Niccolò Machiavelli
DISCORSI
SOPRA LA PRIMA DECADE
DI TITO LIVIO
LIBRO II
Laudano
sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi,
e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate
partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono
state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori,
conosciute; ma quelle ancora che, sendo già vecchi, si
ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro
opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi
persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono.
E la prima credo sia, che delle cose antiche non s'intenda al tutto
la verità; e che di quelle il più delle volte si
nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e
quelle altre che possano partorire loro gloria, si rendino magnifiche
ed amplissime. Perché il più degli scrittori in modo
alla fortuna de' vincitori ubbidiscano, che, per fare le loro
vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da loro è
virtuosamente operato, ma ancora le azioni de' nimici in modo
illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque delle due
provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di
maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli uomini le
cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente due
potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti potendo
quelle offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al
contrario interviene di quelle cose che si maneggiano e veggono; le
quali, per la intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna
parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene molte
altre cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche
molto inferiori, ancora che, in verità, le presenti molto più
di quelle di gloria e di fama meritassoro: ragionando, non delle cose
pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in sé,
che i tempi possono tôrre o dare loro poco più gloria
che per loro medesime si meritino; ma parlando di quelle pertinenti
alla vita e costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono sì
chiari testimoni.
Replico, pertanto,
essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta:
ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perché
qualche volta è necessario che giudichino la verità;
perché, essendo le cose umane sempre in moto, o le salgano, o
le scendano. E vedesi una città o una provincia essere
ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente, ed, un tempo,
per la virtù di quello ordinatore, andare sempre in augumento
verso il meglio. Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi più
gli antichi tempi che i moderni, s'inganna; ed è causato il
suo inganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che
nascano dipoi, in quella città o provincia, che gli è
venuto il tempo che la scende verso la parte più ria, allora
non s'ingannano. E pensando io come queste cose procedino, giudico il
mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere
stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e
questo buono, di provincia in provincia: come si vede per quello si
ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall'uno all'altro
per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo.
Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata
la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in
Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo
Imperio romano non è seguito Imperio che sia durato, né
dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme, si vede
nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva
virtuosamente; come era il regno de' Franchi, il regno de' Turchi,
quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella setta
Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo,
poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte
queste provincie, adunque, poiché i Romani rovinorno, ed in
tutte queste sètte è stata quella virtù, ed è
ancora in alcuna parte di esse, che si disidera, e che con vera laude
si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati più
che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in
Grecia, e non sia diventato o in Italia oltramontano o in Grecia
turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri:
perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno
maravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da
ogni estrema miseria, infamia e vituperio: dove non è
osservanza di religione, non di leggi, non di milizia; ma sono
maculati d'ogni ragione bruttura. E tanto sono questi vizi più
detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono pro
tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma
tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli uomini
è corrotto in giudicare quale sia migliore, o il secolo
presente o l'antico, in quelle cose dove per l'antichità e'
non ne ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha de' suoi
tempi; non doverebbe corrompersi ne' vecchi nel giudicare i tempi
della gioventù e vecchiezza loro avendo quelli e questi
equalmente conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli
uomini per tutti i tempi della lor vita fossero di quel medesimo
giudizio, ed avessono quegli medesimi appetiti: ma variando quegli
ancora che i tempi non variino, non possono parere agli uomini quelli
medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni
nella vecchiezza, che nella gioventù. Perché, mancando
gli uomini, quando gl'invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio
e di prudenza, è necessario che quelle cose che in gioventù
parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando,
insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il
giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli
appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di
potere e volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere
conseguitarne poche; ne risulta continuamente una mala contentezza
nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si posseggono: il
che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i
futuri; ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna
ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriterò d'essere
numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io
lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimerò
i nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava, ed il
vizio che ora regna, non fussino più chiari che il sole andrei
col parlare più rattenuto, dubitando non incorrere in questo
inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo la cosa sì
manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che io intenderò di quelli e di questi
tempi; acciocché gli animi de' giovani che questi mia scritti
leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli,
qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli
è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità
de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad
altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, più
amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne' discorsi del superior
libro, parlato delle diliberazioni fatte da' Romani, pertinenti al di
dentro della città, in questo parleremo di quelle, che 'l
Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello imperio suo.
Cap.
1
Quale fu più cagione dello imperio che
acquistarono i Romani, o la virtù, o la fortuna.
Molti
hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo
scrittore, che 'l popolo romano nello acquistare lo imperio fosse più
favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed intra le altre
ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si
dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue
vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che
ad alcuno altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti Livio;
perché rade volte è che facci parlare ad alcuno Romano,
dove ei racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna.
La qual cosa io non voglio confessare in alcuno modo, né credo
ancora si possa sostenere. Perché, se non si è trovata
mai republica che abbi fatti i profitti che Roma, è nato che
non si è trovata mai republica che sia stata ordinata a potere
acquistare come Roma. Perché la virtù degli eserciti
gli fecero acquistare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il
modo suo proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi gli fece
mantenere lo acquistato: come di sotto largamente in più
discorsi si narrerà. Dicono costoro, che non avere mai
accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e
non virtù del Popolo romano; perché e' non ebbero
guerra con i Latini, se non quando egli ebbero, non tanto battuti i
Sanniti, quanto che la guerra fu fatta da' Romani in defensione di
quelli; non combatterono con i Toscani, se prima non ebbero
soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse rotte quasi in tutto i
Sanniti: che se due di queste potenze intere si fossero, quando erano
fresche, accozzate insieme, senza dubbio si può facilmente
conietturare che ne sarebbe seguito la rovina della romana Republica.
Ma, comunque questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino
avessero due potentissime guerre in uno medesimo tempo: anzi parve
sempre che, o, nel nascere dell'una, l'altra si spegnesse, o nello
spegnersi dell'una, l'altra nascesse. Il che si può facilmente
vedere per l'ordine delle guerre fatte da loro: perché,
lasciando stare quelle che fecero prima che Roma fosse presa dai
Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i
Volsci, mai, mentre che questi popoli furono potenti, non scesero
contro di loro altre genti. Domi costoro, nacque la guerra contro a'
Sanniti; e benché, innanzi che finisse tale guerra, i popoli
latini si ribellassero da' Romani; nondimeno, quando tale ribellione
seguì, i Sanniti erano in lega con Roma, e con i loro eserciti
aiutarono i Romani domare la insolenzia latina. I quali domi, risurse
la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a' Sanniti le loro
forze, nacque la guerra de' Toscani; la quale composta, si rilevarono
di nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Italia. Il quale come
fu ributtato, e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con
i Cartaginesi: né prima fu tale guerra finita, che tutti i
Franciosi, e di là e di qua dall'Alpi, congiurarono contro ai
Romani; tanto che intra Populonia e Pisa, dove è oggi la torre
a San Vincenti, furono con massima strage superati. Finita questa
guerra, per spazio di venti anni ebbero guerre di non molta
importanza; perché non combatterono con altri che con Liguri,
e con quel rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E così
stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la quale per
sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria,
nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne quella d'Antioco
e d'Asia. Dopo la quale vittoria, non restò in tutto il mondo
né principe né republica che, di per sé, o tutti
insieme, che si potessero opporre alle forze romane.
Ma
innanzi a quella ultima vittoria chi considererà bene l'ordine
di queste guerre, ed il modo del procedere loro, vi vedrà
dentro mescolate con la fortuna una virtù e prudenza
grandissima. Talché, chi esaminassi la cagione di tale
fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è cosa
certissima, che come uno principe e uno popolo viene in tanta
riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per sé
paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà che ciascuno
d'essi mai lo assalterà, se non necessitato; in modo che e'
sarà quasi come nella elezione di quel potente, fare guerra
con quale di quei sua vicini gli parrà, e gli altri con la sua
industria quietare. E' quali, parte rispetto alla potenza sua, parte
ingannati da que' modi ch'egli terrà per adormentargli, si
quietano facilmente; quegli altri potenti, che sono discosto e che
non hanno commerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che
non appartenga a loro. Nel quale errore stanno tanto che questo
incendio venga loro presso: il quale venuto, non hanno rimedio a
spegnerlo se non con le forze proprie le quali dipoi non bastono,
sendo colui diventato potentissimo. Io voglio lasciare andare come i
Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo romano i Volsci e gli
Equi; e per non essere troppo prolisso, mi farò da'
Cartaginesi: i quali erano di gran potenza e di grande estimazione,
quando i Romani combattevano co' Sanniti e con i Toscani; perché
di già tenevano tutta l'Africa, tenevano la Sardigna e la
Sicilia, avevano dominio in parte della Spagna. La quale potenza
loro, insieme con lo essere discosto ne' confini dal popolo romano,
fece che non pensarono mai di assaltare quello, né di
soccorrere i Sanniti ed i Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose
che crescano più tosto in loro favore, collegandosi con quegli
e cercando l'amicizia loro. Né si avviddono prima dello errore
fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi in fra loro ed i
Cartaginesi, cominciarono a combattere insieme dello imperio di
Sicilia e di Spagna. Intervenne questo medesimo a' Franciosi che a'
Cartaginesi, e così a Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e
ciascuno di loro credea, mentre che il Popolo romano era occupato con
l'altro, che quello altro lo superasse, ed essere a tempo, o con pace
o con guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la fortuna
che ebbero in questa parte i Romani, l'arebbono tutti quegli principi
che procedessono come i Romani, e fossero della medesima virtù
che loro.
Sarebbeci da mostrare a questo
proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle
provincie d'altrui, se nel nostro trattato de' Principati non ne
avessimo parlato a lungo: perché, in quello, questa materia è
diffusamente disputata. Dirò solo questo lievemente, come
sempre s'ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che
fussi scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla: come si
vede che per il mezzo de' Capuani entrarono in Sannio, de' Camertini
in Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in Spagna, di
Massinissa in Africa, degli Etoli in Grecia, di Eumene ed altri
principi in Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E così
non mancorono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese
loro, e nello acquistare le provincie e nel tenerle. Il che quegli
popoli che osserveranno, vedranno avere meno bisogno della fortuna,
che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E perché
ciascuno possa meglio conoscere, quanto possa più la virtù
che la fortuna loro ad acquistare quello imperio, noi discorrereno,
nel seguente capitolo, di che qualità furono quelli popoli con
e' quali egli ebbero a combattere, e quanto erano ostinati a
difendere la loro libertà.
Cap.
2
Con quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come
ostinatamente quegli difendevono la loro libertà.
Nessuna
cosa fe' più faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno e
parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi
molti popoli avevano alla libertà, la quale tanto
ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù
sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti esempli si
conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare
quella; quali vendette ei facessono contro a coloro che l'avessero
loro occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle istorie, quali
danni i popoli e le città ricevino per la servitù. E
dove in questi tempi ci è solo una provincia, la quale si
possa dire che abbi in sé città libere, ne' tempi
antichi in tutte le provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi
come in quelli tempi de' quali noi parliamo al presente, in Italia,
dall'Alpi che dividono ora la Toscana da Lombardia, infino alla punta
d'Italia, erano tutti popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani,
i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d'Italia abitavano.
Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quegli che
regnorono in Roma, e Porsenna re di Toscana; la stirpe del quale come
si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in
quegli tempi che i Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era
libera: e tanto si godeva della sua libertà, e tanto odiava il
nome del principe, che, avendo fatto i Veienti per loro difensione
uno re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani contro a' Romani,
quegli, dopo molte consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a'
Veienti, infino a tanto che vivessono sotto il re; giudicando non
essere bene difendere la patria di coloro che l'avevano di già
sottomessa a altrui. E facil cosa è conoscere donde nasca ne'
popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio né
di ricchezza, se non mentre sono state in libertà. E veramente
maravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne
Atene per spazio di cento anni, poiché la si liberò
dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto maravigliosissima è
a considerare a quanta grandezza venne Roma, poiché la si
liberò da' suoi Re. La ragione è facile a intendere;
perché non il bene particulare, ma il bene comune è
quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene
comune non è osservato se non nelle republiche; perché
tutto quello che fa a proposito suo, si esequisce; e quantunque e'
torni in danno di questo o di quello privato, e' sono tanti quegli
per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla
disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi. Al contrario
interviene quando vi è uno principe; dove il più delle
volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa
per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce
una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a
quelle città è non andare più innanzi, né
crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più delle
volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la
sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo
e per virtù d'arme ampliasse il dominio suo, non ne
risulterebbe alcuna utilità a quella republica, ma a lui
proprio: perché e' non può onorare nessuno di quegli
cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non
volendo avere ad avere sospetto di loro. Non può ancora le
città che esso acquista, sottometterle o farle tributarie a
quella città di che egli è tiranno: perché il
farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo stato
disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui.
Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua
patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre
ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De tyrannide.
Non è maraviglia, adunque, che gli antichi popoli con tanto
odio perseguitassono i tiranni ed amassino il vivere libero, e che il
nome della libertà fusse tanto stimato da loro: come
intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano, fu morto in
Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo
esercito, che non era molto lontano da Siracusa, cominciò
prima a tumultuare, e pigliare l'armi contro agli ucciditori di
quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava libertà,
allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giù
l'ira, contro a' tirannicidi, e pensò come in quella città
si potessi ordinare uno vivere libero. Non è maraviglia
ancora, che e' popoli faccino vendette istraordinarie contro a quegli
che gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stati assai
esempli, de' quali ne intendo referire solo uno, seguito in Corcira,
città di Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca; dove,
sendo divisa quella provincia in due parti, delle quali l'una
seguitava gli Ateniesi l'altra gli Spartani, ne nasceva che di molte
città, che erano infra loro divise, l'una parte seguiva
l'amicizia di Sparta, l'altra di Atene: ed essendo occorso che nella
detta città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà
al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e,
posto le mani addosso a tutta la Nobilità, gli rinchiusero in
una prigione capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o dieci
per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e
quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di che sendosi,
quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto era a loro
possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed armatisi di quello
potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare, la entrata
della prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo romore
fatto uno concorso, scoperse la parte superiore di quel luogo, e
quegli con quelle rovine suffocò. Seguirono ancora in detta
provincia molti altri simili casi orrendi e notabili; talché
si vede essere vero che con maggiore impeto si vendica una libertà
che ti è suta tolta, che quella che ti è voluta
tôrre.
Pensando dunque donde possa
nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero più
amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo
sia la diversità della educazione nostra dall'antica. Perché,
avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via,
ci fa stimare meno l'onore del mondo: onde i Gentili, stimandolo
assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni
loro più feroci. Il che si può considerare da molte
loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi
loro, alla umiltà de' nostri; dove è qualche pompa più
delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non
mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si
aggiugneva l'azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità,
ammazzandovisi moltitudine d'animali; il quale aspetto, sendo
terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica,
oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana
gloria; come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La
nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e
contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella
umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane:
quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del
corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E
se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che
tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo
modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e
datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono
maneggiare, veggendo come l'università degli uomini, per
andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture
che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il
mondo, e disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla
viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione
secondo l'ozio, e non secondo la virtù. Perché, se
considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della
patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed onoriamo, e
prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere. Fanno
adunque queste educazioni, e sì false interpretazioni, che nel
mondo non si vede tante republiche quante si vedeva anticamente; né,
per consequente, si vede ne' popoli tanto amore alla libertà
quanto allora: ancora che io creda più tosto essere cagione di
questo, che lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense
tutte le republiche e tutti e' viveri civili. E benché poi
tale Imperio si sia risoluto, non si sono potute le città
ancora rimettere insieme né riordinare alla vita civile, se
non in pochissimi luoghi di quello Imperio. Pure, comunque si fusse,
i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di
republiche armatissime ed ostinatissime alla difesa della libertà
loro. Il che mostra che il popolo romano sanza una rara ed estrema
virtù mai non le arebbe potute superare.
E
per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo de'
Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che
fussero sì potenti, e l'arme loro sì valide, che
potessono infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di quarantasei
anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute nel
paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e
tanti uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi era tanto
ordine e tanta forza, che gli era insuperabile, se da una virtù
romana non fosse stato assaltato. E facil cosa è considerare
donde nasceva quello ordine, e donde proceda questo disordine; perché
tutto viene dal vivere libero allora, ed ora dal vivere servo. Perché
tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come
di sopra dissi, fanno profitti grandissimi. Perché quivi si
vede maggiori popoli, per essere e' connubi più liberi, più
desiderabili dagli uomini: perché ciascuno procrea volentieri
quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il
patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non solamente che nascono
liberi e non schiavi, ma ch'ei possono mediante la virtù loro
diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore
numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono
dalle arti. Perché ciascuno volentieri multiplica in quella
cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi
godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a' privati e
publici commodi; e l'uno e l'altro viene maravigliosamente a
crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che
vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanto
più è dura la servitù. E di tutte le servitù
dure, quella è durissima che ti sottomette a una republica:
l'una, perché la è più durabile, e manco si può
sperare d'uscirne; l'altra, perché il fine della republica è
enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri
corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando quel
principe non sia qualche principe barbaro, destruttore de' paesi e
dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono i
principi orientali. Ma s'egli ha in sé ordini umani ed
ordinari, il più delle volte ama le città sue suggette
equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti gli ordini
antichi. Talché, se le non possono crescere come libere, elle
non rovinano anche come schiave; intendendosi della servitù in
quale vengono le città servendo a un forestiero, perché
di quelle d'uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà,
adunque, tutto quello che si è detto, non si maraviglierà
della potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi, e della debolezza
in che e' vennono poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in più
luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e' mostra che, sendo
i Sanniti oppressi da una legione di uomini che era in Nola,
mandarono oratori ad Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i
quali, nel parlare loro, dissono, che avevano per cento anni
combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro
capitani, e molte volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e dua
consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non si
potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era in
Nola.
Cap.
3
Roma divenne gran città rovinando le città
circunvicine, e ricevendo i forestieri facilmente a' suoi onori.
"Crescit interea Roma Albae ruinis". Quegli che disegnono che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori; perché, sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che disegnassono venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu in tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re, in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme. Perché i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il quale, perché una pianta ingrossi, e possa produrre e maturare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possano col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e fare imperio, fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di Atene: le quali essendo dua republiche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di che non se ne può addurre altra cagione, che la preallegata: perché Roma, per avere ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perché Licurgo, fondatore della republica spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perché i forestieri non avessono a conversarvi: ed oltre a non gli ricevere ne' matrimoni, alla civilità, ed alle altre conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che in quella sua republica si spendesse monete di cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai ingrossare di abitatori. E perché tutte le azioni nostre imitano la natura, non è possibile né naturale che uno pedale sottile sostenga uno ramo grosso. Però una republica piccola non può occupare città né regni che sieno più validi né più grossi di lei; e, se pure gli occupa, gl'interviene come a quello albero che avesse più grosso il ramo che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni piccol vento lo fiacca: come si vide che intervenne a Sparta; la quale avendo occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte le altre città se gli ribellarono, e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo il piè sì grosso, che qualunque ramo poteva facilmente sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra Tito Livio in due parole, quando disse: "Crescit interea Roma Albae ruinis".
Cap.
4
Le republiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare.
Chi
ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno
tenuti tre modi circa lo ampliare. L'uno è stato quello che
osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di più
republiche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra né
di autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi
l'altre città compagne, in simil modo come in questo tempo
fanno i Svizzeri, e come ne' tempi antichi fecero in Grecia gli Achei
e gli Etoli. E perché i Romani feciono assai guerra co'
Toscani, per mostrare meglio le qualità di questo primo modo,
mi distenderò in dare notizia di loro particularmente. In
Italia, innanzi allo Imperio romano, furono i Toscani per mare e per
terra potentissimi: e benché delle cose loro non ce ne sia
particulare istoria, pure c'è qualche poco di memoria, e
qualche segno della grandezza loro; e si sa come e' mandarono una
colonia in su 'l mare di sopra, la quale chiamarono Adria, che fu sì
nobile, che la dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamono
Adriatico. Intendesi ancora, come le loro armi furono ubbidite dal
Tevere per infino a piè delle Alpi che ora cingono il grosso
di Italia; non ostante che, dugento anni innanzi che i Romani
crescessono in molte forze, detti Toscani perderono lo imperio di
quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu
occupata da' Franciosi: i quali, mossi o da necessità o dalla
dolcezza dei frutti, e massime del vino vennono in Italia sotto
Belloveso loro duca; e rotti e cacciati i provinciali, si posono in
quello luogo, dove edificarono di molte cittadi, e quella provincia
chiamarono Gallia, dal nome che tenevano allora; la quale tennono
fino che da' Romani fussero domi. Vivevono, adunque, i Toscani con
quella equalità, e procedevano nello ampliare in quel primo
modo che di sopra si dice: e furono dodici città, tra le quali
era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole, Volterra, e simili: i quali per
via di lega governavano lo Imperio loro; né poterono uscire
d'Italia con gli acquisti; e di quella ancora rimase intatta gran
parte, per le cagioni che di sotto si diranno. L'altro modo è
farsi compagni: non tanto però che non ti rimanga il grado del
comandare, la sedia dello Imperio, ed il titolo delle imprese: il
quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo è farsi
immediate sudditi, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli
Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto
inutile; come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le
quali non rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel
dominio che le non potevano tenere. Perché, pigliare cura di
avere a governare città con violenza, massime quelle che
fussono consuete a vivere libere, è una cosa difficile e
faticosa. E se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né
comandare né reggere. Ed a volere essere così fatto, è
necessario farsi compagni che ti aiutino, e ingrossare la tua città
di popolo. E perché queste due città non fecero né
l'uno né l'altro, il modo di procedere loro fu inutile. E
perché Roma, la quale è nello esemplo del secondo modo,
fece l'uno e l'altro, però salse a tanta eccessiva potenza. E
perché la è stata sola a vivere così, è
stata ancora sola a diventare tanto potente: perché, avendosi
lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte
cose con equali leggi vivevano seco; e, dall'altro canto, come di
sopra è detto, sendosi riserbata sempre la sedia dello Imperio
ed il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano, che non se
ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogare sé
stessi. Perché, come ei cominciarono a uscire con gli eserciti
di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti coloro
che, per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di
essere suggetti, ed avendo governatori romani, ed essendo stati vinti
da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore
altro che Roma. Di modo che quegli compagni di Roma che erano in
Italia, si trovarono in un tratto cinti da' sudditi romani, ed
oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei
s'avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a
tempo a rimediarvi; tanta autorità aveva presa Roma con le
provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua
città grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero contro,
furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro
condizioni; perché, di compagni, diventarono ancora loro
sudditi. Questo modo di procedere, come è detto, è
stato solo osservato da' Romani: né può tenere altro
modo una republica che voglia ampliare; perché la esperienza
non ce ne ha mostro nessuno più certo o più
vero.
Il modo preallegato delle leghe,
come viverono i Toscani, gli Achei e gli Etoli e come oggi vivono i
Svizzeri è, dopo a quello de' Romani, il migliore modo;
perché, non si potendo con quello ampliare assai, ne séguita
due beni; l'uno, che facilmente non ti tiri guerra a dosso; l'altro,
che quel tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non
potere ampliare è lo essere una republica disgiunta e posta in
varie sedie: il che fa che difficilmente possono consultare e
diliberare. Fa, ancora, che non sono desiderosi di dominare: perché,
essendo molte comunità a participare di quel dominio, non
stimano tanto tale acquisto quanto fa una republica sola, che spera
di goderselo tutto. Governonsi, oltra di questo, per concilio, e
conviene che sieno più tardi ad ogni diliberazione, che quelli
che abitono drento a uno medesimo cerchio. Vedesi ancora per
sperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso, il quale
non ci è esemplo che mostri che si sia trapassato: e questo è
di aggiugnere a dodici o quattordici comunità; dipoi, non
cercare di andare più avanti: perché, sendo giunti a
grado che pare loro potersi difendere da ciascuno, non cercono
maggiore dominio; sì perché la necessità non gli
stringe di avere più potenza; sì per non conoscere
utile negli acquisti, per le cagioni dette di sopra. Perché
gli arebbono a fare una delle due cose; o a seguitare di farsi
compagni, e questa moltitudine farebbe confusione; o egli arebbono a
farsi sudditi, e perché e' veggono in questo difficultà,
e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e'
sono venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltono a
due cose: l'una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni; e per
questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facilmente infra
loro si possono distribuire: l'altra è militare per altrui, e
pigliare soldo da questo e da quel principe che per sue imprese gli
solda; come si vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che
facevano i preallegati. Di che n'è testimone Tito Livio, dove
dice che, venendo a parlamento Filippo re di Macedonia con Tito
Quinzio Flaminio, e ragionando d'accordo alla presenza d'uno pretore
degli Etoli, e venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da
quello rimproverato la avarizia e la infidelità dicendo che
gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi mandare loro
uomini ancora a servigio del nimico; talché molte volte intra
due contrari eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi,
pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è stato
sempre simile, ed ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel
modo di fare sudditi è stato sempre debole, ed avere fatto
piccoli profitti; e quando pure egli hanno passato il modo, essere
rovinati tosto. E se questo modo di fare sudditi è inutile
nelle republiche armate, in quelle che sono disarmate è
inutilissimo: come sono state ne' nostri tempi le republiche
d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i
Romani, il quale è tanto più mirabile, quanto e' non ce
n'era innanzi a Roma esemplo, e dopo Roma non è stato alcuno
che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri
e la lega di Svezia che gli imita. E, come nel fine di questa materia
si dirà, tanti ordini osservati da Roma, così
pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora, non sono ne'
presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n'è tenuto
alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili,
alcuni non a proposito ed inutili; tanto che, standoci con questa
ignoranzia, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa
provincia. E quando la imitazione de' Romani paresse difficile, non
doverrebbe parere così quella degli antichi Toscani, massime
a' presenti Toscani. Perché, se quelli non poterono, per le
cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma, poterono
acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere
concesse loro. Il che fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria
d'imperio e d'arme, e massime laude di costumi e di religione. La
quale potenza e gloria fu prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta
da' Romani: e fu tanto spenta, che, ancora che, dumila anni fa, la
potenza de' Toscani fusse grande, al presente non ce n'è quasi
memoria. La quale cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa
oblivione delle cose: come nel seguente capitolo si discorrerà.
Cap.
5
Che la variazione delle sette e delle lingue, insieme con
l'accidente de' diluvii o della peste, spegne le memorie delle cose.
A
quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo
che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse vera,
e' sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che
cinquemila anni; quando e' non si vedesse come queste memorie de'
tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono
dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono
le variazioni delle sètte e delle lingue. Perché,
quando e' surge una setta nuova, cioè una religione nuova, il
primo studio suo è, per darsi riputazione, estinguere la
vecchia; e, quando gli occorre che gli ordinatori della nuova setta
siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si
conosce considerando e' modi che ha tenuti la setta Cristiana contro
alla Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le
cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia.
Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la
notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che è
nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che feciono
forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perché,
se l'avessono potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre
persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose
passate. E chi legge i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri
capi della religione cristiana, vedrà con quanta ostinazione
e' perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo le opere de'
poeti e degli istorici, ruinando le imagini e guastando ogni altra
cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché,
se a questa persecuzione egli avessono aggiunto una nuova lingua, si
sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da
credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la setta Cristiana
contro alla setta Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che
era innanzi a lei. E perché queste sètte in cinque o in
seimila anni variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose
fatte innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si
considera come cosa favolosa, e non è prestato loro fede: come
interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che, benché e'
renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è
riputato, come io credo, che sia cosa mendace.
Quanto
alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana
generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E
questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d'acque: e
la più importante è questa ultima, sì perché
la è più universale, sì perché quegli che
si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo
notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a'
posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avessi notizia,
per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la perverte a suo modo;
talché ne resta solo a' successori quanto ei ne ha voluto
scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, peste e fami
venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono
piene tutte le istorie, sì perché si vede questo
effetto della oblivione delle cose, sì perché e' pare
ragionevole ch'e' sia: perché la natura, come ne' corpi
semplici, quando e' vi è ragunato assai materia superflua,
muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la
quale è salute di quel corpo; così interviene in questo
corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie
sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né
possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi;
e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove
la può venire, conviene di necessità che il mondo si
purghi per uno de' tre modi; acciocché gli uomini, sendo
divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino
migliori. Era dunque, come di sopra è detto, già la
Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi
costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento
dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei
ne rimane solo la memoria del nome.
Cap.
6
Come i Romani procedevano nel fare la guerra.
Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorrereno ora come e' procedevano nel fare la guerra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenzia ei deviarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione, è acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua. È necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere; anzi fare ogni cosa con utilità del publico suo. Chi vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse; perché, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci, quale in venti dì. Perché l'uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuora con gli eserciti allo incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perché non fosse guasto loro il contado affatto venivano alle condizioni ed i Romani gli condannavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati commodi o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro veniva ad essere guardia de' confini romani, con utile di essi coloni, che avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza spesa teneva quella guardia. Né poteva questo modo essere più sicuro, o più forte, o più utile: perché mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava: come e' fossono usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più grave condizione, si tornavano in casa. Così venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in sé medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che mutarono modo di procedere in guerra: il che fu dopo la ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù di questo ei potessono fare le guerre più lunghe, e per farle più discosto la necessità gli tenesse più in su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare le colonie. Perché nel primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi oltra a il loro naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i quali avendo a stare uno anno e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodità grande che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delle quali non erano così liberali come erano stati prima; sì perché e' non pareva loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì perché, essendo le prede maggiori, disegnavano d'ingrassare di quelle in modo il publico che non fussono constretti a fare le imprese con tributi della città. Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi dua modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandare le colonie, feciono che Roma arricchiva della guerra; dove gli altri principi e republiche non savie ne impoveriscono. E si ridusse la cosa in termine, che a uno Consolo non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo assai oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Così i Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le guerre presto, sendo valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte e con le scorrerie e con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre più ricchi e più potenti.
Cap.
7
Quanto terreno i Romani davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia difficile trovarne la verità. Perché io credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le colonie. Giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare più uomini, sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perché, vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio dice come, preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra; che sono, al modo nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte, e'giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene cultivato, bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi publici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per ardere; sanza le quali cose non può una colonia ordinarsi.
Cap.
8
La cagione perchè i popoli si partono da' luoghi
patrii, ed inondano il paese altrui.
Poiché
di sopra si è ragionato del modo nel procedere nella guerra
osservato da' Romani, e come i Toscani furono assaltati da'
Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere, come le si
fanno di dua generazioni guerre. L'una è fatta per ambizione
de' principi o delle republiche, che cercano di propagare lo imperio;
come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che fecero
i Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì, l'una potenza con
l'altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto
gli abitatori d'una provincia; perché e' basta, al vincitore,
solo la ubbidienza de' popoli, e il più delle volte gli lascia
vivere con le loro leggi, e sempre con le loro case, e ne' loro beni.
L'altra generazione di guerra è quando uno popolo intero con
tutte le sue famiglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla fame
o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e nuova provincia; non per
comandarla, come quegli di sopra, ma per possederla tutta
particularmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di
quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di
queste guerre ragiona Sallustio nel fine dell'Iugurtino, quando dice
che, vinto Iugurta, si sentì il moto de' Franciosi che
venivano in Italia: dove ei dice che il Popolo romano con tutte le
altre genti combatté solamente per chi dovesse comandare, ma
con i Franciosi combatté sempre per la salute di ciascuno.
Perché a un principe o a una republica, che assalta una
provincia, basta spegnere solo coloro che comandano; ma a queste
populazioni conviene spegnere ciascuno, perché vogliono vivere
di quello che altri viveva. I Romani ebbero tre di queste guerre
pericolosissime. La prima fu quella quando Roma fu presa, la quale fu
occupata da quei Franciosi che avevano tolto, come di sopra si disse,
la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia; della quale Tito Livio
ne allega due cagioni: la prima, come di sopra si disse, che furono
allettati dalla dolcezza delle frutte e del vino d'Italia, delle
quali mancavano in Francia; la seconda che, essendo quel regno
francioso multiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevono più
nutrire, giudicarono i principi di quelli luoghi, che e' fusse
necessario che una parte di loro andasse a cercare nuova terra, e,
fatta tale deliberazione, elessono, per capitani di quegli che si
avevano a partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de' Franciosi: de'
quali Belloveso venne in Italia, e Sicoveso passò in Ispagna.
Dalla passata del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombardia,
e di quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo
questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra cartaginese, quando
intra Piombino e Pisa ammazzarono più che dugentomila
Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e' Cimbri vennero in
Italia: i quali, avendo vinti più eserciti romani, furono
vinti da Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre guerre
pericolosissime. Né era necessario minore virtù a
vincerle, perché si vide poi, come la virtù romana
mancò e che quelle armi perderono il loro antico valore, fu
quello imperio destrutto da simili popoli: i quali furono Gotti,
Vandali, e simili, che occuparono tutto lo Imperio
occidentale.
Escono tali popoli de' paesi
loro, come di sopra si disse, cacciati dalla necessità: e la
necessità nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione
che ne' paesi propri è loro fatta: talché e' son
constretti cercare nuove terre. E questi tali, o e' sono gran numero;
ed allora con violenza entrano ne' paesi d'altrui, ammazzano gli
abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano il
nome della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che
occuparono lo Imperio romano. Perché questi nomi nuovi che
sono nella Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che
da essere state nomate così da nuovi occupatori: come è
la Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si
chiamava Gallia Transalpina, ed ora è nominata da' Franchi,
che così si chiamavono quelli popoli che la occuparono: la
Schiavonia si chiamava Illiria; l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra,
Britannia; e molte altre provincie che hanno mutato nome, le quali
sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea
quella parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto,
di sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria
sede per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne voglio
addurre lo esemplo de' Maurusii, popoli anticamente in Soria: i
quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando non potere loro
resistere, pensarono essere meglio salvare loro medesimi, e lasciare
il paese proprio, che, per volere salvare quello, perdere ancora
loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in Africa, dove
posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in quegli
luoghi trovarono. E così quegli che non avevano potuto
difendere il loro paese, potettono occupare quello d'altrui. E
Procopio, che scrive la guerra che fece Belisario coi Vandali,
occupatori della Africa, riferisce avere letto lettere scritte in
certe colonne, ne' luoghi dove questi Maurusii abitavano, le quali
dicevano: "Nos Maurusii, qui fugimus a facie Jesu latronis filii
Navae". Dove apparisce la cagione della partita loro di Soria.
Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da una
ultima necessità; e se e' non riscontrano buone armi, non mai
saranno sostenuti. Ma quando quegli che sono costretti abbandonare la
loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi come quelli
popoli di chi si è ragionato; perché non possono usare
tanta violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e,
occupatolo, mantenervisi per via d'amici e di confederati: come si
vede che fece Enea Didone, i Massiliesi e simili; i quali tutti, per
consentimento de' vicini, dov'e' posono, poterono mantenervisi.
Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi tutti, de' paesi di
Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai uomini, ed il
paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati
uscirne, avendo molte cose che gli cacciono, e nessuna che gli
ritenga. E se, da cinquecento anni in qua, non è occorso che
alcuni di questi popoli abbiano inondato alcuno paese, è nato
per più cagioni. La prima, la grande evacuazione che fece quel
paese nella declinazione dello Imperio, donde uscirono più di
trenta popoli. La seconda è che la Magna e l'Ungheria, donde
ancora uscivano di queste genti hanno ora il loro paese bonificato in
modo che vi possono vivere agiatamente; talché non sono
necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte, sendo loro uomini
bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli Sciti, i
quali con loro confinano, non presumino di potere vincergli o
passarli. E spesse volte occorrono movimenti grandissimi de' Tartari
che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e
spesso si gloriano, che, se non fussono l'armi loro, la Italia e la
Chiesa arebbe molte volte sentito il peso degli eserciti tartari. E
questo voglio basti quanto ai prefati popoli.
Cap.
9
Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre
intra i potenti.
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti. La quale cagione o la viene a caso o la è fatta nascere da colui che disidera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu a caso; perché la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini, e dipoi ai Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della opinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro defendergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perché e' pareva bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro a' Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati; giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa, tôrre la via a tutti quegli che disegnassino venire sotto la potestà loro. Perché, avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette principio alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per la defensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a caso. Ma non fu già a caso, dipoi, la seconda guerra che nacque infra loro; perché Annibale capitano cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere occasione di combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno, e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perché, se io voglio fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo osservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io uno suo amico che lui proprio; sappiendo, massime, che, nello assaltare lo amico, o ei si risentirà, ed io arò lo intento mio di farli guerra, o, non si risentendo, si scoprirà la debolezza o la infidelità sua, di non difendere uno suo raccomandato. E l'una e l'altra di queste due cose e per torli riputazione, e per fare più facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de' Campani, circa al muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, quale rimedio abbia una città che non si possa per sé stessa difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello che l'assalta: il quale è darsi liberamente a quello che tu disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a' Romani, e i Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi come sudditi contro alle forze di Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
Cap.
10
I danari non sono il nervo della guerra, secondo che è
la comune opinione.
Perché
ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non
finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa, misurare
le forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere tanta
prudenza, che delle sue forze ei non s'inganni; ed ogni volta
s'ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal sito, o
dalla benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi
proprie. Perché le cose predette ti accrescono bene le forze,
ma ben non te le danno; e per sé medesime sono nulla; e non
giovono alcuna cosa sanza l'armi fedeli. Perché i danari assai
non ti bastano sanza quelle; non ti giova la fortezza del paese e la
fede e benivolenza degli uomini non dura, perché questi non ti
possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni
lago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori
mancano. I danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno
predare più presto. Né può essere più
falsa quella comune opinione che dice, che i danari sono il nervo
della guerra. La quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella
guerra che fu intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra,
che, per difetto di danari, il re di Sparta fu necessitato
azzuffarsi, e fu rotto; ché se ei differiva la zuffa pochi
giorni, veniva la nuova in Grecia della morte di Alessandro, donde ei
sarebbe rimaso vincitore sanza combattere: ma, mancandogli i danari,
e dubitando che lo esercito suo per difetto di quegli non lo
abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della zuffa: talché
Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il nervo
della guerra. La quale sentenza è allegata ogni giorno, e da'
principi, non tanto prudenti che basti, seguitata. Perché,
fondatisi sopra quella, credono che basti loro, a difendersi, avere
tesoro assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a vincere, che
Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci arebbono vinto i Romani; ne'
nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni
sono, il Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficultà
in vincere Francesco Maria, nipote di papa Iulio II, nella guerra di
Urbino. Ma tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il
danaio ma i buoni soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra
le altre cose che Creso re de' Lidii mostrò a Solone ateniese,
fu uno tesoro innumerabile, e domandando quel che gli pareva della
potenza sua, gli rispose Solone, che per quello e' non lo giudicava
più potente; perché la guerra si faceva con il ferro e
non con l'oro, e che poteva venire uno che avessi più ferro di
lui, e torgliene. Oltre a di questo, quando, dopo la morte di
Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in
Grecia, e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori a il re di
Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mostrare la
potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ariento
assai: donde quelli Franciosi, che di già avevano come ferma
la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli
quell'oro: e così fu quel re spogliato per quella cosa che
egli aveva per sua difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono,
avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo
stato, sanza potere essere difesi da quello.
Dico
pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il nervo
della guerra, ma i buoni soldati: perché l'oro non è
sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene
sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino avessoro voluto fare
la guerra più con i danari che con il ferro, non sarebbe
bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi
imprese che feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma,
faccendo le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia
dell'oro, perché da quegli che gli temevano era portato loro
infino ne' campi. E se quel re spartano per carestia di danari ebbe a
tentare la fortuna della zuffa, intervenne a lui quello, per conto
de' danari, che molte volte è intervenuto per altre cagioni:
perché si è veduto che, mancando a uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi,
si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere più
onorevole, e dove la fortuna ti può in qualche modo favorire.
Ancora è intervenuto molte volte, che, veggendo uno capitano
al suo esercito inimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi
con quello e tentare la fortuna della zuffa; o, aspettando ch'egli
ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con mille suoi
disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne a Asdrubale,
quando nella Marca fu assaltato da Claudio Nerone, insieme con
l'altro console romano) che un capitano, necessitato o a fuggirsi o a
combattere, come sempre elegge il combattere; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello altro
avere a perdere in ogni modo. Sono, adunque, molte necessitadi che
fanno a un capitano fuor della sua intenzione pigliare partito di
azzuffarsi, intra le quali qualche volta può essere la
carestia de' danari; né per questo si debbono i danari
giudicare essere il nervo della guerra, più che le altre cose
che inducano gli uomini a simile necessità. Non è,
adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra, ma i
buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma è
una necessità che i soldati buoni per sé medesimi la
vincono; perché è impossibile che ai buoni soldati
manchino i danari, come che i danari per loro medesimi trovino i
buoni soldati. Mostra, questo che noi diciamo essere vero, ogni
istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli
Ateniesi a fare guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e'
potevano vincere quella guerra con la industria e con la forza del
danaio. E benché in tale guerra gli Ateniesi prosperassino
qualche volta, in ultimo la perderono; e valson più il
consiglio e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio
di Atene. Ma Tito Livio è di questa opinione più vero
testimone che alcuno altro, dove, discorrendo se Alessandro Magno
fussi venuto in Italia, s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere
tre cose necessarie nella guerra; assai soldati e buoni, capitani
prudenti, e buona fortuna: dove, esaminando quali o i Romani o
Alessandro prevalessero in queste cose, fa dipoi la sua conclusione
sanza ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono
richiesti da' Sidicini che prendessono l'armi per loro contro ai
Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, e non da' soldati:
perché, preso ch'egli ebbero partito di aiutargli, dopo due
rotte furono constretti farsi tributari de' Romani, se si vollono
salvare.
Cap.
11
Non è partito prudente fare amicizia con uno principe
che abbia più opinione che forze.
Volendo
Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello aiuto de'
Campani, e lo errore de' Campani a credere potergli difendere, non lo
potrebbe dire con più vive parole, dicendo: "Campani
magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam vires ad praesidium
attulerunt". Dove si debbe notare che le leghe che si fanno coi
principi, che non abbino o commodità di aiutarti per la
distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua
cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che se ne
fidano: come intervenne, ne' dì nostri, ai Fiorentini, quando,
nel 1479, il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ché,
essendo amici del re di Francia, trassono di quella amicizia "magis
nomen, quam praesidium", come interverrebbe ancora a quel
principe, che, confidatosi di Massimiliano imperadore, facesse
qualche impresa; perché questa è una di quelle amicizie
che arrecherebbe a chi la facesse "magis nomen, quam
praesidium", come si dice, in questo testo, che arrecò
quella de' Capovani a' Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i
Capovani, per parere loro avere più forze che non avevano. E
così fa la poca prudenzia degli uomini, qualche volta, che,
non sappiendo né potendo difendere sé medesimi,
vogliono prendere impresa di difendere altrui: come fecero ancora i
Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani allo incontro dello
esercito Sannite, mandarono ambasciadori al Console romano, a fargli
intendere come ei volevano pace intra quegli due popoli, e come erano
per fare guerra contro a quello che dalla pace si discostasse; talché
il Console, ridendosi di questa proposta, alla presenza di detti
ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò
che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con la opera
e non con le parole, di che risposta essi erano degni.
Ed
avendo nel presente capitolo ragionato de' partiti che pigliono i
principi, al contrario, per la difesa d'altrui, voglio, nel seguente,
parlare di quegli che si pigliano per la difesa propria.
Cap.
12
S'egli è meglio, temendo di essere assaltato,
inferire o aspettare la guerra.
Io
ho sentito da uomini, assai pratichi nelle cose della guerra, qualche
volta disputare, se sono dua principi quasi di equali forze, e quello
più gagliardo abbi bandito la guerra contro a quell'altro,
quale sia migliore partito per l'altro, o aspettare il nimico dentro
a' confini suoi, o andarlo a trovare in casa ed assaltare lui: e ne
ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi difende lo andare
assaltare altri, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro,
quando, arrivato in su' confini de' Massageti per fare loro guerra,
la loro regina Tamiri gli mandò a dire, che eleggessi quale
de' due partiti volesse; o entrare nel regno suo, dove ella lo
aspetterebbe; o volesse che ella venisse a trovare lui. E venuta la
cosa in discettazione, Creso, contro alla opinione degli altri, disse
che si andasse a trovare lei; allegando che, s'egli la vincesse
discosto a il suo regno, che non le torrebbe il regno, perché
ella arebbe tempo a rifarsi, ma se la vincesse dentro ai suoi
confini, potrebbe seguirla in su la fuga, e, non le dando spazio a
rifarsi, torle lo stato. Allegane ancora il consiglio che dette
Annibale ad Antioco, quando quel re disegnava fare guerra ai Romani:
dove ei mostra come i Romani non si potevano vincere se non in
Italia, perché quivi altrui si poteva valere delle armi e
delle ricchezze e degli amici loro; ma chi gli combatteva fuora
d'Italia, e lasciava loro la Italia libera, lasciava loro quella
fonte che mai le manca vita a somministrare forze dove bisogna; e
conchiuse che ai Romani si poteva prima tôrre Roma che lo
imperio, e prima la Italia che le altre provincie. Allega ancora
Agatocle che, non potendo sostenere la guerra di casa, assaltò
i Cartaginesi che gliene facevano, e gli ridusse a domandare pace.
Allega Scipione che, per levare la guerra di Italia, assaltò
la Africa.
Chi parla al contrario, dice
che chi vuole fare capitare male uno inimico, lo discosti da casa.
Allegane gli Ateniesi, che, mentre che feciono la guerra commoda alla
casa loro, restarono superiori; e come si discostarono, ed andarono
con gli eserciti in Sicilia, perderono la libertà. Allega le
favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia, assaltato da
Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo aspettò dentro a'
confini del suo regno; ma, come ei se ne discostò per astuzia
di Ercole, perdé lo stato e la vita. Onde è dato luogo
alla favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava le forze da sua
madre, che era la Terra, e che Ercole, avvedutosi di questo, lo levò
in alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora i giudicii
moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne' suoi tempi
tenuto uno savissimo principe: e venendo la fama, due anni davanti la
sua morte, come il re di Francia Carlo VIII voleva venire a
assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni, ammalò; e,
venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò a Alfonso
suo figliuolo, fu ch'egli aspettasse il nimico dentro a il regno; e
per cosa del mondo non traesse forze fuora dello stato suo, ma lo
aspettasse dentro a' suoi confini tutto intero: il che non fu
osservato da quello; ma, mandato uno esercito in Romagna, sanza
combattere perdé quello e lo stato.
Le
ragioni che, oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono, sono:
che chi assalta viene con maggiore animo che chi aspetta, il che fa
più confidente lo esercito: toglie, oltre a di questo, molte
commodità al nimico di potersi valere delle sue cose, non si
potendo valere di que' sudditi che siano saccheggiati; e, per avere
il nimico in casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarne da loro danari ed affaticargli: sicché ei
viene a seccare quella fonte, come disse Annibale, che fa che colui
può sostenere la guerra. Oltra di questo, i suoi soldati, per
trovarsi nel paese d'altrui, sono più necessitati a
combattere; e quella necessità fa virtù, come più
volte abbiamo detto. Dall'altra parte si dice: come, aspettando il
nimico, si aspetta con assai vantaggio, perché, sanza disagio
alcuno, tu puoi dare a quello molti disagi di vettovaglie, e d'ogni
altra cosa che abbia bisogno uno esercito: puoi meglio impedirgli i
disegni suoi, per la notizia del paese che tu hai più di lui:
puoi con più forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte
unire, ma non potere già tutte discostarle da casa: puoi,
sendo rotto, rifarti facilmente; sì perché del tuo
esercito se ne salverà assai, per avere i rifugi propinqui; sì
perché il supplimento non ha a venire discosto: tanto che tu
vieni ad arristiare tutte le forze, e non tutta la fortuna; e,
discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed
alcuni sono stati che, per indebolire meglio il suo nimico, lo
lasciono entrare parecchi giornate in su il paese loro, e pigliare
assai terre; acciò che, lasciando i presidii in tutte,
indebolisca il suo esercito, e possinlo dipoi combattere più
facilmente.
Ma, per dire ora io quello che
io ne intendo, io credo che si abbia a fare questa distinzione: o io
ho il mio paese armato, come i Romani, o come hanno i Svizzeri, o io
l'ho disarmato, come avevano i Cartaginesi, o come l'hanno il re di
Francia e gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico
discosto a casa; perché, sendo la tua virtù nel danaio
e non negli uomini, qualunque volta ti è impedita la via di
quello, tu sei spacciato; né cosa veruna te lo impedisce
quanto la guerra di casa. In esempli ci sono i Cartaginesi; i quali,
mentre che ebbono la casa loro libera, potettono con le rendite fare
guerra con i Romani; e quando l'avevano assaltata, non potevano
resistere ad Agatocle. I Fiorentini non avevano rimedio alcuno con
Castruccio signore di Lucca, perché ei faceva loro la guerra
in casa; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re
Ruberto di Napoli. Ma, morto Castruccio, quelli medesimi Fiorentini
ebbono animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed operare di
torgli il regno: tanta virtù mostrarono nelle guerre
longinque, e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni
sono armati, come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più
difficili a vincere quanto più ti appressi loro: perché
questi corpi possono unire più forze a resistere a uno impeto,
che non possono ad assaltare altrui. Né mi muove in questo
caso l'autorità d'Annibale, perché la passione e
l'utile suo gli faceva così dire a Antioco. Perché, se
i Romani avessono avute in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in
Francia ch'egli ebbero in Italia da Annibale, sanza dubbio erano
spacciati: perché non si sarebbono valuti de' residui degli
eserciti, come si valsono in Italia; non arebbono avuto, a rifarsi,
quelle commodità; né potevono con quelle forze
resistere al nimico, che poterono. Non si truova, per assaltare una
provincia, che loro mandassino mai fuora eserciti che passassino
cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne missero in arme
contro ai Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia
di migliaia. Né arebbono potuto poi rompere quegli in
Lombardia, come gli ruppono in Toscana; perché contro a tanto
numero di inimici non arebbono potuto condurre tante forze sì
discosto, né combattergli con quella commodità. I
Cimbri ruppono uno esercito romano nella Magna, né vi ebbono i
Romani rimedio. Ma come gli arrivarono in Italia, e che ei poterono
mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è
facile vincergli fuori di casa, dove ei non possono mandare più
che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in casa, dove ei ne
possono raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo
adunque, di nuovo, che quel principe che ha i suoi popoli armati ed
ordinati alla guerra, aspetti sempre in casa una guerra potente e
pericolosa, e non la vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi
sudditi disarmati, ed il paese inusitato alla guerra, se le discosti
sempre da casa il più che può. E così l'uno e
l'altro, ciascuno nel suo grado si difenderà meglio.
Cap.
13
Che si viene di bassa a gran fortuna più con
la fraude; che con la forza.
Io stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, sanza la forza e sanza la fraude; pure che quel grado al quale altri è pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità. Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene che la fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d'infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o a imperii grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione che fe' fare a Ciro contro al re di Armenia è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fe' occupare il suo regno; e non conchiude altro, per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di questo, Ciassare, re de' Medii, suo zio materno, in più modi; sanza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude: come fece Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati fare i principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la forza sola. E perché Roma tenne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. Né poté usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo, discorso di sopra da noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome se gli fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli a lo intorno. Perché prima si valse dell'armi loro in domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello stato; dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che vidono dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad accordo. La quale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co' principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e non l'armi, così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto poté questa invidia e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanzi difesi, congiurarono contro a il nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a' quali i Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si movessono per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel concilio loro disse queste parole: "Nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus etc.". Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati etiam della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.
Cap.
14
Ingannansi molte volte gli uomini, credendo con la umiltà
vincere la superbia.
Vedesi molte volte come l'umiltà non solamente non giova ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini insolenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani e i Latini. Perché, dolendosi i Sanniti con i Romani che i Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai Latini tale guerra, disiderando non gli irritare: il che non solamente non gli irritò ma gli fece diventare più animosi contro a loro, e si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato Annio pretore latino nel medesimo concilio, dov'e' dice: "Tentastis patientiam negando militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites, foederatos suos, audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia, nisi conscientia virium, et nostrarum et suarum?". Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de' Romani accrebbe l'arroganza de' Latini. E però, mai un principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai lasciare alcuna cosa d'accordo, volendola lasciare onorevolmente, se non quando e' la può, o ei si crede che la possa tenere: perché gli è meglio, quasi sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto, lasciarsela tôrre con le forze, che con la paura delle forze. Perché, se tu la lasci con la paura, lo fai per levarti la guerra, ed il più delle volte non te la lievi: perché colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso quella, non istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre cose, e si accenderà più contro a di te, stimandoti meno; e, dall'altra parte, in tuo favore troverrai i difensori più freddi, parendo loro che tu sia o debole o vile: ma se tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancora che le siano inferiori a lui, quello ti comincerà a stimare; stimanti più gli altri principi allo intorno; e a tale viene voglia di aiutarti, sendo in su l'armi, che, abbandonandoti, non ti aiuterebbe mai. Questo s'intende quando tu abbia uno inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu possedessi a alcuno di loro per riguadagnarselo, ancora che fussi di già scoperta la guerra, e per ismembrarlo dagli altri confederati tuoi nimici, fia sempre partito prudente.
Cap.
15
Gli stati deboli sempre fiano ambigui nel risolversi: e
sempre le diliberazioni lente sono nocive.
In
questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di guerra
intra i Latini ed i Romani, si può notare come in ogni
consulta è bene venire allo individuo di quello che si ha a
diliberare, e non stare sempre in ambiguo né in su lo incerto
della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché,
avendo i Romani presentito questo cattivo umore che ne' popoli latini
era entrato, per certificarsi della cosa, e per veder se potevano
sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi quegli popoli, fecero loro
intendere, come e' mandassono a Roma otto cittadini perché
avevano a consultare con loro. I Latini, inteso questo, ed avendo
coscienza di molte cose fatte contro alla voglia de' Romani, fecioro
concilio per ordinare chi dovesse ire a Roma e darli commissione di
quello ch'egli avesse a dire. E stando nel concilio in questa
disputa, Annio loro pretore disse queste parole: "Ad summam
rerum nostrarum pertinere arbitror, ut cogitetis magis, quid agendum
nobis, quam quid loquendum sit. Facile erit, explicatis consiliis,
accommodare rebus verba". Sono, sanza dubbio, queste parole
verissime e debbono essere da ogni principe e da ogni republica
gustate: perché, nella ambiguità e nella incertitudine
di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole,
ma, fermo una volta l'animo, e diliberato quello sia da esequire, è
facil cosa trovarvi le parole. Io ho notata questa parte più
volentieri, quanto io ho molte volte conosciuto tale ambiguità
avere nociuto alle publiche azioni, con danno e con vergogna della
republica nostra. E sempre mal avverrà che ne' partiti dubbi e
dove bisogna animo a diliberargli, sarà questa ambiguità,
quando abbiano a essere consigliati e diliberati da uomini
deboli.
Non sono meno nocive ancora le
diliberazioni lente e tarde, che le ambigue; massime quelle che si
hanno a diliberare in favore di alcuno amico; perché con la
lentezza loro non si aiuta persona, e nuocesi a sé medesimo.
Queste diliberazioni così fatte procedono o da debolezza
d'animo e di forze, o da malignità di coloro che hanno a
diliberare i quali, mossi dalla passione propria di volere rovinare
lo stato o adempiere qualche altro loro disiderio, non lasciano
seguire la diliberazione, ma la impediscono e la attraversono. Perché
i buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare voltarsi
alla parte perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime di
quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno in
Siragusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i Romani,
vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire l'amicizia romana
o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa
stava ambigua, né se ne prendeva alcuno partito: insino a
tanto che Apollonide, uno de' primi in Siracusa, con una sua orazione
piena di prudenza, mostrò come e' non era da biasimare chi
teneva la opinione di aderirsi ai Romani, né quelli che
volevano seguire la parte cartaginese; ma era bene da detestare
quella ambiguità e tardità di pigliare il partito,
perché vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina
della republica; ma preso che si fussi il partito, qualunque si
fusse, si poteva sperare qualche bene. Né potrebbe mostrare
più Tito Livio, che si faccia in questa parte, il danno che si
tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso de'
Latini: poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro d'aiuto
contro ai Romani, differirono tanto a diliberarlo, che, quando eglino
erano usciti appunto fuora della porta con le genti per dare loro
soccorso, venne la nuova i Latini essere rotti. Donde Milionio loro
pretore disse: - Questo poco della via ci costerà assai col
Popolo romano -. Perché, se si diliberavano prima, o di
aiutare o di non aiutare i Latini, non li aiutando, ei non irritavano
i Romani; aiutandogli, essendo lo aiuto in tempo, potevono con la
aggiunta delle loro forze fargli vincere; ma differendo, venivano a
perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se i Fiorentini
avessono notato questo testo, non arebbono avuto co' Franciosi né
tanti danni né tante noie quante ebbono nella passata che il
re Luigi di Francia XII fece in Italia contro a Lodovico duca di
Milano. Perché, trattando il re tale passata, ricercò i
Fiorentini d'accordo: e gli oratori, che erano appresso al re,
accordarono con lui che si stessino neutrali, e che il re venendo in
Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in protezione: e
dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita
tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di
Lodovico: intanto che, il re già sendo in su la vittoria, e
volendo poi i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione
accettata; come quello che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati
e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città
di Firenze assai danari, e fu per perdere lo stato: come poi altra
volta per simile causa le intervenne. E tanto più fu dannabile
quel partito, perché non si servì ancora a il duca
Lodovico; il quale, se avesse vinto, arebbe mostri molti più
segni d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E benché
del male che nasce, alle republiche, di questa debolezza, se ne sia
di sopra in uno altro capitolo discorso, nondimeno, avendone di nuovo
occasione per uno nuovo accidente, ho voluto replicarne parendomi,
massime, materia che debba essere dalle republiche, simili alla
nostra, notata.
Cap.
16
Quanto i soldati de' nostri tempi si disformino dagli
antichi ordini.
La
più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con
alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i popoli
latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perché ogni
ragione vuole che, così come i Latini per averla perduta
diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani, quando
non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito Livio;
perché in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine, di virtù,
d'ostinazione e di numero: solo vi fa differenza, che i capi dello
esercito romano furono più virtuosi che quelli dello esercito
latino. Vedesi ancora come nel maneggio di questa giornata nacquono
due accidenti, non prima nati, e che dipoi hanno radi esempli: che,
di due Consoli, per tenere fermi gli animi de' soldati, ed ubbidienti
a' comandamenti loro, e diliberati al combattere l'uno ammazzò
sé stesso, e l'altro il figliuolo. La parità, che Tito
Livio dice essere in questi eserciti, era che, per avere militato
gran tempo insieme, erano pari di lingua, d'ordine e d'armi: perché
nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli ordini e i
capi degli ordini avevano i medesimi nomi. Era dunque necessario,
sendo di pari forze e di pari virtù, che nascesse qualche cosa
istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinati gli animi
dell'uno che dell'altro: nella quale ostinazione consiste, come altre
volte si è detto, la vittoria; perché, mentre che la
dura ne' petti di quelli che combattono, mai non dànno volta
gli eserciti. E perché la durasse più ne' petti de'
Romani che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de'
Consoli fece nascere che Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e
Decio sé stesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare questa parità
di forze, tutto l'ordine che tenevono i Romani nelli eserciti e nelle
zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non replicherò
altrimenti; ma solo discorrerò quello che io vi giudico
notabile, e quello che, per essere negletto da tutti i capitani di
questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle zuffe, di molti
disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si raccoglie come
lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali
toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nominavano la prima
astati, la seconda principi, la terza triari: e ciascuna di queste
aveva i suoi cavagli. Nello ordinare una zuffa, ei mettevano gli
astati innanzi; nel secondo luogo, per ritto, dietro alle spalle di
quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure nel medesimo filo,
collocavano i triari. I cavagli di tutti questi ordini gli ponevano a
destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le stiere de' quali
cavagli, dalla forma loro, e dal luogo, si chiamavano "alae"
perché parevano come due alie di quel corpo. Ordinavono la
prima stiera, degli astati, che era nella fronte, serrata in modo
insieme, che la potesse spignere e sostenere il nimico. La seconda
stiera, de' principi, perché non era la prima a combattere, ma
bene le conveniva soccorrere alla prima quando fussi battuta o
urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e
di qualità che la potessi ricevere in sé, sanza
disordinarsi, la prima, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse
necessitata ritirarsi. La terza stiera, de' triari, aveva ancora gli
ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in sé,
bisognando, le due prime stiere, de' principi e degli astati.
Collocate, dunque, queste stiere in questa forma, appiccavano la
zuffa: e, se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella
radità degli ordini de' principi; e, tutti uniti insieme,
fatto di due stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa: se questi
ancora erano ributtati, sforzati si ritiravano tutti nella rarità
degli ordini de' triari; e tutt'a tre le stiere, diventate uno corpo,
rinnovavano la zuffa: dove essendo superati, per non avere più
da rifarsi, perdevono la giornata. E perché ogni volta che
questa ultima stiera de' triari si adoperava, lo esercito era in
pericolo, ne nacque quel proverbio: "Res redacta est ad
triarios", che, a uso toscano, vuole dire:"Noi abbiamo
messa l'ultima posta". I capitani de' nostri tempi, come egli
hanno abbandonati tutti gli altri ordini, e della antica disciplina
non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonata questa
parte, la quale non è di poca importanza: perché chi si
ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha ad avere tre
volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per
iscontro una virtù che sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi
non sta se non in sul primo urto, come stanno oggi tutti gli eserciti
cristiani, può facilmente perdere; perché ogni
disordine, ogni mezzana virtù gli può tôrre la
vittoria. Quello che fa agli eserciti nostri mancare di potersi
rifare tre volte, è lo avere perduto il modo di ricevere l'una
stiera nell'altra. Il che nasce perché al presente s'ordinano
le giornate con uno di questi due disordini: o ei mettono le loro
stiere a spalle l'una dell'altra, e fanno la loro battaglia, larga
per traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole,
per avere poco dal petto alle stiene. E quando pure, per farla più
forte, ei riducano le stiere per il verso de' Romani, se la prima
fronte è rotta, non avendo ordine di essere ricevuta dalla
seconda, s'ingarbugliano insieme tutte, e rompano sé medesime:
perché, se quella dinanzi è spinta, ella urta la
seconda; se la seconda si vuole fare innanzi, ella è impedita
dalla prima: donde che, urtando la prima la seconda, e la seconda la
terza, ne nasce tanta confusione, che spesso un minimo accidente
rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi nella zuffa
di Ravenna, dove morì monsignor de Fois capitano delle genti
di Francia (la quale fu, secondo i nostri tempi, assai bene
combattuta giornata), s'ordinarono con l'uno de' soprascritti modi;
cioè che l'uno e l'altro esercito venne con tutte le sue genti
ordinate a spalle: in modo che non venivano avere né l'uno né
l'altro se non una fronte, ed erano assai più per il traverso
che per il diritto. E questo avviene loro sempre, dove egli hanno la
campagna grande, come gli avevano a Ravenna: perché,
conoscendo il disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un
filo, lo fuggono, quando ei possono, col fare la fronte larga, come è
detto; ma quando il paese gli ristrigne, si stanno nel disordine
soprascritto, sanza pensare al rimedio. Con questo medesimo disordine
cavalcano per il paese inimico, o se ei predano, o se fanno altro
maneggio di guerra. Ed a Santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove,
dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne' tempi della guerra che
fu tra i Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo
la passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque tale rovina
d'altronde che dalla cavalleria amica; la quale, sendo davanti e
ributtata da' nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e quella
ruppe: donde tutto il restante delle genti dierono volta: e messer
Ciriaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha
affermato alla presenza mia molte volte, non essere mai stato rotto
se non dalla cavalleria degli amici. I Svizzeri, che sono i maestri
delle moderne guerre, quando ei militano con i Franciosi, sopra tutte
le cose hanno cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se
fusse ributtata, non gli urti. E benché queste cose paiano
facili ad intendere, e facilissime a farsi, nondimeno non si è
trovato ancora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli
antichi ordini imiti, e i moderni corregga. E benché gli
abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando l'una parte
antiguardo, l'altra battaglia, e l'altra retroguardo; non se ne
servono ad altro che a comandarli nelli alloggiamenti, ma nello
adoperargli, rade volte è, come di sopra è detto, che a
tutti questi corpi non faccino correre una medesima fortuna.
E
perché molti, per scusarne la ignoranza loro, allegano che la
violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si usino
molti ordini de gli antichi, voglio disputare nel seguente capitolo
questa materia, e vo' esaminare se le artiglierie impediscano che non
si possa usare l'antica virtù.
Cap.
17
Quanto si debbino stimare dagli eserciti ne' presenti tempi
le artiglierie; e se quella opinione, che se ne ha in universale, è
vera.
Considerando
io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate ne'
nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate, e, dagli Italiani,
fatti d'arme) furono fatte da' Romani in diversi tempi, mi è
venuto in considerazione la opinione universale di molti, che vuole
che, se in quegli tempi fussono state le artiglierie, non sarebbe
stato lecito ai Romani, né sì facile, pigliare le
provincie, farsi tributari i popoli, come ei fecero; né
arebbono in alcuno modo fatto sì gagliardi acquisti. Dicono
ancora, che, mediante questi instrumenti de' fuochi, gli uomini non
possono usare né mostrare la virtù loro, come ei
potevano anticamente. E soggiungano una terza cosa: che si viene con
più difficultà alle giornate che non si veniva allora,
né vi si può tenere dentro quegli ordini di quegli
tempi; talché la guerra si ridurrà col tempo in su le
artiglierie. E giudicando non fuora di proposito disputare se tali
opinioni sono vere, e quanto le artiglierie abbino accresciuto o
diminuito di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione
ai buoni capitani di operare virtuosamente, comincerò a
parlare quanto alla prima loro opinione: che gli eserciti antichi
romani non arebbano fatto gli acquisti che feciono, se le artiglierie
fussono state. Sopra che, rispondendo, dico come e' si fa guerra o
per difendersi o per offendere; donde si ha prima a esaminare a quale
di questi due modi di guerra le faccino più utile o più
danno. E benché sia che dire da ogni parte, nondimeno io credo
che sanza comparazione faccino più danno a chi si difende, che
a chi offende. La ragione che io ne dico è, che quel che si
difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in su i
campi dentro a uno steccato. S'egli è dentro a una terra, o
questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle
fortezze, o la è grande: nel primo caso, chi si difende è
al tutto perduto, perché l'impeto delle artiglierie è
tale che non truova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi
giorni ei non abbatta; e se chi è dentro non ha buoni spazi da
ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; né può
sostenere l'impeto del nimico che volessi dipoi entrare per la
rottura del muro, né a questo gli giova artiglieria che
avessi: perché questa è una massima, che dove gli
uomini in frotta e con impeto possono andare, le artiglierie non gli
sostengono. Però i furori oltramontani nella difesa delle
terre non sono sostenuti: son bene sostenuti gli assalti italiani, i
quali, non in frotta ma spicciolati, si conducano alle battaglie, le
quali loro, per nome molto proprio, chiamano scaramucce. E questi che
vanno con questo disordine e questa freddezza a una rottura d'un muro
dove siano artiglierie, vanno a una manifesta morte, e contro a loro
le artiglierie vagliano: ma quegli che in frotta condensati, e che
l'uno spinge l'altro, vengono a una rottura, se non sono sostenuti o
da fossi o da ripari, entrono in ogni luogo, e le artiglierie non gli
tengono; e, se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che
gl'impedischino la vittoria.
Questo,
essere vero, si è conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli
oltramontani in Italia, e massime in quella di Brescia: perché,
sendosi quella terra ribellata da' Franciosi, e tenendosi ancora per
il re di Francia la fortezza, avevano i Viniziani, per sostenere
l'impeto che da quella potesse venire nella terra, munita tutta la
strada d'artiglierie, che dalla fortezza alla città scendeva,
e postene a fronte e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno.
Delle quali monsignor di Fois non fece alcuno conto; anzi, quello con
il suo squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di quelle,
occupò la città, né per quelle si sentì
ch'egli avesse ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi
si difende in una terra piccola, come è detto, e truovisi le
mura in terra, e non abbia spazio da ritirarsi con i ripari e con
fossi ed abbiasi a fidare in su le artiglierie, si perde subito. Se
tu difendi una terra grande, e che tu abbia commodità di
ritirarti, sono nondimanco sanza comparazione più utili le
artiglierie a chi è di fuori, che a chi è dentro.
Prima, perché, a volere che una artiglieria nuoca a quegli che
sono di fuora, tu se' necessitato levarti con essa dal piano della
terra; perché, stando in sul piano, ogni poco d'argine e di
riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi
nuocere. Tanto che, avendoti a alzare, e tirarti in sul corridoio
delle mura, o in qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro
due difficultà: la prima, che tu non puoi condurvi artiglierie
della grossezza e della potenza che può trarre colui di fuora,
non si potendo ne' piccoli spazii maneggiare le cose grandi: l'altra
è, quando bene tu ve le potessi condurre, tu non puoi fare
quegli ripari fedeli e sicuri, per salvare detta artiglieria, che
possono fare quegli di fuori, essendo in sul terreno, ed avendo
quelle commodità e quello spazio che loro medesimi vogliono:
talmenteché, gli è impossibile, a chi difende una
terra, tenere le artiglierie ne' luoghi alti, quando quegli che sono
di fuori abbino assai artiglierie e potente; e se egli hanno a venire
con essa ne' luoghi bassi, ella diventa in buona parte inutile, come
è detto. Talché la difesa della città si ha a
ridurre a difenderla con le braccia, come anticamente si faceva, e
con l'artiglieria minuta: di che se si trae un poco di utilità,
rispetto a questa artiglieria minuta, se ne cava incommodità
che contrappesa alla commodità dell'artiglieria; perché,
rispetto a quella, si riducano le mura delle terre, basse e quasi
sotterrate ne' fossi: talché, come si viene alla battaglia di
mano, o per essere battute le mura o per essere ripieni i fossi, ha,
chi è dentro, molti più disavvantaggi che non aveva
allora. E però, come di sopra si disse, giovano questi
instrumenti molto più a chi campeggia le terre, che a chi è
campeggiato. Quanto alla terza cosa, di ridursi in un campo dentro a
uno steccato, per non fare giornata se non a tua comodità o
vantaggio, dico che in questa parte tu non hai più rimedio,
ordinariamente, a difenderti di non combattere, che si avessono gli
antichi; e qualche volta, per conto delle artiglierie, hai maggiore
disavvantaggio. Perché, se il nimico ti giugne addosso, ed
abbia un poco di vantaggio del paese, come può facilmente
intervenire, e truovisi più alto di te; o che nello arrivare
suo tu non abbia ancora fatti i tuoi argini, e copertoti bene con
quegli; subito, e sanza che tu abbia alcun rimedio, ti disalloggia, e
sei forzato uscire delle fortezze tue, e venire alla zuffa. Il che
intervenne agli Spagnuoli nella giornata di Ravenna; i quali
essendosi muniti tra 'l fiume del Ronco ed uno argine, per non lo
avere tirato tanto alto che bastasse, e per avere i Franciosi un poco
il vantaggio del terreno, furono costretti dalle artiglierie uscire
delle fortezze loro, e venire alla zuffa. Ma dato, come il più
delle volte debbe essere, che il luogo che tu avessi preso con il
campo fosse più eminente che gli altri all'incontro, e che gli
argini fussono buoni e sicuri, talché, mediante il sito e
l'altre tue preparazioni il nimico non ardisse d'assaltarti; si verrà
in questo caso a quegli modi che anticamente si veniva, quando uno
era con il suo esercito in lato da non potere essere offeso: i quali
sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche,
impedirti le vettovaglie, tanto che tu sarai forzato da qualche
necessità a disalloggiare, e venire a giornata; dove le
artiglierie, come di sotto si dirà, non operano molto.
Considerato, adunque, di quali ragioni guerre feciono i Romani, e
veggendo come ei feciono quasi tutte le loro guerre per offendere
altrui e non per difendere loro, si vedrà, quando siano vere
le cose dette di sopra, come quelli arebbono avuto più
vantaggio, e più presto arebbono fatto i loro acquisti, se le
fossono state in quelli tempi.
Quanto alla
seconda cosa, che gli uomini non possono mostrare la virtù
loro, come ei potevano anticamente, mediante l'artiglieria; dico
ch'egli è vero, che, dove gli uomini spicciolati si hanno a
mostrare, che ei portano più pericoli che allora, quando
avessono a scalare una terra, o fare simili assalti, dove gli uomini
non ristretti insieme ma di per sé l'uno dall'altro avessono a
comparire. È vero ancora, che gli capitani e capi degli
eserciti stanno sottoposti più a il pericolo della morte che
allora, potendo essere aggiunti con le artiglierie in ogni luogo; né
giova loro lo essere nelle ultime squadre, e muniti di uomini
fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno e l'altro di questi dua
pericoli fanno rade volte danni istraordinari: perché le terre
munite bene non si scalano, né si va con assalti deboli ad
assaltarle; ma, a volerle espugnare, si riduce la cosa a una
ossidione, come anticamente si faceva. Ed in quelle che pure per
assalto si espugnano, non sono molto maggiori i pericoli che allora:
perché non mancavano anche in quel tempo, a chi difendeva le
terre, cose da trarre; le quali, se non erano così furiose,
facevano, quanto allo ammazzare gli uomini, il simile effetto. Quanto
alla morte de' capitani e condottieri, ce ne sono, in ventiquattro
anni che sono state le guerre ne' prossimi tempi in Italia, meno
esempli che non era in dieci anni di tempo appresso agli antichi.
Perché, dal conte Lodovico della Mirandola, che morì a
Ferrara quando i Viniziani, pochi anni sono, assaltarono quello
stato, ed il Duca di Nemors, che morì alla Cirignuola, in
fuori, non è occorso che d'artiglierie ne sia morto alcuno;
perché monsignore di Fois a Ravenna morì di ferro, e
non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non dimostrano particularmente
la loro virtù, nasce, non dalle artiglierie, ma dai cattivi
ordini e dalla debolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù
nel tutto, non la possono mostrare nella parte.
Quanto
alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire alle mani,
e che la guerra si condurrà tutta in su l'artiglierie, dico
questa opinione essere al tutto falsa; e così fia sempre
tenuta da coloro che secondo l'antica virtù vorranno adoperare
gli eserciti loro. Perché, chi vuole fare uno esercito buono,
gli conviene, con esercizi o fitti o veri, assuefare gli uomini sua
ad accostarsi al nimico, e venire con lui al menare della spada ed a
pigliarsi per il petto; e si debbe fondare più in su le
fanterie che in su' cavagli, per le ragioni che di sotto si diranno.
E quando si fondi in su i fanti ed in su i modi predetti, diventono
al tutto le artiglierie inutili; perché con più
facilità le fanterie, nello accostarsi al nimico, possono
fuggire il colpo delle artiglierie, che non potevano anticamente
fuggire l'impeto degli elefanti, de' carri falcati, e d'altri
riscontri inusitati, che le fanterie romane riscontrarono; contro ai
quali sempre trovarono il rimedio: e tanto più facilmente lo
arebbono trovato contro a queste, quanto egli è più
breve il tempo nel quale le artiglierie ti possano nuocere, che non
era quello nel quale potevano nuocere gli elefanti ed i carri. Perché
quegli nel mezzo della zuffa ti disordinavano, queste, solo innanzi
alla zuffa, t'impediscano: il quale impedimento facilmente le
fanterie fuggono, o con andare coperte dalla natura del sito, o con
abbassarsi in su la terra quando le tirano. Il che anche, per
isperienza, si è visto non essere necessario, massime per
difendersi dalle artiglierie grosse; le quali non si possono in modo
bilanciare, o che, se le vanno alto, le non ti trovino, o che, se le
vanno basso, le non ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani,
questo è chiaro più che la luce, che né le
grosse né le piccole ti possono offendere: perché, se
quello che ha l'artiglierie è davanti, diventa tuo prigione;
s'egli è dietro, egli offende prima l'amico che te; a spalle
ancora non ti può ferire in modo che tu non lo possa ire a
trovare, e ne viene a seguitare lo effetto detto. Né questo ha
molta disputa; perché se ne è visto l'esemplo de'
Svizzeri, i quali a Novara nel 1513, sanza artiglierie e sanza
cavagli, andarono a trovare lo esercito francioso, munito
d'artiglierie, dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere
alcuno impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose
dette di sopra, che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a
volere che la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come le
mancherà una di queste guardie, ella è prigione, o la
diventa inutile: come le interviene quando la si ha a difendere con
gli uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe campali. Per
fianco le non si possono adoperare, se non in quel modo che
adoperavano gli antichi gli instrumenti da trarre; che gli mettevano
fuori delle squadre, perché ei combattessono fuori degli
ordini; ed ogni volta che o da cavalleria o da altri erano spinti, il
rifugio loro era dietro alle legioni. Chi altrimenti ne fa conto, non
la intende bene, e fidasi sopra una cosa che facilmente lo può
ingannare. E se il Turco, mediante l'artiglieria, contro al Sofi ed
il Soldano ha avuto vittoria, è nato non per altra virtù
di quella che per lo spavento che lo inusitato romore messe nella
cavalleria loro.
Conchiuggo pertanto,
venendo al fine di questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno
esercito quando vi sia mescolata l'antica virtù; ma, sanza
quella, contro a uno esercito virtuoso è inutilissima.
Cap.
18
Come per l'autorità de' Romani, e per lo esemplo
della antica milizia, si debba stimare più le fanterie che i
cavagli.
E'
si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare
chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari azioni estimassono
più la milizia a piede che a cavallo, e sopra quella
fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si vede per molti
esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con i Latini
appresso al lago Regillo; dove essendo già inclinato lo
esercito romano, per soccorrere ai suoi, fecero discendere, degli
uomini a cavallo, a piede, e per quella via, rinnovata la zuffa,
ebbono la vittoria. Dove si vede manifestamente, i Romani avere più
confidato in loro sendo a piede, che mantenendoli a cavallo. Questo
medesimo termine usarono in molte altre zuffe, e sempre lo trovarono
ottimo rimedio alli loro pericoli.
Né
si opponga a questo la opinione d'Annibale, il quale, veggendo in la
giornata di Canne che i Consoli avevano fatto discendere a piè
li loro cavalieri, facendosi beffe di simile partito, disse: "Quam
mallem vinctos mihi traderent equites!", cioè: - Io arei
più caro che me gli dessino legati -. La quale opinione,
ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo eccellentissimo,
nondimanco, se si ha ad ire dietro alla autorità, si debbe più
credere a una Republica romana, e a tanti capitani eccellentissimi
che furono in quella, che a uno solo Annibale. Ancoraché,
sanza le autorità, ce ne sia ragioni manifeste: perché
l'uomo a piede può andare in di molti luoghi, dove non può
andare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e, turbato che
fussi, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli è difficile
fare servare l'ordine, ed impossibile, turbati che sono,
riordinargli. Oltre a questo, si truova, come negli uomini, de'
cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno assai: e molte
volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da un uomo
vile, e uno cavallo vile da uno animoso; ed in qualunque modo che
segua questa disparità, ne nasce inutilità e disordine.
Possono le fanterie, ordinate, facilmente rompere i cavagli, e
difficilmente essere rotte da quegli. La quale opinione è
corroborata, oltre a molti esempli antichi e moderni, dalla autorità
di coloro che danno delle cose civili regola: dove ei mostrano come
in prima le guerre si cominciarono a fare con i cavagli, perché
non era ancora l'ordine delle fanterie ma come queste si ordinarono,
si conobbe subito quanto loro erano più utili che quelli. Non
è per questo però che i cavagli non siano necessarii
negli eserciti, e per fare scoperte, per iscorrere e predare i paesi,
per seguitare i nimici quando ei sono in fuga, e per essere ancora in
parte una opposizione ai cavagli degli avversari: ma il fondamento e
il nervo dello esercito, e quello che si debbe più stimare,
debbano essere le fanterie.
Ed infra i
peccati de' principi italiani, che hanno fatto Italia serva de'
forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto poco conto
di questo ordine, ed avere volto tutta la sua cura alla milizia a
cavallo. Il quale disordine è nato per la malignità de'
capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato. Perché,
essendosi ridotta la milizia italiana da' venticinque anni indietro,
in uomini che non avevano stato, ma erano come capitani di ventura,
pensarono subito come potessero mantenersi la riputazione, stando
armati loro e disarmati i principi. E perché uno numero grosso
di fanti non poteva loro essere continovamente pagato, e non avendo
sudditi da potere valersene, ed uno piccol numero non dava loro
riputazione, si volsono a tenere cavagli: perché dugento o
trecento cavagli che erano pagati ad uno condottiere, lo mantenevano
riputato, ed il pagamento non era tale, che dagli uomini che tenevono
stato non potesse essere adempiuto. E perché questo seguisse
più facilmente, e per mantenersi più in riputazione,
levarono tutta l'affezione e la riputazione da' fanti, e ridussonla
in quelli loro cavagli: e in tanto crebbono in questo disordine, che
in qualunque grossissimo esercito era una minima parte di fanteria.
La quale usanza fece in modo debole, insieme con molti altri
disordini che si mescolarono con quella, questa milizia italiana, che
questa provincia è stata facilmente calpesta da tutti gli
oltramontani. Mostrasi più apertamente questo errore, di
stimare più i cavagli che le fanterie, per uno altro esemplo
romano. Erano i Romani a campo a Sora, ed essendo uscito fuori della
terra una turma di cavagli per assaltare il campo, se gli fece allo
incontro il Maestro de' cavagli romano con la sua cavalleria; e
datosi di petto, la sorte dette che nel primo scontro i capi dell'uno
e dell'altro esercito morirono; e restati gli altri sanza governo, e
durando nondimeno la zuffa, i Romani, per superare più
facilmente il nimico, scesono a piede, e constrinsono i cavalieri
inimici, se si vollono difendere, a fare il simile: e, con tutto
questo, i Romani ne riportarono la vittoria. Non può essere
questo esemplo maggiore in dimostrare quanto sia più virtù
nelle fanterie che ne' cavagli: perché, se nelle altre fazioni
i Consoli facevano discendere i cavalieri romani, era per soccorrere
alle fanterie che pativano, e che avevano bisogno di aiuto; ma in
questo luogo e' discesono, non per soccorrere alle fanterie né
per combattere con uomini a piè de' nimici, ma combattendo a
cavallo, con cavagli, giudicarono, non potendo superargli a cavallo,
potere, scendendo, più facilmente vincergli. Io voglio adunque
conchiudere, che una fanteria ordinata non possa sanza grandissima
difficultà essere superata se non da un'altra fanteria. Crasso
e Marc'Antonio romani corsono per il dominio de' Parti molte giornate
con pochissimi cavagli ed assai fanteria, ed allo incontro avevano
innumerabili cavagli de' Parti. Crasso vi rimase, con parte dello
esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si salvò.
Nondimanco in queste azioni romane si vide quanto le fanterie
prevalevano ai cavagli: perché, essendo in uno paese largo,
dove i monti sono radi, i fiumi radissimi, le marine longinque, e
discosto da ogni commodità, nondimanco Marc'Antonio, al
giudicio de' Parti medesimi, virtuosissimamente si salvò; né
mai ebbeno ardire tutta la cavalleria partica tentare gli ordini
dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene le
sue azioni vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato che
sforzato: né mai, in tutti i suoi disordini, i Parti ardirono
d'urtarlo; anzi, sempre andando costeggiandolo, impedendogli le
vettovaglie, e promettendogli e non gli osservando, lo condussono a
una estrema miseria.
Io crederei avere a
durare più fatica in persuadere quanto la virtù delle
fanterie è più potente che quella de' cavalli se non ci
fossono assai moderni esempli che ne rendano testimonianza
pienissima. E' si è veduto novemila Svizzeri a Novara, da noi
di sopra allegata, andare a affrontare diecimila cavagli ed
altrettanti fanti, e vincergli: perché i cavagli non gli
potevano offendere: i fanti, per essere gente in buona parte guascona
e male ordinata, la stimavano poco. Videsi di poi ventiseimila
Svizzeri andare a trovare sopra a Milano Francesco re di Francia, che
aveva seco ventimila cavagli, quarantamila fanti, e cento carra
d'artiglierie; e se non vinsono la giornata come a Novara, ei la
combatterono dua giorni virtuosamente e dipoi, rotti ch'ei furono, la
metà di loro si salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non
solo con la fanteria sua sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se
il disegno non gli riuscì, non fu però che la virtù
della sua fanteria non fosse tanta, ch' e' non confidasse tanto in
lei che credesse superare quella difficultà. Replico,
pertanto, che, a volere superare i fanti ordinati, è
necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quegli: altrimenti,
si va a una perdita manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di
Milano, scesono in Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde quel
Duca, avendo per suo capitano allora il Carmignuola, lo mandò
con circa mille cavagli e pochi fanti all'incontro loro. Costui, non
sappiendo l'ordine del combattere loro, ne andò a incontrarli
con i suoi cavagli, presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli
immobili, avendo perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed
essendo valentissimo uomo, e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare
nuovi partiti, rifattosi di gente gli andò a trovare; e,
venuto loro all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue
genti d'armi, e, fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò
ad investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché,
sendo le genti d'armi del Carmignuola a piè e bene armate,
poterono facilmente entrare intra gli ordini de' Svizzeri, sanza
patire alcuna lesione ed entrati tra quegli poterono facilmente
offenderli: talché di tutto il numero di quegli, ne rimase
quella parte viva, che per umanità del Carmignuola fu
conservata.
Io credo che molti conoschino
questa differenzia di virtù che è intra l'uno e l'altro
di questi ordini: ma è tanta la infelicità di questi
tempi, che né gli esempli antichi né i moderni né
la confessione dello errore è sufficiente a fare che i moderni
principi si ravvegghino; e pensino che, a volere rendere riputazione
alla milizia d'una provincia o d'uno stato, sia necessario
risuscitare questi ordini, tenergli appresso, dare loro riputazione,
dare loro vita, acciocché a lui e vita e riputazione rendino.
E come ei deviano da questi modi, così deviano dagli altri
modi, detti di sopra: onde ne nasce che gli acquisti sono a danno,
non a grandezza, d'uno stato; come di sotto si dirà.
Cap.
19
Che gli acquisti nelle republiche non bene ordinate, e che
secondo la romana virtù non procedano, sono a ruina, non ad
esaltazione di esse.
Queste
contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali esempli
che da questi nostri corrotti secoli sono stati introdotti, fanno che
gli uomini non pensono a deviare dai consueti modi. Quando si sarebbe
potuto persuadere uno Italiano, da trenta anni in dietro che
diecimila fanti potessono assaltare in un piano diecimila cavagli ed
altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere ma
vincergli, come si vide per lo esemplo da noi più volte
allegato, a Novara? E benché le istorie ne siano piene, tamen
non ci arebbero prestato fede; e se ci avessero prestato fede,
arebbero detto che in questi tempi s'arma meglio, e che una squadra
di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non che una
fanteria: e così con queste false scuse corrompevano il
giudizio loro; né arebbero considerato che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane, e che fra quelli
cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli uomini
d'arme nostri: e così, come questa fallacia è stata
scoperta dallo esemplo delle genti oltramontane. E come e' si vede,
per quello, essere vero, quanto alla fanteria, quello che nelle
istorie si narra, così doverrebbero credere essere veri e
utili tutti gli altri ordini antichi. E quando questo fusse creduto,
le republiche ed i principi errerebbero meno; sariano più
forti a opporsi a uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno vivere
civile, lo saperebbono meglio indirizzare, o per la via dello
ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbono che lo
accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare capitale
delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e
non con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero il privato,
mantenere con sommo studio gli esercizi militari, fusse la vera via a
fare grande una republica, e ad acquistare imperio. E quando questo
modo dello ampliare non gli piacessi, penserebbe che gli acquisti per
ogni altra via sono la rovina delle republiche, e porrebbe freno a
ogni ambizione; regolando bene la sua città dentro con le
leggi e co' costumi, proibendole lo acquistare, e solo pensando a
difendersi, e le difese tenere ordinate bene: come fanno le
republiche della Magna, le quali in questi modi vivano e sono vivute
libere un tempo.
Nondimeno, come altra
volta dissi quando discorsi la differenza che era, da ordinarsi per
acquistare e ordinarsi per mantenere; è impossibile che ad una
republica riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e
gli pochi confini: perché, se lei non molesterà altrui,
sarà molestata ella; e dallo essere molestata le nascerà
la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi
il nimico fuora, lo troverrebbe in casa: come pare necessario
intervenga a tutte le gran cittadi. E se le republiche della Magna
possono vivere loro in quel modo, ed hanno potuto durare un tempo,
nasce da certe condizioni che sono in quel paese, le quali non sono
altrove, sanza le quali non potrebbero tenere simile modo di
vivere.
Era quella parte della Magna di
che io parlo, sottoposta allo Imperio romano come la Francia e la
Spagna: ma venuto dipoi in declinazione e ridottosi il titolo di tale
Imperio in quella provincia, cominciarono quelle città più
potenti, secondo la viltà o necessità degl'imperadori,
a farsi libere, ricomperandosi dallo Imperio, con riservargli un
piccol censo annuario; tanto che, a poco a poco, tutte quelle città
che erano immediate dello imperadore, e non erano suggette d'alcuno
principe, si sono in simil modo ricomperate. Occorse, in questi
medesimi tempi che queste città si ricomperavano, che certe
comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui;
tra le quali fu Filiborg, e i Svizzeri, e simili; le quali
prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco tanto augumento,
che, non che e' siano tornati sotto il giogo di Austria, sono in
timore a tutti i loro vicini: e questi sono quegli che si chiamano i
Svizzeri. È , adunque, questa provincia compartita in
Svizzeri, republiche che chiamano terre franche, principi, ed
imperadore. E la cagione che, intra tante diversità di vivere,
non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto le guerre, è
quel segno dello imperadore; il quale, avvenga che non abbi forze,
nondimeno ha infra loro tanta riputazione ch'egli è un loro
conciliatore, e con l'autorità sua, interponendosi come
mezzano, spegne subito ogni scandolo. E le maggiori e le più
lunghe guerre vi siano state, sono quelle che sono seguite intra i
Svizzeri ed il duca d'Austria: e benché da molti anni in qua
lo imperadore ed il duca d'Austria sia una medesima cosa, non
pertanto non ha mai possuto superare l'audacia de' Svizzeri; dove non
è stato mai modo d'accordo, se non per forza. Né il
resto della Magna gli ha porti molti aiuti; sì perché
le comunità non sanno offendere chi vuole vivere libero come
loro; sì perché quelli principi, parte non possono, per
essere poveri, parte non vogliono, per avere invidia alla potenza
sua. Possono vivere, adunque, quelle comunità contente del
piccolo loro dominio, per non avere cagione, rispetto all'autorità
imperiale, di disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro alle
mura loro, per avere il nimico propinquo, e che piglierebbe le
occasioni di occuparle, qualunque volta le discordassono. Ché,
se quella provincia fusse condizionata altrimenti, converrebbe loro
cercare di ampliare e rompere quella loro quiete. E perché
altrove non sono tali condizioni, non si può prendere questo
modo di vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare
come i Romani. E chi si governa altrimenti, cerca non la sua vita, ma
la sua morte e rovina: perché in mille modi e per molte
cagioni gli acquisti sono dannosi; perché gli sta molto bene,
insieme acquistare imperio e non forze; e chi acquista imperio e non
forze insieme, conviene che rovini. Non può acquistare forze
chi impoverisce nelle guerre, ancora che sia vittorioso, che ei mette
più che non trae degli acquisti: come hanno fatto i Viniziani
ed i Fiorentini, i quali sono stati molto più deboli, quando
l'uno aveva la Lombardia e l'altro la Toscana, che non erano quando
l'uno era contento del mare, e l'altro di sei miglia di confini.
Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e non
avere saputo pigliare il modo: e tanto più meritano biasimo,
quanto eglino hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i
Romani, ed avendo potuto seguitare il loro esemplo, quando i Romani,
sanza alcuno esemplo, per la prudenza loro, da loro medesimi lo
seppono trovare. Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche volta
non mediocre danno ad ogni bene ordinata republica, quando e' si
acquista una città o una provincia piena di delizie, dove si
può pigliare di quegli costumi per la conversazione che si ha
con quegli: come intervenne a Roma, prima, nello acquisto di Capova,
e dipoi, a Annibale. E se Capova fusse stata più longinqua
dalla città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il
rimedio propinquo, o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta,
era, sanza dubbio, quello acquisto la rovina della romana Repubblica.
E Tito Livio fa fede di questo con queste parole: "Iam tunc
minime salubris militari disciplinae Capua, instrumentum omnium
voluptatum, delinitos militum animos avertit a memoria patriae".
E veramente, simili città o provincie si vendicano contro al
vincitore sanza zuffa e sanza sangue; perché, riempiendogli
de' suoi tristi costumi, gli espongono a essere vinti da qualunque
gli assalti. E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue satire, avere
considerata questa parte, dicendo che ne' petti romani per gli
acquisti delle terre peregrine erano entrati i costumi peregrini; ed
in cambio di parsimonia e d'altre eccellentissime virtù, "gula
et luxuria incubuit, victumque ulciscitur orbem". Se, adunque,
lo acquistare fu per essere pernizioso a' Romani ne' tempi che quegli
con tanta prudenzia e tanta virtù procedevono, che sarà
adunque a quegli che discosto dai modi loro procedono? e che, oltre
agli altri errori che fanno, di che se n'è di sopra discorso
assai, si vagliano de' soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne
risulta loro spesso quelli danni di che nel seguente capitolo si farà
menzione.
Cap.
20
Quale pericolo porti quel principe o quella republica che si
vale della milizia ausiliare o mercenaria.
Se io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la propria, io mi stenderei in questo discorso assai più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò, in questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da passarla, avendo trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari, sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari sono quegli che un principe o una republica manda, capitanati e pagati da lei, in tuo aiuto. E venendo al testo di Livio, dico che, avendo i Romani, in due diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con gli eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani; e per questo liberi i Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro; e volendo ritornare verso Roma, ed a ciò che i Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di nuovo preda de' Sanniti; lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli difendesse. Le quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono di prendere l'armi ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù avevano difeso; parendo loro che gli abitatori non fussono degni di possedere quegli beni che non sapevano difendere. La quale cosa presentita, fu da' Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure, largamente si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo, come di tutte l'altre qualità de' soldati, gli ausiliari sono i più dannosi: perché in essi quel principe o quella repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorità colui che gli manda. Perché gli soldati ausiliarii sono quegli che ti sono mandati da uno principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati da lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volte predano così colui che gli ha condotti, come colui contro a chi e' sono condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli manda, o per ambizione loro. E benché la intenzione de' Romani non fusse di rompere l'accordo e le convenzioni avevano fatto co' Capovani; non per tanto la facilità che pareva a quegli soldati di opprimergli fu tanta, che gli potette persuadere a pensare di tôrre a' Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare assai esempli, ma voglio mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu tolto la vita e la terra da una legione che i Romani vi avevano messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica pigliare prima ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello stato suo per sua difesa genti ausiliarie, quando al tutto e' si abbia a fidare sopra quelle; perché ogni patto, ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli arà col nimico gli sarà più leggieri che tale partito. E se si leggeranno bene le cose passate, e discorrerannosi le presenti, si troverrà, per uno che ne abbi avuto buono fine, infiniti esserne rimasi ingannati. Ed un principe o una republica ambiziosa non può avere la maggiore occasione di occupare una città o una provincia, che essere richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella. Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non solamente per difendersi ma per offendere altri, chiama simili aiuti, cerca d'acquistare quello che non può tenere, e che, da quello che gliene acquista, gli può facilmente essere tolto. Ma l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una presente voglia, non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene. Né lo muovono gli antichi esempli, così in questo come nell'altre cose discorse; perché, se e' fussono mossi da quegli, vedrebbero come, quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno da occupargli, tanto più si gettono in grembo: come di sotto, per lo esemplo de' Capovani, si dirà.
Cap.
21
Il primo pretore ch'e' romani mandarono in alcuno luogo, fu
a Capova, dopo quattrocento anni che cominciarono a fare guerra.
Quanto
i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare, fossero
differenti da quegli che ne' presenti tempi ampliano la giurisdizione
loro, si è assai di sopra discorso; e come e' lasciavano
quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi loro, eziandio
quelle che, non come compagne, ma come suggette si arrendevano loro;
ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio per il Popolo
romano, ma le obligavano a alcune condizioni, le quali osservando le
mantenevano nello stato e dignità loro. E conoscesi questi
modi essere stati osservati infino che gli uscirono d'Italia, e che
cominciarono a indurre i regni e gli stati in provincie.
Di
questo ne è chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che
fussi mandato da loro in alcun luogo, fu a Capova: il quale vi
mandarono, non per loro ambizione, ma perché e' ne furono
ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro discordia,
giudicarono essere necessario avere dentro nella città uno
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo
gli Anziati mossi, e constretti dalla medesima necessità,
domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e Tito Livio dice, in su
questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare "quod
jam non solum arma, sed iura romana pollebant". Vedesi,
pertanto, quanto questo modo facilitò lo augumento romano.
Perché quelle città, massime che sono use a vivere
libere, o consuete governarsi per sua provinciali, con altra quiete
stanno contente sotto uno dominio che non veggono, ancora ch'egli
avesse in sé qualche gravezza, che sotto quello che veggendo
ogni giorno, pare loro che ogni giorno sia rimproverata loro la
servitù. Appresso, ne seguita uno altro bene per il principe:
che, non avendo i suoi ministri in mano i giudicii ed i magistrati
che civilmente o criminalmente rendono ragione in quelle cittadi, non
può nascere mai sentenza con carico o infamia del principe: e
vengono per questa via a mancare molte cagioni di calunnia e d'odio
verso di quello. E che questo sia il vero, oltre agli antichi esempli
che se ne potrebbero addurre, ce n'è uno esemplo fresco in
Italia. Perché, come ciascuno sa, sendo Genova stata più
volte occupata da' Franciosi, sempre quel re, eccetto che ne'
presenti tempi, vi ha mandato uno governatore francioso che in suo
nome la governi. Al presente solo, non per elezione del re, ma perché
così ha ordinato la necessità, ha lasciato governarsi
quella città per sé medesima, e da uno governatore
genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di questi due modi
rechi più sicurtà al re, dello imperio d'essa, e più
contentezza a quegli popolari, sanza dubbio approverebbe questo
ultimo modo. Oltre a di questo, gli uomini tanto più ti si
gettono in grembo, quanto più tu pari alieno dallo occupargli;
e tanto meno ti temano per conto della loro libertà, quanto
più se' umano e dimestico con loro. Questa dimestichezza e
liberalità fece i Capovani correre a chiedere il Pretore a'
Romani: ché se a' Romani si fusse dimostro una minima voglia
di mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero discostati
da loro. Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma,
avendone in Firenze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è
che la città di Pistoia venne volontariamente sotto lo imperio
fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra
i Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità
di animo non è nata, perché i Pistolesi non prezzino la
loro libertà come gli altri, e non si giudichino da quanto gli
altri; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come
frategli, e con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i
Pistolesi sono corsi volontari sotto lo imperio loro: gli altri hanno
fatto e fanno ogni forza per non vi pervenire. E sanza dubbio, se i
Fiorentini o per vie di leghe o di aiuti avessero dimesticati e non
insalvatichiti i suoi vicini, a questa ora, sanza dubbio, e'
sarebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi
che non si abbia adoperare l'armi e le forze; ma si debbono riservare
in ultimo luogo dove e quando gli altri modi non bastino.
Cap.
22
Quanto siano false molte volte le opinioni degli uomini nel
giudicare le cose grandi.
Quanto
siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno visto e
veggono coloro che si truovono testimoni delle loro diliberazioni: le
quali, molte volte, se non sono diliberate da uomini eccellenti, sono
contrarie ad ogni verità. E perché gli eccellenti
uomini nelle republiche corrotte, nei tempi quieti massime, e per
invidia e per altre ambiziose cagioni, sono inimicati, si va dietro a
quello che o, da uno comune inganno è giudicato bene, o, da
uomini che più presto vogliono i favori che il bene dello
universale, è messo innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre
nei tempi avversi, e per necessità si rifugge a quegli che nei
tempi quieti erano come dimenticati: come nel suo luogo in questa
parte appieno si discorrerà. Nascono ancora certi accidenti,
dove facilmente sono ingannati gli uomini che non hanno grande
isperienza delle cose, avendo in sé, quello accidente che
nasce, molti verisimili, atti a fare credere quello che gli uomini
sopra tale caso si persuadono. Queste cose si sono dette per quello
che Numicio pretore, poiché i Latini furono rotti dai Romani,
persuase loro, e per quello che, pochi anni sono si credeva per
molti, quando Francesco I re di Francia venne allo acquisto di
Milano, che era difeso da' Svizzeri. Dico pertanto che, sendo morto
Luigi XII, e succedendo nel regno di Francia Francesco d'Angolem, e
desiderando restituire al regno il ducato di Milano, stato, pochi
anni davanti, occupato da' Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio
II, desiderava avere aiuti in Italia che gli facilitassero la
impresa; ed oltre a' Viniziani, che Luigi si aveva riguadagnati,
tentava i Fiorentini e papa Leone X; parendogli la sua impresa più
facile, qualunque volta si avesse riguadagnati costoro, per essere
genti del re di Spagna in Lombardia, ed altre forze dello imperadore
in Verona. Non cedé Papa Leone alle voglie del re, ma fu
persuaso da quegli che lo consigliavano (secondo si disse) si stesse
neutrale, mostrandogli in questo partito consistere la vittoria
certa: perché per la Chiesa non si faceva avere potenti in
Italia né il re né i Svizzeri ma, volendola ridurre
nell'antica libertà, era necessario liberarla dalla servitù
dell'uno e dell'altro. E perché vincere l'uno e l'altro, o di
per sé o tutti a dua insieme, non era possibile; conveniva che
superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa con gli suoi amici urtasse
quello, poi, che rimanesse vincitore. Ed era impossibile trovare
migliore occasione che la presente, sendo l'uno e l'altro in su i
campi, ed avendo il Papa le sue forze a ordine da potere
rappresentarsi in su i confini di Lombardia, e propinquo a l'uno e
l'altro esercito, sotto colore di volere guardare le cose sue, e
quivi stare tanto che venissono alla giornata, la quale
ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrebbe
essere sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in modo
debilitato il vincitore che fusse al Papa facile assaltarlo e
romperlo: e così verrebbe con sua gloria a rimanere signore di
Lombardia, ed arbitro di tutta Italia. E quanto questa opinione fusse
falsa, si vide per lo evento della cosa: perché, sendo dopo
una lunga zuffa suti superati i Svizzeri, non che le genti del Papa e
di Spagna presumessero assaltare i vincitori, ma si prepararono alla
fuga; la quale ancora non sarebbe loro giovata, se non fusse stato o
la umanità o la freddezza del re, che non cercò la
seconda vittoria, ma li bastò fare accordo con la
Chiesa.
Ha questa opinione certe ragioni
che discosto paiono vere, ma sono al tutto aliene dalla verità.
Perché, rade volte accade che il vincitore perda assai suoi
soldati: perché de' vincitori ne muore nella zuffa, non nella
fuga; e nello ardore del combattere, quando gli uomini hanno volto il
viso l'uno all'altro, ne cade pochi, massime perché la dura
poco tempo, il più delle volte; e quando pure durasse assai
tempo e de' vincitori ne morisse assai, è tanta la riputazione
che si tira dietro la vittoria, ed il terrore che la porta seco, che
di lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la
opinione che fusse debilitato, andasse a trovarlo, si troverrebbe
ingannato; se già, e' non fusse lo esercito tale che d'ogni
tempo, e innanzi alla vittoria e poi, potesse combatterlo. In questo
caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e virtù, vincere e
perdere; ma quello che si fusse azzuffato prima, ed avesse vinto,
arebbe più tosto vantaggio dall'altro. Il che si conosce certo
per la isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio pretore
prese, e per il danno che ne riportarono quegli popoli che gli
crederono: il quale, vinto che i Romani ebbero i Latini, gridava per
tutto il paese di Lazio, che allora era tempo assaltare i Romani
debilitati per la zuffa avevano fatta con loro; e che solo appresso
a' Romani era rimaso il nome della vittoria, ma tutti gli altri danni
avevano sopportati come se fussino stati vinti; e che ogni poco di
forza che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli. Donde quegli
popoli, che gli crederono, fecero nuovo esercito, e subito furono
rotti, e patirono quel danno che patiranno sempre coloro che terranno
simile opinione.
Cap.
23
Quanto i Romani nel giudicare i sudditi per alcuno
accidente che necessitasse tale giudizio fuggivano la via del mezzo.
"Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati possent". Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo quello d'uno principe o d'una republica che è ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere la guerra: a che si riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi; e dall'altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere preda del nimico. Ed a tutti questi termini si viene, pe' cattivi consigli e cattivi partiti, da non avere misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella republica o quel principe che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel termine si condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con i Romani, accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra, la ruppono: e così seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani fu loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed avendo messo la guardia per tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato in Roma, referì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E perché questo giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare quando simili occasioni sono date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio, poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i Romani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi. Perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste: "Dii immortales ita vos potentes huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra manu posuerint. Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius consulere in dedititios victosque? licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum, augere rem romanam, victos in civitatem accipiendo? materia crescendi per summam gloriam suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent. Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, seu poena seu beneficio praeoccupari oportet". A questa proposta successe la diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo, che, recatosi innanzi, terra per terra, tutti quegli ch'erano di momento, o e' gli benificarono o e' gli spensono, faccendo ai beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono le terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che con l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio debbono i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e datogli quegli campi che per vivere gli mancono. Ma loro usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono; a tutti tolsono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino nelle diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva essere più savi, dicevano come e' sarebbe poco onore della republica disfarla, perché e' parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione non si arebbe a ammazzare uno parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo vergogna di quel principe mostrare di non avere forze da potere frenare uno uomo solo. E non veggono, questi tali che hanno simili opinioni, come gli uomini particularmente ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a uno stato, che, per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno principe che spegnerla. E l'onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non gastiga chi erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de' Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una, quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o spegnere: l'altra, quanto la generosità dell'animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de' Senatori, "quam poenam meritos Privernates censeret". Al quale il Privernate rispose: "Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent". Al quale il Consolo replicò: "Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros speremus?". A che quello rispose: "Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam,si malam, haud diuturnam". Donde la più savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono, disse: "se audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi servitutem esse velint, fidem sperandam esse". Ed in su queste parole, deliberarono che i Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono, dicendo: "eos demum qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui Romani fiant". Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile. E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che sono usi o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo inganno pigliano partiti non buoni per sé, e da non satisfare a loro. Di che nascano le spesse ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al discorso nostro, conchiudo, e per questo e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a giudicare cittadi potenti e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire il parere di quel vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorati, o che si ammazzassero tutti; ma pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si discorrerà.
Cap.
24
Le fortezze generalmente sono molto più dannose che
utili.
E'
parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene
considerata, che i Romani, nel volere assicurarsi de' popoli di Lazio
e della città di Priverno, non pensassono di edificarvi
qualche fortezza, la quale fosse uno freno a tenergli in fede; sendo,
massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri savi, che Pisa e
l'altre simili città si debbono tenere con le fortezze. E
veramente, se i Romani fussono stati fatti come loro, egli arebbero
pensato di edificarle; ma perché gli erano d'altra virtù,
d'altro giudizio, d'altra potenza, e' non le edificarono. E mentre
che Roma visse libera, e che la seguì gli ordini suoi e le sue
virtuose constituzioni, mai n'edificò per tenere o città
o provincie, ma salvò bene alcuna delle edificate. Donde
veduto il modo del procedere de' Romani in questa parte, e quello de'
principi de' nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione,
s'egli è bene edificare fortezze, o se le fanno danno o utile
a quello che l'edifica. Debbesi, adunque, considerare come le
fortezze si fanno o per difendersi dagl'inimici o per difendersi da'
suggetti. Nel primo caso le non sono necessarie; nel secondo,
dannose. E cominciando a rendere ragione perché, nel secondo
caso, le siano dannose, dico che quel principe o quella republica che
ha paura de' sudditi suoi e della rebellione loro, prima conviene che
tale paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi seco; l'odio, da'
mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono o da potere credere
tenergli con forza, o da poca prudenza di chi gli governa: ed una
delle cose che fa credere potergli forzare, è l'avere loro
addosso le fortezze; perché e' mali trattamenti, che sono
cagione dell'odio, nascono in buona parte per avere quel principe o
quella republica le fortezze: le quali, quando sia vero questo, di
gran lunga sono più nocive che utili. Perché in prima,
come è detto, le ti fanno essere più audace e più
violento ne' sudditi; dipoi, non vi è quella sicurtà,
dentro, che tu ti persuadi: perché tutte le forze, tutte le
violenze che si usono per tenere uno popolo, sono nulla, eccetto che
due; o che tu abbia sempre da mettere in campagna uno buono esercito,
come avevano i Romani, o che gli dissipi, spenga, disordini e
disgiunga, in modo che non possano convenire a offenderti. Perché,
se tu gl'impoverisci, "spoliatis arma supersunt"; se tu gli
disarmi, "furor arma ministrat"; se tu ammazzi i capi, e
gli altri segui d' ingiuriare, rinascono i capi, come quelli della
Idra, se tu fai le fortezze, le sono utili ne' tempi di pace, perché
ti dànno più animo a fare loro male ma ne' tempi di
guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico
e da' sudditi, né è possibile che le faccino resistenza
ed all'uno ed all'altro. E se mai furono disutili, sono, ne' tempi
nostri, rispetto alle artiglierie; per il furore delle quali i luoghi
piccoli e dove altri non si possa ritirare con gli ripari, è
impossibile difendere, come di sopra discorremo.
Io
voglio questa materia disputarla più tritamente. O tu,
principe, vuoi con queste fortezze tenere in freno il popolo della
tua città; o tu, principe, o republica, vuoi frenare una città
occupata per guerra. Io mi voglio voltare al principe, e gli dico:
che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini, non può
essere più inutile per le cagioni dette di sopra; perché
la ti fa più pronto e men rispettivo a oppressargli; e quella
oppressione gli fa sì disposti alla tua rovina, e gli accende
in modo, che quella fortezza, che ne è cagione, non ti può
poi difendere. Tanto che un principe savio e buono, per mantenersi
buono, per non dare cagione né ardire a' figliuoli di
diventare tristi, mai non farà fortezza, acciocché
quelli, non in su le fortezze, ma in su la benivolenza degli uomini
si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca di Milano,
fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una fortezza, dico che
in questo ei non fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale
fortezza fu a danno, e non a sicurtà de' suoi eredi. Perché
giudicando mediante quella vivere sicuri, e potere offendere i
cittadini e sudditi loro, non perdonarono a alcuna generazione di
violenza; talché, diventati sopra modo odiosi, perderono
quello stato come prima il nimico gli assaltò: né
quella fortezza gli difese, né fece loro nella guerra utile
alcuno, e nella pace aveva fatto loro danno assai. Perché se
non avessono avuto quella, e se per poca prudenza avessono agramente
maneggiati i loro cittadini, arebbono scoperto il pericolo più
tosto, e sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più
animosamente resistere allo impeto francioso, co' sudditi amici sanza
fortezza, che, con quelli inimici, con la fortezza: le quali non ti
giovano in alcuna parte; perché, o le si perdono per fraude di
chi le guarda, o per violenza di chi le assalta, o per fame. E se tu
vuoi che le ti giovino, e ti aiutino ricuperare uno stato perduto,
dove ti sia rimasa solo la fortezza; ti conviene avere uno esercito,
con il quale tu possa assaltare colui che ti ha cacciato: e quando tu
abbi questo esercito, tu riaresti lo stato in ogni modo, eziandio la
fortezza non vi fosse; e tanto più facilmente, quanto gli
uomini ti fossono più amici che non ti erano avendogli male
trattati per l'orgoglio della fortezza. E per isperienza si è
visto, come questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi né
a' Franciosi, ne' tempi avversi dell'uno e dell'altro, non ha fatto a
alcuno di loro utile alcuno, anzi a tutti ha arrecato danno e rovine
assai, non avendo pensato, mediante quella, a più onesto modo
di tenere quello stato. Guidubaldo duca di Urbino, figliuolo di
Federigo, che fu ne' suoi tempi tanto stimato capitano, sendo
cacciato da Cesare Borgia, figliuolo di papa Alessandro VI, dello
stato; come dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò, fece
rovinare tutte le fortezze che erano in quella provincia,
giudicandole dannose. Perché, sendo quello amato dagli uomini,
per rispetto di loro non le voleva; e, per conto de' nimici, vedeva
non le potere difendere, avendo quelle bisogno d'uno esercito in
campagna, che le difendesse: talché si volse a rovinarle. Papa
Iulio, cacciati i Bentivogli di Bologna fece in quella città
una fortezza; e dipoi faceva assassinare quel popolo da uno suo
governatore: talché quel popolo si ribellò; e subito
perdé la fortezza; e così non gli giovò la
fortezza; e l'offese, intanto che, portandosi altrimenti, gli arebbe
giovato. Niccolò da Castello, padre de' Vitelli, tornato nella
sua patria donde era esule, subito disfece due fortezze vi aveva
edificate papa Sisto IV, giudicando, non la fortezza, ma la
benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato. Ma di
tutti gli altri esempli il più fresco ed il più
notabile in ogni parte ed atto a mostrare la inutilità dello
edificarle e l'utilità del disfarle, è quello di
Genova, seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507,
Genova si ribellò da Luigi XII re di Francia, il quale venne
personalmente e con tutte le forze sue a riacquistarla; e ricuperata
che la ebbe, fece una fortezza, fortissima di tutte le altre delle
quali al presente si avesse notizia: perché era, per sito e
per ogni altra circunstanza, inespugnabile, posta in su una punta di
colle che si estende nel mare, chiamato da' Genovesi Codefà;
e, per questo, batteva tutto il porto e gran parte della città
di Genova. Occorse poi, nel 1512, che, sendo cacciate le genti
franciose d'Italia, Genova, nonostante la fortezza, si ribellò,
e prese lo stato di quella Ottaviano Fregoso; il quale con ogni
industria, in termine di sedici mesi, per fame la espugnò. E
ciascuno credeva, e da molti n'era consigliato, che la conservasse
per suo refugio in ogni accidente; ma esso, come prudentissimo,
conoscendo che non le fortezze, ma la volontà degli uomini
mantenevono i principi in stato, la rovinò. E così,
sanza fondare lo stato suo in su la fortezza, ma in su la virtù
e prudenza sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a variare lo stato di
Genova solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi lo hanno
assaltato con diecimila, e non lo hanno potuto offendere. Vedesi
adunque per questo, come il disfare la fortezza non ha offeso
Ottaviano, ed il farla non difese il re. Perché, quando ei
potette venire in Italia con lo esercito, ei potette ricuperare
Genova, non vi avendo fortezza; ma quando ei non potette venire in
Italia con lo esercito, ei non potette tenere Genova, avendovi la
fortezza. Fu, adunque, di spesa a il re il farla, e vergognoso il
perderla; a Ottaviano, glorioso il riacquistarla, ed utile il
rovinarla.
Ma vegnamo alle republiche che
fanno le fortezze non nella patria, ma nelle terre che le acquistano.
Ed a mostrare questa fallacia, quando e' non bastasse lo esemplo
detto, di Francia e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i
Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella città; e non
conobbero che una città stata sempre inimica del nome
fiorentino, vissuta libera, e che ha alla rebellione per rifugio la
libertà, era necessario, volendola tenere, osservare il modo
romano; o farsela compagna, o disfarla. Perché la virtù
delle fortezze si vide nella venuta del re Carlo; al quale si dettono
o per poca fede di chi le guardava o per timore di maggiore male:
dove, se le non fussono state, i Fiorentini non arebbero fondato il
potere tenere Pisa sopra quelle, e quel re non arebbe potuto per
quella via privare i Fiorentini di quella città; e i modi con
gli quali si fusse mantenuta infino a quel tempo, sarebbono stati per
avventura sufficienti conservarla, e sanza dubbio non arebbero fatto
più cattiva prova che le fortezze. Conchiudo adunque, che, per
tenere la patria propria, la fortezza è dannosa; per tenere le
terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e voglio mi basti
l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre che volevano
tenere con violenza, smuravano, e non muravano. E chi contro a questa
opinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne' moderni
Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono recuperati dalla
ribellione de' sudditi, rispondo che alla ricuperazione di Taranto,
in capo di uno anno, fu mandato Fabio Massimo con tutto lo esercito,
il quale sarebbe stato atto a ricuperarlo eziandio se non vi fusse
stata la fortezza, e se Fabio usò quella via, quando la non vi
fusse stata, ne arebbe usata un'altra che arebbe fatto il medesimo
effetto. Ed io non so di che utilità sia una fortezza che, a
renderti la terra, abbia bisogno, per la ricuperazione d'essa, d'uno
esercito consolare e d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i Romani
l'avessono ripresa in ogni modo, si vede per l'esemplo di Capova;
dove non era fortezza, e per virtù dello esercito la
riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia. Dico, come rade volte occorre
quello che occorse in quella rebellione, che la fortezza che rimane
nelle forze tua, sendo ribellata la terra, abbi uno esercito grosso e
propinquo, come era quel de' Franciosi: perché, sendo
monsignor di Fois, capitano del re, con lo esercito a Bologna, intesa
la perdita di Brescia, sanza differire ne andò a quella volta,
ed in tre giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra.
Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di Brescia, a volere che la
giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e d'uno esercito francioso
che in tre dì la soccorresse. Sì che lo esemplo di
questo, allo incontro delli esempli contrari, non basta; perché
assai fortezze sono state, nelle guerre de' nostri tempi, prese e
riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e presa la
campagna, non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel regno di
Napoli, e per tutte le parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare
fortezze per difendersi da' nimici di fuori, dico che le non sono
necessarie a quelli popoli ed a quelli regni che hanno buoni
eserciti; ed a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perché i buoni eserciti sanza le fortezze sono sofficienti a
difendersi; le fortezze sanza i buoni eserciti non ti possono
difendere. E questo si vede per isperienza di quegli che sono stati e
ne' governi e nell'altre cose tenuti eccellenti; come si vede de'
Romani e degli Spartani: che, se i Romani non edificavano fortezze,
gli Spartani, non solamente si astenevano da quelle, ma non
permettevano di avere mura alle loro città; perché
volevono che la virtù dell'uomo particulare, non altro
defensivo, gli difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle, gli
rispose: - Sì, s'elle fussono abitate da donne -. Quello
principe, adunque, che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine e
alla fronte dello stato suo abbia qualche fortezza che possa qualche
dì sostenere el nimico infino che sia a ordine, sarebbe cosa
utile, qualche volta, ma non è necessaria. Ma quando il
principe non ha buono esercito, avere le fortezze per il suo stato, o
alle frontiere, gli sono o dannose o inutili: dannose, perché
facilmente le perde, e perdute gli fanno guerra; o, se pure le
fussono sì forti che il nimico non le potessi occupare, sono
lasciate indietro dallo esercito inimico, e vengono a essere di
nessuno frutto; perché i buoni eserciti, quando non hanno
gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi inimici sanza rispetto di
città o di fortezze che si lascino indietro; come si vede
nelle antiche istorie, e come si vede fece Francesco Maria, il quale,
ne' prossimi tempi, per assaltare Urbino si lasciò indietro
dieci città inimiche, sanza alcuno rispetto. Quel principe,
adunque, che può fare buono esercito, può fare sanza
edificare fortezze; quello che non ha lo esercito buono, non debbe
edificarle. Debbe bene afforzare la città dove abita, e
tenerla munita, e bene disposti i cittadini di quella, per potere
sostenere tanto uno impeto inimico, o che accordo o che aiuto esterno
lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di pace,
ed inutili ne' tempi di guerra. E così, chi considererà
tutto quello ho detto, conoscerà i Romani, come savi in ogni
altro loro ordine, così furono prudenti in questo giudizio de'
Latini e de' Privernati; dove, non pensando a fortezze, con più
virtuosi modi e più savi se ne assicurarono.
Cap.
25
Che lo assaltare una città disunita, per occuparla
mediante la sua disunione, è partito contrario.
Era tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la Nobilità, che i Veienti, insieme con gli Etrusci, mediante tale disunione, pensarono potere estinguere il nome romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo condotto il loro esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i Veienti, e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e fu tanta la loro temerità ed insolenzia, che i Romani, di disuniti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano e vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel pigliare de' partiti; e come molte volte credono guadagnare una cosa, e la perdono. Credettono i Veienti, assaltando i Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu cagione della unione di quegli, e della rovina loro. Perché la cagione della disunione delle republiche il più delle volte è l'ozio e la pace; la cagione della unione è la paura e la guerra. E però, se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero, quanto più disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con l'arti della pace cerco di oppressargli. Il modo è cercare di diventare confidente di quella città che è disunita; ed infino che non vengono all'armi, come arbitro maneggiarsi intra le parti. Venendo alle armi, dare lenti favori alla parte più debole; sì per tenergli più in su la guerra, e fargli consumare; sì perché le assai forze non gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli e diventare loro principe. E quando questa parte è governata bene, interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti hai presupposto. La città di Pistoia, come in altro discorso ed a altro proposito dissi, non venne sotto alla Republica di Firenze con altra arte che con questa: perché sendo quella divisa, e favorendo i Fiorentini ora l'una parte ora l'altra, sanza carico dell'una e dell'altra la condussono in termine, che, stracca in quel suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi in le braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato stato, col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi. Perché, quando ei sono stati assai e gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato che regge. Io voglio aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti, duca di Milano, più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue imprese, come le pazzie de' Fiorentini gli avevano fatto spendere inutilmente due milioni d'oro. Restarono adunque, come di sopra si dice, ingannati i Veienti e gli Toscani da questa opinione, e furano alfine in una giornata superati da' Romani. E così per lo avvenire ne resterà ingannato qualunque per simile via e per simile cagione crederrà oppressare uno popolo.
Cap.
26
Il vilipendio e l'improperio genera odio contro a coloro che
l'usano, sanza alcuna loro utilità.
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini, astenersi o dal minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole: perché l'una cosa e l'altra non tolgono forze al nimico; ma l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere maggiore odio contro di te, e pensare con maggiore industria di offenderti. Vedesi questo per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si è discorso; i quali alla ingiuria della guerra, aggiunsono, contro a' Romani, l'obbrobrio delle parole; dal quale ogni capitano prudente debbe fare astenere i suoi soldati; perché le sono cose che infiammano ed accendano il nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come è detto, alla offesa; tanto che le sono tutte armi che vengono contro a te. Di che ne seguì già uno esemplo notabile in Asia: dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a campo a Amida più tempo, ed avendo deliberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi già con il campo, quegli della terra, venuti tutti in su le mura, insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria, vituperando, accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del nimico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio; e ritornato alla ossidione tanta fu la indegnazione della ingiuria, che in pochi giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti: a' quali, come è detto, non bastando il fare guerra a' Romani, ancora con le parole gli vituperarono, ed andando infino in su lo steccato del campo a dire loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le parole che con le armi: e quegli soldati che prima combattevano mal volentieri, costrinsero i Consoli a appiccare la zuffa, talché i Veienti portarono la pena, come gli antedetti, della contumacia loro. Hanno dunque i buoni principi di eserciti, ed i buoni governatori di republica, a fare ogni opportuno rimedio, che queste ingiurie e rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo, né infra loro, né contro al nimico: perché, usati contro al nimico, ne riescono gl'inconvenienti soprascritti; infra loro, farebbero peggio, non vi si riparando, come vi hanno sempre gli uomini prudenti riparato. Avendo le legioni romane, state lasciate a Capova, congiurato contro a' Capovani, come nel suo luogo si narrerà; ed essendone di questa congiura nata una sedizione, la quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le altre constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a coloro che rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto, nella guerra di Annibale, capitano sopra certo numero di servi che i Romani, per carestia d'uomini, avevano armati, ordinò, intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse la servitù a alcuno di loro. Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si è detto, cosa dannosa il vilipendere gli uomini ed il rimproverare loro alcuna vergogna; perché non è cosa che accenda tanto gli animi loro, né generi maggiore isdegno, o da vero o da beffe che si dica: "Nam facetiae asperae, quando nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam relinquunt".
Cap.
27
Ai principi e republiche prudenti debbe bastare vincere;
perché, il più delle volte, quando e' non basta, si
perde.
Lo
usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più
delle volte da una insolenzia che ti dà o la vittoria o la
falsa speranza della vittoria; la quale falsa speranza fa gli uomini
non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare. Perché
questa speranza, quando la entra ne' petti degli uomini, fa loro
passare il segno; e perdere, il più delle volte, quella
occasione dell'avere uno bene certo, sperando di avere un meglio
incerto. E perché questo è un termine che merita
considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con
danno dello stato loro, e' mi pare da dimostrarlo particularmente con
esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così
distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a
Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a significare la
vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi in Senato di quello che si
avesse a fare. Consigliava Annone, uno vecchio e prudente cittadino
cartaginese, che si usasse questa vittoria saviamente in fare pace
con i Romani, potendola avere con condizioni oneste, avendo vinto; e
non si aspettasse di averla a fare dopo la perdita: perché la
intenzione de' Cartaginesi doveva essere, mostrare a' Romani come e'
bastavano a combatterli; ed avendosene avuto vittoria, non si
cercasse di perderla per la speranza d'una maggiore. Non fu preso
questo partito; ma fu bene poi, dal Senato cartaginese, conosciuto
savio, quando la occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno già
preso tutto l'oriente, la republica di Tiro, nobile in quelli tempi,
e potente per avere la loro città in acqua come i Viniziani,
veduta la grandezza di Alessandro, gli mandarono oratori a dirli,
come volevano essere suoi buoni servidori e darli quella ubbidienza
voleva, ma che non erano già per accettare né lui né
sue genti nella terra; donde sdegnato Alessandro, che una città
gli volesse chiudere quelle porte che tutto il mondo gli aveva
aperte, gli ributtò, e, non accettate le condizioni loro vi
andò a campo. Era la terra in acqua, e benissimo, di
vettovaglie e di altre munizioni necessarie alla difesa, munita:
tanto che Alessandro, dopo quattro mesi, si avvide che una città
gli toglieva quel tempo alla sua gloria che non gli avevano tolto
molti altri acquisti; e diliberò di tentare lo accordo, e
concedere loro quello che per loro medesimi avevano domandato. Ma
quegli di Tiro, insuperbiti, non solamente non vollero accettare lo
accordo, ma ammazzarono chi venne a praticarlo. Di che Alessandro
sdegnato, con tanta forza si misse alla ispugnazione, che la prese,
disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli uomini.
Venne,
nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per
rimettere i Medici in Firenze, e taglieggiare la città,
condotti da cittadini d'entro, i quali avevano dato loro speranza,
che, subito fussono in sul dominio fiorentino, piglierebbero l'armi
in loro favore; ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo
alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l'accordo: di
che insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne
nacque la perdita di Prato, e la rovina di quello stato.
Non
possono, pertanto, i principi, che sono assaltati, fare il maggiore
errore, quando lo assalto è fatto da uomini di gran lunga più
potenti di loro, che recusare ogni accordo, massime quando egli è
offerto: perché non sarà mai offerto sì basso,
che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo
accetta, e vi sarà parte della sua vittoria. Perché e'
doveva bastare al popolo di Tiro, che Alessandro accettasse quelle
condizioni ch'egli aveva prima rifiutate ed era assai vittoria la
loro, quando con l'arme in mano avevano fatto condiscendere uno tanto
uomo alla voglia loro. Doveva bastare ancora al popolo fiorentino,
che gli era assai vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a
qualcuna delle voglie di quello e le sue non adempiva tutte: perché
la intenzione di quello esercito era mutare lo stato in Firenze,
levarlo dalla divozione di Francia, e trarre da lui danari. Quando di
tre cose e' ne avesse avute due, che son l'ultime, ed al popolo ne
fusse restata una, che era la conservazione dello stato suo, ci aveva
dentro ciascuno qualche onore e qualche satisfazione: né si
doveva il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né
doveva volere, quando bene egli avesse veduta maggiore vittoria, e
quasi certa, mettere quella in alcuna parte a discrezione della
fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale qualunque prudente
mai arrischierà se non necessitato. Annibale, partito
d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi
Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e
Siface; trovò perduto il regno di Numidia e ristretta
Cartagine intra i termini delle sue mura, alla quale non restava
altro refugio che esso e lo esercito suo. Conoscendo come quella era
l'ultima posta della sua patria, non volle prima metterla a rischio,
ch'egli ebbe tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò di
domandare la pace, giudicando, se alcuno rimedio aveva la sua patria,
era in quella e non nella guerra: la quale sendogli poi negata, non
volle mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur
vincere, o, perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale
era tanto virtuoso ed aveva il suo esercito intero, cercò
prima la pace che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo quella, la
sua patria diveniva serva, che debbe fare un altro di manco virtù
e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo errore, che
non sanno porre termini alle speranze loro; ed in su quelle
fondandosi, sanza misurarsi altrimenti, rovinano.
Cap.
28
Quanto sia pericoloso a una republica o a uno principe non
vendicare una ingiuria fatta contro al publico o contro al privato.
Quello
che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si conosce per
quello che avvenne ai Romani quando ei mandarono i tre Fabii oratori
a' Franciosi, che erano venuti a assaltare la Toscana, ed in
particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il popolo di Chiusi
per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani mandarono ambasciadori
a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano, significassero loro
che si astenessero di fare guerra a' Toscani. I quali oratori, sendo
in su 'l luogo, e più atti a fare che a dire, venendo i
Franciosi ed i Toscani alla zuffa, si messero in tra i primi a
combattere contro a quelli: onde ne nacque che, essendo conosciuti da
loro, tutto lo sdegno avevano contro a' Toscani, volsero contro a'
Romani. Il quale sdegno diventò maggiore, perché,
avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con il Senato
romano di tale ingiuria, e domandato che in soddisfazione del danno
fussino loro dati i soprascritti Fabii, non solamente non furono
consegnati loro, o in altro modo gastigati, ma venendo i comizi,
furono fatti Tribuni con potestà consolare. Talché,
veggendo i Franciosi quelli onorati che dovevano essere puniti,
ripresono tutto essere fatto in loro dispregio e ignominia; ed accesi
di sdegno e d'ira, vennero a assaltare Roma, e quella presono,
eccetto il Campidoglio. La quale rovina nacque ai Romani solo per la
inosservanza della giustizia; perché, avendo peccato i loro
ambasciatori "contra ius gentium", e dovendo esserne
gastigati, furono onorati. Però è da considerare quanto
ogni republica ed ogni principe debbe tenere conto di fare simile
ingiuria, non solamente contro a una universalità, ma ancora
contro a uno particulare. Perché, se uno uomo è offeso
grandemente o dal publico o dal privato e non sia vendicato secondo
la soddisfazione sua; se e' vive in una republica, cerca, ancora che
con la rovina di quella, vendicarsi; se e' vive sotto un principe, ed
abbi in sé alcuna generosità, non si acquieta mai, in
fino che in qualunque modo si vendichi contro a di colui, come che
egli vi vedesse, dentro, il suo proprio male.
Per
verificare questo, non ci è il più bello né il
più vero esemplo che quello di Filippo re di Macedonia, padre
d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte Pausania, giovane bello e
nobile, del quale era inamorato Attalo, uno de' primi uomini che
fusse presso a Filippo ed avendolo più volte ricerco che
dovesse acconsentirgli, e trovandolo alieno da simili cose, diliberò
di avere con inganno e per forza quello che, per altro verso, vedea
di non potere avere. E fatto uno solenne convito, nel quale Pausania
e molti altri nobili baroni convennero, fece, poi che ciascuno fu
pieno di vivande e di vino, prendere Pausania, e, condottolo allo
stretto, non solamente per forza sfogò la sua libidine, ma
ancora, per maggiore ignominia, lo fece da molti degli altri in
simile modo vituperare. Della quale ingiuria Pausania si dolse più
volte con Filippo; il quale, avendolo tenuto un tempo in speranza di
vendicarlo, non solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo al
governo d'una provincia di Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo
nimico onorato e non gastigato, volse tutto lo sdegno suo, non contro
a quello che gli aveva fatto ingiuria, ma contro a Filippo che non lo
aveva vendicato. Ed una mattina solenne, in su le nozze della
figliuola di Filippo, ch'egli aveva maritata a Alessandro di Epiro,
andando Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri,
genero e figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è
molto simile a quello de' Romani, e notabile a qualunque governa: che
mai non debbe tanto poco stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo
ingiuria sopra ingiuria, che colui che è ingiuriato non pensi
di vendicarsi con ogni suo pericolo e particulare danno.
Cap.
29
La fortuna acceca gli animi degli uomini, quando la non
vuole che quegli si opponghino a' disegni suoi.
Se
e' si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà
molte volte nascere cose e venire accidenti, a' quali i cieli al
tutto non hanno voluto che si provvegga. E quando, questo che io
dico, intervenne a Roma, dove era tanta virtù, tanta religione
e tanto ordine, non è maraviglia che gli intervenga molto più
spesso in una città o in una provincia che manchi delle cose
sopradette. E perché questo luogo è notabile assai, a
dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane, Tito Livio
largamente e con parole efficacissime lo dimostra: dicendo come,
volendo il cielo a qualche fine, che i Romani conoscessono la potenza
sua, fece prima errare quegli Fabii che andarono oratori a'
Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli concitò a fare guerra
a Roma; dipoi ordinò, che, per reprimere quella guerra, non si
facesse in Roma alcuna cosa degna del Popolo romano; avendo prima
ordinato che Cammillo, il quale poteva essere solo unico remedio a
tanto male, fusse mandato in esilio a Ardea; dipoi, venendo i
Franciosi verso Roma, coloro che, per rimediare allo impeto de'
Volsci ed altri finitimi loro inimici, avevano creato molte volte uno
Dittatore, venendo i Franciosi, non lo crearono. Ancora nel fare la
elezione de' soldati, la fecioro debole e sanza alcuna istraordinaria
diligenza; e furono tanto pigri al pigliare l'arme, che a fatica
furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra il fiume di Allia,
discosto a Roma dieci miglia. Quivi i Tribuni posero il loro campo,
sanza alcuna consueta diligenza; non prevedendo il luogo prima, e non
si circundando con fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio
umano e divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi e
deboli: in modo che né i soldati né i capitani fecero
cosa degna della romana disciplina. Combattessi poi sanza alcuno
sangue; perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e la
maggior parte se n'andò a Veio, l'altra si ritirò a
Roma; i quali, sanza entrare altrimenti nelle case loro, se ne
entrarono in Campidoglio: in modo che il Senato, sanza pensare di
difendere Roma, non chiuse, non che altro, le porte; e parte se ne
fuggì, parte con gli altri se ne entrarono in Campidoglio.
Pure, nel difendere quello, usarono qualche ordine non tumultuario;
perché ei non aggravarono quello di gente inutile; messonvi
tutti i frumenti che poterono, acciocché potessono sopportare
l'ossidione; e della turba inutile de' vecchi, delle donne e de'
fanciugli, la maggior parte se ne fuggì nelle terre
circunvicine, il rimanente restò in Roma in preda de'
Franciosi. Talché, chi avesse letto le cose fatte da quel
popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi quelli tempi, non
potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato uno medesimo popolo.
E detto che Tito Livio ha tutti e' sopradetti disordini, conchiude
dicendo: "Adeo obcaecat animos fortuna, cum vim suam ingruentem
refringi non vult". Né può più essere vera
questa conclusione: onde gli uomini che vivono ordinariamente nelle
grandi avversità o prosperità, meritano manco laude o
manco biasimo. Perché il più delle volte si vedrà
quelli a una rovina ed a una grandezza essere stati convinti da una
commodità grande che gli hanno fatto i cieli, dandogli
occasione, o togliendogli, di potere operare virtuosamente.
Fa
bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia
condurre cose grandi, che sia di tanto spirito e di tanta virtù,
che ei conosca quelle occasioni che la gli porge. Così
medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine, ella vi
prepone uomini che aiutino quella rovina. E se alcuno fusse che vi
potesse ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà
da potere operare alcuno bene. Conoscesi questo benissimo per questo
testo, come la fortuna, per fare maggiore Roma, e condurla a quella
grandezza venne, giudicò fussi necessario batterla (come a
lungo nel principio del seguente libro discorrereno), ma non volle
già in tutto rovinarla. E per questo si vede che la fece
esulare, e non morire, Cammillo; fece pigliare Roma, e non il
Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma, non
pensassono alcuna cosa buona; per difendere poi il Campidoglio, non
mancarono di alcuno buono ordine. Fece, perché Roma fusse
presa, che la maggior parte de' soldati che furono rotti a Allia, se
ne andorono a Veio; e così, per la difesa della città
di Roma, tagliò tutte le vie. E nell'ordinare questo, preparò
ogni cosa alla sua ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano
intero a Veio, e Cammillo a Ardea, da potere fare grossa testa, sotto
uno capitano non maculato d'alcuna ignominia per la perdita, ed
intero nella sua riputazione per la recuperazione della patria
sua.
Sarebbeci da addurre in confermazione
delle cose dette qualche esemplo moderno; ma, per non gli giudicare
necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli lascereno
indietro. Affermo, bene, di nuovo,questo essere verissimo, secondo
che per tutte le istorie si vede, che gli uomini possono secondare la
fortuna e non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non
rompergli. Debbono, bene, non si abbandonare mai; perché, non
sappiendo il fine suo, e andando quella per vie traverse ed
incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si abbandonare, in
qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si truovino.
Cap.
30
Le republiche e gli principi veramente potenti non comperono
l'amicizie con danari, ma con la virtù e con la riputazione
delle forze.
Erano
i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino aspettassono
il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono
a composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa quantità
d'oro; e sopra tale convenzione pesandosi di già l'oro,
sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che fece, dice lo
istorico, la fortuna, "ut Romani auro redempti non viverent".
La quale cosa non solamente è notabile in questa parte, ma
etiam nel processo delle azioni di questa Republica; dove si vede che
mai acquistarono terre con danari, mai feciono pace con danari, ma
sempre con la virtù dell'armi: il che non credo sia mai
intervenuto a alcuna altra republica. Ed intra gli altri segni per
gli quali si conosce la potenza d'uno stato forte, è vedere
come egli vive con gli vicini suoi. E quando ei si governa in modo
che i vicini, per averlo amico, sieno suoi pensionari, allora è
certo segno che quello stato è potente: ma quando detti
vicini, ancora che inferiori a lui, traggono da quello danari, allora
è segno grande della debolezza di quello.
Legghinsi
tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, i
Rodiani, Ierone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tutti
erano vicini ai confini dello imperio romano, per avere l'amicizia di
quello concorrevono a spese ed a tributi ne' bisogni d'esso, non
cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al contrario si
vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal nostro di
Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore riputazione, non era
signorotto in Romagna che non avessi da quello provvisione; e di più
la dava a' Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri suoi vicini.
Che se questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe
tutto ito per il contrario; perché molti, per avere la
protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e cerco, non di
vendere la loro amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in
questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il
re di Francia, il quale, con un tanto regno, vive tributario di
Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il che tutto nasce dallo avere
disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e
gli altri prenominati, godersi un presente utile, di potere
saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato più tosto che
vero pericolo, che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro
stati felici in perpetuo. Il quale disordine, se partorisce qualche
tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità,
di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare quante
volte i Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono ricomperati in
su le guerre, e quante volte ei si sono sottomessi a una ignominia; a
che i Romani una sola volta furono per sottomettersi. Sarebbe lungo
raccontare quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate:
di che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si
acquistano con l'oro, non si sanno difendere con il ferro.
Osservarono i Romani questa generosità e questo modo di
vivere, mentre che ei vissono liberi; ma poi che gli entrarono sotto
gl'imperadori, e che gl'imperadori cominciarono a essere cattivi, ed
amare più l'ombra che il sole, cominciarono ancora essi a
ricomperarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli
convicini: il che fu principio della rovina di tanto
Imperio.
Procedono, pertanto, simili
inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi popoli: di che ne risulta
uno altro, maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa,
tanto ti truova più debole. Perché chi vive ne' modi
detti di sopra, tratta male quelli sudditi che sono dentro allo
imperio suo, e bene quegli che sono in su i confini dello imperio
suo, per avere uomini ben disposti a tenere il nimico discosto. Da
questo nasce che, per tenerlo più discosto, ei dà
provvisione a quelli signori e popoli che sono propinqui ai confini
suoi. Donde nasce che questi stati così fatti fanno un poco di
resistenza in sui confini, ma, come il nimico gli ha passati, ei non
hanno rimedio alcuno. E non si avveggono, come questo modo del loro
procedere è contro a ogni buono ordine. Perché il cuore
e le parti vitali d'uno corpo si hanno a tenere armate, e non le
estremità d'esso; perché sanza quelle si vive, e,
offeso questo, si muore: e questi stati tengono il cuore disarmato, e
le mani e li piedi armati.
Quello che
abbia fatto questo disordine a Firenze, si è veduto, e vedesi
ogni dì: e come uno esercito passa i confini, e che gli entra
dentro propinquo al cuore, non truova più alcuno rimedio. De'
Viniziani si vide, pochi anni sono, la medesima pruova; e se la loro
città non era fasciata dalle acque, se ne sarebbe veduto il
fine. Questa isperienza non si è vista sì spesso in
Francia, per essere quello sì gran regno, ch'egli ha pochi
inimici superiori: nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513,
assaltarono quel regno, tremò tutta quella provincia: ed il re
medesimo, e ciascuno altro, giudicava che una rotta sola gli potessi
tôrre il regno e lo stato. Ai Romani interveniva il contrario;
perché, quanto più il nimico s'appressava a Roma, tanto
più trovava potente quella città a resistergli. E si
vide nella venuta d'Annibale in Italia, che, dopo tre rotte e dopo
tante morti di capitani e di soldati, ei poterono, non solo sostenere
il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato
il cuore, e delle estremità tenere meno conto. Perché
il fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino,
le altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei
traevano tanti soldati, che furono sufficienti con quegli a
combattere e tenere il mondo. E che sia vero, si vede per la domanda
che fece Annone cartaginese a quelli oratori d'Annibale dopo la rotta
di Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte da Annibale,
furono domandati da Annone, se del popolo romano alcuno era venuto a
domandare pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna terra si
era ribellata dai Romani; e negando quegli l'una e l'altra cosa,
replicò Annone: - Questa guerra è ancora intera come
prima -.
Vedesi, pertanto, e per questo
discorso, e per quello che più volte abbiamo altrove detto,
quanta diversità sia, dal modo del procedere delle republiche
presenti, a quello delle antiche. Vedesi ancora, per questo, ogni dì,
miracolose perdite e miracolosi acquisti. Perché, dove gli
uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza
sua; e, perché la è varia, variano le republiche e gli
stati spesso; e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che
sia della antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che
la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella
puote.
Cap.
31
Quanto sia pericoloso credere agli sbanditi.
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che sono cacciati della patria sua, essendo cose che ciascuno dì si hanno a praticare da coloro che tengono stati; potendo, massime, dimostrare questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito Livio nelle sue istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando Alessandro Magno passò con lo esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e zio di quello, venne con gente in Italia, chiamato dagli sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe, mediante loro, occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza loro venuto in Italia fu morto da quelli, sendo loro promessa la ritornata nella patria dai loro cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto sia vana e la fede e le promesse di quelli che si truovano privi della loro patria. Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che, qualunque volta e' possano per altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella patria loro, che lasceranno te ed accosterannosi a altri, nonostante qualunque promesse ti avessono fatte. E quanto alle vane promesse e speranze, egli è tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare in casa, che ei credono naturalmente molte cose che sono false e molte a arte ne aggiungano: talché, tra quello che ei credono e quello che ei dicono di credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in su quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu rovini.
Io voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più Temistocle ateniese; il quale, essendo fatto ribello, se ne fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse tanto, quando ei volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla impresa. Le quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o per tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore fu fatto da Temistocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi errino coloro che, per minore virtù, si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, uno principe andare adagio a pigliare imprese sopra la relazione d'uno confinato, perché il più delle volte se ne resta o con vergogna o con danno gravissimo. E perché ancora rade volte riesce il pigliare le terre di furto, e per intelligenzia che altri avesse in quelle, non mi pare fuora di proposito discorrerne nel sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti modi i Romani le acquistavano.
Cap.
32
In quanti modi i Romani occupavano le terre.
Essendo
i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella con ogni
vantaggio, e quanto alla spesa, e quanto a ogni altra cosa che in
essa si ricerca. Da questo nacque che si guardarono da il pigliare le
terre per ossidione; perché giudicavano questo modo di tanta
spesa e di tanto scommodo, che superassi di gran lunga la utilità
che dello acquisto si potessi trarre: e per questo pensarono che
fosse meglio e più utile soggiogare le terre per ogni altro
modo che assediandole, donde in tante guerre ed in tanti anni ci sono
pochissimi esempli di ossidioni fatte da loro. I modi, adunque, con i
quali gli acquistavano le città. erano o per espugnazione o
per dedizione. La espugnazione era o per forza e violenza aperta, o
per forza mescolata con fraude. La violenza aperta era o con assalto,
sanza percuotere le mura (il che loro chiamavano "aggredi urbem
corona" perché con tutto lo esercito circundavono la
città, e da tutte le parti la combattevano); e molte volte
riuscì loro che in uno assalto pigliarono una città,
ancora che grossissima, come quando Scipione prese Cartagine Nuova in
Ispagna; o, quando questo assalto non bastava, si dirizzavano a
rompere le mura con arieti, o con altre loro machine belliche: o ei
facevano una cava, e per quella entravano nella città (nel
quale modo presono la città de' Veienti); o, per essere equali
a quegli che difendevano le mura, facevono torri di legname, o ei
facevono argini di terra appoggiati alle mura di fuori, per venire
all'altezza d'esse sopra quegli. Contro a questi assalti, chi
difendeva la terra, nel primo caso, circa lo essere assaltato intorno
intorno, portava più subito pericolo, ed aveva più
dubbi rimedi: perché, bisognandogli in ogni luogo avere assai
difensori, o quegli ch'egli aveva non erano tanti che potessero o
sopperire per tutto o cambiarsi; o, se potevano, non erano tutti di
equale animo a resistere, e da una parte che fusse inchinata la
zuffa, si perdevano tutti. Però occorse, come io ho detto, che
molte volte questo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva
al primo, non lo ritentavono molto, per essere modo pericoloso per lo
esercito; perché, distendendosi in tanto spazio, restava per
tutto debole a potere resistere a una eruzione che quelli di dentro
avessono fatta; ed anche si disordinavano e straccavano i soldati; ma
per una volta ed allo improvviso tentavano tale modo. Quanto alla
rottura delle mura, si opponevano, come ne' presenti tempi, con
ripari. E per resistere alle cave, facevano una contracava, e per
quella si opponevano al nimico, o con le armi o con altri ingegni:
intra i quali era questo, che gli empievano dogli di penne, nelle
quali appiccavano il fuoco, ed accesi gli mettevano nella cava, i
quali con il fumo e con il puzzo impedivano la entrata a' nimici. E
se con le torre gli assaltavano, s'ingegnavano con il fuoco
rovinarle. E quanto agli argini di terra, rompevano il muro da basso,
dove lo argine s'appoggiava, tirando dentro la terra che quegli di
fuori vi ammontavano; talché, ponendosi di fuora la terra, e
levandosi di drento, veniva a non crescere l'argine. Questi modi di
espugnare non si possono lungamente tentare: ma bisogna o levarsi da
campo o cercare per altri modi vincere la guerra; come fe' Scipione,
quando, entrato in Africa, avendo assaltato Utica e non gli riuscendo
pigliarla, si levò da campo, e cercò di rompere gli
eserciti cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione, come fecero a
Veio, Capova, Cartagine e Ierusalem e simili terre, che per ossidione
occuparono. Quanto allo acquistare le terre per violenza furtiva,
occorre come intervenne di Palepoli, che per trattato di quelli di
dentro i Romani la occuparono. Di questa sorte espugnazioni, dai
Romani e da altri ne sono state tentate molte, e poche ne sono
riuscite: la ragione è che ogni minimo impedimento rompe il
disegno, e gl'impedimenti vengano facilmente. Perché, o la
congiura si scuopre innanzi che si venga allo atto, e scuopresi non
con molta difficultà, sì per la infedelità di
coloro con chi la è communicata, sì per la difficultà
del praticarla, avendo a convenire con i nimici, e con chi non ti è
lecito, se non sotto qualche colore, parlare. Ma quando la congiura
non si scoprisse nel maneggiarla, vi surgono poi, nel metterla in
atto, mille difficultà. Perché, o se tu vieni innanzi
al tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si guasta ogni cosa: se si
lieva uno romore fortuito, come l'oche del Campidoglio, se si rompe
un ordine consueto; ogni minimo errore, ogni minima fallacia che si
piglia, rovina la impresa. Aggiungonsi a questo le tenebre della
notte, le quali mettono più paura a chi travaglia in quelle
cose pericolose. Ed essendo la maggiore parte degli uomini che si
conducono a simili imprese, inesperti del sito del paese, e de'
luoghi dove ei sono menati, si confondono, inviliscono ed implicano
per ogni minimo e fortuito accidente, ed ogni immagine falsa è
per fargli mettere in volta. Né si trovò mai alcuno che
fosse più felice in queste ispedizioni fraudolente e notturne,
che Arato Sicioneo; il quale, quanto valeva in queste, tanto nelle
diurne ed aperte fazioni era pusillanime: il che si può
giudicare fosse più tosto per una occulta virtù che era
in lui, che perché in quelle naturalmente dovesse essere più
felicità. Di questi modi, adunque, se ne pratica assai, pochi
se ne conduce alla pruova, e pochissimi ne riescono.
Quanto
allo acquistare le terre per dedizione, o le si danno volontarie, o
forzate. La volontà nasce, o per qualche necessità
estrinseca che gli costringe a rifuggirtisi sotto, come fece Capova
ai Romani, o per desiderio di essere governati bene, sendo allettati
da il governo buono che quel principe tiene in coloro che se gli
sono, volontari, rimessi in grembo, come fecero i Rodiani, i
Massiliensi ed altre simile cittadi, che si dettono al Popolo romano.
Quanto alla dedizione forzata, o tale forza nasce da una lunga
ossidione, come di sopra è detto; o la nasce da una continova
oppressione di scorrerie, di predazioni, ed altri mali trattamenti; i
quali volendo fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi
detti, i Romani usarono più questo ultimo che nessuno; ed
attesono per più che quattrocento cinquanta anni a straccare i
vicini con le rotte e con le scorrerie, e pigliare, mediante gli
accordi, riputazione sopra di loro, come altre volte abbiamo
discorso. E sopra tale modo si fondarono sempre, ancora che gli
tentassino tutti; ma negli altri trovarono cose o pericolose o
inutili. Perché nella ossidione è la lunghezza e la
spesa; nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle congiure, la
incertitudine. E viddono che con una rotta di esercito inimico
acquistavano un regno in un giorno; e, nel pigliare per ossidione una
città ostinata, consumavano molti anni.
Cap.
33
Come i Romani davano agli loro capitani degli
eserciti le commissioni libere.
Io estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria, volendone fare profitto, tutti e' modi del procedere del Popolo e Senato romano. Ed intra le altre cose che meritano considerazione, sono: vedere con quale autorità ei mandavano fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de' quali si vede l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre e di confirmare le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio e potestà del Consolo. Perché, deliberata ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra, verbigrazia contro a' Latini, tutto il resto rimettevano nello arbitrio del Consolo, il quale poteva o fare una giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra, come a lui pareva. Le quali cose si verificano per molti esempli, e massime per quello che occorse in una espedizione contro a' Toscani. Perché, avendo Fabio consolo vinto quelli presso a Sutri, e disegnando con lo esercito dipoi passare la selva Cimina ed andare in Toscana, non solamente non si consigliò col Senato, ma non gliene dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si testifica ancora per le deliberazioni che allo incontro di questo furono fatte dal Senato: il quale avendo intesa la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che quello non pigliasse partito di passare per le dette selve in Toscana, giudicando che fosse bene non tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio due Legati a fargli intendere non passasse in Toscana; i quali arrivarono ch'e' vi era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di impeditori della guerra tornarono ambasciadori dello acquisto e della gloria avuta. E chi considererà bene questo termine, lo vedrà prudentissimamente usato; perché, se il Senato avesse voluto che un Consolo procedessi nella guerra di mano in mano, secondo che quello gli commetteva, lo faceva meno circunspetto e più lento: perché non gli sarebbe paruto che la gloria della vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il Senato, con el consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di questo, il Senato si obligava a volere consigliare una cosa che non se ne poteva intendere; perché, nonostante che in quello fossono tutti uomini esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in sul luogo e non sappiendo infiniti particulari che sono necessari sapere, a volere consigliare bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per questo ei volevano che il Consolo per sé facesse, e che la gloria fosse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo operare bene. Questa parte si è più volentieri notata da me, perché io veggo che le republiche de' presenti tempi, come è la Viniziana e Fiorentina, la intendono altrimenti; e se gli loro capitani, provveditori o commessari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere e consigliare. Il quale modo merita quella laude che meritano gli altri, i quali tutti insieme le hanno condotte ne' termini in che al presente si truovano.