Angelo Poliziano
STANZE
Cominciate per la giostra
del Magnifico Giuliano Piero dei Medici
LIBRO
PRIMO
1
Le
gloriose pompe e' fieri ludi
della città che 'l freno
allenta e stringe
a magnanimi Toschi, e i regni crudi
di quella
dea che 'l terzo ciel dipinge,
e i premi degni alli onorati
studi,
la mente audace a celebrar mi spinge,
sì che i
gran nomi e i fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non
involi.
2
O bello idio ch'al cor
per gli occhi inspiri
dolce disir d'amaro pensier pieno,
e
pasciti di pianto e di sospiri,
nudrisci l'alme d'un dolce
veleno,
gentil fai divenir ciò che tu miri,
né
può star cosa vil drento al suo seno;
Amor, del quale i'
son sempre suggetto,
porgi or la mano al mio basso
intelletto.
3
Sostien tu el
fascio ch'a me tanto pesa,
reggi la lingua, Amor, reggi la
mano;
tu principio, tu fin dell'alta impresa,
tuo fia l'onor,
s'io già non prego invano;
di', signor, con che lacci da te
presa
fu l'alta mente del baron toscano
più gioven
figlio della etrusca Leda,
che reti furno ordite a tanta
preda.
4
E tu, ben nato Laur,
sotto il cui velo
Fiorenza lieta in pace si riposa,
né
teme i venti o 'l minacciar del celo
o Giove irato in vista più
crucciosa,
accogli all'ombra del tuo santo stelo
la voce umil,
tremante e paurosa;
o causa, o fin di tutte le mie voglie,
che
sol vivon d'odor delle tuo foglie.
5
Deh,
sarà mai che con più alte note,
se non contasti al
mio volar fortuna,
lo spirto della membra, che devote
ti fuor
da' fati insin già dalla cuna,
risuoni te dai Numidi a
Boote,
dagl'Indi al mar che 'l nostro celo imbruna,
e posto il
nido in tuo felice ligno,
di roco augel diventi un bianco
cigno?
6
Ma fin ch'all'alta
impresa tremo e bramo,
e son tarpati i vanni al mio disio,
lo
glorioso tuo fratel cantiamo,
che di nuovo trofeo rende giulio
il
chiaro sangue e di secondo ramo:
convien ch'i' sudi in questa
polver io.
Or muovi prima tu mie' versi, Amore,
ch'ad alto volo
impenni ogni vil core.
7
E se qua
su la fama el ver rimbomba,
che la figlia di Leda, o sacro
Achille,
poi che 'l corpo lasciasti intro la tomba,
t'accenda
ancor d'amorose faville,
lascia tacere un po' tuo maggior
tromba
ch'i' fo squillar per l'italiche ville,
e tempra tu la
cetra a nuovi carmi,
mentr'io canto l'amor di Iulio e
l'armi.
8
Nel vago tempo di sua
verde etate,
spargendo ancor pel volto il primo fiore,
né
avendo il bel Iulio ancor provate
le dolce acerbe cure che dà
Amore,
viveasi lieto in pace e 'n libertate;
talor frenando un
gentil corridore,
che gloria fu de' ciciliani armenti,
con esso
a correr contendea co' venti:
9
ora
a guisa saltar di leopardo,
or destro fea rotarlo in breve
giro;
or fea ronzar per l'aere un lento dardo,
dando sovente a
fere agro martiro.
Cotal viveasi il giovene gagliardo;
né
pensando al suo fato acerbo e diro,
né certo ancor de' suo'
futuri pianti,
solea gabbarsi delli afflitti amanti.
10
Ah
quante ninfe per lui sospirorno!
Ma fu sì altero sempre il
giovinetto,
che mai le ninfe amanti nol piegorno,
mai poté
riscaldarsi il freddo petto.
Facea sovente pe' boschi
soggiorno,
inculto sempre e rigido in aspetto;
e 'l volto
difendea dal solar raggio,
con ghirlanda di pino o verde
faggio.
11
Poi, quando già
nel ciel parean le stelle,
tutto gioioso a sua magion tornava;
e
'n compagnia delle nove sorelle
celesti versi con disio cantava,
e
d'antica virtù mille fiammelle
con gli alti carmi ne' petti
destava:
così, chiamando amor lascivia umana,
si godea
con le Muse o con Diana.
12
E se
talor nel ceco labirinto
errar vedeva un miserello amante,
di
dolor carco, di pietà dipinto,
seguir della nemica sua le
piante,
e dove Amor il cor li avessi avinto,
lì pascer
l'alma di dua luci sante
preso nelle amorose crudel gogne,
sì
l'assaliva con agre rampogne:
13
"Scuoti,
meschin, del petto il ceco errore,
ch'a te stessi te fura, ad
altrui porge;
non nudrir di lusinghe un van furore,
che di
pigra lascivia e d'ozio sorge.
Costui che 'l vulgo errante chiama
Amore
è dolce insania a chi più acuto scorge:
sì
bel titol d'Amore ha dato il mondo
a una ceca peste, a un mal
giocondo.
14
Ah quanto è
uom meschin, che cangia voglia
per donna, o mai per lei s'allegra
o dole;
e qual per lei di libertà si spoglia
o crede a
sui sembianti, a sue parole!
Ché sempre è più
leggier ch'al vento foglia,
e mille volte el dì vuole e
disvuole:
segue chi fugge, a chi la vuol s'asconde,
e vanne e
vien, come alla riva l'onde.
15
Giovane
donna sembra veramente
quasi sotto un bel mare acuto scoglio,
o
ver tra' fiori un giovincel serpente
uscito pur mo' fuor del
vecchio scoglio.
Ah quanto è fra' più miseri
dolente
chi può soffrir di donna il fero orgoglio!
Ché
quanto ha il volto più di biltà pieno,
più
cela inganni nel fallace seno.
16
Con
essi gli occhi giovenili invesca
Amor, ch'ogni pensier maschio vi
fura;
e quale un tratto ingoza la dolce esca
mai di sua propria
libertà non cura;
ma, come se pur Lete Amor vi mesca,
tosto
obliate vostra alta natura;
né poi viril pensiero in voi
germoglia,
sì del proprio valor costui vi
spoglia.
17
Quanto è più
dolce, quanto è più securo
seguir le fere fugitive
in caccia
fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
e spiar lor
covil per lunga traccia!
Veder la valle e 'l colle e l'aer più
puro,
l'erbe e' fior, l'acqua viva chiara e ghiaccia!
Udir li
augei svernar, rimbombar l'onde,
e dolce al vento mormorar le
fronde!
18
Quanto giova a mirar
pender da un'erta
le capre, e pascer questo e quel virgulto;
e
'l montanaro all'ombra più conserta
destar la sua zampogna
e 'l verso inculto;
veder la terra di pomi coperta,
ogni arbor
da' suoi frutti quasi occulto;
veder cozzar monton, vacche
mughiare
e le biade ondeggiar come fa il mare!
19
Or
delle pecorelle il rozo mastro
si vede alla sua torma aprir la
sbarra;
poi quando muove lor con suo vincastro,
dolce è
a notar come a ciascuna garra.
Or si vede il villan domar col
rastro
le dure zolle, or maneggiar la marra;
or la contadinella
scinta e scalza
star coll'oche a filar sotto una balza.
20
In
cotal guisa già l'antiche genti
si crede esser godute al
secol d'oro;
né fatte ancor le madre eron dolenti
de'
morti figli al marzial lavoro;
né si credeva ancor la vita
a' venti
né del giogo doleasi ancora il toro;
lor case
eron fronzute querce e grande,
ch'avean nel tronco mèl, ne'
rami ghiande.
21
Non era ancor la
scelerata sete
del crudele oro entrata nel bel mondo;
viveansi
in libertà le genti liete,
e non solcato il campo era
fecondo.
Fortuna invidiosa a lor quiete
ruppe ogni legge, e
pietà misse in fondo;
lussuria entrò ne' petti e
quel furore
che la meschina gente chiama amore".
22
In
cotal guisa rimordea sovente
l'altero giovinetto e sacri
amanti,
come talor chi sé gioioso sente
non sa ben
porger fede alli altrui pianti;
ma qualche miserello, a cui
l'ardente
fiamme struggeano i nervi tutti quanti,
gridava al
ciel: "Giusto sdegno ti muova,
Amor, che costui creda almen
per pruova".
23
Né fu
Cupido sordo al pio lamento,
e 'ncominciò crudelmente
ridendo:
"Dunque non sono idio? dunque è già
spento
mie foco con che il mondo tutto accendo?
Io pur fei
Giove mughiar fra l'armento,
io Febo drieto a Dafne gir
piangendo,
io trassi Pluto delle infernal segge:
e che non
ubidisce alla mia legge?
24
Io fo
cadere al tigre la sua rabbia
al leone il fer rughio, al drago il
fischio;
e quale è uom di sì secura labbia,
che
fuggir possa il mio tenace vischio?
Or, ch'un superbo in sì
vil pregio m'abbia
che di non esser dio vegna a gran rischio?
Or
veggiàn se 'l meschin ch'Amor riprende,
da due begli occhi
se stesso or difende".
25
Zefiro
già, di be' fioretti adorno,
avea de' monti tolta ogni
pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca
rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente
all'ôra mattutina,
e la ingegnosa pecchia al primo
albore
giva predando ora uno or altro fiore.
26
L'ardito
Iulio, al giorno ancora acerbo,
allor ch'al tufo torna la
civetta,
fatto frenare il corridor superbo,
verso la selva con
sua gente eletta
prese el cammino, e sotto buon riserbo
seguial
de' fedel can la schiera stretta;
di ciò che fa mestieri a
caccia adorni,
con archi e lacci e spiedi e dardi e
corni.
27
Già circundata
avea la lieta schiera
il folto bosco, e già con grave
orrore
del suo covil si destava ogni fera;
givan seguendo e
bracchi il lungo odore;
ogni varco da lacci e can chiuso era,
di
stormir d'abbaiar cresce il romore,
di fischi e bussi tutto il
bosco suona,
del rimbombar de' corni el cel rintruona.
28
Con
tal romor, qualor più l'aer discorda,
di Giove il foco
d'alta nube piomba;
con tal tumulto, onde la gente
assorda,
dall'alte cataratte il Nil rimbomba;
con tale orror,
del latin sangue ingorda,
sonò Megera la tartarea
tromba.
Qual animal di stiza par si roda,
qual serra al ventre
la tremante coda.
29
Spargesi
tutta la bella compagna:
altri alle reti, altri alla via più
stretta;
chi serba in coppia e can, chi gli scompagna;
chi già
'l suo ammette, chi 'l richiama e alletta;
chi sprona el buon
destrier per la campagna;
chi l'adirata fera armato aspetta;
chi
si sta sovra un ramo a buon riguardo,
chi in man lo spiede e chi
s'acconcia el dardo.
30
Già
le setole arriccia e arruota e denti
el porco entro 'l burron; già
d'una grotta
spunta giù 'l cavriuol; già e vecchi
armenti
de' cervi van pel pian fuggendo in frotta;
timor
gl'inganni della volpe ha spenti;
le lepri al primo assalto vanno
in rotta;
di sua tana stordita esce ogni belva;
l'astuto lupo
vie più si rinselva,
31
e
rinselvato le sagace nare
del picciol bracco pur teme il
meschino;
ma 'l cervio par del veltro paventare,
de' lacci el
porco o del fero mastino.
Vedesi lieto or qua or là
volare
fuor d'ogni schiera il gioven peregrino;
pel folto bosco
el fer caval mette ale,
e trista fa qual fera Iulio
assale.
32
Quale el centaur per
la nevosa selva
di Pelio o d'Elmo va feroce in caccia,
dalle
lor tane predando ogni belva:
or l'orso uccide, or al lion
minaccia;
quanto è più ardita fera più
s'inselva,
e 'l sangue a tutte drento al cor s'aghiaccia;
la
selva trema e gli cede ogni pianta,
gli arbori abbatte o sveglie,
o rami schianta.
33
Ah quanto a
mirar Iulio è fera cosa
romper la via dove più 'l
bosco è folto
per trar di macchia la bestia crucciosa,
con
verde ramo intorno al capo avolto,
colla chioma arruffata e
polverosa,
e d'onesto sudor bagnato il volto!
Ivi consiglio a
sua fera vendetta
prese Amor, che ben loco e tempo
aspetta;
34
e con sua man di leve
aier compuose
l'imagin d'una cervia altera e bella:
con alta
fronte, con corna ramose,
candida tutta, leggiadretta e snella.
E
come tra le fere paventose
al gioven cacciator s'offerse
quella,
lieto spronò il destrier per lei seguire,
pensando
in brieve darli agro martire.
35
Ma
poi che 'nvan dal braccio el dardo scosse,
del foder trasse fuor
la fida spada,
e con tanto furor il corsier mosse,
che 'l bosco
folto sembrava ampia strada.
La bella fera, come stanca fosse,
più
lenta tuttavia par che sen vada;
ma quando par che già la
stringa o tocchi,
picciol campo riprende avanti alli
occhi.
36
Quanto più segue
invan la vana effigie,
tanto più di seguirla invan
s'accende;
tuttavia preme sue stanche vestigie,
sempre la
giunge, e pur mai non la prende:
qual fino al labro sta nelle onde
stigie
Tantalo, e 'l bel giardin vicin gli pende,
ma qualor
l'acqua o il pome vuol gustare,
subito l'acqua e 'l pome via
dispare.
37
Era già drieto
alla sua desianza
gran tratta da' compagni allontanato,
né
pur d'un passo ancor la preda avanza,
e già tutto el
destrier sente affannato;
ma pur seguendo sua vana
speranza,
pervenne in un fiorito e verde prato:
ivi sotto un
vel candido li apparve
lieta una ninfa, e via la fera
sparve.
38
La fera sparve via
dalle suo ciglia,
ma 'l gioven della fera ormai non cura;
anzi
ristringe al corridor la briglia,
e lo raffrena sovra alla
verdura.
Ivi tutto ripien di maraviglia
pur della ninfa mira la
figura:
parli che dal bel viso e da' begli occhi
una nuova
dolcezza al cor gli fiocchi.
39
Qual
tigre, a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator li suoi car
figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede
insanguinar gli artigli;
poi resta d'uno specchio all'ombra
vana,
all'ombra ch'e suoi nati par somigli;
e mentre di tal
vista s'innamora
la sciocca, el predator la via
divora.
40
Tosto Cupido entro a'
begli occhi ascoso,
al nervo adatta del suo stral la cocca,
poi
tira quel col braccio poderoso,
tal che raggiugne e l'una e
l'altra cocca;
la man sinistra con l'oro focoso,
la destra
poppa colla corda tocca:
né pria per l'aer ronzando esce 'l
quadrello,
che Iulio drento al cor sentito ha quello.
41
Ahi
qual divenne! ah come al giovinetto
corse il gran foco in tutte le
midolle!
che tremito gli scosse il cor nel petto!
d'un
ghiacciato sudor tutto era molle;
e fatto ghiotto del suo dolce
aspetto,
giammai li occhi da li occhi levar puolle;
ma tutto
preso dal vago splendore,
non s'accorge el meschin che quivi è
Amore.
42
Non s'accorge ch'Amor
lì drento è armato
per sol turbar la suo lunga
quiete;
non s'accorge a che nodo è già legato,
non
conosce suo piaghe ancor segrete;
di piacer, di disir tutto è
invescato,
e così il cacciator preso è alla rete.
Le
braccia fra sé loda e 'l viso e 'l crino,
e 'n lei discerne
un non so che divino.
43
Candida
è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e
d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte
umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto
può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è
mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
44
Folgoron
gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido
ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce
amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di
ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta
ogni augelletto in suo latino.
45
Con
lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la
chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara
il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma
villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor
piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce
ride.
46
Sembra Talia se in man
prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se
l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia
Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti
a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in
compagnia,
Biltà la mostra a dito e
Leggiadria.
47
Ell'era assisa
sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di
quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua
vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò
la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè
con di fior pieno un grembo.
48
Già
s'inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l'erba, lenta
lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei
null'altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò
soffrire,
con qualche priego d'arrestarla tenta;
per che, tutto
tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò
dicendo:
49
"O qual che tu
ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m'assembri certo;
se
dea, forse se' tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi
certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né
so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal cel grazia,
qual sì amica stella,
ch'io degno sia veder cosa sì
bella".
50
Volta la ninfa al
suon delle parole,
lampeggiò d'un sì dolce e vago
riso,
che i monti avre' fatto ir, restare il sole:
ché
ben parve s'aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e
viole,
tal ch'un marmo per mezzo avre' diviso;
soave, saggia e
di dolceza piena,
da innamorar non ch'altri una Sirena:
51
"Io
non son qual tua mente invano auguria,
non d'altar degna, non di
pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto
soggiogata alla teda legittima;
mia natal patria è nella
aspra Liguria,
sovra una costa alla riva marittima,
ove fuor
de' gran massi indarno gemere
si sente il fer Nettunno e irato
fremere.
52
Sovente in questo
loco mi diporto,
qui vegno a soggiornar tutta soletta;
questo è
de' mia pensieri un dolce porto,
qui l'erba e' fior, qui il fresco
aier m'alletta;
quinci il tornare a mia magione è
accorto,
qui lieta mi dimoro Simonetta,
all'ombre, a qualche
chiara e fresca linfa,
e spesso in compagnia d'alcuna
ninfa.
53
Io soglio pur nelli
ociosi tempi,
quando nostra fatica s'interrompe,
venire a'
sacri altar ne' vostri tempî
fra l'altre donne con l'usate
pompe;
ma perch'io in tutto el gran desir t'adempi
e 'l dubio
tolga che tuo mente rompe,
meraviglia di mie bellezze tenere
non
prender già, ch'io nacqui in grembo a Venere.
54
Or
poi che 'l sol sue rote in basso cala,
e da questi arbor cade
maggior l'ombra,
già cede al grillo la stanca cicala,
già
'l rozo zappator del campo sgombra,
e già dell'alte ville
il fumo essala,
la villanella all'uom suo el desco ingombra;
omai
riprenderò mia via più accorta,
e tu lieto ritorna
alla tua scorta".
55
Poi con
occhi più lieti e più ridenti,
tal che 'l ciel tutto
asserenò d'intorno,
mosse sovra l'erbetta e passi lenti
con
atto d'amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci
lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l'erba verde
sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra
fassi.
56
Che de' far Iulio?
Ahimè, ch'e' pur desidera
seguir sua stella e pur temenza
il tiene:
sta come un forsennato, e 'l cor gli assidera,
e gli
s'aghiaccia el sangue entro le vene;
sta come un marmo fisso, e
pur considera
lei che sen va né pensa di sue pene,
fra
sé lodando il dolce andar celeste
e 'l ventilar
dell'angelica veste.
57
E' par
che 'l cor del petto se li schianti,
e che del corpo l'alma via si
fugga,
e ch'a guisa di brina, al sol davanti,
in pianto tutto
si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri
amanti,
e pargli ch'ogni vena Amor li sugga;
or teme di
seguirla, or pure agogna,
qui 'l tira Amor, quinci il ritrae
vergogna.
58
"U' sono or,
Iulio, le sentenzie gravi,
le parole magnifiche e' precetti
con
che i miseri amanti molestavi?
Perché pur di cacciar non ti
diletti?
Or ecco ch'una donna ha in man le chiavi
d'ogni tua
voglia, e tutti in sé ristretti
tien, miserello, i tuoi
dolci pensieri;
vedi chi tu se' or, chi pur dianzi
eri.
59
Dianzi eri d'una fera
cacciatore,
più bella fera or t'ha ne' lacci
involto;
dianzi eri tuo, or se' fatto d'Amore,
sei or legato, e
dianzi eri disciolto.
Dov'è tuo libertà, dov'è
'l tuo core?
Amore e una donna te l'ha tolto.
Ahi, come poco a
sé creder uom degge!
ch'a virtute e fortuna Amor pon
legge".
60
La notte che le
cose ci nasconde
tornava ombrata di stellato ammanto,
e
l'usignuol sotto l'amate fronde
cantando ripetea l'antico
pianto,
ma sola a' sua lamenti Ecco risponde,
ch'ogni altro
augel quetato avea già 'l canto;
dalla chimmeria valle
uscian le torme
de' Sogni negri con diverse forme.
61
E
gioven che restati nel bosco erono,
vedendo il cel già le
sue stelle accendere,
sentito il segno, al cacciar posa
ferono;
ciascun s'affretta a lacci e reti stendere,
poi colla
preda in un sentier si schierono:
ivi s'attende sol parole a
vendere,
ivi menzogne a vil pregio si mercono;
poi tutti del
bel Iulio fra sé cercono.
62
Ma
non veggendo il car compagno intorno,
ghiacciossi ognun di subita
paura
che qualche cruda fera il suo ritorno
non li 'mpedisca o
altra ria sciagura.
Chi mostra fuochi, chi squilla el suo
corno,
chi forte il chiama per la selva oscura,
le lunghe voci
ripercosse abondono,
e "Iulio Iulio" le valli
rispondono.
63
Ciascun si sta per
la paura incerto,
gelato tutto, se non ch'ei pur chiama;
veggiono
il cel di tenebre coperto,
né san dove cercar, bench'ognun
brama.
Pur "Iulio Iulio" suona il gran diserto;
non
sa che farsi omai la gente grama.
Ma poi che molta notte indarno
spesono,
dolenti per tornarsi il cammin presono.
64
Cheti
sen vanno e pure alcun col vero
la dubia speme alquanto
riconforta,
ch'el sia rèdito per altro sentiero
al loco
ove s'invia la loro scorta.
Ne' petti ondeggia or questo or quel
pensiero,
che fra paura e speme il cor traporta:
così
raggio, che specchio mobil ferza,
per la gran sala or qua or là
si scherza.
65
Ma 'l gioven, che
provato avea già l'arco
ch'ogni altra cura sgombra fuor del
petto,
d'altre speme e paure e pensier carco,
era arrivato alla
magion soletto.
Ivi pensando al suo novello incarco
stava in
forti pensier tutto ristretto,
quando la compagnia piena di
doglia
tutta pensosa entrò dentro alla soglia.
66
Ivi
ciascun più da vergogna involto
per li alti gradi sen va
lento lento:
quali i pastori a cui il fer lupo ha tolto
il più
bel toro del cornuto armento,
tornonsi a lor signor con basso
volto,
né s'ardiscon d'entrar all'uscio drento;
stan
sospirosi e di dolor confusi,
e ciascun pensa pur come sé
scusi.
67
Ma tosto ognuno allegro
alzò le ciglia,
veggendo salvo lì sì caro
pegno:
tal si fe', poi che la sua dolce figlia
ritrovò,
Ceres giù nel morto regno.
Tutta festeggia la lieta
famiglia
con essi, e Iulio di gioir fa segno,
e quanto el può
nel cor preme sua pena
e il volto di letizia rasserena.
68
Ma
fatta Amor la sua bella vendetta,
mossesi lieto pel negro aere a
volo,
e ginne al regno di sua madre in fretta,
ov'è de'
picciol suoi fratei lo stuolo:
al regno ov'ogni Grazia si
diletta,
ove Biltà di fiori al crin fa brolo,
ove tutto
lascivo, drieto a Flora,
Zefiro vola e la verde erba
infiora.
69
Or canta meco un po'
del dolce regno,
Erato bella, che 'l nome hai d'amore;
tu sola,
benché casta, puoi nel regno
secura entrar di Venere e
d'Amore;
tu de' versi amorosi hai sola il regno,
teco sovente a
cantar viensi Amore;
e, posta giù dagli omer la
faretra,
tenta le corde di tua bella cetra.
70
Vagheggia
Cipri un dilettoso monte,
che del gran Nilo e sette corni vede
e
'l primo rosseggiar dell'orizonte,
ove poggiar non lice al mortal
piede.
Nel giogo un verde colle alza la fronte,
sotto esso
aprico un lieto pratel siede,
u' scherzando tra' fior lascive
aurette
fan dolcemente tremolar l'erbette.
71
Corona
un muro d'or l'estreme sponde
con valle ombrosa di schietti
arbuscelli,
ove in su' rami fra novelle fronde
cantano i loro
amor soavi augelli.
Sentesi un grato mormorio dell'onde,
che
fan duo freschi e lucidi ruscelli,
versando dolce con amar
liquore,
ove arma l'oro de' suoi strali Amore.
72
Né
mai le chiome del giardino eterno
tenera brina o fresca neve
imbianca;
ivi non osa entrar ghiacciato verno,
non vento o
l'erbe o li arbuscelli stanca;
ivi non volgon gli anni il lor
quaderno,
ma lieta Primavera mai non manca,
ch'e suoi crin
biondi e crespi all'aura spiega,
e mille fiori in ghirlandetta
lega.
73
Lungo le rive e frati di
Cupido,
che solo uson ferir la plebe ignota,
con alte voci e
fanciullesco grido
aguzzon lor saette ad una cota.
Piacere e
Insidia, posati in sul lido,
volgono il perno alla sanguigna
rota,
e 'l fallace Sperar col van Disio
spargon nel sasso
l'acqua del bel rio.
74
Dolce
Paura e timido Diletto,
dolce Ire e dolce Pace insieme vanno;
le
Lacrime si lavon tutto il petto
e 'l fiumicello amaro crescer
fanno;
Pallore smorto e paventoso Affetto
con Magreza si duole
e con Affanno;
vigil Sospetto ogni sentiero spia,
Letizia balla
in mezo della via.
75
Voluttà
con Belleza si gavazza,
va fuggendo il Contento e siede
Angoscia,
el ceco Errore or qua or là svolazza,
percuotesi
il Furor con man la coscia;
la Penitenzia misera stramazza,
che
del passato error s'è accorta poscia,
nel sangue Crudeltà
lieta si ficca,
e la Desperazion se stessa impicca.
76
Tacito
Inganno e simulato Riso
con Cenni astuti messaggier de' cori,
e
fissi Sguardi, con pietoso viso,
tendon lacciuoli a Gioventù
tra' fiori.
Stassi, col volto in sulla palma assiso,
el Pianto
in compagnia de' suo' Dolori;
e quinci e quindi vola sanza
modo
Licenzia non ristretta in alcun nodo.
77
Con
tal milizia e tuoi figli accompagna
Venere bella, madre delli
Amori.
Zefiro il prato di rugiada bagna,
spargendolo di mille
vaghi odori:
ovunque vola, veste la campagna
di rose, gigli,
violette e fiori;
l'erba di sue belleze ha maraviglia:
bianca,
cilestra, pallida e vermiglia.
78
Trema
la mammoletta verginella
con occhi bassi, onesta e vergognosa;
ma
vie più lieta, più ridente e bella,
ardisce aprire
il seno al sol la rosa:
questa di verde gemma s'incappella,
quella
si mostra allo sportel vezosa,
l'altra, che 'n dolce foco ardea
pur ora,
languida cade e 'l bel pratello infiora.
79
L'alba
nutrica d'amoroso nembo
gialle, sanguigne e candide
viole;
descritto ha 'l suo dolor Iacinto in grembo,
Narcisso al
rio si specchia come suole;
in bianca vesta con purpureo lembo
si
gira Clizia palidetta al sole;
Adon rinfresca a Venere il suo
pianto,
tre lingue mostra Croco, e ride Acanto.
80
Mai
rivestì di tante gemme l'erba
la novella stagion che 'l
mondo aviva.
Sovresso il verde colle alza superba
l'ombrosa
chioma u' el sol mai non arriva;
e sotto vel di spessi rami
serba
fresca e gelata una fontana viva,
con sì pura,
tranquilla e chiara vena,
che gli occhi non offesi al fondo
mena.
81
L'acqua da viva pomice
zampilla,
che con suo arco il bel monte sospende;
e, per
fiorito solco indi tranquilla
pingendo ogni sua orma, al fonte
scende:
dalle cui labra un grato umor distilla,
che 'l premio
di lor ombre alli arbor rende;
ciascun si pasce a mensa non
avara,
e par che l'un dell'altro cresca a gara.
82
Cresce
l'abeto schietto e sanza nocchi
da spander l'ale a Borea in mezo
l'onde;
l'elce che par di mèl tutta trabocchi,
e 'l laur
che tanto fa bramar suo fronde;
bagna Cipresso ancor pel cervio
gli occhi
con chiome or aspre, e già distese e bionde;
ma
l'alber, che già tanto ad Ercol piacque,
col platan si
trastulla intorno all'acque.
83
Surge
robusto el cerro, et alto el faggio,
nodoso el cornio, e 'l salcio
umido e lento;
l'olmo fronzuto, e 'l frassin pur selvaggio;
el
pino alletta con suoi fischi il vento.
L'avorniol tesse
ghirlandette al maggio,
ma l'acer d'un color non è
contento;
la lenta palma serba pregio a' forti,
l'ellera va
carpon co' piè distorti.
84
Mostronsi
adorne le vite novelle
d'abiti varie e con diversa faccia:
questa
gonfiando fa crepar la pelle,
questa racquista le già perse
braccia;
quella tessendo vaghe e liete ombrelle,
pur con
pampinee fronde Apollo scaccia;
quella ancor monca piange a capo
chino,
spargendo or acqua per versar poi vino.
85
El
chiuso e crespo bosso al vento ondeggia,
e fa la piaggia di
verdura adorna;
el mirto, che sua dea sempre vagheggia,
di
bianchi fiori e verdi capelli orna.
Ivi ogni fera per amor
vaneggia,
l'un ver l'altro i montoni armon le corna,
l'un
l'altro cozza, l'un l'altro martella,
davanti all'amorosa
pecorella.
86
E mughianti
giovenchi a piè del colle
fan vie più cruda e
dispietata guerra,
col collo e il petto insanguinato e
molle,
spargendo al ciel co' piè l'erbosa terra.
Pien di
sanguigna schiuma el cinghial bolle,
le larghe zanne arruota e il
grifo serra,
e rugghia e raspa e, per più armar sue
forze,
frega il calloso cuoio a dure scorze.
87
Pruovon
lor punga e daini paurosi,
e per l'amata druda arditi fansi;
ma
con pelle vergata, aspri e rabbiosi,
e tigri infuriati a ferir
vansi;
sbatton le code e con occhi focosi
ruggendo i fier leon
di petto dansi;
zufola e soffia il serpe per la biscia,
mentre
ella con tre lingue al sol si liscia.
88
El
cervio appresso alla Massilia fera
co' piè levati la sua
sposa abbraccia;
fra l'erbe ove più ride primavera,
l'un
coniglio coll'altro s'accovaccia;
le semplicette lepri vanno a
schiera,
de' can secure, ad amorosa traccia:
sì l'odio
antico e 'l natural timore
ne' petti ammorza, quando vuole,
Amore.
89
E muti pesci in frotta
van notando
dentro al vivente e tenero cristallo,
e spesso
intorno al fonte roteando
guidon felice e dilettoso ballo;
tal
volta sovra l'acqua, un po' guizzando,
mentre l'un l'altro segue,
escono a gallo:
ogni loro atto sembra festa e gioco,
né
spengon le fredde acque il dolce foco.
90
Li
augelletti dipinti intra le foglie
fanno l'aere addolcir con nuove
rime,
e fra più voci un'armonia s'accoglie
di sì
beate note e sì sublime,
che mente involta in queste umane
spoglie
non potria sormontare alle sue cime;
e dove Amor gli
scorge pel boschetto,
salton di ramo in ramo a lor
diletto.
91
Al canto della selva
Ecco rimbomba,
ma sotto l'ombra che ogni ramo annoda,
la
passeretta gracchia e a torno romba;
spiega il pavon la sua
gemmata coda,
bacia el suo dolce sposo la colomba,
e bianchi
cigni fan sonar la proda;
e presso alla sua vaga tortorella
il
pappagallo squittisce e favella.
92
Quivi
Cupido e' suoi pennuti frati,
lassi già di ferir uomini e
dei,
prendon diporto, e colli strali aurati
fan sentire alle
fere i crudi omei;
la dea Ciprigna fra' suoi dolci nati
spesso
sen viene, e Pasitea con lei,
quetando in lieve sonno gli occhi
belli
fra l'erbe e' fiori e' gioveni arbuscelli.
93
Muove
dal colle, mansueta e dolce,
la schiena del bel monte, e sovra i
crini
d'oro e di gemme un gran palazo folce,
sudato già
nei cicilian camini.
Le tre Ore, che 'n cima son bobolce,
pascon
d'ambrosia i fior sacri e divini:
né prima dal suo gambo un
se ne coglie,
ch'un altro al ciel più lieto apre le
foglie.
94
Raggia davanti
all'uscio una gran pianta,
che fronde ha di smeraldo e pomi
d'oro:
e pomi ch'arrestar fenno Atalanta,
ch'ad Ippomene dienno
il verde alloro.
Sempre sovresso Filomela canta,
sempre
sottesso è delle Ninfe un coro;
spesso Imeneo col suon di
sua zampogna
tempra lor danze, e pur le noze agogna.
95
La
regia casa il sereno aier fende,
fiammeggiante di gemme e di fino
oro,
che chiaro giorno a meza notte accende;
ma vinta è
la materia dal lavoro.
Sovra a colonne adamantine pende
un
palco di smeraldo, in cui già fuoro
aneli e stanchi, drento
a Mongibello,
Sterope e Bronte et ogni lor martello.
96
Le
mura a torno d'artificio miro
forma un soave e lucido
berillo;
passa pel dolce oriental zaffiro
nell'ampio albergo el
dì puro e tranquillo;
ma il tetto d'oro, in cui l'estremo
giro
si chiude, contro a Febo apre il vessillo;
per varie
pietre il pavimento ameno
di mirabil pittura adorna il
seno.
97
Mille e mille color
formon le porte,
di gemme e di sì vivi intagli chiare,
che
tutte altre opre sarian roze e morte
da far di sé natura
vergognare:
nell'una è insculta la 'nfelice sorte
del
vecchio Celio, e in vista irato pare
suo figlio, e colla falce
adunca sembra
tagliar del padre le feconde membra.
98
Ivi
la Terra con distesi ammanti
par ch'ogni goccia di quel sangue
accoglia,
onde nate le Furie e' fier Giganti
di sparger sangue
in vista mostron voglia;
d'un seme stesso in diversi
sembianti
paion le Ninfe uscite sanza spoglia,
pur come snelle
cacciatrice in selva,
gir saettando or una or altra
belva.
99
Nel tempestoso Egeo in
grembo a Teti
si vede il frusto genitale accolto,
sotto diverso
volger di pianeti
errar per l'onde in bianca schiuma avolto;
e
drento nata in atti vaghi e lieti
una donzella non con uman
volto,
da zefiri lascivi spinta a proda,
gir sovra un nicchio,
e par che 'l cel ne goda.
100
Vera
la schiuma e vero il mar diresti,
e vero il nicchio e ver soffiar
di venti;
la dea negli occhi folgorar vedresti,
e 'l cel
riderli a torno e gli elementi;
l'Ore premer l'arena in bianche
vesti,
l'aura incresparle e crin distesi e lenti;
non una, non
diversa esser lor faccia,
come par ch'a sorelle ben
confaccia.
101
Giurar potresti
che dell'onde uscissi
la dea premendo colla destra il
crino,
coll'altra il dolce pome ricoprissi;
e, stampata dal piè
sacro e divino,
d'erbe e di fior l'arena si vestissi;
poi, con
sembiante lieto e peregrino,
dalle tre ninfe in grembo fussi
accolta,
e di stellato vestimento involta.
102
Questa
con ambe man le tien sospesa
sopra l'umide trezze una
ghirlanda
d'oro e di gemme orientali accesa,
questa una perla
alli orecchi accomanda;
l'altra al bel petto e' bianchi omeri
intesa,
par che ricchi monili intorno spanda,
de' quai solien
cerchiar lor proprie gole,
quando nel ciel guidavon le
carole.
103
Indi paion levate
inver le spere
seder sovra una nuvola d'argento:
l'aier
tremante ti parria vedere
nel duro sasso, e tutto il cel
contento;
tutti li dei di sua biltà godere,
e del felice
letto aver talento:
ciascun sembrar nel volto meraviglia,
con
fronte crespa e rilevate ciglia.
104
Nello
estremo, se stesso el divin fabro
formò felice di sì
dolce palma,
ancor dalla fucina irsuto e scabro,
quasi obliando
per lei ogni salma,
con desire aggiugnendo labro a labro
come
tutta d'amor gli ardessi l'alma:
e par vie maggior fuoco acceso in
ello,
che quel ch'avea lasciato in Mongibello.
105
Nell'altra
in un formoso e bianco tauro
si vede Giove per amor
converso
portarne il dolce suo ricco tesauro,
e lei volgere il
viso al lito perso
in atto paventosa; e i bei crin d'auro
scherzon
nel petto per lo vento avverso;
la vesta ondeggia, e indrieto fa
ritorno,
l'una man tiene al dorso, e l'altra al corno.
106
Le
'gnude piante a sé ristrette accoglie
quasi temendo il mar
che lei non bagne:
tale atteggiata di paura e doglie
par chiami
invan le dolci sue compagne;
le qual rimase tra fioretti e
foglie
dolenti Europa ciascheduna piagne.
"Europa",
suona il lito, "Europa, riedi",
e 'l tor nuota e talor
li bacia e piedi.
107
Or si fa
Giove un cigno or pioggia d'oro,
or di serpente or d'un pastor fa
fede,
per fornir l'amoroso suo lavoro;
or transformarsi in
aquila si vede,
come Amor vuole, e nel celeste coro
portar
sospeso il suo bel Ganimede,
qual di cipresso ha il biondo capo
avinto,
ignudo tutto e sol d'ellera cinto.
108
Fassi
Nettunno un lanoso montone,
fassi un torvo giovenco per
amore;
fassi un cavallo il padre di Chirone,
diventa Febo in
Tessaglia un pastore:
e 'n picciola capanna si ripone
colui
ch'a tutto il mondo dà splendore,
né li giova a
sanar sue piaghe acerbe
perch'e' conosca la virtù
dell'erbe.
109
Poi segue Dafne, e
'n sembianza si lagna
come dicessi: "O ninfa, non ten
gire,
ferma il piè, ninfa, sovra la campagna,
ch'io non
ti seguo per farti morire;
così cerva lion, così
lupo agna,
ciascuna il suo nemico suol fuggire:
me perché
fuggi, o donna del mio core,
cui di seguirti è sol cagione
amore?"
110
Dall'altra parte
la bella Arianna
colle sorde acque di Teseo si duole,
e
dell'aura e del sonno che la 'nganna;
di paura tremando, come
suole
per picciol ventolin palustre canna,
pare in atto aver
prese tai parole:
"Ogni fera di te meno è
crudele,
ognun di te più mi saria fedele".
111
Vien
sovra un carro, d'ellera e di pampino
coverto Bacco, il qual duo
tigri guidono,
e con lui par che l'alta arena stampino
Satiri e
Bacche, e con voci alte gridono:
quel si vede ondeggiar, quei par
che 'nciampino,
quel con un cembol bee, quelli altri ridono;
qual
fa d'un corno e qual delle man ciotola,
quale ha preso una ninfa e
qual si ruotola.
112
Sovra l'asin
Silen, di ber sempre avido,
con vene grosse nere e di mosto
umide,
marcido sembra sonnacchioso e gravido,
le luci ha di vin
rosse infiate e fumide;
l'ardite ninfe l'asinel suo pavido
pungon
col tirso, e lui con le man tumide
a' crin s'appiglia; e mentre sì
l'aizono,
casca nel collo, e' satiri lo rizono.
113
Quasi
in un tratto vista amata e tolta
dal fero Pluto, Proserpina
pare
sovra un gran carro, e la sua chioma sciolta
a' zefiri
amorosi ventilare;
la bianca vesta in un bel grembo accolta
sembra
i colti fioretti giù versare:
lei si percuote il petto, e
'n vista piagne,
or la madre chiamando or le
compagne.
114
Posa giù del
leone il fero spoglio
Ercole, e veste di femminea gonna
colui
che 'l mondo da greve cordoglio
avea scampato, et or serve una
donna;
e può soffrir d'Amor l'indegno orgoglio
chi colli
omer già fece al ciel colonna;
e quella man con che era a
tenere uso
la clava ponderosa, or torce un fuso.
115
Gli
omer setosi a Polifemo ingombrano
l'orribil chiome e nel gran
petto cascono,
e fresche ghiande l'aspre tempie
adombrano:
d'intorno a lui le sue pecore pascono,
né a
costui dal cor già mai disgombrano
le dolce acerbe cur che
d'amor nascono,
anzi, tutto di pianto e dolor macero,
siede in
un freddo sasso a piè d'un acero.
116
Dall'uno
all'altro orecchio un arco face
il ciglio irsuto lungo ben sei
spanne;
largo sotto la fronte il naso giace,
paion di schiuma
biancheggiar le zanne;
tra' piedi ha 'l cane, e sotto il braccio
tace
una zampogna ben di cento canne:
lui guata il mar che
ondeggia, e alpestre note
par canti, e muova le lanose
gote,
117
e dica ch'ella è
bianca più che il latte,
ma più superba assai ch'una
vitella,
e che molte ghirlande gli ha già fatte,
e
serbali una cervia molto bella,
un orsacchin che già col
can combatte;
e che per lei si macera e sfragella,
e che ha
gran voglia di saper notare
per andare a trovarla insin nel
mare.
118
Duo formosi delfini un
carro tirono:
sovresso è Galatea che 'l fren corregge,
e
quei notando parimente spirono;
ruotasi attorno più lasciva
gregge:
qual le salse onde sputa, e quai s'aggirono,
qual par
che per amor giuochi e vanegge;
la bella ninfa colle suore fide
di
sì rozo cantor vezzosa ride.
119
Intorno
al bel lavor serpeggia acanto,
di rose e mirti e lieti fior
contesto;
con varii augei sì fatti, che il lor canto
pare
udir nelli orecchi manifesto:
né d'altro si pregiò
Vulcan mai tanto,
né 'l vero stesso ha più del ver
che questo;
e quanto l'arte intra sé non comprende,
la
mente imaginando chiaro intende.
120
Questo
è 'l loco che tanto a Vener piacque,
a Vener bella, alla
madre d'Amore;
qui l'arcier frodolente prima nacque,
che spesso
fa cangiar voglia e colore,
quel che soggioga il cel, la terra e
l'acque,
che tende alli occhi reti, e prende il core,
dolce in
sembianti, in atti acerbo e fello,
giovene nudo, faretrato
augello.
121
Or poi che ad ale
tese ivi pervenne,
forte le scosse, e giù calassi a
piombo,
tutto serrato nelle sacre penne,
come a suo nido fa
lieto colombo:
l'aier ferzato assai stagion ritenne
della
pennuta striscia il forte rombo:
ivi racquete le triunfante
ale,
superbamente inver la madre sale.
122
Trovolla
assisa in letto fuor del lembo,
pur mo' di Marte sciolta dalle
braccia,
il qual roverso li giacea nel grembo,
pascendo gli
occhi pur della sua faccia:
di rose sovra a lor pioveva un
nembo
per rinnovarli all'amorosa traccia;
ma Vener dava a lui
con voglie pronte
mille baci negli occhi e nella
fronte.
123
Sovra e d'intorno i
piccioletti Amori
scherzavon nudi or qua or là volando:
e
qual con ali di mille colori
giva le sparte rose ventilando,
qual
la faretra empiea de' freschi fiori,
poi sovra il letto la venia
versando,
qual la cadente nuvola rompea
fermo in su l'ale, e
poi giù la scotea.
124
Come
avea delle penne dato un crollo,
così l'erranti rose eron
riprese:
nessun del vaneggiar era satollo;
quando apparve
Cupido ad ale tese,
ansando tutto, e di sua madre al
collo
gittossi, e pur co' vanni el cor li accese,
allegro in
vista, e sì lasso ch'a pena
potea ben, per parlar,
riprender lena.
125
"Onde
vien, figlio, o qual n'apporti nuove?",
Vener li disse, e lo
baciò nel volto:
"Onde esto tuo sudor? qual fatte hai
pruove?
qual dio, qual uomo hai ne' tuo' lacci involto?
Fai tu
di nuovo in Tiro mughiar Giove?
o Saturno ringhiar per Pelio
folto?
Che che ciò sia, non umil cosa parmi,
o figlio, o
sola mia potenzia et armi".
LIBRO
SECONDO
1
Eron già
tutti alla risposta intenti
e pargoletti intorno all'aureo
letto,
quando Cupido con occhi ridenti,
tutto protervo nel
lascivo aspetto,
si strinse a Marte, e colli strali ardenti
della
faretra gli ripunse il petto,
e colle labra tinte di
veleno
baciollo, e 'l fuoco suo gli misse in seno.
2
Poi
rispose alla madre: "E' non è vana
la cagion che sì
lieto a te mi guida:
ch'i' ho tolto dal coro di Diana
el primo
conduttor, la prima guida,
colui di cui gioir vedi Toscana,
di
cui già insino al ciel la fama grida,
insino agl'Indi,
insino al vecchio Mauro:
Iulio, minor fratel del nostro
Lauro.
3
L'antica gloria e 'l
celebrato onore
chi non sa della Medica famiglia,
e del gran
Cosmo, italico splendore,
di cui la patria sua si chiamò
figlia?
E quanto Petro al paterno valore
n'aggiunse pregio, e
con qual maraviglia
dal corpo di sua patria rimosse abbia
le
scelerate man, la crudel rabbia?
4
Di
questo e della nobile Lucrezia
nacquene Iulio, e pria ne nacque
Lauro:
Lauro che ancor della bella Lucrezia
arde, e lei dura
ancor si mostra a Lauro,
rigida più che a Roma già
Lucrezia,
o in Tessaglia colei che è fatta un lauro;
né
mai degnò mostrar di Lauro agli occhi
se non tutta superba
e suo' begli occhi.
5
Non priego
non lamento al meschin vale,
ch'ella sta fissa come torre al
vento,
perch'io lei punsi col piombato strale,
e col dorato
lui, di che or mi pento;
ma tanto scoterò, madre, queste
ale,
che 'l foco accenderolli al petto drento:
richiede ormai
da noi qualche restauro,
la lunga fedeltà del franco
Lauro,
6
che tutt'or parmi pur
veder pel campo,
armato lui, armato el corridore,
come un fer
drago gir menando vampo,
abatter questo e quello a gran
furore,
l'armi lucenti sue sparger un lampo
che tremar faccin
l'aier di splendore;
poi, fatto di virtute a tutti
essemplo,
riportarne il trionfo al nostro templo.
7
E
che lamenti già le Muse ferno,
e quanto Apollo s'è
già meco dolto
ch'i' tenga il lor poeta in tanto
scherno!
et io con che pietà suo' versi ascolto!
ch'i'
l'ho già visto al più rigido verno,
pien di pruina e
crin, le spalle e 'l volto,
dolersi colle stelle e colla luna,
di
lei, di noi, di suo crudel fortuna.
8
Per
tutto el mondo ha nostre laude sparte,
mai d'altro mai se non
d'amor ragiona;
e potea dir le tue fatiche, o Marte,
le trombe
e l'arme, e 'l furor di Bellona;
ma volle sol di noi vergar le
carte,
e di quella gentil ch'a dir lo sprona:
ond'io lei farò
pia, madre, al suo amante
ch'i' pur son tuo, non nato
d'adamante.
9
I' non son nato di
ruvida scorza,
ma di te, madre bella, e son tuo figlio;
né
crudele esser deggio, e lui mi sforza
a riguardarlo con pietoso
ciglio.
Assai provato ha l'amorosa forza,
assai giaciuto è
sotto 'l nostro artiglio;
giust'è ch'e' faccia ormai co'
sospir triegua,
e del suo buon servir premio consegua.
10
Ma
'l bel Iulio ch'a noi stato è ribello,
e sol di Delia ha
seguito el trionfo,
or drieto all'orme del suo buon fratello
vien
catenato innanzi al mio trionfo;
né mosterrò già
mai pietate ad ello
finché ne porterà nuovo
trionfo:
ch'i' gli ho nel cor diritta una saetta
dagli occhi
della bella Simonetta.
11
E sai
quant'è nel petto e nelle braccia,
quanto sopra 'l
destriero è poderoso:
pur mo' lo vidi sì feroce in
caccia,
che parea il bosco di lui paventoso;
tutta aspreggiata
avea la bella faccia,
tutto adirato, tutto era focoso.
Tal
vid'io te là sovra el Termodonte
cavalcar, Marte, e non con
esta fronte.
12
Questa è,
madre gentil, la mia vittoria;
quinci è 'l mio travagliar,
quinci è 'l sudore;
così va sovra al cel la nostra
gloria,
el nostro pregio, el nostro antico onore;
così
mai scancellata la memoria
fia di te, madre, e del tuo figlio
Amore;
così canteran sempre e versi e cetre
li stral, le
fiamme, gli archi e le faretre".
13
Fatta
ella allor più gaia nel sembiante,
balenò intorno
uno splendor vermiglio,
da fare un sasso divenire amante,
non
pur te, Marte; e tale ardea nel ciglio,
qual suol la bella Aurora
fiammeggiante;
poi tutto al petto si ristringe el figlio,
e
trattando con man suo chiome bionde,
tutto el vagheggia e lieta li
risponde:
14
"Assai, bel
figlio, el tuo desir m'agrada,
che nostra gloria ognor più
l'ale spanda;
chi erra torni alla verace strada,
obligo è
di servir chi ben comanda.
Pur convien che di nuovo in campo
vada
Lauro, e si cinga di nuova ghirlanda:
ché virtù
nelli affanni più s'accende,
come l'oro nel fuoco più
risplende.
15
Ma prima fa mestier
che Iulio s'armi
sì che di nostra fama el mondo adempi;
e
tal del forte Achille or canta l'armi
e rinnuova in suo stil gli
antichi tempi,
che diverrà testor de' nostri
carmi,
cantando pur degli amorosi essempi:
onde la gloria
nostra, o bel figliuolo,
vedrèn sopra le stelle alzarsi a
volo.
16
E voi altri, mie' figli,
al popol tosco
lieti volgete le trionfante ale,
giten tutti
fendendo l'aer fosco;
tosto prendete ognun l'arco e lo strale,
di
Marte el dolce ardor sen venga vosco.
Or vedrò, figli, qual
di voi più vale:
gite tutti a ferir nel toscan coro
ch'i'
serbo a qual fie 'l primo un arco d'oro".
17
Tosto
al suo dire ognuno arco e quadrella
riprende, e la faretra al
fianco alluoga,
come, al fischiar del comito, sfrenella
la
'gnuda ciurma e remi, e mette in voga.
Già per l'aier ne va
la schiera snella,
già sopra la città calon con
foga:
così e vapor pel bel seren giù scendono,
che
paion stelle mentre l'aier fendono.
18
Vanno
spiando gli animi gentili
che son dolce esca all'amoroso
foco;
sovress'e' batton forte i lor fucili,
e fanli apprender
tutti a poco a poco.
L'ardor di Marte, ine' cor
giovenili
s'affige, e quelli infiamma del suo gioco;
e mentre
stanno involti nel sopore,
pare a' gioven far guerra per
Amore.
19
E come quando il sol li
Pesci accende,
tutta la terra è di suo virtù
pregna,
che poscia a primavera fuor si estende,
mostrando al
cel verde e fiorita insegna;
così ne' petti ove lor foco
scende
s'abbarbica un disio che drento regna,
un disio sol
d'eterna gloria e fama,
che le 'nfiammate menti a virtù
chiama.
20
Esce sbandita la viltà
d'ogni alma,
e, benché tarda sia, Pigrizia fugge;
a
libertate l'una e l'altra palma
legon gli Amori, e quella irata
rugge.
Solo in disio di gloriosa palma
ogni cor giovenil
s'accende e strugge;
e dentro al petto sorpriso dal sonno
li
spirite' d'amor posar non ponno.
21
E
così mentre ognun dormendo langue,
ne' lacci è
'nvolto onde già mai non esce;
ma come suol fra l'erba el
picciol angue
tacito errare, o sotto l'onde el pesce,
sì
van correndo per l'ossa e pel sangue
gli ardenti spiritelli, e 'l
foco cresce.
Ma Vener, com'e suo' alati corrieri
vide partiti,
mosse altri pensieri.
22
Pasitea
fe' chiamar, del Sonno sposa,
Pasitea, delle Grazie una
sorella,
Pasitea che dell'altre è più
amorosa,
quella che sovra a tutte è la più bella;
e
disse: "Muovi, o ninfa graziosa,
truova el consorte tuo,
veloce e snella:
fa che e' mostri al bel Iulio tale imago,
che
'l facci di mostrarsi al campo vago".
23
Così
le disse; e già la ninfa accorta
correa sospesa per l'aier
serena;
quete sanza alcun rombo l'ale porta,
e lo ritruova in
men che non balena.
Al carro della Notte el facea scorta,
e
l'aria intorno avea di Sogni piena,
di varie forme e stranier
portamenti,
e facea racquetar li fiumi e i venti.
24
Come
la ninfa a' suoi gravi occhi apparve,
col folgorar d'un riso
gliele aperse:
ogni nube dal ciglio via disparve,
che la forza
del raggio non sofferse.
Ciascun de' Sogni drento alle lor
larve
gli si fe' incontro, e 'l viso discoverse;
ma lei, poi
che Morfeo con gli altri scelse,
gli chiese al Sonno, e tosto indi
si svelse.
25
Indi si svelse, e
di quanto convenne
tosto ammonilli, e partì sanza posa;
a
pena tanto el ciglio alto sostenne,
che fatta era già tutta
sonnacchiosa;
vassen volando sanza muover penne,
e ritorna a
sua dea, lieta e gioiosa.
Gli scelti Sogni ad ubidir
s'affrettono
e sotto nuove fogge si rassettono:
26
quali
i soldati che di fuor s'attendono,
quando sanza sospetto et arme
giacciono,
per suon di tromba al guerreggiar s'accendono,
vestonsi
le corazze e gli elmi allacciono,
e giù dal fianco le spade
sospendono,
grappon le lance e' forti scudi imbracciono;
e così
divisati i destrier pungono
tanto ch'alla nimica schiera
giungono.
27
Tempo era quando
l'alba s'avicina,
e divien fosca l'aria ove era bruna;
e già
'l carro stellato Icaro inchina,
e par nel volto scolorir la
luna:
quando ciò ch'al bel Iulio el cel destina
mostrono
i Sogni, e sua dolce fortuna;
dolce all'entrar, all'uscir troppo
amara,
però che sempre dolce al mondo è
rara.
28
Pargli veder feroce la
sua donna,
tutta nel volto rigida e proterva,
legar Cupido alla
verde colonna
della felice pianta di Minerva,
armata sopra alla
candida gonna,
che 'l casto petto col Gorgon conserva;
e par
che tutte gli spennecchi l'ali,
e che rompa al meschin l'arco e li
strali.
29
Ahimè, quanto
era mutato da quello
Amor che mo' tornò tutto gioioso!
Non
era sovra l'ale altero e snello,
non del trionfo suo punto
orgoglioso:
anzi merzé chiamava el meschinello
miseramente,
e con volto pietoso
gridando a Iulio: "Miserere
mei,
difendimi, o bel Iulio, da costei".
30
E
Iulio a lui dentro al fallace sonno
parea risponder con mente
confusa:
"Come poss'io ciò far dolce mio donno,
ché
nell'armi di Palla è tutta chiusa?
Vedi i mie' spirti che
soffrir non ponno
la terribil sembianza di Medusa,
e 'l
rabbioso fischiar delle ceraste
e 'l volto e l'elmo e 'l folgorar
dell'aste".
31
"Alza
gli occhi, alza, Iulio, a quella fiamma
che come un sol col suo
splendor t'adombra:
quivi è colei che l'alte mente
infiamma,
e che de' petti ogni viltà disgombra.
Con
essa, a guisa di semplice damma,
prenderai questa ch'or nel cor
t'ingombra
tanta paura, e t'invilisce l'alma;
ché sol ti
serba lei trionfal palma".
32
Così
dicea Cupido, e già la Gloria
scendea giù folgorando
ardente vampo:
con essa Poesia, con essa Istoria
volavon tutte
accese del suo lampo.
Costei parea ch'ad acquistar
vittoria
rapissi Iulio orribilmente in campo,
e che l'arme di
Palla alla sua donna
spogliassi, e lei lasciassi in bianca
gonna.
33
Poi Iulio di suo
spoglie armava tutto,
e tutto fiammeggiar lo facea d'auro;
quando
era al fin del guerreggiar condutto,
al capo gl'intrecciava oliva
e lauro.
Ivi tornar parea suo gioia in lutto:
vedeasi tolto il
suo dolce tesauro,
vedea suo ninfa in trista nube avolta,
dagli
occhi crudelmente esserli tolta.
34
L'aier
tutta parea divenir bruna,
e tremar tutto dello abisso il
fondo;
parea sanguigno el cel farsi e la luna,
e cader giù
le stelle nel profondo.
Poi vede lieta in forma di Fortuna
surger
suo ninfa e rabbellirsi il mondo,
e prender lei di sua vita
governo,
e lui con seco far per fama eterno.
35
Sotto
cotali ambagi al giovinetto
fu mostro de' suo' fati il leggier
corso:
troppo felice, se nel suo diletto
non mettea morte
acerba il crudel morso.
Ma che puote a Fortuna esser
disdetto,
ch'a nostre cose allenta e stringe il morso?
Né
val perch'altri la lusinghi o morda,
ch'a suo modo ne guida e sta
pur sorda.
36
Adunque il tanto
lamentar che giova?
A che di pianto pur bagnar le gote,
se pur
convien che lei ne guidi e muova?
Se mortal forza contro a lei non
puote?
Se con sue penne il nostro mondo cova,
e tempra e volge,
come vuol, le rote?
Beato qual da lei suo' pensier solve,
e
tutto drento alla virtù s'involve!
37
O
felice colui che lei non cura
e che a' suoi gravi assalti non si
arrende,
ma come scoglio che incontro al mar dura,
o torre che
da Borea si difende,
suo' colpi aspetta con fronte sicura,
e
sta sempre provisto a sua vicende!
Da sé sol pende, e 'n se
stesso si fida,
né guidato è dal caso, anzi lui
guida.
38
Già carreggiando
il carro Aurora lieta
di Pegaso stringea l'ardente briglia;
surgea
del Gange el bel solar pianeta,
raggiando intorno coll'aurate
ciglia;
già tutto parea d'oro il monte Oeta,
fuggita di
Latona era la figlia;
surgevon rugiadosi in loro stelo
li fior
chinati dal notturno gelo.
39
La
rondinella sovra al nido allegra,
cantando salutava il nuovo
giorno;
e già de' Sogni la compagnia negra
a sua
spilonca avean fatto ritorno;
quando con mente insieme lieta et
egra
si destò Giulio e girò gli occhi intorno:
gli
occhi intorno girò tutto stupendo,
d'amore e d'un disio di
gloria ardendo.
40
Pargli vedersi
tuttavia davanti
la Gloria armata in su l'ale veloce
chiamare a
giostra e valorosi amanti,
e gridar "Iulio Iulio" ad
alta voce.
Già sentir pargli le trombe sonanti,
già
divien tutto nell'arme feroce:
così tutto focoso in piè
risorge,
e verso il cel cota' parole porge:
41
"O
sacrosanta dea, figlia di Giove,
per cui il tempio di Ian s'apre e
riserra,
la cui potente destra serba e muove
intero arbitrio di
pace e di guerra;
vergine santa, che mirabil pruove
mostri del
tuo gran nume in cielo e 'n terra,
che i valorosi cuori a virtù
infiammi,
soccorrimi or, Tritonia, e virtù
dammi.
42
S'io vidi drento alle
tue armi chiusa
la sembianza di lei che me a me fura;
s'io vidi
il volto orribil di Medusa
far lei contro ad Amor troppo esser
dura;
se poi mie mente dal tremor confusa
sotto il tuo schermo
diventò secura;
s'Amor con teco a grande opra mi
chiama,
mostrami il porto, o dea, d'eterna fama.
43
E
tu che drento alla 'nfocata nube
degnasti tua sembianza
dimostrarmi,
e ch'ogni altro pensier dal cor mi rube,
fuor che
d'amor dal qual non posso atarmi;
e m'infiammasti come a suon di
tube
animoso caval s'infiamma all'armi,
fammi in tra gli altri,
o Gloria, sì solenne,
ch'io batta insino al cel teco le
penne.
44
E s'io son, dolce Amor,
s'io son pur degno
essere il tuo campion contro a costei,
contro
a costei da cui con forza e 'ngegno,
se ver mi dice il sonno,
avinto sei,
fa sì del tuo furor mio pensier pregno,
che
spirto di pietà nel cor li crei:
mie virtù per se
stesse ha l'ale corte,
perché troppo è 'l valor di
costei forte.
45
Troppo forte è,
signor, il suo valore,
che, come vedi, il tuo poter non cura:
e
tu pur suoli al cor gentile, Amore,
riparar come augello alla
verdura.
Ma se mi presti il tuo santo furore,
leverai me sopra
la tua natura;
e farai, come suol marmorea rota,
che lei non
taglia e pure il ferro arrota.
46
Con
voi me 'n vengo, Amor, Minerva e Gloria,
ché 'l vostro foco
tutto 'l cor m'avvampa:
da voi spero acquistar l'alta
vittoria,
ché tutto acceso son di vostra lampa;
datemi
aita sì che ogni memoria
segnar si possa di mia eterna
stampa,
e facci umil colei ch'or mi disdegna:
ch'io porterò
di voi nel campo insegna.