Emilio Praga
FIABE
E LEGGENDE
OLIMPIO
A
GIOVANNI CAMERANA
Un giorno
che piovea dirottamente,
(era il pallido ottobre), e i
valligiani
del mondo si perdean dentro la mota,
un giovinetto,
amico mio, bizzarro
gobbo, dagli occhi stranamente neri,
questi
versi cantò sotto l'ombrello:
- O padre eterno, se hai
tempo da perdere
e se non dormi nei placidi cieli,
tu che ogni
giorno alla turba ti sveli,
padre, una volta, una sola, a me
svèlati!
Deh mi esaudisci e mi dona, o Signore,
un po'
di lusso, di calma e di amore!
Voglio un giardino ove i cedri coi
salici
fingan le valli dell'Etna, e del Rosa;
dove il colibrì,
tra i fior di mimosa,
canti in famiglia col gufo e la
rondine;
dove, coperto di un'ellera eterna,
mi sembri un
chiosco la casa materna.
Voglio una donna cui tutte somiglino
le
cento donne a vent'anni sognate;
voglio una donna di tempre
infocate,
che sia la santa, che sia la Proserpina,
e vinca in
arte di teneri ludi
quante hai lassù schiere d'angioli
nudi!
Dammi la calma, la calma degli angeli
quando han cenato e
che in cerchio fumando,
dentro le piume dell'ali soffiando
globi
di ambrosia da pipe di zucchero,
dicon fra lor : " Siamo un
capolavoro!".
Deh fa' che tale io mi creda con loro!
Oh
schiudi, schiudi il celeste deposito
dei puri olezzi, dei raggi
serbati
ai fiori e agli astri che ancor non son nati!
Sol io
non valgo una viola, una lucciola?
Via! mi esaudisci e mi dona, o
Signore,
un po' di lusso, di calma e di amore! -
Così
cantava Olimpio, il gobbo strano.
E la pioggia cadea, colla
beata
quiete degli immortali, in un monotono
metro rimando
sulle fronde e i ciottoli
l'Iliade delle gocciole.
L'ombrello
di
Olimpio segna sulle bianche nubi
un semicerchio che sembra la
porta
di una lontana galleria nel cielo,
buia come un mister.
Sono allagate
le vecchie casse dei poveri morti,
sono allagati
i giovinetti nidi
degli usignuoli; un passeggier non scorgi,
per
quanto è vasta la pianura.
I carri
dei contadini sotto
i porticati
se ne stan colle braccia in su rivolte
come turchi
preganti; i focolari
prestano un lume intermittente e pallido
alle
finestre, e il genia campagnuolo
sembra da quelle osservar
tristemente
la rovina dei fiori.
E Olimpio canta:
- I miei
giorni in un sogno dileguano;
son già lungi, ben lungi i
più belli!
Come un volo - di uccelli - che emigrano
e
che solo - precipita in mar.
Li ricorda? sa forse l'Oceano
se
le piume avean d'oro lucenti,
se eran belli - i concenti - di
lagrime
degli uccelli - che ha visti annegar?
I miei giorni in
un sogno dileguano!..
Presto un gobbo di meno avrà il
mondo;
e in un buco - profondo - ma piccolo
qualche bruco - la
terra di più!
O natura, se nascono i salici
dalle salme
dei gobbi, ah perdio!
così torci - tu il mio - che mi
veggano
rane e sorci - guardando all'insù...
Mi
ameranno: il tranquillo rigagnolo
spargerò d'ombre tremule
e fresche;
degli amici - alle tresche - di foglie
cantatrici -
un idillio farò.
Chi sa! forse l'amore oltre il tumulo
ai
mutati viventi non falla:
qualche errante - farfalla - può
nascere
qualche amante - che il gobbo sognò! -
Così cantava Olimpio il
gobbo strano:
E intanto i ceruli
monti lontani
scotean la
nebbia
dai dorsi immani,
e un rezzo tiepido
giunto - in
quel punto
sapendo niente - dall'Orïente,
dalle
piramidi,
dai templi eccelsi,
scotea fra i
gelsi,
modestamente,
l'ultime gocciole
che, lente lente,
cadean sui prati,
simili a lagrime
d'occhi -
malati.
Fiocchi - di lana
parean le nuvole,
e una
campana
lontana - al dubbio
del viatore
dicea: tre ore.
" Veh, un gobbetto! Oh il
bel gobbetto
Dal più folto di un boschetto
questo grido
a un tratto uscì.
E il gobbetto, il bel gobbetto,
cessò
il canto e impallidì.
" Oh per Bacco! dentro il
sacco
porti un putto, porti un pacco,
o una tromba da
suonar?
Oh per Bacco! giù quel sacco,
lo vogliamo
esaminar ".
Ed ecco dal folto compare un bel volto,
e
un altro lo segue, da un'iride avvolto
di lunghi capelli che
sembrano d'or:
son due giovinette che usciron dal folto,
soffuse
le guance di vago rossor.
Han fior sulla vesta, han fior sulla
testa,
li han forse cosparsi per irne a una festa?
Van forse a
un altare per farsi adorar?
Han fior sulla testa, han fior sulla
vesta,
e il povero Olimpio sta muto a guardar.
" Belle dame - dice poi -
i
tesor del sacco mio
se volete esaminar,
le padrone siete
voi;
ma lasciate ch'io v'osservi
che son ossa e che son nervi
che vi occorre di slacciar.
Con quegli occhi celestiali,
con
quel labbro, con quel crine,
con quel seno ammaliator,
so che
molti e molti mali
si pon fare, e esperte siete,
ché
già punto entrambe avete
questo povero mio cor.
Ma però
se occulte piaghe,
se dolorò senza lamenti
non vi basta
di crear;
né il pensier vi rende paghe
che ridendo
assassinate,
e che sempre, ove passate,
resta un'anima a
pregar;
che, di notte, a voi pensando,
chi vi ha viste alla
mattina
ha l'inferno al capezzal;
e, alla coltrice
parlando,
può giocarsi il posto in cielo,
e infelice e
bieco e anelo,
come l'angelo del mal,
risvegliarsi il giorno
dopo
pien di affanno e di memorie
qual chi riede da lontan;
se
non bastano allo scopo
per cui Dio vi ha poste in terra
queste
vittime di guerra
già cadute o che cadran;
se il piacer
già in voi ne langue,
e vi punge il desiderio
di più
pratici martir;
ecco il cuore ed ecco il sangue
di un gobbetto
innamorato...
Il mio sacco è preparato,
non vi resta che
a ferir! ".
Le giovinette risero,
e dissero fra
lor:
"Questo gobbetto è lepido
in parola d'onor!
".
E volte a lui: " Sei piccolo,
però ne sai
di belle;
a raccontar storielle
dinne, chi t'insegnò?
".
" Nessun, mie donne amabili:
ho imparato da me;
oh
il sacco delle bubbole
por ve lo posso ai piè ".
"
Deh, se ne sai, raccontane! ".
" come vi garberà
".
" Vieni in giardin: la vecchia
addormentata è
già ".
Splendea la luna e al raggio
umido di
rugiada,
per la fiorita strada
la comitiva entrò.
Ombrìe
bizzarre Olimpio
spargea col suo gobbetto,
e le due donne
stretto
se lo tenean fra lor.
Al vago lume un timido
gnomo
il poeta par. . .
" Delle storielle il titolo
prima di
caminciar? ".
E il gobbetto inchinandosi:
"
Corbellerie stupende!
Saran Fiabe e Leggende
di spiriti e
d'amor! ".
I DUE POETI
Per un sentiero a margini
di
gigli e di roveti,
un lungo stuol precedono
due giovani
poeti;
non hanno al crin l'olimpico
raggio del greco
Apollo,
non l'arpa ad armacollo,
perché lo stuoli li
seguita
fra i gigli e fra i roveti?
Lo stuol lo ignora e
mormora:
quei due, son due poeti!
E meste donne, e
vergini
dagli occhi innamorati,
e giovinetti pallidi
di
larve innebriati,
e vecchi malinconici
pieni di antiche
storie,
belli di antiche glorie,
risa mescendo e lagrime,
fra
i gigli e fra i roveti,
col plauso e la bestemmia
seguono i due
poeti.
L'un canta: - I dì declinano,
la creazione è
stanca;
un immenso sbadiglio
il vecchio Adamo abbranca;
la
vetustà dei secoli
piange nell'universo,
e, in alta noia
immerso,
fra i dormienti arcangeli,
Dio nell'azzurro io
scerno
che raccapriccia all'orrida
idea d'essere
eterno.
Desolazione e tenebra,
ecco il nuovo retaggio!
Si
fan di gelo i crateri,
muor sulle fronti il raggio;
onta
all'amplesso, o vergini!
Maledetti i neonati!
Perano i fior sui
prati,
e, coperta di cenere,
l'umanità languente
si
dissolva nei torbidi
vapor dell'occidente! -
E l'altro canta: -
Vivere
è uno scoppio di riso;
il mondo è un
manicomio
che inneggia al paradiso!
Vedete i fior? Oh
lagrime
della occulta allegrezza,
e la terra si spezza
perché
ci dican gli alberi
che giù nel tenebrore
non si cessa
di ridere,
e si fa ancor l'amore!
Vecchi pensosi, e
vecchie
dimesse, usciamo al sole;
scordiamo i dì che
furono
per intrecciar carole;
e intorno a voi si accoppiino
le
giovinette razze;
proli beate e pazze
escan dai fianchi
indomiti
dei forti e delle belle;
e presto andrem nell'aria
a
dischiodar le stelle! -
E il primo ancora: - Oh l'Ellade,
la
Venere di Milo!
Splendor, melodi, effluvii
dall'Ellesponto al
Nilo!...
O Memfi, o Babilonia!
Gioite ancor dal nulla;
giganti
della culla,
ecco i pigmei del feretro!
Questa che si
dissolve
ripiomberà, caligine,
sopra la vostra polve!
-
E l'altro ancora: - Un brindisi,
fanciulli, all'avvenire!
E
prepariamo un tumulo
ai dubbi, ai pianti, all'ire!
Siam gli
eredi dei secoli
che ha fatto economia;
a noi la legge pia,
la
libertà dell'anima,
il lavoro ferace,
a noi lamore,
il genio,
l'innocenza e la pace! -
Tal pel sentiero a
margini
di gigli e di roveti
un lungo stuol precedono
i
giovani poeti.
Però la folla attonita
va ripetendo
intorno:
se l'un sorride al giorno,
se l'altro è nelle
tenebre,
fra i gigli e fra i roveti,
perché la terra
viaggiano
insieme i due poeti?
E meste donne, e vergini
dagli
occhi innamorati,
e giovinetti pallidi
di larve inebriati,
e
vecchi malinconici
pieni di antiche storie,
belli di antiche
glorie,
dicon: son risa o lagrime,
son gigli o son roveti
che
cogliean sul mistico
sentier dei due poeti?
Allora un vecchio
incognito
apparve d'improvviso :
pareva un dell'Iliade,
tanto
era grande in viso;
certo avea visto l'epoche
dei palesati
arcani.
Stette, ed alzò le mani;
i due si
inginocchiarono,
e quell'immenso stuolo
fu tutto muto e
immobile
in un momento solo.
- Dalle regioni eteree,
dai
sempiterni campi
dove i Ver sono oceani,
dove le Idee son
lampi,
piova su te, miserrima,
cieca turba, la luce:
è
Amor che ti conduce!
É il divino carnefice
che han
questi due nel core!
- Amor che guida al tumulo,
sia gioia o
sia dolore! -
Disse: e, il manto sciogliendone,
scoperse a lor
due piaghe,
che nell'ombra grondavano
su quelle forme vaghe;
lo
stuol seguìta avevala,
la bella coppia esangue,
fra due
rivi di sangue;
e quei due rivi uscivano
a flutti, e niun li
vide,
uno dal cor che lagrima,
l'altro dal cor che ride.
I TRE AMANTI DI BELLA
I
La stanzuccia di Steno
stava accosciata in alto
di un palazzo affittato da un ebreo di
Rialto;
palazzo in cui da secoli i topi son signori,
e che
allora un patrizio, roso dai creditori,
avea, dopo molto esitare,
esitato,
dicendo: va la casa, ma mi resta il casato.
Però
il dì della vendita l'aule antiche degli avi
cigolando
gemettero dalle tarlate travi:
gemettero d'angoscia, giacché
una legge arcana
affratella le cose alla famiglia umana.
Si
ricordano, e serbano l'orror della mitraglia,
nel desolato
aspetto, i campi di battaglia;
certi monti han profili beffardi e
minaccianti
perché memori ancora del passo dei
giganti;
sospira al re lontano il velluto dei troni,
e alle
nonne defunte pensano i seggioloni;
sicché il vecchio
palazzo di cui vi parlo adesso
sul torbido canale pianse il
passato anch'esso.
E le quattro cariatidi curve sotto il
balcone,
e i putti che coll'ali sostengono il
blasone,
bassorilievi e fregi lombardi e bisantini,
d'antiche
gesta memori e di antichi quattrini,
presero l'aria cupa di un
popolo di sasso
che più non sappia illudersi su questo
mondo basso;
e il Dio delle leggende, nella facciata nera,
profeta
malinconico, piantò la sua bandiera.
Oh le feste di un
tempo! Conviti e serenate
e variopinte gondole alla soglia
affollate!
Quando dame e patrizi, fanciulle e
cavalieri,
giungevano al palazzo con paggi e trombettieri,
a
esilararsi l'animo dalle cure di Stato
tra mantellini serici e
gonne di broccato;
a sfoggiar la ginnastica delle battaglie
mute,
degli sguardi fatali, delle parole argute;
ad affrettar
l'arrivo della gioconda bara,
tra una botte di Cipro e una
sembianza cara!
Dove, più di una volta, il vecchio
senatore,
per il giurato premio di una notte d'amore,
vendette
alla bellezza il suo voto in Consiglio;
dove il capro e la volpe,
la tigre ed il coniglio,
piume al cappello e spada al fianco, in
giubba o in manto,
in toga o in armatura, riso celando o
pianto,
le labbra tormentavansi e si rompean le mani
in
proteste di affetto svanito all'indomani;
dove, bersaglio agli
occhi, ai motti ed agli inchini,
era passato, bello di gloria, il
Morosini;
dove intorno al damasco dei tavoli seduti
delle nuove
d'allora cianciavano i canuti:
narravano Cromvello pensoso e
turbolento,
e il papa Rospigliosi pacifico e contento;
come,
amando una patria, cadeva il re Sobieschi,
e amando una regina,
periva il Monaldeschi;
questo ed altro narravano, mentre in
crocchi geniali
le matrone alla moda leggean le Provinciali.
II
Era il buon tempo. Il
Fauno, guardia del porticato,
fu la più mesta vittima dello
splendor passato;
egli che nel marmoreo malinconico cuore
una
notte ricorda di gioia e di dolore,
in cui, fra il lieto stuolo
per la soglia accorrente,
una vaga fanciulla, pallida,
sorridente,
dal padre inosservata staccossi, che volgea
parlando
a un Mocenigo, su per l'ampia scalea,
e accanto al piedestallo
fermossi, curïosa
e tranquilla, a osservare la sua faccia
rugosa.
I begli occhi profondi, le nudità seguendo,
di
uno scultor di Rodi artifizio stupendo,
avean finito a spingere
una mano affilata
a palpargli le vertebre della schiena
curvata...
Mai, dopo i colpi arcani del divino scalpello,
gli
avea concesso il mondo un istante più bello...
L'angelo
sparve. All'alba ripassò, ma un piumato
cinquantenne
patrizio le camminava al lato,
e, assorta nel colloquio, dimenticò
la schiena
tutta per lei di elettriche scintille ancor
ripiena.
Povero Fauno! e in estasi, già da due lustri,
aspetta
che ripassi per l'atrio la bella giovinetta;
ed ogni
notte, quando batte a San Marco l'ora
che la conobbe, ei freme
sull'ampia base ancora,
dalle piante caprine fino all'irsuto
mento,
come uno stel di mammola che si dimena al vento;
e
intanto donna Bella, la fanciulla curiosa,
di messer Diego Alvaro
già da due lustri è sposa.
III
Quando entrò
nel palazzo l'Ebreo conquistatore
tutto mutò sembianza,
tutto mutò colore,
e all'amante di sasso crebber le noie e
il danno.
Tra le colonne, intorno al piedestallo, or stanno
casse
di sego, mucchi di corde e chiodi usati,
arazzi e vecchi mobili
ghermiti o sequestrati,
bottiglie senza tappo, vecchi stocchi
sguarniti,
pelli e corna di buffalo e ermellini ammuffiti,
libri
venduti all'alba da un notaio balzano,
e la sera mutati in vetri
di Murano;
qui, ammonticchiati al prezzo di un bacio o di un
ducato,
la gonna della vedova, l'assisa del soldato;
qui un po'
di tutto e un tutto di niente, a sbalzi, a caso
arraffato
dall'ugna della miseria, e al naso
della beffarda Usura, fior
della fame, offerto!
Quanto agli appartamenti per molti giorni
incerto
fu il novello padrone circa modum tenendi:
eran
tappezzerie, candelabri stupendi,
tele piene del genio di
seppelliti artisti,
dei poveri antenati ambizïosi
acquisti...
Rividero il sereno venduti al forastiero;
e quel
giorno gli scheletri piansero in cimitero,
gli scheletri obliati
dei divini pittori,
cui certo un dì non s'erano pagati che
i colori,
mentre l'ebreo, felice dell'oro conquistato,
d'esserne
debitore ai morti avea scordato,
né un pensier, né
una lagrima, né un fiorellin soltanto
avea, passando a
caso, gettato in camposanto.
Fatto il vuoto, divise l'aule immense
e i saloni,
come se li allestisse per nidi di piccioni,
in
camerette anguste, in stanzuccie pigmee;
lamentandosi molto che
Bacchi e Citeree
e Silfidi ed Amori, sulle volte dipinti,
non
si potesser vendere perché alla calce avvinti.
Si vendicò
tagliandoli coi muri a centellini,
e dandone una parte a tutti
gli inquilini.
E qui vedi una Venere che ha la bella sembianza,
le
braccia e il seno eburneo nella vicina stanza;
qui il piè
di una baccante e là sbuca una cetra,
poi del fanciul
terribile un piede e la faretra,
poi Giunone che al laccio della
parete appresa
ha l'ala azzurra e piangere ti sembra
dell'offesa.
Un tal del primo piano cui toccò in sorte
parte
di un'imagine nuda che non vo' porre in carte,
lagnossi
al proprietario e voleva andar via;
l'ebreo gli rispondeva: "
Questa è un'allegoria,
l'ha pinta il Tintoretto, è
un egregio disegno "
e l'altro a replicargli: " Fu un
pittoraccio indegno! ".
Più di una vecchia cabale
astruse avea cavate
numerando le membra sul capo suo librate,
e
quando un mendicante che stava al quinto piano
vi fu trovato morto
col suo rosario in mano,
" Io bene, io ben sapevalo - ronzava
una donnetta -
quella nicchia portava la cifra maledetta,
tra
braccia e gambe e piedi e dita bianche e scure,
le ho ben contate
un giorno, son tredici pitture! ".
E più il povero
Ebreo non l'avrebbe affittata,
se Steno, il giovinetto dall'aria
sventurata,
dal crin lungo le spalle cadente in brune anella,
non
l'avesse, bizzarro caso, trovata bella,
quando seppe che dentro
v'era stato il becchino.
Steno vi prese alloggio quello stesso
mattino.
V
Bella dama che uscite
dal tempio del Signore,
cui sta ancor forse un'ave sulle labbra
vagante,
bella dama, col viso pallido e l'occhio errante,
senza
saperlo, adesso l'elemosina fate:
quell'occhio vagabondo due
pupille ha scontrate,
quel pallor senza nome le innondava di
cielo.
Oh non troppo correte, non abbassate il velo!
L'uomo
ignoto che segue, come un povero cane,
i passi onde intrecciate le
vostre corse strane,
che per baciar la terra dove l'orme ponete
salirebbe una croce e vi morrìa di sete,
che
toglierebbe il serto di fronte alla doghessa
per deporvelo ai
piedi quando siete alla messa,
è un timido poeta, né
vuol né chiede nulla.
La Musa e la Sventura che l'han
raccolto in culla
gli fur madri operose : giovane ancor,
vent'anni!
Gli eran compagni i dubbii, le noie e i
disinganni...
Oh i suoi canti! caligini cosparse di faville,
raggi
erranti nel buio come fatue scintille...
Se voi li
conosceste!...
Bella, pura, felice
gli appariste una sera,
inconscia amaliatrice,
e rinnegò dolori e disinganni e
noie,
e la vita gli apparve tutta piena di gioie!
Oh come
attese il sole quella notte, vegliando!
Come accolse il suo primo
raggio soave e blando!
O sol! punta spietata fitta alle nostre
reni,
se chi è stanco di passi a risospinger vieni,
a
gridargli: sei vivo, su la croce, cammina!..
Quando porti a un
felice la candida mattina
apparenza di Dio verissima! Da un anno,
bella dama, i pensieri del giovinetto stanno
intorno a voi, dì
e notte : la sua delizia è questa :
possedervi sarebbe, lo
so, più allegra festa;
a lui basta vedervi qualche poco: la
sposa
siete di un vecchio illustre e l'amica pietosa,
tale vi
crede il mondo, e tal, nell'ombra, ei v'ama.
Ma lontana dal tempio
è già la bella dama.
VI
- Di chi è
quella casa? Dimmelo, vecchio.
- Quella ?
- Dove è
entrata una donna. . .
- Affé, la è una
storiella
che mi chiedete, o Steno, pericolosa alquanto;
ma se
voi mi giurate. . .
- Parla per il tuo santo!
- Vi si è
allogato un ricco cavalier di Ferrara,
e vi tien da più
giorni gran tripudio e bambara,
fuorché nell'ore in cui
quella dama...
- O Signore!
- Lo viene a visitare... è
una storia d'amore.-
VII
Lettor, che bella
notte! La luna è argento fino,
le nuvolette invece son
zaffiro e rubino;
come tiepida è l'aura, come tutto
riposa!
Oh l'antica repubblica come dorme! La sposa
dell'Oceano
stanotte si rifiuta all'amplesso,
e il mar, senza rampogne, s'è
addormentato anch'esso.
Però veglian gli amanti ; odi la
serenata ?
Già sospirato ha il fiauto, la ghitarra è
intonata,
e la gondola, nido d'affetto e di armonia,
lungo il
buio canale lentamente s'avvia.
Senti il dolce motivo e le dolci
parole:
" Io son come la zànzera
intorno al
candelabro:
mi struggo a un vago raggio
di neve e di cinabro!
".
" Sporgi al veron la candida
faccia che
m'innamora,
quelle due labbra rosee
fa' ch'io le vegga ancora!
".
" Io son come la nuvola
che assorbe il sol
d'estate:
dileguerò guardandoti,
e morirò di
occhiate..."
Luna, vedi due lagrime cader silenti e sole?
Tu
le illumini in cima di quel palazzo tetro,
e forse le supponi il
scintillar di un vetro...
" Sporgi al veron le piccole
mani,
una sola almeno,
e sembrerà un miracolo
di più
nel ciel sereno".
" E vincerà, bell'idolo,
le
stelle del Signore
se mi farai, schiudendola,
la carità
di un fiore! "
" Io son come il famelico
che muor
sotto la reggia... ".
L'una, mentre la musica, sull'acqua che
nereggia,
lenta lenta svanisce, il tuo raggio balzano
ha
illuminato un fauno di sasso in modo strano;
forse è il
vento che move dall'azzurro ove siedi...
si dirìa che la
statua trema dal capo ai piedi.
VIII
- Chi scelse a
battezzarti questo nome divìno,
mia piccola Contessa, fu un
vate o un indovino?
- Il mio nome di Bella!... furon due tristi
cose,
il tempo e l'abitudine...
- O viole, o gigli, o rose,
o
piume di colibrì, raggi di sole e note
che i serafini
cantano sul carro di Boote,
voi che, il dì delle Palme o il
dì della Madonna,
vi congiungeste in cielo per crear questa
donna,
perché stillar lasciaste sulle sue guancie
altere
tanto pianto di notti, tanto rossor di sere ?. . .
Oh
sorridimi... e serba questo volto allibito
per le ineresciose
veglie del tuo vecchio marito:
ridi, canta, folleggia, perdio!
l'amante io sono,
e voglio il lieto amore, la celia e
l'abbandono!
- L'abbandono!... dicesti un'orrenda parola!
-
Orrenda ?
- Dopo i nostri deliri, quando sola
resto, o
Lionello, e ancora t'ho col pensiero accanto,
né ancor
giunto è il rimorso, né ho ancor pregato e pianto,
lo
sai tu che mi avvenga?... A lungo in queste braccia
bacio e
ribacio e ammiro la tua superba faccia...
- Angeli del Signore!
-
Ma è breve il dolce inganno:
le tue forme sciogliendo
lentamente si vanno...
Pensa, questo palazzo è così
buio e tetro!...
Tu Lionello allora, tu diventi uno spetro,
uno
spetro che fugge, che mi fugge lontano,
ed io tento seguirti e ti
richiamo...invano;
lo spetro è innamorato di un'altra
donna!
- Effetto
di queste cupe stanze: da spetro a
cataletto
il passo è breve! Il conte che qui ti ha
seppellita
di questi vani incolpa terror della tua vita;
oh
foss'egli uno spetro davver!
- Taci!
- Sul mare
conosco
un'isoletta,e te la vo' narrare:
è un giardino,vi cresce il
banano e la palma,
la vita vi è delizia, lusso, sorriso e
calma,
e non vi son mariti né consiglio dei Dieci;
L'amor
libero e santo, e Iddio ne fan le veci...
Spira vento propizio,
fidato ho il gondoliere,
qui le notti son buie, ed io son
cavaliere...
Bella! -
E tacque. La dama guardava il
giovinetto,
fissamente, e dai fregi del serico corsetto
la sua
candida mano da un tremito agitata,
traeva una medaglia di gemme
tempestata.
V'era pinta una veneta faccia, seria, canuta
che
due grandi occhi apriva fra una carne sparuta,
e, in quel piccolo
avello fatto d'oro e d'argento,
pareva dir: son morta, ma veggo
ancora e sento.
- É mia madre...-
E la voce somigliava
un sospiro,
e una lacrima cadde.
Oh anch'io piango,e vi
ammiro,
povere creature, olocausti d'amore!
O lotte del
pensiero, e vittorie del cuore!
Misterïosi lutti nell'anima
celati,
mentre carezze e baci son dati e ricambiati,
mentre il
delirio canta le magiche canzoni,
mentre il corpo tripudia nelle
immense oblivioni!
Donna Bella a che pensa ?... Oh le forme
divine!
E la è degna cornice quel suo profondo
crine!
L'occhio è azzurro di cielo, il labbro è rosa
viva...
Oh come in un baleno tutto il volto si avviva!...
-
Lionello, Lionello!
E allor fu un'epopea.
Come se fosse
d'angeli quella coppia splendea;
e Dio certo, vedendola dall'alto,
perdonava...
Ma in terra era caduto il ritratto dell'ava.
IX
L'uscio tarlato e
nero chiuse a doppia chiave,
e al chiodo che pendeva da una
sconnessa trave
sorrise come al volto di una donna amorosa,
o
alle socchiuse foglie di un bottoncin di rosa.
Poi da un angolo
trasse una corda sottile,
milionesima parte d'una che in
campanile
dimagrò stiracchiata da un monaco scortese,
ora
saran tre secoli morto di mal francese.
L'attortigliò, la
strinse, montò, l'avvinse al chiodo,
e poi la smunta
faccia, muto, cacciò nel nodo...
Ma in quellistante il
sole ruppe una nube in alto,
e un raggio immenso il mondo scese a
baciar d'un salto.
Fu il cader di una maschera, cieca, stonata,
abbietta,
che discopra una pura faccia di giovinetta;
tale il
mondo sorrise e le faccie mortali,
chine ai libri o alla mota,
confitte ai capezzali,
dal pianto affaticate, o róse dalla
noia,
guardaron tutte in cielo e risero di gioia.
L'uomo che si
appiccava gettò la corda e, come
chi, mentre altrove è
assorto, sente chiamarsi a nome,
alla finestra corse, cacciò
la testa fuori,
tra due piccoli vasi di sitibondi fiori,
e
immobile restovvi.
Di nubi accavallate
scorrean cime e
voragini, a trotto, a volo, a ondate,
e un passero, tranquillo
sotto l'orrenda scena,
lieto osservava i piccoli figli seduti a
cena
nel niduccio ravvolto alla vicina gronda;
e, se avesse
cantato il caso di Ildegonda,
di più soavi trilli non
avrebbe guaito,
tra i fumanti comignoli, la molle eco del sito.
X
Il ciel rasserenavasi:
bella, superba e sola
la faccia del pianeta splendea da Chioggia a
Pola;
una striscia d'argento che dal canale uscìa
e
dritta, aguzza, immobile,in alto mar svanìa,
pareva una
gran spada brandita da Cagliostro
contro lascoso ventre di
qualche immenso mostro;
San Marco circondavano i voli dei
colombi,
qualche gufo, fiutando, roteava sui Piombi,
e in aria
si incontravano comandi di nocchieri,
urli di ciurme e strofe di
allegri gondolieri,
canzoni della pesca e nenie del
bucato:
tuttociò, lungamente rifuso e trasformato
a
furia di sbadigli e di malinconie
dai poveri impiegati delle
Procuratie,
arrivava sull'alta finestra al giovinetto
da quel
sole improvviso rapito al cataletto.
Egli era sempre immobile fra
i due vasi languenti,
non so se contemplando l'aspetto dei
viventi,
come re Carlo Quinto dalla socchiusa bara,
o bevendo
il viatico di una memoria cara.
Certo aveva la febbre, ché
non udì la porta
cader sotto un gran calcio, e la sembianza
smorta
non rivolse che all'urto di un cavalier piumato
che,
chiamandolo a nome, gli sorrideva allato.
XI
- Tu, Lionello ?
-
Steno!
- A Venezia, Lionello?
- Abbracciami, collega...
-
Dammi un bacio, fratello!
- Ma chi ti disse...
- Il tetto dove
attaccasti il nido?
Me l'ha insegnato un vecchio che tien bottega
al lido;
fu caso: fra i suoi libri presi un Catullo in mano,
tu
sai quant'io ladoro quel peccator romano!
Lo tengo sempre
meco; ma un ultimo esemplare
che avea comprato a Siena, lo diedi
al mio compare;
or contrattando questo, perché oltremodo
usato,
(Il libro è come il fiasco, mi piace impolverato)
vè che vi leggo un nome...
- Il mio...
- Siam
sempre al verde ?
- La vita...
- É un giocherello!
-
Chi guadagna e chi perde!
- Via, ma vendere un libro che non costa
un ducato...
- Erano quattro giorni ch'io non avea pranzato!
-
Eppur Catullo in ghetto per desinar non vale;
o che gli hai dato a
braccio Virgilio o Giovenale?
- Erano usciti prima,usciti in
processione,
un dopo l'altro, tutti...
- Il tuo bel Cicerone
?...
- Eccolo -
E si toccava la giubba di velluto.
- Davver
non lo ravviso, gli nego il saluto.
E le sante Pandette?
-
Eccole -
E gli mostrava
due guanti in un cantuccio.E l'altro
sghignazzava:
- Così calzano meglio...
- E quel tuo
Quintiliano
legato a ghirigori ?
- É adesso il mio
pastrano...
- Tu hai tutta quanta l'aurea latinità sul
dosso!...
Ma, dimmi,è anch'esso un classico questo bel
nastro rosso ?
- Ah! lavevo scordato!...
E, toltolo dal
collo,
dall'aperta finestra mestamente lanciollo.
- Povero mio,
m'accorgo che tu sei sempre quello!..
- Ti mutasti tu forse? -
IV
Puri amor che
crescete nell'ombra e nel silenzio,
terrene ambrosie fatte di
cicuta e di assenzio,
genuflessioni d'anime dall'idolo
ignorate,
voti, carezze, amplessi, lagrime prodigate
all'idea
d'una donna, amor senza speranze
eppure amor capaci di profonde
esultanze;
che non chiedete l'obolo a Lei pur di un sorriso,
di
uno sguardo che certo sarebbe il paradiso,
e taciti, rodendo il
cor che vi contiene,
valicate con esso alle spiaggie serene;
puri
amor che in silenzio e nell'ombra vivete,
oh non cosa mondana,
amor d'angeli siete!
E certo in ciel si compie una giustizia:
Iddio
premia le spente vittime del lutto e dell'oblio,
e ripara
e punisce le cecità mortali,
e i rossor non veduti e i
disprezzi fatali,
accoppiando le belle ignare ispiratrici
agli
amanti che in terra fur timidi e infelici!
I castighi, là
in cielo, son castighi d'amore.
XII
Era un gaio
cervello
già di togate zucche nella dotta Bologna,
e di
dottori in fieri la gioia e la vergogna;
gran rompitor di
ciotole, gran maestro d'imbrogli,
Satana dei mariti e Messia delle
mogli,
gettando nell'azzurro degli inconsci trent'anni
la
fortuna di Rolla e il cor di Don Giovanni,
vivea la vita come può
viverla un uccello,
in aria, a caso, a voli dal fiore
all'arboscello,
immemore del prima, del dopo indifferente,
pigro,
annoiato, strano, volubile e innocente.
Solea dir d'esser nato
alla vita mondana
dall'abbraccio di un diavolo con una Dea
pagana;
però a far certo il prossimo d'essere un grande
infame,
lo credereste? a volte patito avea la fame
per dar
l'ultimo scudo a un cieco o a un saltimbanco...
Vivaddio! colle
piume in testa e il ferro al fianco,
in quel tempo di balde e
facili avventure,
di follie malinconiche e di allegre paure,
vi
giuro, o mie fanciulle, che, con vostro permesso,
diverso come or
sono, stato sarei lo stesso!
Ora tutto è svanito! e (
perché nol direi? )
i nostri dì son tetri
senz'essere men rei;
nel lenzuolo del Solito sepolta è
l'avventura;
il bardo e il cavaliero davanti alla Questura
in
ginocchio han deposto il brando e il colascione;
il motto erra sul
lastrico del popolo padrone;
tolto è all'oro il tripudio
delle superbe offese,
tolta al vulgo la gloria delle balzane
imprese;
della Corte d'Assise Baiardo è un latitante,
e
Fanfulla è un evaso dal medico curante;
si è sicuri
e difesi, si è posati e dabbene,
parliam di colti allori e
d'infrante catene,
ma interrogate il cuore di tutti, ad uno ad
uno,
e troverete un viscere d'aria e d'amor digiuno!
XIII
I due colleghi a
braccio camminavano; Steno
come un uom strascinato, l'altro franco
e sereno.
- Dunque c'entra un rivale?- diceva il
Ferrarese,-
firmagli il passaporto per un altro paese,
ammazzalo!
la bella s'anco diggià non t'ama,
ti adorerà pel
colpo della tua nota lama.
Le son fatte così; vesti un
abito strano,
accoppa un galantuomo e, se sei bello e sano,
gli
è più che basta, tutte ti apriran cuore e alcova!
Credi
a me...
- Il tuo consiglio al caso mio non giova.
Fosse domani
sola, libera e innamorata,
più non saprei svelarle la mia
fiamma ignorata.
- Ti conoscea poeta, non ti credevo un pazzo...
-
Io la donna sognai non creta e non sollazzo!
quella, il cui nome
al labbro non mi verrà giammai,
era il simbolo puro
dell'idea che sognai;
tu dubiti che m'ami?... forse ch'io mai le
dissi
uno solo dei cieli, uno sol degli abissi
in cui per lei
travota è la mia vita?
- E come
se di te non conosce che
la faccia ed il nome...
- Veder la sua da lungi e lei nomar da
solo,
perché i santi entusiasmi desse a' miei versi e il
volo,
ciò mi bastava! adesso... i miei versi morranno!
-
No, perdio! finché io vivo vivranno e ben vivranno!
Senti,
Steno, ho molto oro, noi siam vecchi all'usanza
di mettere in
comune penuria ed abbondanza;
ci rifarem la cara gioventù
di Bologna...
Tu ti sei rovinato, non averne vergogna,
sì,
rovinato fino all'inedia, o poeta,
per seguir di cotesta tua fatua
cometa
il corso fra le stelle che le girano intorno;
la cometa
si è scelto un astro in Capricorno...
Disperarci per
questo? Eh son tante le stelle,
che per una è da ciuco il
perderci la pelle...
Ma, a proposito, diavolo! una or io ne
scordava...-
Steno senza far motto l'amico seguitava.
-
Volgiamo a manca.
- Dove mi conduci?
- A un negozio
cui ti
potrai rivolgere ne' tuoi momenti d'ozio-
XIV
L'occidente era in
fiamme e Venezia imbruniva.
Qua e là per le finestre
qualche face appariva,
errante, come in mezzo a una carta
abbruciata,
dai pargoli ridenti sul focolar gettata,
quelle
ultime, vaghe, fantastiche scintille
che sembrano una ridda di
monachine brille.
L'acque oscure parevano assetate di foco,
e
fiaccole e lanterne, accese a poco a poco,
vi prendevan la forma
delle cose succhiate.
Le galere di Cipro e di Morea,
poggiate
sull'ancore, dormivano sonno cupo e solenne;
e pei
fitti cordami delle vetuste antenne,
qual per entro ai capelli di
sognanti titani,
certo correan fantasmi di naufraghi ottomani,
col
petto ancor squarciato dalla punta dei rostri.
Era l'ora che i
bimbi han paura dei mostri,
e, a non vederli, il capo caccian
sotto le coltri.
XV
- Che orrendo androne
è questo per cui vuoi che m'inoltri?
-
Seguimi.-
Proseguirono per l'aer pesante e buio.
Steno sentia
qualcosa d'arcano intorno; il buio
gli impedìa di vedere.
Ma cogli occhi dell'alma
vedeva. In quella tragica, misteriosa
calma,
giacean creature umane al suolo; o addormentate
o
speranti nel sonno; certo stanche e affamate.
si udivano respiri
affannosi; talvolta
lo scoccare di un bacio ( qualche donna
travolta
dalla miseria in mezzo a quello stuol di oppressi,
per
mercarne le brame, o per morir con essi );
E forse tra le immonde
capigliature, oh cosa
triste! stavano avvolte pur le guancie di
rosa
di qualche bambinello, nato a far dolce il nido
della
povera madre, e che doman sul lido
stenderà le manine alla
folla ciarliera,
e comporrà le labbra alla prima
preghiera
per cercar l'elemosina!
- È ben cotesto
l'uscio;
ma, a quel che sembra, l'ostrica s'è già
chiusa nel guscio.
Berenice! eh, la vecchia! È il cavalier
Lionello
che vi chiede l'onore di entrar nel vostro
ostello!
Vedrai, Steno, una reggia... ehi la grama
vecchiaccia!
Non son uso ad attendere per veder la tua
faccia;
apri o getto la porta! -
Pur nessuna risposta
Come
al vento d'autunno una tarlata imposta,
sbadatamente chiusa da un
mandriano in viaggio,
tal quella porta offerse a un urto sol
passaggio.
Entrar, ma tosto colti da ribrezzo improvviso,
retrocessero. E Steno: - Santi del paradiso!
È una
tomba cotesta che scoperchiasti!..
- Taci;
questa lanterna
cieca val candelabri e faci,
ma non qui fuor. Rientriamo e chiudi
ben la porta .
- Impossibile.. questo è odor di cosa
morta...
- Avanti, avanti... -
L'altro lo seguì nello
scuro.
- Una mano alle nari, tienti coll'altra al muro,
e non
temere; è rnorto certo il gatto di casa.
XVI
Ed apre la lanterna.
La luce che n'è evasa
saltellando si posa su quattro basse
mura,
dove leggonsi cifre di magica scrittura,
e pendon croci
e teschi e cappelli di preti;
pur nessun che respiri fra le strane
pareti.
Ma Lionello ha nell'angolo scoperto un seggiolone:
- È
là che dorme; andiamola a svegliar colle buone;
tien tu il
lume. -
E accostatisi, la man del cavaliere
piano piano la
testa scosse che, in bende nere
stretta, e china su un mazzo
sparpagliato di carte,
parea sognar. Toccata, cadde dall'altra
parte,
lugubramente. E un soffio esalò dalla salma.
La
carogna turbata par che riacquisti un'alma;
il fetore che l'abita
vuol la quiete profonda:
se lo tocchi, s'ingrossa, come il verme,
e t'innonda.
- Deponi la lanterna e aiutami; la vesta
mi
convien perquisirle...
- Ma chi è dessa?
- Cotesta
tu
già un'allegra e vaga cortigiana spagnuola
esperta all'Ars
amandi più di Ovidio; ora, sola
e vecchia, gironzava
per le strade e le piazze
e stendeva la mano alle belle ragazze.
Queste per elemosina vi lasciavan cadere
un foglietto di
carta... pel damo o il cavaliere,
e talor pel sicario. Questa
vecchia, mio caro,
rinchiude più segreti che messer
Diego Alvaro
Consigliere dei Dieci, te lo dice Lionello,
e
fe' più matrimoni che il Patriarca,
quello che li fa là
in San Marco. Tienle un po' il braccio alzato...
Ecco già
un bigliettino... senti s'è profumato! -
Un mite odor di
viola si diffuse.
- Leggiamo. -
" Se tu o vedi gli dirai
che l'amo,
che l'amo ancora come ai primi dì;
che nei
languidi sogni ancor lo chiamo,
lo chiamo ancor come se fosse
qui.
" E gli dirai che colla fé tradita
tutto il
gaudio d'allor non mi rapì;
e gli dirai che basta alla mia
vita
l'ultimo bacio che l'addio finì!
" Nessun lo
toglie dalla bocca mia
l'ultimo bacio che l'addio finì!...
Ma
se vuoi dargli un altro in compagnia
digli che l'amo e che
l'aspetto qui ". -
- Questa donna ti giuro che per me non
farebbe:
la dev'essere un ninnolo di miele e di giulebbe;
amo
le forti, e tu? Ecco un altro messaggio:
" Doman, Lenuccia
mia, gli è dì di festa,
e il mio padrone è
ammalato a palazzo."
Nella sua gondola
vuoi che usciam
bellamente in Canalazzo?
" Mi adatterò la sua parrucca
in testa,
ne porterò la spada e il giustacuore,
le
piume, i ciondoli,
e l'amante parrai di un senatore!
"
L'anima ho piena di versi rimati,
e porterò con me la mia
mandòla:
parole e musica ti alletteran come una cosa
sola!
. . . . . . . ".
Leggiam quest'altro -
" Il
bimbo
viaggia in fondo al mare
e l'alma sua nel limbo... ".
-
Infamia!
- Oh Lionello, usciam da questo orrore!
Ho la testa
che bolle, e mi si spezza il cuore;
certo un malor ci aspetta...
-
Un malore! t'inganni.
Qui un biglietto mi attende per cui darei
vent'anni
di sonno e di bagordi... eccolo!... affediddio,
viva
la Berenice! è ben cotesto il mio!
Grazie, povera morta;
che il ciel vi ricompensi,
né ai vostri peccatucci il buon
Iddio ripensi. .
- Bada, un'ombra è passata sul muro...
alcun ci spia.
- Oh fosse un sì che scrive la contessina
mia!
- Bada, l'ombra si appressa.
E la lanterna cieca
drizzò
alla porta. Videro corne una forma bieca
di cui gli occhi
soltanto apparivan.
Lionello ha sguainata la spada.
- Spegni
il lume, fratello -
Ma la strana figura s'era già
dileguata.
Allor dall'atra stanza, di fogli seminata,
chetamente
sortirono; ripassar per l'androne
in cui parea vagasse come
un'alta visione
di mister, di delitti, di stanchezza e d'amore,
e rividero il cielo tutto calma e splendore.
XVII
Genti pie che
pregate prima di porvi a letto,
non pregate pei morti che stan
nel cataletto
non pregate per gli ospiti del tenebrore eterno,
che
dal mondo partendo sono usciti d'inferno.
Stesi placidamente e
colle braccia in croce,
della sacra Natura ascoltano la voce:
senton la vita immensa che si prepara al sole,
han nei
capegli l'umide radici delle viole,
han nei pugni gli steli che
diverranno abeti;
i morti nella terra son tranquilli e lieti.
Genti pie che pregate quando la notte cade,
non pregate pei
morti che bevon le rugiade,
che si mutano in foglie, che si
mutano in fiori;
non pregate pei giunti, pregate pei viatori,
per
i vivi pregate quando cade la notte.
E allor che i Mali intorno
scaraventansi a frotte,
e par che Iddio dimentichi le misere
creature,
come s'Ei pur dormisse nelle sue regge oscure.
Pregate
per le madri che aspettano; pregate
per le livide teste nel gioco
ottenebrate;
per la donna che stende le braccia all'uomo ignoto,
pel povero poeta, altro prigion del loto,
che assalta il ciel
coll'anima che lagrima e fa sangue;
pregate per la turba negli
ospitali esangue,
sovra cui, col crepuscolo, peggior dell'agonia,
la memoria s'abbatte e la malinconia;
per gli amanti pregate,
scongiurate il Signore,
che creò la Sventura quando creò
l'Amore!
XVIII
Benché
adorna di pelo molto canuto e raro
era bella la testa di messer
Diego Alvaro;
quando uscia dal Consiglio nell'ampia toga
bruna,
pareva in lui vivente la veneta fortuna.
Camminava
securo, parlava ad alta voce,
era come il leone benevolo e
feroce;
l'amor della repubblica, l'amor della sua Bella,
non
aveva altre gioie, non aveva altra stella.
Or s'è mutato :
attoniti se ne accorsero i servi ;
un tremito convulso, cupo, gli
agita i nervi;
non parla più, ma sembra interrogar cogli
occhi
chi gli sta intorno; a volte, come se un serpe il
tocchi,
balza repente, e corre per le stanze, e si affaccia
agli
specchi, e si scruta nella pallida faccia.
Ier prendendo commiato
dalla sposa, la mano
così torvo le strinse, e un mormorìo
sì strano
lasciò uscir dalle labbra che donna Bella
pianse.
Staman, quasi ruggendo, l'anel di nozze infranse.
XIX
- É un sì!
- gridò Lionello, e fu un grido sì forte
che
rintronò per tutte le taciturne porte
del palazzo affittato
dall'ebreo di Rialto.
Certo il Fauno guardava il cavalier
dall'alto:
l'eco di quella voce, fra le sue forme desto,
errò
nel peristilio, a lungo, oscuro e mesto.
Ma il cavalier, beato
come un chierco in vacanza,
gli saltava d'intorno in forsennata
danza.
- Stanotte! Ella acconsente... mi seguirà
stanotte!
Ah messer Diego Alvaro! le Fondamenta Rotte
vedran
sciogliere un legno a insaputa dei Dieci!
Ben n'era certo! e tutto
a predispor ben feci:
a quest'ora Consalvo già appresta;
donna Bella
finge di coricarsi e rimanda lancella...
Grazie!
cortese lampada che a legger m'aiutasti.
Scriveremo un poema per
narrare i tuoi fasti!
Insiem lo scriveremo, mio dolce Steno,
insieme!
Perché a te pur l'amore, perché a te pur la
speme
dee ricantar la bella canzon dei dì passati:
va',
raccogli i tuoi versi, saluta i tuoi penati,
e qui mi attendi; un
fischio ti avviserà; d'un salto
nella gondola sei, e
domattina in alto
mar, sulla mia galera che fugge in Orïente,
al
suon della mandola, in faccia al dì nascente,
alla più
vaga donna ti inchinerai del mondo!
Solo il vederne gli occhi ti
rifarà giocondo;
e poi, giunti al paese là delle
eterne rose,
ti sceglierai fra quelle giovanette amorose,
per
viaggiar nei piaceri, qualche pietosa stella...
La mia, sappilo, è
il sole... é la contessa Bella!-
Tutto ciò in un
minuto fu detto, e senza pure
guardar l'altro nel viso, via per le
strade oscure
Il cavalier disparve.
XX
Tutti abbiam nella
vita
L'ora fatal che resta, come un negro stilita,
sul nostro
capo, immobile, finché andiam sottoterra;
l'ora in cui
luom s'accorge che la pugnata guerra,
le lagrime versate, le
sciagure sofferte,
l'ostie fatte coi lembi del cuor, sull'are
offerte
del suo triste cammino per questa scabra valle,
eran
peso leggero alle sue scarne spalle,
eran foglie di rosa. Da
quellora (deh! amici
di me non vi burlate perché
siete felici!
Essa vi attende al varco, è il fato
universale,
il lotto irrevocabile del sempiterno Male)
da
quell'ora il suo sguardo è confitto alla mota,
e la tomba è
vicina.
Dimmi, pupilla immota,
qual fu per te?... Fu lora
che conoscesti l'Eva,
e ti impietrì una vipera che un
angelo pareva.
E qual per te, fanciulla languente come un'ava?
Fu
l'ora in cui la povera tua madre agoninava.
Qual per te, vecchio
curvo come un tronco abbattuto?
L'ora che solo, attonito, coi
mendichi caduto,
come in sogno fra i passi dei cittadini
errante,
il primo obol sentisti nella mano tremante.
E per te,
è questa, o Steno!
XXI
Egli è là
steso al suolo.
il manto ha già le pieghe del funebre
lenzuolo,
la faccia ha già composta, quasi, alla pace
eterna;
e negli occhi che immobili affisan la lucerna,
palpitante
di fievoli raggi e morente anch'essa,
sembra la arcana calma
dell'infinito impressa.
Oh quel raggio di sole, perché
giunse in quel punto ?
A quest'ora ei sarebbe un pallido
defunto,
obliante e obliato; sarebbe all'ombre sceso
da men
feroce strale in meno all'alma offeso!
Veder l'astro cadere dal
suo cielo pudico,
perder l'idolo, e perderlo per la man di un
amico
che lo strappa all'altare per gettarlo all'alcova!
Oh fu
ignobile il gioco, fu d'inferno la prova,
raggio dal ciel caduto
quand'ei forse presago,
già avea l'impronte al collo
dell'imprecato spago!
E or l'orribile morte pur gli è
presso, e nol vuole.
Come ad ebro sospinto in rapide carole,
tutto
che ingombra il sordido peristilio traballa
intorno a Steno,
orribile famíglia macra e gialla.
Son gli stocchi che
guizzano come in mano a ribelli,
son gli arazzi che sembrano ali
di pipistrelli;
son le gonne vendute dalle Circi del ghetto
che
gli danzano in giro e gli sfiorano il petto;
son le coltri,
lasciate dalle tremule vecchie,
che passano, gettandogli vaghe
preci all'orecchie;
e in la cupa vertigine, fra le larve e il
fetore
delle casse di sego, allo scoccar dell'ore,
oh
meraviglia! è il marmo che si muove, è il macigno
da
cui sembra svanito il cinico sogghigno,
è il Fauno che si
abbassa sulla testa di Steno,
e par dica : - Per piangere, ora ho
un compagno almeno!
XXII
Dio che misura il
vento all'agnello tosato
perché all'uom non misura, quando
il verno è arrivato
de' suoi dì tempestosi, le
bufere del cuore?
Perché, se su lo sterpo inaridisce il
fiore,
l'amor non appassisce sotto i capelli bianchi?
Ah,
piuttosto una serpe mi si configga ai fianchi
che alloggiarvi il
bell'angelo dei celestiali affanni,
quando dal mio battesimo
conterò sessant'anni!
Cavalier di ventura cerca castel
fatato;
ed è triste ospitare in tugurio gelato
chi fu
avvezzo alle fiamme dell'ampio focolare.
Sei vecchio, e chiedi
amore, e ti ostini ad amare?
Sei vecchio, e dentro il pugno pur
stringi il frutto sacro?
Vuoi che il prete ti trovi, all'ultimo
lavacro,
dell'odor della donna tutto olezzante ancora:
Più
misero del gufo quando spunta l'aurora!
É il crin biondo
del giovane che te al buio rincaccia,
è la sua balda gioia
che ti offusca la faccia.
Tu spronalo, dimentica, chiudi gli
occhi, ti abbranca
alla maga illusione!... vestal sommessa e
stanca,
vegli una figlia d'Eva l'imbiancata ara tua...
E doman,
dietro quella, tu scoprirai la sua!
XXIII
Povero conte
Alvaro!... ecco ci pensa la sera
(era già ben lontana da
lui la primavera
e la volubil ridda delle ore serene)
in cui
scoprì la blanda fanciulla, e nelle vene
gli rifluì
l'antico nobil sangue, e gli parve
rivedersi d'intorno
dell'infanzia le larve,
E che fosse il baleno di un attimo
passato
dai lontani, beati dì che già aveva
amato...
Ei passò fra i garzoni della fanciulla al
fianco,
poscia sentì il profumo del suo bel seno bianco,
poscia baciò la cara paradisiaca faccia,
poi l'ideal
creatura si sentì nelle braccia;
ma sempre, e nelle feste
quando un altro venia
a invitarla alla danza e insieme a lei
sparia;
o alla messa, se alzava dal sacro libro il volto,
e
nell'aurata alcova quando, tra il crin disciolto,
vedea nel sonno
immergersi la sua pupilla brana,
al chiaror di una lampada mite
come la luna;
sempre, ovunque, all'orgoglio, alla dolcezza
vaga
del possesso invidiato e della voglia paga,
nell'anima del
vecchio mescevansi i pensieri
surti come fantasmi, il primo dì,
fra i ceri
della chiesa auspicante alle sue nozze, quando,
dopo
i motti latini, il prete venerando
avea detto al bell'angelo : "
Voi beata tre volte,
o fanciulla, cui Dio, in un sol uomo
accolte
le virtù riserbava di un padre e di uno
sposo!..."
Padre!... Padre!... il più augusto dei nomi
al vanitoso
vecchio suonò bestemmia e vituperio, e in
cori
gli accoppiò, nodo orribile, lo spavento
all'amore!...
Or quel prete è sepolto sotto le zolle
mute,
e il conte Alvaro, a prezzo dell'eterna salute,
vede,
ancor più beffarda, la sua disciolta creta,
e vorrebbe
coll'ossa dell'infausto profeta
farsi una clava e correre per il
mondo con quella,
inzuppata nel sangue della contessa Bella.
XXIV
Dimmi, santa
memoria del mio più dolce amore,
dimmi come a Lionello
battea frattanto il core!
Solo colla sua gondola, tacito,
palpitante,
attendeva nell'ombra la sospirata amante...
O
minuti divini di speranza e dubbiezza,
non vi valgono quelli della
secura ebbrezza,
come non vince il sole del meriggio possente
il
mite oro onde l'alba inghirlanda l'oriente!
Attendeva nell'ombra,
presso la riva, a pochi
passi dal gran palazzo di Don Dïego.
I fochi
n'erano spenti; solo da una rossa cortina
un barlume
che andava e venìa, peregrina
facella, certamente in mano
alla contessa.
S'apre una porticina... alcun ne scende, è
dessa.
Un baleno, ed ei l'ebbe nelle braccia.
- Se t'amo!
-
Angiol mio!... come fredda...
- Non è nulla, fuggiamo!
-
Perché tremi ?...
- Scoperti... ah! è già
tardi!-
E svenuta
rotolò dentro il felze.
Or
Lionello, t'aiuta!
Tre gondolier stemmati guidano alla
vendetta
l'uom tradito... t'ingolfa dove l'acqua è più
stretta,
vola, devia, ti perdi nei laberinti oscuri,
cerca
aiuto alle mille convessità dei muri,
alle volte dei ponti,
ai trabaccoli vuoti;
che il nemico non senta ove il remo
percoti,
e, ora a destra, ora a manca, come guizzo di lampo,
lo
abbarbaglia!...
Sventura!... non più speme di scampo!
XXV
Un grido acuto,
lungo, angoscioso, la oscura
squarciò calma notturna. Di
livida paura
ansimante, l'Ebreo, signor di quel palazzo
da cui
la mia leggenda prese il suo folle andazzo,
si gettò dalle
coltri e lanciossi al verone.
In quel punto una gondola
costeggiava il portone.
E il grido non finiva : - Steno! Steno!...
fratello!-
Ritti in fronte i capegli, allor l'Ebreo,
zimbello
spesso dei sogni, vide uscir sulla scalea
uno
spetro.
La luna sul suo viso splendea
e splendea sulla
gondola.
Il remator gli porse
la man; la sua lo spetro
atterrito ritorse.
(- Se lo spetro ha paura, gli è che
l'altro è Satàno-
pensò l'Ebreo).
Quand'ecco
sull'acqua e non lontano
una face, e un sommesso vociar di
gondolieri.
I due sotto il verone, fantasmi cupi e neri,
s'eran
stretti a colloquio.
A un tratto, quello uscito
dal palazzo,
come abbia terribil cosa udito,
si slancia nella immobile gondola,
afferra il remo
e, col ringhio di un veltro cui tocchi il colpo
estremo,
la sospinge...
È sparita.
XXVI
Lionello è
solo. Il conte
l'ode, rivolta all'atrio del palazzo la fronte,
dir
con voce secura e gentil: - Donna Bella,
volger piacciavi a manca;
salite, e la mia cella
troverete dischiusa. Io vi raggiungo
tosto.
Non finì : che Don Diego, con uno sbalzo,
accosto
gli si era piantato. L'altro ha snudato il ferro,
e sta
innanzi alla porta come un tronco di cerro.
Orribile minuto!
Quel
vecchio dalle braccia
conserte al petto, immobile e taciturno, in
faccia
non ha pinta la rabbia, non ha pinto il terrore,
ma un
alto, inenarrabile, sterminato dolore.
Non trema, ma i suoi labri
dalla febbre riarsi
somigliano a due belve che anelino a
sbranarsi.
Ha stretti i pugni e stillano sangue. Oh pietà!
Gli spunta
dalle ciglia una lagrima, e sul giovin le appunta.
-
Dio del ciel! Come bello, come è giovane e bello!-
Ciò
non disse, pensò ; poi proruppe :
- Lionello,
per la tua
madre morta, per l'orror dell'inferno,
per l'angelo custode che ti
amica l'Eterno,
giurami che fu un filtro che te la diè in
balìa,
che un maleficio ha vinto la creatura mia,
ch'ella
è innocente...
- Conte, rispose il giovinetto,
non
conobbi mia madre, l'inferno ho in gran dispetto,
né
posseggo, ch'io sappia, amici in paradiso.
Da onesto cavaliere la
contessa ho conquiso,
e or vi prego osservare che m'ho un ferro
snudato,
che il mio custode è questo, e che al rezzo
gelato
potrebbe irruginire. Ciò mi dorrìa da
senno.-
I gondolier stemmati partono a un muto cenno,
e già
nell'aria tacita sfavilla un altro brando.
XXVII
Or tutto da quei
petti, fuorché il furore, è in bando.
- Ferro e
inferno! cotesta, e quest'altra ripara!
- Dalla man di un
vegliardo tu a darle meglio impara!-
E non son più due
spade, son due lampi che guizzano;
or volano, or s'abbassano, or
rotano, or si drizzano,
or si arrestan di un tratto...
Allor
potevi udire
i fiati ansanti, e credere che a sceglier chi
colpire
l'invisibile Fato fosse in mezzo, indeciso.
- Tu fai
sangue...
- Tu menti!
- Già la morte hai sul viso!
-
Vecchio, son gioia e amore, e a te sembran la morte ? -
Non
avesse proferta l'ingiuria!
Come sorte
il boato che annuncia la
rabbia del vulcano,
dalle fauci del conte, un urlo uscì...
Di
mano
sfugge il ferro a Lionello che china il capo e cade.
Pur,
mentre il sonno eterno freddamente lo invade,
non lo lascia la
balda fierezza indifferente.
- Fu un bellissimo colpo, messer -
dice il morente -,
se non fossi obbligato a partir, giuro a
Dio!
che darei mille scudi per impararlo anch'io.-
Poi con voce
più fioca, riprese:
- Alla malora!
Facciamo un po' di
bene, almen nell'ultima ora...
Don Diego... non cercate madonna in
questa casa...
quando mi raggiungeste... ella era già
evasa...
Buona notte... alcun soffia davver sull'alma mia...
Non
temete per Bella... è in buona compagnia. -
Così
morì Lionello, cavalier ferrarese.
XXVIII
Quelle
estreme parole non le ha don Diego intese?
O credere non vuole che
Dio possa far tanto
per strappar dalle viscere di un uom l'ultimo
pianto?
Perché nell'atrio oscuro s'inòltra, e
brancicando
per l'ingombro cammino colla punta del brando,
al
livido barlume dell'imminente aurora,
attonito, atterrito, l'aula
squallida esplora?
Un'arcana potenza lo strascina; il suo
passo
l'eco fievole sembra invitar: fra l'ammasso
lutulento
s'innalzano, come in sogno, figure
che gli fan cenno, e sfumano.
Egli vacilla, eppure
retroceder non vuole : non può,
forse!
Repente
gli appare il Fauno.
Orrore!
Gli si
schiara la mente,
riconosce il palazzo dove Bella ha incontrato
e
chiesta al padre.
È questo il portico incantato
per cui
passò, premendo il suo braccio di neve,
braccio di fata,
ahi lasso! di una piuma men greve...
Scorser due lustri appena, ed
era l'ora istessa!
Come splendean le faci! Con che fronte
dimessa
qual per pudore inconscio, accanto alla sfacciata
nudità
di quel Fauno era colei passata!...
Quel Fauno!. .
Ah! fuggi,
fuggi, misero conte Alvaro!
A sollevar le nubi del tuo passato
amaro
non sei solo qui dentro... fuggi... un mister qui
regna...
di tremuli vapori l'aria fosca si impregna...
par
profumi l'ambrosia!
Miracolo!
Che avvenne?
. . . . . . .
La
leggenda s'arresta a un segreto solenne:
come cadder dall'alto di
San Marco sei ore,
il palazzo fu scosso da un immenso fragore.
XXIX
La marina rifulge
simile a terso argento;
non un fiocco di nube, non un filo di
vento;
l'alcïon che coll'ali sferza l'acque tranquille
le
increspa e, alzando il volo, vi fa cader scintille.
Libellule e
farfalle i fiori hanno lasciati
e, attratte dalla calma, i deboli
meati
cimentan per vedere negli azzurri cammini
rotear
gaiamente la danza dei delfini...
Empie un alto riposo l'Universo
ferace,
tutto il ciel dice : Amore! tutto il mar dice : Pace!
XXX
Poiché
il lido è scomparso, poiché nulla ne appare
Steno
lascia alla forcola il remo.
Il cielo e il mare
e il fatale
amor suo!
Tutto il resto è caduto.
Bella è là
dentro, ignara dello scambio avvenuto;
tanto terror la prese che
ancor non mosse accento.
Il giovinetto trema come una foglia al
vento,
e, offrendo in olocausto l'anima al suo buon
santo,
rattenendo il respiro e rattenendo il pianto,
quasi
aprisse la porta di una chiesa, la porta
del felze
schiude.
Immobile, bianca come una morta,
Bella a lungo lo
fisa, poi guarda intorno... sola!
Indietreggia, fa un cenno, ma al
labro la parola
le si gela, e qual vinta da un affanno deliro,
si
copre il viso e cade.
Non han pure un sospiro
i malor
sterminati.
In ginocchio, con voce
che sembra uscir da un
tumulo, e colle mani in croce,
così favella il misero:
-
Madonna... non temete
se a voi davanti un povero sconosciuto
vedete...
Fu Lionel, per salvarvi, che mi affidò quel
remo...
O, forse, Iddio! -
La dama, con uno sforzo estremo,
solleva il capo e volge gli occhi sullo straniero
che segue:
-
Perdonatemi... fui troppo ardito, è vero,
ma era grande il
pericolo... e poi... benché la morte
già mi fosse
vicina, sentìa che il braccio forte
abbastanza per trarvi
in salvamento avrei...
I più felici istanti vissi dei
giorni miei;
or Lïonello certo non tarderà a
venire
col legno... e partirete... ora posso morire...
No, non
è inganno: a Steno già già sfugge la vita,
e
la contessa Bella, trepida, impietosita,
come attratta da un
fascino dolce e misterïoso
gli solleva il bel crine che quasi
ha il volto ascoso,
e,
- Vi conosco! - esclama - giovinetto,
quel nastro
ch'io perdetti alla messa, l'anno scorso...-
Se un
astro
fosse disceso sotto le pupille di Steno
dippiù
non brillerebbero; ma l'ansia del suo seno
or si è fatta
terribile.
- Fu raccolto da voi,
e da lontano sempre mi
seguiste dippoi...
Perché ? -
Due grosse lagrime fur la
risposta.
XXXI
Ignoro
ciò
che farebbe quella ch'io senza speme adoro,
ove per l'amor suo me
trapassar vedesse.
Non avrei meraviglia s'ella fra sé
ridesse!
Molte ridere ho viste, mentre, in fondo all'oblio,
v'eran anime umane maledicenti Iddio,
e pugni che cercavano la
pistola o il pugnale...
Ma digredisco ancora, e in questo punto è
male.
XXXII
Che vide allor
l'ascoso occhio dell'Infinito?
Piansero i cherubini, su in ciel,
mostrando a dito
quella barca perduta sul lontano
emisfero,
picciola tanto eppure contenente un mistero
più
di una culla dolce, più buio di un avello ?...
Solo forse
nell'aria qualche migrante augello
tentò un trillo di
gioia, quando quelle due teste,
in così immensa calma
gravide di tempeste,
mirò l'una ver l'altra chinarsi, e
l'occhio ardente
cercar l'occhio di affanno e di languor fulgente;
e già stese le braccia, ed avida una bocca
del contatto
supremo da cui l'amor trabocca,
pender da un'altra attratta dallo
stesso desio!...
Miserere!... al poeta non concesso è
l'oblio...
Come offusca lo specchio di un bambolo il respiro,
come sfoglia la rosa un placido zeffìro,
così
l'ora, il minuto, l'attimo sciagurato
può nel cor che pel
Bello e per il Giusto è nato
avvelenar la santa semenza del
futuro!...
Quanti corron baleni dalla luce allo scuro?
Povero
Steno!... è dessa, la blanda incantatrice,
quella che segui
estatico da un anno, ed è infelice
come lo fosti, e è
tua!...
Vedi se la Sventura,
questa provvida Erinne che per il
ciel ci appura,
non affratella; vedi se non è premio il
fine
di chi lieto sul cranio si conficcò le spine;
vedi,
sol due parole, sol due lagrime, e tutto
che di smanie ti pesa
sull'anima e di lutto
si svelò nel fatidico animo
femminile!...
É ben dessa, la donna sopra tutte gentile,
è
ben dessa, o poeta...
Ma quel vecchio ti disse
come occulta ai
convegni di uno stranier venisse;
è la contessa Alvaro, ma
sotto al suo balcone,
hai sentito alitare la tenera canzone;
è
l'idol tuo, ma ruggono ancor nel tuo cervello
le sonore risate
del povero Lionello!...
XXXIII
Oh sì
beati i morti che bevon le rugiade...
Chi saprà dir se in
mare ei si getta o vi cade?
XXXIV
Il mare è
generoso come ogni cosa grande:
ama tanto la terra che gonfio in
lei si espande;
della rondin che porta dall'uno all'altro lido
le
querule speranze e la pietà del nido
l'ali cogli
infallibili aliti suoi distende;
ciò che cade disprezza il
mar che all'alto tende:
quando l'albero è infranto e
sommersa è la stiva,
li rifiuta e, sdegnoso, li rimanda
alla riva;
e vi getta le perle e le conchiglie, e, chino
come
sul formidabile specchio del suo destino,
l'uom su quel glauco
abisso, non sa, triste ed anelo,
s'esso mai non racchiuda più
misteri che il cielo.
E il mar conosce l'uomo più che l'uom
nol conosca;
ond'è che dal profondo della sua valle fosca
è
risospinto il naufrago alla luce del sole.
XXXV
- Troppo tardi!
-
Di Steno fur l'ultime parole.
E sparì. Mie signore
dalla cera stravolta
perché, mai non avendo che un amante
alla volta,
già m'aspettate al varco per gridar: "
L'eroina
fino a qui perdonabile or del tutto rovina,
ché
fra Steno e Lionello si appiglia all'uno e all'altro ".
V'ingannate,
signore: la Dio mercé son scaltro,
né saprete che
avvenne nel cor di Bella Alvaro.
Sol vi dirò che quando il
freddo corpo ignaro
a fior d'acqua riapparve, sulla faccia
spetrale
del morente poeta cadde un bacio...
XXXVI
Fatale
notte!
notte di incanti e meraviglie!
Un grido
sommesso, dai canali
più spopolati al lido,
corre di bocca in bocca nella folla
atterrita.
Fu trovato Don Diego disteso e senza vita
sotto un
Fauno di marmo dalla base travolto!
I pescator di Chioggia, collo
stupor sul volto,
han portato un cadavere che gettò la
marea,
e mirabile a dirsi! quel morto sorridea!
E sulla
spiaggia è un premersi di mozzi e di nocchieri,
dai
berretti turchini e dai capucci neri,
che non san per qual strana
avventura di mare
una gondola errante sull'orizzonte appare.
E
così ben si aggruppano le sussurranti tornie
e v'è
tanta dovizia di colori e di forme,
da innebriar di gioia l'anima
di un artista.
A mezzodì la gondola si perdette di
vista.
PAESAGGI
A CARLO
MANCINI
I
Era un parco antico e
squallido
da molt'anni abbandonato;
desolato
come un campo
di battaglia,
pien di nidi, e rami e zolle,
come un colle -
orïental.
Querce ed olmi e abeti e frassini,
in ferace
abbracciamento,
sotto il vento,
si movean come un sol albero;
e alle nubi, augusta e folta,
l'ampia volta - era guancial.
E,
disotto, eran rigagnoli
zampillanti in vaghi suoni
pei burroni
;
e, con gesti da cadaveri,
tronchi fracidi riversi,
e
cospersi - d'alghe e fior.
Eran templi d'erba e d'ellera,
gallerie
di clematidi,
foschi siti ;
trasparenze glauche ed
umide,
d'ombre tremule rabeschi,
toni freschi - e toni
d'or.
Compagnie di strani Fauni,
su marmorei
piedistalli,
scabri e gialli,
i sentier ne sorvegliavano,
e
specchiavansi agli stagni;
mentre i ragni - erranti ordir,
fra
quei menti aguzzi e lepidi,
si vedean le argentee reti;
e,
faceti,
gli augelletti si posavano
su quei pugni irsuti ed
alti,
a far salti - ed a garrir.
Ai meriggi, alto
silenzio
incumbea sulla riviera;
se non era
il cader di un
frutto fracido
che facea, nell'acqua immota,
una nota - e
nulla più.
I tramonti vi eran tragici;
ombre orrende,
incendii immani!
Draghi o nani
somigliavano gli arbuscoli,
e
i grandi alberi giganti
inneggianti - a Belzebù.
Il
viator che, a notte, rapido
presso il parco transitava,
palpitava
;
si sentìa sul viso battere
come scosse l'aure dense
da
ali immense - di sparvier.
Né fanciul di nidi in caccia,
né pastor, né mendicante,
né brigante,
né
giammai di amanti coppia
(tanti spetri vi eran corsi!)
osò
porsi - in quei sentier.
II
L'uom se ne va senza
indagar l'arcano:
giunto alla meta, al teunine abborrito,
al dì
che tutto strugge,
si accorge di aver stretto nella mano
un po'
d'aria che sfugge.
Egli, o s'illuda alle apparenze incerte,
o
preghi, ignaro del Nume, o allibito
sghignazzi in faccia al
cielo,
o del Real dorma sul seno inerte,
vive e muore in un
velo.
I suoi piacer sanno di tosco, i mali
gli aizzan l'alma
ai giubili vietati
che presente e non trova:
è dalla
culla all'avel (due guanciali!)
ciò che sempre s'innova.
Carlo, ne san più assai gli immensi boschi
sovra cui
sono i secoli passati;
dove, immobile e chino,
al suon dei rami
palpitanti e foschi,
meditava il bramino.
Di certezze più
ricca è la brughiera
che, a dispetto dei geli, eterna il
fiore
del luppolo e del timo;
sa dove porta la regal riviera
le
sue pietre e il suo limo.
Pane immortale, fra le biade,
irride,
coi suoi cori di Fauni, al mietitore;
lo stagno, a
cento a cento,
cader dal fiero campanil rivide
le crocette
d'argento.
E la montagna che si specchia al lago
vince in
gloria la Vénere di Milo:
prima che il greco
artista
sfidasse il sol colla divina imago,
di quel masso alla
vista,
che stendea lungo il limpido orizzonte,
sotto il raggio
lunar, l'ermo profilo,
qualche pastor poeta
fermò la
greggia e, colla gioia in fronte,
disse : "È costì
la meta!".
Sì, ciò che l'uom calpesta e per
cui passa
senza tender l'orecchio e alzar le ciglia,
ciò
con cui io favello
pel tramite dei versi, e in te trapassa
pel
veggente pennello,
Carlo, è un tesoro che ci ha dato
Iddìo
come ci diè gli amici e la famiglia!...
Oh!
dimmi, quante volte
ha le tue fedi un blando nuvolìo
nelle
sue spire avvolte!
Dimmi che cosa sa narrar la terra
dissepellita
dall'aratro appena,
quanti avvisi divini
la primavera dal suo
sen disserra...
Dimmi i cenni marini!
Spesso io mi curvo al
tripode profondo,
atomo qual mi sono: e l'alma scena
m'agita e
mi sublima;
e mi inabisso nei mister del mondo
per risalirne in
cima!
Un dì (lontano come i dì felici)
per una
landa erravo ove tu avresti
una tela eternata;
e pensavo a mia
madre ed agli amici,
e alla patria lasciata.
Trovai quel
parco. In mezzo era un castello:
di fulgori splendean biechi e
funesti,
pel tramonto, i suoi vetri.
Là stetti e appresi
ciò che fosse quello
ch'altri chiamava: spetri.
III
Lungo il viale,
per
i viottoli,
nelle sale,
in mezzo ai portici,
dalla freccia
delle aguglie
fino all'ultima
corteccia,
dove
intreccia
la sua feccia
il ramingo
scarafaggio,
perché
un raggio
dell'albor
vi dipinga
perle ed or;
nelle
ogive
che si abbracciano
più lascive
delle Naiadi
;
nelle grotte
che somigliano,
quando è squallida
la
notte,
a una botte
dove, a frotte,
istrioni
con
megere
vanno a bere;
sul manier,
nel vallone
torvo e
ner;
per le vaghe
latitudini,
per le plaghe
che si
incurvano,
trasparenti,
sulle cerule
zone roride
fuggenti,
dove i venti,
caldi e lenti,
van dicendo
alla
rugiada
(ché non cada
pria del dì),
la
leggenda
delle Urì ;
dappertutto,
in terra e in aria,
l'alto lutto
ed il silenzio,
le movenze
spaventevoli
e
le magiche
apparenze,
son parvenze,
son coscienze,
son
memorie
palpitanti,
favellanti
in amistà
della
storia
d'altre età!
IV
Vedi
la selva delle quercie estatiche
drizzar nel buio le braccia
ritorte,
funebre asilo di civette e d'upupe
in vago sonno
assorte?
Le diresti Titani, a cui l'olimpica
ira inchiodava i
piè possenti al suolo,
da mill'anni seguenti delle nuvole
e
invidianti il volo.
Sai perché sì lontano i rami
allungano
dal poderoso tronco?... Un dì, la plebe
che
le giovani piante errar vedevano
per le feraci glebe,
intenta
ai riti della bionda Cerere,
balzò alla picca, alla
corazza, al brando,
e si accalcò dinnanzi a un frate
pallido
che proclamava un bando.
Poi, fu un urlo terribile: e
partirono.
Le alte cime mirâr nel polverìo
quei
mille e mille all'oriente perdersi,
cantando preci a Dio.
Non
più brillar di falci in mezzo all'alighe
né vociar
di bifolchi, e comitive
tornanti a sera con a spalle i
pargoli;
non più donne giulive,
inghirlandate di spiche
e di mammole!...
Sol qualche vecchio errante,
all'imbrunire,
sovra cui la tristezza, colle tenebre,
lenta,
parea salire.
Muto il castello, deserto il tugurio!
Si sentìa
che la vita in altra terra
battea, che tutte avea rapite
l'anime
quella lontana guerra.
E fu allor che alle quercie malinconica
si
fe' la balda gioventù ferace:
però
pensâr che, dopo qualche secolo,
dovea
tornar la pace;
che
popolata rivedrian di mandrie
la
valle, e che il meriggio alla frescura
ricondurrebbe
delle ombrìe balsamiche
una
gente futura.
Ed
assorte in pensier di spaventevoli
colpi
di scimitarre e catapulte,
in
mezzo all'alta noia ed al misterio
delle
camgagne inculte,
intrecciarono
i rami, e avvilupparono
fronde
a fronde, in feroci atteggiamenti;
e,
contesti di vòlte e d'archi, eressero
mistici
monumenti ;
onde
il venturo mandrian, destandosi
là
sotto: " Ecco - dicesse alle sue donne -
che
fér le quercie mentre i miei bisavoli
pugnavann
a Sïonne ".
V
I
salici piangenti hanno attitudini
di
prefiche commosse:
sembran
sudarii per raccoglier lagrime
le
sottoposte fosse.
E,
come vive, le cime si cullano
sotto
il molle zeffìro;
né
sai se il suono che nell'aria espandono
sia
rantolo o sospiro.
Ondeggiamenti
di blande Nereidi,
gesti
da cortigiane,
incliini
di Elfi, o di chi al suol prosternasi
per
un tozzo di pane.
Neghi
a quei rami un sentimento, un'anima,
chi
non nacque poeta!
Quegli
non oda il sovrumano eloquio ,
della
natura queta;
sia
sordo alla eloquenza inenarrabile
del
grande Essere ignoto;
non
scorga il filo arcano, incomprensibile,
che
lega l'aria al loto!
Quegli,
al tramonto, quando il cielo è incendio,
e
van le avemarie,
da
campanile a campanil, dicendosi:
"
Siam dell'alme le spie! "
quando
la valle si ingombra di nebbia
e
di vaghi colori
ed
una mesta voluttà ineffabile
assalta
i nostri cuori;
e
ti senti immortal, pensando al celere
riapparire
del sole;
e,
se pur fosti coll'amica, inutili
ti
sarian le parole;
quando
dall'Universo assorto è l'atomo,
quegli
sbadigli, o vada
davanti
a sé, segugio inconsapevole,
per
una ignota strada!
Oh!
pel ciel che splendea colle miriadi
delle
vaganti stelle;
pei
campi a cui davan bagliori e screzii
lucciole
e coccinelle;
giuro
che a me quei cesolati salici
dipinsero
l'istoria!...
Così
putessi la vision terribile
cassar
dalla memoria!
Erano,
in mezzo al tenebror diafano,
spalle
in catene attorte,
e
lunghe braccia che parean difendersi
fra
la vita e la morte.
Contorcimenti
di dannati, impavide
pose
da gladiatore...
Quei
tozzi tronchi di rabbia fremevano,
e
fremevan d'amore.
Nodosità,
curve, punte, sembravano
cercar
vendetta a Dio;
mentre,
al raggio lunar, le bianche foglie
bisbigliavano
: oblìo!...
La
Musa mi fe' mago. Allor dai salici
uscì
questa parola,
ch'era
lamento e che parea bestemmia:
"
Ci ha piantati Loyola! ".
VI
Più
in su della nebbia,
più
in su della torre,
nei
campi che l'aquila
superba
trascorre,
ergeva
il fantastico
suo
ciuffo un abete,
possibile
pania
di
incerte comete.
Immobile,
olimpico,
nell'aria
gelata,
diceva
agli arbuscoli
dell'ima
vallata,
specchiando
il pinocchio
nel
placido stagno:
"
Per questi viottoli
passò
Carlo Magno ".
VII
Il
castello, immobil macchia,
cosa
informe e minacciosa,
trafiggea
co' suoi pinacoli
l'ampia
bruma nebulosa;
dalle
gotiche - compagini
piante
esotiche - a cui garba
por
sui muri un po' di barba,
scomponean
lo stil corretto
di
un pregievole architetto.
E
lontan, lontano, all'ultimo
fil
di cielo, un guizzo strano
segnalava,
incerto e rapido,
qualche
nomade uragano.
Le
finestre illuminavansi,
argentavansi
- le mura;
poi,
nell'aria opaca e oscura,
riappariva
ancor più tetro
il
castel, come uno spetro.
Da
sospir, da supplichevoli
gridi
invasi erano i campi;
forse
arcane metamorfosi
accadean
sotto quei lampi...
Larve
pallide - sfuggevoli
per
le squallide - vallée
parean
Strigi, o parean Dee;
al
mio piè, filando bava,
una
biscia strisciava.
Le
ninfe si arrovesciavano
come
vergini tentate;
un
ronzìo d'ali invisibili
le
avea certo ridestate.
Di
languore, di bisbiglio,
di
scompiglio - ebro, pagano,
si
coprìa l'immenso piano...
Era
un coro a voci uguali,
e
cantavano " Sponsali ".
VIII
I
fior che nascon tardi e a cui par che la luna
l'acre
olezzo regali, già per l'aiuola bruna
cominciano
a brillare, come un altro corteggio
di
stelle. E, in mezzo ad essi, venirsene a passeggio
ecco
la castellana col suo vago paggetto.
Tutto
è d'oro lo strascico, è d'argento il corsetto;
è
neve il dolce viso che il fanciul signoreggia.
Certo
è un sogno d'amore ch'ella fra sé vagheggia,
carezzando,
lasciva, que' suoi capelli biondi!
Egli,
con un ceruleo sguardo, par che la innondi
di
dolcezza infinita...
Così,
mentre il barone
russa,
pensando ai fasti di qualche vecchio arcione,
l'ideal
coppia passa.
L'allodola
la mira,
e,
dal ramo ospitale, di voluttà sospira.
IX
L'aurora!
E già i frassini,
comari
verbose,
l'albor
commentavano
con
stridule chiose;
poi,
punto d'invidia,
scrosciava
il querciuolo...
già
tutta, in un solo
superbo
monologo,
la
selva stormì!
Gli
augelli si destano
cantando
alleluia,
le
vette si indorano,
la
valle è men buia,
lontani
comignoli
la
nebbia disvela,
comincia
a far vela,
nel
tremulo spazio,
la
nave del dì!
X
Carlo,
e mentre si aprian tarlate imposte
di
cascinali, ed apparian d'un tratto
camicie
bianche alle finestre nere,
e,
nella brina, per sentieri ignoti,
già
cigolava qualche vigil carro
da
cui, forse dicendo una preghiera,
guardava
il parco leggendario un pio
beneditor
di solchi, uscì da un cespo
di
tuberosi, interprete io suppongo
di
quel verde mister che mi invaghiva,
questo
motto gentil:
"
Tu ci hai compresi! ".