Giuseppe Parini
DISCORSO
SOPRA LA POESIA
Seguo il ms. Ambrosiano, X, 12, che è autografo; con cancellature e molte correzioni; delle quali non tengo conto che in parte, sembrando superflue tali decifrazioni, difficili talora, e note minute, poichè si tratta di una prima copia d'una prosa giovanile e poco elaborata. Il ms. è un fascicolo di pagine numerate 123-136 ; la quale ultima è bianca. (Guido Mazzoni)
Lo spirito filosofico, che, quasi Genio felice sorto a dominar la
letteratura di questo secolo, scorre colla facella della verità
accesa nelle mani, non pur l'Inghilterra, la Francia e l'Italia, ma
la Germania e le Spagne, dissipando le dense tenebre de' pregiudizii
autorizzati dalla lunga età e dalle venerande barbe de' nostri
maggiori, finalmente perviene a ristabilire nel loro trono il buon
senso e la ragione. A lui si debbono i progressi che quasi
subitamente hanno fatto per ogni dove le scienze tutte, e il grado di
perfezione a cui sono arrivate le arti.
Il maggiore poi de' beneficii, anzi quello che dentro di sè
contiene tutti gli altri che recati ci abbia la moderna filosofia, si
è lo averci avvezzati a ponderare con un certo disinteresse le
cose, dimodochè nè l'età, nè il numero,
nè la dignità delle circostanze ci possano
sopraffare.
Abbiamo ora appreso a prescindere da ogni vano abbigliamento, ed a
gettarci immantinente sopra l'essenza della cosa, e, quella
penetrando e investigando per ogni più ascoso ripostiglio,
senza pericolo d'illusione siamo giunti a discoprirne il vero. In
simile guisa la fisica, appoggiatasi all'esperienza, ha insegnato a
ben giudicare della natura de' corpi, e colla scorta di essa quindi
ha determinato la probabilità de' diversi sistemi, e quinci
dimostrate ridicole le vane paure del volgo. La morale, postasi ad
investigare direttamente il cuore umano, quivi ha trovato le vere
origini delle passioni e le diverse modificazioni de' nostri affetti,
e, da quelle argomentando, ha stabilito il vero carattere e il vero
peso de' vizii e delle virtù. Così, esaminando le
matematiche e le arti, pervenuti siamo a comprendere il giusto valor
di ciascuna, distinguendo tra le necessarie e le utili, tra le utili
e le dilettevoli, e tra le dilettevoli e le soverchie.
La poesia medesima, della quale ho determinato ora di brevemente
parlare, ha nuovi lumi acquistati dallo spirito filosofico; e,
comechè abbia per una parte perduti i pomposi titoli che non
solo i poeti, ma i maggiori filosofi ancora donati le aveano, di
celeste, di divina e di maestra di tutte le cose, ha nondimeno
ricevuto dall'altra un merito meno elevato, a dir vero, ma più
solido e più certo. Questo vero merito della Poesia piacemi
che sia il soggetto del Presente discorso, Che conterrà alcune
mie riflessioni, le quali giudicherò meritar qualche cosa,
qualora vengano accompagnate dalla vostra sincera
approvazione.
In
due schiere partisco io la maggior parte di coloro che sogliono
giudicare della poesia. Altri sono certi facitori di versi o sia
misuratori di parole, i quali sì tosto che sono giunti a
scriver quattordici righe d'undici sillabe per ciascuna, e le cui
desinenze si corrispondano alternando con egual suono, così si
persuadono d'essere arrivati ne' più intimi penetrali di
quella spelonca
Là dove Apollo diventò Profeta.
(Petrarca, Canzoniere, CLXVI,
S'i' fossi stato fermo alla spelunca)
Allora è che costoro, ringalluzzandosi, e di versificatori
credendosi divenuti veramente poeti, così fanatici si
dimostrano per amore della poesia, che null'arte stimano potersi
accostare a quella, non che paragonare. A questi debbono
accompagnarsi alcuni altri, i quali, essendo pur di qualche mezzano
valore in quest'arte, di buona fede sono persuasi dell'eccellenza ed
importanza di essa, e ragionano di que' lor sonetti e di quelle lor
canzoncine, non già in maniera di passatempo, ma con quella
gravità ch'altri discorrerebbe del piano d'una campagna o
della spedizione d'una colonia.
L'altra parte di coloro che sogliono dar giudizio sopra la poesia son
quelli che, applicati essendo ad alcuna delle scienze o delle arti
più utili, con troppa severità condannano questa e
tengonla a vile, come quella che punto non serve agli umani bisogni,
ch'è vano trattenimento di gente oziosa e il cui merito in
altro non consiste fuorchè in una foggia di parlare diversa
dal linguaggio comune.
Ora oserò io sperare di potere far sì che, l'una di
queste due parti scendendo alquanto, e l'altra alquanto salendo,
s'incontrino in un giusto mezzo, che colla ragione consenta e colla
verità? Io non credo di poter ciò meglio ottenere che
coll'esaminare per poco in che consista la poesia.
E per lasciare da un lato le dispute che si sono fatte per deffinire
quest'arte, io credo, appoggiandomi all'autorità de' migliori
maestri, esser la poesia l'arte d'imitare o di dipingere in
versi le cose in modo che sien mossi gli affetti di chi legge od
ascolta, acciocchè ne nasca diletto. Questo è il
principal fine della poesia, e di qui ha avuto
cominciamento.
Da
questa deffinizione appare che l'arte poetica non è già
così vana come vogliono i suoi nemici; i quali, se questa
vogliono condannare, condannar debbono egualmente la pittura, la
statuaria e le altre consimili arti di puro diletto, le quali presso
tutte le colte genti in sommo pregio si tengono, e per le quali mille
valenti artefici si sono renduti immortali.
Mi si potrebbe rispondere che il piacere che in noi vien prodotto
dalla poesia non nasce già da motivi intrinseci a quella, ma
dalla sola opinione, la quale, veggendo esattamente descritte le tali
e tali cose secondo le regole che gli uomini hanno convenuto di
stabilire a quest'arte, gode di vederle adempiute. Ma chi ben
considera filosoficamente quest'arte e la natura del cuore amano, ben
tosto s'avvede che non dall'opinione degli uomini, ma da fisiche
sorgenti deriva quel piacere che dal poeta ci vien
ministrato.
Per
rimanere convinto di ciò, egli è mestieri di prima
riflettere a quanto sono per dire. Tutte le arti, che sono di
un'assoluta necessità al viver dell'uomo, sono state comuni ad
ogni tempo e ad ogni nazione, come sono l'agricoltura e la caccia.
Ma, perciocchè l'uomo non solo ama di vivere ma eziandio di
vivere lietamente, così non è stato pago di aver ciò
solamente che il mantiene; ma ha procurato ancora ciò che il
diletta. Adunque non solo le arti che sono assolutamente necessarie,
ma quelle ancora che per loro natura e non per la sola opinione
vagliono a dilettarci, sono state in ogni tempo comuni a tutte le
genti: e si dee dire che questo, perciò appunto che son state
sempre comuni ad ogni popolo, non per l'opinione che in ogni paese è
diversa, ma per una reale impressione, che tuttavia, e di lor natura,
fanno sopra il cuor nostro, vengano a recarci diletto.
Tanto più universali sono poi state sempremai quelle arti
dilettevoli al soccorso delle quali non bisognano stranieri mezzi, ma
la mente basta, o gli organi dell'uomo stesso: perciò comuni a
quanti popoli abitano la superficie della terra furon sempre il
canto, la danza, e, nulla meno di queste, la poesia.
Cominciando
dagli Ebrei fino agli ultimi popoli della terra, tutti quanti hanno
avuto i loro poeti. Nè parlo io solo delle nazioni ch'ebber
riputazione delle meglio illuminate, ma delle barbare ancora, anzi
delle selvagge, presso alle quali non pur veruna scienza, ma niuna
delle belle arti è fiorita giammai. Ci rimangono ancora
memorie o graziosi frammenti della poesia degli antichi Galli, de'
Celti e degli Sciti. Lungo sarebbe chi parlar volesse delle poesie
degli Arabi, de' Turchi, de' Persiani, degl'Indiani, delle quali
molte veder possiamo tradotte nella lor lingua dagl'Inglesi e da'
Francesi. È pur conosciuta da' viaggiatori la poesia della
China, del Giappone, de' Norvegi, de' Lapponi, degl'Islandesi, che in
materia di furore poetico sono fra gli altri popoli singolari. Fino
a' selvaggi dell'America, che non hanno verun culto di religione,
conoscono la poesia.
Questa sola universalità adunque di essa, siccome dimostra non
esser la poesia una di quelle arti che dall'uno all'altro popolo si
sono comunicate, ma che sembra in certo modo appartenere all'essenza
dell'uomo; così a me par bastevole per se medesima a
dimostrare che un vero, reale e fisico diletto produca la poesia nel
cuore umano; non potendo giammai essere universale ciò che non
è per sè bene, ma soltanto lo è
relativamente.
Ma
io odo interrogarmi: E in che consiste egli adunque e d'onde nasce
cotesto piacere o diletto, che in noi produce la poesia?
Se noi ricorriamo all'origine di quest'arte, egli è certo che
non altronde che da un dolce e forte affetto dell'animo debb'esser
nata, siccome da un dolce e forte affetto dell'animo debbono esser
nate la musica e la danza. La benefica natura ha dato all'uomo certi
segni, sempre costanti ed uniformi in tutti i popoli del mondo, onde
poter esprimere al di fuori il dolore o il piacere. Tutti i popoli
sospirano, piangono, gridano, allorchè provano un'affezione
che dispiace alla lor anima; e tutti i popoli egualmente saltano,
ridono, cantano, allorchè provano un'affezione che alla loro
anima piace. Per mezzo di questi segni la medesima passione che agita
l'uno, fa passaggio al cuore dell'altro che n'è spettatore; e
a misura che questi più o men teme, o più o meno spera
la cagione del piacere o del dispiacere del compagno, ne viene più
o meno agitato. L'anima nostra, che ama di esser sempre in azione e
in movimento, niente più abborre che la noia; e quindi è
che volentieri si presenta a tutti gli oggetti che senza suo danno
metter la possano in movimento; e, qualora non ha occasione di dover
temere per sè, sente piacere così de' lieti come
degl'infelici spettacoli. Per questa ragione è che i Romani
non provavano minor gioia dall'essere spettatori de' giuochi florali,
dell'ovazione, e de' trionfi, che del combattimento de' gladiatori.
Il che proveremmo noi medesimi se la religione non avesse più
raddolciti i nostri costumi, se la carità non ci facesse tener
per una parte di noi medesimi que' meschini che già venivano
sagrificati al diletto del popolo, se le nostre leggi non ci
facessero abborrire in tali spettacoli l'ingiustizia; e se finalmente
il tempo non ce ne avesse disavvezzati. Bene il proviamo nondimeno
negli altri spettacoli, quantunque infelici, ove non concorrano
questi motivi. Chi è di noi che non senta, misto alla
compassione, anello il piacere al veder di lontano una battaglia, un
vascello nella burrasca, un incendio o la morte d'un giustiziato?
Perchè crediamo noi che tanto popolo accorra a somiglianti
spettacoli? E non ci diletta egualmente, come l'aspetto d'una
deliziosa e fiorita collina, l'ispido, il nudo, il desolato, l'orrido
d'una montagna, d'un diserto, o d'una caverna?
Ora, que' primi uomini che a ragionar si posero sopra le cose,
osservato avendo che così i segni del dolore come que' del
piacere recan diletto a chi li mira, eccitando ne' cuori le stesse
passioni, non fino a quel grado però che le sentiva colui onde
primamente provengono i medesimi segni, si diedero ad imitarli,
giudicando che l'imitazione, quanto s'allontanerebbe dalla cagion del
dolore, tanto s'avvicinerebbe al puro e solo piacere.
Così essi applicaronsi ad imitare le giaciture e i movimenti
del corpo dell'uomo appassionato, e ne composere il ballo; le diverse
modulazioni della voce, e ne fecero la musica; i sentimenti e le
parole, e ne nacque la poesia.
Come però i segni dell'uomo appassionato sono sempre più
veementi, più forti e, per così dir, più
scolpiti che non son quelli dell'uomo che trovasi in calma, così
riescono tali le parole e l'espressioni. Quindi è che la
poesia ha un linguaggio diverso da quello della prosa, che esprime
più arditamente e più sensibilmente i nostri pensieri,
e vien sostenuto dalle immagini e da certi tratti più vivaci e
lampeggianti: in guisa che corre tra il linguaggio della prosa e
quello della poesia lo stesso divario che corre tra l'uomo che
riflette e discorre, e tra l'uomo ch'è commosso ed agitato, le
cui Idee sogliono essere più rapide e, per così dire,
dipinte a più sfacciati colori. Perciò il linguaggio
della poesia è così naturale come quel della prosa; e
quindi è che sì l'uno come l'altro sono sempre stati
comuni ad ogni nazione.
Da questa teorica, che forse può parer troppo lunga, ma ch'è,
al mio credere, necessaria per ben capire che cosa sia l'arte
poetica, facilmente altri può dedurre se sia o no vero e reale
diletto, o se dalla sola opinione dipendano o no que' dolci movimenti
d'ira, di nausea, d'abbominazione, d'orrore, d'amore, d'odio, di
tèma, di speranza, di compassione, di sospetto, di disprezzo,
di maraviglia, che pruova nel suo cuore colui che assiso nella platea
vede da eccellenti attori rappresentarsi la Merope, o che in
un'amabile solitudine osserva gli effetti sempre diversi
dell'illustre amante di Laura, i sublimi capricci e grotteschi di
Dante, le gelosie di Bradamante, le lusinghe d'Alcina, i furori di
Rinaldo, le tenerezze d'Erminia, e simili.
Egli è adunque certissimo che la poesia è un'arte atta
per se medesima a dilettarci, coll'imitar ch'ella fa della natura e
coll'eccitare in noi le passioni ch'ella copia dal vero. E questo è
un pregio non vano, non ideale, non puerile dell'arte
stessa.
Le si
aggiungono nondimeno altri pregi non manco reali di questo. La
versificazione, lo stile, la lingua e simili, che formano la parte
meccanica di lei, non meritano meno d'esser considerate; ma noi per
ora le tralasceremo, bastandomi che sia chiaro come la poesia abbia
facoltà di piacerne per via del sentimento, ch'è la
parte più nobile, anzi l'anima e lo spirito di
quest'arte.
Che
se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo
risponderei ch'ella non è già necessaria come il pane,
nè utile come l'asino o il bue; ma che, con tutto ciò,
bene usata, può essere d'un vantaggio considerevole alla
società. E, benchè io sia d'opinione che l'instituto
del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare,
nulladimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare
assaissimo. Lascio che tutto ciò che ne reca onesto piacere si
può veramente dire a noi vantaggioso; conciossiachè,
essendo certo che utile è ciò che contribuisce a render
l'uomo felice, utili a ragione si posson chiamare quell'arti che
contribuiscono a renderne felici col dilettarci in alcuni momenti
della nostra vita.
Ma la Poesia può ancora esser utile a quella guisa che utili
sono la religione, le leggi e la politica. E non in vano si gloriano
i poeti che la loro arte abbia contribuito a raccoglier insieme i
dispersi mortali sotto le graziose allegorie d'Anfione e d'Orfeo.
Omero ha pure insegnato, molto imperfettamente bensì, ma pure
quanto era permesso alla sua stagione, la condotta delle cose
militari, e i primi capitani della Grecia hanno fatto sopra l'Iliade
i loro studii; di che mi possono essere buoni testimoni Platone,
Aristotele, Plutarco ed altri autori. Nè sono da dimenticarsi
i cantici militari di Tirteo, che infiammarono e spinsero alla
vittoria gli sconfitti Spartani, e che per pubblico decreto
cantavansi in ogni guerra dinanzi alla tenda del capitano. Esiodo ha
insegnata l'agricoltura, ed altri altre arti o sia fisiche o sia
morali.
Egli è
certo che la poesia, movendo in noi le passioni, può valere a
farci prendere abborrimento al vizio, dipingendocene la turpezza, e a
farci amar la virtù, imitandone la beltà. E che altro
fa il poeta che ciò, collo introdurre sulla scena i caratteri
lodevoli e vituperevoli delle persone? Per qual altro motivo crediamo
noi che tanto ben regolate repubbliche mantenessero dell'erario
comune i teatri? solamente per lo piccolo fine di dare al popolo
divertimento? Troppo male noi penseremmo delle saggie ed illuminate
menti de' loro legislatori. Il loro intento si fu di spargere, per
mezzo della scena, i sentimenti di probità, di fede, di
amicizia, di gloria, di amor della patria, ne' lor cittadini; e
finalmente di tener lontano dall'ozio il popolo, in modo che non gli
restasse tempo da pensare a dannosi macchinamenti contro al governo,
e perchè, trattenuto in quelli onesti sollazzi, non si desse
in preda de' vizii alla società perniciosi. Ciò ch'io
ho detto de' componimenti teatrali, si può dir colla debita
proporzione ancora d'ogni altro genere di poesia.
Se la poesia dunque è tale, come io, scorrendola per varii
capi, ho dimostrato, e come a chi spassionatamente la esamina dee
comparire, onde proviene che a' di nostri, e spezialmente in Italia,
incontra tanti disprezzatori? Se io ho a dire la verità, io
temo che ciò proceda non già dal difetto dell'arte, nè
dei valenti coltivatori di essa.
Per bene avvederci dell'origine di questo disprezzo prendiamone un
esempio dalla medicina. Questa scienza ha forse ora tanti
contradditori e tanti disprezzatori quanti ne ha la poesia. Niuna
cosa è più facile dell'asserire che una persona ha il
tal male, nè dello scrivere una ricetta ; così nulla è
di più agevole che il misurare alcuno parole e il chiuderlo In
uno spazio determinato. Quindi è che al mondo si trovano tanti
ciarlatani, che di medico il nome si usurpano o loro si concede
gratis, e tanti versificatori che da sè assumono il nome di
poeta, o loro per certa trascuraggine vien conceduto dalla
moltitudine, che non pensa più oltre.
Basta che un giovine sia pervenuto a poter presentarvi una cattiva
prosa frastagliata in versi, che, più non pensando alla
preziosità che la pietra richiede, commendiamo qualunque vile
selce o macigno, perchè il maestro ha saputo segarlo. Noi non
istiamo ad esaminare se l'artefice di quella pietra ci abbia saputo
formare una Venere degna d'esser collocata in una reale galleria,
ovveramente un passatoio o un termine da piantarsi a partire il campo
di Damone da quello di Tirsi.
Son come i cigni anco i poeti rari,
Poeti che non sien del nome indegni,
(Orlando Furioso XXXV, 33.)
disse
già l'Ariosto. Eppure noi veggiamo tuttodì uscir delle
scuole un numero di gioventù che con quattro sonetti pretende
di meritarsi il nome di poeta, e si trova chi loro il concede. Una
mediocre osservazione della gramatica, la legittimità delle
rime, un pensiero che non sia affatto ridicolo bastano per far sì
che ogni monaca che si seppellisce, che ogni moglie che becca un
marito, che ogni bue che prenda la laurea, ricorrano a voi. Sì
tosto che soli quattordici de' tuoi versi possono ottener l'onore
d'essere ammessi in una raccolta, eccoti diventato poeta.
Le scuole pubbliche istesse contribuiscono a disonorare la poesia.
Non contento, chi lor presiede, d'insegnar male le arti che servir
debbono d'introduzione al viver civile, si sbraccia nel volere che
gli scolari diventino poeti. E perchè questo mai? E a che può
bisognare nel mondo ad un giovine un'arte ch'è di puro
piacere? perchè adunque non si ammaestra quivi ancora la
gioventù nella musica e nella pittura? Frattanto ecco il danno
che ne proviene. Si fa perdere per qualche anno la metà della
giornata ai giovani che sono quivi adunati, in una inutile o
seccagginosa occupazione. Molti di essi, che hanno dalla natura
qualche disposizione maggiore al verseggiare, trascurano il più
importante dell'eloquenza, e, invaghiti di se medesimi, da se stessi
si applaudiscono; un puerile amore di gloria gli accende; e, qualora
escano dall'erudito ginnasio, innamorati de' vezzi della poesia ma
senza bastevoli doti da poterne godere giammai, odiando ogni scienza
ed ogni arte necessaria al viver civile, rimangono a carico de' lor
genitori, si rendono ridicoli a' lor compagni meglio consigliati, e,
se mai producono alcuna cosa, servono di trastullo alle persone o si
assicurano le fischiate della posterità.
Questo gran numero di verseggiatori, adunque, è la cagione per
cui da molte altronde savie persone viene in sì piccol conto
tenuta la poesia. Nè meno cooperano a ciò molti, per
altro valorosi, rimatori, i quali vengono ammirati bensì, ma
non piacciono.
Il
poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto
della poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò,
dee prima esser tócco e mosso egli medesimo. Perciò non
ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e
legista.
Non a
torto si dice che il poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla
natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento
che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte
e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè
come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi
per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevuto?
La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nella eleganza
dell'espressione, nell'armonia del verso, è come un alto e
reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al
cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso
prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il
sono.
Ora che
dovremo dire della nostra presente poesia italiana? Infinite cose ci
sarebbero a dire. Ma perciocchè il tempo è venuto meno
al buon volere, permettetemi ch'io rimetta ad altra occasione li
discorrervene a lungo. Frattanto io spero che verrà a
ragionarvi meglio di me, e di più importanti cose che queste
non sono, qualche altro degli Accademici, cui l'esempio dell'abate
Soresi e di me abbia rianimato a continovare un esercizio, che ci può
essere nello stesso tempo utile e piacevole, quale è questo
delle Lezioni private: di maniera che, se noi non vi abbiamo giovato
o dilettato col recitarvi le cose nostre, possiam lusingarci almeno
di averlo fatto coll'eccitamento datovi, acciocchè, ogni mese
almeno, ci trattenghiate con qualche vostro lavoro.