molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni
governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in
loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono ancora
essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e' soprascritti
tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre
dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a quello che gli
è propinquo, che facilmente saltano dall'uno all'altro: perché
il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità
diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in
licenzioso si converte. Talmente che, se uno ordinatore di republica
ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per
poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi, a fare
che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in
questo caso la virtute ed il vizio.
Nacquono
queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini: perché
nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo
dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la
generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere,
cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più
robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da
questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti
dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al
suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini,
biasimando gl'ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e
pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a
loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della
giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno
principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello
che fusse più prudente e più giusto. Ma come dipoi si
cominciò a fare il principe per successione, e non per
elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi;
e, lasciando l'opere virtuose, pensavano che i principi non avessero
a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di
lascivia e d'ogni altra qualità di licenza: in modo che,
cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e
passando tosto dal timore all'offese, ne nasceva presto una
tirannide. Da questo nacquero, appresso, i principii delle rovine, e
delle conspirazioni e congiure contro a' principi; non fatte da
coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per
generosità, grandezza d'animo, ricchezza e nobilità,
avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta
vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità
di questi potenti, s'armava contro al principe, e, quello spento,
ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il
nome d'uno solo capo, constituivano di loro medesimi uno governo; e,
nel principio, avendo rispetto alla passata tirannide, si governavono
secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro commodo alla
commune utilità; e le cose private e le publiche con somma
diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa
amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la
variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non
volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla
avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che
d'uno governo d'ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere
rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo,
intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da' loro
governi, la moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi in
alcun modo offendere quelli governatori; e così si levò
presto alcuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed
essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie
ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non volendo
rifare quel del principe, si volsero allo stato popolare; e quello
ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno
principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli
stati nel principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo
stato popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella
generazione che l'aveva ordinato; perché subito si venne alla
licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né
i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si
facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per
necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per
fuggire tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello,
di grado in grado, si riviene verso la licenza, ne' modi e per le
cagioni dette.
E questo è il
cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si
governano: ma rade volte ritornano ne' governi medesimi; perché
quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa
passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma
bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole
sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno stato propinquo, che
sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe
atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi
governi.
Dico, adunque, che tutti i detti
modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è
ne' tre buoni, e per la malignità che è ne' tre rei.
Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi,
conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per sé
stesso, ne elessero uno che participasse di tutti, giudicandolo più
fermo e più stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo
in una medesima città il Principato, gli Ottimati, e il
Governo Popolare.
Intra quelli che hanno
per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo;
il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le
parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò,
più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella
città. Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò
le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece
di sì breve vita, che, avanti morisse, vi vide nata la
tirannide di Pisistrato; e benché, dipoi anni quaranta, ne
fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà,
perché la riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di
Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per
mantenerlo facessi molte constituzioni, per le quali si reprimeva la
insolenzia de' grandi e la licenza dell'universale, le quali non
furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la non le
mescolò con la potenza del Principato e con quella degli
Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma
vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che
la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo
tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella
nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che
quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché,
se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda;
perché i primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non
deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione.
Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi,
conformi ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu
fondare un regno e non una republica, quando quella città
rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in
favore della libertà, le quali non erano state da quelli re
ordinate. E avvengaché quelli suoi re perdessono l'imperio,
per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono,
ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de' Re, vennero
a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché,
essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a
essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè
di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo
popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente
per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo
contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu
costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall'altra parte, il
Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che
potessono tenere in quella republica il grado loro. E così
nacque la creazione de' Tribuni della plebe, dopo la quale creazione
venne a essere più stabilito lo stato di quella republica,
avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto
le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal
governo de' Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi
e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse,
nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati,
tutta l'autorità alle qualità regie; ne si diminuì
l'autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma
rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione
venne per la disunione della Plebe e del Senato, come nei dua
prossimi seguenti capitoli largamente si dimosterrà.
Cap.
3
Quali accidenti facessono creare in roma i tribuni
della plebe, il che fece la republica più perfetta.
Come
dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è
piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una
republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini
rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo
loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e quando alcuna
malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta
cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario, non
si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere
padre d'ogni verità.
Pareva che
fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i Tarquini, una
unione grandissima; e che i Nobili avessono diposto quella loro
superbia, e fossero diventati d'animo popolare, e sopportabili da
qualunque ancora che infimo. Stette nascoso questo inganno, né
se ne vide la cagione, infino che i Tarquinii vissero; dei quali
temendo la Nobilità, ed avendo paura che la Plebe male
trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con quella:
ma, come prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la
paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla Plebe quel veleno
che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la
offendevano. La quale cosa fa testimonianza a quello che di sopra ho
detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se non per
necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può
usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli
uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per
sé medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria
la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito
la legge necessaria. Però mancati i Tarquinii, che con la
paura di loro tenevano la Nobilità a freno, convenne pensare a
uno nuovo ordine che facesse quel medesimo effetto che facevano i
Tarquinii quando erano vivi. E però, dopo molte confusioni,
romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la Plebe e la
Nobilità, si venne, per sicurtà della Plebe, alla
creazione de' Tribuni; e quelli ordinarono con tante preminenzie e
tanta riputazione, che poterono essere sempre di poi mezzi intra la
Plebe e il Senato, e ovviare alla insolenzia de' Nobili.
Cap.
4
Che la disunione della plebe e del senato romano fece
libera e potente quella republica.
Io
non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in
Roma dalla morte de' Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di poi
alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata
una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la
buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a' loro
difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non posso
negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio
romano; ma e' mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è
buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco
occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri
particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i
tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose
che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più
a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni
effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino come e' sono
in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de'
grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà,
nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere
essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che
furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte
partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per
tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica
divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in
esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò
pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né
si può chiamare in alcun modo con ragione una republica
inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché
li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione,
dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti
inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene
il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in
beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi
erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme
gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre
tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta
la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi
le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i
quali il popolo possa sfogare l'ambizione sua, e massime quelle città
che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le
quali, la città di Roma aveva questo modo, che, quando il
popolo voleva ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette
cose, o e' non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che
a placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de'
popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché
e' nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere
oppressi. E quando queste opinioni fossero false e' vi è il
rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando,
dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio,
benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e
facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro
il vero.
Debbesi, adunque, più
parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni
effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se
non da ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione
de' Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la
parte sua all'amministrazione popolare, furano constituiti per
guardia della libertà romana, come nel seguente capitolo si
mosterrà.
Cap.
5
Dove più sicuramente si ponga la guardia della
libertà, o nel popolo o ne' grandi; e quali hanno maggiore
cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere.
Quelli
che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le più
necessarie cose ordinate da loro è stato constituire una
guardia alla libertà: e, secondo che questa è bene
collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perché
in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato
nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso
a' Lacedemonii, e, ne' nostri tempi, appresso de' Viniziani, la è
stata messa nelle mani de' Nobili; ma appresso de' Romani fu messa
nelle mani della Plebe.
Pertanto, è
necessario esaminare quale di queste republiche avesse migliore
elezione. E se si andasse dietro alle ragioni ci è che dire da
ogni parte; ma se si esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte
de' Nobili, per avere avuta la libertà di Sparta e di Vinegia
più lunga vita che quella di Roma. E venendo alle ragioni,
dico, pigliando prima la parte de' Romani, come e' si debbe mettere
in guardia coloro d'una cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E
sanza dubbio, se si considerrà il fine de' nobili e degli
ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed
in questi solo desiderio di non essere dominati; e, per conseguente,
maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di
usurparla che non possono i grandi: talché essendo i popolari
preposti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne
abbiano più cura; e non la potendo occupare loro, non
permettino che altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende
l'ordine spartano e veneto, dice che coloro che mettono la guardia in
mano di potenti fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno più
all'ambizione loro, ed avendo più parte nella republica, per
avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più;
l'altra, che lievono una qualità di autorità dagli
animi inquieti della plebe, che è cagione d'infinite
dissensioni e scandoli in una republica, e atta a ridurre la Nobilità
a qualche disperazione, che col tempo faccia cattivi effetti. E ne
dànno per esemplo la medesima Roma, che, per avere i Tribuni
della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro
avere un Consolo plebeio, che gli vollono avere ambedue. Da questo,
ei vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli altri gradi
dell'imperio della città: né bastò loro questo,
ché, menati dal medesimo furore, cominciorono poi, col tempo,
a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobilità;
donde nacque la potenza di Mario, e la rovina di Roma. E veramente,
chi discorressi bene l'una cosa e l'altra, potrebbe stare dubbio,
quale da lui fusse eletto per guardia di tale libertà, non
sappiendo quale umore di uomini sia più nocivo in una
republica, o quello che desidera mantenere l'onore già
acquistato o quel che desidera acquistare quello che non ha.
Ed
in fine, chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà
questa conclusione: o tu ragioni d'una republica che voglia fare uno
imperio, come Roma; o d'una che le basti mantenersi. Nel primo caso,
gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo, può
imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come nel seguente
capitolo si dirà.
Ma, per tornare a
discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi, o
quelli che desiderano d'acquistare, o quelli che temono di non
perdere l'acquistato; dico che, sendo creato Marco Menenio Dittatore,
e Marco Fulvio Maestro de' cavagli, tutti a due plebei, per ricercare
certe congiure che si erano fatte in Capova contro a Roma, fu data
ancora loro autorità dal popolo di potere ricercare chi in
Roma, per ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse di venire al
consolato, ed agli altri onori della città. E parendo alla
Nobilità, che tale autorità fusse data al Dittatore
contro a lei, sparsono per Roma, che non i nobili erano quelli che
cercavano gli onori per ambizione e modi straordinari ma gl'ignobili,
i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù loro,
cercavano, per vie straordinarie, venire a quelli gradi, e
particularmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente questa
accusa che Menenio, fatta una concione e dolutosi delle calunnie
dategli da' Nobili, depose la dittatura, e sottomessesi al giudizio
che di lui fusse fatto dal Popolo, e dipoi, agitata la causa sua, ne
fu assoluto: dove si disputò assai, quale sia più
ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare;
perché facilmente l'uno e l'altro appetito può essere
cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle
volte sono causati da chi possiede, perché la paura del
perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che
desiderano acquistare; perché non pare agli uomini possedere
sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo
dell'altro. E di più vi è, che, possedendo molto,
possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed
ancora vi è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi
portamenti accendano, ne' petti di chi non possiede, voglia di
possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere
ancora loro entrare in quelle ricchezze e in quelli onori che veggono
essere male usati dagli altri.
Cap.
6
Se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse
via le inimicizie intra il popolo ed il Senato.
Noi
abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le controversie
intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle seguitate infino al
tempo de' Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere
libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti
grandi che la fece, sanza che in quella fussono tali inimicizie. Però
mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si
poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie. Ed a
volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle
republiche le quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state
lungamente libere, e vedere quale stato era in loro, e se si poteva
introdurre in Roma. In esemplo tra gli antichi ci è Sparta,
tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate. Sparta fece uno
Re, con uno piccolo Senato, che la governasse; Vinegia non ha diviso
il governo con i nomi, ma, sotto una appellagione, tutti quelli che
possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale modo
lo dette il caso, più che la prudenza di chi dette loro le
leggi: perché, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è
ora quella città, per le cagioni dette di sopra, molti
abitatori, come furano cresciuti in tanto numero, che, a volere
vivere insieme, bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di
governo; e convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare della
città, quando parve loro essere tanti che fossero a
sufficienza a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli
altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne'
loro governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai
abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che
governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani.
Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto, perché,
quando e' nacque, qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto del
governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che dipoi vi
vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e terminato, non avevano
cagione né commodità di fare tumulto. La cagione non vi
era, perché non era stato loro tolto cosa alcuna; la commodità
non vi era, perché chi reggeva li teneva in freno, e non gli
adoperava in cose dove e' potessono pigliare autorità. Oltre a
di questo, quelli che dipoi vennono ad abitare Vinegia non sono stati
molti, e di tanto numero che vi sia disproporzione da chi gli governa
a loro che sono governati, perché il numero de' Gentiluomini o
egli è equale al loro, o egli è superiore: sicché,
per queste cagione, Vinegia potette ordinare quello stato, e
mantenerlo unito.
Sparta, come ho detto,
era governata da uno Re e da uno stretto Senato. Potette mantenersi
così lungo tempo, perché, essendo in Sparta pochi
abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi venisse ad abitare, ed
avendo preso le leggi di Licurgo con riputazione (le quali
osservando, levavano via tutte le cagioni de' tumulti) poterono
vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece
in Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità
di grado; perché quivi era una equale povertà, ed i
plebei erano manco ambiziosi, perché i gradi della città
si distendevano in pochi cittadini ed erano tenuti discosto dalla
plebe, né gli nobili col trattargli male dettono mai loro
desiderio di avergli. Questo nacque dai Re spartani, i quali, essendo
collocati in quel principato e posti in mezzo di quella Nobilità,
non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la loro dignità,
che tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la
Plebe non temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio né
temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità,
e la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due
cose principali causarono questa unione: l'una essere pochi gli
abitatori di Sparta, e per questo poterono essere governati da pochi;
l'altra, che, non accettando forestieri nella loro republica, non
avevano occasione né di corrompersi né di crescere in
tanto che la fusse insopportabile a quelli pochi che la
governavano.
Considerando adunque tutte
queste cose, si vede come a' legislatori di Roma era necessario fare
una delle due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette
republiche: o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani; o
non aprire la via a' forestieri, ccme gli Spartani. E loro feciono
l'una e l'altra; il che dette alla plebe forze ed augumento, ed
infinite occasioni di tumultuare. Ma venendo lo stato romano a essere
più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch'egli era anche
più debile, perché e' gli si troncava la via di potere
venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che, volendo Roma
levare le cagioni de' tumulti, levava ancora le cagioni dello
ampliare. Ed in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà
bene: che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non
ne surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed
armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che
tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo
o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo
puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di
qualunque ti assalta. E però, in ogni nostra diliberazione si
debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per
migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza sospetto non
si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di Sparta, fare un
principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei,
non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande
imperio: il che faceva che il Re a vita ed il piccolo numero del
Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco.
Se
alcuno volesse, per tanto, ordinare una republica di nuovo, arebbe a
esaminare se volesse che ampliasse, come Roma, di dominio e di
potenza, ovvero che la stesse dentro a brevi termini. Nel primo caso,
è necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a' tumulti e
alle dissensioni universali, il meglio che si può; perché,
sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una republica potrà
crescere, o, se la crescerà, mantenersi. Nel secondo caso, la
puoi ordinare come Sparta e come Vinegia: ma perché l'ampliare
è il veleno di simili republiche, debbe, in tutti quelli modi
che si può, chi le ordina proibire loro lo acquistare, perché
tali acquisti fondati sopra una republica debole, sono al tutto la
rovina sua. Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la
prima, avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su
uno minimo accidente il debile fondamento suo; perché, seguita
la ribellione di Tebe, causata da Pelopida, ribellandosi l'altre
cittadi, rovinò al tutto quella republica. Similmente Vinegia,
avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte non con
guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova delle
forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederrei bene, che a
fare una republica che durasse lungo tempo, fusse il modo, ordinarla
dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luogo forte, e di tale
potenza che nessuno credesse poterla subito opprimere; e, dall'altra
parte, non fusse sì grande, che la fusse formidabile a'
vicini: e così potrebbe lungamente godersi il suo stato.
Perché, per due cagioni si fa guerra a una republica: l'una,
per diventarne signore; l'altra, per paura ch'ella non ti occupi.
Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via;
perché, se la è difficile a espugnarsi, come io la
presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accaderà,
o non mai, che uno possa fare disegno di acquistarla. Se la si starà
intra i termini suoi, e veggasi, per esperienza, che in lei non sia
ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sé le
faccia guerra: e tanto più sarebbe questo, se e' fussi in lei
constituzione o legge che le proibisse l'ampliare. E sanza dubbio
credo, che, potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che
e' sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d'una città.
Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare
salde, conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che
la ragione non t'induce, t'induce la necessità: talmente che,
avendo ordinata una republica atta a mantenersi, non ampliando, e la
necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i
fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto. Così,
dall'altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno che la
non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l'ozio la farebbe o
effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé,
sarebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io
credo, bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del
mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica, pensare alle
parte più onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la
necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono, quello
ch'elle avessono occupato, conservare. E, per tornare al primo
ragionamento, credo ch'e' sia necessario seguire l'ordine romano, e
non quello dell'altre republiche; perché trovare un modo,
mezzo infra l'uno e l'altro, non credo si possa, e quelle inimicizie
che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle, pigliandole
per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza.
Perché, oltre all'altre ragioni allegate, dove si dimostra
l'autorità tribunizia essere stata necessaria per la guardia
della libertà, si può facilmente considerare il
beneficio che fa nelle republiche l'autorità dello accusare,
la quale era, intra gli altri, commessa a' Tribuni; come nel seguente
capitolo si discorrerà.
Cap.
7
Quanto siano in una republica necessarie le accuse a
mantenerla in libertade.
A
coloro che in una città sono preposti per guardia della sua
libertà, non si può dare autorità più
utile e necessaria, quanto è quella di potere accusare i
cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando
peccassono in alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa
dua effetti utilissimi a una republica. Il primo è che i
cittadini, per paura di non essere accusati, non tentano cose contro
allo stato; e tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto,
oppressi. L'altro è che si dà onde sfogare a quegli
omori che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, contro a
qualunque cittadino: e quando questi omori non hanno onde sfogarsi
ordinariamente, ricorrono a' modi straordinari, che fanno rovinare
tutta una republica. E però non è cosa che faccia tanto
stabile e ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che
l'alterazione di quegli omori che l'agitano, abbia una via da
sfogarsi ordinata dalle leggi. Il che si può per molti esempli
dimostrare, e massime per quello che adduce Tito Livio, di Coriolano,
dove dice, che, essendo irritata contro alla Plebe la Nobilità
romana, per parerle che la Plebe avessi troppa autorità,
mediante la creazione de' Tribuni che la difendevano; ed essendo
Roma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed
avendo il Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, inimico
alla fazione popolare, consigliò come egli era venuto il tempo
da potere gastigare la Plebe, e torle quella autorità che ella
si aveva in pregiudicio della Nobilità presa; tenendola
affamata, e non gli distribuendo il frumento: la quale sentenzia
sendo venuta agli orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione
contro a Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero
tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato a
comparire, a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si
nota quello che di sopra si è detto, quanto sia utile e
necessario che le republiche con le leggi loro, diano onde sfogarsi
all'ira che concepe la universalità contro a uno cittadino:
perché quando questi modi ordinari non vi siano, si ricorre
agli straordinari; e sanza dubbio questi fanno molto peggiori effetti
che non fanno quelli.
Perché, se
ordinariamente uno cittadino è oppresso, ancora che li fusse
fatto torto, ne séguita o poco o nessuno disordine in la
republica; perché la esecuzione si fa sanza forze private, e
sanza forze forestieri, che sono quelle che rovinano il vivere
libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i termini
loro particulari, né trascendono a cosa che rovini la
republica. E quanto a corroborare questa opinione con gli esempli,
voglio che degli antiqui mi basti questo di Coriolano; sopra il quale
ciascuno consideri, quanto male saria risultato alla republica
romana, se tumultuariamente ei fusse stato morto: perché ne
nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura; la
paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da'
partigiani nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di
quelle. Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autorità
si vennero a tor via tutti quelli mali che ne potevano nascere
governandola con autorità privata.
Noi
avemo visto ne' nostri tempi quale novità ha fatto alla
republica di Firenze non potere la moltitudine sfogare l'animo suo
ordinariamente contro a un suo cittadino, come accadde ne' tempi che
Francesco Valori era come principe della città; il quale sendo
giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua audacia e
animosità transcendere il vivere civile; e non essendo nella
republica via a potergli resistere se non con una setta contraria
alla sua; ne nacque che, non avendo paura quello se non di modi
straordinari, si cominciò a fare fautori che lo difendessono;
dall'altra parte, quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria
a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie: intanto che si venne
alle armi. E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto opporsegli,
sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a
spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente
suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare,
in sostentamento della soprascritta conclusione, l'accidente seguito
pur in Firenze sopra Piero Soderini, il quale al tutto seguì
per non essere in quella republica alcuno modo di accuse contro alla
ambizione de' potenti cittadini. Perché lo accusare uno
potente a otto giudici in una republica, non basta: bisogna che i
giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de'
pochi. Tanto che, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo
arebbero accusato, vivendo lui male; e per tale mezzo, sanza far
venire l'esercito spagnuolo, arebbono sfogato l'animo loro; o, non
vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro, per paura
di non essere accusati essi: e così sarebbe da ogni parte
cessato quello appetito che fu cagione di scandolo.
Tanto
che si può conchiudere questo, che, qualunque volta si vede
che le forze estranee siano chiamate da una parte di uomini che
vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi
ordini di quella, per non essere, dentro a quel cerchio, ordine da
potere, sanza modi istraordinari, sfogare i maligni omori che nascono
negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le accuse agli
assai giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi furono in
Roma sì bene ordinati, che, in tante dissensioni della Plebe e
del Senato, mai o il Senato o la Plebe o alcuno particulare cittadino
disegnò valersi di forze esterne; perché, avendo il
rimedio in casa, non erano necessitati andare per quello fuori. E
benché gli esempli soprascritti siano assai sufficienti a
provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da Tito
Livio nella sua istoria: il quale riferisce come, sendo stato in
Chiusi, città in quelli tempi nobilissima in Toscana, da uno
Lucumone violata una sorella di Arunte, e non potendo Arunte
vendicarsi per la potenza del violatore, se n'andò a trovare i
Franciosi, che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama
Lombardia; e quelli confortò a venire con armata mano a
Chiusi, mostrando loro come con loro utile lo potevano vendicare
della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse veduto potersi
vendicare con i modi della città, non arebbe cerco le forze
barbare. Ma come queste accuse sono utili in una republica, così
sono inutili e dannose le calunnie, come nel capitolo seguente
discorreremo.
Cap.
8
Quanto le accuse sono utili alle republiche, tanto
sono perniziose le calunnie.
Non
ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe
libera Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse fatto che tutti i
cittadini romani, sanza parere loro torsi riputazione o grado,
cedevano a quello; nondimanco Manlio Capitolino non poteva sopportare
che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria; parendogli,
quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio, avere
meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre belliche laude, non
essere inferiore a lui. Di modo che, carico d'invidia, non potendo
quietarsi per la gloria di quello, e veggendo non potere seminare
discordia infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie
opinioni sinistre intra quella. E intra le altre cose che diceva, era
come il tesoro il quale si era adunato insieme per dare ai Franciosi,
e poi non dato loro, era stato usurpato da privati cittadini; e,
quando si riavesse, si poteva convertirlo in publica utilità,
alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche privato debito.
Queste parole poterono assai nella Plebe; talché cominciò
a avere concorso, ed a fare a sua posta dimolti tumulti nella città:
la quale cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e
pericolosa, creò uno Dittatore, perché ci riconoscesse
questo caso, e frenasse lo empito di Manlio. Onde è che subito
il Dittatore lo fece citare, e condussonsi in publico all'incontro
l'uno dell'altro; il Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio nel
mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio che dovesse dire, appresso a
chi fusse questo tesoro ch'e' diceva, perché n'era così
desideroso il Senato, d'intenderlo, come la Plebe: a che Manlio non
rispondeva particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non
era necessario dire loro quello che si sapevano: tanto che il
Dittatore lo fece mettere in carcere.
È
da notare, per questo testo, quanto siano nelle città libere,
ed in ogni altro modo di vivere, detestabili le calunnie; e come, per
reprimerle, si debba non perdonare a ordine alcuno che vi faccia a
proposito. Né può essere migliore ordine, a torle via,
che aprire assai luoghi alle accuse; perché, quanto le accuse
giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocono: e dall'una
all'altra parte è questa differenza, che le calunnie non hanno
bisogno né di testimone né di alcuno altro particulare
riscontro a provarle, in modo che ciascuno e da ciascuno può
essere calunniato; ma non può già essere accusato,
avendo le accuse bisogno di riscontri veri e di circunstanze che
mostrino la verità dell'accusa. Accusansi gli uomini a'
magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per
le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno l'accusa,
e dove le città sono meno ordinate a riceverle. Però,
un ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa in quella
accusare ogni cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto;
e fatto questo, e bene osservato, debbe punire acremente i
calunniatori: i quali non si possono dolere quando siano puniti,
avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli avesse per
le logge calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte,
seguitano sempre disordini grandi: perché le calunnie
irritano, e non castigano i cittadini; e gli irritati pensano di
valersi, odiando più presto, che temendo, le cose che si
dicano contro a loro. Questa parte, come è detto, era bene
ordinata in Roma; ed è stata sempre male ordinata nella nostra
città di Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene,
a Firenze questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie di
questa città, vedrà quante calunnie sono state in ogni
tempo date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle cose
importanti di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubato i
danari al Comune; dell'altro, che non aveva vinta una impresa per
essere stato corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva
fatto il tale ed il tale inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni
parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla
divisione alle sètte, dalle sètte alla rovina. Che se
fusse stato in Firenze ordine d'accusare i cittadini, e punire i
calunniatori, non seguivano infiniti scandoli che sono seguiti;
perché quelli cittadini, o condannati o assoluti che fussono,
non arebbono potuto nuocere alla città, e sarebbeno stati
accusati meno assai che non ne erano calunniati, non si potendo, come
ho detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed intra l'altre cose di
che si è valuto alcun cittadino per venire alla grandezza sua,
sono state queste calunnie: le quali venendo contro a cittadini
potenti che all'appetito suo si opponevano, facevono assai per
quello; perché, pigliando la parte del Popolo, e confermandolo
nella mala opinione ch'egli aveva di loro, se lo fece amico. E benché
se ne potessi addurre assai esempli, voglio essere contento solo
d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca, comandato da
messer Giovanni Guicciardini, commessario di quello. Vollono o i
cattivi suoi governi o la cattiva sua fortuna che la espugnazione di
quella città non seguisse: pure, comunque il caso stesse, ne
fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli era stato corrotto da'
Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita dagl'inimici suoi,
condusse messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché,
per giustificarsi, e' si volessi mettere nelle mani del Capitano;
nondimeno non si potette mai giustificare, per non essere modi in
quella republica da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegni intra
gli amici di messer Giovanni, che erano la maggior parte degli uomini
grandi ed infra coloro che desideravano fare novità in
Firenze. La quale cosa, e per questa e per altre simili cagioni,
tanto crebbe che ne seguì la rovina di quella
republica.
Era adunque Manlio Capitolino
calunniatore, e non accusatore; ed i Romani mostrarono, in questo
caso appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perché si
debbe farli diventare accusatori; e quando l'accusa si riscontri
vera, o premiarli o non punirli: ma quando la non si riscontri vera,
punirli, come fu punito Manlio.
Cap.
9
Come egli è necessario essere solo a volere
ordinare una repubblica di nuovo, o al tutto fuor degli antichi suoi
ordini riformarla.
Ei
parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro
nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli
ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla
religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo
tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte
volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura
giudicheranno di cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere
civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi
consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno
nel regno; giudicando, per questo, che gli suoi cittadini potessono
con l'autorità del loro principe, per ambizione e desiderio di
comandare, offendere quelli che alla loro autorità si
opponessero. La quale opinione sarebbe vera, quando non si
considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio.
E
debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado
occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato
bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se
non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo
sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque
simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una
republica, e che abbia questo animo, di volere giovare non a sé
ma al bene comune, non alla sua propria successione ma alla comune
patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità, solo; né
mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione
straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una
republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo
effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre
lo scuserà: perché colui che è violento per
guastare, non quello che è per racconciare, si debbe
riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e virtuoso, che
quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria a un
altro: perché, sendo gli uomini più proni al male che
al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che
virtuosamente da lui fusse stato usato. Oltre a di questo, se uno è
atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto,
quando la rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì bene, quando la
rimane alla cura di molti e che a molti stia il mantenerla. Perché,
così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non
conoscere il bene di quella, causato dalle diverse opinioni che sono
fra loro; così, conosciuto che lo hanno, non si accordano a
lasciarlo. E che Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello
e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece, fusse per il
bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere
quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e
secondo la opinione del quale deliberasse. E chi considerrà
bene l'autorità che Romolo si riserbò, vedrà non
se ne essere riserbata alcun'altra che comandare agli eserciti quando
si era deliberata la guerra e di ragunare il Senato. Il che si vide
poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de' Tarquini, dove
da' Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in
luogo d'uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che
testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati
più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto
e tirannico.
Potrebbesi dare in
sostentamento delle cose soprascritte infiniti esempli; come Moises,
Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di republiche, e'
quali poterono, per aversi attribuito un'autorità, formare
leggi a proposito del bene comune: ma li voglio lasciare indietro,
come cosa nota. Addurronne solamente uno, non sì celebre, ma
da considerarsi per coloro che desiderassono essere di buone leggi
ordinatori: il quale è, che, desiderando Agide re di Sparta
ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli
avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la
sua città avesse perduto assai di quella antica virtù,
e, per consequente, di forze e d'imperio, fu, ne' suoi primi
principii, ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che volesse
occupare la tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene,
e nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli
aveva trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed
intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria
se non diventava solo di autorità; parendogli, per l'ambizione
degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla voglia di
pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori,
e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò in
tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare
risuscitare Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che ebbe
Licurgo, se non fusse stata la potenza de' Macedoni, e la debolezza
delle altre republiche greche. Perché, essendo, dopo tale
ordine, assaltato da' Macedoni, e trovandosi per sé stesso
inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò
quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile,
imperfetto.
Considerato adunque tutte
queste cose, conchiudo, come a ordinare una republica è
necessario essere solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito
Tazio, meritare iscusa e non biasimo.
Cap.
10
Quanto sono laudabili i fondatori d'una republica o
d'uno regno, tanto quelli d'una tirannide sono vituperabili.
Intra
tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono stati
capi e ordinatori delle religioni. Appresso, dipoi, quelli che hanno
fondato o republiche o regni. Dopo a costoro, sono celebri quelli
che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello
della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterati. E perché
questi sono di più ragioni, sono celebrati, ciascuno d'essi,
secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de' quali è
infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca
l'arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario, infami e detestabili
gli uomini distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle
republiche, inimici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra
arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione; come
sono gl'impii, i violenti, gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i
vili. E nessuno sarà mai sì pazzo o sì savio, sì
tristo o sì buono, che, prepostagli la elezione delle due
qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e
biasimi quella che è da biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi
tutti, ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria, si lasciono
andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di coloro che
meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con perpetuo
loro onore, o una republica o uno regno, si volgono alla tirannide:
né si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria,
quanto onore, sicurtà, quiete, con sodisfazione d'animo, ei
fuggono; e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e
inquietudine, incorrono.
Ed è
impossibile che quelli che in stato privato vivono in una republica,
o che per fortuna o per virtù ne diventono principi, se
leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono
capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella loro
patria più tosto Scipioni che Cesari; e quelli che sono
principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi,
Falari e Dionisii: perché vedrebbono questi essere sommamente
vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come
Timoleone e gli altri non ebbono nella patria loro meno autorità
che si avessono Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi
avuta più sicurtà.
Né
sia alcuno che s'inganni, per la gloria di Cesare, sentendolo,
massime, celebrare dagli scrittori: perché quegli che lo
laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza
dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva
che gli scrittori parlassono liberamente di lui. Ma chi vuole
conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello
che dicono di Catilina. E tanto è più biasimevole
Cesare, quanto più è da biasimare quello che ha fatto,
che quello che ha voluto fare un male. Vegga ancora con quante laude
ei celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare quello, per
la sua potenza, ei celebravano il nimico suo.
Consideri
ancora quello che è diventato principe in una republica,
quanta laude, poiché Roma fu diventata Imperio, meritarono più
quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni,
che quelli che vissero al contrario: e vedrà come a Tito
Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, non erano necessari i
soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a
difenderli, perché i costumi loro, la benivolenza del Popolo,
l'amore del Senato, gli difendeva. Vedrà ancora come a
Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scelerati imperadori,
non bastarono gli eserciti orientali ed occidentali a salvarli contro
a quelli inimici che li loro rei costumi, la loro malvagia vita,
aveva loro generati. E se la istoria di costoro fusse bene
considerata, sarebbe assai ammaestramento a qualunque principe, a
mostrargli la via della gloria o del biasimo, e della sicurtà
o del timore suo. Perché, di ventisei imperadori che furono da
Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci morirono
ordinariamente e se di quelli che furono morti ne fu alcun buono come
Galba e Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo antecessore
suo aveva lasciata nei soldati. E se tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne fu alcuno scelerato, come Severo, nacque da una
sua grandissima fortuna e virtù; le quali due cose pochi
uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di questa
istoria, come si può ordinare un regno buono: perché
tutti gl'imperadori che succederono all'imperio per eredità,
eccetto Tito, furono cattivi, quelli che per adozione, furono tutti
buoni come furono quei cinque da Nerva a Marco: e come l'imperio
cadde negli eredi, e' ritornò nella sua rovina.
Pongasi,
adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e
conferiscagli con quelli che erano stati prima e che furono poi; e
dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a quali volesse essere
preposto. Perché, in quelli governati da' buoni, vedrà
un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di
pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua
autorità, i magistrati co' suoi onori; godersi i cittadini
ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la virtù
esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra parte,
ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta; vedrà
i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella
opinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare il mondo; pieno
di riverenza e di gloria il principe, d'amore e sicurtà i
popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi degli altri
imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le
sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi morti
col ferro, tante guerre civili, tante esterne; l'Italia afflitta, e
piena di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le cittadi di
quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini
disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene
le città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii,
gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili
crudeltadi e la nobilità, le ricchezze, i passati onori, e
sopra tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale.
Vedrà premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi
contro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi
fussero mancati inimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà
allora benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia con
Cesare.
E sanza dubbio, se e' sarà
nato d'uomo, si sbigottirà da ogni imitazione de' tempi
cattivi, ed accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni.
E veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla
in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i
cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria, né
gli uomini la possono maggiore desiderare. E se, a volere ordinare
bene una città, si avesse di necessità a diporre il
principato, meriterebbe, quello che non la ordinasse per non cadere
di quel grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed
ordinarla, non si merita scusa alcuna. E, in somma, considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come ei sono loro
preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li
rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continove angustie, e, dopo
la morte, lasciare di sé una sempiterna infamia.
Cap.
11
Della
religione de' Romani.
Avvenga
che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi
a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione sua,
nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastassero
a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere
Numa Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose
che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate.
Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle
obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione,
come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà;
e la constituì in modo, che per più secoli non fu mai
tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò
qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani
disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del
popolo di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di per sé,
vedrà come quelli cittadini temevono più assai rompere
il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la
potenza di Dio, che quella degli uomini: come si vede manifestamente
per gli esempli di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo
la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini
si erano adunati insieme, e, sbigottiti della patria, si erano
convenuti abbandonare la Italia, e girsene in Sicilia; il che
sentendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in
mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio
Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era
stato accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che
venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovare Marco,
e, minacciando di ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al
padre, lo costrinse al giuramento; e quello, per timore avendo
giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i
quali lo amore della patria, le leggi di quella, non ritenevano in
Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che furano forzati a
pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col
padre, la ingiuria che gli avea fatto il figliuolo, e l'onore suo,
per ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da
quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.
E
vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere
gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si
avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o
a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo
grado: perché, dove è religione, facilmente si possono
introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con difficultà
si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare
il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu
necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa,
il quale simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale
lo consigliava di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e
tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati
in quella città, e dubitava che la sua autorità non
bastasse.
E veramente, mai fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a
Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché
sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé
ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli
uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà,
ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così
molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando,
adunque, il Popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva
ad ogni sua diliberazione. Ben è vero che l'essere quelli
tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i quali egli aveva a
travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a conseguire
i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova
forma. E sanza dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una
republica più facilità troverrebbe negli uomini
montanari, dove non è alcuna civilità, che in quelli
che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità è
corrotta: ed uno scultore trarrà più facilmente una
bella statua d'un marmo rozzo, che d'uno male abbozzato da
altrui.
Considerato adunque tutto,
conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime
cagioni della felicità di quella città: perché
quella causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna;
e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E
come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza
delle republiche, così il dispregio di quello è cagione
della rovina d'esse. Perché, dove manca il timore di Dio,
conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore
d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. E perché
i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto,
secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i
quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo, sono poco
durabili, perché quella virtù manca con la vita di
quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione,
come prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
l'umana probitate; e questo vuole
quel che la da', perche' da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine.
Cap.
12
Di quanta importanza sia tenere conto della religione, e
come la Italia, per esserne mancata mediante la chiesa romana, è
rovinata.
Quelli
principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere
incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le
cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere
della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto divino.
Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su
che sia fondata la religione dove l'uomo è nato; perché
ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche
principale ordine suo. La vita della religione Gentile era fondata
sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli indovini e
degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e riti,
dependevano da queste perché loro facilmente credevono che
quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro
male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di
qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in
venerarli: perché l'oracolo di Delo, il tempio di Giove
Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano il mondo di
ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a
modo de' potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne'
popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni
ordine buono. Debbono, adunque i principi d'una republica o d'uno
regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e
fatto questo sarà loro facil cosa mantenere la loro republica
religiosa, e, per conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose
che nascano in favore di quella come che le giudicassono false,
favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto
più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose
naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli
uomini savi, ne è nato l'opinione dei miracoli, che si
celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti
gli augumentano, da qualunque principio e' si nascano; e l'autorità
loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi
miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i
soldati romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla imagine di quella, e
dicendole: "Vis venire Romam?" parve a alcuno vedere che la
accennasse a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché
sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio,
perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto,
tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta
che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale
opinione e credulità da Cammillo a dagli altri principi della
città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione
se ne' principi della republica cristiana si fusse mantenuta, secondo
che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le
republiche cristiane più unite, più felici assai, che
le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura
della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli
che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della
religione nostra hanno meno religione. E chi considerasse i
fondamenti suoi, e vedesse l'uso presente quanto è diverso da
quelli, giudicherebbe essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o
il fragello.
E perché molti sono
d'opinione, che il bene essere delle città d'Italia nasca
dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni
che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le
quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La prima è, che, per
gli esempli rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni
divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti
inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come
dove è religione si presuppone ogni bene, così, dove
quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la
Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere
diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno
maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra.
Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia
divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se
la non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe,
come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che
la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella
o una republica o uno principe che la governi, è solamente la
Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio
temporale, non è stata sì potente né di tanta
virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e
farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì
debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose
temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda
contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si
è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante
Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già
quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la
potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò
i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la
Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo
permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è
potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più
principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta
debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non
solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi
altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi
ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità,
bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la
corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in le terre
de' Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto
alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e
vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella
provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque altro
accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere.
Cap.
13
Come i Romani si servivono della religione per riordinare la
città e seguire le loro imprese e fermare i tumulti.
Ei
non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani
si servivono della religione per riordinare la città, e per
seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano molti,
nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo
romano i Tribuni di potestà consolare, e, fuora che uno, tutti
plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame, e venuto certi
prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de'
Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere Roma male usato
la maiestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a
placare gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni nel luogo suo:
di che nacque che la plebe, sbigottita da questa religione, creò
i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora, nella espugnazione della città
de' Veienti, come i capitani degli eserciti si valevano della
religione per tenergli disposti a una impresa; che, essendo il lago
Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i soldati
romani infastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a
Roma, trovarono i Romani come Apollo e certi altri risponsi dicevano
che quello anno si espugnerebbe la città de' Veienti, che si
derivassi il lago Albano: la quale cosa fece ai soldati sopportare i
fastidi della ossidione, presi da questa speranza di espugnare la
terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo
fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni
che la era stata assediata. E così la religione, usata bene,
giovò e per la espugnazione di quella città, e per la
restituzione del Tribunato nella Nobilità che, sanza detto
mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non
voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esemplo. Erano
nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo tribuno, volendo
lui proporre certa legge, per le cagioni che di sotto, nel suo luogo,
si diranno; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobilità,
fu la religione, della quale si servirono in due modi. Nel primo,
fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla città,
mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli di
non perdere la libertà: la quale cosa, ancora che fusse
scoperta da' tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti della
plebe, che la raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che,
avendo un Appio Erdonio, con una moltitudine di sbanditi e di servi,
in numero di quattromila uomini, occupato di notte il Campidoglio, in
tanto che si poteva temere che, se gli Equi e i Volsci, perpetui
inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare nella
pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo che quello
insulto era simulato e non vero; uscì fuori del Senato un
Publio Ruberio, cittadino grave e di autorità, con parole,
parte amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i pericoli della
città, e la intempestiva domanda loro; tanto ch'ei costrinse
la plebe a giurare di non si partire dalla voglia del consolo: tanto
che la plebe, ubbidiente, per forza ricuperò il Campidoglio.
Ma essendo in tale espugnazione morto Publio Valerio consolo, subito
fu rifatto consolo Tito Quinzio, il quale, per non lasciare riposare
la plebe, né darle spazio a pensare alla legge Terentilla, le
comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci, dicendo
che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo,
era obligata a seguirlo: a che i tribuni si opponevano, dicendo come
quel giuramento s'era dato al consolo morto, e non a lui. Nondimeno
Tito Livio mostra come la Plebe, per paura della religione, volle più
tosto ubbidire al consolo, che credere a' tribuni, dicendo in favore
della antica religione queste parole: "Nondum haec, quae nunc
tenet saeculum, negligentia Deum venerat, nec interpretando sibi
quisque jusjurandum et leges aptas faciebat". Per la quale cosa
dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità,
si accordarono col consolo di stare alla ubbidienza di quello; e che
per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli
per uno anno non potessero trarre fuori la plebe alla guerra. E così
la religione fece al Senato vincere quelle difficultà, che,
sanza essa, mai averebbe vinte.
Cap.
14
I Romani interpetravano gli auspizi secondo la necessità,
e con la prudenza mostravano di osservare la religione, quando
forzati non la osservavano; e se alcuno temerariamente la
dispregiava, punivano.
Non
solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano il
fondamento, in buona parte, dell'antica religione de' Gentili, ma
ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della Republica
romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro
ordine di quella; ed usavongli ne' comizi consolari, nel principiare
le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le giornate, ed in
ogni azione loro importante, o civile o militare; né mai
sarebbono iti ad una espedizione, che non avessono persuaso ai
soldati che gli Dei promettevano loro la vittoria. Ed in fra gli
altri auspicii, avevano negli eserciti certi ordini di aruspici,
ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque volta eglino ordinavano di
fare la giornata con il nimico, ei volevano che i pullarii facessono
i loro auspicii; e, beccando i polli, combattevono con buono augurio,
non beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione
mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii
fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con
termini e modi tanto attamente, che non paresse che la facessino con
dispregio della religione.
Il quale
termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa che ei fece
importantissima coi Sanniti, dopo la quale restarono in tutto deboli
ed afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi rincontro ai
Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare la giornata, comandò ai pullarii che facessono
i loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il principe de'
pullarii la gran disposizione dello esercito di combattere, e la
opinione che era nel capitano ed in tutti i soldati di vincere, per
non tôrre occasione di bene operare a quello esercito, riferì
al consolo come gli auspicii procedevono bene: talché Papirio,
ordinando le squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi
soldati, i polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio
Papirio nepote del consolo; e quello riferendolo al consolo, rispose
subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene; che, quanto a
lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il pullario
aveva detto le bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E perché
lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legati che
constituissono i pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque
che, andando contro a' nimici, sendo da un soldato romano tratto uno
dardo, a caso ammazzò il principe de' pullarii: la quale cosa
udita, il consolo disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore
degli Dei; perché lo esercito con la morte di quel bugiardo
s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli avessono presa
contro a di lui. E così, col sapere bene accomodare i disegni
suoi agli auspicii, prese partito di azzuffarsi, sanza che quello
esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli
ordini della loro religione.
Al contrario
fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima guerra punica: che, volendo
azzuffarsi con l'esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a'
pullarii; e riferendogli quelli, come i polli non beccavano, disse: -
Veggiamo se volessero bere! - e gli fece gittare in mare. Donde che
azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu a Roma
condannato, e Papirio onorato, non tanto per avere l'uno vinto, e
l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli auspicii
prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad altro fine
tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre
nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai Romani, ma
dagli esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo nel seguente
capitolo.
Cap.
15
I Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte,
ricorsero alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; "nec suis nec externis viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam, malebant". Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano che, a volere vincere, era necessario indurre ostinazione negli animi de' soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in mano gli facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: "non enim cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire romanum pilum". E per debilitare la opinione che avevono i suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello era a timore non a fortezza loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii, e de' nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché questa parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche; nondimeno, dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica di Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
Cap.
16
Uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, se per qualche
accidente diventa libero, con difficultà mantiene la libertà.
Quanta
difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno principe,
perservare dipoi la libertà, se per alcuno accidente
l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de'
Tarquinii, lo dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle
memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è
ragionevole; perché quel popolo è non altrimenti che un
animale bruto, il quale, ancora che di natura feroce e silvestre, sia
stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che dipoi
lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi,
né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda
del primo che cerca rincatenarlo.
Questo
medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso a vivere sotto
i governi d'altri, non sappiendo ragionare né delle difese o
offese pubbliche, non conoscendo i principi né essendo
conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale il più
delle volte è più grave che quello che, poco inanzi, si
aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste difficultà,
quantunque che la materia non sia corrotta. Perché un popolo
dove in tutto è entrata la corruzione, non può, non che
piccol tempo, ma punto vivere libero come di sotto si discorrerà:
e però i ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la
corruzione non sia ampliata assai, e dove sia più del buono
che del guasto.
Aggiungesi alla
soprascritta un'altra difficultà, la quale è, che lo
stato che diventa libero si fa partigiani inimici, e non partigiani
amici. Partigiani inimici gli diventono tutti coloro che dello stato
tirannico si prevalevono, pascendosi delle ricchezze del principe; a'
quali sendo tolta la facultà del valersi, non possono vivere
contenti, e sono forzati ciascuno di tentare di ripigliare la
tirannide, per ritornare nell'autorità loro. Non si acquista,
come ho detto, partigiani amici; perché il vivere libero
prepone onori e premii, mediante alcune oneste e determinate cagioni,
e fuora di quelle non premia né onora alcuno, e quando uno ha
quegli onori e quegli utili che gli pare meritare, non confessa avere
obligo con coloro che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella comune
utilità che del vivere libero si trae, non è da alcuno,
mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di potere
godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare
dell'onore delle donne, di quel de' figliuoli, non temere di sé;
perché nessuno confesserà mai avere obligo con uno che
non l'offenda.
Però, come di sopra
si dice, viene ad avere, lo stato libero e che di nuovo surge,
partigiani inimici, e non partigiani amici. E volendo rimediare a
questi inconvenienti, e a quegli disordini che le soprascritte
difficultà arrecherebbono seco, non ci è più
potente rimedio, né più valido né più
sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di
Bruto: i quali, come la istoria mostra, non furono indotti, insieme
con altri giovani romani, a congiurare contro alla patria per altro,
se non perché non si potevono valere straordinariamente sotto
i consoli come sotto i re; in modo che la libertà di quel
popolo pareva che fosse diventata la loro servitù. E chi
prende a governare una moltitudine, o per via di libertà o per
via di principato, e non si assicura di coloro che a quell'ordine
nuovo sono inimici, fa uno stato di poca vita. Vero è che io
giudico infelici quelli principi che, per assicurare lo stato loro
hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine:
perché quello che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza
molti scandoli, si assicura, ma chi ha per nimico l'universale non si
assicura mai, e quanta più crudeltà usa tanto più
debole diventa il suo principato. Talché il maggiore rimedio
che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico.
E
benché questo discorso sia disforme dal soprascritto, parlando
qui d'uno principe e quivi d'una republica; nondimeno, per non avere
a tornare più in su questa materia, ne voglio parlare
brevemente. Volendo, pertanto, uno principe guadagnarsi uno popolo
che gli fosse inimico, parlando di quelli principi che sono diventati
della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima quello
che il popolo desidera, e troverrà sempre che desidera due
cose: l'una, vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia
servo; l'altra, di riavere la sua libertà. Al primo desiderio
il principe può sodisfare in tutto, al secondo in parte.
Quanto al primo, ce n'è lo esemplo appunto. Clearco, tiranno
di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per controversia venuta
intra il popolo e gli ottimati di Eraclea, che, veggendosi gli
ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco e congiuratisi seco
lo missono, contro alla disposizione popolare, in Eraclea e tolsono
la libertà al popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra la
insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in alcuno modo né
contentare né correggere, e la rabbia de' popolari, che non
potevano sopportare lo avere perduta la libertà, diliberò
a un tratto liberarsi dal fastidio de' grandi, e guadagnarsi il
popolo. E presa, sopr'a questo, conveniente occasione, tagliò
a pezzi tutti gli ottimati, con una estrema sodisfazione de'
popolari. E così egli per questa via sodisfece a una delle
voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto
all'altro popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non
potendo il principe sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono
quelle che gli fanno desiderare d'essere liberi; e troverrà
che una piccola parte di loro desidera di essere libera per
comandare; ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la
libertà per vivere sicuri. Perché in tutte le
republiche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non
aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e perché questo
è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con
levargli via, o con fare loro parte di tanti onori, che, secondo le
condizioni loro, e' si abbino in buona parte a contentare. Quelli
altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno facilmente,
faccendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si comprenda
la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo, e
che il popolo vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali
leggi, comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento. In
esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per
altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle
quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi
ordinò quello stato, volle che quelli re, dell'armi e del
danaio facessero a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne
potessono altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello
principe, adunque, o quella republica che non si assicura nel
principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima
occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente
tardi di non avere fatto quello che doveva fare.
Sendo,
pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei ricuperò
la libertà, potette mantenerla, morti i figliuoli di Bruto e
spenti i Tarquinii, con tutti quelli modi ed ordini che altra volta
si sono discorsi. Ma se fusse stato quel popolo corrotto, né
in Roma né altrove si truova rimedi validi a mantenerla; come
nel seguente capitolo mosterreno.
Cap.
17
Uno popolo corrotto, venuto in libertà, si può
con difficultà grandissima mantenere libero.
Io
giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in Roma,
o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessuno valore;
perché, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli
re, se fossero seguitati così due o tre successioni, e che
quella corruzione, che era in loro, si fosse cominciata ad istendere
per le membra, come le membra fossero state corrotte, era impossibile
mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era
intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E
debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta
che viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua
stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera, anzi conviene
che l'un principe spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo
signore non si posa mai, se già la bontà d'uno, insieme
con la virtù, non la tenesse libera; ma durerà tanto
quella libertà, quanto durerà la vita di quello: come
intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone: la virtù de'
quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella città;
morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si
vede il più forte esemplo che quello di Roma; la quale,
cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e mantenere quella
libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente
mantenere, ma pure dar principio alla libertà. Né tanta
diversità di evento in una medesima città nacque da
altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo romano
ancora corrotto, ed in questi ultimi tempi essere corrottissimo.
Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re,
bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma
alcuno regnasse; e negli altri tempi non bastò l'autorità
e severità di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo
disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a
similitudine del primo Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da
quella corruzione che le parti mariane avevano messa nel popolo;
delle quali sendo capo Cesare, potette accecare quella moltitudine,
ch'ella non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in
sul collo.
E benché questo esemplo
di Roma sia da preporre a qualunque altro esemplo, nondimeno voglio a
questo proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi.
Pertanto dico, che nessuno accidente, benché grave e violento,
potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra
tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti;
che, volendosi ridurre Milano alla libertà, non potette e non
seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella di
Roma, che questi rediventassero corrotti presto, acciò ne
fussono cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fusse passata
nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu
cagione che gl'infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini
il fine buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica.
E
si può fare questa conclusione, che, dove la materia non è
corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono: dove la è
corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non
sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia osservare,
tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si è mai
intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché
e' si vede, come poco di sopra dissi, che una città venuta in
declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si
rilievi, occorre per la virtù d'uno uomo che è vivo
allora, non per la virtù dello universale che sostenga gli
ordini buoni; e subito che quel tale è morto, la si ritorna
nel suo pristino abito: come intervenne a Tebe, la quale, per la
virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di
republica e di imperio; ma, morto quello, la si ritornò ne'
primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere
uno uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare bene una
città lungo tempo male avvezza. E se uno d'una lunghissima
vita, o due successione virtuose continue, non la dispongano; come la
manca di loro, come di sopra è detto, rovina, se già
con dimolti pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere.
Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera,
nasce da una inequalità che è in quella città: e
volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi
straordinari, i quali pochi sanno o vogliono usare; come in altro
luogo più particularmente si dirà.
Cap.
18
In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere
uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo, ordinarvelo.
Io
credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal
soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si
può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi
fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come
gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché
sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario
procedere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene
ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E
presupporrò una città corrottissima, donde verrò
ad accrescere più tale difficultà; perché non si
truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una
universale corruzione. Perché, così come gli buoni
costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le
leggi, per osservarsi, hanno bisogno de' buoni costumi. Oltre a di
questo, gli ordini e le leggi fatte in una republica nel nascimento
suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a
proposito, divenuti che ei sono rei. E se le leggi secondo gli
accidenti in una città variano, non variano mai, o rade volte,
gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perché
gli ordini, che stanno saldi, le corrompono.
E
per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era
l'ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi, che con i
magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era l'autorità
del Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il modo di chiedere
e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini
poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi che
frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii, la
suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo che di mano
in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini
dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle
legge, che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini
buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi
si fussero rimutati gli ordini.
E che sia
il vero, che tali ordini nella città corrotta non fussero
buoni, si vede espresso in doi capi principali, quanto al creare i
magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il consolato, e gli
altri primi gradi della città, se non a quelli che lo
domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono, perché e'
non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano
degni ed averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne
giudicati degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta, perniziosissimo; perché non
quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più
potenza domandavano i magistrati; e gl'impotenti, comecché
virtuosi, se ne astenevano di domandarli, per paura. Vennesi a questo
inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti
gli altri inconvenienti: perché avendo i Romani domata
l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza,
erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva
loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa
sicurtà e questa debolezza de' nimici fece che il popolo
romano, nel dare il consolato, non riguardava più la virtù,
ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano
intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i
nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei discesono a
darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni,
per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno
tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una legge;
sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro,
innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i
cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che
intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed è bene
che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione sua, acciocché
il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma
diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo;
perché solo i potenti proponevono leggi, non per la comune
libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non poteva
parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo veniva o
ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.
Era
necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si
mantenesse libera, che, così come aveva nel processo del
vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi ordini: perché
altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto
cattivo, che in uno buono; né può essere la forma
simile in una materia al tutto contraria. Ma perché questi
ordini, o e' si hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti che
sono non essere più buoni, o a poco a poco, in prima che si
conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due cose
è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare a
poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga
questo inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi
tali è facilissima cosa che in una città non ne surga
mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere
mai a altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli
uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più
non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per
coniettura. Quanto all'innovare questi ordini a un tratto, quando
ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità,
che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla;
perché, a fare questo, non basta usare termini ordinari,
essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo
straordinario, come è alla violenza ed all'armi, e diventare
innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne
disporre a suo modo. E perché il riordinare una città
al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per
violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per
questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono,
per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare
principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e
che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che
gli ha male acquistata.
Da tutte le
soprascritte cose nasce la difficultà, o impossibilità,
che è nelle città corrotte, a mantenervi una republica,
o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a
mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato
regio, che verso lo stato popolare; acciocché quegli uomini i
quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere
corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo
frenati. E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o
crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi, di sopra,
che fece Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli
Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il
fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro
autorità; nondimeno si debbe avvertire che l'uno e l'altro di
costoro non aveano il suggetto di quella corruzione macchiato, della
quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere,
e, volendo, colorire il disegno loro.
Cap.
19
Dopo uno eccellente principe si può mantenere uno
principe debole; ma, dopo uno debole, non si può con un altro
debole mantenere alcuno regno.
Considerato
la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo,
i primi tre re romani, si vede come Roma sortì una fortuna
grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso, l'altro
quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a Romolo, e
più amatore della guerra che della pace. Perché in Roma
era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un ordinatore
del vivere civile, ma era bene poi necessario che gli altri re
ripigliassero la virtù di Romolo; altrimenti quella città
sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi vicini. Donde si può
notare che uno successore, non di tanta virtù quanto il primo,
può mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha
retto innanzi, e si può godere le sue fatiche: ma s'egli
avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un altro
che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel
regno a rovinare. Così, per il contrario, se dua, l'uno dopo
l'altro, sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose
grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo.
Davit,
sanza dubbio, fu un uomo, per arme, per dottrina, per giudizio,
eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti e
battuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo
uno regno pacifico: quale egli si potette con l'arte della pace, e
non con la guerra, conservare; e si potette godere felicemente la
virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a
Roboam suo figliuolo; il quale, non essendo per virtù simile
allo avolo, né per fortuna simile al padre, rimase con fatica
erede della sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi, come
che fussi più amatore della pace che della guerra, potette
godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il quale avendo, come
Davit, battuto i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da
poterlo con l'arte della pace facilmente conservare. Ma se il
figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stato simile al
padre, e non all'avolo, quel regno rovinava; ma e' si vede costui
essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi
esempli, che, dopo uno eccellente principe, si può mantenere
uno principe debole; ma, dopo un debole, non si può, con un
altro debole, mantenere alcun regno, se già e' non fusse come
quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo mantenessero: e
quelli principi sono deboli, che non stanno in su la
guerra.
Conchiudo pertanto, con questo
discorso, che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare
spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con l'arte della pace
reggere Roma: ma dopo lui successe Tullo, il quale per la sua
ferocità riprese la riputazione di Romolo: dopo il quale venne
Anco, in modo dalla natura dotato, che poteva usare la pace e
sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere la
via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo
effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che, a
volere mantenere Roma, bisognava volgersi alla guerra, e somigliare
Romolo, e non Numa.
Da questo piglino
esemplo tutti i principi che tengono stato; che chi somiglierà
Numa, lo terrà o non terrà, secondo che i tempi o la
fortuna gli girerà sotto; ma chi somiglierà Romolo, e
fia come esso armato di prudenza e d'armi, lo terrà in ogni
modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto. E
certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo
re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua riputazione
non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà, potuto
pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E così,
in mentre che la visse sotto i re la portò questi pericoli di
rovinare sotto uno re o debole o malvagio.
Cap.
20
Dua continove successioni di principi virtuosi fanno grandi
effetti; e come le republiche bene ordinate hanno di necessità
virtuose successioni, e però gli acquisti ed augumenti loro
sono grandi.
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la virtù, e la fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti anni che la era stata sotto i re. Perché si vede, come due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più debba fare una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene ordinata.
Cap.
21
Quanto biasimo meriti quel principe e quella
republica che manca d'armi proprie.
Debbono
i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa le difese
ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime; e
pensare con lo esemplo di Tullo, tale difetto essere, non per
mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa sua, che non han
saputo fare i suoi uomini militari. Perché Tullo, sendo stata
Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo egli nel
regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno, disegnando esso
fare guerra, non pensò valersi né de' Sanniti, né
de' Toscani, né di altri che fussero consueti stare nell'armi,
ma diliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de' suoi. E
fu tanta la sua virtù, che in un tratto, sotto il suo governo
gli poté fare soldati eccellentissimi. Ed è più
vero che alcuna altra verità, che, se dove è uomini non
è soldati, nasce per difetto del principe, e non per altro
difetto o di sito o di natura. Di che ce n'è un esemplo
freschissimo. Perché ognuno sa, come ne' prossimi tempi il re
d'Inghilterra assaltò il regno di Francia, né prese
altri soldati che popoli suoi; e, per essere stato quel regno più
che trenta anni sanza fare guerra, non aveva né soldati né
capitano che avesse mai militato: nondimeno, non dubitò con
quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i
quali erano stati continovamente sotto l'armi nelle guerre d'Italia.
Tutto nacque da essere quel re prudente uomo, e quel regno bene
ordinato; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini
della guerra.
Pelopida ed Epaminonda
tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattala della
servitù dello imperio spartano, trovandosi in una città
usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati; non dubitarono,
tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto l'armi, e con
quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e
vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo
mostrarono che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da
guerra, ma in ogni altra parte dove nascessi uomini, pure che si
trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che
Tullo seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non potrebbe meglio
esprimere questa opinione, né con altre parole mostrare di
accostarsi a quella, dove dice:
desidesque movebit
Tullus in arma viros.
Cap. 22
Quello che sia da notare nel caso de' tre Orazii romani e tre Curiazii albani.
Tullo re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo fusse signore dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazii albani, restò vivo uno degli Orazii romani: e per questo restò Mezio re albano, con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii morti maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre cose: l'una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene ordinata le colpe con gli meriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della inosservanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o di quelli popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessero sottomessi: come si vide che volle fare Mezio, il quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si confessassi vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno nella prima espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era avveduto della temerità del partito preso da lui. E perché di questo terzo notabile se n'è parlato assai, parlereno solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.
Cap.
23
Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non
tutte le forze; e, per questo, spesso il guardare i passi è
dannoso.
Non
fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna
tua e non tutte le forze. Questo si fa in più modi. L'uno è
faccendo come Tullo e Mezio, quando e' commissono la fortuna tutta
della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti aveva
l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù e
fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima
parte delle forze di ciascuno di loro. Né si avvidono, come
per questo partito tutta la fatica che avevano durata i loro
antecessori nell'ordinare la republica, per farla vivere lungamente
libera e per fare i suoi cittadini difensori della loro libertà,
era quasi che stata vana, stando nella potenza di sì pochi a
perderla. La quale cosa da quelli re non poté essere peggio
considerata.
Cadesi ancora in questo
inconveniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nimico,
disegnano di tenere i luoghi difficili, e guardare i passi: perché
quasi sempre questa diliberazione sarà dannosa, se già
in quello luogo difficile commodamente tu non potesse tenere tutte le
forze tue. In questo caso, tale partito è da prendere; ma
sendo il luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte le forze, il
partito è dannoso. Questo mi fa giudicare così lo
esemplo di coloro, che, essendo assaltati da un inimico potente, ed
essendo il paese loro circundato da' monti e luoghi alpestri, non
hanno mai tentato di combattere il nimico in su' passi ed in su'
monti, ma sono iti a rincontrarlo di là da essi; o, quando non
hanno voluto fare questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in
luoghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è stata la
preallegata: perché, non si potendo condurre alla guardia de'
luoghi alpestri molti uomini, sì per non vi potere vivere
lungo tempo, sì per essere i luoghi stretti e capaci di pochi,
non è possibile sostenere uno inimico che venga grosso a
urtarti: ed al nimico è facile il venire grosso perché
la intenzione sua è passare, e non fermarsi, ed a chi
l'aspetta è impossibile aspettarlo grosso, avendo ad
alloggiarsi per più tempo, non sappiendo quando il nimico
voglia passare in luoghi, come io ho detto, stretti e sterili.
Perdendo, adunque, quel passo che tu ti avevi presupposto tenere, e
nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo confidava, entra il più
delle volte ne' popoli e nel residuo delle genti tua tanto terrore,
che, sanza potere esperimentare la virtù d'esse, rimani
perdente; e così vieni a avere perduta tutta la tua fortuna
con parte delle tue forze.
Ciascuno sa con
quanta difficultà Annibale passasse l'alpe che dividono la
Lombardia dalla Francia, e con quanta difficultà passasse
quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana: nondimeno i Romani
l'aspettarono prima in sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e
vollon, più tosto, che il loro esercito fusse consumato da il
nimico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpe a
essere distrutto dalla malignità del sito.
E
chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverrà
pochissimi virtuosi capitani avere tentato di tenere simili passi, e
per le ragioni dette, e perché e' non si possono chiudere
tutti, sendo i monti come campagne, ed avendo non solamente le vie
consuete e frequentate, ma molte altre le quali, se non sono note a'
forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone.
Di che se ne può addurre uno freschissimo esemplo, nel 1515.
Quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la
recuperazione dello stato di Lombardia, il maggior fondamento che
facevono coloro ch'erano alla sua impresa contrari, era che gli
Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti. E, come per esperienza
poi si vidde, quel loro fondamento restò vano: perché,
lasciato quel Re da parte dua o tre luoghi guardati da loro, se ne
venne per un'altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro
apresso, che lo avessono presentito. Talché loro sbigottiti si
ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia si accostarono
alle genti franciose; sendo mancati di quella opinione avevano, che i
Franciosi devessono essere ritenuti in su' monti.
Cap.
24
Le republiche bene ordinate costituiscono premii e pene a'
loro cittadini, né compensono mai l'uno con l'altro.
Erano
stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù
vinti i Curiazii: era stato il fallo suo atroce, avendo morto la
sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a' Romani, che lo
condussono a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi
fossero tanto grandi e sì freschi. La quale cosa, a chi
superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine
popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore
considerazione ricerca quali debbono essere gli ordini delle
republiche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo
assoluto che per averlo voluto condannare. E la ragione è
questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i
demeriti con gli meriti de' suoi cittadini; ma avendo ordinati i
premii a una buona opera e le pene a una cattiva ed avendo premiato
uno per avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo
gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando
questi ordini sono bene osservati, una città vive libera molto
tempo: altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a
un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città,
si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una
audacia e confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera
non buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si
risolverà ogni civilità.
È
bene necessario, volendo che sia tenuta la pena per le malvagie
opere, osservare i premii per le buone, come si vide che fece Roma. E
benché una republica sia povera, e possa dare poco, debbe da
quel poco non astenersi, perché sempre ogni piccol dono, dato
ad alcuno per ricompenso di bene ancora che grande, sarà
stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È
notissima la istoria di Orazio Cocle, e quella di Muzio Scevola: come
l'uno sostenne i nimici sopra un ponte, tanto che si tagliasse;
l'altro si arse la mano, che aveva errato, volendo ammazzare
Porsenna, re degli Toscani. A costoro per queste due opere tanto
egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno. È
nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per avere
salvato il Campidoglio da' Franciosi che vi erano a campo, fu dato,
da quelli che insieme con lui vi erano assediati dentro, una piccola
misura di farina. Il quale premio, secondo la fortuna che allora
correva in Roma fu grande; e di qualità che, mosso poi Manlio
o da invidia o dalla sua cattiva natura, a fare nascere sedizione in
Roma e cercando guadagnarsi il popolo, fu, sanza rispetto alcuno de'
suoi meriti, gittato precipite da quello Campidoglio che esso prima,
con tanta sua gloria, avea salvo.
Cap.
25
Chi vuole riformare uno stato anticato in una città
libera, ritenga almeno l'ombra de' modi antichi.
Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio del loro vivere libero questa necessità, avendo in cambio d'uno re creati duoi consoli, non vollono ch'egli avessono più che dodici littori, per non passare il numero di quelli che ministravano ai re. Oltre a di questo, faccendosi in Roma uno sacrificio anniversario, il quale non poteva essere fatto se non dalla persona del re, e volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli re alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto sacrificio, il quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo Sacerdote: talmente che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi di quel sacrificio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di disiderare la ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare un antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e libero: perché, alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello antico sia possibile; e se i magistrati variano, e di numero e d'autorità e di tempo, degli antichi, che almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si dirà.
Cap.
26
Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da
lui, debbe fare ogni cosa nuova.
Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri ricchi come fece Davit quando ei diventò re: "qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes"; edificare, oltra di questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente capitolo, per esemplo, si mosterrà.
Cap.
27
Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o
al tutto buoni.
Papa
Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di quello
stato la casa de' Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di
quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagolo
Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva
congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e
deliberazione, nota a ciascuno, non aspettò di entrare in
quella città con lo esercito suo, che lo guardasse, ma vi
entrò disarmato, non ostante vi fusse drento Giovampagolo con
gente assai, quale per difesa di sé aveva ragunata. Sì
che, portato da quel furore con il quale governava tutte le cose, con
la semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il quale
dipoi ne menò seco, lasciando un governatore in quella città,
che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli uomini prudenti
che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di
Giovampagolo; né potevono estimare donde si venisse che quello
non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nimico
suo, e sé arricchito di preda, sendo col papa tutti li
cardinali, con tutte le loro delizie. Né si poteva credere si
fusse astenuto o per bontà o per conscienza che lo ritenesse;
perché in uno petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la
sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva
scendere alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse, nascesse che gli
uomini non sanno essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni,
e, come una malizia ha in sé grandezza, o è in alcuna
parte generosa, e' non vi sanno entrare.
Così
Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e publico
parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone
giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato
l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria eterna, sendo il
primo che avesse dimostro a' prelati, quanto sia da stimare poco chi
vive e regna come loro ed avessi fatto una cosa, la cui grandezza
avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse
dependere.
Cap.
28
Per quale cagione i Romani furono meno ingrati contro agli
loro cittadini che gli Ateniesi.
Qualunque legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in tutte qualche spezie d'ingratitudine contro a' suoi cittadini: ma ne troverrà meno in Roma che in Atene, e per avventura in qualunque altra republica. E ricercando la cagione di questo, parlando di Roma e d'Atene credo accadessi perché i Romani avevano meno cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a Roma, ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino in modo che in lei non era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario; perché, sendogli tolta La libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà; come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, diventò prontissima vendicatrice, non solamente degli errori, ma della ombra degli errori de' suoi cittadini. Quinci nacque lo esilio e la morte di tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni altra violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi scrittori della civilità: che i popoli mordono più fieramente poi ch'egli hanno recuperata la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considererà, adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la diversità degli accidenti che in queste città nacquero. Perché si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se a Roma fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si può fare verissima coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata de' re, contro a Collatino ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome de' Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che l'arebbe usata la ingratitudine come Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò, quello ne occorrerà, nel seguente capitolo.
Cap.
29
Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe.
Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere
quale usi con maggiori esempli questa ingratitudine, o uno popolo o
uno principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come questo
vizio della ingratitudine nasce o dall'avarizia o da il sospetto.
Perché, quando o uno popolo o uno principe ha mandato fuori
uno suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano,
vincendola, ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o quel
popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di
premio, o e' lo disonora o e' l'offende, mosso dall'avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno
errore che non ha scusa, anzi si tira dietro una infamia eterna. Pure
si truova molti principi che ci peccono. E Cornelio Tacito dice, con
questa sentenzia, la cagione: "Proclivius est iniuriae, quam
beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in questu
habetur". Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio,
l'offende, non mosso da avarizia ma da sospetto, allora merita, e il
popolo e il principe, qualche scusa. E di queste ingratitudini, usate
per tale cagione, se ne legge assai: perché quello capitano il
quale virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo signore,
superando i nimici, e riempiendo sé di gloria e gli suoi
soldati di ricchezze, di necessità, e con i soldati suoi, e
con i nimici, e con i sudditi propri di quel principe, acquista tanta
riputazione, che quella vittoria non può sapere di buono a
quel signore che lo ha mandato. E perché la natura degli
uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nessuna
sua fortuna, è impossibile che quel sospetto che subito nasce
nel principe dopo la vittoria di quel suo capitano, non sia da quel
medesimo accresciuto per qualche suo modo o termine usato
insolentemente. Talché il principe non può pensare a
altro che assicurarsene: e, per fare questo, ei pensa o di farlo
morire o di torgli la riputazione, che si ha guadagnata nel suo
esercito o ne' suoi popoli; e con ogni industria mostrare che quella
vittoria è nata non per la virtù di quello ma per
fortuna, o per viltà de' nimici, o per prudenza degli altri
capi che sono stati seco in tale fazione.
Poiché
Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato dal suo esercito
imperadore, Antonio Primo, che si trovava con un altro esercito in
Illiria, prese le parti sue, e vennene in Italia contro a Vitellio,
quale regnava a Roma, e virtuosissimamente ruppe dua eserciti
Vitelliani, e occupò Roma, talché Muziano, mandato da
Vespasiano, trovò, per la virtù d'Antonio, acquistato
il tutto, e vinta ogni difficultà. Il premio che Antonio ne
riportò, fu che Muziano gli tolse subito la ubbidienza dello
esercito, e a poco a poco lo ridusse in Roma sanza alcuna autorità:
talché Antonio ne andò a trovare Vespasiano, quale era
ancora in Asia, dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo,
ridotto in nessuno grado, quasi disperato morì. E di questi
esempli ne sono piene le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al
presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo
Ferrante, militando nel regno di Napoli contro a' Franciosi, per
Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come,
per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì
da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza
delle genti d'armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò
seco in Spagna; dove, poco tempo poi, inonorato, morì. È
tanto, dunque, naturale questo sospetto ne' principi, che non se ne
possono difendere; ed è impossibile ch'egli usino gratitudine
a quelli che con vittoria hanno fatto, sotto le insegne loro, grandi
acquisti.
E da quello che non si difende
un principe, non è miracolo, né cosa degna di maggior
memoria, se uno popolo non se ne difende. Perché, avendo una
città che vive libera, duoi fini, l'uno lo acquistare, l'altro
il mantenersi libera; conviene che nell'una cosa e nell'altra per
troppo amore erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà
nel luogo suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra
gli altri, questi: di offendere quegli cittadini che la doverrebbe
premiare; avere sospetto di quegli in cui la si doverrebbe confidare.
E benché questi modi in una republica venuta alla corruzione
sieno cagione di gran mali, e che molte volte piuttosto la viene alla
tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse
quello che la ingratitudine gli negava; nondimeno in una republica
non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la ne vive
libera; più mantenendosi, per paura di punizione, gli uomini
migliori e meno ambiziosi. Vero è che infra tutti i popoli che
mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno
ingrata: perché della sua ingratitudine si può dire che
non ci sia altro esemplo che quello di Scipione; perché
Coriolano e Cammillo furono fatti esuli per ingiuria che l'uno e
l'altro avea fatto alla plebe. Ma all'uno non fu perdonato, per
aversi sempre riserbato contro al popolo l'animo inimico; l'altro,
non solamente fu richiamato, ma per tutti i tempi della sua vita
adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione nacque da
uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di lui, che degli
altri non si era avuto: il quale nacque dalla grandezza del nimico
che Scipione aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva data la
vittoria di sì lunga e pericolosa guerra, dalla celerità
di essa, dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre
sue memorabili virtudi gli acquistavano. Le quali cose furono tante,
che, non che altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità:
la quale cosa dispiaceva agli uomini savi, come cosa inusitata in
Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo, che Catone Prisco,
riputato santo, fu il primo a fargli contro; e a dire che una città
non si poteva chiamare libera, dove era uno cittadino che fusse
temuto dai magistrati. Talché se il popolo di Roma seguì
in questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa che di
sopra ho detto meritare quegli popoli e quegli principi che per
sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico
che, usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per
sospetto, si vedrà come i popoli non mai per avarizia la
usarono, e per sospetto assai manco che i principi, avendo meno
cagione di sospettare: come di sotto si dirà.
Cap.
30
Quali modi debbe usare uno principe o una republica per
fuggire questo vizio della ingratitudine; e quali quel capitano o
quel cittadino per non essere oppresso da quella.
Uno
principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con
sospetto, o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle
espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani,
come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli
che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo acquisto è
tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d'altrui, non
par loro potere usare quello acquisto, se non spengano in altrui
quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi; e diventono
ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è maggiore la loro perdita
che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e'
si rimangono a casa oziosi, e mandano uno capitano; io non ho che
precetto dare loro, altro che quello che per loro medesimi si sanno.
Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i
morsi della ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito
dopo la vittoria lasci lo esercito, e rimettasi nelle mani del suo
principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso, acciocché
quello, spogliato d'ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di
non lo offendere; o, quando questo non gli paia di fare, prenda
animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li
quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe
suo, faccendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e facci nuove
amicizie co' vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa
i principi del suo esercito, e di quelli che non può
corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di punire il suo
signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non
ci sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere né
al tutto tristi, né al tutto buoni; e sempre interviene che,
subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi
modestamente non possono, usare termini violenti e che abbiano in sé
l'onorevole non sanno; talché, stando ambigui, intra quella
loro dimora ed ambiguità, sono oppressi.
Quanto
a una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si
può dare il medesimo rimedio che al principe; cioè che
vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo necessitata a
mandare uno suo cittadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le
dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la Republica romana a
essere meno ingrata che l'altre. Il che nacque dai modi del suo
governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli
nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni
età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il
popolo non aveva cagione di dubitare d'alcuno di loro, sendo assai, e
guardando l'uno l'altro. E in tanto si mantenevano interi e
respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione né cagione al
popolo, come ambiziosi, l'offendergli, che, venendo alla dittatura
quello maggiore gloria ne riportava che più tosto la diponeva.
E così, non potendo simili modi generare sospetto, non
generavano ingratitudine. In modo che, una republica che non voglia
avere cagione d'essere ingrata, si debba governare come Roma, e uno
cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i
termini osservati da' cittadini romani.
Cap.
31
Che i capitani romani per errore commesso non furano
mai istraordinariamente puniti; né furano mai ancora puniti
quando per la ignoranza loro o tristi partiti presi da loro ne fusse
seguiti danni alla republica.
I
Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furano manco
ingrati che l'altre republiche, ma ancora furano più pii e più
rispettivi nella punizione de' loro capitani degli eserciti che
alcuna altra. Perché se il loro errore fusse stato per
malizia, e' lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza, non
che lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo del
procedere era bene considerato da loro: perché e' giudicavano
che fusse di tanta importanza, a quelli che governavano gli eserciti
loro, lo avere l'animo libero ed espedito, e sanza altri estrinseci
rispetti nel pigliare i partiti, che non volevono aggiugnere, a una
cosa per sé stessa difficile e pericolosa, nuove difficultà
e pericoli; pensando che, aggiugnendoveli, nessuno potessi essere che
operassi mai virtuosamente. Verbigrazia, e' mandavano uno esercito in
Grecia contro a Filippo di Macedonia, o in Italia contro a Annibale,
o contro a quelli popoli che vinsono prima. Era, questo capitano che
era preposto a tale espedizione, angustiato da tutte quelle cure che
si arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e
importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto più
esempli de' Romani ch'eglino avessono crucifissi o altrimenti morti
quelli che avessono perdute le giornate, egli era inpossibile che
quello capitano intra tanti sospetti potessi deliberare strenuamente.
Però, giudicando essi che a questi tali fusse assai pena la
ignominia dello avere perduto, non li vollono con altra maggiore pena
sbigottire.
Uno esemplo ci è,
quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erano Sergio e
Virginio a campo a Veio, ciascuno preposto a una parte dello
esercito; de' quali Sergio era all'incontro donde potevono venire i
Toscani, e Virginio dall'altra parte. Occorse che, sendo assaltato
Sergio da' Falisci e da altri popoli, sopportò di essere rotto
e fugato prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall'altra parte
Virginio, aspettando che si umiliasse, volle più tosto vedere
il disonore della patria sua e la rovina di quello esercito, che
soccorrerlo. Caso veramente malvagio e degno d'essere notato, e da
fare non buona coniettura della Republica romana, se l'uno o l'altro
non fussono stati gastigati. Vero è che, dove un'altra
republica gli averebbe puniti di pena capitale, quella gli punì
in denari. Il che nacque non perché i peccati loro non
meritassono maggiore punizione, ma perché gli Romani vollono
in questo caso, per le ragioni già dette, mantenere gli
antichi costumi loro. E quando agli errori per ignoranza, non ci è
il più bello esemplo che quello di Varrone: per la temerità
del quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibale, dove quella
Republica portò pericolo della sua libertà; nondimeno,
perché vi fu ignoranza e non malizia, non solamente non lo
gastigarono ma lo onorarono; e gli andò incontro, nella
tornata sua in Roma, tutto l'ordine senatorio: e non lo potendo
ringraziare della zuffa, lo ringraziarono ch'egli era tornato in
Roma, e non si era disperato delle cose romane. Quando Papirio
Cursore voleva fare morire Fabio, per avere, contro al suo
comandamento, combattuto co' Sanniti; intra le altre ragioni che dal
padre di Fabio erano assegnate contro alla ostinazione del dittatore,
era che il popolo romano in alcuna perdita de' suoi capitani non
aveva fatto mai quello che Papirio nelle vittorie voleva fare.
Cap.
32
Una republica o uno principe non debbe differire a
beneficare gli uomini nelle sue necessitadi.
Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo, sopravvenendo il pericolo, quando Porsenna venne a assaltare Roma per rimettere i Tarquinii; dove il Senato, dubitando della plebe, che la non volesse più tosto accettare i re che sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri assai operavano in beneficio publico se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo beneficio quel popolo si esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno che, confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a guadagnarsi il popolo; però che mai gli riuscirà quello che riuscì ai Romani. Perché l'universale giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari tuoi, e dovendo temere che, passata la necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente loro dato, non arà teco obligo alcuno. E la cagione perché a' Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo; e aveva veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in beneficio suo, come quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei potette persuadersi che quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla venuta dei nimici, quanto dalla disposizione del Senato in beneficarli. Oltre a questo, la memoria dei re era fresca, dai quali erano stati in molti modi vilipesi e ingiuriati. E perché simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora rade volte che simili rimedi giovino. Però, debbe qualunque tiene stato, così republica come principe, considerare innanzi, quali tempi gli possono venire addosso contrari, e di quali uomini ne' tempi avversi si può avere di bisogno; e dipoi vivere con loro in quello modo che giudica, sopravvegnente qualunque caso, essere necessitato vivere. E quello che altrimenti si governa, o principe o republica, e massime un principe, e poi in sul fatto crede, quando il pericolo sopravviene, con i beneficii riguadagnarsi gli uomini, se ne inganna: perché, non solamente non se ne assicura, ma accelera la sua rovina.
Cap.
33
Quando uno inconveniente è cresciuto o in uno stato o
contro a uno stato, è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo.
Crescendo
la Republica romana in riputazione, forze ed imperio, i vicini, i
quali prima non avevano pensato quanto quella nuova republica potesse
arrecare loro di danno, cominciarono, ma tardi, a conoscere lo errore
loro; e volendo rimediare a quello che prima non aveano rimediato,
congiurarono bene quaranta popoli contro a Roma: donde i Romani intra
gli altri rimedii soliti farsi da loro negli urgenti pericoli, si
volsono a creare il Dittatore, cioè dare potestà a uno
uomo che sanza alcuna consulta potesse diliberare, e sanza alcuna
appellagione potesse esequire le sue diliberazioni. Il quale rimedio,
come allora fu utile, e fu cagione che vincessero i soprastanti
pericoli, così fu sempre utilissimo in tutti quegli accidenti
che, nello augumento dello imperio, in qualunque tempo surgessono
contro alla Republica.
Sopra il quale
accidente è da discorrere prima, come, quando uno
inconveniente, che surga o in una republica o contro a una republica,
causato da cagione intrinseca o estrinseca, è diventato tanto
grande che e' cominci a fare paura a ciascuno, è molto più
sicuro partito temporeggiarsi con quello, che tentare di estinguerlo.
Perché, quasi sempre, coloro che tentano di ammorzarlo fanno
le sue forze maggiori, e fanno accelerare quel male che da quello si
sospettava. E di questi simili accidenti ne nasce nella republica più
spesso per cagione intrinseca che estrinseca: dove molte volte, o e'
si lascia pigliare ad uno cittadino più forze che non è
ragionevole, o e' si comincia a corrompere una legge, la quale è
il nervo e la vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere questo
errore in tanto, che gli è più dannoso partito il
volere rimediare che lasciarlo seguire. E tanto è più
difficile il conoscere questi inconvenienti quando e' nascono, quanto
e' pare più naturale agli uomini favorire sempre i principii
delle cose: e tali favori possano, più che in alcuna altra
cosa, nelle opere che paiano che abbiano in sé qualche virtù
e siano operate da' giovani. Perché se in una republica si
vede surgere uno giovane nobile, quale abbia in sé virtù
istraordinaria, tutti gli occhi de' cittadini si cominciono a voltare
verso lui e concorrere,sanza alcuno rispetto, a onorarlo; in modo
che, se in quello è punto d'ambizione, accozzati i favori che
gli dà la natura e questo accidente, viene subito in luogo
che, quando i cittadini si avveggono dello errore loro, hanno pochi
rimedi ad ovviarvi e volendo quegli tanti ch'egli hanno, operarli,
non fanno altro che accelerare la potenza sua.
Di
questo se ne potrebbe addurre assai esempli, ma io ne voglio
solamente dare uno della città nostra. Cosimo de' Medici, dal
quale la casa de' Medici in la nostra città ebbe il principio
della sua grandezza, venne in tanta riputazione col favore che gli
dette la sua prudenza e la ignoranza degli altri cittadini, che ei
cominciò a fare paura allo stato, in modo che gli altri
cittadini giudicavano l'offenderlo pericoloso ed il lasciarlo stare
così, pericolosissimo. Ma vivendo in quei tempi Niccolò
da Uzzano, il quale nelle cose civili era tenuto uomo espertissimo,
ed avendo fatto il primo errore di non conoscere i pericoli che dalla
riputazione di Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non
permesse mai che si facesse il secondo, cioè che si tentasse
di volerlo spegnere; giudicando tale tentazione essere al tutto la
rovina dello stato loro; come si vide in fatto, che fu, dopo la sua
morte: perché, non osservando quegli cittadini che rimasono,
questo suo consiglio, si feciono forti contro a Cosimo, e lo
cacciorono da Firenze. Donde ne nacque che la sua parte, per questa
ingiuria risentitasi, poco di poi lo richiamò, e lo fece
principe della republica: a il quale grado sanza quella manifesta
opposizione non sarebbe mai potuto salire.
Questo
medesimo intervenne a Roma con Cesare, che, favorita da Pompeio e
dagli altri quella sua virtù, si convertì poco dipoi
quel favore in paura: di che fa testimone Cicerone, dicendo che
Pompeio aveva tardi cominciato a temere Cesare. La quale paura fece
che pensarono ai rimedi; e gli rimedi che fecero, accelerarono la
rovina della loro Republica.
Dico,
adunque, che poi che gli è difficile conoscere questi mali
quando ei surgano, causata questa difficultà da uno inganno
che ti fanno le cose in principio, è più savio partito
il temporeggiarle poi che le si conoscono, che l'oppugnarle: perché,
temporeggiandole, o per loro medesime si spengono, o almeno il male
si differisce in più lungo tempo. E in tutte le cose debbono
aprire gli occhi i principi che disegnano cancellarle o alle forze ed
impeto loro opporsi; di non dare loro, in cambio di detrimento,
augumento; e, credendo sospingere una cosa, tirarsela dietro, ovvero
suffocare una pianta a annaffiarla. Ma si debbano considerare bene le
forze del malore, e quando ti vedi sufficiente a sanare quello,
metterviti sanza rispetto; altrimenti lasciarlo stare, né in
alcun modo tentarlo. Perché interverrebbe, come di sopra si
discorre, come intervenne a' vicini di Roma: ai quali, poiché
Roma era cresciuta in tanta potenza, era più salutifero con
gli modi della pace cercare di placarla e ritenerla addietro, che coi
modi della guerra farle pensare ai nuovi ordini e alle nuove difese.
Perché quella loro congiura non fece altro che farli più
uniti, più gagliardi, e pensare a modi nuovi, mediante i quali
in più breve tempo ampliarono la potenza loro. Intra i quali
fu la creazione del Dittatore; per lo quale nuovo ordine, non
solamente superarono i soprastanti pericoli ma fu cagione di ovviare
a infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella republica
sarebbe incorsa.
Cap.
34
L'autorità
dittatoria fece bene, e non danno, alla republica romana: e come le
autorità che i cittadini si tolgono, non quelle che sono loro
dai suffragi liberi date, sono alla vita civile perniziose.
E'
sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovarono in
quella città modo di creare il Dittatore, come cosa che fosse
cagione, col tempo, della tirannide di Roma; allegando, come il primo
tiranno che fosse in quella città la comandò sotto
questo titolo dittatorio; dicendo che, se non vi fusse stato questo
Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo publico adonestare la
sua tirannide. La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa
opinione, esaminata, e fu fuori d'ogni ragione creduta. Perché,
e' non fu il nome né il grado del Dittatore che facesse serva
Roma, ma fu l'autorità presa dai cittadini per la lunghezza
dello imperio: e se in Roma fusse mancato il nome dittatorio, ne
arebbono preso un altro; perché e' sono le forze che
facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze. E si vede che
'l Dittatore, mentre fu dato secondo gli ordini publici, e non per
autorità propria, fece sempre bene alla città. Perché
e' nuocono alle republiche i magistrati che si fanno e l'autoritadi
che si dànno per vie istraordinarie, non quelle che vengono
per vie ordinarie: come si vede che seguì in Roma, in tanto
processo di tempo, che mai alcuno Dittatore fece se non bene alla
Republica.
Di che ce ne sono ragioni
evidentissime. Prima, perché a volere che un cittadino possa
offendere, e pigliarsi autorità istraordinaria, conviene
ch'egli abbia molte qualità, le quali in una republica non
corrotta non può mai avere: perché gli bisogna essere
ricchissimo, ed avere assai aderenti e partigiani, i quali non può
avere dove le leggi si osservano; e quando pure ve gli avessi, simili
uominl sono in modo formidabili, che i suffragi liberi non concorrano
in quelli. Oltra di questo, il Dittatore era fatto a tempo, e non in
perpetuo, e per ovviare solamente a quella cagione mediante la quale
era creato; e la sua autorità si estendeva in potere
diliberare per sé stesso circa i rimedi di quello urgente
pericolo, e fare ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno sanza
appellagione: ma non poteva fare cosa che fussi in diminuzione dello
stato; come sarebbe stato tôrre autorità al Senato o al
Popolo, disfare, gli ordini vecchi della città, e farne de'
nuovi. In modo che, raccozzato il breve tempo della sua dittatura, e
le autorità limitate che egli aveva, ed il popolo romano non
corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi, e nocessi
alla città: e per esperienza si vede che sempre mai
giovò.
E veramente, infra gli altri
ordini romani, questo è uno che merita essere considerato e
numerato infra quegli che furono cagione della grandezza di tanto
imperio; perché sanza uno simile ordine le cittadi con
difficultà usciranno degli accidenti istraordinari. Perché
gli ordini consueti nelle republiche hanno il moto tardo (non potendo
alcuno consiglio né alcuno magistrato per sé stesso
operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l'uno dell'altro,
e perché nel raccozzare insieme questi voleri va tempo) sono i
rimedi loro pericolosissimi, quando egli hanno a rimediare a una cosa
che non aspetti tempo. E però le republiche debbano intra loro
ordini avere uno simile modo: e la Republica viniziana, la quale
intra le moderne republiche è eccellente, ha riservato
autorità a pochi cittadini, che ne' bisogni urgenti, sanza
maggiore consulta, tutti d'accordo possino deliberare. Perché,
quando in una republica manca uno simile modo, è necessario,
o, servando gli ordini, rovinare, o, per non ruinare, rompergli. Ed
in una republica non vorrebbe mai accadere cosa che con modi
straordinari si avesse a governare. Perché, ancora che il modo
straordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa male;
perché si mette una usanza di rompere gli ordini per bene, che
poi, sotto quel colore, si rompono per male. Talché mai fia
perfetta una republica, se con le leggi sue non ha provisto a tutto,
e ad ogni accidente posto il rimedio, e dato il modo a governarlo. E
però, conchiudendo, dico che quelle republiche, le quali negli
urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili
autoritadi, sempre ne' gravi accidenti rovineranno. È da
notare in questo nuovo ordine il modo dello eleggerlo, quanto dai
Romani fu saviamente provisto. Perché, sendo la creazione del
Dittatore con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della
città, a divenire sotto una ubbidienza come gli altri; e
presupponendo che di questo avessi a nascere isdegno fra' cittadini;
vollono che l'autorità dello eleggerlo fosse nei Consoli:
pensando che, quando l'accidente venisse che Roma avesse bisogno di
questa regia potestà, ei lo avessono a fare volentieri e
facendolo loro, che dolesse loro meno. Perché le ferite ed
ogni altro male che l'uomo si fa da sé spontaneamente e per
elezione, dolgano di gran lunga meno, che quelle che ti sono fatte da
altrui. Ancora che poi negli ultimi tempi i Romani usassono, in
cambio del Dittatore, di dare tale autorità al Console, con
queste parole: "Videat Consul, ne Respublica quid detrimenti
capiat". E per tornare alla materia nostra, conchiudo, come i
vicini di Roma, cercando opprimergli, gli fecerono ordinare, non
solamente a potersi difendere, ma a potere, con più forza, più
consiglio e più autorità, offendere loro.
Cap.
35
La cagione perché la creazione in roma del
decemvirato fu nociva alla libertà di quella republica, non
ostante che fusse creato per suffragi publici e liberi.
E' pare contrario a quel che di sopra è discorso, che quella autorità che si occupa con violenza, non quella ch'è data con gli suffragi, nuoce alle republiche, la elezione dei dieci cittadini creati dal Popolo romano per fare le leggi in Roma: i quali ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno rispetto occuparono la libertà di quella. Dove si debbe considerare i modi del dare l'autorità e il tempo per che la si dà. E quando e' si dia autorità libera, col tempo lungo, chiamando il tempo lungo uno anno o più, sempre fia pericolosa, e farà gli effetti o buoni o rei, secondo che siano rei o buoni coloro a chi la sarà data. E se si considerrà l'autorità che ebbero i Dieci, e quella che avevano i Dittatori, si vedrà, sanza comparazione, quella de' Dieci maggiore. Perché, creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il Senato, con la loro autorità; né il Dittatore la poteva tôrre loro: e s'egli avessi potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non poteva annullare l'ordine senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il Senato, i Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità loro, venivano a essere come sua guardia, a farlo non uscire della via diritta. Ma nella creazione de' Dieci occorse tutto il contrario: perché gli annullorono i Consoli ed i Tribuni; dettero loro autorità di fare legge, ed ogni altra cosa, come il Popolo romano. Talché, trovandosi soli, sanza Consoli, sanza Tribuni, sanza appellagione al Popolo; e per questo non venendo ad avere chi gli osservasse ei poterono, il secondo anno, mossi dall'ambizione di Appio, diventare insolenti. E per questo si debbe notare, che, quando e' si e detto che una autorità, data da' suffragi liberi, non offese mai alcuna republica, si presuppone che un popolo non si conduca mai a darla, se non con le debite circunstanze e ne' debiti tempi: ma quando, o per essere ingannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse, e' si conducesse a darla imprudentemente, e nel modo che il Popolo romano la dette a' Dieci gl'interverrà sempre come a quello. Questo si prova facilmente, considerando quali cagioni mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto quelle republiche che sono state tenute bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo tempo, come davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani ai loro Duci: perché si vedrà, all'uno ed all'altro modo di costoro essere poste guardie, che facevano che ei non potevano usare male quella autorità. Né giova, in questo caso, che la materia non sia corrotta; perché una autorità assoluta in brevissimo tempo corrompe la materia e si fa amici e partigiani. Né gli nuoce, o essere povero, o non avere parenti; perché le ricchezze ed ogni altro favore subito gli corre dietro: come particularmente nella creazione de' detti Dieci discorrereno.
Cap.
36
Non debbano i cittadini, che hanno avuti i maggiori onori,
sdegnarsi de' minori.
Avevano i Romani fatto Marco Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una gloriosissima giornata contro a' Veienti e gli Etruschi; nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello del consolo, quale lo anno davanti era stato consolo. Dove si debbe considerare quanto gli ordini di quella città erano atti a farla grande; e quanto le altre republiche, che si discostono da' modi suoi, s'ingannino. Perché, ancora che i Romani fossono amatori grandi della gloria, nondimeno non stimavano così disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi avevano comandato, e trovarsi a servire in quello esercito del quale erano stati principi. Il quale costume è contrario alla opinione, ordini e modi de' cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno cittadino, avendo avuto un grado grande, si vergogni di accettarne uno minore; e la città gli consenta che se ne possa discostare. La quale cosa, quando fusse onorevole per il privato, è al tutto inutile per il publico. Perché più speranza debbe avere una republica, e più confidare in uno cittadino che da uno grado grande scenda a governare uno minore che in quello che da uno minore salga a governare uno maggiore. Perché a costui non può ragionevolmente credere, se non gli vede uomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di tanta virtù che la novità di colui possa essere, con il consiglio ed autorità loro, moderata. E quando in Roma fosse stata la consuetudine quale è a Vinegia e nell'altre republiche e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo non volesse mai più andare negli eserciti se non Consolo, ne sarebbero nate infinite cose in disfavore del vivere libero; e per gli errori che arebbon fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che loro arebbono potuta usare meglio, non avendo uomini intorno, nel cospetto de' quali ei temessono errare; e così sarebbero venuti a essere più sciolti: il che sarebbe tornato tutto in detrimento publico.
Cap.
37
Quali scandoli partorì in Roma la legge agraria: e
come fare una legge in una republica, che riguardi assai indietro, e
sia contro a una consuetudine antica della città, è
scandolosissimo.
Egli
è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono
affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall'una e
dall'altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché,
qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per
necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto
potente ne' petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli
abbandona. La cagione è, perché la natura ha creati gli
uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono
conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il
desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala
contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d'esso.
Da questo nasce il variare della fortuna loro: perché,
disiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di
non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra;
dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di
quell'altra. Questo discorso ho fatto, perché alla Plebe
romana non bastò assicurarsi de' nobili per la creazione de'
Tribuni, al quale desiderio fu costretta per necessità; che
lei, subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per
ambizione, e volere con la Nobiltà dividere gli onori e le
sustanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque
il morbo che partorì la contenzione della legge agraria, che
infine fu causa della distruzione della Republica. E perché le
republiche bene ordinate hanno a tenere ricco il publico e gli loro
cittadini, poveri, convenne che fusse nella città di Roma
difetto in questa legge: la quale o non fusse fatta nel principio in
modo che la non si avesse ogni dì a ritrattare, o che si
differisse tanto in farla, che fosse scandoloso il riguardarsi
indietro o, sendo ordinata bene da prima, era stata poi dall'uso
corrotta, talché in qualunque modo si fusse, mai non si parlò
di questa legge in Roma, che quella città non andasse
sottosopra.
Aveva questa legge due capi
principali. Per l'uno si disponeva che non si potesse possedere per
alcuno cittadino più che tanti iugeri di terra; per l'altro,
che i campi di che si privavano i nimici, si dividessono intra il
popolo romano. Veniva pertanto a fare di dua sorte offese ai nobili:
perché quegli che possedevano più beni non permetteva
la legge (quali erano la maggiore parte de' nobili), ne avevano a
essere privi, e dividendosi intra la plebe i beni de' nimici, si
toglieva a quegli la via dello arricchire. Sicché, venendo a
essere queste offese contro a uomini potenti, e, che pareva loro,
contrastandola, difendere il publico, qualunque volta, come è
detto, si ricordava, andava sottosopra tutta quella città: e i
nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano o con trarre
fuora uno esercito o che a quel Tribuno che la proponeva si opponesse
un altro Tribuno, o talvolta cederne parte, ovvero mandare una
colonia in quel luogo che si avesse a distribuire: come intervenne
del contado di Anzio, per il quale surgendo questa disputa della
legge, si mandò in quel luogo una colonia, tratta di Roma,
alla quale si consegnasse detto contado. Dove Tito Livio usa un
termine notabile, dicendo che con difficultà si trovò
in Roma chi desse il nome per ire in detta colonia: tanto era quella
plebe più pronta a volere desiderare le cose in Roma, che a
possederle in Anzio. Andò questo omore di questa legge, così,
travagliandosi un tempo, tanto che gli Romani cominciarono a condurre
le loro armi nelle estreme parti di Italia, o fuori di Italia; dopo
al quale tempo parve che la cessassi. Il che nacque perché i
campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti agli occhi
della plebe, ed in luogo dove non gli era facile il cultivargli,
veniva a essere meno desiderosa di quegli: e ancora i Romani erano
meno punitori de' loro nimici in simil modo; e quando pure
spogliavano alcuna terra del suo contado, vi distribuivano colonie.
Tanto che, per tali cagioni, questa legge stette come addormentata
infino ai Gracchi; da' quali essendo poi svegliata, rovinò al
tutto la libertà romana; perché la trovò
raddoppiata la potenza de' suoi avversari, e si accese, per questo,
tanto odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne nelle armi ed al
sangue, fuori d'ogni modo e costume civile. Talché, non
potendo i publici magistrati rimediarvi, né sperando più
alcuna delle fazioni in quegli, si ricorse ai rimedi privati, e
ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che la
difendesse. Prevenne in questo scandolo e disordine la plebe, e volse
la sua riputazione a Mario tanto che la lo fece quattro volte
consule; ed in tanto continovò con pochi intervalli il suo
consolato, che si potette per sé stesso far consulo tre altre
volte. Contro alla quale peste non avendo la Nobilità alcuno
rimedio, si volse a favorire Silla; e fatto, quello, capo della parte
sua, vennero alle guerre civili; e, dopo molto sangue e variare di
fortuna, rimase superiore la Nobilità. Risuscitarono poi
questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio; perché, fattosi
Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla,
venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno
in Roma; talché mai fu poi libera quella città.
Tale,
adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi
mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato e la
Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in
favore della libertà, e per questo paia disforme a tale
conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo,
io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta
l'ambizione de' grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella
non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città
alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria
penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per
avventura, molto più tosto in servitù quando la plebe,
e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre
frenato l'ambizione de' nobili. Vedesi per questo ancora, quanto gli
uomini stimano più la roba che gli onori. Perché la
Nobilità romana sempre negli onori cede sanza scandoli
straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba fu tanta la
ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare
l'appetito suo, a quegli straordinari che di sopra si discorrono. Del
quale disordine furono motori i Gracchi, de' quali si debbe laudare
più la intenzione che la prudenzia. Perché, a volere
levar via uno disordine cresciuto in una republica, e per questo fare
una legge che riguardi assai indietro, è partito male
considerato; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro
che accelerare quel male, a che quel disordine ti conduce: ma,
temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per sé
medesimo col tempo avanti che venga al fine suo, si spegne.
Cap.
38
Le republiche deboli sono male risolute e non si sanno
diliberare; e se le pigliano mai alcun partito, nasce più da
necessità che da elezione.
Essendo
in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volsci
ed agli Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressare Roma,
fatto questi due popoli uno grossissimo esercito, assaltarono i
Latini e gli Ernici; e guastando il loro paese, furono costretti i
Latini e gli Ernici farlo intendere a Roma, e pregare che fossero
difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo,
risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e
con le loro armi, perché essi non gli potevano difendere. Dove
si conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come
sempre in ogni fortuna volle essere quello che fusse principe delle
diliberazioni che avessero a pigliare i suoi; né si vergognò
mai diliberare una cosa che fusse contraria al suo modo di vivere o
ad altre diliberazioni fatte da lui, quando la necessità
gliene comandava.
Questo dico, perché
altre volte il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli
l'armarsi e difendersi; talché a uno Senato meno prudente di
questo sarebbe paruto cadere del grado suo a concedere loro tale
difensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si debbano
giudicare, e sempre prese il meno reo partito per migliore: perché
male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi, male gli sapeva
che si armassero sanza loro, per le ragioni dette e per molte altre
che s'intendano: nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati, per
necessità, a ogni modo, avendo il nimico addosso; prese la
parte onorevole, e volle che quello che gli aveano a fare, lo
facessero con licenza sua, acciocché, avendo disubbidito per
necessità, non si avvezzassero a disubbidire per elezione. E
benché questo paia partito che da ciascuna republica dovesse
essere preso, nientedimeno le republiche deboli e male consigliate
non gli sanno pigliare, né si sanno onorare di simili
necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto
calare Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendo tornarsene a Roma
per la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il
passo per sé e per lo esercito suo. Consultossi in Firenze
come si avesse a governare questa cosa, né fu mai consigliato
per alcuno di concedergliene. In che non si seguì il modo
romano: perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in
modo disarmati che non gli potevan vietare il passare, era molto più
onore loro, che paresse che passasse con volontà di quegli,
che a forza; perché, dove vi fu al tutto il loro vituperio,
sarebbe stato in parte minore quando l'avessero governata altrimenti.
Ma la più cattiva parte che abbiano le republiche deboli, è
essere inresolute; in modo che tutti i partiti che le pigliono, gli
pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo fanno
forzate, e non per prudenza loro.
Io
voglio dare di questo due altri esempli, occorsi ne' tempi nostri,
nello stato della nostra città.
Nel
1500, ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milano, desideroso
di rendervi Pisa, per avere cinquantamila ducati che gli erano stati
promessi da' Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli suoi
eserciti verso Pisa, capitanati da monsignore di Beumonte; benché
francese, nondimanco uomo in cui i Fiorentini assai confidavano.
Condussesi questo esercito e questo capitano intra Cascina e Pisa,
per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno giorno per
ordinarsi alla espugnazione, vennono oratori Pisani a Beumonte, e gli
offerirono di dare la città allo esercito francese con questi
patti: che, sotto la fede del re, promettesse non la mettere in mano
de' Fiorentini, prima che dopo quattro mesi. Il quale partito fu da'
Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si seguì nello
andarvi a campo e partirsene con vergogna. Né fu rifiutato il
partito per altra cagione che per diffidare della fede del re; come
quegli che per debolezza di consiglio si erano per forza messi nelle
mani sue, e, dall'altra parte, non se ne fidavano, ne vedevano quanto
era meglio che il re potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e, non
la rendendo, scoprire l'animo suo, che, non la avendo, poterla loro
promettere, e loro essere forzati comperare quelle promesse. Talché,
molto più utilmente arebbono fatto a acconsentire che Beumonte
l'avessi, sotto qualunque promessa, presa: come se ne vide la
esperienza dipoi nel 1502, che, essendosi ribellato Arezzo, venne ai
soccorsi de' Fiorentini mandato da il re di Francia monsignor Imbalt
con gente francese; il quale, giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco
tempo cominciò a praticare accordo con gli Aretini, i quali
sotto certa fede volevon dare la terra, a similitudine de' Pisani. Fu
rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo monsignor Imbalt,
e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero poco, cominciò
a tenere le pratiche dello accordo da sé, sanza partecipazione
de' Commessari: tanto che ei lo conchiuse a suo modo, e, sotto
quello, con le sue genti se n'entrò in Arezzo, faccendo
intendere ai Fiorentini come egli erano matti, e non s'intendevano
delle cose del mondo: che, se volevano Arezzo, lo facessero intendere
a il re, il quale lo poteva dare loro molto meglio, avendo le sua
gente in quella città, che fuori. Non si restava in Firenze di
lacerare e biasimare detto Imbalt; né si restò mai
infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse stato simile a
Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo.
E
così, per tornare a proposito, le republiche inresolute non
pigliono mai partiti buoni, se non per forza, perché la
debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcuno
dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una violenza che
le sospinga, stanno sempre mai sospese.
Cap.
39
In diversi popoli si veggano spesso i medesimi accidenti.
E'
si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le
antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono
quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono
sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e
farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne
trovando degli usati, pensarne de' nuovi, per la similitudine degli
accidenti. Ma perché queste considerazioni sono neglette, o
non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da
chi governa; ne seguita che sempre sono i medesimi scandoli in ogni
tempo.
Avendo la città di Firenze,
dopo il 94, perso parte dello imperio suo, come Pisa ed altre terre,
fu necessitata fare guerra a coloro che le occupavano. E perché
chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella
guerra, sanza alcun frutto; dallo spendere assai, ne risultava assai
gravezze; dalle gravezze, infinite querele del popolo: e perché
questa guerra era amministrata da uno magistrato di dieci cittadini
che si chiamavano i Dieci della guerra, l'universale cominciò
a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e della guerra
e delle spese d'essa; e cominciò a persuadersi che, tolto via
detto magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto che, avendosi a
rifare, non se gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si
mandarono le azioni sue alla Signoria. La quale diliberazione fu
tanto perniziosa, che, non solamente non levò la guerra, come
lo universale si persuadeva, ma, tolto via quegli uomini che con
prudenza l'amministravano, ne seguì tanto disordine, che,
oltre a Pisa, si perdé Arezzo e molti altri luoghi: in modo
che, ravvedutosi il popolo dello errore suo, e come la cagione del
male era la febbre e non il medico, rifece il magistrato de' Dieci.
Questo medesimo omore si levò in Roma contro al nome de'
Consoli: perché veggendo quello popolo nascere l'una guerra
dall'altra, e non poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare che
la nascessi dall'ambizione de' vicini che gli volevano opprimere,
pensavano nascessi dall'ambizione de' nobili, che, non potendo dentro
in Roma gastigare la Plebe difesa dalla potestà tribunizia, la
volevon condurre fuora di Roma sotto i Consoli, per oppressarla dove
la non aveva aiuto alcuno. E pensarono, per questo, che fusse
necessario o levar via i Consoli, o regolare in modo la loro potestà,
che e' non avessono autorità sopra il popolo né fuori
né in casa. Il primo che tentò questa legge, fu uno
Terentillo tribuno; il quale proponeva che si dovessero creare cinque
uomini che dovessero considerare la potenza de' Consoli, e limitarla.
Il che alterò assai la Nobilità, parendogli che la
maiestà dello imperio fusse al tutto declinata, talché
alla Nobilità non restasse più alcun grado in quella
Republica. Fu nondimeno tanta l'ostinazione de' Tribuni, che 'l nome
consolare si spense; e furono in fine contenti, dopo qualche altro
ordine, più tosto creare Tribuni con potestà consolare,
che Consoli: tanto avevano più in odio il nome che l'autorità
loro. E così seguitarono lungo tempo, infine che, conosciuto
l'errore loro, come i Fiorentini ritornarono a' Dieci, così
loro ricreorno i Consoli.
Cap.
40
La creazione del decemvirato in Roma, e quello che
in essa è da notare: dove si considera, intra molte altre
cose, come si può o salvare, per simile accidente, o
oppressare una republica.
Volendo
discorrere particularmente sopra gli accidenti che nacquero in Roma
per la creazione del Decemvirato, non mi pare soperchio narrare,
prima, tutto quello che seguì per simile creazione, e dopo
disputare quelle parti che sono, in esse azioni, notabili: le quali
sono molte e di grande considerazione, così per coloro che
vogliono mantenere una republica libera, come per quelli che
disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si vedrà,
molti errori fatti dal Senato e dalla plebe in disfavore della
libertà; e molti errori fatti da Appio, capo del Decemvirato,
in disfavore di quella tirannide che egli si aveva presupposto
stabilire in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni seguite
intra il Popolo e la Nobilità per fermare nuove leggi in Roma,
per le quali si stabilisse più la libertà di quello
stato, mandarono, d'accordo, Spurio Pestumio, con duoi altri
Cittadini, a Atene, per gli esempli di quelle leggi che Solone dette
a quella città, acciocché sopra quelle potessono
fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla
creazione degli uomini che avessero ad esaminare e fermare dette
leggi; e crearono dieci cittadini per uno anno, intra i quali fu
creato Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E perché e'
potessono, sanza alcun rispetto, creare tali leggi, si levarono di
Roma tutti gli altri magistrati, ed in particulare i Tribuni ed i
Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo che tale magistrato
veniva a essere al tutto principe di Roma. Appresso ad Appio si
ridusse tutta l'autorità degli altri suoi compagni, per i
favori che gli faceva la Plebe; perché egli s'era fatto in
modo popolare con le dimostrazioni, che pareva maraviglia ch'egli
avesse preso sì presto una nuova natura e uno nuovo ingegno,
essendo stato tenuto, innanzi a questo tempo, uno crudele
perseguitatore della plebe.
Governaronsi
questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che dodici
littori, i quali andavano davanti a quello ch'era infra loro
proposto. E benché gli avessono l'autorità assoluta,
nondimeno, avendosi a punire uno cittadino romano per omicida, lo
citorno nel cospetto del popolo, e da quello lo fecero giudicare.
Scrissero le loro leggi in dieci tavole; ed avanti che le
confermassero, le messono in publico, acciocché ciascuno le
potesse leggere e disputarle; acciocché si conoscesse se vi
era alcun difetto, per poterle innanzi alla confermazione loro
emendare. Fece, in su questo, Appio nascere un romore per Roma, che,
se a queste dieci tavole se ne aggiugnesse due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione; talché questa opinione dette
occasione al popolo di rifare i Dieci per un altro anno: a che il
popolo s'accordò volentieri, sì perché i Consoli
non si rifacessono, sì perché e' pareva loro potere
stare sanza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come disopra si
disse. Preso, dunque, partito di rifarli, tutta la Nobilità si
mosse a cercare questi onori; ed intra i primi era Appio; ed usava
tanta umanità verso la plebe nel domandarlo, che la cominciò
a essere sospetta a' suoi compagni: "credebant enim haud
gratuitam in tanta superbia comitatem fore". E dubitando di
opporsegli apertamente, deliberarono farlo con arte, e benché
e' fusse minore di tempo di tutti dettono a lui autorità di
proporre i futuri Dieci al popolo, credendo ch'egli osservassi i
termini degli altri di non proporre sé medesimo, sendo cosa
inusitata e ignominiosa in Roma. "Ille vero impedimentum pro
occasione arripuit" e nominò sé intra i primi, con
maraviglia e dispiacere di tutti i nobili; nominò dipoi nove
altri, a suo proposito. La quale nuova creazione, fatta per uno altro
anno, cominciò a mostrare al Popolo ed alla Nobilità lo
errore suo. Perché subito "Appius finem fecit ferendae
alienae personae"; e cominciò a mostrare la innata sua
superbia, ed in pochi dì riempié de' suoi costumi i
suoi compagni. E per isbigottire il popolo ed il Senato in cambio di
dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette
la paura equale qualche giorno; ma cominciarono poi a intrattenere il
Senato, e batter la plebe: e se alcuno battuto dall'uno, appellava
all'altro, era peggio trattato nell'appellagione che nella prima
sentenzia. In modo che la Plebe, conosciuto lo errore suo, cominciò
piena di afflizione a riguardare in viso i nobili, "et inde
libertatis captare auram, unde servitutem timendo, in eum statum
rempublicam adduxerunt". E alla Nobilità era grata questa
loro afflizione, "ut ipsi, taedio praesentium, Consules
desiderarent". Vennono i dì che terminavano l'anno: le
due tavole delle leggi erano fatte, ma non publicate. Da questo i
Dieci presono occasione di continovare nel magistrato; e cominciarono
a tenere con violenza lo stato, e farsi satelliti della gioventù
nobile, alla quale davono i beni di quegli che loro condennavano.
"Quibus donis juventus corrumpebatur et malebat licentiam suam,
quam omnium libertatem". Nacque in questo tempo, che i Sabini ed
i Volsci mossero guerra a' Romani; in su la quale paura cominciarono
i Dieci a vedere la debolezza dello stato loro, perché sanza
il Senato non potevono ordinare la guerra, e, ragunando il Senato,
pareva loro perdere lo stato. Pure, necessitati, presono questo
ultimo partito; e ragunati i senatori insieme, molti de' senatori
parlarono contro alla superbia de' Dieci, e in particulare Valerio ed
Orazio: e l'autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se non
che il Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare l'autorità
sua pensando che, se i Dieci deponevano il magistrato voluntari, che
potesse essere che i Tribuni della plebe non si rifacessero.
Deliberossi dunque la guerra uscissi fuori con dua eserciti guidati
da parte di detti Dieci; Appio rimase a governare la città.
Donde nacque che si innamorò di Virginia, e che, volendola
tôrre per forza, il padre Virginio, per liberarla, l'ammazzò:
donde seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti: i quali riduttisi
insieme con il rimanente della plebe romana, se ne andarono nel Monte
Sacro, dove stettero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che
furono creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma
della sua antica libertà.
Notasi
adunque, per questo testo, in prima, essere nato in Roma questo
inconveniente di creare questa tirannide per quelle medesime cagioni
che nascano la maggior parte delle tirannidi nelle città: e
questo è da troppo desiderio del popolo, d'essere libero, e da
troppo desiderio de' nobili, di comandare. E quando e' non convengano
a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi qualcuna
delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide
surge. Convennono il popolo ed i nobili di Roma a creare i Dieci, e
crearli con tanta autorità, per il desiderio che ciascuna
delle parti aveva, l'una di spegnere il nome consolare, l'altra il
tribunizio. Creati che furono, parendo alla plebe che Appio fusse
diventato popolare e battessi la Nobilità, si volse il popolo
a favorirlo. E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di
dare riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha in
odio, e che quello uno sia savio, sempre interverrà ch'e'
diventerà tiranno di quella città. Perché egli
attenderà, insieme col favore del popolo, a spegnere la
Nobilità; e non si volterà mai alla oppressione del
popolo, se non quando e' l'arà spenta; nel quale tempo,
conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire. Questo
modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannide in le
republiche. E se questo modo avesse tenuto Appio, quella sua
tirannide arebbe presa più vita, e non sarebbe mancata sì
presto: ma e' fece tutto il contrario, né si potette governare
più imprudentemente; che, per tenere la tirannide, e' si fece
inimico di coloro che gliele avevano data e che gliele potevano
mantenere, ed inimico di quelli che non erano concorsi a dargliene e
che non gliene arebbono potuta mantenere; e perdessi coloro che gli
erano amici, e cercò di avere amici quegli che non gli
potevano essere amici. Perché, ancora che i nobili desiderino
tiranneggiare, quella parte della Nobilità che si truova fuori
della tirannide, è sempre inimica al tiranno; né quello
se la può guadagnare mai tutta, per l'ambizione grande e
grande avarizia che è in lei non potendo il tiranno avere né
tante ricchezze né tanti onori che a tutta satisfaccia. E così
Appio, lasciando il popolo ed accostandosi a' nobili, fece uno errore
evidentissimo, e per le ragioni dette di sopra, e perché, a
volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia più
potente chi sforza che chi è sforzato.
Donde
nasce che quegli tiranni che hanno amico l'universale ed inimici i
grandi, sono più sicuri, per essere la loro violenza sostenuta
da maggiori forze, che quella di coloro che hanno per inimico il
popolo e amica la Nobilità. Perché con quello favore
bastono a conservarsi le forze intrinseche: come bastarono a Nabide,
tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il Popolo romano lo assaltò:
il quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il Popolo, con
quello si difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In
quello altro grado per avere pochi amici dentro, non bastono le forze
intrinseche, ma gli conviene cercare di fuora. Ed hanno a essere di
tre sorte: l'una satelliti forestieri, che ti guardino la persona,
l'altra armare il contado, che faccia quello ufficio che arebbe a
fare la plebe, la terza accostarsi con vicini potenti che ti
difendino. Chi tiene questi modi e gli osserva bene, ancora ch'egli
avesse per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma
Appio non poteva fare questo, di guadagnarsi il contado, sendo una
medesima cosa il contado e Roma: e quel che poteva fare, non seppe:
talmente che rovinò ne' primi principii suoi. Fecero il Senato
ed il Popolo in questa creazione del Decemvirato errori grandissimi:
perché, avvenga che di sopra si dica, in quel discorso che si
fa del Dittatore, che quegli magistrati che si fanno da per loro, non
quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà; nondimeno
il popolo debbe, quando egli ordina i magistrati, fargli in modo che
gli abbino avere qualche rispetto a diventare scelerati. E dove e' si
debbe preporre loro guardia per mantenergli buoni, i Romani la
levarono, faccendolo solo magistrato in Roma, ed annullando tutti gli
altri, per la eccessiva voglia (come di sopra dicemo) che il Senato
aveva di spegnere i Tribuni, e la plebe di spegnere i Consoli; la
quale gli accecò in modo, che concorsono in tale disordine.
Perché gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno
come certi minori uccelli di rapina; ne' quali è tanto
desiderio di conseguire la loro preda, a che la natura gl'incita, che
non sentono uno altro maggiore uccello che sia loro sopra per
ammazzarli. Conoscesi, adunque, per questo discorso, come nel
principio preposi, lo errore del popolo romano, volendo salvare la
libertà, e gli errori di Appio, volendo occupare la tirannide.
Cap.
41
Saltare dalla umiltà alla superbia, dalla
piatà alla crudeltà, sanza i debiti mezzi, è
cosa imprudente e inutile.
Oltre agli altri termini male usati da Appio per mantenere la tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello ingannare la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata; furono ancora bene usati i termini che tenne perché i Dieci si avessono a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso contro alla opinione della Nobilità; fu bene usato creare compagni a suo proposito: ma non fu già bene usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra dico, mutare, in uno subito, natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che, sanza scusa niuna, ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo. Perché chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de' nuovi, che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e sanza amici, rovini.
Cap.
42
Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere.
Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura, quantunque buoni e bene ammaestrati; considerando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò a essere amica della tirannide per uno poco di utilità che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci, sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla malignità di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i latori di leggi delle republiche o de' regni a frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere impune errare.
Cap.
43
Quegli che combattono per la gloria propria, sono buoni e
fedeli soldati.
Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per l'ambizione d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono. Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni della inutilità de' soldati mercenari; i quali non hanno altra cagione che gli tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è né può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che voglino morire per te. Perché in quegli eserciti che non è un'affezione verso di quello per chi e' combattono, che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non può nascere, né questa gara, da altro che da' sudditi tuoi; è necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno fatto grandi profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma perché in loro non era quella medesima disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come prima il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorono a militare, ritornò in loro il medesimo animo; e per consequente, le loro imprese avevono il loro fine felice, secondo l'antica consuetudine loro.
Cap.
44
Una moltitudine sanza capo è inutile: e come è
non si debbe minacciare prima, e poi chiedere l'autorità.
Era la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità gli avevano abbandonati i loro capitani, e ridottosi nel Monte. E tanto era stimata l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro capi, niuno si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra appunto la inutilità d'una moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni militari, che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da ogni magistrato, e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima come impia, dicendo: "Crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis"; e consigliarongli che dovessono lasciare il fare menzione de' Dieci, e ch'egli attendessero a ripigliare l'autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe loro modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il tale male con essa; perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare di ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta a domandare a uno l'arme, sanza dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai l'arme in mano, soddisfare allo appetito tuo.
Cap.
45
È cosa di malo esemplo non osservare una legge fatta,
e massime dallo autore d'essa; e rinfrescare ogni di' nuove ingiurie
in una città, è, a chi la governa, dannosissimo.
Seguito
lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio citò
Appio innanzi al Popolo, a difendere la sua causa. Quello comparse
accompagnato da molti nobili: Virginio comandò che fusse messo
in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo.
Virginio diceva che non era degno di avere quella appellagione che
egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo che egli
aveva offeso: Appio replicava, come e' non avevano a violare quella
appellagione che gli aveva con tanto desiderio ordinata. Pertanto
egli fu incarcerato, ed avanti al dì del giudizio ammazzò
se stesso. E benché la scelerata vita di Appio meritasse ogni
supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le leggi, e tanto
più quella che era fatta allora. Perché io non credo
che sia cosa di più cattivo esemplo in una republica, che fare
una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la non è
osservata da chi l'ha fatta. Essendo Firenze, dopo al 94, stata
riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo Savonerola,
gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù
dello animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per
assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si potesse
appellare al Popolo dalle sentenzie che, per casi di stato, gli Otto
e la Signoria dessono; la quale legge persuase più tempo, e
con difficultà grandissima ottenne; occorse che, poco dopo la
confermazione d'essa, furono condannati a morte dalla Signoria, per
conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli appellare, non
furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più
riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente: perché,
se quella appellagione era utile, e' doveva farla osservare, se la
non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato
questo accidente, quanto che il frate, in tante predicazioni che fece
poi che fu rotta questa legge, non mai o dannò chi l'aveva
rotta, o lo scusò; come quello che dannare non la voleva come
cosa che gli tornava a proposito, e scusare non la poteva. Il che
avendo scoperto l'animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse
riputazione, e dettegli assai carico.
Offende
ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de'
tuoi cittadini nuovi umori per nuove ingiurie che a questo e quello
si facciano: come intervenne a Roma dopo il Decemvirato. Perché
tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi, furono accusati e
condennati; in modo che gli era uno spavento grandissimo in tutta la
Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non
fusse distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande
inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato
proveduto; il quale fece uno editto, che per uno anno non fusse
lecito a alcuno citare o accusare alcuno cittadino romano: il che
rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia
dannoso a una republica o a un principe, tenere con le continove pene
ed offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza dubbio non
si può tenere il più pernizioso ordine: perché
gli uomini che cominciono a dubitare di avere a capitare male, in
ogni modo si assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci,
e meno respettivi a tentare cose nuove. Però è
necessario o non offendere mai alcuno, o fare le offese a un tratto:
e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e
fermare l'animo.
Cap.
46
Li uomini salgono da una ambizione a un'altra; e prima si
cerca non essere offeso, dipoi si offende altrui.
Avendo il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel suo pristino grado ed in tanto maggiore quanto si erano fatte di molte leggi nuove in confermazione della sua potenza; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietassi. Nondimeno, per esperienza si vide in contrario; perché ogni dì vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire appunto le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobilità insuperbiva, quando l'altro si umiliava; e stando la plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevon fare pochi rimedi, perché, loro anche, erano violati. La Nobilità, dall'altra parte, ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce, nonpertanto aveva a caro che, avendosi a trapassare il modo, lo trapassassono i suoi, e non la plebe. E così il disiderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva ch'egli oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è che, mentre che gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e quella ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come se fusse necessario offendere o essere offeso. Vedesi, per questo, in quale modo, fra gli altri, le republiche si risolvono, ed in che modo gli uomini salgono da un'ambizione a un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca di Cesare, e verissima: "quod omnia mala exempla bonis initiis orta sunt". Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini che ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non potere essere offesi, non solamente dai privati, ma etiam da' magistrati: cercono, per poter fare questo, amicizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difenderli da' potenti: e perché questo pare virtuoso, inganna facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in tanto che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità che i privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che volerlo urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io dissi, di sopra, del pericolo ch'è nello urtare un inconveniente che abbi di già fatto assai augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine che bisogna, o cercare di spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o, lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne libera. Perché, venuto a' soprascritti termini, che i cittadini e magistrati abbino paura a offendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde una republica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i suoi cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.
Cap.
47
Gli uomini, come che s'ingannino ne' generali, ne'
particulari non s'ingannono.
Essendosi
il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il nome
consolare, e volendo che potessono essere fatti Consoli uomini
plebei, o che fusse diminuita la loro autorità; la Nobilità,
per non maculare l'autorità consolare né con l'una né
con l'altra cosa, prese una via di mezzo, e fu contenta che si
creassi quattro Tribuni con potestà consolare, i quali
potessono essere così plebei come nobili. Fu contenta a questo
la plebe, parendole spegnere il Consolato, ed avere in questo sommo
grado la parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile: che,
venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti
plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio
dice queste parole: "Quorum comitiorum eventus docuit, alios
animos in contentione libertatis et honoris, alios secundum deposita
certamina in incorrupto iudicio esse". Ed esaminando donde possa
procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle cose generali
s'ingannono assai, nelle particulari non tanto. Pareva generalmente
alla Plebe romana di meritare il Consolato, per avere più
parte in la città, per portare più pericolo nelle
guerre, per essere quella che con le braccia sue manteneva Roma
libera, e la faceva potente. E parendogli, come è detto,
questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere questa autorità
in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudicio degli uomini suoi
particularmente, conobbe la debolezza di quegli, e giudicò che
nessuno di loro meritasse quello che tutta insieme gli pareva
meritare. Talché, vergognatasi di loro, ricorse a quegli che
lo meritavano. Della quale diliberazione maravigliandosi meritamente
Tito Livio, dice queste parole: "Hanc modestiam aequitatemque et
altitudinem animi, ubi nunc in uno inveneris, quae tunc populi
universi fuit?".
In confirmazione di
questo, se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguito
in Capova da poi che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne. Per la
quale rotta sendo tutta sollevata Italia, Capova ancora stava per
tumultuare, per l'odio che era intra 'l popolo ed il Senato: e
trovandosi in quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e
conoscendo il pericolo che portava quella città di tumultuare,
disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobilità;
e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e narrò loro
l'odio che il popolo aveva contro di loro, ed i pericoli che
portavano di essere ammazzati da quello, e data la città a
Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi soggiunse che, se
volevano lasciare governare questa cosa a lui, farebbe in modo che si
unirebbono insieme; ma gli voleva serrare dentro al palagio, e, col
fare potestà al popolo di potergli gastigare, salvargli.
Cederono a questa sua opinione i Senatori; e quello chiamò il
popolo a concione, avendo rinchiuso in palagio il Senato; e disse
com'egli era venuto il tempo che potevano domare la superbia della
Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella,
avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perché
credeva che loro non volessono che la loro città rimanessi
sanza governo, era necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi,
crearne de' nuovi: e per tanto aveva messo tutti i nomi de' Senatori
in una borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli
farebbe, i tratti, di mano in mano morire, come prima loro avessono
trovato il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di
quello levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo,
crudele ed arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio,
si racchetò tutta la concione; e dopo alquanto spazio, fu
nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a
fischiare, chi a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno
altro. E così seguitando di mano in mano, tutti quegli che
furono nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. Di modo
che Pacuvio, preso sopra questo occasione, disse: Poiché voi
giudicate che questa città stia male sanza il Senato, e, a
fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia
bene che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in
la quale i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo
raumiliare che quella umanità che voi cercavi altrove,
troverrete in loro. Ed accordatisi a questo, ne seguì la
unione di questo ordine; e quello inganno in che egli erano si
scoperse, come e' furno costretti venire a' particulari. Ingannonsi,
oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli
accidenti di esse; le quali, dipoi si conoscono particularmente,
mancano di tale inganno.
Dopo il 1494,
sendo stati i principi della città cacciati da Firenze, e non
vi essendo alcuno governo ordinato, ma più tosto una certa
licenza ambiziosa, ed andando le cose publiche di male in peggio;
molti popolari, veggendo la rovina della città, e non ne
intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di qualche
potente che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo
proposito, e tôrre loro la libertà; e stavano questi
tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molti cittadini,
minacciandogli che, se mai si trovassino de' Signori, scoprirebbero
questo loro inganno, e gli gastigarebbero. Occorreva spesso che di
simili ne ascendeva al supremo magistrato; e come egli era salito in
quel luogo, e che vedeva le cose più da presso, conosceva i
disordini donde nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la
difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli
uomini, causavano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e
d'un'altra fatta; perché la cognizione delle cose particulari
gli toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si
aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima,
quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo
magistrato stare quieto, credevono che nascessi, non per più
vera cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e
corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e molte
volte, ne nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno uno
animo in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto
quello si è discorso, si vede come e' si può fare tosto
aprire gli occhi a' popoli, trovando modo, veggendo che uno generale
gl'inganna, ch'egli abbino a discendere a' particulari; come fece
Pacuvio in Capova, ed il Senato in Roma. Credo ancora, che si possa
conchiudere, che mai un uomo prudente non debba fuggire il giudicio
populare nelle cose particulari, circa le distribuzioni de' gradi e
delle dignità: perché solo in questo il popolo non
s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che
s'inganneranno più volte i pochi uomini che avessono a fare
simili distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare, nel
seguente capitolo, l'ordine che teneva il Senato per ingannare il
popolo nelle distribuzioni sue.
Cap.
48
Chi vuole che uno magistrato non sia dato a uno vile
o a uno cattivo, lo facci domandare o a uno troppo vile e troppo
cattivo o a uno troppo nobile e troppo buono.
Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussero fatti d'uomini plebei, teneva uno de' due modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente, per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio vile ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di migliore qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo domandassono. Questo ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la si vergognava a torlo. Il che tutto torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il popolo, se s'inganna de' generali, de' particulari non s'inganna.
Cap.
49
Se quelle cittadi che hanno avuto il principio libero, come
roma, hanno difficultà a trovare legge che le mantenghino:
quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno quasi una
impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a tutte quelle leggi che la mantengono libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica romana: dove, non ostante che fussono ordinate di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa, da Tullo Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creati a simile opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno di quegli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse in libertà. Perché, diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani differissono più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tale magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamerco dittatore, il quale per nuova legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i Censori, che vegghiavano ebbero tanto per male, che privarono Mamerco del Senato: la quale cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai biasimata. E perché la istoria non mostra che Mamerco se ne potessi difendere, conviene o che lo istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché e' non è bene che una republica sia in modo ordinata, che uno cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso. Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la creazione di questo nuovo magistrato, considerare che, se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che per sé medesimo si è retto, come Roma, hanno difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere; non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo, abbino, non che difficultà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo Imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui, stette un tempo abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così è ita maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza avere mai avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata republica. E queste difficultà, che sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E, benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia data ampla autorità a pochi cittadini di potere riformarla; non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto, non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire a qualche esemplo particulare, dico come, intra le altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una republica è esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perché e' si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fosse occorso cosa importante, dove il differire la esecuzione mediante l'appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al quale rimedio non refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in libertà, mantennono questa autorità in uno forestiero, il quale chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da' cittadini potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine, crearono otto cittadini che facessino l'uffizio di quel capitano. El quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le ragioni che altre volte sono dette; che i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de' più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che, sanza appello, possono punire ogni cittadino. E perché e' non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno constituito la Quarantia: e di più, hanno voluto che il Consiglio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo accusatore, non vi manca il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è adunque maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata da sé medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni dì nuove cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del viver libero; se nell'altre città, che hanno più disordinato principio, vi surgano tante difficultà, che le non si possino riordinarsi mai.
Cap.
50
Non debba uno consiglio o uno magistrato potere fermare le
azioni delle città.
Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i quali, sendo disuniti, avevono ferme tutte le azioni di quella Republica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non potevon fare. Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa, solo in questo erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali, con l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a ubbidire. Dove si ha a notare, in prima, la utilità del Tribunato; il quale non era solo utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contro alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna diliberazione di quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere la republica. Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno consiglio di fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perché ci l'abbia a fare in ogni modo, o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare uno altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli Consoli non si poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica viniziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili: occorreva alle volte che l'universalità, per isdegno o per qualche falsa persuasione, non creava i successori a' magistrati della città, ed a quelli che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo: perché in un tratto, e le terre suddite e la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio o non si soddisfaceva o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse proveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati che sono o fusseno dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando fussono fatti gli scambi e i successori loro. E così si tolse la commodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della republica, fermare le azioni publiche.
Cap.
51
Una republica o uno principe debbe mostrare di fare
per liberalità quello a che la necessità lo constringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro azione, ancora che la necessità gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando ei diliberò, che si desse il soldo del publico agli uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per questo non potendo né assediare terre né condurre gli eserciti discosto; e giudicando essere necessario potere fare l'uno e l'altro, deliberò che si dessono detti stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a che la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla plebe questo presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza, parendole uno beneficio grande, quale mai speravono di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non alleggeriva, la plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare questo soldo: nientedimeno non potevano fare tanto che la plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il modo che distribuivano i tributi, perché i più gravi e i maggiori furono quelli ch'ei posano alla Nobilità, e gli primi che furono pagati.
Cap.
52
A reprimere la insolenzia d'uno che surga in una republica
potente, non vi e più sicuro e meno scandoloso modo, che
preoccuparli quelle vie per le quali viene a quella potenza.
Vedesi,
per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la Nobilità
con la plebe, per le dimostrazioni lette in beneficio suo, sì
del soldo ordinato, sì ancora del modo del porre i tributi.
Nel quale ordine se la Nobilità si fosse mantenuta, si sarebbe
levato via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi tolto ai
Tribuni quel credito che gli avevano con la plebe, e, per
consequente, quella autorità. E veramente, non si può
in una republica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior
modo, meno scandoloso e più facile, opporsi all'ambizione di
alcuno cittadino, che preoccupandogli quelle vie, per le quali si
vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna. Il quale
modo se fusse stato usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato
miglior partito assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da
Firenze: perché, se quegli cittadini che gareggiavano seco
avessero preso lo stile suo, di favorire il popolo, gli venivano,
sanza tumulto e sanza violenza, a trarre di mano quelle armi di che
egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto riputazione
nella città di Firenze con questo solo, di favorire
l'universale; il che nello universale gli dava riputazione, come
amatore della libertà della città. E veramente, a
quegli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era molto
più facile, ed era cosa molto più onesta, meno
pericolosa, e meno dannosa per la republica, preoccupargli quelle vie
con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli, acciocché
con la rovina sua rovinassi tutto il restante della republica.
Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi con le
quali si faceva gagliardo (il che potevono fare facilmente), arebbono
potuto in tutti i consigli e in tutte le diliberazioni publiche
opporsegli sanza sospetto e sanza rispetto alcuno. E se alcuno
replicasse che, se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore a
non gli preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava riputazione
nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non preoccupare
quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevono temere. Di
che Piero merita scusa, si perché gli era difficile il farlo,
si perché le non erano oneste a lui; imperocché le vie
con le quali era offeso, erano il favorire i Medici; con li quali
favori essi lo battevano, ed alla fine lo rovinarono. Non poteva,
pertanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per non potere
distruggere con buona fama quella libertà, alla quale egli era
stato preposto guardia: dipoi, non potendo questi favori farsi
segreti e a un tratto, erano per Piero pericolosissimi; perché
comunche ei si fusse scoperto amico ai Medici, sarebbe diventato
sospetto ed odioso al popolo: donde ai nimici suoi nasceva molto più
commodità di opprimerlo, che non avevano prima.
Debbono,
pertanto, gli uomini in ogni partito considerare i difetti ed i
pericoli di quello, e non gli prendere, quando vi sia più del
pericoloso che dell'utile; nonostante che ne fussi stata data
sentenzia conforme alla diliberazione loro. Perché, faccendo
altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli come intervenne a
Tullio; il quale, volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene
accrebbe. Perché, sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico
del Senato, ed avendo quello grande esercito insieme adunato, in
buona parte, de' soldati che avevano seguitato le parte di Cesare;
Tullio, per torgli questi soldati, confortò il Senato a dare
riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con Irzio e Pansa consoli contro
a Marc'Antonio: allegando, che, subito che i soldati che seguivano
Marc'Antonio, sentissero il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che
si faceva chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a
costui; e così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe
facile lo opprimerlo. La quale cosa riuscì tutta al contrario;
perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e, lasciato
Tullio e il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al
tutto la distruzione della parte degli ottimati. Il che era facile a
conietturare: né si doveva credere quel che si persuase
Tullio, ma tener sempre conto di quel nome che con tanta gloria aveva
spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; né
si doveva credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi fautori,
avere cosa che fosse conforme al nome libero.
Cap.
53
Il popolo molte volte disidera la rovina sua, ingannato da
una falsa spezie di beni: e come le grandi speranze e gagliarde
promesse facilmente lo muovono.
Espugnata
che fu la città de' Veienti, entrò nel popolo romano
un'opinione, che fosse cosa utile per la città di Roma, che la
metà de' Romani andasse ad abitare a Veio; argomentando che,
per essere quella città ricca di contado, piena di edificii e
propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de' cittadini
romani, e non turbare per la propinquità del sito nessuna
azione civile. La quale cosa parve al Senato ed a' più savi
Romani tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente dicevano,
essere più tosto per patire la morte che consentire a una tale
diliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa, si accese
tanto la plebe contro al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed
al sangue, se il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed
estimati cittadini, la riverenza de' quali frenò la plebe, che
la non procedé più avanti con la sua insolenzia. Qui si
hanno a notare due cose. La prima che il popolo molte volte,
ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se
non gli è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il
bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche
infiniti pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non
abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato
ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla
rovina, di necessità. E Dante dice a questo proposito, nel
discorso suo che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida
Viva la sua morte! e Muoia la sua vita! Da questa incredulità
nasce che qualche volta in le republiche i buoni partiti non si
pigliono: come di sopra si disse de' Viniziani, quando, assaltati da
tanti inimici, non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno
con la restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era mosso
loro la guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro), avanti
che la rovina venisse.
Pertanto,
considerando quello che è facile o quello che è
difficile persuadere a uno popolo, si può fare questa
distinzione: o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima
fronte guadagno, o perdita; o veramente ci pare partito animoso, o
vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo, si vede
guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e' pare
animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica,
sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così
fia sempre difficile persuadere quegli partiti dove apparisse o viltà
o perdita, ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno.
Questo che io ho detto, si conferma con infiniti esempli, romani e
forestieri, moderni ed antichi. Perché da questo nacque la
malvagia opinione che surse, in Roma, di Fabio Massimo, il quale non
poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella
Republica procedere lentamente in quella guerra, e sostenere sanza
azzuffarsi l'impeto d'Annibale; perché quel popolo giudicava
questo partito vile, e non vi vedeva dentro quella utilità vi
era; né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e
tanto sono i popoli accecati in queste opinioni gagliarde, che,
benché il Popolo romano avesse fatto quello errore di dare
autorità al Maestro de' cavagli di Fabio, di potersi
azzuffare, ancora che Fabio non volesse; e che per tale autorità
il campo romano fusse per essere rotto, se Fabio con la sua prudenza
non vi rimediava, non gli bastò questa isperienza, che fece di
poi consule Varrone, non per altri suoi meriti che per avere, per
tutte le piazze e tutti i luoghi publici di Roma, promesso di rompere
Annibale, qualunque volta gliene fusse data autorità. Di che
ne nacque la zuffa e la rotta di Canne, e presso che la rovina di
Roma. Io voglio addurre, a questo proposito, ancora uno altro esemplo
romano. Era stato Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno
di occisione de' Romani tutta questa provincia, quando venne in
Senato Marco Centenio Penula, uomo vilissimo ( nondimanco aveva avuto
qualche grado nella milizia), ed offersesi, che, se gli davano
autorità di potere fare esercito d'uomini volontari in
qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe loro, in brevissimo
tempo, preso o morto Annibale. Al Senato parve la domanda di costui
temeraria; nondimeno, ei, pensando, che s' ella se gli negasse e nel
popolo si fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne nascesse
qualche tumulto, invidia e mal grado contro all'ordine senatorio,
gliene concessono: volendo più tosto mettere a pericolo tutti
coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi sdegni nel popolo;
sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e quanto
fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui con una
moltitudine inordinata ed inconposta a trovare Annibale; e non gli fu
prima giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo
seguitarono, rotto e morto.
In Grecia,
nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo e
prudentissimo, persuadere a quel Popolo che non fusse bene andare a
assaltare Sicilia; talché, presa quella diliberazione contro
alla voglia de' savi, ne seguì al tutto la rovina di Atene.
Scipione, quando fu fatto consolo, e che desiderava la provincia di
Africa, promettendo al tutto la rovina di Cartagine, a che non si
accordando il Senato per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò
di proporla nel Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto
simili diliberazioni piaccino a' popoli.
Potrebbesi
a questo proposito dare esempli della nostra città; come fu
quando messere Ercole Bentivogli governatore delle genti fiorentine,
insieme con Antonio Giacomini, poiché ebbono rotto Bartolommeo
d'Alviano a San Vincenti andarono a campo a Pisa la quale impresa fu
diliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di messere Ercole,
ancora che molti savi cittadini la biasimassero: nondimeno non vi
ebbono rimedio, spinti da quella universale volontà, la quale
era fondata in su le promesse gagliarde del governatore. Dico,
adunque, come e' non è la più facile via a fare
rovinare una republica dove il popolo abbia autorità, che
metterla in imprese gagliarde; perché, dove il popolo sia di
alcuno momento, sempre fiano accettate, né vi arà, chi
sarà d'altra opinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce
la rovina della città, ne nasce ancora, e più spesso,
la rovina particulare de' cittadini che sono preposti a simili
imprese: perché, avendosi il popolo presupposto la vittoria,
come ei viene la perdita, non ne accusa né la fortuna né
la impotenzia di chi ha governato, ma la malvagità e ignoranza
sua; e quello, il più delle volte, o ammazza o imprigiona o
confina: come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi ed a molti
Ateniesi. Né giova loro alcuna vittoria che per lo addietro
avessero avuta, perché tutto la presente perdita cancella:
come intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale, non avendo
espugnata Pisa, come il popolo si aveva presupposto ed egli promesso,
venne in tanta disgrazia popolare, che, non ostante infinite sue
buone opere passate, visse più per umanità di coloro
che ne avevano autorità, che per alcuna altra cagione che nel
popolo lo difendesse.
Cap.
54
Quanta autorità abbi uno uomo grave a frenare una
moltitudine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro; né sanza cagione dice Virgilio:
tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
conspexere, silent, arrectisque auribus adstant.
Per tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove nascesse tumulto debba rappresentarsi in su quello con maggiore grazia e più onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di quello grado che tiene, per farsi più riverendo. Era, pochi anni sono, Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che così si chiamavano; e venendo all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era Pagolantonio Soderini, assai in quegli tempi riputato cittadino, ed andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla; messere Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava a sorte in casa; il quale, subito sentito il romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e con la presenzia e con le parole gli fermò; la quale cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque, come e' non è il più fermo né il più necessario rimedio a frenare una moltitudine concitata, che la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio, perché lo giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e come, nascendone assai tumulti, ne sarebbe nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore.
Cap.
55
Quanto facilmente si conduchino le cose in quella città
dove la moltitudine non è corrotta: e che, dove è
equalità, non si può fare principato; e dove la non è,
non si può fare republica.
Ancora
che di sopra si sia discorso assai quello è da temere o
sperare delle cittadi corrotte, nondimeno non mi pare fuori di
proposito considerare una diliberazione del Senato circa il voto che
Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a Apolline della preda
de' Veienti: la quale preda sendo venuta nelle mani della Plebe
romana, né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece il
Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la
decima parte di quello ch'egli aveva predato. E benché tale
diliberazione non avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro
modo, e per altra via sodisfatto a Apolline, in sodisfazione della
plebe; nondimeno si vede per tale diliberazione quanto quel Senato
confidava nella bontà di quella, e come ei giudicava che
nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto quello che per tale
editto gli era comandato. E dall'altra parte si vede come la plebe
non pensò di fraudare in alcuna parte lo editto con il dare
meno che non doveva, ma di liberarsi di quello con il mostrarne
aperte indegnazioni. Questo esemplo, con molti altri che di sopra si
sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse
in quel popolo, e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente,
dove non è questa bontà, non si può sperare
nulla di bene; come non si può sperare nelle provincie che in
questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte
l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione
ritengono parte. E se in quelle provincie non si vede tanti disordini
quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non tanto dalla bontà
de' popoli, la quale in buona parte è mancata, quanto dallo
avere uno re che gli mantiene uniti, non solamente per la virtù
sua, ma per l'ordine di quegli regni, che ancora non sono guasti.
Vedesi bene, nella provincia della Magna, questa bontà e
questa religione ancora in quelli popoli essere grande; la quale fa
che molte republiche vi vivono libere, ed in modo osservono le loro
leggi che nessuno di fuori né di dentro ardisce occuparle. E
che e' sia vero che, in loro, regni buona parte di quella antica
bontà, io ne voglio dare uno esemplo simile a questo, detto di
sopra, del Senato e della plebe romana. Usono quelle republiche,
quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere alcuna quantità
di danari per conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne
hanno autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città
uno per cento, o due, di quello che ciascuno ha di valsente. E fatta
tale diliberazione, secondo l'ordine della terra si rappresenta
ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso prima il
giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a ciò
diputata quello che secondo la conscienza sua gli pare dovere pagare:
del quale pagamento non è testimone alcuno, se non quello che
paga. Donde si può conietturare quanta bontà e quanta
religione sia ancora in quegli uomini. E debbesi stimare che ciascuno
paghi la vera somma: perché, quando la non si pagasse, non
gitterebbe quella imposizione quella quantità che loro
disegnassero secondo le antiche che fossino usitate riscuotersi, e
non gittando, si conoscerebbe la fraude: e conoscendo si arebbe preso
altro modo che questo. La quale bontà è tanto più
da ammirare in questi tempi, quanto ella è più rada:
anzi si vede essere rimasa solo in quella provincia.
Il
che nasce da dua cose: l'una, non avere avute conversazioni grandi
con i vicini; perché né quelli sono iti a casa loro, né
essi sono iti a casa altrui, perché sono stati contenti di
quelli beni, vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane, che dà
il paese; d'onde è stata tolta via la cagione d'ogni
conversazione, ed il principio d'ogni corruttela; perché non
hanno possuto pigliare i costumi, né franciosi, né
spagnuoli, né italiani; le quali nazioni tutte insieme sono la
corruttela del mondo. L'altra cagione è, che quelle republiche
dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non
sopportono che alcuno loro cittadino né sia né viva a
uso di gentiluomo: anzi mantengono intra loro una pari equalità,
ed a quelli signori e gentiluomini, che sono in quella provincia,
sono inimicissimi; e se per caso alcuni pervengono loro nelle mani,
come principii di corruttele e cagione d'ogni scandolo, gli
ammazzono. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia,
dico che gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle
rendite delle loro possessioni abbondantemente, sanza avere cura
alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere.
Questi tali sono perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia,
ma più perniziosi sono quelli che, oltre alle predette
fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a
loro. Di queste due spezie di uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in
quelle provincie non è mai surta alcuna republica né
alcuno vivere politico; perché tali generazioni di uomini sono
al tutto inimici d'ogni civilità. Ed a volere in provincie
fatte in simil modo introdurre una republica, non sarebbe possibile:
ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra
via che farvi uno regno. La ragione è questa che, dove è
tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi
bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale è
una mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno
alla eccessiva ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa
ragione con lo esemplo di Toscana: dove si vede in poco spazio di
terreno state lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le
altre città di quella provincia essere in modo serve, che, con
lo animo e con l'ordine, si vede o che le mantengono o che le
vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per
non essere in quella provincia alcuno signore di castella, e nessuno
o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta equalità, che
facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità
avesse cognizione, vi s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma lo
infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi tempi
non si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o saputo
fare.
Trassi adunque di questo discorso
questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai
gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli
spegne tutti: e che colui che, dov'è assai equalità,
vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare
se non trae di quella equalità molti d'animo ambizioso ed
inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome, donando
loro castella e possessioni, e dando loro favore di sustanze e di
uomini; acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli
mantenga la sua potenza; ed essi, mediante quello, la loro ambizione;
e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e
non altro mai, può fare sopportare loro. Ed essendo per questa
via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi
gli uomini ciascuno negli ordini loro. E perché il fare d'una
provincia atta a essere regno una republica, e d'una atta a essere
republica farne uno regno, è materia da uno uomo che per
cervello e per autorità sia raro: sono stati molti che lo
hanno voluto fare e pochi che lo abbino saputo condurre. Perché
la grandezza della cosa, parte sbigottisce gli uomini, parte in modo
gl'impedisce, che ne' principii primi mancano.
Credo
che a questa mia opinione, che dove sono gentiluomini non si possa
ordinare republica, parrà contraria la esperienza della
Republica viniziana, nella quale non possono avere alcuno grado se
non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo
esemplo non ci fa alcuna oppugnazione, perché i gentiluomini
in quella Republica sono più in nome che in fatto; perché
loro non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze
grandi fondate in sulla mercanzia e cose mobili, e di più,
nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli
uomini: ma quel nome di gentiluomo in loro è nome di degnità
e di riputazione, sanza essere fondato sopra alcuna di quelle cose
che fa che nell'altre città si chiamano i gentiluomini. E come
le altre republiche hanno tutte le loro divisioni sotto vari nomi,
così Vinegia si divide in gentiluomini e popolari: e vogliono
che quegli abbino, ovvero possino avere, tutti gli onori; quelli
altri ne siano al tutto esclusi. Il che non fa disordine in quella
terra, per le ragioni altra volta dette. Constituisca, adunque, una
republica colui dove è, o è fatta, una grande equalità;
ed all'incontro ordini un principato dove è grande inequalità:
altrimenti farà cosa sanza proporzione e poco durabile.
Cap.
56
Innanzi che seguino i grandi accidenti in una città o
in una provincia, vengono segni che gli pronosticono, o uomini che
gli predicano.
Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli, che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo, come, avanti alla morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua più alta parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa ciascuno ancora, come, poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi, oltre a di questo, addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio, lascerò. Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi a Roma: cioè, come uno Marco Cedicio plebeio riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce, maggiore che umana, la quale lo ammuniva che riferissi a' magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia da essere discorsa e interpretata da uomo che abbi notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno di intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose future, ed avendo compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere la verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle provincie.
Cap.
57
La plebe insieme è gagliarda, di per sé è
debole.
Erano molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la rovina della loro patria, andati ad abitare a Veio, contro la constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno, infra certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma. De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole "Ex ferocibus universis singuli metu suo obedientes fuere". E veramente, non si può mostrare meglio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo testo. Perché la moltitudine è audace nel parlare, molte volte contro alle diliberazioni del loro principe; dipoi, come ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo che, di quel che si dica uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere, s'egli è bene disposto; s'egli è male disposto, da potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra cagione che o per avere perduto la libertà o il loro principe stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male disposizioni che nascono da queste cagioni sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e' non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto, più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e, dall'altra parte, non è cosa più debole: perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da poter fuggire il primo empito; perché quando gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro o col fuggirsi o con l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sé medesima uno capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la plebe romana, quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro sempre quel che dice Tito Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole.
Cap.
58
La moltitudine è più savia e più
costante che uno principe.
Nessuna
cosa essere più vana e più incostante che la
moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri
istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le
azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a
morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si
vede aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale
avendo condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le
parole dello autore sono queste: "Populum brevi, posteaquam ab
eo periculum nullum erat, desiderium eius tenuit". Ed altrove,
quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte di
Girolamo nipote di Ierone, dice: "Haec natura multitudinis est:
aut humiliter servit, aut superbe dominatur". Io non so se io mi
prenderò una provincia dura e piena di tanta difficultà,
che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico;
volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli
scrittori è accusata. Ma, comunque si sia, io non giudico né
giudicherò mai essere difetto difendere alcuna opinione con le
ragioni, sanza volervi usare o l'autorità o la forza. Dico,
adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori la
moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini particularmente,
e massime i principi; perché ciascuno, che non sia regolato
dalle leggi, farebbe quelli medesimi errori che la moltitudine
sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perché
ei sono e sono stati assai principi, e de' buoni e de' savi ne sono
stati pochi: io dico de' principi che hanno potuto rompere quel freno
che gli può correggere; intra i quali non sono quegli re che
nascevano in Egitto, quando, in quella antichissima antichità,
si governava quella provincia con le leggi; né quegli che
nascevano in Sparta; né quegli che a' nostri tempi nascano in
Francia; il quale regno è moderato più dalle leggi che
alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si abbia notizia. E questi
re che nascono sotto tali constituzioni non sono da mettere in quel
numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo per
sé, e vedere s'egli è simile alla moltitudine; perché
a rincontro si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata
dalle leggi come sono loro; e si troverrà in lei essere quella
medesima bontà che noi vediamo essere in quelli, e vedrassi
quella né superbamente dominare né umilmente servire:
come era il popolo romano, il quale, mentre durò la Republica
incorrotta, non servì mai umilmente né mai dominò
superbamente; anzi con li suoi ordini e magistrati tenne il suo grado
onorevolmente. E quando era necessario commuoversi contro a un
potente, lo faceva; come si vide in Manlio, ne' Dieci ed in altri che
cercorono opprimerla: e quando era necessario ubbidire a' Dittatori
ed a' Consoli per la salute publica, lo faceva. E se il popolo romano
desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia, perché
ei desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la
memoria di esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto
forza di fare quel medesimo effetto in un principe, perché la
è sentenzia di tutti gli scrittori, come la virtù si
lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra tanto
desiderio, fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di prigione, che
poco di poi lo condannò a morte; nonostante che si vegga de'
principi, tenuti savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e
poi sommamente desideratola: come Alessandro, Clito ed altri suoi
amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo istorico nostro dice
della natura della moltitudine, non dice di quella che è
regolata dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta, come era
la siragusana: la quale fece quegli errori che fanno gli uomini
infuriati e sciolti, come fece Alessandro Magno, ed Erode, ne' casi
detti. Però non è più da incolpare la natura
della moltitudine che de' principi, perché tutti equalmente
errano, quando tutti sanza rispetto possono errare. Di che, oltre a
quel che ho detto, ci sono assai esempli, ed intra gl'imperadori
romani, ed intra gli altri tiranni e principi; dove si vede tanta
incostanzia e tanta variazione di vita, quanta mai non si trovasse in
alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque,
contro alla commune opinione; la quale dice come i popoli, quando
sono principi, sono varii, mutabili ed ingrati; affermando che in
loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne' principi
particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme,
potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s'inganna: perché
un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile,
prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un
principe, eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un principe,
sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più
che un popolo. E che la variazione del procedere loro nasce non dalla
natura diversa, perché in tutti è a un modo, e, se vi è
vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o
meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l'uno e l'altro vive. E
chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato
per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria
e del bene commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati
da lui, che testimoniano l'una cosa e l'altra. E se alcuno mi
allegasse la ingratitudine ch'egli usò contra a Scipione,
rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in questa
materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati de'
principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico,
come un popolo è più prudente, più stabile e di
migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si assomiglia
la voce d'un popolo a quella di Dio: perché si vede una
opinione universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi;
talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo
male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime
volte, quando egli ode duo concionanti che tendino in diverse parti,
quando ei sono di equale virtù, che non pigli la opinione
migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode.
E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice,
egli erra; molte volte erra ancora un principe nelle sue proprie
passioni, le quali sono molte più che quelle de' popoli.
Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di lunga,
migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà
a un popolo, che sia bene tirare alle degnità uno uomo infame
e di corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie si persuade
a un principe. Vedesi uno popolo cominciare ad avere in orrore una
cosa, e molti secoli stare in quella opinione: il che non si vede in
un principe. E dell'una e dell'altra di queste due cose voglio mi
basti per testimone il popolo romano: il quale in tante centinaia
d'anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro
elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto,
tanto in odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno suo
cittadino, che tentasse quel nome, poté fargli fuggire le
debite pene. Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli
sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto
maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno principe: come
fece Roma dopo la cacciata de' re, ed Atene da poi che la si liberò
da Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che
sono migliori governi quegli de' popoli che quegli de' principi. Né
voglio che si opponga a questa mia opinione tutto quello che lo
istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in qualunque altro;
perché, se si discorreranno tutti i disordini de' popoli,
tutti i disordini de' principi, tutte le glorie de' popoli e tutte
quelle de' principi, si vedrà il popolo di bontà e di
gloria essere, di lunga, superiore. E se i principi sono superiori a'
popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed
ordini nuovi; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose
ordinate, ch'egli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che
l'ordinano.
Ed insomma, per conchiudere
questa materia, dico come hanno durato assai gli stati de' principi,
hanno durato assai gli stati delle republiche, e l'uno e l'altro ha
avuto bisogno d'essere regolato dalle leggi: perché un
principe che può fare ciò ch'ei vuole, è pazzo;
un popolo che può fare cio che vuole, non è savio. Se,
adunque, si ragionerà d'un principe obligato alle leggi, e
d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù
nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell'uno e
dell'altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel
principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che
a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono
essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella via
buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né
vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare
coniettura della importanza della malattia dell'uno e dell'altro: ché
se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a quella del
principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non
giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori.
Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che
quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che ne
può nascere, potendo nascere, infra tanta confusione, uno
tiranno. Ma ne' principi cattivi interviene il contrario: che si teme
il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che
la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì
che vedete la differenza dell'uno e dell'altro, la quale è
quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le crudeltà
della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene
commune: quelle d'un principe sono contro a chi ei temano che occupi
il bene proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché
de' popoli ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora
mentre che regnano: de' principi si parla sempre con mille paure e
mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché
questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali
confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte
con una republica, o di quelle fatte con uno principe.
Cap.
59
Di quale confederazione o lega altri si può più
fidare; o di quella fatta con una republica, o di quella fatta con
uno principe.
Perché, ciascuno dì, occorre che l'uno principe con l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno lega ed amicizia insieme: ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una republica ed uno principe: mi pare da esaminare qual fede è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando tutto, credo che in molti casi ei sieno simili ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo, per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno né da uno principe né da una republica osservati; credo che, quando la paura dello stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che, sendo rotto da' suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come in città amica ed a lui obligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo adietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria dalla republica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in fatto la medesima fede. E se si troverrà o una republica o uno principe, che, per osservarti la fede, aspetti di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d'uno principe potente, che, se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare né fede né accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli principi del reame di Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle republiche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo, computato ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si troverrà qualche stabilità più nelle republiche, che ne' principi. Perché, sebbene le republiche avessero quel medesimo animo e quella medesima voglia che uno principe, lo avere il moto loro tardo, farà che le perranno sempre più a risolversi che il principe, e per questo perranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le republiche sono, di lunga, più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre esempli, dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe, e dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede a una republica: come fu quello partito che propose Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella concione disse che aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma non lo poteva dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò come l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Temistocle essere utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato con il rompere la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per cagioni istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa fidar più di lui che del principe.
Cap.
60
Come il consolato e qualunque altro magistrato in Roma si
dava sanza rispetto di età.
Ei si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana, poiché il Consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo in ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il Consolato era "praemium virtutis, non sanguinis". La quale cosa se fu bene considerata o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: perché e' non si può dare agli uomini disagio sanza premio, né si può tôrre loro la speranza di conseguire il premio sanza pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe avessi speranza di avere il Consolato: e di questa speranza si nutrì un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la speranza, che e' convenne che si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo come altrove si disputò: ma quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha replica anzi è necessaria: perché nello eleggere uno giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua notabilissima azione. E quando uno giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che l'avesse a aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell'animo e quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si poteva valere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di molti altri, che trionfarono giovanissimi.