Giuseppe Parini
DIALOGO
SOPRA LA NOBILTA'
Ben
puoi tu forse per favor de' regi,
e de le drude lor andar
coperto
di titoli, di croci e di cordoni.
Ben può il tuo
già da mille anni vantato
sangue scendere a te d'una in
un'altra
Lucrezia; ma, se tu il tuo merto fondi
sopra il merto
de' padri, a me non conta
se non quelli che fur grandi e
dabbene.
Ché se il tuo prisco sí, ma ignobil
sangue
scorse per vili petti, anco che scenda
fin dal diluvio,
vattene e racconta
ch'è plebea la tua stirpe, e non mi
scopri
che sí gran tempo senza merti furo
i padri tuoi.
(Aless. Pope, Saggio sopra l'Uomo).
Benché l'umana superbia sia discesa fino ne' sepolcri, d'oro e
di velluto coperta, unta di preziosi aromi e di balsami, seco recando
la distinzione de' luoghi perfino tra' cadaveri, pure un tratto, non
so per quale accidente, s'abbatterono nella medesima sepoltura un
Nobile: ed un
Poeta:, e tennero questo
ragionamento:
Nobile:
Fatt'in là mascalzone!
Poeta:
Ell'ha il torto, Eccellenza. Teme Ella forse che i suoi vermi non
l'abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch'e' vorrebbon fare
il lauto banchetto sulle ossa spolpate d'un
Poeta:.
Nobile:
Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perché ardisci
tu di starmi così fitto alle costole come tu fai?
Poeta:
Signore, s'io stovvi così accosto, incolpatene
una mia depravazione d'olfatto, per la quale mi sono avezzo a'
cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non
olezzate già più muschio ed ambra, voi ora. Quanto son
io obbligato a cotesti bachi che ora vi si raggirano per le
intestina! essi destano effluvii così fattamente soavi che il
mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto
fosse squisito in fatto di porcherie.
Nobile: Poltrone!
Tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a' vermi, egli è
perché in vita ero avezzo a dar mangiare a un centinaio di
persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un
cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si
accostasse, si morrebbe di fame.
Poeta:
Oh, oh, sibbene, Eccellenza! Io ricordomi ancora di quella turba di
gnatoni e di parassiti, che vi s'affollavan dintorno. Oh, quante
ballerine, quante spie, quanti barattieri, quanti buffoni, quanti
ruffiani! Diavolo! perché m'è egli toccato di scender
quaggiù vosco; ch'altrimenti io gli avrei annoverati tutti
quanti nel vostro epitaffio?
Nobile: Olà,
chiudi cotesta succida bocca; o io chiamo il mio lacché, e ti
fo bastonar di santa ragione.
Poeta: Di
grazia, Vostra Eccellenza non s'incomodi. Il vostro lacché sta
ora qua sopra con gli altri servi e co' creditori facendo un
panegirico de' vostri meriti, ch'è tutt'altra cosa che
l'orazion funebre di quel frate pagato da' vostri figliuoli. Egli non
vi darebbe orecchio, vedete, Eccellenza.
Nobile:
Linguaccia, tu se' tanto incallita nel dir male, che né
manco i vermi ti possono rosicare.
Poeta:
Che Dio vi dia ogni bene: ora voi parlate propriamente da vostro
pari. Voi dite ch'io dico male, perché anco quaggiù
seguo pure a darvi dell'Eccellenza, eh? Quanto ho caro che voi siate
morto! Ben si vede che questo era il punto in cui voi avevate a far
giudizio. Or bene, io darovvi, con vostra buona pace, del Tu. Noi
parremo due Consoli Romani che si parlino la loro lingua. Povero Tu!
Tu se' stato seppellito insieme colla gloria del Campidoglio: bisogna
pur venire quaggiù nelle sepolture chi ha caro di rivederti;
oh! tu se' pure la snella e disinvolta parola!
Nobile:
Cospetto! se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so
chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch'ora
m'esce del bellico che infradicia. Io dicoti, che tu se' una
linguaccia, io.
Poeta: Di grazia,
Signore, fatelo, se il potete; ché voi non vi avvilirete
punto. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro,
che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una
buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati a
noi altra canaglia: non ècci altra differenza, se non che, chi
più grasso ci giugne, così anco più vermi se 'l
mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo stassi
ricoverata la verità. Quest'aria malinconica, che qui si
respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che
verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure.
Nobile:
Or bene, io t'ho còlto adunque, balordo: io dico adunque
il vero, chiamandoti una linguaccia, un maldicente, dappoiché
qui non si respira né si dice altro che verità.
Poeta:
Piano, Signore. Vi ricorda egli quanti giorni sieno che voi veniste
quaggiù?
Nobile: Sibbene, tre dì; e
qualche ore dappoi ci giugnesti tu ancora.
Poeta:
Gli è vero. Fu per lo appunto il giorno che quegli sciocchi di
là sopra, dopo avermi lasciato morir di fame, si credettero di
beatificarmi, qua collocandomi in compagnia di Vostra
Eccellenza.
Nobile: Egli avevano ben ragione;
se non che tu non meritavi cotesta beatitudine.
Poeta:
Or dite, nel momento che voi spiraste non vi fu tosto serrata la
bocca?
Nobile: Sì.
Poeta:
Non vi si radunò poi d'intorno un'esercito di mosche che ve la
turarono vie più?
Nobile: Che vuoi tu dire
perciò?
Poeta: Non veniste voi
chiuso fra quattro assi?
Nobile: Sì, e
coperte di velluto, e guernite d'oro finissimo, e portato da quattro
becchini e da assai gentiluomini con ricchissime vesti nere, colle
mie arme dintorno, con mille torchi, che m'accompagnavano...
Poeta:
Via, codesto non importa. Non foste voi, così imprigionato,
gittato quaggiù?
Nobile: Sì, e,
per ventura, cadendo si scommessero le assi, sì ch'io ne
sdrucciolai fuora, e rimasimi quale or mi vedi.
Poeta:
Non vedete voi adunque che voi avete tuttavia in corpo l'aria di là
sopra, ch'e' non ci fu verso ch'essa ne potesse uscire, tanto voi
eravate ben chiuso da ogni banda?
Nobile: E
cotesto che ci fa egli?
Poeta: Egli ci
fa assai: conciossiaché l'aria, piena di verità, di
quaggiù, non vi può entrare, e per conseguente non ne
può uscire colle parole; laddove in me è seguito tutto
il contrario. Io fui abbandonato alla discrezione del caso quand'io
mi morii, e que' ladri de' becchini non m'ebbero punto di rispetto,
concioffosseché io non fossi un cadavere Eccellenza: anzi,
levatimi alcuni cenci ond'io era involto, quaggiù mi gittarono
così gnudo com'io era nato. Voi vedete ora, che l'aria di
colassù ben tosto si fu dileguata da' miei polmoni; e che in
quel cambio ci scese quest'aria veritiera di questo luogo ov'ora
insieme abitiamo; e staracci finché qualche topo non m'abbia
tanto bucato i polmoni ch'essa non ci possa più
capire.
Nobile: Bestia! tu vuoi dunque conchiuder
con ciò che tu solo dici il vero quaggiù, e ch'io dico
la bugia?
Poeta: Io non dico già
questo, io. Voi ben sapete che, quando altri è ben persuaso
che ciò ch'ei dice sia vero, non si può già dire
ch'egli faccia bugia, sebbene egli dica il falso, non avendo egli
animo d'ingannare altrui, comeché egli per un cattivo
raziocinio inganni sé medesimo.
Nobile:
Mariuolo! tu fai bene a cercare di sgabellartene: ben sai che
cosa importi il dare una mentita in sul viso ad un mio pari. Or via,
poiché qui non ci resta altro che fare infino a tanto che
questi vermi abbiano finito di rosicarci, io voglio pur darti retta:
di' pure; in che cosa m'inganno io? Egli sarà però la
prima volta che un tuo pari abbia ardito di dirmi ch'io
m'ingannassi.
Poeta: Signore, fatemi la
cortesia di rispondere voi prima a me. Per qual ragione non volevate
voi, dianzi, ch'io vi stessi vicino, a voi.
Nobile: Non
te 'l dissi io già? perché ciò non si conviene
ad un pari tuo.
Poeta: E che? vi pungevo
io forse, v'assordavo io, vi mandavo io qualche tristo odore alle
narici, vi dava io infine qualche disagio alla persona?
Nobile:
Benché cotesto fosse potuto essere per avventura, non è
però per questo ch'io sommene doluto: ma solamente perché
ciò non si conveniva.
Poeta: Or perché
non si conveniva egli ciò? Forse che non può l'uomo
star vicino all'altr'uomo quando egli no 'l punga, non l'assordi, non
gli mandi tristo odore alle narici, e finalmente non gli rechi verun
disagio alla persona?
Nobile: Sì certo
ch'egli il può; ma quando l'altro sia suo pari.
Poeta:
E quand'egli no 'l sia?
Nobile: Colui ch'è
inferiore è tenuto a rispettar l'altro, che gli è
superiore; e il non osare accostarsi è segno di rispetto;
laddove il contrario è indizio di troppa famigliarità,
come dianzi ti accennai.
Poeta: Voi non
potete pensar di meglio: ma ditemi, se il cielo vi faccia salvo, chi,
di noi due, giudicate voi che sia tenuto a rispettar l'altro?
Nobile:
No 'l vedi tu da te medesimo, balordo? Tu dèi rispettar
me.
Poeta: Voi volete dire adunque che
voi siete mio superiore. Non è egli 'l vero?
Nobile:
Sì certo.
Poeta: E per qual
ragione il siete voi? Sareste voi per avventura il Re?
Nobile:
Perché io son nobile, dove tu se' plebeo.
Poeta:
E che diacine d'animale è egli mai cotesto nobile? o perché
dobbiam noi essere obbligati a rispettarlo? È egli uno
elefante o una balena, che altri debba cedergli così grande
spazio da occupare? O vuol egli forse dire un uomo pieno di virtù,
e così benefico al genere umano, sicché l'altr'uomo sia
forzato a portargli riverenza?
Nobile: Oh! tu se'
pure il grande scioccone. Uomo nobile non vuol dire niente di ciò;
né per questo è ch'ei merita d'essere
rispettato.
Poeta: E perché
adunque?
Nobile: Perché egli ha avuto
una nascita diversa dalla tua.
Poeta:
Oh poffare! voi mi fareste strabiliare. Affé, che voi mi
pigliaste ora per un bambolo da contargli le fole della fata e
dell'orco. Non son io forse stato generato e partorito alla stessa
stessissima foggia che il foste voi? E che! vi moltiplicate voi forse
per mezzo delle stampe, voi altri nobili?
Nobile:
Noi nasciamo come se' nato tu medesimo, se io ho a dirti 'l vero:
ma il sangue che in noi è provenuto dai nostri maggiori è
tutt'altra cosa che il tuo.
Poeta:
Dàlle! e voi seguite pure a infilzarmi maraviglie. Forseché
il vostro sangue non è come il nostro fluido e vermiglio? È
egli fatto alla foggia di quello degli Dei d'Omero?
Nobile:
Egli è anzi così, come il vostro, fluidissimo e
vermiglissimo: ma tu ben sai che possa il nostro sangue sopra gli
animi nostri.
Poeta: Io non so nulla,
io. Di grazia, che credete però voi che il vostro sangue possa
sopra gli animi vostri?
Nobile: Esso ci può
più che non credi: esso rende i nostri spiriti svegliati,
gentili e virtuosi; laddove il vostro li rende ottusi, zotici e
viziosi.
Poeta: E perché
ciò?
Nobile: Perché esso è
disceso purissimo per insino a noi per li purissimi canali de' nostri
antenati.
Poeta: Se la cosa è
come a voi pare, voi sarete adunque, voi altri Nobili, tutti quanti
forniti d'animo svegliato, gentile e virtuoso.
Nobile:
Sì certamente.
Poeta: Onde
vien egli però che, quando io era colassù tra' viventi,
a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse
ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata,
vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora per qualche
impensato avvenimento si è introdotta qualche parte del nostro
sangue eterogeneo per entro a que' purissimi canali de' vostri
antenati? Ed onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto
tante persone letterate, valorose, intraprendenti, liberali, gentili,
magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo
sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi
negli oscuri canali di noi altra canaglia?
Nobile: Io
non ti saprei ben dire onde ciò procedesse; ma egli è
pur certo che bisogna sempre dir bene de' nobili, perché
bisogna rispettarli, se non per altro, almeno per l'antichità
della nostra prosapia.
Poeta: Deh,
Signore, ditemi per vita vostra, quanti secoli prima della creazione
cominciò egli mai la vostra prosapia?
Nobile: Ah
ah, tu mi fai ridere: pretenderesti tu forse, minchione, che ci
avesse delle famiglie prima che nulla ci fosse?
Poeta:
Or bene; di che tempo credete voi che avesse cominciamento la vostra
famiglia?
Nobile: Dal tempo di Carlo Magno,
cicala.
Poeta: Olà, tu fammi
dunque il cappello tu, scòstati da me tu.
Nobile:
Insolente! che linguaggio tieni tu ora con me? Tu mi faresti po'
poi scappare la pazienza.
Poeta: Olà!
scòstati, ti dico io.
Nobile: E perché?
Poeta: Perché la mia
famiglia è di gran lunga più antica della tua.
Nobile:
Taci là, buffone; e da chi presumeresti però tu
d'esser disceso?
Poeta: Da Adamo,
vi dico io.
Nobile: Oh, io l'ho detto che tu
ci avverresti bene a fare il buffone. Io comincio quasi ad avere
piacere d'essermi qui teco incontrato. Suvvia, fammi adunque il
catalogo de' tuoi antenati.
Poeta: Eh,
pensate! La vorrebb'esser la favola dell'uccellino se io avessi ora a
contarvi ogni cosa. Questi rospi che ora ci rodono non hanno mica
tanta pazienza, sapete! Così fosse stato addentato il vostro
primo ascendente dov'ora uno d'essi m'addenta; che voi non vi
vantereste ora di così antica famiglia.
Nobile:
Ispàcciati; comincia prima da tuo padre, e va' via
salendo. Come chiamavas'egli?
Poeta: Il
signor Giambattista, per servirvi.
Nobile: E il tuo
nonno?
Poeta: Il mio nonno...
Nobile:
Or di'.
Poeta: Zitto, aspettate
ch'io lo rinvenga: il mio nonno...
Nobile: Sbrigati,
ti dico, in tua malora!
Poeta: Il mio
nonno chiamavasi messer Guasparri.
Nobile: E
il tuo bisavolo?
Poeta: Oh questo, affé
ch'io non me 'l ricordo, e gli altri assai meno: ricorderestivi voi i
vostri?
Nobile: Se io me li ricordo? Or senti:
Rolando il primo, da Rolando il primo Adolfo, da Adolfo Bertrando, da
Bertrando Gualtieri, da Gualtieri Rolando secondo, da Rolando secondo
Agilulfo, da Agilulfo...
Poeta: Deh,
lasciate lasciate, ch'io son ben persuaso che voi vi ricordate ogni
cosa. Cappita! voi siete fornito d'una sperticata memoria, voi. Egli
si par bene che voi non abbiate studiato mai altro che la vostra
genealogia.
Nobile: Ora ti dài tu per vinto?
mi concedi tu oggimai che io e gli altri nobili miei meritiamo
d'esiggere rispetto e venerazione da voi altri plebei?
Poeta:
Io vi concedo che voi aveste di molta memoria voi e i vostri
ascendenti; ma, se cotesto vi fa degni di riverenza, io non so perché
io non debba dare dello Illustrissimo anco a colui che mostra le
anticaglie, dappoiché egli si ricorda di tanti nomi quanti voi
fate, e d'assai più ancora.
Nobile: È
egli però possibile, animale, che tu non ti avveda quanto
celebri, quanto illustri, e quanto grandi uomini sieno stati questi
miei avoli?
Poeta: Io giurovi ch'io non
ne ho udito mai favellare. Ma che hann'eglino però fatto
cotesti sì celebri avoli vostri? Hanno eglino forse trovato la
maniera del coltivare i campi; hanno eglino ridotti gli uomini
selvaggi a vivere in compagnia? Hanno eglino forse trovato la
religione, le leggi e le arti che sono necessarie alla vita umana?
S'egli hanno fatto niente di questo, io confessovi sinceramente che
cotesti vostri avoli meritavano d'essere rispettati da' loro
contemporanei, e che noi ancora non possiamo a meno di non portar
riverenza alla memoria loro. Or dite, che hanno eglino fatto?
Nobile:
Tu dèi sapere che que' primi de' nostri avoli prestarono
de' grandi servigi a gli antichi nostri principi, aiutandoli nelle
guerre ch'eglino intrapresero; e perciò furono da quelli
beneficati insignemente e renduti ricchi sfondolati. Dopo questi,
altri divenuti fieri per la loro potenza, riuscirono celebri
fuorusciti, e segnalarono la loro vita faccendo stare al segno il
loro Principe e la loro patria; altri si diedero per assoldati a
condurre delle armate in servigio ora di questo or di quell'altro
signore, e fecero un memorabile macello di gente d'ogni paese. Tu ben
vedi che in simili circostanze, sia per timore d'essere perseguitati,
sia che per le varie vicende s'erano scemate le loro facoltà,
si ritirarono a vivere ne' loro feudi; ricoverati in certe loro
ròcche sì ben fortificate, che gli orsi non vi si
sarebbono potuti arrampicare; dove non ti potrei ben dire quanto
fosse grande la loro potenza. Bastiti il dire che nelle colline
ov'essi rifugiavano, non risonava mai altro che un continovo eco
delle loro archibusate, e ch'egli erano dispotici padroni della vita
e delle mogli de' loro vassalli. Ora intendi quanto grandi e quanto
rispettabili uomaccioni fosser costoro, de' quali tenghiamo tuttavia
i ritratti appesi nelle nostre sale.
Poeta: Or
via, voi avete detto abbastanza dello splendore e del merito de'
vostri avi. Non andate, vi priego, più oltre, perché
noi entreremmo forse in qualche ginepraio. Per altro voi fate il
bell'onore alla vostra prosapia, attribuendo a' vostri ascendenti il
merito che finora avete attribuito loro. Voi fate tutto il possibile
per rivelare la loro vergogna e per isvergognare anche voi stesso, se
fosse vero, come voi dite, che a voi dovesse discendere il merito de'
vostri maggiori e che questi fossero stati i meriti loro. Io credo
bene che tra' vostri antenati, così come tra' nobili che io ho
conosciuti, vi saranno stati di quelli che meriterebbono d'essere
imitati per l'eccellenza delle loro sociali virtù; ma siccome
queste virtù non si curano di andare in volta a processione,
così si saranno dimenticate insieme col nome di que' felici
vostri antenati, che le hanno possedute.
Nobile: Or
ti rechi molto in sul serio tu, ora.
Poeta:
Finché voi non mi faceste vedere altro che vanità, io
mi risi della leggerezza del vostro cervello; ma, dappoiché mi
cominciate a scambiare i vizii per virtù, egli è pur
forza che mi si ecciti la bile. Volete voi ora che noi torniamo a'
nostri scherzi?
Nobile: Sì, torniamoci pure,
che il tuo discorso mi comincia oggimai a piacere; e quasi m'hai
persuaso che questa Nobiltà non sia po' poi così gran
cosa, come questi miei pari la fanno.
Poeta:
Rallegromene assai. Ben si vede che l'aria veritiera di questo nostro
sepolcro comincia ora ad insinuarvisi ne' polmoni, cacciandone quella
che voi ci avevate recato di colassù.
Nobile:
Sì, ma tu mi dèi concedere, nondimeno, che io
merito onore da te in grazia della celebrità de' miei
avi.
Poeta: Or bene, io farovvi adunque
quell'onore che fassi agli usurpatori, agli sgherri, a' masnadieri,
a' violatori, a' sicarii, dappoiché cotesti vostri maggiori di
cui m'avete parlato furono per lo appunto tali, se io ho a stare a
detta di voi; sebbene io mi creda che voi ne abbiate avuti de' savii,
de' giusti, degli umani, de' forti e de' magnanimi, de' quali non
sono registrate le gesta nelle vostre genealogie perché
appunto tali si furono e perché le sociali virtù non
amano di andare in volta a processione. Non vi sembra egli giusto
che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora
dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi
adisce un'eredità assume con essa il carico de' debiti che
sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono
onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate
infamato voi pure?
Nobile: No certo, ché
cotesto non mi parrebbe né convenevole né
giusto.
Poeta: E perché
ciò?
Nobile: Perché io non sono per
verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.
Poeta:
Per qual ragione?
Nobile: Perché, non
avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la
pena.
Poeta: Volpone! voi vorreste
adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le
appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la
viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni
di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi
lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e
l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse.
Nobile:
Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il
capo. Io son rimasto oggimai come la cornacchia d'Esopo, senza pure
una piuma dintorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar
tanto, io sono ora convinto di non meritar nulla, ond'è
adunque che quelle bestie che vivevan con noi, facevanmi tante
scappellate, così profondi inchini, davanmi tanti titoli e
idolatravanmi sì fattamente ch'io mi credeva una divinità?
e voi altri autori, e voi altri poeti, ne' vostri versi e nelle
vostre dediche, mi contavate tante magnificenze dell'altezza della
mia condizione, della grandezza de' miei natali, e il diavolo che vi
porti, gramo e dolente ch'io mi sono rimasto!
Poeta:
Coraggio, Signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in
viso la bella verità. Pochissimi sono coloro che veder la
possono colassù tra' viventi; e qui solo tra queste tenebre ci
aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com'ella è. Coraggio,
Eccellenza.
Nobile: Dammi del tu in tua
malora, dammi del tu; ch'io trovomi alla fine perfettamente tuo
eguale, se non anzi al disotto di te medesimo, dappoiché io
non trovomi aver più nulla per cui mi paia di poter esiggere
segni di rispetto e di riverenza di sorta alcuna.
Poeta:
Come! Credete voi forse che i titoli che vi si davano e gl'inchini
che vi si facevano là sopra, fossero segnali d'ossequio e di
venerazione, che altri avesse per voi? Oh, voi la sbagliate di molto,
se ciò vi credete!
Nobile: Che eran egli
adunque? Starommi a vedere che io mi viveva ingannato anche in
ciò.
Poeta: Statemi bene ad
udire. Saprestemi voi spiegare che cosa voglia dire
Rispetto?
Nobile: Egli significa, se io però
so bene quello ch'io mi dica, certi cenni e certe parole che altri
usa verso ad alcuno, da' quali questi comprende d'esser onorato e
venerato da colui che li fa.
Poeta: Voi
v'ingannate. Il Rispetto non è altro che un certo sentimento
dell'animo posto fra l'affetto e la meraviglia, che l'uomo pruova
naturalmente al cospetto di colui ch'ei vede fornito d'eccellenti
virtù morali o d'eccellenti doti dell'ingegno o del corpo.
Questo sentimento per lo più stassi rinserrato nel cuore di
chi lo prova; e talvolta ancora per una certa ridondanza prorompe di
fuora ne' cenni o nelle parole.
Nobile: E
quegli inchini, che mi si facevano, e que' titoli che mi si davano,
non provenivan egli forse da cotesto sentimento che tu di'?
Poeta:
Eh, zucche! Egli è passato in costume tra gli uomini che
coloro che sono arrivati a un certo grado di fortuna, volendo pure
per eccesso della loro ambizione slontanarsi dalla comune degli altri
mortali, si sono assunti certi titoli vuoti di senso, ed hanno
richiesto da coloro che avean bisogno di essi, certi determinati
atteggiamenti da farsi alla loro presenza. I capi de' popoli sonosi
prevaluti della vanità de' loro soggetti, ed hanno di questi
segnali instituito un commerzio; per mezzo del quale i ricchi
ambiziosi, cambiando i loro tesori, si comperano fumo, e vanno
imbottando nebbia. Gli sciocchi poi i quali non pensano più là
dànnosi a credere che coloro siensi comperati insieme co'
titoli e colle distinzioni anche il merito, il quale non si compera
altrimenti, ma si guadagna colle sole proprie virtuose azioni. I
savii non cascano però a questa ragna; e sebbene per non
andare a ritroso della moltitudine e comparir cinici o quacqueri
impazzano co' pazzi, e non sono avari di certe parole e di certi
gesti che voi altri richiedete e che la moltitudine vi concede;
nondimeno in cuor loro pesano il rispetto e la stima sulla bilancia
dell'orafo, e non la concedono se non a chi se la merita. Eglino
fanno come il forestiere, il quale s'inchina agl'idoli della nazione
ov'egli soggiorna, per pura urbanità; ma se ne ride poi e li
beffeggia dentro di se medesimo. M'intendeste voi ora? Pensate voi
ora che i vostri creditori, allora quando, chini come voti davanti
un'immagine, pregavanvi della loro mercede, trammischiando ad ogni
parola il titolo di Eccellenza, avessero punto di venerazione per
voi? Egli vi davano anzi mille volte in cuor loro il titolo di
prepotente e di frodatore. E i vostri famigliari, che udivano e
vedevano le vostre sciocchezze e le vostre bizzarrie taciti e
venerabundi, oh quanto si ridevano in cuor loro della vostra
melensaggine e della vostra stravaganza: e i filosofi e gli altri
uomini di lettere, che v'udivan decidere così francamente
d'ogni cosa...
Nobile: Deh! taci, te ne scongiuro;
che mi par propio di morire la seconda volta, udendo quello che tu mi
di', e pensando ch'io ho aspettato nella sepoltura a sgannarmi della
mia pecoraggine e della mia bestiale vanità. Non ti par egli
ch'io meriti compassione?
Poeta: No, io;
anzi da questo momento io comincio a provare per voi quel sentimento
di rispetto e di stima ch'io vi diceva, considerandovi io per un uomo
che conosce perfettamente la verità, che si ride della vanità
e leggerezza di coloro che credonsi di meritar venerazione per lo
sangue degli altri nelle lor vene disceso, che s'innalzano sopra gli
altri uomini soltanto perché ricordansi i nomi di più
numero de' loro antenati che gli altri non fanno; che vantano per
merito loro le azioni malvage de' loro maggiori esiggendone rispetto;
che usurpansi la mercede delle belle azioni non fatte né
imitate da loro per veruna maniera, e che finalmente figuransi
d'essersi comperati i meriti insieme co' titoli, ed assomigliansi a
colui che credevasi di poter comperar per danari lo spirito
divino.
Nobile: Deh, amico, perché non
ti conobbi io meglio, quand'io era colassù tra' vivi; ché
io non avrei aspettato a riconoscermi così tardi.
Poeta:
Io ho tentato non poche volte di farvene accorgere, io, e con certe
tronche parole, e con certi sorrisi, e con certe massime generali,
gittate come alla ventura, e in mille altre fogge: ma voi, briaco di
vanagloria, badavate a coloro che v'adulavano per mangiar pane, e non
credevate che un plebeo potesse saper giudicare di nobiltà e
di cavalleria assai meglio che voi non facevate.
Nobile:
Che volevi tu ch'io facessi, se tutto cospirava a far che
s'abbarbicasse ognora più in me questa mia sciocca e ridicola
prosunzione? Fa' tuo conto che, al mio primo uscir delle fasce, io
non mi sentii sonare mai altro all'orecchio, se non che io era troppo
differente dagli altri uomini, che io era cavaliere, che il cavaliere
dee parlare, stare, moversi, chinarsi, non già secondo che
l'affetto o la natura gl'ispira, ma come richiede l'etichetta e lo
splendore della sua nascita. Così mi parlavano i genitori,
egualmente vani che me: così i pedanti, che amavano di regnare
in casa mia o di trattenermi ad onorar, com'egli dicevano, i loro
collegi. Ma, prima che siemi impedito di parlar più teco,
cavami, ti priego, anche di quest'altro dubbio. Egli mi pare che
questa nobiltà, ch'io ho pur trovato essere un bel nulla,
abbia contribuito sopra la terra a rendermi più contento della
mia vita: saresti tu di parere ch'ella pur giovi alcuna cosa a render
più felici gli uomini colassù?
Poeta:
Io non vi negherò già questo, quando la nobiltà
sia colle ricchezze congiunta o colla virtù o col talento;
perciocché anco i pregiudizii e le false opinioni degli
uomini, qualora sieno a tuo favore, possono esserti di qualche uso e
comodità. Le ricchezze, unite a quelle circostanze che voi
chiamate nobiltà, fanno sì che voi vi potete servire di
que' privilegi che co' titoli vi furono conferiti, e così
pascervi colla vana ambizione di poter essere in luogo donde gli
altri sieno esclusi, e simili altre bagattelle. Che se la nobiltà
è congiunta colla virtù, avviene di questa come delle
antiche medaglie, che, quantunque la loro patina non renda
intrinsecamente più prezioso il metallo onde sono composte né
migliore il disegno onde sono improntate, nondimeno, per una opinione
di chi se ne diletta, riescono più care e pregiate. Ed io ho
pur veduti alcuni dabbene cavalieri godersi del volgare pregiudizio
in loro favore, per così aver campo di far parere più
bella la loro modestia e di far riuscire più cari i loro
meriti sotto a questa vernice dell'umana opinione; e, scambiando così
i titoli e le riverenze co' beneficii e colle cortesie, mostrare la
vera nobiltà dell'animo, e dar qualche corpo alla falsa, di
cui finora teco parlai.
Nobile: Io non posso
oggimai più dir motto, conciossiaché i miei polmoni
cominciano a sdrucirsi, e la lingua a corrompersi. Rispondimi a
questo ancora. Credi tu che la nobiltà possa giovar qualche
cosa, spogliata della virtù, della ricchezza e de'
talenti?
Poeta: Voi non vedeste mai il
più meschino uomo, né il più miserabile, d'un
uomo spogliato in sola nobiltà. Egli può dire, come
dicea quel prete alla fante, che scandolezzavasi per la cherca: -
Spogliami nudo, e vedrai ch'io paio appunto un uomo. - Conculcato da'
ricchi, che in mezzo agli agi possono comperarsi i titoli quando
vogliono, e si ridono della sterile nobiltà di lui; disdegnato
da' sapienti, che compiangono in lui l'ignoranza, accompagnata colla
miseria e colla superbia; sfuggito dagli artigiani, alla cui bottega
egli non s'arrischia d'impiegare le mani; odiato dalle persone
dabbene, che abbominano il suo ozio e la sua inettitudine. Finalmente
congedato da coloro ch'erano una volta suoi pari, i quali non
soffrono d'ammetterlo nelle loro assemblee così gretto e
meschino, senz'oro, senza cocchi, senza servi, e cose altre simili
che sono il sostegno e l'unico splendore della nobiltà, vien
ridotto ad abitar tutto il giorno un caffè di scioperati, che
il mostrano a dito e fannolo scopo de' loro motteggi e delle loro
derisioni. Così il vano fasto della sua nobiltà è
cangiato per lui in infamia; e per colmo della sua miseria e del suo
ridicolo, gli restano tuttavia in mente e sulle labbra i nomi de'
suoi antenati. A questa condizione si accosta qualunque nobile
famiglia che decade dalla sua prima ricchezza e insieme dalla sua
prima virtù; se la modestia o la filosofia non la
sostiene.
Nobile: Oimè! che in cotesta
condizione io ho lasciato i miei figliuoli colassù; e tutto
ciò per colpa...
Poeta: Egli non
può più parlare; la lingua gli si è infracidita.
Riposatevi, Eccellenza, sul vostro letame. La lingua de' Poeti è
sempre l'ultima a guastarsi. Beato voi, se colassù aveste
trovato uno sì coraggioso che avesse ardito di trattarvi una
sola volta da sciocco! Se io avessi a risuscitare, io per me, prima
d'ogni altra cosa, desidererei d'esser uomo dabbene, in secondo luogo
d'esser uomo sano, dipoi d'esser uomo d'ingegno, quindi d'esser uomo
ricco, e finalmente, quando non mi restasse più nulla a
desiderare, e mi fosse pur forza di desiderare alcuna cosa, potrebbe
darsi che per istanchezza io mi gettassi a desiderar d'esser uomo
nobile, in quel senso che questa voce è accettata presso la
moltitudine.