Vincenzo Monti



POESIE SCELTE







SULLA MORTE DI GIUDA

I

Gittò l'infame prezzo, e disperato

L'albero ascese il venditor di Cristo;

Strinse il laccio, e col corpo abbandonato

Dall'irto ramo penzolar fu visto.

Cigolava lo spirito serrato

Dentro la strozza in suon rabbioso e tristo,

E Gesù bestemmiava e il suo peccato

che'empiea l'Averno di cotanto acquisto.

Sboccò dal varco alfin con un ruggito.

Allor Giustizia l'afferrò, e sul monte

Nel sangue di Gesù tingendo il dito,

Scrisse con quello al maladetto in fronte

Sentenza d'immortal pianto infinito,

E lo piombò sdegnosa in Acheronte.

 

II

Piombò quell'alma all'infernal riviera,

E si fe' gran tremuoto in quel momento.

Balzava il monte, ed ondeggiava al vento

La salma in alto strangolata e nera.

Gli angeli, dal Calvario in su la sera

Partendo a volo taciturno e lento,

La videro da lunge; e per pavento

Si fèr dell'ale agli occhi una visiera.

I demoni frattanto all'aer tetro

Calàr l'appeso, e l'infocate spalle

All'esecrato incarco eran ferètro

Così, ululando e schiamazzando, il calle

Preser di Stige; e al vagabondo spetro

Resero il corpo nella morta valle.

 

 III

Poichè ripresa avea l'alma digiuna

L'antica gravità di polpe ed ossa,

La gran sentenza su la fronte bruna

In riga apparve trasparente e rossa.

A quella vista di terror percossa

Va la gente perduta: altri s'aduna

Dietro le piante che Cocito ingrossa,

altri si tuffa nella rea laguna.

Vergognoso egli pur del suo delitto

Fuggìa quel crudo; e stretta la mascella

Forte graffiava con la man lo scritto.

Ma più terso il rendea l'anima fella;

Dio tra le tempie glie l'avea confitto,

Nè sillaba di Dio mai si cancella

  

IV

 Uno strepito intanto si sentia,

Che Dite introna in suon profondo e rotto;

era Gesù, che in suo poter condotto

D'Averno i regni a debellar venìa.

Il bieco peccator per quella via

Lo scontrò, lo guatò senza far motto:

Pianse alfine, e da' cavi occhi dirotto

Come lava di foco il pianto uscìa.

Folgoreggiò sul nero corpo osceno

L'eterna luce, e d'infernal rugida

Fumarono le membra a quel baleno.

Tra il fumo allor la rubiconda spada

interpose Giustizia: e il Nazareno

Volse lo sguardo, e seguitò la strada.





IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI



Come face al mancar dell'alimento

lambe gli aridi stami, e di pallore

veste il suo lume ognor più scarso e lento,

E guizza irresoluta e par che amore

di vita la richiami, infin che scioglie

l'ultimo volo e sfavillando muore...




AL PRINCIPE DON SIGISMONDO CHIGI


Giorni beati che in solingo asilo

senza nube passai, chi vi disperse?

Ratti qual lampo che la buia notte

segna talor di momentaneo solco

e su gli occhi le tenebre raddoppia

al pellegrin che si sgomenta e guata,

qual mio fallo v'estinse? e tanto amara

or mi rende di voi la rimembranza,

che pria sì dolce mi scendea sul core?


Allorché il sole (io lo rammento spesso)

d'oriente sul balzo compariva

a risvegliar dal suo silenzio il mondo

e agli oggetti rendea più vivi e freschi

i color che rapiti avea la sera;

dall'umile mio letto anch'io sorgendo,

a salutarlo m'affrettava, e fiso

tenea l'occhio a mirar come nascoso

di là dal colle ancora ei fea da lunge

degli alti gioghi biondeggiar le cime;

poi come lenta in giù scorrea la luce

il dosso imporporando e i fianchi alpestri

e dilatata a me venìa d'incontro

che ai piedi l'attendea della montagna.


Dall'umido suo sen la terra allora

su le penne dell'aure mattutine

grata innalzava di profumi un nembo;

e altero di se stesso e sorridente

su i benefizi suoi l'aureo pianeta

nel vapor che odoroso ergeasi in alto

già rinfrescando le divine chiome

e fra il concento degli augelli e il plauso

delle create cose egli sublime

per l'azzurro del ciel spingea le rote.


Allor sul fresco margine d'un rivo

m'adagiava tranquillo in sull'erbetta,

che lunga e folta mi sorgea d'intorno

e tutto quasi mi copriva, ed ora

supino mi giacea, fosche mirando

pender le selve dall'opposta balza,

e fumar le colline, e tutta in faccia

di sparsi armenti biancheggiar la rupe

or rivolto col fianco al ruscelletto

io mi fermava a riguardar le nubi

che tremolando si vedean riflesse

nel puro trapassar specchio dell'onda:

poi del gentil spettacolo già sazio,

tra i cespi, che mi fean corona e letto

si fissava il mio sguardo. e attento e cheto

il picciol mondo a contemplar ponèami

che tra gli steli brulica dell'erbe,

e il vago e vario degl'insetti ammanto

e l'indole diversa e la natura.

Altri a torma e fuggenti in lunga fila

vengono e van per via carchi di preda

altri sta solitario; altri l'amico

in suo cammino arresta, e con lui sembra

gran cose conferir: questi d'un fiore

l'ambrosia sugge e la rugiada e quello

al suo rival ne disputa l'impero;

e venir tosto a lite ed azzuffarsi,

e avviticchiati insieme ambo repente

giù dalla foglia sdrucciolar li vedi.

Né valor manca in quegli angusti petti,

previdenza, consiglio, odio ed amore.


Quindi alcuni tra lor miti e pietosi

prestansi aìta ne' bisogni; assai

migliori in ciò dell'uom che al suo fratello

fin nella stessa povertà fa guerra:

ed altri poscia, da vorace istinto

alla strage chiamati ed agl'inganni,

della morte d'altrui vivono; e sempre

del più gagliardo, come avvien tra noi,

o del più scaltro la ragion prevale.


Questi gli oggetti e questi erano un tempo

gli eloquenti maestri che di pura

filosofia m'empìan la mente e il petto;

mentre soave mi sentìa sul volto

spirar del nume onnipossente il soffio

quel soffio che le viscere serpendo

dell'ampia terra, e ventilando il chiuso

elementar foco di vita e tutta

la materia agitando e le seguaci

forme che inerti le giacevano in grembo,

l'une contro dell'altre in bel conflitto

arma le forze di natura, e tragge

da tanta guerra l'armonia del mondo.

Scorrèami quindi per le calde vene

un torrente di gioia; e discendea

questo vasto universo entro mia mente,

or come grave sasso che nel mezzo

piomha d'un lago, e l'agita e sconvolge

e lo fe tutto ribollir dal fondo;

or come immago di leggiadra amante,

che di grato tumulto i sensi ingombra

e serena sul cor brilla e riposa.

Ma più quell'io non son. Cangiaro i tempi,

cangiar le cose. Della gioia estremo

regnò sull'alma il sentimento; estremi

or vi regnano ancora i miei martìri.

E come stenderò sulle ferite

l'ardita mano e toglieronne il velo?

Una fulgida chioma al vento sparsa

un dolce sguardo e un più dolce accento,

un sorriso, un sospir dunque potero

non preveduto suscitarmi in seno

tanto incendio d'affetti e tanta guerra?

E non son questi i fior, queste le valli

che già parver sì belle agli occhi miei"

Chi di fosco le tinse? e chi sul ciglio

mi calò questa benda? Ohimè! L'orrore

che sgorga di mia mente e il cor m'allaga,

di natura si sparse anche sul volto

e l'abbuiò. Me misero! non veggo

che lugubri deserti; altro non odo

che urlar torrenti e mugolar tempeste.

Dovunque il passo e la pupilla movo,

escono d'ogni parte ombre e paure;

e muta stammi e scolorita innanzi

qual deforme cadavere la terra.


Tutto è spento per me. Sol vive eterno

il mio dolor, né mi riman conforto

che alzar le luci al cielo, e sciormi in pianto...




ALTA É LA NOTTE


Alta è la notte, ed in profonda calma

dorme il mondo sepolto, e in un con esso

par la procella del mio cor sopita.

Io balzo fuori delle piume, e guardo;

e traverso alle nubi, che del vento

squarcia e sospinge l'iracondo soffio,

veggo del ciel per gl'interrotti campi

qua e là deserte scintillar le stelle.

Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque,

e verrà tempo che da voi l'Eterno

ritiri il guardo e tanti soli estingua?

E tu pur anche coll'infranto carro

rovesciato cadrai, tardo Boote,

tu degli artici lumi il più gentile.

Deh, perché mai la fronte or mi discopri.

e la beata notte mi rimembri

che al casto fianco dell'amica assiso

ai suoi begli occhi t'insegnai col dito!

Al chiaror di tue rote ella ridenti

volgea le luci; ed io per gioia intanto

ai suoi ginocchi mi tenea prostrato,

più vago oggetto a contemplar rivolto,

che d'un tenero cor meglio i sospiri,

meglio i trasporti meritar sapea.

Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque,

dunque io per sempre v'ho perduti, e vivo?

E questa è calma di pensier? son questi

gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse

della notte il silenzio, e della muta

mesta natura il tenebroso aspetto!

(Già di nuovo a suonar l'aura comincia

de' miei sospiri ed in più larga vena

già mi ritorna su le ciglia il pianto.




PER L'ONOMASTICO DELLA SUA DONNA


Donna, dell'alma mia parte più cara,

perché muta in pensoso atto mi guati

e di segrete stille

rugiadose si fan le tue pupille?

Di quel silenzio, di quel pianto intendo,

o mia diletta, la cagion. L'eccesso

dei miei mali ti toglie

la favella, e discioglie

in lagrime furtive il tuo dolore.

Ma datti pace, e il core

ad un pensier solleva

di me più degno e della forte insieme

anima tua. La stella

del viver mio s'appressa

al suo tramonto: ma sperar ti giovi,

che tutto io non morrò: pensa che un nome

non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno

fra le italiche donne

ti fia bel vanto il dire: Io fui l'amore

del cantor di Bassville,

del cantor che di care itale note

vestì l'ira d'Achille,

Soave rimembranza ancor ti fia,

che ogni spirto gentile

ai miei casi compianse (e fra l'Insùbri

quale è lo spirto che gentil non sia?).

Ma con ciò tutto nella mente poni,

che cerca un lungo sofferir chi cerca

lungo corso di vita. Oh mia Teresa,

e tu del pari sventurata e cara

mia figlia! Oh voi, che sole d'alcun dolce

temprate il molto amaro

di mia trista esistenza, egli andrà poco

che nell'eterno sonno, lagrimando,

gli occhi miei chiuderete! Ma sia breve

per mia cagione il lagrimar: ché nulla,

fuor che il vostro dolor, fia che mi gravi

nel partirmi da questo,

troppo ai buoni funesto,

mortal soggiorno, in cui

così corte le gioie e così lunghe

vivon le pene: ove per dura prova

già non è bello il rimaner, ma bello

l`uscirne e far presto tragitto a quello

dei ben vissuti a cui sospiro. E quivi

di te memore, e fatto

cigno immortal (ché dei poeti in cielo

l'arte è pregio e non colpa) il tuo fedele,

adorata mia donna,

t'aspetterà cantando,

finché tu giunga, le tue lodi; e molto

de' tuoi cari costumi

parlerò co' Celesti, e dirò quanta

fu verso il miserando tuo consorte

la tua pietade; e l'anime beate,

di tua virtude innamorate, a Dio

pregheranno che lieti e ognor sereni

sieno i tuoi giorni, e quelli

dei dolci amici che ne fan corona:

principalmente i tuoi, mio generoso

ospite amato, che verace fede

ne fai del detto antico,

che ritrova un tesoro

chi ritrova un amico.




AHI SCONSIGLIATO!


Ahi sconsigliato! ahi forsennato! e dove

dove son tratto dal furor di questo

tremendo affetto? In lei sepolto, in lei

sola è sepolto il mio pensier. Quest'occhi

altro non veggon che sua dolce immago;

altro nel core risonar non sento

che l'amato suo nome, e tutto apparmi,

se lei ne traggi l'universo estinto.





AL SIGNOR DI MONTGOLFIER.


Quando Giason dal Pelio

spinse nel mar gli abeti

e primo corse a fendere

coi remi il seno a Teti


su l'alta poppa intrepido

col fior del sangue acheo

vide la Grecia ascendere

il giovinetto Orfeo


Stendea le dita eburnee

sulla materna lira;

e al tracio suon chetavasi

dei venti il fischio e l'ira.


Meravigliando accorsero

di Doride le figlie;

Nettuno ai verdi alipedi

lasciò cader le briglie


Cantava il Vate odrisio

d'Argo la gloria intanto,

e dolce errar sentivasi

sull'alme greche il canto.


O della Senna, ascoltami,

novello Tifi invitto:

vinse i portenti argolici

l'aereo tuo tragitto.


Tentar del mare i vortici

forse è sì gran pensiero,

come occupar dei fulmini

l'inviolato impero?


Deh! perché al nostro secolo

non diè propizio il Fato

d'un altro Orfeo la cetera,

se Montgolfier n'ha dato?


Maggior del prode Esonide

surse di Gallia il figlio.

Applaudi, Europa attonita,

al volator naviglio.


Non mai Natura, all'ordine

delle sue leggi intesa

dalla potenza chimica

soffrì più bella offesa


Mirabil arte, ond'alzasi

di Sthallio e Black la fama,

pèra lo stolto Cinico

che frenesia ti chiama.

De corpi entro le viscere

tu l'acre sguardo avventi,

e invan celarsi tentano

gl'indocili elementi.


Dalle tenaci tenebre

la verità traesti,

e delle rauche ipotesi

tregua al furor ponesti.


Brillò Sofìa più fulgida

del tuo splendor vestita,

e le sorgenti apparvero,

onde il creato ha vita.


L'igneo terribil aere

che dentro il suol profondo

pasce i tremuoti e i cardini

fa vacillar del mondo,

reso innocente or vedilo

dai marzii corpi uscire,

e già domato ed utile

al domator servire.


Per lui del pondo immemore,

mirabil cosa! in alto

va la materia, e insolito

porta alle nubi assalto.


Il gran prodigio immobili

i riguardanti lassa,

e di terrore un palpito

in ogni cor trapassa.


Tace la terra, e suonano

del ciel le vie deserte:

stan mille volti pallidi

e mille bocche aperte.


Sorge il diletto e l'estasi

in mezzo allo spavento,

e i piè mal fermi agognano

ir dietro al guardo attento.


Pace e silenzio, o turbini:

deh! non vi prenda sdegno

se umane salme varcano

delle tempeste il regno.


Rattien la neve o Borea

che già dal crin ti cola;

l'etra sereno e libero

cedi a Robert che vola.


Non egli vien d'Orizia

a insidiar le voglie:

costa rimorsi e lagrime

tentar d'un dio la moglie.


Mise Tesèo nei talami

dell'atro Dite il piede;

punillo il Fato e in Erebo

fra ceppi eterni or siede.


Ma già di Francia il Dedalo

nel mar dell'aure e lunge:

lieve lo porta Zeffiro,

e l'occhio appena il giunge.


Fosco di là profondasi

il suol fuggente ai lumi,

e come larve appaiono

città, foreste e fiumi.


Certo la vista orribile

l'alme agghiacciar dovria;

ma di Robert nell'anima

chiusa è al terror la via.


E già l'audace esempio

i più ritrosi acquista:

già cento globi ascendono

del cielo alla conquista.


Umano ardir, pacifica

filosofia sicura

qual forza mai, qual limite

il tuo poter misura?


Rapisti al ciel le folgori

che debellate innante

con tronche ali ti caddero

e ti lamhir le piante.


Frenò guidato il calcolo

dal tuo pensiero ardito

degli astri il moto e l'orbite

l'Olimpo e l'infinito.


Svelaro il volto incognito

le più rimote stelle,

ed appressar le timide

lor vergini fiammelle.


Del Sole i rai dividere,

pesar quest'aria osasti

la terra, il foco, il pelago

le fere e l'uom domasti.


Oggi a calcar le nuvole

giunse la tua virtute

e di natura stettero

le leggi inerti e mute.


Che più ti resta? Infrangere

anche alla Morte il telo,

e della vita il nettare

libar con Giove in cielo.




TORNA, O DELIRIO


Torna, o delirio lusinghier, deh torna,

né così ratto abbandonarmi. Io dunque

suo sposo! ella mia sposa! Eterno Iddio

di cui fu dono questo cor che avvampa,

se un tanto ben mi preparavi, io tutti

spesi gl'istanti in adorarti avrei.

Non vo' lagnarmi, o giusto Iddio. Perdona

alle lagrime mie, perdona al cieco

desìo che m'arde. Se fra queste braccia

dato mi fosse un sol momento stringere...

Se questi labbri su quei labbri... Ahi, misero!

Ahi che al solo pensarlo entro le vene

di foco un fiume mi trabocca, e tutti

tremano i polsi combattuti e l'ossa.