Niccolò Machiavelli
ISTORIE
FIORENTINE
AL SANTISSIMO E BEATISSIMO PADRE SIGNORE NOSTRO CLEMENTE SETTIMO LO UMILE SERVO NICCOLÒ MACHIAVELLI.
Poi che da la Vostra Santità, Beatissimo e Santissimo Padre, sendo ancora in minore fortuna constituta, mi fu commesso che io scrivessi le cose fatte da il popolo fiorentino, io ho usata tutta quella diligenzia e arte che mi è stata dalla natura e dalla esperienzia prestata, per sodisfarLe. Ed essendo pervenuto, scrivendo, a quelli tempi i quali, per la morte del Magnifico Lorenzo de' Medici, feciono mutare forma alla Italia, e avendo le cose che di poi sono seguite, sendo più alte e maggiori, con più alto e maggiore spirito a descriversi, ho giudicato essere bene tutto quello che insino a quelli tempi ho descritto ridurlo in uno volume e alla Santissima V.B. presentarlo, acciò che Quella, in qualche parte, i frutti de' semi Suoi e delle fatiche mie cominci a gustare. Leggendo adunque quelli, la V.S. Beatitudine vedrà in prima, poi che lo imperio romano cominciò in occidente a mancare della potenzia sua, con quante rovine e con quanti principi, per più seculi, la Italia variò gli stati suoi; vedrà come il pontefice, i Viniziani, il regno di Napoli e ducato di Milano presono i primi gradi e imperii di quella provincia; vedrà come la Sua patria, levatasi per divisione dalla ubidienzia degli imperadori, infino che la si cominciò sotto l'ombra della Casa Sua a governare, si mantenne divisa. E perché dalla V.S. Beatitudine mi fu imposto particularmente e comandato che io scrivessi in modo le cose fatte dai Suoi maggiori, che si vedesse che io fusse da ogni adulazione discosto (perché quanto Vi piace di udire degli uomini le vere lode, tanto le fitte e con grazia descritte Le dispiacciono), dubito assai, nel descrivere la bontà di Giovanni, la sapienzia di Cosimo la umanità di Piero e la magnificenzia e prudenza di Lorenzo, che non paia alla V.S. che abbia trapassati i comandamenti Suoi. Di che io mi scuso a Quella e a qualunque simili descrizioni, come poco fedeli, dispiacessero; perché, trovando io delle loro lode piene le memorie di coloro che in varii tempi le hanno descritte, mi conveniva, o quali io le trovavo descriverle, o, come invido, tacerle. E se sotto a quelle loro egregie opere era nascosa una ambizione alla utilità [comune], come alcuni dicono, contraria, io che non ve la conosco non sono tenuto a scriverla; perché in tutte le mie narrazioni io non ho mai voluto una disonesta opera con una onesta cagione ricoprire, né una lodevole opera, come fatta a uno contrario fine, oscurare. Ma quanto io sia discosto dalle adulazioni si cognosce in tutte le parti della mia istoria, e massimamente nelle concioni e ne' ragionamenti privati, così retti come obliqui, i quali, con le sentenze e con l'ordine, il decoro dello umore di quella persona che parla, sanza alcuno riservo, mantengono. Fuggo bene, in tutti i luoghi, i vocaboli odiosi come alla dignità e verità della istoria poco necessari. Non puote adunque alcuno che rettamente consideri gli scritti miei come adulatore riprendermi, massimamente veggendo come della memoria del padre di V.S. io non ne ho parlato molto; di che ne fu cagione la sua breve vita, nella quale egli non si potette fare cognoscere, né io con lo scrivere l'ho potuto illustrare. Nondimeno assai grandi e magnifiche furono l'opere sue, avendo generato la S.V.; la quale opera a tutte quelle de' suoi maggiori di gran lunga contrappesa e più seculi gli aggiugnerà di fama, che la malvagia sua fortuna non gli tolse anni di vita. Io mi sono pertanto ingegnato, Santissimo e Beatissimo Padre in queste mie descrizione, non maculando la verità, di satisfare a ciascuno; e forse non arò satisfatto a persona, né quando questo fusse, me ne maraviglierei, perché io giudico che sia impossibile, sanza offendere molti, descrivere le cose de' tempi suoi. Nondimeno io vengo allegro in campo, sperando che come io sono dalla umanità di V.B. onorato e nutrito, così sarò dalle armate legioni del suo santissimo iudizio aiutato e difeso, e con quello animo e confidenzia che io ho scritto infino a ora sarò per seguitare l'impresa mia, quando da me la vita non si scompagni e la V.S. non mi abbandoni.
PROEMIO
Lo animo mio era, quando al principio deliberai scrivere le cose fatte dentro e fuora dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione mia dagli anni della cristiana religione 1434, nel quale tempo la famiglia de' Medici, per i meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre, prese più autorità che alcuna altra in Firenze; perché io mi pensava che messer Lionardo d'Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose che da quel tempo indrieto erano seguite. Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro, per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano, acciò che, imitando quelli, la istoria nostra fusse meglio dai leggenti approvata ho trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell'altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che credo facessero, o perché parvono loro quelle azioni si deboli che le giudicorono indegne di essere mandate alla memoria delle lettere, o perché temessero di non offendere i discesi di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare. Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto indegne di uomini grandi; perché, se niuna cosa diletta o insegna, nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a cittadini che governono le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città, acciò che possino con il pericolo d'altri diventati savi mantenersi uniti. E se ogni esemplo di repubblica muove, quegli che si leggono della propria muovono molto più e molto più sono utili e se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili di quella di Firenze sono notabilissime, perché la maggior parte delle altre repubbliche delle quali si ha qualche notizia sono state contente d'una divisione, con la quale, secondo gli accidenti, hanno ora accresciuta, ora rovinata la città loro; ma Firenze, non contenta d'una ne ha fatte molte. In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra i nobili e la plebe, e con quella infino alla rovina sua si mantenne; così fece Atene, così tutte le altre repubbliche che in quelli tempi fiorirono. Ma di Firenze in prima si divisono infra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria. E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni depende, le quali arieno avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra pareva che sempre ne diventasse maggiore: tanta era la virtù di quelli cittadini e la potenza dello ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria grande, che quelli tanti che rimanevono liberi da tanti mali potevano più con la virtù loro esaltarla, che non aveva potuto la malignità di quelli accidenti che gli avieno diminuiti opprimerla. E senza dubio, se Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l'avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o antica, le fusse stata superiore: di tanta virtù d'arme e di industria sarebbe stata ripiena. Perché si vede, poi che la ebbe cacciati da sé i Ghibellini in tanto numero che ne era piena la Toscana e la Lombardia, i Guelfi, con quelli che drento rimasero, nella guerra contro ad Arezzo, uno anno davanti alla giornata di Campaldino, trassono della città, di propri loro cittadini, milledugento uomini d'arme e dodicimila fanti; di poi, nella guerra che si fece contro a Filippo Visconti duca di Milano, avendo a fare esperienzia della industria e non delle armi proprie, perché le avieno in quelli tempi spente, si vide come, in cinque anni che durò quella guerra, spesono i Fiorentini tre miloni e cinquecento mila fiorini; la quale finita, non contenti alla pace, per mostrare più la potenzia della loro città, andorono a campo a Lucca. Non so io pertanto cognoscere quale cagione faccia che queste divisione non sieno degne di essere particularmente descritte. E se quelli nobilissimi scrittori furono ritenuti per non offendere la memoria di coloro di chi eglino avevono a ragionare, se ne ingannorono, e mostrorono di cognoscere poco l'ambizione degli uomini e il desiderio che gli hanno di perpetuare il nome de' loro antichi e di loro; né si ricordorono che molti, non avendo avuta occasione di acquistarsi fama con qualche opera lodevole, con cose vituperose si sono ingegnati acquistarla; né considerorono come le azioni che hanno in sé grandezza, come hanno quelle de' governi e degli stati, comunque le si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo. Le quali cose avendo io considerate, mi feciono mutare proposito, e deliberai cominciare la mia istoria dal principio della nostra città. E perché non è mia intenzione occupare i luoghi d'altri, descriverrò particularmente, insino al 1434, solo le cose seguite drento alla città, e di quelle di fuora non dirò altro che quello sarà necessario per intelligenzia di quelle di drento; di poi, passato il 1434, scriverrò particularmente l'una e l'altra parte. Oltre a questo, perché meglio e d'ogni tempo questa istoria sia intesa, innanzi che io tratti di Firenze, descriverrò per quali mezzi la Italia pervenne sotto quelli potentati che in quel tempo la governavano. Le quali cose tutte, così italiche come fiorentine, con quattro libri si termineranno: il primo narrerà brevemente tutti gli accidenti di Italia seguiti dalla declinazione dello imperio romano per infino al 1434; il secondo verrà con la sua narrazione dal principio della città di Firenze infino alla guerra che, dopo la cacciata del duca di Atene, si fece contro al pontefice; il terzo finirà nel 1414, con la morte del re Ladislao di Napoli; e con il quarto al 1434 perverremo; dal qual tempo di poi particularmente le cose seguite dentro a Firenze e fuora, infino a questi nostri presenti tempi, si descriverranno.
LIBRO PRIMO
1
I
popoli i quali nelle parti settentrionali di là dal fiume del
Reno e del Danubio abitano, sendo nati in regione generativa e sana,
in tanta moltitudine molte volte crescono, che parte di loro sono
necessitati abbandonare i terreni patrii e cercare nuovi paesi per
abitare.
L'ordine che tengono, quando una di quelle provincie si
vuole sgravare di abitatori, è dividersi in tre parti,
compartendo in modo ciascuno, che ogni parte sia di nobili e
ignobili, di ricchi e poveri ugualmente ripiena; di poi quella parte
alla quale la sorte comanda va a cercare suo fortuna, e le due parti
sgravate del terzo di loro si rimangono a godere i beni patrii.
Queste populazioni furono quelle che destrussono lo imperio romano;
alle quali ne fu data occasione dagli imperadori, i quali, avendo
abbandonata Roma, sedia antica dello Imperio, e riduttisi ad abitare
in Gonstantinopoli, avevano fatta la parte dello imperio occidentale
più debole, per essere meno osservata da loro e più
esposta alle rapine de' ministri e de' nimici di quelli.
E veramente
a rovinare tanto Imperio, fondato sopra il sangue di tanti uomini
virtuosi, non conveniva che fusse meno ignavia ne' principi, né
meno infedelità ne' ministri, né meno forza o minore
ostinazione in quelli che lo assalirono; perché non una
populazione, ma molte furono quelle che nella sua rovina
congiurorono.
I primi che di quelle parti settentrionali vennono
contro allo Imperio, dopo i Cimbri, i quali furono da Mario cittadino
romano vinti, furono i Visigoti; il quale nome non altrimenti nella
loro lingua suona, che nella nostra Goti occidentali.
Questi, dopo
alcune zuffe fatte a' confini dello Imperio, per concessione delli
imperadori molto tempo tennono la loro sedia sopra il fiume del
Danubio; e avvenga che, per varie cagioni e in varii tempi, molte
volte le provincie romane assalissero, sempre nondimento furono dalla
potenza delli imperadori raffrenati.
E l'ultimo che gloriosamente gli
vinse fu Teodosio; talmente che, essendo ridutti alla ubbidienzia
sua, non rifeciono sopra di loro alcuno re; ma, contenti allo
stipendio concesso loro, sotto il governo e le insegne di quello
vivevano e militavano.
Ma venuto a morte Teodosio e rimasi Arcadio e
Onorio suoi figliuoli eredi dello Imperio, ma non della virtù
e fortuna sua, si mutorono, con il principe, i tempi.
Erano da
Teodosio preposti alle tre parti dello Imperio tre governatori:
Ruffino alla orientale, alla occidentale Stillicone, e Gildone alla
affricana; i quali tutti, dopo la morte del principe, pensorono, non
di governare, ma come principi possederle.
Dei quali Gildone e
Ruffino ne' primi loro principii furono oppressi; ma Stillicone,
sapendo meglio celare lo animo suo, cercò di acquistarsi fede
con i nuovi imperadori, e dall'altra parte turbare loro in modo lo
stato, che gli fusse più facile di poi lo occuparlo.
E per
fare loro nimici i Visigoti, gli consigliò non dessero più
loro la consueta provisione.
Oltra di questo, non gli parendo che a
turbare lo Imperio questi nimici bastassero, ordinò che i
Burgundi, Franchi, Vandali e Alani, popoli medesimamente
settentrionali, e già mossi per cercare nuove terre,
assalissero le provincie romane.
Privati adunque i Visigoti delle
provisioni loro, per essere meglio ordinati a vendicarsi della
ingiuria, creorono Alarico loro re, e assalito lo Imperio, dopo molti
accidenti guastorono la Italia, e presono e saccheggiorono Roma.
Dopo
la quale vittoria morì Alarico, e successe a lui Ataulfo, il
quale tolse per moglie Placidia, sirocchia delli Imperadori e per
quel parentado convenne con loro di andare a soccorrere la Gallia e
la Spagna, le quali provincie erano da' Vandali, Burgundioni, Alani e
Franchi, mossi dalle sopra dette cagioni, assalite.
Di che ne seguì
che i Vandali, i quali avevano occupata quella parte della Spagna
detta Betica, sendo combattuti forte da i Visigoti, e non avendo
rimedio, furono da Bonifazio, il quale per lo Imperio governava
Affrica, chiamati che venissero ad occupare quella provincia; perché,
sendosi ribellato, temeva che il suo errore non fusse dallo
Imperadore ricognosciuto.
Presono i Vandali, per le cagioni dette,
volentieri quella impresa, e sotto Genserico loro re, si
insignorirono d'Affrica.
Era, in questo mezzo, successo allo Imperio
Teodosio figliuolo di Arcadio, il quale, pensando poco alle cose di
occidente, fece che queste populazioni pensorono di potere possedere
le cose acquistate.
2
E
così i Vandali in Affrica, gli Alani e Visigoti in Ispagna
signoreggiavano, e i Franchi e i Burgundi, non solamente presono la
Gallia, ma quelle parti che da loro furono occupate furono da il nome
loro nominate, donde l'una parte si chiamò Francia e l'altra
Borgogna.
I felici successi di costoro destorono nuove populazioni
alla destruzione dello Imperio; ed altri populi, detti Unni,
occuporono Pannonia, provincia posta in sulla ripa di qua dal
Danubio, la quale oggi, avendo preso il nome da questi Unni, si
chiama Ungheria.
A questi disordini si aggiunse che, vedendosi lo
imperadore assalire da tante parti, per avere meno nimici, cominciò
ora con i Vandali, ora con i Franchi a fare accordi, le quali cose
accrescevano la autorità e la potenzia dei barbari e quella
dello Imperio diminuivano.
Né fu l'isola di Brettagna, la
quale oggi si chiama Inghilterra, sicura da tanta rovina; perché,
temendo i Brettoni di quelli popoli che avevano occupata la Francia,
e non vedendo come lo imperadore potesse difenderli, chiamorono in
loro aiuto gli Angli, popoli di Germania.
Presono gli Angli, sotto
Vortigerio loro re, la impresa, e prima gli difesono, di poi gli
cacciorono della isola, e vi rimasono loro ad abitare, e dal nome
loro la chiamarono Anglia.
Ma gli abitatori di quella, sendo
spogliati della patria loro, diventorono per la necessità
feroci, e pensorono, ancora che non avessero potuto difendere il
paese loro, di potere occupare quello d'altri.
Passorono pertanto,
colle famiglie loro il mare, e occuporono quelli luoghi che più
propinqui alla marina trovarono, e dal nome loro chiamorono quel
paese Brettagna.
3
Gli
Unni, i quali di sopra dicemmo avere occupata Pannonia, accozzatisi
con altri popoli, detti Zepidi, Eruli, Turingi e Ostrogoti (ché
così si chiamano in quella lingua i Goti orientali), si
mossono per cercare nuovi paesi; e non potendo entrare in Francia,
che era dalle forze barbare difesa, ne vennono in Italia, sotto
Attila loro re, il quale poco davanti, per essere solo nel regno,
aveva morto Bleda suo fratello; per la qual cosa diventato
potentissimo, Andarico re de' Zepidi e Velamir re degli Ostrogoti
rimasono come suoi subietti.
Venuto adunque Attila in Italia, assediò
Aquileia, dove stette, senza altro ostaculo, duoi anni; e nella
obsidione di essa guastò tutto il paese allo intorno e
disperse tutti gli abitatori di quello; il che, come nel suo luogo
direno, dette principio alla città di Vinegia.
Dopo la presa e
rovina di Aquileia e di molte altre città, si volse verso
Roma, dalla rovina della quale si astenne per i preghi del pontefice,
la cui reverenzia potette tanto in Attila, che si uscì di
Italia e ritirossi in Austria, dove si morì.
Dopo la morte del
quale, Velamir re degli Ostrogoti e gli altri capi delle altre
nazioni presono le armi contro ad Errico e Uric suoi figliuoli, e
l'uno ammazzorono, e l'altro constrinsono, con gli Unni, a ripassare
il Danubio e ritornarsi nella patria loro; e gli Ostrogoti e i Zepidi
si posono in Pannonia, e gli Eruli e i Turingi sopra la ripa di là
dal Danubio si rimasono.
Partito Attila di Italia, Valentiniano,
imperadore occidentale, pensò di instaurare quella; e per
essere più commodo a difenderla da' barbari, abbandonò
Roma e pose la sua sedia in Ravenna.
Queste avversità che
aveva avute lo imperio occidentale erano state cagione che lo
imperadore, il quale in Gonstantinopoli abitava, aveva concesso molte
volte la possessione di quello ad altri, come cosa piena di pericoli
e di spesa; e molte volte ancora, sanza sua permissione, i Romani,
vedendosi abbandonati, per difendersi, creavano per loro medesimi uno
imperadore, o alcuno, per sua autorità, si usurpava lo
imperio: come avvenne in questi tempi, che fu occupato da Massimo
romano, dopo la morte di Valentiniano; e costrinse Eudossa stata
moglie di quello, a prenderlo per marito.
La quale, desiderosa di
vendicare tale ingiuria, non potendo, nata di sangue imperiale,
sopportare le nozze d'uno privato cittadino, confortò
secretamente Genserico, re dei Vandali e signore di Affrica, a venire
in Italia, mostrandogli la facilità e la utilità dello
acquisto.
Il quale, allettato dalla preda, subito venne; e trovata
abbandonata Roma, saccheggiò quella, dove stette quattordici
giorni; prese ancora e saccheggiò più terre in Italia;
e ripieno sé e lo esercito suo di preda, se ne tornò in
Affrica.
I Romani, ritornati in Roma, sendo morto Massimo, creorono
imperadore Avito romano.
Di poi, dopo molte cose seguite in Italia e
fuori, e dopo la morte di più imperadori, pervenne lo imperio
di Gostantinopoli a Zenone e quello di Roma a Oreste e Augustulo suo
figliuolo, i quali per inganno occuporono lo imperio.
E mentre che
disegnavano tenerlo per forza, gli Eruli e i Turingi, i quali io
dissi essersi posti, dopo la morte di Attila, sopra la ripa di là
dal Danubio, fatta lega insieme, sotto Odeacre loro capitano, vennono
in Italia, e ne' luoghi lasciati vacui da quelli vi entrarono i
Longobardi, popoli medesimamente settentrionali, condotti da Godoogo
loro re, i quali furono, come nel suo luogo direno, l'ultima peste di
Italia.
Venuto adunque Odeacre in Italia, vinse e ammazzò
Oreste, propinquo a Pavia, e Augustulo si fuggì.
Dopo la quale
vittoria, perché Roma variasse con la potenza il titolo si
fece Odeacre, lasciando il nome dello imperio, chiamare re di Roma.
E
fu il primo che, de' capi de' popoli che scorrevono allora il mondo,
si posasse ad abitare in Italia; perché gli altri, o per
timore di non la potere tenere, per essere potuta dallo imperadore
orientale facilmente soccorrere, o per altra occulta cagione, la
avevano spogliata, e di poi cerco altri paesi per fermare la sedia
loro.
4
Era
pertanto, in questi tempi, lo imperio antico romano ridutto sotto
questi principi: Zenone, regnando in Gonstantinopoli, comandava a
tutto lo imperio orientale; gli Ostrogoti Mesia e Pannonia
signoreggiavano; i Visigoti, Suevi e Alani la Guascogna tenevano e la
Spagna; i Vandali l'Affrica, i Franchi e Burgundi la Francia, gli
Eruli e i Turingi la Italia.
Era il regno degli Ostrogoti pervenuto a
Teoderico nipote di Velamir, il quale, tenendo amicizia con Zenone
imperadore orientale, gli scrisse come a' suoi Ostrogoti pareva cosa
ingiusta, sendo superiori di virtù a tutti gli altri popoli,
essere inferiori di imperio, e come egli era impossibile poterli
tenere ristretti dentro a' termini di Pannonia, tale che, veggendo
come gli era necessario lasciare loro pigliare l'armi e ire a cercare
nuove terre, voleva prima farlo intendere a lui, acciò che
potesse provedervi, concedendo loro qualche paese, dove con sua buona
grazia potessero più onestamente e con loro maggiore comodità
vivere.
Onde che Zenone, parte per paura, parte per il desiderio
aveva di cacciare di Italia Odeacre, concesse a Teoderigo il venire
contro a quello e pigliare la possessione di Italia.
Il quale subito
partì di Pannonia, dove lasciò i Zepidi, popoli suoi
amici; e venuto in Italia, ammazzò Odeacre e il figliuolo, e
con l'esemplo di quello, prese il titulo di re di Italia; e pose la
sua sedia in Ravenna, mosso da quelle cagioni che feciono già
a Valentiniano imperadore abitarvi.
Fu Teoderigo uomo nella guerra e
nella pace eccellentissimo, donde nell'una fu sempre vincitore,
nell'altra benificò grandemente le città e i popoli
suoi.
Divise costui gli Ostrogoti per le terre, con i capi loro,
acciò che nella guerra gli comandassero e nella pace gli
correggessero; accrebbe Ravenna, instaurò Roma, ed eccetto che
la disciplina militare, rendé a' Romani ogni altro onore;
contenne dentro ai termini loro, e sanza alcuno tumulto di guerra, ma
solo con la sua autorità, tutti i re barbari occupatori dello
Imperio; edificò terre e fortezze intra la punta del mare
Adriatico e le Alpi, per impedire più facilmente il passo ai
nuovi barbari che volessero assalire la Italia.
E se tante virtù
non fussero state bruttate, nell'ultimo della sua vita, da alcune
crudeltà causate da varii sospetti del regno suo come la morte
di Simmaco e di Boezio, uomini santissimi, dimostrano, sarebbe al
tutto la sua memoria degna da ogni parte di qualunque onore, perché,
mediante la virtù e bontà sua, non solamente Roma e
Italia, ma tutte le altre parti dello occidentale imperio, libere
dalle continue battiture che per tanti anni, da tante inundazione di
barbari avevano sopportate, si sollevorono, e in buono ordine e assai
felice stato si ridussero.
5
E
veramente, se alcuni tempi furono mai miserabili, in Italia e in
queste provincie corse dai barbari, furono quelli che da Arcadio e
Onorio infino a lui erano corsi.
Perché, se si considererà
di quanto danno sia cagione, ad una repubblica o ad uno regno,
variare principe o governo, non per alcuna estrinseca forza, ma
solamente per civile discordia (dove si vede come le poche variazioni
ogni repubblica e ogni regno, ancora che potentissimo, rovinano), si
potrà di poi facilmente immaginare quanto in quelli tempi
patisse la Italia e le altre provincie romane; le quali, non
solamente variorono il governo e il principe, ma le leggi, i costumi,
il modo del vivere, la religione, la lingua, l'abito, i nomi.
Le
quali cose ciascuna per sé, non che tutte insieme, farieno,
pensandole, non che vedendole e sopportandole, ogni fermo e costante
animo spaventare.
Da questo nacque la rovina, il nascimento e lo
augumento di molte città.
Intra quelle che rovinorono fu
Aquileia, Luni, Chiusi, Populonia, Fiesole e molte altre; intra
quelle che di nuovo si edificorono furono Vinegia, Siena, Ferrara,
l'Aquila e altre assai terre e castella che per brevità si
omettono; quelle che di piccole divennero grandi furono Firenze,
Genova, Pisa, Milano, Napoli e Bologna; alle quali tutte si aggiugne
la rovina e il rifacimento di Roma, e molte che variamente furono
disfatte e rifatte.
Intra queste rovine e questi nuovi popoli sursono
nuove lingue, come apparisce nel parlare che in Francia, in Ispagna e
in Italia si costuma, il quale mescolato con la lingua patria di
quelli nuovi popoli e con la antica romana fanno un nuovo ordine di
parlare.
Hanno, oltre di questo, variato il nome, non solamente le
provincie, ma i laghi, i fiumi, i mari e gli uomini; perché la
Francia, l'Italia e la Spagna sono ripiene di nomi nuovi e al tutto
dagli antichi alieni; come si vede, lasciandone indrieto molti altri,
che il Po, Garda, l'Arcipelago sono per nomi disformi agli antichi
nominati: gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e
Mattei diventorono.
Ma, intra tante variazioni, non fu di minore
momento il variare della religione, perché, combattendo la
consuetudine della antica fede con i miracoli della nuova, si
generavono tumulti e discordie gravissime intra gli uomini; e se pure
la cristiana religione fusse stata unita, ne sarebbe seguiti minori
disordini; ma, combattendo la chiesa greca, la romana e la ravennate
insieme, e di più le sette eretiche con le cattoliche, in
molti modi contristavano il mondo.
Di che ne è testimone
l'Affrica, la quale sopportò molti più affanni mediante
la setta arriana, creduta dai Vandali, che per alcuna loro avarizia o
naturale crudeltà.
Vivendo adunque gli uomini intra tante
persecuzioni, portavano descritto negli occhi lo spavento dello animo
loro, perché, oltre alli infiniti mali che sopportavano,
mancava buona parte di loro di potere rifuggire allo aiuto di Dio,
nel quale tutti i miseri sogliono sperare; perché, sendo la
maggiore parte di loro incerti a quale Iddio dovessero ricorrere,
mancando di ogni aiuto e d'ogni speranza, miseramente morivano.
6
Meritò
pertanto Teoderigo non mediocre lode, sendo stato il primo che
facesse quietare tanti mali; talché, per trentotto anni che
regnò in Italia, la ridusse in tanta grandezza, che le antiche
battiture più in lei non si ricognoscevano.
Ma, venuto quello
a morte, e rimaso nel regno Atalarico, nato di Amalasiunta sua
figliuola, in poco tempo non sendo ancora la fortuna sfogata negli
antichi suoi affanni si ritornò, perché Atalarico, poco
di poi che l'avolo morì; e rimaso il regno alla madre, fu
tradita da Teodato, il quale era stato da lei chiamato perché
l'aiutasse governare il regno.
Costui, avendola morta e fatto sé
re, e per questo sendo diventato odioso agli Ostrogoti, dette animo a
Iustiniano imperadore di credere poterlo cacciare di Italia, e deputò
Bellisario per capitano di quella impresa; il quale aveva già
vinta l'Affrica, e cacciatine i Vandali, e riduttola sotto lo
Imperio.
Occupò dunque Bellisario la Sicilia, e di quivi,
passato in Italia, occupò Napoli e Roma.
I Goti, veduta questa
rovina, ammazzorono Teodato loro re, come cagione di quella, ed
elessono in suo luogo Vitigete, il quale, dopo alcune zuffe, fu da
Bellisario assediato e preso in Ravenna.
E non avendo ancora al tutto
conseguito la vittoria, fu Bellisario da Iustiniano revocato, e in
suo luogo posto Giovanni e Vitale, disformi in tutto a quello di
virtù e di costumi; di modo che i Goti ripresono animo e
creorono loro re Ildovado, che era governatore in Verona.
Dopo
costui, perché fu ammazzato, pervenne il regno a Totila, il
quale ruppe le genti dello Imperadore, e recuperò la Toscana e
Napoli e ridusse i suoi capitani quasi che allo ultimo di tutti gli
stati che Bellisario avea recuperati.
Per la qual cosa parve a
Iustiniano di rimandarlo in Italia.
Il quale, ritornato con poche
forze, perdé più tosto la reputazione delle cose prima
fatte da lui, che di nuovo ne riacquistasse; perché Totila
trovandosi Bellisario con le genti ad Ostia, sopra gli occhi suoi
espugnò Roma; e veggendo non potere né lasciare né
tenere quella, in maggiore parte la disfece, e caccionne il popolo, e
i senatori ne menò seco, e stimando poco Bellisario, ne andò
con lo esercito in Calavria, a rincontrare gente che, di Grecia, in
aiuto di Bellisario venivano.
Veggendo per tanto Bellisario
abbandonata Roma, si volse ad una impresa onorevole, perché,
entrato nelle romane rovine, con quanta più celerità
potette, rifece a quella città le mura, e vi richiamò
dentro gli abitatori.
Ma a questa sua lodevole impresa si oppose la
fortuna, perché Iustiniano fu, in quel tempo, assalito da'
Parti, e richiamò Bellisario; e quello, per ubbidire al suo
signore, abbandonò la Italia; e rimase quella provincia a
discrezione di Totila, il quale di nuovo prese Roma.
Ma non fu con
quella crudeltà trattata che prima, perché, pregato da
san Benedetto, il quale in quelli tempi aveva di santità
grandissima opinione, si volse più tosto a rifarla.
Iustiniano
intanto aveva fatto accordo con i Parti, e pensando di mandare nuova
gente al soccorso di Italia, fu dagli Sclavi, nuovi popoli
settentrionali, ritenuto, i quali avieno passato il Danubio e
assalito la Illiria e la Tracia; in modo che Totila quasi tutta la
occupò.
Ma, vinti che ebbe Iustiniano gli Sclavi, mandò
in Italia con gli eserciti Narsete, eunuco, uomo in guerra
eccellentissimo; il quale, arrivato in Italia ruppe e ammazzò
Totila, e le reliquie che de' Goti dopo quella rotta rimasero si
ridussero in Pavia, dove creorono Teia loro re.
Narsete dall'altra
parte dopo la vittoria, prese Roma, e in ultimo si azzuffò con
Teia, presso a Nocera, e quello ammazzò e ruppe.
Per la quale
vittoria si spense al tutto il nome de' Goti in Italia, dove settanta
anni, da Teoderigo loro re a Teia, avevono regnato.
7
Ma,
come prima fu libera l'Italia dai Goti, Iustiniano morì, e
rimase suo successore Iustino suo figliuolo, il quale, per il
consiglio di Sofia sua moglie, rivocò Narsete di Italia e gli
mandò Longino suo successore.
Seguitò Longino l'ordine
degli altri, di abitare in Ravenna; e oltre a questo dette alla
Italia nuova forma, perché non costituì governatori di
provincie, come avevano fatto i Goti, ma fece, in tutte le città
e terre di qualche momento, capi i quali chiamò duchi.
Né
in tale distribuzione onorò più Roma che le altre
terre; perché, tolto via i consoli e il senato, i quali nomi
insino a quel tempo vi si erano mantenuti, la ridusse sotto un duca,
il quale ciascuno anno da Ravenna vi si mandava, e chiamavasi il
ducato romano; e a quello che per lo imperadore stava a Ravenna e
governava tutta Italia pose nome esarco.
Questa divisione fece più
facile la rovina di Italia, e con più celerità dette
occasione a' Longobardi di occuparla.
8
Era
Narsete sdegnato forte contro allo Imperadore, per essergli stato
tolto il governo di quella provincia che con la sua virtù e
con il suo sangue aveva acquistata, perché a Sofia non bastò
ingiuriarlo rivocandolo, che la vi aggiunse ancora parole piene di
vituperio, dicendo che lo voleva far tornare a filare con gli altri
eunuchi, tanto che Narsete ripieno di sdegno, persuase ad Alboino re
de' Longobardi, che allora regnava in Pannonia, di venire ad occupare
la Italia.
Erano, come di sopra si mostrò entrati i Longobardi
in quelli luoghi presso al Danubio, che erano dagli Eruli e Turingi
stati abbandonati, quando da Odeacre loro re furono condotti in
Italia; dove sendo stati alcuno tempo, e pervenuto il regno loro ad
Alboino, uomo efferato e audace, passorono il Danubio e si
azzufforono con Commundo re de' Zepidi, che teneva la Pannonia, e lo
vinsono.
E trovandosi nella preda Rosmunda, figliuola di Commundo, la
prese Alboino per moglie, e si insignorì di Pannonia; e mosso
dalla sua efferata natura, fece del teschio di Commundo una tazza,
con la quale in memoria di quella vittoria beeva.
Ma, chiamato in
Italia da Narsete, con il quale nella guerra de' Goti aveva tenuto
amicizia, lasciò la Pannonia agli Unni, i quali dopo la morte
di Attila dicemmo essersi nella loro patria ritornati, e ne venne in
Italia; e trovando quella in tante parti divisa, occupò in un
tratto Pavia, Milano, Verona, Vicenza, tutta la Toscana, e la maggior
parte di Flamminia, chiamata oggi Romagna.
Talché parendogli,
per tanti e sì subiti acquisti, avere già la vittoria
di Italia, celebrò in Verona uno convito; e per il molto bere
diventato allegro, sendo il teschio di Commundo pieno di vino, lo
fece presentare a Rosismunda regina, la quale allo incontro di lui
mangiava, dicendo con voce alta, in modo che quella potette udire,
che voleva che, in tanta allegrezza, la bevesse con suo padre.
La
quale voce fu come una ferita nel petto di quella donna; e deliberata
di vendicarsi, sappiendo che Elmelchilde, nobile lombardo giovine e
feroce, amava una sua ancilla, trattò con quella che
celatamente desse opera che Elmelchilde, in suo scambio, dormisse con
lei.
Ed essendo Elmelchilde, secondo l'ordine di quella, venuto a
trovarla in loco oscuro, credendosi essere con l'ancilla, iacé
con Rosismunda.
La quale, dopo il fatto, se gli scoperse, e,
mòstrogli come in suo arbitrio era o ammazzare Alboino e
godersi sempre lei e il regno, o essere morto da quello come
stupratore della sua moglie, consentì Almelchilde di ammazzare
Alboino.
Ma, di poi che eglino ebbono morto quello, veggendo come non
riusciva loro di occupare il regno, anzi dubitando di non essere
morti da' Longobardi per lo amore che ad Alboino portavano, con tutto
il tesoro regio se ne fuggirono a Ravenna, a Longino, il quale
onorevolmente gli ricevette.
Era morto, in questi travagli, Iustino
imperadore, e in suo luogo rifatto Tiberio, il quale, occupato nelle
guerre de' Parti, non poteva alla Italia suvvenire; onde che a
Longino parve il tempo commodo a potere diventare, mediante
Rosismunda e il suo tesoro, re de' Longobardi e di tutta Italia; e
conferì con lei questo suo disegno e le persuase ad ammazzare
Elmelchilde e pigliare lui per marito.
Il che fu da quella accettato;
e ordinò una coppa di vino avvelenato, la quale di sua mano
porse ad Elmelchilde, che assetato usciva del bagno.
Il quale, come
la ebbe beuta mezza, sentendosi commuovere le interiori, e
accorgendosi di quello che era, sforzò Rosismunda a bere il
resto; e così, in poche ore, l'uno e l'altro di loro morirono,
e Longino si privò di speranza di diventare re.
I Longobardi
intanto, ragunatisi in Pavia, la quale avevano fatta principale sedia
del loro regno, feciono Clefi loro re; il quale riedificò
Imola, stata rovinata da Narsete, occupò Rimino e, infino a
Roma, quasi ogni luogo; ma nel corso delle sue vittorie morì.
Questo Clefi fu in modo crudele, non solo contro agli esterni, ma
ancora contro ai suoi Longobardi, che quegli, sbigottiti della
potestà regia, non vollono rifare più re; ma feciono
intra loro trenta duchi, che governassero gli altri.
Il quale
consiglio fu cagione che i Longobardi non occupassero mai tutta
Italia, e che il regno loro non passasse Benevento, e che Roma,
Ravenna, Cremona, Mantova, Padova, Monselice, Parma, Bologna, Faenza,
Furlì, Cesena, parte si difendessero un tempo, parte non
fussero mai da loro occupate.
Perché non avere re li fece meno
pronti alla guerra; e poi che rifeciono quello, diventorono, per
essere stati liberi un tempo, meno ubbidienti e più atti alle
discordie infra loro, la qual cosa, prima ritardò la loro
vittoria, di poi, in ultimo, gli cacciò di Italia.
Stando
adunque i Longobardi in questi termini, i Romani e Longino ferno
accordo con loro, che ciascuno posasse l'armi e godesse quello che
possedeva.
9
In
questi tempi cominciorono pontefici a venire in maggiore autorità
che non erano stati per lo adietro; perché i primi dopo san
Piero, per la santità della vita e per i miracoli, erano dagli
uomini reveriti; gli esempli de' quali ampliorono in modo la
religione cristiana, che i principi furono necessitati, per levare
via tanta confusione che era nel mondo, ubbidire a quella.
Sendo
adunque lo imperadore diventato cristiano, e partitosi di Roma e
gitone in Gonstantinopoli, ne seguì, come nel principio
dicemmo, che lo imperio romano rovinò più presto e la
chiesa romana più presto crebbe.
Nondimeno, infino alla venuta
de' Longobardi, sendo la Italia sottoposta tutta o agli imperatori o
ai re, non presono mai i pontefici, in quelli tempi, altra autorità
che quella che dava loro la reverenza de' loro costumi e della loro
dottrina: nelle altre cose o agli imperadori o ai re ubbidivano, e
qualche volta da quelli furono morti, e come loro ministri nelle
azioni loro operati.
Ma quello che gli fece diventare di maggiore
momento nelle cose di Italia fu Teoderigo re de' Goti, quando pose la
sua sedia in Ravenna; perché, rimasa Roma sanza principe, i
Romani avevono cagione, per loro refugio, di prestare più
ubbidienza al papa: nondimeno per questo la loro autorità non
crebbe molto; solo ottenne di essere la chiesa di Roma preposta a
quella di Ravenna.
Ma, venuti i Lombardi, e ridutta Italia in più
parti, dettono cagione al papa di farsi più vivo; perché,
sendo quasi che capo in Roma, lo imperadore di Gonstantinopoli e i
Lombardi gli avevono rispetto, talmente che i Romani, mediante il
papa, non come subietti, ma come compagni con i Longobardi e con
Longino si collegarono.
E così, seguitando i papi ora di
essere amici de' Lombardi, ora de' Greci, la loro dignità
accrescevano.
Ma, seguita di poi la rovina dello imperio orientale
(la quale seguì in questi tempi, sotto Eracleo imperadore;
perché i popoli Sclavi, de' quali facemmo di sopra menzione,
assaltorono di nuovo la Illiria, e quella, occupata, chiamorono dal
nome loro Schiavonia; e l'altre parti di quello imperio furono prima
assaltate da' Persi, di poi dai Saracini, i quali sotto Maumetto
uscirno d'Arabia, e in ultimo da' Turchi, e toltogli la Soria,
l'Affrica e lo Egitto), non restava al papa, per la impotenza di
quello imperio, più commodità di potere rifuggire a
quello nelle sue oppressioni; e dall'altro canto, crescendo le forze
de' Longobardi, pensò che gli bisognava cercare nuovi favori,
e ricorse in Francia a quelli re.
Di modo che tutte le guerre che,
dopo a questi tempi, furono da' barbari fatte in Italia furono in
maggior parte dai pontefici causate; e tutti i barbari che quella
inundorono furono il più delle volte da quegli chiamati.
Il
quale modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi; il che ha
tenuto e tiene la Italia disunita e inferma.
Per tanto, nel
descrivere le cose seguite da questi tempi ai nostri, non si
dimosterrà più la rovina dello Imperio, che è
tutto in terra, ma lo augumento de' pontefici e di quegli altri
principati che di poi la Italia, infino alla venuta di Carlo VIII,
governorono.
E vedrassi come i papi, prima con le censure, di poi con
quelle e con le armi insieme, mescolate con le indulgenzie, erano
terribili e venerandi; e come, per avere usato male l'uno e l'altro,
l'uno hanno al tutto perduto, dell'altro stanno a discrezione
d'altri.
10
Ma,
ritornando all'ordine nostro, dico come al papato era pervenuto
Gregorio III e al regno de' Longobardi Aistulfo, il quale, contro
agli accordi fatti, occupò Ravenna e mosse guerra al Papa.
Per
la qual cosa Gregorio, per le cagioni sopra scritte, non confidando
più nello imperadore di Gonstantinopoli per essere debole, né
volendo credere alla fede de' Lombardi, che la avieno molte volte
rotta, ricorse in Francia, a Pipino II, il quale, di signore di
Austrasia e Brabante, era diventato re di Francia, non tanto per la
virtù sua, quanto per quella di Carlo Martello suo padre e di
Pipino suo avolo.
Perché Carlo Martello, sendo governatore di
quello regno, dette quella memorabile rotta a' Saraceni presso a
Torsi, in sul fiume dell'Era, dove furono morti più che
dugento milia di loro; donde Pipino suo figliuolo, per la reputazione
del padre e virtù sua, diventò poi re di quel regno.
Al
quale papa Gregorio, come è detto, mandò per aiuti
contro a' Longobardi: a cui Pipino promesse mandargli; ma che
desiderava prima vederlo e alla presenza onorarlo.
Per tanto Gregorio
ne andò in Francia, e passò per le terre de' Lombardi
suoi nimici, sanza che lo impedissero: tanta era la reverenzia che si
aveva alla religione.
Andato adunque Gregorio in Francia, fu da quel
Re onorato e rimandato con i suoi eserciti in Italia; i quali
assediarono i Longobardi in Pavia.
Onde che Aistulfo, constretto da
necessità, si accordò con i Franciosi, e quelli feciono
lo accordo per i prieghi del Papa, il quale non volse la morte del
suo nimico, ma che si convertisse e vivesse: nel quale accordo
Aistulfo promisse rendere alla Chiesa tutte le terre che le aveva
occupate.
Ma, ritornate le genti di Pipino in Francia, Aistulfo non
osservò lo accordo, e il Papa di nuovo ricorse a Pipino; il
quale di nuovo mandò in Italia, vinse i Longobardi e prese
Ravenna; e contro alla voglia dello imperadore greco, la dette al
Papa con tutte quelle altre terre che erano sotto il suo esarcato, e
vi aggiunse il paese di Urbino e la Marca.
Ma Aistulfo, nel
consegnare queste terre, morì, e Desiderio lombardo, che era
duca di Toscana, prese le armi per occupare il regno, e domandò
aiuto al Papa, promettendogli la amicizia sua; e quello gliene
concesse, tanto che gli altri principi cederono.
E Desiderio osservò
nel principio la fede, e seguì di consegnare le terre al
Pontefice, secondo le convenzioni fatte con Pipino: né venne
più esarco da Gostantinopoli in Ravenna; ma si governava
secondo la voglia del pontefice.
11
Morì
di poi Pipino, e successe nel regno Carlo suo figliuolo, il quale fu
quello che per la grandezza delle cose fatte da lui, fu nominato
Magno.
Al papato intanto era successo Teodoro I.
Costui venne in
discordia con Desiderio e fu assediato in Roma da lui; talché
il Papa ricorse per aiuti a Carlo, il quale, superate le Alpi,
assediò Desiderio in Pavia, e prese lui e i figliuoli, e li
mandò prigioni in Francia; e ne andò a vicitare il Papa
a Roma, dove giudicò che il papa, vicario di Dio, non potesse
essere dagli uomini giudicato; e il Papa e il popolo romano lo
feciono imperadore.
E così Roma ricominciò ad avere lo
imperadore in occidente; e dove il papa soleva essere raffermo dagli
imperadori, cominciò lo imperadore, nella elezione, ad avere
bisogno del papa, e veniva lo Imperio a perdere i gradi suoi, e la
Chiesa ad acquistargli; e per questi mezzi sempre sopra i principi
temporali cresceva la sua autorità.
Erano stati i Longobardi
dugentotrentadue anni in Italia, e di già non ritenevano di
forestieri altro che il nome: e volendo Carlo riordinare la Italia,
il che fu al tempo di papa Leone III, fu contento abitassero in
quegli luoghi dove si erano nutriti, e si chiamasse quella provincia,
dal nome loro, Lombardia.
E perché quelli avessero il nome
romano in reverenzia, volle che tutta quella parte di Italia a loro
propinqua, che era sottoposta allo esarcato di Ravenna si chiamasse
Romagna.
E oltre a questo creò Pipino suo figliuolo re di
Italia; la iurisdizione del quale si estendeva infino a Benevento; e
tutto il resto possedeva lo imperadore greco, con il quale Carlo
aveva fatto accordo.
Pervenne in questi tempi al pontificato Pascale
I, e i parrocchiani delle chiese di Roma, per essere più
propinqui al papa e trovarsi alla elezione di quello, per ornare la
loro potestà con uno splendido titolo, si cominciorono a
chiamare cardinali; e si arrogorono tanta reputazione, massime poi
che gli esclusono il popolo romano dallo eleggere il pontefice, che
rade volte la elezione di quello usciva del numero loro; onde, morto
Pascale, fu creato Eugenio II, del titulo di santa Sabina.
E la
Italia, poi che la fu in mano de' Franciosi, mutò in parte
forma e ordine, per avere preso il papa nel temporale più
autorità, e avendo quegli condotto in essa il nome de' conti e
de' marchesi, come prima da Longino, esarco di Ravenna, vi erano
stati posti i nomi de' duchi.
Pervenne dopo alcuno pontefice, al
papato Osporco romano, il quale, per la bruttura del nome, si fece
chiamare Sergio; il che dette principio alla mutazione de' nomi, che
fanno nelle loro elezioni i pontefici.
12
Era
intanto morto Carlo imperadore, al quale successe Lodovico suo
figliuolo; dopo la morte del quale nacquero intra i suoi figliuoli
tante differenzie che, al tempo de' nipoti suoi, fu tolto alla casa
di Francia lo imperio, e ridutto nella Magna; e chiamossi il primo
imperadore tedesco Ainulfo.
Né solamente la famiglia de'
Carli, per le sue discordie, perdé lo imperio, ma ancora il
regno di Italia; perché i Lombardi ripresono le forze, e
offendevono il papa e i Romani; tanto che il pontefice, non vedendo a
chi si rifuggire, creò, per necessità, re di Italia
Berengario, duca nel Friuoli.
Questi accidenti dettono animo agli
Unni, che si trovavano in Pannonia, di assaltare la Italia; e venuti
alle mani con Berengario, furono forzati tornarsi in Pannonia, o vero
in Ungheria, ché così quella provincia, da loro, si
nominava.
Romano era in questi tempi imperadore in Grecia, il quale
aveva tolto lo imperio a Gostantino, sendo prefetto della sua armata.
E perché se gli era in tale novitate, ribellata la Puglia e la
Calavria, che allo imperio suo, come di sopra dicemmo, ubbidivano,
sdegnato per tale rebellione, permesse a' Saraceni che passassero in
que' luoghi; i quali, venuti, e prese quelle provincie, tentorono di
espugnare Roma.
Ma i Romani, perché Berengario era occupato in
defendersi dagli Unni, feciono loro capitano Alberigo duca di
Toscana, e mediante la virtù di quello, salvorono Roma da'
Saraceni.
I quali, partiti da quello assedio, feciono una rocca sopra
il monte Galgano, e di quivi signoreggiavano la Puglia e la Calavria,
e il resto di Italia battevono.
E così veniva la Italia, in
questi tempi, ad essere maravigliosamente afflitta, sendo combattuta
di verso l'Alpi dagli Unni e di verso Napoli da' Saraceni.
Stette la
Italia in questi travagli molti anni, e sotto tre Berengari, che
successono l'uno all'altro; nel qual tempo il papa e la Chiesa era ad
ogni ora perturbata, non avendo dove ricorrere, per la disunione de'
principi occidentali e per la impotenzia degli orientali.
La città
di Genova e tutte le sue riviere furono, in questi tempi, da'
Saraceni disfatte, donde ne nacque la grandezza della città di
Pisa, nella quale assai popoli, cacciati della patria sua, ricorsono.
Le quali cose seguirono negli anni della cristiana religione 931.
Ma,
fatto imperadore Ottone, figliuolo di Errico e di Mattelda, duca di
Sassonia, uomo prudente e di grande reputazione, Agabito papa si
volse a pregarlo venisse in Italia, a trarla di sotto alla tirannide
de' Berengari.
13
Erano
gli stati di Italia, in questi tempi, così ordinati: la
Lombardia era sotto a Berengario III e Alberto suo figliuolo; la
Toscana e la Romagna per uno ministro dello imperadore occidentale
era governata; la Puglia e la Calavria parte allo imperadore greco
parte a' Saraceni ubbidiva; in Roma si creavano ciascuno anno duoi
consoli della nobilità, i quali secondo lo antico costume la
governavano; aggiugnevasi a questo uno prefetto, che rendeva ragione
al popolo; avevano un consiglio di dodici uomini, i quali
distribuivano i rettori, ciascuno anno, per le terre a loro
sottoposte.
Il papa aveva, in Roma e in tutta Italia, più o
meno autorità, secondo che erano i favori delli imperadori, o
di quelli che erano più potenti in essa.
Ottone imperadore,
adunque, venne in Italia e tolse il regno a' Berengari, che avevono
regnato in quella cinquantacinque anni, e restituì le sue
dignità al pontefice.
Ebbe costui uno figliuolo e uno nipote,
chiamati ancora loro Ottone, i quali, l'uno apresso l'altro,
successono dopo di lui allo Imperio.
E al tempo di Ottone III, papa
Gregorio V fu cacciato dai Romani; donde che Ottone venne in Italia e
rimisselo in Roma; e il Papa, per vendicarsi con i Romani, tolse a
quelli la autorità di creare lo imperadore, e la dette a sei
principi della Magna: tre vescovi, Magonza, Treveri e Colonia; e tre
principi, Brandiborgo, Palatino e Sassonia: il che seguì nel
1002.
Dopo la morte di Ottone III, fu dagli Elettori creato
imperadore Errico, duca di Baviera, il quale, dopo dodici anni, fu da
Stefano VIII incoronato.
Erano Errico e Simeonda sua moglie di
santissima vita; il che si vede per molti templi dotati e edificati
da loro, intra i quali fu il tempio di San Miniato, propinquo alla
città di Firenze.
Morì Errico nel 1024; al quale
successe Currado di Svevia, a cui, di poi, Errico II.
Costui venne a
Roma; e perché egli era scisma nella Chiesa, di tre papi, gli
disfece tutti, e fece eleggere Chimenti II, dal quale fu coronato
imperadore.
14
Era
allora governata Italia parte dai popoli, parte dai principi, parte
dai mandati dallo imperadore, de' quali il maggiore, e a cui gli
altri riferivano si chiamava Cancellario.
Intra i principi il più
potente era Gottifredi e la contessa Mattelda sua donna, la quale era
nata di Beatrice, sirocchia di Errico II.
Costei e il marito
possedevano Lucca, Parma, Reggio e Mantova, con tutto quello che oggi
si chiama il Patrimonio.
A' pontefici faceva allora assai guerra
l'ambizione del popolo romano, il quale, in prima, si era servito
della autorità di quelli per liberarsi dagli imperadori; di
poi che gli ebbe preso il dominio della città, e riformata
quella secondo che a lui parve, subito diventò nimico a'
pontefici; e molte più ingiurie riceverno quegli da quel
popolo, che da alcuno altro principe cristiano.
E ne' tempi che i
papi facevono tremare con le censure tutto il Ponente, avevono il
popolo romano ribelle, né qualunque di essi aveva altro
intento che torre la reputazione e la autorità l'uno
all'altro.
Venuto, adunque, al pontificato Niccolao II, come Gregorio
V tolse ai Romani il potere creare lo imperadore, così
Niccolao gli privò di concorrere alla creazione del papa, e
volle che, solo la elezione di quello appartenessi ai cardinali.
Né
fu contento a questo, ché convenuto con quelli principi che
governavano la Calavria e la Puglia, per le cagioni che poco di poi
direno, costrinse tutti gli ufficiali mandati dai Romani per la loro
iurisdizione a rendere ubidienzia al papa, e alcuni ne privò
del loro ufizio.
15
Fu,
dopo la morte di Niccolao, scisma nella Chiesa, perché il
clero di Lombardia non volle prestare ubbidienza ad Alessandro II,
eletto a Roma, e creò Cadolo da Parma antipapa.
Errico che
aveva in odio la potenzia de' pontefici, fece intendere a papa
Alessandro che renunziasse al pontificato, e ai cardinali che
andassero nella Magna a creare uno nuovo pontefice.
Onde che fu il
primo principe che cominciasse a sentire di quale importanza fussero
le spirituali ferite, perché il Papa fece uno concilio a Roma,
e privò Errico dello Imperio e del regno.
E alcuni popoli
italiani seguirono il Papa, e alcuni Errico; il che fu seme degli
umori guelfi e ghibellini, acciò che la Italia, mancate le
inundazioni barbare, fusse dalle guerre intestine lacerata.
Errico
adunque, sendo scomunicato, fu costretto da' suoi popoli a venire in
Italia e, scalzo, inginocchiarsi al Papa e domandargli perdono: il
che seguì l'anno 1080.
Nacque nondimeno poco di poi, nuova
discordia intra il Papa ed Errico; onde che il Papa di nuovo lo
scomunicò, e lo Imperadore mandò il suo figliuolo,
chiamato ancora Errico, con esercito, a Roma, e con lo aiuto de'
Romani, che avevano in odio il Papa, lo assediò nella
fortezza; onde che Ruberto Guiscardo venne di Puglia a soccorrerlo,
ed Errico non lo aspettò, ma se ne tornò nella Magna.
Solo i Romani stettono nella loro ostinazione, tale che Roma ne fu di
nuovo da Ruberto saccheggiata e riposta nelle antiche rovine, dove da
più pontefici era innanzi stata instaurata.
E perché da
questo Ruberto nacque l'ordine del regno di Napoli, non mi pare
superfluo narrare particularmente le azioni e nazione di quello.
16
Poi
che venne disunione intra li eredi di Carlo Magno, come di sopra
abbiamo dimostro, si dette occasione a nuovi popoli settentrionali,
detti Normandi, di venire ad assalire la Francia e occuporono quel
paese il quale oggi da loro, è detto Normandìa.
Di
questi popoli una parte ne venne in Italia ne' tempi che quella
provincia da' Berengarii, da' Saraceni e dagli Unni era infestata, e
occuporono alcune terre in Romagna, dove, intra quelle guerre,
virtuosamente si mantennono.
Di Tancredi, uno di questi principi
normandi, nacquono più figliuoli, intra i quali fu Guglielmo,
nominato Ferabac, e Ruberto, detto Guiscardo.
Era pervenuto il
principato a Guglielmo, e i tumulti di Italia in qualche parte erano
cessati; nondimeno i Saraceni tenevono la Sicilia e ogni dì
scorrevono i liti di Italia; per la qual cosa Guglielmo convenne con
il principe di Capua e di Salerno e con Melorco greco, che per lo
imperadore di Grecia governava la Puglia e la Calavria, di assaltare
la Sicilia, e, seguendone la vittoria, si accordorono che qualunche
di loro della preda e dello stato dovesse per la quarta parte
participare.
Fu la impresa felice; e cacciati i Saraceni, occuporono
la Sicilia.
Dopo la quale vittoria, Melorco fece venire secretamente
gente di Grecia, e prese la possessione dell'isola per lo imperadore,
e solamente divise la preda.
Di che Guglielmo fu male contento; ma si
riserbò a tempo più commodo a dimostrarlo; e si partì
di Sicilia insieme con i principi di Salerno e di Capua.
I quali come
furono partiti da lui per tornarsene a casa, Guglielmo non ritornò
in Romagna, ma si volse con le sue genti verso Puglia, e subito
occupò Melfi, e quindi, in breve tempo, contro alle forze
dello imperadore greco, si insignorì quasi che di tutta Puglia
e di Calavria, nelle quali provincie signoreggiava, al tempo di
Niccolao II, Ruberto Guiscardo suo fratello.
E perché gli
aveva avute assai differenze con i suoi nipoti per la eredità
di quelli stati, usò l'autorità del Papa a comporle; il
che fu da il Papa esequito volentieri, desideroso di guadagnarsi
Ruberto, acciò che contro agli imperadori tedeschi e contro
alla insolenzia del popolo romano lo difendesse; come lo effetto ne
seguì, secondo che di sopra abbiamo dimostro, che ad instanzia
di Gregorio VII, cacciò Errico di Roma e quello popolo domò.
A Ruberto successono Ruggieri e Guglielmo, suoi figliuoli; allo stato
de' quali si aggiunse Napoli e tutte le terre che sono da Napoli a
Roma, e di poi la Sicilia; delle quali si fece signore Ruggieri.
Ma
Guglielmo, di poi, andando in Gonstantinopoli per prendere per moglie
la figliuola dello Imperadore, fu da Ruggieri assalito, e toltogli lo
stato.
E insuperbito per tale acquisto, si fece prima chiamare re di
Italia; di poi, contento del titolo di re di Puglia e di Sicilia, fu
il primo che desse nome e ordine a quel regno; il quale ancora oggi
intra gli antichi termini si mantiene, ancora che più volte
abbia variato, non solamente sangue, ma nazione; perché,
venuta meno la stirpe de' Normandi, si trasmutò quel regno ne'
Tedeschi, da quelli ne' Franciosi, da costoro negli Aragonesi, e oggi
è posseduto dai Fiamminghi.
17
Era
pervenuto al pontificato Urbano II, il quale era in Roma odiato; e
non gli parendo anche potere stare, per le disunioni, in Italia
securo, si volse ad una generosa impresa, e se ne andò in
Francia con tutto il clero, e ragunò in Auverna molti popoli,
a' quali fece una orazione contro agli infideli; per la quale intanto
accese gli animi loro, che deliberorono di fare la impresa di Asia
contro a' Saraceni; la quale impresa con tutte le altre simili furono
di poi chiamate Crociate, perché tutti quelli che vi andorono
erano segnati sopra le armi e sopra i vestimenti di una croce rossa.
I principi di questa impresa furono Gottifredi, Eustachio e Balduino
di Buglò, conti di Bologna, e uno Pietro Eremita, per santità
e prudenza celebrato; dove molti re e molti popoli concorsono con
danari, e molti privati senza alcuna mercede militorono: tanto allora
poteva negli animi degli uomini la religione, mossi dallo esemplo di
quelli che ne erano capi.
Fu questa impresa nel principio gloriosa,
perché tutta l'Asia Minore, la Soria e parte dello Egitto
venne nella potestà de' Cristiani; mediante la quale nacque
l'ordine de' cavalieri di Ierosolima, il quale oggi ancora regna, e
tiene l'isola di Rodi, rimasa unico ostaculo alla potenzia de'
Maumettisti.
Nacquene ancora l'ordine de' Templari, il quale dopo
poco tempo, per li loro cattivi costumi venne meno.
Seguirno in varii
tempi varii accidenti, dove molte nazioni e particulari uomini furono
celebrati.
Passò in aiuto di quella impresa, il re di Francia,
il re di Inghilterra, e i popoli pisani, viniziani e genovesi vi
acquistorono reputazione grandissima; e con varia fortuna insino a'
tempi del Saladino saraceno combatterono, la virtù del quale e
la discordia de' Cristiani tolse alla fine loro tutta quella gloria
che si avevono nel principio acquistata, e furono dopo novanta anni
cacciati di quello luogo ch'eglino avevono con tanto onore
felicemente recuperato.
18
Dopo
la morte di Urbano, fu creato pontefice Pascale II, e allo Imperio
era pervenuto Errico IV.
Costui venne a Roma, fingendo di tenere
amicizia col Papa; di poi il Papa e tutto il clero misse in prigione;
né mai lo liberò, se prima non gli fu concesso di
potere disporre delle chiese della Magna come a lui pareva.
Morì,
in questi tempi, la contessa Matelda, e lasciò erede di tutto
il suo stato la Chiesa.
Dopo la morte di Pascale e di Errico IV,
seguirono più papi e più imperadori, tanto che il
papato pervenne ad Alessandro III, e lo Imperio a Federigo Svevo,
detto Barbarossa.
Avevano avuto i pontefici, in quelli tempi, con il
popolo romano e con gli imperadori molte difficultà, le quali
al tempo del Barbarossa assai crebbero.
Era Federigo uomo eccellente
nella guerra, ma pieno di tanta superbia che non poteva sopportare di
avere a cedere al Pontefice; nondimeno nella sua elezione venne a
Roma per la corona, e pacificamente si tornò nella Magna.
Ma
poco stette in questa opinione, perché tornò in Italia
per domare alcune terre in Lombardia che non lo ubbidivano; nel quale
tempo occorse che il cardinale di S.
Clemente, di nazione romano, si
divise da papa Alessandro, e da alcuni cardinali fu fatto papa.
Trovavasi in quel tempo Federigo imperadore a campo a Crema; con il
quale dolendosi Alessandro dello Antipapa, gli rispose che l'uno e
l'altro andasse a trovarlo e allora giudicherebbe chi di loro fussi
papa.
Dispiacque questa risposta ad Alessandro; e perché lo
vedeva inclinato a favorire l'Antipapa, lo scomunicò e se ne
fuggì a Filippo re di Francia.
Federigo intanto, seguitando la
guerra in Lombardia, prese e disfece Milano, la qual cosa fu cagione
che Verona, Padova e Vicenza si unirono contro a di lui, a difesa
comune.
In questo mezzo era morto lo Antipapa, donde che Federigo
creò in suo luogo Guido da Cremona.
I Romani, in questi tempi,
per la assenza del Papa e per gl'impedimenti che lo Imperadore aveva
in Lombardia, avevono ripreso in Roma alquanto di autorità, e
andavano ricognoscendo la ubbidienza delle terre che solevono essere
loro subiette.
E perché i Tusculani non vollono cedere alla
loro autorità, gli andorono popularmente a trovare; i quali
furono soccorsi da Federigo, e ruppono lo esercito de' Romani con
tanta strage che Roma non fu mai poi né populata né
ricca.
Era intanto tornato papa Alessandro in Roma, parendogli
potervi stare sicuro per la inimicizia avevono i Romani con Federigo,
e per li nimici che quello aveva in Lombardia.
Ma Federigo, posposto
ogni rispetto, andò a campo a Roma; dove Alessandro non lo
aspettò, ma se ne fuggì a Guglielmo re di Puglia,
rimaso erede di quel regno dopo la morte di Ruggieri.
Ma Federigo,
cacciato dalla peste, lasciò la obsidione, e se ne tornò
nella Magna; e le terre di Lombardia le quali erano congiurate contro
a di lui per potere battere Pavia e Tortona, che tenevono le parti
imperiali, edificorono una città che fusse sedia di quella
guerra; la quale nominarono Alessandria in onore di Alessandro papa e
in vergogna di Federigo.
Morì ancora Guidone antipapa, e fu
fatto in suo luogo Giovanni da Fermo, il quale per i favori delle
parti dello Imperadore si stava in Montefiasconi.
19
Papa
Alessandro, in quel mezzo, se ne era ito in Tusculo, chiamato da quel
popolo, acciò che con la sua autorità lo difendesse dai
Romani; dove vennono a lui oratori mandati da Errico re di
Inghilterra a significargli che della morte del beato Tommaso,
vescovo di Conturbia, il loro re non aveva alcuna colpa, sì
come publicamente ne era stato infamato.
Per la qual cosa il Papa
mandò duoi cardinali in Inghilterra a ricercare la verità
della cosa; i quali, ancora che non trovassino il Re in manifesta
colpa, nondimeno, per la infamia del peccato e per non lo avere
onorato come egli meritava, gli dettono per penitenza che, chiamati
tutti i baroni del regno, con giuramento alla presenza loro si
scusasse e inoltre mandasse subito dugento soldati in Ierusalem,
pagati per uno anno, ed esso fussi obligato, con quello esercito che
potesse ragunare maggiore, personalmente, avanti che passassero tre
anni, andarvi, e che dovesse annullare tutte le cose fatte nel suo
regno in disfavore della libertà ecclesiastica, e dovesse
acconsentire che qualunche suo subietto potesse, volendo, appellare a
Roma.
Le quali cose furono tutte da Elrico accettate; e sottomessesi
a quello iudizio un tanto re, che oggi uno uomo privato si
vergognerebbe a sottomettervisi.
Nondimeno, mentre che il Papa aveva
tanta autorità ne' principi longinqui, non poteva farsi
ubbidire dai Romani; dai quali non potette impetrare di potere stare
in Roma, ancora che promettesse d'altro che dello ecclesiastico non
si travagliare: tanto le cose che paiono sono più di scosto
che da presso temute.
Era tornato, in questo tempo Federigo in
Italia, e mentre che si preparava a fare nuova guerra al Papa, tutti
i suoi prelati e baroni gli feciono intendere che lo
abbandonerebbono, se non si riconciliava con la Chiesa, di modo che
fu constretto andare ad adorarlo a Vinegia, dove si pacificarono
insieme; e nello accordo il Papa privò lo Imperadore d'ogni
autorità che gli avesse sopra Roma, e nominò Guglielmo
re di Sicilia e di Puglia per suo confederato.
E Federigo, non
potendo stare senza fare guerra, ne andò alla impresa di Asia,
per sfogare la sua ambizione contro a Maumetto, la quale contro a'
vicari di Cristo sfogare non aveva potuto.
Ma arrivato sopra il
fiume..., allettato dalla chiarezza delle acque, vi si lavò
dentro, per il quale disordine morì.
E così l'acque
fecero più favore a' Maumettisti, che le scomuniche a'
Cristiani, perché queste frenorono l'orgoglio suo, e quelle lo
spensono.
20
Morto
Federigo, restava solo al Papa a domare la contumacia de' Romani; e
dopo molte dispute fatte sopra la creazione de' consoli, convennono
che i Romani secondo il costume loro gli eleggessero; ma non
potessero pigliare il magistrato, se prima non giuravano di mantenere
la fede alla Chiesa.
Il quale accordo fece che Giovanni antipapa se
ne fuggì in Monte Albano, dove, poco di poi, si morì.
Era morto in questi tempi, Guglielmo re di Napoli, e il Papa
disegnava di occupare quel regno, per non avere lasciati quel re
altri figliuoli che Tancredi, suo figliuolo naturale; ma i baroni non
consentirono al Papa, ma vollono che Tancredi fusse re.
Era papa,
allora, Celestino III, il quale, desideroso di trarre quel regno
dalle mani di Tancredi, operò che Elrico figliuolo di Federigo
fusse fatto imperadore, e gli promisse il regno di Napoli, con
questo, che restituisse alla Chiesa le terre che a quella
appartenevano.
E per facilitare la cosa, trasse di munistero
Gostanza, già vecchia, figliuola di Guglielmo, e gliene dette
per moglie.
E così passò il regno di Napoli da'
Normandi, che ne erano stati fondatori, ai Tedeschi.
Elrico
imperadore, come prima ebbe composte le cose della Magna, venne in
Italia con Gostanza sua moglie e con uno suo figliuolo di quattro
anni chiamato Federigo, e sanza molta dificultà prese il
Regno, perché di già era morto Tancredi, e di lui era
rimaso un piccolo fanciullo detto Ruggieri.
Morì, dopo alcun
tempo, Elrico, in Sicilia, e successe a lui nel Regno Federigo, e
allo Imperio Ottone duca di Sansogna, fatto per i favori che gli fece
papa Innocenzio III.
Ma come prima ebbe presa la corona, contro ad
ogni opinione, diventò Ottone nimico del Pontefice; occupò
la Romagna, e ordinava di assalire il Regno, per la qual cosa il Papa
lo scomunicò, in modo che fu da ciascheduno abbandonato, e gli
Elettori elessono imperadore Federigo re di Napoli.
Venne Federigo a
Roma per la corona, e il Papa non volle incoronarlo, perché
temeva la sua potenza e cercava di trarlo di Italia, come ne aveva
tratto Ottone; tanto che Federigo sdegnato, ne andò nella
Magna, e fatte più guerre con Ottone, lo vinse.
In quel mezzo
si morì Innocenzio, il quale, oltre alle sue egregie opere,
edificò lo spedale di Santo Spirito in Roma.
Di costui fu
successore Onorio III, al tempo del quale surse l'ordine di San
Domenico e di San Francesco, nel 1218.
Coronò questo pontefice
Federigo, al quale Giovanni disceso di Balduino re di Ierusalem, che
era con le reliquie de' Cristiani in Asia e ancora teneva quel
titulo, dette una sua figliuola per moglie, e con la dota gli
concesse il titulo di quel regno: di qui nasce che qualunche re di
Napoli si intitula re di Ierusalem.
21
In
Italia si viveva allora in questo modo: i Romani non facevano più
consoli, e in cambio di quelli, con la medesima autorità,
facevano quando uno quando più senatori; durava ancora la lega
che avevano fatta le città di Lombardia contro a Federigo
Barbarossa, le quali erano Milano, Brescia, Mantova, con la maggiore
parte delle città di Romagna, e di più Verona, Vicenza,
Padova e Trevigi; nelle parti dello imperadore erano Cremona,
Bergamo, Parma, Reggio, Modena e Trento; le altre città e
castella di Lombardia, di Romagna e della Marca trivigiana
favorivano, secondo la necessità, ora questa ora quella parte.
Era venuto in Italia, al tempo di Ottone III, uno Ecelino, del quale,
rimaso in Italia, nacque uno figliuolo, che generò uno altro
Ecelino.
Costui, sendo ricco e potente, si accostò a Federigo
II il quale, come si è detto, era diventato nimico del Papa; e
venendo in Italia per opera e favore di Ecelino, prese Verona e
Mantova, e disfece Vicenza occupò Padova, e ruppe lo esercito
delle terre collegate, e di poi se ne venne verso Toscana.
Ecelino,
intanto, aveva sottomesso tutta la Marca trivigiana: non potette
espugnare Ferrara, perché fu difesa da Azzone da Esti e dalle
genti che il Papa aveva in Lombardia; donde che, partita la
obsidione, il Papa dette quella città in feudo ad Azzone
Estense, dal quale sono discesi quelli i quali ancora oggi la
signoreggiano.
Fermossi Federigo a Pisa, desideroso di insignorirsi
di Toscana; e nel ricognoscere gli amici e nimici di quella provincia
seminò tanta discordia che fu cagione della rovina di tutta
Italia; perché le parti guelfe e ghibelline multiplicorono,
chiamandosi Guelfi quelli che seguivono la Chiesa, e Ghibellini
quelli che seguivono gli imperadori; e a Pistoia in prima fu udito
questo nome.
Partito Federigo da Pisa, in molti modi assaltò e
guastò le terre della Chiesa, tanto che il Papa, non avendo
altro rimedio, gli bandì la crociata contro, come avevono
fatto gli antecessori suoi contro a' Saraceni.
E Federigo, per non
essere abandonato dalle sue genti ad un tratto, come erano stati
Federigo Barbarossa e altri suoi maggiori, soldò assai
Saraceni; e per obligarseli, e per fare uno ostaculo in Italia fermo
contro alla Chiesa, che non temessi le papali maledizioni, donò
loro Nocera nel Regno, acciò che, avendo uno proprio refugio,
potessero con maggiore securità servirlo.
22
Era
venuto al pontificato Innocenzio IV; il quale, temendo di Federigo,
se ne andò a Genova, e di quivi in Francia; dove ordinò
uno concilio, a Lione, al quale Federigo deliberò di andare.
Ma fu ritenuto dalla rebellione di Parma; dalla impresa della quale
sendo ributtato, se ne andò in Toscana, e di quivi in Sicilia,
dove si morì.
E lasciò in Svevia Currado suo figliuolo,
e in Puglia Manfredi, nato di concubina, il quale aveva fatto duca di
Benevento.
Venne Currado per la possessione del Regno, e arrivato a
Napoli si morì; e di lui rimase Curradino piccolo, che si
trovava nella Magna.
Pertanto Manfredi, prima, come tutore di
Curradino, occupò quello stato; di poi, dando nome che
Curradino era morto, si fece re, contro alla voglia del Papa e de'
Napoletani, i quali fece acconsentire per forza.
Mentre che queste
cose nel Regno si travagliavano, seguirono in Lombardia assai
movimenti intra la parte guelfa e ghibellina.
Per la guelfa era uno
legato del Papa; per la ghibellina Ecelino, il quale possedeva quasi
tutta la Lombardia di là dal Po.
E perché, nel trattare
la guerra, se gli ribellò Padova, fece morire dodici mila
Padovani; e lui, avanti che la guerra terminasse, fu morto, che era
di età di ottanta anni; dopo la cui morte tutte le terre
possedute da lui diventorono libere.
Seguitava Manfredi re di Napoli
le inimicizie contro alla Chiesa secondo i suoi antinati, e tenea il
Papa, che si chiamava Urbano IV, in continue angustie; tanto che il
Pontefice, per domarlo, gli convocò la crociata contro, e ne
andò ad aspettare le genti a Perugia.
E parendogli che le
genti venissero poche, deboli e tarde, pensò che a vincere
Manfredi bisognassero più certi aiuti; e si volse per i favori
in Francia, e creò re di Sicilia e di Napoli Carlo d'Angiò,
fratello di Lodovico re di Francia, e lo citò a venire in
Italia a pigliare quel regno.
Ma prima che Carlo venisse a Roma, il
Papa morì, e fu fatto in suo luogo Clemente IV; al tempo del
quale, Carlo, con trenta galee, venne ad Ostia, e ordinò che
l'altre sue genti venissero per terra.
E nel dimorare che fece in
Roma, i Romani, per gratificarselo, lo feciono senatore, e il Papa lo
investì del Regno, con obligo che dovesse pagare ciascuno anno
alla Chiesa cinquanta milia fiorini; e fece uno decreto che per lo
avvenire né Carlo né altri che tenessero quel regno non
potessero essere imperadori.
E andato Carlo contro a Manfredi, lo
ruppe e ammazzò, propinquo a Benevento, e s'insignorì
di Sicilia e del Regno.
Ma Curradino, a cui per testamento del padre
si apparteneva quello stato, ragunata assai gente nella Magna, venne
in Italia contro a Carlo, con il quale combatté a Tagliacozzo;
e fu prima rotto, e poi, fuggendosi sconosciuto, fu preso e morto.
23
Stette
la Italia quieta, tanto che successe al pontificato Adriano V.
E
stando Carlo a Roma, e quella governando per lo ufizio che gli aveva
del senatore, il Papa non poteva sopportare la sua potenza, e se ne
andò ad abitare a Viterbo, e sollecitava Ridolfo imperadore a
venire in Italia contro a Carlo.
E così i pontefici, ora per
carità della religione, ora per loro propria ambizione, non
cessavano di chiamare in Italia umori nuovi e suscitare nuove guerre;
e poi ch'eglino avieno fatto potente uno principe, se ne pentivano, e
cercavano la sua rovina; né permettevano che quella provincia
la quale per loro debolezza non potevano possedere, che altri la
possedesse.
E i principi ne temevano, perché sempre, o
combattendo o fuggendo, vincevono; se con qualche inganno non erano
oppressi, come fu Bonifazio VIII e alcuni altri, i quali, sotto
colore d'amicizia, furono dagli imperadori presi.
Non venne Ridolfo
in Italia, sendo ritenuto dalla guerra che aveva con il re di Buemia.
In quel mezzo morì Adriano, e fu creato pontefice Niccolao III
di casa Orsina, uomo audace e ambizioso; il quale pensò, ad
ogni modo, di diminuire la potenza di Carlo; e ordinò che
Ridolfo imperadore si dolesse che Carlo teneva uno governatore in
Toscana rispetto alla parte guelfa, che era stata da lui, dopo la
morte di Manfredi, in quella provincia rimessa.
Cedette Carlo allo
Imperadore, e ne trasse i suoi governatori; e il Papa vi mandò
un suo nipote cardinale per governatore dello Imperio; tale che lo
Imperadore, per questo onore fattogli, restituì alla Chiesa la
Romagna, stata da' suoi antecessori tolta a quella, e il Papa fece
duca di Romagna Bertoldo Orsino.
E parendogli essere diventato
potente da potere mostrare il viso a Carlo, lo privò dello
ufizio del senatore, e fece uno decreto che niuno di stirpe regia
potesse essere più senatore in Roma.
Aveva in animo ancora di
torre la Sicilia a Carlo, e mosse, a questo fine, secretamente
pratica con Pietro re di Ragona, la quale poi, al tempo del suo
successore, ebbe effetto.
Disegnava ancora fare di casa sua duoi re,
l'uno in Lombardia, l'altro in Toscana, la potenza de' quali
defendesse la Chiesa da' Tedeschi che volessero venire in Italia, e
da i Franzesi che erano nel Regno.
Ma con questi pensieri si morì;
e fu il primo de' papi che apertamente mostrasse la propria
ambizione, e che disegnasse, sotto colore di fare grande la Chiesa,
onorare e benificare i suoi.
E come da questi tempi indietro non si è
mai fatta menzione di nipoti o di parenti di alcuno pontefice, così
per lo avvenire ne fia piena la istoria, tanto che noi ci condurreno
a' figliuoli; né manca altro a tentare a' pontefici se non
che, come eglino hanno disegnato, infino a' tempi nostri, di
lasciargli principi, così, per lo avvenire, pensino di
lasciare loro il papato ereditario.
Bene è vero che, per
infino a qui, i principati ordinati da loro hanno avuta poca vita,
perché il più delle volte i pontefici, per vivere poco
tempo, o ei non forniscono di piantare le piante loro, o, se pure le
piantano, le lasciano con sì poche e deboli barbe, che al
primo vento, quando è mancata quella virtù che le
sostiene, si fiaccano.
24
Successe
a costui Martino IV, il quale, per essere di nazione francioso,
favorì le parti di Carlo; in favore del quale, Carlo mandò
in Romagna, che se gli era ribellata, sue genti; ed essendo a campo a
Furlì, Guido Bonatto astrologo ordinò che, in un punto
dato da lui, il popolo gli assaltasse; in modo che tutti i Franciosi
vi furono presi e morti.
In questo tempo si mandò ad effetto
la pratica mossa da papa Niccolao con Pietro re di Aragona; mediante
la quale i Siciliani ammazzorono tutti i Franciosi che si trovorono
in quella isola; della quale Pietro si fece signore, dicendo
appartenersegli per avere per moglie Gostanza figliuola di Manfredi.
Ma Carlo, nel riordinare la guerra per la recuperazione di quella, si
morì; e rimase di lui Carlo II, il quale in quella guerra era
rimaso prigione in Sicilia, e per essere libero promisse di ritornare
prigione, se infra tre anni non aveva impetrato dal Papa che i reali
di Aragona fussero investiti del regno di Sicilia.
25
Ridolfo
imperadore, in cambio di venire in Italia per rendere allo Imperio la
riputazione in quella, vi mandò un suo oratore, con autorità
di potere fare libere tutte quelle città che si
ricomperassero, onde che molte città si ricomperorono, e con
la libertà mutorono modo di vivere.
Adulfo di Sassonia
successe allo Imperio, e al pontificato Pietro del Murrone, che fu
nominato papa Celestino; il quale, sendo eremita e pieno di santità,
dopo sei mesi renunziò al pontificato; e fu eletto Bonifazio
VIII.
I cieli (i quali sapevono come e' doveva venire tempo che i
Franciosi e i Tedeschi si allargherebbono da Italia e che quella
provincia resterebbe in mano, al tutto, degli Italiani) acciò
che il papa, quando mancasse degli ostacoli oltramontani, non potesse
né fermare né godere la potenza sua, feciono crescere
in Roma due potentissime famiglie, Colonnesi e Orsini, acciò
che, con la potenza e propinquità loro, tenessero il
pontificato infermo.
Onde che papa Bonifazio, il quale cognosceva
questo, si volse a volere spegnere i Colonnesi, e oltre allo avergli
scomunicati, bandì loro la crociata contro.
Il che, se bene
offese alquanto loro, li offese più la Chiesa; perché
quella arme la quale per carità della fede aveva virtuosamente
adoperato, come si volse, per propria ambizione, ai cristiani,
cominciò a non tagliare; e così il troppo desiderio di
sfogare il loro appetito faceva che i pontefici, a poco a poco, si
disarmavano.
Privò, oltra di questo, duoi che di quella
famiglia erano cardinali, del cardinalato.
E fuggendo Sarra, capo di
quella casa, davanti a lui, scognosciuto, fu preso da corsali
catelani, e messo al remo; ma cognosciuto di poi, a Marsilia, fu
mandato al re Filippo di Francia, il quale era stato da Bonifazio
scomunicato e privo del regno.
E considerando Filippo come nella
guerra aperta contro a' pontefici, o e' si rimaneva perdente, o e' vi
si correva assai pericoli, si volse agl'inganni; e simulato di voler
fare accordo con il Papa, mandò Sarra in Italia secretamente.
Il quale, arrivato in Alagna, dove era il Papa, convocati di notte
suoi amici, lo prese; e benché, poco di poi, da il popolo
d'Alagna fusse liberato, nondimeno, per il dolore di quella ingiuria,
rabbioso morì.
26
Fu
Bonifazio ordinatore del giubileo, nel 1300, e provide che ogni cento
anni si celebrasse.
In questi tempi seguirono molti travagli tra le
parti guelfe e ghibelline; e per essere stata abbandonata Italia
dagli imperadori, molte terre diventorono libere, e molte furono dai
tiranni occupate.
Restituì papa Benedetto a' cardinali
Colonnesi il cappello, e Filippo re di Francia ribenedisse.
A costui
successe Clemente V, il quale, per essere francioso, ridusse la corte
in Francia, ne l'anno 1305.
In quel mezzo Carlo II re di Napoli morì;
al quale successe Ruberto suo figliuolo; e allo Imperio era pervenuto
Arrigo di Luzimborgo, il quale venne a Roma per coronarsi, non
ostante che il Papa non vi fusse.
Per la cui venuta seguirono assai
movimenti in Lombardia; perché rimesse nelle terre tutti i
fuori usciti, o guelfi o ghibellini che fussero; di che ne seguì
che, cacciando l'uno l'altro, si riempié quella provincia di
guerra; a che lo Imperadore non potette, con ogni suo sforzo,
obviare.
Partito costui di Lombardia, per la via di Genova se ne
venne a Pisa, dove s'ingegnò di tòrre la Toscana al re
Ruberto; e non faccendo alcun profitto, se ne andò a Roma;
dove stette pochi giorni, perché dagli Orsini, con il favore
del re Ruberto, ne fu cacciato; e ritornossi a Pisa; e per fare più
securamente guerra alla Toscana, e trarla dal governo del re Ruberto,
lo fece assaltare da Federigo re di Sicilia.
Ma quando egli sperava,
in un tempo, occupare la Toscana e torre al re Ruberto lo stato, si
morì.
Al quale successe nello Imperio Lodovico di Baviera.
In
quel mezzo pervenne al papato Giovanni XXII; al tempo del quale lo
Imperadore non cessava di perseguitare i Guelfi e la Chiesa, la quale
in maggior parte da il re Ruberto e dai Fiorentini era difesa.
Donde
nacquero assai guerre, fatte in Lombardia dai Visconti contro ai
Guelfi, e in Toscana da Castruccio da Lucca contro ai Fiorentini.
Ma
perché la famiglia de' Visconti fu quella che dette principio
alla ducea di Milano, uno de' cinque principati che di poi
governorono la Italia, mi pare da replicare da più alto luogo
la loro condizione.
27
Poi
che seguì, in Lombardia, la lega di quelle città delle
quali di sopra facemmo menzione, per difendersi da Federigo
Barbarossa, Milano, ristorato che fu dalla rovina sua, per vendicarsi
delle ingiurie ricevute, si congiunse con quella lega, la quale
raffrenò il Barbarossa e tenne vive in Lombardia, un tempo, le
parti della Chiesa; e ne' travagli di quelle guerre che allora
seguirono, diventò in quella città potentissima la
famiglia di quelli della Torre; della quale sempre crebbe la
reputazione, mentre che gli imperadori ebbono in quella provincia
poca autorità.
Ma venendo Federigo II in Italia, e diventata
la parte ghibellina, per la opera di Ecelino, potente, nacquono in
ogni città umori ghibellini; donde che, in Milano, di quelli
che tenevano la parte ghibellina fu la famiglia de' Visconti, la
quale cacciò quelli della Torre di Milano.
Ma poco stettano
fuora, ché, per accordi fatti intra lo Imperadore e il Papa,
furono restituiti nella patria loro.
Ma sendone andato il Papa con la
corte in Francia, e venendo Arrigo di Luzimborgo in Italia per andare
per la corona a Roma, fu ricevuto, in Milano, da Maffeo Visconti e
Guido della Torre, i quali allora erano i capi di quelle famiglie.
Ma
disegnando Maffeo servirsi dello Imperadore per cacciare Guido,
giudicando la impresa facile per essere quello di contraria fazione
allo Imperio, prese occasione dai rammarichii che il popolo faceva
per i sinistri portamenti de' Tedeschi; e cautamente andava dando
animo a ciascuno, e gli persuadeva a pigliare l'armi e levarsi da
dosso la servitù di quegli barbari.
E quando gli parve avere
disposta la materia a suo proposito, fece, per alcuno suo fidato,
nascere uno tumulto, sopra il quale tutto il popolo prese l'armi
contro al nome tedesco.
Né prima fu mosso lo scandolo che
Maffeo con gli suoi figliuoli e tutti li suoi partigiani si trovorono
in arme; e corsono ad Arrigo, significandogli come questo tumulto
nasceva da quelli della Torre, i quali, non contenti di stare in
Milano privatamente, avevono presa occasione di volerlo spogliare,
per gratificarsi i Guelfi di Italia e diventare principi di quella
città ma che stesse di buono animo, ché loro, con la
loro parte quando si volesse difendere, erano per salvarlo in ogni
modo.
Credette Arrigo essere vere tutte le cose dette da Maffeo, e
ristrinse le sue forze con quelle de' Visconti, e assalì
quelli della Torre, i quali erano corsi in più parti della
città per fermare i tumulti; e quegli che poterono avere
ammazzorono, e gli altri, spogliati delle loro sustanze, mandorono in
esilio.
Restato adunque Maffeo Visconti come principe in Milano,
rimasono, dopo lui, Galeazzo e Azzo; e dopo costoro, Luchino e
Giovanni.
Diventò Giovanni arcivescovo in quella città;
e di Luchino, il quale morì avanti a lui, rimasero Bernabò
e Galeazzo; ma morendo ancora, poco di poi, Galeazzo, rimase di lui
Giovan Galeazzo, detto Conte di Virtù.
Costui, dopo la morte
dello Arcivescovo, con inganno ammazzò Bernabò suo zio
e restò solo principe di Milano; il quale fu il primo che
avesse il titulo di duca.
Di costui rimase Filippo e
Giovanmariagnolo; il quale sendo morto da il popolo di Milano, rimase
lo stato a Filippo, del quale non rimase figliuoli maschi; donde che
quello stato si transferì dalla casa de' Visconti a quella
degli Sforzeschi, nel modo e per le ragioni che nel suo luogo si
narreranno.
28
Ma
tornando donde io mi parti', Lodovico imperadore, per dare
riputazione alla parte sua e per pigliare la corona, venne in Italia;
e trovandosi in Milano, per avere cagione di trarre danari da'
Milanesi, mostrò di lasciargli liberi, e misse i Visconti in
prigione; di poi, per mezzo di Castruccio da Lucca, gli liberò;
e andato a Roma, per potere più facilmente perturbare la
Italia, fece Piero della Corvara antipapa; con la reputazione del
quale, e con la forza de' Visconti, disegnava tenere inferme le parti
contrarie di Toscana e di Lombardia.
Ma Castruccio morì; la
quale morte fu cagione del principio della sua rovina; perché
Pisa e Lucca se gli ribellorono, e i Pisani mandorono l'Antipapa
prigione al Papa in Francia; in modo che lo Imperadore, disperato
delle cose di Italia, se ne tornò nella Magna.
Né fu
prima partito costui, che Giovanni re di Buemia venne in Italia,
chiamato da' Ghibellini di Brescia, e si insignorì di quella e
di Bergamo.
E perché questa venuta fu di consentimento del
Papa, ancora che fingesse il contrario, il legato di Bologna lo
favoriva, giudicando che questo fusse buono rimedio, a provedere che
lo Imperadore non tornasse in Italia.
Per il quale partito la Italia
mutò condizione, perché i Fiorentini e il re Ruberto,
vedendo che il Legato favoriva le imprese de' Ghibellini, diventorono
nimici di tutti quelli di chi il Legato e il re di Buemia era amico;
e sanza avere riguardo a parti guelfe e ghibelline, si unirono molti
principi con loro, intra i quali furono i Visconti, quegli della
Scala, Filippo Gonzaga mantovano, quegli da Carrara, quegli da Esti.
Donde che il Papa gli scomunicò tutti e il Re per timore di
questa lega, se ne andò, per ragunare più forze, a
casa; e tornato di poi in Italia con più gente, gli riuscì
nondimeno la impresa difficile; tanto che, sbigottito, con dispiacere
del Legato, se ne tornò in Buemia; e lasciò solo
guardato Reggio e Modona, e a Marsilio e Piero de' Rossi raccomandò
Parma, i quali erano in quella città potentissimi.
Partito
costui, Bologna si accostò con la lega, e i collegati si
divisono infra loro le quattro città che restavano nella parte
della Chiesa; e convennono che Parma pervenisse a quelli della Scala,
Reggio a' Gonzaga, Modona a quelli da Esti, e Lucca ai Fiorentini.
Ma
nelle imprese di queste terre seguirono molte guerre, le quali furono
poi, in buona parte, dai Viniziani composte.
E' parrà forse ad
alcuno cosa non conveniente che, infra tanti accidenti seguiti in
Italia, noi abbiamo differito tanto a ragionare de' Viniziani, sendo
la loro una repubblica che, per ordine e per potenza, debbe essere
sopra ogni altro principato di Italia celebrata; ma perché
tale ammirazione manchi, intendendosene la cagione, io mi farò
indietro assai tempo, acciò che ciascuno intenda quali fussero
i principii suoi, e perché differirono tanto tempo nelle cose
di Italia a travagliarsi.
29
Campeggiando
Attila re degli Unni Aquileia, gli abitatori di quella, poi che si
furono difesi molto tempo, disperati della salute loro, come meglio
poterono, con le loro cose mobili, sopra molti scogli, i quali erano,
nella punta del mare Adriatico disabitati, si rifuggirono.
I Padovani
ancora, veggendosi il fuoco propinquo, e temendo che, vinta Aquileia,
Attila non venisse a trovargli, tutte le loro cose mobili di più
valore portorono dentro al medesimo mare, in uno luogo detto Rivo
alto; dove mandorono ancora le donne, i fanciugli e i vecchi loro e
la gioventù riserborono in Padova, per difenderla.
Oltre a di
questi, quegli di Monselice, con gli abitatori de' colli allo
intorno, spinti da il medesimo terrore, sopra scogli del medesimo
mare ne andorono.
Ma presa Aquileia, e avendo Attila guasta Padova,
Monselice, Vicenza e Verona, quelli di Padova, e i più
potenti, si rimasero ad abitare le paludi che erano intorno a Rivo
alto.
Medesimamente tutti i popoli allo intorno, di quella provincia
che anticamente si chiama Vinezia, cacciati dai medesimi accidenti,
in quelle paludi si ridussero.
Così, constretti da necessità
lasciorono luoghi amenissimi e fertili, e in sterili, deformi, e
privi di ogni commodità abitorono.
E per essere assai popoli
in un tratto ridotti insieme, in brevissimo tempo feciono quelli
luoghi, non solo abitabili, ma dilettevoli; e constituite infra loro
leggi e ordini, intra tante rovine di Italia, sicuri si godevano.
E
in breve tempo crebbero in riputazione e forze; perché, oltre
ai predetti abitatori, vi rifuggirono molti delle città di
Lombardia, cacciati massime dalle crudeltà di Clefi re de'
Longobardi; il che non fu di poco augumento a quella città,
tanto che a' tempi di Pipino re di Francia quando, per i prieghi del
Papa, venne a cacciare i Longobardi di Italia, nelle convenzioni che
seguirono intra lui e lo Imperadore de' Greci fu che il duca di
Benevento e i Viniziani non ubbidissino né all'uno né
all'altro, ma, di mezzo, la loro libertà si godessero.
Oltre a
di questo, come la necessità gli aveva condotti ad abitare
dentro alle acque, così gli forzava a pensare, non si valendo
della terra, di potervi onestamente vivere, e andando con i loro
navigi per tutto il mondo, la città loro di varie mercanzie
riempievano; delle quali avendo bisogno gli altri uomini, conveniva
che in quel luogo frequentemente concorressero.
Né pensorono
per molti anni ad altro dominio che a quello che facesse il
travagliare delle mercanzie loro più facile; e però
acquistorono assai porti in Grecia e in Sorìa, e ne' passaggi
che i Franciosi feciono in Asia, perché si servirono assai de'
loro navigi, fu consegnato loro in premio l'isola di Candia.
E mentre
vissono in questa forma, il nome loro in mare era terribile, e
dentro, in Italia venerando di modo che di tutte le controversie che
nascevano il più delle volte erano arbitri; come intervenne
nelle differenze nate intra i collegati per conto di quelle terre che
tra loro si avevano divise, che, rimessa la causa ne' Viniziani,
rimase a' Visconti Bergamo e Brescia.
Ma avendo loro, con il tempo,
occupata Padova, Vicenza, e Trevigi, e di poi Verona, Bergamo e
Brescia, e nel Reame e in Romagna molte città, cacciati dalla
cupidità del dominare, vennono in tanta opinione di potenza,
che, non solamente a' principi italiani, ma ai re oltramontani erano
in terrore; onde, congiurati quelli contro a di loro, in uno giorno
fu tolto loro quello stato che si avevano in molti anni con infinito
spendio guadagnato; e benché ne abbiano, in questi nostri
ultimi tempi; riacquistato parte, non avendo riacquistata né
la reputazione né le forze, a discrezione d'altri, come tutti
gli altri principi italiani, vivono.
30
Era
pervenuto al pontificato Benedetto XII, e parendogli avere perduto in
tutto la possessione di Italia, e temendo che Lodovico imperadore non
se ne facesse signore, deliberò di farsi amici in quella tutti
coloro che avevano usurpato le terre che solevono allo imperadore
ubbidire, acciò che avessero cagione di temere dello Imperio e
di ristrignersi seco alla difesa di Italia; e fece uno decreto che
tutti i tiranni di Lombardia possedessero le terre che si avevano
usurpate, con giusto titulo.
Ma sendo in questa concessione morto il
Papa e rifatto Clemente VI, e vedendo lo Imperadore con quanta
liberalità il Pontefice aveva donate le terre dello Imperio,
per non essere ancora egli meno liberale delle cose d'altri che si
fussi stato il Papa, donò a tutti quegli che nelle terre della
Chiesa erano tiranni le terre loro, acciò che con la autorità
imperiale le possedessero.
Per la qual cosa Galeotto Malatesti e i
frategli diventorono signori di Rimino, di Pesero e di Fano, Antonio
da Montefeltro della Marca e di Urbino, Gentile da Varano di
Camerino, Guido di Polenta di Ravenna, Sinibaldo Ordelaffi di Furlì
e Cesena, Giovanni Manfredi di Faenza, Lodovico Alidosi di Imola; e
oltre a questi in molte altre terre molti altri, in modo che di tutte
le terre della Chiesa poche ne rimasono senza principe.
La qual cosa
infino ad Alessandro VI tenne la Chiesa debole; il quale, ne' nostri
tempi, con la rovina de' discendenti di costoro, le rendé
l'autorità sua.
Trovavasi lo Imperadore, quando fece questa
concessione, a Trento; e dava nome di volere passare in Italia; donde
seguirono guerre assai in Lombardia, per le quali i Visconti si
insignorirono di Parma.
Nel qual tempo Ruberto re di Napoli morì,
e rimasono di lui solo due nipote, nate di Carlo suo figliuolo, il
quale più tempo innanzi era morto; e lasciò che la
maggiore, chiamata Giovanna, fusse erede del Regno, e che la
prendesse per marito Andrea, figliuolo del re di Ungheria, suo
nipote.
Non stette Andrea con quella molto, che fu fatto da lei
morire, e si maritò ad uno altro suo cugino, principe di
Taranto, chiamato Lodovico.
Ma Lodovico re di Ungheria e fratello di
Andrea, per vendicare la morte di quello, venne con gente in Italia,
e cacciò la reina Giovanna e il marito del Regno.
31
In
questo tempo seguì a Roma una cosa memorabile, che uno Niccolò
di Lorenzo, cancelliere in Campidoglio, cacciò i senatori di
Roma, e si fece, sotto titulo di tribuno, capo della republica
romana; e quella nella antica forma ridusse, con tanta reputazione di
iustizia e di virtù, che non solamente le terre propinque, ma
tutta Italia gli mandò ambasciadori; di modo che le antiche
provincie, vedendo come Roma era rinata, sollevorono il capo, e
alcune mosse da la paura, alcune dalla speranza, l'onoravano.
Ma
Niccolò, non ostante tanta reputazione, se medesimo ne' suoi
primi principii abbandonò; perché, invilito sotto tanto
peso, sanza essere da alcuno cacciato, celatamente si fuggì, e
ne andò a trovare Carlo re di Buemia, il quale, per ordine del
Papa, in dispregio di Lodovico di Baviera, era stato eletto
imperadore.
Costui, per gratificarsi il Pontefice, gli mandò
Niccolò prigione.
Seguì di poi, dopo alcuno tempo, che,
ad imitazione di costui, uno Francesco Baroncegli occupò a
Roma il tribunato, e ne cacciò i senatori: tanto che il Papa,
per il più pronto remedio a reprimerlo, trasse di prigione
Niccolò, e lo mandò a Roma, e rendégli l'ufficio
del tribuno; tanto che Niccolò riprese lo stato e fece morire
Francesco.
Ma sendogli diventati nimici i Colonnesi, fu ancora esso,
non dopo molto tempo, morto, e restituito l'ufficio ai senatori.
32
In
questo mezzo il Re di Ungheria, cacciata che gli ebbe la regina
Giovanna, se ne tornò nel suo regno; ma il Papa, che
desiderava piuttosto la Reina propinqua a Roma che quel re, operò
in modo che fu contento restituirle il Regno, pure che Lodovico suo
marito, contento del titulo di Taranto, non fusse chiamato re.
Era
venuto l'anno 1350, sì che al Papa parve che il giubileo,
ordinato da papa Bonifazio VIII per ogni cento anni, si potesse a
cinquanta anni ridurre, e fattolo per decreto, i Romani, per questo
benifizio, furono contenti che mandassi a Roma quattro cardinali a
riformare lo stato della città, e fare secondo la sua volontà
i senatori.
Il Papa ancora pronunziò Lodovico di Taranto re di
Napoli; donde che la reina Giovanna, per questo benifizio, dette alla
Chiesa Avignone, che era di suo patrimonio.
Era, in questi tempi,
morto Luchino Visconti, donde solo Giovanni arcivescovo di Milano era
restato signore; il quale fece molta guerra alla Toscana e a' suoi
vicini, tanto che diventò potentissimo.
Dopo la morte del
quale rimasono Bernabò e Galeazzo suoi nipoti; ma poco di poi
morì Galeazzo, e di lui rimase Giovangaleazzo, il quale si
divise con Bernabò quello stato.
Era in questi tempi,
imperadore Carlo re di Buemia, e pontefice Innocenzio VI, il quale
mandò in Italia Egidio cardinale di nazione spagnuolo, il
quale con la sua virtù, non solamente in Romagna e in Roma, ma
per tutta Italia aveva renduta la reputazione alla Chiesa: recuperò
Bologna, che dallo arcivescovo di Milano era stata occupata;
constrinse i Romani ad accettare uno senatore forestiero, il quale
ciascuno anno vi dovesse dal papa essere mandato; fece onorevoli
accordi con i Visconti; roppe e prese Giovanni Auguto inghilese, il
quale con quattromila Inghilesi in aiuto de' Ghibellini militava in
Toscana.
Onde che succedendo al pontificato Urbano V, poi che
gl'intese tante vittorie, deliberò vicitare Italia e Roma,
dove ancora venne Carlo imperadore; e dopo pochi mesi Carlo si tornò
nel regno, e il Papa in Avignone.
Dopo la morte di Urbano, fu creato
Gregorio XI; e perché gli era ancora morto il cardinale
Egidio, la Italia era tornata nelle sue antiche discordie, causate
dai popoli collegati contro ai Visconti, tanto che il Papa mandò
prima uno legato in Italia con seimilia Brettoni, di poi venne egli
in persona, e ridusse la corte a Roma nel 1376, dopo settantuno anno
che la era stata in Francia.
Ma seguendo la morte di quello, fu
rifatto Urbano VI, e poco di poi, a Fondi, da dieci cardinali che
dicevano Urbano non essere bene eletto, fu creato Clemente VII.
I
Genovesi, in questi tempi, i quali più anni erano vivuti sotto
il governo de' Visconti, si ribellorono; e intra loro e i Viniziani,
per Tenedo insula, nacquero guerre importantissime, per le quali si
divise tutta Italia; nella quale guerra furono prima vedute le
artiglierie, strumento nuovo trovato dai Tedeschi.
E benché i
Genovesi fussero un tempo superiori, e che più mesi tenessero
assediata Vinegia, nondimeno, nel fine della guerra, i Viniziani
rimasono superiori, e per mezzo del Pontefice feciono la pace, negli
anni 1381.
33
Era
nata, come abbiamo detto, scisma nella Chiesa; onde che la reina
Giovanna favoriva il papa scismatico; per la qual cosa Urbano fece
fare contro a di lei la impresa del Regno a Carlo di Durazzo, disceso
de' reali di Napoli; il quale, venuto, le tolse lo stato e si
insignorì del Regno; ed ella se ne fuggì in Francia.
Il
re di Francia, per questo sdegnato, mandò Lodovico d'Angiò
in Italia per recuperare il Regno alla Reina, e cacciare Urbano di
Roma e insignorirne l'Antipapa.
Ma Lodovico, nel mezzo di questa
impresa, morì, e le sue genti, rotte, se ne tornorono in
Francia.
Il Papa, in questo mezzo, se ne andò a Napoli, dove
pose in carcere nove cardinali per avere seguitata la parte di
Francia e dello Antipapa.
Di poi si sdegnò con il Re, perché
non volle fare uno suo nipote principe di Capua; e fingendo non se ne
curare, lo richiese gli concedesse Nocera per sua abitazione; dove
poi si fece forte, e si preparava di privare il Re del Regno.
Per la
qual cosa il Re vi andò a campo, e il Papa se ne fuggì
a Genova, dove fece morire quelli cardinali che aveva prigioni.
Di
quivi se ne andò a Roma, e per farsi reputazione creò
ventinove cardinali.
In questo tempo Carlo re di Napoli ne andò
in Ungheria, dove fu fatto re, e poco di poi fu morto; e a Napoli
lasciò la moglie con Ladislao e Giovanna suoi figliuoli.
In
questo tempo ancora Giovangaleazzo Visconti aveva morto Bernabò
suo zio e preso tutto lo stato di Milano, e non gli bastando essere
diventato duca di tutta la Lombardia, voleva ancora occupare la
Toscana; ma quando e' credeva prenderne il dominio, e di poi
coronarsi re di Italia, morì.
Ad Urbano VI era succeduto
Bonifazio IX.
Morì ancora in Avignone l'antipapa Clemente VII,
e fu rifatto Benedetto XIII.
34
Erano
in Italia, in questi tempi, soldati assai, inghilesi, tedeschi e
brettoni, condotti parte da quelli principi i quali in varii tempi
erano venuti in Italia, parte stati mandati dai pontefici quando
erano in Avignone.
Con questi tutti i principi italiani feciono più
tempo le loro guerre, infino che surse Lodovico da Conio romagnolo,
il quale fece una compagnia di soldati italiani, intitolata in San
Giorgio; la virtù e la disciplina del quale in poco tempo
tolse la reputazione alle armi forestiere, e ridussela negli
Italiani, de' quali poi i principi di Italia, nelle guerre che
facevano insieme, si valevano.
Il Papa, per discordia avuta con i
Romani, se ne andò a Scesi; dove stette tanto che venne il
giubileo del 1400; nel quale tempo i Romani acciò che tornasse
in Roma per utilità di quella città, furono contenti
accettare di nuovo uno senatore forestiero mandato da lui, e gli
lasciorono fortificare Castel Santo Agnolo, e con queste condizioni
ritornato, per fare più ricca la Chiesa, ordinò che
ciascuno, nelle vacanze de' beneficii, pagasse una annata alla
Camera.
Dopo la morte di Giovan Galeazzo duca di Milano, ancora che
lasciasse duoi figliuoli, Giovanmariagnolo e Filippo, quello stato si
divise in molte parti; e ne' travagli che vi seguirono, Giovanmaria
fu morto e Filippo stette un tempo rinchiuso nella rocca di Pavia,
dove, per fede e virtù di quello castellano si salvò.
E
intra gli altri che occuporono delle città possedute dal padre
loro, fu Guglielmo della Scala, il quale, fuoruscito, si trovava
nelle mani di Francesco da Carrara signore di Padova; per il mezzo
del quale riprese lo stato di Verona, dove stette poco tempo, perché,
per ordine di Francesco, fu avvelenato, e toltogli la città.
Per la qual cosa i Vicentini, che sotto le insegne de' Visconti erano
vivuti sicuri, temendo della grandezza del signore di Padova, si
dierono a' Viniziani; mediante i quali i Viniziani presono la guerra
contro a di lui, e prima gli tolsono Verona, e di poi Padova.
35
In
questo mezzo Bonifazio papa morì, e fu eletto Innocenzio VII;
al quale il popolo di Roma supplicò che dovesse rendergli le
fortezze e restituirgli la sua libertà; a che il Papa non
volle acconsentire; donde che il popolo chiamò in suo aiuto
Ladislao re di Napoli.
Di poi, nato intra loro accordo, il Papa se ne
tornò a Roma, che per paura del popolo se ne era fuggito a
Viterbo dove aveva fatto Lodovico suo nipote conte della Marca.
Morì
di poi, e fu creato Gregorio XII, con obligo che dovesse renunziare
al papato, qualunche volta ancora l'Antipapa renunziasse.
E per
conforto de' cardinali, per fare pruova se la Chiesa si poteva
riunire, Benedetto antipapa venne a Porto Venere, e Gregorio a Lucca,
dove praticorono cose assai e non ne conclusono alcuna, di modo che i
cardinali dell'uno e dell'altro papa gli abbandonorono, e dei papi,
Benedetto se ne andò in Ispagna e Gregorio a Rimini.
I
cardinali dall'altra parte, con il favore di Baldassare Cossa
cardinale e legato di Bologna, ordinorono uno concilio a Pisa dove
creorono Alessandro V, il quale, subito, scomunicò il re
Ladislao e investì di quel regno Luigi d'Angiò; e
insieme con i Fiorentini, Genovesi e Viniziani, e con Baldassare
Cossa legato, assaltorono Ladislao, e gli tolsono Roma.
Ma nello
ardore di questa guerra morì Alessandro, e fu creato papa
Baldassare Cossa, che si fece chiamare Giovanni XXIII.
Costui partì
da Bologna, dove fu creato, e ne andò a Roma, dove trovò
Luigi d'Angiò, che era venuto con la armata di Provenza; e
venuti alla zuffa con Ladislao, lo ruppono.
Ma per difetto de'
condottieri non poterono seguire la vittoria; in modo che il Re, dopo
poco tempo, riprese le forze, e riprese Roma; e il Papa se ne fuggì
a Bologna, e Luigi in Provenza.
E pensando il Papa in che modo
potesse diminuire la potenza di Ladislao, operò che Sigismondo
re di Ungheria fusse eletto imperadore e lo confortò a venire
in Italia, e con quello si abboccò a Mantova; e convennono di
fare uno concilio generale, nel quale si riunisse la Chiesa; la
quale, unita, facilmente potrebbe opporsi alle forze de' suoi nemici.
36
Erano,
in quel tempo, tre papi, Gregorio, Benedetto e Giovanni; i quali
tenevano la Chiesa debile e sanza reputazione.
Fu eletto il luogo del
concilio Gostanza, città della Magna, fuora della intenzione
di papa Giovanni; e benché fusse, per la morte del re
Ladislao, spenta la cagione che fece al Papa muovere la pratica del
concilio, nondimeno, per essersi obligato, non potette rifiutare lo
andarvi; e condotto a Gostanza, dopo non molti mesi, cognoscendo
tardi lo errore suo, tentò di fuggirsi; per la qual cosa fu
messo in carcere, e constretto rifiutare il papato.
Gregorio, uno
degli antipapi ancora, per uno suo mandato, rinunziò; e
Benedetto, l'altro antipapa, non volendo rinunziare, fu condennato
per eretico.
Alla fine, abbandonato dai suoi cardinali, fu constretto
ancora egli a rinunziare; e il Concilio creò pontefice Otto,
di casa Colonna, chiamato di poi papa Martino V.
E così la
Chiesa si unì, dopo quaranta anni che l'era stata in più
pontefici divisa.
37
Trovavasi,
in questi tempi, come abbiamo detto, Filippo Visconti nella rocca di
Pavia; ma venendo a morte Fazino Cane, il quale ne' travagli di
Lombardia si era insignorito di Vercelli, Alessandria, Novara e
Tortona, e aveva ragunate assai ricchezze, non avendo figliuoli,
lasciò erede degli stati suoi Beatrice sua moglie, e ordinò
con i suoi amici operassero in modo che la si maritasse a Filippo.
Per il quale matrimonio diventato Filippo potente, riacquistò
Milano e tutto lo stato di Lombardia.
Di poi, per essere grato de'
benefizi grandi, come sono quasi sempre tutti i principi, accusò
Beatrice sua moglie di stupro, e la fece morire.
Diventato pertanto
potentissimo, cominciò a pensare alle guerre di Toscana, per
seguire i disegni di Giovan Galeazzo suo padre.
38
Aveva
Ladislao re di Napoli, morendo, lasciato a Giovanna sua sirocchia,
oltre al Regno, uno grande esercito, capitanato dai principali
condottieri di Italia, intra i primi de' quali era Sforza da
Cotignuola reputato, secondo quelle armi, valoroso.
La Reina, per
fuggire qualche infamia di tenersi uno Pandolfello, il quale aveva
allevato, tolse per marito Iacopo della Marcia, francioso, di stirpe
regale, con queste condizioni, che fussi contento di essere chiamato
principe di Taranto, e lasciasse a lei il titolo e il governo del
Regno.
Ma i soldati, subito che gli arrivò in Napoli, lo
chiamorono re; in modo che intra il marito e la moglie nacquono
discordie grandi, e più volte superorono l'uno l'altro; pure,
in ultimo, rimase la Reina in istato; la quale diventò poi
nimica del Pontefice, onde che Sforza, per condurla in necessità,
e che l'avesse a gittarsegli in grembo, rinunziò, fuora di sua
opinione, al suo soldo.
Per la qual cosa quella si trovò in un
tratto disarmata; e non avendo altri rimedi, ricorse per gli aiuti ad
Alfonso re di Ragona e di Sicilia, e lo adottò in figliuolo, e
soldò Braccio da Montone, il quale era quanto Sforza nelle
armi reputato, e inimico del Papa per avergli occupata Perugia e
alcune altre terre della Chiesa.
Seguì di poi la pace intra
lei e il Papa, ma il re Alfonso, perché dubitava che ella non
trattasse lui come il marito, cercava cautamente insignorirsi delle
fortezze; ma quella, che era astuta, lo prevenne, e si fece forte
nella rocca di Napoli.
Crescendo adunque intra l'una e l'altro i
sospetti, vennono alle armi; e la Reina, con lo aiuto di Sforza, il
quale ritornò a' suoi soldi, superò Alfonso, e
cacciollo di Napoli, e lo privò della adozione, e adottò
Lodovico d'Angiò: donde nacque di nuovo guerra intra Braccio,
che aveva seguitate le parti di Alfonso, e Sforza, che favoriva la
Reina.
Nel trattare della qual guerra, passando Sforza il fiume di
Pescara, affogò; in modo che la Reina di nuovo rimase
disarmata; e sarebbe stata cacciata del Regno, se da Filippo Visconti
duca di Milano non fusse stata aiutata; il quale constrinse Alfonso a
tornarsene in Aragona.
Ma Braccio, non sbigottito per essersi
abbandonato Alfonso, seguitò di fare la impresa contro alla
Reina; e avendo assediata l'Aquila, il Papa, non giudicando a
proposito della Chiesa la grandezza di Braccio, prese a' suoi soldi
Francesco figliuolo di Sforza; il quale andò a trovare Braccio
a l'Aquila, dove lo ammazzò e ruppe.
Rimase, della parte di
Braccio, Oddo suo figliuolo; al quale fu tolta da il Papa Perugia, e
lasciato nello stato di Montone.
Ma fu, poco di poi, morto,
combattendo in Romagna per i Fiorentini; tale che, di quelli che
militavono con Braccio, Niccolò Piccino rimase di più
riputazione.
39
Ma
perché noi siamo venuti, colla narrazione nostra, propinqui a
quelli tempi che io disegnai; perché quanto ne è rimaso
a trattare non importa, in maggiore parte, altro che le guerre che
ebbono i Fiorentini e i Viniziani con Filippo duca di Milano, le
quali si narreranno dove particularmente di Firenze tratteremo; io
non voglio procedere più avanti: solo ridurrò
brevemente a memoria in quali termini la Italia, e con i principi e
con le armi, in quelli tempi dove noi scrivendo siamo arrivati, si
trovava.
Degli stati principali, la reina Giovanna II teneva il regno
di Napoli; la Marca, il Patrimonio e Romagna, parte delle loro terre
ubbidivano alla Chiesa, parte erano dai loro vicari o tiranni
occupate: come Ferrara, Modona e Reggio da quelli da Esti; Faenza da
e Manfredi; Imola dagli Alidosi; Furlì dagli Ordelaffi; Rimino
e Pesero dai Malatesti, e Camerino da quelli da Varano.
Della
Lombardia parte ubbidiva al duca Filippo, parte a' Viniziani; perché
tutti quelli che tenevano stati particulari in quella erano stati
spenti, eccetto che la casa di Gonzaga, la quale signoreggiava in
Mantova.
Della Toscana erano la maggiore parte signori i Fiorentini:
Lucca solo e Siena con le loro leggi vivevano; Lucca sotto i Guinigi,
Siena era libera.
I Genovesi, sendo ora liberi ora servi o de' Reali
di Francia o de' Visconti, inonorati vivevano, e intra gli minori
potentati si connumeravono.
Tutti questi principali potentati erano
di proprie armi disarmati: il duca Filippo, stando rinchiuso per le
camere e non si lasciando vedere, per i suoi commissari le sue guerre
governava; i Viniziani, come ei si volsono alla terra, si trassono di
dosso quelle armi che in mare gli avevano fatti gloriosi, e
seguitando il costume degli altri Italiani, sotto l'altrui governo
amministravano gli eserciti loro; il Papa per non gli stare bene le
armi in dosso sendo religioso, e la reina Giovanna di Napoli per
essere femina, facevono per necessità quello che gli altri per
mala elezione fatto avevano; i Fiorentini ancora alle medesime
necessità ubbidivano, perché, avendo per le spesse
divisioni spenta la nobilità, e restando quella republica
nelle mani d'uomini nutricati nella mercanzia, seguitavano gli ordini
e la fortuna degli altri.
Erano adunque le armi di Italia in mano o
de' minori principi o di uomini senza stato; perché i minori
principi, non mossi da alcuna gloria, ma per vivere o più
ricchi o più sicuri, se le vestivano; quegli altri, per essere
nutricati in quelle da piccoli, non sapendo fare altra arte,
cercavono in esse, con avere o con potenza, onorarsi.
Intra questi
erano allora i più nominati: il Carmignuola, Francesco Sforza,
Niccolò Piccino allievo di Braccio, Agnolo della Pergola,
Lorenzo e Micheletto Attenduli, il Tartaglia, Iacopaccio, Ceccolino
da Perugia, Niccolò da Tolentino, Guido Torello, Antonio dal
Ponte ad Era e molti altri simili.
Con questi erano quelli signori
de' quali ho di sopra parlato; ai quali si aggiugnevano i baroni di
Roma, Orsini e Colonnesi, con altri signori e gentili uomini del
Regno e di Lombardia; i quali, stando in su la guerra, avevano fatto
come una lega e intelligenza insieme, e riduttala in arte; con la
quale in modo si temporeggiavono, che il più delle volte, di
quelli che facevano guerra, l'una parte e l'altra perdeva; e in fine
la ridussono in tanta viltà che ogni mediocre capitano, nel
quale fusse alcuna ombra della antica virtù rinata, gli
arebbe, con ammirazione di tutta Italia, la quale per sua poca
prudenza gli onorava, vituperati.
Di questi, adunque, oziosi principi
e di queste vilissime armi sarà piena la mia istoria.
Alla
quale prima che io discenda, mi è necessario, secondo che nel
principio promissi, tornare a raccontare della origine di Firenze, e
fare a ciascuno largamente intendere quale era lo stato di quella
città in questi tempi, e per quali mezzi, intra tanti travagli
che per mille anni erano in Italia accaduti, vi era pervenuta.
LIBRO SECONDO
1
Intra
gli altri grandi e maravigliosi ordini delle republiche e principati
antichi che in questi nostri tempi sono spenti era quello mediante il
quale, di nuovo e d'ogni tempo, assai terre e città si
edificavano; perché niuna cosa è tanto degna di uno
ottimo principe e di una bene ordinata republica, né più
utile ad una provincia, che lo edificare di nuovo terre dove gli
uomini si possino, per commodità della difesa o della cultura,
ridurre; il che quelli potevono facilmente fare, avendo in uso di
mandare ne' paesi o vinti o voti nuovi abitatori, i quali chiamavono
colonie.
Perché, oltre allo essere cagione questo ordine che
nuove terre si edificassero, rendeva il paese vinto al vincitore più
securo, e riempieva di abitatori i luoghi voti, e nelle provincie gli
uomini bene distribuiti manteneva.
Di che ne nasceva che, abitandosi
in una provincia più commodamente, gli uomini più vi
multiplicavano, ed erano nelle offese più pronti e nelle
difese più sicuri.
La quale consuetudine sendosi oggi per il
malo uso delle republiche e de' principi spenta, ne nasce la rovina e
la debolezza delle provincie; perché questo ordine solo è
quello che fa gli imperii più securi, e i paesi, come è
detto, mantiene copiosamente abitati: la securtà nasce perché
quella colonia la quale è posta da un principe in uno paese
nuovamente occupato da lui è come una rocca e una guardia a
tenere gli altri in fede; non si può, oltra di questo, una
provincia mantenere abitata tutta, né perservare in quella gli
abitatori bene distribuiti, senza questo ordine.
Perché tutti
i luoghi in essa non sono o generativi o sani; onde nasce che in
questi abbondono gli uomini, negli altri mancano; e se non vi è
modo a trargli donde gli abbondono, e porgli dove e' mancano, quella
provincia in poco tempo si guasta; perché una parte di quella
diventa, per i pochi abitatori, diserta, un'altra, per i troppi,
povera.
E perché la natura non può a questo disordine
supplire, è necessario supplisca la industria: perché i
paesi male sani diventano sani per una moltitudine di uomini che ad
un tratto gli occupi; i quali con la cultura sanifichino la terra e
con i fuochi purghino l'aria, a che la natura non potrebbe mai
provedere.
Il che dimostra la città di Vinegia, posta in luogo
paludoso e infermo: nondimeno i molti abitatori che ad un tratto vi
concorsono lo renderono sano.
Pisa ancora, per la malignità
dell'aria, non fu mai di abitatori ripiena, se non quando Genova e le
sue riviere furono dai Saraceni disfatte; il che fece che quelli
uomini, cacciati da' terreni patrii, ad un tratto in tanto numero vi
concorsono, che feciono quella popolata e potente.
Sendo mancato per
tanto quello ordine del mandare le colonie, i paesi vinti si tengono
con maggiore difficultà, e i paesi voti mai non si riempiano,
e quelli troppo pieni non si alleggeriscono.
Donde molte parti nel
mondo, e massime in Italia, sono diventate, rispetto agli antichi
tempi, diserte: e tutto è seguito e segue per non essere ne'
principi alcuno appetito di vera gloria, e nelle republiche alcuno
ordine che meriti di essere lodato.
Nelli antichi tempi, addunque,
per virtù di queste colonie, o e' nascevano spesso città
di nuovo, o le già cominciate crescevano; delle quali fu la
città di Firenze, la quale ebbe da Fiesole il principio e da
le colonie lo augumento.
2
Egli
è cosa verissima secondo che Dante e Giovanni Villani
dimostrano che la città di Fiesole, sendo posta sopra la
sommità del monte, per fare che i mercati suoi fussero più
frequentati e dare più commodità a quegli che vi
volessero con le loro mercanzie venire, aveva ordinato il luogo di
quelli, non sopra il poggio, ma nel piano, intra le radice del monte
e del fiume d'Arno.
Questi mercati giudico io che fussero cagione
delle prime edificazioni che in quelli luoghi si facessero, mossi i
mercatanti da il volere avere ricetti commodi a ridurvi le mercanzie
loro i quali con il tempo ferme edificazioni diventorono; e di poi,
quando i Romani avendo vinti i Cartaginesi, renderono dalle guerre
forestiere la Italia secura, in gran numero multiplicorono.
Perché
gli uomini non si mantengono mai nelle difficultà, se da una
necessità non vi sono mantenuti; tale che, dove la paura delle
guerre costrigne quelli ad abitare volentieri ne' luoghi forti e
aspri, cessata quella, chiamati dalla commodità, più
volentieri ne' luoghi domestici e facili abitano.
La securtà
adunque, la quale per la reputazione della romana republica nacque in
Italia, potette fare crescere le abitazioni già nel modo detto
incominciate, in tanto numero che in forma d'una terra si ridussero,
la quale Villa Arnina fu da principio nominata.
Sursono di poi in
Roma le guerre civili, prima intra Mario e Silla, di poi intra Cesare
e Pompeo, e apresso intra gli ammazzatori di Cesare e quelli che
volevano la sua morte vendicare.
Da Silla adunque in prima e di poi
da quelli tre cittadini romani i quali dopo la vendetta fatta di
Cesare si divisono l'imperio, furono mandate a Fiesole colonie; delle
quali o tutte o parte posono le abitazioni loro nel piano, presso
alla già cominciata terra; tale che, per questo augumento, si
ridusse quello luogo tanto pieno di edifici e di uomini e di ogni
altro ordine civile che si poteva numerare intra le città di
Italia.
Ma donde si derivasse il nome di Florenzia, ci sono varie
opinioni: alcuni vogliono si chiamasse da Florino, uno de' capi della
colonia; alcuni non Florenzia, ma Fluenzia vogliono che la fusse nel
principio detta, per essere posta propinqua al fluente d'Arno; e ne
adducono testimone Plinio, che dice: - i Fluentini sono propinqui ad
Arno fluente -.
La qual cosa potrebbe essere falsa, perché
Plinio nel testo suo dimostra dove i Fiorentini erano posti, non come
si chiamavano; e quello vocabolo "Fluentini" conviene che
sia corrotto, perché Frontino e Cornelio Tacito, che scrissono
quasi che ne' tempi di Plinio, gli chiamono Florenzia e Florentini;
perché di già ne' tempi di Tiberio secondo il costume
delle altre città di Italia si governavano, e Cornelio
referisce essere venuti oratori Florentini allo Imperadore, a pregare
che l'acque delle Chiane non fussero sopra il paese loro sboccate; né
è ragionevole che quella città, in un medesimo tempo,
avesse duoi nomi.
Credo per tanto che sempre fusse chiamata
Florenzia, per qualunque cagione così si nominasse; e così,
da qualunque cagione si avesse la origine, la nacque sotto lo Imperio
romano, e ne' tempi de' primi imperadori cominciò dagli
scrittori ad essere ricordata.
E quando quello Imperio fu da' barbari
afflitto fu ancora Florenzia da Totila re degli Ostrogoti disfatta, e
dopo 250 anni, di poi, da Carlo Magno riedificata.
Dal qual tempo
infino agli anni di Cristo 1215 visse sotto quella fortuna che
vivevano quelli che comandavano ad Italia.
Ne' quali tempi prima
signoreggiorono in quella i discesi di Carlo, di poi i Berengari, e
in ultimo gli imperadori tedeschi, come nel nostro trattato
universale dimostrammo.
Né poterono in questi tempi i
Florentini crescere, né operare alcuna cosa degna di memoria,
per la potenza di quelli allo imperio de' quali ubbidivano,
nondimeno, nel 1010, il dì di santo Romolo giorno solenne a'
Fiesolani, presono e disfeciono Fiesole; il che feciono, o con il
consenso degli imperadori, o in quel tempo che dalla morte dell'uno
alla creazione dell'altro ciascuno più libero rimaneva.
Ma poi
che i pontefici presono più autorità in Italia, e gli
imperadori tedeschi indebolirono, tutte le terre di quella provincia
con minore reverenzia del principe si governarono; tanto che nel
1080, al tempo di Arrigo III, si ridusse la Italia intra quello e la
Chiesa in manifesta divisione; la quale non ostante, i Fiorentini si
mantennono infino al 1215 uniti, ubbidendo a' vincitori, né
cercando altro imperio che salvarsi.
Ma come ne' corpi nostri quanto
più sono tarde le infirmità tanto più sono
pericolose e mortali, così Florenzia, quanto la fu più
tarda a seguitare le sette di Italia, tanto di poi fu più
afflitta da quelle.
La cagione della prima divisione è
notissima, perché è da Dante e da molti altri scrittori
celebrata; pure mi pare brevemente da raccontarla.
3
Erano
in Florenzia, intra le altre famiglie, potentissime Buondelmonti e
Uberti; apresso a queste erano gli Amidei e i Donati.
Era nella
famiglia de' Donati una donna vedova e ricca, la quale aveva una
figliuola di bellissimo aspetto.
Aveva costei infra sé
disegnato a messer Buondelmonte, cavaliere giovane e della famiglia
de' Buondelmonti capo, maritarla.
Questo suo disegno, o per
negligenzia, o per credere potere essere sempre a tempo, non aveva
ancora scoperto a persona; quando il caso fece che a messer
Buondelmonte si maritò una fanciulla degli Amidei; di che
quella donna fu malissimo contenta.
E sperando di potere, con la
bellezza della figliuola, prima che quelle nozze si celebrassero,
perturbarle, vedendo messer Buondelmonte, che solo veniva verso la
sua casa, scese da basso, e dietro si condusse la figliuola, e nel
passare quello, se gli fece incontra, dicendo: - Io mi rallegro
veramente assai dello avere voi preso moglie, ancora che io vi avesse
serbata questa mia figliuola, - e sospinta la porta, gliene fece
vedere.
Il cavaliere, veduta la bellezza della fanciulla, la quale
era rara, e considerato il sangue e la dote non essere inferiore a
quella di colei ch'egli aveva tolta, si accese in tanto ardore di
averla, che, non pensando alla fede data, né alla ingiuria che
faceva a romperla, né ai mali che dalla rotta fede gliene
potevano incontrare, disse: - Poi che voi me la avete serbata, io
sarei uno ingrato, sendo ancora a tempo, a rifiutarla; - e senza
mettere tempo in mezzo celebrò le nozze.
Questa cosa, come fu
intesa, riempié di sdegno la famiglia degli Amidei e quella
degli Uberti, i quali erano loro per parentado congiunti; e convenuti
insieme con molti altri loro parenti, conclusono che questa ingiuria
non si poteva sanza vergogna tollerare, né con altra vendetta
che con la morte di messer Buondelmonte vendicare.
E benché
alcuni discorressero i mali che da quella potessero seguire, il Mosca
Lamberti disse che chi pensava assai cose non ne concludeva mai
alcuna, dicendo quella trita e nota sentenza: "Cosa fatta capo
ha".
Dettono pertanto il carico di questo omicidio al Mosca, a
Stiatta Uberti, a Lambertuccio Amidei e a Oderigo Fifanti.
Costoro,
la mattina della Pasqua di Resurressione, si rinchiusono nelle case
degli Amidei, poste intra il Ponte Vecchio e Santo Stefano; e
passando messer Buondelmonte il fiume sopra uno caval bianco,
pensando che fusse così facil cosa sdimenticare una ingiuria
come rinunziare ad uno parentado, fu da loro a piè del ponte,
sotto una statua di Marte, assaltato e morto.
Questo omicidio divise
tutta la città, e una parte si accostò a' Buondelmonti,
l'altra agli Uberti; e perché queste famiglie erano forti di
case e di torri e di uomini, combatterono molti anni insieme sanza
cacciare l'una l'altra; e le inimicizie loro, ancora che le non
finissero per pace, si componevano per triegue; e per questa via,
secondo i nuovi accidenti, ora si quietavano e ora si accendevano.
4
E
stette Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federigo II;
il quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le forze
sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la potenza
sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci; i quali,
con il suo favore, cacciorono i Buondelmonti, e così la nostra
città ancora, come tutta Italia più tempo era divisa,
in Guelfi e Ghibellini si divise.
Né mi pare superfluo fare
memoria delle famiglie che l'una e l'altra setta seguirono.
Quelli
adunque che seguirono le parti guelfe furono: Buondelmonti, Nerli,
Rossi, Frescobaldi, Mozzi, Bardi, Pulci, Gherardini, Foraboschi,
Bagnesi, Guidalotti, Sacchetti, Manieri, Lucardesi, Chiaramontesi,
Compiobbesi, Cavalcanti, Giandonati, Gianfigliazzi, Scali,
Gualterotti, Importuni, Bostichi, Tornaquinci, Vecchietti, Tosinghi,
Arrigucci, Agli, Sizi, Adimari, Visdomini, Donati, Pazzi, Della
Bella, Ardinghi, Tedaldi, Cerchi.
Per la parte ghibellina furono:
Uberti, Mannegli, Ubriachi, Fifanti, Amidei, Infangati, Malespini,
Scolari, Guidi, Galli, Cappiardi, Lamberti, Soldanieri, Cipriani,
Toschi, Amieri, Palermini, Migliorelli, Pigli, Barucci, Cattani,
Agolanti, Brunelleschi, Caponsacchi, Elisei, Abati, Tedaldini,
Giuochi, Galigai.
Oltra di questo all'una e all'altra parte di queste
famiglie nobili si aggiunsono molte delle popolari; in modo che quasi
tutta la città fu da questa divisione corrotta.
I Guelfi
adunque, cacciati, per le terre del Valdarno di sopra, dove avevano
gran parte delle fortezze loro, si ridussero; e in quel modo potevano
migliore contro alle forze delli nimici loro si difendevano.
Ma
venuto Federigo a morte, quegli che in Florenzia erano uomini di
mezzo e avieno più credito con il popolo, pensorono che fusse
più tosto da riunire la città, che, mantenendola
divisa, rovinarla.
Operorono adunque in modo che i Guelfi, deposte le
ingiurie, tornorono, e i Ghibellini, deposto il sospetto, gli
riceverono; ed essendo uniti, parve loro tempo da potere pigliare
forma di vivere libero e ordine da potere difendersi, prima che il
nuovo imperadore acquistasse le forze.
5
Divisono
pertanto la città in sei parti, ed elessono dodici cittadini,
duoi per sesto, che la governassero; i quali si chiamassero Anziani e
ciascuno anno si variassero.
E per levare via le cagioni delle
inimicizie che dai giudicii nascano, providdono a duoi giudici
forestieri, chiamato l'uno Capitano di popolo e l'altro Podestà,
che le cause così civili come criminali intra i cittadini
occorrenti giudicassero.
E perché niuno ordine è
stabile senza provedergli il difensore, constituirono nella città
venti bandiere, e settantasei nel contado, sotto le quali scrissono
tutta la gioventù e ordinorono che ciascuno fusse presto e
armato sotto la sua bandiera, qualunque volta fusse o dal Capitano o
dagli Anziani chiamato; e variorono in quelle i segni, secondo che
variavano le armi, perché altra insegna portavano i
balestrieri e altra i palvesari; e ciascuno anno, il giorno della
Pentecoste, con grande pompa davano a nuovi uomini le insegne, e
nuovi capi a tutto questo ordine assegnavano.
E per dare maestà
ai loro eserciti, e capo dove ciascuno, sendo nella zuffa spinto,
avesse a rifuggire, e rifuggito potesse di nuovo contro al nimico far
testa, uno carro grande, tirato da duoi buoi coperti di rosso sopra
il quale era una insegna bianca e rossa, ordinorono.
E quando e'
volevono trarre fuora lo esercito, in Mercato nuovo questo carro
conducevono, e con solenne pompa ai capi del popolo lo consegnavano.
Avevano ancora, per magnificenza delle loro imprese, una campana
detta Martinella, la quale uno mese continuamente, prima che
traessero fuora della città gli eserciti, sonava, acciò
che il nimico avesse tempo alle difese: tanta virtù era allora
in quegli uomini, e con tanta generosità di animo si
governavano che dove oggi lo assaltare il nimico improvisto si reputa
generoso atto e prudente, allora vituperoso e fallace si reputava.
Questa campana ancora conducevono ne' loro eserciti, mediante la
quale le guardie e l'altre fazioni della guerra comandavano.
6
Con
questi ordini militari e civili fondorono i Fiorentini la loro
libertà.
Né si potrebbe pensare quanto di autorità
e forze in poco tempo Firenze si acquistasse; e non solamente capo di
Toscana divenne, ma intra le prime città di Italia era
numerata; e sarebbe a qualunque grandezza salita, se le spesse e
nuove divisioni non la avessero afflitta.
Vissono i Fiorentini sotto
questo governo dieci anni, nel qual tempo sforzorono i Pistolesi,
Aretini e Sanesi a fare lega con loro; e tornando con il campo da
Siena, presono Volterra, disfeciono ancora alcune castella, e gli
abitanti condussono in Firenze.
Le quali imprese tutte si feciono per
il consiglio de' Guelfi, i quali molto più che i Ghibellini
potevano, sì per essere questi odiati da il popolo per li loro
superbi portamenti quando al tempo di Federigo governorono, si per
essere la parte della Chiesa più che quella dello Imperadore
amata; perché con lo aiuto della Chiesa speravono perservare
la loro libertà, e sotto lo Imperadore temevano perderla.
I
Ghibellini per tanto veggendosi mancare della loro autorità,
non potevono quietarsi, e solo aspettavano la occasione di ripigliare
lo stato.
La quale parve loro fusse venuta, quando viddono che
Manfredi figliuolo di Federigo si era del regno di Napoli insignorito
e aveva assai sbattuta la potenza della Chiesa.
Secretamente adunque
praticavano con quello di ripigliare la loro autorità; né
posserono in modo governarsi, che le pratiche tenute da loro non
fussero agli Anziani scoperte.
Onde che quelli citorono gli Uberti, i
quali, non solamente non ubbidirono, ma prese le armi, si
fortificorono nelle case loro; di che il popolo sdegnato, si armò,
e con lo aiuto de' Guelfi gli sforzò ad abbandonare Firenze e
andarne con tutta la parte ghibellina a Siena.
Di quivi domandorono
aiuto a Manfredi re di Napoli, e per industria di messer Farinata
degli Uberti furono i Guelfi dalle genti di quel re, sopra il fiume
della Arbia, con tanta strage rotti, che quegli i quali di quella
rotta camparono, non a Firenze, giudicando la loro città
perduta, ma a Lucca si rifuggirono.
7
Aveva
Manfredi mandato a' Ghibellini, per capo delle sue genti, il conte
Giordano, uomo in quelli tempi nelle armi assai reputato.
Costui,
dopo la vittoria, se ne andò con i Ghibellini a Firenze, e
quella città ridusse tutta alla ubbidienza di Manfredi,
annullando i magistrati e ogni altro ordine per il quale apparisse
alcuna forma della sua libertà.
La quale ingiuria, con poca
prudenza fatta, fu dallo universale con grande odio ricevuta; e di
nimico ai Ghibellini diventò loro inimicissimo; donde al tutto
ne nacque, con il tempo, la rovina loro.
E avendo, per le necessità
del Regno il conte Giordano a tornare a Napoli, lasciò in
Firenze per regale vicario il conte Guido Novello, signore di
Casentino.
Fece costui uno concilio di Ghibellini ad Empoli, dove per
ciascuno si concluse che, a volere mantenere potente la parte
ghibellina in Toscana, era necessario disfare Firenze, sola atta per
avere il popolo guelfo, a fare ripigliare le forze alle parti della
Chiesa.
A questa sì crudel sentenzia, data contra ad una sì
nobile città, non fu cittadino né amico, eccetto che
messer Farinata degli Uberti, che si opponesse, il quale apertamente
e senza alcuno rispetto la difese, dicendo non avere con tanta fatica
corsi tanti pericoli, se non per potere nella sua patria abitare; e
che non era allora per non volere quello che già aveva cerco,
né per rifiutare quello che dalla fortuna gli era stato dato;
anzi per essere non minore nimico di coloro che disegnassero
altrimenti, che si fusse stato ai Guelfi; e se di loro alcuno temeva
della sua patria, la rovinasse, perché sperava, con quella
virtù che ne aveva cacciati i Guelfi, difenderla.
Era messer
Farinata uomo di grande animo, eccellente nella guerra, capo de'
Ghibellini, e apresso a Manfredi assai stimato: la cui autorità
pose fine a quello ragionamento; e pensorono altri modi a volersi lo
stato perservare.
8
I
Guelfi, i quali si erano fuggiti a Lucca, licenziati dai Lucchesi per
le minacce del Conte, se ne andorono a Bologna.
Di quivi furono dai
Guelfi di Parma chiamati contro ai Ghibellini; dove, per la loro
virtù superati gli avversarii, furno loro date tutte le loro
possessioni; tanto che, cresciuti in ricchezze e in onore, sapiendo
che papa Clemente aveva chiamato Carlo d'Angiò per torre il
Regno a Manfredi, mandorono al Pontefice oratori ad offerirgli le
loro forze.
Di modo che il Papa, non solamente gli ricevé per
amici, ma dette loro la sua insegna; la quale sempre di poi fu
portata da' Guelfi in guerra, ed è quella che ancora in
Firenze si usa.
Fu di poi Manfredi da Carlo spogliato del Regno, e
morto; dove sendo intervenuti i Guelfi di Firenze, ne diventò
la parte loro più gagliarda, e quella de' Ghibellini più
debole, donde che quelli che insieme col conte Guido Novello
governavono Firenze giudicorono che fussi bene guadagnarsi con
qualche benefizio quel popolo che prima avevano con ogni ingiuria
aggravato; e quelli rimedi che, avendogli fatti prima che la
necessità venisse, sarebbono giovati, facendogli di poi, sanza
grado, non solamente non giovorono, ma affrettorono la rovina loro.
Giudicorono per tanto farsi amico il popolo e loro partigiano, se gli
rendevono parte di quelli onori e di quella autorità gli
avevono tolta; ed elessono trentasei cittadini popolani, i quali,
insieme con duoi cavalieri fatti venire da Bologna, riformassero lo
stato della città.
Costoro, come prima convennono, distinsono
tutta la città in Arti, e sopra ciascuna Arte ordinorono uno
magistrato il quale rendesse ragione a' sottoposti a quelle;
consegnorono, oltre di questo, a ciascuna una bandiera, acciò
che sotto quella ogni uomo convenisse armato, quando la città
ne avesse di bisogno.
Furono nel principio queste Arti dodici, sette
maggiori e cinque minori; di poi crebbono le minori infino in
quattordici, tanto che tutte furono, come al presente sono, ventuna;
praticando ancora i trentasei riformatori delle altre cose a
benefizio comune.
9
Il
conte Guido, per nutrire i soldati, ordinò di porre una taglia
a' cittadini; dove trovò tanta difficultà che non ardì
di fare forza di ottenerla; e parendogli avere perduto lo stato, si
ristrinse con i capi de' Ghibellini; e deliberorono torre per forza
al popolo quello che per poca prudenza gli avevono conceduto.
E
quando parve loro essere ad ordine con le armi, sendo insieme i
trentasei, feciono levare il romore; onde che quelli, spaventati, si
ritirorono alle loro case, e subito le bandiere delle Arti furono
fuora con assai armati dietro; e intendendo come il conte Guido con
la sua parte era a San Giovanni, feciono testa a Santa Trinita, e
dierono la ubbidienza a messer Giovanni Soldanieri.
Il Conte
dall'altra parte, sentendo dove il popolo era, si mosse per ire a
trovarlo; né il popolo ancora fuggì la zuffa; e fattosi
incontro al nimico, dove è oggi la loggia de' Tornaquinci si
riscontrorono.
Dove fu ributtato il Conte, con perdita e morte di più
suoi, donde che, sbigottito temeva che la notte i nimici lo
assalissero, e trovandosi i suoi battuti e inviliti, lo ammazzassero.
E tanta fu in lui potente questa immaginazione, che, senza pensare ad
altro rimedio, deliberò, più tosto fuggendo che
combattendo, salvarsi; e contro al consiglio de' Rettori e della
Parte, con tutte le genti sue ne andò a Prato.
Ma come prima
per trovarsi in luogo sicuro, gli fuggì la paura, ricognobbe
lo errore suo; e volendolo correggere, la mattina, venuto il giorno,
tornò con le sue genti a Firenze, per rientrare in quella
città per forza, che egli aveva per viltà abbandonata;
ma non gli successe il disegno, perché quel popolo che con
difficultà lo arebbe potuto cacciare, facilmente lo potette
tenere fuora; tanto che, dolente e svergognato, se ne andò in
Casentino; e i Ghibellini si ritirorono alle loro ville.
Restato
adunque il popolo vincitore, per conforto di coloro che amavano il
bene della republica, si deliberò di riunire la città e
richiamare tutti i cittadini, così ghibellini come guelfi, i
quali si trovassero fuora.
Tornorono adunque i Guelfi, sei anni dopo
che gli erano stati cacciati, e a' Ghibellini ancora fu perdonata la
fresca ingiuria, e riposti nella patria loro.
Non di meno da il
popolo e dai Guelfi erano forte odiati, perché questi non
potevono cancellare della memoria lo esilio, e quello si ricordava
troppo della tirannide loro mentre che visse sotto il governo di
quelli; il che faceva che né l'una né l'altra parte
posava l'animo.
Mentre che in questa forma in Firenze si viveva, si
sparse fama che Curradino nipote di Manfredi, con gente, veniva della
Magna allo acquisto di Napoli; donde che i Ghibellini si riempierono
di speranza di potere ripigliare la loro autorità, e i Guelfi
pensavano come si avessero ad assicurare delli loro nimici e chiesono
al re Carlo aiuti per potere, passando Curradino, difendersi.
Venendo
per tanto le genti di Carlo, feciono diventare i Guelfi insolenti, e
in modo sbigottirono i Ghibellini, che duoi giorni avanti allo
arrivare loro, senza essere cacciati, si fuggirono.
10
Partiti
i Ghibellini, riordinorono i Fiorentini lo stato della città;
ed elessono dodici capi, i quali sedessero in magistrato duoi mesi, i
quali non chiamorono Anziani, ma Buoni uomini; apresso a questi uno
consiglio di ottanta cittadini, il quale chiamavano la Credenza; dopo
questo erano cento ottanta popolani, trenta per sesto, i quali, con
la Credenza e dodici Buoni uomini, si chiamavano il Consiglio
generale.
Ordinorono ancora un altro consiglio di cento venti
cittadini, popolani e nobili, per il quale si dava perfezione a tutte
le cose negli altri consigli deliberate; e con quello distribuivono
gli uffici della repubblica.
Fermato questo governo, fortificorono
ancora la parte guelfa con magistrati e altri ordini, acciò
che con maggiori forze si potessero dai Ghibellini difendere, i beni
de' quali in tre parti divisono, delle quali l'una publicorono,
l'altra al magistrato della Parte, chiamato i Capitani, la terza a'
Guelfi, per ricompenso de' danni ricevuti, assegnorono.
Il Papa
ancora, per mantenere la Toscana guelfa, fece il re Carlo vicario
imperiale di Toscana.
Mantenendo adunque i Fiorentini, per virtù
di questo nuovo governo, dentro con le leggi e fuora con le armi, la
reputazione loro, morì il Pontefice; e dopo una lunga disputa,
passati duoi anni, fu eletto papa Gregorio X.
Il quale, per essere
stato lungo tempo in Sorìa, ed esservi ancora nel tempo della
sua elezione, e discosto da gli umori delle parti, non stimava quelle
nel modo che dagli suoi antecessori erano state stimate.
E per ciò,
sendo venuto in Firenze per andare in Francia, stimò che fusse
ufficio di uno ottimo pastore riunire la città; e operò
tanto che i Fiorentini furono contenti ricevere i sindachi de'
Ghibellini in Firenze per praticare il modo del ritorno loro; e
benché lo accordo si concludesse, furono in modo i Ghibellini
spaventati, che non vollono tornare.
Di che il Papa dette la colpa
alla città, e, sdegnato, scomunicò quella; nella quale
contumacia stette quanto visse il Pontefice; ma dopo la sua morte fu
da papa Innocenzio V ribenedetta.
Era venuto il pontificato in
Niccolò III, nato di casa Orsina; e perché i pontefici
temevano sempre colui la cui potenzia era diventata grande in Italia,
ancora che la fussi con i favori della Chiesa cresciuta, e perché
ei cercavano di abbassarla, ne nascevano gli spessi tumulti e le
spesse variazioni che in quella seguivono; perché la paura di
uno potente faceva crescere uno debile; e cresciuto ch'egli era,
temere, e temuto, cercare di abbassarlo: questo fece trarre il Regno
di mano a Manfredi e concederlo a Carlo; questo fece di poi avere
paura di lui, e cercare la rovina sua.
Niccolao III per tanto, mosso
da queste cagioni, operò tanto che a Carlo, per mezzo dello
Imperadore, fu tolto il governo di Toscana, e in quella provincia
mandò, sotto nome dello Imperio, messer Latino suo legato.
11
Era
Firenze allora in assai mala condizione, perché la nobilità
guelfa era diventata insolente e non temeva i magistrati; in modo che
ciascuno dì si facevano assai omicidii e altre violenze, sanza
essere puniti quegli che le commettevano, sendo da questo e
quell'altro nobile favoriti.
Pensorono per tanto i capi del popolo,
per frenare questa insolenzia, che fusse bene rimettere i fuori
usciti; il che dette occasione al Legato di riunire la città;
e i Ghibellini tornorono.
E in luogo de' dodici governatori ne
feciono quattordici, d'ogni parte sette, che governassero uno anno e
avessero ad essere eletti dal papa.
Stette Firenze in questo governo
duoi anni, infino che venne al pontificato papa Martino, di nazione
franzese, il quale restituì al re Carlo tutta quella autorità
che da Niccola gli era stata tolta; talché subito
risuscitorono in Toscana le parti, perché i Fiorentini presono
l'armi contro al governatore dello Imperadore, e per privare del
governo i Ghibellini e tenere i potenti in freno, ordinorono nuova
forma di reggimento.
Era l'anno 1282, e i corpi delle Arti, poi che
fu dato loro i magistrati e le insegne, erano assai reputati; donde
che quelli per la loro autorità ordinorono che, in luogo de'
quattordici, si creassero tre cittadini, che si chiamassero Priori, e
stessero duoi mesi al governo della republica, e potessero essere
popolani e grandi, purché fussero mercatanti o facessero arti.
Ridussongli, dopo il primo magistrato, a sei, acciò che di
qualunque sesto ne fusse uno, il quale numero si mantenne insino al
1342, che ridussono la città a quartieri e i Priori ad otto;
non ostante che in quel mezzo di tempo alcuna volta, per qualche
accidente, ne facessero dodici.
Questo magistrato fu cagione, come
con il tempo si vide, della rovina ne' nobili, perché ne
furono da il popolo per varii accidenti esclusi, e di poi sanza
alcuno rispetto battuti; a che i nobili, nel principio,
acconsentirono per non essere uniti, perché, desiderando
troppo torre lo stato l'uno a l'altro, tutti lo perderono.
Consegnorono a questo magistrato uno palagio, dove continuamente
dimorasse, sendo prima consuetudine che i magistrati e i consigli per
le chiese convenissero; e quello ancora con sergenti e altri ministri
necessari onororono; e benché nel principio gli chiamassero
solamente Priori, nondimeno di poi, per maggiore magnificenza, il
nome de' Signori gli aggiunsero.
Stierono i Fiorentini dentro quieti
alcun tempo; nel quale feciono la guerra con gli Aretini, per avere
quegli cacciati i Guelfi, e in Campaldino felicemente gli vinsono.
E
crescendo la città di uomini e di ricchezze, parve ancora di
accrescerla di mura, e le allargorono il suo cerchio in quel modo che
al presente si vede, con ciò sia che prima il suo diametro
fusse solamente quello spazio che contiene dal Ponte Vecchio infino a
San Lorenzo.
12
Le
guerre di fuora e la pace di dentro avevano come spente in Firenze le
parti ghibelline e guelfe; restavano solamente accesi quelli umori i
quali naturalmente sogliono essere in tutte le città intra i
potenti e il popolo; perché, volendo il popolo vivere secondo
le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possibile
cappino insieme.
Questo umore, mentre che i Ghibellini feciono loro
paura, non si scoperse; ma come prima quelli furono domi, dimostrò
la potenza sua; e ciascuno giorno qualche popolare era ingiuriato; e
le leggi e i magistrati non bastavano a vendicarlo, perché
ogni nobile, con i parenti e con gli amici, dalle forze de' Priori e
del Capitano si difendeva.
I principi per tanto delle Arti,
desiderosi di rimediare a questo inconveniente, provviddono che
qualunche Signoria, nel principio dello uficio suo, dovesse creare
uno Gonfaloniere di giustizia, uomo popolano, al quale dettono,
scritti sotto venti bandiere, mille uomini; il quale, con il suo
gonfalone e con gli armati suoi, fusse presto a favorire la
giustizia, qualunque volta da loro o da il Capitano fusse chiamato.
Il primo eletto fu Ubaldo Ruffoli.
Costui trasse fuora il gonfalone,
e disfece le case de' Galletti, per avere uno di quella famiglia
morto, in Francia, un popolano.
Fu facile alle Arti fare questo
ordine, per le gravi inimicizie che intra i nobili vegghiavano; i
quali non prima pensorono al provedimento fatto contro di loro, che
viddono la acerbità di quella esecuzione; il che dette loro da
prima assai terrore: non di meno poco di poi si tornorono nella loro
insolenzia; perché, sendone sempre alcuni di loro de' Signori,
avevano commodità di impedire il Gonfaloniere, che non potesse
fare l'uficio suo.
Oltra di questo, avendo bisogno lo accusatore di
testimone quando riceveva alcuna offesa, non si trovava alcuno che
contro a' nobili volesse testimoniare; talché in breve tempo
si tornò Firenze ne' medesimi disordini, e il popolo riceveva
dai Grandi le medesime ingiurie, perché i giudicii erano lenti
e le sentenzie mancavano delle esecuzioni loro.
13
E
non sapiendo i popolani che partiti si prendere, Giano della Bella di
stirpe nobilissimo, ma della libertà della città
amatore, dette animo ai capi delle Arti a riformare la città;
e per suo consiglio si ordinò che il Gonfaloniere residesse
con i Priori, e avesse quattromila uomini a sua ubbidienza;
privoronsi ancora tutti i nobili di potere sedere de' Signori;
obligoronsi consorti del reo alla medesima pena che quello; fecesi
che la publica fama bastasse a giudicare.
Per queste leggi, le quali
si chiamorono gli Ordinamenti della iustizia, acquistò il
popolo assai reputazione, e Giano della Bella assai odio; perché
era in malissimo concetto de' potenti, come di loro potenza
distruttore, e i popolani ricchi gli avevano invidia, perché
pareva loro che la sua autorità fusse troppa; il che, come
prima lo permisse la occasione, si dimostrò.
Fece adunque la
sorte che fu morto uno popolano in una zuffa dove più nobili
intervennono, intra i quali fu messer Corso Donati; al quale, come
più audace che gli altri, fu attribuita la colpa; e per ciò
fu da il Capitano del popolo preso; e comunque la cosa si andasse, o
che messer Corso non avesse errato, o che il Capitano temesse di
condannarlo, e' fu assoluto.
La quale assoluzione tanto al popolo
dispiacque, che prese le armi e corse a casa Giano della Bella a
pregarlo dovesse essere operatore che si osservassero quelle leggi
delle quali egli era stato inventore.
Giano, che desiderava che
messer Corso fusse punito, non fece posare l'armi, come molti
giudicavano che dovesse fare, ma gli confortò ad ire a'
Signori a dolersi del caso e pregarli che dovessero provedervi.
Il
popolo per tanto, pieno di sdegno, parendogli essere offeso dal
Capitano e da Giano abandonato, non a' Signori, ma al palagio del
Capitano itosene, quello prese e saccheggiò.
Il quale atto
dispiacque a tutti i cittadini; e quelli che amavano la rovina di
Giano lo accusavano, attribuendo a lui tutta la colpa, di modo che,
trovandosi intra gli Signori che di poi seguirono alcuno suo nimico,
fu accusato al Capitano come sollevatore del popolo.
E mentre che si
praticava la causa sua, il popolo si armò, e corse alle sue
case, offerendogli contro ai Signori e suoi nimici la difesa.
Non
volle Giano fare esperienza di questi populari favori, né
commettere la vita sua a' magistrati, perché temeva la
malignità di questi e la instabilità di quelli; tale
che, per torre occasione a' nimici di ingiuriare lui, e agli amici di
offendere la patria, deliberò di partirsi, e dare luogo alla
invidia, e liberare i cittadini dal timore ch'eglino avevano di lui,
e lasciare quella città la quale con suo carico e pericolo
aveva libera dalla servitù de' potenti, e si elesse voluntario
esilio.
14
Dopo
la costui partita, la nobilità salse in speranza di ricuperare
la sua dignità; e giudicando il male suo essere dalle sue
divisioni nato, si unirono i nobili insieme, e mandorono duoi di loro
alla Signoria, la quale giudicavano in loro favore, a pregarla fusse
contenta temperare in qualche parte la acerbità delle leggi
contro a di loro fatte.
La quale domanda, come fu scoperta, commosse
gli animi de' popolani, perché dubitavano che i Signori la
concedessero loro; e così, tra il desiderio de' nobili e il
sospetto del popolo, si venne alle armi.
I nobili feciono testa in
tre luoghi: a San Giovanni, in Mercato Nuovo e alla piazza de' Mozzi;
e sotto tre capi: messer Forese Adimari, messer Vanni de' Mozzi e
messer Geri Spini; i popolani in grandissimo numero sotto le loro
insegne al palagio de' Signori convennono, i quali allora propinqui a
San Brocolo abitavano.
E perché il popolo aveva quella
Signoria sospetta, deputò sei cittadini che con loro
governassero.
Mentre che l'una e l'altra parte alla zuffa si
preparava, alcuni, così popolari come nobili, e con quelli
certi religiosi di buona fama, si messono di mezzo per pacificarli,
ricordando ai nobili che degli onori tolti e delle leggi contro a di
loro fatte ne era stata cagione la loro superbia e il loro cattivo
governo; e che lo avere prese ora l'armi, e rivolere con la forza
quello che per la loro disunione e loro non buoni modi si erano
lasciati torre, non era altro che volere rovinare la patria loro e le
loro condizioni raggravare; e si ricordassero che il popolo, di
numero, di ricchezze e di odio era molto a loro superiore, e che
quella nobilità mediante la quale e' pareva loro avanzare gli
altri non combatteva, e riusciva, come e' si veniva al ferro, uno
nome vano, che contro a tanti a difenderli non bastava.
Al popolo
dall'altra parte ricordavano come e' non era prudenzia volere sempre
l'ultima vittoria, e come e' non fu mai savio partito fare disperare
gli uomini, perché chi non spera il bene non teme il male; e
che dovevano pensare che la nobilità era quella la quale aveva
nelle guerre quella città onorata, e però non era bene
né giusta cosa con tanto odio perseguitarla; e come i nobili
il non godere il loro supremo magistrato facilmente sopportavano, ma
non potevano già sopportare che fusse in potere di ciascuno,
mediante gli ordini fatti, cacciargli della patria loro; e però
era bene mitigare quelli, e per questo benefizio fare posare le armi,
né volessero tentare la fortuna della zuffa confidandosi nel
numero, perché molte volte si era veduto gli assai dai pochi
essere stati superati.
Erano nel popolo i pareri diversi: molti
volevono che si venissi alla zuffa, come a cosa che un giorno di
necessità a venire vi si avesse; e però era meglio
farlo allora, che aspettare che i nimici fussero più potenti;
e se si credesse che rimanessero contenti mitigando le leggi, che
sarebbe bene mitigarle; ma che la superbia loro era tanta che non
poserieno mai, se non forzati.
A molti altri, più savi e di
più quieto animo, pareva che il temperare le leggi non
importasse molto, e il venire alla zuffa importasse assai; di modo
che la opinione loro prevalse; e providono che alle accuse de' nobili
fussero necessari i testimoni.
15
Posate
le armi, rimase l'una e l'altra parte piena di sospetto, e ciascuna
con torri e con armi si fortificava; e il popolo riordinò il
governo, ristringendo quello in minore numero, mosso dallo essere
stati quelli Signori favorevoli a' nobili: del quale rimaseno
principi Mancini, Magalotti, Altoviti, Peruzzi e Cerretani.
Fermato
lo stato, per maggiore magnificenzia e più sicurtà de'
Signori, l'anno 1298, fondorono il palagio loro; e feciongli piazza
delle case che furono già degli Uberti.
Comincioronsi ancora
in quel medesimo tempo le publiche prigioni; i quali edifici in
termine di pochi anni si fornirono.
Né mai fu la città
nostra in maggiore e più felice stato che in questi tempi,
sendo di uomini, di ricchezze e di riputazione ripiena: i cittadini
atti alle armi a trentamila, e quelli del suo contado a settantamila
aggiugnevano; tutta la Toscana, parte come subietta, parte come
amica, le ubbidiva; e benché intra i nobili e il popolo fusse
alcuna indignazione e sospetto, non di meno non facevano alcuno
maligno effetto, ma unitamente e in pace ciascuno si viveva.
La quale
pace, se dalle nuove inimicizie dentro non fusse stata turbata, di
quelle di fuora non poteva dubitare; perché era la città
in termine che la non temeva più lo Imperio né i suoi
fuori usciti, e a tutti gli stati di Italia arebbe potuto con le sue
forze rispondere.
Quello male per tanto che dalle forze di fuora non
gli poteva essere fatto, quelle di dentro gli feciono.
16
Erano
in Firenze due famiglie, i Cerchi e i Donati, per ricchezza, nobilità
e uomini potentissime.
Intra loro, per essere in Firenze e nel
contado vicine, era stato qualche disparere, non però si grave
che si fusse venuto alle armi; e forse non arebbono fatti grandi
effetti, se i maligni umori non fussero stati da nuove cagioni
accresciuti.
Era intra le prime famiglie di Pistoia quella de'
Cancellieri.
Occorse che, giucando Lore di messer Guglielmo e Geri di
messer Bertacca, tutti di quella famiglia, e venendo a parole, fu
Geri da Lore leggermente ferito.
Il caso dispiacque a messer
Guglielmo; e pensando con la umanità di torre via lo scandolo,
lo accrebbe; perché comandò al figliuolo che andasse a
casa il padre del ferito e gli domandasse perdono.
Ubbidì Lore
al padre: nondimeno questo umano atto non addolcì in alcuna
parte lo acerbo animo di messer Bertacca; e fatto prendere Lore dai
suoi servidori, per maggiore dispregio sopra una mangiatoia gli fece
tagliare la mano, dicendogli: - Torna a tuo padre, e digli che le
ferite con il ferro e non con le parole si medicano -.
La crudeltà
di questo fatto dispiacque tanto a messer Guglielmo, che fece
pigliare le armi ai suoi per vendicarlo; e messer Bertacca ancora si
armò per difendersi; e non solamente quella famiglia, ma tutta
la città di Pistoia si divise.
E perché i Cancellieri
erano discesi da messer Cancelliere, che aveva aute due mogli, delle
quali l'una si chiamò Bianca, si nominò ancora l'una
delle parti, per quelli che da lei erano discesi, "Bianca";
e l'altra, per torre nome contrario a quella, fu nominata "Nera".
Seguirono infra costoro, in più tempo, di molte zuffe, con
assai morte di uomini e rovina di case; e non potendo infra loro
unirsi, stracchi nel male, e desiderosi o di porre fine alle
discordie loro, o con la divisione d'altri accrescerle, ne vennono a
Firenze, e i Neri, per avere famigliarità con i Donati, furono
da messer Corso, capo di quella famiglia, favoriti; donde nacque che
i Bianchi, per avere appoggio potente che contro ai Donati gli
sostenesse, ricorsono a messer Veri de' Cerchi, uomo per ciascuna
qualità non punto a messer Corso inferiore.
17
Questo
umore, da Pistoia venuto, lo antico odio intra i Cerchi e i Donati
accrebbe, ed era già tanto manifesto che i Priori e gli altri
buoni cittadini dubitavano ad ogni ora che non si venisse infra loro
alle armi, e che da quelli, di poi, tutta la città si
dividesse.
E per ciò ricorsono al Pontefice, pregandolo che a
questi umori mossi quello rimedio che per loro non vi potevono porre
con la sua autorità vi ponesse.
Mandò il Papa per
messer Veri, e lo gravò a fare pace con i Donati; di che
messer Veri mostrò maravigliarsi, dicendo non avere alcuna
inimicizia con quelli; e perché la pace presuppone la guerra,
non sapeva, non essendo intra loro guerra, perché fusse la
pace necessaria.
Tornato adunque messer Veri da Roma senza altra
conclusione, crebbono in modo gli umori che ogni piccolo accidente,
sì come avvenne, gli poteva fare traboccare.
Era del mese di
maggio; nel qual tempo, e ne' giorni festivi, publicamente per
Firenze si festeggia.
Alcuni giovani, per tanto, de' Donati, insieme
con loro amici, a cavallo, a vedere ballare donne presso a Santa
Trinita si fermorono; dove sopraggiunsono alcuni de' Cerchi, ancora
loro da molti nobili accompagnati; e non cognoscendo i Donati, che
erano davanti, desiderosi ancora loro di vedere, spinsono i cavagli
fra loro, e gli urtorono; donde i Donati, tenendosi offesi, strinsono
le armi; a' quali i Cerchi gagliardamente risposono; e dopo molte
ferite date e ricevute da ciascuno, si spartirono.
Questo disordine
fu di molto male principio; perché tutta la città si
divise, così quelli di popolo come i Grandi; e le parti
presono il nome dai Bianchi e Neri.
Erano capi della parte bianca i
Cerchi, e a loro si accostorono gli Adimari, gli Abati, parte de'
Tosinghi, de' Bardi, de' Rossi, de' Frescobaldi, de' Nerli e de'
Mannelli, tutti i Mozzi, gli Scali, i Gherardini, i Cavalcanti,
Malespini, Bostechi, Giandonati, Vecchietti e Arrigucci; a questi si
aggiunsono molte famiglie populane, insieme con tutti i Ghibellini
che erano in Firenze; tale che, per lo gran numero che gli seguivano,
avevono quasi che tutto il governo della città.
I Donati da
l'altro canto, erano capi della parte nera, e con loro erano quella
parte che delle sopranomate famiglie a' Bianchi non si accostavano, e
di più tutti i Pazzi, i Bisdomini, i Manieri, Bagnesi,
Tornaquinci, Spini, Buondelmonti, Gianfigliazzi, Brunelleschi.
Né
solamente questo umore contaminò la città, ma ancora
tutto il contado divise; donde che i Capitani di parte e qualunque
era de' Guelfi e della republica amatore temeva forte che questa
nuova divisione non facesse, con rovina della città,
risuscitare le parti ghibelline.
E mandorono di nuovo a papa
Bonifazio perché pensasse al rimedio, se non voleva che quella
città, che era stata sempre scudo della Chiesa, o rovinasse o
diventasse ghibellina.
Mandò pertanto il Papa in Firenze
Matteo d'Acquasparta, cardinale Portuese, legato; e perché
trovò difficultà nella parte bianca, la quale per
parergli essere più potente temeva meno, si partì di
Firenze sdegnato, e la interdisse; di modo che la rimase in maggiore
confusione che la non era avanti la venuta sua.
18
Essendo
per tanto tutti gli animi degli uomini sollevati, occorse che ad uno
mortoro trovandosi assai de' Cerchi e de' Donati vennono insieme a
parole, e da quelle alle armi; dalle quali, per allora, non nacque
altro che tumulti.
E tornato ciascuno alle sue case, deliberorono i
Cerchi di assaltare i Donati, e con gran numero di gente gli andorono
a trovare; ma per la virtù di messer Corso furono ributtati e
gran parte di loro feriti.
Era la città tutta in arme; i
Signori e le leggi erano dalla furia de' potenti vinte; i più
savi e migliori cittadini pieni di sospetto vivevano.
I Donati e la
parte loro temevono più, perché potevono meno; donde
che, per provedere alle cose loro, si ragunò messer Corso con
gli altri capi neri e i Capitani di parte; e convennono che si
domandasse al Papa uno di sangue reale, che venisse a riformare
Firenze, pensando che per questo mezzo si potesse superare i Bianchi.
Questa ragunata e deliberazione fu a' Priori notificata, e dalla
parte avversa come una congiura contro al viver libero aggravata.
E
trovandosi in arme ambedue le parti, i Signori, de' quali era in quel
tempo Dante, per il consiglio e prudenza sua presono animo e feciono
armare il popolo, al quale molti del contado aggiunsono; e di poi
forzorono i capi delle parti a posare le armi, e confinorono messer
Corso Donati con molti di parte nera; e per mostrare di essere in
questo giudizio neutrali, confinorono ancora alcuni di parte bianca,
i quali poco di poi, sotto colore di oneste cagioni, tornorono.
19
Messer
Corso e i suoi, perché giudicavano il Papa alla loro parte
favorevole, ne andorono a Roma; e quello che già avevono
scritto al Papa alla presenza gli persuasono.
Trovavasi in corte del
Pontefice Carlo di Valois, fratello del re di Francia, il quale era
stato chiamato in Italia dal re di Napoli per passare in Sicilia.
Parve per tanto al Papa, sendone massimamente pregato dai Fiorentini
fuori usciti, infino che il tempo venisse commodo a navigare, di
mandarlo a Firenze.
Venne adunque Carlo; e benché i Bianchi, i
quali reggevano, lo avessero a sospetto, nondimeno, per essere capo
de' Guelfi e mandato da il Papa, non ardirono di impedirgli la
venuta; ma, per farselo amico, gli dettono autorità che
potesse secondo lo arbitrio suo disporre della città.
Carlo,
avuta questa autorità, fece armare tutti i suoi amici e
partigiani; il che dette tanto sospetto al popolo che non volesse
torgli la sua libertà, che ciascuno prese le armi e si stava
alle case sue, per essere presto se Carlo facesse alcuno moto.
Erano
i Cerchi e i capi di parte bianca, per essere stati qualche tempo
capi della republica e portatisi superbamente, venuti allo universale
in odio; la qual cosa dette animo a messer Corso e agli altri fuori
usciti neri di venire a Firenze, sapiendo massime che Carlo e i
Capitani di parte erano per favorirgli.
E quando la città, per
dubitare di Carlo, era in arme, messer Corso con tutti i fuori usciti
e molti altri che lo seguitavano, senza essere da alcuno impediti,
entrorono in Firenze; e benché messer Veri de' Cerchi fusse ad
andargli incontra confortato, non lo volse fare, dicendo che voleva
che il popolo di Firenze, contro al quale veniva, lo gastigasse.
Ma
ne avvenne il contrario, perché fu ricevuto, non gastigato da
quello; e a messer Veri convenne, volendo salvarsi, fuggire; perché
messer Corso, sforzata che gli ebbe la porta a Pinti, fece testa a
San Piero Maggiore, luogo propinquo alle sue case; e ragunato assai
amici e popolo, che desideroso di cose nuove vi concorse, trasse, la
prima cosa, delle carcere qualunque o per publica o per privata
cagione vi era ritenuto; sforzò i Signori a tornarsi privati
alle case loro, ed elesse i nuovi, popolani e di parte nera; e per
cinque giorni si attese a saccheggiare quelli che erano i primi di
parte bianca.
I Cerchi e gli altri principi della setta loro erano
usciti della città e ritirati ai loro luoghi forti, vedendosi
Carlo contrario e la maggiore parte del popolo nimico; e dove prima
ei non avevano mai voluto seguitare i consigli del Papa, furono
forzati a ricorrere a quello per aiuto, mostrandogli come Carlo era
venuto per disunire, non per unire Firenze.
Onde che il Papa di nuovo
vi mandò suo legato messer Matteo d'Acquasparta; il quale fece
fare la pace intra i Cerchi e i Donati, e con matrimoni e nuove nozze
la fortificò, e volendo che i Bianchi ancora degli uffizi
participassino, i Neri, che tenevano lo stato, non vi consentirono;
in modo che il Legato non si partì con più sua
sodisfazione né meno irato che l'altra volta; e lasciò
la città, come disubidiente, interdetta.
20
Rimase
per tanto in Firenze l'una e l'altra parte, e ciascuna malcontenta: i
Neri, per vedersi la parte nimica appresso, temevano che la non
ripigliasse, con la loro rovina, la perduta autorità e i
Bianchi si vedevano mancare della autorità e onori loro.
A'
quali sdegni e naturali sospetti s'aggiunsono nuove ingiurie.
Andava
messer Niccola de' Cerchi con più suoi amici alle sue
possessioni, e arrivato al Ponte ad Affrico, fu da Simone di messer
Corso Donati assaltato.
La zuffa fu grande, e da ogni parte ebbe
lacrimoso fine, perché messer Niccola fu morto e Simone in
modo ferito che la seguente notte morì.
Questo caso perturbò
di nuovo tutta la città; e benché la parte nera vi
avesse più colpa, nondimeno era da chi governava difesa.
E non
essendo ancora datone giudizio, si scoperse una congiura tenuta dai
Bianchi con messer Piero Ferrante barone di Carlo, con il quale
praticavano di essere rimessi al governo; la qual cosa venne a luce
per lettere scritte dai Cerchi a quello, non ostante che fusse
opinione le lettere essere false e dai Donati trovate per nascondere
la infamia la quale per la morte di messer Niccola si avevono
acquistata.
Furono per tanto confinati tutti i Cerchi e i loro
seguaci di parte bianca, intra i quali fu Dante poeta, e i loro beni
publicati e le loro case disfatte.
Sparsonsi costoro, con molti
Ghibellini che si erano con loro accostati, per molti luoghi,
cercando con nuovi travagli nuova fortuna; e Carlo, avendo fatto
quello per che venne a Firenze, si parti, e ritornò al Papa
per seguire la impresa sua di Sicilia: nella quale non fu più
savio né migliore che si fusse stato in Firenze; tanto che
vituperato, con perdita di molti suoi, tornò in Francia.
21
Vivevasi
in Firenze, dopo la partita di Carlo, assai quietamente: solo messer
Corso era inquieto, perché non gli pareva tenere nella città
quel grado quale credeva convenirsegli; anzi, sendo il governo
popolare, vedeva la repubblica essere amministrata da molti inferiori
a lui.
Mosso per tanto da queste passioni, pensò di adonestare
con una onesta cagione la disonestà dello animo suo; e
calunniava molti cittadini i quali avevano amministrati danari
publici, come se gli avessero usati ne' privati commodi; e che gli
era bene ritrovargli e punirgli.
Questa sua opinione da molti, che
avevano il medesimo desiderio che quello, era seguita; a che si
aggiugneva la ignoranzia di molti altri, i quali credevano messer
Corso per amore della patria muoversi.
Dall'altra parte i cittadini
calunniati, avendo favore nel popolo, si difendevano; e tanto
transcorse questo disparere, che, dopo ai modi civili, si venne alle
armi.
Dall'una parte era messer Corso e messer Lottieri vescovo di
Firenze, con molti Grandi e alcuni popolani; dall'altra erano i
Signori, con la maggiore parte del popolo: tanto che in più
parti della città si combatteva.
I Signori, veduto il pericolo
grande nel quale erano, mandorono per aiuto ai Lucchesi; e subito fu
in Firenze tutto il popolo di Lucca; per l'autorità del quale
si composono per allora le cose e si fermorono i tumulti; e rimase il
popolo nello stato e libertà sua, sanza altrimenti punire i
motori dello scandolo.
Aveva il Papa inteso i tumulti di Firenze, e
per fermargli vi mandò messer Niccolao da Prato suo legato.
Costui, sendo uomo, per grado, dottrina e costumi, di grande
riputazione, acquistò subito tanta fede che si fece dare
autorità di potere uno stato a suo modo fermare; e perché
era di nazione ghibellino, aveva in animo ripatriare gli usciti; ma
volse prima guadagnarsi il popolo; e per questo rinnovò le
antiche Compagnie del popolo; il quale ordine accrebbe assai la
potenza di quello, e quella de' Grandi abbassò.
Parendo per
tanto al Legato aversi obligata la moltitudine, disegnò di
fare tornare i fuori usciti, e nel tentare varie vie, non solamente
non gliene successe alcuna, ma venne in modo a sospetto a quelli che
reggevano, che fu costretto a partirsi; e pieno di sdegno se ne tornò
al Pontefice, e lasciò Firenze piena di confusione e
interdetta.
E non solo quella città da uno umore ma da molti
era perturbata, sendo in essa le inimicizie del popolo e de' Grandi,
de' Ghibellini e Guelfi, de' Bianchi e Neri.
Era adunque tutta la
città in arme e piena di zuffe; perché molti erano per
la partita del Legato mal contenti, sendo desiderosi che i fuori
usciti tornassero.
E i primi di quelli che movieno lo scandolo erano
i Medici e i Giugni, i quali in favore de' ribelli si erano con il
Legato scoperti: combattevasi per tanto in più parti in
Firenze.
Ai quali mali si aggiunse un fuoco, il quale si appiccò
prima da Orto San Michele, nelle case degli Abati; di quivi saltò
in quelle de' Capo in sacchi, e arse quelle con le case de' Macci,
degli Amieri, Toschi, Cipriani, Lamberti, Cavalcanti e tutto Mercato
nuovo; passò di quivi in Porta Santa Maria, e quella arse
tutta, e girando dal Ponte Vecchio, arse le case de' Gherardini,
Pulci, Amidei e Lucardesi, e con queste tante altre che il numero di
quelle a mille settecento o più aggiunse.Questo fuoco fu
opinione di molti che a caso, nello ardore della zuffa, si
appiccasse: alcuni altri affermano che da Neri Abati priore di San
Piero Scheraggio, uomo dissoluto e vago di male, fusse acceso; il
quale, veggendo il popolo occupato a combattere, pensò di
poter fare una sceleratezza alla quale gli uomini, per essere
occupati, non potessero rimediare; e perché gli riuscisse
meglio, misse fuoco in casa i suoi consorti, dove aveva più
commodità di farlo.
Era lo anno 1304 e del mese di luglio,
quando Firenze dal fuoco e da il ferro era perturbata.
Messer Corso
Donati solo, intra tanti tumulti, non si armò; perché
giudicava più facilmente diventare arbitro di ambedue le
parti, quando, stracche nella zuffa, agli accordi si volgessero.
Posoronsi non di meno le armi, più per sazietà del male
che per unione che infra loro nascesse: solo ne seguì che i
rebelli non tornorono, e la parte che gli favoriva rimase inferiore.
22
Il
Legato, tornato a Roma e uditi i nuovi scandoli seguiti in Firenze,
persuase al Papa che, se voleva unire Firenze, gli era necessario
fare a sé venire dodici cittadini de' primi di quella città;
donde poi, levato che fusse il nutrimento al male, si poteva
facilmente pensare di spegnerlo.
Questo consiglio fu da il Pontefice
accettato; e i cittadini chiamati ubbidirono; intra i quali fu messer
Corso Donati.
Dopo la partita de' quali, fece il Legato a' fuori
usciti intendere come allora era il tempo, che Firenze era privo de'
suoi capi, di ritornarvi: in modo che gli usciti, fatto loro sforzo
vennono a Firenze, e nella città per le mura ancora non
fornite entrarono, e infino alla piazza di San Giovanni transcorsono.
Fu cosa notabile che coloro i quali poco davanti avevano per il
ritorno loro combattuto, quando disarmati pregavano di essere alla
patria restituiti, poi che gli viddono armati, e volere per forza
occupare la città, presono l'armi contro a di loro (tanto fu
più da quelli cittadini stimata la comune utilità che
la privata amicizia) e unitisi con tutto il popolo, a tornarsi donde
erano venuti gli forzorono.
Perderono costoro la impresa per avere
lasciate parte delle genti loro alla Lastra, e per non avere
aspettato messer Tolosetto Uberti, il quale doveva venire da Pistoia
con trecento cavagli; perché stimavano che la celerità
più che le forze avesse a dare loro la vittoria: e così
spesso in simili imprese interviene che la tardità ti toglie
la occasione, e la celerità le forze.
Partiti i ribelli, si
tornò Firenze nelle antiche sue divisioni; e per torre
autorità alla famiglia de' Cavalcanti, gli tolse il popolo per
forza le Stinche, castello posto in Val di Grieve e anticamente stato
di quella; e perché quelli che dentro vi furono presi furono i
primi che fussero posti nelle carcere di nuovo edificate, si chiamò
di poi quel luogo, dal castello donde venivano, e ancora si chiama,
le Stinche.
Rinnovorono ancora, quelli che erano i primi nella
republica, le Compagnie del popolo, e dettono loro le insegne, ché
prima sotto quelle delle Arti si ragunavano; e i capi Gonfalonieri
delle compagnie e Collegi de' Signori si chiamorono, e vollono che,
negli scandoli con le armi e nella pace con il consiglio, la Signoria
aiutassero; aggiunsono ai duoi rettori antichi uno esecutore, il
quale, insieme con i gonfalonieri, doveva contro alla insolenzia de'
Grandi procedere.
In questo mezzo era morto il Papa, e messer Corso e
gli altri cittadini erano tornati da Roma; e sarebbesi vivuto
quietamente, se la città dallo animo inquieto di messer Corso
non fusse stata di nuovo perturbata.
Aveva costui, per darsi
reputazione, sempre opinione contraria ai più potenti tenuta;
e dove ei vedeva inclinare il popolo, quivi, per farselo più
benivolo, la sua autorità voltava, in modo che di tutti i
dispareri e novità era capo, e a lui rifuggivono tutti quelli
che alcuna cosa estraordinaria di ottenere desideravano: tale che
molti reputati cittadini lo odiavano; e vedevasi crescere in modo
questo odio, che la parte de' Neri veniva in aperta divisione, perché
messer Corso delle forze e autorità private si valeva, e gli
avversarii dello stato; ma tanta era l'autorità che la persona
sua seco portava, che ciascuno lo temeva.
Pure nondimeno per torgli
il favore popolare, il quale per questa via si può facilmente
spegnere, disseminorono che voleva occupare la tirannide: il che era
a persuadere facile, perché il suo modo di vivere ogni civile
misura trapassava.
La quale opinione assai crebbe poi che gli ebbe
tolta per moglie una figliuola di Uguccione della Faggiuola, capo di
parte ghibellina e bianca e in Toscana potentissimo.
23
Questo
parentado, come venne a notizia, dette animo ai suoi avversarii; e
presono contro a di lui le armi; e il popolo, per le medesime
cagioni, non lo difese; anzi la maggior parte di quello con gli
nimici suoi convenne.
Erano capi de suoi avversarii messer Rosso
della Tosa, messer Pazzino de' Pazzi messer Geri Spini e messer Berto
Brunelleschi.
Costoro, con i loro seguaci e la maggior parte del
popolo, si raccozzorono armati a piè del palagio de' Signori,
per l'ordine de' quali si dette una accusa a messer Piero Branca
capitano del popolo contro a messer Corso, come uomo che si volesse
con lo aiuto di Uguccione fare tiranno: dopo la quale fu citato, e di
poi, per contumace, giudicato ribello: né fu più dalla
accusa alla sentenzia che uno spazio di due ore.
Dato questo
giudizio, i Signori, con le Compagnie del popolo sotto le loro
insegne, andorono a trovarlo.
Messer Corso dall'altra parte, non per
vedersi da molti de' suoi abbandonato, non per la sentenzia data, non
per la autorità de' Signori né per la moltitudine de'
nimici sbigottito, si fece forte nelle sue case, sperando potere
difendersi in quelle tanto che Uguccione, per il quale aveva mandato,
a soccorrerlo venisse.
Erano le sue case e le vie intorno a quelle
state sbarrate da lui, e di poi di uomini suoi partigiani
affortificate; i quali in modo le difendevano, che il popolo, ancora
che fusse gran numero, non poteva vincerle.
La zuffa per tanto fu
grande, con morte e ferite d'ogni parte; e vedendo il popolo di non
potere dai luoghi aperti superarlo, occupò le case che erano
alle sue propinque; e quelle rotte, per luoghi inaspettati gli entrò
in casa.
Messer Corso per tanto veggendosi circundato da' nimici, né
confidando più negli aiuti di Uguccione, deliberò, poi
che gli era disperato della vittoria, vedere se poteva trovare
rimedio alla salute; e fatta testa egli e Gherardo Bordoni, con molti
altri de' suoi più forti e fidati amici, feciono impeto contro
a' nimici; e quelli apersono in maniera che poterono, combattendo,
passargli; e della città per la Porta alla Croce si uscirono.
Furono non di meno da molti perseguitati; e Gherardo in su l'Affrico
da Boccaccio Cavicciuli fu morto; messer Corso ancora fu a Rovezzano
da alcuni cavagli catelani soldati della Signoria sopraggiunto e
preso; ma nel venire verso Firenze, per non vedere in viso i suoi
nimici vittoriosi ed essere straziato da quelli, si lasciò da
cavallo cadere; ed essendo in terra, fu da uno di quelli che lo
menavano scannato, il corpo del quale fu dai monaci di San Salvi
ricolto, e senza alcuno onore sepulto.
Questo fine ebbe messer Corso
dal quale la patria e la parte de' Neri molti beni e molti mali
ricognobbe; e se gli avessi avuto lo animo più quieto, sarebbe
più felice la memoria sua; non di meno merita di essere
numerato intra i rari cittadini che abbi avuti la nostra città.
Vero è che la sua inquietudine fece alla patria e alla parte
non si ricordare degli oblighi avieno con quello e nella fine a sé
partorì la morte, e all'una e all'altra di quelle di molti
mali.
Uguccione, venendo al soccorso del genero, quando fu a Remoli
intese come messer Corso era da il popolo combattuto; e pensando non
potere fargli alcuno favore, per non fare male a sé sanza
giovare a lui, se ne tornò adietro.
24
Morto
messer Corso, il che seguì l'anno 1308, si fermorono i
tumulti; e vissesi quietamente infino a tanto che si intese come
Arrigo imperadore con tutti i rebelli fiorentini passava in Italia,
a' quali aveva promesso di restituirgli alla patria loro.
Donde a'
capi del governo parve che fusse bene, per avere meno nimici,
diminuire il numero di quelli; e per ciò deliberorono che
tutti i rebelli fussero restituiti, eccetto quelli a chi
nominatamente nella legge fusse il ritorno vietato.
Donde che
restorono fuora la maggior parte de' Ghibellini e alcuni di quelli di
parte bianca, intra i quali furono Dante Aldighieri, i figliuoli di
messer Veri de' Cerchi e di Giano della Bella.
Mandorono oltra di
questo, per aiuto, a Ruberto re di Napoli; e non lo potendo ottenere
come amici, gli dierono la città per cinque anni, acciò
che come suoi uomini gli difendesse.
Lo Imperadore, nel venire, fece
la via da Pisa, e per le maremme ne andò a Roma, dove prese la
corona l'anno 1312; e di poi, deliberato di domare i Fiorentini, ne
venne, per la via di Perugia e di Arezzo, a Firenze; e si pose con lo
esercito suo al munistero di San Salvi, propinquo alla città
ad un miglio, dove cinquanta giorni stette senza alcun frutto; tanto
che, disperato di potere perturbare lo stato di quella città
ne andò a Pisa, dove convenne con Federigo re di Sicilia di
fare la impresa del Regno; e mosso con le sue genti, quando egli
sperava la vittoria, e il re Ruberto temeva la sua rovina, trovandosi
a Buonconvento, morì.
25
Occorse,
poco tempo di poi, che Uguccione della Faggiuola diventò
signore di Pisa, e poi apresso di Lucca, dove dalla parte ghibellina
fu messo; e con il favore di queste città gravissimi danni a'
vicini faceva, dai quali i Fiorentini per liberarsi domandorono ad il
re Ruberto Piero suo fratello, che i loro eserciti governasse.
Uguccione da l'altra parte di accrescere la sua potenzia non cessava,
e per forza e per inganno aveva in Val d'Arno e in Val di Nievole
molte castella occupate, ed essendo ito allo assedio di Montecatini,
giudicorono i Fiorentini che fusse necessario soccorrerlo, non
volendo che quello incendio ardesse tutto il paese loro.
E ragunato
un grande esercito, passorono in Val di Nievole, dove vennono con
Uguccione alla giornata; e dopo una gran zuffa furono rotti, dove
morì Piero fratello del Re, il corpo del quale non si ritrovò
mai, e con quello più che dumila uomini furono ammazzati.
Né
dalla parte di Uguccione fu la vittoria allegra, perché vi
morì un suo figliuolo, con molti altri capi dello esercito.
I
Fiorentini, dopo questa rotta, afforzorono le loro terre allo
intorno; e il re Ruberto mandò per loro capitano il conte
d'Andria, detto il Conte Novello, per i portamenti del quale, o vero
perché sia naturale a' Fiorentini che ogni stato rincresca e
ogni accidente gli divida, la città, non ostante la guerra
aveva con Uguccione, in amici e nimici del Re si divise.
Capi degli
nimici erano messer Simone della Tosa, i Magalotti, con certi altri,
popolani, i quali erano agli altri nel governo superiori.
Costoro
operorono che si mandasse in Francia, e di poi nella Magna, per
trarne capi e genti, per potere poi, allo arrivare loro, cacciarne il
Conte governatore per il Re, ma la fortuna fece che non poterono
averne alcuno.
Non di meno non abbandonorono la impresa loro; e
cercando di uno per adorarlo, non potendo di Francia né della
Magna trarlo, lo trassono di Agobio: e avendone prima cacciato il
Conte, feciono venire Lando d'Agobio per esecutore, o vero per
bargello; al quale pienissima potestà sopra i cittadini
dettono.
Costui era uomo rapace e crudele, e andando con molti armati
per la terra, la vita a questo e a quell'altro, secondo la volontà
di coloro che lo avevano eletto, toglieva; e in tanta insolenzia
venne, che batté una moneta falsa del conio fiorentino, sanza
che alcuno opporsegli ardisse: a tanta grandezza lo avieno condotto
le discordie di Firenze! Grande veramente e misera città; la
quale né la memoria delle passate divisioni, né la
paura di Uguccione, né l'autorità di uno Re avevano
potuto tenere ferma, tanto che in malissimo stato si trovava, sendo
fuora da Uguccione corsa, e dentro da Lando d'Agobio saccheggiata.
Erano gli amici del Re, e contrari a Lando e suoi seguaci, famiglie
nobili e popolani grandi, e tutti Guelfi; non di meno, per avere gli
avversarii lo stato in mano, non potevono, se non con loro grave
pericolo, scoprirsi; pure, deliberati di liberarsi da sì
disonesta tirannide, scrissono secretamente al re Ruberto che facesse
suo vicario in Firenze il conte Guido da Battifolle.
Il che subito fu
da il Re ordinato; e la parte nimica, ancora che i Signori fussero
contrari ad il Re, non ardì, per le buone qualità del
Conte opporsegli; non di meno non aveva molta autorità, perché
i Signori e gonfalonieri delle Compagnie Lando e la sua parte
favorivano.
E mentre che in Firenze in questi travagli si viveva,
passò la figliuola del re Alberto della Magna, la quale andava
a trovare Carlo, figliuolo del re Ruberto, suo marito.
Costei fu
onorata assai dagli amici del Re, e con lei delle condizioni della
città e della tirannide di Lando e suoi partigiani si dolfono;
tanto che prima che la partisse, mediante i favori suoi e quelli che
da il Re ne furono porti, i cittadini si unirono, e a Lando fu tolta
l'autorità, e pieno di preda e di sangue rimandato ad Agobio.
Fu, nel riformare il governo la signoria ad il Re per tre anni
prorogata; e perché di già erano eletti sette Signori
di quelli della parte di Lando, se ne elessono sei di quelli del Re;
e seguirono alcuni magistrati con tredici Signori; di poi, pure
secondo lo antico uso, a sette si ridussono.
26
Fu
tolta, in questi tempi, a Uguccione la signoria di Lucca e di Pisa, e
Castruccio Castracani, di cittadino di Lucca, ne divenne signore, e
perché era giovane, ardito e feroce, e nelle sue imprese
fortunato, in brevissimo tempo principe de' Ghibellini di Toscana
divenne.
Per la qual cosa i Fiorentini, posate le civili discordie,
per più anni pensorono, prima, che le forze di Castruccio non
crescessero, e di poi, contro alla voglia loro cresciute, come si
avessero a difendere da quelle.
E perché i Signori con
migliore consiglio deliberassero, e con maggiore autorità
esequissero, creorono dodici cittadini, i quali Buoni uomini
nominorono, senza il consiglio e consenso de' quali i Signori alcuna
cosa importante operare non potessero.
Era, in questo mezzo, il fine
della signoria del re Ruberto venuto; e la città, diventata
principe di se stessa, con i consueti rettori e magistrati si
riordinò; e il timore grande che la aveva di Castruccio la
teneva unita.
Il quale dopo molte cose fatte da lui contro ai signori
di Lunigiana, assaltò Prato donde i Fiorentini, deliberati a
soccorrerlo serrorono le botteghe e popolarmente vi andorono; dove
ventimila a piè e millecinquecento a cavallo convennono.
E per
torre a Castruccio forze e aggiugnerle a loro, i Signori per loro
bando significorono che qualunque rebelle guelfo venisse al soccorso
di Prato sarebbe dopo la impresa, alla patria restituito: donde più
che quattromila ribelli vi concorsono.
Questo tanto esercito, con
tanta prestezza a Prato condotto, sbigottì in modo Castruccio
che, sanza volere tentare la fortuna della zuffa, verso Lucca si
ridusse.
Donde nacque nel campo de' Fiorentini, intra i nobili e il
popolo, disparere: questo voleva seguitarlo e combatterlo, per
spegnerlo; quelli volevano ritornarsene, dicendo che bastava avere
messo a pericolo Firenze per liberare Prato: il che era stato bene
sendo costretti dalla necessità; ma ora che quella era
mancata, non era, potendosi acquistare poco e perdere assai, da
tentare la fortuna.
Rimessesi il giudicio, non si potendo accordare,
a' Signori, quali trovorono ne' Consigli, intra il popolo e i Grandi,
i medesimi dispareri; la qual cosa, sentita per la città, fece
ragunare in Piazza assai gente, la quale contro ai Grandi parole
piene di minacce usava: tanto che i Grandi, per timore, cederono.
Il
quale partito, per essere preso tardi, e da molti mal volentieri,
dette tempo al nimico di ritirarsi salvo a Lucca.
27
Questo
disordine in modo fece contro ai Grandi il popolo indegnare, che i
Signori la fede data agli usciti per ordine e conforti loro osservare
non vollono.
Il che presentendo gli usciti, deliberorono di
anticipare, e innanzi al campo, per entrare i primi in Firenze, alle
porte della città si presentorono; la qual cosa, perché
fu preveduta, non successe loro, ma furono da quelli che in Firenze
erano rimasi ributtati.
Ma per vedere se potevono avere d'accordo
quello che per forza non avevono potuto ottenere, mandorono otto
uomini, ambasciadori, a ricordare a' Signori la fede data e i
pericoli sotto quella da loro corsi, sperandone quel premio che era
stato loro promesso.
E benché i nobili, a' quali pareva essere
di questo obligo debitori, per avere particularmente promesso quello
a che i Signori si erano obligati, si affaticassero assai in
benefizio degli usciti, non di meno, per lo sdegno aveva preso la
universalità, che non si era in quel modo che si poteva contro
a Castruccio vinta la impresa, non lo ottennero: il che seguì
in carico e disonore della città.
Per la qual cosa sendo molti
de' nobili sdegnati, tentorono di ottenere per forza quello che
pregando era loro negato; e convennono con i fuori usciti venissero
armati alla città, e loro, drento, piglierebbono l'armi in
loro aiuto.
Fu la cosa avanti al giorno deputato scoperta, tale che i
fuori usciti trovorono la città in arme, e ordinata a frenare
quelli di fuora e in modo quelli di drento sbigottire, che niuno
ardisse di prendere l'armi: e così, senza fare alcuno frutto,
si spiccorono dalla impresa.
Dopo la costoro partita, si desiderava
punire quelli che dello avergli fatti venire avessero colpa; e benché
ciascuno sapessi quali erano i delinquenti, niuno di nominargli, non
che di accusargli, ardiva.
Per tanto, per intenderne il vero sanza
rispetto, si provide che ne' Consigli ciascuno scrivesse i
delinquenti, e gli scritti al capitano secretamente si presentassero:
donde rimasono accusati messer Amerigo Donati, messer Teghiaio
Frescobaldi e messer Lotteringo Gherardini; i quali, avendo il
giudice più favorevole che forse i delitti loro non
meritavano, furono in danari condennati.
28
I
tumulti che in Firenze nacquono per la venuta de' ribelli alle porte
mostrorono come alle Compagnie del popolo uno capo solo non bastava;
e però vollono che per lo avvenire ciascuna tre o quattro capi
avesse; e ad ogni gonfaloniere duoi o tre, i quali chiamorono
pennonieri, aggiunsono, acciò che, nelle necessità dove
tutta la compagnia non avesse a concorrere, potesse parte di quella
sotto uno capo adoperarsi.
E come avviene in tutte le republiche, che
sempre dopo uno accidente alcune leggi vecchie si annullano e alcune
altre se ne rinnuovano, dove prima la Signoria si faceva di tempo in
tempo, i Signori e i Collegi che allora erano, perché avevano
assai potenzia, si feciono dare autorità di fare i Signori che
dovevano per i futuri quaranta mesi sedere; i nomi de' quali missono
in una borsa, e ogni duoi mesi gli traevano.
Ma prima che de' mesi
quaranta il termine venisse, perché molti cittadini di non
essere stati imborsati dubitavano, si feciono nuove imborsazioni.
Da
questo principio nacque lo ordine dello imborsare per più
tempo tutti i magistrati, così d'entro come di fuora; dove
prima nel fine de' magistrati, per i Consigli i successori si
eleggevano; le quali imborsazioni si chiamorono di poi squittini.
E
perché ogni tre, o al più lungo ogni cinque anni si
facevano, pareva che togliessino alla città noia, e la cagione
de' tumulti levassino i quali alla creazione di ogni magistrato, per
gli assai competitori, nascevano; e non sapiendo altrimenti
correggergli, presono questa via, e non intesono i difetti che sotto
questa poca commodità si nascondevano.
29
Era
lo anno 1325, e Castruccio, avendo occupata Pistoia, era divenuto in
modo potente che i Fiorentini, temendo la sua grandezza,
deliberorono, avanti che gli avessi preso bene il dominio di quella,
di assaltarlo, e trarla di sotto la sua ubbidienza.
E fra di loro
cittadini e di amici ragunorono ventimila pedoni e tremila cavalieri,
e con questo esercito si accamporono ad Altopascio, per occupare
quello e per quella via impedirgli il potere soccorrere Pistoia.
Successe a' Fiorentini prendere quello luogo; di poi ne andorono
verso Lucca guastando il paese; ma per la poca prudenza e meno fede
del capitano, non si fece molti progressi.
Era loro capitano messer
Ramondo di Cardona: costui, veduto i Fiorentini essere stati per lo
adietro della loro libertà liberali, e avere quella ora al Re,
ora ai Legati, ora ad altri di minore qualità uomini concessa,
pensava, se conducessi quelli in qualche necessità, che
facilmente potrebbe accadere che lo facessino principe.
Né
mancava di ricordarlo spesso; e chiedeva di avere quella autorità
nella città, che gli avevano negli eserciti data, altrimenti
mostrava di non potere avere quella ubbidienza che ad uno capitano
era necessaria; e perché i Fiorentini non gliene consentivono,
egli andava perdendo tempo, e Castruccio lo acquistava.
Perché
gli vennono quelli aiuti che da' Visconti e dagli altri tiranni di
Lombardia gli erano stati promessi, ed essendo fatto forte di genti,
messer Ramondo, come prima per la poca fede non seppe vincere, così
di poi per la poca prudenza non si seppe salvare; ma procedendo con
il suo esercito lentamente, fu da Castruccio, propinquo ad
Altopascio, assaltato, e dopo una gran zuffa rotto: dove restarono
presi e morti molti cittadini, e con loro insieme messer Ramondo, il
quale della sua poca fede e de' suoi cattivi consigli dalla fortuna
quella punizione ebbe, che gli aveva dai Fiorentini meritato.
I danni
che Castruccio fece, dopo la vittoria, a' Fiorentini, di prede,
prigioni, rovine e arsioni, non si potrebbono narrare; perché,
senza avere alcuna gente allo incontro, più mesi dove e' volle
cavalcò e corse; e a' Fiorentini, dopo tanta rotta, fu assai
il salvare la città.
30
Né
però si invilirono in tanto che non facessero grandi
provedimenti a danari, soldassero gente e mandassero ai loro amici
per aiuto.
Non di meno a frenare tanto nimico niuno provedimento
bastava; di modo che furono forzati eleggere per loro signore Carlo
duca di Calavria e figliuolo del re Ruberto, se vollono che venisse
alla difesa loro; perché quelli, sendo consueti a
signoreggiare Firenze, volevono più tosto la ubbidienza che
l'amicizia sua.
Ma per essere Carlo implicato nelle guerre di
Sicilia, e per ciò non potendo venire a prendere la signoria,
vi mandò Gualtieri di nazione franzese e duca di Atene.
Costui, come vicario del signore, prese la possessione della città,
e ordinava i magistrati secondo lo arbitrio suo.
Furono non di meno i
portamenti suoi modesti, e in modo contrari alla natura sua, che
ciascuno lo amava.
Carlo composte che furono le guerre di Sicilia,
con mille cavalieri ne venne a Firenze, dove fece la sua entrata di
luglio l'anno 1326; la cui venuta fece che Castruccio non poteva
liberamente il paese fiorentino saccheggiare.
Non di meno quella
reputazione che si acquistò di fuora si perdé dentro, e
quelli danni che dai nimici non furono fatti, dagli amici si
sopportorono: perché i Signori senza il consenso del Duca
alcuna cosa non operavano, e in termine di uno anno trasse della
città quattrocentomila fiorini, non ostante che, per le
convenzioni fatte seco, non si avesse a passare dugentomila: tanti
furono i carichi con i quali ogni giorno o egli o il padre la città
aggravavano.
A questi danni si aggiunsono ancora nuovi sospetti e
nuovi nimici; perché i Ghibellini di Lombardia in modo per la
venuta di Carlo in Toscana insospettirono, che Galeazzo Visconti e
gli altri tiranni lombardi, con danari e promesse, feciono passare in
Italia Lodovico di Baviera, stato contro alla voglia del Papa eletto
imperadore.
Venne costui in Lombardia, e di quivi in Toscana; e con
lo aiuto di Castruccio si insignorì di Pisa; dove, rinfrescato
di danari, se ne andò verso Roma; il che fece che Carlo si
partì di Firenze, temendo del Regno, e per suo vicario lasciò
messer Filippo da Saggineto.
Castruccio, dopo la partita dello
Imperadore, si insignorì di Pisa; e i Fiorentini per trattato
gli tolsono Pistoia; alla quale Castruccio andò a campo; dove
con tanta virtù e ostinazione stette, che, ancora che i
Fiorentini facessero più volte prova di soccorrerla, e ora il
suo esercito ora il suo paese assalissero, mai non posserono, né
con forza né con industria, dalla impresa rimuoverlo: tanta
sete aveva di gastigare i Pistolesi e i Fiorentini sgarare! di modo
che i Pistolesi furono a riceverlo per signore constretti.
La qual
cosa, ancora che seguisse con tanta sua gloria, seguì anche
con tanto suo disagio che, tornato in Lucca, si morì.
E perché
gli è rade volte che la fortuna un bene o un male con un altro
bene o con un altro male non accompagni, morì ancora, a
Napoli, Carlo duca di Calavria e signore di Firenze, acciò che
i Fiorentini in poco di tempo, fuori d'ogni loro opinione, dalla
signoria dell'uno e timore dell'altro si liberassino.
I quali, rimasi
liberi, riformorono la città, e annullorono tutto l'ordine de'
Consigli vecchi, e ne creorono duoi, l'uno di trecento cittadini
popolani, l'altro di ducento cinquanta grandi e popolani; il primo
dei quali Consiglio di Popolo, l'altro di Comune chiamorono.
31
Lo
Imperadore, arrivato a Roma, creò uno antipapa, e ordinò
molte cose contro alla Chiesa, molte altre senza effetto ne tentò;
in modo che alla fine se ne partì con vergogna, e ne venne a
Pisa; dove, o per sdegno, o per non essere pagati, circa ottocento
cavagli tedeschi da lui si ribellorono, e a Montechiaro, sopra il
Ceruglio, si afforzorono.
Costoro, come lo Imperadore fu partito da
Pisa per andare in Lombardia, occuporono Lucca, e ne cacciorono
Francesco Castracani, lasciatovi dallo Imperadore, e pensando di
trarre di quella preda qualche utilità, quella città ai
Fiorentini per ottanta mila fiorini offersono; il che fu, per
consiglio di messer Simone della Tosa, rifiutato.
Il quale partito
sarebbe stato alla città nostra utilissimo, se i Fiorentini
sempre in quella volontà si mantenevano; ma perché poco
di poi mutorono animo fu dannosissimo; perché, se allora per
sì poco prezzo avere pacificamente la potevono e non la
vollono, di poi, quando la vollono, non la ebbono, ancora che molto
maggiore prezzo la comperassero; il che fu cagione che più
volte Firenze il suo governo, con suo grandissimo danno, variasse.
Lucca adunque, rifiutata dai Fiorentini, fu da messer Gherardino
Spinoli genovese per fiorini trenta mila comperata.
E perché
gli uomini sono più lenti a pigliare quello che possono avere,
che non sono a desiderare quello a che non possono aggiugnere, come
prima si scoperse la compera da messer Gherardino fatta, e per quanto
poco pregio la aveva avuta, si accese il popolo di Firenze di un
estremo desiderio di averla, riprendendo se medesimo e chi ne lo
aveva sconfortato; e per averla per forza, poi che comperare non
l'avevano voluta, mandò le genti sue a predare e scorrere
sopra i Lucchesi.
Erasi partito, in questo mezzo, lo imperadore di
Italia; e lo Antipapa, per ordine de' Pisani, ne era andato prigione
in Francia; e i Fiorentini, dalla morte di Castruccio, che seguì
nel 1328, infino al 1340, stettono dentro quieti, e solo alle cose
dello stato loro di fuora attesono, e in Lombardia, per la venuta del
re Giovanni di Buemia, e in Toscana, per conto di Lucca, di molte
guerre feciono.
Ornorono ancora la città di nuovi edifici;
perché la torre di Santa Reparata, secondo il consiglio di
Giotto dipintore in quelli tempi famosissimo, edificorono; e perché,
nel 1333, alzorono, per uno diluvio, le acque d'Arno in alcuno luogo
in Firenze più che dodici braccia, donde parte de' ponti e
molti edifici rovinorono, con grande sollecitudine e spendio le cose
rovinate instaurorono.
32
Ma
venuto l'anno 1340, nuove cagioni di alterazioni nacquono.
Avevano i
cittadini potenti due vie ad accrescere o mantenere la potenza loro:
l'una era ristringere in modo le imborsazioni de' magistrati, che
sempre o in loro o in amici loro pervenissero, l'altra lo essere capi
della elezione de' rettori, per averli di poi ne' loro giudicii
favorevoli.
E tanto questa seconda parte stimavano, che, non bastando
loro i rettori ordinari, uno terzo alcuna volta ne conducevano: donde
che, in questi tempi, avevono condotto estraordinariamente, sotto
titolo di Capitano di guardia, messer Iacopo Gabrielli d'Agobio, e
datogli sopra i cittadini ogni autorità.
Costui, ogni giorno,
a contemplazione di chi governava, assai ingiurie faceva; e intra gli
ingiuriati messer Piero de' Bardi e messer Bardo Frescobaldi furono.
Costoro, sendo nobili e naturalmente superbi, non potevono sopportare
che uno forestiere, a torto e a contemplazione di pochi potenti, gli
avesse offesi; e per vendicarsi, contro a lui e chi governava
congiurorono: nella quale congiura molte famiglie nobili con alcune
di popolo furono, ai quali la tirannide di chi governava dispiaceva.
L'ordine dato infra loro era che ciascuno ragunasse assai gente
armata in casa, e la mattina dopo il giorno solenne di Tutti i Santi,
quando ciascuno si truova per i templi a pregare per i suoi morti,
pigliare le armi, ammazzare il Capitano e i primi di quelli che
reggevano, e di poi, con nuovi Signori e con nuovo ordine, lo stato
riformare.
Ma perché i partiti pericolosi quanto più si
considerano tanto peggio volentieri si pigliano, interviene sempre
che le congiure che danno spazio di tempo alla esecuzione si
scuoprono.
Sendo intra i congiurati messer Andrea de' Bardi, poté
più in lui, nel ripensare la cosa, la paura della pena che la
speranza della vendetta, e scoperse il tutto a Iacopo Alberti suo
cognato; il che Iacopo ai Priori, e i Priori a quelli del reggimento
significorono.
E perché la cosa era presso al pericolo, sendo
il giorno di Tutti i Santi propinquo, molti cittadini in Palagio
convennono, e giudicando che fusse pericolo nel differire, volevono
che i Signori sonassero la campana, e il popolo alle armi
convocassero.
Era gonfalonieri Taldo Valori, e Francesco Salviati uno
de' Signori: a costoro, per essere parenti de' Bardi, non piaceva il
sonare, allegando non essere bene per ogni leggier cosa fare armare
il popolo, perché la autorità data alla moltitudine non
temperata da alcuno freno non fece mai bene; e che gli scandoli è
muovergli facile, ma frenargli difficile; e però essere
migliore partito intendere prima la verità della cosa, e
civilmente punirla, che volere, con la rovina di Firenze,
tumultuariamente, sopra una semplice relazione, correggerla.
Le quali
parole non furono in alcuna parte udite; ma con modi ingiuriosi e
parole villane furono i Signori a sonare necessitati: al quale suono
tutto il popolo alla Piazza armato corse.
Dall'altra parte, i Bardi e
Frescobaldi, veggendosi scoperti, per vincere con gloria o morire
sanza vergogna, presono le armi, sperando potere la parte della città
di là dal fiume, dove avevano le case loro, difendere; e si
feciono forti ai ponti, sperando nel soccorso che dai nobili del
contado e altri loro amici aspettavano.
Il quale disegno fu loro
guasto dai popolani i quali quella parte della città con loro
abitavano, i quali presono le armi in favore de' Signori: di modo
che, trovandosi tramezzati, abbandonorono i ponti e si ridussono
nella via dove i Bardi abitavano, come più forte che alcuna
altra, e quella virtuosamente difendevano.
Messer Iacopo d'Agobio,
sappiendo come contro a lui era tutta questa congiura, pauroso della
morte, tutto stupido e spaventato, propinquo al palagio de' Signori,
in mezzo di sue genti armate si posava; ma negli altri rettori, dove
era meno colpa, era più animo; e massime nel podestà,
che messer Maffeo da Carradi si chiamava.
Costui si presentò
dove si combatteva; e senza avere paura di alcuna cosa, passato il
ponte Rubaconte, intra le spade de' Bardi si misse, e fece segno di
volere parlare loro: donde che la reverenzia dell'uomo, i suoi
costumi e le altre sue grandi qualità feciono ad un tratto
fermare le armi, e quietamente ascoltarlo.
Costui, con parole modeste
e gravi, biasimò la congiura loro; mostrò il pericolo
nel quale si trovavano, se non cedevono a questo popolare impeto;
dette loro speranza che sarebbono di poi uditi e con misericordia
giudicati; promisse di essere operatore che alli ragionevoli sdegni
loro si arebbe compassione.
Tornato di poi a' Signori, persuase loro
che non volessero vincere con il sangue de' suoi cittadini, e che non
gli volessero, non uditi, giudicare; e tanto operò, che, di
consenso de' Signori, i Bardi e i Frescobaldi, con i loro amici,
abbandonarono la città, e senza essere impediti alle castella
loro si ritornarono.
Partitisi costoro e disarmatosi il popolo, i
Signori solo contro a quelli che avevano della famiglia de' Bardi e
Frescobaldi prese le armi procederono; e per spogliarli di potenza,
comperorono dai Bardi il castello di Mangona e di Vernia, e per legge
providono che alcuno cittadino non potesse possedere castella
propinque a Firenze a venti miglia.
Pochi mesi di poi fu decapitato
Stiatta Frescobaldi, e molti altri di quella famiglia fatti ribelli.
Non bastò a quelli che governavano avere i Frescobaldi e i
Bardi superati e domi; ma come fanno quasi sempre gli uomini, che
quanto più autorità hanno peggio la usano e più
insolenti diventano, dove prima era uno capitano di guardia che
affliggeva Firenze, ne elessono uno ancora in contado, e con
grandissima autorità, acciò che gli uomini a loro
sospetti non potessero né in Firenze né di fuora
abitare; e in modo si concitorono contro tutti i nobili, ch'eglino
erano apparecchiati a vendere la città e loro, per vendicarsi,
e aspettando la occasione, la venne bene, e loro la usorono meglio.
33
Era,
per i molti travagli i quali erano stati in Toscana e in Lombardia,
pervenuta la città di Lucca sotto la signoria di Mastino della
Scala, signore di Verona; il quale, ancora che per obligo la avesse a
consegnare ai Fiorentini, non la aveva consegnata, perché,
essendo signore di Parma, giudicava poterla tenere, e della fede data
non si curava.
Di che i Fiorentini per vendicarsi, si congiunsono con
i Viniziani, e gli feciono tanta guerra che fu per perderne tutto lo
stato suo.
Non di meno non ne risultò loro altra commodità
che un poco di sodisfazione d'animo d'avere battuto Mastino, perché
i Viniziani, come fanno tutti quelli che con i meno potenti si
collegono, poi che ebbono guadagnato Trevigi e Vicenza, senza avere
a' Fiorentini rispetto, si accordorono.
Ma avendo poco di poi i
Visconti, signori di Milano, tolto Parma a Mastino, e giudicando egli
per questo non potere più tenere Lucca, deliberò di
venderla.
I competitori erano i Fiorentini e i Pisani; e nello
strignere le pratiche, i Pisani vedevano che i Fiorentini, come più
ricchi, erano per ottenerla, e per ciò si volsono alla forza,
e con lo aiuto de' Visconti vi andorono a campo.
I Fiorentini per
questo non si ritirorono indietro dalla compera, ma fermorono con
Mastino i patti, pagorono parte de' denari e d'un'altra parte dierono
statichi, e a prendere la possessione Naddo Rucellai, Giovanni di
Bernardino de' Medici e Rosso di Ricciardo de' Ricci vi mandorono, i
quali passorono in Lucca per forza, e dalle genti di Mastino fu
quella città consegnata loro.
I Pisani non di meno seguitorono
la loro impresa, e con ogni industria di averla per forza cercavano,
e i Fiorentini dallo assedio liberare la volevono; e dopo una lunga
guerra ne furono i Fiorentini, con perdita di denari e acquisto di
vergogna, cacciati, e i Pisani ne diventorono signori.
La perdita di
questa città, come in simili casi avviene sempre, fece il
popolo di Firenze contro a quelli che governavano sdegnare; e in
tutti i luoghi e per tutte le piazze publicamente gli infamavano
accusando la avarizia e i cattivi consigli loro.
Erasi, nel principio
di questa guerra, data autorità a venti cittadini di
amministrarla, i quali messer Malatesta da Rimini per capitano della
impresa eletto avevano.
Costui con poco animo e meno prudenza la
aveva governata; e perché eglino avevano mandato a Ruberto re
di Napoli per aiuti, quel re aveva mandato loro Gualtieri duca di
Atene, il quale, come vollono i cieli che al male futuro le cose
preparavano, arrivò in Firenze in quel tempo appunto che la
impresa di Lucca era al tutto perduta.
Onde che quelli venti,
veggendo sdegnato il popolo, pensorono, con eleggere nuovo capitano,
quello di nuova speranza riempiere, e con tale elezione, o frenare, o
torre le cagioni del calunniargli; e perché ancora avesse
cagione di temere e il duca di Atene gli potesse con più
autorità difendere, prima per conservadore, di poi per
capitano delle loro genti d'arme lo elessono.
I Grandi, i quali, per
le cagioni dette di sopra, vivevono mal contenti, e avendo molti di
loro conoscenza con Gualtieri, quando altre volte in nome di Carlo
duca di Calavria aveva governato Firenze, pensorono che fusse venuto
tempo da potere, con la rovina della città, spegnere lo
incendio loro; giudicando non avere altro modo a domare quel popolo
che gli aveva afflitti, che ridursi sotto un principe, il quale,
conosciuta la virtù dell'una parte e la insolenzia dell'altra,
frenasse l'una, e l'altra remunerasse: a che aggiugnevono la speranza
del bene che ne porgevono i meriti loro, quando per loro opera egli
acquistasse il principato.
Furono per tanto in secreto più
volte seco, e lo persuasono a pigliare la signoria del tutto,
offerendogli quelli aiuti potevono maggiori.
Alla autorità e
conforti di costoro si aggiunse quella di alcune famiglie popolane;
le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi e Buonaccorsi; i
quali, gravati di debiti, non potendo del loro, desideravano di
quello d'altri ai loro debiti sodisfare, e con la servitù
della patria dalla servitù de' loro creditori liberarsi.
Queste persuasioni accesono lo ambizioso animo del Duca di maggiore
desiderio del dominare; e per darsi riputazione di severo e di
giusto, e per questa via accrescersi grazia nella plebe, quelli che
avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava, e a messer
Giovanni de' Medici, Naddo Rucellai e Guglielmo Altoviti tolse la
vita, e molti in esilio, e molti in denari ne condannò.
34
Queste
esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono, solo ai Grandi e
alla plebe sodisfacevano: questa perché sua natura è
rallegrarsi del male, quelli altri per vedersi vendicare di tante
ingiurie dai popolani ricevute.
E quando e' passava per le strade,
con voce alta la franchezza del suo animo era lodata, e ciascuno
publicamente a trovare le fraude de' cittadini e gastigarle lo
confortava.
Era l'uffizio de' venti venuto meno, e la reputazione del
Duca grande, e il timore grandissimo; tale che ciascuno, per
mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la sua casa faceva
dipignere: né gli mancava ad essere principe altro che il
titolo.
E parendogli potere tentare ogni cosa securamente, fece
intendere a' Signori come e' giudicava, per il bene della città,
necessario gli fusse concessa la signoria libera; e perciò
desiderava, poi che tutta la città vi consentiva, che loro
ancora vi consentissero.
I Signori, avvenga che molto innanzi
avessero la rovina della patria loro preveduto, tutti a questa
domanda si perturborono, e con tutto che ei conoscessero il loro
pericolo, non di meno per non mancare alla patria, animosamente
gliene negorono.
Aveva il Duca, per dare di sé maggior segno
di religione e di umanità, eletto per sua abitazione il
convento de' Fra' Minori di Santa Croce; e desideroso di dare effetto
al maligno suo pensiero, fece per bando publicare che tutto il
popolo, la mattina seguente, fusse alla piazza di Santa Croce,
davanti a lui.
Questo bando sbigottì molto più i
Signori, che prima non avevono fatto le parole; e con quelli
cittadini i quali della patria e della libertà giudicavano
amatori si ristrinsono; né pensorono, cognosciute le forze del
Duca, di potervi fare altro rimedio che pregarlo, e vedere, dove le
forze non erano suffizienti, se i preghi o a rimuoverlo dalla impresa
o a fare la sua signoria meno acerba bastavano.
Andorono per tanto
parte de' Signori a trovarlo, e uno di loro gli parlò in
questa sentenza: - Noi vegniamo, o Signore, a voi, mossi prima da le
vostre domande, di poi dai comandamenti che voi avete fatti per
ragunare il popolo; perché ci pare essere certi che voi
vogliate estraordinariamente ottenere quello che per lo ordinario noi
non vi abbiamo acconsentito.
Né la nostra intenzione è
con alcuna forza opporci ai disegni vostri; ma solo per dimostrarvi
quanto sia per esservi grave il peso che voi vi arrecate adosso e
pericoloso il partito che voi pigliate; acciò che sempre vi
possiate ricordare de' consigli nostri, e di quelli di coloro i quali
altrimenti, non per vostra utilità, ma per sfogare la rabbia
loro, vi consigliono.
Voi cercate fare serva una città la
quale è sempre vivuta libera; perché la signoria che
noi concedemmo già ai reali di Napoli fu compagnia e non
servitù: avete voi considerato quanto, in una città
simile a questa, importi e quanto sia gagliardo il nome della
libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non
consuma e merito alcuno non contrappesa? Pensate, Signore, quante
forze sieno necessarie a tenere serva una tanta città: quelle
che, forestiere, voi potete sempre tenere, non bastano; di quelle di
dentro voi non vi potete fidare, perché quelli che vi sono ora
amici e che a pigliare questo partito vi confortano, come eglino
aranno battuti, con la autorità vostra, i nimici loro,
cercheranno come e' possino spegnere voi e fare principi loro; la
plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente benché
minimo si rivolge: in modo che, in poco tempo, voi potete temere di
avere tutta questa città nimica; il che fia cagione della
rovina sua e vostra.
Né potrete a questo male trovare rimedio;
perché quelli signori possono fare la loro signoria sicura che
hanno pochi nimici, i quali o con la morte o con lo esilio e facile
spegnere; ma negli universali odi non si trova mai sicurtà
alcuna, perché tu non sai donde ha a nascere il male, e chi
teme di ogni uomo non si può assicurare di persona, e se pure
tenti di farlo, ti aggravi ne' pericoli, perché quelli che
rimangono si accendono più nello odio e sono più parati
alla vendetta.
Che il tempo a consumare i desideri della libertà
non basti è certissimo: perché s'intende spesso quella
essere in una città da coloro riassunta che mai la gustorono,
ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro la
amavano, e perciò, quella ricuperata, con ogni ostinazione e
pericolo conservano; e quando mai i padri non la avessero ricordata,
i palagi publici, i luoghi de' magistrati, le insegne de' liberi
ordini la ricordano: le quali cose conviene che sieno con massimo
desiderio dai cittadini cognosciute.
Quali opere volete voi che sieno
le vostre che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che
facciano mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni?
Non se voi aggiugnessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni
giorno tornassi in questa città trionfante de' nimici nostri:
perché tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i
cittadini non acquisterebbono sudditi, ma conservi, per i quali si
vederebbono nella servitù raggravare.
E quando i costumi
vostri fussero santi, i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare
non basterebbono; e se voi credessi che bastassero v'inganneresti,
perché ad uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa e
ogni legame lo strigne: ancora che trovare uno stato violento con un
principe buono sia impossibile, perché di necessità
conviene o che diventino simili, o che presto l'uno per l'altro
rovini.
Voi avete adunque a credere o di avere a tenere con massima
violenza questa città (alla qual cosa le cittadelle, le
guardie, gli amici di fuora molte volte non bastano), o di essere
contento a quella autorità che noi vi abbiamo data.
A che noi
vi confortiamo, ricordandovi che quello dominio è solo
durabile che è voluntario: né vogliate, accecato da un
poco di ambizione, condurvi in luogo dove non potendo stare, né
più alto salire, siate, con massimo danno vostro e nostro, di
cadere necessitato.
35
Non
mossono in alcuna parte queste parole lo indurato animo del Duca; e
disse non essere sua intenzione di torre la libertà a quella
città, ma rendergliene: perché solo le città
disunite erano serve, e le unite libere; e se Firenze, per suo
ordine, di sette, ambizione e nimicizie si privasse, se le
renderebbe, non torrebbe la libertà; e come a prendere questo
carico non la ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo
conducevano; per ciò farebbono eglino bene a contentarsi di
quello che gli altri si contentavano; e quanto a quelli pericoli in
ne' quali per questo poteva incorrere, non gli stimava, perché
gli era ufizio di uomo non buono per timore del male lasciare il
bene, e di pusillanime per un fine dubio non seguire una gloriosa
impresa; e che credeva portarsi in modo che in breve tempo avere di
lui confidato poco e temuto troppo cognoscerebbono.
Convennono
adunque i Signori, vedendo di non potere fare altro bene, che la
mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la piazza loro; con la
autorità del quale si desse per uno anno al Duca la signoria,
con quelle condizioni che già a Carlo duca di Calavria si era
data.
Era l'ottavo giorno di settembre e lo anno 1342, quando il
Duca, accompagnato da messer Giovanni della Tosa e tutti i suoi
consorti e da molti altri cittadini, venne in Piazza; e insieme con
la Signoria salì sopra la ringhiera, che così chiamano
i Fiorentini quelli gradi che sono a piè del palagio de'
Signori; dove si lessono al popolo le convenzioni fatte intra la
Signoria e lui.
E quando si venne, leggendo, a quella parte dove per
uno anno se gli dava la signoria, si gridò per il popolo: A
VITA.
E levandosi messer Francesco Rustichelli, uno de' Signori, per
parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le parole sue
interrotte; in modo che, con il consenso del popolo, non per uno
anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato intra la
moltitudine, gridando per la Piazza il nome suo.
È
consuetudine che quello che è preposto alla guardia del
Palagio stia, in assenzia de' Signori, serrato dentro; al quale
uffizio era allora deputato Rinieri di Giotto: costui, corrotto dagli
amici del Duca, sanza aspettare alcuna forza, lo messe dentro, e i
Signori, sbigottiti e disonorati, se ne tornorono alle case loro, e
il Palagio fu dalla famiglia del Duca saccheggiato, il gonfalone del
popolo stracciato, e le sue insegne sopra il Palagio poste.
Il che
seguiva con dolore e noia inestimabile degli uomini buoni, e con
piacere grande di quelli che, o per ignoranza o per malignità,
vi consentivano.
36
Il
Duca, acquistato che ebbe la signoria, per torre la autorità a
quelli che solevono della libertà essere defensori, proibì
ai Signori ragunarsi in Palagio, e consegnò loro una casa
privata; tolse le insegne ai gonfalonieri delle Compagnie del popolo;
levò gli ordini della giustizia contro ai Grandi; liberò
i prigioni delle carcere; fece i Bardi e i Frescobaldi dallo esilio
ritornare; vietò il portare arme a ciascuno, e per potere
meglio difendersi da quelli di dentro, si fece amico a quelli di
fuora.
Benificò per tanto assai gli Aretini e tutti gli altri
sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancora che fusse
fatto principe perché facesse loro guerra; tolse gli
assegnamenti a quegli mercatanti che nella guerra di Lucca avevano
prestato alla republica denari.
Accrebbe le gabelle vecchie e creò
delle nuove; tolse a' Signori ogni autorità; e i suoi rettori
erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo da Scesi, con i
quali, e con messer Cerrettieri Bisdomini, si consigliava.
Le taglie
che poneva a' cittadini erano gravi, e i giudicii suoi ingiusti; e
quella severità e umanità che gli aveva finta, in
superbia e crudeltà si era convertita: donde molti cittadini
grandi e popolani nobili, o con danari o morti, o con nuovi modi
tormentati erano.
E per non si governare meglio fuora che dentro,
ordinò sei rettori per il contado, i quali battevano e
spogliavano i contadini.
Aveva i Grandi a sospetto, ancora che da
loro fusse stato benificato e che a molti di quelli avesse la patria
renduta: perché non poteva credere che i generosi animi, quali
sogliono essere nella nobilità, potessero sotto la sua
ubbidienza contentarsi; e per ciò si volse a benificare la
plebe, pensando, con i favori di quella e con le armi forestiere,
potere la tirannide conservare.
Venuto per tanto il mese di maggio,
nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e
popolo minuto più compagnie, alle quali, onorate di splendidi
tituli, dette insegne e danari; donde una parte di loro andava per la
città festeggiando, e l'altra con grandissima pompa i
festeggianti riceveva.
Come la fama si sparse della nuova signoria di
costui, molti vennono del sangue franzese a trovarlo; ed egli a
tutti, come a uomini più fidati, dava condizione; in modo che
Firenze in poco tempo divenne, non solamente suddita ai Franzesi, ma
a' costumi e agli abiti loro; perché gli uomini e le donne,
sanza avere riguardo al vivere civile, o alcuna vergogna, gli
imitavano.
Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva era la violenza
che egli e i suoi, sanza alcuno rispetto, alle donne facevano.
Vivevano adunque i cittadini pieni di indegnazione, veggendo la
maiestà dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi
annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civile modestia spenta:
perché coloro che erano consueti a non vedere alcuna regale
pompa non potevono sanza dolore quello di armati satelliti a piè
e a cavallo circundato riscontrare.
Per che, veggendo più da
presso la loro vergogna, erano colui che massimamente odiavano di
onorare necessitati: a che si aggiugneva il timore, veggendo le
spesse morti e le continue taglie con le quali impoveriva e consumava
la città.
I quali sdegni e paure erano dal Duca cognosciute e
temute; non di meno voleva mostrare a ciascuno di credere di essere
amato: onde occorse che, avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per
gratificarsi quello o per liberare sé dal pericolo, come la
famiglia de' Medici con alcuni altri aveva contro di lui congiurato,
il Duca, non solamente non ricercò la cosa, ma fece il
rivelatore miseramente morire: per il quale partito tolse animo a
quelli che volessero della sua salute avvertirlo, e lo dette a quelli
che cercassero la sua rovina.
Fece ancora tagliare la lingua con
tanta crudeltà a Bettone Cini che se ne morì, per aver
biasimate le taglie che a' cittadini si ponevano: la qual cosa
accrebbe a' cittadini lo sdegno e al Duca l'odio; perché
quella città che a fare e parlare d'ogni cosa e con ogni
licenza era consueta, che gli fussono legate le mani e serrata la
bocca sopportare non poteva.
Crebbono adunque questi sdegni in tanto
e questi odi, che, non che i Fiorentini, i quali la libertà
mantenere non sanno e la servitù patire non possono, ma
qualunque servile popolo arebbono alla recuperazione della libertà
infiammato.
Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di
perdere la vita o di riavere la loro libertà deliberorono; e
in tre parti, di tre sorte di cittadini, tre congiure si feciono:
Grandi, popolani e artefici; mossi, oltre alle cause universali, da
parere ai Grandi non avere riavuto lo stato, a' popolani averlo
perduto, e agli artefici de' loro guadagni mancare.
Era arcivescovo
di Firenze messer Agnolo Acciaiuoli, il quale con le prediche sue
aveva già le opere del Duca magnificato e fattogli appresso al
popolo grandi favori: ma poi che lo vide signore, e i suoi tirannici
modi cognobbe, gli parve avere ingannato la patria sua; e per
emendare il fallo commesso, pensò non avere altro rimedio se
non che quella mano che aveva fatta la ferita la sanasse; e della
prima e più forte congiura si fece capo; nella quale erano i
Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali, Altoviti, Magalotti, Strozzi e
Mancini.
Dell'una delle due altre erano principi messer Manno e Corso
Donati; e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi.
Della
terza era il primo Antonio Adimari; e con lui Medici, Bordoni,
Rucellai e Aldobrandini.
Pensorono costoro di ammazzarlo in casa gli
Albizzi, dove andasse il giorno di Santo Giovanni a vedere correre i
cavagli credevano; ma non vi essendo andato, non riuscì loro.
Pensorono di assaltarlo andando per la città a spasso; ma
vedevono il modo difficile, perché bene accompagnato e armato
andava, e sempre variava le andate, in modo che non si poteva in
alcuno luogo certo aspettarlo.
Ragionorono di ucciderlo ne' Consigli:
dove pareva loro rimanere, ancora che fusse morto, a discrezione
delle forze sue.
Mentre che intra i congiurati queste cose si
praticavano, Antonio Adimari con alcuni suoi amici sanesi, per avere
da loro gente, si scoperse, manifestando a quelli parte de'
congiurati, affermando tutta la città essere a liberarsi
disposta: onde uno di quelli comunicò la cosa a messer
Francesco Brunelleschi, non per scoprirla, ma per credere che ancora
egli fussi de' congiurati.
Messer Francesco, o per paura di sé,
o per odio aveva contro ad altri, rivelò il tutto al Duca;
onde che Pagolo del Mazzeca e Simone da Monterappoli furono presi; i
quali, rivelando la qualità e quantità de' congiurati,
sbigottirono il Duca; e fu consigliato più tosto gli
richiedesse che pigliasse, perché, se se ne fuggivono, se ne
poteva sanza scandolo, con lo esilio, assicurare.
Fece per tanto il
Duca richiedere Antonio Adimari; il quale, confidandosi ne' compagni,
subito comparse.
Fu sostenuto costui: ed era da messer Francesco
Brunelleschi e messer Uguccione Buondelmonti consigliato corresse
armato la terra, e i presi facesse morire; ma a lui non parve,
parendogli avere a tanti nimici poche forze; e però prese un
altro partito, per il quale, quando gli fusse successo, si assicurava
de' nimici e alle forze provedeva.
Era il Duca consueto richiedere i
cittadini, che ne' casi occorrenti lo consigliassero: avendo per
tanto mandato fuora a provedere di gente, fece una listra di trecento
cittadini, e gli fece da' suoi sergenti, sotto colore di volere
consigliarsi con loro, richiedere: e poi che fussero adunati, o con
la morte o con le carcere spegnerli disegnava.
La cattura di Antonio
Adimari e il mandare per le genti, il che non si potette fare
secreto, aveva i cittadini, e massime i colpevoli, sbigottito; onde
che da' più arditi fu negato il volere ubbidire.
E perché
ciascuno aveva letta la listra, trovavano l'uno l'altro, e
s'inanimivano a prendere le armi, e volere più tosto morire
come uomini, con le armi in mano, che come vitelli essere alla
beccheria condotti: in modo che in poco di ora tutte a tre le
congiure l'una all'altra si scoperse, e deliberorono il dì
seguente, che era il 26 di luglio 1343, fare nascere un tumulto in
Mercato Vecchio, e dopo quello armarsi e chiamare il popolo alla
libertà.
37
Venuto
adunque l'altro giorno, al suono di nona, secondo l'ordine dato, si
prese le armi; e il popolo tutto, alla boce della libertà, si
armò; e ciascuno si fece forte nelle sue contrade, sotto
insegne con le armi del popolo, le quali dai congiurati secretamente
erano state fatte.
Tutti i capi delle famiglie, così nobili
come popolane, convennono, e la difesa loro e la morte del Duca
giurorono, eccetto che alcuni de' Buondelmonti e de' Cavalcanti e
quelle quattro famiglie di popolo che a farlo signore erano concorse,
i quali, insieme con i beccai e altri della infima plebe, armati, in
Piazza, in favore del Duca concorsono.
A questo romore armò il
Duca il Palagio, e i suoi, che erano in diverse parti alloggiati,
salirono a cavallo per ire in Piazza, e per la via furono in molti
luoghi combattuti e morti; pure circa trecento cavagli vi si
condussono.
Stava il Duca dubio s'egli usciva fuori a combattere i
nimici, o se, dentro, il Palagio difendeva.
Dall'altra parte i
Medici, Cavicciuli, Rucellai e altre famiglie state più offese
da quello, dubitavano che, s'egli uscisse fuora, molti che gli avieno
preso l'armi contro non se gli scoprissero amici, e desiderosi di
torgli la occasione dello uscire fuora e dello accrescere le forze,
fatto testa, assalirono la Piazza.
Alla giunta di costoro, quelle
famiglie popolane che si erano per il Duca scoperte, veggendosi
francamente assalire, mutorono sentenza, poi che al Duca era mutata
fortuna, e tutte si accostorono a' loro cittadini, salvo che messer
Uguccione Buondelmonti, che se ne andò in Palagio, e messer
Giannozzo Cavalcanti il quale, ritiratosi con parte de' suoi consorti
in Mercato Nuovo, salì alto sopra un banco, e pregava il
popolo che armato andava in Piazza, che in favore del Duca vi
andasse; e per sbigottirgli accresceva le sue forze, e gli minacciava
che sarebbono tutti morti, se, ostinati, contro al Signore seguissero
la impresa: né trovando uomo che lo seguitasse, né che
della sua insolenza lo gastigasse veggendo di affaticarsi invano, per
non tentare più la fortuna, dentro alle sue case si ridusse.
La zuffa intanto, in Piazza, intra il popolo e le genti del Duca, era
grande; e benché questa il Palagio aiutasse, furono vinte; e
parte di loro si missono nella podestà de' nimici, parte,
lasciati i cavagli, in Palagio si fuggirono.
Mentre che la Piazza si
combatteva, Corso e messer Amerigo Donati, con parte del popolo,
ruppono le Stinche, le scritture del podestà e della publica
camera arsono, saccheggiorono le case de' rettori, e tutti quelli
ministri del Duca che poterono avere ammazzorono.
Il Duca da l'altro
canto, vedendosi avere perduta la Piazza, e tutta la città
nimica, e sanza speranza di alcuno aiuto, tentò se poteva con
qualche umano atto guadagnarsi il popolo; e fatto venire a sé
i prigioni, con parole amorevoli e grate gli liberò; e Antonio
Adimari, ancora che con suo dispiacere, fece cavaliere; fece levare
le insegne sue sopra il Palagio e porvi quelle del popolo: le quali
cose, fatte tardi e fuora di tempo, perché erano forzate e
senza grado, gli giovorono poco.
Stava per tanto mal contento,
assediato in Palagio, e vedeva come, per avere voluto troppo, perdeva
ogni cosa; e di avere a morire fra pochi giorni o di fame o di ferro
temeva.
I cittadini, per dare forma allo stato, in Santa Reparata si
ridussono, e creorono quattordici cittadini, per metà grandi e
popolani, i quali, con il Vescovo, avessero qualunque autorità
di potere lo stato di Firenze riformare.
Elessono ancora sei, i quali
l'autorità dei podestà, tanto che quello che era eletto
venisse, avessero.
Erano in Firenze, al soccorso del popolo, molte
genti venute, intra i quali erano Sanesi con sei ambasciadori, uomini
assai nella loro patria onorati.
Costoro intra il popolo e il Duca
alcuna convenzione praticorono; ma il popolo recusò ogni
ragionamento d'accordo, se prima non gli era nella sua potestà
dato messer Guglielmo d'Ascesi, e il figliuolo insieme con messer
Cerrettieri Bisdomini, consegnato.
Non voleva il Duca acconsentirlo;
pure, minacciato dalle genti che erano rinchiuse con lui, si lasciò
sforzare.
Appariscono senza dubbio gli sdegni maggiori, e sono le
ferite più gravi, quando si recupera una libertà che
quando si difende: furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra
le migliaia de' nimici loro; e il figliuolo non aveva ancora diciotto
anni, non di meno la età, la forma, la innocenza sua non lo
poté dalla furia della moltitudine salvare; e quelli che non
poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti; né saziati di
straziargli con il ferro, con le mani e con i denti gli laceravano.
E
perché tutti i sensi si sodisfacessero nella vendetta avendo
udito prima le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le loro
carni lacere, volevono ancora che il gusto le assaporasse, acciò
che, come tutte le parti di fuora ne erano sazie, quelle di dentro
ancora se ne saziassero.
Questo rabbioso furore quanto egli offese
costoro, tanto a messer Cerrettieri fu utile; perché, stracca
la moltitudine nelle crudeltà di questi duoi, di quello non si
ricordò: il quale, non essendo altrimenti domandato, rimase in
Palagio, donde fu la notte poi, da certi suoi parenti e amici, a
salvamento tratto.
Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro
si concluse lo accordo: che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue
cose, salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse; e
di poi, fuora del dominio, nel Casentino, alla renunzia ratificasse.
Dopo questo accordo, a dì 6 di agosto, partì di Firenze
da molti cittadini accompagnato; e arrivato in Casentino, alla
renunzia, ancora che mal volentieri, ratificò; e non arebbe
osservata la fede, se dal conte Simone non fusse stato di ricondurlo
in Firenze minacciato.
Fu questo Duca, come i governi suoi
dimostrorono, avaro e crudele, nelle audienze difficile, nel
rispondere superbo: voleva la servitù, non la benivolenza
degli uomini; e per questo più di essere temuto che amato
desiderava.
Né era da essere meno odiosa la sua presenza, che
si fussero i costumi; perché era piccolo, nero, aveva la barba
lunga e rada: tanto che da ogni parte di essere odiato meritava: onde
che, in termine di dieci mesi, i suoi cattivi costumi gli tolsono
quella signoria che i cattivi consigli d'altri gli avevono data.
38
Questi
accidenti seguiti nella città dettono animo a tutte le terre
sottoposte ai Fiorentini di tornare nella loro libertà; in
modo che Arezzo, Castiglione, Pistoia, Volterra, Colle, San Gimignano
si ribellorono: talché Firenze, in un tratto, del tiranno e
del suo dominio priva rimase, e nel recuperare la sua libertà
insegnò a' subietti suoi come potessero recuperare la loro.
Seguita adunque la cacciata del Duca e la perdita del dominio loro, i
quattordici cittadini e il Vescovo pensorono che fusse più
tosto da placare i sudditi loro con la pace che farsegli inimici con
la guerra, e mostrare di essere contenti della libertà di
quelli come della propria.
Mandorono per tanto oratori ad Arezzo, a
renunziare allo imperio che sopra quella città avessero e a
fermare con quelli accordo, acciò che, poi che come sudditi
non potevano, come amici della loro città si valessero.
Con
l'altre terre ancora in quel modo che meglio poterono convennono,
pure che se le mantenessero amiche, acciò che loro liberi
potessero aiutare la loro libertà mantenere.
Questo partito,
prudentemente preso, ebbe felicissimo fine; perché Arezzo, non
dopo molti anni, tornò sotto lo imperio de' Fiorentini, e
l'altre terre, in pochi mesi, alla pristina ubbidienza si ridussono.
E così si ottiene molte volte più presto e con minori
pericoli e spesa le cose a fuggirle, che con ogni forza e ostinazione
perseguitandole.
39
Posate
le cose di fuora, si volsono a quelle di dentro, e dopo alcuna
disputa fatta intra i Grandi e i popolani, conclusono che i Grandi
nella Signoria la terza parte e negli altri ufici la metà
avessero.
Era la città, come di sopra dimostrammo, divisa a
sesti, donde che sempre sei Signori, d'ogni sesto uno, si erano
fatti; eccetto che, per alcuni accidenti, alcuna volta dodici o
tredici se ne erano creati, ma poco di poi erano tornati a sei.
Parve
per tanto da riformarla in questa parte, sì per essere i sesti
male distribuiti, sì perché, volendo dare la parte ai
Grandi, il numero de' Signori accrescere conveniva.
Divisono per
tanto la città a quartieri, e di ciascuno creorono tre
Signori; lasciorono indietro il gonfalonieri della giustizia e quelli
delle Compagnie del popolo, e in cambio de' dodici buoni uomini, otto
consiglieri, quattro di ciascuna sorte, creorono.
Fermato, con questo
ordine, questo governo, si sarebbe la città posata, se i
Grandi fussero stati contenti a vivere con quella modestia che nella
vita civile si richiede; ma eglino il contrario operavano; perché,
privati, non volevono compagni, e ne' magistrati volevono essere
signori; e ogni giorno nasceva qualche esemplo della loro insolenzia
e superbia: la qual cosa al popolo dispiaceva; e si doleva che, per
uno tiranno che era spento, n'erano nati mille.
Crebbono adunque
tanto da l'una parte le insolenzie e da l'altra gli sdegni, che i
capi de' popolani mostrorono al Vescovo la disonestà de'
Grandi e la non buona compagnia che al popolo facevano, e lo
persuasono volesse operare che i Grandi di avere la parte negli altri
ufici si contentassero, e al popolo il magistrato de' Signori
solamente lasciassero.
Era il Vescovo naturalmente buono, ma facile
ora in questa ora in quell'altra parte a rivoltarlo: di qui era nato
che, ad instanzia de' suoi consorti, aveva prima il Duca di Atene
favorito, di poi, per consiglio d'altri cittadini, gli aveva
congiurato contro; aveva, nella riforma dello stato, favorito i
Grandi, e così ora gli pareva di favorire il popolo, mosso da
quelle ragioni gli furono da quelli cittadini popolani riferite.
E
credendo trovare in altri quella poca stabilità che era in
lui, di condurre la cosa d'accordo si persuase, e convocò i
quattordici, i quali ancora non avevono perduta l'autorità, e
con quelle parole seppe migliori gli confortò a volere cedere
il grado della Signoria al popolo, promettendone la quiete della
città, altrimenti la rovina e il disfacimento loro.
Queste
parole alterorono forte l'animo de' Grandi; e messer Ridolfo de'
Bardi con parole aspre lo riprese, chiamandolo uomo di poca fede, e
rimproverandogli l'amicizia del Duca come leggieri e la cacciata di
quello come traditore; e gli concluse che quelli onori ch'eglino
avevono con loro pericolo acquistati volevono con loro pericolo
difendere.
E partitosi alterato, con gli altri, dal Vescovo, ai suoi
consorti e a tutte le famiglie nobili lo fece intendere.
I popolani
ancora agli altri la mente loro significorono, e mentre i Grandi si
ordinavano, con gli aiuti, alla difesa de' loro Signori, non parve al
popolo di aspettare che fussero ad ordine, e corse armato al Palagio,
gridando che voleva che i Grandi rinunziassero al magistrato.
Il
romore e il tumulto era grande: i Signori si vedevono abbandonati,
perché i Grandi, veggendo tutto il popolo armato, non si
ardirono a pigliare le armi, e ciascuno si stette dentro alle case
sue; di modo che i Signori popolani, avendo fatto prima forza di
quietare il popolo, affermando quelli loro compagni essere uomini
modesti e buoni, e non avendo potuto per meno reo partito alle case
loro gli rimandorono, dove con fatica salvi si condussono.
Partiti i
Grandi di Palagio, fu tolto ancora l'uficio ai quattro consiglieri
grandi, e fecionne infino in dodici popolani; e gli otto Signori che
restorono feciono uno gonfaloniere di giustizia e sedici gonfalonieri
delle Compagnie del popolo, e riformorono i Consigli in modo che
tutto il governo nello arbitrio del popolo rimase.
40
Era,
quando queste cose seguirono, carestia grande nella città; di
modo che i Grandi e il popolo minuto erano mal contenti, questo per
la fame, quelli per avere perdute le dignità loro: la qual
cosa dette animo a messer Andrea Strozzi di potere occupare la
libertà della città.
Costui vendeva il suo grano minore
pregio che gli altri, e per questo alle sue case molte genti
concorrevano; tanto che prese ardire di montare una mattina a
cavallo, e con alquanti di quelli dietro, chiamare il popolo alle
armi; e in poco di ora ragunò più di 4000 uomini
insieme, con i quali se n'andò in piazza de' Signori, e che
fusse loro aperto il Palagio domandava.
Ma i Signori, con le minacce
e con le armi, dalla Piazza gli discostorono; di poi talmente con i
bandi gli sbigottirono, che a poco a poco ciascuno si tornò
alle case sue, di modo che messer Andrea, ritrovandosi solo potette
con fatica, fuggendo, dalle mani de' magistrati salvarsi.
Questo
accidente, ancora che fusse temerario e che gli avesse avuto quel
fine che sogliono simili moti avere, dette speranza ai Grandi di
potere sforzare il popolo, veggendo che la plebe minuta era in
discordia con quello; e per non perdere questa occasione, armarsi di
ogni sorte aiuti conclusono, per riavere per forza ragionevolmente
quello che ingiustamente, per forza, era stato loro tolto.
E crebbono
in tanta confidenza del vincere, che palesemente si provedevono
d'armi, affortificavano le loro case, mandavano ai loro amici, infino
in Lombardia, per aiuti.
Il popolo ancora, insieme con i Signori,
faceva i suoi provedimenti, armandosi e a Perugini e a Sanesi
chiedendo soccorso.
Già erano degli aiuti e all'una e
all'altra parte comparsi: la città tutta era in arme: avevano
fatto i Grandi di qua d'Arno testa in tre parti: alle case de'
Cavicciuli propinque a San Giovanni, alle case de' Pazzi e de' Donati
a San Piero Maggiore, a quelle de' Cavalcanti in Mercato Nuovo;
quegli di là d'Arno s'erano fatti forti ai ponti e nelle
strade delle case loro: i Nerli il ponte alla Carraia, i Frescobaldi
e Mannegli Santa Trinità, i Rossi e Bardi il Ponte Vecchio e
Rubaconte difendevano.
I popolani, da l'altra parte, sotto il
gonfalone della giustizia e le insegne delle Compagnie del popolo si
ragunorono.
41
E
stando in questa maniera, non parve al popolo di differire più
la zuffa; e i primi che si mossono furono i Medici e i Rondinegli i
quali assalirono i Cavicciuli da quella parte che, per la piazza di
San Giovanni, entra alle case loro.
Quivi la zuffa fu grande, perché
dalle torri erano percossi con i sassi, e da basso con le balestre
feriti.
Durò questa battaglia tre ore; e tuttavia il popolo
cresceva, tanto che i Cavicciuli, veggendosi dalla moltitudine
sopraffare, e mancare di aiuti, si sbigottirono e si rimissono nella
podestà del popolo; il quale salvò loro le case e le
sustanze; solo tolse loro le armi, e a quelli comandò che per
le case de' popolani loro parenti e amici, disarmati, si dividessero.
Vinto questo primo assalto, furono i Donati e i Pazzi ancora loro
facilmente vinti per essere meno potenti di quelli.
Solo restavano,
di qua d'Arno, i Cavalcanti i quali di uomini e di sito erano forti:
non di meno, vedendosi tutti i gonfaloni contro, e gli altri da tre
gonfaloni soli essere stati superati, senza fare molta difesa si
arrenderono.
Erano già le tre parti della città nelle
mani del popolo: restavane una nel potere de' Grandi ma la più
difficile, sì per la potenza di quelli che la difendevano, sì
per il sito, sendo dal fiume d'Arno guardata; talmente che bisognava
vincere i ponti, i quali ne' modi di sopra dimostri erano difesi.
Fu
per tanto il Ponte Vecchio il primo assaltato; il quale fu
gagliardamente difeso, perché le torri armate, le vie sbarrate
e le sbarre da ferocissimi uomini guardate erano: tanto che il popolo
fu con grave suo danno ributtato.
Conosciuto per tanto come quivi si
affaticavano invano, tentorono di passare per il ponte Rubaconte; e
trovandovi le medesime difficultà, lasciati alla guardia di
questi duoi ponti quattro gonfaloni, con gli altri il ponte alla
Carraia assalirono.
E benché i Nerli virilmente si
difendessero, non potettono il furore del popolo sostenere, sì
per essere il ponte (non avendo torri che lo difendessero) più
debole, sì perché i Capponi e l'altre famiglie popolane
loro vicine gli assalirono: talché, essendo da ogni parte
percossi, abbandonorono le sbarre e dettono la via al popolo; il
quale, dopo questi, i Rossi e i Frescobaldi vinse: per che tutti i
popolani di là d'Arno con i vincitori si congiunsono.
Restavano adunque solo i Bardi, i quali né la rovina degli
altri, né l'unione del popolo contro di loro, né la
poca speranza degli aiuti poté sbigottire; e vollono più
tosto, combattendo, o morire o vedere le loro case ardere e
saccheggiare, che volontariamente allo arbitrio de' loro nimici
sottomettersi.
Defendevonsi per tanto in modo che il popolo tentò
più volte invano, o dal Ponte Vecchio o dal ponte Rubaconte,
vincerli; e sempre fu con la morte e ferite di molti ributtato.
Erasi, per i tempi adietro, fatto una strada per la quale si poteva
dalla Via Romana, andando intra le case de' Pitti, alle mura poste
sopra il colle di San Giorgio pervenire: per questa via il popolo
mandò sei gonfaloni, con ordine che dalla parte di dietro le
case de' Bardi assalissero.
Questo assalto fece a' Bardi mancare di
animo e al popolo vincere la impresa; perché, come quelli che
guardavano le sbarre delle strade sentirono le loro case essere
combattute, abbandonorono la zuffa e corsono alla difesa di quelle.
Questo fece che la sbarra del Ponte Vecchio fu vinta e i Bardi da
ogni parte messi in fuga; i quali da' Quaratesi, Panzanesi e Mozzi
furono ricevuti.
Il popolo intanto, e di quello la parte più
ignobile, assetato di preda, spogliò e saccheggiò tutte
le loro case, e i loro palagi e torri disfece e arse con tanta rabbia
che qualunque più al nome fiorentino crudele nimico si sarebbe
di tanta rovina vergognato.
42
Vinti
i Grandi, riordinò il popolo lo stato; e perché gli era
di tre sorte popolo, potente, mediocre e basso, si ordinò che
i potenti avessero duoi Signori, tre i mediocri e tre i bassi; e il
gonfaloniere fusse ora dell'una ora dell'altra sorte.
Oltra di
questo, tutti gli ordini della giustizia contro ai Grandi si
riassunsono; e per fargli più deboli, molti di loro intra la
popolare moltitudine mescolorono.
Questa rovina de' nobili fu sì
grande e in modo afflisse la parte loro, che mai poi a pigliare le
armi contro al popolo si ardirono, anzi continuamente più
umani e abietti diventorono.
Il che fu cagione che Firenze, non
solamente di armi, ma di ogni generosità si spogliasse.
Mantennesi la città, dopo questa rovina, quieta infino
all'anno 1353; nel corso del qual tempo seguì quella
memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta
eloquenzia celebrata, per la quale in Firenze più che
novantaseimila anime mancarono.
Feciono ancora i Fiorentini la prima
guerra con i Visconti, mediante la ambizione dello Arcivescovo,
allora principe in Milano; la quale guerra come prima fu fornita, le
parti dentro alla città cominciorono; e benché fusse la
nobilità distrutta, non di meno alla fortuna non mancorono
modi a fare rinascere, per nuove divisioni, nuovi travagli.
LIBRO TERZO
1
Le
gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i
nobili, causate da il volere questi comandare e quelli non ubbidire,
sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città; perché
da questa diversità di umori tutte le altre cose che
perturbano le republiche prendano il nutrimento loro.
Questo tenne
disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose piccole alle
grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze; avvenga che nell'una e
nell'altra città diversi effetti partorissero: perché
le nimicizie che furono nel principio in Roma intra il popolo e i
nobili, disputando; quelle di Firenze combattendo si diffinivano,
quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con
la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma sempre la
virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al tutto la
spensono; quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una
disaguaglianza grandissima quella città condussono, quelle di
Firenze da una disaguaglianza ad una mirabile ugualità l'hanno
ridutta.
La quale diversità di effetti conviene che sia dai
diversi fini che hanno avuto questi duoi popoli causata: perché
il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili
desiderava; quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che
i nobili ne participassero, combatteva.
E perché il desiderio
del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le
offese ai nobili più sopportabili, tale che quella nobilità
facilmente e sanza venire alle armi cedeva; di modo che, dopo alcuni
dispareri, a creare una legge dove si sodisfacesse al popolo e i
nobili nelle loro dignità rimanessero convenivano.
Da l'altro
canto, il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso e ingiusto,
tale che la nobilità con maggiori forze alle sue difese si
preparava, e per ciò al sangue e allo esilio si veniva de'
cittadini; e quelle leggi che di poi si creavano, non a comune
utilità, ma tutte in favore del vincitore si ordinavano.
Da
questo ancora procedeva che nelle vittorie del popolo la città
di Roma più virtuosa diventava; perché, potendo i
popolani essere alla amministrazione de' magistrati, degli eserciti e
degli imperii con i nobili preposti, di quella medesima virtù
che erano quelli si riempievano, e quella città, crescendovi
la virtù, cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo il popolo,
i nobili privi de' magistrati rimanevano; e volendo racquistargli,
era loro necessario, con i governi, con lo animo e con il modo del
vivere, simili ai popolani non solamente essere ma parere.
Di qui
nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de' tituli delle
famiglie, che i nobili, per parere di popolo, facevano; tanto che
quella virtù delle armi e generosità di animo che era
nella nobilità si spegneva, e nel popolo, dove la non era, non
si poteva raccendere, tal che Firenze sempre più umile e più
abietto divenne.
E dove Roma, sendosi quella loro virtù
convertita in superbia, si ridusse in termine che sanza avere un
principe non si poteva mantenere, Firenze a quel grado è
pervenuta, che facilmente da uno savio datore di leggie potrebbe
essere in qualunque forma di governo riordinata.
Le quali cose per la
lezione del precedente libro in parte si possono chiaramente
cognoscere, avendo mostro il nascimento di Firenze e il principio
della sua libertà, con le cagioni delle divisioni di quella, e
come le parti de' nobili e del popolo con la tirannide del Duca di
Atene e con la rovina della nobilità finirono.
Restano ora a
narrarsi le inimicizie intra il popolo e la plebe, e gli accidenti
varii che quelle produssono.
2
Doma
che fu la potenzia de' nobili, e finita che fu la guerra con lo
Arcivescovo di Milano, non pareva che in Firenze alcuna cagione di
scandolo fusse rimasa.
Ma la mala fortuna della nostra città e
i non buoni ordini suoi feciono intra la famiglia degli Albizzi e
quella de' Ricci nascere inimicizia; la quale divise Firenze, come
prima quella de' Buondelmonti e Uberti, e di poi de' Donati e de'
Cerchi aveva divisa.
I pontefici, i quali allora stavano in Francia,
e gli imperadori, che erano nella Magna, per mantenere la reputazione
loro in Italia in varii tempi moltitudine di soldati di varie nazioni
ci avevano mandati; tale che in questi tempi ci si trovavano
Inghilesi, Tedeschi e Brettoni.
Costoro, come, per essere finite le
guerre, sanza soldo rimanevono, dietro ad una insegna di ventura,
questo e quell'altro principe taglieggiavano.
Venne per tanto, l'anno
1353, una di queste compagnie in Toscana, capitaneata da Monreale
provenzale; la cui venuta tutte le città di quella provincia
spaventò, e i Fiorentini, non solamente publicamente di gente
si providdono, ma molti cittadini, intra' quali furono gli Albizzi e
i Ricci, per salute propria si armorono.
Questi intra loro erano
pieni di odio, e ciascuno pensava, per ottenere il principato nella
repubblica, come potesse opprimere l'altro: non erano per ciò
ancora venuti alle armi, ma solamente ne' magistrati e ne' Consigli
si urtavano.
Trovandosi adunque tutta la città armata, nacque
a sorte una quistione in Mercato Vecchio, dove assai gente secondo
che in simili accidenti si costuma, concorse.
E spargendosi il
romore, fu apportato ai Ricci come gli Albizzi gli assalivano, e agli
Albizzi che i Ricci gli venivano a trovare; per la qual cosa tutta la
città si sollevò, e i magistrati con fatica poterono
l'una e l'altra famiglia frenare, acciò che in fatto non
seguisse quella zuffa che a caso, e senza colpa di alcuno di loro,
era stata diffamata.
Questo accidente, ancora che debile, fece
riaccendere più gli animi loro, e con maggiore diligenzia
cercare ciascuno di acquistarsi partigiani.
E perché già
i cittadini, per la rovina de' Grandi, erano in tanta ugualità
venuti che i magistrati erano, più che per lo adietro non
solevano, reveriti, disegnavano per la via ordinaria e sanza privata
violenza prevalersi.
3
Noi
abbiamo narrato davanti come, dopo la vittoria di Carlo I, si creò
il magistrato di Parte guelfa e a quello si dette grande autorità
sopra i Ghibellini; la quale il tempo, i varii accidenti e le nuove
divisioni avevano talmente messa in oblivione, che molti discesi di
Ghibellini i primi magistrati esercitavano.
Uguccione de' Ricci per
tanto, capo di quella famiglia, operò che si rinnovasse la
legge contro a' Ghibellini; intra i quali era opinione di molti
fussero gli Albizzi, i quali, molti anni adietro nati in Arezzo, ad
abitare a Firenze erano venuti; onde che Uguccione pensò,
rinnovando questa legge, privare gli Albizzi de' magistrati,
disponendosi per quella che qualunque disceso di Ghibellino fusse
condannato se alcuno magistrato esercitasse.
Questo disegno di
Uguccione fu a Piero di Filippo degli Albizzi scoperto; e pensò
di favorirlo, giudicando che, opponendosi, per se stesso si
chiarirebbe ghibellino.
Questa legge per tanto, rinnovata per la
ambizione di costoro, non tolse, ma dette a Piero degli Albizzi
riputazione, e fu di molti mali principio: né si può
fare legge per una republica più dannosa che quella che
riguarda assai tempo indietro.
Avendo adunque Piero favorita la
legge, quello che da i suoi nimici era stato trovato per suo
impedimento gli fu via alla sua grandezza; perché, fattosi
principe di questo nuovo ordine, sempre prese più autorità,
sendo da questa nuova setta di Guelfi prima che alcuno altro
favorito.
E perché non si trovava magistrato che ricercasse
quali fussero i Ghibellini, e per ciò la legge fatta non era
di molto valore, provide che si desse autorità ai Capitani di
chiarire i Ghibellini, e chiariti, significare loro, e ammunirgli,
che non prendessero alcuno magistrato; alla quale ammunizione se non
ubbidissero, rimanessero condennati.
Da questo nacque che di poi
tutti quelli che in Firenze sono privi di potere esercitare i
magistrati si chiamano ammuniti.
Ai Capitani adunque sendo con il
tempo cresciuta la audacia, senza alcuno rispetto, non solamente
quelli che lo meritavano ammunivano, ma qualunque pareva loro, mossi
da qualsivoglia avara o ambiziosa cagione; e da il 1357, che era
cominciato questo ordine, al '66, si trovavano di già ammuniti
più che 200 cittadini.
Donde i Capitani e la setta de' Guelfi
era diventata potente, perché ciascuno, per timore di non
essere ammunito, gli onorava, e massimamente i capi di quella, i
quali erano Piero degli Albizzi, messer Lapo da Castiglionchio e
Carlo Strozzi.
E avvenga che questo modo di procedere insolente
dispiacesse a molti, i Ricci infra gli altri erano peggio contenti
che alcuno, parendo loro essere stati di questo disordine cagione,
per il quale vedevono rovinare la republica e gli Albizzi, loro
nimici, essere, contro a' disegni loro, diventati potentissimi.
4
Per
tanto, trovandosi Uguccione de' Ricci de' Signori, volle por fine a
quel male di che egli e gli altri suoi erano stati principio, e con
nuova legge provide che a' sei capitani di parte tre si
aggiugnessero, de' quali ne fussero duoi de' minori artefici; e volle
che i chiariti ghibellini avessero ad essere da ventiquattro
cittadini guelfi a ciò deputati confermati.
Questo
provedimento temperò per allora in buona parte la potenza de'
Capitani; di modo che lo ammunire in maggiore parte mancò, e
se pure ne ammunivano alcuni, erano pochi.
Non di meno le sette di
Albizzi e Ricci vegghiavano; e leghe, imprese, deliberazioni l'una
per odio dell'altra disfavorivano.
Vissesi adunque con simili
travagli da il 1366 al '71, nel qual tempo la setta de' Guelfi
riprese le forze.
Era nella famiglia de' Buondelmonti uno cavaliere
chiamato messer Benchi, il quale, per i suoi meriti in una guerra
contro ai Pisani, era stato fatto popolano, e per questo era a potere
essere de' Signori abile diventato; e quando egli aspettava di sedere
in quel magistrato, si fece una legge, che niuno Grande fatto
popolano lo potesse esercitare.
Questo fatto offese assai messer
Benchi, e accozzatosi con Piero degli Albizzi, deliberorono con lo
ammunire battere i minori popolani e rimanere soli nel governo.
E per
il favore che messer Benchi aveva con la antica nobilità, e
per quello che Piero aveva con la maggiore parte de' popolani
potenti, feciono ripigliare le forze alla setta de' Guelfi, e con
nuove riforme fatte nella Parte ordinorono in modo la cosa che
potevono de' Capitani e de' ventiquattro cittadini a loro modo
disporre.
Donde che si ritornò ad ammunire con più
audacia che prima; e la casa degli Albizzi, come capo di questa
setta, sempre cresceva.
Da l'altro canto, i Ricci non mancavano di
impedire con gli amici, in quanto potevano, i disegni loro; tanto che
si viveva in sospetto grandissimo, e temevasi per ciascuno ogni
rovina.
5
Onde
che molti cittadini, mossi dallo amore della patria, in San Piero
Scheraggio si ragunorono, e ragionato infra loro assai di questi
disordini, ai Signori ne andorono, ai quali uno di loro, di più
autorità, parlò in questa sentenza: - Dubitavamo molti
di noi, magnifici Signori, di essere insieme, ancora che per cagione
publica, per ordine privato; giudicando potere, o come prosuntuosi
essere notati, o come ambiziosi condannati; ma considerato poi che
ogni giorno, e senza alcuno riguardo, molti cittadini per le logge e
per le case, non per alcuna publica utilità, ma per loro
propria ambizione convengano, giudicammo, poi che quegli che per la
rovina della republica si ristringono non temano, che non avessino
ancora da temere quelli che per bene e utilità publica si
ragunano; né quello che altri si giudichi di noi ci curiamo,
poi che gli altri quello che noi possiamo giudicare di loro non
stimano.
Lo amore che noi portiamo, magnifici Signori, alla patria
nostra ci ha fatti prima ristrignere e ora ci fa venire a voi per
ragionare di quel male che si vede già grande e che tuttavia
cresce in questa nostra republica, e per offerirci presti ad aiutarvi
spegnerlo.
Il che vi potrebbe, ancora che la impresa paia difficile,
riuscire, quando voi vogliate lasciare indietro i privati rispetti e
usare con le publiche forze la vostra autorità.
La comune
corruzione di tutte le città di Italia, magnifici Signori, ha
corrotta e tuttavia corrompe la vostra città; perché,
da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello
Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che
le correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli
stati e governi loro ordinati.
Da questo sono nati tutti gli altri
mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono.
In prima non
si truova intra i loro cittadini né unione né amicizia,
se non intra quelli che sono di qualche sceleratezza, o contro alla
patria o contro ai privati commessa, consapevoli.
E perché in
tutti la religione e il timore di Dio è spento, il giuramento
e la fede data tanto basta quanto l'utile: di che gli uomini si
vagliano, non per osservarlo, ma perché sia mezzo a potere più
facilmente ingannare; e quanto lo inganno riesce più facile e
securo, tanta più gloria e loda se ne acquista: per questo gli
uomini nocivi sono come industriosi lodati e i buoni come sciocchi
biasimati.
E veramente in nelle città di Italia tutto quello
che può essere corrotto e che può corrompere altri si
raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e
ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi
buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano.
Di qui
nasce quella avarizia che si vede ne' cittadini, e quello appetito,
non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dependono gli
odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti,
esili, afflizioni de' buoni, esaltazioni de' tristi.
Perché i
buoni, confidatisi nella innocenzia loro, non cercono, come i
cattivi, di chi estraordinariamente gli difenda e onori, tanto che
indefesi e inonorati rovinano.
Da questo esemplo nasce lo amore delle
parti e la potenza di quelle; perché i cattivi per avarizia e
per ambizione, i buoni per necessità le seguano.
E quello che
è più pernizioso è vedere come i motori e
principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo
adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla libertà
nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati o di popolare
defendendo, opprimano.
Perché il premio il quale della
vittoria desiderano è, non la gloria dello avere liberata la
città, ma la sodisfazione di avere superati gli altri e il
principato di quella usurpato; dove condotti, non è cosa sì
ingiusta, sì crudele o avara, che fare non ardischino.
Di qui
gli ordini e le leggi, non per publica, ma per propria utilità
si fanno; di qui le guerre, le paci, le amicizie, non per gloria
comune, ma per sodisfazione di pochi si deliberano.
E se le altre
città sono di questi disordini ripiene, la nostra ne è
più che alcuna altra macchiata; perché le leggi, gli
statuti, gli ordini civili, non secondo il vivere libero, ma secondo
la ambizione di quella parte che è rimasa superiore, si sono
in quella sempre ordinati e ordinano.
Onde nasce che sempre, cacciata
una parte e spenta una divisione, ne surge un'altra; perché
quella città che con le sette più che con le leggi si
vuol mantenere, come una setta è rimasa in essa sanza
opposizione, di necessità conviene che infra se medesima si
divida; perché da quelli modi privati non si può
difendere i quali essa per sua salute prima aveva ordinati.
E che
questo sia vero le antiche e moderne divisioni della nostra città
lo dimostrano.
Ciascuno credeva, destrutti che furono i Ghibellini, i
Guelfi di poi lungamente felici e onorati vivessero; non di meno,
dopo poco tempo, in Bianchi e in Neri si divisono.
Vinti di poi i
Bianchi, non mai stette la città sanza parti: ora per favorire
i fuori usciti, ora per le nimicizie del popolo e de' Grandi, sempre
combattemmo; e per dare ad altri quello che d'accordo per noi
medesimi possedere o non volavamo o non potavamo, ora al re Ruberto,
ora al fratello, ora al figliuolo, e in ultimo al Duca di Atene, la
nostra libertà sottomettemmo.
Non di meno in alcuno stato mai
non ci riposammo, come quelli che non siamo mai stati d'accordo a
vivere liberi e di essere servi non ci contentiamo.
Né
dubitammo (tanto sono i nostri ordini disposti alle divisioni),
vivendo ancora sotto la ubbidienza del Re, la maestà sua ad un
vilissimo uomo nato in Agobio posporre.
Del Duca di Atene non si
debbe, per onore di questa città, ricordare; il cui acerbo e
tirannico animo ci doveva fare savi e insegnare vivere: non di meno,
come prima e' fu cacciato, noi avemmo le armi in mano, e con più
odio e maggiore rabbia che mai alcuna altra volta insieme combattuto
avessimo, combattemmo; tanto che l'antica nobilità nostra
rimase vinta e nello arbitrio del popolo si rimisse.
Né si
credette per molti che mai alcuna cagione di scandolo o di parte
nascesse più in Firenze sendo posto freno a quelli che per la
loro superbia e insopportabile ambizione pareva che ne fussero
cagione; ma e' si vede ora per esperienza quanto la opinione degli
uomini è fallace e il giudizio falso; perché la
superbia e ambizione de' Grandi non si spense, ma da' nostri popolani
fu loro tolta i quali ora, secondo l'uso degli uomini ambiziosi, di
ottenere il primo grado nella republica cercano; né avendo
altri modi ad occuparlo che le discordie, hanno di nuovo divisa la
città, e il nome guelfo e ghibellino, che era spento, e che
era bene non fusse mai stato in questa republica, risuscitano.
Egli è
dato di sopra, acciò che nelle cose umane non sia nulla o
perpetuo o quieto, che in tutte le republiche sieno famiglie fatali,
le quali naschino per la rovina di quelle.
Di queste la republica
nostra, più che alcuna altra, è stata copiosa, perché
non una, ma molte, l'hanno perturbata e afflitta, come feciono i
Buondelmonti prima e Uberti, di poi i Donati e i Cerchi; e ora, oh
cosa vergognosa e ridicula! i Ricci e gli Albizzi la perturbono e
dividono.
Noi non vi abbiamo ricordati i costumi corrotti e le
antiche e continue divisioni nostre per sbigottirvi, ma per
ricordarvi le cagioni di esse e dimostrarvi che, come voi ve ne
potete ricordare, noi ce ne ricordiamo e per dirvi che lo esemplo di
quelle non vi debbe fare diffidare di potere frenare queste.
Perché
in quelle famiglie antiche era tanta grande la potenza, e tanti
grandi i favori che le avevano dai principi, che gli ordini e modi
civili a frenarle non bastavano; ma ora che lo Imperio non ci ha
forze, il papa non si teme, e che la Italia tutta e questa città
è condotta in tanta ugualità che per lei medesima si
può reggere, non ci è molta difficultà.
E questa
nostra republica massimamente si può, non ostante gli antichi
esempli che ci sono in contrario, non solamente mantenere unita, ma
di buoni costumi e civili modi riformare, pure che Vostre Signorie si
disponghino a volerlo fare.
A che noi, mossi dalla carità
della patria, non da alcuna privata passione, vi confortiamo.
E
benché la corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel
male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci
uccide; e imputate i disordini antichi, non alla natura degli uomini,
ma ad i tempi; i quali sendo variati, potete sperare alla vostra
città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna.
La
malignità della quale si può con la prudenza vincere,
ponendo freno alla ambizione di costoro, e annullando quelli ordini
che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere
libero e civile sono conformi.
E siate contenti più tosto
farlo ora con la benignità delle leggi, che, differendo, con
il favore delle armi gli uomini sieno a farlo necessitati.
6
I
Signori, mossi da quello che prima per loro medesimi cognoscevono, e
di poi dalla autorità e conforti di costoro, dettono autorità
a cinquantasei cittadini, perché alla salute della republica
provedessero.
Egli è verissimo che gli assai uomini sono più
atti a conservare uno ordine buono che a saperlo per loro medesimi
trovare.
Questi cittadini pensorono più a spegnere le presenti
sette che a torre via le cagioni delle future, tanto che né
l'una cosa né l'altra conseguirono; perché le cagioni
delle nuove non levorono, e di quelle che vegghiavano una più
potente che l'altra, con maggiore pericolo della republica, feciono.
Privorono per tanto di tutti i magistrati, eccetto che di quelli
della Parte guelfa, per tre anni, tre della famiglia degli Albizzi e
tre di quella de' Ricci, intra i quali Piero degli Albizzi e
Uguccione de' Ricci furono; proibirono a tutti i cittadini entrare in
Palagio, eccetto che ne' tempi che i magistrati sedevano; providono
che qualunque fusse battuto, o impeditagli la possessione de' suoi
beni, potesse, con una domanda, accusarlo ai Consigli e farlo
chiarire de' Grandi, e, chiarito, sottoporlo ai carichi loro.
Questa
provisione tolse lo ardire alla setta de' Ricci e a quella degli
Albizzi lo accrebbe; perché, avvenga che ugualmente fussero
segnate, non di meno i Ricci assai più ne patirono; perché,
se a Piero fu chiuso il palagio de' Signori, quello de' Guelfi, dove
gli aveva grandissima autorità, gli rimase aperto; e se prima
egli e chi lo seguiva erano allo ammunire caldi, diventorono, dopo
questa ingiuria, caldissimi.
Alla quale mala volontà ancora
nuove cagioni si aggiunsono.
7
Sedeva
nel pontificato papa Gregorio XI, il quale, trovandosi ad Avignone,
governava, come gli antecessori suoi avevano fatto, la Italia per
legati; i quali, pieni di avarizia e di superbia, avevano molte città
afflitte.
Uno di questi, il quale in quelli tempi si trovava a
Bologna, presa la occasione dalla carestia che lo anno era in
Firenze, pensò di insignorirsi di Toscana, e non solamente non
suvvenne i Fiorentini di vivere, ma per torre loro la speranza delle
future ricolte, come prima apparì la primavera, con grande
esercito gli assaltò, sperando, trovandogli disarmati e
affamati, potergli facilmente superare.
E forse gli succedeva, se le
armi con le quali quello gli assalì infedeli e venali state
non fussero: perché i Fiorentini, non avendo migliore rimedio,
dierono centotrentamila fiorini ai suoi soldati, e feciono loro
abbandonare la impresa.
Comincionsi le guerre quando altri vuole, ma
non quando altri vuole si finiscono.
Questa guerra, per ambizione del
Legato cominciata, fu dallo sdegno de' Fiorentini seguita, e feciono
lega con messer Bernabò e con tutte le città nimiche
alla Chiesa; e creorono otto cittadini che quella amministrassero,
con autorità di potere operare sanza appello e spendere sanza
darne conto.
Questa guerra mossa contro al Pontefice fece, non
ostante che Uguccione fusse morto, risurgere quelli che avieno la
setta de' Ricci seguita, i quali, contro agli Albizzi, avevono sempre
favorito messer Bernabò e disfavorita la Chiesa; e tanto più
che gli Otto erano tutti nimici alla setta de' Guelfi.
Il che fece
che Piero degli Albizzi, messer Lapo da Castiglionchio, Carlo Strozzi
e gli altri più insieme si strinsono alla offesa de' loro
avversarii; e mentre che gli Otto facevano la guerra, ed eglino
ammunivano.
Durò la guerra tre anni, né prima ebbe che
con la morte del Pontefice termine; e fu con tanta virtù e
tanta sodisfazione dello universale amministrata, che agli Otto fu
ogni anno prorogato il magistrato; ed erano chiamati Santi, ancora
che eglino avessero stimate poco le censure, e le chiese de' beni
loro spogliate, e sforzato il clero a celebrare gli uffizi: tanto
quelli cittadini stimavano allora più la patria che l'anima.
E
dimostrorono alla Chiesa come prima, suoi amici, la avevano difesa,
così, suoi nimici, la potevono affliggere; perché tutta
la Romagna, la Marca e Perugia le feciono ribellare.
8
Non
di meno, mentre che al Papa facevono tanta guerra, non si potevono
dai Capitani di parte e dalla loro setta difendere; perché la
invidia che i Guelfi avieno agli Otto faceva crescere loro l'audacia,
e non che agli altri nobili cittadini, ma dall'ingiuriare alcuni
degli Otto non si astenevano.
E a tanta arroganza i Capitani di parte
salirono, ch'eglino erano più che i Signori temuti, e con
minore reverenza si andava a questi che a quelli, e più si
stimava il palagio della Parte che il loro; tanto che non veniva
ambasciadore a Firenze che non avesse commissione a' Capitani.
Sendo
adunque morto papa Gregorio, e rimasa la città sanza guerra di
fuora, si viveva dentro in grande confusione; perché da l'un
canto la audacia de' Guelfi era insopportabile, da l'altro non si
vedeva modo a potergli battere: pure si giudicava che di necessità
si avesse a venire alle armi, e vedere quale de' duoi seggi dovesse
prevalere.
Erano dalla parte de' Guelfi tutti gli antichi nobili, con
la maggiore parte de' più potenti popolani; dove, come
dicemmo, messer Lapo, Piero e Carlo erano principi: da l'altra erano
tutti i popolani di minore sorte, de' quali erano capi gli Otto della
guerra, messer Giorgio Scali, Tommaso Strozzi; con i quali Ricci,
Alberti e Medici convenivano: il rimanente della moltitudine, come
quasi sempre interviene, alla parte malcontenta si accostava.
Parevano ai capi della setta guelfa le forze degli avversarii
gagliarde, e il pericolo loro grande, qualunque volta una Signoria
loro nimica volesse abbassargli; e pensando che fusse bene prevenire,
si accozzorono insieme; dove le condizioni della città e dello
stato loro esaminorono.
E pareva loro che gli ammuniti, per essere
cresciuti in tanto numero, avessero dato loro tanto carico che tutta
la città fusse diventata loro nimica.
A che non vedevano altro
rimedio che, dove gli avieno tolto loro gli onori, torre loro ancora
la città, occupando per forza il palagio de' Signori e
reducendo tutto lo stato nella setta loro, ad imitazione degli
antichi Guelfi, i quali non vissono per altro nella città
sicuri che per averne cacciati gli avversarii loro.
Ciascuno si
accordava a questo; ma discordavano del tempo.
9
Correva
allora lo anno 1378, ed era il mese di aprile; e a messer Lapo non
pareva di differire, affermando niuna cosa nuocere tanto al tempo
quanto il tempo, e a loro massime, potendo nella seguente Signoria
essere facilmente Salvestro de' Medici gonfaloniere, il quale alla
setta loro contrario cognoscevano.
A Piero degli Albizzi, da l'altro
canto, pareva da differire, perché giudicava bisognassero
forze, e quelle non essere possibile, sanza dimostrazione,
raccozzare, e quando fussero scoperti, in manifesto pericolo
incorrerebbono.
Giudicava per tanto essere necessario che il
propinquo San Giovanni si aspettasse; nel quale tempo, per essere il
più solenne giorno della città assai moltitudine in
quella concorre, intra la quale potrebbono allora quanta gente
volessero nascondere, e per rimediare a quello che di Salvestro si
temeva, si ammunisse; e quando questo non paresse da fare, si
ammunisse uno di Collegio del suo quartiere, e ritraendosi lo
scambio, per essere le borse vote, poteva facilmente la sorte fare
che quello o qualche suo consorte fusse tratto, che gli torrebbe la
facultà di potere sedere gonfaloniere.
Fermorono per tanto
questa deliberazione; ancora che messer Lapo mal volentieri vi
acconsentisse, giudicando il differire nocivo, e mai il tempo non
essere al tutto commodo a fare una cosa, in modo che chi aspetta
tutte le commodità, o e' non tenta mai cosa alcuna, o, se la
tenta, la fa il più delle volte a suo disavantaggio.
Ammunirono costoro il collegio, ma non successe loro impedir
Salvestro, perché, scoperte dagli Otto le cagioni, che lo
scambio non si ritraesse operorono.
Fu tratto per tanto gonfaloniere
Salvestro di messer Alamanno de' Medici.
Costui, nato di nobilissima
famiglia popolana che il popolo fussi da pochi potenti oppresso
sopportare non poteva, e avendo pensato di porre fine a questa
insolenza, vedendosi il popolo favorevole e di molti nobili popolani
compagni, comunicò i disegni suoi con Benedetto Alberti,
Tomaso Strozzi e messer Giorgio Scali, i quali per condurgli ogni
aiuto gli promissono.
Fermorono adunque secretamente una legge, la
quale innovava gli ordini della giustizia contro ai Grandi, e
l'autorità de' Capitani di parte diminuiva, e a gli ammuniti
dava modo di potere essere alle dignità rivocati.
E perché
quasi in un medesimo tempo si esperimentasse e ottenesse, avendosi
prima infra i Collegi e di poi ne' Consigli a deliberare, e
trovandosi Salvestro proposto (il quale grado, quel tempo che dura,
fa uno quasi che principe della città), fece in una medesima
mattina il Collegio e il Consiglio ragunare; e a' Collegi prima,
divisi da quello, prepose la legge ordinata: la quale, come cosa
nuova, trovò, in nel numero di pochi tanto disfavore che la
non si ottenne.
Onde che, veggendo Salvestro come gli erano tagliate
le prime vie ad ottenerla, finse di partirsi del luogo per sue
necessità, e senza che altri se ne accorgesse, ne andò
in Consiglio; e salito alto, donde ciascuno lo potesse vedere e
udire, disse come e' credeva essere stato fatto gonfaloniere, non per
essere giudice di cause private, che hanno i loro giudici ordinari,
ma per vigilare lo stato, correggere la insolenza de' potenti e
temperare quelle leggi per lo uso delle quali si vedesse la republica
rovinare; e come ad ambedue queste cose aveva con diligenzia pensato
e, in quanto gli era stato possibile, proveduto; ma la malignità
degli uomini in modo alle giuste sue imprese si opponeva, che a lui
era tolta la via di potere operare bene, e a loro, non che di poterlo
deliberare, ma di udirlo.
Onde che, vedendo di non potere più
in alcuna cosa alla republica né al bene universale giovare,
non sapeva per qual cagione si aveva a tenere più il
magistrato; il quale o egli non meritava, o altri credeva che non
meritasse; e per questo se ne voleva ire a casa, acciò che
quel popolo potesse porre in suo luogo un altro, che avesse o
maggiore virtù o migliore fortuna di lui.
E dette queste
parole, si partì di Consiglio per andarne a casa.
10
Quelli
che, in Consiglio, erano della cosa consapevoli, e quelli altri che
desideravano novità, levorono il romore: al quale i Signori e
i Collegi corsono; e veduto il loro Gonfaloniere partirsi, con
prieghi e con autorità lo ritennano, e lo ferono in Consiglio,
il quale era pieno di tumulto, ritornare: dove molti nobili cittadini
furono con parole ingiuriosissime minacciati, intra i quali Carlo
Strozzi fu da uno artefice preso per il petto e voluto ammazzare, e
con fatica fu da' circunstanti difeso.
Ma quello che suscitò
maggiore tumulto e messe in arme la città fu Benedetto degli
Alberti; il quale, dalle finestre del Palagio, con alta voce chiamò
il popolo alle armi; e subito fu piena la Piazza di armati; donde che
i Collegi quello che prima, pregati, non avevono voluto fare,
minacciati e impauriti feciono.
I Capitani di parte, in questo
medesimo tempo, avevono assai cittadini nel loro palagio ragunati,
per consigliarsi come si avessero contro all'ordine de' Signori a
difendere; ma come si sentì levato il romore e si intese
quello che per i Consigli si era deliberato, ciascuno si rifuggì
nelle case sue.
Non sia alcuno che muova una alterazione in una
città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a
suo modo.
Fu la intenzione di Salvestro creare quella legge e posare
la città; e la cosa procedette altrimenti; perché gli
umori mossi avevono in modo alterato ciascuno, che le botteghe non si
aprivano, i cittadini si afforzavano per le case, molti il loro
mobile per i munisteri e per le chiese nascondevano, e pareva che
ciascuno temesse qualche propinquo male.
Ragunoronsi i corpi delle
Arti, e ciascuna fece un sindaco; onde i Priori chiamorono i loro
collegi e quelli sindachi, e consultorono tutto un giorno come la
città con sodisfazione di ciascuno si potesse quietare; ma per
essere i pareri diversi, non si accordorono.
L'altro giorno seguente,
le Arti trassono fuora le loro bandiere: il che sentendo i Signori, e
dubitando di quello che avvenne, chiamorono il Consiglio per porvi
rimedio.
Né fu ragunato a pena, che si levò il romore e
subito le insegne delle Arti, con grande numero di armati dietro,
furono in Piazza.
Onde che il Consiglio, per dare alle Arti e al
popolo di contentargli speranza, e torre loro la occasione del male,
dette generale potestà, la quale si chiama in Firenze balia,
ai Signori, Collegi, agli Otto, a' Capitani di parte e a' sindachi
delle Arti, di potere riformare lo stato della città a comune
benifizio di quella.
E mentre che questo si ordinava, alcune insegne
delle Arti, e di quelle di minori qualità, sendo mosse da
quelli che desideravono vendicarsi delle fresche ingiurie ricevute
dai Guelfi, dalle altre si spiccorono, e la casa di messer Lapo da
Castiglionchio saccheggiorono e arsono.
Costui, come intese la
Signoria avere fatto impresa contro agli ordini de' Guelfi, e vide il
popolo in arme, non avendo altro rimedio che nascondersi o fuggire,
prima in Santa Croce si nascose, di poi, vestito da frate, in
Casentino se ne fuggì; dove più volte fu sentito
dolersi di sé, per avere consentito a Piero degli Albizzi, e
di Piero per avere voluto aspettare San Giovanni ad assicurarsi dello
stato.
Ma Piero e Carlo Strozzi, ne' primi romori, si nascosono,
credendo, cessati quelli, per avere assai parenti e amici, potere
stare in Firenze securi.
Arsa che fu la casa di messer Lapo, perché
i mali con difficultà si cominciono e con facilità si
accrescono, molte altre case furono, o per odio universale o per
private nimicizie, saccheggiate e arse.
E per avere compagnia che con
maggiore sete di loro a rubare i beni d'altri gli accompagnasse, le
publiche prigioni ruppono; e di poi il munistero degli Agnoli e il
convento di Santo Spirito, dove molti cittadini avevono il loro
mobile nascoso, saccheggiorono.
Né campava la publica Camera
dalle mani di questi predatori, se dalla reverenza d'uno de' Signori
non fusse stata difesa: il quale, a cavallo, con molti armati dietro,
in quel modo che poteva alla rabbia di quella moltitudine si
opponeva.
Mitigato in parte questo populare furore, sì per la
autorità de' Signori, sì per essere sopraggiunta la
notte, l'altro dì poi la Balia fece grazia agli ammuniti, con
questo, che non potessero, per tre anni, esercitare alcuno
magistrato: annullorono le leggi fatte in pregiudizio de' cittadini
dai Guelfi; chiarirono ribelli messer Lapo da Castiglionchio e i suoi
consorti, e con quello più altri dallo universale odiati.
Dopo
le quali deliberazioni, i nuovi Signori si publicorono, de' quali era
gonfaloniere Luigi Guicciardini; per i quali si prese speranza di
fermare i tumulti, parendo a ciascuno che fussero uomini pacifici e
della quiete comune amatori.
11
Non
di meno non si aprivono le botteghe, e i cittadini non posavano le
armi, e guardie grandi per tutta la città si facevano; per la
qual cosa i Signori non presono il magistrato fuora del Palagio, con
la solita pompa, ma dentro, sanza osservare alcuna cerimonia.
Questi
Signori giudicorono niuna cosa essere più utile da farsi, nel
principio del loro magistrato, che pacificare la città; e però
feciono posare le armi, aprire le botteghe, partire di Firenze molti
del contado stati chiamati da' cittadini in loro favore; ordinorono
in di molti luoghi della città guardie: di modo che, se gli
ammuniti si fussero potuti quietare, la città si sarebbe
quietata.
Ma eglino non erano contenti di aspettare tre anni a
riavere gli onori; tanto che, a loro sodisfazione, le Arti di nuovo
si ragunorono e ai Signori domandorono che, per bene e quiete della
città, ordinassero che qualunque cittadino, in qualunque
tempo, de' Signori, di Collegio, Capitano di parte, o Consolo di
qualunque Arte fusse stato, non potesse essere ammunito per
ghibellino; e di più, che nuove imborsazioni nella parte
guelfa si facessero, e le fatte si ardessero.
Queste domande, non
solamente dai Signori, ma subito da tutti i Consigli furono
accettate; per il che parve che i tumulti, che già di nuovo
erano mossi, si fermassero.
Ma perché agli uomini non basta
ricuperare il loro, che vogliono occupare quello d'altri e
vendicarsi, quelli che speravano ne' disordini mostravano agli
artefici che non sarebbono mai sicuri, se molti loro nimici non erano
cacciati e destrutti.
Le quali cose presentendo i Signori, feciono
venire avanti a loro i magistrati delle Arti insieme con i loro
sindachi; ai quali Luigi Guicciardini gonfaloniere parlò in
questa forma: - Se questi Signori, e io insieme con loro, non
avessimo, buon tempo è, cognosciuta la fortuna di questa
città, la quale fa che, fornite le guerre di fuora, quelle di
dentro cominciono, noi ci saremmo più maravigliati de' tumulti
seguiti, e più ci arebbono arrecato dispiacere.
Ma perché
le cose consuete portono seco minori affanni, noi abbiamo i passati
romori con pazienza sopportati, sendo massimamente senza nostra colpa
incominciati, e sperando quelli, secondo lo esemplo de' passati,
dovere avere qualche volta fine, avendovi di tante e sì gravi
domande compiaciuti; ma presentendo come voi non quietate, anzi
volete che a' vostri cittadini nuove ingiurie si faccino, e con nuovi
esili si condannino, cresce, con la disonestà vostra, il
dispiacere nostro.
E veramente, se noi avessimo creduto che, ne'
tempi del nostro magistrato, la nostra città, o per
contrapporci a voi o per compiacervi, avesse a rovinare, noi aremmo
con la fuga o con lo esilio fuggito questi onori; ma sperando avere a
convenire con uomini che avessero in loro qualche umanità, e
alla loro patria qualche amore, prendemmo il magistrato volentieri,
credendo, con la nostra umanità, vincere in ogni modo
l'ambizione vostra.
Ma noi vediamo ora per esperienza che quanto più
umilmente ci portiamo, quanto più vi concediamo, tanto più
insuperbite, e più disoneste cose comandate.
E se noi parliamo
così, non facciamo per offendervi, ma per farvi ravvedere;
perché noi vogliamo che uno altro vi dica quello che vi piace,
noi vogliamo dirvi quello che vi sia utile.
Diteci, per vostra fe',
qual cosa è quella che voi possiate onestamente più
desiderare da noi? Voi avete voluto torre l'autorità a'
Capitani di parte: la si è tolta; voi avete voluto che si
ardino le loro borse e faccinsi nuove riforme: noi l'abbiamo
acconsentito; voi volesti che gli ammuniti ritornassero negli onori:
e si è permesso; noi, per i prieghi vostri, a chi ha arse le
case e spogliate le chiese abbiamo perdonato, e si sono mandati in
esilio tanti onorati e potenti cittadini, per sodisfarvi; i Grandi, a
contemplazione vostra, si sono con nuovi ordini raffrenati.
Che fine
aranno queste vostre domande, o quanto tempo userete voi male la
liberalità nostra? Non vedete voi che noi sopportiamo con più
pazienza lo esser vinti, che voi la vittoria? A che condurranno
queste vostre disunioni questa vostra città? Non vi ricordate
voi, che quando l'è stata disunita, Castruccio, un vile
cittadino lucchese, l'ha battuta? un Duca di Atene, privato
condottiere vostro, l'ha subiugata? Ma quando la è stata
unita, non l'ha potuta superare uno Arcivescovo di Milano e uno Papa;
i quali, dopo tanti anni di guerra, sono rimasi con vergogna.
Perché
volete voi adunque che le vostre discordie quella città, nella
pace, faccino serva, la quale tanti nimici potenti hanno, nella
guerra, lasciata libera? Che trarrete voi delle disunioni vostre,
altro che servitù? o de' beni che voi ci avete rubati o
rubasse, altro che povertà? perché sono quelli che, con
le industrie nostre, nutriscono tutta la città; de' quali
sendone spogliati, non potreno nutrirla; e quelli che gli aranno
occupati, come cosa male acquistata, non gli sapranno perservare:
donde ne seguirà la fame e la povertà della città.
Io e questi Signori vi comandiamo, e, se la onestà lo
consente, vi preghiamo, che voi fermiate, una volta, lo animo; e
siate contenti stare quieti a quelle cose che per noi si sono
ordinate; e quando pure ne volesse alcuna di nuovo, vogliate
civilmente, e non con tumulto e con le armi, domandarle, perché,
quando le sieno oneste, sempre ne sarete compiaciuti, e non darete
occasione a malvagi uomini, con vostro carico e danno, sotto le
spalle vostre, di rovinare la patria vostra -.
Queste parole, perché
erano vere, commossono assai gli animi di quelli cittadini; e
umanamente ringraziorono il Gonfaloniere di avere fatto l'ufficio con
loro di buon Signore e con la città di buono cittadino,
offerendosi essere presti ad ubbidire a quanto era stato loro
commesso.
E i Signori, per darne loro cagione, deputorono duoi
cittadini per qualunque de' maggiori magistrati, i quali, insieme con
i sindachi delle Arti, praticassero se alcuna cosa fusse da riformare
a quiete comune, e ai Signori la referissero.
12
Mentre
che queste cose così procedevano, nacque un altro tumulto, il
quale assai più che il primo offese la republica.
La maggiore
parte delle arsioni e ruberie seguite ne' prossimi giorni erano state
dalla infima plebe della città fatte; e quelli che infra loro
si erano mostri più audaci temevano, quietate e composte le
maggiori differenze, di essere puniti de' falli commessi da loro, e
come gli accade sempre, di essere abbandonati da coloro che al fare
male gli avevano instigati.
A che si aggiugneva uno odio che il
popolo minuto aveva con i cittadini ricchi e principi delle Arti, non
parendo loro essere sodisfatti delle loro fatiche secondo che
giustamente credevano meritare.
Perché quando, ne' tempi di
Carlo primo, la città si divise in Arti, si dette capo e
governo a ciascuna, e si provide che i sudditi di ciascuna Arte dai
capi suoi nelle cose civili fussero giudicati.
Queste Arti, come già
dicemmo, furono nel principio dodici; di poi, col tempo, tante se ne
accrebbono che le aggiunsono a ventuna; e furono di tanta potenza che
le presono in pochi anni tutto il governo della città.
E
perché, intra quelle delle più e delle meno onorate si
trovavano, in maggiori e minori si divisono; e sette ne furono
chiamate maggiori e quattordici minori.
Da questa divisione, e dalle
altre cagioni che di sopra aviamo narrate, nacque l'arroganza de'
Capitani di parte; perché quelli cittadini che erano
anticamente stati guelfi sotto il governo de' quali sempre quello
magistrato girava, i popolani delle maggiori Arti favorivano e quelli
delle minori con i loro defensori perseguitavano; donde contro a di
loro tanti tumulti quanti abbiamo narrati nacquono.
Ma perché
nello ordinare i corpi delle Arti molti di quelli esercizi in ne'
quali il popolo minuto e la plebe infima si affatica sanza avere
corpi di Arti proprie restorono, ma a varie Arti, conformi alle
qualità delli loro esercizi, si sottomessono, ne nasceva che
quando erano o non sodisfatti delle fatiche loro, o in alcun modo dai
loro maestri oppressati, non avevano altrove dove rifuggire che al
magistrato di quella Arte che gli governava; dal quale non pareva
loro fusse fatta quella giustizia che giudicavano si convenisse.
E di
tutte le Arti, che aveva e ha più di questi sottoposti, era ed
è quella della lana; la quale, per essere potentissima, e la
prima, per autorità, di tutte, con la industria sua la
maggiore parte della plebe e popolo minuto pasceva e pasce.
13
Gli
uomini plebei adunque, così quelli sottoposti all'Arte della
lana come alle altre, per le cagioni dette, erano pieni di sdegno: al
quale aggiugnendosi la paura per le arsioni e ruberie fatte da loro,
convennono di notte più volte insieme, discorrendo i casi
seguiti e mostrando l'uno all'altro ne' pericoli si trovavano.
Dove
alcuno de' più arditi e di maggiore esperienza, per inanimire
gli altri, parlò in questa sentenza: - Se noi avessimo a
deliberare ora se si avessero a pigliare le armi, ardere e rubare le
case de' cittadini, spogliare le chiese, io sarei uno di quelli che
lo giudicherei partito da pensarlo, e forse approverei che fusse da
preporre una quieta povertà a uno pericoloso guadagno; ma
perché le armi sono prese e molti mali sono fatti, e' mi pare
che si abbia a ragionare come quelle non si abbiano a lasciare e come
de' mali commessi ci possiamo assicurare.
Io credo certamente che,
quando altri non ci insegnasse, che la necessità ci insegni.
Voi vedete tutta questa città piena di rammarichii e di odio
contro a di noi: i cittadini si ristringono, la Signoria è
sempre con i magistrati: crediate che si ordiscono lacci per noi, e
nuove forze contro alle teste nostre si apparecchiano.
Noi dobbiamo
per tanto cercare due cose e avere, nelle nostre deliberazioni, duoi
fini: l'uno di non potere essere delle cose fatte da noi ne' prossimi
giorni gastigati, l'altro di potere con più libertà e
più sodisfazione nostra che per il passato vivere.
Convienci
per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci sieno perdonati gli
errori vecchi, farne de' nuovi, raddoppiando i mali, e le arsioni e
le ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo avere di molti
compagni, perché dove molti errano niuno si gastiga, e i falli
piccoli si puniscono, i grandi e gravi si premiano; e quando molti
patiscono pochi cercano di vendicarsi, perché le ingiurie
universali con più pazienza che le particulari si sopportono.
Il multiplicare adunque ne' mali ci farà più facilmente
trovare perdono, e ci darà la via ad avere quelle cose che per
la libertà nostra di avere desideriamo.
E parmi che noi
andiamo a un certo acquisto, perché quelli che ci potrebbono
impedire sono disuniti e ricchi: la disunione loro per tanto ci darà
la vittoria, e le loro ricchezze, quando fieno diventate nostre, ce
la manterranno.
Né vi sbigottisca quella antichità del
sangue che ei ci rimproverano; perché tutti gli uomini, avendo
avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi, e da la natura
sono stati fatti ad uno modo.
Spogliateci tutti ignudi: voi ci
vedrete simili, rivestite noi delle veste loro ed eglino delle
nostre: noi senza dubio nobili ed eglino ignobili parranno; perché
solo la povertà e le ricchezze ci disaguagliano.
Duolmi bene
che io sento come molti di voi delle cose fatte, per conscienza, si
pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e certamente, se gli è
vero, voi non siete quelli uomini che io credevo che voi fusse;
perché né conscienza né infamia vi debba
sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo
vincono, mai non ne riportono vergogna.
E della conscienza noi non
dobbiamo tenere conto; perché dove è, come è in
noi, la paura della fame e delle carcere, non può né
debbe quella dello inferno capere.
Ma se voi noterete il modo del
procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e
a grande potenza pervengono o con frode o con forza esservi
pervenuti; e quelle cose, di poi, ch'eglino hanno o con inganno o con
violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto, quello
sotto falso titolo di guadagno adonestano.
E quelli i quali, o per
poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella
servitù sempre e nella povertà affogono; perché
i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono
poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e
audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti.
Perché
Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in
mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e alle
cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini
mangiono l'uno l'altro, e vanne sempre col peggio chi può
meno.
Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data
occasione.
La quale non può essere a noi offerta dalla fortuna
maggiore, sendo ancora i cittadini disuniti, la Signoria dubia, i
magistrati sbigottiti: talmente che si possono, avanti che si
unischino e fermino l'animo, facilmente opprimere: donde o noi
rimarreno al tutto principi della città, o ne areno tanta
parte che non solamente gli errori passati ci fieno perdonati, ma
areno autorità di potergli di nuove ingiurie minacciare.
Io
confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la
necessità strigne è l'audacia giudicata prudenza, e del
pericolo nelle cose grandi gli uomini animosi non tennono mai conto,
perché sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si
finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza
pericolo: ancora che io creda, dove si vegga apparecchiare le
carcere, i tormenti e le morti, che sia da temere più lo
starsi che cercare di assicurarsene; perché nel primo i mali
sono certi, e nell'altro dubi.
Quante volte ho io udito dolervi della
avarizia de' vostri superiori e della ingiustizia de' vostri
magistrati! Ora è tempo, non solamente da liberarsi da loro,
ma da diventare in tanto loro superiore, ch'eglino abbiano più
a dolersi e temere di voi che voi di loro.
La opportunità che
dalla occasione ci è porta vola, e invano, quando la è
fuggita, si cerca poi di ripigliarla.
Voi vedete le preparazioni de'
vostri avversarii: preoccupiamo i pensieri loro; e quale di noi prima
ripiglierà l'armi, sanza dubio sarà vincitore, con
rovina del nimico ed esaltazione sua: donde a molti di noi ne
risulterà onore, e securità a tutti -.
Queste
persuasioni accesono forte i già per loro medesimi riscaldati
animi al male, tanto che deliberorono prendere le armi, poi ch'eglino
avessero più compagni tirati alla voglia loro; e con
giuramento si obligorono di soccorrersi, quando accadessi che alcuno
di loro fusse dai magistrati oppresso.
14
Mentre
che costoro ad occupare la republica si preparavano, questo loro
disegno pervenne a notizia de' Signori: per la qual cosa ebbono uno
Simone dalla Piazza nelle mani, da il quale intesono tutta la
congiura, e come il giorno seguente volevono levare il romore.
Onde
che, veduto il pericolo, ragunorono i Collegi e quelli cittadini che
insieme con i sindachi delle Arti l'unione della città
praticavano (e avanti che ciascuno fusse insieme era già
venuta la sera), e da quelli i Signori furono consigliati che si
facessero venire i consoli delle Arti: i quali tutti consigliorono
che tutte le genti d'arme in Firenze venire si facessero, e i
gonfalonieri del popolo fussero la mattina, con le loro compagnie
armate in Piazza.
Temperava l'oriolo di Palagio, in quel tempo che
Simone si tormentava e che i cittadini si ragunavano, uno Niccolò
da San Friano; e accortosi di quello che era, tornato a casa, riempié
di tumulto tutta la sua vicinanza; di modo che, in un subito, alla
piazza di Santo Spirito più che mille uomini armati si
ragunorono.
Questo romore pervenne agli altri congiurati; e San Piero
Maggiore e San Lorenzo, luoghi deputati da loro, di uomini armati si
riempierono.
Era già venuto il giorno, il quale era il 21 di
luglio, e in Piazza, in favore de' Signori, più che ottanta
uomini d'arme comparsi non erano; e de' gonfalonieri non ve ne venne
alcuno, perché, sentendo essere tutta la città in arme,
di abbandonare le loro case temevono.
I primi che della plebe furono
in Piazza furono quelli che a San Piero Maggiore ragunati s'erano;
allo arrivare de' quali la gente d'arme non si mosse.
Comparsono,
appresso a questi, l'altra moltitudine; e non trovato riscontro, con
terribili voci i loro prigioni alla Signoria domandavano; e per
avergli per forza, poi che non erano per minacce renduti, le case di
Luigi Guicciardini arsono; di modo che i Signori, per paura di
peggio, gli consegnorono loro.
Riavuti questi, tolsono il gonfalone
della giustizia allo esecutore, e sotto quello le case di molti
cittadini arsono, perseguitando quelli i quali o per publica o per
privata cagione erano odiati.
E molti cittadini, per vendicare loro
private ingiurie, alle case de' loro nimici li condussero: perché
bastava solo che una voce, nel mezzo della moltitudine: - a casa il
tale! - gridasse, o che quello che teneva il gonfalone in mano vi si
volgesse.
Tutte le scritture ancora dell'Arte della lana arsono.
Fatti che gli ebbono molti mali, per accompagnarli con qualche
lodevole opera, Salvestro de' Medici e tanti altri cittadini feciono
cavalieri, che il numero di tutti a sessantaquattro aggiunse; intra i
quali Benedetto e Antonio degli Alberti, Tommaso Strozzi e simili
loro confidenti furono; non ostante che molti forzatamente ne
facessero.
Nel quale accidente, più che alcuna altra cosa, è
da notare lo avere veduto a molti ardere le case e quelli poco di
poi, in un medesimo giorno, da quelli medesimi (tanto era propinquo
il beneficio alla ingiuria) essere stati fatti cavalieri, il che a
Luigi Guicciardini gonfaloniere di giustizia intervenne.
I Signori,
intra tanti tumulti, vedendosi abbandonati da le genti d'arme, dai
capi delle Arti e dai loro gonfalonieri, erano smarriti; perché
niuno secondo l'ordine dato gli aveva soccorsi, e di sedici gonfaloni
solamente la insegna del Lione d'oro e quella del Vaio, sotto
Giovenco della Stufa e Giovanni Cambi, vi comparsono; e questi poco
tempo in Piazza dimororono, perché, non si vedendo seguitare
dagli altri, ancora eglino si partirono.
Dei cittadini dall'altra
parte, vedendo il furore di questa sciolta moltitudine, e il Palagio
abbandonato, alcuni dentro alle loro case si stavano, alcuni altri la
turba degli armati seguitavano, per potere, trovandosi infra loro,
meglio le case sue e quelle degli amici difendere: e così
veniva la potenza loro a crescere e quella de' Signori a diminuire.
Durò questo tumulto tutto il giorno; e venuta la notte, al
palagio di messere Stefano, dietro alla chiesa di San Barnaba, si
fermorono.
Passava il numero loro più che seimilia, e avanti
apparisse il giorno, si feciono dalle Arti, con minacce, le loro
insegne mandare.
Venuta di poi la mattina, con il gonfalone della
giustizia e con le insegne delle Arti innanzi, al palagio del podestà
ne andorono; e ricusando il podestà di darne loro la
possessione, lo combatterono e vinsono.
15
I
Signori, volendo fare pruova di comporre con loro, poi che per forza
non vedevono modo a frenargli, chiamorono quattro de' loro Collegi e
quelli al palagio del podestà, per intendere la mente loro,
mandorono.
I quali trovorono che i capi della plebe, con i sindachi
delle Arti e alcuni cittadini, avevano quello che volevano alla
Signoria domandare deliberato.
Di modo che alla Signoria con quattro
della plebe deputati e con queste domande tornorono: che l'Arte della
lana non potesse più giudice forestiero tenere; che tre nuovi
corpi d'arti si facessero, l'uno per i cardatori e tintori, l'altro
per i barbieri, farsettai, sarti e simili arti meccaniche, il terzo
per il popolo minuto; e che di queste tre Arti nuove sempre fussero
duoi Signori, e delle quattordici Arti minori tre; che la Signoria
alle case dove queste nuove Arti potessero convenire provedesse, che
niuno a queste Arti sottoposto, infra duoi anni, potesse essere a
pagare debito che fusse di minore somma che cinquanta ducati
constretto; che il Monte fermasse gli interessi, e solo i capitali si
restituissero; che i confinati e condannati fussero assoluti; che
agli onori tutti gli ammuniti si restituissero.
Molte altre cose,
oltre a queste, in beneficio dei loro particulari fautori
domandorono, e così, per il contrario, che molti de' loro
nimici fussero confinati e ammuniti vollono.
Le quali domande, ancora
che alla republica disonorevoli e gravi, per timore di peggio, furono
dai Signori, Collegi e Consiglio del popolo subito deliberate.
Ma a
volere che le avessero la loro perfezione, era necessario ancora nel
Consiglio del comune si ottenessero; il che, non si potendo in uno
giorno ragunare duoi Consigli, differire all'altro dì
convenne.
Non di meno parve che per allora le Arti contente e la
plebe sodisfatta ne rimanesse; e promissono che, data la perfezione
alla legge, ogni tumulto poserebbe.
Venuta la mattina di poi, mentre
che nel Consiglio del comune si deliberava, la moltitudine,
impaziente e volubile, sotto le solite insegne venne in Piazza, con
sì alte voci e sì spaventevoli, che tutto il Consiglio
e i Signori spaventorono.
Per la qual cosa Guerriante Marignolli, uno
de' Signori, mosso più da il timore che da alcuna altra sua
privata passione, scese, sotto colore di guardare la porta, da basso
e se ne fuggì a casa.
Né potette, uscendo fuora, in
modo celarsi che non fusse da la turba ricognosciuto: né gli
fu fatto altra ingiuria, se non che la moltitudine gridò, come
lo vide, che tutti Signori il Palagio abbandonassero; se non, che
ammazzerebbono i loro figliuoli e le loro case arderebbono.
Era, in
quel mezzo, la legge deliberata e i Signori nelle loro camere
ridutti; e il Consiglio, sceso da basso e sanza uscire fuora, per la
loggia e per la corte, desperato della salute della città, si
stava, tanta disonestà vedendo in una moltitudine, e tanta
malignità o timore in quelli che l'arebbono possuta o frenare
o opprimere.
I Signori ancora erano confusi e della salute della
patria dubi, vedendosi da uno di loro abbandonati e da niuno
cittadino, non che di aiuto, ma di consiglio suvvenuti.
Stando
adunque di quello potessero o dovessero fare incerti, messer Tommaso
Strozzi e messer Benedetto Alberti, mossi o da propria ambizione,
desiderando rimanere signori del Palagio, o perché pure così
credevono essere bene, gli persuasono a cedere a questo impeto
popolare e, privati, alle loro case tornarsene.
Questo consiglio,
dato da coloro che erano stati capi del tumulto, fece, ancora che gli
altri cedessero, Alamanno Acciaiuoli e Niccolò del Bene, duoi
de' Signori, sdegnare; e tornato in loro un poco di vigore, dissono
che se gli altri se ne volevono partire non possevono rimediarvi, ma
non volevono già, prima che il tempo lo permettesse, lasciare
la loro autorità, se la vita con quella non perdevano.
Questi
dispareri raddoppiorono a' Signori la paura e al popolo lo sdegno;
tanto che il Gonfaloniere, volendo più tosto finire il suo
magistrato con vergogna che con pericolo, a messer Tommaso Strozzi si
raccomandò, il quale lo trasse di Palagio e alle sue case lo
condusse.
Gli altri Signori in simile modo l'uno dopo l'altro si
partirono; onde che Alamanno e Niccolò, per non essere tenuti
più animosi che savi, vedendosi rimasi soli, ancora eglino se
ne andorono; e il Palagio rimase nelle mani della plebe e degli Otto
della guerra, i quali ancora non avevono il magistrato deposto.
16
Aveva,
quando la plebe entrò in Palagio, la insegna del gonfaloniere
di giustizia in mano uno Michele di Lando pettinatore di lana.
Costui, scalzo e con poco indosso, con tutta la turba dietro salì
sopra la sala, e come e' fu nella audienza de' Signori, si fermò,
e voltosi alla moltitudine, disse: - Voi vedete: questo Palagio è
vostro, e questa città è nelle vostre mani.
Che vi pare
che si faccia ora? - Al quale tutti, che volevono che fusse
gonfaloniere e signore e che governassi loro e la città come a
lui pareva, risposono.
Accettò Michele la signoria; e perché
era uomo sagace e prudente, e più alla natura che alla fortuna
obligato, deliberò quietare la città e fermare i
tumulti.
E per tenere occupato il popolo, e dare a sé tempo a
potere ordinarsi, che si cercasse d'uno ser Nuto, stato da messer
Lapo da Castiglionchio per bargello disegnato, comandò: alla
quale commissione la maggior parte di quelli aveva d'intorno
andorono.
E per cominciare quello imperio con giustizia, il quale
egli aveva con grazia acquistato, fece publicamente che niuno ardesse
o rubasse alcuna cosa comandare; e per spaventare ciascuno, rizzò
le forche in Piazza.
E per dare principio alla riforma della città,
annullò i sindachi delle Arti e ne fece de' nuovi, privò
del magistrato i Signori e i Collegi; arse le borse degli ufici.
Intanto ser Nuto fu portato dalla moltitudine in Piazza e a quelle
forche per un piede impiccato: del quale avendone qualunque era
intorno spiccato un pezzo, non rimase in un tratto di lui altro che
il piede.
Gli Otto della guerra da l'altra parte, credendosi, per la
partita de' Signori, essere rimasi principi della città,
avevano già i nuovi Signori disegnati; il che presentendo
Michele, mandò a dire loro che subito di Palagio si
partissero, perché voleva dimostrare a ciascuno come sanza il
consiglio loro sapeva Firenze governare.
Fece di poi ragunare i
sindachi delle Arti, e creò la Signoria: quattro della plebe
minuta, duoi per le maggiori e duoi per le minori Arti.
Fece, oltra
di questo, nuovo squittino, e in tre parti divise lo stato; e volle
che l'una di quelle alle nuove Arti, l'altra alle minori, la terza
alle maggiori toccasse.
Dette a messer Salvestro de' Medici l'entrate
delle botteghe del Ponte Vecchio, a sé la podesteria di
Empoli; e a molti altri cittadini amici della plebe fece molti altri
benefizi, non tanto per ristorargli delle opere loro, quanto perché
d'ogni tempo contro alla invidia lo difendessero.
17
Parve
alla plebe che Michele, nel riformare lo stato, fusse stato a'
maggiori popolani troppo partigiano; né pareva avere loro
tanta parte nel governo quanta, a mantenersi in quello e potersi
difendere, fusse di avere necessario; tanto che, dalla loro solita
audacia spinti, ripresono le armi, e tumultuando, sotto le loro
insegne, in Piazza ne vennono; e che i Signori in ringhiera per
deliberare nuove cose a proposito della securtà e bene loro
scendessero domandavano.
Michele, veduta la arroganza loro, per non
gli fare più sdegnare, senza intendere altrimenti quello che
volessero, biasimò il modo che nel domandare tenevano, e gli
confortò a posare le armi, e che allora sarebbe loro conceduto
quello che per forza non si poteva con dignità della Signoria
concedere.
Per la qual cosa la moltitudine, sdegnata contro al
Palagio, a Santa Maria Novella si ridusse; dove ordinorono infra loro
otto capi, con ministri e altri ordini che dettono loro e reputazione
e reverenzia: tale che la città aveva duoi seggi ed era da
duoi diversi principi governata.
Questi capi infra loro deliberorono
che sempre otto, eletti dai corpi delle loro Arti, avessero con i
Signori in Palagio ad abitare, e tutto quello che dalla Signoria si
deliberasse dovesse essere da loro confermato; tolsono a messer
Salvestro de' Medici e a Michele di Lando tutto quello che nelle
altre loro deliberazioni era stato loro concesso, assegnorono a molti
di loro ufici e suvvenzioni, per potere il loro grado con dignità
mantenere.
Ferme queste deliberazioni, per farle valide, mandorono
duoi di loro alla Signoria, a domandare che le fussero loro per i
Consigli conferme, con propositi di volerle per forza, quando
d'accordo non le potessero ottenere.
Costoro, con grande audacia e
maggiore prosunzione, a' Signori la loro commissione esposono; e al
Gonfaloniere la dignità ch'eglino gli avieno data, e l'onore
fattogli, e con quanta ingratitudine e pochi rispetti si era con loro
governato, rimproverorono.
E venendo poi, nel fine, dalle parole alle
minacce, non potette sopportare Michele tanta arroganzia, e
ricordandosi più del grado che teneva che della infima
condizione sua, gli parve da frenare con estraordinario modo una
estraordinaria insolenza; e tratta l'arme che gli aveva cinta, prima
gli ferì gravemente di poi gli fece legare e rinchiudere.
Questa cosa, come fu nota, accese tutta la moltitudine d'ira; e
credendo potere, armata, conseguire quello che disarmata non aveva
ottenuto, prese con furore e tumulto le armi, e si mosse per ire a
sforzare i Signori.
Michele, dall'altra parte, dubitando di quello
avvenne, deliberò di prevenire, pensando che fusse più
sua gloria assalire altri che dentro alle mura aspettare il nimico, e
avere, come i suoi antecessori, con disonore del Palagio e sua
vergogna, a fuggirsi.
Ragunato adunque gran numero di cittadini, i
quali già si erano cominciati a ravvedere dello errore loro,
salì a cavallo e, seguitato da molti armati, n'andò a
Santa Maria Novella per combattergli.
La plebe, che aveva, come di
sopra dicemmo, fatta la medesima deliberazione, quasi in quel tempo
che Michele si mosse partì ancora ella per ire in Piazza; e il
caso fece che ciascuno fece diverso cammino, tale che per la via non
si scontrorono.
Donde che Michele, tornato indietro, trovò che
la Piazza era presa e che il Palagio si combatteva; e appiccata con
loro la zuffa, gli vinse; e parte ne cacciò della città,
parte ne constrinse a lasciare l'armi e nascondersi.
Ottenuta la
impresa, si posorono i tumulti, solo per la virtù del
Gonfaloniere.
Il quale d'animo, di prudenza e di bontà superò
in quel tempo qualunque cittadino, e merita di essere annoverato
intra i pochi che abbino benificata la patria loro: perché, se
in esso fusse stato animo o maligno o ambizioso, la republica al
tutto perdeva la sua libertà, e in maggiore tirannide che
quella del Duca di Atene perveniva; ma la bontà sua non gli
lasciò mai venire pensiero nello animo che fusse al bene
universale contrario, la prudenza sua gli fece condurre le cose in
modo che molti della parte sua gli cederono e quelli altri potette
con le armi domare.
Le quali cose feciono la plebe sbigottire, e i
migliori artefici ravvedere e pensare quanta ignominia era, a coloro
che avevano doma la superbia de' Grandi, il puzzo della plebe
sopportare.
18
Era
già, quando Michele ottenne contro alla plebe la vittoria,
tratta la nuova Signoria; intra la quale erano duoi di tanta vile e
infame condizione, che crebbe il desiderio agli uomini di liberarsi
da tanta infamia.
Trovandosi adunque, quando il primo giorno di
settembre i Signori nuovi presono il magistrato, la Piazza piena di
armati, come prima i Signori vecchi fuora di Palagio furono, si levò
intra gli armati, con tumulto, una voce, come e' non volevono che del
popolo minuto alcuno ne fusse de' Signori; tale che la Signoria, per
sodisfare loro, privò del magistrato quelli duoi, de' quali
l'uno il Tria e l'altro Baroccio si chiamava; in luogo de' quali
messer Giorgio Scali e Francesco di Michele elessono.
Annullorono
ancora l'Arte del popolo minuto, e i subietti a quella, eccetto che
Michele di Lando e Lorenzo di Puccio e alcuni altri di migliore
qualità, degli ufici privorono; divisono gli onori in due
parti, l'una delle quali alle maggiori, l'altra alle minori Arti
consegnorono, solo de' Signori vollono che sempre ne fusse cinque de'
minori artefici e quattro de' maggiori, e il gonfaloniere ora all'uno
ora all'altro membro toccasse.
Questo stato così ordinato
fece, per allora, posare la città; e benché la
republica fusse stata tratta delle mani della plebe minuta restorono
più potenti gli artefici di minore qualità che i nobili
popolani; a che questi furono di cedere necessitati, per torre al
popolo minuto i favori delle Arti, contentando quelle.
La qual cosa
fu ancora favorita da coloro che desideravano che rimanessero battuti
quelli che, sotto il nome di Parte guelfa, avevono con tanta violenza
tanti cittadini offesi.
E perché infra gli altri che questa
qualità di governo favorivano furono messer Giorgio Scali,
messer Benedetto Alberti, messer Salvestro de' Medici e messer
Tommaso Strozzi, quasi che principi della città rimasono.
Queste cose così procedute e governate la già
cominciata divisione tra i popolani nobili e i minori artefici, per
la ambizione de' Ricci e degli Albizzi, confermorono: dalla quale
perché seguirono in varii tempi di poi effetti gravissimi, e
molte volte se ne arà a fare menzione, chiamereno l'una di
queste parte popolare e l'altra plebea.
Durò questo stato tre
anni, e di esili e di morti fu ripieno, perché quelli che
governavano, in grandissimo sospetto, per essere dentro e di fuora
molti mali contenti, vivevano: i mali contenti di dentro o e'
tentavano o e' si credevano che tentassino ogni dì cose nuove;
quelli di fuora, non avendo rispetto che gli frenasse, ora per mezzo
di quello principe, ora di quella republica, varii scandoli, ora in
questa ora in quella parte, seminavano.
19
Trovavasi
in questi tempi a Bologna Giannozzo da Salerno, capitano di Carlo di
Durazzo, disceso de' Reali di Napoli, il quale, disegnando fare la
impresa del Regno contro alla reina Giovanna, teneva questo suo
capitano in quella città, per i favori che da papa Urbano,
nimico della Reina, gli erano fatti.
Trovavansi a Bologna ancora
molti fuori usciti fiorentini, i quali seco e con Carlo strette
pratiche tenevano; il che era cagione che in Firenze per quelli che
reggevano con grandissimo sospetto si vivesse, e che si prestasse
facilmente fede alle calunnie di quelli cittadini che erano sospetti.
Fu rivelato per tanto, in tale suspensione di animi, al magistrato,
come Giannozzo da Salerno doveva a Firenze con i fuori usciti
rappresentarsi e molti di dentro prendere l'armi e dargli la città.
Sopra questa relazione furono accusati molti; i primi de' quali Piero
degli Albizzi e Carlo Strozzi furono nominati, e apresso a questi,
Cipriano Mangioni, messer Iacopo Sacchetti, messer Donato Barbadori,
Filippo Strozzi e Giovanni Anselmi; i quali tutti, eccetto Carlo
Strozzi che si fuggì, furono presi; e i Signori, acciò
che niuno ardisse prendere l'armi in loro favore, messer Tommaso
Strozzi e messer Benedetto Alberti con assai gente armata a guardia
della città deputorono.
Questi cittadini presi furono
esaminati, e secondo l'accusa e i riscontri, alcuna colpa in loro non
si trovava; di modo che, non li volendo il Capitano condannare, gli
inimici loro in tanto il popolo sollevorono, e con tanta rabbia lo
commossono loro contro, che per forza furono giudicati a morte.
Né
a Piero degli Albizzi giovò la grandezza della casa, né
la antica riputazione sua, per essere stato più tempo sopra
ogni altro cittadino onorato e temuto: donde che alcuno, o vero suo
amico, per farlo più umano in tanta sua grandezza, o vero suo
nimico, per minacciarlo con la volubilità della fortuna,
faccendo egli uno convito a molti cittadini, gli mandò uno
nappo d'ariento pieno di confetti, e tra quelli nascosto un chiodo;
il quale scoperto e veduto da tutti i convivanti, fu interpetrato che
gli era ricordato conficcasse la ruota, perché, avendolo la
Fortuna condotto nel colmo di quella, non poteva essere che, se la
seguitava di fare il cerchio suo, che la non lo traesse in fondo: la
quale interpetrazione fu, prima dalla sua rovina, di poi dalla sua
morte verificata.
Dopo questa esecuzione rimase la città piena
di confusione, perché i vinti e i vincitori temevono; ma più
maligni effetti da il timore di quelli che governavano nascevano,
perché ogni minimo accidente faceva loro fare alla Parte nuove
ingiurie, o condannando, o ammunendo, o mandando in esilio i loro
cittadini; a che si aggiugnevano nuove leggi e nuovi ordini, i quali
spesso in fortificazione dello stato si facevono.
Le quali tutte cose
seguivono con ingiuria di quelli che erano sospetti alla fazione
loro; e per ciò creorono quarantasei uomini, i quali insieme
con i Signori, la republica di sospetti allo stato purgassero.
Costoro ammunirono trentanove cittadini, e feciono assai popolani
Grandi, e assai Grandi popolani; e per potere alle forze di fuora
opporsi, messer Giovanni Aguto, di nazione inghilese e reputatissimo
nelle armi, soldorono, il quale aveva per il papa e per altri in
Italia più tempo militato.
Il sospetto di fuora nasceva da
intendersi come più compagnie di gente d'arme da Carlo di
Durazzo per fare l'impresa del Regno si ordinavano, con il quale era
fama essere molti fuori usciti fiorentini.
Ai quali pericoli, oltre
alle forze ordinate, con somma di danari si provide; perché,
arrivato Carlo in Arezzo, ebbe dai Fiorentini quarantamila ducati, e
promisse non molestargli; seguì di poi la sua impresa, e
felicemente occupò il regno di Napoli, e la reina Giovanna ne
mandò presa in Ungheria.
La quale vittoria di nuovo il
sospetto a quelli che in Firenze tenevono lo stato accrebbe, perché
non potevono credere che i loro danari più nello animo del Re
potessero, che quella antica amicizia la quale aveva quella casa con
i Guelfi tenuta, i quali con tanta ingiuria erano da loro oppressi.
20
Questo
sospetto adunque, crescendo, faceva crescere le ingiurie; le quali
non lo spegnevano, ma accrescevano; in modo che per la maggiore parte
degli uomini si viveva in malissima contentezza.
A che la insolenzia
di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso Strozzi si aggiugneva; i
quali con la autorità loro quella de' magistrati superavano,
temendo ciascuno di non essere da loro, con il favore della plebe,
oppresso.
E non solamente a' buoni, ma ai sediziosi pareva quel
governo tirannico e violento.
Ma perché la insolenzia di
messer Giorgio qualche volta doveva avere fine, occorse che da uno
suo familiare fu Giovanni di Cambio, per avere contro allo stato
tenute pratiche, accusato; il quale da il Capitano fu trovato
innocente; tale che il giudice voleva punire lo accusatore di quella
pena che sarebbe stato punito il reo se si trovava colpevole; e non
potendo messer Giorgio con prieghi né con alcuna sua autorità
salvarlo, andò egli e messer Tommaso Strozzi, con moltitudine
di armati, e per forza lo liberorono, e il palagio del Capitano
saccheggiorono, e quello volendo salvarsi, a nascondersi
constrinsono.
Il quale atto riempié la città di tanto
odio contro a di lui, che i suoi nimici pensorono di poterlo spegnere
e di trarre la città, non solamente delle sue mani, ma di
quelle della plebe, la quale tre anni, per la arroganza sua, l'aveva
soggiogata.
Di che dette ancora il Capitano grande occasione: il
quale, cessato il tumulto, se ne andò a' Signori, e disse come
era venuto volentieri a quello ufizio al quale loro Signorie lo
avevano eletto, perché pensava avere a servire uomini giusti e
che pigliassero l'armi per favorire, non per impedire, la giustizia;
ma poi che gli aveva veduti e provati i governi della città e
il modo del vivere suo, quella dignità che volentieri aveva
presa per acquistare utile e onore, volentieri la rendeva loro per
fuggire pericolo e danno.
Fu il Capitano confortato dai Signori, e
messogli animo, promettendogli de' danni passati ristoro e per lo
avvenire sicurtà; e ristrettisi parte di loro con alcuni
cittadini, di quelli che giudicavano amatori del bene commune e meno
sospetti allo stato, conclusono che fusse venuta grande occasione a
trarre la città della potestà di messer Giorgio e della
plebe, sendo lo universale per questa ultima insolenzia alienatosi da
lui.
Per ciò pareva loro da usarla prima che gli animi
sdegnati si riconciliassero, perché sapevono che la grazia
dello universale per ogni piccolo accidente si guadagna e perde; e
giudicorono che, a volere condurre la cosa, fusse necessario tirare
alle voglie loro messer Benedetto Alberti, sanza il consenso del
quale la impresa pericolosa giudicavono.
Era messer Benedetto uomo
ricchissimo, umano, severo, amatore della libertà della patria
sua, e a cui dispiacevono assai i modi tirannici: tale che fu facile
il quietarlo e farlo alla rovina di messer Giorgio conscendere.
Perché la cagione che a' popolani nobili e alla setta dei
Guelfi lo avevano fatto nimico e amico alla plebe era stata la
insolenza di quelli e i modi tirannici loro, donde, veduto poi che i
capi della plebe erano diventati simili a quelli, più tempo
innanzi s'era discostato da loro, e le ingiurie le quali a molti
cittadini erano state fatte al tutto fuora del consenso suo erano
seguite: tale che quelle cagioni che gli feciono pigliare le parti
della plebe, quelle medesime gliene feciono lasciare.
Tirato adunque
messer Benedetto e i capi delle Arti alla loro volontà, e
provedutosi di armi, fu preso messer Giorgio, e messer Tommaso fuggì.
E l'altro giorno poi fu messer Giorgio con tanto terrore della parte
sua decapitato, che niuno si mosse, anzi ciascuno a gara alla sua
rovina concorse.
Onde che, vedendosi quello venire a morte davanti a
quel popolo che poco tempo innanzi lo aveva adorato, si dolfe della
malvagia sorte sua e della malignità de' cittadini, i quali,
per averlo ingiuriato a torto, lo avessero a favorire e onorare una
moltitudine constretto, dove non fusse né fede né
gratitudine alcuna.
E ricognoscendo intra gli armati messer Benedetto
Alberti, gli disse: - E tu, messer Benedetto, consenti che a me sia
fatta quella ingiuria che, se io fussi costì non permetterei
mai che la fusse fatta a te? Ma io ti annunzio che questo dì è
fine del male mio e principio del tuo -.
Dolfesi di poi di se stesso,
avendo confidato troppo in uno popolo il quale ogni voce, ogni atto,
ogni sospizione muove e corrompe.
E con queste doglienze morì,
in mezzo ai suoi nimici armati e della sua morte allegri.
Furono
morti, dopo quello, alcuni de' suoi più stretti amici, e dal
popolo strascinati.
21
Questa
morte di questo cittadino commosse tutta la città, perché
nella esecuzione di quella molti presono l'arme per fare alla
Signoria e al Capitano del popolo favore; molti altri ancora, o per
loro ambizione, o per propri sospetti la presono.
E perché la
città era piena di diversi umori, ciascuno vario fine aveva, e
tutti, avanti che l'armi si posassero, di conseguirli desideravano.
Gli antichi nobili, chiamati Grandi, di essere privi degli onori
publici sopportare non potevono, e per ciò di recuperare
quelli con ogni studio s'ingegnavano, e per questo che si rendesse la
autorità ai Capitani di parte amavano; ai nobili popolani e
alle maggiori Arti lo avere accomunato lo stato con le Arti minori e
popolo minuto dispiaceva; da l'altra parte le Arti minori volevono
più tosto accrescere che diminuire la loro dignità; e
il popolo minuto di non perdere i collegi delle sue Arti temeva.
I
quali dispareri feciono, per spazio di uno anno, molte volte Firenze
tumultuare; e ora pigliavano l'armi i Grandi, ora le maggiori ora le
minori Arti e il popolo minuto con quelle; e più volte ad un
tratto in diverse parti della terra tutti erano armati.
Onde ne
seguì, e infra loro e con le genti del Palagio, assai zuffe,
perché la Signoria, ora cedendo, ora combattendo a tanti
inconvenienti come poteva il meglio rimediava.
Tanto che alla fine,
dopo duoi parlamenti e più balie che per riformare la città
si creorono, dopo molti danni, travagli e pericoli gravissimi, si
fermò uno governo, per il quale alla patria tutti quelli che
erano stati confinati poi che messer Salvestro de' Medici era stato
gonfaloniere si restituirono; tolsonsi preeminenzie e provisioni a
tutti quelli che dalla balia del '78 ne erano stati proveduti;
renderonsi gli onori alla Parte guelfa; privoronsi le due Arti nuove
de' loro corpi e governi, e ciascuno de' sottoposti a quelle sotto le
antiche Arti loro si rimissono; privoronsi l'Arti minori del
gonfaloniere di giustizia, e ridussonsi dalla metà alla terza
parte degli onori, e di quelli si tolsono loro quelli di maggiore
qualità.
Sì che la parte de' popolani nobili e de'
Guelfi riassunse lo stato, e quella della plebe lo perdé; del
quale era stata principe dal 1378 allo '81, che seguirono queste
novità.
22
Né
fu questo stato meno ingiurioso verso i suoi cittadini, né
meno grave ne' suoi principii, che si fusse stato quello della plebe;
perché molti nobili popolani che erano notati defensori di
quella furono confinati insieme con gran numero de' capi plebei,
intra i quali fu Michele di Lando; né lo salvò dalla
rabbia delle parti tanti beni de' quali era stato cagione la sua
autorità, quando la sfrenata moltitudine licenziosamente
rovinava la città.
Fugli per tanto alle sue buone operazioni
la sua patria poco grata: nel quale errore perché molte volte
i principi e le republiche caggiono, ne nasce che gli uomini,
sbigottiti da simili esempli prima che possino sentire la
ingratitudine de' principi loro, gli offendono.
Questi esili e queste
morti, come sempre mai dispiacquono, a messer Benedetto Alberti
dispiacevono, e publicamente e privatamente le biasimava; donde i
principi dello stato lo temevano, perché lo stimavano uno de'
primi amici della plebe e credevono che gli avessi consentito alla
morte di messer Giorgio Scali, non perché i modi suoi gli
dispiacessero, ma per rimanere solo nel governo.
Accrescevono di poi
le sue parole e suoi modi il sospetto; il che faceva che tutta la
parte che era principe teneva gli occhi volti verso di lui, per
pigliare occasione di poterlo opprimere.
Vivendosi in questi termini,
non furono le cose di fuora molto gravi; per ciò che alcuna ne
seguì fu più di spavento che di danno.
Perché in
questo tempo venne Lodovico d'Angiò in Italia, per rendere il
regno di Napoli alla reina Giovanna e cacciarne Carlo di Durazzo.
La
passata sua spaurì assai i Fiorentini; perché Carlo,
secondo il costume degli amici vecchi, chiedeva da loro aiuti, e
Lodovico domandava, come fa chi cerca le amicizie nuove, si stessero
di mezzo.
Donde i Fiorentini, per mostrare di sodisfare a Lodovico e
aiutare Carlo, rimossono dai loro soldi messer Giovanni Aguto, e a
papa Urbano, che era di Carlo amico, lo ferono condurre: il quale
inganno fu facilmente da Lodovico cognosciuto, e si tenne assai
ingiuriato da i Fiorentini.
E mentre che la guerra intra Lodovico e
Carlo, in Puglia, si travagliava, venne di Francia nuova gente in
favore di Lodovico; la quale, giunta in Toscana, fu dai fuori usciti
aretini condotta in Arezzo, e trattane la parte che per Carlo
governava.
E quando disegnavano mutare lo stato di Firenze come
eglino avevono mutato quello di Arezzo, seguì la morte di
Lodovico, e le cose, in Puglia e in Toscana, variorono con la fortuna
l'ordine, perché Carlo si assicurò di quel regno che
gli aveva quasi che perduto, e i Fiorentini, che dubitavano di potere
difendere Firenze, acquistorono Arezzo, perché da quelle genti
che per Lodovico lo tenevono lo comperorono.
Carlo adunque,
assicurato di Puglia, ne andò per il regno di Ungheria, il
quale per eredità gli perveniva, e lasciò la moglie in
Puglia, con Ladislao e Giovanna suoi figliuoli ancora fanciulli, come
nel suo luogo dimostrammo.
Acquistò Carlo l'Ungheria; ma poco
di poi vi fu morto.
23
Fecesi
di quello acquisto, in Firenze, allegrezza solenne, quanta mai in
alcuna città per alcuna propria vittoria si facesse: dove la
publica e la privata magnificenza si cognobbe, per ciò che
molte famiglie a gara con il pubblico festeggiorono.
Ma quella che di
pompa e di magnificenza superò le altre fu la famiglia degli
Alberti, perché gli apparati, l'armeggerie che da quella
furono fatte furono non d'una gente privata, ma di qualunque principe
degni.
Le quali cose accrebbono a quella assai invidia, la quale,
aggiunta al sospetto che lo stato aveva di messer Benedetto, fu
cagione della sua rovina; per ciò che quelli che governavano
non potevono di lui contentarsi, parendo loro che ad ogni ora potesse
nascere che, con il favore della Parte, egli ripigliasse la
reputazione sua e gli cacciasse della città.
E stando in
questa dubitazione, occorse che, sendo egli gonfalonieri delle
Compagnie, fu tratto gonfaloniere di giustizia messer Filippo
Magalotti suo genero: la qual cosa raddoppiò il timore a'
principi dello stato, pensando che a messer Benedetto si aggiugnevono
troppe forze e allo stato troppo pericolo.
E desiderando sanza
tumulto rimediarvi, dettono animo a Bese Magalotti, suo consorte e
nimico, che significasse a' Signori che messer Filippo, mancando del
tempo che si richiedeva ad esercitare quel grado, non poteva né
doveva ottenerlo.
Fu la causa intra i Signori esaminata; e parte di
loro per odio, parte per levare scandolo, giudicorono messer Filippo
a quella degnità inabile.
E fu tratto in suo luogo Bardo
Mancini, uomo al tutto alla fazione plebea contrario e a messer
Benedetto nimicissimo; tanto che, preso il magistrato, creò
una balia, la quale, nel ripigliare e riformare lo stato, confinò
messer Benedetto Alberti e il restante della famiglia ammunì,
eccetto che messer Antonio.
Chiamò messer Benedetto, avanti al
suo partire, tutti i suoi consorti, e veggendogli mesti e pieni di
lacrime, disse loro: - Voi vedete, padri e maggiori miei, come la
fortuna ha rovinato me e minacciato voi di che né io mi
maraviglio, né voi vi dovete maravigliare, perché
sempre così avvenne a coloro i quali intra molti cattivi
vogliono essere buoni, e che vogliono sostenere quello che i più
cercono di rovinare.
Lo amore della mia patria mi fece accostare a
messer Salvestro de' Medici e di poi da messer Giorgio Scali
discostare; quello medesimo mi faceva i costumi di questi che ora
governono odiare; i quali, come ei non avevono chi gli gastigasse non
hanno ancora voluto chi gli riprenda.
E io sono contento, con il mio
esilio, liberargli da quello timore che loro avevono, non di me
solamente, ma di qualunque sanno che conosce i tirannici e scelerati
modi loro; e per ciò hanno, con le battiture mie, minacciato
gli altri.
Di me non mi incresce, perché quelli onori che la
patria libera mi ha dati la serva non mi può torre; e sempre
mi darà maggiore piacere la memoria della passata vita mia,
che non mi darà dispiacere quella infelicità che si
tirerà drieto il mio esilio.
Duolmi bene che la mia patria
rimanga in preda di pochi, e alla loro superbia e avarizia
sottoposta; duolmi di voi, perché io dubito che quelli mali
che finiscono oggi in me e cominciono in voi, con maggiori danni che
non hanno perseguitato me non vi perseguino.
Confortovi adunque a
fermare l'animo contro ad ogni infortunio, e portarvi in modo che, se
cosa alcuna avversa vi avviene, che ve ne avverranno molte, ciascuno
cognosca, innocentemente e sanza vostra colpa esservi avvenute -.
Di
poi, per non dare di sé minore opinione di bontà fuora,
che si avesse data in Firenze, se ne andò al Sepulcro di
Cristo, dal quale tornando morì a Rodi.
Le ossa del quale
furono condotte in Firenze, e da coloro con grandissimo onore
sepulte, che, vive, con ogni calunnia e ingiuria avevono
perseguitate.
24
Non
fu, in questi travagli della città, solamente la famiglia
degli Alberti offesa, ma con quella molti cittadini ammuniti e
confinati furono, intra i quali fu Piero Benini, Matteo Alderotti,
Giovanni e Francesco del Bene, Giovanni Benci, Andrea Adimari, e con
questi gran numero di minori artefici: intra gli ammuniti furono i
Covoni, i Benini i Rinucci, i Formiconi, i Corbizzi, i Mannelli e gli
Alderotti.
Era consuetudine creare la balia per un tempo; ma quelli
cittadini, fatto ch'eglino avevono quello per che gli erano stati
deputati, per onestà, ancora che il tempo non fusse venuto,
rinunciavano.
Parendo per tanto a quelli uomini avere sodisfatto allo
stato, volevono, secondo il costume, rinunziare.
Il che intendendo,
molti corsono al Palagio armati, chiedendo che avanti alla renunzia,
molti altri confinassero e ammunissero.
Il che dispiacque assai a'
Signori; e con buone promesse tanto gli intrattennono che si feciono
forti, e di poi operorono che la paura facesse loro posare quelle
armi che la rabbia aveva fatte pigliare.
Non di meno, per sodisfare
in parte a sì rabbioso umore, e per torre agli artefici plebei
più autorità, providdono che, dove gli avevono la terza
parte degli onori, ne avessero la quarta; e acciò che sempre
fussero de' Signori duoi de' più confidenti allo stato,
dierono autorità al gonfaloniere di giustizia e quattro altri
cittadini di fare una borsa di scelti de' quali in ogni Signoria se
ne traessi duoi.
25
Fermato
così lo stato, dopo sei anni, che fu nel 1381 ordinato, visse
la città dentro insino al '93 assai quieta.
Nel qual tempo
Giovan Galeazzo Visconti, chiamato Conte di Virtù, prese
messer Bernabò suo zio, e per ciò diventò di
tutta Lombardia principe.
Costui credette potere divenire re di
Italia con la forza, come gli era diventato duca di Milano con lo
inganno; e mosse, nel '90, una guerra grandissima a' Fiorentini; e in
modo variò quella nel maneggiarsi, che molte volte fu il Duca
più presso al pericolo di perdere, che i Fiorentini, i quali,
se non moriva, avevono perduto.
Non di meno le difese furono animose
e mirabili ad una republica, e il fine fu assai meno malvagio che non
era stata la guerra spaventevole; perché, quando il Duca aveva
preso Bologna, Pisa, Perugia e Siena, e che gli aveva preparata la
corona per coronarsi in Firenze re di Italia, morì: la qual
morte non gli lasciò gustare le sue passate vittorie, e a'
Fiorentini non lasciò sentire le loro presenti perdite.
Mentre
che questa guerra con il Duca si travagliava, fu fatto gonfalonieri
di giustizia messer Maso degli Albizzi, il quale la morte di Piero
aveva fatto nimico agli Alberti.
E perché tuttavolta
vegghiavano gli umori delle parti, pensò messer Maso, ancora
che messer Benedetto fusse morto in esilio, avanti che deponesse il
magistrato, con il rimanente di quella famiglia vendicarsi.
E prese
la occasione da uno che sopra certe pratiche tenute con i rebelli fu
esaminato, il quale Alberto e Andrea degli Alberti nominò.
Furono costoro subito presi, donde tutta la città se ne
alterò, tale che i Signori, provedutisi d'arme, il popolo a
parlamento chiamorono, e feciono uomini di balia, per virtù
della quale assai cittadini confinorono e nuove imborsazioni d'uffizi
ferono.
Intra i confinati furono quasi che tutti gli Alberti; furono
ancora di molti artefici ammuniti e morti, onde che, per le tante
ingiurie, le Arti e popolo minuto si levò in arme, parendogli
che fusse tolto loro l'onore e la vita.
Una parte di costoro vennero
in Piazza un'altra corse a casa messer Veri de' Medici, il quale,
dopo la morte di messer Salvestro, era di quella famiglia rimasto
capo.
A quelli che vennero in Piazza i Signori, per addormentargli,
dierono per capi, con le insegne di parte guelfa e del popolo in
mano, messer Rinaldo Gianfigliazzi e messer Donato Acciaiuoli, come
uomini, de' popolani, più alla plebe che alcuni altri accetti.
Quelli che corsono a casa messer Veri lo pregavano che fusse contento
prendere lo stato e liberargli dalla tirannide di quelli cittadini
che erano de' buoni e del bene comune destruttori.
Accordansi tutti
quelli che di questi tempi hanno lasciata alcuna memoria che, se
messer Veri fusse stato più ambizioso che buono, poteva sanza
alcuno impedimento farsi principe della città; perché
le gravi ingiurie che, a ragione e a torto, erano alle Arti e agli
amici di quelle state fatte avevano in maniera accesi gli animi alla
vendetta, che non mancava, a sodisfare ai loro appetiti, altro che un
capo che gli conducesse.
Né mancò chi ricordasse a
messer Veri quello che poteva fare, perché Antonio de' Medici,
il quale aveva tenuto seco più tempo particulare inimicizia,
lo persuadeva a pigliare il dominio della republica.
Al quale messer
Veri disse: - Le tue minacce, quando tu mi eri inimico, non mi
feciono mai paura, né ora che tu mi sei amico mi faranno male
i tuoi consigli; - e rivoltosi alla moltitudine, gli confortò
a fare buono animo, per ciò che voleva essere loro defensore,
purché si lasciassero da lui consigliare.
E andatone in mezzo
di loro, in Piazza, e di quivi salito in Palagio, davanti a' Signori,
disse non si poter dolere in alcun modo di essere vivuto in maniera
che il popolo di Firenze lo amasse, ma che gli doleva bene che avesse
di lui fatto quello giudizio che la sua passata vita non meritava;
per ciò che, non avendo mai dati di sé esempli di
scandoloso o di ambizioso, non sapeva donde si fusse nato che si
credesse che fusse mantenitore degli scandoli come inquieto, o
occupatore dello stato come ambizioso.
Pregava per tanto loro
Signorie che la ignoranzia della moltitudine non fusse a suo peccato
imputata, perché, quanto apparteneva a lui, come prima aveva
potuto si era rimesso nelle forze loro.
Ricordava bene fussero
contenti usare la fortuna modestamente, e che bastasse loro più
tosto godersi una mezzana vittoria con salute della città,
che, per volerla intera, rovinare quella.
Fu messer Veri lodato da'
Signori, e confortato a fare posare le armi; e che di poi non
mancherebbono di fare quello che fussero da lui e dagli altri
cittadini consigliati.
Tornossi, dopo queste parole, messer Veri in
Piazza, e le sue brigate con quelle che da messer Rinaldo e messer
Donato erano guidate congiunse.
Di poi disse a tutti avere trovato
ne' Signori una ottima volontà verso di loro, e che molte cose
s'erano parlate, ma, per il tempo breve e per la assenzia de'
magistrati, non si erano concluse.
Per tanto gli pregava posassero le
armi e ubbidissero ai Signori, facendo loro fede che la umanità
più che la superbia, i prieghi più che le minacce erano
per muovergli, e come e' non mancherebbe loro grado e securtà,
se e' si lasciavano governare da lui: tanto che, sotto la sua fede,
ciascuno alle sue case fece ritornare.
26
Posate
le armi, i Signori prima armorono la Piazza; scrissono di poi dumila
cittadini confidenti allo stato, divisi ugualmente per gonfaloni, i
quali ordinorono fussero presti al soccorso loro qualunque volta gli
chiamassero; e ai non scritti lo armarsi proibirono.
Fatte queste
preparazioni, confinorono e ammazzorono molti artefici, di quelli che
più feroci che gli altri si erano ne' tumulti dimostri; e
perché il gonfaloniere della giustizia avesse più
maestà e reputazione, providono che fusse, ad esercitare
quella dignità, di avere quarantacinque anni necessario.
In
fortificazione dello stato ancora molti provedimenti feciono, i quali
erano contro a quelli che si facevano insopportabili, e ai buoni
cittadini della parte propria odiosi, perché non giudicavano
uno stato buono o securo, il quale con tanta violenza bisognasse
difendere.
E non solamente a quelli degli Alberti che restavano nella
città, e ai Medici, ai quali pareva avere ingannato il popolo,
ma a molti altri tanta violenza dispiaceva.
E il primo che cercò
di opporsegli fu messer Donato di Iacopo Acciaiuoli.
Costui, ancora
che fusse grande nella città, e più tosto superiore che
compagno a messer Maso degli Albizzi, il quale per le cose fatte nel
suo gonfalonierato era come capo della republica, non poteva intra
tanti mali contenti vivere bene contento, né recarsi, come i
più fanno, il comune danno a privato commodo; e per ciò
fece pensiero di fare esperienza se poteva rendere la patria agli
sbanditi, o almeno gli uffici agli ammuniti.
E andava negli orecchi
di questo e quell'altro cittadino questa sua opinione seminando,
mostrando come e' non si poteva altrimenti quietare il popolo e gli
umori delle parti fermare; né aspettava altro che di essere
de' Signori, a mandare ad effetto questo suo desiderio.
E perché
nelle azioni nostre lo indugio arreca tedio e la fretta pericolo, si
volse, per fuggire il tedio, a tentare il pericolo.
Erano de' Signori
Michele Acciaiuoli suo consorte e Niccolò Ricoveri suo amico,
donde parve a messer Donato che gli fusse data occasione da non la
perdere, e gli richiese che dovessero preporre una legge a' Consigli,
nella quale si contenesse la restituzione de' cittadini.
Costoro,
persuasi da lui, ne parlorono con i compagni, i quali risposono che
non erano per tentare cose nuove, dove lo acquisto è dubio e
il pericolo certo.
Onde che messer Donato, avendo prima invano tutte
le vie tentate, mosso da ira fece intendere loro come, poi che non
volevono che la città con i partiti in mano si ordinasse la si
ordinerebbe con le armi.
Le quali parole tanto dispiacquero che,
comunicata la cosa con i principi del governo, fu messer Donato
citato; e comparso, fu da quello a chi egli aveva commessa la
imbasciata convinto, tale che fu a Barletta confinato.
Furono ancora
confinati Alamanno e Antonio de' Medici, con tutti quelli che di
quella famiglia da messer Alamanno discesi erano, insieme con molti
artefici ignobili, ma di credito appresso alla plebe.
Le quali cose
seguirono duoi anni poi che da messer Maso era stato ripreso lo
stato.
27
Stando
così la città, con molti mali contenti dentro e molti
sbanditi di fuora, si trovavano intra gli sbanditi, a Bologna Picchio
Cavicciuli, Tommaso de' Ricci, Antonio de' Medici, Benedetto degli
Spini, Antonio Girolami, Cristofano di Carlone, con duoi altri di
vile condizione, ma tutti giovani, feroci e disposti, per tornare
nella patria, a tentare ogni fortuna.
A costoro fu mostro per secrete
vie, da Piggiello e Baroccio Cavicciuli, i quali, ammuniti, in
Firenze vivevano, che, se venivono nella città secretamente,
gli riceverebbono in casa, donde e' potevono poi, uscendo, ammazzare
messer Maso degli Albizzi e chiamare il popolo alle armi; il quale,
sendo male contento, facilmente si poteva sollevare massime perché
sarebbono da' Ricci, Adimari, Medici, Mannelli e da molte altre
famiglie seguitati.
Mossi per tanto costoro da queste speranze, a dì
4 di agosto nel 1397, vennono in Firenze, ed entrati secretamente
dove era stato loro ordinato, mandorono ad osservare messer Maso,
volendo da la sua morte muovere il tumulto.
Uscì messer Maso
di casa, e in uno speziale, a San Piero Maggiore propinquo, si fermò.
Corse chi era ito ad osservarlo, a significarlo a' congiurati, i
quali, prese le armi e venuti al luogo dimostro, lo trovorono
partito; onde, non sbigottiti per non essere loro questo primo
disegno riuscito, si volsono verso Mercato vecchio, dove uno della
parte avversa ammazzorono; e levato il romore, gridando: - popolo,
arme, libertà - e: - muoiano i tiranni, - volti verso Mercato
nuovo, alla fine di Calimara ne ammazzorono un altro; e seguitando
con le medesime voci il loro cammino, e niuno pigliando le armi,
nella loggia della Nighittosa si ridussono.
Quivi si missono in luogo
alto, avendo grande moltitudine intorno, la quale più per
vedergli che per favorirgli era corsa, e con voce alta gli uomini a
pigliare le armi e uscire di quella servitù che loro avevano
cotanto odiata confortavano, affermando che i rammarichii de' mali
contenti della città, più che le ingiurie proprie, gli
avevano a volergli liberare mossi, e come avevano sentito che molti
pregavano Iddio che dessi loro occasione di potersi vendicare, il che
farebbono qualunque volta avessero capo che gli movesse, e ora che la
occasione era venuta, e che gli avevano i capi che gli movevano,
sguardavano l'uno l'altro, e come stupidi aspettavano che i motori
della liberazione loro fussero morti e loro nella servitù
raggravati; e che si maravigliavano che coloro i quali per una minima
ingiuria solevono pigliare le armi, per tante non si movessero, e che
volessero sopportare che tanti loro cittadini fussero sbanditi, e
tanti ammuniti; ma che gli era posto nello arbitrio loro rendere agli
sbanditi la patria e agli ammuniti lo stato.
Le quali parole, ancora
che vere, non mossono in alcuna parte la moltitudine, o per timore, o
perché la morte di quelli duoi avesse fatti gli ucciditori
odiosi.
Tale che, vedendo i motori del tumulto come né le
parole né i fatti avevono forza di muovere alcuno, tardi
avvedutisi quanto sia pericoloso volere fare libero un popolo che
voglia in ogni modo essere servo, disperatisi della impresa, nel
tempio di Santa Reparata si ritirorono, dove, non per campare la
vita, ma per differire la morte, si rinchiusono.
I Signori, al primo
romore, turbati, armorono e serrorono il Palagio; ma poi che fu
inteso il caso, e saputo quali erano quelli che movevono lo scandolo,
e dove si erano rinchiusi, si rassicurorono, e al Capitano con molti
altri armati che a prendergli andassero comandarono.
Tale che senza
molta fatica le porte del tempio sforzate furono, e parte di loro,
difendendosi, morti, e parte presi.
I quali esaminati, non si trovò
altri in colpa fuora di loro, che Baroccio e Piggiello Cavicciuli, i
quali insieme con quelli furono morti.
28
Dopo
questo accidente ne nacque un altro di maggiore importanza.
Aveva la
città, in questi tempi, come di sopra dicemmo, guerra con il
Duca di Milano, il quale, vedendo come ad opprimere quella le forze
aperte non bastavano, si volse alle occulte, e per mezzo de' fuori
usciti fiorentini, de' quali la Lombardia era piena, ordinò
uno trattato, del quale molti di dentro erano consapevoli, per il
quale si era concluso che, ad un certo giorno, dai luoghi più
propinqui a Firenze, gran parte de' fuori usciti atti alle armi si
partissero, e per il fiume di Arno nella città entrassero; i
quali, insieme con i loro amici di dentro, alle case de' primi dello
stato corressero, e quelli morti, riformassero secondo la volontà
loro la republica.
Intra i congiurati di dentro era uno de' Ricci,
nominato Saminiato; e come spesso nelle congiure avviene, che i pochi
non bastano e gli assai le scuoprono, mentre che Saminiato cercava di
guadagnarsi compagni, trovò lo accusatore.
Conferì
costui la cosa a Salvestro Cavicciuli, il quale le ingiurie de' suoi
parenti e sue dovevono fare fedele; non di meno egli stimò più
il propinquo timore che la futura speranza, e subito tutto il
trattato aperse ai Signori; i quali, fatto pigliare Saminiato, a
manifestare tutto l'ordine della congiura constrinsono.
Ma de'
consapevoli non ne fu preso, fuora che Tommaso Davizi alcuno, il
quale, venendo da Bologna, non sapendo quello che in Firenze era
occorso, fu, prima che gli arrivasse, sostenuto: gli altri tutti,
dopo la cattura di Saminiato, spaventati, si fuggirono.
Puniti per
tanto, secondo i loro falli, Saminiato e Tommaso, si dette balia a
più cittadini, i quali con la autorità loro i
delinquenti cercassero e lo stato assicurassero.
Costoro feciono
rubelli sei della famiglia de' Ricci, sei di quella degli Alberti,
duoi de' Medici, tre degli Scali, duoi degli Strozzi, Bindo Altoviti,
Bernardo Adimari, con molti ignobili, ammunirono ancora tutta la
famiglia degli Alberti, Ricci e Medici per dieci anni, eccetto pochi
di loro.
Era intra quegli degli Alberti non ammunito messer Antonio
per essere tenuto uomo quieto e pacifico.
Occorse che, non essendo
ancora spento il sospetto della congiura fu preso uno monaco stato
veduto, in ne' tempi che i congiurati praticavano, andare più
volte da Bologna a Firenze: confessò costui avere più
volte portate lettere a messer Antonio, donde che subito fu preso, e
benché da principio negasse, fu dal monaco convinto, e per ciò
in danari condennato, e discosto dalla città trecento miglia
confinato.
E perché ciascuno giorno gli Alberti a pericolo lo
stato non mettessero, tutti quelli che in quella famiglia fussero
maggiori di quindici anni confinorono.
29
Questo
accidente seguì nel 1400; e duoi anni appresso morì
Giovan Galeazzo duca di Milano; la cui morte, come di sopra dicemmo,
a quella guerra che dodici anni era durata pose fine.
Nel qual tempo,
avendo il governo preso più autorità, sendo rimaso
sanza nimici fuora e dentro, si fece la impresa di Pisa, e quella
gloriosamente si vinse; e si stette dentro quietamente dal 1400 al
33.
Solo nel 1412, per avere gli Alberti rotti i confini, si creò
contra di loro nuova balia, la quale con nuovi provedimenti rafforzò
lo stato, e gli Alberti con taglie perseguitò.
Nel qual tempo
feciono ancora i Fiorentini guerra con Ladislao re di Napoli, la
quale per la morte del Re, nel 1414, finì.
E nel travaglio di
essa, trovandosi il Re inferiore, concedé a' Fiorentini la
città di Cortona, della quale era signore; ma poco di poi
riprese le forze e rinnovò con loro la guerra, la quale fu
molto più che la prima pericolosa, e se la non finiva per la
morte sua, come già era finita quella del Duca di Milano,
aveva ancora egli, come quel Duca, Firenze in pericolo di non perdere
la sua libertà condotto.
Né questa guerra finì
con minore ventura che quella, perché, quando egli aveva preso
Roma, Siena, la Marca tutta e la Romagna, e che non gli mancava altro
che Firenze ad ire con la potenza sua in Lombardia, si morì.
E
così la morte fu sempre più amica a' Fiorentini che
niuno altro amico, e più potente a salvargli che alcuna loro
virtù.
Dopo la morte di questo Re stette la città
quieta, fuori e dentro, otto anni; in capo del qual tempo, insieme
con le guerre di Filippo duca di Milano, rinnovorono le parti; le
quali non posorono prima che con la rovina di quello stato il quale
da il 1381 al 1434 aveva regnato, e fatto con tanta gloria tante
guerre, e acquistato allo imperio suo Arezzo, Pisa, Cortona, Livorno
e Monte Pulciano.
E maggiore cose arebbe fatte, se la città si
manteneva unita, e non si fussero riaccesi gli antichi umori in
quella; come nel seguente libro particularmente si dimosterrà.
LIBRO QUARTO
1
Le
città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le
quali sotto nome di republica si amministrano, variano spesso i
governi e stati loro, non mediante la libertà e la servitù,
come molti credono, ma mediante la servitù e la licenza.
Perché della libertà solamente il nome dai ministri
della licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù,
che sono i nobili, è celebrato, desiderando qualunque di
costoro non essere né alle leggi né agli uomini
sottoposto.
Vero è che quando pure avviene (che avviene rade
volte) che, per buona fortuna della città, surga in quella un
savio, buono e potente cittadino, da il quale si ordinino leggi per
le quali questi umori de' nobili e de' popolani si quietino, o in
modo si ristringhino che male operare non possino, allora è
che quella città si può chiamare libera, e quello stato
si può stabile e fermo giudicare; perché, sendo sopra
buone leggi e buoni ordini fondato, non ha necessità della
virtù d'uno uomo, come hanno gli altri, che lo mantenga.
Di
simili leggi e ordini molte republiche antiche, gli stati delle quali
ebbono lunga vita, furono dotate; di simili ordini e leggi sono
mancate e mancano tutte quelle che spesso i loro governi da lo stato
tirannico a licenzioso, e da questo a quell'altro, hanno variato e
variano.
Perché in essi, per i potenti nimici che ha ciascuno
di loro, non è né puote essere alcuna stabilità;
perché l'uno non piace agli uomini buoni, l'altro dispiace a'
savi; l'uno può fare male facilmente, l'altro può fare
bene con difficultà; nell'uno hanno troppa autorità gli
uomini insolenti, nell'altro gli sciocchi; e l'uno e l'altro di essi
conviene che sia da la virtù e fortuna d'uno uomo mantenuto,
il quale, o per morte può venire meno, o per travagli
diventare inutile.
2
Dico
per tanto che lo stato il quale in Firenze da la morte di messer
Giorgio Scali ebbe, nel 1381, il principio suo fu prima dalla virtù
di messer Maso degli Albizzi, di poi da quella di Niccolò da
Uzano sostenuto.
Visse la città da il 1414 per infino al '22
quietamente sendo morto il re Ladislao, e lo stato di Lombardia in
più parti diviso in modo che di fuora né dentro era
alcuna cosa che la facesse dubitare.
Appresso a Niccolò da
Uzano, cittadini di autorità erano Bartolomeo Valori, Nerone
di Nigi, messer Rinaldo degli Albizzi, Neri di Gino e Lapo Niccolini.
Le parti che nacquono per la discordia degli Albizzi e de' Ricci e
che furono di poi da messer Salvestro de' Medici con tanto scandolo
risuscitate, mai non si spensono e benché quella che era più
favorita dallo universale solamente tre anni regnasse e che nel 1381
la rimanesse vinta, non di meno, comprendendo lo umore di quella la
maggiore parte della città, non si potette mai al tutto
spegnere.
Vero è che gli spessi parlamenti e le continue
persecuzioni fatte contro a' capi di quella da lo '81 al 400 la
redussono quasi che a niente.
Le prime famiglie che furono come capi
di essa perseguitate furono Alberti, Ricci e Medici, le quali più
volte di uomini e di ricchezze spogliate furono; e se alcuni nella
città ne rimasono, furono loro tolti gli onori: le quali
battiture renderono quella parte umile e quasi che la consumarono.
Restava non di meno in molti uomini una memoria delle iniurie
ricevute e uno desiderio di vendicarle; il quale, per non trovare
dove appoggiarsi, occulto nel petto loro rimaneva.
Quelli nobili
popolani i quali pacificamente governavano la città, feciono
duoi errori, che furono la rovina dello stato di quelli: l'uno, che
diventorono per il continuo dominio, insolenti; l'altro, che, per la
invidia ch'eglino avevono l'uno all'altro, e per la lunga possessione
nello stato, quella cura di chi gli potesse offendere che dovevono
non tennono.
3
Rinfrescando
adunque costoro con i loro sinistri modi, ogni dì, l'odio
nello universale, e non vigilando le cose nocive per non le temere, o
nutrendole per invidia l'uno dell'altro, feciono che la famiglia de'
Medici riprese autorità.
Il primo che in quella cominciò
a risurgere fu Giovanni di Bicci.
Costui, sendo diventato
ricchissimo, ed essendo di natura benigno e umano, per concessione di
quegli che governavano fu condotto al supremo magistrato.
Di che per
lo universale della città se ne fece tanta allegrezza, parendo
alla moltitudine aversi guadagnato uno defensore, che meritamente ai
più savi la fu sospetta, perché si vedeva tutti gli
antichi umori cominciare a risentirsi.
E Niccolò da Uzano non
mancò di avvertirne gli altri cittadini, mostrando quanto era
pericoloso nutrire uno che avesse nello universale tanta reputazione;
e come era facile opporsi a' disordini ne' principii, ma lasciandogli
crescere, era difficile il rimediarvi; e che cognosceva come in
Giovanni erano molte parti che superavano quelle di messer Salvestro.
Non fu Niccolò da' suoi uguali udito, perché avevano
invidia alla reputazione sua e desideravano avere compagni a
batterlo.
Vivendosi per tanto in Firenze intra questi umori, i quali
occultamente cominciavano a ribollire, Filippo Visconti, secondo
figliuolo di Giovanni Galeazzo, sendo, per la morte del fratello,
diventato signore di tutta Lombardia, e parendogli potere disegnare
qualunque impresa, desiderava sommamente riinsignorirsi di Genova, la
quale allora, sotto il dogato di messer Tommaso da Campo Fregoso,
libera si viveva; ma si diffidava potere o quella o altra impresa
ottenere, se prima non publicava nuovo accordo co' Fiorentini, la
riputazione del quale giudicava gli bastasse a potere a' suoi
desiderii sodisfare.
Mandò per tanto suoi oratori a Firenze a
domandarlo.
Molti cittadini consigliavano che non si facesse; ma che,
sanza farlo, nella pace che molti anni s'era mantenuta seco si
perseverasse, perché cognoscevono il favore che il farlo gli
arrecava e il poco utile che la città ne traeva.
A molti altri
pareva da farlo, e per virtù di quello imporgli termini, i
quali trapassando, ciascuno cognoscesse il cattivo animo suo, e si
potesse, quando e' rompesse la pace, più giustificatamente
fargli la guerra.
E così, disputata la cosa assai, si fermò
la pace, nella quale Filippo promisse non si travagliare delle cose
che fussero dal fiume della Magra e del Panaro in qua.
4
Fatto
questo accordo, Filippo occupò Brescia, e poco di poi Genova,
contro alla opinione di quegli che in Firenze avevano confortata la
pace, perché credevano che Brescia fusse difesa da' Viniziani
e Genova per se medesima si defendesse.
E perché nello accordo
che Filippo aveva fatto con il doge di Genova gli aveva lasciate
Serezana e altre terre poste di qua dalla Magra, con patti che,
volendo alienarle, fusse obligato darle a' Genovesi, veniva Filippo
ad avere violata la pace: aveva, oltre di questo, fatto accordo con
il legato di Bologna: le quali cose alterorono gli animi de' nostri
cittadini, e fernogli, dubitando di nuovi mali, pensare a nuovi
rimedi.
Le quali perturbazioni venendo a notizia a Filippo, o per
giustificarsi, o per tentare gli animi de' Fiorentini, o per
addormentargli, mandò a Firenze ambasciadori, mostrando
maravigliarsi de' sospetti presi e offerendo rinunziare a qualunque
cosa fusse da lui stata fatta, che potesse generare alcuno sospetto.
I quali ambasciadori non feciono altro effetto che dividere la città,
perché una parte e quelli che erano più reputati nel
governo, giudicavano che fusse bene armarsi e prepararsi a guastare i
disegni al nimico; e quando le preparazioni fussero fatte, e Filippo
stesse quieto, non era mossa la guerra, ma data cagione alla pace:
molti altri, o per invidia di chi governava, o per timore di guerra,
giudicavano che non fusse da insospettire d'uno amico leggiermente; e
che le cose fatte da lui non erano degne di averne tanto sospetto, ma
che sapevono bene che il creare i Dieci, il soldare gente, voleva
dire guerra; la quale se si pigliava con un tanto principe, era con
una certa rovina della città, e sanza poterne sperare alcuno
utile, non potendo noi delli acquisti che si facessero, per avere la
Romagna in mezzo, diventarne signori, e non potendo alle cose di
Romagna, per la vicinità della Chiesa, pensare.
Valse non di
meno più l'autorità di quelli che si volevono preparare
alla guerra, che quella di coloro che volevono ordinarsi alla pace; e
creorono i Dieci, soldorono gente e posono nuove gravezze.
Le quali,
perché le aggravavano più i minori che i maggiori
cittadini, empierono la città di rammarichii; e ciascuno
dannava l'ambizione e l'avarizia de' potenti, accusandogli che, per
sfogare gli appetiti loro e opprimere, per dominare, il popolo,
volevono muovere una guerra non necessaria.
5
Non
si era ancora venuto con il Duca a manifesta rottura; ma ogni cosa
era piena di sospetto, perché Filippo aveva, a richiesta del
legato di Bologna, il quale temeva di messer Antonio Bentivogli, che
fuori uscito si trovava a Castel Bolognese, mandate genti in quella
città; le quali, per essere propinque al dominio di Firenze,
tenevono in sospetto lo stato di quella.
Ma quello che fece più
spaventare ciascuno, e dette larga cagione di scoprire la guerra, fu
la impresa, che il Duca fece, di Furlì.
Era signore di Furlì
Giorgio Ordelaffi, il quale, venendo a morte, lasciò Tibaldo
suo figliuolo sotto la tutela di Filippo; e benché la madre,
parendogli il tutore sospetto, lo mandasse a Lodovico Alidosi suo
padre, che era signore di Imola, non di meno fu forzata dal popolo di
Furlì, per la osservanza del testamento del padre, a
rimetterlo nelle mani del Duca.
Onde Filippo, per dare meno sospetto
di sé, e per meglio celare lo animo suo, ordinò che il
marchese di Ferrara mandasse come suo procuratore Guido Torello, con
gente, a pigliare il governo di Furlì.
Così venne
quella terra in potestà di Filippo.
La qual cosa, come si
seppe a Firenze, insieme con la nuova delle genti venute a Bologna,
fece più facile la deliberazione della guerra non ostante che
l'avesse grande contradizione e che Giovanni de' Medici publicamente
la sconfortasse, mostrando che, quando bene si fusse certo della mala
mente del Duca, era meglio aspettare che ti assaltasse che farsegli
incontro con le forze; perché in questo caso così era
giustificata la guerra nel conspetto de' principi di Italia da la
parte del Duca come da la parte nostra, né si poteva
animosamente domandare quelli aiuti che si potrebbono scoperta che
fusse l'ambizione sua, e con altro animo e con altre forze si
difenderebbero le cose sue che quelle d'altri.
Gli altri dicevano che
non era da aspettare il nimico in casa; ma di andare a trovare lui; e
che la fortuna è amica più di chi assalta che di chi si
difende; e con minori danni, quando fusse con maggiore spesa, si fa
la guerra in casa altri che in casa sua.
Tanto che questa opinione
prevalse, e si deliberò che i Dieci facessero ogni rimedio
perché la città di Furlì si traesse delle mani
del Duca.
6
Filippo,
vedendo che i Fiorentini volevono occupare quelle cose che egli aveva
prese a difendere, posti da parte i rispetti, mandò Agnolo
della Pergola con gente grossa ad Imola, acciò che quel
Signore, avendo a pensare di difendere il suo, alla tutela del nipote
non pensasse.
Arrivato per tanto Agnolo propinquo ad Imola, sendo
ancora le genti de' Fiorentini a Modigliana, e sendo il freddo grande
e per quello diacciati i fossi della città, una notte, di
furto, prese la terra, e Lodovico ne mandò prigione a Milano.
I Fiorentini, veduta perduta Imola e la guerra scoperta, mandorono le
loro genti a Furlì, le quali posero l'assedio a quella città
e da ogni parte la strignevano.
E perché le genti del Duca non
potessero, unite, soccorrerla, avevono soldato il conte Alberigo il
quale da Zagonara, sua terra, scorreva ciascuno dì infino in
su le porte di Imola.
Agnolo della Pergola vedeva di non potere
securamente soccorrere Furlì per il forte alloggiamento che
avevano le nostre genti preso, però pensò di andare
alla espugnazione di Zagonara, giudicando che i Fiorentini non
fussero per lasciare perdere quel luogo; e volendo soccorrere,
conveniva loro abbandonare la impresa di Furlì e venire con
disavantaggio alla giornata.
Constrinsono adunque, le genti del Duca,
Alberigo a domandare patti; i quali gli furono concessi, promettendo
di dare la terra qualunque volta infra quindici giorni non fusse da i
Fiorentini soccorso.
Intesesi questo disordine nel campo de'
Fiorentini e nella città, e desiderando ciascuno che i nimici
non avessero quella vittoria, feciono che ne ebbono una maggiore,
perché, partito il campo da Furlì per soccorrere
Zagonara, come venne allo scontro de' nimici fu rotto, non tanto
dalla virtù degli avversarii, quanto dalla malignità
del tempo; perché, avendo i nostri camminato parecchi ore
intra il fango altissimo e con l'acqua adosso, trovorono i nimici
freschi, i quali facilmente gli poterono vincere.
Non di meno in una
tanta rotta, celebrata per tutta Italia, non morì altri che
Lodovico degli Obizzi insieme con duoi altri suoi i quali, cascati da
cavallo, affogorono nel fango.
7
Tutta
la città di Firenze, alla nuova di questa rotta, si contristò;
ma più i cittadini grandi, che avevano consigliata la guerra,
perché vedevono il nimico gagliardo, loro disarmati, sanza
amici, e il popolo loro contro.
Il quale per tutte le piazze con
parole ingiuriose gli mordeva, dolendosi delle gravezze sopportate e
della guerra mossa sanza cagione dicendo: - Ora hanno creati costoro
i Dieci per dare terrore al nimico? ora hanno eglino soccorso Furlì
e trattolo delle mani del Duca? Ecco che si sono scoperti i consigli
loro, e a quale fine camminavano: non per difendere la libertà,
la quale è loro nimica, ma per accrescere la potenza propria;
la quale Iddio ha giustamente diminuita.
Né hanno solo con
questa impresa aggravata la città, ma con molte; perché
simile a questa fu quella contro al re Ladislao.
A chi ricorreranno
eglino ora per aiuto? a papa Martino, stato, a contemplazione di
Braccio, straziato da loro? alla reina Giovanna, che, per
abbandonarla, l'hanno fatta gittare in grembo al re d'Aragona? - E
oltre a di questo dicevono tutte quelle cose che suole dire uno
popolo adirato.
Per tanto parve a' Signori ragunare assai cittadini,
i quali, con buone parole, gli umori mossi dalla moltitudine
quietassero.
Donde che messer Rinaldo degli Albizzi, il quale era
rimaso primo figliuolo di messer Maso e aspirava, con le virtù
sua e con la memoria del padre, al primo grado della città,
parlò lungamente, mostrando che non era prudenza giudicare le
cose dagli effetti, perché molte volte le cose bene
consigliate hanno non buono fine e le male consigliate l'hanno buono:
e se si lodano i cattivi consigli per il fine buono, non si fa altro
che dare animo agli uomini di errare; il che torna in danno grande
delle republiche, perché sempre i mali consigli non sono
felici: così medesimamente si errava a biasimare uno savio
partito che abbia fine non lieto, perché si toglieva animo ai
cittadini a consigliare la città e a dire quello che gli
intendono.
Poi mostrò la necessità che era di pigliare
quella guerra, e come, se la non si fusse mossa in Romagna, la si
sarebbe fatta in Toscana.
Ma poi che Iddio aveva voluto che le genti
fussero state rotte, la perdita sarebbe più grave quanto più
altri si abbandonassi; ma se si mostrava il viso alla fortuna, e si
facevano quelli rimedi si potevano, né loro sentirebbono la
perdita, né il Duca la vittoria.
E che non doveva sbigottirgli
le spese e le gravezze future; perché queste era ragionevole
mutare e quelle sarebbono molte minori che le passate, perché
minori apparati sono necessari a chi si vuole difendere che non sono
a quelli che cercano di offendere.
Confortògli, in fine, ad
imitare i padri loro, i quali, per non avere perduto lo animo in
qualunque caso avverso, s'erano sempre contro a qualunque principe
difesi.
8
Confortati
per tanto i cittadini dalla autorità sua, soldorono il conte
Oddo figliuolo di Braccio, e gli dierono per governatore Niccolò
Piccino, allievo di Braccio e più reputato che alcuno altro
che sotto le insegne di quello avesse militato; e a quello aggiunsono
altri condottieri, e degli spogliati ne rimessono alcuni a cavallo.
Creorono venti cittadini a porre nuova gravezza; i quali, avendo
preso animo per vedere i potenti cittadini sbattuti per la passata
rotta, sanza avere loro alcuno rispetto gli aggravorono.
Questa
gravezza offese assai i cittadini grandi; i quali da principio, per
parere più onesti, non si dolevono della gravezza loro, ma
come ingiusta generalmente la biasimavano, e consigliavano che si
dovesse fare uno sgravo.
La qual cosa, cognosciuta da molti, fu loro
ne' Consigli impedita: donde, per fare sentire dalle opere la durezza
di quella, e per farla odiare da molti, operorono che gli esattori
con ogni acerbità la riscotessero, dando autorità loro
di potere ammazzare qualunque contro a' sergenti publici si
difendesse.
Di che nacquero molti tristi accidenti, per morte e
ferite di cittadini; onde pareva che le parti venissero al sangue, e
ciascuno prudente dubitava di qualche futuro male, non potendo gli
uomini grandi, usi ad essere riguardati, sopportare di essere
manomessi, e gli altri volendo che ugualmente ciascuno fusse
aggravato.
Molti per tanto de' primi cittadini si ristrignevano
insieme, e concludevono come gli era di necessità ripigliare
lo stato; perché la poca diligenzia loro aveva dato animo agli
uomini di riprendere le azioni publiche e fatto pigliare ardire a
quelli che solieno essere capi della moltitudine.
E avendo discorso
queste cose infra loro più volte, deliberorono di rivedersi ad
un tratto insieme tutti, e si ragunorono nella chiesa di Santo
Stefano più di settanta cittadini, con licenza di messer
Lorenzo Ridolfi e di Francesco Gianfigliazzi, i quali allora sedevano
de' Signori.
Con costoro non convenne Giovanni de' Medici; o che non
vi fusse chiamato come sospetto, o che non vi volesse, come contrario
alla opinione loro, intervenire.
9
Parlò
a tutti messer Rinaldo degli Albizzi.
Mostrò le condizioni
della città; e come, per negligenzia loro, ella era tornata
nella potestà della plebe, donde nel 1381 era stata da' loro
padri cavata; ricordò la iniquità di quello stato che
regnò da il 78 allo '81; e come da quello a tutti quelli che
erano presenti era stato morto a chi il padre e a chi l'avolo; e come
si ritornava ne' medesimi pericoli, e la città ne' medesimi
disordini ricadeva, perché di già la moltitudine aveva
posto una gravezza a suo modo, e poco di poi, se la non era da
maggiore forza o da migliore ordine ritenuta, la creerebbe i
magistrati secondo lo arbitrio suo; il che quando seguisse,
occuperebbe i luoghi loro, e guasterebbe quello stato che quarantadue
anni con tanta gloria della città aveva retto, e sarebbe
Firenze governata, o a caso, sotto l'arbitrio della moltitudine, dove
per una parte licenziosamente e per l'altra pericolosamente si
viverebbe, o sotto lo imperio di uno che di quella si facesse
principe.
Per tanto affermava come ciascuno che amava la patria e lo
onore suo era necessitato a risentirsi e ricordarsi della virtù
di Bardo Mancini, il quale trasse la città, con la rovina
degli Alberti, di quelli pericoli ne' quali allora era; e come la
cagione di questa audacia presa dalla moltitudine nasceva da' larghi
squittini che per negligenzia loro s'erano fatti, e si era ripieno il
Palagio di uomini nuovi e vili.
Concluse per tanto che solo ci vedeva
questo modo a rimediarvi: rendere lo stato ai Grandi, e torre
l'autorità alle Arti minori, riducendole da quattordici a
sette; il che farebbe che la plebe ne' Consigli arebbe meno autorità,
sì per essere diminuito il numero loro, sì ancora per
avere in quelli più autorità i Grandi, i quali per la
vecchia inimicizia gli disfavorirebbero: affermando essere prudenza
sapersi valere degli uomini secondo i tempi; perché, se i
padri loro si valsono della plebe per spegnere la insolenza de'
Grandi, ora che i Grandi erano diventati umili e la plebe insolente
era bene frenare la insolenzia sua con lo aiuto di quelli: e come a
condurre queste cose ci era lo inganno o la forza, alla quale
facilmente si poteva ricorrere, sendo alcuni di loro del magistrato
de' Dieci e potendo condurre secretamente nella città gente.
Fu lodato messer Rinaldo, e il consiglio suo approvò ciascuno.
E Niccolò da Uzano infra gli altri, disse tutte le cose che da
messer Rinaldo erano state dette essere vere, e i rimedi buoni e
certi, quando si potessero fare sanza venire ad una manifesta
divisione della città, il che seguirebbe in ogni modo, quando
non si tirasse alla voglia loro Giovanni de' Medici: perché,
concorrendo quello, la moltitudine, priva di capo e di forze, non
potrebbe offendere; ma non concorrendo egli, non si potrebbe sanza
arme fare, e con l'arme lo giudicava pericoloso o di non potere
vincere o di non potere godersi la vittoria.
E ridusse modestamente
loro a memoria i passati ricordi suoi; e come e' non avieno voluto
rimediare a queste difficultà in quelli tempi che facilmente
si poteva; ma che ora non si era più a tempo a farlo sanza
temere di maggiore danno, e non ci restare altro rimedio che
guadagnarselo.
Fu data per tanto la commissione a messer Rinaldo che
fusse con Giovanni, e vedesse di tirarlo nella sentenza loro.
10
Esequì
il Cavaliere la commissione, e con tutti quelli termini seppe
migliori lo confortò a pigliare questa impresa con loro, e non
volere, per favorire una moltitudine, farla audace con rovina dello
stato e della città.
Al quale Giovanni rispose che l'uffizio
d'un savio e buono cittadino credeva essere non alterare gli ordini
consueti della sua città, non sendo cosa che offenda tanto gli
uomini, quanto il variare quelli; perché conviene offendere
molti, e dove molti restono mal contenti si può ogni giorno
temere di qualche cattivo accidente.
E come gli pareva che questa
loro deliberazione facesse due cose perniziosissime: l'una, di dare
gli onori a quelli che, per non gli avere mai avuti, gli stimano meno
e meno cagione hanno, non gli avendo, di dolersi; l'altra, di torgli
a coloro che, sendo consueti avergli, mai quieterebbero se non gli
fussero restituiti: e così verrebbe ad essere molto maggiore
la ingiuria che si facesse ad una parte che il beneficio che si
facesse a l'altra; tale che chi ne fusse autore si acquisterebbe
pochi amici e moltissimi inimici; e questi sarebbero più
feroci ad ingiuriarlo che quelli a difenderlo, sendo gli uomini
naturalmente più pronti alla vendetta della ingiuria che alla
gratitudine del benifizio, parendo che questa ci arrechi danno,
quell'altra utile e piacere.
Di poi rivolse il parlare a messer
Rinaldo, e disse: - E voi, se vi ricordasse delle cose seguite, e con
quali inganni in questa città si cammina, saresti meno caldo
in questa deliberazione; perché chi la consiglia, tolta che
gli avesse, con le forze vostre, l'autorità al popolo, la
torrebbe a voi con lo aiuto di quello, che vi sarebbe diventato, per
questa ingiuria, inimico; e vi interverrebbe come a messer Benedetto
Alberti, il quale consentì, per le persuasioni di chi non lo
amava, alla rovina di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso
Strozzi, e poco di poi, da quelli medesimi che lo persuasono, fu
mandato in esilio -.
Confortollo per tanto a pensare più
maturamente alle cose, e a volere imitare suo padre, il quale, per
avere la benivolenza universale, scemò il pregio al sale,
provide che chi avesse meno d'uno mezzo fiorino di gravezza potesse
pagarla o no, come gli paresse, volle che il dì che si
ragunavano i Consigli ciascuno fusse sicuro da' suoi creditori.
E in
fine gli concluse che era, per quanto si apparteneva a lui, per
lasciare la città negli ordini suoi.
11
Queste
cose, così praticate, s'intesono fuori, e accrebbono a
Giovanni riputazione e agli altri cittadini odio.
Dalla quale egli si
discostava, per dare meno animo a coloro che disegnassero, sotto i
favori suoi, cose nuove; e in ogni suo parlare faceva intendere a
ciascuno che non era per nutrire sette, ma per spegnerle, e, quanto a
lui si aspettava, non cercava altro che la unione della città:
di che molti che seguivano le parti sue erano mali contenti, perché
arebbono voluto che si fusse nelle cose mostro più vivo.
Intra
i quali era Alamanno de' Medici, il quale, sendo di natura feroce,
non cessava di accenderlo a perseguitare i nimici e favorire gli
amici, dannando la sua freddezza e il suo modo di procedere lento; il
che diceva essere cagione che i nimici senza rispetto gli praticavano
contro; le quali pratiche arebbono un giorno effetto con la rovina
della casa e degli amici suoi.
Inanimiva ancora al medesimo Cosimo
suo figliuolo.
Non di meno Giovanni, per cosa che gli fusse rivelata
o pronosticata, non si moveva di suo proposito: pure, con tutto
questo, la parte era già scoperta, e la città era in
manifesta divisione.
Erano in Palagio, al servizio de' Signori, duoi
cancellieri, ser Martino e ser Pagolo: questo favoriva la parte da
Uzano, quell'altro la Medica; e messer Rinaldo, veduto come Giovanni
non aveva voluto convenire con loro, pensò che fusse da
privare dell'uffizio suo ser Martino, giudicando di poi avere sempre
il Palagio più favorevole.
Il che presentito dagli avversarii,
non solamente fu ser Martino difeso, ma ser Pagolo privato, con
dispiacere e ingiuria della sua parte.
Il che arebbe fatto subito
cattivi effetti, se non fusse la guerra che soprastava alla città;
la quale per la rotta ricevuta a Zagonara era impaurita, perché,
mentre che queste cose in Firenze così si travagliavano,
Agnolo della Pergola, con le genti del Duca, aveva prese tutte le
terre di Romagna possedute dai Fiorentini, eccetto che Castrocaro e
Modigliana, parte per debolezza de' luoghi, parte per difetto di chi
le aveva in guardia.
Nella occupazione delle quali terre seguirono
due cose per le quali si cognobbe quanto la virtù degli uomini
ancora al nimico è accetta, e quanto la viltà e
malignità dispiaccia.
12
Era
castellano nella rocca di Monte Petroso Biagio del Melano.
Costui,
sendo affocato intorno dai nimici e non vedendo per la salute della
rocca alcuno scampo, gittò panni e paglia da quella parte che
ancora non ardeva, e di sopra vi gittò duoi suoi piccoli
figliuoli, dicendo a' nimici: - Togliete per voi quelli beni che mi
ha dati la fortuna e che voi mi potete torre: quelli che io ho dello
animo, dove la gloria e l'onore mio consiste, né io vi darò,
né voi mi torrete! - Corsono i nimici a salvare i fanciulli, e
a lui porgevano funi e scale perché si salvasse, ma quello non
le accettò, anzi volle più tosto morire nelle fiamme,
che vivere salvo per le mani degli avversarii della patria sua.
Esemplo veramente degno di quella lodata antichità! e tanto è
più mirabile di quelli quanto è più rado.
Furono
a' figliuoli suoi da' nimici restituite quelle cose che si poterono
avere salve, e con massima cura rimandati a' parenti loro; verso de'
quali la republica non fu meno amorevole, perché mentre
vissero furono publicamente sostentati.
Al contrario di questo
occorse in Galeata, dove era podestà Zanobi del Pino; il
quale, senza fare difesa alcuna, dette la rocca al nimico, e di più
confortava Agnolo a lasciare l'alpi di Romagna e venire ne' colli di
Toscana, dove poteva fare la guerra con meno pericolo e maggiore
guadagno.
Non potette Agnolo sopportare la viltà e il malvagio
animo di costui, e lo dette in preda a' suoi servidori i quali, dopo
molti scherni, gli davano solamente mangiare carte dipinte a biscie,
dicendo che di guelfo, per quel modo, lo volevono fare diventare
ghibellino; e così stentando, in brievi giorni morì.
13
Il
conte Oddo, in questo mezzo, insieme con Niccolò Piccino, era
entrato in Val di Lamona, per vedere di ridurre il signore di Faenza
alla amicizia de' Fiorentini, o almeno impedire Agnolo della Pergola,
che non scorresse più liberamente per Romagna.
Ma perché
quella valle è fortissima e i valligiani armigeri, vi fu il
conte Oddo morto, e Niccolò Piccino ne andò prigione a
Faenza.
Ma la fortuna volle che i Fiorentini ottenessero quello, per
avere perduto che forse avendo vinto non arebbono ottenuto; perché
Niccolò tanto operò con il signore di Faenza e con la
madre, che gli fece amici a' Fiorentini.
Fu, in questo accordo,
libero Niccolò Piccino: il quale non tenne per sé quel
consiglio che gli aveva dato ad altri, perché, praticando con
la città della sua condotta o che le condizioni gli paressero
debili, o che le trovasse migliori altrove, quasi che ex abrupto si
partì di Arezzo, dove era alle stanze, e ne andò in
Lombardia, e prese soldo da il Duca.
I Fiorentini, per questo
accidente impauriti e dalle spesse perdite sbigottiti, giudicorono
non potere più, soli, sostenere questa guerra; e mandorono
oratori a' Viniziani, a pregarli che dovessero opporsi, mentre che
gli era loro facile, alla grandezza d'uno che, se lo lasciavano
crescere, era così per essere pernizioso a loro come a'
Fiorentini.
Confortavagli alla medesima impresa Francesco
Carmignuola, uomo tenuto in quelli tempi nella guerra
eccellentissimo, il quale era già stato soldato del Duca, ma
di poi ribellatosi da quello.
Stavano i Viniziani dubi, per non
sapere quanto si potevano fidare del Carmignuola, dubitando che la
inimicizia del Duca e sua non fusse finta.
E stando così
sospesi, nacque che il Duca, per mezzo d'uno servidore del
Carmignuola, lo fece avvelenare; il quale veleno non fu sì
potente che lo ammazzasse, ma lo ridusse allo estremo.
Scoperta la
cagione del male, i Viniziani si privorono di quello sospetto; e
seguitando i Fiorentini di sollecitargli, feciono lega con loro; e
ciascuna delle parti si obligò a fare la guerra a spese
comune; e gli acquisti di Lombardia fussero de' Viniziani, e quelli
di Romagna e di Toscana de' Fiorentini; e il Carmignuola fu capitano
generale della lega.
Ridussesi per tanto la guerra mediante questo
accordo, in Lombardia dove fu governata da il Carmignuola
virtuosamente, e in pochi mesi tolse molte terre al Duca, insieme con
la città di Brescia; la quale espugnazione, in quelli tempi e
secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.
14
Era
durata questa guerra da il '22 al 27, ed erano stracchi i cittadini
di Firenze delle gravezze poste infino allora, in modo che si
accordorono a rinnovarle.
E perché le fussero uguali secondo
le ricchezze, si provide che le si ponessero a' beni, e che quello
che aveva cento fiorini di valsente ne avesse un mezzo di gravezza.
Avendola pertanto a distribuire la legge, e non gli uomini, venne ad
aggravare assai i cittadini potenti, e avanti che la si deliberassi
era disfavorita da loro.
Solo Giovanni de' Medici apertamente la
lodava; tanto che la si ottenne.
E perché nel distribuirla si
aggregavano i beni di ciascuno, il che i Fiorentini dicono
accatastare, si chiamò questa gravezza catasto.
Questo modo
pose, in parte, regola alla tirannide de' potenti; perché non
potevano battere i minori e fargli con le minacce ne' Consigli
tacere, come potevano prima.
Era adunque questa gravezza
dall'universale accettata e da' potenti con dispiacere grandissimo
ricevuta.
Ma come accade che mai gli uomini non si sodisfanno, e
avuta una cosa, non vi si contentando dentro, ne desiderano un'altra,
il popolo, non contento alla ugualità della gravezza che dalla
legge nasceva, domandava che si riandassero i tempi passati, e che si
vedesse quello che i potenti, secondo il catasto, avevano pagato
meno, e si facessero pagare tanto che gli andassero a ragguaglio di
coloro che, per pagare quello che non dovevano, avevano vendute le
loro possessioni.
Questa domanda, molto più che il catasto,
spaventò gli uomini grandi; e per difendersene non cessavano
di dannarlo, affermando quello essere ingiustissimo, per essersi
posto ancora sopra i beni mobili, i quali oggi si posseggono e domani
si perdono; e che sono, oltra di questo, molte persone che hanno
danari occulti, che il catasto non può ritrovare.
A che
aggiugnevano che coloro che, per governare la republica, lasciavano
le loro faccende dovevano essere meno carichi da quella, dovendole
bastare che con la persona si affaticassero, e che non era giusto che
la città si godesse la roba e la industria loro, e degli altri
solo i danari.
Gli altri, a chi il catasto piaceva, rispondevano che,
se i beni mobili variano, e possono ancora variare le gravezze, e con
il variarle spesso si può a quello inconveniente rimediare; e
di quelli che hanno danari occulti non era necessario tenere conto,
perché quegli danari che non fruttono non è ragionevole
che paghino, e fruttando conviene che si scuoprino; e se non piaceva
loro durare fatica per la republica, lasciassilla da parte e non se
ne travagliassino, perché la troverrebbe de' cittadini
amorevoli, a' quali non parrebbe difficile aiutarla di danari e di
consiglio; e che sono tanti i commodi e gli onori che si tira dreto
il governo, che doverebbero bastare loro, sanza volere non
participare de' carichi.
Ma il male stava dove e' non dicevano;
perché doleva loro non potere più muovere una guerra
sanza loro danno, avendo a concorrere alle spese come gli altri; e se
questo modo si fusse trovato prima, non si sarebbe fatta la guerra
con il re Ladislao, né ora si farebbe questa con il duca
Filippo; le quali si erano fatte per riempiere i cittadini, e non per
necessità.
Questi umori mossi erano quietati da Giovanni de'
Medici, mostrando che non era bene riandare le cose passate, ma sì
bene provedere alle future; e se le gravezze per lo adietro erano
state ingiuste, ringraziare Iddio poi che si era trovato il modo a
farle giuste e volere che questo modo servisse a riunire, non a
dividere la città, come sarebbe quando si ricercasse le
imposte passate, e farle ragguagliare con le presenti; e che chi è
contento di una mezzana vittoria sempre ne farà meglio, perché
quelli che vogliono sopravincere spesso perdono.
E con simili parole
quietò questi umori, e fece che del ragguaglio non si
ragionasse.
15
Seguitando
in tanto la guerra con il Duca, si fermò una pace a Ferrara,
per il mezzo d'uno legato del Papa.
Della quale il Duca, nel
principio di essa, non osservò le condizioni, in modo che di
nuovo la lega riprese le armi; e venuto con le genti di quello alle
mani, lo ruppe a Maclovio.
Dopo la quale rotta il Duca mosse nuovi
ragionamenti d'accordo, ai quali i Viniziani e i Fiorentini
acconsentirono, questi per essere insospettiti de' Viniziani, parendo
loro spendere assai per fare potenti altri, quelli per avere veduto
il Carmignuola, dopo la rotta data al Duca, andare lento, tanto che
non pareva loro da potere più confidare in quello.
Conclusesi
adunque la pace nel 1428; per la quale i Fiorentini riebbono le terre
perdute in Romagna, e a' Viniziani rimase Brescia, e di più il
Duca dette loro Bergamo e il contado.
Spesono in questa guerra i
Fiorentini tre milioni e 500 mila ducati; mediante la quale
accrebbero a' Viniziani stato e grandezza, e a loro povertà e
disunione.
Seguita la pace di fuora, ricominciò la guerra
dentro.
Non potendo i cittadini grandi sopportare il catasto, e non
vedendo via da spegnerlo, pensorono modi a fargli più nimici,
per avere più compagni ad urtarlo.
Mostrorono adunque agli
uffiziali deputati a porlo come la legge gli costrigneva ad
accatastare ancora i beni de' distrettuali, per vedere se intra
quelli vi fussero beni di Fiorentini.
Furono per tanto citati tutti i
sudditi a portare, infra certo tempo, le scritte de' beni loro.
Donde
che i Volterrani mandorono alla Signoria a dolersi della cosa, di
modo che gli uffiziali, sdegnati, ne missono diciotto di loro in
prigione.
Questo fatto fece assai sdegnare i Volterrani; pure, avendo
rispetto alli loro prigioni, non si mossono.
16
In
questo tempo Giovanni de' Medici ammalò, e cognoscendo il male
suo mortale, chiamò Cosimo e Lorenzo suoi figliuoli, e disse
loro: - Io credo essere vivuto quel tempo che da Dio e dalla natura
mi fu al mio nascimento consegnato.
Muoio contento, poi che io vi
lascio ricchi, sani, e di qualità che voi potrete, quando voi
seguitiate le mie pedate, vivere in Firenze onorati e con la grazia
di ciascuno.
Perché niuna cosa mi fa tanto morire contento,
quanto mi ricordare di non avere mai offeso alcuno, anzi più
tosto, secondo che io ho potuto, benificato ognuno.
Così
conforto a fare voi.
Dello stato, se voi volete vivere securi,
toglietene quanto ve n'è dalle leggi e dagli uomini dato; il
che non vi recherà mai né invidia né pericolo,
perché quello che l'uomo si toglie, non quello che all'uomo è
dato, ci fa odiare, e sempre ne arete molto più di coloro che,
volendo la parte d'altri, perdono la loro, e avanti che la perdino
vivono in continui affanni.
Con queste arti io ho, intra tanti
nimici, intra tanti dispareri, non solamente mantenuta, ma
accresciuta la reputazione mia in questa città.
Così,
quando seguitiate le pedate mie, manterrete e accrescerete voi.
Ma
quando facesse altrimenti, pensate che il fine vostro non ha ad
essere altrimenti felice che si sia stato quello di coloro che, nella
memoria nostra, hanno rovinato sé e destrutta la casa loro -.
Morì poco di poi, e nello universale della città lasciò
di sé uno grandissimo desiderio, secondo che meritavano le sue
ottime qualità.
Fu Giovanni misericordioso; e non solamente
dava lemosine a chi le domandava, ma molte volte al bisogno de'
poveri, sanza esser domandato, soccorreva.
Amava ognuno; i buoni
lodava, e de' cattivi aveva compassione.
Non domandò mai
onori, ed ebbeli tutti; non andò mai in Palagio, se non
chiamato.
Amava la pace, fuggiva la guerra.
Alle avversità
degli uomini suvveniva, le prosperità aiutava.
Era alieno
dalle rapine publiche, e del bene commune aumentatore.
Ne' magistrati
grazioso; non di molta eloquenzia, ma di prudenza grandissima.
Mostrava nella presenza melanconico; ma era poi nella conversazione
piacevole e faceto.
Morì ricchissimo di tesoro, ma più
di buona fama e di benivolenza.
La cui eredità, così
de' beni della fortuna come di quelli dello animo, fu da Cosimo non
solamente mantenuta, ma accresciuta.
17
Erano
i Volterrani stracchi di stare in carcere; e per essere liberi
promissono di consentire a quello era comandato loro.
Liberati
adunque, e tornati a Volterra, venne il tempo che i nuovi loro priori
prendevono il magistrato; de' quali fu tratto uno Giusto, uomo
plebeo, ma di credito nella plebe, il quale era uno di quelli che fu
imprigionato a Firenze.
Costui, acceso per se medesimo di odio, per
la ingiuria publica e per la privata, contro a' Fiorentini, fu ancora
stimolato da Giovanni di uomo nobile e che seco sedeva in magistrato,
a dovere muovere il popolo con la autorità de' priori e con la
grazia sua, e trarre la terra delle mani de' Fiorentini, e farne sé
principe.
Per il consiglio del quale, Giusto prese le armi, corse la
terra, prese il capitano che vi era pe' Fiorentini, e sé fece,
con il consentimento del popolo, signore di quella.
Questa novità
seguita in Volterra dispiacque assai a' Fiorentini; pure, trovandosi
avere fatto pace con il Duca, e freschi in su gli accordi,
giudicorono potere avere tempo a racquistarla; e per non lo perdere,
mandorono subito a quella impresa commissari messer Rinaldo degli
Albizzi e messer Palla Strozzi.
Giusto intanto, che pensava che i
Fiorentini lo assalterebbero, richiese i Sanesi e i Lucchesi di
aiuto.
I Sanesi gliene negorono, dicendo essere in lega con i
Fiorentini; e Pagolo Guinigi, che era signore di Lucca, per
racquistare la grazia con il popolo di Firenze, la quale nella guerra
del Duca gli pareva avere perduta per essersi scoperto amico di
Filippo, non solamente negò gli aiuti a Giusto, ma ne mandò
prigione a Firenze quello che era venuto a domandarli.
I commissari
intanto, per giugnere i Volterrani sproveduti, ragunorono insieme
tutte le loro genti d'arme, e levorono di Valdarno di sotto e del
contado di Pisa assai fanteria, e ne andorono verso Volterra.
Né
Giusto, per essere abbandonato da' vicini, né per lo assalto
che si vedeva fare da' Fiorentini, si abbandonava; ma rifidatosi
nella fortezza del sito e nella grassezza della terra, si provedeva
alla difesa.
Era in Volterra uno messer Arcolano, fratello di quello
Giovanni che aveva persuaso Giusto a pigliare la signoria, uomo di
credito nella nobilità.
Costui ragunò certi suoi
confidenti e mostrò loro come Iddio aveva, per questo
accidente venuto, soccorso alla necessità della città
loro; perché, se gli erano contenti di pigliare le armi, e
privare Giusto della signoria, e rendere la città a'
Fiorentini, ne seguirebbe che resterebbono i primi di quella terra, e
a lei si perserverrebbono gli antichi privilegi suoi.
Rimasi adunque
d'accordo della cosa, ne andorono al Palagio, dove si posava il
Signore, e fermisi parte di loro da basso, messer Arcolano con tre di
loro salì in su la sala, e trovato quello con alcuni
cittadini, lo tirò da parte, come se gli volesse ragionare di
alcuna cosa importante; e d'un ragionamento in un altro, lo condusse
in camera, dove egli e quelli che erano seco con le spade lo
assalirono.
Né furono però sì presti che non
dessero commodità a Giusto di porre mano all'arme sua; il
quale, prima che lo ammazzassero, ferì gravemente duoi di
loro; ma non potendo alfine resistere a tanti, fu morto e gittato a
terra del Palazzo.
E prese le armi, quelli della parte di messer
Arcolano dettono la città ai commissari fiorentini, che con le
genti vi erano propinqui; i quali, senza fare altri patti, entrorono
in quella.
Di che ne seguì che Volterra peggiorò le sue
condizioni, perché, intra le altre cose, le smembrorono la
maggiore parte del contado e ridussollo in vicariato.
18
Perduta
adunque quasi che in un tratto e racquistata Volterra, non si vedeva
cagione di nuova guerra, se l'ambizione degli uomini non la avesse di
nuovo mossa.
Aveva militato assai tempo per la città di
Firenze, nelle guerre del Duca, Niccolò Fortebraccio, nato
d'una sirocchia di Braccio da Perugia.
Costui, venuta la pace, fu da'
Fiorentini licenziato, e quando e' venne il caso di Volterra si
trovava ancora alloggiato a Fucecchio, onde che i commissari, in
quella impresa, si valsono di lui e delle sue genti.
Fu opinione, nel
tempo che messer Rinaldo travagliò seco quella guerra, lo
persuadesse a volere, sotto qualche fitta querela, assaltare i
Lucchesi, mostrandogli che, se e' lo faceva, opererebbe in modo, a
Firenze, che la impresa contro a Lucca si farebbe, ed egli ne sarebbe
fatto capo.
Acquistata pertanto Volterra, e tornato Niccolò
alle stanze a Fucecchio, o per le persuasioni di messer Rinaldo, o
per sua propria volontà, di novembre, nel 1429, con trecento
cavagli e trecento fanti, occupò Ruoti e Compito, castella de'
Lucchesi; di poi, sceso nel piano, fece grandissima preda.
Publicata
la nuova a Firenze di questo assalto, si fece per tutta la città
circuli di ogni sorte uomini, e la maggiore parte voleva che si
facesse la impresa di Lucca.
De' cittadini grandi, che la favorivano
erano quelli della parte de' Medici, e con loro s'era accostato
messer Rinaldo, mosso, o da giudicare che la fusse impresa utile per
la republica, o da sua propria ambizione, credendo aversi a trovare
capo di quella vittoria; quelli che la disfavorivano erano Niccolò
da Uzano e la parte sua.
E pare cosa da non la credere che sì
diverso giudizio nel muovere guerra fusse in una medesima città,
perché quelli cittadini e quel popolo che, dopo dieci anni di
pace, avevono biasimato la guerra presa contro al duca Filippo per
difendere la sua libertà, ora, dopo tante spese fatte e in
tanta afflizione della città, con ogni efficacia domandassero
che si movesse la guerra a Lucca per occupare la libertà
d'altri, e dall'altro canto quelli che vollono quella biasimavano
questa: tanto variano con il tempo i pareri, e tanto è più
pronta la moltitudine ad occupare quello d'altri che a guardare il
suo, e tanto sono mossi più gli uomini dalla speranza dello
acquistare che dal timore del perdere; perché questo non è,
se non da presso, creduto, quell'altra, ancora che discosto, si
spera.
E il popolo di Firenze era ripieno di speranza dagli acquisti
che aveva fatti e faceva Niccolò Fortebraccio, e dalle lettere
de' rettori propinqui a Lucca; perché il vicario di Vico e di
Pescia scrivevono che si dessi loro licenza di ricevere quelle
castella che venivano a darsi loro, perché presto tutto il
contado di Lucca si acquisterebbe.
Aggiunsesi a questo lo
ambasciadore mandato dal signore di Lucca a Firenze, a dolersi degli
assalti fatti da Niccolò e a pregare la Signoria che non
volesse muovere guerra a uno suo vicino e ad una città che
sempre gli era stata amica.
Chiamavasi lo ambasciadore messer Iacopo
Viviani: costui, poco tempo innanzi, era stato tenuto prigione da
Pagolo per avere congiuratogli contro; e benché lo avesse
trovato in colpa, gli aveva perdonata la vita, e perché
credeva che messer Iacopo gli avesse perdonata la ingiuria si fidava
di lui.
Ma ricordandosi più messer Iacopo del pericolo che del
benifizio, venuto a Firenze, secretamente confortava i cittadini alla
impresa.
I quali conforti, aggiunti all'altre speranze, feciono che
la Signoria ragunò il Consiglio, dove convennono
quattrocentonovantotto cittadini, innanzi a' quali per i principali
della città fu disputata la cosa.
19
Intra
i primi che volevono la impresa, come di sopra dicemmo, era messer
Rinaldo.
Mostrava costui l'utile che si traeva dello acquisto;
mostrava la occasione della impresa, sendo loro lasciata in preda dai
Viniziani e da il Duca, né possendo essere dal Papa, implicato
nelle cose del Regno, impedita.
A questo aggiugneva la facilità
dello espugnarla, sendo serva d'un suo cittadino e avendo perduto
quel naturale vigore e quello antico studio di difendere la sua
libertà; in modo che, o dal popolo per cacciarne il tiranno, o
dal tiranno per paura del popolo, la sarà concessa.
Narrava le
ingiurie del signore, fatte alla republica nostra, e il malvagio
animo suo verso di quella; e quanto era pericoloso, se di nuovo o il
Papa o il Duca alla città movesse guerra; e concludeva che
niuna impresa mai fu fatta da il popolo fiorentino né più
facile, né più utile, né più giusta.
Contro a questa opinione, Niccolò da Uzano disse che la città
di Firenze non fece mai impresa più ingiusta, né più
pericolosa, né che da quella dovessero nascere maggiori danni.
E prima, che si andava a ferire una città guelfa, stata sempre
amica al popolo fiorentino, e che nel suo grembo, con suo pericolo,
aveva molte volte ricevuti i Guelfi che non potevono stare nella
patria loro.
E che nelle memorie delle cose nostre non si troverrà
mai Lucca libera avere offeso Firenze ma se chi l'aveva fatta serva,
come già Castruccio e ora costui, l'aveva offesa non si poteva
imputare la colpa a lei, ma al tiranno.
E se al tiranno si potesse
fare guerra sanza farla a' cittadini, gli dispiacerebbe meno; ma
perché questo non poteva essere, non poteva anche consentire
che una cittadinanza amica fusse spogliata de' beni suoi.
Ma poi che
si viveva oggi in modo che del giusto e dello ingiusto non si aveva a
tenere molto conto, voleva lasciare questa parte indietro, e pensare
solo alla utilità della città.
Credeva per tanto quelle
cose potersi chiamare utili che non potevono arrecare facilmente
danno: non sapeva adunque come alcuno poteva chiamare utile quella
impresa dove i danni erano certi e gli utili dubbi.
I danni certi
erano le spese che la si tirava dietro, le quali si vedevano tante,
che le dovevono fare paura ad una città riposata, non che ad
una stracca d'una lunga e grave guerra, come era la loro; gli utili
che se ne potevono trarre erano lo acquisto di Lucca; i quali
confessava essere grandi, ma che gli era da considerare i dubi che ci
erano dentro, i quali a lui parevono tanti, che giudicava lo acquisto
impossibile.
E che non credessero che i Viniziani e Filippo fussero
contenti di questo acquisto; perché quelli solo mostravano
consentirlo per non parere ingrati, avendo poco tempo innanzi, con i
danari de' Fiorentini, preso tanto imperio; quell'altro aveva caro
che in nuova guerra e in nuove spese si implicassero, acciò
che, attriti e stracchi da ogni parte, potesse di poi di nuovo
assaltargli; e come non gli mancherà modo, nel mezzo della
impresa e nella maggiore speranza della vittoria, di soccorrere i
Lucchesi, o copertamente, con danari, o cassare delle sue genti e
come soldati di ventura mandarli in loro aiuto.
Confortava per tanto
ad astenersi dalla impresa, e vivere con il tiranno in modo che se
gli facesse, dentro, più inimici si potesse, perché non
ci era più commoda via a subiugarla, che lasciarla vivere
sotto il tiranno e da quello affliggere e indebolire; per che,
governata la cosa prudentemente, quella città si condurrebbe
in termine che il tiranno non la potendo tenere, ed ella non sapendo
né potendo per sé governarsi, di necessità
cadrebbe loro in grembo.
Ma che vedeva gli umori mossi, e le parole
sua non essere udite.
Pure voleva pronosticare loro questo: che
farebbono una guerra dove spenderebbono assai, correrebbonvi dentro
assai pericoli, e in cambio di occupare Lucca, la libererebbono dal
tiranno, e di una città amica, subiugata e debole farebbono
una città libera, loro nimica, e, con il tempo, uno ostaculo
alla grandezza della republica loro.
20
Parlato
per tanto che fu per la impresa e contro alla impresa, si venne,
secondo il costume, secretamente a ricercare la volontà degli
uomini; e di tutto il numero, solo novantotto la contradissero.
Fatta
per tanto la deliberazione, e creati i Dieci per trattare la guerra,
soldorono gente a piè e a cavallo; deputorono commissari
Astorre Gianni e messer Rinaldo degli Albizzi, e con Niccolò
Fortebraccio di avere da lui le terre aveva prese, e che seguisse la
impresa come soldato nostro, convennono.
I commissari, arrivati con
lo esercito nel paese di Lucca, divisono quello; e Astorre si distese
per il piano, verso Camaiore e Pietrasanta, e messer Rinaldo se ne
andò verso i monti, giudicando che, spogliata la città
del suo contado, facil cosa fusse, di poi, lo espugnarla.
Furono le
imprese di costoro infelici, non perché non acquistassero
assai terre, ma per i carichi che furno, nel maneggio della guerra,
dati all'uno e all'altro di loro.
Vero è che Astorre Gianni
de' carichi suoi se ne dette evidente cagione.
È una valle
propinqua a Pietrasanta, chiamata Seravezza, ricca e piena di
abitatori, i quali, sentendo la venuta del Commissario, se gli
feciono incontro, e lo pregorono gli accettasse per fedeli servidori
del popolo fiorentino.
Mostrò Astorre di accettare le offerte;
di poi fece occupare alle sue genti tutti i passi e luoghi forti
della valle, e fece ragunare gli uomini nel principale tempio loro; e
di poi gli prese tutti prigioni, e alle sue genti fe' saccheggiare e
destruggere tutto il paese, con esemplo crudele e avaro, non
perdonando a luoghi pii, né a donne, così vergini come
maritate.
Queste cose, così come le erano seguite, si seppono
a Firenze, e dispiacquono non solamente a' magistrati, ma a tutta la
città.
21
De'
Seravezzesi alcuni, che dalle mani del Commissario s'erano fuggiti,
corsono a Firenze, e per ogni strada e ad ogni uomo narravano le
miserie loro; di modo che, confortati da molti desiderosi che si
punisse il Commissario, o come malvagio uomo, o come contrario alla
fazione loro, ne andorono a' Dieci e domandorono di essere uditi.
E
intromessi, uno di loro parlò in questa sentenza: - Noi siamo
certi, magnifici Signori, che le nostre parole troveranno fede e
compassione appresso le Signorie vostre, quando voi saprete in che
modo occupasse il paese nostro il commissario vostro, e in quale
maniera di poi siamo stati trattati da quello.
La valle nostra, come
ne possono essere piene le memorie delle antiche cose vostre, fu
sempremai guelfa, ed è stata molte volte uno fedele ricetto a'
cittadini vostri, che, perseguitati da' Ghibellini, sono ricorsi in
quella.
E sempre gli antichi nostri e noi abbiamo adorato il nome di
questa inclita republica, per essere stata capo e principe di quella
parte; e in mentre che i Lucchesi furono guelfi, volentieri servimmo
allo imperio loro; ma poi che pervennero sotto il tiranno, il quale
ha lasciati gli antichi amici e seguite le parti ghibelline, più
tosto forzati che volontari lo abbiamo ubbidito; e Dio sa quante
volte noi lo abbiamo pregato che ci desse occasione di dimostrare
l'animo nostro verso l'antica parte.
Quanto sono gli uomini ciechi
ne' desiderii loro! Quello che noi desideravamo per nostra salute è
stato la nostra rovina.
Perché, come prima noi sentimmo che le
insegne vostre venivano verso di noi, non come a nimici, ma come agli
antichi signori nostri ci facemmo incontro al commissario vostro, e
mettemmo la valle, le nostre fortune e noi nelle sue mani, e alla sua
fede ci raccomandammo, credendo che in lui fusse animo, se non di
Fiorentino, almeno d'uomo.
Le Signorie vostre ci perdoneranno, perché
non potere sopportar peggio di quello abbiamo sopportato ci dà
animo a parlare.
Questo vostro commissario non ha di uomo altro che
la presenzia, né di Fiorentino altro che il nome: una peste
mortifera, una fiera crudele, uno mostro orrendo, quanto mai da
alcuno scrittore fusse figurato; perché, riduttici nel nostro
tempio, sotto colore di volerci parlare, noi fece prigioni, e la
valle tutta rovinò e arse, e gli abitatori e le robe di quella
rapì, spogliò, saccheggiò, batté,
ammazzò; stuprò le donne, viziò le vergini, e
trattele delle braccia delle madri, le fece preda de' suoi soldati.
Se noi, per alcuna ingiuria fatta al popolo fiorentino o a lui,
avessimo meritato tanto male, o se armati e difendendoci ci avessi
presi, ci dorremmo meno, anzi accuseremmo noi, i quali o con le
iniurie o con la arroganzia nostra l'avessimo meritato; ma sendo,
disarmati, daticegli liberamente, che di poi ci abbi rubati, e con
tanta ingiuria e ignominia spogliati, siamo forzati a dolerci.
E
quantunque noi avessimo potuto riempiere la Lombardia di querele, e
con carico di questa città spargere per tutta Italia la fama
delle iniurie nostre, non lo aviamo voluto fare, per non imbrattare
una sì onesta e piatosa republica con la disonestà e
crudeltà d'uno suo malvagio cittadino.
Del quale se avanti
alla rovina nostra avessimo conosciuto l'avarizia ci saremmo sforzati
il suo ingordo animo, ancora che non abbi né misura ne fondo,
riempiere, e aremmo per quella via, con parte delle sustanze nostre,
salvate l'altre, ma poi che non siamo più a tempo, abbiamo
voluto ricorrere a voi, e pregarvi soccorriate alla infelicità
de' vostri subietti, acciò che gli altri uomini non si
sbigottischino, per lo esemplo nostro, a venire sotto lo imperio
vostro.
E quando non vi muovino gli infiniti mali nostri, vi muova la
paura dell'ira di Dio, il quale ha veduto i suoi templi saccheggiati
e arsi, e il popolo nostro tradito nel grembo suo -.
E detto questo
si gittorono in terra, gridando e pregando che fusse loro renduto la
roba e la patria; e facessero restituire (poi che non si poteva
l'onore) almeno le moglie a' mariti, e a' padri le figliuole.
L'atrocità della cosa, saputa prima, e di poi dalle vive voci
di quelli che la avevano sopportata intesa, commosse il magistrato; e
sanza differire si fece tornare Astorre, e di poi fu condannato e
ammunito.
Ricercossi de' beni de' Seravezzesi e quelli che si
poterono trovare si restituirono, degli altri furono dalla città,
con il tempo, in varii modi sodisfatti.
22
Messer
Rinaldo degli Albizzi dall'altra parte era diffamato ch'egli faceva
la guerra non per utilità del popolo fiorentino, ma sua, e
come, poi che fu commissario, gli era fuggito dell'animo la cupidità
del pigliare Lucca, perché gli bastava saccheggiare il contado
e riempire le possessioni sue di bestiame e le case sua di preda; e
come non gli bastavano le prede che da' suoi satelliti per propria
utilità si facevano, che comperava quelle de' soldati, tale
che di commissario era diventato mercatante.
Queste calunnie,
pervenute agli orecchi suoi, mossono lo intero e altiero animo suo
più che ad uno grave uomo non si conveniva, e tanto lo
perturborono che, sdegnato contro al magistrato e i cittadini, sanza
aspettare o domandare licenza, se ne tornò a Firenze.
E
presentatosi davanti a' Dieci, disse che sapeva bene quanta
difficultà e pericolo era servire ad un popolo sciolto e ad
una città divisa, perché l'uno ogni romore riempie,
l'altra le cattive opere perseguita, le buone non premia e le dubie
accusa; tanto che vincendo niuno ti loda, errando ognuno ti condanna,
perdendo ognuno ti calunnia, perché la parte amica per
invidia, la nimica per odio ti perseguita; non di meno non aveva mai
per paura d'un carico vano, lasciato di non fare una opera che
facesse uno utile certo alla sua città.
Vero era che la
disonestà delle presenti calunnie avevano vinta la pazienzia
sua, e fattogli mutare natura.
Per tanto pregava il magistrato che
volesse per lo avvenire essere più pronto a difendere i suoi
cittadini, acciò che quegli fussero ancora più pronti a
operare bene per la patria; e poi che in Firenze non si usava
concedere loro il trionfo, almeno si usasse dai falsi vituperii
difenderli; e si ricordassero che ancora loro erano di quella città
cittadini, e come ad ogni ora potria essere loro dato qualche carico,
per il quale intenderebbono quanta offesa agli uomini interi le false
calunnie arrechino.
I Dieci, secondo il tempo, s'ingegnorono
mitigarlo; e la cura di quella impresa a Neri di Gino e Alamanno
Salviati demandarono.
I quali, lasciato da parte il correre per il
contado di Lucca, s'accostorono con il campo alla terra; e perché
ancora era la stagione fredda, si missono a Capannole; dove a'
commissari pareva che si perdesse tempo; e volendosi strignere più
alla terra, i soldati, per il tempo sinistro, non vi si accordavano,
non ostante che i Dieci sollecitassino lo accamparsi e non
accettassino scusa alcuna.
23
Era,
in quelli tempi, in Firenze uno eccellentissimo architettore,
chiamato Filippo di ser Brunellesco, delle opere del quale è
piena la nostra città, tanto che meritò, dopo la morte,
che la sua immagine fusse posta, di marmo, nel principale tempio di
Firenze, con lettere a piè che ancora rendono a chi legge
testimonianza delle sue virtù.
Mostrava costui come Lucca si
poteva allagare, considerato il sito della città e il letto
del fiume del Serchio; e tanto lo persuase, che i Dieci commissono
che questa esperienza si facesse.
Di che non ne nacque altro che
disordine al campo nostro e securtà a' nemici; perché i
Lucchesi alzorono con uno argine il terreno verso quella parte che
faceno venire il Serchio, e di poi, una notte, ruppono l'argine di
quel fosso per il quale conducevano le acque, tanto che quelle,
trovato il riscontro alto verso Lucca e l'argine del canale aperto,
in modo per tutto il piano si sparsono, che il campo, non che si
potesse appropinquare alla terra, si ebbe a discostare.
24
Non
riuscita adunque questa impresa, i Dieci che di nuovo presono il
magistrato mandorono commissario messer Giovanni Guicciardini.
Costui, il più presto che possé, si accampò alla
terra; donde che il Signore, vedendosi strignere, per conforto d'uno
messer Antonio del Rosso sanese, il quale in nome del comune di Siena
era apresso di lui, mandò al duca di Milano Salvestro Trenta e
Lionardo Buonvisi.
Costoro per parte del Signore gli chiesono aiuto;
e trovandolo freddo, lo pregorono secretamente che dovesse dare loro
genti; perché gli promettevano per parte del popolo dargli
preso il loro Signore, e apresso la possessione della terra,
avvertendolo che, se non pigliava presto questo partito, il Signore
darebbe la terra a' Fiorentini, i quali con molte promesse lo
sollecitavano.
La paura per tanto che il Duca ebbe di questo gli fece
porre da parte i respetti, e ordinò che il conte Francesco
Sforza, suo soldato, gli domandasse publicamente licenza per andare
nel Regno.
Il quale, ottenuta quella, se ne venne con la sua
compagnia a Lucca, non ostante che i Fiorentini, sapendo questa
pratica e dubitando di quello avvenne, mandassino al Conte Boccaccino
Alamanni suo amico, per sturbarla.
Venuto per tanto il Conte a Lucca,
i Fiorentini si ritirarono con il campo a Librafatta; e il Conte
subito andò a campo a Pescia dove era vicario Pagolo da
Diacceto.
Il quale, consigliato più dalla paura che da alcuno
altro migliore rimedio, si fuggì a Pistoia; e se la terra non
fusse stata difesa da Giovanni Malavolti, che vi era a guardia, si
sarebbe perduta.
Il Conte per tanto, non la avendo potuta nel primo
assalto pigliare, ne andò al Borgo a Buggiano, e lo prese, e
Stigliano, castello a quello propinquo, arse.
I Fiorentini, veggendo
questa rovina, ricorsono a quelli rimedi che molte volte gli avevano
salvati, sapiendo come, con i soldati mercenari, dove le forze non
bastavano giovava la corruzione, e però profersono al Conte
danari, e quello, non solamente si partisse, ma desse loro la terra.
Il Conte, parendogli non potere trarre più danari da Lucca,
facilmente si volse a trarne da quelli che ne avevano; e convenne con
i Fiorentini, non di dare loro Lucca, che per onestà non lo
volle consentire, ma di abbandonarla, quando gli fusse dato
cinquantamila ducati.
E fatta questa convenzione, acciò che il
popolo di Lucca apresso al Duca lo scusasse, tenne mano con quello
che i Lucchesi cacciassero il loro Signore.
25
Era
in Lucca, come di sopra dicemmo, messer Antonio del Rosso,
ambasciadore sanese.
Costui, con la autorità del Conte,
praticò con i cittadini la rovina di Pagolo.
Capi della
congiura furono Piero Cennami e Giovanni da Chivizzano.
Trovavasi il
Conte alloggiato fuora della terra, in sul Serchio, e con lui era
Lanzilao, figliuolo del Signore.
Donde i congiurati, in numero di
quaranta, di notte, armati, andorono a trovare Pagolo; al romore de'
quali fattosi incontro tutto attonito, domandò della cagione
della venuta loro.
Al quale Piero Cennami disse come loro erano stati
governati da lui più tempo, e condotti, con i nimici intorno,
a morire di ferro e di fame; e però erano deliberati per lo
avvenire, di volere governare loro.
E gli domandorono le chiavi della
città e il tesoro di quella.
A' quali Pagolo rispose che il
tesoro era consumato, le chiavi ed egli erano in loro podestà,
e gli pregava di questo solo, che fussero contenti, così come
la sua signoria era cominciata e vivuta sanza sangue, così
sanza sangue finisse.
Fu dal conte Francesco condotto Pagolo e il
figliuolo al Duca, i quali morirono, di poi, in prigione.
La partita
del Conte aveva lasciata libera Lucca dal tiranno e i Fiorentini dal
timore delle genti sue, onde che quelli si preparorono alle difese e
quelli altri ritornorono alle offese; e avevano eletto per capitano
il conte di Urbino, il quale, strignendo forte la terra, constrinse
di nuovo i Lucchesi a ricorrere al Duca; il quale, sotto il medesimo
colore aveva mandato il Conte, mandò in loro aiuto Niccolò
Piccino.
A costui, venendo per entrare in Lucca, i nostri si feciono
incontro in sul Serchio; e al passare di quello vennono alla zuffa, e
vi furono rotti; e il Commissario con poche delle nostre genti si
salvò a Pisa.
Questa rotta contristò tutta la nostra
città; e perché la impresa era stata fatta dallo
universale, non sapendo i popolani contro a chi volgersi calunniavano
chi l'aveva amministrata poi che e' non potevono calunniare chi la
aveva deliberata, e risucitorono i carichi dati a messer Rinaldo.
Ma
più che alcuno era lacero messer Giovanni Guicciardini,
accusandolo che gli arebbe potuto, dopo la partita del conte
Francesco, ultimare la guerra, ma che gli era stato corrotto con
danari, e come ne aveva mandati a casa una soma, e allegavano chi gli
aveva portati e chi ricevuti.
E andorono tanto alto questi romori e
queste accuse, che il Capitano del popolo, mosso da queste publiche
voci, e da quelli della parte contraria spinto, lo citò.
Comparse messer Giovanni tutto pieno di sdegno; donde i parenti suoi,
per onore loro, operorono tanto che il Capitano abbandonò la
impresa.
I Lucchesi, dopo la vittoria, non solamente riebbero le loro
terre, ma occuporono tutte quelle del contado di Pisa, eccetto
Bientina, Calcinaia, Livorno e Librafatta, e se non fusse stata
scoperta una congiura che si era fatta in Pisa, si perdeva anche
quella città.
I Fiorentini riordinorono le loro genti, e
feciono loro capitano Micheletto, allievo di Sforza.
Dall'altra parte
il Duca seguitò la vittoria, e per potere con più forze
affliggere i Fiorentini, fece che i Genovesi, Sanesi e signore di
Piombino si collegassero alla difesa di Lucca, e che soldassero
Niccolò Piccino per loro capitano, la qual cosa lo fece in
tutto scoprire.
Donde che i Viniziani e i Fiorentini rinnovorono la
lega e la guerra si cominciò a fare aperta in Lombardia e in
Toscana.
E nell'una e nell'altra provincia seguirono, con varia
fortuna, varie zuffe; tanto che, stracco ciascuno, si fece, di
maggio, nel 1433, lo accordo infra le parti, per il quale i
Fiorentini, Lucchesi e Sanesi, che avevano nella guerra occupate più
castella l'uno all'altro, le lasciarono tutte, e ciascuno tornò
nella possessione delle sua.
26
Mentre
che questa guerra si travagliava, ribollivano tuttavia i maligni
umori delle parti di dentro; e Cosimo de' Medici, dopo la morte di
Giovanni suo padre, con maggiore animo nelle cose publiche, e con
maggiore studio e più liberalità con gli amici che non
aveva fatto il padre, si governava; in modo che quelli che per la
morte di Giovanni si erano rallegrati, vedendo quale era Cosimo si
contristavano.
Era Cosimo uomo prudentissimo, di grave e grata
presenzia, tutto liberale, tutto umano; né mai tentò
alcuna cosa contro alla Parte né contro allo stato, ma
attendeva a benificare ciascuno e, con la liberalità sua,
farsi partigiani assai cittadini.
Di modo che lo esemplo suo
accresceva carico a quelli che governavano, e lui giudicava, per
questa via, o vivere in Firenze potente e securo quanto alcuno altro,
o, venendosi per la ambizione degli avversarii allo straordinario,
essere e con le armi e con i favori superiore.
Grandi strumenti ad
ordire la potenza sua furono Averardo de' Medici e Puccio Pucci: di
costoro, Averardo con l'audacia, Puccio con la prudenzia e sagacità,
favori e grandezza gli sumministravano; ed era tanto stimato il
consiglio e il iudicio di Puccio, e tanto per ciascuno cognosciuto,
che la parte di Cosimo, non da lui, ma da Puccio era nominata.
Da
questa così divisa città fu fatta la impresa di Lucca,
nella quale si accesono gli umori delle parti, non che si
spegnessero.
E avvenga che la parte di Cosimo fusse quella che
l'avesse favorita, non di meno ne' governi di essa erano mandati
assai di quelli della parte avversa, come uomini più reputati
nello stato: a che non potendo Averardo de' Medici e gli altri
rimediare, attendevono con ogni arte e industria a calunniarli; e se
perdita alcuna nasceva, che ne nacquero molte, era, non la fortuna o
la forza del nimico, ma la poca prudenza del commissario accusata.
Questo fece aggravare i peccati di Astorre Gianni, questo fece
sdegnare messer Rinaldo degli Albizzi e partirsi dalla sua
commissione sanza licenza, questo medesimo fece richiedere dal
Capitano del popolo messer Giovanni Guicciardini; da questo tutti gli
altri carichi che a' magistrati e a' commissari si dettero nacquero,
perché i veri si accrescevano, i non veri si fingevano, e i
veri e i non veri da quel popolo, che ordinariamente gli odiava,
erano creduti.
27
Queste
così fatte cose e modi estraordinari di procedere erano
ottimamente da Niccolò da Uzano e dagli altri capi della Parte
cognosciuti, e molte volte avevano ragionato insieme de' rimedi; e
non ce gli trovavano, perché pareva loro il lasciare crescere
la cosa pericoloso, e il volerla urtare difficile.
E Niccolò
da Uzano era il primo al quale non piacevano le vie straordinarie;
onde che, vivendosi con la guerra fuora e con questi travagli dentro,
Niccolò Barbadori, volendo disporre Niccolò da Uzano ad
acconsentire alla rovina di Cosimo, lo andò a trovare a casa,
dove tutto pensoso in uno suo studio dimorava, e lo confortò
con quelle ragioni seppe addurre migliori a volere convenire con
messer Rinaldo a cacciare Cosimo.
Al quale Niccolò da Uzano
rispose in questa sentenza: - E' si farebbe per te, per la tua casa e
per la nostra republica, che tu e gli altri che ti seguono in questa
opinione avessero più tosto la barba d'ariento che d'oro, come
si dice che hai tu, perché i loro consigli, procedendo da capo
canuto e pieno di esperienza, sarebbero più savi e più
utili a ciascheduno.
E' mi pare che coloro che pensono di cacciare
Cosimo da Firenze abbino, prima che ogni cosa, a misurare le forze
loro e quelle di Cosimo.
Questa nostra parte voi l'avete battezzata
la Parte de' nobili, e la contraria quella della plebe: quando la
verità correspondesse al nome, sarebbe in ogni accidente la
vittoria dubia, e più tosto doverremmo temere noi che sperare,
mossi dallo esemplo delle antiche nobilità di questa città,
le quali dalla plebe sono state spente.
Ma noi abbiamo molto più
da temere, sendo la nostra parte smembrata e quella degli avversarii
intera.
La prima cosa, Neri di Gino e Nerone di Nigi, duoi de' primi
cittadini nostri, non si sono mai dichiarati in modo che si possa
dire che sieno più amici nostri che loro.
Sonci assai
famiglie, anzi assai case, divise; perché molti, per invidia
de' frategli o de' congiunti, disfavoriscono noi, e favoriscono loro.
Io te ne voglio ricordare alcuno de' più importanti: gli altri
considererai tu per te medesimo.
De' figliuoli di messer Maso degli
Albizzi, Luca, per invidia di messer Rinaldo, si è gittato
dalla parte loro; in casa e Guicciardini, de' figliuoli di messer
Luigi, Piero è nimico a messer Giovanni, e favorisce gli
avversarii nostri; Tommaso e Niccolò Soderini apertamente, per
lo odio portono a Francesco loro zio, ci fanno contro.
In modo che,
se si considera bene quali sono loro e quali siamo noi, io non so
perché più si merita di essere chiamata la parte nostra
nobile che la loro.
E se fusse perché loro sono seguitati da
tutta la plebe, noi siamo per questo, in peggiore condizione, e loro
in migliore; e in tanto che, se si viene alle armi o a' partiti, noi
non siamo per potere resistere.
E se noi stiamo ancora nella dignità
nostra, nasce dalla reputazione antica di questo stato, la quale si
ha per cinquanta anni conservata; ma come e' si venisse alla pruova,
e che e' si scoprisse la debolezza nostra, noi ce la perderemmo.
E se
tu dicessi che la giusta cagione che ci muove accrescerebbe a noi
credito e a loro lo torrebbe, ti rispondo che questa giustizia
conviene che sia intesa e creduta da altri come da noi; il che è
tutto il contrario; perché la cagione che ci muove è
tutta fondata in sul sospetto che non si faccia principe di questa
città: se questo sospetto noi lo abbiamo, non lo hanno gli
altri; anzi, che è peggio, accusono noi di quello che noi
accusiamo lui.
L'opere di Cosimo che ce lo fanno sospetto sono:
perché gli serve de' suoi danari ciascuno, e non solamente i
privati ma il publico, e non solo i Fiorentini ma i condottieri;
perché favorisce quello e quell'altro cittadino che ha bisogno
de' magistrati; perché e' tira, con la benivolenzia che gli ha
nello universale, questo e quell'altro suo amico a maggiori gradi di
onori.
Adunque converrebbe addurre le cagioni del cacciarlo, perché
gli è piatoso, oficioso, liberale e amato da ciascuno.
Dimmi
un poco: quale legge è quella che proibisca o che biasimi e
danni negli uomini la pietà, la liberalità, lo amore? E
benché sieno modi tutti che tirino gli uomini volando al
principato, non di meno e' non sono creduti così, né
noi siamo sufficienti a darli ad intendere, perché i modi
nostri ci hanno tolta la fede, e la città, che naturalmente è
partigiana e, per essere sempre vivuta in parte, corrotta, non può
prestare gli orecchi a simili accuse.
Ma poniamo che vi riuscisse il
cacciarlo, che potrebbe, avendo una Signoria propizia riuscire
facilmente: come potresti voi mai, intra tanti suoi amici che ci
rimarrebbono e arderebbono del desiderio della tornata sua, obviare
che non ci ritornasse? Questo sarebbe impossibile, perché mai,
sendo tanti e avendo la benivolenzia universale, non ve ne potresti
assicurare; e quanti più de' primi suoi scoperti amici
cacciasse tanti più nimici vi faresti in modo che dopo poco
tempo e' ci ritornerebbe; e ne aresti guadagnato questo, che voi lo
aresti cacciato buono, e tornerebbeci cattivo; perché la
natura sua sarebbe corrotta da quelli che lo revocassero, a' quali
sendo obligato non si potrebbe opporre.
E se voi disegnassi di farlo
morire, non mai per via de' magistrati vi riuscirà, perché
i danari suoi, gli animi vostri corruttibili, sempre lo salveranno.
Ma poniamo che muoia, o cacciato non torni: io non veggo che acquisto
ci facci dentro la nostra republica; perché, se la si libera
da Cosimo, la si fa serva a messer Rinaldo; e io, per me, sono uno di
quelli che desidero che niuno cittadino di potenza e di autorità
superi l'altro; ma quando alcuno di questi duoi avesse a prevalere,
io non so quale cagione mi facesse amare più messer Rinaldo
che Cosimo.
Né ti voglio dire altro, se non che Dio guardi
questa città che alcuno suo cittadino ne diventi principe; ma
quando pure i peccati nostri lo meritassero, la guardi di avere ad
ubbidire a lui.
Non volere dunque consigliare che si pigli uno
partito che da ogni parte sia dannoso; né credere,
accompagnato da pochi, potere opporti alla voglia di molti: perché
tutti questi cittadini, parte per ignoranza, parte per malizia, sono
a vendere questa republica apparecchiati; ed è in tanto la
fortuna loro amica, ch'eglino hanno trovato il comperatore.
Governati
per tanto per il mio consiglio: attendi a vivere modestamente; e
arai, quanto alla libertà, così a sospetto quelli della
parte nostra, come quelli della avversa, e quando travaglio alcuno
nasca, vivendo neutrale, sarai a ciascuno grato; e così
gioverai a te, e non nocerai alla tua patria.
28
Queste
parole raffrenorono alquanto lo animo del Barbadoro, in modo che le
cose stettono quiete quanto durò la guerra di Lucca; ma
seguita la pace, e con quella la morte di Niccolò da Uzano,
rimase la città sanza guerra e sanza freno.
Donde che sanza
alcuno rispetto crebbono i malvagi umori; e messer Rinaldo,
parendogli essere rimaso solo principe della Parte, non cessava di
pregare e infestare tutti i cittadini i quali credeva potessero
essere gonfalonieri, che si armassero a liberare la patria di quello
uomo che di necessità, per la malignità di pochi e per
la ignoranza di molti, la conduceva in servitù.
Questi modi
tenuti da messer Rinaldo, e quelli di coloro che favorivano la parte
avversa, tenevano la città piena di sospetto; e qualunque
volta si creava uno magistrato, si diceva publicamente quanti
dell'una e quanti dell'altra parte vi sedevano; e nella tratta de'
Signori stava tutta la città sollevata.
Ogni caso che veniva
davanti a' magistrati, ancora che minimo, si riduceva fra loro in
gara; i secreti si publicavano; così il bene come il male si
favoriva e disfavoriva; i buoni come i cattivi ugualmente erano
lacerati; niuno magistrato faceva l'ufizio suo.
Stando adunque
Firenze in questa confusione, e messer Rinaldo in quella voglia di
abbassare la potenza di Cosimo, e sapendo come Bernardo Guadagni
poteva essere gonfaloniere, pagò le sue gravezze, acciò
che il debito publico non gli togliesse quel grado.
Venutosi di poi
alla tratta de' Signori, fece la fortuna, amica alle discordie
nostre, che Bernardo fu tratto gonfalonieri per sedere il settembre e
l'ottobre.
Il quale messer Rinaldo andò subito a vicitare, e
gli disse quanto la parte de' nobili e qualunque desiderava bene
vivere si era rallegrato per essere lui pervenuto a quella dignità;
e che a lui si apparteneva operare in modo che non si fussero
rallegrati invano.
Mostrogli di poi i pericoli che nella disunione si
correvono, e come non era altro rimedio alla unione, che spegnere
Cosimo; perché solo quello, per i favori che da le immoderate
sue ricchezze nascevano, gli teneva infermi; e che si era condotto
tanto alto che, se e' non vi si provedeva, ne diventerebbe principe;
e come ad uno buono cittadino s'apparteneva rimediarvi, chiamare il
popolo in Piazza, ripigliare lo stato, per rendere alla patria la sua
libertà.
Ricordogli che messer Salvestro de' Medici potette
ingiustamente frenare la grandezza de' Guelfi, a' quali, per il
sangue dai loro antichi sparso, si apparteneva il governo; e che
quello ch'egli fare contro a tanti ingiustamente potette, potrebbe
bene fare esso, giustamente, contro ad uno solo.
Confortollo a non
temere, perché gli amici con le armi sarebbono presti per
aiutarlo; e della plebe che lo adorava non tenessi conto, perché
non trarrebbe Cosimo da lei altri favori che si traessi già
messer Giorgio Scali; né delle sue ricchezze dubitasse, perché
quando fia in podestà de' Signori, le saranno loro, e
conclusegli che questo fatto farebbe la republica secura e unita, e
lui glorioso.
Alle quali parole Bernardo rispose brevemente, come
giudicava cosa necessaria fare quanto egli diceva; e perché il
tempo era da spenderlo in operare, attendessi a prepararsi con le
forze, per essere presto, persuaso che gli avesse i compagni.
Preso
che ebbe Bernardo il magistrato, disposti i compagni e convenuto con
messer Rinaldo, citò Cosimo, il quale, ancora che ne fusse da
molti amici sconfortato comparì, confidatosi più nella
innocenzia sua che nella misericordia de' Signori.
Come Cosimo fu in
Palagio, e sostenuto, messer Rinaldo con molti armati uscì di
casa, e apresso a quello tutta la Parte, e ne vennono in Piazza, dove
i Signori feciono chiamare il popolo, e creorono dugento uomini di
balia per riformare lo stato della città.
Nella quale balia,
come prima si potette, si trattò della riforma, e della vita e
della morte di Cosimo.
Molti volevono che fusse mandato in esilio;
molti morto; molti altri tacevano, o per compassione di lui o per
paura di loro.
I quali dispareri non lasciavano concludere alcuna
cosa.
29
È
nella torre del Palagio uno luogo, tanto grande quanto patisce lo
spazio di quella, chiamato l'Alberghettino; nel quale fu rinchiuso
Cosimo, e dato in guardia a Federigo Malavolti.
Dal quale luogo
sentendo Cosimo fare il parlamento, e il romore delle armi che in
Piazza si faceva, e il sonare spesso a balia, stava con sospetto
della sua vita; ma più ancora temeva che estraordinariamente i
particulari nimici lo facessero morire.
Per questo si asteneva dal
cibo tanto che, in quattro giorni, non aveva voluto mangiare altro
che un poco di pane.
Della qual cosa accorgendosi Federigo, gli
disse: - Tu dubiti, Cosimo di non essere avvelenato; e fai te morire
di fame, e poco onore a me, credendo che io volessi tenere le mani ad
una simile scelleratezza.
Io non credo che tu abbia a perdere la
vita: tanti amici hai in Palagio e fuori; ma quando pure avessi a
perderla, vivi securo che piglieranno altri modi che usare me per
ministro a tortela, perché io non voglio bruttarmi le mani nel
sangue di alcuno e massime del tuo, che non mi offendesti mai.
Sta'
per tanto di buona voglia prendi il cibo, e mantienti vivo agli amici
e alla patria.
E perché con maggiore fidanza possa farlo, io
voglio delle cose tue medesime mangiare teco -.
Queste parole tutto
confortorono Cosimo; e con le lagrime agli occhi abbracciò e
baciò Federigo, e con vive ed efficaci parole ringraziò
quello di sì piatoso e amorevole officio, offerendo essernegli
gratissimo, se mai dalla fortuna gliene fusse data occasione.
Sendo
adunque Cosimo alquanto riconfortato, e disputandosi il caso suo
intra i cittadini, occorse che Federigo, per darli piacere, condusse
a cena seco uno familiare del Gonfaloniere, chiamato il Farganaccio,
uomo sollazzevole e faceto.
E avendo quasi che cenato, Cosimo, che
pensò valersi della venuta di costui, perché benissimo
lo cognosceva, accennò Federigo che si partisse.
Il quale,
intendendo la cagione, finse di andare per cose che mancassero a
fornire la cena; e lasciati quelli soli, Cosimo, dopo alquante
amorevoli parole usate al Farganaccio, gli dette uno contrasegno, e
gli impose che andasse allo Spedalingo di Santa Maria Nuova per mille
cento ducati: cento ne prendesse per sé, e mille ne portasse
al Gonfaloniere; e pregasse quello che, presa onesta occasione, gli
venisse a parlare.
Accettò costui la commissione: i denari
furono pagati; donde Bernardo ne diventò più umano: e
ne seguì che Cosimo fu confinato a Padova, contro alla voglia
di messer Rinaldo, che lo voleva spegnere.
Fu ancora confinato
Averardo e molti della casa de' Medici; e con quelli, Puccio e
Giovanni Pucci.
E per sbigottire quelli che erano male contenti dello
esilio di Cosimo, dettono balia agli Otto di guardia e al Capitano
del popolo.
Dopo le quali deliberazioni, Cosimo, a' dì 3 di
ottobre, nel 1433, venne davanti a' Signori, da' quali gli fu
denunziato il confine, confortandolo allo ubbidire, quando e' non
volesse che più aspramente contro a' suoi beni e contro a lui
si procedesse.
Accettò Cosimo con vista allegra il confine,
affermando che dovunque quella Signoria lo mandasse era per stare
volentieri.
Pregava bene che, poi gli aveva conservata la vita,
gliene difendesse; perché sentiva essere in Piazza molti che
desideravano il sangue suo.
Offerse di poi, in qualunque luogo dove
fusse, alla città, al popolo e a Loro Signorie sé e le
sustanze sue.
Fu da il Gonfalonieri confortato, e tanto ritenuto in
Palagio che venisse la notte.
Di poi lo condusse in casa sua, e
fattolo cenare seco, da molti armati lo fece accompagnare a' confini.
Fu, dovunque passò, ricevuto Cosimo onorevolmente, e da'
Viniziani publicamente vicitato, e non come sbandito, ma come posto
in supremo grado, onorato.
30
Rimasa
Firenze vedova d'uno tanto cittadino e tanto universalmente amato,
era ciascuno sbigottito; e parimente quelli che avevano vinto e
quelli che erano vinti temevano.
Donde che messer Rinaldo, dubitando
del suo futuro male, per non mancare a sé e alla Parte,
ragunati molti cittadini amici, disse a quelli che vedeva
apparecchiata la rovina loro, per essersi lasciati vincere da'
prieghi, dalle lagrime e da' danari de' loro nimici.
E non si
accorgevono che poco di poi aranno a pregare e piagnere eglino, e che
i loro prieghi non saranno uditi, e delle loro lagrime non
troverranno chi abbia compassione: e de' danari presi restituiranno
il capitale e pagheranno l'usura con tormenti, morte ed esili.
E che
gli era molto meglio essersi stati, che avere lasciato Cosimo in vita
e gli amici suoi in Firenze; perché gli uomini grandi o e' non
si hanno a toccare o, tocchi, a spegnere.
Né ci vedeva altro
rimedio che farsi forti nella città, acciò che,
risentendosi e nimici, che si risentirieno presto, si potesse
cacciarli con le armi, poi che con i modi civili non se ne erano
potuti mandare.
E che il rimedio era quello che molto tempo innanzi
aveva ricordato: di riguadagnarsi i Grandi, rendendo e concedendo
loro tutti gli onori della città, e farsi forte con questa
parte, poi che i loro avversarii si erano fatti forti con la plebe.
E
come, per questo, la parte loro sarebbe più gagliarda, quanto
in quella sarebbe più vita, più virtù, più
animo e più credito; affermando che, se questo ultimo e vero
rimedio non si pigliava, non vedeva con quale altro modo si potesse
conservare uno stato infra tanti nimici, e cognosceva una propinqua
rovina della parte loro e della città.
A che Mariotto
Baldovinetti, uno de' ragunati, si oppose, mostrando la superbia de'
Grandi e la natura loro insopportabile; e che non era da ricorrere
sotto una certa tirannide loro, per fuggire i dubi pericoli della
plebe.
Donde che messer Rinaldo, veduto il suo consiglio non essere
udito, si dolfe della sua sventura e di quella della sua parte,
imputando ogni cosa più a' cieli, che volevono così,
che alla ignoranza e cecità degli uomini.
Standosi la cosa
adunque in questa maniera, sanza fare alcuna necessaria provisione,
fu trovata una lettera scritta da messer Agnolo Acciaiuoli a Cosimo,
la quale gli mostrava la disposizione della città verso di
lui, e lo confortava a fare che si movesse qualche guerra, e a farsi
amico Neri di Gino; perché giudicava, come la città
avesse bisogno di danari, non si troverebbe chi la servisse, e
verrebbe la memoria sua a rinfrescarsi ne' cittadini e il desiderio
di farlo ritornare, e se Neri si smembrasse da messer Rinaldo, quella
parte indebolirebbe tanto che la non sarebbe sufficiente a
defendersi.
Questa lettera, venuta nelle mani de' magistrati, fu
cagione che messer Agnolo fusse preso, collato e mandato in esilio.
Né per tale esemplo si frenò in alcuna parte l'umore
che favoriva Cosimo.
Era di già girato quasi che l'anno dal dì
che Cosimo era stato cacciato, e venendo il fine di agosto 1434, fu
tratto gonfalonieri per i duoi mesi futuri Niccolò di Cocco, e
con quello otto Signori tutti partigiani di Cosimo; di modo che tale
Signoria spaventò messer Rinaldo e tutta la sua parte.
E
perché avanti che i Signori prendino il magistrato eglino
stanno tre giorni privati, messer Rinaldo fu di nuovo con i capi
della parte sua; e mostrò loro il certo e propinquo periculo e
che il rimedio era pigliare le armi e fare che Donato Velluti, il
quale allora sedeva gonfalonieri, ragunasse il popolo in Piazza,
facesse nuova balia, privasse i nuovi Signori del magistrato, e se ne
creasse de' nuovi, a proposito dello stato, e si ardessero le borse e
con nuovi squittini, si riempiessero di amici.
Questo partito da
molti era giudicato sicuro e necessario, da molti altri troppo
violento e da tirarsi dreto troppo carico.
E intra quelli a chi e'
dispiacque fu messer Palla Strozzi, il quale era uomo quieto, gentile
e umano, e più tosto atto agli studi delle lettere che a
frenare una parte e opporsi alle civili discordie.
E però
disse che i partiti o astuti o audaci paiono nel principio buoni, ma
riescono poi nel trattargli difficili, e nel finirgli dannosi; e che
credeva che il timore delle nuove guerre di fuori, sendo le genti del
Duca in Romagna sopra i confini nostri, farebbe che i Signori
penserebbero più a quelle che alle discordie di dentro; pure,
quando si vedesse che volessero alterare (il che non potevono fare
che non si intendesse) sempre si sarebbe a tempo a pigliare le armi
ed esequire quanto paresse necessario per la salute comune; il che
faccendosi per necessità, seguirebbe con meno ammirazione del
popolo e meno carico loro.
Fu per tanto concluso che si lasciassero
entrare i nuovi Signori e che si vigilassero i loro andamenti, e
quando si sentisse cosa alcuna contro alla Parte, ciascuno pigliasse
l'armi e convenisse alla piazza di San Pulinari luogo propinquo al
Palagio, donde potrebbero poi condursi dove paresse loro necessario.
31
Partiti
con questa conclusione, i Signori nuovi entrarono in magistrato; e il
Gonfaloniere, per darsi reputazione e per sbigottire quelli che
disegnassero opporsegli, condannò Donato Velluti suo
antecessore, alle carcere, come uomo che si fusse valuto de' danari
publici.
Dopo questo, tentò i compagni per fare ritornare
Cosimo; e trovatigli disposti, ne parlava con quelli che della parte
de' Medici giudicava capi: da' quali sendo riscaldato, citò
messer Rinaldo, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadoro, come
principali della parte avversa.
Dopo la quale citazione, pensò
messer Rinaldo che non fusse da ritardare più, e uscì
fuora di casa con gran numero di armati: con il quale si congiunse
subito Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadoro.
Fra costoro erano
di molti altri cittadini, e assai soldati che in Firenze sanza soldo
si trovavano, e tutti si fermorono secondo la convenzione fatta, alla
piazza di San Pulinari.
Messer Palla Strozzi ancora che gli avesse
ragunate assai genti, non uscì fuora, il simile fece messer
Giovanni Guicciardini: donde che messer Rinaldo mandò a
sollecitargli, e a riprendergli della loro tardità.
Messer
Giovanni rispose che faceva assai guerra alla parte nimica, se
teneva, con lo starsi in casa, che Piero suo fratello non uscisse
fuora a soccorrere il Palagio; messer Palla, dopo molte ambasciate
fattegli, venne a San Pulinari a cavallo, con duoi a piè, e
disarmato.
Al quale messer Rinaldo si fece incontra, e forte lo
riprese della sua negligenzia; e che il non convenire con gli altri
nasceva o da poca fede o da poco animo; e l'uno e l'altro di questi
carichi doveva fuggire uno uomo che volesse essere tenuto di quella
sorte era tenuto egli.
E se credeva, per non fare suo debito contro
alla Parte, che gli nimici suoi, vincendo, gli perdonassero o la vita
o lo esilio, se ne ingannava.
E quanto si aspettava a lui, venendo
alcuna cosa sinistra, ci arebbe questo contento, di non essere
mancato innanzi al pericolo con il consiglio, e in sul pericolo con
la forza; ma a lui e agli altri si raddoppierieno i dispiaceri,
pensando di avere tradita la patria loro tre volte: l'una quando
salvorono Cosimo; l'altra quando non presono i suoi consigli; la
terza allora, di non la soccorrere con le armi.
Alle quali parole
messer Palla non rispose cosa che da' circustanti fusse intesa; ma,
mormorando, volse il cavallo, e tornossene a casa.
I Signori,
sentendo messer Rinaldo e la sua parte avere prese le armi, e
vedendosi abbandonati, fatto serrare il Palagio, privi di consiglio,
non sapevano che farsi.
Ma soprastando messer Rinaldo a venire in
Piazza, per aspettare quelle forze che non vennono, tolse a sé
l'occasione del vincere, e dette animo a loro a provedersi, e a molti
cittadini di andare a quelli e confortargli a volere usare termini
che si posassero le armi.
Andorono adunque alcuni meno sospetti, da
parte de' Signori, a messer Rinaldo; e dissono che la Signoria non
sapeva la cagione perché questi moti si facessero, e che non
aveva mai pensato di offenderlo; e se si era ragionato di Cosimo, non
si era pensato a rimetterlo; e se questa era la cagione del sospetto,
che gli assicurerebbero; e che fussino contenti venire in Palagio; e
che sarebbono bene veduti e compiaciuti d'ogni loro domanda.
Queste
parole non feciono mutare di proposito messer Rinaldo; ma diceva
volere assicurarsi con il fargli privati, e di poi a benificio di
ciascuno si riordinasse la città.
Ma sempre occorre che dove
le autorità sono pari e i pareri sieno diversi, vi si risolve
rade volte alcuna cosa in bene.
Ridolfo Peruzzi, mosso dalle parole
di quelli cittadini, disse che per lui non si cercava altro se non
che Cosimo non tornasse, e avendo questo d'accordo, gli pareva assai
vittoria; né voleva, per averla maggiore, riempiere la sua
città di sangue; e però voleva ubbidire alla Signoria.
E con le sue genti ne andò in Palagio, dove fu lietamente
ricevuto.
Il fermarsi adunque messer Rinaldo a San Pulinari, il poco
animo di messer Palla e la partita di Ridolfo avevano tolto a messer
Rinaldo la vittoria della impresa; ed erano cominciati gli animi de'
cittadini che lo seguivano a mancare di quella prima caldezza.
A che
si aggiunse l'autorità del Papa.
32
Trovavasi
papa Eugenio in Firenze, stato cacciato da Roma da il popolo.
Il
quale, sentendo questi tumulti, e parendogli suo uficio il
quietargli, mandò messer Giovanni Vitelleschi patriarca,
amicissimo di messer Rinaldo, a pregarlo che venisse a lui; perché
non gli mancherebbe, con la Signoria, né autorità né
fede a farlo contento e securo, sanza sangue e danno de' cittadini.
Persuaso per tanto messer Rinaldo dallo amico, con tutti quegli che
armati lo seguivano, ne andò a Santa Maria Novella, dove il
Papa dimorava.
Al quale Eugenio fece intendere la fede che i Signori
gli avevano data, e rimesso in lui ogni differenza; e che si
ordinerebbono le cose, quando e' posasse l'armi, come a quello
paresse.
Messer Rinaldo, avendo veduto la freddezza di messer Palla e
la leggerezza di Ridolfo Peruzzi, scarso di migliore partito, si
rimisse nelle braccia sua, pensando pure che la autorità del
Papa lo avesse a perservare.
Onde che il Papa fece significare a
Niccolò Barbadoro e agli altri che fuori lo aspettavano, che
andassero a posare l'armi, perché messer Rinaldo rimaneva con
il Pontefice per trattare lo accordo con i Signori.
Alla quale voce
ciascuno si risolvé e si disarmò.
33
I
Signori, vedendo disarmati gli avversarii loro, attesono a praticare
lo accordo per mezzo del Papa: e dall'altra parte mandorono
secretamente nella montagna di Pistoia per fanterie; e quelle, con
tutte le loro genti d'arme, feciono venire, di notte, in Firenze; e
presi i luoghi forti della città, chiamorono il popolo in
Piazza, e creorono nuova balia.
La quale, come prima si ragunò,
restituì Cosimo alla patria e gli altri che erano con quello
stati confinati; e della parte nimica confinò messer Rinaldo
degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi, Niccolò Barbadori e messer
Palla Strozzi, con molti altri cittadini; e in tanta quantità
che poche terre in Italia rimasero, dove non ne fusse mandati in
esilio, e molte fuora di Italia ne furono ripiene, tale che Firenze,
per simile accidente, non solamente si privò di uomini da
bene, ma di ricchezze e di industria.
Il Papa, vedendo tanta rovina
sopra di coloro i quali per i suoi prieghi avieno posate l'armi, ne
restò malissimo contento; e con messer Rinaldo si dolfe della
ingiuria fattagli sotto la sua fede; e lo confortò a
pazienzia, e a sperare bene per la varietà della fortuna.
Al
quale messer Rinaldo rispose: - La poca fede che coloro che mi
dovevono credere mi hanno prestata, e la troppa che io ho prestata a
Voi, ha me e la mia parte rovinata, ma io più di me stesso che
di alcuno mi dolgo, poi che io credetti che Voi, che eri stato
cacciato della patria vostra, potessi tenere me nella mia.
De'
giuochi della fortuna io ne ho assai buona esperienza; e come io ho
poco confidato nelle prosperità, così le avversità
meno mi offendono; e so che, quando le piacerà, la mi si potrà
mostrare più lieta; ma quando mai non le piaccia, io stimerò
sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che
gli uomini; perché quella patria è desiderabile nella
quale le sustanze e gli amici si possono securamente godere, non
quella dove ti possino essere quelle tolte facilmente, e gli amici,
per paura di loro propri, nelle tue maggiori necessità ti
abbandonono.
E sempre agli uomini savi e buoni fu meno grave udire i
mali della patria loro, che vederli; e cosa più gloriosa
reputano essere uno onorevole ribello, che uno stiavo cittadino -.
E
partito dal Papa pieno di sdegno, seco medesimo spesso i suoi
consigli e la freddezza degli amici reprendendo, se ne andò in
esilio.
Cosimo, dall'altra parte, avendo notizia della sua
restituzione, tornò in Firenze.
E rade volte occorse che uno
cittadino, tornando trionfante d'una vittoria, fusse ricevuto dalla
sua patria con tanto concorso di popolo e con tanta dimostrazione di
benivolenzia, con quanta fu ricevuto egli tornando dallo esilio.
E da
ciascuno voluntariamente fu salutato benefattore del popolo e padre
della patria.
LIBRO QUINTO
1
Sogliono
le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno,
dall'ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine
all'ordine trapassare; perché, non essendo dalla natura
conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro
ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che
scendino; e similmente, scese che le sono, e per li disordini ad
ultima bassezza pervenute, di necessità, non potendo più
scendere, conviene che salghino, e così sempre da il bene si
scende al male, e da il male si sale al bene.
Perché la virtù
partorisce quiete la quiete ozio, l'ozio disordine, il disordine
rovina, e similmente dalla rovina nasce l'ordine, dall'ordine virtù,
da questa gloria e buona fortuna.
Onde si è da i prudenti
osservato come le lettere vengono drieto alle armi, e che nelle
provincie e nelle città prima i capitani che i filosofi
nascono.
Perché avendo le buone e ordinate armi partorito
vittorie, e le vittorie quiete, non si può la fortezza degli
armati animi con il più onesto ozio che con quello delle
lettere corrompere; né può l'ozio con il maggiore e più
pericoloso inganno che con questo nelle città bene institute
entrare.
Il che fu da Catone, quando in Roma Diogene e Carneade
filosofi, mandati da Atene oratori al Senato, vennono, ottimamente
cognosciuto; il quale, veggendo come la gioventù romana
cominciava con ammirazione a seguitarli, e cognoscendo il male che da
quello onesto ozio alla sua patria ne poteva risultare, provide che
niuno filosofo potesse essere in Roma ricevuto.
Vengono per tanto le
provincie per questi mezzi alla rovina; dove pervenute, e gli uomini
per le battiture diventati savi, ritornono, come è detto,
all'ordine, se già da una forza estraordinaria non rimangono
suffocati.
Queste cagioni feciono, prima mediante gli antichi
Toscani, di poi i Romani, ora felice ora misera la Italia.
E avvenga
che di poi sopra le romane rovine non si sia edificato cosa che
l'abbia in modo da quelle ricomperata, che sotto uno virtuoso
principato abbia potuto gloriosamente operare, non di meno surse
tanta virtù in alcuna delle nuove città e de nuovi
imperii i quali tra le romane rovine nacquono, che, sebbene uno non
dominasse agli altri, erano non di meno in modo insieme concordi e
ordinati che da' barbari la liberorono e difesero.
Intra i quali
imperii i Fiorentini, se gli erano di minore dominio, non erano di
autorità né di potenza minori; anzi, per essere posti
in mezzo alla Italia, ricchi e presti alle offese, o eglino
felicemente una guerra loro mossa sostenevono, o ei davono la
vittoria a quello con il quale e' s'accostavano.
Dalla virtù
adunque di questi nuovi principati, se non nacquono tempi che fussero
per lunga pace quieti, non furono anche per la asprezza della guerra
pericolosi; perché pace non si può affermare che sia
dove spesso i principati con le armi l'uno l'altro si assaltano;
guerre ancora non si possono chiamare quelle nelle quali gli uomini
non si ammazzano, le città non si saccheggiano, i principati
non si destruggono: perché quelle guerre in tanta debolezza
vennono, che le si cominciavano sanza paura, trattavansi sanza
pericolo, e finivonsi sanza danno.
Tanto che quella virtù che
per una lunga pace si soleva nelle altre provincie spegnere fu dalla
viltà di quelle in Italia spenta, come chiaramente si potrà
cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al '94
descritto dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la
via a' barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli.
E
se le cose fatte dai principi nostri fuori e in casa, non fieno, come
quelle degli antichi, con ammirazione per la loro virtù e
grandezza lette, fieno forse per le altre loro qualità, con
non minore ammirazione considerate, vedendo come tanti nobilissimi
popoli da sì deboli e male amministrate armi fussino tenuti in
freno.
E se, nel descrivere le cose seguite in questo guasto mondo,
non si narrerà o fortezza di soldati, o virtù di
capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con
quali inganni, con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i
capi delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non
avevono meritata, si governavano.
Il che sarà forse non meno
utile che si sieno le antiche cose a cognoscere, perché, se
quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e
spegnerle gli accenderanno.
2
Era
la Italia da quelli che la comandavano in tale termine condotta, che,
quando per la concordia de' principi nasceva una pace, poco di poi da
quelli che tenevano le armi in mano era perturbata: e così per
la guerra non acquistavano gloria né per la pace quiete.
Fatta
per tanto la pace intra il duca di Milano e la lega, l'anno 1433, i
soldati, volendo stare in su la guerra si volsono contro alla Chiesa.
Erano allora due sette di armi in Italia, Braccesca e Sforzesca: di
questa era capo il conte Francesco figliuolo di Sforza, dell'altra
era principe Niccolò Piccino e Niccolò Fortebraccio: a
queste sette quasi tutte le altre armi italiane si accostavano.
Di
queste la Sforzesca era in maggiore pregio, sì per la virtù
del Conte, sì per la promessa gli aveva il duca di Milano
fatta di madonna Bianca sua naturale figliuola; la speranza del quale
parentado reputazione grandissima gli arrecava.
Assaltorono adunque
queste sette di armati, dopo la pace di Lombardia per diverse
cagioni, papa Eugenio: Niccolò Fortebraccio era mosso
dall'antica nimicizia che Braccio avea sempre tenuta con la Chiesa;
il Conte per ambizione si moveva; tanto che Niccolò assalì
Roma e il Conte si insignorì della Marca.
Donde i Romani, per
non volere la guerra, cacciorono Eugenio di Roma.
Il quale, con
pericolo e difficultà fuggendo, se ne venne a Firenze, dove
considerato il pericolo nel quale era, e vedendosi da' principi
abbandonato, i quali per cagione sua non volevono ripigliare quelle
armi ch'eglino avieno con massimo desiderio posate, si accordò
con il Conte, e gli concesse la signoria della Marca, ancor che il
Conte alla ingiuria dello averla occupata vi avesse aggiunto il
dispregio, perché, nel segnare in luogo dove scriveva a' suoi
agenti le lettere, con parole latine, secondo il costume italiano,
diceva: Ex Girfalco nostro Firmiamo, invito Petro et Paulo.
Né
fu contento alla concessione delle terre ché volle essere
creato gonfaloniere della Chiesa, e tutto gli fu acconsentito: tanto
più temé Eugenio una pericolosa guerra che una
vituperosa pace.
Diventato per tanto il Conte amico del Papa
perseguitò Niccolò Fortebraccio, e intra loro
seguirono, nelle terre della Chiesa per molti mesi, varii accidenti,
i quali tutti più a danno del Papa e de' suoi sudditi, che di
chi maneggiava la guerra seguivono; tanto che fra loro, mediante il
duca di Milano, si concluse, per via di triegua, uno accordo, dove
l'uno e l'altro di essi nelle terre della Chiesa principi rimasono.
3
Questa
guerra, spenta a Roma, fu da Batista da Canneto in Romagna raccesa.
Ammazzò costui in Bologna, alcuni della famiglia de' Grifoni,
e il governatore per il Papa con altri suoi nimici cacciò
della città; e per tenere con violenza quello stato, ricorse
per aiuti a Filippo; e il Papa, per vendicarsi della ingiuria, gli
domandò a' Viniziani e a' Fiorentini.
Furono l'uno e l'altro
di costoro suvvenuti, tanto che subito si trovorono in Romagna duoi
grossi eserciti.
Di Filippo era capitano Niccolò Piccino; le
genti viniziane e fiorentine da Gattamelata e da Niccolò da
Tolentino erano governate; e propinque a Imola vennono a giornata;
nella quale i Viniziani e Fiorentini furono rotti, e Niccolò
da Tolentino mandato prigione al Duca; il quale, o per fraude di
quello, o per dolore del ricevuto danno, in pochi giorni morì.
Il Duca, dopo questa vittoria, o per essere debole per le passate
guerre, o per credere che la lega, avuta questa rotta, posasse, non
seguì altrimenti la fortuna, e dette tempo al Papa e i
collegati di nuovo ad unirsi.
I quali elessono per loro capitano il
conte Francesco, e feciono impresa di cacciare Niccolò
Fortebraccio delle terre della Chiesa, per vedere se potevono
ultimare quella guerra che in favore del Pontefice avevono
cominciata.
I Romani, come e' viddono il Papa gagliardo in su e
campi, cercorono di aver seco accordo; e trovoronlo, e riceverono un
suo commissario.
Possedeva Niccolò Fortebraccio, intra le
altre terre, Tiboli, Montefiasconi, Città di Castello e
Ascesi.
In questa terra, non potendo Niccolò stare in
campagna, s'era rifuggito, dove il Conte lo assediò, e andando
la obsidione in lunga, perché Niccolò virilmente si
difendeva, parve al Duca necessario o impedire alla lega quella
vittoria, o ordinarsi, dopo quella, a difendere le cose sua.
Volendo
per tanto divertire il Conte dallo assedio, comandò a Niccolò
Piccino che per la via di Romagna passasse in Toscana; in modo che la
lega, giudicando essere più necessario difendere la Toscana
che occupare Ascesi, ordinò al Conte proibissi a Niccolò
il passo; il quale era di già, con lo esercito suo, a Furlì.
Il Conte dall'altra parte mosse con le sue genti e ne venne a Cesena,
avendo lasciato a Lione suo fratello la guerra della Marca e la cura
degli stati suoi.
E mentre che Piccinino cercava di passare, e il
Conte di impedirlo, Niccolò Fortebraccio assaltò Lione,
e con grande sua gloria prese quello, e le sue genti saccheggiò;
e seguitando la vittoria, occupò, con il medesimo impeto,
molte terre della Marca.
Questo fatto contristò assai il
Conte, pensando essere perduti tutti gli stati suoi, e lasciato parte
dello esercito allo incontro di Piccinino, con il restante ne andò
alla volta del Fortebraccio, e quello combatté e vinse; nella
qual rotta Fortebraccio rimase prigione e ferito; della quale ferita
morì.
Questa vittoria restituì al Pontefice tutte le
terre che da Niccolò Fortebraccio gli erano state tolte, e
ridusse il duca di Milano a domandare pace, la quale per il mezzo di
Niccolò da Esti marchese di Ferrara si concluse.
Nella quale
le terre occupate in Romagna dal Duca si restituirono alla Chiesa, e
le genti del Duca si ritornorono in Lombardia, e Battista da Canneto,
come interviene a tutti quelli che per forze e virtù d'altri
si mantengono in uno stato, partite che furono le genti del Duca di
Romagna, non potendo le forze e virtù sue tenerlo in Bologna,
se ne fuggì; dove messer Antonio Bentivoglio, capo della parte
avversa, ritornò.
4
Tutte
queste cose nel tempo dello esilio di Cosimo seguirono.
Dopo la cui
tornata quelli che lo avevono rimesso e tanti cittadini ingiuriati
pensorono, senza alcuno rispetto, di assicurarsi dello stato loro.
E
la Signoria la quale nel magistrato il novembre e decembre
succedette, non contenta a quello che da' suoi antecessori in favore
della parte era stato fatto, prolungò e permutò i
confini a molti, e di nuovo molti altri ne confinò; e ai
cittadini non tanto l'umore delle parti noceva, ma le ricchezze, i
parenti, le nimicizie private.
E se questa proscrizione da il sangue
fusse stata accompagnata, arebbe a quella d'Ottaviano e Silla renduto
similitudine; ancora che in qualche parte nel sangue s'intignesse,
perché Antonio di Bernardo Guadagni fu decapitato, e quattro
altri cittadini, intra i quali fu Zanobi Belfrategli e Cosimo
Barbadori, avendo passati i confini, e trovandosi a Vinegia, i
Viniziani, stimando più l'amicizia di Cosimo che l'onore loro,
gli mandorono prigioni, dove furono vilmente morti.
La qual cosa
dette grande reputazione alla parte e grandissimo terrore a' nimici,
considerato che sì potente republica vendesse la libertà
sua a' Fiorentini, il che si credette avesse fatto, non tanto per
benificare Cosimo, quanto per accendere più le parti in
Firenze, e fare, mediante il sangue, la divisione della città
nostra più pericolosa; perché i Viniziani non vedevano
altra opposizione alla loro grandezza, che la unione di quella.
Spogliata adunque la città de' nimici o sospetti allo stato,
si volsono a benificare nuove genti, per fare più gagliarda la
parte loro: e la famiglia degli Alberti, e qualunque altro si trovava
ribelle, alla patria restituirono; tutti i Grandi, eccetto
pochissimi, nello ordine populare ridussono; le possessioni de'
rebelli intra loro per piccolo prezzo divisono.
Apresso a questo, con
leggi e nuovi ordini si affortificorono, e feciono nuovi squittini,
traendo delle borse i nimici e riempiendole di amici loro.
E ammuniti
dalla rovina degli avversarii, giudicando che non bastassino gli
squittini scelti a tenere fermo lo stato loro, pensorono che i
magistrati i quali del sangue hanno autorità fussino sempre
de' principi della setta loro; e però vollono che gli
accoppiatori preposti alla imborsazione de' nuovi squittini, insieme
con la Signoria vecchia, avessero autorità di creare la nuova;
dettono agli Otto di guardia autorità sopra il sangue;
providdono che i confinati, fornito il tempo, non potessero tornare,
se prima dei Signori e Collegi, che sono in numero trentasette, non
se ne accordava trentaquattro alla loro restituzione; lo scrivere
loro e da quelli ricevere lettere proibirono; e ogni parola, ogni
cenno, ogni usanza che a quelli che governavano fusse in alcuna parte
dispiaciuta era gravissimamente punita.
E se in Firenze rimase alcuno
sospetto, il quale da queste offese non fusse stato aggiunto, fu
dalle gravezze che di nuovo ordinorono afflitto; e in poco tempo,
avendo cacciata e impoverita tutta la parte nimica, dello stato loro
si assicurorono.
E per non mancare di aiuti di fuori, e per torgli a
quelli che disegnassero offenderli, con il Papa, Viniziani e duca di
Milano a difensione degli stati si collegorono.
5
Stando
adunque in questa forma le cose di Firenze, morì Giovanna
reina di Napoli, e per suo testamento lasciò Rinieri d'Angiò
erede del Regno.
Trovavasi allora Alfonso re di Ragona in Sicilia, il
quale, per l'amicizia aveva con molti baroni, si preparava ad
occupare quel regno.
I Napoletani e molti baroni favorivano Rinieri,
il Papa dall'altra parte non voleva né che Rinieri né
che Alfonso lo occupasse, ma desiderava che per uno suo governatore
si amministrasse.
Venne per tanto Alfonso nel Regno, e fu da il duca
di Sessa ricevuto; dove condusse al suo soldo alcuni principi, con
animo (avendo Capua, la quale il principe di Taranto in nome di
Alfonso possedeva) di costrignere i Napoletani a fare la sua volontà,
e mandò l'armata sua ad assalire Gaeta, la quale per li
Napoletani si teneva; per la qual cosa i Napoletani domandorono aiuto
a Filippo.
Persuase costui i Genovesi a prendere quella impresa; i
quali, non solo per sodisfare al Duca, loro principe, ma per salvare
le loro mercanzie che in Napoli e in Gaeta avevono, armorono una
potente armata.
Alfonso dall'altra parte, sentendo questo, ringrossò
la sua, e in persona andò allo incontro de' Genovesi; e sopra
l'isola di Ponzio venuti alla zuffa, l'armata aragonese fu rotta, e
Alfonso, insieme con molti principi, preso e dato da' Genovesi nelle
mani di Filippo.
Questa vittoria sbigottì tutti i principi che
in Italia temevono la potenza di Filippo, perché giudicavano
avesse grandissima occasione di insignorirsi del tutto.
Ma egli
(tanto sono diverse le opinioni degli uomini) prese partito al tutto
a questa opinione contrario.
Era Alfonso uomo prudente, e, come prima
poté parlare a Filippo, gli dimostrò quanto ei
s'ingannava a favorire Rinieri e disfavorire lui, perché
Rinieri, diventato re di Napoli, aveva a fare ogni sforzo perché
Milano diventassi del re di Francia, per avere gli aiuti propinqui e
non avere a cercare ne' suoi bisogni, che gli fusse aperta la via a
suoi soccorsi; né poteva altrimenti di questo assicurarsi, se
non con la sua rovina, facendo diventare quello stato franzese.
E che
al contrario interverrebbe quando esso ne diventassi principe;
perché, non temendo altro nimico che i Franzesi, era
necessitato amare e carezzare e, non che altro, ubbidire a colui che
a suoi nimici poteva aprire la via; e per questo il titolo del Regno
verrebbe ad essere appresso ad Alfonso, ma l'autorità e la
potenza appresso di Filippo.
Sì che molto più a lui che
a sé apparteneva considerare i pericoli dell'uno partito e
l'utilità dell'altro, se già e' non volesse più
tosto sodisfare ad uno suo appetito, che assicurarsi dello stato;
perché nell'uno caso e' sarebbe principe e libero, nell'altro,
sendo in mezzo di duoi potentissimi principi, o ei perderebbe lo
stato, o e' viverebbe sempre in sospetto, e come servo arebbe ad
ubbidire a quelli.
Poterono tanto queste parole nell'animo del Duca,
che, mutato proposito, liberò Alfonso, e onorevolmente lo
rimandò a Genova, e di quindi nel Regno.
Il quale si transferì
in Gaeta, la quale, subito che s'intese la sua liberazione, era stata
occupata da alcuni signori suoi partigiani.
6
I
Genovesi, veggendo come il Duca, sanza avere loro rispetto, aveva
liberato il Re, e che quello de' pericoli e delle spese loro si era
onorato, e come a lui rimaneva il grado della liberazione e a loro la
ingiuria della cattura e della rotta, tutti si sdegnorono contro a
quello.
Nella città di Genova, quando la vive nella sua
libertà, si crea per liberi suffragi uno capo, il quale
chiamano Doge non perché sia assoluto principe, né
perché egli solo deliberi, ma come capo preponga quello che
dai magistrati e consigli loro si debba deliberare.
Ha quella città
molte nobili famiglie, le quali sono tanto potenti che difficilmente
allo imperio de' magistrati ubbidiscono.
Di tutte l'altre, la Fregosa
e la Adorna sono potentissime: da queste nascono le divisioni di
quella città, e che gli ordini civili si guastono; perché,
combattendo intra loro, non civilmente, ma il più delle volte
con le armi, questo principato, ne segue che sempre è una
parte afflitta e l'altra regge; e alcuna volta occorre che quelli che
si truovano privi delle loro dignità, alle armi forestiere
ricorrono, e quella patria che loro governare non possono allo
imperio d'uno forestiero sottomettono.
Di qui nasceva e nasce che
quelli che in Lombardia regnono, il più delle volte a Genova
comandono, come allora, quando Alfonso d'Aragona fu preso,
interveniva.
E tra i primi Genovesi che erano stati cagione di
sottometterla a Filippo era stato Francesco Spinula; il quale, non
molto poi che gli ebbe fatta la sua patria serva, come in simili casi
sempre interviene, diventò sospetto al Duca.
Onde che egli,
sdegnato, si aveva eletto quasi che uno esilio voluntario a Gaeta;
dove trovandosi quando e' seguì la zuffa navale con Alfonso,
ed essendosi portato ne' servizi di quella impresa virtuosamente, gli
parve avere di nuovo meritato tanto con il Duca, che potessi almeno,
in premio de' suoi meriti, stare securamente a Genova.
Ma veduto che
il Duca seguitava ne' sospetti suoi, perché egli non poteva
credere che quello che non aveva amato la libertà della sua
patria amasse lui, deliberò di tentare di nuovo la fortuna, e
ad uno tratto rendere la libertà alla patria, e a sé la
fama e la securtà, giudicando non avere con i suoi cittadini
altro rimedio se non fare opera che donde era nata la ferita nascessi
la medicina e la salute.
E vedendo la indegnazione universale nata
contro al Duca per la liberazione del Re, giudicò che il tempo
fusse commodo a mandare ad effetto i disegni suoi; e comunicò
questo suo consiglio con alquanti i quali sapeva erano della medesima
opinione, e gli confortò e dispose a seguirlo.
7
Era
venuto il celebre giorno di Santo Giovanni Batista, nel quale
Arismino, nuovo governatore mandato da il Duca, entrava in Genova; ed
essendo già entrato dentro, accompagnato da Opicino vecchio
governatore e da molti Genovesi, non parve a Francesco Spinola di
differire, e uscì di casa armato insieme con quelli che della
sua deliberazione erano consapevoli; e come e' fu sopra alla piazza
posta davanti alle sue case, gridò il nome della libertà.
Fu cosa mirabile a vedere con quanta prestezza quel popolo e quelli
cittadini a questo nome concorressino; tale che niuno il quale, o per
sua utilità o per qualunque altra cagione, amasse il Duca, non
solamente non ebbe spazio a pigliare le armi, ma appena si potette
consigliare della fuga.
Arismino, con alcuni Genovesi che erano seco,
nella rocca, che per il Duca si guardava, si rifuggì; Opicino,
presumendo potere, se si rifuggiva in Palagio, dove dumila armati a
sua ubbidienza aveva, o salvarsi o dare animo agli amici a
defendersi, voltosi a quello cammino, prima che in piazza arrivasse
fu morto, e, in molte parti diviso, fu per tutta Genova strascinato.
E ridutta i Genovesi la città sotto i liberi magistrati, in
pochi giorni il castello e gli altri luoghi forti posseduti da il
Duca occuporono, e al tutto da il giogo del duca Filippo si
liberorono.
8
Queste
cose così governate, dove nel principio avieno sbigottiti i
principi di Italia, temendo che il Duca non diventasse troppo
potente, dettono loro vedendo il fine che ebbono, speranza di potere
tenerlo in freno, e non ostante la lega di nuovo fatta, i Fiorentini
e i Viniziani con i Genovesi si accordorono.
Onde che messer Rinaldo
degli Albizzi e gli altri capi de' fuori usciti fiorentini vedendo le
cose perturbate, e il mondo avere mutato viso, presono speranza di
potere indurre il Duca ad una manifesta guerra contro a Firenze; e
andatine a Milano, messer Rinaldo parlò al Duca in questa
sentenza: - Se noi, già tuoi nimici, vegniamo ora
confidentemente a supplicare gli aiuti tuoi per ritornare nella
patria nostra, né tu né alcuno altro che considera le
umane cose come le procedono, e quanto la fortuna sia varia, se ne
debbe maravigliare; non ostante che delle passate e delle presenti
azioni nostre, e teco, per quello che già facemmo, e con la
patria, per quello che ora facciamo, possiamo avere manifeste e
ragionevoli scuse.
Niuno uomo buono riprenderà mai alcuno che
cerchi di difendere la patria sua, in qualunque modo se la difenda.
Né fu mai il fine nostro di iniuriarti, ma sì bene di
guardare la patria nostra dalle ingiurie: di che te ne può
essere testimone che, nel corso delle maggiori vittorie della lega
nostra, quando noi ti cognoscemmo volto ad una vera pace, fummo più
desiderosi di quella che tu medesimo: tanto che noi non dubitiamo di
avere mai fatto cosa da dubitare di non potere da te qualunque grazia
ottenere.
Né anche la patria nostra si può dolere che
noi ti confortiamo ora a pigliare quelle armi contro a di lei, dalle
quali con tanta ostinazione la difendemmo; perché quella
patria merita di essere da tutti i cittadini amata la quale
ugualmente tutti i suoi cittadini ama, non quella che, posposti tutti
gli altri, pochissimi ne adora.
Né sia alcuno che danni le
armi in qualunque modo contro alla patria mosse, perché le
città ancora che sieno corpi misti, hanno con i corpi semplici
somiglianza, e come in questi nascono molte volte infirmità
che sanza il fuoco o il ferro non si possono sanare, così in
quelle molte volte surge tanti inconvenienti che uno pio e buono
cittadino, ancora che il ferro vi fusse necessario, peccherebbe molto
più a lasciarle incurate che a curarle.
Quale adunque puote
essere malattia maggiore ad uno corpo d'una republica che la servitù?
quale medicina è più da usare necessaria che quella che
da questa infirmità la sullevi? Sono solamente quelle guerre
giuste che sono necessarie, e quelle armi sono pietose dove non è
alcuna speranza fuora di quelle.
Io non so quale necessità sia
maggiore che la nostra, o quale pietà possa superare quella
che tragga la patria sua di servitù: è certissimo per
tanto la causa nostra essere piatosa e giusta; il che debbe essere e
da noi e da te considerato.
Né per la parte tua questa
giustizia manca; perché i Fiorentini non si sono vergognati,
dopo una pace con tanta solennità celebrata, essersi con i
Genovesi tuoi ribelli conlegati: tanto che, se la causa nostra non ti
muove, ti muova lo sdegno.
E tanto più veggendo la impresa
facile: perché non ti debbono sbigottire i passati esempli,
dove tu hai veduto la potenza di quel popolo e la ostinazione alla
difesa; le quali due cose ti doverrebbono ragionevolmente ancora fare
temere, quando le fussino di quella medesima virtù che allora:
ma ora tutto il contrario troverrai: perché quale potenza vuoi
tu che sia in una città che abbia da sé nuovamente
scacciato la maggiore parte delle sue ricchezze e della sua
industria? quale ostinazione vuoi tu che sia in uno popolo per sì
varie e nuove nimicizie disunito? La quale disunione è cagione
che ancora quelle ricchezze che vi sono rimase non si possono, in
quel modo che allora si potevono, spendere; perché gli uomini
volentieri consumono il loro patrimonio, quando ei veggono per la
gloria, per l'onore e stato loro proprio consumarlo, sperando quello
bene racquistare nella pace, che la guerra loro toglie, non quando
ugualmente, nella guerra e nella pace, si veggono opprimere, avendo
nell'una a sopportare la ingiuria degli nimici, nell'altra la
insolenzia di coloro che gli comandano.
E ai popoli nuoce molto più
l'avarizia de' suoi cittadini che la rapacità degli nimici;
perché di questa si spera qualche volta vedere il fine,
dell'altra non mai.
Tu movevi adunque le armi, nelle passate guerre,
contro a tutta una città, ora contro ad una minima parte di
essa le muovi; venivi per torre lo stato a molti cittadini e buoni,
ora vieni per torlo a pochi e tristi; venivi per torre la libertà
ad una città, ora vieni per rendergliene.
E non è
ragionevole che, in tanta disparità di cagioni, ne seguino
pari effetti; anzi è da sperarne una certa vittoria.
La quale
di quanta fortezza sia allo stato tuo facilmente lo puoi giudicare,
avendo la Toscana amica e per tale e tanto obligo obligata, della
quale più nelle imprese tue ti varrai che di Milano, e dove
altra volta quello acquisto sarebbe stato giudicato ambizioso e
violento, al presente sarà giusto e pietoso existimato.
Non
lasciare per tanto passare questa occasione, e pensa che se le altre
tue imprese contro a quella città ti partorirono, con
difficultà, spesa e infamia, questa ti abbia, con facilità,
utile grandissimo e fama onestissima a parturire.
9
Non
erano necessarie molte parole a persuadere al Duca che movesse guerra
a' Fiorentini, perché era mosso da uno ereditario odio e una
cieca ambizione, la quale così gli comandava; e tanto più
sendo spinto dalle nuove ingiurie, per lo accordo fatto con i
Genovesi.
Non di meno le passate spese, i corsi pericoli, con la
memoria delle fresche perdite, e le vane speranze de' fuori usciti lo
sbigottivano.
Aveva questo Duca, subito che gl'intese la ribellione
di Genova, mandato Niccolò Piccino, con tutte le sue genti
d'arme e quelli fanti che potette del paese ragunare, verso quella
città, per fare forza di recuperarla prima che i cittadini
avessino fermo lo animo e ordinato il nuovo governo, confidandosi
assai nel castello, che dentro, in Genova, per lui si guardava.
E
benché Niccolò cacciassi i Genovesi d'in su e monti e
togliessi loro la valle di Pozeveri, dove si erano fatti forti, e
quegli avessi ripinti dentro alle mura della città, non di
meno trovò tanta difficultà nel passare più
avanti, per gli ostinati animi de' cittadini a difendersi, che fu
constretto da quella discostarsi.
Onde il Duca, alle persuasioni
degli usciti fiorentini, gli comandò che assalisse la Riviera
di levante, e facessi, propinquo a' confini di Pisa, quanta maggiore
guerra nel paese genovese poteva, pensando che quella impresa gli
avesse a mostrare di tempo in tempo i partiti che dovessi prendere.
Assaltò adunque Niccolò Serezana, e quella prese.
Di
poi, fatti di molti danni, per fare più insospettire i
Fiorentini, se ne venne a Lucca dando voce di volere passare, per ire
nel Regno, agli aiuti del re di Raona.
Papa Eugenio, in su questi
nuovi accidenti, partì di Firenze, e ne andò a Bologna;
dove trattava nuovi accordi infra il Duca e la lega, mostrando al
Duca che, quando e' non consentisse allo accordo, sarebbe di
concedere alla lega il conte Francesco necessitato, il quale allora
suo confederato, sotto gli stipendi suoi militava.
E benché il
Pontefice in questo si affaticasse assai, non di meno invano tutte le
sue fatiche riuscirono; perché il Duca sanza Genova non voleva
accordarsi, e la lega voleva che Genova restasse libera.
E per ciò
ciascheduno, diffidandosi della pace, si preparava alla guerra.
10
Venuto
per tanto Niccolò Piccino a Lucca, i Fiorentini di nuovi
movimenti dubitorono, e feciono cavalcare con le loro genti nel paese
di Pisa Neri di Gino, e da il Pontefice impetrorono che 'l conte
Francesco si accozzasse con seco, e con lo esercito loro feciono alto
a Santa Gonda.
Piccinino, che era a Lucca, domandava il passo per ire
nel Regno; ed essendogli dinegato, minacciava di prenderlo per forza.
Erano gli eserciti e di forze e di capitani uguali, e per ciò,
non volendo alcuno di loro tentare la fortuna sendo ancora ritenuti
dalla stagione fredda, perché di dicembre era, molti giorni
sanza offendersi dimororono.
Il primo che di loro si mosse fu Niccolò
Piccino, al quale fu mostro che, se di notte assalisse Vico Pisano,
facilmente lo occuperebbe.
Fece Niccolò la impresa; e non gli
riuscendo occupare Vico, saccheggiò il paese allo intorno, e
il borgo di San Giovanni alla Vena rubò e arse.
Questa
impresa, ancora che la riuscisse in buona parte vana, dette non di
meno animo a Niccolò di procedere più avanti, avendo
massimamente veduto che il Conte e Neri non si erano mossi; e per ciò
assalì Santa Maria in Castello e Filetto, e vinsegli.
Né
per questo ancora le genti fiorentine si mossono; non perché
il Conte temessi, ma perché in Firenze dai magistrati non si
era ancora deliberata la guerra, per la reverenzia che si aveva al
Papa, il quale trattava la pace.
E quello che per prudenza i
Fiorentini facevano credendo i nimici che per timore lo facessino,
dava loro più animo a nuove imprese; in modo che deliberorono
espugnare Barga, e con tutte le forze vi si presentorono.
Questo
nuovo assalto fece che i Fiorentini, posti da parte i rispetti, non
solamente di soccorrere Barga, ma di assalire il paese lucchese
deliberorono.
Andato per tanto il Conte a trovare Niccolò, e
appiccata sotto Barga la zuffa, lo vinse e quasi che rotto lo levò
da quello assedio.
I Viniziani, in questo mezzo, parendo loro che il
Duca avesse rotta la pace, mandorono Giovan Francesco da Gonzaga,
loro capitano, in Ghiaradadda; il quale, dannificando assai il paese
del Duca, lo constrinse a rivocare Niccolò Piccino di Toscana.
La quale rivocazione, insieme con la vittoria avuta contro a Niccolò,
dette animo a' Fiorentini di fare la impresa di Lucca e speranza di
acquistarla.
Nella quale non ebbono paura né rispetto alcuno,
veggendo il Duca, il quale solo temevono, combattuto da i Viniziani,
e che i Lucchesi, per avere ricevuto in casa i nimici loro e permesso
gli assalissino, non si potevono in alcuna parte dolere.
11
Di
aprile per tanto, nel 1437, il Conte mosse lo esercito, e prima che i
Fiorentini volessino assalire altri, vollono recuperare il loro; e
ripresono Santa Maria in Castello e ogni altro luogo occupato da
Piccinino.
Di poi, voltisi sopra il paese di Lucca, assalirono
Camaiore; gli uomini della quale, benché fedeli a' suoi
signori, potendo in loro più la paura del nimico apresso che
la fede dello amico discosto, si arrenderono.
Presonsi con la
medesima reputazione Massa e Serezana.
Le quali cose fatte, circa il
fine di maggio, il campo tornò verso Lucca, e le biade tutte e
i grani guastorono, arsono le ville, tagliorono le viti e gli arbori,
predorono il bestiame, né a cosa alcuna che fare contro a
nimici si suole o puote perdonorono.
I Lucchesi dall'altra parte,
veggendosi da il Duca abbandonati, disperati di potere difendere il
paese, lo avieno abbandonato; e con ripari e ogni altro opportuno
rimedio affortificorono la città, della quale non dubitavano
per averla piena di defensori e poterla un tempo difendere, nel quale
speravano, mossi dallo esemplo delle altre imprese che i Fiorentini
avevano contro a di loro fatte.
Solo temevono i mobili animi della
plebe, la quale, infastidita dallo assedio, non stimassi più i
pericoli propri che la libertà d'altri, e gli forzasse a
qualche vituperoso e dannoso accordo.
Onde che, per accenderla alla
difesa, la ragunorono in piazza, e uno de' più antichi e de'
più savi parlò in questa sentenza: - Voi dovete sempre
avere inteso che delle cose fatte per necessità non se ne
debbe né puote loda o biasimo meritare.
Per tanto, se voi ci
accusassi, credendo che questa guerra che ora vi fanno i Fiorentini
noi ce la avessimo guadagnata avendo ricevute in casa le genti del
Duca e permesso che le gli assalissero, voi di gran lunga vi
inganneresti.
E' vi è nota l'antica nimicizia del popolo
fiorentino verso di voi, la quale, non le vostre ingiurie, non la
paura loro ha causata, ma sì bene la debolezza vostra e la
ambizione loro; perché l'una dà loro speranza di
potervi opprimere, l'altra gli spigne a farlo.
Né crediate che
alcuno merito vostro gli possa da tale desiderio rimuovere, né
alcuna vostra offesa gli possa ad ingiuriarvi più accendere.
Eglino per tanto hanno a pensare di torvi la libertà, voi di
difenderla; e delle cose che quelli e noi a questo fine facciamo
ciascuno se ne può dolere e non maravigliare.
Doliamoci per
tanto che ci assaltino che ci espugnino le terre, che ci ardino le
case e guastino il paese; ma chi è di noi sì sciocco
che se ne maravigli? perché, se noi potessimo, noi faremmo
loro il simile o peggio.
E s'eglino hanno mossa questa guerra per la
venuta di Niccolò, quando bene e' non fusse venuto, l'arebbono
mossa per un'altra cagione; e se questo male si fusse differito, e'
sarebbe forse stato maggiore.
Sì che questa venuta non si
debba accusare, ma più tosto la cattiva sorte nostra e
l'ambiziosa natura loro; ancora che noi non possavamo negare al Duca
di non ricevere le sue genti e, venute che le erano, non possavamo
tenerle che le non facessino la guerra.
Voi sapete che sanza lo aiuto
di uno potente noi non ci possiamo salvare, né ci è
potenza che con più fede o con più forza ci possa
difendere che il Duca: egli ci ha renduta la libertà, egli è
ragionevole che ce la mantenga; egli a' perpetui nimici nostri è
stato sempre nimicissimo.
Se adunque, per non ingiuriare i
Fiorentini, noi avessimo fatto sdegnare il Duca, aremmo perduto lo
amico e fatto il nimico più potente e più pronto alla
nostra offesa.
Sì che gli è molto meglio avere questa
guerra con lo amore del Duca, che, con l'odio, la pace; e dobbiamo
sperare che ci abbi a trarre di quelli pericoli ne' quali ci ha
messo, pure che noi non ci abbandoniamo.
Voi sapete con quanta rabbia
i Fiorentini più volte ci abbino assaltati, e con quanta
gloria noi ci siamo difesi da loro: e molte volte non abbiamo avuto
altra speranza che in Dio e nel tempo; e l'uno e l'altro ci ha
conservati.
E se allora ci difendemmo, qual cagione è che ora
noi non ci dobbiamo defendere? Allora tutta Italia ci aveva loro
lasciati in preda; ora abbiamo il Duca per noi, e dobbiamo credere
che i Viniziani saranno lenti alle nostre offese, come quelli ai
quali dispiace che la potenza de' Fiorentini accresca.
L'altra volta
i Fiorentini erano più sciolti, e avieno più speranza
di aiuti, e per loro medesimi erano più potenti; e noi savamo
in ogni parte più deboli, perché allora noi defendavamo
uno tiranno ora difendiamo noi; allora la gloria della difesa era di
altri, ora è nostra; allora questi ci assaltavano uniti, ora
disuniti ci assaltano, avendo piena di loro rebegli tutta Italia.
Ma
quando queste speranze non ci fussino, ci debbe fare ostinati alle
difese una ultima necessità.
Ogni nimico debbe essere da voi
ragionevolmente temuto, perché tutti vorranno la gloria loro e
la rovina vostra; ma sopra tutti gli altri ci debbono i Fiorentini
spaventare, perché a loro non basterebbe la ubbidienza e i
tributi nostri con lo imperio di questa nostra città, ma
vorrebbono le persone e le sustanze nostre, per potere con il sangue
la loro crudeltà, e con la roba la loro avarizia saziare: in
modo che ciascheduno, di qualunque sorte, gli debbe temere.
E però
non vi muovino vedere guastati i vostri campi, arse le vostre ville,
occupate le vostre terre; perché, se noi salviamo questa
città, quelle di necessità si salveranno; se noi la
perdiamo, quelle sanza nostra utilità si sarebbono salvate;
perché, mantenendoci liberi, le può con difficultà
il nimico nostro possedere; perdendo la libertà, noi invano le
possederemmo.
Pigliate adunque le armi, e quando voi combattete,
pensate il premio della vittoria vostra essere la salute, non solo
della patria, ma delle case e de' figliuoli vostri -.
Furono l'ultime
parole di costui da quel popolo con grandissima caldezza d'animo
ricevute, e unitamente ciascuno promisse morire prima che
abbandonarsi o pensare ad accordo che in alcuna parte maculasse la
loro libertà.
E ordinorono infra loro tutte quelle cose che
sono per difendere una città necessarie.
12
Lo
esercito de' Fiorentini, in quel mezzo, non perdeva tempo, e dopo
moltissimi danni fatti per il paese, prese a patti Monte Carlo; dopo
lo acquisto del quale si andò a campo a Nozano: acciò
che i Lucchesi, stretti da ogni parte, non potessero sperare aiuti e,
per fame constretti, si arrendessero.
Era il castello assai forte e
ripieno di guardia, in modo che la espugnazione di quello non fu come
le altre facile.
I Lucchesi, come era ragionevole, vedendosi
strignere, ricorsono al Duca, e a quello con ogni termine e dolce e
aspro si raccomandorono; e ora nel parlare mostravano i meriti loro,
ora le offese de' Fiorentini; e quanto animo si darebbe agli altri
amici suoi difendendogli, e quanto terrore lasciandogli indifesi, e
se e' perdevono, con la libertà, la vita, egli perdeva, con
gli amici, l'onore, e la fede con tutti quelli che mai per suo amore
si avessero ad alcuno pericolo a sottomettere, aggiugnendo alle
parole le lagrime, acciò che, se l'obligo non lo moveva, lo
movesse la compassione.
Tanto che il Duca, avendo aggiunto all'odio
antico de' Fiorentini l'obligo fresco de' Lucchesi, e sopra tutto
desideroso che i Fiorentini non crescessino in tanto acquisto,
deliberò mandare grossa gente in Toscana, o assaltare con
tanta furia e Viniziani, che i Fiorentini fussino necessitati
lasciare le imprese loro per soccorrere quelli.
13
Fatta
questa deliberazione, s'intese subito a Firenze come il Duca si
ordinava a mandare gente in Toscana, il che fece a' Fiorentini
cominciare a perdere la speranza della loro impresa, e perché
il Duca fusse occupato in Lombardia, sollecitavano i Viniziani a
strignerlo con tutte le forze loro.
Ma quelli ancora si trovavano
impauriti, per averli il marchese di Mantova abbandonati, ed essere
ito a' soldi del Duca; e però, trovandosi come disarmati,
rispondevono non potere, non che ingrossare, mantenere quella guerra,
se non mandavano loro il conte Francesco, che fusse capo del loro
esercito, ma con patto che si obligasse a passare con la persona il
Po.
Né volevono stare alli antichi accordi dove quello non era
obligato a passarlo, perché senza capitano non volevono fare
guerra, né potevono sperare in altro che nel Conte; e del
Conte non si potevono valere, se non si obligava a far la guerra in
ogni loco.
A' Fiorentini pareva necessario che la guerra si facesse
in Lombardia gagliarda; dall'altro canto, rimanendo sanza il Conte,
vedevono la impresa di Lucca rovinata; e ottimamente cognoscevano
questa domanda essere fatta da' Viniziani, non tanto per necessità
avessino del Conte, quanto per sturbare loro quello acquisto.
Dall'altra parte il Conte era per andare in Lombardia ad ogni piacere
della lega; ma non voleva alterare lo obligo, come quello che
desiderava non si privare di quella speranza quale aveva del
parentado promissogli dal Duca.
Erano adunque i Fiorentini distratti
da due diverse passioni, e da la voglia di avere Lucca, e dal timore
della guerra con il Duca.
Vinse non di meno, come sempre interviene,
il timore; e furono contenti che il Conte, vinto Nozano, andasse in
Lombardia.
Restavaci ancora un'altra difficultà, la quale, per
non essere in arbitrio de' Fiorentini il comporla, dette loro più
passione, e più gli fece dubitare che la prima; perché
il Conte non voleva passare il Po, e i Viniziani altrimenti non lo
accettavono.
Né si trovando modo ad accordarli che
liberalmente l'uno cedesse all'altro, persuasono i Fiorentini al
Conte che si obligasse a passare quel fiume per una lettera che
dovesse alla Signoria di Firenze scrivere, mostrandogli che questa
promessa privata non rompeva i patti publici, e come e' poteva poi
fare sanza passarlo; e ne seguirebbe questo commodo, che i Viniziani,
accesa la guerra, erano necessitati seguirla; di che ne nascerebbe la
diversione di quello umore che temevano.
E a' Viniziani dall'altra
parte mostrorono che questa lettera privata bastava ad obligarlo, e
per ciò fussino contenti a quella; perché, dove ei
potevono salvare il Conte per i rispetti che gli aveva al suocero,
era bene farlo; e che non era utile a lui né a loro sanza
manifesta necessità scoprirlo.
E così per questa via si
deliberò la passata in Lombardia del Conte, il quale,
espugnato Nozano, e fatte alcune bastie intorno a Lucca per tenere i
Lucchesi stretti, e raccomandata quella guerra a commissari passò
l'Alpi e ne andò a Reggio, dove i Viniziani, insospettiti de'
suoi progressi, avanti ad ogni altra cosa, per scoprire l'animo suo,
lo richiesono che passasse il Po e con le altre loro genti si
congiugnessi.
Il che fu al tutto da il Conte denegato, e intra Andrea
Mauroceno mandato da' Viniziani, e lui furono ingiuriose parole,
accusando l'uno l'altro di assai superbia e poca fede, e fatti fra
loro assai protesti, l'uno di non essere obligato al servizio,
l'altro al pagamento, se ne tornò il Conte in Toscana, e
quell'altro a Vinegia.
Fu il Conte alloggiato nel paese di Pisa; e
speravano potere indurlo a rinnovare la guerra ai Lucchesi.
A che non
lo trovorono disposto; perché il Duca, inteso che per
reverenza di lui non aveva voluto passare il Po pensò di
potere ancora, mediante lui, salvare i Lucchesi; e lo pregò
che fusse contento fare accordo infra i Lucchesi e i Fiorentini e
includervi ancora lui potendo, dandogli speranza di fare a sua posta
le nozze della figliuola.
Questo parentado moveva forte il Conte,
perché sperava, mediante quello, non avendo il Duca figliuoli
maschi, potersi insignorire di Milano; e per ciò sempre a'
Fiorentini tagliava le pratiche della guerra, e affermava non essere
per muoversi, se i Viniziani non gli osservavano il pagamento e la
condotta; né il pagamento solo gli bastava, perché,
volendo vivere securo degli stati suoi, gli conveniva avere altro
appoggio che i Fiorentini.
Per tanto, se dai Viniziani era
abbandonato, era necessitato pensare a' suoi fatti; e destramente
minacciava di accordarsi con il Duca.
14
Queste
gavillazioni e questi inganni dispiacevano a' Fiorentini grandemente,
perché vedevano la impresa di Lucca perduta, e di più
dubitavano dello stato loro, qualunque volta il Conte e il Duca
fussino insieme.
E per ridurre i Viniziani a mantenere la condotta al
Conte, Cosimo de' Medici andò a Vinegia, credendo con la
reputazione sua muovergli.
Dove nel loro senato lungamente questa
materia disputò, mostrando in quali termini si trovava lo
stato di Italia, quante erano le forze del Duca, dove era la
reputazione e la potenza delle armi, e concluse che, se al Duca si
aggiugneva il Conte, eglino ritornerebbono in mare e loro
disputerebbono della loro libertà.
A che fu da' Viniziani
risposto che cognoscevano le forze loro e quelle degli Italiani, e
credevono potere in ogni modo difendersi, affermando non essere
consueti di pagare i soldati che servissero altri; per tanto
pensassero i Fiorentini di pagare il Conte, poi ch'eglino erano
serviti da lui; e come gli era più necessario, a volere
securamente godersi gli stati loro, abbassare la superbia del Conte
che pagarlo, perché gli uomini non hanno termini nella
ambizione loro, e se ora fusse pagato sanza servire, domanderebbe
poco di poi una cosa più disonesta e più pericolosa.
Per tanto a loro pareva necessario porre qualche volta freno alla
insolenzia sua, e non la lasciare tanto crescere che la diventasse
incorrigibile; e se pure loro, o per timore o per altra voglia, se lo
volessino mantenere amico, lo pagassino.
Ritornossi adunque Cosimo
sanza altra conclusione.
Non di meno i Fiorentini facevano forza al
Conte perché non si spiccasse dalla lega, il quale ancora mal
volentieri se ne partiva; ma la voglia di concludere il parentado lo
teneva dubio, tale che ogni minimo accidente, come intervenne, lo
poteva fare deliberare.
Aveva il Conte lasciato a guardia di quelle
sue terre della Marca il Frullano, uno de' suoi primi condottieri.
Costui fu tanto dal Duca instigato che rinunziò al soldo del
Conte e accostossi con lui; la qual cosa fece che il Conte, lasciato
ogni rispetto, per paura di sé, fece accordo con il Duca; e
intra gli altri patti furono che delle cose di Romagna e di Toscana
non si travagliasse.
Dopo tale accordo, il Conte con instanzia
persuadeva a' Fiorentini che si accordassero con i Lucchesi; e in
modo a questo gli strinse, che, veggendo non avere altro rimedio, si
accordorono con quelli, nel mese di aprile, l'anno 1438.
Per il quale
accordo a' Lucchesi rimase la loro libertà, e a' Fiorentini
Monte Carlo e alcune altre loro castella.
Di poi riempierono con
lettere piene di rammarichii tutta Italia, mostrando che, poi che
Iddio e gli uomini non avieno voluto che i Lucchesi venissero sotto
lo imperio loro, avevono fatto pace con quelli.
E rade volte occorre
che alcuno abbia tanto dispiacere di avere perdute le cose sue,
quanto ebbono allora i Fiorentini per non avere acquistato quelle
d'altri.
15
In
questi tempi, benché i Fiorentini fussero in tanta impresa
occupati, di pensare a' loro vicini e di adornare la loro città
non mancavano.
Era morto come aviamo detto, Niccolò
Fortebraccio, a cui era una figlia del conte di Poppi maritata.
Costui, alla morte di Niccolò, aveva il Borgo a San Sepolcro e
le fortezze di quella terra nelle mani e in nome del genero, vivente
quello, le comandava.
Di poi dopo la morte di quello, diceva per la
dote della sua figliuola possederla, e al Papa non voleva concederla;
il quale come beni occupati alla Chiesa la domandava, in tanto che
mandò il Patriarca con le genti sue allo acquisto di essa.
Il
Conte, veduto non potere sostenere quello impeto, offerse quella
terra a' Fiorentini, e quelli non la vollono.
Ma, sendo il Papa
ritornato in Firenze, si intromissono intra lui e il Conte per
accordargli; e trovandosi nello accordo difficultà, il
Patriarca assaltò il Casentino, e prese Prato Vecchio e
Romena, e medesimamente le offerse ai Fiorentini; i quali ancora non
le vollono accettare, se il Papa non acconsentiva che le potessino
rendere al Conte.
Di che fu il Papa, dopo molte dispute, contento; ma
volle che i Fiorentini gli promettessero di operare con il conte di
Poppi che il Borgo gli restituisse.
Fermo dunque per questa via lo
animo del Papa, parve a' Fiorentini, sendo il tempio cattedrale della
loro città, chiamato Santa Reparata (la cui edificazione molto
tempo innanzi si era cominciata) venuto a termine che vi si potevono
i divini offizi celebrare, di richiederlo che personalmente lo
consecrasse.
A che il Papa volentieri acconsentì, e per
maggiore magnificenza della città e del tempio, e per più
onore del Pontefice, si fece un palco da Santa Maria Novella, dove il
Papa abitava, infino al tempio che si doveva consecrare di larghezza
di quattro e di altezza di dua braccia, coperto tutto di sopra e
d'attorno di drappi ricchissimi, per il quale solo il Pontefice con
la sua corte venne, insieme con quelli magistrati della città
e cittadini i quali ad accompagnarlo furono deputati: tutta l'altra
cittadinanza e popolo per la via, per le case e nel tempio a veder
tanto spettacolo si ridussono.
Fatte adunque tutte le cerimonie che
in simile consecrazione si sogliono fare, il Papa, per mostrare segno
di maggiore amore, onorò della cavalleria Giuliano Davanzati,
allora gonfaloniere di giustizia e di ogni tempo riputatissimo
cittadino; al quale la Signoria, per non parere meno del Papa
amorevole, il capitanato di Pisa per un anno concesse.
16
Erano,
in questi medesimi tempi, intra la Chiesa romana e la greca alcune
differenze, tanto che nel divino culto non convenivano in ogni parte
insieme; ed essendosi nell'ultimo concilio, fatto a Basilea, parlato
assai, per i prelati della Chiesa occidentale, sopra questa materia,
si deliberò che si usassi ogni diligenzia perché lo
Imperadore e i prelati greci nel concilio a Basilea convenissero, per
fare pruova se si potessino con la romana Chiesa accordare.
E benché
questa deliberazione fusse contro alla maiestà dello imperio
greco, e alla superbia de' suoi prelati il cedere al Romano Pontefice
dispiacesse, non di meno, sendo oppressi dai Turchi, e giudicando per
loro medesimi non potere defendersi, per potere con più
securtà agli altri domandare aiuti, deliberorono cedere.
E
così lo Imperadore, insieme con il Patriarca e altri prelati e
baroni greci, per essere, secondo la deliberazione del Concilio, a
Basilea, vennono a Vinegia; ma, sbigottiti dalla peste, deliberorono
che nella città di Firenze le loro differenzie si
terminassero.
Ragunati adunque, più giorni, nella chiesa
cattedrale, insieme i romani e greci prelati, dopo molte e lunghe
disputazioni, i greci cederono, e con la Chiesa e Pontefice Romano si
accordorono.
17
Seguita
che fu la pace intra i Lucchesi e i Fiorentini, e intra il Duca e il
Conte, si credeva che facilmente si potessero l'armi di Italia, e
massimamente quelle che la Lombardia e la Toscana infestavano,
posare; perché quelle che nel regno di Napoli intra Rinato
d'Angiò e Alfonso d'Aragona erano mosse, conveniva che per la
rovina d'uno de' dua si posassero.
E benché il Papa restasse
malcontento per avere molte delle sue terre perdute, e che si
cognoscesse quanta ambizione era nel Duca e ne' Viniziani, non di
meno si stimava che il Papa per necessità, e gli altri per
stracchezza, dovessero fermarsi.
Ma la cosa procedette altrimenti,
perché né il Duca né i Viniziani quietorono;
donde ne seguì che di nuovo si ripresono le armi, e la
Lombardia e la Toscana di guerra si riempierono.
Non poteva lo altero
animo del Duca che i Viniziani possedessero Bergamo e Brescia
sopportare, e tanto più veggendoli in su l'armi e ogni giorno
il suo paese in molte parti scorrere e perturbare; e pensava potere
non solamente tenergli in freno, ma riacquistare le sue terre,
qualunque volta da il Papa, dai Fiorentini e dal Conte ei fussero
abbandonati.
Per tanto egli disegnò di torre la Romagna al
Pontefice giudicando che, avuta quella, il Papa non lo potrebbe
offendere, e i Fiorentini, veggendosi il fuoco appresso, o eglino non
si moverebbono per paura di loro, o se si movessino, non potrebbono
commodamente assalirlo.
Era ancora noto al Duca lo sdegno de'
Fiorentini per le cose di Lucca, contro a' Viniziani e per questo gli
giudicava meno pronti a pigliare l'armi per loro.
Quanto al conte
Francesco, credeva che la nuova amicizia, la speranza del parentado
fussero per tenerlo fermo; e per fuggire carico e dare meno cagione a
ciascuno di muoversi, massimamente non potendo, per i capituli fatti
con il Conte, la Romagna assalire, ordinò che Niccolò
Piccino, come se per sua propria ambizione lo facesse, entrasse in
quella impresa.
Trovavasi Niccolò, quando lo accordo infra il
Duca e il Conte si fece, in Romagna; e d'accordo con il Duca, mostrò
di essere sdegnato per la amiciza fatta intra lui e il Conte suo
perpetuo nimico; e con le sue genti si ridusse a Camurata, luogo
intra Furlì e Ravenna, dove si affortificò, come se
lungamente, e infino che trovasse nuovo partito, vi volessi dimorare.
Ed essendo per tutto sparta di questo suo sdegno la fama, Niccolò
fece intendere al Pontefice quanti erano i suoi meriti verso il Duca
e quale fusse la ingratitudine sua; e come egli si dava ad intendere,
per avere, sotto i duoi primi capitani, quasi tutte l'armi di Italia
di occuparla; ma se Sua Santità voleva dei duoi capitani che
quello si persuadeva avere poteva fare che l'uno gli sarebbe nimico e
l'altro inutile, perché se lo provedeva di danari e lo
manteneva in su l'armi, assalirebbe gli stati del Conte che gli
occupava alla Chiesa in modo che, avendo il Conte a pensare a' casi
propri, non potrebbe alla ambizione di Filippo suvvenire.
Credette il
Papa a queste parole, parendogli ragionevoli; e mandò cinque
mila ducati a Niccolò, e lo riempié di promesse,
offerendo stati a lui e a' figliuoli.
E benché il Papa fusse
da molti avvertito dello inganno, nol credeva, né poteva udire
alcuno che dicesse il contrario.
Era la città di Ravenna da
Ostasio da Polenta per la Chiesa governata.
Niccolò,
parendogli tempo da non differire più la impresa sua, perché
Francesco suo figliuolo aveva, con ignominia del Papa, saccheggiato
Spuleto, deliberò di assaltare Ravenna, o perché
giudicasse quella impresa più facile, o perché gli
avessi con Ostasio secretamente intelligenzia; e in pochi giorni, poi
che l'ebbe assalita, per accordo la prese.
Dopo il quale acquisto,
Bologna, Imola e Furlì da lui furono occupate.
E quello che fu
più maraviglioso è che di venti rocche, le quali in
quelli stati per il Pontefice si guardavano, non ne rimase alcuna che
nella potestà di Niccolò non venisse.
Né gli
bastò con questa ingiuria avere offeso il Pontefice, che lo
volle ancora con le parole, come egli aveva fatto con i fatti,
sbeffare; e scrisse avergli occupate le terre meritamente, poi che
non si era vergognato avere voluto dividere una amicizia quale era
stata intra il Duca e lui, e avere ripiena Italia di lettere che
significavano come egli aveva lasciato il Duca e accostatosi a'
Viniziani.
18
Occupata
Niccolò la Romagna, lasciò quella in guardia a
Francesco suo figliuolo, ed egli, con la maggiore parte delle sue
genti, se ne andò in Lombardia.
E accozzatosi con il restante
delle genti duchesche, assalì il contado di Brescia, e tutto
in brieve tempo lo occupò: di poi pose lo assedio a quella
città.
Il Duca, che desiderava che i Viniziani gli fussero
lasciati in preda, con il Papa, con i Fiorentini e con il Conte si
scusava, mostrando che le cose fatte da Niccolò in Romagna, se
le erano contro a' capitoli, erano ancora contro a sua voglia; e per
secreti nunzi faceva intendere loro che di questa disubbidienza, come
il tempo e la occasione lo patisse, ne farebbe evidente
demostrazione.
I Fiorentini e il Conte non gli prestavano fede; ma
credevono, come la verità era, che queste armi fussero mosse
per tenergli a bada, tanto che potesse domare i Viniziani.
I quali,
pieni di superbia, credendosi potere per loro medesimi resistere alle
forze del Duca, non si degnavono di domandare aiuto ad alcuno, ma con
Gattamelata loro capitano la guerra facevano.
Desiderava il conte
Francesco, con il favor de' Fiorentini, andare al soccorso del re
Rinato, se gli accidenti di Romagna e di Lombardia non lo avessino
ritenuto; e i Fiorentini ancora lo arieno volentieri favorito, per
l'antica amicizia tenne sempre la loro città con la casa di
Francia; ma il Duca arebbe i suoi favori volti ad Alfonso, per la
amicizia aveva contratta seco nella presura sua.
Ma l'uno e l'altro
di costoro, occupati nelle guerre propinque, dalle imprese più
longinque si astennono.
I Fiorentini adunque, veggendo la Romagna
occupata dalle forze del Duca, e battere i Viniziani, come quelli che
dalla rovina d'altri temono la loro, pregorono il Conte che venisse
in Toscana, dove si esaminerebbe quello fussi da fare per opporsi
alle forze del Duca, le quali erano maggiori che mai per lo adietro
fussero state; affermando che, se la insolenzia sua in qualche modo
non si frenava, ciascuno che teneva stati in Italia in poco tempo ne
patirebbe.
Il Conte conosceva il timore de' Fiorentini ragionevole,
non di meno la voglia aveva che il parentado fatto con il Duca
seguisse lo teneva sospeso; e quel Duca, che cognosceva questo suo
desiderio, gliene dava speranze grandissime, quando non gli movesse
l'armi contro.
E perché la fanciulla era già da potersi
celebrare le nozze, più volte condusse la cosa in termine che
si feciono tutti gli apparati convenienti a quelle: di poi, con varie
gavillazioni, ogni cosa si risolveva.
E per fare crederlo meglio al
Conte, aggiunse alle promesse le opere; e gli mandò trenta
mila fiorini, i quali, secondo i patti del parentado, gli doveva
dare.
19
Non
di meno la guerra di Lombardia cresceva; e i Viniziani ogni dì
perdevano nuove terre; e tutte le armate che eglino avevano messe per
quelle fiumare erano state dalle genti ducali vinte, il paese di
Verona e di Brescia tutto occupato, e quelle due terre in modo
strette, che poco tempo potevono, secondo la comune opinione,
mantenersi; il marchese di Mantova, il quale era molti anni stato
della loro repubblica condottiere, fuora d'ogni loro credenza gli
aveva abbandonati ed erasi accostato al Duca: tanto che quello che
nel principio della guerra non lasciò loro fare la superbia,
fece loro fare, nel progresso di quella, la paura.
Perché,
cognosciuto non avere altro rimedio che l'amicizia de' Fiorentini e
del Conte, cominciorono a domandarla; benché vergognosamente e
pieni di sospetto, perché temevono che i Fiorentini non
facessino a loro quella risposta che da loro avevono nella impresa di
Lucca e nelle cose del Conte ricevuta.
Ma gli trovorono più
facili che non speravano e che per li portamenti loro non avevono
meritato: tanto più potette in ne' Fiorentini l'odio dello
antico nimico, che della vecchia e consueta amicizia lo sdegno.
E
avendo più tempo innanzi cognosciuto la necessità nella
quale dovevano venire i Viniziani, avevano dimostro al Conte come la
rovina di quelli sarebbe la rovina sua, e come egli s'ingannava se
credeva che il duca Filippo lo stimasse più nella buona che
nella cattiva fortuna, e come la cagione per che gli aveva promessa
la figliuola era la paura aveva di lui.
E perché quelle cose
che la necessità fa promettere fa ancora osservare, era
necessario che mantenessi il Duca in quella necessità; il che
sanza la grandezza de' Viniziani non si poteva fare.
Per tanto egli
doveva pensare che, se i Viniziani fussino constretti ad abbandonare
lo stato di terra, gli mancherieno non solamente quelli commodi che
da loro egli poteva trarre ma tutti quelli ancora che da altri, per
paura di loro, egli potessi avere.
E se considerava bene gli stati di
Italia, vedrebbe quale essere povero, quale suo nimico: né i
Fiorentini soli erano, come egli più volte aveva detto,
suffizienti a mantenerlo; sì che per lui da ogni parte si
vedeva farsi il mantenere potenti in terra i Viniziani.
Queste
persuasioni, aggiunto allo odio aveva concetto il Conte con il Duca,
per parergli essere stato in quel parentado sbeffato lo feciono
acconsentire allo accordo: né per ciò si volle per
allora obligare a passare il fiume del Po.
I quali accordi di
febraio, nel 1438, si fermorono: dove i Viniziani a' duo terzi, i
Fiorentini al terzo della spesa concorsono; e ciascheduno si obligò,
a sue spese, gli stati che il Conte aveva nella Marca a difendere.
Né
fu la lega a queste forze contenta; perché a quelle il signore
di Faenza, i figliuoli di messer Pandolfo Malatesti da Rimino e
Pietrogiampaulo Orsino aggiunsono; e benché con promesse
grandi il marchese di Mantova tentassero, non di meno dall'amicizia e
stipendi del Duca rimuovere non lo posserono; e il signore di Faenza,
poi che la lega ebbe ferma la sua condotta, trovando migliori patti,
si rivolse al Duca; il che tolse la speranza alla lega di potere
presto espedire le cose di Romagna.
20
Era
in questi tempi la Lombardia in questi travagli, che Brescia dalle
genti del Duca era assediata in modo che si dubitava che ciascun dì
per la fame si arrendesse, e Verona ancora era in modo stretta che se
ne temeva il medesimo fine, e quando una di queste due città
si perdessero, si giudicavano vani tutti gli altri apparati alla
guerra, e le spese infino allora fatte essere perdute.
Né vi
si vedeva altro più certo rimedio che fare passare il conte
Francesco in Lombardia.
A questo erano tre difficultà: l'una
disporre il Conte a passare il Po e a fare guerra in ogni luogo; la
seconda che a' Fiorentini pareva rimanere a discrezione del Duca,
mancando del Conte (perché facilmente il Duca poteva ritirarsi
ne' suoi luoghi forti e con parte delle genti tenere a bada il Conte
e con l'altre venire in Toscana con li loro ribelli, de' quali lo
stato che allora reggeva aveva uno terrore grandissimo); la terza era
qual via dovesse con le sue genti tenere il Conte, che lo conducesse
sicuro in Padovano, dove l'altre genti viniziane erano.
Di queste tre
difficultà, la seconda, che apparteneva a' Fiorentini, era più
dubia; non di meno quelli, cognosciuto il bisogno, e stracchi da'
Viniziani, i quali con ogni importunità domandavano il Conte,
mostrando che sanza quello si abbandonerebbono, preposono la
necessità d'altri a' sospetti loro.
Restava ancora la
difficultà del cammino; il quale si deliberò che fusse
assicurato da' Viniziani.
E perché a trattare questi accordi
con il Conte e a disporlo a passare si era mandato Neri di Gino
Capponi, parve alla Signoria che ancora si transferisse a Vinegia,
per fare più accetto a quella Signoria questo benefizio, e
ordinare il cammino e il passo securo al Conte.
21
Partì
adunque Neri da Cesena, e sopra una barca si condusse a Vinegia.
Né
fu mai alcuno principe con tanto onore ricevuto da quella Signoria,
con quanto fu ricevuto egli; perché dalla venuta sua, e da
quello che per suo mezzo si aveva a deliberare e ordinare giudicavano
avesse a dependere la salute dello imperio loro.
Intromesso adunque
Neri al Senato, parlò in questa sentenza: - Quelli miei
Signori, Serenissimo Principe, furono sempre di opinione che la
grandezza del Duca fusse la rovina di questo stato e della loro
republica; e così che la salute d'ambiduoi questi stati fusse
la grandezza vostra e nostra.
Se questo medesimo fusse stato creduto
dalle Signorie Vostre, noi ci troverremmo in migliore condizione, e
lo stato vostro sarebbe securo da quelli pericoli che ora lo
minacciano.
Ma perché ne' tempi che voi dovevi non ci avete
prestato né aiuto né fede, noi non abbiamo potuto
correre presto a' remedi del male vostro; né voi potesti
essere pronti al dimandargli, come quelli che nelle prosperità
e nelle avversità vostre ci avete poco cognosciuti, e non
sapete che noi siamo in modo fatti che quello che noi amammo una
volta sempre amiamo, e quello che noi odiammo una volta sempre
odiamo.
Lo amore che noi abbiamo portato a questa vostra Serenissima
Signoria voi medesimi lo sapete, che più volte avete veduto,
per soccorrervi, ripiena di nostri danari e di nostre genti la
Lombardia; l'odio che noi portiamo a Filippo, e quello che sempre
portammo alla casa sua, lo sa tutto il mondo; né è
possibile che uno amore o uno odio antico per nuovi meriti o per
nuove offese facilmente si cancelli.
Noi savamo e siamo certi che in
questa guerra ci potavamo stare di mezzo, con grado grande con il
Duca e con non molto timore nostro; perché, se bene e' fusse
con la rovina vostra diventato signore di Lombardia, ci restava in
Italia tanto del vivo che noi non avavamo a disperarci della salute;
perché, accrescendo potenza e stato, si accresce ancora
nimicizie e invidia; dalle quali cose suole di poi nascere guerra e
danno.
Cognosciavamo ancora quanta spesa, fuggendo le presenti
guerre, fuggiavamo; quanti imminenti pericoli si evitavano; e come
questa guerra che ora è in Lombardia, movendoci noi, si
potrebbe ridurre in Toscana.
Non di meno tutti questi sospetti sono
stati da una antica affezione verso di questo stato cancellati; e
abbiamo deliberato con quella medesima prontezza soccorrere lo stato
vostro, che noi soccorreremmo il nostro quando fusse assalito.
Per
ciò i miei Signori, giudicando che fusse necessario, prima che
ogni altra cosa, soccorrere Verona e Brescia, e giudicando sanza il
Conte non si potere fare questo, mi mandorono prima a persuadere
quello al passare in Lombardia e a fare la guerra in ogni luogo (ché
sapete che non è al passare del Po obligato): il quale io
disposi, movendolo con quelle ragioni che noi medesimi ci moviamo.
Ed
egli, come gli pare essere invincibile con le armi, non vuole ancora
essere vinto di cortesia, e quella liberalità che vede usare a
noi verso di voi egli l'ha voluta superare; perché sa bene in
quanti pericoli rimane la Toscana dopo la partita sua, e veggendo che
noi abbiamo posposto alla salute vostra i pericoli nostri, ha voluto
ancora egli posporre a quella i respetti suoi.
Io vengo adunque a
offerirvi il Conte con sette mila cavagli e dumila fanti, parato ad
ire a trovare il nimico in ogni luogo.
Pregovi bene, e così i
miei Signori ed egli vi pregono, che, come il numero delle genti sue
trapassa quelle con le quali per obligo debbe servire, che voi ancora
con la vostra liberalità lo ricompensiate, acciò che
quello non si penta di essere venuto a' servizi vostri, e noi non ci
pentiamo di avernelo confortato -.
Fu il parlare di Neri da quel
Senato non con altra attenzione udito che si farebbe un oracolo, e
tanto si accesono gli uditori per le sue parole, che non furono
pazienti che il Principe, secondo la consuetudine, rispondesse, ma
levati in piè, con le mani alzate, lagrimando in maggiore
parte di loro, ringraziavano i Fiorentini di sì amorevole
uffizio, e lui di averlo con tanta diligenzia e celerità
esequito; e promettevano che mai per alcun tempo, non che de' cuori
loro, ma di quelli de' descendenti loro non si cancellerebbe, e che
quella patria aveva sempre ad essere comune a' Fiorentini e a loro.
22
Ferme
di poi queste caldezze, si ragionò della via che il Conte
dovessi fare, acciò si potesse di ponti, di spianate e di ogni
altra cosa munire.
Eronci quattro vie: l'una da Ravenna, lungo la
marina; questa, per essere in maggiore parte ristretta dalla marina e
da paduli, non fu approvata: l'altra era per la via diritta, questa
era impedita da una torre chiamata l'Uccellino, la quale per il Duca
si guardava, e bisognava, a volere passare, vincerla, il che era
difficile farlo in sì breve tempo che la non togliesse la
occasione del soccorso, che celerità e prestezza richiedeva:
la terza era per la selva del Lugo, ma perché il Po era uscito
de' suoi argini, rendeva il passarvi, non che difficile, impossibile:
restava la quarta, per la campagna di Bologna, e passare al ponte
Puledrano, e a Cento, e alla Pieve, e intra il Finale e il Bondeno
condursi a Ferrara, donde poi, tra per acqua e per terra, si potevono
transferire in Padovano e congiugnersi con le genti viniziane.
Questa
via ancora che in essa fussero assai difficultà e potesse
essere in qualche luogo dal nimico combattuta, fu per meno rea
eletta.
La quale come fu significata al Conte, si partì con
celerità grandissima, e a dì 20 di giugno arrivò
in Padovano.
La venuta di questo capitano in Lombardia fece Vinegia e
tutto il loro imperio riempiere di buona speranza, e dove i Viniziani
parevano prima disperati della loro salute, cominciorono a sperare
nuovi acquisti.
Il Conte, prima che ogni altra cosa, andò per
soccorrere Verona; il che per obviare, Niccolò se ne andò
con lo esercito suo a Soave castello posto intra il Vicentino e il
Veronese, e con un fosso, il quale da Soave infino a' paludi dello
Adice passava, si era cinto.
Il Conte, veggendosi impedita la via del
piano, giudicò potere andare per i monti, e per quella via
accostarsi a Verona, pensando che Niccolò, o non credessi che
facessi quel cammino, sendo aspro e alpestre, o, quando lo credesse,
non fussi a tempo ad impedirlo; e proveduta vettovaglia per otto
giorni, passò con le sue genti la montagna, e sotto Soave
arrivò nel piano.
E benché da Niccolò fussero
state fatte alcune bastie per impedire ancora quella via al Conte,
non di meno non furono sufficienti a tenerlo.
Niccolò adunque,
veggendo il nimico, fuora d'ogni sua credenza, passato per non venire
seco con disavvantaggio a giornata, si ridusse di là dallo
Adice; e il Conte, sanza alcuno ostaculo, entrò in Verona.
23
Vinta
per tanto felicemente da il Conte la prima fatica, di aver libera
dallo assedio Verona, restava la seconda, di soccorrere Brescia.
È
questa città in modo propinqua al lago di Garda che, benché
la fusse assediata per terra, sempre per via del lago se le potrebbe
sumministrare vettovaglie.
Questo era stato cagione che il Duca si
era fatto forte in sul lago e nel principio delle vittorie sue aveva
occupate tutte quelle terre che, mediante il lago, potevano a Brescia
porgere aiuto.
I Viniziani ancora vi avevano galee; ma a combattere
con le genti del Duca non erano bastanti.
Giudicò per tanto il
Conte necessario dare favore con le genti di terra alla armata
viniziana, perché sperava che facilmente si potessino
acquistare quelle terre che tenevono affamata Brescia.
Pose il campo
per tanto a Bardolino, castello posto in sul lago, sperando, avuto
quello, che gli altri si arrendessero.
Fu la fortuna al Conte in
questa impresa nimica, perché delle sue genti buona parte
ammalorono, talmente che il Conte, lasciata la impresa, ne andò
a Zevio, castello veronese, luogo abbondevole e sano.
Niccolò,
veduto che il Conte si era ritirato, per non mancare alla occasione
che gli pareva avere di potersi insignorire del lago, lasciò
il campo suo a Vegasio, e con gente eletta n'andò al lago, e
con grande impeto e maggiore furia assaltò l'armata viniziana,
e quasi tutta la prese.
Per questa vittoria poche castella restorono
del lago che a Niccolò non si arrendessero.
I Viniziani,
sbigottiti di questa perdita, e per questo temendo che i Bresciani
non si dessero, sollecitavano il Conte con nunzi e con lettere al
soccorso di quella.
E veduto il Conte come per il lago la speranza
del soccorrerla era mancata, e che per la campagna era impossibile
per le fosse, bastie e altri impedimenti ordinati da Niccolò,
intra i quali entrando con uno esercito nimico allo incontro si
andava ad una manifesta perdita, deliberò come la via de'
monti gli aveva fatto salvare Verona, così gli facesse
soccorrere Brescia.
Fatto adunque il Conte questo disegno, partì
da Zevio e per Val d'Acri n'andò al lago di Santo Andrea, e
venne a Torboli e Peneda in sul lago di Garda.
Di quivi n'andò
a Tenna, dove pose il campo, perché, a volere passare a
Brescia, era lo occupare questo castello necessario.
Niccolò,
intesi i consigli del Conte, condusse lo esercito suo a Peschiera; di
poi con il marchese di Mantova e alquante delle sue più elette
genti, andò ad incontrare il Conte; e venuti alla zuffa,
Niccolò fu rotto, e le sue genti sbaragliate; delle quali
parte ne furono prese, parte allo esercito, e parte all'armata si
rifuggirono.
Niccolò si ridusse in Tenna; e venuta la notte,
pensò che, se gli aspettava in quello luogo il giorno, non
poteva campare di non venire nelle mani del nimico; e per fuggire uno
certo pericolo, ne tentò uno dubio.
Aveva Niccolò seco,
di tanti suoi, uno solo servidore, di nazione tedesco, fortissimo del
corpo, e a lui sempre stato fedelissimo.
A costui persuase Niccolò
che messolo in uno sacco, se lo ponessi in spalla e, come se portassi
arnesi del suo padrone, lo conducesse in luogo securo.
Era il campo
intorno a Tenna, ma per la vittoria avuta il giorno, sanza guardia e
sanza ordine alcuno; di modo che al Tedesco fu facile salvare il suo
signore, perché, levatoselo in spalla, vestito come
saccomanno, passò per tutto il campo sanza alcuno impedimento,
tanto che salvo alle sue genti lo condusse.
24
Questa
vittoria adunque, se la fusse stata usata con quella felicità
che la si era guadagnata, arebbe a Brescia partorito maggiore
soccorso, e a' Viniziani maggiore felicità; ma lo averla male
usata fece che l'allegrezza presto mancò, e Brescia rimase
nelle medesime difficultà.
Perché, tornato Niccolò
alle sue genti, pensò come gli conveniva con qualche nuova
vittoria cancellare quella perdita e torre la commodità a'
Viniziani di soccorrere Brescia.
Sapeva costui il sito della
cittadella di Verona, e dai prigioni presi in quella guerra aveva
inteso come la era male guardata, e la facilità e il modo di
acquistarla.
Per tanto gli parve che la fortuna gli avesse messo
innanzi materia a riavere l'onore suo e a fare che la letizia aveva
avuto il nimico per la fresca vittoria ritornassi, per una più
fresca perdita, in dolore.
È la città di Verona posta
in Lombardia, a piè de' monti che dividono la Italia dalla
Magna, in modo tale che la participa di quelli e del piano.
Esce il
fiume dello Adice della valle di Trento, e nello entrare in Italia
non si distende subito per la campagna, ma, voltosi in su la
sinistra, lungo i monti, trova quella città, e passa per il
mezzo di essa, non per ciò in modo che le parti sieno uguali,
perché molto più ne lascia verso la pianura che di
verso i monti.
Sopra i quali sono due rocche, San Piero l'una,
l'altra San Felice nominate; le quali più forti per il sito
che per la muraglia appariscono, ed essendo in luogo alto, tutta la
città signoreggiono.
Nel piano di qua dallo Adice, e adosso
alle mura della terra sono due altre fortezze, discosto l'una
dall'altra mille passi, delle quali l'una la vecchia, l'altra la
cittadella nuova si nominano; dall'una delle quali, dalla parte di
dentro, si parte uno muro che va a trovare l'altra, e fa quasi come
una corda allo arco che fanno le mura ordinarie della città,
che vanno da l'una all'altra cittadella.
Tutto questo spazio posto
infra l'uno muro e l'altro è pieno di abitatori, e chiamasi il
borgo di San Zeno.
Queste cittadelle e questo borgo disegnò
Niccolò Piccino di occupare pensando che gli riuscisse
facilmente, sì per le negligenti guardie che di continuo vi si
facevano, sì per credere che per la nuova vittoria la
negligenzia fusse maggiore, e per sapere come nella guerra niuna
impresa è tanto riuscibile quanto quella che il nimico non
crede che tu possa fare.
Fatto adunque una scelta di sua gente, ne
andò insieme con il marchese di Mantova, di notte, a Verona, e
senza essere sentito, scalò e prese la cittadella nuova.
Di
quindi, scese le sue genti nella terra, la porta di Santo Antonio
ruppono, per la quale tutta la cavalleria intromessono.
Quelli che
per i Viniziani guardavano la cittadella vecchia, avendo prima
sentito il romore quando le guardie della nuova furono morte, di poi
quando e' rompevono la porta, cognoscendo come gli erano i nimici, a
gridare e a sonare a popolo e all'arme cominciorono.
Donde che,
risentiti i cittadini, tutti confusi, quelli che ebbono più
animo presono l'armi e alla piazza de' rettori corsono.
Le genti
intanto di Niccolò avevano il borgo di San Zeno saccheggiato,
e procedendo più avanti, i cittadini, cognosciuto come dentro
erano le genti duchesche, e non veggendo modo a difendersi,
confortorono i rettori viniziani a volersi rifuggire nelle fortezze,
e salvare le persone loro e la terra; mostrando che gli era meglio
conservare loro vivi e quella città ricca ad una migliore
fortuna, che volere, per evitare la presente, morire loro e
impoverire quella.
E così i rettori e qualunque vi era del
nome viniziano, nella rocca di San Felice rifuggirono.
Dopo questo,
alcuni de' primi cittadini a Niccolò e al marchese di Mantova
si feciono incontro, pregandogli che volessero più tosto
quella città ricca con loro onore, che povera con loro
vituperio, possedere; massimamente non avendo essi apresso a' primi
padroni meritato grado né odio apresso a loro per difendersi.
Furno costoro da Niccolò e dal Marchese confortati; e quanto
in quella militare licenza poterono, da il sacco la difesono.
E
perché eglino erano come certi che il Conte verrebbe alla
recuperazione di essa, con ogni industria di avere nelle mani i
luoghi forti s'ingegnorono; e quelli che non potevono avere, con
fossi, sbarrate, dalla terra separavano, acciò che al nimico
fusse difficile il passare dentro.
25
Il
conte Francesco era con le genti sue a Tenna, e sentita questa
novella, prima la giudicò vana, di poi, da più certi
avvisi cognosciuta la verità, volle con la celerità la
pristina negligenzia superare.
E benché tutti i suoi capi
dello esercito lo consigliassero che, lasciato la impresa di Verona e
Brescia, se ne andasse a Vicenza, per non essere, dimorando quivi,
assediati dagli inimici, non volle acconsentirvi, ma volle tentare la
fortuna di recuperare quella città; e voltosi, nel mezzo di
queste sospensioni d'animo, ai proveditori viniziani e a Bernardetto
de' Medici, il quale per i Fiorentini era apresso di lui commissario,
promisse loro la certa recuperazione, se una delle rocche gli
aspettava.
Fatte adunque ordinare le sue genti, con massima celerità
ne andò verso Verona.
Alla vista del quale credette Niccolò
ch'egli, come da' suoi era stato consigliato, se ne andasse a
Vicenza; ma veduto di poi volgere alla terra le genti e indirizzarsi
verso la rocca di San Felice, si volle ordinare alla difesa.
Ma non
fu a tempo, perché le sbarre alle rocche non erano fatte, e i
soldati, per la avarizia della preda e delle taglie, erano divisi; né
potette unirli sì tosto che potessero obviare alle genti del
Conte che le non si accostassero alla fortezza e per quella
scendessero nella città.
La quale recuperorono felicemente,
con vergogna di Niccolò e danno delle sue genti; il quale
insieme con il marchese di Mantova, prima nella cittadella, di poi,
per la campagna, a Mantova si rifuggirono.
Dove, ragunate le reliquie
delle loro genti ch'erano salvate, con l'altre che erano allo assedio
di Brescia si congiunsono.
Fu per tanto Verona in quattro dì
dallo esercito ducale acquistata e perduta.
Il Conte, dopo questa
vittoria, sendo già verno e il freddo grande, poi che ebbe con
molta difficultà mandato vettovaglie in Brescia, ne andò
alle stanze in Verona, e ordinò che a Torboli si facessero, la
vernata, alcune galee, per potere essere, a primavera, in modo per
terra e per acqua gagliardo, che Brescia si potesse al tutto
liberare.
26
Il
Duca, veduta la guerra per il tempo ferma, e troncagli la speranza
che gli aveva avuta di occupare Verona e Brescia, e come di tutto ne
erano cagione i danari e i consigli de' Fiorentini, e come quelli né
per ingiuria che da' Viniziani avessero ricevuta si erano potuti
dalla loro amicizia alienare, né per promesse ch'egli avesse
loro fatte, se gli era potuti guadagnare, deliberò, acciò
che quelli sentissero più da presso i frutti de' semi loro, di
assaltare la Toscana.
A che fu da' fuori usciti fiorentini e da
Niccolò confortato: questo lo moveva il desiderio aveva di
acquistare gli stati di Braccio e cacciare il Conte della Marca,
quelli erano dalla volontà di tornare nella loro patria
spinti; e ciascuno aveva mosso il Duca con ragioni opportune e
conforme al desiderio suo.
Niccolò gli mostrava come e' poteva
mandarlo in Toscana e tenere assediata Brescia, per essere signore
del lago e avere i luoghi di terra forti e bene muniti, e restargli
capitani e gente da potere opporsi al Conte quando volessi fare altra
impresa (ma che non era ragionevole la facesse sanza liberare
Brescia, e a liberarla era impossibile); in modo che veniva a fare
guerra in Toscana e a non lasciare la impresa di Lombardia:
mostravagli ancora che i Fiorentini erano necessitati subito che lo
vedevono in Toscana, a richiamare il Conte o perdersi; e qualunque
l'una di queste cose seguiva, ne resultava la vittoria.
I fuori
usciti affermavano essere impossibile, se Niccolò con lo
esercito si accostava a Firenze che quel popolo, stracco dalle
gravezze e dalla insolenzia de' potenti, non pigliasse le armi contro
di loro: mostravongli lo accostarsi a Firenze essere facile,
promettendogli la via del Casentino aperta, per la amicizia che
messer Rinaldo teneva con quel conte: tanto che il Duca, per sé
prima voltovi, tanto più, per le persuasioni di questi, fu in
fare questa impresa confirmato.
I Viniziani dall'altra parte, con
tutto che il verno fusse aspro, non mancavano di sollecitare il Conte
a soccorrere con tutto lo esercito Brescia, la qual cosa il Conte
negava potersi in quelli tempi fare; ma che si doveva aspettare la
stagione nuova, e in quel tanto mettere in ordine l'armata, e di poi
per acqua e per terra soccorrerla.
Donde i Viniziani stavano di mala
voglia, ed erano lenti a ogni provisione, talmente che nello esercito
loro erano assai genti mancate.
27
Di
tutte queste cose fatti certi, i Fiorentini spaventorono, veggendosi
venire la guerra adosso e in Lombardia non si essere fatto molto
profitto.
Né dava loro meno affanno i sospetti ch'eglino
avieno delle genti della Chiesa; non perché il Papa fusse loro
nimico, ma perché vedevono quelle armi più ubbidire al
Patriarca, loro inimicissimo, che al Papa.
Fu Giovanni Vitelleschi
cornetano, prima notaio apostolico, di poi vescovo di Ricanati,
appresso patriarca alessandrino; ma diventato in ultimo cardinale, fu
Cardinale fiorentino nominato.
Era costui animoso e astuto; e per ciò
seppe tanto operare, che dal Papa fu grandemente amato, e da lui
preposto alli eserciti della Chiesa; e di tutte le imprese che il
Papa in Toscana, in Romagna, nel Regno e a Roma fece, ne fu capitano:
onde che prese tanta autorità nelle genti e nel Papa, che
questo temeva a comandargli, e le genti a lui solo, e non ad altri,
ubbidivano.
Trovandosi per tanto questo cardinale con le genti in
Roma quando venne la fama che Niccolò voleva passare in
Toscana, si raddoppiò a' Fiorentini la paura, per essere stato
quel cardinale, poi che messer Rinaldo fu cacciato, sempre a quello
stato nimico, veggendo che gli accordi fatti in Firenze intra le
parti per suo mezzo non erano stati osservati, anzi con pregiudizio
di messer Rinaldo maneggiati, sendo stato cagione che posasse le armi
e desse commodità a' nimici di cacciarlo: tanto che ai
principi del governo pareva che il tempo fusse venuto da ristorare
messer Rinaldo de' danni, se con Niccolò, venendo quello in
Toscana si accozzava.
E tanto più ne dubitavano parendo loro
la partita di Niccolò di Lombardia importuna, lasciando una
impresa quasi vinta, per entrare in una al tutto dubia; il che non
credevono sanza qualche nuova intelligenza o nascoso inganno facesse.
Di questo loro sospetto avevano avvertito il Papa, il quale aveva già
conosciuto lo errore suo per avere dato ad altri troppa autorità.
Ma in mentre che i Fiorentini stavano così sospesi la fortuna
mostrò loro la via come si potessero del Patriarca assicurare.
Teneva quella republica in tutti i luoghi diligenti esploratori di
quelli che portavano lettere, per scoprire se alcuno contro allo
stato loro alcuna cosa ordinasse.
Occorse che a Montepulciano furono
prese lettere le quali il Patriarca scriveva, sanza consenso del
Pontefice, a Niccolò Piccino; le quali subito il magistrato
preposto alla guerra presentò al Papa.
E benché le
fussero scritte con non consueti caratteri, e il senso di loro
implicato in modo che non se ne potesse trarre alcuno specificato
sentimento, non di meno questa oscurità, con la pratica del
nimico, messe tanto sospetto nel Pontefice, che deliberò di
assicurarsene, e la cura di questa impresa ad Antonio Rido da Padova,
il quale era alla guardia del castello di Roma preposto, dette.
Costui, come ebbe la commissione, parato ad ubbidire, che venisse la
occasione aspettava.
Aveva il Patriarca deliberato passare in
Toscana; e volendo il dì seguente partire di Roma significò
al Castellano che la mattina fusse sopra il ponte del castello,
perché, passando, gli voleva di alcuna cosa ragionare.
Parve
ad Antonio che la occasione fusse venuta; e ordinò a' suoi
quello dovessero fare; e al tempo aspettò il Patriarca sopra
il ponte che, propinquo alla rocca, per fortezza di quella si può,
secondo la necessità, levare e porre.
E come il Patriarca fu
sopra quello, avendolo prima con il ragionamento fermo, fece cenno a'
suoi che alzassero il ponte; tanto che il Patriarca in un tratto si
trovò, di comandatore di eserciti, prigione di uno castellano.
Le genti che erano seco prima romoreggiorono; di poi, intesa la
volontà del Papa, si quietorono.
Ma il Castellano confortando
con umane parole il Patriarca, e dandogli speranza di bene, gli
rispose che gli uomini grandi non si pigliavano per lasciargli, e
quelli che meritavano di essere presi, non meritavano di essere
lasciati.
E così poco di poi morì in carcere; e il Papa
alle sue genti Lodovico patriarca di Aquileia prepose.
E non avendo
mai voluto per lo adietro nelle guerre della lega e del Duca
implicarsi, fu allora contento intervenirvi; e promisse essere presto
per la difesa di Toscana, con quattro mila cavagli e dumila fanti.
28
Liberati
i Fiorentini da questa paura, restava loro il timore di Niccolò
e della confusione delle cose di Lombardia, per i dispareri erano tra
i Viniziani e il Conte; i quali per intenderli meglio, mandorono Neri
di Gino Capponi e messer Giuliano Davanzati a Vinegia; a' quali
commissono che fermassero come l'anno futuro si avesse a maneggiare
la guerra; e a Neri imposono che, intesa la opinione de' Viniziani,
se ne andassi dal Conte per intendere la sua e per persuaderlo a
quelle cose che alla salute della lega fussero necessarie.
Non erano
ancora questi ambasciadori a Ferrara, ch'eglino intesono Niccolò
Piccino con sei milia cavagli avere passato il Po; il che fece
affrettare loro il cammino; e giunti a Vinegia, trovorono quella
Signoria tutta a volere che Brescia, sanza aspettare altro tempo, si
soccorresse, perché quella città non poteva aspettare
il soccorso al tempo nuovo, né che si fusse fabricata
l'armata, ma, non veggendo altri aiuti, si arrenderebbe al nimico, il
che farebbe al tutto vittorioso il Duca, e a loro perdere tutto lo
stato di terra.
Per la qual cosa Neri andò a Verona per udire
il Conte, e quello che allo incontro allegava.
Il quale gli dimostrò
con assai ragioni il cavalcare in quelli tempi verso Brescia essere
inutile per allora e dannoso per la impresa futura; perché,
rispetto al tempo e al sito, a Brescia non si farebbe frutto alcuno,
ma solo si disordinerebbono e affaticherebbono le sue genti, in modo
che, venuto il tempo nuovo e atto alle faccende, sarebbe necessitato
con lo esercito tornarsi a Verona per provedersi delle cose consumate
il verno e necessarie per la futura state; di maniera che tutto il
tempo atto alla guerra in andare e tornare si consumerebbe.
Erano con
il Conte a Verona, mandati a praticare queste cose, messer Orsatto
Iustiniani e messer Giovanni Pisani.
Con questi, dopo molte dispute,
si concluse che i Viniziani, per lo anno nuovo, dessino al Conte
ottantamila ducati e all'altre loro genti ducati quaranta per lancia,
e che si sollecitasse di uscire fuora con tutto lo esercito, e si
assalisse il Duca, acciò che, per timore delle cose sue,
facesse tornare Niccolò in Lombardia.
Dopo la quale
conclusione se ne tornorono a Vinegia.
I Viniziani, perché la
somma del danaio era grande, ad ogni cosa pigramente provvedevono.
29
Niccolò
Piccino, in questo mezzo, seguitava il suo viaggio, e già era
giunto in Romagna; e aveva operato tanto con i figliuoli di messer
Pandolfo Malatesti, che, lasciati i Viniziani, si erano accostati al
Duca.
Questa cosa dispiacque a Vinegia; ma molto più a
Firenze; perché credevono, per quella via, potere fare
resistenza a Niccolò; ma veduti i Malatesti ribellati, si
sbigottirono, massimamente perché temevono che Pietrogiampaolo
Orsino, loro capitano, il quale si trovava nelle terre de' Malatesti,
non fusse svaligiato, e rimanere disarmati.
Questa novella
medesimamente sbigottì il Conte, perché temeva di non
perdere la Marca, passando Niccolò in Toscana; e disposto di
andare a soccorrere la casa sua, se ne venne a Vinegia; e intromesso
al Principe, mostrò come la passata sua in Toscana era utile
alla lega, perché la guerra si aveva a fare dove era lo
esercito e il capitano del nimico, non dove erano le terre e le
guardie sue: perché, vinto l'esercito, è vinta la
guerra; ma vinte le terre, e lasciando intero lo esercito, diventa
molte volte la guerra più viva; affermando la Marca e la
Toscana essere perdute, se a Niccolò non si faceva gagliarda
opposizione; le quali perdute, non aveva rimedio la Lombardia; ma
quando l'avesse rimedio, non intendeva di abbandonare i suoi sudditi
e i suoi amici; e che era passato in Lombardia signore, e non voleva
partirsene condottiere.
A questo fu replicato da il Principe come gli
era cosa manifesta che s'egli, non solamente partisse di Lombardia,
ma con lo esercito ripassasse il Po, che tutto lo stato loro di terra
si perderebbe; e loro non erano per spendere più alcuna cosa
per difenderlo, perché non è savio colui che tenta di
difendere una cosa che si abbia a perdere in ogni modo; ed è,
con minore infamia, meno danno perdere gli stati solo, che li stati e
i danari.
E quando la perdita delle cose loro seguisse, si vedrebbe
allora quanto importa la reputazione de' Viniziani a mantenere la
Toscana e la Romagna.
E però erano al tutto contrari alla sua
opinione, perché credevono che chi vincesse in Lombardia
vincerebbe in ogni altro luogo, e il vincere era facile, rimanendo lo
stato del Duca, per la partita di Niccolò, debile in modo che
prima si poteva fare rovinare che gli avesse o potuto rivocare
Niccolò, o provedutosi di altri rimedi.
E che chi esaminasse
ogni cosa saviamente, vedrebbe il Duca non avere mandato Niccolò
in Toscana per altro che per levare il Conte da queste imprese, e la
guerra che gli ha in casa farla altrove; di modo che, andandogli
dietro il Conte, se prima non si veggia una estrema necessità,
si verrà ad adempiere i disegni suoi e farlo della sua
intenzione godere, ma se si manterranno le genti in Lombardia e in
Toscana si provvegga come e' si può, e' si avvedrà
tardi del suo malvagio partito, e in tempo che gli arà sanza
rimedio perduto in Lombardia e non vinto in Toscana.
Detta adunque e
replicata da ciascuno la sua opinione, si concluse che si stesse a
vedere qualche giorno per vedere questo accordo de' Malatesti con
Niccolò quello partorisse, e se di Pietrogiampaulo i
Fiorentini si potevono valere, e se il Papa andava di buone gambe con
la lega, come gli aveva promesso.
Fatta questa conclusione, pochi
giorni apresso furono certificati, i Malatesti avere fatto quello
accordo più per timore che per alcuna malvagia cagione, e
Pietrogiampaulo esserne ito con le sue genti verso Toscana, e il Papa
essere di migliore voglia per aiutare la lega che prima.
I quali
avvisi feciono fermare lo animo al Conte.
E fu contento rimanere in
Lombardia; e Neri Capponi tornassi a Firenze con mille de' suoi
cavagli e con cinquecento degli altri; e se pure le cose procedessino
in modo, in Toscana, che la opera del Conte vi fusse necessaria, che
si scrivesse, e che allora il Conte, sanza alcuno rispetto, si
partisse.
Arrivò pertanto Neri con queste genti in Firenze di
aprile, e il medesimo dì giunse Giampaulo.
30
Niccolò
Piccino, in questo mezzo, ferme le cose di Romagna, disegnava di
scendere in Toscana; e volendo passare per l'alpe di San Benedetto e
per la valle di Montone, trovò quelli luoghi, per la virtù
di Niccolò da Pisa, in modo guardati, che giudicò che
vano sarebbe da quella parte ogni suo sforzo.
E perché i
Fiorentini in questo assalto subito erano mal provisti e di soldati e
di capi, avevano a' passi di quelle alpi mandati più loro
cittadini, con fanterie di subito fatte, a guardarli; intra' quali fu
messer Bartolommeo Orlandini cavaliere, al quale fu in guardia il
castello di Marradi e il passo di quella alpe consegnato.
Non avendo
adunque Niccolò Piccino giudicato potere superare il passo di
San Benedetto, per la virtù di chi lo guardava, giudicò
di potere vincere quello di Marradi per la viltà di chi
l'aveva a difendere.
È Marradi uno castello posto a piè
delle alpi che dividono la Toscana dalla Romagna, ma da quella parte
che guarda verso Romagna, e nel principio di Val di Lamona; e benché
sia senza mura, non di meno il fiume, i monti e gli abitatori lo
fanno forte; perché gli uomini sono armigeri e fedeli, e il
fiume in modo ha roso il terreno, e ha sì alte le grotte sue,
che a venirvi di verso la valle è impossibile, qualunque volta
un picciol ponte, che è sopra il fiume, fusse difeso; e dalla
parte de' monti sono le ripe sì aspre che rendono quel sito
sicurissimo.
Non di meno la viltà di messer Bartolomeo rendé
e quelli uomini vili e quel sito debolissimo; perché non prima
e' sentì il romore delle genti inimiche, che, lasciato ogni
cosa in abbandono, con tutti i suoi se ne fuggì; né si
fermò prima che al Borgo a San Lorenzo.
Niccolò,
entrato ne' luoghi abbandonati pieno di maraviglia che non fussero
difesi e di allegrezza di avergli acquistati, scese in Mugello; dove
occupò alcune castella; e a Pulicciano fermò il suo
esercito, donde scorreva tutto il paese infino a' monti di Fiesole.
E
fu tanto audace che passò Arno, e infino a tre miglia
propinquo a Firenze predò e scorse ogni cosa.
31
I
Fiorentini, dall'altra parte, non si sbigottirono, e prima che ogni
altra cosa, attesono a tenere fermo il governo; del quale potevono
poco dubitare per la benivolenza che Cosimo aveva nel popolo, e per
avere ristretti i primi magistrati intra pochi potenti, i quali con
la severità loro tenevono fermo, se pure alcuno vi fusse stato
male contento o di nuove cose desideroso.
Sapevano ancora, per gli
accordi fatti in Lombardia con quali forze tornava Neri, e da il Papa
aspettavano le genti sue: la quale speranza infino alla tornata di
Neri li tenne vivi.
Il quale, trovata la città in questi
disordini e paure, deliberò uscire in campagna, per frenare in
parte Niccolò, che liberamente non saccheggiasse il paese, e
fatto testa di più fanti, tutti del popolo, con quella
cavalleria si trovavano, uscì fuora, e riprese Remole che
tenevano i nimici; dove accampatosi proibiva a Niccolò lo
scorrere e a' cittadini dava speranza di levargli il nimico
d'intorno.
Niccolò, veduto come i Fiorentini quando erano
spogliati di gente non avevono fatto alcuno movimento, e inteso con
quanta sicurtà in quella città si stava, gli pareva
invano consumare il tempo, e deliberò fare altre imprese,
acciò che i Fiorentini avessero cagione di mandargli dietro le
genti, e dargli occasione di venire alla giornata; la quale vincendo,
pensava che ogni altra cosa gli succedessi prospera.
Era nello
esercito di Niccolò Francesco conte di Poppi, il quale si era,
come i nimici furono in Mugello ribellato da' Fiorentini con i quali
era in lega.
E benché prima i Fiorentini ne dubitassero, per
farselo con i benificii amico, gli accrebbono la provisione, e sopra
tutte le loro terre a lui convicine lo feciono commissario.
Non di
meno (tanto può negli uomini lo amore della parte) alcuno
benifizio né alcuna paura gli poté fare sdimenticare
l'affezione portava a messer Rinaldo e agli altri che nello stato
primo governavano; tanto che, subito che gli intese Niccolò
esser propinquo, si accostò con lui; e con ogni sollecitudine
lo confortava a scostarsi dalla città e passare in Casentino,
mostrandogli la fortezza del paese, e con quale securtà
poteva, di quivi, tenere stretti i nimici.
Prese per tanto Niccolò
questo consiglio;giunto in Casentino, occupò Romena e
Bibbiena; di poi pose il campo a Castel San Niccolò.
È
questo castello posto a piè delle alpi che dividono il
Casentino da il Val d'Arno; e per essere in luogo assai rilevato, e
dentrovi sufficienti guardie, fu difficile la sua espugnazione,
ancora che Niccolò con briccole e simili artiglierie
continuamente lo combattesse.
Era durato questo assedio più di
venti giorni, infra il quale tempo i Fiorentini avevano le loro genti
raccozzate; e di già avevano, sotto più condottieri,
tremila cavagli a Fegghine ragunati, governati da Pietrogiampaulo
capitano e da Neri Capponi e Bernardo de' Medici commissari.
A
costoro vennono quattro, mandati da Castello San Niccolò, a
pregarli dovessero dare loro soccorso.
I commissari, esaminato il
sito, vedevano non li potere soccorrere se non per le alpi che
venivano di Val d'Arno; la sommità delle quali poteva essere
occupata prima dal nimico che da loro, per avere a fare più
corto cammino, e per non potersi la loro venuta celare; in modo che
si andava a tentare una cosa da non riuscire e poterne seguire la
rovina delle genti loro.
Onde che i commissari lodorono la fede di
quelli, e commissono loro che, quando e' non potessero più
difendersi si arrendessero.
Prese adunque Niccolò questo
castello dopo trentadue giorni che vi era ito con il campo, e tanto
tempo perduto per sì poco acquisto fu della rovina della sua
impresa buona parte cagione; perché, se si manteneva con le
genti d'intorno a Firenze, faceva che chi governava quella città
non poteva se non con rispetto, strignere i cittadini a fare danari;
e con più difficultà ragunavano le genti e facevono
ogni altra provisione avendo il nimico adosso, che discosto; e
arebbono molti avuto animo a muovere qualche accordo per assicurarsi
di Niccolò con la pace, veggendo che la guerra fusse per
durare.
Ma la voglia che il conte di Poppi aveva di vendicarsi contro
a quelli castellani, stati lungo tempo suoi nimici, gli fece dare
quel consiglio; e Niccolò, per sodisfargli, lo prese, il che
fu la rovina dell'uno e dell'altro: e rade volte accade che le
particulari passioni non nuochino alle universali commodità.
Niccolò, seguitando la vittoria, prese Rassina e Chiusi.
In
questi parti il conte di Poppi lo persuadeva a fermarsi, mostrando
come e' poteva distendere le sue genti fra Chiusi, Caprese e la
Pieve; e veniva ad essere signore delle alpi, e potere a sua posta in
Casentino, in Val d'Arno, in Val di Chiana e in Val di Tevere
scendere, ed essere presto ad ogni moto che facessino i nimici.
Ma
Niccolò, considerata la asprezza de' luoghi, gli disse che i
suoi cavagli non mangiavano sassi; e ne andò al Borgo a San
Sepolcro, dove amichevolmente fu ricevuto.
Dal quale luogo tentò
gli animi di quelli di Città di Castello, i quali, per essere
amici a' Fiorentini, non lo udirono.
E desiderando egli avere i
Perugini a sua devozione, con quaranta cavagli se ne andò a
Perugia, dove fu ricevuto, sendo loro cittadino, amorevolmente.
Ma in
pochi giorni vi diventò sospetto, e tentò con il Legato
e con i Perugini più cose, e non gliene successe niuna; tanto
che, ricevuto da loro ottomila ducati, se ne tornò allo
esercito.
Di quivi tenne pratiche in Cortona per torla a' Fiorentini;
e per essersi scoperta la cosa prima che il tempo, diventorono i
disegni suoi vani.
Era intra i primi cittadini di quella città
Bartolommeo di Senso: costui andando la sera, per ordine del
capitano, alla guardia d'una porta, gli fu da uno del contado, suo
amico, fatto intendere che non vi andasse, se voleva non esservi
morto.
Volle intendere Bartolommeo il fondamento della cosa, e trovò
l'ordine del trattato che si teneva con Niccolò.
Il che
Bartolommeo, per ordine al capitano rivelò; il quale,
assicuratosi de' capi della congiura e raddoppiato le guardie alle
porte, aspettò, secondo l'ordine dato, che Niccolò
venisse; il quale venne di notte e al tempo ordinato; e trovandosi
scoperto, se ne ritornò agli alloggiamenti suoi.
32
Mentre
che queste cose in questa maniera in Toscana si travagliavano, e con
poco acquisto per la gente del Duca, in Lombardia non erano quiete,
ma con perdita e danno suo.
Perché il conte Francesco, come
prima lo consentì il tempo, uscì con lo esercito suo in
campagna; e perché i Viniziani avevano la loro armata del lago
instaurata, volle il Conte, prima che ogni cosa, insignorirsi delle
acque, e cacciare il Duca del lago, giudicando, fatto questo, che
l'altre cose gli sarieno facile.
Assaltò per tanto, con
l'armata de' Viniziani, quella del Duca, e la ruppe, e con le genti
di terra le castella che al Duca ubbidivano; tanto che l'altre genti
ducali, che per terra strignevano Brescia, intesa quella rovina, si
allargorono: e così Brescia, dopo tre anni che l'era stata
assediata, dallo assedio fu libera.
Apresso a questa vittoria, il
Conte andò a trovare li nimici che si erano ridotti a Soncino,
castello posto in sul fiume dello Ollio, e quelli diloggiò, e
li fece ritirare a Cremona; dove il Duca fece testa, e da quella
parte i suoi stati difendeva.
Ma stringendolo più l'uno dì
che l'altro il Conte e dubitando non perdere o tutto o gran parte
degli stati suoi, cognobbe la malvagità del partito da lui
preso, di mandare Niccolò in Toscana; e per ricorreggere lo
errore, scrisse a Niccolò in quali termini si trovava e dove
erano condotte le sue imprese: per tanto, il più presto
potesse, lasciato la Toscana, se ne tornasse in Lombardia.
I
Fiorentini, in questo mezzo, sotto i loro commissari avevono ragunate
le loro genti con quelle del Papa, e avevano fatto alto ad Anghiari,
castello posto nelle radice de' monti che dividono Val di Tevere da
Val di Chiana, discosto al Borgo a San Sepolcro quattro miglia, via
piana, e i campi atti a ricevere cavagli e maneggiarvisi guerra.
E
perché eglino avieno notizia delle vittorie del Conte e della
revocazione di Niccolò, giudicorono con la spada dentro e
sanza polvere avere vinta quella guerra; e per ciò a'
commissari scrissono che si astenessero dalla giornata, perché
Niccolò non poteva molti giorni stare in Toscana.
Questa
commissione venne a notizia a Niccolò, e veggendo la necessità
del partirsi, per non lasciare cosa alcuna intentata, deliberò
fare la giornata, pensando di trovare i nimici sproveduti e con il
pensiero alieno dalla zuffa.
A che era confortato da messer Rinaldo,
da il conte di Poppi e dagli altri fuorusciti fiorentini, i quali la
loro manifesta rovina cognoscevano se Niccolò si partiva, ma
venendo a giornata, credevono o potere vincere la impresa, o perderla
onorevolmente.
Fatta adunque questa deliberazione, mosse lo esercito
donde era, intra Città di Castello e il Borgo; e venuto al
Borgo sanza che i nimici se ne accorgessero, trasse di quella terra
dumila uomini, i quali confidando nella virtù del capitano e
nelle promesse sue, desiderosi di predare, lo seguirono.
33
Dirizzatosi
dunque Niccolò, con le schiere in battaglia, verso Anghiari,
era già loro propinquo a meno di dua miglia, quando da
Micheletto Attendulo fu veduto un grande polverio; e accortosi come
gli erano i nimici, gridò all'arme.
Il tumulto nel campo de'
Fiorentini fu grande, perché, campeggiando quelli eserciti per
lo ordinario sanza alcuna disciplina, vi si era aggiunta la
negligenzia, per parere loro avere il nimico discosto e più
disposto alla fuga che alla zuffa; in modo che ciascuno era
disarmato, di lungi dagli alloggiamenti, e in quel luogo dove la
volontà, o per fuggire il caldo che era grande, o per seguire
alcuno suo diletto, lo aveva tirato.
Pure fu tanta la diligenza de'
commissari e del capitano, che, avanti fussero arrivati i nimici,
erano a cavallo e ordinati a potere resistere allo impeto suo.
E come
Micheletto fu il primo a scoprire il nimico, così fu il primo
armato ad incontrarlo; e corse con le sue genti sopra il ponte del
fiume che attraversa la strada non molto lontano da Anghiari.
E
perché, davanti alla venuta del nimico, Pietrogiampaulo aveva
fatto spianare le fosse che circundavano la strada che è tra
il ponte e Anghiari, sendosi posto Micheletto allo incontro del
ponte, Simoncino, condottiere della Chiesa, con il Legato, si mossono
da man destra, e da sinistra i commissari fiorentini con
Pietrogiampaulo loro capitano, e le fanterie disposono da ogni parte
su per la ripa del fiume.
Non restava per tanto agli nimici altra via
aperta ad andare a trovare gli avversarii loro, che la diritta del
ponte; né i Fiorentini avevono altrove che al ponte a
combattere, eccetto che alle fanterie loro avevono ordinato che, se
le fanterie nimiche uscivano di strada per essere a' fianchi delle
loro genti d'armi, con le balestra le combattessero, acciò che
quelle non potessero ferire per fianco i loro cavalli che passassero
il ponte.
Furono per tanto le prime genti che comparsono da
Micheletto gagliardamente sostenute, e non che altro, da quello
ributtate; ma sopravenendo Astor e Francesco Piccinino con gente
eletta, con tale impeto in Micheletto percossono, che gli tolsono il
ponte e lo pinsono infino al cominciare dell'erta che sale al borgo
di Anghiari; di poi furono ributtati e ripinti fuori del ponte da
quelli che dai fianchi gli assalirono.
Durò questa zuffa due
ore, che ora Niccolò, ora le genti fiorentine erano signori
del ponte.
E benché la zuffa sopra il ponte fusse pari, non di
meno e di là e di qua dal ponte con disavvantaggio grande di
Niccolò si combatteva.
Perché, quando le genti di
Niccolò passavano il ponte, trovavano i nimici grossi, che,
per le spianate fatte, si potevono maneggiare, e quelli che erano
stracchi potevono dai freschi essere soccorsi; ma quando le genti
fiorentine lo passavano, non poteva commodamente Niccolò
rinfrescare i suoi, per essere angustiato dalle fosse e dagli argini
che fasciavano la strada: come intervenne, perché molte volte
le genti di Niccolò vinsono il ponte, e sempre dalle genti
fresche degli avversarii furono ripinte indietro, ma come il ponte
dai Fiorentini fu vinto, talmente che le loro genti entrorono nella
strada, non sendo a tempo Niccolò, per la furia di chi veniva
e per la incommodità del sito a rinfrescare i suoi, in modo
quelli davanti con quelli di dietro si mistorono, che l'uno disordinò
l'altro, e tutto lo esercito fu constretto mettersi in volta e
ciascuno, sanza alcuno rispetto, si rifuggì verso il Borgo.
I
soldati fiorentini attesono alla preda; la quale fu, di prigioni, di
arnesi e di cavagli, grandissima, perché con Niccolò
non rifuggirono salvi mille cavalli.
I Borghigiani, i quali avevono
seguitato Niccolò per predare, di predatori divennono preda, e
furono presi tutti e taglieggiati; le insegne e i carriaggi furono
tolti.
E fu la vittoria molto più utile per la Toscana, che
dannosa per il Duca; perché, se i Fiorentini perdevono la
giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, non perdé
altro che le armi e i cavagli del suo esercito; i quali con non molti
danari si poterono recuperare.
Né furono mai tempi che la
guerra che si faceva ne' paesi d'altri fusse meno pericolosa per chi
la faceva, che in quelli.
E in tanta rotta e in sì lunga
zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì
altri che uno uomo; il quale, non di ferite o d'altro virtuoso colpo,
ma caduto da cavallo e calpesto espirò: con tanta securtà
allora gli uomini combattevano, perché, sendo tutti a cavallo,
e coperti d'arme, e securi dalla morte qualunque volta e' si
arrendevano, non ci era cagione perché dovessero morire,
defendendogli nel combattere le armi, e quando e' non potevono più
combattere, lo arrendersi.
34
È
questa zuffa, per le cose seguite combattendo e poi, esemplo grande
della infelicità di queste guerre; perché, vinti i
nimici e ridutto Niccolò nel Borgo, i commissari volevono
seguirlo e in quel luogo assediarlo per avere la vittoria intera; ma
da alcuno condottiere o soldato non furono voluti ubbidire, dicendo
volere riporre la preda e medicare i feriti.
E quello che è
più notabile fu che l'altro dì, a mezzo giorno, sanza
licenza o rispetto di commissario o di capitano ne andorono ad
Arezzo, e quivi lasciata la preda, ad Anghiari ritornorono: cosa
tanto contro ad ogni lodevole ordine e militare disciplina, che ogni
reliquia di qualunque ordinato esercito arebbe facilmente e
meritamente potuto loro torre quella vittoria che gli avieno
immeritamente acquistata.
Oltra di questo, volendo i commissari che
ritenessero gli uomini d'arme presi, per torre occasione al nimico di
rifarsi, contro alla volontà loro li liberorono.
Cose tutte da
maravigliarsi come in uno esercito così fatto fusse tanta
virtù che sapesse vincere, e come nello inimico fusse tanta
viltà che da sì disordinate genti potesse essere vinto.
Nello andare dunque e tornare che feciono le genti fiorentine di
Arezzo, Niccolò ebbe tempo a partirsi con le sue genti dal
Borgo, e ne andò verso Romagna, con il quale ancora i rebelli
fiorentini si fuggirono.
I quali, vedutosi mancata ogni speranza di
tornare a Firenze, in più parti, in Italia e fuori, secondo la
commodità di ciascuno, si divisono.
De' quali messer Rinaldo
elesse la sua abitazione ad Ancona: e per guadagnarsi la celeste
patria, poi che gli aveva perduta la terrestre, se ne andò al
sepulcro di Cristo; donde tornato, nel celebrare le nozze d'una sua
figliuola sendo a mensa, di subito morì: e fugli in questo la
fortuna favorevole, che nel meno infelice giorno del suo esilio lo
fece morire.
Uomo veramente in ogni fortuna onorato: ma più
ancora stato sarebbe, se la natura lo avesse in una città
unita fatto nascere; perché molte sue qualità in una
città divisa lo offesono, che in una unita l'arebbono
premiato.
I commissari adunque, tornate le genti loro da Arezzo, e
partito Niccolò, si presentorono al Borgo.
I Borghesi volevono
darsi a' Fiorentini, e quelli recusavano di pigliarli: e nel trattare
questi accordi, il Legato del pontefice insospettì de'
commissari, che non volessero quella terra occupare alla Chiesa;
tanto che vennono insieme a parole ingiuriose; e sarebbe seguito
intra le genti fiorentine e le ecclesiastiche disordine se la pratica
fusse ita molto in lunga ma perché la ebbe il fine che voleva
i Legato, ogni cosa si pacificò.
35
Mentre
che le cose del Borgo si travagliavano, si intese Niccolò
Piccino essere ito verso Roma; e altri avvisi dicevano verso la
Marca; donde parve al Legato e alle genti sforzesche di andare verso
Perugia, per suvvenire o alla Marca o a Roma, dove Niccolò si
fusse volto; e con quelle andasse Bernardo de Medici; e Neri con le
genti fiorentine ne andassi allo acquisto del Casentino.
Fatta questa
deliberazione Neri ne andò a campo a Rassina, e quella prese,
e con il medesimo impeto prese Bibbiena, Prato Vecchio e Romena, e di
quivi pose il campo a Poppi, e da due parti lo cinse: una nel piano
di Certomondo, l'altra sopra il colle che passa a Fronzoli.
Quel
Conte, vedutosi abbandonato da Dio e dagli uomini, si era rinchiuso
in Poppi, non perché gli sperasse di potere avere alcuno
aiuto, ma per fare l'accordo, se poteva, meno dannoso.
Stringendolo
pertanto Neri, egli adimandò patti; e trovolli tali quali in
quel tempo ei poteva sperare: di salvare sé, suoi figliuoli e
cose che ne poteva portare; e la terra e lo stato cedere ai
Fiorentini.
E quando e' capitulorono, discese sopra il ponte di Arno,
che passa a piè della terra, e tutto doloroso e afflitto disse
a Neri: - Se io avesse bene misurato la fortuna mia e la potenza
vostra, io verrei ora amico a rallegrarmi con voi della vostra
vittoria, non nimico a supplicarvi che fusse meno grave la mia
rovina.
La presente sorte, come la è a voi magnifica e lieta,
così è a me dolente e misera.
Io ebbi cavagli, arme,
sudditi, stato e ricchezze: che maraviglia è se mal volentieri
le lascio? Ma se voi volete e potete comandare a tutta la Toscana, di
necessità conviene che noi altri vi ubbidiamo; e se io non
avesse fatto questo errore, la mia fortuna non sarebbe stata
cognosciuta, e la vostra liberalità non si potrebbe conoscere;
perché, se voi mi conserverete, darete al mondo uno eterno
esemplo della vostra clemenzia.
Vinca per tanto la pietà
vostra il fallo mio; lasciate almeno questa sola casa al disceso di
coloro da' quali i padri vostri hanno innumerabili benifici ricevuti
-.
il quale Neri rispose come lo avere sperato troppo in quelli che
potevono poco lo aveva fatto in modo contro alla republica di Firenze
errare, che, aggiuntovi le condizioni de' presenti tempi, era
necessario cedesse tutte le cose sue, e quelli luoghi nimico a'
Fiorentini abbandonasse, che loro amico non aveva voluti tenere:
perché gli aveva dato di sé tale esemplo che non poteva
essere nutrito dove, in ogni variazione di fortuna, e' potesse a
quella republica nuocere; perché non lui, ma gli stati suoi si
temevano; ma che se nella Magna e' potessi essere principe, quella
città lo desiderrebbe, e per amore di quelli suoi antichi che
gli allegava, lo favorirebbe.
A questo il Conte, tutto sdegnato,
rispose che vorrebbe i Fiorentini molto più discosto vedere.
E
così, lasciato ogni amorevole ragionamento, il Conte, non
veggendo altro rimedio, cedé la terra e tutte le sue ragioni
a' Fiorentini; e con tutte le sue robbe, insieme con la moglie e co'
figliuoli, piangendo si partì; dolendosi di avere perduto uno
stato che i suoi padri per novecento anni avevono posseduto.
Queste
vittorie tutte, come s'intesono a Firenze, furono da i principi del
governo e da quel populo con maravigliosa allegrezza ricevute.
E
perché Bernardetto de' Medici trovò essere vano che
Niccolò fusse ito verso la Marca o a Roma, se ne tornò
con le genti dove era Neri; e insieme tornati a Firenze, fu loro
deliberati tutti quelli onori e quali, secondo l'ordine della città,
a loro vittoriosi cittadini si possono deliberare maggiori; e da i
Signori e da' Capitani di parte, e di poi da tutta la città,
furono ad uso di trionfanti ricevuti.
LIBRO SESTO
1
Fu
sempre, e così è ragionevole che sia, il fine di coloro
che muovono una guerra, di arricchire sé e impoverire il
nimico; né per altra cagione si cerca la vittoria, né
gli acquisti per altro si desiderano, che per fare sé potente
e debole lo avversario.
Donde ne segue che, qualunque volta o la tua
vittoria ti impoverisce o lo acquisto ti indebolisce, conviene si
trapassi o non si arrivi a quel termine per il quale le guerre si
fanno.
Quel principe e quella republica è dalle vittorie nelle
guerre arricchito, che spegne i nimici ed è delle prede e
delle taglie signore; quello delle vittorie impoverisce, che i
nimici, ancora che vinca, non può spegnere, e le prede e le
taglie, non a lui, ma a i suoi soldati appartengono.
Questo tale è
nelle perdite infelice e nelle vittorie infelicissimo, perché,
perdendo, quelle ingiurie sopporta che gli fanno i nimici; vincendo,
quelle che gli fanno gli amici; le quali, per essere meno
ragionevoli, sono meno sopportabili, veggendo massime essere i suoi
sudditi con taglie e nuove offese di raggravare necessitato; e se gli
ha in sé alcuna umanità, non si può di quella
vittoria interamente rallegrare, della quale tutti i suoi sudditi si
contristono.
Solevono le antiche e bene ordinate republiche, nelle
vittorie loro, riempiere d'oro e d'ariento lo erario, distribuire
doni nel popolo, rimettere a' sudditi i tributi, e con giuochi e con
solenne feste festeggiarli; ma quelle di quelli tempi che noi
descriviamo, prima votavono lo erario, di poi impoverivano il popolo,
e de' nimici tuoi non ti assicuravano.
Il che tutto nasceva da il
disordine con il quale quelle guerre si trattavano: perché,
spogliandosi i nimici vinti, e non si ritenendo né ammazzando,
tanto quelli a riassalire il vincitore differivono, quanto ei
penavano da chi gli conduceva d'essere d'arme e cavagli riforniti.
Sendo ancora le taglie e la preda de' soldati, i principi vincitori
di quelle nelle nuove spese de' nuovi soldi non si valevano, ma delle
viscere de' loro popoli gli traevono, né partoriva altro la
vittoria, in benifizio de' popoli, se non che la faceva il principe
più sollecito e meno respettivo ad aggravargli.
E a tale
quelli soldati avevono la guerra condotta, che ugualmente al
vincitore e al vinto, a volere potere alle sue genti comandare, nuovi
danari bisognavano, perché l'uno aveva a rivestirgli, l'altro
a premiargli; e come quelli sanza essere rimessi a cavallo non
potevano, così quelli altri sanza nuovi premi combattere non
volevano.
Di qui nasceva che l'uno godeva poco la vittoria, l'altro
poco sentiva la perdita; perché il vinto era a tempo a
rifarsi, e il vittorioso non era a tempo a seguire la vittoria.
2
Questo
disordine e perverso modo di milizia fece che Niccolò Piccino
era prima rimontato a cavallo, che si sapesse per Italia la sua
rovina; e maggiore guerra faceva dopo la perdita al nimico, che prima
non aveva fatta.
Questo fece che, dopo la rotta di Tenna, e' potette
occupare Verona; questo fece che, spogliato delle sue genti a Verona,
e' potette venire con un grosso esercito in Toscana; questo fece che,
rotto ad Anghiari, innanzi che pervenisse in Romagna, era in su i
campi più potente che prima, e potette riempiere il Duca di
Milano di speranza di potere difendere la Lombardia, la quale per la
sua assenzia gli pareva quasi che avere perduta.
Perché,
mentre che Niccolò riempiva di tumulti la Toscana, il Duca si
era ridotto in termine che dubitava dello stato suo; e giudicando che
potesse prima seguire la rovina sua, che Niccolò Piccino il
quale aveva richiamato, fusse venuto a soccorrerlo, per frenare
l'impeto del Conte e temporeggiare quella fortuna con la industria,
la quale non poteva con la forza sostenere, ricorse a quelli remedi i
quali in simili termini molte volte gli erano giovati; e mandò
Niccolò da Esti principe di Ferrara a Peschiera, dove era il
Conte.
Il quale per parte sua lo confortò alla pace, e gli
mostrò come al Conte non era quella guerra a proposito:
perché, se il Duca si indeboliva in modo che non potesse
mantenere la reputazione sua, sarebbe egli il primo che ne patirebbe,
perché da' Viniziani e Fiorentini non sarebbe più
stimato.
E in fede che il Duca desiderava la pace, gli offerse la
conclusione del parentado: e manderebbe la figliuola a Ferrara; la
quale gli prometteva, seguita la pace, dargli nelle mani.
Il Conte
rispose che se il Duca veramente cercassi la pace, facilmente la
troverrebbe, come cosa dai Fiorentini e Viniziani desiderata: vero
era che con difficultà se gli poteva credere conosciuto che
non abbi mai fatto pace se non per necessità, la quale come
manca, gli ritorna la voglia della guerra; ne anche al suo parentado
si poteva prestare fede, sendone stato tante volte beffato non di
meno, quando la pace si concludessi, farebbe poi del parentado quanto
dagli amici fusse consigliato.
3
I
Viniziani, i quali de' loro soldati nelle cose ancora non ragionevoli
sospettono, presono ragionevolmente di queste pratiche sospetto
grandissimo; il quale volendo il Conte cancellare, seguiva la guerra
gagliardamente.
Non di meno l'animo, a lui per ambizione e a'
Viniziani per sospetto, era in modo intepidito, che quello restante
della state si ferono poche imprese; in modo che, tornato Niccolò
Piccino in Lombardia, e di già cominciato il verno, tutti gli
eserciti ne andorono alle stanze: il Conte in Verona, in Cremona il
Duca, le genti fiorentine in Toscana, e quelle del Papa in Romagna.
Le quali, poi che ebbono vinto ad Anghiari, assaltorono Furlì
e Bologna, per trarle di mano a Francesco Piccinino, che in nome del
padre le governava; e non riuscì loro, perché furono da
Francesco gagliardamente difese.
Non di meno questa loro venuta dette
tanto spavento ai Ravennati di non tornare sotto lo imperio della
Chiesa, che, d'accordo con Ostasio di Polenta loro signore, si
missero nella potestà de' Viniziani; i quali, in guidardone
della ricevuta terra, acciò che per alcun tempo Ostasio non
potesse loro per forza torre quello che per poca prudenzia aveva loro
dato, lo mandarono, insieme con un suo figliuolo, a morire in Candia.
Nelle quali imprese, non ostante la vittoria di Anghiari, mancando al
Papa danari vendé il castello del Borgo a Santo Sipolcro
venticinquemila ducati, a' Fiorentini.
Stando per tanto le cose in
questi termini, e parendo a ciascuno, mediante la vernata, essere
sicuro della guerra, non si pensava più alla pace; e massime
il Duca, per essere da Niccolò Piccino e dalla stagione
rassicurato.
E per ciò aveva rotto con il Conte ogni
ragionamento d'accordo, e con grande diligenzia rimisse Niccolò
a cavallo; e faceva qualunque altro provedimento che per una futura
guerra si richiedeva.
Della qual cosa avendo notizia il Conte, ne
andò a Vinegia, per consigliarsi con quel Senato come per lo
anno futuro si avessero a governare.
Niccolò dall'altra parte,
trovandosi in ordine, e vedendo il nimico disordinato, non aspettò
che venisse la primavera; e nel più freddo verno passò
l'Adda, e entrò nel Bresciano, e tutto quel paese, fuora che
Asola e Orci, occupò; dove più che dumila cavalli
sforzeschi, i quali questo assalto non aspettavano, svaligiò e
prese.
Ma quello che più dispiacque al Conte e più
sbigottì i Viniziani fu che Ciarpellone, uno de' primi
capitani del Conte, si ribellò da lui.
Il Conte, avuto questo
avviso, partì subito da Vinegia, e arrivato a Brescia trovò
Niccolò, fatto quelli danni, essersi ritornato alle stanze;
donde che al Conte non parve, poi che trovò la guerra spenta,
di raccenderla; ma volle, poi che il tempo e il nimico gli davano
commodità a riordinarsi, usarla, per potere poi, con il nuovo
tempo, vendicarsi delle vecchie offese.
Fece adunque che i Viniziani
richiamassero le genti che in Toscana servivono a' Fiorentini, e in
luogo di Gattamelata morto, volle che Micheletto Attendulo
conducessero.
4
Venuta
adunque la primavera, Niccolò Piccino fu il primo a uscire in
campagna; e campeggiò Cignano, castello lontano da Brescia
dodici miglia; al soccorso del quale venne il Conte; e tra l'uno e
l'altro di quelli capitani, secondo la loro consuetudine, si
maneggiava la guerra.
E dubitando, il Conte, di Bergamo, andò
a campo a Martiningo, castello posto in luogo da potere facilmente,
espugnato quello, soccorrere Bergamo; la qual città da Niccolò
era gravemente offesa; e perché egli aveva preveduto non
potere esser impedito dal nimico se non per la via di Martiningo,
aveva quel castello di ogni difesa fornito; tal che al Conte fu
necessario andare a quella espugnazione con tutte le forze.
Donde che
Niccolò, con tutto lo esercito suo, si pose in luogo che gli
impediva le vettovaglie al Conte, e con tagliate e bastioni in modo
si era affortificato, che il Conte nol poteva, se non con suo
manifesto pericolo, assalire; e ridussesi la cosa in termine che lo
assediatore era in maggiore pericolo che quelli di Martiningo, che
erano assediati.
Donde che il Conte non poteva più per la fame
campeggiare, né, per il pericolo, poteva levarsi; e si vedeva
per il Duca una manifesta vittoria, e per i Viniziani e il Conte una
espressa rovina.
Ma la fortuna, alla quale non manca modo di aiutare
gli amici e disfavorire i nimici, fece in Niccolò Piccino, per
la speranza di questa vittoria, crescere tanta ambizione e insolenzia
che, non avendo rispetto al Duca né a sé, gli mandò
a dire come, avendo militato sotto le sue insegne gran tempo, e non
avendo ancora acquistata tanta terra che vi si potesse sotterrare
dentro, voleva intendere da lui di quali premii avesse a essere per
le sue fatiche premiato, perché in sua potestà era
farlo signore di Lombardia e porgli tutti i suoi nimici in mano; e
parendogli che d'una certa vittoria ne avesse a nascere certo premio,
desiderava gli concedesse la città di Piacenza, acciò,
stanco di sì lunga milizia, potesse qualche volta riposarsi.
Né si vergognò, in ultimo, minacciare il Duca di
lasciare la impresa, quando a questa sua domanda non acconsentisse.
Questo modo di domandare ingiurioso e insolente offese tanto il Duca
e ne prese tanto sdegno, che deliberò più tosto volere
perdere la impresa che consentirlo.
E quello che tanti pericoli e
tanti minacci di nimici non avevono fatto piegare, gli insolenti modi
degli amici piegorono: e deliberò fare lo accordo con il
Conte; a cui mandò Antonio Guidobuono da Tortona; e per quello
gli offerse la figliuola e le condizioni della pace; le quali cose
furono avidamente da lui e da tutti i collegati accettate.
E fermi i
patti secretamente infra loro, mandò il Duca a comandare a
Niccolò che facesse tregua per uno anno con il Conte,
mostrando essere tanto con le spese affaticato che non poteva
lasciare una certa pace per una dubia vittoria.
Restò Niccolò
ammirato di questo partito, come quello che non poteva cognoscere
qual cagione lo movesse a fuggire sì gloriosa vittoria; e non
poteva credere che, per non volere premiare gli amici, e' volesse e
suoi nimici salvare.
Per tanto, in quel modo che gli parve migliore,
a questa deliberazione si opponeva; tanto che il Duca fu constretto,
a volerlo quietare, di minacciarlo che lo darebbe, quando egli non vi
acconsentisse, a' suoi soldati e a' suoi nimici in preda.
Ubbidì
adunque Niccolò, non con altro animo che si faccia colui che
per forza abbandona gli amici e la patria, dolendosi della sua
malvagia sorte; poi che ora la fortuna, ora il Duca, de' suoi nimici
gli toglievono la vittoria.
Fatta la triegua, le nozze di madonna
Bianca e del Conte si celebrorono; e per dota di quella gli consegnò
la città di Cremona.
Fatto questo, si fermò la pace, di
novembre, nel 1441; dove per i Viniziani Francesco Barbadico e Paulo
Trono, e per i Fiorentini messer Agnolo Acciaiuoli convennono, nella
quale i Viniziani Peschiera, Asola e Lonato, castella del marchese
mantuano, guadagnorono.
5
Ferma
la guerra in Lombardia, restavano le armi del Regno; le quali, non si
potendo quietare, furono cagione che di nuovo in Lombardia si
ripigliassero.
Era il re Rinato da Alfonso di Ragona stato spogliato,
mentre la guerra di Lombardia si travagliava di tutto il reame
eccetto che di Napoli, tale che Alfonso parendogli avere la vittoria
in mano, deliberò, mentre assediava Napoli, torre al Conte
Benevento e gli altri suoi stati che in quelle circunstanze
possedeva; perché giudicava questo fatto potergli sanza suo
periculo riuscire, sendo il Conte nelle guerre di Lombardia occupato.
Successe ad Alfonso per tanto facilmente questa impresa; e con poca
fatica tutte quelle terre occupò; ma venuta la nuova della
pace di Lombardia, Alfonso temé che il Conte non venisse, per
le sue terre, in favore di Rinato, e Rinato sperò per le
medesime cagioni in quello.
Mandò per tanto Rinato a
sollecitare il Conte, pregandolo che venisse a soccorrere uno amico e
d'uno nimico a vendicarsi.
Dall'altra parte Alfonso pregava Filippo
che dovesse, per la amicizia aveva seco fare dare al Conte tanti
affanni che, occupato in maggiori imprese, fusse di lasciare quella
necessitato.
Accettò Filippo questo invito, sanza pensare che
turbava quella pace la quale poco davanti aveva con tanto suo
disavantaggio fatta.
Fece per tanto intendere a papa Eugenio come
allora era tempo di riavere quelle terre che il Conte, della Chiesa,
ocupava; e a questo fare gli offerse Niccolò Piccino pagato
mentre che la guerra durasse; il quale, fatta la pace, si stava con
le sue genti in Romagna.
Prese Eugenio cupidamente questo consiglio,
per lo odio teneva con il Conte e per il desiderio aveva di riavere
il suo; e se altra volta fu con questa medesima speranza da Niccolò
ingannato, credeva ora, intervenendoci il Duca, non potere dubitare
di inganno; e accozzate le genti con quelle di Niccolò, assalì
la Marca.
Il Conte, percosso da sì inopinato assalto, fatto
testa delle sue genti, andò contro al nimico.
In questo mezzo
il re Alfonso occupò Napoli; donde che tutto quel regno,
eccetto Castelnuovo, venne in sua potestà.
Lasciato per tanto
Rinato, in Castelnuovo, buona guardia, si partì; e venuto a
Firenze, fu onoratissimamente ricevuto; dove stato pochi giorni,
veduto non potere fare più guerra se ne andò a
Marsilia.
Alfonso, in questo mezzo, aveva preso Castelnuovo, e il
Conte si trovava, nella Marca, inferiore al Papa e a Niccolò;
per ciò ricorse a' Viniziani e Fiorentini per aiuti di gente e
di danari, mostrando che, se allora ei non pensavano di frenare il
Papa e il Re, mentre che gli era ancora vivo, ch'eglino arebbono,
poco di poi, a pensare alla salute propria, perché si
accosterebbono con Filippo, e dividerebbonsi la Italia.
Stettono i
Fiorentini e i Viniziani un tempo sospesi, sì per non
giudicare se si era bene inimicarsi con il Papa e con il Re, sì
per trovarsi occupati nelle cose de' Bolognesi.
Aveva Annibale
Bentivogli cacciato di quella città Francesco Piccinino, e per
potersi defendere dal Duca, che favoriva Francesco, aveva a'
Viniziani e Fiorentini domandato aiuto; e quelli non gliene avieno
negato; in modo che, essendo in queste imprese occupati, non potevono
resolversi ad aiutare il Conte.
Ma sendo seguito che Annibale aveva
rotto Francesco Piccinino, e parendo quelle cose posate, deliberorono
i Fiorentini suvvenire al Conte; ma prima, per assicurarsi del Duca,
rinnovorono la lega con quello.
Da che il Duca non si discostò,
come colui che aveva consentito si facesse guerra al Conte mentre che
il re Rinato era in su l'armi, ma vedutolo spento e privo in tutto
del Regno, non gli piaceva che il Conte fusse de' suoi stati
spogliato e per ciò, non solamente consentì agli aiuti
del Conte, ma scrisse ad Alfonso che fusse contento di tornarsi nel
Regno e non gli fare più guerra.
E benché da Alfonso
questo fusse fatto mal volentieri, non di meno, per gli oblighi aveva
con il Duca, deliberò sodisfargli, e si tirò con le
genti di là dal Tronto.
6
Mentre
che in Romagna le cose secondo questo ordine si travagliavano, non
stettono i Fiorentini quieti infra loro.
Era in Firenze, intra i
cittadini reputati nel governo, Neri di Gino Capponi, della cui
reputazione Cosimo de' Medici più che di alcuno altro temeva,
perché al credito grande che gli aveva nella città,
quello che gli aveva con i soldati si aggiugneva; perché,
essendo stato molte volte capo degli eserciti fiorentini, se li
aveva, con la virtù e con i meriti guadagnati.
Oltre a di
questo, la memoria delle vittorie che da lui e da Gino suo padre si
ricognoscevano (avendo questo espugnata Pisa, e quello vinto Niccolò
Piccino ad Anghiari) lo faceva amare da molti e temere da quelli che
desideravono non avere nel governo compagnia Intra molti altri capi
dello esercito fiorentino era Baldaccio di Anghiari, uomo in guerra
eccellentissimo, perché in quelli tempi non era alcuno, in
Italia, che di virtù di corpo e d'animo lo superassi; e aveva
intra le fanterie, perché di quelle sempre era stato capo,
tanta reputazione che ogni uomo existimava che con quello in ogni
impresa e a ogni sua volontà converrebbono.
Era Baldaccio
amicissimo a Neri, come quello che per le sue virtù, delle
quali era sempre stato testimone, lo amava; il che arrecava agli
altri cittadini sospetto grandissimo.
E giudicando che fussi il
lasciarlo pericoloso e il tenerlo pericolosissimo, deliberorono di
spegnerlo.
Al quale loro pensiero fu in questo la fortuna favorevole:
era gonfaloniere di giustizia messer Bartolomeo Orlandini: costui,
sendo mandato alla guardia di Marradi quando, come di sopra dicemmo,
Niccolò Piccino passò in Toscana, vilmente se ne era
fuggito, e aveva abbandonato quel passo che per sua natura quasi si
difendeva; dispiacque tanta viltà a Baldaccio, e con parole
ingiuriose e con lettere fece noto il poco animo di costui: di che
messer Bartolomeo ebbe vergogna e dispiacere grande; e sommamente
desiderava vendicarsene, pensando di potere, con la morte dello
accusatore, la infamia delle sue colpe cancellare.
7
Questo
desiderio di messer Bartolomeo era dagli altri cittadini cognosciuto,
tanto che, sanza molta fatica, che dovesse spegnere quello gli
persuasono e a un tratto sé della ingiuria vendicasse e lo
stato da uno uomo liberasse che bisognava o con pericolo nutrirlo, o
licenziarlo con danno.
Fatta per tanto Bartolomeo deliberazione di
ammazzarlo, rinchiuse nella camera sua molti giovani armati, ed
essendo Baldaccio venuto in Piazza, dove ciascun giorno veniva a
trattare con i magistrati della sua condotta, mandò il
Gonfaloniere per lui, il quale, sanza alcuno sospetto, ubbidì.
A cui il Gonfaloniere si fece incontro, e con seco per lo andito,
lungo le camere de' Signori, della sua condotta ragionando, dua o tre
volte passeggiò.
Di poi, quando gli parve tempo, sendo
pervenuto propinquo alla camera che gli armati nascondeva, fece loro
il cenno.
I quali saltorono fuora, e quello trovato solo e disarmato
ammazzorono, e così morto per la finestra che del Palagio in
Dogana risponde, gittorono, e di quivi, portatolo in Piazza, e
tagliatogli il capo, per tutto il giorno a tutto il popolo spettaculo
ne feciono.
Rimase di costui uno solo figliuolo, che Annalena sua
donna pochi anni davanti gli aveva partorito, il quale non molto
tempo visse.
E restata Annalena priva del figliuolo e del marito, non
volle più con altro uomo accompagnarsi; e fatto delle sue case
uno munistero, con molte nobili donne che con lei convennono si
rinchiuse, dove santamente morì e visse.
La cui memoria, per
il munistero creato e nomato da lei, come al presente vive, così
viverà sempre.
Questo fatto abbassò, in parte, la
potenza di Neri, e tolsegli reputazione e amici.
Né bastò
questo a' cittadini, dello stato, perché, sendo già
passati dieci anni dopo il principio dello stato loro, ed essendo la
autorità della balia finita, e pigliando molti con il parlare
e con le opere più animo che non si richiedeva, giudicorono i
capi dello stato che, a non volere perdere quello, fussi necessario
ripigliarlo, dando di nuovo autorità agli amici e li nimici
battendo.
E per ciò, nel 1444, creorono, per i Consigli, nuova
balia; la quale riformò gli ufici, dette autorità a
pochi di potere creare la Signoria; rinnovò la Cancelleria
delle riformazioni, privandone ser Filippo Peruzzi e a quella
preponendo uno che secondo il parere de' potenti si governassi;
prolungò il tempo de' confini a' confinati, pose Giovanni di
Simone Vespucci nelle carcere; privò degli onori gli
accoppiatori dello stato nimico, e con quelli i figliuoli di Piero
Baroncelli, tutti i Serragli, Bartolomeo Fortini, messer Francesco
Castellani e molti altri.
E con questi modi a sé renderono
autorità e reputazione, e a' nimici e sospetti tolsono
l'orgoglio.
8
Fermo
così e ripreso lo stato, si volsono alle cose di fuora.
Era
Niccolò Piccino, come di sopra dicemmo, stato abbandonato da
il re Alfonso, e il Conte, per lo aiuto che da' Fiorentini aveva
avuto, era diventato potente; donde che quello assalì Niccolò
presso a Fermo, e quello ruppe di modo che Niccolò, privato
quasi di tutte le sue genti, con pochi si rifuggì in
Montecchio; dove si fortificò e difese tanto che in breve
tempo tutte le sue genti gli tornorono apresso, e in tanto numero che
potette facilmente difendersi dal Conte sendo massimamente di già
venuto il verno, per il quale furono quelli capitani constretti
mandare le loro genti alle stanze.
Niccolò attese tutta la
vernata ad ingrossare lo esercito, e da il Papa e da il re Alfonso fu
aiutato, tanto che, venuta la primavera, si ridussono quelli capitani
alla campagna; dove, essendo Niccolò superiore, era condotto
il Conte in estrema necessità; e sarebbe stato vinto, se da il
Duca non fussino stati a Niccolò i suoi disegni rotti.
Mandò
Filippo a pregare quello che subito andassi a lui, perché gli
aveva a parlare di bocca di cose importantissime.
Donde che Niccolò,
cupido di intenderle, abbandonò per uno incerto bene una certa
vittoria; e lasciato Francesco suo figliuolo capo dello esercito, se
ne andò a Milano.
Il che sentendo il Conte, non volse perdere
la occasione del combattere mentre che Niccolò era assente e
venuto alla zuffa propinquo al castello di Monte Loro, ruppe le genti
di Niccolò, e Francesco prese Niccolò, arrivato a
Milano, e vedutosi aggirato da Filippo, e intesa la rotta e la presa
del figliuolo, per dolore morì.
l'anno 1445, di età di
sessantaquattro anni; stato più virtuoso che felice capitano.
E di lui restorono Francesco e Iacopo, i quali ebbono meno virtù
e più cattiva fortuna del padre; tanto che queste armi
braccesche quasi che si spensero e le sforzesche, sempre dalla
fortuna aiutate, diventorono più gloriose.
Il Papa, vedendo
battuto lo esercito di Niccolò e lui morto, né sperando
molto negli aiuti di Ragona, cercò la pace con il Conte; e per
il mezzo de' Fiorentini si conchiuse.
Nella quale al Papa, delle
terre della Marca, Osimo Fabriano e Ricanati restorono: tutto il
restante sotto lo imperio del Conte rimase.
9
Seguita
la pace nella Marca, sarebbe tutta Italia pacificata, se dai
Bolognesi non fusse stata turbata.
Erano in Bologna due potentissime
famiglie, Canneschi e Bentivogli: di questi era capo Annibale, di
quelli Batista.
Avevano, per meglio potersi l'uno dell'altro fidare,
contratto intra loro parentado; ma infra gli uomini che aspirano ad
una medesima grandezza si può facilmente fare parentado, ma
non amicizia.
Era Bologna in lega con i Fiorentini e Viniziani la
quale, mediante Annibale Bentivogli, dopo che ne avevono cacciato
Francesco Piccinino, era stata fatta; e sapiendo Batista quanto il
Duca desiderava avere quella città favorevole, tenne pratica
seco di ammazzare Annibale e ridurre quella città sotto le
insegne sua.
Ed essendo convenuti del modo, a dì 24 di giugno,
nel 1445, assalì Batista Annibale con i suoi e quello ammazzò;
di poi, gridando il nome del Duca, corse la terra.
Erano in Bologna i
commissari viniziani e fiorentini; i quali al primo romore si
ritirorono in casa; ma veduto poi come il popolo non favoriva gli
ucciditori, anzi in gran numero, ragunati con le armi in Piazza,
della morte di Annibale si dolevono, preso animo, e con quelle genti
si trovavono, si accostorono a quelli; e fatto testa, le genti
cannesche assalirono, e quelle in poco d'ora vinsono; delle quali
parte ammazzorono, parte fuora della città cacciorono.
Batista, non essendo stato a tempo a fuggire, né i nimici ad
ammazzarlo, drento alle sue case, in una tomba fatta per conservare
frumento, si nascose; e avendone i suoi nimici cerco tutto il giorno,
e sapendo come e' non era uscito della città, feciono tanto
spavento ai suoi servidori, che da uno suo ragazzo, per timore, fu
loro mostro; e tratto di quello luogo, ancora coperto d'armi, fu
prima morto, di poi per la terra strascinato e arso.
Così
l'autorità del Duca fu sufficiente a farli fare quella
impresa, e la sua potenza non fu a tempo a soccorrerlo.
10
Posati
adunque, per la morte di Batista e fuga de' Canneschi, questi
tumulti, restorono i Bolognesi in grandissima confusione, non vi
sendo alcuno della casa de' Bentivogli atto al governo, ed essendo
rimaso di Annibale un solo figliuolo, chiamato Giovanni, di età
di sei anni, in modo che si dubitava che intra gli amici de'
Bentivogli non nascesse divisione, la quale facessi ritornare i
Canneschi, con la rovina della patria e della parte loro.
E mentre
stavano in questa suspensione di animo, Francesco che era stato conte
di Poppi, trovandosi in Bologna, fece intendere a quelli primi della
città che, se volevono essere governati da uno disceso del
sangue di Annibale, lo sapeva loro insegnare.
E narrò come,
sendo, circa venti anni passati, Ercule cugino di Annibale a Poppi,
sapeva come egli ebbe cognoscenza con una giovane di quello castello,
della quale ne nacque uno figliuolo chiamato Santi, il quale Ercule
gli affermò più volte essere suo; né pareva che
potesse negarlo, perché chi cognobbe Ercule e cognosce il
giovane vede infra loro una somiglianza grandissima.
Fu da quelli
cittadini prestato fede alle parole di costui, né differirono
punto a mandare a Firenze loro cittadini a ricognoscere il giovane e
operare con Cosimo e con Neri che fusse loro concesso.
Era quello che
si reputava padre di Santi morto, tanto che quel giovane sotto la
custodia d'uno suo zio, chiamato Antonio da Cascese, viveva.
Era
Antonio ricco, e sanza figliuoli, e amico a Neri: per ciò
intesa che fu questa cosa, Neri giudicò che fussi né da
sprezzarla né temerariamente da accettarla, e volle che Santi,
alla presenzia di Cosimo, con quelli che da Bologna erano mandati
parlasse.
Convennono costoro insieme; e Santi fu dai Bolognesi, non
solamente onorato, ma quasi adorato: tanto poteva nelli animi di
quelli lo amore delle parti.
Né per allora si concluse alcuna
cosa, se non che Cosimo chiamò Santi in disparte, e sì
gli disse: - Niuno, in questo caso, ti può meglio consigliare
che tu medesimo; perché tu hai a pigliare quel partito a che
l'animo ti inclina: perché, se tu sarai figliuolo di Ercole
Bentivogli, tu ti volgerai a quelle imprese che di quella casa e di
tuo padre fieno degne; ma se tu sarai figliuolo di Agnolo da Cascese,
ti resterai in Firenze a consumare in una arte di lana vilmente la
vita tua.
- Queste parole commossono il giovane; e dove prima egli
aveva quasi che negato di pigliare simile partito, disse che si
rimetteva in tutto a quello che Cosimo e Neri ne deliberassi; tanto
che, rimasi d'accordo con i mandati bolognesi, fu di veste, cavagli e
servitori onorato; e poco di poi, accompagnato da molti, a Bologna
condotto e al governo del figliuolo di Annibale e della città
posto.
Dove con tanta prudenzia si governò, che, dove i suoi
maggiori erano stati tutti dai loro nimici morti, egli e
pacificamente visse e onoratissimamente morì.
11
Dopo
la morte di Niccolò Piccino e la pace seguita nella Marca,
desiderava Filippo avere uno capitano il quale a' suoi eserciti
comandasse; e tenne pratiche secrete con Ciarpellone, uno de' primi
capi del conte Francesco; e fermo infra loro lo accordo, Ciarpellone
domandò licenza al Conte di andare a Milano, per entrare in
possessione di alcune castella che da Filippo gli erano nelle passate
guerre state donate.
Il Conte dubitando di quello che era, acciò
che il Duca non se ne potessi contro a' suoi disegni servire, lo fece
prima sostenere e poco di poi morire, allegando di averlo trovato in
fraude contro a di lui.
Di che Filippo prese grandissimo dispiacere e
sdegno, il che piacque a' Fiorentini e a' Viniziani, come quelli che
temevano assai se le armi del Conte e la potenza di Filippo
diventavano amiche.
Questo sdegno per tanto fu cagione di suscitare
nuova guerra nella Marca.
Era signore di Rimino Gismondo Malatesti,
il quale per essere genero del Conte, sperava la signoria di Pesero,
ma il Conte, occupata quella, ad Alessandro suo fratello la dette, di
che Gismondo sdegnò forte.
Al quale sdegno si aggiunse che
Federigo di Montefeltro, suo nimico per i favori del Conte aveva la
signoria di Urbino occupata: questo fece che Gismondo si accostò
al Duca, e che sollecitava il Papa e il Re a fare guerra al Conte.
Il
quale, per fare sentire a Gismondo i primi frutti di quella guerra
che desiderava, pensò di prevenirlo, e in un tratto lo assalì.
Onde che subito si riempierono di tumulti la Romagna e la Marca,
perché Filippo, il Re e il Papa mandorono grossi aiuti a
Gismondo, e i Fiorentini e Viniziani, se non di genti, di danari
provedevono il Conte.
Né bastò a Filippo la guerra di
Romagna, ché disegnò torre al Conte Cremona e
Pontremoli: ma Pontremoli da' Fiorentini, e Cremona da' Viniziani fu
difesa.
In modo che in Lombardia ancora si rinnovò la guerra:
nella quale, dopo alquanti travagli seguiti nel Cremonese, Francesco
Piccinino, capitano del Duca, fu, a Casale, da Micheletto e dalle
genti de' Viniziani rotto.
Per la quale vittoria i Viniziani
sperarono di potere torre lo stato al Duca; e mandorono uno loro
commissario in Cremona, e la Chiaradadda assalirono, e quella tutta,
fuori che Crema, occuporono; di poi, passato l'Adda, scorrevono per
infino a Milano, donde che il Duca ricorse ad Alfonso, e lo pregò
volesse soccorrerlo, mostrandogli i pericoli del Regno, quando la
Lombardia fusse in mano de' Viniziani.
Promisse Alfonso mandargli
aiuti, i quali con difficultà, sanza consentimento del Conte,
potevono passare.
12
Per
tanto Filippo ricorse con i prieghi al Conte: che non volesse
abbandonare il suocero, già vecchio e cieco.
Il Conte si
teneva offeso dal Duca per avergli mosso guerra; dall'altra parte la
grandezza de' Viniziani non gli piaceva, e di già i danari gli
mancavano, e la lega lo provedeva parcamente, perché a'
Fiorentini era uscita la paura del Duca, la quale faceva loro stimare
il Conte, e i Viniziani desideravano la sua rovina, come quelli che
giudicavano lo stato di Lombardia non potere essere loro tolto se non
da il Conte.
Non di meno, mentre che Filippo cercava di tirarlo a'
suoi soldi, e gli offeriva il principato di tutte le sue genti,
purché lasciasse i Viniziani e la Marca restituisse al Papa,
gli mandorono ancora loro ambasciadori, promettendogli Milano se lo
prendevano, e la perpetuità del capitaneato delle loro genti,
pure che seguisse la guerra nella Marca e impedisse che non venissero
aiuti di Alfonso in Lombardia.
Erano adunque le promesse de'
Viniziani grandi, e i meriti loro grandissimi, avendo mosso quella
guerra per salvare Cremona al Conte; e dall'altra parte le ingiurie
del Duca erano fresche, e le sue promesse infedeli e deboli.
Pure non
di meno stava dubio il Conte di qual partito dovessi prendere: perché
dall'uno canto l'obligo della lega, la fede data, i meriti freschi e
le promesse delle cose future lo movevano; dall'altro i prieghi del
suocero, e sopra tutto il veleno che dubitava che sotto le grandi
promesse de' Viniziani si nascondesse; giudicando dovere stare, e
delle promesse e dello stato, qualunque volta avessero vinto, a loro
discrezione; alla quale niuno prudente principe non mai, se non per
necessità, si rimisse.
Queste difficultà di risolversi
al Conte furono dalla ambizione de' Viniziani tolte via: i quali,
avendo speranza di occupare Cremona per alcune intelligenzie avieno
in quella città, sotto altro colore vi fecero appressare le
loro genti.
Ma la cosa si scoprì da quelli che per il Conte la
guardavano; e riuscì il loro disegno vano; per che non
acquistorono Cremona, e il Conte perderono; il quale, posposti tutti
i rispetti, si accostò al Duca.
13
Era
morto papa Eugenio, e creato per suo successore Niccola V, e il Conte
aveva già tutto lo esercito a Cutignuola per passare in
Lombardia, quando gli venne avviso Filippo essere morto, che correva
l'anno 1447, all'ultimo di agosto.
Questa nuova riempié di
affanni il Conte; perché non gli pareva che le sue genti
fussero ad ordine, per non avere avuto lo intero pagamento; temeva
de' Viniziani, per essere in su l'armi e suoi nimici, avendo di
fresco lasciati quelli e accostatosi al Duca; temeva di Alfonso, suo
perpetuo nimico; non sperava nel Papa né ne' Fiorentini: in
questi, per essere collegati con i Viniziani; in quello, per essere
delle terre della Chiesa possessore.
Pure deliberò di mostrare
il viso alla fortuna, e secondo gli accidenti di quella consigliarsi;
perché molte volte, operando, si scuoprono quelli consigli
che, standosi, sempre si nasconderebbono.
Davagli grande speranza il
credere che, se i Milanesi dalla ambizione de' Viniziani si volessero
difendere, che non potessero ad altre armi che alle sue rivolgersi.
Onde che, fatto buono animo, passò nel Bolognese; e passato di
poi Modena e Reggio, si fermò con le genti in su la Lenza, e a
Milano mandò a offerirsi.
De i Milanesi, morto il Duca parte
volevono vivere liberi, parte sotto uno principe: di quelli che
amavano il principe l'una parte voleva il Conte l'altra il re
Alfonso.
Per tanto, sendo quelli che amavano la libertà più
uniti, prevalsono agli altri, e ordinorono a loro modo una republica,
la quale da molte città del Ducato non fu ubbidita, giudicando
ancora quelle potere, come Milano, la loro libertà godere; e
quelle che a quella non aspiravano, la signoria de' Milanesi non
volevono.
Lodi adunque e Piacenza si dierono a' Viniziani, Pavia e
Parma si feciono libere.
Le quali confusioni sentendo il Conte, se ne
andò a Cremona; dove i suoi oratori insieme con oratori
milanesi vennono, con la conclusione che fusse capitano de' Milanesi
con quelli capitoli che ultimamente con il duca Filippo aveva fatti.
A' quali aggiunsono che Brescia fusse del Conte, e acquistandosi
Verona, fusse sua quella, e Brescia restituisse.
14
Avanti
che il Duca morisse, papa Niccola, dopo la sua assunzione al
pontificato, cercò di creare pace intra i principi italiani; e
per questo operò, con gli oratori che i Fiorentini gli
mandorono nella creazione sua, che si facesse una dieta a Ferrara,
per trattare o lunga triegua o ferma pace.
Convennono adunque, in
quella città, il legato del Papa, gli oratori viniziani,
ducali e fiorentini; quelli del re Alfonso non v'intervennono.
Trovavasi costui a Tiboli, con assai genti a piè e a cavallo,
e di quivi favoriva il Duca; e si crede che, poi ch'eglino ebbono
tirato da il canto loro il Conte, che volessino apertamente i
Fiorentini e i Viniziani assalire, e in quel tanto che l'indugiavano
le genti del Conte ad essere in Lombardia, intrattenere la pratica
della pace a Ferrara; dove il Re non mandò, affermando che
ratificherebbe a quanto da il Duca si concludesse.
Fu la pace molti
giorni praticata; e dopo molte dispute, si concluse o una pace per
sempre o una tregua per cinque anni, quale di queste dua al Duca
piacesse; ed essendo iti gli oratori ducali a Milano per intendere la
sua volontà, lo trovorono morto.
Volevono, non ostante la sua
morte, i Milanesi seguire lo accordo; ma i Viniziani non vollono,
come quelli che presono speranza grandissima di occupar quello stato,
veggendo massime che Lodi e Piacenza, subito dopo la morte del Duca,
si erano loro arrese; tale che li speravano, o per forza o per
accordo, potere in breve tempo spogliare Milano di tutto lo stato, e
quello di poi in modo opprimere, che ancora esso si arrendesse prima
che alcuno, lo suvvenisse; e tanto più si persuasono questo,
quando viddono i Fiorentini implicarsi in guerra con il re Alfonso.
15
Era
quel re a Tiboli, e volendo seguire la impresa di Toscana, secondo
che con Filippo aveva deliberato, parendogli che la guerra che si era
già mossa in Lombardia fusse per darli tempo e commodità,
desiderava avere un piè nello stato de' Fiorentini, prima che
apertamente si movesse; e per ciò tenne trattato nella rocca
di Cennina, in Valdarno di sopra, e quella occupò.
I
Fiorentini, percossi da questo inopinato accidente, e veggendo il Re
mosso per venire a' loro danni, soldorono genti, creorono i Dieci, e
secondo il loro costume si preparorono alla guerra.
Era già
condotto il Re con il suo esercito sopra il Sanese, e faceva ogni suo
sforzo per tirare quella città a' suoi voleri: non di meno
stierono quelli cittadini nella amicizia de' Fiorentini fermi, e non
riceverono il Re in Siena, né in alcuna loro terra:
provedevanlo bene di viveri, di che gli scusava la impotenza loro e
la gagliardia del nimico.
Non parve al Re entrare per la via del
Valdarno, come prima aveva disegnato, sì per avere riperduta
Cennina, sì perché di già i Fiorentini erano in
qualche parte forniti di gente; e si inviò verso Volterra, e
molte castella nel Volterrano occupò.
Di quindi n'andò
in quello di Pisa; e per li favori che gli feciono Arrigo e Fazio de'
conti della Gherardesca, prese alcune castella, e da quelle assalì
Campiglia; la quale non possé espugnare, perché fu da'
Fiorentini e dal verno difesa.
Onde che il Re lasciò, nelle
terre prese, guardie da difenderle e da potere scorrere il paese, e
con il restante dello esercito si ritirò alle stanze in nel
paese di Siena.
I Fiorentini intanto, aiutati dalla stagione, con
ogni studio si providdono di gente, capi delle quali erano Federigo
signore di Urbino e Gismondo Malatesti da Rimino; e benché fra
questi fusse discordia, non di meno, per la prudenza, di Neri di Gino
e di Bernardetto de Medici commissari, si mantennono in modo uniti
che si uscì a campo sendo ancora il verno grande, e si
ripresono le terre perdute nel Pisano e le Ripomerancie nel
Volterrano; e i soldati del Re, che prima scorrevono le maremme, si
frenorono di sorte che con fatica potevono le terre loro date a
guardia mantenere.
Ma venuta la primavera, i commissari feciono alto,
con tutte le loro genti, allo Spedaletto, in numero di cinquemila
cavalli e due mila fanti; e il Re ne venne con le sue, in numero di
quindicimila, propinquo a tre miglia a Campiglia.
E quando si stimava
tornassi a campeggiare quella terra, si gittò a Piombino,
sperando di averlo facilmente, per essere quella terra male
provvista, e per giudicare quello acquisto a sé utilissimo e
ai Fiorentini pernizioso; per ché da quel luogo poteva
consumare con una lunga guerra i Fiorentini, potendo provederlo per
mare, e tutto il paese di Pisa perturbare.
Per ciò dispiacque
a Fiorentini questo assalto; e consigliatisi quello fusse da fare,
giudicorono che, se si poteva stare con lo esercito nelle macchie di
Campiglia, che il Re sarebbe forzato partirsi o rotto o vituperato.
E
per questo armarono quattro galeazze avevono a Livorno, e con quelle
messono trecento fanti in Piombino, e posonsi alle Caldane, luogo
dove con difficultà potevono essere assaliti, perché
alloggiare alle macchie, nel piano, lo giudica vano pericoloso.
16
Aveva
lo esercito fiorentino le vettovaglie dalle terre circunstante, le
quali, per essere rade e poco abitate, lo prevedevono con difficultà;
tale che lo esercito ne pativa, e massimamente mancava di vino,
perché, non vi se ne ricogliendo e d'altronde non ne potendo
avere non era possibile che se ne avesse per ciascuno.
Ma il Re,
ancora che dalle genti fiorentine fusse tenuto stretto, abbondava, da
strame in fuora, d'ogni cosa, perché era per mare di tutto
proveduto.
Vollono per tanto i Fiorentini fare pruova se per mare
ancora le genti loro potessero suvvenire, e caricorono le loro
galeazze di viveri; e fattole venire, furono da sette galee del Re
incontrate, e dua ne furono prese, e dua fugate.
Questa perdita fece
perdere la speranza alle genti fiorentine del rinfrescamento; onde
che dugento saccomanni o più, per mancamento massime del vino,
si fuggirono nel campo del Re; e l'altre genti mormoreggiavano,
affermando non essere per stare in luoghi caldissimi, dove non fusse
vino a l'acque fussero cattive; tanto che i commissari deliberorono
abbandonare quel luogo, e volsonsi alla recuperazione di alcune
castella che ancora restavano in mano al Re.
Il quale dall'altra
parte, ancora che non patissi di viveri e fusse superiore di genti,
si vedeva mancare, per essere il suo esercito ripieno di malattie che
in quelli tempi i luoghi maremmani producono; e furono di tanta
potenza che molti ne morivano e quasi tutti erano infermi.
Onde che
si mossono pratiche di accordo, per il quale il Re domandava
cinquanta mila fiorini, e che Piombino gli fusse lasciato a
discrezione.
La qual cosa consultata a Firenze, molti, desiderosi
della pace, l'accettavano, affermando non sapere come si potesse
sperare di vincere una guerra che a sostenerla tante spese fussero
necessarie, ma Neri Capponi, andato a Firenze, in modo con le ragioni
la sconfortò, che tutti i cittadini d'accordo a non la
accettare convennono, e il signore di Piombino per loro raccomandato
accettorono, e a tempo di pace e di guerra di suvvenirlo promissono,
purché non si abbandonasse, e si volesse, come infino allora
aveva fatto, difendere.
Intesa il Re questa deliberazione, e veduto,
per lo infermo suo esercito, di non potere acquistare la terra si
levò quasi che rotto da campo; dove lasciò più
che dumila uomini morti; e con il restante dello infermo esercito si
ritirò nel paese di Siena, e di quindi nel Regno, tutto
sdegnato contro a' Fiorentini, minacciandoli, a tempo nuovo, di nuova
guerra.
17
Mentre
che queste cose in Toscana in simil modo si travagliavano, il conte
Francesco, in Lombardia, sendo diventato capitano de' Milanesi, prima
che ogni altra cosa si fece amico Francesco Piccinino, il quale per
li Milanesi militava, acciò che nelle sue imprese lo
favorisse, o con più rispetto lo ingiuriasse.
Ridussesi
adunque con lo esercito suo in campagna, onde che quelli di Pavia
giudicorono non si potere dalle sue forze difendere, e non volendo
dall'altra parte ubbidire a' Milanesi, gli offersono la terra con
queste condizioni che non li mettessi sotto lo imperio di Milano.
Desiderava il Conte la possessione di quella città, parendogli
uno gagliardo principio a potere colorire i disegni suoi, né
lo riteneva il timore o la vergogna del rompere la fede, perché
gli uomini grandi chiamono vergogna il perdere, non con inganno
acquistare; ma dubitava, pigliandola, non fare sdegnare i Milanesi in
modo che si dessero a' Viniziani; e non la pigliando, temeva del duca
di Savoia, al quale molti cittadini si volevono dare, e nell'uno caso
e nell'altro gli pareva essere privo dello imperio di Lombardia.
Pure
non di meno, pensando che fusse minor pericolo nel prendere quella
città che nel lasciarla prendere ad uno altro deliberò
di accettarla, persuadendosi potere acquietare i Milanesi.
A' quali
fece intendere ne' pericoli s'incorreva quando non avessi accettata
Pavia, perché quelli cittadini si sarebbono dati o a'
Viniziani o al Duca, e nell'uno e nell'altro caso lo stato loro era
perduto; e come ei dovevono più contentarsi di avere lui per
vicino amico, che uno potente, quale era qualunque di quelli, e
nimico.
I Milanesi si turborono assai del caso, parendo loro avere
scoperta l'ambizione del Conte e il fine a che egli andava; ma
giudicorono non potere scoprirsi, perché non vedevono,
partendosi dal Conte, dove si volgere altrove che a' Viniziani, de'
quali la superbia e le gravi condizioni temevano; e per ciò
deliberorono non si spiccare dal Conte, e per allora rimediare con
quello ai mali che soprastavano loro, sperando che, liberati da
quelli, si potrebbono ancora liberare da lui; perché, non
solamente da' Viniziani, ma ancora dai Genovesi e duca di Savoia, in
nome di Carlo d'Orliens, nato d'una sorella di Filippo, erano
assaliti.
Il quale assalto il Conte con poca fatica oppresse.
Solo
adunque gli restorono nimici i Viniziani, i quali con uno potente
esercito volevono occupare quello stato, e tenevano Lodi e Piacenza,
alla quale il Conte pose il campo, e quella, dopo una lunga fatica,
prese e saccheggiò.
Di poi, perché ne era venuto il
verno, ridusse le sue genti nelli alloggiamenti, ed egli se ne andò
a Cremona, dove tutta la vernata con la moglie si riposò.
18
Ma
venuta la primavera, uscirono gli eserciti viniziani e milanesi alla
campagna.
Desideravano i Milanesi acquistare Lodi, e di poi fare
accordo con i Viniziani, perché le spese della guerra erano
loro rincresciute e la fede del capitano era loro sospetta; tal che
sommamente desideravano la pace, per riposarsi e per assicurarsi del
Conte.
Deliberorono per tanto che il loro esercito andassi allo
acquisto di Caravaggio, sperando che Lodi si arrendesse qualunque
volta quel castello fusse tratto delle mani del nimico.
Il Conte
ubbidì a' Milanesi, ancora che l'animo suo fussi passare
l'Adda e assalire il Bresciano.
Posto dunque lo assedio a Caravaggio,
con fossi e altri ripari si affortificò, acciò che, se
i Viniziani volessero levarlo da campo, con loro disavvantaggio lo
avessero ad assalire.
I Viniziani dall'altra parte vennono con il
loro esercito, sotto Micheletto loro capitano, propinqui a duoi tiri
d'arco al campo del Conte; dove più giorni dimororono, e
feciono molte zuffe.
Non di meno il Conte seguiva di strignere il
castello, e lo aveva condotto in termine che conveniva si arrendesse,
la quale cosa dispiaceva ad i Viniziani, parendo loro, con la perdita
di quello, avere perduta la impresa.
Fu per tanto intra i loro
capitani grandissima disputa del modo del soccorrerlo; né si
vedeva altra via che andare dentro ai suoi ripari a trovare il
nimico; dove era disavvantaggio grandissimo; ma tanto stimorono la
perdita di quel castello che il Senato veneto, naturalmente timido e
discosto da qualunque partito dubio e pericoloso, volle più
tosto, per non perdere quello, porre in pericolo il tutto, che, con
la perdita di esso, perdere la impresa.
Feciono adunque deliberazione
di assalire in qualunque modo il Conte; e levatisi una mattina di
buona ora in arme, da quella parte che era meno guardata lo
assalirono, e nel primo impeto, come interviene nelli assalti che non
si aspettono, tutto lo esercito sforzesco perturborono.
Ma subito fu
ogni disordine da il Conte in modo riparato, che i nimici, dopo molti
sforzi fatti per superare gli argini, furono, non solamente
ributtati, ma in modo fugati e rotti, che di tutto lo esercito, dove
erano meglio che dodici mila cavagli, non se ne salvorono mille, e
tutte loro robe e carriaggi furono predati; né mai fino a quel
dì fu ricevuta dai Viniziani la maggiore e più
spaventevole rovina.
E intra la preda e i presi fu trovato...
proveditore viniziano, il quale, avanti alla zuffa e nel maneggiare
la guerra, aveva parlato vituperosamente del Conte, chiamando quello
bastardo e vile, di modo che, trovandosi dopo la rotta prigione, e
de' suoi falli ricordandosi, dubitando non essere secondo i suoi
meriti premiato, arrivato avanti al Conte, tutto timido e spaventato,
secondo la natura degli uomini superbi e vili, la quale è
nelle prosperità essere insolenti e nelle avversità
abietti e umili, gittatosi lagrimando ginocchione, gli chiese delle
ingiurie contro a quello usate perdono.
Levollo il Conte; e presolo
per il braccio gli fece buono animo, e confortollo a sperare bene.
Poi gli disse che si maravigliava che uno uomo di quella prudenza e
gravità che voleva essere tenuto egli fusse caduto in tanto
errore di parlare sì vilmente di coloro che non lo meritavano;
e quanto apparteneva alle cose che quello gli aveva rimproverate, che
non sapeva quello che Sforza suo padre si avesse con madonna Lucia
sua madre operato, perché non vi era e non aveva potuto a'
loro modi del congiugnersi provedere, talmente che di quello che si
facessero e' non credeva poterne biasimo o lode riportare; ma che
sapeva bene che di quello aveva avuto ad operare egli, si era
governato in modo che niuno lo poteva riprendere; di che egli e il
suo Senato ne potevono fare fresca e vera testimonianza.
Confortollo
a essere per lo avvenire più modesto nel parlare d'altrui e
più cauto nelle imprese sue.
19
Dopo
questa vittoria, il Conte, con il suo vincitore esercito, passò
nel Bresciano, e tutto quello contado occupò; e di poi pose il
campo propinquo a dua miglia a Brescia.
I Viniziani dall'altra parte,
ricevuta la rotta, temendo, come seguì, che Brescia non fusse
la prima percossa, l'avevano di quella guardia che meglio e più
presto avevono potuta trovare proveduta; e di poi con ogni diligenzia
ragunorono forze, e ridussono insieme quelle reliquie che del loro
esercito posserono avere, e a' Fiorentini per virtù della loro
lega domandorono aiuti: i quali, perché erano liberi dalla
guerra del re Alfonso, mandorono in aiuto di quelli mille fanti e
dumila cavagli.
I Viniziani, con queste forze, ebbono tempo a pensare
agli accordi.
Fu, un tempo, cosa quasi che fatale alla republica
viniziana perdere nella guerra e nelli accordi vincere; e quelle cose
che nella guerra perdevano, la pace di poi molte volte duplicatamente
loro rendeva.
Sapevano i Viniziani come i Milanesi dubitavano del
Conte, e come il Conte desiderava non essere capitano, ma signore de'
Milanesi, e come in loro arbitrio era fare pace con uno de' duoi,
desiderandola l'uno per ambizione, l'altro per paura, ed elessono di
farla con il Conte, e di offerirgli aiuti a quello acquisto.
E si
persuasono che, come i Milanesi si vedessino ingannati dal Conte
vorrieno, mossi dallo sdegno, sottoporsi prima a qualunque altro che
a lui; e conducendosi in termine che per loro medesimi non si
potessino difendere né più del Conte fidarsi, sarieno
forzati, non avendo dove gittarsi, di cadere loro in grembo.
Preso
questo consiglio, tentorono lo animo del Conte; e lo trovorono alla
pace dispostissimo, come quello che desiderava che la vittoria avuta
a Caravaggio fusse sua e non de' Milanesi.
Fermorono per tanto uno
accordo, nel quale i Viniziani si obligorono pagare al Conte, tanto
che gli differisse ad acquistare Milano, tredici mila fiorini per
ciascuno mese, e di più, durante quella guerra, di quattromila
cavagli e dumila fanti suvvenirlo; e il Conte dall'altra parte si
obligò restituire a' Viniziani terre, prigioni e qualunque
altra cosa stata da lui in quella guerra occupata, ed essere
solamente contento a quelle terre le quali il duca Filippo alla sua
morte possedeva.
20
Questo
accordo, come fu saputo a Milano, contristò molto più
quella città che non aveva la vittoria di Caravaggio
rallegrata.
Dolevonsi i principi, rammaricavansi i popolari,
piangevano le donne e i fanciulli e tutti insieme il Conte traditore
e disleale chiamavano; e benché quelli non credessino né
con prieghi né con promesse dal suo ingrato proponimento
rivocarlo, gli mandorono imbasciadori, per vedere con che viso e con
quali parole questa sua sceleratezza accompagnasse.
Venuti per tanto
davanti al Conte, uno di quelli parlò in questa sentenza: -
Sogliono coloro i quali alcuna cosa da alcuno impetrare desiderano,
con i prieghi, premii o minacce assalirlo, acciò, mosso o
dalla misericordia o dall'utile o dalla paura, a fare quanto da loro
si desidera condescenda.
Ma negli uomini crudeli e avarissimi, e
secondo la opinione loro potenti, non vi avendo quelli tre modi luogo
alcuno, indarno si affaticono coloro che credono o con i prieghi
umiliarli o con i premii guadagnarli, o con le minacce sbigottirli.
Noi per tanto, conoscendo al presente, benché tardi, la
crudeltà, l'ambizione e superbia tua, veniamo a te, non per
volere impetrare alcuna cosa, né per credere di ottenerla
quando bene noi la domandassimo, ma per ricordarti i benefizi che tu
hai dal popolo milanese ricevuti, e dimostrarti con quanta
ingratitudine tu li hai ricompensati, acciò che almeno, infra
tanti mali che noi sentiamo, si gusti qualche piacere per
rimproverarteli.
E' ti debbe ricordare benissimo quali erano le
condizioni tue dopo la morte del duca Filippo: tu eri del Papa e del
Re inimico; tu avevi abbandonati i Fiorentini e Viniziani, de' quali,
e per il giusto e fresco sdegno, e per non avere quelli più
bisogno di te, eri quasi che nimico divenuto; trovaviti stracco della
guerra avevi avuta con la Chiesa, con poca gente, sanza amici, sanza
danari e privo d'ogni speranza di potere mantenere gli stati tuoi e
l'antica tua riputazione.
Dalle quali cose facilmente cadevi, se non
fusse stata la nostra semplicità: perché noi soli ti
ricevemmo in casa, mossi dalla reverenzia avavamo alla felice memoria
del Duca nostro; con il quale avendo tu parentado e nuova amicizia,
credavamo che ne' suoi eredi passasse lo amore tuo e che se a'
benifici suoi si aggiugnessino i nostri, dovesse questa amicizia, non
solamente essere ferma, ma inseparabile; e per ciò alle
antiche convenzioni Verona o Brescia aggiugnemmo.
Che più
potavamo noi darti e prometterti? E tu che potevi, non dico da noi,
ma in quelli tempi da ciascuno, non dico avere, ma desiderare? Tu per
tanto ricevesti da noi uno insperato bene; e noi, per ricompenso,
riceviamo da te uno insperato male.
Né hai differito infino ad
ora a dimostrarci lo iniquo animo tuo; perché non prima fusti
delle nostre armi principe, che, contro ad ogni giustizia, ricevesti
Pavia; il che ne doveva ammunire quale doveva essere il fine di
questa tua amicizia.
La quale ingiuria noi sopportammo, pensando che
quello acquisto dovessi empiere con la grandezza sua l'ambizione tua.
Ahimè! che a coloro che desiderano il tutto non puote la parte
sodisfare.
Tu promettesti che noi gli acquisti di poi da te fatti
godessimo, perché sapevi bene come quello che in molte volte
ci davi ci potevi in un tratto ritorre; come è stato dopo la
vittoria di Caravaggio; la quale, preparata prima con il sangue e con
i danari nostri, poi fu con la nostra rovina conseguita.
O infelice
quelle città che hanno contro alla ambizione di chi le vuole
opprimere a difendere la libertà loro; ma molto più
infelice quelle che sono con le armi mercennarie e infedeli, come le
tue, necessitate a difendersi! Vaglia almeno questo nostro esemplo a'
posteri, poi che quello di Tebe e di Filippo di Macedonia non è
valuto a noi: il quale, dopo la vittoria avuta de' nimici, prima
diventò, di capitano, loro nimico, e di poi principe.
Non
possiamo per tanto essere d'altra colpa accusati, se non di avere
confidato assai in quello in cui noi dovavamo confidare poco; perché
la tua passata vita, lo animo tuo vasto, non contento mai di alcuno
grado o stato, ci doveva ammunire; né dovavamo porre speranza
in colui che aveva tradito il signore di Lucca, taglieggiato i
Fiorentini e Vinizani, stimato poco il Duca, vilipeso un Re, e sopra
tutto Iddio e la Chiesa sua con tante ingiurie perseguitata; né
dovavamo mai credere che tanti principi fussero, nel petto di
Francesco Sforza, di minore autorità che i Milanesi, e che si
avessi ad osservare quella fede in noi, che si era negli altri più
volte violata.
Non di meno questa poca prudenza che ci accusa non
scusa la perfidia tua, né purga quella infamia che le nostre
giuste querele per tutto il mondo ti partoriranno, né farà
che il giusto stimolo della tua conscienza non ti perseguiti, quando
quelle armi, state da noi preparate per offendere e sbigottire altri,
verranno a ferire e ingiuriare noi; perché tu medesimo ti
giudicherai degno di quella pena che i parricidi hanno meritata.
E
quando pure l'ambizione ti accecassi, il mondo tutto, testimone della
iniquità tua, ti farà aprire gli occhi; faratteli
aprire Iddio, se i pergiurii, se la violata fede, se i tradimenti gli
dispiacciono, e se sempre, come in fino ad ora per qualche occulto
bene ha fatto, ei non vorrà essere de' malvagi uomini amico.
Non ti promettere adunque la vittoria certa, perché la ti fia
dalla giusta ira di Dio impedita; e noi siamo disposti con la morte
perdere la libertà nostra, la quale quando pure non potessimo
difendere, ad ogni altro principe, prima che a te, la sottoporremo; e
se pure i peccati nostri fussino tali che contro ad ogni nostra
voglia ti venissimo in mano, abbi ferma fede che quel regno che sarà
da te cominciato con inganno e infamia finirà, in te o ne'
tuoi figliuoli, con vituperio e danno.
21
Il
Conte, ancora che da ogni parte si sentisse da' Milanesi morso, sanza
dimostrare o con le parole o con i gesti alcuna estraordinaria
alterazione, rispose che era contento donare agli loro adirati animi
la grave ingiuria delle loro poco savie parole; alle quali
risponderebbe particularmente, se fusse davanti ad alcuno che delle
loro differenze dovesse essere giudice, perché si vedrebbe lui
non avere ingiuriati i Milanesi, ma provedutosi che non potessero
iniuriare lui.
Perché sapevono bene come dopo la vittoria di
Carafaggio si erano governati; perché, in scambio di premiarlo
di Verona o Brescia, cercavano di fare pace con i Viniziani, acciò
che solo apresso di lui restassero i carichi della inimicizia e
apresso di loro i frutti della vittoria, con il grado della pace e
tutto l'utile che si era tratto della guerra.
In modo che eglino non
si potevono dolere, se li aveva fatto quello accordo che eglino prima
avevano tentato di fare; il qual partito se alquanto differiva a
prendere, arebbe al presente a rimproverare a loro quella
ingratitudine la quale ora eglino gli rimproverano.
Il che se fusse
vero o no, lo dimosterrebbe, con il fine di quella guerra, quello
Iddio ch'eglino chiamavano per vendicatore delle loro ingiurie;
mediante il quale vedranno quale di loro sarà più suo
amico, e quale con maggiore giustizia arà combattuto.
Partitisi gli ambasciadori, il Conte si ordinò a potere
assaltare i milanesi, e questi si preparorono alla difesa; e con
Francesco e Iacopo Piccinino, i quali per lo antico odio avieno i
Bracceschi con li Sforzeschi erano stati a' Milanesi fedeli,
pensorono di difendere la loro libertà infino a tanto, almeno
che potessero smembrare i Viniziani da il Conte, i quali non
credevono dovessino esserli fedeli né amici lungamente.
Dall'altra parte il Conte, che questo medesimo cognosceva, pensò
che fusse savio partito, quando giudicava che l'obligo non bastasse,
tenerli fermi con il premio.
E per ciò, nel distribuire le
imprese della guerra, fu contento che i Viniziani assalissero Crema,
ed egli con l'altra gente assalirebbe il restante di quello stato.
Questo pasto messo davanti ai Viniziani fu cagione ch'eglino durorono
tanto nella amicizia del Conte, che il Conte aveva già
occupato tutto il dominio a' Milanesi, e in modo ristrettili alla
terra, che non potevono di alcuna cosa necessaria provedersi; tanto
che, disperati d'ogni altro aiuto, mandorono oratori a Vinegia a
pregarli che avessero compassione alle cose loro; e fussino contenti,
secondo che debbe essere il costume delle republiche, favorire la
loro libertà, non uno tiranno, il quale, se gli riesce
insignorirsi di quella città, non potranno a loro posta
frenare.
Né credino che gli stia contento a' termini ne'
capituli posti, ché vorrà i termini antichi di quello
stato ricognoscere.
Non si erano ancora i Viniziani insignoriti di
Crema, e volendo, prima che cambiassino volto, insignorirsene,
risposono publicamente, non potere, per lo accordo fatto con il
Conte, suvvenirli; ma in privato gli intrattennono in modo che,
sperando nello accordo, poterono a' loro Signori darne una ferma
speranza.
22
Era
già il Conte con le sue genti tanto propinquo a Milano che
combatteva i borghi, quando a' Viniziani, avuta Crema non parve da
differire di fare amicizia con i Milanesi con i quali si accordorono,
e intra' primi capituli promissono al tutto la difesa alla loro
libertà.
Fatto lo accordo, commissono alle genti loro avieno
presso al Conte che partitesi de' suoi campi, nel Viniziano si
ritirassero.
Significorono ancora al Conte la pace fatta co'
Milanesi, e gli dierono venti giorni di tempo ad accettarla.
Non si
maravigliò il Conte del partito preso dai Viniziani, perché
molto tempo innanzi lo aveva preveduto, e temeva che ogni giorno
potesse accadere; non di meno non potette fare che, venuto il caso,
non se ne dolesse e quel dispiacere sentisse che avevano i Milanesi,
quando egli gli aveva abbandonati, sentito.
Prese tempo dagli
ambasciadori, che da Vinegia erano stati mandati a significargli lo
accordo, duoi giorni a rispondere; fra il quale tempo deliberò
di intrattenere i Viniziani e non abbandonare la impresa.
E per ciò
publicamente disse di volere accettare la pace, e mandò suoi
ambasciadori a Vinegia, con amplo mandato, a ratificarla; ma da parte
commisse loro che in alcuno modo non la ratificassero, ma con varie
invenzioni e gavillazioni la conclusione differissero.
E per fare a'
Viniziani più credere che dicessi da vero fece triegua con i
Milanesi per uno mese e discostossi da Milano, e divise le sue genti
per gli alloggiamenti ne' luoghi che allo intorno aveva occupati.
Questo partito fu cagione della vittoria sua e della rovina de'
Milanesi, perché i Viniziani, confidando nella pace, furono
più lenti alle provisioni della guerra, e i Milanesi, veggendo
la tregua fatta, e il nimico discostatosi, e i Viniziani amici
crederono al tutto che il Conte fusse per abbandonare la impresa.
La
quale opinione in duoi modi li offese: l'uno ch'eglino straccurorono
gli ordini delle difese loro; l'altro, che nel paese libero dal
nimico, perché il tempo della semente era, assai grano
seminorono, donde nacque che più tosto il Conte li potette
affamare.
Al Conte dall'altra parte tutte quelle cose giovorono che i
nimici offesono; e di più quel tempo gli dette commodità
a potere respirare e provedersi di aiuti.
23
Non
si erano in questa guerra di Lombardia, i Fiorentini declarati per
alcuna delle parti, né avieno dato alcuno favore al Conte, né
quando egli difendeva i Milanesi né poi; perché il
Conte non ne avendo avuto di bisogno non ne gli aveva con instanzia
ricerchi, solamente avieno, dopo la rotta di Carafaggio, per virtù
delli obblighi della lega, mandato aiuti a' Viniziani.
Ma sendo
rimaso il conte Francesco solo, non avendo dove ricorrere, fu
necessitato chiedere instantemente aiuto a' Fiorentini, e
publicamente allo stato, e privatamente agli amici, e massimamente a
Cosimo de' Medici, con il quale aveva sempre tenuta una continua
amicizia, ed era sempre stato da quello in ogni sua impresa
fedelmente consigliato e largamente suvvenuto.
Né in questa
tanta necessità Cosimo lo abbandonò, ma come privato
copiosamente lo suvvenne, e gli dette animo a seguire la impresa:
desiderava ancora che la città publicamente lo aiutasse, dove
si trovava difficultà.
Era in Firenze Neri di Gino Capponi
potentissimo.
A costui non pareva che fusse a benefizio della città
che il Conte occupasse Milano, e credeva che fusse più a
salute della Italia che il Conte ratificasse la pace, che egli
seguisse la guerra.
In prima egli dubitava che i Milanesi, per lo
sdegno avieno contro al Conte, non si dessino al tutto a' Viniziani;
il che era la rovina di ciascuno di poi, quando pure gli riuscisse di
occupare Milano, gli pareva che tante armi e tanto stato congiunte
insieme fussero formidabili; e s'egli era insopportabile conte,
giudicava che fussi per essere uno duca insopportabilissimo.
Per
tanto affermava che fusse meglio, e per la republica di Firenze e per
la Italia, che il Conte restasse con la sua reputazione delle armi, e
la Lombardia in due republiche si dividessi, le quali mai si
unirebbono alla offesa degli altri, e ciascheduna per sé
offendere non potrebbe.
E a fare questo non ci vedeva altro migliore
rimedio che non suvvenire il Conte e mantenere la lega vecchia con i
Viniziani.
Non erano queste ragioni dagli amici di Cosimo accettate,
perché credevano Neri muoversi a questo, non perché
così credessi essere il bene della Republica, ma per non
volere che il Conte, amico di Cosimo, diventassi duca, parendogli che
per questo Cosimo ne diventassi troppo potente.
E Cosimo ancora con
ragioni mostrava lo aiutare il Conte essere alla Republica e alla
Italia utilissimo; perché gli era opinione poco savia credere
che i Milanesi si potessero conservare liberi; perché le
qualità della cittadinanza, il modo del vivere loro, le sette
antiquate in quella città, erano ad ogni forma di civile
governo contrarie; talmente che gli era necessario o che il Conte ne
diventasse duca, o e Viniziani signori; e in tale partito niuno era
sì sciocco che dubitassi qual fussi meglio, o avere uno amico
potente vicino, o avervi uno nimico potentissimo.
Né credeva
che fusse da dubitare che i Milanesi, per avere guerra con il Conte,
si sottomettersi a' Viniziani; perché il Conte aveva la parte
in Milano, e non quelli; talché qualunque volta e' non
potranno difendersi come liberi, sempre più tosto al Conte che
a' Viniziani si sottometteranno.
Queste diversità di opinioni
tennono assai sospesa la città, e alla fine deliberorono che
si mandasse imbasciadori al Conte per trattare il modo dello accordo;
e se trovassino il Conte gagliardo da potere sperare che e' vincesse,
concluderlo, quanto che no, gavillarlo e differirlo.
24
Erano
questi ambasciadori a Reggio, quando eglino intesono il Conte essere
diventato signore di Milano.
Perché il Conte, passato il tempo
della tregua, si ristrinse con le sue genti a quella città,
sperando in brieve, a dispetto de' Viniziani, occuparla; perché
quelli non la potevano soccorrere se non dalla parte dell'Adda, il
quale passo facilmente poteva chiudere; e non temeva, per essere la
vernata, che i Viniziani gli campeggiassino apresso; e sperava, prima
che il verno passasse, avere la vittoria, massimamente sendo morto
Francesco Piccinino, e restato solo Iacopo suo fratello capo de'
Milanesi.
Avevano i Viniziani mandato uno loro oratore a Milano, a
confortare quelli cittadini, che fussino pronti a difendersi,
promettendo loro grande e presto soccorso.
Seguirono adunque, durante
il verno, intra i Viniziani e il Conte, alcune leggieri zuffe; ma
fattosi il tempo più benigno, i Viniziani, sotto Pandolfo
Malatesti, si fermorono con il loro esercito sopra l'Adda.
Dove,
consigliatisi se dovevono, per soccorrere Milano, assalire il Conte e
tentare la fortuna della zuffa, Pandolfo loro capitano giudicò
che e' non fusse da farne questa esperienza, conoscendo la virtù
del Conte e del suo esercito.
E credeva che si potesse, sanza
combattere, vincere al sicuro, perché il Conte da il disagio
delli strami e del frumento era cacciato.
Consigliò per tanto
che si conservasse quello alloggiamento, per dare speranza a'
Milanesi di soccorso, acciò che, disperati, non si dessino al
Conte.
Questo partito fu approvato da' Viniziani, sì per
giudicarlo sicuro, sì ancora perché avevono speranza
che, tenendo i Milanesi in quella necessità, sarebbono forzati
rimettersi sotto il loro imperio; persuadendosi che mai non fussino
per darsi al Conte, considerate le ingiurie avieno ricevute da lui.
Intanto i Milanesi erano condotti quasi che in estrema miseria; e
abbondando quella città naturalmente di poveri, si morivano
per le strade di fame; donde ne nascevano romori e pianti in diversi
luoghi della città; di che i magistrati temevano forte, e
facevano ogni diligenzia perché genti non si adunassero
insieme.
Indugia assai la moltitudine tutta a disporsi al male; ma
quando vi è disposta ogni piccolo accidente la muove.
Duoi
adunque, di non molta condizione, ragionando, propinqui a Porta
Nuova, della calamità della città e miseria loro, e che
modi vi fussero per la salute, si cominciò ad accostare loro
delli altri, tanto che diventorono buono numero: donde che si sparse
per Milano voce, quelli di Porta Nuova essere contro a' magistrati in
arme.
Per la qual cosa tutta la moltitudine, la quale non aspettava
altro che essere mossa, fu in arme; e feciono capo di loro Gasparre
da Vicomercato, e ne andorono al luogo dove i magistrati erano
ragunati.
Nei quali feciono tale impeto che tutti quelli che non si
poterono fuggire uccisono; intra' quali Lionardo Venero, ambasciadore
viniziano, come cagione della loro fame, e della loro miseria
allegro, ammazzorono.
E così, quasi che principi della città
diventati, infra loro preposono quello si avesse a fare, a volere
uscire di tanti affanni e qualche volta riposarsi.
E ciascuno
giudicava che convenisse rifuggire, poi che la libertà non si
poteva conservare, sotto uno principe che gli difendessi: e chi il re
Alfonso, chi il duca di Savoia, chi il re di Francia voleva per suo
signore chiamare.
Del Conte non era alcuno che ragionasse: tanto
erano ancora potenti gli sdegni avevano seco.
Non di meno, non si
accordando degli altri, Gasparre da Vicomercato fu il primo che
nominò il Conte; e largamente mostrò come, volendosi
levare la guerra da dosso, non ci era altro modo che chiamare quello;
perché il popolo di Milano aveva bisogno di una certa e
presente pace, non d'una speranza lunga d'uno futuro soccorso.
Scusò
con le parole le imprese del Conte; accusò i Viniziani; accusò
tutti gli altri principi di Italia, che non aveno voluto, chi per
ambizione, chi per avarizia, che vivessino liberi.
E da poi che la
loro libertà si aveva a dare, si desse ad uno che li sapesse e
potesse difendere; acciò che almeno dalla servitù
nascesse la pace, e non maggiori danni e più pericolosa
guerra.
Fu costui con maravigliosa attenzione ascoltato; e tutti,
finito il suo parlare, gridorono che il Conte si chiamasse, e
Gasparre feciono ambasciadore a chiamarlo.
Il quale, per comandamento
del popolo, andò a trovare il Conte, e gli portò sì
lieta e felice novella.
La quale il Conte accettò lietamente,
ed entrato in Milano come principe, a' 26 di febbraio, nel 1450, fu
con somma e maravigliosa letizia ricevuto da coloro che non molto
tempo innanzi lo avieno con tanto odio infamato.
25
Venuta
la nuova di questo acquisto a Firenze, si ordinò agli oratori
fiorentini che erano in cammino che, in cambio di andare a trattare
accordo con il Conte, si rallegrassino con il Duca della vittoria.
Furono questi oratori da il Duca ricevuti onorevolmente e
copiosamente onorati, perché sapeva bene che contro alla
potenza de' Viniziani non poteva avere in Italia più fedeli né
più gagliardi amici de' Fiorentini; i quali, avendo deposto il
timore della casa de' Visconti, si vedeva che avevono a combattere
con le forze de' Ragonesi e Viniziani; perché i Ragonesi re di
Napoli erano loro nimici per la amicizia che sapevano che il popolo
fiorentino aveva sempre con la casa di Francia tenuta e i Viniziani
cognoscevano che l'antica paura de' Visconti era nuova di loro, e
perché sapevono con quanto studio eglino avevono i Visconti
perseguitati, temendo le medesime persecuzioni, cercavano la rovina
di quelli.
Queste cose furono cagione che il nuovo Duca facilmente si
ristrignesse con i Fiorentini, e che i Viniziani e re Alfonso si
accordassero contro a' comuni nimici: e si obligorono in uno medesimo
tempo a muovere le armi; e che il Re assalisse i Fiorentini e i
Viniziani il Duca, il quale, per essere nuovo nello stato, credevono
né con le forze proprie né con gli aiuti d'altri
potesse sostenerli.
Ma perché la lega tra i Fiorentini e
Viniziani durava, e il Re, dopo la guerra di Piombino, aveva fatto
pace con quelli, non parve loro da rompere la pace, se prima con
qualche colore non si giustificasse la guerra.
E per ciò l'uno
e l'altro mandò ambasciadore a Firenze; i quali per parte de'
loro signori feciono intendere la lega fatta essere, non per
offendere alcuno, ma per difendere gli stati loro.
Dolfesi di poi il
Viniziano che i Fiorentini avevono dato passo per Lunigiana ad
Alessandro fratello del Duca che con genti passasse in Lombardia e di
più erano stati aiutatori e consigliatori dello accordo fatto
intra il Duca e il marchese di Mantova.
Le quali cose tutte
affermavano essere contrarie allo stato loro e alla amicizia avieno
insieme e per ciò ricordavano loro amorevolmente che chi
offende a torto dà cagione ad altri di essere offeso a
ragione, e che chi rompe la pace aspetti la guerra.
Fu commessa dalla
Signoria la risposta a Cosimo; il quale, con lunga e savia orazione,
riandò tutti i beneficii fatti dalla città sua alla
republica viniziana; mostrò quanto imperio quella aveva, con i
danari, con le genti e con il consiglio de' Fiorentini, acquistato; e
ricordò loro che, poi che da i Fiorentini era venuta la
cagione della amicizia, non mai verrebbe la cagione della nimicizia;
ed essendo stati sempre amatori della pace, lodavano assai lo accordo
fatto infra loro, quando per pace, e non per guerra, fusse fatto.
Vero era che delle querele fatte assai si maravigliava, veggendo che
di sì leggieri cosa e vana da una tanta republica si teneva
tanto conto; ma quando pure fussero degne di essere considerate,
facevono a ciascuno intendere come e' volevono che il paese loro
fusse libero e aperto a qualunque, e che il Duca era di qualità
che per fare amicizia con Mantova non aveva né de' favori né
de' consigli loro bisogno.
E per ciò dubitava che queste
querele non avessero altro veleno nascosto che le non dimostravano,
il che quando fusse, farebbono cognoscere a ciascuno facilmente
l'amicizia de' Fiorentini quanto la è utile, tanto essere la
nimicizia dannosa.
26
Passò
per allora la cosa leggiermente, e parve che gli oratori se ne
andassero assai sodisfatti.
Non di meno la lega fatta e i modi de'
Viniziani e del Re facevono più tosto temere i Fiorentini e il
Duca di nuova guerra, che sperare ferma pace.
Per tanto i Fiorentini
si collegorono con il Duca; e intanto si scoperse il malo animo de'
Viniziani, perché feciono lega con i Sanesi, e cacciorono
tutti i Fiorentini e loro sudditi della città e imperio loro.
E poco appresso Alfonso fece il simigliante, e sanza avere alla pace
l'anno davanti fatta alcuno rispetto, e sanza averne, non che giusta,
ma colorita cagione.
Cercorono i Viniziani di acquistarsi i
Bolognesi, e fatti forti i fuori usciti, gli missono con assai gente,
di notte, per le fogne, in Bologna; né prima si seppe la
entrata loro, che loro medesimi levassero il romore.
Al quale Santi
Bentivogli sendosi desto, intese come tutta la città era da'
ribelli occupata; e benché fusse consigliato da molti che con
la fuga salvasse la vita, poi che con lo stare non poteva salvare lo
stato, non di meno volle mostrare alla fortuna il viso; e prese le
armi, e dette animo a' suoi, e fatto testa di alcuni amici, assalì
parte de' ribelli, e quelli rotti, molti ne ammazzò, e il
restante cacciò della città.
Dove per ciascuno fu
giudicato avere fatto verissima pruova di essere della casa de'
Bentivogli.
Queste opere e dimostrazioni feciono in Firenze ferma
credenza della futura guerra; e però si volsono i Fiorentini
alle loro antiche e consuete difese; e creorono il magistrato de'
Dieci, soldorono nuovi condottieri, mandorono oratori a Roma, a
Napoli, a Vinegia, a Milano e a Siena, per chiedere aiuti agli amici,
chiarire i sospetti, guadagnarsi i dubi e scoprire i consigli de'
nimici.
Dal Papa non si ritrasse altro che parole generali, buona
disposizione e conforti alla pace; dal Re vane scuse di avere
licenziati i Fiorentini, offerendosi volere dare il salvocondotto a
qualunque lo adimandasse.
E benché s'ingegnasse al tutto i
consigli della nuova guerra nascondere, non di meno gli ambasciadori
cognobbono il malo animo suo, e scopersono molte sue preparazioni per
venire a' danni della republica loro.
Col Duca di nuovo con varii
oblighi si fortificò la lega; e per suo mezzo si fece amicizia
con i Genovesi, e le antiche differenzie di rappresaglie e molte
altre querele si composono, non ostante che i Viniziani cercassero
per ogni modo tale composizione turbare.
Né mancorono di
supplicare allo imperadore di Gostantinopoli che dovesse cacciare la
nazione fiorentina del paese suo: con tanto odio presono questa
guerra; e tanto poteva in loro la cupidità del dominare, che
sanza alcuno rispetto volevono distruggere coloro che della loro
grandezza erano stati cagione; ma da quello imperadore non furono
intesi.
Fu da il Senato viniziano alli oratori fiorentini proibito lo
entrare nello stato di quella republica, allegando che, sendo in
amicizia con il Re, non potevono, sanza sua participazione, udirli.
I
Sanesi con buone parole gli ambasciadori riceverono, temendo di non
essere prima disfatti che la lega li potesse difendere, e per ciò
parve loro di addormentare quelle armi che non potevono sostenere.
Vollono i Viniziani e il Re, secondo che allora si conietturò,
per giustificare la guerra, mandare oratori a Firenze, ma quello de'
Viniziani non fu voluto intromettere nel dominio fiorentino, e non
volendo quello del Re solo fare quello uffizio, restò quella
legazione imperfetta; e i Viniziani per questo cognobbono essere
stimati meno da quelli Fiorentini che non molti mesi innanzi avevono
stimati poco.
27
Nel
mezzo del timore di questi moti, Federigo III imperadore passò
in Italia per coronarsi, e a dì 30 di gennaio, nel 1451, entrò
in Firenze con mille cinquecento cavagli, e fu da quella Signoria
onoratissimamente ricevuto; e stette in quella città infino a
dì 6 di febbraio, che quello partì per ire a Roma alla
sua coronazione.
Dove solennemente coronato, e celebrate le nozze con
la imperadrice, la quale per mare era venuta a Roma, se ne ritornò
nella Magna; e di maggio passò di nuovo per Firenze, dove gli
furono fatti i medesimi onori che alla venuta sua.
E nel
ritornarsene, sendo stato dal marchese di Ferrara benificato, per
ristorare quello, gli concesse Modena e Reggio.
Non mancorono i
Fiorentini, in questo medesimo tempo, di prepararsi alla imminente
guerra, e per dare reputazione a loro e terrore al nimico, feciono,
eglino e il Duca, lega con il re di Francia per difesa de' comuni
stati; la quale con grande magnificenza e letizia per tutta Italia
publicorono.
Era venuto il mese di maggio dell'anno 1452, quando ai
Viniziani non parve da differire più di rompere la guerra al
Duca, e con sedici mila cavagli e sei mila fanti, dalla parte di Lodi
lo assalirono; e nel medesimo tempo il marchese di Monferrato, o per
sua propria ambizione, o spinto da' Viniziani, ancora lo assalì
dalla parte di Alessandria.
Il Duca dall'altra parte aveva messo
insieme diciotto mila cavalli e tre mila fanti, e avendo proveduto
Alessandria e Lodi di gente, e similmente muniti tutti i luoghi dove
i nimici lo potessino offendere, assalì con le sue genti il
Bresciano, dove fece a' Viniziani danni grandissimi; e da ciascuna
parte si predava il paese, e le deboli ville si saccheggiavano.
Ma
sendo rotto il marchese di Monferrato ad Alessandria dalle genti del
Duca, potette quello, di poi, con maggiori forze opporsi a' Viniziani
e il paese loro assalire.
28
Travagliandosi
per tanto la guerra di Lombardia con varii ma deboli accidenti e poco
degni di memoria, in Toscana nacque medesimamente la guerra del re
Alfonso e de' Fiorentini, la quale non si maneggiò con
maggiore virtù né con maggiore pericolo che si
maneggiasse quella di Lombardia.
Venne in Toscana Ferrando, figliuolo
non legittimo di Alfonso, con dodici mila soldati, capitaneati da
Federigo signore di Urbino.
La prima loro impresa fu ch'eglino
assalirono Foiano in Val di Chiana; perché, avendo amici i
Sanesi, entrorono da quella parte nello imperio fiorentino.
Era il
castello debile di mura, piccolo, e per ciò non pieno di molti
uomini; ma secondo quelli tempi, erano reputati feroci e fedeli.
Erano in quello dugento soldati mandati dalla Signoria per guardia di
esso.
A questo così munito castello Ferrando si accampò;
e fu tanta, o la gran virtù di quelli di dentro o la poca sua,
che non prima che dopo trentasei giorni se ne insignorì.
Il
quale tempo dette commodità alla città di provedere gli
altri luoghi di maggiore momento, e di ragunare le loro genti, e
meglio che non erano, alle difese loro ordinarsi.
Preso i nimici
questo castello, passorono nel Chianti, dove due piccole ville
possedute da privati cittadini non poterono espugnare.
Donde che,
lasciate quelle, se n'andorono a campo alla Castellina, castello
posto a' confini del Chianti, propinquo a dieci miglia a Siena,
debile per arte, e per sito debilissimo; ma non poterono per ciò
queste due debolezze superare la debolezza dello esercito che lo
assalì, perché, dopo quarantaquattro giorni che gli
stette a combatterlo, se ne partì con vergogna.
Tanto erano
quelli eserciti formidabili e quelle guerre pericolose, che quelle
terre le quali oggi come luoghi impossibili a defenderli si
abbandonano, allora come cose impossibili a pigliarsi si defendevono.
E mentre che Ferrando stette con il campo in Chianti, fece assai
correrie e prede nel Fiorentino, e corse infino propinquo a sei
miglia alla città, con paura e danno assai de' sudditi de'
Fiorentini.
I quali in questi tempi, avendo condotte le loro genti,
in numero di ottomila soldati, sotto Astor da Faenza e Gismondo
Malatesti, verso il castello di Colle, le tenevano discosto al
nimico, temendo che le non fussino necessitate di venire a giornata;
perché giudicavano, non perdendo quella, non potere perdere la
guerra; perché le piccole castella, perdendole, con la pace si
recuperano, e delle terre grosse erano securi, sapiendo che il nimico
non era per assalirle.
Aveva ancora il Re una armata di circa venti
legni, tra galee e fuste, ne' mari di Pisa; e mentre che per terra la
Castellina si combatteva, pose questa armata alla rocca di Vada, e
quella, per poca diligenzia del castellano occupò, per che i
nimici di poi il paese allo intorno molestavano; la quale molestia
facilmente si levò via per alcuni soldati che i Fiorentini
mandorono a Campiglia, i quali tenevano i nimici stretti alla marina.
29
Il
Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in quanto
egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e benché
e' si astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla più
pericolosa in casa.
Viveva in quelli tempi un messer Stefano Porcari,
cittadino romano, per sangue e per dottrina, ma molto più per
eccellenza di animo, nobile.
Desiderava costui, secondo il costume
degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o tentare almeno,
qualche cosa degna di memoria; e giudicò non potere tentare
altro, che vedere se potesse trarre la patria sua delle mani de'
prelati e ridurla nello antico vivere, sperando per questo, quando
gli riuscisse, essere chiamato nuovo fondatore e secondo padre di
quella città.
Facevagli sperare di questa impresa felice fine
i malvagi costumi de' prelati e la mala contentezza de' baroni e
popolo romano; ma sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del
Petrarca, nella canzona che comincia: "Spirto gentil che quelle
membra reggi", dove dice:
Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai
Un cavalier che Italia tutta onora,
Pensoso più d'altrui che di se stesso.
Sapeva
messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e
profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo intervenire
quella cosa che il Petrarca in quella canzona profetizzava, ed essere
egli quello che dovesse essere di sì gloriosa impresa
esecutore; parendogli, per eloquenzia, per dottrina, per grazia e per
amici, essere superiore ad ogni altro romano.
Caduto adunque in
questo pensiero, non potette in modo cauto governarsi, che con le
parole, con le usanze e con il modo del vivere non si scoprisse,
talmente che divenne sospetto al Pontefice, il quale, per torgli
commodità a potere operare male, lo confinò a Bologna,
e al governatore di quella città commisse che ciascuno giorno
lo rassegnasse.
Non fu messer Stefano per questo primo intoppo
sbigottito, anzi con maggiore studio seguitò la impresa sua, e
per quelli mezzi poteva più cauti, teneva pratiche con gli
amici; e più volte andò e tornò da Roma con
tanta celerità, che gli era a tempo a rappresentarsi al
governatore infra i termini comandati.
Ma dappoi che gli parve avere
tratti assai uomini alla sua volontà, deliberò di non
differire a tentare la cosa; e commisse agli amici i quali erano in
Roma che, in un tempo determinato, una splendida cena ordinassero,
dove tutti i congiurati fussero chiamati, con ordine che ciascheduno
avesse seco i più fidati amici, e promisse di essere con loro
avanti che la cena fusse fornita.
Fu ordinato tutto secondo lo avviso
suo, e messere Stefano era già arrivato nella casa dove si
cenava, tanto che, fornita la cena, vestito di drappo d'oro, con
collane e altri ornamenti che gli davano maestà e riputazione,
comparse infra i convivanti, e quelli abbracciati, con una lunga
orazione gli confortò a fermare l'animo e disporsi a sì
gloriosa impresa.
Di poi divisò il modo; e ordinò che
una parte di loro, la mattina seguente, il palagio del Pontefice
occupasse, l'altra, per Roma, chiamasse il popolo all'arme.
Venne la
cosa a notizia al Pontefice la notte: alcuni dicono che fu per poca
fede de' congiurati, altri che si seppe essere messere Stefano in
Roma.
Comunque si fusse, il Papa, la notte medesima che la cena si
era fatta, fece prendere messere Stefano con la maggior parte de'
compagni, e di poi, secondo che meritavano i falli loro, morire.
Cotal fine ebbe questo suo disegno.
E veramente puote essere da
qualcuno la costui intenzione lodata, ma da ciascuno sarà
sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le
hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno,
nello esequirle, quasi sempre certissimo danno.
30
Era
già durata la guerra in Toscana quasi che uno anno, ed era
venuto il tempo, nel 1453, che gli eserciti si riducono alla
campagna, quando al soccorso de' Fiorentini venne il signore
Alessandro Sforza, fratello del Duca, con due mila cavagli; e per
questo, essendo lo esercito de' Fiorentini cresciuto e quello del Re
diminuito, parve a' Fiorentini di andare a recuperare le cose
perdute; e con poca fatica alcune terre recuperorono.
Di poi andorono
a campo a Foiano, il quale fu per poca cura de' commissari
saccheggiato, tanto che, essendo dispersi gli abitatori, con
difficultà grande vi tornorono ad abitare, e con esenzioni e
altri premii vi si ridussono.
La rocca ancora di Vada si racquistò,
perché i nimici, veggendo di non poterla tenere,
l'abbandonorono e arsono.
E mentre che queste cose dallo esercito
fiorentino erano operate, lo esercito ragonese, non avendo ardire di
appressarsi a quello de' nimici, si era ridotto propinquo a Siena, e
scorreva molte volte nel Fiorentino, dove faceva ruberie, tumulti e
spaventi grandissimi.
Né mancò quel re di vedere se
poteva per altra via assalire i nimici, e dividere le forze di
quelli, e per nuovi travagli e assalti invilirgli.
Era signore di Val
di Bagno Gherardo Gambacorti, il quale, o per amicizia o per obligo,
era stato sempre, insieme con i suoi passati, o soldato o
raccomandato de' Fiorentini.
Con costui tenne pratica il re Alfonso,
che gli desse quello stato, ed egli, allo incontro, d'uno altro stato
nel Regno lo ricompensasse.
Questa pratica fu rivelata a Firenze; e
per scoprire lo animo suo, se gli mandò uno ambasciadore, il
quale gli ricordassi gli oblighi de' passati e suoi, e lo confortasse
a seguire nella fede con quella republica.
Mostrò Gherardo
maravigliarsi, e con giuramenti gravi affermò non mai sì
scellerato pensiero essergli caduto nello animo; e che verrebbe in
persona a Firenze a farsi pegno della fede sua; ma sendo indisposto,
quello che non poteva fare egli farebbe fare al figliuolo il quale
come statico consegnò allo ambasciadore, che a Firenze seco ne
lo menasse.
Queste parole e questa demostrazione feciono a'
Fiorentini credere che Gherardo dicesse il vero, e lo accusatore suo
essere stato bugiardo e vano; e per ciò sopra questo pensiero
si riposorono.
Ma Gherardo con maggiore instanzia seguitò con
il Re la pratica; la quale come fu conclusa, il Re mandò in
Val di Bagno frate Puccio, cavaliere ierosolimitano, con assai gente,
a prendere delle rocche e delle terre di Gherardo la possessione.
Ma
quelli popoli di Bagno, sendo alla republica fiorentina affezionati,
con dispiacere promettevano ubbidienza a' commissari del Re.
Aveva
già preso frate Puccio quasi che la possessione di tutto
quello stato: solo gli mancava di insignorirsi della rocca di
Corzano.
Era con Gherardo, mentre faceva tale consegnazione, infra i
suoi che gli erano d'intorno, Antonio Gualandi, pisano, giovane e
ardito, a cui questo tradimento di Gherardo dispiaceva; e considerato
il sito della fortezza, e gli uomini che vi erano in guardia, e
cognosciuta nel viso e ne' gesti la mala loro contentezza, e
trovandosi Gherardo alla porta per intromettere le genti ragonesi, si
girò Antonio verso il di drento della rocca, e spinse con ambo
le mani Gherardo fuora di quella, e alle guardie comandò che
sopra il volto di sì scelerato uomo quella fortezza serrassero
e alla republica fiorentina la conservassero.
Questo romore come fu
udito in Bagno e negli altri luoghi vicini, ciascuno di quelli popoli
prese le armi contro a' Ragonesi, e ritte le bandiere di Firenze,
quelli ne cacciorono.
Questa cosa come fu intesa a Firenze, i
Fiorentini il figliuolo di Gherardo dato loro per statico
imprigionorono, e a Bagno mandorono genti che quel paese per la loro
republica defendessero, e quello stato che per il principe si
governava in vicariato redussono.
Ma Gherardo, traditore del suo
signore e del figliuolo, con fatica poté fuggire, e lasciò
la donna e sua famiglia, con ogni sua sustanza, nella potestà
de' nimici.
Fu stimato assai, in Firenze, questo accidente, perché,
se succedeva al Re di quello paese insignorirsi, poteva con poca sua
spesa a sua posta in Val di Tevere e in Casentino correre; dove
arebbe dato tanta noia alla Republica, che non arebbono i Fiorentini
potuto le loro forze tutte allo esercito ragonese, che a Siena si
trovava, opporre.
31
Avevano
i Fiorentini, oltre agli apparati fatti in Italia per reprimere le
forze della inimica lega, mandato messer Agnolo Acciaiuoli loro
oratore al re di Francia, a trattare con quello, che dessi facultate
ad il re Rinato d'Angiò di venire in Italia in favore del Duca
e loro, acciò che venisse a defendere i suoi amici, e potesse
di poi, sendo in Italia, pensare allo acquisto del regno di Napoli e
a questo effetto, aiuto di genti e di denari gli promettevano.
E
così, mentre che in Lombardia e in Toscana la guerra secondo
abbiamo narrato, si travagliava lo ambasciadore con il re Rinato lo
accordo conchiuse: che dovesse venire per tutto giugno con duemila
quattrocento cavagli in Italia; e allo arrivare suo in Alessandria la
lega gli doveva dare trentamila fiorini, e di poi, durante la guerra,
diecimila per ciascuno mese.
Volendo adunque questo re, per virtù
di questo accordo, passare in Italia, era da il duca di Savoia e
marchese di Monferrato ritenuto, i quali, sendo amici de' Viniziani,
non gli permettevano il passo.
Onde che il Re fu dallo ambasciadore
fiorentino confortato che, per dare reputazione agli amici, se ne
tornasse in Provenza, e per mare con alquanti suoi scendesse in
Italia; e dall'altra parte facesse forza con il re di Francia, che
operasse con quel duca che le genti sue potessero per la Savoia
passare.
E così come fu consigliato successe; perché
Rinato, per mare, si condusse in Italia, e le sue genti, a
contemplazione del Re, furono ricevute in Savoia.
Fu il re Rinato
raccettato da il duca Francesco onoratissimamente; e messe le genti
italiane e franzese insieme, assalirono con tanto terrore i
Viniziani, che in poco tempo tutte le terre che quelli avevano prese
nel Cremonese recuperorono; né contenti a questo, quasi che
tutto il Bresciano occuporono; e l'esercito viniziano, non si tenendo
più securo in campagna, propinquo alle mura di Brescia si era
ridutto.
Ma sendo venuto il verno, parve al Duca di ritirare le sue
genti negli alloggiamenti, e al re Rinato consegnò le stanze a
Piacenza.
E così, dimorato il verno del 1453 sanza fare alcuna
impresa, quando di poi la state ne veniva, e che si stimava per il
Duca uscire alla campagna e spogliare i Viniziani dello stato loro di
terra, il re Rinato fece intendere al Duca come egli era necessitato
ritornarsene in Francia.
Fu questa deliberazione al Duca nuova e
inespettata, e per ciò ne prese dispiacere grandissimo, e
benché subito andassi da quello per dissuadergli la partita,
non possé né per preghi né per promesse
rimuoverlo; ma solo promisse lasciare parte delle sue genti e mandare
Giovanni suo figliuolo, che per lui fusse a' servizi della lega.
Non
dispiacque questa partita a' Fiorentini, come quelli che, avendo
recuperate le loro castella, non temevano più il Re, e
dall'altra parte non desideravano che il Duca altro che le sue terre
in Lombardia ricuperasse.
Partissi per tanto Rinato, e mandò
il suo figliuolo, come aveva promesso, in Italia; il quale non si
fermò in Lombardia, ma ne venne a Firenze, dove
onoratissimamente fu ricevuto.
32
La
partita del Re fece che il Duca volentieri si voltò alla pace;
e i Viniziani, Alfonso e i Fiorentini, per essere tutti stracchi, la
desideravano, e il Papa ancora con ogni demostrazione la aveva
desiderata e desiderava, perché questo medesimo anno Maumetto
Gran Turco aveva preso Gostantinopoli e al tutto di Grecia
insignoritosi.
Il quale acquisto sbigottì tutti i cristiani, e
più che ciascuno altro i Viniziani e il Papa, parendo a
ciascuno già di questi sentire le sue armi in Italia.
Il Papa
per tanto pregò i potentati italiani gli mandassero oratori,
con autorità di fermare una universale pace.
I quali tutti
ubbidirono; e venuti insieme a' meriti della cosa, vi si trovava nel
trattarla assai difficultà: voleva il Re che i Fiorentini lo
rifacessero delle spese fatte in quella guerra, e i Fiorentini
volevono esserne sodisfatti loro, i Viniziani domandavano al Duca
Cremona, il Duca a loro Bergamo, Brescia e Crema; tal che pareva che
queste difficultà fussero a risolvere impossibile.
Non di
meno, quello che a Roma fra molti pareva difficile a fare, a Milano e
a Vinegia infra duoi fu facilissimo; perché, mentre che le
pratiche a Roma della pace si tenevano, il Duca e i Viniziani, a dì
9 di aprile, nel 1454, la conclusono.
Per virtù della quale
ciascuno ritornò nelle terre possedeva avanti la guerra, e al
Duca fu concesso potere recuperare le terre gli avieno occupate i
principi di Monferrato e di Savoia; e agli altri italiani principi fu
uno mese a ratificarla concesso.
Il Papa e i Fiorentini, e con loro
Sanesi e altri minori potenti, fra il tempo la ratificorono; né
contenti a questo, si fermò fra i Fiorentini, Duca e Viniziani
pace per anni venticinque.
Mostrò solamente il re Alfonso,
delli principi di Italia, essere di questa pace mal contento,
parendogli fusse fatta con poca sua reputazione, avendo, non come
principale, ma come aderente ad essere ricevuto in quella; e per ciò
stette molto tempo sospeso, sanza lasciarsi intendere.
Pure, sendogli
state mandate, dal Papa e dagli altri principi molte solenne
ambascerie, si lasciò da quelli, e massime dal Pontefice,
persuadere, ed entrò in questa lega, con il figliuolo, per
anni trenta; e ferono insieme il Duca e il Re doppio parentado e
doppie nozze, dando e togliendo la figliuola l'uno dell'altro per i
loro figliuoli.
Non di meno, acciò che in Italia restassero i
semi della guerra, non consentì fare la pace, se prima dai
collegati non gli fu concessa licenzia di potere, sanza loro
ingiuria, fare guerra a' Genovesi, a Gismondo Malatesti e ad Astor
principe di Faenza.
E fatto questo accordo, Ferrando suo figliuolo,
il quale si trovava a Siena, se ne tornò nel Regno, avendo
fatto, per la venuta sua in Toscana, niuno acquisto di imperio, e
assai perdita di sue genti.
33
Sendo
adunque seguita questa pace universale, si temeva solo che il re
Alfonso, per la nimicizia aveva con i Genovesi, non la turbasse, ma
il fatto andò altrimenti, perché, non da il Re
apertamente, ma, come sempre per lo addietro era intervenuto, dalla
ambizione de' soldati mercennari fu turbata.
Avevono i Viniziani,
come è costume, fatta la pace, licenziato da' loro soldi
Iacopo Piccinino loro condottiere; con il quale aggiuntosi alcuni
altri condottieri sanza partito, passarono in Romagna, e di quindi
nel Sanese, dove fermatosi, Iacopo mosse loro guerra, e occupò
a' Sanesi alcune terre.
Nel principio di questi moti, e al
cominciamento dello anno 1455, morì papa Niccola, e a lui fu
eletto successore Calisto III.
Questo pontefice, per reprimere la
nuova e vicina guerra, subito sotto Giovanni Ventimiglia suo capitano
ragunò quanta più gente potette, e quelle, con gente
de' Fiorentini e del Duca, i quali ancora a reprimere questi moti
erano concorsi, mandò contro a Iacopo.
E venuti alla zuffa
propinqui a Bolsena, non ostante che il Ventimiglia restasse
prigione, Iacopo ne rimase perdente, e come rotto a Castiglione della
Pescaia si ridusse; e se non fusse stato da Alfonso suvvenuto di
danari, vi rimaneva al tutto disfatto.
La qual cosa fece a ciascuno
credere questo moto di Iacopo essere per ordine di quello re seguito;
in modo che, parendo ad Alfonso di essere scoperto, per riconciliarsi
i collegati con la pace, che si aveva con questa debile guerra quasi
che alienati, operò che Iacopo restituisse a' Sanesi le terre
occupate loro, e quelli gli dessino ventimila fiorini; e fatto questo
accordo, ricevé Iacopo e le sue genti nel Regno.
In questi
tempi, ancora che il Papa pensasse a frenare Iacopo Piccinino, non di
meno non mancò di ordinarsi a potere suvvenire alla
cristianità, che si vedeva che era per essere dai Turchi
oppressata; e per ciò mandò per tutte le provincie
cristiane oratori e predicatori, a persuadere ai principi e ai popoli
che si armassero in favore della loro religione e con danari e con la
persona la impresa contro al comune nimico di quella favorissero.
Tanto che in Firenze si ferono assai limosine, assai ancora si
segnorono d'una croce rossa, per essere presti con la persona a
quella guerra, fecionsi ancora solenne processioni, né si
mancò, per il publico e per il privato, di mostrare di volere
essere intra i primi cristiani, con il consiglio, con i danari e con
gli uomini, a tale impresa.
Ma questa caldezza della cruciata fu
raffrenata alquanto da una nuova che venne, come, sendo il Turco con
lo esercito suo intorno a Belgrado per espugnarlo, castello posto in
Ungheria sopra il fiume del Danubio, era stato dagli Ungheri rotto e
ferito.
Talmente che, essendo nel Pontefice e ne' cristiani cessata
quella paura ch' eglino avieno per la perdita di Gostantinopoli
conceputa, si procedé nelle preparazioni che si facevano per
la guerra più tepidamente; e in Ungheria medesimamente, per la
morte di Giovanni Vaivoda, capitano di quella vittoria,
raffreddorono.
34
Ma
tornando alle cose di Italia, dico come e' correva l'anno 1456,
quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono, donde che,
posate le armi dagli uomini, parve che Iddio le volessi prendere
egli, tanta fu grande una tempesta di venti che allora seguì,
la quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo
avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti.
Partissi a' 24 d'agosto, una ora avanti giorno, dalle parti del mare
di sopra di verso Ancona, e attraversando per la Italia, entrò
nel mare di sotto verso Pisa, un turbine d'una nugolaglia grossa e
folta, la quale quasi che due miglia di spazio per ogni verso
occupava.
Questa, spinta da superiori forze, o naturali o
sopranaturali che le fussero, in se medesimo rotta, in se medesimo
combatteva, e le spezzate nugole, ora verso il cielo salendo, ora
verso la terra scendendo, insieme si urtavano; e ora in giro con una
velocità grandissima si movevano, e davanti a loro un vento
fuori d'ogni modo impetuoso concitavano; e spessi fuochi e
lucidissimi vampi intra loro nel combattere apparivono.
Da queste
così rotte e confuse nebbie, da questi così furiosi
venti e spessi splendori, nasceva uno romore non mai più da
alcuna qualità o grandezza di tremuoto o di tuono udito; dal
quale usciva tanto spavento che ciascuno che lo sentì
giudicava che il fine del mondo fusse venuto, e la terra, l'acqua e
il resto del cielo e del mondo, nello antico caos, mescolandosi
insieme, ritornassero.
Fe' questo spaventevole turbine, dovunque
passò, inauditi e maravigliosi effetti; ma più notabili
che altrove intorno al castello di San Casciano seguirono.
È
questo castello posto propinquo a Firenze ad otto miglia, sopra il
colle che parte le valli di Pesa e di Grieve.
Fra detto castello,
adunque, e il borgo di Santo Andrea, posto sopra il medesimo colle,
passando, questa furiosa tempesta, a Santo Andrea non aggiunse, e San
Casciano rasentò in modo che solo alcuni merli e cammini di
alcune case abbatté, ma fuori, in quello spazio che è
dall'uno de' luoghi detti all'altro, molte case furono infino al
piano della terra rovinate.
I tetti de' templi di San Martino a
Bagnuolo e di Santa Maria della Pace, interi come sopra quelli erano,
furono più che un miglio discosto portati, uno vetturale,
insieme con i suoi muli, fu, discosto dalla strada, nelle vicine
convalli trovato morto, tutte le più grosse querce, tutti i
più gagliardi arbori, che a tanto furore non volevono cedere,
furono, non solo sbarbati, ma discosto molto da dove avevano le loro
radice portati; onde che, passata la tempesta e venuto il giorno, gli
uomini stupidi al tutto erano rimasi.
Vedevasi il paese desolato e
guasto; vedevasi la rovina delle case e de' templi; sentivansi i
lamenti di quelli che vedevano le loro possessioni distrutte, e sotto
le rovine avevano lasciato il loro bestiame e i loro parenti morti:
la qual cosa a chi vedeva e udiva recava compassione e spavento
grandissimo.
Volle senza dubio Iddio più tosto minacciare che
gastigare la Toscana; perché se tanta tempesta fusse entrata
in una città, infra le case e gli abitatori assai e spessi,
come l'entrò fra querce e arbori e case poche e rare, sanza
dubio faceva quella rovina e fragello che si può con la mente
conietturare maggiore.
Ma Iddio volle, per allora, che bastasse
questo poco di esemplo a rinfrescare infra gli uomini la memoria
della potenzia sua.
35
Era,
per tornare donde io mi partii, il re Alfonso, come di sopra dicemmo,
male contento della pace; e poi che la guerra ch'egli aveva fatta
muovere da Iacopo Piccinino a' Sanesi sanza alcuna ragionevole
cagione non aveva alcuno importante effetto partorito, volle vedere
quello che partoriva quella la quale, secondo le convenzioni della
lega, poteva muovere.
E però, l'anno 1456, mosse per mare e
per terra guerra a' Genovesi, desideroso di rendere lo stato agli
Adorni e privarne i Fregosi che allora governavano; e dall'altra
parte fece passare il Tronto a Iacopo Piccinino contro a Gismondo
Malatesti.
Costui perché aveva guernite bene le sue terre
stimò poco lo assalto di Iacopo; di maniera che da questa
parte la impresa del Re non fece alcuno effetto, ma quella di Genova
partorì a lui e al suo regno più guerra che non arebbe
voluto.
Era allora duce di Genova Pietro Fregoso.
Costui, dubitando
non potere sostenere l'impeto del Re, deliberò quello che non
poteva tenere donarlo almeno ad alcuno che da' nimici suoi lo
defendesse e qualche volta, per tale beneficio, gliene potesse giusto
premio rendere.
Mandò per tanto oratori a Carlo VII re di
Francia, e gli offerì lo imperio di Genova.
Accettò
Carlo la offerta, e a prendere la possessione di quella città
vi mandò Giovanni d'Angiò figliuolo del re Rinato, il
quale di poco tempo avanti si era partito da Firenze e ritornato in
Francia.
E si persuadeva Carlo che Giovanni, per avere presi assai
costumi italiani, potesse meglio che uno altro governare quella
città; e parte giudicava che di quindi potesse pensare alla
impresa di Napoli; del quale regno Rinato suo padre era stato da
Alfonso spogliato.
Andò per tanto Giovanni a Genova dove fu
ricevuto come principe, e datogli in sua potestate le fortezze della
città e dello stato.
36
Questo
accidente dispiacque ad Alfonso, parendogli aversi tirato adosso
troppo importante nimico, non di meno, per ciò non sbigottito,
seguitò con franco animo la impresa sua e aveva già
condotta l'armata sotto Villa Marina a Portofino, quando, preso da
una subita infirmità, morì.
Restorono, per questa
morte, Giovanni e i Genovesi liberi dalla guerra; e Ferrando, il
quale successe nel regno di Alfonso suo padre, era pieno di sospetto,
avendo uno nimico di tanta reputazione in Italia, e dubitando della
fede di molti suoi baroni, i quali desiderosi di cose nuove, ai
Franzesi non si aderissino.
Temeva ancora del Papa la ambizione del
quale cognosceva, che per essere nuovo nel regno non disegnasse
spogliarlo di quello.
Sperava solo nel duca di Milano, il quale non
era meno ansio delle cose del Regno che si fusse Ferrando, perché
dubitava che, quando i Franzesi se ne fussero insignoriti, non
disegnassero di occupare ancora lo stato suo, il quale sapeva come ei
credevono potere come cosa a loro appartenente domandare.
Mandò
per tanto quel duca, subito dopo la morte di Alfonso, lettere e gente
a Ferrando: queste per dargli aiuto e reputazione, quelle per
confortarlo a fare buono animo, significandogli come non era, in
alcuna sua necessità, per abbandonarlo.
Il Pontefice dopo la
morte di Alfonso, disegnò di dare quel regno a Pietro Lodovico
Borgia suo nipote; e per adonestare quella impresa e avere più
concorso con gli altri principi di Italia, publicò come sotto
lo imperio della Romana Chiesa voleva quel regno ridurre; e per ciò
persuadeva al Duca che non dovesse prestare alcuno favore a Ferrando,
offerendogli le terre che già in quel regno possedeva.
Ma nel
mezzo di questi pensieri e nuovi travagli Calisto morì; e
successe al pontificato Pio II, di nazione sanese, della famiglia de'
Piccoluomini, nominato Enea.
Questo pontefice, pensando solamente a
benificare i cristiani e ad onorar la Chiesa, lasciando indietro ogni
sua privata passione, per i prieghi del duca di Milano, coronò
del Regno Ferrando, giudicando poter più presto mantenendo chi
possedeva posare l'armi italiane, che se avesse, o favorito i
Franzesi perché gli occupassero quel regno, o disegnato, come
Calisto, di prenderlo per sé.
Non di meno Ferrando, per questo
benifizio, fece principe di Malfi Antonio, nipote del Papa, e con
quello congiunse una sua figliuola non legittima.
Restituì
ancora Benevento e Terracina alla Chiesa.
37
Pareva
per tanto che fussero posate le armi in Italia, e il Pontefice si
ordinava a muovere la cristianità contro a' Turchi, secondo
che da Calisto era già stato principiato, quando nacque intra
i Fregosi e Giovanni signore di Genova dissensione, la quale maggiori
guerre e più importanti di quelle passate raccese.
Trovavasi
Petrino Fregoso in uno suo castello in Riviera.
A costui non pareva
essere stato rimunerato da Giovanni d'Angiò secondo i suoi
meriti e della sua casa, sendo loro stati cagione di farlo in quella
città principe: per tanto vennono insieme a manifesta
inimicizia.
Piacque questa cosa a Ferrando, come unico rimedio e sola
via alla sua salute; e Petrino di gente e di danari suvvenne, e per
suo mezzo giudicava potere cacciare Giovanni di quello stato.
Il che
cognoscendo egli, mandò per aiuti in Francia, con i quali si
fece incontro a Petrino, il quale, per molti favori gli erano stati
mandati, era gagliardissimo; in modo che Giovanni si ridusse a
guardare la città.
Nella quale entrato una notte Petrino,
prese alcuni luoghi di quella; ma venuto il giorno, fu dalle genti di
Giovanni combattuto e morto, e tutte le sue genti o morte o prese.
Questa vittoria dette animo a Giovanni di fare la impresa del Regno;
e di ottobre, nel 1459, con una potente armata partì di Genova
per alla volta di quello; e pose a Baia, e di quivi a Sessa, dove fu
da quel duca ricevuto.
Accostoronsi a Giovanni il principe di
Taranto, gli Aquilani e molte altre città e principi; di modo
che quel regno era quasi tutto in rovina.
Veduto questo, Ferrando
ricorse per aiuti al Papa e al Duca; e per avere meno nimici, fece
accordo con Gismondo Malatesti.
Per la qual cosa si turbò in
modo Iacopo Piccinino, per essere di Gismondo naturale nimico, che si
parti da' soldi di Ferrando e accostossi a Giovanni.
Mandò
ancora Ferrando danari a Federigo signore di Urbino, e quanto prima
poté, ragunò, secondo quelli tempi, uno buono esercito;
e sopra il fiume di Sarni si ridusse a fronte con li nimici, e venuti
alla zuffa, fu il re Ferrando rotto, e presi molti importanti suoi
capitani.
Dopo questa rovina rimase in fede di Ferrando la città
di Napoli con alcuni pochi principi e terre: la maggiore parte a
Giovanni si dierono.
Voleva Iacopo Piccinino che Giovanni con questa
vittoria andasse a Napoli e si insignorissi del capo del Regno; ma
non volse, dicendo che prima voleva spogliarlo di tutto il dominio e
poi assalirlo, pensando che, privo delle sue terre, lo acquisto di
Napoli fusse più facile.
Il quale partito, preso al contrario,
gli tolse la vittoria di quella impresa; perché egli non
cognobbe come più facilmente le membra seguono il capo che il
capo le membra.
38
Erasi
rifuggito, dopo la rotta, Ferrando in Napoli, e quivi gli scacciati
de' suoi stati riceveva; e con quelli modi più umani poté,
ragunò danari insieme, e fece un poco di testa di esercito.
Mandò di nuovo per aiuto al Papa e al Duca, e dall'uno e
dall'altro fu suvvenuto con maggiore celerità e più
copiosamente che per innanzi, perché vivevono con sospetto
grande che non perdessi quel regno.
Diventato per tanto il re
Ferrando gagliardo, uscì di Napoli; e avendo cominciato a
racquistare riputazione, riacquistava delle terre perdute.
E mentre
che la guerra nel Regno si travagliava, nacque uno accidente che al
tutto tolse a Giovanni d'Angiò la reputazione e la commodità
di vincere quella impresa.
Erano i Genovesi infastiditi del governo
avaro e superbo de' Franzesi, tanto che presono le armi contro al
governatore regio, e quello constrinsono a rifuggirsi nel
Castelletto; e a questa impresa furono i Fregosi e gli Adorni
concordi, e dal duca di Milano di danari e di gente furono aiutati,
così nell'acquistare lo stato come nel conservarlo; tanto che
il re Rinato, il quale con una armata venne di poi in soccorso del
figliuolo, sperando riacquistare Genova per virtù del
Castelletto, fu, nel porre delle sue genti in terra, rotto, di sorte
che fu forzato tornarsene svergognato in Provenza.
Questa nuova, come
fu intesa nel regno di Napoli, sbigottì assai Giovanni
d'Angiò; non di meno non lasciò la impresa; ma per più
tempo sostenne la guerra aiutato da quelli baroni i quali, per la
rebellione loro, non credevono apresso a Ferrando trovare luogo
alcuno.
Pure alla fine, dopo molti accidenti seguiti a giornata li
duoi regali eserciti si condussono, nella quale fu Giovanni,
propinquo a Troia, rotto, l'anno 1463.
Né tanto l'offese la
rotta, quanto la partita da lui di Iacopo Piccinino, il quale si
accostò a Ferrando; sì che, spogliato di forze, si
ridusse in Istia, donde poi se ne tornò in Francia.
Durò
questa guerra quattro anni e la perdé colui, per sua
negligenzia, il quale, per virtù de' suoi soldati l'ebbe più
volte vinta.
Nella quale i Fiorentini non si travagliorono in modo
che apparisse: vero è che da il re Giovanni di Aragona,
nuovamente assunto re in quel regno per la morte di Alfonso, furono,
per sua ambasciata, richiesti che dovessero soccorrere alle cose di
Ferrando suo nipote, come erano, per la lega nuovamente fatta con
Alfonso suo padre, obligati.
A cui per i Fiorentini fu risposto: non
avere obligo alcuno con quello; e che non erano per aiutare il
figliuolo in quella guerra che il padre con le armi sue aveva mossa;
e come la fu cominciata sanza loro consiglio o saputa, così
sanza il loro aiuto la tratti e finisca.
Donde che quelli oratori,
per parte del loro re, protestorono la pena dello obligo e gli
interessi del danno; e sdegnati contro a quella città si
partirono.
Stettono per tanto i Fiorentini, nel tempo di questa
guerra, quanto alle cose di fuori, in pace; ma non posorono già
drento, come particularmente nel seguente libro si dimosterrà.
LIBRO SETTIMO
1
E'
parrà forse a quelli che il libro superiore aranno letto che
uno scrittore delle cose fiorentine si sia troppo disteso in narrare
quelle seguite in Lombardia e nel Regno; non di meno io non ho
fuggito né sono per lo avvenire per fuggire simili narrazioni,
perché, quantunque io non abbia mai promesso di scrivere le
cose di Italia, non mi pare per ciò da lasciare indietro di
non narrare quelle che saranno in quella provincia notabili.
Perché,
non le narrando, la nostra istoria sarebbe meno intesa e meno grata;
massimamente perché dalle azioni degli altri popoli e principi
italiani nascono il più delle volte le guerre nelle quali i
Fiorentini sono di intromettersi necessitati, come dalla guerra di
Giovanni d'Angiò e del re Ferrando gli odii e le gravi
inimicizie nacquono le quali poi intra Ferrando e i Fiorentini, e
particularmente con la famiglia de' Medici seguirono.
Perché
il Re si doleva, in quella guerra, non solamente non essere stato
suvvenuto, ma essere stati prestati favori al nimico suo; il quale
sdegno fu di grandissimi mali cagione, come nella narrazione nostra
si dimosterrà.
E perché io sono, scrivendo le cose di
fuora, infino al 1463 transcorso, mi è necessario, a volere i
travagli di dentro in quel tempo seguiti narrare, ritornare molti
anni indietro.
Ma prima voglio alquanto, secondo la consuetudine
nostra ragionando, dire come coloro che sperano che una republica
possa essere unita, assai di questa speranza s'ingannono.
Vera cosa è
che alcune divisioni nuocono alle republiche, e alcune giovano:
quelle nuocono che sono dalle sette e da partigiani accompagnate;
quelle giovano che senza sette e senza partigiani si mantengono.
Non
potendo adunque provedere uno fondatore di una republica che non
sieno inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non vi sieno
sette.
E però è da sapere come in due modi acquistono
riputazione i cittadini nelle città: o per vie publiche, o per
modi privati.
Publicamente si acquista, vincendo una giornata,
acquistando una terra, faccendo una legazione con sollecitudine e con
prudenza, consigliando la republica saviamente e felicemente; per
modi privati si acquista, benificando questo e quell'altro cittadino,
defendendolo da' magistrati, suvvenendolo di danari, tirandolo
immeritamente agli onori, e con giochi e doni publici gratificandosi
la plebe.
Da questo modo di procedere nascono le sette e i
partigiani; e quanto questa reputazione così guadagnata
offende, tanto quella giova quando ella non è con le sette
mescolata, perché la è fondata sopra un bene comune,
non sopra un bene privato.
E benché ancora tra i cittadini
così fatti non si possa per alcuno modo provedere che non vi
sieno odii grandissimi non di meno, non avendo partigiani che per
utilità propria li seguitino, non possono alla republica
nuocere; anzi conviene che giovino, perché è
necessario, per vincere le loro pruove, si voltino alla esaltazione
di quella, e particularmente osservino l'uno l'altro, acciò
che i termini civili non si trapassino.
Le inimicizie di Firenze
furono sempre con sette, e per ciò furono sempre dannose; né
stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto la setta
inimica era viva, ma come la vinta era spenta, non avendo quella che
regnava più paura che la ritenesse né ordine infra sé
che la frenasse, la si ridivideva.
La parte di Cosimo de' Medici
rimase, nel 1434, superiore; ma per essere la parte battuta grande e
piena di potentissimi uomini, si mantenne un tempo, per paura, unita
e umana, intanto che fra loro non feciono alcuno errore, e al popolo
per alcuno loro sinistro modo non si feciono odiare; tanto che
qualunque volta quello stato ebbe bisogno del popolo per ripigliare
la sua autorità, sempre lo trovò disposto a concedere a
i capi suoi tutta quella balia e potenza che desideravano.
E così,
dal 1434 al '55, che sono anni ventuno, sei volte, e per i Consigli
ordinariamente, la autorità della balia riassunsono.
2
Erano
in Firenze, come più volte abbiamo detto, duoi cittadini
potentissimi Cosimo de' Medici e Neri Capponi; de' quali Neri era uno
di quelli che aveva acquistata la sua reputazione per vie publiche,
in modo che gli aveva assai amici e pochi partigiani; Cosimo,
dall'altra parte, avendosi alla sua potenza la publica e la privata
via aperta, aveva amici e partigiani assai.
E stando costoro uniti,
mentre tutti a duoi vissero, sempre ciò che vollono sanza
alcuna difficultà dal popolo ottennono, perché gli era
mescolata con la potenza la grazia.
Ma venuto l'anno 1455, ed essendo
morto Neri, e la parte nimica spenta, trovò lo stato
difficultà nel riassumere l'autorità sua; e i propri
amici di Cosimo, e nello stato potentissimi, ne erano cagione, perché
non temevano più la parte avversa, che era spenta, e avevano
caro di diminuire la potenza di quello.
Il quale umore dette
principio a quelle divisioni che di poi, nel 1466 seguirono; in modo
che quelli a' quali lo stato apparteneva, ne' Consigli dove
publicamente si ragionava della publica amministrazione,
consigliavano che gli era bene che la potestà della balia non
si riassumesse, e che si serrassero le borse e i magistrati a sorte,
secondo i favori de' passati squittini, si sortissero.
Cosimo, a
frenare questo umore aveva uno de' duoi rimedi: o ripigliare lo stato
per forza, con i partigiani che gli erano rimasi, e urtare tutti gli
altri, o lasciare ire la cosa e con il tempo fare a' suoi amici
cognoscere che non a lui, ma a loro propri, lo stato e la reputazione
toglievono.
De' quali duoi remedi questo ultimo elesse; perché
sapeva bene che in tale modo di governo, per essere le borse piene di
suoi amici, egli non correva alcuno pericolo, e come a sua posta
poteva il suo stato ripigliare.
Riduttasi per tanto la città a
creare i magistrati a sorte, pareva alla universalità de'
cittadini avere riavuta la sua libertà, e i magistrati, non
secondo la voglia de' potenti, ma secondo il giudicio loro proprio
giudicavano; in modo che ora uno amico d'uno potente, ora quello
d'uno altro era battuto, e così quelli che solevano vedere le
case loro piene di salutatori e di presenti, vote di sustanze e di
uomini le vedevano.
Vedevonsi ancora diventati uguali a quelli che
solevono avere di lunga inferiori, e superiori vedevano quelli che
solevono essere loro eguali.
Non erano riguardati né onorati,
anzi molte volte beffati e derisi, e di loro e della republica per le
vie e per le piazze sanza alcuno riguardo si ragionava; di qualità
che cognobbono presto, non Cosimo, ma loro avere perduto lo stato.
Le
quali cose Cosimo dissimulava, e come e' nasceva alcuna deliberazione
che piacessi al popolo, ed egli era il primo a favorirla.
Ma quello
che fece più spaventare i Grandi, e a Cosimo dette maggiore
occasione a farli ravvedere fu che si risuscitò il modo del
catasto del 1427, dove, non gli uomini, ma le leggi le gravezze
ponesse.
3
Questa
legge vinta, e di già fatto il magistrato che la esequisse, li
fé al tutto ristrignere insieme, e ire a Cosimo, a pregarlo
che fusse contento volere trarre loro e sé delle mani della
plebe, e rendere allo stato quella riputazione che faceva lui potente
e loro onorati.
Ai quali Cosimo rispose che era contento; ma che
voleva che la legge si facesse ordinariamente e con volontà
del popolo, e non per forza, pella quale per modo alcuno non gli
ragionassero.
Tentossi ne' Consigli la legge di fare nuova balia, e
non si ottenne, onde che i cittadini grandi tornavano a Cosimo, e con
ogni termine di umilità lo pregavano volesse acconsentire al
parlamento; il che Cosimo al tutto negava come quello che voleva
ridurli in termine che appieno lo errore loro cognoscessero.
E perché
Donato Cocchi trovandosi gonfalonieri di giustizia, volle senza suo
consentimento fare il parlamento, lo fece in modo Cosimo da' Signori
che con seco sedevano sbeffare, che gli impazzò, e come
stupido ne fu alle case sue rimandato.
Non di meno, perché non
è bene lasciare tanto transcorrere le cose, che le non si
possino poi ritirare a sua posta, sendo pervenuto al gonfaloniere
della giustizia Luca Pitti, uomo animoso e audace, gli parve tempo di
lasciare governare la cosa a quello, acciò, se di quella
impresa s'incorreva in alcuno biasimo, fusse a Luca, non a lui,
imputato.
Luca per tanto, nel principio del suo magistrato, prepose
al popolo molte volte di rifare la balia; e non si ottenendo,
minacciò quelli che ne' Consigli sedevano con parole
ingiuriose e piene di superbia.
Alle quali poco di poi aggiunse i
fatti; perché di agosto, nel 1458, la vigilia di Santo Lorenzo
avendo ripieno di armati il Palagio chiamò il popolo in
Piazza, e per forza e con le armi, gli fece acconsentire quello che
prima volontariamente non aveva acconsentito.
Riassunto per tanto lo
stato, e creato la balia e di poi i primi magistrati secondo il
parere de' pochi, per dare principio a quello governo con terrore,
ch'eglino avieno cominciato con forza, confinorono messer Girolamo
Machiavelli con alcuni altri, e molti ancora degli onori privorono.
Il quale messer Girolamo, per non avere di poi osservati i confini,
fu fatto ribelle; e andando circuendo Italia, sullevando i principi
contro alla patria, fu in Lunigiana, per poca fede d'uno di quelli
signori, preso; e condotto a Firenze, fu morto in carcere.
4
Fu
questa qualità di governo, per otto anni che durò
insopportabile e violento; perché Cosimo, già vecchio e
stracco e per la mala disposizione del corpo fatto debole, non
potendo essere presente in quel modo soleva alle cure publiche, pochi
cittadini predavano quella città.
Fu Luca Pitti, per premio
della opera aveva fatta in benifizio della republica, fatto
cavaliere; ed egli, per non essere meno grato verso di lei, che
quella verso di lui fussi stata, volle che, dove prima si chiamavano
Priori dell'Arti, acciò che della possessione perduta almeno
ne riavessero il titulo, si chiamassero Priori di Libertà:
volle ancora che dove prima il gonfaloniere sedeva sopra la destra
de' rettori, in mezzo di quelli per lo avvenire sedesse.
E perché
Iddio paressi partecipe di questa impresa, feciono publice
processioni e solenni offizi per ringraziare quello de' riassunti
onori.
Fu messer Luca dalla Signoria e da Cosimo riccamente
presentato, dietro ai quali tutta la città a gara concorse; e
fu opinione che i presenti alla somma di ventimila ducati
aggiugnessero.
Donde egli salì in tanta reputazione, che non
Cosimo ma messer Luca la città governava.
Da che lui venne in
tanta confidenza che gli cominciò duoi edifici, l'uno in
Firenze l'altro a Ruciano, luogo propinquo uno miglio alla città,
tutti superbi e regii; ma quello della città al tutto maggiore
che alcuno altro che da privato cittadino infino a quel giorno fusse
stato edificato.
I quali per condurre a fine non perdonava ad alcuno
estraordinario modo; perché, non solo i cittadini e gli uomini
particulari lo presentavano e delle cose necessarie allo edifizio lo
suvvenivano, ma i comuni e popoli interi gli sumministravano aiuti.
Oltra di questo, tutti gli sbanditi, e qualunque altro avesse
commesso omicidio, o furto o altra cosa per che egli temesse publica
penitenzia, purché e' fusse persona a quella edificazione
utile, dentro a quelli edifizi sicuro si rifuggiva.
Gli altri
cittadini, se non edificavano come quello, non erano meno violenti,
né meno rapaci di lui, in modo che, se Firenze non aveva
guerra di fuori che la distruggesse, dai suoi cittadini era
distrutta.
Seguirono, come abbiamo detto, durante questo tempo, le
guerre del Regno, e alcune che ne fece il Pontefice in Romagna contro
a quelli Malatesti; perché egli desiderava spogliarli di
Rimino e di Cesena, che loro possedevano; sì che, infra queste
imprese e i pensieri di fare la impresa del Turco, papa Pio consumò
il pontificato suo.
5
Ma
Firenze seguitò nelle disunioni e ne' travagli suoi.
Cominciò
la disunione nella parte di Cosimo nel '55, per le cagioni dette, le
quali per la prudenza sua, come abbiamo narrato, per allora si
posorono.
Ma venuto l'anno '64, Cosimo riaggravò nel male, di
qualità che passò di questa vita.
Dolfonsi della morte
sua gli amici e i nimici; perché quelli che per cagione dello
stato non lo amavano, veggendo quale era stata la rapacità de'
cittadini vivente lui, la cui reverenza gli faceva meno
insopportabili, dubitavano, mancato quello, non essere al tutto
rovinati e distrutti; e in Piero suo figliuolo non confidavano molto,
perché, non ostante che fusse uomo buono, non di meno
giudicavano che, per essere ancora lui infermo e nuovo nello stato,
fusse necessitato ad avere loro rispetto, talché quelli, sanza
freno in bocca, potessero essere più strabocchevoli nelle
rapacità loro.
Lasciò per tanto di sé in
ciascuno grandissimo desiderio.
Fu Cosimo il più reputato e
nomato cittadino, di uomo disarmato, che avesse mai, non solamente
Firenze, ma alcuna altra città di che si abbia memoria perché,
non solamente superò ogni altro de' tempi suoi d'autorità
e di ricchezze, ma ancora di liberalità e di prudenza; perché
intra tutte le altre qualità che lo feciono principe nella sua
patria fu lo essere sopra tutti gli altri uomini liberale e
magnifico.
Apparve la sua liberalità molto più dopo la
sua morte, quando Piero, suo figliuolo, volle le sue sustanze
ricognoscere, perché non era cittadino alcuno che avesse nella
città alcuna qualità, a chi Cosimo grossa somma di
danari non avesse prestata, e molte volte, sanza essere richiesto,
quando intendeva la necessità d'uno uomo nobile, lo suvveniva.
Apparve la sua magnificenzia nella copia degli edifizi da lui
edificati; perché in Firenze i conventi e i templi di San
Marco e di San Lorenzo e il munistero di Santa Verdiana, e ne' monti
di Fiesole San Girolamo e la Badia, e nel Mugello un tempio de' frati
minori non solamente instaurò, ma da e fondamenti di nuovo
edificò.
Oltra di questo, in Santa Croce, ne' Servi, negli
Angioli, in San Miniato, fece fare altari e cappelle splendidissime;
i quali templi e cappelle, oltre allo edificare, riempié di
paramenti e d'ogni cosa necessaria allo ornamento del divino culto.
A
questi sacri edifizi si aggiunsono le private sue case; le quali
sono, una nella città, di quello essere che a tanto cittadino
si conveniva; quattro di fuora, a Careggi, a Fiesole, a Cafaggiuolo e
al Trebbio: tutti palagi, non da privati cittadini, ma regii.
E
perché nella magnificenzia degli edifizi non gli bastava
essere cognosciuto in Italia, edificò ancora in Ierusalem un
recettaculo per i poveri e infermi peregrini; nelle quali
edificazioni uno numero grandissimo di danari consumò.
E
benché queste abitazioni e tutte le altre opere e azioni sue
fussero regie, e che solo, in Firenze, fusse principe, non di meno
tanto fu temperato dalla prudenza sua, che mai la civile modestia non
trapassò: perché nelle conversazioni, ne' servidori,
nel cavalcare, in tutto il modo del vivere, e ne' parentadi, fu
sempre simile a qualunque modesto cittadino; perché sapeva
come le cose estraordinarie che a ogni ora si veggono e appariscono
recono molto più invidia agli uomini, che quelle che sono in
fatto e con onestà si ricuoprono.
Avendo per tanto a dare
moglie a' suoi figliuoli, non cercò i parentadi de' principi,
ma con Giovanni la Cornelia degli Alessandri e con Piero la Lucrezia
de' Tornabuoni congiunse; e delle nipoti nate di Piero la Bianca a
Guglielmo de' Pazzi, e la Nannina a Bernardo Rucellai sposò.
Degli stati de' principi e civili governi niuno altro al suo tempo
per intelligenza lo raggiunse: di qui nacque che in tanta varietà
di fortuna, e in sì varia città e volubile
cittadinanza, tenne uno stato trentuno anno; perché, sendo
prudentissimo, cognosceva i mali discosto e per ciò era a
tempo, o a non li lasciare crescere, o a prepararsi in modo che
cresciuti, non lo offendessero: donde non solamente vinse la
domestica e civile ambizione, ma quella di molti principi superò
con tanta felicità e prudenza che qualunque seco e colla sua
patria si collegava, rimaneva o pari o superiore al nimico, e
qualunque se gli opponeva, o e' perdeva il tempo e' denari, o lo
stato.
Di che ne possono rendere buona testimonianza i Viniziani; i
quali, con quello, contro al duca Filippo sempre furono superiori, e
disiunti da lui, sempre furono, e da Filippo prima, e da Francesco
poi, vinti e battuti; e quando con Alfonso contro alla republica di
Firenze si collegorono, Cosimo con il credito suo vacuò Napoli
e Vinegia di danari in modo che furono constretti a prendere quella
pace che fu voluta concedere loro.
Delle dificultà adunque che
Cosimo ebbe, dentro alla città e fuori, fu il fine glorioso
per lui e dannoso per gli inimici; e per ciò sempre le civili
discordie gli accrebbono in Firenze stato, e le guerre di fuora
potenza e reputazione: per il che allo imperio della sua republica il
Borgo a San Sipolcro, Montedoglio, il Casentino e Val di Bagno
aggiunse.
E così la virtù e fortuna sua spense tutti i
suoi nimici, e gli amici esaltò.
6
Nacque
nel 1389, il giorno di Santo Cosimo e Damiano.
Ebbe la sua prima età
piena di travagli, come lo esilio, la cattura, i pericoli di morte
dimostrano; e da il concilio di Gostanza, dove era ito con papa
Giovanni, dopo la rovina di quello, per campare la vita, gli convenne
fuggire travestito.
Ma passati i quaranta anni della sua età,
visse felicissimo, tanto che, non solo quelli che si accostorono a
lui nelle imprese publiche, ma quelli ancora che i suoi tesori per
tutta la Europa amministravano della felicità sua
participorono: da che molte eccessive ricchezze in molte famiglie di
Firenze nacquono, come avvenne in quella de' Tornabuoni, de' Benci,
de' Portinari e de' Sassetti; e dopo questi, tutti quelli che da il
consiglio e fortuna sua dependevono arricchirono: talmente che, ben
che negli edifizi de' templi e nelle limosine egli spendesse
continuamente, si doleva qualche volta con gli amici che mai aveva
potuto spendere tanto in onore di Dio che lo trovassi ne' suoi libri
debitore.
Fu di comunale grandezza, di colore ulivigno e di presenza
venerabile.
Fu sanza dottrina, ma eloquentissimo e ripieno d'una
naturale prudenza; e per ciò era officioso nelli amici,
misericordioso ne' poveri, nelle conversazione utile, ne' consigli
cauto, nelle esecuzioni presto, e ne' suoi detti e risposte era
arguto e grave.
Mandogli messer Rinaldo degli Albizi, ne' primi tempi
del suo esilio a dire che la gallina covava, a cui Cosimo rispose che
la poteva mal covare fuora del nidio, e ad altri ribelli, che li
feciono intendere che non dormivano disse che lo credeva, avendo
cavato loro il sonno.
Disse di papa Pio, quando e' citava i principi
per la impresa contro al Turco, che gli era vecchio e faceva una
impresa da giovani.
Agli oratori viniziani, i quali vennono a Firenze
insieme con quelli del re Alfonso a dolersi della republica, mostrò
il capo scoperto, e dimandolli di qual colore fusse; al quale
risposono: - Bianco, - ed egli allora soggiunse: - E' non passerà
gran tempo che i vostri senatori lo aranno bianco come io.
-
Domandandogli la moglie, poche ore avanti la morte, perché
tenesse gli occhi chiusi, rispose: - Per avvezzargli.
- Dicendogli
alcuni cittadini, dopo la sua tornata dallo esilio, che si guastava
la città e facevasi contro a Dio a cacciare di quella tanti
uomini da bene, rispose come gli era meglio città guasta che
perduta; e come due canne di panno rosato facevono uno uomo da bene;
e che gli stati non si tenevono co' paternostri in mano: le quali
voci dettono materia a' nimici di calunniarlo, come uomo che amasse
più se medesimo che la patria, e più questo mondo che
quell'altro.
Potrebbonsi riferire molti altri suoi detti, i quali,
come non necessari, si ommetteranno.
Fu ancora Cosimo degli uomini
litterati amatore ed esaltatore; e per ciò condusse in Firenze
lo Argilopolo, uomo di nazione greca e in quelli tempi
litteratissimo, acciò che da quello la gioventù
fiorentina la lingua greca e l'altre sue dottrine potesse apprendere;
nutrì nelle sue case Marsilio Ficino, secondo padre della
platonica filosofia, il quale sommamente amò; e perché
potesse più commodamente seguire gli studi delle lettere, e
per poterlo con più sua commodità usare, una
possessione propinqua alla sua di Careggi gli donò.
Questa sua
prudenza adunque, queste sue ricchezze, modo di vivere e fortuna, lo
feciono, a Firenze, da' cittadini temere e amare, e dai principi, non
solo di Italia, ma di tutta la Europa, maravigliosamente stimare.
Donde che lasciò tale fondamento a' suoi posteri che poterono
con la virtù pareggiarlo e con la fortuna di gran lunga
superarlo, e quella autorità che Cosimo ebbe in Firenze, non
solo in quella città, ma in tutta la cristianità
averla.
Non di meno negli ultimi tempi della sua vita sentì
gravissimi dispiaceri; perché de' duoi figliuoli che gli ebbe,
Piero e Giovanni, questo morì in nel quale egli più
confidava, quell'altro era infermo e, per la debilezza del corpo,
poco atto alle publiche e alle private faccende.
Di modo che,
faccendosi portare, dopo la morte del figliuolo, per la casa, disse
sospirando: - Questa è troppa gran casa a sì poca
famiglia.
- Angustiava ancora la grandezza dello animo suo non gli
parere di avere accresciuto lo imperio fiorentino d'uno acquisto
onorevole; e tanto più se ne doleva, quanto gli pareva essere
stato da Francesco Sforza ingannato; il quale, mentre era conte, gli
aveva promesso, comunque si fusse insignorito di Milano, di fare la
impresa di Lucca per i Fiorentini.
Il che non successe, perché
quel conte con la fortuna mutò pensiero, e diventato duca,
volle godersi quello stato colla pace che si aveva acquistato con la
guerra; e per ciò non volle né a Cosimo né ad
alcuno altro di alcuna impresa sodisfare; né fece, poi che fu
duca, altre guerre che quelle che fu per difendersi necessitato.
Il
che fu di noia grandissima a Cosimo cagione, parendogli avere durato
fatica e speso per fare grande uno uomo ingrato e infedele.
Parevagli, oltre a di questo, per la infirmità del corpo, non
potere nelle faccende publiche e private porre l'antica diligenza
sua; di qualità che l'una e l'altra vedeva rovinare, perché
la città era distrutta da' cittadini, e le sustanze da'
ministri e da' figliuoli.
Tutte queste cose gli feciono passare gli
ultimi tempi della sua vita inquieti.
Non di meno morì pieno
di gloria, e con grandissimo nome nella città e fuori.
Tutti i
cittadini e tutti i principi cristiani si dolfono con Piero suo
figliuolo della sua morte, e fu con pompa grandissima da tutti i
cittadini alla sepultura accompagnato, e nel tempio di San Lorenzo
sepellito, e per publico decreto sopra la sepultura sua PADRE DELLA
PATRIA nominato.
Se io, scrivendo le cose fatte da Cosimo, ho imitato
quelli che scrivono le vite de' principi, non quelli che scrivono le
universali istorie, non ne prenda alcuno ammirazione, perché,
essendo stato uomo raro nella nostra città, io sono stato
necessitato con modo estraordinario lodarlo.
7
In
questi tempi, che Firenze e Italia nelle dette condizioni si trovava,
Luigi re di Francia era da gravissima guerra assalito, la quale gli
avieno i suoi baroni, con lo aiuto di Francesco duca di Brettagna e
di Carlo duca di Borgogna, mossa; la quale fu di tanto momento che
non potette pensare di favorire il duca Giovanni d'Angiò nelle
imprese di Genova e del Regno; anzi, giudicando di avere bisogno
degli aiuti di ciascuno, sendo restata la città di Savona in
potestà de' Franciosi, insignorì di quella Francesco
duca di Milano, e gli fece intendere che, se voleva, con sua grazia
poteva fare la impresa di Genova.
La qual cosa fu da Francesco
accettata; e con la reputazione che gli dette l'amicizia del Re, e
con li favori che gli ferono gli Adorni, s'insignorì di
Genova; e per non mostrarsi ingrato verso il Re de' beneficii
ricevuti, mandò al soccorso suo, in Francia, millecinquecento
cavagli, capitaneati da Galeazzo suo primogenito.
Restati per tanto
Ferrando di Aragona e Francesco Sforza, l'uno duca di Lombardia e
principe di Genova, l'altro re di tutto il regno di Napoli, e avendo
insieme contratto parentado, pensavano come e' potessero in modo
fermare gli stati loro, che vivendo li potessero securamente godere e
morendo agli loro eredi liberamente lasciare.
E per ciò
giudicorono che fusse necessario che il Re si assicurasse di quelli
baroni che lo aveno nella guerra di Giovanni d'Angiò offeso, e
il Duca operasse di spegnere le armi braccesche al sangue suo
naturali nimiche, le quali sotto Iacopo Piccinino in grandissima
reputazione erano salite, perché egli era rimaso il primo
capitano di Italia, e non avendo stato, qualunque era in stato doveva
temerlo, e massimamente il Duca, il quale, mosso da lo esemplo suo,
non gli pareva potere tenere quello stato, né securo a'
figliuoli lasciarlo, vivente Iacopo.
Il Re per tanto con ogni
industria cercò lo accordo con i suoi baroni, e usò
ogni arte in assicurarli, il che gli succedette felicemente, perché
quelli principi, rimanendo in guerra con il Re, vedevono la loro
rovina manifesta, e facendo accordo e di lui fidandosi, ne stavano
dubi.
E perché gli uomini fuggono sempre più volentieri
quel male che è certo, ne seguita che i principi possono i
minori potenti facilmente ingannare: credettono quelli principi alla
pace del Re, veggendo i pericoli manifesti nella guerra, e rimessisi
nelle braccia di quello, furono di poi da lui in varii modi e sotto
varie cagioni spenti.
La qual cosa sbigottì Iacopo Piccinino,
il quale con le sue genti si trovava a Solmona; e per torre occasione
al Re di opprimerlo, tenne pratica con il duca Francesco, per mezzo
de' suoi amici, di riconciliarsi con quello; e avendogli il Duca
fatte quante offerte potette maggiori, deliberò Iacopo
rimettersi nelle braccia sua, e lo andò, accompagnato da cento
cavagli, a trovare a Milano.
8
Aveva
Iacopo sotto il padre e con il fratello militato gran tempo, prima
per il duca Filippo e di poi per il popolo di Milano, tanto che, per
la lunga conversazione, aveva in Milano amici assai e universale
benivolenza; la quale le presenti condizioni avevano accresciuta
perché agli Sforzeschi la prospera fortuna e la presente
potenza aveva partorito invidia, e a Iacopo le cose avverse e la
lunga assenza avevano in quel popolo generato misericordia, e di
vederlo grandissimo desiderio.
Le quali cose tutte apparsono nella
venuta sua, perché pochi rimasono della nobilità che
non lo incontrassero, e le strade donde ei passò di quelli che
desideravano vederlo erano ripiene; il nome della gente sua per tutto
si gridava.
I quali onori affrettorono la sua rovina, perché
al Duca crebbe, con il sospetto, il desiderio di spegnerlo.
E per
poterlo più copertamente fare, volle che celebrasse le nozze
con Drusiana sua figliuola naturale, la quale più tempo
innanzi gli aveva sposata; di poi convenne con Ferrando lo prendesse
a' suoi soldi con titulo di capitano delle sue genti e centomila
fiorini di provisione.
Dopo la quale conclusione, Iacopo, insieme con
uno ambasciadore ducale e Drusiana sua moglie, se ne andò a
Napoli; dove lietamente e onoratamente fu ricevuto e per molti giorni
con ogni qualità di festa intrattenuto.
Ma avendo domandato
licenza per gire a Solmona, dove aveva le sue genti, fu da il Re nel
Castello convitato, e appresso il convito, insieme con Francesco suo
figliuolo, imprigionato, e dopo poco tempo morto.
E così i
nostri principi italiani quella virtù che non era in loro
temevano in altri, e la spegnevano: tanto che, non la avendo alcuno,
esposono questa provincia a quella rovina la quale, dopo non molto
tempo, la guastò e afflisse.
9
Papa
Pio, in questi tempi, aveva composte le cose di Romagna; e per ciò
gli parve tempo, veggendo seguita universale pace, di muovere i
Cristiani contro al Turco; e riprese tutti quelli ordini che da' suoi
antecessori erano stati fatti; e tutti i principi promissono o danari
o genti, e in particulari Mattia re d'Ungheria e Carlo duca di
Borgogna promissono essere personalmente seco, i quali furono da il
Papa fatti capitani della impresa.
E andò tanto avanti il
Pontefice con la speranza, che partì da Roma e andonne in
Ancona, dove si era ordinato che tutto lo esercito convenisse; e i
Viniziani gli avieno promessi navigi per passarlo in Stiavonia.
Convenne per tanto in quella città, dopo lo arrivare del
Pontefice, tanta gente che in pochi giorni tutti i viveri che in
quella città erano e che dai luoghi vicini vi si potevano
condurre mancorono, di qualità che ciascuno era dalla fame
oppressato.
Oltra di questo non vi era danari da provederne quelli
che ne avevano di bisogno, né arme da rivestire quelli che ne
mancavano; e Mattia e Carlo non comparsono, e i Viniziani vi
mandorono uno loro capitano con alquante galee, più tosto per
mostrare la pompa loro, e di avere osservata la fede, che per potere
quello esercito passare.
Onde che il Papa, sendo vecchio e infermo,
nel mezzo di questi travagli e disordini morì.
Dopo la cui
morte ciascheduno alle sue case se ne ritornò.
Morto il Papa,
l'anno 1465, fu eletto al pontificato Paulo II, di nazione viniziano.
E perché quasi che tutti i principati di Italia mutassero
governo, morì ancora, l'anno seguente, Francesco Sforza duca
di Milano, dopo sedici anni ch'egli aveva occupato quel ducato, e fu
dichiarato duca Galeazzo suo figliuolo.
10
La
morte di questo principe fu cagione che le divisioni di Firenze
diventassero più gagliarde e facessero i suoi effetti più
presto.
Poi che Cosimo morì, Piero suo figliuolo, rimaso erede
delle sustanze e dello stato del padre, chiamò a sé
messer Dietisalvi Neroni, uomo di grande autorità e secondo
gli altri cittadini reputatissimo, nel quale Cosimo confidava tanto
che commisse, morendo, a Piero che delle sustanze e dello stato al
tutto secondo il consiglio di quello si governasse.
Dimostrò
per tanto Piero a messer Dietisalvi la fede che Cosimo aveva avuta in
lui; e perché voleva ubbidire a suo padre dopo morte come
aveva ubbidito in vita, desiderava con quello del patrimonio e del
governo della città consigliarsi.
E per cominciare dalle
sustanze proprie, farebbe venire tutti i calculi delle sue ragioni e
gliene porrebbe in mano, acciò che potesse l'ordine e
disordine di quelle cognoscere, e cognosciuto, secondo la sua
prudenza consigliarlo.
Promisse messer Dietisalvi in ogni cosa usare
diligenzia e fede; ma venuti i calculi, e quelli bene esaminati,
cognobbe in ogni parte essere assai disordini.
E come quello che più
lo strigneva la propria ambizione che lo amore di Piero o gli antichi
benifizi da Cosimo ricevuti, pensò che fusse facile torgli la
reputazione e privarlo di quello stato che il padre come ereditario
gli aveva lasciato.
Venne per tanto messer Dietisalvi a Piero con uno
consiglio che pareva tutto onesto e ragionevole; ma sotto a quello
era la sua rovina nascosa.
Dimostrogli il disordine delle sue cose, e
a quanti danari gli era necessario provedere non volendo perdere, con
il credito, la reputazione delle sustanze e dello stato suo.
E perciò
gli disse che e' non poteva con maggiore onestà rimediare a'
disordini suoi, che cercare di fare vivi quelli danari che suo padre
doveva avere da molti, così forestieri come cittadini: perché
Cosimo, per acquistarsi partigiani in Firenze e amici di fuora, nel
fare parte a ciascuno delle sue sustanze fu liberalissimo, in modo
che quello di che per queste cagioni era creditore ad una somma di
danari non piccola né di poca importanza ascendeva.
Parve a
Piero il consiglio buono e onesto, volendo a' disordini suoi
rimediare con il suo; ma subito che gli ordinò che questi
danari si domandassero, i cittadini, come se quello volesse torre il
loro, non domandare il suo, si risentirono; e sanza rispetto dicevano
male di lui, e come ingrato e avaro lo calunniavano.
11
Donde
che, veduta messer Dietisalvi questa comune e populare disgrazia in
la quale Piero era per i suoi consigli incorso, si ristrinse con
messer Luca Pitti, messer Agnolo Acciaiuoli e Niccolò
Soderini, e deliberorono di torre a Piero la reputazione e lo stato.
Erano mossi costoro da diverse cagioni: messer Luca desiderava
succedere nel luogo di Cosimo, perché era diventato tanto
grande che si sdegnava avere ad osservare Piero; messer Dietisalvi,
il quale conosceva messer Luca non essere atto ad essere capo del
governo, pensava che di necessità, tolto via Piero, la
reputazione del tutto, in breve tempo, dovesse cadere in lui; Niccolò
Soderini amava che la città più liberamente vivesse, e
che secondo la voglia de' magistrati si governasse.
Messer Agnolo con
i Medici teneva particulari odii per tali cagioni: aveva Raffaello
suo figliuolo, più tempo innanzi, presa per moglie la
Lessandra de' Bardi con grandissima dote: costei o per i mancamenti
suoi o per i difetti d'altri, era da il suocero e dal marito male
trattata; onde che Lorenzo di Larione, suo affine, mosso a pietà
di questa fanciulla, una notte, con di molti armati accompagnato, la
trasse di casa messer Agnolo.
Dolfonsi gli Acciaiuoli di questa
ingiuria fatta loro dai Bardi: fu rimessa la causa in Cosimo; il
quale giudicò che gli Acciaiuoli dovessero alla Lessandra
restituire la sua dote, e di poi il tornare con il marito suo allo
arbitrio della fanciulla si rimettesse.
Non parve a messer Agnolo che
Cosimo, in questo giudicio, lo avesse come amico trattato; e non si
essendo potuto contro a Cosimo, deliberò contro al figliuolo
vendicarsi.
Questi congiurati non di meno, in tanta diversità
di umori, publicavano una medesima cagione, affermando volere che la
città con i magistrati, e non con il consiglio di pochi, si
governasse.
Accrebbono oltra di questo gli odii verso Piero e le
cagioni di morderlo molti mercatanti che in questo tempo fallirono:
di che publicamente ne fu Piero incolpato, che, volendo, fuori di
ogni espettazione, riavere i suoi danari, gli aveva fatti con
vituperio e danno della città fallire.
Aggiunsesi a questo che
si praticava di dare per moglie la Clarice degli Orsini a Lorenzo suo
primogenito; il che porse a ciascuno più larga materia di
calunniarlo, dicendo come e' si vedeva espresso, poi ch'egli voleva
rifiutare per il figliuolo uno parentado fiorentino, che la città
più come cittadino non lo capeva, e per ciò egli si
preparava a occupare il principato: perché colui che non vuole
i suoi cittadini per parenti gli vuole per servi, e per ciò è
ragionevole che non gli abbia amici.
Pareva a questi capi della
sedizione avere la vittoria in mano, perché la maggior parte
de' cittadini, ingannati da quel nome della libertà che
costoro, per adonestare la loro impresa, avevano preso per insegna,
gli seguivano.
12
Ribollendo
adunque questi umori per la città, parve ad alcuno di quelli
a' quali le civili discordie dispiacevano che si vedesse se con
qualche nuova allegrezza si potessero fermare, perché il più
delle volte i popoli oziosi sono strumento a chi vuole alterare.
Per
torre via adunque questo ozio, e dare che pensare agli uomini qualche
cosa, che levassero il pensiero dello stato, sendo già passato
l'anno che Cosimo era morto, presono occasione da che fusse bene
rallegrare la città, e ordinorono due feste secondo l'altre
che in quella città si fanno, solennissime: una che
rappresentava quando i tre Re vennono di Oriente dietro alla stella
che dimostrava la natività di Cristo; la quale era di tanta
pompa e sì magnifica, che in ordinarla e farla teneva più
mesi occupata tutta la città, l'altra fu uno torniamento (che
così chiamano uno spettaculo che rappresenta una zuffa di
uomini a cavallo) dove i primi giovani della città si
esercitorono insieme con i più nominati cavalieri di Italia.
E
intra i giovani fiorentini il più reputato fu Lorenzo,
primogenito di Piero, il quale, non per grazia, ma per proprio suo
valore ne riportò il primo onore.
Celebrati questi spettaculi,
ritornorono ne' cittadini i medesimi pensieri, e ciascuno con più
studio che mai la sua opinione seguitava: di che dispareri e travagli
grandi ne risultavano; i quali da duoi accidenti furono grandemente
accresciuti: l'uno fu che l'autorità della balia mancò,
l'altro la morte di Francesco duca di Milano.
Donde che Galeazzo,
nuovo duca, mandò a Firenze ambasciadori per confermare i
capitoli che Francesco suo padre aveva con la città; in ne'
quali, tra le altre cose, si disponeva che qualunque anno si pagasse
a quel duca certa somma di danari.
Presono per tanto i principi
contrari a' Medici occasione da questa domanda, e publicamente, ne'
Consigli, a questa deliberazione si opposono, mostrando non con
Galeazzo, ma con Francesco essere fatta l'amiciza, sì che,
morto Francesco, era morto l'obligo; né ci era cagione di
risuscitarlo, perché in Galeazzo non era quella virtù
che era in Francesco, e per consequente non se ne doveva né
poteva sperare quello utile; e se da Francesco si era avuto poco, da
questo si arebbe meno; e se alcuno cittadino lo volesse soldare per
la potenza sua, era cosa contro al vivere civile e alla libertà
della città.
Piero, allo incontro, mostrava che e' non era
bene una amicizia tanto necessaria per avarizia perderla, e che niuna
cosa era tanto salutifera alla republica e a tutta Italia, quanto
essere collegati con il duca, acciò che i Viniziani, veggendo
loro uniti, non sperino, o per finta amicizia o per aperta guerra,
opprimere quel ducato; perché non prima sentiranno i
Fiorentini essere da quel duca alienati, ch'eglino aranno l'armi in
mano contro di lui, e trovandolo giovane, nuovo nello stato e sanza
amici, facilmente se lo potranno, o con inganno o con forza,
guadagnare; e nell'uno e nell'altro caso vi si vedeva la rovina della
republica.
13
Non
erano accettate queste ragioni, e le nimicizie cominciorono a
mostrarsi aperte, e ciascheduna delle parti di notte, in diverse
compagnie conveniva, perché gli amici de' Medici nella
Crocetta, e gli avversarii nella Pietà si riducevano i quali,
solleciti nella rovina di Piero, avevono fatto soscrivere come alla
impresa loro favorevoli, molti cittadini.
E trovandosi, tra le altre
volte, una notte insieme, tennono particulare consiglio del modo di
procedere loro; e a ciascuno piaceva diminuire la potenza de' Medici,
ma erano differenti nel modo.
Una parte, la quale era la più
temperata e modesta, voleva che, poi che gli era finita l'autorità
della balia, che si attendessi ad obstare che la non si riassumesse;
e fatto questo, ci era la intenzione di ciascuno, perché i
Consigli e i magistrati governerebbono la città, e in poco
tempo l'autorità di Piero si spegnerebbe; e verrebbe, con la
perdita della reputazione dello stato, a perdere il credito nelle
mercatanzie, perché le sustanze sue erano in termine che, se
si teneva forte che e' non si potessi de' danari publici valere, era
a rovinare necessitato; il che come fusse seguito, non ci era di lui
più alcuno pericolo, e venivasi ad avere, sanza esili e sanza
sangue, la sua libertà recuperata; il che ogni buono cittadino
doveva desiderare.
Ma se si cercava di adoperare la forza, si
potrebbe in moltissimi pericoli incorrere; perché tale lascia
cadere uno che cade da sé, che, se gli è spinto da
altri, lo sostiene.
Oltra di questo, quando non si ordinasse alcuna
cosa straordinaria contro a di lui, non arebbe cagione di armarsi o
di cercare amici; e quando e' lo facessi, sarebbe con tanto suo
carico, e genererebbe in ogni uomo tanto sospetto, che farebbe a sé
più facile la rovina e ad altri darebbe maggiore occasione di
opprimerlo.
A molti altri de' ragunati non piaceva questa lunghezza,
affermando come il tempo era per favorire lui e non loro: perché,
se si voltavano ad essere contenti alle cose ordinarie, Piero non
portava pericolo alcuno, e loro ne correvono molti, perché i
magistrati suoi nimici gli lasceranno godere la città, e gli
amici lo faranno, con la rovina loro, come intervenne nel '58,
principe.
E se il consiglio dato era da uomini buoni, questo era da
uomini savi; e per ciò, mentre che gli uomini erano infiammati
contro a di lui, conveniva spegnerlo.
Il modo era: armarsi dentro, e
fuori soldare il marchese di Ferrara, per non essere disarmato; e
quando la sorte dessi di avere una Signoria amica, essere parati ad
assicurarsene.
Rimasono per tanto in questa sentenza: che si
aspettasse la nuova Signoria, e secondo quella governarsi.
Trovavasi
intra questi congiurati ser Niccolò Fedini il quale tra loro
come cancelliere si esercitava.
Costui, tirato da più certa
speranza, rivelò tutte le pratiche tenute da' suoi inimici a
Piero, e la listra de' congiurati e de' soscritti gli portò.
Sbigottissi Piero, vedendo il numero e la qualità de'
cittadini che gli erano contro, e consigliatosi con gli amici,
deliberò ancora egli fare degli amici suoi una soscrizione; e
dato di questa impresa la cura ad alcuno de' più suoi fidati,
trovò tanta varietà e instabilità negli animi
de' cittadini, che molti de' soscritti contro di lui ancora in favore
suo si soscrissono.
14
Mentre
che queste cose in questa maniera si travagliavano, venne il tempo
che il supremo magistrato si rinnuova; al quale per gonfalonieri di
giustizia fu Niccolò Soderini assunto.
Fu cosa maravigliosa a
vedere con quanto concorso non solamente di onorati cittadini ma di
tutto il popolo, e' fusse al Palazzo accompagnato; e per il cammino
gli fu posta una grillanda di ulivo in testa, per mostrare che da
quello avesse e la salute e la libertà di quella patria a
dependere.
Vedesi, per questa e per molte altre esperienze, come non
è cosa desiderabile prendere o uno magistrato o uno principato
con estraordinaria opinione; perché, non potendosi con le
opere a quella corrispondere, desiderando più gli uomini, che
non possono conseguire, ti partorisce, con il tempo, disonore e
infamia.
Erano messer Tommaso Soderini e Niccolò fratelli: era
Niccolò più feroce e animoso; messer Tommaso più
savio.
Questi, perché era a Piero amicissimo, cognosciuto
l'umore del fratello, come egli desiderava solo la libertà
della città e che sanza offesa di alcuno lo stato si fermasse,
lo confortò a fare nuovo squittino, mediante il quale le borse
de' cittadini che amassero il vivere libero si riempiessero; il che
fatto, si verrebbe a fermare e assicurare lo stato sanza tumulto e
sanza ingiuria di alcuno, secondo la volontà sua.
Credette
facilmente Niccolò a' consigli del fratello, e attese in
questi vani pensieri a consumare il tempo del suo magistrato; e dai
capi de' congiurati, suoi amici, gli fu lasciato consumare, come
quelli che per invidia non volevono che lo stato con l'autorità
di Niccolò si rinnovasse, e sempre credevano con uno altro
gonfaloniere essere a tempo ad operare il medesimo.
Venne per tanto
il fine del magistrato di Niccolò, e avendo cominciate assai
cose e non ne fornite alcuna, lasciò quello assai più
disonorevolmente, che onorevolemente non lo aveva preso.
15
Questo
esemplo fece la parte di Piero più gagliarda; e gli amici suoi
più nella speranza si confermorono, e quelli che erano
neutrali a Piero si aderirono; tal che, essendo le cose pareggiate,
più mesi sanza altro tumulto si temporeggiorono.
Non di meno
la parte di Piero sempre pigliava più forze; onde che gli
inimici si risentirono e si ristrinsono insieme, e quello che non
avevono saputo o voluto fare per il mezzo de' magistrati e
facilmente, pensorono di fare per forza; e conclusono di fare
ammazzare Piero, che, infermo, si trovava a Careggi; e a questo
effetto fare venire il marchese di Ferrara con le genti verso la
città; e morto Piero, venire armati in Piazza, e fare che la
Signoria fermassi uno stato secondo la volontà loro; perché,
sebbene tutta non era loro amica, speravano quella parte che fusse
contraria farla per paura cedere.
Messer Dietisalvi, per celare
meglio lo animo suo, vicitava Piero spesso, e ragionavali della
unione della città, e lo consigliava.
Erano state a Piero
rivelate tutte queste pratiche; e di più messer Domenico
Martelli gli fece intendere come Francesco Neroni, fratello di messer
Dietisalvi, lo aveva sollecitato a volere essere con loro,
mostrandogli la vittoria certa e il partito vinto.
Onde che Piero
deliberò di essere il primo a prender le armi; e prese la
occasione dalle pratiche tenute da' suoi avversarii con il marchese
di Ferrara.
Finse per tanto avere ricevuta una lettera da messer
Giovanni Bentivogli principe in Bologna, che gli significava come il
marchese di Ferrara si trovava sopra il fiume Albo con gente, e che
publicamente dicevono venire a Firenze.
E così, sopra questo
avviso, Piero prese l'arme, e in mezzo d'una grande moltitudine di
armati ne venne a Firenze.
Dopo il quale tutti quelli che seguivono
le parti sue si armorono; e la parte avversa fece il simile; ma con
migliore ordine quella di Piero, come coloro che erano preparati, e
quegli altri non erano ancora secondo il disegno loro a ordine.
Messer Dietisalvi, per avere le sue case propinque a quelle di Piero,
in esse non si teneva securo; ma ora andava in Palazzo a confortare
la Signoria a fare che Piero posasse l'arme, ora a trovare messer
Luca, per tenerlo fermo nelle parti loro.
Ma di tutti si mostrò
più vivo che alcuno Niccolò Soderini, il quale prese
l'arme, e fu seguitato quasi che da tutta la plebe del suo quartiere,
e ne andò alle case di messer Luca, e lo pregò montasse
a cavallo e venisse in Piazza a' favori della Signoria, che era per
loro; dove senza dubio s'arebbe la vittoria certa, e non volesse,
standosi in casa, essere o dagli armati nimici vilmente oppresso, o
dai disarmati vituperosamente ingannato; e che a ora si pentirebbe
non avere fatto, che non sarebbe a tempo a fare; e che, se e' voleva
con la guerra la rovina di Piero, egli poteva facilmente averla; se
voleva la pace, era molto meglio essere in termine da dare, non
ricevere, le condizioni di quella.
Non mossono queste parole messer
Luca, come quello che aveva già posato lo animo, ed era stato
da Piero, con promesse di nuovi parentadi e nuove condizioni, svolto;
perché avevano con Giovanni Tornabuoni una sua nipote in
matrimonio congiunta.
In modo che confortò Niccolò a
posare l'armi e tornarsene a casa; perché e' doveva bastargli
che la città si governasse con i magistrati; e così
seguirebbe, e che le arme ogni uomo le poserebbe, e i Signori, dove
loro avevono più parte, sarebbono giudici delle differenze
loro.
Non potendo adunque Niccolò altrimenti disporlo, se ne
tornò a casa; ma prima gli disse: - Io non posso, solo, fare
bene alla mia città; ma io posso bene pronosticarle il male:
questo partito che voi pigliate farà alla patria nostra
perdere la sua libertà, a voi lo stato e le sustanze, a me e
agli altri la patria.
16
La
Signoria, in questo tumulto, aveva chiuso il Palazzo, e con i suoi
magistrati si era ristretta, non mostrando favore ad alcuna delle
parti.
I cittadini, e massimamente quegli che avevano seguite le
parti di messer Luca, veggendo Piero armato e gli avversarii
disarmati, cominciorono a pensare, non come avessino a offendere
Piero, ma come avessino a diventare suoi amici.
Donde che i primi
cittadini, capi delle fazioni, convennono in Palazzo, alla presenza
della Signoria, dove molte cose dello stato della città, molte
della reconciliazione di quella ragionorono.
E perché Piero,
per la debilità del corpo, non vi poteva intervenire, tutti
d'accordo deliberorono andare alle sue case a trovarlo, eccetto che
Niccolò Soderini, il quale, avendo prima raccomandato i suoi
figliuoli e le sue cose a messer Tommaso, se ne andò nella sua
villa, per aspettare quivi il fine della cosa, il quale reputava a sé
infelice e alla patria sua dannoso.
Arrivati per tanto gli altri
cittadini da Piero, uno di quelli, a chi era stato commesso il
parlare, si dolfe de' tumulti nati nella città, mostrando come
di quelli aveva maggiore colpa chi aveva prima prese l'arme; e non
sapendo quello che Piero, che era stato il primo a pigliarle, si
volesse, erano venuti per intendere la volontà sua, e quando
la fusse al bene della città conforme, erano per seguirla.
Alle quali parole Piero rispose come, non quello che prende prima le
arme è cagione degli scandoli, ma colui che è primo a
dare cagione che le si prendino; e se pensassero più quali
erano stati i modi loro verso di lui, si maraviglierebbono meno di
quello che per salvare sé avesse fatto: perché
vedrebbono che le convenzioni notturne, le soscrizioni, le pratiche
di torgli la città e la vita lo avevono fatto armare; le quali
arme non avendo mosse dalle case sue, facevano manifesto segno dello
animo suo, come per difendere sé, non per offendere altri, le
aveva prese.
Né voleva altro, né altro desiderava che
la securtà o la quiete sua; né aveva mai dato segno di
sé di desiderare altro; perché, mancata l'autorità
della balia, non pensò mai alcuno estraordinario modo per
renderliene, ed era molto contento che i magistrati governassero la
città, contentandosene quelli.
E che si dovevono ricordare
come Cosimo e i figliuoli sapevono vivere in Firenze, con la balia e
sanza la balia, onorati; e nel '58, non la casa sua, ma loro la
avevano riassunta; e che, se ora non la volevono, che non la voleva
ancora egli; ma che questo non bastava loro, perché aveva
veduto che non credevono potere stare in Firenze standovi egli.
Cosa
veramente che non arebbe mai, non che creduta, pensata, che gli amici
suoi e del padre non credessero potere vivere in Firenze con lui, non
avendo mai dato altro segno di sé, che di quieto e pacifico
uomo.
Poi volse il suo parlare a messer Dietisalvi e ai fratelli, che
erano presenti, e rimproverò loro, con parole gravi e piene di
sdegno, i beneficii ricevuti da Cosimo, la fede avuta in quelli e la
grande ingratitudine loro.
E furono di tanta forza le sue parole, che
alcuni de' presenti in tanto si commossono, che, se Piero non li
raffrenava, gli arebbono con l'arme manomessi.
Concluse alla fine
Piero, che era per approvare tutto quello che loro e la Signoria
deliberassero, e che da lui non si domandava altro che vivere quieto
e securo.
Fu sopra questo parlato di molte cose, né per allora
deliberatone alcuna, se non generalmente che gli era necessario
riformare la città e dare nuovo ordine allo stato.
17
Sedeva
in quelli tempi gonfaloniere di giustizia Bernardo Lotti, uomo non
confidente a Piero, in modo che non gli parve, mentre che quello era
in magistrato, da tentare cosa alcuna, il che non giudicò
importante molto, sendo propinquo al fine del magistrato suo.
Ma
venuta la elezione de' Signori i quali di settembre e di ottobre
seggono, l'anno 1466, fu eletto al sommo magistrato Ruberto Lioni; il
quale, subito che ebbe preso il magistrato, sendo tutte le altre cose
preparate, chiamò il popolo in Piazza, e fece nuova balia,
tutta della parte di Piero; la quale poco di poi creò i
magistrati secondo la volontà del nuovo stato.
Le quali cose
spaurirono i capi della fazione nimica; e messer Agnolo Acciaiuoli si
fuggì a Napoli, messer Dietisalvi Neroni e Niccolò
Soderini a Vinegia, messer Luca Pitti si restò in Firenze,
confidandosi nelle promesse fattegli da Piero e nel nuovo parentado.
Furono quelli che si erano fuggiti declarati rebelli, e tutta la
famiglia de' Neroni fu dispersa; e messer Giovanni di Nerone, allora
arcivescovo di Firenze, per fuggire maggiore male, si elesse
voluntario esilio a Roma.
Furono molti altri cittadini, che subito si
partirono, in varii luoghi confinati.
Né bastò questo,
che si ordinò una processione per ringraziare Iddio dello
stato conservato e della città riunita; nella solennità
della quale furono alcuni cittadini presi e tormentati, e di poi
parte di loro morti e parte posti in esilio.
Né in questa
variazione di cose fu esemplo tanto notabile quanto quello di messer
Luca Pitti; perché subito si cognobbe la differenza quale è
dalla vittoria alla perdita, da il disonore all'onore.
Vedevasi nelle
sue case una solitudine grandissima, dove prima erano da moltissimi
cittadini frequentate; per la strada gli amici, i parenti, non che di
accompagnarlo, ma di salutarlo temevano, perché a parte di
essi erano stati tolti gli onori e a parte la roba, e tutti parimente
minacciati; i superbi edifici che gli aveva cominciati furono dagli
edificatori abbandonati; i beneficii che gli erano per lo adietro
stati fatti si convertirono in ingiurie, gli onori in vituperii; onde
che molti di quelli che gli avieno per grazia alcuna cosa donata di
grande prezzo, come cosa prestata ridomandavano; e quelli altri che
solevono insino al cielo lodarlo, come uomo ingrato e violento lo
biasimavano.
Tal che si pentì, tardi, non avere a Niccolò
Soderini creduto e cercò più tosto di morire onorato
con le armi in mano, che vivere intra i vittoriosi suoi nimici
disonorato.
18
Quelli
che si trovavano cacciati cominciorono a pensare infra loro varii
modi di racquistare quella città che non si avevano saputo
conservare.
Messer Agnolo Acciaiuoli non di meno, trovandosi a
Napoli, prima che pensasse di innovare cosa alcuna, volle tentare
l'animo di Piero, per vedere se poteva sperare di riconciliarsi seco;
e scrissegli una lettera in questa sentenza: - Io mi rido de' giuochi
della fortuna, e come a sua posta ella fa gli amici diventare nimici,
e gli nimici amici.
Tu ti puoi ricordare come, nello esilio di tuo
padre, stimando più quella ingiuria che i pericoli miei, io ne
perdei la patria, e fui per perderne la vita; né ho mai,
mentre sono vivuto con Cosimo, mancato di onorare e favorire la casa
vostra né dopo la sua morte ho avuto animo di offenderti.
Vero
è che la tua mala complessione, la tenera età de' tuoi
figliuoli in modo mi sbigottivono, che io giudicai che fusse da dare
tal forma allo stato, che dopo la tua morte la patria nostra non
rovinasse.
Da questo sono nate le cose fatte, non contro a te, ma in
benifizio della patria mia; il che, se pure è stato errore,
merita e dalla mia buona mente e dalle opere mie passate essere
cancellato.
Né posso credere, avendo la casa tua trovato in
me, tanto tempo, tanta fede, non trovare ora in te misericordia, e
che tanti miei meriti da un solo fallo debbino essere destrutti.
-
Piero, ricevuta questa lettera, così gli rispose: - Il ridere
tuo costì è cagione che io non pianga; perché,
se tu ridessi a Firenze, io piangerei a Napoli.
Io confesso che tu
hai voluto bene a mio padre; e tu confesserai di averne da quello
ricevuto; in modo che tanto più era l'obligo tuo che il
nostro, quanto si debbono stimare più i fatti che le parole.
Sendo tu stato adunque del tuo bene ricompensato, non ti debbi ora
maravigliare se del male ne riporti giusti premii.
Né ti scusa
lo amore della patria; perché non sarà mai alcuno che
creda questa città essere stata meno amata e accresciuta dai
Medici che dagli Acciaiuoli.
Vivi per tanto disonorato costì,
poi che qui onorato vivere non hai saputo.
19
Disperato
per tanto messer Agnolo di potere impetrare perdono, se ne venne a
Roma, e accozzossi con lo Arcivescovo e altri fuori usciti, e con
quelli termini potette più vivi si sforzorono di torre il
credito alla ragione de' Medici che in Roma si travagliava; a che
Piero con difficultà provide; pure, aiutato dagli amici, fallì
il disegno loro.
Messer Dietisalvi dall'altra parte e Niccolò
Soderini con ogni diligenza cercorono di muovere il Senato viniziano
contra alla patria loro, giudicando che, se i Fiorentini fussero da
nuova guerra assaliti per essere lo stato loro nuovo e odiato, che
non potrieno sostenerla.
Trovavasi in quel tempo a Ferrara Giovan
Francesco, figliuolo di messer Palla Strozzi, il quale era, nella
mutazione del '34, stato cacciato con il padre da Firenze.
Aveva
costui credito grande ed era, secondo gli altri mercatanti, estimato
ricchissimo.
Mostrorono questi nuovi ribelli a Giovan Francesco la
facilità del ripatriarsi, quando e Viniziani ne facessero
impresa; e facilmente credevono la farieno, quando si potesse in
qualche parte contribuire alla spesa; dove altrimenti ne dubitavano.
Giovan Francesco, il quale desiderava vendicarsi delle ingiurie
ricevute, credette facilmente a' consigli di costoro, e promesse
essere contento concorrere a questa impresa con tutte le sue facultà.
Donde che quelli se ne andorono al Doge, e con quello si dolfono
dello esilio, il quale non per altro errore dicevano sopportare, che
per avere voluto che la patria loro con le leggi sue vivesse e che i
magistrati, e non i pochi cittadini, si onorassero: perché
Piero de' Medici con altri, suoi seguaci, i quali erano a vivere
tirannicamente consueti, avevono con inganno prese le armi, con
inganno fattole posare a loro, e con inganno cacciatigli poi della
loro patria; né furono contenti a questo, che eglino usorono
mezzano Iddio ad opprimere molti altri che sotto la fede data erano
rimasi nella città; e come nelle publiche e sacre cerimonie e
solenni supplicazioni, acciò che Iddio de' loro tradimenti
fusse partecipe, furono molti cittadini incarcerati e morti: cosa
d'uno impio e nefando esemplo.
Il che per vendicare non sapevono dove
con più speranza si potere ricorrere che a quel Senato; il
quale, per essere sempre stato libero, doverrebbe di coloro avere
compassione che avessero la sua libertà perduta.
Concitavano
adunque contro a' tiranni gli uomini liberi, contro agli impii i
pietosi; e che si ricordassero come la famiglia de' Medici aveva
tolto loro lo imperio di Lombardia, quando Cosimo, fuora della
volontà degli altri cittadini, contro a quel Senato favorì
e suvvenne Francesco; tanto che, se la giusta causa loro non li
moveva, il giusto odio e giusto desiderio di vendicarsi muovere gli
doverrebbe.
20
Queste
ultime parole tutto quel Senato commossono; e deliberorono che
Bartolomeo Colione, loro capitano, assalisse il dominio fiorentino.
E
quanto si potette prima fu insieme lo esercito; con il quale si
accostò Ercule da Esti, mandato da Borso marchese di Ferrara.
Costoro, nel primo assalto, non sendo ancora i Fiorentini ad ordine,
arsono il borgo di Dovadola e feciono alcuni danni nel paese allo
intorno.
Ma i Fiorentini, cacciata che fu la parte nimica a Piero,
avieno con Galeazzo duca di Milano e con il re Ferrando fatta nuova
lega, e per loro capitano condotto Federigo conte di Urbino, in modo
che trovandosi ad ordine con gli amici, stimorono meno i nimici;
perché Ferrando mandò Alfonso suo primogenito, e
Galeazzo venne in persona, e ciascheduno con conveniente forze; e
feciono tutti testa a Castracaro, castello de' Fiorentini posto nelle
radici delle alpi che scendono dalla Toscana in Romagna.
I nimici, in
quel mezzo, si erano ritirati verso Imola; e così fra l'uno e
l'altro esercito seguivano, secondo i costumi di que' tempi, alcune
leggieri zuffe; né per l'uno né per l'altro si assalì
o campeggiò terre, né si dette copia al nimico di
venire a giornata; ma standosi ciascuno nelle sue tende, ciascuno con
maravigliosa viltà si governava.
Questa cosa dispiaceva a
Firenze; perché si vedeva essere oppressa da una guerra nella
quale si spendeva assai e si poteva sperare poco; e i magistrati se
ne dolfono con quelli cittadini ch'eglino avieno a quella impresa
deputati commissari.
I quali risposono essere di tutto il duca
Galeazzo cagione, il quale, per avere assai autorità e poca
esperienza, non sapeva prendere partiti utili, né prestava
fede a quelli che sapevono; e come gli era impossibile, mentre quello
nello esercito dimorava, che si potesse alcuna cosa virtuosa o utile
operare.
Feciono i Fiorentini per tanto intendere a quel Duca come
gli era loro commodo e utile assai che personalmente e' fussi venuto
agli aiuti loro, perché sola tale reputazione era atta a
potere sbigottire i nimici, non di meno stimavano molto più la
salute sua e del suo stato che i commodi propri, perché, salvo
quello, ogni altra cosa speravano prospera, ma patendo quello,
temevono ogni avversità.
Non giudicavano per tanto cosa molto
secura che egli molto tempo dimorasse assente da Milano, sendo nuovo
nello stato, e avendo i vicini potenti e sospetti, talmente che chi
volesse macchinare cosa alcuna controgli, potrebbe facilmente.
Donde
che lo confortavano a tornarsene nel suo stato e lasciare parte delle
genti per la difesa loro.
Piacque a Galeazzo questo consiglio e sanza
altro pensare se ne tornò a Milano.
Rimasi adunque i capitani
de' Fiorentini sanza questo impedimento, per dimostrare che fusse
vera la cagione che del lento loro procedere avevano accusata, si
strinsono più al nimico, in modo che vennono ad una ordinata
zuffa, la quale durò mezzo un giorno, sanza che niuna delle
parti inclinasse.
Nondimeno non vi morì alcuno: solo vi furno
alcuni cavagli feriti, e certi prigioni da ogni parte presi.
Era già
venuto il verno e il tempo che gli eserciti erano consueti ridursi
alle stanze, per tanto messer Bartolomeo si ritirò verso
Ravenna, le genti fiorentine in Toscana; quelle del Re e del Duca
ciascuna negli stati de' loro signori si ridussono.
Ma da poi che per
questo assalto non si era sentito alcuno moto in Firenze, secondo che
i rebelli fiorentini avieno promesso, e mancando il soldo alle genti
condotte, si trattò l'accordo, e dopo non molte pratiche fu
concluso.
Per tanto i rebelli fiorentini, privi d'ogni speranza, in
varii luoghi si partirono: messer Dietisalvi si ridusse a Ferrara,
dove fu dal marchese Borso ricevuto e nutrito; Niccolò
Soderini se ne andò a Ravenna, dove con una piccola provisione
avuta da' Viniziani invecchiò e morì.
Fu costui tenuto
uomo giusto e animoso, ma nel risolversi dubio e lento, il che fece
che, gonfaloniere di giustizia, ei perdé quella occasione del
vincere che di poi, privato, volle racquistare e non potette.
21
Seguita
la pace, quelli cittadini che erano rimasi in Firenze superiori non
parendo loro avere vinto, se con ogni ingiuria, non solamente i
nimici, ma i sospetti alla parte loro non affliggevano, operorono con
Bardo Altoviti, che sedeva gonfaloniere di giustizia, che di nuovo a
molti cittadini togliessi gli onori, a molti altri la città.
La qual cosa crebbe a loro potenza, e agli altri spavento; la qual
potenza sanza alcuno rispetto esercitavano, e in modo si governavano,
che pareva che Iddio e la fortuna avesse dato loro quella città
in preda.
Delle quali cose Piero poche ne intendeva, e a quelle poche
non poteva, per essere dalla infirmità oppresso, rimediare;
perché era in modo contratto, che d'altro che della lingua non
si poteva valere.
Né ci poteva fare altri rimedi che ammunirli
e pregarli dovessero civilmente vivere e godersi la loro patria salva
più tosto che destrutta.
E per rallegrare la città,
deliberò di celebrare magnificamente le nozze di Lorenzo suo
figliuolo, con il quale la Clarice nata di casa Orsina aveva
congiunta; le quali nozze furono fatte con quella pompa di apparati e
di ogni altra magnificenza che a tanto uomo si richiedeva; dove più
giorni in nuovi ordini di balli, di conviti e di antiche
rapresentazioni si consumorono.
Alle quali cose si aggiunse, per
mostrare più la grandezza della casa de' Medici e dello stato,
duoi spettaculi militari: l'uno fatto dagli uomini a cavallo, dove
una campale zuffa si rapresentò; l'altro una espugnazione di
una terra dimostrò; le quali cose con quello ordine furono
fatte e con quella virtù esequite, che si potette maggiore.
22
Mentre
che queste cose in questa maniera in Firenze procedevano, il resto
della Italia viveva quietamente, ma con sospetto grande della potenza
del Turco, il quale con le sue imprese seguiva di combattere i
Cristiani e aveva espugnato Negroponte, con grande infamia e danno
del nome cristiano.
Morì, in questi tempi, Borso marchese di
Ferrara, e a quello successe Ercule suo fratello.
Morì
Gismondo da Rimino, perpetuo nimico alla Chiesa, ed erede del suo
stato rimase Ruberto, suo naturale figliuolo, il quale fu poi intra i
capitani di Italia nella guerra eccellentissimo.
Morì papa
Paulo, e fu a lui creato successore Sisto IV, detto prima Francesco
da Savona, uomo di bassissima e vile condizione; ma per le sue virtù
era divenuto generale dell'ordine di San Francesco, e di poi
cardinale.
Fu questo pontefice il primo che cominciasse a mostrare
quanto uno pontefice poteva, e come molte cose, chiamate per lo
adietro errori, si potevono sotto la pontificale autorità
nascondere.
Aveva intra la sua famiglia Pietro e Girolamo, i quali,
secondo che ciascuno credeva, erano suoi figliuoli; non di manco
sotto altri più onesti nomi gli palliava.
Piero, perché
era frate, condusse alla dignità del cardinalato, del titolo
di San Sisto; a Girolamo dette la città di Furlì, e
tolsela ad Antonio Ordelaffi, i maggiori del quale erano di quella
città stati lungo tempo principi.
Questo modo di procedere
ambizioso lo fece più dai principi di Italia stimare, e
ciascuno cercò di farselo amico; e perciò il duca di
Milano dette per moglie a Girolamo la Caterina, sua figliuola
naturale, e per dote di quella la città di Imola, della quale
aveva spogliato Taddeo degli Alidosi.
Intra questo duca ancora e il
re Ferrando si contrasse nuovo parentado, perché Elisabella,
nata d'Alfonso primogenito del Re, con Giovan Galeazzo, primo
figliuolo del Duca, si congiunse.
23
Vivevasi
per tanto in Italia assai quietamente, e la maggior cura di quelli
principi era di osservare l'uno l'altro, e con parentadi, nuove
amicizie e leghe, l'uno dell'altro assicurarsi.
Non di meno, in tanta
pace, Firenze era da' suoi cittadini grandemente afflitta, e Piero
alla ambizione loro, dalla malattia impedito, non poteva opporsi.
Non
di meno, per sgravare la sua conscienza, e per vedere se poteva farli
vergognare, gli chiamò tutti in casa, e parlò loro in
questa sentenza: - Io non arei mai creduto che potesse venire tempo
che i modi e costumi degli amici mi avessero a fare amare e
desiderare i nimici, e la vittoria la perdita; perché io mi
pensava avere in compagnia uomini che nelle cupidità loro
avessero qualche termine o misura, e che bastasse loro vivere nella
loro patria securi e onorati, e di più, de' loro nimici
vendicati.
Ma io cognosco ora come io mi sono di gran lunga
ingannato, come quello che cognosceva poco la naturale ambizione di
tutti gli uomini, e meno la vostra: perché non vi basta essere
in tanta città principi e avere voi pochi quegli onori,
dignità e utili de' quali già molti cittadini si
solevono onorare; non vi basta avere intra voi divisi i beni de'
nimici vostri; non vi basta potere tutti gli altri affliggere con i
publici carichi, e voi, liberi da quelli, avere tutte le publiche
utilità; che voi con ogni qualità di ingiuria
ciascheduno affliggete.
Voi spogliate de' suoi beni il vicino, voi
vendete la giustizia, voi fuggite i giudicii civili, voi oppressate
gli uomini pacifici, e gli insolenti esaltate.
Né credo che
sia in tutta Italia tanti esempli di violenza e di avarizia, quanti
sono in questa città.
Dunque questa nostra patria ci ha dato
la vita perché noi la togliamo a lei? ci ha fatti vittoriosi
perché noi la distruggiamo? ci onora perché noi la
vituperiamo? Io vi prometto per quella fede che si debbe dare e
ricevere dagli uomini buoni, che, se voi seguiterete di portarvi in
modo che io mi abbi a pentire di avere vinto, io ancora mi porterò
in maniera che voi vi pentirete di avere male usata la vittoria.
-
Risposono quelli cittadini secondo il tempo e il luogo
accomodatamente; non di meno dalle loro sinistre operazioni non si
ritrassono.
Tanto che Piero fece venire celatamente messer Agnolo
Acciaiuoli in Cafaggiuolo, e con quello parlò a lungo delle
condizioni della città: né si dubita punto che, se non
era dalla morte interrotto, che gli avesse tutti i fuorusciti per
frenare le rapine di quegli di dentro alla patria restituiti.
Ma a
questi suoi onestissimi pensieri si oppose la morte; perché,
aggravato dal male del corpo e dalle angustie dello animo, si morì
l'anno della età sua cinquantatreesimo.
La virtù e
bontà del quale la patria sua non potette interamente
cognoscere, per essere stato da Cosimo suo padre infino quasi che
allo estremo della sua vita accompagnato, e per avere quelli pochi
anni che sopravisse nelle contenzioni civili e nella infirmità
consumati.
Fu sotterrato Piero nel tempio di San Lorenzo, propinquo
al padre; e furno le sue esequie fatte con quella pompa che tanto
cittadino meritava.
Rimasono di lui duoi figliuoli, Lorenzo e
Giuliano, i quali benché dessero a ciascheduno speranza di
dovere essere uomini alla repubblica utilissimi, non di meno la loro
gioventù sbigottiva ciascuno.
24
Era
in Firenze intra i primi cittadini del governo, e molto di lunga agli
altri superiore, messer Tommaso Soderini, la cui prudenza e autorità,
non solo in Firenze, ma appresso a tutti i principi di Italia era
nota.
Questi, dopo la morte di Piero, da tutta la città era
osservato; e molti cittadini alle sue case, come capo della città,
lo vicitorono, molti principi gli scrissono.
Ma egli, che era
prudente e che ottimamente la fortuna sua e di quella casa
cognosceva, alle lettere de' principi non rispose, e a' cittadini
fece intendere come, non le sue case, ma quelle de' Medici si avevano
a vicitare.
E per mostrare con l'effetto quello che con i conforti
aveva dimostro, ragunò tutti i primi delle famiglie nobili nel
convento di Santo Antonio, dove fece ancora Lorenzo e Giuliano de'
Medici venire; e quivi disputò, con una lunga e grave
orazione, delle condizioni della città, di quelle di Italia e
degli umori de' principi d'essa, e concluse che, se volevano che in
Firenze si vivesse unito e in pace, e dalle divisioni di dentro e
dalle guerre di fuora securo, era necessario osservare quegli giovani
e a quella casa la reputazione mantenere: perché gli uomini di
fare le cose che sono fare consueti mai non si dolgono, le nuove,
come presto si pigliano, così ancora presto si lasciano, e
sempre fu più facile mantenere una potenza la quale con la
lunghezza del tempo abbia spenta la invidia, che suscitarne una nuova
la quale per moltissime cagioni si possa facilmente spegnere.
Parlò,
apresso a messer Tommaso, Lorenzo, e benché fusse giovane, con
tanta gravità e modestia, che dette a ciascheduno speranza di
essere quello che di poi divenne.
E prima partissero di quel luogo,
quegli cittadini giurorono di prendergli in figliuoli, e loro in
padri.
Restati adunque in questa conclusione, erano Lorenzo e
Giuliano come principi dello stato onorati; e quelli dal consiglio di
messer Tommaso non si partivano.
25
E
vivendosi assai quietamente dentro e fuora, non sendo guerra che la
comune quiete perturbasse, nacque uno inopinato tumulto, il quale fu
come un presagio de' futuri danni.
Intra le famiglie le quali con la
parte di messer Luca Pitti rovinorono fu quella de' Nardi; perché
Salvestro e i frategli, capi di quella famiglia, furono prima mandati
in esilio, e di poi, per la guerra che mosse Bartolommeo Colioni,
fatti rebelli.
Intra questi era Bernardo, fratello di Salvestro,
giovane pronto e animoso.
Costui, non potendo, per la povertà,
sopportare lo esilio, né veggendo, per la pace fatta, modo
alcuno al ritorno suo, deliberò di tentare qualche cosa da
potere, mediante quella, dare cagione ad una nuova guerra: perché
molte volte un debile principio partorisce gagliardi effetti, con ciò
sia che gli uomini sieno più pronti a seguire una cosa mossa
che a muoverla.
Aveva Bernardo conoscenza grande in Prato, e nel
contado di Pistoia grandissima, e massimamente con quelli del
Palandra, famiglia, ancora che contadina, piena di uomini, e secondo
gli altri Pistolesi, nelle armi e nel sangue nutriti.
Sapeva come
costoro erano mal contenti, per essere stati in quelle loro nimicizie
da' magistrati fiorentini male trattati.
Conosceva oltre a di questo
gli umori de' Pratesi, e come e' pareva loro essere superbamente e
avaramente governati; e di alcuno sapeva il male animo contro allo
stato.
In modo che tutte queste cose gli davano speranza di potere
accendere un fuoco in Toscana, faccendo ribellare Prato, dove poi
concorressero tanti a nutrirlo, che quelli che lo volessero spegnere
non bastassero.
Comunicò questo suo pensiero con messer
Dietisalvi; e lo domandò, quando lo occupare Prato gli
riuscisse, quali aiuti potesse, mediante lui, dai principi sperare.
Parve a messer Dietisalvi la impresa pericolosissima e quasi
impossibile a riuscire: non di meno, veggendo di potere, con il
pericolo d'altri, di nuovo tentare la fortuna, lo confortò al
fatto, promettendogli da Bologna e da Ferrara aiuti certissimi,
quando gli operasse in modo che tenesse e difendesse Prato almeno
quindici giorni.
Ripieno adunque Bernardo, per questa promessa, d'una
felice speranza, si condusse celatamente a Prato, e comunicata la
cosa con alcuni, li trovò dispostissimi.
Il quale animo e
volontà trovò ancora in quelli del Palandra, e
convenuti insieme del tempo e del modo, fece Bernardo il tutto a
messer Dietisalvi intendere.
26
Era
podestà di Prato per il popolo di Firenze Cesare Petrucci.
Hanno questi simili governatori di terre consuetudine di tenere le
chiavi delle porti appresso di loro; e qualunque volta, ne' tempi
massime non sospetti, alcuno della terra le domanda, per uscire o
entrare di notte in quella, gliene concedono.
Bernardo, che sapeva
questo costume, propinquo al giorno, insieme con quelli del Palandra
e circa cento armati, alla porta che guarda verso Pistoia si
presentò; e quelli che, dentro, sapevano il fatto ancora
s'armorono; uno de' quali domandò al Podestà le chiavi,
fingendo che uno della terra per entrare le domandasse.
Il Podestà,
che niente d'uno simile accidente poteva dubitare, mandò uno
suo servidore con quelle: al quale, come fu alquanto dilungatosi dal
Palagio, furono tolte da' congiurati; e aperta la porta, fu Bernardo
con i suoi armati intromesso, e convenuti insieme, in due parti si
divisono, una delle quali, guidata da Salvestro Pratese, occupò
la cittadella, l'altra, insieme con Bernardo, prese il Palagio, e
Cesare con tutta la sua famiglia dierono in guardia ad alcuni di
loro.
Di poi levorono il romore, e per la terra andavano il nome
della libertà gridando.
Era già apparito il giorno, e a
quel romore molti popolani corsono in Piazza, e intendendo come la
rocca e il Palagio erano stati occupati e il Podestà con i
suoi preso, stavano ammirati donde potesse questo accidente nascere.
Gli Otto cittadini che tengono in quella terra il supremo grado nel
palagio loro convennono, per consigliarsi di quello fussi da fare.
Ma
Bernardo e i suoi, corso che gli ebbe un tempo per la terra, e
veggendo di non essere seguito da alcuno, poi che gli intese gli Otto
essere insieme, se n'andò da quelli; e narrò la cagione
della impresa sua essere volere liberare loro e la patria sua dalla
servitù; e quanta gloria sarebbe a quelli, se prendevono
l'arme e in questa gloriosa impresa lo accompagnavano, dove
acquisterieno quiete perpetua ed eterna fama.
Ricordò loro
l'antica loro libertà e le presenti condizioni; mostrò
gli aiuti certi, quando e' volessero, pochissimi giorni, a quelle
tante forze che i Fiorentini potessero mettere insieme opporsi;
affermò di avere intelligenza in Firenze, la quale si
dimosterrebbe subito che si intendesse quella terra essere unita a
seguirlo.
Non si mossono gli Otto per quelle parole; e gli risposono
non sapere se Firenze si viveva libera o serva, come cosa che a loro
non si aspettava intenderla; ma che sapevano bene che per loro non si
desiderò mai altra libertà che servire a quegli
magistrati che Firenze governavano, da' quali mai non avevono
ricevuta tale ingiuria che gli avessero a prendere l'armi contro a
quelli.
Per tanto lo confortavano a lasciare il Podestà nella
sua libertà, e la terra libera dalle sue genti; e sé da
quel pericolo con prestezza traessi nel quale con poca prudenza era
entrato.
Non si sbigottì Bernardo per queste parole, ma
deliberò di vedere se la paura moveva i Pratesi, poi che i
prieghi non li movevono: e per spaventargli pensò di fare
morire Cesare, e tratto quello di prigione, comandò che fusse
alle finestre del Palagio appiccato.
Era già Cesare propinquo
alle finestre, con il capestro al collo, quando ei vide Bernardo che
sollecitava la sua morte.
Al quale voltosi disse: - Bernardo, tu mi
fai morire, credendo essere di poi dai Pratesi seguitato: ed egli ti
riuscirà il contrario; perché la reverenzia che questo
popolo ha agli rettori che ci manda il popolo di Firenze è
tanta che, come ei si vedrà questa ingiuria fattami, ti
conciterà tanto odio contro, che ti partorirà la tua
rovina.
Per tanto non la morte, ma la vita mia puote essere cagione
della vittoria tua: perché, se io comanderò loro quello
che ti parrà, più facilmente a me che a te ubbidiranno;
e seguendo io gli ordini tuoi, ci verrai ad avere la intenzione tua.
- Parve a Bernardo, come quello che era scarso di partiti, questo
consiglio buono; e gli comandò che, venuto sopra uno verone
che risponde in Piazza, comandasse al popolo che lo ubbidisse.
La
quale cosa fatta che Cesare ebbe, fu riposto in prigione.
27
Era
già la debolezza de' congiurati scoperta; e molti Fiorentini
che abitavano la terra erano convenuti insieme, intra i quali era
messer Giorgio Ginori, cavaliere di Rodi.
Costui fu il primo che
mosse le armi contro di loro; e assalì Bernardo, il quale
andava discorrendo per la Piazza, ora pregando, ora minacciando se
non era seguitato e ubbidito; e fatto impeto contra di lui con molti
che messer Giorgio seguirono, fu ferito e preso.
Fatto questo, fu
facil cosa liberare il Podestà e superare gli altri, perché,
sendo pochi e in più parti divisi, furono quasi che tutti
presi o morti.
A Firenze era venuto, in quel mezzo, la fama di questo
accidente, e di molto maggiore che non era seguito, intendendosi
essere preso Prato, il Podestà con la famiglia morto, piena di
nimici la terra; Pistoia essere in arme, e molti di quelli cittadini
essere in questa congiura: tanto che subito fu pieno il Palagio di
cittadini, e con la Signoria a consigliarsi convennono.
Era allora in
Firenze Ruberto da San Severino, capitano nella guerra reputatissimo:
per tanto si deliberò di mandarlo, con quelle genti che
potette più adunare insieme, a Prato; e gli commissono si
appropinquasse alla terra, e dessi particulare notizia della cosa,
faccendovi quelli rimedi che alla prudenza sua occorressero.
Era
passato Ruberto di poco il castello di Campi quando fu da uno mandato
di Cesare incontrato, che significava Bernardo essere preso, e i suoi
compagni fugati e morti, e ogni tumulto posato.
Onde che si ritornò
a Firenze: e poco di poi vi fu condotto Bernardo, e ricerco dal
magistrato del vero della impresa, e trovatala debile, disse averla
fatta perché, avendo deliberato più tosto di morire in
Firenze che vivere in esilio, volle che la sua morte almeno fusse da
qualche ricordevole fatto accompagnata.
28
Nato
quasi che in un tratto e oppresso questo tumulto, ritornorono i
cittadini al loro consueto modo di vivere, pensando di godersi sanza
alcuno rispetto quello stato che si avevano stabilito e fermo.
Di che
ne nacquono alla città quelli mali che sogliono nella pace il
più delle volte generarsi; perché i giovani, più
sciolti che l'usitato, in vestire, in conviti, in altre simili
lascivie sopra modo spendevano, ed essendo oziosi, in giuochi e in
femmine il tempo e le sustanze consumavano e gli studi loro erano
apparire con il vestire splendidi e con il parlare sagaci e astuti; e
quello che più destramente mordeva gli altri era più
savio e da più stimato.
Questi così fatti costumi
furono da' cortigiani del duca di Milano accresciuti, il quale
insieme con la sua donna e con tutta la sua ducale corte, per
sodisfare, secondo che disse, ad uno boto, venne in Firenze; dove fu
ricevuto con quella pompa che conveniva un tanto principe e tanto
amico alla città ricevere.
Dove si vide, cosa in quel tempo
nella nostra città ancora non veduta, che, sendo il tempo
quadragesimale, nel quale la Chiesa comanda che sanza mangiar carne
si digiuni, quella sua corte, sanza rispetto della Chiesa o di Dio,
tutta di carne si cibava.
E perché si feciono molti spettaculi
per onorarlo, intra i quali, nel tempio di Santo Spirito, si
rapresentò la concessione dello Spirito Santo agli Apostoli, e
perché, per i molti fuochi che in simile solennità si
fanno, quel tempio tutto arse, fu creduto da molti Dio, indegnato
contro di noi, avere voluto della sua ira dimostrare quel segno.
Se
adunque quel duca trovò la città di Firenze piena di
cortigiane delicatezze e costumi ad ogni bene ordinata civilità
contrari, la lasciò molto più; onde che i buoni
cittadini pensorono che fusse necessario porvi freno, e con nuova
legge a' vestiri, a' mortorii, ai conviti termine posero.
29
Nel
mezzo di tanta pace nacque uno nuovo e insperato tumulto in Toscana.
Fu trovata nel contado di Volterra da alcuni di quelli cittadini una
cava d'allumi, della quale cognoscendo quelli la utilità, per
avere chi con i danari li aiutasse e con la autorità gli
difendesse, ad alcuni cittadini fiorentini si accostorono, e degli
utili che di quella si traevano li ferono partecipi.
Fu questa cosa
nel principio, come il più delle volte delle imprese nuove
interviene, dal popolo di Volterra stimata poco; ma con il tempo,
cognosciuto l'utile, volle rimediare a quello, tardi e sanza frutto,
che a buona ora facilmente arebbe rimediato.
Cominciossi ne' Consigli
loro ad agitare la cosa, affermando non essere conveniente che una
industria trovata ne' terreni publici in privata utilità si
converta.
Mandorono sopra questo oratori a Firenze: fu la causa in
alcuni cittadini rimessa, i quali, o per essere corrotti dalla parte,
o perché giudicassero cosa essere bene, riferirono il popolo
volterrano non volere le cose giuste desiderando privare i suoi
cittadini delle fatiche e industrie loro, e per ciò ai
privati, non a lui, quelle lumiere appartenevano; ma essere bene
conveniente che ciascuno anno certa quantità di danari
pagassero, in segno di ricognoscerlo per superiore.
Questa risposta
fece non diminuire, ma crescere i tumulti e gli odii in Volterra; e
niuna altra cosa, non solamente ne' loro Consigli, ma fuora, per
tutta la città, s'agitava; richiedendo l'universale quello che
pareva gli fusse stato tolto, e volendo i particulari conservare
quello che si avevano prima acquistato e di poi era stato loro dalla
sentenzia de' Fiorentini confermato.
Tanto che, in queste dispute, fu
morto uno cittadino in quella città reputato, chiamato il
Pecorino, e dopo lui molti altri che con quello si accostavano, e le
loro case saccheggiate e arse; e da quello impeto medesimo mossi, con
fatica dalla morte de' rettori che quivi erano per il popolo
fiorentino si astennono.
30
Seguito
questo primo insulto, deliberorono, prima che ogni cosa, mandare
oratori a Firenze; i quali feciono intendere a quelli Signori che, se
volevono conservare loro i capituli antichi, che ancora eglino la
città nella antica sua servitù conserverebbono.
Fu
assai disputata la risposta.
Messer Tommaso Soderini consigliava che
fusse da ricevere i Volterrani in qualunque modo e' volessero
ritornare, non gli parendo tempi da suscitare una fiamma sì
propinqua, che potesse ardere la casa nostra, perché temeva la
natura del Papa, la potenza del Re, né confidava nella
amicizia de' Viniziani, né in quella del Duca, per non sapere
quanta fede si fusse nell'una e quanta virtù nell'altra,
ricordando quella trita sentenza: essere meglio uno magro accordo che
una grassa vittoria.
Dall'altra parte Lorenzo de' Medici, parendogli
avere occasione di dimostrare quanto con il consiglio e con la
prudenza valesse, sendo massime di così fare confortato da
quegli che alla autorità di messer Tommaso avevono invidia,
deliberò fare la impresa, e con l'armi punire l'arroganza de'
Volterrani; affermando che, se quelli non fussero con esemplo
memorabile corretti, gli altri sanza reverenzia o timore alcuno, di
fare il medesimo per ogni leggera cagione non dubiterebbono.
Deliberata adunque la impresa, fu risposto a' Volterrani come eglino
non potevano domandare la osservanza di quegli capitoli che loro
medesimi avevano guasti, e per ciò, o e' si rimettessero
nell'arbitrio di quella Signoria, o eglino aspettassero la guerra.
Ritornati adunque i Volterrani con questa risposta, si preparavano
alle difese, affortificando la terra e mandando a tutti i principi
italiani per convocare aiuti, e furono da pochi uditi, perché
solamente i Sanesi e il signore di Piombino dettono loro alcuna
speranza di soccorso.
I Fiorentini dall'altra parte pensando che la
importanza della vittoria loro fusse nello accelerare, messono
insieme dieci mila fanti e due mila cavagli, i quali, sotto lo
imperio di Federigo signore d'Urbino, si presentorono nel contado di
Volterra, e facilmente quello tutto occuporono.
Messono di poi il
campo alla città, la quale, sendo posta in luogo alto e quasi
da ogni parte tagliato, non si poteva, se non da quella banda dove è
il tempio di Santo Alessandro, combattere.
Avevano i Volterrani per
loro difesa condotti circa mille soldati; i quali, veggendo la
gagliarda espugnazione che i Fiorentini facevono, diffidandosi di
poterla difendere, erano nelle difese lenti e nelle ingiurie che ogni
dì facevono a' Volterrani prontissimi.
Dunque quegli poveri
cittadini, e fuori dai nimici erano combattuti, e dentro dagli amici
oppressi; tanto che, desperati della salute loro, cominciorono a
pensare all'accordo, e non lo trovando migliore, nelle braccia de'
commissari si rimissono.
I quali si feciono aprire le porti, e
intromesso la maggior parte dello esercito, se ne andorono al Palagio
dove i Priori loro erano; a' quali comandorono se ne tornassero alle
loro case; e nel cammino fu uno di quegli, da uno de' soldati, per
dispregio, spogliato.
Da questo principio, come gli uomini sono più
pronti al male che al bene, nacque la destruzione e il sacco di
quella città; la quale per tutto un giorno fu rubata e scorsa;
né a donne né a luoghi pii si perdonò; e i
soldati, così quegli che l'avevano male difesa, come quegli
che l'avevano combattuta, delle sue sustanze la spogliarono.
Fu la
novella di questa vittoria con grandissima allegrezza da' Fiorentini
ricevuta; e perché la era stata tutta impresa di Lorenzo, ne
salì quello in reputazione grandissima.
Onde che uno dei suoi
più intimi amici rimproverò a messer Tommaso Soderini
il consiglio suo, dicendogli: - Che dite voi, ora che Volterra si è
acquistata? - a cui messer Tommaso rispose: - A me pare ella perduta:
perché, se voi la ricevevi d'accordo, voi ne traevi utile e
securtà, ma avendola a tenere per forza, ne' tempi avversi vi
porterà debolezza e noia, e ne' pacifici danno e spesa.
31
In
questi tempi il Papa, cupido di tenere le terre della Chiesa nella
obbedienza loro, aveva fatto saccheggiare Spuleto, che si era,
mediante le intrinseche fazioni, ribellato; di poi, perché
Città di Castello era nella medesima contumacia, l'aveva
obsediata.
Era in quella terra principe Niccolò Vitelli:
teneva costui grande amicizia con Lorenzo de' Medici; donde che da
quello non gli fu mancato di aiuti, i quali non furono tanti che
defendessero Niccolò, ma furono ben suffizienti a gittare i
primi semi della nimicizia intra Sisto e i Medici; i quali poco di
poi produssono malissimi frutti.
Né arebbono differito molto a
dimostrarsi, se la morte di frate Piero, cardinale di Santo Sisto,
non fusse seguita; perché, avendo questo cardinale circuito
Italia, e ito a Vinegia e Milano, sotto colore di onorare le nozze di
Ercule marchese di Ferrara, andava tentando gli animi di quelli
principi, per vedere come inverso i Fiorentini gli trovava disposti.
Ma ritornato a Roma si morì, non sanza suspizione di essere
stato da' Viniziani avvelenato, come quelli che temevano della
potenza di Sisto, quando si fusse potuto dell'animo e dell'opera di
frate Piero valere: perché, non ostante che fusse dalla natura
di vile sangue creato, e di poi intra i termini d'uno convento
vilmente nutrito, come prima al cardinalato pervenne, apparse in lui
tanta superbia e tanta ambizione che, non che il cardinalato, ma il
pontificato non lo capeva; perché non dubitò di
celebrare uno convito in Roma, che a qualunque re sarebbe stato
giudicato estraordinario; dove meglio che ventimila fiorini consumò.
Privato adunque Sisto di questo ministro, seguitò i disegni
suoi con più lentezza.
Non di meno, avendo i Fiorentini, Duca
e Viniziani rinnovato la lega, e lasciato il luogo al Papa e al Re
per entrare in quella, Sisto ancora e il Re si collegorono, lasciando
luogo agli altri principi di potervi entrare.
E già si vedeva
l'Italia divisa in due fazioni, perché ciascuno dì
nascevano cose che infra queste due leghe generavono odio; come
avvenne dell'isola di Cipri, alla quale il re Ferrando aspirava, e i
Viniziani la occuporono; onde che il Papa e il Re si venivano a
ristringere più insieme.
Era in Italia allora tenuto nelle
arme eccellentissimo Federigo principe di Urbino, il quale molto
tempo aveva per il popolo fiorentino militato.
Deliberorono per tanto
il Re e il Papa, acciò che la lega nimica mancasse di questo
capo, guadagnarsi Federigo; e il Papa lo consigliò, e il Re lo
pregò andasse a trovarlo a Napoli.
Ubbidì Federigo, con
ammirazione e dispiacere de' Fiorentini, i quali credevano che a lui
come a Iacopo Piccinino intervenisse.
Non di meno ne avvenne il
contrario: perché Federigo tornò da Napoli e da Roma
onoratissimo, e di quella loro lega capitano.
Non mancavano ancora il
Re e il Papa di tentare gli animi de' signori di Romagna e de' Sanesi
per farsegli amici e per potere, mediante quegli, più
offendere i Fiorentini.
Della qual cosa accorgendosi quegli, con ogni
rimedio opportuno contro alla ambizione loro si armavano; e avendo
perduto Federigo da Urbino, soldorono Ruberto da Rimino; rinnovorono
la lega con i Perugini, e con il signore di Faenza si collegorono.
Allegavano il Papa e il Re la cagione dello odio contro a' Fiorentini
essere che desideravano da' Viniziani si scompagnassero e
conlegassinsi con loro; perché il Papa non giudicava che la
Chiesa potesse mantenere la reputazione sua, né il conte
Girolamo gli stati di Romagna, sendo i Fiorentini e Viniziani uniti.
Dall'altra parte i Fiorentini dubitavano che volessero inimicargli
con i Viniziani, non per farseli amici, ma per potere più
facilmente ingiuriargli: tanto che in questi sospetti e diversità
d'umori si visse in Italia duoi anni prima che alcuno tumulto
nascesse.
Ma il primo che nacque fu, ancora che piccolo, in Toscana.
32
Di
Braccio da Perugia, uomo, come più volte abbiamo dimostro,
nella guerra reputatissimo, rimasono duoi figliuoli: Oddo e Carlo.
Questi era di tenera età, quell'altro fu dagli uomini di Val
di Lamona ammazzato, come di sopra mostrammo; ma Carlo, poi che fu
agli anni militari pervenuto, fu dai Viniziani, per la memoria del
padre e per la speranza che di lui si aveva, intra i condottieri di
quella republica ricevuto.
Era venuto, in questi tempi, il fine della
sua condotta; e quello non volle che per allora da quel senato gli
fusse confermata; anzi deliberò vedere se, con il nome suo e
riputazione del padre, ritornare negli stati suoi di Perugia poteva.
A che i Viniziani facilmente consentirono, come quelli che nelle
innovazioni delle cose sempre solevano accrescere lo imperio loro.
Venne per tanto Carlo in Toscana; e trovando le cose di Perugia
difficili, per essere in lega con i Fiorentini, e volendo che questa
sua mossa partorisse qualche cosa degna di memoria, assaltò i
Sanesi, allegando essere quelli debitori suoi per servizi avuti da
suo padre nelli affari di quella repubblica, e per ciò volerne
essere sodisfatto, e con tanta furia gli assaltò, che quasi
tutto il dominio loro mandò sottosopra.
Quegli cittadini,
veggendo tale insulto, come eglino sono facili a credere male de'
Fiorentini, si persuasono tutto essere con loro consenso esequito, e
il Papa e il Re di rammarichii riempierono.
Mandorono ancora oratori
a Firenze; i quali si dolfono di tanta ingiuria, e destramente
mostrorono che, sanza essere suvvenuto, Carlo non arebbe potuto con
tanta securtà ingiuriargli.
Di che i Fiorentini si escusorono,
affermando essere per fare ogni opera che Carlo si astenesse da lo
offendergli; e in quel modo che gli oratori vollono, a Carlo
comandorono che da lo offendere i Sanesi si astenesse.
Di che Carlo
si dolfe, mostrando che i Fiorentini, per non lo suvvenire, si erano
privi d'un grande acquisto e avieno privo lui d'una gran gloria:
perché, in poco tempo, prometteva loro la possessione di
quella terra: tanta viltà aveva trovata in essa, e tanti pochi
ordini alla difesa.
Partissi adunque Carlo e alli stipendi usati de'
Viniziani si ritornò, e i Sanesi, ancora che mediante i
Fiorentini fussero da tanti danni liberi rimasono non di meno pieni
di sdegno contro a quelli, perché non pareva loro avere alcuno
obligo con coloro che gli avessero d'un male di che prima fussero
stati cagione liberati.
33
Mentre
che queste cose ne' modi sopra narrati tra il Re e il Papa e in
Toscana si travagliavano, nacque in Lombardia uno accidente di
maggiore momento e che fu presagio di maggiori mali.
Insegnava in
Milano la latina lingua a' primi giovani di quella città Cola
Montano, uomo litterato e ambizioso.
Questo, o che gli avesse in odio
la vita e costumi del Duca, o che pure altra cagione lo movesse, in
tutti i suoi ragionamenti il vivere sotto un principe non buono
detestava, gloriosi e felici chiamando quegli a' quali di nascere e
vivere in una republica aveva la natura e la fortuna conceduto;
mostrando come tutti gli uomini famosi si erano nelle republiche e
non sotto i principi nutriti; perché quelle nutriscono gli
uomini virtuosi, e quegli gli spengono, facendo l'una profitto
dell'altrui virtù, l'altra temendone.
I giovani con chi egli
aveva più familiarità presa erano Giovannandrea
Lampognano, Carlo Visconti e Girolamo Olgiato.
Con costoro più
volte della pessima natura del Principe, della infelicità di
chi era governato da quello ragionava; e in tanta confidenza dello
animo e volontà di quegli giovani venne, che gli fece giurare
che, come per la età e' potessero, la loro patria dalla
tirannide di quel principe libererebbono.
Sendo ripieni adunque
questi giovani di questo desiderio, il quale sempre con gli anni
crebbe, i costumi e modi del Duca, e di più le particulari
ingiurie contro a loro fatte, di farlo mandare ad effetto
affrettorono.
Era Galeazzo libidinoso e crudele, delle quali due cose
gli spessi esempli lo avevono fatto odiosissimo; perché non
solo non gli bastava corrompere le donne nobili, che prendeva ancora
piacere di publicarle; né era contento fare morire gli uomini,
se con qualche modo crudele non gli ammazzava.
Non viveva ancora
sanza infamia di avere morta la madre; perché, non gli parendo
essere principe, presente quella, con lei in modo si governò,
che le venne voglia di ritirarsi nella sua dotale sede a Cremona, nel
quale viaggio, da subita malattia presa morì: donde molti
giudicorono quella dal figliuolo essere stata fatta morire.
Aveva
questo duca, per via di donne, Carlo e Girolamo disonorati, e a
Giovannandrea non aveva voluto la possessione della badia di
Miramondo, stata ad un suo propinquo dal Pontefice resignata,
concedere.
Queste private ingiurie accrebbono la voglia a questi
giovani, con il vendicarle, liberare la loro patria da tanti mali;
sperando che, qualunque volta riuscisse loro lo ammazzarlo, di
essere, non solamente da molti de' nobili ma da tutto il popolo
seguiti.
Deliberatisi adunque a questa impresa, si trovavano spesso
insieme; di che l'antica familiarità non dava alcuna
ammirazione: ragionavano sempre di questa cosa, e per fermare più
l'animo al fatto, con le guaine di quelli ferri ch'eglino avieno a
quella opera destinati, ne' fianchi e nel petto l'uno l'altro
percotevono.
Ragionorono del tempo e del loco: in Castello non pareva
loro securo; a caccia, incerto e pericoloso; ne' tempi che quello per
la terra giva a spasso, difficile e non riuscibile; ne' conviti,
dubio.
Per tanto deliberarono in qualche pompa e publica festivitate
opprimerlo, dove fussero certi che venisse, ed eglino, sotto varii
colori, vi potessero loro amici ragunare.
Conclusono ancora che,
sendo alcuno di loro per qualunque cagione dalla corte ritenuti, gli
altri dovessero, per il mezzo del ferro e de' nimici armati,
ammazzarlo.
34
Correva
l'anno 1476, ed era propinqua la festività del Natale di
Cristo; e perché il Principe, il giorno di Santo Stefano,
soleva con pompa grande vicitare il tempio di quello martire,
deliberorono che quello fusse il luogo e il tempo commodo ad esequire
il pensiero loro.
Venuta adunqua la mattina di quel santo, feciono
armare alcuni de' loro più fidati amici e servidori, dicendo
volere andare in aiuto di Giovannandrea, il quale contro alla voglia
di alcuni suoi emuli voleva condurre nelle sue possessioni uno
aquedutto; e quelli così armati al tempio condussono,
allegando volere, avanti partissero, prendere licenza dal Principe.
Feciono ancora venire in quel luogo, sotto varii colori, più
altri loro amici e congiunti, sperando che, fatta la cosa,
ciascheduno nel resto della impresa loro gli seguitasse.
E lo animo
loro era, morto il Principe, ridursi insieme con quegli armati, e
gire in quella parte della terra dove credessero più
facilmente sollevare la plebe, e quella contro alla Duchessa e a'
principi dello stato fare armare.
E stimavano che il popolo, per la
fame dalla quale era aggravato, dovesse facilmente seguirgli, perché
disegnavano dargli la casa di messer Cecco Simonetta, di Giovanni
Botti e di Francesco Lucani, tutti principi del governo, in preda, e
per questa via assicurare loro, e rendere la libertà al
popolo.
Fatto questo disegno, e confirmato l'animo a questa
esecuzione, Giovannandrea con gli altri furno al tempio di buona ora;
udirono messa insieme; la quale udita, Giovannandrea si volse ad una
statua di Santo Ambrogio e disse: - O padrone di questa nostra città,
tu sai la intenzione nostra e il fine a che noi voliamo metterci a
tanti pericoli: sia favorevole a questa nostra impresa; e dimostra,
favorendo la giustizia, che la ingiustizia ti dispiaccia.
- Al Duca
dall'altro canto, avendo a venire al tempio, intervennono molti segni
della sua futura morte: perché, venuto il giorno, si vestì,
secondo che più volte costumava, una corazza, la quale di poi
subito si trasse, come se nella presenza o nella persona lo
offendesse, volle udire messa in Castello, e trovò che il suo
cappellano era ito a Santo Stefano con tutti i suoi apparati di
cappella; volle che, in cambio di quello, il vescovo di Como
celebrasse la messa, e quello allegò certi impedimenti
ragionevoli: tanto che, quasi per necessità, deliberò
di andare al tempio, e prima si fece venire Giovangaleazzo ed Ermes
suoi figliuoli, e quelli abbracciò e baciò molte volte,
né pareva potesse spiccarsi da quelli; pure alla fine,
deliberato allo andare, si uscì di Castello, ed entrato in
mezzo dello oratore di Ferrara e di Mantova, ne andò al
tempio.
I congiurati, in quel tanto, per dare di loro minore
suspizione, e fuggire il freddo che era grandissimo, si erano in una
camera dello arciprete della chiesa, loro amico, ritirati; e
intendendo come il Duca veniva, se ne vennono in chiesa: e Giovanni
Andrea e Girolamo si posono dalla destra parte allo entrare del
tempio, e Carlo dalla sinistra.
Entravano già nel tempio
quelli che precedono al Duca; di poi entrò egli, circundato da
una moltitudine grande, come era conveniente, in quella solennità,
ad una ducale pompa.
I primi che mossano fu il Lampognano e Girolamo.
Costoro, simulando di far fare largo al Principe, se gli accostorono,
e strette le armi, che corte e acute avevono nelle maniche nascose,
lo assalirono.
Il Lampognano gli dette due ferite, l'una nel ventre,
l'altra nella gola; Girolamo ancora nella gola e nel petto lo
percosse.
Carlo Visconte, perché si era posto più
propinquo alla porta, ed essendogli il Duca passato avanti, quando
dai compagni fu assalito, nol potette ferire davanti, ma con duoi
colpi la schiena e la spalla gli trafisse.
E furono queste sei ferite
sì preste e sì subite, che il Duca fu prima in terra
che quasi niuno del fatto si accorgesse; né quello potette
altro fare o dire, salvo che, cadendo, una volta sola il nome della
Nostra Donna in suo aiuto chiamare.
Caduto il Duca in terra, il
romore si levò grande; assai spade si sfoderorono e, come
avviene nelli casi non preveduti, chi fuggiva del tempio e chi
correva verso il tumulto sanza avere alcuna certezza o cagione della
cosa.
Non di meno quegli che erano al Duca più propinqui, e
che avevono veduto il Duca morto, e gli ucciditori cognosciuti, li
perseguitorono.
E de' congiurati, Giovannandrea volendo tirarsi fuori
di chiesa, entrò fra le donne, le quali trovando assai, e
secondo il loro costume a sedere in terra implicato e ritenuto intra
le loro veste fu da un moro, staffiero del Duca, sopraggiunto e
morto.
Fu ancora da' circunstanti ammazzato Carlo.
Ma Girolamo
Olgiato, uscito fra gente e gente di chiesa, vedendo i suoi compagni
morti non sapiendo dove altrove fuggirsi, se ne andò alle sue
case; dove non fu dal padre né da' frategli ricevuto.
Solamente la madre, avendo al figliuolo compassione, lo raccomandò
ad uno prete, antico amico alla famiglia loro; il quale, messogli
suoi panni indosso, alle sue case lo condusse; dove stette duoi
giorni, non sanza speranza che in Milano nascesse qualche tumulto che
lo salvasse.
Il che non succedendo, e dubitando non essere in quel
loco ritrovato, volse sconosciuto fuggirsi; ma, conosciuto, nella
podestà della giustizia pervenne, dove tutto l'ordine della
congiura aperse.
Era Girolamo di età di ventitré anni;
né fu nel morire meno animoso che nello operare si fusse
stato; perché trovandosi ignudo e con il carnefice davanti,
che aveva il coltello in mano per ferirlo, disse queste parole in
lingua latina, perché litterato era: - Mors acerba, fama
perpetua, stabit vetus memoria facti.
- Fu questa impresa di questi
infelici giovani secretamente trattata e animosamente esequita; e
allora rovinorono quando quelli ch'eglino speravano gli avessero a
seguire e defendere non gli defesono né seguirono.
Imparino
per tanto i principi a vivere in maniera, e farsi in modo reverire e
amare, che niuno speri potere, ammazzandogli, salvarsi; e gli altri
cognoschino quanto quel pensiero sia vano che ci faccia confidare
troppo che una moltitudine, ancora che mal contenta, ne' pericoli
tuoi ti seguiti o ti accompagni.
Sbigottì questo accidente
tutta Italia; ma molto più quegli che, indi a breve tempo, in
Firenze seguirono; i quali quella pace che per dodici anni era stata
in Italia ruppono, come nel libro seguente sarà da noi
dimostrato.
Il quale, se arà il fine suo mesto e lagrimoso,
arà il principio sanguinoso e spaventevole.
LIBRO OTTAVO
1
Sendo
il principio di questo ottavo libro posto in mezzo di due congiure,
l'una già narrata, e successa a Milano, l'altra per doversi
narrare, e seguita a Firenze, parrebbe conveniente cosa, volendo
seguitare il costume nostro, che delle qualità delle congiure
e della importanza di esse ragionassimo; il che si farebbe volentieri
quando, o in altro luogo io non ne avesse parlato, o ella fusse
materia da potere con brevità passarla.
Ma sendo cosa che
desidera assai considerazione, e già in altro luogo detta, la
lasceremo indrieto; e passando ad un'altra materia, diremo come lo
stato de' Medici, avendo vinte tutte le inimicizie le quali
apertamente lo avevono urtato, a volere che quella casa prendesse
unica autorità nella città e si spiccasse col vivere
civile da le altre, era necessario che ella superasse ancora quelle
che occultamente contro gli macchinavano.
Perché, mentre che i
Medici di pari di autorità e di riputazione con alcune
dell'altre famiglie combattevono, potevono i cittadini che alla loro
potenza avevono invidia apertamente a quelli opporsi, sanza temere di
essere ne' principii delle loro nimicizie oppressi, perché,
sendo diventati i magistrati liberi, niuna delle parti, se non dopo
la perdita, aveva cagione di temere.
Ma, dopo la vittoria del '66, si
ristrinse in modo lo stato tutto a' Medici, i quali tanta autorità
presono, che quelli che ne erano mal contenti conveniva o con
pazienza quel modo del vivere comportassero, o, se pure lo volessero
spegnere, per via di congiure e secretamente di farlo tentassero: le
quali perché con difficultà succedono, partoriscono il
più delle volte a chi le muove rovina, e a colui contro al
quale sono mosse grandezza.
Donde che quasi sempre uno principe d'una
città, da simili congiure assalito, se non è come il
duca di Milano ammazzato, il che rade volte interviene, saglie in
maggiore potenza, e molte volte, sendo buono, diventa cattivo; perché
queste, con lo esemplo loro, gli danno cagione di temere, il temere
di assicurarsi, l'assicurarsi di ingiuriare: donde ne nascono gli
odii, di poi, e molte volte la sua rovina.
E così queste
congiure opprimono subito chi le muove, e quello contro a chi le son
mosse in ogni modo con il tempo offendono.
2
Era
la Italia, come di sopra abbiamo dimostro, divisa in due fazioni:
Papa e Re da una parte; da l'altra Viniziani, Duca e Fiorentini; e
benché ancora infra loro non fusse accesa guerra, non di meno
ciascuno giorno infra essi si dava nuove cagioni di accenderla; e il
Pontefice massime, in qualunque sua impresa, di offendere lo stato di
Firenze s'ingegnava.
Onde che, sendo morto messere Filippo de'
Medici, arcivescovo di Pisa, il Papa, contro alla volontà
della signoria di Firenze, Francesco Salviati, il quale cognosceva
alla famiglia de' Medici nimico, di quello arcivescovado investì:
talché, non gli volendo la Signoria dare la possessione, ne
seguì tra il Papa e quella, nel maneggio di questa cosa, nuove
offese.
Oltra di questo, faceva in Roma alla famiglia de' Pazzi
favori grandissimi, e quella de' Medici in ogni azione disfavoriva.
Erano i Pazzi, in Firenze, per ricchezze e nobilità, allora,
di tutte l'altre famiglie fiorentine splendidissimi: capo di quelli
era messer Iacopo, fatto, per le sue ricchezze e nobilità, dal
popolo cavaliere.
Non aveva altri figliuoli che una figliuola
naturale: aveva bene molti nipoti, nati di messer Piero e Antonio
suoi frategli; i primi de' quali erano Guglielmo, Francesco, Rinato,
Giovanni, e apresso Andrea, Niccolò e Galeotto.
Aveva Cosimo
de' Medici, veggendo la ricchezza e nobilità di costoro, la
Bianca sua nipote con Guglielmo congiunta, sperando che quel
parentado facesse queste famiglie più unite e levasse via le
inimicizie e gli odii che dal sospetto il più delle volte
sogliono nascere.
Non di meno, tanto sono i disegni nostri incerti e
fallaci, la cosa procedette altrimenti: perché chi consigliava
Lorenzo gli mostrava come gli era pericolosissimo, e alla sua
autorità contrario, raccozzare ne' cittadini ricchezze e
stato.
Questo fece che a messer Iacopo e a' nipoti non erano
conceduti quegli gradi di onore che a loro, secondo gli altri
cittadini, pareva meritare: da qui nacque ne' Pazzi il primo sdegno e
ne' Medici il primo timore, e l'uno di questi che cresceva dava
materia all'altro di crescere; donde i Pazzi, in ogni azione dove
altri cittadini concorressero, erano da' magistrati non bene veduti.
E il magistrato degli Otto, per una leggieri cagione, sendo Francesco
de' Pazzi a Roma, sanza avere a lui quel rispetto che a' grandi
cittadini si suole avere, a venire a Firenze lo constrinse: tanto che
i Pazzi, in ogni luogo, con parole ingiuriose e piene di sdegno si
dolevano; le quali cose accrescevono ad altri il sospetto e a sé
le ingiurie.
Aveva Giovanni de' Pazzi per moglie la figliuola di
Giovanni Buonromei, uomo ricchissimo, le sustanze di cui, sendo
morto, alla sua figliuola, non avendo egli altri figliuoli,
ricadevono.
Non di meno Carlo, suo nipote, occupò parte di
quegli beni; e venuta la cosa in litigio, fu fatta una legge per
virtù della quale la moglie di Giovanni de' Pazzi fu della
eredità di suo padre spogliata, e a Carlo concessa; la quale
ingiuria i Pazzi al tutto dai Medici ricognobbono.
Della qual cosa
Giuliano de' Medici molte volte con Lorenzo suo fratello si dolfe,
dicendo come e' dubitava che, per volere delle cose troppo, che le
non si perdessero tutte.
3
Non
di meno Lorenzo, caldo di gioventù e di potenza, voleva ad
ogni cosa pensare, e che ciascuno da lui ogni cosa ricognoscesse.
Non
potendo adunque i Pazzi, con tanta nobilità e tante ricchezze,
sopportare tante ingiurie, cominciorono a pensare come se ne avessero
a vendicare.
Il primo che mosse alcuno ragionamento contro a' Medici
fu Francesco.
Era costui più animoso e più sensitivo
che alcuno degli altri; tanto che deliberò o di acquistare
quello che gli mancava, o di perdere ciò che gli aveva.
E
perché gli erano in odio i governi di Firenze, viveva quasi
sempre a Roma, dove assai tesoro, secondo il costume de' mercatanti
fiorentini, travagliava.
E perché egli era al conte Girolamo
amicissimo, si dolevano costoro spesso, l'uno con l'altro, de'
Medici: tanto che, dopo molto doglienze, e' vennono a ragionamento
come gli era necessario, a volere che l'uno vivesse ne' suoi stati e
l'altro nella sua città securo, mutare lo stato di Firenze: il
che sanza la morte di Giuliano e di Lorenzo pensavano non si potessi
fare.
Giudicorono che il Papa e il Re facilmente vi acconsentirebbono
purché all'uno e all'altro si mostrasse la facilità
della cosa.
Sendo adunque caduti in questo pensiero, comunicorono il
tutto con Francesco Salviati arcivescovo di Pisa, il quale, per
essere ambizioso e di poco tempo avanti stato offeso da' Medici,
volentieri vi concorse.
Ed esaminando infra loro quello fusse da
fare, deliberorono, perché la cosa più facilmente
succedessi, di tirare nella loro volontà messer Iacopo de'
Pazzi, sanza il quale non credevano potere cosa alcuna operare.
Parve
adunque che Francesco de' Pazzi, a questo effetto, andasse a Firenze,
e l'Arcivescovo e il Conte a Roma rimanessero, per essere con il Papa
quando e' paresse tempo da comunicargliene.
Trovò Francesco
messer Iacopo più respettivo e più duro non arebbe
voluto; e fattolo intendere a Roma, si pensò che bisognasse
maggiore autorità a disporlo: onde che l'Arcivescovo e il
Conte ogni cosa a Giovan Batista da Montesecco, condottieri del Papa,
comunicorono.
Questo era stimato assai nella guerra, e al Conte e al
Papa obligato: non di meno mostrò la cosa essere difficile e
pericolosa; i quali periculi e difficultà l'Arcivescovo
s'ingegnava spegnere, mostrando gli aiuti che il Papa e il Re
farebbono alla impresa, e di più gli odii che i cittadini di
Firenze portavano a' Medici, i parenti che i Salviati e i Pazzi si
tiravano dietro, la facilità dello ammazzargli, per andare per
la città sanza compagnia e sanza sospetto, e di poi, morti che
fussero, la facilità del mutare lo stato.
Le quali cose Giovan
Batista interamente non credeva, come quello che da molti altri
Fiorentini aveva udito altrimenti parlare.
4
Mentre
che si stava in questi ragionamenti e pensieri, occorse che il signor
Carlo di Faenza ammalò, tale che si dubitava della morte.
Parve per tanto allo Arcivescovo e al Conte di avere occasione di
mandare Giovan Batista a Firenze, e di quivi in Romagna, sotto colore
di riavere certe terre che il signore di Faenza gli occupava.
Commisse per tanto il Conte a Giovan Batista parlasse con Lorenzo, e
da sua parte gli domandasse consiglio, come nelle cose di Romagna si
avesse a governare; di poi parlasse con Francesco de' Pazzi, e
vedessero, insieme, di disporre messer Iacopo de' Pazzi a seguitare
la loro volontà.
E perché lo potesse con la autorità
del Papa muovere, vollono, avanti alla partita, parlasse al
Pontefice; il quale fece tutte quelle offerte possette maggiori in
benifizio della impresa.
Arrivato per tanto Giovan Batista a Firenze,
parlò con Lorenzo, dal quale fu umanissimamente ricevuto e ne'
consigli domandati saviamente e amorevolmente consigliato; tanto che
Giovan Batista ne prese ammirazione, parendogli avere trovato altro
uomo che non gli era stato mostro, e giudicollo tutto umano, tutto
savio, e al Conte amicissimo.
Non di meno volle parlare con
Francesco, e non ve lo trovando, perché era ito a Lucca, parlò
con messer Iacopo, e trovollo nel principio molto alieno dalla cosa:
non di meno, avanti partisse, l'autorità del Papa lo mosse
alquanto, e per ciò disse a Giovan Batista che andasse in
Romagna e tornasse, e che intanto Francesco sarebbe in Firenze, e
allora più particularmente della cosa ragionerebbono.
Andò
e tornò Giovan Batista, e con Lorenzo de' Medici seguitò
il simulato ragionamento delle cose del Conte; di poi con messer
Iacopo e Francesco de' Pazzi si ristrinse; e tanto operorono, che
messer Iacopo acconsentì alla impresa.
Ragionorono del modo.
A
messer Iacopo non pareva che fusse riuscibile sendo ambedui i
frategli in Firenze; e per ciò si aspettasse che Lorenzo
andasse a Roma, come era fama che voleva andare, e allora si
esequisse la cosa.
A Francesco piaceva che Lorenzo fusse a Roma; non
di meno, quando bene non vi andasse, affermava che o a nozze, o a
giuoco, o in chiesa, ambiduoi i frategli si potevono opprimere.
E
circa gli aiuti forestieri, gli pareva che il Papa potesse mettere
gente insieme per la impresa del castello di Montone, avendo giusta
cagione di spogliarne il conte Carlo, per avere fatti i tumulti già
detti nel Sanese e nel Perugino.
Non di meno non si fece altra
conclusione, se non che Francesco de' Pazzi e Giovan Batista ne
andassero a Roma, e quivi con il Conte e con il Papa ogni cosa
concludessero.
Praticossi di nuovo a Roma questa materia; e in fine
si concluse, sendo la impresa di Montone resoluta, che
Giovanfrancesco da Tolentino, soldato del Papa, ne andasse in
Romagna, e messer Lorenzo da Castello nel paese suo, e ciascheduno di
questi, con le genti del paese, tenessero le loro compagnie ad ordine
per fare quanto da l'Arcivescovo de' Salviati e Francesco de' Pazzi
fusse loro ordinato, i quali con Giovan Batista da Montesecco se ne
venissero a Firenze dove provedessero a quanto fusse necessario per
la esecuzione della impresa; alla quale il re Ferrando, mediante il
suo oratore, prometteva qualunque aiuto.
Venuti pertanto
l'Arcivescovo e Francesco de' Pazzi a Firenze tirorono nella sentenza
loro Iacopo di messer Poggio, giovane litterato, ma ambizioso e di
cose nuove desiderosissimo, tiroronvi duoi Iacopi Salviati l'uno
fratello, l'altro affine dello Arcivescovo; condussonvi Bernardo
Bandini e Napoleone Franzesi, giovani arditi e alla famiglia de'
Pazzi obligatissimi.
De' forestieri, oltre a' prenominati, messer
Antonio da Volterra e uno Stefano sacerdote, il quale nelle case di
messer Iacopo alla sua figliuola la lingua latina insegnava,
v'intervennono.
Rinato de' Pazzi, uomo prudente e grave, e che
ottimamente cognosceva il male che da simili imprese nascono, alla
congiura non acconsentì; anzi la detestò, e con quel
modo che onestamente potette adoperare la interruppe.
5
Aveva
il Papa tenuto nello Studio pisano a imparar lettere pontificie
Raffaello de' Riario, nipote del conte Girolamo; nel quale luogo
ancora essendo, fu dal Papa alla dignità del cardinalato
promosso.
Parve per tanto a' congiurati di condurre questo cardinale
a Firenze, acciò che la sua venuta e la congiura ricoprisse,
possendosi infra la sua famiglia quelli congiurati de' quali avevono
bisogno nascondere, e da quello prendere cagione di esequirla.
Venne
adunque il Cardinale, e fu da messere Iacopo de' Pazzi a Montughi,
sua villa propinqua a Firenze, ricevuto.
Desideravano i congiurati di
accozzare insieme, mediante costui, Lorenzo e Giuliano; e come prima
questo occorresse, ammazzargli.
Ordinorono per tanto convitassero il
Cardinale nella villa loro di Fiesole, dove Giuliano, o a caso o a
studio, non convenne; tanto che, tornato il disegno vano,
giudicorono, che, se lo convitassero a Firenze, di necessità
ambiduoi vi avessero ad intervenire.
E così dato l'ordine, la
domenica de' dì 26 d'aprile, correndo l'anno 1478, a questo
convito deputorono.
Pensando adunque i congiurati di potergli nel
mezzo del convito ammazzare, furono il sabato notte insieme, dove
tutto quello che la mattina seguente si avesse ad esequire disposono.
Venuto di poi il giorno, fu notificato a Francesco come Giuliano ad
il convito non interveniva.
Per tanto di nuovo i capi della congiura
si ragunorono, e conclusono che non fusse da differire il mandarla ad
effetto; perché gli era impossibile, sendo nota a tanti, che
la non si scoprisse.
E per ciò deliberorono nella chiesa
cattedrale di Santa Reparata ammazzargli, dove sendo il Cardinale, i
duoi frategli, secondo la consuetudine, converrebbono.
Volevano che
Giovan Batista prendesse la cura di ammazzare Lorenzo, e Francesco
de' Pazzi e Bernardo Bandini, Giuliano.
Recusò Giovan Batista
il volerlo fare: o che la familiarità aveva tenuta con Lorenzo
gli avesse adolcito lo animo, o che pure altra cagione lo movesse:
disse che non gli basterebbe mai l'animo commettere tanto eccesso in
chiesa e accompagnare il tradimento con il sacrilegio.
Il che fu il
principio della rovina della impresa loro: perché,
strignendoli il tempo, furono necessitati dare questa cura a messer
Antonio da Volterra e a Stefano sacerdote, duoi che, per pratica e
per natura, erano a tanta impresa inettissimi: perché, se mai
in alcuna faccenda si ricerca l'animo grande e fermo, e nella vita e
nella morte per molte esperienze risoluto, è necessario averlo
in questa, dove si è assai volte veduto agli uomini nelle arme
esperti e nel sangue intrisi lo animo mancare.
Fatto adunque questa
deliberazione, vollono che il segno dello operare fusse quando si
comunicava il sacerdote che nel tempio la principale messa celebrava;
e che, in quel mezzo, lo arcivescovo de' Salviati, insieme con i suoi
e con Iacopo di messer Poggio, il palagio publico occupassero, acciò
che la Signoria, o voluntaria o forzata, seguita che fusse de' duoi
giovani la morte, fusse loro favorevole.
6
Fatta
questa deliberazione se n'andorono nel tempio, nel quale già
il Cardinale insieme con Lorenzo de' Medici era venuto.
La chiesa era
piena di popolo e lo oficio divino cominciato, quando ancora Giuliano
de' Medici non era in chiesa; onde che Francesco de' Pazzi insieme
con Bernardo, alla sua morte destinati, andorono alle sue case a
trovarlo, e con prieghi e con arte nella chiesa lo condussono.
È
cosa veramente degna di memoria che tanto odio, tanto pensiero di
tanto eccesso si potesse con tanto cuore e tanta ostinazione d'animo
da Francesco e da Bernardo ricoprire: perché, conduttolo nel
tempio, e per la via e nella chiesa con motteggi e giovinili
ragionamenti lo intrattennero; né mancò Francesco,
sotto colore di carezzarlo, con le mani e con le braccia strignerlo,
per vedere se lo trovava o di corazza o d'altra simile difesa munito.
Sapevano Giuliano e Lorenzo lo acerbo animo de' Pazzi contra di loro,
e come eglino desideravano di torre loro l'autorità dello
stato, ma non temevono già della vita, come quelli che
credevano che, quando pure eglino avessero a tentare cosa alcuna,
civilmente e non con tanta violenza lo avessero a fare; e per ciò
anche loro, non avendo cura alla propria salute, di essere loro amici
simulavano.
Sendo adunque preparati gli ucciditori, quegli a canto a
Lorenzo, dove, per la moltitudine che nel tempio era, facilmente e
sanza sospetto potevono stare, e quegli altri insieme con Giuliano,
venne l'ora destinata; e Bernardo Bandini, con una arme corta a
quello effetto apparecchiata, passò il petto a Giuliano, il
quale dopo pochi passi cadde in terra; sopra il quale Francesco de'
Pazzi gittatosi, lo empié di ferite; e con tanto studio lo
percosse, che, accecato da quel furore che lo portava, se medesimo in
una gamba gravemente offese.
Messer Antonio e Stefano, dall'altra
parte, assalirono Lorenzo, e menatogli più colpi, di una
leggieri ferita nella gola lo percossono; perché, o la loro
negligenzia, o lo animo di Lorenzo, che, vedutosi assalire, con
l'arme sua si difese, o lo aiuto di chi era seco, fece vano ogni
sforzo di costoro.
Tale che quegli, sbigottiti, si fuggirono e si
nascosono; ma di poi ritrovati, furono vituperosamente morti e per
tutta la città strascinati.
Lorenzo dall'altra parte,
ristrettosi con quegli amici che gli aveva intorno, nel sacrario del
tempio si rinchiuse.
Bernardo Bandini, morto che vide Giuliano,
ammazzò ancora Francesco Nori, a' Medici amicissimo, o perché
lo odiasse per antico, o perché Francesco di aiutare Giuliano
s'ingegnasse; e non contento a questi duoi omicidii corse per trovare
Lorenzo e supplire con lo animo e prestezza sua a quello che gli
altri per la tardità e debilezza loro avevono mancato, ma
trovatolo nel sacrario rifuggito, non potette farlo.
Nel mezzo di
questi gravi e tumultuosi accidenti i quali furono tanti terribili
che pareva che il tempio rovinasse, il Cardinale si ristrinse allo
altare, dove con fatica fu dai sacerdoti tanto salvato che la
Signoria, cessato il romore, potette nel suo palagio condurlo; dove
con grandissimo sospetto infino alla liberazione sua dimorò.
7
Trovavansi
in Firenze in questi tempi alcuni Perugini, cacciati, per le parti,
di casa loro, i quali i Pazzi, promettendo di rendere loro la patria,
avevano tirati nella voglia loro; donde che l'arcivescovo de'
Salviati, il quale era ito per occupare il Palagio insieme con Iacopo
di messer Poggio e i suoi Salviati e amici, gli avea condotti seco.
E
arrivato al Palagio, lasciò parte de' suoi da basso, con
ordine che, come eglino sentissero il romore, occupassero la porta;
ed egli, con la maggior parte de' Perugini, salì da alto; e
trovato che la Signoria desinava, perché era l'ora tarda, fu,
dopo non molto, da Cesare Petrucci gonfaloniere di giustizia
intromesso.
Onde che, entrato con pochi de' suoi, lasciò gli
altri fuora; la maggiore parte de' quali nella cancelleria per se
medesimi si rinchiusono, perché in modo era la porta di quella
congegnata, che, serrandosi, non si poteva se non con lo aiuto della
chiave, così di dentro come di fuora, aprire.
L'Arcivescovo
intanto, entrato dal Gonfaloniere, sotto colore di volergli alcune
cose per parte del Papa riferire, gli cominciò a parlare con
parole spezzate e dubie; in modo che l'alterazione che dal viso e
dalle parole mostrava generorono nel Gonfaloniere tanto sospetto che
a un tratto, gridando, si pinse fuora di camera, e trovato Iacopo di
messer Poggio, lo prese per i capegli e nelle mani de' suoi sergenti
lo misse.
E levato il romore tra i Signori, con quelle armi che il
caso sumministrava loro, tutti quegli che con l'Arcivescovo erano
saliti da alto, sendone parte rinchiusi e parte inviliti, o subito
furono morti, o così vivi, fuori delle finestre del Palagio
gittati; intra i quali l'Arcivescovo, i duoi Iacopi Salviati e Iacopo
di messer Poggio appiccati furono.
Quegli che da basso in Palagio
erano rimasi avevano sforzata la guardia, e la porta e le parti basse
tutte occupate, in modo che i cittadini che in questo romore al
Palagio corsono, né armati aiuto, né disarmati
consiglio alla Signoria potevano porgere.
8
Francesco
de' Pazzi intanto e Bernardo Bandini, veggendo Lorenzo campato, e uno
di loro, in chi tutta la speranza della impresa era posta, gravemente
ferito, si erono sbigottiti donde che Bernardo, pensando con quella
franchezza d'animo alla sua salute, che gli aveva allo ingiuriare i
Medici pensato, veduta la cosa perduta, salvo se ne fuggì.
Francesco, tornatosene a casa ferito, provò se poteva reggersi
a cavallo; perché l'ordine era di circuire con armati la terra
e chiamare il popolo alla libertà e all'arme; e non potette:
tanta era profonda la ferita, e tanto sangue aveva per quella
perduto; onde che, spogliatosi, si gittò sopra il suo letto
ignudo, e pregò messer Iacopo che quello da lui non si poteva
fare facesse egli.
Messer Iacopo, ancora che vecchio e in simili
tumulti non pratico, per fare questa ultima esperienza della fortuna
loro, salì a cavallo, con forse cento armati, suti prima per
simile impresa preparati, e se n'andò alla piazza del Palagio,
chiamando in suo aiuto il popolo e la libertà.
Ma perché
l'uno era dalla fortuna e liberalità de' Medici fatto sordo,
l'altra in Firenze non era cognosciuta, non gli fu risposto da
alcuno.
Solo i Signori, che la parte superiore del Palagio
signoreggiavano, con i sassi lo salutorono, e con le minacce in
quanto poterono lo sbigottirono.
E stando messer Iacopo dubio, fu da
Giovanni Serristori, suo cognato, incontrato; il quale prima lo
riprese degli scandoli mossi da loro, di poi lo confortò a
tornarsene a casa, affermandogli che il popolo e la libertà
era a cuore agli altri cittadini come a lui.
Privato adunque messer
Iacopo d'ogni speranza, veggendosi il Palagio nimico, Lorenzo vivo,
Francesco ferito, e da niuno seguitato, non sapiendo altro che farsi,
deliberò di salvare, se poteva, con la fuga, la vita; e con
quella compagnia che gli aveva seco in Piazza, si uscì di
Firenze per andarne in Romagna.
9
In
questo mezzo tutta la città era in arme, e Lorenzo de' Medici
da molti armati accompagnato, s'era nelle sue case ridutto: il
Palagio dal popolo era stato ricuperato, e gli occupatori di quello
tutti fra presi e morti.
Già per tutta la città si
gridava il nome de' Medici, e le membra de' morti, o sopra le punte
delle armi fitte, o per la città strascinate si vedevano; e
ciascheduno, con parole piene d'ira e con fatti pieni di crudeltà,
i Pazzi perseguitava.
Già erano le loro case dal popolo
occupate; e Francesco, così ignudo, fu di casa tratto, e al
Palagio condotto, fu a canto all'Arcivescovo e agli altri appiccato.
Né fu possibile, per ingiuria che per il cammino o poi gli
fusse fatta o detta, farli parlare alcuna cosa; ma guardando altrui
fiso, sanza dolersi altrimenti, tacito sospirava.
Guglielmo de'
Pazzi, di Lorenzo cognato, nelle case di quello, e per la innocenza
sua e per lo aiuto della Bianca sua moglie, si salvò.
Non fu
cittadino che, armato o disarmato, non andasse alle case di Lorenzo
in quella necessità; e ciascheduno sé e le sustanze sue
gli offeriva: tanta era la fortuna e la grazia che quella casa, per
la sua prudenza e liberalità, si aveva acquistata.
Rinato de'
Pazzi s'era, quando il caso seguì nella sua villa ritirato,
donde, intendendo la cosa, si volle, travestito, fuggire: non di meno
fu per il cammino cognosciuto, e preso, e a Firenze condotto.
Fu
ancora preso messer Iacopo nel passare l'alpi, perché, inteso
da quegli alpigiani il caso seguito a Firenze e veduta la fuga di
quello, fu da loro assalito e a Firenze menato: né potette
ancora che più volte ne gli pregasse impetrare di essere da
loro per il cammino ammazzato.
Furono messer Iacopo e Rinato
giudicati a morte, dopo quattro giorni che il caso era seguito, e
infra tante morti che in quelli giorni erano state fatte, che avevono
piene di membra di uomini le vie, non ne fu con misericordia altra
che questa di Rinato riguardata, per essere tenuto uomo savio e
buono, né di quella superbia notato, che gli altri di quella
famiglia accusati erano.
E perché questo caso non mancasse di
alcuno estraordinario esemplo, fu messer Iacopo prima nella sepultura
de' suoi maggiori sepulto; di poi, di quivi, come scomunicato,
tratto, fu lungo le mura della città sotterrato; e di quindi
ancora cavato, per il capresto con il quale era stato morto, fu per
tutta la città ignudo strascinato; e da poi che in terra non
aveva trovato luogo alla sepultura sua, fu da quegli medesimi che
strascinato l'avevono, nel fiume d'Arno, che allora aveva le sue
acque altissime gittato.
Esemplo veramente grandissimo di fortuna,
vedere uno uomo da tante ricchezze e da sì felicissimo stato,
in tanta infelicità, con tanta rovina e con tale vilipendio
cadere! Narronsi de' suoi alcuni vizi, intra i quali erano giuochi e
bestemmie più che a qualunche perduto uomo non si converrebbe;
quali vizi con le molte elimosine ricompensava, perché a molti
bisognosi e luoghi pii largamente suvveniva.
Puossi ancora, di
quello, dire questo bene, che il sabato davanti a quella domenica
deputata a tanto omicidio, per non fare partecipe dell'avversa sua
fortuna alcuno altro, tutti i suoi debiti pagò, e tutte le
mercatanzie che gli aveva in dogana e in casa, le quali ad alcuni
appartenessero, con maravigliosa sollecitudine a' padroni di quelle
consegnò.
Fu a Giovan Batista da Montesecco, dopo una lunga
esamine fatta di lui, tagliata la testa; Napoleone Franzesi con la
fuga fuggì il supplizio; Guglielmo de' Pazzi fu confinato, e i
suoi cugini che erano rimasi vivi, nel fondo della rocca di Volterra
in carcere posti.
Fermi tutti i tumulti, e puniti i congiurati, si
celebrorono le esequie di Giuliano; il quale fu con le lagrime da
tutti i cittadini accompagnato, perché in quello era tanta
liberalità e umanità quanta in alcuno altro in tale
fortuna nato si potesse desiderare.
Rimase di lui uno figliuolo
naturale, il quale dopo a pochi mesi che fu morto nacque, e fu
chiamato Giulio; il quale fu di quella virtù e fortuna
ripieno, che in questi presenti tempi tutto il mondo cognosce, e che
da noi, quando alle presenti cose perverremo, concedendone Iddio
vita, sarà largamente dimostro.
Le genti che sotto messer
Lorenzo da Castello in Val di Tevere, e quelle che sotto Giovan
Francesco da Talentino in Romagna erano, insieme, per dare favore a'
Pazzi s'erano mosse per venire a Firenze; ma poi ch'eglino intesero
la rovina della impresa, si tornorono indietro.
10
Ma
non essendo seguita in Firenze la mutazione dello stato, come il Papa
e il Re desideravano, deliberarono quello che non avevono potuto fare
per congiure farlo per guerra; e l'uno e l'altro, con grandissima
celerità, messe le sue genti insieme per assalire lo stato di
Firenze, publicando non volere altro da quella città, se non
che la rimovesse da sé Lorenzo de' Medici, il quale solo di
tutti i Fiorentini avieno per nimico.
Avevano già le genti del
Re passato il Tronto, e quelle del Papa erano nel Perugino; e perché,
oltre alle temporali i Fiorentini ancora le spirituali ferite
sentissero, gli scomunicò e maladisse.
Onde che i Fiorentini,
veggendosi venire contro tanti eserciti, si preparorono con ogni
sollecitudine alle difese.
E Lorenzo de' Medici, innanzi ad ogni
altra cosa, volle, poi che la guerra per fama era fatta a lui,
ragunare in Palagio, con i Signori, tutti i qualificati cittadini, in
numero di più di trecento; a' quali parlò in questa
sentenza: - Io non so, eccelsi Signori, e voi, magnifici cittadini,
se io mi dolgo con voi delle seguite cose, o se io me ne rallegro.
E
veramente quando io penso con quanta fraude, con quanto odio io sia
stato assalito e il mio fratello morto, io non posso fare non me ne
contristi e con tutto il cuore e con tutta l'anima non me ne dolga.
Quando io considero di poi con che prontezza, con che studio, con
quale amore, con quanto unito consenso di tutta la città il
mio fratello sia stato vendicato e io difeso, conviene, non solamente
me ne rallegri, ma in tutto me stesso esalti e glorii.
E veramente,
se la esperienza mi ha fatto conoscere come io aveva in questa città
più nimici che io non pensava, m'ha ancora dimostro come io ci
aveva più ferventi e caldi amici che io non credeva.
Son
forzato, adunque, a dolermi con voi per le ingiurie d'altri, e
rallegrarmi per i meriti vostri; ma son bene constretto a dolermi
tanto più delle ingiurie, quanto le sono più rare, più
senza esemplo e meno da noi meritate.
Considerate, magnifici
cittadini, dove la cattiva fortuna aveva condotta la casa nostra, che
fra gli amici, fra i parenti, nella chiesa non era secura.
Sogliono
quelli che dubitano della morte ricorrere agli amici per aiuti,
sogliono ricorrere a' parenti; e noi gli trovavamo armati per la
distruzione nostra: sogliono rifuggire nelle chiese tutti quegli che,
per publica o per privata cagione, sono perseguitati.
Adunque, da chi
gli altri sono difesi, noi siamo morti; dove i parricidi, gli
assassini sono sicuri, i Medici trovorono gli ucciditori loro.
Ma
Iddio, che mai per lo addietro non ha abbandonata la casa nostra, ha
salvato ancora noi, e ha presa la defensione della giusta causa
nostra.
Perché quale ingiuria abbiamo noi fatta ad alcuno, che
se ne meritasse tanto desiderio di vendetta? E veramente questi che
ci si sono dimostri tanto nimici, mai privatamente non gli
offendemmo; perché, se noi gli avessimo offesi, e' non
arebbono avuto commodità di offendere noi.
S'eglino
attribuiscono a noi le publiche ingiurie, quando alcuna ne fusse
stata loro fatta, che non lo so, eglino offendono più voi che
noi, più questo Palagio e la maestà di questo governo
che la casa nostra, dimostrando che per nostra cagione voi ingiuriate
immeritamente i cittadini vostri.
Il che è discosto al tutto
da ogni verità; perché noi quando avessimo potuto, e
voi quando noi avessimo voluto, non lo aremmo fatto: perché
chi ricercherà bene il vero troverrà la casa nostra non
per altra cagione con tanto consenso essere stata sempre esaltata da
voi, se non perché la si è sforzata, con la umanità,
liberalità, con i beneficii, vincere ciascuno.
Se noi abbiamo
adunque onorati gli strani, come aremmo noi ingiuriati i parenti? Se
si sono mossi a questo per desiderio di dominare, come dimostra lo
occupare il Palagio, venire con gli armati in Piazza, quanto questa
cagione sia brutta, ambiziosa e dannabile, da se stessa si scuopre e
si condanna; se lo hanno fatto per odio e invidia avevano alla
autorità nostra, eglino offendono voi, non noi, avendocela voi
data.
E veramente quelle autoritadi meritono di essere odiate che gli
uomini si usurpano, non quelle che gli uomini per liberalità,
umanità e munificenza si guadagnano.
E voi sapete che mai la
casa nostra salse a grado alcuno di grandezza, che da questo Palagio
e dallo unito consenso vostro non vi fusse spinta: non tornò
Cosimo mio avolo dallo esilio con le armi e per violenza, ma con il
consenso e unione vostra, mio padre, vecchio e infermo, non difese
già lui contro a tanti nimici lo stato, ma voi con l'autorità
e benivolenza vostra lo difendesti; non arei io, dopo la morte di mio
padre, sendo ancora, si può dire, un fanciullo, mantenuto il
grado della casa mia, se non fussero stati i consigli e favori
vostri; non arebbe potuto né potrebbe reggere la mia casa
questa republica, se voi, insieme con lei, non l'avessi retta e
reggesse.
Non so io adunque qual cagione di odio si possa essere il
loro contro di noi, o quale giusta cagione di invidia: portino odio
agli loro antenati, i quali, con la superbia e con la avarizia, si
hanno tolta quella reputazione che i nostri si hanno saputa, con
studi a quegli contrari, guadagnare.
Ma concediamo che le ingiurie
fatte a loro da noi sieno grandi, e che meritamente eglino
desiderassero la rovina nostra: perché venire ad offendere
questo Palagio? perché fare lega con il Papa e con il Re
contro alla libertà di questa republica? perché rompere
la lunga pace di Italia? A questo non hanno eglino scusa alcuna;
perché dovevono offendere chi offendeva loro, e non confundere
le inimicizie private con le ingiurie publiche; il che fa che, spenti
loro, il male nostro è più vivo, venendoci, alle loro
cagioni, il Papa e il Re a trovare con le armi: la qual guerra
affermano fare a me e alla casa mia.
Il che Dio volessi che fusse il
vero, perché i rimedi sarebbono presti e certi, né io
sarei sì cattivo cittadino che io stimasse più la
salute mia che i pericoli vostri; anzi volentieri spegnerei lo
incendio vostro con la rovina mia.
Ma perché sempre le
ingiurie che i potenti fanno con qualche meno disonesto colore le
ricuoprono, eglino hanno preso questo modo a ricoprire questa
disonesta ingiuria loro.
Pure non di meno, quando voi credessi
altrimenti, io sono nelle braccia vostre: voi mi avete a reggere o
lasciare; voi miei padri, voi miei defensori; e quanto da voi mi sarà
commesso che io faccia, sempre farò volentieri; né
ricuserò mai, quando così a voi paia, questa guerra con
il sangue del mio fratello cominciata, di finirla col mio.
- Non
potevono i cittadini, mentre che Lorenzo parlava, tenere le lagrime;
e con quella pietà che fu udito, gli fu da uno di quegli, a
chi gli altri commissono, risposto; dicendogli che quella città
ricognosceva tanti meriti da lui e dai suoi, che gli stesse di buono
animo, ché con quella prontezza ch'eglino avevono vendicata
del fratello la morte, e di lui conservata la vita, gli
conserverebbono la reputazione e lo stato; né prima perderebbe
quello, che loro la patria perdessero.
E perché le opere
corrispondessero alle parole, alla custodia del corpo suo di certo
numero di armati publicamente providono, acciò che dalle
domestiche insidie lo defendessero.
11
Di
poi si prese modo alla guerra, mettendo insieme genti e danari in
quella somma poterono maggiore.
Mandorono per aiuti, per virtù
della lega, al duca di Milano e a' Viniziani; e poi che il Papa si
era dimostro lupo e non pastore, per non essere come colpevoli
devorati, con tutti quelli modi potevono la causa loro
giustificavano, e tutta la Italia del tradimento fatto contro allo
stato loro riempierono, mostrando la impietà del Pontefice e
la ingiustizia sua; e come quello pontificato che gli aveva male
occupato, male esercitava; poi che gli aveva mandato quelli che alle
prime prelature aveva tratti, in compagnia di traditori e parricidi,
a commettere tanto tradimento in nel tempio, nel mezzo del divino
officio, nella celebrazione del Sacramento; e da poi, perché
non gli era successo ammazzare i cittadini, mutare lo stato della
loro città e quella a suo modo saccheggiare, la interdiceva e
con le pontificali maledizioni la minacciava e offendeva.
Ma se Dio
era giusto, se a Lui le violenzie dispiacevono, gli dovevono quelle
di questo suo vicario dispiacere; ed essere contento che gli uomini
offesi, non trovando presso a quello luogo, ricorressero a Lui.
Per
tanto, non che i Fiorentini ricevessero lo interdetto e a quello
ubbidissero, ma sforzorono i sacerdoti a celebrare il divino oficio,
feciono un concilio, in Firenze, di tutti i prelati toscani che allo
imperio loro ubbidivono, nel quale appellorono delle ingiurie del
Pontefice al futuro Concilio.
Non mancavano ancora al Papa ragioni da
giustificare la causa sua; e per ciò allegava appartenersi ad
uno pontefice spegnere le tirannide, opprimere i cattivi, esaltare i
buoni; le quali cose ei debbe con ogni opportuno rimedio fare; ma che
non è già l'uficio de' principi seculari detinere i
cardinali, impiccare i vescovi, ammazzare, smembrare e strascinare i
sacerdoti, gli innocenti e i nocenti sanza alcuna differenzia
uccidere.
12
Non
di meno, intra tante querele e accuse, i Fiorentini il Cardinale,
ch'eglino avieno in mano, al Pontefice restituirono; il che fece che
il Papa, sanza rispetto, con tutte le forze sue e del Re gli assalì.
Ed entrati gli duoi eserciti, sotto Alfonso primogenito di Ferrando e
duca di Calavria, e al governo di Federigo conte di Urbino, nel
Chianti per la via de' Sanesi, i quali dalle parti inimiche erano,
occuporono Radda e più altre castella, e tutto il paese
predorono; di poi andorono con il campo alla Castellina.
I
Fiorentini, veduti questi assalti, erano in grande timore, per essere
sanza gente e vedere gli aiuti degli amici lenti; perché, non
ostante che il Duca mandasse soccorso, i Viniziani avevono negato
essere obligati aiutare i Fiorentini nelle cause private, perché,
sendo la guerra fatta a privati, non erano obligati in quella a
suvvenirli, perché le inimicizie particulari non si avevono
publicamente a defendere.
Di modo che i Fiorentini, per disporre i
Viniziani a più sana opinione, mandorono oratore a quel senato
messer Tommaso Soderini; e in quel mentre soldorono gente, e feciono
capitano de' loro eserciti Ercule marchese di Ferrara.
Mentre che
queste preparazioni si facevano, lo esercito nimico strinse in modo
la Castellina, che quegli terrieri, desperati del soccorso, si
dierono, dopo quaranta giorni che eglino avieno sopportata la
obsidione.
Di quivi si volsono i nimici verso Arezzo, e campeggiorono
il Monte a San Sovino.
Era di già l'esercito fiorentino ad
ordine, e andato alla volta de' nimici, s'era posto propinquo a
quelli a tre miglia, e dava loro tanta incommodità che
Federigo d'Urbino domandò per alcuni giorni tregua.
La quale
gli fu conceduta con tanto disavvantaggio de' Fiorentini, che quegli
che la dimandavono di averla impetrata si maravigliorono; perché,
non la ottenendo, erano necessitati partirsi con vergogna; ma avuti
quelli giorni di commodità a riordinarsi, passato il tempo
della tregua, sopra la fronte delle genti nostre quel castello
occuporono.
Ma essendo già venuto il verno, i nimici, per
ridursi a vernare in luoghi commodi, dentro nel Sanese si ritirorono.
Ridussonsi ancora le genti fiorentine nelli alloggiamenti più
commodi; e il marchese di Ferrara, avendo fatto poco profitto a sé
e meno ad altri, se ne tornò nel suo stato.
13
In
questi tempi Genova si ribellò dallo stato di Milano per
queste cagioni: poi che fu morto Galeazzo, e restato Giovan Galeazzo
suo figliuolo, di età inabile al governo, nacque dissensione
intra Sforza, Lodovico e Ottaviano e Ascanio suoi zii, e madonna Bona
sua madre, perché ciascuno di essi voleva prendere la cura del
piccolo Duca.
Nella quale contenzione madonna Bona, vecchia duchessa,
per il consiglio di messer Tommaso Soderini, allora per i Fiorentini
in quello stato oratore, e di messer Cecco Simonetta, stato
secretario di Galeazzo, restò superiore.
Donde che, fuggendosi
gli Sforzeschi di Milano, Ottaviano nel passare l'Adda affogò,
e gli altri furono in varii luoghi confinati insieme con il signore
Ruberto da San Severino, il quale in quegli travagli aveva lasciata
la Duchessa e accostatosi a loro.
Sendo di poi seguiti i tumulti di
Toscana, quegli principi, sperando per gli nuovi accidenti potere
trovare nuova fortuna, ruppono i confini, e ciascuno di loro tentava
cose nuove per ritornare nello stato suo.
Il re Ferrando, che vedeva
che i Fiorentini solamente, nelle loro necessità, erano stati
dallo stato di Milano soccorsi, per torre loro ancora quegli aiuti,
ordinò di dare tanto che pensare alla Duchessa nello stato
suo, che agli aiuti de' Fiorentini provedere non potesse, e per il
mezzo di Prospero Adorno e del signore Ruberto e rebelli sforzeschi,
fece ribellare Genova dal Duca.
Restava solo nella potestà sua
il Castelletto, sotto la speranza del quale la Duchessa mandò
assai genti per recuperare la città, e vi furono rotte, tal
che, veduto il pericolo che poteva soprastare allo stato del
figliuolo e a lei, se quella guerra durava, sendo la Toscana
sottosopra e i Fiorentini, in chi ella solo sperava, afflitti,
deliberò, poi che la non poteva avere Genova come subietta,
averla come amica; e convenne con Batistino Fregoso, nimico di
Prospero Adorno, di dargli il Castelletto e farlo in Genova principe,
pure che ne cacciasse Prospero e a' ribelli sforzeschi non facesse
favore.
Dopo la quale conclusione, Batistino, con lo aiuto del
castello e della parte, s'insignorì di Genova, e se ne fece,
secondo il costume loro, doge; tanto che gli Sforzeschi e il signore
Ruberto, cacciati del Genovese, con quelle genti che li seguirono ne
vennono in Lunigiana.
Donde che il Papa e il Re, veduto come e
travagli di Lombardia erano posati, presono occasione da questi
cacciati da Genova a turbare la Toscana di verso Pisa, acciò
che i Fiorentini, dividendo le loro forze, indebolissero; e per ciò
operorono, sendo già passato il verno, che il signore Ruberto
si partisse con le sue genti di Lunigiana, e il paese pisano
assalisse.
Mosse adunque il signor Ruberto uno tumulto grandissimo, e
molte castella del Pisano saccheggiò e prese, e infino alla
città di Pisa predando corse.
14
Vennono,
in questi tempi, a Firenze oratori dello Imperadore e del re di
Francia e del re d'Ungheria, i quali dai loro principi erano mandati
al Pontefice, i quali persuasono a' Fiorentini mandassero oratori al
Papa, promettendo fare ogni opera con quello, che con una ottima pace
si ponesse fine a questa guerra.
Non recusorono i Fiorentini di fare
questa esperienza, per essere apresso qualunque escusati, come per la
parte loro amavano la pace.
Andati adunque gli oratori, sanza alcuna
conclusione tornorono.
Onde che i Fiorentini, per onorarsi della
reputazione del re di Francia poi che dagli Italiani erano parte
offesi parte abbandonati, mandorono oratore a quel re Donato
Acciaiuoli, uomo delle greche e latine lettere studiosissimo, di cui
sempre gli antenati hanno tenuti gradi grandi nella città.
Ma
nel cammino, sendo arrivato a Milano, morì; onde che la
patria, per remunerare chi era rimaso di lui e per onorare la sua
memoria, con publiche spese onoratissimamente lo seppellì, e
a' figliuoli esenzione, e alle figliuole dote conveniente a maritarle
concesse; e in suo luogo, per oratore al Re, messer Guid'Antonio
Vespucci, uomo delle imperiali e pontificie lettere peritissimo,
mandò.
Lo assalto fatto dal signore Ruberto nel paese di Pisa
turbò assai, come fanno le cose inaspettate, i Fiorentini;
perché, avendo da la parte di Siena una gravissima guerra, non
vedevano come si potere a' luoghi di verso Pisa provedere; pure, con
comandati e altre simili provisioni, alla città di Pisa
soccorsono.
E per tenere i Lucchesi in fede, acciò che o
danari o viveri al nimico non sumministrassero, Piero di Gino di Neri
Capponi ambasciadore vi mandorono; il quale fu da loro con tanto
sospetto ricevuto, per l'odio che quella città tiene con il
popolo di Firenze, nato da le antiche ingiurie e dal continuo timore,
che portò molte volte pericolo di non vi essere popolarmente
morto: tanto che questa sua andata dette cagione a nuovi sdegni, più
tosto che a nuova unione.
Rivocorono i Fiorentini il marchese di
Ferrara, soldorono il marchese di Mantova, e con instanzia grande
richiesono a' Viniziani il conte Carlo, figliuolo di Braccio, e
Deifebo, figliuolo del conte Iacopo, i quali furono alla fine, dopo
molte gavillazioni, da' Viniziani conceduti; perché, avendo
fatto tregua con il Turco, e per ciò non avendo scusa che gli
ricoprissi, a non osservare la fede della lega si vergognorono.
Vennono per tanto il conte Carlo e Deifebo con buono numero di genti
d'arme; e messe insieme, con quelle, tutte le genti d'arme che
poterono spiccare dallo esercito che sotto il marchese di Ferrara
alle genti del duca di Calavria era opposto, se ne andorono inverso
Pisa per trovare il signore Ruberto, il quale con le sue genti si
trovava propinquo al fiume del Serchio.
E benché gli avesse
fatto sembiante di volere aspettare le genti nostre, non di meno non
le aspettò, ma ritirossi in Lunigiana, in quelli alloggiamenti
donde si era, quando entrò nel paese di Pisa, partito.
Dopo la
cui partita furono dal conte Carlo tutte quelle terre recuperate che
dai nimici nel paese di Pisa erano state prese.
15
Liberati
i Fiorentini dagli assalti di verso Pisa, feciono tutte le genti loro
infra Colle e San Gimignano ridurre.
Ma sendo in quello esercito, per
la venuta del conte Carlo, Sforzeschi e Bracceschi, subito si
risentirono le antiche nimicizie loro; e si credeva, quando avessero
ad essere lungamente insieme, che fussero venuti alle armi.
Tanto
che, per minore male, si deliberò di dividere le genti, e una
parte di quelle, sotto il conte Carlo, mandare nel Perugino, un'altra
parte fermare a Poggibonzi, dove facessero uno alloggiamento forte,
da potere tenere i nimici, che non entrassero nel Fiorentino.
Stimorono, per questo partito, constrignere ancora i nimici a
dividere le genti; perché credevono, o che il conte Carlo
occuperebbe Perugia, dove pensavano avesse assai partigiani, o che il
Papa fusse necessitato mandarvi grossa gente per difenderla.
Ordinorono oltra di questo, per condurre il Papa in maggiore
necessità, che messer Niccolò Vitelli, uscito di Città
di Castello, dove era capo messer Lorenzo suo nimico, con gente si
appressasse alla terra, per fare forza di cacciarne lo avversario e
levarla dalla ubbidienza del Papa.
Parve, in questi principii, che la
fortuna volesse favorire le cose fiorentine; perché e' si
vedeva il conte Carlo fare nel Perugino progressi grandi; messer
Niccolò Vitelli, ancora che non gli fusse riuscito entrare in
Castello, era con le sue genti superiore in campagna, e d'intorno
alla città sanza opposizione alcuna predava; così
ancora le genti che erano restate a Poggibonzi ogni dì
correvano alle mura di Siena: non di meno, alla fine, tutte queste
speranze tornorono vane.
In prima morì il conte Carlo, nel
mezzo della speranza delle sue vittorie.
La cui morte ancora migliorò
le condizioni de' Fiorentini, se la vittoria che da quella nacque si
fusse saputa usare, perché, intesasi la morte del Conte,
subito le genti della Chiesa, che erano di già tutte insieme a
Perugia, presono speranza di potere opprimere le genti fiorentine; e
uscite in campagna, posono il loro alloggiamento sopra il Lago
propinquo a' nimici a tre miglia.
Dall'altra parte Iacopo
Guicciardini, il quale si trovava di quello esercito commissario, con
il consiglio del magnifico Ruberto da Rimine, il quale, morto il
conte Carlo, era rimaso il primo e più reputato di quello
esercito, cognosciuta la cagione dell'orgoglio de' nimici,
deliberorono aspettargli, tal che, venuti alle mani accanto al Lago,
dove già Annibale cartaginese dette quella memorabile rotta a'
Romani, furono le genti della Chiesa rotte.
La quale vittoria fu
ricevuta in Firenze con laude de' capi e piacere di ciascuno, e
sarebbe stata con onore e utile di quella impresa, se i disordini che
nacquono nello esercito che si trovava a Poggibonzi non avessero ogni
cosa perturbato.
E così il bene che fece l'uno esercito fu
dall'altro interamente destrutto: perché, avendo quelle genti
fatto preda sopra il Sanese, venne, nella divisione di essa,
differenza intra il marchese di Ferrara e quello di Mantova; tal che,
venuti alle armi, con ogni qualità di offesa si assalirono; e
fu tale che, giudicando i Fiorentini non si potere più
d'ambeduoi valere, si consentì che il marchese di Ferrara con
le sue genti se ne tornasse a casa.
16
Indebolito
adunque quello esercito, e rimaso sanza capo, e governandosi in ogni
parte disordinatamente, il duca di Calavria, che si trovava con lo
esercito suo propinquo a Siena, prese animo di venirli a trovare, e
così fatto come pensato, le genti fiorentine, veggendosi
assalire, non nelle armi, non nella moltitudine, che erano al nimico
superiori non nel sito dove erano, che era fortissimo, confidarono,
ma sanza aspettare non che altro di vedere il nimico, alla vista
della polvere si fuggirono, e a' nimici le munizioni, i carriaggi e
l'artiglierie lasciorono: di tanta poltroneria e disordine erano
allora quelli eserciti ripieni, che nel voltare uno cavallo o la
testa o la groppa dava la perdita o la vittoria d'una impresa.
Riempié questa rotta i soldati del Re di preda, e i Fiorentini
di spavento; perché, non solo la città loro si trovava
dalla guerra, ma ancora da una pestilenza gravissima afflitta; la
quale aveva in modo occupata la città, che tutti i cittadini,
per fuggire la morte, per le loro ville si erano ritirati.
Questo
fece ancora questa rotta più spaventevole; perché
quelli cittadini che per la Val di Pesa e per la Val d'Elsa avevono
le loro possessioni, sendosi ridutti in quelle, seguita la rotta,
subito, come meglio poterono, non solamente con i figliuoli e robe
loro, ma con i loro lavoratori, a Firenze corsono: tal che pareva che
si dubitasse che ad ogni ora il nimico alla città si potesse
presentare.
Quegli che alla cura della guerra erano preposti,
veggendo questo disordine, comandorono alle genti che erano state nel
Perugino vittoriose che, lasciata la impresa contro a' Perugini,
venissero in Val d'Elsa per opporsi al nimico, il quale, dopo la
vittoria, sanza alcuno contrasto scorreva il paese.
E benché
quelle avessero stretta in modo la città di Perugia, che ad
ogni ora se ne aspettasse la vittoria, non di meno vollono i
Fiorentini prima difendere il loro, che cercare di occupare quello
d'altri: tanto che quello esercito, levato dai suoi felici successi,
fu condotto a San Casciano, castello propinquo a Firenze a otto
miglia, giudicando non si potere altrove fare testa, infino a tanto
che le reliquie dello esercito rotto fussero insieme.
I nimici
dall'altra parte, quegli che erano a Perugia, liberi per la partita
delle genti fiorentine, divenuti audaci, grandi prede nello Aretino e
nel Cortonese ciascuno giorno facevano; e quegli altri, che sotto
Alfonso duca di Calavria avevano a Poggibonzi vinto, si erano di
Poggibonzi prima, e di Vico di poi insignoriti, e Certaldo messo a
sacco; e fatte queste espugnazioni e prede, andorono con il campo al
castello di Colle, il quale in quegli tempi era stimato fortissimo, e
avendo gli uomini allo stato di Firenze fedeli, potette tenere tanto
a bada il nimico, che si fussero ridutte le genti insieme.
Avendo
adunque i Fiorentini raccozzate le genti tutte a San Casciano, ed
espugnando i nimici con ogni forza Colle, deliberorono di appressarsi
a quelli, e dare animo a' Colligiani a defendersi.
E perché i
nimici avessero più respetto ad offendergli, avendo gli
avversarii propinqui, fatta questa deliberazione, levorono il campo
da San Casciano e posonlo a San Gimignano, propinquo a cinque miglia
a Colle, donde con i cavalli leggieri e con altri più espediti
soldati ciascuno dì il campo del Duca molestavano.
Non di meno
a' Colligiani non era sufficiente questo soccorso, per che, mancando
delle loro cose necessarie, a dì 13 di novembre si dierono,
con dispiacere de' Fiorentini e con massima letizia de' nimici, e
massimamente de' Sanesi, i quali oltre al comune odio che portono
alla città di Firenze, lo avevano con i Colligiani
particulare.
17
Era
di già il verno grande, e i tempi sinistri alla guerra, tanto
che il Papa e il Re, mossi, o da volere dare speranza di pace, o da
volere godersi le vittorie avute più pacificamente, offersono
tregua a' Fiorentini per tre mesi, e dierono dieci giorni tempo alla
risposta; la quale fu accettata subito.
Ma come avviene a ciascuno,
che più le ferite, raffreddi che sono i sangui, si sentono,
che quando le si ricevono, questo breve riposo fece cognoscere più
a' Fiorentini i sostenuti affanni.
E i cittadini, liberamente e sanza
rispetto, accusavano l'uno l'altro, e manifestavano gli errori nella
guerra commessi: mostravano le spese invano fatte, le gravezze
ingiustamente poste; le quali cose, non solamente ne' circuli, intra
i privati, ma ne' consigli publici animosamente parlavano.
E prese
tanto ardire alcuno, che, voltosi a Lorenzo de' Medici, gli disse: -
Questa città è stracca, e non vuole più guerra;
- e per ciò era necessario che pensasse alla pace.
Onde che
Lorenzo, cognosciuta questa necessità, si ristrinse con quegli
amici che pensava più fedeli e più savi, e prima
conclusono, veggendo i Viniziani freddi e poco fedeli, il Duca
pupillo e nelle civili discordie implicato, che fusse da cercare con
nuovi amici nuova fortuna; ma stavano dubi nelle cui braccia fusse da
rimettersi, o del Papa o del Re.
Ed esaminato tutto, approvorono
l'amicizia del Re, come più stabile e più secura:
perché la brevità della vita de' papi, la variazione
della successione, il poco timore che la Chiesa ha de' principi, i
pochi rispetti che la ha nel prendere i partiti, fa che uno principe
seculare non può in uno pontefice interamente confidare, né
può securamente accomunare la fortuna sua con quello; perché
chi è, nelle guerre e pericoli, del papa amico, sarà
nelle vittorie accompagnato e nelle rovine solo, sendo il pontefice
dalla spirituale potenza e reputazione sostenuto e difeso.
Deliberato
adunque che fusse a maggiore profitto guadagnarsi il Re, giudicorono
non si potere fare meglio né con più certezza che con
la presenza di Lorenzo; perché, quanto più con quello
re si usasse liberalità, tanto più credevano potere
trovare remedi alle nimicizie passate.
Avendo per tanto Lorenzo fermo
lo animo a questa andata, raccomandò la città e lo
stato a messer Tommaso Soderini, che era in quel tempo gonfaloniere
di giustizia, e al principio di decembre partì di Firenze, e
arrivato a Pisa, scrisse alla Signoria la cagione della sua partita.
E quelli signori, per onorarlo, e perché e' potesse trattare
con più reputazione la pace con il Re, lo feciono oratore per
il popolo fiorentino, e gli dettono autorità di collegarsi con
quello, come a lui paresse meglio per la sua republica.
18
In
questi medesimi tempi il signore Ruberto da San Severino, insieme con
Lodovico e Ascanio, perché Sforza loro fratello era morto,
riassalirono di nuovo lo stato di Milano per tornare nel governo di
quello; e avendo occupata Tortona, ed essendo Milano e tutto quello
stato in arme, la duchessa Bona fu consigliata ripatriasse gli
Sforzeschi, e per levare via queste civili contese, gli ricevesse in
stato.
Il principe di questo consiglio fu Antonio Tassino ferrarese,
il quale, nato di vile condizione, venuto a Milano, pervenne alle
mani del duca Galeazzo, e alla duchessa sua donna per cameriere lo
concesse.
Questi, o per essere bello di corpo, o per altra sua
segreta virtù, dopo la morte del Duca salì in tanta
reputazione apresso alla Duchessa, che quasi lo stato governava; il
che dispiaceva assai a messer Cecco, uomo per prudenza e per lunga
pratica eccellentissimo; tanto che, in quelle cose poteva, e con la
Duchessa e con gli altri del governo, di diminuire l'autorità
del Tassino s'ingegnava.
Di che accorgendosi quello, per vendicarsi
delle ingiurie, e per avere apresso chi da messer Cecco lo
defendesse, confortò la Duchessa a ripatriare gli Sforzeschi;
la quale, seguitando i suoi consigli, sanza conferirne cosa alcuna
con messer Cecco, gli ripatriò: donde che quello le disse: -
Tu hai preso uno partito il quale torrà a me la vita e a te lo
stato.
- Le quali cose poco di poi intervennono, perché messer
Cecco fu da il signore Lodovico fatto morire, ed essendo, dopo alcun
tempo, stato cacciato del ducato il Tassino, la Duchessa ne prese
tanto sdegno, che la si partì di Milano e renunziò
nelle mani di Lodovico il governo del figliuolo.
Restato adunque
Lodovico solo governatore del ducato di Milano, fu, come si
dimosterrà, cagione della rovina di Italia.
Era partito
Lorenzo de' Medici per a Napoli, e la tregua intra le parti
vegghiava, quando, fuora di ogni espettazione, Lodovico Fregoso,
avuta certa intelligenza con alcuno Serezanese, di furto entrò
con armati in Serezana, e quella terra occupò, e quello che vi
era per il popolo fiorentino prese prigione.
Questo accidente dette
grande dispiacere a' principi dello stato di Firenze, perché
si persuadevano che tutto fusse seguito con ordine del re Ferrando.
E
si dolfono con il duca di Calavria, che era con lo esercito a Siena,
di essere, durante la tregua, con nuova guerra assaliti; il quale
fece ogni demostrazione, e con lettere e con ambasciate, che tale
cosa fusse nata sanza consentimento del padre o suo.
Pareva non di
meno a' Fiorentini essere in pessime condizioni, vedendosi voti di
danari, il capo della republica nelle mani del Re, e avere una guerra
antica con il Re e con il Papa e una nuova con i Genovesi, ed essere
sanza amici; perché ne' Viniziani non speravano, e del governo
di Milano più tosto temevano, per essere vario e instabile.
Solo restava a' Fiorentini una speranza, di quello che avesse Lorenzo
de' Medici a trattare con il Re.
19
Era
Lorenzo, per mare, arrivato a Napoli; dove, non solamente da il Re,
ma da tutta quella città fu ricevuto onoratamente e con grande
espettazione, perché essendo nata tanta guerra solo per
opprimerlo, la grandezza degli inimici che gli aveva avuti lo aveva
fatto grandissimo.
Ma arrivato alla presenza del Re, e' disputò
in modo delle condizioni di Italia, degli umori de' principi e popoli
di quella, e quello che si poteva sperare nella pace e temere nella
guerra, che quel re si maravigliò più, poi che l'ebbe
udito, della grandezza dello animo suo e della destrezza dello
ingegno e gravità del iudizio, che non si era prima dello
avere egli solo potuto sostenere tanta guerra maravigliato; tanto che
gli raddoppiò gli onori, e cominciò a pensare come più
tosto e' lo avesse a lasciare amico che a tenerlo nimico.
Non di
meno, con varie cagioni, dal dicembre al marzo lo intrattenne, per
fare non solamente di lui duplicata sperienza, ma della città:
perché non mancavano a Lorenzo, in Firenze, nimici che
arebbono avuto desiderio che il Re lo avesse ritenuto e come Iacopo
Piccinino trattato; e sotto ombra di dolersene, per tutta la città
ne parlavano, e nelle deliberazioni publiche a quello che fusse in
favore di Lorenzo si opponevano.
E avevano con questi loro modi
sparta fama che, se il Re lo avesse molto tempo tenuto a Napoli, che
in Firenze si muterebbe governo.
Il che fece che il Re soprasedé
lo espedirlo quel tempo, per vedere se in Firenze nasceva tumulto
alcuno.
Ma veduto come le cose passavano quiete, a dì 6 di
marzo, nel 1479, lo licenziò; e prima con ogni generazione di
beneficio e dimostrazione di amore se lo guadagnò; e infra
loro nacque accordi perpetui a conservazione de' comuni stati.
Tornò
per tanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s'egli se n'era partito
grande; e fu con quella allegrezza da la città ricevuto, che
le sue grandi qualità e i freschi meriti meritavano, avendo
esposto la propria vita per rendere alla patria sua la pace.
Perché,
duoi giorni dopo l'arrivata sua, si publicò lo accordo fatto
infra la republica di Firenze e il Re: per il quale si obligavano
ciascuno alla conservazione de' comuni stati; e delle terre tolte
nella guerra a' Fiorentini fusse in arbitrio del Re il restituirle; e
che i Pazzi posti nella torre di Volterra si liberassero; e al Duca
di Calavria, per certo tempo, certe quantità di danari si
pagassero.
Questa pace, subito che fu publicata, riempié di
sdegno il Papa e i Viniziani: perché al Papa pareva essere
stato poco stimato da il Re, e i Viniziani da' Fiorentini; ché,
sendo stati l'uno e l'altro compagni nella guerra, si dolevano non
avere parte nella pace.
Questa indegnazione, intesa e creduta a
Firenze, subito dette a ciascheduno sospetto che da questa pace fatta
non nascesse maggiore guerra: in modo che i principi dello stato
deliberorono di ristrignere il governo, e che le deliberazioni
importanti si riducessero in minore numero; e feciono un consiglio di
settanta cittadini, con quella autorità gli poterono dare
maggiore nelle azioni principali.
Questo nuovo ordine fece fermare
l'animo a quelli che volessero cercare nuove cose.
E per darsi
reputazione, prima che ogni cosa, accettorono la pace fatta da
Lorenzo con il Re, destinorono oratori al Papa e a quello messer
Antonio Ridolfi e Piero Nasi.
Non di meno non ostante questa pace,
Alfonso duca di Calavria non si partiva con lo esercito da Siena,
mostrando essere ritenuto dalle discordie di quegli cittadini; le
quali furono tante che, dove gli era alloggiato fuora della città,
lo ridussero in quella e lo ferono arbitro delle differenze loro.
Il
Duca, presa questa occasione molti di quegli cittadini punì in
danari, molti ne giudicò alle carcere, molti allo esilio, e
alcuni alla morte: tanto che, con questi modi, egli diventò
sospetto, non solamente a' Sanesi, ma a' Fiorentini, che non si
volesse di quella città fare principe.
Né vi si
cognosceva alcuno rimedio, trovandosi la città in nuova
amicizia con il Re, e al Papa e a' Viniziani nimica.
La qual
suspizione, non solamente nel popolo universale di Firenze, sottile
interpetre di tutte le cose, ma in ne' principi dello stato appariva;
e afferma ciascuno la città nostra non essere mai stata in
tanto pericolo di perdere la libertà.
Ma Iddio, che sempre in
simili estremità ha di quella avuta particulare cura, fece
nascere uno accidente insperato, il quale dette al Re, al Papa e a'
Viniziani maggiori pensieri che quelli di Toscana.
20
Era
Maumetto gran Turco andato con un grandissimo esercito a campo a
Rodi, e quello aveva per molti mesi combattuto; non di meno, ancora
che le forze sue fussero grandi, e la ostinazione nella espugnazione
di quella terra grandissima, la trovò maggiore nelli
assediati; i quali con tanta virtù da tanto impeto si
defesono, che Maumetto fu forzato da quello assedio partirsi con
vergogna.
Partito per tanto da Rodi, parte della sua armata, sotto
Iacometto bascià, se ne venne verso la Velona; e o che quello
vedesse la facilità della impresa, o che pure il signore
gliele comandasse, nel costeggiare la Italia pose, in un tratto,
quattro mila soldati in terra; e assaltata la città di
Otranto, subito la prese e saccheggiò; e tutti gli abitatori
di quella ammazzò.
Di poi, con quelli modi gli occorsono
migliori, e dentro in quella e nel porto si affortificò; e
riduttovi buona cavalleria, il paese circunstante correva e predava.
Veduto il Re questo assalto, e conosciuto di quanto principe ella
fusse impresa, mandò per tutto nunzi a significarlo, e a
domandare contro al comune nimico aiuti e con grande instanzia revocò
il duca di Calavria e le sue genti che erano a Siena.
21
Questo
assalto, quanto egli perturbò il Duca e il resto di Italia,
tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di avere
riavuta la sua libertà, e a quella di essere uscita di quelli
pericoli che gli facieno temere di perderla.
La quale opinione
accrebbono le doglienze che il Duca fece nel partire da Siena,
accusando la fortuna, che, con uno insperato e non ragionevole
accidente, gli aveva tolto lo imperio di Toscana.
Questo medesimo
caso fece al Papa mutare consiglio; e dove prima non aveva mai voluto
ascoltare alcuno oratore fiorentino, diventò in tanto più
mite che gli udiva qualunque della universale pace gli ragionava:
tanto che i Fiorentini furono certificati che, quando s'inclinassero
a domandare perdono al Papa, che lo troverebbono.
Non parve adunque
di lasciare passare questa occasione; e mandorono al Pontefice dodici
ambasciadori; i quali, poi che furono arrivati a Roma, il Papa, con
diverse pratiche, prima che desse loro audienza gli intrattenne.
Pure, alla fine, si fermò intra le parti come per lo avvenire
si avesse a vivere, e quanto nella pace e quanto nella guerra per
ciascuna di esse a contribuire.
Vennono di poi gli ambasciadori a'
piedi del Pontefice, il quale, in mezzo dei suoi cardinali, con
eccessiva pompa gli aspettava.
Escusorono costoro le cose seguite,
ora accusandone la necessità, ora la malignità d'altri,
ora il furore popolare e la giusta ira sua; e come quelli sono
infelici, che sono forzati o combattere o morire.
E perché
ogni cosa si doveva sopportare per fuggire la morte, avevono
sopportato la guerra, gli interdetti, e le altre incommodità
che si erano tirate dietro le passate cose, perché la loro
republica fuggisse la servitù, la quale, suole essere la morte
delle città libere.
Non di meno, se, ancora che forzati,
avessero commesso alcuno fallo, erano per tornare a menda; e
confidavano nella clemenza sua, la quale, ad esemplo del Sommo
Redentore, sarà per riceverli nelle sue pietosissime braccia.
Alle quali scuse il Papa rispose con parole piene di superbia e di
ira, rimproverando loro tutto quello che ne' passati tempi avevono
contro alla Chiesa commesso: non di meno, per conservare i precetti
di Dio, era contento concedere loro quel perdono che domandavano; ma
che faceva loro intendere come eglino avieno ad ubbidire; e quando
eglino rompessero l'ubbidienza, quella libertà che sono stati
per perdere ora, e' perderebbono poi, e giustamente; perché
coloro sono meritamente liberi, che nelle buone, non nelle cattive
opere si esercitano; perché la libertà male usata
offende se stessa e altri; e potere stimare poco Iddio e meno la
Chiesa non è oficio di uomo libero, ma di sciolto e più
al male che al bene inclinato; la cui correzione non solo a'
principi, ma a qualunque cristiano appartiene.
Tale che delle cose
passate si avevono a dolere di loro, che avevono con le cattive opere
dato cagione alla guerra, e con le pessime nutritola, la quale si era
spenta più per la benignità d'altri che per i meriti
loro.
Lessesi poi la formula dello accordo e della benedizione; alla
quale il Papa aggiunse, fuori delle cose praticate e ferme che, se i
Fiorentini volevono godere il frutto della benedizione, tenessero
armate, di loro danari, quindici galee tutto quel tempo che il Turco
combattesse il Regno.
Dolfonsi assai gli oratori di questo peso,
posto sopra allo accordo fatto; né poterono in alcuna parte,
per alcuno mezzo o favore, e per alcuna doglienza, alleggerirlo.
Ma
tornati a Firenze, la Signoria, per fermare questa pace, mandò
oratore al Papa messer Guidantonio Vespucci, che di poco tempo
innanzi era tornato di Francia.
Questi, per la sua prudenza, ridusse
ogni cosa a termini sopportabili, e dal Pontefice molte grazie
ottenne; il che fu segno di maggiore riconciliazione.
22
Avendo
per tanto i Fiorentini ferme le loro cose con il Papa, ed essendo
libera Siena e loro dalla paura del Re per la partita di Toscana del
duca di Calavria, e seguendo la guerra de' Turchi, strinsono il Re,
per ogni verso, alla restituzione delle loro castella le quali il
duca di Calavria, partendosi, aveva lasciate nelle mani de' Sanesi.
Donde che quel re dubitava che i Fiorentini, in tanta sua necessità,
non si spiccassero da lui, e con il muovere guerra a' Sanesi gli
impedissero gli aiuti che dal Papa e dagli altri Italiani sperava.
E
per ciò fu contento che le si restituissero, e con nuovi
oblighi di nuovo i Fiorentini si obligò: e così la
forza e la necessità, non le scritture e gli oblighi, fa
osservare a' principi la fede.
Ricevute adunque le castella, e ferma
questa nuova confederazione, Lorenzo de' Medici riacquistò
quella riputazione che prima la guerra e di poi la pace, quando del
Re si dubitava, gli aveva tolta: e non mancava, in quelli tempi, chi
lo calunniasse apertamente, dicendo che per salvare sé, egli
aveva venduta la sua patria; e come nella guerra si erano perdute le
terre, e nella pace si perderebbe la libertà.
Ma riavute le
terre, e fermo con il Re onorevole accordo, e ritornata la città
nella antica riputazione sua, in Firenze, città di parlare
avida e che le cose dai successi e non dai consigli giudica, si mutò
ragionamento: e celebravasi Lorenzo infino al cielo; dicendo che la
sua prudenza aveva saputo guadagnarsi nella pace quello che la
cattiva fortuna gli aveva tolto nella guerra; e come gli aveva potuto
più il consiglio e iudizio suo che l'armi e le forze del
nimico.
Avevono gli assalti del Turco differita quella guerra la
quale, per lo sdegno che il Papa e i Viniziani avevono preso per la
pace fatta, era per nascere; ma come il principio di quello assalto
fu insperato e cagione di molto bene, così il fine fu
inaspettato e cagione di assai male: perché Maumetto, gran
Turco, morì, fuori di ogni opinione, e venuta intra i
figliuoli discordia, quegli che si trovavano in Puglia, dal loro
signore abbandonati, concessono, d'accordo, Otranto al Re.
Tolta via
adunque questa paura, che teneva gli animi del Papa e de' Viniziani
fermi, ciascuno temeva di nuovi tumulti.
Dall'una parte erano in lega
Papa e Viniziani; con questi erano Genovesi, Sanesi e altri minori
potenti dall'altra erano Fiorentini, Re e Duca a' quali si
accostavano Bolognesi e molti altri signori.
Desideravano i Viniziani
di insignorirsi di Ferrara; e pareva loro avere cagione ragionevole
alla impresa e speranza certa di conseguirla.
La cagione era perché
il Marchese affermava non essere più tenuto a ricevere il
Visdomine e il sale da loro, sendo, per convenzione fatta, che, dopo
settanta anni dell'uno e dell'altro carico quella città fusse
libera.
Rispondevano dall'altro canto i Viniziani che quanto tempo
riteneva il Pulesine, tanto doveva ricevere il Visdomine e il sale.
E
non ci volendo il Marchese acconsentire, parve a' Viniziani di avere
giusta presa di prendere l'armi, e commodo tempo a farlo, veggendo il
Papa contro a' Fiorentini e il Re pieno di sdegno.
E per
guadagnarselo più, sendo ito il conte Girolamo a Vinegia, fu
da loro onoratissimamente ricevuto, e donatogli la città e la
gentiligia loro, segno sempre di onore grandissimo a qualunque la
donano.
Avevano, per essere presti a quella guerra, posti nuovi dazi,
e fatto capitano de' loro eserciti il signor Ruberto da San Severino,
il quale, sdegnato con il signore Lodovico, governatore di Milano,
s'era fuggito a Tortona, e, quivi fatti alcuni tumulti, andatone a
Genova; dove sendo, fu chiamato da' Viniziani e fatto delle loro armi
principe.
23
Queste
preparazioni a nuovi moti, cognosciute dalla lega avversa, feciono
che quella ancora si preparasse alla guerra: e il duca di Milano per
suo capitano elesse Federigo signore di Urbino, i Fiorentini il
signore Gostanzo di Pesero.
E per tentare l'animo del Papa, e
chiarirsi se i Viniziani con suo consentimento movieno guerra a
Ferrara, il re Ferrando mandò Alfonso duca di Calavria con il
suo esercito sopra il Tronto, e domandò passo al Papa, per
andare in Lombardia al soccorso del Marchese; il che gli fu dal Papa
al tutto negato.
Tanto che, parendo al Re e a' Fiorentini essere
certificati dello animo suo, deliberorono strignerlo con le forze,
acciò che per necessità egli diventasse loro amico, o
almeno darli tanti impedimenti, che non potesse a' Viniziani porgere
aiuti.
Perché già quegli erano in campagna, e avevano
mosso guerra al Marchese, e scorso prima il paese suo, e poi posto lo
assedio a Ficheruolo, castello assai importante allo stato di quel
signore.
Avendo per tanto il Re e i Fiorentini deliberato di assalire
il Pontefice Alfonso duca di Calavria scorse verso Roma, e con lo
aiuto de' Colonnesi, che si erano congiunti seco perché gli
Orsini si erano accostati al Papa, faceva assai danni nel paese; e
dall'altra parte le genti fiorentine assalirono, con messer Niccolò
Vitelli, Città di Castello, e quella città occuporono,
e ne cacciorono messer Lorenzo, che per il Papa la teneva, e di
quella feciono come principe messer Niccolò.
Trovavasi per
tanto il Papa in massime angustie, perché Roma drento dalla
parte era perturbata, e fuora il paese da' nimici corso.
Non di meno,
come uomo animoso, e che voleva vincere e non cedere al nimico,
condusse per capitano il magnifico Ruberto da Rimine; e fattolo
venire in Roma, dove tutte le sue genti d'arme aveva ragunate, gli
mostrò quanto onore gli sarebbe se, contro alle forze d'uno
Re, egli liberasse la Chiesa da quelli affanni in ne' quali si
trovava, e quanto obligo, non solo egli, ma tutti i suoi successori
arebbono seco; e come, non solo gli uomini, ma Iddio sarebbe per
ricognoscerlo.
Il magnifico Ruberto, considerate prima le genti
d'arme del Papa e tutti gli apparati suoi, lo confortò a fare
quanta più fanteria e' poteva; il che con ogni studio e
celerità si misse ad effetto.
Era il duca di Calavria
propinquo a Roma, in modo che ogni giorno correva e predava infino
alle porte della città; la qual cosa fece in modo indegnare il
popolo romano, che molti voluntariamente s'offersono ad essere con il
magnifico Ruberto alla liberazione di Roma; i quali furono tutti da
quello signore ringraziati e ricevuti.
Il Duca, sentendo questi
apparati, si discostò alquanto dalla città, pensando
che, trovandosi discosto, il magnifico Ruberto non avesse animo ad
andarlo a trovare; e parte aspettava Federigo suo fratello, il quale
con nuova gente gli era mandato dal padre.
Il magnifico Ruberto,
vedendosi quasi al Duca di gente d'arme uguale, e di fanterie
superiore, uscì instierato di Roma, e pose uno alloggiamento
propinquo a due miglia al nimico.
Il Duca, veggendosi gli avversarii
addosso fuori d'ogni sua opinione, giudicò convenirgli o
combattere, o come rotto fuggirsi; onde che, quasi constretto, per
non fare cosa indegna d'un figliuolo d'un re, deliberò
combattere; e volto il viso al nimico, ciascuno ordinò le sue
genti in quel modo che allora ordinavono, e si condussono alla zuffa,
la quale durò infino a mezzogiorno.
E fu questa giornata
combattuta con più virtù che alcuna altra che fusse
stata fatta in cinquanta anni in Italia, perché vi morì,
tra l'una parte e l'altra, più che mille uomini, e il fine di
essa fu per la Chiesa glorioso, perché la moltitudine delle
sue fanterie offesono in modo le cavallerie ducali, che quello fu
constretto a dare la volta, e sarebbe il Duca rimaso prigione, se da
molti Turchi, di quelli che erano stati ad Otranto e allora
militavano seco, non fusse stato salvato.
Avuta il magnifico Ruberto
questa vittoria, tornò come trionfante in Roma.
La quale egli
potette godere poco, perché, avendo, per lo affanno del
giorno, bevuta assai acqua, se gli mosse un flusso che in pochi
giorni lo ammazzò.
Il corpo del quale fu da il Papa con ogni
qualità di onore onorato.
Avuta il Pontefice questa vittoria,
mandò subito il Conte verso Città di Castello, per
vedere di restituire a messer Lorenzo quella terra, e parte tentare
la città di Rimine; perché, sendo, dopo la morte del
magnifico Ruberto, rimaso di lui, in guardia della donna, un suo
piccolo figliuolo, pensava che gli fusse facile occupare quella
città.
Il che gli sarebbe felicemente succeduto, se quella
donna da' Fiorentini non fusse stata difesa; i quali se gli opposono
in modo con le forze, che non potette né contro a Castello, né
contro a Rimine fare alcuno effetto.
24
Mentre
che queste cose in Romagna e a Roma si travagliavano, i Viniziani
avevano occupato Ficheruolo, e con le genti loro passato il Po, e il
campo del duca di Milano e del Marchese era in disordine, perché
Federigo conte di Urbino si era ammalato, e fattosi portare per
curarsi a Bologna si morì, tale che le cose del Marchese
andavano declinando, e a' Viniziani cresceva ciascun dì la
speranza di occupare Ferrara.
Dall'altra parte, il Re e i Fiorentini
facevano ogni opera per ridurre il Papa alla voglia loro, e non
essendo succeduto di farlo cedere alle armi, lo minacciavano del
concilio, il quale già dallo Imperadore era stato pronunziato
per a Basilea; onde che, per mezzo degli oratori di quello, che si
trovavano a Roma, e de' primi cardinali, i quali la pace
desideravano, fu persuaso e stretto il Papa a pensare alla pace e
alla unione di Italia.
Onde che il Pontefice, per timore, e anche per
vedere come la grandezza de' Viniziani era la rovina della Chiesa e
di Italia, si volse allo accordarsi con la lega; e mandò suoi
nunzi a Napoli, dove per cinque anni feciono lega Papa, Re duca di
Milano e Fiorentini, riserbando il luogo a' Viniziani ad accettarla.
Il che seguito fece il Papa intendere a' Viniziani che si astenessero
dalla guerra di Ferrara.
A che i Viniziani non vollono acconsentire;
anzi con maggiori forze si prepararono alla guerra, e avendo rotte le
genti del Duca e del Marchese ad Argenta, si erano in modo appressati
a Ferrara, ch'eglino avieno posti nel parco del Marchese gli
alloggiamenti loro.
25
Onde
che alla lega non parve da differire più di porgere gagliardi
aiuti a quel signore, e feciono passare a Ferrara il duca di Calavria
con le genti sue e con quelle del Papa; e similmente i Fiorentini
tutte le loro genti vi mandorono.
E per meglio dispensare l'ordine
della guerra, fece la lega una dieta a Cremona, dove convenne il
legato del Papa con il conte Girolamo, il duca di Calavria, il
signore Lodovico e Lorenzo de' Medici con molti altri principi
italiani; nella quale intra questi principi si divisorono tutti i
modi della futura guerra.
E perché eglino giudicavano che
Ferrara non si potesse meglio soccorrere che con il fare una
diversione gagliarda, volevano che il signore Lodovico acconsentisse
a rompere guerra a' Viniziani per lo stato del duca di Milano; a che
quel signore non voleva acconsentire, dubitando di non si tirare una
guerra addosso da non la potere spegnere a sua posta.
E per ciò
si deliberò di fare alto con tutte le genti a Ferrara; e messo
insieme quattro mila uomini d'arme e otto mila fanti, andorono a
trovare i Viniziani, i quali avieno dumiladugento uomini d'arme e sei
mila fanti.
Alla lega parve, la prima cosa, di assalire l'armata che
i Viniziani avieno nel Po; e quella assalita, appresso al Bondeno,
ruppono con perdita di più che dugento legni; dove rimase
prigioniero messer Antonio Iustiniano, provveditore dell'armata.
I
Viniziani poi che viddono Italia tutta unita loro contro, per darsi
più reputazione, avieno condotto il duca dello Reno con
dugento uomini d'arme, onde che, avendo ricevuto questo danno della
armata, mandorono quello, con parte del loro esercito, a tenere a
bada il nimico, e il signore Ruberto da San Severino feciono passare
l'Adda con il restante dello esercito loro e accostarsi a Milano,
gridando il nome del Duca e di madonna Bona sua madre; perché
credettono, per questa via, fare novità in Milano, stimando il
signore Lodovico e il governo suo fusse in quella città
odiato.
Questo assalto portò seco, nel principio, assai
terrore, e messe in arme quella città; non di meno partorì
fine contrario al disegno de' Viniziani, perché quello che il
signore Lodovico non aveva voluto acconsentire, questa ingiuria fu
cagione che gli acconsentisse.
E per ciò, lasciato il marchese
di Ferrara alla difesa delle cose sue con quattro mila cavagli e due
mila fanti, il duca di Calavria con dodici mila cavagli e cinque mila
fanti entrò nel Bergamasco, e di quivi nel Bresciano, e di poi
nel Veronese; e quelle tre città, sanza che i Viniziani vi
potessero fare alcuno rimedio, quasi che di tutti i loro contadi
spogliò; perché il signore Ruberto con le sue genti con
fatica poteva salvare quelle città.
Dall'altra banda ancora il
marchese di Ferrara aveva ricuperate gran parte delle cose sue, però
che il duca dello Reno, che gli era allo incontro, non poteva
opposergli, non avendo più che due mila cavagli e mille fanti.
E così tutta quella state dell'anno 1483 si combatté
felicemente per la lega.
26
Venuta
poi la primavera del seguente anno, perché la vernata era
quietamente trapassata, si ridussono gli eserciti in campagna; e la
lega, per potere con più prestezza opprimere i Viniziani,
aveva messo tutto lo esercito suo insieme.
E facilmente, se la guerra
si fusse come l'anno passato mantenuta, si toglieva a' Viniziani
tutto lo stato tenevano in Lombardia; perché si erano ridutti
con sei mila cavagli e cinque mila fanti e aveno allo incontro
tredici mila cavagli e sei mila fanti; perché il duca dello
Reno, fornito l'anno della sua condotta, se ne era ito a casa.
Ma
come avviene spesso dove molti di uguale autorità concorrono,
il più delle volte la disunione loro dà la vittoria al
nimico.
Sendo morto Federigo Gonzaga, marchese di Mantova, il quale
con la sua autorità teneva in fede il duca di Calavria e il
signore Lodovico, cominciò fra quegli a nascere dispareri, e
da' dispareri gelosia: perché Giangaleazzo duca di Milano era
già in età da potere prendere il governo del suo stato,
e avendo per moglie la figliuola del duca di Calavria, desiderava
quello, che non Lodovico, ma il genero lo stato governasse.
Conoscendo per tanto Lodovico questo desiderio del Duca, deliberò
di torgli la commodità di esequirlo.
Questo sospetto di
Lodovico, cognosciuto dai Viniziani, fu preso da loro per occasione;
e giudicorono potere, come sempre avevono fatto, vincere con la pace,
poi che con la guerra avevono perduto; e praticato segretamente infra
loro e il signore Lodovico lo accordo, lo agosto del 1484 lo
conclusono.
Il quale, come venne a notizia degli altri confederati,
dispiacque assai, massimamente poi che e' viddono come a' Viniziani
si avevono a restituire le terre tolte, e lasciare loro Rovigo e il
Pulesine, ch'eglino avevono al marchese di Ferrara occupato, e
appresso riavere tutte quelle preminenze che sopra quella città
per antico avevono avute.
E pareva a ciascuno di avere fatto una
guerra dove si era speso assai e acquistato nel trattarla onore e nel
finirla vergogna, poi che le terre prese si erano rendute, e non
ricuperate le perdute.
Ma furono constretti i collegati ad
accettarla, per essere per le spese stracchi, e per non volere fare
pruova più, per i difetti e ambizione d'altri, della fortuna
loro.
27
Mentre
che in Lombardia le cose in tal forma si governavano, il Papa,
mediante messer Lorenzo, strigneva Città di Castello per
cacciarne Niccolò Vitelli, il quale dalla lega, per tirare il
Papa alla voglia sua, era stato abbandonato; e nello strignere la
terra, quelli che di dentro erano partigiani di Niccolò
uscirono fuora, e venuti alle mani con li inimici li ruppono.
Onde
che il Papa rivocò il conte Girolamo di Lombardia, e fecelo
venire a Roma, per instaurare le forze sue e ritornare a quella
impresa; ma giudicando di poi che fusse meglio guadagnarsi messer
Niccolò con la pace, che di nuovo assalirlo con la guerra, si
accordò seco; e con messer Lorenzo suo avversario, in quel
modo potette migliore, lo riconciliò.
A che lo constrinse più
un sospetto di nuovi tumulti che lo amore della pace, perché
vedeva intra Colonnesi e Orsini destarsi maligni umori.
Fu tolto dal
re di Napoli agli Orsini, nella guerra fra lui e il Papa, il contado
di Tagliacozzo, e dato a' Colonnesi, che seguitavano le parti sue:
fatta di poi la pace tra il Re e il Papa, gli Orsini, per virtù
delle convenzioni, lo domandavano.
Fu molte volte dal Papa a'
Colonnesi significato che lo restituissero; ma quelli, né per
preghi delli Orsini, né per minacci del Papa, alla
restituzione non condescesono anzi di nuovo gli Orsini con prede e
altre simili ingiurie offesono.
Donde, non potendo il Pontefice
comportarle, mosse tutte le sue forze insieme, e quelle degli Orsini,
contro a di loro, e a quelli le case avieno in Roma saccheggiò,
e chi quelle volle difendere ammazzò e prese e della maggiore
parte de' loro castelli li spogliò: tanto che quelli tumulti,
non per pace ma per afflizione d'una parte, posorono.
28
Non
furono ancora a Genova e in Toscana le cose quiete: perché i
Fiorentini tenevano il conte Antonio da Marciano con gente alle
frontiere di Serezana, e mentre che la guerra durò in
Lombardia, con scorrerie e simili leggieri zuffe i Serezanesi
molestavano, e in Genova Batistino Fregoso, doge di quella città,
fidandosi di Pagolo Fregoso arcivescovo, fu preso con la moglie e con
i figliuoli da lui; e ne fece sé principe.
L'armata ancora
viniziana aveva assalito il Regno, e occupato Galipoli, e gli altri
luoghi allo intorno infestava.
Ma seguita la pace in Lombardia, tutti
i tumulti posorono, eccetto che in Toscana e a Roma; perché il
Papa, pronunziata la pace, dopo cinque giorni morì, o perché
fusse il termine di sua vita venuto, o perché il dolore della
pace fatta, come nimico a quella, lo ammazzasse.
Lasciò per
tanto questo pontefice quella Italia in pace la quale, vivendo, aveva
sempre tenuta in guerra.
Per la costui morte fu subito Roma in arme:
il conte Girolamo si ritirò con le sue genti a canto al
Castello; gli Orsini temevano che i Colonnesi non volessero vendicare
le fresche ingiurie, i Colonnesi ridomandavano le case e castelli
loro: onde seguirono, in pochi giorni, uccisioni, ruberie e incendii
in molti luoghi di quella città.
Ma avendo i cardinali
persuaso al Conte che facesse restituire il Castello nelle mani del
Collegio, e che se ne andasse ne' suoi stati e liberasse Roma dalle
sue armi, quello, desiderando di farsi benivolo il futuro pontefice,
ubbidì, e restituito il Castello al Collegio, se ne andò
ad Imola.
Donde che, liberati i cardinali da questa paura, e i baroni
da quello sussidio che nelle loro differenze dal Conte speravano, si
venne alla creazione del nuovo pontefice; e dopo alcuno disparere, fu
eletto Giovanbatista Cibo, cardinale di Malfetta, genovese, e si
chiamò Innocenzio VIII; il quale, per la sua facile natura,
ché umano e quieto uomo era, fece posare le armi, e Roma per
allora pacificò.
29
I
Fiorentini, dopo la pace di Lombardia, non potevano quietare, parendo
loro cosa vergognosa e brutta che un privato gentile uomo gli avesse
del castello di Serezana spogliati.
E perché ne' capituli
della pace era che, non solamente si potesse ridomandare le cose
perdute, ma fare guerra a qualunque lo acquisto di quelle impedisse,
si ordinorono subito con danari e con genti a fare quella impresa.
Onde che Agostino Fregoso, il quale aveva Serezana occupata, non gli
parendo potere con le sue private forze sostenere tanta guerra, donò
quella terra a San Giorgio.
Ma poi che di San Giorgio e de' Genovesi
si ha più volte a fare menzione, non mi pare inconveniente gli
ordini e modi di quella città, sendo una delle principali di
Italia, dimostrare.
Poi che i Genovesi ebbono fatta pace con i
Viniziani, dopo quella importantissima guerra che molti anni adietro
era seguita infra loro, non potendo sodisfare quella loro repubblica
a quelli cittadini che gran somma di danari avevono prestati,
concesse loro l'entrate della dogana, e volle che, secondo i crediti,
ciascuno, per i meriti della principale somma, di quelle entrate
participasse infino a tanto che dal Comune fussero interamente
sodisfatti; e perché potessero convenire insieme, il palagio
il quale è sopra la dogana loro consegnorono.
Questi creditori
adunque ordinorono fra loro uno modo di governo, faccendo uno
consiglio di cento di loro, che le cose publiche deliberasse, e uno
magistrato di otto cittadini, il quale, come capo di tutti, le
esequisse, e i crediti loro divisono in parti, le quali chiamorono
Luoghi, e tutto il corpo loro in San Giorgio intitulorono.
Distribuito così questo loro governo, occorse al comune della
città nuovi bisogni, onde ricorse a San Giorgio per nuovi
aiuti; il quale, trovandosi ricco e bene amministrato, lo poté
servire; e il Comune allo incontro, come prima gli aveva la dogana
conceduta, gli cominciò, per pegno de' danari aveva, a
concedere delle sue terre.
E in tanto è proceduta la cosa,
nata dai bisogni del Comune e i servigi di San Giorgio, che quello si
ha posto sotto la sua amministrazione la maggiore parte delle terre e
città sottoposte allo imperio genovese; le quali e' governa e
difende, e ciascuno anno, per publici suffragi, vi manda suoi
rettori, sanza che il Comune in alcuna parte se ne travagli.
Da
questo è nato che quelli cittadini hanno levato lo amore dal
Comune, come cosa tiranneggiava, e postolo a San Giorgio, come parte
bene e ugualmente amministrata: onde ne nasce le facili e spesse
mutazioni dello stato, e che ora ad un loro cittadino, ora ad uno
forestiero ubbidiscono, perché non San Giorgio, ma il Comune
varia governo.
Tale che, quando infra i Fregosi e gli Adorni si è
combattuto del principato, perché si combatte lo stato del
Comune, la maggior parte de' cittadini si tira da parte e lascia
quello in preda al vincitore; né fa altro l'ufficio di San
Giorgio, se non, quando uno ha preso lo stato, che fare giurargli la
osservanzia delle leggi sue; le quali infino a questi tempi non sono
state alterate, perché, avendo arme, e danari, e governo, non
si può, sanza pericolo di una certa e pericolosa rebellione,
alteralle.
Esemplo veramente raro e da i filosofi in tante loro
imaginate e vedute repubbliche mai non trovato, vedere dentro ad uno
medesimo cerchio infra i medesimi cittadini, la libertà e la
tirannide, la vita civile e la corrotta la giustizia e la licenza:
perché quello ordine solo mantiene quella città piena
di costumi antichi e venerabili; e se gli avvenisse, che con il tempo
in ogni modo avverrà, che San Giorgio tutta quella città
occupasse, sarebbe quella una republica più che la viniziana
memorabile.
30
A
questo San Giorgio adunque Agostino Fregoso concesse Serezana.
Il
quale la ricevé volentieri, e prese la difesa di quella; e
subito misse un'armata in mare, e mandò gente a Pietrasanta,
perché impedissero qualunque al campo de' Fiorentini, che già
si trovava propinquo a Serezana, andasse.
I Fiorentini, dall'altra
parte, desideravano occupar Pietrasanta, come terra che, non
l'avendo, faceva lo acquisto di Serezana meno utile, sendo quella
terra posta infra quella e Pisa; ma non potevano ragionevolmente
campeggiarla, se già dai Pietrasantesi, o da chi vi fusse
dentro, non fussero nello acquisto di Serezana impediti.
E perché
questo seguisse, mandorono da Pisa al campo grande somma di munizioni
e vettovaglie, e con quelle una debile scorta, acciò che chi
era in Pietrasanta, per la poca guardia temesse meno, e per la assai
preda desiderassi più lo assalirli.
Successe per tanto secondo
il disegno la cosa: perché quelli che erano in Pietrasanta,
veggendosi innanzi agli occhi tanta preda, la tolsono; il che dette
legittima cagione a' Fiorentini di fare la impresa, e così,
lasciata da canto Serezana, si accamporono a Pietrasanta, la quale
era piena di defensori che gagliardamente la defendevano.
I
Fiorentini, poste nel piano le loro artiglierie, feciono una bastia
sopra il monte, per poterla ancora da quella parte strignere.
Era
dello esercito commissario Iacopo Guicciardini; e mentre che a
Pietrasanta si combatteva, l'armata genovese prese e arse la rocca di
Vada, e le sue genti, poste in terra, il paese allo intorno correvano
e predavano.
Allo incontro delle quali si mandò, con fanti e
cavagli messer Bongianni Gianfigliazzi; il quale in parte raffrenò
l'orgoglio loro, tale che con tanta licenza non scorrevano.
Ma
l'armata, seguitando di molestare i Fiorentini, andò a
Livorno, e con puntoni e altre sue preparazioni, si accostò
alla torre nuova e quella più giorni con l'artiglierie
combatté, ma veduto di non fare alcuno profitto, se ne tornò
indietro con vergogna.
31
In
quel mezzo a Pietrasanta si combatteva pigramente; onde che i nimici,
preso animo, assalirono la bastia e quella occuporono; il che seguì
con tanta reputazione loro e timore dello esercito fiorentino, che fu
per rompersi da se stesso; tale che si discostò quattro miglia
dalla terra; e quelli capi giudicavano che, sendo già il mese
d'ottobre, che fusse da ridursi alle stanze e riserbarsi a tempo
nuovo a quella espugnazione.
Questo disordine, come si intese a
Firenze, riempié di sdegno i principi dello stato, e subito,
per ristorare il campo di reputazione e di forze, elessono per nuovi
commissari Antonio Pucci e Bernardo del Nero.
I quali con gran somma
di danari andorono in campo, e a quelli capitani mostrorono la
indegnazione della Signoria, dello stato e di tutta la città,
quando non si ritornasse con lo esercito alle mura, e quale infamia
sarebbe la loro, che tanti capitani, con tanto esercito, sanza avere
allo incontro altri che una piccola guardia, non potessero sì
vile e sì debile terra espugnare.
Mostrorono l'utile presente
e quello che in futuro di tale acquisto potevano sperare; talmente
che gli animi di tutti si raccesono a tornare alle mura; e prima che
ogni altra cosa deliberorono di acquistare la bastia.
Nello acquisto
della quale si cognobbe quanto l'umanità, l'affabilità,
le grate accoglienze e parole negli animi de' soldati possono; perché
Antonio Pucci, quello soldato confortando, a quell'altro promettendo,
all'uno porgendo la mano, l'altro abbracciando, gli fece ire a quello
assalto con tanto impeto ch'eglino acquistorono quella bastia in uno
momento, ne fu lo acquisto sanza danno, imperciò che il conte
Antonio da Marciano da una artiglieria fu morto.
Questa vittoria
dette tanto terrore a quelli della terra, che cominciorono a
ragionare di arrendersi: onde, acciò che le cose con più
reputazione si concludessero, parve a Lorenzo de' Medici condursi in
campo; e arrivato quello, non dopo molti giorni si ottenne il
castello.
Era già venuto il verno, e per ciò non parve
a quelli capitani da procedere più avanti con la impresa, ma
di aspettare il tempo nuovo, massime perché quello autunno,
mediante la trista aria, aveva infermato quello esercito, e molti de'
capi erano gravemente malati; intra' quali Antonio Pucci e messer
Bongianni Gianfigliazzi, non solamente ammalorono, ma morirono, con
dispiacere di ciascuno, tanta fu la grazia che Antonio nelle cose
fatte da lui a Pietrasanta si aveva acquistata.
I Lucchesi, poi che i
Fiorentini ebbono acquistata Pietrasanta, mandorono oratori a Firenze
a domandare quella, come terra stata già della loro republica,
perché allegavano intra gli oblighi essere che si dovesse
restituire al primo signore tutte quelle terre che l'uno dell'altro
recuperasse.
Non negorono i Fiorentini le convenzioni; ma risposono
non sapere se, nella pace che si trattava fra loro e i Genovesi, si
avieno a restituire quella; e per ciò non potevano prima che a
quel tempo deliberarne; e quando bene non avessero a restituirla, era
necessario che i Lucchesi pensassero a sodisfarli della spesa fatta e
del danno ricevuto per la morte di tanti loro cittadini; e quando
questo facessero, potevano facilmente sperare di riaverla.
Consumossi
adunque tutto quel verno nelle pratiche della pace intra i Genovesi e
i Fiorentini, la quale a Roma, mediante il Pontefice, si praticava.
Ma non si essendo conclusa, arebbono i Fiorentini, venuta la
primavera, assalita Serezana, se non fussero stati da la malattia di
Lorenzo de' Medici e da la guerra che nacque intra il Papa e il re
Ferrando, impediti: perché Lorenzo, non solamente da le gotte,
le quali come ereditarie del padre lo affliggevano, ma da gravissimi
dolori di stomaco fu assalito, in modo che fu necessitato andare a'
bagni per curarsi.
32
Ma
più importante cagione fu la guerra; della quale fu questa la
origine.
Era la città della Aquila in modo sottoposta al regno
di Napoli, che quasi libera viveva.
Aveva in essa assai riputazione
il conte di Montorio.
Trovavasi propinquo al Tronto, con le sue genti
d'arme, il duca di Calavria, sotto colore di volere posare certi
tumulti che in quelle parti intra i paesani erano nati; e disegnando
ridurre l'Aquila interamente alla ubbidienza del Re, mandò per
il conte di Montorio, come se se ne volesse servire in quelle cose
che allora praticava.
Ubbidì il Conte, sanza alcuno sospetto;
e arrivato dal Duca, fu fatto prigione da quello e mandato a Napoli.
Questa cosa, come fu nota all'Aquila, alterò tutta quella
città; e prese popularmente l'arme, fu morto Antonio
Concinello, commissario del Re, e con quello alcuni cittadini i quali
erano cognosciuti a quella maestà partigiani.
E per avere gli
Aquilani chi nella rebellione gli difendesse, rizzorono le bandiere
della Chiesa, e mandorono oratori al Papa, a dare la città e
loro, pregando quello che, come cosa sua, contra alla regia tirannide
gli aiutasse.
Prese il Pontefice animosamente la loro difesa, come
quello che per cagioni private e publiche odiava il Re; e trovandosi
il signore Ruberto da San Severino nimico dello stato di Milano e
senza soldo, lo prese per suo capitano, e lo fece con massima
celerità venire a Roma.
Sollecitò, oltre di questo,
tutti gli amici e parenti del conte di Montorio, che contro al Re si
ribellassero: tale che il principe d'Altemura, di Salerno e di
Bisignano presono l'armi contro a quello.
Il Re, veggendosi da sì
subita guerra assalire, ricorse a' Fiorentini e al duca di Milano per
aiuti.
Stettero i Fiorentini dubi di quello dovessero fare; perché
e' pareva loro difficile il lasciare, per le altrui, le imprese loro;
e pigliare di nuovo l'arme contro alla Chiesa pareva loro pericoloso.
Non di meno, sendo in lega, preposono la fede alle commodità e
pericoli loro, e soldorono gli Orsini; e di più mandorono
tutte le loro genti, sotto il conte di Pitigliano, verso Roma, al
soccorso del Re.
Fece per tanto quel Re duoi campi: l'uno, sotto il
duca di Calavria, mandò verso Roma, il quale, insieme con le
genti fiorentine, allo esercito della Chiesa si opponesse; con
l'altro, sotto il suo governo, si oppose a' Baroni; e nell'una e
nell'altra parte fu travagliata questa guerra con varia fortuna.
Alla
fine, restando il Re in ogni luogo superiore, d'agosto, nel 1486, per
il mezzo degli oratori del re di Spagna, si concluse la pace, alla
quale il Papa, per essere battuto dalla fortuna, né volere più
tentare quella, acconsentì: dove tutti i potentati di Italia
si unirono, lasciando solo i Genovesi da parte, come dello stato di
Milano rebelli e delle terre de' Fiorentini occupatori.
Il signore
Ruberto da San Severino, fatta la pace, sendo stato, nella guerra, al
Papa poco fedele amico e agli altri poco formidabile nimico, come
cacciato dal Papa si partì di Roma; e seguitato dalle genti
del Duca e de' Fiorentini, quando egli fu passato Cesena, veggendosi
sopraggiungere, si misse in fuga, e con meno di cento cavagli si
condusse a Ravenna; e dell'altre sue genti, parte furono ricevute da
il Duca, parte da' paesani disfatte.
Il Re, fatta la pace, e
riconciliatosi con i Baroni, fece morire Iacopo Coppola e Antonello
d'Anversa con i figliuoli, come quegli che, nella guerra, avevono
rivelati i suoi segreti al Pontefice.
33
Aveva
il Papa, per lo esemplo di questa guerra, cognosciuto con quanta
prontezza e studio i Fiorentini conservono le loro amicizie; tanto
che, dove prima, e per amore de' Genovesi e per gli aiuti avieno
fatti al Re, quello gli odiava, cominciò ad amarli e a fare
maggiori favori che l'usato a' loro oratori.
La quale inclinazione,
cognosciuta da Lorenzo de' Medici, fu con ogni industria aiutata;
perché giudicava essergli di grande reputazione quando alla
amicizia teneva con il Re e' potesse aggiungnere quella del Papa.
Aveva il Pontefice uno figliuolo chiamato Francesco, e desiderando di
onorarlo di stati, e di amici perché potesse dopo la sua morte
mantenergli, non cognobbe in Italia con chi lo potesse più
securamente congiugnere che con Lorenzo; e per ciò operò
in modo che Lorenzo gli dette per donna una sua figliuola.
Fatto
questo parentado, il Papa desiderava che i Genovesi, d'accordo,
cedessero Serezana a' Fiorentini, mostrando loro come e' non potevano
tenere quello che Agostino aveva venduto, né Agostino poteva a
San Giorgio donare quello che non era suo.
Non di meno non potette
mai fare alcuno profitto; anzi i Genovesi, mentre che queste cose a
Roma si praticavano, armorono molti loro legni, e sanza che a Firenze
se ne intendesse cosa alcuna, posono tremila fanti in terra e
assalirono la rocca di Serezanello, posta sopra Serezana e posseduta
da i Fiorentini; e il borgo quale è a canto a quella predorono
e arsono; e apresso, poste l'artiglierie alla rocca, quella con ogni
sollecitudine combattevano.
Fu questo assalto nuovo e insperato a'
Fiorentini; onde che subito le loro genti, sotto Virginio Orsino, a
Pisa ragunorono; e si dolfono col Papa, che, mentre quello trattava
della pace, i Genovesi avieno mosso loro la guerra.
Mandorono di poi
Piero Corsini a Lucca, per tenere in fede quella città;
mandorono Pagolantonio Soderini a Vinegia, per tentare gli animi di
quella republica, domandorono aiuti al Re e al signore Lodovico, né
da alcuno gli ebbono, perché il Re disse dubitare della armata
del Turco, e Lodovico, sotto altre gavillazioni, differì il
mandarli.
E così i Fiorentini nelle guerre loro quasi sempre
sono soli, né truovono chi con quello animo li suvvenga, che
loro altri aiutano.
Né questa volta, per essere dai
confederati abbandonati, non sendo loro nuovo, si sbigottirono; e
fatto un grande esercito, sotto Iacopo Guicciardini e Piero Vettori
contro al nimico lo mandorono, i quali feciono uno alloggiamento
sopra il fiume della Magra.
In quel mezzo Serezanello era stretto
forte da' nimici, i quali con cave e ogni altra forza lo espugnavano:
tale che i commessari deliberorono soccorrerlo, né i nimici
recusorono la zuffa; e venuti alle mani, furono i Genovesi rotti;
dove rimase prigione messer Luigi dal Fiesco, con molti altri capi
del nimico esercito.
Questa vittoria non sbigottì in modo i
Serezanesi che e' si volessero arrendere; anzi ostinatamente si
preparorono alla difesa, e i commissari fiorentini alla offesa: tanto
che la fu gagliardamente combattuta e difesa.
E andando questa
espugnazione in lungo, parve a Lorenzo de' Medici di andare in campo.
Dove arrivato, presono i nostri soldati animo, e Serezanesi lo
perderono; perché, veduta la ostinazione de' Fiorentini ad
offenderli e la freddezza de' Genovesi a soccorrergli, liberamente, e
sanza altre condizioni, nelle braccia di Lorenzo si rimissono; e
venuti nella potestà de' Fiorentini, furono, eccetto pochi
della ribellione autori, umanamente trattati.
Il signore Lodovico,
durante quella espugnazione, aveva mandate le sue genti d'arme a
Pontremoli, per mostrare di venire a' favori nostri; ma avendo
intelligenza in Genova, si levò la parte contro a quelli che
reggevano, e con lo aiuto di quelle genti, si dierono al duca di
Milano.
34
In
questi tempi i Tedeschi avevono mosso guerra a' Viniziani; e
Boccolino da Osimo nella Marca aveva fatto ribellare Osimo al Papa, e
presone la tirannide.
Costui, dopo molti accidenti, fu contento,
persuaso da Lorenzo de' Medici, di rendere quella città al
Pontefice; e ne venne a Firenze, dove, sotto la fede di Lorenzo, più
tempo onoratissimamente visse, di poi andandone a Milano; dove, non
trovando la medesima fede, fu da il signore Lodovico fatto morire.
I
Viniziani, assaliti da' Tedeschi, furono, propinqui alla città
di Trento, rotti, e il signore Ruberto da San Severino, loro
capitano, morto.
Dopo la quale perdita, i Viniziani, secondo l'ordine
della fortuna loro, feciono uno accordo con i Tedeschi, non come
perdenti, ma come vincitori: tanto fu per la loro republica
onorevole.
Nacquono ancora, in questi tempi, tumulti in Romagna,
importantissimi.
Francesco d'Orso, furlivese, era uomo di grande
autorità in quella città: questi venne in sospetto al
conte Girolamo, tal che più volte da il Conte fu minacciato,
donde che, vivendo Francesco con timore grande, fu confortato da'
suoi amici e parenti di prevenire; e poi che temeva di essere morto
da lui, ammazzasse prima quello, e fuggisse, con la morte d'altri, i
pericoli suoi.
Fatta adunque questa deliberazione, e fermo l'animo a
questa impresa, elessono il tempo, il giorno del mercato di Furlì,
perché, venendo in quel giorno in quella città assai
del contado loro amici, pensorono sanza avergli a fare venire, potere
della opera loro valersi.
Era del mese di maggio, e la maggiore parte
delli Italiani hanno per consuetudine di cenare di giorno.
Pensorono
i congiurati che l'ora commoda fusse, ad ammazzarlo, dopo la sua
cena, nel qual tempo, cenando la sua famiglia, egli quasi restava in
camera solo.
Fatto questo pensiero, a quella ora deputata Francesco
ne andò alle case del Conte, e lasciati i compagni nelle prime
stanze, arrivato alla camera dove il Conte era, disse ad un suo
cameriere che gli facesse intendere come gli voleva parlare.
Fu
Francesco intromesso, e trovato quello solo, dopo poche parole d'uno
simulato ragionamento lo ammazzò; e chiamati i compagni,
ancora il cameriere ammazzorono.
Veniva a sorte il capitano della
terra a parlare al Conte, e arrivato in sala con pochi dei suoi, fu
ancora egli dagli ucciditori del Conte morto.
Fatti questi omicidii,
levato il romore grande, fu il capo del Conte fuori delle finestre
gittato; e gridando Chiesa e Libertà, feciono armare tutto il
popolo, il quale aveva in odio l'avarizia e crudeltà del
Conte; e saccheggiate le sue case, la contessa Caterina e tutti i
suoi figliuoli presono.
Restava solo la fortezza a pigliarsi, volendo
che questa loro impresa avesse felice fine.
A che non volendo il
castellano condescendere, pregorono la Contessa fusse contenta
disporlo a darla.
Il che ella promesse fare, quando eglino la
lasciassero entrare in quella; e per pegno della fede ritenessero i
suoi figliuoli.
Credettono i congiurati alle sue parole, e
permissonle l'entrarvi.
La quale, come fu dentro, gli minacciò
di morte e d'ogni qualità di supplizio in vendetta del marito;
e minacciando quegli di ammazzargli i figliuoli, rispose come ella
aveva seco il modo a rifarne degli altri.
Sbigottiti per tanto i
congiurati, veggendo come dal Papa non erano suvvenuti, e sentendo
come il signore Lodovico, zio alla Contessa, mandava gente in suo
aiuto, tolte delle sustanzie loro quello poterono portare, se ne
andorono a Città di Castello.
Onde che la Contessa, ripreso lo
stato, la morte del marito con ogni generazione di crudeltà
vendicò.
I Fiorentini, intesa la morte del Conte, presono
occasione di recuperare la rocca di Piancaldoli, stata loro dal Conte
per lo adietro occupata.
Dove mandate loro genti, quella con la morte
del Cecca, architettore famosissimo, recuperorono.
35
A
questo tumulto di Romagna un altro in quella provincia, non di minore
momento, se ne aggiunse.
Aveva Galeotto, signore di Faenza, per
moglie la figliuola di messer Giovanni Bentivogli, principe in
Bologna.
Costei, o per gelosia, o per essere male dal marito
trattata, o per sua cattiva natura, aveva in odio il suo marito; e in
tanto procedé con lo odiarlo, che la deliberò di torgli
lo stato e la vita.
E simulata certa sua infirmità, si pose
nel letto; dove ordinò che, venendo Galeotto a vicitarla,
fusse da certi suoi confidenti i quali a quello effetto aveva in
camera nascosti, morto.
Aveva costei di questo suo pensiero fatto
partecipe il padre, il quale sperava, dopo che fusse morto il genero,
divenire signore di Faenza.
Venuto per tanto il tempo destinato a
questo omicidio, entrò Galeotto in camera della moglie,
secondo la sua consuetudine, e stato seco alquanto a ragionare,
uscirono de' luoghi segreti della camera gli ucciditori suoi, i
quali, sanza che vi potesse fare rimedio, lo ammazzorono.
Fu, dopo la
costui morte, il romore grande: la moglie, con uno suo piccolo
figliuolo detto Astorre, si fuggì nella rocca; il popolo prese
le armi; messer Giovanni Bentivogli, insieme con uno Bergamino,
condottieri del duca di Milano, prima preparatosi con assai armati,
entrorono in Faenza, dove ancora era Antonio Boscoli, commissario
fiorentino.
E congregati in tale tumulto tutti quelli capi insieme, e
parlando del governo della terra, gli uomini di Val di Lamona, che
erano a quello romore popularmente corsi, mossono l'armi contro a
messer Giovanni e a Bergamino, e questo ammazzorono, e quello presono
prigione; e gridando il nome di Astorre e de' Fiorentini, la città
ad il loro commissario raccomandorono.
Questo caso, inteso a Firenze,
dispiacque assai a ciascuno, non di meno feciono messer Giovanni e la
figliuola liberare, e la cura della città e di Astorre con
volontà di tutto il popolo, presono.
Seguirono ancora, oltre a
questi, poi che le guerre principali intra i maggiori principi si
composono, per molti anni, assai tumulti, in Romagna, nella Marca, e
a Siena; i quali, per essere stati di poco momento, giudico essere
superfluo il raccontargli.
Vero è che quelli di Siena poi che
il duca di Calavria dopo la guerra del '78 se ne partì, furono
più spessi; e dopo molte variazioni, che ora dominava la
plebe, ora i nobili, restorono i nobili superiori: intra i quali
presono più autorità che gli altri Pandolfo e Iacobo
Petrucci; i quali, l'uno per prudenza, l'altro per animo, diventorono
come principi di quella città.
36
Ma
i Fiorentini, finita la guerra di Serezana, vissono infino al 1492
che Lorenzo de' Medici morì, in una felicità
grandissima: perché Lorenzo, posate l'armi d'Italia, le quali
per il senno e autorità sua si erano ferme, volse l'animo a
fare grande sé e la sua città, e a Piero, suo
primogenito, l'Alfonsina, figliuola del cavaliere Orsino, congiunse;
di poi Giovanni, suo secondo figliuolo, alla dignità del
cardinalato trasse.
Il che tanto fu più notabile, quanto,
fuora d'ogni passato esemplo, non avendo ancora quattordici anni, fu
a tanto grado condotto; il che fu una scala da potere fare salire la
sua casa in cielo, come poi ne' seguenti tempi, intervenne.
A
Giuliano, terzo suo figliuolo, per la poca età sua e per il
poco tempo che Lorenzo visse, non potette di estraordinaria fortuna
provedere.
Delle figliuole, l'una a Iacopo Salviati, l'altra a
Francesco Cibo, la terza a Piero Ridolfi congiunse; la quarta, la
quale egli, per tenere la sua casa unita, aveva maritata a Giovanni
de' Medici, si morì.
Nelle altre sue private cose fu, quanto
alla mercanzia, infelicissimo; perché per il disordine de'
suoi ministri, i quali, non come privati, ma come principi le sue
cose amministravano, in molte parti molto suo mobile fu spento; in
modo che convenne che la sua patria di gran somma di danari lo
suvvenisse.
Onde che quello, per non tentare più simile
fortuna, lasciate da parte le mercatantili industrie, alle
possessioni, come più stabili e più ferme ricchezze, si
volse; e nel Pratese, nel Pisano e in Val di Pesa fece possessioni, e
per utile e per qualità di edifizi e di magnificenza, non da
privato cittadino, ma regie.
Volsesi, dopo questo, a fare più
bella e maggiore la sua città; e per ciò, sendo in
quella molti spazi sanza abitazioni, in essi nuove strade, da
empiersi di nuovi edifizi, ordinò, onde che quella città
ne divenne più bella e maggiore.
E perché in nel suo
stato più quieta e secura vivesse, e potesse i suoi nimici,
discosto da sé, combattere o sostenere, verso Bologna, nel
mezzo delle alpi, il castello di Fiorenzuola affortificò;
verso Siena dette principio ad instaurare il Poggio Imperiale e farlo
fortissimo; verso Genova, con lo acquisto di Pietrasanta e di
Serezana, quella via al nimico chiuse.
Di poi, con stipendi e
provisioni, manteneva suoi amici i Baglioni in Perugia, i Vitelli in
Città di Castello; e di Faenza il governo particulare aveva:
le quali tutte cose erano come fermi propugnacoli alla sua città.
Tenne ancora, in questi tempi pacifici, sempre la patria sua in
festa; dove spesso giostre e rappresentazioni di fatti e trionfi
antichi si vedevano; e il fine suo era tenere la città
abbondante, unito il popolo, e la nobiltà onorata.
Amava
maravigliosamente qualunque era in una arte eccellente; favoriva i
litterati, di che messer Agnolo da Montepulciano, messer Cristofano
Landini e messer Demetrio greco ne possono rendere ferma
testimonianza, onde che il conte Giovanni della Mirandola, uomo quasi
che divino, lasciate tutte l'altre parti di Europa che egli aveva
peragrate, mosso dalla munificenzia di Lorenzo, pose la sua
abitazione in Firenze.
Della architettura, della musica e della
poesia maravigliosamente si dilettava; e molte composizioni poetiche,
non solo composte, ma comentate ancora da lui appariscono.
E perché
la gioventù fiorentina potesse negli studi delle lettere
esercitarsi, aperse nella città di Pisa uno studio, dove i più
eccellenti uomini che allora in Italia fussero condusse.
A fra'
Mariano da Ghinazzano, dell'ordine di Santo Agostino, perché
era predicatore eccellentissimo, uno munistero propinquo a Firenze
edificò.
Fu dalla fortuna e da Dio sommamente amato, per il
che tutte le sue imprese ebbono felice fine e tutti i suoi nimici
infelice: perché oltre ai Pazzi, fu ancora voluto, nel Carmine
da Batista Frescobaldi, e nella sua villa da Baldinotto da Pistoia,
ammazzare; e ciascuno d'essi, insieme con i consci de' loro segreti,
dei malvagi pensieri loro patirono giustissime pene.
Questo suo modo
di vivere, questa sua prudenza e fortuna, fu dai principi, non solo
di Italia, ma longinqui da quella, con ammirazione cognosciuta e
stimata: fece Mattia re d'Ungheria molti segni dell'amore gli
portava, il Soldano con i suoi oratori e suoi doni lo vicitò e
presentò; il gran Turco gli pose nelle mani Bernardo Bandini,
del suo fratello ucciditore.
Le quali cose lo facevano tenere in
Italia mirabile.
La quale reputazione ciascuno giorno, per la
prudenzia sua cresceva; perché era, nel discorrere le cose
eloquente e arguto, nel risolverle savio, nello esequirle presto e
animoso.
Né di quello si possono addurre vizi che maculassero
tante sue virtù, ancora che fusse nelle cose veneree
maravigliosamente involto, e che si dilettasse di uomini faceti e
mordaci, e di giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva
si convenisse, in modo che molte volte fu visto, intra i suoi
figliuoli e figliuole intra i loro trastulli mescolarsi.
Tanto che, a
considerare in quello e la vita leggieri, voluttuosa e la grave, si
vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile
coniunzione congiunte.
Visse, negli ultimi tempi, pieno di affanni,
causati dalla malattia che lo teneva maravigliosamente afflitto,
perché era da intollerabili doglie di stomaco oppresso; le
quali tanto lo strinsono che di aprile, nel 1492, morì, l'anno
quarantaquattro della sua età.
Né morì mai
alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia, con tanta fama di
prudenza, né che tanto alla sua patria dolesse.
E come dalla
sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine ne mostrò il
cielo molti evidentissimi segni: intra i quali, l'altissima sommità
del tempio di Santa Reparata fu da uno fulmine con tanta furia
percossa, che gran parte di quel pinnacolo rovinò, con stupore
e maraviglia di ciascuno.
Dolfonsi adunque della sua morte tutti i
suoi cittadini e tutti i principi di Italia: di che ne feciono
manifesti segni, perché non ne rimase alcuno che a Firenze,
per suoi oratori, il dolore preso di tanto caso non significasse.
Ma
se quelli avessero cagione giusta di dolersi, lo dimostrò poco
di poi lo effetto; perché, restata Italia priva del consiglio
suo, non si trovò modo, per quegli che rimasono, né di
empiere né di frenare l'ambizione di Lodovico Sforza,
governatore del duca di Milano.
Per la quale, subito morto Lorenzo
cominciorono a nascere quegli cattivi semi i quali, non dopo molto
tempo, non sendo vivo chi gli sapesse spegnere, rovinorono, e ancora
rovinano, la Italia.