Niccolò Machiavelli
DISCORSI
SOPRA LA PRIMA DECADE
DI TITO LIVIO
LIBRO III
Cap.
1
A volere che una setta o una republica viva lungamente, è
necessario ritirarla spesso verso il suo principio.
Egli
è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il
termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è
loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo
loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s'egli
altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io
parlo de' corpi misti, come sono le republiche e le sètte,
dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i
principii loro E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno
più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso
rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di detto ordine,
vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che
la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano.
Il
modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso
e' principii suoi. Perché tutti e' principii delle sètte,
e delle republiche e de' regni, conviene che abbiano in sé
qualche bontà, mediante la quale ripiglio la prima riputazione
ed il primo augumento loro. E perché nel processo del tempo
quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la riduca
al segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi dottori di
medicina dicono, parlando de' corpi degli uomini, "quod quotidie
aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione". Questa
riduzione verso il principio, parlando delle republiche, si fa o per
accidente estrinseco o per prudenza intrinseca. Quanto al primo, si
vede come egli era necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a
volere che la rinascesse e rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova
virtù; e ripigliasse la osservanza della religione e della
giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi. Il che benissimo
si comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che nel trar
fuori lo esercito contro ai Franciosi e nel creare e' Tribuni con la
potestà consolare, non osservorono alcuna religiosa cerimonia.
Così medesimamente, non solamente non punirono i tre Fabii, i
quali "contra ius gentium" avevano combattuto contro ai
Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente presuppore,
che dell'altre constituzioni buone, ordinate da Romolo e da quegli
altri principi prudenti, si cominciasse a tenere meno conto che non
era ragionevole e necessario a mantenere il vivere libero. Venne,
dunque, questa battitura estrinseca, acciocché tutti gli
ordini di quella città si ripigliassono, e si mostrasse a quel
popolo, non solamente essere necessario mantenere la religione e la
giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e fare più
conto della loro virtù che di quegli commodi che e' paresse
loro mancare, mediante le opere loro. Il che si vede che successe
appunto; perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli
ordini dell'antica religione loro; punirono quegli Fabii che avevano
combattuto "contra ius gentium"; ed appresso tanto
stimorono la virtù e bontà di Cammillo, che posposto,
il Senato e gli altri, ogni invidia, rimettevano in lui tutto il
pondo di quella republica. È necessario, adunque, come è
detto, che gli uomini che vivono insieme in qualunque ordine, spesso
si riconoschino, o per questi accidenti estrinseci o per
gl'intrinseci. E quanto a questi, conviene che nasca o da una legge,
la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel corpo;
o veramente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con i suoi
esempli e con le sue opere virtuose faccia il medesimo effetto che
l'ordine.
Surge, adunque, questo bene
nelle republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù
d'uno ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la
Republica romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe,
i Censori, e tutte l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed
alla insolenzia degli uomini. I quali ordini hanno bisogno di essere
fatti vivi dalla virtù d'uno cittadino, il quale animosamente
concorre ad esequirli contro alla potenza di quegli che gli
trapassano. Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di Roma da'
Franciosi, furono notabili, la morte de' figliuoli di Bruto, la morte
de' dieci cittadini, quella di Melio frumentario: dopo la presa di
Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la morte del figliuolo di
Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore contro a Fabio suo
Maestro de' cavalieri, l'accusa degli Scipioni. Le quali cose, perché
erano eccessive e notabili, qualunque volta ne nasceva una, facevano
gli uomini ritirare verso il segno: e quando le cominciarono ad
essere più rare, cominciarono anche a dare più spazio
agli uomini di corrompersi, e farsi con maggiore pericolo e più
tumulto. Perché dall'una all'altra di simili esecuzioni non
vorrebbe passare, il più, dieci anni: perché, passato
questo tempo, gli uomini cominciano a variare con i costumi e
trapassare le leggi; e se non nasce cosa per la quale si riduca loro
a memoria la pena, e rinnuovisi negli animi loro la paura, concorrono
tosto tanti delinquenti, che non si possono più punire sanza
pericolo. Dicevano, a questo proposito quegli che hanno governato lo
stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario
ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile
mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo stato, mettere quel terrore e
quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo
in quel tempo battuti quegli che avevano, secondo quel modo del
vivere, male operato. Ma come di quella battitura la memoria si
spegne, gli uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di dire
male; e però è necessario provvedervi, ritirando quello
verso i suoi principii. Nasce ancora questo ritiramento delle
republiche verso il loro principio dalla semplice virtù d'un
uomo, sanza dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna
esecuzione: nondimanco sono di tale riputazione e di tanto esemplo,
che gli uomini buoni disiderano imitarle e gli cattivi si vergognano
a tenere vita contraria a quelle. Quegli che in Roma particularmente
feciono questi buoni effetti, furono Orazio Cocle, Scevola, Fabrizio,
i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i quali con i loro
esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto
che si facessino le leggi e gli ordini. E se le esecuzioni
soprascritte, insieme con questi particulari esempli, fossono almeno
seguite ogni dieci anni in quella città, ne seguiva di
necessità che la non si sarebbe mai corrotta: ma come ei
cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste due cose,
cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo Marco
Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in Roma
surgessono i due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro, ed intra
loro dall'uno all'altro, e rimasono sì soli, che non potettono
con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e massime l'ultimo
Catone, il quale, trovando in buona parte la città corrotta,
non potette con lo esemplo suo fare che i cittadini diventassino
migliori. E questo basti quanto alle republiche.
Ma
quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazloni essere
necessarie, per lo esemplo della nostra religione, la quale, se non
fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da
Santo Domenico sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la
povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono
nella mente degli uomini, che già vi era spenta: e furono sì
potenti gli ordini loro nuovi, che ei sono cagione che la disonestà
de' prelati e de' capi della religione non la rovinino; vivendo
ancora poveramente, ed avendo tanto credito nelle confessioni con i
popoli e nelle predicazioni, che ci dànno loro a intendere
come egli è male dir male del male, e che sia bene vivere
sotto la obedienza loro, e, se fanno errore, lasciargli gastigare a
Dio: e così quegli fanno il peggio che possono, perché
non temono quella punizione che non veggono e non credono. Ha,
adunque, questa rinnovazione mantenuto, e mantiene, questa
religione.
Hanno ancora i regni bisogno di
rinnovarsi, e ridurre le leggi di quegli verso i suoi principii. E si
vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia; il
quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che
alcuno altro regno. Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i
parlamenti, e massime quel di Parigi; le quali sono da lui rinnovate
qualunque volta ei fa una esecuzione contro ad un principe di quel
regno, e che ei condanna il Re nelle sue sentenze. Ed infino a qui si
è mantenuto per essere stato uno ostinato esecutore contro a
quella Nobilità: ma qualunque volta ei ne lasciassi alcuna
impunita, e che le venissono a multiplicare, sanza dubbio ne
nascerebbe o che le si arebbono a correggere con disordine grande, o
che quel regno si risolverebbe.
Conchiudesi,
pertanto, non essere cosa più necessaria in uno vivere comune,
o setta o regno o republica che sia, che rendergli quella riputazione
ch'egli aveva ne' principii suoi; ed ingegnarsi che siano o gli
ordini buoni o i buoni uomini che facciano questo effetto, e non lo
abbia a fare una forza estrinseca. Perché, ancora che qualche
volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è tanto
pericolosa, che non è in modo alcuno da disiderarla. E per
dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli uomini particulari
facessono grande Roma, e causassino in quella città molti
buoni effetti, verrò alla narrazione e discorso di quegli:
intra e' termini de' quali questo terzo libro, ed ultima parte di
questa prima Deca, si concluderà. E benché le azioni
degli re fossono grandi e notabili nondimeno, dichiarandole la
istoria diffusamente, le lascerò indietro; né parlereno
altrimenti di loro, eccetto che di alcuna cosa che avessono operata
appartenente alli loro privati commodi; e comincerenci da Bruto,
padre della romana libertà.
Cap.
2
Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la
pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione della stultizia. Ed ancora che Tito Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere e mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di procedere, si può credere che simulasse ancora questo per essere manco osservato, ed avere più commodità di opprimere i Re e di liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione. E, che pensassi a questo, si vide, prima, nello interpetrare l'oracolo d'Apolline, quando simulò cadere per baciare la terra, giudicando per quello avere favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi, quando, sopra la morta Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo a trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai circustanti, che mai sopporterebbono che, per lo avvenire, alcuno regnasse in Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono male contenti d'uno principe: e debbono prima misurare e prima pesare le forze loro; e, se sono sì potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra, debbono entrare per questa via, come manco pericolosa e più onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie, seguendo i piàciti suoi, e pigliando dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezza, prima, ti fa vivere sicuro; e, sanza portare alcuno pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli principi non stare sì presso che la rovina loro ti coprisse, né sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a tempo a salire sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe la più vera, quando si potesse osservare; ma perché io credo che sia impossibile, conviene ridursi a' duoi modi soprascritti, cioè o di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo, per la qualità sua, notabile, vive in continovo pericolo. Né basta dire: - Io non mi curo di alcuna cosa, non disidero né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e sanza briga! - perché queste scuse sono udite e non accettate: né possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro creduto; talché, se si vogliono stare loro, non sono lasciati stare da altri. Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto; ed assai si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per compiacere al principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ricuperare la libertà a Roma, parlereno ora della sua severità nel mantenerla.
Cap.
3
Come egli è necessario, a volere mantenere una libertà
acquistata di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che elli vi aveva acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte le memorie delle cose: vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno: come, dopo una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da tirannide in republica è necessaria una esecuzione memorabile contro a' nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. E perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne' dì nostri e nella nostra patria, memorabile. E questo è Piero Soderini, il quale si credeva superare con la pazienza e bontà sua quello appetito che era ne' figliuoli di Bruto, di ritornare sotto un altro governo e se ne ingannò. E benché quello, per la sua prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte e l'ambizione di quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse mai l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di potere con la pazienza e con la bontà estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno consummare qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli amici fede) che, a volere gagliardamente urtare le sue opposizioni, e battere suoi avversari, gli bisognava pigliare istraordinaria autorità, e rompere con le leggi la civile equalità: la quale cosa, ancora che dipoi non fosse da lui usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non sarebbe mai poi concorso, dopo la morte di quello, a rifare un gonfalonieri a vita; il quale ordine elli giudicava fosse bene augumentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e' non si debbe mai lasciare scorrere un male, rispetto ad uno bene, quando quel bene facilmente possa essere, da quel male, oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno, come, quello l'aveva fatto, era per salute della patria, e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo, che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e' perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione. E come egli è cosa difficile salvare uno stato libero, così è difficile salvarne uno regio; come nel sequente capitolo si mosterrà.
Cap.
4
Non vive sicuro uno principe in uno principato, mentre vivono
coloro che ne sono stati spogliati.
La morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la morte di Servio Tullo causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil sia, e pericoloso, spogliare uno del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercassi con merito guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannato da parergli possedere quel regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e confermato dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno, che non avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta Roma. E Servio Tullo s'ingannò, credendo potere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che ne sono stati spogliati. Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno, quanto il beneficio nuovo è minore che non è stata la ingiuria. E sanza dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio fussono pazienti ad essere generi di colui di chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appitito del regnare è tanto grande, che non solamente entra ne' petti di coloro a chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il marito contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto stimava più essere regina che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio Tullo, perderono il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei lo avevano usurpato, Tarquinio Superbo lo perdé per non osservare gli ordini degli antichi re: come nel sequente capitolo si mosterrà.
Cap.
5
Quello che fa perdere uno regno ad uno re che sia, di quello,
ereditario.
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il regno sicuramente, non avendo a temere di quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E, benché il modo dell'occupare il regno fosse stato istraordinario ed odioso, nondimeno quando elli avesse osservato gli antichi ordini delli altri re, sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il Senato e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato costui per avere Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le leggi del regno, e governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle faccende che ne' luoghi publici con sodisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo, con carico ed invidia sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Né gli bastò farsi inimici i Padri, che si concitò ancora, contro, la Plebe, affaticandola in cose mecaniche e tutte aliene da quello a che gli avevano adoperati i suoi antecessori: talché, avendo ripiena Roma di esempli crudeli e superbi, aveva disposto già gli animi di tutti i Romani alla ribellione, qualunque volta ne avessono occasione. E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto, come prima ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto. Perché se Tarquinio fosse vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a quella ora ei cominciano a perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo tempo gli uomini sono vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei diventassono mai tanto prudenti che ei conoscessono con quanta facilità i principati si tenghino da coloro che saviamente si consigliano, dorrebbe molto più loro tale perdita, ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri fossono condannati. Perché egli è molto più facile essere amato dai buoni che dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare loro. E volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo, non hanno a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la vita de' principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei troveria tanta sicurtà e tanta sodisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uomini, quando sono governati bene, non cercono né vogliono altra libertà: come intervenne a' popoli governati dai dua prenominati; che gli costrinsono ad essere principi mentre che vissono, ancora che da quegli più volte fosse tentato di ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' due antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori concitati contro a' principi, e delle congiure fatte da' figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle fatte contro a Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel sequente capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata da' principi e da' privati.
Cap.
6
Delle congiure.
Ei
non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle
congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati;
perché si vede per quelle molti più principi avere
perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il
poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi:
il poterli congiurare contro, è concesso a ciascuno.
Dall'altra parte, gli uomini privati non entrano in impresa più
pericolosa né più temeraria di questa; perché la
è difficile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne
nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno il fine desiderato.
Acciocché, adunque, i principi imparino a guardarsi da questi
pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi
imparino ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla
sorte è stato loro proposto; io ne parlerò
diffusamente, non lasciando indietro alcuno caso notabile in
documento dell'uno e dell'altro. E veramente, quella sentenzia di
Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno ad
onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e debbono
desiderare i buoni principi, e, comunque ei si sieno fatti,
tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle
volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo
adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a chi si
fanno le congiure; e troverreno farsi o contro alla patria, o contro
ad uno principe: delle quali due voglio che al presente ragioniamo;
perché, di quelle che si fanno per dare una terra a' nimici
che la assediano, o che abbino, per qualunque cagione, similitudine
con questa, se n'è parlato di sopra a sufficienza. E
trattereno, in questa prima parte, di quelle contro al principe, e
prima esaminereno le cagioni di esse: le quali sono molte, ma una ne
è importantissima più che tutte le altre. E questa è
lo essere odiato dallo universale, perché il principe che si è
concitato questo universale odio, è ragionevole che abbi de'
particulari i quali da lui siano stati più offesi, e che
desiderino vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto loro da
quella mala disposizione universale che veggono essergli concitata
contro. Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi privati; e
come debba fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio
parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice offese
particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché si
riscontra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiuria, che si
mettino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che, quando pure ei
fossono d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella
benivolenza universale che veggono avere ad uno principe. Le
ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue o nell'onore. Di
quelle del sangue sono più pericolose le minacce che le
esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nelle esecuzioni
non vi è pericolo alcuno; perché chi è morto non
può pensare alla vendetta; quelli che rimangono vivi, il più
delle volte ne lasciano il pensiero a te. Ma colui che è
minacciato, e che si vede costretto da una necessità o di fare
o di patire, diventa uno uomo pericolosissimo per il principe: come
nel suo luogo particularmente direno. Fuora di questa necessità,
la roba e l'onore sono quelle due cose che offendono più gli
uomini che alcun'altra offesa, e dalle quali il principe si debbe
guardare: perché e' non può mai spogliare uno, tanto,
che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi; non può mai
tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla
vendetta. E degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle
donne importa più; dopo questo, il vilipendio della sua
persona. Questo armò Pausania contro a Filippo di Macedonia,
questo ha armato molti altri contro a molti altri principi: e ne'
nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a congiurare contro a
Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello data e poi tolta
per moglie una sua figliuola; come nel suo loco direno. La maggiore
cagione che fece che i Pazzi congiurarono contro ai Medici, fu la
eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu loro tolta per
ordine di quegli. Un'altra cagione ci è, e grandissima, che fa
gli uomini congiurare contro al principe; la quale è il
desiderio di liberare la patria, stata da quello occupata. Questa
cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha mosso molti
altri contro a' Falari, Dionisii, ed altri occupatori della patria
loro. Né può, da questo omore, alcuno tiranno
guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si
truova alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino
male; donde nacque quel verso di Iuvenale:
Ad generum cereris sine caede et vulnere pauci
descendunt reges, et sicca morte tiranni.
I
pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure, sono
grandi, portandosi per tutti i tempi; perché in tali casi si
corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che
sono. Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono più.
Uno, non si può dire che sia congiura, ma è una ferma
disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo,
de' tre pericoli che si corrono nelle congiure, manca del primo;
perché, innanzi alla esecuzione non porta alcuno pericolo, non
avendo altri il suo secreto, né portando pericolo che torni il
disegno suo all'orecchio del principe. Questa deliberazione così
fatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte,
grande, piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al
principe; perché ad ognuno è lecito qualche volta
parlarli; ed a chi è lecito parlare, è lecito sfogare
l'animo suo. Pausania, del quale altre volte si è parlato,
ammazzò Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille
armati d'intorno, ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma
costui fu nobile e cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed
abietto, dette una coltellata in su el collo al re Ferrando, re di
Spagna: non fu la ferita mortale, ma per questo si vide che colui
ebbe animo e commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote
turchesco, trasse d'una scimitarra a Baisit, padre del presente
Turco: non lo ferì, ma ebbe pure animo e commodità a
volerlo fare. Di questi animi fatti così, se ne truova, credo,
assai che lo vorrebbono fare, perché nel volere non è
pena né pericolo alcuno; ma pochi che lo facciano: ma di
quelli che lo fanno, pochissimi o nessuno che non siano ammazzati in
sul fatto; però non si truova chi voglia andare ad una certa
morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo
alle congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte
le congiure essere fatte da uomini grandi, o familiarissimi del
principe: perché gli altri, se non sono matti affatto, non
possono congiurare; perché gli uomini deboli, e non familiari
al principe, mancano di tutte quelle speranze e di tutte quelle
commodità che si richiede alla esecuzione d'una congiura.
Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro di chi tenga
loro fede; perché uno non può consentire alla volontà
loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne'
pericoli grandi: in modo che, come ei si sono allargati in dua o in
tre persone, ci trovono lo accusatore e rovinano: ma quando pure si
fossono tanto felici che mancassino di questo accusatore, sono nella
esecuzione intorniati da tale difficultà, per non avere
l'entrata facile al principe, che gli è impossibile che in
essa esecuzione ei non rovinino. Perché, se gli uomini grandi,
e che hanno l'entrata facile, sono oppressi da quelle difficultà
che di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle difficultà
sanza fine creschino. Pertanto gli uomini (perché, dove ne va
la vita e la roba, non sono al tutto insani) quando e' si veggono
deboli, se ne guardano; e quando egli hanno a noia uno principe,
attendono a bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore
qualità di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che
alcuno di questi simili avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare
in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli
che hanno congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o familiari,
del principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi così da
troppi beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro
a Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio.
Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta
ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro, alla
perfezione della potenza, altro che lo imperio; e di questo non
volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed
ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro
ingratitudine: ancora che di queste simili ne' tempi più
freschi ne avessi buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a
messer Piero Gambacorti, principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato
e nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse poi lo stato. Fu di
queste quella del Coppola, ne' nostri tempi, contro il re Ferrando
d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza che non gli
pareva gli mancassi se non il regno, per volere ancora quello, perdé
la vita. E veramente, se alcuna congiura contro ai principi, fatta da
uomini grandi, dovesse avere buono fine, doverrebbe essere questa;
essendo fatta da un altro re, si può dire, e da chi ha tanta
commodità di adempiere il suo disiderio: ma quella cupidità
del dominare che gli accieca, gli accieca ancora nel maneggiare
questa impresa; perché, se ei sapessono fare questa cattività
con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque,
uno principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più
coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli
avesse fatte troppe ingiurie. Perché questi mancono di
commodità, quelli ne abondano; e la voglia è simile,
perché gli è così grande o maggiore il desiderio
del dominare, che non è quello della vendetta. Debbono,
pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da quella
al principato sia qualche intervallo, e che vi sia in mezzo qualche
cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada se non
interverrà loro, come a' principi soprascritti. Ma torniamo
all'ordine nostro.
Dico che, avendo ad
essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e che abbino l'adito
facile al principe, si ha a discorrere i successi di queste loro
imprese quali siano stati, e vedere la cagione che gli ha fatti
essere felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci si truovano
dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su 'l fatto e poi. Se ne
truova poche che abbino buono esito, perché gli è
impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a
discorrere e' pericoli di prima, che sono i più importanti,
dico, come e' bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte,
che, nel maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si scuoprono o
per relazione, o per coniettura. La relazione nasce da trovare poca
fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la comunichi. La poca
fede si truova facilmente, perché tu non puoi comunicarla se
non con tuoi fidati, che per tuo amore si mettino alla morte, o con
uomini che siano male contenti del principe. De' fidati se ne
potrebbe trovare uno o due; ma, come tu ti distendi in molti, è
impossibile gli truovi: dipoi, e' bisogna bene che la benivolenza che
ti portano sia grande, a volere che non paia loro maggiore il
pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini s'ingannano, il più
delle volte, dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né
te ne puoi mai assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne
esperienza in questo è pericolosissimo. E sebbene ne avessi
fatto esperienza in qualche altra cosa pericolosa dove e' ti fossono
stati fedeli, non puoi da quella fede misurare questa, passando,
questo, di gran lunga, ogni altra qualità di pericolo. Se
misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia del principe, in
questo tu ti puoi facilmente ingannare: perché, subito che tu
hai manifestato a quel male contento l'animo tuo, tu gli dài
materia di contentarsi, e conviene bene, o che l'odio sia grande, o
che l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in
fede.
Di qui nasce che assai ne sono
rivelate, ed oppresse ne' primi principii loro; e che, quando una è
stata infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa
miracolosa: come fu quella di Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri
tempi, quella de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle
quali erano consapevoli più che cinquanta uomini; e
condussonsi, alla esecuzione, a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per
poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne parla poco cauto, in
modo che uno servo o altra terza persona t'intenda, come intervenne
ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare la cosa con i legati di
Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli accusò: ovvero
quando per leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che
tu ami o a simile leggieri persona; come fece Dimmo, uno de'
congiurati con Filota contro a Alessandro Magno, il quale communicò
la congiura a Nicomaco, fanciullo amato da lui; il quale subito la
disse a Ciballino suo fratello, e Ciballino ad el re. Quanto a
scoprirsi per coniettura, ce n'è in esemplo la congiura
Pisoniana contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de' congiurati,
il dì dinanzi ch'egli aveva ad ammazzare Nerone, fece
testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi arrotare
un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi
e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare ferite: per
le quali conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò a
Nerone. Fu preso Scevino, e con lui Natale un altro congiurato, i
quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto insieme, il dì
davanti; e non si accordando del ragionamento avuto, furono forzati a
confessare il vero talché la congiura fu scoperta, con rovina
di tutti i congiurati.
Da queste cagioni
dello scoprire le congiure è impossibile guardarsi che, per
malizia, per imprudenza o per leggerezza, la non si scuopra,
qualunque volta i conscii d'essa passono il numero di tre o di
quattro. E come e' ne è preso più che uno, è
impossibile non riscontrarla, perché due non possano essere
convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro. Quando e' ne sia
preso solo uno, che sia uomo forte, può elli, con la fortezza
dello animo, tacere i congiurati; ma conviene che i congiurati non
abbiano meno animo di lui a stare saldi, e non si scoprire con la
fuga: perché da una parte che l'animo manca o da chi è
sostenuto o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed
è rado lo esemplo indotto da Tito Livio nella congiura fatta
contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo Teodoro, uno de'
congiurati, preso, celò con una virtù grande tutti i
congiurati, ed accusò gli amici del re, e dall'altra parte, i
congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che
nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore.
Passasi, adunque, per tutti questi pericoli nel maneggiare una
congiura innanzi che si venga alla esecuzione di essa: i quali
volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo ed il più
vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo ai
congiurati di accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la vuoi
fare, e non prima. Quelli che hanno fatto così, fuggono al
certo i pericoli che sono nel praticarla, e, il più delle
volte, gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque
prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io
voglio che mi basti addurre due esempli.
Nelemato,
non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro,
ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e, confortatogli a
liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a diliberarsi ed
ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi servi serrare la casa, ed a
quelli che esso aveva chiamati disse: - O voi giurerete di andare ora
a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad
Aristotimo -. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati,
sanza intermissione di tempo, felicemente l'ordine di Nelemato
esequirono. Avendo uno Mago, per inganno, occupato il regno de'
Persi, ed avendo Ortano, uno de' grandi uomini del regno, intesa e
scoperta la fraude, lo conferì con sei altri principi di
quello stato, dicendo come gli era da vendicare il regno dalla
tirannide di quel Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si levò
Dario, uno de' sei chiamati da Ortano, e disse: - O noi andreno ora a
fare questa esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E
così d'accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di
pentirsi, esequirono felicemente i disegni loro. Simile a questi due
esempli ancora è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare
Nabide, tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno loro
cittadino, con trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide, sotto colore
di mandargli aiuto; ed il segreto solamente comunicorono ad
Alessameno; ed agli altri imposono che lo ubbidissoro in ogni e
qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in Sparta, e
non comunicò mai la commissione sua se non quando e' la volle
esequire: donde gli riuscì d'ammazzarlo. Costoro, adunque per
questi modi, hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel
maneggiare le congiure; e chi imiterà loro, sempre gli
fuggirà.
E che ciascuno possa fare
come loro io ne voglio dare lo esemplo di Pisone preallegato di
sopra. Era Pisone grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare di
Nerone, ed in chi elli confidava assai. Andava Nerone ne' suoi orti
spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini,
d'animo e di cuore e di disposizione atti ad una tale esecuzione (il
che ad uno grande è facilissimo); e quando Nerone fosse stato
ne' i suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le parole convenienti
inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo a ricusare, e che
era impossibile che non riuscisse. E così, se si esamineranno
tutte l'altre, si troverrà poche non essere potute condursi
nel medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco intendenti
delle azioni del mondo, spesso fanno errori gravissimi, e tanto
maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario, come è
questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se non
necessitato ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare,
comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima
isperienza, o che sia mosso dalle medesime cagioni che tu. Trovarne
uno così fatto è molto più facile che trovarne
più, e per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando
pure ei ti ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi, che
non è dove siano congiurati assai: perché da alcuno
prudente ho sentito dire che con uno si può parlare ogni cosa,
perché tanto vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di
tua mano, il sì dell'uno quanto il no dell'altro; e dallo
scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno scoglio, perché
non è cosa che più facilmente ti convinca, che lo
scritto di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare Severo
imperadore ed Antonino suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino
tribuno; il quale, volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando
che, venendo all'accusa, e' non fussi più creduto a Plauziano
che a lui, gli chiese una cedola di sua mano, che facessi fede di
questa commissione; la quale Plauziano, accecato dall'ambizione, gli
fece: donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e convinto; e
sanza quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato
Plauziano superiore; tanto audacemente negava. Truovasi, adunque,
nell'accusa d'uno, qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una
scrittura, o altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe
guardare.
Era nella congiura Pisoniana una
femina chiamata Epicari, stata per lo adietro amica di Nerone; la
quale giudicando che fussi a proposito mettere tra i congiurati uno
capitano di alcune trireme che Nerone teneva per sua guardia, gli
comunicò la congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli
quello capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia
di Epicari nel negarlo, che Nerone, rimaso confuso, non la condannò.
Sono, adunque, nel comunicare la cosa ad uno solo, due pericoli:
l'uno, che non ti accusi in pruova; l'altro, che non ti accusi
convinto e constretto dalla pena, sendo egli preso per qualche
sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell'uno e nell'altro
di questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi negare
l'uno, allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare l'altro,
allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie. È ,
adunque, prudenza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo
gli esempli soprascritti; o, quando pure la comunichi, non passare
uno; dove, se è qualche più pericolo, ve n'è
meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo è
quando una necessità ti costringa a fare quello al principe
che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la quale sia tanto
grande che non ti dia tempo se non a pensare ad assicurarti. Questa
necessità conduce quasi sempre la cosa al fine desiderato: ed
a provarlo voglio bastino due esempli.
Aveva
Commodo, imperadore, Leto ed Eletto, capi de' soldati pretoriani, ed
intra' primi amici e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue
concubine o amiche; e perché egli era da costoro qualche volta
ripreso de' modi con i quali maculava la persona sua e lo Imperio,
diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra Marzia,
Leto ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente fare
morire; e quella listra messe sotto il capezzale del suo letto. Ed
essendo ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per
camera e su pel letto, gli venne trovato questa listra, ed uscendo
fuora con essa in mano, riscontrò Marzia; la quale gliene
tolse, e, lettala, e veduto il contenuto di essa, subito mandò
per Leto ed Eletto; e conosciuto tutti a tre il pericolo in quale
erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere tempo in mezzo, la
notte sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino Caracalla,
imperadore, con gli eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo
prefetto Macrino, uomo più civile che armigero; e, come
avviene ch'e' principi non buoni temono sempre che altri non operi,
contro a loro, quello che par loro meritare, scrisse Antonino a
Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi, s'egli
era alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse. Donde
Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che vi aspirava; e
pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello
imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o
d'ammazzare lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire,
commisse a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva
morto, pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che
fu esequito da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa necessità
che non dà tempo, fa quasi quel medesimo effetto che il modo,
da me sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello
che io dissi, quasi nel principio di questo discorso, come le minacce
offendono più i principi, e sono cagione di più
efficace congiure che le offese: da che uno principe si debbe
guardare; perché gli uomini si hanno o accarezzare o
assicurarsi di loro; e non li ridurre mai in termine che gli abbiano
a pensare che bisogni loro o morire o far morire altrui.
Quanto
ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi o da
variare l'ordine, o da mancare l'animo a colui che esequisce, o da
errore che lo esecutore faccia per poca prudenza, o per non dare
perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si
disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come e' non è cosa
alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli
uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo, avere a
variare un ordine e a pervertirlo da quello che si era ordinato
prima. E se questa variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa
nelle cose della guerra, ed in cose simili a quelle di che noi
parliano; perché in tali azioni non è cosa tanto
necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad
esequire quella parte che tocca loro: e se gli uomini hanno volto la
fantasia per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello
subito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e non
rovini ogni cosa; in modo che gli è meglio assai esequire una
cosa secondo l'ordine dato, ancora che vi si vegga qualche
inconveniente, che non è, per volere cancellare quello,
entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e' non si ha
tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si può
l'uomo governare a suo modo.
La congiura
de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici, è nota.
L'ordine dato era che dessino desinare al cardinale di San Giorgio,
ed a quel desinare ammazzargli: dove si era distribuito chi aveva a
ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la città
e chiamare alla libertà il popolo. Accadde che, essendo nella
chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il Cardinale ad uno
ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava:
il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e quello che gli
avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa. Il
che venne a perturbare tutto l'ordine, perché Giovambatista da
Montesecco non volle concorrere all'omicidio, dicendo non lo volere
fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare nuovi ministri in
ogni azione; i quali, non avendo tempo a fermare l'animo, fecero tali
errori, che in essa esecuzione furono oppressi.
Manca
l'animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria viltà
dello esecutore. È tanta la maestà e la riverenza che
si tira dietro la presenza d'uno principe, ch'egli è facil
cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno esecutore. A Mario,
essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno servo che lo ammazzasse;
il quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria
del nome suo, divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E
se questa potenza è in uomo legato e prigione, ed affogato
nella mala fortuna; quanto si può tenere che la sia maggiore
in uno principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della
pompa e della comitiva sua! talché ti può questa tale
pompa spaventare, o vero con qualche grata accoglienza raumiliare.
Congiurorono alcuni contro a Sitalce re di Tracia, deputorono il dì
della esecuzione; convennono al luogo diputato, dove era il principe;
nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si partirono sanza
avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello che se gli avessi
impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale errore più
volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di quello
male che potettono e non vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso,
duca di Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano Giannes, prete
e cantore del duca; il quale più volte, a loro richiesta,
condusse il duca fra loro, talché gli avevano arbitrio
d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì di
farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della cattività
e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette nascere da altro,
se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qualche
umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali esecuzioni
inconveniente o errore per poca prudenza o per poco animo; perché
l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e portato da quella
confusione di cervello ti fa dire e fare quello che tu non
debbi.
E che gli uomini invasino e si
confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio quando
discrive di Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide
spartano, di che abbiamo di sopra parlato; che, venuto il tempo della
esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a
fare, dice Tito Livio queste parole: "Collegit et ipse animum,
confusum tantae cogitatione rei". Perché gli è
impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla morte
degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda. Però si
debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno
altro credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello
animo nelle cose grandi, sanza averne fatto isperienza, non sia
alcuno che se ne prometta cosa certa. Può, adunque, questa
confusione o farti cascare l'armi di mano, o farti dire cose che
facciano il medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di Commodo, ordinò
che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo nella
entrata dello anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli,
gridò: - Questo ti manda il Senato! - le quali parole fecero
che fu prima preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire.
Messer Antonio da Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad
ammazzare Lorenzo de' Medici, nello accostarsegli disse: - Ah
traditore! - la quale voce fu la salute di Lorenzo, e la rovina di
quella congiura. Può non si dare perfezione alla cosa, quando
si congiura contro ad uno capo, per le cagioni dette: ma facilmente
non se le dà perfezione quando si congiura contro a due capi,
anzi è tanto difficile, che gli è quasi impossibile che
la riesca. Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo
in diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in
diversi tempi non si può fare, non volendo che l'una guasti
l'altra. In modo che, se il congiurare contro ad uno principe è
cosa dubbia, pericolosa e poco prudente; congiurare contro a due, è
al tutto vana e leggieri. E se non fosse la riverenza dello istorico,
io non crederrei mai che fosse possibile quello che Erodiano dice di
Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione, che elli solo
ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi paesi: perché
la è cosa tanto discosto da il ragionevole che altro che
questa autorità non me lo farebbe credere.
Congiurorono
certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene.
Ammazzarono Diocle ed Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e
Leonide eraclensi e discepoli di Platone, congiurarono contro a
Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono Clearco; e Satiro, che restò
vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati,
non successe di ammazzare se non Giuliano. In modo che di simili
congiure contro a più capi, se ne debbe astenere ciascuno,
perché non si fa bene né a sé né alla
patria né ad alcuno: anzi quelli che rimangono, diventono più
insopportabili e più acerbi; come sa Firenze, Atene ed
Eraclea, state da me preallegate. È vero che la congiura che
Pelopida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tutte le difficultà:
nondimeno ebbe felicissimo fine; perché Pelopida non solamente
congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non
solamente non era confidente e non gli era facile la entrata a e'
tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire in Tebe,
ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure nondimanco fece
tutto, con l'aiuto d'uno Carione, consigliere de' tiranni, dal quale
ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non sia alcuno,
nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella
fu impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così
fu, ed è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come
cosa rara e quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale
esecuzione da una falsa immaginazione o da uno accidente imprevisto
che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri congiurati
volevano ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo
con Gneo Popilio Lenate, uno de' congiurati; e vedendo gli altri
questo lungo parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a
Cesare la congiura: e furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e
non aspettare che fosse in Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il
ragionamento finì, e, visto non fare a Cesare moto alcuno
istraordinario, si rassicurarono. Sono queste false immaginazioni da
considerarle, ed avervi, con prudenza, rispetto; e tanto più,
quanto egli è facile ad averle. Perché chi ha la sua
conscienza macchiata, facilmente crede che si parli di lui: puossi
sentire una parola, detta ad uno altro fine, che ti faccia perturbare
l'animo, e credere che la sia detta sopra il caso tuo, e farti o con
la fuga scoprire la congiura da te, o confondere l'azione con
acceleralla fuora di tempo. E questo tanto più facilmente
nasce, quando ei sono molti ad essere conscii della
congiura.
Quanto alli accidenti, perché
sono inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli,
e fare gli uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del
quale di sopra abbiamo fatto menzione, per lo sdegno aveva contro a
Pandolfo, che gli aveva tolto la figliuola che prima gli aveva data
per moglie, diliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo.
Andava Pandolfo quasi ogni giorno a vicitare uno suo parente infermo,
e nello andarvi passava dalle case di Iulio. Costui, adunque, veduto
questo, ordinò di avere i suoi congiurati in casa ad ordine
per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi dentro all'uscio
armati, teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo, quando ei
fussi presso all'uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo
Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno, riscontrò uno amico
che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano con lui, vennono a
trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il romore d'arme, scopersono
l' agguato; in modo che Pandolfo si salvò, e Iulio ed i
compagni si ebbono a fuggire di Siena. Impedì quello accidente
di quello scontro quella azione, e fece a Iulio rovinare la sua
impresa. Ai quali accidenti, perché e' son rari, non si può
fare alcuno rimedio. È bene necessario esaminare tutti quegli
che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci
al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono dopo la
esecuzione: i quali sono solamente uno; e questo è, quando e'
rimane alcuno che vendichi il principe morto. Possono, adunque,
rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi si
aspetti il principato; e possono rimanere o per tua negligenzia o per
le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta: come
intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i
suoi congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso
uno suo figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il
morto. E veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati, perché
non ci hanno rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno, per poca
prudenza, o per loro negligenza, allora è che non meritano
scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro
signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e
non parendo loro potere vivere sicuri se non si insignorivano della
fortezza, e non volendo il castellano darla loro, Madonna Caterina
(che così si chiamava la contessa) promisse ai congiurati,
che, se la lasciavano entrare in quella, di farla consegnare loro, e
che ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per istatichi.
Costoro, sotto questa fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come
fu dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del marito, e
minacciogli d'ogni qualità di vendetta. E per mostrare che de'
suoi figliuoli non si curava, mostrò loro le membra genitali,
dicendo che aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro,
scarsi di consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno
perpetuo esilio patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i
pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il
più certo né quello che sia più da temere, che
quando il popolo è amico del principe che tu hai morto: perché
a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e' non
se ne possono mai assicurare. In esemplo ci è Cesare, il
quale, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui;
perché, avendo cacciati i congiurati, di Roma, fu cagione che
furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi, ammazzati.
Le
congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose, per
coloro che le fanno, che non sono quelle contro ai principi: perché
nel maneggiarle vi sono meno pericoli che in quelle; nello esequirle
vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve ne è
alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti: perché
uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza manifestare lo
animo e disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini non gli sono
interrotti, seguire felicemente la impresa sua; se gli sono
interrotti con qualche legge, aspettare tempo ed entrare per altra
via. Questo s'intende in una republica dove è qualche parte di
corrozione; perché, in una non corrotta, non vi avendo luogo
nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo cittadino
questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molti mezzi e
molte vie aspirare al principato dove e' non portano pericolo di
essere oppressi: sì perché le republiche sono più
tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo sono manco caute;
sì perché hanno più rispetto ai loro cittadini
grandi, e per questo quelli sono più audaci e più
animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto la congiura di Catilina
scritta da Sallustio, e sa come, poi che la congiura fu scoperta,
Catilina non solamente stette in Roma, ma venne in Senato, e disse
villania al Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che quella
città aveva ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e
ch'egli era di già in su gli eserciti, non si sarebbe preso
Lentulo e quelli altri, se non si fossoro avute lettere di loro mano
che gli accusavano manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in
Cartagine, aspirando alla tirannide, aveva ordinato nelle nozze d'una
sua figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe.
Questa cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che
d'una legge, la quale poneva termini alle spese de' conviti e delle
nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È
bene vero, che nello esequire una congiura contro alla patria, vi è
difficultà più, e maggiori pericoli, perché rade
volte è che bastino le tue forze proprie conspirando contro a
tanti; e ciascuno non è principe d'uno esercito, come era
Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con
le forze loro occupato la patria. Perché a simili è la
via assai facile ed assai sicura, ma gli altri, che non hanno tante
aggiunte di forze, conviene che facciano le cose, o con inganno ed
arte, o con forze forestiere. Quanto allo inganno ed all'arte, avendo
Pisistrato ateniese vinti i Megarensi, e per questo acquistata grazia
nel popolo, uscì una mattina fuora, ferito, dicendo che la
Nobilità per invidia lo aveva ingiuriato, e domandò di
potere menare armati seco per guardia sua. Da questa autorità
facilmente salse a tanta grandezza, che diventò tiranno di
Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in
Siena, e gli fu data la guardia della piazza con governo, come cosa
mecanica, e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con
il tempo, gli dierono tanta riputazione, che, in poco tempo, ne
diventò principe. Molti altri hanno tenute altre industrie ed
altri modi, e con ispazio di tempo e sanza pericolo vi si sono
condotti. Quegli che con forze loro, o con eserciti esterni, hanno
congiurato per occupare la patria, hanno avuti varii eventi, secondo
la fortuna. Catilina preallegato vi rovinò sotto. Annone, di
chi di sopra facemo menzione, non gli essendo riuscito il veleno,
armò, di suoi partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed
elli furono morti. Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi tiranni
chiamorono in aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide di
quella città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte
contro alla patria, non ne troverrai alcuna, o poche, che, nel
maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono
rovinate, nella esecuzione. Esequite che le sono, ancora non portano
altri periculi che si porti la natura del principato in sé:
perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali
ed ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha
altri rimedi che si siano di sopra discorsi.
Questo
è quanto mi è occorso scrivere delle congiure; e se io
ho ragionato di quelle che si fanno con il ferro, e non col veneno,
nasce che le hanno tutte uno medesimo ordine. Vero è che
quelle del veneno sono più pericolose, per essere più
incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e
bisogna conferirlo con chi la ha, e questa necessità del
conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte cagioni, uno beveraggio di
veleno non può essere mortale: come intervenne a quelli che
ammazzarono Commodo, che, avendo quello ributtato il veleno che gli
avevano dato, furono forzati a strangolarlo, se vollono che morisse.
Non hanno, pertanto, i principi il maggiore nimico che la congiura:
perché, fatta che è una congiura loro contro, o la gli
ammazza, o la gli infama. Perché, se la riesce, e' muoiono; se
la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la
sia stata invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la
crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha
morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o
quella republica contro a chi fosse congiurato, che abbino
avvertenza, quando una congiura si manifesta loro, innanzi che
facciano impresa di vendicarla, cercare ed intendere molto bene la
qualità di essa, e misurino bene le condizioni de' congiurati
e le loro; e quando la truovino grossa e potente, non la scuoprino
mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sufficienti ad
opprimerla: altrimenti facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però,
debbono con ogni industria dissimularla; perché i congiurati,
veggendosi scoperti, cacciati da necessità, operano sanza
rispetto. In esemplo ci sono i Romani; i quali, avendo lasciate due
legioni di soldati a guardia de' Capovani contro ai Sanniti, come
altrove dicemo, congiurarono quelli capi delle legioni insieme di
opprimere i Capovani: la quale cosa intesasi a Roma, commissono a
Rutilio nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per addormentare
i congiurati, pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze
alle legioni capovane. Il che credendosi quelli soldati, e parendo
loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non cercarono di
accelerare la cosa; e così stettono infino che cominciarono a
vedere che il Consolo gli separava l'uno dall'altro: la quale cosa
generò in loro sospetto, fece che si scopersono e mandarono ad
esecuzione la voglia loro. Né può essere questo
maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte: perché per
questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono
avere tempo, e quanto e' sono presti dove la necessità gli
caccia. Né può uno principe o una republica, che vuole
differire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine
migliore che offerire, di prossimo, occasione con arte ai congiurati
acciocché, aspettando quella, o parendo loro avere tempo,
diano tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha fatto
altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece il duca di Atene,
e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze, ed
intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare
altrimenti la cosa, pigliare uno de' congiurati: il che fece subito
pigliare l'armi agli altri; e torgli lo stato. Guglielmo, sendo
commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo inteso come in
Arezzo era una congiura in favore de' Vitelli per tôrre quella
terra ai Fiorentini, subito se n'andò in quella città,
e sanza pensare alle forze de' congiurati o alle sue, e, sanza
prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del vescovo suo
figliuolo, fece pigliare uno de' congiurati: dopo la quale presura,
gli altri subito presono l'armi, e tolsono la terra ai Fiorentini; e
Guglielmo, di commessario, diventò prigione. Ma quando le
congiure sono deboli, si possono e debbono sanza rispetto opprimerle.
Non è ancora da imitare in alcuno modo due termini usati,
quasi contrari l'uno all'altro, l'uno dal prenominato duca di Atene,
il quale, per mostrare di credere di avere la benivolenza de'
cittadini fiorentini, fece morire uno che gli manifestò una
congiura; l'altro da Dione siragusano, il quale, per tentare l'animo
di alcuno che elli aveva a sospetto, consentì a Callippo, nel
quale ei confidava, che mostrasse di farli una congiura contro. E
tutti a due questi capitorono male: perché l'uno tolse l'animo
agli accusatori, e dettelo a chi volesse congiurare, l'altro dette la
via facile alla morte sua, anzi fu elli proprio capo della sua
congiura; come per isperienza gl'intervenne, perché Callippo,
potendo sanza rispetto praticare contro a Dione, praticò tanto
che gli tolse lo stato e la vita.
Cap.
7
Donde nasce che le mutazioni dalla libertà alla
servitù, e dalla servitù alla libertà, alcuna ne
è sanza sangue, alcuna ne è piena.
Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza; perché, come per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stati morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato ingiurato alcuno: come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove non furono cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di qualunque altro. Il che depende da questo: perché quello stato che si muta, nacque con violenza, o no: e perché, quando e' nasce con violenza, conviene nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriati si voglino vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune consenso d'una universalità che lo ha fatto grande, non ha cagione poi, quando rovina detta universalità, di offendere altri che il capo. E di questa sorte fu lo stato di Roma, e la cacciata de' Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro. E così tali mutazioni non vengono ad essere molto pericolose: ma sono bene pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si hanno a vendicare; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi le legge. E perché di questi esempli ne sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro.
Cap.
8
Chi vuole alterare una republica, debbe considerare il
suggetto di quella.
Egli
si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non può
male operare in una republica che non sia corrotta: la quale
conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dissono,
con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il quale
Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare autorità
istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti
beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano
tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in
tanto recata a sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo
di darli quelli danari che si erano ritratti dei grani che il publico
aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò, parendo a
quello che Spurio volessi dare loro il prezzo della loro libertà.
Ma se tale popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusato detto
prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse.
Fa molto maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché
mediante costui si vede quanta virtù d'animo e di corpo,
quante buone opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una
brutta cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in
costui per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a
Cammillo; e venne in tanta cecità di mente, che, non pensando
al modo del vivere della città, non esaminando il suggetto,
quale esso aveva, non atto a ricevere ancora trista forma, si misse a
fare tumulti in Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie.
Dove si conosce la perfezione di quella città, e la bontà
della materia sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità,
come che fossero agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a
favorirlo; nessuno de' parenti fece impresa in suo favore: e con gli
altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti
mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano
sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del popolo;
e quanto erano più contro a' nobili, tanto più le
tiravano innanzi; in questo caso si unirono co' nobili, per opprimere
una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo dell'utile
proprio, ed amatore delle cose che venivano contro alla Nobilità,
avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno, come i Tribuni
lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del popolo,
quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo
condannò a morte. Pertanto io non credo che sia esemplo in
questa istoria, più atto a mostrare la bontà di tutti
gli ordini di quella Republica, quanto è questo; veggendo che
nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino
pieno d'ogni virtù, e che publicamente e privatamente aveva
fatte moltissime opere laudabili. Perché in tutti loro poté
più lo amore della patria che alcuno altro rispetto; e
considerarono molto più a' pericoli presenti che da lui
dependevano che a' meriti passati: tanto che con la morte sua e' si
liberarono. E Tito Livio dice: "Hunc exitum habuit vir, nisi in
libera civitate natus esset, memorabilis". Dove sono da
considerare due cose: l'una, che per altri modi si ha a cercare
gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva
politicamente; l'altra (che è quasi quel medesimo che la
prima), che gli uomini nel procedere loro, è tanto più
nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi, e accommodarsi a
quegli.
E coloro che, per cattiva elezione
o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più
delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro, al
contrario l'hanno quegli che si concordano col tempo. E sanza dubbio,
per le parole preallegate dello istorico, si può conchiudere,
che, se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di Silla, dove già
la materia era corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma
dell'ambizione sua, arebbe avuti quegli medesimi séguiti e
successi che Mario e Silla, e gli altri poi, che, dopo loro, alla
tirannide aspirarono. Così medesimamente, se Silla e Mario
fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero stati, in tra le prime
loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene
cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a corrompere uno
popolo di una città, ma gli è impossibile che la vita
d'uno basti a corromperla in modo che egli medesimo ne possa trarre
frutto; e quando bene e' fussi possibile, con lunghezza di tempo, che
lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del procedere degli
uomini, che sono impazienti, e non possono lungamente differire una
loro passione. Appresso, s'ingannano nelle cose loro, ed in quelle,
massime, che desiderono assai; talché, o per poca pazienza o
per ingannarsene, entrerebbero in impresa contro a tempo, e
capiterebbono male. Però è bisogno, a volere pigliare
autorità in una republica e mettervi trista forma, trovare la
materia disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di generazione
in generazione, si sia condotta al disordine: la quale vi si conduce
di necessità, quando la non sia, come di sopra si discorse,
spesso rinfrescata di buoni esempli, o con nuove leggi ritirata verso
i principii suoi. Sarebbe, dunque, stato Manlio uno uomo raro e
memorabile, se e' fussi nato in una città corrotta. E però
debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna impresa o in
favore della libertà o in favore della tirannide, considerare
il suggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà
delle imprese loro. Perché tanto è difficile e
pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere servo,
quanto è volere fare servo uno popolo che voglia vivere
libero. E perché di sopra si dice, che gli uomini nell'operare
debbono considerare le qualità de' tempi e procedere secondo
quegli, ne parlereno a lungo nel sequente capitolo.
Cap.
9
Come conviene variare co' tempi volendo sempre avere buona
fortuna.
Io
ho considerato più volte come la cagione della trista e della
buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere
suo con i tempi: perché e' si vede che gli uomini nelle opere
loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con
cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di questi modi si
passano e' termini convenienti, non si potendo osservare la vera via,
nell'uno e nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed
avere la fortuna prospera, che riscontra, come ho detto, con il suo
modo il tempo, e sempre mai si procede, secondo ti sforza la natura.
Ciascuno sa come Fabio Massimo procedeva con lo esercito suo
rispettivamente e cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni
audacia romana, e la buona fortuna fece che questo suo modo riscontrò
bene con i tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia,
giovane e con una fortuna fresca, ed avendo già rotto il
popolo romano due volte; ed essendo quella republica priva quasi
della sua buona milizia, e sbigottita; non potette sortire migliore
fortuna, che avere uno capitano il quale, con la sua tardità e
cauzione, tenessi a bada il nimico. Né ancora Fabio potette
riscontrare tempi più convenienti a' modi suoi: di che ne
nacque che fu glorioso. E che Fabio facessi questo per natura, e non
per elezione, si vide, che, volendo Scipione passare in Affrica con
quegli eserciti per ultimare la guerra, Fabio la contradisse assai,
come quello che non si poteva spiccare da' suoi modi e dalla
consuetudine sua; talché, se fusse stato a lui Annibale
sarebbe ancora in Italia; come quello che non si avvedeva che gli
erano mutati i tempi, e che bisognava mutare modo di guerra. E se
Fabio fusse stato re di Roma, poteva facilmente perdere quella
guerra; perché non arebbe saputo variare, col procedere suo,
secondo che variavono i tempi: ma essendo nato in una republica dove
erano diversi cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu
ottimo ne' tempi debiti a sostenere la guerra, così ebbe poi
Scipione, ne' tempi atti a vincerla.
Quinci
nasce che una republica ha maggiore vita, ed ha più lungamente
buona fortuna, che uno principato, perché la può meglio
accomodarsi alla diversità de' temporali, per la diversità
de' cittadini che sono in quella, che non può uno principe.
Perché un uomo che sia consueto a procedere in uno modo, non
si muta mai, come è detto; e conviene di necessità che,
quando e' si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che
rovini.
Piero Soderini, altre volte
preallegato, procedeva in tutte le cose sue con umanità e
pazienza. Prosperò egli e la sua patria, mentre che i tempi
furono conformi al modo del procedere suo: ma come e' vennero dipoi
tempi dove e' bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non
lo seppe fare; talché insieme con la sua patria rovinò.
Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del suo pontificato con
impeto e con furia; e perché gli tempi l'accompagnarono bene
gli riuscirono le sua imprese tutte. Ma se fossero venuti altri tempi
che avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava;
perché no arebbe mutato né modo né ordine nel
maneggiarsi. E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due
cose: l'una, che noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina
la natura; l'altra, che, avendo uno con uno modo di procedere
prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare
bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la
fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed elli non varia i
modi. Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli
ordini delle republiche co' tempi; come lungamente di sopra
discorremo: ma sono più tarde, perché le penono più
a variare, perché bisogna che venghino tempi che commuovino
tutta la republica, a che uno solo, col variare il modo del
procedere, non basta.
E perché noi
abbiamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a bada Annibale, mi
pare da discorrere nel capitolo sequente, se uno capitano, volendo
fare la giornata in ogni modo col nimico, può essere impedito,
da quello, che non lo faccia.
Cap.
10
Che uno capitano non può fuggire la giornata, quando
l'avversario la vuol fare in ogni modo.
"Cneus
Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens se
fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies,
et locus alienus, faceret". Quando e' séguita uno errore,
dove tutti gli uomini o la maggiore parte s'ingannino, io non credo
che sia male molte volte riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di
sopra più volte mostro quanto le azioni circa le cose grandi
sieno disformi a quelle delli antichi tempi, nondimeno non mi pare
superfluo al presente replicarlo. Perché, se in alcuna parte
si devia dagli antichi ordini si devia massime nelle azioni militari,
dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che
dagli antichi erano stimate assai. Ed è nato questo
inconveniente, perché le republiche ed i principi hanno
imposta questa cura ad altrui; e per fuggire i pericoli si sono
discostati da questo esercizio: e se pure si vede qualche volta uno
re de' tempi nostri andare in persona, non si crede, però, che
da lui nasca altri modi che meritino più laude. Perché
quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno a pompa, e non per
alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori errori
rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, tenendo a presso di
loro il titolo dello imperio, che non fanno le republiche, e massime
le italiane; le quali, fidandosi d'altrui, né s'intendendo in
alcuna cosa di quello che appartenga alla guerra; e, dall'altro
canto, volendo, per parere d'essere loro il principe, deliberarne,
fanno in tale deliberazione mille errori. E benché di alcuno
ne abbi discorso altrove, voglio al presente non ne tacere uno
importantissimo. Quando questi principi oziosi, o republiche
effeminate, mandono fuora uno loro capitano, la più savia
commissione che paia loro dargli, è quando gl'impongono che
per alcuno modo venga a giornata, anzi, sopra ogni cosa, si guardi
dalla zuffa; e parendo loro, in questo, imitare la prudenza di Fabio
Massimo, che, differendo il combattere, salvò lo stato ai
Romani, non intendono che, la maggiore parte delle volte, questa
commissione è nulla o è dannosa. Per che si debbe
pigliare questa conclusione: che uno capitano, che voglia stare alla
campagna, non può fuggire la giornata, qualunque volta il
nemico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa
commissione che dire: fa' la giornata a posta del nimico, e non a
tua. Perché a volere stare in campagna, e non fare la
giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta
miglia almeno discosto al nimico; e di poi tenere buone spie, che,
venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro
partito ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e
l'altro di questi due partiti è dannosissimo. Nel primo si
lascia in preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà
più tosto tentare la fortuna della zuffa, che allungare la
guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo partito è la
perdita manifesta; perché e' conviene che, riducendoti con uno
esercito in una città, tu venga ad essere assediato, ed in
poco tempo patire fame, e venire a dedizione. Talché fuggire
la giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il modo che
tenne Fabio Massimo, di stare ne' luoghi forti, è buono quando
tu hai sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di
venirti a trovare dentro a' tuoi vantaggi. Né si può
dire che Fabio fuggissi la giornata, ma più tosto che la
volessi fare a suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a
trovarlo, Fabio l'arebbe aspettato, e fatto la giornata seco: ma
Annibale non ardì mai di combattere con lui a modo di quello.
Tanto che la giornata fu fuggita così da Annibale come da
Fabio: ma se uno di loro l'avessi voluta fare in ogni modo, l'altro
non vi aveva se non uno de' tre rimedi; i due sopradetti, o
fuggirsi.
E che questo che io dico sia
vero, si vede manifestamente con mille esempli, e massime nella
guerra che i Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di Perse:
perché Filippo, sendo assaltato dai Romani, deliberò
non venire alla zuffa; e, per non vi venire, volle fare prima come
aveva fatto Fabio Massimo in Italia; e si pose con il suo esercito
sopra la sommità d'uno monte, dove si afforzò assai,
giudicando ch'e' Romani non avessero ardire di andare a trovarlo. Ma,
andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli, non
potendo resistere, si fuggì con la maggiore parte delle genti.
E quel che lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la
iniquità del paese, qual fece che i Romani non poterono
seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed essendosi
posto con il campo presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo
conosciuto per questa isperienza, come, non volendo combattere, non
gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo
rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro modo, di stare
discosto molte miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in
una provincia, e' se ne andava nell'altra, e così sempre,
donde i Romani partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come
nello allungare la guerra per questa via, le sue condizioni
peggioravano, e che i suoi suggetti ora da lui ora dai nimici erano
oppressi, deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e così
venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non
combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo
esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio, cioè
avere uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca venirti
a trovare drento alle fortezze tue; e che il nimico sia in casa tua
sanza avere preso molto piè, dove e' patisca necessità
del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le
ragioni che dice Tito Livio: "nolens se fortunae committere
adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus,
faceret". Ma in ogni altro termine non si può fuggire
giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché fuggirsi,
come fece Filippo, è come essere rotto; e con più
vergogna, quanto meno si è fatto pruova della tua virtù.
E se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che
non fussi aiutato dal paese come egli. Che Annibale non fussi maestro
di guerra, alcuno mai non lo dirà ed essendo allo incontro di
Scipione in Affrica, s'egli avessi veduto vantaggio in allungare la
guerra, ei lo arebbe fatto; e per avventura, sendo lui buono
capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare, come fece
Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto, si debbe credere che qualche
cagione importante lo movessi. Perché uno principe che abbi
uno esercito messo insieme, e vegga che per difetto di danari o
d'amici e' non può tenere lungamente tale esercito, è
matto al tutto se non tenta la fortuna innanzi che tale esercito si
abbia a risolvere: perché, aspettando e' perde il certo;
tentando, potrebbe vincere.
Un'altra cosa
ci è ancora da stimare assai: la quale è che si debbe,
eziandio perdendo, volere acquistare gloria; e più gloria si
ha, ad essere vinto per forza, che per altro inconveniente che ti
abbi fatto perdere. Sì che Annibale doveva essere constretto
da queste necessità. E dall'altro canto, Scipione, quando
Annibale avessi differita la giornata, e non gli fusse bastato
l'animo irlo a trovare ne' luoghi forti, non pativa, per avere di già
vinto Siface ed acquistato tante terre in Affrica, che vi poteva
stare sicuro e con commodità come in Italia. Il che non
interveniva ad Annibale, quando era all'incontro di Fabio; né
a questi Franciosi, che erano allo incontro di Sulpizio.
Tanto
meno ancora può fuggire la giornata colui che con lo esercito
assalta il paese altrui; perché, se vuole entrare nel paese
del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci incontro,
azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si obliga tanto
più alla zuffa: come ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo
di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu
da' Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di
Francia, che, campeggiando Novara, fu medesimamente da' Svizzeri
rotto.
Cap.
12
Che chi ha a fare con assai, ancora che sia
inferiore, pure che possa sostenere gli primi impeti, vince.
La
potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu grande;
e fu necessaria, come molte volte da noi è stato discorso,
perché altrimenti non si sarebbe potuto porre freno
all'ambizione della Nobilità, la quale arebbe molto tempo
innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe. Nondimeno,
perché in ogni cosa, come altre volte si è detto, è
nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi accidenti, è
necessario a questo con nuovi ordini provvedere. Essendo, pertanto,
divenuta l'autorità tribunizia insolente, e formidabile alla
Nobilità e a tutta Roma, e' ne sarebbe nato qualche
inconveniente, dannoso alla libertà romana, se da Appio
Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale si avevano a
difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che trovarono
sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o
amatore del comune bene; talmente che lo disponevano ad opporsi alla
volontà di quegli altri, che volessono tirare innanzi alcuna
deliberazione contro alla volontà del Senato. Il quale rimedio
fu un grande temperamento a tanta autorità, e per molti tempi
giovò a Roma. La quale cosa mi ha fatto considerare che,
qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a un altro potente
ancora che tutti insieme siano molto più potenti di quello,
nondimanco si debbe sempre sperare più in quel solo e men
gagliardo che in quelli assai, ancora che gagliardissimi. Perché,
lasciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo si può,
più che molti, prevalere (che sono infinite), sempre occorrerà
questo: che potrà, usando un poco d'industria, disunire gli
assai; e quel corpo, ch'era gagliardo, fare debole. Io non voglio in
questo addurre antichi esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio
mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi nostri.
Congiurò
nel 1481 tutta Italia contro ai Viniziani; e poiché loro al
tutto erano persi, e non potevano stare più con lo esercito in
campagna, corruppono il signor Lodovico che governava Milano, e per
tale corrozione feciono uno accordo, nel quale non solamente riebbono
le terre perse ma usurparono parte dello stato di Ferrara. E così
coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace.
Pochi anni sono, congiurò contro a Francia tutto il mondo:
nondimeno, avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si
ribellò da' confederati, e fece accordo seco; in modo che gli
altri confederati furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora
essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre mai fare giudicio,
quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno, che quello
uno abbia a restare superiore, quando sia di tale virtù, che
possa sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi aspettare tempo.
Perché, quando ei non fosse così, porterebbe mille
pericoli: come intervenne a' Viniziani nell'otto, i quali, se
avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed avere
tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati contro,
averiano fuggita quella rovina; ma, non avendo virtuose armi da
potere temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a
separarne alcuno, rovinarono. Per che si vide che il Papa, riavuto
ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro amico, e così Spagna: e
molto volentieri l'uno e l'altro di questi due principi arebbero
salvato loro lo stato di Lombardia contro a Francia, per non la fare
sì grande in Italia, se gli avessono potuto. Potevano, dunque,
i Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro avessono
fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessità,
ed innanzi ai moti della guerra, era savissimo partito; ma in su'
moti era vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a
tali moti, pochi in Vinegia de' cittadini potevano vedere il
pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma,
per tornare al principio di questo discorso, conchiudo: che così
come il Senato romano ebbe rimedio per la salute della patria contro
all'ambizione de' Tribuni, per essere molti, così arà
rimedio qualunque principe che sia assaltato da molti, qualunque
volta ei saprà con prudenza usare termini convenienti a
disgiungerli.
Cap.
12
Come uno capitano prudente debbe imporre ogni necessità
di combattere a' suoi soldati, e, a quegli degli inimici, torla.
Altre
volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la
necessità, ed a quale gloria siano sute condutte da quella; e,
come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e la
lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo, non
arebbero operato perfettamente, né condotte le opere umane a
quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non
fussoro spinte. Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani
degli eserciti la virtù di tale necessità, e quanto per
quella gli animi de' soldati diventavono ostinati al combattere;
facevano ogni opera perché i soldati loro fussero constretti
da quella; e, dall'altra parte, usavono ogni industria perché
gli nimici se ne liberassero: e per questo molte volte apersono al
nimico quella via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati
propri chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque,
che desidera o che una città si defenda ostinatamente, o che
uno esercito in campagna ostinatamente combatta, debbe, sopra ogni
altra cosa, ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere,
tale necessità. Onde uno capitano prudente, che avesse a
andare ad una espugnazione d'una città, debbe misurare la
facilità o la difficultà dello espugnarla, dal
conoscere e considerare quale necessità constringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai necessità
che gli constringa alla difesa, giudichi la espugnazione difficile;
altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce che le terre, dopo la
rebellione, sono più difficili ad acquistare, che le non sono
nel primo acquisto; perché, nel principio, non avendo cagione
di temere di pena, per non avere offeso, si arrendono facilmente; ma
parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e per questo
temendo la pena, diventono difficili ad essere espugnate. Nasce
ancora tale ostinazione da e' naturali odii che hanno i principi
vicini, e le republiche vicine, l'uno con l'altro: il che procede da
ambizione di dominare e gelosia del loro stato, massimamente se le
sono republiche, come interviene in Toscana; la quale gara e
contenzione ha fatto e farà sempre difficile la espugnazione
l'una dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini della città
di Firenze ed i vicini della città di Vinegia, non si
maraviglierà, come molti fanno, che Firenze abbia più
speso nelle guerre, ed acquistato meno di Vinegia: perché
tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine sì
ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze; per essere state tutte
le cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non
libere; e quegli che sono consueti a servire, stimono molte volte
poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talché
Vinegia, benché abbia avuto i vicini più potenti che
Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate, le ha potuto più
tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte
città libere.
Debbe adunque uno
capitano, per tornare al primo discorso, quando egli assalta una
terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare, a' difensori di
quella, tale necessità, e, per consequenzia, tale ostinazione;
promettendo perdono, se gli hanno paura della pena; e se gli avessono
paura della libertà, mostrare di non andare contro al comune
bene, ma contro a pochi ambiziosi della città; la quale cosa
molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre. E
benché simili colori sieno facilmente conosciuti, e massime
dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i popoli, i
quali, cupidi della presente pace, chiuggono gli occhi a qualunque
altro laccio che sotto le larghe promesse si tendesse. E per questa
via infinite città sono diventate serve: come intervenne a
Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed allo
esercito suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse de'
Parti, le quali erano fatte per tôrre via la necessità
a' suoi soldati del difendersi, non per tanto non potette tenergli
ostinati, accecati dalle offerte della pace che erano fatte loro da'
loro inimici; come si vede particularmente leggendo la vita di
quello. Dico pertanto, che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni
dello accordo, per l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i
campi de' confederati romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a
Roma a chiedere pace, offerendo di ristituire le cose predate, e di
dare prigioni gli autori de' tumulti e della preda; furono ributtati
dai Romani. E ritornati in Sannio sanza speranza di accordo, Claudio
Ponzio, capitano allora dello esercito de' Sanniti, con una sua
notabile orazione mostrò come i Romani volevono in ogni modo
guerra, e, benché per loro si desiderasse la pace, necessità
gli faceva seguire la guerra dicendo queste parole: "Iustum est
bellum quibus necessarium, et pia arma quibus nisi in armis spes
est"; sopra la quale necessità egli fondò con gli
suoi soldati la speranza della vittoria. E per non avere a tornare
più sopra questa materia, mi pare di addurci quelli esempli
romani che sono più degni di notazione. Era Gaio Manilio con
lo esercito, all'incontro de' Veienti; ed essendo parte dello
esercito veientano entrato dentro agli steccati di Manilio, corse
Manilio con una banda al soccorso di quegli; e perché i
Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli aditi del
campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a
combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed arebbero
tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno
non fusse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si vede come,
mentre la necessità costrinse i Veienti a combattere, e'
combatterono ferocissimamente; ma quando viddero aperta la via,
pensarono più a fuggire che a combattere.
Erano
entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini romani.
Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel travagliare
la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si
trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi,
occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e veggendo come gli
bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi soldati
queste parole: "Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis
obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est,
necessitate superiores estis". Sì che questa necessità
è chiamata da Tito Livio "ultimum ac maximum telum".
Cammillo, prudentissimo di tutti i capitani romani, sendo già
dentro nella città de' Veienti con il suo esercito, per
facilitare il pigliare quella, e tôrre ai nimici una ultima
necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti
udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono disarmati; talché,
gittate l'armi in terra, si prese quella città quasi sanza
sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato.
Cap.
13
Dove sia più da confidare, o in uno buono capitano
che abbia lo esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il
capitano debole.
Essendo
diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai Volsci; dove
contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne
venne a Roma; donde dipoi si partì, più per la piatà
della sua madre, che per le forze de' Romani. Sopra il quale luogo
Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la Republica
romana crebbe più per la virtù de' capitani che de'
soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati vinti,
e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E benché
Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della
sua istoria la virtù de' soldati sanza capitano avere fatto
maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati e più
feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissono:
come occorse nello esercito che i Romani avevano in Ispagna sotto gli
Scipioni; il quale, morti i due capitani, poté, con la virtù
sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere il nimico, e
conservare quella provincia alla Republica. Talché,
discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la
virtù de' soldati arà vinta la giornata; e molti altri,
dove solo la virtù de' capitani arà fatto il medesimo
effetto: in modo che si può giudicare, l'uno abbia bisogno
dell'altro, e l'altro dell'uno. È cci bene da considerare,
prima, quale sia più da temere, o d'uno buono esercito male
capitanato, o d'uno buono capitano accompagnato da cattivo esercito.
E seguendo in questo la opinione di Cesare, si debbe estimare poco
l'uno e l'altro. Perché, andando egli in Ispagna contro a
Afranio e Petreio, che avevano uno ottimo esercito, disse che gli
stimava poco, "quia ibat ad exercitum sine duce", mostrando
la debolezza de' capitani. Al contrario, quando andò in
Tessaglia contro a Pompeio, disse: "Vado ad ducem sine
exercitu".
Puossi considerare
un'altra cosa: a quale è più facile, o ad uno buono
capitano fare uno buono esercito, o ad uno buono esercito fare uno
buono capitano. Sopra che dico che tale questione pare decisa: perché
più facilmente molti buoni troverranno o instruiranno uno,
tanto che diventi buono, che non farà uno molti. Lucullo,
quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto inesperto della
guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi ottimi,
lo feciono tosto uno buono capitano. Armorono i Romani, per difetto
di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco,
il quale in poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed
Epaminonda, come altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro
patria della servitù degli Spartani, in poco tempo fecero, de'
contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente
sostenere la milizia spartana ma vincerla. Sì che la cosa è
pari, perché l'uno buono può trovare l'altro. Nondimeno
uno esercito buono sanza capo buono suole diventare insolente e
pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia dopo la
morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre
civili. Tanto che io credo che sia più da confidare assai in
uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e commodità di
armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario
fatto da lui. Però è da addoppiare la gloria e la laude
a quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il nimico,
ma, prima che venghino alle mani con quello, è convenuto loro
instruire lo esercito loro, e farlo buono: perché in questi si
mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se tale ferita fosse
stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai che
non sono.
Cap.
14
Le invenzioni nuove, che appariscono nel mezzo della zuffa,
e le voci nuove che si odino, quali effetti facciano.
Di
quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente
che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai
luoghi: e massime per questo esemplo che occorse nella zuffa che i
Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo inclinare uno de'
corni del suo esercito, cominciò a gridare forte, che gli
stessono saldi perché l'altro corno dello esercito era
vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e
sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali voci in uno esercito bene
ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli
fanno grandissimi, perché il tutto è mosso da simile
vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile, occorso ne' tempi
nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono, divisa in
due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano
esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e
ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore
della parte, una notte entrarono in quella città, e, sanza
essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perché
quella città in su tutti i canti delle vie ha catene che la
tengono sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una
mazza di ferro rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli
potessero passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava
in piazza, ed essendo già levato il romore all'armi, ed
essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro,
né potendo per questo alzare bene le braccia per rompere; per
potersi maneggiare, gli venne detto: - Fatevi indietro! - la quale
voce andando di grado in grado dicendo "addietro!",
cominciò a fare fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli
altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e così
restò vano il disegno degli Oddi, per cagione di sì
debole accidente.
Dove è da
considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari
per potere ordinatamente combattere quanto perché ogni minimo
accidenti non ti disordini. Perché, non per altro le
moltitudini popolari sono disutili per la guerra, se non perché
ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e fagli fuggire. E
però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe
ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e
rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi soldati che non credino se
non a quelli; e gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da
lui è commesso; perché, non osservata bene questa
parte, si è visto molte volte avere fatti disordini
grandissimi.
Quanto al vedere cose nuove,
debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che
gli eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli
inimici; perché, intra gli accidenti che ti diano la vittoria,
questo è efficacissimo. Di che se ne può addurre per
testimone Caio Sulpizio, dittatore romano; il quale venendo a
giornata con i Franciosi, armò tutti i saccomanni e gente vile
del campo; e quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con
armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli messe sotto le
insegne, dietro ad uno colle, e comandò che, ad uno segno
dato, nel tempo che la zuffa fosse più gagliarda, si
scoprissono e mostrassinsi a' nimici. La quale cosa così
ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la
giornata. E però uno buono capitano debbe fare due cose:
l'una, di vedere, con alcune di queste nuove invenzioni, di
sbigottire il nimico; l'altra, di stare preparato che, essendo fatte
dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e fargliene tornare
vane. Come fece il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come
quel re aveva buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per
mostrargli che ancora essa n'era copiosa, ne formò assai con
cuoia di bufoli e di vacche, e, quegli messi sopra i cammegli, gli
mandò davanti; ma conosciuto da il re lo inganno, le tornò
quel suo disegno, non solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco,
dittatore, contro ai Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito
romano, ordinarono che, in su l'ardore della zuffa, uscisse fuori di
Fidene numero di soldati con fuochi in su le lance, acciocché
i Romani, occupati dalla novità della cosa, rompessono intra
loro gli ordini. Sopra che è da notare, che, quando tali
invenzioni hanno più del vero che del fitto, si può
bene allora rappresentarle agli uomini, perché, avendo assai
del gagliardo, non si può scoprire così presto la
debolezza loro: ma quando le hanno più del fitto che del vero,
è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto, di
qualità che le non possino essere così presto scoperte;
come fece Caio Sulpizio de' mulattieri. Perché, quando vi è
dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno
danno, e non favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai
Fidenati i fuochi: i quali benché nel principio turbassono un
poco lo esercito, nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e
cominciò a gridargli, dicendo che non si vergognavano a
fuggire il fumo come le pecchie, e che dovessono rivoltarsi a loro;
gridando: "Suis flammis delete Fidenas, quas vestris beneficiis
placare non potuistis"; tornò quello trovato ai Fidenati
inutile, e restarono perditori della zuffa.
Cap.
15
Che uno e non molti sieno preposti ad uno esercito, e come i
più comandatori offendono.
Essendosi
ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani
avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a questo
insulto, quattro Tribuni con potestà consolare de' quali
lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro ai
Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra loro e
disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del
disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu
cagione la virtù de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo
disordine, ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché
un solo riordinasse quello che tre avevano disordinato. Donde si
conosce la inutilità di molti comandadori in uno esercito, o
in una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo può
più chiaramente dire che con le infrascritte parole: "Tres
Tribuni potestate consulari documento fuere, quam plurium imperium
bello inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia, cum alii aliud
videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti".
E
benché questo sia assai esemplo a provare il disordine che
fanno nella guerra i più comandatori, ne voglio addurre alcuno
altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione della
cosa.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece
il re di Francia Luigi XII, di Milano, mandò le sue genti a
Pisa per ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari
Giovambatista Ridolfi e Luca di Antonio degli Albizi. E perché
Giovambatista era uomo di riputazione, e di più tempo, Luca al
tutto lasciava governare ogni cosa a lui: e s'egli non dimostrava la
sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere, e con lo
straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava le
azioni del campo né con l'opere né con il consiglio,
come se fusse stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il
contrario; quando Giovambatista, per certo accidente seguito, se
n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò
quanto con l'animo, con la industria e col consiglio, valeva: le
quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute. Voglio di
nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio; il
quale, referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli Equi
Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta
l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice:
"Saluberrimum in administratione magnarum rerum est, summam
imperii apud unum esse". Il che è contrario a quello che
oggi fanno queste nostre republiche e principi di mandare ne' luoghi,
per amministrargli meglio, più d'uno commessario e più
d'uno capo: il che fa una inestimabile confusione. E se si cercassi
le cagioni della rovina degli eserciti italiani e franciosi ne'
nostri tempi, si troveria la potissima essere stata questa. E puossi
conchiudere veramente, come egli è meglio mandare in una
ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che due valentissimi
uomini insieme con la medesima autorità.
Cap.
16
Che la vera virtù si va ne' tempi difficili,
a trovare; e ne' tempi facili, non gli uomini virtuosi, ma quegli che
per ricchezze o per parentado hanno piu' grazia.
Egli
fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una
republica, ne' tempi pacifichi, sono negletti; perché, per la
invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virtù
d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai cittadini che
vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori. E di
questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il
quale mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in la
guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio degli Spartani, e
quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta riputazione che
la disegnò di occupare la Sicilia. Venne questa impresa in
disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano
che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene publico,
pensavono all'onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma
Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva; e
la maggiore ragione che, nel concionare al popolo, perché gli
fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che, consigliando esso che
non si facesse questa guerra, e' consigliava cosa che non faceva per
lui; perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti
cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra,
sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o
equale.
Vedesi, pertanto, adunque, come
nelle republiche è questo disordine, di fare poca stima de'
valenti uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in
due modi: l'uno per vedersi mancare del grado loro; l'altro, per
vedersi fare compagni e superiori uomini indegni e di manco
sofficienza di loro. Il quale disordine nelle republiche ha causato
di molte rovine; perché quegli cittadini che immeritamente si
veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono cagione i tempi
facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli, movendo nuove
guerre in pregiudicio della republica. E pensando quali potessono
essere e' rimedi, ce ne truovo due: l'uno, mantenere i cittadini
poveri, acciocché con le ricchezze sanza virtù e' non
potessino corrompere né loro né altri, l'altro, di
ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra, e
sempre si avesse bisogno di cittadini riputati, come e' Romani ne'
suoi primi tempi. Perché, tenendo fuori quella città
sempre eserciti, sempre vi era luogo alla virtù degli uomini;
né si poteva tôrre il grado a uno che lo meritasse, e
darlo ad uno che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva
qualche volta, per errore o per provare, ne seguiva tosto tanto suo
disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le
altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno solo
guerra quando la necessità le costringe, non si possono
difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro; e
sempre ne nascerà disordine, quando quello cittadino, negletto
e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città qualche
riputazione e aderenzia. E la città di Roma uno tempo fece
difesa; ma a quella ancora, poiché l'ebbe vinto Cartagine ed
Antioco (come altrove si disse), non temendo più le guerre,
pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non
riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre qualità
che gli dessono grazia nel popolo. Perché si vide che Paulo
Emilio ebbe più volte la ripulsa nel consolato, né fu
prima fatto consolo che surgesse la guerra macedonica; la quale
giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la città fu
commessa a lui.
Sendo nella nostra città
di Firenze seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i
cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò a
sorte la città in uno che mostrò come si aveva a
comandare agli eserciti; il quale fu Antonio Giacomini. E mentre che
si ebbe a fare guerre pericolose, tutta l'ambizione degli altri
cittadini cessò, e nella elezione del commessario e capo degli
eserciti non aveva competitore alcuno; ma come si ebbe a fare una
guerra dove non era alcuno dubbio, ed assai onore e grado, e' vi
trovò tanti competitori, che, avendosi ad eleggere tre
commessari per campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E benché
e' non si vedesse evidentemente che male ne seguisse al publico per
non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare
facilissima coniettura; perché, non avendo più i Pisani
da defendersi né da vivere, se vi fusse stato Antonio,
sarebbero stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a
discrezione de' Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non
sapevano ne stringergli ne sforzargli, furono tanto intrattenuti che
la città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva
avere a forza. Convenne che tale sdegno potesse assai in Antonio; e
bisognava ch'e' fussi bene paziente e buono, a non disiderare di
vendicarsene, o con la rovina della città, potendo, o con
l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da che si debbe una
republica guardare; come nel seguente capitolo si discorrerà.
Cap.
17
Che non si offenda uno, e poi quel medesimo si mandi in
amministrazione e governo d'importanza.
Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si partì dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte d'esso ne andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di sotto, e tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella città, non sanza suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale, prese il soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e sollevata infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato Claudio, per quale cagione avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una estrema necessità egli aveva giucato quasi la libertà di Roma; rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli riusciva, riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo suo partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella città ed a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra città che non sia fatta come era allora quella. E perché a simili disordini che nascano nelle republiche non si può dare certo rimedio, ne seguita che gli è impossibile ordinare una republica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina.
Cap.
18
Nessuna cosa è più degna d'uno capitano, che
presentire i partiti del nimico.
Diceva
Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria e più
utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni e' partiti del
nimico. E perché tale cognizione è difficile, merita
tanto più laude quello che adopera in modo che le coniettura.
E non tanto è difficile intendere i disegni del nimico,
ch'egli è qualche volta difficile intendere le azioni sue; e
non tanto le azioni che per lui si fanno discosto, quanto le presenti
e le propinque. Perché molte volte è accaduto che,
sendo durata una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere
perduto, e chi ha perduto crede avere vinto. Il quale errore ha fatto
diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato:
come intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono
la guerra; perché, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette
Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e
disperatosi, per questo errore, della salute, ammazzò sé
stesso. Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia, a
Santa Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo
la notte, credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti
interi, avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati rotti e
morti: il quale errore fece che loro medesimi non si salvarono,
aspettando di ricombattere la mattina con tanto loro disavantaggio; e
fecero anche errare, e per tale errore presso che rovinare, lo
esercito del Papa e di Ispagna, il quale, in su la falsa nuova della
vittoria, passò il Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava
prigione de' Franciosi che erano vittoriosi.
Questo
simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli Equi. Dove,
sendo Sempronio consolo con lo esercito allo incontro degl'inimici,
ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella giornata infino
a sera, con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e venuta la notte,
sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non ritornò alcuno
di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse ne'
prossimi colli, dove credevano essere più sicuri; e lo
esercito romano si divise in due parti: l'una ne andò col
Console; l'altra, con uno Tempanio centurione, per la virtù
del quale lo esercito romano quel giorno non era stato rotto
interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza intendere
altro de' nimici, si tirò verso Roma; il simile fece lo
esercito degli Equi: perché ciascuno di questi credeva che il
nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse sanza curare
di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio,
ch'era con il resto dello esercito romano, ritirandosi ancora esso,
intese, da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano
partiti, ed avevano abbandonati gli alloggiamenti: donde che egli, in
su questa nuova, se n'entrò negli alloggiamenti romani, e
salvogli; e dipoi saccheggiò quegli degli Equi, e se ne tornò
a Roma vittorioso. La quale vittoria come si vede, consisté
solo in chi prima di loro intese i disordini del nimico. Dove si
debbe notare, come e' può spesso occorrere che due eserciti,
che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine, e
patischino le medesime necessità; e che quello resti poi
vincitore che è il primo ad intendere le necessità
dello altro.
Io voglio dare di questo uno
esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano
uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella
città; della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non
veggendo altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella
guerra, assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze; e, fatto
uno esercito potente, entrarono per la Val di Lamona, ed occuparono
il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di Castiglione, che è
in sul colle di sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono
soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa;
e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le
mandarono a quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV
d'Appiano, signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano.
Sendosi adunque, condotte queste genti in su il colle sopra Marradi,
si levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel
borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a
fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie
e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno
d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno
dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di
levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro;
il Viniziano verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia
e il Mugello. Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi
incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso una donna si partì
del borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino, sicura per
la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di vedere certi
suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle
genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero, in su
questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono
disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a
Firenze avergli ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non
nacque da altro che dallo avere inteso prima dei nimici come e' se
n'andavano: la quale notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte,
arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto.
Cap.
19
Se a reggere una moltitudine è più necessario
l'ossequio che la pena.
Era
la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de'
plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con
gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e
rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto
si fuggì della sua provincia; Quinzio, per essere benigno e di
umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la
vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una
moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele.
Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori
acconsentano in una sua sentenza conchiude il contrario, quando ait:
"In multitudine regenda plus poena quam obsequium valet". E
considerando come si possa salvare l'una e l'altra di queste opinioni
dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per l'ordinario
compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti. Quando ti sono
compagni, non si può interamente usare la pena, né
quella severità di che ragiona Cornelio; e perché la
plebe romana aveva in Roma equale imperio con la Nobilità, non
poteva uno, che ne diventava principe a tempo, con crudeltà e
rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide che migliore frutto
fecero i capitani romani che si facevano amare dagli eserciti, e che
con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si facevano
istraordinariamente temere; se già e' non erano accompagnati
da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi
comanda a' sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché non
doventino insolenti, e che per troppa tua facilità non ti
calpestino, debbe volgersi più tosto alla pena che
all'ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo moderata, che si
fugga l'odio; perché farsi odiare non tornò mai bene ad
alcuno principe. Il modo del fuggirlo è lasciare stare la roba
de' sudditi: perché del sangue, quando non vi sia sotto ascosa
la rapina, nessuno principe ne è desideroso, se non
necessitato, e questa necessità viene rade volte; ma, sendovi
mescolata la rapina viene sempre, né mancano mai le cagioni ed
il desiderio di spargerlo; come in altro trattato sopra questa
materia si è largamente discorso. Meritò adunque, più
laude Quinzio che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini
suoi, e non ne' casi osservati di Appio, merita d'essere
approvata.
E perché noi abbiamo
parlato della pena e dell'ossequio non mi pare superfluo mostrare,
come uno esemplo di umanità poté appresso i Falisci più
che l'armi.
Cap.
20
Uno esemplo di umanità appresso i falisci potette più
che ogni forza romana.
Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla città de' Falisci, e quella assediando, uno maestro di scuola de' più nobili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque tanto loro la umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere più difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove è da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanità e di piatà, di castità o di liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta che aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di castità, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo marito; la fama della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de' principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di sé, né di superbo, né di crudele, né di lussurioso né di nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno, veggendo Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente capitolo, donde questo nasca.
Cap.
21
Donde nacque che Annibale, con diverso modo di
procedere da Scipione fece quelli medesimi effetti in Italia che
quello in Ispagna.
Io
estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come qualche
capitano, nonostante ch'egli abbia tenuto contraria vita, abbia
nondimeno fatti simili effetti a coloro che sono vissuti nel modo
soprascritto: talché pare che la cagione delle vittorie non
dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli modi non ti
rechino né più forza né più fortuna,
potendosi per contrari modi acquistare gloria e riputazione. E per
non mi partire dagli uomini soprascritti, e per chiarire meglio
quello che io ho voluto dire, dico come e' si vede Scipione entrare
in Ispagna, e con quella sua umanità e piatà subito
farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli.
Vedesi, allo incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti
contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina ed ogni
ragione infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto
Scipione in Ispagna; perché, a Annibale, si ribellarono tutte
le città d'Italia, tutti i popoli lo seguirono.
E
pensando donde questa cosa possa nascere, ci si vede dentro più
ragioni. La prima è, che gli uomini sono desiderosi di cose
nuove; in tanto che così disiderano il più delle volte
novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno male:
perché, come altra volta si disse, ed è il vero, gli
uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano. Fa, adunque,
questo desiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia si
fa capo d'una innovazione; e s'egli è forestiero, gli corrono
dietro; s'egli è provinciale, gli sono intorno, augumentanlo e
favorisconlo: talmenteché, in qualunque modo elli proceda, gli
riesce il fare progressi grandi in quegli luoghi. Oltre a questo, gli
uomini sono spinti da due cose principali; o dallo amore, o dal
timore: talché, così gli comanda chi si fa amare, come
lui che si fa temere; anzi, il più delle volte è più
seguito e più ubbidito chi si fa temere che chi si fa
amare.
Importa, pertanto, poco ad uno
capitano, per qualunque di queste vie e' si cammini, pure che sia
uomo virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli
uomini. Perché, quando la è grande, come la fu in
Annibale ed in Scipione, ella cancella tutti quegli errori che si
fanno per farsi troppo amare o per farsi troppo temere. Perché
dall'uno e dall'altro di questi due modi possono nascere
inconvenienti grandi, ed atti a fare rovinare uno principe: perché
colui che troppo desidera essere amato, ogni poco che si parte dalla
vera via, diventa disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di
essere temuto, ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E
tenere la via del mezzo non si può appunto, perché la
nostra natura non ce lo consente: ma è necessario queste cose
che eccedono mitigare con una eccessiva virtù, come faceva
Annibale e Scipione. Nondimeno si vide come l'uno e l'altro furono
offesi da questi loro modi di vivere, e così furono
esaltati.
La esaltazione di tutti a due si
è detta. L'offesa, quanto a Scipione, fu che gli suoi soldati
in Ispagna se gli ribellarono, insieme con parte de' suoi amici: la
quale cosa non nacque da altro che da non lo temere; perché
gli uomini sono tanto inquieti, che, ogni poco di porta che si apra
loro all'ambizione, dimenticano subito ogni amore che gli avessero
posto al principe per la umanità sua; come fecero i soldati ed
amici predetti: tanto che Scipione, per rimediare a questo
inconveniente, fu costretto usare parte di quella crudeltà che
elli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è esemplo
alcuno particulare, dove quella sua crudeltà e poca fede gli
nocesse: ma si può bene presupporre che Napoli, e molte altre
terre che stettero in fede del popolo romano, stessero per paura di
quella. Viddesi bene questo che quel suo modo di vivere impio, lo
fece più odioso al popolo romano, che alcuno altro inimico che
avesse mai quella Republica: in modo che, dove a Pirro mentre che
egli era con lo esercito in Italia, manifestarono quello che lo
voleva avvelenare, ad Annibale mai, ancora che disarmato e disperso,
perdonarono, tanto che lo fecioro morire. Nacquene, adunque, ad
Annibale, per essere tenuto impio e rompitore di fede e crudele,
queste incommodità; ma gliene risultò allo incontro una
commodità grandissima, la quale è ammirata da tutti gli
scrittori: che, nel suo esercito, ancoraché composto di varie
generazioni di uomini, non nacque mai alcuna dissensione, né
infra loro medesimi, né contro di lui. Il che non potette
dirivare da altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il
quale era tanto grande, mescolato con la riputazione che gli dava la
sua virtù, che teneva i suoi soldati quieti ed uniti.
Conchiudo, dunque, come e' non importa molto in quale modo uno
capitano si proceda, pure che in esso sia virtù grande che
condisca bene l'uno e l'altro modo di vivere: perché, come è
detto, nell'uno e nell'altro è difetto e pericolo, quando da
una virtù istraordinaria non sia corretto. E se Annibale e
Scipione, l'uno con cose laudabili, l'altro con detestabili, feciono
il medesimo effetto; non mi pare da lasciare indietro il discorrere
ancora di due cittadini romani, che conseguirono con diversi modi, ma
tutti a due laudabili, una medesima gloria.
Cap.
22
Come
la durezza di Manlio Torquato e la umanità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima gloria.
E'
furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti, Manlio
Torquato e Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di pari
trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in quanto si
apparteneva al nimico, con pari virtù l'acquistarono, ma
quanto si apparteneva agli eserciti ed agl'intrattenimenti de'
soldati, diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni
generazione di severità sanza intermettere a' suoi soldati o
fatica o pena, gli comandava: Valerio, dall'altra parte, con ogni
modo e termine umano, e pieno di una familiare domestichezza,
gl'intratteneva. Per che si vide, che, per avere l'ubbidienza de'
soldati, l'uno ammazzò il figliuolo, e l'altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno
fece il medesimo frutto, e contro a' nimici ed in favore della
republica e suo. Perché nessuno soldato non mai o detrattò
la zuffa o si ribellò da loro o fu, in alcuna parte,
discrepante dalla voglia di quegli; quantunque gl'imperi di Manlio
fussero sì aspri, che tutti gli altri imperi che eccedevano il
modo, erano chiamati "manliana imperia". Dove è da
considerare, prima, donde nacque che Manlio fu costretto procedere sì
rigidamente; l'altro, donde avvenne che Valerio potette procedere sì
umanamente l'altro, quale cagione fe' che questi diversi modi
facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia di loro
meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera bene la
natura di Manlio d'allora che Tito Livio ne comincia a fare menzione,
lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e verso la
patria, e reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si conoscono
dalla morte di quel Francioso, dalla difesa del padre contro al
Tribuno; e come, avanti ch'egli andasse alla zuffa del Francioso, e'
n'andò al Consolo con queste parole: "Iniussu tuo
adversus hostem nunquam pugnabo, non si certam victoriam videam".
Venendo, dunque, un uomo così fatto a grado che comandi,
desidera di trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo
suo forte gli fa comandare cose forti; e quel medesimo, comandate che
le sono, vuole si osservino. Ed è una regola verissima, che,
quando si comanda cose aspre, conviene con asprezza farle osservare;
altrimenti, te ne troverresti ingannato. Dove è da notare, che
a volere essere ubbidito, è necessario saper comandare: e
coloro sanno comandare, che fanno comparazione dalle qualità
loro a quelle di chi ha ad ubbidire; e quando vi veggono proporzione,
allora comandino; quando sproporzione, se ne astenghino.
E
però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica, con
violenza, conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel che era
sforzato. E qualunque volta questa proporzione vi era, si poteva
credere che quella violenza fusse durabile; ma quando il violentato
fusse più forte che il violentante, si poteva dubitare che
ogni giorno quella violenza cessasse.
Ma
tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti,
conviene essere forte; e quello che è di questa fortezza e che
le comanda, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi
non è di questa fortezza d'animo, si debbe guardare
dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la sua
umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono
imputate al principe, ma alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi,
dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì
rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a' quali lo inclinava la
sua natura: i quali sono utili in una republica, perché e'
riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua
antica virtù. E se una republica fusse sì felice,
ch'ella avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo
le rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse
alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe perpetua. Sì
che Manlio fu uno di quelli che con l'asprezza de' suoi imperi
ritenne la disciplina militare in Roma; costretto prima dalla natura
sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che il suo
naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto, Valerio
potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si
osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La
quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e
non era faticosa a osservarla, e non necessitava Valerio a punire i
transgressori: sì perché non ve n'era; sì
perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come è
detto, la punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del
principe. In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni
umanità, dalla quale ei potesse acquistare grado con i
soldati, e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l'uno e
l'altro la medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando,
fare il medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitare
costoro, cadere in quelli vizi di dispregio e di odio che io dico, di
sopra, di Annibale e di Scipione: il che si fugge con una virtù
eccessiva che sia in te, e non altrimenti.
Resta
ora a considerare quale di questi modi di procedere sia più
laudabile. Il che credo sia disputabile, perché gli scrittori
lodano l'uno modo e l'altro. Nondimeno, quegli che scrivono come uno
principe si abbia a governare, si accostano più a Valerio che
a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di molti esempli
della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che dice
di Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo contro
ai Sanniti, e venendo il dì che doveva combattere, parlò
a' suoi soldati con quella umanità con la quale ei si
governava; e dopo tale parlare, Tito Livio dice quelle parole: "Non
alias militi familiarior dux fuit, inter infimos milites omnia haud
gravate mundia obeundo. In ludo praeterea militari, cum velocitatis
viriumque inter se aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere
ac vinci vultu eodem; nec quemquam aspernari parem qui se offerret;
factis benignus pro re; dictis haud minus libertatis alienae, quam
suae dignitatis memor; et (quo nihil popularius est) quibus artibus
petierat magistratus, iisdem gerebat". Parla medesimamente, di
Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua severità
nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al
Consolo, che fu cagione della vittoria che il popolo romano ebbe
contro ai Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale
vittoria, descritto ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e
mostri tutti i pericoli che il popolo romano vi corse, e le
difficultà che vi furono a vincere fa questa conclusione: che
solo la virtù di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E
faccendo comparazione delle forze dell'uno e dell'altro esercito,
afferma come quella parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo
Manlio. Talché considerato tutto quello che gli scrittori ne
parlano, sarebbe difficile giudicarne. Nondimeno, per non lasciare
questa parte indecisa, dico come in uno cittadino che viva sotto le
leggi d'una republica, credo sia più laudabile e meno
pericoloso il procedere di Manlio: perché questo modo tutto è
in favore del publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione
privata; perché tale modo non si può acquistare
partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il
bene commune; perché chi fa questo, non si acquista
particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si disse,
partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non può
essere più utile né più disiderabile in una
republica; non mancando in quello la utilità publica, e non vi
potendo essere alcun sospetto della potenza privata. Ma nel modo del
procedere di Valerio è il contrario: perché, se bene in
quanto al publico si fanno e' medesimi effetti, nondimeno vi surgono
molte dubitazioni per la particulare benivolenza che colui si
acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio cattivi effetti
contro alla libertà.
E se in
Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione non
essere ancora gli animi de' Romani corrotti, e quello non essere
stato lungamente e continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo
a considerare uno principe, come considera Senofonte, noi ci
accostereno al tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno
principe debbe cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza e lo
amore. La ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini
e lo essere tenuto virtuoso; lo amore gli dà l'affabilità,
l'umanità, la piatà, e l'altre parti che erano in
Valerio, e che Senofonte scrive essere in Ciro. Perché lo
essere uno principe bene voluto particularmente, ed avere lo esercito
suo partigiano, si conforma con tutte l'altre parti dello stato suo:
ma in uno cittadino che abbia lo esercito suo partigiano, non si
conforma già questa parte con l'altre sue parti, che lo hanno
a fare vivere sotto le leggi ed ubidire ai magistrati.
Leggesi
intra le cose antiche della Republica viniziana, come, essendo le
galee viniziane tornate in Vinegia, e venendo certa differenza intra
quegli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto ed
all'armi, né si potendo la cosa quietare né per forza
di ministri né per riverenza di cittadini né timore de'
magistrati; subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo
che era, l'anno davanti, stato capitano loro, per amore di quello si
partirono, e lasciarono la zuffa. La quale ubbidienza generò
tanta suspizione al Senato, che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per
prigione o per morte, se ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il
procedere di Valerio essere utile in uno principe e pernizioso in uno
cittadino; non solamente alla patria, ma a sé a lei, perché
quelli modi preparano la via alla tirannide; a sé, perché
in sospettando la sua città del modo del procedere suo è
costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il
contrario, affermo il procedere di Manlio in uno principe essere
dannoso, ed in uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora
rade volte offende; se già questo odio che ti reca la tua
severità, non è accresciuto da sospetto che l'altre tue
virtù per la gran riputazione ti arrecassono: come, di sotto,
di Cammillo si discorrerà.
Cap.
23
Per quale cagione Cammillo fusse cacciato di Roma.
Noi
abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si nuoce
alla patria ed a sé; e, procedendo come Manlio, si giova alla
patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si pruova assai
bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere suo
simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio,
parlando di lui, dice, come "eius virtutem milites oderant, et
mirabantur".
Quello che lo faceva
tenere maraviglioso era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza
dello animo, il buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel
comandare agli eserciti: quello che lo faceva odiare, era essere più
severo nel gastigargli che liberale nel rimunerargli. E Tito Livio ne
adduce di questo odio queste cagioni: la prima, che i danari che si
trassono de' beni de' Veienti che si venderono, esso gli applicò
al publico, e non gli divise con la preda: l'altra, che nel trionfo
ei fece tirare il suo carro trionfale da quattro cavagli bianchi,
dove essi dissero che per la superbia e' si era voluto agguagliare al
Sole: la terza, che ei fece voto di dare a Apolline la decima parte
della preda de' Veienti, la quale, volendo sodisfare al voto, si
aveva a trarre delle mani de' soldati che l'avevano di già
occupata. Dove si notano bene e facilmente quelle cose che fanno uno
principe odioso appresso il popolo; delle quali la principale è
privarlo d'uno utile. La quale è cosa d'importanza assai,
perché le cose che hanno in sé utilità, quando
l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima
necessità te ne fa ricordare; e perché le necessità
vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno. L'altra cosa è
lo apparire superbo ed enfiato; il che non può essere più
odioso a' popoli, e massime a' liberi. E benché da quella
superbia e da quel fasto non ne nascesse loro alcuna incommodità,
nondimeno hanno in odio chi l'usa: da che uno principe si debbe
guardare come da uno scoglio: perché tirarsi odio addosso
senza suo profitto, è al tutto partito temerario e poco
prudente.
Cap.
24
La prolungazione degl'imperii fece serva Roma.
Se si considera bene il procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere state cagione della risoluzione di quella Republica: l'una furon le contenzioni che nacquono dalla legge agraria; l'altra, la prolungazione degli imperii: le quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i debiti rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e per avventura più quieto. E benché, quanto alla prolungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascessi mai alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto, quanto nocé alla città quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni presono. E se gli altri cittadini a chi era prorogato il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del quale è di uno esemplo notabile, perché, essendosi fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo la Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni, giudicandogli atti a potere resistere all'ambizione de' nobili, volle il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, prolungare il consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo esemplo, e volle si facessono nuovi Consoli. La quale bontà e prudenza se fosse stata in tutti i cittadini romani, non arebbe lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i magistrati, e da quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii: la quale cosa, col tempo, rovinò quella Republica. Il primo a chi fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a campo alla città di Palepoli, e venendo la fine del suo consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo; talché fu il primo Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal Senato per utilità publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perché, quanto più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve loro tale prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due inconvenienti: l'uno, che meno numero di uomini si esercitarono negl'imperii, e si venne per questo a ristringere la riputazione in pochi: l'altro, che, stando uno cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava e facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per questo, Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano sì tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi gli acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù.
Cap.
25
Della povertà di Cincinnato e di molti
cittadini romani.
Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si ordini in uno vivere libero è che si mantenghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima povertà; né si può credere che altro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e' si andava a trovare la virtù in qualunque casa l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva manco desiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perché, sendo Minuzio consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si empié di paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola villa, la quale lavorava di sua mano. La quale cosa con parole auree e celebrata da Tito Livio, dicendo: "Operae pretium est audire, qui omnia prae divitiis humana spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse, nisi effusae affluant opes". Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il termine di quattro iugeri quando da Roma vennero i Legati del Senato a significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli in quale pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragunato uno esercito ne andò a liberare Minuzio, ed avendo rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non volle che lo esercito assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: - Io non voglio che tu participi della preda di coloro de' quali tu se' stato per essere preda; - e privò Minuzio del consolato, e fecelo Legato, dicendogli: - Starai in questo grado tanto, che tu impari a sapere essere Consolo -. Aveva fatto suo Maestro de' cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a piede. Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma alla povertà; e come a un uomo buono e valente, quale era Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale povertà si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo; perché, sendo in Affrica con gli eserciti, domandò licenza al Senato per potere tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da' suoi lavoratori. Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la povertà, e come vi stavano dentro contenti, e come e' bastava a quelli cittadini trarre della guerra onore, e l'utile tutto lasciavano al publico. Perché, s'egli avessero pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi campi fussono stati guasti. L'altra è considerare la generosità dell'animo di quelli cittadini, i quali, preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non le republiche; non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facultà loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli loro maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo patisca tale mutazione. Durò questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi di quella Republica, dove uno cittadino, che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno mantenne povero sé. Ed in tanto si stimava ancora la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato bene nella guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale fu il primo ariento che fusse nella sua casa. Potrebbesi, con un lungo parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la povertà che la ricchezza, e come l'una ha onorato le città, le provincie, le sétte, e l'altra le ha rovinate; se questa materia non fusse stata molte volte da altri uomini celebrata.
Cap.
26
Come per cagione di femine si rovina uno stato.
Nacque
nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una sedizione
per cagione d'uno parentado: dove, avendosi a maritare una femina
ricca, la domandarono parimente uno plebeo ed uno nobile; e non
avendo quella padre, i tutori la volevono congiugnere al plebeo, la
madre al nobile: di che nacque tanto tumulto, che si venne alle armi;
dove tutta la Nobilità si armò in favore del nobile, e
tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo superata
la plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a' Volsci per aiuto:
i nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e, giunti intorno
ad Ardea, si accamparono. Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i
Volsci infra la terra e loro; tanto che gli costrinsono, essendo
stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in
Ardea, e morti tutti i capi della sedizione, composono le cose di
quella città.
Sono in questo testo
più cose da notare. Prima, si vede come le donne sono state
cagioni di molte rovine, ed hanno fatti gran danni a quegli che
governano una città, ed hanno causato di molte divisioni in
quelle: e, come si è veduto in questa nostra istoria, lo
eccesso fatto contro a Lucrezia tolse lo stato ai Tarquinii;
quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i Dieci
dell'autorità loro. Ed Aristotile, intra le prime cause che
mette della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato altrui
per conto delle donne, o con stuprarle, o con violarle, o con rompere
i matrimonii; come di questa parte, nel capitolo dove noi trattamo
delle congiure, largamente si parlò. Dico, adunque, come i
principi assoluti ed i governatori delle republiche non hanno a
tenere poco conto di questa parte; ma debbono considerare i disordini
che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi in tempo che il
rimedio non sia con danno e vituperio dello stato loro o della loro
republica: come intervenne agli Ardeati; i quali, per avere lasciato
crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussero a
dividersi infra loro; e, volendo riunirsi, ebbono a mandare per
soccorsi esterni: il che è uno grande principio d'una
propinqua servitù.
Ma veniamo allo
altro notabile, del modo del riunire le città; del quale nel
futuro capitolo parlereno.
Cap.
27
Come e' si ha ad unire una città divisa; e come e'
non è vera quella opinione, che, a tenere le città,
bisogni tenerle divise.
Per
lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli Ardeati,
si nota il modo come si debbe comporre una città divisa: il
quale non è altro, né altrimenti si debbe medicare, che
ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è necessario
pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli, come feciono costoro; o
rimuovergli della città; o fare loro fare pace insieme, sotto
oblighi di non si offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è
più dannoso, meno certo e più inutile. Perché
gli è impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre simili
ingiurie, che una pace, fatta per forza, duri, riveggendosi ogni dì
insieme in viso; ed è difficile che si astenghino dallo
ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere infra loro ogni dì,
per la conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra
che non si può dare il migliore esemplo che la città di
Pistoia. Era divisa quella città, come è ancora,
quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era in
sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte dispute infra loro
vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la roba, e ad
ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre, sempre vi usarono quel terzo modo; e sempre ne nacque
maggiori tumulti e maggiori scandali: tanto che, stracchi, e' si
venne al secondo modo, di rimuovere i capi delle parti; de' quali
alcuni messono in prigione alcuni altri confinarono in vari luoghi:
tanto che l'accordo fatto potette stare, ed è stato infino a
oggi. Ma sanza dubbio più sicuro saria stato il primo. Ma
perché simili esecuzioni hanno il grande ed il generoso, una
republica debole non le sa fare, ed ènne tanto discosto, che a
fatica la si conduce al rimedio secondo. E questi sono di quegli
errori che io dissi nel principio, che fanno i principi de' nostri
tempi, che hanno a giudicare le cose grandi; perché
doverrebbono volere udire come si sono governati coloro che hanno
avuto a giudicare anticamente simili casi. Ma la debolezza de'
presenti uomini, causata dalla debole educazione loro e dalla poca
notizia delle cose, fa che si giudicano i giudicii antichi, parte
inumani, parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne opinioni,
discosto al tutto dal vero, come è quella che dicevano e' savi
della nostra città, un tempo fa: che bisognava tenere Pistoia
con le parti, e Pisa con le fortezze; e non si avveggono, quanto
l'una e l'altra di queste due cose è inutile.
Io
voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a
lungo; e voglio discorrere la inutilità che si trae del tenere
le terre, che tu hai in governo, divise. In prima, egli è
impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle parti amiche, o
principe o republica che le governi. Perché dalla natura è
dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli
più questa che quella. Talché, avendo una parte di
quella terra male contenta, fa che, la prima guerra che viene, te la
perdi; perché gli è impossibile guardare una città
che abbia e' nimici fuori e dentro. Se la è una republica che
la governi, non ci è il più bel modo a fare cattivi i
tuoi cittadini ed a fare dividere la tua città, che avere in
governo una città divisa; perché ciascuna parte cerca
di avere favori, e ciascuna si fa amici con varie corruttele: talché
ne nasce due grandissimi inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai
mai amici, per non gli potere governare bene, variando il governo
spesso, ora con l'uno, ora con l'altro omore; l'altro, che tale
studio di parte divide di necessità la tua republica. Ed il
Biondo, parlando de' Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede, dicendo:
"Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia,
divisono sé medesimi". Pertanto, si può facilmente
considerare il male che da questa divisione nasca.
Nel
1502, quando si perdé Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val di
Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un
monsignor di Lant, mandato dal re di Francia a fare ristituire ai
Fiorentini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant in ogni
castello uomini che, nel vicitarlo, dicevano che erano della parte di
Marzocco, biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se in
Francia uno di quegli sudditi del re dicesse di essere della parte
del re, sarebbe gastigato, perché tale voce non
significherebbe altro, se non che in quella terra fusse gente inimica
del re, e quel re vuole che le terre tutte sieno sue amiche, unite e
sanza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni diverse dalla
verità, nascono dalla debolezza di chi è signore; i
quali, veggendo di non potere tenere gli stati con forza e con virtù,
si voltono a simili industrie: le quali qualche volta ne' tempi
quieti giovano qualche cosa, ma, come e' vengono le avversità
ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.
Cap.
28
Che si debbe por mente alle opere de' cittadini, perché
molte volte sotto una opera pia si nasconde uno principio di
tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando le provisioni publiche a cessarla, prese animo uno Spurio Melio, essendo assai ricco, secondo quegli tempi, di fare provisione privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per la quale cosa, egli ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che il Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli creò uno Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molte volte le opere che paiono pie e da non le potere ragionevolmente dannare, diventono crudeli, e per una republica sono pericolosissime, quando le non siano a buona ora corrette. E per discorrere questa cosa più particularmente, dico che una republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno modo bene. Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle republiche. E volendo regolare questa cosa, bisogna ordinarsi talmente, che i cittadini siano riputati, di riputazione che giovi, e non nuoca, alla città ed alla libertà di quella. E però si debbe esaminare i modi con i quali e' pigliano riputazione; che sono in effetto due: o publici o privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii ed ai consigli ed alle opere, talché se ne abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste vie, siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l'altro modo preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati, e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani, e danno animo, a chi è così favorito, di potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire le vie come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private, come si vede che fece Roma perché in premio di chi operava bene per il publico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie private cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non bastassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse ritornare dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci impunita, è atta a rovinare una republica; perché difficilmente con quello esemplo si riduce dipoi in la vera via.
Cap.
29
Che gli peccati de' popoli nascono dai principi.
Non si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli ch'egli abbiano in governo; perché tali peccati conviene che naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa Alessandro VI quegli signori che la comandavano, era un esempio d'ogni sceleratissima vita, perché quivi si vedeva per ogni leggiere cagione seguire occisioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non dalla natura trista degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi poveri, e volendo vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra l'altre disoneste vie che tenevano, e' facevano leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio; ed allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i popoli s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra si dicano, de' quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo mostra Tito Livio quando e' narra che, portando i Legati romani il dono della preda de' Veienti ad Apolline, furono presi da' corsali di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Timasiteo, loro principe, che dono era questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare simile dono; tanto che, con il consenso dello universale, ne lasciò andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico sono queste: "Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper regenti est similis". E Lorenzo de' Medici, a confermazione di questa sentenza, dice:
e quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
ché nel signor son tutti gli occhi volti.
Cap. 30
A uno cittadino che voglia nella sua republica fare di sua autorità alcuna opera buona, è necessario, prima, spegnere l'invidia: e come, vedendo il nimico, si ha a ordinare la difesa d'una città.
Intendendo
il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per
venire a' danni di Roma; e come i Latini e gli Ernici, stati per lo
addietro amici del Popolo romano, si erano accostati con i Volsci,
perpetui inimici di Roma; giudicò questa guerra dovere essere
pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di potestà
consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il
Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli
la somma dello imperio. Il che detti Tribuni fecero volontariamente:
"Nec quicquam (dice Tito Livio) de maiestate sua detractum
credebant, quod maiestati eius concessissent". Onde Cammillo,
presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrivesse tre
eserciti. Del primo volle essere capo lui, per ire contro a' Toscani.
Del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse
propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli Ernici, se si
movessono. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse
per tenere guardata la città e difese le porte e la curia, in
ogni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò che Orazio,
uno de' suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e l'altre cose
che richieggono i tempi della guerra. Prepose Cornelio, ancora, suo
collega, al Senato ed al publico consigliò, acciocché
potesse consigliare le azioni che giornalmente si avevano a fare ed
esequire: in modo furono quegli Tribuni, in quelli tempi, per la
salute della patria, disposti a comandare ed a ubbidire. Notasi per
questo testo, quello che faccia uno uomo buono e savio, e di quanto
bene sia cagione, e quanto utile e' possa fare alla sua patria,
quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta
la invidia; la quale è molte volte cagione che gli uomini non
possono operare bene, non permettendo detta invidia che gli abbino
quella autorità la quale è necessaria avere nelle cose
d'importanza. Spegnesi questa invidia in due modi. O per qualche
accidente forte e difficile, dove ciascuno, veggendosi perire,
posposta ogni ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui
che crede che con la sua virtù lo possa liberare: come
intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé tanti saggi
di uomo eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, ed
avendo amministrato sempre quel grado ad utile publico, e non a
propria utilità aveva fatto che gli uomini non temevano della
grandezza sua; e per esser tanto grande e tanto riputato, non
stimavano cosa vergognosa essere inferiori a lui (e però dice
Tito Livio saviamente quelle parole "Nec quicquam" ecc.) in
un altro modo si spegne l'invidia quando, o per violenza o per ordine
naturale, muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel venire a
qualche riputazione ed a qualche grandezza; quali, veggendoti
riputato più di loro, è impossibile che mai
acquieschino, e stieno pazienti. E quando e' sono uomini che siano
usi a vivere in una città corrotta, dove la educazione non
abbia fatto in loro alcuna bontà, è impossibile che per
accidente alcuno, mai si ridichino; e per ottenere la voglia loro, e
satisfare alla loro perversità d'animo sarebbero contenti
vedere la rovina della loro patria. A vincere questa invidia non ci è
altro rimedio che la morte di coloro che l'hanno; e quando la fortuna
è tanto propizia a quell'uomo virtuoso, che si muoiano
ordinariamente, diventa, sanza scandalo, glorioso, quando sanza
ostacolo e sanza offesa e' può mostrare la sua virtù;
ma quando e' non abbi questa ventura, gli conviene pensare per ogni
via a torsegli dinanzi; e prima che e' facci cosa alcuna, gli bisogna
tenere modi che vinca questa difficultà. E chi legge la Bibbia
sensatamente, vedrà Moisè essere stato forzato, a
volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad
ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla
invidia, si opponevano a' disegni suoi. Questa necessità
conosceva benissimo frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora
Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L'uno non potette vincerla,
per non avere autorità a poterlo fare (che fu il frate), e per
non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero
avuto autorità. Nonpertanto per lui non rimase, e le sue
prediche sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive contro
a loro: perché chiamava così questi invidi, e quegli
che si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva, col tempo,
con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno,
spegnere questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con
tanti nuovi favori che gli arrecava el modo del suo procedere, che
credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli
opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non sapeva
che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta,
la fortuna varia, e la malignità non truova dono che la
plachi. Tanto che l'uno e l'altro di questi due rovinarono, e la
rovina loro fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa
invidia.
L'altro notabile è
l'ordine che Cammillo dette, dentro e fuori, per la salute di Roma. E
veramente, non sanza cagione gli istorici buoni, come è questo
nostro, mettono particularmente e distintamente certi casi, acciocché
i posteri imparino come gli abbino in simili accidenti difendersi. E
debbesi in questo testo notare, che non è la più
pericolosa né la più inutile difesa, che quella che si
fa tumultuariamente e sanza ordine. E questo si mostra per quello
terzo esercito che Cammillo fece scrivere per lasciarlo, in Roma, a
guardia della città: perché molti arebbero giudicato e
giudicherebbero questa parte superflua, sendo quel popolo, per
l'ordinario, armato e bellicoso; e per questo, che non bisognasse di
scriverlo altrimenti, ma bastasse farlo armare quando il bisogno
venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso, la
giudica altrimenti; perché non permette mai che una
moltitudine pigli l'arme, se non con certo ordine e certo modo. E
però, in su questo esemplo, uno che sia preposto a guardia
d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare armare gli
uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti quegli
che voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a convenire,
dove a andare; e, quegli che non sono scritti, comandare che stieno
ciascuno alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che terranno
questo ordine in una città assaltata, facilmente si potranno
difendere: chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e
non si difenderà.
Cap.
31
Le republiche forti e gli uomini eccellenti
ritengono in ogni fortuna il medesimo animo e la loro medesima
dignità.
Intra
l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a
Cammillo, per mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente,
gli mette in bocca queste parole: "Nec mihi dictatura animos
fecit, nec exilium ademit". Per le quali si vede, come gli
uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la
varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma
tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo
del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna
non avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli uomini
deboli perché invaniscono ed inebriano nella buona fortuna,
attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che non
conobbono mai. D'onde nasce che diventano insopportabili ed odiosi a
tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi depende la subita
variazione della sorte; la quale come veggono in viso, caggiono
subito nell'altro difetto, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce
che i principi così fatti pensano nelle avversità più
a fuggirsi che a difendersi, come quelli che, per avere male usata la
buona fortuna, sono ad ogni difesa impreparati. Questa virtù,
e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo solo, si truova
ancora in una republica, ed in esemplo ci sono i Romani ed i
Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai diventare
abietti né nessuna buona fortuna gli fece mai essere
insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbero a
Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco; perché,
per quella rotta, ancora che gravissima per essere stata la terza,
non invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non vollono
riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non mandarono ad
Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate stare tutte
queste cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra armando,
per carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro. La quale cosa
conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse, mostrò
a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere della rotta di
Canne. E così si vide come i tempi difficili non gli
sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra parte, i
tempi prosperi non gli facevano insolenti: perché, mandando
Antioco oratori a Scipione, a chiedere accordo, avanti che fussono
venuti alla giornata, e ch'egli avesse perduto Scipione gli dette
certe condizioni della pace; quali erano, che si ritirasse dentro
alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo romano.
Il quale accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata, e
perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione, con commissione
che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal
vincitore: alli quali non propose altri patti che quegli si avesse
offerti innanzi che vincesse; soggiugnendo queste parole: "Quod
Romani, si vincuntur, non minuuntur animis; nec, si vincunt,
insolescere solent".
Al contrario
appunto di questo si è veduto fare ai Viniziani: i quali nella
buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella virtù
che non avevano, erano venuti a tanta insolenza che chiamavano il re
di Francia figliuolo di San Marco; non stimavano la Chiesa; non
capivano in modo alcuno in Italia; ed eronsi presupposti nello animo
di avere a fare una monarchia simile alla romana. Dipoi, come la
buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza rotta a
Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo
stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al re
di Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in tanto
invilirono, che mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi
tributari, scrissono al papa lettere piene di viltà e di
sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale infelicità
pervennono in quattro giorni, e dopo una mezza rotta: perché,
avendo combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere
ed essere oppresso circa la metà, in modo che, l'uno de'
Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con più
di venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo.
Talmenteché, se a Vinegia e negli ordini loro fosse stata
alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano rifare,
e rimostrare di nuovo il viso alla fortuna, ed essere a tempo o a
vincere o a perdere più gloriosamente, o ad avere accordo più
onorevole. Ma la viltà dello animo loro, causata dalla qualità
de' loro ordini non buoni nelle cose della guerra, gli fece ad un
tratto perdere lo stato e l'animo. E sempre interverrà così
a qualunque si governa come loro. Perché questo diventare
insolente nella buona fortuna ed abietto nella cattiva, nasce dal
modo del procedere tuo, e dalla educazione nella quale ti se'
nutrito: la quale, quando è debole e vana, ti rende simile a
sé; quando è stata altrimenti, ti rende anche
d'un'altra sorte; e, faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa
meno rallegrare del bene, e meno rattristare del male. E quello che
si dice d'uno solo, si dice di molti che vivono in una republica
medesima; i quali si fanno di quella perfezione, che ha il modo del
vivere di quella.
E benché altra
volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la
buona milizia; e come, dove non è questa, non possono essere
né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi pare
superfluo riplicarlo: perché ad ogni punto nel leggere questa
istoria si vede apparire questa necessità; e si vede come la
milizia non puoté essere buona, se la non è esercitata;
e come la non si può esercitare, se la non è composta
di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in guerra, né
si può starvi. Però conviene poterla esercitare a tempo
di pace; e con altri che con sudditi non si può fare questo
esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo andato, come di sopra
dicemo, con lo esercito contro ai Toscani; ed avendo i suoi soldati
veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si erano tutti
sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non potere
sostenere l'impeto di quegli. E pervenendo questa mala disposizione
del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò fuora, ed
andando parlando per il campo a questi e quelli soldati, trasse loro
del capo questa opinione; e nello ultimo, sanza ordinare altrimenti
il campo, disse: "Quod quisque didicit, aut consuevit, faciet".
E chi considera bene questo termine, e le parole disse loro, per
inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non si poteva
né dire né fare fare alcuna di quelle cose a uno
esercito che prima non fosse stato ordinato ed esercitato ed in pace
ed in guerra. Perché di quegli soldati che non hanno imparato
a fare cosa alcuna, non può uno capitano fidarsi, e credere
che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse uno nuovo
Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno
capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non ha
prima in ogni parte ordinato di potere avere uomini che abbino lo
spirito suo e bene gli ordini e modi del procedere suo, conviene di
necessità che ci rovini. Se, adunque, una città sarà
armata ed ordinata come Roma; e che ogni dì ai suoi cittadini,
ed in particulare ed in publico, tocchi a fare isperienza e della
virtù loro, e della potenza della fortuna; interverrà
sempre che in ogni condizione di tempo ei fiano del medesimo animo, e
manterranno la medesima loro degnità: ma quando e' fiano
disarmati, e che si appoggeranno solo agl'impeti della fortuna e non
alla propria virtù, varieranno col variare di quella, e
daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno dato i Viniziani.
Cap.
32
Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace, incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno principe lievi al tutto l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né più stabile, che farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia: perché sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per lo errore commesso avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati che dai Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo stato per lo adietro loro capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli soldati a non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in prima gli straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale diliberazione ed esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
Cap.
33
Egli è necessario, a volere vincere una giornata,
fare lo esercito confidente ed infra loro e con il capitano.
A
volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario farlo
confidente, in modo che creda dovere in ogni modo vincere. Le cose
che lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato bene;
conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa
confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono nati e
vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di qualità
che confidino nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo
vegghino ordinato, sollecito ed animoso, e che tenga bene e con
riputazione la maestà del grado suo: e sempre la manterrà,
quando gli punisca degli errori, e non gli affatichi invano; osservi
loro le promesse; mostri facile la via del vincere; quelle cose che
discosto potessino mostrare i pericoli, le nasconda o le
alleggerisca. Le quali cose, osservate bene, sono cagione grande che
lo esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani di fare
pigliare agli eserciti loro questa confidenza per via di religione:
donde nasceva, che con gli augurii ed auspicii creavano i Consoli,
facevano il deletto, partivano con gli eserciti, e venivano alla
giornata. E sanza avere fatto alcuna di queste cose, non mai arebbe
uno buono capitano e savio tentata alcuna fazione, giudicando di
averla potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati non avessoro
prima intesi gli Dii essere da parte loro. E quando alcuno Consolo, o
altro loro capitano, avesse combattuto, contro agli auspicii, lo
arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E benché
questa parte in tutte le istorie romane si conosca, nondimeno si
pruova più certo per le parole che Livio usa nella bocca di
Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia de'
Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli auspicii e
le altre cose pertinenti alla religione si corrompevano, dice così:
"Eludant nunc licet religiones. Quid enim interest, si pulli non
pascentur, si ex cavea tardius exiverint, si occinuerit avis? Parva
sunt haec; sed parva ista non contemnendo, maiores nostri maximam
hanc rempublicam fecerunt". Perché in queste cose piccole
è quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati: la
quale cosa è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto,
conviene con queste cose sia accompagnata la virtù:
altrimenti, le non vagliano. I Prenestini, avendo contro ai Romani
fuori el loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume
d'Allia, il luogo dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che
fecero per mettere fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani
per la fortuna del luogo. E benché questo loro partito fusse
probabile, per quelle ragioni che di sopra si sono discorse;
nientedimeno il fine della cosa mostrò che la vera virtù
non teme ogni minimo accidente. Il che lo istorico benissimo dice con
queste parole, in bocca poste del Dittatore, che parla così al
suo Maestro de' cavagli: "Vides tu, fortuna illos fretos ad
Alliam consedisse; at tu, fretus armis animisque, invade mediam
aciem". Perché una vera virtù, un ordine buono,
una sicurtà presa da tante vittorie, non si può con
cose di poco momento spegnere; né una cosa vana fa loro paura,
né un disordine gli offende: come si vede certo, che, essendo
due Manlii consoli contro a' Volsci, per avere mandato temerariamente
parte del campo a predare, ne seguì che, in un tempo, e quelli
che erano iti e quelli che erano rimasti si trovavono assediati; dal
quale pericolo, non la prudenza de' Consoli, ma la virtù de'
propri soldati gli liberò. Dove Tito Livio dice queste parole:
"Militum, etiam sine rectore, stabilis virtus tutata
est".
Non voglio lasciare indietro
uno termine usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con lo esercito in
Toscana, per farlo confidente, giudicando quella tale fidanza essere
più necessaria per averlo condotto in paese nuovo, incontro a
nimici nuovi: che, parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto
ch'ebbe molte ragioni, mediante le quali ei potevono sperare la
vittoria, disse che potrebbe ancora dire loro certe cose buone, e
dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non fusse pericoloso il
manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato, così
merita di essere imitato.
Cap.
34
Quale fama o voce o opinione fa che il popolo comincia a
favorire uno cittadino: e se ei distribuisce i magistrati con
maggiore prudenza che un principe.
Altra
volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò
Lucio Manlio suo padre da una accusa che gli aveva fatta Marco
Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo del salvarlo
fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella filiale
piatà verso del padre fu tanto grata allo universale, che, non
solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i Tribuni delle
legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale
successo, credo che sia bene considerare il modo che tiene il popolo
a giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue; e che, per quello noi
veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra si conchiuse, che il
popolo sia migliore distributore che uno principe.
Dico,
adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello che si
dice d'uno per publica voce e fama, quando per sue opere note non lo
conosce altrimenti, o per presunzione o opinione che si ha di lui. Le
quali due cose sono causate o da' padri di quelli tali che, per
essere stati grandi uomini e valenti nella città, si crede che
i figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a tanto che per le
opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai
modi che tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possino
tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni costumi, e
riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio si può
avere maggiore d'un uomo, che le compagnie con quali egli usa;
meritamente uno che usa con compagnie oneste, acquista buono nome,
perché è impossibile che non abbia qualche similitudine
di quelle. O veramente si acquista questa publica fama per qualche
azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti sia
riuscita onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che danno nel
principio buona riputazione ad uno, nessuna la dà maggiore che
questa ultima: perché quella prima de' parenti e de' padri è
sì fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si
consuma, quando la virtù propria di colui che ha a essere
giudicato non l'accompagna. La seconda, che ti fa conoscere per via
delle pratiche tue, è meglio della prima, ma è molto
inferiore alla terza, perché, infino a tanto che non si vede
qualche segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata in su
l'opinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma quella
terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera
tua, ti dà nel principio tanto nome, che bisogna bene che
operi poi molte cose contrarie a questa, volendo annullarla. Debbono,
adunque, gli uomini che nascono in una republica pigliare questo
verso, ed ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria,
cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma in gioventù fecero
o con il promulgare una legge che venisse in comune utilità; o
con accusare qualche potente cittadino come transgressore delle
leggi; o col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a
parlare. Né solamente sono necessarie simili cose per
cominciare a darsi la riputazione ma sono ancora necessarie per
mantenerla ed accrescerla. Ed a volere fare questo, bisogna
rinnovarle; come per tutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio:
perché, difeso ch'egli ebbe il padre tanto virtuosamente e
istraordinariamente, e per questa azione presa la prima riputazione
sua, dopo certi anni combatté con quel Francioso, e, morto,
gli trasse quella collana d'oro che gli dette il nome di Torquato.
Non bastò questo, che dipoi, già in età matura,
ammazzò il figliuolo per avere combattuto sanza licenza,
ancora ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre azioni allora
gli dettero più nome e per tutti i secoli lo fanno più
celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra vittoria, di
che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la cagione è,
perché in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in
queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno.
A
Scipione maggiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi,
quanto gli dette lo avere, ancora giovinetto, in sul Tesino, difeso
il padre; e lo avere, dopo la rotta di Canne, animosamente con la
spada sguainata fatto giurare più giovani romani che ei non
abbandonerebbero l'Italia, come di già infra loro avevano
diliberato: le quali due azioni furono principio alla riputazione
sua, e gli feciono scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica. La
quale opinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei rimandò
la sua figliuola al padre, e la moglie al marito, in Ispagna. Questo
modo del procedere non è necessario solamente a quelli
cittadini che vogliono acquistare fama per ottenere gli onori nella
loro republica, ma è ancora necessario ai principi per
mantenersi la riputazione nel principato loro: perché nessuna
cosa gli fa tanto stimare, quanto dare di sé rari esempli con
qualche fatto o detto rado, conforme al bene comune, il quale mostri
il signore o magnanimo o liberale o giusto, e che sia tale che si
riduca come in proverbio intra i suoi suggetti.
Ma,
per tornare donde noi cominciamo questo discorso, dico come il
popolo, quando ei comincia a dare uno grado a uno suo cittadino,
fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male;
ma poi, quando gli assai esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno
più noto, si fonda meglio, perché in tale caso non può
essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di quelli gradi
che si dànno agli uomini nel principio, avanti che per ferma
isperienza siano conosciuti, o che passino da un'azione a un'altra
dissimile: dove, e quanto alla falsa opinione, e quanto alla
corrozione, sempre faranno minori errori che i principi. E perché
e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della fama, della
opinione e delle opere d'uno uomo, stimandole maggiori che in verità
non sono, il che non interverrebbe a uno principe, perché gli
sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi lo consigliasse; perché
ancora i popoli non manchino di questi consigli, i buoni ordinatori
delle republiche hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi
gradi nelle città, dove fosse pericoloso mettervi uomini
insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare
alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli
sia imputato a gloria, di publicare nelle concioni i difetti di
quello, acciocché il popolo, non mancando della sua
conoscenza, possa meglio giudicare. E che questo si usasse a Roma, ne
rende testimonio l'orazione di Fabio Massimo, la quale ei fece al
popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione de'
Consoli i favori si volgevano a creare Tito Ottacilio; e giudicandolo
Fabio insufficiente a governare in quelli tempi il consolato, gli
parlò contro, mostrando la insufficienza sua; tanto che gli
tolse quel grado, e volse i favori del popolo a chi più lo
meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli, nella elezione a'
magistrati, secondo quelli contrassegni che degli uomini si possono
avere più veri; e quando ei possono essere consigliati come i
principi, errano meno de' principi: e quel cittadino che voglia
cominciare a avere i favori del popolo, debbe con qualche fatto
notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
Cap.
35
Quali pericoli si portano nel farsi capo a consigliare una
cosa; e, quanto ella ha più dello istraordinario, maggiori
pericoli vi si corrono.
Quanto
sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a
molti, e quanto sia difficile a trattarla ed a condurla, e, condotta,
a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a
discorrerla: però, riserbandola a luogo più
conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i
cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una
diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di
essa sia imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose
dal fine, tutto il male che ne risulta s'imputa allo autore del
consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato: ma di lunge
il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì,
detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono
alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare la impresa di Soria e di
Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai
confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal quale
consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella
impresa; e arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai
diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che
già fecero rovinare molti eserciti romani, fu in modo
oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste,
ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti:
talché, irato contro allo autore del consiglio, lo ammazzò.
Leggesi, assai cittadini stati confortatori d'una impresa, e, per
avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati in esilio.
Fecionsi capi alcuni cittadini romani, che si facesse in Roma il
Consule plebeio. Occorse che il primo che uscì fuori con gli
eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe avvenuto
qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte, in
onore della quale tale diliberazione era venuta.
È
cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una republica, e
quegli che consigliano uno principe, sono posti intra queste
angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro utili, o
per la città o per il principe, sanza rispetto, e' mancano
dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli entrano in pericolo
della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo ciechi,
di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando in che
modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci
veggo altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere
alcuna per sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e
sanza passione con modestia difenderla: in modo che, se la città
o il principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi
venga tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia così,
non è ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo
consiglio ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di
molti: perché quivi si porta pericolo dove molti hanno
contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono a farti
rovinare. E se in questo caso si manca di quella gloria che si
acquista nello essere solo contro a molti a consigliare una cosa,
quando ella sortisce buono fine, ci sono a rincontro due beni: il
primo, del mancare di pericolo; il secondo, che, se tu consigli una
cosa modestamente, e per la contradizione il tuo consiglio non sia
preso e per il consiglio d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne
risulta a te gloria grandissima. E benché la gloria che si
acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe,
non si possa godere, nondimeno è da tenerne qualche
conto.
Altro consiglio non credo si possa
dare agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che
tacessono, e che non dicessono l'opinione loro, sarebbe cosa inutile
alla republica o al loro principe, e non fuggirebbono il pericolo;
perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed ancora
potrebbe loro intervenire come a quegli amici di Perse re de'
Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi
con pochi amici, accadde che, nel replicare le cose passate, uno di
loro cominciò a dire a Perse molti errori fatti da lui, che
erano stati cagione della sua rovina; al quale Perse rivoltosi,
disse: - Traditore, sì che tu hai indugiato a dirmelo ora che
io non ho più rimedio! - e sopra queste parole di sua mano lo
ammazzò. E così colui portò la pena d'essere
stato cheto quando e' doveva parlare, e di avere parlato quando e'
doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere dato il
consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini
soprascritti.
Cap.
36
Le cagioni perché i Franciosi siano stati e siano
ancora giudicati nelle zuffe, da principio più che uomini, e
dipoi meno che femine.
La
ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano,
appresso al fiume Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa fatta
intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio più
volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa più
che uomini, e nel successo del combattere riescono poi meno che
femine. E pensando donde questo nasca, si crede per molti che sia la
natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è
per questo che questa loro natura, che gli fa feroci nel principio,
non si potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli mantenesse
feroci infino nello ultimo.
Ed a volere
provare questo, dico come e' sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove
è furore ed ordine; perché dall'ordine nasce il furore
e la virtù, come era quello de' Romani: perché si vede
in tutte le istorie, che in quello esercito era un ordine buono, che
vi aveva introdotto una disciplina militare per lungo tempo. Perché
in uno esercito, bene ordinato nessuno debbe fare alcuna opera se non
regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito
romano, dal quale, avendo elli vinto il mondo, debbono prendere
esemplo tutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva,
non si meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o
domestica sanza l'ordine del console. Perché quegli eserciti
che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna
pruova, la fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma
dove la virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co'
tempi, né difficultà veruna lo invilisce, né li
fa mancare l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono
l'animo ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale
mai non manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al
contrario interviene in quelli eserciti dove è furore e non
ordine, come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere
mancavano, perché, non riuscendo loro con il primo impeto
vincere, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello
loro furore nel quale egli speravano né avendo fuori di quello
cosa in la quale ei cunfidassono come quello era raffreddo,
mancavano. Al contrario i Romani, dubitando meno de' pericoli per gli
ordini loro buoni non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati
combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel
fine che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si
accendevano. La terza qualità di eserciti è dove non è
furore naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti
italiani de' nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si
abbattano a uno esercito che per qualche accidente si fugga, mai non
vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede, ciascuno dì,
come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E perché,
con il testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come debbe essere
fatta la buona milizia, e come è fatta la rea; io voglio
addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva punire Fabio,
Maestro de' cavalli, quando disse: "Nemo hominum, nemo Deorum,
verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur;
sine commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores
sacramenti, licentia sola se ubi velint exauctorent; infrequentia
deserant signa; neque conveniatur ad edictum, nec discernantur,
interdiu nocte; aequo iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent;
et non signa, non ordines servent: latrocinii modo, caeca et fortuita
pro sollemni et sacrata militia sit". E puossi per questo testo
adunque, facilmente vedere se la milizia de' nostri tempi è
cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca a essere
simile a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella è
discosto da essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa
solo, come la franciosa.
Cap.
37
Se le piccole battaglie innanzi alla giornata sono
necessarie; e come si debbe fare a conoscere uno inimico nuovo,
volendo fuggire quelle.
E'
pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo
discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere
condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene
sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca
che pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo l'altro. E
questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però
si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non
se' aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario
e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di
Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice: "Tanti ea
dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum
exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in
Campaniam transierit". Perché io considero, dall'uno
canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare
alcuna cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti
nel suo esercito: perché cominciare una zuffa dove non si
operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è
cosa al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il
guardare de' passi.
Dall'altra parte, io
considero come i capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno
nuovo nimico, e ch'e' sia riputato, ei sono necessitati, prima che
venghino alla giornata, fare provare, con leggieri zuffe, ai loro
soldati, tali nimici; acciocché, cominciandogli a conoscere e
maneggiare, perdino quel terrore che la fama e la riputazione aveva
dato loro. E questa parte in uno capitano è importantissima;
perché ella ha in sé quasi una necessità che ti
costringe a farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza
avere prima fatto, con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi
soldati quello terrore che la riputazione del nimico aveva messo
negli animi loro.
Fu Valerio Corvino
mandato dai Romani con gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici,
e che per lo addietro mai non avevano provate l'armi l'uno
dell'altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con
i Sanniti alcune leggieri zuffe "ne eos novum bellum, ne novus
hostis terreret". Nondimeno è pericolo gravissimo, che,
restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura e la
viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a'
disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca, avendo disegnato
di assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose che ha
il male sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme,
che gli è facil cosa prendere l'uno, credendo pigliare
l'altro. Sopra che io dico, che uno buono capitano debbe osservare
con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per alcuno
accidente possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli
può tôrre l'animo è cominciare a perdere; e però
si debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con
grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe
fare imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo
esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che,
perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle
che guarda, ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo
esercito, che, trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa
adoperare tutte le forze sue; l'altre debbe lasciare indifese. Perché
ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e lo esercito sia
ancora insieme, non si perde la riputazione della guerra né la
speranza del vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai
disegnata difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è
il danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa
di piccolo momento perduta la guerra.
Filippo
di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne'
tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de' suoi paesi, i
quali elli giudicava non potere guardare, abbandonò e guastò:
come quello che, per essere prudente, giudicava più pernizioso
perdere la riputazione col non potere difendere quello che si metteva
a difendere, che, lasciandolo in preda al nimico perderlo come cosa
negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano
afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli aiuti,
commettendo loro che si difendessono il meglio potessono. I quali
partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le
difendere: perché in questo partito si perde amici e forze; in
quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure
uno capitano è costretto per la novità del nimico fare
qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi sia
alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che è
migliore partito), il quale, andando contro a' Cimbri, popoli
ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con uno
spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per
avere di già vinto uno esercito romano, giudicò Mario
essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna
cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la paura
del nimico gli aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più
che una volta collocò lo esercito suo in luogo donde i Cimbri
con lo esercito loro dovessono passare. E così, dentro alle
fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessono, ed
assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché,
vedendo una moltitudine inordinata, piena d'impedimenti, con armi
inutili, e parte disarmati, si rassicurassono, e diventassono
desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da Mario saviamente
preso, così dagli altri debbe essere diligentemente imitato,
per non incorrere in quelli pericoli che io dico disopra, e non avere
a fare come i Franciosi, "qui ob rem parvi ponderis trepidi, in
Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt". E perché noi
abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante
le parole sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno
capitano, dimostrare.
Cap.
38
Come debbe essere fatto uno capitano nel quale lo esercito
suo possa confidare.
Era,
come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai
Sanniti, nuovi nimici del Popolo romano: donde che, per assicurare i
suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece fare a' suoi certe
leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle, avanti alla
giornata, parlare loro, e mostrò, con ogni efficacia, quanto
ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando la virtù de'
suoi soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole
che Livio gli fa dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi lo
esercito abbia a confidare; le quali parole sono queste: "Tum
etiam intueri, cuius ductu auspicioque ineunda pugna sit, utrum, qui
audiendus dumtaxat magnificus adhortator sit, verbis tantum ferox,
operum militarium expers, an qui et ipse tela tractare, procedere
ante signa, versari media in mole pugnae sciat. Facta mea, non dicta,
vos, milites, sequi volo; nec disciplinam modo, sed exemplum etiam a
me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus, summamque laudem
peperi". Le quali parole, considerate bene, insegnano a
qualunque, come ei debbe procedere a volere tenere il grado del
capitano: e quello che sarà fatto altrimenti, troverrà,
con il tempo, quel grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia
condotto, torgli e non dargli riputazione; perché non i titoli
illustrono gli uomini, ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal
principio di questo discorso considerare che, se gli capitani grandi
hanno usati termini istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito
veterano quando con i nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto
maggiormente si abbia a usare la industria quando si comandi uno
esercito nuovo, che non abbia mai veduto il nimico in viso! Perché,
se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore,
tanto maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo.
Pure, si è veduto molte volte dai buoni capitani tutte queste
difficultà con somma prudenza essere vinte: come fece quel
Gracco romano, ed Epaminonda tebano, de' quali altra volta abbiamo
parlato, che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed
esercitatissimi.
I modi che ei tenevano,
era: parecchi mesi esercitargli in battaglie fitte e assuefargli alla
ubbidienza ed allo ordine; e da quelli poi, con massima confidenza,
nella vera zuffa gli adoperavano. Non si debba, adunque, diffidare
alcuno uomo militare di non potere fare buoni eserciti, quando non
gli manchi uomini; perché quel principe, che abbonda di uomini
e manca di soldati, debbe solamente, non della viltà degli
uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza, dolersi.
Cap.
39
Che uno capitano debbe essere conoscitore de' siti.
Intra
le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è
la cognizione de' siti e de' paesi; perché, sanza questa
cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non può
bene operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze vogliono
pratica a volere perfettamente possederle, questa è una che
ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa
particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che
per veruno altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono
che quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono
nelle selve e nelle cacce; perché la caccia, oltre a questa
cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie.
E Senofonte, nella vita di Ciro, mostra che, andando Ciro ad
assaltare il re d'Armenia, nel divisare quella fazione, ricordò
a quegli suoi, che questa non era altro che una di quelle cacce le
quali molte volte avevano fatte seco. E ricordava a quelli che
mandava in agguato in su e' monti, che gli erano simili a quelli che
andavano a tendere le reti in su e' gioghi; ed a quelli che
scorrevano per il piano, erano simili a quegli che andavano a levare
del suo covile la fiera, acciocché, cacciata, desse nelle
reti.
Questo si dice per mostrare come le
cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una immagine d'una
guerra: e per questo agli uomini grandi tale esercizio è
onorevole e necessario. Non si può ancora imparare questa
cognizione de' paesi in altro commodo modo, che per via di caccia,
perché la caccia fa, a colui che la usa sapere come sta
particularmente quei paese dove elli la esercita. E fatto che uno si
è familiare bene una regione, con facilità comprende
poi tutti i paesi nuovi; perché ogni paese ed ogni membro di
quelli hanno insieme qualche conformità, in modo che dalla
cognizione d'uno facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma
chi non ne ha bene pratico uno, con difficultà, anzi non mai
se non con un lungo tempo, può conoscere l'altro. E chi ha
questa pratica, in uno voltare d'occhio sa come giace quel piano,
come surge quel monte, dove arriva quella valle, e tutte le altre
simili cose, di che elli ha per lo addietro fatto una ferma scienza.
E che questo sia vero, ce lo mostra Tito Livio con lo esemplo di
Publio Decio; il quale, essendo Tribuno de' soldati nello esercito
che Cornelio consolo conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il
Consolo ridotto in una valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai
Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al
Consolo: "Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem?
arx illa est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere
Samnites) impigre capimus". Ed innanzi a queste parole, dette da
Decio, Tito Livio dice: "Publius Decius tribunus militum,
conspicit unum editum in saltu collem, imminentem hostium castris
aditu arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem". Donde,
essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed
avendo salvo lo esercito romano e disegnando, venente la notte, di
partirsi, e salvare ancora sé ed i suoi soldati, gli fa dire
queste parole: "Ite mecum, ut, dum lucis aliquid superest,
quibus locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc exitus,
exploremus. Haec omnia sagulo militari amicus ne ducem circumire
hostes notarent, perlustravit". Chi considerrà, adunque,
tutto questo testo, vedrà quanto sia utile e necessario a uno
capitano sapere la natura de' paesi: perché, se Decio non gli
avesse saputi e conosciuti, non arebbe potuto giudicare quale utile
faceva pigliare quel colle, allo esercito Romano, né arebbe
potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibiie o no; e
condotto che si fu poi sopra esso, volendosene partire per ritornare
al Consolo, avendo i nimici intorno, non arebbe dal discosto potuto
speculare le vie dello andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici.
Tanto che, di necessità conveniva, che Decio avesse tale
cognizione perfetta: la quale fece che, con il pigliare quel colle,
ei salvò lo esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato,
trovare la via a salvare sé e quegli che erano stati seco.
Cap.
40
Come usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa
gloriosa.
Ancora
che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel
maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa; e, parimente
è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello
che lo supera con le forze. E vedesi questo per il giudicio che ne
fanno coloro che scrivono le vite degli uomini grandi; i quali lodono
Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi in simili modi di
procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne replicherò
alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude
essere gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti;
perché questa, ancora che la ti acquisti, qualche volta, stato
e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà mai
gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non
si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la guerra; come
fu quella di Annibale quando in sul lago di Perugia simulò la
fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando, per
uscire di mano di Fabio Massimo, accese le corna dello armento
suo.
Alle quali fraudi fu simile questa
che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo
esercito romano dentro alle Forche Caudine: il quale, avendo messo lo
esercito suo a ridosso de' monti, mandò più suoi
soldati sotto veste di pastori con assai armento per il piano; i
quali sendo presi dai Romani, e domandati dove era lo esercito de'
Sanniti, convennono tutti, secondo l'ordine dato da Ponzio, a dire
come egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa, creduta dai
Consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove
entrati, furono subito assediati dai Sanniti. E sarebbe stata questa
vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a Ponzio, se egli avesse
seguitati i consigli del padre il quale voleva che i Romani o ei si
salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che non si
pigliasse la via del mezzo, "quae, neque amicos parat neque
inimicos tollit". La quale via fu sempre perniziosa nelle cose
di stato come di sopra in altro luogo si discorse.
Cap.
41
Che la patria si debbe difendere o con ignominia o con
gloria; ed in qualunque modo è bene difesa.
Era, come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito romano assediato da' Sanniti: i quali avendo posto ai Romani condizioni ignominiosissime (come era volergli mettere sotto il giogo, e disarmati rimandargli a Roma), e per questo stando i Consoli come attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo, legato romano, disse che non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito per salvare la patria: perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria: perché, salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a cancellare la ignominia; non si salvando, ancora che gloriosamente morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi, per difendere la maestà del loro re e la potenza del loro regno; perché nessuna voce odono più impazientemente che quella che dicesse: - Il tale partito è ignominioso per il re -; perché dicono che il loro re non può patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono essere cose da re.
Cap.
42
Che le promesse fatte per forza, non si debbono osservare.
Tornati i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il primo che in Senato disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio; dicendo, come il popolo romano non era obligato, ma ch'egli era bene obligato esso e gli altri che avevano promessa la pace: e però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a dare prigioni nelle mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con tanta ostinazione tenne questa conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando prigioni lui e gli altri in Sannio, protestarono ai Sanniti la pace non valere. E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la fortuna, che i Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio appresso ai Romani più glorioso per avere perduto, che non fu Ponzio appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da notare due cose: l'una, che in qualunque azione si può acquistare gloria, perché nella vittoria si acquista ordinariamente; nella perdita si acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta per tua colpa, o per fare subito qualche azione virtuosa che la cancelli: l'altra è, che non è vergognoso non osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e sempre le promesse forzate che riguardano il publico, quando e' manchi la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti tempi, se ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse forzate, quando e' manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre promesse, quando e' mancano le cagioni che le feciono promettere. Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De Principe: però al presente lo tacereno.
Cap.
43
Che gli uomini, che nascono in una provincia,
osservino per tutti i tempi quasi quella medesima natura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto. Vero è, che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in quella, ed in quella più che in questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente avara, o continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate della nostra città di Firenze, e considererà quelle ancora che sono ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e d'infidelità; perché tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la nostra città. E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendé. In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia sua. Ma lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso quello che seguì nella guerra che fece il popolo fiorentino contro a' Visconti duchi di Milano; ed essendo Firenze privo degli altri ispedienti, pensò di condurre lo imperadore in Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse lo imperadore venire con assai genti, e fare quella guerra contro a' Visconti, e difendere Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono centomila ducati per levarsi, e centomila poi ch'ei fosse in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i primi danari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta dalla necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa né molte altre volte ingannata da loro; essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede ch'ei fecero anticamente a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani, per essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro forze non potere resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi che di qua dall'Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di danari, e che fussono obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono dipoi pigliare l'armi per loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra con i loro nimici, ma perché si astenessino di predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per l'avarizia e poca fede de' Franciosi, rimasono ad un tratto privi de' loro danari, e degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché si vede, per questo esemplo de' Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, i Franciosi avere usati i medesimi termini; e per questo facilmente si può conietturare, quanto i principi si possono fidare di loro.
Cap.
44
E' si ottiene con l'impeto e con l'audacia molte
volte quello che con modi ordinarii non si otterrebbe mai.
Essendo
i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo con lo
esercito loro stare alla campagna a petto ai Romani, diliberarono
lasciare guardate le terre in Sannio e di passare con tutto lo
esercito loro in Toscana, la quale era in triegua con i Romani; e
vedere, per tale passata, se ei potessono con la presenzia dello
esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che avevano
negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i Sanniti ai
Toscani, nel mostrare, massime, qual cagione gli aveva indotti a
pigliare l'armi, usarono uno termine notabile, dove dissono:
"rebellasse, quod pax servientibus gravior, quam liberis bellum
esset". E così, parte con le persuasioni, parte con la
presenza dello esercito loro, gl'indussono a ripigliare l'armi. Dove
è da notare che quando uno principe desidera ottenere una cosa
da uno altro, debbe, se la occasione lo patisce, non gli dare spazio
a diliberarsi, e fare in modo che vegga la necessità della
presta diliberazione; la quale è quando colui che è
domandato vede che dal negare o dal differire ne nasca una subita e
pericolosa indegnazione.
Questo termine si
è veduto bene usare ne' nostri tempi da papa Iulio con i
Franciosi, e da monsignore di Fois capitano del re di Francia col
marchese di Mantova: perché papa Iulio, volendo cacciare i
Bentivogli di Bologna, e giudicando, per questo, avere bisogno delle
forze franciose, e che i Viniziani stessono neutrali; ed avendone
ricerco l'uno e l'altro, e traendo da loro risposta dubbia e varia;
diliberò col non dare loro tempo fare venire l'uno e l'altro
nella sentenza sua: e partitosi da Roma con quelle tante genti ch'ei
poté raccozzare, ne andò verso Bologna; ed ai Viniziani
mandò a dire che stessono neutrali, ed al re di Francia, che
gli mandasse le forze. Talché, rimanendo tutti distretti dal
poco spazio di tempo, e veggendo come nel papa doveva nascere una
manifesta indegnazione differendo o negando, cederono alle voglie
sue, ed il re gli mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono
neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con lo esercito in
Bologna, ed avendo intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire
alla ricuperazione di quella, aveva due vie; l'una per il dominio del
re, lunga e tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non
solamente era necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma
gli conveniva entrare per certe chiuse intra paludi e laghi, di che è
piena quella regione, le quali con fortezze ed altri modi erano
serrate e guardate da lui. Onde che Fois, diliberato d'andare per la
più corta, e per vincere ogni difficultà né dare
tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le sue genti per
quella via, ed al marchese significò gli mandasse le chiavi di
quel passo. Talché il marchese, occupato da questa subita
diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe
mandate se Fois più trepidamente si fosse governato, essendo
quello marchese in lega con il Papa e con i Viniziani, ed avendo uno
suo figliuolo nelle mani del Papa; le quali cose gli davano molte
oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal subito partito, per le
cagioni che di sopra si dicono, le concesse. Così feciono i
Toscani coi Sanniti, avendo, per la presenza dello esercito di
Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato, per altri tempi,
pigliare.
Cap.
45
Quale sia migliore partito nelle giornate, o sostenere
l'impeto de' nimici, e, sostenuto, urtargli; ovvero da prima con
furia assaltargli.
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro degli eserciti de' Sanniti e de' Toscani; e venendo alla zuffa ed alla giornata insieme, è da notare, in tale fazione, quale de' due diversi modi di procedere tenuti dai due Consoli sia migliore. Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo assalto lento essere più utile, riserbando l'impeto suo nello ultimo, quando il nimico avesse perduto el primo ardore del combattere, e, come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il successo della cosa, che a Fabio riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il quale si straccò ne' primi impeti; in modo che, vedendo la banda sua più tosto in volta che altrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla quale con la vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione del padre sacrificò sé stesso per le romane legioni. La quale cosa intesa da Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si avesse il suo collega acquistato morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale necessità riservate; donde ne riportò una felicissima vittoria. Donde si vede che il modo del procedere di Fabio è più sicuro e più imitabile.
Cap.
46
Donde nasce che una famiglia in una città tiene un
tempo i medesimi costumi.
E' pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi modi ed instituti diversi, e procrei uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima città si vede tale differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra. Il che si riscontra essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne leggono assai esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall'altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue, perché conviene che varii mediante la diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un giovanetto da' teneri anni cominci a sentire dire bene o male d'una cosa; perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia, e fossono stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro fatto Censore ed avendo il suo collega alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge, diposto il magistrato, Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni, secondo la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra questo se ne facessero assai concioni, e generassissene assai tumulti, non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le bontà ed umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli auspicii della loro patria.
Cap.
47
Che uno buono cittadino per amore della patria debbe
dimenticare le ingiurie private.
Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato in una zuffa ferito, e per questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato essere necessario mandarvi Papirio Cursore dittatore per sopperire ai difetti del consolo. Ed essendo necessario che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che, posto da parte i privati odii, dovesse per beneficio publico nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora che col tacere e con molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli premesse. Dal quale debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di essere tenuti buoni cittadini.
Cap.
48
Quando si vede fare uno errore grande a uno nimico, si debbe
credere che vi sia sotto inganno.
Essendo
rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in Toscana,
essendo ito il Consolo per alcune cerimonie a Roma, i Toscani, per
vedere se potevano avere quello alla tratta, posono uno aguato
propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni soldati con veste di
pastori con assai armento, e li feciono venire alla vista dello
esercito romano: i quali così travestiti si accostarono allo
steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di questa loro
presunzione, non gli parendo ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse
la fraude; e così restò il disegno de' Toscani rotto.
Qui si può commodamente notare, che uno capitano di eserciti
non debbe prestare fede ad uno errore che evidentemente si vegga fare
al nimico: perché sempre vi sarà sotto fraude, non
sendo ragionevole che gli uomini siano tanto incauti. Ma spesso il
disiderio del vincere acceca gli animi degli uomini, che non veggono
altro che quello pare facci per loro.
I
Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e
trovando le porte aperte e sanza guardia, stettero tutto quel giorno
e la notte sanza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere
che fusse tanta viltà e tanto poco consiglio ne' petti romani,
che gli abbandonassono la patria. Quando nel 1508, stando li
Fiorentini, a campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino pisano, si
trovava prigione de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero,
che darebbe una porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui
libero: dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare con
i legati de' commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed
accompagnato da' Pisani; i quali lasciava da parte, quando parlava
con i Fiorentini. Talmenteché si poteva conietturare il suo
animo doppio; perché non era ragionevole, se la pratica fosse
stata fedele, ch'elli l'avesse trattata sì alla scoperta. Ma
il disiderio che si aveva di avere Pisa, accecò in modo i
Fiorentini, che, condottisi con l'ordine suo alla porta a Lucca, vi
lasciarono più loro capi ed altre genti, con disonore loro,
per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.
Cap.
49
Una
republica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno dì bisogno
di nuovi provvedimenti; e per quali meriti Quinto Fabio fu chiamato
Massimo.
È
di necessità, come altre volte si è detto, che ciascuno
dì in una città grande naschino accidenti che abbiano
bisogno del medico; e secondo che gl'importano più, conviene
trovare il medico più savio. E se in alcuna città
nacquono mai simili accidenti, nacquono in Roma e strani ed
insperati; come fu quello quando e' parve che tutte le donne romane
avessono congiurato contro ai loro mariti di ammazzargli: tante se ne
trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano
preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura
de' Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra
macedonica, dove erano già inviluppati molte migliaia di
uomini e di donne; e, se la non si scopriva, sarebbe stata pericolosa
per quella città, o se pure i Romani non fussono stati
consueti a gastigare le moltitudini degli erranti: perché,
quando e' non si vedesse per altri infiniti segni la grandezza di
quella Republica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per le
qualità della pena che la imponeva a chi errava. Né
dubitò fare morire per via di giustizia una legione intera per
volta, ed una città; e di confinare otto o diecimila uomini
con condizioni istraordinarie, da non essere osservate da uno solo,
non che da tanti: come intervenne a quelli soldati che infelicemente
avevano combattuto a Canne; i quali confinò in Sicilia, ed
impose loro che non albergassono in terra, e che mangiassono
ritti.
Ma di tutte le altre esecuzioni era
terribile il decimare gli eserciti, dove a sorte, di tutto uno
esercito, era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a
gastigare una moltitudine, trovare più spaventevole punizione
di questa. Perché quando una moltitudine erra, dove non sia
l'autore certo, tutti non si possono gastigare, per essere troppi;
punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si farebbe torto a quegli
che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di errare un'altra
volta. Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti lo
meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non è
punito ha paura che un'altra volta non tocchi a lui, e guardasi da
errare.
Furono punite, adunque, le
venefiche e le baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E
benché questi morbi in una republica faccino cattivi effetti,
non sono a morte, perché sempre quasi si ha tempo a
correggergli: ma non si ha già tempo in quelli che riguardano
lo stato, i quali, se non sono da uno prudente corretti, rovinano la
città.
Erano in Roma, per la
liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a'
forestieri, nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta
parte ne' suffragi, che il governo cominciava variare, e partivasi da
quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che
accorgendosi Quinto Fabio, che era Censore, messe tutte queste genti
nuove, da chi dipendeva questo disordine, sotto quattro Tribù
acciocché non potessono, ridutti in sì piccoli spazi,
corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e
postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto
accetto a quella civiltà, ch'e' meritò di essere
chiamato Massimo.