Giuseppe Parini
IL GIORNO
Il
Mattino
Alla moda
Lungi da queste carte i cisposi occhi già da un secolo rintuzzati, lungi i fluidi nasi de malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministeri nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annoiante domestica economia, misero appannaggio della canuta età. A te, vezzosissima dea, che non sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo libretto si dedica e si consagra. Chi è che te, qual sommo nume, oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e lOrdine seccagginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione (ché forse non nè indegno) questo piccolo poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentili dame e gli amabili garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira allimmortalità, come altri libri, troppo lusingati da loro autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nelloblio. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di riguardare con placidocchio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro autore si studierà di comporli ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari.
(riassunto come per la Gerus. Lib.) - in preparazione
Giovin
Signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il
sangue
purissimo celeste, o in te del sangue
emendino il
difetto i compri onori
e le adunate in terra o in mar
ricchezze
dal genitor frugale in pochi lustri,
me precettor
damabil rito ascolta.
Come
ingannar questi nojosi e lenti
giorni di vita, cui sì lungo
tedio
e fastidio insoffribile accompagna
or io tinsegnerò.
Quali al mattino,
quai dopo il mezzodì, quali la sera
esser
debban tue cure apprenderai,
se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti
resta
pur di tender gli orecchi a versi miei.
Già
lare a Vener sacre e al giocatore
mercurio ne le Gallie e in
Albïone
devotamente hai visitate, e porti
pur anco i segni
del tuo zelo impressi:
ora è tempo di posa. In vano Marte
a
sé tinvita; che ben folle è quegli
che a
rischio de la vita onor si merca,
e tu naturalmente il sangue
aborri
né i mesti de la Dea Pallade studj
ti son meno
odiosi: avverso ad essi
ti feron troppo i queruli ricinti
ove
larti migliori, e le scienze
cangiate in mostri, e in vane
orride larve,
fan le capaci volte echeggiar sempre
di giovanili
strida. Or primamente
odi quali il mattino a te soavi
cure
debba guidar con facil mano.
Sorge
il mattino in compagnìa dellalba
innanzi al sol che
di poi grande appare
su lestremo orizzonte a render
lieti
gli animali e le piante e i campi e londe.
Allora
il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i
minori
suoi figlioletti intepidìr la notte;
poi sul
collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e
Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il
picciol sentier da curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi
gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
Allora sorge il
fabbro, e la sonante
officina riapre, e allopre
torna
laltro dì non perfette, o se di chiave
ardua
e ferrati ingegni allinquieto
ricco larche assecura, o
se dargento
e doro incider vuol giojelli e vasi
per
ornamento a nuove spose o a mense.
Ma
che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti
i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore,
il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al
lume
dellincerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in
male agiate piume,
come dannato è a far lumile vulgo.
A
voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro
concesse
Giove benigno: e con altrarti e leggi
per novo
calle a me convien guidarvi.
Tu
tra le veglie, e le canore scene,
e il patetico gioco oltre più
assai
producesti la notte; e stanco alfine
in aureo cocchio,
col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestìo
di
volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le
tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome
allor che il siculo terreno
dalluno allaltro mar
rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede
de le Furie anguicrinite.
Così
tornasti a la magion; ma quivi
a novi studj ti attendea la
mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di francesi
colli,
o dispani, o di toschi, o longarese
bottiglia
a cui di verde edera Bacco
concedette corona; e disse: siedi
de
le mense reina. Alfine il Sonno
ti sprimacciò le morbide
coltrici
di propria mano, ove, te accolto, il fido
servo calò
le seriche cortine:
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo
che li suole aprire altrui.
Dritto
è perciò, che a te gli stanchi sensi
non sciolga da
papaveri tenaci
Morfeo prima, che già grande il
giorno
tenti di penetrar fra gli spiragli
de le dorate imposte,
e la parete
pingano a stento in alcun lato i raggi
del sol
checcelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre
cure
denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
sciorre il
mio legno, e co precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar
cantando.
Già
i valetti gentili udîr lo squillo
del vicino metal cui da
lontano
scosse tua man col propagato moto;
e accorser pronti a
spalancar gli opposti
schermi a la luce, e rigidi osservâro,
che
con tua pena non osasse Febo
entrar diretto a saettarti i
lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia
alli
origlieri i quai lenti gradando
allomero ti fan molle
sostegno.
Poi collindice destro, lieve lieve
sopra gli
occhi scorrendo, indi dilegua
quel che riman de la cimmeria
nebbia;
e de labbri formando un picciol arco,
dolce a
vedersi, tacito sbadiglia.
Oh! se te in sì gentile atto
mirasse
il duro capitan qualor tra larmi,
sgangherando le
labbra, innalza un grido
lacerator di ben costrutti orecchi,
onde
a le squadre varj moti impone;
se te mirasse allor, certo
vergogna
avria di sé più che Minerva il giorno
che,
di flauto sonando, al fonte scorse
il turpe aspetto de le guance
enfiate.
Ma
già il ben pettinato entrar di novo
tuo damigello i
veggo; egli a te chiede
quale oggi più de le bevande
usate
sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
indiche merci son
tazze e bevande;
scegli qual più desii. Soggi ti
giova
porger dolci allo stomaco fomenti,
sì che con
legge il natural calore
varda temprato, e al digerir ti
vaglia,
scegli l brun cioccolatte, onde tributo
ti dà
il guatimalese e il caribbèo
cha di barbare penne
avvolto il crine:
ma se nojosa ipocondrìa topprime,
o
troppo intorno a le vezzose membra
adipe cresce, de tuoi
labbri onora
la nettarea bevanda ove abbronzato
fuma, ed arde
il legume a te dAleppo
giunto, e da Moca che di mille
navi
popolata mai sempre insuperbisce.
Certo
fu duopo, che dal prisco seggio
uscisse un regno, e con
ardite vele
fra straniere procelle e novi mostri
e teme e
rischi ed inumane fami
superasse i confin, per lunga
etade
inviolati ancora: e ben fu dritto
se Cortes, e Pizzarro
umano sangue
non istimâr quel choltre lOceàno
scorrea
le umane membra, onde tonando
e fulminando, alfin
spietatamente
balzaron giù da loro aviti troni
re
messicani e generosi Incassi,
poiché nuove così
venner delizie,
o gemma degli eroi, al tuo palato.
Cessi
l cielo però, che in quel momento
che la scelta
bevanda a sorbir prendi,
servo indiscreto a te improvviso
annunzj
il villano sartor che, non ben pago
daver teco
diviso i ricchi drappi,
oso sia ancor con pòlizza
infinita
a te chieder mercede: ahimè, che fatto
quel
salutar licore agro e indigesto
tra le viscere tue, te allor
farebbe
e in casa e fuori e nel teatro e al corso
ruttar
plebejamente il giorno intero!
Ma
non attenda già chaltri lo annunzj
gradito ognor,
benché improvviso, il dolce
mastro che i piedi tuoi come a
lui pare
guida, e corregge. Egli allentrar si fermi
ritto
sul limitare, indi elevando
ambe le spalle, qual testudo il
collo
contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
inchini l
mento, e con lestrema falda
del piumato cappello il labbro
tocchi.
Non
meno di costui facile al letto
del mio signor taccosta, o tu
che addestri
a modular con la flessibil voce
teneri canti, e tu
che mostri altrui
come vibrar con maestrevol arco
sul cavo
legno armoniose fila.
Né
la squisita a terminar corona
dintorno al letto tuo manchi,
o signore,
il precettor del tenero idioma
che da la Senna de le
Grazie madre
or ora a sparger di celeste ambrosia
venne
allItalia nauseata i labbri.
Allapparir di lui litale
voci
tronche cedano il campo al lor tiranno;
e a la nova
ineffabile armonìa
de soprumani accenti, odio ti
nasca
più grande in sen contro alle impure labbra
chosan
macchiarsi ancor di quel sermone
onde in Valchiusa fu lodata e
pianta
già la bella francese, et onde i campi
allorecchio
dei re cantati furo
lungo il fonte gentil de le bellacque.
Misere
labbra che temprar non sanno
con le galliche Grazie il sermon
nostro,
sì che men aspro a dilicati spirti,
e men
barbaro suon fieda gli orecchi!
Or
te questa, o signor, leggiadra schiera
trattenga al novo giorno; e
di tue voglie
irresolute ancora or luno, or laltro
con
piacevoli detti il vano occùpi,
mentre tu chiedi lor tra i
lenti sorsi
dellardente bevanda a qual cantore
nel vicin
verno si darà la palma
sopra le scene; e segli è
il ver, che rieda
lastuta Frine che ben cento folli
milordi
rimandò nudi al Tamigi;
o se il brillante danzator
Narcisso
tornerà pure ad agghiacciare i petti
de
palpitanti Italici mariti.
Poiché
così gran pezzo a primi albori
del tuo mattin teco
scherzato fia
non senzaver licenziato prima
lipocrita
pudore, e quella schifa,
cui le accigliate gelide matrone
chiaman
modestia, alfine o a lor talento,
o da te congedati escan
costoro.
Doman si potrà poscia, o forse laltro
giorno
a precetti lor porgere orecchio,
se meno choggi a te
cure dintorno
porranno assedio. A voi divina schiatta,
vie più
che a noi mortali il ciel concesse
domabile midollo entro al
cerèbro,
sì che breve lavor basta a
stamparvi
novelle idee. In oltre a voi fu dato
tal de
sensi e de nervi e degli spirti
moto e struttura, che ad un
tempo mille
penetrar puote, e concepir vostralma
cose
diverse, e non però turbarle
o confonder giammai, ma scevre
e chiare
ne loro alberghi ricovrarle in mente.
Il
vulgo intanto a cui non dessi il velo
aprir de venerabili
misterj,
fie pago assai, poi che vedrà sovente
ire e
tornar dal tuo palagio i primi
darte maestri, e con aperte
fauci
stupefatto berà le tue sentenze.
Ma
già veggio, che le oziose lane
soffrir non puoi più
lungamente, e in vano
te lignavo tepor lusinga e molce,
però
che or te più gloriosi affanni
aspettan lore a
trapassar del giorno.
Su
dunque o voi del primo ordine servi
che degli alti signor ministri
al fianco
siete incontaminati, or dunque voi
al mio divino
Achille, al mio Rinaldo
larmi apprestate. Ed ecco in un
baleno
i tuoi valetti a cenni tuoi star pronti.
Già
ferve il gran lavoro. Altri ti veste
la serica zimarra ove
disegno
diramasi chinese; altri, se il chiede
più la
stagione, a te le membra copre
di stese infino al piè
tiepide pelli.
Questi al fianco ti adatta il bianco lino
che
sciorinato poi cada, e difenda
i calzonetti; e quei, dalto
curvando
il cristallino rostro, in su le mani
ti versa acque
odorate, e da le mani
in limpido bacin sotto le accoglie.
Quale
il sapon del redivivo muschio
olezzante allintorno; e qual
ti porge
il macinato di quellarbor frutto,
che a Ròdope
fu già vaga donzella,
e chiama in van sotto mutate
spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte.
Lun di soavi essenze
intrisa spugna
onde tergere i denti, e laltro appresta
ad
imbianchir le guance util licore.
Assai
pensasti a te medesmo; or volgi
le tue cure per poco ad altro
obbietto
non indegno di te. Sai che compagna
con cui divider
possa il lungo peso
di questinerte vita il ciel destìna
al
giovane Signore. Impallidisci?
No non parlo di nozze: antiquo e
vieto
dottor sarei se così folle io dessi
a te
consiglio. Di tantaltre doti
tu non orni così lo
spirto, e i membri,
perché in mezzo a la tua nobil
carriera
sospender debbi l corso, e fuora uscendo
di
cotesto a ragion detto bel mondo,
in tra i severi di famiglia
padri
relegato ti giacci, a un nodo avvinto
di giorno in giorno
più penoso, e fatto
stallone ignobil de la razza umana.
Daltra
parte, il marito ahi quanto spiace,
e lo stomaco move ai
dilicati
del vostrorbe leggiadro abitatori
qualor de
semplicetti avoli nostri
portar osa in ridicolo trionfo
la
rimbambita Fé, la Pudicizia
severi nomi! E qual non suole a
forza
in que melati seni eccitar bile
quando i calcoli
vili del castaldo
le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
di que
sì dolci suoi bambini altrui,
gongolando, ricorda; e non
vergogna
di mischiar cotai fole a peregrini
subbietti, a nuove
del dir forme, a sciolti
da volgar fren concetti onde savviva
da
begli spirti il vostro amabil globo.
Pera dunque chi a te nozze
consiglia.
Ma non però senza compagna andrai
che sia
giovane dama, ed altrui sposa;
poiché sì vuole
inviolabil rito
del bel mondo onde tu se cittadino.
Tempo
già fu, che il pargoletto Amore
dato era in guardia al suo
fratello Imene;
poiché la madre lor temea, che il
cieco
incauto nume perigliando gisse
misero e solo per oblique
vie,
e che bersaglio aglindiscreti colpi
di senza guida,
e senza freno arciero,
troppo immaturo al fin corresse il
seme
uman chè nato a dominar la terra.
Perciò
la prole mal secura allaltra
in cura dato avea, sì
lor dicendo:
«Ite o figli del par; tu più possente
il
dardo scocca, e tu più cauto il guida
a certa meta».
Così ognor compagna
iva la dolce coppia, e in un sol
regno,
e dun nodo comun lalme stringea.
Allora fu
che il sol mai sempre uniti
vedea un pastore, ed una
pastorella
starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
e
la suora di lui vedeali poi
uniti ancor nel talamo beato
chambo
gli amici numi a piene mani
gareggiando spargean di gigli e
rose.
Ma che non puote anco in divino petto,
se mai saccende
ambizion di regno?
Crebber lali ad Amore a poco a poco,
e
la forza con esse; ed è la forza
unica e sola del regnar
maestra.
Perciò a pocaere prima, indi più
ardito
a vie maggior fidossi, e fiero alfine
entrò
nellalto, e il grande arco crollando,
e il capo, risonar
fece a quel moto
il duro acciar che la faretra a tergo
gli
empie, e gridò: solo regnar voglio.
Disse, e volto a
la madre «Amore adunque
il più possente in fra gli
dei, il primo
di Citerea figliuol ricever leggi,
e dal minor
german ricever leggi
vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
non
oserà fuor chuna unica volta
ferire unalma come
questo schifo
da me vorrebbe? E non potrò giammai
dappoi
chio strinsi un laccio, anco slegarlo
a mio talento, e
qualor parmi un altro
stringerne ancora? E lascerò pur
chegli
di suoi unguenti impeci a me i miei dardi
perché
men velenosi e men crudeli
scendano ai petti? Or via perché
non togli
a me da le mie man questarco, e queste
armi da
le mie spalle, e ignudo lasci
quasi rifiuto de gli dèi,
Cupido?
O il bel viver che fia qualor tu solo
regni in mio
loco! O il bel vederti, lasso!
Studiarti a torre da le
languidalme
la stanchezza e l fastidio, e spander
gelo
di foco in vece! Or genitrice intendi,
vaglio, e vo
regnar solo. A tuo piacere
tra noi parti limpero, ondio
con teco
abbia omai pace, e in compagnìa dImene
me
non trovin mai più le umane genti».
Qui tacque Amore,
e minaccioso in atto,
parve allidalia dea chieder
risposta.
Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
sparge ma in
vano; onde a due figli volta
con questo dir pose al
contender fine.
«Poiché nulla tra voi pace esser
puote,
si dividano i regni. E perché luno
sia
dallaltro germano ognor disgiunto,
sieno tra voi diversi, e
l tempo, e lopra.
Tu che di strali altero a fren non
cedi
lalme ferisci, e tutto il giorno impera:
e tu che di
fior placidi hai corona
le salme accoppia, e collardente
face
regna la notte.» Ora di qui, signore,
venne il rito
gentil che a freddi sposi
le tenebre concede, e de le
spose
le caste membra: e a voi beata gente
di più nobile
mondo il cor di queste,
e il dominio del dì, largo
destìna.
Forsanco un dì più liberal
confine
vostri diritti avran, se Amor più forte
qualche
provincia al suo germano usurpa:
così giova sperar. Tu
volgi intanto
a miei versi lorecchio, et odi or
quale
cura al mattin tu debbi aver di lei
che spontanea o
pregata, a te donossi
per tua dama quel dì lieto che a
fida
carta, non senza testimonj furo
a vicenda commessi i patti
santi,
e le condizïon del caro nodo.
Già
la dama gentil de cui bei lacci
godi avvinto sembrar le
chiare luci
col novo giorno aperse; e suo primiero
pensier fu
dove teco abbia piuttosto
a vegliar questa sera, e
consultonne
contegnosa lo sposo il qual pur dianzi
fu la mano a
baciarle in stanza ammesso.
Or
dunque è tempo che il più fido servo
e il più
accorto tra i tuoi mandi al palagio
di lei chiedendo se tranquilli
sonni
dormìo la notte, e se dimagin liete
le fu
Mòrfeo cortese. È ver che ieri
sera tu lammirasti
in viso tinta
di freschissime rose; e più che mai
vivace
e lieta uscìo teco del cocchio,
e la vigile tua mano per
vezzo
ricusò sorridendo allor che lampie
scale
salì del maritale albergo:
ma ciò non basti ad
acquetarti, e mai
non obliar sì giusti ufici. Ahi
quanti
Genj malvagi tra l notturno orrore
godono uscire
ed empier di perigli
la placida quïete de mortali!
Potria,
tolgalo il cielo, il picciol cane
con latrati improvvisi i cari
sogni
troncare a la tua dama, ondella, scossa
da sùbito
capriccio, a rannicchiarsi
astretta fosse, di sudor gelato
e la
fronte bagnando, e il guancial molle.
Anco potria colui che, sì
de tristi
come de lieti sogni è
genitore,
crearle in mente di diverse idee
in un congiunte
orribile chimera,
onde agitata in ansioso affanno
gridar
tentasse, e non però potesse
aprire ai gridi tra le fauci
il varco.
Sovente ancor ne la trascorsa sera
la perduta tra l
gioco aurea moneta
non men che al cavalier, suole a la dama
lunga
vigilia cagionar: talora
nobile invidia de la bella
amica
vagheggiata da molti, e talor breve
gelosìa nè
cagione. A questo aggiugni
glimportuni mariti i quali in
mente
ravvolgendosi ancor le viete usanze,
poi che cessero ad
altri il giorno, quasi
abbian fatto gran cosa, aman dImene
con
superstizion serbare i dritti,
e dellombre notturne esser
tiranni,
non senzaffanno de le caste spose
chindi
preveggon tra pocanni il fiore
de la fresca beltade a sé
rapirsi.
Or
dunque ammaestrato a quali e quanti
miseri casi espor soglia il
notturno
orror le dame, tu non esser lento,
signore, a chieder
de la tua novelle.
Mentre
che il fido messaggier si attende,
magnanimo signor, tu non
starai
ozioso però. Nel dolce campo
pur in questo
momento il buon cultore
suda, e incallisce al vomere la
mano,
lieto, che i suoi sudor ti fruttin poi
dorati cocchi, e
peregrine mense.
Ora per te lindustre artier sta fiso
allo
scarpello, allasce, al subbio, allago;
ed ora a tuo
favor contende, o veglia
il ministro di Temi. Ecco te pure
te
la toilette attende: ivi i bei pregi
de la natura accrescerai con
larte,
ondoggi uscendo, del beante aspetto
beneficar
potrai le genti, e grato
ricompensar di sue fatiche il mondo.
Ma
già tre volte e quattro il mio signore
velocemente il
gabinetto scorse
col crin disciolto e su gli omeri sparso,
quale
a Cuma solea lorribil maga
quando agitata dal possente
nume
vaticinar sudìa. Così dal capo
evaporar
lasciò degli olj sparsi
il nocivo fermento, e de le
polvi
che roder gli potrien la molle cute,
o datroce
emicrania a lui le tempia
trafigger anco. Or egli avvolto in
lino
candido siede. Avanti a lui lo specchio
altero sembra di
raccor nel seno
limagin diva: e stassi agli occhi
suoi
severo esplorator de la tua mano
o di bel crin volubile
architetto.
Mille dintorno a lui volano odori
che a le
varie manteche ama rapire
lauretta dolce, intorno ai vasi
ugnendo
le leggerissimale di farfalla.
Tu chiedi in prima
a lui qual più gli aggrada
sparger sul crin, se il
gelsomino, o il biondo
fior darancio piuttosto, o la
giunchiglia,
o lambra preziosa agli avi nostri.
Ma se la
sposa altrui, cara al signore,
del talamo nuzial si duole, e
scosse
pur or da lungo peso il molle lombo,
ah fuggi allor
tutti gli odori, ah fuggi;
che micidial potresti a un sol
momento
tre vite insidiar: semplici sieno
i tuoi balsami allor,
né oprarli ardisci
pria che su lor deciso abbian le
nari
del mio signore, e tuo. Pon mano poscia
al pettin liscio,
e collottuso dente
lieve solca i capegli; indi li turba
col
pettine e scompiglia: ordin leggiadro
abbiano alfin da la tua
mente industre.
Io
breve a te parlai; ma non pertanto
lunga fia lopra tua; né
al termin giunta
prima sarà, che da più strani
eventi
turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi
allo speglio, e vedrai quivi
non di rado il signor morder le
labbra
impaziente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor se
artificiosa meno
fia la tua destra, del convulso piede
udrai lo
scalpitar breve e frequente,
non senza un tronco articolar di
voce
che condanni, e minacci. Anco taspetta
veder
talvolta il mio signor gentile
furiando agitarsi, e destra e
manca
porsi nel crine; e scompigliar con lugna
lo studio
di moltore in un momento.
Che più? Se per tuo male un
dì vaghezza
daccordar ti prendesse al suo
sembiante
ledificio del capo, ed obliassi
di prender
legge da colui che giunse
pur jer di Francia, ahi quale atroce
folgore,
meschino! allor ti penderìa sul capo?
che il
tuo signor vedresti ergersin piedi;
e versando per gli occhi
ira e dispetto,
mille strazj imprecarti; e scender fino
ad
usurpar le infami voci al vulgo
per farti onta maggiore; e di
bastone
il tergo minacciarti; e violento
rovesciare ogni cosa,
al suol spargendo
rotti cristalli e calamistri e vasi
e pettini
ad un tempo. In cotal guisa,
se del Tonante allara o de la
Dea,
che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo,
Tauro
spezzava i raddoppiati nodi
e libero fuggìa, vedeansi al
suolo
vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
litui, coltelli, e
dorridi muggiti
commosse rimbombar le arcate volte,
e
dogni lato astanti e sacerdoti
pallidi allurto e
allimpeto involarsi
del feroce animal che pria sì
queto
gìa di fior cinto, e sotto la man sacra
umilïava
le dorate corna.
Tu non pertanto coraggioso e forte
soffri, e
ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il
foco dira
in nobil cor. Tosto il signor vedrai
mansuefatto
a te chieder perdono,
e sollevarti oltrogni altro
mortale
con preghi e scuse a niun altro concesse;
onde securo
sacerdote allora
limmolerai qual vittima a Filauzio
sommo
Nume de Grandi, e pria dognaltro
larga otterrai del
tuo lavor mercede.
Or,
signore, a te riedo. Ah non sia colpa
dinanzi a te sio
travviai col verso
breve parlando ad un mortal cui degni
tu
degli arcani tuoi. Sai, che a sua voglia
questi ogni dì
volge, e governa i capi
de più felici spirti; e le
matrone,
che da sublimi cocchi alto disdegnano
volgere il
guardo a la pedestre turba,
non disdegnan sovente entrar con
lui
in festevoli motti allor chesposti
a la sua man sono
i ridenti avorj
del bel collo e del crin laureo
volume.
Perciò accogli ti prego i versi miei
tuttor
benigno: et odi or come possi
lore a te render graziose
mentre
dal pettin creator tua chioma acquista
leggiadra o almen
non più veduta forma.
Picciol
libro elegante a te dinanzi
tra gli arnesi vedrai che larte
aduna
per disputare a la natura il vanto
del renderti sì
caro agli occhi altrui.
Ei ti lusingherà forse con
liscia
purpurea pelle onde fornito avrallo
o mauritano
conciatore, o siro;
e doro fregi dilicati, e vago
mutabile
color che il collo imiti
de la colomba vavrà posto
intorno
squisito legator batavo, o franco.
Ora il libro gentil
con lenta mano
togli; e non senza sbadigliare un poco
aprilo a
caso, o pur là dove il parta
tra una pagina e laltra
indice nastro.
O
de la Francia Proteo multiforme
Voltaire troppo biasmato e troppo
a torto
lodato ancor che sai con novi modi
imbandir ne
tuoi scritti eterno cibo
ai semplici palati; e se maestro
di
coloro che mostran di sapere,
tu appresta al mio signor leggiadri
studj
con quella tua fanciulla agli angli infesta
che il grande
Enrico tuo vince dassai,
lEnrico tuo che non peranco
abbatte
litalian Goffredo ardito scoglio
contro a la
Senna dogni vanto altera.
Tu
de la Francia onor, tu in mille scritti
celebrata Ninon novella
Aspasia,
Taide novella ai facili sapienti
de la gallica Atene i
tuoi precetti
pur dona al mio signore: e a lui non meno
pasci
la nobil mente o tu cha Italia,
poi che rapîrle i tuoi
loro e le gemme,
invidiasti il fedo loto ancora
onde
macchiato è il certaldese, e laltro
per cui va sì
famoso il pazzo conte.
Questi,
o signore, i tuoi studiati autori
fieno e millaltri che
guidâro in Francia
a novellar con le vezzose schiave
i
bendati sultani i regi persi,
e le peregrinanti arabe dame;
o
che con penna liberale ai cani
ragion donâro e ai barbari
sedili,
e diêr feste e conviti e liete scene
ai polli ed
a le gru damor maestre.
O
pascol degno danima sublime!
O chiara o nobil mente! A te
ben dritto
è che si curvi riverente il vulgo,
e gli
oracoli attenda. Or chi fia dunque
sì temerario che in suo
cor ti beffi
qualor partendo da sì begli studj
del tuo
paese lignoranza accusi,
e tenti aprir col tuo felice
raggio
la gotica caligine che annosa
siede su gli occhi a le
misere genti?
Così non mai ti venga estranea cura
questi
a troncar sì preziosi istanti
in cui non meno de la docil
chioma
coltivi ed orni il penetrante ingegno.
Non
pertanto avverrà, che tu sospenda
quindi a pochi momenti i
cari studj,
e che ad altro ti volga. A te questora
condurrà
il merciajuol che in patria or torna
pronto inventor di
lusinghiere fole,
e liberal di forestieri nomi
a merci che non
mai varcâro i monti.
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi,
chosi
unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che
venda, se a te piace, o cambj
mille fregi e giojelli a cui la
moda
di viver concedette un giorno intero
tra le folte dinezie
illustri tasche:
poi lieto sen andrà con luna
mano
pesante di moltoro; e in cor giojendo,
spregerà
le bestemmie imprecatrici,
e il gittato lavoro, e i vani passi
del
calzolar diserto, e del drappiere;
e dirà lor: ben degna
pena avete
o troppo ancor religiosi servi
de la necessitade,
antiqua è vero
madre e donna dellarti, or
nondimeno
fatta cenciosa e vile. Al suo possente
amabil
vincitor vera assai meglio,
o miseri, ubbidire. Il lusso il
lusso
oggi sol puote dal ferace corno
versar sullarti a
lui vassalle applausi
e non contesi mai premj e dovizie.
Lora
fia questa ancor che a te conduca
il dilicato miniator di
belle,
chè de la corte dAmatunta e
Pafo
stipendiato ministro atto a gli affari
sollecitar
dellamorosa dea.
Impaziente or tu laffretta e
sprona
perché a te porga il desiato avorio
che de le
amate forme impresso ride,
o che il pennel cortese ivi
dispieghi
lalme sembianze del tuo viso ondabbia
tacito
pasco allor che te non vede
la pudica daltrui sposa a te
cara;
o che di lei medesma al vivo esprima
limagin vaga;
o se ti piace, ancora
daltra fiamma furtiva a te
presenti
con più largo confin le amiche membra.
Ma
poi che al fine a le tue luci esposto
fia il ritratto gentil, tu
cauto osserva
se bene il simulato al ver risponda,
vie più
rigido assai se il tuo sembiante
esprimer denno i colorati
punti
che larte ivi dispose. O quante mende
scorger tu vi
saprai! Or brune troppo
a te parran le guance; or fia
checceda
mal frenata la bocca; or qual conviensi
al
camuso etiòpe il naso fia.
Ti giovi ancora daccusar
sovente
il dipintor, che non atteggi industre
lagili
membra e il dignitoso busto,
o che con poca legge a la tua
imago
dia contorno o la posi o la panneggi.
È
ver, che tu del grande di Crotone
non conosci la scuola; e mai tua
mano
non abbassossi a la volgar matita
che fu nellaltra
età cara a tuoi pari
cui sconosciute ancora eran più
dolci
e più nobili cure a te serbate.
Ma che non puote
quel dogni precetto
gusto trionfator che allordin
vostro
in vece di maestro il Ciel concesse,
et onde a voi coniò
le altere menti
acciò che possan de volgari
ingegni
oltre passar la paludosa nebbia,
e daere più
puro abitatrici
non fallibili scerre il vero e il bello?
Perciò
qual più ti par loda, riprendi
non men fermo dallor
che a scranna siedi
Rafael giudicando, o laltro eguale
che
del gran nome suo lAdige onora:
e a le tavole ignote i noti
nomi
grave comparti di color che primi
fûr tra
pittori. Ah saltri è sì procace
chosi
rider di te, costui paventi
laugusta maestà del tuo
cospetto,
si volga a la parete; e mentrei cerca
por freno
in van col morder de le labbra
allor scrosciar de le importune
risa
che scoppian da precordj, violenta
convulsione a lui
deformi il volto,
e lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
di sua
temerità. Ma tu non pensa
chaltri ardisca di te rider
giammai;
e mai sempre imperterrito decidi.
Or
limmagin compiuta intanto serba
perché in nobile
arnese un dì si chiuda
con opposto cristallo ove tu
facci
sovente paragon di tua beltade
con la beltà de la
tua dama; o agli occhi
deglinvidi la tolga, e in sen
lasconda
sagace tabacchiera, o a te riluca
sul minor dito
fra le gemme e loro;
o de le grazie del tuo viso desti
soavi
rimembranze al braccio avvolta
de la pudica altrui sposa a te
cara.
Ma
giunta è al fin del dotto pettin lopra.
Già il
maestro elegante intorno spande
da la man scossa un polveroso
nembo
onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
Dorribil
piato risonar sudìo
già la corte dAmore.
I tardi vegli
grinzuti osâr coi giovani nipoti
contendere
di grado in faccia al soglio
del comune Signor. Rise la
fresca
gioventude animosa, e dagri motti
libera punse la
senil baldanza.
Gran tumulto nascea, se non che Amore
chogni
diseguaglianza odia in sua corte
a spegner mosse i perigliosi
sdegni:
e a quei che militando incanutîro
suoi servi
impose dimitar con arte
i duo bei fior che in giovenile
gota
educa e nutre di sua man natura:
indi fé cenno, e
in un balen fûr visti
mille alati ministri alto
volando
scoter le piume, e lieve indi fiocconne
candida polve
che a posar poi venne
su le giovani chiome; e in bianco volse
il
biondo, il nero, e lodiato rosso.
Locchio così
nellamorosa reggia
più non distinse le due opposte
etadi,
e solo vi restò giudice il tatto.
Or
tu adunque, o Signor, tu che se il primo
fregio ed onor
dellamoroso regno
i sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
pria
da provvida man la bianca polve
in piccolo stanzin con laere
pugna,
e degli atomi suoi tutto riempie
egualmente divisa. Or
ti fa cuore,
e in seno a quella vorticosa nebbia
animoso ti
avventa. O bravo o forte!
Tale il grandavo tuo tra l
fumo e l foco
orribile di Marte, furiando
gittossi allor
che i palpitanti Lari
de la patria difese, e ruppe e in fuga
mise
loste feroce. Ei non pertanto
fuliginoso il volto, e datro
sangue
asperso e di sudore, e co capegli
stracciati ed
irti da la mischia uscìo
spettacol fero a cittadini
istessi
per sua man salvi; ove tu assai più dolce
e
leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
uscirai quindi a poco a
bear gli occhi
de la cara tua patria a cui dellavo
il
forte braccio, e il viso almo, celeste
del nipote dovean portar
salute.
Ella
ti attende impaziente, e mille
anni le sembra il tuo tardar
pocore.
È tempo omai che i tuoi valetti al dorso
con
lieve man ti adattino le vesti
cui la Moda e l Buongusto in
su la Senna
tabbian tessute a gara, e qui cucite
abbia
ricco sartor che in su lo scudo
mostri intrecciato a forbici
eleganti
il titol di Monsieur. Non sol dia leggi
a la
materia la stagion diverse;
ma sien qual si conviene al giorno e
allora
sempre varj il lavoro e la ricchezza.
Fero
genio di Marte a guardar posto
de la stirpe de numi il caro
fianco,
tu al mio giovane eroe la spada or cingi
lieve e corta
non già, ma, qual richiede
la stagion bellicosa, al suol
cadente,
e di triplice taglio armata e delsa
immane.
Quanto esser può mai sublime
lannoda pure, onde
limpugni alluopo
la furibonda destra in un momento:
né
disdegnar con le sanguigne dita
di ripulire et ordinar quel
nodo
onde lelsa è superba; industre studio
è
di candida mano: al mio signore
dianzi donollo, e gliel appese al
brando
la pudica daltrui sposa a lui cara.
Tal del famoso
Artù vide la corte
le infiammate damor donzelle
ardite
ornar di piume e di purpuree fasce
i fatati guerrieri,
onde più ardenti
gisser poi questi ad incontrar periglio
in
selve orrende tra i giganti e i mostri.
Figlie
de la memoria inclite suore
che invocate scendeste, e i feri
nomi
de le squadre diverse e degli eroi
annoveraste ai grandi
che cantâro
Achille, Enea, e il non minor Buglione,
or
mè duopo di voi: troppardua impresa,
e
insuperabil senza vostraita
fia ricordare al mio signor di
quanti
leggiadri arnesi graverà sue vesti
pria che di se
medesmo esca a far pompa.
Ma
qual tra tanti e sì leggiadri arnesi
sì felice sarà
che pria d'ogn'altro,
signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti
importan del par. Veggo lastuccio
di pelle rilucente ornato
e doro
sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
occupar
di sua mole: esso a milluopi
opportuno si vanta, e in grembo
a lui
atta agli orecchi, ai denti, ai peli, allugne
vien
forbita famiglia. A lui contende
i primi onori
dodoriferonda
colmo cristal che a la tua vita in
forse
rechi soccorso allor che il vulgo ardisce
troppo accosto
vibrar da la vil salma
fastidiosi effluvj a le tue nari.
Né
men pronto di quella alluopo istesso
limitante un
cuscin purpureo drappo
mostra turgido il sen derbe
odorate
che laprica montagna in tuo favore
al possente
meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina
rupe
prezïoso vasello onde traluce
non volgare confetto
ove agli aromi
stimolanti sunìo lambra o la
terra,
che il Giappon manda a profumar de grandi
letereo
fiato; o quel che il caramano
fa gemer latte dallinciso
capo
de papaveri suoi perché, qualora
non ben
felice amor lalma tattrista,
lene serpendo per le
membra, acqueti
a te gli spirti, e ne la mente induca
lieta
stupidità che mille aduni
imagin dolci e al tuo desìo
conformi.
A questi arnesi il cannocchiale aggiugni,
e la
guernita doro anglica lente.
Quel notturno favor ti presti
allora
che in teatro tassidi, e tavvicini
gli
snelli piedi e le canore labbra
da la scena rimota, o con
maligno
occhio ricerchi di qualchalta loggia
le abitate
tenebre, o miri altrove
gli ognor nascenti e moribondi amori
de
le tenere dame onde sappresti
per leloquenza tua nel
dì vicino
lunga e grave materia. A te la lente
nel
giorno assista, e de gli sguardi tuoi
economa presieda, e sì
li parta,
che il mirato da te vada superbo,
né i
malvisti accusarti osin giammai.
La lente ancora allocchio
tuo vicina
irrefragabil giudice condanni
o approvi di Palladio
i muri e gli archi
o di Tizian le tele: essa a le vesti,
ai
libri, ai volti feminili applauda
severa o li dispregi. E chi del
senso
comun sì privo fia che opporsi unquanco
osi al
sentenzïar de la tua lente?
Non
per questi però sdegna, o signore,
giunto a lo specchio, in
gallico sermone
il vezzoso giornal; non le notate
eburnee
tavolette a guardar preste
tuoi sublimi pensier fin chabbian
luce
doman tra i begli spirti; e non isdegna
la picciola guaina
ove a tuoi cenni
mille stan pronti ognora argentei spilli.
O
quante volte a cavalier sagace
ho vedutio le man render
beate
uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove
inonorato e solo
lasci l coltello a cui loro e
lacciaro
donâr gemina lama, e a cui la madre
de la
gemma più bella dAnfitrite
diè manico elegante
ove il colore
con dolce varïar liride imìta?
Opra
sol fia di lui se ne superbi
convivi ogni altro avanzerai
per fama
desimio trinciatore, e se linvidia
de
tuoi gran pari ecciterai qualora,
pollo o fagian con la forcina in
alto
sospeso, a un colpo il priverai dellanca
mirabilmente.
Or ti ricolmi alfine
dambo i lati la giubba, ed
oleosa
Spagna e rapè cui semplice origuela
chiuda, o a
molti colori oro dipinto;
e cupide ad ornar tue bianche
dita
salgan le anella in fra le quali assai
più caro a
te delladamante istesso
cerchietto inciso damorosi
motti
stringati alquanto, e sovvenir ti faccia
de la pudica
altrui sposa a te cara.
Compiuto
è il gran lavoro. Odi, o Signore,
sonar già intorno
la ferrata zampa
de superbi corsier che irrequieti
ne
grandatri sospigne arretra e volge
la disciplina dellardito
auriga.
Sorgi, e tappresta a render baldi e lieti
del tuo
nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente signor scender non
lice
da le stanze superne infin che al gelo,
o al meriggio non
abbia il cocchier stanco
durato un pezzo, onde luom servo
intenda
per quanto immensa via natura il parta
dal suo signore.
I miei precetti intanto
io seguirò; che varie al tuo
mattino
portar dee cure il varïar dei giorni.
Tal
dì ti aspetta deloquenti fogli
serie a vergar, che al
Rodano, al Lemano
all Amstel, al Tirreno, allAdria
legga
il libraio che Momo, e Citerea
colmâr di beni, o il
più di lui possente
appaltator di forestiere scene
con
cui per opra tua facil donzella
sua virtù merchi, e non
sperato ottenga
guiderdone al suo canto. O di grandalma
primo
fregio ed onor Beneficenza,
che al merto porgi, ed a virtù
la mano!
Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi,
ed al
concilio de gli Dei lo aggiugni.
Tal
giorno ancora, o dogni giorno forse
den qualchore
serbarsi al molle ferro
che il pelo a te rigermogliante a
pena
din su la guancia miete, e par che invidj,
chaltri
fuor che lui solo esplori o scopra
unqua il tuo sesso. Arroge a
questi il giorno
che di lavacro universal convienti
bagnar le
membra, per tua propria mano,
o per altrui con odorose
spugne
trascorrendo la cute. È ver che allora
desser
mortal ti sembrerà; ma innalza
tu allor la mente, e de
grandavi tuoi
le imprese ti rimembra e gli ozj illustri
che
insino a te per secoli cotanti
misti scesero al chiaro altero
sangue,
e lubbioso pensier vedrai fuggirsi
lunge da te
per laere rapito
su lale de la Gloria alto volanti;
et
indi a poco sorgerai qual prima
gran Semidèo che a sé
solo somiglia.
Fama è così, che il dì quinto
le Fate
loro salma immortal vedean coprirsi
già
dorribili scaglie, e in feda serpe
volta strisciar sul suolo
a sé facendo
de le inarcate spire impeto e forza;
ma il
primo sol le rivedea più belle
far beati gli amanti, e a un
volger docchi
mescere a voglia lor la terra e il mare.
Fia
duopo ancor, che da le lunghe cure
tallevj alquanto, e
con pietosa mano
il teso per gran tempo arco rallenti.
Signore,
al ciel non è più cara cosa
di tua salute: e troppo
a noi mortali
è il viver de tuoi pari util tesoro.
Tu
adunque allor che placida mattina
vestita riderà dun
bel sereno
esci pedestre, e le abbattute membra
allaura
salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuojo a te la gamba
calzi
purpureo stivaletto, onde il tuo piede
non macchino
giammai la polve e l limo,
che luom calpesta. A te
savvolga intorno
leggiadra veste che sul dorso sciolta
vada
ondeggiando, e tue formose braccia
leghi in manica angusta a cui
vermiglio
o cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color
che lelitropio tigne
sottilissima benda indi ti fasci
la
snella gola: e il crin... Ma il crin, Signore,
forma non abbia
ancor da la man dotta
dellartefice suo; che troppo
fora,
ahi! troppo grave error lasciar tantopra
de le
licenziose aure in balìa.
Non senzarte però
vada negletto
su gli omeri a cader; ma, o che natura
a te il
nodrisca, o che da ignota fronte
il più famoso parrucchier
lo tolga,
e ladatti al tuo capo, in sul tuo capo
ripiegato
lafferri e lo sospenda
con testugginei denti il pettin
curvo.
Poi
che in tal guisa te medesmo ornato
con artificio negligente
avrai,
esci pedestre a respirar talvolta
laere mattutino;
e ad alta canna
appoggiando la man, quasi baleno
le vie
trascorri, e premi ed urta il volgo
che soppone al tuo
corso. In altra guisa
fora colpa luscir, però che
andriéno
mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Ciò
ti basti per or. Già loriolo
a girtene ti affretta.
Ohimè che vago
arsenal minutissimo di cose
ciondola
quindi, e ripercosso insieme
molce con soavissimo tintinno!
di
costì che non pende? avvi per fino
piccioli cocchi e
piccioli destrieri
finti in oro così, che sembran vivi.
Ma
vhai tu il meglio? ah sì, che i miei precetti
sagace
prevenisti: ecco che splende
chiuso in picciol cristallo il dolce
pegno
di fortunato amor. Lunge o profani,
che a voi tantoltre
penetrar non lice.
E voi dellaltro secolo feroci,
ed
ispidavi i vostri almi nipoti
venite oggi a mirar. Co
sanguinosi
pugnali a lato le campestri rocche
voi godeste
abitar, truci allaspetto,
e per gran baffi rigidi la
guancia
consultando gli sgherri, e sol giojendo
di trattar
larme che dorribil palla
givan notturne a traforar le
porte
del non meno di voi rivale armato.
Ma i vostri almi
nipoti oggi si stanno
ad agitar fra le tranquille dita
Delloriolo
i ciondoli vezzosi;
ed opra è lor se allinnocenza
antica
torna pur anco, e bamboleggia, il mondo.
Or
vanne, o mio signore, e il pranzo allegra
de la tua dama: a lei
dolce ministro
dispensa i cibi, e detta al suo palato
e a la
sua fame inviolabil legge.
Ma tu non obliar, che in nulla
cosa
esser mediocre a gran Signor non lice:
abbia il popol
confini; a voi natura
donò senza confini e mente, e
cuore.
Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi
ogni vivanda, e
te medesmo rendi
per inedia famoso, o nome acquista
dillustre
voratore. Intanto addio
degli uomini delizia, e di tua stirpe,
e
de la patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umìli in
bipartita schiera
taccolgono i tuoi servi: altri già
pronto
via se ne corre ad annunciare al mondo,
che tu vieni a
bearlo; altri a le braccia
timido ti sostien mentre il
dorato
cocchio tu sali, e tacito, e severo
sur un canto ti
sdrai. Apriti o vulgo,
e cedi il passo al trono ove sasside
il
mio signore: ahi te meschin sei perde
un sol per te de
preziosi istanti.
Temi l non mai da legge, o verga, o
fune
domabile cocchier, temi le rote,
che già più
volte le tue membra in giro
avvolser seco, e del tuo impuro
sangue
corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
spettacol
miserabile! segnâro.
Il Mezzogiorno
Ardirò
ancor tra i desinari illustri
sul meriggio innoltrarmi umil
cantore,
poiché troppa di te cura mi punge,
signor,
ch'io spero un dì veder maestro
e dittator di graziosi
modi
all'alma gioventù che Italia onora.
Tal
fra le tazze e i coronati vini,
onde all'ospite suo fe' lieta
pompa
la punica regina, i canti alzava
Jopa crinito: e la
regina intanto
da' begli occhi stranieri iva beendo
l'oblivion
del misero Sichèo:
e tale allor che l'orba Itaca in
vano
chiedea a Nettun la prole di Laerte,
Femio s'udìa
co' versi e con la cetra
la facil mensa rallegrar de' proci
cui
dell'errante Ulisse i pingui agnelli
e i petrosi licori, e la
consorte
invitavano al pranzo. Amici or piega,
giovin signore,
al mio cantar gli orecchi
or che tra nuove Elise, e novi proci,
e
tra fedeli ancor Penelopèe,
ti guidano a la mensa i versi
miei.
Già
dal meriggio ardente il sol fuggendo
verge all'occaso: e i
piccioli mortali
dominati dal tempo escon di novo
a popolar le
vie ch'all'oriente
volgon ombra già grande: a te
null'altro
dominator fuor che te stesso è dato.
Alfin
di consigliarsi al fido speglio
la tua dama cessò. Quante
uopo è volte
chiedette, e rimandò novelli
ornati;
quante convien de le agitate ognora
damigelle or con
vezzi or con garriti
rovesciò la fortuna; a se
medesma
quante volte convien piacque e dispiacque;
e quante
volte è d'uopo a sé ragione
fece, e a' suoi
lodatori. I mille intorno
dispersi arnesi alfin raccolse in uno
la
consapevol del suo cor ministra;
alfin velata d'un leggier
zendado
è l'ara tutelar di sua beltate;
e la seggiola
sacra, un po' rimossa,
languidetta l'accoglie. Intorno ad
essa
pochi giovani eroi van rimembrando
i cari lacci altrui,
mentre da lungi
ad altra intorno i cari lacci vostri
pochi
giovani eroi van rimembrando.
Il
marito gentil queto sorride
a le lor celie; o s'ei si cruccia
alquanto,
del tuo lungo tardar solo si cruccia.
Nulla però
di lui cura te prenda
oggi, o signore, e s'egli a par del
vulgo
prostrò l'anima imbelle, e non sdegnosse
di
chiamarsi marito, a par del vulgo
senta la fame esercitargl'in
petto
lo stimol fier degli oziosi sughi
avidi d'esca: o s'a un
marito alcuna
d'anima generosa orma rimane,
ad altra mensa il
piè rivolga; e d'altra
dama al fianco s'assida il cui
marito
pranzi altrove lontan d'un'altra a lato
ch'abbia lungi
lo sposo: e così nuove
anella intrecci a la catena
immensa
onde, alternando, Amor l'anime annoda.
Ma
sia che vuol, tu baldanzoso innoltra
ne le stanze più
interne: ecco precorre
per annunciarti al gabinetto estremo
il
noto stropiccìo de' piedi tuoi.
Già lo sposo
t'incontra. In un baleno
sfugge dall'altrui man l'accorta mano
de
la tua dama: e il suo bel labbro intanto
t'apparecchia un sorriso.
Ognun s'arretra
che conosce i tuoi dritti, e si conforta
con le
adulte speranze a te lasciando
libero e scarco il più beato
seggio.
Tal colà dove infra gelose mura
Bizanzio ed
Ispaàn guardano il fiore
de la beltà che il popolato
Egèo
manda, e l'armeno, e il Tartaro, e il circasso
per
delizia d'un solo, a bear entra
l'ardente sposa il grave
munsulmano.
Tra 'l maestoso passeggiar gli ondeggiano
le late
spalle, e sopra l'alta testa
le avvolte fasce: dall'arcato
ciglio
ei volge intorno imperioso il guardo;
e vede al su'
apparire umil chinarsi,
e il piè ritrar l'effeminata,
occhiuta
turba, che sorridendo egli dispregia.
Ora
imponi, o signor, che tutte a schiera
si dispongan tue grazie; e a
la tua dama
quanto elegante esser più puoi ti
mostra.
Tengasi al fianco la sinistra mano
sotto il breve
giubbon celata; e l'altra
sul finissimo lin posi, e
s'asconda
vicino al cor: sublime alzisi 'l petto,
sorgan gli
omeri entrambi, e verso lei
piega il duttile collo; ai lati
stringi
le labbra un poco; ver lo mezzo acute
rendile alquanto,
e da la bocca poi
compendiata in guisa tal sen esca
un non
inteso mormorio. La destra
ella intanto ti porga: e molle
caschi
sopra i tiepidi avorj un doppio bacio.
Siedi tu poscia;
e d'una man trascina
più presso a lei la seggioletta.
Ognuno
tacciasi; ma tu sol curvato alquanto
seco susurra ignoti
detti a cui
concordin vicendevoli sorrisi,
e sfavillar di
cupidette luci
che amor dimostri, o che lo finga almeno.
Ma
rimembra, o signor, che troppo nuoce
negli amorosi cor lunga e
ostinata
tranquillità. Su l'oceàno ancora
perigliosa
è la calma: oh quante volte
dall'immobile prora il buon
nocchiere
invocò la tempesta! e sì crudele
soccorso
ancor gli fu negato; e giacque
affamato assetato estenuato
dal
velenoso aere stagnante oppresso
tra l'inutile ciurma al suol
languendo.
Però ti giovi de la scorsa notte
ricordar le
vicende; e con obliqui
motti pungerl' alquanto, o se nel
volto
paga più che non suole accôr fu vista
il
novello straniere; e co' bei labbri
semiaperti aspettar, quasi
marina
conca, la soavissima rugiada
de' novi accenti: o se
cupida troppo
col guardo accompagnò di loggia in loggia
il
seguace di Marte, idol vegliante
de' feminili voti, a la cui
chioma
col lauro trionfal s'avvolgon mille
e mille frondi
dell'idalio mirto.
Colpevole
o innocente allor la bella
dama improviso adombrerà la
fronte
d'un nuvoletto di verace sdegno
o simulato; e la nevosa
spalla
scoterà un poco; e premerà col dente
l'infimo
labbro: e volgeransi alfine
gli altri a bear le sue parole
estreme.
Fors'anco rintuzzar di tue querele
saprà
l'agrezza; e sovvenir faratti
le visite furtive ai tetti, ai
cocchi
ed a le logge de le mogli illustri
di ricchi cittadini a
cui sovente,
per calle che il piacer mostra, piegarsi
la maestà
di cavalier non sdegna.
Felice
te, se mesta e disdegnosa
la conduci a la mensa; e s'ivi puoi
solo
piegarla a comportar de' cibi
la nausea universal. Sorridan pure
a
le vostre dolcissime querele
i convitati; e l'un l'altro
percota
col gomito maligno: ah nondimeno
come fremon lor alme;
e quanta invidia
ti portan, te veggendo unico scopo
di sì
bell'ire! Al solo sposo è dato
nodrir nel cor magnanima
quiete,
mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto
docil fidanza
ne le innocue luci.
O
tre fiate avventurosi e quattro
voi del nostro buon secolo
mariti
quanto diversi da' vostr'avi! Un tempo
uscìa
d'Averno con viperei crini,
con torbid'occhi irrequieti, e
fredde
tenaci branche un indomabil mostro
che ansando e
anelando intorno giva
ai nuziali letti; e tutto empiea
di
sospetto e di fremito e di sangue.
Allor gli antri domestici, le
selve,
l'onde, le rupi alto ulular s'udièno
di feminili
strida: allor le belle
dame con mani incrocicchiate, e luci
pavide
al ciel, tremando lagrimando,
tra la pompa feral de le
lugubri
sale vedean dal truce sposo offrirsi
le tazze
attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia! Il tuo furor
medesmo
oltre l'alpi, oltre 'l mar destò le risa
presso
agli emoli tuoi che di gelosa
titol ti diero; e t'è serbato
ancora
ingiustamente. Non di cieco amore
vicendevol desire,
alterno impulso,
non di costume simiglianza or guida
gl'incauti
sposi al talamo bramato;
ma la prudenza coi canuti padri
siede
librando il molt'oro, e i divini
antiquissimi sangui: e allor che
l'uno
bene all'altro risponde, ecco Imenèo
scoter sua
face; e unirsi al freddo sposo,
di lui non già, ma de le
nozze amante
la freddissima vergine che in core
già
volge i riti del bel mondo; e lieta
l'indifferenza maritale
affronta.
Così non fien de la crudel Megera
più
temuti gli sdegni. Oltre Pirene
contenda or pur le desiate
porte
ai gravi amanti; e di feminee risse
turbi Oriente: Italia
oggi si ride
di quello ond'era già derisa; tanto
puote
una sola età volger le menti!
Ma
già rimbomba d'una in altra sala
il tuo nome, o signor; di
già l'udìro
l'ime officine ove al volubil
tatto
degl'ingenui palati arduo s'appresta
solletico che molle
i nervi scota,
e varia seco voluttà conduca
fino al core
dell'alma. In bianche spoglie
s'affrettano a compir la nobil
opra
prodi ministri: e lor sue leggi detta
una gran mente del
paese uscita
ove Colbert, e Richelieu fûr chiari.
Forse
con tanta maestade in fronte
presso a le navi ond'Ilio arse e
cadèo,
per gli ospiti famosi il grande Achille
disegnava
la cena: e seco intanto
le vivande cocean sui lenti fochi
Pàtroclo
fido, e il guidator di carri
Automedonte. O tu sagace mastro
di
lusinghe al palato udrai fra poco
sonar le lodi tue dall'alta
mensa.
Chi fia che ardisca di trovar pur macchia
nel tuo
lavoro? Il tuo signor farassi
campion de le tue glorie; e male a
quanti
cercator di conviti oseran motto
pronunciar contro te;
ché sul cocente
meriggio andran peregrinando poi
miseri
e stanchi, e non avran cui piaccia
più popolar con le lor
bocche i pranzi.
Imbandita
è la mensa. In piè d'un salto
alzati e porgi, almo
signor, la mano
a la tua dama; e lei dolce cadente
sopra di te
col tuo valor sostieni,
e al pranzo l'accompagna. I
convitati
vengan dopo di voi; quindi 'l marito
ultimo segua. O
prole alta di numi
non vergognate di donar voi anco
pochi
momenti al cibo: in voi non fia
vil opra il pasto; a quei soltanto
è vile,
che il duro irresistibile bisogno
stimola e
caccia. All'impeto di quello
cedan l'orso, la tigre, il falco, il
nibbio,
l'orca, il delfino, e quant'altri mortali
vivon
quaggiù; ma voi con rosee labbra
la sola Voluttade inviti
al pasto,
la sola Voluttà che le celesti
mense
imbandisce, e al nèttare convita
i viventi per sé
dèi sempiterni.
Forse
vero non è; ma un giorno è fama,
che fûr gli
uomini eguali; e ignoti nomi
fûr plebe, e nobiltade. Al
cibo, al bere,
all'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno
un
istinto medesmo, un'egual forza
sospingeva gli umani: e niun
consiglio
niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi
era lor
conceduta. A un rivo stesso,
a un medesimo frutto, a una
stess'ombra
convenivano insieme i primi padri
del tuo sangue, o
signore, e i primi padri
de la plebe spregiata. I medesm'antri
il
medesimo suolo offrieno loro
il riposo, e l'albergo; e a le lor
membra
i medesmi animai le irsute vesti.
Sol' una cura a tutti
era comune
di sfuggire il dolore, e ignota cosa
era il desire
agli uman petti ancora.
L'uniforme
degli uomini sembianza
spiacque a' celesti: e a variar la terra
fu
spedito il Piacer. Quale già i numi
d'Ilio sui campi, tal
l'amico genio,
lieve lieve per l'aere labendo
s'avvicina a la
terra; e questa ride
di riso ancor non conosciuto. Ei move,
e
l'aura estiva del cadente rivo,
e dei clivi odorosi a lui
blandisce
le vaghe membra, e lentamente sdrucciola
sul
tondeggiar dei muscoli gentile.
Gli s'aggiran d'intorno i Vezzi e
i Giochi,
e come ambrosia, le lusinghe scorrongli
da le fraghe
del labbro: e da le luci
socchiuse, languidette, umide fuori
di
tremulo fulgore escon scintille
ond'arde l'aere che scendendo ei
varca.
Alfin sul
dorso tuo sentisti, o Terra,
sua prim'orma stamparsi; e tosto un
lento
tremere soavissimo si sparse
di cosa in cosa; e ognor
crescendo, tutte
di natura le viscere commosse:
come nell'arsa
state il tuono s'ode
che di lontano mormorando viene;
e col
profondo suon di monte in monte
sorge; e la valle, e la foresta
intorno
mugon del fragoroso alto rimbombo,
finché poi
cade la feconda pioggia
che gli uomini e le fere e i fiori e
l'erbe
ravviva riconforta allegra e abbella.
Oh
beati tra gli altri, oh cari al cielo
viventi a cui con miglior
man Titano
formò gli organi illustri, e meglio tese,
e
di fluido agilissimo inondolli!
Voi l'ignoto solletico
sentiste
del celeste motore. In voi ben tosto
le voglie
fermentâr, nacque il desio.
Voi primieri scopriste il buono,
il meglio;
e con foga dolcissima correste
a possederli. Allor
quel de' due sessi,
che necessario in prima era
soltanto,
d'amabile, e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di
Paride voi deste
il primo esempio: tra feminei volti
a
distinguer s'apprese; e voi sentiste
primamente le grazie. A voi
tra mille
sapor fûr noti i più soavi: allora
fu il
vin preposto all'onda; e il vin s'elesse
figlio de' tralci più
riarsi, e posti
a più fervido sol, ne' più
sublimi
colli dove più zolfo il suolo impingua.
Così
l'Uom si divise: e fu il signore
dai volgari distinto a cui nel
seno
troppo languir l'ebeti fibre, inette
a rimbalzar sotto i
soavi colpi
de la nova cagione onde fûr tocche:
e quasi
bovi, al suol curvati ancora
dinanzi al pungol del bisogno
andâro;
e tra la servitute, e la viltade,
e 'l travaglio,
e l'inopia a viver nati,
ebber nome di plebe. Or tu signore
che
feltrato per mille invitte reni
sangue racchiudi, poiché in
altra etade
arte, forza, o fortuna i padri tuoi
grandi
rendette, poiché il tempo alfine
lor divisi tesori in te
raccolse,
del tuo senso gioisci, a te dai numi
concessa parte:
e l'umil vulgo intanto
dell'industria donato, ora ministri
a te
i piaceri tuoi nato a recarli
su la mensa real, non a gioirne.
Ecco
la dama tua s'asside al desco:
tu la man le abbandona; e mentre il
servo
la seggiola avanzando, all'agil fianco
la sottopon, sì
che lontana troppo
ella non sia, né da vicin col
petto
prema troppo la mensa, un picciol salto
spicca, e chino
raccogli a lei del lembo
il diffuso volume. A lato poscia
di
lei tu siedi: a cavalier gentile
il fianco abbandonar de la sua
dama
non fia lecito mai, se già non sorge
strana cagione
a meritar, ch'egli usi
tanta licenza. Un nume ebber gli
antichi
immobil sempre, e ch'allo stesso padre
degli dèi
non cedette, allor ch'ei venne
il Campidoglio ad abitar, sebbene
e
Giuno e Febo e Venere e Gradivo
e tutti gli altri dèi da le
lor sedi
per riverenza del Tonante uscîro.
Indistinto
ad ognaltro il loco sia
presso al nobile desco: e s'alcun
arde
ambizioso di brillar fra gli altri,
brilli altramente. Oh
come i varj ingegni
la libertà del genial convito
desta
ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio,
maliziosetto svolazzando
intorno,
reca su l'ali fuggitive ed agita
ora i raccolti da la
fama errori
de le belle lontane, ora d'amante
o di marito i
semplici costumi:
e gode di mirare il queto sposo
rider
primiero, e di crucciar con lievi
minacce in cor de la sua fida
sposa
i timidi segreti. Ivi abbracciata
co' festivi Racconti
intorno gira
l'elegante Licenza: or nuda appare
come le Grazie;
or con leggiadro velo
solletica vie meglio; e s'affatica
di
richiamar de le matrone al volto
quella rosa gentil che fu già
un tempo
onor di belle donne, all'Amor cara
e cara
all'Onestade; ora ne' campi
cresce solinga, e tra i selvaggi
scherzi
a le rozze villane il viso adorna.
Già
s'avanza la mensa. In mille guise
e di mille sapor, di color
mille
la variata eredità degli avi
scherza ne' piatti; e
giust'ordine serba.
Forse a la dama di sua man le dapi
piacerà
ministrar, che novo pregio
acquisteran da lei. Veloce il ferro
che
forbito ti attende al destro lato
nudo fuor esca; e come quel di
Marte,
scintillando lampeggi: indi la punta
fra due dita ne
stringi, e chino a lei
tu il presenta, o signore. Or si
vedranno
de la candida mano all'opra intenta
i muscoli giocar
soavi e molli:
e le grazie, piegandosi dintorno,
vestiran nuove
forme, or da le dita
fuggevoli scorrendo, ora su l'alto
de' bei
nodi insensibili aleggiando,
et or de le pozzette in sen
cadendo,
che dei nodi al confin v'impresse Amore.
Mille baci di
freno impazienti
ecco sorgon dal labbro ai convitati;
già
s'arrischian, già volano, già un guardo
sfugge dagli
occhi tuoi, che i vanti audaci
fulmina, et arde, e tue ragion
difende.
Sol de la fida sposa a cui se' caro
il tranquillo
marito immoto siede:
e nulla impression l'agita e scuote
di
brama, o di timor; però che Imene
da capo a piè
fatollo. Imene or porta
non più serti di rose avvolti al
crine,
ma stupido papavero grondante
di crassa onda letèa:
Imene, e il Sonno
oggi han pari le insegne. Oh come spesso
la
dama dilicata invoca il Sonno
che al talamo presieda, e seco
invece
trova Imenèo; e stupida rimane
quasi al meriggio
stanca villanella
che tra l'erbe innocenti adagia il fianco
queta
e sicura; e d'improviso vede
un serpe; e balza in piedi
inorridita;
e le rigide man stende, e ritragge
il gomito, e
l'anelito sospende;
e immota e muta, e con le labbra
aperte
obliquamente il guarda! Oh come spesso
incauto amante a
la sua lunga pena
cercò sollievo: et invocar
credendo
Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi
di
fredda oblivion l'alma gli asperse;
e d'invincibil noia, e di
torpente
indifferenza gli ricinse il core.
Ma
se a la dama dispensar non piace
le vivande, o non giova, allor tu
stesso
il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui
più
brillerà così l'enorme gemma,
dolc'esca agli usurai,
che quella osâro
a le promesse di signor
preporre
villanamente: ed osservati fieno
i manichetti, la più
nobil opra
che tessesse giammai anglica Aracne.
Invidieran tua
dilicata mano
i convitati; inarcheran le ciglia
sul difficil
lavoro, e d'oggi in poi
ti fia ceduto il trinciator coltello
che
al cadetto guerrier serban le mense.
Teco
son io, signor; già intendo e veggo
felice osservatore i
detti e i motti
de' semidei che coronando stanno,
e con vario
costume ornan la mensa.
Or chi è quell'eroe che tanta
parte
colà ingombra di loco, e mangia e fiuta
e guata e
de le altrui cure ridendo
si superba di ventre agita mole?
Oh
di mente acutissima dotate
mamme del suo palato! oh da
mortali
invidiabil anima che siede
tra la mirabil lor testura;
e quindi
l'ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi più
saggio di lui penètra e intende
la natura migliore; o chi
più industre
converte a suo piacer l'aria, la terra,
e
'l ferace di mostri ondoso abisso?
Qualor s'accosta al desco
altrui, paventano
suo gusto inesorabile le smilze
ombre de'
padri, che per l'aria lievi
s'aggirano vegliando ancora intorno
ai
ceduti tesori: e piangon lasse
le mal spese vigilie, i sobrj
pasti,
le in preda all'aquilon case, le antique
digiune rozze,
gli scommessi cocchj
forte assordanti per stridente ferro
le
piazze e i tetti: e lamentando vanno
gl'invan nudati rustici, le
fami
mal desiate, e de le sacre toghe
l'armata in vano autorità
sul vulgo.
Chi
siede a lui vicin? Per certo il caso
congiunse accorto i due
leggiadri estremi
perché doppio spettacolo campeggi;
e
l'un dell'altro al par più lustri e splenda.
Falcato dio
degli orti a cui la greca
Làmsaco d'asinelli offrir
solea
vittima degna, al giovine seguace
del sapiente di Samo i
doni tuoi
reca sul desco: egli ozioso siede
dispregiando le
carni; e le narici
schifo raggrinza, in nauseanti rughe
ripiega
i labbri, e poco pane intanto
rumina lentamente. Altro giammai
a
la squallida fame eroe non seppe
durar sì forte: né
lassezza il vinse
né deliquio giammai né febbre
ardente;
tanto importa lo aver scarze le membra,
singolare il
costume, e nel bel mondo
onor di filosofico talento.
Qual anima
è volgar la sua pietade
all'Uom riserbi; e facile
ribrezzo
déstino in lui del suo simile i danni,
i
bisogni, e le piaghe. Il cor di lui
sdegna comune affetto; e i
dolci moti
a più lontano limite sospinge.
«Pera
colui che prima osò la mano
armata alzar su l'innocente
agnella,
e sul placido bue: né il truculento
cor gli
piegâro i teneri belati
né i pietosi mugiti né
le molli
lingue lambenti tortuosamente
la man che il loro fato,
ahimè, stringea.»
Tal ei parla, o signore; e sorge
intanto
al suo pietoso favellar dagli occhi
de la tua dama
dolce lagrimetta
pari a le stille tremule, brillanti
che a la
nova stagion gemendo vanno
dai palmiti di Bacco entro commossi
al
tiepido spirar de le prim'aure
fecondatrici. Or le sovviene il
giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia
de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan
del servo con l'eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli
audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte
rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le
molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti
alzando: aita aita
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei
l'impietosita Eco rispose:
e dagl'infimi chiostri i mesti
servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide
tremanti
precipitâro. Accorse ognuno; il volto
fu
spruzzato d'essenze a la tua dama;
ella rinvenne alfin: l'ira, il
dolore
l'agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul
servo, e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia:
e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder
sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le grazie
alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì
la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non
valse
zelo d'arcani uficj: in van per lui
fu pregato e
promesso; ei nudo andonne
dell'assisa spogliato ond'era un
giorno
venerabile al vulgo. In van novello
signor sperò;
ché le pietose dame
inorridìro, e del misfatto
atroce
odiâr l'autore. Il misero si giacque
con la
squallida prole, e con la nuda
consorte a lato su la via
spargendo
al passeggiere inutile lamento:
e tu vergine cuccia,
idol placato
da le vittime umane, isti superba.
Fia
tua cura, o signore, or che più ferve
la mensa, di vegliar
su i cibi; e pronto
scoprir qual d'essi a la tua dama è
caro:
o qual di raro augel, di stranio pesce
parte le aggrada.
Il tuo coltello Amore
anatomico renda, Amor che tutte
degli
animali noverar le membra
puote; e discerner sa qual abbian
tutte
Uso, e natura. Più d'ognaltra cosa
però ti
caglia rammentar mai sempre
qual più cibo le nuoca, o qual
più giovi;
e l'un rapisci a lei, l'altro concedi
come
d'uopo ti par. Serbala, oh dio,
serbala ai cari figlj. Essi dal
giorno
che le alleviâro il dilicato fianco
non la rivider
più: d'ignobil petto
esaurirono i vasi, e la
ricolma
nitidezza serbâro al sen materno.
Sgridala, se a
te par, ch'avida troppo
agogni al cibo; e le ricorda i mali
che
forse avranno altra cagione, e ch'ella
al cibo imputerà nel
dì venturo.
Né al cucinier perdona a cui non
calse
tanta salute. A te sui servi altrui
ragion donossi in
quel felice istante
che la noia, o l'amor vi strinser ambo
in
dolce nodo; e dier ordini e leggi.
Per te sgravato d'odioso
incarco
ti fia grato colui che dritto vanta
d'impor novo
cognome a la tua dama;
e pinte trascinar su gli aurei
cocchi
giunte a quelle di lei le proprie insegne:
dritto
illustre per lui, e ch'altri seco
audace non tentò divider
mai.
Ma
non sempre, o signor, tue cure fieno
a la dama rivolte: anco
talora
ti fia lecito aver qualche riposo;
e de la quercia
trionfale all'ombra
te de la polve olimpica tergendo,
al vario
ragionar degli altri eroi
porgere orecchio, e il tuo sermone ai
loro
ozioso mischiar. Già scote un d'essi
le
architettate del bel crine anella
su l'orecchio ondeggianti; e ad
ogni scossa,
de' convitati a le narici manda
vezzoso nembo
d'arabi profumi.
Allo spirto di lui l'alma Natura
fu prodiga
così, che più non seppe
di che il volto abbellirgli;
e all'Arte disse:
- Compisci 'l mio lavoro; - e l'Arte
suda
sollecita d'intorno all'opra illustre.
Molli tinture,
preziose linfe,
polvi, pastiglie, dilicati unguenti
tutto
arrischia per lui. Quanto di novo,
e mostruoso più sa
tesser spola,
o bulino intagliar francese ed anglo
a lui primo
concede. Oh lui beato,
che primo può di non più
viste forme
tabacchiera mostrar! l'etica invidia
i grandi
eguali a lui lacera, e mangia;
ed ei pago di sé,
superbamente
crudo fa loro balenar su gli occhi
l'ultima gloria
onde Parigi ornollo.
Forse altera così d'Egitto in
faccia
vaga prole di Semele apparisti
i giocondi rubini alto
levando
del grappolo primiero: e tal tu forse
tessalico garzon
mostrasti a Jolco
l'auree lane rapite al fero drago.
Vedi,
o signor, quanto magnanim'ira
nell'eroe che vicino all'altro
siede
a quel novo spettacolo si desta:
vedi come s'affanna, e
sembra il cibo
obliar declamando. Al certo al certo
il nemico è
a le porte: ohimè i Penati
tremano, e in forse è la
civil salute.
Ah no; più grave a lui, più
preziosa
cura lo infiamma: - Oh depravati ingegni
degli
artefici nostri! In van si spera
dall'inerte lor man lavoro
industre,
felice invenzion d'uom nobil degna:
chi sa
intrecciar, chi sa pulir fermaglio
a nobile calzar? chi tesser
drappo
soffribil tanto, che d'ornar presuma
le membra di signor
che un lustro a pena
di feudo conti? In van s'adopra e stanca
chi
'l genio lor bituminoso e crasso
osa destar. Di là
dall'Alpi è forza
ricercar l'eleganza: e chi giammai
fuor
che il Genio di Francia osato avrebbe
su i menomi lavori i Grechi
ornati
recar felicemente? Andò romito
il bongusto finora
spaziando
su le auguste cornici, e su gli eccelsi
timpani de le
moli al nume sacre,
e agli uomini scettrati; oggi ne scende
vago
alfin di condurre i gravi fregi
infra le man di cavalieri e
dame:
tosto forse il vedrem trascinar anco
su molli veli, e
nuziali doni
le greche travi; e docile trastullo
fien de la
moda le colonne, e gli archi
ove sedeano i secoli canuti -.
-
Commercio! - alto gridar; gridar: - commercio! -
all'altro lato de
la mensa or odi
con fanatica voce: e tra 'l fragore
d'un
peregrino d'eloquenza fiume,
di bella novità stampate al
conio
le forme apprendi, onde assai meglio poi
brillantati i
pensier picchin la mente.
Tu pur grida: - Commercio! e la tua
dama
anco un motto ne dica. Empiono è vero
il nostro
suol di Cerere i favori,
che tra i folti di biade immensi
campi
move sublime; e fuor ne mostra a pena
tra le spighe
confuso il crin dorato.
Bacco, e Vertunno i lieti poggi intorno
ne
coronan di poma: e Pale amica
latte ne preme a larga mano, e
tonde
candidi velli, e per li prati pasce
mille al palato uman
vittime sacre:
cresce fecondo il lin soave cura
del verno
rusticale; e d'infinita
serie ne cinge le campagne il tanto
per
la morte di Tisbe arbor famoso.
Che vale or ciò? Su le
natie lor balze
rodan le capre; ruminando il bue
lungo i prati
natii vada; e la plebe
non dissimile a lor, si nutra e vesta
de
le fatiche sue; ma a le grand'alme
di troppo agevol ben schife
Cillenio
il comodo presenti a cui le miglia
pregio acquistino,
e l'oro; e d'ogn'intorno:
commercio, risonar s'oda,
commercio.
Tale dai letti de la molle rosa
Sìbari ancor
gridar soleva; i lumi
disdegnando volgea dai campi aviti,
troppo
per lei ignobil cura; e mentre
Cartagin dura a le fatiche, e
Tiro,
pericolando per l'immenso sale,
con l'oro altrui le
voluttà cambiava,
Sìbari si volgea sull'altro
lato;
e non premute ancor rose cercando,
pur di commercio
novellava, e d'arti.
Né
senza i miei precetti, e senza scorta
inerudito andrai, signor,
qualora
il perverso destin dal fianco amato
t'allontani a la
mensa. Avvien sovente,
che un grande illustre or l'Alpi, or
l'oceàno
varca, e scende in Ausonia, orribil ceffo
per
natura o per arte, a cui Ciprigna
rose le nari; e sale impuro e
crudo
snudò i denti ineguali. Ora il distingue
risibil
gobba, or furiosi sguardi,
obliqui o loschi; or rantoloso
avvolge
tra le tumide fauci ampio volume
di voce che gorgoglia,
ed esce alfine
come da inverso fiasco onda che goccia.
Ora
d'avi or di cavalli ora di Frini
instancabile parla, or de'
celesti
le folgori deride. Aurei monili,
e gemme e nastri
gloriose pompe
l'ingombran tutto; e gran titolo suona
dinanzi a
lui. Qual più tra noi risplende
inclita stirpe, che onorar
non voglia
d'un ospite sì degno i lari suoi?
Ei però
sederà de la tua dama
al fianco ancora: e tu lontan da
Giuno
tra i silvani capripedi n'andrai
presso al marito; e
pranzerai negletto
col popol folto degli dèi minori.
Ma
negletto non già dagli occhi andrai
de la dama gentil, che
a te rivolti
incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto
arderà
di faville: e Amor con l'ali
l'agiterà. Nel fortunato
incontro
i messaggier pacifici dell'alma
cambieran lor novelle,
e alternamente
spinti, rifluiranno a voi con dolce
delizioso
tremito sui cori.
Tu le ubbidisci allora, o se t'invita
le
vivande a gustar che a lei vicine
l'ordin dispose, o se a te
chiede in vece
quella che innanzi a te sue voglie punge
non col
soave odor, ma con le nove
leggiadre forme onde abbellir la
seppe
dell'ammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono
gli dèi
sopra le nubi del brillante Olimpo:
e le labbra
immortali irrita e move
non la materia, ma il divin lavoro.
Né
intento meno ad ubbidir sarai
i cenni del bel guardo allor che
quella
di licor peregrino ai labbri accosta
colmo bicchiere a
lo cui orlo intorno
serpe dorata striscia; o a cui vermiglia
cera
la base impronta, e par, che dica:
- Lungi o labbra profane: al
labbro solo
de la diva che qui soggiorna e regna
il castissimo
calice si serbi:
né cavalier con l'alito maschile
osi
appannarne il nitido cristallo,
né dama convitata unqua
presuma
di porvi i labbri; e sien pur casti e puri,
e
quant'esser si può cari all'amore.
Nessun'altra è di
lei più pura cosa;
chi macchiarla oserà? Le Ninfe in
vano
da le arenose loro urne versando
cento limpidi rivi, al
candor primo
tornar vorrièno il profanato vaso;
e degno
farlo di salir di novo
a le labbra celesti, a cui non
lice
lnviolate approssimarsi ai vasi
che convitati cavalieri, e
dame
convitate macchiâr coi labbri loro. -
Tu ai cenni
del bel guardo, e de la mano
che reggendo il bicchier, sospesa
ondeggia,
affettuoso attendi. I guardi tuoi
sfavillando di
gioia, accolgan lieti
il brindisi segreto; e tu ti accingi
in
simil modo a tacita risposta.
Immortal
come voi la nostra Musa
Brindisi grida all'uno, e all'altro
amante;
all'altrui fida sposa a cui se' caro,
e a te, signor,
sua dolce cura e nostra.
Come annoso licor Lièo vi
mesce,
tale Amore a voi mesca eterna gioia
non gustata al
marito, e da coloro
invidiata che gustata l'hanno.
Veli con
l'ali sue sagace oblìo
le alterne infedeltà che un
cor dall'altro
potrièno un giorno separar per sempre
e
sole agli occhi vostri Amor discopra
le alterne infedeltà
che in ambo i cori
ventilar possan le cedenti fiamme.
Un
sempiterno indissolubil nodo
Àuguri ai vostri cor volgar
cantore;
nostra nobile Musa a voi desia
sol fin che piace a voi
durevol nodo.
Duri fin che a voi piace; e non si sciolga
senza
che fama sopra l'ali immense
tolga l'alta novella, e grande
n'empia
col reboàto dell'aperta tromba
l'ampia cittade,
e dell'Enotria i monti
e le piagge sonanti, e s'esser puote,
la
bianca Teti, e Guadiana, e Tule.
Il mattutino gabinetto, il
corso,
il teatro, la mensa in vario stile
ne ragionin gran
tempo: ognun ne chieda
il dolente marito; ed ei dall'alto
la
lamentabil favola cominci.
Tal su le scene ove agitar
solea
l'ombre tinte di sangue Argo piagnente,
squallido messo
al palpitante coro
narrava, come furiando Edipo
al talamo
corresse incestuoso;
come le porte rovescionne, e come
al
subito spettacolo risté
quando vicina del nefando
letto
vide in un corpo solo e sposa e madre
pender strozzata; e
del fatale uncino
le mani armossi; e con le proprie mani
a sé
le care luci da la testa
con le man proprie, misero! strapposse.
Ecco
volge al suo fine il pranzo illustre.
Già Como, e Dionisio
al desco intorno
rapidissimamente in danza girano
con la libera
gioia: ella saltando,
or questo or quel dei convitati lieve
tocca
col dito; e al suo toccar scoppiettano
brillanti vivacissime
scintille
ch'altre ne destan poi. Sonan le risa;
e il clamoroso
disputar s'accende.
La nobil vanità punge le menti;
e
l'Amor di sé sol, baldo scorrendo,
porge un scettro a
ciascuno, e dice: - Regna. -
Questi i concilj di Bellona, e
quegli
penetra i tempj de la pace. Un guida
i condottieri: ai
consiglier consiglio
l'altro dona, e divide e capovolge
con
seste ardite il pelago e la terra.
Qual di Pallade l'arti e de le
Muse
giudica e libra: qual ne scopre acuto
l'alte cagioni; e i
gran principj abbatte
cui creò la natura, e che
tiranni
sopra il senso degli uomini regnâro
gran tempo in
Grecia; e ne la tosca terra
rinacquer poi più poderosi e
forti.
Cotanto
adunque di sapere è dato
a nobil mente? Oh letto, oh
specchio, oh mensa,
oh corso, oh scena, oh feudi, oh sangue, oh
avi,
che per voi non s'apprende? Or tu signore,
col volo ardito
del felice ingegno
t'ergi sopra d'ognaltro. Il campo è
questo
ove splender più dei: nulla scienza,
sia
quant'esser si vuole arcana e grande,
ti spaventi giammai. Se cosa
udisti,
o leggesti al mattino onde tu possa
gloria sperar; qual
cacciator che segue
circuendo la fera, e sì la guida
e
volge di lontan, che a poco a poco
s'avvicina a le insidie, e
dentro piomba;
tal tu il sermone altrui volgi sagace
finché
là cada over spiegar ti giovi
il tuo novo tesor. Se nova
forma
del parlare apprendesti, allor ti piaccia
materia espor
che, favellando, ammetta
la nova gemma: e poi che il punto hai
colto,
ratto la scopri, e sfolgorando abbaglia
qual altra è
mente che superba andasse
di squisita eloquenza ai gran
convivj.
In simil guisa il favoloso amante
dell'animosa vergin
di Dordona
ai cavalier che l'assalien superbi
usar lasciava
ogni lor possa ed arte;
poi nel miglior de la terribil
pugna
svelava il don dell'amoroso mago:
e quei sorpresi
dall'immensa luce
cadeano ciechi e soggiogati a terra.
Se alcun
di Zoroastro, e d'Archimede
discepol sederà teco a la
mensa,
a lui ti volgi: seco lui ragiona;
suo linguaggio ne
apprendi, e quello poi
quas'innato a te fosse, alto ripeti:
né
paventar quel che l'antica fama
narrò de' suoi compagni.
Oggi la diva
Urania il crin compose: e gl'irti alunni
smarriti
vergognosi balbettanti
trasse da le lor cave ove pur dianzi
col
profondo silenzio e con la notte
tenean consiglio: indi le serve
braccia
fornien di leve onnipotenti ond'alto
salisser poi
piramidi, obelischi
ad eternar de' popoli superbi
i gravi casi:
oppur con feri dicchi
stavan contro i gran letti; o di
pignone
audace armati spaventosamente
cozzavan con la piena, e
giù a traverso
spezzate, dissipate rovesciavano
le tetre
corna, decima fatica
d'Ercole invitto. Ora i selvaggi amici
Urania
incivilì: baldi e leggiadri
nel gran mondo li guida o tra
'l clamore
de' frequenti convivj, oppur tra i vezzi
de'
gabinetti ove a la docil dama,
e al saggio cavalier mostran qual
via
Venere tenga; e in quante forme o quali
suo volto
lucidissimo si cambi.
Né
del poeta temerai, che beffi
con satira indiscreta i detti
tuoi;
né che a maligne risa esponer osi
tuo talento
immortal. Voi l'innalzaste
all'alta mensa: e tra la vostra
luce
beato l'avvolgeste; e de le Muse
a dispetto e d'Apollo, al
sacro coro
l'ascriveste de' vati. Egli 'l suo Pindo
feo de la
mensa: e guai a lui, se quinci
le dèe sdegnate giù
precipitando
con le forchette il cacciano! Meschino!
Più
non potria su le dolenti membra
del suo infermo signor chiedere
aita
da la buona Salute; o con alate
odi ringraziar, né
tesser inni
al barbato figliuol di Febo intonso:
più del
giorno natale i chiari albori
salutar non potrebbe, e l'auree
frecce
nomi-sempiternanti all'arco imporre:
non più gli
urti festevoli, o sul naso
l'elegante scoccar d'illustri dita
fora
dato sperare. A lui tu dunque
non isdegna, o signor, volger
talvolta
tu' amabil voce: a lui declama i versi
del dilicato
cortigian d'Augusto,
o di quel che tra Venere, e Lièo
pinse
Trimalcion. La Moda impone,
ch'arbitro, o Flacco a un bello spirto
ingombri
spesso le tasche. Il vostro amico vate
t'udrà,
maravigliando, il sermon prisco
or sciogliere or frenar qual più
ti piace:
e per la sua faretra, e per li cento
destrier focosi
che in Arcadia pasce
ti giurerà, che di Donato al paro
il
difficil sermone intendi e gusti.
Cotesto
ancor di rammentar fia tempo
i novi sofi, che la Gallia, e
l'Alpe
esecrando persegue: e dir qual arse
de' volumi infelici,
e andò macchiato
d'infame nota: e quale asilo
appresti
filosofia al morbido Aristippo
del secol nostro; e
qual ne appresti al novo
Diogene dell'auro spregiatore,
e della
opinione de' mortali.
Lor volumi famosi a te verranno
da le
fiamme fuggendo a gran giornate
per calle obliquo, e compri a gran
tesoro
o da cortese man prestati, fièno
lungo ornamento
a lo tuo speglio innanzi.
Poiché scorsi gli avrai pochi
momenti
specchiandoti, e a la man garrendo indotta
del
parrucchier; poiché t'avran la sera
conciliato il facil
sonno, allora
a la toilette passeran di quella
che
comuni ha con te studi e liceo
ove togato in cattedra
elegante
siede interprete Amor. Ma fia la mensa
il favorevol
loco ove al sol esca
de' brevi studj il glorioso frutto.
Qui
ti segnalerai co' novi sofi
schernendo il fren che i creduli
maggiori
atto solo stimâr l'impeto folle
a vincer de'
mortali, a stringer forte
nodo fra questi, e a sollevar lor
speme
con penne oltre natura alto volanti.
Chi por freno oserà
d'almo signore
a la mente od al cor? Paventi il vulgo
oltre
natura: il debole prudente
rispetti il vulgo; e quei, cui dona il
vulgo
titol di saggio, mediti romito
il ver celato; e alfin
cada adorando
la sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma il mio
signor, com'aquila sublime
dietro ai sofi novelli il volo
spieghi.
Perché più generoso il volo sia,
voli
senz'ale ancor; né degni 'l tergo
affaticar con penne.
Applauda intanto
tutta la mensa al tuo poggiare ardito.
Te con
lo sguardo, e con l'orecchio beva
la dama dalle tue labbra
rapita:
con cenno approvator vezzosa il capo
pieghi sovente: e
il «calcolo», e la «massa»,
e l'«inversa
ragion» sonino ancora
su la bocca amorosa. Or più non
odia
de le scole il sermone Amor maestro;
ma l'accademia e i
portici passeggia
de' filosofi al fianco, e con la molle
mano
accarezza le cadenti barbe.
Ma guàrdati, o signor, guàrdati
oh Dio!
dal tossico mortal che fuora esala
dai volumi famosi; e
occulto poi
sa, per le luci penetrato all'alma,
gir serpendo
nei cori; e con fallace
lusinghevole stil corromper tenta
il
generoso de le stirpi orgoglio
che ti scevra dal vulgo. Udrai da
quelli,
che ciascun de' mortali all'altro è pari;
che
caro a la Natura, e caro al cielo
è non meno di te colui
che regge
i tuoi destrieri, e quei ch'ara i tuoi campi;
e che
la tua pietade, e il tuo rispetto
dovrien fino a costor scender
vilmente.
Folli sogni d'infermo! Intatti lascia
così
strani consiglj; e sol ne apprendi
quel che la dolce voluttà
rinfranca,
quel che scioglie i desiri, e quel che nutre
la
libertà magnanima. Tu questo
reca solo a la mensa: e sol da
questo
cerca plausi ed onor. Così dell'api
l'industrioso
popolo ronzando,
gira di fiore in fior, di prato in prato;
e i
dissirnili sughi raccogliendo,
tesoreggia nell'arnie: un giorno
poi
ne van colme le pàtere dorate
sopra l'ara de' numi;
e d'ogn'intorno
ribocca la fragrante alma dolcezza.
Or
versa pur dall'odorato grembo
i tuoi doni o Pomona; e l'ampie
colma
tazze che d'oro e di color diversi
fregiò il
sàssone industre; il fine è giunto
de la mensa
divina. E tu dai greggi
rustica Pale coronata vieni
di melissa
olezzante e di ginebro;
e co' lavori tuoi di presso
latte
vergognando t'accosta a chi ti chiede,
ma deporli non
osa. In su la mensa
potrien deposti le celesti nari
commover
troppo, e con volgare olezzo
gli stomachi agitar. Torreggin
solo
su' ripiegati lini in varie forme
i latti tuoi cui di
serbato verno
rassodarono i sali, e reser atti
a dilettar con
subito rigore
di convitato cavalier le labbra.
Tu,
signor, che farai poiché fie posto
fine a la mensa, e che
lieve puntando
la tua dama gentil fatto avrà cenno,
che
di sorger è tempo? In piè d'un salto
balza prima di
tutti; a lei t'accosta,
la seggiola rimovi, la man porgi;
guidala
in altra stanza, e più non soffri,
che lo stagnante de le
dapi odore
il célabro le offenda. Ivi con gli
altri
gratissimo vapor t'invita, ond'empie
l'aria il caffè
che preparato fuma
in tavola minor cui vela ed orna
indica
tela. Ridolente gomma
quinci arde intanto; e va lustrando e
purga
l'aere profano, e fuor caccia del cibo
le volanti
reliquie. Egri mortali
cui la miseria e la fidanza un giorno
sul
meriggio guidâro a queste porte;
tumultuosa, ignuda, atroce
folla
di tronche membra, e di squallide facce,
e di bare e di
grucce, ora da lungi
vi confortate; e per le aperte nari
del
divin pranzo il néttare beete
che favorevol aura a voi
conduce:
ma non osate i limitari illustri
assediar, fastidioso
offrendo
spettacolo di mali a chi ci regna.
Or
la piccola tazza a te conviene
apprestare, o signor, che i lenti
sorsi
ministri poi de la tua dama ai labbri:
or memore avvertir
s'ella più goda,
o sobria o liberal, temprar col dolce
la
bollente bevanda; o se più forse
l'ami così, come
sorbir la suole
barbara sposa, allor che, molle assisa
su'
broccati di Persia, al suo signore
con le dita pieghevoli 'l
selvoso
mento vezzeggia, e la svelata fronte
alzando, il
guarda; e quelli sguardi han possa
di far che a poco a poco di man
cada
al suo signore la fumante canna.
Mentre
il labbro, e la man v'occupa, e scalda
l'odorosa bevanda, altere
cose
macchinerà tua infaticabil mente.
Qual coppia di
destrieri oggi de' il carro
guidar de la tua dama; o l'alte
moli
che su le fredde piagge educa il cimbro;
o quei che
abbeverò la Drava, o quelli
che a le vigili guardie un dì
fuggîro
da la stirpe campana. Oggi qual meglio
si
convenga ornamento ai dorsi alteri:
se semplici e negletti; o se
pomposi
di ricche nappe e variate stringhe
andran su l'alto
collo i crin volando;
e sotto a cuoi vermigli e ad auree
fibbie
ondeggeranno li ritondi fianchi.
Quale oggi cocchio
trionfanti al corso
vi porterà: se quel cui l'oro copre;
o
quel su le cui tavole pesanti
saggio pennello i dilicati
finse
studj dell'ago, onde si fregia il capo
e il bel sen la
tua dama; e pieni vetri
di freschissima linfa e di fior varj
gli
diede a trascinar. Cotanta mole
di cose a un tempo sol nell'alta
mente
rivolgerai: poi col supremo auriga
arduo consiglio ne
terrai, non senza
qualche lieve garrir con la tua dama
servi le
leggi tue l'auriga: e intanto
altre v'occupin cure. Il gioco
puote
ora il tempo ingannare: ed altri ancora
forse ingannar
potrà. Tu il gioco eleggi
che due soltanto a un tavoliere
ammetta;
tale Amor ti consiglia. Occulto ardea
già di
ninfa gentil misero amante
cui null'altra eloquenza usar con
lei,
fuor che quella degli occhi era concesso;
poiché il
rozzo marito ad Argo eguale
vigilava mai sempre; e quasi
biscia
ora piegando, or allungando il collo,
ad ogni verbo con
gli orecchi acuti
era presente. Oimè, come con cenni,
o
con notata tavola giammai
o con servi sedotti a la sua
ninfa
chieder pace ed aita? Ogni d'Amore
stratagemma finissimo
vinceva
la gelosìa del rustico marito.
Che più
lice sperare? Al tempio ei corre
del nume accorto che le serpi
intreccia
all'aurea verga, e il capo e le calcagna
d'ali
fornisce. A lui si prostra umile;
e in questa guisa, lagrimando,
il prega:
- O propizio agli amanti, o buon figliuolo
de la
candida Maja, o tu che d'Argo
deludesti i cent'occhi, e a lui
rapisti
la guardata giovenca, i preghi accetta
d'un amante
infelice; e a me concedi
se non gli occhi ingannar, gli orecchi
almeno
d'un marito importuno. - Ecco si scote
il divin
simulacro, a lui si china,
con la verga pacifica la fronte
gli
percote tre volte: e il lieto amante
sente dettarsi ne la mente un
gioco
che i mariti assordisce. A lui diresti,
che l'ali del suo
piè concesse ancora
il supplicato dio; cotanto ei
vola
velocissimamente a la sua donna.
Là bipartita
tavola prepara
ov'ebano, ed avorio intarsiati
regnan sul piano;
e partono alternando
in dodici magioni ambe le sponde.
Quindici
nere d'ebano girelle
e d'avorio bianchissimo altrettante
stan
divise in due parti; e moto e norma
da due dadi gittati attendon,
pronte
ad occupar le case, e quinci e quindi
pugnar contrarie.
Oh cara a la Fortuna
quella che corre innanzi all'altre, e seco
ha
la compagna, onde il nemico assalto
forte sostenga! Oh giocator
felice
chi pria l'estrema casa occupa; e l'altro
de le proprie
magioni ordin riempie
con doppio segno, e quindi poi, securo,
da
la falange il suo rival combatte;
e in proprio ben rivolge i colpi
ostili.
Al tavolier s'assidono ambidue,
l'amante cupidissimo, e
la ninfa:
quella occupa una sponda, e questi l'altra.
Il marito
col gomito s'appoggia
all'un de' lati: ambi gli orecchi tende;
e
sotto al tavolier di quando in quando
guata con gli occhi. Or
l'agitar dei dadi
entro ai sonanti bossoli comincia;
ora il
picchiar de' bossoli sul piano;
ora il vibrar, lo sparpagliar,
l'urtare,
il cozzar de' due dadi; or de le mosse
pedine il
martellar. Torcesi e freme
sbalordito il geloso: a fuggir
pensa,
ma rattienlo il sospetto. Il romor cresce
il rombazzo,
il frastono, il rovinìo.
Ei più regger non puote; in
piedi balza,
e con ambe le man tura gli orecchi
tu vincesti o
Mercurio: il cauto amante
poco disse, e la bella intese assai.
Tal
ne la ferrea età quando gli sposi
folle superstizion
chiamava all'armi
giocato fu. Ma poi che l'aureo fulse
secol di
novo, e che del prisco errore
si spogliâro i mariti, al sol
diletto
la dama, e il cavalier volsero il gioco
che la
necessità scoperto avea.
Fu superfluo il romor: di molle
panno
la tavola vestissi, e de' patenti
bossoli 'l sen: lo
schiamazzìo molesto
tal rintuzzossi; e durò al gioco
il nome
che ancor l'antico strepito dinòta.
Già
de le fere, e degli augelli il giorno,
e de' pesci notanti, e de'
fior varj,
degli alberi, e del vulgo al suo fin corre.
Di sotto
al guardo dell'immenso Febo
sfugge l'un mondo; e a berne i vivi
raggi
Cuba s'affretta, e il Messico, e l'altrice
di molte perle
California estrema.
Già da' maggiori colli, e da
l'eccelse
torri il sol manda gli ultimi saluti
all'Italia,
fuggente; e par, che brami
rivederti, o signore, anzi che
l'Alpe,
o l'Appennino, o il mar curvo ti celi
agli occhi suoi.
Altro finor non vide,
che di falcato mietitore i fianchi
su le.
campagne tue piegati e lassi,
e su le armate mura or fronti or
spalle
carche di ferro, e su le aeree capre
degli edificj tuoi
man scabre e arsicce,
e villan polverosi innanzi ai carri
gravi
del tuo ricolto, e sui canali
e sui fertili laghi irsute
braccia
di remigante che le alterne merci
al tuo comodo guida
ed al tuo lusso,
tutt'ignobili oggetti. Or colui vegga,
che da
tutti servito, a nullo serve.
Già
di cocchi frequente il Corso splende:
e di mille che là
volano rote
rimbombano le vie. Fiero per nova
scoperta biga il
giovine leggiadro
che cesse al carpentier gli avìti
campi
là si scorge tra i primi. All'un de' lati
sdrajasi
tutto: e de le stese gambe
la snellezza dispiega. A lui nel
seno
la conoscenza del suo merto abbonda;
e con gentil sorriso
arde e balena
su la vetta del labbro; o da le ciglia,
disdegnando,
de' cocchi signoreggia
la turba inferior: soave intanto
egli
alza il mento, e il gomito protende;
e mollemente la man
ripiegando,
i merletti finissimi su l'alto
petto si ricompon
con le due dita.
Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio
dai
casali pervenne, e già s'ascrive
al concilio de' numi. Egli
oggi impara
a conoscere il vulgo, e già da quello
mille
miglia lontan sente rapirsi
per lo spazio de' cieli. A lui
davanti
ossequiosi cadono i cristalli
de' generosi cocchi
oltrepassando;
e il lusingano ancor perché sostegno
sia
de la pompa loro. Altri ne viene
che di compro pur or titol si
vanta;
e pur s'affaccia, e pur gli orecchi porge,
e pur
sembragli udir da tutti i labbri
sonar le glorie sue: mal abbia il
lungo
de le rote stridore, e il calpestìo
de' ferrati
cavalli, e l'aura, e il vento
che il bel tenor de le bramate
voci
scender non lascia a dilettargli 'l core.
Di momento in
momento il fragor cresce,
e la folla con esso. Ecco le vaghe
a
cui gli amanti per lo dì solenne
mendicarono i cocchi. Ecco
le gravi
matrone che gran tempo arser di zelo
contro al bel
Mondo, e dell'ignoto Corso
la scelerata polvere dannâro;
ma
poi che la vivace amabil prole
crebbe, e invitar sembrò con
gli occhi Imene,
cessero alfine; e le tornite braccia,
e del
sorgente petto i rugiadosi
frutti prudentemente al guardo
aprîro
dei nipoti di Giano. Affrettan quindi
le belle
cittadine, ora è più lustri
note a la Fama, poi che
ai tetti loro
dedussero gli dèi; e sepper meglio,
e in
più tragico stil da la toilette
ai loro amici
declamar l'istoria
de' rotti amori; ed agitar repente
con
celebrata convulsion la mensa,
il teatro, e la danza. Il lor
ventaglio
irrequieto sempre or quinci or quindi
con variata
eloquenza esce e saluta.
Convolgonsi le belle: or su l'un
fianco
or su l'altro si posano tentennano
volteggiano si
rizzan, sul cuscino
ricadono pesanti, e la lor voce
acuta
scorre d'uno in altro cocchio.
Ma
ecco alfin che le divine spose
degl'Italici eroi vengono
anch'esse.
Io le conosco ai messaggier volanti
che le annuncian
da lungi, ed urtan fieri,
e rompono la folla; io le conosco
da
la turba de' servi al vomer tolti,
perché oziosi poi
diretro pendano
al carro trionfal con alte braccia.
Male a
Giuno ed a Pallade Minerva
e a Cinzia e a Citerea mischiarvi
osate
voi pettorute Naiadi e Napee
vane di picciol fonte o
d'umil selva
che agli Egipani vostri in guardia diede
Giove
dall'alto. Vostr'incerti sguardi,
vostra frequente inane
maraviglia,
e l'aria alpestre ancor de' vostri moti
vi
tradiscono, ahi lasse, e rendon vana
la multiplice in fronte ai
palafreni
pendente nappa, ch'usurpar tentaste,
e la divisa onde
copriste il mozzo
e il cucinier che la seguace corte
accrebber
stanchi, e i miseri lasciâro
canuti padri di famiglia
soli
ne la muta magion serbati a chiave.
Troppo da voi diverse
esse ne vanno
ritte negli alti cocchi alteramente;
e a la turba
volgare che si prostra
non badan punto: a voi talor si volge
lor
guardo negligente, e par, che dica:
- Tu ignota mi sei; - o nel
mirarvi
col compagno susurrano ridendo.
Le
giovinette madri degli eroi
tutto empierono il Corso, e tutte han
seco
Un giovinetto eroe, o un giovin padre
d'altri futuri eroi,
che a la toilette
a la mensa, al teatro, al corso, al
gioco
segnaleransi un giorno; e fien cantati,
s'io scorgo
l'avvenir, da tromba eguale
a quella che a me diede Apollo, e
disse:
canta gli Achilli tuoi, canta gli Augusti
del secol tuo.
Sol tu manchi, o Pupilla
del più nobile mondo: ora ne
vieni,
e del rallegratore de le cose
rallegra or tu la
moribonda luce.
Già
d'untuosa polvere novella
di propria man la tabacchiera empisti
a
la tua dama, e di novelli odori
il cristallo dorato; ed al suo
crine
la bionda che svanìo polve tornasti
con piuma
dilicata; e adatto al giorno
le scegliesti 'l ventaglio: al pronto
cocchio
di tua man la guidasti, e già con
essa
precipitosamente al corso arrivi.
Il memore cocchier serbi
quel loco
che voi dianzi sceglieste, e voi non osi
tra le
ignobili rote esporre al vulgo,
se star fermi vi piace, od oltre
scorra,
se di scorrer v'aggrada. Uscir del cocchio
ti fia
lecito ancor. T'accolgan pronti
allo scendere i servi. Ancora un
salto
spicca; e rassetta i rincrespati panni,
e le trine sul
petto: un po' t'inchina,
ed ai lievi calzàri un guardo
volgi;
ergiti, e marcia dimenando il fianco.
Il corso misurar
potrai soletto,
s'ami di passeggiare; anzi potrai
dell'altrui
dame avvicinarti al cocchio,
e inerpicarti, et introdurvi 'l
capo
e le spalle e le braccia, e mezzo ancora
dentro versarti.
Ivi sonar tant'alto
fa le tue risa, che da lunge gli oda
la tua
dama, e si turbi, ed interrompa
il celiar degli eroi che accorser
tosto
tra 'l dubbio giorno a custodir la bella
che solinga
lasciasti. O sommi numi
sospendete la Notte; e i fatti egregi
del
mio giovin signor splender lasciate
al chiaro giorno. Ma la Notte
segue
sue leggi inviolabili, e declina
con tacit'ombra sopra
l'emispero;
e il rugiadoso piè lenta movendo,
rimescola
i color varj infiniti,
e via gli spazza con l'immenso lembo
di
cosa in cosa: e suora de la morte
un aspetto indistinto, un solo
volto
al suolo, ai vegetanti, agli animali,
a i grandi, ed a la
plebe equa permette;
e i nudi insieme, ed i dipinti visi
de le
belle confonde, e i cenci e l'oro.
né veder mi concede
all'aer cieco
qual de' cocchi si parta, o qual rimanga
solo
all'ombre segrete; e a me di mano
toglie il pennello; e il mio
signore avvolge
per entro al tenebroso umido velo. 1195
Il
Meriggio
Ardirò
ancor tra i desinari illustri
sul meriggio innoltrarmi umil
cantore,
poi che troppa di te cura mi punge,
signor, ch'io
spero un dì veder maestro
e dittator di graziosi
modi
all'alma gioventù che Italia onora.
Tal,
fra le tazze e i coronati vini,
onde all'ospite suo fe' lieta
pompa
la punica regina, i canti alzava
Jopa crinito: e la
regina in tanto
dal bel volto straniero iva beendo
l'oblivion
del misero Sicheo:
e tale, allor che l'orba Itaca in vano
chiedea
a Nettun la prole di Laerte,
Femio s'udìa co' versi e con
la cetra
la facil mensa rallegrar de' Proci
cui dell'errante
Ulisse i pingui agnelli
e i petrosi licori, e la
consorte
convitavano in folla. Amici or china,
giovin signore,
al mio cantar gli orecchi
or che tra nuove Elise, e novi Proci,
e
tra fedeli ancor Penelopee,
ti guidano a la mensa i versi miei.
Già
dall'alto del cielo il sol fuggendo
verge all'occaso: e i piccoli
mortali
dominati dal tempo escon di novo
a popolar le vie
ch'all'oriente
spandon ombra già grande: a te
null'altro
dominator fuor che te stesso è dato,
stirpe
di numi: e il tuo meriggio è questo.
Alfin
di consigliarsi al fido speglio
la tua dama cessò. cento
già volte
o chiese o rimandò novelli ornati;
e
cento ancor de le agitate ognora
damigelle or con vezzi or con
garriti
rovesciò la fortuna. A sé medesma
quante
volte convien piacque e dispiacque;
e quante volte è d'uopo
a sé ragione
fece e a' suoi lodatori. I mille
intorno
dispersi arnesi alfin raccolse in uno
la consapevol del
suo cor ministra;
alfin velata di legger zendado
è l'ara
tutelar di sua beltate;
e la seggiola sacra, un po'
rimossa,
languidetta l'accoglie. Intorno a lei
pochi giovani
eroi van rimembrando
i cari lacci altrui, mentre da lunge
ad
altra intorno i cari lacci vostri
pochi giovani eroi van
rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
a le lor celie; o
s'ei si cruccia alquanto,
del tuo lungo tardar solo si
cruccia.
Nulla però di lui cura te prenda
oggi, o
signore, e s'ei del vulgo a paro
prostrò l'anima imbelle, e
non sdegnosse
di chiamarsi marito, a par del vulgo
senta la
fame esercitargli in petto
lo stimol fier degli oziosi sughi
avidi
d'esca: o se a i mariti alcuno
d'anima generosa impeto resta,
ad
altra mensa il piè rivolga; e d'altra
dama al fianco
s'assida, il cui marito
pranzi altrove lontan d'un'altra al
fianco
che abbia lungi lo sposo: e così nuove
anella
intrecci a la catena immensa
onde, alternando, Amor l'anime
avvince.
Pur
sia che vuol; tu baldanzoso innoltra
ne le stanze più
interne: ecco precorre
per annunciarti al gabinetto estremo
il
noto scalpiccìo de' piedi tuoi.
Già lo sposo
t'incontra. In un baleno
sfugge dall'altrui man l'accorta mano
de
la tua dama: e il suo bel labbro in tanto
ti apparecchia un
sorriso. Ognun s'arretra
che conosce tuoi dritti, e si
conforta
con le adulte speranze, a te lasciando
libero e scarco
il più beato seggio.
Tal, colà dove infra gelose
mura
Bisanzio ed Ispaàn guardano il fiore
de la beltà
che il popolato Egeo
manda, e l'armeno e il tartaro e il circasso
per delizia d'un solo, a bear entra
l'ardente sposa il grave
munsulmano.
Nel maestoso passeggiar gli ondeggiano
le late
spalle, e su per l'alta testa
le avvolte fasce: dall'arcato
ciglio
intorno ei volge imperioso il guardo;
e vede al suo
apparire umil chinarsi,
e il piè ritrar l'effeminata,
occhiuta
turba, che d'alto sorridendo ei spregia.
Ora
comanda, o signor, che tutte a schiera
vengan le grazie tue; sì
che a la dama
quanto elegante esser più puoi ti
mostri.
Tengasi al fianco la sinistra mano
sotto il breve
giubbon celata; e l'altra
sul finissimo lin posi, e
s'asconda
vicino al cor; sublime alzisi il petto,
sorgan gli
omeri entrambi, a lei converso
scenda il duttile collo; a i lati
un poco
stringansi i labbri: vêr lo mezzo acuti
escano
alquanto, e da la bocca poi
compendiata in guisa tal, sen esca
un
non inteso mormorio. Qual fia
che a tante di beltade arme
possenti
schermo si opponga? Ecco, la destra ignuda
già
la bella ti cede. Or via, la strigni
e con soavi negligenze al
labbro
qual tua cosa l'appressa; e cader lascia
sovra i tiepidi
avori un doppio bacio.
Siedi fra tanto; e d'una man istrascica
più
più a lei vicin la seggioletta. Ognaltro
tacciasi; ma tu
sol, curvato alquanto,
seco susurra ignoti detti a cui
concordin
vicendevoli sorrisi,
e sfavillar di cupidette luci
che amor
dimostri, o che il somigli almeno.
Ma
rimembra, o signor, che troppo nuoce
negli amorosi cor lunga e
ostinata
tranquillità. Nell'oceàno ancora
perigliosa
è la calma: ahi quante volte
dall'immobile prora il buon
nocchiere
invocò la tempesta! e sì crudele
soccorso
ancor gli fu negato; e giacque
affamato, assetato, estenuato,
dal
venenoso aere stagnante oppresso
fra le inutili ciurme al suol
languendo.
Dunque a te giovi de la scorsa notte
ricordar le
vicende; e con obliqui
motti pugnerla alquanto, o se nel
volto
paga più che non suole accôr fu vista
il
novello straniero; e co' bei labbri
semiaperti aspettar, quasi
marina
conca, la soavissima rugiada
de' novi accenti: o se
cupida troppo
col guardo accompagnò di loggia in
loggia
l'almo alunno di Marte, idol vegliante
de' feminili
voti, a la cui chioma
col lauro trionfal mille s'avvolgono
e
mille frondi dell'idalio mirto.
Colpevole o innocente, allor la
bella
dama improviso adombrerà la fronte
d'un nuvoletto
di verace sdegno
o simulato; e la nevosa spalla
scoterà
un poco; e volgeransi alfine
gli altri a bear le sue parole
estreme.
Fors'anco rintuzzar di tue rampogne
saprà
l'agrezza; e noverarti a punto
le visite furtive a i cocchi e a i
tetti
e all'alte logge de le mogli illustri
di ricchi popolari,
a cui sovente,
scender per calle dal piacer segnato
la maestà
di cavalier non teme.
Felice te, se mesta e disdegnosa
tu la
guidi a la mensa; o se tu puoi
solo piegarla a tollerar de'
cibi
la nausea universal! Sorridan pure
a le vostre dolcissime
querele
i convitati; e l'un l'altro percota
col gomito maligno:
ah non di meno
come fremon lor alme! e quanta invidia
ti
portan, te mirando unico scopo
di sì bell'ire! Al solo
sposo è dato
in cor nodrir magnanima quiete,
mostrar nel
volto ingenuo riso, e tanto
docil fidanza ne le innocue luci.
O
tre fiate avventurosi e quattro
voi del nostro buon secolo
mariti,
quanto diversi da' vostr'avi! Un tempo
uscìa
d'Averno con viperei crini,
con torbid'occhi irrequieti e
fredde
tenaci branche, un indomabil mostro
che ansando e
anelando intorno giva
a i nuziali letti; e tutto empiea
di
sospetto e di fremito e di sangue.
Allor gli antri domestici, le
selve,
l'onde, le rupi alto ulular s'udièno
di feminili
strida. Allor le belle
dame, con mani incrocicchiate e luci
pavide
al ciel, tremando, lagrimando,
tra la pompa feral de le
lugùbri
sale, vedean dal truce sposo offrirsi
le tazze
attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia! Il tuo furor
medesmo
oltre l'alpe, oltre il mar destò le risa
presso
agli emuli tuoi che di gelosa
titol ti diêro; e t'è
serbato ancora
ingiustamente. Non di cieco amore
vicendevol
desire, alterno impulso,
non di costume simiglianza or
guida
giovani incauti al talamo bramato;
ma la Prudenza co i
canuti padri
siede librando il molto oro e i divini
antiquissimi
sangui: e allor che l'uno
bene all'altro risponde, ecco
Imeneo
scoter sue faci; e unirsi al freddo sposo,
di lui non
già, ma de le nozze amante
la freddissima vergine che in
core
già i riti volge del bel mondo; e lieta
l'indifferenza
maritale affronta.
Così non fien de la crudel Megera
più
temuti gli sdegni. Oltre Pirene
contenda or pur le desiate porte
a
i gravi amanti; e di femminee risse
turbi Oriente: Italia oggi si
ride
di quello ond'era già derisa; tanto
puote una sola
età volger le menti.
Ma
già rimbomba d'una in altra sala
signore, il nome tuo. Di
già l'udîro
l'ime officine ove al volubil tatto
de
gl'ingenui palati arduo s'appresta
solletico che molle i nervi
scota,
e varia seco voluttà conduca
fino al core
dell'alma. In bianche spoglie
affrettansi a compir la nobil
opra
gravi ministri: e lor sue leggi detta
una gran mente del
paese uscita
ove Colberto e Risceliù fûr
chiari.
Forse con tanta maestade in fronte
presso a le navi
ond'Ilio arse e cadeo,
a gli ospiti famosi il grande
Achille
disegnava la cena: e seco intanto
le vivande cocean su
i lenti fochi
Pàtroclo fido e il guidator di
carri
Automedonte. O tu, sagace mastro
di lusinghe al palato,
udrai fra poco
sonar le lodi tue dall'alta mensa.
Chi fia che
ardisca di trovar mai fallo
nel tuo lavoro? Il tuo signor fia
tosto
campion de le tue glorie; e male a quanti
cercator di
conviti oseran motto
pronunciar contro a te; ché sul
cocente
meriggio andran peregrinando poi
miseri e stanchi; e
non avran cui piaccia
più popolar con le lor bocche i
pranzi.
Imbandita
è la mensa. In piè d'un salto
alzati e porgi, almo
garzon, la mano
a la tua dama; e lei, dolce cadente
sopra di
te, col tuo valor sostieni,
e al pranzo l'accompagna. I
convitati
vengan dopo di voi; quindi lo sposo
ultimo segua. O
prole alta di numi,
non vergognate di donar voi anco
brevial
cibo momenti. A voi non vile
cura sia questa. A quei soltanto è
vile
che il duro irrefrenabile bisogno
stimola e caccia.
All'impeto di quello
cedan l'orso, la tigre, il falco, il
nibbio,
l'orca, il delfino, e quanti altri animantii
crescon
qua giù: ma voi con rosee labbra
la sola Voluttade al pasto
appelli,
la sola Voluttà, che le celesti
mense
apparecchia, e al nettare convita
i viventi per sé dèi
sempiterni.
Forse
vero non è; ma un giorno è fama,
che fûr gli
uomini eguali; e ignoti nomi
fûr nobili e plebei. Al cibo,
al bere,
all'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno
uno istinto
medesmo, un'egual forza
sospingeva gli umani: e niun
consiglio
nulla scelta d'obbietti o lochi o tempi
era lor
conceduto. A un rivo stesso,
a un medesimo frutto, a una
stess'ombra
convenivano insieme i primi padri
del tuo sangue, o
signore, e i primi padri
de la plebe spregiata: e gli
stess'antri
il medesimo suol porgeano loro
il riposo e
l'albergo; e a le lor membra
i medesmi animai le irsute
vesti.
Sola una cura a tutti era comune
di sfuggire il dolore:
e ignota cosa
era il desire agli uman petti ancora.
L'uniforme
degli uomini sembianza
spiacque a' celesti: e a variar lor
sorte
il Piacer fu spedito. Ecco il bel genio
qual d'Ilio su i
campi Iride o Giuno,
e la terra s'appress: e questa ride
di
riso ancor non conosciuto. Ei move,
e l'aura estiva del cadente
rivo,
e dei clivi odorosi a lui blandisce
le vaghe membra, e
lenemente sdrucciola
sul tondeggiar de' muscoli gentile.
A lui
giran d'intorno i Vezzi e i Giochi,
e come ambrosia le lusinghe
scorrono
da le fraghe del labbro; e da le luci
socchiuse,
languidette, umide fuori
di tremulo fulgore escon
scintille
ond'arde l'aere che scendendo ei varca.
Alfin sul
dorso tuo sentisti, o Terra,
sua prima orma stamparsi; e tosto un
lento
fremere soavissimo si sparse
di cosa in cosa; e ognor
crescendo, tutte
di natura le viscere commosse:
come nell'arsa
state il tuono s'ode
che di lontano mormorando viene;
e col
profondo suon di monte in monte
sorge; e la valle e la foresta
intorno
mugon del fragoroso alto rimbombo.
Oh
beati fra gli altri e cari al cielo
viventi a cui con miglior man
Titano
formò gli organi illustri, e meglio tese,
e di
fluido agilissimo inondolli!
Voi l'ignoto solletico sentiste
del
celeste motore. In voi ben tosto
la voglia s'infiammò,
nacque il desio:
voi primieri scopriste il buono, il meglio;
voi
con foga dolcissima correste
a possederli. Allor quel de i duo
sessi,
che necessario in prima era soltanto,
d'amabile e di
bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride fu dato
il primo
esempio: tra femminei volti
a distinguer s'apprese; e e fur
sentite
primamente le Grazie. Allor tra mille
sapor fur noti i
più soavi. Allora
fu il vin preposto all'onda; e il vin
s'elesse
figlio de' tralci più riarsi, e posti
a più
fervido sol, ne' più sublimi
colli dove più zolfo il
suolo impingua.
Così l'uom si divise: e fu il signore
dai
mortali distinto a cui nel seno
giacquero ancor l'ebeti fibre,
inette
a rimbalzar sotto a i soavi colpi
de la nova cagione
onde fur tocche;
e quasi bovi, al suol curvati ancora
dinanzi
al pungol del bisogno andâro;
e tra la servitute e la
viltade,
e il travaglio e l'inopia a viver nati,
ebber nome di
plebe. Or tu, garzone,
che per mille feltrato invitte reni
sangue
racchiudi, poi che in altra etade
arte, forza o fortuna i padri
tuoi
grandi rendette, poi che il tempo al fine
lor divisi
tesori in te raccolse,
godi de gli ozi tuoi, a te da i
numi
concessa parte: e l'umil vulgo in tanto,
dell'industria
donato, a te ministri
ora i piaceri tuoi nato a recarli
su la
mensa regal, non a gioirne.
Ecco,
splende il gran desco. In mille forme
e di mille sapor, di color
mille
la variata eredità degli avi
scherza in nobil di
vasi ordin disposta.
Già la dama s'appressa: e già
da i servi
il morbido per lei seggio s'adatta.
Tu, signor, di
tua mano all'agil fianco
il sottopon, sì che lontana
troppo
ella non sieda o da vicin col petto
ahi! di troppo non
prema: indi un bel salto
spicca, e chino raccogli a lei del
lembo
il diffuso volume: e al fin t'assidi
prossimo a lei. A
cavalier gentile
il lato abbandonar de la sua dama
non fia
lecito mai, se già non sorge
strana cagione a meritar,
ch'ei tolga
tanta licenza. Un nume ebber gli antiqui
immobil
sempre, e che lo medesmo padre
de gli dèi non cedette,
allor ch'ei venne
il Campidoglio ad abitar, sebbene
e Giuno e
Febo e Venere e Gradivo
e tutti gli altri dèi da le lor
sedi
per riverenza del Tonante uscîro.
Indistinto
ad ognaltro il loco sia
all'alta mensa intorno: e s'alcun
arde
ambizioso di brillar fra gli altri,
brilli altramente. Oh
come i var ingegni
la libertà del genial convito
desta
ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio,
malizioso svolazzando,
reca
spra le penne fuggitive fuggitive ed agita
ora i raccolti
da la fama errori
de le belle lontane, o de gli amanti
or de'
mariti i semplici costumi;
e gode di mirare l'intento sposo
rider
primiero, e di crucciar con lievi
minacce in cor de la sua fida
sposa
i timidi segreti. Ivi abbracciata
co' festivi Racconti
esulta e scherza
l'elegante Licenza. Or nuda appare
come le
Grazie; or con leggiadro velo
solletica più scaltra, e pur
fatica
di richiamar de le matrone al volto
quella rosa che caro
al fregio
fu dell'avole nostre, ed or ne' campo
cresce solinga,
e tra i selvaggi scherzi
a le rozze villane il viso adorna.
Forse
a la bella di sua man le dapi
piacerà ministrar, che novi
al senso
gusti otterran da lei. Tu dunque al ferro
che forbito
ti giace al destro lato
quasi spada sollecito snudando,
fa che
in alto lampeggi: e china a lei
magnanimo lo cedi. Or si
vedranno
de la candida mano all'opra intenta
i muscoli giocar
soavi e molli:
e le grazie, piegandosi con essa,
vestiran nuove
forme, or da le dita
fuggevoli scorrendo, ora su l'alto
de' bei
nodi insensibili aleggiando,
et or de le pozzette in sen
cadendo,
che dei nodi al confin v'impresse Amore.
Mille baci di
freno impazienti
ecco sorgon dal labbro a i convitati;
già
s'arrischian, già volano, già un guardo
sfugge da
gli occhi tuoi, che i vanti audaci
fulmina ed arde, e tue ragion
difende.
Sol de la fida sposa a cui se' caro
il tranquillo
marito immoto siede:
e nulla impression l'agita o move
di brama
o di timor; però che Imene
da capo a piè fatollo.
Imene or porta
non più serti di rose al crine avvolti,
ma
stupido papavero grondante
di crassa onda letèa, che solo
insegna
pur dianzi era del Sonno. Ahi quante volte
la dama
dilicata invoca il Sonno
che al talamo presieda, e seco
invece
trova Imeneo; e timida s'arretra
quasi al meriggio
stanca villanella
che tra l'erbe innocenti adagia il fianco
lieta
e sicura; e di repente vede
un serpe; e balza in piedi
inorridita;
e le rigide man stende, e ritragge
il cubito, e
l'anelito sospende;
e immota e muta, e con le labbra aperte
il
guarda obliquamente. Ahi quante volte
incauto amante a la sua
lunga pena
cercò sollievo: e d'invocar credendo
Imene,
ahi folle! invocò il Sonno; e questi
di fredda oblivion
l'alma gli asperse;
e d'invincibil noia, e di
torpente
indifferenza gli ricinse il core.
Ma
se a la dama dispensar non piace
le vivande, o non giova, allor tu
stesso
la bell'opra imprendi. Agli occhi altrui
più più
così smaglierà l'enorme gemma,
dolc'esca a gli
usurai, che quella osâro
a le promesse di signor
preporre
villanamente: e contemplati fiéno
i manichetti,
la più nobil opra
che tessesser giammai angliche
Aracni.
Invidieran tua delicata mano
i convitati; inarcheran le
ciglia
al difficil lavoro, e d'oggi in poi
ti fia ceduto il
trinciator coltello
che al cadetto guerrier serban le mense.
Sia
tua cura, fra tanto errar su i cibi
con sollecita occhiata, e
prontamente
scoprir qual d'essi a la tua dama è caro;
e
qual di raro augel, di stranio pesce
parte le aggrada. Il tuo
coltello Amore
anatomico renda, Amor che tutte
degli animanti
annoverar le membra
puote, e discerner sa qual aggian tutte
uso,
e natura. Più d'ogn'altra cosa
però ti caglia
rammentar mai sempre
qual più cibo le noccia, o qual più
giovi;
e l'un rapisci a lei, l'altro concedi
come d'uopo a te
par. Oh Dio, la serba,
serbala ai cari figli. Essi dal giorno
che
le alleviâro il dilicato fianco
non la rivider più:
d'ignobil petto
esaurirono i vasi, e la ricolma
nitidezza
serbâro al sen materno.
Sgridala, se a te par ch'avida
troppo
al cibo agogni; e le ricorda i mali
che forse avranno
altra cagione, e ch'ella
al cibo imputerà nel dì
venturo.
Né al cucinier perdona a cui non calse
tanta
salute. A te ne' servi altrui
ragion fu data in quel beato
istante
che la noia o l'amor ambo vi strinse
in dolce nodo; e
pose ordini e leggi.
Per te sgravato d'odioso incarco
ti fia
grato colui che dritto vanta
d'impor novo cognome a la tua dama;
e
pinte strascinar su gli aurei cocchi
giunte a quelle di lei le
proprie insegne:
dritto sacro a lui sol, ch'altri giammai
audace
non tentò divider seco.
Vedi come col guardo a te fa
cenno
pago ridendo, e a le tue leggi applaude;
mentre l'alta
forcina in tanto ei volge
di gradite vivande al piatto ancora.
Non
però sempre a la tua bella intorno
sudin gli studi tuoi.
Anco tal volta
fia lecito goder brevi riposi;
e de la quercia
trionfale all'ombra
te de la polve olimpica tergendo,
al vario
ragionar degli altri eroi
porgere orecchio, e il tuo sermone a i
loro
frammischiar ozioso. Uno già scote
le architettate
del bel crine anella
su la guancia ondeggianti; e, ad ogni
scossa,
de' convitati a le narici manda
vezzoso nembo d'arabi
profumi.
A lo spirto di lui l'alma Natura
fu prodiga così,
che più non seppe
di che il volto abbellirgli; e all'Arte
disse:
- Tu compi il mio lavoro, - e l'Arte suda
sollecita
d'intorno all'opra illustre.
Molli tinture, preziose linfe,
polvi,
pastiglie, delicati unguenti
tutto arrischia per lui. Quanto di
novo,
e mostruoso più sa tesser spola,
o bulino
intagliar gallico ed anglo
a lui primo concede. Oh lui beato,
che
primo ancor di non più viste forme
tabacchiera mostrò!
L'etica invidia
i grandi eguali a lui lacera e mangia;
ed ei,
pago di sé, superbamente
crudo, fa loro balenar su gli
occhi
l'ultima gloria onde Parigi ornollo.
Forse altera così,
d'Egitto in faccia,
vaga prole di Semele apparisti,
i giocondi
rubini alto levando
del grappolo primiero: e tal tu
forse,
tessalico garzon, mostrasti a Jolco
l'auree lane rapite
al fero drago.
Or
vedi or vedi qual magnanim'ira
nell'eroe che dell'altro a canto
siede
a sì novo spettacolo si desta:
vedi quanto ei
s'affanna, e il pasto sembra
obliar declamando! Al certo, al
certo,
il nemico è a le porte. Ohimè i
Penati
tremano, e in forse è la civil salute.
Ma no; più
grave a lui, più preziosa
cura lo infiamma: - Oh depravato
ingegno
degli artefici nostri! In van si spera
da la inerte lor
man lavoro egregio,
felice invenzion d'uom nobil degna.
Chi sa
intrecciar, chi sa pulir fermaglio
a patrizio calzar? chi tesser
drappo
soffribil tanto, che d'ornar presuma
i membri di signor
che un lustro a pena
conti di feudo? In van s'adopra e stanca
chi
la lor mente sonnolenta e crassa
cerca destar. Di là
dall'Alpi è d'uopo
appellar l'eleganza. E chi giammai
fuor
che il Genio di Francia osato avria
su i menomi lavori i grechi
ornati
condur felicemente? Andò romito
il Bongusto
finora spaziando
per le auguste cornici, e per gli eccelsi
timpani
de le moli a i numi sacre,
o a gli uomini scettrati; ed or ne
scende
vago alfin d'agitar gli austeri fregi
entro le man di
cavalieri e dame.
Ben tosto si vedrà strascinar anco
fra
i nuziali donisu e i lievi veli
le greche travi; e docile
trastullo
fien de la moda le colonne e gli archi
ove sedeano i
secoli canuti.
- Commercio! - alto gridar; gridar: - commercio!
-
all'altro lato de la mensa or odi
con fanatica voce: e tra 'l
fragore
d'un peregrino d'eloquenza fiume,
di bella novità
stampate al conio
le forme apprendi, onde assai meglio
poi
brillantati i pensier picchin lo spirto.
Tu pur grida: -
Commercio! e un motto ancora
la tua bella ne dica. Empiono, è
vero,
il nostro suol di Cerere i favori,
che per folti di biade
immensi campi
ergesi altera; e pur ne mostra a pena
tra le
spighe confuso il crin dorato:
Bacco e Vertunno i lieti poggi e il
monte
ne coronan di poma: e Pale amica
latte ne preme a larga
mano, e tonde
candidi velli, e per li prati pasce
mille al
palato uman vittime sacre:
sorge fecondo il lin, soave cura
di
verni rusticali; e d'infinita
serie ne cinge le campagne il
tanto
per la morte di Tisbe arbor famoso.
Che vale or ciò?
Su le natie lor balze
rodan le capre; ruminando il bue
lungo i
prati natii vada; e la plebe
non dissimile a lor, si nutra e
vesta
de le fatiche sue; ma a le grand'alme
di troppo agevol
ben schife, Cillenio
il comodo ministri, a cui le miglia
pregio
acquistino e l'oro; e d'ogn'intorno
- Commercio, - risonar s'oda,
- commercio. -
Tale dai letti de la molle rosa
Sìbari un
dì gridar soleva; e i lumi
disdegnando volgea da i frutti
aviti,
troppo per lei ignobil cura; e mentre
Cartagin, dura a
le fatiche, e Tiro,
pericolando per l'immenso sale,
con l'oro
altrui le voluttà cambiava,
Sibari si volgea su l'altro
lato;
e non premute ancor rose cercando,
pur di commercio
novellava e d'arti.
Ma
chi è quell'eroe che tanta parte
colà ingombra di
loco; e mangia e fiuta
e guata; e de le altrui fole ridendo
sì
superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
mamme
del suo palato! oh da' mortali
invidiabil anima che siede
tra
l'ammiranda lor testura, e quindi
l'ultimo del piacer deliquio
sugge!
Chi più saggio di lui penétra e intende
la
natura migliore? o chi più industre
converte a suo piacer
l'aria, la terra,
e il ferace di mostri ondoso abisso?
Qualora
ei viene al desco altrui, paventano
suo gusto inesorabile le
smilze
ombre degli avi, che per l'aria lievi
aggiransi
vegliando ancor intorno
a i ceduti tesori; e piangon, lasse!
le
mal spese vigilie, i sobri pasti,
le in preda all'aquilon case, le
antique
digiune rozze, gli scommessi cocchi
forte assordanti
per stridente ferro
le piazze e i tetti: e lamentando vanno
gl'in
van nudati rustici, le fami
mal desiate, e de le sacre
toghe
l'armata in vano autorità sul vulgo.
L'altro
vicin chi fia? Per certo il caso
congiunse accorto i due leggiadri
estremi
perché doppio spettacolo campeggi;
e l'un
dell'altro al par più lustri e splenda.
Falcato dio degli
orti a cui la greca
Làmsaco d'asinelli offrir solea
vittima
degna, al giovane seguace
del sapiente di Samo i doni tuoi
reca
sul desco. Egli ozioso siede
aborrenndo le carni; le narici
schifo
raggrinza; e in nauseanti rughe
ripiega i labbri; e poco pane in
tanto
rumina lentamente. Altro giammai
a la squallida inedia
eroe non seppe
durar sì forte: né lassezza il
vinse
né deliquio giammai né febbre ardente;
tanto
importa lo aver scarze le membra,
singolare il costume, e nel bel
mondo
onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar la
sua pietade
serbi per l'uomo; e facile ribrezzo
déstino
in lui del suo simìle i danni,
o i bisogni o le piaghe. Il
cor di questo
sdegna comune affetto; e i dolci moti
a più
lontano limite sospinge.
- Péra colui che prima osò
la mano
armata alzar su l'innocente agnella,
e sul placido bue:
né il truculento
cor gli piegâro i teneri belati,
né
i pietosi mugiti, né le molli
lingue lambenti
tortuosamente
la man che il loro fato, ahimè! stringea.
-
Tal ei parla, o signor: ma sorge in tanto
a quel pietoso
favellar, da gli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta,
pari a
le stille tremule, brillanti,
che a la nova stagion gemendo
vanno
dai palmiti di Bacco, entro commossi
al tiepido spirar de
le prim'aure
fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
ahi fero
giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie
alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo
con gli eburnei denti
segnò di lieve nota: e questi
audace
col sacrilego piè lanciolla: ed ella
tre volte
rotolò; tre volte scosse
lo scompigliato pelo, e da le
vaghe
nari soffiò la polvere rodente:
indi i gemiti
alzando: Aita, aita,
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei
l'impietosita Eco rispose:
e dall'infime chiostre i mesti
servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide,
tremanti
precipitâro. Accorse ognuno; il volto
fu
d'essenze spruzzato a la tua dama:
ella rinvenne al fine. Ira e
dolore
l'agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul
servo; e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia:
e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder
sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le Grazie
alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì
la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non
valse
zelo d'arcani ufici. Ei nudo andonne
de le assise
spogliato onde pur dianzi
era insigne a la plebe: e in van
novello
signor sperò; ché le pietose
dame
inorridìro, e del misfatto atroce
odiâr
l'autore. Il misero si giacque
con la squallida prole, e con la
nuda
consorte a lato su la via, spargendo
al passeggero inutili
lamenti:
e tu, vergine cuccia, idol placato
da le vittime
umane, isti superba.
Né
senza i miei precetti o senza scorta
inerudito andrai, signor,
qualora
il perverso destin dal fianco amato
t'allontani a la
mensa. Avvien sovente,
che con l'aio seguace o con l'amico
un
grande illustre or l'Alpi, or l'oceàno
varchi e scenda in
Ausonia, orribil ceffo
per natura o per arte; a cui Ciprigna
ròse
le nari, o sale impuro e crudo
snudò i denti ineguali. Ora
il distingue
risibil gobba, or furiosi sguardi,
obliqui o
loschi: or rantoloso avvolge
fra le tumide fauci ampio volume
di
voce che gorgoglia, ed esce al fine
come da inverso fiasco onda
che goccia;
or d'avi, or di cavalli, ora di Frini
instancabile
parla; or de' celesti
le folgori deride. Aurei monili,
e nastri
e gemme, gloriose pompe,
l'ingombran tutto; e gran titolo
suona
dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende
inclita
stirpe, ch'onorar non voglia
d'un ospite sì degno i lari
suoi?
Ei però col compagno ammessi fiéno
di Giuno
a ifianchi: e tu lontan da lei
co' Silvani capripedi
n'andrai
presso al marito; e pranzerai negletto
col popol folto
de gli dèi minori.
Ma
negletto non già da gli occhi andrai
de la dama gentil,
che, a te rivolti,
incontreranno i tuoi. L'aere a
quell'urto
arderà di faville: e Amor con l'ali
l'agiterà.
Nel fortunato incontro
i messagger pacifici dell'alma
cambieran
lor novelle: e alternamente
spinti, rifluiranno a voi con
dolce
delizioso tremito sui cori.
Allor tu le ubbidisci; o se
t'invita
le vivande a gustar, che a lei vicine
l'ordin dispose,
o se a te chiede invece
quella che innanzi a te sue voglie
pugne
non col soave odor, ma con le nove
leggiadre forme onde
abbellir la seppe
dell'ammirato cucinier la mano.
Con la mente
si pascono le dive
sopra le nubi del brillante Olimpo:
e lor
labbra immortali irrita e move
non la materia, ma il divin lavoro.
Né
allor men destro ad ubbidir sarai
che di rado licor la bella
strigne
colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno
serpe dorata
striscia; e par che dica:
- Lungi, o labbra profane: a i labbri
solo
de la diva che qui soggiorna e regna
è il
castissimo calice serbato:
né cavalier con alito
maschile
osi appannarne il nitido cristallo;
né dama
convitata unqua presuma
i labbri apporvi ; e sien pur casti e
puri,
e quanto esser può mai cari all'amore. -
Tu
ai cenni de' bei guardi e de la destra
che reggendo il bicchier
sospesa ondeggia,
affettuoso attendi. I lumi tuoi,
di gioia
sfavillando, accolgan pronti
il brindisi segreto: e ti prepara
in
simil modo a tacita risposta.
Ecco
d'estro già punta, ecco la Musa
brindisi grida all'uno e
all'altro amante;
all'altrui fida sposa a cui se' caro,
e a te,
signor, sua dolce cura e nostra.
Quale annoso licor Lieo vi
mesce,
tale Amore a voi mesca eterna gioia,
non gustata al
marito, e da coloro
invidiata che gustata l'hanno.
Veli con
l'ali sue sagace oblio
le alterne infedeltà che un cor
dall'altro
porièno un giorno separar per sempre:
e solo
agli occhi vostri Amor discopra
le alterne infedeltà che in
ambo i petti
ventilar ponno le cedenti fiamme.
Di sempiterno
indissolubil nodo
cento auguri per voi vano cantore:
nostra
nobile Musa a voi desia
sol quanto piace a voi durevol nodo.
Duri
fin che a voi piace; e non si sciolga
senza che fama sopra l'ale
immense
tolga l'alta novella, e grande n'empia
col reboato
dell'aperta tromba,
l'ampia cittade, e dell'Enotria i monti
e
le piagge sonanti, e, s'esser puote,
la bianca Teti e Guadiana e
Tule.
Il mattutino gabinetto, il corso,
il teatro la mensa in
vario stile
ne ragionin gran tempo. Ognun ne chieda
il dolente
marito; ed ei dall'alto
la lamentabil favola cominci.
Tal su le
scene, ove agitar solea
l'ombre tinte di sangue Argo
piagnente,
squallido messo al palpitante coro
narrava, come
furiando Edipo
al talamo sen corse incestuoso,
come le porte
rovescionne, e come
al sùbito spettacolo ristette,
quando
vicina del nefando letto
vide in un corpo solo e sposa e
madre
pender strozzata; e del fatale uncino
le mani armosse; e
con le proprie mani
a sé le care luci da la testa
con le
man proprie, misero! strapposse.
Ma
già volge al suo fine il pranzo illustre:
già Como e
Dionisio al desco intorno
rapidissimamente in danza girano
con
la libera Gioia. Ella saltando
or questo or quel de' convitati
lieve
tocca col dito; e al suo toccar scoppiettano
brillanti
vivacissime scintille
ch'altre ne destan poi. Sonan le risa:
il
clamoroso disputar s'accende:
la nobil vanità punge le
menti:
e l'amor di sé sol, baldo scorrendo,
porge un
scettro a ciascuno; e dice: - Regna. -
Questi i concili di
Bellona, e quegli
penetra i tempii de la Pace. Un guida
i
condottieri: a i consiglier consiglio
l'altro dona; e divide e
capovolge
con seste ardite il pelago e la terra.
Qual di
Pallade l'arti e de le Muse
giudica e libra; qual ne scopre
acuto
l'alte cagioni; e i gran princìpi abbatte
cui creò
la natura, e che tiranni
sopra il senso degli uomini regnâro
gran
tempo in Grecia, e nel paese tosco
rinacquer poi più
poderosi e forti.
Cotanto
adunque di saper fia dato
a nobil capo? Oh letti, oh specchi, oh
mense,
oh corsi, oh scene, oh feudi, oh sangue, oh avi,
che per
voi non s'apprende? Or tu, signore,
co' voli arditi del felice
ingegno
sopra ognaltro t'innalza. Il campo è questo
ove
splender più déi. Nulla scienza,
sia quant'esser mai
puote arcana e grande,
ti spaventi giammai. Se cosa udisti,
o
leggesti al mattino, onde tu deggia
gloria sperar; qual cacciator
che segue
circuendo la fera, e sì la guida
e volge di
lontan, che a poco a poco
a le insidie s'accosta e dentro
piomba;
tal tu il sermone altrui volgi sagace
fin che là
cada over spiegar ti giove
il tuo novo tesoro. E se pur ieri
scesa
in Italia peregrina forma
del parlar t'è già nota,
allor tu studia
materia espor che, favellando, ammetta
la nova
gemma: e poi che il punto hai còlto,
ratto la scopri; e
sfolgorando abbaglia
qual altra è mente che superba
andasse
di squisita eloquenza a i gran convivi.
In simil guisa
il favoloso mago
che fe' gran tempo desiar l'amante
all'animosa
vergin di Dordona,
da i cavalier che l'assalien bizzarri
oprar
lasciava ogni lor possa ed arte;
poi ecco, in mezzo a la terribil
pugna,
strappava il velo a lo incantato scudo;
e quei, sorpresi
dal bagliore immenso
ciechi spingea e soggiogati a terra.
Talor
di Zoroastro o d'Archimede
discepol sederà teco a la
mensa.
Tu a lui ti volgi, seco lui ragiona,
suo linguaggio ne
apprendi; e quello poi,
qual se innato a te fosse, alto ripeti.
Né
paventar quel che l'antica fama
narra de' lor compagni. Oggi la
diva
Urania il crin compose: e gl'irti alunni
smarriti,
vergognosi, balbettanti
trasse da le lor cave, ove già
tempo
col profondo silenzio e con la notte
tenean consiglio:
indi le servili braccia
fornien di leve onnipotenti,
ond'alto
salisser poi piramidi, obelischi
ad eternar de' popoli
superbi
i gravi casi: oppur con feri dicchi
stavan contro i
gran letti; o di pignone
audace armati spaventosamente
cozzavan
con la piena, e giù a traverso
spezzate, rovesciate
dissipavano
le tetre corna, decima fatica
d'Ercole invitto. Ora
i selvaggi amici
Urania ingentilì. Baldi e leggiadri
nel
gran mondo li guida, o tra il clamore
de' frequenti convivi, oppur
tra i vezzi
de' gabinetti, ove a la docil dama,
e al caro
cavalier mostran qual via
Venere tenga; e in quante forme o
quali
suo volto lucidissimo si cangi.
Né
del poeta temerai, che beffi
con satira indiscreta i detti tuoi;
o
che a maligne risa esponer osi
tuo talento immortal. All'alta
mensa
voi l'innalzaste; e tra la vostra luce
beato
l'avvolgeste; e de le Muse
a dispetto e d'Apollo, al sacro
coro
l'ascriveste de' vati. Ei de la mensa
fece il suo Pindo: e
guai a lui, se quindi
le dee sdegnate giù precipitando
con
le forchette il cacciano! Meschino!
Più non poria su le
dolenti membra
del suo infermo signor chiedere aita
da la buona
Salute; o con alate
odi ringraziar, né tesser inni
al
barbato figliuol di Febo intonso.
Più del giorno natale i
chiari albori
salutar non potrebbe; e l'auree
frecce
nomi-sempiternanti all'arco imporre,
non più gli
urti festevoli, o sul naso
l'elegante scoccar d'illustri dita
fôra
dato sperare. A lui tu dunque
non disdegna, o signor, volger
talora
tu' amabil voce: a lui canta i versi
del delicato
cortigian d'Augusto,
o di quel che tra Venere e Lieo
pinse
Trimalcion; la Moda impone,
ch'Aarbitro o Flacco a i begli spirti
ingombri
spesso le tasche. Oh come il vate amico
te udrà,
maravigliando, il sermon prisco
or sciogliere or frenar qual più
ti piace:
e per la sua faretra, e per li cento
destrier focosi
che in Arcadia pasce,
ti giurerà che di Donato al paro
il
difficil sermone intendi e gusti.
E
questo ancor di rammentar fia tempo
i novi sofi, che la Gallia o
l'Alpe
ammirando persegue: e dir qual arse
de' volumi infelici,
o andò macchiato
d'infame nota; e quale asilo
appresti
filosofia al morbido Aristippo
del secol nostro; e
qual ne appresti al novo
Diogene dell'auro sprezzatore,
e della
opinione de' mortali.
Lor volumi famosi a te discesi
per calle
obliquo, e compri a gran tesoro
o da cortese man prestati,
fiéno
lungo ornamento a lo tuo speglio innante.
Poi che
brevi gli avrai scorsi momenti
ornandoti o la man garrendo
indotta
del parrucchier; poi che t'avran più
notti
conciliato il facil sonno, al fine
anco a lo speglio
passeran di lei
che comuni ha con te studi e liceo,
ove togato
in cattedra elegante
siede interprete Amore. Or fia la mensa
il
favorevol loco ove al sol esca
de' brevi studi il glorioso
frutto.
Chi por freni oserà d'inclita stirpe
al'animo,
alla mente? Il vulgo tema
oltre natura: e quei, cui dona il
vulgo
titol di saggio, mediti romito
il ver celato; e alfin
cada adorando
la sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma tu,
come sublime aquila vola
dietro ai sofi novelli. Alto dia
plauso
tutta la mensa al tuo poggiare audace.
Te con lo sguardo
e con l'orecchio beva
la dama dalle tue labbra rapita:
con
cenno approvator vezzosa il capo
pieghi sovente: e il «calcolo»
e la «massa»
e la «inversa ragion» sonino
ancora
su la bocca amorosa. Or più non odia
de le scole
il sermone Amor maestro:
e l'accademia e i portici passeggia
de'
filosofi al fianco; e con la molle
mano accarezza le cadenti
barbe.
Ma guàrdati, o signor, guàrdati,
oh Dio!
dal tossico mortal che fuora esala
dai volumi famosi; e
occulto poi
sa, per le luci penetrato all'alma,
gir serpendo
ne' cori; e con fallace
lusinghevole stil corromper tenta
il
generoso de le stirpi orgoglio
che ti scevra dal vulgo. Udrai da
quelli,
che ciascun de' mortali all'altro è pari;
che
caro a la Natura e caro al cielo
è non manco di te colui
che regge
i tuoi destrieri e quei ch'ara i tuoi campi;
e che la
tua pietade o il tuo rispetto
devrien fino a costor scender
vilmente.
Folli sogni d'infermo! Intatti lascia
così
strani consigli: e solo attigni
ciò che la dolce voluttà
rinfranca,
ciò che scioglie i desiri, e ciò che
nudre
la libertà magnanima. Tu questo
reca solo a la
mensa: e sol da questo
cerca plausi ed onor. Così
dell'api
l'industrioso popolo ronzando,
gira di fiore in fior,
di prato in prato;
e i dissirnili sughi raccogliendo,
tesoreggia
nell'arnie: un giorno poi
ne van colme le pàtere
dorate
sopra l'ara de' numi; e d'ogni lato
ribocca la fragrante
alma dolcezza.
Or
versa pur dall'odorato grembo
i tuoi doni, o Pomona; e l'ampie
colma
tazze che d'oro e di color diversi
fregia il sassone
industre; E tu dai greggi;
rustica Pale coronata vieni
di
melissa olezzante e di ginebro;
e co' lavori tuoi di presso
latte
declina vergognando a chi ti chiede:
ma deporli non osa.
In su la mensa
porien, deposti, le celesti nari
punger ahi
troppo; e con ignobil senso
gli stomachi agitar. Soli torreggino
sul ripiegato lino in varia forma
i latti tuoi cui di serbato
verno
assodarono i sali, e fecer atti
a dilettar con sùbito
rigore
di convitato cavalier le labbra.
Tu,
signor, che farai poi che la dama
con la mano e col piè
lieve puntando
move in giro i begli occhi; e altrui dà
cenno,
che di sorger è tempo? In piè d'un
salto
balza primo di tutti; a lei soccorri,
la seggiola rimovi,
la man porgi;
guidala in altra stanza, e più non
soffri,
che lo stagnante de le dapi odore
il célabro le
offenda. Ivi con gli altri
gratissimo vapor t'invita,
ond'empie
l'aere il caffè che preparato fuma
in tavola
minor, cui vela ed orna
indica tela. Ridolente gomma
quinci
arde in tanto; e va lustrando e purga
l'aere profano, e fuor
caccia dei cibi
le volanti reliquie. Egri mortali,
che la
miseria e la fidanza un giorno
sul meriggio guidâro a queste
porte;
tumultuosa, ignuda, atroce folla
di tronche membra, e di
squallide facce,
e di bare e di grucce, or via da lunge
vi
confortate; e per le alzate nari
del divin prandio il néttare
beete
che favorevol aura a voi conduce:
ma non osate i limitari
illustri
assediar, fastidioso offrendo
spettacolo di mali a i
nostri eroi.
E
a te, nobile garzon, tazza intanto
apprestar converrà, che
i lenti sorsi
ministri poi de la tua dama a i labbri:
e memore
avvertir s'ella più goda,
o sobria o liberal, temprar col
dolce
la bollente bevanda; o se più forse
l'ami così,
come sorbir la gode
barbara sposa, allor che, molle assisa
ne'
broccati di Persia, al suo signore
con le dita pieghevoli il
selvoso
mento vezzeggia; e, la svelata fronte
alzando, il
guarda; e quelli sguardi han possa
di far che a poco a poco di man
cada
al suo signore la fumante canna.
Mentre
i labbri e la man v'occupa e scalda
l'odoroso licor, sublimi cose
cose
macchinerà tua infaticabil mente.
Quale oggi coppia
di corsier de' il carro
condur de la tua bella; o l'alte moli
che
per le fredde piagge educa il cimbro;
o quei che abbeverò
la Drava; o quelli
che a le vigili guardie un dì fuggîro
de
la stirpe campana: oggi qual meglio
si convegna ornamento ai dorsi
alteri;
se semplici e negletti, o se pomposi
di ricche nappe e
variate stringhe
andran su l'alto collo i crin volando,
e sotto
a cuoi vermigli e ad auree fibbie
ondeggeranno li ritondi
fianchi.
Quale oggi cocchio trionfanti al corso
vi porterà:
se quel cui l'oro copre
fulgido al sole; o de' vostr'alti
aspetti
per cristallo settemplice concede
al popolo bearsi; o
quel che tutto,
caliginoso e tristo e a la marmorea
tomba simil
che de' vostr'avi chiude
i cadaveri eccelsi, ammette a pena
cupido
sguardo altrui. Cotanta mole
di cose a un tempo sol
nell'altoingegno
tu verserai; poi col supremo auriga
arduo
consiglio ne terrai, non senza
qualche lieve garrir con la tua
dama.
Servi l'auriga ogni tua legge: e in tanto
altra cura
subentri. Or mira i prodi
compagni tuoi che, ministrato a
pena
dolce conforto di vivande a i membri,
già scelto il
campo e già distinti in bande,
preparansi giocando a fieri
assalti.
Così a queste, o signore, illustre inganno
ore
lente si faccia. E s'altri ancora
vuole Amor che s'inganni;
altronde pungi
la turba convitata; e tu da un lato
sol con la
dama tua quel gioco eleggi
che due soltanto a un tavoliere
ammetta.
Già
di ninfa gentil tacito ardea
dinsoffribile ardor misero
amante,
cui null'altra eloquenza usar con lei,
fuor che quella
degli occhi era concesso;
poi che il rozzo marito, ad Argo
eguale,
vigilava mai sempre; e, quasi biscia,
ora piegando, or
allungando il collo,
ad ogni verbo con gli orecchi acuti
era
presente. Oimè, come con cenni,
o con notate tavole
giammai
o con servi sedotti, a la sua bella
chieder pace ed
aita? Ogni d'Amore
stratagemma finissimo vincea
la gelosìa
del rustico marito.
Che più lice sperare? Al tempio ei
corre
del nume accorto che le serpi annoda
all'aurea verga, e
il capo e le calcagna
d'ali fornisce. A lui si prostra umìle;
e
in questi detti, lagrimando, il prega:
- O propizio agli amanti, o
buon figliuolo
de la candida Maia, o tu che d'Argo
deludesti i
cent'occhi, e a lui rapisti
la guardata giovenca, i preghi
accogli
d'un amante infelice; e a lui concedi,
se non gli occhi
ingannar, gli orecchi almeno
d'un marito importuno. - Ecco si
scote
il divin simulacro, a lui s'inchina,
con la verga
pacifica la fronte
gli percote tre volte: e il lieto amante
sente
dettarsi ne la mente un gioco
che i mariti assordisce. A lui
diresti,
che l'ali del suo piè concesse ancora
il
supplicato dio;, cotanto ei vola
velocissimamente a la sua
donna.
Là bipartita tavola prepara
ov'ebano, ed avorio
intarsiati
regnan sul piano, e partono alternando
in due volte
sei case ambo le sponde.
Quindici nere d'ebano rotelle
e
d'avorio bianchissimo altrettante
stan divise in due parti; e moto
e norma
da duo dadi gittati attendon, pronte
gli spazi ad
occupar, e quinci e quindi
pugnar contrarie. Oh cara a la
Fortuna
quella che corre innanzi all'altre; e seco
trae la
compagna, onde il nemico assalto
forte sostenga! Oh giocator
felice
chi pria l'estrema casa occupa, e l'altro
de gli spazi a
sé dati ordin riempie
con doppio segno! Ei trionfante
allora
da la falange il suo rival combatte;
e in proprio ben
rivolge i colpi ostili!
Al tavolier s'assidono ambidue,
l'amante
cupidissimo e la ninfa.
Quella una sponda ingombra, e questi
l'altra.
Il marito col gomito s'appoggia
all'un de' lati: ambi
gli orecchi tende,
e sotto al tavolier di quando in quando
guata
con gli occhi. Or l'agitar de i dadi
entro a' sonanti bossoli
comincia;
ora il picchiar de' bossoli sul piano;
ora il vibrar,
lo sparpagliar, l'urtare,
il cozzar de i duo dadi; or de le
mosse
rotelle il martellar. Torcesi e freme
sbalordito il
geloso: a fuggir pensa,
ma rattienlo il sospetto. Il fragor
cresce
il rombazzo, il frastono, il rovinio.
Ei più
regger non puote; in piedi balza,
e con ambe le man tura gli
orecchi.
Tu vincesti, o Mercurio. Il cauto amante
poco disse, e
la bella intese assai.
Tal
ne la ferrea età, quando gli sposi
folle superstizion
chiamava all'arme,
giocato fu. Ma poi che l'aureo venne
secol
di novo; e che del prisco errore
si spogliâro i mariti, al
sol diletto
la dama e il cavalier volsero il gioco,
che la
necessità trovato avea.
Fu superfluo il romor: di molle
panno
la tavola vestissi, e de' patenti
bossoli 'l sen: lo
schiamazzio molesto
tal rintuzzossi; e durò al gioco il
nome
che ancor l'antico strepito dinota.
Il
Vespro
Ma de gli augelli e de le fere il giorno
e de' pesci
squammosi e de le piante
e dell'umana plebe al suo fin corre.
Già
sotto al guardo de la immensa luce
sfugge l'un mondo: e a berne i
vivi raggi
Cuba s'affretta e il messico e l'altrice
di molte
perle California estrema:
e da' maggiori colli e
dall'eccelse
rocche il sol manda gli ultimi saluti
all'Italia
fuggente; e par che brami
rivederti o Signor prima che l'alpe
o
l'appennino o il mar curvo ti celi
a gli occhi suoi. Altro finor
non vide
che di falcato mietitore i fianchi
su le campagne tue
piegati e lassi,
e su le armate mura or braccia or spalle
carche
di ferro, e su le aeree capre
de gli edificii tuoi man scabre e
arsicce,
e villan polverosi innanzi a i carri
gravi del tuo
ricolto, e su i canali
e su i fertili laghi irsuti petti
di
remigante che le alterne merci
a' tuoi comodi guida ed al tuo
lusso;
tutti ignobili aspetti. Or colui veggia
che da tutti
servito a nullo serve.
Pronto è il cocchio felice. Odo le rote,
odo i lieti
corsier che all'alma sposa
e a te suo fido cavalier nodrisce
il
placido marito. Indi la pompa
affrettasi de' servi; e quindi
attende
con insigni berretti e argentee mazze
candida gioventù
che al corso agogna
i moti espor de le vivaci membra:
e
nell'audace cor forse presume
a te rapir de la tua bella i voti.
Che tardi omai? Non vedi tu com'ella
già con
morbide piume a i crin leggeri
la bionda che svanì polve
rendette;
e con morbide piume in su la guancia
fe' più
vermiglie rifiorir che mai
le dall'aura predate amiche rose?
Or
tu nato di lei ministro e duce
l'assisti all'opra; e di novelli
odori
la tabacchiera e i bei cristalli aurati
con la perita
mano a lei rintégra:
tu il ventaglio le scegli adatto al
giorno;
e tenta poi fra le giocose dita
come agevole scorra.
Oh qual con lieti
nè ben celati a te guardi e sorrisi
plaude la dama al tuo sagace tatto!
Ecco ella sorge; e del partir dà cenno:
ma non senza
sospetti e senza baci
a le vergini ancelle il cane affida
al
par de' giochi, al par de' cari figli
grave sua cura: e il misero
dolente
mal tra le braccia contenuto e i petti
balza e guaisce
in suon che al rude vulgo
ribrezzo porta di stridente lima;
e
con rara celeste melodia
scende a gli orecchi de la dama e al
core.
Mentre così fra i generosi affetti
e le intese
blandizie e i sensi arguti
e del cane e di sè la bella
oblia
pochi momenti; tu di lei più saggio
usa del tempo:
e a chiaro speglio innante
i bei membri ondeggiando alquanto
libra
su le gracili gambe; e con la destra
molle verso il tuo
sen piegata e mossa
scopri la gemma che i bei lini annoda;
e in
un di quelle ond'hai sì grave il dito
l'invidiato folgorar
cimenta:
poi le labbra componi; ad arte i guardi
tempra qual
più ti giova; e a te sorridi.
Al fin tu da te sciolto, ella
dal cane
ambo al fin v'appressate. Ella da i lumi
spande sopra
di te quanto a lei lascia
d'eccitata pietà l'amata belva;
e
tu sopra di lei da gli occhi versi
quanto in te di piacer destò
il tuo volto.
Tal seguite ad amarvi: e insieme avvinti,
tu a
lei sostegno, ella di te conforto,
itene omai de' cari nodi
vostri
grato dispetto a provocar nel mondo.
Qual primiera sarà che da gli amati
voi sul vespro
nascente alti palagi
fuor conduca o Signor voglia leggiadra?
Fia
la santa Amistà, non più feroce
qual ne' prischi
eccitar tempi godea
l'un per l'altro a morir gli agresti eroi;
ma
placata e innocente al par di questi
onde la nostra età
sorge sì chiara
di Giove alti incrementi. Oh dopo i
tardi
de lo specchio consigli e dopo i giochi,
dopo le mense,
amabil dea, tu insegni
come il giovin Marchese al collo balzi
del giovin Conte; e come a lui di baci
le gote imprima; e
come il braccio annode
l'uno al braccio dell'altro; e come
insieme
passeggino elevando il molle mento
e volgendolo in
guisa di colombe;
e palpinsi e sorridansi e rispondansi
con
un vezzoso «tu». Tu fra le dame
sul mobil arco de le
argute lingue
i già pronti a scoccar dardi
trattieni,
s'altra giugne improvviso a cui rivolti
pendean di
già: tu fai che a lei presente
non osin dispiacer le fide
amiche:
tu le carche faretre a miglior tempo
di serbar le
consigli. Or meco scendi;
e i generosi ufici e i cari sensi
meco
detta al mio eroe; tal che, famoso
per entro al suon de le future
etadi,
e a Pilade s'eguagli e a quel che trasse
il buon Tesèo
da le Tenarie foci.
Se da i regni che l'alpe o il mar divide
dall'Italico lido
in patria or giunse
il caro amico; e da i perigli estremi
sorge
d'arcano mal, che in dubbio tenne
lunga stagione i fisici
eloquenti,
magnanimo garzone andrai tu forse
trepido ancora per
l'amato capo
a porger voti sospirando? Forse
con alma dubbia e
palpitante i detti
e i guardi e il viso esplorerai de' molti
che
il giudizio di voi menti sì chiare
fra i primi assunse
d'Esculapio alunni?
O di leni origlieri all'omer lasso
porrai
sostegno; e vital sugo a i labbri
offrirai di tua mano? O pur con
lieve
bisso il madido fronte a lui tergendo,
e le aurette
agitando, il tardo sonno
inviterai a fomentar con l'ali
la
nascente salute? Ahi no; tu lascia
lascia che il vulgo di sì
tenui cure
le brevi anime ingombri; e d'un sol atto
rendi
l'amico tuo felice a pieno.
Sai che fra gli ozi del mattino illustri,
del
gabinetto al tripode sedendo,
grand'arbitro del bello oggi
creasti
gli eccellenti nell'arte. Onor cotanto
basti a darti
ragion su le lor menti
e su l'opre di loro. Util ciascuno
a
qualch'uso ti fia. Da te mandato
con acuto epigramma il tuo poeta
la mentita virtù trafigger puote
d'una bella ostinata:
e l'elegante
tuo dipintor può con lavoro egregio
tutti
dell'amicizia onde ti vanti
compendiar gli ufici in breve carta;
o se tu vuoi che semplice vi splenda
di nuda maestade il tuo
gran nome;
o se in antica lapide imitata
inciso il brami; o
se in trofeo sublime
accumulate a te mirar vi piace
le
domestiche insegne, indi un lione
rampicar furibondo e quindi
l'ale
spiegar l'augel che i fulmini ministra,
qua timpani e
vessilli e lance e spade,
e là scettri e collane e manti e
velli
cascanti argutamente. Ora ti vaglia
questa carta o
signor serbata all'uopo;
or fia tempo d'usarne. Esca e con essa
del caro amico tuo voli a le porte
alcun de' nunci tuoi;
quivi deponga
la tessera beata; e fugga; e torni
ratto su
l'orme tue pietoso eroe,
che già pago di te ratto a
traverso
e de' trivii e del popolo dilegui.
Già il dolce amico tuo nel
cor commosso,
e non senza versar qualche di pianto
tenera
stilla il tuo bel nome or legge,
seco dicendo: - oh ignoto al duro
vulgo
sollievo almo de' mali! Oh sol concesso
facil commercio a
noi alme sublimi
e d'affetti e di cure! Or venga il giorno;
che
sì grate alternar nobili veci
a me sia dato! - Tale
sbadigliando
si lascia da la man lenta cadere
l'amata carta; e
te la carta e il nome
soavemente in grembo al sonno oblia.
Tu fra tanto colà rapido il
corso
declinando intraprendi ove la dama
co' labbri desiosi e
il premer lungo
del ginocchio sollecito ti spigne
ad altre opre
cortesi. Ella non meno
all'imperio possente a i cari
moti
dell'amistà risponde. A lei non meno
palpita nel
bel petto un cor gentile.
Che fa l'amica sua? Misera!
Ieri,
qual fusse la cagion, fremer fu vista
tutta improvviso,
ed agitar repente
le vaghe membra. Indomito rigore
occupolle
le cosce; e strana forza
le sospinse le braccia. Illividîro
i labbri onde l'Amor l'ali rinfresca;
enfiò la neve de
la bella gola;
e celato candor da i lini sparsi
effuso
rivelossi a gli occhi altrui.
Gli Amori si schermiron con la
benda;
e indietro rifuggironsi le Grazie.
In vano il
cavaliere, in van lo sposo
tentò frenarla, in van le
damigelle
che su lo sposo e il cavaliere e lei
scorrean col
guardo; e poi ristrette insieme
malignamente sorrideansi in
volto.
Ella truce guatando curvò in arco
duro e feroce
le gentili schiene;
scalpitò col bel piede; e ripercosse
la mille volte ribaciata mano
del tavolier ne le pugnenti
sponde.
Livida pesta scapigliata e scinta
al fin stancò
tutte le forze; e cadde
insopportabil pondo sopra il letto.
Né fra l'intime stanze o fra
le chiuse
gemine porte il prezioso evento
tacque ignoto
molt'ore. Ivi la Fama
con uno il colse de' cent'occhi suoi;
e
il bel pegno rapito uscì portando
fra le adulte matrone, a
cui segreto
dispetto fanno i pargoletti amori,
che da la maestà
de gli otto lustri
fuggon volando a più scherzosi nidi.
Una
è fra lor che gli altrui nodi or cela
comoda e strigne; or
d'ispida virtude
arma suoi detti; e furibonda in volto
e
infiammata ne gli occhi alto declama,
interpreta, ingrandisce i
sagri arcani
de gli amorosi gabinetti; e a un tempo
odiata e
desiata eccita il riso
or co' propri misteri or con gli altrui.
La
vide, la notò, sorrise alquanto
la volatile dea, disse: -
Tu sola
sai vincere il clamor de la mia tromba. -
Disse, e in
lei si mutò. Prese il ventaglio,
prese le tabacchiere, il
cocchio ascese;
e la venne trottando ove de' grandi
è il
consesso più folto. In un momento
lo sbadigliar s'arresta.
In un momento
tutti gli occhi e gli orecchi e tutti i labbri
si
raccolgono in lei: ed ella al fine,
e ansando e percotendosi con
ambe
le mani le ginocchia, il fatto espone
e del fatto le
origini riposte.
Riser le dame allor pronte domane
a fortuna
simìl, se mai le vaghe
lor fantasie commoverà
negato
da i mariti compenso a un gioco avverso,
in faccia a
lor per deità maggiore
negligenza d'amante, o al can
diletto
nata subita tosse: e rise ancora
La tua dama con
elle: e in cor dispose
di teco visitar l'egra compagna.
Ite al pietoso uficio, itene or dunque:
ma
lungo consigliar duri tra voi
pria che a la meta il vostro cocchio
arrive.
Se visitar, non già veder l'amica
forse a voi
piace, tacita a le porte
la volubile rota il corso arresti:
e
il giovanetto messagger salendo
per le scale sublimi a lei
v'annunzi
sì che voi non volenti ella non voglia.
Ma, se
vaghezza poi ambo vi prende
di spiar chi sia seco, e di
turbarle
l'anima un poco, e ricercarle in volto
de' suoi casi
la serie, il cocchio allora
entri: e improvviso ne rimbombi e
frema
l'atrio superbo. Egual piacere inonda
sempre il cor de le
belle o che opportune
o giungano importune alle lor pari.
Già le fervide amiche ad
incontrarse
volano impazienti; un petto all'altro
già
premonsi abbracciando; alto le gote
d'alterni baci risonar già
fanno;
già strette per la man co' dotti fianchi
ad un
tempo amendue cadono a piombo
sopra il sofà. Qui l'una un
sottil motto
vibra al cor dell'amica; e a i casi allude
che la
Fama narrò: quella repente
con un altro l'assale. Una nel
viso
di bell'ire s'infiamma: e l'altra i vaghi
labbri un poco
si morde: e cresce in tanto
e quinci ognor più violento e
quindi
il trepido agitar de i duo ventagli.
Così, se mai
al secol di Turpino
di ferrate guerriere un paro illustre
si
scontravan per via, ciascuna ambiva
l'altra provar quel che
valesse in arme;
e dopo le accoglienze oneste e belle
abbassavan
lor lance e co' cavalli
urtavansi feroci; indi infocate
di
magnanima stizza i gran tronconi
gittavan via de lo spezzato
cerro,
e correan con le destre a gli elsi enormi.
Ma di lontan
per l'alta selva fiera
un messagger con clamoroso suono
venir
s'udiva galoppando; e l'una
richiamare a re Carlo, o al campo
l'altra
del giovane Agramante. Osa tu pure,
osa, invitto
garzone, il ciuffo e i ricci
sì ben finti stamane all'urto
esporre
de' ventagli sdegnati: e a nuove imprese
la tua bella
invitando, i casi estremi
de la pericolosa ira sospendi.
Oh solenne a la patria, oh all'orbe
intero
giorno fausto e beato al fin sorgesti
di non più
visto in ciel roseo splendore
a sparger l'orizzonte. Ecco la
sposa
di ramni eccelsi l'inclit'alvo al fine
sgravò di
maschia desiata prole
la prima volta. Da le lucid'aure
fu il
nobile vagito accolto a pena,
che cento messi a precipizio
uscîro
con le gambe pesanti e lo spron duro
stimolando i
cavalli, e il gran convesso
dell'etere sonoro alto ferendo
di
scutiche e di corni: e qual si sparse
per le cittadi popolose, e
diede
a i famosi congiunti il lieto annunzio:
e qual per monti
a stento rampicando
trovò le rocche e le cadenti mura
de'
prischi feudi ove la polve e l'ombra
abita e il gufo; e i
rugginosi ferri
sopra le rote mal sedenti al giorno
di novo
espose, e fe' scoppiarne il tuono;
e i gioghi de' vassalli e le
vallèe
ampie e le marche del gran caso empièo.
Né
le Muse devote, onde gran plauso
venne l'altr'anno a gl'imenei
felici,
già si tacquero al parto. Anzi, qual suole
là
su la notte dell'ardente agosto
turba di grilli, e più
lontano ancora
innumerabil popolo di rane
sparger d'alto
frastuono i prati e i laghi,
mentre cadon su lor fendendo il
buio
lucide strisce, e le paludi accende
fiamma improvvisa che
lambisce e vola;
tal sorsero i cantori a schiera a schiera;
e
tal piovve su lor foco febèo,
che di motti ventosi alta
compaggine
fe' dividere in righe, o in simil suono
uscir
pomposamente. Altri scoperse
in que' vagiti Alcide, altri
d'Italia
il soccorso promise, altri a Bizanzio
minacciò
lo sterminio. A tal clamore
non ardì la mia Musa unir sue
voci:
ma del parto divino al molle orecchio
appressò non
veduta; e molto in poco
strinse dicendo: tu sarai simìle
al
tuo gran genitore. - . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Già di cocchi frequente il
Corso splende:
e di mille che là volano rote
rimbombano
le vie. Fiero per nova
scoperta biga il giovine leggiadro
che
cesse al carpentier gli aviti campi
là si scorge tra i
primi. All'un de' lati
sdraiasi tutto: e de le stese gambe
la
snellezza dispiega. A lui nel seno
la conoscenza del suo merto
abbonda;
e con gentil sorriso arde e balena
su la vetta del
labbro; o da le ciglia,
disdegnando, de' cocchi signoreggia
la
turba inferior: soave intanto
egli alza il mento, e il gomito
protende;
e mollemente la man ripiegando,
i merletti finissimi
su l'alto
petto si ricompon con le due dita.
Quinci vien
l'altro che pur oggi al cocchio
dai casali pervenne, e già
s'ascrive
al concilio de' numi. Egli oggi impara
a conoscere il
vulgo, e già da quello
mille miglia lontan sente
rapirsi
per lo spazio de' cieli. A lui davanti
ossequiosi
cadono i cristalli
de' generosi cocchi oltrepassando;
e il
lusingano ancor perché sostegno
sia de la pompa loro. Altri
ne viene
che di compro pur or titol si vanta;
e pur s'affaccia,
e pur gli orecchi porge,
e pur sembragli udir da tutti i
labbri
sonar le glorie sue: mal abbia il lungo
de le rote
stridore, e il calpestìo
de' ferrati cavalli, e l'aura, e
il vento
che il bel tenor de le bramate voci
scender non lascia
a dilettargli 'l core.
Di momento in momento il fragor cresce,
e
la folla con esso. Ecco le vaghe
a cui gli amanti per lo dì
solenne
mendicarono i cocchi. Ecco le gravi
matrone che gran
tempo arser di zelo
contro al bel Mondo, e dell'ignoto Corso
la
scelerata polvere dannâro;
ma poi che la vivace amabil
prole
crebbe, e invitar sembrò con gli occhi Imene,
cessero
alfine; e le tornite braccia,
e del sorgente petto i
rugiadosi
frutti prudentemente al guardo aprîro
dei
nipoti di Giano. Affrettan quindi
le belle cittadine, ora è
più lustri
note a la Fama, poi che ai tetti loro
dedussero
gli dèi; e sepper meglio,
e in più tragico stil da
la toilette
ai loro amici declamar l'istoria
de' rotti
amori; ed agitar repente
con celebrata convulsion la mensa,
il
teatro, e la danza. Il lor ventaglio
irrequieto sempre or quinci
or quindi
con variata eloquenza esce e saluta.
Convolgonsi le
belle: or su l'un fianco
or su l'altro si posano
tentennano
volteggiano si rizzan, sul cuscino
ricadono pesanti,
e la lor voce
acuta scorre d'uno in altro cocchio.
Ma ecco alfin che le divine
spose
degl'Italici eroi vengono anch'esse.
Io le conosco ai
messaggier volanti
che le annuncian da lungi, ed urtan fieri,
e
rompono la folla; io le conosco
da la turba de' servi al vomer
tolti,
perché oziosi poi diretro pendano
al carro
trionfal con alte braccia.
Male a Giuno ed a Pallade Minerva
e
a Cinzia e a Citerea mischiarvi osate
voi pettorute Naiadi e
Napee
vane di picciol fonte o d'umil selva
che agli Egipani
vostri in guardia diede
Giove dall'alto. Vostr'incerti
sguardi,
vostra frequente inane maraviglia,
e l'aria alpestre
ancor de' vostri moti
vi tradiscono, ahi lasse, e rendon vana
la
multiplice in fronte ai palafreni
pendente nappa, ch'usurpar
tentaste,
e la divisa onde copriste il mozzo
e il cucinier che
la seguace corte
accrebber stanchi, e i miseri lasciâro
canuti
padri di famiglia soli
ne la muta magion serbati a chiave.
Troppo
da voi diverse esse ne vanno
ritte negli alti cocchi
alteramente;
e a la turba volgare che si prostra
non badan
punto: a voi talor si volge
lor guardo negligente, e par, che
dica:
- tu ignota mi sei; - o nel mirarvi
col compagno
susurrano ridendo.
Le giovinette madri degli
eroi
tutto empierono il Corso, e tutte han seco
Un giovinetto
eroe, o un giovin padre
d'altri futuri eroi, che a la teletta,
a
la mensa, al teatro, al corso, al gioco
segnaleransi un giorno; e
fien cantati,
s'io scorgo l'avvenir, da tromba eguale
a quella
che a me diede Apollo, e disse:
- Canta gli Achilli tuoi, canta
gli Augusti
del secol tuo. - Sol tu manchi, o pupilla
del più
nobile mondo: ora ne vieni,
e del rallegratore de
l'universo
rallegra or tu la moribonda luce.
Già tarda a la tua dama; e
già con essa
precipitosamente al corso arrivi.
Il memore
cocchier serbi quel loco
che voi dianzi sceglieste, e voi non
osi
tra le ignobili rote al vulgo esporre,
se star fermi vi
piace, od oltre scorra,
se di scorrer v'aggrada; e a i guardi
altrui
spiegar gioie novelle, e nuove paci
che la pubblica fama
ignori ancora.
Né conteso a te fia per brevi istanti
uscir
del cocchio: e sfolgorando intorno,
qual da repente spalancata
nube,
tutti scoprir di tua bellezza i rai,
nel tergo, ne le
gambe e nel sembiante
simile a un dio; poi che a te, non meno
che
all'altro semideo, Venere diede
e zazzera leggiadra e
porporino
splendor di gioventù, quando stamane
allo
speglio sedesti. Ecco son pronti
al tuo scendere i servi. Un salto
ancora
spicca e rassetta gli increspati panni,
e le trine sul
petto: un po' t'inchina:
ai lucidi calzari un guardo
volgi:
ergiti, e marcia dimenando il fianco.
O il corso misurar
potrai soletto
se il passeggiar tu brami: o tu potrai
dell'altrui
dame avvicinarti al cocchio,
e inerpicarti, et introdurvi il
capo
e le spalle, e le braccia, e mezzo ancora
dentro versarte.
Ivi sonar tant'alto
fa le tue risa, che da lunge le oda
la tua
dama, e si turbi, ed interrompa
il celiar degli eroi che accorser
tosto
tra 'l dubbio giorno a custodirla in tanto
che solinga
rimase. O sommi numi
sospendete la notte: e i fatti egregi
del
mio giovin signor splender lasciate
al chiaro giorno. Ma la notte
segue
sue leggi inviolabili, e declina
con tacit'ombra sopra
l'emispero;
e il rugiadoso piè lenta movendo,
rimescola
i color vari infiniti,
e via gli sgombra con l'immenso lembo
di
cosa in cosa: e suora de la morte
un aspetto indistinto, un solo
volto
al suolo, ai vegetanti, agli animali,
a i grandi, ed a la
plebe equa permette;
e i nudi insieme, e li dipinti visi
de le
belle confonde e i cenci e l'oro:
né veder mi concede
all'aere cieco
qual de' cocchi si parta, o qual rimanga
solo
all'ombre segrete: e a me di mano
toglie il pennello, il mio
signore avvolge
per entro al tenebroso umido velo.
La
Notte
Nè
tu contenderai benigna Notte,
che il mio giovane illustre io
cerchi e guidi
con gli estremi precetti entro al tuo regno.
Già
di tenebre involta e di perigli,
sola squallida mesta alto
sedevi
su la timida terra. Il debil raggio
de le stelle remote
e de pianeti,
che nel silenzio camminando vanno,
rompea
gli orrori tuoi sol quanto è duopo
a sentirli assai più.
Terribil ombra
giganteggiando si vedea salire
su per le case e
su per lalte torri
di teschi antiqui seminate al piede.
E
upupe e gufi e mostri avversi al sole
svolazzavan per essa; e con
ferali
stridi portavan miserandi augurj.
E lievi dal terreno e
smorte fiamme
sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme
di su
di giù vagavano per laere
orribilmente tacito ed
opaco;
e al sospettoso adultero, che lento
col cappel su le
ciglia e tutto avvolto
entro al manto sen gìa con larmi
ascose,
colpìeno il core, e lo strignean daffanno.
E fama è ancor che pallide fantasime
lungo le
mura de i deserti tetti
spargean lungo acutissimo lamento,
cui
di lontano per lo vasto buio
i cani rispondevano ululando.
Tal
fusti o Notte allor che glinclitavi,
onde pur sempre
il mio garzon si vanta,
eran duri ed alpestri; e con loccaso
cadean dopo lor cene al sonno in preda;
fin che laurora
sbadigliante ancora
li richiamasse a vigilar su lopre
de
i per novo cammin guidati rivi
e su i campi nascenti; onde poi
grandi
fûro i nipoti e le cittadi e i regni.
Ma
ecco Amore, ecco la madre Venere,
ecco del gioco, ecco del fasto i
Genj,
che trionfanti per la notte scorrono,
per la notte, che
sacra è al mio signore.
Tutto davanti a lor tutto
sirradia
di nova luce. Le inimiche tenebre
fuggono
riversate; e lali spandono
sopra i covili, ove le fere e gli
uomini
da la fatica condannati dormono.
Stupefatta la Notte
intorno vedesi
riverberar più che dinanzi al sole
auree
cornici, e di cristalli e spegli
pareti adorne, e vesti varie, e
bianchi
omeri e braccia, e pupillette mobili,
e tabacchiere
preziose, e fulgide
fibbie ed anella e mille cose e mille.
Così
leterno caos, allor che Amore
sopra posovvi e il fomentò
con lale,
sentì il generator moto crearsi,
sentì
schiuder la luce; e sé medesmo
vide meravigliando e i
tanti aprirsi
tesori di natura entro al suo grembo.
O
de miei studj glorioso alunno,
tu seconda me dunque, or
chio tinvito
glorie novelle ad acquistar là
dove
o la veglia frequente o lampia scena
i grandi
eguali tuoi, degna de gli avi
e de i titoli loro e di lor sorte
e de i pubblici voti, ultima cura
dopo le tavolette e dopo i
prandj
e dopo i corsi clamorosi occùpa.
Or
dove ahi dove senza me taggiri
lasso! da poi che in
compagnia del sole
tinvolasti pur dianzi a gli occhi
miei?
Qual palagio ti accoglie; o qual ti copre
da i nocenti
vapor chEspero mena
tetto arcano e solingo; o di qual
via
lombre ignoto trascorri, ove la plebe
affrettando
tenton surta e confonde?
Ahimè,
tolgalo il ciel, forse il tuo cocchio,
ove il varco è più
angusto, il cocchio altrui
incontrò violento: e qual de i
duo
retroceder convegna; e qual star forte,
dispùtano
gli aurighi alto gridando.
Sdegna invitto garzon sdegna
dalzare
fra il rauco suon di Stentori plebei
tu
amabil voce; e taciturno aspetta,
sia che a lun piaccia
rovesciar dal carro
lo suo rivale; o rovesciato
anchesso
perigliar tra le rote; e te per lalto
de
lo infranto cristal mandar carpone.
Ma lavverso cocchier
dun picciol urto
pago sen fugge o dun resister
breve:
al fin libero andrai. Tu non pertanto
doman chiedi
vendetta; alto sonare
fa il sacrilego fatto; osa pretendi,
e i
tribunali minimi e i supremi
sconvolgi agita assorda: il mondo
sempia
del grave caso; e per un anno almeno
parli di te,
de tuoi corsier, del cocchio
e del cocchiere. Di sì
fatte cose
voi progenie deroi famosi andate
ne le bocche
de gli uomini gran tempo.
Forse
ciarlier fastidioso indugia
te con la dama tua nel vuoto
corso.
Forse a nova con lei gara dingegno
tu mal cauto
venisti: e già la bella
teco del lungo repugnar
sadira;
già la man, che tu baci arretra, e
tenta
liberar da la tua; e già minaccia
ricovrarsi al
suo tetto, e quivi sola
involarse ad ognuno in fin che il
sonno
venga pietoso a tranquillar suoi sdegni.
Tu in van chiedi
mercè; di mente in vano
tu a lei te stesso sconsigliata
incolpi:
ella niega placarse. Il cocchio freme
dellalterno
clamore; e il cocchio in tanto
giace immobil fra lombra: e
voi sue care
gemme il bel mondo impaziente aspetta.
Ode il
cocchiere al fin dambe le voci
un comando indistinto; e
bestemmiando
sferza i corsieri; e via precipitando
ambo vi
porta: e mal sa dove ancora.
[Folle!
di che temei? Sperdano i venti]
ogni augurio infelice. Ora il
mio eroe
fra lamico tacer del vuoto corso
lieto si sta la
fresca ora godendo
che dal monte lontan spira e consola.
Siede
al fianco di lui lieta non meno
laltrui cara consorte. Amor
nasconde
la incauta face; e il fiero dardo alzando
allontana i
maligni. O nume invitto,
non sospettar di me; chio già
non vegno
invido esplorator, ma fido amico
de la coppia beata,
a cui tu vegli.
E tu signor tronca glindugi. Assai
fûr
gioconde questombre, allor che prima
nacque il vago desio,
che te congiunse
allaltrui cara sposa or son due lune.
Ecco
il tedio a la fin serpe tra i vostri
così lunghi ritiri: e
tempo e ormai
che in più degno di te pubblico
agone
splendano i genj tuoi. Mira la Notte,
che col carro
stellato alta sen vola
per leterea campagna; e a te col
dito
mostra Tèseo nel ciel, mostra Polluce,
mostra Bacco
ed Alcide e gli altri egregi,
che per mille donore ardenti
prove
colà fra gli astri a sfolgorar salìro.
Svegliati
a i grandi esempi; e meco affretta.
Loco
è, ben sai, ne la città famoso,
che splendida
matrona apre al notturno
concilio de tuoi pari, a cui la
vita
fora senza di ciò mal grata e vile.
Ivi le belle, e
di feconda prole
inclite madri ad obliar sen vanno
fra la sorte
del gioco i tristi eventi
de la sorte damore, onde fu il
giorno
agitato e sconvolto. Ivi le grandi
Avole auguste e i
genitor leggiadri
de già celebri eroi il senso e
lonta
volgon de gli anni a rintuzzar fra lire
magnanime del gioco. Ivi la turba
de la feroce gioventù
divina
scende a pugnar con le mutabilarme
di vaghi
giubboncei, datti vezzosi,
di bei modi del dir stamane
appresi;
mentre la vanità fra il dubbio marte
nobil
fûror ne forti petti inspira;
e con vario destin
dando e togliendo
la combattuta palma alto abbandona
i
leggeri vessilli allaure in preda.
Ecco
che già di cento faci e cento
gran palazzo rifulge.
Multiforme
popol di servi baldanzosamente
sale scende saggira.
Urto e fragore
di rote di flagelli e di cavalli
che vengono che
vanno, e stridi e fischi
di gente, che domandan che
rispondono,
assordan laria allalte mura intorno.
Tutto è strepito e luce. O tu, che porti
la dama e il
cavalier dolci mie cure,
primo di carri guidator, qua volgi;
e
fra il denso di rote arduo cammino
con olimpica man splendi; e
dun corso
subentrando i grandatrj, a dietro lascia
qual pria le porte ad occupar tendea.
Quasi a propria virtù
plauda al gran fatto
il generoso eroe: plauda la bella,
che
con lagil pensier scorre gli aurighi
de le dive rivali; e
novi al petto
sente nascer per te teneri orgogli.
Ma
il bel carro s arresta: e a te signore,
a te prima di lei
sceso dun salto,
affidata la dea, lieve balzando,
col
sonante calcagno il suol percote.
Largo dinanzi a voi fiammeggi e
grondi,
sopra lara de numi ad arder nato,
il tesoro
dellapi: e a lei da tergo
pronta di servi mano a terra
proni
lo smisurato lembo alto sospenda:
somma felicità,
che lei sepàra
da le ricche viventi, a cui per
anco,
misere! sopra il suol lestrema veste
sibila per la
polvere strisciando.
Ahi,
se fresco sdegnuzzo i vostri petti
dianzi forse agitò, tu
chino e grave
a lei porgi la destra; e seco innoltra,
quale
Ibèro amador quando, raccolta
dallun lato la cappa,
contegnoso
guida lamanza a diportarsi al vallo,
dove il
tauro, abbassando i corni irati,
spinge gli uomini in alto; o
gemer sode
crepitante giudeo per entro al foco.
Ma no;
ché lamorosa onda pacata
oggi siede per voi: e quanto
è duopo
a vagarvi il piacer solo la increspa
una lieve
aleggiando aura soave.
Snello adunque e vivace offri a la
bella
mollemente piegato il destro braccio.
Ella la manca
vinserisca. Premi
tu col gomito un poco. Anchella un
poco
ti risponda premendo; e a la tua lena
dolce peso a portar
tutta si doni,
mentre a piccioli salti ambo affrettate
per le
sonanti scale alto celiando.
Oh
come al tuo venir gli archi e le volte
de gran titoli tuoi
forte rimbombano!
come a quel suon volubili le porte
cedono
spalancate; ed a quel suono
degna superbia in cor ti bolle; e
face
lanima eccelsa rigonfiar più vasta!
Entra
in tal forma; e del tuo grande ingombra
gli spazj fortunati. Ecco
di stanze
ordin lungo a voi sapre. Altra di servi
infimo
gregge alberga, ove tra lampi
di molteplice lume acceso e
spento,
e fra sempre incostanti ombre schiamazza
il sermon
patrio e la facezia e il riso
dellenergica plebe. Altra di
vaghi
zazzerati donzelli è certa sede,
ove accento
stranier misto al natio
molle susurra: e sapparecchia in
tanto
copia di carte e multiforme avorio,
arme luno a la
pugna, indice laltro
dalti cimenti e di vittorie
illustri.
Al
fin più interna, e di gran luce e doro
e di ricchi
tapeti aula superba
sta servata per voi prole de numi.
Io,
di razza mortale ignoto vate,
come ardirò di penetrar fra i
cori
de semidei, ne lo cui sangue in vano
gocciola impura
cercheria con vetro
indagator colui che vide a nuoto
per londa
genitale il picciol uomo?
Qui tra i servi marresto; e qui
da loro
nuove del mio signor virtudi ascose
tacito
apprenderò. Ma tu sorridi
invisibil camena; e me rapisci
invisibil con te fra li negati
ad ognaltro profano aditi
sacri.
Già
il mobile de seggi ordine augusto
sovra i tiepidi strati in
cerchio volge:
e fra quelli eminente i fianchi estende
il grave
canapè. Sola da un lato
la matrona del loco ivi si posa;
e
con la man, che lungo il grembo cade
lentamente il ventaglio apre
e socchiude.
Or di giugner è tempo. Ecco le snelle
e le
gravi per molto adipe dame,
che a passi velocissimi
saffrettano
nel gran consesso. I cavalieri egregi
lor
camminano a lato: ed elle, intorno
a la sede maggior vortice
fatto
di sè medesme, con sommessa voce
brevi note
bisbigliano; e dileguansi
dissimulando fra le sedie umìli.
Un
tempo il canapè nido giocondo
fu di risi e di scherzi,
allor che lombre
abitar gli fu grato ed i tranquilli
del
palagio recessi. Amor primiero
trovò lopra
ingegnosa. Io voglio, ei disse,
dono a le amiche mie far dun
bel seggio,
che tre ad un tempo nel suo grembo accoglia.
Così,
qualor de glimportuni altronde
volga la turba, sederan gli
amanti
luno a lato dellaltro, ed io con loro.
Disse,
percosse ambe le palme; e lali
aprì volando
impaziente allopra.
Ecco il bel fabbro lungo pian dispone
di tavole contesto, e molli cigne,
a reggerlo vi dà
vaghe colonne,
che del silvestre Pane i piè leggieri
imitano scendendo; al dorso poi
valza patulo appoggio;
e il volge a i lati,
come far soglion flessuosi acanti,
o
ricche corna dArcade montone.
Indi, predando a le vaganti
aurette
lali e le piume, le condensa e chiude
in tumido
cuscin, che tutta ingombri
la macchina elegante: e al fin
ladorna
di molli sete e di vernici e doro.
Quanto
il dono dAmor piacque a le belle!
Quanti pensier lor
balenàro in mente!
Tutte il chiesero a gara: ognuna il
volle
ne le stanze più interne: applause ognuna
a la
innata energia del vago arnese,
mal repugnante e mal cedente
insieme
sotto a i mobili fianchi. Ivi sedendo
si ritrasser le
amiche; e da lo sguardo
de maligni lontane, a i fidi
orecchi
si mormoràro i delicati arcani.
Ivi la coppia de
gli amanti a lato
dellarbitra sagace o i nodi strinse;
o
calmò lira, e nuove leggi apprese.
Ivi sovente
lamador faceto
raro volume allaltrui cara sposa
lesse
spiegando; e con sorrisi arguti
fe tra i fogli notar lepida
imago.
Il fortunato seggio invidia mosse
de le sedie minori al
popol vario:
e fama è che talora invidia mosse
anco a i
talami stessi. Ah perchè mai
vinto da insana ambizione
uscìo
fra lo immenso tumulto e fra il clamore
de le
veglie solenni! Avvi due Genj
fastidiosi e tristi, a cui dier
vita
lOzio e la vanità, che noti al nome
di
Puntiglio e di noia, erran cercando
gli alti palagi e le vigilie
illustri
de la prole de numi. Un ne le mani
porta verga
fatale, onde sospende
ne miseri percossi ogni lor voglia;
e
di macchine al par, che larte inventi
modera lalme a
suo talento e guida:
laltro piove da gli occhi atro
vapore;
e da la bocca sbadigliante esala
alito lungo, che
sembiante a i pigri
soffi dellaustro, si dilata e volve,
e
dinane torpor le menti occùpa.
Questa del Canapè
coppia infelice
allor prese limperio; e i risi e i giochi
ed
Amor ne sospinse. Il trono è questo
ove le madri de le
madri eccelse
de primi eroi esercitan lor tosse;
ove
linclite mogli, a cui beata
rendon la vita titoli
distinti
sbadigliano distinte. ah, se tu sai,
fuggi ratto o
signor, fuggi da tanto
pernicioso influsso: e là fra i
seggi
de le più miti dèe, quindi remoto
con l
alma gioventù scherza e tallegra.