Giovanni
Battista Ramusio
NAVIGAZIONI
E VIAGGI
Volume
secondo
Due lettere dall'India di Andrea Corsali
[1517-1519]
Discorso sopra la prima e seconda lettera di Andrea Corsali fiorentino.
Essendone pervenute alle mani queste due lettere di Andrea Corsali, nelle quali si narra del voler condur alli porti dell'Etiopia un ambasciador del Prete Ianni nominato Matteo con un altro del re di Portogallo detto Odoardo Galvan, e volendole fare stampar, la buona ventura volse che le mostrai al magnifico messer Iulio Sperone, gentiluomo padoano, non meno ornato di buone lettere che di somma cortesia, il qual mi disse che altre volte avea inteso da un gentil cavaliere portoghese che avea studiato in Padoa, nominato il signor Damian Goes, come il viaggio che fecero li sopradetti due ambasciadori alla corte del detto Prete Ianni era sta' scritto particolarmente da don Francesco Alvarez, che fu in compagnia loro; e che queste lettere del Corsali, stampandole avanti detto viaggio, iscusariano per un proemio, che daria gran luce e intelligenza a chi lo leggesse dapoi, perciò che molte cose precedenti a quelle dal detto don Francesco lassate si narrano in dette lettere; e che la copia di tal viaggio si trovava appresso al prefato signor Damiano nell'estreme parti di Olanda, e sapeva certo che, per sua natural gentilezza e cortesia, a chi la mandasse a dimandare esso liberamente la daria. Per la qual cosa, accioché a sí buona opera non s'interponesse dilazione, messer Tomaso Giunta, il qual per beneficio di studiosi non ha mai sparagnato né sparagna né danari né fatica, deliberò di mandarla a torre. E dapoi che l'ebbe avuta e letta, gli fu detto che 'l libro di tal viaggio si trovava stampato in la città di Lisbona di ordine del serenissimo re di Portogallo, onde di nuovo fu necessario di mandare a pigliar ancor quello; e avendolo voluto conferire con questa copia, trovai mancarvi il proemio fatto per il detto don Francesco, e in molti luochi molte righe di cose degne d'intelligenzia, oltra gli errori de' nomi di molti luochi e dignità di persone, sí come chi vorrà leggere questo nostro tradotto in lingua italiana e il portoghese potrà piú particolarmente giudicare. E acciò che 'l filo di tal istoria non fusse interrotto, ma si leggesse continuato in tutte le sue parti, il prefato messer Tomaso, oltra le lettere del Corsali poste, come abbiamo detto, per proemio avanti di quella, ha voluto nel fine come epilogo aggiugnervi la obedienzia che 'l prefato don Francesco prestò al sommo pontefice papa Clemente settimo nella città di Bologna del 1532 per nome del prefato Prete Ianni, con le lettere che da quello furono scritte a sua Beatitudine.
E per non mancar ancor noi, secondo le deboli forze del nostro ingegno, di far piú chiaro e piú aperto il principio e causa di tal viaggio, abbiamo pensato non dover esser ingrato alli lettori se discorrendo si rinoverà la memoria di molte cose pertinenti a quello per molti anni per lo adietro successe, cavate dall'istorie portoghesi, dove parlano della vita e fatti delli loro re e principi, e da un libro del prefato signor Damiano. E per tanto è da sapere che 'l primo che cominciò a far discoprir le marine attorno l'Africa fu lo illustre infante don Enrico di Portogallo, che vi mandò le sue caravelle, e vivendo lui arrivorono quasi appresso la linea dell'equinoziale. Dapoi, per ordine d'altri re, e principalmente del re don Giovanni secondo di questo nome, le giunsero fin al capo di Buona Speranza, il qual fu chiamato con questo nome percioché tutti quelli che avean gli anni passati navigato drieto quella costa tenevan per fermo ch'ella corresse verso mezzodí fin all'altro polo, e disperavan di poter trovar via di passare nell'Indie orientali: ma giunti che furon a detto capo e vedutolo voltar verso levante, lo chiamaron di Buona Speranza.
Questo re fu il primo al qual fu portato la mostra di certo pepe cavato del regno de Benim sopra l'Etiopia, e fece abitar l'isola de S. Tomé, che era disabitata e piena di bosco, e vi mandò infiniti giudei a starvi e lavorar i zuccari. Ed essendo di sublime ingegno e non pensando mai ad altro se non come potesse far navigar le sue caravelle nell'India orientale, deliberò mandar per terra suoi messi a scoprir le marine dell'Etiopia, Arabia e India, della immensa grandezza e ricchezza della qual era molto ben informato e da diverse persone che vi erano state e da molti libri degli antichi, e massimamente da quello del magnifico messer Marco Polo, gentiluomo veneziano, il qual fu portato in Lisbona dall'illustre infante don Pietro, quando egli fu nella città di Venezia: e dicono l'istorie portoghesi che gli fu donato per un singular presente e che 'l detto libro, dapoi tradotto nella loro lingua, fu gran causa che tutti quelli serenissimi re s'infiammassero a voler far scoprir l'India orientale, e sopra tutti il re don Giovanni. Onde, per far l'effetto sopra detto, trovò due uomini portoghesi che sapevan la lingua araba, e dette carico ad un di loro di andar ambasciador a quel gran principe de' Negri detto il Prete Ianni, e all'altro di scoprir prima le marine dell'Etiopia, e poi di andar a veder l'isola di Ormus e li regni e città della costa dell'India, dove nascono i pepi e gengevi. Alfonso di Paiva, che era un di loro, giunto alla corte del detto Prete Ianni moritte, e in suo loco vi andò l'altro, che si chiamava Pietro de Covillan, il qual però prima era stato a discoprir la costa di Calicut e di tutte quelle marine, e de lí passato poi sopra l'Etiopia e arrivato fino a Cefala, e avea dato aviso al prefato re don Giovanni di tutto quello che egli avea scoperto, come piú particolarmente si leggerà nel viaggio che scrive il prefato don Francesco Alvarez: e per questa causa non ne voglio dir altro.
E stando questo Pietro di Covillan nella detta corte, dapoi passati molti anni (conciosiacosaché mai non poté aver licenzia di partirsi), essendo morto il detto re don Giovanni secondo, successe il re don Emanuel, il qual fece passar le sue caravelle intorno tutta l'Etiopia, e giunsero in l'India, dove per virtú di molti suoi capitani, uomini eccellentissimi nell'arte militar, ebbe molte vittorie nelle parti del mar Rosso, sino Persico e nella India, e molte città e isole furono ridotte a sua obedienzia, e furono mandati diversi ambasciadori alla corte del detto Prete Ianni, che allora era fanciullo di anni undici, nominato David. E di tanta efficacia fu la fama di queste vittorie, che commosse la regina Elena, ava del detto re David, la qual era quella che 'l governava, ch'ella deliberò al tutto di mandar un suo ambasciador in Portogallo, e trovò un cristian armeno nominato Matteo, uomo pratico e che sapeva diverse lingue, e per darli maggior credito volse che vi andasse seco un giovene negro abissino. Costoro, imbarcati in un porto del mar Rosso, se n'andorono in India alla città di Goa, nella qual era il signor Alfonso Dealburqueque vice re, il qual li raccolse graziosamente e, fattili montar sopra le sue caravelle, li mandò a Lisbona, dove giunti alla presenza del re esposero la loro ambasciata, e furono interpretate le lettere della regina Elena, che dicevano in questo modo:
Lettera della regina Elena,
ava del re David Prete Ianni imperator de' Negri,
scritta ad Emanuel re di Portogallo nell'anno 1509.
"Nel nome di Dio Padre e Figliuolo e Spirito Santo, che è un solo in tre persone. La salute, grazia e benedizion del Signor nostro e Redentor messer Iesú Cristo, figliuolo di Maria Vergine, nasciuto nella casa di Bethleem, sia sopra il diletto fratel nostro cristianissimo il re Emanuel, dominator del mare e vincitor de' crudeli e incredibili Mori. Il Signor nostro Iddio ti dia ogni buona fortuna e ti doni vittoria de' tuoi nimici, e tutti i tuoi regni e paesi, per i devoti preghi de' nonzii del Redentor messer Iesú Cristo, cioè li quattro evangelisti san Giovanni, Luca, Marco e Matteo, da ogni canto siano prolungati e istesi, e le loro sante orazioni li conservino.
Ti avisamo, dilettissimo fratel nostro, esser venuti a noi da quel tuo gran capitano Tristan de Cugna duo nonzii, delli quali uno si chiamava Giovanni, che diceva esser prete, e l'altro Giovan Gomez, a dimandarne vittuarie e soldati. Per il che ne è parso di mandar questo nostro ambasciador detto Matteo, fratello del nostro servizio, con licenzia del patriarca Marco, che ne dà la benedizion quando mandamo alcun prete in Ierusalem, conciosiacosaché egli sia nostro padre e di tutti li nostri paesi, e colonna della fede di Cristo e della santa Trinità. Questo nostro ambasciador per nostro ordine ha fatto intender a quel gran capitano delli vostri, che per la fede del nostro Salvator messer Iesú Cristo combatte in la India, come noi siamo pronti a mandarli vittuarie e soldati, se gli sarà bisogno, conciosiacosaché abbiamo inteso il soldan principe del Caiero metter insieme una grande armata per venir contra li vostri eserciti, non per altro se non per vendicarsi delle ingiurie e danni (sí come noi sapemo) che per li capitani delle vostre genti che avete nell'India gli sono stati fatti, li qual vostri capitani il Signor Iddio per la sua santa bontà ogni giorno di piú in piú si degni di far prosperare, acciò che finalmente tutti quelli che non credono siano del tutto in tutto posti sotto il giogo. Noi per tanto contra gli assalti di questi tali siamo per mandar buon numero di soldati, che staranno dove è il stretto del mar della Meca, cioè all'isola di Bebbelmandel, o veramente, se vi parerà piú commodo, andaranno al porto del Zidem over al Tor, accioché finalmente si ruini e levi via questa sorte di Mori e increduli dalla faccia della terra, e che li presenti e doni che si portano al santo Sepolcro nell'advenire non siano devorati da' cani.
Al presente è giunto il tempo promesso, il qual (come dicono) messer Iesú Cristo e la sua madre Maria hanno predetto, cioè che negli ultimi tempi era per nascer nelli paesi de' Franchi un certo re, che levaria via tutta la generazion de' barbari e Mori: e questo veramente è il tempo presente, il qual Cristo promesse alla benedetta sua madre dover essere.
Tutto quello veramente che vi dirà l'ambasciadore nostro Matteo, reputate che venga come dalla nostra propria persona, e dategli fede, percioché è un de' principali della nostra corte e per questo ve l'avemo voluto mandar. Avremmo ben dato il carico di queste cose alli vostri messi, quali ne avete mandato, ma dubitammo che le faccende nostre secondo il voler nostro non vi fussero esposte.
Mandiamo per questo nostro ambasciador Matteo una croce, fatta senza dubbio alcuno di un pezzo del legno nel qual il Salvator nostro messer Iesú Cristo fu crocifisso in Ierusalem, di donde il pezzo di questo legno santo n'è sta' portato: e del detto ne abbiamo fatto far due croci, delle qual l'una è restata appresso di noi, l'altra abbiamo dato a questo nostro ambasciador, ed è attaccata con uno anelletto d'argento.
Oltra di questo, se a voi piacesse di dar le vostre figliuole alli nostri figliuoli, over nostri figliuoli dar alle figliuole vostre, questo sopra tutto ne saria molto grato, e a tutti duo utile, e principio di una lega fraternal, perché veramente questo astringersi con nozze con voi sí nel tempo presente come nell'advenir grandemente desideriamo.
Nel resto la salute e grazia del nostro Redentor messer Iesú Cristo e della nostra santa Madonna Maria Vergine si estenda e sopra voi e sopra li figliuoli e figliuole vostre e di tutta la vostra casa. Amen.
Oltra di questo vi avisiamo che, se vorremo congiunger li nostri eserciti insieme per far guerra, noi averemo forze bastanti, mediante l'aiuto divino, di levar via tutti li nimici della nostra santa fede. Ma li nostri regni e li nostri paesi sono posti fra terra, che in alcuna banda non potemo venir sopra il mare, sopra il qual noi non abbiamo potenzia alcuna, conciosiacosaché per laude di Dio voi sete in quello sopra ogn'altro potentissimo. Messer Iesú Cristo sia in nostro adiutorio.
Le cose veramente fatte per voi in India sono certamente piú presto miracolose che umane, e se voi volesti armar mille navi, noi vi daremo vittuarie, e vi sumministraremo tutte le cose che saran di bisogno per detta armata abondantissimamente.'
Udita questa lettera dal re don Emanuel e dalli suoi consiglieri, stettero alquanto sospesi, perciò che gli parvero che le cose proferite in quella fossero troppo grandi, e per tanto che ella non fosse vera; dubitarono anche che costui non venisse mandato dalla detta regina, e di questa loro dubitazione ne fu ripiena tutta la corte. Nondimeno dapoi detto re, desideroso di continuar e accrescer piú che fosse possibile l'amicizia di questa regina, per potersi servir delle forze e favor d'un regno tanto potente per riputazion delle cose sue nell'India e mar Rosso, elesse un suo ambasciador nominato Odoardo Galvan, il qual insieme con questo ambasciador Matteo con grandissimi presenti mandò con una sua armata in India, capitano Lopes Suarez. Giunto detto capitano in Cochin e messosi ad ordine di vettovaglie, deliberò di tornar verso il mar Rosso, per metter in terra detto Matteo e questo Odoardo Galvan. Allora, trovandosi in Cochin, Andrea Corsali montò sopra la detta armata e scrisse quanto in la seconda lettera si contiene, nella qual si legge che non poterono dismontar mai al porto di Ercoco della Etiopia sopra il mar Rosso, ma che, tornati all'isola di Cameran, vi morse Odoardo Galvan, e cosí per quello anno fu intermessa la espedizion del detto Matteo. Né piú oltra scrive il prefato Corsali, nelle qual due lettere se vi saran degli errori, n'è causa il tristo esemplar che noi abbiamo avuto.
Di Andrea Corsali fiorentino allo illustrissimo signor duca Giuliano de' Medici lettera scritta in Cochin, terra dell'India, nell'anno MDXV, alli VI di gennaio.
Come nella navigazione passando la linea equinoziale furono in altura di gradi trentasette nell'altro emispero, a traverso di capo di Buona Speranza, dove viddono un mirabil ordine delle stelle nella parte del cielo opposta alla nostra tramontana.
Illustrissimo Signor, non potendo mancar a V.S. di quanto le promisi nel partirmi di costí, ho voluto farle questo poco di discorso per darle notizia del successo del mio viaggio d'India. E avvenga ch'ei non sia cosí copioso com'io sperava e che 'l mio desio aria voluto, il che è causato per essere poco tempo ch'io mi trovo in queste parti, nondimeno non m'è parso restar di dirizzarglielo, dettandomi l'animo che V.S. lo debba pigliare con quel cuore che l'affezion mia e osservanzia ch'io le tengo ricercono, riserbandomi a tempo migliore di sodisfarle piú compiutamente.
Dapoi che partimmo da Lisbona navigammo sempre con prospero vento, non uscendo da scilocco e libeccio, e passando la linea equinoziale fummo in altura di trentasette gradi nell'altro emispero, a traverso di capo di Buona Speranza, clima ventoso e freddo, ch'a quei tempi il sole si trovava ne' segni settentrionali, e trovammo la notte di 14 ore. Qui vedemmo un mirabil ordine di stelle, che nella parte del cielo opposita alla nostra tramontana infinite vanno girando. In che luogo sia il polo antartico, per l'altura de' gradi, pigliammo il giorno col sole e ricontrammo la notte con l'astrolabio, ed evidentemente lo manifestano due nugolette di ragionevol grandezza, ch'intorno ad essa continuamente ora abbassandosi e ora alzandosi in moto circulare camminano, con una stella sempre nel mezzo, la qual con esse si volge lontana dal polo circa undici gradi. Sopra di queste apparisce una croce maravigliosa nel mezzo di cinque stelle, che la circondano (com'il Carro la Tramontana) con altre stelle, che con esse vanno intorno al polo girandole lontano circa trenta gradi: e fa suo corso in 24 ore, ed è di tanta bellezza che non mi pare ad alcuno segno celeste doverla comparare, come nella forma qui di sotto appare.
Della isola Monzambique, e da cui sia abitata la terra ferma e tutta la costa del mar Rosso fino a capo Verde. Nella costa non si trovano altre mercanzie che oro, che si porta a vendere alla mina di Cefalla, dove si trova ambracan e infinito avorio.
Cominciammo dipoi a tornare al cammino di tramontana, avendo vista di capo di Buona
Speranza, e sorgemmo in Monzambiqui, isola sterile non molto grande, giunta con la terra ferma, posta in quindeci gradi disotto dal polo antartico, abitata da maumettani: di essa è signor il re di Portogallo, la qual non è per altra cosa buona se non per il porto, molto ben posto e accommodato alla navigazione d'India. La terra ferma è abitata da uomini bestiali, e parimente tutta la costa, e dallo stretto del mar Rosso fino a capo di Buona Speranza tutti sono d'una lingua, e da capo di Buona Speranza fino a capo Verde parlano differente da questi di Monzambiqui. In questa costa, cominciando a capo Verde fino al mar Rosso, non vi si trovano altre mercanzie che oro, che si porta a vendere a la mina di Cefalla, ch'è terra del re di Portogallo vicina di Monzambiqui, dove si truova alquanto di ambracan e infinito avorio.
Della isola di San Lorenzo, e quanto sia abbondante d'armenti e d'ogni sorte di animali silvestri; dove si trova argento, ambracan, gengevo e garofani di miglior odore che quelli dell'India, e piú altre cose, della qualità di quelle genti e dell'isola Oetabacam.
Stando in Monzambiqui, trovammo due navette di Portogallo che venivano dell'isola di San Lorenzo, che sta dentro al mare a fronte di Monzambiqui, delle grandi ch'a' nostri tempi siano state discoperte. Essa isola dicono esser molto abbondante e copiosa d'infiniti armenti e di ogni sorte d'animali silvestri; trovasi anche gran quantità di risi e altri semi, di che questi dell'isola vivono. Vi si trova parimente argento, ambracan, gengiovo, meleghetta e garofani, non come questi d'India, che non sono tanto profittosi, ma di meglior odore e di forma di galla di nostra terra. Tien molto mele e canne di zuccaro, il qual non sanno oprare; evvi zafferano della sorte d'India, limoni, cedri, aranci in molta quantitade; e abbondante di molti fiumi e d'acque dolce, ed è copiosa di porti sicuri di mare. Le genti son bestiali, diversa lingua dagli altri di Monzambiqui, non tanto neri, ma col capo arricciato come son tutti quelli di essa costa. Li porti della marina signoreggiano i Mori, che con panno di cottone e altre mercanzie d'India comperano le mercanzie di questa isola, e cosí è nella costa di Monzambiqui. Dicono vicina a questa isola esservi un'altra isoletta detta Oetabacam, abbondantissima d'argento, e attesa la quantità che si vede in Monzambiqui e per tutta la costa, non poter esser di meno ch'in tutta perfezione: qual non è ancora stata scoperta da' Portoghesi.
Come vicino all'India trecento miglia l'acque del mare si dimostrano come di latte,e donde causa che, in quella parte dell'India dov'è il mar profondo,si dimostra ora di color celeste, ora nero, ora verde.
Partimmo di Monzambiqui a nostro viaggio d'India, non ci scostando da tramontana e greco, per essere il nostro dritto cammino, e sempre andammo con vento in poppe, percioché in questa parte d'India viene sei mesi vento ponente e libeccio, che serve al venir in India, e di giugno a ottobre; gli altri sei mesi è greco e levante, che serve al tornar d'India. Fummo a Goa in venticinque giorni, che può esser da tremila miglia, con tanta prosperità pel favor del vento che nessun'altra navigazione in parte alcuna mi par miglior di questa. Qui passammo la seconda volta la linea equinoziale, tenendo il sole per zenit, senza far ombra in alcuna parte; e già tornati nell'artico polo, avemmo vista della Tramontana in sei gradi, ch'in menor altura in nessuna parte si puote vedere, rispetto a certe nuvole che, vicine all'orizzonte elevandosi, non lassono comprendere a nostra vista nessuna stella che in meno di sei gradi sia elevata, come piú volte ne feci esperienza. Vicino all'India trecento miglia, l'acque del mare si mostran come di latte, che mi pare esser causato dal fondo, per esservi l'arena bianca. In questa parte d'India dove è il mar profondo, pigliando ora il color dal cielo dimostra celeste, e ora dalle nuvole par nero, e anco talvolta verde, quando non è tanto profondo: cosí puote questo color di latte dall'arena causarsi. Vedonsi anche infinite serpi, e per questi due segni conoscemmo esser nella costa d'India: questi serpi per la pioggia in tempo di verno della terra ferma sono nelle fiumare trasportate.
Della isola detta Goa, dove già Alfonso di Alburquerque fece edificar una terra fortissima, e dentro una fortezza. Della qualità e vestir di quelle genti; di frutti e animali di quel luogo del gran prezzo che quivi si vendono i cavalli. E come l'isola di Ormuz fu di già presa per il capitano maggiore, e quivi di ordine suo edificata una fortezza.
Con non poco piacere scoprimmo in tre giorni terra, e lungo la costa navigando, fu la prima scala nell'isola di Goa, che tien di circuito quindici miglia, posta in sedici gradi; ed è giunta con terra ferma, cinta da ponente dal mare, da settentrione e mezzogiorno dalla costa, da levante dalla terra ferma detta Paleacate, dalla qual corre una fiumara, ch'entrando in mare per due parti comprende detta isola. E di essa sono signori i Portoghesi, che già sono cinque anni che fu pigliata per forza d'armi dal signor Alfonso d'Alburquerque, dove furno morti gran numero de Mori e gli altri scacciati alla terra ferma. Dipoi egli fece edificare una bellissima terra di circuito di un miglio, da fortissimi muri e fossi circondata, piena di case, strade ordinate a nostro costume, e dentro di essa fece una fortezza, che parmi oggidí delle miglior cose che i Portoghesi tengono nell'India. L'isola è abitata da gentili, i quai, per esser da noi che da' Mori meglio trattati, sono amici de' Portoghesi e parziali. Qui truovasi grandissima quantità d'orefici, e li megliori che siano in tutta l'India.
Di quest'isola era prima signore il re della terra ferma ove è Paleacate, detto Idalcam del Sabaio, ch'è maumettano, di nazion turco, uomo bellicoso; e appresso d'esso vivono molti capitani della parte di Turchia. I naturali di questo regno sono uomini gentili, di bell'aspetto e di color lionato; le loro vestimenta sono a uso di Turchia, e massime di mercatanti, degli altri all'apostolica. Ivi sono i Bramini, a nostro modo sacerdoti; altri con un panno di cottone si copron le parti vergognose del corpo, e questi son detti Nairi, uomini di guerra, che sempre portano lance, archi, spade e targhe, e per combattere sono i miglior uomini d'India. Ivi la terra è fertilissima, e piena di frutti a nostro costume e della sorte che sono in India; è copiosa d'ogni animale, cosí domestico come silvestre. Trovansi nella terra ferma molti tigri e serpenti d'incredibil grandezza; nel fiume vivono certa spezie di cocodrilli, e alcuni di lunghezza di venti piedi, con le altre parti corrispondenti, i quai molte volte escono fuori dell'acqua, cibandosi d'animali ch'intorno al fiume si pascono. L'isola è di grandissimo tratto e ogni giorno va ampliando, per la gran quantità di cavalli che vengono d'Ormuz del sino Persico, e vendonsi a' signori de Paleacati e del re di Narsinga; e fanno capo a dett'isola perché, s'altrove sbarcassino, i Portoghesi che sono signori del mare, con licenzia de' quali si naviga, pigliarebbono le navi e il tutto saria perduto.
Arà forse V.S. ammirazione intender un cavallo ordinariamente a costume di nostra terra vendersi quattrocento ducati, cinquecento e anche settecento, e quando passa l'ordinario novecento, mille e duomila, per il che pagano al re, nell'entrare dell'isola, quaranta ducati d'oro per cavallo, e quest'anno il dazio ha renduto trentamila ducati. Per questa causa fu l'anno passato il capitan maggiore all'isola d'Ormuz, con varii stromenti bellici e con armata di venticinque vele e tremila uomini da guerra, la qual è posta nel sino Persico, e avendola presa d'accordo, uccise il governatore di essa, perché dal re d'Ormuz si era ribellato e avea ordinato tradigione, per tagliare a pezzi il capitan maggiore e bruciar l'armata. Or avendo il capitan maggiore ridotta la città a sua obbedienza, fece una fortezza, ch'oltre a molt'altre edificate per ordine suo nell'India, questa è la principale e di piú importanza, perché al presente nessun mercatante persiano o d'Arabia Felice o armeno o sia d'altre parti che venga nel sino Persico, può levar cavalli all'India né portare spezie, se non fa capo a Ormuz, pigliando la securezza e pagando il dazio al re di Portogallo; e levando cavalli per crescere l'entrata di Goa, è necessario che di là gli lievi.
Della isola detta Dinari, dove si trovano molte antichità, e come quivi fu destrutto un tempio detto pagode, di maraviglioso artificio, con figure antiche di grandissima perfezione.
In questa terra di Goa e di tutta l'India vi sono infiniti edificii antichi de' gentili, e in una isoletta qui vicina, detta Dinari, hanno i Portoghesi per edificare la terra di Goa distrutto un tempio antico, detto pagode, ch'era con maraviglioso artificio fabricato, con figure antiche di certa pietra nera lavorate di grandissima perfezione, delle quali alcune ne restano in piedi ruinate e guaste, però che questi Portoghesi non le tengono in stima alcuna. S'io ne potrò aver alcuna a mano cosí ruinata, la dirizzarò a V.S.,a fine ch'ella vegga quanto anticamente la scoltura in ogni parte fu avuta in prezzo.
Di una terra chiamata Batticala, nella quale, e ne' luoghi vicini detti Onor e Brazzabor, nasce infinito gengevo, mirabolani, zuccaro e altre cose. Della terra nominata capo di Commari, da Tolomeo Pelura. Come il re di Canonor fu a visitar il capitano maggiore, e del presente li fece. Del re di Calicut, e come già convenisse col maggior capitano.
Dipoi partiti di Goa, navigammo lungo la costa sempre a mezzogiorno e arrivammo a una terra detta Batticala, per pigliar il tributo che essi pagano al re per poter navigare in questi mari. Di essa è signor il re di Narsinga, di legge gentile. Qui nasce, e in altri luoghi vicini detti Onor e Brazabor, infinito gengiovo, mirabolani, zuccaro, farro, riso, le quali mercanzie si caricano pel mar Rosso, per Adem e per Ormuz. E detta terra è in tredeci gradi; il mare tiene da ponente e la terra da levante, la costa da mezodí e tramontana. I naturali sono come quei di Goa e quasi d'una lingua. Sopra a Batticala vedonsi due montagne, dalla sommità delle quai nascon due rivi, i quai, per il dosso del monte scorrendo a basso verso 'l mare, appariscono come due vie bianche battute, ch'è cosa mirabile a vederle. Qui i naturali si chiamano Conconi e Decani, e in Balagat e Commari; e lí vicino a Batticala comincia il paese del Malabari, dove nasce il pepe, differenti in lingua e parte in costumi da quei di Commari e di Goa. Il qual paese termina da mezogiorno a capo di Commari, secondo Tolomeo detto Pelura, e voltandosi a tramontana, nel sino Gangetico, a un loco detto Curumma e anticamente Messoli: il detto capo di Commari è in otto gradi e Curumma per ancora non so.
Di Batticala fummo a Cananoro, dove i Portoghesi tengono un castello munitissimo d'arme. Il re fu a visitar il novo capitano maggiore con duamila uomini nairi o piú, con loro armi a costume di Goa, e presentò a esso capitano una collana d'oro ornata con molti rubini e perle, di mille ducati d'oro di valuta. Esso Canonoro è in XII gradi e mezo. Da Canonoro fummo a Calicut, principal terra e capo di tutto 'l regno del Malabari. Il re chiamasi Cammurim, che vol dir imperatore, e nel vero, atteso i mirabili edifici publici e tempii e palazzi del re, e le private abitazioni di pietra (non come in altre parti di paglia), dimostra essere stato capo di tutta l'India, perché i mercatanti di tutto 'l mar Oceano in queste parti orientali venivano a caricare di spezie e altre mercanzie, che d'altre terre dall'India in Calicut si conduceano. E ora, dapoi che i Portoghesi sono nell'India, hanno sempre caricato in Cochin e Canonor, perché da principio detti Portoghesi forno scacciati e morti in Calicut, e in Cochin dal re di esso ricevuti, il quale di subito fecero de' primi re d'India. Questo re di Calicut ha sempre tenuto guerra con Portoghesi, fino a duo anni passati, a contemplazione di maumettani, i quali per il contrasto del re sono rimasi destrutti; e ultimamente, non tenendo già il rimedio, detto re si convenne col capitano maggiore e gli concesse che si potessero far fortezze nelle sue terre, ch'oggi tengono i Portoghesi. Esso re fu a visitare il capitan maggiore con piú di quattromila Nairi o vero gentiluomini, co loro armi, lance, archi, targhe, e gli presentò una collana della sorte di quella del re di Canonoro, ma di piú prezzo.
Questo paese del Malabari è molto temperato, senza freddo di nessun tempo o caldo, eccetto due ore del giorno, perché l'altro resto dal vento della notte sino al mezogiorno e dipoi dal vento del giorno è refrigerato. In questo paese parimenti non ci fu per nessun tempo peste. De' costumi di essi e d'altre particularità il Nairo che condusse lo elefante arà informato V.S. a pieno, e però scorrerò il mio ragionamento.
Laude de' Portoghesi, e d'alcune fortezze molto importanti per lor fabricate nell'India. Dell'isola di Ormuz e suoi confini; della natura e costumi de' Guzzerati, mercatanti di Cambaia, nella qual terra nascono storace liquido, corniuole e calcidonii.
L'India tutta comincia dallo stretto del mar Rosso, per insino all'estreme regioni Sinare: è abitata parte da Mori, e da essi signoreggiata, e parte da Gentili, e parte da Portoghesi, i quali oggidí sono signori di tutto 'l mar Oceano, cominciando da Lisbona all'India, e de' mari particolari d'India, del sino Magno e Gangetico, del sino Persico e stretto del mar Rosso e mar Atlantico. E in queste loro conquiste ogni giorno si vanno ampliando, e in verità si può dire per le opere loro, conciosiaché sono tutti uniti insieme e parziali del lor re, animosi e audaci a mettersi in ogni impresa senz'alcun rispetto di robba o di vita, e hanno ingenerato tanto tremore in queste parti, che mi par difficile che per alcun tempo abbino ad essere damnificati. Primamente nessuno può navigare senza lor licenza, o senza pericolo di perder le navi e mercanzie, perché l'armata che tengono nell'India va navigando, scorrendo per tutte le parti: che ponno esser circa quaranta navili, computando navi, caravelle e galere. I quali, nell'India fabricati, son tanto forti che, attesa la debilità de' navili dell'India, un solo si potria da tanti difendere ch'io non lo scrivo per non parer mendace: e per questo giudico per nessun tempo poter esser disbarattata tal armata, la qual navigando è sempre patrona di tutte le parti del mare e dei porti d'India. E perché in molte parti mancano le vettovaglie, né si possono da un loco all'altro condurre senza navigarle, per questa causa in queste parti orientali non c'è porto alcuno che, stando l'armata in piedi, non le renda obbedienza e lassi far fortezze e castelli in quelle parti che vorranno, come fino adesso ne hanno fatte nei piú importanti luoghi dell'India: li quai tutti ha edificato il signor Alfonso d'Alburquerque, capitano passato, uomo a' tempi nostri prudentissimo e audace, e in ogni impresa vittorioso.
La principal fortezza e importantissima è l'ultima, edificata in Ormuz l'anno passato, alla qual fanno capo tutti i mercanti persiani, turchi, armeni o di Arabia Felice, che vogliono con cavalli e altre mercanzie passare in queste parti per levare spezie. Il qual Ormuz è isola nel sino Persico, e rispetto allo stretto non possono questi mercanti passar, se non fanno capo a Ormuz per pagare i dazii e pigliar securtà di navigare. E posto detto Ormuz in ventisette gradi; da mezogiorno e da ponente tiene l'Arabia Felice, dove è lo stretto di Baharem, loco dove si pescano le perle, ed è divisa da quella parte della Persia che vicina con Ormuz da tramontana per il fiume detto Tigris. Della città di Tauris e della Persia e dell'altre regioni, venendo sino al mare, è signore siech Ismael, detto fra noi Sofí, il qual dentro per terra ferma confina col re di Sanmarcante, che credo sia la regione de' Parti, In queste terre di Persia si trova il lapislazuli e le turchine. Da levante confina con la Carmania deserta, oggi detta Rasigut, abitata da corsali e latroni. L'altra fortezza tengono nell'isola di Goa detta di sopra.
Fra Goa e Rasigut, o ver Carmania, vi è una terra detta Cambaia, dove l'Indo fiume entra nel mare. È abitata da gentili chiamati Guzzaratti, che sono grandissimi mercatanti. Vestono parte di essi all'apostolica e parte all'uso di Turchia. Non si cibano di cosa alcuna che tenga sangue, né fra essi loro consentano che si noccia ad alcuna cosa animata, come il nostro Leonardo da Vinci: vivono di risi, latte e altri cibi inanimati. Per esser di questa natura, essi sono stati soggiogati da' Mori, e di questi signoreggia un re maumettano, che tiene una pietra che, mettendola nell'acqua o in bocca, subito rimedia ad ogni veneno. In questa terra nasce indaco, storace liquido, corniuole, calcidonii in quantità grandissima, e di essi si lavorano manichi di daghe e pugnali eccellentissimi. Gli uomini sono olivastri, di grandissimo ingegno e artificio di tutte l'operazioni. Essa regione di Cambaia ha il mare verso mezodí, Rasigut o ver Carmania da ponente, Paleacate da levante, e da settentrione molto fra terra il re di Sanmarcante.
Del regno di Paleacate e suo re. Del paese di Malabari, di suoi signori e sue fortezze, dove Portoghesi caricano pepi e gengevi. Di cinque chiese maravigliosamente fatte, e per cui sono officiate. Della terra chiamata Paleacate, anticamente Salaceni, e della gran quantità e varietà di gioie che quivi nascono, e come si costuma di vender gli elefanti.
Il regno di Paleacate confina per terra ferma col re di Narsinga, ch'è gentile e principal re di tutta l'India, ed è il piú ricco signore che sia di questa banda fino al mar, Batticala, Onor e Brazabor; e lassando il paese de Malabari, ch'è giunto con la marina, s'estende per terra ferma fino al sino Gangetico, dove è il signor de Coromandel, e Paleacate, di là dal capo di Commari, detto Pelura anticamente. Tre altre fortezze sono in detto paese de Malabari, cioè Canonor, Calicut e Cuchin, dove al presente i Portoghesi caricano pepi e gengiovi per Portogallo, né consentono che si carichino per altre bande, e massime per Adem e per la Mecca, a fine che non passino in Alessandria: al che tengono grandissima custodia, mandando ogn'anno allo stretto del mar Rosso armata, acciò non passino altre navi, e hanno fatto tal provisione che sarà necessario che di Venezia vadino a fornirsi a Lisbona.
I signori della terra de Malabari sono tutti gentili, e gli abitatori gran parte mori, altri giudei, altri cristiani di san Tommaso: e ancora sono in piedi certe chiese, che dicono esser fatte maravigliosamente. Una è posta vicina a Cochin cinque leghe, in uno luogo detto Elongalor; l'altra è posta in Colon: le quali sono officiate da certi Armeni che passano all'India alla cura di tai cristiani. L'altra è in Coromandel, principale di tutte, dove l'anno passato fu Piero d'Andrea Strozzi, che dice in essa esservi sepolto san Tommaso, e che ancor si vede un sepolcro antico di pietra, e a presso d'esso esservi un altro sepolcro d'un Etiope cristiano delle terre del Prete Ianni, ch'andava in sua compagnia, e che nelle parti della chiesa ci sono certi intagli con lettere, le quai egli non poté intendere. Dice anche esservi una forma d'un piede incavato in una pietra, di mirabil grandezza e fuori della natural moderna, che dicono essere stata fatta per san Tommaso miracolosamente. Piacendo a nostro Signor, egli tornarà costà fra un mese e levarammi seco, e però mi riserbo a un'altra volta a dare di ciò meglio il particolare a V.S. e anche ogn'altra cosa piú chiara.
Vicino a Coromandel, detto Messoli anticamente, è un'altra terra chiamata Paliacatte, e anticamente Salaceni. In questa terra si trova grandissima quantità di gioie d'ogni sorte, che vengono parte di Pegu, dove nascono rubini, parte da un'isola che giace a riscontro del capo di Commari, che si chiama Zeilan, in altura della banda di mezzogiorno di gradi sei e di settentrione verso il sino Gangetico in otto gradi. Qui nascono la maggior quantità e di piú spezie di gioie che nel resto di tutta l'India, cioè zaffiri perfetti, rubini, spinette, balasci, topazii, giacinti, grisoliti, occhi di gatta (che da' Mori sono avute in grand'estimazione) e granate.
Dicono ch'il re di essa tiene due rubini di tanto colore e sí vivo, ch'assimigliano a una fiamma di fuoco: ma perché essi gli chiamano con altro nome, io stimo che debbano esser carbuncoli, e di questa sorte rari si trovano. Cogliesi anche in questo luogo la cannella, che per tutto si naviga. Tiene il paese gran copia di elefanti, ch'essi vendono a diversi mercanti dell'India mentre che sono piccoli, per potergli domesticar: e costumasi a vendergli tanto il palmo, crescendo sempre di prezzo con detto palmo, secondo la grandezza dell'elefante.
Come questa isola Paliacatte non fu posta da Tolomeo, il quale in molte cose è diminuito, pretermesse anco da lui dodecimila isole nella costa di Monzambiqui; e come in detta isola nasce ambracan e molti diamanti, dove Piero Strozzi ne comperò uno bellissimo, che pesò caratti 23. Del castello Malacha e del fiume Gange.
Quest'isola non pose Tolomeo, il quale trovo in molte cose diminuito, né pose ancora dodicimila isole che sono dalla costa di Monzambiqui andando sempre a cammino verso le bande di Malacha, di sotto dell'equinoziale. E vedesi per la navigazione de' Portoghesi molto diminuito e falso nelle sue longitudini, cominciando dalle regioni Sinare fino alle isole che lui chiama di Buona Fortuna; situò male la Taprobana, come per la carta del navigare che don Michiele di Selva, orator del re, recò a Roma, potrà V.S. comprendere.
In Paliacatte ancora nasce ambracan e diamanti, ma non sí perfetti come quelli che nascono in Narsinga, per esser molto gialli, avenga che da' Mori siano tenuti in maggior prezzo che gli altri chiari. In questo luoco esso Piero Strozzi comperò un bellissimo diamante chiaro e netto in rocca, qual pesò caratti 23, ed è delli bellissimi pezzi che siano stati venduti in India da un tempo in qua: nel suo ritorno, che sarà in termine di due anni, lo porterà a Lisbona. Questo m'è parso farne intender a V.S. però che mi pare che sarebbe degno d'un signor grande com'è quella. I smeraldi non so dove naschino, e di qua sono in maggior riputazione che nessun'altra sorte di pietre, cosí come nelle terre nostre.
L'ultimo castello che i Portoghesi tengono nell'India è Malacha, terra già di maggior tratto che nissuna parte del mondo, alla qual navigano dal sino Gangetico le navi di Bengala, regno che vicina dalla costa del mar col regno di Decan, fra Bengala e Paliacatte, che termina per terra col re di Narsinga; e Bengala da terra ferma vicina con un regno detto Deli, il quale dentro da terra vicina con Narsinga. In questa parte di Bengala ci intra il fiume Gange, nel sino detto dal suo nome Gangetico, ed è posto in 23 gradi sotto il tropico del Cancro; nel detto sino navigano ancora del paese di Pegu, che confina per la costa con detto regno di Bengala e Liqui. In Pegu trovasi gran quantità di rubini, benzuí e laca; tiene dalla parte della costa Malacha e da terra ferma il Disuric, il quale è signore infra terra fino alla Cina.
Come la terra detta Malacha già si chiamava Aurea Chersonesus, dalla qual si naviga a Sumatra, qual dicono esser la Tabrobana, non ancora da ogni parte scoperta. Delle terre de' Piccinnacoli e del Verzino. Le mercanzie che portano i mercatanti di Cina che vanno a Malacha per speziarie; della qualità e costumi degli uomini di quel paese.
L'ultima terra della banda di mezodí è Malacha, posta sopra la linea dell'equinoziale, in duo gradi d'altura, detta già Aurea Chersonesus. Queste terre di Bengala e Pegu dominano i Mori, e Malacha i Portoghesi: i quai Mori stanno sempre in guerra con gentili della terra ferma. Navigano ancora da detta Malacha all'isola di Sumatra, che dicono esser la Taprobana, non ancora da ogni parte discoperta, per esser molto grande. Qui trovasi infinito pepe, che si naviga per la Cina, terra fredda posta nel sino Magno, e nascevi anco pepe lungo, belzuí e oro, che contrattano in Sumatra per Malacha, che dalla parte di mezodí guarda questa isola, la qual sotto la linea dell'equinozial si trova, e nella quale quest'anno va fattor Giovanni da Empoli nostro fiorentino.
Dalla parte di levante sono le isole dove nascono i garofani, dette Molucche, e dove si trovano le noci moscate e macis; in altre il legno aloe, in altre sandali. E navigando verso le parti d'Oriente, dicono esservi terra de' Piccinnacoli, ed è di molti openione che questa terra vada a tenere e congiungersi, per la banda di levante e mezogiorno, con la costa del Bresil o Verzino, perché per la grandezza di detta terra del Verzino, non si è per ancora da tutte le parti discoperta. Il qual Verzino per la parte di ponente dicono congiungersi con l'isole dette le Antile, del re di Castiglia, e con la terra ferma del detto re.
Dalla parte di settentrione, per il sino Magno, navigano ancora a detta Malacha per spezierie i mercatanti della terra di Cina, e portano di loro terra musco, reubarbaro, perle, stagno, porcellane e sete e drappi di ogni sorte lavorati, damaschi, rasi, broccati di molta perfezione, perciò che gli uomini sono molto industriosi e di nostra qualità, ma di piú brutto viso, con gli occhi piccoli. Vestono a costume nostro, e calzano con scarpe e calzamenti come noi. Credo che siano gentili, avenga che molti dicono che tengano la nostra fede, o parte di essi. Quest'anno passato navigarono alla Cina nostri Portoghesi, i quai non furno lasciati scendere in terra, che dicono cosí essere costume, che forestieri non entrino nelle loro abitazioni. Venderono le lor mercanzie con gran profitto, e tanto dicono essere d'utilità in condurre spezierie alla Cina come a Portogallo, per esser paese freddo e costumarle molto. Sarà da Malacha alla Cina cinquecento leghe, andando a tramontana.
De' costumi del re di Cina, e del presente fatto per l'ambasciadore del Sofí nominato siech Ismael al maggior capitano di Ormuz, dove si trovavano infiniti oratori delle regioni circonvicine.
Il re di questa regione non si lassa mai vedere né parlar, eccetto che da un solo, e quando alcuno vuole espedizione o altra cosa, lo fa intendere a un deputato, e quello all'altro: e cosí va d'uno in altro, fino a cinquant'uomini, alle orecchie del re. Tutte le sopradette fortezze ha edificate a usanza nostra il capitano maggior passato, il signore Alfonso d'Alburquerque, il qual nel giunger nostro in India stava in Ormuz, dove trovavansi infiniti oratori delle regioni convicine al sino Persico, e fra essi l'ambasciador del Sofí nominato siech Ismael, molto onorato, che presentò al capitan maggiore bellissimi cavalli, infinite turchine e una scimitarra molto ricca, adornata con sua vagina d'oro, perle e pietre preziose. E dicono che siech Ismael molto desidera l'amicizia del re di Portogallo, ed esser inclinatissimo alla benevolenza di tutti i Franchi. In Persia alla sua corte vi furono uomini nostri, da esso ricevuti e onorati e presentati, ch'è signor molto liberale: e fecero per terra, prima che vi giungessero, tre mesi di cammino.
E stando noi nell'India dapoi un mese, don Garzia della Crognia, nipote del capitan maggiore, avea deliberato questo anno passar allo stretto del mar Rosso, a destrugger l'armata del soldano (se è vero ch'ella vi sia) e far una fortezza o in Dalaccia o in Suachem, isola in diciotto gradi, dove imbarcano i religiosi che di Etiopia passano in Gierusalem, che cosí era questo anno sua volontà, e discoprire i cristiani d'Etiopia. E dipoi detto capitano maggior, lassato che ebbe Ormuz munito d'arme e mille uomini di guerra, con sedeci vele se ne tornava per India, e nel cammino li furon mandate lettere da Melchias di Diupatam, terra di Cambaia, nelle quai gli diceva che si mettesse ad ordine per tornar a Portogallo, perché nell'India vi era un altro capitano maggior e capitani di castelli. E leggendo come certi gentiluomini, che egli avea mandati a Portogallo prigioni, erano tornati in India piú onorati che prima, e che, poi che il re li mandava all'India, non teneva per bene quanto egli avea fatto ed era segno d'indignazione, detto capitano ne prese tanta passione che, ricaduto nella infirmità ch'in Ormuz avea tenuto, uscendo della barca in Goa diede fine alla sua gloriosa vita, doppo tanti travagli in dieci anni avuti nell'India, che, atteso le grandi imprese ch'egli ha condotto a fine, non fu già gran tempo un tal capitano nelle nostre parti, cosí di consiglio come d'audacia. Nell'India al presente si trovano quattromila uomini portoghesi, e fra un mese si partono mille, per Ormuz prima e poi allo stretto del mar Rosso, a fine che le navi non possino andar alla Meca e debbiano voltare alla banda di mezzogiorno, alle isole, che sono in numero dodicimila, per pigliar tutte le navi che navigano senza sicurtà, e dipoi all'isola di Zeila e a Coramandel.
Quest'anno non andremo noi al detto viaggio, ma si ordina per l'anno che viene che 'l capitan maggiore passerà là con tutte le navi per trovare l'armata del soldano, s'ella vi sarà, e far far una fortezza nel mar Rosso, e porre in un delli porti dell'Etiopia gli ambasciadori, cioè Matteo del Prete Ianni e Odoardo Galvan di sua Maestà, e noi altri, per andare alla corte di detto Prete Ianni: che Dio lassi seguir tutto, in conservazione e accrescimento della santa fede nostra.
L'animo mio è di fermarmi alcun tempo in queste parti e riferire alla V.S. il sito e nomi delle regioni e divisioni delle terre orientali, cosí del Prete Ianni come dell'India, perché vedrò poi di scorrer dentro alla terra ferma e riscontrar con l'altura de' gradi e' nomi antichi che pose Tolomeo, con moderni che oggi sono: e per questo porto meco l'astrolabio e molt'altri stromenti necessarii, perché altrimenti non si può saper se non in confuso, com'ora io scrivo a V.S.,conciosiaché questi Portoghesi non si curino d'intendere delle cose di terra ferma, perch'il profitto loro è al mare e non alla terra. In questo viaggio è morto un figliuolo dell'ambasciadore del Prete Ianni e un frate d'Etiopia. Né mi sovenendo altro per ora faccio fine, pregando il nostro Signor Dio mi doni grazia che, nel ritorno mio, possa trovare V.S. con quella felicità che lei desidera.
Di Cochin, terra d'India, il VI di gennaio MDXV.
Andrea Corsali fiorentino allo illustrissimo principe e signor il signor duca Lorenzo de' Medici, della navigazione del mar Rosso e sino Persico sino a Cochin, città nella India, scritta alli XVIII di settembre MDXVII.
Come i Portoghesi, cominciando dall'estreme regioni Sinare e sino Magno di Malacha fino al stretto del sino Persico di Ormuz e mar Rosso, hanno edificato molte fortezze, castella e città. Della costa di Fratacchi, dell'isola di Soquotora, e della qualità e costumi di quegli uomini. Descrizione del sangue di drago, dell'aloe soquoterino e ambracan.
Già due anni passati, per la lettra scritta alla felice memoria del magnifico signor Giuliano, intese V.S. quanto si andava ampliando in queste parti orientali la gloria de' Portoghesi, i quali, essendo entrati per forza d'arme in diverse terre, isole e porti principali, cominciando dalle estreme regioni Sinare e sino Magno di Malacha, detto dalli antichi Aurea Chersonesus, fino al stretto del sino Persico d'Ormuz e mar Rosso, vi hanno voluto in quello edificare molte fortezze, castella e città, le qual tenendo del continuo ben munite e pronte al soccorso l'una dell'altra, giudico, essendo loro signori del mare, che siano inespugnabili. Per l'ultima armata ritornata, essendo di grave infirmità ditenuto, come aviene a chi del natural clima in opposito si transmuta, non scrissi cosa alcuna.
Questo anno mi dettero lettere di V.S. illust. e per esse intesi la morte del magnifico signor Giuliano, il che mi fu tanto molesto che di piú non era possibile. E fummi dall'altra parte gratissimo lo intendere dello stato al qual V.S. meritamente è pervenuta, e degnatasi scrivermi in sí remote parti, che non fu poca mercede, massimamente faccendomi tante offerte, laonde mi fa debitore che, prima ch'io mi riduchi nella patria, piacendo a nostro Signor, io visiti buona parte di queste terre d'India, Persia ed Etiopia, per potere nel ritorno mio darle qualche particolar informazione, poi che di presente, venendo tardi del mare Rosso e per la accelerata espedizione di queste navi, non posso né a V.S. illust. né a me istesso a mia volontà sodisfare.
Ma essendomi il pregare un onesto e lecito comandamento, piú con certissima veritade che con retorici colori o parlare elegante procedendo, darò notizia come l'anno passato Raysalmon e Amyrasem, capitani generali dell'armata del soldano del Cairo, erano usciti del mar Rosso e venuti nel porto d'Adem con XX galere e molta gente di guerra, con determinazione di passare in India per nostra destruzione, e che sopra certe differenzie combattevano la città sforzatamente. Per questa causa il magnifico Lopes Soares, nostro capitan maggiore, avendo doppo la sua venuta la maggior parte del tempo occupata in far nuove navi e galere e restaurare molte altre che nell'India si trovano, però che il re gli comandò che passasse nel mar Rosso contra l'armata del soldano, e de quivi desse ordine come gli ambasciadori fussero in Etiopia al re David, partí di Cochin il giorno di Natale con quaranta vele ben armate di artegliarie, fuochi artificiosi e altri instromenti a guerra navale convenienti: sí che erano venti navi grosse, otto galere, dodici caravelle, e in esse andavano duemila uomini portoghesi e d'altre parti d'Europa, e settecento cristiani de Malabari, arcieri di lancia, spada e targa. E fummo costeggiando fino a Goa, pigliando in essa e in queste fortezze di Calicut e Canonor vettovaglie per un anno. Partimmo poi della città e isola di Goa, alli otto di febraio 1516, e de lí traversammo per il mar Indico all'isola di Soquotora in ventidua giornate, che sono trecentoventi leghe a modo di ponente. La qual è in tredeci gradi di altezza, terminata da levante e mezzodí dal mare, e da ponente dal capo di Guardafuni, ch'è l'ultima terra di Etiopia, nel principio del sino Arabico distante dall'isola trenta leghe, in latitudine di dodici gradi, il quale gli antichi chiamano Zinghis Promontorium, e da esso tutti e' naturali di questa costa sono Zinghi sino al presente giorno denominati. Da settentrione alla detta isola giace la costa di Fratacchi, nell'Arabia Felice, a quaranta leghe.
Questa isola di Soquotora è in circuito quindeci leghe, e mi pare, quando Tolomeo compose la sua Geografia, che era incognita appresso de' naviganti, come molt'altre per decorso del tempo per questa navigazione novamente discoperta: il che non è di maraviglia, non essendo di costume a que' tempi discostarsi molto dalla terra. Questa è abitata da pastori cristiani, che vivono di latte e butiro, che qui n'è grandissima abbondanzia; il lor pane sono dattili. Nella medesima terra è alcuno riso, che d'altre parti si naviga. Sono di natura Etiopi, come i cristiani del re David, con il capello alquanto piú lungo, nero e riccio; vestono alla moresca, con un panno solamente atorno le parti vergognose, come costumano in India, Arabia ed Etiopia, massime la gente populare. Nell'isola non vi si trova nessun signor naturale: egli è vero che le ville vicine al mare sono signoreggiate da Mori di Arabia Felice, che, per il commerzio ch'essi tenevano coi detti cristiani, a poco a poco gli soggiogarono e impatronironsi. La terra non è molto fruttifera, ma sterile e deserta com'è tutta l'Arabia Felice; in essa vi sono montagne di maravigliosa grandezza, con infiniti rivi d'acqua dolce. Qui è molto sangue di drago, ch'è gomma d'un arbore il quale si genera in aperture di questi monti, non molto alto, ma grosso di gambo e di scorza delicata, e va continuamente diminuendo da basso in suso come ritonda piramide, in la punta della quale sono pochi rami, con foglie intagliate come di rovere. Di qui viene lo aloe soquoterino, dal nome dell'isola denominato. Nella costa del mare si trova molto ambracan; ancora gran quantità ne viene dell'Etiopia, da Cefala sino al capo di Guardafuni, e di questa isola dell'oceano.
Descrizione del cameleonte, e come varia i colori secondo gli obietti ch'egli ha innanzi, e per che causa.
Nel tempo che stavamo in terra io viddi uno animale che gli auttori chiamano cameleonte, e dicono ch'esso si nutrica solamente dell'aere, ed è molto tardo e pigro d'andatura, e ne' suoi gesti a maraviglia allegro. La sua grandezza eccede alquanto la lacerta verde o vero il ramarro, sendo quasi d'una medesima specie: egli è alquanto maggiore di corpo, e di gambe molto piú alto, le quali sono a similitudine di braccia umane. Tiene il dorso dal collo alla coda per la schiena punteggiato come trota: vero è che le macchie sono rilevate dalla pelle, come bottoncini variati di colore; il corpo è ruvido e macchiato come la schiena, ma con bottoni minori e piú bassi, che lo fanno in vista molto formoso. Gli occhi di questo animale sono di maravigliosa bellezza, e fa contrario effetto di tutti gli altri, e sono di colore bianco, verde e giallo: egli pare che, senza volgere nessuna parte del corpo, gli volti e adrieto e poi dinanzi, guardando con essi per ogni banda, e con un solo da una parte e coll'altro al contrario. La coda è lunga e alquanto ritorta, macchiata com'è la schiena. Il suo colore è soverchiamente verde chiaro, massime la parte di sopra, donde lo ferisce il sole, però che da basso del corpo è piú bianco che d'altra qualità; è variato nondimeno per tutto di rosso, azzurro e bianco.
Non lascierò di dire doppo quel ch'io viddi, avenga che molti mi terranno per bugiardo, che la variazione fa secondo i soggetti che gli son posti, perché, sendo sopra cosa verde, rinverdisce la sua verdura; se sopra il giallo, si transmuta alcun tanto in verde giallo; sendo sopra a soggetto azurro, vermiglio o bianco, non muta il verde, ma i punti azurri, vermigli e bianchi si raccendono con piú vivo colore; e maggior variazione fa sopra il negro, perché stando in suo contento non è negro, e ponendolo in cosa negra, il bianco, azurro e rosso diventa oscuro e negro, e perde alquanto la vivacità del color verde. Questa sua mutazione, a mio giudicio, è causata dal piacere o discontento che piglia secondo i soggetti in che gli è posto: nei colori lieti mostra letizia in rinovargli, e ne' colori tristi tristizia in oscurare sua bellezza, perché, non sendo sopra color nessuno, viddi piú volte cangiarlo di colorato in negro, con timor o discontento, quando era preso o molestato. Pascesi di vento aprendo la bocca, la qual serrando, si vede manifestamente crescergli il ventre e abbassarsi a poco a poco.
In questa isola sono molte ville, con casamenti fatti di rami di dattili e chiese murate come le moschee de' Mori, con altari a nostro costume. E non è molto che i Portoghesi fecero una fortezza, e discacciarono e tagliarono a pezzi tutti i Mori dell'Arabia Felice; dipoi per esser la terra silvestre e senza profitto si disfece, e ritornando i medesimi Mori un'altra volta nell'isola, gli soggiogarono alla banda del mare, come di primi. Al presente per timor di noi altri fuggirno alle montagne, non lasciando venir i cristiani a parlare con noi, né a vender cosa nessuna. Per questo non intesi i particolari e cerimonie circa alla nostra fede, salvo da alcuno che stette nell'isola da principio, ch'aveva gran tempo che furno convertiti da uno apostolo del nostro Signor Iesú Cristo; e per la passione ch'egli portò per noi sopra il legno della Croce, osservano e adorano la Croce con grandissima reverenza, guardando la domenica e molte feste comandate, nelle quali vengono alle chiese colle donne e loro figliuoli: egli è vero che esse non entrano dentro, ma restano nell'atrio o cimiterio ch'è di fuori. E il sacerdote (da loro abbune è nominato) mantiene fra essi giustizia nella detta isola.
Descrizione della città di Adem, e che mercanzie navigavano a questa città,
prima che i Portoghesi soggiogassero il mar dell'India.
Dapoi che pigliammo acqua, che fu alli quattro di marzo, prendemmo il viaggio nostro e passammo el ditto capo di Guardafuni, a vista di Etiopia, e de lí traversammo all'altra costa di Arabia Felice, e arrivammo in Adem alli XIIII di marzo, la quale è discosto da Soquotora CXX leghe in XIII gradi. Adem è porto e scala principale di Arabia e d'Etiopia, terra di ragionevole grandezza, essendo quella delli luochi vicini la piú formosa, per quanto dimostra di fuori il suo spettacolo: è nobile e ricca e di grandissimi edificii di pietre ornata, maravigliosa di sito, e di fortezza tale ch'io non viddi, né spero di vederne nessuna, né sí forte né sí ben posta. Perché dalla banda d'Arabia Felice, che la termina da settentrione, da una terra bassa e piana procede una gran montagna, che si estende al mare ben due leghe, la qual la cinge intorno da tre bande; perché da ponente un braccio di mare entra tanto dentro della terra che detta montagna, tenendo l'Arabia solamente un banda, con la quale è congiunta, resta quasi come isola, tagliata da tre parti del mare, tanto precipite e acclive suso alla summità, che pare impossibile che per essa si possa salire. Dalla parte di levante, dove è un porto maraviglioso e sicuro, appiè di detta montagna, nel mezzo d'essa, tiene un spazio non molto grande di pianura, dove fu edificata questa città a somiglianza d'uno semicirculo, perché dalla detta sommità sino alla riviera del mare vengono due ale di monti, distanti l'uno da l'altro mezza lega, che, congiungendosi al mezzo della montagna maggiore, fanno come circunferenzia. In queste ale sono mura fortissime che procedono sino al mezzo di detta montagna, la quale circuisce la città senza muro, la quarta parte servendo il monte in luogo del muro. Nella distanzia delle due ale, nella pianura abbasso è posta Adem, congiunta con la riviera del mare, nella qual è tirato un muro da una ala all'altra, che serve come diametro: detto muro è grossissimo, con suoi torrioni per difendersi da ogni assalto. Da questa parte è molto travaglioso il combatterla, ancora che sia piú facile che da nessun'altra banda, però che dalla terra ferma non si può, avendo a passare per una valle per mezzo di due monti, prima che si pervenga alla porta della città. All'entrata della quale sono duoi castelli che, per esser il sentiero angusto e difficultoso, possono facilmente difendere il passo a poca gente e a molta. Dalla banda di ponente l'acclività del monte precipite non lo consente, nella sommità del quale sono XXV castella superiori alla città, sopra a certi massi come la Verrucola di Pisa, edificati in diverse parti con ragionevoli spazii, che con pietre e altri instromenti possono difenderla e distruggerla. Congiunto con la città al mare è uno scoglio, che difende il porto e muro della terra, dove sono quattro torrioni con molta artegliaria ben ordinati: e fra lo scoglio e la città stanno le navi sicure da ogni tempesta.
Questa terra d'Adem, come tutte l'altre di Arabia e d'Etiopia che sono appresso il mare, non tiene alcuna acqua, né per pioggia ne per natura, perché di maraviglia piove in questo clima in cinque o sei anni di spazio. Qui sono bonissime frutte d'ogni sorte, che vengono dalla terra dentro, e della medesima qualità che sono nelle terre nostre. Gli arbori si mantengono dell'umore radicale e di rugiada, che cade in gran copia in queste parti; l'acqua portano dalla terra ferma, lungi dalla città quattro leghe.
A questa città, prima che i Portoghesi soggiogassero il mar d'India, navigavan da diverse regioni grandissima quantità di speziarie, droghe medicinali, odori, tinte e gioie, panni di seta finissimi e di cotone, e d'ogni qualità di mercanzie orientali; e de lí si transferivano per terra in Arabia, nella Soria e in Asia Minore, sino ne' porti di Damasco e d'Aleppo, e d'altre parti si distribuivano per l'Etiopia. La maggior quantità veniva per mare al Zidem, porto della Mecca, e a Suese e altri porti del Cairo vicini al monte Sinai, e quivi per Alessandria, d'onde si navigavano per la nostra Europa. Ed era tanto il profitto di tal commerzio che in questa parte Malacha, Calicut, Ormuz e Adem, principali porti dove tal mercanzie facevano capo, erano stimate le piú nobili e ricche terre d'Oriente, come delle nostre bande il Cairo e Venezia, che ben sa V.S. illust. quanto si augumentavano. E non dee esser tenuto per maraviglia che siano a tanto stato e grandezza pervenute, perché questi Mori non si contentavano di guadagnare nelle loro navigazioni cento per cento. Dopo la venuta de' Portoghesi, mancando l'utilità di dette terre e soggiogate la maggior parte d'esse, si ritrasseno e' mercanti principali per la terra ferma e per altre parti dove navigano i Portoghesi, il che cominciò annullare il nome e la grandezza di tal terre. Questo fu non solamente detrimento per l'India, ma del Cairo e di Venezia, che tenevano la principal entrata di speziarie, perché, essendo i Portoghesi signori del mare, non lassano trarre nessuna sorte di esse né navigare senza loro licenza, o senza pericolo della vita o di perpetua servitú: la qual licenzia di andare a Mori non concedono. Per questa causa per maraviglia là vanno navi, e se pur alcuna per aventura vi va, non può levare tanta speziaria che piú non sia necessaria per l'Arabia e per Etiopia, dove sono nel medesimo prezzo che in Europa.
Come, arrivati in Adem, vennono ambasciadori di Amirmirigian
e feceli intender quanto desiderassino la pace con Portoghesi,
e dettegli nuove dell'armata del gran soldano entrata nella terra ferma di Arabia,
conquistando quel paese; e la risposta fattali per il capitano maggiore. Dell'isola detta Babel.
Subito che fummo arrivati, il nostro capitano generale in segno di pace mandò a salutar il porto con tutta l'artegliaria. In questo vennono ambasciadori di Amirmirigian governatore a visitarlo, e fargli intendere quanto desiderassino la pace con Portoghesi, e offerire ogni necessario rinfrescamento per l'armata. Questi dettero nuove come Amirasem, uno de' due capitani del soldano, era entrato nella terra ferma di Arabia con 1800 uomini bianchi, de' quali ve n'erano 700 schioppettieri e 300 arcieri, e che di già avevan preso Zibid e Taesa, terre principali del regno di Adem, e robbato infinite ricchezze, di che pagavan soldo a molta gente di Arabia; e che si era congiunto con un signore di essa naturale, e inimicissimo del re di Adem e di suo regno rebelle, il quale andava con detto Amirasem del continuo conquistando ed entrando per la terra ferma; e che stavano vicini ad Almacharana, ch'è una fortezza dove è tesoro d'infiniti re d'Adem, in tanta quantità che, per non parer bugiardo, lascio di scriverlo. Il re si trovava a difensione in questa parte del suo regno con 80000 uomini di guerra, né potevano alla gente del soldano resistere, rispetto alle artegliarie da campo e schioppetti ch'essi avevano. Poi piú oltre come Raysalmon, l'altro capitano, saltò nel porto d'Adem con l'armata che levò da l'isola di Cameran, ch'è dentro del mar Rosso, e con 1200 persone che egli avea la combatté, il che durò XV giorni, e gittò per terra parte del muro: e all'entrar dentro trovò grand'ostaculo, perché di terra ferma soccorreva tanta gente la città che i Mamalucchi, piú per il danno grande che per loro volontà, si ritrassero con le galere tutte aperte per il trar delle artegliarie, e che dopo tornaron per il Zidem.
Il capitano maggiore, ricevutti gli ambasciadori onoratamente, disse che gli doleva molto non aver trovato tal armata al mare, e non già tirata in terra; tuttavolta che sua volontà era di passar al Zidem, e che non avea necessità d'altro che d'un pilotto che al detto porto lo conducesse, e che dicessino al governatore, poi ch'il re stava assente, che gli mandasse alcuno esperto di tal navigazione; e in quanto alla pace, che il re di Portogallo non faceva guerra se non a chi la voleva, né negava pace a chi la domandasse, e che sopra essa alla sua tornata darebbe ispedizione. Tornarono gli ambasciadori a terra, e dipoi menarono quattro pilotti e molto rinfrescamento di carne, pane e altre frutte: e cosí partimmo del porto d'Adem dopo i due giorni di nostra venuta, e fummo alla bocca dello stretto del mar Rosso in un dí e mezzo, che furono XXX leghe di cammino, la quale è posta in XIII gradi. E nell'entrata di essa nel mezzo del mare è una isola detta Bebel, che non è bassa, ma sterile e senza verdura nessuna, come tutte queste coste d'Arabia. L'isola è di circuito di due leghe, distante dalla terra di Arabia una lega, e altrotanto dalla Etiopia. In essa dicono anticamente che stavano due catene di ferro, che traversavano d'ogni banda della terra e difendevano l'entrata e salita del mar Rosso.
Come l'armata di Portoghesi fu costretta dal vento a levarsi dall'assedio di Sacacia e andare scorrendo per il mar della isola Suachem.
Alli XVII di marzo entrammo dentro con grandissimo vento, e nell'entrata pigliammo una nave di Cambaia, che veniva di Zeila con certi Turchi e Mammalucchi, carica di mercanzie e vettovaglie: e la medesima notte con grandissima tempesta la perdemmo, con altre navi indiane, che venivano in nostra conserva, de cristiani de Malabari, e una fusta nella qual erano LX uomini portoghesi, della qual dipoi mai non avemmo notizia. Fummo per il mar Rosso a cammino per la Mecca, passando a vista di molte isole grandi, diserte e inabitate, per la carestia dell'acqua che è in questa parte. E cominciando già i venti contrarii che in questi tempi soffiano per le navi che tornano d'India, tardammo dalla bocca al porto del Zidem XXV giorni, che furono leghe CC di cammino. Essendo vicini al porto già detto VIII leghe a vista della terra, con la gente e artegliaria ad ordine per saltare l'altro giorno nel porto e combatter la città e destrugger l'armata, fu tanta la nostra disaventura, o volontà dell'Altissimo, ch'il vento che era a poppa si voltò per la prua, né potemmo andar un passo avanti: che causò grandissimo danno a tutta l'armata e gente di essa, non potendo destrugger le galere del soldano né conquistare Sacacia, città come il Zidem, la quale senza dubbio era nostra, perché a questo tempo stava disprovista e senza difensione alcuna. Questo fu cagione ancora che gli ambasciadori che noi levavamo per il Prete Ianni non andassero a lor cammino, e fu tanto il danno che fece questo pessimo tempo, che per aventura non fu altro simile in queste parti, che ben si può dire che nessuno si può confidare in certezza di mare.
La nostra nave, dove veniva l'ambasciadore del Prete Ianni, per essere grande e forte, levava per poppa una grandissima nave di Malacca detta giunco, che cosí si chiama una certa sorte di navili che vengono dalla Cina, ne' quali andavano li cristiani indiani, e per non poter navigare tanto come l'armata, era necessario la levassimo. E cominciando di continuo il vento e 'l mare a farsi grande, per il peso del giunco non potevamo andar tanto a orza come l'armata, ma di continuo piú a sottovento; e per essere vicini a certi bassi, essendo l'armata già sopravento da essi passata avanti, noi non potemmo passargli, e fummo necessitati mutarci in altra volta del mare. E quando tornammo al medesimo cammino, restammo indrieto quattro leghe e a sottovento di detta armata, la quale perdemmo la medesima notte, senza poterla mai in questi giorni rivedere. Fummo parando al vento e alla tempesta quasi incomportabile due giorni, sperando di nuovo congiungerci, se non in altro luogo, al meno al Zidem. E in questo tempo si aperse il giunco per la gran fortuna che era in mare, non sendo sí forte come le nostre navi, e fu necessario ch'accogliessimo tutta la gente che in esso andava a fin che non si perdesse: il quale dipoi fu al fondo.
E questo fu il venerdí santo, nel quale per l'altura del sole trovavamo esser discaduti XXX leghe del nostro viaggio, e non cessando il vento, ma continuamente crescendo, trovandoci con poca acqua e molta gente, né sapendo dove la potessimo pigliare, determinammo di tornare all'isola di Cameran mentre ch'il tempo serviva per quella parte, con timore di calma o che non si mutassi in tempo che non potessimo arrivare in alcuna parte. E non avendo altro rimedio a nostra salvazione, demmo volta per detta isola, e il pilotto errando il cammino fu a levarci in Etiopia, all'altra costa, la quale (per esser in queste parti il mare piú largo che in nessun'altra di questo stretto) è larga dall'altra di Arabia 30 leghe. Fummo al lungo la detta costa con intenzione d'entrare nella isola di Suachem, che è messa in un braccio di mare dove i cristiani di Etiopia s'imbarcano per Gierusalem; ed essendo già in latitudine di XVIII gradi, in che detta isola è posta, non potemmo mai conoscerla.
In questo tempo avemmo vista d'un navilio di Mori che per la detta isola navigano, e fummo col battello ben armato per pigliarlo e da essi intendere donde detti fussero; i quali, subito ch'ebbero vista di noi, diedero in secco della costa e fuggirono, lasciando il navilio senza gente. Noi discendemmo in terra per trovar alcun modo di pigliar acqua, e non trovando abitazione alcuna, ci mettemmo a far pozzi; ed essendo l'acqua salmastra, ci tornammo alla nave con grandissima passione.
Della isola detta Dalacia. Come i Portoghesi patirno gran disagi per mancamento d'acqua, e d'un maggior pericolo che li sopravenne. Della montagna detta Bisan overo Visione.
Perduta la speranza di Suachem, determinammo passare a Dalaccia, ch'è un'altra isola nella medesima costa, dove già furono nostri navili nel tempo dell'altro capitano, che passò nel mar Rosso. E perché l'ambasciadore ci diceva fossimo là, che non la potevamo fallire, e che de lí andassimo al porto del Prete Ianni, dove ci saria dato quanto fosse necessario, de qui partimmo, andando sempre a vista di molte isole, fra le quali molte d'esse erano piene d'arbori e di verdura, che molte volte c'ingannò, perché, giudicando che tenessino acqua, fummo là col battello, né mai potemmo discoprirla, ma di continuo perdendo tempo andavamo per perduti, piú l'un giorno che l'altro disperandoci, salvo che della misericordia di Dio, che era cosa miseranda a vedere in quanta necessità ci trovavamo. La gente del Malabare, uomini di piú debile complessione, cominciorno a morire a visibile sete; alcuni, aggiungendo male a male, si saziavano con acqua salata; molti anche con disperazione si lanciavano in queste isole disabitate; altri per la sete incomportabile accecavano, senza mai tornare nell'essere di prima; alcuni altri morivano come cani rabbiosi.
Andando in questa disperazione ci sopravenne maggior pericolo, perché, lasciando il vero cammino, il quale era lungo la terra, una notte ci allargammo al mare per piú sicura navigazione, e venuto il giorno ci trovammo circuiti d'infinit'isole e scogli e bassi, e tanti ch'era impossibile il contarli: e non potendo tornare indrieto, per il vento che ci sforzava d'andare avanti, né sapendo il cammino per onde fusse, mancando l'acqua quasi del tutto, dubitammo grandemente della nostra salvazione. Quest'isole ci detennono molti giorni, non potendo di notte navigare, perch'era necessario che il battello andasse avanti alla nave per discoprir fondo donde potesse passare, e talora surgemmo tre o quattro volte per giorno, con grandissima fatica di tutti e passione d'animo in dar le vele e ordinare la nave, non potendo i marinari supplire a tutto.
Cosí, navigando sempre col piombo in mano, fummo con tanto riguardo che venimmo a cert'isole maggiori, dove il mar era piú largo, e in esse avemmo vista di certi navili che venivano di Dalaccia a pescar perle, i quali ne dettero grandissima speranza che Dalaccia saria vicina, stando noi quasi nella sua latitudine, che sono XVI gradi. Fummo dietro ad essi navili, i quali, fuggendo a vele e a remi, si raccolseno in una isola grande che per la nostra prua si dimostrava, per onde pigliammo il cammino. E vicini alla notte volendo buttar l'ancora in un'isoletta, non trovando fondo, fu necessario che ci allargassimo al mare, aspettando fino al giorno fra la terra ferma e quest'isola: dalla quale la mattina ci trovammo lungi IIII leghe, rispetto alla correntia dell'acqua ch'è nel canale fra l'isola e l'Etiopia, e quivi buttammo l'ancora, non potendo tornare ad essa per il tempo che si era mutato.
In questo mezzo l'ambasciador ci mostrò Dalaccia, e come si chiamavano molte altre isole vicine alla terra, e dove stava il porto del Prete Ianni, ch'era nella costa di Etiopia, non piú lungi che quattro leghe, abbasso di una grandissima montagna detta Bisan, o ver la Visione, nella quale è un eremo di religiosi con una chiesa dedicata ad Abraam: e in essa abitava uno episcopo di santa vita, nominato abbuna Gebbra Christos, con monachi osservanti. E pregò il nostro capitano che fussimo con la nave in tal porto, che in esso stando la nave sicura, potria la gente restaurarsi della mala vita che tenevamo, e di qui certificarsi e chiarirsi della sua imbasciata. Il capitano non volse mai concedere che vi andassimo, pigliando varie iscusazioni; e non potendo dar le vele per il vento contrario, mandò il battello all'isola di Dalaccia, a discoprir alcuna acqua dolce, e dove potessimo alcuno giorno riposarci. Il quale tornando l'altro giorno con grandissima festa (presa una gelfa, navilio piccolo di Mori cosí chiamato), ci diede nuove di una isoletta congiunta con Dalaccia, abondantissima d'acqua e di bestiame, alla quale navigammo, in un porto ch'era fra una punta di Dalaccia e la ditta isola.
Come il re di Dalaccia venne a parlamento col capitano di Portoghesi, e che notizia s'ebbe in tal colloquio del stato del re David, ora chiamato Prete Ianni.
Lo primo giorno di maggio, fummo in terra CCCC uomini e ci assicurammo d'essa, perché li Mori, non avendo animo di aspettarci, fuggirno subito a Dalaccia. Nella gelfa che presero quando l'isola fu discoperta, menarono alla nave un Moro antico di essa naturale, al quale si fece molto onore, dandogli vestiti e panni di piú sorte: e mandammolo a Dalaccia, accioché fussi a parlar al re, che la nostra venuta e presa della sua isola non era per fargli alcuno impedimento, se non di pigliare acqua e alcuno rinfrescamento, di che eravamo necessitati, e che quanto in essa si dannificasse pagaremmo a sua volontà, e che la nostra intenzione era di aspettar il capitan maggior, dal qual eravamo stati separati per fortuna, che di là aveva a passare. Il re, con questo assicurato, mandò ambasciadori, i quali subito conobbero Matteo, ambasciadore del re David, e li fecero grandissima riverenza e molta festa, mostrando di fuori gran contentamento della sua vista, e dissono che disponessimo di Dalaccia e di sue isole a nostra volontà. Di che il nostro capitano gli ringraziò molto, e disse che dicessero al re che fusse certo che il capitano maggiore gli resteria in grandissima obligazione, e che, per saper che erano in amicizia col re David, non avevano a ricever da noi se non onor e utilità, e che, mentre che quivi stessimo, mandasse a vender alla spiaggia alcune vettovaglie, e che tutto si pagarebbe per suo prezzo. Cosí essi tornarono contenti e sodisfatti, venendo il giorno seguente con presenti di latte, carne e mele; e dissero che il re desiderava parlare al capitano e all'ambasciadore, al qual portarono lettere del re, rallegrandosi di sua venuta.
Dopo tre giorni venne il re con 500 uomini da piedi, mal armati, con certi dardi, scudi e archi non molto buoni e alcune spade a nostro costume; i piú onorati venivano in camelli e dromedarii e cavalli leggieri di Arabia, con varii instrumenti e suoni, a costume di quelle parti. Il re veniva vestito alla moresca, con una vesta d'oro e di seta variata, e di sopra un panno attraversato all'apostolica. Egli è giovane di XXV anni, di colore lionato bene scuro, come sono la maggior parte di Mori di Arabia Felice sino alla Mecca, con capelli lunghi e ricci. Fummo alla spiaggia col nostro capitano senz'arme, per segno di maggior amicizia, stando nondimeno sempre col battello sopra aviso d'alcun tradimento a costume degli Arabi. Doppo molte cerimonie, il capitano e l'ambasciador pregorono il re mandasse al Suachem per terra o per mar ne' porti di Arabia a intendere della nostra armata e dar notizia di noi altri; il re cosí promise, e mandò un suo famigliare alla nave per lettere, e tornossene per la sua terra.
In questo colloquio avemmo alcuna notizia dello stato del re David, da noi nominato Prete Ianni e da' Mori sultan Aticlabassi, e intendemmo il suo regno occupare quasi tutta l'Etiopia interiore e abbasso dell'Egitto: ed è opinione di molti che si estenda vicino a Manicongo, terra dalla banda di Ghinea del re di Portogallo. Va sempre alla campagna con padiglioni e tende di sete e varie sorti di panni, con tanta gente di cavallo e di piede che non tien numero né misura, di maniera che non costuma fermarsi in una terra piú di quattro mesi, dove, consumate le vettovaglie e carne e legna, si lieva e transferiscesi per altre provincie, faccendo com'è a dir un divorzio: e pare che non torni là onde egli si parte di dieci anni. Al presente si trovava in Chaxumo, terra già Auxuma denominata, corrotto il vocabulo, come l'isola del Nilo Meroe detta, e ora Gueguere. Dicono ch'è giovane de XVIII anni, formoso e di colore di olivo, né si lassa vedere a nessuno in viso, salvo ch'una volta nell'anno per maggior stato, andando il resto del tempo con la faccia coperta; non gli parla nessuno se non per interprete, passando per tre o quattro persone avanti che pervenga a lui. Li naturali della terra sono segnati di foco, della qualità ch'in Roma si veggono. Questo non è segnale di battesmo, perché si battezzano con acqua come noi, ma solamente per osservar il costume di Solomone in segnare li suoi schiavi, donde è fama la casa del re di Etiopia esser discesa: perché dicono ch'una regina fu a visitarlo e, restando gravida, partorí un figliuolo dal qual discese tal generazione, e per questo, essendo dalla casa d'Israel, osservano i cristiani etiopi la legge antica e moderna, usando battesmo e circuncisione, e osservando la festività degli apostoli e de' santi moderni, e de' patriarchi e padri del vecchio Testamento. Qui dicono essere uno anello di Salamone e una corona e catedra del re David, tenuta in grandissima osservanzia. Piacendo a nostro Signore dare effetto a' nostri desiderii, passando io in quel paese potrò dare piú certo testimonio di questo, che non è se non per fama.
Del modo del pescar le perle. Dell'isola Baharem. Come in Zeilam nascono varie pietre preziose,
e qual fusse anticamente detta isola di Zeilam.
Stemmo in questa isola di Dalaccia un mese intiero, la qual è in latitudine di XVI gradi, vicina alla terra d'Etiopia VII leghe. È di XX leghe di circuito, di sano aere, isola bassa e sterile con certi colli e valli pieni di pruni e stecchi, senza nessuno arboro fruttifero. Qui poco si semina, che la maggior parte della vettovaglia viene di Etiopia, che sono mele, miglio, butiro e qualche poco di grano; è buona solamente per pasture di capre, camelli e bovi, che qui sono in gran quantità per tutta l'isola, perché è abbondantissima d'acqua dolce, che è rara in queste parti. Cominciossi ad abitare per la commodità di quest'acque, e rispetto alle perle ch'intorno ad essa e ne' bassi dell'isole circonstanti si generano, che tutte sono di questo re. Pescansi nel fondo del mare con una rete al collo, come vangaiuole, la quale dipoi ch'è piena di madre di perle, la legano ad una corda che pende con contrapeso dal navilio (in che vanno a pescarle) insino al fondo del mare, e tornati di sopra la tirano. Cosí costumano in Cefala, ch'è nella costa d'Etiopia, donde viene oro della terra ferma vicina a Monzambique, ch'è non troppo lontana dall'equinoziale; e questo medesimo modo usano in Baharem, che è un'isola dentro il sino Persico cosí chiamata, donde vengono le miglior perle e in maggior quantità che d'altra parte. Cosí nell'isola di Zeilam, di sotto di Calicut C leghe, dove nascono ancora i topazii, iacinti, rubini, zaffiri, balasci e alcuno carbonculo, lesicione, occhi di gatta e granati e grisoliti, che in questa sono in grandissima abondanzia; da essa viene la buona cannella, che non si trova in altre parti. Quest'isola di Zeilam mi pare la Taprobana, e non Sumatra, come mi dicono molti, quantunque l'anno passato scrivessi il contrario: dipoi avendo ben considerato, confermo che Sumatra non era a tal tempo scoperta. Similmente vengono le perle di là da Malacha, delle terre del Cataio o vero delle Cine, di certe isole del sino Magno, e in tutti li luoghi sopradetti si pescano d'una medesima maniera.
Quel che l'imbasciadore ricercasse il capitano mentre dimororno in Dalaccia, e quello li rispondesse il capitano. Come intesero l'armata ritrovarsi a Cameran, e che nuove avessero del soldan e del Zidem.
In questo tempo di nostra dimora in Dalaccia, l'ambasciador parlò molte volte al capitano della nave che mandasse il battello alla isola di Mazua, che era a nostra vista non piú lontana che cinque leghe, appiè del già detto monte della Visione, perché dalla detta isola a terra non aveva piú che una lega, dove era un porto de' cristiani detto Ercoco, da' quali, o da' monachi dell'eremo della Visione, mandando là o loro venendo a Ercoco (come costumano), che è lungi dall'eremo dua giornate di cammino per la montagna, potevamo sapere certezza di sua imbasciata e di alcune dubietà che tenevamo, a fine che, quando ci congiungessimo col capitano maggior, non fusse necessario ditenersi in saper tali particolari, ma che potesse dare ordine che gli ambasciadori passassero. All'ultimo, non prestando il capitano fede a cosa che egli dicesse, gli fece requisizione per parte d'Iddio e del re di Portogallo, in publico, per mano dello scrivano della nave, al quale il capitano rispose che non levava reggimento del capitano maggiore di cosa nissuna, e se in questo andare e mandare risultasse alcuno inconveniente, ne poteva di esso dare buon conto: e per questo lasciò tal impresa, tanto facile a darli effetto, restando il tutto confusa e senza alcuna conclusione.
E stando già con determinazione di partire per l'isola di Cameran e di lí per l'India, i Mori di Dalaccia ci dettono nuove l'armata essere in detta isola di Cameran, e già sendo securi che non aveva a venire a Dalaccia, cominciarono simulatamente a ricalcitrare e mostrar che non curavano tanto della nostra amicizia come prima. Dipoi avemmo vista di due caravelle nostre, che venivano dalla isola di Cameran, ispedite dal capitan maggiore, le quali il giorno seguente comparsono nel porto dove stavamo sorti; e li capitani di esse vennero alla nostra nave con grandissima allegrezza e piacere di tutti universalmente, loro per trovarci, che ci giudicavano per perduti, e noi per il desiderio che tenevamo di saper nuove dell'armata. Le dette caravelle venneron con intenzione di scoprire i porti de' cristiani, e levavano tre uomini, fra li quali era un Moro di Granata, astutissimo e di grandissima pratica, il quale il signor Alfonso d'Alburquerque aveva tenuto in ferri molto tempo, parendogli che con la sua astuzia poteva fare alcuna revoluzione nell'India contro a' cristiani. Costui al presente lo liberorno, accioché andasse come mercante in Etiopia, e gli altri due Portoghesi come suoi schiavi, e che riportasse nuove in India di tale imbasciata, avendogli promesso alla sua tornata farlo scambadar della isola di Ormuz, che è officio molto grande di onore e profitto, e come appresso di noi consolo di mare.
Da questi capitani avemmo nuove che 'l medesimo giorno che ci separammo dall'armata, e sendo vicini alla terra del Zidem dalla banda d'Arabia, venne alla nave capitana una guelfa, o vero navilio de' Mori, dove erano XVIII cristiani di Grecia, di Corfú, Candia e di Scio e alcuno genovese, bombardieri maestri di far galere e calafati. I quali dissero che, nel principio che si cominciò a far l'armata del soldano, furno presi ne' porti di Soria e mandati al Suez, donde s'armarono le galere, per servire a tal opra; e che al presente erano fuggiti, dando ad intendere al capitan moro che tornariano a Suez, e che determinavano di pigliar una nave grande, con pilotti, avanti che passassero nell'India o in Ormuz alle fortezze de' cristiani. E vista l'armata nostra, ne vennero ad essa, e dettero nuove come il Zidem stava provisto di gente, però che in essa non aveva piú che CCC Mamalucchi e Raysalmon, uno de' capitani del soldano, perché l'altro era stato morto da detto Raysalmon (come si dirà), il quale aveva messo ad ordine due galere per passare al Cairo al gran Turco, che al presente dicono esser signore di Soria e Asia Minore, il quale lo mandava a chiamare; e che tutti gli altri Turchi, Africani e Mamalucchi erano sparsi in diverse terre, non li pagando soldo, e avevan lasciate le galere e le artegliarie nella riviera del mar, come quelli che non sospettavano di nostra venuta. Il Capitan maggiore, desideroso di arrivare al Zidem, stette XV giorni andando sempre in volta per non discader del suo cammino, e in questo tempo mai non poté entrare nel porto, per la gran fortuna che già dicemmo, per la quale fu al fondo una nave portoghese il sabbato santo (vero è che si salvò tutta la gente).
Come, essendo giunta l'armata di Portoghesi al porto del Zidem, fatto consiglio si determinò
di non dar battaglia alla città, e per che causa. Del fiume Indo; dell'isola detta Diupatam;
e come il capitano maggiore, dando ordine di partirsi,
mandò a por fuoco a tre navi grosse e a un galeone di due coperte.
Nel tempo che vedemmo la terra del Zidem, all'entrata dell'armata nel porto, Raysalmon, avendo notizia di nostra venuta per gli uomini della terra, da' quali fummo visti, ebbe commodità di munire la città di artegliarie e gente che dalla Mecca vennero: e passavan 10000, di diverse regioni, che vi erano in peregrinaggio, perché la Mecca non è piú lungi dal Zidem che XII leghe. E subito che la nostra armata comparse, non restarono dí e notte di sbombardarla, senza farle alcuna offesa, ancor che le lor artegliarie siano potentissime, le quali, stando le nave sorte molto lungi, tirando in arcata davano in fallo. Il medesimo giorno si messero insieme i principali col capitan maggiore ed ebbero varie openioni, se fusse ben darle la battaglia o lasciarla: e contro alla volontà di molti, desiderosi di saltare a terra, dal signor Lopes Soares, uomo prudente e temperato in ogni suo negocio, fu determinato che era piú securo non combatterla che, combattendola, metter in pericolo l'armata e lo stato di India. Conciosiaché, non sapendo che gente fosse nella città, e che essi non erano molti, rispetto che nella nostra nave che non vi fu andavano quattrocento uomini, e non restando le nostre navi ben guardate, potevano i Mori, con due galere che stavano al mare, saltare ad esse quando i nostri Portoghesi fossero in terra e vietare che non tornassero a difenderle; e lasciando le navi con gente, pochi restavano per combatter la città, il mare della quale è tanto basso che i battelli non possono a gran spazio arrivar alla spiaggia. E per questo era necessario che fussero per acqua mezza lega, e col peso dell'armi, e per l'impedimento dell'acqua, avendo a disbarcar nel mezzo della riviera, piena d'infinita arteglieria grossa e minuta, prima che là comparissero sarebbero mal trattati, e trovando alcuna resistenzia, portavano pericolo non si poter raccorre sí presto a' battelli, e per tal impedimento di restar tutti morti.
Stando in questa resoluzione, fuggí di terra un schiavo di Raysalmon, che dicono era suo cameriere, cristiano delle terre di Mondevi, e venne per questi bassi vicini alle navi, donde lo levorono in un battello alla capitana, e diede nove del soccorso ch'era venuto nella città della Mecca, e come stava fortificata, dechiarando molt'altri segreti che sapeva: fra gli altri, che quivi si trovava l'ambasciadore del re di Cambaia, ch'è una delle principali e ricche regioni dell'India, per la quale il fiume Indo spargendosi entra nel mar Oceano; e questo ambasciadore l'avea mandato di consiglio di uno Turco chiamato Melchias, il quale è signore dell'isola di Diupatam, suddito al detto re, la qual isola è posta in un braccio di mare ch'entra in detta Cambaia gran spazio, nel qual braccio è la bocca del detto fiume Indo. Questo Turco detto Melchias, com'uomo sagacissimo ed esperto, dapoi che i Portoghesi disbarattarono, già sono nov'anni, l'armata del soldano nella sua isola, con morte di sei o settemila persone, parte del Cairo e parte della sua terra, con suo ingegno, fatta pace col vice re ch'era in quel tempo, ritenne sempre l'amicizia del re di Portogallo per non perder il suo dominio, scrivendogli ogni anno e mandandogli varii presenti e opere bellissime che si lavorano in questa terra, tenendo contenti con diverse maniere i principali Portoghesi dell'India e faccendo a tutti generalmente grandissimo onore, presentandogli con varie cose di Cambaia; dall'altra parte attese sempre a fortificarsi di castella e di artegliaria, mostrando che tutt'era di Portoghesi. In questo medesimo tempo non lasciò mai d'intertenersi col soldano, dando particolare aviso del loro stato nell'India, e sendo già l'armata presta al presente, mandava a sollicitare che passassino a Diupatam e che non tardassino, che teneva in ordine vettovaglie, arteglierie, navili, legnami e ferro e gente per congiungersi con loro, e ch'erano tornati al Zidem per reparar le galere e passare all'isola di Diupatam, e de lí poi tornare sopra la fortezza d'Ormuz. Inteso tutto per il capitan maggiore, diede ordine alla partita, tre giorni dipoi che stavano in detto porto, e prima mandò a por fuoco a tre navi grosse a nostro costume e a uno galeone di dua coperte, che li Mamalucchi avevano armate sopra navi che presono di Mori quando furono in Adem; e dato a tutto ispediente, si venne all'isola di Cameran, donde dispaciarono le caravelle sopradette per Dalaccia.
Descrizione di Zidem, città di Arabia.
Il Zidem (come dicono molti) è città di Arabia Deserta in XXII gradi e mezzo di latitudine, porto della Mecca da' Mori molto nominato, ed è tenuta per terra santa come la Mecca e Medina Talnabi, dove è sepolto Maumetto, alla qual vanno in peregrinaggio di tutte le parti di sua legge: e in nessuna di queste può entrare altra generazione che maumettani. La città del Zidem non è molto grande, ma tutta murata, con edificii di pietra circuita dalla terra, e dalla banda del mare senza muro, salvo che cominciarono a farlo dipoi che i Portoghesi furno la prima volta nel mar Rosso, che adesso non era fornito; è situata in terra sterile e deserta come altre di Arabia, non tiene acqua nella città, ma viene di fuora di cariche di camelli, come in Adem, in Zeila e in tutte queste terre vicine al mare. Dal Zidem (come è detto) alla Mecca sono per terra XII leghe, e dalla Mecca a Medina Talnabi LX leghe; da Suez al Toro, dove si fece l'armata, sono per mare LX leghe, e dal Toro al monte Sinai vicino al Zidem CC leghe, e da Zidem a Cameran CLXX leghe.
Come il capitano maggiore mandò a scoprir i porti del Prete Ianni e, fatto intendere ad esso re l'imbasciata del re di Portogallo e del suo ambasciadore, giunsero a Cameran. Del disordine che per mal governo seguí a Dalaccia.
Per dar ispedizione a questo, il capitan maggiore mandava a discoprir i porti del Prete Ianni, e il nostro capitan lasciò lo ambasciadore con dette caravelle, che con essi capitani fummo a Mazua e al porto de' cristiani detto Ercoco, e de lí mandammo ad uno re cristiano chiamato Bernagasso, suddito al re David, lungi dal porto quattro giorni di cammino, e all'eremo della Visione, che facessero intendere dell'imbasciata che mandava il re di Portogallo e del loro ambasciadore, e per cosa nissuna non confidassino ne' Mori di Dalaccia, ch'erano traditori e avevano a vendicarsi del danno ricevuto. Con questa resoluzione partimmo per Cameran all'altra costa d'Arabia Felice, ch'è lungi cinquanta leghe da Dalaccia, e passammo a vista di molte isole, e fummo in Cameran in quattro giorni, con grandissima alleggrezza e festa di tutta l'armata.
Cameran (com'è detto) è isola bassa di quattro leghe di circuito, vicina alla terra ferma meza lega, in XV gradi di latitudine, la quale fu distrutta sono già quattro anni, la prima volta che la nostra armata fu nel mar Rosso, col signor Alfonso d'Alburquerque: dove stetteno quattro mesi, e per mancamento di vettovaglie non lasciarono animal vivo né arbore di dattolo in piedi, ch'in quest'isola ve n'erano in gran quantità, e nella loro partita posero fuoco alla villa d'essa, molto grande, populosa e ricca, perché le navi che passavano di Adem alla Mecca tutte pigliavano acqua in questa parte, della quale è abbondantissima la terra, cosí come in tutto lo stretto è al contrario. Questa isola è la piú calda che mai vedessi, di sorte che non era alcuno che per tal calidità non tenesse le parti inoneste del corpo scorticate. Quivi morí molta gente nostra, piú per mancamento di quello ch'è necessario alla vita umana che per mala qualità della terra, perché in Dalaccia, ch'è d'uno medesimo essere ch'è Cameran, dipoi che pigliammo acqua, per l'abbondanzia della carne quelli ch'erano di mala disposizione tornaron tutti di salute.
Non stemmo tanto che le caravelle vennero dell'isola di Dalaccia, senza opera alcuna che buona fusse, per il mal governo ch'ebbero, perché subito che veddon noi alla vela, essendo loro quasi vicini al porto di Ercoco, si tornarono per Dalaccia e mandorono il Moro di Granata in terra a parlare al re e dirgli com'erano venuti per mandato del capitan maggiore, per far pace con detta isola. Fu a terra, e là si convenne di dare l'ambasciadore e le caravelle a man salva al re di Dalaccia; e tornato, diede a intender ch'avea tutto composto col detto re e che potevano andar e venir sicuramente, e che lui mandava a pregare i capitani che fussino a terra coll'ambasciadore, per poter fermar la pace ch'adomandavano. Li capitani parlorno con l'ambasciadore per menarlo in loro compagnia, a' quali rispose non esser venuto per andar a Dalaccia a mano di Mori, né per confidarsi del detto Granatino, che li conosceva meglio di loro, e che lui non partirebbe delle caravelle. Con tutto questo i capitani, che levavano mal cammino e credevano a quanto il Moro avea detto, si messero in ordine per andare. In questo l'ambasciadore fece lor richiesta che non andassero a terra e che non confidassero de' detti Mori, e se pur andassero, fussero con gran riguardo e ben armati: e tutto fece scriver in publico allo scrivano della caravella.
Essi furno a terra senz'arme d'alcuna sorte, e aspettavano il re che venisse di basso di certe grotte che sono alla riviera dell'isola, consumate dal mare, dove mancando l'acqua, che di sei ore in sei ore cresce e scema, restò il battello in secco. In questo vennero i Mori, e inteso non esservi l'ambasciadore, cominciorono con certi dardi a ferire la maggior parte de' nostri che stavano nel battello, il quale dipoi presero, tirando fuori un de' capitani, e tagliaronlo a pezzi con due altri. In questo tre uomini, che non volsero lasciar le sue spade nella caravella, si cominciarono a difender e dar cuore agli altri, tanto che trasseno il battello al mare e raccolsono molti che s'erano gittati in mare, per tornare alle caravelle. Con questo disordine si tornaron per Cameran, non curando di far altra diligenza. Al capitan maggiore dolse molto che questo disordine fussi seguito, e aspettando noi altri che si facesse alcuna determinazione per donde fussimo a nostro cammino, occorse la morte di Odoardo Galvan, che andava ambasciadore del re al Prete Ianni, e questo fu causa che non si parlasse piú circa la nostra andata.
Come i Portoghesi gettorono a terra una gran fortezza fatta per i Mamalucchi. Come il soldano mise tempo otto anni a far 20 galere e quanto feciono di costo; e come fece duoi capitani generali dell'armata e che ordine dette loro.
Stemmo in Cameran sino alli XII di giugno, e in questo tempo buttammo a terra la fortezza fatta da' Mammalucchi, grande e a nostro costume edificata, giunta col mare in un braccio dove è il porto di detta isola: e fondaronla dalla banda della terra sopra d'un masso che serviva per mura per due terzi della fortezza, sicura rispetto a tal masso da ogni arteglieria dal porto del mar; l'altra terza parte era muro grossissimo di trenta piedi di larghezza, con sue torri e bombardiere ben armate, e dal mezzo in suso curvato per non si poter scalare, nel quale fece di spesa il soldano saraffi 10000, ch'è una moneta d'oro di valore di XXV grossi, che corre per tutta l'Arabia e parte di Persia: è di diverse stampe, secondo ch'ella è delle terre diverse.
Da cristiani che fuggirono del Zidem intesi come l'armata del soldano era già otto anni passati che fu principiata, ne' porti di Suez, presso al Cairo tre giornate per terra, e che in tutto questo tempo non si fecero se non XX galere, cioè sei bastarde e XIIII reale, rispetto al gran costo e mancamento del legname, il quale veniva delle terre del Turco, del golfo di Scandaloro presso di Rodi, donde lo levano in Alessandria e al Cairo per il fiume del Nilo: e qui si lavora, e poi con camelli per terra in pezzi lo conducono al detto porto di Suez, dove non vi bisogna altro se non congiungerlo e metterlo in opera. Queste galere, quando furono tirate di terra al mar, con sue artiglierie e gente pagata per quattro mesi e colle vettovaglie, feciono di costo 800.000 saraffi. E ch'in essa andavano 3000 uomini tutti di buona voglia, e che ciascuna delle sei bastarde levava a prua un cannone grossissimo, da molti detto basilisco, e due colubrine, alla poppa due altre colubrine e nel mezzo, giunto all'arbore da ogni costato, un cannone, e un tiro picciolo con sua coda fra ogni quattro banchi; le quattordeci galere reali a prua levavano due colubrine e un cannone, e due a poppa, e dalle bande 24 tiri. E detti 3000 uomini erano 1300 Turchi, 1000 Africani e 700 Mammalucchi e rinegati: fra tutti questi 1000 schioppettieri.
Essendo già in ordine tale armata, il soldano del Cairo mandò Raysalmon, natural di Turchia, al cammino di Suez, uomo audacissimo ed esperto, il quale, sendo ribello al gran Turco, era stato gran tempo corsale ne' nostri mari, e ordinò che fusse in compagnia con Amyrasem, e quelli due fossero capitani generali, e che Raysalmon reggesse la gente e l'altro tenesse cura di ordinare quello che fusse necessario per l'armata, e che di consiglio di amendue s'incaminasse ogni impresa. Partironsi di Suez per il Zidem già sono due anni, dove Amyrassem teneva ordinata gran quantità di danari, data prima fede al soldano non far guerra a nessuno di sua legge. Da Suez passarono al Toro in otto giorni, e di lí al Zidem, donde prese molte vettovaglie, si posarono a Cameran: qui il soldano ordinava per suo reggimento che si facesse la fortezza già detta, e che non passassino piú avanti senza suo espresso mandato. In questo tempo cominciarono a mancare le vettovaglie, e non pagavano soldo: per questa cagione si levoron settecento uomini del campo e fuggironsi in un colle dell'isola, e mandarono a dire a' capitani che pagassino il soldo che gli davano e mandassero a fornire il campo di mantenimento d'altra maniera, faccendo determinazione di morire tutti sopra questa dimanda. I capitani cominciorno a mitigarli, e saputo per certo ch'il re d'Adem non lasciava venire cosa nessuna della terra ferma ch'era di suo dominio, Amyrasem convenne con Raysalmon di passare nel regno d'Adem con parte della gente, schioppettieri e arcieri, i quali fra loro continuamente andavano multiplicando, per rispetto che Raysalmon levava gran somma di scoppietti e cresceva soldo a chi voleva levarli: per questa causa ne avea già insieme piú di 2000.
Come Amyrasem messe a sacco Zibid (e ivi fu morto il fratello del re di Adem) e dipoi Taesa, ch'è un'altra buona città; e come Raysalmon fece nel mare affogar Amyrasem.
Passò Amyrasem nel regno di Adem, a un porto ch'è fra la bocca del mar Rosso e Cameran, con milleottocento uomini, i quali, avendo disbarattato con le artegliarie in guerra campale gran numero de Mori, entrarono in Zibid per forza d'arme, la qual città del detto regno è grande, ricca e abbondantissima di tutte le cose a nostro costume, e di essa insignoritisi, s'empierono tutti di ricchezze, di donne e cavalli: e in questa entrata ammazzarono un fratello del re. Quindi andarono a Taesa, ch'è un'altra buona città, e conquistaronla con piú facilità, non osando i Mori aspettar il tiro di schioppetto; e stando in questa terra ricchissimi e con tutti i piaceri e delicatezze umane, addimandorono nuovo soldo al capitano, il quale iscusandosi minacciorono di morte. Esso scrisse a Raysalmon quant'era successo; egli rispose che, come fossero a Cameran, tutti sarebbero contentati a lor volontà. Risposero di non voler altro Cameran che la terra di ch'erano signori; Amyrasem con sospetto ne fuggí e venne per Raysalmon, e vedutosi piú l'un giorno che l'altro mancar la vettovaglia, amendue uscirono dello stretto del mar Rosso e andarono a Zeila, città posta nella costa d'Etiopia, fuora della bocca del mare. I terrazzani, per timore che non avvenisse lor quel medesimo che a Zibid e a Taesa, diedero 10.000 saraffi in denari e vettovaglie e gente per le galere.
Partirono poi di Zeila al cammino d'Adem, e nel mezzo del golfo del sino Arabico ebbero vista d'una grandissima nave di Malaccha, alla quale fu Raysalmon, seguitandola sino che perdette l'armata di vista: e l'altro giorno la prese e mandò cosí carica d'infinite e ricche mercanzie a Diupatan a Melchias, che vendesse il tutto e la rimandasse allo stretto con vettovaglie e legname e ferro e stoppa, e che sarebbero presto nella sua isola, e che tenesse in ordine il tutto per dar sopra le forze de' cristiani. Amyrasem passò coll'armata in Adem con le galere, e con un pezzo grande d'artegliaria posto in terra cominciò a bombardar la terra, il qual pezzo le genti d'Adem gli tolsero per forza. In questo comparve Raysalmon e saltò in terra con tutta la gente, prima avendo buttato a basso venticinque passi di muro e ripresa la sua artegliaria e molt'altra che stava in terra appresso il muro rotto, sendo poca gente di dentro e la sua invilita, faccendogli gran danno l'artigliaria, si ritrassero e tornarono insieme con le galere a Cameran, e di Cameran al Zidem, dove trovando la revoluzione del Cairo, vennero i Capitani in differenzia e Amyrasem fuggí alla Mecca. Il quale i signori della Mecca, per timore ch'avevano, mandaron preso a Raysalmon, e lui, dandogli ad intendere che lo mandava al Cairo al gran Turco, del navilio nel quale avea a passare lo mandò a gittare in mare, mettendosi egli in ordine colle due galere per passare al gran Turco, come già disse.
Come Zeila città fu da' Portoghesi desolata dal fuoco. Dell'isola detta Barbara; di Dufar, terra d'Arabia, dove vien l'incenso; del re Salatru; del castello detto Alba.
Partimmo dell'isola di Cameran per l'India alli 13 di giugno, e passato la bocca del mar Rosso, non so per qual cagione cosí denominato, non sendo dissimile di colore a nessun altro, fummo costeggiando l'Etiopia fino a Zeila; e saliti in terra la vigilia di santa Maddalena, la trovammo senza alcuna difensione, perché al nostro sbarcar fuggirono la maggior parte. Quelli che restarono, che poteva esser cinquecento persone, si misero i piú vecchi a filo di spada e gli altri ne portammo per ischiavi. Poco fu lo spoglio della città, però che, sapendo che noi eravamo passati il mar Rosso, essi ebbero tempo di scampare le lor robbe. Non stemmo in essa piú ch'un giorno e del tutto la distruggemmo, non lasciando casa che dal fuoco non fusse desolata. La detta città di Zeila giace in undeci gradi e mezzo, edificata in terra bassa e arenosa, senza circuito di muro, ed è di ragionevol grandezza, e abbondantissima di grano e bestiame e molte maniere di frutti alli nostri dissimili, che produce dentro la terra ferma di tal regno in tanta abbondanza, che di questo porto e d'un'isola sopra a Zeila nella medesima costa, detta Barbara, si navigano in tanta quantità che fornisce Adem e il Zidem di vettovaglie e di carne. Zeila è lontana dalla bocca dello stretto trenta leghe: qui facevano scala infinite navi d'Adem e dell'India, cariche di piú sorti di mercanzie, massime d'incenso, che viene di Dufar, terra d'Arabia fra il sino Persico e Adem, e di pepe e panni che vanno di qui in cafila, cioè con carovana di camelli, per la Etiopia e per le chiese de' cristiani. E ancor che sempre fra Zeila e i cristiani sia continua guerra a fuoco e sangue, non s'intende però questo per i mercanti né per le carovane, che sempre vanno e vengono salve e sicure.
Della detta città di Zeila è signore, e di molte terre grandi del regno di Adel, un re moro chiamato Salatru, il quale dicono esser della medesima generazione del re David, perché il suo primo antecessor, ch'era maggior fratello del re ch'in quel tempo signoreggiava l'Etiopia, essendo stato preso e posto sopra una grandissima montagna, nella quale è un castello detto Amba, dove li re d'Etiopia guardano serrati tutti i figliuoli, perché non si levino contro quello il quale loro vogliono che sia erede del regno, e che faccino divisione nelle terre, ebbe modo di fuggirsi in questa parte, maritandosi con una figliuola del re di Zeila, per la quale successe dipoi nel regno. E diventato moro fece sempre guerra a' cristiani, e dipoi i suoi descendenti mai lasciarono di guerreggiare senza che cristiani gliela potessino impedir, rispetto alla terra, la qual è aspra e montuosa. Da' Mori che menammo presi di Zeila, intendemmo ch'il ditto re Salatru era fuggito in una guerra ora fatta contra a' cristiani, e che un suo capitano chiamato Mafudei, molto nominato in Etiopia e per l'Arabia, era stato morto, ed era per il nostro ambasciadore del paese conosciuto, perché son cinque mesi passati che questo re 'nsieme col detto capitano feceno un assalto nelle terre dentro con trentamila persone, per rubbare bestiami e schiavi, com'è costumato, e fece una preda grandissima e abbruciò monasterii e chiese: la qual cosa avendo inteso il re David, se ne venne con grande esercito a trovarli e circondò certi passi, dove vedendosi serrati, il re ne fuggitte e il capitano fu morto con tutte le sue genti, e per questa causa dicono che noi non trovammo resistenzia nella città di Zeila. Ebbe l'ambasciadore del Prete Ianni gran piacere di tal nuova e delle destruzioni che facemmo, parendogli ch'al presente in detto regno non restasse ostaculo che lo defendesse piú dalle forze del re David, onde si potrebbe congiungere con li Portoghesi, a destruzione de' Mori. I quali dicono avere per loro profezie che la Meccha e Medina Talnabi hanno da essere desolate per li cristiani d'Etiopia.
Come i Portoghesi arrivarono al porto, dove stati alquanti giorni senza risoluzione di pace o guerra, riscossi per Mori alcuni schiavi, si partirono, e per il vento contrario non poteron andar dove era la loro intenzione. Di Calaiate, porta d'Arabia, e della natura e costume di quelle genti.
Partimmo di Zeila al cammino di Adem all'altra costa d'Arabia, e traversando il sino Arabico vi arrivammo in otto giornate. Stemmo in questo porto d'Adem surti cinque o sei giorni, senza far risoluzione né di pace né di guerra, perché i Mori ch'al presente si trovavano nella città erano meglio provisti, e sapevano esser molti morti nella nostra armata e la maggior parte venire di mala disposizione, perché, essendo già IX mesi che eravamo partiti dal Zidem senza pigliare in nessuna terra rinfrescamento, andavamo molto mal trattati, e per questo si passaron con noi per il generale; né il capitan maggior volse offerire né domandare cosa alcuna, parendogli la guerra con Adem dover far piú profitto che danno, rispetto alle navi. Molti Mori vennero a riscattare schiavi di conto che s'erano pigliati in Zeila, e massime certi sciriffi e sciriffe, cosí chiamati, d'una generazione de Mori della casa di Maumetto, che tenevano per gran peccato restassino nelle nostre navi; molti altri si dettero in baratto di castrati e acqua e frutte.
Nel porto stavano quattro navi grosse cariche di robbe, acqua rosata, zibibbo e molte mandorle, e d'un'altra druga medicinale che si chiama amffiam, che nell'India è tenuta in grandissimo prezzo, la qual druga costumano gran parte de' Gentili e Mori per lussuriare, perché è molto a proposito a levar il membro genitale. E questo semplice nasce in Etiopia e nell'Arabia, e credo da noi sia chiamato oppio tebaico, il qual è venenoso, ma costumasi ad esso pigliandolo a poco a poco, e in piccola quantità per volta. Queste mercanzie si caricano nel porto di Adem per l'India: il capitan maggior per maggior franchezza non volse pigliarle.
Ma il giorno di san Lorenzo partimmo con intenzione di passar all'isola detta di Barbara, nella costa di Etiopia, ch'in essa si poteva rinfrescar l'armata di vettovaglia, carne e acqua, che di tutto eravamo molto necessitati. Passammo un'altra volta per il sino Arabico all'altra costa, e per causa che i pilotti o non la conoscessino o non volessino là guidarci per alcun suo rispetto, non vi andammo; e di qui determinammo di andare a pigliare acqua nel capo di Guardafuni, e il vento non ci servendo a nostro modo, andavan molte navi come perdute, senza acqua, perché quella che portammo di Cameran avevamo quasi consumata. E gittandosi il capitan maggiore un'altra volta nella costa d'Arabia, non potendo passar al capo di Guardafuni se non in volte, molte navi, separandosi dall'armata, restarono nella costa d'Etiopia per veder se potessero trovare acqua. Noi fummo a nostro cammino insieme col resto dell'armata, ancora che restasse con poca compagnia, perché tutti cercavano loro ventura, e con molto travaglio passammo del sino Arabico nel mar Oceano, ed essendo vicini a Soquotora, con intenzion di pigliar porto, mutandosi il vento fummo forzati tenere altro cammino, e determinammo di passare ad Ormuz. In questo viaggio ci sopravenne tanto mancamento d'acqua, che molti uomini de' nostri mal trattati dalla sete morirono, e della ciurma delle galere e de' cristiani malabari e schiavi d'uomini particolari, che pochi restarono con la vita, perché la sete e la fame generava una infermità di petto, che senza febre si spacciavano in due giorni: ed era tanto generale in tutti, che non fu alcuno in questo viaggio che non si cavasse sangue molte volte, ch'era il meglior rimedio per tal infermità.
Piacque a nostro Signore por fin a nostre fatiche e condurci a Calaiate, porto d'Arabia Felice vicino al sino Persico e all'isola d'Ormuz 100 leghe, dove stemmo XV giorni, ne' quali tutta la gente ritornò sana, col rinfrescamento della terra di Calaiate, la qual (com'è detto) è terra d'Arabia Felice, in XXII gradi di latitudine, non molto maggiore di Zeila, con casamenti di pietra e calce e senza mura, situata nella costa giunta col mare. Li naturali d'essa sono arabici nel parlare, vestire e ne' costumi: tengono un panno atorno le parti vergognose e in capo uno turbante, e li piú onorati vestono una camicia lunga cinta, con maniche larghe, come i camici de' sacerdoti, e la maggior parte una berretta lunga di feltro grossa, di colore lionato scuro, di forma piramidale come la mitria del papa. Le donne tengono sempre la faccia coperta con un panno di cotone, raro come di velo e di colore azurro, tagliato sopra gli occhi come maschera. L'abito loro è uno palandrano diviso davanti, la lunghezza del quale non passa il ginocchio a basso, e con maniche molto larghe; portano calzoni lunghi fino a' piedi, di varii colori, e sopra il naso da una banda una balletta d'oro larga, confitta nella carne, e da basso un anello, come i bufoli di nostra terra.
La terra ferma di Calaiate è naturalmente sterile (com'è tutta l'Arabia) e in essa sono uve e grandissima quantità di dattili; produce pochi semi, e gli uomini piú ricchi si cibano di riso e d'alquanto grano, che viene di fuori d'altre regioni; gli altri di dattili, che sono a loro communi come a noi il pane di grano: e di questo si mantiene la maggior parte d'Arabia Felice, e anco con latte e butiri, per la moltitudine del bestiame, ch'è in grand'abondanza. Da questo porto si navigano gran quantità di cavalli per l'India, i quali, dipoi che Portoghesi presero Goa e Ormuz, non possono disbarcare in altra parte dell'India che nell'isola di Goa, donde passano in Narsinga e nelle terre di Cambaia contermine a detta isola: e paga ogni cavallo di diritto 40 seraffi, il che rende ogni anno al re nostro signor da seraffi quarantamilia, e per questo proibisce che non vadino per altre parti, per non perder i diritti ch'hanno a pagare nell'isola di Goa.
Di Mascat e Corfucan, porti d'Arabia; e la discrizione dell'isola d'Ormuz, e della natura e costumi di quel popolo, e con che arte quelli isolani procurino di rinfrescar le lor camere al tempo caldo.
Di qui mandò il capitan maggiore un suo nepote con quattro navi alla volta dell'India, ad ordinar le speziarie di quest'anno per Portogallo, ed egli si partí con l'armata per Ormuz. Io mi misi in una nave de Mori, desideroso di vedere alcune terre d'Arabia, e fummo lungo la costa a Mascat e Corfucan, porti nominati in questo sino, com'è Calaiate, della medesima lingua, costumi e vestiri. Di qui passammo allo stretto di Persia, a vista di terra d'ogni banda 8 leghe, e fummo all'isola d'Ormuz quattro giorni prima che l'armata.
L'isola d'Ormuz è in XXVII gradi, di cinque leghe di circuito, distante dalla terra di Persia due leghe, terra sterile e secca e senza arbori, frutti o erba di alcuna qualità, e di forma triangolare. Nella basa del quale dalla banda del mare sono certi monti non molto alti, pieni di grandissime pietre di sale di colore di cristallo, lucide e alcune vermiglie; il resto è tutta pianura, e la città è posta nella punta dalla banda della terra ferma, pigliando gran parte de' lati del triangolo, e può esser di maggior grandezza che Adem e della medesima bellezza, riservato che non tien mura. È molto populosa, piú di forestieri di Persia, Arabia e India che de' medesimi naturali, i quali sono di colore fra olivastro e lionato, vestiti con camicie lunghe, cinti nel mezzo con un panno di seta o di cottone, e turbanti bianchi e colorati. Le donne tengono coperto il capo e la faccia con un panno di seta o di cottone di varii colori, che per la sua grandezza veste tutto il corpo sino in terra, e di basso di quello una camicia, e molte hanno la balletta e l'anello al naso, come nella costa di Arabia. Gli ornamenti del capo sono certi veli sopra i capelli, composti come mazzocchi che si veggono in figure antiche della nostra terra.
L'aere di questa isola è salutifero d'ogni tempo e stagionato come nelle parti nostre, cioè primavera e autunno temperato, e l'inverno frigido piú che in alcuna parte di queste terre, per essere esposto piú al polo settentrionale; nell'estate è caldissimo estremamente, tal che egli è necessario dormire sopra terrazzi discoperti all'aere e denudati. E per tanta calidità costumano certi ingegni, come cammini, i quali, cominciando dalla sala di basso o d'alcuna camera, divisi in otto parti, procedono sopra le lor case con le istesse divisioni, e ogni vento, per poco che sia, battendo nella faccia di fuora di tali ingegni over cammini per la parte donde viene tal vento, cade subito in basso per una delle dette otto parti, refrigerando con grandissima frescura tutta la loro abitazione, dico de' piú ricchi e onorati.
Di Balsera, porto e città di Persia; di Bagadat, città di Mesopotamia. E come i governatori di Ormuz, per le sue gran rubarie fatti ricchi e potenti, si levorono contro i lor re naturali,
e che modo tenevano di accecarli.
In questo tempo passammo alla terra ferma, ch'è piena di arbori e d'acqua dolce, dove sono lor ville per refrigerarsi. Ormuz era già piú nobile e di piú ricchezze che Adem di sopra nominata, perché antiquamente il commerzio delle specierie d'India era universale in questa isola, le quali di qui transferivansi per la Balsera, porto e città nel sino di Persia, novamente da' nostri quest'anno scoperto appresso il fiume Eufrate, donde egli entra in mare; di qui passavano a Bagadat, città di Mesopotamia, navigando sempre per detto fiume, e dipoi per terra nella Asia Minore, in Damasco e Aleppo, de' quai luoghi venivano in Europa, prima che si navigasse in Alessandria; e similmente di questa isola passavano in Armenia e Turchia e per tutte le provincie di Persia. E quantunque il porto di Alessandria facesse alcuno impedimento, non ha lassato però detta isola d'Ormuz fino al presente giorno di esser scala per queste parti, mantenendosi sempre in grande altezza.
Egli è ben vero che la malignità de' governatori di quella diedero causa che si disabitasse in parte da molti mercanti, che prima solevano vivere in questa città, per le ruberie grandi che facevano: e questo da CC anni sino alla venuta del signor Alfonso d'Alburquerque. I quali governatori, tenendo il tratto e l'entrata nelle mani, cominciarono a crescere in tanto grado e farsi cosí ricchi e potenti, che col favor e ricchezza cominciarono a levarsi contro al re naturale, deponendo or uno e ora cecando un altro di nuovo, esistimando per certo che, pigliando col tempo il re fermezza, non averebbero rimedio di non esser privati di tal loro governo: e per questo costumavano accecarli, faccendogli nel principio di lor creazione guardare forzatamente in un ferro affocato, che per la sua calidità e vampo faceva scopiar la luce. Fu questa mutazione sí frequentata che, quando il signor Alfonso d'Alburquerque fece la fortezza in Ormuz, e l'isola tributaria al re nostro signore con XV mila saraffi, tagliando a pezzi il governator (come per l'altra mia ne scrissi), mandò a Goa XII re di questa isola, tutti della luce privati, mantenendo il re sino al presente giorno in suo stato. Perché, ancora che si facesse un nuovo governatore, essendo a volontà del re e con timore ne' Portoghesi, non pigliò mai tanto ardire di far alcuna innovazione: per questa causa questo re ch'è al presente, riconoscendo il gran bene che egli è venuto da' Portoghesi, è nostro amico di volontade.
Questa isola, per il gran commerzio che già dicemmo, è abondantissima di pane, carne, frutte e ortaggi, e simili alle nostre e anco d'alcuna altra sorte, come nella India; e tutto si trova a bastanza per le piazze e taverne, cotto e crudo, e il vivere è caro, peroché tutto viene di terre lontane, di Arabia, Persia e Mesopotamia, e per la moltitudine della gente che qui contratta. Trovansi in essa confezioni, conserve, acque stillate di ogni maniera e simplici medicinali, come sono in tutte le speziarie di Italia; non costumano compositi di alcuna sorte. Sono gli uomini di questa terra massimamente persiani, e alcuni armeni, molto liberali e piacevoli, pieni di discrezione e gentilezze, amorevoli e vertuosi e di ogni opra intelligenti; fra essi son astrologi, e altri molto pratichi nel Testamento vecchio, là dove è fondata la legge maumettana, con addizione nuove che fece Maumetto.
Del Sofí, re di Persia, e sua legge; onde procede la differenzia ch'è fra Turchi e Mori di Arabia. Delle monete di Ormuz, e come il re di Ormuz venne a ricever il capitan maggiore.
Per quanto io possetti comprendere da questi tali, il Sofí, che è signore di Persia e di alcune terre di Arabia, Turchia e Tartaria, è totalmente maumettano, senza alcuna aderenzia con la fede nostra, e molto piú che tutti gli altri di tal legge. Ma la differenza ch'è fra Turchi e Mori di Arabia e di Africa contro al detto Sofí, procede dalli compagni che furno di Maumetto, che erano molti, i quali tutti gli altri maumettani dicono essere stati salvi e buoni, e il Sofí in opposito combatte, dicendo che solamente Aly, che fu genero di Maumetto, fu ambasciador e profeta di Dio come è Maumetto, ma non tanto grande, e che tutti gli altri furono falsi: e sopra questa differenzia sono le guerre contro al Turco. Detto Sofí è inclinato alla benevolenzia de' cristiani, per conoscer gli uomini d'ingegno, e piú oltre perché questi Persiani sono di buona natura e qualità. In questi Persiani viddi l'istoria di Alessandro Magno, ma per esser rara e in mano di gran signori non potei averla come desiderava.
Le monete di Ormuz sono saraffi e mezzi saraffi d'oro, i quali chiamano azar; evvi un'altra qualità di monete d'argento, che loro chiamano sadi, de' quali vale XX uno saraffo e X uno azar. Hanno anche una sorte di moneta di tanta finezza e sí buona che corre per tutte le terre di queste parti, cosí nella India e Arabia come nella Persia, e parmi che sia poco differente dallo argento di coppella: vagliono sei d'esse per uno ducato, e sei per uno saraffo; sono come un pezzo d'argento lungo e addopiato, battuto da ogni banda con stampa di lettere di Persia, e queste si chiamano tanghus.
Alla venuta del nostro capitan maggiore, il re d'Ormuz con li principali della città, accompagnato da molta gente di sua guardia, fu a riceverlo alla spiaggia del mare, vestito alla persiana, con una vesta lunga turchesca di veluto nero con liste d'oro, e in capo uno turbante di seta avolto a una beretta d'oro tirato, ritonda e a spichi, come la metà d'uno mellone, e nel mezo d'essa è levato un gambo composto della medesima opera, di grossezza di piena mano e lungo un palmo e mezzo: questa berretta costuma mandare il Sofí (in queste parti chiamato sciech Ismael) a' signori suoi sudditi e tributarii, in segno d'amicizia e obedienzia, la qual al presente tengono tutti i popoli di Persia e d'altre terre di detto sciech Ismael, e seguaci di sua setta. E in Ormuz, nella gente della corte del re, la maggior parte delle lor berrette sono di panno di lana vermiglio, e de' piú onorati di velluto o damasco di Persia o di broccato; e se ben mi ricordo, questa medesima portavano li mercanti persiani che furono nella nostra città l'anno 1514. Il capitan maggiore, doppo molta congratulazione, levò il re da mano destra sino al palazzo reale, ancor che lui recusasse molto tal compagnia; dipoi si tornò per la nostra fortezza, e questo giorno si fece festa generale per tutta l'isola.
Descrizione della fortezza d'Ormuz, e del presente fatto per quel re al capitan maggiore.
La fortezza d'Ormuz è grande di circuito, ben fondata di forte mura, con quattro faccie divise con otto torrioni, con le sue bombardiere da basso, che riscontrano l'una contra l'altra, battendo lungo il muro; ed è posta nella punta del triangulo di detta isola, dalla banda di terra ferma, fra la quale e l'isola è il porto. Il mare batte le mura da due bande; nel mezzo tiene un castello forte di monizione e vettovaglie, spiccato dalle mura della fortezza. Dentro dal circuito sono quattro cisterne riservate per ogni necessitade, perché in tutta l'isola fuora della città non è se non un pozzo, che non è bastante per la casa del re, e non si trova altro loco donde possino cavare per aver acqua, che tutta è salmastra; l'acqua dolce viene di terra ferma di Persia.
Il re, dopo quattro giorni della venuta del capitan maggiore, fu alla fortezza a visitarlo con un presente ricchissimo di varie gentilezze, fra le quai erano un cavallo persiano intiero, che son della medesima qualità di Turchia di forza, persona, bellezza e leggierezza, che con suoi fornimenti bellissimi fu stimato 1.000 saraffi; e piú gli diede una scimitarra damaschina con la vagina e fornimenti d'oro e perle e di pietre preziose di gran valore, e molte pezze di damasco di Persia, per i capitani che vennero con l'armata. L'altro giorno cavalcarono co' principali dell'armata e della città a veder l'isola, e in campo, a piè delli monti già nominati, il re con gli altri giovani portoghesi e persiani fecero molte correrie, menando in sua guardia CL cavalli leggieri e 600 uomini a piede, la maggior parte con arco e turcasso, vestiti con giubbe imbottite di seta e di gottone, e con turbanti e berrette rosse alla persiana, faccendo gran sollazzo tutto 'l giorno. Con questi piaceri stemmo quindeci giorni in Ormuz.
Dell'isola detta Baharem. Che sorte di mercanzie vengono di Persia per l'India.
In questo tempo vennero di Baharem molti navili, la qual è una isola lontana da Ormuz sei giorni di navigazione, posta nel sino di Persia dentro dalla banda donde sono i diserti di Arabia, i quali terminano in questo mare; e portarono gran quantità di perle, delle quali in quest'isola è il principal tratto di tutta Persia, sendo Baharem suddita al re d'Ormuz: e perché di qui si mandano nell'India per l'Arabia e per le provincie di Persia fino in Turchia, sono in tanto prezzo ch'io sto in dubbio se nella nostra terra vagliono tanto come qua. Similmente avemmo nuove ch'in un porto di terra ferma vicino a Ormuz X leghe stavano carovane di Siras e di Tauris, terre di Persia, e del mar Caspio e della provincia de' cristiani che termina a detto mare, e levavano seta, stravai, taffetà e damaschi, acqua rosata e d'ogni sorte stillate, aceti di menta, cavalli e robbia, che queste sono le mercanzie che vengono di Persia per l'India. E alcuni mercanti vennero in Ormuz e comperarono infiniti panni rossi nuovi e usati, che qui valevano assai, per far le berrette che già avemmo nominate; la maggior di loro restò nel porto aspettando la nostra partita, non fidandosi venire nell'isola dimorandovi l'armata.
Con questa carovana venne una lonza da caccia ch'il re di Ormuz aveva ordinato per mandare al re di Portogallo, il quale mandò a domandarla per la santità di nostro Signor, e consegnatola al capitan maggiore, ci partimmo il giorno di Tutti Santi. Lasciato però nella fortezza d'Ormuz molta gente per sua difensione, fummo costeggiando per lo stretto dalla banda di Persia, ed entrati nel mar d'India pigliammo porto nell'isola di Goa in termine de XXX giorni, che è lontan di Ormuz leghe 400. Qui avemmo nuove di diece navi grosse ch'erano venute di Portogallo con 2000 uomini, e che di già erano passati alle fortezze di Calicut e Cochin: il che diede gran letizia a tutta l'armata. Non facemmo dimora piú che tre giorni in Goa, e fummo subito a cammino di Cochin, dove arrivammo del mese di decembre: e qui finimmo un anno giustamente dal dí che di là eravamo partiti e passati alli travagli soprascritti. Qui mi trovo al presente, dando piú l'un giorno che l'altro grazie al nostro altissimo Signore Giesú Cristo di avermi condotto a salvamento e liberato di tanti pericoli corsi per questo cammino dello stretto, che non fu poca grazia il tornare in India, essendovi morta infinita gente e restandovi ancora nove navi, tra grandi e piccole, le quali non sappiamo se sono perdute, e già quest'anno non possono tornare: piaccia a nostro Signore che si siano salvate in qualche porto e che a tempo nuovo si aspettino per la India.
Dopo la tornata del capitan maggiore, non si attende ad altro che a mettere in ordine navi sei per Portogallo, le quali si partiranno per tutto questo mese di gennaio: e di già tre vanno alla vela, e questa sarà la quarta. Due d'esse sono ciascuna di duamila botte, e tutte l'altre di 800, 900 e 1000, e levano per il re 50.000 quintali di pepe e molto giengiovo, cannella e garofani, gomma lacca e seta della Cina, sandalo vermiglio, oltre a infinite ricchezze d'uomini particolari: piaccia a nostro Signor vadano a salvamento. Espedita tal commissione, partirà di nuovo un capitano per lo stretto del mar Rosso per andare sino al capo di Guardafuni, con sei o otto navi, per passare, dipoi espedito di là, all'isola d'Ormuz. Un altro per la costa di Cambaia con quattro navi; un'altra per il sino Gangetico, a discoprire il regno e porti di Bengala, dove non furono nostre navi per alcun tempo; e un'altra per Malaccha e per il sino Magno di Cina, e in questa è oppenione che andarà il capitan maggiore. L'Altissimo lasci seguire quello ha da essere piú suo servizio.
Io, per poter a mia sodisfazione investigare il vivere e costumi di queste terre, passarò questo anno con Piero Strozzi alla casa di san Tommaso, di qua distante leghe 250, dove fu' il primo anno che di qua comparsi; e di lí a Paleacate, porto del regno di Narsinga, nel qual dal regno di Pegu navigano gran somma di rubini, e con certi Armeni cristiani miei amici determino di transferirmi per la terra ferma e spendere cinque o sei mesi in vedere le provincie di tal regno, per tutte queste parti di potenzia e ricchezza nominato. Da Paleacate per mano di detto Piero Strozzi (che quest'anno prossimo dice che torna per la patria) di tutto darò notizia a V.S., piacendo a Iddio nostro Signore, il quale sempre si degni conservar quella con prospero e felice stato, e a me anche conceda grazia ch'io mi riduchi nella patria che tanto desidero, dove con umil riposo, in cambio di tanto travaglio, possa servire a quella, in questa e in ogni altra occorrente opportunità.
Viaggio in Etiopia di Francesco Alvarez
[1540]
Discorso sopra il viaggio della Etiopia.
Ancora che sopra questo viaggio, scritto per don Francesco Alvarez, infino alla corte di questo cosí gran principe detto il Prete Ianni, fusse il dovere di parlarne lungamente, conciosiacosaché del paese dell'Etiopia né da Greci né da Latini né da alcun'altra sorte di scrittori si legga, infino al presente, cosa alcuna degna di considerazione, e costui nelli suoi scritti (quali si siano) l'abbia in gran parte fatta aperta e manifesta; nondimeno, perché la materia è tanto utile, degna e ammirabile, sarebbe necessario discorrere molte cose per beneficio della cristianità, cioè della felicità che si potria avere del commercio con questo tal principe, e per quante vie si potria penetrare, e del profitto poi che se ne cavaria, che ardisco di dire che non saria forse minore di quello che apportò al mondo il discoprire fatto per il signore don Cristoforo Colombo; ma non potendosi far di meno di non toccare molte parti pertinenti a' principi, che non son cose nelle quali alcuno par mio si debba impacciare, ho giudicato che molto meglio sia passarmene leggiermente e lasciare questo carico ad altri, che potrian farlo senza alcun rispetto a ogni lor piacere. Solamente voglio che sia mio ufficio di far sapere a' benigni lettori che questa presente scrittura è un summario d'un libro grande e copioso, che scrisse il prefato don Francesco dimorando nell'Etiopia, sí come da persona degna di fede che l'ha veduto e letto mi è stato affermato. Del qual libro n'è stato cavato quello ch'è paruto all'intelletto di colui che con tanta confusione l'ha transcritto, lasciando infinite particularità delle cose naturali toccate dal detto auttore. E che questo sia il vero, io ne ho veduto la prova, perciò che la copia mandatami dal signor Damiano di Goes si trova in molti luoghi diversa dal detto libro stampato in Lisbona per ordine di quel serenissimo re, sí che mi è bisognato, di tutti dui mutilati e imperfetti, farne uno intiero.
Questa fatica di abbreviare un cosí copioso volume doveva esser data a persone intelligenti e dotte, che avessero saputo fare una scelta di tutto quello che era importante alla cognizione, perché i lettori al presente desiderarebbero molte cose essenziali, che si veggono esser state pretermesse. Pur come si sia, abbino pazienzia coloro che si diletteranno di leggerlo dal principio al fine, e non sia loro noioso il confuso e fastidioso scrivere, essendo questo simil modo di dettare molto naturale agli uomini di quel paese, né pensano che meglio si possa né debbia fare: ch'io prometto a quei la fede mia che, con questo cosí rozzo e duro scrivere, alla fine averanno tanta cognizione dell'Etiopia che per li tempi presenti doverà loro esser bastevole. E Dio volesse che di molte altre parti al mondo, a noi incognite, ne sapessimo tanto quanto di queste ne sapemo per lo scrivere di costui. E se per il prefato don Francesco si fusse usata diligenzia di aver voluto veder li fonti del Nilo e il suo corso, con la prima caduta che è nel regno di Bagamidri, e con la cognizion dell'astrolabio che hanno tutti li marinari portoghesi avesse pigliata l'altezza sopra l'orizonte dell'uno e l'altro polo in tutti li luoghi dove egli si è trovato, non è dubio alcuno che l'uom resteria piú satisfatto. Ma chi sa che qualche gran principe d'Italia, indutto dalla lezion di questi libri e dalla facilità che vederà del cammino alla corte di questo principe de' Negri e dell'Indie orientali, non vi mandi qualche valent'uomo, che pigliarà le dette altezze e vorrà veder li fonti del Nilo e le sue cadute, descrivendo infinite particolarità delle cose naturali, con miglior e piú ordinato modo che non ha fatto questo nostro scrittore. E cosí il mondo si andrà ogni ora piú discoprendo a faccendo piú bello, con immortal gloria di quelli che ne saranno causa e satisfazion de' studiosi.
Viaggio nella Etiopia al Prete Ianni fatto per don Francesco Alvarez portughese.
Nel nome di Iesú, amen. Io Francesco Alvarez, prete di messa, che per spezial comandamento del re nostro signor don Emanuel, che Idio l'abbia nella sua santa gloria, andai con Odoardo Galvan, gentiluomo della sua casa e del suo consiglio, il qual fu secretario del re don Alfonso e del re don Giovanni suo figliuolo fino alla sua morte, e per il re don Emanuel mandato ambasciadore al re Prete Ianni, ho determinato di scrivere tutte le cose che in questo viaggio ne accadettero, e le terre dove fummo, e le loro qualità, costumi e usanze che in quelle trovammo, e come son conformi alla cristianità, non riprendendo né approvando i loro costumi e usi, ma lasciando il tutto ai lettori (che mi potriano insegnare) come di laudare, emendare e correggere quello che loro parerà esser il meglio. E perché io potrei alcune volte, parlando di una terra e poi d'un'altra, parer che insieme le confondessi, dico che noi siamo stati in questi paesi sei anni continui, nelli quali io ho voluto sapere gran parte delle terre, regni e signorie del detto Prete Ianni, e delli suoi costumi e usanze, alcune di veduta e alcune altre di udita da chi ben le sapeva, e come io le ho sapute cosí le ho scritte, cioè esprimendo le vedute per vedute e le udite per udite. E perciò giuro sopra l'anima mia ch'io non dirò bugia alcuna, e cosí come spero e confido nel nostro Signor Iddio che la nostra confessione abbia a esser vera alla mia fine, cosí sarà ancora il presente mio scrivere, perché mentendo al prossimo si mente a Iddio.
Come Diego Lopes de Secchiera, succedendo al governo delle Indie
dopo Lopo Soares, condusse Matteo al porto di Maczua.
Cap. I.
Perché io dico ch'io andai con Odoardo Galvano (a chi Dio perdoni), cosí è la verità, ed egli morí in Camaran, isola del mar Rosso, e non ebbe esecuzione la sua ambasciata, nel tempo che Lopo Soares era gran capitano delle Indie, come già largamente ne ho scritto, il che lascio ora di raccontare per non esser al proposito; e seguitando solamente di scrivere quello che sarà necessario, dico che, succedendo Diego Lopes de Secchiera al governo dell'India dopo Soares, messe ad effetto quel che Lopo Soares non volle mai eseguire, cioè di condur Matteo (il quale fu mandato ambasciadore dal Prete Ianni al re di Portogallo) al porto di Maczua vicino a Ercoco, ch'è porto e terra del Prete Ianni. Il qual Diego Lopes fece una bella e grossa armata, e con quella navigammo nel detto mar Rosso, e giugnemmo alla detta isola di Maczua il lunedí della ottava di Pasqua, alli XVI del mese d'aprile, l'anno MDXX, la quale trovammo tutta vota di gente, perché di cinque o sei giorni avanti avevano avuta notizia della nostra venuta. Questa isola è lontana dalla terra ferma poco piú o meno di due tratti di balestra, là dove i Mori della detta isola erano fuggiti con le loro robbe.
Surgendo adunque l'armata fra l'isola e la terra ferma, il martedí seguente vennero a noi della terra d'Ercoco un cristiano e un moro. Diceva il cristiano che il luogo d'Ercoco era de' cristiani, e sottoposto a un gran signore chiamato Barnagasso, suddito del Prete Ianni, e che gli abitanti di quest'isola di Maczua e d'Ercoco, quando venivano i Turchi, tutti fuggivano alle montagne; ma che al presente non avevano voluto fuggire, sapendo come eravamo cristiani. Udendo questo, il gran capitano dette grazie a Dio della notizia che trovava del nome cristiano, e questo fece gran favore a Matteo, che prima non era in troppo buon conto; e ordinò che fusse dato una ricca vesta al cristiano e al moro, e mostrò di avere molto piacere, dicendo loro che avevano fatto il debito loro, cioè di non si partire del luogo d'Ercoco, poi che egli era de' cristiani e del Prete, e che la sua venuta non era se non per far servizio e piacere al detto Prete e a tutti li suoi, e che se n'andassero alla buon'ora e stessero sicuri.
Come il capitano d'Ercoco venne a visitare il capitano maggiore,
e della maniera come ei venne, e d'alcuni frati del monastero della Visione.
Cap. II.
Il giorno seguente, che era il mercore, venne il capitano del detto luogo d'Ercoco a parlare al gran capitano, e gli portò a donare quattro buoi; e il gran capitano gli fece molte carezze e onore, e donogli alcune pezze di seta, e seppe piú compiutamente che gli abitatori di quel paese erano cristiani e che già era stata data notizia della nostra venuta a Barnagasso, signore della terra. Questo capitano venne sopra un buon cavallo, e portava una bedena sopra una ricca camicia fatta alla moresca, accompagnato da XXX uomini a cavallo e ben CC a piedi; e dopo una grande e graziosa pratica che per mezzo degl'interpreti ebbero insieme, sapendo ancora il gran capitano parlar arabico, si partí questo signor d'Ercoco con le sue genti, ben contento, come a noi parve.
Lontano da questo luogo da XX in XXIIII miglia è una montagna molto alta, dove è un monasterio di frati molto nobile, il quale Matteo spesso nominava, che si chiama de Bisan, cioè della Visione. Ebbero i detti frati notizia di noi, e il giovedí dopo l'ottava vennero sette frati del detto monastero, alli quali andò incontro il gran capitano fino alla spiaggia, con tutte le genti, con molto piacere e allegrezza: e cosí mostravano di avere anche loro, e dicevano che era molto tempo che aspettavano i cristiani, perché avevano nei loro libri profezie che dicevano che a questo porto doveano venire cristiani, e quivi si apriria un pozzo, il quale aperto che fusse, non vi sariano piú mori, con molte altre parole a simil proposito convenienti. A tutte queste cose era presente l'ambasciador Matteo, al quale i detti frati fecero molto onore, baciandogli le mani e le spalle secondo il loro costume: e all'incontro egli di loro pigliava grandissimo piacere. Dicevano i detti frati che guardavano la festa di Pasqua insieme con gli otto dí seguenti, e che essi in quelli dí non andavano in viaggio né facevano alcuno servizio, ma che, subito che essi udirono dire che i cristiani erano giunti nel porto (cosa a loro tanto desiderata), dimandorno al suo maggiore licenzia per venire a far questo cammino per servizio di Dio, e che similmente era stato avisato Barnagasso della nostra venuta, ma che esso non si partiria da casa sua se non otto dí dopo Pasqua. Finiti questi ragionamenti, il gran capitano volse tornare al suo galeone, insieme con li suoi e con i detti frati, incontro alli quali vennero i nostri con le croci, vestiti con li piviali, e dettero loro a baciare le dette croci, alle quali essi fecero molta riverenzia. Dapoi fu lor dato da far collezione molte conserve di confezioni e zuccheri, che cosí ordinò il gran capitano. Si ragionò con loro sopra molte pratiche di piacere e allegrezza, essendo avvenuta quella cosa tanto desiderata dall'una parte e dall'altra, e ora veramente adempita. Partironsi poi i detti frati e andorono a dormire in Ercoco.
Come il gran capitano fece dir messa nella moschea di Maczua, e comandò che la si intitolasse Santa Maria della Concezione, e come mandò a vedere il monasterio della Visione.
Cap. III.
Il venerdí dopo l'ottava, che fu alli XX d'aprile, la mattina molto a buon'ora tornarono i frati alla spiaggia, e furono mandati ad incontrare molto onoratamente; e il gran capitano con li suoi e con i frati se ne passarono all'isola di Maczua, nella moschea maggiore, dove fu detta la messa delle Cinque Piaghe, per esser venerdí. La quale finita, ordinò il gran capitano che detta moschea si dovesse chiamare Santa Maria della Concezione, e cosí dapoi ogni giorno dicemmo messa in quella. Ed essendosi ritirati alle navi alcuni de' frati furono con Matteo e altri con il gran capitano, e cosí a questi come a quelli furono fatti presenti per il vestir loro d'alcune tele di cottone grosse, che di tal sorte si vestono, e d'alcune pezze di seta per il suo monasterio, e d'alcune ancone e quadri dipinti e campanelle. Sogliono tutti questi frati portar alcune croci in mano, e l'altre genti le portano al collo, fatte di legno negro: e le nostre genti tutte compravano di dette croci che portavano al collo, per essere cosa nuova e fra noi non costumata.
Stando questi frati cosí fra noi, il gran capitano ordinò che un Ferrando Diaz, che sapeva la lingua arabica, dovesse andar a vedere il lor monasterio, e per dargli maggior credito, e accioché meglio intendesse il tutto, per poter scrivere al re nostro signore, vi mandò insieme il licenziato Pietro Gomes Tessera, auditore delle Indie. I quali, ciascuno per sé, referirono che il detto monasterio era cosa grande e bella, e per tanto dovessimo ringraziar Dio che in cosí lontani paesi e per cosí lunghi mari, fra tanti inimici della nostra fede, noi trovavamo cristiani con monasteri e case d'orazione, ove Iddio era laudato. Detto auditore portò del detto monasterio un libro di carta bergamina, scritto nella sua lettera, per mandare al re nostro signore.
Come si viddero insieme il gran capitano e Barnagasso,
e si ordinò che don Rodrigo de Lima andasse al Prete Ianni con Matteo.
Cap. IIII.
Il martedí alli XXIIII di aprile, venne Barnagasso al luogo d'Ercoco e ne fece intendere della sua venuta. Il gran capitano, pensando che verria a parlargli alla spiaggia, ordinò che fussero fatte tende, e acconciati panni meglio che si potesse e luoghi da sedere. Preparate queste cose, venne nuova come Barnagasso non voleva venire in quel luogo: e subito vi mandò a parlare Antonio de Saldanza, e in Ercoco trovò che l'ordine era di vedersi al mezzo del cammino, e cosí ci preparammo per andare con il gran capitano per mare fino alla metà del cammino in terra, dove avevano da vedersi. Vennevi prima Barnagasso, ma non volse appressarsi dove era stato preparato. Dismontato il gran capitano, vedendo come non voleva arrivare ivi, fece portare li preparamenti avanti ove esso stava: il quale ancora, per mantener la grandezza e reputazion sua, non volse muoversi con le sue genti per appressarsi al luogo preparato, e fu forza far ritornare di nuovo il detto Antonio di Saldanza con Matteo ambasciadore, i quali terminarono che ambedui ad un tempo si movessero, cioè il gran capitano e Barnagasso. E cosí fecero, e si viddero e parlarono insieme in una campagna molto grande, sedendo nel piano sopra alcuni tapeti. E fra molte cose che ragionarono insieme, ringraziando Dio di questo loro abboccamento, disse Barnagasso che avevano nelle loro scritture e libri antichi come i cristiani di lontani paesi dovevano venire in quel porto a trovarsi con le genti del Prete Ianni, dove fariano un pozzo d'acqua viva, per il che non vi stariano piú mori: la qual cosa vedendo che Dio l'aveva già adempita, essi la dovevano tra loro confermare e giurar buona amicizia e benevolenzia. E preso in mano una croce d'argento, che per questo era ivi stata apparecchiata, Barnagasso disse che giurava sopra quel segno di croce, sopra il quale il Signor nostro ebbe passione, in nome del Prete Ianni suo signore, che sempre daria favor e aiuto alle genti e cose del re di Portogallo, e anco alli suoi capitani che venissero al detto porto, o vero ad altri porti e terre dove aiuto e soccorso gli potesse dare; e cosí prenderia in sua protezione l'ambasciador Matteo, e altri ambasciadori che il gran capitano volesse mandare per lí regni e signorie del Prete Ianni, insieme con tutte le genti e robbe che portassero. E altrotanto giurò il gran capitano di fare per le cose del Prete Ianni e di Barnagasso, ivi e in ciascun luogo che le trovasse, e che 'l medesimo fariano gli altri capitani e signori del re di Portogallo. Il gran capitano donò a Barnagasso una bella armatura e alcune pezze di panni di seta, e Barnagasso dette al gran capitano un cavallo e una mula molto buoni: e cosí si partirono, lieti e contenti dall'una parte e dall'altra. Questo Barnagasso menava seco ben 200 uomini a cavallo e sopra mule e da duemila uomini a piedi.
Vedendo i nostri gentiluomini e capitani queste cosí buone nuove che Dio ne aveva mandate, e che si apriva il cammino per esaltare la sua fede catolica, del che per avanti ne avevamo avuta poca speranza che dovesse succedere, tenendo tutti questo Matteo non per vero ambasciadore, ma per uomo falso e bugiardo, onde solamente erano di opinione che si dovesse mettere in terra e lasciarlo andare al suo cammino, vedute queste cose (come abbiamo detto), tutti si sollevorono, dimandando ciascuno di grazia al gran capitano che li lasciasse andare con il detto Matteo per ambasciadore al Prete Ianni, conciosiacosaché, per quello che avevano veduto, si conosceva certo detto Matteo esser vero ambasciadore. E ancora che molti dimandassero questo carico, nondimeno fu dato a don Rodrigo de Lima, e il gran capitano elesse quelli che con lui dovessero andare, i quali furono questi: primieramente don Rodrigo de Lima, Giorgio di Breu, Lopo de Gama, Giovanni Scolaro, scrivano dell'ambasciaria, Giovanni Gonsalves, interprete e fattor di quella, Emanuel de Mares, sonatore d'organi, Pietro Lopes, maestro Giovanni medico, Gasparo Pereira, Stefano Pagliarte, tutti duoi allievi di don Rodrigo, Giovanni Fernandez, Lazaro de Andrade pittore, Alfonso Mendez e io, indegno sacerdote Francesco Alvarez. Tutti li sopradetti andammo in compagnia con don Rodrigo, e similmente andavano con Matteo tre Portoghesi, uno de' quali si chiamava Magaglianes, l'altro Alvarenga, il terzo Diego Fernandez.
Delli presenti che don Rodrigo portò al Prete Ianni.
Cap. V.
Subito furono ordinati i presenti che avevano da mandarsi al Prete Ianni, non già simili a quelli che il re nostro signore gli mandava per Odoardo Galvan, perché già quelli erano stati malamente dispensati in Cochin per Lopo Soarez; e quello che se gli mandava al presente era cosa povera, ma solamente per fare scusa che le preziose pezze e cose che se gli portavano erano restate nell'India, e che dapoi le se gli mandariano. Gl'infrascritti sono li presenti che portammo al detto Prete Ianni, cioè una spada e un pugnale molto ricchi e belli, quattro panni di razzi a figure per coprir le mura, molto fini, una bella corazza coperta di velluto e un ricco celatone indorato, due pezzi d'artigliaria con quattro code, alcune ballotte e alquanti barili di polvere, un napamondo e un organo.
Noi andammo in Ercoco, dove fummo consignati a Barnagasso, il qual ne fece alloggiare discosto due o tre tiri di balestra, in una pianura ch'è a' piedi d'un monte, dove subito ne mandò a donar un bue, pane e vino del paese. Dimorammo ivi perché in quel luogo ne avevano da provedere di cavalcature e camelli, per portare tutte le robbe nostre. Questo giorno era il venerdí, e perché in questo paese si osserva la legge vecchia e nuova, ci riposammo il sabbato e la domenica, per guardarsi tutti duoi questi giorni. In questo tempo l'ambasciador Matteo si affaticò molto, con don Rodrigo e con tutti noi altri, che non dovessimo essere con Barnagasso, ancora che esso fusse gran signore, ma che molto meglio era andare al monasterio della Visione, dove ne saria data miglior espedizione che dal detto Barnagasso. Onde, fattogli intendere come non avevamo di andare da lui, si partí e andossene al suo cammino: nondimeno ci fece dare XIIII cavalcature e X camelli per le robbe.
Del giorno nel quale l'armata, sopra la quale venne don Rodrigo, si partí dal porto; e del cammino che noi facemmo fino a mezzogiorno; e d'un gentiluomo che ne venne a ritrovar.
Cap. VI.
Partimmo di questa pianura, vicina al luogo di Ercoco, il lunedí alli 30 d'aprile, nel qual giorno, mentre che noi riposammo, se n'uscí l'armata del porto, ancora che ne avessero promesso di non partirsi fino che non vedessero la total nostra espedizione e che cammino noi prendessimo. Noi dal detto luogo non andammo piú di due miglia, che ci fermammo a mezzodí appresso un fiume secco, che non aveva acqua se non in alcune pozzette: e perché il paese per il quale avevamo a camminare era secco e sterile, e li caldi erano grandissimi, tutti portavamo le nostre zucche e boccali di cuoro e utri con acqua. Sopra questo fiume erano molti arbori di diverse sorti, fra li quali erano salici e arbori di giuggiole e altri allora senza frutto.
Stando sopra questo fiume, a mezzodí arrivò un gentiluomo, nominato Framasqual, che nella nostra lingua vuol dire "servo della Croce", il quale nella sua negrezza era cosí bello che dimostrava ben esser gentiluomo, e dicevano ch'era cognato di Barnagasso, cioè fratello di sua moglie. Avanti ch'esso arrivasse a noi, dismontò da cavallo, per esser questo il loro costume, e l'hanno etiam per una cortesia. L'ambasciador Matteo, udendo la sua venuta, disse che egli era un ladrone e che veniva per rubarne, e che tutti dovessimo pigliar le nostre armi: ed esso Matteo pigliò la sua spada e si messe la celata in testa. Udendo Framasqual questo rumore, mandò a dimandar licenzia di potersi approssimare, e ancor che esso non l'avesse da Matteo, pure s'accostò a noi, come uomo ben creato e cortese e come persona allevata in corte. Aveva questo gentiluomo un molto buon cavallo dinanzi a lui, e una bella mula sopra la quale veniva, e quattro uomini a piedi.
Come Matteo fece lasciare a don Rodrigo la strada e camminare per certi monti
e per boschi e per un fiume secco.
Cap. VII.
Partimmo da questo alloggiamento tutti insieme, e questo gentiluomo, cavalcando sopra la sua mula col cavallo avanti, s'accostò all'ambasciador don Rodrigo con l'interprete, e andarono un gran pezzo parlando e pratticando insieme. Era, cosí nel parlare come nel rispondere, molto gentile, costumato e cortese, e l'ambasciadore ne rimase sommamente sodisfatto; ma Matteo non lo poteva vedere, e non faceva altro se non dire ch'esso era un ladrone. E andando noi per una molto buona strada, e per la quale camminava molta altra gente ch'era alloggiata nel sopradetto luogo con noi, Matteo lassò quella strada, che era larga e piana, e si pose per certi boschi folti e monti dove non era cammino, e per quella parte fece andare i camelli e noi con loro. E dicendo Framasqual ch'eravamo fuori di strada, e non sapeva perché costui faceva questo, tutti cominciammo a gridare, perché esso ne menava per monti a perderci e rovinare tutto quello che portavamo, lassando le strade maestre. Udendo Matteo li nostri lamenti, e che tutti gli eravamo contrarii, dette volta e fu forza circondare una montagna, per venir sopra la strada maestra, piú di sei miglia; e avanti che a quella arrivassimo, venne un'angoscia a Matteo, di sorte che pensammo che fusse morto, perché gli durò per ispazio di una ora. E tornato in sé, pregammo duoi uomini che l'aiutassero a stare sopra la mula, e noi demmo volta, tanto che arrivammo alla strada maestra, dove trovammo una carovana de camelli e genti che venivan da Ercoco, perché non camminano se non in carovana per paura dei ladri. Dormimmo tutti in un bosco dove vi era acqua, il quale era luogo ordinario per alloggiar carovane, e il detto Framasqual con esso noi, tenendo noi e quei delle carovane tutta notte guardie, per tema delle fiere.
Partimmo di quel luogo l'altra mattina, camminando sempre sopra fiumi e torrenti secchi, e da una parte e l'altra erano montagne altissime, con gran boschi d'arbori di diverse sorti, bellissimi e altissimi, la maggior parte senza frutto: e fra quelli n'erano alcuni i quali cognobbi che si chiamano tamarindi, e fanno graspi come di uva, che sono fra' negri apprezzati, perché fanno di quelli vin garbo e ne portano a tutte le fiere, sí come fanno delle uve passe. Li fiumi e strade ove andavamo si dimostravano alte e dirupate, il che nasce per la furia dell'acqua dei nembi e temporali mischiati con tuoni, le quali acque non impediscono il camino, secondo ne dissero: e noi il vedemmo in altre parti simili. Il remedio era, nella ora di detti nembi, fermarsi sopra qualche costiera due ore, fino che l'impeto di detti nembi corra giú. E per grandi e terribili che questi fiumi si faccino per detti nembi, subito che l'acqua scorre fra quelle montagne e viene al piano, ella si disperde asciugandosi e non arriva al mare: e non potemmo sapere che fiume alcuno d'Etiopia entri nel mar Rosso, che tutti finiscono come arrivano nella terra piana e campagna. In queste montagne e rupi sono animali di diverse generazioni, sí come vedemmo, cioè elefanti, leonze, tigri, tassi, ante, cervi, senza numero, e di tutte le sorti, salvo che due, che non le viddi né udi' dire che vi fussero, cioè orsi e conigli. Vi erano anco uccelli di tutte le sorti che cantano che si possino imaginare, e anco perdici, quaglie, galline salvatiche, colombi, tortore, che coprivano il sole, e di tutte quelle sorti che sono nelle nostre parti, eccetto che non vi viddi né gazuole né cucchi. Per tutte queste fiumare e rupi, viddi infinite erbe odorate che non cognobbi, se non il basilico, che era infinito, e rendeva un molto buono e soave odore, e aveva la foglia di diverse sorti.
Come Matteo li fece uscir di nuovo di strada, e li fece andar
per boschi al monasterio della Visione.
Cap. VIII
Venendo la ora di riposarsi, Matteo determinò di farne uscire di nuovo fuora della strada maestra, per farne andare alla volta del monasterio della Visione per montagne e boschi foltissimi di arbori molto alti. Consigliatici noi con Framasqual, ne disse che il cammino al detto monasterio era di tal sorte che le nostre robbe, portandole in spalla, non vi si potriano conducere, e la strada che era quella delle carovane per onde vanno i cristiani e i mori sicuramente, senza che alcuno faccia lor dispiacere, e che manco fariano a noi, che andavamo per servizio del re. E con tutto questo noi seguimmo pur la volontà di Matteo, e nell'alloggiamento dove noi dormimmo si fecero gran contrasti sopra detto cammino, dicendosi che saria meglio tornare adietro, sopra la strada che avevamo lasciata. Udendo questo, Matteo disse che gl'importava molto arrivare al detto monasterio della Visione, dove non staria piú di sette o vero otto giorni, che subito ci partiremmo (nondimeno egli vi restò per sempre, perciò che vi morí), e che poi andremmo al nostro viaggio in buona ora: e cosí determinammo di fare il suo volere, vedendo che gl'importava tanto, e che diceva di farne alloggiare in una villa a piè del monasterio.
Partimmo di questo alloggiamento e camminammo per un molto piú aspro e difficil paese e per maggiori e piú folti boschi, essendo noi a piedi e le mule avanti, le quali non potevano camminare. Li camelli davano gridi al cielo che parevano indiavolati. A tutti noi pareva che Matteo ne avesse posti in quel cammino per farne morire o per farne rubare, percioché quivi non si poteva far altro se non chiamar Dio in nostro aiuto, e le selve erano tanto oscure e paurose che gli spiriti non arebbeno ardire d'andarvi. Si vedevano molti animali salvatichi e feroci senza numero, a mezzo del dí, andar qua e là senza aver timor di noi. Con tutto questo andammo pur avanti, e cominciammo a trovar genti del paese, che guardavano i lor campi seminati di miglio zabburro: e vengonlo a seminare di lontano sopra queste montagne altissime e dirupate. Similmente si vedevano pascere molte mandrie di bellissime vacche e capre. Queste genti che quivi trovammo, erano tutte ignude e mostravano quasi ogni lor parte; erano molto negri, e dicevano essere cristiani. Avevano seco le loro mogli, le quali si coprivano le parti vergognose con un pezzetto di panno mezzo rotto. Avevano le donne sopra la testa una cuffia fatta a modo di diadema, negra come la pece, e li capelli rivolti in tondo, a modo di candele di sevo o candele picciole: la negrezza di queste cuffie, con queste treccie di capelli attaccate a quelle, parevano cosa molto strana a vedere. Gli uomini avanti le loro parti vergognose avevano un pezzo di pelle.
Andando cosí avanti per molti altri boschi che non si potevano passare, ed essendoci messi a piedi e li camelli discaricati, vennero a trovarne X o XII frati del monasterio della Visione, fra li quali erano 4 o 5 molto vecchi, e uno piú di tutti, al quale facevan tutti gli altri riverenzia e baciavangli le mani: e noi facemmo il medesimo, perché Matteo ci diceva che era vescovo, e dapoi sapemmo che non era vescovo, ma aveva titolo di david, che vuol dire guardiano, e che nel monasterio era un altro sopra di lui che chiamano abba, che vuol dire padre, che è come provinciale; e per la loro età e secchezza (ch'erano quasi come legni) parevano uomini di santa vita alla prima vista. Andavano i detti frati per quei boschi raccogliendosi li loro seminati migli, come anco li dritti che pagano loro quelli che in queste montagne e boschi seminano. Le loro vesti erano pelli di capra concie; altri portavano panni vecchi di gottone gialli, senza scarpe.
Di qui non partimmo fin tanto che i camelli non riposarono alquanto. Dopo per ispazio di mezzo miglio arrivammo a piè d'una montagna molto aspra e difficile, ove i camelli non potevano ascendere e malamente le mule vote, e quivi ci posammo a piè d'un arbore con tutte le nostre robbe, e Matteo con le sue, e Framasqual con noi, e i frati, e principalmente quelli piú vecchi: e quello piú onorato di tutti ne mandò a donare un bue, del quale cenammo, e fummo poi in gran dispute onde potessimo uscire, o veramente che cammino dovessimo tenere, perché non vedevamo rimedio alla nostra uscita. Dormimmo tutti insieme, cioè l'ambasciadore, i frati e Framasqual.
Come dissero messa, e come si partí Framasqual da loro,
e noi andammo a un monasterio, dove la nostra gente si ammalò.
Cap. IX.
Nel seguente giorno (che fu Santa Croce di maggio) dicemmo messa a piè d'un arbore, in onore della vera Croce, la quale pregavamo che ne dovesse insegnar la strada; e li nostri Portoghesi dimandavano con divozione grazia al nostro Signor Dio che, sí come a santa Elena fu aperta la via di trovare la vera Croce, cosí a noi si aprisse la strada, che ne era tanto serrata, della nostra salute. Dopo disinare, l'ambasciador Matteo ordinò che si caricassero le sue robbe sopra le spalle de' negri, per portarle ad un monasterio piccolo, distante da noi mezza lega, detto San Michel de Iseo: con le qual robbe andammo Giovanni Scolaro scrivano e io, a piedi, per non esser terra né cammino per mule, per vedere se dovevamo andar tutti al detto monasterio o vero tornar indrieto. Quivi Framasqual si partí da noi.
Arrivammo al monasterio mezzi morti, sí per l'asprezza del cammino e difficil ascesa, come anco per il caldo grande che faceva; e riposati alquanto, veduto il monasterio, ritornò lo scrivano a ritrovar gli altri, e disse loro ciò che vi era, e delle case dove potevamo alloggiare con le nostre robbe. Nel giorno seguente, a' 4 di maggio, venne al monasterio tutta la nostra gente con le nostre robbe, che erano restate a' piedi del monte, facendole portare sopra le spalle dei negri. Ma la notte avanti non cessò l'inimico Satanasso di metter questione fra i nostri, conciosiacosaché l'ambasciador nostro dicesse che si doveva consigliare quello che si aveva da fare, per servizio di Dio e del re e salvazione della nostra vita e onore: uno rispose che nella compagnia erano uomini che non lo volevano fare, e sopra questo vennero alle arme, e volse Dio che non fu altro. Subito che furono nel monasterio, gli feci far pace, riprendendoli di tal parole dette contra di lui che era nostro capo, e che quello che diceva era per servizio di Dio e del re e per nostro utile. Alloggiammo nel monasterio di San Michele, pensando che fra sette o vero otto giorni ci dovessimo partire: e veramente ne dettero molto buon alloggiamento, e il medesimo ci era confermato per Matteo, che noi non vi dimoraressimo piú di sette o vero otto giorni.
Stando noi, venne il detto Matteo con un roverscio, e ne disse che aveva scritto alla corte del Prete Ianni e alla regina Elena e al patriarca Marco, e che la risposta non poteva venire in manco di XL giorni, e senza quella noi non potevamo partire, perché di quel luogo ne avevano a provedere e far venire mule per noi e per le nostre robbe. E non stette saldo ancora sopra questo, ma venne a dire che già si cominciava a far il verno, il quale durava circa tre mesi, nelli quali noi non potremmo camminare, e che per questo era necessario che noi ci comprassimo da vivere. Da un'altra banda ne diceva che s'aspettava il vescovo del monasterio della Visione, che veniva dalla corte, il quale ne daria la nostra espedizione: e questo che costui dimandava vescovo, non era, ma era provinciale della Visione, come si è detto di sopra. Del verno e della venuta di questo provinciale i frati di questo monasterio s'accordavano, e anche quelli della Visione, con Matteo, perché tre mesi del verno non camminano in questo paese, cioè mezzo giugno, luglio, agosto, fino a mezzo settembre, che è verno universale; e similmente della venuta di quello che chiamavano vescovo, di non tardar molto.
Non passò molto dopo la nostra arrivata quivi che le nostre gente si ammalarono, cosí li Portoghesi come li schiavi, che pochi o niuno restarono che non fussero tocchi, e molti quasi fino al punto della morte: e bisognò salassarli molte fiate e purgarli. Ne' primi si ammalò maestro Giovanni medico, il quale era tutto il nostro rimedio: piacque pur a Dio che si risanò, e fu quello che di lí avanti s'adoperò per noi altri con tutte le sue forze. Fra questi si ammalò Matteo ambasciadore, al quale furon fatti molti rimedii; e parendogli già di star molto bene ed esser gagliardo, si levò e ordinò di far condurre le sue robbe ad una villa della Visione, dove stavano alcuni frati, e chiamasi Giangargara, la qual è nel mezzo del cammino fra questo monasterio e quello della Visione, dove tengono le lor vacche e armenti, per esservi molte buone case e abitazioni. Quivi mandate le sue robbe, ed essendovi egli insieme arrivato, due giorni dopo mandò a chiamar maestro Giovanni, il quale, lasciati tutti gli ammalati, l'andò a trovare; e non tardò molto dapoi che l'ambasciador don Rodrigo, Giorgio de Breu e io fummo a vederlo, e lo trovammo molto travagliato. Ritornò don Rodrigo e Giorgio de Breu, e io restai con lui tre giorni, fino che ei rese l'anima al nostro Signore, che fu a' 24 di maggio, l'anno MDXX: e io lo confessai e communicai, e feci il suo testamento in lingua portoghese, ma ei fu anche fatto in lingua abissina per un frate del detto monasterio. Subito che ei fu morto, vennero don Rodrigo, Giorgio de Breu e Giovanni Scolaro scrivano, e gran parte dei frati della Visione, e lo facemmo portar a sepelire molto onoratamente al detto monasterio, ove gli facemmo l'officio e messe secondo il nostro costume, e i frati lo fecero secondo il suo.
In questa propria notte che morí Matteo, morí anco Pereira, servitore dell'ambasciador don Rodrigo. Fatte le esequie di Matteo, l'ambasciadore, Giorgio de Breu, Giovanni Scolaro e certi di detti frati ritornarono alla villa ove era morto Matteo, nella quale erano restate le sue robbe, volendo di quelle farne inventario, acciò ch'elle fussero date a coloro alli quali esso ordinava per Francesco Matteo, che era suo servitore e datogli dal re di Portogallo libero, essendo per avanti moro e schiavo, e che aveva tutte le robbe in suo potere. Costui si messe a non voler che si facesse inventario e non volse mostrar le robbe, e i frati tenevano col detto Francesco, sperando di averne qualche parte: e vedendo questo, don Rodrigo gli lassò con la sua fantasia e si partí alla buon'ora. Il detto Francesco Matteo e i frati portarono le robbe al monasterio della Visione, dove le salvarono fino che di là ci partimmo per la corte, e di là le mandarono alla corte del Prete Ianni per darle alla regina Elena, a chi Matteo ordinava che fussero date.
Come l'ambasciadore mandò a dimandar aiuto per la sua espedizione a Barnagasso.
Cap. X.
Stando noi quivi senza alcuno aiuto ed essendo già passati molti giorni che aspettavamo, non venendo alcuna risposta né nuova della venuta del detto provinciale che si aspettava, non sapendo noi che fare si dovesse, fu determinato di mandar a chiedere a Barnagasso che ne volesse dare qualche aiuto per la nostra partita, accioché noi non stessimo a consumarci in quel luogo. Sapendo questo, i frati l'ebbero molto a male e, chiamato da parte don Rodrigo, lo persuasero che non vi mandasse e che aspettasse la venuta del provinciale, che saria fra X giorni; e che, non venendo, loro ci dariano le cose necessarie per il nostro cammino. E perché costoro sono genti di poca fede, non si fidavano di noi: ancora che l'ambasciadore lo promettesse loro, pur ne volsero dar a tutti giuramento sopra un crocifixo che noi aspettassimo li detti X giorni, e cosí ancor loro giurarono di adempir quello che ne avevano promesso. E acciò che dall'una banda e dall'altra non si restasse in vano, e succedendo tutti due potessimo eleggere la miglior parte, ordinò l'ambasciadore che dovesse andar a parlare a Barnagasso Giovanni Gonsalves, fattore e interprete, con Emanuel de Mares di due altri Portoghesi, a ricordargli il giuramento che aveva fatto di favorire e aver in sua protezione tutte le cose del re di Portogallo, e a pregarlo che ne volesse dar aiuto per la nostra andata: e in capo di X giorni il detto fattore ne rimandò indrieto uno dei detti Portoghesi con una buona risposta, e insieme venne anche un uomo del detto Barnagasso, il qual ne disse che ne daria buoi per portar le nostre robbe e mule per le nostre persone. Dal canto dei frati non venne cosa alcuna.
Della maniera e del sito dei monasterii e de' loro costumi,
e primamente di questo di San Michele; e delle cerimonie di questi religiosi.
Cap. XI.
Primamente questo monasterio è posto sopra uno scoglio di monte molto salvatico, accostato a' piedi d'un altro grandissimo scoglio, sopra del quale non si può montare. Il sasso di questi scogli è del colore e grana della pietra con la qual son fatti li muri della città di Portogallo, e sono le pietre molto grandi. Tutta la terra fuora di quei sassi è coperta di molti gran boschi, e li maggiori sono d'olivi salvatichi, e molte erbe fra quelli, e la maggior parte basilichi; gli arbori che non sono olivi non eran da noi conosciuti, e tutti erano senza frutto. In alcune valli serrate che tiene questo monasterio vi sono naranzari, limoni, cedri, pergole di uva, e fichi d'ogni sorte, cosí di quelli che si trovano in Portogallo come d'India, e persichi; eranvi anche cavoli, coriandri, nasturzio, absenzio e mirto e molte altre sorti di erbe odorifere medicinali: e il tutto era mal governato, perché non sono uomini industriosi, e la terra produce le cose sopradette come ella produce le cose salvatiche, e produrria molto migliore tutto quello che vi piantassero o seminassero.
La casa del monasterio par ben casa di chiesa, fatta come son le nostre: ha intorno un circuito come di un claustro, e il coperto di sopra è attaccato col coperto della chiesa; ha tre porte, cosí come hanno le nostre, cioè una principale in capo e una per banda nel mezo. La coperta della chiesa e del suo circuito è fatta di paglia salvatica, che dura la vita d'un uomo. Il corpo della chiesa è fatto di navi molto ben lavorate, e li suoi archi molto ben serrati, e tutto par fatto in volto. Ha un coro piccolo drieto all'altar grande, con la crociara avanti, nella quale sono cortine che vanno dall'un capo all'altro, e similmente sono altre cortine avanti le porte di mezzo da un muro all'altro, e sono di seta; e la entrata per queste cortine è per tre luoghi, cioè che sono aperte nel mezzo, e tutte si scontrano l'una contra l'altra, e cosí si serrano appresso dei muri. E in queste tre entrate o vero porte sono campanelle attaccate alle dette cortine, della grandezza di quelle di Santo Antonio, un poco piú o manco, e non può uomo alcuno entrare per queste porte che queste campanelle non suonino. Non vi è piú di uno altare, che è in quella cappella grande; sopra l'altare è un baldachino posto sopra quattro colonne, e lo altare arriva a tutte quattro, e il detto baldachino è come in volto. Ha la sua pietra sacrata, che loro chiamano tabuto, e sopra questa pietra vi è un molto gran bacile di rame, piano da basso e con l'orlo basso, che va a toccare tutte quattro le colonne dell'altare, perché le colonne sono poste in quadro: nel detto bacile è posto un altro bacile piú piccolo. E da questo baldachino per ciascuna parte, cioè di dietro e dalle bande, discende una cortina che cuopre tutto l'altare fino al piano, eccetto che dinanzi è aperto.
Le campane sono di pietra, cioè pietre longhe e sottili, appiccate e intraversate con corde, e vi danno entro con un legno: e rendono un suono molto strano, come di campane rotte, a udirle da lungi; e similmente le feste togliono i bacili e gli danno con alcune bacchette, che li fanno sonare grandemente. Hanno parimente campane di ferro, le quali non son tutte tonde, ma hanno due bande, come è una giornea di mulattiero, della quale un lembo lo cuopre dinanzi e l'altro di dietro; hanno il battitoio che la batte dall'una banda e poi dall'altra, e fa un suono come di uno che zappi le vigne. Hanno ancora altre campanelle mal fatte, che portano in mano quando vanno in processione, e tutti insieme le suonano nelli gorni di festa, che negli altri si servano delle campane di pietra e di ferro. Suonano i mattutini due ore inanzi giorno, e gli dicono a mente, senza lume: solamente vi è una lampada avanti l'altare, nella quale abbruciano butiro, perché non hanno olio; cantano e dicono con voce molto alta e sconcia, come di uno che gridi, senza arte alcuna di canto. Non dicono versi, ma il suo parlare è come in prosa, e son salmi; e ne' giorni di festa oltra i salmi dicono prose, e secondo la festa cosí è la prosa, e sempre stanno nella chiesa in piedi. Non dicono nel mattutino piú che una lezione, con voce similmente sconcia e disordinata, senza tuono, e la quale è di quella maniera che, nel representar la Passione del nostro Signore, noi pronunciamo le parole dei Giudei; e oltra che la voce è cosí sconcia, la dicono correndo quanto la lingua di uomo possa fare, e questa dice un clerico o vero un frate: e si legge questa lezione avanti la porta principale. La quale compita, nelli giorni del sabbato e domenica fanno processione con quattro o cinque croci, poste sopra alcuni bastoni non piú alti che bordoni: e quelle tengono nella mano sinistra, perché nella destra portano un turribulo, e tanti son sempre li turribuli quante le croci. Portano certe cappe di seta non troppo ben fatte, perché non sono piú di quello che è la larghezza della pezza del damasco, o di qual altra seta si voglia da alto fino a basso, e davanti al petto una traversina: e da ambe le bande vi è aggiunto un pezzo di qualche altro panno di ciascun colore, ancora che non si confaccia col principale, e del detto panno principale si strascinano dietro quasi un braccio per terra.
Questa processione fanno dentro del circuito che tengono come claustro, la qual finita, in detti giorni di sabatto e domenica e delle feste, quello che ha da dir messa con altri dui entrano nella cappella e cavano una imagine della nostra Donna, che hanno sopra una ancona vecchia (e in tutte le chiese vi son di queste ancone), e si mette nella crociara, stando con la faccia verso la porta principale, e tiene in mano questa immagine avanti il petto; e quelli che gli stanno dalle bande tengono candele accese in mano. E poi gli altri che gli sono davanti cominciano a cantare in modo di prosa, e vanno tutti gridando e ballando come se fussero in un ballo di villa, e andando avanti l'imagine con quel suo cantare o prosa, suonano le campanelle piccole e cimbali col medesimo suono; e ogni volta che tocca a uno di passar avanti l'imagine, gli fanno gran riverenzia, che pare a chi li vede che la facciano con gran desiderio di divozione, e cosí portano in questa festa croci e turriboli come in processione. Compito questo (che dura gran pezzo) salvano l'immagine, e poi vanno a una casetta ch'è verso tramontana e quella parte dove si dice l'Evangelio secondo la nostra messa (è fuora del circuito), nella quale fanno l'ostia, che essi chiamano corbon, e portano croci, turriboli e campanelle: e di quivi cavano una focaccia di farina di formento azima fatta allora, molto bianca e molto bella, di grandezza e rotondità di una gran patena, in questo monasterio che vi è poca gente; ma nelli altri monasteri e chiese, che ne sono assai, fanno questa focaccia grande e piccola secondo il numero delle genti, perché tutti si comunicano e secondo la grandezza cosí fanno la grossezza di mezzo dito o di un dito o di piú del dito grosso. E portano questa focaccia nel bacile piccolo, che è uno di quelli dell'altare, coperta con un panno, con la croce e turribolo, avanti sonando la campanella.
Di dietro alla chiesa, dove è quel coro, in quel circuito che tengono come claustro, non può stare alcuno che non sia di ordine sacrato, ma tutti debbono star avanti la porta principale, dove è un altro circuito grande, che hanno tutte le chiese: e questo circuito è come claustro, ma non è coperto, e vi può stare ogni uomo che vuole. Entrando in processione con questa focaccia, tutti quelli che stanno nella chiesa e nel circuito, come odono la campanella, abbassano la testa fino che la campanella tace, che è quando la mettono sopra l'altare nel bacile piú piccolo, posto, come si è detto, nel bacile piú grande; e vi mettono di sopra un panno negro a guisa di corporale, e con le bande del detto panno lo cuoprono. Questo monasterio ha il calice d'argento, e cosí in tutte le chiese e monasteri onorati hanno i calici d'argento, e in alcune anche d'oro. Nelle chiese de' poveri, ch'essi chiamano chiese di balgues, cioè di lavoratori, li calici sono di rame. Li vasi sono molto piú larghi che non sono li nostri, ma mal fatti; non hanno patena. Buttano nel calice il vino, fatto di uve passe, in gran quantità, perché quanti si communicano col corpo si communicano anche col sangue.
Quello che ha da dire questa messa comincia "Alleluia", con voce alta piú presto sconcia che cantata, e tutti gli rispondono: e allora esso tace e comincia a fare la benedizione, con una croce piccola che tiene in mano, e cosí cantano quelli che stanno di fuori come quelli che stanno di dentro, fino a un certo passo, nel quale uno de' dui che sta all'altare piglia un libro e si fa dare la benedizione da colui che dice la messa, e un altro piglia la croce e la campanella e va sonando verso la porta principale, dove sta tutto il popolo in quel circuito, e ivi legge la Epistola, molto correndo con la lingua, e si torna poi cantando alla volta dell'altare. Subito quel che dice la messa piglia un libro dall'altare, basciandolo, e lo dà a quello che ha da dire lo Evangelio, il quale abbassa il capo e dimanda la benedizione: la quale ricevuta, lo baciano quanti stanno appresso l'altare, e si porta a questo libro una candela, e quello che dice l'Evangelio lo legge come si ha detta la Epistola, molto correndo e alto quanto la lingua può dire e la voce portare. E tornando verso l'altare, nel cammino comincia similmente un altro canto, e quelli che con lui vanno lo seguitano; e arrivando all'altare, danno il libro a baciare a quello che dice la messa, e lo pongono nel suo luogo. E subito quello che dice la messa piglia il turribolo e incensa l'altare di sopra, e vanno molte volte intorno incensando. Compite queste volte d'incensare, torna all'altare e fa molte benedizioni con la croce, e in questo discopre la focaccia, che tien coperta in vece di sacramento, e la prende con ambe le mani; e levando la destra, la focaccia rimane nella sinistra, e col dito grosso fa in questa cinque segnali come punture, cioè una nella cima, l'altra nel mezzo, l'altra nel piede e l'altre nelle bande, e in tanto consacra nella sua lingua, con le proprie nostre parole, e non la lieva; e il medesimo fa nel calice, e non l'alza: dice sopra quello le proprie nostre parole nella sua lingua, e lo copre, e piglia il sacramento del pane nelle mani e lo parte per mezzo, e della parte che resta nella mano sinistra, piglia dalla cima di quella un pochetto, e l'altre mette l'una sopra l'altra. Il sacerdote prende questa piccola parte per sé, e cosí piglia parte del sacramento del sangue, e dapoi piglia il bacile col sacramento coperto e lo dà a colui che ha detto lo Evangelio, e cosí piglia il calice col sacramento e lo dà a quello che ha detto la Epistola: e subito danno la communione ai sacerdoti che stanno appresso l'altare, pigliando il sacramento del bacile che il diacono tiene nella man destra, in molto poca quantità; e mentre che egli lo dà, il soddiacono piglia del sangue con un cochiaro, d'oro o d'argento o di rame secondo la facultà della chiesa, e lo dà quello che piglia il sacramento del corpo, in molto poca quantità. E da una parte sta un altro sacerdote con un vasetto d'acqua benedetta, e mette a quello che prese la communione nella palma della mano un poco di quell'acqua, con la quale si lava la bocca, e poi la inghiottisce.
Fatto questo vanno tutti all'altare con questo sacramento, avanti la prima cortina, e per questo modo danno la communione a coloro che quivi stanno, e di quivi a tutti gli altri dell'altra cortina, e dapoi alle genti secolari che stanno alla porta principale, cosí uomini come donne, se la chiesa però è tale che le donne vi vadino. Al dar della communione e agli altri ufficii tutti stanno in piedi, e quando vanno a pigliar la communione, tutti vengono con le mani alzate davanti le spalle, con le palme spiegate innanzi; e mentre che ciascuno piglia del sacramento del sangue, prende di quell'acqua, come è detto, e cosí generalmente tutti quei che si hanno a communicare, avanti la messa, si lavano le mani con acqua, che sta in tutte le chiese e monasteri a questo effetto. Il prete che dice la messa e quei che stettero con lui all'altare, finita la communione, si ritornano all'altare, e lavano quel bacile nel quale fu posto il sacramento con l'acqua rimasa nel vaso, che dicono esser benedetta: questa acqua si getta nel calice, e quello che disse la messa la beve tutta. Fatto questo, uno dei ministri dell'altare piglia la croce e la campanella e, cominciando un piccol canto, se ne va alla porta principale, ove si disse la Epistola e l'Evangelio e ove si finí di dar la communione: e tutti quei che sono in chiesa e fuori inchinano la testa e vannosi con Dio, dicendo che questa è la benedizione, e che senza questa niuno non si può partire. Nelli giorni di sabbato, domenica e di festa, in tutte le chiese e monasteri si dà pan benedetto. La maniera che tiene questo picciolo monastero, che non ha piú di XX o XXV frati, si osserva in tutti li monasteri e chiese grandi e picciole. L'ufficio della messa (levate le processioni) è picciolo, perché la messa della settimana, subito che è cominciata, è finita.
Come e dove fanno questa focaccia del sacramento, e di una processione che fecero, e dell'apparato con che si dice la messa, e come entrano nella chiesa.
Cap. XII.
Il modo col quale si fa la sopra detta focaccia è questo. La casa dove la fanno, in tutte le chiese e monasteri, è posta (secondo che di sopra si è detto) verso la parte dove si dice l'Evangelio, fuori della chiesa e del circuito coperto, che è come claustro in tutte le chiese e monasteri; e dell'altro circuito di fuori, che non è coperto, si servono per cimiterio. Questa casa è quasi grande come il coro dietro l'altar grande, o poco piú, e in tutte le chiese e monasteri non si tiene quivi altra cosa se non quel che a questo è necessario, cioè un bastone, da cavare il formento fuori delle spiche, e uno stromento da macinare la farina, percioché la fanno molto bianca, come è conveniente per tal effetto: conciosiacosaché non fanno detto sacramento con farina o con formento nel quale le femmine abbian poste la mani. Hanno piatti di terra ove impastano la farina, e fanno la pasta piú dura che non facciamo noi. Hanno un fornello, come saria da lambiccare acque, e sopra quello uno sfoglio di ferro (e altre chiese l'hanno di rame, alcune altre di terra cotta) che è tondo, con assai buono spazio; e di sotto vi mettono il fuoco, e come è caldo lo nettano con un panno grosso, e poi mettono di sopra un buon pezzo di quella pasta e la distendono con un cochiaro di legno, di quella grandezza che la voglion fare, andandola ritondando molto bene. E come la pasta è appresa, la levano via e la mettono da banda, e ne fanno un'altra per il medesimo modo: e questa seconda come è similmente appresa, pigliano la prima e la gettano sopra quella, cioè quella parte che era di sopra la mettono di sotto, e cosí tutte due queste paste restano insieme come quasi una focaccia, e non fanno in tanto altro che andarla ritondando e girando intorno a questo sfoglio, tanto che esse si cuocino di sotto e di sopra e dalle bande: e cosí ne fanno quante ne vogliono. Nella medesima casa sono le uve passe delle quali si fa il vino, e lo ingegno da spriemerle; fassi anche in quelle il pan benedetto, che si dà il sabbato, la dominica e le feste. E quando son le feste grandi, come il Natale, la Pasqua e la Madonna d'agosto, vanno a levar questo sacramento del pane col palio, campane e croce divotamente, e avanti che con quelle entrino in chiesa, danno una volta intorno per il circuito, che è come claustro; ma quando non è festa, subito entrano in chiesa.
Il sabbato avanti l'Ascensione, che si fanno appresso noi le nostre letanie, fecero questi frati una processione, e perché noi eravamo nuovi in questo paese, ella ne parve bella, e fu a questo modo. Pigliarono croci e una pietra sacrata d'altare, con gran riverenzia, coperta di panni di seta, e un frate che la portava in testa andava similmente tutto coperto di detti panni; portavano libri, campanelle e turriboli e acqua benedetta, e se ne andarono in alcune campagne seminate di miglio, e ivi fecero le loro divozioni, con gridori a modo di letanie, e con questa processione tornarono al monasterio: e dimandandogli noi perché facevano questo, ne dissero che, mangiando i vermi il loro miglio, per questo essi erano andati a dargli dell'acqua santa e pregar Dio che gli levasse via. Quello che dice la messa non ha altra differenzia dal diacono e subdiacono, nelli vestimenti, se non una stola lunga, fessa per il mezzo quanto vi può entrar la testa, e di dietro e davanti arriva fino in terra. Li frati che dicono messa hanno li capelli, e li preti non portano capelli, ma vanno tosi, e cosí dicono la messa, e sempre discalzi; e non può entrare alcuno calzato in chiesa, e a questo allegano quello che disse Dio a Moisè: "Discalzati i piedi, perché la terra dove tu sei è santa".
Come in tutti li monasteri e chiese della terra del Prete Ianni non si dice piú d'una messa al giorno, e della maniera della loro quaresima e loro digiuni, e del sito del monasterio della Visione.
Cap. XIII.
In questo monasterio di San Michele ove noi eravamo, ogni giorno dicemmo la messa, non dentro nel monasterio, ma nel circuito che è come claustro, perché in questo paese non dicono piú d'una messa in ciascuna chiesa o vero monasterio. Venivano i frati alla nostra messa con gran divozione, secondo che mostravano, e supplivano con turribolo e incenso, perché noi non ne avevamo, e costoro tengono per cosa mal fatta il dir messa senza incenso; e dicevano che pareva loro che tutto stesse bene, eccetto che non laudavano che un solo sacerdote dicesse la messa, perché fra loro non direbbono la messa se non fusseno tre o cinque o sette, e questi tutti stanno all'altare. Similmente dispiaceva loro che entrassimo in chiesa calzati, e molto piú quando vi sputavamo, e noi ci escusavamo con dire che questo era appo noi di nostro costume.
E cosí dicemmo ogni dí la messa fino alla domenica della Trinità, e quando venne il lunedí dopo la detta Trinità, allora non ne volsero lasciar dire piú la messa la mattina. Ed essendoci noi di questo maravigliati e dolendoci, e non avendo in quel tempo alcuno interprete, dal quale potessimo sapere perché non volevano che si dicesse la messa, intendemmo finalmente quello che con la esperienzia dopo vedemmo, cioè che costoro osservano il Testamento vecchio quanto al digiuno, conciosiacosaché grandemente digiunano la quaresima, la quale cominciano il lunedí dopo la domenica della sessagesima, che son X giorni avanti il nostro carnevale. E cosí fanno 50 giorni di quaresima, e dicono che pigliano quelli giorni avanti per li sabbati che non digiunano, e il suo digiuno è mangiar la sera, e ogni giorno si communicano: e per tanto non dicono messa se non quando è notte, e finita la messa si communicano e poi cenano. E cosí come hanno questi cinquanta giorni di digiuno, cosí pigliano altritanti dopo la Pasqua e lo Spirito Santo, che non digiunano alcun giorno, e quando non vi è digiuno dicono la messa la mattina: e tutti quelli giorni mangiano carne senza guardarne alcuno, e dicono la messa la mattina e subito mangiano, perché non digiunano. Compito questo tempo, passata la Trinità, tutti li chierici e frati sono ubligati a digiunare ogni giorno, salvo il sabbato e la domenica: e dura questo digiuno fino al giorno di Natale. E perché tutti digiunano, dicono la messa di notte, allegando a questo la cena di Cristo, che quando consacrò il suo vero corpo era digiuno, e quasi notte. Ma communemente le genti secolari, uomini e donne, son ubligati a digiunare, dalla Trinità fino all'advento, il mercore e il venere di ciascuna settimana, e dal giorno di Natale fino alla Purificazione di nostra Donna, che loro chiamano la festa di san Simeone, non hanno digiuno alcuno. Li tre primi giorni dopo la Purificazione, non essendo sabbato o domenica, sono di grandissimo digiuno a chierici, frati e laici, perché affermano in questi tre giorni che non mangiano se non una volta: e chiamasi la penitenzia di Ninive. Compiti quelli tre giorni, fino all'entrare di quaresima, tornano a digiunare secondo che avanti alla solennità della Santa Trinità digiunavano. L'advento e tutta la quaresima gli chierici, frati, laici, uomini e femine, piccioli e grandi, sani e ammalati, tutti digiunano: e cosí da Pasqua fino alla Trinità, e da Natale fino alla Purificazione, si dice la messa la mattina, perché non vi è alcun digiuno; tutto il resto dell'anno si dice al tardi, perché digiunano.
Il monasterio dove sepelimmo Matteo è lontano da questo dove noi stavamo tre miglia di molto mala strada, e il suo titolo è la Visione di Iesus. È situato sopra una punta di scoglio molto alta, e da ogni canto che si guarda in giú si vede come una profondità d'inferno. La chiesa del monasterio è molto grande di corpo e maggior d'entrata, ed è molto ben ordinata e disposta. È fabricata con tre navi grandi e molto gentilmente fatte, con gli archi e con i suoi volti, sí che pareno che siano di legno, per essere il tutto dipinto, di sorte che non si può conoscere s'ella sia di pietra o di legno. Ha dui luoghi da camminare in modo di claustro intorno al corpo della chiesa, tutti dui coperti e dipinti con figure d'apostoli e patriarchi, e tutto il vecchio Testamento, e san Giorgio a cavallo, il quale è in tutte le chiese; e similmente vi è un panno di arazzo grande, dove è un crocifisso, la nostra Donna, gli apostoli, patriarchi e profeti, e ciascuno ha il suo titolo o ver nome in latino, che dimostra quella opera non esser di quelli paesi. Vi sono eziandio molte imagini antiche, le quali non stanno sopra gli altari, perché non è questo il lor costume, ma le tengono in una sagrestia, rinvolte con molti libri, e non le cavano fuori se non le feste.
In questo monasterio è una gran cucina con tutte le masserizie necessarie, e un gran luogo per refettorio, dove mangiano tutti insieme: e mangiano a tre a tre in una conca di legno, non molto profonda, ma piana come una piattella di legno. Il mangiar loro è molto tristo: il pane è fatto di miglio zaburro e d'orzo, e di un'altra semenza che chiamano tafo, la quale è picciola e negra. Fanno questo pane rotondo, della grandezza come è un pomo d'Adamo, e ne danno tre di questi a ciascuno, e a' novizzi ne danno tre fra due persone, che mi spaventò a pensare come si possono con sí poco mantenere; similmente lor danno alquanto di verze, senza olio o sale. Di questo medesimo mangiare mandano a molti frati vecchi onorati, alli quali portano gran riverenzia: e questi non vengono al refettorio. E se alcuno mi dimandasse come io sappia questo, rispondo che, oltra il vedere ch'io feci quando sepellimmo Matteo, il piú del tempo delli sei anni che stemmo nell'Etiopia fu la nostra stanza non molto lontana da detto monasterio, di sorte che mi partiva spesso la mattina da casa sopra la mia mula e arrivava a ora di vespero al monasterio, e il piú delle volte andava a passar tempo con li frati, e principalmente nelle lor feste: e intesi molte cose da loro, delle lor faccende, entrate, usanze e costumi. Stanno ordinariamente in questo monasterio cento frati, e la piú parte son vecchi di grand'età e secchi come legni, pochi giovani e molti fanciulli, che allevano di età di otto anni in suso, e molti di loro storpiati e ciechi.
Questo monasterio è murato tutto d'intorno, né vi s'entra se non per due porte, che stanno sempre serrate.
Come il monasterio della Visione è capo di sei monasterii, e del numero de' frati, e dei suoi ornamenti; e del "tascar", cioè festa, che fanno a uno abbate Filippo che dicono esser santo.
Cap. XIIII.
Questo monasterio è capo di sei monasterii, che stanno all'intorno di quello per queste montagne, e quello che è piú lontano è per ispazio di XXIX in XXX miglia: e tutti son suggetti a questo e gli danno ubbidienza. In ciascuno di essi è un david, cioè guardiano, posto per l'abbate o vero provinciale; e quel monasterio che tiene david, cioè il guardiano, è sotto lo abbate, che è come provinciale. Io sempre udi' dire che in questo monasterio erano da tremila frati, e perché molto ne dubitava, volli venire una volta a far la festa della nostra Donna d'agosto, per vedere quanti si mettevano insieme: e certo ebbi piacer grande di veder la ricchezza di questo luogo, in una procession che fecero, e i frati non passavano da CCC, a mio giudicio, e la maggior parte erano vecchi. Viddi un gran circuito che ha questo monasterio, intorno a duoi luoghi che sono come claustri, il qual circuito è discoperto: ma allora era coperto tutto di broccato, broccatelli, velluti dalla Mecca, tutte pezze lunghe, cucite l'una con l'altra per abbracciar tutto questo circuito, per il quale fecero una processione molto bella, tutti con le cappe de' medesimi panni di broccati, ma mal fatte, come di sopra è detto. Portavano 50 croci d'argento, picciole e mal fatte, e altritanti turribuli di rame; nel dir della messa, viddi un gran calice d'oro e un cucchiaro d'oro col quale davano la communione. E di CCC che in questo monasterio vennero, molto pochi erano quelli che io conosceva. Dimandai ad alcuni miei amici per che causa, essendo in questo monasterio cosí gran numero di frati come si diceva, non erano presenti se non pochi a tal solennità: mi risposero che ancora era maggior numero di quel che si pensavano, per essere sparsi in altri monasteri, chiese e fiere, a guadagnarsi il lor vivere infin che sono giovani, perché nel monasterio non si possono mantenere se non con la loro industria, e quando son vecchi che non possono caminare, vengono a morire in questo monasterio. In questo giorno viddi vestire l'abito a 17 giovani.
In detto monasterio è la sepoltura d'uno abbate o vero provinciale che si chiamava Filippo, e le sue opere di santità furono molto grandi, perché dicono che si trovava un re Prete Ianni, che ordinò che non si dovesse guardare il sabbato in tutti li suoi regni e signorie, e questo Filippo andò immediate a trovarlo con li suoi frati e con molti libri, e gli mostrò come Dio aveva ordinato che si guardasse il sabbato, e chi non lo guardava fusse lapidato. Costui disputò questa cosa avanti tutti li frati d'Etiopia, e fu laudato avanti il re: e per questo dicono che esso è santo, e gli fanno ogni anno nel mese di luglio una festa, la quale chiamano tascar di Filippo, che vuol dire il testamento o memoria di Filippo. E per questo gli abitanti di questa terra e del monasterio son li piú macchiati di questa eresia giudaica che siano in tutta la terra del Prete Ianni, ancora che tutti ne tenghino parte: ma questi piú di tutti gli altri. Io ho visto con li miei occhi cuocere le verze per il sabbato e fare il pane per il sabbato, e il sabbato in questo monasterio non si fa fuoco; la domenica poi fanno tutto quello che bisogna per mangiare. E io venni due volte a questo tascar di Filippo, nel quale mi fecero grande onore; e in quello ammazzano ogni anno molti buoi, e in uno ne viddi ammazzare XXX e nell'altro XXVIII, i quali sono offerti dagli abitanti circonvicini per divozione a questo Filippo: e danno questa carne cruda a tutta la gente che viene al tascar, e non gli danno pane. Li frati non mangiano carne. A me mandavano ogni anno duoi grandi e grossi quarti di carne, con molto pane e vino di mele, il quale similmente i frati non beveno nel monasterio: ma quando son di fuori con noi altri Portoghesi, beveno vino e mangiano carne, se è un solo, ma essendo duoi non lo fanno per paura l'uno dell'altro.
Questo monasterio, e tutti gli altri che gli son suggetti, tiene un ordine, che non vi entrano donne, né mule, né vacche, né galline, né altro animale che sia del sesso feminino: questo l'ho da loro saputo e anche veduto, perché in quella ora ch'io arrivava un tiro di balestra lontano dal monasterio, mi venivano a prender la mula, senza ch'io potessi arrivare al monasterio, e la mandavano ad una lor possessione detta Giangargaram, dove morí Matteo; e fanno ammazzar le vacche e le galline un pezzo lontano dal monasterio. Nel monasterio non viddi altro che un gallo con duoi sonagli a' piedi, e senza galline: e mi dicevano che lo tenevano acciò che facesse loro segno delle ore dei matutini. Se vi entrano femine essi lo sanno, perché molte volte dimandai a certi fanciulli che si allevano ivi di chi erano figliuoli: essi mi nominavano li frati per lor padri, e cosí conobbi frati giovani, figliuoli de frati vecchi, nominati per figliuoli.
Dell'agricoltura di questa terra, e come si guardano dalle fiere, e dell'entrate del monasterio.
Cap. XV.
Questi frati e quelli degli altri monasteri suoi sudditi potriano fare molto bene d'intorno alle cose di villa, e di allevar arbori, vigne e orti con li lor esercizii, e nondimeno non fanno cosa alcuna; e la terra è buona e atta a produrre ogni cosa, secondo che si comprende per quello che è salvatico e deserto, ed essi non coltivano altra cosa se non campi de migli e buchi de api. E come è notte non escono mai delle lor case, per paura degli animali salvatichi che sono in quel paese; e quelli che guardano i migli hanno le loro stanze molto alte da terra, sopra arbori, dove dormono la notte. Son all'intorno di questo monasterio e per le valli di quelle montagne gran mandrie di vacche, guardate da Mori arabi, che vanno insieme 40 e 50 con le loro mogli e figliuoli: e il capitano tra loro è cristiano, perché le vacche che guardano son di gentiluomini cristiani del paese di Barnagasso. Questi Mori non guadagnano altra cosa per la lor fatica se non il latte e butiro che cavano dalle vacche, e con questo si mantengono loro, le mogli e i figliuoli. Alcune volte ne accadeva dormire appresso questi Arabi, ed essi ne venivano a dimandare se volevamo comprar vacche, e ne le davano per buon mercato a nostra scelta. Dicesi che son tutti ladroni, favoriti dai signori de' quali sono le vacche, e cosí non si passa tra loro se non in grossa carovana.
L'entrate che ha questo monasterio della Visione son molto grandi, come io viddi e seppi: primamente questa montagna nella quale è posto questo monasterio può essere da 30 miglia di paese, nel qual si seminano molti migli, orzi, segale e tafi, e di tutto pagano al monasterio i suoi diritti, e ancora dei pascoli degli animali. Nelle valli di queste montagne son di gran ville, e la maggior parte son del monasterio; e dopo una o due giornate vi son molti e infiniti luoghi che sono del monasterio, e si chiamano gultus del monasterio, che vuol dire luoghi privilegiati. Don Rodrigo ambasciadore e io andammo una fiata al cammino della corte, partendoci da questo monasterio, ben cinque giorni di cammino, e arrivammo in una congregazione che si chiama Zama, dove stemmo il sabbato e la domenica in un picciolo luoghetto, ove potevano essere da XX case. Quivi ne dissero che quel luogo era del monasterio della Visione, e che vi erano cento luoghi, tutti del monasterio; e cosí ne mostrorno molti di quelli, e ne dissero che pagavano al monasterio di tre in tre anni un cavallo, che sarebbeno 33 cavalli per anno. E per saper meglio questo, io ne dimandai allo alicasin del monasterio, che vuol dire auditore o vero maestro di casa, perché costui riceve e fa giustizia; ed esso mi disse che era la verità che pagavano li detti cavalli. E gli dimandai per che cosa voleva il monasterio tanti cavalli, conciosiaché essi non cavalcavano; mi disse che non pagavano cavalli, ma vacche in luogo di quelli, cioè 50 vacche per cavallo: e questo tributo de' cavalli era usitato fino al tempo che questi luoghi erano delli re, li quali dotarono il monasterio con le sue iurisdizioni, e dapoi si composero gli abitanti di quelli paesi col monasterio e tramutarono il pagar de' cavalli in tante vacche, oltra le quali pagavano molti altri tributi di biade. Ha questo monasterio, piú di 15 giornate di cammino dentro nel regno di Tigremahon, una gran congregazion che saria bastante a essere un ducato, la quale si chiama Adetyeste, e paga ogni anno 60 cavalli e infiniti tributi e diritti. Vanno sempre a questa congregazione piú di mille frati di detto monasterio, perché in quella son molte chiese: e di questi frati alcuni di loro son buoni e onorati e divoti, e alcuni ben tristi e scostumati. Oltra il tributo dei sopradetti cavalli che si pagano al detto monasterio, vi son molti altri luoghi, che sono proprii del re, che pagano tributo de cavalli, per essere cosí l'antica sua usanza: e son luoghi contermini alli paesi d'Egitto, donde vengono buoni e gran cavalli, e altri d'Arabi, che hanno similmente buoni cavalli, ma non cosí buoni come quelli d'Egitto.
Come i frati impedirono la partita nostra.
Cap. XVI.
Io ritorno al nostro cammino e dico che, stando noi ancora nel monasterio di San Michele, arrivò un uomo che mandava Barnagasso per condurne via, e con lui erano i duoi nostri Portoghesi: e fu alli 4 di giugno. E conducevano alcuni buoi e uomini per levar le nostre robbe, ma il detto uomo se ne andò subito per quelle montagne, a cercar piú buoi e piú persone di quelle ch'esso aveva condotte. Ed essendo già le nostre robbe nella strada preparate per andarcene con tutte le genti e buoi in ordine, vennero i frati e parlarono molto con le genti, e noi non intendevamo ciò che dicessero, disturbarono la nostra partita di maniera che noi ritornammo a raccoglierle. E fu necessario mandar di nuovo a Barnagasso, e vi andò Giovanni Scolaro scrivano con il suo uomo, e tardarono sei giorni; e vennero con risposta di buono aviamento, cioè che ne conducessero noi e le nostre robbe, e che ne dessero muli e buoi quanti ne facessero bisogno. Con tutto questo i frati erano disposti di volerne turbare, sí come coloro che ci volevan male.
Partimmo da questo monasterio di San Michele alli XV del mese di giugno, e perché si tardava nel caricare le robbe, conciosiaché i buoi non erano venuti se non pochi, e non vi erano mule che fussero a sufficienzia per tutti noi, alcun partirono a piedi. Eravi anco poca gente per levar le nostre robbe, e non potendo andare i buoi per li boschi e selve folte, per essere tutta la terra sassosa e salvatica, restarono ivi le bombarde con le code e li barili della polvere. E non potevano essere lungi dal monasterio piú che due miglia che, arrivando l'ambasciadore e gli altri che con lui erano, trovammo tutte le robbe discaricate: e non potendo intender la causa perché l'avevano fatto, di nuovo le facemmo caricare. E non si volendo ancor muovere del tutto, si levò rumore tra quelli negri, dicendo che vi erano ladroni li quali stavano aspettandone in cammino; né per questo restammo di far partire le robbe avanti per quelli boschi, dove il cammino era stretto. Aveva l'ambasciadore terminato, e noi altri, di morire in questo servizio del nostro re: del che i negri si spaventavano molto, e stupivano del grand'animo di X o XII di noi, che non temevamo passare cosí forti montagne, dove dicevano essere gran moltitudine de ladroni. E cosí ne andammo alla buon'ora, avendo caricati avanti i buoi e negri, e camminammo per molto terribili montagne diritte e tagliate con un pessimo cammino di pietre: e la maggior parte de' boschi di queste montagne sono olivi salvatichi molto belli, con li quali si potriano fare dei buoni olivari. Uscendo di queste montagne trovammo alcuni fiumi secchi, che nel tempo del verno son grandi e terribili, cioè per lo spazio che durano i nembi e tuoni, e come il nembo e il mal tempo finisce, subito il fiume resta secco; e da una parte e dall'altra dei detti fiumi sono altissime e diritte montagne, della medesima salvatichezza dell'altre. Lungo di queste fiumare son grandissimi boschi d'arbori molto belli e alti, ma non conosciuti, tra i quali appresso le ripe sono alcune palmiere, della sorte di quelle che fanno li palmetti in Algarbo, luogo di Portogallo. Appresso d'uno di questi fiumi dormimmo una notte, con assai acqua e pioggia e tuoni.
Come passammo una gran montagna, dove era gran moltitudine di simie,
e come arrivammo il giorno seguente a un luogo che si chiama Calote.
Cap. XVII.
Il giorno seguente tornammo a traversare un'altra montagna, alta e oltra modo salvatica, sí che non potevamo sopra le mule né a piedi andare. In questa montagna trovammo molti animali di diverse sorti, e infinite simie a squadre: e non si veggono generalmente per tutta la montagna, se non dove è qualche rottura e grotta grande e qualche caverna, e non andavano manco di 200 o 300 insieme. E dove è terra piana sopra le dette rotture, fanno la loro stanza, e non vi resta pietra che non la rivoltino, e cavano la terra che pare ch'ella sia stata lavorata. Son molto grandi, e dal mezzo innanzi pelose come lioni, e son della grandezza de' castroni.
Passata la montagna, fummo a dormire a un luogo a piè di quella, che si chiama Calote: può essere, da questo luogo al monasterio donde partimmo, da sedeci in disdotto miglia. Passammo un fiume d'acqua corrente molto chiara e buona, a piè del detto luogo, ove fummo a visitare un molto onorato gentiluomo capitano di quello, molto vecchio, e alloggiava molto onoratamente: e ne fece grandissime carezze, dandone galline cotte in butiro e vini di mele in abondanzia, e ne mandò una molto grande e grassa vacca dove eravamo alloggiati. Il giorno seguente fummo a dire la nostra messa nella chiesa del detto luogo, che si chiama San Michele, ed è povera, cosí la casa come gli ornamenti. In quella sono tre chierici maritati e altri tre zagonari, cioè da Evangelio: e questi sono di necessità, perché con manco non potriano dir messa. Quest'onorato capitano viddi io dapoi frate nel monasterio della Visione, e lasciò la signoria e l'entrate a' suoi figliuoli, ch'erano onorate persone: e vidi ch'esso stava alla porta di fuori e non entrava nel monasterio, e ivi riceveva la communione con li novizii, e compito l'uffizio sempre stava onoratamente col provinciale.
Questa domenica ci partimmo al tardi, perché le genti del paese che ne guidavano cosí volsero, e quindi cominciammo a camminare per terre piane, seminate e lavorate al modo di Portogallo: e li boschi ch'erano tra questi luoghi lavorati, tutti sono olivari salvatichi bellissimi, senza altri arbori. Dormimmo appresso un fiume corrente, fra molte ville buone.
Come arrivammo al luogo di Barua, e come l'ambasciadore
fu a ritrovare Barnagasso, e della maniera del suo stato.
Cap. XVIII.
Arrivammo al luogo di Barua, che può esser lontano nove miglia dal luogo di Calote, a' XVIII del mese di giugno. Questo luogo è capo del paese e regno di Barnagasso, nel quale son li suoi palazzi principali, che essi chiamano betenegus, cioè casa del re. In questo giorno che noi qui arrivammo, si partí Barnagasso, prima che noi giugnessimo, per un altro luogo d'un'altra congregazione: e il luogo si chiama Barra, e la congregazione Ceruel. Il partir del quale giudicammo che fusse per non ci far accoglienza; alcuni ci dissero che egli era partito per il dolor degli occhi. Fummo quivi alloggiati benissimo, secondo il paese, e in case grandi e assai accommodate a piè piano, e di sopra erano terrazzate.
Nel terzo giorno del nostro arrivare, deliberò l'ambasciadore d'andar a visitare Barnagasso, col quale andammo cinque in compagnia, tutti a cavallo con mule, e arrivammo dove esso era a ora di vespero: e dal luogo onde partimmo per fino al luogo ove abitava Barnagasso erano XI miglia vel circa. E arrivati, smontammo avanti i suoi palazzi, vicini alla porta della chiesa, dove entrati facemmo la nostra solita orazione; la qual finita, pigliammo il cammino verso il suo palazzo, parendo a tutti noi che subito dovessimo parlargli: ma non ci lasciorono entrare, dicendo che dormiva. Dove aspettando un pezzo per parlargli, non vi fu ordine alcuno, ma ci fecero alloggiare in una corte di capre, nella quale malamente potevamo star tutti; e per dormire ne dettero, in cambio di letto, due corami di buoi col suo pelo, e a cena pane e vino di quel paese a bastanza, con un castrone. Nel giorno seguente aspettammo gran pezzo che ne dimandassero per aver audienza; finalmente fummo dimandati, ed entrando nella prima porta trovammo tre uomini a guisa di portinari, li quali avevano ciascun di loro una sferza in mano: e volendo noi entrare, non ci lasciorno, dicendo che gli donassimo del pevere, dove ne tennero gran pezzo fuori. Finalmente entrati nella prima porta, arrivammo alla seconda, alla quale trovammo tre altri portieri che parevano piú onorati, li quali per piú di mezza ora ne fecero star in piedi sopra un poco di paglia, e il sole scaldava tanto che ci consumava; e saremmo restati quivi molto piú, se non che l'ambasciadore gli mandò a dire in colera o che lo lasciasse intrare o che esso se ne tornarebbe all'alloggiamento. Allora uno piú onorato degli altri venne e ci disse ch'entrassimo.
Stava il detto Barnagasso in una gran casa a piè piano, perché in quel paese non vi sono case in solari, e stava a giacere in una lettiera, come era di suo costume, circundata da alcune cortine assai povere: egli aveva male agli occhi, e la moglie gli sedeva appresso da capo. Quivi fatte le debite salutazioni, l'ambasciadore gli offerse il suo medico per medicarlo; al quale egli rispose che non aveva bisogno di medico e che non ne faceva conto. Dipoi l'ambasciadore gli dimandò di grazia che gli desse commodità di fare il nostro viaggio, allegandogli quanto grata cosa faria al re di Portogallo, e che sarebbe remunerato dal detto re e dal suo capitan maggiore, e che esso, ricevendo tal grazia, lo farebbe sapere al Prete Ianni. E dicendo Barnagasso: "Che è quello di che avete bisogno?", rispose che aveva bisogno di buoi, di asini per caricar le robbe e di mule per cavalcare. A questo gli replicò Barnagasso che mule non gli poteva dare e che le comprassimo, e che del resto ci provederebbe, e che mandarebbe in nostra compagnia un suo figliuolo, il quale ne accompagnerebbe per fino alla corte del Prete Ianni: e con questo ci licenziò.
Come dettero da mangiare in casa di Barnagasso all'ambasciadore,
e come in questa terra non si contano le giornate per miglia.
Cap. XIX
Essendo noi fuori della casa dove stava Barnagasso, in una corte d'un'altra casa, ci messero a sedere in piano sopra alcune stuore, dove ci portorno un catino di legno pieno di farina d'orzo un poco impastata, e un corno di vino fatto di mele: e perché noi non eravamo usi a mangiare né vedere simili cibi, non volemmo mangiare, ma dapoi che ci usammo gli mangiavamo volentieri. E allora senza mangiare ci levammo e tornammo allo alloggiamento, e subito montammo a cavallo due ore innanzi mezzogiorno, e andando al nostro viaggio da circa due miglia, ne venne un uomo dietro correndo, il quale ne disse che l'aspettassimo, perché la madre di Barnagasso ci mandava da mangiare, e ch'ella averia per male se noi non l'accettassimo: e cosí aspettammo, e ci portarno cinque pani di formento, molto grandi e buoni, e un corno di buon vino pur di mele. E non si maravigli alcuno d'udire un corno di vino, perché i gran signori e il Prete Ianni fanno li loro vasi da tener vino di corni di buoi, e vi si trova corno che tiene cinque e sei inghistare. E piú ne mandò della detta farina impastata, dicendo che in quella terra la tengono per buona vivanda: questa farina è d'orzo arrostito e fatto in farina, e l'impastano con un poco d'acqua e cosí la mangiano. Noi, mangiato che avemmo, seguitammo il nostro cammino verso il luogo di Barua, dove avevamo lasciate le nostre robbe e dove eravamo alloggiati.
In questa terra, e in tutti li regni del Prete Ianni e suo dominio, non si ragiona a leghe né miglia, e se dimandate: "Quanto è di qua al tal luogo?", vi risponderanno: "Se partirete al levar del sole, arrivarete quando il sole sarà ivi", segnando il luogo nel cielo; "e se camminarete pianamente, arrivarete quando le vacche si serrano", che è la notte; e se il cammino è lungo, "arrivarete in un sambete" che vuol dire in una settimana: e cosí vi assegnano secondo la distanzia. E perché ho detto che dal luogo di Barua fino al luogo di Barra ci sarebbeno da X in XII miglia, cosí è a nostro giudicio, perciò che dipoi vi fummo assai volte, e partivamo da uno de' detti luoghi e andavamo a desinare all'altro, dove negoziavamo, e tornavamo ancora col sole a casa. Questi del paese contano questo andare per una giornata, perché camminano poco. Fra l'uno e l'altro luogo è un paese singulare, cioè terra molto lavorata e campagne di formento, di miglio, d'orzo, di ceci, di lente e di molte altre sorti di semenze che sono in quel paese, che a noi sono incognite, cioè taffo di guza, miglio zaburro: e questo taffo di guza è semenza tra loro molto buona e delicata, ed è molto stimata perché il verme non la mangia, che suol mangiare il formento e altri legumi, e dura assai tempo. Per la strada, da una banda e l'altra, si veggono piú di cinquanta villaggi grandi e molto bene abitati, e tutti in campagne verdissime. Per queste terre lavorate vi vanno mandrie di vacche salvatiche, quaranta, cinquanta e sessanta in frotta: e noi Portoghesi andavamo alla caccia con molto piacere, prendendone infinite, perché quelli del paese poco fastidio pigliano, ancor che da quelle ne ricevino assai danno ne' loro grani, ma non le sanno ammazzare.
Del luogo di Barua, e delle donne e traffico di quelle,
e delli matrimonii che si fanno fuor della chiesa.
Cap. XX.
In questo luogo di Barua nel quale noi ci trovammo, e dove poi siamo stati assai tempo, sono trecento fuochi, e la piú parte di questi abitatori son donne, perché in questo luogo è come corte, per piú rispetti. L'uno è che qui non mancano mai genti della corte del Prete Ianni, e quelli che vengono, non avendo seco donne, si servono di quelle; l'altro perché quivi è la corte di Barnagasso, dove per la maggior parte del tempo fa residenzia, e di continuo ha in casa sua piú di trecento cavalcature, e di piú altritanti che ogni giorno vengono a negoziare col detto Barnagasso per conto delle lor faccende e liti, e pochi stanno senza donne: e questo fa che quivi vivono donne giovani. Le quali, poi che son vecchie, hanno un altro modo di vivere, percioché in questo luogo si fa un mercato ogni martedí molto grande, dove si congregano da 300 in 400 persone, e tutte le donne vecchie e giovani hanno misure, con le quali vanno misurando per il mercato tutto il formento e sale che si vende, e con questo vanno guadagnandosi il vivere; e di piú danno da dormire a quelli che restano quivi, e salvano la robba che avanza loro da vendere per l'altro mercato, e cosí ogni altra cosa. E perché in questo luogo son molte donne, gli uomini che son ricchi e hanno il modo pigliano due o tre mogli, né è loro proibito dal re né dalla giustizia, ma solamente dalla chiesa, perché tutti coloro che hanno piú d'una moglie non possono entrar in chiesa e manco communicarsi, né participare d'alcun altro sacramento della chiesa, e sono tenuti per scommunicati.
Nel tempo che stemmo in questo luogo, un mio cugino e io alloggiammo in casa di un uomo che si chiamava Ababitay, che aveva tre mogli: ed erano da noi conosciute e nostre amiche di buona amicizia. E mi disse che ne aveva avuto trentasette figliuoli con esse, e che niuno gliele aveva proibite, eccetto che la chiesa non gli dava la communione. Adesso, cioè innanzi che noi partissimo, ne aveva licenziate due ed era restato con una sola, cioè con quella che ultimamente aveva tolta: però gli furono renduti tutti li sacramenti e data licenzia che potesse andare alla chiesa, come se una sola moglie avesse avuta. E per queste ragioni in quel luogo son molte donne, perché gli uomini che son ricchi e cortigiani ne pigliano due o tre o piú, secondo che piace loro.
I matrimonii in questa terra non sono stabili, perché per poca cosa si dividono. Io ne ho veduto sposar molte, e mi trovai presente a uno sponsalizio fatto fuor di chiesa, che fu fatto in questo modo. In un cortile avanti a una casa fu posta una lettiera, e in quella posero a sedere lo sposo e la sposa, e vi vennero tre preti e cominciorno a cantare in voce alta "Alleluia", e cosí cantando a modo di versi andarono tre volte intorno alla lettiera; dapoi tagliorno allo sposo un ciuffo di capelli sopra la testa, e altritanti alla sposa nel medesimo luogo, e detti capelli bagnarono in vino fatto di mele, e li capelli dello sposo messero sul capo della sposa, e quei della sposa messero sul capo dello sposo, nel medesimo luogo dove erano stati tagliati, e sopra quelli buttarono dell'acqua benedetta. E dapoi cominciorno a far festa a uso di nozze, e la notte furono accompagnati detti sposi in casa loro: e per un mese non va alcuno in quella casa, se non solo un uomo il quale è il compare, che sta tutto il mese con loro, e finito il mese si parte. E se la sposa è donna di conto, sta cinque o sei mesi ad uscir di casa, e di continuo tiene un velo negro dinanzi al viso: e se avanti li sei mesi s'ingravida, lieva via il velo, e se non s'ingravida, finito il tempo delli sei mesi se lo cava.
Del modo di sposar in chiesa e le benedizioni che si fanno, e li suoi contratti,
e come si partono i mariti dalle mogli ed esse da loro.
Cap. XXI.
E piú ho visto abuna Marco, che loro chiamano il patriarca, far alcune benedizioni nella chiesa, cioè avanti la porta principale, dove mettevano a seder lo sposo e la sposa in una lettiera, intorno alla quale esso andò con l'incenso e con la croce; e accostatosi a' detti sposi, pose loro la mano sopra 'l capo, dicendo che guardassero quello che Dio comandava nello Evangelio, e che si ricordassero che non erano piú divisi, ma uniti tutti due in una carne, e che cosí dovevano essere con i cuori e volontà: e ivi stettero fino che fu detta la messa, dove, communicati che gli ebbe, dette loro la sua benedizione. Questo ho visto fare in un luogo che si chiama Dara, il qual è del reame di Xoa, e un altro ne ho visto fare in una villa, parrocchia di Coquete, luogo del reame di Barnagasso. E quando questi sponsalizii si fanno, son terminati per contratto, cioè, se tu lascierai me o io te, quello che sarà causa di tal divisione pagherà tanto di pena: la qual pena si mette, secondo la qualità delle persone, o in tanto oro, o tanto argento, o tante mule, o tante vacche, o tante capre, o tanti panni, o tante misure di formento. E se alcuno vuol separarsi, subito cerca causa per la quale egli lo possa fare: e per tal ragioni pochi son quelli che caschino in dette pene, e cosí si dividono quando vogliono, cosí lo sposo come la sposa. E se alcuni conservano l'ordine del matrimonio, questi son i preti, che non si possono separare, e anco li contadini, li quali pongono amore alle lor mogli, perché danno loro aiuto grande nel nutrire i bestiami e figliuoli, e nel zappare e mondar le lor biade, e perché la sera, tornando a casa, trovano le cose necessarie apparecchiate: e cosí, per queste commodità, stanno sempre maritati fin che vivono.
E perché ho detto che nelli contratti mettono pene, il primo Barnagasso che noi conoscemmo, che aveva nome Dori, si separò dalla sua moglie e pagò di pena cento oncie d'oro, ch'erano mille pardai, cioè mille ducati, e si maritò con un'altra; e la moglie si maritò con un gentiluomo detto Aron, fratello del detto Barnagasso: e di questa donna tutti due questi fratelli ebbero figliuoli, da noi conosciuti. Questi son gran signori, e son fratelli della madre del Prete Ianni, la quale tutti noi abbiamo conosciuta. E noi altri Portoghesi conoscemmo Romana Orque, nobile signora sorella del Prete Ianni, che era maritata con un grande e nobil giovane, e nel nostro tempo si separò da questo suo marito e si maritò con un uomo di età di piú di quaranta anni, uomo di gran credito nella corte, il quale si chiamava Abucher: e suo padre aveva nome Cabeata, che è uno delli gran signori che siano nella corte. E cosí di queste separazioni ne ho vedute e ne so molte, e ho voluto metter queste per essere di gran signori; e perché ho detto che Aron aveva preso per moglie la moglie di suo fratello Dori, non vi maravigliate punto, perché è usanza di questa terra e non par cosa strana che il fratello dorma con la moglie dell'altro fratello, perché dicono che il fratello suscita la sua generazione, come usava la legge vecchia.
Del modo del battesimo e della circoncisione, e come portano i morti a sepelire.
Cap. XXII.
La circoncisione la fa chi la vuol fare, senza alcuna cerimonia: solamente dicono che cosí la trovano scritta nei libri, che Dio comandò circoncidere. E non si maravigli chi udirà questo, perché circoncidono similmente le femine come i maschi, la qual cosa non si usava nella legge vecchia. Il battesimo lo fanno in questo modo: battezzano li maschi dopo XL giorni, le femine dopo LX, e se inanzi muoiono vanno senza battesimo. E io molte volte e in molti luoghi ho detto che facevano grand'errore in questo, e che essi facevano contra lo Evangelio del nostro Signore, che disse: "Quod natum est ex carne, caro est, et quod natum est ex spiritu, spiritus est", cioè: quello che è nato di carne è di carne, e quello che è nato di spirito è di spirito. A questo mi rispondevano assai volte che bastava la fede della madre, e la communione ch'ella pigliava essendo gravida. E questo battesimo lo fanno in chiesa come noi, ma non nella pila del battesimo, ma alla porta della chiesa con un boccal d'acqua: e cosí lo benedicono, e mettono l'olio come noi nella sommità della fronte e nelle spalle; e non usano il sacramento della cresima, né l'olio della estrema unzione. Questo officio di catechismo non è tanto grande quanto è quello dell'arcivescovado bracarense, ma par che sia quale è quello che si usa nella chiesa romana. Al tempo che vogliono battezzar la creatura con detta acqua, uno che è là come compare piglia la creatura dalle mani della comare che la tiene, e la piglia sotto le braccia e cosí la tien sospesa; e il prete che battezza piglia il boccale con una mano e, spargendo l'acqua sopra la creatura, con l'altra mano la lava, dicendo le nostre medesime parole, cioè: "Ti battezzo in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo". Quest'officio lo fanno sempre in sabbato o la domenica, perché si fa la mattina alla messa; e a tutti quelli che battezzano, cosí maschi come femine, danno il sacramento in poca quantità e per forza d'acqua gliel fanno inghiottire: a questo io diceva che questa communione era molto pericolosa, e niente necessaria. E perché io dissi che essi mettono l'olio nella sommità della testa, questo si è perché tutti i fanciullini son portati a battezzare con la testa rasa.
E quelli segni che vediamo ad alcuni schiavi negri portare nel naso e in mezzo gli occhi, o vero nelle ciglie, non son fatti con fuoco né per cosa che tocchi alla cristianità, ma solamente son fatti per una galantaria, con ferro freddo, e dicono che son belli da vedere. E vi son donne gran maestre in far questi segni, e fannogli in questo modo: pigliano uno spicchio d'aglio grande, mondato, non molto fresco, e lo mettono appresso l'occhio o in altra parte dove vogliono far il segno, e dipoi tagliano intorno con un coltello aguzzo, cioè attorno il detto aglio; e allora slargano quel taglio e vi mettono sopra un poco di cera, e sopra la cera un poco di pasta, e legano con un panno, e lasciano stare cosí legato una notte. E resta il segno per sempre mai, che par fatto con fuoco, perché il color di quel segno è negro piú di quello che lor sono.
Nel morir delle persone, le ho vedute portare, cosí le grandi come le mezane e basse, tutte a un modo. Prima, nel tempo del morire, loro non usano d'accender candele, ma poi che son morti danno loro molto incenso e li lavano, e dapoi fasciano tutta la persona in un lenzuolo, e se è persona grande gli mettono sopra il lenzuolo un cuoio di bue disteso nella lettiera. E venendo i preti per portarlo a sepellire, dicono un poco d'ufficio, e lo pigliano portandolo verso la chiesa con la croce, con il turribulo e con l'acqua benedetta, correndo quanto piú possono, che non è uomo che possa giungerli. E giunti alla chiesa, non mettono il morto in quella, ma subito lo pongono appresso la fossa, e non gli dicono niente del nostro ufficio, cioè l'ufficio de' morti, né alcuno salmo di David né di Iob. E io dimandando che cosa era quella che essi dicevano, mi rispondevano che era l'Evangelio di san Giovanni tutto integro: il qual finito lo mettevano nella fossa, alla quale prima davano l'incenso e l'acqua benedetta. Né si dice altramente messa de' morti, e manco per divozion di alcun vivo; solamente usano di dire una messa al giorno per ogni chiesa, e tutti quelli che vi vanno si communicano.
Del sito del luogo di Barua, capo del regno di Barnagasso, e delle case loro,
e della sorte delle salvaticine.
Cap. XXIII.
Questo luogo di Barua è molto buono e bello, ed è posto sopra una roccia over dirupo molto alto, a canto il quale passa un fiume. Le case del re sono edificate sopra di detta roccia, molto ben fatte, a modo di fortezza. Tutto il restante del paese son campagne grandissime coltivate, e in quelle si veggono infinite ville, e la terra è molto fertile per nutrire il bestiame, cioè vacche, capre, pecore e molti altri animali salvatichi da cacciare. Nel fiume si trova molto pesce e buono, molte oche salvatiche e anitre marine. Si veggono anco molte salvaticine d'ogni sorte, cioè vacche salvatiche e lepri in gran quantità, di maniera che ogni mattina ne amazzavamo da XX in XXX senza cani, solamente con le reti. Sonvi pernici di tre sorti, che dalle nostre non son dissimili se non nella grandezza e nel color dei piedi e becco, cioè che son grandi come capponi e del colore delle nostre, ma i piedi e becco gialli, e altre come galline, ma hanno li piedi e becco vermiglio; sono ancora alcune altre di natura come le nostre pernici, ma hanno i piedi e il becco berrettino, le quali, se ben son diverse di colore e di grandezza dalle nostre, nondimeno son tutte nel mangiare del medesimo sapore, e ancora molto piú delicate. Tortore vi son senza numero, che volando oscurano il sole, molto grasse e buone, e cosí galline e oche salvatiche e quaglie infinite, e ogni sorte d'uccelli che nominare si possano e che da noi si possano conoscere, come pappagalli, e molte altre sorti d'uccelli da noi non conosciuti, grandi e piccoli, d'infiniti sorti e colori; e similmente vi sono uccelli da uccellare, cioè aquile regali, falconi, astori, sparveri, e assaissime garze reali e di riviera, e grue, e di tutte sorti che si possa dire. Nelle montagne si veggono porci salvatichi, cervi, caprioli, ante, camozze, tassi, leoni, lupi cervieri, tigri, volpi, lupi, istrici e altre piú sorti d'animali conosciuti e non conosciuti, e tutti salvatichi.
Se alcuno mi dirà come è possibile che in tal paese siano tanti animali da caccia e pesci nel fiume, essendo la terra tanto populata, dico che niuno non caccia né pesca, né tiene ingegno alcuno né maniera per questo effetto, né si dilettano di mangiarne: e per questo è molto facil cosa d'andar alla caccia e d'amazarne quante se ne vuole, perché gli animali e uccelli non son molestati dalle genti, e gli animali feroci, per quello che mi è stato riferito, non fanno male; nondimeno la gente della terra ne ha gran paura. Solamente una volta, in un luogo che si chiama Camarua, che è lontana un miglio da Barua, dormendo un uomo alla porta della stalla delle sue vacche, di notte, con un figliuolo picciolo, venne un leone e ammazzò detto uomo senza che alcuno lo sentisse, e al putto non fece male alcuno, ma all'uomo mangiò il naso e gli aperse il cuore. La gente di questa terra temeva per questo assai, dicendo: "Questo leone ha cominciato a mangiare della carne umana, farà del male assai, che non gli scamperà dinanzi alcuno"; pur, laudato Dio, non si è sentito che abbia fatto altro. E noi altri, in questo medesimo tempo, andavamo spesso a caccia molto vicini a questo luogo, né mai trovammo leone alcuno; trovammo bene pantere, leonze e tigri, alle quali non facevamo male, né esse a noi.
Della signoria e dominio di Barnagasso, e delli signori e capitani che stanno sotto di lui, e del tributo che egli paga con li suoi capitani al Prete Ianni ogni anno.
Cap. XXIV.
La signoria di Barnagasso è in questo modo: il suo titolo è nome di re, perché nagas vuol dir re e bar vuol dir mare, e cosí Barnagasso vuol dir "re del mare"; e quando gli danno tal signoria gliela danno con la corona d'oro in testa, e si dà secondo la volontà del Prete Ianni e dura quanto gli piace, perché al tempo che vi eravamo, per sei anni continui, ho veduto quattro Barnagassi. Quando arrivammo, vi era Barnagasso Dori, e costui morí di sua morte; la corona del quale fu data al suo figliuolo Bulla, fanciullo di X o XII anni, il quale, fatto Barnagasso, subito fu chiamato alla corte del Prete Ianni, il quale lo privò della signoria e la donò a un nobil signore, che si chiamava arraz Anubiata. Costui la tenne duoi anni, e poi gli fu tolta, e fatto il maggior signore della corte, che si dimanda nella lor lingua bettude; e la signoria del Barnagasso la dette a un altro signore che si chiamava Adibi, molto gentil persona, il quale ora è Barnagasso.
Son sotto la signoria di costui molti gran signori, i quali si chiamano xuus, che vuol dire capitani: e son questi xuus molto gran signori. Uno di questi, che ha nome xuus Cire, ora è maritato con una sorella del Prete Ianni. In questa terra di xumeta mai non siamo stati, per esser luogo molto lontano e disviato dal cammino della corte. Evvi un'altra xumeta che si chiama Ceruil: questa sappiamo ch'è un paese molto bello, e fertile d'ogni sorte de biade e legumi. E mi è stato detto che questo xuus Ceruil mette in campo XV mila uomini da lancia, con le lor targhe e archi. Item xuus Chama e xuus Burro: questi duoi signori mi è stato detto che erano uniti in una signoria, e per esser molto potenti, il Prete Ianni dubitò che non si voltassero contra il Barnagasso; però gli divise in due signorie, e cosí ancora ognuno da per sé son grandi. E si dice che questa terra, della quale ne hanno fatto due signorie, soleva essere il reame della regina Candace, la quale al suo tempo non avea altra signoria: e questa fu la prima cristiana che avesse questa terra, la quale il Signor nostro chiamò potente. Item vi son due altre capitanerie, cioè Daffila e Confila: queste confinano con l'Egitto, e questi capitani e signori stanno alle frontiere, e hanno trombetti, che loro chiamano ugandas, che gli vanno avanti, il che non può avere se non gran signori. E tutti costoro servono Barnagasso alla guerra, quando esso vi va, e per tutto dove va.
Ha molti altri signori sotto di sé, li quali si chiamano arrazes, che vuol dire capi: e ne conoscemmo uno che si chiamava arraz Aderao, cioè capo di uomini d'arme, che ne aveva sotto di sé XV mila, li quali loro chiamano cauas. E ho veduto detto arraz Aderao due volte in corte, e tutte due, avanti la porta del re, andar senza camicia e con un panno di seta cinto dal mezzo in giú, e sopra le spalle una pelle di leone, e nella man destra una zagaglia, nella sinistra una targa. Dimandai perché andava cosí un tanto uomo e gran signore: mi fu detto che quello era il piú onorevole abito che si possa avere essendo arraz di cauas, cioè capo di uomini d'arme. E in quel modo che esso andava lo seguivano XX o XXX come saria a dir fanti, con zagaglie e targhe, ma esso era sempre avanti. Il detto Barnagasso ha altri duoi, arraz Tagale e arraz Iacob, signori di gran terre, i quali io conobbi, e altri molti xuus, capitani e signori di terre, ma senza titolo: e cosí esso è signore d'assai genti e di molte terre. E cosí egli come gli detti signori son suggetti al Prete, ed esso è quello che gli dà e toglie l'ufficio quando gli pare e piace, e gli pagano il guibre delle terre, cioè il tributo. E tutte queste signorie son verso la parte dell'Egitto e dell'Arabia, donde vengono i buoni cavalli, broccati e sete, delle quali ne pagano il tributo, cioè che tutti lo pagano a Barnagasso e lui lo paga poi al Prete Ianni per sé e per tutti i sopra detti ogni anno: cioè 150 cavalli e una quantità grande di sete e broccati. Pagano ancora gran somma di panni di bambagia dell'India, per li dazii che si cavano nel porto d'Ercoco.
Del modo che usano nel guardare il bestiame nel tempo della notte dalle fiere; e come in questa terra son l'anno due vernate; e di due chiese che son nel luogo di Barua.
Cap. XXV.
La usanza di questi abitatori di Barua e delli convicini è di star X, XII, XV in una corte tutta murata e serrata fortemente, la qual corte ha una porta sola: e quivi serrano le vacche loro, dalle quali cavano il latte e butiro, e cosí gli animali minuti, come pecore, muli, asini. E oltra che tengono la porta serrata tutta la notte, fanno ancora fuochi alla porta e mettonvi uomini che fanno la guardia, per paura delle fiere che vanno attorno le loro abitazioni; e se non facessero a questo modo, non camparebbe loro animale che non fusse devorato. E di questo luogo di Barua e degli altri convicini son gli uomini che vanno a seminare i migli alla montagna della Visione, e vi vanno tre mesi avanti il verno generale. E le cause perché vi vanno son due: la prima per esser vicini al mare, onde passa tutta la vettovaglia alla Mecca, al Toro, al Zidem e per tutta l'Arabia e India, e avendo costoro molte sorti di semenze e grani, cercano luogo atto a spacciarle; la seconda causa è perché in questo paese son due vernate, divise in temporali, e le biade non crescono se non per forza d'acque: però si partono da Barua e vanno a seminar i migli nelle montagne della Visione, dove allora è il verno, che dura tutto il tempo di febraio, marzo e aprile. E questo medesimo verno è in una terra, pur sotto la signoria di Barnagasso, che si chiama Lama, lontana dalle dette montagne della Visione ben otto giornate; e similmente in questo medesimo tempo è verno in un altro paese, lontano da questo XXX giornate, il quale si chiama Dobas. E perché queste semenze di miglio richiedono le pioggie, però, essendo fuori del tempo ordinario questi verni de' luoghi sopradetti, li vanno a seminar dove piove e cosí si profittano delle dette due vernate.
In questo luogo di Barua son due chiese grandi e molto buone, nelle quali son molti preti, l'una appresso dell'altra: una è degli uomini, detta San Michele; l'altra delle donne, detta degli Apostoli, cioè di San Pietro e di San Paulo. La chiesa degli uomini dicono essere stata fatta da un gran signore che allora era Barnagasso, che le dette privilegio che non vi entrasse donna alcuna, se non la moglie di Barnagasso con una fantesca, e questo solamente quando andava per communicarsi; e ancora non entrava nella chiesa, perché le donne non entrano in chiesa, ma stanno alla porta nel circuito avanti la chiesa, e ivi pigliano il sacramento con li laici: e cosí fanno le donne nell'altra chiesa degli Apostoli, che lo pigliano nel detto modo avanti la porta. E nella chiesa delle donne ho visto sempre andar la moglie di Barnagasso a communicarsi con l'altre donne, non usando il privilegio a lei concesso d'andar a communicarsi nella chiesa degli uomini. Queste due chiese hanno il circuito delli cimiterii che tocca l'uno l'altro, e son circundati d'alte mura; e fanno li sacramenti, cioè il pane, per tutte due in una casa, e le messe dicono tutte due in un medesimo tempo, e li preti che servono in una chiesa servono nell'altra, cioè due parti de' preti nella chiesa degli uomini e una parte in quella delle donne, e a questo modo partiti dicono i loro ufficii. Queste chiese non hanno decima alcuna, solamente hanno assai possessioni, le quali son de' preti, ed essi le fanno lavorare e coltivare: si dividono tra loro l'entrate di quelle, e il Barnagasso dà loro tutto quel che bisogna nelle chiese, cioè paramenti, ornamenti, cera, butiro, incenso e ogni altra cosa a quelle appartenente. Sonvi da XX preti e di continuo da X in XII frati, né mai ho visto chiesa de preti ove non fussero frati, né monasterio de frati che tenesse preti, perché i frati son tanti in numero che cuoprono il mondo, e per i monasteri e per le chiese e per le strade e per tutti i mercati, e finalmente in ogni luogo, son frati.
Del modo che usano i preti nel maritarsi, e in che modo si ordinano,
e della riverenzia che hanno alle chiese e cimiterii di quelle.
Cap. XXVI.
I preti si maritano con una donna, e questi tali osservano meglio il matrimonio che i laici: vivono di continuo in casa, con la moglie e con i figliuoli; e se per sorte muore la moglie, non si maritano piú, e cosí se il prete muore, la moglie non piglia altro marito, ma si può far monaca s'ella vuole. E se il prete, essendo maritato, dormisse con un'altra donna, non entra piú in chiesa né participa dell'entrate di quella, ma diventa come laico. E questo so io perché viddi accusare avanti il patriarca un prete che aveva dormito con una donna, e lo viddi confessare il delitto: e subito comandò il patriarca che non portasse piú croce nella mano né entrasse piú in chiesa, ma fusse laico. E se alcuno prete essendo vedovo si marita, resta laico, come intervenne ad Abuquer che di sopra ho detto, il quale, essendo vedovo, si maritò con Romana Orque, sorella del Prete Ianni: costui, essendo prete e cappellan maggiore del Prete Ianni, dopo molti anni ch'era stato vedovo si era maritato, e l'abuna Marco lo aveva disgradato e fattolo tornar laico, e non entrava piú in chiesa, ma stava alla porta a pigliar il sacramento, come i laici. I figliuoli dei preti, la maggior parte diventano preti, perché in questa terra non si usano scuole da imparare a leggere o scrivere, né vi sono maestri, e i preti quel poco che sanno lo insegnano alli figliuoli, e cosí li fanno preti, essendo ordinati dall'abuna Marco, cioè dal loro patriarca, che per tutta la Etiopia non vi è altro né vescovo né persona che ordini: e gli ordini a tali preti si danno in due volte, come dirò piú innanzi, e dove mi ritrovai in fatto a vederli ordinare molte volte. In tutti questi paesi son li cimiterii delle chiese circundati da fortissimi muri, acciò che gli animali non vadano a dissotterrar li morti. Portano assai riverenzia alle chiese, e niuno ha ardire di passar a cavallo avanti la chiesa, ma dismonta fin che passi a piedi la chiesa e il cimiterio per un gran pezzo.
In che modo l'ambasciadore si partí di Barua, e del mal ordine che ebbero; e come arrivammo ad un luogo chiamato Barra, e del mal ordine che usò Barnagasso.
Cap. XXVII.
Stemmo in questo luogo di Barua, la prima volta, senza che volessino dar ordine alla partita nostra molti giorni; pur finalmente partimmo, alli XXVIII di giugno MDXX, assai allegri e contenti perché camminavamo, e quelli che portavano le nostre robbe le portarono lontano dalla terra solamente due miglia, dicendo che non eran ubligati a portarle piú innanzi, perché quivi era il confine della lor terra. Trovandoci noi nel mese di giugno alla campagna, nella forza del verno di questa terra, con grandissime pioggie e acque, con dette nostre robbe, l'ambasciadore con tre in compagnia tornarono verso Barua per parlar a Barnagasso; e lasciammo con le dette robbe lo scrivano, il fattore e altri Portoghesi. Subito che arrivammo, fummo al palazzo di Barnagasso per dir gli strazii che ne facevano li suoi vassalli; ma non ci lasciorno per quel giorno parlargli. Nel giorno seguente, la mattina, andammo per parlargli: e cosí gli parlammo, e ci promise di subito mandare a pigliar le nostre robbe, e cosí fece, le quali ci portarono dietro infino a cinque miglia, che potevano esser due confini di piú di quello che abbiamo detto di sopra, cioè di castello in castello. E passati questi termini, le posero in un'altra campagna, dove stettero quattro giorni sotto grandissime pioggie e terribili tuoni che ne spaventavano. In questi giorni l'ambasciadore insieme con noi non riposava troppo: ora andavamo a vedere le robbe nostre, che erano lontane cinque in sei miglia, ora allo alloggiamento nostro e ora in casa del Barnagasso, pregandolo che mandasse uomini e animali per condur quelle, perché erano del re, per portarle al Prete Ianni, o che almeno dicesse se egli voleva farlo o no; e se non voleva, che le farebbe ardere, e cosí andaria al suo viaggio senza piú impaccio. Sempre ci dette buone parole, ma cattivi fatti; pur alla fine, passati quattro giorni, mandò per dette robbe.
Come arrivorno le nostre robbe al luogo di Barra, e del mal aviamento che ne dette il Barnagasso; e della moneta che corre per tutto il regno del Prete Ianni, che son pezzi d'oro a peso.
Cap. XXVIII.
Alli tre del mese di luglio arrivarono le nostre robbe al luogo chiamato Barra, con gran pioggie, dove noi altri stavamo con espettazione di partirci presto. E stando quivi andammo a parlare a Barnagasso, pregandolo di grazia che ci dovesse espedire: detteci buone parole. Ma il giorno seguente arrivò un gentiluomo del Prete Ianni, al quale Barnagasso fece tanti onori che si scordò di noi, e gli andò incontro per riceverlo fuor della terra, per fino ad un monticello poco lontano dalle case, insieme con molto popolo; e il detto Barnagasso era nudo dalla cintura in su. Arrivato che fu, il detto gentiluomo si messe sopra quel monticello, piú alto degli altri, e parlando la prima parola che esso disse fu: "Il re vi manda a salutare", e a questa parola tutti s'inchinarono con la mano in terra, che è l'onore e riverenza che usano in questo paese. Detto questo, seguí l'ambasciata che esso gli portava dal Prete Ianni; finito che ebbe di parlare, Barnagasso si vestí di vestimenti assai ricchi e menò il gentiluomo al suo palazzo. Questa è l'usanza di udire l'ambasciata che il Prete Ianni manda, fuori di casa e a piedi, e nudo dalla cintura in su, fino a tanto ch'ella sia finita; e se l'ambasciata è cosa grata al Prete Ianni, quello che la riceve si veste, ma non essendo di piacere al detto Prete, colui che la riceve resta nudo, parendogli essere in disgrazia del suo signore. Questo Barnagasso era fratello della madre del Prete Ianni.
Mentre che costui era ivi, l'ambasciadore e noi andavamo a parlare a Barnagasso acciò che ne espedisse, ed egli ne rispondeva che per l'amor di Dio lo lasciassimo stare, perché era amalato; cosí ad altra ora poi non eravamo lasciati entrare, dicendone che dormiva: e tanto andò la cosa in lungo che quello mandato si partí. L'ambasciadore, sdegnato, disse a Barnagasso che mal si ricordava e peggio eseguiva il giuramento fatto e promessa al gran capitano di ricevere tutti li suoi in sua protezione e dar loro ogni aiuto e favore, poi che sí poco faceva per le cose del re di Portogallo. Né per questo si mosse a dargli piú presta espedizione, scusandosi sempre con le occupazioni avea de' forestieri e con l'esser amalato; ma noi vedemmo per esperienzia che erano fizioni e che non aveva impedimento alcuno con forestieri, perciò che alli 6 del detto mese arrivorno qui sette o otto Mori a cavallo, i quali parevano uomini di conto, e venivano da lontani paesi, e avevano menati cavalli molto belli, li quali volevano dargli per il tributo che pagano al Prete Ianni e anco ad esso Barnagasso: e perché la venuta di costoro redondava in util suo, non lo impedivano allora né forestieri né la infirmità. La cortesia che usava a questi Mori dava assai disturbo a noi altri. L'ambasciadore alla fine gli dimandò in presto XII mule, ed egli rispose che non poteva prestarle, e se ne voleva che ne comperasse. E volendo noi comperarne dalla gente della terra, che volentieri ce ne averiano vendute, venivano li suoi servitori, minacciandoli che se ce le vendessero gli castigariano e torriano l'oro, perché in questa terra non corre moneta alcuna. Volendo comprarne, tutti quelli della terra si scusavano dicendo che avevano paura di Barnagasso, perciò che lui voleva vendere le sue mule.
L'usanza di tutto il reame del Prete Ianni è che non si spende moneta, ma solamente oro, e si spende a peso: e il principal peso è un'oncia, la quale fa per peso X pardaos o vero X crociati; e da questa ne vien la mezza oncia, e parlando a minuto si parla a dramme, e X dramme fanno una oncia, e la valuta della dramma è secondo la valuta della dramma nel regno di Portogallo o vero in India: viene a valere tre quarti di ducato d'oro in oro, sí che viene a valere un'oncia ducati sette e mezzo d'oro in oro. E piú, detto Barnagasso aveva ordinato che niun altro che lui, e suoi ministri, tenesse li pesi da pesar l'oro, e bisognava a chi voleva comprare e vendere che gli dimandasse il peso: e a questo modo esso e i suoi fattori venivano a sapere in mano di chi andava l'oro, il qual oro poi toglieva alli suoi vasalli quando gli pareva, sí come da loro mi fu referto.
Della chiesa e luogo di Barra e suoi ornamenti, e del mercato e fiera che si fa nel detto luogo, e delli mercanti loro, che son frati, monache e preti.
Cap. XXIX.
In questo luogo di Barra è una chiesa di Nostra Donna, grande, nuova e molto ben dipinta e ben ornata di molti broccati d'oro e tele d'oro, panni di seta, cremisini e velluti dalla Mecca e ciambelotti rossi: uficiano cosí in questa come in quella, della quale ho parlato di sopra, di Barua, eccetto che quivi fanno gli ufficii loro piú sollenni, per esser quivi Barnagasso e piú preti e infiniti frati. La chiesa è governata dalli preti, e una volta che io vi fui viddi fare una processione intorno alla chiesa nel piú gran circuito, cioè nel cimiterio, nella qual erano molti preti e frati, uomini e donne, che in questa chiesa le donne pigliano la communione con i laici: nella qual processione eran gli ornamenti sopradetti, e circondorno la chiesa ben trenta volte, cantando a modo di litanie e sonando molte nacchere a modo di tamburi e cembali. E come li sonano quando fanno la processione e cantano avanti la imagine della nostra Donna, ne' giorni di domenica e delle feste, cosí fanno quando si communicano ne' giorni delle feste. E dissemi che facevano questa processione in onor di Dio, acciò che desse loro delle acque per poter far le lor semenze, che era il mese di gennaio nella loro state. Le campane son di pietra, come nell'altre chiese, e le campanelle mal fatte.
In questo luogo si fa gran mercato, come nel luogo di Barua, e cosí si fa in tutti li luoghi che son capi di congregazioni ogni settimana un mercato. In questi mercati si usa di cambiare una cosa in un'altra, cioè dare un asino per una vacca, e quello che val manco rifà quello che val piú due o tre misure di formento o di sale. Cambiano però capre per pane, e per pane comprano panni, e per panni mule e vacche; ma sopra tutto trovano quel che vogliono per sale, per incenso, per pevere, per mirra, per perle minute, che son tutte cose molto stimate e avute in prezio, e ne fanno conto come dell'oro e correno per tutti li regni del Prete e di gentili. Per ogni picciola cosa cambiano galline e capponi, e finalmente tutto quel che si vuol comprare, tutto si trova in questo mercato a cambio, che moneta non vi corre: e nel cambiare non fanno troppe parole, ma si accordano presto, cosa che ci faceva maravigliare.
Li piú grandi negociatori di questi mercati sono preti, frati e monache. Li frati vanno vestiti onestamente con li loro abiti per insino in terra: alcuni portano abiti gialli, di panno di bambagio grosso, e alcuni altri portan pelli di capre, concie come le pelli delle camozze, pur gialle; e cosí le monache portano il medesimo abito, e portano di piú i frati cappe fatte al modo di quelle de' frati di San Domenico, delle medesime pelli o panni gialli, e cosí portano cappelli. Le monache non portano cappe né cappelli, solamente portan lo abito, e hanno rasa tutta la testa; e hanno una coreggia di cuoio cinta e stretta intorno alla testa, e quando son vecchie portano in capo certe cuffie e veli di sopra. Non stanno rinchiuse ne' monasteri, ma stanno in certe ville, e perché tutti li monasteri son di uno ordine, però rendono ubidienza al monasterio convicino, donde ricevano gli abiti. Queste monache non entrano in chiesa se non come fanno le altre donne: il numero delle quali è grande, quasi quanto è il numero de' frati. Dicono che alcune di loro son donne di santa vita; alcune altre hanno figliuoli. L'abito che portano i preti è poco diverso da quello che portano i laici, perché è fatto di un medesimo panno, e vanno cinti da uomini puliti. La sua differenzia è che portano sempre una croce in mano, e il lor capo è sempre raso, e al contrario i laici portano tutti la chioma; e li preti non si levano la barba, ma li laici si radono sotto il mento e li mostacchi. Vi sono ancora alcuni altri preti che si chiamono debeteras, che vuol dire canonici: questi son preti di chiese grandi, come saria a dire di chiese catedrali o collegiate, e questi vanno ben vestiti, tal che dimostrano bene quello che sono, e questi non vanno per li mercati come gli altri.
Dello stato di Barnagasso, e del modo della sua corte e della sua giustizia, e della grida che egli fece fare per andar contra li popoli di Nubia.
Cap. XXX.
L'essere di questo Barnagasso (benché sia gran signore e intitolato come re) è molto povero. Quante volte gli avemo parlato, sempre l'avemo trovato a sedere in una lettiera coperta con una coltra, ed esso coperto di panni di bambagio gottonato, che loro chiamano basuto, il quale è assai buono quanto al paese, e di quelli vi sono di gran prezio; e dietro alla lettiera la muraglia era schietta, con quattro spade assai ricche attaccate a quattro legni messi nel muro, e duoi libri grandi similmente attaccati; avanti la lettiera nel piano erano alcune stuore, sopra delle quali seggono quei che lo vengono a vedere. Le case non le spazzano troppo spesso. La sua moglie sta sempre a sedere a canto di lui, sopra una stuora che è posta appresso della testa della lettiera. Stanno ancora sempre avanti di lui molte genti e personaggi di conto, pure a sedere sopra dette stuore. All'incontro e per mezzo della sua lettiera di continuo stanno quattro cavalli, delli quali uno sempre sta sellato e gli altri solamente coperti con le copertine, e quivi mangiano. In tutte le sue case sono due circuiti di muro, come saria a dir corte: ogni circuito ha la sua porta, e ogni porta ha li suoi portinari, con le sue sferze in mano. Nella porta piú propinqua a lui son portinari piú nobili, e in mezzo di queste due porte sta sempre un suo alycaxy, che vuol dire auditore o vero maestro di casa, ed è quello che fa giustizia udendo le parti: e se la causa è di grande importanzia, ode ambedue le parti fino alla conclusione, e dopo va a riferire il tutto a Barnagasso, ed esso dà la sentenzia; e se la causa è picciola, e che le parti siano d'accordo, e che detto alycaxy dia la sentenzia, la causa è terminata. E di piú, a tutte le sentenzie che dà il Barnagasso o vero questo alycaxy, è bisogno che vi sia presente un uomo onorato e di conto, il quale se dimanda, per l'ufficio che tiene, mallagana, che vuol dire notaro del Prete Ianni. E se alcuna delle parti si volesse appellare al Prete Ianni o vero alli suoi auditori, in tal caso dimandano la fede della causa: e in questo modo il Prete Ianni intende tutte le cose de' suoi sudditi, cosí dei grandi come dei piccioli. E tutti li signori delle terre di ciascun regno del Prete Ianni tengono uno alycaxy e mallagana posto per il Prete, e cosí tengono li capitani suggetti a Barnagasso.
I signori grandi che stanno in corte del Barnagasso, o altri che vengono a lui per lor negozii, vanno in questo modo. Partiti dalla loro abitazione, cavalcano sopra una mula, con sette o otto uomini a piede che li vanno innanzi, infino alla prima porta, e giunti quivi dismontano; e se è piú gran signore, cavalca con sette o otto o X mule, tutti a cavallo, o con piú, secondo la qualità sua, e vanno infino alla prima porta, e giunti quivi tutti dismontano, e poi vanno infino alla seconda porta: e se non entrano per sorte, stanno a sedere quivi di fuori, come fanno le api al sole, senza alcuno spasso. Tutti questi uomini onorati portano pelle di castrone intorno al collo e le spalle, e quelli che la portano di leone o di tigre o di leonza sono piú onorati: e quando arrivano avanti a Barnagasso, se la cavano per onorarlo, come caviamo noi la berretta.
Stando noi in questo luogo di Barra, un giorno di mercato andò un bando grande, come il Barnagasso voleva andare contra i popoli de Nubia. L'ordine di questo bando fu in tal modo, che andava avanti uno che portava un panno a guisa di bandiera sopra una zagaglia, e poi uno che andava gridando la guerra contra li Nubiani, i quali dicono essere lontani negli ultimi confini delle lor terre cinque o sei giornate verso la parte dell'Egitto, e confinano con le terre di Camphila e Daffila, come abbiamo detto di sopra, suddite al detto Barnagasso. Questi popoli di Nubia non son mori né giudei né cristiani, ma dicono che furon già cristiani e che per causa de mali ministri perdettero la fede: e cosí son diventati infedeli e senza legge. In questa provincia di Nubia è molto oro fino. E piú mi dissero che non era molto tempo che essi avevano amazzato un figliuolo del Barnagasso, e che per questo egli voleva andare in quelle bande per vendicarsene. E mi fu affermato che in questo paese di Nubia si trova molto oro e fino, e che alli confini di quello vi stanno sempre 400 o 500 uomini a cavallo, valentissimi combattenti, e che la terra loro è molto fertile e abondante di ogni sorte di vittuaglie e d'animali: e non può esser altramente, perché ella è posta sopra ambe le ripe del Nilo, il quale passa per mezzo di quel paese molte miglia. Diceva il bando che in termine di cinque giorni il Barnagasso voleva partire, ma ancora non vi era ordine alcuno di arme, perché in quella terra non ne sono troppe, ma solamente vi erano i cauas, che sono gli uomini d'arme, i quali portano una zagaglia, una targa e un arco con assai freccie; e i grandi portano spada, scimitarra e giacco di maglia, ma non molti. Sopra questa occasione di voler ire alla guerra, il Barnagasso dimandò all'ambasciadore che gli volesse dar qualche spada, il qual gli donò la sua, che egli portava per viaggio, che era assai bella e buona; e nondimeno tornò a dimandarne un'altra con grand'instanzia, la quale sapeva che esso aveva, assai ben guernita e molto ricca, dicendo che ne aveva di bisogno. E non potendo l'ambasciadore scusarsi, fu sforzato a comprarne una dalli suoi compagni, che aveva il fodero di velluto e li fornimenti indorati, e cosí gliela diede in cambio della sua. E nella casa dove noi avevamo le nostre robbe e dove li Portoghesi dormivano, che era senza porte, la notte seguente ci furno rubbate due spade e una celata: fate conto che ce le togliessero per causa di questa guerra.
Come partimmo da Barra per Timei, e della qualità del luogo.
Cap. XXXI.
In questo luogo noi comprammo mule per nostro cavalcare, e Barnagasso ne donò tre camelli: e a gran fatica partimmo di quivi, per li gran tuoni e temporali e pioggie che ci molestavano terribilmente, perché in questo tempo è la furia della vernata, la quale incomincia alli 15 di giugno, poco piú o manco, come abbiamo detto di sopra, e finisce alli quindeci di settembre; e al suo fine è la estate come da noi, e quanto piglia d'uno tanto poi lassa dell'altro. E in tutto questo tempo del verno in alcuno di questi paesi non si cammina: ma noi altri tuttavia davamo pressa al nostro camminare, perché non sapevamo l'usanza della terra, e manco il pericolo a che ci mettevamo. E cosí principiammo il nostro cammino con parte delle nostre robbe, perché gran parte ne lasciammo a Barra col nostro fattore, e arrivammo a un luogo chiamato Temei, che è della congregazione di Maizada e lontano dal luogo di Barra dodici miglia, di donde partimmo: e stemmo in questo viaggio tre giorni, per la crudel vernata e per le pioggie grandissime, guastando per l'acque la strada quella poca robba che portavamo. In questo luogo dove noi arrivammo trovammo un xuum, che vuol dire capitano, il quale aveva nome Primo ed era fratello di Barnagasso, uomo molto degno e da bene, e ne usò gran cortesia. Dicevano che egli era similmente fratello della madre del Prete Ianni, aveva nella sua xumeta o vero capitania della congregazion di Maizada XX luoghi e non piú, per essere la piú picciola congregazion che sia nel regno di Barnagasso.
Questo luogo è posto sopra una collina alta, non di sasso, ma tutta di terra lavorata, con alcune picciole ville; e per tre bande si vede il paese piano per quaranta e quarantacinque miglia, e dall'altra per ispazio di tre miglia comincia una gran profondità over caduta che fa il paese verso un gran fiume, appresso il quale si veggono bellissime campagne tutte coltivate e fruttifere, con piú di cento villaggi: sí che non credo che in alcuna parte del mondo sia terra cosí abitata e cosí piena di grani d'ogni sorte come è questa, né le fa danno alcuno la vernata con le pioggie, ma questo è il suo tempo migliore che possa avere, che vi crescano le biade e fannosi piú belle. Né similmente credo che sia alcun paese dove si trovino tanti animali, cosí domestichi come salvatichi, e dove si possino pigliar tante salvaticine e uccelli quante in queste campagne; ma delle fiere salvatiche non vi sono altre che tigri, lupi e volpi, le quali sono anche in tutto il paese. Non si maravigli alcuno che leggerà o udirà questo, che in queste campagne tanto abitate e popolate sian tante diversità di animali, e massimamente da caccia: la causa è (come ho detto di sopra) perché non gli ammazzano e manco hanno ingegno alcuno da pigliarli, solamente ammazzano qualche pernice con le freccie e le pigliano con lacciuoli; e molti animali non mangiano, come son porci, lepri, oche salvatiche e anitre, e questo perché tali animali non hanno il piede fesso. E niuno altro animale mangiano, se muore prima che lo scannino: e in questo modo vi si nutriscano tanti animali, li quali non sono molestati né fatti correre, perché non hanno cani per questo effetto. E noi, quando andavamo a caccia senza cani, avevamo tal volta XX lepri nelle reti in termine di un'ora e altretante pernici condutte a' lacciuoli, come se cacciassimo le galline a casa, perché non son troppo salvatiche né hanno troppo paura degli uomini, per essere use a vederli tutto il giorno: e a questo modo ne amazzavamo tante quante volevamo; e quelle cacciagioni che lor non mangiavano, noi altri le mangiavamo di nascosto, accioché non dicessero male del fatto nostro.
Della gran moltitudine delle cavallette e del danno che fanno,
e come facemmo una processione e le cavallette morirono.
Cap. XXXII.
In questa parte e in tutto il dominio del Prete Ianni vi è una orribile e gran piaga, che son cavallette senza numero, le quali mangiano e consumano tutte le biade e gli alberi: ed è tanta la quantità di questi animali che non si può credere, e con la loro moltitudine cuoprono la terra ed empiono l'aria, talmente che è difficil cosa poter veder il sole. E di nuovo affermo che è cosa incredibile a chi non le vede, e se il danno che esse fanno fusse generale per tutta la provincia e reame del Prete Ianni, si morrebbe di fame e non saria possibile abitarvi; ma un anno distruggono una provincia, come sarebbe a dire nella provincia di Portogallo o di Spagna, un altro anno son nelle parti di Lenteio, un altro in Estremadura, l'altro in Beira o vero fra il fiume Duoro e Minio, l'altro nelli monti, l'altro in Castiglia vecchia, Aragona o vero in Andalusia, alcune volte in due o tre di quelle provincie: e dove esse vanno, resta la terra distrutta piú che se vi fusse stato il fuoco. Queste cavallette son grandi come gran cicale e hanno le ali gialle. Innanzi che arrivino nel paese, lo sappiamo un giorno avanti: non che le vediamo, ma conosciamo al sole che mostra il suo splendor giallo, che è segno ch'elle si avicinano al paese, e la terra diventa gialla per la luce che la riverbera dalle ali di quelle, per il che la gente diviene subito come morta, dicendo: "Siamo perduti, perché vengono gli ambati", che vuol dir cavallette.
E non voglio restar di narrar quello che ho veduto tre volte, e la prima nel luogo di Barua, dove già eravamo stati per tre anni, e quivi molte volte sentivamo dire: il tal paese, il tal reame è stato destrutto dalle cavallette. E noi stando in questa terra vedemmo il segnal del sole, e l'ombra della terra tutta gialla, e che la gente era pel dolore mezzo morta. Nell'altro giorno fu cosa incredibile il numero di tali animali che venne, che a nostro giudicio copriva da XXIIII miglia di paese, secondo che dapoi sapemmo. Essendo giunto questo flagello, li preti di questo luogo mi vennero a trovare, pregandomi che gli desse qualche rimedio per cacciarle via; e io gli risposi ch'io non li sapeva dir altro, se non che pregassino Dio divotamente che le dovesse cacciar del paese. E io andai dall'ambasciadore e dissigli che saria forse buona cosa di far processione, pregando Dio che liberasse il paese, e che lui per sua misericordia forse ci esaudiria. Piacque questo molto all'ambasciadore, e l'altro giorno facemmo congregar le genti della terra e tutti i preti, e presa la pietra sacrata e la croce secondo l'usanza loro, tutti noi Portoghesi cantammo le letanie, e a quelli della terra ordinai che gridassero come noi, dicendo in loro linguaggio: "Zio marina, Christos", che vuol dire: "Signor Dio, abbi misericordia di noi". E con questo nostro gridare camminammo per una campagna dove erano campi di formento per ispazio di un miglio, per fino a un picciol monticello, e quivi feci pigliare assai di quelle cavallette e gli feci una scongiurazione, la quale portavo meco scritta, che in quella notte l'avevo fatta, con richiederle e ammonirle e scommunicarle, dicendo che in termine di tre ore cominciassero a camminar verso il mare, o vero verso terra di mori o montagne deserte, e lasciassero stare i cristiani; e non lo faccendo, chiamavo e invocavo gli uccelli del cielo, gli animali della terra e tutte le tempeste, che dissipassero, distruggessero e mangiassero li lor corpi: e per questo effetto feci pigliare una quantità di cavallette, e feci questa ammonizione a quelle presenti in nome di quelle e delle absenti, e cosí le lasciai andare dando loro libertà. Piacque a Dio d'esaudire noi peccatori, perché, dando noi la volta per ritornar a casa, ne erano tante dietro a noi che pareva che ci volessero romper la testa e le spalle, tanto ci percotevano, che parevano botte di sassi e di bastoni: e da questa banda si andava verso il mare. Gli uomini, le donne e i putti che erano restati nel luogo, erano montati sopra i terrazzi delle case, ringraziando Dio che le cavallette se ne andavano avanti fuggendo, e parte ci seguitavano. In questo mezzo si apparecchiò un gran nembo con tuoni verso il mare, che veniva loro in faccia, e durò per tre ore, con grandissima pioggia e tempesta, la quale riempié tutti i fiumi: e quando cessò l'acqua, era cosa spaventevole a vedere le cavallette morte, che si misuravano due braccia e piú d'altezza sopra le ripe dei fiumi, e in alcuni fiumi vi erano i monti grandissimi, in modo che la mattina seguente non se ne trovò una viva sopra la terra. Intendendo questo gli altri luoghi convicini, vennero assai uomini a dimandare in che modo era seguito questo caso. Molti della terra dicevano: "Questi Portoghesi son uomini santi, e per virtú d'Iddio hanno cacciato via e fatto morire le cavallette". Altri dicevano, massime preti e frati dei luoghi circonvicini, che noi eravamo strigoni, e che per virtú di strigarie avevamo cacciati detti animali, e che per questo non avevamo paura di lioni né di altra fiera.
Tre giorni dopo questo fatto venne a noi un xuum, cioè capitano, d'un luogo chiamato Coiberia, con uomini, preti e frati, a pregarci che per amor di Dio gli dovessimo soccorrere, dicendo che erano rovinati per le cavallette: e quel luogo era lontano una giornata verso il mare. Arrivorno da noi a ora di vespero, e in quella medesima partimmo io e quattro Portoghesi, e tutta la notte camminammo e arrivammo quivi a un'ora di giorno, dove trovammo che tutti quelli della terra erano congregati con assai delli luoghi convicini, che ancora essi erano dalle cavallette tribolati; e subito che arrivammo, facemmo la nostra processione intorno alla terra, la quale è posta in una alta collina, dalla quale si vedevano molte terre e luoghi, tutti gialli per la moltitudine delle cavallette. Fatte le cerimonie come nell'altro luogo, andammo a desinare, e gli uomini convicini ne pregorno che andassimo con loro, promettendone gran presenti. Piacque al Signore che, subito che avemmo desinato, noi vedemmo la terra netta che non si vedeva pur una cavalletta per miracolo: e vedendo ciò, non confidandosi della grazia avuta, ci pregorno che dovessimo andare a benedire le loro possessioni, che ancora avevano paura che non ritornassero, e cosí ritornammo a casa.
Del danno che vedemmo in un'altra terra, fatto per le cavallette in due parti.
Cap. XXXIII
Un'altra volta, trovandoci in una terra chiamata Abuguna, vedemmo le cavallette. A questa terra ci mandò il Prete Ianni, acciò che ci fornissimo quivi di vettovaglia, la quale è nel reame d'Angote ed è lontana dal luogo di Barua, dove noi stavamo, il cammino di 30 giornate. Essendo quivi giunti, io andai con l'ambasciadore Zagazabo, che venne in Portogallo, e cinque Genovesi, verso un luogo e una montagna che si dimanda Aguoan; e camminammo 5 giorni per luoghi tutti diserti e distrutti, nei quali eran seminati migli zaburri, che avevano le canne cosí grosse come son quelle che noi adoperiamo nelle vigne, e vedemmo che tutte erano rotte e calpestate come se vi fusse stata la tempesta, e questo avevano fatto le cavallette. I formenti, orzi e taffi erano stati mangiati, di tal sorte che pareva che mai vi fusse stato lavorato né seminato. Gli arbori eran senza foglie, e le scorze di quelli tutte mangiate, e non vi era pur erba, che ogni cosa avevano mangiato: e se noi altri non fussimo stati accorti e avisati, che nel partir nostro caricammo le mule di vettovaglia, saremmo morti di fame insieme con le cavalcature. Era questo paese coperto tutto di cavallette senza ale, e dicevano che quelle erano la semenza di quelle che avevan mangiato il tutto, e come avessero fatte l'ali, andariano a trovar le altre: ed era tanto il numero di queste che io non voglio dirlo, perché non saria creduto. Ma voglio ben dire che io vedeva uomini e donne e putti come spasimati sedere fra queste cavallette, e io diceva loro: "Perché state voi cosí come morti e non ammazzate di questi animali, e fate vendetta del danno che vi hanno dato li lor padri e madri, che almeno quelle che ammazzarete non vi faranno danno?" Rispondevano che non gli bastava l'animo di resistere alla piaga che Dio gli mandava per li lor peccati. E tutta la gente di questa terra si partiva, e trovammo tutte le strade piene d'uomini e donne a piedi, con li fanciulli al braccio e sopra la testa, andando in altre terre dove trovassino vettovaglie, che era una pietade a vederli.
Stando noi nella detta signoria di Abuguna, un'altra fiata, in un luogo che si chiama Aquate, venne tanto numero di cavallette che non si potria dire: e cominciarono a venire un giorno a ora di terza e per fino a notte non cessarono, e secondo che arrivavano si fermavano, e poi l'altro giorno da mattina cominciavano a partirsi, tal che a ora di nona non se ne vedeva pur una, e gli arbori erano rimasi senza foglie. Nel medesimo giorno e ora ne venne un altro squadrone, e queste non lasciorno ramo o legno che non rodessero: e cosí fecero cinque giorni l'uno dopo l'altro, e dicevano che erano figliuoli che andavano cercando i padri loro, e facevano il medesimo dove vedemmo quelle che non avevano l'ale. E la larghezza che pigliavano queste cavallette era di nove miglia, nel quale spazio non restò foglia né scorza negli arbori, e non pareva che la terra fusse bruciata, ma che fusse nevigato, e questo per la biancura degli arbori che restavano secchi, tal che la terra era rimasta tutta netta. Dio volse che le ricolte vi erano già state fatte. Noi non potemmo sapere verso che banda poi andassero, perché venivano di verso il mare, dal reame di Dancali, che è di Mori che di continuo stanno in guerra; e manco potemmo sapere dove fusse il fine del loro cammino.
Come, dapoi arrivati al luogo di Temei, l'ambasciadore si partí per andare dove stava il Tigremahon con sei cavalcature, e il resto della famiglia rimase;
e del fiume Marabo che va nel Nilo.
Cap. XXXIII.
Il secondo giorno dopo la nostra venuta a questo luogo di Temei, inanzi che giungessero le nostre robbe che erano rimaste in Barra, si partí l'ambasciadore con sei cavalcature per andare alla casa del Tigremahon, che è intitolato come re, e sotto il suo governo e reggimento son molti gran signori e luoghi. L'ambasciadore li domandò che gli dovesse dare aiuto e ordine per il suo viaggio, tanto che noi arrivassimo nel suo paese. Rimase in questo luogo Giovanni Scolare e io e duo Portoghesi. In questo mezzo arrivò il fattore con la robba che restò in Barra, e cosí in questo luogo tutti ci congiugnemmo insieme. Alli 28 di luglio del detto anno 1520, ci mandò a dir l'ambasciadore che andassimo dove esso era con le robbe, cioè in casa del Tigremahon, con i Portoghesi che erano andati con lui: e quivi aspettando due giorni gente che portasse la robba, arrivò un xuum con molta gente per portar la robba. E di quivi partimmo alli 3 d'agosto, con gran tuoni e con un verno terribile di grandissime pioggie, e camminammo lo spazio di tre miglia per campagne lavorate, poi cominciammo a descendere al basso per strada molto aspra e sassosa e molto pendente per spazio d'altrotanto cammino. E andammo la sera a dormire nel cimiterio d'una chiesa, dove stemmo con gran paura delle tigri, e molto travagliati dall'inverno e pioggie. Partendoci il giorno seguente, camminammo per aspre montagne piene di boschi e arbori senza frutto, ma tutti verdissimi e belli e da noi non conosciuti, e arrivammo ad un fiume che, per essere il verno, era grande e pericoloso da passare, il qual si chiama Marabo: e sopra questo è posto il luogo di Barua, come abbiamo detto di sopra, e corre verso il Nilo; e sopra questo fiume si termina il paese del reame di Barnagasso e comincia quello di Tigremahon. E da questo fiume infino al luogo dove noi dormimmo son circa sei miglia, e quantunque le montagne siano aspre e piene di boschi, pur sono abitate da assai popolo, e vi si trovano assai luoghi coltivati.
Come Tigremahon mandò un suo capitano a cercar la robba dell'ambasciadore;
e delli edificii che nel primo luogo trovammo.
Cap. XXXV.
Arrivati alla fiumara, quei che erano con noi scaricorno la robba, e subito dall'altra banda del fiume sentimmo gran rumori di tamburi e di gente. Addimandammo che cosa era, ci fu risposto che era un capitano di Tigremahon che veniva per portarci la robba: e noi passato il fiume trovammo una bella gente, la quale ci veniva a cercare, e potevano essere da 600 in 700 uomini. Subito vedemmo nascere una gran differenzia fra questi e quelli che ne avevano accompagnati, perciò che quei di Tigremahon dicevano che non erano obligati a pigliar la robba se non passato il fiume, gli altri dicevano che non erano obligati a portarla se non alla ripa del fiume appresso l'acqua. E cosí stati in questa contesa, perché la fiumara era assai grossa, s'accordorno tutti insieme di traghiettare la detta robba, e che questo non fusse in pregiudicio d'alcuno, ma che fusse in libertà della giustizia: e cosí passammo la fiumara con le robbe. Camminavano costoro con la robba tanto gagliardamente che non gli potevamo tener dietro con mule. Per quel poco del giorno che ci era restato, camminammo per montagne asprissime, e vedemmo in piú bande porci salvatichi, che passavano 50 per squadra, pernici infinite e altre sorti d'uccelli di diversi colori, bellissimi da vedere, che coprivano la terra e gli arbori: e ci fu detto che in questi luoghi erano d'ogni sorte animali rapaci, e non può essere altramente, secondo che dimostravano le montagne terribili. La notte dormimmo fuori alla campagna, fra luoghi circondati da gente e da molti fuochi, dicendo che ciò facevano per paura delle fiere. E subito quivi trovammo gran differenzia nelle genti e nella terra e negli arbori, come anco nella qualità del paese e nel traffico degli abitanti. E quivi cominciammo ad entrare fra certi monti altissimi e acuti, che parevano che toccassero il cielo, e a rispetto della loro altezza da piede giravano poco spazio, ed erano posti tutti in uno ordine misuratamente, e sono divisi l'uno dall'altro e distendonsi per un grande spazio di paese. E tutti quei che si posson salire, ancora che vi sia pericolo grande allo andarvi, tutti hanno cappelle in cima, e la maggior parte son della Nostra Donna: e in molte di queste punte vedemmo cappelle che non potevamo pensar come vi fussero montate le persone a farle.
Andammo a dormire ad un luogo in mezzo di questi monti chiamato Abafacem, nel quale è una chiesa della Nostra Donna molto ben fatta, con una nave in mezzo rilevata in alto piú dell'altre due dalle bande, e le sue finestre sopra l'altre navi son sotto il colmo di mezzo, e tutta questa chiesa è in volto: e in tutto questo paese non abbiamo veduto né la piú bella né meglio fatta di questa, la quale è simile a quelle delle badie che son fra il fiume Duoro e Minio in Portogallo. Appresso a questa chiesa vi è una torre grandissima e bella, cosí per l'altezza come per la grossezza e fattura del muro, e già si vedeva che minacciava ruina, ed è di pietra viva lavorata, che ben pare essere una cosa regale: e un altro tale edificio non abbiamo visto. Ed è circondata da bellissime case che ben si confanno con quella, cosí di buoni muri come di terrazzi di sopra e alloggiamenti, sí che paiono essere state di gran signori. Dicono che vi stava la regina Candace, perché quivi era vicina la sua casa, e questo può essere il vero. Questo luogo, chiesa e torre son posti in mezzo di questi monti acuti, in bellissimi e verdissimi campi, e tutti bagnati da fontane d'acque che descendono da piedi di questi monti: e queste fontane son fatte di pietre vive. E le biade che quivi si adacquano son formento, orzo, fava, ceci, lenti, piselli, che tutto l'anno ne hanno, agli e cipolle grossissime; e intorno alle case si trova il sinape e nasturzio, e in quelle ripe si coglie assai erba chiamata crescione, e alcune altre erbe che loro mangiano. In detta chiesa son molti preti molto ben vestiti, e paiono uomini da bene. Quivi ci fu detto che, quando cominciarono a farsi cristiani, edificarono sette chiese e che questa era una di quelle: e può esser facilmente cosí, perché, sí come mi è stato referto, poco lontano di quivi era il luogo dove abitavano quei che furno i primi a farsi cristiani, che fu in Chassumo.
Come partimmo di Abafacem e andammo ad un luogo che si chiama le case di San Michele; e della differenzia che trovammo degli abitanti del regno di Barnagasso e di Tigremahon; e della strada che si suol fare per andare alla corte del Prete Ianni.
Cap. XXXVI.
Partimmo di questo luogo cosí come venimmo, tutti insieme con le genti che ne portavano la robba (e si chiama questo modo di portar la robba elfa), e andammo a dormire ad un altro luogo che si chiama le case di San Michele, perché la chiesa si chiama San Michele. E arrivando quivi non ci volsono alloggiare, dicendo che erano privilegiati ed esenti da simil angaria; e per le pioggie grandi il meglio che potemmo noi alloggiammo nel circuito della chiesa, e nell'altro che serve per cimiterio mettemmo le mule, perché vi era erba assai e molto grande, per causa della vernata e delle pioggie, la qual erba in Portogallo si chiama panico salvatico: ed era lunga e alta, per essere ingrassata da' corpi morti. In questo paese non si dà mangiare se non una volta il giorno, cioè di notte, in certi mesi dell'anno quando si digiuna, e cosí è in tutto il reame del Prete Ianni; e arrivando noi, cosí come non ci volsero alloggiare, cosí ancora tardarono nel darci mangiare, e in questo mezzo morivamo di fame. E il nostro fattore, ciò vedendo, disse: "Io ho due galline cotte, se vi piace mangiamole". Lo scrivano e io ci maravigliammo molto che ei volesse che mangiassimo carne senza pane, pur fummo costretti a mangiarle. E dopo questa fiata, che mi parvero buone (penso per la fame grande che aveva), ne ho voluto mangiar molte altre volte, cioè pane senza carne e carne senza pane, e pane tinto solamente nel sale o vero in acqua e in pevere: e cosí per questi diversi mangiari mi scordai della prima maraviglia. Pur venendo la notte ci portarono da mangiare al lor modo, e dormimmo nelli sopra detti circuiti, e per star piú netti ci accostammo appresso il luogo dove loro pigliano la communione. Quivi avendo una candela accesa, cominciarono i colombi a svolazzare d'intorno, il che sentendo corremmo a serrar le porte, perché per altro luogo non potevano fuggire: e dando loro la caccia, non ne campò alcuno, perché pigliammo infino alli piccioli che erano nelli nidi, in modo che ne empiemmo un sacco. E questo fu causa che un'altra volta, dopo alcuni anni, che quivi tornammo, ci dettero alloggiamento, acciò che un'altra volta non pigliassimo tutti i colombi della chiesa, la qual allora era ripiena di quelli.
La differenza che hanno gli abitanti di questo paese da quelli del Barnagasso è che gli uomini portano certe traversine lunghe duoi palmi cinte intorno, e queste sono di panno o di cuoio acconcio, piene di pieghe come son quelle delle donne nostre, le quali essendo in piedi gli copreno le loro vergogne, ma stando a sedere o al vento mostrano ogni cosa. Le donne maritate portan le loro traverse assai piú curte, tal che si vede loro ogni cosa. Le donzelle o l'altre donne non maritate e che non hanno innamorati portano le corone di paternostri (che l'altre donne portano al collo) cinte intorno e sopra la natura, e molte corone piene di timaquetes, che son frutti piccioli tondi di arbori, che fanno strepito a modo de lupini; e quelle che possono aver sonagli o campanelle, le pongono sopra della natura per galanteria. E alcune portano certe pelli di castrone al collo, con le quali si cuoprono solo una banda del corpo e le altre no, perché le portano disciolte, e solamente le hanno legate al collo, con un piè davanti e con uno di dietro: e per ogni picciolo muoversi, si vede da un capo all'altro della persona ciò che l'uomo vuole. Lavansi ogni giorno una fiata, e qualche volta due e tre, e per questo son nettissime. E questo modo di vestire è di gente bassa, perché le donne de' gentiluomini e signori vanno tutte coperte.
Il cammino che si fa in questo paese del Prete Ianni è questo, che chi viene dal mar Rosso arriva a Barua, e chi viene d'Egitto arriva al Suachen, e subito volta le spalle alla tramontana e si mette a camminare verso mezzogiorno, infino che arriva alle porte dette Badabaxe. E questo è perché alcune volte pigliano ivi il cammino per una parte e altre per un'altra, dimandando dove sarà la corte al cammin diritto, o verso il levante, o verso il ponente, secondo il paese per il quale il Prete Ianni cammina. In queste porte si separano li regni d'Amara e di Xoa. E perché noi siamo stati sei anni in queste terre, andammo ora da una parte e ora dall'altra, uscendo fuori di cammino e dapoi tornando a quello: però ho voluto dire la varietà di queste strade.
Della nobilità del luogo di Chaxumo, e dell'oro che portò la regina Saba da questo luogo a Salomone per il tempio in Gierusalem, e del figliuolo che ebbe di Salomone.
Cap. XXXVII.
In questi monti acuti, dove di continuo camminammo verso la banda di ponente, son maravigliosi paesi da vedere e gran signorie, sí per le grandi e continue abitazioni, come per essere il tutto coltivato e pieno d'animali domestici. Ne' quali paesi tra gli altri è un luogo molto buono e grande chiamato Chaxumo, ed è lontano da questo luogo di San Michele duoi giorni di cammino, e sempre si va per mezzo di questi monti acuti, nel quale altre volte siamo stati otto mesi per comandamento del Prete Ianni.
Questo luogo fu già la città e camera e stanzia della regina Saba, il nome proprio della quale era Maqueda, e fu quella che menò li camelli carichi d'oro a Salomone quando edificava il tempio in Gierusalem. E in questo luogo è una chiesa molto nobile, nella quale trovammo una cronica antichissima scritta in lingua abissina: e nel principio si narrava che primamente era stata scritta in ebraico, dapoi tradotta in lingua caldea e di quella poi nell'abissina; e cominciava in questo modo, come, avendo inteso dire la regina Maqueda de' grandi e ricchi edificii che aveva principiato Salomone in Gierusalem, determinò d'andare a vederli, e caricò certi camelli d'oro per donar agli operanti. Ed essendo già vicina alla città di Gierusalem, stando per passare un lago per certi ponti, soprapresa dallo spirito dismontò, e inginocchiata fece riverenza alli legni di quelli ponti e disse: "Non voglia Dio che li miei piedi tocchino li travi sopra i quali deve patire il Salvatore del mondo". E andò attorno il lago a veder Salomone, e lo pregò che dovesse levar via li legni di quelli ponti. Dapoi, veduti che ebbe gli edificii ch'egli faceva e offerti li presenti portati, disse: "Queste opere ed edificii non sono in quel modo che mi era stato riferito, ma li trovo assai maggiori, né credo che si possino trovare altri simili a questi e per bellezza e per ricchezza". E quivi molto si doleva, dicendo aver portato piccioli presenti al desiderio suo, ma che tornarebbe alle sue terre e signorie, e che mandarebbe oro e legno negro infinito.
E cosí stando costei in Gierusalem, Salomone ne ebbe un figliuolo, il quale nato che fu, lo lasciò in Gierusalem e se ne andò alle sue terre, d'onde mandò molto tesoro e assai legni negri per far tarsie negli edificii. Fra questo tempo questo suo figliuolo crebbe all'età di sedeci anni, e fra gli altri molti figliuoli di Salomone questo era superbissimo, che superchiava il popolo d'Israel e tutta la terra di Giudea. Per il che il popolo, essendo andato a Salomone, gli disse che non poteva mantener tanti re quanti esso aveva, conciosiacosaché tutti li suoi figliuoli erano re, e principalmente questo della regina Saba, la quale era maggior signora che non era egli, e perciò lo dovesse mandare a sua madre, perché già non lo potevano piú sopportare. Salomone allora, per sodisfare al popolo, lo mandò molto onoratamente, dandogli tutta la corte, come si richiede alla casa d'un re (come io dirò in altro luogo), e gli dette la terra di Gaza, la quale è in mezzo del cammino del deserto, per riposarsi in quella: ed è nell'entrar dell'Egitto. E cosí costui andò a trovar la madre, dove arrivato diventò gran signore. E la cronica diceva che egli aveva signoreggiato da mare a mare, e che nel mar dell'India teneva di continuo LXX navi. Questo libro era molto grande e non ne copiai altro se non il principio.
In che modo san Filippo dichiarò una profezia d'Isaia al maestro di casa della regina Candace, per il quale essa e tutto il suo regno si convertirno; e degli edificii grandi di Chaxumo.
Cap. XXXVIII.
In questo medesimo luogo di Chaxumo fu anche la principal residenzia della regina Candace, il nome proprio della qual era Giudich, e da lei venne il principio della cristianità in queste bande; e dal luogo dove detta regina nacque fino a Chaxumo son duo miglia, che è una picciola villa, la quale adesso è abitata da genti che fanno l'arte del fabro. La cristianità si cominciò quivi in questo modo. Dicono li lor libri abissini, il che appresso noi è scritto negli Atti degli Apostoli, che l'angelo apparve a san Filippo e dissegli: "Lievati e va verso il mezzogiorno, e seguita la strada deserta che va da Gierusalem a Gaza". E san Filippo andò e trovò un uomo il quale era castrato, cioè eunuco, ed era maestro di casa della regina Candace di Etiopia, e tornava verso la terra di Gaza, che Salomone aveva data a suo figliuolo. Costui aveva in governo tutto il tesoro della detta regina, ed era andato a far riverenza e adorare in Gierusalem; e tornandosene a casa sopra una carretta, san Filippo l'aggiunse e udí che egli leggeva una profezia d'Isaia. E san Filippo gli dimandò s'egli intendeva quello che leggeva: egli rispose che non, se non gli veniva dichiarato. Allora san Filippo, montato sopra il carro, gli dichiarò il tutto e lo convertí alla fede e lo battezzò, e subito lo Spirito Santo levò san Filippo via, e lo eunuco restò informato. E dicono che quivi fu adempiuta la profezia, nella qual si dice che la Etiopia alzerà e levarà le sue mani al Signor Dio; e cosí dicono loro essere stati li primi a convertirsi alla fede di Cristo, e che lo eunuco si tornò subito verso l'Etiopia molto allegro, dove era la casa della sua signora, e la convertí e battezzò insieme con tutta la sua famiglia, perché le narrò tutto quello che gli era avvenuto, e cosí la regina fece battezzar tutto il suo regno e signorie: e cominciò in un regno che ora si chiama Burro, il quale è situato verso la parte di levante nel regno di Barnagasso, e ora è diviso in due signorie.
E in questo luogo di Chaxumo fece una bellissima chiesa, che fu la prima che si dice essere stata fatta in Etiopia, e chiamasi Santa Maria di Sion, perché da Sion li fu mandata la pietra santa dell'altare: e costoro in questi paesi non denominano le chiese se non per la pietra dell'altare, nella quale è scritto il nome del luogo donde è stata tolta. Questa chiesa è molto grande, ha cinque navi assai ben larghe e molto lunghe, fatte in volto, e di sopra al volto è terrazzato, e sotto li volti e nelli muri son dipinture, e la chiesa è saleggiata di pietre vive bellissime messe insieme. Ha sette cappelle, che son poste tutte con le spalle verso il levante, con li suoi altari ben adornati. Ha il coro a modo nostro, se non che è tanto basso che si arriva con la testa al volto, e vi è fatto un altro coro sopra del volto, ma non si servono di quello. Ha questa chiesa gran circuito saleggiato di gran pezzi di pietra viva, grandi come sariano coperchi di sepoltura, il qual circuito ha d'intorno molto gran muri ed è discoperto, al contrario dell'altre chiese di questo paese; e oltra questo circuito, ha un altro circuito grande come d'un castello o vero città, dentro del quale son belle abitazioni a piè piano, e tutte hanno le lor fontane che buttano l'acqua per certe figure di leoni, fatte di pietra di varii colori. Dentro a questo circuito grande son duo belli palazzi fatti in solari, l'uno a man destra, l'altro a man sinistra, i quali sono di duo rettori della chiesa, e le altre case son de' canonici e frati. Dentro pure a questo gran circuito, appresso la porta che è vicina alla chiesa, è un campo di terra quadrato, oggi vacuo, che già in altro tempo era pieno di case, nel quale in ogni canto è un pilastro quadro di pietra viva, di molta altezza e ben lavorato di varii intagli, e vi si veggono lettere intagliate, ma non s'intendono né si conosce di che lingua siano: e di tali epitaffi se ne trovano molti. E questo luogo si chiama ambacabete, che significa casa di leoni, perché già in altri tempi vi si tenevano li leoni legati. Avanti la porta del circuito grande è una gran corte, e in quella un albero molto grande, che si chiama fighera di faraone; e dall'un capo e dall'altro son alcuni belli poggiuoli fatti di pietra viva, ben lavorati e ben assettati, ai quali l'albero solamente dove si distende con le radici fa qualche danno. E sopra questi poggiuoli son poste dodici catedre di pietra poste per ordine una dopo l'altra, tanto ben lavorate come se fussero di legname, con suoi piedi e banchetti di sotto, e non son di un pezzo di sasso, ma di piú pezzi: le quali sedie dicono che servivano alli dodici auditori, o vero giudici della giustizia, che oggidí son nella corte del Prete Ianni. Fuori di questo circuito son molto belle case, che in tutta l'Etiopia non ne son delle cosí belle e cosí grandi; sonvi ancora pozzi assai d'acqua belli e buoni, ornati di bellissime pietre; e cosí nella maggior parte delle case son figure antiche, come leoni, cani, uccelli, e tutti son fatti di pietra durissima e finissima.
Dietro alle spalle di questa chiesa cosí grande è un vivaio o ver lago d'acqua viva, a piè d'un monticello, dove ora si fa il mercato; e intorno a quello son molte e simili catedre, lavorate in quel medesimo modo che son quelle del circuito. Questo luogo è posto in capo d'un bel prato, in mezzo di duo monticelli; e la maggior parte di questa campagna è piena di edificii antichissimi, e ne' quali son assai di quelle catedre, con molte colonne con lettere, che non si sa di che lingua siano, ma sono intagliate molto bene. E in capo di detto luogo son molte ruine di pietre, parte in piedi e parte distese in terra, le quali sono molto alte e belle e con bellissimi lavori di fregi, tra le quali n'è una in piedi, posta sopra un'altra, lavorata come pietra d'altare e come incastrata in quella: e questa ritta di sopra è grandissima, lunga 64 braccia e larga sei, nelli fianchi tre, e molto diritta e ben lavorata, tutta incavata in finestre dal piede fino alla cima, cioè una finestra sopra l'altra. E la sommità di detta pietra rassembra a una mezza luna, nella quale sono cinque chiodi, nella parte verso mezzogiorno, in forma di una croce inchiodati nella medesima pietra, la ruggine de' quali, correndo al tempo della pioggia giú per la detta pietra per un palmo lontano dalli detti chiodi, par sangue rappreso. E perché alcuni potrebbono dire come è possibile che una pietra tanto alta sia stata misurata, di sopra ho detto che era incavata a modo di finestre per infino alla cima, dove era la mezza luna, e tutte queste finestre erano d'una medesima misura: e noi, avendo misurate quelle che si potevano aggiugnere, faccendo conto delle altre, dalle prime alle ultime trovammo esser braccia sessanta, e cosí giudicammo che quello spazio che restava dalle ultime finestre della detta cima insino alla sommità della mezza luna fusse di altezza di braccia quattro, che fanno tutto braccia sessantaquattro. E questa pietra cosí alta da piede verso mezzogiorno ha la forma di una porta, lavorata nella medesima pietra, col catenaccio, che par serrata; e la pietra sopra la quale è posta questa è grossa un braccio e molto ben quadra, e questa similmente è posta sopra l'altre pietre grandi e picciole, nelle quali non potei sapere quanto quella si entrasse adentro, o vero se ella arriva al piano. Appresso di queste sono infinite pietre molto belle e ben lavorate, le quali pareva che fussero state quivi condotte per mettere in opera, e quelle altre cosí grandi parimente rizzate in piede: di queste erano alcune lunghe 40 braccia e altre 30. E nella maggior parte di queste pietre sono intagliate lettere grandi, che alcuno della terra non le sa leggere. E fra queste pietre che giaciono in terra, tre son molto grandi e di belli lavori, e una d'esse è rotta in tre pezzi, e ciascuno passa la lunghezza di ottanta braccia, ed è larga dieci: appresso delle quali son altre pietre, nelle quali dovevano essere incastrate.
Degli edificii che sono d'intorno alla città di Chaxumo,
e come in quella si trova oro, e della chiesa di detto luogo.
Cap. XXXIX.
A questo luogo di Chaxumo è vicino un monticello, dal quale si scorge molto paese da ogni banda. Lontano dalla città un miglio sono edificate due case sotterranee, nelle quali non si può entrare senza lume: queste non sono in volto, ma son fatte di bellissime pietre lavorate tutte uguali, cosí dalle bande come di sopra, e son alte XII braccia; e tanto son bene uniti detti sassi che paiono d'un pezzo, che non si veggono le commissure. Una di queste case è partita in molte stanze. Nell'entrar delle porte sono due buche, nelle quali mettono la stanga con che la serrano. E in una camera di questa son due arche grandi, cioè IIII braccia lunghe e uno e mezzo larghe, e altrotanto d'altezza, cioè il vacuo di dentro; e benché non avessino il coperto, dimostravano già averlo avuto: dicono che quelle erano casse di tesori della regina Saba. L'altra casa è piú larga, e non ha piú d'una camera e portico; e da una porta all'altra è lo spazio d'un trar di pietra, e sopra dette case è la campagna. Nella nostra compagnia erano Genovesi e alcuni Catelani, i quali erano stati schiavi di Turchi, e giuravano aver veduto diversi edificii, ma non aver veduto mai di cosí grandi come quei di questo luogo di Chaxumo: e noi giudicammo che il Prete Ianni ci mandasse quivi a spasso a posta fatta, acciò che vedessimo tali edificii, i quali sono assai piú grandi di quello che io ho scritto.
In questo luogo e nelle sue campagne, le quali tutte sono al suo tempo seminate d'ogni sorte di semenza, quando vengono li temporali con le pioggie grandi, non resta nel luogo femmina né uomo, garzone né fanciullo che sia di qualche età, che non esca fuori a cercar oro per i luoghi lavorati, che dicono che le pioggie lo vanno scoprendo e che ne trovano molto: e cosí vanno per tutte le strade dove corrono le acque, voltando la terra con bastoni. Avendo udito questo che dicevano di tanto oro, determinai di far una tavola, cosí come l'ho veduta fare in Portogallo nel luogo di Foz di Rocca e al ponte di Muzella: e mi posi a lavar la terra e buttarla sopra le tavole, e non trovai punto di oro, non so se questo fusse per non saper lavar la terra, o se non lo conosceva, o vero se non ve ne era; ma la fama era molto grande.
La chiesa di questo luogo dicono che è la piú antica di tutta l'Etiopia, e ben lo mostra, perché è piú onorata dell'altre; e in quella si celebra il divino ufficio all'usanza loro solennemente, e sono in essa 150 debeteres, cioè canonici, e altritanti frati, e ha due capi principali, i quali in lingua loro si chiamano nebreti, cioè maestri d'insegnare, l'uno de' quali è sopra li canonici e l'altro è sopra li frati. E questi due alloggiano nelli palazzi che son nel circuito della chiesa, e il nebret delli canonici alloggia nel palazzo dalla banda destra, e questo è maggiore e piú onorato, e ha auttorità di far giustizia non solamente sopra li canonici, ma ancora sopra i laici della terra; e il nebret delli frati solamente fa giustizia sopra li frati. E tutti due hanno nella lor corte trombetti e altri che suonano certi istromenti a modo di tamburi, e hanno grandissime entrate, e oltra quelle è data loro ogni giorno dalla terra una collezione di pane e di vino di quel del paese, che si dimanda mambar, la quale gli danno finita la messa: e la danno in due parti, cioè una alli frati e una alli canonici, ed è cosí grande questa collezione che poche volte i frati mangiano poi altrimenti, perché basta loro quasi per tutto il giorno; e questo fanno ogni giorno, eccetto il venerdí santo, perché in tal giorno non mangiano né bevono. Li canonici non fanno la lor collezione nel circuito della chiesa, e poche volte dimorano in quello, eccetto quando si dice l'ufficio divino; né anche li nebreti nelli lor palazzi, se non quando danno audienza: e questo perché son tutti maritati e si stanno con le lor mogli e figliuoli nelle lor case, le quali sono assai buone e son fuori del circuito della chiesa, nel quale non possono entrare femmine; né gente laica può entrare nella chiesa, ma vi è un'altra chiesa molto bella, nella quale vanno i laici e le femine a pigliar la communione.
Come appresso al luogo di Chaxum sono poste due chiese sopra due monticelli,
nelle quali giaceno i corpi di due santi.
Cap. XL.
E dall'una banda all'altra di questa terra son duoi monti, un verso levante, l'altro verso ponente, e in questo ch'è verso ponente è un gran pezzo di salita, e sopra di quello una bella campagna di lunghezza piú d'un miglio e mezzo, nella quale sono assai villaggi e assai vigne in pergole, di bonissime uve e negre e bianche. E sopra quella parte del monte che è verso la terra e verso la chiesa grande, è uno edificio grande di una torre fatta di grandi e belle pietre, ma mezza ruinata per l'antichità: e delle pietre ruinate ne hanno fatto una chiesa intitolata a san Michele, alla qual concorre molta gente della terra di Chaxum a pigliar la communione, e questo fanno per divozione. L'altro monte verso levante ha sopra un'altra chiesa intitolata del nome di uno abba Licanos, il qual dicono esser santo, e che fu quello che battezzò la regina Candace: e quivi è il suo corpo. Questa chiesa è connexa con la chiesa grande di Chaxum ed è ufficiata dalli canonici di quella, e in questa è molta divozione, e molti della terra similmente vi concorrono a udir gli ufficii e a pigliar la communione; è ancora un altro luogo di molte case a piè del monte, gli abitanti del quale concorrono a questa chiesa. E piú avanti è un altro monte alto e sottile cosí nel piede come nella cima, che par che vada al cielo, il quale ha 300 scalini per ascendervi, e sopra esso è una devota e bella chiesietta, ma piccola, che ha al d'intorno un circuito di pietre molto ben lavorate, tanto alto che arriva al petto d'un uomo, d'onde l'uomo si spaventa di guardar a basso. Questo circuito della chiesa è largo tanto che vi posson camminare tre uomini insieme, ed è intitolata nel nome di abba Pantaleon, che fu santissimo uomo, e quivi è il suo corpo; e ha grande entrata, e sonvi 50 canonici tutti onorati e ben vestiti, e il lor capo è chiamato nebret.
Delle terre e signorie che son poste verso ponente e tramontana alla terra di Chaxumo.
Cap. XLI.
Da questa terra di Chaxumo verso ponente si va contra il Nilo, dove son gran terre e signorie, e dicono che verso questa banda è la città di Sabain, dalla qual la regina Saba prese il cognome, e dove ella tolse quello legno negro che mandò a Salomone per intarsiare le opere del tempio. E da questo luogo di Chaxumo infino al principio delle terre di Sabain son due giornate di cammino, e questa signoria è suggetta al regno di Tigremahon, e il signore e capitano di quella è cognato del Prete Ianni, e si dice che è buona e gran signoria. Dalla banda di tramontana è una signoria chiamata Torrate, tutta terra di montagne, verso le quali per ispazio di 12 miglia è un alto monte e grosso da piede, sopra il quale è una pianura di due miglia piena di boschi, di alberi diritti e bellissimi, appresso i quali è un monastero che ha grande entrata e gran numero di frati, e si dimanda il monastero dell'Alleluia. E la causa di questo nome si dice essere stata perché, nel principio che fu edificato, vi si trovava dentro un frate di santissima vita, il quale dispensava la maggior parte della notte in orazioni: e avendo uditi gli angeli nel cielo cantar "Alleluia, alleluia", lo disse al suo superiore, e cosí fu posto tal nome a questo monastero. E quanto piú il detto frate fu santo e buono, tanto piú tristi e scelerati è fama che siano quelli che vi stanno al presente. D'intorno a questo monte dove è posto questo monastero, vi si veggono nelli lati fiumi secchi, i quali non corrono se non al tempo di gran nembi e tuoni.
Tornando al nostro viaggio, per ispazio di otto miglia da Chaxumo è un altro monastero in un monte, che si chiama San Giovanni, e poi, piú lontano sei miglia da questo, ne è un altro che si chiama Abba Gariman, il qual dicono che fu re di Grecia e che, lasciando il suo regno e signoria, venne quivi a far penitenza e finí quivi la sua vita santamente. Ora dicono che fa molti miracoli, e noi ci trovammo presenti il giorno della sua solennità, dove vedemmo da tremila fra ciechi e storpiati e altri che hanno il mal di san Lazaro. E questo monastero è posto in mezzo di tre monti acuti, e quasi nella costa d'uno di quelli, e si vede la spelonca dove questo re faceva penitenza, la qual par che voglia cadere, né vi si può ascendere se non per una scala: e quivi montati, pigliano della terra, che è come creta, e la metteno al collo agli amalati in pezzetti, e dicono che guariscono. Volsi intendere che entrata egli aveva: mi fu detto da 16 cavalli e molte altre cose minute. È picciolo monastero e vi abitano pochi frati, e al piede di quello piantano molti agli e cipolle e molte erbe di orto che mangiano, e hanno molte vigne fatte in pergole e di buona sorte; e cominciano a farsi mature l'uve e li persichi del mese di gennaio, e finiscono per tutto marzo, e tutto l'anno in questo luogo si trova uva passa e secca da vendere, e la megliore che io mangiassi mai: è grossa come nocelle e quasi senza granello nel mezzo.
Come partimmo dalla chiesa e casa di San Michele e andammo a un luogo chiamato Bacinete, e d'indi poi a Malue; e de' monasteri che stanno appresso di quelli.
Cap. XLII.
Partimmo dalla chiesa di San Michele con la gente del paese che ci portava la nostra robba, e andammo a dormire ad un luogo che si chiama Angeba, in un betenegus, che è casa del re, nelle quali già in altri luoghi piú volte siamo alloggiati, e non se ne servono altre persone che quelli signori che fanno la residenzia in cambio del re: e riveriscono tanto queste stanzie, che le porte di quelle stanno sempre aperte, e niuno averia ardire d'entrarvi o vero toccarle, se non quando vi è dentro il signore; e dopo che esso si parte lasciano le porte aperte, li letti da dormire, e suoi ordini da far fuoco, e la cocina. Partiti poi da questo luogo, camminammo da 15 miglia e alloggiammo sopra un alto monte, il quale è sopra un gran fiume, che si dimanda Bacinete; e cosí si chiama la terra e signoria, della quale n'era patrone in quel tempo l'avola del Prete Ianni, e nel tempo che noi eravamo ivi le fu tolta, perché faceva far mala compagnia agli abitanti: e il Prete Ianni tien tanto amor e rispetto a' suoi parenti come agli altri. E questa terra è sottoposta al reame del Tigremahon, ed è molto popolata e coltivata per tutte le bande, ma sopra tutto è piena di montagne fruttifere e di fiumi che di continuo corrono verso il Nilo. E tutte le loro abitazioni sono poste ed edificate sopra luoghi alti e fuori delle strade, e questo lo fanno per causa de' viandanti, che gli tolgono ciò che hanno per forza. Quelli che ci portavano la robba, per paura delle fiere, fecero uno steccato di fascine di spini molto forte, e si messero dentro loro e noi con le mule; per quella notte non sentimmo altro.
Partimmo da Bacinete e andammo per sei miglia a dormire a un luogo chiamato Malue, il quale è circondato di molti belli campi lavorati e pieni di formento e orzo e miglio e legumi d'ogni sorte, che ancora in un luogo insieme cosí belli e cosí spessi non abbiamo veduti. Appresso a questo luogo vi è una montagna altissima, ma nel piede non troppo grossa, perché è tanto quasi nella cima come nel piede, per essere tutta tagliata come si faria a un muro d'una fortezza, diritta, tutta calva, senza erba né verdura alcuna; ed è bipartita, cioè le due bande streme sono aguzze e quella di mezzo piana, e in una di quelle parti aguzze, camminando poco piú di due miglia, vi è un monastero de' frati di Nostra Donna, di santa vita, la qual si chiama Abbamata, e son uomini di santa vita. L'ordine quivi tutto è uno, perché nel reame del Prete Ianni sono tutti di un ordine, cioè di Santo Antonio eremita: e da questo è venuto un altro ordine che si chiama Estefarruz, il quale è tenuto piú presto ebreo che cristiano, e dicono che spesse volte ne abbruciano per essere in loro di molte eresie, come a dire che non vogliono adorar le croci che loro medesimi fanno, perché tutti li preti e frati le portano in mano e li laici al collo. E la causa perché essi non vogliono adorarla si è che dicono che solamente quella croce si debbe adorare nella quale Cristo patí per noi, ma che quelle che loro fanno e fanno altri uomini non sono da adorare, perché sono opere di uomini: e per altre simil eresie che dicono, tengono e fanno, sono molto perseguitati. Il luogo dove è questo Abbamata pare che sia lontano tre miglia: io vi volevo andare, ma mi fu detto che non vi andassi, perché vi era una giornata di cammino e bisognava andarvi in quattro, cioè con le mani e' piedi, perché altramente non vi si può andare. In quel monte di mezzo, il quale è come una tavola, vi è un'altra chiesa di Nostra Donna, nella quale vi è gran divozione; e nell'altro monte aguzzo un'altra chiesa piccola, intitolata Santa Croce. E piú avanti quattro miglia e mezzo vi è un altro monte, il quale è su quella foggia di quello di Abbamata, e vi è un altro monasterio, che si dimanda San Giovanni, il quale è posto nella sommità del monte, la quale è tanto grande quanto è lo edificio del detto monastero e le stanzie di detti frati. E non vi è, secondo che si vede da basso, verdura alcuna; e il david e li governatori del monasterio stanno a piè del monte, in terre molte dilettevoli e tanto coltivate quanto dir si possa, e da quelle mandano alli frati che sono nel monte aspro tutto quello che lor bisogna alla giornata.
In questa terra si vede anche una differenzia grande a comparazione delle terre del Barnagasso, perché in quelle abbiamo visto assai furfanti e molti storpiati, ciechi e poveri che andavano cercando, ma in queste non ve ne sono tanti. Gli uomini sono differenti alquanto negli abiti dalli detti di sopra, e le donne maritate o che hanno con uomini conversazione portano intorno certi panni negri di lana, o d'altro colore, con le sue frangie di lana assai longhe, e non portano diadema sopra la testa, come fanno le donne delle terre del Barnagasso. Le giovani sono mal in ordine, e se sono di XX o XXV anni hanno le poppe tanto lunghe che arrivano loro fino alla cintura, e questo reputano per cosa bella; e vanno col corpo scoperto e galante dalla cinta in su, con corde di paternostri sopra quello. Alcune altre, grandi di corpo ed età, portano pelli di castrato attaccate al collo, che gli cuoprono solamente un fianco. Nelle nostre bande di Portogallo e Spagna si maritano per amore e per un bel viso, e il resto del corpo gli è nascosto, ma in questo paese si ponno ben maritare per vedere il tutto di continuo: e per esser questa la usanza del paese, l'uomo non ne fa stima alcuna, non altramente che se gli vedesse le mani o piedi nudi; e questo in gente bassa, perché le gentildonne vanno coperte.
Degli animali che sono in questa terra; e come fummo ad incontrare Tigremahon;
e delli tributi che si pagano.
Cap. XLIII.
In questa terra son tigri e altri animali molto feroci, e se ben li villaggi sono serrati, nondimeno la notte vengono le fiere e ammazzano vacche, mule e asini, il che non facevano nel regno di Barnagasso. Di qui partimmo alli 6 agosto 1520 e tornammo indrieto, dove era rimasto lo ambasciadore, per commissione del Tigremahon, alloggiato con gli altri Portoghesi i quali con lui partirono da Temei, terra del regno di Barnagasso. Vi era anco alloggiato un gran signore, mandato quivi accioché egli facesse compagnia all'ambasciadore; e in queste terre vicine vi erano assai signori che accompagnavano detto Tigremahon, il quale era lontano da questo luogo, alloggiato in betenegus, quasi due miglia.
In quel medesimo giorno che noi arrivammo, Tigremahon mandò a chiamar l'ambasciadore, il quale vi andò con noi altri; ma arrivati che fummo al palazzo, ne fu detto che egli era andato alla chiesa con la sua moglie per pigliare la communione: e questo poteva essere su le XXII ore e mezza, che a quella ora in quel paese dicono la messa, quando non è o sabbato o domenica. E andammo ad incontrarlo che veniva dalla chiesa con la moglie, e cavalcavano due mule ben ornate, secondo che si richiede a uomini grandi, e accompagnati da gran signori. Questo Tigremahon è un vecchio di bella presenzia, e la sua consorte era coperta tutta di panni di bambagio azurri: e talmente era coperta che non gli vedemmo né il viso né alcuna altra parte del corpo. Quando gli fummo vicini, mi dimandò una croce che io aveva in mano, la quale egli baciò e diedela a baciare a sua moglie: ed ella, senza scoprirsi il viso, la baciò cosí sopra i panni, e ne fece buona ciera e gran carezze. Costui mena seco gran corte, cosí di uomini come di donne, e di grande apparato, maggiore che non è quello del Barnagasso. Ci disse l'ambasciadore e quelli che con lui erano la gran cortesia e carezze che avevano avute da Tigremahon, cosí in mostrargli buona ciera come in mandargli vettovaglia da vivere. Ed è poco tempo che ha tal signoria, e ancora non ha finito di pigliare il possesso per tutto il suo dominio.
In questo reame, li re e quelli che sono sottoposti alli re, il Prete Ianni gli leva e mette quando gli pare e piace, con causa e senza causa, e per questo, quando sono privati del dominio, non mostrano maninconia o tristezza, e se pur l'hanno per male, lo tengono secreto. Nel tempo ch'io sono stato quivi, ho visto uomini gran signori privati dello stato e quelli che erano stati posti in loco loro molte volte parlare e conversare insieme come buoni amici: ma Iddio sa il lor cuore. In questa terra, per qualsivoglia cosa che gli occorra, o prospera o adversa, dicono che Iddio la fa. Questi signori che sono come re danno tributo al Prete Ianni, il qual tributo è di cavalli, di oro, di seta e di broccato e di panni di bombagio, secondo la facultà delle terre delle quali loro sono signori; e piú inanzi andando dentro il paese del Prete Ianni, danno il loro tributo d'oro, di mule, di sete, e di vacche e di buoi da arare e di altre cose. E quelli signori sottoposti, come dire a Tigremahon, a Barnagasso o a quelli che hanno il titolo di re, se ben sono stati fatti signori dal Prete Ianni, pur tuttavia pagano il tributo alli detti signori, li quali corrispondeno al Prete Ianni. E queste terre sono tanto abitate e popolate che le entrate loro conviene che siano grosse, e li signori, quando si trovano per le terre, vivono alle spese del commune delle povere genti.
Come, stando Tigremahon per cavalcare, l'ambasciadore gli dimandò il suo dispaccio e non gli fu dato; dapoi, mandatogli certe robbe, gli fu data l'espedizione;
e come andorno a un monastero, dove fumo accarezzati
Cap. XLIII.
Volendo Tigremahon cavalcare alla volta di alcune altre terre, l'ambasciadore mandò a pregarlo che lo dovesse espedire. Il quale, alquanto stato sopra di sé, disse che quella robba che noi portavamo mandaria a levarla, ma che la nostra che noi avevamo, che erano vestimenti, pevere e pane per mangiare, che trovassimo chi le portasse: e questa fu la ultima risoluzione. Poi si partí e andò al suo viaggio, e noi tornammo alli nostri alloggiamenti. E vedendo che non potevamo camminare con tanta robba, mettemmo ordine di mandargli di nuovo a parlare con alcuni presenti per Giorgio di Breu e per mastro Giovanni medico, li quali vi portorno un pugnale ricco e una spada con il fodro di velluto e li capi dorati. Dati questi presenti e fatto questo ufficio, fu subito ordinato che ne fusse portata la robba, e che per tutte le sue terre ne fusse dato da mangiare pane, vino e carne. E avuta tal nuova, che fu alli 9 d'agosto, ci partimmo e andammo a dormire in certi piccioli villaggi, serrati come quelli di sopra per paura delle tigri. E la notte che quivi dormimmo, essendo già due ore di notte, uscirono duoi uomini della terra per andar ad una stalla di vacche, e nella strada furono assaltati dalle tigri, e uno di loro fu ferito in una gamba. Iddio volse che udissimo gridare e gli soccorremmo, perché gli averiano ammazzati.
In questa terra vi sono villaggi abitati dalli mori divisi da quelli delli cristiani, li quali dicono che pagano gran tributo di panni di seta e d'oro alli signori del paese, ma non fanno le altre angarie che fanno gli cristiani; e questi mori non hanno moschea alcuna, perché non gliele lasciano tenere. Tutte queste terre sono fertili, sí di pascoli come di formenti e d'altre biade, e sono alcuni monticelli non troppo alti, quasi come campagne, tutti lavorati e coltivati e pieni d'arbori fruttiferi.
Partiti da questo luogo, andammo ad alloggiare e dormire a un altro luogo XII miglia lontano, ma picciolo, in un alto monte a man sinistra, che è tutto verde e pieno di arbori fruttiferi. Vedemmo un monastero di San Giovanni, qual dicono che ha buone entrate e che vi sono assai frati. Appresso dove alloggiammo vi è una chiesa di San Giorgio, assai ben ordinata a modo delle nostre, in volto e ben dipinta delle lor pitture, cioè con apostoli, patriarchi, Noè ed Elia profeta, e in quella servono X preti e X frati. E fino qui non abbiamo trovato chiesa governata per preti che non vi sian frati, ma dove sono i frati patroni, non vi stanno li preti. E per la verità li frati vanno piú onesti in abito che li preti, perché li preti vestono come i laici, eccetto li canonici. E ne' mercati preti e frati sono una cosa medesima, perché essi sono li maggiori negociatori che si trovino verso il levante.
All'incontro di questo luogo di San Giorgio, a piè d'una montagna lontana da quello III miglia, vi è un monastero appresso un fiume detto Coror, intitolato San Spirito, e vi sono da XX in XXV frati: chiesa di gran divozione, che cosí mostra il luogo. E li frati, vedendoci in quel luogo, ringraziavano Iddio, che aveva dato lor grazia di aver veduti cristiani d'altra lingua e d'altra terra, che mai piú non ne avevano veduti. E cosí accarezzandoci, ne mostrarono il convento e le loro stanzie e la chiesa del monastero, che è in volto, piccola e ben dipinta, e il suo chiostro e le celle molto ben in ordine, e meglio di quelle che abbiamo vedute in queste terre, gli orti molto ben coltivati: e vi sono molti agli, cipolle, cavoli e molte altre sorti d'erbe che noi non abbiamo e che loro mangiano, e sono bonissime secondo il paese; hanno molti limoni, naranci e cedri, persichi, uve bellissime, fichi a modo nostro di varie sorti e fichi indiani, e molti alti cipressi e altri arbori bellissimi, che fanno frutto e senza frutto, che non gli conosciamo. Li frati si disperavano perché era sabbato, che non potevano coglier de' frutti per darne, come averebbeno voluto, e ne chiedevano perdono, e dicevano che ne darebbeno di quello che avevano in convento: e cosí andati in casa ne diedero agli secchi e limoni, e al fine ne preparorno nel refettorio da mangiare cavoli tagliati come salata e mescolati con l'aglio dell'altro giorno, senza altro conciero, ma solamente cotti nell'acqua e sale, con duoi pani, uno di formento e l'altro d'orzo, e una zara di bevanda che si fa di miglio secondo l'usanza del paese, che si chiama cana, molto buona, e tutto con buona ciera, del che noi ringraziammo Iddio.
Dietro a questo luogo dove noi alloggiammo per ispazio di sei miglia, vi è una terra che si chiama Agro, nella quale Tigremahon ha un betenegus e dove assai volte dapoi siamo stati alloggiati. E quivi è una chiesa della Nostra Donna, fatta per forza di scarpello in un sasso, molto ben fatta, con tre navi e con le sue colonne del medesimo sasso; e la cappella maggiore e la sacrestia e l'altare, tutti sono del medesimo sasso, e la porta principale con le sue colonne, come che se fusse fatta di pezzi, non potria essere piú bella. Per fianco non ha porta alcuna, perché da ogni banda vi è la pietra e il sasso terribile, e nel sentir cantare l'ufficio divino si piglia gran consolazione, perché le voci di quelli che cantano ribombano mirabilmente. Di campane non bisogna parlare, perché non ne usano se non di sasso, come è detto di sopra, e alcune naccare e cembali in ogni chiesa.
Come andammo a un luogo d'Angugui e Bellette, e come venne a visitar Balgada Robel;
e del sale che è in questo paese, e dove egli vien portato.
Cap. XLV.
Alli XIII d'agosto ci partimmo da questo luogo, dove stemmo il sabbato e la domenica, e andammo a un luogo chiamato Angugui, nel qual è una chiesa come una sede episcopale, molto grande e bella, con le sue navi e con le sue colonne di pietra molto belle e ben lavorate: ed è adimandata Chercos, che vuol dire San Quirico. Il luogo è molto bello, appresso di un bellissimo fiume; gli abitanti hanno un privilegio, che niuno debba entrarvi dentro a cavallo, ma sopra mule sí. Di qui andammo a dormire in certe triste ville, dove dormimmo molto ben bagnati per le pioggie grandi, e senza cena; e stemmo divisi, perché non potevamo stare altramente.
Nell'altro giorno a buon'ora, che fu alli XIIII d'agosto del medesimo anno, ci partimmo di quivi e andammo ad alloggiare a un luogo chiamato Bellette, nel quale vi è un betenegus, buono alloggiamento; e il sito del luogo è molto ameno e abondante d'acque buone, e alloggiammo in detto palazzo. E stando in quello, venne un gran signore chiamato Robel, signore di una provincia dimandata Balgada, dalla quale prendendo il nome è chiamato Balgada Robel; e questo aveva seco una gran corte, tutti a cavallo e con molti altri cavalli e mule a mano, e tutto fanno per gravità e riputazione, ed erano con esso assai tamburi: costui vien detto essere suddito di Tigremahon. E giunto al palazzo dove era l'ambasciadore, lo mandò a pregare che volesse venir fuori per parlargli, percioché non poteva entrar in quello non vi essendo Tigremahon, che, come ho scritto, fanno gran riverenza a questi betenegus, dicendo che niuno può entrarvi sotto pena della vita, non vi essendo il signore che regge la terra. Udita questa dimanda, l'ambasciadore gli mandò a dire che esso veniva di lontano piú di XV mila miglia, e chi voleva vederlo o parlargli, che andasse a trovarlo in casa, che esso non voleva uscir fuori. Allora questo signore gli mandò a donare un bue, un castrato, un vaso pieno di miele, bianco quanto un fiocco di neve e duro come una pietra, e un corno pieno di vino molto buono; e mandò a dirgli che andaria a parlargli, con tutto che le pene fussero pericolose, e che si confidava, per essere alloggiati in quel betenegus cristiani, che saria iscusato dalla pena. Come fu appresso il palazzo, venne tanta pioggia che fu costretto a entrarvi dentro, e quivi parlò con l'ambasciadore e con noi altri, dimandando del nostro viaggio e delle nostre terre, che mai non le aveva intese né udite; e dapoi ci ragionò delle guerre che esso fa con li Mori, li quali confinano con le sue terre dalla banda del mare, dicendo che mai si quietava di far lor guerra, e donò una mula molto buona per una spada a uno de' nostri: e l'ambasciadore, vedendo la sua cortesia, gli donò uno elmetto. Dapoi lo vedemmo molte volte in corte, e ne fu detto che esso era uomo grande di guerra, e che in quella era valent'uomo e fortunatissimo.
Camminando verso mezzodí al nostro viaggio, le sue terre sono verso levante e il mar Rosso, e per la strada che noi facemmo si tocca parte di quelle; e dicono che il suo dominio è grande, e ch'esso ha la miglior cosa che sia nell'Etiopia, cioè il sale, il qual corre per moneta cosí nelli reami del Prete Ianni come nelli regni de' Mori e gentili: e di qui dicono che arriva per fino a Manicongo, sopra il mare di ponente. E questo sale lo cavano di montagne, secondo vien detto, in guisa di quadrelle: la lunghezza di ciascuna pietra è un palmo e mezzo, e la larghezza quattro dita, e al traverso tre dita, e cosí vanno caricate sopra carrette e animali come legne curte. In questo luogo dove si cava questo sale, vi vanno cento e centoventi pietre alla dramma d'oro, la quale, come ho detto, vale a mio giudicio CCC reais, che sono tre quarti di ducato d'oro in oro. Subito che giugne poi in una fiera che è sopra la nostra strada, dove vi è un luogo che si chiama Corcora, una giornata dal luogo dove si cava il sale, vi vanno cinque o sei pietre manco alla dramma: e cosí va diminuendo di fiera in fiera, e quando arriva alla corte vi vanno sei o sette pietre solamente alla dramma, e io ne ho anche visto comprare cinque per una dramma, quando è inverno. Di questo sale si fanno gran baratti, ed è molto caro in la corte. Dicono che, come arriva nel regno di Damute, trovano per tre o quattro pietre un buono schiavo, ed entrando ancora fra terre de schiavi, dicono che trovano un schiavo per una pietra, e quasi per essa a peso d'oro. Trovammo per questo cammino 300 e 400 bestie in compagnia cariche di sale, e alcune altre vote che andavano a pigliarlo, e queste dicevano che erano di gran signori, che mandano a fare ogni anno viaggio per le spese che fanno nella corte, e altre carche de XX e XXX animali, e questi sono di mulattieri. Trovammo anco uomini carichi del detto sale, che lo portano di fiera in fiera, che vale e corre come moneta, e chi lo ha trova a baratto ciò che fa bisogno.
Come partimmo con le robbe nostre avanti, e come il capitano di Tigremahon che ci conduceva fu bastonato per un frate che veniva a trovarne.
Cap. XLVI.
Partiti di questo betenegus, andammo ad alloggiare a certi villaggi assai poveri e male in ordine, a una terra chiamata Bunace. E il giorno seguente partimmo di quivi, seguitando la robba nostra che già avanti di noi era stata portata, la quale trovammo che l'avevano scaricata in mezzo di un prato pieno di acqua: e vedendola cosí mal condotta ci maravigliammo assai. E stando cosí, giunsero cinque o sei sopra le mule, e con X o XII pedoni con loro, fra' quali vi era un frate, il quale arrivato pigliò per il cavezzo subito il capitano di Tigremahon che conduceva la robba, e gli diede delle bastonate, per la qual cosa tutti vi corremmo, per intendere per che conto gli dava. E vedendo l'ambasciadore il capitano cosí ferito e malconcio, entrato in colera con il frate lo prese per il petto per dargli, ma non so se gli diede, e similmente tutti noi gli andammo adosso: e gli valse al povero frate saper alquanto parlar italiano, che fu inteso da un de' nostri, che fu Georgio di Breu, che se ciò non era, la cosa non passava ben per lui. Pacificato ognuno, il frate disse che era venuto quivi per commissione del Prete Ianni, per far portare la nostra robba, e che, se esso l'aveva bastonato, lo aveva fatto per il mal ordine che aveva usato in farla portare. Rispose l'ambasciadore che non era tempo di far tumulto, e massime alla sua presenza, perché gli pareva ch'egli avesse dato alla sua persona propria. E cosí essendosi acquietati, disse il frate che voleva andare alla volta del signore Balgada Robel, il quale era restato adietro, e che di là menaria mule e camelli per portarci la robba, e che noi andassimo avanti ad aspettarlo in un betenegus lontano di quivi mezza giornata. Questo fu quel frate che fu poi mandato dal Prete Ianni per ambasciadore a Portogallo insieme con noi.
E cosí partimmo ognuno al suo viaggio, esso avanti e noi verso il detto betenegus, e la sera alloggiammo in una picciola villa, dove era una bella chiesa intitolata San Quirico, e quella notte dubitammo di esser mangiati dalle tigri. Il giorno seguente camminammo appresso due miglia e trovammo il betenegus dettone del frate, il quale è in un luogo chiamato Corcora, con buoni alloggiamenti, e vi è una chiesa assai bella: e quivi stemmo il sabbato e la domenica, aspettando per fino al lunedí il frate. In questo luogo dalla parte di levante dicono che vi è un monastero molto bello e ricco, il quale si chiama Nazareth, che ha molta entrata, e vi sono molti frati; ed è paese molto abondante di uva e di persiche e d'altri frutti delicati, cioè delli nostri e di quelli del paese, e di qui ne furno portati assai noci, ma molto picciole. Verso la parte di ponente, che è verso il Nilo, dicono che vi sono assai minere di argento, ma non lo sanno cavare, né di quello trarre alcuno utile.
Come partimmo dal luogo di Corcora, e della dilettevole terra donde passammo, e d'un'altra selvatica dove ci perdemmo l'uno dall'altro, e come ne combatterono le tigri.
Cap. XLVII
Il martedí mattina, vedendo che non veniva il frate, cominciammo a camminar per la riva di un fiume bellissimo per ispazio di sei miglia, paese molto ameno e grazioso, e pieno di verdure e di arbori senza frutto e con frutto; e dall'una banda e dall'altra vi erano costiere di montagne altissime, che tutte si vedevano seminate e piene di formenti e orzi e olivi selvatichi, che paiono ulivi giovani, perché gli tagliano spesso per poter seminare le biade. Nel mezzo di questa valle vi è una bellissima chiesa di Nostra Donna, intorno alla quale vi sono molte case, stanzie e abitazioni delli preti; vi sono ancora infiniti cipressi altissimi e grossissimi quanto dir si possa, e molti boschi di alberi di piú sorti che noi non conoscemmo. E vicino alla porta principale della chiesa vi era una bellissima fontana e chiara, che andava d'intorno alla chiesa, poi si spandeva per una gran campagna, che tutta si può adacquare con li suoi rivoli: e per questo si semina in tutti li mesi dell'anno con ogni sorte di semenza, orzo, miglio, lente, roveia, fava, ceci, taffo de guza, che è molto buono, e quanti altri legumi sono in questo paese; e alcuni si veggono seminati allora, altri cresciuti in erba, altri maturi, altri segati e altri battuti, cosa che non si vede nelle parti nostre di Europa. In cima di questa valle vi è una grande ascesa, e in faccia vi è una chiesa, la quale ha intorno assai abitazioni di preti, dove la terra è molto arida e secca. In mezzo di quella vi è una muraglia antichissima, la quale dimostra essere stata torre con porte per guardar quel luogo, perché è un monte cosí aspro che da quello a LX miglia inanzi non vi è altro passo: e ben pare che questo sia cosí per la molta gente che di continuo qui corre.
Salito detto monte, calammo a basso e arrivammo in una bella campagna piena di ogni sorte di biade, la quale si semina tutto il tempo dell'anno, come quella che ho detto di sopra, e vi sono prati infiniti da pascolare. E nell'entrar di questa campagna vi è una bellissima chiesa intitolata San Quirico, con molte buone case per li preti, serrate come monasteri, e sopra di quella vi è un bellissimo betenegus; e la terra è grande, e questa campagna e valle può essere in lunghezza sei miglia e di larghezza due miglia, e ha d'intorno da ogni banda alte montagne, e a piè di quelle per tutto vi si vedono assai luoghi e chiese, ma picciole, tra le quali ve ne è una intitolata Santa Croce e l'altra San Giovanni, e ciascuna di esse ha XII frati.
Passata questa valle, cominciammo a mutare altra sorte di paese, ed entrammo in certe aspre montagne, non di altezza ma di profondità, la maggior parte delle quali passammo di notte, per il che ci perdemmo l'uno dall'altro. E l'ambasciadore rimase solamente con quattro compagni, e io con cinque, e un altro pur della famiglia con dui; e la robba rimase in questi luoghi selvatichi con un uomo solo, come a Dio piacque. E in quella banda dove io mi trovava si vedeva il fuoco, che per esser notte pareva vicino, ma era lontano piú di tre miglia; e volendo andare a quella volta, ci seguitavano tante tigri che non si può stimare, e se entravamo in qualche boschetto, ci venivano tanto appresso che con una picca potevamo dargli a man salda: e nella nostra compagnia non era se non uno che avesse picca, e gli altri spade. Finalmente ci consigliammo di fermarci in certi campi seminati per star piú sicuri, e quivi legammo le mule insieme, e con le spade nude facemmo tutta notte la guardia.
Nell'altro giorno dopo mezzodí ci trovammo con l'ambasciadore in un luogo molto populato, lontano da quello dove dormimmo piú di sei miglia: e si dimanda Manadeli, il quale è da mille fuochi, e gli abitatori sono mori, tributarii al Prete Ianni, e fra loro sono da XV in XX case di cristiani, che stanno ivi con le sue mogli e ricevono li tributi. E perché ho detto di sopra che cominciammo a mutar sorte di paese, è da saper che per fino adesso, che sono dui mesi che cominciammo a camminare, sempre è stato di verno, e come entrammo nelle valli fra queste montagne non vi era verno, anzi molto caldo in questo tempo: e il paese si chiama Dobba, e vi era la estate; e questa è una delle terre nominata di sopra, che vi dissi che vi è il verno di febraio, marzo e aprile, contrario all'altre. Il medesimo è anche dal monastero della Visione fino al mare, e in un'altra terra del reame di Barnagasso, chiamata Carna. Queste terre che hanno il verno mutato sono molto basse e sottoposte alle montagne, e la lunghezza di questa può esser da cinque giornate; la larghezza non si sa, perché si entra nel paese de' Mori. Il generale e commune verno è dalla metà di giugno fin alla metà di settembre. Sono in questo paese di Dobba bellissime vacche, e in tanto numero che non vi è conto vero; sono di grande statura, e maggior che si possa trovare. Ma per molte miglia avanti che noi arrivassimo a questa terra di Manadeli, trovammo molta gente cristiana alla campagna con li loro padiglioni alzati, la quale ne disse che era quivi per addimandare a Dio acqua dal cielo, per li bestiami che morivano da sete, e per il seminare li migli e le loro biade, che pativano gran carestia d'acqua. Il lor gridare e pregare era questo: "Zio marina, Christos", cioè "Cristo, abbi misericordia di noi".
Ora, per tornar al luogo di Manadali, dico che qui si traffica a modo di una città grande, e si trovano infinite sorti di mercanzie e infiniti mercanti, e vi sono tutte le lingue de' Mori, cioè di Giadra, di Marocco, di Fessa, di Bugia, di Tunesi, di Turchia, di Rumes, cioè uomini bianchi di Grecia, Mori d'India, che sono quivi come abitatori, di Ormus e dal Cairo, che da tutte queste terre sopra nominate conducono ogni sorte di mercanzie. Ed essendo noi quivi, li Mori della terra si lamentavano, dicendo che per forza il Prete Ianni aveva fatto lor torre mille oncie d'oro, dicendo che glielo prestava per trafficar con esse, e che ogni anno essi fussero obligati rendere altre mille oncie d'oro di guadagno, e che le mille oncie sempre fussero in piedi. Gli abitatori naturali del luogo si lamentavano assai, dicendo che, se non fusse il bestiame che li mantiene, se ne andariano con Dio, percioché, oltre quello che loro pagano al Prete Ianni, il Tigremahon anche, come signore della terra, voleva tirare le sue entrate, di sorte che non potevano piú vivere. In questo luogo ogni martedí è mercato, e vi si porta ogni sorte di mercanzia che si possa nominare, e vi concorre infinitissima gente da ogni banda.
Come in questo luogo arrivò il frate e subito partimmo verso un luogo che si chiama Dofarso; e della sorte di pane che in quello mangiano, e del vino che beveno.
Cap XLVII.
Stando noi nella terra di Manadeli, scordati del frate, venne nova come egli veniva con mule e camelli per portar la robba; e alcuni delli nostri gli andorno incontro per riceverlo con assai allegrezza e, scordati del primo incontro, subito che egli giunse ci partimmo, e andammo la sera lontani di quivi due miglia, a un betenegus che è edificato in una montagna. Il giorno seguente arrivammo a una terra grande che ha da mille fuochi, abitata da cristiani, la quale è chiamata Dofarso; e vi è una chiesa nella quale vi sono piú di cento tra preti e frati, e altretante monache, le quali non hanno monastero, ma stanno nelle case come laiche: eccetto che li frati stanno divisi da sua posta, in due corti separata l'una dall'altra, nelle quali sono molte casette di poco valore. Ed è tanto grande il numero di questi preti, frati e monache, che gli altri laici non possono stare nella chiesa: però avanti la chiesa hanno posto una tenda di seta dove communicano li laici, e quivi fanno quelle solennità che non possono fare in chiesa, di sonare con li lor tamburi e cembali tanto che si dà la communione. Due notti che quivi dormimmo, le monache vennero a lavarne li piedi, e dapoi lavati bevevano di quell'acqua, lavandosi similmente con quella il viso, dicendo che eravamo cristiani santi di Gierusalem.
In questo luogo vi è pianura tutta seminata, e in quella ho veduto li campi seminati cosí di coriandoli come di formento, e similmente di una semenza che si chiama nugo, che è come quel fiore che nasce nelli formenti detto gioton: e delli capi di quello, dopo che son ben maturi e secchi, ne fanno olio. E quivi intesi dire, un'altra volta che vi tornai, che, se non fusse il verme che mangia il formento, raccoglierebbono l'anno vettovaglia per dieci anni. Di che molto maravigliandomi, dissemi il padrone: "Non vi sia ciò maraviglia, perché, quell'anno che noi raccogliemo poca biada, ci basta per tre anni". E piú mi disse che se non fussero le cavallette e la tempesta, che qualche volta fan danno, che non seminarebbeno la metà della semenza che seminano, perché il resto che si guasta si butta via. E questo luogo è in una valle, e ha presso di sé dui monti: perché noi stemmo quivi il sabbato e la domenica, andavamo montando sopra di quelli, dove arrivati vedevamo assai mandrie di vacche che venivano verso la terra; e quelli della nostra compagnia stimorno che fussero 50 mila vacche e piú, e certo non si potria stimare il numero grande che erano. La lingua di questa terra è diversa da quella dell'altra terra dietro a questa, perché quivi comincia la lingua del regno d'Angote, e si chiama Angotina la terra; e questo luogo è posto alla fronte del regno di Tigremahon, e va fino alli Mori che si chiamano Dobas.
E avendo fatto questo cammino due volte, nel tempo che qui stemmo, voglio narrar ciò che c'intravenne. Questo luogo ha dui monti alti, sopra li quali sempre gli abitatori tengano guardie, perché di quivi alli paesi de' Mori vi sono campagne per piú di otto miglia, tutte piene di boschi: e dette guardie una volta, vedendoli venire, fecero segno, e tutti fuggirono con quel poco che poteron portar via. Li Mori pervenuti alla terra, trovandola senza alcuno, la saccheggiorno a lor modo, e la vergogna fu tanta che li cristiani deliberorno, se li Mori piú vi venivano, di non fuggire, ma di voler combattere; e dato ordine con li luoghi vicini delli cristiani, non passarono molti giorni che li Mori tornarono, e immediate fatti li segnali alli vicini, uscirono alla campagna chi da una parte e chi dall'altra, e combatterono valorosamente. E morirono solamente 5 cristiani, e delli Mori piú di 800, che Dio fu quello che gli volse aiutare: delli quali prese le spoglie, come zagaglie e targhe, mandorno il tutto a presentare al Prete Ianni, tagliando le teste e attaccandole sopra gli alberi e per le strade. E nel tempo che noi ci trovammo alla corte del Prete Ianni furno portate queste cose, e tornando poi adietro vedemmo le teste de' Mori attaccate agli alberi.
Per tutta questa terra fanno pane d'ogni sorte di grano, cioè di formento, d'orzo, di miglio zaburro, di ceci, di piselli, di fagiuoli di diversi colori, di fava, di semenza di lino, di taffo d'aguzza. Similmente fanno vino di queste semenze, ma il vino fatto di miele è molto migliore di ciascun altro. E questi popoli, poi che venne il frate, ci davano da mangiare e ci facevano le spese di queste sorti di pani, per comandamento del Prete Ianni: ma noi non lo potevamo mangiare se non era di formento. E ci portavano anco questi tali lor cibi fuori di tempo, cioè secondo il lor costume al tempo della notte, perché non mangiano se non una volta al giorno, e questo è la notte: e il lor mangiare è carne cruda, e di una salsa fatta del fiele delle vacche, il che noi non potevamo vedere, non che mangiare; ma mangiavamo quel poco che ci cucinavano li nostri schiavi, e pane di formento. E cosí stemmo fin a tanto che il frate, intesa la nostra natura e usanza, ci fece mandar la carne, la qual per li nostri schiavi si faceva arrosta e lessa, cioè galline, pernici, castrati, vacche e simili.
Come partimmo di questo luogo Dofarso ben in ordine e aveduti,
perché dovevamo passar per terra de Mori inimici.
Cap. XLIX
Partiti di questo luogo, camminammo per mezzo di certi migli zaburri alti e grossi come canneti, e la sera andammo ad alloggiare non molto lontani, appresso una chiesa a' piedi d'un monticello, perché sempre la notte ci trovavamo fuori di strada, ma vicini alle terre, per causa del vivere. E quivi ci disse il frate che non ci separassimo l'uno dall'altro, ma che camminassimo tutti insieme e proveduti con l'arme nostre, faccendo andar la nostra robba avanti, perché avevamo da passare per terra de Mori, luoghi molto pericolosi perché sempre stavano in guerra, e sopra questa strada che noi ora camminiamo, che è verso la parte del mare, tutti gli abitanti sono Mori, detti Dobas. E non è reame, ma è divisa questa provincia sotto 24 capitani, e qualche volta la metà sta in pace e l'altra metà in guerra: e nel tempo che noi ci siamo trovati in quelli paesi, tutti quasi al continuo sono stati in guerra.
Pur ne abbiamo veduti XII che stavano in pace, in corte del Prete Ianni, perché d'una nova rebellione venivano a dimandar perdono. E quando arrivarono appresso al padiglione del Prete Ianni, il quale sempre sta in campagna, ogniuno di questi capitani portava una pietra grande sopra il capo, ponendogli ambedue le mani di sopra, il qual modo è segnale di pace e di venire a chiedere misericordia: alli quali il prete Ianni fece molta accoglienza e buona ciera. E condussero seco piú di 100 cavalli e belle mule a mano, ma loro entravano a piedi in la corte con le pietre in testa; e stettero in quella piú di due mesi senza esser espediti, e gli veniva dato ogni giorno vacche, castroni, miele e butiro. Al fine il Prete Ianni gli mandò lontani piú di 300 miglia dal paese loro, e gli fece mettere nel reame di Damute con grandissime guardie. Subito che le genti di questi capitani intesero che erano confinati in quelli paesi, si sollevorno e fecero altritanti capitani di nuovo, cominciando a far guerra e romper la pace. E camminando noi un'altra volta per questi paesi, arrivati che fummo quivi il giorno della Epifania, intendemmo che per questa sollevazione il Prete Ianni vi aveva mandati assai gentiluomini e capitani, li quali s'erano accampati nelle terre delli detti Mori tre miglia adentro, sopra una montagna, la quale si vedeva da quel luogo dove noi eravamo alloggiati, e vedevamo il fumo che facevano; e l'ambasciadore mandò due Portoghesi a visitare detti capitani da sua parte, li quali, veduta la cortesia dell'ambasciadore, gli mandorno a donare sei vacche. E referirno questi Portoghesi come erano ivi molti gran signori per capitani, e ch'erano piú di XV mila, tutti alloggiati in mezzo di certe siepi grossissime fatte di spini folti e spessi, il qual circuito lo chiamano catamar, e non sanno far miglior cosa per star sicuri la notte; e che avevano incommodità grande d'acqua, perch'ella era fuori del circuito, e non bastava lor l'animo di menare a beverar li cavalli e mule senza gran compagnia di genti, e che, come andavano poco numero, li Mori gli assaltavano e gli amazzavano; e piú che li Mori il sabbato e la domenica, per esser giorni nelli quali sapevano che li cristiani non guerreggiavano, gli davano grandi assalti e facevano danni assai.
Questa guerra e inimicizia dicono che è stata principiata con questo presente Prete Ianni piú che con gli altri antecessori suoi, e perché questi Mori sono stati anticamente tributarii delli Preti Ianni, e gli antecessori di questo che ora regna sempre hanno avute 5 o 6 mogli, figliuole delli mori re convicini e non figliuole di gentili, e anco delle signorie di detti Dobas sempre ne avevano una o due, s'erano sufficienti, e del re di Dancali un'altra, e un'altra del re di Adel e del re di Adea. E questo presente Prete, avendo promesso di torre per moglie una figlia del re di Adea, come vidde che ella aveva li denti davanti grandi, non la volse, né manco la volse rendere al padre, perch'era già fatta cristiana, ma la maritò in un gran signore della sua corte: e dicono che da quel tempo per fino al presente mai piú non ha voluto pigliar moglie di questi re mori, e si è maritato con una figliuola di un cristiano, e non ne ha voluto pigliar piú di una, dicendo che vuol vivere secondo la legge dell'Evangelio. E cosí dimanda il tributo che questi Mori gli sono obligati a pagare, e loro, perché non lo pagavano avanti per causa delli matrimonii che facevano con li suoi antecessori, per questo non lo vogliono al presente pagare a costui, e di qui nascono simil guerre.
Questi Mori di Dobas sono gran valent'uomini, e hanno una legge tra loro, che niuno si possa maritare se non fa fede di aver ammazzati XII cristiani: e per questa causa alcuno non passa questa strada solo, ma in carovana, che loro chiamano negada. E si mette insieme prima una gran compagnia, la qual passa due volte la settimana, perché una parte va e l'altra torna, e non vi è compagnia che non passi mille persone col suo capitano; e queste carovane si partono da due fiere, cioè di Manadeli e Corcora d'Angote. E benché vadino in gran comitiva, nondimeno li Mori gli assaltano, e ammazzano qualche volta molti di loro: e questo io lo so perché a un mio cugino e a un servitore dell'ambasciadore gli accadette passare per questo luogo in carovana, e li Mori assaltorno l'antiguardia e ne amazzorno XII, avanti che gli altri si mettessero in ordine. E questo è un cattivo passo e pericoloso, e di due giornate, e tutto paese e campagna pieno di alberi spinosi, come gran boschi molto alti e spessi: e benché qualche volta vi mettino il fuoco per nettare il cammino, nondimeno non bruciano, anzi pare che, se ben gli tagliano, che piú multiplichino. Da questa strada vicina a questi di Dobas per fino a piè de' monti vi sono sei miglia, e tutta la campagna è piena di questi tali spini; e in quella vedemmo andare infiniti elefanti pascendo, e molti altri animali feroci, come nell'altre montagne.
Come la gente di Giannamora tiene sempre guerra con questi Mori di Dobas, e d'un gran nembo e fortuna che ne venne stando noi a mezzodí sopra un fiume.
Cap. L.
Il carico di far guerra a questi Mori di Dobas è di un gran capitano che si chiama xuum Giannamora, il quale ha gran paese e genti assai a lui suddite, che si chiaman Giannamori: e quasi il tutto è montagne, e dicono che quivi è la piú esercitata gente nelle armi e valente che si trovi in tutto il paese del Prete Ianni, perché confinano con questi Mori, dove stanno sempre all'erta con fare continue guardie, conciosiacosaché in quelle montagne dove alloggiano spesso vengono i Mori a bruciar lor le case e le chiese e tor le vacche. E quivi viddi un prete che aveva freccie avelenate, e gli dissi che egli faceva male a tenerle; mi rispose: "Guarda la nostra chiesa bruciata dalli Mori, i quali mi hanno rubato 50 vacche, e appresso ruinati li miei sciami di api, che mi facevano il miele, il quale era la mia vita; però non ti maravigliare se io porto queste saette avelenate". Il che udendo, non seppi che rispondergli, tanto malcontento lo conobbi.
Partiti di qui, camminammo per lo detto piano al lungo di certe montagne che sono dalla banda de' cristiani, tutte abitate da questi Giannomori, e attraversammo certi fiumi che discendono dalle dette montagne, e appresso detti fiumi trovammo luoghi assai ombrosi, per infiniti alberi di salici che vi erano, e molto ameni da riposare al tempo del mezzogiorno. E cosí ci riposammo alquanto, perché faceva un gran caldo, ed era il giorno molto chiaro, e questo fiume non aveva tanta acqua che potesse macinare un molino: e noi stavamo divisi, una parte di qua dal fiume, l'altra di là, ragionando. E cosí stando, ecco che sentimmo un gran tuono, e ne pareva lontano, e dicevamo che era tonato a secco, come qualche volta suol fare in India; e stando cosí sicuri di non aver pioggia né vento, e che il tuono fusse cessato, cominciammo a mettere a ordine la robba per andare al nostro viaggio. E già avevamo raccolto un padiglione, nel quale avevamo desinato, e maestro Giovanni, andando in su per il fiume per suoi bisogni, cominciò a gridare: "Guardatevi, guardatevi"; e voltandoci, vedemmo venir l'acqua alta una lancia con grandissima furia, la qual ci portò via parte della nostra robba, e se per caso non avessimo levato il padiglione, ci arebbe insieme con quello portati via, e fu forza che molti di noi montassimo sopra li salici. E questo torrente veniva fra certe montagne dove era tonato, e menava pietre grandissime, e tanto era il romore e la furia dell'acque, e il fracasso delle pietre che davan l'una con l'altra, che la terra tremava e pareva che 'l cielo volesse cascare. E cosí come ella fu presta a venire, cosí presto passò, perché in quel giorno medesimo la passammo, e vedemmo appresso quelli sassi che vi erano avanti assaissimi e grossissimi altri aggiunti, li quali vennero insieme con l'acque di quelle montagne. E partendoci di qui, andammo ad alloggiare a certe povere casette, alle quali appressandoci cominciorno a trarne sassi, e bisognò che alloggiassimo fuori senza cena. E in quella notte sentimmo nel far del giorno grandissimi tuoni e pioggia in quella pianura, come era stata il giorno avanti nelle montagne.
Come partimmo di questo povero luogo e camminammo per luoghi pericolosi; e del fiume Sabalette, che divide il regno di Tigremahon da quello di Angote.
Cap. LI.
Partimmo da questo luogo tutti, perché non avevamo da mangiare, e lasciammo il frate con la robba, che non poteva camminar con noi, per aver genti che le portasse: e quivi ci messeno grandissima paura, con dire che il viaggio nostro era pericoloso in questo passo, sí per li Mori quanto per li ladri, li quali adoprano saette avelenate, e che andassimo ben armati tutti insieme. E il cammino che noi facemmo era piano, sí come il passato, ma piú boscoso, e la strada piú larga, perché ogni anno tagliano i boschi appresso alle strade. E sempre camminavamo appresso ai monti, allargandoci dal paese de' Mori piú che potevamo, e con tutto che ci dicessero che quivi fusse maggior pericolo, per esservi boschi assai e torrenti, luoghi molto atti per ladri, nondimeno molte volte dapoi gli passammo e non trovammo mai chi ne facesse dispiacere. E di piú ci avertivano che noi non alloggiassimo nelli luoghi bassi, per conto dell'aria cattiva, e che ci accostassimo alle montagne piú che potevamo.
E cosí camminammo senza robba tutto quel giorno e arrivammo la sera a un gran fiume, detto Sabalette, il quale è il confine del reame di Tigremahon e principio di quello di Angote. E in una montagna molto alta dalla banda di ponente, donde nasce questo fiume, vi è una chiesa intitolata San Pietro di Angote, e dicono ch'è capo di questo reame, e che è chiesa delli re, e che, quando si dà questo regno di nuovo ad alcuno, ivi vanno a pigliar il possesso di quello. E dalla parte di levante, in un'altra altissima montagna fuori di strada sei miglia, vi è un monastero grandissimo con assai frati, del quale non abbiamo veduto altro che gli alberi alti che vi erano intorno: e quivi non è piú il paese de' Mori. E sopra questo fiume stemmo il sabbato, e la domenica da notte nel primo sonno le tigri ci assaltorno, con tutto che avessimo fatto fuochi grandi, in modo che, avendo paura le mule, se ne dislegò una gran parte, le quali tornammo a pigliare; ma se ne perse una con un asino, e non li trovando, pensammo che le fiere l'avessin divorate. La mattina seguente ci fu avisato da certi villani che avevano trovati detti animali, e che andassimo a vedere s'erano i nostri, che volentieri ce li darebbono.
Il lunedí, alli 3 di settembre, camminammo sei miglia di paese, tutto piano e assai bello, e dapoi il frate che era venuto con le nostre robbe ci menò a dormire per certi cammini in cima di montagne e fuori di strada, molto selvatichi e strani, dicendo che non era buono alloggiare alla pianura nelli luoghi bassi per l'aria cattiva. E quella notte la robba per non poter montar fu lasciata in mezzo della strada, del che ci scandalizammo assai del frate, che ne aveva menati per sí deserte vie, e cosí noi glielo dicemmo, e che non ci facesse ammazzare le mule menandoci per sí aspri luoghi, e che non avevamo paura di aria cattiva; e se lo faceva per conto del mangiare, che noi avevamo tanto del nostro che potevamo vivere, e che il re di Portogallo ne aveva dato tanto oro che potevamo far le spese a lui e a noi. Ne rispose che non ne menaria piú fuori di strada e che verrebbe con noi.
Il martedí, smontati da questa sommità di monti, venimmo su la strada dove era la nostra robba, appresso a una chiesa intitolata la Nostra Donna, tutta circondata di ombre di bellissimi e alti alberi: e quivi ci riposammo sul mezzogiorno per il caldo. La qual chiesa ha assai preti e frati e monache, ed è governata dalli preti; e il luogo si dimanda Corcora D'Angote, a differenzia di un'altra Corcora di Tigremahon, e ogni mercordí si fa quivi un grandissimo mercato. Apresso questa chiesa lasciammo una parte delli camelli con parte della robba, perché ormai erano stanchi per il pessimo cammino, e noi a gran fatica passammo la sera una montagna molto alta, che qualche volta ci bisognò andare a piedi, e tal volta con li piedi e con le mani per terra carponi. E passato questo mal cammino, nella sommità del monte trovammo alcuni altri monti e colli, che fanno delle valli dove corrono fiumicelli: ma fra gli altri ve n'è un molto grande, pieno da un canto e dall'altro di pascoli e di terre da seminare, nelle quali tutto il tempo dell'anno si semina e si raccoglie d'ogni semenza, perché, ogni volta che di quivi poi passammo, trovammo formento allora seminato e altro già nato, e altro in erba, e altro spicato, e altro maturo e segato; e quello ch'io dico del formento, è il medesimo di tutte le altre sorti di biade e legumi. In questa terra non vi sono condotte acque per adacquarla, perché da sé è abondante e quasi come palude; e tutte le terre che sono come questa, overo che si ponno adacquare, fanno il medesimo frutto come questa, cioè che in tutti li mesi dell'anno si semina e raccoglie. Questo paese da ogni canto si vede popolato e pieno di villaggi, per esser grassissimo e abondante; e in ciascuna villa vi è la sua chiesa, la quale ha d'intorno assai alberi, che dimostra a' risguardanti ivi esser chiese, ancora che non si veggano.
Della chiesa d'Ancona, e come nel reame d'Angote corre sale e ferro per moneta,
e di un monastero che è in una grotta.
Cap LII.
Il mercordí, alli cinque di settembre, camminammo poca strada che cominciammo a calare per una dilettevole e spaziosa valle, piena di migli grandissimi e molte fave, in mezzo della quale correva un gran fiume, il qual sopra le ripe da un canto e dall'altro era seminato: e il fiume si dimanda fiume d'Ancona. E nella sommità di questa valle vi è una bellissima chiesa, detta Santa Maria d'Ancona, e ha grandissima entrata e vi sono assai canonici: il capo si dimanda licanate, e oltra li canonici vi sono assai preti e frati, e in tutte le chiese grandi da qui avanti, che si chiamano delli re, vi sono canonici, e il suo capo detto licanate. Detta chiesa ha due campane di ferro, mal fatte e basse appresso la terra, e in questo paese non ne abbiamo vedute se non queste due. E stemmo in questo luogo fino al giovedí, perché in tal giorno vi si fa un gran mercato, che loro chiamano gabeia. Corre in questa terra e in tutto il regno di Angote ferro per moneta, il quale è in modo di ballotte, e non si può adoprare cosí rotondo in alcuna cosa, ma le disfanno secondo li loro bisogni, e ne danno dieci, undici e dodici alla dramma, la qual dramma viene a essere tre quarti di ducato d'oro in oro. Vi corre ancora il sale per moneta, come fa per tutto il paese, e quivi danno sei o sette pietre di sale per un pezzo di questo ferro.
Quivi viene a essere, quasi all'incontro dalla banda di ponente, una terra detta Bugana, la quale è terra molto fredda per causa delle montagne altissime che vi sono, sopra le quali vi è assai di quella erba con che fanno le corde, cioè sparto: del quale una fiata ne portai alquanto ad alcuni Genovesi che erano quivi con noi, li quali mi dissero che mai non ne avevano veduto di cosí buono, e che era megliore di quello d'Alicanti. Il vivere di queste montagne sono orzi in gran quantità, e nelle valli sono molti formenti, e li piú belli che mai in alcuna parte abbi veduto. Li bestiami sono di piccola statura, sí come sono quelli della terra di Maia, fra il fiume Minio e Duoro in Portogallo. Il signor di questa terra si chiama Abunaraz; è paese di lunghezza di sei giornate, e di larghezza di tre. Dicono che poi che la terra di Chaxumo si fece cristiana, che questa fu la seconda, e che quivi li re tennero corte, sí come fecero le regine in Chaxumo, ancora che ella sia sterile per li monti.
Gli edificii che io viddi sono questi. Primamente in una alta montagna vi è una grandissima grotta, nella quale vi è fabricato un molto bel monastero e chiesa di Nostra Donna, non tanto per la grandezza come per la gentil proporzione che tiene il corpo di quello, quale si chiama Icono Amelaca, che vuol dir "Iddio sia ringraziato". Il sito della terra dov'è fabricato si chiama Acate; ha poca entrata, ma molti frati e monache. Li frati abitano in un colle sopra la grotta che è tutto serrato, e hanno una sola strada per venire alla chiesa; e le monache stanno da basso in un lato di quella, e non sono serrate: lavorano e zappano le terre, e le seminano di orzo e di formento, perché il monastero gli dà poco. La bella maniera che ha questo luogo lo fa abitare, perciò che egli è fabricato in questa gran concavità del monte o grotta, ed è fatto in croce, ben compassato, e vi si può andar d'intorno con la processione: e vi capiriano in questo circuito tutti li frati, se ben fussero in maggior numero di quello che sono; avanti la porta del quale vi è un luogo serrato di muro, e alto fino all'orlo della grotta, che non è chiesa, e quivi stanno le monache a udire li divini ufficii, e quivi ricevono la communione. Questa stanza delle monache risguarda verso mezzodí, perché la chiesa sta verso levante e ponente, e verso la parte destra disopra questa grotta descende dalla montagna un fiumicello fatto di diverse fontane, che di continuo corre, e come arriva alla sommità della grotta si divide in tre parti: e una cade al diritto del mezzo di quella, che fa un bel vedere; le altre due corrono per canali fatti a mano dalle bande della grotta, e vanno a congiugnersi verso il luogo delle monache appresso di un muro che le ripara, e adacquano li lor orti. Ha detto corpo di chiesa tre porte, una principale e due traverse, come se ella fusse fatta in una pianura, e perché la bocca della grotta è grande, però vi è lume assai. E perché dico che egli è fatto in croce, però per esprimerlo meglio dico che è fatto della maniera e grandezza come è il monastero overo chiesa di San Fruttuoso, che è appresso la città di Braga, nel regno di Portogallo.
Di un'altra chiesa di canonici che è fatta in un'altra grotta nella medesima provincia, nella quale vi sono sepolti un Prete Ianni e un patriarca di Alessandria.
Cap. LIII.
Partendosi da questo monastero o vero chiesa che ho detto disopra, e andando verso ponente per ispazio di due giornate di cammino, vi è un'altra grande e ricca chiesa fatta in un'altra grotta, nella quale a mio giudicio vi potriano stare tre gran navi con li lor alberi: ma l'entrata non è maggior dello spazio dove potessero entrar duoi carri con le sue scale. E per salire sopra detta montagna vi sono sei miglia grosse, e io vi volsi andare per desiderio di veder detta chiesa, ma credei veramente di morire, tanto era difficile e aspro il cammino; pur Iddio mi aiutò, che il freddo era grande, ed era meco uno mio schiavo che mi aiutava a camminare, tirandomi con una corda in suso, e un altro da dietro che menava le mule a mano, acciò che cascando elle non mi rovinassero adosso. Io mi parti' dal piede di detta montagna avanti giorno, ed era mezzodí che ancora non aveva compito di montarvi sopra. Il bosco e alberi che io trovai sono di diverse sorti che io non conobbi, eccetto assai ginestre, che li fiori gialli facevano bel vedere, e molta erba di sparto per far corda.
La chiesa che è sotto detta grotta è grande come un duomo e sedia catedrale, e ha belle navi e ben adorne e ben lavorate, e tutte in volto; ha tre bellissime e ben ornate cappelle. L'entrata di questa concavità è da levante, e le cappelle sono voltate verso detta entrata; e come è passata terza non vi si vede lume, e dicono l'ufficio a lume di candele. La chiesa ha 200 canonici, e non vi sono frati, ma ha il suo licanate, e ha grandissima entrata di possessioni: ed essi stanno come gentiluomini onorevoli per la lor ricchezza. Chiamasi questa chiesa Imbra Christos, che vuol dire "Cammino di Cristo". Entrando in questa grotta si vedeno in faccia le dette cappelle, e a man destra vi sono due camerette ben dipinte, le quali dicevano che le aveva edificate un re, che quivi era stato a far la vita sua e che fece far la chiesa. Entrando a man sinistra vi sono tre sepolture onoratissime, e in tutta la Etiopia non ho vedute altre tali, fra le quali ve ne è una principale e molto alta, la quale ha cinque scalini d'intorno, intonicata tutta di calcina bianca, ed era coperta con un gran panno di broccato e di velluto della Mecha, cioè divisato, un di broccato e uno di velluto, ed era tanto grande che per ogni banda toccava terra: il qual panno l'avevano posto in quel giorno sopra la detta sepoltura, perché era giorno della sua festa, e questa sepoltura fu di quel re che abitò quivi, qual si chiamava Abram. Le altre sono al medesimo modo di questa, salvo che una ha tre e l'altra quattro scalini; tutte stanno in mezzo della detta grotta. La piú grande è di un patriarca che venne di Gierusalem a visitare il detto re per la sua santità, e quivi morendo fu sepolto. La picciola è di una figliuola del detto re, il quale dicono che era stato piú di XL anni sacerdote da messa, e ogni giorno quivi la celebrava: il che trovai in un libro di questa chiesa, nel quale era scritta la vita di questo re. Tra gli altri miracoli, dicono che quando celebrava gli angioli gli ministravano pane e vino, e cosí nel principio del libro è dipinto il re come sacerdote apparato all'altare, e pare che da una finestra esca una mano con una ostia e con un vaso di vino; e similmente è in questo modo dipinto nella cappella maggiore. Di piú mi dissero li canonici aver per relazione di molti stati in peregrinaggio in Gierusalem, come la pietra della qual era fatta la chiesa era simile in tutto e per tutto a quella del tempio di Gierusalem, cioè negra e di grana minuta e dura. E camminando per la montagna tirato, come ho detto, dallo schiavo, come fu' in cima trovai la minera di tal pietre e il luogo dove erano state cavate, e che mi fece stupire che d'una grana cosí dura ne fussero state cavate tante da costoro, che non hanno né modo né artificio di saperle spezzare e pulire. In quel libro era ancora scritto che esso re non tolse mai danari né tributo da' suoi vasalli, e se gli era portato lo faceva distribuire a' poveri, ed esso viveva della entrata delle terre che egli faceva lavorare; similmente che gli fu rivelato che, volendo tenere in pace il suo reame, tutti li figliuoli suoi fossero serrati eccetto il primogenito, come a basso si dirà.
Io, essendo il giorno della sua festa, volsi venire alla detta chiesa per veder se era vero quello che mi era stato detto, e viddi XX mila persone, che tutte vengono per divozione e pigliano la communione. E questa festa era in domenica, e dissero la messa a buon'ora, e detta la messa cominciarono a dar la communione in tutte tre porte della chiesa, e durò fino all'Ave Maria: il che io viddi perché vi fui da principio, e dapoi andato a desinare ritornai, e trovai che durò fino a quella ora.
Delli edificii grandi delle chiese che sono nelle terre di Abugana, che fece Lulibella re,
e della sepoltura sua nella chiesa di Golgota.
Cap. LIIII.
Lontano una giornata da questa chiesa vi sono edificii di tal sorte che, secondo il mio giudicio, nel mondo non credo si trovino altritanti, li quali sono chiese tutte cavate in petra viva di monte tenero over tofo, molto ben lavorata. E li nomi delle chiese sono questi: Emanuel, San Salvatore, Santa Maria, Santa Croce, San Giorgio, Golgota, Bethleem, Marcorio e li Martiri, e la principal si chiama Lulibella: e questo nome dicono che fu di un re di questa terra, il quale regnò prima di Abram re detto di sopra, per LXXX anni, e fece far questi edificii. La sua sepoltura non è nella chiesa del suo nome, ma in quella di Golgota, la quale è di minore edificio, tutta cavata in un sasso, di lunghezza di centoventi palmi, larga settantadui. Il cielo è posto sopra cinque colonne, due per banda e una in mezzo, come in quadro: il qual cielo è tutto piano e liscio come è il piano da basso; nelle bande è ben lavorato. Le finestre e porte sono addornate di bellissimi intagli, tanto sottili che un orefice in argento non gli arebbe potuti far piú belli. La sepoltura del re è della maniera ch'è quella di san Iacomo di Galizia in Compostella. Questa chiesa ha un altro corpo di sotto cavato nel sasso, tanto grande come è tutto il pian di sopra, tanto alto quanto è una lancia. La sepoltura del re è al diritto dell'altar maggiore della chiesa di sopra, nel piano della qual si vede la entrata per andar da basso, la qual è serrata con una pietra fatta a modo d'una sepoltura, incastrata molto giustamente: ma niuno vi entra, perché mi par che ditta pietra non si possa cavare. La qual è forata nel mezzo con un buco che passa da una banda all'altra, di grossezza di tre palmi, dove i pellegrini mettono la mano, che vi vengono infiniti per divozione, e dicono che quivi si veggono assai miracoli.
Intorno a questa chiesa vi è una strada come un chiostro, ma piú bassa della chiesa cinque scalini, nella qual banda di levante vi son tre finestre che dan luce alla chiesa da basso, di altezza fino al pian della chiesa di sopra, che è piú alto della strada quanto è il descender delli detti cinque scalini: e chi guarda per dette finestre vede la ditta sepoltura, posta al diritto dell'altare, com'è detto. Avanti la cappella grande vi è una sepoltura nel medesimo sasso della chiesa, intagliata, e dicono ch'è fatta a simiglianza di quella di Cristo in Gierusalem, alla quale fanno grand'onore e riverenza. E dalla banda dritta nel medesimo sasso vi sono due imagini intagliate e scolpite del medesimo sasso, cosí ben fatte che pare che siano vive: e sono spiccate fuori del sasso: una è di san Giovanni e l'altra di san Pietro, le quali mi mostrano come cosa rara, e io ne ebbi grandissimo piacere a vederle, alle quali fanno gran riverenza. Ha ancora questa chiesa dalla parte sinistra una cappella da sua posta, la qual pare una chiesa, perché ha le sue navi: ha sei colonne intorno pur del medesimo sasso, bene e sottilmente lavorate, e la sua nave di mezzo è ben inarcata, cioè in volto; le porte e finestre son molto ben lavorate, cioè la porta principale e una traversa, perché l'altra serve per la chiesa grande. Questa cappella è tanto lunga quanto larga, cioè cinquantadua palmi per ogni verso. E dalla parte destra ha appresso un'altra cappelletta molto alta, ma stretta a modo della punta d'un campanile, con finestre assai belle: e detta cappelletta è di altezza di palmi trentasei e larga dodici. Tutti gli altari di dette chiese hanno li lor baldachini con le colonne fatti del medesimo sasso. Vi è intorno un grandissimo circuito, cavato per forza di scalpello del medesimo sasso del monte, il quale è quadro, e tutti li parieti sbucati come saria la grandezza d'una cuba: e tutti questi buchi son stroppati con pietre picciole, e sono sepolture, perché si vede che di fresco sono state stroppate. L'entrata del circuito è sotto il monte tredeci palmi di altura, e tutto fatto per forza di scarpello.
Del modo che è fatta la chiesa di San Salvatore, e di molte altre chiese che sono in questo luogo.
Cap. LV.
La chiesa di San Salvatore è da sua posta intagliata in un sasso di un monte molto grande. Il vacuo e corpo della chiesa è lungo ducento palmi e largo centoventi, e ha cinque navi e ciascuna ha sette colonne, le quali sono quadre, e ogni banda è quattro palmi, e lontane dal muro principale altri sei palmi: e tra l'una e l'altra colonna vi sono certi archi sotto il volto ben lavorati, li quali discendono di grossezza d'un palmo. E li volti della chiesa sono grandi, ma quello di mezzo è molto piú alto e grande, e gli altri si vengono abbassando tutti con il suo compasso: e sotto tutti questi volti vi sono bellissime figure e lavori intagliati, come specchi e felici o rose e altre simil gentilezze di festoni e fregi, e cosí nelle altre di mano in mano. Nelli muri principali sono bellissime finestre lunghe e strette di dentro, e di fuori si allargano, e sono lavorate con bellissimi intagli di festoni, e di sopra li lor volti. La cappella maggiore è grande, col suo baldachino sopra l'altare quanto è alto, con quattro colonne in quadro, e ogni cosa è fabricata del medesimo sasso. Le altre navi hanno le loro cappelle e gli altari e baldachini del medesimo sasso. La porta ha sopra da ogni banda alcuni grandi sporti, e comincia detta porta in archi grandi, e si viene stringendo in modo con altri archi fino ch'ella vien picciola, che non è piú di nove palmi d'altezza e quattro in mezzo di larghezza: e di questa maniera sono le porte traverse, eccetto che non cominciano con sí larghi e spaziosi archi.
Dalla parte di fuori di questa chiesa vi stanno sette colonne in circuito di una luna, e sono lontane dal pariete della chiesa dodici palmi, e da colonna a colonna un arco; e di sopra della chiesa verso questi archi vi è il volto, in tal maniera lavorato che, se fusse di pezzi e di pietra tenera, non potria esser migliore né piú sottile lavoro di quello che è in quelli, né essere piú uguali: li quali archi d'altezza sono due lancie. E guardando questo edificio da ogni banda, pare tutto una cosa istessa e tutto d'un pezzo. Il circuito discoperto della chiesa, cioè il chiostro, è tutto tagliato nella medesima pietra, ed è largo sessanta palmi per ciascun capo, e nella fronte della porta principale è cento palmi. E sopra la chiesa, dove si doveva far la coperta, stanno per banda nove archi grandi come * che vengono calando da cima fino a basso, dove sono le sepolture per le bande, come quelle dell'altra chiesa. La entrata per andare al circuito over chiostro della detta chiesa è di sotto cavata nel sasso ottanta palmi, lavorata artificialmente, di larghezza che vi potriano andare dieci uomini a mano, ed è alta quanto è una lancia, e va montando a poco a poco. Ha questa strada overo entrata quattro buchi di sopra, che danno lume al cammino. E sopra questo monte intorno della chiesa è come un campo, con molte case, dove seminano gli orzi.
La chiesa di Nostra Donna non è cosí grande come quella di San Salvatore, ma è molto ben lavorata: ha tre navi e quella di mezzo è molto alta, con molti lavori d'intagli di rose sottilmente fatti nel medesimo sasso; ha ciascuna nave cinque colonne, e sopra quelle li suoi archi in volta molto ben legati. Vi è di piú una colonna molto alta nella crosara, sopra la quale si appoggia un baldachino. Ha nel capo di ciascuna nave una cappella col suo altare, cosí come quelle di San Salvatore. È questa chiesa di lunghezza di 93 palmi, e di larghezza sessantatre. Ha di piú questa, avanti delle tre porte principali, che sono della grandezza e fattura di quelle di San Salvatore, quattro colonne quadre dalla parte di fuori, lontane palmi quindici, e quattro altre come attaccate al pariete: e da una all'altra li suoi archi molto ben lavorati, e sopra quelli li suoi baldachini fatti molto alti, che sono come portichi o vero sporti sopra le porte. Sono questi baldachini tutti di un compasso, tanto lunghi come larghi, cioè di quindici palmi. Ha un molto largo e gentil circuito, cosí di dietro come davanti e dalle bande, e la montagna all'intorno è dell'altezza della chiesa. Ha ancora nella fronte delle porte principali, intagliata nel medesimo sasso, una gran casa con cinque stanzie e un portico con due colonne, dove danno mangiare alli poveri: e dalla medesima casa si può andar fuori per due scale, una da una parte, l'altra dall'altra, ad una strada fatta di sotto del sasso per un grande spazio. E per ciascuna parte di questa chiesa, per mezzo le porte traverse, vi sono fatte due chiese, cioè ciascuna dalla sua banda. E questa chiesa di Nostra Donna è il capo di tutte le altre chiese, e ha infiniti canonici.
La chiesa ch'è dalla parte destra si chiama delli Martiri, è lunga palmi sessantaquattro e larga trentotto: ha tre navi, e in ciascuna tre colonne molto ben lavorate; il corpo della chiesa è piano, e non ha piú d'una cappella e uno altare. La porta principale è molto ben lavorata. Nella faccia davanti non vi è corte, ma un corridore di sotto del sasso, che è come una strada. Questo corridore comincia molto da lontano, e nel suo principio si monta a quello per quindici scalini, fatti nel medesimo sasso: e questa strada è molto oscura. Dalla parte che è verso la chiesa di Nostra Donna vi è una porta traversa, e due molto belle e ornate finestre, e di dietro e dall'altra parte tutto è sasso vivo e terribile, senza esservi lavoro alcuno.
La chiesa che è verso la parte sinistra nel circuito di quella di Nostra Donna si chiama Santa Croce: è similmente lunga sessantaquattro palmi e larga trentaotto. Non ha nave alcuna, ma vi sono tre colonne nel mezzo che pare che sostenghino il colmo, molto ben fatto, e tutto è dentro fatto di opera piana. Verso la parte della chiesa di Nostra Donna ha una porta traversa e due belle finestre, e ha un solo altare, come hanno le altre, e la porta principale ben lavorata. Non ha corte o campo davanti, ma solamente un corridore come saria una strada, per andar fuori di sotto del sasso, molto lunga e molto scura.
La chiesa detta Emanuel è similmente molto ben lavorata, cosí di dentro come di fuori: è piccola, e di lunghezza di quarantaquattro palmi nel vacuo, e di larghezza quaranta. Ha tre navi: quella di mezzo è molto alta, e il suo volto è fatto in punta, ed è larga palmi 20; le navi delle bande non sono in volto, ma piano di sotto, cioè il cielo cosí come è il piano della chiesa, e ciascuna di queste navi sta sopra cinque colonne quadre, la larghezza e grossezza delle quali è di quattro palmi da quadro a quadro, e palmi sei lontani dal pariete della chiesa. Ha le porte traverse e la principale molto ben lavorate e tutte di una grandezza, cioè di nove palmi alte e quattro e mezzo larghe; è circondata tutta da un corridore largo palmi dieci, con tre scalini che vanno d'intorno, e vi è per mezzo le porte l'entrata piú larga con cinque scalini, di sorte che la detta entrata monta due scalini di piú di quelli che circondano la chiesa: e il tutto è fatto nel medesimo sasso integro e senza giunta alcuna. Ha di piú questa chiesa che non ha alcun'altra, cioè una sacrestia di sopra, nella qual si monta per una scala fatta a lumaca: e non è molto alta, perché un uomo molto grande e un palmo di piú darà sotto con la testa; è piana come il solaro dove si cammina. Si servono di questa per tener casse di paramenti e ornamenti di chiesa, le quali deono essere state fatte nel medesimo luogo, perché non averiano potuto entrare per alcuna parte in quello. Hanno di piú li muri di fuori di questa chiesa che non hanno le altre, cioè che si vede un ordine e un corso nel muro uscir fuori due dita, e l'altro entrar dentro: e cosí è intagliato tutto il detto muro, cominciando a basso dalli scalini fino alla sommità della chiesa. E il corso del sasso che pare che esca fuori è di larghezza di due palmi, e quello che entra dentro è di un palmo, e di questa maniera e larghezza corre tutto il pariete o muro: e facendo conto a palmi, questo pariete è di altezza di cinquantaduo palmi. Questa chiesa ha tutto il suo circuito come muro tagliato di dentro e di fuori nel medesimo sasso, e si entra in questo muro per tre belle porte, come sariano porte piccole di una città o villa murata.
La chiesa di San Giorgio è posta un gran pezzo a basso dalle altre. La entrata per donde vi si entra è fatta di sotto il sasso crudo, di otto scalini che si montano, i quali montati si entra in una casa molto buona e grande che ha, con un poggio che la circonda tutta d'intorno dalla parte di dentro verso il chiostro, perché di fuori è tutto sasso vivo: e in questa casa si dà elemosina alli poveri, li quali seggono sopra questo poggio. E uscendo della casa l'uomo entra nel circuito della chiesa, che è fatto in croce, e tanto è dalla porta principale all'altar grande quanto è da una porta traversa all'altra, tutta d'una misura, e molto ben lavorata nelle porte di fuori, perché dentro non vi potei entrare, avendole trovate serrate. Nella parte destra del circuito della chiesa è cavato nel sasso vivo a modo di una cassa per l'altezza di un uomo, la quale è sempre piena d'acqua, che dicono nascere ivi, e non soprabonda: e ognuno vi ascende con una scala fatta nel sasso a pigliarne per divozione, perché trovano ch'ella guarisce di tutte le sorti di febre. Tutto questo circuito è pieno di sepolture, come sono nelle altre chiese, e di sopra questa chiesa cosí grande vi è intagliata una croce doppia, cioè una dentro dell'altra, come è fatta quella dell'ordine di Cristo. Dalla parte di fuori è piú alto il sasso che è la chiesa, e sopra quello si veggono infiniti cipressi e ulivi selvatichi. E da fastidio voglio metter fine a parlar piú di queste tali parole, dubitando di non esser creduto se piú ne scrivessi: nelle quali se alcuno dubitasse che vi fussero molte cose finte, gli giuro Iddio, in poter del quale io sono, che tutto quello che ho scritto è verissimo, senza esservi aggiunta cosa alcuna, percioché, avendo udito parlare delle maraviglie di queste tal chiese, volsi andar due volte a vederle e descriverle, tanto era il desiderio mio di far nota al mondo la eccellenza di quelle.
Questo luogo è posto nella costa di un monte, e per andare fino alla sommità del quale vi è una ascesa grandissima, che in una giornata e mezza non penso che si faria, tanto è alto: e nondimeno ancora sopra di quello pare che vi sia un altro monte, e che questo sia separato da quello. Al descendere poi da questo luogo fino al piano vi può esser da XV miglia, e si trovano grandissime campagne, che al vedere durano una buona giornata e piú, e tutte vanno verso il Nilo. Nelle quali si ritrovano altritanti edificii come quelli del luogo di Chassum, di pietre quadrate altissimi, perché quivi dicono che solevano esser stanzie delli re, e che l'opera di queste tal chiese tagliate nel monte fu fatta per gibetes, cioè uomini bianchi, perché essi conoscono bene che non sapriano fare cosa alcuna che fusse cosí fatta; e che il primo re che gli fece fare si chiamava Balibela, che vuol dire miracolo, conciosiacosaché quando nacque fu coperto di api, le quali lo fecero netto senza fargli male alcuno: e costui fu figliuolo di una sorella di re, il qual re morí senza erede e però fu fatto re il nepote, e dicono che fu santo, ed è tanta la divozione che vi concorre tutta l'Etiopia, e vi si veggono infiniti miracoli.
Questa signoria di Abugana, ove sono questi edificii, avanti la nostra partita il Prete Ianni la diede al frate, che venne poi con noi ambasciadore in Portogallo: e però dico che fui due volte a veder queste chiese ed edificii, e la seconda volta che vi venni fu quando detto ambasciadore venne a pigliare il possesso di quella. Dove stando, vi vennero duoi calacenes, che vuol dire messi o ver "parola del re", e dissero al detto ambasciadore o vero capitano che il Prete Ianni gli mandava a dire che esso gli mandasse alcuni tributi che l'antecessore suo gli doveva dare, che era CL buoi d'arare, XXX cani, XXX zagaglie e XXX targhe. Gli rispose che egli vederia che robbe vi fussero del suo precessore, e che pagaria il tutto volentieri non trovandosi di quelle.
Tornando ora al nostro viaggio, partimmo dalla chiesa e fiera d'Ancona e, andati da 9 miglia, arrivammo a certe ville con la nostra robba, nelle quali non volsero alloggiarne, dicendo che erano luoghi della madre del Prete Ianni, che non obedivano ad alcuno se non a lei; e volsero bastonare il frate che ci guidava: batterono bene un suo servitore. E quivi lasciata la robba, andammo ad alloggiare a un luogo detto Ingabela, che è grande e di buone case, e posto sopra una collina, in mezzo di una campagna tutta circondata di monti, alle radici delle quali vi sono tanti luoghi abitati che in altro luogo non ne ho veduto piú. Vi sono ancora infinite fontane e fiumicelli, che corrono da una parte e dall'altra e adacquano gran parte del paese, il quale si dimanda Olaby: e quivi essendo, viddi che si edificava una bellissima chiesa. Trovammo grandissima abondanza di galline, delle quali ne averemmo potuto avere a cambio di pochi grani di pevere infinite, tanto poco stimano le galline e tanto conto facevano del pevere; vi erano limoni, cedri e aranci infiniti. Stemmo quivi il sabbato e la domenica, nella quale ne assaltarono le tigri, e non potemmo tanto difenderci che ne mangiorno un asino. Il lunedí, che fu alli XI di settembre, ritornammo dove avevamo lasciata la robba, e quelli che non ci avevano voluti alloggiare ci fecero buona ciera e carezze, e ne diedero da cena. Il giorno seguente poi andammo al nostro viaggio da nove miglia, e quivi dormimmo la sera senza la nostra robba, e la mattina tornammo adietro e facemmo nove miglia di viaggio diritto, strada e montuosa e piena di valli e di montagne, le quali attraversano e paiono essere attaccate insieme. Questo reame d'Angote è quasi d'una maniera pieno di monti e valli, e le semenze che si seminano in questo luogo sono formento, ma poco, orzo poco, miglio in gran copia e taffo di aguza in grandissima quantità, piselli, ceci, fava assai, e molti fichi, agli e cipolle. Corre in questo paese ferro per moneta.
Come si partí l'ambasciadore dal frate, e come noi altri che restammo fummo lapidati, e poi fummo invitati da Angoteraz; e delle dimande che egli ne fece e del desinare che ne diede.
Cap. LVI.
Il giovedí, alli XIIII di settembre, andammo con la nostra robba a un fiume secco, vicino tre miglia, dove stava il signore di questo reame d'Angote, il quale si chiama Angoteraz. E l'ambasciadore, perché quivi era il paese sterile e secco, e per non parlar col detto signore, che non ne aveva bisogno, passò inanti alla robba cinque miglia, e gli altri restarono col frate e con la robba, il quale ci disse che andassimo con esso a una villa fuori di strada tre miglia: e la robba restò nella strada con la gente che la conduceva. Camminando noi verso quella villa e altre convicine, inanzi che arrivassimo vedemmo molta gente che si univa, e ci pensammo che si unisse per portarci la robba: ma veniva per farci poco piacere, perché unita ci tolse in mezzo montando sopra tre monticelli, e noi stavamo nel basso, e sopra ogni sommità di detti monti si adunorno da dugento persone, la maggior parte con fronde da trar sassi; gli altri ne tiravano con le mani, in modo che erano tanti li sassi che pareva che piovesseno, e dubitammo della nostra vita. E noi altri che eravamo in compagnia del frate potevamo esser da quaranta persone, cioè capitani che l'accompagnavano con alcuni uomini suoi e altri nostri schiavi, e tutti, eccetto che io e un giovane che era con noi, il qual era ammalato di varuole, furno molto ben lapidati e feriti, che Iddio per sua grazia lui e me cosí volse preservarne. 5 o sei uomini del frate furno feriti nel capo, e il nostro medico e un capitano di Angoteraz con quelli; e non contenti averci feriti, ne fecero alcuni prigioni, e noi altri che fuggimmo la sera ci riducemmo a dormire con la robba senza aver da cena: e quivi tutti si dolevano, chi in un membro e chi in un altro, eccetto che noi due.
Il venerdí mattina, alli quindici di settembre, io andai a cercar l'ambasciadore, che era avanti quattro miglia e mezzo; e trovandone, non tardò di mettersi immediate in ordine, poi ch'io gli ebbi contato quello che ci era intravenuto, dicendo che voleva mettere la vita per li Portoghesi. E arrivati che fummo dove era la nostra robba, trovammo quivi il signore Angoteraz, il quale ci era venuto a vedere, e aveva seco assai genti, e vi era anco il frate: e l'ambasciadore, giunto ch'egli fu, chiamò lo interprete e gli disse che andasse a dire ad Angoteraz e al frate che egli non era venuto per conto loro, ma che era venuto a cercare li Portoghesi, li quali erano stati mal trattati nelli suoi paesi. E stando cosí, e ragionando della battaglia, ecco che venne il medico che era stato ferito e rimasto prigione, col capo molto insanguinato, dicendo che era fuggito. E poi che il lungo ragionare dell'ambasciadore con l'Angoteraz di questa cosa fu compito, Angoteraz lo pregò che andasse a stare con esso il sabbato e la domenica. E consigliatosi l'ambasciadore con noi, fu risoluto che vi si andasse, e cosí tutti andammo a casa sua, la quale era lontana quattro miglia e mezzo, dove stemmo il sabbato e la domenica molto bene alloggiati. Il sabbato ci fece chiamare a casa sua, dove entrati non trovammo impedimento alcuno di guardia, ma entrammo liberamente e lo trovammo con la moglie e alcuni suoi famigliari, e ne fece buona ciera cosí nell'aspetto come nel parlare. Appresso di lui erano poste quattro zare di vino fatto di miele molto buono, e appresso ogni zara vi era una coppa di vetro cristallino: e cosí cominciammo a bevere, e la sua moglie con due altre donne che erano in compagnia ci invitorno tanto bene a bevere, che non ci volsero mai lasciar partir fin a tanto che non furno votate le zare, che ogni una di quelle poteva tenere da sette in otto boccali, e volevano farne portare dell'altro di nuovo, dicendo che non ne lasciarebbe partire se non bevevamo ancora; e noi c'iscusammo con buone parole, che ci lasciasse partire per fare li fatti nostri, e cosí ci partimmo.
La domenica seguente fummo alla chiesa, dove trovammo Angoteraz, il quale ne venne incontro con gran cortesia e quivi cominciò a parlare sopra le cose della nostra fede, e fece appressarsi duoi frati, oltra l'interprete e il frate che ne conduceva. E la prima dimanda fu ove nacque Cristo, e che cammino fece quando egli andò in Egitto, e quanti anni vi stette, e quanti anni aveva quando la nostra Donna il perse e trovò nel tempio, e dove egli fece dell'acqua vino. Il Signore Iddio mi volse aiutare, che gli risposi la verità meglio che io sapeva. L'interprete mi disse che il frate che ne conduceva fece intendere agli altri duoi frati che io era uomo che sapeva molto, per le quali parole si buttorno in terra e per forza mi volsero baciar li piedi, e Angoteraz mi abbracciò e baciò in viso: il quale, sí come io dipoi intesi, è uno delli buoni e dotti preti che siano nell'Etiopia, e al nostro ritorno noi lo vedemmo con titolo di Barnagasso. Dipoi volse che udissimo messa con loro, la quale finita ci convitò a desinare: ma l'ambasciadore, avendo pur inteso quello che ne avevano da dare, volse mandare a pigliare il nostro desinare, il qual era d'alcune galline grasse arrostite e di carne di bue grassa con verze. La casa ove mangiavamo era grande e terrena, che è come abbiamo detto un betenegus. Avanti il letto ove detto Angoteraz stava, erano distese in terra molte stuore, ed egli smontò del letto e si pose a sedere sopra quelle, dove furono distese molte pelli di castroni negri, con due piadene di legno bianchissimo grandi con l'orlo basso, come usammo noi a mondare il formento, che essi chiamano ganetas; ed erano molto belle, grandi e larghe, con l'orlo di due dita: la maggiore poteva esser di circonferenzia di XVII palmi e l'altra di XIIII. E queste sono le tavole di gran signori, e quivi sedemmo all'intorno con detto Angoteraz. Ne fu portata l'acqua e ci lavammo le mani, ma non ci diedero tovaglia per asciugarne, né meno per ponervi sopra il pane, ma delle medesime piadene furono portati pani fatti di diverse maniere, cioè de formento, d'orzo, di miglio, di ceci e di taffo. Avanti che cominciassimo a mangiare, Angoteraz ordinò che gli fusse portato un pezzo grande del piú grosso pane, e sopra quello postovi di sua mano un pezzo di carne cruda di vacca, la mandò alli poveri che stavano fuori della porta aspettando elemosina.
Noi veramente facemmo la benedizione a nostro modo, della quale mostrò il detto di pigliarne piacer grande. Vennero poi le imbandigioni, delle quali non ardisco quasi a parlarne, ma sono cose ordinarie del paese: e queste furono tre salse overo brodi, nelli quali entravano cose di carne cruda col sangue vivo, che in questa terra è stimato per delicatissimo mangiare, e non lo mangia se non persone grandi. Queste salse erano portate in alcuni scodellini piccioli di terra negra molto ben fatti, e le gittavano poi sopra alcuni pezzi di pane rotti, aggiungendovi sempre del butiro. Noi non volemmo gustare per modo alcuno di questi loro mangiari, ma mangiammo di quello che abbiamo detto che l'ambasciadore ci aveva fatto venire: e cosí come noi non potemmo mangiare delle loro vivande, cosí ancora loro non volsero mangiare delle nostre. Il vino veramente andava in volta con gran furia: e la moglie d'Angoteraz mangiava appresso di noi sopra una simil tavola come la nostra, e gli mandammo delle nostre vivande, e non potemmo vedere se ella ne assaggiò per esservi una cortina in mezzo, ma al bevere ella ne aiutava mirabilmente. Dopo tutte l'altre vivande fu portato un petto di vacca cruda, il quale noi non toccammo, ma Angoteraz lo mangiò come si mangia il marzapane e il confetto dopo pasto. E dato fine a questo desinare, e ringraziato che avemmo Angoteraz, ci tornammo al nostro alloggiamento.
Come l'ambasciadore, espeditosi da Angoteraz, andò avanti, e il frate e noi altri andammo dove fummo lapidati, e di lí fummo in un paese molto fertile e dilettevole.
Cap. LVII.
Il lunedí mattina andammo a pigliar licenza da Angoteraz, e il frate che ne conduceva volse che dimorassimo, aspettando una mula per darla al medico nostro ch'era ferito, e appresso un asino con certe robbe che ne furono tolte nella questione fatta. L'ambasciadore non volse starci ad aspettare, ma se ne andò avanti con la sua solita compagnia, e noi restammo col frate. E come fu al tramontar del sole venne la mula e l'asino, e partimmo pensando di potere andar tanto avanti che raggiugnessimo l'ambasciadore; ma la notte si approssimava, e il frate ne condusse per un bosco foltissimo, che non sapevamo dove andassimo: e capitammo al luogo dove fummo lapidati, e quivi volse venire per far giustizia. Eravamo VIII uomini sopra mule e XV a piedi, e andammo ad alloggiare in casa d'uno di quelli principali che fecero l'insulto, e trovammo che tutti erano fuggiti sopra una montagna vicina, ma che vi era molto ben da mangiare per noi e per le mule. Stando quivi, immediate fummo lasciati soli da quelli che venivano con noi, e lamentandoci di questo, ne dicevano che bisognava far giustizia e che la mattina partiremmo: la qual venuta, ne mandorno a dire che partiremmo dopo desinare; ma vedendo che ancora non venivano, quando fu il giorno seguente ci partimmo noi soli, e andammo tanto che trovammo quelli che conducevano le nostre robbe, che andavano pianamente aspettandoci. In quella notte tornò il frate e menò seco due mule, un bue e otto pezze di tela, che gli avevano dato per il sangue che avevano fatto: e la giustizia di questo paese è di pigliare la robba de' malfattori, come sono vacche e mule. Chiamansi questi luoghi Angua e Mastano, e sono del patriarca abuna Marco.
Quivi cominciammo a entrare in una graziosa e dilettevole terra, posta fra montagne molto alte, ma infinitamente abitata alli piedi di quelle, con gran ville e chiese molto nobili; e tutta era lavorata e seminata di ogni sorte di biade. Quivi si vedevano infiniti fichi di quelli d'India, limoni, naranzi, cedri senza numero, e pascoli con una moltitudine di animali incredibile. E perché un'altra volta io feci questo cammino col sopradetto frate, il quale allora si chiamava ambasciadore, e dimorammo un sabbato e una domenica in casa di un onorato canonico, e fummo alla chiesa ogni giorno con lui, dove vedemmo gran numero di canonici, gli dimandammo quanti canonici vi potevano essere: ne disse da 800; quanta entrata potevano avere: ne disse che poca fra tanti. E noi gli replicammo: "Per che causa vi sono tanti, essendovi cosí poca entrata?" Ne disse che al principio che furono fatte quelle chiese non erano molti, ma che dapoi sono cresciuti, perché tutti li figliuoli de' canonici, quanti da quelli discendono, tutti restano canonici, e questo costume si osservava nelle chiese delli re; e che il Prete Ianni, ogni fiata che egli fa una chiesa nuova, ne manda a levare di quivi, e cosí gli diminuiva, come fece quando egli fabricò la chiesa detta Machan Celacem, che ne levò dugento; e che in quella vi erano otto chiese, nelle quali potevano essere da quattromila canonici, e che, se il Prete Ianni non gli levasse per queste chiese nuove e per quelle della corte, si mangiarebbeno l'uno con l'altro.
Della montagna grandissima sopra la quale tengono posti li figliuoli del Prete Ianni, e dove trovandoci vicini fummo quasi morti da' sassi.
Cap. LVIII.
La valle detta di sopra si prolunga fino ad una altissima montagna, sopra la quale di continuo metteno tutti li figliuoli del Prete Ianni, come in una custodia. E hanno nelli libri loro scritti come, ritrovandosi uno re dell'Etiopia detto Abram, gli fu una notte in sogno rivelato che, volendo tenere il suo reame pacifico e ubidiente, dovesse serrare tutti li suoi figliuoli (che molti ne aveva) sopra una montagna, e non lasciar fuori se non quello che voleva che succedesse dopo lui, e che questo ordine, come cosa venuta da Iddio, si dovesse osservar sempre: altramente, essendo la Etiopia grande, se ne solleveria una parte e non ubidiria all'erede, o vero lo ammazzaria. Di questa rivelazione stando sospeso detto re ove tal montagna si potesse trovare, gli fu di nuovo rivelato che egli mandasse a scorrere tutto il suo paese: dove si vedessero capre poste sopra brichi e punte di sassi tanto alti che paressero dover cader giú, in quella dovesse fargli serrare. La qual cosa avendo fatto esequire, fu trovata questa montagna tanto grande che dicono che un uomo ha da fare molti giorni a circondarla nel piede. E veramente chi considera questo modo di aver tenuto in pace un cosí gran reame senza insanguinarsi le mani per tanti secoli, e che li figliuoli e fratelli non si abbiano sollevato l'uno contra l'altro, e nondimeno non sia mancata mai la linea di quella generazione, conoscerà essere stata in effetto cosa divina e non umana, la qual felicità mai in alcun regno di cristiani si è potuta avere.
Questa montagna è tagliata tutta d'intorno, cioè dalla cima fino al basso, che pare che sia un muro diritto, e a chi guarda in suso pare che il cielo vi sia posato sopra. Ha tre sole entrate o vero porte per le quali vi si può ascendere, e non altre: e di queste io viddi una, in questo modo. Noi venivamo dal mare una fiata per andare alla corte, e ne guidava uno di quelli servidori del Prete che chiamano calacem, il quale non era troppo pratico del paese; e volendo alloggiare in un villaggio, gli abitanti non ne volsero accettare, perché dicevano ch'era d'una sorella del Prete Ianni, e fu forza che andassimo inanti. La notte era cominciata di un gran pezzo, e costui camminava molto forte, e ne sollecitava dicendo che ne menaria in un buono alloggiamento. Io feci che Lopo di Gama, che aveva una buona mula, cavalcasse in vista del detto calacem, e io di lui, e l'ambasciadore e gli altri mi tenevano gli occhi dietro. Ed essendo andati ben tre miglia fuori di strada, verso la montagna di questi figliuoli del Prete, come fummo sentiti per il calpestare de' nostri cavalli, in un momento venne tanta gente di tutte quelle ville che coi sassi n'ebbero quasi ad amazzare, e fu forza che ci partissimo l'uno dall'altro. L'ambasciadore restò adietro, e io andai avanti per non poter fare altramente, verso un luogo dove piovevano sassi da ogni canto: ed era la notte oscurissima, e acciò che non mi sentissero, smontai e diedi la mula a un mio schiavo. La mia ventura volse che un guardiano, uomo da bene, di questa montagna cavalcava vicino a me, il quale mi dimandò chi era: gli dissi un gaxia genus, cioè un forestiero del re. Costui, subito fattomi appressare a lui, mi teneva un braccio sopra il capo, dicendomi: "Ate fra, ate fra", cioè "non aver paura", e mi condusse in un orto vicino alla sua casa, dove erano molte legne lunghe appoggiate ad alcuni alberi, sotto li quali mi fece andare perché erano come una capanna, dove parendomi di star sicuro, feci accendere una candela: e immediate cominciarono a piover li sassi, per il che la feci subito spegnere. Questo uomo da bene mi fece poi andare nella sua casa e mi diede molto bene da cena, cioè galline arroste e pane e vino. E la mattina, presomi per mano, mi menò a vedere la strada per la quale si monta, tutta piena di spini terribili e sassi tagliati da ogni canto: e vi era fatta una porta molto alta, la quale tengono serrata, e di dentro vi stanno infinite guardie; e mi disse, se alcuno avesse ardire di entrarvi, subito gli sarieno tagliate le mani e li piedi e cavati gli occhi, e che noi non avevamo colpa di essere venuti cosí appresso a questa porta, ma che doveriano esser puniti quelli che ne avevano guidati. Lopo di Gama, il calacem e io subito ci partimmo, e discendemmo ben tre miglia di sotto sopra una strada e andammo al nostro viaggio, ed era vespero avanti che ritrovassimo l'ambasciadore.
Della grandezza di questa montagna e delle guardie che si fanno in quella;
e in che modo ereditino questi regni di Etiopia.
Cap. LIX.
Il modo che fanno a mettere li figliuoli delli Preti in questa montagna è questo, che, essendo soliti tutti li Preti Ianni precessori a questo David di avere cinque o sei mogli, e di quelle assai figliuoli, come morivano il primogenito ereditava; altri dicono che ereditava quello che pareva che fusse piú atto e di piú sapere, e altri quello che aveva piú seguito e piú potere. Io di questo dirò quello che ho udito dire da molti uomini pratichi e intelligenti della corte. Il re Alessandro, zio del presente re David, morí senza figliuoli, e ancora che avesse figliuole femine, nondimeno li grandi della corte andarono a questa montagna e cavorno di quella Nahu, suo fratello, che fu padre di questo David. Questo Nahu condusse seco della montagna un figliuolo legittimo, che era molto gentile e valente cavaliero, ma era alquanto ostinato e superbo. Dapoi che fu nel regno ebbe altre mogli e figliuoli e figlie, e venuto a morte volsero far re il figliuolo piú vecchio, venuto della montagna insieme col padre, ma fu detto che, per essere cosí superbo e ostinato, tratteria male tutto il popolo; altri furono di openione che egli non potesse ereditare, essendo nato in cattività, dove non teneva ragione di successione: e cosí fecero re questo David, che era il primogenito nato dapoi che suo padre fu fatto re, ed era di anni undici. L'abuna Marco mi disse che lui e la regina Elena lo fecero re, perché tenevano nelle mani lor tutti li grandi della corte e tutto il tesoro: e cosí pare ancora a me che, appresso all'esser primogenito, vi possino assai le aderenzie e amicizie e il tesoro. Gli altri figliuoli di Nahu, fratelli del detto David, che erano piccoli, furono con quello piú vecchio venuto dalla montagna ritornati a stare sopra quella: e cosí è stato fatto di tutti li figliuoli delli Preti dal tempo di quello re Abram fino al presente.
Dicono che sopra questa montagna vi è gran freddo, ed è ritonda, e ch'ella non si cercarà tutta in manco di quindici giorni: e cosí ancora a mio giudicio pare che debbia essere. In questa parte dove era il nostro cammino vi andammo quasi duoi giorni, che poi la lasciammo, la qual arriva fino al regno di Amara e di Bogamidri, che è sopra il Nilo, il qual regno è molto lontano di quivi. Sopra questa montagna vi sono altre montagne che fanno valli, e vi sono fiumi e fonti infiniti, e campi che gli abitanti coltivano. Vi è anche una valle fra due montagne molto forte, che per modo alcuno non si può uscire di quella, per esser tenuta serrata l'entrata con porte fortissime; e in questa valle, che è molto grande e che ha infinite ville e abitazioni, vi metteno quelli che sono piú prossimi al re, cioè del suo sangue: e poco tempo è che hanno trovato questo modo di metterli in detta valle, parendo lor che stiano sotto miglior custodia. Ma quelli che sono figliuoli de' figliuoli e nepoti, e che già sono come dimenticati, non sono tenuti con tanta guardia: nondimeno con tutto questo generalmente si custodisce intorno questa montagna con grandissime guardie e gran capitani, e la quarta parte delle genti che vengono alla corte sono delli capitani e guardie di questa montagna, i quali alloggiano separati dagli altri, né essi si approssimano ad alcuno né altri a loro, percioché non vogliono che alcuno sappia li secreti della detta montagna. E quando arrivano alla porta del Prete, immediate gli manda la sua parola, e ciascuna persona si tira adietro, e tutti gli altri negozii cessano, quando si parla in questo.
Di uno castigo che fu dato a un frate e ad alcune guardie, per una ambasciata che portorno al Prete di questi serrati in la montagna; e come fuggí un fratello del Prete Ianni.
Cap. LX.
Circa il negozio di questi figliuoli del Prete, io ne ho veduto questo, che fu condotto alla presenza del Prete un frate di età di anni trenta, e con lui ben dugento uomini, il qual fu detto che aveva portata una lettera al Prete Ianni da quelli della montagna, e questi dugento uomini erano le guardie di quella. Battevano questo frate di due giorni in due giorni, e similmente battevano questi uomini partiti in due parti, e il giorno che battevano il frate battevano la metà di costoro, e sempre cominciavano dal frate, e di continuo vi erano presenti tutti gli altri; e ogni volta dimandavano al frate chi gli aveva data quella lettera e per che cosa, e se mai piú egli aveva portato lettere, e di che monastero egli era, e dove si aveva fatto frate. Il tristo diceva che erano sedici anni che egli era disceso dalla montagna, e che allora gli fu data quella lettera, e che mai piú vi era tornato né aveva avuto ardire di darla se non al presente, che il demonio l'aveva instigato. E questo poteva essere la verità, perché in questo paese non si costuma di mettere sopra le lettere né anno né mese né giorno. Agli uomini veramente dimandavano come avevano lasciato uscire detto frate. La maniera del battere era a questo modo: gittano l'uomo con il ventre in terra e legano le mani a due pali e una corda intorno a tutti due li piedi, e duoi uomini tengono questa corda stretta e tirata, e vi stanno duoi ministri di giustizia, uno da un capo e l'altro dall'altro, e non danno sempre in quel luogo, ma la maggior parte nel piano, perché se ogni fiata li battessero morirebbono, tanto è forte il battere di costoro. Ne viddi levar via uno, e avanti che lo coprissero con un panno, egli si morí: il che inteso per il Prete, perché questa giustizia si fa davanti le sue tende, ordinò che il morto fusse tornato al luogo dove si batteva, e che quelli che erano battuti tenessero la testa sopra li piedi del morto. Durò questa giustizia due settimane, che mai cessò questo ordine di battere il frate e la metà delle guardie di duoi giorni in duoi giorni, salvo il sabato e la domenica, che non si fa giustizia. Fu levata una fama per la corte che questo frate aveva portato lettere alli franchi e Portoghesi da questi parenti del Prete, acciò che fossero aiutati a fuggire di quella montagna: e noi eravamo innocenti, e il medesimo tengo certo che fusse il frate.
Nel tempo che noi stemmo in questo paese, un fratello del Prete, giovane di sedici anni, fuggí della montagna e venne alla distesa in casa di sua madre, che era la regina Elena, la qual fu moglie del padre di questo re; e per esservi pena la vita a chi raccoglie alcuno della montagna, la madre non volse accettar il figliuolo, ma preso lo fece condur al Prete Ianni, il qual gli dimandò perché si era fuggito: gli rispose perché egli moriva di fame, e che non veniva per altro se non per dargli questa notizia, conciosiacosaché alcuno non voleva fargli questa ambasciata. Fu detto che il Prete lo fece vestire riccamente, e gli dette molto oro e panni di seta, e fu tornato sopra la montagna; fu detto ancora per tutta la corte che costui se ne era fuggito per andarsene con li Portoghesi. Questo proprio che fuggí e che fu tornato poi su la montagna, ritrovandoci noi con l'ambasciadore del Prete che venne in Portogallo nel paese di Lulibella, dove sono le chiese cavate nelle pietre, passò per ivi con uno calazen e con molta gente, il qual lo conduceva preso sopra una mula: e veniva coperto di panni negri, che non gli pareva cosa alcuna, e alla mula non si vedeva altro che gli occhi e le orecchie. Fu detto che egli era fuggito la seconda volta in abito di frate insieme con un altro, e che questo frate suo compagno lo discoperse il giorno che dovevano uscire del paese del Prete Ianni: e cosí lo menavano preso lui e il frate, né gli lasciavano parlare a persona alcuna, e duoi uomini sempre gli andavano vicini alla mula. Ognuno diceva che lo fariano morire, overo che gli caveriano gli occhi: non so ciò che intravenisse di lui. Di un altro udimmo dire che volse fuggire della montagna e si nascose sotto molti rami e frasche di arbori: e alcuni lavoratori che andavano ivi d'intorno, vedendo movere li detti rami, furno a vedere e lo presero, e le guardie, subito che l'ebbero nelle mani, gli cavorno gli occhi: e ancora vive, ed è zio di questo Prete Ianni. Si narra in questa montagna esservi gran moltitudine di questa gente, qual chiamano israeliti, overo figliuoli di David, perché tutti sono di una generazione e sangue come è il Prete. In detta montagna vi sono fabricate molte chiese e monasteri, e vi sono infiniti preti e frati e molti abitatori, li quali mai non discendono di là.
Come non sono estimati li parenti del Prete, e del modo differente che tiene
questo presente Prete delli suoi figliuoli e fratelli.
Cap LXI.
Il Prete Ianni non ha alcun parente, perché quelli che sono da parte di madre non son tenuti né nominati per parenti, e da parte di padre sono serrati sopra la detta montagna e avuti come morti, ancora che in quella si maritino e facciano generazione infinita; maschio però alcuno non può uscire se non, come ho detto disopra, se 'l Prete non more senza erede: allora cavano il piú prossimo e idoneo al regno. Alcune femine escono fuori a maritarsi, ma non sono avute per parenti né figliuole né sorelle del Prete, ma sono onorate tanto quanto gli vive il padre o fratello, e subito che egli more restano come ciascun'altra signora. Tutti noi vedemmo nella corte una signora che fu figliuola di un Prete, la quale, ancora che quando andava fuori di casa camminasse sotto un spariviero, nondimeno era molto male accompagnata; conoscemmo anche un suo figliuolo, che era molto male in ordine come ciascun uomo a piedi, di sorte che in tempo breve si estingue la fama del suo parentado.
Questo re David presente al nostro partire aveva duoi figliuoli e tre figliuole, alli quali faceva grandi gultus, cioè entrate, che voleva lor consegnare: e mi fu mostrato dove uno dei detti teneva queste entrate; ma la fama generale era che, come il padre serrasse gli occhi, e che facessero uno di loro re, l'altro saria mandato alla montagna, dove non portaria seco se non la sua persona. E mi fu affermato che la terza parte delle spese che fa il Prete è di far guardare questi israeliti, alli quali fa meglior compagnia che non hanno fatto li suoi antecessori; e oltra le grandi entrate che gli sono applicate, gli manda molto oro, panni di seta e panni fini, e molto sale, che corre per moneta in questi regni. E quando noi arrivammo e che gli demmo il pevere, sapemmo per certo che mandò lor la metà di quello, faccendo lor intendere che si rallegrassero, che il re di Portogallo suo padre lo aveva mandato a visitare e mandatogli quel pevere. Sapemmo anche per certo e di veduta in molte parti che il Prete Ianni ha gran terre e possessioni, lavorate per li suoi schiavi e con li suoi buoi: e sono vestiti dal re, e sono come esenti dalle altre genti, e si maritano uno con l'altro e sempre sono schiavi. Di queste possessioni che sono appresso la montagna tutte le entrate vengono portate di sopra; le entrate delle altre vanno a monasteri, chiese e a poveri, e principalmente a gentiluomini poveri e vecchi, che per il passato hanno avuto signoria e al presente non la tengono. E anche a noi Portoghesi per due volte ne mandò di questi formenti, cioè in Chaxumo una volta 500 cariche, e altre cinquecento in Aquate; né di queste possessioni ritiene alcuna cosa per lui, ma il tutto si dispensa al modo detto.
Del fine del regno d'Angote e del principio del regno di Amara, e di una laguna grande,
e delli pesci che si ritrovano in quella.
Cap. LXII.
Tornando al nostro cammino e viaggio, dico che noi andammo al lungo del piede di questa montagna sopra un fiume, e il paese è molto grazioso e bello, seminato di molti migli e altre semenze del paese, ma vi sono pochi formenti; si veggono molti villaggi da una parte e dall'altra di questo fiume, e sopra la costa della montagna. E in capo della valle ci partimmo dal fiume e cominciammo a trovar terra di boschi e piena di sassi; non vi erano montagne, ma alcune piccole valle, seminate di formento e orzo e d'altri legumi del paese. E quivi finisce il regno d'Angote e comincia il regno di Amara, nel principio del quale verso levante vi è un gran lago, dove già alloggiammo, il qual è 8 miglia di lunghezza e tre di larghezza. Ha nel mezzo una piccola isola, con un monastero di Santo Stefano con molti frati, nel quale vi sono molti limoni, naranci e cedri. E per andare al detto monastero si servono d'una zatta fatta di legni e giunchi, con quattro zucche grandi, e la fanno in questa forma: pigliano quattro legni e mettono sopra quelli, stando in compasso, di questi giunchi molto ben legati, e sopra quelli mettono altri quattro legni ben legati e bene stretti, e sopra ogni cantone vi è una zucca grande, e cosí passano con questo modo. Questo lago non corre se non la vernata, quando l'acqua gli soprabonda, ed esce fuori per due parti. Si trovano in questo lago alcuni animali grandi che essi chiamano gomaras, che sono cavalli marini, e similmente un pesce simile ad un gongro, che è molto grande e lungo, e ha la piú brutta testa che si possa imaginare, fatta a modo d'un rospo, e la pelle di sopra la testa par pelle di biscia, e tutto il resto del corpo liscio come gongro, ed è il piú grasso e piú saporito pesce che si trovi al mondo. Attorno a questo lago vi sono infiniti villaggi, che arrivano fin all'acqua, e vi sono 15 xumetes o vero capitanie, e terre bellissime di formento e orzo. Di questi laghi n'abbiamo veduti molti in questi paesi, ma questo è il maggiore di tutti quelli che io abbia veduto. Il paese è molto bello e fruttifero.
Di qui camminammo ben 16 miglia per una terra molto ben seminata di miglio e tutta piena di fontane. Al fine della giornata, essendo noi stracchi, il frate ne volse menare sopra un monte ad alloggiare, e noi non volemmo e restammo nella strada a dormire. E il dí dietro, che fu alli 23 di settembre, ce ne andammo a un luogo che si chiama Azzel, il quale è posto sopra un piccolo colle fra duoi fiumi: e tutta la campagna si vedeva seminata di formento, miglio e d'ogni altra sorte di legumi, ed è luogo nel quale si fa una gran fiera. Oltra uno di questi fiumi vi è un luogo di Mori, ricco e di gran traffico, come di schiavi, panni di seta e di tutte le altre sorti di mercanzie, sí come è il luogo di Manadeli, nelli confini di Tigremahon: questi Mori pagano gran tributi al Prete. Quivi è gran conversazione di cristiani con li Mori, perché gli portano l'acqua, gli lavano li lor panni, e tutto il giorno le femine cristiane praticano in questo luogo de Mori, della qual cosa ne pensammo male. Stemmo il sabbato e la domenica a piè di questo luogo, dove tutta la notte li nostri combatterono con le lancie contra le tigri che volevano levarne le mule, e non si dormí punto.
Il giorno seguente camminammo per una terra piana molto abitata e molto seminata per ispazio di sei miglia; dapoi montammo sopra una montagna ben alta, senza sasso alcuno né bosco, ma era tutta lavorata e seminata, e ci riposammo a mezzogiorno. Quivi stando, mi vennero a trovare X o XII uomini onorati, e l'interprete stava meco, e cominciammo a ragionare dell'altezza di questa montagna sopra la quale stavamo, e del paese infinito che si scorgeva con gli occhi. Mi mostrorno la montagna dove stanno quelli figliuoli delli Preti, la qual non pareva lontana piú di XII miglia, e si vedeva la rocca e sasso tutto tagliato intorno intorno, la qual si prolongava tanto verso il Nilo che non vi vedevamo il fine, ed era cosí alta che 'l monte dove noi stavamo pareva esser sotto li piedi di quella. Quivi mi raccontorno particolarmente delle gran guardie che erano fatte a questi figliuoli, e dell'abondanza che avevano di vettovaglie e di vestimenti, che gli faceva dare il presente Prete. E perché noi scorrevamo verso la parte di ponente quanto potevamo vedere con gli occhi, gli dimandai che terre erano verso quella parte, e se il tutto era del Prete Ianni. Mi dissero che la signoria del Prete si estendeva verso quella parte per trenta giornate di cammino, e che poi si entrava in alcuni deserti, nelli quali si trovava gente molto negra, molto trista e cattiva: e durava per ispazio di quindici giornate di cammino, li quali compiti, si entrava nella terra di Mori bianchi, nel regno di Tunisi. Né alcuno si maravigli di questo, che si sappiano cosí particolarmente questi paesi, perché da Tunisi vanno ogni anno le carovane al Cairo, e anche vengono in queste terre del Prete, e portano alcuni vestimenti detti albernussi, non troppo buoni, di bambagio, e molte altre diverse mercanzie. Mi dissero di piú che questo monte alto dove noi stavamo separava la terra dove nasce il miglio da quella del formento, e che per avanti non trovaremmo piú miglio, ma formento e orzo.
Come trovammo un altro lago, e poi arrivammo a una chiesa detta Machan Celacen,
nella quale non ne lasciarono entrare.
Cap. LXIII.
Noi camminammo sopra questa altezza di montagna per una strada piana ben nove miglia, e da ogni canto vi erano li campi seminati di formento e orzo. Quivi trovammo un altro lago, ma non cosí grande: poteva essere da tre miglia lungo e due largo, e fa un fiumicello che corre di quello; è molto profondo, ed era tutto circondato di giunchi molto lunghi e forti. Noi dormimmo in una campagna tutta piena di erba da pascolo, dove avevamo tanta moltitudine di moscioni e cosí grandi che dubitavamo che ne ammazzassero. Questa campagna non era seminata per esser mezza palustre, perché non sanno levar l'acqua e farla andar giú dal monte. Dapoi passammo in altri luoghi, dove trovammo molte campagne e luoghi seminati di formento e orzo, i quali erano gialli e tristi perché l'acque gli ammazzavano; e altri morivano per troppa siccità, e cosí eravamo confusi nel veder la diversità di questi luoghi seminati. Cominciammo poi a entrare in un paese che di giorno facevano gran caldi, e la notte poi gran freddi. E vedevamo gli abitanti portar d'intorno alle parti vergognose un pezzo di pelle di bue, e similmente le femine portavano un pezzo di drappo, maggiore per il doppio di quello degli uomini, e coprivano quello che potevano, che la maggior parte pur si vedeva: tutto il resto era nudo. Li capelli erano acconci in due ordini, cioè uno che discendeva fino alle spalle, e l'altro fino all'orecchie. E queste terre dicono esser delli trombetti del Prete Ianni. Un poco fuori di cammino vi è un bosco grande d'arbori da noi non conosciuti, ma altissimi, appresso il quale vi è una chiesa di molti canonici, la qual fece far un re che ivi è sepolto. Passando questo giorno grandissime montagne, ce ne andammo a dormire fuori di quelle nell'entrate d'una bellissima campagna.
Alli 26 di settembre la mattina camminammo per detta campagna, discendendo sempre per ispazio di sei miglia, e arrivammo a una bella e gran chiesa che si chiama Machan Celacen, che vuol dire la Trinità, la qual vedemmo dapoi col Prete Ianni, quando mutò le osse di suo padre. Questa chiesa ha due gran circuiti, uno fatto di parieti di tavole ben alto, l'altro di pali e di legnami attraversati: e questo di legname circonda ben due miglia. Noi ce ne andammo molto allegri pensando di veder questa chiesa, ma, appressati per uno tratto di balestra, vennero due uomini a farne dismontare, perché questo è il costume quando si arriva appresso alcuna chiesa, e giunti appresso alla porta di questo circuito non volsero lasciarne entrare, né anche il frate che ne conduceva, e gli mettevano le mani fino nel petto, dicendogli che egli non aveva licenza di farne entrare: né gli valse dire che noi eravamo cristiani, e furno tanto le parole che quasi venimmo all'arme. Montati a cavallo e partiti, già molto lontani dalla chiesa, ne vennero dietro correndo a dire che tornassimo, che ne lasciariano entrare, perché avevano già avuto licenza: ma noi non volemmo tornarvi. Questa campagna e il sito della chiesa sono molto belli, perché di X in XII miglia è il tutto seminato, né vi è un palmo di terra che non sia lavorato e pieno di ogni semenza, salvo di miglio; e in tutti li mesi dell'anno quivi si tagliano le biade e si seminano, sí che sempre ve ne sono di mature e in erba. Dalle bande di questa chiesa vi corre un bellissimo fiume senza alcuno arbore sopra, e cavano acqua di quello per adacquar li campi; e da alcuni monti vicini vengono ancora molte fontane d'acqua, che adacquano tutto il paese. Vi si veggono molte case e ville separate l'una dall'altra con le lor chiese, perché dove è la chiesa del re vi debbono ancora esser le chiese delli lavoratori.
Come li Preti Ianni dotorno le chiese di questo regno, e come andammo alla villa di Abra,
e di alcune grandissime fosse.
Cap. LXIIII.
Passando queste campagne entrammo in alcune altre maggiori, ma non cosí ben seminate, perché paiono mezzo paludi, e vi sono grandissimi pascoli e molti laghi, dalli quali cavano l'acque per adacquare. Vi sono infinite mandrie di vacche e di pecore, ma non di capre. Camminammo per queste campagne ben 36 miglia verso il levante, dove ne mostrorno una chiesa di San Giorgio, nella quale è sepolto l'avo di questo Prete Ianni. Quivi ne dissero che li re passati, venendo delli regni di Barnagasso e Tigremahon, dove fu il lor principio, allargorno li lor regni per queste terre di Mori e gentili, e venendo per il regno di Tygray e dapoi d'Angote, entrorno in questo d'Amara; ma avanti di questo vi è quel di Xoa, dove sono alcune grandissime fosse: e quivi abitorno lungamente, faccendo far chiese e case, e dotorno quelle di gran rendite, e non vi è palmo di terra che non sia di chiese. E Nahu, padre di questo Prete, cominciò la chiesa di Machan Celacen, e il figliuolo poi la forní e dotò. Questo regno non tiene piú nome di signoria, perché il suo titolo era Amara taffilà, che vuol dire re di Amara, come Xoa taffilà re di Xoa. E quando si mutorno le osse di Nahu in questa chiesa di Machan Celacen, alla qual mutazione noi Portoghesi fummo presenti, allora il presente Prete compí di dare e confermare le donazioni fatte di tutta questa signoria a questa chiesa. Non vi è in tutto questo regno pure un monastero, ma tutte chiese, li canonici e preti delle quali, e quelli delle altre degli altri regni detti di sopra, servono al Prete in tutti li servizii, salvo in guerra; e la giustizia in questi paesi si fa universale sopra li canonici, preti e frati. E questo frate che ne conduceva per levar le nostre robbe, se egli non veniva ubidito, faceva battere cosí li frati come li preti. Andando per queste gran campagne ne pareva d'andare per un mare, non si vedendo montagne.
L'ultimo giorno di settembre arrivammo in una piccola villa, dove era una chiesa di Nostra Donna. Quivi verso la parte del levante cominciano le aspre e sassose montagne, con alcune valli profondissime che pare che discendano fino all'abisso, che l'uomo non potria mai credere la lor profondità: e sí come le montagne dove stanno li figliuoli del Prete sono tagliate al diritto fino in cima, cosí queste discendono al basso tagliate di gran larghezza, in alcuni luoghi di dodici miglia e in altri di quindici, e anche si stringono fino a nove. E vien detto che queste valli vanno fino al Nilo, il quale è molto lontano di quivi verso la parte di ponente: noi sapemmo bene ch'elle arrivano fino alle terre de' Mori, dove non sono cosí aspre e selvatiche. Nel piano o fondo di quelle vi sono grandi abitazioni e luoghi coltivati, e si vede un numero infinito di simie grandi, pelose dal petto avanti come leoni.
Come arrivammo ad alcune porte e passi profondi e travagliosi da camminare, e passammo dette porte, dove comincia il regno di Xoa.
Cap. LXV.
Il primo giorno di ottobre del 1520 noi andammo per terra piana sempre al luogo di queste valli, dove trovammo laghetti con fontane infinite per ispazio di 12 miglia, e andammo a dormire a un luogo dove avevamo da traversar queste bassure. Il terzo giorno d'ottobre, camminato che avemmo da due miglia, arrivammo ad alcune porte sopra una rocca o sasso tagliato che divideva due valli, una a banda destra, l'altra alla sinistra: ed era tanta strettezza appresso queste porte, che per la strada a mala pena poteva passar un carro sopra quelli piccoli sporti che faceva il monte. E serrano dove queste porte si stringono da valle a valle, e uscendo dalla porta si dismonta quanto è l'altezza d'una lancia lunga, per una strada stretta fatta in spigolo nel mezzo, che non si può andar né a piede né a cavallo: e tanto è ratto e a pico questo cammino che l'uomo non può descender se non va in quattro, e si cognosce essere stato fatto artificiosamente per sicurtà di questo passo. E uscendo di questa strettezza si cammina ancora per un pezzo di strada fatta pur in spigolo di sei palmi, e da una parte e dall'altra sono i precipizii grandissimi: e s'io non avessi visto passar le nostre mule e genti, averia giurato che le capre non vi averiano potuto passare; e cosí facemmo andar le mule avanti come perse, e noi vi andammo dietro. Dura questa asperità un tratto di balestra, e chiamasi questo luogo Aquifagi, che vuol dir "morte di asini", e si paga dazio per il passaggio. Molte fiate dapoi siamo stati per queste porte, e mai non vi passammo che non trovassimo bestie e buoi morti. Oltra questo passo vi restano ancora sei miglia di fastidioso cammino, tutto di sasso, sempre descendendo, nel mezzo del qual vi è una grotta nel sasso forato, che dalla cima vi goccia continuamente l'acqua, la qual fa alcuni stillicidii lunghi di sasso di diverse forme. In capo di queste sei miglia trovammo un fiume grande, il qual si chiama Anecheta, nel qual dicono esser infinito pesce e grande. Dapoi camminammo montando sempre per tre miglia fino che arrivammo a una porta picciola, la quale passata si trova un altro fiume, dove stanno alcune altre porte le quali non si usano: e quelli che passano queste fosse e valli profonde vengono a dormir quivi, perché non ponno passar in un giorno da capo a capo.
Quivi il frate che ne conduceva fece una crudeltà contra un xuum, overo capitano, che non saria fatta a un Moro. Costui non mandò cosí presto li suoi uomini ad aiutare a portar le nostre robbe, però gli fece ruinare alcuni campi di fava e dargli il guasto del tutto, delle qual fave si vive in queste valli, perché non vi nasce altro se non miglio e fave. E perché noi gli contradicevamo, diceva che questa era la giustizia del paese, e ogni giorno mandava a battere molti di quelli che ne portavano le robbe, e alle volte toglieva loro mule, vacche e pezze di tela, dicendo che cosí si aveva da fare a chi serviva male.
Alli 4 d'ottobre passammo ancora per questi mali cammini, e arrivammo sopra un fiume appresso il quale dormimmo, che è molto grande e bello e si chiama Gemma, ed è abondantissimo di pesce, come dicono li paesani: e si congiungono insieme questi fiumi e vanno nel Nilo. Discendemmo da questa montata per sei miglia, in capo del quale trovammo altre porte, dove pagammo similmente il passaggio. Fuori di queste porte andammo a dormire in una campagna, dove non si vedevano né fosse né alcuna cosa, anzi il tutto era pieno e uguale. Il cammino tra l'una porta e l'altra sopra dette può essere da quindici miglia, e quivi si dividono li regni d'Amara e Xoa: e chiamansi queste porte Badabassa, che vuol dire terra nuova. Dentro di queste valli e asperità vi si veggono d'ogni sorte uccelli infiniti.
Come il Prete Ianni andò a visitare la sepoltura di Gianes ichee nel monastero di Bilibranos, e della elezione che fu fatta di un altro ichee, il qual era stato moro.
Cap. LXVI.
Alli cinque di ottobre camminammo per campagne non molto lontane dalle dette rocche e valli profonde, e andammo ad alloggiar per mezzo d'un monastero che si chiama Bilibranos, del qual voglio parlar quello che per tre fiate io viddi far al Prete Ianni. La prima fu che venne al far d'un officio anniversario ad un gran prelato di detto monastero ch'era morto, che aveva nome Gianes, il qual era tenuto per uomo santo: il titolo suo era ichee, ed è il maggior prelato che sia in tutta la Etiopia, eccettuando l'abuna Marco. La seconda fiata venne al far della elezione d'un altro ichee, il quale fu uno nominato Iacob, uomo di santissima vita, e per avanti era stato moro. Costui fu nostro grande amico, e ne contò ch'egli ebbe una notte per revelazione che non teneva buon cammino, e che dovesse andar a trovar l'abuna Marco, il qual lo ricevette graziosamente, e lo fece cristiano e gl'insegnò tutta la fede nostra, come s'egli fusse stato suo figliuolo. Ichee in lingua de Tigray, qual si usa nel regno del Barnagasso e Tigremahon, vuol dir abba.
In questa campagna dove era il nostro cammino vi si vedevano alcune case piccole fatte quasi sotto terra, e il medesimo erano le corti d'intorno, dove tengono li loro animali: e questo dicevan che facevano per causa de' grandissimi venti che regnano in quelle parti. Quivi vedemmo gli abitatori mal vestiti, ma tanto numero di vacche, mule, cavalle, che non si potria credere; allevano anche galline simili alle nostre di Spagna in grandissima quantità. All'intorno di queste case erano li campi seminati di orzo, che piú belli non aveva veduti per avanti. Si vedevano anche infiniti uccelli di diverse sorti, come grue, oche salvatiche, anitre e altre da noi non conosciute, per esservi molti laghi piccioli, fatti da diverse fontane che corrono per detta campagna. Questo paese si chiama Huaguida.
Come per tre giorni camminammo per campagne; e della cura e rimedii che fanno alli loro ammalati; e come viddero le tende e padiglioni del Prete Ianni.
Cap LXVII.
Un lunedí, alli 9 di ottobre, camminammo per campagne simili a quelle dette di sopra, cosí di buoni pascoli come di essere tutte seminate, e fummo a dormire ad una terra che si chiama Anda: quivi ancora mangiammo pan d'orzo molto mal fatto. E cosí camminammo il giorno seguente per simili campagne, e dormimmo appresso d'alcune villette. Il mercore seguente trovammo miglior paese seminato di frumenti e d'orzi, cioè che si vedevano che in alcuni di detti campi le biade erano mature, altre erano tagliate e altre parevano seminate di nuovo. Chiamasi questa terra Tahagun, ed è molto popolata di grandi abitazioni e d'infinite mandrie d'ogni sorte d'animali, cioè vacche, cavalli, muli e pecore. Si trovavano in questi paesi molti ammalati di febbre, alli quali intendemmo che non facevano alcun rimedio, attendendo solamente che la natura gli aiutasse: e se ad alcun duol la testa, lo salassano dal capo; se gli duole il petto, coste o spalle, gli danno il fuoco, come si fa agli animali; alle febri non sanno fare alcun rimedio.
In mercoredí cominciammo a vedere con grande allegrezza da lungi il campo e padiglioni del Prete Ianni, che parevano infiniti e che coprisseno tutte le campagne, e quivi dormimmo. Il giovedí non facemmo troppo cammino; a mezzodí poi il venere riposammo per il sabbato e per la domenica in un piccolo luogo dove era una chiesa nuova, che non era ancora stata dipinta, perché dipingono tutte le chiese, e non con troppo ricchi lavori: e chiamasi Auriata, che vuol dire degli Apostoli, e si diceva esser del re, fino alle tende del quale potevano esser da tre miglia, e da questo luogo alla chiesa un miglio e mezzo, appresso la quale era alloggiato l'abuna Marco, ch'è il suo grande patriarca. In questi duoi giorni che qui riposammo ci vennero a trovare tre marinari, che fuggirono quando ci partimmo dalla nostra armata nel porto di Mazua, ed era già un mese che stavano in la corte: la venuta de' quali dispiacque molto al frate che ne conduceva, perché diceva non esser usanza di questo paese, quando la gente forestiera vi veniva, di poter parlare con alcun'altra persona fino che non parlavano col re; e cosí turbato se ne tornò alle sue tende. In questo medesimo giorno fu il detto frate a visitar l'abuna Marco, e ne portò un cesto d'uva secca e una zara di vino d'uva molto buono. La domenica seguente ne tornò a vedere uno di detti marinari, e l'ambasciadore gli disse che fosse a parlar prima al frate, e gli dicesse che non veniva per niun male, ma per l'amicizia grande ch'egli aveva con noi. Ma il frate, come lo vidde, gli fece metter le mani adosso e ritenerlo, e lo voleva mettere in ferri, se non fosse stato l'ambasciadore e noi altri che glielo cavammo di mani con aspre parole.
Come fu dato un gran signore che ne avesse a guardare, e della tenda che ne mandò.
Cap. LXVIII.
Il lunedí alli XVI di ottobre noi ci partimmo, pensando d'arrivare questo medesimo giorno alla corte dove è il padiglione del re, perciò che ne avevano fatto alloggiare tre miglia lontani, e parevano che 'l dí dietro n'avriano condotti molto presto. Stando noi con questa speranza, ne venne a trovare un gran signore, il titolo del quale si chiama adrugaz, che vuol dire gran maestro di casa, e ne disse come il Prete Ianni, avendo inteso della nostra venuta, l'aveva mandato a guardarne e darne ciò che ne faceva di bisogno, e volse che subito cavalcassimo e fossimo con lui: e pensando che ci menasse alla corte ci preparammo. Egli ne fece fare una volta indietro, non per il cammino che venimmo, ma ne fece circondare alcune colline, e tornammo adietro piú di tre miglia, dicendo che non ci pigliassimo fastidio, perché il Prete Ianni veniva in quella parte dove noi andavamo: come in effetto fece, che si vedevamo andar avanti di noi sei o sette uomini sopra molto buoni cavalli, scaramucciando e giocando tutti coperti il viso, che non si conosceva l'un dall'altro, e molti doppo loro sopra mule, e comprendemmo che questa cavalcata ne era stata fatta fare a posta, perciò che il Prete ne aveva voluto vedere. E ne menorno dietro ad alcune colline, dove questo gentiluomo alloggiò in una sua tenda, e ordinò ch'ancor noi ci fermassimo appresso di lui in una altra buona tenda, e ne mandò a provedere di tutto quello che ci era necessario abondantemente. Noi eravamo non molto di lungi dove si vidde alloggiare il Prete Ianni; il frate venne ad alloggiare appresso di noi. Il mercoledí a buon'ora ne portarono un'altra buona tenda grande, bianca, rotonda, dicendo che ne la mandava il Prete Ianni, e che una tenda simile a quella non poteva aver persona alcuna, se non il detto Prete e le chiese, e che la sua persona suole alloggiare in quella quando cammina. E cosí stemmo fino al venere, senza saper ciò ch'avessimo da fare, ma sempre ben proveduti del vivere. Il gentiluomo che ne guardava e il frate ne avisorno che dovessimo aver l'occhio molto bene alle robbe nostre, perché in quella terra vi erano di molti ladri; e li franchi, cioè bianchi, che erano quivi similmente ne lo dicevano, e che vi erano capitani e altri come daziari di detti ladri, che pagavano tributo al Prete Ianni di quello che si rubbava.
Come l'ambasciadore e noi con lui fummo chiamati per comandamento del Prete Ianni, e dell'ordinanza che noi trovammo, e dello stato in che si trovava il Prete Ianni.
Cap. LXIX
Il venerdí, alli XX di ottobre, a ora di terza venne il frate, dicendone con gran pressa che il Prete Ianni ne mandava a chiamare. L'ambasciadore ordinò che fossero caricate tutte le robbe che 'l capitan maggiore mandava, e che noi ci mettessimo ad ordine: il che facemmo molto bene con l'aiuto di Dio. E ne venne a trovarci molta gente per accompagnarne, cosí a piedi come a cavallo, con li quali ce ne venimmo in ordinanza fino ad una porta, di donde vedemmo da ogni canto infiniti padiglioni e tende come una città, e quelle del Prete Ianni alzate in una gran campagna, tutte bianche (sí come si dice che generalmente suol tenere), e avanti di quelle una molto grande rossa, che dicono che non l'alza se non nei giorni di gran feste o vero di qualche grande audienza. Davanti di detta tenda rossa erano stati fatti due ordini di archi coperti di panni di seta bianchi e rossi, cioè un arco coperto di rosso e l'altro di bianco, e non erano coperti, ma rivolti li panni all'intorno dell'arco, come si faria d'una stola all'intorno d'un legno che sostiene una croce: e cosí stavano questi archi da un capo, e potevano esser da venti, e la lor grandezza e larghezza era come quella dell'arco d'un chiostro piccolo, ed era lontano un ordine dall'altro un tirar d'una pietra. Quivi erano infinite genti messe insieme, che a mio giudicio passavano quarantamila persone, e tutte stavano in bella ordinanza da una banda e dall'altra senza moversi: e le genti meglio vestite erano le piú vicine agli archi. Fra li quali si vedevano alcuni canonici e persone di chiese molto onorate co cappucci grandi in capo, non come mitre, ma con alcune punte in cima dipinte di colori, ed erano di panno di seta e di grana, e altre genti molto ben vestite, avanti le quali stavano quattro cavalli, cioè due da una parte e due dall'altra, sellati e coperti riccamente di broccato fino in terra: le lame over arme che tenessero di sotto non si vedevano. Avevano questi cavalli diademe sopra il capo, alte che passavano l'orecchie, e descendevano fino al morso con grandi e varii pennacchi; e di sotto dei detti stavano molti altri buoni cavalli sellati, coperti di seta e di velluto, e le teste di ciascheduno era equali e come in ordinanza con le genti. Immediate appresso di questi cavalli e dietro di quelli (perché la gente era molta e folta), stavano alcuni uomini onorati, che eran vestiti se non dalla cintura in giuso di molto sottili e bianchi panni di bombagio; l'altra gente vestita grossamente stava fra questa e gli altri.
È costume che davanti il re e gran signori che possino comandare vi vadino sempre uomini che portino sferze, cioè un picciolo legno con una coreggia lunga: e quando danno in vano fanno un grande strepito, per fare star adietro la gente. Di questi ne vennero ad incontrare ben cento, tutti vestiti con alcune picciole camicie di seta, i quali con questi strepiti non lassavano udir l'uomo, e ognun si slargava. La gente da cavallo e sopra mule che eran con noi discavalcarono molto da lungi, e noi fummo ancora un gran pezzo menati a cavallo, e discavalcammo appresso la tenda rossa un tratto di balestra: e quivi cominciaron questi che ne menavano a far le solite riverenze, e noi con loro, perché cosí n'era stato insegnato, il che è abbassar la mano diritta fino in terra. Anco in questo spazio d'un tratto di balestra incontrammo ben sessanta uomini, come saria a dire portieri di mazza, e venivano mezzo correndo, perché cosí si costuma con tutte le risposte che manda il Prete di correre. Erano vestiti di camicie bianche e di buoni panni di seta, e di sopra le spalle, che descendevano al basso, vi erano alcune pelli di colore roano o tanè molto pelose, che dicevano esser di leone, e sopra dette pelli avevano catene d'oro mal lavorato con gioie incastrate, e similmente altre gioie intorno al collo; portavano alcune cinture di seta di varii colori, di larghezza e fattura come son cinghie di cavallo, se non che erano lunghe, con i fiocchi e capi fino a terra: ed erano tanti da una parte quanti dall'altra, e ne accompagnarono fino al primo ordine degli archi, dove ci fermammo. Ma avanti che noi arrivassimo alli detti archi, stavano quattro leoni legati con le lor catene per dove avevamo da passare. E passati quelli, nel mezzo del campo, all'ombra de' detti primi archi, vi stavano quattro uomini onorati, fra i quali v'era uno di due maggior signori che siano nella corte del Prete, che si chiama betudete, cioè gran capitano: e di questi ne sono due, uno de' quali serve a man diritta e l'altro a man manca. Quello da man diritta dicevano che era in guerra con i Mori, e questo da man manca era quello che stava quivi; gli altri tre erano grandi uomini. Arrivando a loro, noi stemmo un gran pezzo senza parlare, né noi a loro né loro a noi.
In questo tempo venne un prete vecchio, che si dice esser parente e confessore del Prete Ianni, vestito di una cappa bianca a modo di bernusso e un cappuccio grande di seta: il titolo di costui si chiama cabeata, ed è la seconda persona in questi regni, e uscí della tenda del Prete che ancora noi eravamo lontani ben dui tratti di pietra. Delli quattro che stavano con noi, tre di loro l'andarono ad incontrare a mezzo il cammino, e il betudete restò con noi; e costoro poi approssimandosi, il detto betudete verso loro si fece inanzi tre o quattro passi, e cosí insieme giunsero tutti cinque a noi. Giunto il cabeata addimandò all'ambasciadore ciò che volesse e donde veniva; rispose l'ambasciadore che veniva d'India, e portava una ambasciata al Prete Ianni del capitan maggiore e governatore dell'Indie per il re di Portogallo. Con questo se ne ritornò al Prete, dal quale con le medesime dimande e le medesime risposte andò e ritornò tre volte: a tutte rispose lo ambasciador d'una simil sorte; alla quarta il cabeata disse: "Dite ciò che volete, ch'io lo dirò al re". Rispose l'ambasciadore che lui con tutta la sua compagnia mandavano a baciare le mani a sua Altezza, e rendevano molte grazie a Dio di compire gli suoi santi desiderii di congiunger cristiani con cristiani, e che loro fossero stati i primi. Con questa risposta se n'andò il cabeata, e subito si ritornò con un'altra parola: e sempre i sopradetti quattro lo andavano ad incontrare come abbiam detto di sopra, e arrivando a noi disse che 'l Prete Ianni diceva che fossimo li ben venuti, e tornassimo a riposarci. In questa prima audienza non si usa di dir altre parole, né si può vedere sua Maestà, per mantener maggior reputazione. Allora l'ambasciadore consegnò a pezza per pezza tutti li presenti che 'l capitan maggiore mandava a sua Altezza, e di piú quattro sacchi di pepe ch'erano stati portati per farne le spese. Subito fu portato il tutto alla tenda del Prete, e di lí poi ritornato agli archi dove noi stavamo, e fecero distendere i panni di razzo che noi gli demmo sopra detti archi, e cosí ciascheduna dell'altre robbe e cose: e stando quelle in vista di ciascuno, fu ordinato che tutti tacessero, e uno che si chiamava la giustizia maggiore della corte parlò con voce molto alta, dichiarando a pezza per pezza le cose che 'l capitan maggiore mandava al Prete Ianni, e che tutti dovessero render grazie al Signor Dio per aver congiunti li cristiani insieme, e se alcuno vi era a chi dolesse che piangesse, e quelli che n'avevano piacere cantassero. Tutta la gente che stava ivi insieme diede un grandissimo grido in modo di lodare Iddio, il qual durò per un grande ispazio. Fatto questo, n'espedirono e ne menarono ad alloggiare un gran tratto di balestra dalle tende del Prete, ove era stata posta la tenda che egli ne aveva mandato, e dove stava il resto delle nostre robbe.
Del furto che ne fu fatto nel mutar delle nostre robbe, e delle vettovaglie che ne mandò il Prete Ianni, e del parlar che 'l frate ebbe con noi.
Cap. LXX.
Al tramutare di queste nostre robbe si cominciò a vedere per isperienza l'aviso che ne era stato dato de' ladri, percioché subito nel cammino tolsero per forza ad un servidore nostro quattro bacini di rame stagnati e quattro scodelle di porcellana e alcune altre picciole cose da cucina, e perché il servidore si voleva difendere, gli diedero una gran ferita in una gamba. L'ambasciador non poté far altro se non ordinar che fosse medicato, e di queste robbe niuna si poté avere indietro. Subito che fummo alloggiati, ne mandò il Prete Ianni CCC pani di formento grandi e bianchi, e molte zare di vino di miele, e dieci buoi, e dissero i messi che portavano le robbe che 'l Prete Ianni aveva ordinato che ne fussero dati cinquanta buoi e altretante zare di vino. Il sabbato seguente, che fu il XXI, ne mandò infinito pane, vino e molte imbandigioni di carne di diverse sorti e molto ben fatte e acconcie, e al medesimo modo fu la domenica, nella quale, fra l'altre molte e varie imbandigioni, ne fu portata una vitella tutta intiera posta in un pasticcio, tanto bene acconcia con spezie e frutti postoli nel ventre, che noi non ci potevamo saziar di mangiare.
Il lunedí seguente si levò una fama per tutta la corte che noi avevamo ritenuti molti sacchi di pepe che il capitan maggiore mandava a donare al Prete, il che non era la verità. E perché di quello ne fanno grandissimo conto, ed è la maggior mercanzia che corra per l'Etiopia, però il frate venne a noi con una invenzion, dicendone che se l'ambasciadore desse tutto il pepe che esso aveva al Prete Ianni, che ordinaria che ne fossero fatte le spese nello star ivi e nel ritorno fino a Mazua: e cosí cessorono darne da mangiare, né vennero le cinquanta vacche, né manco le zare di vino. Proibiva similmente a tutti li franchi che erano in la corte che non parlassero con alcuni di noi, e ne dicevano che non uscissimo della nostra tenda, che tal era il costume di tutti quelli che vengono a questa corte, di non parlar con alcuno fin che non parlino al re. E per questo divieto tenevano prigione un Portoghese di Alcugna, che ne fu a parlare nel cammino, e un franco, dicendo che ne venivano a dir le cose della corte. Questo Portoghese fuggí una notte con i ferri delle man d'un eunuco che lo guardava, e venne a salvarsi alla nostra tenda. Subito la mattina lo vennero a cercare, ma l'ambasciadore non lo volse dare; ma mandò il fattore con l'interprete a parlare al betudete da sua parte, e dirgli per che cagione egli faceva mettere in ferri li Portoghesi, faccendoli trattar cosí male dalli schiavi eunuchi. Gli rispose il betudete fuor di proposito, dicendo chi ne aveva ordinato di venir qui, e che Matteo non andò in Portogallo di commission del Prete Ianni né della regina Elena, e se questo schiavo aveva posto i ferri ai Portoghesi, che i Portoghesi ritornassero a mettere i ferri al detto schiavo, che tal era la giustizia di questa terra.
Come il Prete Ianni si mutò con la corte, e come il frate disse all'ambasciadore che comprasse ciò che volesse, e come l'ambasciadore se n'andò alla corte.
Cap. LXXI.
Il martedí alli XXIIII d'ottobre, aspettando che 'l Prete ne mandasse a chiamare per parlargli, egli si partí con tutta la corte verso quella parte donde era venuto, che poteva essere lo spazio di sei miglia. In questo venne il frate dicendone che se volevamo andare dove camminava il re, che comprassimo delle mule che portassino le nostre robbe, e all'ambasciadore che, se voleva comprare o vendere, lo facesse. Gli rispose l'ambasciadore che non eravamo venuti per esser mercatanti, ma solamente per servire a Dio e ai re, e per congiunger cristiani con cristiani: e questo facevano solamente per provar d'intendere che intenzione e cuore era 'l nostro. Il giovedí seguente mi mandò l'ambasciadore con Giovanni Consalvo interprete, che fossimo alla corte a parlare al betudete o ver al cabeata. E parlammo al betudete in questa maniera, che 'l frate aveva fatto intendere all'ambasciadore che se volesse comprar o vendere, che gli davano licenza: delle qual parole si maravigliava grandemente, perché né lui né suo padre né sua madre né suo avo mai avevano comprato né venduto né tenevano tal officio, e similmente tutti li gentiluomini e persone che con lui erano venuti, li quali erano allevati nella casa e corte del re di Portogallo, in onorati uficii e sopra le guerre gli servivano, e non in mercanzie; e di piú che 'l frate gli aveva detto che, dando tutto 'l pepe che gli restava, il Prete Ianni ordinarebbe che gli fossero fatte le spese mentre stessino qui e fino che arrivassimo al porto di Mazua, e che a questo rispondeva l'ambasciadore che 'l costume di Portoghesi non era di mangiar e bevere a costo di meschini e poveri uomini, ma che del loro oro e argento pagavano le loro spese. E perché non corre moneta in questo regno, per tanto il capitan maggiore, oltra il molto oro e argento, gli aveva dato molto pepe e panni per farsi le spese, e di questo pepe che portava per le sue spese ne aveva già dato quattro sacchi al Prete, e il resto lo salvava per far questo effetto; e che il frate di piú gli aveva detto che, se voleva andar dietro alla corte, dovesse comprar mule per far portar le robbe: a questo gli mandava a dire che quanto al presente non gli erano necessarie mule, né manco per mutarsi di dove stava, e che quando volesse partire esso comprarebbe delle mule. Subito rispose il betudete che 'l Prete Ianni aveva ordinato che ne fussero date dieci mule, e se le avevamo avute. Rispondemmo che tal mule non avevamo vedute, solamente che 'l frate nel viaggio ne dette tre mule stracche, a tre uomini che venivano a piedi. All'altre cose il betudete non ne volse respondere, entrando a parlar in cose fuor di conclusione, cioè se 'l re di Portogallo era maritato, e quante moglie egli aveva, e quante fortezze teneva nell'India, con molte altre addimande impertinenti e fuori di proposito. Noi veramente gli tornammo a dir da parte dell'ambasciadore, se 'l Prete voleva ascoltar la sua ambasciata, che lo dicesse, e non volendo che a nessun altro si diria, e se la volesse in scritto se gli manderia. Ne rispose che aspettassimo, che presto averessimo risposta, e cosí ce ne tornammo a casa senza alcuna conclusione. Fino all'ora presente ne avevano proibito sempre che li franchi che andavano per la corte non parlassero con esso noi, né meno venissero alle nostre tende, e se venivano, venivano molto ascosamente, perché 'l frate era sempre con noi come guardia.
Delli franchi che stanno nella corte del Prete Ianni, e come ivi arrivorno, li quali ne consigliorno che dessimo il pepe e le altre robbe che noi avevamo al Prete Ianni.
Cap. LXXII.
Perché molte volte io parlo de' franchi, dico che quando Lopo Suares, capitan maggiore e governatore dell'India, arrivò con la sua armata nel porto del Ziden, nella quale io similmente fui, si trovavano nel detto luogo sessanta uomini cristiani schiavi di Turchi, ed erano di diverse nazioni, li quali sono questi che al presente trovammo in questa corte, i quali dicono che stavano aspettando la grazia di Dio, cioè che li Portoghesi entrassero nel detto luogo del Ziden, per venirsene via con esso noi. E perché l'armata non poté smontar in terra, però restarono, e dopo pochi giorni quindici di questi uomini bianchi, con altritanti Abissini della terra del Prete Ianni che similmente erano schiavi, trovarono due brigantini e si fuggirono per venire a ritrovar la detta armata: e non potendo arrivare all'isola di Cameran, vennero a quella di Mazua, che è vicina ad Ercoco, terra del Prete Ianni. E smontati affondarono li brigantini e se ne vennero alla corte del Prete, ove vedemmo che gli facevano grande onore piú che a noi fino al presente, e gli hanno dato terre e vasalli che gli servano e che gli facciano le spese. Questi sono li franchi, la maggior parte de' quali sono genovesi, due catelani, uno da Schio, un biscaino e un alemano, li quali dapoi sono venuti in Portogallo, e noi similmente Portoghesi ne chiamano franchi. Tutte l'altre genti bianche, cioè di Soria, di Grecia e del Cairo, chiamano ghibetes.
Domenica, alli 29 d'ottobre, vennero a noi due di detti franchi, dicendo che venivano per un consiglio auto fra loro circa le cose che avevano udite dire di noi da quei della corte, cioè che 'l pepe e tutte le robbe che portavamo erano del Prete Ianni, e che 'l capitan maggiore gliele mandava, e non volendole noi dare, che perderemmo la grazia sua; e che pareva loro che fosse ben fatto a dargli il pepe che noi portavamo e tutta l'altra robba, perciò che, non lo faccendo, non averemmo mai licenza di partirci, essendo questo il lor costume, che mai lasciano tornar adietro quelli che vengono ai lor regni: e questo era il lor parere, il qual n'avevano voluto far intendere. Sopra questo ci consigliammo, e di volontà dell'ambasciadore e di tutti noi altri ci accordammo che di cinque sacchi di pepe che ancora tenevamo, di darne quattro al Prete, e che uno ci restasse per farne le spese. Ne consigliarono ancor che dovessimo mandargli quattro belle casse coperte di cuoio, le quali erano nella nostra compagnia, parendoli che averebbe piacere di quelle, per esser cosa che non si trova in quel paese.
Il lunedí seguente immediate, alli XXX d'ottobre, ne vennero a trovare i detti franchi, con molte mule e uomini lor servitori, per condurne noi con le robbe. Determinò l'ambasciadore che si mandasse il detto presente di pepe e casse e non altro, e che io con lo scrivano e fattore lo portassimo, e che esso poi con l'altra gente se ne verria al tardi. Ci partimmo, e andando per il cammino trovammo un messo, che ne disse che portava la parola del Prete, e ismontò subito per darnela: e noi similmente smontammo per riceverla, perché cosí è suo costume, di dare la parola del re in piedi e in piedi essere udita.
Dissene che 'l Prete comandava che subito andassimo al padiglione. Io gli dissi che l'ambasciadore verria doppo noi, e che egli fusse contento di ritornar con noi, per darne modo come potessimo appresentare un servigio che noi portavamo a sua Altezza. Disse che cosí faria, e ne addomandò quello che gli volevamo donare, percioché questo è sempre di lor costume d'addimandare; noi lo contentammo di parole, con intenzione di non dargli alcuna cosa. Ne menò davanti un circuito grande, serrato d'una siepe molto alta, dentro la quale stavano molte tende alzate e una casa grande, longa e terrena, coperta di paglia, nella quale dicevano che alcune volte vi veniva a stare il Prete: e costui ne disse che allora vi si trovava. Avanti l'entrare di questa siepe vi stavano molte genti in grande ordine, e questi similmente dicevano che vi stava il Prete. Dismontammo un gran pezzo adietro secondo il suo costume, e gli mandammo a dire come volevamo appresentare un servigio a sua Altezza. Venne a noi un uomo onorato, dicendone con una certa maninconia perché non era venuto l'ambasciadore; noi rispondemmo perché non aveva mule né genti che gli portassero la robba, e che ora lui verria, perché i franchi erano andati per lui. Richiedemmo a questo uomo che ne desse modo di poter appresentar questo pepe e casse a sua Altezza; ne rispose che non curassimo d'altro, ma che al tutto venisse l'ambasciadore, e venendo che lo mandassimo a chiamare, perché ne faria appresentare il servigio. Ordinò subito questo gentiluomo che ne fosse mostrato il luogo dove mettessimo la nostra tenda quando venisse l'ambasciadore, il qual non tardò molto a venire.
Come dissero all'ambasciadore che li grandi della corte consigliavano il Prete Ianni che non ne lasciasse piú tornare adietro; e come il detto Prete ordinò che mutassero la sua tenda, e gli addimandò una croce, e come fece venire a lui il detto ambasciadore.
Cap. LXXIII.
In questo giorno sapemmo come né nel circuito della siepe, né anco in dette tende e case stava il Prete Ianni, ma che era di sopra, in alcune altre tende che di lí si vedevano, sopra una collina lontana quasi un miglio e mezzo. In questo giorno non vedemmo né sapemmo altro; solamente assettammo la nostra tenda nel luogo che n'avevano assegnato, qual non era molto lontano dal detto circuito della siepe dalla parte di man diritta. E li franchi che stavano alla corte venivano alla nostra tenda, e ne dicevano che li grandi della corte n'erano contrarii, e che questo frate aveva lor messo in testa che consigliassero il Prete che non gli lasciasse tornar né uscire delli suoi regni, perché dicevamo male della terra, e che molto piú male diremmo quando fossimo fuor di quella; e che sempre era stato costume di questi regni di non lasciar partire forestieri che a quelli vengono. Noi avevamo di questo sospetto per quello che avevamo udito, e costoro ce lo confermarono, percioché sapevamo che Giovan Gomes e Giovan prete portoghese, che qua vennero mandati per il signor Tristan di Cugna, governatore dell'India, in compagnia d'un Moro che ancora vive e abita in Manadeli, detti Portoghesi non furono lasciati partire, perché dicevano che moririano se partissero; e similmente un Pietro da Coviglian portoghese, che già XL anni partí di Portogallo per ordine del re don Giovanni, e già sono XXX anni che sta in questi regni; e similmente due Veneziani, ad un de' quali hanno posto nome Marcorius, ma il suo nome proprio era Nicolò Brancaleone, sono XXXIII anni che sta in questo paese, e un Tommaso Gradenigo, il quale già XV anni vi venne, senza che mai abbino lasciato partire alcuno di loro. E questi vanno ora per la corte, alli quali hanno dato grandissime possessioni e vassalli, e sono maritati e vivono a modo di signori, e il medesimo a molti altri che sono mancati di questa vita. Dicono questa ragione in loro scusa, che chi ne viene a cercare ha bisogno di noi, e per ciò non è ragione che se ne vadino, né che noi gli dobbiamo lasciar partire. Noi trovammo al presente in questa corte il detto Pietro da Coviglian, che ne disse che la sua casa era vicina a quelle porte terribili di montagna che di sopra passammo.
Il martedí che fu l'ultimo giorno d'ottobre, venne il Prete Ianni dalle tende di sopra dove egli stava verso questo circuito dove noi stavamo, e quando passò vidde la nostra tenda non molto lontana dalle sue, e mandò un uomo all'ambasciadore, che gli dicesse che dovesse mutar la tenda, perché era tristo aere in quel luogo dove egli stava: e noi nondimeno stavamo nel luogo che essi ne avevano consegnato il giorno avanti. Gli disse l'ambasciadore in risposta che non aveva persone che gli mutassero la tenda né le sue robbe, che se venissero genti, che la faria mutar in quel luogo che a sua Altezza paresse. In questo giorno, essendo notte, venne una parola del Prete, dicendone che se l'ambasciadore o la sua compagnia aveva alcuna croce di oro o d'argento, che gliela mandasse, che la voleva vedere. Disse l'ambasciadore che non ne aveva, né lui né la sua compagnia, e che una che lui portava l'aveva donata al Barnagasso: e con questo si partí il paggio, ma subito tornò, dicendo che ciascuna che noi avessimo se gli mandasse. Gli mandammo una mia di legno con un crocifisso dipinto, che per viaggio portava in mano a usanza della terra. Subito ne la rimandò, dicendo che aveva avuto piacer molto di vederla, perché conosceva che eravamo buoni cristiani. L'ambasciadore mandò a dire al Prete per il detto paggio che teneva ancora per le sue spese e della sua compagnia un poco di pepe, che lo voleva dare a sua Altezza insieme con quattro casse per salvar robbe, e che quando le piacesse le mandasse a far pigliare. Andato il paggio con questa risposta, subito tornò dicendo che 'l re non voleva pepe né casse, e che già li panni che gli aveva dato erano stati appresentati alle chiese, e il pepe aveva dato alli poveri, perché cosí gli era stato detto che aveva fatto il capitan maggior d'India, di dare alle chiese tutti li panni che gli mandava il re di Portogallo. Rispose l'ambasciadore che chi aveva detto tal cosa non aveva detta la verità, perché 'l tutto era ancora posto insieme e salvo, e che questo gli potevano aver detto li servidori di Matteo, che detti panni fossero stati dati alle chiese. E perché io sapeva tutta la cosa come era passata circa detti panni, io gli volsi rispondere, e dissi ch'era vero che questi panni che il re di Portogallo mandava, accioché non si guastassino, e per servir a Dio e onorar le chiese, io gli aveva aiutati acconciar nella chiesa principal di Cochin, che è Santa Croce, nelle feste principali; le quali compiute, aveva aiutato a sconciarli, piegargli e ponergli insieme, accioché non si guastassino dalle tarme: e per questo avevano potuto dire che erano stati dati alle chiese, ma che questa era la pura verità. Andata questa risposta, venne un altro messo, dicendo che comandava il Prete Ianni che l'ambasciadore subito con tutta la sua compagnia fosse a trovarlo: e potevano ben esser tre ore di notte passate. Tutti subitamente ci cominciammo a vestire de' nostri buoni panni per andar dove ne chiamavano; vestiti che fummo, venne un altro che disse che noi non dovessimo andare, e cosí restammo sconsolati.
Come, essendo l'ambasciadore chiamato per il Prete Ianni, gli dette audienza in persona.
Cap. LXXIV
Mercore, il primo di novembre, passate due ore di notte, ne mandò a chiamare il Prete Ianni per un paggio: noi, postoci in ordine, ce n'andammo. Arrivati alla porta o entrata del primo circuito di siepe, ritrovammo portieri che ne fecero aspettar piú d'una buon'ora, con gran freddo e vento secco che tirava. Dal luogo dove stavamo, vedevamo stare nella parte davanti dell'altro circuito della siepe molte torcie accese, e tenevanle gli uomini in mano. Stando cosí in questa entrata, perché non ci lasciavano passare, tirorno li nostri con due spingarde: venne subito una parola del re, dicendo perché non avevamo condotte dal mare molte spingarde. Rispose l'ambasciadore che noi non venivamo per far guerra, e per questo noi non conducevamo arme, ma che solamente queste tre o quattro spingarde erano state portate per far festa e per passar tempo. Aspettando noi ivi, vennero cinque uomini principali, fra li quali vi era quel nominato adrugas, al qual fummo consegnati quando arrivammo. Giunti che furon questi con la parola del Prete, fecero subito la sua riverenza solita, e noi con loro, e cominciammo a camminare; e andati cinque o sei passi, ci fermammo noi ed essi. Costoro camminavano a par di noi come se ci tenessero per mano, e da un capo di quelli stavan duoi uomini con due torcie accese in mano, e duoi dall'altro, e guidandone cominciarono ciascuno per la volta con la voce alta a dire: "Hunca, hiale, huchia, abeton", che vol dire: "Quello che mi comandasti, signore, qui ve lo meno". E finito che aveva uno, l'altro cominciava, e cosí seguitavano un dietro l'altro, e tanto dissero questo fin che di dentro udimmo una voce detta da piú di uno, cioè "Cafacinelet", che vuol dire "venite dentro". Noi andammo un altro poco e tornorono a fermarci, e di nuovo dissero le parole sopra dette, fin che di dentro gli fu risposto come la prima volta: di queste pause ne fecero ben dieci dalla prima entrata fino alla seconda, e ciascuna volta che di dentro dicevano "Cafacinelet" (perché è parola del Prete), quelli che ne guidavano e noi con loro abbassavamo la testa e le mani fino in terra. E passando la seconda entrata, cominciarono a fare un altro cantare, cioè: "Caphan, hyam, caynha, afrangues, abeton", che vuol dire: "Li franchi che ne comandasti quivi li meno, signore". E questo dissero altretante volte come le prime di sopra, e aspettavano la risposta di dentro, che fu al modo della prima. E cosí di pausa in pausa arrivammo a un letto over mastabè, avanti del quale stavano molte torcie accese, che nella prima entrata vedemmo, e le contammo 80 per banda, molto in ordinanza: e acciò non si uscisse fuor di schiera, coloro che le tenevano avevano avanti di sé alcune canne in mano molto lunghe, attraversate all'altezza del petto, e dette torcie tutte stavano ugualmente. Questo letto era posto dentro l'entrata di una gran casa terrena, che di sopra abbiamo detto, la qual è fabricata sopra colonne molto grosse di cipresso: li suoi volti posti sopra le colonne erano dipinti d'alcuni belli colori, e di sopra vi erano tavole che discendevano fino a basso a livello; la coperta del colmo è d'erba del paese, che dicono durare la vita d'un uomo. Nell'entrata della casa, cioè nella testa, erano state acconcie cinque cortine che venivano avanti al detto letto, e quella che stava nel mezzo era di broccato d'oro e l'altre di seta fina. Davanti di queste cortine, nel piano era posto un grande e ricco tappeto, e appresso duo panni grandi di bombagio, pelosi come tappeti, che loro chiamano basutos. Tutto il resto erano stuore dipinte, di sorte che niente nel piano si vedeva; e cosí stava da un capo e dall'altro il tutto pieno di torcie accese, come avevamo veduto l'altre di fuori.
Stando noi cosí fermi, di dentro dalle cortine venne una parola dal Prete Ianni, dicendo senza altro principio che esso non mandò Matteo a Portogallo, e posto che senza sua licenza vi andasse, che 'l re di Portogallo gli mandava per lui molte cose: quello che era d'esse, e perché non l'avevano condotte come il re gliele mandava, e che quelle che gli aveva mandate il capitan maggiore d'India già avevano date. Rispose l'ambasciadore che sua Altezza lo volesse udire, che gli renderia conto del tutto, e cominciò subito a dire che quello che gli mandava il capitan maggiore gliel'avevano presentato, e di piú gli aveva dato di quel pepe che portava per farsi le spese. Delle robbe veramente che gli mandava a donar il re di Portogallo, il non averle condotte a sua Maiestà era proceduto perché l'ambasciador che le aveva portate, nominato Odoardo Galvan, morí in Cameran, e appresso furon morti nell'isola di Delaqua alcuni Portoghesi, fra li quali fu il fattore e lo interprete che le doveva appresentare; e poi alla fin, non avendo il capitan maggiore per venti contrarii potuto prender il porto di Mazua, se ne era ritornato in India e di lí partito per Portogallo. Al capitan veramente che era successo in suo luogo il re di Portogallo, non sapendo della morte del detto Odoardo, ma pensando che fosse venuto alla corte di sua Altezza, non aveva dato altro in commissione se non di venirsene nel mar Rosso a destruggere i Mori e ad intendere del detto suo ambasciadore: il qual capitan maggiore, dubitando di non poter pigliar porto alcuno, come l'altra fiata non si poté, non aveva voluto condur le dette robbe che 'l re di Portogallo gli mandava, le quali sono nell'Indie conservate e messe insieme, e che solamente volse condur Matteo, acciò che, se pigliasse alcuno porto nella costa d'Abissini, lo facesse smontar ivi e dapoi mandargli le dette robbe. E perché Dio volse che pigliassero il detto porto di Mazua, che è nelle sue terre, ancor che sia in potere di Mori, determinò il capitan maggiore di mandargli lui, don Rodrigo, con queste robbe e pezze che gli aveva appresentate, e che venisse in compagnia di Matteo, solamente per visitazione e per sapere il cammino, quando si volesse mandare ambasciadore dal re di Portogallo, e che Matteo era mancato di questa vita nel monastero della Visione. Alla volta di questa risposta venne un'altra, dicendo, s'erano stati amazzati tre in Dalaca, come Matteo era scampato fu risposto: a questo che Matteo scampò perché non volse uscir della caravella in terra. E addimandogli l'ambasciadore molto di grazia che lo volesse udire, perciò che intenderia la verità, e che similmente gli daria in scrittura quello che 'l capitan maggiore gli mandava a dire in parole, oltra le lettere, e a questo modo saperia il tutto. Andavano e venivano le dimande e risposte senza alcuna conclusione: e cosí ne spedirono. Nel dí seguente ne mandò molto pane, vino e carne, e duoi uomini, dicendo che costoro avevano carico di darne ogni giorno il nostro vivere e quello che ne fosse necessario.
Come un'altra volta fu chiamato l'ambasciadore e portò seco le lettere che egli aveva; e come gli dimandassimo licenza per dir messa.
Cap. LXXV
Sabbato al tardi, alli III di novembre, ne mandò a chiamare il Prete Ianni, e andammo verso le ventiquattro ore. E arrivando alla prima porta o entrata, aspettando lí un poco, venne la parola, dicendo che tirassimo con le spingarde, ma che non avessero pallotte, per non far male ad alcuno. E di lí a un poco ne fecero entrare, e fummo per le pause medesime come l'altra volta; e arrivando fra le porte e cortine dove l'altra volta stemmo, vedemmo il luogo del letto come per avanti molto riccamente adornato e acconcio, e tutto dalle bande di dietro e d'avanti era di broccato, e le genti erano molto meglio vestite, e da una banda e dall'altra tutte in ordinanza, con le spade nude in mano e il lor brocchiero, e poste come s'avessero a combattere l'una con l'altra. Erano da ciascuna parte dugento torcie accese in ordinanza, come quelle dell'altro giorno. Arrivati che fummo, cominciò a farne dire e mandar risposte per il cabeata e per un paggio, il qual si chiama Abdenago, che è capitan di tutti i paggi. Con queste sue proposte, portava costui la spada ignuda in mano, e la prima che venne fu questa: quanti eravamo e quante spingarde avevamo condotte; e subito ne venne un altro, dicendo chi aveva insegnato ai Mori a fare spingarde e bombarde, e se tiravano con quelle ai Portoghesi e i Portoghesi a loro, e chi aveva maggior paura, o Mori o Portoghesi. Ciascuna di queste dimande veniva per la sua volta, e a ciascuna facemmo risposta. E quanto alla paura delle bombarde, dicemmo che li Portoghesi erano tanto armati nella fede di Giesú Cristo che non avevano paura de' Mori, e che se gli temessero non verriano cosí da lungi senza necessità a trovargli; quanto al fare delle spingarde e bombarde, che li Mori erano uomini, e tenevano sapere e ingegno come ciascun altro di noi. Mandò a dimandare se li Turchi avevano buone bombarde; rispose l'ambasciadore ch'erano cosí buone come le nostre, ma che noi non le temevamo punto, perché combattevamo per la fede di Giesú Cristo, ed essi contro di quella. Dimandò poi chi aveva insegnato a' Turchi a far bombarde; gli fu risposto come di sopra, cioè che li Turchi erano uomini e tenevano ingegno e saper d'uomini in tutta perfezione, salvo che nella fede. Dipoi mandò a dire se fosse alcuno nella nostra compagnia che sapesse giocar di spada e di brocchiero, che averia piacer di vedergli giocare. L'ambasciadore ordinò a Giorgio di Breu insieme con un altro valente che giocasse, li quali fecero molto bene, come si può sperare da uomini esercitati e allevati in guerra e arme: e il Prete li poteva molto ben vedere da dietro delle cortine, e n'ebbe piacer grande, come ne fu detto.
Come ebbero finito, l'ambasciador mandò a dire al Prete Ianni che gli piacesse udire e intendere quanto gli mandava a dire il capitan maggiore del re di Portogallo, e che l'espedisse per andar a ritrovar l'armata nel tempo della sua venuta, per non fare spesa senza utile alcuno. Venne risposta che pur ora ora eravamo arrivati, e non avevamo visto un terzo delle sue terre e signorie, e che ci dessimo piacere perché, come venisse il capitan maggiore a Mazua, esso gli mandaria a parlare, e che poi noi partissimo; e che, s'el detto capitan facesse una fortezza in Mazua o in Suachen o in Zeila, ch'egli la terria fornita di continuo di tutte le vettovaglie necessarie: e conciosiacosaché i Turchi siano molti e noi pochi, quando si avesse una simil fortezza nel mar Rosso, si potria disegnar molto bene il cammino per onde si dovesse andar con esercito in Gierusalem e nella Terra Santa. Rispose l'ambasciadore che questi erano tutti li desiderii del re di Portogallo, e che tuttavia gli addimandava che lo dovesse udire; e se determinasse di non udirlo, che gli mandaria le lettere del capitan maggiore, e in scrittura tutto quello ch'esso gli mandava a dire. Ne ordinò che 'l tutto fosse interpretato e scritto nelle sue lettere abissine e che glielo mandassimo, e cosí l'ambasciadore fece, richiedendoli con instanzia che l'espedisse. Dopo questo mandò a dire il Prete Ianni ch'avendogli portato un organo, venisse alcuno a sonarlo e a cantare, e cosí fu fatto. Volse poi anco che si ballasse al nostro modo, e finito il ballo gli facemmo a saper che noi eravamo cristiani, e che ne desse licenza per dir la messa a nostro costume, secondo la chiesa romana: subito ne venne risposta che ben sapea ch'eravamo cristiani, e che li Mori, ch'erano mali e perfidi, poi che facevano l'orazione a suo modo, perché non dovevamo noi farla al nostro? e che ne mandaria a dare tutte le cose necessarie. Arrivati che fummo al nostro alloggiamento, ne portarono trecento pani grandi e XXIIII zare di vino, dicendo colui che le faceva portare che gliene furono consegnate XXX, ma che nel cammino li portatori n'avevano trabalzate sei.
Delle dimande che furno fatte all'ambasciadore per ordine del Prete Ianni,
e delle vesti che diede a un paggio.
Cap. LXXVI.
La domenica seguente vennero alla nostra tenda molte proposte dal Prete Ianni all'ambasciadore, e tutte erano sopra le arme che aveva inteso che gli mandava il re di Portogallo, se le manderia in India. Disse l'ambasciadore che l'arme e tutte l'altre cose che 'l re mandava verriano l'anno seguente, e che 'l capitan maggiore le manderia o porteria egli medesimo: e cosí gli mandava a dir e scriveva nelle sue lettere. Volse poi che li nostri andassero a tirar le spingarde in quella gran siepe, e che alcuni suoi tirassero ancor essi, e dimandò se alcun de' nostri sapeva far la polvere. Gli fu detto che non vi era alcuno che la sapesse fare, ma che 'l capitan maggiore mandaria uomini con gli artificii per far il salnitro, e il solfere faria portar con le caravelle. Disse che 'l solfere si troveria nelli suoi regni, pur che vi fossero maestri per far il salnitro, e che altro non mancava alli suoi eserciti che il modo dell'artegliaria e chi insegnasse adoperarla, perché egli potria mettere ad ordine infinito numero di schioppettieri, con li quali soggiogaria tutti li re mori vicini. E a questo proposito un Genovese ch'era nella corte mi disse che aveva considerato che in questi regni si faria piú quantità di salnitro che in luogo del mondo, per gl'infiniti animali che vi sono, e che si trovano anco montagne di solfere. Ne fece intender poi che gli dovessimo far mostrare come s'armavano l'arme bianche che gli aveva mandate il capitan maggiore; furno subito li nostri ad armare uno, dove egli lo poteva ben vedere. Mandò poi a dimandar le spade e corazze che portava l'ambasciadore e la sua compagnia, per vederle: tutto gli fu portato. Dipoi riportate che furon, ne fece dire se 'l re di Portogallo gli mandarebbe di quella sorte d'arme; gli rispondemmo che sí, e che gli manderia tante quante fossero necessarie. In questo giorno al tardi ne mandò tanto pane e vino come il giorno avanti. Ed essendo già notte, venne alla nostra tenda un paggio con parola del re; all'ambasciadore parve di volerlo vestire tutto alla portoghese, con una camicia col collaro d'oro lavorata, con bolzachini e con una berretta con li puntali d'oro: il qual si partí molto allegro, vedendosi vestito a quel modo. La mattina seguente tornò il detto paggio con la berretta, la qual ne volse rendere, dicendo che 'l Prete Ianni gli aveva gridato, perciò che aveva preso le dette vesti; entrò poi a dire che 'l Prete averia piacere d'un giachetto di panno di Portogallo per armare l'arme sopra di quello: l'ambasciadore glielo diede, e quanto alla berretta che gli aveva tornato indietro, disse l'ambasciadore che non era costume di Portoghesi di dare una cosa e poi ritorla.
Come il Prete Ianni mandò a chiamare Francesco Alvarez, che gli portasse l'ostie e vestimenta da dir messa, e delle dimande che gli fece.
Cap. LXXVII
Il lunedí a ora di vespero mandò a chiamare me, Francesco Alvarez, ch'io gli portassi l'ostie, che le voleva vedere. Gliene portai undici molto ben fatte, e non in scatole, percioché io sapeva la riverenza che essi portano alle loro, che è solamente una focaccia, e queste avevano un crocifisso: e però le portai in una molto bella porcellana coperta di taffettà. Le vidde, e secondo che mi dissero ebbe molto piacere di vederle, e volse anco che gli fossero portate le forme, per riscontrare l'apertura di quelle con la figura delle ostie, e che similmente gli andassi a mostrare tutte l'altre cose con le quali noi dicevamo messa. Gli portai a mostrare il camicio, il calice, il corporale, la pietra dell'altare e ampolle, e tutto vidde a pezza per pezza. Mi mandò a dire ch'io discucisse la pietra d'altare, che era cuscita in un panno bianco, e cosí feci: la qual veduta, la mandò a coprire. Questa pietra era dalla parte di sopra molto liscia e quadrata e ben fatta, e dalla parte di sotto poco squadrata, secondo che è la natura e fazione delle pietre. Mi mandò a dire poi che in Portogallo erano cosí buoni maestri, perché non l'avevano lavorata ancor da quella banda, e che le cose di Dio dovevano essere perfette e non imperfette.
Essendo già notte, mi mandò a chiamare ch'io fossi alla sua tenda e che io entrassi dentro, e cosí feci. Mi posero nel mezzo di quella, la quale era tutta coperta di finissimi tappeti; io stava due braccia lontano dal Prete Ianni, che era di dietro di quelle cortine. Mi comandò ch'io mi vestissi come s'io volessi dir messa, il che feci. Come io fui vestito, mi fece addimandar chi n'aveva dato quell'abito, se gli apostoli o vero altri santi: gli risposi che la chiesa l'aveva cavato dalla passione di Cristo. Dissemi che io gli dovessi dire quello che significava ciascuna di queste pezze, e cosí cominciai di ciascuna cosa a dir quel ch'elle significavano secondo la passion del nostro Signore, e quando fui al manipolo dissi che era una picciola corda, con la quale legarono le mani a Giesú Cristo. A questo non si poté tenere il Prete che non parlasse di sua bocca, e gl'interpreti mi dissero che egli diceva che noi eravamo buoni cristiani, poi che cosí tenevamo la passione di Cristo. Venendo poi alla stola, gli dissi che quella significava la gran corda che gittarono al collo di Cristo per menarlo di qua e di là, e la pianeta significava le veste che gli posero per dispreggio. Qui tornò a parlare il Prete Ianni, e mi dissero gl'interpreti che egli diceva che noi eravamo verissimi cristiani, tenendo tutta la passione intera, e che mi ordinava che io mi spogliassi e gli tornassi a dire il significato di ciascuna cosa: e cosí feci. Dove finito, tornò di nuovo con voce molto alta che eravamo veri cristiani, poi che sapevamo la passione di Cristo cosí interamente, e che poi che io diceva che la chiesa aveva cavato questo dalla passione di Cristo, qual era questa chiesa? perché tenevamo due teste nella cristianità? la prima di Constantinopoli in Grecia, la seconda di Roma nella Franchia. Io gli risposi che non vi era piú d'una chiesa, e posto che Constantinopoli fosse stato capo nel principio, era cessata d'essere, perché il capo della chiesa era dove san Pietro stava, perché Giesú Cristo disse: "Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam". E quando san Pietro stava in Antiochia, ivi era la chiesa perché ivi stava il capo, e come venne a Roma, ivi restò e sempre ivi serà il capo, e questa chiesa retta per lo Spirito Santo ordinò le cose necessarie per dir la messa. E ancora piú gli confermai questa chiesa dicendogli che, negli articoli della nostra fede che gli apostoli composero, l'apostolo san Simon dice: "Credo nella santa chiesa catolica"; ma nel Credo grande che si compose nel concilio per li trecento e diciotto vescovi contra la eresia di Arrio, dicono: "Et in unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam", e non dicono: "Credo nelle chiese", ma solamente nella chiesa catolica e apostolica: e questa è la chiesa santa romana, nella quale stava san Pietro, e sopra il quale fondò Idio la sua chiesa, come egli disse. E san Paulo, vaso eletto e dottore delle genti, la chiama catolica e apostolica, perciò che in lei sono tutti i poteri apostolici, che Dio diede a san Pietro e a tutti gli altri apostoli, di legare e slegare. Mi risposero che io rendeva buona ragione della chiesa di Roma, ma che cosa io diceva della chiesa di Constantinopoli, che era di Marco, e quella di Grecia, che era di Giovanni patriarca d'Alessandria? A questo gli risposi che la sua ragione aiutava la mia, perché san Pietro fu maestro di san Marco, ed esso lo mandò in quelle parti, e cosí né Marco né Giovanni poterno far chiese salvo in nome di chi gli aveva mandati, le qual chiese sono membri del capo che li mandò, a chi tutte le autorità furno date. E dopo molti anni che san Ieronimo e altri molti santi si separorno, ordinarono monasterii di aspra e santa vita per servir a Dio, che detti monasterii non si averiano potuti far senza l'auttorità della chiesa apostolica, che è quella di Roma; e come potriano far chiese in pregiudicio del capo grande, se non fussero state per Giesú Cristo nostro Signore edificate e fatte? S'acquietorno a questo, e dicevano gl'interpreti che il Prete Ianni aveva grandissimo piacere.
Dipoi mi domandarono se erano in Portogallo li preti maritati; gli dissi di no. Mi dimandarono se tenevamo il concilio di papa Leone che si fece in Nicea; risposi che sí, e già gli aveva detto che ivi fu fatto il Credo grande. Di nuovo mi dimandarono quanti erano i vescovi col papa; risposi che già lo aveva detto, che erano trecento e diciotto. Tornarono a dirmi che in questo concilio fu ordinato che li preti si maritassero, e se detto concilio fu giurato e confermato, perché non si maritavano? Risposi che di questo concilio non sapevo altra cosa se non che si fece il Credo, e che la nostra Donna fusse chiamata madre di Dio. Mi dissero poi molte cose che ivi furono ordinate e giurate, le quali papa Leon ruppe, e che gli dicessi quali erano; gli risposi che non le sapeva, ma che al mio parere, se alcuna n'aveva rotta, seriano di quelle che toccavano alla eresia, che in quel tempo era grande, ma che le necessarie e utili le aveva approbate, e che altramente esso non saria stato approbato e canonizato per santo come egli è. Di nuovo mi tornò a dimandare del matrimonio di preti, dicendomi se gli apostoli furono maritati. Gli risposi che mai non aveva letto in libro alcuno che gli apostoli, dipoi che andorono in compagnia di Giesú, avessero mogli, e ancor che san Pietro avesse una figliuola, nondimeno l'ebbe di sua moglie avanti che fosse apostolo, e che san Giovanni Evangelista fu vergine; e che aveva letto che, dopo la morte di Cristo, gli apostoli predicavano constantemente la fede sua e non dubitavano di morire per quella; e che la chiesa romana, che è la vera, ordinò e confermò che ad imitazion degli apostoli che prete alcuno non dovesse aver moglie, acciò che fossero piú netti e piú puri delle lor conscienze, e non stessero tutto il giorno occupati in allevar figliuoli e trovargli da vivere. A questo mi venne risposta che li lor libri comandavano che si maritassero, e che cosí diceva san Pietro. Molte altre dimande mi fecero, stando io sempre vestito da messa. In ultimo fui dimandato se noi avevamo il cantar degli angeli quando Cristo nacque, e se 'l dicevamo nella messa; e dicendo io di sí, volsero che io il cantasse, e cosí feci; similmente mi fecero cantar alcuni versi del Credo. Stava di continuo a questa pratica un interprete, e appresso di lui il frate che ne aveva condotto per cammino: costui era stato altre volte in Italia, e sapeva qualche poco di latino. Gli fece dimandar il Prete Ianni se egli intendeva ciò che io diceva; gli rispose di sí, e che io aveva detto la Gloria e il Credo come lo dicono essi. E mi disse il detto frate che, a ciascuna risposta che si faceva, il Prete mostrava di averne grandissimo piacere, e diceva che eravamo veri cristiani e che sapevamo tutte le cose della passione. Dipoi mi fece dimandare perché non dicevo messa secondo il nostro uso; gli risposi perché non avevo tenda per dirvi messa. Disse che egli ordinaria che ne fusse apparecchiata una buona, e che dovessimo dire ogni dí la nostra messa. Dopo di questo ne espedí, e che fossimo alla buon'ora: e cosí ci partimmo, ed era già passata la mezzanotte, e tutto questo tempo fu speso in queste dimande senza perder punto d'intervallo.
Del robbare che fu fatto all'ambasciadore e della querela fatta al Prete, sopra la qual non si fece cosa alcuna; e come ne fece alzar una tenda per dir messa.
Cap. LXXVIII.
La notte che io stetti cosí lungamente col Prete, avanti giorno fu robbato l'ambasciadore nella tenda ove dormivamo, e gli portaron via due cappe di panno, due berrette ricche, sette camicie sottili e alcuni fazzuoli sottili: e cavaron tutte queste robbe di una valigia di cuoio, che era grande come una cassa. Ad Emanuel de Mares gli portaron via un'altra valigia con quanto vi aveva; ad un di quelli franchi che ritrovammo alla corte gli levaron sette pezzi di tela, che 'l giorno avanti le aveva portate quivi in salvo. Tutto questo furto poteva valer da dugento crociati. La mattina l'ambasciadore volse che io andassi con lo scrivano alla tenda del Prete, a dolermi e dimandargli giustizia di questo furto: e cosí feci. Ma perché l'ambasciadore aveva preso duo ladri, però, stando noi appresso alla tenda del Prete, venne una femina gridando e dimandando giustizia, dicendo che la notte passata l'ambasciadore e la sua compagnia, per mezzo di un Arabo che sapeva la lingua del paese, gli avevano levata una sua figliuola per forza e condotta alla sua tenda, della quale ne avevano fatto tutto il lor volere, e perché un suo figliuolo si lamentava che gli era stata sforzata sua sorella, l'avevano preso insieme con l'Arabo che ingannò la giovane, e gli opponevano che erano stati robbati. Uditone noi e questa femina, ne fecero una medesima risposta, cioè che ci faria giustizia, che andassimo alla buon'ora.
In questo medesimo giorno, il frate che era stato la notte passata meco davanti al Prete venne con una tenda ricca, ma mezza usata, dicendo che il Prete ne la mandava per dir messa in quella, e che immediate ella si alzasse, perché il giorno seguente era la festa dell'angelo Rafaele, e che si dicesse messa in quella ogni giorno e si pregasse Iddio per lui. Questa tenda era di broccatello e di velluto della Mecca, foderata di dentro via di tela sottilissima de Chaul. Me dissero che già quattro anni il Prete l'aveva avuta nella guerra che egli fece contra il re di Adel, il quale è moro e signore di Zeila e Barbora; e il Prete ne mandò a dire che dovessimo benedirla, avanti che vi dicessimo messa dentro, per causa delli peccati che erano stati fatti in quella dalli Mori. Subito in quella notte fu alzata e la mattina vi dicemmo la messa, e vennero a udirla quanti franchi erano nella corte già quaranta anni, e anche molti uomini del paese.
Come il Prete mandò a chiamar l'ambasciadore, e di alcune dimande che gli fece, e come gli mandò a dimandar di nuovo le spade che egli aveva.
Cap. LXXIX.
Alli 8 di novembre, il Prete ne mandò a chiamare e subito vi andammo; volse l'ambasciadore portar le casse e li sacchi del pevere che gli aveva promesso. Arrivando noi alla entrata della prima siepe, ne tennero con alcune frivole dimande delli negri che avevamo presi per il furto che ne avevano fatto: e tanto andò in lungo la pratica e le dimande, che fra questo tempo mandarono a dislegar detti negri, senza conclusione né rimedio alcuno del furto, e il Prete ne mandò a donare trecento pani e trenta zare di vino e certe vivande di carne della sua tavola, e cosí ce ne tornammo alla nostra tenda. Ne mandarono poi un'altra fiata a chiamare, dove andati stemmo un gran pezzo sopra dimande, fra le quali fu questa, se l'ambasciadore veniva di ordine del re di Portogallo o del suo capitan maggiore, e se esso capitan, quando venne a Mazua, aveva amazzato alcuno di quelli Mori; e perché non facevamo il cammin da mare verso il regno di Damute, che è molto piú vicino; e se essendo servitori del re di Portogallo, per che causa non avevamo le croci segnate nella carne sopra la spalla, perché cosí è il lor costume, che tutti li servitori del Prete abbino una croce segnata nella spalla destra; e poi che gli avevamo dato il pevere, con che cosa ci compraremmo il vivere per il cammino. Rispose l'ambasciadore che ci faremmo le spese con molto oro e argento e panni che portavamo con noi, datici dal re di Portogallo. E cosí, sopra queste dimande, l'ambasciadore gli richiese licenza e la sua espedizione per partirsi; subito a questo venne risposta che non avessimo paura, che presto ce ne andaremmo. Disse l'ambasciadore: "Che paura potemo noi avere, stando avanti di sua Altezza e nella sua corte, e in questi regni dove tutti sono cristiani?" E con questo ne licenziò.
Il giorno seguente mandò a dimandarne le spade che noi avevamo, per vederle di nuovo; l'ambasciadore gliele mandò dicendogli che dovesse tenerle, che lo riceveria in grazia grande. Venne subito risposta, se egli le pigliasse, che diria il re di Portogallo, che egli avesse levato le spade alli suoi che ne hanno bisogno. L'ambasciadore gli mandò a dire che sua Altezza le pigliasse, perché nella India si trovavano nelle fortezze molte spade, e che il re averia gran piacere che sua Altezza si servisse delle armi delli suoi vasalli: nondimeno con questa risposta non le volse tenere, ma le rimandò indietro, e ne fece far molte proposte e risposte che se pretermettono.
Come il Prete mandò certi cavalli all'ambasciadore accioché scaramucciassino alla nostra guisa, e di un calice che gli mandò con alcune dimande.
Cap. LXXX.
Alli XII di novembre ne mandò il Prete cinque cavalli molto grandi e belli alla nostra tenda, dicendo all'ambasciadore che venisse egli con quattro altri sopradetti cavalli a scaramucciare davanti la sua tenda. Ed era già molto notte, e l'ambasciadore non fu molto contento per esser cosí tardi e che non si poteva veder; nondimeno immediate furono accese tante torcie che pareva di giorno, e quivi scaramucciarono di sorte che piacque grandemente al Prete: e compito ritornammo alla nostra tenda, dove subito il Prete ne mandò tre zare di vino, migliore degli altri mandatine per avanti. Il giorno seguente mandò all'ambasciadore un calice d'argento molto ben dorato e fatto alla nostra foggia, cosí nel piede come nel vaso: nel piede vi erano gli apostoli di rilievo, e nel vaso alcune lettere latine che dicevano: "Hic est calix novi Testamenti". E ne mandò a dire che bevessimo con quello, e questo perché non intendevano quelle lettere, e la foggia del calice non era simile alli suoi, li quali hanno la coppa poco manco larga d'una scudella profonda, e cavano il sacramento con uno cocchiaro. Ne mandò in questo giorno il Prete a fare molte dimande; fra le altre fu questa, che voleva che andassimo a pigliar la città di Zeila con l'armata, che egli vi voleva venire in persona per terra con tutto il suo esercito, e che le sue genti si vederiano allora con quelle del re di Portogallo, e che, non ostante che vi siano due giornate di cammino che non si trova acqua, nondimeno che lui faria provision di tanti camelli che la portariano abondantemente. Rispondemmo che noi venivamo di Portogallo cinque e sei mesi senza pigliar acqua, perché non vi era luogo dove si potesse prendere, e pure ne avemmo avuto abastanza.
Alli XIIII del mese ne mandò il Prete due cose di poca valuta, ma belle, cioè un panno dorato per l'altare della nostra chiesa, e un bacino e un boccale fatto di legno negro con vene rosse e bianche, che mai vedemmo il piú bello, per gittar l'acqua sopra le mani. E ne mandò a dire che gli mandassimo tutti li nostri nomi in scritto: subito gli furno portati. Ne tornò a dire quello che voleva dire Rodrigo, e quello che voleva dire Lima, e cosí di tutti gli altri: e la causa di tal dimanda fu perché in questo paese non si mette mai nome alcun proprio che non abbia qualche significazione.
La mattina seguente nella tenda dell'ambasciadore fu fatto un altro furto, che dormendo Giorgio di Breu, gli fu levata una cappa che gli era costata vinti ducati, e a noi alcuni sacchi di diverse nostre robbe: e non fecero alcuna diligenza di farne restituir queste cose, per esser, come abbiamo detto, un capitano de' ladri, che per alzare le tende del Prete non ha alcun altro premio se non quello che rubbano. In questo giorno il Prete ne mandò una sella di cavallo tutta lavorata di pietre di corniole, cioè incastrate (questa, oltra l'essere molto grave, era anche molto mal fatta), dicendo che l'ambasciadore cavalcasse con quella. Subito venne poi un'altra dimanda, di qual cosa averia piacere il re di Portogallo di avere di questo paese, se gli piaceriano uomini eunuchi o altra cosa. Gli mandò a dire l'ambasciadore che li re e gran signori stimavano piú le cose che gli erano mandate dagli altri re che la valuta di quelle.
Come il Prete mandò a mostrare un cavallo all'ambasciadore, e ordinò che li signori grandi della sua corte venissero a udire la mia messa.
Cap. LXXXI.
Alli XV del mese il Prete mandò a mostrar un cavallo tutto coperto con lame dorate, dicendo se si trovavano tal arme coperte in Portogallo; gli fu risposto che il re di Portogallo gli mandava per Odoardo Calvan molte e infinite arme, fra le quali erano alcune coperte da cavalli tutte di acciale, le quali erano restate in India, e che il re gliene mandaria quante volesse. Il sabbato seguente ordinò il Prete a tutti li signori e grandi della sua corte che venissero a udire la nostra messa, e il simile fecero la domenica seguente: ma molto piú furno il sabbato, perché oltra la messa noi battezzammo anche, e secondo che ne pareva dalli lor gesti, e sí come ne dicevano li franchi che trovammo in questo paese e gl'interpreti che erano con noi, costoro stavano molto maravigliati e lodavano molto li nostri ufficii, dicendo che non sapevano fargli altra opposizione, se non che noi non davamo la communione a tutti quelli che stavano alla messa, e cosí a quelli che battezzavamo. Gli fu risposto che la communione non si dava se non in certe feste dell'anno, e questo a quelli che erano confessati delli lor peccati; a quelli veramente che si battezzavano, ancora che in quel tratto fusseno puri e netti, nondimeno non sapevano con quanta riverenza si aveva a pigliare il corpo del nostro Signore, e dovevano anche avere età conveniente. Mi risposeno che questa era buona ragione, ma l'usanza loro era di communicar tutti, e anche quelli che battezzano, cosí grandi come piccoli.
Alli XVIII del detto mese il Prete mi mandò a chiamare e mi fece molte dimande, e fra l'altre quanti profeti avevano profetizato della venuta di Cristo; gli risposi che al mio giudicio tutti avevano parlato di quella, cioè uno della venuta, l'altro della incarnazione, l'altro della passione e resurrezione, che tutto ritorna in Cristo. Item quanti libri aveva fatto san Paulo; gli risposi che era un libro solo distinto in molte parti, cioè in molte epistole. Mi dimandò similmente quanti libri avevano fatti gli evangelisti, e gli risposi il medesimo. Item se noi avevamo un libro diviso in otto parti, che avevano scritto tutti gli apostoli essendo congregati in Gierusalem, che essi chiamano Manda e Abetilis. Risposi che non aveva piú inteso di simil libro, e appresso di noi non si trovava; disse che essi osservano tutti i comandamenti scritti in quello. Dipoi entrò in alcune altre dimande, alle quali, essendo già stracco, risposi meglio che seppi: e conobbi che egli è molto pratico della sacra Scrittura e di continuo la legge.
Come l'ambasciadore fu chiamato, e come appresentò le lettere che egli portava al Prete Ianni, e come il Prete si lasciò vedere e parlare.
Cap. LXXXII.
Un martedí fummo mandati a chiamar dal Prete, e fu alli XIX di novembre; e giunti alla prima porta o vero entrata dimorammo un grande spazio, facendo molto gran freddo, ed era ben notte. Noi entrammo poi con quelli passi e dimore come per due volte avevamo fatto, e si era congregato molto maggior numero di persone che non furon quelle per avanti, e la maggior parte con arme, e con gran numero di candele e torchi accesi avanti alle porte, che pareva di giorno; e non ne fecero aspettar molto, che subito entrammo con l'ambasciadore e nove persone portoghese appresso le prime cortine, le qual passate ne trovammo di molto piú ricche, e anche queste noi trapassammo, dove trovammo alcuni ricchi e grandi tribunali e coperti di ricchi tappeti. Avanti questi tribunali stavano altre cortine di molto maggior ricchezza, le quali, stando noi vicini, le aprirno per due bande: e quivi vedemmo che il Prete Ianni sedeva sopra un solaro con sei gradi da salirvi, tutto riccamente adornato. Aveva in capo una corona alta d'oro e d'argento, cioè un pezzo d'oro e l'altro d'argento, e una croce d'argento in mano, e aveva la faccia coperta con un pezzo di taffettà azurro, il qual si alzava e abbassava, di modo che alle volte se gli vedeva tutta la faccia, e poi ritornava a coprirsi. Da man destra vi stava un paggio vestito di seta con una croce d'argento in mano, nella quale vi erano fatte figure di rilievo, le quali dal luogo dove noi stavamo non potevamo ben vedere: ma dapoi io ebbi in mano questa croce, e viddi le figure. Era vestito il Prete di una ricca vesta di broccato d'oro soprariccio, e la camicia di seta con manighe larghe, che parevano ducali; dal traverso in giuso era cinto con un ricco panno di seta e d'oro, come grembiale di vescovo disteso, ed egli sedeva in maestà, al modo che dipingono Dio Padre sopra i muri. Oltra il paggio che teneva la croce, vi stava da ciascuna parte un altro paggio similmente vestito, con una spada nuda in mano. Nella età, colore e statura mostra di esser giovane, non molto negro, come saria di color di castagna overo di pomi ruggeni non molto rovani, e mostra grazia grande nel suo colore e nella faccia, ed è mediocre di statura, e vien detto esser di età di 23 anni e cosí egli dimostra. Ha il volto rotondo, gli occhi grandi, il naso aquilino, e gli cominciava a nascer la barba; nella presenza e nell'apparato pare ben gran signore, come veramente è. Noi stavamo lontani da lui per spazio di due lancie: venivano e andavano risposte e proposte, tutte per il cabeata. Da ciascuna parte di questo tribunale vi stavano quattro paggi riccamente vestiti, ciascuno con la sua torcia accesa in mano.
Compite queste dimande e risposte, l'ambasciadore diede al cabeata le lettere del capitan maggiore, le quali erano state tradotte in lingua abissina, ed egli le dette al Prete, il qual le lesse molto espeditamente e, compite di leggere, disse: "Cosí come queste lettere sono del capitan maggiore, cosí Iddio avesse voluto che le fossero state del re di Portogallo suo padre"; nondimeno che anche queste gli erano gratissime, e ne dava molte grazie a Dio per questo gran dono che gli aveva fatto in veder quello che gli antecessori suoi non viddero, né egli pensava di vedere; e li suoi desiderii sariano ben del tutto adempiti se il re di Portogallo facesse far fortezze nell'isola di Mazua e nel luogo del Suachen, perché egli dubitava che li Turchi nostri inimici non si facessero forti in quelli, il che quando succedesse, sariano di gran disturbo a lui e a noi Portoghesi; e che per questo effetto lui daria tutte le cose necessarie, sí di gente per lavorare come di oro e vettovaglie, e in fine tutto quello che fusse bisogno; e che gli pareria che oltra le sopradette fortezze si dovesse ancora pigliar la città di Zeila, e in quella farvi una fortezza, per esser luogo molto abondante di ogni sorte di vettovaglie: e presa questa città, si assicuraria che da quella parte non potriano andar le vettovaglie verso la città di Adem, Zidem, la Mecca, e per tutta l'Arabia e fino al Toro e al Sues, le qual terre, non avendo queste vettovaglie, sariano come perse, non possendo aver il viver se non da questi luoghi. A questo gli fu risposto che non vi era difficultà alcuna di pigliar Zeila, né tutti gli altri luoghi che sua Altezza comandasse, perciò che dove la potenzia del re di Portogallo si approssimava, tutti fuggivano e non aspettavano anche l'ombra delle navi, ma che Zeila era fuori dello stretto e Maczua e Suachen erano dentro, e che, fatte le fortezze in questi tre luoghi, si conquistariano facilmente il Zidem e la Mecca e ciascuno altro luogo fino al Cairo, e si proibiria la navigazion delli Turchi che stanno in Zebit. Queste parole furno molto grate al Prete e gli piacquero grandemente, e tornò a replicare che egli si obligaria a dar tutte le vettovaglie, oro e gente per far questa spesa e per l'armata, e pur che trovasse il modo di aprire qualche strada per congiungersi con li principi cristiani, esso non sparagneria tutto quello che avesse al mondo. L'ambasciadore gli disse che sua Altezza nominasse dove e da chi si averiano queste vettovaglie; rispose che egli ordineria che da tutti i suoi regni circonvicini gli fussero date, e che desidereria che esso ambasciadore restasse capitano in una di queste fortezze. Gli fu risposto che, fatta la fortezza, saria posto immediate un capitano in ciascuna, e che, se sua Altezza l'avesse per bene, esso domandaria al capitan maggiore che gli facesse grazia di uno di tal luoghi. E sopra questa pratica di pigliar e far queste fortezze noi consumammo un gran tempo con estremo piacere del Prete, qual mostrava non aver maggior desiderio di questo, e non poteva saziarsi di parlarne. E cosí, ispediti con buone parole, ce ne ritornammo contenti, principalmente di averlo veduto e parlatogli.
Come io fui chiamato dal Prete, e delle dimande che egli mi fece della vita di san Ieronimo, di san Domenico e di san Francesco.
Cap. LXXXIII.
Nel giorno seguente, alli 20 di novembre, fui chiamato dal Prete, e fra le altre dimande furno queste, che io gli dicessi la vita di san Ieronimo, di san Domenico e di san Francesco, e di qual paese erano, e per che causa nelle lettere del capitan maggiore veniva fatta menzione che il re di Portogallo aveva fatto chiese di questi santi nelli luoghi che egli aveva preso nelli regni di Manicongo e di Benin e nelle Indie. Gli risposi che san Ieronimo nacque in Schiavonia, e san Domenico in Spagna, e san Francesco in Italia, e diedi informazion larga del lor ordine, riportandomi al libro che aveva delle lor vite. Subito mi venne risposta che gli mostrassi le vite di questi santi, poi che io diceva che le aveva.
Vennero poi con un'altra dimanda, dicendo, poi che noi e loro eravamo cristiani, per che causa avevamo divise le chiese, cioè di Antiochia e di Roma, e che Antiochia fu anticamente capo, fino al concilio di papa Leone, nel quale furono 318 vescovi. Risposi che altre volte aveva detto a sua Altezza che non vi era dubio alcuno che Antiochia era stata capo, e che san Pietro fu cinque anni vescovo in quella, e poi 25 anni in Roma. Vennero dapoi con un'altra dimanda, se facevamo tutto quello che il papa ne comandava; dissi de sí, che cosí eravamo obligati per l'articolo della nostra santa fede, che confessava una santa chiesa, e quella catolica. Sopra questo mi risposero che, se il papa comandasse a loro cosa che gli apostoli non l'avessero scritta, non la fariano, e cosí se il lor abuna gliela comandasse, abbruciariano tal comandamento.
Venne poi un'altra dimanda, perché in Etiopia non sono tanti corpi di santi come sono nell'Italia, Alemagna e Francia. Gli risposi che in quelli avevano signoreggiato molti imperadori che avevano li lor ministri gentili molto crudeli, e che quelli che si convertivano alla fede di Cristo erano tanto constanti nella fede che piú presto volevano morire per quella che adorar gl'idoli, e per questo vi erano tanti martiri e vergini. Sopra questo venne risposta che io diceva la verità, la quale aveva piacer grande d'udire cosí chiara, e se noi sapevamo quanto tempo era che la Etiopia era fatta cristiana. Gli mandai a dire che io pensava che, poco tempo dopo la morte di Cristo, questa terra fu convertita dall'eunuco della regina Candace, il qual fu battezzato per l'apostolo san Filippo. Mi venne risposta che per questo eunuco non fu convertito se non la terra di Tigrai, ch'è in Etiopia, e il resto era stato convertito con le arme, come faceva egli ogni giorno di diversi regni; e che il primo convertimento della regina Candace fu X anni dopo la morte di Cristo, e da quel tempo fino a ora era stata governata per cristiani, e per questo non vi erano martiri, né era stato necessario, e che molti uomini e donne avevano fatto santa vita; e che la mattina seguente io gli mostrassi la vita di san Ieronimo, di san Francesco e di san Domenico e di san Quirico, che essi chiamano Quercos.
Come furono portate le vite delli detti santi, le quali fecero tradurre in lingua abissina, e come volsero udire la nostra messa.
Cap. LXXXIIII.
Il giorno seguente il Prete mandò a torre il mio libro, che si chiama Flos sanctorum, dicendo che segnassi le vite delli detti santi. Gli mandai il detto libro, il qual subito mi mandorno indietro insieme con duoi frati, dicendo che il Prete voleva che scrivessero il nome di ciascun santo in lingua abissina e sopra ciascuna figura. Il giorno seguente vennero detti frati con il libro per tradur queste vite, e vi mettemmo tutto un giorno in scriverne una per esser molto grande e travagliata cosa il tradur dalla nostra lingua nella loro. Oltra delle dette vite vi mettemmo quella di san Sebastiano e di santo Antonio e di san Barlaam: e perché essi non sanno il giorno della sua festa, mi dimandorno molto strettamente se io il sapeva. Io mi viddi molto tribulato, perché non lo trovava sopra alcuno calendario; nondimeno lo trovai poi sopra il repertorio delli tempi e gli dissi il giorno, e loro subito lo fecero mettere sopra li lor libri, e guardare il giorno. Io non aveva ardire di andare a parlar al Prete se non portava meco il libro del calendario, perché mi dimandavano il giorno di qualche santo e volevano che immediate glielo dicessi.
Il giorno di santa Caterina, che fu di domenica, mandò il Prete alcuni canonici e preti delli principali di casa sua che fussero a udire la nostra messa, la qual dicemmo in canto. Stettero dal principio insino al fine, e ne disse il nostro interprete che costoro dicevano che non avevano udita messa da uomini, ma da angeli. V'era presente anche un pittore veneziano che si chiamava Nicolò Brancaleone, che era piú di quaranta anni che egli stava in questo paese e sapeva benissimo la lingua abissina, persona molto onorata, ricchissima e gran signore di un gran paese con molti vassalli, ancora che egli fosse pittore. Questo era l'interprete a questi canonici e preti, e diceva lor della messa nostra il Kirie eleison, la Gloria e il Dominus vobiscum, che in lingua abissina si dice "Calamelos", e cosí della Epistola e dell'Evangelio. Questi canonici dieron fama per tutto il campo di questo ufficio di messa, che mai non avevano udito una tale, e che ogni cosa era benissimo fatto, eccetto che un solo diceva la messa e che non davano la communione a quanti stavano a quella.
In questo medesimo giorno di domenica, essendo noi andati a dormire, il Prete ne mandò a chiamare; e arrivati alle prime cortine, ne fecero vestire tutti riccamente ed entrare nella presenza del Prete, il qual sedeva sopra il tribunale con tutti quelli medesimi modi che egli stava prima. E quivi ne fece dire di molte cose, e fra le altre che li franchi che erano nella corte potevano andarsene alla buon'ora, e l'ambasciadore insieme con la sua compagnia, e che vi restasse un franco nominato Nicolò Muzza, che per lui mandaria le lettere, le quali avevano da esser fatte d'oro, e che per questo non poteva scrivere cosí presto. Rispose l'ambasciadore che non si voleva partir senza la risposta, la quale aspettaria tanto tempo quanto piacesse a sua Altezza, supplicandola che volesse espedirla in tempo che egli potesse trovar l'armata del capitano in Mazua. Rispose il Prete con la sua propria bocca che gli piaceva, e se il detto ambasciadore resteria capitano nella fortezza che si faria in Mazua. Disse l'ambasciadore che il suo desiderio era d'andar a veder il re di Portogallo suo signore, ma che egli faria quanto piacesse a sua Altezza. E con questo ce ne ritornammo alle nostre tende.
Del partire che fece il Prete Ianni verso un'altra parte, e del modo
che fecero per portar le robbe dell'ambasciadore.
Cap. LXXXV.
Alli 25 del detto mese il Prete si partí in questo modo, che, montato a cavallo con due paggi soli, passò davanti la nostra tenda scaramucciando col cavallo: e subito si levò un rumore per tutto il campo, che diceva: "Egli è partito il negus", e ognuno s'affrettava d'andargli dietro a piú potere. Ne fece dare cinquanta mule: trentacinque per portar la farina e il vino e quindici per il resto delle robbe, con alcuni schiavi; e fummo raccomandati a un signore che si chiamava aiaz Rafael (aiaz si è titolo di signoria e Rafael suo nome), e ne faceva dar ogni giorno un bue. Noi ci partimmo e il mercoledí arrivammo alla corte, e alloggiammo in una gran campagna appresso d'un fiume; venne subito a visitarne un frate molto onorato, che è capo delli scrivani del Prete e molto dotto di lettere di chiesa, e anche nebret delli fratelli di Cassumo, e disse che veniva a vederne da parte del suo signore, e se ne erano state date tutte le cose ch'egli aveva ordinate. Disse l'ambasciadore che egli baciava le mani a sua Altezza per questa visitazione, e che stavano bene, e ne erano state date tutte le cose ordinate per sua Altezza.
Del giocare alle braccia, e del battesimo che fu fatto.
Cap. LXXXVI.
Alli 2 di decembre del detto anno 1520, ritrovandosi Lazaro di Andrade nostro Portoghese pittore appresso la tenda del re, fu richiesto se egli voleva giocar alle braccia, e lui senza pensarvi sopra giocò, e al primo tratto gli ruppero una gamba: e immediate il Prete gli donò una veste di broccato, e fu portato a braccio da quattro uomini alla nostra tenda. Il giorno seguente il Prete ne mandò a dimandare se vi fosse alcuno che volesse giocare alle braccia con li suoi; subito l'ambasciadore si pensò di mandarne duoi eletti, cioè Stefano Pagliarte e un Airas Dis, per vendicare il pittore. Questo Airas fu il primo che entrò a giocare con quello che aveva rotto la gamba al pittore, e gli fu rotto subito un braccio, e se ne ritornò adietro. Stefano Pagliarte non volse giocare, vedendosi solo, ed ebbe paura. Questo giocatore del Prete si chiama Gabmarian, che vuol dire "servo di Maria", e fu moro, ed è uomo largo di spalle e forte, e lavora sottilmente di sua mano seta e oro. In questo giorno venne nuova dal suo gran betudete, che era in guerra contra un re moro, che aveva avuto vittoria di quello, e mandava molto oro e schiavi, e le teste degli uomini grandi che egli aveva morti.
In questo tempo a un maestro Pietro Cordiero genovese nacque di sua moglie negra un figliuolo, e mi richiese che in capo di otto giorni io volessi battezzarlo, perché loro non battezzano li maschi se non alli quaranta giorni. Io fui alla tenda del Prete a fargli intendere questa cosa, e che sua Altezza ordinasse ciò che gli piaceva. Subito venne risposta che io battezzassi e dessi tutti li sacramenti come si fa nella Franchia e chiesa romana, e che vi lasciasse stare tanta gente del suo paese quanta volesse esservi a vedere, e che mi fusse dato dell'olio santo. Io feci questo battesimo alli 10 di decembre, e vi vennero molte genti, e delli piú onorati e principali della corte. Io faceva tenere la croce alzata, perché cosí è il costume loro, e feci questo officio piú quietamente che io potetti. Stettero tutti maravigliati e dicevano gl'interpreti, che intendevano tutti li lor gesti, che erano restati molto satisfatti di tal officio, il qual gli pareva piú perfetto che il loro.
Del numero delle genti da cavallo e da piede che vanno dietro al Prete quando egli va in cammino.
Cap. LXXXVII.
Partendo di questa terra, pigliammo il cammino per quella via per la qual noi eravamo venuti alla corte, e tanta era la gente che camminava da ciascuna parte, che per 10 o 12 miglia le genti erano tanto appressate l'una con l'altra che pareva la processione che si fa del Corpo di Cristo: e delle dieci parti una è di gente ben vestita, e tutti gli altri vestiti con pelle e altri vestimenti poveri, e portano seco tutte le robbe loro, che solamente sono pignatte di far vino e scudelle da bevere. E se non vanno troppo da lungi, questi poveri portano le lor povere case cosí fatte e coperte come le tengono, e se vanno da lungi portano li legni solamente, che sono alcune bacchette, e li ricchi fanno portare le tende, molto buone e di gran pregio. Delli grandi gentiluomini e signori non parlo, perché con ciascuno di loro si move una città o una buona villa, come di tende cariche e sopra mule. Noi Portoghesi e franchi avevamo considerato molte volte queste mule, e pensammo ch'elle passassino il numero di cinquantamila; li cavalli sono ben pochi, perché, ancora che ve ne siano de belli, per non saperli ferrare subito si guastano li piedi: e se il Prete cammina per un viaggio lungo, restano tutte le ville piene di cavalli con li piedi guasti, li qual dapoi fanno venire pian piano. Delle mule di carico non se ne tien conto, e cavalcano cosí muli come mule. Vi sono infiniti ronzini che portano la soma, pur ancora non si guastano li piedi come li cavalli. Vi sono molti asini, che servono meglio che li ronzini; fanno portar la soma ancora a molti buoi, e in quelle terre che sono piane e campagne li camelli portano le cariche.
Come le chiese della corte vengono portate, cioè le pietre dell'altare,
e come il Prete si mostra tre volte l'anno a tutto il popolo.
Cap. LXXXVIII
Il Prete poche volte cammina che vada a cammin diritto, né che l'uomo sappia dove egli vada, ma le pietre dell'altare, cioè le sue chiese, le quali sono 13, camminano alla diritta via, ancora che il Prete vada fuori di cammino, e tutta la gente va dietro per la strada fino che trovano una tenda bianca alzata, e immediate ciascuno si alloggia al suo luogo: e molte volte il Prete non viene a questa tenda, ma dorme per monasteri e altre chiese. In questa tenda che si alza, di continuo si fanno le solennità di cantare e sonare, come se il Prete vi fusse, ma non cosí perfettamente come quando egli vi è. Le pietre d'altari sono portate con gran riverenza e sempre da preti da messa, e sono quattro che le portano sopra un solaro su le spalle, e quattro preti vanno dietro per mutarsi a vicenda nel portarle. Sono coperte di ricchi panni di broccato e di seta, e vi vanno avanti duoi chierichi con un turribolo e una croce, e l'altro con una campanella sonando: e ciascuno uomo o donna che l'ode si lieva fuori di strada, e se è a cavallo dismonta immediate e dà luogo che la chiesa passi. Similmente vengono condotti con la corte quattro leoni con due catene per ciascuno, una davanti e una da dietro, e ciascuno gli dà luogo.
Noi camminammo con la corte fin alli 20 di decembre, e arrivammo sopra quelle montagne terribili dove sono le porte per le quali passammo nella nostra venuta, e quivi ne alloggiarono. Poi che le tende del Prete furono alzate, immediate cominciarono a fare un solaro molto alto appresso una delle tende, perché il Prete voleva mostrarsi al popolo il giorno di Natale. E si mostra generalmente tre volte l'anno, cioè nelli giorni di Natale, di Pasqua e di Santa Croce di settembre, e la causa di queste tre mostre è perché suo avo, padre di suo padre, che aveva nome Alessandro, fu tenuto secreto per tre anni dopo la sua morte dalli suoi servitori, li quali signoreggiorno il paese in questo mezzo, perché fin a quel tempo niuno del popolo poteva vedere il suo re, e non era veduto se non da alcuni suoi pochi servitori: e a richiesta del popolo il padre di questo David si mostrava questi tre giorni, e cosí questo ancora fa, e dicono che quando egli va in guerra va sempre discoperto, che ognuno il può vedere, e ancora camminando, come si dirà nel processo.
Come il Prete mi mandò a chiamare per dir la messa nel giorno di Natale,
e della confessione e communione che noi facemmo.
Cap. LXXXIX
Stando poi per grande spazio lontani dalla tenda del Prete Ianni, nelle nostre tende, e nella nostra chiesa ogni giorno dicevamo messa. La vigilia di Natale, dopo passato mezzogiorno, il Prete mi mandò a chiamare e mi dimandò che festa facevamo la mattina seguente; gli feci dire della natività di Cristo. Mi dimandò che solennità facevamo; gli risposi del modo che tenevamo e delle tre messe. Disse che tutto facevano come noi, ma non dicevano se non una messa, e che di quelle tre messe io ne dicessi una, quale piú mi piacesse. Poi replicò che gli dicessi quella terza, che egli averia piacere d'udirla, e cosí l'ufficio che noi costumavamo di fare; e subito ordinò che fusse portata ivi la tenda della nostra chiesa, e la fece alzare per mezzo la porta principale della sua, che non vi erano piú che due braccia da una all'altra, e che come cantasse il gallo ne mandaria a chiamare, e che io facessi il tutto come si costuma nel nostro paese. E come fu passata mezzanotte ne mandò a chiamare, e vi andammo sei che sapevamo assai ben cantare di chiesa, e portai quanti libri ch'io aveva, ancora che non fussero necessarii per quella festa, ma solamente per far numero, e li tenni aperti tutti sopra l'altare. Cominciammo a dir matutino, e pareva che il nostro Signore Iddio ne aiutasse e desse grazia, e il Prete ne mandò subito venti candele, parendogli che avessimo poca cera. Noi slungammo il matutino con lezioni, inni e salmi e profezie, e andammo cercando tutte le cose che si potevano meglio cantare e intonare; e il Prete mai si partí dalla porta della sua tenda, che era, come è detto, appresso della nostra chiesa, e sempre duo paggi non cessavano di andare e tornare e dimandar ciò che era quello che noi cantavamo, massimamente quando sentivano mutare il tuono delli salmi, inni o responsorii: io mostrava di non sapere ciò che fusse, ma diceva che erano o libri di Gieremia che parlavano della natività di Cristo, o salmi di David o di altri profeti; egli era molto contento e laudava li libri.
Compito l'ufficio, il qual fu molto lungo, ne venne a trovare un padre vecchio molto onorato, che è maestro del Prete Ianni, e mi dimandò se avevamo compito, perché tacevamo; gli dissi di sí. Esso rispose che averia avuto grandissimo piacere che questo officio fusse durato fino alla mattina, perché gli pareva star in paradiso con gli angeli; gli dissi che fino alla messa non avevamo da dire piú altro officio, e che io voleva confessar alcuni che volevano pigliare il corpo di Cristo. Subito mi venne una dimanda, dove io aveva da confessarli, e quando venne questa dimanda io ne confessava uno. Immediate fecero accendere due torcie, perché il Prete mi voleva vedere dalla sua tenda, e questo vecchio si pose a sedere appresso di me, tenendo le braccia sopra li miei ginocchi, e quello che si confessava stava dall'altra parte, né si volse mai levare di là fin a tanto che io ne ebbi confessato dui.
E già il giorno si faceva chiaro, e io gli mandai a dire che io voleva dire la messa; e immediate cominciammo una processione con la croce elevata, con una ancona di nostra Donna e duoi torchi intorno della croce, e cominciammo la processione dentro del circuito appresso la nostra tenda. Subito il Prete ne mandò a dire che dovessimo farla di fuori, attorno le sue tende, acciò che tutto il popolo la vedesse, e ne mandò quattrocento candele di cera bianca grande, acciò che fussero portate accese, incominciando da noi Portoghesi, con tutti li bianchi e il resto poi delli suoi. Compita la processione, che fu per un gran circuito, cominciammo il nostro asperges, e io fui a buttar l'acqua benedetta al Prete Ianni, che dalla nostra chiesa si poteva buttare per esser vicina. Stavano con lui, sí come mi fu detto, la regina sua moglie, la regina sua madre, la regina Elena e il cabeata, con altri suoi famigliari. Dentro dalla tenda della nostra chiesa stavano tutti li grandi e signori della corte che vi potevano capire, e gli altri stavano di fuori, e dall'altare fino alla tenda del Prete il tutto era dispacciato, perché egli volse vedere tutto l'ufficio della messa; e tutti stettero fin a tanto che fu compito il tutto e che communicai tutti quelli che s'erano confessati, i quali molto divotamente stettero inginocchiati al modo nostro. Tutti li franchi e li nostri interpreti, e principalmente Pietro di Covillan, che era con noi e che intendeva la lingua della terra, dicevano che il Prete laudava grandemente questo nostro ufficio, e cosí facevano tutti li signori della corte, e principalmente che noi andavamo alla communione con gran divozione.
Come il Prete lasciò andar l'ambasciadore e gli altri, e volse che io solo restassi con uno interprete, e delle dimande ch'egli mi fece sopra le cose della chiesa.
Cap. XC.
Compita la processione, messa e communione, furno licenziati l'ambasciadore e tutti gli altri, che andassero a desinare, e che io solo restassi con uno interprete. Subito mi venne a trovare quel padre vecchio suo maestro, dicendomi che il Prete Ianni laudava molto le nostre cose, ma che ragione avevamo di lasciar entrar li laici in chiesa, cosí come li chierici, e che egli aveva udito che vi entravano ancora le femine. Io gli risposi che la chiesa di Dio non si serrava a niun cristiano, e se Cristo stava sempre con le braccia aperte per ricever tutti quelli che a lui venissero nella gloria del paradiso, per che causa non dovevamo noi riceverli nella chiesa, che è la strada per andar in paradiso; e quanto alle femmine, ancora che nel tempo antico non entrassero in Sancta Sanctorum, nondimeno li meriti della nostra Donna furno tanti e cosí grandi che furno sufficienti a fare che il sesso feminino potesse entrare nella casa d'Iddio. Mi fece dire che gli pareva buona la mia ragione; ma per che causa io era prete solo a questo ufficio della messa, e quello che portava il turribolo, non essendo prete, come poteva portarlo, perché lo incenso non deve andare in mano d'altri che di preti. Gli risposi che quello che serviva da diacono era zagonaro, che essi chiamano da Vangelo, e che il suo ufficio era di portare il turribolo. Vennero poi con un'altra dimanda, dicendo se le cose sopradette si contenevano nelli nostri libri, e se quelli erano migliori dei loro. Gli risposi che li nostri libri erano piú perfetti che non erano li loro, perché dopo gli apostoli noi avevamo avuto sempre maestri e dottori grandi, che non avevano mai fatto altro che mettere insieme le cose della sacra Scrittura, le quali erano seminate in varii libri e luoghi di profeti, apostoli ed evangelisti. Mi tornarono a dire che essi avevano del nuovo e vecchio Testamento LXXXI libro, e se noi ne avevamo piú. Io gli risposi che noi ne tenevamo dieci volte LXXXI, cavati dalli sopradetti, con molte dichiarazioni e piú perfetti. Mi dissero che ben sapevano che noi avevamo piú libri di loro, e per questo egli desiderava che io gli dicessi il nome di quelli che essi non hanno.
E cosí mi tennero in dimande e risposte fin ad ora di vespero, non cessando mai d'andare su e giú li messi. Io stava in piede appoggiato a un bordone, e non solamente venivano dimande da parte del Prete Ianni, ma ancora da sua madre e dalla regina Elena: e io gli rispondeva sí come Iddio mi aiutava, e per la fiacchezza e fame non mi poteva piú tenere in piedi. E alla fine, in luogo d'una risposta, gli mandai a dir che sua Altezza avesse pietà d'un vecchio che dal mezzogiorno precedente fin a quell'ora non aveva mangiato né bevuto né dormito; mi mandò a dire che, se egli aveva piacere di parlar meco, per che causa ancora io non faceva il medesimo. Gli risposi che la vecchiezza, fame e fiacchezza non mi lasciavano pigliar questo piacere; replicò che se io voleva mangiare, che me ne mandaria, perché già ne aveva mandato molto alla nostra tenda. Gli dissi che io voleva andare a mangiare alla nostra tenda per riposarmi, e cosí mi diedero licenza. Ed essendo partito, mi venne dietro un paggio correndo, e mi disse che il Prete mi mandava a dimandare con grande instanza che gli dovessi dare il cappello che io aveva in capo, e che gli perdonassi se mi aveva fatto star tanto senza mangiare, e che, desinato che io avessi, mi pregava ch'io ritornassi da lui, perché egli voleva sapere altre cose da me.
Giunto alle tende e a pena mangiato, mi venne un messo che io dovessi tornare: e cosí fu forza di andarvi, e menai meco quelli che avevano cantata la messa, e quivi cantammo una compieta meglio che sapemmo, e il Prete con le regine vi stettero sempre attentissime. Finita ch'ella fu, ordinò che si disarmasse la tenda della chiesa, perché quella notte si voleva partir per passar quelli mali passi che son posti in quelle montagne altissime, come abbiamo detto di sopra: e cosí fece, che a mezzanotte sentimmo un grandissimo strepito di cavalli e mule, e che ognuno diceva: "Il negus cammina". E immediate messi all'ordine lo seguitammo, e quando arrivammo al primo passo, ne fu forza con le lance da dietro e davanti di farne far la strada, tanta era la furia e la calca, e la gente da dietro che ne veniva adosso. Andammo a trovar le tende del re, che erano state alzate in mezzo quelle grandissime fosse che sono fra quelli fiumi detti di sopra; quivi si dormí fino a mezzanotte, che 'l Prete cominciò poi a camminare e noi con lui. E avanti che fosse la mattina fummo fuori di quelli mali passi, e udimmo dapoi dir che in quella notte in detti passi morirono assai uomini e femine, asini e mule e buoi caricati; e in questo secondo passo, che si chiama Aquiafagi, come abbiamo detto di sopra, mi fu detto che una gran signora, essendo sopra una mula che era menata per il capestro da due servitori, tutti insieme attaccati cadettero di quella grande altezza e si fecero in pezzi avanti che giungessero al fondo, tanto sono terribili e spaventose quelle rocche e strade, che par che vadino all'inferno a chi vi guarda. Questo fu il nostro cammino, senza guardar l'ottava di Natale, che in questo paese non la guardano. Di sopra ho detto che stava cinque e sei giorni la corte nel mutarsi: a queste porte stettero piú di tre settimane, e le robbe del Prete piú di un mese, passando nondimeno ogni giorno.
Come il Prete Ianni andò ad alloggiar alla chiesa di San Giorgio, il qual volse che ne fosse mostrata, e dopo alcune dimande fattene ordinò che ne fossero mostrati alcuni cappelli grandi e ricchi.
Cap. XLI.
Alli XXVIII di decembre MDXX noi ritornammo per la istessa strada ch'eravamo venuti, verso una chiesa che per avanti vedemmo, ma non vi fummo, detta San Giorgio, sotto la quale drizzarono il padiglion del Prete; e noi alloggiammo nel luogo nostro ordinato. Il giorno seguente molto a buon'ora, il Prete ne mandò a chiamare e ne fece dire che dovessimo andare a veder la chiesa, la quale è grande e dipinta tutta intorno intorno; i muri e le dipinture sono convenienti, dove sono molte belle istorie ben ordinate e fatte con le sue misure, da un Veneziano che di sopra abbiamo nominato, detto Nicolò Brancaleone: e cosí quivi è scritto il suo nome, ancora che in questo paese lo chiamano Marcorio. Li muri veramente che son di fuora del corpo della chiesa e rispondono sotto il circuito coperto, che è come chiostro, questi tutti erano coperti da capo a piè di pezze integre di broccato, di broccatello, di velluti e d'altri ricchi panni di seta. Arrivati dentro alla porta del circuito che è discoperto, e volendo entrar nel circuito coperto, fecero alzar li panni ch'erano di sopra alla porta principale, la qual si vidde tutta messa a lame che alla prima vista ne parvero d'oro, perché cosí ci dicevano, ma piú approssimati vedemmo che erano di foglia d'argento, ma indorato, ed era posto tanto gentilmente, cosí sopra la porta come nelle finestre, che meglio non si potria fare.
Il cabeata, che è cosí gran signore, era quello che andava mostrandone il tutto, e il Prete era ancora egli presente, ma circondato dalle sue cortine: nondimeno, quando noi gli passavamo innanzi, egli ci poteva vedere e noi lui. Onde vedutoci, non si poté tenere che non mandasse a dimandare ciò che ne pareva della chiesa e delle dipinture; noi gli rispondemmo che elle ci parevano cose da un molto gran signore e re, la qual cosa gli diede un non piccol piacere. Fececi oltre di questo dire come il suo avolo aveva fatto far detta chiesa, nella quale era sepelito, facendone dimandare se nelle nostre parti erano chiese foderate di legname come è quella, e di che sorte legname; noi gli rispondemmo che quella chiesa era molto bella e ben fatta, ma che le nostre non erano foderate di legno, ma fatte di pietra e in volta, ma se pur ve ne era alcuna con legname, quello era tutto coperto di lavori d'oro e di azurro, e le colonne erano di marmi grandi o ver di altra materia galante e ricca. Rispose che ben sapeva che le nostre cose erano ricche, grandi e perfette, perché avevamo eccellenti maestri. Il tetto, cioè il coperto di questa chiesa, è fabricato sopra XXXVI colonne di legno, le quali sono molto grosse e alte quasi come alberi di galee, e coperte tutte di tavole che sono dipinte, sí come sono anco tutti li muri d'intorno, che è cosa grande e regale, e cosí è riputata da tutti del paese e da ciascuno che la vede.
Tornati noi a casa, come fu sul tardi, mi mandò a chiamar solo al suo padiglione e di nuovo mi fece dimandare ciò che mi pareva della chiesa; gli risposi quello che dagli altri era stato detto per avanti, per dimostrare che da tutti gli era stata detta la verità. Poi entrò sopra le vite d'alcuni santi e delle cerimonie della nostra chiesa, delle quali gli risposi quello che io ne sapeva. Finite queste dimande e pensando io d'esser ispedito, furno spiccati dalla chiesa quattro cappelli grandi e ricchi, de' quali, come li viddi, ne presi grandissima maraviglia, avegna che per avanti ne avessi veduti molti e grandi e ricchi nella India, che adoprano quelli re, ma non già di quella grandezza e ricchezza. Della qual cosa accortisi quelli che gli portavano, corsero a dirlo al Prete, il qual subito mi fece chiamare a sé e, stando alla porta del padiglione con li franchi soliti stare alla corte, volse che di nuovo in lor presenzia mi fussero mostrati, facendomi dire che io gli guardassi bene e ch'io dicessi ciò che mi pareva. Io gli risposi ch'erano bellissimi e che mai in India, dove ne usano molti quelli re, non ne aveva veduto né de piú belli né de piú ricchi. Ordinò poi che da una banda fussero appoggiati in terra al dirimpetto del sole, tal che facessero ombra a guisa d'un padiglione, e che mi dicessero che quando egli andava per viaggio e si voleva riposare insieme con la regina sua moglie, che si ponevano all'ombra d'uno di quelli, e quivi mangiava e dormiva e faceva ciò che gli era bisogno. Gli feci rispondere che veramente detti cappelli erano tali, e di ricchezza e di grandezza, che sua Maestà poteva fare quanto ella diceva. Subito venne un'altra dimanda, se il re di Portogallo aveva simili cappelli. Risposi che il re di Portogallo non aveva simili cappelli da fargli star ritti, ma della sorte ch'io portava in capo, fatti di broccato, di velluto o di raso o di altra seta, con li cordoni e orli d'oro e secondo che gli piaceva; e camminando per viaggio e volendo riposare, aveva molti palazzi e case con giardini, all'ombra dei quali si poteva riposare con molta commodità, e che gli scusavano per cappelli, ma che li detti cappelli dimostravano piú presto grandezza di stato che necessità di far ombra. Subito venne la risposta che io diceva il vero, e che questi furno del suo avolo ed erano restati in questa chiesa, e che li levava di quella per prestargli a un'altra chiesa, dove avevamo d'andare. Potevano essere questi cappelli della grandezza d'una gran ruota, che ben vi potrebbeno stare X uomini all'ombra, tutti coperti di seta.
Fatte queste tante dimande e risposte, mi mandò a dire quel che piú volentieri io beverei, o vino d'uva o di miele o di zauna, che è di orzo. Gli feci rispondere che io ero avvezzo a bevere vino d'uva, e che il vino di miele era caldo e la zauna era fredda, la quale non era buona per vecchi, e che mi mandasse vino di uva o di miele, come gli piacesse. Mandò di nuovo a dirmi che io dicessi assolutamente di quale io voleva; gli dissi di uva. E subito mi furno portate quattro zare di vino di miele, dicendo che io invitassi i franchi ch'erano stati presenti a tutte queste cose: e cosí feci, e bevemmo una volta per uno, e il resto mandai alle nostre tende. Io non so per qual causa ei non volse mandar vino d'uva, avendone assai ne' suoi padiglioni.
Del camminar che fa il Prete, e della maniera del suo apparato che ha nel viaggio.
Cap. XCII,
Alli XXIX del detto mese, il Prete ne mandò a dire che noi non dovessimo cavalcare se non come fosse ordinato, e cosí fu fatto. Il suo camminare era in questa maniera. Li giorni avanti nissuno poteva sapere che cammino egli dovesse fare, ma ciascuno alloggiava dove vedeva ritta la sua tenda bianca, cioè al suo luogo ordinato, o da man destra o da man sinistra, da lungi o da presso. In questa sua tenda di continuo si fanno le solite cerimonie di sonare, ancora che egli non vi sia, ma non già cosí interamente come quando vi è egli in persona: e questo si può molto ben conoscere, massimamente nel servir di paggi e in altre cose. E alcune fiate noi restavamo adietro, alcune andavamo innanzi, sí come gli piaceva e ordinava. Ora il suo camminare era in questo modo: cavalcava scoperto con la corona in testa, circondato da cortine rosse solamente di dietro e dalle bande, molto lunge e alte, ed egli era posto in mezzo. Quelli che portavano dette cortine stavano dalla parte di fuori, e le portavano alzate sopra lancie sottili. Dentro a queste cortine vi vanno sei paggi, che essi chiamano legameneos, che vuol dire paggi della cavezza, conciosiacosaché la mula che 'l detto Prete cavalca ha una ricca e bella cavezza sopra la briglia, la quale ha nel barbazzale duoi cordoni di seta con li suoi belli fiocchi, e uno di questi cordoni o fiocchi tiene un paggio da una banda e l'altro dall'altra, che menano la mula quasi per la cavezza. Vi vanno poi due altri, similmente uno da una banda e l'altro dall'altra, che tengono la man sopra il collo della mula, e due poi di dietro al medesimo modo con le mani in su le groppe, quasi sopra l'arcione. Fuori delle cortine e avanti il Prete vanno XX paggi dei principali, molto ben in ordine, e avanti di detti paggi vanno sei cavalli molto belli e riccamente adornati, menati ciascun di loro da quattro uomini ben vestiti, cioè due per la cavezza e due di dietro con le mani sopra la groppa, al modo che è menata la mula del Prete. E avanti di questi cavalli camminano sei mule sellate e molte ben adornate, e ciascuna ha similmente quattro uomini che le conducono come i cavalli. E innanzi a dette mule vanno XX gentiluomini de' principali a cavallo in su altre mule, con le sue bedene sottili d'intorno alla persona, e poi noi Portoghesi andavamo innanzi a detti gentiluomini, che questo luogo n'era stato consegnato. Né altre genti a piedi né a cavallo in su cavalli né in su mule possono avicinarsi a un gran tratto, perciò che vi sono corridori che vanno innanzi sempre correndo sopra i lor cavalli, e se sono stracchi smontano e pigliano degli altri, e fanno allontanare la gente dalla strada, di sorte che non si vede nessuno.
Li betudeti camminano con le genti della guardia, ancora essi molto lontani dal cammino, e uno va da una banda e l'altro dall'altra al manco un tratto di spingarda, e se vi è campagna alle volte vanno un miglio e mezzo, secondo che è il paese; e se la strada è sassosa e stretta, e ch'ella duri assai, e che sia necessario che ciascuno passi per quella, gli detti betudeti si partono un miglio e mezzo, e uno va avanti, cioè quello da man destra, e quello da man sinistra resta adietro, con ciascuno dei quali possono essere da seimila persone: e con costoro vanno sempre, come di sopra ho detto, quattro leoni incatenati con grosse catene e di dietro e dinanzi. Camminano anche quelli che portano le chiese e le pietre dell'altare, alle quali si fa grandissimo onore e riverenza. Un'altra cosa conduce seco il Prete in ciascuna parte che egli va, perciò che non si muove senza questo, che sono cento zare di vino di miele e anco di uva, che possono tener da sei a sette boccali di vino l'una; e sono nere come ambra e molto ben fatte e liscie, con il coperchio di terra e poi suggellate, né alcuna persona ha ardire di approssimarse né pigliare alcuna cosa di queste senza licenza del Prete. Portano similmente cento panieri tutti dipinti e serrati pieni di pane di grano, e questi vanno dietro al Prete non molto lontani, e li portano in capo: e vanno l'uno dietro all'altro, cioè prima una zara e poi un paniere, e dietro a loro vanno sei uomini, che sono come guardiani di casa, e giunti al padiglione del Prete vi scaricano ogni cosa dentro, ed egli manda a donare poi a chi gli piace.
Come il Prete venne alla chiesa di Machan Celacem, e della processione con la quale il ricevettero, e delle cose che 'l detto ragionò meco di questa incontrata.
Cap. XCIII.
Il sabbato e la domenica, ultimi giorni di decembre, noi venimmo ad alloggiare sopra un fiume con tutta la corte, e il lunedí poi ci partimmo tutti insieme, camminando sempre il Prete dentro alle sue cortine come li giorni avanti. E il primo giorno di gennaio MDXXI arrivammo a una chiesa grande, la quale nella nostra venuta per avanti, quando appresso vi passammo, non ce la volsero lassar veder: il suo titolo si è Machan Celacem, che vuol dire la Trinità. Avanti che noi arrivassimo alla chiesa per tre miglia, il Prete ordinò che ne fussero dati otto cavalli ben in ordine, con li quali dovessimo andare innanzi a lui scaramucciando: e cosí noi facemmo, maneggiando e voltando li cavalli molto meglio di loro, del che ne pigliò gran piacere. Giunti un miglio appresso detta chiesa, ne venne incontro una infinita moltitudine di gente a riceverne, e vi erano tante croci, preti e frati di diversi monasteri e chiese che non si potevano contare, e al nostro giudicio potevano passare trentamila: e pensammo che li frati dovessero esser venuti di paese lontano, perché in questo regno di Amara non vi sono monasteri, per essere tutte le chiese grandi sepolture de' re. Vi erano ben dugento con le mitre, che sono fatte a modo di cappucci grandi e alti di seta, e appresso LXIIII cappelli di quelli grandi, che ben si potevano contare perché gli portavano alti sopra la gente, ma non erano cosí belli e ricchi come quelli della chiesa di San Giorgio: tutti questi cappelli erano di chiese ove sono sepulti li re, perché alla sua morte gli lascian loro. Questa cosí gran moltitudine di gente ragunata era parte delle dette chiese e monasteri, parte del paese, che venivano a vedere il Prete che andava scoperto, che mai per avanti l'avevano veduto andar cosí.
Smontato alla chiesa il Prete e fatta la sua orazione, se ne andò al suo padiglione e subito mi mandò a chiamare, e che l'ambasciadore con la sua compagnia se ne andasse a smontare allo alloggiamento. Qui mi fece dimandare quel che mi pareva di cosí grande incontro e ricevere che gli era stato fatto da tanta gente, e se al re di Portogallo era fatto cosí grande e da tante genti. Gli risposi che al re di Portogallo n'erano fatti di grandi e con gran feste, ma che io non pensava che si possa vederne mai un tale e cosí grande in tutto il mondo, e a chi raccontasse questo fuora delli regni e signorie sue non saria creduto, se non fusse la fama grande che si ha di sua Altezza per tutta la cristianità. Fece subito rispondere che queste genti erano molto piú di quello che mostravano, perché la maggior parte sono ignudi, che non pareno a chi gli vede la quantità che sono, e che le nostre genti in Franchia sono ben vestite e in ordine, e paiono molto piú di quello ch'elle sono; e che io dovessi andare a riposarmi con l'ambasciadore, il qual io trovai per strada che veniva. Di nuovo mi fece dire che quella chiesa era nuova e non vi era ancora stato detto messa, e che era costume che quanti vi entrassero dovessero dar offerta, e che l'ambasciadore desse le sue arme e io la berretta che io portava, e cosí ciascuno dovesse dar qualche cosa: a questo noi ci avedemmo ch'ei motteggiava con noi, e che gli aveva gran piacere del fatto nostro.
Della fabrica come è fatta questa chiesa della Trinità, e come il Prete mandò a dire all'ambasciadore che andasse a veder la chiesa di sua madre, e delle cose che si ragionarono.
Cap. XCIIII.
Il giorno seguente il Prete ne mandò a dir che noi dovessimo andare a veder la chiesa predetta, nella quale egli era già entrato. Questa chiesa è molto grande e alta, e li muri sono di pietra bianca, lavorati di scalpello con bella opera, e sopra a' quali non pongono li travi perché non gli reggerebbono, per non essere commesse le pietre l'una con l'altra né murate, ma solamente poste una sopra l'altra senza alcun legame o fermezza: e a chi nella prima vista non conoscesse quello ch'è dentro, parrebbeno molto belle. La porta principale è fatta tutta a lame come è la chiesa di S. Giorgio, e nel mezzo di queste lame vi son poste pietre e gioie false, con perle bone, ma molto ben messe. Sopra 'l muro della porta principale sono due figure della nostra Donna, molto divote e ben fatte, con duo angeli tutti di pennello: dicono che un frate li ritrasse dal naturale, e io ho conosciuto il frate. In questa chiesa sono tre navi fabricate sopra sei colonne, e dette colonne sono fatte di pezzi di pietra viva posti l'uno sopra l'altro, ben lavorati; e il circuito ch'è di fuora e coperto come chiostro, è fabricato sopra sei colonne di legno grandi come arbori di galea molto alti, e sopra dette colonne è posto il legname a livello, che fa un tavolato molto grosso. E certo che è cosa maravigliosa a pensare come queste genti, che sono senza ingegno alcuno, abbino potuto rizzar queste colonne di legno cosí alte. Intorno alla chiesa sono poste XVI cortine che correno da qual banda si vuole, e sono di lunghezza quanto è la pezza intera, che era di broccato molto ricco e superbo: e ciascuna cortina è di pezze XVII unite insieme. Il cabeata era quello che andava mostrando tutte queste cose, e il Prete ne mandò a dimandare quello che ne pareva di queste opere e delle cortine; noi gli rispondemmo che ne parevano molto belle e degne di gran principe, e che elle dimostravano bene di chi elle erano. Poi ne fece dimandare se gli potessimo far mandar piombo per coprir la chiesa; l'ambasciador gli rispose che tutto quello che sua Altezza volesse il re di Portogallo glielo mandaria, in tanta copia quanta egli potria vedere, perché di ogni sorte di metallo egli ne era padrone.
Di qui poi ci partimmo e andammo alle tende del Prete, egli sempre camminando dentro alle sue cortine e noi a cavallo in su le nostre mule, senza altra cerimonia: e le sue tende erano tese appresso un'altra chiesa della sorte di questa, ma piú piccola. Dove smontati, mandò a dire all'ambasciadore che dovessimo andar a veder la chiesa di sua madre, facendone intender che non gli dovessimo far opposizione né trovargli difetto alcuno, perché è tanto fantastica che s'ella intendesse di alcun difetto, o vero ch'ella non fusse cosí bella come quella di suo figliuolo, subito la faria ruinare e far di nuovo. E andati a vederla, stando in quella, il Prete ne mandò a dire, poi che in Portogallo avevamo tanto oro, perché vendevamo panni cosí ricchi alli Mori e infideli per aver oro. Gli fece risponder l'ambasciadore che le spese del re di Portogallo e delli suoi capitani, per causa delle armate, erano tanto grandi ed eccessive, e per le continue guerre che fanno alli Mori, che se non contrattassero con mercanzie non potriano sopportarle, massimamente facendosi queste spese cosí lontano da Portogallo, onde doveria venire il soccorso e aiuto: e per questo andando per mare e con pace e con guerra portavan le mercanzie, e quelle vendevano e pigliavano dell'altre, e a questo modo supplivano a dette spese e interessi. A questo non venne risposta, ma ne fece mostrar in detta chiesa due antiporte molto grandi e ben fatte a figure, e molto fine, e ne dimandò ove si facevano detti panni; noi gli rispondemmo nella Franchia e non in altra parte. E sopra questo ne richiese se, mandando egli molto oro, se gli mandaria molte di quelle; gli fu risposto che sua Altezza scrivesse al re di Portogallo, che gliene mandaria quante ne volesse.
Subito ne vennero con uno rovescio, dicendo che cosa gli avevamo portato. L'ambasciador gli disse che quello che gli aveva portato gli era stato presentato, cioè la spada, il pugnale, duoi pezzi d'artegliaria con le code, la polvere, le pallotte, quattro razzi, una corazza, un napamondo e un organo, che gli aveva dato il capitan maggior d'India, che era per una mostra; e piacendogli, che scrivesse al re di Portogallo, che ne mandaria quanti egli volesse. Ritornò di nuovo con un'altra giunta, dicendo che egli era costume di tutti quelli che mandano ambasciadori in questo paese di mandare assai robbe e presenti, che cosí era stato fatto sempre alli suoi antecessori, e che noi eravamo venuti e non avevamo portato cosa alcuna, e massime quelle che per lo re di Portogallo per avanti gli erano state mandate. L'ambasciador rispose che 'l costume del re di Portogallo e delli suoi capitani non era di mandar presenti alli re e signori e grandi, quando gli mandano ambasciadori, ma che piú presto detti re e signori gliene mandano a lui per farselo amico; e che, se il capitan maggior dell'India gli aveva mandate quelle robbe, le aveva mandate come suo servitore, e non per esser questo il costume; e che, non ostante questo, il re di Portogallo gli aveva mandato per un altro ambasciadore, che morí nell'isola di Cameran, la valuta di piú di centomila ducati in tante robbe, e le mandava come a fratello, e non per costume né obligazione. E a quello che sua Altezza diceva, che le robbe che il re di Portogallo gli mandava non gli erano state date, se gli rispondeva che molte volte gli s'era mandato a dire che per lettere del capitan maggiore sua Altezza potria vedere quello che gli mandava, e che le robbe che mandò il re erano restate in India, come si può sapere per il fattore e scrivano che ne avevano avuto il carico, e che non è costume delli Portoghesi di far falsità alcuna, anzi d'andar sempre con la verità, la qual gli avevano molte volte detta: e che se la volesse credere, che la credesse, se non, che fusse come sua Altezza ordinasse, la qual dovesse sapere ch'egli veniva come ambasciadore del capitan maggiore che governa le Indie, e che nel modo che egli era venuto averia potuto andar a tutti li re e imperatori, e che non gli mandasse a dire quello che non si costuma a dire fra li Portoghesi, e che lo volesse espedire per volersene andare, approssimandosi il tempo. Il Prete ne mandò a dire che, se noi fussimo venuti nel tempo delli re passati, non ne averiano fatto alcuno onore, come egli ne aveva fatto, non avendogli portato cosa alcuna di prezio. L'ambasciadore gli rispose che piú presto nelle sue terre gli erano stati fatti molti torti e ingiurie e rubbatogli quanto che avevano portato seco, e che non gli restava se non le vesti solo di dosso, e che, se noi morissimo in questi paesi, noi andaremmo tutti in paradiso come martiri, per gli assalti che ne erano stati fatti per tre o quattro volte, che ci avevano voluto ammazzare; e che di tutto avevamo pazienza per amor di Dio e del re di Portogallo, e che altro onore era stato fatto per il detto re a Matteo, per dir ch'egli era ambasciador di sua Altezza, e nondimeno non se gli dimandava altro se non di essere espediti, per andar a dar conto a quelli che n'avevano mandati; e che li Portoghesi non son soliti dir mai bugia, ma di fare e parlar sempre puramente. A questo venne risposta che né l'ambasciadore né li Portoghesi mentivano, ma che Matteo fu bugiardo, e che ben aveva inteso l'onore che gli era stato fatto e dal re e da li suoi capitani come egli giunse; e che noi non avessimo fastidio, che presto saremmo espediti secondo il desiderio nostro, e che noi ce n'andassimo in buon'ora a desinare.
Come il Prete ordinò all'ambasciadore e alli franchi che ne andassero a vedere il suo battesimo, e che io fussi a parlargli sopra detto battesimo, e nel modo come ei fu fatto; e come poi fece notar li Portoghesi e gli dette da mangiare.
Cap XCV.
Alli IIII del mese di gennaio 1521 ne mandò a dir il Prete che levassimo la nostra tenda e quella della chiesa, e che noi la portassimo un miglio e mezzo discosto di quivi, dove avevano fatto un tanque, ch'è come un stagno o lago pieno di acqua, nel quale si volevano battezzare il giorno della Epifania, perché questo è il lor costume, di battezzarsi ogni anno in tal giorno che Cristo fu battezzato. E cosí il giorno seguente, che era la vigilia, vi andammo e vedemmo un gran circuito serrato di siepe in una molto gran campagna; e fu mandato a dimandare se noi volevamo battezzarci: io gli risposi che non era nostro costume di battezzarci se non una volta, quando eravamo piccioli. Alcuni dissero, e massime l'ambasciadore, che noi faremmo quello che sua Altezza ordinasse; e di nuovo mandò a dirmi quello che io diceva, se io mi voleva battezzare. Risposi ch'io era battezzato e che io non voleva altro. Ci dimandò di nuovo che se non volevamo battezzarci in quello stagno, che ne mandaria dell'acqua nella nostra tenda; a questo l'ambasciadore rispose che fusse fatto come a sua Altezza piacesse. Avevano li franchi insieme con li nostri ordinato di fare la rappresentazione delli tre re, e glielo mandarono a dire. Venne risposta che gli piaceva, e cosí, messosi in ordine dentro di quel gran circuito serrato appresso la tenda del Prete, che era posta appresso il lago, la fecero, la quale non fu istimata né a mala pena guardata, perché veramente fu cosa fredda e da niente.
Tutta quella notte non cessò un grandissimo numero di preti di cantare fino alla mattina sopra 'l detto lago, dicendo che benedicevano l'acqua; e quasi a mezzanotte, poco piú o manco, cominciarono il battesimo, e dicono (e cosí credo io che fusse la verità) che il primo che si battezzò fu il Prete, e dopo lui l'abuna Marco e la regina, moglie del Prete: e queste tre persone avevano panni a torno le parti vergognose, e gli altri tutti nudi come vennero al mondo. E a ora che 'l sole era già levato e il battesimo nella maggior furia, il Prete mi mandò a chiamare, che io fussi a vederlo. Vi andai e stettivi fino a ora di terza a veder come si battezzavano, e mi posero in un capo del detto lago, all'incontro del viso del Prete. E si battezzavano in questo modo. Il lago ha un gran fondo, ed è piano e tagliato nella terra molto diritto e quadro, foderato tutto intorno e di sotto di tavole, e sopra quelle è posta tela di bambagio grossa incerata; l'acqua v'era condotta per un canaletto come se faria per adacquare un orto, e cadeva per un cannone, nella punta del quale era un sacco largo per colar l'acqua che cadeva in quello. E quando io vi venni non correva piú l'acqua, perché era già pieno di acqua benedetta, nella quale avevano gittato olio. Aveva questo lago da una banda fatti V o VI scaglioni, e dinanzi a quelli quanto sariano tre braccia, vi era fatto un palco di legno serrato intorno, nel quale stava il Prete, e aveva avanti una cortina di cendato azurro ch'era quasi sdrucita, per la quale sdruscitura vedeva quelli che si battezzavano, perché gli era col viso volto verso il lago, dentro del quale stava quel padre, vecchio maestro del Prete, col qual parlai la notte di Natale. Costui era ignudo come egli uscí del corpo di sua madre e quasi morto di freddo, perché quella notte era stato un gran gielo, e stava nell'acqua fino alle spalle, che tanto fondo aveva il lago, dove entravano quelli che s'avevano a battezzare per li detti scaglioni, tutti ignudi, con le spalle volte al Prete, e quando uscivano mostravano le parti dinanzi, cosí femine come uomini. Costoro si approssimavano al detto maestro, ed ei gli metteva la mano sopra la testa e la attuffava loro tre volte sotto l'acqua, dicendo in suo linguaggio: "Io te battezzo in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo", facendogli la croce per benedizione. E se erano persone piccole, non scendevano tutti li detti scaglioni, ma detto maestro s'accostava loro e li tuffava nel modo detto. E come ho detto, io stavo dall'altra banda al dirimpetto del viso del Prete, di sorte che, quando egli vedeva le spalle, io vedevo le parti dinanzi de' battizzati. Poi che fu passato gran numero delli detti, mi mandò a chiamare, che io dovessi andar a stare appresso di lui, e tanto appresso che il cabeata non si moveva di passo, per udir il Prete e parlar con l'interprete che stava appresso di me; e mi dimandò quello che mi pareva di quell'ufficio. Io gli risposi che le cose di Dio che erano fatte a buona fede e senza inganno e per sua laude erano buone, ma che tal ufficio non era appresso di noi, anzi ne era proibito che senza necessità in quel giorno non battezzassimo nel quale Cristo fu battezzato, perché avemo questa oppenione, che in tal giorno, sí come Cristo, cosí ancora noi fussimo battezzati, e che la chiesa ne ordina che non si dia questo sacramento piú d'una volta. Subito mi dimandò se noi avemo scritto in libri di non dover esser battezzati se non una volta; risposi di sí, perché nel Credo che fu fatto nel concilio di papa Leone con li 318 vescovi, che sua Altezza mi aveva altre volte detto, era scritto: "Confiteor unum battisma in remissionem peccatorum". E subito mi dissero che cosí era la verità e cosí era scritto nelli suoi libri, ma che dovevano far a molti che di cristiani avevano rinegato e fattisi mori, e dapoi si pentivano, e altri che non credevano bene nel battesimo, e che remedio doverriano fare? Gli risposi che per quelli che non credevano bene basteria l'insegnare e pregar Dio per loro, e se questo non facesse frutto, abbruciarli come eretici, perché cosí dice Cristo: "Qui crediderit et baptizatus fuerit salvus erit, qui vero non crediderit condemnabitur". E per quelli i quali, dapoi che avevano rinegato, conoscendo l'error loro dimandavano misericordia, che l'abuna gli assolveria, dandogli la penitenza per salute delle lor anime, avendo sopra questo il potere; se non, si mandasse a Roma, dove sono tutti i poteri. E quelli che non si pentivano, possendogli pigliare, si dovessero abbruciare, secondo che si usa nella Franchia, nella chiesa di Roma. E sopra questo venne risposta che gli pareva bene, e che suo avolo ordinò questo battesimo per consiglio di grand'uomini dotti, accioché non si perdessero tante anime, qual si usa fino al presente; dimandandomi se il papa concederia all'abuna ch'egli avesse questo potere, e quanto gli costaria, e in quanto tempo vi si potria andare e tornare. Io gli risposi che il papa non desiderava altro che la salute delle anime, e che averia gratissimo di conceder all'abuna tai poteri, e che non vi andava altra spesa se non del viaggio, che non saria molta, e della scrittura delle lettere, e che si potria andare e tornare per la via di Portogallo in tre anni, e anco per la via del mar Rosso ed Egitto, la quale io non sapeva. E sopra questo non mi venne risposta, se non che io andassi alla buon'ora a dir messa; e io dissi che non era ora di dir messa, essendo passato mezzogiorno. E cosí fui a desinare con li nostri Portoghesi e franchi.
Questo stagno o lago era circondato e coperto con tende di diversi colori, tanto ben poste e cosí ben ordinate, con tanti rami di melaranci, limoni e cedri, che pareva che ivi fusse un bellissimo giardino. La tenda maggiore che stava sopra detto lago era molto lunga, e tutta fatta a croci rosse e azurre di seta, che davano gran grazia. In questo giorno, verso sera, il Prete mandò a chiamar l'ambasciadore con la sua compagnia; e il battesimo era finito, ed egli stava ancora nelle cortine dove io l'aveva lasciato, e gli dimandò quello che gli pareva. Esso gli rispose che molto bene, ma che noi non avemo un tal costume. E correndo l'acqua in tanto nel lago, ne dimandò se vi era alcuno Portoghese che sapesse notare: subito vi saltarono duoi nel lago e cominciarono a notare e cacciarsi sotto l'acqua, tanto era grande e profondo, per quello che gli vedevamo fare, di che ne ebbe grandissimo piacere, massime vedendogli andare sotto acqua. E fatto questo gli fece uscir fuori, e volse che andassimo in un capo di questo circuito, dove ne mandò da mangiar pane e vino, perché secondo il suo costume questa è una gran cortesia. E dipoi ne fece levar le nostre tende, volendo ritornare alla sua stanza, e comandò che gli dovessimo andar avanti, perché aveva ordinato che li suoi cavallieri e gentiluomini dovessino scaramucciare al modo che combattono con li Mori in campo. E cosí noi andammo per veder detta scaramuccia, ma nel cominciar di quella venne cosí gran pioggia che non gli lasciò far cosa alcuna.
Come fui con uno interprete a visitar l'abuna Marco, e come fui dimandato della circoncisione; e come detto abuna Marco dà tutti gli ordini della chiesa.
Cap. XCVI.
Nel seguente giorno, dopo 'l battesimo, io fui a visitar l'abuna, al qual ancora io non avevo parlato, né visto se non nel battesimo, morto tutto di freddo, dove non gli potei parlare. Ebbe grandissimo piacer della mia visitazione, e non mi volse dar la mano per baciargliela, anzi si voleva gittar in terra per baciarmi li piedi. E noi essendo a sedere sopra una lettiera, il principio del parlar suo fu che egli dava grandissime grazie a Dio dell'averne congiunti insieme, e che aveva avuto gran piacere essendogli stato detto quello che tante volte io avevo parlato, e massime del battesimo al Prete Ianni, avendogli detto la verità cosí liberamente in sua presenzia, la quale a esso abuna non voleva credere per esser solo di quella oppenione, e che s'egli avesse un compagno o due che l'aiutassero a dir la verità, che levaria il Prete da molte cose e molti errori nelli quali egli era con tutto il suo popolo. E parlandosi sopra questa materia, sopragionse un prete bianco, figliuolo di un gibete, cioè d'un uomo bianco, nato in questa terra, e mi domandò perché noi non eravamo circoncisi, poi che Cristo fu circonciso. Io gli risposi che era vero che Cristo fu circonciso, e che egli cosí volse per adempir la legge che in quel tempo si usava, per non esser avanti tempo accusato come rompitor della legge, ma che subito ordinò che cessasse la circoncisione. Immediate questo prete tornò a replicarmi che egli era figliuolo d'un franco e che suo padre non volse mandarlo a far circoncidere, e che come ei fu in età di XX anni, dopo la morte di suo padre, una sera andato a dormire senza esser circonciso, come fu la mattina si trovò circonciso: e come poteva essere stato quello, poi che Iddio non voleva la circoncisione? Gli risposi che questa era una gran bugia, perché, posto che Iddio non vietasse la circoncisione, egli non saria stato tanto degno che Iddio avesse voluto far questo miracolo, cioè d'imperfetto farlo perfetto; e se egli era cosí come aveva detto, che, andato in letto intiero, si trovò poi circonciso, che il diavolo poteva essere stato quello che l'avesse fatto per fargli vituperio. Lo abuna e quanti stavano in casa ne fecero grandissime risa e ne ebbero sommo piacere, e questo prete dipoi fu mio grandissimo amico e di tutti i Portoghesi, e ogni giorno veniva a udire la mia messa. Lo abuna poi fece portar vino e frutti diversi del paese e volse che facessimo un poco di collazione, e mandò alle nostre tende molto pane e vino e un bue.
Alli VIII poi di gennaio il detto abuna volse dar gli ordini, e io vi andai per vedere il modo che egli teneva in darli, il quale fu questo. Fu rizzata una tenda bianca in una gran campagna, dove erano congregate da cinque in seimilia persone per ordinarse. Quivi venne l'abuna a cavallo su una mula, e io in sua compagnia con infiniti altri, e in mezzo di quella tanta gente stando a cavallo, fecie a modo d'una predica in arabico, e un suo prete la dichiarava in lingua abissina. Io dimandai al mio interprete ch'era quello che diceva l'abuna; dissemi che diceva, se vi fusse alcuno ch'avesse due moglie o piú, ancora ch'alcune di loro fussero morte, che non si facesse prete, e faccendosi che lo scommunicava e maladiceva con la maladizion di Dio. Fatto questo parlare, se n'andò a sedere sopra una catedra innanzi alla detta tenda, e dinanzi a lui si posero a sedere tre preti in terra, ciascuno col suo libro, e alcuni altri che ordinavano questo ufficio fecero sedere tutti quelli ch'avevano ad ordinarsi in terra coccoloni sopra li calcagni: e tutti stavano in tre carriere o vero strade molto lunge, e ciascuna strada aveva un di quelli preti che tenevano i libri, e gli esaminavano brevemente, che alcuno non leggeva piú di due parole; e dietro a questo andava un altro prete con un bacino pieno d'una tintura bianca e con una lama fatta a modo di suggelli imbrattata in detta tintura, e con essa facevan loro un segno sopra 'l piano del braccio destro. Il che fatto, si levavano di quel luogo e andavano a sedere in mezzo della campagna, sopra alcune mole di terra, dove avevano da stare tutti gli esaminati: e molto pochi furono quelli che non passassero. Compita questa esaminazione, l'abuna si pose nella sua tenda, sedendo sopra una cattedra: e questa tenda avea due porte, per le quali fecero passar tutti questi esaminati un dopo l'altro, e come si appresentavano avanti l'abuna entrando per la prima porta, egli subito li poneva la mano sopra il capo e diceva certe parole ch'io non l'intendeva, e poi costui usciva per l'altra, né vi rimase alcuno al quale non fusse fatta questa cerimonia. Poi prese un libro in mano e in quello lesse un gran pezzo, tenendo una piccola croce di ferro in mano, faccendo con essa molti segni di croce sopra tutti costoro. Finito questo, un prete uscí fuori della porta con un libro e lesse come sarebbe a dire l'Epistola o 'l Vangelo, e subito l'abuna disse la messa, la qual non fu piú lunga di quello che si direbbe tre volte il salmo del Miserere mei Deus. E subito communicò tutti questi preti, che erano 2356, tutti da messa, perché questi da messa gli fanno separatamente, e li cherichi da per sé un altro giorno: e mi disse lo abuna che li cherichi erano ordinati infino a diacono, come era santo Stefano. Viddi però poi far cherichi e preti insieme tutti in un giorno, e questo molte volte, perché egli ne ordinava e faceva molto spesso, e sempre gran numero, perché vengono a lui di tutti li regni e signoria del Prete, per non esservi altri che gli possa ordinare. Non sono posti in matricola, né portano carta alcuna di fede o certezza della loro ordinazione, e perché ho detto il numero 2356, io non li annoverai, ma mi disse cosí colui che ebbe il carico di contargli, e penso che mi dicesse la verità. Delli cherichi io dirò quello che viddi.
Come il Prete m'interrogò della cerimonia di questi ordini sacri, e come io fui a veder fare gli ordini minori, che chiamano zagonari, cioè cherichi.
Cap. XCVII.
Nel giorno seguente, che fu alli 9 di gennaio, mi mandò a chiamare il Prete, dove giunto, subito mi fece dire che egli aveva inteso che io era stato a veder fare li suoi preti, e quello che mi pareva. Gli risposi che due cose io aveva vedute, le quali, ancora che mi fussero dette e giurate, mai le averei credute, cioè della moltitudine del chericato, croci e mitre nel ricever sua Altezza e incontro fatto a quella, l'altra di questo tanto e infinito numero di preti ordinati tutti insieme; che mi pareva molto ben fatto tal ufficio, ma che mi dispiaceva molto la disonestà de' preti, nella quale venivano quelli a ordinarsi. Subito mi fu risposto che io non mi maravigliasse di alcuna cosa di queste, perché quanto s'apparteneva al suo incontro, non erano venuti i preti se non delle chiese di suo avolo e antecessor ch'erano fatte in questi confini, e che portavano le mitre e cappelli e croci che gli erano state lassate; e che i preti ch'erano stati ordinati erano molto pochi a comparazione di quello che sogliono essere, perché sempre se ne fanno cinque o seimila, e che ora erano stati pochi perché non sapevano della venuta dell'abuna; e ch'io gli dovessi dire che disonestà aveva veduto che fusse contra gli ordini della chiesa. Gli risposi che mi pareva molto disonesta cosa e vergognosa che li preti che aveano a ordinarsi da messa e avevano a ricevere il corpo del nostro Signore, venissero quasi ignudi, mostrando le lor vergogne; e che Adamo ed Eva subito che peccarono si viddero ignudi, e dovendo comparir innanzi a Dio si coprirono, e costoro, avendolo a ricever, che è molto piú, non si vergognano a mostrare ogni disonestà; e che io aveva veduto un frate cieco del tutto, che mai aveva avuto occhi, e un altro storpiato della man destra, e IIII o V storpiati delle gambe, similmente esser ordinati a messa, i quali dovevano esser sani e aver tutti i lor membri interi e perfetti. Venne subito la risposta ch'egli avea grandissimo piacer ch'io avessi guardato bene ogni cosa sottilmente per dirgli il parer mio, acciò che poi si potesse emendare, dicendo che egli provederebbe de' preti che non andassero ignudi, e che degli storpiati io andassi a parlare con aiaz Rafael, che a questo ufficio era stato presente.
Questo aiaz Rafael è quel prete onorato e gran signore al quale noi fummo consegnati quando noi arrivammo la prima fiata alla Corte, per il che subito andai a desinare con esso alla sua tenda; e avanti che desinassimo si fece portare un libro, che, secondo che in quello leggeva, doveva esser il sacramentale al modo loro, e lesse che il prete o cherico doveva esser compito, e mi disse come io interpretava quella parola. Gli risposi che voleva dire compito in età, in sentimento, in dottrina e membri, e quelli che io aveva veduti storpiati e manchi delli lor membri e ciechi, come potevano administrare li sacramenti? Rispose che questa era buona ragione, e se li nostri libri dicevano questo; io risposi di sí. Mi dimandò, se questi tali non avessero elemosina dalla chiesa, che fariano in quella. Io risposi che in questo paese io non sapeva, ma che nella Franchia questi tali, essendo dati alla chiesa, averiano elemosina da quella o dalli monasteri in servire a molte cose, e li ciechi in sonar gli organi o alzar mantici o sonar le campane, e che per li re erano stati fatti per ciascuna città molti spedali grandi con grandissime entrate, per dar da vivere a questi tali storpiati, infermi e poveri. Rispose che gli piaceva molto e che al Prete saria gratissimo d'intenderlo.
Alli X di gennaio l'abuna fece cherichi: questi non gli esaminano, perché gli fanno d'ogni età, e bambini portati in braccio che non sanno parlare, fino alla età di anni XV, che ancora non abbino moglie; ma se l'hanno non possono esser cherichi, e quelli che hanno a essere ordinati da messa, fin che sono cherichi tolgon moglie e cosí si fanno preti, perché, se si fanno preti avanti che tolghin moglie, non la possono piú torre. Gli uomini portano in braccio i bambini che non sanno parlare né camminare, perché le donne non ponno entrare in chiesa. Il pianger loro pare proprio di tanti capretti, perché son quivi senza le madri e si muoiono di fame, perché non si finisce questo ufficio se non al tardi, e bisogna ch'eglino stieno senza mangiare e senza poppare, dovendosi communicare. Questi tali piccoli si sa certo che non sanno leggere, e li grandi anche poco. E gli fanno in questo modo: l'abuna, sedendo in cattedra, che è in una tenda posta in chiesa, fa passar questi cherichi a file dinanzi a sé, e dipoi che egli ha letto un pezzo un libro, quando passano mozza a ciascuno da una tempia una ciocca di capegli. Dipoi legge un libro e gli fa passare un'altra fiata, e fa toccar loro le chiavi che aprono la porta della tenda, e pongon loro un panno in capo, e a ciascuna di queste cose bisogna dar la volta; e similmente un'altra fiata gli danno in mano una scodellina nera di terra, in cambio delle ampolle, perché ivi non si trovano ampolle per servire alla messa, e a ciascuna di queste tali cerimonie leggano un pezzo, e finite quelle l'abuna dice la messa. Ed è cosa spaventosa a vedere il gran pericolo che portano questi piccolini, che per forza, rovesciando loro dell'acqua giú per la gola, gli facevano inghiottire la communione, sí per essere l'ostia di pasta grossa, come per la tenera età e pianger continuo che fanno.
Dipoi l'abuna mi pregò che io andassi a desinar seco alla sua tenda, e quivi volse ch'io gli dicessi quello che mi pareva di questo ufficio, al quale io era stato di continuo e veduto particolarmente il tutto, e che il Prete gli aveva mandato a dire che parlasse meco sopra detto ufficio, perché mi conosceva uomo che intendevo. Io gli cominciai a dire quello che avevo ragionato con aiaz Rafael, sopra la enormità e disonestà de' preti, e delli storpiati e ciechi che vennero a farsi ordinare. Mi rispose che già l'aveva inteso dal Prete, il quale gliel'aveva mandato a dire, e che egli gli aveva risposto quello che si doveva fare, ma che egli mi dimandava delli cherichi che ora aveva fatto quello che mi pareva. Dissi che molto bene mi pareva questo suo ufficio, ma ordinare fanciulli nuovamente nati e giovani grandi e ignoranti, non mi pareva bene di mettere asini nella casa di Dio. Mi rispose che Iddio mi aveva fatto venir quivi per dir la verità, e che egli non faceva se non quello che gli era comandato, e che il Prete gli aveva ordinato che facesse cherichi tutti li bambini, che poi loro impareriano, conciosiacosach'egli era molto vecchio e non sapevano quando averiano un altro abuna, essendo stato altre volte questo paese XXIII anni senza abuna; che non era molto tempo che mandarono duemila oncie d'oro al Cairo per aver uno abuna, e per le guerre state tra 'l soldano e il Turco non gliel'avevano mandato e s'erano ritenuto l'oro, e che ora Iddio mi aveva fatto venire quivi per dirgli la verità, accioché questo paese fosse presto provisto d'uno abuna, perché la sua vita non saria troppo lunga. Dipoi io fui molte fiate a vedere queste cerimonie dell'ordinar questi preti e cherichi, perché quasi ogni giorno si ordinavano, per la grandissima moltitudine che veniva ogn'ora, e non guardavano né a quattro tempora né a quaresima. E se alcuna fiata se intermetteva il dare questi ordini, subito mi venivano a ritrovare alcuni che facevano meco dell'amico, ancora ch'io non gli conoscessi, dimandandomi per l'amor di Dio ch'io pregassi l'abuna che tenesse ordinazione, perché morivano di fame: e io lo pregava la sera, e subito ordinava che fusse alzata la tenda per dare il seguente giorno gli ordini. E certo mai lo pregai che immediate non gli facesse, perché mi voleva grandissimo bene e mi riputava come se io fussi stato suo fratello.
Quanto tempo stette il paese del Prete Ianni senza abuna e per che causa, e dove lo vanno a trovare, e del suo stato, e come va quando cavalca.
Cap. XCVIII.
La causa che questo paese stette XXIII anni senza abuna dicono che fu che nel tempo del bisavolo di questo presente re, il qual si chiamava Ciriaco, padre di Alessandro, che fu padre di Nahu, che fu padre del presente Prete Ianni, morí l'abuna, e il detto Ciriaco stette dieci anni che non volse mandar per alcuno, dicendo che non lo voleva pigliare d'Alessandria, e che, se non veniva da Roma, non lo voleva, e che piú presto si perdessero le anime di tutti li suoi paesi che avere abuna di terra di eretici. E in capo delli X anni egli morí senza aver l'abuna, e in questo medesimo proposito stette ostinato ancora Alessandro suo figliuolo anni XIII. E finalmente il popolo si venne a lamentare, dicendo che già non erano né piú preti né cherichi per servire alle chiese, e che, perdendosi li servitori, si perderiano le chiese e per consequente la fede cristiana. E il detto Alessandro mandò a pigliare un abuna al Cairo, ove allora si trovava il patriarca d'Alessandria, il qual gliene mandò duoi, acciò che uno succedesse all'altro, e tutti duoi erano vivi nel nostro tempo. E noi stando ivi, morí l'abuna Iacob, che doveva succedere a questo che ora vive, il qual mi disse che era LV anni passati che venne in questo paese, ed era cosí canuto e bianco come si truova al presente, e quando si partí dal Cairo poteva avere da cinquanta in LV anni, sí che pensa che egli abbia da cento e dieci anni: e veramente che chi lo guarda e considera molto bene pare che gli abbia. E che quel Prete che lo fece venire era cristianissimo, e tanto che visse non si guardavano sabbati né si facevano alcune di queste cerimonie giudaiche, e mangiavano carne di porco e carne ancora che ella non fosse stata scannata, perché tutte queste cose sono della legge vecchia; e che non è molto tempo che vennero in questa corte due franchi, cioè un Veneziano detto Nicolò Brancalione e un Portoghese detto Pietro de Coviglian, li quali, come arrivarono in quello, avanti che giungessero in corte, cominciarono a digiunare e guardar gli usi del paese, che ancora in molti luoghi si guardava il sabbato e non mangiavano le carni proibite. Vedendo questo, li preti e frati, che si riputavano sapere molto bene le cose della Bibbia piú che di ciascun altro libro, se ne vennero a dolere al Prete, dicendo: "Che cosa è questa, che questi franchi, li quali vengono ora delli regni di Franchia, e ciascuno di loro sono di luoghi separati, e guardano li costumi antichi degli Abissini, come questo abuna che è venuto di Alessandria comanda che noi facciamo cose che non sono nelli nostri libri?" E per questa causa subito il Prete Ianni comandò che si dovesse tornare a osservar li costumi antichi degli Abissini.
Tutte queste cose mi raccontò l'abuna, dando molte grazie a Dio per la nostra venuta, e che il Prete aveva udita la nostra messa ed era molto contento delli nostri ufficii, e che egli sperava per la nostra venuta, e per altri che verranno in questo paese, che egli ritornarà alla verità evangelica; e che non pregava Iddio d'altro se non che gli desse tanta vita che potesse veder questo paese governato dalla santa romana chiesa, e che nella casa della Mecca e del maladetto Macometto si dicesse la messa latina, e che egli sperava in Dio che questo presto succederia; e che gli Abissini avevano per profezia che nel lor paese non sariano piú di cento abuna, che subito averiano nuovo rettore della chiesa, e che il presente abuna compiva li cento. Avevano ancora due altre profezie, una di santo Ficatorio, l'altra di santo Sinoda, che fu eremita d'Egitto, che dicevano che li franchi dal capo della terra verriano per mare a congiungersi con gli Abissini, e distruggeriano il Tor, il Zidem e la Mecca, e che senza mutarsi di piede sarebbe tanta la gente che la disfaria, che di mano in mano si dariano le pietre e le lanceriano nel mare, e la Mecca restaria campo raso: e cosí pigliariano l'Egitto e la gran città del Cairo, e che sopra questo vi nasceria differenzia di chi ella dovesse essere, e che gli Abissini di volontà tornariano nel lor paese e li franchi restariano signori di quella, e che allora si apriria una strada che della Franchia si verria facilmente nel paese degli Abissini.
Questo abuna stava nella sua tenda in questo modo (perché in casa non l'ho visto se non una fiata): di continuo siede sopra una lettiera coperta con un panno bello, come costumano li gran signori di questo paese; ha d'intorno alla detta lettiera le sue cortine, e anche di sopra. Va vestito di bianco, cioè di panno di bambagio finissimo e sottile, che viene della India, ove il chiamano cacha: e questo è fatto come una cappa all'apostolica o vero un piviale, che si congiunge e lega dinanzi al petto. Ha un scapolare che si serra similmente dinanzi, fatto di ciambellotto di seta azurra, e sopra il capo una gran mitria larga, similmente di seta azurra. È uomo, come ho detto, molto vecchio, piccolo e calvo; ha la barba molto bianca, ma poca, e nel mezzo è lunga, perché in questa terra li religiosi non costumano di levarsi la barba. È molto grazioso nel suo parlare e nelli gesti quanto dir si possa: rare volte parla che non ringrazii Iddio. Quando esce fuori per andare alla tenda del Prete o per dare gli ordini sacri, cavalca sopra una bella mula, molto bene accompagnato sí da uomini a cavallo in su mule come a piedi. Porta una croce piccola d'argento in mano, e dalle bande gli portano tre croci poste sopra bastoni, che vanno piú alte che non è egli sopra la mula. Io gli dissi una fiata che dette croci doveano andar innanzi a lui; mi rispose che quella che portava in mano faceva questo ufficio, e che le altre non dovevano andare innanzi a quella. Porta, in tutti li luoghi dove egli cammina, due cappelli alti da piedi, grandi come quelli del Prete, ma non cosí ricchi. Gli vanno similmente innanzi quattro uomini con sferze, che fanno allargar le genti da una banda e l'altra: cuopresi la terra per dove egli cammina di fanciulli, giovani, frati e preti, che gli vanno gridando dietro ciascuno. Dimandai ciò che dicevano; mi fu risposto che dicevano: "Signore, fanne cherichi, che Iddio ti dia vita lunga".
Di una congregazion di preti che si fece nella chiesa di Machan Celacen quando la consecrarono, e della translazione che fecero del corpo del re Nahu, padre del Prete Ianni.
Cap. XCIX.
Alli XII del mese di gennaio 1521 fu fatta nella detta chiesa una grandissima congregazione di cherichi e preti, e tutta la notte stettero in gran canti e suoni, e dicevano che la consecravano, nella quale ancora non era stato detto messa, ma la dicevano in un altra piccola che era ivi appresso, nella quale era sepolto il padre di questo Prete: e lo volevano mutare e portare in questa grande, la quale fece principiare vivendo e suo figliuolo l'aveva fatta finire, ed erano XIII anni che era morto; e una domenica all'alba vi dissero messa. Questa chiesa ha in questo suo principio da CCCC canonici con grandi entrate, ma crescendo il numero, come è accaduto nelle altre, non averanno da vivere.
Alli XV del detto mese noi fummo chiamati e ci fecero andare alla detta chiesa, appresso la quale vi erano piú di duomila preti e altritanti cherichi, che erano insieme dinanzi alla porta principale di detta chiesa grande e dentro nel circuito, ch'è quasi come chiostro; e il Prete stava nelle sue cortine serrato sopra d'un palco che suole esser sopra li scaglioni della porta principale, e dinanzi a lui stava tutto il chericato: e fecero un grande ufficio con canti, suoni, balli e salti. Ed essendo detto un pezzo del detto ufficio, ne mandò a dimandare ciò che ne pareva; rispondemmo che le cose di Dio in suo nome fatte tutte ne parevano buone, e certamente facevano uno officio molto divoto a vedere, come cosa fatta in laude di Dio. Di nuovo ci fece dimandare qual ci pareva che meglio fosse fatto, o questo o il nostro, e qual piú ci piacesse glielo mandassimo a dire, che egli lo pigliaria. A questo rispondemmo che Iddio voleva esser servito in molti modi, e che questo ufficio ne pareva bene e cosí similmente il nostro, perché tutto era fatto a un fine, cioè per servire a Dio e acquistar la sua grazia. Subito ci fece ridire che noi dicessimo via liberamente, senza aver rispetto a nulla; gli facemmo rispondere che noi avevamo detto il tutto, né altro avevamo in cuore. E cosí stemmo fin che fu finito detto ufficio, il qual finito, fecero uscire tutta la gente e il chericato fuori della chiesa, e noi con loro. E ci fecero porre verso tramontana, facendoci dire che di quivi noi non ci movessimo, e tutto il chericato e gente andarono alla chiesa piccola ove era sepolto il padre del re, che similmente era verso tramontana, e ivi entrarono quelli che vi poterono stare. E stando cosí, cominciò a passare fra noi e la chiesa una grandissima processione molto bene ordinata, e portavano le osse del detto re alla chiesa grande: e veniva in questa processione l'abuna Marco molto stracco, e due uomini lo sostenevano sotto le braccia per la sua vecchiezza. Venivano poi le reine, cioè la reina Elena e la madre del Prete e la reina sua moglie, ciascuna in un padiglion nero, come cosa di dolore (perché avanti lo portavano bianco), e cosí tutta la gente era vestita di panni neri, piangendo e mandando fuori grandissimi gridi, dicendo: "Abeto, Abeto", cioè "o Signore". E dicevano questo con sí dirotta e compassionevol voce e con tante lagrime che ci facevano pianger tutti. La cassa nella quale erano l'ossa era portata sotto uno padiglione di broccato d'oro, circondato di cortine di raso, e cosí entrarono nella chiesa per la porta traversa dove stavamo noi con le genti che vi poterono capire; e andammo a questo ufficio al levar del sole, e tornammo a casa di notte con torchi infiniti accesi.
Della pratica che ebbe l'ambasciadore col Prete sopra li tappeti, e come il Prete gli fece un solenne convito che durò fino a mezzanotte.
Cap. C.
Alli XVII di gennaio ne mandò a chiamare il prete molto a buon'ora, e tutti vi andammo con l'ambasciadore e con li franchi; e subito che arrivammo appresso la tenda, ne mandò a dimandare tappeti di XX palmi quanto costavano in Portogallo. L'ambasciadore gli fece rispondere che non era mercatante, né manco quelli che venivano con lui, e che non sapeva certo quello che costeriano. Di nuovo ci fece dire che un tappeto di XX braccia venuto dal Caiero era costato quattro oncie d'oro; l'ambasciadore disse che pensava che in Portogallo costarebbe venti crociati d'oro. E di nuovo ci fece dire se in Portogallo vi sariano tappeti di XX e XXX braccia; gli fu risposto che sí. Ci dimandarono poi, se si mandasse oro al capitan maggiore, se mandaria questi tappeti, o vero tanti che coprissero tutta quella chiesa; gli fu risposto che ne mandaria per mille chiese fatte come quella. Di nuovo ci dimandò se mandaria li tappeti mandandogli oro; gli fu fatto intendere che ciò che egli mandasse a dimandare al re di Portogallo, o vero al gran capitano, tutto gli saria mandato subitamente. Cessarono de' tappeti e cominciarono a dimandare se si trovaria in Portogallo chi sapesse leggere lettera arabica e lettera abissina; gli fu risposto che di tutte le lingue si trovavano in Portogallo interpreti. Al che rispose che in Portogallo forse si trovariano, ma che in mare chi leggeria dette lettere? Gli fu detto che in mare vi erano sempre assai Arabi e Abissini sopra le navi del re di Portogallo, conciosiacosaché li Mori rubbano gli Abissini per portargli a vendere in Arabia, in Persia e in India, e che li Portoghesi, quando pigliavano i Mori, ritrovavano fra quelli li detti Abissini e subito gli liberavano e vestivano e trattavano bene, per saper ch'erano cristiani; e che con noi menavamo Giorgio di Breu interprete, che sua Altezza conosceva, il qual fu liberato dalle mani d'un Moro in Ormuz, che direbbe a Sua Altezza come che fu preso. Subito gli mandò a dimandare in che modo egli fu da quel paese condutto in Ormuz: ei gli disse che un Moro che si fece cristiano con inganno lo vendé a uno che lo condusse in Ormuz, e che ivi stette fin a tanto che il padre Francesco Alvarez lo liberò di cattivitade, e che gli fece molte grazie, e cosí fece a molti altri Abissini che erano stati presi da Mori. Poi ne fece dimandare se noi volevamo mangiare; gli rispondemmo che baciavamo le mani a sua Altezza e che eravamo contenti.
Subito fummo condotti in una tenda che piú non era stata tesa se non allora, ed era posta drieto della chiesa grande in quel circuito, ed era molto lunga e piana, e tutto il cielo era coperto di croci fatte di seta, come erano quelle della tenda che fu posta sopra il lago dove si battezzarono, e di dentro era acconcia con tappeti bellissimi, che pareva una sala adornata; e quivi ne mandò a dire che per amor suo dovessimo darci un poco di piacere, transtullandoci e parlando delle cose nostre. E stati noi in queste pratiche un gran pezzo, vedemmo venire con bello ordine molte zare di vino e un canestro grande di pan di grano, e molte altre vivande portate in piatti grandi, fatti di terra nera schietta, bellissimi e benissimo lavorati, che parevano di ambra negra. Le vivande erano fatte di diverse carni variamente acconcie quasi al modo nostro, fra le quali erano galline intere grandi e grasse, parte lesse e parte arroste; e in altritanti piatti venivano altretante galline che parevano quelle medesime, ma erano sole le pelli, in questo modo, che eglino avevano cavata fuori la carne e tutte l'ossa con somma diligenza, di modo che la pelle non era rotta in alcuna parte ma era tutta intera, e poi tagliata la carne sottilmente e mescolata con alcune spezierie delicate, e l'avevano di novo ripiena con essa: la quale, come è detto, era tutta intera, né vi mancava altro che il collo e li piedi dalle ginocchia in giú, né mai potemmo considerare come potessero cavar fuori la carne e l'ossa, o vero scorticarli, che non vi si vedesse rottura alcuna. Di queste mangiamo molto bene a nostro piacere, perché erano molto delicate e buone. Vennero poi con carne grossa e grassa, cotta con tanta diligenza che noi non sapevamo dire se ella fusse lessa o arrosta. Poi in altri piatti vi erano diverse vivande bianche e d'altri colori, fatte parte di carne pesta e sfilata e parte di uccelletti e di diversi frutti del paese, e in alcune era molto bituro, in altre grasso di galline: di ciascuna delle quali volemmo gustare, che ci parvero molto buone e delicate, e ci stupimmo a considerare come fusse possibile che quivi sapessero cosí delicatamente cucinare. Fra le zare di vino d'uva, che erano tutte di quella terra come ambra nera, ve ne era una di vetro cristallino, con una coppa grande pur cristallina, tutta indorata, e un'altra coppa grande d'argento tutta lavorata a smalto, con quattro pietre finissime che parevano safiri incastrati in quella in un caston quadro, con molti rubini intorno: e questa coppa era molto bella e ricca.
Come noi avemmo mangiato a nostro piacere, ci mandò a dire il Prete che noi dovessimo cantare e ballare e pigliar piacere a nostro modo. Subito li nostri cominciarono a cantar canzoni in un clavocimbalo che avevamo portato con noi, e dipoi cantammo canzoni di balli di villa saltando. Erano dentro con noi nella tenda alcuni paggi del Prete e ne affermavano, e cosí ancora noi sentivamo, che egli era di fuori, venuto solamente per udirne e sentire quello che facevamo: e perciò fummo advertiti che non passasse fra noi cosa che non fusse onesta. In questa sera ne mandò XXV candele delle grandi di cera bianche, e un candelliere di ferro, e un bacino grande di ottone nel quale si metteva detto candelliere, che aveva tanti luoghi da mettervi dette candele quante elle erano. Sonammo e ballammo cosí tanto che era passato tanto della notte che, tornati a casa, non passò molto che si vidde l'aurora da ogni parte.
Come il Prete mandò a chiamar l'ambasciadore con tutti li suoi,
e di quello che parlarono nella chiesa grande.
Cap. CI.
Alli XXVIII di gennaio volse che noi andassimo nella chiesa grande, e ci fece porre dinanzi alle sue cortine, che erano sopra lo spazio degli scaglioni che sono apresso la porta principale. Quivi era infinita moltitudine di cherichi, che, come fu al mutare le ossa di suo padre, non facevano altro che cantare, ballare e saltare, e con questo saltare sempre si toccavano i piedi con le mani, ora uno ora l'altro. Ed essendovi stati un gran pezzo, ne mandò a dimandare se nel nostro paese cantavamo in questa maniera; gli rispondemmo che non, perché il cantare nostro era piú quieto, piano, cosí delle voci come del corpo, perché non ballavamo né ci movevamo punto. Ne replicò se, poi che il nostro costume era tale, ne pareva che il suo fusse malfatto; gli mandammo a dire che le cose di Dio, in ciascuna maniera che si facciano, sempre parevano ben fatte. Finito questo ufficio, cominciarono andare all'intorno della chiesa XXV croci con XXV turriboli, perché portano la croce con la mano sinistra, quasi come bordone, e il turribol nella destra, quivi gittando dell'incenso senza alcun risparmio a piú potere: e sopra li gradi dove noi stavamo vi erano due bacili di ottone molto grandi, indorati e lavorati di buril, pieni d'una sorte d'incenso piú odorifero che non è quello che si porta in queste parti, e ogni fiata che passavano ne gittavano nelli turriboli gran quantità. E questi che andavano intorno erano vestiti di vestimenti molto ricchi e cappe fatte secondo il lor uso, similmente erano quelli che ballavano e cantavano; vennero ancora a questo ufficio molte mitre fatte a lor modo.
Dal luogo dove noi stavamo ci fecero partire e andare dall'altra banda della chiesa, dove si canta la Pistola, perché in quella parte erano le reine, cioè la madre del Prete e la sua moglie, ciascuna nel suo sparavier bianco. E stando noi al dirimpetto di loro, dove ne avevano fatto andare, ci mandarono a dire di che metallo erano fatte le patene e calici nelli nostri paesi; rispondemmo loro di oro o di argento. Ci dissero perché noi non gli facevamo di altro metallo; rispondemmo che la ragione ne vietava che fussero d'altra sorte, perché gli altri metalli arruginiscono e si sporcano da loro medesimi. Dimandarono di piú se noi gli facevamo scarsamente e con masserizia, avendo molto oro e argento; rispondemmo che noi facevamo cosí per bellezza e per politezza, sí come comanda la ragione, e se noi volessimo essere scarsi, che noi non gli faremmo d'oro e d'argento, ma di piombo, di stagno e di rame, che valevano poco. Intendemmo poi che di queste dimande ne era stata cagione la regina moglie del Prete, al sparaviere della quale, essendo uscito del suo, era andato il Prete. Ci fece poi dimandare quanti calici poteva avere ciascuna chiesa di Portogallo; gli rispondemmo che vi erano monasteri e chiese ricche che ne avevano dugento, e altre povere con tre o quattro. Mandò a dimandare come aveva nome la chiesa che ne aveva dugento; gli mandammo a dire che molte ne avevano, ma principalmente un monastero che si chiama la Battaglia, perché un re di Portogallo vinse in quel luogo una battaglia contra un re moro e per memoria fece far detto monastero, e il suo titolo è di Nostra Donna. Ci disse che gli piaceva intender questo, perché ancora egli aveva un monastero detto la Battaglia, che era in questo regno di Amara, dove altre volte un neguz, cioè un Prete Ianni, aveva vinto molti re mori e fatto fare un monastero a onore similmente della nostra Donna. Di novo ci fece dimandare quanti re erano sepolti in questo tal monasterio della Battaglia; gli respondemmo che ivi giacevano quattro re, un principe e molti infanti, e cosí giaciono per altri ricchi monasteri e chiese catedrali altri re e principi in ricche sepolture. Dipoi ci mandò a dire che noi andassimo a dir messa, perché si approssimava il mezzogiorno, che era l'ora che noi la solevamo dire.
Come l'ambasciadore e tutti i franchi furono a visitar l'abuna, e di quello che con lui parlarono.
Cap. CII.
Alli XXIX gennaio l'ambasciadore con tutti i franchi (de' quali erano alcuni venuti avanti di noi a questa corte), con tutti noi altri andò a visitare l'abuna Marco, perché ancora non gli aveva parlato. Lo trovammo (sí come io lo trovai) a sedere sopra il letto. Volse l'ambasciadore baciargli la mano, ma egli non volse, ma gli diede a baciar quella croce che sempre tiene in mano, e cosí fece a tutti gli altri. Posti che fummo a sedere, l'ambasciadore gli disse che per nome del capitan maggiore egli era andato a visitarlo, e che gli perdonasse se piú presto non vi fusse andato, perché non lasciavano che ei potesse visitar persona alcuna. L'abuna gli rispose che non si maravigliasse, che questo era il costume di questa corte, di non lassar andar forestiero a casa d'alcuno, e che questo non era già di consentimento del Prete, ch'era uomo buono e santo, ma di quelli della corte, che sono cattivi. E dicendogli l'ambasciadore che il gran capitano si raccomandava a lui, e che pregasse Iddio che volesse inspirar nel cuore del Prete Ianni di metter insieme le sue genti con quelle del re di Portogallo per andar a destrugger la Mecca e cacciar fuori li Mori, levando via la maladetta setta di Maometto, l'abuna gli rispose che egli faria quanto in lui fusse, ma che il Prete Ianni era inanimato e volonteroso per andar non solamente a distrugger la Mecca, ma pigliare Gierusalem e tutta la Terra Santa, perché trovavano nelle loro scritture antiche che li franchi dovevano venire a congiungersi con gli Abissini, e distrugger la Mecca e ricuperare il santo Sepulcro; e che sempre egli aveva pregato Iddio che gli facesse vedere questi franchi, di che Iddio l'aveva esaudito, e per questo lo ringraziava molto; che Pietro di Coviglian, che era ivi presente ed era lo interprete, poteva esserne buon testimonio che molte volte gli aveva detto: "Sopporta, Pietro, e non ti dar fastidio, perché a' dí tuoi verrano in questo regno le genti del tuo paese", e che per questo dovesse ringraziare Iddio. L'ambasciadore gli disse che il re di Portogallo era stato informato della bontà e santità sua per Matteo suo fratello e ancora per altre persone, e che però lo mandava a pregare che tenesse constante e forte il Prete Ianni a questa impresa di cacciare i Mori e distruggerli. L'abuna rispose che egli non era santo, ma un povero peccatore, e che Matteo non era suo fratello, ma era mercante e suo amico, e ancor che fusse venuto con bugie, si conosceva però che 'l suo venire era stato da Dio ordinato, avendo fatto cosí buon servizio e profitto; e che circa il fare star constante il Prete, non accadeva, per esser quello tanto ardente nella fede di Cristo, alla destruzione de' Mori tanto inanimato, che piú non si potria desiderare, e che egli spesso gli ricordava la grandezza del re di Portogallo, la gran fama che risuona per tutto il Caiero e Alessandria, e che dovesse ringraziare Iddio di esser diventato amico e conoscente d'un tanto re; e che egli sperava presto vedere il capitan maggiore signore delle fortezze di Zeila e di Mazua. E doppo molte altre parole prendemmo licenza.
Della causa che Pietro di Coviglian venne al Prete Ianni,
e come non si poté dipoi piú partire del paese.
Cap. CIII.
Avendo parlato molte volte in questo libro di Pietro di Coviglian portoghese, essendo persona onorata e di gran credito appresso il Prete Ianni e tutta la corte, è conveniente che io narri come venne in questo paese e la causa, sí come egli m'ha narrato molte volte. Ma prima dirò che egli è mio figliuolo spirituale e molte volte l'ho confessato, perché, in XXXIII anni che si trovava quivi, mi ha detto non essersi mai confessato, essendo usanza di questo paese di non tener secreto quello che è detto in confessione: e per questo egli se ne andava alla chiesa, dove diceva a Dio i suoi peccati. Il suo principio fu che nacque nella terra di Coviglian, del regno di Portogallo, ed essendo garzone andò in Castiglia e si pose al servizio di don Alfonso, duca di Siviglia; e cominciata la guerra fra Portogallo e Castigliani, se ne ritornò a casa con don Giovanni di Gusmam, fratello del detto duca, il qual lo mise a stare in casa del re Alfonso di Portogallo, che per lo valor suo lo fece subito uomo d'arme: e fu sempre in detta guerra, e fuori anco in Francia. Morto il re Alfonso, egli restò a guardia del re don Giovanni suo figliuolo, fin al tempo delli tradimenti, che egli lo volse mandare in Castiglia, per saper molto ben parlar castigliano, acciò che egli spiasse quali erano quelli gentiluomini de' suoi ch'andavano ivi praticando. E ritornato di Castiglia fu mandato in Barbaria, dove stette un tempo e imparò la lingua araba, e fu poi mandato a far pace con il re di Trimisem, e ritornato di nuovo fu mandato al re Amoli Belagegi, il qual restituí l'ossa dell'infante don Fernando. Nel suo ritorno trovò che, desiderando il re don Giovanni che le sue caravelle trovassero le speziarie a qualche modo, aveva deliberato mandar per via di terra persone che scoprissero quello che si poteva fare, ed era stato eletto a questa impresa Alfonso di Paiva, abitante in Castel Bianco, omo molto pratico e che sapeva parlar ben arabo. E come fu giunto, il re Giovanni lo chiamò e secretamente gli disse che, conosciuto sempre leale e fidel servitore e affezionato al ben di sua Maestà, sapendo la lingua araba, aveva pensato di mandarlo con un altro compagno a discoprire e sapere dove era il Prete Ianni, e se egli confinava sopra il mare, e dove nasceva il pepe e la cannella e altre sorti di speziarie che erano portate nella città di Venezia delle terre de' Mori, conciosiaché, avendovi mandato per questo effetto uno di casa di Monterio e un frate Antonio da Lisbona maggior di porta di ferro, non avevano potuto passar la città di Gierusalem, dicendo che era impossibile di fare questo cammino non sapendo la lingua araba; e per tanto, sapendola egli molto bene, lo pregava a pigliare questa impresa, di fargli cosí singular servigio, promettendogli rimunerarlo di sorte che egli saria grande nel suo regno e tutti li suoi viveriano sempre contenti. Pietro gli rispose che egli baciava le mani di sua Maestà di tanto favore che gli faceva, ma che si doleva che 'l sapere e sufficienza sua non fusse tanto quanto era grande il desiderio che egli aveva di servir sua Altezza, e che nondimeno come fidel servitore accettava questa andata con tutto il cuore.
E cosí del 1487, alli VII di maggio, furono spacciati tutti due in Santo Arren, essendovi presente sempre il re don Emanuel, che allora era duca, e gli diedero una carta da navigare copiata da un napamondo, al far della quale v'intervennero il licenziato Calzadiglia, che è vescovo di Viseo, e il dottore maestro Rodrico, abitante alle Pietre Nere, e il dottore maestro Moyse, che a quel tempo era giudeo: e fu fatta tutta questa opera molto secretamente in casa di Pietro di Alcazova, e tutti i sopradetti dimostrarono lor meglio che seppero come se avessero a governare per andare a trovar li paesi donde venivano le spezierie, e di passare anco un di loro nell'Etiopia a vedere il paese del Prete Ianni, e se nei suoi mari fusse notizia alcuna che si possa passare ne' mari di ponente, perché li detti dottori dicevano averne trovata non so che memoria. E per le spese per tutti due il re ordinò loro CCCC crociati, i quali li furono dati della cassa delle spese dell'orto d'Almerin; e sempre vi fu presente, come è detto, il re don Emanuel, che allora era duca. Oltre di questo, il re gli fece dare una lettera di credito per tutte le terre di Levante, acciò che, se si trovassero in necessità o in pericolo, potessero con quella esser soccorsi e aiutati. Delli CCCC crociati una parte volsero in contati, e l'altra dettero a Bartolomeo Marchioni fiorentino, acciò che esso gli facesse pagar loro in Napoli.
E avuta la benedizione dal re, si partirono da Lisbona, e giunsero il dí del Corpo di Cristo in Barcellona, e di lí in Napoli il dí di san Giovanni, dove per lo figliuolo di Cosmo de' Medeci gli furono dati li danari delle lettere di cambio. Da Napoli passorono a Rodi, e quivi trovarono delli cavallieri portoghesi, uno chiamato fra Gonzalo e l'altro fra Fernando, in casa dei quali smontati, dopo alcuni giorni presero il viaggio per Alessandria sopra una nave di Bartolomeo di Paredes, avendo comprato prima molte zare di miele, per mostrare che fussero mercanti. Ma giunti in Alessandria, s'infermarono gravemente di febre, e fu tolto loro tutto il miele per il cadí, pensando che dovessero morire; ma fatti sani, fu loro pagato come volsero, e comperate diverse mercanzie se n'andarono al Caiero, dove stettero fino a tanto che trovarono compagnia di certi Mori magabrini del regno di Fessa e Tremissen che andavano in Adem, e con quelli andarono per terra fin al Thor, dove imbarcati navigorono al Suachem, che è sopra la costa degli Abissini, e di lí poi in Adem. E perché era il tempo della mozione, che quei mari non si possono navigare, si partirono l'uno dall'altro, e Alfonso passò sopra l'Etiopia e Pietro elesse di andare in India, come vi si potesse navigare; e restarono d'accordo che a un certo tempo tutti due si dovessero ritrovare nella città del Cairo, per poter dar aviso al re di quello che avessero scoperto.
Pietro di Coviglian, come fu tempo, montò sopra una nave che lo condusse al diritto in Cananor, e passò in Calicut, e vidde la gran quantità de' gengevi e de' pepi che ivi nascevano, e intese che li garofali e cannelle di lontani paesi erano portate. Poi se ne andò verso Goa e passò all'isola di Ormuz, e informatosi di alcune altre cose, con una nave se ne venne verso il mar Rosso e montò a Zeila, e con alcuni Mori mercatanti volse scorrere quei mari d'Etiopia che gli furono mostrati in Lisbona sopra la carta da navigare, che dovesse fare ogni cosa per scoprirli; e tanto andò che giunse fin al luogo di Cefala, dove da marinari e alcuni Arabi intese che detta costa tutta si poteva navigare verso ponente, e che non se ne sapeva il fine, e che vi era una isola grandissima molto ricca, che aveva piú di 900 miglia di costa, la quale chiamavano della Luna. E avendo inteso queste cose, tutto allegro deliberò di ritornarsene al Caiero, e cosí se ne venne di nuovo a Zeila, e de lí passò in Adem e poi al Tor e finalmente al Caiero, dove essendo stato gran tempo aspettando Alfonso de Paiva, ebbe nuova come egli era morto. Per la qual cosa deliberò di ritornarsene in Portogallo, ma Iddio volse che duo Giudei, che l'andavano cercando, per aventura lo trovarono e gli dettero lettere del re di Portogallo. Uno di questi Giudei si chiamava Rabi Abram, natural di Beggia; l'altro Iosefo di Lamego, ed era calzolaio. Costoro, essendo stati per avanti in Persia e in Bagader, dissero al re cose molto grandi che avevano intese delle spezierie e delle ricchezze che si trovavano nell'isola d'Ormuz, del che il re n'ebbe piacer grandissimo, e volse che di nuovo vi tornassero a vederle loro medesimi, ma che prima intravenissero di Pietro di Coviglian e di Alfonso, che sapeva che a un tempo determinato dovevano ritrovarsi nel Caiero. Le lettere del re contenevano che, se tutte quelle cose dateli in commissione erano state da loro scoperte, se ne ritornassero, perché gli remunereria; ma se non erano state scoperte tutte, che di quelle che avevano vedute gli mandassero particolar informazione e poi si affaticassero di sapere il resto, e sopra tutto del paese del Prete Ianni, e di far veder l'isola di Ormuz a Rabi Abram. Per la qual cosa Pietro di Coviglian deliberò di avisar il re di tutto quello che egli aveva veduto lungo la costa di Calicut, delle speciarie, e di Ormuz e della costa d'Etiopia e di Cefala e dell'isola grande, concludendo che le sue caravelle che praticavano in Guinea, navigando terra terra e dimandando la costa di detta isola e di Cefala, potriano facilmente penetrare in questi mari orientali e venir a pigliar la costa di Calicut, perché da per tutto vi era mare, come gli aveva inteso; e che ritorneria con Rabi Abram in Ormuz, e dopo il suo ritorno anderia a trovare il Prete Ianni, il paese del quale si distendeva fino sopra 'l mar Rosso. E con queste lettere espedí il Giudeo calzolaio.
E andati di nuovo all'isola di Ormuz col Giudeo, e ritornati in Adem, volse che egli se ne andasse a dar nuova al re di aver veduto con li suoi occhi l'isola di Ormuz. Ed egli, passato sopra l'Etiopia, se ne venne alla corte del Prete Ianni, che allora non era molto lontana da Zeila, e appresentate le lettere a quello, che allora si chiamava Alessandro, fu molto accarezzato e fattogli grandissimo onore e promesso di espedirlo presto: ma in questo mezzo mancò di questa vita, e successe Nahu suo fratello, che lo vidde ed ebbe molto caro, ma non gli volse mai dar licenza. Morí poi Nahu e successe David suo figliuolo, che al presente regna, il qual ricusò di lasciarlo partire, dicendo che non era venuto a suo tempo, e che li suoi antecessori gli avevano lasciate tante terre e signorie, che le dovesse governare e non ne perdere alcuna, e per tanto, non gli avendo loro data licenza, non gliela poteva similmente egli dare: e cosí rimase, e gli fu data moglie con grandissime riccheze e possessioni, della quale ne ebbe figliuoli, e noi gli vedemmo. E a nostro tempo, come vidde che noi volevamo partire, gli venne un estremo desiderio di ritornarsene alla patria, e andò a dimandar licenza al Prete, e noi con lui, e ne facemmo grand'instanzia e lo pregammo: e nondimeno non vi fu mai ordine. Costui è omo di grande spirito e ingegno, e della sua sorte non se ne trova un altro nella corte, e sa parlare di tutte le lingue, sí de' cristiani come de' mori, gentili e Abissini; e di ogni cosa che egli abbi inteso e veduto, ne sa dare cosí particular conto come se fussero presenti. E per questo è molto grato al Prete e a tutta la corte.
Come il Prete Ianni determinò di scrivere al re e al capitan maggiore, e de' presenti che fece all'ambasciadore e agli altri.
Cap. CIIII
Ritornando al nostro viaggio o vero istoria, dico che, dopo che ci fu fatto in quella tenda quel solenne convito, tutti li giorni dipoi non cessarono gli scrivani di scriver le lettere che avevamo da portar con noi al re e al capitan maggiore, e vi posero gran tempo e gran fatica a farle, perché la usanza di costoro non è di scrivere l'uno all'altro, ma le lor dimande, risposte e ambasciate sono tutte fatte a bocca. E al nostro tempo cominciarono a pigliare pur qualche modo di scrivere, e quando scrivevano sempre tenevano dinanzi le lettere di san Paulo e di san Pietro e di san Iacobo, e quelli che le studiavano erano reputati i piú dotti e i piú savii. E cominciarono prima a scriverle in lingua abissina, e poi le traducevano in arabico, e di arabico nella nostra lingua portoghese: le quali leggeva il frate che ci guidava in lingua abissina, e Pietro di Coviglian le traduceva in portoghese, e Giovanni Scolaro, scrivano dell'ambasciadore, le scriveva, e io per ordine del Prete stava a consigliare come si dovessero dalla lingua abissina, che è molto difficile e senza regula, tradur nella portoghese. E cosí fecero le lettere al re in tre lingue, abissina, arabica e portoghese, e il medesimo al capitan maggiore, ma tutte doppie, cioè due in ciascaduna lingua: e tre erano poste in un sacchetto fatto di broccato, cioè una abissina, una arabica e una portoghese, e l'altre tre in un altro simil sacchetto. Il medesimo fu fatto a quelle che andavano al capitan maggiore, di metterle in duo sacchetti di broccato, ed erano scritte in quaderni di carta pergamina.
Alli XI di febraro 1521, il Prete mandò a chiamar l'ambasciadore e tutti noi con lui, e anco li franchi che noi ritrovammo alla corte. E stando dinanzi alla porta della sua tenda per un buono spazio, il Prete mandò alli franchi alcune pezze di panni ricchi di broccatello e di seta e tre pezze di damasco, con XXX oncie d'oro che si dividessero fra loro. Vedendo adunque noi far cosí gran presenti a' franchi che erano venuti qui fuggiti da' Mori, pensammo che molto maggiori gli farebbe a noi, e tenevamo per certo che ne dovesse dare veste di broccato; e mandando molte ambasciate di cose diverse e avendone risposte, vedemmo in un tratto venire il gran betudete, che è il signore della man manca, e mi portò una croce d'argento e un bellissimo bastone lavorato di tarsia, dicendo che il Prete mi mandava queste cose per segno della signoria che mi aveva data nelle isole del mar Rosso: io ringraziai sua Altezza come meglio potei, e tornai a sedere. Dapoi il Prete, avendo inteso che fra Giorgio di Breu e il nostro ambasciadore era nata inimicizia grande per parole riportate d'uno allo altro, amando detto Giorgio per esser suo Abissino e persona di buon intelletto, mandò a dire all'ambasciadore che volesse esser amico di detto Giorgio, e che noi dovessimo partir tutti insieme come eravamo venuti. Lo ambasciadore, ostinato, disse che piú non poteva essergli amico, avendo avuto animo e pensiero di ammazzarlo, e che pregava sua Altezza che volesse tenerlo dui mesi in corte dopo che fosse partito. A questo non venne risposta, ma venne una parola del Prete, che egli aveva ordinato che ne fussero date XXX mule per portar le nostre robbe, delle quali ne dovessimo dare VIII per portar quelle di Giorgio di Breu; e di piú che mandava all'ambasciadore trenta oncie di oro, e per la sua compagnia cinquanta, e che Giorgio e quelli che eran con lui avevano avuto la lor parte; e appresso mandava cento cariche di farina e altritanti corni di vino di miele per il nostro viaggio, e che nel viaggio non dovessimo dar fastidio a' poveri che lavorano, perché gli era stato detto che alla nostra venuta avevamo distrutto il paese donde passavamo; e che ci consegnarebbono a certi capitani che ci condurriano di terra in terra fino al mare, cioè che ciascuno ne provederia per le sue terre di quello che fusse necessario. E subito ci consegnorono a un figliuolo del cabeata, perché avevamo da camminare assai per le terre di suo padre, che sono quelle dove è quella gran chiesa nella quale furono poste le osse del padre del Prete: la qual chiesa, come è detto, ha CCCC canonici, e sopra li detti vi è un figliuolo del detto cabeata, che è licanate, cioè capo sopra tutti li capi.
Come il Prete mandò all'ambasciadore 30 oncie di oro, e 50 per la sua compagnia, e una corona e lettere per il re di Portogallo e per lo capitan maggiore; e come noi partimmo dalla corte, e il cammino che noi facemmo.
Cap. CV.
In questo giorno al tardi furono portate alla nostra tenda XXX oncie d'oro per l'ambasciadore e cinquanta per noi, e insieme una corona grande d'oro e d'argento, la quale era del Prete Ianni, e non era tanto bella per lo valore quanto per la grandezza: ed era in un cesto tondo, foderato di dentro di panno e di fuori di cuoio, e fu presentata per Abdenago, capitano de' paggi, il qual disse all'ambasciadore che il Prete mandava quella corona al re di Portogallo, e che gli dovesse dire che corona non si soleva tirare di capo se non del padre per lo figliuolo, e che egli era figliuolo e se la cavava di capo per mandarla al re di Portogallo che era suo padre, e che gliela mandava al presente per la piú pregiata cosa che egli avesse, offerendogli tutti li favori, aiuti e soccorsi, sí di gente come d'oro e vettovaglie, che gli fusse di bisogno per le sue fortezze e armate e per le guerre che egli volesse fare contra i Mori in queste parte del mare Rosso fino in Gierusalem. E perché non ne portavano le vesti che avevamo inteso essere state fatte per noi, alcuni de' nostri mormoravano: e quelli che le portarono intesero, e dissero che 'l Prete era molto mal sodisfatto dell'ambasciadore, perché già due giorni egli aveva mandato a ferire e dare delle bastonate a un Portoghese che si chiamava Magaglianes, che s'era accostato con Giorgio di Breu, e che ci faceva dare questa nostra espedizione con gran noia del suo animo, e che noi non dovessimo aspettar vesti né altra cosa, che molto avevamo perso della sua grazia per le cose sopra dette.
Alli XII di febraio, che era il nostro carnevale, venne il frate che ne guidava e portò le lettere per il re e per il capitan maggiore, ch'ancora non c'erano state consegnate; né anche il detto Prete aveva deliberato di mandare un suo ambasciadore, come egli fece dipoi. Le lettere furono portate in questo modo, cioè che, avanti essendo state poste quelle del re in duoi sacchetti, le tornarono a mutare in tre, conciosiacosaché elle erano tre di ciascuna lingua: e per questo fecero tre sacchetti. Quelle del capitan maggiore non erano state mosse di quello che erano, e i sacchetti erano di broccato, e tutti cinque posti in un cesto, foderato di fuori di cuoio e di dentro di panno. E subito furono cavati fuori detti sacchetti e mostratici serrati e suggellati, e riposti nel cesto, suggellarono la serratura, e dissero all'ambasciadore che poteva partirsi quando gli piacesse, perché egli era espedito del tutto. Disse l'ambasciadore che voleva avanti si partisse ancora parlare al Prete, se a sua Altezza fusse in piacere. Disse il frate e quelli che con lui erano venuti che il Prete era partito la mattina a buon'ora, il che sapemmo esser la verità; e dicevano che era molto malcontento dell'ambasciadore, perché trattava cosí male gli uomini della sua compagnia e non voleva essere amico di Giorgio di Breu, e ancora per l'altre cose che non volevano dire, e che andassimo alla buon'ora, ma che restasse in corte maestro Giovanni e il pittore. Vedendoci cosí espediti, ci mettemmo all'ordine per partirci, e il frate ne fece menar le XXX mule che ne davano per il viaggio e molti corni per portar vino, i quali avendone promesso, pensavamo che dovessero darnegli tutti pieni, e per la maggior parte vennero voti: e ci fu detto che il Prete aveva ordinato, ancora ch'essi non bevessero vino di quaresima, poi che era il nostro costume di beverlo, che questi che ci conducevano ce lo facessero dare per lo cammino di mano in mano come bisognava. E quanto alle mule, ne tolsero otto e le dettero a Giorgio di Breu per la sua compagnia, e cosí delli corni. In questo mezzo molti de' nostri andarono alla piazza, a comprare ciò che bisognava loro. E per questo essendo restati di partirci quel giorno, per esser tardi, ecco che si fece un vento cosí grande e potente che ne ruppe tutte le corde della nostra tenda, la quale dette in terra: e trovandoci cosí all'aere, cominciammo a gridare: "Andiamo, andiamo". E cosí ci partimmo quella sera, che era il giorno del nostro carnevale, e venimmo tre miglia a dormire in una campagna; e con noi veniva Pietro di Coviglian, con la sua moglie nera e parte de' figliuoli, che erano bigi. Il frate camminava con Giorgio di Breu, quasi come sua guardia, e alloggiarono separati da noi.
Il primo giorno di quaresima cominciammo il viaggio, e con noi veniva un figliuolo del cabeata, avendo da passare per le sue terre, e Abdenago capitano de' paggi, perché dapoi avevamo da passare per le sue. E alloggiati che fummo appresso una collina, e provistone per il frate di cena, l'inimico della natura ordinò una quistione, che Giovanni Gonsalvez nostro fattore venne a parole con un Giovan Fernandez, che era suo servitore, datogli per il capitan maggiore accioché l'aiutasse, e di una parola in un'altra si venne a tale che gli diede molte bastonate: pur noi li facemmo far pace, e l'ambasciadore diede favore a questo Fernandez, per il che egli lassò il fattore e si accostò all'ambasciadore. Il giorno seguente camminammo pur partiti, cioè Giorgio di Breu col frate e noi col figliuolo del cabeata, e fummo provisti di tutto quello che ne era di bisogno. Ed essendo nel regno di Angote, appresso un monastero dell'abuna Marco, avendo già passate le terre del cabeata, quasi entrando in quelle di Abdenago, Giovan Fernandez aspettò a un passo il fattore, che solo accompagnava le robbe, e gli dette con una lancia tolta dalle robbe dell'ambasciadore due ferite, cioè una in una mano e l'altra nel petto: della mano furono solamente ferite le dita; quella del petto, la ventura volse ch'ella venne a dare in una costa e non poté passar dentro. Quivi fu il rumor grande, che ognuno corse, come fu veduto ferito, e mi fecero andare a confessarlo, pensando che la ferita fusse mortale, e lo trovai mezzo morto: pur volse Iddio che si riebbe. Giovan Fernandez, subito fatto questo, fuggí dall'ambasciadore, e tutti gridavano che fusse preso perché aveva morto il fattore, e cosí fu preso e ligato. Abdenago già era passato alle sue terre, nelle quali speravamo di andar a dormire; ma per questo travaglio noi restammo sopra un fiume, che allora aveva poca acqua, ma nel tempo dell'invernata, con li nembi, mostrava di farsi molto grande e furioso. Quivi dormimmo, faccendosi la guardia al detto Fernandez, che gli avevano legate le mani di dietro: pur, non so come si fusse, costui ebbe mezzo di fuggirsene e andò da Giorgio di Breu, che era alloggiato piú a basso del detto fiume. Subito l'ambasciadore cominciò a dubitare di qualche travaglio del detto Breu, e camminavamo il giorno dietro molto lontani una compagnia dall'altra, fin che arrivammo a Manadeli, luogo del regno di Tigremahon.
Di quello che ne avvenne in Manadeli con li Mori.
Cap. CVI.
Giunti in questo luogo de Manadeli, che è tutto abitato da Mori, pacifici tributarii del Prete, ce n'andammo sopra alcune bellissime fontane che passavano sotto l'ombra di grandissimi arbori, perché questi che ci conducevano non sanno ciò che sia ombra né acque, se non di mettersi sempre in luoghi alti, dove dia il sole e il vento. Abdenago andò ad alloggiare sopra una collina con la sua tenda. Dipoi alcuni de' nostri tornarono a questo luogo a comperare alcune cose, e uno Stefano Pagliarte, secondo che pare, venne alle mani con un Moro, il qual gli levò via due denti; e a questo rumore essendo corsi delli nostri, a uno d'essi ruppero la testa con una pietra. Abdenago corse e fece prendere alcuni di questi Mori che avevano fatto il male, ma, essendo già notte, non si fece altro. Il giorno seguente ci mandò a dire che andassimo al luogo dove egli teneva questi duoi Mori presi, e ci fece sedere nell'erba, ed egli similmente, appoggiandosi con le spalle alla sua cattedra, e quivi fatti menare i prigioni, cominciò secondo i suoi ordini a dimandarli oro. Al fine gli fece spogliare e fortemente battere, dimandando quanto ne dariano: costoro cominciarono a promettere un'oncia d'oro, due e tre, e pur battendogli gli dimandavano quanto dariano; all'ultimo arrivarono a sette oncie, e con questo ei cessò di batterli, e l'oro fu dato a' feriti, e li battuti furono mandati legati al Prete Ianni. Questo ho voluto dire accioché si sappia il modo che tengono in far tal giustizie.
Noi seguitammo via di lungo il nostro viaggio verso Barua, dove alloggiammo quando arrivammo in questo paese. Quivi essendo stati molto tempo, venne un messo del Prete e con lui uno di questi Mori battuti, e con la testa dell'altro, dicendone che il Prete aveva voluto intendere ed esaminare tutto il fatto di detti Mori: per il male che avevano fatto alli Portoghesi, egli avea fatto tagliar la testa a quello ch'egli aveva trovato ch'aveva fatto il male, il qual egli ci mandava, acciò fussimo certi della verità e conoscessimo s'ella era quella; e l'altro che non trovava in colpa ne lo mandava, e che dovessimo fare di lui ciò che ne piaceva, o amazzarlo o liberarlo o farlo schiavo. E sopra questo avendo tutti noi fatto insieme consiglio, l'ambasciadore ne dimandò quello che ne pareria si dovesse fare; io gli risposi per gli altri compagni, perché sapeva la lor fantasia, e dissi che, poiché il Prete ne faceva intendere che lo trovava innocente, noi non dovevamo farlo colpevole, perché, faccendo contra di lui alcuna cosa, ci terrebbeno per uomini crudeli e senza pietà, e liberandolo il Prete l'averia caro, e cosí tutti gli altri dissero il medesimo. Ma l'ambasciadore disse che non era di questo parere e che voleva tenerlo per ischiavo: subito gli fece mettere i ferri ai piedi e catene alle mani, ma non lo tenne dieci giorni che 'l Moro si fuggí, non ostante tutte le guardie che gli fussero fatte.
Come duo gran gentiluomini della corte vennero a ritrovarne.
Cap. CVII.
Partendoci di questo luogo de Manadeli alla via di Barua, come è detto, noi camminammo per molti paesi e terre, e sempre Abdenago veniva con noi e il frate con Giorgio di Breu; e arrivammo a una terra chiamata Bacinette, gran terra e quasi come un capitanato, e le genti non sono cattive, ancora che avanti ci volessero lapidare, come fecero. Questo consiglio è nel capo del regno di Tigrai. Ed essendo noi quivi alloggiati, giunsero dalla corte duoi gran gentiluomini, uno dei quali si chiamava adrugaz, al quale alla nostra giunta fummo consegnati: e di lui molte fiate abbiamo fatto menzione in questo libro; dell'altro, il suo titolo era gargeta e il nome arraz Anubiata, che dipoi fu barnagasso e ora è betudete. E quivi ci fecero intendere come il Prete era restato molto scontento per non aver voluto fare l'ambasciadore pace con Giorgio di Breu, e però quello che fin a ora non era stato fatto pregava sua Altezza che si facesse, e che fussero amici e non andassero separati avanti il gran capitano, perché pareria cosa molto brutta, e cosí gli altri che avevano fatto quistione nel cammino si pacificassero. Noi subito ci affaticammo di rappacificargli l'uno con l'altro, e facemmo far pace all'ambasciadore con Giorgio di Breu, e li detti gentiluomini diedero a ciascuno di noi una mula che 'l Prete ne mandava, dicendo che venivano per presentarne al capitano maggiore e avisarlo da parte del Prete Ianni, conciosiacosaché Barnagasso, signore di quel paese, era restato in corte.
Fatte queste paci, pur con l'aiuto di Iddio, e avendone date le mule, camminammo tutti uniti fino a Barua, dove dimorammo fino che passò il tempo della mozione del mare, dopo la quale avevano da venir a levarne. Passato il qual tempo, all'ambasciadore parve di non voler mandar piú da mangiare a Giorgio di Breu né a quelli che stavano con lui, e avendo un giorno Giorgio mandato a dimandar da mangiare per Giovan Fernandez, che fu quello che ferí il fattore, lo voleva far battere se immediate non fuggiva. Per la qual cosa Giorgio mi parlò in una chiesa, dove mi disse che io facessi intendere all'ambasciadore che dovesse mandare da mangiare a lui e a tutti quelli che con lui erano, altramente che se ne torrebbe per forza. Il che inteso dall'ambasciadore, disse che per Giorgio ne mandaria, ma per gli altri no, per esser traditori e contra il servizio del re di Portogallo. Giorgio gli fece rispondere che lo torria per forza, e detto questo, se ne andò subito a trovar questi duoi signori venuti dalla corte, con li quali si dolse grandemente. Costoro ci mandarono a chiamare in un campo, dove Andrugaz parlò all'ambasciadore in questo modo, dicendogli per che causa si portava cosí male con li suoi, a' quali poi che non voleva dargli quello che gli era stato fatto consegnare dal Prete per lo viver loro, molto manco si poteva pensare che egli fusse per vendere li cavalli o mule per sostentarli, e che questo non si costumava di fare fra uomini grandi e di onore; e che egli considerasse molto bene il dispiacer grande che aveva ricevuto il Prete di lui, non per altro se non per essersi cosí mal portato con la sua compagnia, conciosiacosaché, se altramente si fusse portato, sarebbe ancor altramente stato trattato lui, e piú sodisfatto si saria partito di quello che aveva fatto; e per tanto lo pregava ed esortava che non volesse tener il lor vivere, ma liberamente darlo, e non rompesse la pace che egli aveva fatto in sua presenza con Giorgio di Breu. L'ambasciadore gli rispose brevemente e quasi in colera che non gli pareva onesto né il dovere di dar da mangiare a quelli che egli conosceva essere traditori e contra il servizio del re di Portogallo, e dette queste parole si partí, e cosí facemmo ancora tutti noi molto scontenti. E dubitando il fattore che non gli fusse tolta la robba che egli aveva in guardia da Giorgio, volse andar a dormir in casa dell'ambasciadore, la quale era buona e forte, secondo il paese; e dormendo io con un mio cugino, a mezzanotte sentimmo molti schioppi e un gridor grande, che diceva "piglia di qua, piglia di là": dove che essendo corsi, vedemmo che buttavano giú le porte della casa, ed era cosí grande il rumore che pensammo che fussero stati ammazzati tutti quelli dell'ambasciadore, per la qual cosa andammo correndo alla casa del Barnagasso, dove alloggiavano detti signori, a farli venire a questo fatto. La qual casa avendo due porte, noi entrammo per una e l'ambasciador con li suoi per l'altra, e portavano il cesto della corona e lettere del Prete e quella poca robba che poterono levar seco; uno delli uomini dell'ambasciadore era ferito di tre ferite. Questi signori subito fecero ritirar a parte gli uomini dell'ambasciadore, perché quelli di Giorgio non facevano altro che bastonarli e ferirli: e furono mandati a un luogo detto Gazele, che era vicino, faccendovi tener guardie in lor compagnia. E passati alquanti giorni, vedendo la inimicizia e malvolere che era fra noi, non sapevano che consiglio pigliare sopra il fatto nostro, conciosiacosaché è costume in questo paese che alcuno uomo grande non può uscire di corte senza licenza, né anco andar se non è chiamato: però detti signori stavano in dubio di quello che di noi dovessero fare, perché da una banda non ardivano lasciarci, dall'altra a condurne alla corte con tanta inimicizia, non essendo chiamati, temevano d'incorrere in qualche gran pena; pur elessero di tornare alla corte, ancora che dovessero patire qualche gran castigo.
Come quelli signori, cioè andrugaz e gargeta, tornarono di nuovo alla corte.
Cap. CVIII.
Avendo considerato questi signori che il tempo era passato che 'l capitan maggiore doveva venir per noi, e che non ci potevano pacificare, deliberorno di condurci alla corte, e ci mettemmo a cammino tutti insieme con li franchi. E come arrivammo al luogo di Bacinete detto di sopra, dove era venuta la fama della nostra inimicizia, si messero tutti quelli del paese in arme, non ci volendo lasciar passare, e discesero da un colle tanti frati con archi e freccie e bastoni che parevano branchi di pecore, e quivi si fece una grandissima scaramuccia, e molti da una parte e l'altra furono feriti: pure noi gli ributtammo e facemmo fuggire. Li signori sopradetti, essendo noi alloggiati quivi, messero il luogo a sacco come se fusse stato di Mori, e tolser loro orzo, galline, capponi, castroni e quanto trovarono per le case. E partiti di quivi camminammo in due parti, cioè Giorgio di Breu e tutti quelli che con lui erano e il frate, e noi con l'ambasciadore e li signori andrugaz e gargeta. E arrivammo a Manadeli, ove ne ferirono gli uomini, e quivi trovammo il Moro che fuggí all'ambasciadore, il qual non aveva paura alcuna; e passato questo luogo per duo miglia scontrammo Barnagasso, che veniva dalla corte e portava ordine dal Prete di quello che i detti signori dovevano far di noi. La qual cosa volendo intendere, ci mettemmo tutti insieme in un campo lavorato sotto un grande arbore, dove questi signori furono molto ripresi dal Barnagasso per causa di questo nostro ritornar senza licenza, dicendo che andassero alla corte, ch'averiano il lor castigo. Poi cominciò a gridar con l'ambasciadore e con Giorgio di Breu, dicendo all'ambasciadore che gli desse la corona e le lettere che egli portava al re e al capitan maggiore. L'ambasciadore e Giorgio di Breu si dissero l'uno all'altro di brutte e disoneste parole, per il che il Barnagasso ci consegnò ad alcuni capitani, che ci condussero separati, sí come eravamo venuti fin a quel luogo: e cosí ce ne ritornammo con esso lui verso le sue terre. Cominciava già a venir grandissimo e crudel verno, con gran pioggie. Giunti al luogo di Barua, che è capo del suo regno, fecero restare tutti quelli dell'ambasciadore, e Giorgio con gli altri fecero passare a Barra, che è capo del capitanato di Ceruil: e tutti duoi sono del detto Barnagasso, il qual volse andare in Barra, per non stare ove fusse l'ambasciadore; possono essere da un luogo all'altro da X in XII miglia. In questo tempo noi eravamo molto mal proveduti delle cose necessarie, e meglio stava Giorgio con tutti li suoi; e se non fusse stato le gran commodità che avevamo di andare alla caccia e a pescare, saremmo stati molto male, ma col fiume e colla campagna ogni giorno ci facevamo le spese.
Qui l'auttore lascia di parlare del suo viaggio.
In che tempo e giorno si comincia la quaresima nel paese del Prete Ianni, e del gran digiuno e astinenzia che si fa, e come li frati e monache si mettono in un lago per divozione.
Cap. CIX.
Nel paese del Prete Ianni cominciano la quaresima il lunedí della sessagesima, che sono giorni dieci avanti il nostro carnevale, e passato il giorno della Purificazione, fanno per tre giorni un gran digiuno, generalmente preti, frati e secolari, e dicono che digiunano la penitenzia della città di Ninive: e molti frati in questi tre giorni non mangiano piú d'una volta, e quella anche erbe senza pane, e dicono che vi sono molte donne che non vogliono lattare i figliuoli se non una volta 'l giorno. Il general digiuno di quaresima è pane e acqua, perché, ancora che alcuno volesse mangiar pesce, in quel paese non lo troveria, non vi essendo mare; nelli fiumi ve ne è grandissima quantità e buoni, ma non gli sanno pigliare, e se ne pigliano, ne pigliano poco e a instanzia de' signori grandi. Il lor mangiare communemente, come ho detto, è pane, ed essendo in quelli mesi della quaresima il tempo della maggior lor estate, cioè che non piove, e non piovendo non possono aver de' cavoli, che vogliono dell'acqua: la quale per far questo effetto potriano cavare di molte fontane che vi sono per adacquar orti e giardini, ma la lor grand'ignoranza e dappocaggine non lascia far lor cosa che buona sia. Ho ben veduto qualche monastero di frati che hanno una sorte di cavoli, che di continuo tutto l'anno vanno sfogliando. Nelle terre dove si trovano uve e pesche mangiano di quelle, perché si cominciano a maturare al fine di febraio e durano per tutto aprile, e quelli che hanno di questi stanno molto bene; ma oltra il pane mangiano generalmente una semenza che penso sia di nasturzio, e loro la chiamano canfa, e ne fanno salsa e v'immollano il pane, che è forte e abbrucia la bocca; similmente fanno di una semenza che pare di linazza pur salsa, che è chiamata tebba, e anco la fanno a modo di mostarda, detta da loro cenafriche: e di queste tre cose tutti ne mangiano di quaresima. Non mangiano latte né butiro, né beono vino d'uva né di miele, ma il general bevere è di zauna, ch'è fatto d'orzo o di miglio o di aguza, perché di ciascuna di queste semenze si fa vino da per sé, il quale al gusto è come la cervosa. Si trovano ancora molti frati che non mangiano pane tutta la quaresima per divozione, e altri tutto l'anno e tutto il tempo della lor vita. E sopra questo voglio dire quello ch'io ho veduto.
Andando con l'ambasciadore una volta verso la corte, in una terra che si chiama Iannamora, s'accostò con noi un frate per venir sicuro da' ladri, e camminammo insieme un mese: e per esser religioso, io lo teneva appresso di me. Conduceva seco sei o sette fraticelli, i quali andavano per ordinarsi, e portavano quattro libri da vendere: e io per fargli piacere gli faceva portare sopra una mula, ed egli alloggiava nella mia tenda. Il primo giorno io lo invitai a mangiar meco, perché già si faceva notte ed era ora di cena, ed egli si escusò di non voler mangiare. In questo mezzo vennero li fraticelli con agriones, che son erbe di quel paese, e gli dettero un bollore senza sale e senza olio o vero altra mistura, e quelli solamente mangiò senza pane e senz'altro. Della qual cosa dimandati, li detti mi dissero che egli non mangiava pane. Dubitando di questo, gli feci la guardia con diligenza di giorno e di notte, perché il giorno egli camminava a piedi accanto la mula come faria uno staffiero, e la notte dormiva allato a me, gittato in terra con l'abito suo: e sempre lo vidi mangiar erbe dette agriones e rabazas, e non ne trovando, qualche fiata pigliava della malva e ortiche e, se passavamo presso a qualche monastero, mandava a cogliere qualche erba di orto; e non ne trovando, li fraticelli gli portavano delle lenti state in molle in una zucca d'acqua, che già cominciavano a nascere, e di quelle mangiava, delle quali io ne volsi gustare, che non è possibile a dire la piú sciocca cosa al mondo. Costui camminò con noi XXX giorni fino alla corte, poi stette nella nostra tenda tre settimane, né mai mangiò altro che le cose dette di sopra. Dipoi lo viddi nel luogo di Chassumo, dove il Prete ne fece stare otto mesi, e inteso che io era ivi, mi venne a visitare e mi portò a donare alcuni limoni. Aveva un abito di cuoio senza maniche e le braccia nude, dove abbracciandolo, per aventura gli gittai una mano sotto il braccio e trovai che egli aveva una cintola di ferro larga quattro dita, e lo menai per la mano in una nostra camera e lo mostrai a Pietro Lopes mio cugino, e vedemmo detta cintura, che era congiunta un capo con l'altro con alcune punte come saria da ficcare un legno, ed era posta sopra la carne: e detto frate l'ebbe molto per male, e gli parve quasi d'essere ingiuriato, e subito si partí, sí che piú non lo vedemmo. Dipoi vedemmo molti altri frati con le medesime cinture di ferro la quaresima, e udimmo dire che vi erano ancora altri che in tutto il tempo di quaresima mai non sedevano, ma stavano sempre ritti. Udendo dire che ne era uno in una grotta lontana sei miglia, vi cavalcammo e lo trovammo in un tabernaculo fatto di legno, di grandezza tale ch'egli solo vi poteva capir dentro, e pareva una cassa senza coperchio molto vecchia, ed erano smaltate le fessure di creta e di sterco di bue: e dove stavano le natiche aveva una apertura larga tre dita, dove toccavano i gomiti un'altra simil apertura, e avanti aveva un leggietto di legno, sopra il quale posava un libro. Il suo abito era un ciliccio fatto di setole di code di bue, e di sotto sopra la carne una cintola come la sopradetta, ed egli ne la mostrò volentieri. In un'altra grotta vicina dimoravano duo fraticelli giovani piccioli, che gli provedevano da vivere, che era solamente d'erbe: e per questa visitazione egli restò molto nostro amico. Queste grotte si vedevan che anticamente erano state adoperate per fare simili penitenzie, perché v'erano sepolture. Nel luogo di Barua, un'altra quaresima, viddi duo frati nella chiesa del detto luogo, cioè di fuori della porta, che erano in simili tabernacoli, uno da una parte e l'altro dall'altra, e mangiavano delle medesime erbe e lenti nate: e io andai a visitargli molte volte, e mostravano di averne grandissimo piacere, e se io non vi andava mi mandavano a vedere, e tenevano sopra la carne il ciliccio e la cintola di ferro. E mi fu detto che uno di loro era parente del Prete; e stettero in questa penitenzia fino al giorno di Pasqua, e nel cantar della messa se ne uscirono.
Nel detto luogo di Chassumo, udendo dire che ogni mercoledí e venerdí della quaresima molti frati, preti e monache dormivano nell'acqua infino al collo, non potendo noi crederlo, andammo un mercoledí sera, Giovanni Scolaro, Pietro Lopes mio cugino e io, e rimanemmo stupefatti vedendo la moltitudine di quelli che erano nell'acqua infin al collo: e ne fu detto che erano canonici, e moglie anco di canonici, e frati e monache. Ed erano fatte come sarebbe a dire stanze di pietre appresso la ripa, e ove l'acqua era bassa vi era una pietra sopra la quale sedevano, tanto che l'acqua gli dava al collo, e se vi era maggior fondo vi aggiungevano un'altra pietra, e cosí tutto il detto lago era ripieno di genti venuta d'intorno da quelli confini: e in questo tempo di quaresima la notte vi sono di gran gieli e freddi. E avendone parlato di questo con Pietro di Coviglian, mi affermò che cosí si osservava di fare in tutto il paese del Prete, e che anco vi si trovavano molti che in detto tempo non solamente non mangiavano pane, ma andavano a stare in grandissimi boschi e in alcune profondissime valli poste fra altissimi monti, dove possino trovare acqua, nelle quali mai uomo vivo non vi vada, e facevano penitenzia tutto il tempo della quaresima. E a proposito di questo, mi trovai una fiata col Prete nel luogo che si chiama Dara, che è appresso quelle grandissime e profonde fosse, come si è ditto di sopra, nelle quali dalla montagna alta cadeva in una profondità un gran fiume al diritto, e l'acqua di quello rompendosi nell'aiere si faceva bianchissima come neve. In questa profondità stando all'alto mi mostrò Pietro di Coviglian una grotta, la quale malamente vedevamo, e disse che in quella stava un frate, che l'avevano per santo, e di sotto di questa grotta pareva che vi fusse un orto. Sopra un lato di detta profondità e non molto lontano mi mostrò simil grotta, nella quale era morto un uomo bianco conosciuto, che XX anni era stato in quel deserto e che non si seppe il tempo della sua morte: solamente, non sentendolo in quella montagna, andarono a vedere la sua stanza o vero grotta e la trovaro serrata con un buon muro di dentro, di sorte che alcuno non poteva entrarvi né uscire; e fattolo intendere al Prete, egli comandò che per modo alcuno ella non si aprisse né toccasse.
Del digiuno che si fa la quaresima nelle terre del Prete Ianni, e dell'ufficio della domenica delle Palme la settimana santa.
Cap. CX.
Il general digiuno di quaresima che fa la maggior parte de' frati e monache, e anco de' preti, è di mangiare di duoi giorni in duoi giorni, e sempre quando è notte; la domenica non si digiuna. Similmente fanno molte donne vecchie quando sono quasi fuori del mondo, e cosí dicevano che faceva la regina Elena ogni volta che lei digiunava in tutto l'anno, che non mangiava se non tre volte la settimana, cioè il martedí, il giovedí e il sabbato. Nelli regni di Tigray, che è regno di Barnagasso, e nel regno di Tigremahon, la quaresima ognuno mangia carne il sabbato e la domenica, e in questi duo giorni ammazzano piú buoi che in tutto il resto dell'anno. E se vogliono menare la prima moglie o la seconda, la menano il giovedí avanti il nostro carnevale, perché pigliando moglie hanno licenza di mangiar carne, latte e botiro per duoi mesi, sia in che tempo si voglia, e perciò per mangiarla tolgon moglie, e bevono vino. E perché ho detto la seconda moglie, non dubiti alcuno che tutti hanno piú d'una moglie, e quelli che sono ricchi e posson lor far le spese ne tolgono tre, né gli sono proibite dalla giustizia de' signori; ma la chiesa proibisce loro tutte le cerimonie, né gli lascia entrar dentro. E io ho veduto molti miei amici i quali, avendo moglie, ne pigliarono un'altra per godere di questo pessimo privilegio. E ancora che questi duoi regni detti di sopra siano stati li primi a farsi cristiani, nondimeno gli abitanti di quelli sono tenuti per molto cattivi cristiani. In tutte le altre terre, regni e signorie, si digiuna tutta la quaresima da grandi e piccoli, uomini e donne, fanciulli e fanciulle, senza romperla punto, e cosí fanno quasi l'advento.
La domenica delle Olive fanno il lor ufficio in questo modo: cominciano a dire il lor mattutino quasi a mezzanotte, e dura il lor cantare e ballare, con le ancone dipinte in mano e discoperte, fino alla mattina chiara, e a ora di prima tutti pigliano li rami, tenendogli in mano alla porta, perché dentro nella chiesa non vi possono entrar femine né secolari, e i preti stanno in chiesa cantando con li rami in mano, e cantano fortemente, facendo con detti rami spesso il segno della croce; e dando volta fuori della chiesa, vengono alla porta principale, nella quale entrano sei o sette di loro, come facciamo noi, quella serrano, e resta fuori quello che ha da dire la messa, e cantano di dentro e di fuori come facciamo noi, e poi entra dentro quello e dice la messa, e dà la communione a tutti. La settimana santa non si dice messa se non il giovedí e il sabbato. E il costume loro ordinario, e che usano tutti li signori e gentiluomini tutto il tempo dell'anno di salutarsi, è che quando s'incontrano una volta al giorno si baciano le spalle abbracciandosi, e uno bacia la spalla destra e l'altro la sinistra: non si fanno la settimana santa queste salutazioni, ma s'incontrano, non si parlano e passano come mutoli senza levar gli occhi. E gli uomini di qualche condizione si vestono tutti di nero o di azurro, e non fanno alcuna faccenda, ma tutto il giorno continuo si dispensa in grandi ufficii e canti nelle chiese, e sempre senza accendervi candela alcuna. Il giovedí santo, a ora di vespero, fanno il mandato, cioè l'ufficio di lavar i piedi, e si raguna tutto il popolo appresso la chiesa, e il maggior di quella siede sopra una catedra, come uno trepiede, cinto con una tovaglia e un bacino grande pieno di acqua, e comincia a lavare i piedi a' preti; i quali compiti, cominciano a cantare e cantano tutta la notte, e non escono mai della chiesa preti, frati e cherichi, né mangiano né bevono infino al sabbato, detto che hanno la messa. Il venere santo, a ora di mezzogiorno, acconciano le chiese secondo la loro possibilità e ricchezze, perché ve ne sono alcune che si parano tutte di broccatelli e cremesini, e principalmente adornano la porta principale, perché ivi è stanza di tutte le genti. E pongono un crocifisso sopra li panni, fatto di carta a stampa, e sopra di quello una picciola cortina che lo cuopre, e cantano tutta la notte e tutto il giorno, leggendo la Passione: la quale finita, lo scopreno, e immediate tutti si gittano in terra, dandosi con bacchette l'uno all'altro, e ceffate e pugni con gran furia, percotendosi il capo l'uno coll'altro e anco nel muro, e piangono cosí acerbamente che si moveria un cuore di sasso a lagrimar per divozione. Dura questo pianto ben due ore. Poi a ciascuna delle porte del circuito, che sono tre, che vanno al cimiterio, se ne vanno duoi preti, e stanno per ciascuna uno da una banda e l'altro dall'altra con una frusta picciola, che ha cinque coreggie grosse, e tutti quelli che erano avanti la porta principale escono per una di queste tre porte spogliati dalla cintura in suso, e passando si abbassano, e questi con le fruste non fanno altro che battergli piú che ponno, fin che stanno fermi. Alcuni passano e ne hanno poche, altri si fermano e ne hanno molte; ma li vecchi e vecchie vi stanno mezza ora, infin che gli corre il sangue. E cosí dormono nel circuito della chiesa, e come è mezzanotte cominciano li lor canti, che durano fino a ora di vespero: e allora cominciano la messa e communicano tutti. Il giorno di Pasqua a mezzanotte cominciano li loro mattutini, e avanti che sia giorno fanno la processione, e nel fare dell'aurora dicono la messa. E guardano questa settimana infino al lunedí dopo la domenica degli Apostoli, e cosí fanno XVII giorni di feste, cioè dal sabbato avanti la domenica delle Olive infino al detto lunedí.
Come noi facemmo una quaresima nella corte del Prete, stando quello nel paese di Gorages
e delle cerimonie che fece il Prete il giorno di Pasqua, e come ne volsero far dir messa
e noi non volemmo.
Cap. CXI.
Noi ci trovammo una volta a fare una quaresima nella corte del Prete, la quale era alloggiata a' confini di uno paese de gentili detti Gorages, gente, secondo che dicono, molto cattiva: e di questi tali non si trova che alcuno sia schiavo, perché piú presto si lasciano morire, overo essi medesimi si ammazzano, che voler servir cristiani. La terra dove stava la corte era fuori del paese di detti popoli, i quali, come ne fu narrato, hanno le loro abitazioni sotto terra, cioè che fanno spelunche ove dimorano; ma la corte si era assettata sopr'un bellissimo fiume, l'alveo del quale era posto come una profondità, e sopra le ripe da una banda e dall'altra tutto era campagna verdissima, ma di sotto un piede era pietra di tufo, come è la pietra di Glali di Carnache in Portogallo. In tutte le parti delle bande di questo fiume erano fatte case infinite cavate nel monte, e una sopra l'altra, e la maggior non aveva piú gran porta della bocca di una gran cuba, per potervi entrare facilmente, e sopra la porta era fatto un buco dove legavano una corda, alla quale attaccati con le mani vi montavano sopra: nelle quali case alloggiava infinita gente bassa della corte, e dicevano che erano capaci di XX e XXX persone con le lor robbe. Era anche sopra questo fiume una molto forte villa, che dalla banda verso il fiume era tagliata nel sasso alto, e dalla parte di terra era cavata una fossa d'altezza di XV braccia e sei di larghezza, e da amendue le parti andava a dare con le teste nel fiume: e dentro in questa cava intorno intorno erano cavate case come le sopradette, ma nel mezzo del circuito, che era come campo, erano case fatte di muro piccole con li lor coperti, dove ora dimorano cristiani, e anche vi è una buona chiesa. La entrata di questa villa è sotto terra, cavata in questa pietra di tufo, tutta fatta in volta, dove non pare che possa entrare né mula né vacca, e nondimeno vi entrano.
Un poco lontano da questa villa, andando su per lo fiume, vi è una gran rocca intagliata da capo a piè, e nella sommità di quella è campagna, ed è quasi nel mezzo di questa rocca un monastero di Nostra Donna, e quivi dicono ch'era il palazzo del re di questa terra di Gorages. Questo monte o rocca è volto con la faccia verso levante, e si monta a questo monastero con una scala di legno da levare e porre, perché la levano ogni notte per paura di questi popoli gorages, quando ivi non si trova la corte. Dipoi si ascende per una scala di pietra, e a man sinistra si trova un corridore avanti con XV celle di frati, le quali tutte hanno finestre sopra il fiume molto alte, e vi sono dipoi le lor dispense, refettorio e camere da salvare le lor biade. E voltando sopra la man destra, camminando per una strada scura, vien l'uomo a trovare una gran chiarezza, dove è la porta principale della chiesa, la quale non è fatta del medesimo sasso, ma pare che anticamente vi fusse una gran sala, e ora è fatta a modo di chiesa, con li suoi muretti atorno, molto chiara e spaziosa, perché ha molte finestre sopra il fiume: in questo luogo vi vanno alcuni pochi frati. Venivano quivi molte persone dalla corte a communicarsi, e per la divozione di questo luogo e per la fama che hanno questi frati di esser uomini di bona vita, e che patiscono molto per li travagli che gli danno di continuo questi loro mali vicini di Gorages. E perché la corte alloggia sempre a un modo, cioè tutta la gente di quella, la parte della man sinistra, che è del gran betudete, stava all'incontro di questi Gorages, e pochi erano quelli giorni che non si dicesse: "Questa notte li Gorages hanno morti XV o XX uomini del gran betudete". E non fu alcuno che li soccorresse perché, essendo quaresima, per l'aspro digiuno a niuno bastava l'animo di combattere, per la debolezza e fiacchezza del corpo, e non volevano romperla per modo alcuno.
Nella settimana santa, essendo prossimi a Pasqua, ne mandò a dire il Prete che noi ci mettessimo a ordine per dir messa il giorno di Pasqua appresso la sua tenda, perché voleva udirla. Gli feci rispondere che tutto seria fatto, ma che noi non avevamo tenda, perché quella che ne fu data già era rotta e guasta per le pioggie. Ne fece dire che egli mandaria la tenda e la faria rizzare, e che, come ne mandasse a chiamare, subito andassimo con tutte le cose necessarie per dir messa. E non era se non passata la mezzanotte che ci fece chiamare, e subito vi andammo e fummo condotti avanti la porta del Prete, la quale trovammo in questo modo, che una gran parte del circuito della siepe era stato rotto e levato via, e dalla tenda del Prete fino alla chiesa di Santa Croce da una parte e l'altra stavano piú di seimilia candele di cera accese e in uno ordine, e poteva essere di lunghezza di un tratto di artigliaria, e dalla faccia di quelli che le tenevano da una banda a quelli che le tenevano dall'altra si averia potuto giocare dui giuochi di palla, ed era tutto piano e uguale. E stavano dietro a questi che tenevano le candele piú di cinquantamilia persone, sí che quelli delle candele facevano come una siepe che non si poteva rompere, tenendo avanti di sé canne ligate per lungo e le candele sopra poste in compasso. Avanti la tenda del Prete andavano quattro gentiluomini a cavallo sollazzandosi, e ci posero appresso di costoro. In questo mezo uscí dalla tenda il Prete, sopra di un mulo nero come un corvo, della grandezza di un gran cavallo, del quale si dice che egli fa grande stima, e sempre vuole quando egli cammina che questo mulo gli vada drieto, e non lo cavalcando se ne va sopra un letto portato: e venne fuori vestito di una roba di broccato ch'arrivava infino in terra, e cosí il mulo era tutto coperto. Portava il Prete la sua corona in capo con la croce in mano, e da una banda e dall'altra venivano duoi altri cavalli, quasi con l'anche nella testa del mulo, ma non uguali, perché camminavano lontani, ed erano adorni e coperti tutti di broccato, che per lo lume grande parevano cuciti in oro: avevano gran diademe in testa che discendevano insino al morso, e sopra quelle gran pennacchi. Subito che il Prete uscí, quelli quattro gentiluomini che per avanti andavano cavalcando si partirono e non furono piú veduti, e quelli che ne vennero a chiamare, passato che fu il Prete, ci messero dietro a lui, senza che alcuno altro vi potesse venire né passare la siepe delle candele, ma solamente XX gentilluomini che andavano avanti al Prete per un buono spazio a piedi. E con questo ordine arrivammo alla chiesa di Santa Croce, ove si doveva udir l'ufficio della Resurrezione, e quivi dismontato ed entrato nella chiesa, entrò nelle sue cortine, e noi restammo alla porta, della quale uscita immediate una gran chieresia, si accompagnò con molto maggior numero ch'era di fuori e cominciarono a fare una gran processione, mettendone noi nella coda di quella, appresso le prime dignità e gradi di persone onorate. E fatta la processione, entrarono in chiesa quelli che vi poterono stare e gli altri restarono alla campagna: e ne fecero entrare ancora noi, mettendoci appresso alle cortine del Prete.
Finita che fu la messa, e volendo cominciare a dar la communione, il Prete ne mandò a dire che noi ci apparecchiassimo per andar a dir la messa, perché già la tenda era stata ritta, e che subito egli vi verrebbe. Noi ce ne andammo con quelli che ne chiamarono, i quali ne menarono dove era una tenda nera, posta appresso quella del Prete, la quale come vedemmo nera, ci pensammo che l'avessero fatto per vituperarci, e subito l'ambasciadore mi disse: "Padre, voi farete bene a non dir messa, perché questo è stato fatto per provarne". "Né anco io, - gli risposi, - la voglio dire, andiamocene alle nostre tende". E fu questo nel fare dell'aurora. Aviati che fummo alle tende, che erano in un boschetto appresso il fiume, subito vennero duo paggi dalle rocche che erano sopra le nostre tende a chiamarci con gran fretta, dicendoci che ne dimandavano con gran fastidio. Noi eravamo d'opinione di non andarvi, pur vi andammo, e arrivati appresso la tenda del Prete, che già il sole era venuto fuori, subito ci fu dimandato di dentro per che causa noi avevamo lasciato di dir messa in cosí gran festa. Io gli risposi che non aveva voluto dir messa per la ingiuria che ne era stata fatta, e non a noi, ma a Dio e alla sua santa Resurrezione, avendoci ritta una tenda nera, che si suol far per cavalli e per quelli che sono ammazzati. Fu subito risposto che tenda ci doveva essere ritta; io gli dissi che ella doveva esser bianca, rappresentando la chiara e risplendente Resurrezione e la purità della nostra Donna, e che averia anche potuto esser rossa, che similmente rappresenteria il sangue di Cristo sparso per noi e dalli suoi santi martiri. Ci risposero subito che noi gli facessimo intendere chi erano stati quelli che l'avevano ritta, perché noi vederemmo la giustizia che egli faria fare. Gli rispondemmo che noi non dimandavamo giustizia d'alcuno, perché quello non era stato fatto a noi ma a Dio, e che avevamo ben gran dispiacere di non aver potuto dir messa in cosí gran solennità. Immediate ci fece dire che avessimo pazienza, perché egli daria un castigo conveniente a chi l'aveva fatto, e che noi dovessimo entrare in quella, perché, poiché ella non era stata buona per dir messa, saria buona per desinare: e cosí vi intrammo, e quivi ne fu mandato riccamente da desinare, con infinite e buone vivande di diverse sorti di carne e di buoni vini di uva bianchi e vermigli e fumosi, che avevano un odore grandissimo. Era con noi Pietro di Coviglian, il qual era stato presente a tutto quello che fu fatto quella notte, e desinando ci disse ch'egli aveva allora cosí grande appiacere che non sapeva se mai piú era per averlo maggiore, non avendo noi voluto dir messa in quella tenda, e della risposta che gli avevamo fatta, e che tutto era stato fatto a posta per provar che stima noi tenevamo delle cose di Dio e della chiesa, e che al presente ci terrebbono per molto buoni cristiani. Tutta questa quaresima noi fummo molto ben proveduti di mangiare e di bevere, e di molto pesce e di molta uva e pesche, che allora erano mature in quel paese. Finito che fu il nostro desinare, ci venne a ritrovar quel padre vecchio che fece il battesimo, e disse che il Prete ci mandava a dire, poi che noi non avevamo detto messa, che al tutto la volessimo dire la domenica seguente, e che gli ordinaria che ne fusse data una bona tenda, nella quale dovessimo far l'ufficio secondo la nostra usanza per l'anima di sua madre, che allora compiva un anno che era mancata, e che essi facevano similmente il tascar, cioè memoria, e che cosí ancora noi lo facessimo al modo nostro.
Come don Luis di Menses scrisse all'ambasciadore che dovesse venir al porto di Mazua alli 15 d'aprile, perché egli andarebbe per loro, e come il re don Emanuel era mancato di questa vita.
Cap. CXII.
La domenica della ottava di Pasqua, che fu alli XV d'aprile, ne mandarono a dire che dovessimo venire a dire messa, e che dicessimo l'ufficio e messa per la madre del Prete: noi vi andammo e trovammo che c'era stata ritta una tenda grande, bianca e nuova, con le sue cortine tutte di seta giú per lo mezzo al modo loro, ed era posta molto appresso a quella del Prete. E quivi quel frate che ora vien ambasciadore con noi, con altri preti cantammo un notturno di morti e dicemmo la messa, e avanti il finir di quella arrivarono duo mazzi di lettere che ci mandava don Luis di Menses, che era venuto con l'armata per noi nel porto di Mazua: e vennero le lettere per due vie, e giunsero li messi tutti a un tempo. Vi erano anco lettere diritte al Prete, nelle quali gli dimandava di grazia che immediate ne dovesse espedire, sí che fussimo in Mazua alli XV d'aprile, perché egli non poteva piú aspettare, sí perché il movimento del mare, che è il tempo atto a partirsi dal mar Rosso, passaria, come perché di lui si aveva gran bisogno nell'India. E accadde che in quel giorno che ne furono date finiva il detto termine de dí XV.
Contenevasi ancora in dette lettere come il re don Emanuel era mancato di questa vita: con questa nuova restammo tutti morti, e facemmo consiglio se dovevamo tacerla o veramente dirla, e fu determinato di dirla, perché a ogni modo il Prete l'averia intesa dalli mercanti mori d'India, che tutto il giorno vengono dal mare alla corte. E perché è il costume di questo paese in tempo di morte di radersi il capo, e non la barba, e vestirsi di panni neri, cominciammo a raderci il capo l'uno all'altro: e mentre che facevamo questo, vennero quelli che ne portavano da mangiare e, veduta questa cosa, posero in terra il mangiare e corsero a dirlo al Prete, il qual subito ne mandò duo frati per intender quello che era intervenuto. L'ambasciadore non gli poté rispondere, per il gran pianto che egli faceva, e io meglio che seppi gli feci intendere come il sole che ne dava la luce era oscurato, cioè che il re don Emanuel era mancato di questa vita: e subito cominciammo a fare tutti il nostro pianto, e li frati se n'andarono. In quella ora immediate furno fatte gride che tutti li luoghi dove si vendeva pane, vino e altre mercanzie, e tutte le altre tende d'ufficiali e giudici fussero serrate, e durò tre giorni questo serrare, in capo de' quali ne mandò a chiamare, e la prima parola ch'egli ci mandò a dire fu chi aveva ereditato i regni del re suo padre. Disse l'ambasciadore il principe don Giovanni suo figliolo. Intesa questa parola, dicono ch'egli si rallegrò molto, e ne mandò a dire: "Atesia, atesia", cioè: "Non abbiate paura, perché vi trovate in terre de cristiani; buono fu il padre, buono sarà il figliuolo, e io gli scriverò". Noi facemmo intendere a sua Altezza come l'armata ci aspettava al mare, e che ci volesse spacciare, perché noi ce ne volevamo andare, parendone già gran vergogna lo star tanto in questi paesi. Ne fece rispondere che ci spedirebbe presto, e che noi gli dovessimo render le lettere che ci avevano date: e cosí noi gliele portammo, e subito espedimmo un Portoghese detto Aires Dias e un Abissino a don Luis di Menses verso il mare, acciò che n'aspettasse; e il Prete il giorno seguente si partí con tutta la corte, e noi con lui.
Nel cammino ci fu dimandato chi ci portava la tenda che ci aveva dato il Prete; io gli dissi che, non essendo nostra, io l'aveva lasciata nel medesimo luogo dove era stata ritta. Risposero ch'io aveva fatto male, perché il Prete mai ripiglia cosa che egli doni, e che questa tenda valeva piú di cento oncie d'oro, e che, se il Prete ordinasse che dicessimo messa e che noi non avessimo la tenda, l'averia molto per male. E cosí camminammo tre giorni, sempre chiedendogli che ci espedisse, e sempre ci faceva rispondere che presto ci spediria. Volse all'ultimo che noi mandassimo Giovanni Consalves nostro fattore verso il mare, con una sua lettera e con nostre, e gli donò una molto buona mula e ricchi vestimenti e dieci oncie d'oro: e con lui andarono duo allievi del Prete. Noi veramente, che lo sollicitavamo con ogni importunità, ne menò alla lunga un mese e mezo, e alfine ci dette vestimenti molto ricchi, e a quattro di noi catene d'oro con le sue croci attaccate, e una mula per ciascuno: io ne ebbi una che il suo andare era come volar per aere, senza un disagio al mondo; e per il resto della compagnia 80 oncie d'oro e cento panni per lo cammino che avevamo a fare, e appresso ne mandò la sua benedizione.
Partiti dalla corte, non facemmo troppo cammino che ne vennero li messi che avevamo mandati al mare, facendone intendere come don Luis era partito già gran tempo, e noi, ancor che ben sapevamo di non poterlo trovar, perché la mozione del mare non gli dava luogo di aspettarne, con tutto questo però vi andammo, e trovammo che ne aveva lasciato molto pepe e alcune robbe per lo nostro vivere, e vi erano lettere sue diritte al Prete e a noi. Noi ci consigliammo di quello che si doveva fare di quel pepe: fu il parere di alcuni che dovessimo rimanere appresso il mare, secondo che ne ordinava don Luis, e con quel pepe farci le spese, perché in termine d'un anno egli era per venire per noi, e che solamente duo di noi andassimo alla corte con le sue lettere, a richieder giustizia della morte di quattro uomini che gli erano stati morti nel porto di Ercoco; ma per la maggior parte di noi fu determinato di mandar la metà del pepe al Prete, e l'altra restasse per noi, e che il fattore e io dovessimo andare a far questo servizio. Nondimeno don Rodrigo volse venire ancora egli, e volse al tutto portar tutto il pepe, sperando che il Prete gli donaria qualche gran presente, per essere quello la piú stimata cosa che si possa portare in questi paesi.
Ci partimmo il primo di settembre e andammo pian piano con le mule e con queste cariche di robbe, e arrivammo in corte al fine di novembre, e trovammo il Prete nel regno di Fatigar, che è nella estrema parte del regno di Adel, sotto il qual Adel è Barbora e Zeila. Questo re è molto stimato fra' Mori e tenuto come per santo, perché continuamente fa guerra a' cristiani, ed è proveduto dalli re di Arabia e signori della Mecca e da altri re mori di arme, cavalli e di tutto ciò che vuole, ed egli all'incontro gli manda a donare infiniti schiavi abissini che piglia nella guerra. Dal luogo overo campagna ove trovammo la corte fino alla prima fiera di Adel vi è il cammino d'una giornata, e dalla fiera a Zeila ve ne sono otto. Questo regno di Fatigar veramente, per quello che abbiamo veduto nell'andare e venire, la maggior parte è campagna, cioè che sono tutte colline basse, lavorate tutte, seminate di formenti, orzi e altre semenze, e vi sono di grande campagne tutte pur seminate. Vi si veggono ancora infinite mandrie di bestiame d'ogni sorte, cioè capre, pecore, vacche, cavalle e mule. Da questa campagna si vedeva di lontano un monte piú alto degli altri, non di sasso, ma coperto tutto di arbori e anche seminato, nel quale sono molti monasteri e chiese circondate di terre coltivate; nella sua sommità è un lago che gira XII miglia, dal quale era portato alla corte pesce assai di diverse sorti e molto buono, e non ne viddi mai tanto in altro luogo; vi sono melaranci, cedri e fichi d'India in tanta quantità che non si potria dire. Mi disse Pietro di Coviglian che detto monte era cosí grande che si camminava otto giorni intorno al piede di quello, e che da questo egli pigliava la misura che il lago in cima il monte fusse XII miglia di circuito.
Partita la corte, camminammo duo giorni e mezo avanti che arrivassimo al piede, e approssimati ne pareva molto alto e tutto fruttifero; scendono da quello molti fiumi, nelli quali si piglia molto pesce. Drieto al piede di questo monte noi camminammo un giorno e mezo, e lasciato quello uscimmo del regno di Fatigar ed entrammo nel regno di Xoa, e quivi demmo 'l pepe al Prete e le lettere di don Luis, che avevamo tradotte in lingua abissina: e non potemmo avere alcuna risposta. Questo viaggio che fece il Prete in questo regno fu per causa di fare alcune parti e divisioni tra lui e due sorelle che erano di padre e di madre, perché Nahu suo padre ebbe cinque mogli: queste parti erano di terre e di robbe che erano restate per la morte di sua madre. Quivi stemmo quattro giorni, nelli quali furon gettate le sorti a chi toccavano le parti; e Pietro di Coviglian mi affermò che v'erano terre in queste parti che non si sariano circondate in dieci giornate di cammino. Fatta questa divisione, della parte che toccò al Prete ne fece far due parti, le quali donò a due sue figliuole piccoline. Di vacche, capre, cavalli e pecore li monti erano coperti; furono divisi ancora li panni di seta e l'oro, che ne fu trovato in gran quantità, e di queste sete ne donò la maggior parte alli monasteri e chiese che erano in questa terra di sua madre. Di quivi ce ne venimmo al luogo di Dara, ove Pietro di Coviglian ne mostrò li boschi ne' quali io ho detto che li frati facevano aspra vita, e dove morí quell'uomo bianco la cui grotta fu trovata serrata.
Della battaglia che il Prete ebbe contra il re di Adel, e come lo ruppe
e fu morto Mafudi suo capitano.
Cap. CXIII.
Io ricomincio a dire quello che io ho udito dire del regno d'Adel e d'un gran capitano che si trovava in quello, narratomi da molti e sopra tutti da Pietro di Coviglian. Costui era moro, detto Mafudi, uomo tanto coraggioso e valente che delle sue valorose prodezze, dopo morte, ne furono fatte molte canzoni, le quali ancora oggidí dalle basse genti della corte son cantate. Questo capitano dicono che per XXV anni continui di quaresima ogni anno entrava a scorrere e saccheggiare le terre del Prete Ianni, e conciosiacosaché 'n questo tempo il digiuno, che è grande, levi la forza alle genti, che non possono combattere, per questa causa egli scorreva sicuramente per quelli paesi, e alcune volte per piú di sessanta miglia di dentro. E un anno entrava nel regno di Amara o di Xoa o vero nel regno di Fatigar, e ora per una parte e ora per un'altra: e cominciò a fare queste sue entrate vivendo il re Alessandro, che era bisavo di questo re, per XII anni continui, ed essendo morto senza figliuoli ereditò Nahu suo fratello, padre di questo presente re, e altrotanto fece al suo tempo. Questo presente Prete Ianni cominciò a regnare nella età di XII anni, e fino che egli ebbe XVII non cessò Mafudi di fare queste scorrerie e guerre di quaresima, e dicono che furno cosí grandi che in una menò dicennovemila Abissini prigioni, i quali tutti mandò a offerire alla casa della Mecca, facendoli presentare alli re mori: dove dicono che, fatti rinegare, si fanno grandissimi valentuomini, perché escono della strettezza del digiuno ed entrano nella grassezza e abondanza dei vizii de' Mori. Levava anche una gran moltitudine di tutte le sorti d'animali.
Entrando nell'anno vigesimoquarto delle sue cavalcate nel regno di Fatigar, tutte le genti se ne fuggirono sopra un monte, e Mafudi gli fu intorno e gli espugnò, e abbruciò le chiese e monasteri che erano ivi. Di sopra io ho detto che in tutto il paese del Prete Ianni sono alcuni detti cauas, che vuol dire uomini d'arme, perché i lavoratori in questi regni non vanno alle guerre. Di questi tali cauas vi erano in questi regni molti, li quali insieme con detti lavoratori s'erano ridotti sopra 'l detto monte: Mafudi li prese tutti insieme e fece separarli, e li lavoratori gli licenziò, che andassero in buon'ora, acciò che l'anno seguente seminassero delle biade per lui e per li suoi cavalli, e disse agli uomini d'arme: "Poltroni che mangiate il pane del re e cosí mal guardate le sue terre, andate per la spada", e cosí furono morti cinquemila uomini d'arme, e se ne tornò con gran vittoria e senza contradizione alcuna. Di questo fatto essendosi il Prete molto risentito, e massimamente dell'abbruciare delle chiese e monasteri, mandò spie nel regno di Adel per sapere in che parte Mafudi ordinava d'entrare, e seppe che con gran gente veniva nel regno di Fatigar, nella stagion che in detto regno li formenti e orzi sogliono esser maturi, per distruggerli. Inteso dal Prete che non veniva in tempo di quaresima, che non gli è proibito il combattere, determinò d'andarlo ad aspettar nel cammino, e questo contra il parere di tutti i grandi della sua corte, i quali dicevano che egli era giovane di XVII anni e che non stava ben che egli andasse a tal guerra, e che bastavano li suoi gran betudeti e capitani delli regni: al che lui rispose che in persona aveva determinato d'andar a vendicar le ingiurie fatte a suo zio Alessandro, a Nahu suo padre e a lui già sei anni, e che sperava in Dio di vendicarle tutte.
E cosí si levò con la sua gente e corte solamente, senza far venir alcuno di paesi lontani, per non essere scoperto, e camminò giorno e notte, e una mattina all'alba piantò il suo padiglione sopra il luogo dove si fa il primo mercato del regno di Adel, che è un giorno di cammino da Adel, e dove noi lo trovammo quando gli portammo a donare il pepe: quivi dicono esservi un gran passo, il quale il re d'Adel aveva passato il giorno avanti, e stava già tre miglia dentro le terre del Prete Ianni e fuori di strada. Essendo fatto il giorno chiaro, amendue si viddero. Mafudi, ch'era uomo di gran valore, né mai si seppe che fuggisse, come cantano gli Abissini, subito che vidde il padiglion del Prete e le tende rosse che non se alzano se non in gran feste e raccoglienze di signori, disse verso il re di Adel: "Signore, il neguz d'Etiopia è qui in persona, e oggi è il giorno della nostra morte; fa' ciò che tu puoi per salvarti, che io quivi ho da morire". E il detto re, che era timido, si salvò con quattro a cavallo, fra i quali vi era un figliuolo d'un betudete, che allora stava col re di Adel e ora sta col Prete nella sua corte, perché essi non istimano troppo di fuggirsene e farsi mori, e se vogliono tornare, si battezzano di nuovo, ed è perdonato loro e restano cristiani come avanti; e costui narrò tutte queste cose particolarmente. Subito che il re d'Adel fu in luogo sicuro, che fu molto presto, quella mattina il Prete Ianni mandò a far intendere a tutti, sapendo del fuggire del re, che si comunicassero e raccomandassero a Dio, e fatta collazione si mettessero all'ordine: e a ora di terza cominciarono a ordinar le battaglie e andar verso i Mori, restando sempre le sue tende e padiglioni armati. Mafudi, che aveva deliberato di non fuggire e vedeva la sua morte, desiderava di farla con qualche valorosa e onorevol fazione, e perciò venne a parlamento con alcuni cristiani, dicendogli se vi era alcuno cavaliere che gli bastasse l'animo di combatter con lui: a questo s'offerse un frate chiamato Gabriel Andreas, il qual combattendo l'ammazzò e gli levò la testa, e per questa sua vittoria è molto onorato nella corte, e noi l'abbiamo conosciuto. Il resto del campo dette dentro adosso a' Mori e gli ruppe, i quali non avevano dove fuggire, perché le tende del Prete erano poste nel principal passo, e un altro passo, il qual era molto lontano e per lo quale il re fuggí, già era stato preso. Fatta questa impresa, il Prete Ianni se ne venne a riposare nelle sue tende, e il giorno seguente cavalcò per lo regno d'Adel fin che giunse a certi palazzi del detto re, i quali trovò tutti abandonati, le porte dei quali il Prete percosse con la sua lancia tre volte, e non volse che alcuno v'entrasse né s'acostasse, acciò che non fusse detto che vi fusse andato a rubbare, conciosiacosaché, se v'avesse trovato il re o altre persone, egli sarebbe stato il primo che vi fusse entrato andandovi da buona guerra, e non vi trovando alcuno non voleva che alcuno vi entrasse: e cosí se ne tornò indrieto.
Questa battaglia fu nel mese di luglio, ed è affermato essere stato nel proprio giorno che Lopo Suares destrusse e bruciò la città di Zeila, nella qual destruzione io vi fui; e li Mori che furno presi dicevano che il capitano di Zeila era andato col re di Adel in guerra contra il neguz d'Etiopia. E molte fiate il Prete ne mandò a mostrare quattro o cinque fasci di spade col manico d'argento non ben fatte, e che quelle aveva avute nella guerra del soldan di Adel; e la tenda che ne donò, di broccatello e velluto della Mecca, guadagnò nella detta guerra, e volse che la dovessimo benedire avanti che vi fusse detto messa, perché li Mori avevano fatto molti peccati in quella. La testa di questo Mafudi fu portata drieto alla corte tre anni continui, fin che vi arrivammo, e tutti i sabbati e le domeniche e altre feste che guardano le gente basse, tutti li giovani e fanciulle non facevano altro che cantar versi fatti a lor modo delle lodi di questa vittoria, e infino al giorno d'oggi la lor canzona va per la corte, e credo che anderà sempre. Gabriel Andreas, come ho detto, è frate, e persona molto onorata e gentiluomo di molto grand'entrata, e oltra questa valorosa impresa che egli fece, ne ha fatto molte altre, ed è fama che sia molto eloquente e amico de' Portoghesi, e intenda ben le cose della sacra Scrittura e della fede cristiana, e ha piacer grande di parlar di quelle, ancora che la cima della lingua gli facesse levare il re Nahu per lo suo troppo parlare.
Come il Prete ne mandò il napamondo che gli avevamo portato, acciò che noi vi mettessimo tutti li nomi in lingua abissina, e di ciò che trattò volendo scriver lettere al papa.
Cap CXIIII.
Stando noi nel luogo di Dara nell'anno del 1524, il Prete ne mandò il napamondo che già quattro anni gli avevamo portato, mandatogli da Diego Lopes di Sechiera, dicendone se le lettere poste in quella carta dicevano di chi erano le terre, e se questo dicevano, che immediate a' piedi di quelle vi mettessimo le sue, per sapere di chi erano. Il frate ambasciadore, che viene in Portogallo, e io ci mettemmo a far questo effetto: egli scriveva e io leggeva, e sotto le nostre lettere egli metteva le sue; e perché il regno di Portogallo è posto insieme con li regni di Castiglia in picciolo spazio, e Siviglia è molto appresso Lisbona, e Lisbona appresso alle Crugne, io posi Siviglia per Spagna e Lisbona per Portogallo e le Crugne per Galizia, e compito il tutto gli fu riportato. Il giorno seguente mandò a chiamar l'ambasciadore e tutti noi che con lui stavamo, e nelle prime parole che ne mandò a dire, fu che egli aveva considerato che il re di Portogallo e il re di Spagna erano signori di poco paese, e che non sarian sufficienti tutti due per difendere il mar Rosso dal potere di Turchi, e che saria buono che egli scrivesse al re di Francia che facesse fare una fortezza in Zeila, e al re di Portogallo un'altra in Mazua, e al re di Spagna nel luogo di Suachem, e che tutti tre uniti con le lor genti potriano guardare il mar Rosso e andar a pigliare il porto del Zidem, la città della Mecca, e il Cairo e anche Gierusalem e per tutte le terre dove volessero. A questo gli rispose l'ambasciadore che sua Altezza era ingannata o mal informata, e che s'alcuno gli aveva detto questo non gli aveva detto la verità, e che, se per vedere il napamondo s'aveva immaginato questo, non prendeva la vera cognizione delle terre, perché Portogallo e Spagna stanno nel napamondo come cose da tutti conosciute e non come necessarie da saperle, e per questo erano poste in picciolo spazio con un nome solo, come anche Venezia, Gierusalem e Roma; ma che guardasse la sua Etiopia, la quale, per esser cosa non conosciuta, era posta in grande spazio, piena tutta di montagne, di fiumi, di lioni, d'elefanti e d'altri animali, né vi è scritto nome di città né di castelli; e che sapesse sua Altezza che il re di Portogallo con li suoi capitani era potente per difendere e guardare il mar Rosso da tutte le forze del gran soldano e del Turco, e far guerra fino in Gierusalem e nella Terra Santa, e molte altre maggior imprese egli aveva fatto nelle parti di Barbaria contra il re di Fessa e di Marocco e molti altri re, avendo soggiogato tutta la India e fatto per forza che li re di quella fussero suoi soggietti e tributarii, come sua Altezza poteva ben intendere dalli medesimi Mori d'India nostri nimici che sono mercanti nella sua corte. A questo non fu fatta altra risposta, ma entrò in altre dimande, e ci spedí mandandone molto da mangiare e da bevere: e cosí faceva ogni giorno, per tutto il tempo che stemmo nella corte.
Passando quattro o cinque giorni dipoi che ne parlò del napamondo, ne mandò a dire ch'egli voleva scrivere al papa a Roma, che eglino chiamano Rumea neguz lique papaz, che vol dire "re di Roma e capo di papa", e che io gli facessi il principio della lettera, perché essi non hanno costume di scrivere e non sapevano come si scrivesse al papa: e che queste lettere io le aveva da presentare al papa. Gli rispose don Rodrigo ambasciadore che non eravamo venuti quivi per scrivere, e che non vi era alcuno che sapesse scrivere al papa, e io gli dissi che gli farei il principio, e che del resto essi seguissero quello che nel cuore avevano da scrivere o richiedergli. Fu risposto che dovessimo andare a desinare, e subito tornare il frate e io, e che io portassi tutti i miei libri per far queste lettere: e cosí facemmo. Giunti, trovammo tutti quelli che essi tengono per molto dotti e savii, con molti libri, e mi dimandarono ove erano li miei; gli risposi che non erano necessarii libri, se non sapere l'intenzione di sua Altezza, e secondo quella ci saremmo governati. Subito per un principale sí di auttorità come di scienzia ch'era ivi presente, il qual per titolo si chiama abucher che vuol dire cappellano maggiore, fu detto al frate la intenzione del Prete ed egli me la disse, e io mi posi a scrivere e brevemente feci un picciolo principio, che subito nella mia lettera fu portato a sua Altezza, il qual veduto me lo rimandò, e immediate noi lo traducemmo nella sua lingua e glielo rendemmo. Né stette molto che venne un paggio, dicendo che il re stava molto contento di quanto era scritto, e molto si maravigliava perché non era stato cavato de' libri, ordinando che fusse scritto in buona lettera e sopra due carte, e che li suoi preti litterati studiassero li lor libri per quel piú che si doveva aggiunger sopra queste lettere. Ritornato il frate e io alle nostre tende, ci venne incontra l'ambasciadore, dicendo: "Padre, mi duole molto di quello ch'io ho detto oggi al Prete Ianni, che non vi era tra noi chi sapesse scrivere al papa, perché egli ci terrà per uomini di poco sapere; vi prego che voi mettiate le vostre forze e facciate quello che sapete". Io gli risposi che, o forza o fiacchezza che fosse in me, già era fatto quello che io sapeva, monstrandoglielo: del che ne ebbe piacer grande. La minuta della lettera che io feci va scritta in una carta da per sé, ed è breve, e comincia: "Ben aventurato santo Padre". Nell'altra lettera, vi posero tre giorni a farla, e piú de quindici giorni a fare una croce picciola d'oro, che pesa cento crociati, che similmente doveva portarsi al papa.
Come nelle lettere di don Luis Menesses era scritto che dimandassimo giustizia di certi uomini che gli erano stati morti in Ercoco, e il Prete mandò la Giustizia maggior di corte a far l'esecuzione, e il frate, che si chiamava Zagazabo, in compagnia di don Rodrigo per ambasciador suo in Portogallo.
Cap. LXV.
Nelle lettere che don Luis di Menesses mandava al Prete Ianni, si faceva querela e richiedevasi giustizia di quatro uomini portoghesi che li Mori gli avevano amazzati in Ercoco, porto del mar Rosso e nelle sue terre: la qual giustizia e vendetta egli da sé non l'aveva voluta fare, per esser nel suo paese, dove desiderava di fargli servizio senza fargli noia. E richiedendo noi questa giustizia per molte fiate, ci fece dire che molto gli doleva perché detto don Luis, essendo capitan maggiore, non ne aveva preso la vendetta, amazzando quanti Mori egli avesse trovato in Ercoco; e che egli stimava piú un Portoghese che quanti Mori e Neri erano nel suo paese, e poi che egli non l'aveva voluta fare, ordinaria che fusse fatta. E fece venire avanti la sua tenda subito quello che si chiama la Giustizia maggior di corte, facendogli intendere per lo cabeata che egli venisse con noi infino al mare, e che ritenesse tutti i Mori e Turchi e cristiani che egli intendesse che si fussero trovati nel luogo di Ercoco quando furono amazzati questi quattro uomini, e quelli che fussero colpevoli della detta morte, o vero che non avessero preso gli omicidi, o vero che avessero levato questo tumulto, che dovesse consegnarli a ciascun capitan maggiore che venisse di Portogallo, il qual gli amazzasse e facesse giustizia come gli piacesse, o vero se gli retenesse per ischiavi: e che di questa giustizia né di altra mai li Portoghesi si dolessero, ma che essi medesimi se la facessero.
In questo luogo e in questi giorni il Prete Ianni determinò di mandare ambasciador in Portogallo, che fin ora non ne mandava alcuno, e mandò a chiamare don Rodrigo e me, e ci disse che determinava di mandar con noi al re di Portogallo un suo uomo, per poter fare che li desiderii suoi fussero piú presto esequiti, e se ci pareva che Zagazabo, che era il frate che sempre veniva con noi, fusse sufficiente per questo cammino, sapendo parlar la nostra lingua ed essendo stato altre volte ne' nostri paesi. Noi gli rispondemmo che egli era sufficientissimo, e che era uomo che ben s'intendeva con noi e noi con lui, e che non era bisogno d'interprete; e che ora sua Altezza faceva quello che era il dovere, perché al ritorno daria piú credito alli suoi naturali del paese, di quello che avessero veduto e udito, che ella non faria alli forestieri di quello che dicessero di loro medesimi; fu risposto che noi l'avessimo per compagno. Il giorno seguente ci mandò a vestire di nuovo molto onoratamente, e XXX oncie d'oro e cento pani per lo nostro viaggio. E nondimeno noi dimorammo ancora molto tempo, e la causa fu, secondo ne disse il suo ambasciadore, perché, essendo stata questa determinazione del Prete tarda, fu necessaria questa dimora, non essendo spedito del tutto, cioè di dargli le cose da portar seco per viaggio e li vestimenti per la sua persona e oro per la sua spesa, e cosí aspettammo anche la Giustizia maggiore che aveva da venir con noi; nondimeno ci parve da partire avanti, avendo veduto molte volte queste espedizioni andar in lungo.
E ce ne venimmo al luogo di Barua, che è appresso del mare e nel principio delle terre del Barnagasso, e non trovammo nuova alcuna di Portoghesi che fussero venuti a levarne, e aspettammo tanto tutti insieme che la mozione del mare fu passata. In questo tempo la Giustizia maggiore prese quattro o cinque gentiluomini, che si trovarono quando furno amazzati gli uomini in Ercoco: uno si chiamava xumagali soldan, perché egli aveva il carico di far la giustizia e non la fece; l'altro Gaubri Gesus, perché corse al rumore e non fece cosa alcuna; e arraz Iacob, perché in quel tempo governava il paese del Barnagasso; fu preso anche il Dafila, che è gran signore, perché si ritirorono nelle sue terre alcuni Mori e Turchi ed egli non gli prese, sapendo che erano stati alla morte di questi uomini di don Luis. Questi quattro erano gran gentiluomini e furno menati alla corte per la Giustizia maggiore, dove non vi essendo alcuno che gli accusasse, furno liberati finalmente, quantunque fussero prima mal trattati. Giunta la Giustizia maggiore in corte, e data la nova che non erano venuti i Portoghesi e che noi restavamo senza alcun rimedio, ne mandò immediate il Prete un calacen, ordinando che noi dovessimo ritornare nel luogo di Cassumo, dove di sopra ho detto ch'eravamo stati longamente: e quivi ne fece provedere di 500 some di grano, cento buoi, cento castroni, cento vasi di terra pieni di mele e altri cento di butiro, e per lo suo ambasciadore che veniva con noi XX cariche di grano, XX vacche, XX castroni, e XX vasi di mele e altritanti di butiro.
Come Zagazabo ambasciadore tornò in corte, e io con lui, per cose che gl'importavano, e come la Giustizia maggiore fu battuta, e duo frati insieme, e la causa per che.
Cap. CXVI.
Stando noi in questo luogo di Cassumo, fu avvisato il detto Zagazabo come gli era stata levata una signoria picciola che teneva, per la qual cosa mi pregò ch'io andassi con lui alla corte a dimandar giustizia: dove andati, trovammo che il suo avversario era Abdenago, capitano di tutti i paggi del Prete Ianni, perché ivi non è ufficio alcuno che non abbia un capo sopra gli altri. E perché tutte le proposte e risposte son fatte al Prete Ianni per li paggi, noi non avevamo mezo alcuno di fargli intendere la nostra dimanda; pur fummo soccorsi da un aiace, che è gran signore, e ancora che fusse amico di Abdenago, nondimeno fece intendere al Prete la causa perché eravamo venuti; subito venne risposta per che causa io era venuto. Io gli dissi il tutto, e che il dispiacere fatto a Zagazabo noi riputavamo che fusse fatto al re di Portogallo e a noi altri Portoghesi, poi che per servizio del detto re e per nostra compagnia era mandato da sua Altezza, e che per la sua absenzia era stata levata per forza la sua signoria. Subito ci fu dimandato chi era quello che ci aveva fatto questo dispiacere; gli rispondemmo che era Abdenago, capitano dei paggi, che aveva mandato a fare questo sforzo per suoi maestri di casa e fattori, e che noi dimandavamo a sua Altezza che ne desse giudici non sospetti, e che ordinasse alli paggi che portassero ogni nostra proposta che fusse necessaria a questo negozio. E subito vennero quattro paggi, dicendone ch'il Prete aveva ordinato loro che riferissero quanto fusse loro detto, senza paura d'alcuna persona. Li nostri giudici furno aiaz Daragote e aiaz Ceite, alli quali femmo la nostra richiesta, e loro n'assegnarono termine il giorno sequente, quando il sol fosse in tal luogo, dimostrandone il cielo: e vi fu presente il procuratore d'Abdenago e Zagazabo ambasciadore in persona. Venuto il giorno, una parte e l'altra altercarono e allegarono grandemente, e fu come concluso in parole, perché nelle audienzie non si scrive cosa alcuna, e li giudici sentenziarono a bocca in questo modo: che la terra e signoria che dimandava Zagazabo era molto picciola e stata altre volte suggetta ad un'altra terra grande e di gran signoria, della quale era signore Abdenago; e che era il diritto che l'uomo grande, sí come il vento grande, entra per tutta la terra, cosí non poteva esser tolta l'entrata a Abdenago, come gran signore che egli era, che non potesse andar sopra questa signoria piccola. Udita questa sentenzia, noi restammo morti e ce ne andammo a dolere al Prete, il qual ne mandò a dire che andassimo all'alloggiamento e che stessimo di buona voglia, che il tutto passaria bene, e che il giorno seguente dovessimo andare a richieder la Giustizia maggiore, che egli ne daria espedizione: e con questo ci partimmo.
Il giorno seguente fummo ad aspettarlo alla sua tenda, il qual ne ricevette con allegro volto, dicendo che egli aveva la parola del Prete per spacciarci, e che noi dovessimo andare ad aspettarlo alla sua tenda. Nondimeno noi lo volemmo pur andare ad accompagnar fino dove egli andava a parlare al Prete, dove essendo entrato e stato un poco, uscí con duo paggi che l'accompagnarono fino al luogo dove si battono gli uomini, e quivi, chiamati duo che fanno questo ufficio, lo fecero spogliare e, buttandolo col corpo in terra, gli legarono le mani a duo pali e li piedi con una correggia di cuoio stretti, che gli tenevano duo uomini. Questi ministri di giustizia stavano uno da un capo, l'altro dall'altro, battendolo molte volte e la maggior parte nel piano, e quando diceva il Prete che toccassero, la percossa arrivava fin agli ossi, e di queste n'ebbe solamente tre. Io ho veduto tre altre volte battere questa Giustizia maggiore, e in capo di due giorni tornava al suo ufficio, perché non l'hanno per cosa di vergogna, anzi dicono che il Prete gli vuol bene e che si ricorda di lui, e di quivi a un poco gli fa grazia e lo mette in signoria. Quando si batteva questa Giustizia maggiore, vi erano presenti sessanta frati tutti vestiti d'abiti nuovi, gialli secondo il lor costume. E finito di batter la Giustizia maggiore, presero un frate vecchio, che pareva di riputazione ed era capo degli altri, e lo batterono nella maniera sopra detta, ma non fu toccato. Finito questo, menarono un altro, che passava XL anni e pareva molto onorato, e lo batterono come gli altri, e costui fu toccato due volte. Finito questo, dimandai la causa, e che fallo avevano fatto i frati. Mi fu detto che l'ultimo frate battuto aveva tolto per moglie una figliuola d'un Prete Ianni, cioè di Alessandro, zio di questo David, e s'era separato da lei e n'aveva tolta un'altra, sorella di questo Prete presente, la quale essendo molto disonesta e facendo ciò che le veniva voglia, non avendo ardire il marito vietarglielo per timore del Prete, e perché anco in questo paese gli errori delle donne non si curano, costui lasciò questa seconda moglie e riprese la prima, e avendogli il Prete comandato che tornasse a pigliar sua sorella, udito questo comandamento non lo volse fare, ma andò a mettersi nella religione. E avendo commessa questa causa alla Giustizia maggiore, che vedesse se dirittamente costui aveva potuto farsi frate, detta Giustizia giudicò che dirittamente egli aveva potuto pigliar l'abito, e per questo fu fatto battere; il padre guardiano fu battuto perché gli aveva dato l'abito, e questo terzo perché l'aveva ricevuto: e subito fu ordinato che lo lasciasse e che ritornasse a pigliare la sorella del Prete. E a questo modo noi non potemmo esser uditi se non dopo quindici giorni.
Come, dopo la morte della reina Elena, il gran betudete fu a ricuperare li tributi del suo regno, e di che sorte erano; e come la reina d'Adea venne a dimandar soccorso, e che gente venne con quella.
Cap. CXVII.
Poteva essere da VIII a IX mesi che era morta la reina Elena, la qual signoreggiava la maggior parte del regno di Goyame, e ancora quanti di nuovo venivano alla corte l'andavano a piangere alla sua tenda, la qual ancora era ritta nel suo luogo: e cosí ancor noi facemmo, quando di nuovo dopo la sua morte venimmo alla corte. E avendo mandato il Prete al detto regno il gran betudete a ricuperare il gibre, che è quello che si paga di diritto ogn'anno al re, in questi giorni arrivò il detto betudete col gibre, il qual era 3500 mule, 300 cavalli e 3000 bassuti, che sono una sorte di panni che gli uomini grandi tengono sopra le lettiere, e sono di bambagio, pelosi da una banda come tappeti, ma non cosí grossi: e li gran signori li tengono sopra il letto, e sono di prezio, che al manco vagliono un'oncia d'oro l'uno, e anche da tre in quattro e cinque oncie; e piú di 300 panni di bambagio di poca valuta, che vagliono due per una dramma d'oro e anche manco, e com'è stato detto un'oncia val un pardao, che son tre quarti di ducato d'oro di Portogallo, e mi fu detto che portò trentamila dramme di oro. Al presentar di questo gibre io mi vi trovai presente e viddi il tutto, e fu in questo modo: il betudete veniva a piedi, spogliato dalla cintura in suso, con una corda legata a torno della testa, come saria a dir un fazzuolo da mulattiere castigliano, e dove poteva essere udito dalla tenda del Prete, disse tre volte, con picciolo intervallo una dall'altra, questa parola: "Abetu", che vol dir "Signore"; e non gli fu risposto se non due volte, nella sua lingua: "Chi sei tu?" E lui disse: "Io che chiamo son il piú picciolo della tua casa, quello che sella le tue mule e lega le tue bestie e fa gli altri uffizii che mi comandi, e ti porto quello che tu mi hai ordinato"; e queste parole furno dette tre volte, le quali compite, si udí una voce che disse: "Cammina, cammina avanti", ed egli, andato, fece riverenzia avanti la tenda e passò avanti. Dopo di lui venivano li cavalli uno drieto all'altro, tutti menati per la cavezza da servitori. Li primi XXX erano sellati ed erano molto ben in ordine; gli altri che venivano dietro non valevano due dramme d'oro, e molti di loro non valevano una dramma l'uno, e io gli viddi dare poi per manco, e potevano essere da tremila. Dopo questi ronzini vennero le mule, nel medesimo modo di quelli, cioè XXX sellate, buone e ben in ordine; le altre erano mulette picciole giovani, come i ronzini, e vi erano muli e mule di un anno, di due e di tre, e non passavano, e niuna salvo le sellate era da cavalcare; e passarono come fece il betudete e li ronzini. Dopo le mule vennero li panni bassuti, e un uomo non ne portava se non uno, per lo gran fardello; dopo li bassuti passarono gli altri panni fatti in un fascio, e un uomo ne portava dieci: e potevano essere tremila uomini di bassuti e tremila di panni, e tutti costoro erano del regno de Goyame, i quali sono obligati a portar il gibre. Dopo questi panni vennero dieci uomini, ciascuno con lo suo piatto sopra la testa, fatto al modo di quelli ne' quali mangiano, ed erano coperti di cendado verde e rosso. Dopo questi piatti vennero tutte le genti del betudete, le quali passarono tutte l'una dietro l'altra, come aveva fatto egli. In questi piatti vi era posto l'oro, il qual ordinarono che fusse portato alla sua stanza con tutto 'l gibre, e cosí si fece. A far questa processione si consumarono dieci ore, cioè da prima sino dopo vespro.
Potevano esser XV giorni avanti che noi arrivassimo quivi alla corte, ch'una reina mora, moglie del re d'Adea, che era sorella d'una che fu mandata per esser moglie del Prete Ianni, ed egli la rifiutò perché ella aveva duo denti dinanzi troppo grandi, e fu maritata per questo a un gran signore, che fu barnagasso e ora è betudete; or veniva questa reina a dimandar soccorso al Prete, per causa d'un fratello di suo marito, che s'era levato contra di lei e le toglieva il regno. Era accompagnata bene come reina, e menava seco cinquanta Mori molto onorati e ben vestiti, a cavallo in su mule, e cento uomini a piedi, e sei donne onorate a cavallo in su mule: ed erano genti non molto nere. Fu ricevuta con grand'onore, e il terzo giorno dopo 'l suo arrivare fu chiamata, e venne avanti la tenda del Prete, essendo lei serrata in uno sparavier nero. Fu vestita due volte quel giorno, una all'ora di prima, l'altra a ora di vespero, e tutte due di broccato, di velluto e camicie moresche d'India; e il Prete le mandò a dire che ella si riposasse e non avesse maninconia, che il tutto saria fatto sí come ella desiderava, e che ella aspetasse Barnagasso e Tigremahon, perché giunti subito si partiria. Dopo XVIII giorni del suo arrivare fu di nuovo vestita al modo sopradetto, e il giorno seguente arrivarono i sopra detti, e amendue portavano il gibre che sono obligati pagare al re, e con loro venivano li cauas delle lor terre, cioè gli uomini d'arme, con molti altri signori.
Arrivati che furno, ordinò il Prete che il betudete fusse il primo a presentare il gibre del regno di Goyame; e li giorni dipoi cominciò Barnagasso a dare il suo gibre, e furono 150 bellissimi cavalli, e il primo giorno non fecero altro che correre e saltare, e nell'altro giorno presentò molte sete e molti drappi sottilissimi d'India: a questo presentar non mi ritrovai, perché mi sentivo male. Fornito questo, il giorno seguente cominciò molto a buon'ora a presentar il suo gibre Tigremahon, e furno 200 e piú grossi e belli cavalli, e migliori di quelli di Barnagasso, perché venivano di paese piú lontano; nondimeno una sorte e l'altra erano d'Egitto e d'Arabia: e in questo giorno non si fece altro che veder i cavalli. Nel seguente giorno presentarono piú panni di seta che io vedessi mai posti insieme, e si consumò tutto 'l giorno in appresentar, contar e riceverle. Il lunedí seguente a mezogiorno venne Balgada Robel, gentiluomo grande suggetto a Tigremahon, a presentare il suo gibre da per sé, ed erano XXX cavalli tutti d'Egitto, grandi come elefanti, molto grassi, e sopra ciascuno era un xumagali, cioè gentiluomo senza titolo. E otto di questi xumagali avevano buone corazze simili alle nostre, parte coperte di velluto e parte di cordovano, con le brocche dorate; avevano anche celate come sono le nostre in capo: in questi otto vi entrava Balgada Robel; gli altri XXII avevano le sue camicie di maglia, con le maniche longhe e molto ben serrate intorno la persona. Avevano XXX zagaglie e la lor mazza ferrata, come Turchi, e tutti con li lor fazzuoli intorno la testa azzurri, con capei lungi che volavano per lo vento. Avanti di costoro andavano duo neri piccioli, vestiti d'una livrea rossa e verde, ciascuno sopra un camello coperto della medesima livrea, sonando tamburi: e subito ch'arrivarono appresso la tenda del Prete, si ritirarono i camelli, un da un capo e l'altro dall'altro, non cessando di sonare e li xumagali di scaramucciare, e fecero di tal maniera che ordinò il Prete che vi fussero menati degli altri cavalli, di quelli del Barnagasso e Tigremahon, acciò si dessero spasso con quelli. Durò questa festa fino al tramontar del sole. Questo Balgada Robel è quel gentiluomo al qual don Rodrigo, quando venimmo, donò una celata, e comprò una mula per una spada; era fama che sempre guerreggiava con Mori, per esser un buono e gentil cavaliere.
Come fu dato soccorso alla reina di Adea; come il Prete fece prendere il betudete, e la causa per che, e come poi fu liberato, e come furono presi alcuni altri signori.
Cap. CXVIII.
De li cauas, cioè uomini d'arme, che vennero col Barnagasso e Tigremahon e con li gentiluomini delle lor compagnie, ordinò il Prete Ianni che quindicimila di loro con un gentiluomo intitolato adrugaz, nominato in questo libro molte volte, immediate andassero nel regno di Adea, e che pacificassero il detto regno, e che la reina andasse pian piano: e subito si partirono la reina e Adrugas, e si diceva che essi anderiano per il paese del Prete XXX giorni di cammino, avanti che arrivassero nel regno di Adea.
Partita la reina, il giorno seguente il Prete comandò che fusse preso il gran betudete che gli aveva portato il gibre del regno di Goyame, e similmente fece prender l'altro betudete, che si chiama Canha; fece anco prender Tigremahon: li quali presi, una mattina avanti giorno si partí il Prete, e tutta la corte con lui, e noi drieto. E stando l'ambasciador del Prete e io sopra un fiume, dando da bevere alle mule, passò questo betudete che portò il gibre, e mi disse: "Abba bar qua", che vuol dire: "Padre, dammi la benedizione"; io gli risposi: "Hizeria bar qua", che vuol dire: "Dio ti benedica". Veniva questo betudete accompagnato da XV gentiluomini a cavallo in su mule e cinquanta a piedi, e niuno era dei suoi servitori, ma tutti guardie; e noi ci mettemmo a cavalcare in sua compagnia. Subito appressatomi, mi prese la mano e me la baciò, dimandandomi di nuovo la benedizione, dicendomi: "Che ti par di questo? Si prendono cosí grand'uomini nel vostro paese?" Gli risposi che nelle nostre terre li grand'uomini, se si pigliavano per cose leggieri o di poca noia del re, gli davano le lor case per prigioni, e se per cose grandi, erano posti in castelli e prigion forti. Egli, con le lacrime che gli correvano per tutto il viso, di nuovo mi disse: "Padre, prega Iddio per me, perché a questa volta sarà la mia fine". Io fui con esso, sforzandolo e consolandolo meglio che io seppi, fino al tardi, che si partirono da noi. Il giorno seguente tornammo ad accompagnarci insieme, e cosí cominciò a parlar meco come il giorno avanti, e io con lui, sempre dicendo che pregasse Iddio, perché egli moreria in quella prigione. La prigion veramente che aveva era una catenella molto sottile d'un braccio di lunghezza, come una catena da legare un cane, con un picciolo e sottile cerchietto nel collo del braccio: ed egli medesimo portava la catena in mano.
Un mercoledí noi arrivammo dove le tende del re erano poste, e quella notte fu detto che 'l Prete ordinò che fusse condotto alla sua presenza il betudete: e cosí fu menato, in compagnia di due suoi figliuoli. Arrivati alla porta della tenda, mandò il Prete fuori duo paggi che lo facessero condur drieto alla tenda, che voleva parlar con lui in persona, e che le guardie e li figliuoli aspettassero un poco ritirati dalla porta della tenda. Quivi stettero fino alla mattina, che il Prete cavalcò, e tutti noi con lui, senza che s'avesse nuova alcuna del betudete, se egli era morto o vivo, né ciò che di lui era intervenuto. Li detti due figliuoli, e tre ch'erano restati in casa, tutti erano uomini grandi e buoni cavalieri: fecero grandissimo pianto con tutti li servitori di lor padre, il qual teneva una casa onorata come un gran re. Dipoi ordinò il Prete che camminassero senza alcuno servitore, né del padre né loro, e cosí io gli vidi cavalcare tutti soli e senza servitore, spogliati dalla cintura in suso, con una pelle di castrone nera pelosa sopra le spalle, e dalla cintura in giú panni neri, e tutte le sue mule coperte di nero; la gente loro e di lor padre camminavano separati, tutti addolorati e a piedi, e le lor mule avanti di loro sellate.
Un lunedí, che facemmo l'entrata nel regno d'Oysa, era stato ordinato di far la festa dei Re, che loro chiamano tabuchete, e si fa il battesimo, come di sopra è detto. Questi figliuoli del betudete andavano di casa in casa, subito fatto giorno, cioè nelle tende dei grandi, come gli altri solevan far a loro, dimandando nuova di lor padre, se era vivo o morto: né seppero mai cosa alcuna, se non in capo di XV giorni, che vennero quelli che lo condussero nel regno di Fatigar, a una montagna che si dice essere nella estrema parte del regno di Adel, la qual è molto alta e ha una valle molto profonda nel mezzo, e non vi è altro che una entrata. In questa profundità over valle vi sono di ogni sorte d'animali e vacche, ma gli uomini che vi entrano muoiono in quattro o cinque giorni di febre: e che ivi l'avevano lasciato senza persona alcuna che lo servisse, se non alcuni Mori che gli facessero la guardia, fin a tanto che egli morisse. Questa nuova fece raddoppiare il pianto maggior del primo, e si cominciò a parlar per la corte di questa morte che gli aveva data il Prete, perché s'era impacciato con sua madre (e cosí era la fama) quando lei viveva, e che ne aveva avuto un figliuolo, e che 'l Prete non aveva voluto farlo morire, vivendo sua madre, per non infamarla: e andando queste nuove per la corte, furno mandati bandi che nessuno non parlasse del betudete, sotto pena della vita. Subito cessò questa fama, ed essendo noi di quivi a tre mesi appresso del mare, nelle terre di Tigremahon, venne una nuova che il betudete non era morto, e che i suoi figliuoli con l'aiuto del re di Adel l'avevano scappolato, e che egli faceva guerra al Prete. In queste terre subito furno mandati bandi che alcuno non parlasse del betudete, e cosí cessò. Subito venne un'altra nuova, che il Prete aveva fatto tagliar la testa a XX Mori che lo guardavano e a duo suoi servitori, perché gli erano andati a parlare: e questo sapemmo che era la verità. E di piú si diceva che il Prete gli voleva perdonare, poi che Iddio gli aveva dato vita tanto tempo in cosí pericoloso luogo, e perché era uomo di grand'ingegno, e da governar molta gente, e gran guerriero.
Come Tigremahon fu morto e l'altro betudete deposto, e tolta la signoria di Abdenago e data all'ambasciadore Zagazabo, e come il Prete andò in persona nel regno di Adea.
Cap. CXIX.
Subito che noi arrivammo dove che s'aveva da far la festa dei Re, o il tabuchete, avanti che si dicesse dove era stato condotto il betudete, una notte ordinò il Prete che fusse condotto via Tigremahon, del quale non si seppe similmente a che parte l'avessero condotto. Il giorno seguente gli mandarono a torre quanto che egli aveva nelle sue tende, e tre giorni continui non cessarono di portare, contare e consegnar drappi bassi e molti ciambellotti e panni assai buoni d'India. Noi ci trovammo ivi alla corte sei uomini bianchi, cioè io e un Portoghese e quattro Genovesi: a ciascuno di noi mandò il Prete a donare sei panni, cioè tre pezze di ciambellotto e tre panni d'India. E non passarono molti giorni che fu detto che 'l Prete aveva fatto menar Tigremahon nel regno di Damute, sopra una montagna altissima che non aveva se non una strada fatta a mano, e la cima rimonda e molto fredda: quivi mandano gli uomini che vogliono che muoiano presto. E secondo che nelle terre di Tigremahon venne nuova falsa che 'l betudete era fuggito, cosí ne venne nuova certa che Tigremahon era morto in detta montagna di freddo e di fame.
In questi giorni similmente che eravamo alla corte, l'altro betudete, che era preso, fu diposto dal suo ufficio, e fatto betudete arraz Nobiata, che era barnagasso; e fecero Tigremahon Balgada Robel, che fu quello che venne con li XXX cavalli ben in ordine. Ed era un gran rumore per tutta la corte, che parlava della morte della reina Elena, dicendo: "Come ella è morta, tutti li grandi e piccioli sono morti, e vivendo lei tutti erano vivi, guardati e favoriti", e ch'essa era padre e madre di tutti, e che se 'l Prete andava a questo cammino, tutti li suo regni presto sariano diserti.
Passato il tabuchete, cioè il battesimo, Zagazabo ambasciadore e io non facevamo instanzia alcuna della nostra dimanda, perché non avevamo ardimento, per li grandi e ardui negozii che noi vedevamo trattarsi. Il Prete ne mandò a chiamare, e levata una signoria, che teneva Abdenago nostro contrario, e un'altra che noi gli dimandavamo, tutti due le dette all'ambasciadore e ci espedí tutti contenti. Avanti che noi ci partissimo, venne nuova d'Adrugaz, che andò con la reina d'Adea a soccorrere suo marito, che faceva intendere come li popoli non la volevano ubidire, e che per dove ella andava tutti fuggivano e si ritiravano alle montagne, e che sua Altezza mandasse piú gente. Il Prete determinò d'andarvi in persona, e di menar la reina sua moglie in una terra dove già eravamo stati con lei, la qual si chiama Orgabra, che è nella estrema parte del regno di Adea, e ivi lasciar la reina, i figliuoli e tutta la corte: e cosí fece. Andarono con lui de' Portoghesi Giorgio di Breu, Diego Fernandez, Alfonso Mendez e Alvarenga e cinque o sei Genovesi. Ritornati che furno, raccontarono che, tanto quanto il Prete camminava dentro il regno di Adea, tutti venivano a dargli ubidienza come a lor signore, e che volse andar molto avanti e fino appresso di Magadaxo, e che il detto regno era molto fruttifero e di gran boschi, di sorte che non potevamo camminare se non tagliavano gli arbori e facevano la strada, e vi erano infinite vettovaglie di ogni sorte, e di grand'armenti d'animali d'ogni sorte e di molta grandezza; e che in questo regno è un lago cosí grande che pare un mare, e che non si vede da un capo all'altro, nel quale è una isola dove nelli tempi passati un Prete Ianni fece fare un monastero, e pose in quello molti frati, ancora che fusse edificato in terra de Mori: li quali frati tutti morirono di febbre, eccetto pochi che restarono in uno picciolo monastero fuori dell'isola appresso il lago, quali furno trovati esser restati vivi, e che subito ordinò il Prete che si facessero altre chiese e monasteri, lasciandovi molti preti e frati e molti laici che abitassero in detto regno. Il qual pacificato che fu, se ne ritornò ove era la corte. Paga detto regno di tributi di vacche un gran numero, e noi le abbiamo vedute nella corte, che eran venute di questo paese: e sono cosí grandi come gran camelli, e bianche come neve e senza corna, e le orecchie grandi, molto pendenti.
Del modo che il Prete sta alloggiato con la sua corte.
Cap CXX.
La maniera che tiene il Prete in alloggiar la sua corte è che sempre egli si mette ad alloggiare in campagna, che in altro luogo non vi capiria, e se vi è alcun luogo alto, in quello le tende del Prete si dirizzano: le spalle delle quali sempre guardano verso levante e le porte verso ponente, e sono sempre da quattro o cinque tende, tutte congiunte una con l'altra, e queste propriamente sono le abitazion sue, circundate con alcune cortine alte che essi chiamano mandilate, che sono tessute a scacchi, divisate di bianco e di nero; e se vi vuole star qualche giorno di continuo, le circundano con una siepe che gira un buon miglio, e vi fanno XII porte, e la principale guarda verso ponente. Di dietro a quella un buono spazio sono due porte, una da una banda, l'altra dall'altra, che servono per la chiesa di Santa Maria Sion, ch'è posta verso tramontana, e l'altra per la chiesa di Santa Croce, che è verso mezodí. Appresso queste porte che servono per queste chiese, quasi altrotanto spazio giusto quanto è dalla porta principale alle sopradette, vi sono due altre porte per banda: quella che è verso mezzodí serve per andar alle tende dalla reina, moglie del Prete, e quella verso tramontana serve per la stanzia dei paggi, e a tutte queste porte stanno guardie. Le altre io non potei vedere, perché d'intorno non vi lasciano passare alcuno. Questo so ben io, che in tutte le parti ch'egli alloggia fanno XII porte, tra le quali ve n'è una che serve alli paggi di cucina, perché questo io viddi stando da lungi, come detti paggi portavano le vivande. Le qual porte si fanno, come ho detto, quando le tende sono serrate di siepe: ma non essendo serrate, vi sono solamente le cortine.
Di dietro a queste tende per un tratto di balestra e piú sono poste le cucine e le tende delli cuochi, partite in due parti, cioè cuochi da man destra e cuochi da man sinistra. E quando da queste cucine sono portate le vivande, fanno in questo modo, secondo ch'io viddi in una terra che si chiama Orgabeia, nel regno di Xoa, ritrovandomi sopra alcune colline vicine alle cucine, perché nelle altre parti le tende sono poste nel piano, che non si può vedere. Veniva un baldacchino di ormesino, secondo che pareva, rosso e azurro, di sei pezze integre lunghe insieme cucite, e questo baldacchino portavano in cima a certe canne, che in quella terra sono molto buone, forti e lunghe, e di sorte che ne fanno aste da lancia. Sotto questo baldacchino venivano i paggi, che portavano le vivande in alcuni piatti di legno molto grandi, che chiamano ganete, ch'erano fatti a modo di piadene di legno piane nelle quali si netta il grano, con l'orlo alto due dita, ma sono maggiori: e in ciascuna erano poste molte scodelline di terra nera, nelle quali erano poste le vivande di galline, tortore e altri uccelletti, e di molti frutti e mangiari bianchi, che sono la maggior parte di latte che di altre cose; vi erano ancora pignattelle nere come le scodelle, con altre vivande e minestre di diverse sorti. Queste vivande che io dico, che venivano in questi piatti, non dico che io le vedessi quando che le portavano, perché io era da lungi, ma le viddi quando ne le mandavano a presentare, che venivano nelli medesimi piatti come erano stati portati dalla cucina, e senza baldacchino, e le pignatte erano coperte con li lor testi serrati intorno con pasta: e questi piatti che ne mandavano erano tutti carichi di queste pignatte, calde che quasi bollivano. In tutte le vivande nelle quali possono metter gengevo e pepe, ve ne mettevano tanto che non si potevano mangiare per l'acutezza. Fra le cucine e le tende dei cuochi, quasi dietro a quelle, è una chiesa di Santo Andrea che si chiama la chiesa de' cuochi; dove sono le cucine, né di dietro a quelle, vi può praticar nessuno.
Delle tende dove si fa la giustizia, del modo di quella, e come odono le parti litiganti.
Cap. CXXI.
Avanti le porte delle tende over della siepe, se ella vi è, ben duo tratti di balestra, si distende una tenda lunga, la qual chiamano cacalla: e questa è la casa della giustizia o vero di audienzia, e fra questa tenda e le tende del Prete non passa alcuno a cavallo, per riverenzia del re e della sua giustizia, ma tutti smontano a piedi; e questo io so perché ci detteno colle mani nel petto una volta che noi vi entravamo con le mule, e fummo escusati essendo forestieri, facendone intendere che noi ci guardassimo d'entrarvi piú. In questa tenda di cacalla non vi entra alcuno, solamente vi sono poste XIII cattedre di ferro basse: il luogo dove si siede è di cuoio, e una di queste è molto alta, che daria a un uomo quasi al petto, e le altre XII sono basse come i nostri scabelli da sedere a tavola, e si cavano ogni giorno, e si mettono sei da un capo e sei dall'altro, e la grande sta nel mezzo, come fa la tavola che sta in capo del refettorio dei frati. Sopra queste non siede alcuno delli giudici che odono le parti: solamente stanno per cerimonia, perché essi seggono in terra sopra le erbe, se ve ne sono, tanti da una parte come dall'altra, e ivi odono le parti che litigano, e ciascuno della sua giurisdizione, perché, come dico che li cuochi erano divisi in due parti, cosí sono tutti, cioè o da man sinistra o da man destra. E l'audienzia si fa in questo modo: l'attore proferisce la sua azione a bocca, senza che alcuno parli, e il reo contradice quanto che vuole, senza che niuno il disturbi; finito che ha il reo, l'attore replica, se gli piace, e il reo similmente duplica, se gli piace, senza che alcuno lo disturbi. Finite che hanno le loro proposte e risposte, per sé o vero per i lor procuratori, vi sta in piedi un uomo che è come un portinaro, e costui torna a ridire quanto hanno detto le parti, e infine dice il parer suo e chi ha ragione. Allora uno di quelli giudici che seggono, cioè quello che è in capo, fa come ha fatto il portinaro, cioè di raccontare quanto le parti hanno detto, e in fine qual di quelle gli pare che abbia ragione: e in questo modo fanno tutti gli altri che seggono, di dire la lor oppenione, e si levano in piedi quando parlano, fino che tocchi alla Giustizia maggiore, che sta all'ultimo, la qual, udito il parere di tutti, dà la sentenza, se non vi è bisogno di prova; ma se vi deve intervenir prova, gli danno le dilazioni debite e necessarie, e tutto in parole, senza scriver cosa alcuna. Le altre materie che odono i betudeti e gli aiaz, le odono stando in piedi, perché stanno davanti della tenda del Prete e questa cacalla, e cosí come odono le parti, cosí vanno subito con quello che dicono al Prete, e non entrano nella tenda, ma solamente dentro della mandilate o vero cortina: e di quivi parlano, e poi se ne tornano alle parti con la terminazion del Prete, e alle volte consumano un giorno in queste andate e tornate, secondo la importanzia delle cause.
Della maniera come sono fatte le sue prigioni.
Cap. CXXII.
Avanti la tenda o casa della giustizia, per un gran pezzo dalla parte destra e dalla sinistra, vi sono due tende o vero case come prigioni di catena, e si chiama mangues bete, dove stanno i prigioni di ciascuna delle parti, cioè destra o sinistra, e sono guardati in questo modo, che secondo il delitto e causa cosí è la prigione e le guardie, e il prigione è obligato a far le spese alle guardie che lo guardano, e le paga per tanto tempo quanto sta in prigione. E se vi è alcuno che abbia i ferri ai piedi, quando lo fanno andar avanti la tenda del Prete, ove hanno l'audienza, queste guardie lo portano a braccio, cioè duoi danno le braccia uno all'altro e fanno sedere sopra di quelle il prigione, che tiene le mani sopra le lor teste e le altre guardie l'acompagnano coll'armi, e cosí vanno e vengono. Vi è un'altra sorte di prigioni, che, se io richieggo che sia preso un uomo, sono obligato a fargli le spese, volendolo accusare, e similmente alle guardie che lo guardano: e questo io so perché accadde alli nostri Portoghesi, che fecero prendere alcuni per mule che erano state lor rubate, e perché mandavano da mangiare alli prigioni e alle guardie, tornarono a richiedere che fussero liberati. Un altro Genovese so che gli era stata rubata una mula, e confessò il ladro averla rubata, ma che ella non era in suo potere, né aveva con che pagarla: lo giudicarono per ischiavo e fu venduto, ed era un uomo molto valente.
Dove sono le case di quelli che si chiamano Giustizia maggiore, e il luogo dove è la piazza, e quali sono i mercanti e quelli che vendono a minuto.
Cap. CXXIII.
Avanti le tende delle prigioni, per un gran tratto tutto al diritto, sono poste le tende di due Giustizie maggiori, cioè una da una banda e l'altra dall'altra, e in mezo è una chiesa, la quale si chiama chiesa delle Giustizie, e inanzi a questa, per un gran pezzo lontani a quella, sono quattro lioni in catena, li quali sono condotti sempre ove cammina il Prete Ianni. E per un altro grande spazio lontano dai lioni è un'altra chiesa, la qual si chiama la chiesa della Piazza dei cristiani, che in quella vendono, perché la maggior parte sono mori, massime li principali mercanti delle robe e cose grosse, e li cristiani vendono cose belle come pane, vino, farina, carne, perché li mori non posson vendere cosa alcuna da mangiare, né alcuno mangiaria di quello che essi facessero, né della carne che essi ammazzassero. Questa piazza ha da essere sempre in fronte della tenda del Prete Ianni: non dico che dalla sua porta possa esser veduta, perché alcune volte accade che la campagna è cosí grande che la piazza viene a essere molto lontana, e il manco che si possa far piazza è un miglio e mezzo, e qualche volta tre e piú. Ancora che si muti la corte quante volte che si voglia, e sempre si osserva questo modo di metter le tende, e dalla tenda del re fino a questa piazza tutto è netto per mezzo, cioè che non vi è alcuna tenda se non delle due chiese delle due giustizie dei leoni e della chiesa della Piazza, e sono ben allontanate dalle altre tende.
In che modo i signori gentiluomini e tutte l'altre genti piantano le lor tende,
e come sono poste in ordinanza.
Cap. CXXIIII.
Acanto a ciascuna delle due chiese, che sono a canto alla tenda del Prete dalla banda di fuori, è posta una tenda molto bella e buona dove serbano le robbe delle chiese, e un'altra dove tengono il fuoco e la farina per far il corbon, cioè le ostie: e di questa sorte tutte le altre chiese hanno una tenda. Inanzi a queste chiese sono alzate altre tende grandi e lunghe e distese, come sarian sale, e queste chiaman balagamie, dove serbano le vesti, robbe e tesori del Prete: e tante stanno da una parte quante dall'altra, perché sono tutte duplicate, come le altre delli ministri della corte. Queste hanno li lor capitani, che sono sopra quelli che le guardano, e la maggior parte di queste tal persone sono schiavi eunuchi. Drieto a queste tende delle robbe, a man destra, si rizzano le tende della reina moglie del Prete, e di tutte le sue donne che la servono, e della reina Elena, che soleva star con grandissima pompa: ma non entrano in quelle se non donne ed eunuchi. Dalla banda sinistra sono le tende de' paggi; dapoi li aiazi si alloggiano, perché occupano grande spazio, perché hanno assai gente sotto di sé, le quali stanno lor sempre appresso. Dopo gli aiazi sta l'abuna Marco, con gran numero di tende, perché vi sono infinite persone che lo vengono a trovare di tutta la Etiopia, per aver favor a ordinarsi, sí che tien tanto luogo che farebbe una gran villa. Dall'altra banda sta il cabeata, che ancora egli ha gran numero di tende: e la sua stanzia soleva esser appresso la chiesa di Santa Maria, conciosiacosaché questo ufficio soleva esser sempre dato ad un frate, ma questo presente, essendo prete e avendo moglie, lo fanno stare appresso l'abuna. Poi seguitano tutti li gentiluomini alli lor luoghi, e appresso le genti ben vestite, dapoi le genti basse, come tavernieri, panattieri, che vendono e fanno vino e danno da mangiare. Seguitano poi le tende delle femine da partito, che loro chiaman amaritas, e queste sono molte, e hanno sempre alcune altre tende separate dalle loro, dove alloggiano forestieri che vengono a vender, comprar e negoziar con la corte del Prete, e ne sono infinite ricche e ben vestite. Appresso alloggiano tutti quelli che fanno l'arte del fabro, da un canto e dall'altro, e occupano grandissimo spazio. Li dui gran betudeti poi con le lor genti, un alla destra e l'altro alla sinistra, occupano il spazio di una città, tanta moltitudine di genti menano seco di continuo, e sono come le guardie di questo alloggiamento. E sempre le tende del Prete sono le prime alzate, e immediate ciascuno sa il luogo dove dee far alzar le sue, o a man diritta o sinistra, e si veggono le strade, piazze e chiese: e tanto si estende questo campo o vero alloggiamento del Prete Ianni, che occupa lo spazio di sei buone miglia.
In che maniera i signori e gentiluomini vengono ed escono di corte e praticano.
Cap. CXXV.
Niuno signore grande e signor di terre, se si trova nelle sue terre, può uscire né muoversi per venir alla corte in niuna maniera se non è chiamato dal Prete, ed essendo chiamato, non lascia di venir per cosa alcuna; e quando ei si move, non lascia in quella né moglie né figliuoli né roba alcuna, perché sempre teme di non tornarvi piú, conciosiacosaché, come di sopra è detto, il Prete dona le signorie e toglie quando gli piace, e se accade che le tolga a qualcuno, immediate quel signor messo in suo scambio gli toglie ciò che trova: e per questo portano via con loro ogni cosa, o ver la mettono in altre terre. E quando arrivano appresso la corte, con gran trionfo, si fermano almanco tre miglia lontani dalla corte, dove stanno molte volte uno e due mesi senza moversi di là, che paiono come dimenticati, fin che piace al Prete: non lasciano però in questo tempo che essi stiano cosí dimenticati, d'entrare nella corte e di parlar con altri signori, non con trionfo né vestiti, ma con due o tre uomini e ignudi dalla cintura in suso, e con una pelle di castrato sopra le spalle: e cosí vanno e tornano alle lor tende, fin che hanno licenzia d'entrare. La qual avuta, fanno la lor entrata con gran trionfo di suoni e di tamburi, e vanno a mettersi nel lor luogo, che già per avanti a ciascuno è ordinato; e alloggiato che è, ancora non va fuori di casa vestito come fece nell'entrata, ma va ignudo sí come ho detto, posto che nella sua entrata venisse vestito di pompa, e in questo tempo dicono tutti universalmente: "Ancora il tale non sta nella grazia del signore, perché va spogliato". E se egli ha alcuna parola dal Prete, subito esce vestito, e allora il popolo dice: "Il tale è già nella grazia del signore", e si divulga la causa perché egli è stato chiamato. Alcune volte e la maggior parte ritornano alle lor signorie, e anche no, e se ritornano sono spacciati immediate; se anche sono tolto loro, gli fanno stare cinque, sei e sette anni senza uscire della corte, della quale non possono uscire senza licenza: e sono molto ubidienti e molto temono il lor re. E quanto avanti solevano essere accompagnati, e tanto allora si veggono abandonati, e cavalcano sopra una mula con duoi o tre uomini seco, perché gli altri che solevano accompagnarli erano delle signorie che gli levorno, e si sono accostati al signor nuovo: e questo vedevamo accadere tutto il giorno.
Come quelli che son chiamati alla guerra entrano immediate appresso alla tenda del Prete,
e delle vettovaglie che portano seco.
Cap. CXXVI.
Se alcun gentiluomo è chiamato per andar alla guerra, secondo che spesse volte abbiamo veduto, la sua entrata non è vietata, ma subito entra, e come vien con molte genti entra di lungo. A questi gentiluomini non è proibito quel che ho detto, che fra la tenda di cacalla e la tenda del re non entrino né a cavallo né sopra mule, percioché, come vengono per andar alla guerra, entrano alla distesa fin alle tende del re, e appresso di quelle fanno le lor mostre, scaramucciando e facendo le lor ordinanze di battaglia, secondo che a loro pare che il re ne prenda piacere: e questo abbiamo veduto per infinite volte. Questi tali non stanno in corte piú di duo giorni, perché cosí sono i loro ordini, che in due giorni si mettono insieme centomila persone, se tante ne vogliono; e secondo che arrivano, subito sono espediti, perché ivi non si costuma di dar soldo ad alcuno, ma ciascuno porta seco la provisione per il suo vivere, che è farina d'orzo e di ceci e di miglio arrostiti, la qual è buona vivanda per andar alla guerra, perché trovano buoi e vacche per tutto dove vanno; e se è tempo di grano, questa è la principale vettovaglia che è portata da quelle genti alla guerra.
In che modo portano le robe del Prete Ianni quando egli cammina, e dei broccati e sete che manda in Gierusalem, e dei suoi tesori.
Cap. CXXVII.
Del modo del camminare del Prete Ianni di sopra è stato detto, secondo che noi l'abbiamo veduto; ora voglio dire in che modo son portate le sue robe e drappi, che sono serbate nella tenda detta balagamia, che veramente è cosa maravigliosa e de infinita quantità. Tutte le robe di seta sono poste in panieri quadri fatti di bacchette, e lunghi quattro palmi e due o due e mezzo larghi, coperti di cuoio di vacca crudo col pelo; e a ciascun cantone è una catena che va di sopra al coperto, il quale ha nel mezzo una argola di ferro, nella qual si chiavano queste catene con un chiavistello: e cosí come sono serrate quelle delle sete, cosí sono quelle delli drappi sottili d'India, e sono portate da uomini in testa, e sono piú di cinque o seimila, e fra ogni cento e cento vi sono sempre guardie che camminano con esse. E perché ogni anno crescono in tanta quantità le sete e broccati, cosí di quelli che sono pagati per li tributi di diversi reami come di quelli che alle volte il Prete fa comprare, e tanti non ne consumano né possono portare per viaggio, però ogni anno ne sogliono mettere in alcune grotte cavate in montagne per questo effetto, e una n'abbiamo veduta sopra la nostra strada quando venimmo la prima volta alla corte, la qual era vicina alle porte che si chiamano, come abbiamo detto, Badabaie, appresso alcune profonde valli di sopra nominate. A questa grotta vi stanno di continuo molti guardiani, e ciascuno che passa paga loro un certo dazio, il quale è deputato alli detti guardiani. Nel modo che vanno le robe e drappi di seta, cosí va il tesoro in cesti, ma piú piccioli, e coperti di cuoio e cosí serrati come quelli delle robe, ma sopra la coperta e catene e serratura è posto un altro cuoio di bue fresco e cucito con correggie del medesimo cuoio, e ivi si secca e riman forte: e questi cesti del tesoro sono infinitissimi, e vanno sempre con gran guardie, e similmente ogni anno ne sono messi molti nelle grotte, perché non ne possono tanti portare come crescono e si multiplicano ogni anno.
Questa grotta che noi abbiamo veduta era lontana tre miglia dalla casa di Pietro di Coviglian, ed egli ne diceva che l'oro che era in questa grotta saria sufficiente per comprare la metà del mondo, perché ogni anno ve ne mettevano grandissima somma, e mai non ne ha veduto cavare. E quanto alle sete e broccati, diceva Pietro di Coviglian che molte volte ne cavavano per donare alle chiese e monasteri, sí come fu fatto tre anni avanti il nostro arrivare, che il Prete mandò grandissime offerte in Gierusalem di broccati e sete, cavati dalle grotte per la gran quantità che ve n'era: e furno tante che coprivan li muri della chiesa del Santo Sepolcro; vi mandò anco dell'altro oro. Di queste tal grotte ve ne sono molte, della medesima sorte che è questa, e tutte in coste di montagne, perché non hanno né città né castelli murati dove possino serbar simil cose. L'ambasciador che andò in Gierusalem a portar le sopra dette offerte si chiama abba Azerata, e al presente è guardia maggiore delle sorelle del Prete Ianni: e menava seco mille e cinquecento uomini, fra gli altri gentiluomini di nagaridas, che vol dir in nostra lingua con tamburi; e ho udito dire da quelli che furno con lui che sempre andorno sonando per il cammino nella città del Cairo fino in Gierusalem, e nel ritorno vennero fuggendo mezi rotti, perché il gran Turco veniva contro il gran Soldano e contra la detta città dove avevano da passare.
Come da Barua partirono trecento e trentasei frati peregrini per andar in Gierusalem,
e come furno morti.
Cap. CXXVIII.
Di questa terra sogliono andar ogni anno molti frati in Gierusalem in peregrinaggio, e anche molti preti. E stando noi nel luogo di Barua, che è capo del regno del Barnagasso, si messe a ordine una carovana per andar in Gierusalem, e furno da CCCXXXVI tra frati, preti, e XV monache: e questo fu nei giorni della Natività del nostro Signore, perché loro si partono fatta la Epifania e vogliono essere la settimana santa in Gierusalem, camminando pian piano come è il loro costume; e fanno questo viaggio in questo tempo perché dicono che finisce il tempo del verno nel paese di Nubia, il quale è nel principio dell'Egitto, e nella maggior parte del quale nel Cairo non piove, e cosí nel fine del verno trovano ancora dell'acque. Congregati che furno in detto luogo di Barua e passata la Epifania, furno consegnati per il Barnagasso, nominato Dori, ch'allora regnava, a certi Mori che gli conducessero sicuramente, i quali sono del paese del Suachem e di Rifa: e amendui questi luoghi sono nel capo delle terre del Prete e all'entrare nell'Egitto, e il Suachem è sopra il mar Rosso, e a canto a Rifa passa il fiume del Nilo, per esser nell'Egitto. Erano obligati detti Mori di condurre questi peregrini salvi nella città del Cairo, e per essere conosciuti, e perché ogni giorno praticavano nel paese del Prete, però furno loro consegnati.
Cominciorono il lor cammino da un luogo distante da Barua una giornata e meza, che si chiama Einacen, il qual è luogo e terra molto abondante di ogni sorte di vittovaglie, e vi sono molti monasteri: e qui fornirono di serrare la caravana, ed è luogo della signoria di Dafila, suggetto al Barnagasso. Quando partirono detti frati, fecero molto poco cammino, che a ora di vespero si metteano ad alloggiare, e subito alzavano le tende delle chiese, che ne avevano tre, e si mettevano a dire le lor ore e messe e si communicavano. Il giorno seguente a ora di terza cominciavano a camminare, ed erano tutti carichi di vittovaglie e di zucche e di utri con acqua, e le tende delle lor chiese con le pietre dell'altare erano portate sopra camelli: e non facevano al giorno cammino che passasse sei miglia. E per vedere il modo del lor camminare, volsi andare con questa carovana duo giorni, e viddi quando di sopra ho detto: e in questi duo giorni non camminammo al mio giudicio piú di dodici miglia, e mi fu detto che dal luogo d'Einacen fino al Suachen, dove signoreggiano Dafila e Canfila, che ambidui sono soggietti al Barnagasso, vi possono esser XV giornate di carovana da mercanti, che vanno poco piú di nove miglia per giornata, e dal Suachem a Rifa XIIII giornate dalla medesima sorte di carovana. E uscendo del Suachem comincia il paese dell'Egitto, il qual è tutto popolato e coltivato, salvo che per due giornate vanno per luoghi diserti, inabitati, dove non vi si trova acqua. E trovano in questo viaggio molte chiese e molti cristiani, che fanno molte elemosine a questi peregrini, ancor che essi siano suggetti a' Mori. Trovano anche il monastero dove santo Antonio morí, del qual ordine sono tutti i frati del regno del Prete Ianni, e lo visitano con grandissima divozione. Dalla città di Rifa fino al Cairo il paese è molto bello e verde e abondante d'ogni sorte di vittovaglie; e sempre si va dietro al fiume del Nilo, e vi ponno esser da otto giornate di cammino, ed è tutto abitato da gente bianca, mori, giudei e cristiani. E nel Cairo vanno a visitare il corpo di san Cosmo e Damiano e santa Barbara, e il fonte che è nell'orto dove nasce il balsamo; e dal Cairo fino in Gierusalem sono otto giornate di cammino.
Questa carovana, passato che fu il Suachen, fu assaltata da Mori arabi, che ruppero quelli che li conducevano e presero li peregrini, e ammazzati i vecchi, vendettero i giovani per schiavi: e di CCCXXXVI non ne scamporno piú di XV, i quali andarono al lor viaggio. E io ne viddi dipoi tre di loro che mi contorno tutto il lor travaglio, e dicevano che questo oltraggio era stato fatto loro perché erano amici di Portoghesi: e questa è la verità, che sono molto odiati dai lor vicini per nostro amore. Dopo la ruina di questi frati, fin ora non è andato alcuno in carovana a Gierusalem, ma vi vanno come passaggieri nascosamente: e questi sono reputati come uomini santi. E perché gli abitatori di Gierusalem sono gente bianca, quando noi arrivammo in questo paese ne chiamavano cristiani di Gierusalem. Vi è anco un altro cammino per mare, che si va in manco tempo, imbarcandosi nel porto della isola di Mazua e navigando verso il porto del Tor, che è appresso il monte Sinai: e vanno in XXV giorni e manco, se gli serve il tempo, e dal monte Sinai a Gierusalem vi sono sette giornate. Questa navigazione gli Abissini non hanno modo di farla, non avendo navilii né uomini atti a questo, ma dicono sperar che per il re nostro signore sarà fatto questo viaggio sicuro, faccendo fare una fortezza nella isola di Mazua.
Di tutte le terre e regni che confinano col Prete Ianni.
Cap. CXXIX.
Le terre, regni e signorie che confinano con le terre del Prete Ianni, che io ho potuto intendere, sono queste. Primamente cominciando a Mazua, che è verso le parti del mar Rosso e verso levante, in quella falda o riviera sono Mori arabi che guardano vacche di gran signori suggetti al regno del Barnagasso, e vanno insieme XXX e XL con le lor moglie e figliuoli, e hanno il lor capitano cristiano, e tutti sono ladri che stanno alla strada e sono favoriti da' signori di chi sono le vacche. Un poco piú avanti si entra nel regno di Dangali, che è regno di Mori, e ha un porto di mare detto Vella: e questo sta dietro delle porte del stretto del mar Rosso, dalla parte di dentro verso gli Abissini, e corre questo regno fin al capo del regno di Adel, ch'è del signore di Zeila e Barbora; e si congiungono questi duo regni nella parte fra terra, dove confina il paese del Prete Ianni. E vi sono XXIIII capitanie o signorie grandi, che chiamano Dobas, delle quali di sopra al capit. XLVIII ne ho parlato.
Del regno di Adel, e come il re di quello è tenuto per santo fra i Mori.
Cap. CXXX.
Il regno di Adel è regno molto grande, e scorre fino sopra il capo di Guardafuni, e in quella parte signoreggia un suo suggetto. Ed è tenuto questo re di Adel fra i Mori per santo, perché fa sempre guerra alli cristiani, e delle spoglie che egli guadagna manda sempre presenti grandi a offerire alla casa della Mecca, al Cairo e ad altri re, e loro gli mandano all'incontro arme e cavalli e altre cose per suo aiuto. Del qual re ne ho parlato nel capitolo CXIII. Questo regno d'Adel confina parte col regno di Fatigar e di Xoa, che sono regni del Prete Ianni.
Del regno di Adea, dove comincia e dove finisce.
Cap. CXXXI.
Nel mezzo del regno di Adel, andando fra terra, comincia il regno di Adea, che è di Mori, e sono pacifici e suggetti al Prete Ianni: e questo regno arriva fino a Mogadasso, come nel capitolo CXIX ho detto, che vi andò in persona il Prete Ianni. E questo regno d'Adea confina col regno di Oyia, che è del Prete Ianni. E tutti questi regni sopradetti sono dalla parte verso il mar Rosso e verso levante.
Delle signorie di Ganze e Gamu, e del regno di Gorage.
Cap. CXXXII.
Nel mezo del regno di Adea, andando verso ponente, cominciano le signorie de' gentili, le quali non sono regni, e confinano a' capi de' regni e signorie del Prete: e la prima di queste signorie o capitanerie si chiama Granze, ed è mescolata di gentili e cristiani che abitano in diverse parti di quella. Subito dopo questa, si trova una gran signoria e quasi come un regno, e sono gentili, gli schiavi del qual paese sono poco apprezzati. Non hanno re, ma molti signori in diverse parti del paese: e questa signoria si chiama Gamu. E correndo piú verso ponente e verso mezogiorno, è il regno che si chiama Gorage, e come nel capitolo CXI ho detto. E con questo regno di Gorage e signoria di Gange e Gamu confinano i regni di Oyia e Xoa, che sono del Prete Ianni.
Del regno di Damute, e del molto oro che in quello si trova, e come da questo verso la parte di mezogiorno si trovano quelle donne dette Amazoni.
Cap. CXXXIII.
Camminando verso ponente, per le medesime teste dei regni del Prete, principalmente sopra il regno di Xoa, vi è una molto gran terra e regno che si chiama Damute, gli schiavi del qual regno son molto stimati fra' Mori, e per niun prezzo gli lasciano: e tutta l'Arabia, Persia ed Egitto sono piene di schiavi di questa terra, che si fanno buoni mori e gran guerrieri. Li popoli di questo regno sono gentili, ancora che tra loro siano molti cristiani: questo dico per aver veduti praticare nella corte del Prete molti preti, frati e monache, quali mi affermarono esservi molti monasteri e monache. E il titolo di questo re si chiama re de' gentili. E di questo regno è portata la maggior parte dell'oro che corre per la terra del Prete, perché lo sanno meglio cavare e meglio affinare, e si portano anche molti rinfrescamenti di molte cose. E quando noi facemmo la quaresima in Gorage, ne veniva portato di questa terra molto gengevo verde e fresco, e molte uve e pesche che ivi in detto tempo si trovavano mature, e dopo Pasqua molti grossi castroni e vacche molto grandi di corpo.
E mi fu detto e affermato che ne' capi di questi regni di Damute e Gorage, andando verso mezogiorno, è un regno governato da femine che si potriano chiamare Amazoni, secondo che fu contato ed è scritto nel libro dell'infante don Pietro di Portogallo. Ma queste femine, se è la verità, tutte tengono i mariti universalmente tutto l'anno seco, e vivono con loro; non hanno re, ma hanno una reina, la quale non ha marito certo, ma con ognuno fa copia di sé e fa figliuoli: e la prima figliuola succede nel regno. Dicono esser donne molto forti e gran guerriere, e combattono sopra alcune sorti d'animali velocissimi che somigliano vacche, e sono grand'arciere, e quando sono picciole fanno lor seccare la mammella sinistra, acciò non dia loro impedimento nel tirar delle saette. In questo regno raccolgono molto e infinito oro, il qual è portato poi nel regno di Damute, e indi in molte altre parti. Li mariti di queste donne non sono guerrieri, perché esse non vogliono che maneggino arme.
Nel regno di Damute s'afferma nascere un fiume grandissimo e contrario al Nilo, perché uno va a una parte e l'altro all'altra: il Nilo verso Egitto, quest'altro non si sa particularmente degli abitanti dove si finisca di correre, ma si presume che vada verso ponente, nel regno di Manicongo. In questo regno di Damute, come viene il tempo del verno, e che aspettano le pioggie e nembi con li tuoni, senza che vi sia necessità alcuna cavano e lavorano molto ben la terra, acciò che ella sia ben minuta, e che le acque che verranno possino ben lavarla, e che l'oro resti netto: e il piú delle volte lo vanno a trovare di notte al lume della luna, perché lo veggono rilucere. Io similmente nel luogo di Cassumo, ch'è nel regno di Tigrai, viddi molte volte cercar l'oro nel modo sopradetto, e mi fu detto che lo trovavano la maggior parte di notte.
Delle signorie dei Cafates, che furono di stirpe di Giudei, i quali sono gran guerrieri.
Cap. CXXXIV.
Andando piú verso ponente, e quasi in ponente a traverso di questo regno di Damute, sono alcune signorie di popoli detti Cafates, gente molto nera e grande di corpo: ed è fama che sieno stati di stirpe di Giudei, ma loro non hanno libri né sinagoga. Sono uomini molto sottili e di grand'ingegno, piú che alcuna altra gente che sia in questa terra; sono gentili e gran guerrieri, sempre fanno guerra col Prete. Confinano con parte di lor regni, cioè di Xoa e Goyame. Io non vi fui mai, ma questo che io dico lo udi' dire da nostri Portoghesi, che vi furno quando andò contra alli detti il gran betudete con esercito, e dipoi il Prete in persona: e mi dicevano che questi Cafati facevano loro grandi assalti, e principalmente di notte, che gli venivano ad ammazzare e rubare, e il giorno se ritiravano alle montagne e boschi, cioè che si ritiravano in alcune valli profondissime poste fra montagne.
Del regno di Goyame, il qual fu della reina Elena, ove sono di fonti del fiume Nilo, e del molto oro che in quella si trova.
Cap. CXXXV.
Or lasciando il mezogiorno e pigliando il ponente alquanto piú basso, è posto un altro regno che è del Prete, che si chiama Goyame, gran parte del quale fu della reina Elena sua madre. In questo regno veramente nasce il fiume del Nilo, che in questo paese chiamano Gion, e vien da dui laghi che sono cosí grandi che paiono mari, nelli quali è fama che si trovino uomini e femine marine: e alcuni me l'hanno affermato di veduta. Pietro di Coviglian mi disse essere stato in detto regno per ordine della reina Elena, a dar il modo come dovevano far un altare in una chiesa fatta far da lei in questo regno, dove ella fu sepelita, e che questo altare fu fatto di legno, lo impierono tutto d'oro massiccio, e la pietra dell'altare l'abuna Marco mi disse che egli aveva consacrata, ed era grande e di gran peso, cioè che era tutta di oro. Noi alcune volte siamo stati alli confini del detto regno, dove intendemmo che a quella chiesa erano poste gran guardie, per la quantità dell'oro che era in quella: e tutto l'oro di questo regno di Goyame è oro basso. Io non potei intendere con chi confina questo regno dalla altra parte; solamente udi' dire che erano diserti pieni di montagne, e che oltra quelle erano Giudei. Questo io non l'affermo, ma dico solamente quello che intesi dire universalmente da ciascuno.
Del regno di Bagamidri, il qual è molto grande, e come nelle sue montagne si trova l'argento.
Cap. CXXXVI.
Nel capo di questo regno di Goyame comincia un altro regno, il qual è il maggior che sia nelle terre del Prete Ianni, e si chiama Bagamidri. Questo va lungo 'l Nilo, e per questo è grande, perché comincia nel regno di Goyame e passa per il capo del regno di Amara, di Angote, di Tigrai e di Tigremahon e del regno del Barnagasso, e si distende piú di seicento miglia fra li regni di Angote e Tigrai; nel capo di quelli sono alcune signorie verso ponente, che è contra il Nilo, li popoli delle quali si chiamano Agaos, che sono mescolati tutti di gentili, e alcuni popoli cristiani. Costoro dall'altra parte non so con chi confinano, ma penso debbano confinare con questo regno di Bagamidri, nel qual regno mi fu confermato da molte persone che vi erano state esservi una montagna che aveva argento in grandissima quantità, lo qual non sapevano cavare se non in questo modo, che, dove vedevano alcuna grotta, la empievano di legne e vi mettevano il fuoco come in un forno di calcina, e questo fuoco faceva colare l'argento, che correva tutto in verghe, cosa quasi incredibile; nondimeno Pietro di Coviglian mi disse ch'io non dubitasse di questo, per esser verissimo. Io dico quello che ho udito e so: l'argento è in grandissima riputazione e desiderato da tutti.
Delle signorie delli popoli di Nubia, che altre volte furno cristiani, e del numero delle chiese che sono in quel paese.
Cap. CXXXVII.
Nel fine di questo regno di Bagamidri, verso Egitto, stanno alcuni Mori che si chiamano Belloos, e sono tributarii del Prete Ianni e pagano gran copia di cavalli. Dalla parte di tramontana confinano questi Belloos con popoli che si chiamano Nubii, li quali è fama che altre volte siano stati cristiani e suggetti alla chiesa romana. Io ho spesse volte udito dire da un Soriano nato in Tripoli di Soria, che si chiamava Giovanni, che praticò con noi tre anni in questo paese del Prete Ianni e poi ritornò con noi in Portogallo, che egli era stato in Nubia e v'aveva veduto 150 chiese, che ancora hanno tutte le imagini del crocifisso e di nostra Donna e altre imagini dipinte per li muri, e il tutto era vecchio e antico. Gli abitatori non sono cristiani né mori né giudei, ma vivono con desiderio d'essere cristiani. Tutte queste chiese erano poste in alcune fortezze vecchie e antiche che sono per lo paese, e quante fortezze si trovano, tante chiese vi sono dentro.
Ritrovandoci noi in questo paese del Prete Ianni, vennero di Nubia sei uomini come ambasciadori a chiedergli preti e frati che gli ammaestrassero, ed egli non gli volse mandare, dicendo loro che egli aveva mandato a pigliare il suo abuna, cioè il patriarca, nella terra di Alessandria, che è suggetta a' Mori, e per questo non gli pareva conveniente di dare preti e frati a loro, e avendoli avuti esso con tanta fatica per mezzo d'altri: e cosí se ne ritornarono indietro. Dicevano costoro che anticamente mandavano a pigliare il lor vescovo a Roma, il qual già molti anni essendo mancato, e per le guerre di macomettani non avendone lor potuto aver altro, erano restati senza preti e senza religiosi, e per questo la fede cristiana si era andata dimenticando. Questi Nubii confinano con l'Egitto, ed è posta questa terra all'incontro del Suachen, il qual è verso levante appresso del mar Rosso; e le signorie di questi Nubii sono di qua e di là dal Nilo, e quante sono le fortezze tanti sono li capitani. Questo Suachen è quello che è posto alli confini delle terre del Prete Ianni, e nel principio dell'Egitto e nelle fronti di queste signorie, avendo in mezzo li Belloi mori. Partendosi da questo Suachen e andando dietro la costa del mare verso l'isola di Mazua, dicono essere tutto il paese pieno di boschi, che non vi si può passare.
Questo è tutto quello che ho potuto intendere e sapere delli regni e signorie del Prete Ianni tutto all'intorno, e la maggior parte uditti dire da altri, e la minor parte veduti da me.
Degli officiali che Salamone ordinò che fussero dati a suo figliuolo quando lo mandò nel regno di Etiopia, e come ancora costoro si onorano di questi ufficii, e di che sorte sono i paggi che servono il Prete.
Cap. CXXXVIII.
Io promessi di sopra di dire ciò che io aveva udito degli officiali che Salamone fece dare per la corte di suo figliuolo, che si chiamava Meilech, quando lo mandò di Gierusalem in Etiopia alla reina Saba sua madre; e cosí è la verità, che oggidí vi sono questi medesimi officii nella stirpe di quelli che furno mandati allora, essendo successo da padri in figliuoli. Quali officiali gli dette delle XII tribú, cioè di ciascuna uno officio, come camerieri, portinari, riveditori, staffieri, trombette, guardie maggiori, cuochi e altri officiali necessarii a un re e signore nella casa sua: e questi sono molto onorati per esser gentiluomini e del popolo d'Israel, e ciascuno officio è in gran numero, perché i figliuoli dei camerieri e i lor descendenti tutti hanno nome di quell'officio, e cosí di tutti gli altri discendenti. E sono riputati per tali, salvo i paggi, che solevano essere figliuoli di gran gentiluomini e signori, e ora non sono, conciosiacosaché, come ho detto di sopra, quando il Prete manda a chiamare alcuno signor grande, non gli manda a dire la causa perché, e quando si serviva de' paggi figliuoli di gran signori, costoro scoprivano li suoi secreti: e per questo li levò dell'officio, e si serve per paggi di dentro di schiavi che siano figliuoli di re mori o vero di gentili, che son presi tutto 'l giorno dalle correrie che fanno le genti del Prete, e se ei vede che siano disposti li fa insegnare avanti ch'entrino dentro, e se riescono discreti e buoni gli tira dentro e si serve di loro per paggi. De' figliuoli veramente di gran signori se ne serve per paggi di fuori, come paggi di capestro, quando egli cavalca, e paggi di cucina, e non entrano dentro, secondo dicono: noi l'abbiamo veduto. Tutti anco li canonici, che gli chiamano debeteres, vengono dalla stirpe di quelli che vennero di Gierusalem col figliuolo di Salamone, e per questo sono piú onorati di tutti gli altri chierici.
Come Zagazabo, ambasciador del Prete, prese il possesso della signoria, e il Prete gli diede il possesso di tutta, e noi ci partimmo verso la parte del mar Rosso.
Cap. CXXXIX.
Il giorno che il Prete si partí dal regno di Adea, il frate suo ambasciadore e io ci partimmo alla volta di quella signoria che gli aveva data il Prete, la quale era verso 'l cammino ove le nostre genti erano restate; e vi fummo il giorno del carnevale, dove prendemmo il possesso di quella signoria che gli era stata data di nuovo, come di quella che gli era stata tolta per Abdenago. Una di queste signorie è di ottanta case con due chiese, ed era suggetta a un picciolo monastero che avanti detto frate aveva; la signoria che ora veramente gli era stata data, era arraz di cauas, cioè capitano d'uomini d'arme, nel paese di Abugana, e possono essere da 800 in su.
A mezza quaresima noi arrivammo dove la nostra gente era restata, e andavamo con gli occhi lunghi che a quella Pasqua dovessino venire i Portoghesi per noi; passata che fu Pasqua, che è il movimento del mare, e non vedendo alcuno, noi restammo molto tristi come avanti. Essendo già il mese di luglio, inteso che ebbe il Prete che i Portoghesi non erano venuti, ordinò al suo ambasciadore e a un signore d'Abugana che si chiama Abive arraz, che insieme con noi dovessero venire a queste signorie per fornirsi di vittovaglie, e perché già erano state fatte le ricolte, ordinò che ne fussero date 500 cariche di grano, cento vacche e cento castroni, e che Zagazabo suo ambasciadore ne desse il mele per far il vino. Noi stemmo in gran dubio se noi dovevamo andarvi o no, perché noi ci allontanavamo molto dal mare; nondimeno vi andammo e, ricevute le robbe, ce ne ritornammo a Barua a mezzo gennaio.
Come venne l'armata de' Portoghesi per noi, della quale era capitano don Ettore di Silviera.
Cap. CXL.
Stando noi nel luogo di Barua insieme con tutti i franchi sopra detti, e avendo mandati duo uomini verso il mare per portarne la nova della gionta dell'armata de' Portoghesi, il sabbato di Pasqua della Resurrezione, che fu il primo d'aprile 1526, ritornarono detti uomini tutti disperati e mezzi morti, dicendo come non vi era venuto armata alcuna de' Portoghesi, li quali erano stati rotti nell'India e sbarattati, e che le fortezze d'India erano perdute, e che questa nuova avevano saputa da alcuni Mori di tre navi arrivate all'isola di Mazua molto cariche di mercanzie, le quali con gran festa di suoni e d'artigliarie erano dismontate sopra la detta isola; e detti Mori affermavano questa cosa per causa d'una galea portoghese che era stata presa appresso al Diu, in un porto del re di Cambaia: udita che avemmo questa nova, restammo tutti morti di dolore. L'ambasciadore don Rodrigo voleva che io dicessi messa, e io di fastidio gli dissi che non era possibile, ma che dovessimo andare alla chiesa maggiore a udirla col Barnagasso, e cosí facemmo. Nell'apparire dell'aurora, che la messa loro della Resurrezione fu finita, avendone Barnagasso invitati a desinar con lui, noi ci scusammo, dicendo che ciascuno doveva andare a casa sua per la festa grande, e cosí stemmo tutti quelli giorni delle feste molto addolorati.
Il martedí di notte venendo il mercoledí, vennero lettere del signor don Ettore di Silviera, capitano maggiore nell'India, come egli era venuto per noi e si trovava in Mazua: le quali udite, pigliammo tanta allegrezza che maggior non si potria dire. Don Rodrico ambasciadore voleva che noi partissimo subito la mattina, e io non volsi, dicendo che non ci terrebbono per cristiani facendo questo, e che noi dovevamo aspettar l'ottava di Pasqua; e subito spedimmo un nostro Portoghese con un uomo del paese con nostre lettere al detto signor don Ettore, e un'altra lettera mandammo a Zagazabo ambasciadore del Prete, che era restato adietro, che dovesse venire piú presto che fusse possibile, camminando giorno e notte alla volta del mare al luogo d'Ercoco, perché ivi era giunta l'armata per menarci via.
Come il Barnagasso venne alla volta del mare a ritrovare il capitano.
Cap. CXLI.
Il lunedí dell'ottava di Pasqua noi ci partimmo da Barua, il Barnagasso e tutti noi Portoghesi, alla volta d'Ercoco: menava seco il detto, tra suoi e de' suoi gentiluomini, da mille cavalcature di mule e ben 600 uomini a piedi; e fummo ad alloggiare da sei miglia lontani da Barua, in un luogo detto Dinguil, in mezzo d'una gran campagna, nella quale ogni lunedí di notte si mettono insieme gran genti che vanno alla fiera d'Ercoco, e vanno come in carovana per paura degli Arabi, e anche d'animali selvatichi della terra. Qui si congionsero con noi ben duomilia persone che venivano alla detta fiera, e dicevano che erano poche, perché le altre non erano volute venire per paura di non trovare acqua da bevere; pur per la gente che era col Barnagasso e con noi andavamo provisti, e potevano esser dal luogo di Barua fin a Ercoco da XLV miglia: e consumammo tutta una settimana a far questo viaggio, e il sabbato mattina alloggiammo appresso il luogo d'Ercoco e non arrivammo alle nostre navi, perché il Barnagasso aveva ordine di presentarci egli e ancora le sue genti non erano messe tutte insieme, conciosiacosaché egli aspettava gente da Barua e capitani con gente del Suachen, ch'è verso la parte dell'Egitto, le quali arrivarono poi il lunedí seguente di notte, e nascosamente andavamo a veder li nostri e loro venivano a veder noi. E per li caldi, che erano grandi e insopportabili, il Barnagasso e li capitani si fecero fare stanze di legnami, e cosí ordinò che fussero fatte per noi, facendole coprire con tele per dormirvi sotto, tanto era il caldo grande, per essere appresso il mare con tanta moltitudine di gente e di tende e di padiglioni. Quelli dell'armata avevano fatto fare le lor stanze sopra l'isola, ove tirava sempre qualche poco di vento, e alcuni alloggiavano in case tutte terrazzate. Il martedí mattina il Barnagasso con tutti li suoi capitani e genti ci consegnò a don Ettore di Silviera, con grandissimo piacere e allegrezza, e mandò a donargli cinquanta vacche, molti castroni, galline, capponi e pesce, che egli aveva fatto pigliare per dividere fra tutte le nostre navi. Il mercoredí mattina giunse poi Zagazabo, ambasciadore del Prete Ianni, il quale noi andammo ad incontrare in Ercoco per venir con lui, e cosí il Barnagasso venne a consegnarlo al capitano dell'armata, stando noi ad aspettare il movimento del mare, cioè il tempo per partire, il qual viene sempre dalli XXVI o XXVII di aprile fino alli III o IIII di maggio: e non partendoci in questo movimento e con questo tempo, non vien altro se non al fine di agosto.
Alli XXI veramente d'aprile, arrivarono a noi quattro calancenes, cioè quattro messi del Prete Ianni, dicendoci che per la via di Zeila egli aveva avuto nuova come era entrata l'armata de' Portoghesi nel mar Rosso, la quale sapeva che veniva per levarne, e perché era gran tempo che eravamo partiti dalla corte, e poteva essere che fussimo di mala voglia, che subito dovessimo tornar da lui, perché egli ne daria molto oro e vestimenti, e ne mandaria allegri e contenti al re di Portogallo suo fratello. E dicevano questi calacenes che, per la pressa grande che era stata data loro, avevano pigliato in ogni luogo uomini e mule fresche, e camminato giorno e notte, richiedendone molto strettamente che noi non restassimo per conto alcuno di non tornarvi, e il simile comandamento fecero all'ambasciadore del Prete, che tornasse con noi; pregavano anco don Ettore che ne dovesse mandare, perché il Prete averia estremo dispiacere che noi ci partissimo cosí discontenti. Rispose don Ettore, e noi insieme con lui, alli detti calacenes che per niun modo potevamo tornare, né egli aspettarci, perché il movimento non ne dava luogo né commodità, e che, se passato questo tempo noi non ci partissimo, mai piú nave verria per noi, e che il suo ambasciadore poteva ritornare se gli piaceva: il qual rispose che per niun modo tornaria senza noi, perché lo faria gittare ai lioni. E cosí restammo con grande allegrezza, e li calacenes discontenti per esser venuti indarno.
Come noi ci partimmo dal porto e isola di Mazua, e arrivammo all'isola d'Ormuz.
Cap. CXLII.
Alli XXVIII del mese d'aprile 1526 si partí tutta l'armata, che era di cinque vele, cioè tre galeoni grandi e due caravelle, e arrivammo all'isola di Cameran il primo giorno di maggio. Quivi cessò il vento, ed essendo stati tre giorni aspettandolo, mi venne a memoria come in questo luogo avevamo sepolto Odoardo Galvan, che veniva ambasciadore al Prete Ianni di ordine del re nostro signore, e io fui alle sue esequie con il licenziato Pietro Gomes Tessera auditore, e lo ponemmo in una grotta con openione, se in alcun tempo venissero suoi parenti o amici, che potessero portare le sue ossa in terre de cristiani: e per questo me ne andai con un mio schiavo solo e lo feci cavar fuori, e non gli mancava altro che tre denti, e postolo in una picciola cassa, lo caricammo sopra il galeone San Lione, sopra il quale io stava, né persona alcuna sapeva ciò che vi fusse dentro, salvo un Gasparo di Saa, fattore dell'armata, che era del suo parentado. Subito che le ossa furno nel galeone, venne un buon vento a poppa, e in quella ora facemmo vela, e ci serví fino alli X di maggio, che eravamo per mezzo alla città di Adem; e cominciando noi a ingolfarci nel mare, di donde ne veniva all'incontro e in faccia il verno dell'India, e noi contra di quello andavamo, cominciò una sí gran fortuna che la seconda notte che in quello entrammo, con una estrema oscurità e travaglio, ci perdemmo senza piú sapere che cammino né l'uno né l'altro si pigliasse. Menavasi dietro questo nostro galeone di San Lione un battello per poppe legato con tre capi, e dove era un grumete di nazion francese che lo governava; e la notte di questo verno il mare venne cosí bravo e alto che tutti tenevamo per certo di perderci, e a mezanotte si ruppero tutti tre i capi del battello, e il galeone fece cosí gran balanci che noi pensavamo di essere tutti nel fondo del mare. Il padron del galione sonò segno a tutti, e fece dire un paternostro per l'anima del grumete che era nel battello, e nel giorno seguente fece l'incanto delle sue robe e d'uno schiavo, e ne fu trovato cento e venti ducati.
Camminammo con questa fortuna in fino allo stretto di Ormuz, e alli XXVIII di maggio arrivammo al porto di Mazcare, che è del regno d'Ormuz e paga tributo al re di Portogallo nostro signore, dove trovammo una delle caravelle conserve, e di lí a tre giorni arrivò l'altra, e similmente un galeone de' nostri, e ciascuno raccontava le sue fortune. Dopo dieci giorni del nostro arrivare in questo porto, vedemmo andare in volta il galeone San Dionisio, che era capitano della nostra armata, e non poteva pigliare il porto. Lo furno a soccorrere due caravelle portoghese che guardano lo stretto, e arrivate a quello, con gran fretta ritornarono adietro a pigliar vettovaglie e acqua, perché erano morti di fame e di sete, ma piú di sete. Giunti con detto galeone nel porto, contarono la gran fortuna che avevano avuta, e pericolo di morir di sete.
Partiti da questo porto, noi ce n'andammo alla città d'Ormuz, dove è la fortezza del re nostro signore. Quivi ne venne incontro Lopo Vaz di San Paio, capitan maggiore e governatore delle Indie, a riceverne alla spiaggia, e ci abbracciò tutti; e il giorno seguente, udita la messa, andammo a parlare al capitan maggiore, e gli appresentammo la lettera del Prete Ianni che portavamo per Diego Lopes di Secchiera, che ne condusse al paese del Prete Ianni: la qual lettera lesse detto Lopo Vaz, essendo successo nel luogo di Diego Lopes di Secchiera. Di piú gli presentammo una veste di seta, con cinque lame d'oro davanti e cinque altre di dietro e una per spalla, che fanno XII, e ciascuna di grandezza della palma della mano, che il Prete mandava a Diego Lopes; e il detto Lopo donò a don Rodrigo de Lima ambasciadore ducento pardai, cioè ducento ducati, e all'ambasciadore del Prete altri ducento e a me cento. Don Ettore di Silviera stette poco tempo in Ormuz, e subito se ne volse tornar con l'armata ad aspettar le navi che partono dal Zidem per venire al Diu, ed escono nel tempo del movimento del mare, nel quale noi uscimmo, ma s'invernano in Adem e col primo tempo fanno poi il viaggio; e noi restammo quivi in Ormuz, fin che fummo certi che il verno fosse passato.
Copia della lettera che scriveva il Prete Ianni a don Diego Lopes di Secchiera, e fu data a Lopo Vaz di San Paio, suo successore nel governo delle Indie.
In nome di Dio Padre, come fu sempre, il qual non ha principio. In nome di Dio Figliuolo suo unico, che è simile a lui avanti che fusse veduto il lume delle stelle e avanti che ponesse li fondamenti del mare Oceano, e in altro tempo fu concetto nel ventre della Vergine senza seme umano e senza nozze, perché in questo modo era la scienza dell'ufficio suo. In nome dello Spirito Santo consolatore, il quale sa tutti li secreti, quali si siano, cioè di tutte le altezze del cielo, il quale si sostiene senza colonne e senza alcuni puntelli, e ha ampliata la terra, la qual per avanti non era creata né cognita, da levante a ponente e da tramontana a mezogiorno: né questo è primo né secondo, ma è trinità congiunta in uno eterno creatore di tutte le cose, per un solo consiglio e per una sola parola eternalmente. Amen.
Queste lettere e ambasciata manda Atani Tingil, cioè incenso della Vergine, cosí detto nel sacro fonte del battesimo, e ora son chiamato David, capo delli miei regni dell'alta e ampla Etiopia, diletto da Dio, colonna della fede, disceso della stirpe di Giuda, figliuolo di David, figliuolo di Salamone, figliuolo della colonna di Sion, figliuolo del seme di Iacob, figliuolo della mano di Maria, figliuolo di Nahu per carne, a Diego Lopez di Secchiera, capitano maggior nell'Indie. Io ho inteso che, ancora che voi siate sotto il re, nondimeno sete vincitore in tutte le imprese che vi sono commesse, né temete la forza degli innumerabili Mori, avendo soggiogata la fortuna con le armi della santa fede, né potete esser vinto dalle cose occulte, andando armato con la verità dell'Evangelio e appoggiandovi sopra l'asta che porta la bandiera della croce, per il che sia ringraziato Dio per sempre, che ne ha adempito la nostra allegrezza per amor del nostro signor Giesú Cristo. Nella venuta vostra che facesti in queste parti, ne faceste intendere dell'ambasciata del re vostro signor don Emanuel, e delli presenti che voi avevate conservati con tanta fatica nelle navi, intervenendo li gran venti e fortune, sí di mare come di terra, nelle quali venivate da cosí lontani paesi a soggiogar li Mori e pagani, conducendo le dette navi vostre, le quali governate e fate andare dove vi piace e pare, che è cosa miracolosa a pensarvi; e sopra tutto che duo anni continui voi siate stati sopra il mare in guerra con tanto travaglio, senza riposo alcuno né di giorno né di notte, conciosiacosaché le azioni dell'uomo, secondo che è la usanza, si fanno di giorno, come è comprare, vendere, andare per viaggio, e la notte è fatta per dormire e riposarsi, come dice la Scrittura: il giorno è ordinato per gli uomini per far li lor offizii dalla mattina fino alla sera, e il leon picciolo non fa altro che raspar la terra e pregar Dio che trovi da mangiare, e quando leva il sole se ne ritorna alla sua grotta, e cosí li costumi degli uomini come degli animali; nondimeno il sonno non vi ha mai vinto, né la notte né il giorno quando è il sole, per amor della santa fede, come dice san Paulo: "Chi sarà quello che ne contradica questa parola, né malattia, né passione, né fame, né povertà, né coltello, né spada, né fatica, né altra cosa che ne possa separar dalla fede di messer Giesú Cristo, nel quale veramente credemo, e nella vita e nella morte sua". E similmente dice l'Apostolo: "Ben aventurato è l'uomo che è umile e sopporta il bene e il male, e al fine per questo è degno di pigliar la corona della vita, che Iddio ha promesso a quelli che hanno buona volontà". Iddio adimpisca li vostri desiderii e vi doni prosperità, e vi conduca sani e salvi al re don Emanuel vostro signore, e vi levi dagli occhi li Mori, i quali avete vinti, perché non credono nella fede di messer Giesú Cristo, e le vostre genti di guerra siano benedette con voi insieme, perché veramente sono martiri per l'amor di messer Giesú Cristo, perché muoiono di freddo, di fame, di caldo per il suo santo nome.
Come intesi, signore, che voi eravate giunto nelli nostri paesi, ne ebbi grande allegrezza, e poscia, intendendo che per fretta ritornavi indrieto, ne ebbi gran dispiacere. Mi rallegrai anco intendendo che mi mandavate un vostro ambasciadore, e laudai il nome di Dio Padre e del suo Figliuolo messer Giesú Cristo, massimamente per la vostra bona fama, che da ogni canto risuona, e come volentieri avete voluto far amicizia con noi. E per tanto, secondo che intendo che è la vostra buona volontà, cosí sarete contento di adempirla, mandandone maestri che sappino lavorare oro e argento, e che sappino fare spade e arme di ferro e celate, e appresso maestri muratori da far case, e uomini che sappino allevare e piantare vigne al vostro modo e coltivar orti, e tutti quelli altri esercizii che siano migliori e piú necessarii al vivere, e similmente maestri di far lame di piombo per coprir chiese e tegole di terra per le nostre case, perché noi le coprimo con erbe, e di questi abbiamo grandissimo bisogno, e per non averli siamo sempre con dispiacere. Io ho fatto una chiesa grande che si chiama la Trinità, dove è sepolto il corpo di mio padre, perché l'anima è in man di Dio, e li suoi muri, come vi diranno li vostri ambasciadori, sono boni, e vorria coprirla piú presto che si potesse e levarle l'erba che ella ha sopra al presente: per l'amor di Dio, mandatemi di questi tali maestri, almeno dodici di ciascuna arte. Né per questo vi potranno mai mancare maestri, e se vorranno stare qui con noi staranno, e se vorranno partirsi si partiranno, e io li pagarò molto bene di tutte le lor fatiche, lasciandoli andar alla buon'ora.
Ora udite un'altra parola: io vi mando quegli uomini franchi ch'erano nella mia corte, li quali io feci liberare dalle mane de' Mori del paese del Cairo. Questi vi mostreranno il viaggio di andar a Zeila e in Adem e alla Mecca e dell'isola di Mazua, il qual essi molto ben sanno; e per amor di questo si rallegri il vostro cuore, perché ancora io mi rallegro, intendendo la vostra bona volontà, e vi scrivo per causa dell'ambasciata che mi avete mandata a fare, dicendo che desiderate di fare una chiesa e un castello in Mazua, e volete da me licenzia: e io con tutto il cuore ve la do, e non solamente vorrei che facesti chiese e castello in Mazua, ma anche in Delaqua, mettendovi preti nelle chiese e uomini valenti per guardar li castelli da' Mori, figliuoli del maladetto Macometto. E questo vi prego che faciate piú presto che sia possibile, e avanti che vi partiate per India; e non vi mettete a navigare per luogo alcuno se non mettete assecuzione il fare di questa chiesa e castello, e vi prometto che meriterete d'esser laudati da me e dal re Emanuel vostro signore, col quale ha voluto Dio che io sia congiunto con amore. E ordinarete che vi si faccia un mercato, dove si vendino e comprino le mercanzie che vi saranno portate, non lasciando che Mori vi vengano a vendere, ma solamente li cristiani: e pur, quando vi piaccia che ancora essi vendano e comprino, sia fatto il vostro volere, ma con nostra licenza. E fatto questo in Mazua, verrete a Zeila, dove farete similmente una chiesa e un castello, secondo che ho detto di quello di sopra, perché questo luogo di Zeila è il porto dove capitano tutte le vettovaglie che son portate in Adem, e per tutta l'Arabia e altri regni e terre, li quali non si possono fornire se non di quelle che vengono di Zeila e di Mazua, condotte ivi dalli nostri regni e da' regni di Mori: e facendo questo che io vi dico, voi arete nelle vostre mani tutto il regno di Adem e tutta l'Arabia e altri regni confini, senza guerra e senza morte d'alcuno de' vostri, perché, levando loro le vettovaglie, restaranno assediati e affamati. E quando vorrete far guerra a' Mori, fatemi intendere tutto quello di che avete bisogno, perché io vi mandarò gente infinita a cavallo e arcieri, vettovaglie e oro, e verrò in persona, e disfaremo i Mori e pagani per la santa fede cristiana, io e voi. E volendo ritornare in India, lasciarete don Rodrigo di Lima ambasciadore per capitano di Mazua, il quale, quando arà qualche sospetto o tema di esser assaltato, non lasci di mandar suoi ambasciadori a farmelo intendere, per potergli provedere e aiutare. E questi che ora son venuti sono li primi che siano stati qui a me, mandatimi da voi, e sono buoni e savii e si amano, ancora che sia stata fra loro qualche parola: rimunerategli, perché meritano per la lor sufficienza, e massime don Rodrigo di Lima, che è uomo singolare, ed è vostro gran servidore, e merita la vostra grazia e benedizione. Il padre don Francesco merita di esser rimunerato il doppio, per esser uomo santo e di buona conscienza, e tutto onesto per l'amor di Dio. Io, avendo conosciuto la sua buona condizione, gli ho dato signoria, croce e il bastone in mano, che è segno di auttorità, e l'abbiamo fatto abbate nelle nostre terre; e voi accrescetelo di onore, facendolo vescovo di Mazua e di Zeila e di tutte le isole del mar Rosso, e capo delle nostre terre, per esser sufficiente e meritare un simile e maggior officio. Similmente a Giovanni Scolaro scrivano fategli delle grazie e benefizii, per essere stato molto affezionato alli servizii vostri e del re: ed è uomo di buona condizione, e s'è affaticato molto in questa vostra ambasciaria; fate anche del bene e rimunerate tutti gli altri, dal picciolo fino al grande.
Il nostro Signor Iddio vi dia la sua pace e vi faccia del bene, e a tutti quelli che sono con voi, e vi illumini e dia la sua grazia, e vi guardi da' mali occhi, e guardi le vostre navi dalle fortune del mare e vi prolunghi la vita, e in tutto il tempo di quella non sia malattia alcuna, e il Signor messer Giesú Cristo vi abbia nella sua protezione di continuo, e di giorno e di notte, e di verno e di state, in secula seculorum. Vi dico ancora questa parola, che quando vederete tempo atto per disfar li Mori e pagani che non credono nella fede di messer Giesú Cristo, fate che io l'intenda, perché vi manderò aiuto per far la guerra, e infinita gente e vettovaglia e oro, non solamente in Mazua, ma a Zeila e nel regno di Adel e in tutte le terre d'infedeli, e rovineremo li figliuoli dell'abominevole e sozzo Macometto, e con l'aiuto di messer Giesú Cristo e della sua santissima madre Maria Vergine gli levaremo dalla faccia della terra, andando voi per mare e noi per terra, uniti d'amore e di consiglio e col favor della santissima Trinità.
Come partimmo da Ormuz e ce ne andammo nella India, nella città di Cochin.
Cap. CXLIII.
Noi ci partimmo d'Ormuz sopra l'armata di Lopo Vaz di San Paio capitano maggior, conciosiacosaché don Ettore di Silviera era già partito verso il mar Rosso, per riscontrar le navi della Mecca che erano svernate nella città di Aden, sí come di sopra è detto. E uscendo dallo stretto d'Ormuz, ritrovammo che la furia del verno d'India era già passata e si poteva navigar senza fortuna, e ce n'andammo a una fortezza del re nostro signore nella terra di Caul, terra molto dilettevole e abondante di grani che vengono di Cambaia, e di buoi, castroni, galline e pesce infinito, e di molti frutti delle Indie, e di erbe di orti fatti per li nostri Portoghesi. Non passarono molti giorni che ritornò don Ettore di Silviera, e menò seco tre navi prese della Mecca, con gran ricchezze d'oro, perché ancora non avevano comprate mercanzie, venendole a pigliare nella India: e tutti li Mori ch'erano giovani e valenti, che furno presi, gli misero nelle galee del re nostro signor per prezzo di X ducati l'uno, che è il prezzo suo ordinario che gli è dato; gli altri ch'erano vecchi e inabili, furno venduti per X ducati similmente.
Di quivi partendo, arrivammo alla città di Goa alli XXV di novembre, al vespro di santa Catarina, il qual giorno essendo stata presa questa città di Mori e gentili, però fecero una solenne processione, con tutti i modi che si suol fare in Portogallo il giorno del Corpo di Cristo. Quivi l'ambasciadore del Prete Ianni e certi frati abissini che con lui venivano, ne dissero che ora erano chiari e conoscevano che eravamo cristiani, avendo veduta fare da noi una cosí solenne processione. Non stemmo in questa città piú di tre giorni, nella quale lasciò l'ambasciadore del Prete Ianni quattro schiavi, cioè dua che imparassero a dipingere e dua a sonar di trombetta: e il capitan maggiore ordinò che gli fusse dato da vivere e fatto insegnare.
Partiti di quivi ce n'andammo a Cananor, dove stemmo sei giorni; dipoi ce n'andammo a Cochin, dove trovammo Antonio Galvan, figliuolo di Odoardo Galvan ambasciadore, le ossa del quale portavo meco, tolte di Cameran: al qual dissi il tutto, che ne ebbe grandissimo piacere, e volse venire a levarle alla nave con tutti preti e frati della città e con infinite cere, e fu portato al monastero di Santo Antonio. E perché li marinari non vogliono portar corpi morti nelle navi, però il detto Antonio fece far una fossa dietro all'altar grande e fece vista di metter la cassa in quella: nondimeno la fece portar nella sua nave, della quale egli era capitano. Il tempo che noi stemmo quivi in Cochin si consumò tutto in caricar tre navi di pepe, garofoli, e bisognava andar da Cananor a Cochin, che è il viaggio di novanta miglia, a pigliar il gengevo e vettovaglie di biscotti, pesce insalato e vino di palma e polvere, e cosí si ritrovarono tutte tre le navi nella fortezza di Cananor, nell'entrare del mese di gennaio.
Del cammino che noi facemmo da Cananor in Lisbona, e di quello che ci accadde per cammino.
Cap. CXLIIII.
Della prima nave che arrivò in Cananor, di quelle che avevano caricato in Cochin, ne era capitan Tristan Vaz di Vega, e sopra quella vi andava don Rodrigo di Lima e Zagazabo ambasciador del Prete: e fu la prima che caricasse di gengevo, biscotto e pesce, e si partí alli quattro di gennaio 1527 per Portogallo. La nave di Antonio Galvan, nella quale io andava per amicizia, si partí alli XVIII, e la terza si partí alli XXIX. E ce n'andammo per lo mar grande, e non ci vedemmo l'una e l'altra se non alli duo del mese di aprile, che un giovene che dormiva nella gabbia disse che egli vedeva una nave per poppe e un'altra per prora: e cosí ci aspettammo l'uno e l'altro, e fu grandissima allegrezza tra le genti di tutte tre le navi, e andammo di conserva fina sopra l'isola di Santa Elena, che fu il giorno di Pasqua di Resurrezione, alli XXI d'aprile. E volendo andar a far acqua sopra la detta isola, la notte si levò un temporale di terra che ci fece trascorrere avanti, e avevamo grandissima necessità di acqua, né potevamo cuocere cosa alcuna: ma il Signor Iddio ci soccorse, che fece piovere tre giorni e tre notti con gran tuoni, ed empiemmo da XXX botti di acqua, e per la mia parte ne ebbi tre, e ce ne venimmo al nostro cammino.
Ed essendo appresso all'isola Terziera degli Azorri, vedemmo una nave e avemmo gran paura, credendo che ella fusse francese, la quale pendeva molto dall'isola verso il mare: e noi ci ritiravamo quanto piú potevamo verso terra. E avendo veduta dalla nostra gabbia una barca detta almadia, nella quale ne pareva che gli uomini fussero come perduti, noi subito cavammo fuori della nostra nave la barca, e mandammo a vedere ciò che fusse nella detta almadia: nella quale trovorno nove persone, cioè cinque bianchi e quattro schiavi, i quali erano come morti, che non si potevano né movere né parlare. Condotti alla nave, gli facemmo spogliare e mettere in letto e far lor fuoco e asciugarli: alcuni parlarono di lí a tre ore, altri il giorno seguente. Costoro, ritornati in sé, dissero che erano delle navi della nostra conserva, che venivano d'India, e che erano stati mandati con quella almadia a comprar galline ad un'isola, e che avevano perse le navi, e che erano andati vagando per lo mare molti giorni, morti di fame e di sete, e che, se al presente non fussero stati trovati, erano del tutto morti. Arrivati che fummo all'isola Terziera, giunsero le altre due navi, e tutti insieme facemmo grand'allegrezza, dove stemmo XVIII giorni. Di quivi mandammo nuova della nostra venuta al re nostro signore, e partiti per Portogallo, volse il nostro Signor messer Giesú Cristo darne cosí buon vento che alli XXV di luglio, che fu il giorno di san Iacomo, entrammo nella sbarra di Lisbona, dove ne venne incontro una caravella del re, a farne intendere che noi non dovessimo dismontare in Lisbona, per essere impedita da peste: e un commesso del re ci menò a Santo Arem.
Del cammino che facemmo da Lisbona verso Coimbra, e come stemmo in Zarnache.
Cap. CXLV.
Essendo sorti nel fiume di Lisbona, per mezzo i palazzi del re nostro signore, subito ne vennero barche alla banda a pigliare le nostre robe, e le portarono in Santo Arem, dove ci riposammo da sei giorni, comprando mule e vestimenti al modo di Portogallo. Ci partimmo poi un giorno da questo luogo col maggior caldo che mai abbia sentito nel paese del Prete Ianni, né anche nelle Indie, e perché eravamo alloggiati in diverse parti, camminavamo divisi l'uno dall'altro, cioè il commesso del re e io andavamo insieme da una banda, l'ambasciadore del Prete Ianni e lo scrivano e i suoi servitori e li frati da un'altra, e don Rodrigo di Lima da per sé con li suoi servitori e schiavi, e con tre peotti delle navi che prese Ettor di Silviera, mandati da lui a donare al re nostro signore: e gli aveva fatti vestire tutti dal capo alli piedi. L'ambasciador del Prete Ianni si ridusse nella villa di Azinaga, mezzo morto di caldo, con tutta la compagnia. Il comesso del re mi condusse al ponte d'Amonda, dove io pensai certo che fusse il mio fine per l'estremo caldo, e se io non fussi stato soccorso con acqua fredda, immediate era spacciato. Stando in questo, arrivò don Rodrigo correndo a cavallo e gridando: "Aiuto, aiuto, per l'amor di Dio, che li Mori pilotti del re e li miei schiavi sono morti di caldo". Subito quattro mulattieri corsero con quattro animali e li condussero, delli quali uno morí immediate e l'altro di quivi a due giorni: e cosí passammo una gran fortuna di caldo, e sopra la morte di questi due Mori s'ebbe qualche sospetto di peste, ma il commesso del re ne fece ampio testimonio della verità, cioè che dal caldo grande erano morti, conciosiacosaché, ancor che venissero da paesi caldi, nondimeno non erano usi di andar vestiti e calzati, ma solamente con un panno dalla cintola in giú, e ora in un estremo caldo che era stato, aggiuntovi li vestimenti, s'erano affogati. E veramente, in tutto il tempo che io sono stato nell'Indie e nell'Etiopia, non provai mai il maggiore, e mi fu affermato come in quel giorno il medesimo intravenne a molti, che morirono di caldo. Il dí seguente cavalcammo di notte e fummo a Zarnache, dove trovammo ordine dalla maestà del re che dovessimo riposar ivi fino ch'ella ne mandasse a chiamare.
Come partirono da Zarnache alla città di Coimbra, e dell'incontro che lor fu fatto,
e delle carezze che gli fece il re.
Cap. CXLVI.
Ed essendo già XXX giorni che stavamo in Zarnache, con tutte le commodità possibili, venne Diego Lopez di Secchiera, proveditore sopra le cose di mare, che fu quello che ne condusse con l'armata al paese del Prete, per levarne alla volta della città di Coimbra, dove si trovava la maiestà del re: e cosí dopo desinar ci partimmo con buone cavalcature. E giunti ad un luogo detto Dontanol, che è tre miglia dalla città, trovammo infinita gente della corte e del paese che c'era venuta incontro; poi al luogo di San Martino tutte le strade erano piene di vescovi, di preti, di conti e signori della corte; ed entrammo nella terra per la ruga della Figuera vecchia, e dipoi venimmo fino alla chiesa catedrale, dove è il palazzo di sua Maestà. Qui venne il marchese di Villa Reale, e pigliò per mano l'ambasciador del Prete Ianni e lo condusse a baciar le mani di sua Altezza e della reina, nostri signori, e del signor cardinale e infanti: e cosí facemmo ancor noi. Dipoi sua Maestà dimandò all'ambasciador come stava il Prete Ianni suo signore, la reina e i figliuoli, il qual gli rispose che stavan bene, desideroso d'intendere buone nuove di sua Altezza, della reina e delli signori suoi fratelli. Replicò sua Maestà che per questa visitazione e ambasciaria sentiva una estrema allegrezza e piacere, conciosiacosaché sperava che si facesse qualche gran servizio al Signor Giesú Cristo e a loro medesimi, che son già come fratelli di amore e di benevolenza. Poi entrò a dimandargli come egli s'era trovato in mare nelle sue navi, e se egli era stato accommodato e provisto di ciò che gli faceva bisogno; rispose l'ambasciador che la benedizione di sua Altezza era cosí grande, che quelli che da lei erano abbracciati si trovavano nella grazia di Dio. Dipoi ritornammo al nostro alloggiamento, che ne avevano dato nel monastero di San Domenico.
Passati duo giorni, vennero molti vescovi, il decano della cappella e molti cappellani, a levar di casa l'ambasciador del Prete Ianni e tutti noi altri che con lui eravamo, e andammo al palazzo del re, dove detto ambasciadore presentò a sua Altezza una corona fatta d'oro e d'argento, cioè in quattro pezzi, quadra, e ognuno era alto duo palmi, molto ricca, la quale il Prete Ianni mandava, e due lettere fatte in dua quaderni di carta pergamena, ed erano scritte ciascuna in tre lingue, cioè abissina, arabica e portoghese, ed erano poste in duo sacchetti di broccato d'oro, cioè una dirizzata al re don Emanuel e l'altra a sua Maestà. E subito l'ambasciadore del Prete Ianni disse: "Il re David mio signore mandava questa corona e queste lettere al re vostro padre, che sia in gloria, e gli mandava a dire che da figliuolo a padre mai era data corona, ma ben dal padre soleva venire al figliuolo; e che per il segno di questa corona esso re David era cognosciuto, amato, temuto e ubidito in tutti i suoi regni e signorie: ed essendo egli figliuolo, mandava al re suo padre detta corona, acciò che fosse certo che tutti li suoi regni, signorie e genti stavano preparate di far tutto quello che sua Altezza comandasse.
Dipoi avendo inteso del mancar di questa vita del re don Emanuel, aveva detto: "La corona e lettere che io mandava al re don Emanuel mio padre, vadino al re don Giovanni mio fratello, con altre lettere che io gli scriverò'". E cosí detto ambasciador presentava detta corona e lettere, porgendole in mano al re, il qual le dette ad Antonio Carniero suo secretario, dimostrando col viso e gesti di averla avuta molto grata e accetta. Fornito questo, il detto ambasciadore e io appresentammo duo sacchetti di broccato con due lettere e una piccola croce di oro, che il Prete Ianni mandava alla santità del pontefice, le qual cose voleva che per me Francesco Alvarez gli fussero presentate. Sua Maestà, presa la croce, la baciò e poi la dette ad Antonio Carniero insieme con le lettere, e disse che ringraziava la maestà di Dio perché aveva guidato nel cammino desiderato le cose principiate per il re suo signore e padre, e che egli daria loro il compimento debito, con onore e la gloria del nostro Signor messer Giesú Cristo. E cosí ne ritornammo al nostro alloggiamento, e sua Maestà dette carico ad un Francesco Piriz di proveder di tutte le cose necessarie al detto ambasciador del Prete, e per la sua stanza gli fece dar argenti e tappezzarie, e due crociati d'oro il giorno per il suo vivere, e ch'un Francesco di Lemos, cavalliero della sua guardia che sapeva la lingua araba, fosse di continuo con lui, accioché non mancasse cosa alcuna.
Qui erano scritte le lettere dirizzate al re don Emanuel, e poi quella al re don Giovanni, le quali saranno scritte nella parte seguente, dove detto don Francesco Alvarez dette obbedienza in Bologna alla santità di papa Clemente.
Di alcune dimande che furon fatte a don Francesco Alvarez per lo archiepiscopo di Braga,
e delle risposte che gli fece.
Cap. CLIX [numero errato anche nell'originale]
Stando noi nella corte nella città di Coimbra, non si tardò molto che 'l re nostro signor si partí al cammino di Almerin, ove alcune fiate io ricordai a sua Altezza che mi mandasse a Roma, a finir l'ambasciata impostami dal Prete Ianni: la qual mi rispose che se ne ricordava, ma che per causa delle guerre di Francia il cammino non era sicuro. Dipoi un'altra fiata, trovandosi sua Maestà in Lisbona, e la supplicai che, mandando il signor Bras Neto ambasciadore, io andassi con esso; mi rispose che il detto signor Bras andava all'imperadore e non a Roma, e che io andaria in compagnia di don Martino, che presto lo voleva spedire. In questo mezzo, essendo nell'anno 1529 vacato un bon beneficio nell'archiepiscopato di Braga, sua Maestà me ne fece grazia, e mi ordinò che io andassi a presentarmi al signor archiepiscopo don Diego di Sausa, acciò che me lo confermasse: e la qual cosa avendo fatta, sua signoria mi dimandò di assai cose del paese del Prete Ianni, le quali volse che fossero scritte. E ancor che nel libro sopra detto in molti luoghi di quelle in gran parte ne sia fatta memoria, pur non si restarà di notarle ancora qui di sotto.
Il Prete Ianni non ha luogo determinato dove di continuo egli stia, ma va sempre vagando ora ad una parte ora all'altra, e sempre in tende armate alla campagna, delle quali fra buone e triste nel suo campo possono essere da 5 o seimila, e fra genti a cavallo e mule da 50 e piú mila.
Il costume universale del Prete Ianni, come di ciascuna altra persona, è di non passar mai stando a cavallo avanti ad alcuna chiesa, tanta riverenza lor portano, ma avanti che arrivino dismontati e menati li cavalli a mano oltra, ritornano a cavalcare.
Quando cammina il Prete Ianni con tutta la gente, l'altare e la pietra sagrata sopra qual si dice la messa è portata da preti in su le spalle, perché elle son poste sopra un letto di legno piccolo: e li preti son sempre otto, cioè quattro per muta a portarla, e avanti vi va un chierico con un turribolo e una campanella sonando, e ciascuno si allarga dal cammino, e quelli che sono a cavallo smontano e fanno lor riverenza.
In tutto questo paese non è luogo che passi da 1600 fuochi, e di questi vi sono pochi, né vi è luogo murato né castello; le ville sono senza numero, con infinita moltitudine di genti. Le loro abitazioni sono fatte in forma ritonda, tutto a terreno, e coperte di terrazzi o veramente d'una loro paglia, che dura la vita d'un uomo, con le corti d'intorno. Non vi sono ponti di pietra sopra i fiumi, ma di legno. Dormono communemente sopra cuoi di bue, o vero in letti fatti di corde de' medesimi cuoi. Non hanno niuna forma o maniera di tavole da mangiare, ma mangiano sopra alcuni piattelli piani di legno di una gran larghezza, senza tovaglia né mantile. Hanno alcuni piatti grandi, come bacini, di terra negra, lustri come ambro nero, e vasi come coppe per bever acqua e vino, della medesima terra. Molti mangiano la carne cruda, altri l'arrostiscono sopra le bracie o ver legni accesi, e anche vi son paesi che hanno tanta carestia di legne, che l'arrostono sopra il letame di bue acceso.
Le loro armi sono azagaie, spade poche, camicie di maglia poche, e quelle anche lunghe e strette: e li nostri che le hanno vedute dicono che son fatte di triste maglie. Hanno molti archi e freccie, ma non hanno penne come le nostre; celate e mezze teste molto poche, e queste anco dipoi che hanno cominciato ad aver commerzio con Portoghesi; vi sono molte targhe, e quelle fortissime. Di artegliarie alla nostra partita avevan quattordici spingarde di ferro, comprate da Turchi che vengono a contrattar alle marine, e il Prete comandava che elle fussero pagate ciò che dimandassero, acciò che tornassero a portarne, e faceva insegnar ad alcuni suoi a tirarle. Bombarda non v'è alcuna, se non due code che noi vi portammo.
Il fiume del Nilo io non ho veduto, e vi fui vicino due giornate piccole di quindici miglia l'una, poco piú o manco; ma alcuni de' nostri Portoghesi andarono fino dove sono li suoi fonti, nel regno di Goyame, i quali vengono da dui gran laghi come mari, e venendo fuori fanno alcune isole, e dipoi si distende a correr verso l'Egitto. La causa che il Nilo inonda l'Egitto è questa, che cominciando il verno generale nell'Etiopia alla metà di giugno, fino a mezzo settembre, per le grandissime pioggie che di continuo senza cessar si fanno in quel tempo, il Nilo si fa grosso, inonda l'Egitto.
In tutto detto paese non si costuma scrivere un all'altro, né gli officiali di giustizia mettono alcuna cosa in scrittura, ma il tutto si fa per messi e con parole; solamente mi fu detto che l'entrate de' tributi del Prete sono scritte, sí del ricever come del dispensare.
Il Prete Ianni ha duo sopranomi, cioè acegue, che vol dir imperadore, e neguz re. Il suo patriarca di tutta l'Etiopia si chiama abuna, che vuol dir padre, né vi è altro che ordini se non lui.
Vino di uva non si fa se non in duo luoghi, cioè in casa del Prete Ianni e dell'abuna Marco publicamente: e se altrove il fanno, è di nascoso. Il vino col qual si dice la messa si fa in questo modo: nelli monasteri e chiese, tengono molte uve meze secche e come passe nelle sacrestie, e le mettono in acqua per dieci giornate; gonfiate che elle sono, le rasciugano e poi con torcolo le priemeno, e con quel vino dicono messa.
In questo paese si trova molto oro, argento, rame e stagno, ma non lo sanno cavar delle mine. Non vi corre moneta d'oro né d'argento, ma tutte le comprede fanno con baratti di dar una cosa e pigliar l'altra. E danno anche oro in pezzetti di una dramma e di una oncia. Il sale è la principal cosa che corre per tutto il paese per moneta.
Vi sono alcuni paesi che fanno assai grani e orzi, e in altri miglio; e in questi ove non nasce il grano, vi nasce tafo da guza, semenza appresso di noi non conosciuta, ceci, fava, fagiuoli, chicharos e di ogni sorte di legumi in grandissima abbondanza. Vi sono infinite canne di zuccaro, ma non lo sanno cuocer né affinar: solamente le mangiano crude. Vi sono assai uve e pesche grandi e buone, e si maturano nel mese di febraio fin in aprile. Di naranci, limoni, cedri non si potria dir la quantità, perché nascono da lor medesimi; erbe di orto poche vi sono, per non le voler piantare né seminare.
Tutto il paese è pieno di basilico, e per li boschi e monti vien molto grande; e vi sono ben delle altre erbe odorifere di diverse sorti, ma non conosciute da noi. Di arbori delli nostri conosciuti non vi ho visto altri che mi ricordi se non cipressi, susini sebestem, giuggioli, salici apresso li fiumi; non vi si trovano poponi, citriuoli né rape.
Si trovano in alcune parti grandissime pianure, e in altre montagne grandi: nondimeno tutte sono fruttifere e coltivate. Non vi è montagna alcuna dove si veda neve, né vi nevica, ancora che vi siano di grandissimi gieli, e massime nelle terre piane. E universalmente tutti quelli paesi sono pieni d'infiniti armenti di ogni sorte di animali.
Vi è grandissima quantità di mele per tutta quella terra, e li buchi delle api non sono posti al modo nostro fuor di casa, ma li tengono nelle camere dove stanno li lavoratori, accostati al muro, nel qual vi fanno un poco di apertura donde le api possono andar fuori al pascolo. Elle vanno volando ancor per le camere, e per questo non lasciano di star in casa, perché vanno e vengono. Se ne alleva gran quantità, e massime nelli monasteri, per esser gran fondamento del lor vivere. Si trovano anche api per li boschi e per li monti, appresso li quali vi pongono degli scorzi cavati, e ripieni che sono se le portano a casa. Raccolgono molta cera e ne fanno candele, perché di sevo non usano.
Non hanno olio di olive, ma di una sorte che chiamano hena, e l'erba ha la similitudine di pampanetti piccoli di vigna: questo olio non ha odore alcuno, ma è bello come un oro. Vi si trova l'erba del lino, ma non lo sanno acconciare per farne tela. Vi è ben molto gottone, e ne fanno panni di quello, e di colori diversi. Vi è anco una terra tanto fredda che sono sforzati di andar vestiti di panno grosso, come rovano scuro.
Circa il medicar gli ammalati ne sanno poco, anzi niente, perché, se ad alcun gli duole alcuna parte del corpo, non sanno far altro se non mettergli ventose, e per il dolor di testa gli salassano il capo, mettendogli un coltello sopra la vena, e con un legno li danno sopra per cavargli sangue. Hanno pur alcune erbe, il succo delle quali beono, e fanno purgare il corpo.
Si troveriano in quelli paesi infiniti frutti, e raccoglieriano maggior quantità di biade, se gli uomini grandi non trattassero male il popolo minuto, perciò che gli togliono tutto ciò che hanno, e li poveri uomini non seminano piú di quello che fa lor di bisogno.
In niuna terra che io sia stato ho veduto far beccaria di carne se non nella corte, e negli altri luoghi niun può amazzar un bue, ancor che sia suo, se non dimanda licenzia al signore della terra.
Circa la giustizia ordinaria, non è usanza di far morire alcuno, ma lo battono secondo la qualità del delitto, e anco cavano gli occhi e tagliano le mani e' piedi; nondimeno ne ho veduto abbruciare uno, per essere stato trovato a robar in chiesa.
La gente commune dice poche volte la verità, ancor che le si dia il giuramento, se non sono astretti a giurar per la testa del re.
Temono grandemente la scommunicazione, e se è lor comandato far alcuna cosa la qual sia in lor pregiudicio, la fanno per paura della scommunicazione. Il giuramento si dà in questo modo: vanno alla porta della chiesa con dui preti che hanno dell'incenso e del fuoco, e quel che ha da giurare mette la mano sopra la porta della chiesa, e li preti gli dicono che debbia dir la verità, dicendo: "Se tu giurerai il falso, come il lione inghiotte la pecora nel bosco, cosí l'anima tua sia inghiottita dal diavolo, e sí come il grano è macinato sotto le macine, cosí le tue osse siano macinate dal diavolo, e sí come il fuoco abbrucia le legne, cosí l'anima tua sia abbruciata nel fuoco dell'inferno". E quel che giura a ciascuna di queste interrogazioni dice "Amen". "Ma se tu dirai la verità, la vita tua con onor sia prolongata, e la tua anima vada in paradiso con li beati"; e dice "Amen". Il che finito, gli fanno dire la testimonianza.
Niuna persona siede in chiesa, né vi entrano calzati, né sputano, né vi lassano entrare alcun cane né altro animale. Si confessano stando in piedi, e cosí ricevono l'assoluzione. Cosí dicono gli offizii nelle chiese delli canonici come di frati, li quali non tolgono moglie, ma li canonici e preti sí, e quando vivono insieme, li canonici vanno a mangiare a casa loro, ma li frati tutti in comune. Li lor maggiori si dimandano licanati, e li figliuoli de' canonici restano canonici, ma dei preti no, se non sono ordinati dal lor abuna. Non si pagano decime ad alcuna chiesa, vivono di gran possessioni che hanno le chiese delli monasteri, e se alcun fa citare un prete, la giustizia si fa avanti un giudice secolare.
Perché ho detto che non seggono nelle chiese, però dirò che di fuori delle porte di quelle vi sono poste sempre gran numero di crozzole di legno, come son quelle con le quali si sostentano gli storpiati, e ciascuno piglia la sua e si appoggia fin che dicono gli offizii. Tutti li libri loro, che sono assai, sono scritti in carta pecora, perché di carta bambagina non ne hanno; e la scrittura è di lingua tigia, che è abissina, della prima terra nella qual cominciarono a farsi cristiani.
Tutte le chiese han due cortine, una appresso l'altar grande con campanelle, e di dentro di questa cortina non vi entrano se non i sacerdoti; vi è poi un'altra cortina al mezzo della chiesa, e nella chiesa non vi entrano se non persone che abbiano gli ordini sacri. E molti gentiluomini e persone onorate si fanno ordinare per poter intrar in chiesa.
La maggior parte de' monasteri son posti sopra monti alti overo in qualche profonda valle: hanno grandi entrate e iurisdizioni, e in molti non mangiano mai carne tutto l'anno. Del pesce anco ne mangiano poco, per non saperlo pigliare.
In tutte le mura delle chiese sono pitture del nostro Signore e della nostra Donna e degli apostoli, profeti e angeli, e in ciascuna vi è san Giorgio. Non hanno figura alcuna di rilievo; non vogliono che si dipinga Cristo crucifisso, perché dicono che non sono degni di vederlo in quella passione. Tutti li frati, preti e signori portano la croce in mano di continuo; il popolo minuto la porta al collo.
Ogni prete porta sempre un cornetto di rame pieno di acqua benedetta, e dove vanno, sempre è lor dimandata l'acqua e la benedizione, e lor gliela danno; e avanti che mangino gittano un poco d'acqua, e cosí nel vaso dove beono.
Le feste mobili, come è Pasqua, Ascensione, Spirito Santo, si celebrano nelli proprii giorni e tempi che noi celebriamo; della Natività, Circoncisione ed Epifania e d'altre feste de santi, similmente si accordano con noi, e d'altre no.
Il lor anno e il lor mese comincia alli 26 di agosto, che è Decollatio Sancti Ioannis, e l'anno è di dodici mesi, e il mese di XXX giorni: e finito l'anno avanza cinque giorni, che chiamano pagomen, che vuol dir finimento dell'anno, e nell'anno del bisesto ne sopravanzano sei, e cosí accordano con noi.
Si trovano molti infermi di lebbra, li quali non stanno separati dalla gente, ma vivono insieme, e vi sono assai persone che per divozione gli lavano e medicano le lor piaghe.
Hanno trombette, ma non buone, e tamburi di rame che sono portati dal Cairo, e anche di legno, che hanno il cuoio da tutte due le bande, cembali come li nostri e alcuni bacini grandi con li quali suonano. Vi sono flauti e alcuni instrumenti quadri di corde, come saria dire arpe, che chiaman David mozanquo, che vuol dir arpa di David, e con queste suonano avanti al Prete Ianni, ma non troppo bene.
Li cavalli naturali del paese sono infiniti, ma non sono buoni, perché sono come ronzinetti; ma quelli che vengono di Arabia e d'Egitto sono eccellenti e bellissimi, e li gran maestri hanno le razze di tal cavalli: e come nascono, non gli lassano lattare alle madri se non per tre giorni, li quali vogliono cavalcare subito, ma li poledrini, allontanandoli dalle madri, gli fanno lattar dalle vacche, e vengono bellissimi.
Obbedienza data al santiss. papa Clemente VII, trovandosi in Bologna, dal signor don Francesco Alvarez, in nome e come ambasciador del serenissimo David, re della Etiopia.
Nell'anno della salute MDXXXIII, del mese di gennaio, essendo congregati in Bologna il santissimo signor nostro papa Clemente VII e il serenissimo Carlo V imperator de' Romani, capi delli signori cristiani, il reverendo e illustre don Martino di Portogallo, nipote, consigliero e ambasciadore del serenissimo don Giovanni re di Portogallo, al detto santissimo signor nostro la seconda volta mandato, menò seco il signor don Francesco Alvarez, ambasciadore del serenissimo David re dell'Etiopia, volgarmente chiamato Prete Ianni, mandato dal detto re d'Etiopia a salutare e riverire il prefato santissimo signor nostro e rendergli l'obbedienza, secondo il costume degli altri re cristiani, sí come nelle lettere d'amendue questi re al santissimo signor nostro presentate e qui sotto copiate piú pianamente si vederà. A questi fu data l'audienza nel publico concistoro alli XXIX di gennaio, nel quale, poi che fu ricevuto il reverendissimo cardinale di Trento, che nel medesimo tempo era venuto in Bologna, mandato dal serenissimo Ferdinando re de' Romani, vennero appresso con gran comitiva essi due ambasciadori di Portogallo e d'Etiopia, e ambidue con molta riverenza e le ginocchia a terra. Prima l'ambasciadore di Portogallo presentò le lettere del suo re, insieme con la copia delle lettere scritte dal re d'Etiopia a lui e alla chiara memoria d'Emanuele suo padre; poi l'ambasciadore d'Etiopia presentò due lettere del suo re al prefato santissimo signor nostro, e offerí da parte del suo re un picciol dono d'una croce d'oro, di peso quasi d'una libra, avendo prima baciato il piede e appresso la mano di sua Santità; poi all'ultimo fu ricevuto al bacio della bocca, secondo l'usanza. Le lettere di costui, scritte in lingua abissina primamente, poi in quella di Portogallo e della portoghese nella latina erano state tradotte, le quali tutte per il domestico secretario del prefato santissimo signor nostro furno in presenza lette, e dipoi in lingua toscana sono state descritte.
Lettere del serenissimo don Giovanni, re di Portogallo, al santissimo signor nostro papa Clemente Settimo, con la inscrizione sotto scritta.
Al santissimo in Cristo padre, beatissimo signore s. papa Clemente VII, per divina providenza della chiesa d'Iddio universal presidente.
Al santissimo e beatissimo in Cristo padre e signore, il devotissimo figliuolo Giovanni, per Dio grazia re di Portogallo e degli Algarbi di qua e di là dal mare in Africa, signore di Ghinea, della navigazione, del commerzio d'Etiopia, Arabia, Persia e India, dopo gli umili baci de' santi piedi. Santissimo in Cristo padre e felicissimo signore, considerando il re, signore e padre mio, quanto fosse per esser grato a Iddio se le remotissime regioni dell'Etiopia e India, le quali per fama, e quella ancor molto dubbia, erano conosciute, con diligente investigazione delle armate de' cristiani fossero ricercate, subito dal principio del ricevuto regno mandò molti capitani e suoi suggetti ad investigar quei luoghi con buone armate e possenti navi, acciò che i Mori e i gentili di quelle regioni conoscessero la verità della religione cristiana, e cosí aperto il cammino, se altri popoli si ritrovassero che Cristo adorassero, sí come per comun parere credea potersi ritrovare. Or, come piacque a Dio, tutta la regione di Guinea felicemente fu peragrata, nella quale il re di Manicongo con innumerabili popoli a lui suggetti, ricevuto il sacro battesimo, si è fatto cristiano; cosí molte altre genti delle regioni d'India, Persia e Arabia, alla cristiana fede per pietà e diligenza de' nostri sono state guidate, all'esempio de' quali ogni dí altre e altre nazioni si convertono a Cristo. E benché in queste espedizioni si sia sentita grandissima ghiattura di perdita di navi, capitani e nobili cavalieri e altri suoi suggetti, non ha mai però voluto restar da questa sua singular pietà, come si conveniva ad un pio e cristiano re, sí che in un medesimo corso, penetrando con l'armata il mar Rosso, manifestamente si è veduto e trovato quello mai piú da legni cristiani essere stato navigato, perciò che quasi tutto era in potestà de' Turchi, e finalmente, dopo lunghe e aspre battaglie, fu ritrovato il viaggio che guida al potentissimo re dell'Etiopia dal vulgo detto Prete Ianni, che con tutti i popoli del suo regno adora Cristo.
A costui subito il re padre mio mandò ambasciadori che l'invitassero all'obbedienza della santa sede apostolica, narrandogli cose molto opportune, e rendendolo certo che vostra Santità sta nella sedia di Pietro, e unico vicario di Cristo in terra, al quale tutti i principi cristiani con somma venerazione rendono obbedienza. Né molto dopo il medesimo re dell'Etiopia, rimandando l'ambasciadore nostro, accompagnò ancora con quello un suo, con alcune commissioni. Ma in questo mezzo Iddio chiamò a sé l'anima del padre mio a goder eterna gloria, e senza dimora essendo noi succeduti in luogo suo, demmo opera con nostri capitani ch'erano in India che 'l detto re dell'Etiopia fosse certificato della morte del re mio padre, volendo che quelle cose che 'l padre mio avea incominciato per la cristiana fede, avessero in ogni modo compimento. La qual cosa il re d'Etiopia molto stimando, ne mandò un suo ambasciadore, il quale ancora al presente è nella corte nostra, e insieme con lui Francesco Alvarez, cappellano nostro, un di quelli che 'l padre mio gli aveva mandato. Questo Francesco Alvarez il medesimo re dell'Etiopia manda a Roma, acciò che per parte sua e di tutti i suoi regni alla Santità vostra presti obbedienza, il qual noi abbiamo fatto dimorare insino al presente perché volevamo per molti rispetti che egli venisse insieme con Martino di Portogallo, nostro nipote carissimo e consigliero, e alla vostra Santità nostro ambasciadore, al quale abbiamo imposto che presenti alla Santità vostra il detto Francesco Alvarez, ambasciadore del prefato re d'Etiopia, per darvi la debita obbedienza, e accioché ancor vi manifesti quello che l'orator del re a me mandato diceva, e vi mostri anche la copia delle lettere di detto re a me indrizzate. Per tanto la Santità vostra ne farà cosa gratissima, se darà piena fede in queste cose al sopradetto Martino, nostro ambasciadore.
E veramente sono da referire immortali grazie alla somma bontà d'Iddio, che nel vostro pontificato abbia la Santità vostra questa singolar grazia, che noi veggiamo ancor l'altra parte del popolo cristiano, niente di grandezza di paese inferiore a questa nostra, consentir con la fede catolica e con la santa romana chiesa, e ancor renderle obbedienza. Quanto a noi s'aspetta, ne rendiamo massime grazie a Dio, che in questa tanto grande aggiunta di un sí fatto re abbia voluto servirsi dell'opera nostra, percioché niuna cosa piú gloriosa può esser a laude della religione, quanto che a' nostri tempi si vegga l'Etiopia esser congiunta nell'unione del nome cristiano con l'Europa. Dio Signor nostro conservi tua Santità per molti anni felicissimamente.
Data in Settuval a' XXVIII di maggio, l'anno MDXXXII.
YO EL REY.
Lettere del serenissimo David re dell'Etiopia, volgarmente chiamato il Prete Ianni, al serenissimo Emanuele re di Portogallo, già altre volte scritte del MDXXI, di lingua abissina nella portoghese, e della portoghese nella latina e poi nella toscana tradotte, alla Santità del nostro signore per Giovanni parimente re di Portogallo mandate.
Nel nome di Dio Padre, il qual sempre fu e di cui principio veruno non si ritrova. Nel nome di Dio Figliuolo e unigenito, al Padre simile prima che si vedesse giamai il lume delle stelle, avanti che si facessero i fondamenti del mare Oceano, e in diverso tempo concetto nel ventre della Vergine, senza far nozze e senza opera di seme virile, percioché a questo modo era la scienza dell'officio suo. Nel nome ancora del Santo Spirito consolatore degli animi nostri, al quale sono manifesti tutti i segreti e occulti misteri, dove prima fu, cioè di tutte l'altezze del cielo, che senza colonna o sostegno alcuno dura, e per opera sua ampliata la terra dall'oriente all'occidente e da settentrione al mezzogiorno, che prima né creata né conosciuta era, né questo si puote dimandar primo o secondo, ma è tutta la Trinità congiunta in uno eterno creatore dell'universo, per un solo consiglio e verbo in seculi innumerabili. Amen.
Manda queste lettere Atani Tinghil, che in nostra lingua "incenso di Vergine" s'interpreta: tal nome mi fu posto nel battesimo, ma pigliando il regno presi nuovo nome, e questo fu David, da Dio unicamente amato, colonna di fede, cognato della stirpe di Giuda, figlio di David, figlio di Salamone, figlio della colonna di Sion, del seme di Giacob, figlio delle mani di Maria, figlio di Nahu per carnale generazione, imperador dell'alta e ampla Etiopia, di grandi regni, giuridizioni e terre, re di Xoa, di Caffate, di Fatigar, di Angote, di Baru, di Baaliganze, di Adea, di Vangue, di Goiame, ove nasce il Nilo, di Amarà, di Baguamedri, di Ambea, di Vagne, di Tigremahon, di Sabaim, d'onde fu la regina, di Barnagages, finalmente signor sino alla Nubia, che è alli confini dell'Egitto. Sono queste lettere indrizate al potentissimo ed eccellentissimo, sempre vincitore, il signore Emanuele, il quale abita nell'amore di Dio e sta fermo nella catolica fede, figliuolo degli apostoli Pietro e Paulo, re di Portogallo e degli Algarbi, amico de' cristiani, nimico, giudice e imperatore e domatore de' Mori e delle genti d'Africa e di Guinea, del promontorio e isola della Luna, del mar Rosso, Arabia, Persia, Ormuz e della grande India e di tutti i luoghi, isole e terre aggiacenti, dissipatore de' Mori e forti pagani, signore di rocche e alti castelli e ben fondati muri, ampliatore della fede cristiana.
Pace ti sia, inclito signore re Emanuel, che con l'aiuto del magno Dio uccidi i Mori, e con le tue armate e bene istrutti eserciti, da buoni capitani guidati, a guisa di cani gl'infedeli da ogni lato discacci. Pace un'altra fiata ti sia con la regina consorte tua, di Giesú amica, serva di Maria Vergine, madre del Salvatore di tutto il mondo. Pace sia a' tuoi figliuoli, co' quali ti stai come in uno bello e verdeggiante giardino di rose e floridi gigli ornato, e come in una mensa di cose elette fornita. Pace ancora alle tue figliuole, di vesti adorne, come sogliono esser le sale de' signori di tappeti e panni di razzo adorne. Pace ancora a tutti i tuoi congiunti, generati di seme de santi, come la Scrittura canta: "I figliuoli de' santi siano benedetti", e possenti dentro e fuori ne' termini de' tuoi reami. Pace a' tuoi fedeli consiglieri, officiali, potestà, e agli altri che tengono ragione. Pace alli capitani di tuoi eserciti, confini e qual si voglia cosa forte. Pace a tutte le nazioni, popoli, città, abitatori, fuor che a' Mori e Giudei. Ultimamente pace a tutte le parrocchie e a tutti li tuoi fedeli in Cristo. Amen.
Ho inteso, signor mio re e padre, che, come aveste notizia del nome mio per Matteo ambasciadore nostro, cosí presto congregaste gli arcivescovi, vescovi e altri prelati, che in gran numero vi erano, accioché avessero a riferire grazie a Dio per questa ambasciaria. Intesi ancora con quanto onore e allegrezza sia stato il nostro ambasciadore ricevuto, per la qual cosa grandemente mi son rallegrato, e honne riferito grazie a Dio: il simile ha fatto il popol mio, con grandissima divozione. Ma mi sono doluto quando intesi il detto Matteo esser morto ne' miei confini, nel monastero della Visione. Io non lo aveva mandato, perciò che io era fanciullo di undici anni, entrato che fui nel regno, dopo la morte del padre mio, ma la regina Elena, la qual io come madre riverisco, e governava per me il regno. Era il prefato Matteo mercatante detto Abraam, ma si mutò il nome per poter piú securamente passare per terra di Mori. Ora, essendo giunto in Dabul e da' Mori per cristiano riconosciuto, fu posto in prigione, la qual cosa fatta intendere al capitano de' vostri eserciti, furono da quello mandati alcuni valenti uomini i quali lo liberarono dalla prigione, avendo massimamente inteso costui essere mio ambasciadore; e per tanto, avendolo liberato dalle mani de' nemici, lo fece montar sopra le vostre navi e venire alla vostra presenza. Esso Matteo a voi espose ciò che aveva per nostra commissione, e ha rescritto essere stato da voi onoratissimamente raccolto e ampiamente d'ogni sorte di doni onorato, sí come i vostri messi parimente affermano, i quali Diego Lopez di Secchiera, capitano della vostra armata, mi mandò, presentandomi le lettere le quali mi doveva presentar Odoardo Galvan, il qual morí nell'isola di Cameran. Lette che io l'ebbi, ne senti' incredibile allegrezza al cuore e ne resi grazie a Dio, massimamente quando io vidi li vostri con i petti impressi di croci, e trovai interrogandoli che tenevano li riti veri della fede cristiana; ma grandemente io mi sentii commovere di divozione, quando intesi essersi trovato il viaggio verso l'Etiopia non senza miracolo, percioché mi riferivano che 'l capitano dell'armata, avendo buona pezza errato per il mar Rosso e disperandosi di potersi ritrovare il nostro porto, aveva deliberato senza far altro di ritornarsi in India, essendo dalle crudeli fortune del mare molto travagliato, ma che nell'aurora a tempo gli apparí una croce rossa, la qual salutata da' naviganti, voltaron le prue verso quella parte, mostrandogli Dio l'essersi trovato il porto nostro: la qual cosa io tenni per miracolo, certamente quel capitano doveva essere a Dio amico, da che gli veggiamo concessa tanta felicità.
Di questa mutua ambasciaria è stato anticamente predetto dal profeta nel libro della vita e passione di s. Vittore, similmente ne' libri de' santi padri, che un gran cristiano doveva congiungersi col re dell'Etiopia in grande unione e pace, ma non pensai giamai veder questo nei giorni miei: ma Dio sapeva il tutto, acciò che ne sia lodato sempre il nome suo, che mi mandò il salutifero messo e ha fatto che parimente io potessi mandare i miei messi a te, padre mio in Cristo e amico, accioché noi stiamo in una medesima fede, poi che non ho avuto da nessun altro re cristiano né ambasciadore né alcuna altra ferma notizia. Insino ad ora sono stato circondato da Mori, figliuoli di Macometto, e da gentili e altri che non conoscono Cristo, ma adorano legni e fuoco, e altri il sole, altri pensano i serpenti esser dei, co' quali mai non ho avuto pace, refiutando sempre essi di venire alla vera fede e in vano essendo ogni mio predicare. Or per la Dio grazia mi riposo: hammi Dio dato quiete contra de' tuoi e miei nemici, contra i quali quando ne' miei confini armato apparisco, di timor pieni voltano le spalle, facendo di loro i capitani e i soldati miei grosse prede. E per questo non mi sento Iddio adirato, ma propizio, come dice il Salterio: "Dio adempisce i voti delli re che dimandano cose giuste": né questo s'appartiene a laude nostra, ma debbonsi referire le grazie a Dio. Questo è quello che vi ha dato il mondo e vi ha conceduto la terra di gentili in perpetuo, e l'altre terre che sono dai vostri confini insino al principio dell'Etiopia. Per questo do infinite grazie a Dio e vo predicando sempre la somma potenzia sua, sperando che i figliuoli di quei popoli che verranno sotto l'imperio tuo, senza dubbio alcuno abbino a riconoscere la fede di Cristo: e per questo lo ringrazio, e ho speranza che i vostri figliuoli e io e voi lungamente ci rallegraremo di questi felici successi. E voi dovereste tuttavia fare voti a Dio ch'esso ne conceda l'acquistar il santo Sepolcro, il qual ora è in potestà de' nostri nemici, cioè Mori, gentili ed eretici: se questo farai, il tuo capo sarà d'ogni laude dignissimo.
Ma lasciando star questo, tu dei sapere che del numero de' miei ambasciadori che con Matteo venivano tre ne sono mancati, e il vostro capitano, venuto che fu a Mazua, si abboccò col re di Barnagasso soggetto all'imperio mio, il qual subito mi mandò ambasciadori e presenti gratissimi: ma il nome vostro sopra ogni gemma e cara gioia mi parve prezioso. Ma lasciando stare queste cose da canto, consultiamo come si possino assalire e prendere le terre degl'infedeli. Io per parte mia darò mille volte centomila dramme d'oro e altretanti uomini da combattere, e piú darò legname, ferro, rame, per fare e mettere ad ordine l'armata, e infinita vettovaglia: amichevolmente converremo insieme, e perché non è di mia usanza, né alla dignità mia s'appartiene, di mandare ambasciadori che addimandino pace, e tu prima da me sicuramente la cercasti, a verificazione delle parole di Cristo: "Beati sono quei piedi che ci arrecano la pace", per questo io sono in ciò pronto, secondo l'usanza degli apostoli, i quali erano d'un medesimo animo e core.
O re e padre mio Emanuele, salvo ti faccia quell'unico Dio il quale è Dio del cielo, sempre d'una sustanza, che non ingiovenisce né invecchisce. Colui che venne a me per tua parte si chiama Rodrico Lima, capo degli altri uomini da bene che con esso sono venuti, e con Francesco Alvarez, a me gratissimo per la bontà e integrità, religione, giustizia e sopra tutto perché, essendo interrogato della fede, con parole piene di verità attentissimamente rispondeva: meritamente adunque il doverreste esaltare, e mandarlo maestro, e a lui commettere l'impresa di convertire i popoli di Mazua, di Delaca, di Zeila e di tutte l'isole del mare Rosso. E perché sono nei confini de' miei reami, io gli ho conceduto la croce e il bastone in segno della potestà, cosí voi comandate che questo se gli conceda, che sia fatto vescovo di quelle terre e isole, perciò che lo merita e parmi molto atto al governo di questo officio: e vedrai che Dio ti prospererà e faratti forte contra de' tuoi nemici, e costringeragli a venire a buttarsi alli tuoi piedi. Dio ti prolunghi la vita, e facciati partecipe di quel buon luogo del regno de' cieli, come io per me desidererei.
Ho inteso molte cose di te, e con gli occhi miei gran parte ne veggio, le quali giamai veder non pensava: Iddio le faccia succedere di bene in meglio, e il luogo vostro sia sopra il legno de la vita, come il luogo de' santi. Amen. E io vi prego, con quello affetto che il figlio prega il padre, che l'uno con l'altro ci vogliamo aiutare. Ho fatto quanto mi avete imposto come fussi stato un fanciullo, e farò per l'avenire se verranno i vostri ambasciadori, sí come allora faceste a Mazua e a Delaca e alli porti dentro lo stretto del mar Rosso, e tutte quelle cose darò loro e ordinarò che siano date, che mi farete intender che si faccino, acciò che nel consiglio e nel far de' fatti con prosperità siamo uniti. E quando le vostre genti arriveranno a quelle riviere, io subito in tempo mi presenterò loro col mio esercito. E perché ne' miei confini non vi è cristiano alcuno, né vi si veggono chiese, io concederò a' vostri uomini il poter abitar quelle terre, che sono vicine al dominio de' Mori: per tanto è necessario che diate compimento alli vostri buoni principii. Fra questo mezzo mandatemi degli artefici periti di fare imagini d'oro e d'argento, fabri di rame, ferro, stagno, piombo, e maestri che stampino libri della nostra lingua a uso della chiesa; ancora chi sappia lavorar d'oro e indorare altri metalli: e tutti saranno da me in casa mia onoratamente trattati, e se vorranno partirsi darò loro largamente la mercede delle loro fatiche, e giurovi per Giesú Cristo figliuolo di Dio che ogni ora che vorranno liberamente gli lassarò partire. Dimando queste cose confidentemente, e so che mi amate molto: testimonio buono me n'è stato l'aver tanto onorato e accarezzato Matteo e mandatolo indietro; e però mi affatico d'impetrar queste cose da voi, né di ciò voglio che spesa alcuna vi venga, perché io pagherò ogni cosa, e quello che 'l figlio al padre dimanda non se gli deve negare: voi sete il padre mio e io sono il vostro figliuolo, e siamo insieme congiunti come una pietra con l'altra in un parete, e cosí noi due consentiamo con un cuore in un amore di Cristo, che è capo del mondo. E quei che sono con lui, assomiglia alle pietre che sono nel muro congiunte. Amen.
Lettere del medesimo serenissimo David, re dell'Etiopia, al serenissimo Giovanni, re di Portogallo, del MDXXIIII, di lingua abissina nella portoghese, e della portoghese nella latina e poi toscana tradotte.
Nel nome di Dio Padre omnipotente, creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose fatte visibili e invisibili. Nel nome di Dio Figliuolo Cristo, il quale è figliuolo e consiglio e profeta del Padre. Nel nome di Dio Spirito Santo paracleto, Dio vivo equale al Padre e al Figliuolo, il quale ha parlato per bocca delli profeti, spirando sopra gli apostoli, acciò che evangelizassero e lodassero la Trinità perfetta in cielo, in terra, in mare e nel profondo sempre. Amen.
Mando queste lettere e il presente messo io, Incenso della Vergine: cosí mi fu posto nome nel battesimo, ma ora insieme con lo scettro dell'imperio ho assonto il nome di David, caro a Dio, colonna della fede, stirpe di Giuda, figlio di David, figlio di Salomone, che furno re d'Israel, figlio della colonna di Sion, figlio del seme di Giacob, figlio delle mani di Maria e figlio di Nau per carnale generazione, al potentissimo, massimo e altissimo Giovanni, re di Portogallo e degli Algarbi, figlio del re Emanuele: la pace e grazia di Giesú Cristo sia teco. Amen.
Nel tempo che fui avisato della potenza del re padre tuo, il quale debellava i Mori, figliuoli del fetido Macometto, referi' grandissime grazie a Iddio per l'accrescimento e grandezza e corona della conservazione della cristianità. Parimente io ricevei gran piacere della venuta delli ambasciadori che mi portarono le parole di esso re, donde tra noi nacque singolare amore, conoscenza e amicizia, a diradicare i maligni Mori e gl'increduli gentili, i quali abitano fra li tuoi e miei reami. Ma mentre che io era in questa letizia, prima intesi il tuo e similmente mio padre esser morto, che io potessi mandare i miei ambasciadori, per la qual cosa l'allegrezza mia subito fu convertita in tristizia, di sorte che in questo mio cordoglio tutti li signori della mia corte e prelati ecclesiastici, e quelli che stanno nelli monasterii, e tutti gli altri sudditi nostri, fecero grandissimo pianto, tal che l'allegrezza della prima nuova fu fatta equale col dolore di questa ultima. Sappi, signore, che dal principio di miei regni insino al presente mai non mi è venuta ambasciaria alcuna o messaggiere, né dal re né dal regno di Portogallo, se non vivendo il re tuo padre, che mi mandò suoi capitani e baroni con cherici e diaconi, che mi recarono tutte le vesti e paramenti che si usano quando si dicono le messe solenni, del che grandemente mi rallegrai, e furono da me onorevolmente raccolti, e quando a loro piacque gli lasciai andare con onore e pace; e giunti che furno al porto del mar Rosso, che è ne' miei confini, non ritrovarono il gran capitano dell'armata col quale gli avea mandato il padre vostro, percioché egli non aspettò: e di questo me ne avea avisato, che non poteva aspettargli, essendo vostra usanza di mandare ogni tre anni un capitano dell'armata. In questo mezzo venne l'altro nuovamente creato, per il che gli ambasciadori fecero piú lunga dimora in quello che faceva loro bisogno. Ora vi mando con le commissioni mie fra Cristoforo licanate, al qual fu posto nome nel battesimo Zagazabo (cioè grazia del padre), che alla presenza vostra esporrà ogni mio desiderio, e cosí mando al papa romano Francesco Alvarez, il quale per nome mio gli presti obbedienza, come è cosa ragionevole.
O signor re fratello mio, attendi, ti prego, all'amicizia nostra, la qual tuo padre fra noi ha cominciata, e spesso mandaci i tuoi messi, le tue lettere, perché io le veggo tanto volentieri come s'elle mi fussero mandate da un mio fratello, e cosa giusta mi pare, essendo noi ambidue cristiani. I Mori, che pessimi sono, sempre stanno nella sua setta concordi, e io ti prometto di non accettare per l'avenire piú messi del re di Egitto né d'altri re, che con lor ambasciarie spesso mi visitavano, ma solo di tua maiestà, i quali desidero ardentemente che venghino. Li re de' Mori non mi hanno per amico per la diversità della religione, ma fingono di essermi amici per poter piú sicuramente esercitare ne' miei regni la mercanzia, d'onde cavano commodità, perché gran somma d'oro, del quale sono avidissimi, ogn'anno ne portano fuori di quelli, essendomi però poco amici: e i commodi che da loro mi possano venire niuno piacere mi danno, ma questo mi convien tollerare, perciò che fu sempre de' nostri re antichi vecchia usanza, e ancora la mantegno, cioè di non far lor guerra né di danneggiarli in modo alcuno, accioché essi sdegnati non guastino e rovinino il santo tempio in Gierusalemme, dove è il sepolcro di messer Giesú Cristo, il quale Iddio ha lasciato in poter degli abominevoli Mori, e che similmente non gettino a terra tutti gli altri tempii che son nell'Egitto e Soria. E questa è la causa che non gli vo ad assaltare, e molto in vero mi rincresce che io abbia ad aver loro questo rispetto, e quello che maggiormente mi persuade che egli lo debbia avere, è che non mi truovo alcun re o principe cristiano che mi sia vicino, il qual mi possa aiutare e rallegrare il cuor mio. Io, signor mio, non posso avere alcuna consolazione delli re cristiani di Europa, intendendo che li cuori loro son tanto discordi, e che di continuo l'un l'altro si fanno guerra: doverreste veramente essere tra voi concordevoli, e stare a' patti una volta tra voi constituiti. Certamente, se io avessi qualche re cristiano ne' miei confini, non mi parterei mai un'ora da lui: di questo certo io non so che mi dire, né che fare, parendomi queste cose essere cosí da Dio ordinate.
Pregoti, signor mio, strettamente che con messi e con lettere spesso mi visiti, percioché quando veggo le tue lettere parmi veramente veder la tua faccia. Il desiderio che uno amico ha dell'altro fa che piú si amino gli amici remoti che li propinqui, come avviene a colui che ha i tesori, il quale, quando non li vede con gli occhi, sempre fuor di misura li considera col cuore: però dice il Salvatore nel Vangelo: "Dove è il tesoro, ivi è il cuor tuo", cosí il cuor mio è appresso di te. Essendo adunque tu il mio caro tesoro, doverresti ancor tu cosí fare che io fussi il tuo tesoro, congiungendo il cuor tuo col mio. Deh signor, fratello mio, ricordati di quel che ti dico: tu sei prudentissimo e, per quanto intendo, simile al padre tuo di sapienza, del che somma letizia ne ho preso, lasciando da canto ogni dolore, e honne referito grazie a Dio, dicendo: "Benedetto sia il savio figliuolo del gran capo, figliuolo del re Emanuele, il quale gloriosamente siede nella catedra de' suoi reami". Non ti voler, signore, rimanere dalle gloriose imprese contra de' Mori e gentili, scusandoti che le forze tue non sieno sí possenti come quelle del padre tuo: io ti assicuro che elle sono grandi, e con l'aiuto di Dio, che sempre sarà in tuo aiuto, gli soggiogherai. A me non mancano uomini, né oro né vettovaglie, quanto la rena del mare e le stelle del cielo. Se noi saremo insieme congiunti, non dubito punto che non distruggiamo tutta la Barbaria moresca. Né altro da voi desidero e dimando che uomini periti dell'arte militare, che ammaestrino li miei a tener l'ordinanza nel combattere. E tu re sei di buona e robusta età: il re Salamone aveva dodici anni quando ebbe il regno, e fu di grandissime forze e molto piú savio del padre suo, e io ancora, quando Nahu il padre mio passò della presente vita, era di undici anni, ed entrato nella sedia del regno, con l'aiuto divino, ho conseguito maggior ricchezze e forze, perché a mia obbedienza si trovano tutti li re e genti vicine: per questo ambidui abbiamo da referire grazie a Dio di tanto beneficio ricevuto.
Ascoltami, fratello e signor mio, questo solo da te in una parola dimando, ch'è che tu mi mandi buoni artefici di far imagini e stampar libri, e sappin fare spade e tutte le sorti di cose pertinenti all'uso militare. Similmente vorrei architetti, legnaiuoli, medici dell'una e l'altra sorte, cioè fisici e chirurgici. Desidero anco d'avere di quelli che sanno tirar l'oro e scolpire in oro e in argento, e che sappino cavarlo fuora della terra, e non solamente l'oro e l'argento, ma tutti i mettalli. Oltre a questi sarannomi ancora cari quei che sapranno tirar tegole di piombo, e farle anco di terra, e finalmente tutti gli artefici mi saranno cari, e molto saranno al mio bisogno, specialmente quei che sanno fare schioppetti. Aiutami, ti prego, in queste cose, non altrimenti che un fratello soglia aiutar l'altro: cosí Dio ti aiuterà e camparatti da ogni ria fortuna. Dio esaudisca le tue orazioni e dimande, sí come sempre ha ricevuto tutti li sacrificii de' santi, e primieramente i sacrificii di Abelle, di Noè quando era nell'arca, e quello di Abraam quando era in terra di Madian, e quello d'Isaac quando si partí dalla fossa del giuramento, e quello di Giacob nella casa di Bettlemme, e di Mosè nell'Egitto, e di Aron nel monte, di Iosuè figliuolo di Nun in Galgaia, di Gedeone, di Sansone quando egli aveva sete nella terra, di Samuele in Rama, di David in Nacira, di Salamone nella città di Gabaone, di Elia nel monte Carmelo, quando egli suscitò il figliuolo della vedova, e di Giosafa nella guerra, e di Manasse quando peccò e convertisse a Dio, e di Daniele nella chiusura de' leoni, e delli tre compagni Sidrach, Misach, Abdenago nel cammino ardente, e di Anna avanti l'altare, e di Neemia che fece i muri con Zorobabelle, e di Matatia con li figliuoli sopra la quarta parte del mondo, e di Esaú sopra la benedizione: cosí il Signor Dio riceverà tutti i tuoi sacrifici e prieghi, aiuteratti e difenderatti nelle tue adversità in ogni tempo. La pace del Signore sia teco, e io ti abbraccio con le braccia della santità, e similmente abbraccio tutti i consiglieri del regno di Portogallo, e arcivescovi, vescovi, sacerdoti e diaconi, uomini e donne. La grazia di Dio e la benedizione della Vergine sia sempre mai con voi. Amen.
Lettere del medesimo serenissimo David, re della Etiopia, al santissimo signor papa Clemente VII, del MDXXIII, per don Francesco Alvarez suo ambasciadore portate, della lingua abissina nella portoghese, e della portoghese nella latina e poi nella toscana tradotte.
Felice e bene aventurato santo Padre, che da Dio sei fatto consecratore delle genti e tieni il seggio di san Pietro, a te sono date le chiavi del regno de' cieli, e qualunque cosa tu legarai e scioglierai sarà legata e sciolta in cielo, come Cristo disse, e Matteo cosí scrisse nel Vangelo. Io re il cui nome i leoni onorano, e per la Dio grazia Atani Tinghil, cioè incenso della Vergine, nome postomi nel battesimo, ma dopo che io presi il regale scettro mi fu posto nome David, diletto da Dio, colonna di fede, cognato della stirpe di Giuda, figlio di David, di Salamone, figliuolo della colonna di Sion, figliuolo del seme di Giacob, figliuolo delle mani di Maria, e per carnale successione figliuolo di Nahu, imperador della grande e alta Etiopia e di grandi reami, giuridizioni e terre, re di Xoa, di Caffate, di Fatigar, di Angote, di Baru e di Baaliganze, di Adea, di Vangue e di Goiame, ove nasce il Nilo, di Amarà, di Baguamedri, di Ambea, di Vaguc, di Tigremahon, di Sabaim, donde fu la regina Saba, di Barnagaes, e signor insino a Nubia, che è alli confini dell'Egitto: tutte queste provincie sono nella mia potestà, e molte altre grandi e picciole, le quali non numero, né ho espresso per nome detti regni e provincie indutto da superbia o vanagloria alcuna, ma solo perché il sommo Dio ne sia lodato, il qual per la sua singular benignità ha dato alli re miei antecessori l'imperio di tanti amplissimi regni della religione cristiana, e me poi con piú segnalata grazia fra tutti gli altri re ha voluto esaltare, accioché di continuo io fussi alli servizii della sua religione, e per questo mi ha fatto signor di Adel, e inimico di Mori e gentili che adorano gl'idoli; mando a baciare i piedi di vostra Santità, come sogliono far gli altri re cristiani fratelli miei, alli quali né di potenza né di religione sono inferiore.
Io ne' miei reami sono colonna di fede, né ho bisogno d'altri aiuti, ma in Dio solo ripongo ogni mia speranza e aiuto, il quale sempre mi ha sostenuto e governato, da quel tempo che l'angelo di Dio parlò a Filippo, quando insegnò la retta fede all'eunuco di Candace, possente reina dell'Etiopia, che se ne giva da Gierusalemme a Gaza. Allora Filippo battezzò l'eunuco, dal qual poi fu battezzata la regina con gran parte della famiglia e popoli suoi, li quali poi non son mai mancati dal vero cristianesimo, e tutti sempre da quel tempo insino ad ora sono stati forti nella fede. I miei predecessori, da niuna altra cosa aiutati salvo che da Dio, ampliarono la fede cristiana in questi grandissimi regni, il che mi sforzo ancora io di fare. Sto ne' miei confini come un lione da folta selva circondato, e ben forte contra de' Mori e altre nazioni inimicissime della fede cristiana, che non vogliono udire il verbo di Dio, né le mie fedeli esortazioni. Io con la spada cinta li perseguito, e a poco a poco li vo cacciando del nido con l'aiuto di Dio, il qual mai non mi manca, la qual cosa non intraviene alli principi cristiani, percioché, se vogliono ampliar li confini delli lor regni, non lo fanno contra gl'infedeli. Il che potrebbono facilmente fare, perché l'uno all'altro può dar soccorso e aiuto, oltre che mirabilmente sono favoriti dalla benedizione di vostra Santità, della quale anche io sono partecipe, ritrovandosi ne' miei libri lettere di papa Eugenio, le quali nei tempi passati con la benedizione mandò al re, seme di Giacob: della qual benedizione, avendola avuta di mano in mano, me ne godo e allegro. Oltre di questo, io ho in grande venerazione il tempio di Gierusalemme, dove spesso le debite offerte mando per li nostri peregrini, e molto piú belle e opulente mandarei, se non fussero li viaggi infestati da li Mori e dagl'infedeli, i quali, oltre che tolgono i presenti e li tesori alli miei messi, impediscono ancora che non passino liberamente: che se fosse aperto il viaggio, io verrei in familiarità e commerzio della chiesa romana come fanno gli altri re cristiani, alli quali io non sono inferiore, e cosí come loro credono, cosí anche io confesso una fede retta e catolica chiesa, e credo sinceramente nella santa Trinità e in uno Dio, la verginità di nostra Signora Vergine Maria, tengo e osservo gli articoli della fede, come dagli apostoli sono stati scritti.
Al presente il nostro Signore Dio, per mano del potentissimo e cristianissimo re Emanuele, ha aperto il viaggio, acciò che insieme per ambasciarie ci possiamo cognoscere, e in fede congiunti cristiani con cristiani servire a Dio. Ma essendo li suoi ambasciadori nella corte nostra, ne fu nunciata la morte sua, e che 'l suo figliuolo (che è fratello mio) Giovanni avea pigliato lo scettro del regno paterno, onde, sí come per la morte del padre io ne aveva sentito grandissima doglia, cosí per la felice successione del figliuolo nel regno maravigliosamente mi sono rallegrato, di sorte che spero che, avendo congiunti gli eserciti e forze nostre, e potremo e per mare e per terra per le provincie de' pessimi Mori aprir la strada, e con tanta furia andaremo loro adosso che gli scacciaremo delle lor sedie e regni, e cosí potranno commodamente li cristiani andare al tempio di Gierusalemme e ritornare a lor buon piacere. E io, come ardentemente desidero l'esser fatto partecipe del divino amore nel tempio degli apostoli Pietro e Paulo, cosí desidero avere la sacrosanta benedizione del vicario di Cristo, e senza dubbio tengo che la Santità vostra sia vicario di Cristo. E ancora che dalli peregrini li quali dalle nostre regioni vanno a Gierusalemme e a Roma, e non senza gran miracolo ritornano, io senta dir molte cose della Santità vostra, le quali mi danno incredibile piacere e allegrezza, nondimeno in effetto molto maggior piacere averei se li miei ambasciadori potessero usar la via di piú breve cammino, referendomi ognior cose nuove, sí come io spero che mi porteranno per qualche tempo avanti ch'io mora, per grazia dell'omnipotente Dio, il quale in sanità e allegrezza vi conservi. Amen. Io bacio li suoi santi piedi e supplichevolmente prego vostra Santità mi mandi la sua benedizione. La Santità vostra riceverà queste lettere per mezzo del fratel nostro Giovanni, re di Portogallo, dall'orator nostro Francesco Alvarez.
Altre lettere del medesimo serenissimo David, re dell'Etiopia, al santissimo signor nostro Clemente VII, del MDXXIIII, portate dal signor Francesco Alvarez suo ambasciadore, dal parlar abissino nel portoghese, e dal portoghese nel latino e poi nel toscano tradotte.
Nel nome di Dio Padre omnipotente, creator del cielo e della terra, delle cose visibili e invisibili. Nel nome d'Iddio Figlio, di Giesú Cristo, il quale è una medesima cosa con lui dal principio del mondo, ed è il lume dal lume, e Dio vero da Dio vero. Nel nome di Dio Spirito Santo, Dio vivo, il qual procede da Dio Padre. Queste lettere mando io re, il cui nome riveriscono i leoni, e per la grazia di Dio mi chiamo Atani Tingil, cioè incenso della Vergine, figliuolo del re David, figlio di Salamone, figlio del re di mano di Maria, figlio di Nau per carnale successione, figlio de' santi Pietro e Paulo per grazia. Pace sia teco, o giusto signore, padre santo, possente, puro, consecrato, il qual sei capo di tutti i pontefici e nessun temi, non essendo nessuno che maladire ti possa, il qual sei vigilantissimo governatore sopra l'anime e amico de' peregrinanti, consecrato maestro e predicator della fede, e capital nemico di quelle cose che offendano la conscienza, amator degli ottimi costumi, uomo santo, da tutti laudato e benedetto.
O felice santo padre, io con gran riverenza ti obbedisco, essendo tu padre del tutto e meritando tutti i beni: e cosí è il dovere, che tutti, dopo Iddio, a te rendino obbedienza, sí come comandano i santi apostoli. Questo veramente è detto di voi, ed essi ancora cosí comandano, che portiamo riverenza a' vescovi, arcivescovi e prelati, similmente che ti debbiamo amare in luogo di padre e riverire in luogo di re, e averti fede come a Dio. Per tanto io, umilmente a terra con le ginocchia chine, ti dico, santo padre, col core tutto sincero e puro, che tu sei mio padre e io sono figliuolo. O padre santo potentissimo, perché non hai mandato mai alcuno qui a noi, acciò che tu potessi intendere piú certamente della vita e del mio bene stare, essendo tu il pastore e io la pecora tua? percioché il buon pastor non si dismentica mai del gregge suo. Né vi debbo parere troppo discosto dalle vostre regioni, di modo che i vostri messi non possino a me pervenire, conciosiacosaché il re di Portogallo Emanuele, figliuolo tuo, dalli remotissimi regni del mondo assai commodamente n'abbia mandati i suoi ambasciadori, e se Dio alquanto avesse differito di chiamarselo in cielo, senza dubbio quelle cose che allor trattavamo arebbero avuto felice fine. Ma al presente io grandissimamente desidero di sentire cose buone e prospere della Santità vostra per messi certi e a posta mandati, perciò che mai io non ho ricevuto parola della Santità vostra, avendo solamente udito dire alcune poche cose da quei che per voto vanno in peregrinaggio. Ma questi, perciò che non vanno in mio nome né mi portano alcune vostre lettere, quando noi gli addomandiamo, con un confuso parlare ci dicono che essi, avendo satisfatti i lor voti, da Gierusalemme son pervenuti in Roma a visitare le porte degli apostoli, intendendo potersi facilmente andare a quei luoghi, per esser tenuti da cristiani. E invero io mi prendo grandissimo piacere dei lor ragionamenti, perché con pensier dolcissimo veggo e contemplo la imagine del tuo santo volto, la qual mi pare tutta simile alla forma dell'angelo, e confesso me amarla e riverirla come angelica: ma certo piú grato e piú suave mi saria s'io potessi le parole tue e le lettere tue divotamente contemplare. E cosí ora vi prego mi vogliate mandare il vostro messo con la vostra benedizione a rallegrare il mio cuore, perché, conformandoci noi unitamente nella religione e nella fede, mi pare che io vi debba questo innanzi ogn'altra cosa dimandare. Similmente supplichevolmente vi priego che, a modo dell'anello che vi mettete in dito e della collana d'oro che alle spalle vi ponete, cosí nell'intimo del vostro cuore vogliate porre l'amicizia mia, tal che mai la memoria di me non si parta dal cuor vostro, perciò che con le suavi parole e graziose lettere cresce grandissimamente l'amicizia, quando ella è dalla santa pace abbracciata, dalla quale senza dubbio ogni umana letizia procede. E sí come chi ha gran sete grandemente desidera la fredda acqua, come nelle sacre lettere si trova scritto, cosí l'animo mio delli nuncii e delle lettere che dalle remotissime terre mi sono portate incredibile allegrezza suol prendere, e non solo se io sentirò qualche cosa della Santità vostra, ma ancora se piú certe e ferme nove mi saranno portate partitamente di tutti i re della terra cristiana, molto mi rallegrerò, non altramente che sogliono far coloro che combattendo acquistano le ricche spoglie. E questo si può ora facilmente fare, poi che il re di Portogallo ha aperto tutto questo viaggio, il quale già gran tempo ne mandò li suoi ambasciadori, insieme con li valorosissimi suoi cavallieri, nel tempo che il padre mio Emanuel era ancor vivo in terra.
Ma da quella ora in qua mai piú ho ricevuto né imbasciata né anche lettere da alcuno altro re di cristiani, e né anco da esso pontefice, benché nelle nostre archivie del bisavolo nostro si conservi la memoria di quelle lettere che il papa romano chiamato Eugenio mandò in queste parti, quando regnava il seme di Giacob, re delli re, temuto in tutta quanta l'Etiopia; e la inscrizione dentro delle lettere era in questo modo: "Eugenio, romano pontefice, al diletto figliuolo nostro, re del seme di Giacob, re de li re in tutta quanta l'Etiopia, degno d'essere grandissimamente riverito, etc.". E nella somma delle lettere avisava come il suo figlio Giovanni Paleologo, il quale due anni inanzi era morto, re de li re romei di Constantinopoli, era stato chiamato a celebrar la sacrosanta sinodo, e con lui era venuto Giosef, patriarca constantinopolitano, con gran numero di arcivescovi e vescovi e prelati d'ogni sorte, tra li quali erano stati ancora i procuratori de' patriarchi antiocheno, alessandrino, gierosolimitano, i quali tutti con lui nell'amore della santa religione e fede fermamente s'erano congiunti, e come, essendo confermata la unità della chiesa, erano state tolte via con l'aiuto di Dio tutte le difficultà del tempo antico, le quali parevano erronee e contrarie alla religione. Queste cose essendo state col debito ordine confermate e stabilite, esso papa aveva voluto di questo donare a tutti una singolare allegrezza. Or noi vi mandiamo questo libro di papa Eugenio, il quale incorrotto avemo conservato: aremmovi anco mandato tutto l'ordine e potestà della benedizion pontificale, se non ci fosse parso troppo grande il volume di queste cose, perciò che in vero di grandezza avanza il libro di san Paulo alle genti. Gli ambasciadori veramente che queste cose dal papa ci portarono furono Teodoro, Pietro, Didimo e Giorgio, servi di Giesú Cristo. Voi veramente, santissimo padre, farete molto bene se ordinarete che sian rivolti tutti i vostri libri, dove facilmente penso che si troverà qualche memoria delle cose che io vi scrivo: per tanto vostra Santità tenghi per fermo che qualunque cosa che con sue lettere ella ne farà sapere, immediate con ogni somma diligenza sarà notata e descritta nei nostri libri, accioché di quella ne rimanga alli posteri nostri sempiterna memoria. E certamente colui mi pare essere beato la cui memoria, scolpita nelle lettere, si conserva nella santa città di Roma e nella sedia di san Pietro e Paulo, perché questi sono i signori dei cieli e giudici di tutto 'l mondo. E perché cosí io credo, perciò mando queste lettere, per acquistarmi la grazia presso a vostra Santità e al vostro santissimo concistoro, acciò che indi mi venga la santa benedizione e 'l crescimento di tutti i beni.
Strettamente ancor prego vostra Santità mi voglia mandare qualche imagine de' santi, e massimamente della beata Maria Vergine, acciò che spesse volte mi sia in bocca e nella memoria il nome di vostra Santità, e del continuo prender mi possi piacere dei vostri doni. Per tanto ancora con grande instanzia vi chieggio mi mandiate uomini dotti delle sacre lettere, e gli artefici che faccino le imagini, e similmente le spade e arme da combattere d'ogni sorte, e anco li scultori dell'oro e dell'argento, e maestri di legnami, specialmente gli architetti, che faccino le case di pietra, e che sappiano tirar le tegole di piombo e di rame da coprire i tetti delle case. Oltre a questi averemo ancora assai cari quei che sanno lavorare il vetro e fare instrumenti musici, e quelli ingegnosamente e dottamente sonare, e con questi ancora sonatori di flauti e di trombe. Ma detti artefici vorrei che dalla casa vostra mi mandaste, over, se voi ne avete in casa carestia, vostra Santità gli potrà avere facilmente dagli altri re vostri figli, percioché tutti subito ai vostri comandamenti e cenni obbediscono. Questi, arrivati che saranno a me, saranno tenuti in sommo onore, secondo che meriterà la scienza di ciascuno, e dalla mia liberalità e cortesia riceveranno ampla e grande mercede; e se alcun di loro desidererà tornarsene a casa sua, si partirà abbondantemente premiato come a lui piacerà, percioché non sono per ritener alcuno contra sua voglia, quando arò ricevuto qualche frutto dalla sua industria.
Ora bisogna passare a ragionare dell'altre cose. Io vi dimando, santissimo padre, perché non esortate li re cristiani vostri figli che mettino giú l'arme e che voglino, come si conviene alli fratelli, essere insieme concordi? poi che essi sono le tue pecore e tu il lor pastore. E sa molto bene la Santità vostra quel che l'Evangelio comanda quando dice: "Ogni regno in se stesso diviso si disfarà", perché, se li re cristiani con gli animi uniti e con ferma lega si accorderanno, assai facilmente dissiparanno li macomettani e tutti gli altri infedeli, perché felicemente andando lor addosso, guasteranno e ruineranno la sepoltura del falso e maladetto profeta, che è nella città di Medina. Per questo adunque mettete ogni opra che tra loro si faccia buona pace e che si stabilisca ferma lega d'amicizia, ed esortategli che mi voglino favorire e dar aiuto, perché ne' confini de' miei regni io son da macomettani mori, pessimi uomini, da ogni banda circondato. Ma essi Mori macomettani tra loro l'un l'altro si danno aiuto, e li re con li re e li signori con li signori con gran fede e constanzia contra di noi si uniscono insieme. A me è molto vicino un certo re moro, a cui gli altri re mori vicini porgono aiuto d'arme, di cavalli e di tutti gli altri instrumenti da far guerra: e questi sono li re d'India, Persia, Arabia e d'Egitto, del che io ogni dí piglio maggior molestia, vedendo li nimici della cristiana religione tra lor congiunti in fraterna carità godersi la pace, e li re cristiani miei fratelli in nessun modo a queste ingiurie commuoversi né darmi aiuto alcuno, come saria il debito officio de' cristiani, poi che gli sporchissimi figliuoli di Macometto in sí fatto modo l'un l'altro aiutano. Non son però io uomo che a questa impresa dimandi gente d'arme, avendone a bastanza e di soverchio; solamente dimando le preghiere e supplicazioni vostre verso Iddio, e desidero solo di aver grazia presso alla vostra Santità e presso agli altri re miei fratelli: e per tanto io non ho da cercare l'amicizia con voi se non per esser largamente fornito di quelle cose che di sopra ho dimandato, a terrore e spavento de' Mori, e accioché li nimici del nome cristiano che mi son vicini sappiano come li cristiani miei fratelli mi danno aiuto con sommo studio e favore. Il che certamente appartiene al nostro commune onore, poi che noi ci concordiamo nell'unità della vera religione e fede, e siamo per star sempre saldi in quel consiglio e deliberazione che piú ferma e perfetta e piú utile potrà essere. Iddio dunque adempia i desiderii vostri nelle laudi di Giesú Cristo e di Dio Padre nostro, che da tutti sia laudato in tutti li secoli. E tu, santo padre, abbracciami con tutti i santi di Giesú Cristo che sono in Roma, e in questi medesimi abbracciamenti prego insieme siano ricevuti tutti gli abitatori de' miei regni e quei che stanno in Etiopia. Sia resa grazia al Signor Giesú Cristo con lo spirito vostro. La Santità vostra riceverà queste lettere per mezzo del fratel mio re Giovanni, figlio del potentissimo re Emanuele, da Francesco Alvarez nostro ambasciadore.
Le quali lettere poi che furon compite di leggere, il detto Francesco Alvarez ambasciadore disse queste parole che seguitano in parlar portoghese, le quali allora furon subito replicate in latino dal secretario dell'ambasciador di Portogallo, accioché tutti le potessero intendere, cioè:
"Santissimo e beatissimo padre, il serenissimo e potentissimo signor David, re della grande e alta Etiopia, volgarmente detto il Prete Ianni, non men di osservanza della vera religione che d'imperio, ricchezze, regni eccellente, ha mandato questo suo ambasciadore a vostra Santità con queste lettere che egli v'ha presentato, commettendogli che umilmente, come egli ha fatto, presti vera obbedienza e suggezione in nome di sua maiestà e di tutti i suoi regni a vostra Santità, come a vero vicario di Cristo, successore di Pietro e sommo pontefice di tutta quanta la chiesa; e ch'egli vi offerisca questo picciolo presente d'una croce d'oro, la qual vostra Santità stimerà non tanto per il prezzo, che è piccolo, quanto per riverenza di quella croce sopra la quale il nostro Signor Giesú Cristo per noi si degnò patire, supplicando quella umilmente in nome del detto signore che si degni accettare tutte queste cose con pietoso amor di padre dal suo devotissimo figliuolo".
A cui il secretario del detto santissimo signor nostro, comandato da sua Santità, in questo modo rispose:
"Il santissimo signor nostro con molto grato animo, benigna volontà e paterna affezione ha ricevuto te, Francesco Alvarez, ambasciadore del serenissimo David re dell'Etiopia, insieme con la obbedienza, il presente e le lettere che hai portato, e rende grazie a Dio che a' suoi tempi gli abbia conceduto veder le lettere e ambasciadore d'un tanto re cristiano e sí remoto, onde egli diligentemente e volentieri ha inteso le lettere e le parole tue. La obbedienza insieme con li venerabili suoi fratelli cardinali della santa romana chiesa benignamente accetta, e ha molto a grado il dono, sí per la imagine e onore della santa croce, e sí per l'affezione di chi lo manda. Lauda ancor sommamente nel Signor Iddio il serenissimo re di Portogallo, il quale, oltre agli altri grandissimi meriti suoi e de' suoi progenitori verso la repubblica e fede cristiana, e si porti tanto amichevolmente e benignamente con esso re David, e con lui abbia congiunto e conservi l'amicizia e il commerzio, avendo fatto sicuramente pervenire te con queste lettere a sua Santità. Quanto appartiene al resto, sua Santità è per porre ogni opra che, per quanto si potrà fare in tanta disgiunzione di paesi, li pii desiderii del detto re siano sodisfatti, e che egli sempre conosca sé essere e avere ad essere appresso di sua Santità e della santa siede apostolica tra gli altri principi cristiani in amore e onore e in luogo di carissimo figliuolo. E di queste cose trattarà sua Santità con l'ambasciadore di Portogallo e con teco qui, e per lettere e nuncii suoi, e alla maestà del tuo re piú particolarmente risponderà".
Il che fatto, il concistoro ebbe licenza.
Sopra il crescere del fiume Nilo
Discorso di messer Gio. Battista Ramusio sopra il crescer del fiume Nilo, allo eccellentissimo messer Ieronimo Fracastoro.
Come furono varie e diverse opinioni sopra i fonti del Nilo; quando cominciano le pioggie in quelle parti di Etiopia e quando finiscano; la causa dell'escrescenza del Nilo; come nasce nel regno di Goiame da due grandissimi laghi; e non esser fiume alcuno che scorra per tanto paese sotto il sole quanto il Nilo.
Furono, eccellentissimo Signor mio, fra gli antichi scrittori diverse e varie oppenioni sopra li fonti del Nilo, e d'onde avenisse che ogni anno nella state, ad un tempo determinato del solstizio, quando gli altri fiumi sogliono esser secchi o con poca acqua, questo solo allora comincia a crescere, e per quaranta giorni tanto si gonfi che egli inondi e allaghi tutto il paese dell'Egitto, e dapoi in altri quaranta giorni discrescendo ritorni nel suo alveo consueto. E la intelligenza di tal cosa fu reputata tanto degna e ammirabile, che si vede tutti i grandi uomini nei lor libri averne voluto far particolare inquisizione. E Omero, padre de' poeti, lo dimanda acqua che vien da Giove, e si legge che Eudoro e Aristone, filosofi peripatetici, ne composero sopra tal materia libri interi. La qual, ancora che sia stata per lo adietro disputata da molti eccellenti ingegni, nondimeno fin a' tempi nostri non si sa che ella sia stata determinata né chiarita: e la causa di tal ignoranza si comprende esser proceduta solamente per non essere state penetrate quelle parti da alcuno uomo d'intelletto che le abbia volute considerare e descrivere. E conciosiacosaché, essendovi andato del MDXX don Francesco Alvarez con uno ambasciadore del re di Portogallo, e notato meglio che egli ha saputo il viaggio suo fino alla corte del Prete Ianni, ne abbiamo al presente tanta notizia che, se per un altro uomo diligente vi fussero aggiunti li gradi delle altezze delli luoghi principali, e massimamente da un capo all'altro del Nilo, che costui non vidde, si potria quasi appresso congietturare la causa del crescer del detto fiume; imperoché, smontato che egli fu sopra la banda sinistra del mar Rosso al porto detto Ercocco, ch'è in gradi 16 sopra la linea, e di lí andato al monastero della Visione, XXIIII miglia lontano, gli fu detto che alli 17 di giugno cominciava in quelle parti dell'Etiopia il tempo delle pioggie, che essi chiamano verno, e durava fino alla mettà di settembre, e cosí dice che andando alla detta corte, che era andar verso la linea, ebbe per tutto quasi il mese di luglio pioggie grandissime e acque infinite; per la lezione della quale scrittura confesso a Vostra Eccellenza che mi allegrai grandemente, tenendo per fermo che questa fusse la vera causa, sí come veramente ella è, di tal escrescenza, né che piú oltra si dovesse cercare; nondimeno, avendovi voluto pensar sopra e considerar alquanto minutamente le particularità che scrive questo don Francesco, vi trovo delle difficultà non poche, che non mi lasciano cosí a punto del tutto satisfare. E accioché Vostra Eccellenza intenda quelle cose che mi fanno dubitare, mi sforzerò col piccolo e debile ingegno meglio che saperò di esprimerle. E per tanto dico che, per lo scriver del viaggio di questo uomo e per il titolo che si legge nelle lettere del Prete Ianni, il fiume del Nilo nasce nel regno di Goiame da due grandissimi laghi che assomigliano a mari, i quali non bisogna dubitare che non siano oltra la linea dell'equinoziale verso l'Antartico, sí per li termini che di detto regno vengono descritti dal prefato don Francesco, come per la oppenione di Tolomeo, che gli mette in gradi sei australi, e quivi il detto fiume, passando sotto la linea, e dopo le due cataratte maggiori e minori, che sono cadute che fa il fiume di alcuni luoghi alti, si sparge per campagne, dove perde l'alveo, e di nuovo poi ritornato in sé, fatti alcuni rivolgimenti, passa il tropico di Cancro e se ne viene diritto alla città del Cairo, sboccando nel mar nostro Mediterraneo. E non è fiume alcuno di quelli de' quai abbiamo notizia in questo nostro abitabile che corra cosí lungamente e per tanto paese sotto il corso del sole come fa questo.
Dubitazion sopra il crescer del Nilo, e che fra li tropici non si vede mai neve.
Ora dei fonti del Nilo non accade dirne altro, avendosene al presente tanta notizia. Ma ritornando alla escrescenza del fiume che si causa dalle pioggie, dico che 'l corpo del sole, sí come Vostra Eccellenza sa molto meglio di me, è sempre quel medesimo, col suo splendore puro e semplice, né si può mai in quello imaginarsi alterazione alcuna di caldo o di freddo, vada pur dalli solstizii alli equinozii o dalli equinozii alli solstizii, cosí verso il nostro polo come verso l'opposito, che sempre da quello non può venir altro che lume semplice; ma il caldo, il freddo, le nebbie, le pioggie, i tuoni che si fanno qui da noi, sono accidenti che fa il ripercuoter di questo lume sopra diverse parti della terra, come saria a dire in luoghi piani, diserti, aridi, bagnati, sopra monti over valli, paludi over mari, dove secondo la varia ripercussione di questo lume si causano varii e diversi effetti, li quali sono maggiori e minori secondo la longhezza over brevità del tempo che 'l sol dimora sopra le dette parti, e anco secondo che li raggi di quello battono diretti e perpendiculari, obliqui over lontani.
E per tanto, volendo discorrere sopra questo crescimento del Nilo secondo la scrittura di questo don Francesco, faremo questo presupposito, e diremo che alli fonti di quello sia A verso l'Antartico, e dove è Ariete sopra l'equinoziale sia B, la metà di Tauro sia C, il tropico di Cancro sia D, e ritornando alla metà di Leone sia E, e di nuovo sopra l'equinoziale, dove è Libra, sia F. Vorrei saper da Vostra Eccellenza d'onde avviene che 'l sole, partendosi dall'equinoziale, dove è B, cioè Ariete, e andando a C, dove è la metà del Tauro, e di lí poi a D, dove è il tropico di Cancro, sempre però passando sopra il fiume del Nilo, non causa escrescenza alcuna; ma come ei si rivolta da D ad E, cioè da Cancro a Leone, immediate per quaranta giorni egli fa cosí gran pioggie ed escrescenza, e da E ad F, cioè da Leone all'equinoziale, dove è Libra, va poi diminuendo e cessando. Questa varietà che si vede causar cosí grande sopra una linea medesima, che è il Nilo, in questo viaggio del sole, cioè che venendo verso il solstizio estivo egli non faccia alterazione alcuna, ma partitosi da quello causi cosí gran pioggie, mi genera una gran dubietà e ambiguità nell'animo, né mi posso imaginare da che possa procedere, perché li medesimi luoghi piani, aridi, secchi, umidi, monti e valli che il sol truova venendo verso il tropico di Cancro, li medesimi egli ritruova ritornando, e le medesime e l'istesse ripercussioni di raggi sono fatte nel ritorno che furono nel venire. E se la Eccellenza Vostra mi rispondesse che il sole nel ritorno ritruova le parti della terra scaldate, e per l'alterazion di quelle egli è piú potente ad elevar vapori e nebbie e quelle risolver in pioggia, le rispondo: per che cagion fa egli questo effetto per li quaranta primi giorni che si parte dal tropico di Cancro, cioè dalla metà di giugno, secondo il scriver di don Francesco, e passati quelli va sempre mancando di forze, fin che giunge in Libra sopra l'equinoziale, e nondimeno ei non si diparte mai col suo corso di passar sopra il Nilo? E se la Eccellenza Vostra volesse addurre che le nevi che sono sopra li monti di Etiopia o della Libia, per li raggi perpendiculari del sole nel suo andar al tropico e ritorno, si dileguano e fanno questa escrescenza, le dico che fra li tropici non si vede mai neve, per quello che vien affermato, ma in luogo di quelle le sommità degli altissimi monti sono sempre circondate da folte e grosse nebbie, le quali non si dipartono, né perché il sole vi passi perpendiculare, né perché egli sia lontano, ma vi stanno sempre risolvendosi in pioggia. E che questo sia il vero li monti dell'isola di San Tomé, che è sotto l'equinoziale, e Serra Liona, che è sopra l'Africa gradi otto verso di noi, di continuo lo dimostrano. Poi questa escrescenza del fiume si comincia a far su la Etiopia e molte miglia di sopra la città di Siene, che è sotto il tropico; né li monti di Libia, che son fuori di quello, vi possono con le lor nevi, se è vero che ne abbino, far effetto alcuno.
Ch'il sol, venendo al solstizio, non è causa di queste pioggie onde cresca il Nilo.
Quello che fin ora abbiamo detto è stato per il sentimento che abbiamo cavato dalla scrittura del detto don Francesco. Ma lasciando quella si può discorrere ancora ad un altro modo e dire che, cominciando a crescer il Nilo nella città del Cairo alli 17 di giugno ordinariamente, come molti uomini che lo hanno veduto per molti anni lo affermano, e allo 'ncontro dicendosi che nella Etiopia alla metà del detto mese comincia il lor verno con pioggie grandissime, che fan crescer il Nilo, questa cosa è molto difficile da comprendere, conciosiaché l'acqua di dette pioggie non è possibile ch'ella possa giunger in cosí pochi giorni per sí lungo spazio di cammino fino al Cairo, per un fiume che lentamente con tante rivolture va correndo. E per tanto è necessario di concludere che, come il sole giunge alla metà del Tauro, comincino allora le pioggie, e che elle continuino fin che egli viene ascendendo al principio di Cancro sopra il solstizio, che sono quaranta giorni, e che, come il sole poi dà la volta e comincia a discendere, elle cessino allora del tutto. E a questo modo l'acqua delle prime pioggie, caduta nel principio di maggio, comincierà giunger alla metà di giugno al Cairo, e andarà crescendo per il medesimo spazio di tempo che il sol pose fin al solstizio; allora cessando di piovere, il fiume a poco a poco cominciarà ancora egli a descrescer per il medesimo tempo di quaranta giorni, fin che sarà fornita di venir giuso tutta l'acqua piovuta. E per questa varietà è forza che torniamo di nuovo sopra la medesima difficultà che abbiamo toccata di sopra, cioè per che causa il sole debba far piovere venendo al solstizio, e da quello partendosi debba cessare, massime correndo sempre sopra la medesima linea del Nilo in questo suo ritorno, come egli fece nella sua venuta. E accioché la Eccellenza Vostra senta quello che di questa materia pensarono gli antichi, non sarà fuor di proposito lo udirne parlare alquanto da Diodoro Siculo, il quale con somma diligenza raccolse insieme tutte le loro oppenioni, e nel mezzo del primo libro della sua istoria dice in questo modo.
Varie opinioni delli antichi sopra il crescere del Nilo, da Diodoro Siculo con somma diligenzia raccolte. Che dalli re del Cairo fu fatto il niloscopio, cioè regola del Nilo, per veder ciò che a tutte l'ore faceva il Nilo, del qual niloscopio facevano dell'abondanza di quell'anno.
Del crescer veramente del fiume Nilo, sí come a quelli che lo vedono è cosa maravigliosa, cosí è fuor di ogni credenza a quelli che ne odono parlare, conciosiacosaché tutti gli altri fiumi circa il solstizio estivo diminuischino e di giorno in giorno si vadino facendo minori, questo solo allora cominci a farsi grande, e continui tanto ogni giorno a gonfiarsi che alle fini inondi e cuopra quasi tutto il paese dell'Egitto; nel medesimo modo dipoi al contrario mutandosi, in equal tempo di giorno in giorno a poco a poco vada discrescendo, fin che egli ritorni nel suo pristino stato. Ed essendo tutto questo paese piano di campagna, e le città, ville e cappanne edificate sopra monti di terra fatti a mano, rapresenta a chi lo riguarda le isole dell'arcipelago dette Cicladi. La piú parte delle fiere terrestri muoiono affogate dal fiume, se non quelle che alli luoghi alti fuggendo si salvano; le pecore e altri bestiami, nel tempo di queste inondazioni, rinchiusi nelle ville e cappanne si pascono del cibo che per innanzi tutto quel tempo gli vien preparato. Allora li popoli, liberi dalle fatiche, attendono a darsi buon tempo, faccendo conviti e senza pensiero godendo di quelle cose che piú gli piacciono. E per il travaglio che suol apportar seco una tanta inondazione, fu fabricato dalli re nella città di Menfi, cioè Cairo, uno edificio nel qual si poteva vedere a tutte l'ore ciò che faceva il Nilo, e fu chiamato per questo niloscopio, cioè regola e livello del Nilo. Quivi coloro che a questo erano deputati pigliavano la misura del crescimento che faceva il fiume ogni giorno, e poi con lettere lo facevano sapere alle città, dichiarando quante braccia over dita era cresciuto, e quando egli cominciava a discrescere: d'onde avveniva che, intendendosi da ogniuno questa mutazione, cosí del crescere come del discrescere, sicuri da ogni paura se ne godevano, conciosiacosaché conoscevano subito l'abondanza de frumenti e d'altre biade che aveva da esser quell'anno, per una antica osservazione che hanno gli Egizi con somma diligenza scritta appresso di loro.
E ancora che il render la causa di questa inondazione sia cosa molto difficile e dubia, non però per questo noi debiamo restare di non volerne dire alcuna cosa sommariamente, sí per non far troppo lunghe digressioni, come per non lassar che di una materia tanto appresso ogniuno dubbiosa non ne facciamo anco noi alcuna menzione. E per tanto, universalmente sopra li scrittori parlando, dico che del crescer del Nilo e delli suoi fonti, e delle bocche per le quali scorre nel mare, e di molte altre cose nelle quali egli, che è il maggior del mondo, sia differente da tutti gli altri fiumi, alcuni scrittori non hanno avuto ardimento di volerne dire cosa alcuna, ancora che sopra ciascun altro piccol torrente sogliano far molto longhe dicerie. Altri, essendosi mossi a volerne render la causa, molto lontani dalla verità sono andati vagando. Ellanico, Cadmo ed Ecateo e tutti gli altri simili scrittori antichi, non sapendo che dirne altro, in cose fabulose si hanno lassato trasportare. Erodoto, che come ogni altro scrittore è diligente e curioso, e di molta pratica d'istorie, sforzandosi di renderne la causa, si trova che egli medesimo contradisse alle sue ragioni. Xenofonte e Tucidide, li quali quanto alla verità tengono il primo luogo fra tutti gl'istorici, del tutto si sono astenuti di parlar de' luoghi dell'Egitto. Eforo e Teopompo si vede che, quanto maggior fatica e studio in questo hanno posto, meno di tutti gli altri hanno potuto conseguire la verità. E tutti hanno errato non per negligenza, ma per non aver avuta cognizione e perizia di tal paesi e regioni, conciosiacosaché dagli antichi tempi fino al re Tolomeo detto Filadelfo, non solamente Greco alcuno era passato in Etiopia, ma neanco fino alli monti di Egitto, talmente erano tutti questi luoghi senza alcun commerzio e del tutto pericolosi. Ma dapoi che 'l detto re con eserciti di uomini greci entrò nella Etiopia, questa regione fu allora diligentemente conosciuta. E queste furono le cause della ignoranza di tutti li scrittori stati per lo adietro, onde intravenne che niuno fin al tempo di quelli disse aver veduti li fonti del Nilo e il luogo dove è il suo principio, over udito da alcuno che affermi esservi stato. E però, essendo ridotta la cosa in oppenione e congietture probabili, li sacerdoti di Egitto dicono che il detto fiume ha il principio dall'Oceano che circonda tutta la terra abitabile, nel che solamente non dicono cosa alcuna veritevole, ma mi par piú presto che vogliano chiarir un dubbio con un altro maggior dubbio, conciosiacosaché per confermazione e prova delle ragioni loro adducono quello che ha di bisogno di esser maggiormente provato e chiarito.
Ma delli popoli trogloditi, quelli che si chiamano Molgii, i quali dalli luoghi di sopra si sono partiti per il caldo, dicono esservi molte congietture per le quali l'uomo può comprender che per molti fonti che in un luogo si vanno ragunando derivi il flusso del Nilo, e per questo esser il piú generativo di quanti fiumi che si abbia cognizione. A quelli veramente che abitano l'isola Meroe si può piú presto credere, conciosiacosaché siano del tutto alieni da trovare invenzioni che paiano verisimili; nondimeno, essendo costoro vicini a questi luoghi delli quai si disputa, in tanto si allontanano di dir cosa alcuna certa delle sopradette che chiamano questo fiume Astapo, che nella nostra lingua vuol dir "acqua delle tenebre", e cosí al Nilo han posto un proprio nome cavato dalla loro innata ignoranza e inscizia delli luoghi incogniti. Ma a noi verissima pare esser quella ragione che si allontana dalle fizioni. E non voglio restar di dire che Erodoto, scrivendo li confini della Libia, che è dalla parte orientale del fiume, e quelli che sono dalla parte occidentale, attribuisce la certa cognizione del detto fiume alli popoli detti Nasamoni, e dice che, avendo principio da una certa palude, corre per la region di Etiopia, che è inesplicabile e infinita. Non però per questo né a questi popoli di Libia che dicono cosí, ancor che parlino secondo la verità, né allo istorico debbiamo attendere, quando le lor parole sono senza dimostrazione o ragione alcuna.
Dapoi adunque che abbiamo e delli fonti e del corso del Nilo parlato, ci sforzeremo di render le cause del crescimento di quello. Talete, che fu annumerato fra li sette savii della Grecia, dice che, soffiando li venti di ponente che son chiamati etesie, il corso del Nilo è ribattuto all'insú dal mare, e per questo gonfiandosi le acque del fiume, ne segue la inondazione sopra tutto il paese dello Egitto, che è piano e basso. E ancora che questa ragion paia contener in sé qualche dimostrazione, nondimeno facilmente si può convincer per falsa, conciosiacosaché, se questo fusse vero, tutti i fiumi che avessero le lor bocche opposite al soffiar delle dette etesie si gonfieriano col medesimo crescimento: il che vedendosi non accader in alcuna parte del mondo, è bisogno d'investigar un'altra causa, che sia piú vera, di questa inondazione.
Anassagora fisico disse che le nevi che si liquefanno nella Etiopia son causa di questo crescimento, la qual cosa par che Euripide poeta suo discepolo sentisse, quando dice:
La bell'acqua lasciando
del fiume Nil, che dalla terra scorre
d'uomini neri, e allor gonfia l'onde
che d'Etiopia si struggon le nevi.
La qual ragione anco facilmente si può ribattere, conciosiacosaché a tutti sia manifesto e chiaro che per la grandezza del caldo è impossibile che nell'Etiopia vi caschino nevi, e universalmente in questi luoghi né ghiaccio né freddo né segno alcun di verno appare, e massimamente nel tempo che cresce il Nilo. E se alcuno pur volesse ch'egli crescesse per causa delle nevi, senza alcun dubio renderia un vento freddo e aere nuvoloso e denso, la qual cosa circa il Nilo solo di tutti i fiumi non si vede, cioè né condensazion di nuvole, né l'aure fredde, né aere denso.
Erodoto veramente afferma il Nilo naturalmente esser della grandezza come si vede nel tempo del suo crescimento, ma che nel tempo del verno il sol, girando sopra l'Africa, tira a sé molta umidità dal Nilo, e per questa causa che in quella stagion di tempo contra la sua natura il fiume si sminuisce e diventa piccolo; ma venendo la state il sole, partendosi da quella regione e venendo verso settentrione, secca e abbassa tutti li fiumi della Grecia e ciascun'altra regione che sia nel sito simile a quella: e però non è cosa maravigliosa questa che accade circa il Nilo, perché si abbassa non nelli caldi grandi ma nel verno, per la causa detta di sopra. A questo si può rispondere che è cosa conveniente che, sí come il sole tira a sé l'umor del Nilo nel tempo del verno, cosí tirasse ancora da tutti gli altri fiumi che son nella Libia qualche umidità e abbassasse le acque di quelli; ma, perciò che in parte alcuna della Libia non si vede far simil cosa, si comprende che l'istorico poco consideratamente circa questo ha parlato, conciosiacosaché li fiumi che sono nella Grecia crescono nel verno non perché il sole si sia allontanato, ma per la moltitudine delle pioggie che si fanno.
Democrito Abderita dice che li luoghi verso mezzogiorno non hanno nevi, sí come diceva Euripide e Anassagora, ma sí ben li luoghi verso settentrione, come è manifesto a tutti, perché la moltitudine delle nevi raccolte insieme nelle parti boreali nel solstizio iberno rimane agghiacciata, e nella state dal caldo dileguata, il ghiaccio fa gran colliquazione, e per questo si generano molte e crasse nuvole nelli luoghi piú alti, perché la esalazione in alto abbondantemente si leva; le quai nuvole poi dalli venti etesie sono spinte fino che si abbattono nelli monti altissimi del mondo, i quali dicono esser nell'Etiopia, e ivi si risolvono in pioggie, dalle quali se ne cresce il fiume, massimamente nel tempo dell'etesie. Questa ragione facilmente si può confutare se diligentemente consideraremo il tempo del crescer del fiume, percioché il Nilo comincia a crescer nel solstizio estivo, quando l'etesie ancora non soffiano, e finisce di discrescer nell'equinozio autunnale, molto innanzi del quale li detti venti sono cessati. E però, quando la certezza della esperienza distrugge la probabilità delle ragioni, si debbe ben laudare lo ingegno dell'uomo, ma non già si debbe dar fede a quelle cose che da lui son dette. Lascio di dire che si vede che l'etesie non piú da tramontana che da ponente soffiano, conciosiacosaché non solamente li venti di buora o da greco levante, ma anco quelli che soffiano da ponente maestro, sono chiamati con questo nome di etesie. Dapoi dir che li monti che sono in Etiopia siano li maggiori del mondo, non solamente è senza prova alcuna, ma neanco per effetto alcuno creder si può.
Altre opinioni di Eforo, di filosofi di Menfi, di Enopide e di Agatarchide, del crescer del Nilo. E quivi come Meandro fiume per esaggerazione ha fatto una gran regione, e il simile Acheloo e il Cefiso.
Eforo, adducendo una molto nova causa, si sforza di farla probabile, ma si vede però che egli non ne conseguisce la verità, perché dice che l'Egitto è tutta terra esaggerata dal fiume e rara e come di natura di pietra di pomice, ha in sé caverne e rotture grandi, e però raguna in sé gran copia di umori, li quali nel tempo del verno in sé contiene, ma nella state manda fuori da ogni banda come sudori, e con questi si empie il fiume. Ma questo istorico non solamente mi par che non abbia veduto la natura delli luoghi di Egitto, ma neanco che l'abbia voluta intendere da quelli che diligentemente l'hanno veduta, perché primamente, se da esso Egitto il Nilo ricevesse questa abondanza che lo fa crescere, nelle parti di sopra per modo alcuno egli non cresceria, correndo per luoghi sassosi e sodi, ma si vede che per spazio di piú di 600 miglia egli corre per la Etiopia, e nondimanco è gonfio e pieno per tutto quello spazio avanti che tocchi l'Egitto. Poi, se 'l flusso del Nilo è piú basso delle rarità e concavità della terra esaggerata, accaderia che le fissure e caverne fussero nelle superficie, nelle quali saria impossibile che cosí gran copia di acqua si contenesse; ma se il luogo del fiume è piú alto delle fissure della terra, è impossibile che dalle caverne piú basse il flusso degli umori scorra nella superficie piú alta. E universalmente chi è colui che giudicasse esser possibile che li sudori contenuti nelle rarità della terra facessero cosí grande accrescimento del fiume, che da quello quasi tutto l'Egitto si sommergesse? Lasso di dire che è cosa falsa che nella terra esaggerata e nelle rarità di quella si possino servare acque, essendo le prove al contrario manifeste, perché il fiume Meandro nell'Asia ha fatto una gran regione per esaggerazione, nella quale nessuna cosa simile al crescimento del Nilo accader si vede; e similmente in Acarnania il fiume detto Acheloo, e in Boezia il Cefiso, che vien dalli Focensi, non piccola parte di regione ha atterrato, e nientedimeno in tutte due questi si può conoscer manifestamente la falsità che ha detto questo istorico, benché da Eforo non si debbe cercar cosí per sottile la certezza delle cose, vedendolo, come in molte è stato, cosí negligente della verità.
Li filosofi veramente di Menfi si hanno sforzato di render la causa di questo crescimento, che piú presto non si possa confutare che perché sia verisimile, alla qual la piú parte consente. Dividono adunque la terra in tre parti, e dicono che una è questa nostra abitabile; l'altra, che è opposita a questa, simile nelle nostre stagioni dell'anno; la terza, che è posta in mezzo fra queste due, la quale per il caldo è inabitabile. Se il Nilo adunque, dicono, inondasse nel tempo del verno, non saria dubio che dalla nostra zona riceveria quel crescimento, perché in quelli tempi massimamente appresso di noi si generino le pioggie; ma perché al contrario nella state cresce, è cosa verisimile che nelli luoghi oppositi si faccia verno, e si generino acque le quali, abondando da quelli luoghi, in questa nostra abitabile scorrano: e però dicono che nessuno ha potuto pervenire alli fonti del Nilo, come quello che dall'opposita zona per la parte inabitabile passa qui da noi, e di questo esserne testimonio la eccessiva dolcezza dell'acqua del Nilo, il quale scorrendo sotto la zona abbruciata si cuoce, e per questo l'acqua di quello è molto piú dolce che quella di tutti gli altri fiumi, perché è cosa naturale che il calore e 'l fuoco ogni umor addolcisca. Ma questa ragione dà una occasion di contradire, perché pare al tutto esser impossibile che un fiume della opposita terra in questa nostra ascenda, massimamente se si concede che la terra sia rotonda e sferica, perché, ancor che alcuno con ragion voglia audacemente sforzare e far violenza a quello che si vede in effetto, la natura però delle cose a nessun modo il consente. Onde costoro, avendo introdutto una opinione che non si può riprendere, constituendo in mezzo una regione inabitabile, pensano a questo modo di poter fuggire la manifesta confutazione. Ma è cosa giusta che quelli li quali affermano alcuna cosa, o veramente adduchino la evidenza della cosa per testimonio, o veramente faccino dimostrazioni e prove da principii concesse, a che modo il Nilo solo da quella terra opposita a questa nostra passa: non è cosa verisimile che anco in quella vi siano degli altri fiumi, sí come è appresso di noi. Dipoi la causa della dolcezza dell'acqua è del tutto sciocca, percioché, se 'l fiume cotto dal gran caldo si fosse indolcito, non saria generativo né produrria tante varie forme di pesci e animali come egli fa, perché ogni acqua che dalla natura del fuoco è alterata è alienissima dal generare e produrre animali, e però, essendo la natura del Nilo al tutto contraria a questa cottura nuovamente introdutta, è da pensare che queste cause del crescimento già dette siano false.
Enopide Chio dice che nel tempo della state le acque nella terra sono fredde, e nel verno al contrario calde, la qual cosa si vede manifestamente nelli pozzi profondi, li quali nel tempo del maggior freddo hanno l'acqua molto manco fredda, ma nelli gran caldi quella che si cava è freddissima. E però dice esser cosa ragionevole che il Nilo nel verno sia piccolo e contratto, perché il caldo che è sotto la terra consuma molta parte della sustanza umida, non accadendo pioggie altramente nell'Egitto; ma nella state, perché non si consuma piú sotto terra l'acqua nelle profonde parti, il natural flusso del fiume senza impedimento alcuno si empie e cresce. Ma contra questa ragione ancora si può dire che molti fiumi sono nella Libia li quali similmente hanno poste le bocche e similmente scorrono, e nientedimeno non inondano e crescono come fa il Nilo, ma al contrario, nel verno crescendo e nella state calando, dimostrano la falsità di colui che con probabilità si sforza di superar la verità. Appresso la quale si è bene accostato Agatarchide Gnidio, il qual dice ch'ogni anno nelli monti di Etiopia si fanno continue pioggie dal solstizio estivo fino all'equinozio autunnale, e però naturalmente il Nilo nel verno sta basso, nella sua natural quantità di acqua che viene dalli suoi fonti, ma nella state dalle pioggie che abbondano cresce. E se ben nessuno fin oggidí ha possuto assegnar la causa della generazion di queste acque, dice però che non si deve reprobare questa sua openione, perché la natura suol produrre molte cose a modo contrario, delle quali trovarne le cause certe agli uomini non è possibile, e che quello che accade in alcuni luoghi dell'Asia può esser testimonio di questo ch'egli ha detto. Conciosiacosaché, nelli luoghi della Scizia che si congiungono al monte Caucaso, ogni anno quando è passato il verno, sogliono cader grandissime nevi continuamente per molti giorni, e nelle parti dell'India che guardano verso il vento di buora, a certi tempi determinati suol discendere tempesta di grandezza e moltitudine incredibile, e circa il fiume Idaspe continue pioggie: e nella Etiopia dopo alquanti giorni il medesimo accade, e cosí questa mutazione, rivolgendosi per circolo, sempre diversi luoghi continuamente infesta e perturba. E però dice egli che non è cosa fuori di ragione se diciamo che nella Etiopia, che è sopra dell'Egitto, le continue pioggie che cadono ne' monti nel tempo della state fanno crescer il fiume, conciosiacosaché li barbari che abitano in questi luoghi faccino testimonio di questo effetto. E ancora che questo che ho detto abbia contraria natura a quello che accade appresso di noi, non debbiamo però non volerlo credere, perché il vento da ostro, che appresso di noi è pioggioso, si dice che nella Etiopia è sereno, e li venti di buora, che nella Europa sono sí sforzevoli, nella detta regione sono rimessi e al tutto senza forza e deboli.
E del crescimento del Nilo, ancora che potremmo piú variamente rispondere e contradire alle openioni di costoro, saremo contenti delle cose dette, accioché non eccediamo la brevità la quale da principio ci abbiamo proposta.
Questo è quanto nelli libri di Diodoro si legge, dove essendovi molte parti, oltra la inquisizione di questo crescimento, degne del sublime ingegno di Vostra Eccellenza, la quale ne ha illustrato, per dir liberamente, tutti li moti dei cieli, con molte altre belle parti di filosofia, contra la oppenione degli antichi, è ben conveniente che anche dagli occhi ella ne debbia levar via la offuscazione di tante erronee imaginazioni che li detti fecero sopra questo globo della terra, la qual si sa ora chiaramente che è tutta abitata, né vi è parte alcuna o calda o fredda, se non sono solitudini e mari, che non sia piena di uomini e animali, che vi stanno ciascuno come in region temperata, dico temperata alla complessione data loro dalla natura. E ancor che sappia quante siano le occupazioni sue di continuo, nondimeno non voglio restar di pregarla ch'ella sia contenta di volere scrivere alquanto lungamente delle cause ch'ella pensa che possano far questa tale escrescenza, perché veramente sono tutte cose tanto maravigliose e stupende che maggiori non mi saprei imaginare, né dove li suoi alti concetti e divini pensieri si potessero meglio esercitare che in queste: non avendo quelli altro piacere e diletto se non di camminare per strade non tocche da piedi di altri, ma che sieno lontane dalle ordinarie e consuete. E cosí come si legge che a Ercole era cosa fatale il levar via molti mostri che guastavano il mondo, cosí penso che sia fatale a lei il levar via le tenebre di molte false oppenioni che fin ora hanno tenute offuscate e come guaste le menti di quelli del secol nostro, li quali non è dubbio che, invitati dalli suoi scritti, si sforzeranno di volere ancor essi di nuovo ritrovar qualche parte da lei non tocca, che poi il tutto alla fine redonderà in beneficio delli studiosi.
Risposta dello eccellentissimo messer Ieronimo Fracastoro del crescimento del Nilo a messer Gio. Battista Ramusio.
Tre sopra gli altri sono quelli effetti di natura le cui cagioni son molto occulte.
Degli effetti che manifesti nella natura veggiamo, messer Gio. Battista, avvegna che molti siano quelli che hanno le loro cagioni occultissime appresso gli uomini, nondimeno tra tutti tre sono stati precipui e riputati sopra gli altri occulti, e pieni di certa maggior admirazione appresso i nostri maggiori, li quali per la loro difficultà hanno di continuo e in ogni etate affaticato gl'ingegni. L'uno è stato il flusso e reflusso del mare, cosí terminato di sei in sei ore; l'altro è l'attrazione che di alcune cose veggiamo, sí come dell'adamante, della calamita, dell'ambro e molti altri simili; il terzo il crescimento del Nilo, cosí ordinato ogni anno in quel tempo nel quale tutti gli altri fiumi sogliono decrescere. Alli quali dubbi li posteriori hanno aggiunto il quarto, cioè il bossolo de' naviganti, del quale il perpendicolo sempre in ogni sito che sia collocato per sé si volge verso il polo. Problemi nel vero tutti occultissimi e sopra modo incogniti a noi, il che mostra la diversità delle oppenioni di coloro che ne hanno parlato. Molti de' quali veramente son degni di escusazione in alcuni di questi dubbi, percioché a loro non poterono esser note le cagioni, conciosiaché quelle dipendessero dalla notizia delle regioni e siti e condizioni particulari delle terre e mari e rispetti di quelli al sole, la qual notizia alle loro etati non pervenne: di che noi molto siamo obligati alla nostra, la quale tanto ha navigato e cercato del mondo, che gli uomini dell'altre etati in questa parte si ponno riputar come fanciulli a rispetto del secol nostro. Per il che, sí come gli antichi non poterono aver principio e via alla cognizione di qualcuno di questi effetti, cosí l'età nostra ne ha possuto aver lume e adito a penetrar molto piú dentro, sí come è stata la cognizione del crescimento del Nilo, di che voi, avendone avuto molta e molto degna considerazione per le cose ritrovate di nuovo, ne avete scritto a me e fattomi partecipe degli studii e pensieri vostri, li quali di continuo sono intenti e dirizzati a gentilissime e alte contemplazioni. Ma perché voi circa cotal materia ricercate anco il giudicio mio, e con la proposta di alcune non facili dubitazioni modestamente m'invitate a far quasi commentario sopra il discorso vostro, non potendo io né dovendo negare cosa che io veda piacer a voi, molto volentieri ragionerò vosco di cosí bella e cosí anco a me grata materia, per quanto le relazioni che se ne hanno e qualche altro principio mi potranno esser via a farne giudicio, se forse in cosí difficil cosa mi sarà concesso rettamente giudicare e potere scioglier le vostre dubitazioni.
Tra li tropici, in ogni luogo ove il sole è perpendiculare, piove sempre qualche poco del giorno.
Supporremo adunque, come per le relazioni si ha, di che piú volte avete a me scritto, che tra li tropici, in ogni loco ove il sole si fa perpendiculare o propinquo, sempre piove qualche parte del giorno, e vedesi elevare una folta nebbia che, adunata nella sommità de' monti, finalmente si converte in pioggia. Anco supporremo che, quando il sole comincia ad entrar nel solstizio estivo, nelli luoghi ove soprasta, e anche propinqui di qua e di là dal solstizio per sei o sette gradi, come sono gli Etiopi vicini all'Egitto e l'Egitto superiore, non solo fannosi le pioggie predette, ma fannosi come diluvii di pioggie che durano per giorni circa quaranta, il qual tempo gli Etiopi dimandano verno, e dura per tutto Cancro e parte di Leone.
Il sol quando comincia entrar nel solstizio, e anco nelli luoghi propinqui sei o sette gradi, si fanno pioggie grandissime. Il verno appresso gli Etiopi è nel tempo che la estate è appresso di noi.
Appresso supporremo che il crescimento del Nilo comincia parimente anche esso a questo medesimo tempo, cioè quando comincia detto verno appresso gli Etiopi ed è la state appresso noi, il qual crescimento dura circa quaranta giorni, per tutto Cancro e parte di Leone; da indi comincia a calare e decrescer piú e piú, tanto che in Libra se ne ritorna nel suo alveo dentro le solite rive. Del corso del quale, onde cominci e per quai parti descenda e per quanto spazio, altro non ne dirò se non quanto nel vostro discorso scrivete, supponendo ancora che nella Etiopia ed Egitto a quella vicino siano catene di molti grandissimi monti.
Che 'l Niger cresce insieme col Nilo, e due esser le cause per le quali principalmente crescono i fiumi, e molte per le quali possono crescere, ma vengono di raro.
Le quai cose supposte, descendendo alle cagioni che fanno il crescimento del Nilo in quel tempo che gli altri scemano, eccetto quello che si chiama Niger, il qual si dice insieme col Nilo crescere, dico che generalmente li fiumi crescono per due cause principali. L'una è quando interviene impedimento alcuno alle bocche de' fiumi, per il quale non potendo essi deponer l'acque loro nel mare, necessario è sgonfiarsi e crescere. L'altra è quando oltra l'ordinario nuova acqua e molta precipita nei fiumi, tale che meno è quella che depongono nel mare che quella che ricevono, il che anco fassi o per grande e subito dileguamento di nevi o per moltitudine di pioggie, lassando alcune altre cagioni che ponno certo accadere, ma perché rarissime volte avvengono, non si ponno addurre nel proposito nostro, non ne faremo menzione. Sí come a certe constituzioni o di stelle o di stagioni accade sotto la terra generarsi acqua assai nelli luoghi ove sono le origini de' fonti, e sí come a certi tempi avviene che le scaturigini dell'acque che sono sotto terra o per terremoti o per altro accidente mutino il loro corso, e sbocchino sopra terra o in qualche fiume o lago, sí come si legge del lago Albano, il quale senza manifesta causa tanto crebbe nel tempo che poi da' Romani fu preso Vegento. Hassi ancora veduto nascer novi fiumi, che dalla terra usciti ed entrati negli altri fiumi gli hanno grandemente aumentati. Taceremo similmente quelle cause che piú presto sono fabulose che possibili, che alcuni adducono de' crescimenti de' fiumi, delle quali alcune ne son recitate da Diodoro Siculo e da Seneca. Per il che le cause che ragionevolmente si ponno admettere nel proposito nostro saranno generalmente le predette, cioè le due prime, o impedimento delle bocche o nove acque ricevute, e questo o per dileguamento di nevi o per pioggie grandi: delle quali è da vedere quale possa far il crescimento che nel Nilo si vede.
Opinione di Talete e di Eudemene sopra il crescer del Nilo, e confutazione di quelle, e quando cominciano a soffiar le etesie.
Sono stati alcuni, come di Talete ed Eudemene si scrive, che hanno stimato il crescimento che si vede nel Nilo sia per impedimento che si fa nelle bocche ove il Nilo entra in mare, il quale impedimento dicono causarsi da que' venti che si chiamano etesie, non dalle etesie che spirano da ponente, ma da quelle che dall'acquilone, che parimente son chiamate etesie, le quali dicono soffiare a quel tempo che cresce il Nilo, e propriamente per giorni XL come anco cresce il Nilo. Questi venti adunque, soffiando allo opposito del fiume, spingono l'acqua del mare alle bocche del fiume e impediscono l'entrata sua. Ma nel vero questa opinione non si può difendere, prima perché, se è vero quello che scrivono gli auttori dello spirare delle etesie, falso è che comincino col crescimento del Nilo, anzi cominciano quando quasi è la fine del crescer del Nilo, conciosiaché li prodromi, che sono etesie leggieri, non cominciano se non alle fini di Cancro per giorni otto inanzi le etesie, onde son detti precursori, poi rinforzati e soffiando piú forte si chiamano etesie, quando già il Nilo è alle fini del crescere, di che Plinio cosí ne scrive: "Nell'ardentissimo fervore della state nasce la stella della Canicola, entrando il sole nella prima parte di Leone, il qual dí è il quintodecimo innanzi le calende d'agosto: nel nascer di questa per giorni circa otto prevengono gli aquiloni che chiamano prodromi, ma dopo duo giorni di quel nascere gl'istessi aquiloni soffiano piú fermamente giorni XL, i quali dimandano etesie". Il simile scrive Seneca e Columella e altri, onde si può vedere le etesie cominciar quando già il crescimento del Nilo è alle fini, e questa non poter esser la cagione di tal crescimento, per impedimento che si faccia alle bocche.
Oltra di ciò, se tale impedimento fosse la cagione del crescere del Nilo, si vedrebbe apertamente dagli Egizii, e l'onde del mare vedrebbonsi manifestamente essere spinte contro il fiume, e non accaderia tanto dubitare della causa di questo effetto come si fa; vedrebbesi anco cominciare il crescimento da lí in giú, e andar a poco a poco crescendo allo insú, di che il contrario piú presto si vede; e ultimamente l'acque del Nilo sariano chiare, e non torbide e lutose, il che essendo, dà segno che quella torbidezza proceda da acque che, per molto terreno correndo, portano quel lozzo grasso e torbido. Non potendo adunque esser cotal crescimento per impedimento fatto alle bocche, né per le etesie né per altro che possiamo imaginare, necessario è che sia per l'altra cagione, cioè per nove acque che precipitano nel Nilo: il che essendo o per dileguamento di nevi, o per pioggie grandi, o per lo uno e lo altro, resta vedere per quale di queste cause possa procedere.
Che la opinione di Anaxagora è falsa, che le cose che sono possibili solamente non si debbono admetter per vere, e che le pioggie son potissima causa del crescer del Nilo.
E sono alcuni, cosí degli antichi come anco de' moderni, ch'hanno detto tal crescimento farsi per dileguazion repentina delle nevi che sono nelli monti d'Etiopia e quelli d'Egitto superiore: e tal opinione si attribuisce ad Anaxagora. Ma neanco questa openione si pò mantenere e ricever per vera, prima perché molto dubbio è se dentro dalla tropici si possano far nevi o no, di che io mi riservo nel fine di questo trattato farne un poco di discorso; poi, concesso ancora che si possano far nevi in que' luoghi, non però pare che questo si possa addurre per causa del crescimento del Nilo, conciosiaché, se ei fusse, molto innanzi il crescimento del Nilo sariano anco dileguate, però che veggiamo appresso di noi dileguarsi le nevi quando il sole entra nel Tauro, ed è distante da noi per gradi 50: quanto piú deveria dileguar quelle che fussero dentro delli tropici, innanzi che entrasse nel Cancro, alle quali saria vicino non per gradi 50 ma per XIII e per XII. E se alcuno dicesse ciò avvenire per la grande altezza delli monti, pigliando esempio dallo Atlante, nel quale, come scrive Plinio, sono nevi etiam la state, e non è lontano dal solstizio estivo se non gradi cinque, dico che costui non adduce cosa che consti per relazione d'alcuno, ma che forse esser può; ma giusto non è le cose che solamente son possibili riceverle come vere, ma si debbono admettere come possibili, e cercare se altre cause ci sono che siano piú certe: e se ce ne sono, queste si devono tenere, ma se non ce ne sono, in quel caso è lecito admetter quelle che sono possibili. Per il che, lassando ora in sospeso la cagione delle nevi, cercheremo se le pioggie possono essere in causa perché il Nilo a quel tempo cresca. E veramente, se cosí è come da principio abbiamo supposto, che quando il sole comincia a entrar nel Cancro, e per tutto Cancro e parte di Leone, si vedono nella Etiopia diluvii grandissimi di pioggie, il che non solo accertano quelli che vi sono stati a' tempi nostri, ma anco gli antichi scrittori lo confermano, come Diodoro e Plinio e Aristotele nelle sue "Meteore", senza dubbio è da stimare (o ci siano o non ci siano nevi) che tali pioggie siano la cagione del crescimento del Nilo: e questo penso io sia da metter per certo e constante, ove non accade dubitare.
Ma quel di che si può dubitare è questo, donde e da qual causa si facciano quelli diluvii di pioggie nella Etiopia, e come si possano fare in quel tempo che il sole è nel solstizio e tanto abbrucia ogni cosa: di che io trovo oppinioni molto diverse, e alcuni dicono il sole poterlo fare a quel tempo, anzi solo a quel tempo, alcuni lo negano e adducono altra cagione, della qual cosa è da cercare molto diligentemente. Alessandro Afrodiseo, commentando Aristotele nelle "Meteore", nel primo libro ove tratta delle pioggie, dubitando circa quello che dice Aristotele, in Arabia ed Etiopia la state farsi pioggie grandissime, dice che la consistenza delle nuvole e li vapori non si fanno ivi, ma son portati dalli venti che si chiamano etesie, come esso Aristotele dichiara nel trattato del crescimento del Nilo. Per il che pare che la openion d'Aristotele e poi di Alessandro sia che la generazion delli vapori che fanno quelle tante pioggie in Etiopia non si faccia del sole in quelle parti, ma siano portate dalle etesie, le quali in Etiopia facciano quello che li scirocchi a noi, e sí come a noi li scirocchi portano gran quantità di nuvoli e vapori, perciò che passano sopra il mare, cosí le etesie parimente fanno agli Etiopi e all'Egitto superiore passando per molto mare.
Che la opinione di Aristotile e di Alessandro difficilmente si può difendere, e che alla generazione delle pioggie ci bisogna molte cause, e quali.
Ma veramente, se è lecito dubitare alle openioni di tanti filosofi, molto posso dubitare in questa cosa detta da Alessandro e attribuita ad Aristotele, conciosiaché, se è vero quel che di sopra abbiamo detto per testimonio di molti, che le etesie si facciano alla fine di Cancro, quando già il crescimento del Nilo è propinquo alla fine, io non so come questo che scrive Alessandro possa aver luogo. Al che si aggiunge che, se questa fosse la cagione di quelle pioggie per vapori portati da' venti, gli abitanti e quelli che vi sono stati e tutti che da quelli potessero esser informati niente dubitariano della causa che fa crescere il Nilo, sí come quando a noi piove per gli scirocchi niente dubitiamo onde siano quelle pioggie. Essendo adunque e appresso gli antichi e appresso gl'istessi abitanti sempre stato dubbio e tanto difficile a conoscer come si facciano quelle pioggie, parmi che mal si possa attribuir la cagione a venti che portino li vapori, tanto piú che, se è vero quello che da principio abbiamo sopposto per le relazioni, che ove il sole si fa perpendiculare sempre piova a qualche parte del giorno, che esser non può perché le etesie ci portano li vapori, ma perché il sole si elevi, ragionevole è che anche egli sia la cagione che tante pioggie si facciano quando sta come perpendiculare per molti giorni sopra certi prati. Ma nel vero alla perfetta risoluzione di questa materia molto importeria il sapere certamente a che tempo cominciano a spirare le etesie. E se a Plinio si può prestar piena fede, percioché egli distintissimamente mette il principio loro, Aristotele altro non dice se non che soffiano dopo le conversioni estivali del sole, ma quanto dopo non dichiara, e io per l'esperienza o per relazione altro non posso dirne.
Ci restarà adunque da investigare se il sole può esser causa di far l'attrazione delli vapori che sono materia di tante pioggie, e perché solo a quel tempo lo faccia, che è per tutto Cancro e parte di Leone, nella qual cosa sono non pochi e non facili dubbi: e primo, come in quelle parti tanto secche e bruciate sia tanta materia che sumministri vapori sufficienti a far diluvii di pioggie che durino tanto; poi, dato che si facciano li vapori, come esser può che 'l sole tanto perpendiculare e diritto non li risolva e proibisca far consistenza di nubi, conciosiaché appresso noi in trenta e quaranta gradi e piú vedemo, quando il sole è al solstizio, li vapori che si levano esser anco disciolti, e rade volte la state farsi pioggie, e se pur si fanno, le nubi sono portate d'altronde e la pioggia è molto breve. Oltre a ciò quel che dà piú maraviglia è ch'essendo il medesimo rispetto del sole alla terra, il medesimo viaggio per tutto Gemini che per tutto Cancro, perché non si fanno le dette pioggie cosí in Gemini come in Cancro: di certo gran meraviglia è che stando il sole sopra li medesimi luoghi, mentre che da Gemini va al Cancro e dal Cancro cammina al Leone, che non faccia la medesima attrazione de vapori, le medesime nubi e pioggie in Gemini come in Cancro. Maggior maraviglia è poi che, in tanto tempo che sta come fermo in un luogo, non consumi tutta la materia donde si devono far vapori, conciosiaché appresso noi, che siamo tanti distanti, vediamo la terra tanto essiccarsi, che nulle o pochissime pioggie si fanno. Per questi dubbi io penso Alessandro e gli altri esser mossi a non poter credere che quelle tante pioggie che si fanno la state nella Etiopia non abbiano la lor materia portata d'altronde; nondimeno, perché communemente si tiene il contrario, e che il sole la elevi dalli luoghi proprii di quella regione, io mi affaticherò a mostrare come ciò esser possa, e che non possa esser ad altro tempo che quando il sole corre tutto Cancro e parte di Leone.
Ma prima diremo ch'alla generazione delle pioggie ci bisognano molte cause per ordine, le quali concorrendo si fanno le pioggie, ma mancando o tutte o alcuna non si fanno. Prima ci bisogna la materia onde li vapori si possano fare, la quale è l'umido o de' mari e stagni e fiumi, o le parti della terra umide; poi ci bisogna lo agente che elevi da quello umore vapori assai, il che si fa introducendo in quell'umore tanto di caldo che sia sufficiente ad elevarlo, per il che il sole massimamente lo suol fare. Poi bisogna che li vapori elevati si unischino in certo luogo nell'aere e congreghino insieme, e faccino quel corpo stesso per l'aere che chiamano nube, la qual unione e consistenza parte fassi per la natura delle cose simili che concorrono in uno l'una con l'altra per la simpatia, parte fassi per l'antiparistasi del loco, la quale communamente è dove finisce la reflession de' raggi del sole, ove è fredezza assai, e massime se ci sono monti, i quali infreddano molto, e perché la reflession de' raggi non perviene alle sommità loro, e perché hanno della terra assai, che parte è fredda e non è scaldata come li luoghi piani, dalla qual antiparistasi si fa la consistenza e unione de predetti vapori. Oltre ciò ci bisogna che 'l vapore da novo si riduca alla natura dell'acqua, il che si fa perdendo la calidità che prima era introdutta e ricevendo nova freddezza, la qual si fa o dal luogo detto ove finisce la reflession de' raggi, e massime partendosi il sole, che pur con la presenza mantiene la calidità nel vapore, o dalle parti di essa nube che sono fredde. Ultimamente, uniti li vapori e ridotti alla natura propria e fatti acqua, che per sé è grave, descendono e fassi pioggia.
Come se ingeneri la pioggia, e come si facciano le pioggie quando poche, quando mediocri e quando grandissime; e quando il sol piú s'avicina al tropico, il sol si fa continuamente piú lungo.
Quando adunque questo ordine di cause concorre convenientemente, se la materia è poca fassi poca pioggia, se è mediocre fassi pioggia mediocre, ma se è molta, e l'attrazion molta, e li luoghi degli antiparistasi molto atti, allora si fan pioggie grandissime e diluvii, se accade che le cause possino durare. Ma se alcuna di queste cagioni per fortuna manca, manca anco la generazion della pioggia, il che o in certi luoghi o a certi tempi accade. Alcuna volta manca la materia per sé, come in molte parti della Libia, che sono arsiccie e sabulose; alcuna volta è consonta dal sole, come la state appresso noi; per il qual mancamento non fa attrazione ed elevazion de vapori. Alcune volte il difetto non è per la materia, ma è dallo agente, che è debole, come quando il sole è lontano e fa li raggi che fuggono e non si reflettono, e non è potente ad elevar il vapore, che è congelato dalla freddezza del luogo, come il verno appresso noi, e piú alli piú settentrionali, ove non piove se li nuvoli non son portati d'altronde. Alcune volte il vapore si eleva, ma non si unisce né si fa consistenza, il che fa o il calore eccessivo che li disolve o venti che li dispergono. Alcune volte sono elevati li vapori e consistono e sono uniti e sono in region debita, ma non si fan pioggia perché l'antiparistasi non è proporzionata a far pioggia, ma fa o neve o tempesta o vento.
È adunque da vedere se nella Etiopia e nell'Egitto superiore siano queste condizioni e ordini di cause, che senza necessità di esser portata la materia dalle etesie, si possono far pioggie e piccole e mediocri e grandi e lunghe, per le disposizioni della regione e del sole. E a me pare di sí, supponendo, come è detto, che nella Etiopia ed Egitto superiore siano catene di grandissimi monti, siano anco fiumi larghissimi, come il Nilo e altri, e appresso sia gran tratto di mari, il sino Arabico e l'Oceano. Dico adunque che prima, a far quelle pioggie che di giorno in giorno si fanno, ove il sole si trova perpendiculare e diritto, non è dubbio che non ci sia materia sufficiente per li vapori che s'hanno ad elevare, e ancora lo agente che li possa elevare, cioè il sole. Puossi ancor fare unione di quelli e consistenza dal luogo ove finisce la reflession de' raggi, massime ove sono monti assai, i quali sí per natura loro, che è fredda essendo terra, sí perché massimamente alle sommità loro non arriva la reflession de' raggi, resistono al sole, che non dissolva la consistenza de' vapori, e con l'antiparistasi parte gli uniscono, parte di novo li raffreddano e convertono alla natura di acqua e fan pioggia, il che di giorno in giorno si fa. La qual pioggia non è già quella che faccia il crescimento del Nilo, percioché quella, descendendo al piano, prima che arrivi al fiume si absorbe dalla terra, che è assai secca per sé e scaldata dal sole. Secundo dico che non solamente questa pioggia quotidiana mediocre o poca possi fare, ma etiam quella grande e lunga che li Etiopi dimandano verno, ed è diluvio d'acqua, ma tale non possi già fare ad ogni tempo e ogni luogo ove si trova il sole, ma solamente quando egli si trova nel solstizio per tutto Cancro e parte di Leone. Il che come si possa fare, cosí dichiararemo, supponendo che li paralleli che fa di dí in dí il sole, cosí partendosi dall'equinoziale per andar al tropico come partendosi dal tropico per ritornare all'equinoziale, sono continuamente piú e piú larghi e distanti l'un dall'altro quanto son piú vicini all'equinoziale, e sono continuamente tanto piú e piú stretti e men distanti l'un dall'altro quanto son piú vicini al tropico, supponendo ancora ch'il giorno si fa continuamente piú longo quanto il sole piú s'avicina al tropico.
Quando e in che modo far si possino pioggie grandissime.
Cominciando adunque dal tempo che il sole si trova nell'equinoziale, e anche per tutto Ariete, dico che ovunque si fa perpendiculare può far pioggia, come è detto, di giorno in giorno, ma tal pioggia non è diluvio, né tale che possa far augumento nel Nilo, percioché il sole, di giorno in giorno facendo li paralleli larghi e assai distanti l'un dall'altro, poco dimora in un luogo e non può fare quella tanta attrazione di vapori che si ricerca al diluvio, ma solo a pioggia leve e poca, che poi si absorbe dalla terra. Alla qual cosa concorre etiam la brevità del giorno, talmente che non dimora molto di luogo in luogo, sí per li paralleli larghi, sí perché il giorno è breve. Similmente si farà anche per tutto Tauro, per la istessa cagione delli paralleli larghi e del giorno breve, avvenga che nel Tauro qualche poco siano stretti li paralleli, il giorno piú longhetto che nell'equinoziale; ma nondimeno l'uno e l'altro non è ancora sufficiente a far pioggie che augumenti il Nilo, ma quando avviene che il sole stia piú e piú giorni e piú ore del giorno sopra una medesima parte, dico che solamente a quel tempo si pon far pioggie grandissime e lunghe. La causa è che solamente allora si fa attrazione grandissima e lunga di vapori, percioché la calidità che gli attrae si fa molto piú profonda nella terra e mare, e non solamente piú profonda ma etiam piú larga e a piú spazio che non fa quando poco dimora sopra una parte, ove fa attrazione superficiale e ristretta. Pervenendo adunque il sole al solstizio per tutto Cancro e parte di Leone, ove il giorno è piú lungo e li paralelli piú stretti che in Ariete e Tauro, e la dimora sopra li medesimi luoghi quasi continua, avviene che l'attrazione de' vapori si fa grandissima e larga e profonda, e conseguentemente pioggie grandissime e lunghe.
Ma qui nascono li predetti dubbi, e prima come possa esser tanta e cosí abondante materia per tanto tempo in quella regione cosí arida per sé, ma piú in quel tempo che da cosí lunga calidità è abbruciata, avendo il sole cosí diretto e propinquo, conciosiaché a noi in quaranta e 50 gradi la state cosí si secca la terra che materia non c'è per pioggia. Al qual dubio dico che nella Etiopia, nelli luoghi onde si elevano li vapori, in alcune parti la materia è indeficiente, e non solamente indeficiente, ma l'un giorno prepara all'altro piú e piú materia, crescendo la calidità di dí in dí, come sono li mari, massime il sino Arabico, sopra il quale passando il sole per molti giorni quasi per un medesimo paralello, di dí in dí moltiplica piú e piú vapori, perciò che 'l giorno d'oggi dispone per dimane, e dimane per l'altro, e quello per l'altro, talmente che piú materia si ha di giorno in giorno.
Che due umiditati si debbono considerar nella terra, le quali il sole attrae quando il sol scorre Gemini e si prepara abondantissima materia de vapori. La causa perché nella Etiopia accresce ogni dí piú materia di pioggie per certo tempo, il che appresso di noi far non si può la state nei luoghi piani.
Quanto veramente appartiene alla terra, dico che in essa son da esser considerate due umiditati, una superficiale, l'altra profonda: quanto alla superficiale, basta poca dimora del sole sopra un medesimo luogo ad elevar li vapori, e di questa fansi le pioggie che ogni giorno si sogliono fare ovunque sia il sole perpendiculare; ma quanto alla profonda, che è quella che in gran parte è fatta dalle acque absorpte dalla terra per le pioggie quotidiane, ci bisogna molto piú longa dimora del sole, tale che anche per causa della terra non manca materia per li vapori quando la profonda si estrae, massimamente nelli luoghi montuosi, ove sono e selve e ombre assai e fonti, che il sole non può tanto come nelli piani. Ma generalmente dico che, quando il sole comincia a scorrer Gemini, materia abondantissima si fa, e l'un giorno dispone per l'altro, tal che il seguente sempre s'avanza dal precedente di materia e vapori, percioché, faccendosi ogni giorno le pioggie quotidiane che abbiamo detto farsi ove il sole è perpendiculare, ed essendo in Gemini il sole perpendiculare sopra un medesimo luogo, ivi si fanno le dette pioggie, le quali, absorte dalla terra, per un circulo descendono e ascendono attratte dal sole. Ma di giorno in giorno piú è quel che si attrae che quel che discese il giorno inanzi, per elevarsi etiam la umidità profonda e aggiugnerseli quella che da mari e fiumi e monti si leva, e cosí un giorno dispone per l'altro: per queste cagioni dunque non manca materia per molti giorni, anzi accresce per certo tempo ogni dí piú. Il che appresso noi la state non si può fare nelli luoghi piani, peroché, consumata la umidità superficiale, causa non c'è che la rinovi di dí in dí, né che ne abbia fatta di profonda, onde quelli pochi vapori che si levano insieme si dissolvono. Pur ne' luoghi montuosi si fan delle pioggie, perché non son cosí essiccati dal sole, e contra operano che li vapori non si dissolvono: e cosí sia satisfatto al primo dubbio.
La causa perché il sole, essendo cosí diretto, non dissolve nella Etiopia li vapori che si elevano e non proibisce la consistenza loro; e per che cagioni non si fanno quelle grandissime pioggie in Gemini che in Cancro, essendo quelli istessi paralelli in l'uno che in lo altro. Quando noi sentiamo il verno, e come se introduce a noi la state. Che dopo il solstizio e per tutto Cancro e parte del Lione si fa crescimento del Nilo.
All'altro veramente cercava per che causa il sole, essendo cosí diretto, non dissolve nella Etiopia li vapori che si levano e non proibisce la consistenza loro. Dico che ciò fa il luogo ove finisce la reflession de raggi, massimamente ove sono monti molti e grandi, percioché ivi è freddezza assai, per il che li vapori non si risolvono, anzi occorrendo alla antiparistasi si uniscono e raffreddano e riducono alla natura propria di acqua, e cosí piovono. Ma a quello che tanto travaglio dà e a voi e a molti altri, perché sia che in Gemini essendo gl'istessi paralelli che in Cancro, lo istesso rispetto alla terra e viaggio del sole, non si fanno quelle grandissime pioggie in Gemini che in Cancro, e non comincia il crescer del Nilo se non circa il solstizio, io dico che tutte le grandi azioni hanno le lor preparazioni e lor tempi ne' quai si fanno, e ad introdurre certa forma e grado di qualità, bisogna rimover le disposizioni contrarie e introdurre quelle che fanno per la qualità che si ricerca. Di qui nasce che sarà uno agente e che per due ore farà azione in certa materia, e sarà sempre quel medesimo con li medesimi rispetti, e nondimeno nella prima ora non produrrà la qualità destinata, ma solamente nella seconda, non per altro se non che tutta la prima ora consumò in rimover le disposizioni contrarie e introdurre le appropriate.
Per questa cagione, per molto che 'l sole sia nella medesima distanza da noi del Sagittario che è per tutto Capricorno, nondimeno noi mai non sentimo verno né freddo notabile se non per Capricorno e doppo il solstizio iemale. La cagione è che per tutto Sagittario, anzi per tutta la quarta, de Libra fino a Capricorno, consuma tutto quel tempo a rimover la calidità indutta nella terra per la state passata, la qual si rimove per l'absenza del sole dalle parti della terra fredda; poi, quella rimossa, procedendo pur la freddezza, si viene a tal grado che è molto notabile, e allora sentimo il verno, il che fassi doppo il solstizio. Né obsta alla intensione della freddezza che 'l sole cominci a vicinarsi a noi, percioché tanto poco è quello che può far di calidità che la freddezza di lungi non vinca. Per consimile cagione non sentimo parimente la state in Gemini, ma solo dopo il solstizio in Cancro, per molto che sia lo istesso rispetto del sole alla terra in Gemini che in Cancro, perciò che in Gemini, anzi per tutta la quarta di Ariete a Cancro, il sole consuma tutto quello tempo in rimover la freddezza indotta per lo verno passato, la qual rimossa e introdotta certa calidità, induce finalmente tal grado che a noi è molto sensibile, che chiamiamo state, che si fa doppo il solstizio. E per molto che il sole dopo il solstizio cominci a lontanarsi da noi, nondimeno tanto debole azione è questa che la calidità di lungo vince e si augmenta, fin tanto che la lontananza del sole tanto può quanto il caldo, e fassi caldo mediocre. Poi, superando la lontananza, comincia alquanto il freddo, il qual cresce fino a Capricorno, ma non sí che ancora ci paia verno.
Dunque nel proposito nostro dovemo parimente dire che per la istessa cagione in Gemini non si fanno le pioggie nella Etiopia che si possano dire diluvii e che possano far crescer il Nilo, ma solamente doppo il solstizio, per tutto Cancro e parte di Leone, perciò che tutto il tempo che 'l sole scorre Gemini si consuma parte in rimover le disposizioni contrarie all'attrazione grande de' vapori, parte in far la preparazione conveniente al poter far attrazione grande e larga. Si dee dunque considerare che nella Etiopia e nell'Egitto superiore, quando il sole è nella maggior lontananza che esser possa, cioè nel tropico iemale, nelle parti onde s'hanno ad elevar li vapori, mari, monti, fiumi e piani, è indutta certa frigidità che, quantunque non sia tanta quanta è appresso noi, è però tanta che bisogna che sia rimossa se si deve far vapore che possa elevarsi, massime quella che è ne' mari e fiumi e monti. Oltra ciò si deve anche considerare che, se si deve fare levazione de vapori grande e larga, ci bisogna calidità anche grande e larga, e che possa penetrare alle parti piú profonde e a piú spazio. E quando accade che tale calidità sia mandata dal sole, allora fassi che un giorno prepara all'altro e fa tal disposizione, che poi si può fare attrazione di vapori grandissima.
Come la disposizione delle attrazioni si fa in Gemini e l'effetto in Cancro. Il Nilo e il fiume Niger come crescono; quando cominci lo augmento de' fiumi, e quando lo stato, e quando la declinazione.
Venendo dunque al particolare, quando il sol perviene a Gemini, ove li paralleli sono molto stretti e il giorno è alquanto piú lungo, e che 'l sole dimora molto sopra un medesimo luogo, dico che allora comincia il tempo che un giorno prepara all'altro e dispone la materia che si possa far attrazione grandissima. Ma di tale attrazione la disposizione si fa in Gemini, lo effetto si fa in Cancro, percioché in Gemini da principio si rimove la freddezza indutta dal verno passato (dico verno la massima lontananza del sole, non quel verno che è accidentale per le pioggie, che gli Etiopi chiamano verno), la qual freddezza essendo parte superficiale, parte profonda, quanto alla superficiale basta la dimora di un giorno che faccia il sole, e questa rimossa si fa elevazione che basta alle pioggie quotidiane, ma piccole; ma quanto alla profonda ci bisognano piú e piú giorni, e cosí l'un giorno prepara e dispone all'altro, onde anche fassi che le pioggie quotidiane vanno augumentando e fansi maggiori, ma non sí che ogni giorno non siano però absorte dalla terra, e ciò fassi per tutto Gemini. Ma come si viene al Cancro, ove già per lunga dimoranza la calidità profondamente è indutta e fatta preparazione, che già infinite parti nel mare, nella terra e ne' monti sono vapori in potenzia prossima, allora per ispazio grande, cosí in latitudine come in profondità, fassi incredibile attrazion de vapori, etiam la notte, li quali, congregati circa li monti, dall'antiparistasi loro si riducono in pioggie quasi continue e grandissime, le quali, discendendo al piano già imbibito dalle pioggie quotidiane, non si absorbono dalla terra ma, precipitando alli fiumi, gli accrescono tanto che poi allagano la regione: e cosí fa il Nilo, cosí fa il fiume Niger. Questo crescimento adunque non si fa in Gemini per la cagion detta, che in quello si fa solamente la disposizione; ma fassi per tutto Cancro e parte di Leone, fin a tanto che il sole comincia a far li paralleli larghi, il giorno men lungo, ove la dimoranza non è tanta e la calidità si sminuisce, e già le parti fredde dell'acque e della terra cominciano a ridursi alla natura propria.
L'augmento adunque de' fiumi comincia quando piú è l'acqua che entra che non è quella che si depone al mare, il quale augumento va crescendo fino a certo grado, che è il sommo, il che è da credere che sia circa li XX gradi di Cancro. Poi quel sommo grado va a poco a poco calando, per modo che piú sia l'acqua che entra che quella che si depone; poi viensi ad uno stato nel qual tanto è quella che entra quanto quella che esce, il fiume né cala né cresce, ma sta in una linea: e ciò si dee credere che sia circa la ottava di Leone. Poi comincia a farsi il decrescimento, e meno esser quel che intra che quel che esce: il fiume si ritira dalla linea predetta verso le rive, ma a poco a poco, perciò che a poco a poco fassi quello eccesso di quel che esce sopra quello che entra, e cosí a poco a poco calando nella Libra è tutto ridutto il Nilo nel suo alveo.
Queste sono le ragioni che a me sono occorse circa al crescimento del Nilo, e circa li dubbi che ci accascano, e circa l'oppenioni che si ponno avere, delle quali la piú ragionevole a me pare quella che dice le pioggie che si fanno nella Etiopia e nell'Egitto superiore esser cagione di tal crescimento, le quali pioggie non sono fatte perciò che le etesie li portano le nuvole, ma sono fatte per immense attrazioni de vapori che fa il sole nel Cancro e parte di Leone al modo detto. Dal che seguiria che questo crescimento cominciasse nella Etiopia e nell'Egitto superiore a quella vicino, nella qual cosa può nascer un dubbio, se ad un medesimo tempo si vede il cominciar di tal crescimento in Etiopia e al Cairo: e pare che sí, perciò che tutti scrivono che dove è il Cairo comincia a crescer il Nilo nel solstizio, nel qual tempo etiam per le relazioni si ha che cominciano li diluvii di pioggie nella Etiopia. La qual cosa se diciamo, pare molto dubbia, percioché dalla Etiopia al Caiero sono miglia circa 600, le qual, prima che l'acqua cominci a gonfiar nella Etiopia possa scorrer, pare che molti giorni ci bisognino. Al che si può dire che otto o dieci giorni prima o dopo non importa, perché puntualmente non si sa quando comincia il crescimento in Etiopia e quando al Caiero, over diciamo che il crescimento del Nilo a duo modi si può conoscere. L'uno è per l'acqua che entra, che non potendosi deporre tanto quanto entra fa crescer il fiume, e a questo modo alquanto prima si vede il crescimento nella Etiopia che al Caiero. All'altro modo si può conoscere il crescimento per la condensazion delle parti che fa l'una dopo l'altra di mano in mano, il che quasi subito e in brevissimo tempo si fa in tutto il fiume, come vediamo anche nell'altre acque, buttato un sasso o altro che spinga le parti, farsi le circulazioni l'una dopo l'altra quasi in un momento: e a questo modo può esser che, come la prima acqua sgonfia il Nilo nella Etiopia, quantunque la istessa non si veda al Caiero, nondimeno si vede la condensazione delle parti fatta l'una dopo l'altra subito etiam al Caiero. Il che è primo segno del crescer suo, che poi si fa manifesto quando l'acqua istessa che prima cominciò a gonfiare discende al Caiero: il qual tempo in quanti giorno si faccia difficile è da sapere.
Che nella Etiopia si fanno anco tempeste; come si generino le pioggie, nevi, tempeste; come si faccia la pioggia e tempesta insieme; come si generi la neve; che cosa sia ghiaccio, e le cose che si possono far ghiaccio; come si faccia la neve e come la tempesta, e la causa che una istessa nube pioverà e nevicherà, e il simile della tempesta.
Ora resta da esequire anche quello che abbiamo promesso, se nella Etiopia si facciano nevi, il che non sapendo noi per esperienza o nostra o d'altri, ne diremo quanto parerà probabile per le ragioni. E pare che lí ci siano nevi, perciò che ivi non solo si fanno pioggie, ma si fanno anche tempeste: essendo adunque la pioggia fatta da men freddezza che la neve, e la tempesta di piú freddezza, pare che ove si fanno gli estremi si debbia anche far il mezo. Il che si può confermare per l'esempio del monte Atlante, che è vicino al tropico per gradi cinque, nel quale, come Plinio scrive, sono nevi etiam la state, per il che pare che e nelli monti libici, che sono nel medesimo parallelo, e nelli etiopici, che son vicini a questi per dieci o poco piú gradi, si possano far nevi. All'incontro pare che non ci possono esser nevi, perché la maggior distanzia che possa aver il sole dall'Etiopia non è piú di gradi quaranta: ma noi veggiamo che, a noi essendo il sole vicino per quaranta e cinquanta gradi, non solo non patisce farsi nevi, ma le fatte dissolve e liquefa. Oltra ciò non è da credere che nella Etiopia a tutti li tempi sia men caldo che quello che è appresso noi la state, che siamo distanti 45 e cinquanta gradi. Essendo adunque cosí, che appresso noi la state non si ponno far nevi, è da credere che meno si possano fare appresso gli Etiopi.
Per migliore intelligenzia adunque di questa materia, bisogna vedere le cause che concorrono a far pioggie solamente e a far neve solamente e a far tempesta solamente, e poi se ponno farsi insieme, dico pioggie e neve, e pioggia e tempesta, e neve e tempesta: per la qual cosa dico che in alcune cose convengono tutte queste tre, pioggia, neve e tempesta, in alcuna differiscono. Convengono veramente nella materia, cioè che tutte si fanno di vapore, che prima fatto caldo dal sole si eleva a certo luogo, poi raffreddato da agente freddo si fa grave e di natura d'acqua; ma è differenza nel modo della freddezza, percioché a far pioggia basta men freddezza, quella tanta che è assai a levar la calidità indutta dal sole, che nondimeno né congela né agghiaccia, ma fa solo predominio di acqua, ma a far neve ci bisogna piú freddezza, e piú a far grandine. Convengono ancora la pioggia e la tempesta insieme, che l'una e l'altra si fa di vapori prima uniti, tanto che ponno far goccia e già son fatti acqua, ma differiscono poi che la pioggia discende in natura e forma di acqua, ma la tempesta, innanzi che descenda l'acqua di che si fa, si agghiaccia, e non discende di natura d'acqua over di forma, ma di goccia agghiacciata. E differiscono poi queste due dalla neve, e che li vapori di che si fa la neve non si uniscono di modo che possa far goccia e acqua, ma innanzi che si uniscano nella nube si congelano cosí divisi e sparsi come si trovano, tal che sempre tra l'uno e l'altro c'è aere interposto, per il che quando discendono fanno quel corpo raro e spongoso che chiamano fiocco, che non è altro che corpo raro misto di vapori congelati e di aere; ma la tempesta non ha mistura di aere, percioché è fatta di goccia d'acqua agghiacciata prima che discenda.
Ma degna cosa è da vedere come e per qual cagione queste diversità si facciano nelle nubi, e perché li vapori ora si uniscano e facciano goccie d'acqua, ora no; e perché, fatti goccie d'acqua, ora discendano in forma d'acqua, ora no, ma s'agghiacciano prima; e perché il verno non s'agghiacciano sí che facciano tempesta, ma neve, di state s'agghiacciano e solo faccian tempesta; e perché la pioggia stia con tutti, cioè con la tempesta la state e con la neve il verno, e donde sia che 'l verno s'agghiaccino i fiumi e le gocciole che cadono da' tetti, la neve caduta non s'agghiacci mai, se non si liquefa prima. Cominciando adunque da questo ultimo, dico che ghiaccio non è altro che acqua congelata, e per tanto quelli corpi che non son redutti in acqua o natura di acqua non si fanno ghiaccio, ma ben ponno semplicemente congelarsi. Perché adunque la neve non è acqua, ma vapore congelato con intermistione di aere, per questo non si può far ghiaccio, rimanendo in quella natura; ma liquefatta e ridutta in acqua e corpo fluido, espresso l'aere, si fa poi ghiaccio; per il che li fiumi e le gocciole che cadono si sogliono agghiacciare, ma non la neve caduta. E se alcun dubitasse perché adunque la pioggia il verno non si agghiaccia discendendo e non si fa tempesta, se 'l verno s'agghiaccino li fiumi e le gocciole che cadono da' tetti o d'altro luogo, dico che quel freddo che il verno s'agghiaccia è freddo secco boreale, ma quando piove comunemente lo aere se intepidisce e le nubi son portate dalli scirocchi, onde né li fiumi né la pioggia si agghiacciano, né tempesta puossi far il verno, ma solo o pioggia o neve. Perciò che l'aere nel verno, quando le nubi si fanno, o si trova per freddo o denso, come quando non regnano li scirocchi, o si trova intepidito, come quando essi scirocchi regnano: se è freddo e denso, li vapori della nube non si ponno unire sí che facciano goccia e pioggia, ma si congelano sparsi nelle nubi e cosí si fanno neve e fiocco, nel quale è misto sempre aere; ma se lo aere è intepidito, si pon veramente unire e far goccie e pioggia, ma non mai tempesta, percioché a far tempesta bisogna prima esser fatto acqua, la qual prima che descenda si agghiacci da frigidità grandissima, le qual due cose non si ponno far insieme il verno, nel quale, se c'è la frigidità, quella non lassa far l'acqua, per il che solamente la state e nelli tempi medii, quando qualche giorno è simile all'estate, si può far tempesta. E se dimandaste donde puossi aver la state quella tanta freddezza nella nube che agghiacci le goccie dell'acqua, dico che ciò fassi all'antiparistasi del caldo, il qual concentra e unisce le parti fredde nella nube, li quali prima si fanno acqua e goccie, poi subito se agghiacciano: ma di queste antiparistasi è da sapere che, circa le parti della nube, sono duo antiparistasi, l'una dell'aere estrinseco caldo, l'altra dentro della nube, che si fa dalle parti contrarie che sono nella nube, alcune ignee e calidissime, alcune acquee e altre terree, tutte frigidissime. Essendo adunque la natura de' contrarii scacciar gli altri contrarii e la natura de' simili unirsi a loro simili, di qui si fanno nelle nubi azioni grandi e maravigliose, tra le quali, che per ora basta, si fa etiam la tempesta, quando accade le parti fredde forte unirsi, massime le acquose e le terree, ove nasce freddezza non minor di quella che il verno agghiacci i fiumi. Alcune volte fassi insieme pioggia e tempesta, e alcune pioggia e neve, e questo accade o per la diversità de' vapori che son nella nube, o per diversità di luoghi, onde vedemo spesso piover nelli luoghi piani e nevicar alli monti, o farsi tempesta in un luogo e piover in un altro vicino, per esser piú e men freddo in un luogo che in l'altro. Alcuna volta nell'istessa nube pioverà e nevicherà, perché alcuni vapori sono men freddi e non sono atti a coagularsi, alcuni sí; il simile si fa con la tempesta, quando insieme piove, per la diversità delle parti e vapori nel caldo e freddo. Ma se per questa diversità di caldo e freddo in diversi o luoghi o vapori si possano far insieme nevi e tempesta è molto dubbio, ma verisimilmente si può tenere prima che in una istessa nube non possan farsi insieme tempesta e neve, quantunque sieno diversi vapori, perciò che, se si dee far tempesta, bisogna, come è detto, che prima si facciano goccie e acqua che poi s'agghiacci, il che se si dee fare, bisogna ci sia la union de' vapori in goccia, e questo non può esser ove si fa neve, per il che non può esser che in una istessa nube si facciano neve e tempesta. Dico anco che in diversi luoghi, ma vicini, come in piano e monte, non può farsi in uno neve in l'altro tempesta, perché se nel piano si fa neve bisogna che sia verno, come è detto: adunque nel monte non può essere state a quel tempo. Similmente, se nel piano si farà tempesta e sarà state, nel monte non potrà farsi neve ed esser verno, eccetto se non fosse tanto alto che l'altezza supplisse alla stagione: e in questo caso non repugneria esserci neve.
Se appresso gli Etiopi si fa neve o verno, e come appresso di loro il giorno
non è piú di ore 12 e mezza.
Dichiarate queste cose quanto basta al proposito nostro, vediamo se nella Etiopia si ponno far nevi e tempeste, perché della pioggia non è dubbio, sí per la esperienza che si vede, sí perché è detto che la pioggia sta con tutti i tempi, e con neve e con tempesta. Della tempesta anco non deve esser dubbio, però che ivi sono li tempi proporzionati alla state e alli tempi medii appresso noi. Se adunque appresso noi la state e gli altri tempi medii sono atti a far tempesta, manifesto è che anche appresso gli Etiopi si deve fare, massime quando il sole è nel Cancro, ove è, quanto per il sole, state grandissima, e fassi attrazione tanta de vapori: per il che non è meraviglia, sí come si referisce, in quel tempo insieme con le pioggie sono e tuoni e fulgori e tempeste, onde sentono piú freddo che ad altro tempo, non altramente quando anco appresso noi tempesta si sente freddo notabile, per molto che sia di state.
Che adunque e pioggia grande e tempeste siano appresso gli Etiopi non si dee dubitare, ma ben si può dubitare delle nevi, perciò che la ragione addutta non vale, che ove si fa tempesta si debbia etiam far neve, conciosiaché molto diversa è la causa che fa la tempesta e che fa la neve. La tempesta vuole l'antiparistasi del caldo estrinseco, la neve vuole l'antiparistasi del freddo, onde non si fa se non il verno. Né segue ove si fanno gli estremi si debbia anco fare il mezzo, se non quando da uno estremo non si può andar all'altro se non per il mezzo. Ma quando gli estremi hanno cause proprie senza che passino per il mezzo, ponno farsi essi estremi senza che il mezzo si faccia in quel luogo, per il che bisogna vedere se altra ragione c'è che possa persuadere se son nevi nella Etiopia. E dico che, se ci sono luoghi ove sia verno tale quale appresso noi, ove l'aere sia freddo ad alcuna stagione come nel nostro verno, ivi poter esser nevi e poter farsi come appresso noi. Il che veramente in luoghi piani esser ad alcun modo non può, per la propinquità del sole in ogni tempo, conciosiaché mai non può esser piú distante di gradi trentaotto vel circa, nella qual distanza non può esser verno e consequentemente neve. Ma se nelli monti possa esser tale constituzione che sia verno ad alcun tempo è dubbio assai, e a me pare che non repugni che in alcuni, per l'altezza loro, massime quelli che sono sotto il circolo estivo e li propinqui, si facciano nevi quando il sole è nel Capricorno, percioché, all'altezza di quelli non arrivando la reflession di raggi, per la natura del luogo, può esser freddo equale al verno. E se alcuno dicesse ciò non apparere appresso noi nelli nostri monti, che in equal distanza, anzi in maggiore si facciano nevi e sia freddo equale al verno, quando il sole è nel Cancro, dico che questo può avvenire per la lunghezza del giorno, che è di quindici e sedici ore, il che molto fa a mantenere il caldo e contraoperare alla freddezza e natura del luogo; ma appresso gli Etiopi il giorno non è mai piú lungo di ore dodici e mezza vel circa, per il che non è senza probabilità che appresso gli Etiopi si possano far nevi quando il sole è nel Capricorno. Ma se si possano fare nel tempo che si fanno le pioggie grandi e tempeste, quando il sole è nel Cancro, è da dire che non, perciò che, come è detto di sopra, in una istessa nube non si può far tempesta e neve, se forse la sommità di qualche monte non fusse alta, che alle spalle del monte si facessero le tempeste, al sommo le nevi, il che anco non è da credere, perché le nubi non si fanno in tanta altezza.
Concludendo adunque è da dire che quanto persuade la ragione è da credere che ad ogni modo si facciano nevi in Etiopia ne' monti, ma quelle niente fanno all'accrescimento del Nilo, perché molto prima son liquefatte che il sole pervenga al Cancro. Quanto mo' al testimonio dello Atlante, ove la state si vede della neve, questo è niente, percioché esser può che tal neve sia nella faccia che guarda il settentrione, in qualche parte ombrosa ove il sole non percuote, per esser sempre australe a quella faccia: il che vediamo anche noi nelli nostri monti, ove la state sempre si trova neve in qualche parte, il che sanno li signori, i quali se ne servono per rinfrescar li lor vini. E tanto sia detto del crescimento del Nilo e della Etiopia.
La navigazione di Nearco
Discorso sopra il viaggio di Nearco, capitano di Alessandro.
Sí come è conveniente che doppo tanti e cosí varii viaggi si legga anche quello che fece Nearco, capitano d'Alessandro, cosí mi pareria che si mancasse grandemente del debito, quando a contemplazione degli studiosi non si dicesse qualche cosa sopra di quello, non meno per piú aperta dichiarazione di esso che delle cose nostre moderne. Nel qual discorso, se saremo costretti dall'amore della verità a deviare da quello che n'hanno detto gli scrittori, lo faremo quanto piú modestamente sarà possibile, sapendo che le cose degli antichi meritano di essere avute in somma venerazione, e queste massimamente, che già passati quasi duomil'anni furono ricercate e descritte. Per tanto è da sapere che, trovandosi Alessandro Magno nell'impresa sua in Oriente aver già vinta tutta l'Asia ed esser giunto al fiume Indo, mosso da diverse cause deliberò di tornarsene a casa coll'esercito, e parte di quello menarne per terra e parte, per mostrare la grandezza dell'animo suo, farne andar per mare, cosa ch'alcun altro avanti di lui non aveva non solamente fatto, ma non pur tentato. E però, fatta una armata nel detto fiume e sopra quella messa una parte dell'esercito, ne fece capitano Nearco, suo grandissimo favorito, e con esso insieme mandò Onesicrito, uomo peritissimo delle cose celesti, acciò che egli comandasse 'l cammino. E cosí poi questi duoi scrissero con diligenza quanto se ne faceva di giorno in giorno, gli scritti de' quali furono tenuti in molta estimazione appresso gli antichi, e Strabone e Plinio gli allegano ogni fiata che parlano dell'India, o vero de' mari di quella, come auttori veridici, e che siano stati i primi a discoprirli e a darne notizia. E Arriano greco, gentiluomo di Nicomedia che fu al tempo d'Adriano, Marco e Antonino imperatori, e per la sua singular virtú e dottrina meritò di esser fatto console, avendo scritto la istoria d'Alessandro, aggiunse nel fine di quella questo viaggio cavato dai libri de' sopradetti duoi scrittori. E perché in quello si trovano alcune parti che, secondo il giudicio degli uomini dotti, meritano molto bene di essere considerate, per vedere come corrispondano l'una con l'altra e non repugnino al vero, però ci sforzeremo di andarle meglio che saperemo esaminando.
Ora il viaggio è questo, che alli 20 d'agosto Nearco si partí con l'armata dalla bocca del fiume Indo, e lungo la terra se ne venne per mare costeggiando fino alla bocca del golfo Persico, nel quale entrato andò a ritrovare Alessandro, che l'aspettava nella città di Susa, non troppo lontana dal luogo dove il fiume Eufrate sbocca nel mare. E conciosiacosaché in questo viaggio sia scritto che, poi che Nearco cosí costeggiando ebbe lasciati dietro a sé i popoli arbi e oriti, che sono gli ultimi Indiani, e navigando da duomila e secento stadii, trovò che l'ombre variavano, perché andando verso mezzodí l'ombre verso quella parte inclinavano, e come il sole giungeva a mezzo il cielo, non vi si vedeva piú ombra alcuna: i quali duoi accidenti sono degni d'esser avertiti e considerati, veduto massimamente che alcuni de' moderni o degli antichi non li hanno mai avuti in considerazione; ma per piú chiara intelligenza è necessario discorrere alquanto piú alto sopra questa materia dell'ombre. Diciamo adunque che, secondo che scrivono gli antichi savii e intelligenti delle cose celesti, il sole col suo corpo, circondando la rotondità della terra, fa di continuo in ogni punto, ovunque egli si trovi, molti mirabili effetti, e tra gli altri ch'ei manda le ombre in un medesimo instante verso ponente, levante, tramontana e mezzodí in ogni sito d'ogni orizonte, ma che dove ei passa perpendiculare, in quel punto, come egli è sopra il circolo meridiano, non fa ombra alcuna. Ora veggiamo, in questo viaggio sopra la parte dell'India dove sbocca in mare il fiume Indo, qual sia di questi effetti che egli vi fa quando vi passa sopra, e diremo in questo modo, che essendo quella in gradi venti sopra l'equinoziale, quando il sole si viene approssimando a noi, agli undici di maggio, passa sopra la detta parte e non vi fa ombra alcuna per dui o tre giorni, ma solamente nel nascer suo manda le ombre verso ponente e nel tramontare verso levante; ma passati sei o sette giorni comincia a far le ombre, come arriva al circolo meridiano, verso mezzogiorno, e quelle nel medesimo modo continua insino alli dieci di luglio; cioè che, avendo montato insino alli 23, dove è il solstizio, se ne ritorna di nuovo alli venti gradi, e in quel giorno e tre o quattro sussequenti sopra la detta parte dell'India non fa ombra alcuna, ma continovando poi il suo corso manda le ombre verso tramontana, che è contrario effetto di quello che egli vi faceva avanti.
Tornando adunque alla considerazione di detto viaggio, si vede chiaramente, secondo le carte de' Portoghesi che ognora navigando lo praticano, che partendosi dalle bocche del fiume Indo, che sono in gradi venti, e andando dietro alla costa infino all'entrar del golfo Persico, che è in gradi venticinque, si corre sempre maestro e sirocco, sí che quando ei sono pervenuti al detto golfo, hanno montati gradi cinque di latitudine verso il nostro polo. Ora, partendosi Nearco alli venti d'agosto, che il sole si trovava in gradi nove sopra equinoziale, poi che egli ebbe fatti da duomilia e secento stadii, che sono trecentoventi miglia secondo la sua scrittura, e montato quasi gradi cinque verso di noi, e il sole all'incontro essendosi allontanato molto dal luogo dove egli era al partire della sopra detta armata, come è possibile che in questo tempo che Nearco scrive le ombre andassero verso mezzodí? Questa è pur cosa tanto evidente e manifesta a chi intende qualche poco della sfera, che superfluo sarebbe lo affaticarsi piú oltre per volerla piú chiaramente dimostrare. Ma per non lasciar di dire alcuna cosa delle ragioni che mossero forse Nearco e Onesicrito a scrivere questa variazione d'ombre, diciamo che è possibile che i predetti si fermassero qualche mese sopra l'isola di Patele, per fabricare la detta armata, e avendo veduto quanto di sopra è detto, che il sole dagli undici di maggio sino alli dieci di luglio mandava le ombre verso mezzodí, e che poi, come egli veniva perpendicolarmente sopra il detto circolo meridiano, non faceva piú ombra alcuna, essi credettero che dovesse continuare cosí nell'avenire e non considerarono che, passati li ventisei giorni di luglio, le ombre se ne ritornavano verso tramontana. E se alcuno forse dubitasse che questa parola di venti di agosto fosse stata fallita dalli scrittori già tanti anni, e ch'ella dovesse dire alli X di maggio, nel qual tempo se cominciato avessero il lor viaggio, arebbero avute sempre le ombre verso mezzodí, rispondiamo che questo non è possibile, perché in quei mari dell'India, come il sol vi s'approssima, comincia il verno, tanto aspro e crudele che eglino non si sarebbero mai messi a pericolo delle grandissime fortune e tempeste di quella stagione: ma come il sol fu lontano, e finito il verno, cominciorno essi il lor cammino. Quanto a quel che si dice de' pozzi di Siene e di Meroe, de' quali gli antichi tanto parlarono, reputandoli cose mirabili, veramente non accade che molto ci affatichiamo per dichiararle, sapendo ciascuno assai chiaramente che per tutto lo spazio che è fra li dui tropici, in ogni luogo, come il sol giugne al circolo meridiano, fa di questi tali miracoli, che non fa ombra alcuna.
Continuando poi il detto scrittor dice che alcune stelle, che per avanti avevano vedute molto alte, parte erano nascoste e non si vedevano, e parte nascevano tanto vicine alla terra che quasi di subito poi tramontavano. Parlando di tal cosa modestamente, diciamo che non possiamo imaginarci che avendo navigato Nearco piú di trenta giorni sempre montando verso il nostro polo, che stelle potessero essere quelle che, per avanti vedute alte, allora del tutto si nascondessero, o vero che esse nascessero tanto presso alla terra che cosí tosto poi tramontassero. Il polo e l'Orsa maggiore e minore non è possibile che si possino nascondere, che ogni notte non si vedano da quei che sono in venti gradi, e maggiormente in ventiquattro o venticinque sopra l'equinoziale, né eziandio che possino nascere tanto presso alla terra che poco dopo tramontino, perché a voler vedere questi duoi effetti saria stato necessario che Nearco fosse andato con l'armata tanto avanti verso mezzodí che egli avesse passato l'equinoziale di tre o quattro gradi, e allora il nostro polo se gli saria ben nascosto, e l'altre stelle che a quello sono intorno si sarebbero levate e sorte tanto presso alla terra, che poco dopo sariano tramontate. E a questo modo si potria ben credere a questa scrittura, della quale non vogliamo mancare in questo fine di notar alcune altre parole scritte in questo viaggio da Arriano, dove, parlando delle riviere intorno al golfo Persico, dice che quella riviera che è piú oltra verso tramontana è molto fredda ed è piena di neve, e che quivi alcuni imbasciadori del mare Eussino, venuti, come scrive Nearco, per una breve via, si riscontrarono con Alessandro che cavalcava per il paese della Persia, e al quale, maravigliandosi egli di questo, essi referirono il breve cammino che avevano fatto, cosa che chi ha un poco di cognizione del sito del mar Maggiore, e quanto egli sia lontano dalla Balsara, che è il principio del golfo Persico, potrà facilmente giudicare quanto questo auttore si sia in quella ingannato, senza che noi ne diciamo altro.
Piglino nondimeno i benigni lettori in buona parte quel tanto che noi abbiamo discorso sopra le dette difficultà: forse che qualche piú elevato ingegno ritrovarà per l'avenire le vere ragioni con le quali si possa difendere e sostenere quello che da' sopradetti scrittori di tal materia è stato scritto, il che noi non abbiamo saputo fare. E perché in questa navigazione si parla di stadii, sappino che otto stadii fanno un miglio de' nostri di mille passa. Vogliamo ben soggiugnere a questo viaggio di Nearco un altro viaggio di un nostro Veneziano, per essere molto a quello conforme, avendo ambiduo navigato il mare dell'India, se ben l'uno d'essi andasse nel golfo Persico e l'altro nell'Arabico: del sito e maniera del quale, e delle difficultà che si abbia nel navigarvi, la lettura di tal viaggio ne darà tanto buona e piena informazione, che cosí fatta in altri scrittori non abbiamo saputo trovare.
La navigazione di Nearco, capitano di Alessandro Magno, la quale scrisse Arriano greco, gentiluomo di Nicomedia, tradotta di lingua greca nella toscana.
Come Alessandro Magno, avendo desiderio di far navigar il mare cominciando dall'India sino nel golfo Persico, fece capitano dell'armata Nearco, spontaneamente offertosi a tal impresa. Di due fosse, una detta Stura, l'altra Chaumana; di un luogo detto Coreate; dell'isole Crocala e Arbi; del monte Iro; del porto di Alessandro; dell'isola Bibatta e del paese detto Sangada.
In questo libro si contiene la narrazion della navigazione che Nearco fece con l'armata, essendo partito dalle bocche del fiume Indo e andando per il gran mare fino nel golfo Persico, il qual mare alcuni chiamarono Eritreo. E Nearco narra in questo modo che ad Alessandro venne desiderio di far navigare il mare cominciando dall'India fino nel golfo Persico; pur sopra di ciò stava con l'animo molto sospeso, temendo che in una cosí lunga e pericolosa navigazione l'armata sua non fosse trasportata in qualche regione deserta e strana, ove non vi fossero né vettovaglie né porto o luogo da sorgere, e che ivi per forza di fame tutta si morisse: il qual disordine saria come una macchia, che denigraria la gloria e felicità delle grandi e ammirabili sue faccende. Essendo egli adunque in questa dubbietà di quello che si avesse a fare, la cupidità delle cose grandi e non piú udite vinse e scacciò da quello ogni timore. Dipoi, pensando chi fosse atto capitano a cosí fatta impresa, che la sapesse ben guidare, inanimando l'armata e le ciurme e altri che in quella andassero, che non pensassero esser mandati a manifesto pericolo, si volse consigliare col detto Nearco circa la elezione di tal capitano: e avendo ricordati molti nominandoli particolarmente, gli pareva ch'avessero molte opposizioni, e che si scusariano di voler pigliare cosí difficile e pericolosa impresa, o per dappocaggine di animo o ver per desiderio di ritornare a riveder casa loro. Sopra tal dubbio Nearco disse: "Sacra Maestà, io mi offero di esser capitano dell'armata in questo viaggio, e spero con l'aiuto e favore di Dio di condur quella tutta sana e salva sino nel paese di Persia, potendosi perciò navigar quel mare e non vi essendo cosa che superi il potere e saper umano". Alle quai parole rispose Alessandro non volere ch'alcuno de' suoi favoriti si esponesse a tai fatiche né a cosí grandi pericoli. Allora quello all'incontro piú e piú tentava di aver tal impresa, e con instanza lo pregava. Alessandro veramente, veduta tal sua prontezza, l'ebbe molto grata, e assegnategli tutte le genti, lo fece capitano di tutta l'armata: la qual cosa, divolgata nell'esercito, fu di grandissima allegrezza non solamente a tutti i soldati, ma ancora alle ciurme deputate a' bisogni delle navi, conciosiacosaché sapevano certo che Alessandro non manderia Nearco ad alcun manifesto periglio, se ancor essi non dovevano salvarsi.
Era nell'apparecchio di tal armata grandissima bellezza e magnificenza, nelle navi grandissimi ornamenti. Vedevasi anco gran sollecitudine dei capitani nell'ordinare e disporre gli armizi e tutte le cose necessarie all'armar delle navi, e tutti quelli che da prima schifavano d'andare, incitati da un ardore di virtú e sollevati da speranza grande che la cosa averia ottimo fine, con incredibile prontezza si preparavano alla navigazione. Ma quello che rimosse ogni dubbio dell'animo de' soldati fu che esso Alessandro aveva già prima navigato per ambedue le bocche del fiume Indo fino nel mare, dove aveva fatto sacrifici di molti animali a Nettunno e agli altri dei marini, con gittar nel mare molti eccellenti doni: laonde, confidatisi nella maravigliosa e incredibil felicità di quello, predicavano che sotto cosí buona fortuna com'era quella d'Alessandro ogn'impresa, per grande ch'ella fosse, si poteva pigliare ed esequire.
E dopo che ebbero cessato di soffiare i venti chiamati etesie, che ordinariamente la state di continuo tirano dal mare verso terra e impediscono il navigare, Nearco, parendogli il tempo atto, fece dare il segno del levarsi: il qual fu nell'anno che Cefisodoro era pretore in Atene, il giorno, secondo il conto degli Ateniesi, di XX di agosto, ma secondo i Macedoni e quelli di Asia l'undecimo anno del regno di Alessandro. Esso veramente Nearco, innanzi che le navi si partissero da terra, fece sacrificio a Giove conservatore e celebrò i giuochi solenni del lottare, correre e saltare. Il primo giorno che si mossero dal porto andarono per il fiume Indo a una certa fossa grande, la qual per nome è chiamata Stura, distante dal porto circa stadii cento, nel qual luogo stettero giorni duoi. Il terzo partiti andarono a un'altra fossa distante dalla prima stadii trenta, ove trovarono che l'acqua era salsa: e questo perché il mare nel crescere con le sue onde perveniva in detta fossa, la quale, avenga che il mare andasse giú, pur mescolata con la dolce riteneva il sapor salso. Questo luogo è chiamato Chaumana. Di là avendo navigato stadii venti, vennero a Coreate, luogo posto presso il fiume, d'onde partitisi non fecero molto cammino che viddero, dove sbocca il fiume, tutto il lido esser pieno di pietre acute, e che l'onde percotendo in quelle facevano gran romore; per il che, dubitando de' loro legni, deliberarono di far una fossa di nuovo dalla parte che viddero esser terreno molle, per ispazio di sessanta passa: per quella con la colma dell'acqua menaron fuori l'armata salva. Dipoi navigando cento e cinquanta stadii, pervennero a una isola arenosa detta Crocala, ove stettero un giorno. Per mezzo questa abitano alcune genti indiane chiamati Arbi, dei quali ne abbiamo fatto menzione nell'istoria maggiore, e abbiamo detto quelli aver avuto il nome dal fiume Arbo, il quale scorrendo per i loro confini cade nel mare, e gli divide dai popoli oriti.
Partiti da Crocala, viddero a man dritta un monte, il qual nominarono Iro, e da man sinistra un'isola bassa non molto lontana dal lido, la qual, prolungandosi in mare, faceva come un golfo stretto. E avendola passata entrarono in un porto molto commodo, che piacque tanto a Nearco, che per la sua bellezza e grandezza lo chiamò il porto di Alessandro. Nella bocca di questo giace un'isola chiamata Bibata, passi 250 distante da terra, e tutto quel paese chiamasi Sangada, il qual prolungandosi in mare fa l'isola e cosí bel porto. In questo luogo soffiando grandissimi e continui venti dal mare, e dubitando Nearco che alcun de' barbari, messisi insieme, non si voltassero alla preda dell'esercito, fortificando il luogo con un muro di pietre, ivi stettero giorni ventiquattro: nei quali i soldati pescando pigliorno alcuni pesci a modo di sorzi marini, e una sorte di ostreghe chiamate solene, che sono di una incredibil grandezza, comparandole a quelle che nascono nei nostri mari; ma non trovarono acqua da bevere altra che salmastra.
Di molte isole ritrovate per Nearco, cioè Doma, Saranga, Scalisi, Morontobari, Pagale, Cabana, Cocala, e del fiume Arbio.
Dopo che i venti si acquetarono, il capitano con la sua armata si levò, e avendo navigato stadii sessanta, accostossi a un lito arenoso, che aveva un'isola avanti deserta: quivi con quella facendosi riparo sorsero, e l'isola è detta Doma. E per esser nel lito carestia di acqua, le ciurme andarono fra terra venti stadii, ove la trovarono molto buona. Ivi stettero un giorno, e la sequente notte partendosi e navigando giunsero a Saranga, la qual è distante stadii trecento. Fermati nel lito, andarono similmente otto stadii fra terra per pigliar dell'acqua. Di donde levatisi pervennero in Scalisi, luogo deserto, ove fu di bisogno condurre l'armata fra due grandi scogli, e tanto l'uno all'altro propinqui che le bande delle navi gli toccavano. E fatti stadii trecento, giunsero in Morontobari, dove è un porto grande di forma rotonda, profondo, sicuro dalle fortune, con la bocca stretta, detto nella lingua degli abitatori porto delle Donne, imperoché ivi primamente aveva regnato una donna. Usciti di quei pericolosi scogli, benché entrassero nell'onde di un grande e gonfiato mare, pur erano allegri avendogli trapassati, parendo loro di aver fatto cosa di estrema e incredibil fatica.
Il seguente giorno navigando ebbero dalla parte sinistra una certa isola, che tanto si appressava al lito che il mare interposto pareva che fosse a modo di un canale: quella navigazione fu di stadii settanta. Era appresso il lito una selva ombrosa, piena di ogni sorte di spessi arbori, e similmente nell'isola; e ivi si fermarono, e nel far dell'aurora partendosi navigarono con gran difficultà fuori della strettezza e sassi di quella isola, imperoché l'acque erano, per il calare che aveva fatto il mare, molto basse. Avendo poi navigato cento e venti stadii, sorsero nella bocca del fiume detto Arbio, avanti la quale trovarono un porto bellissimo: ma l'acqua del fiume, che si mescolava con l'acqua del mare, non era buona da bevere, laonde andarono alcuni marinari ne' luoghi piú di sopra per quaranta stadii, e ritrovato un lago si fornirono di acqua, e dipoi ritornarono alle navi. All'incontro del porto vi è un'altra isola, ma disabitata, d'intorno alla quale è luogo buono da pescare, sí di ostreche come di ogni altra sorte di pesce. Questo è il termine e il fine dei popoli arbi, i quali sono in quella parte gli ultimi degl'Indiani; dipoi seguono li popoli oriti.
Partiti dalla bocca del fiume Arbo, trascorsero la costa degli Oriti e fermaronsi nel lito di Pagale, avendo navigato da ducento stadii, appresso il quale essendovi poco fondo, furono forzati di sorgere con le ancore in mare, dove trovarono esservi buon tegnidore; e i marinari, usciti delle navi, si fornirono d'acqua. Il seguente giorno nel levar del sole si partirono, e avendo navigato stadii trecento, nel tramontar del sole giunsero a Cabana; ma, veduto il lito esser tutto sassoso e pien di secche, per tema delle navi non si accostarono, ma stettero a largo in mare sopra l'ancore. Nel detto giorno fu uno cosí aspro e crudel vento che, gonfiatosi il mare per la fortuna, fu travagliata l'armata in modo che due galere e un bergantino perirono: ma gli uomini notando si salvarono, peroché non si ruppero molto distanti dal lito. Dal qual partitisi circa la mezzanotte, giunsero a Coccala, che è discosto stadii ducento.
Come ne' confini di Coccala Leonato, capitano d'Alessandro, vinse in battaglia i popoli oriti, e ne furono occisi seimila con tutti i lor capitani. Del torrente detto Thomaro, dove Nearco, visti quei popoli preparati per combattere, messe con mirabil modo le sue genti in ordine e furono detti popoli messi in fuga; e della natura loro, e come si servono dell'unghie in vece di coltelli.
Ivi Nearco comandò che tutte le genti smontassero in terra, perché le navi erano molto sbattute e conquassate dalla fortuna, e i soldati e compagni tanto affaticati e stracchi che avevano bisogno di riposo; e accioché fossero sicuri dall'empito de' barbari, fece metter in fortezza gli alloggiamenti. In quei confini Leonato, al quale Alessandro aveva commesso la impresa contro i popoli oriti, vinse in una gran battaglia detti popoli e tutti quelli che gli erano venuti in aiuto, dove morirono tutti i loro capitani e seimila Oriti; ma dell'esercito di Leonato morirono diecisette cavallieri con alcuni pochi fanti, e un capitano dei Gedrosi detto Appollofane. Queste cose sono scritte nei libri adietro, ove dimostrammo Leonato per la detta vittoria essere stato coronato di una corona d'oro fra li Macedoni.
Avendo Nearco in questo luogo ritrovato preparate vettovaglie, che erano state condotte di commandamento di Alessandro, di quelle ne fece metter nelle navi per dieci giorni; poi, racconciate le navi, le quali per il navigare fino a quel luogo erano alquanto conquassate, fece andare per terra a trovare Leonato quei compagni delle navi l'opra e servizio de' quali aveva conosciuto esser inutile, e ne tolse degli altri in luogo di quelli a supplimento dell'esercito. Il che fatto si partí, e avendo navigato stadii cinquecento con grandissima celerità, giunsero a un torrente chiamato Thomero, alla bocca del quale vi era una palude. Quivi era il lito molto sassoso, con un borgo di case piccole e strette, gli abitatori delle quali, vedendo l'armata, si stupirono e subito si misero ad ordine per combattere e vietare che non si smontasse. Costoro erano armati di lancie molto grosse e di lunghezza di sei cubiti, con la punta senza ferro, in luogo della quale le avevano fatte molto acute e poi brustolate, che facevano il medesimo effetto che se fossero state ferrate; e potevano esser da seicento. Nearco, avendogli veduti preparati per combattere, comandò che le navi si fermassero tanto lontane da terra quanto era il tirar di un arco, accioché i dardi e le saette vi potessero aggiungere. Le arme de' nimici, ancora che per il combattere da presso fossero salde e forti, pur per esser grosse non erano cosí atte al lanciare di lontano: e per tal cagione giudicò che non si doveva aver paura di loro. Elesse adunque de' piú leggieri e gagliardi e di leggiere armature armati, e che sapessero benissimo notare, e che secondo il comandamento dovessero notare. Il comandamento veramente era che, quando qualsivoglia di loro notando fosse arrivato dove potesse star in piedi nell'acqua, aspettasse un altro che se gli congiungesse per fianco, e che non andassero oltra verso i barbari prima che la squadra non fosse di altezza di tre a fronte con schena, ma allora, levato un grido, andassero correndo. Subito quelli che avevano tal ordine si gittarono in mare dalle navi e andarono prestissimo e fermaronsi in ordinanza, e fatta di sé squadra, si spinsero avanti correndo e gridando con furia: "A morte, a morte". Quelli dalle navi anche essi a un tempo medesimo, tirando con gli archi e altre machine il suo saettame, andarono verso i barbari, i quali, sbigottiti dallo splendor delle armi e dalla celerità dello assalto, battuti dalle freccie e dardi, essendo quasi mezzi nudi, non fecero una minima resistenza ma, lassato il combattere, si misero in fuga: laonde parte furon presi vivi, parte uccisi, e ci furono di quelli che si salvarono ai monti. Si vedevano i corpi de' prigioni essere tutti pelosi, e che avevano il capo e le unghie a modo di animali, delle quali unghie si servono in vece di coltelli per tagliar i pesci in pezzi, e anche qualche legno che fosse tenero, perché nelle altre cose dure adoperano alcune pietre acute in cambio di ferro, il quale appresso di loro non si trova; i vestimenti loro erano pelli di fiere e cuoi di piú grossi e grandi pesci.
In questo luogo furono tirate in terra le navi e racconciate quelle che erano rotte. Il sesto giorno, avendole gittate in acqua, si partirono di là, e navigati stadii trecento arrivarono a un luogo detto Malona, che è l'ultimo confine degli Oriti. Quelli veramente dei detti popoli che abitano i luoghi mediterranei usano gl'istessi ornamenti del corpo, le istesse armature e il medesimo modo di combattere che usano gl'Indiani, né sono in nulla differenti, eccetto che parlano in lingua loro propria e non indiana. Lo spazio della navigazione che fecero per il paese degli Arbi dal luogo ove principiarono furono stadii mille; quello veramente drieto la costa degli Oriti stadii mille e seicento.
Come Nearco, costeggiando l'India, trovò che l'ombre variavano, e quando il sol giungeva a mezzo il cielo, non si vedeva ombra. Dei popoli detti Gedrosi e altri Ictiofagi. Dell'isole Bengisara, Pasira, Calima e Carane, nelle qual isole le pecore per carestia d'erbe mangiano pesce.
Scrisse Nearco che, costeggiando questa terra d'India (perché oltre i sopradetti popoli non vi sono altri Indiani), trovò che l'ombre variavano, perciò che andando verso mezzodí le ombre verso quella parte inclinavano, e come il sole giungeva a mezzo il cielo, non si vedeva piú ombra alcuna. Similmente che alcune stelle, che per prima aveva vedute molto alte, parte erano nascoste e non si vedevano, e parte nascevano tanto appresso terra che di subito poi tramontavano. Né a me paiono fuori di ragione quelle cose che da Nearco sono dette, imperoché in Siene, città di Egitto, nel tempo ch'è il solstizio, nel mezzogiorno si vede un pozzo senza ombra; nell'istessa ora, nell'isola di Meroe sopra il Nilo, si vedono tutte le cose senza ombra: meglio veramente devesi credere in India quelle cose che delle ombre si dicono, per esser quella verso il mezzogiorno, e tanto piú nel mar Indico penso dover variare le ombre quanto è piú verso l'ostro.
Dopo gli Oriti, andando fra terra, sono i Gedrosii, per i confini de' quali Alessandro, conducendo l'esercito, patí tanta fatica e tanti travagli quanti in tutte l'altre espedizioni da lui fatte, se bene tutti insieme fossero raccolti, come nella istoria maggiore abbiamo dimostrato. Di sotto i Gedrosii abitano la costa del mare i popoli chiamati Ictiofagi, cioè Mangiapesce, lungo il lito de' quai avendo cominciato a navigare la prima sera, giunsero al far del giorno a Bangisara, nel che fecero stadii seicento. Qui trovarono un buon porto e un borgo detto Pasira, distante dal mare sessanta stadii, gli abitatori del quale chiamansi Pasirei. Nel giorno seguente, partitisi molto a buon'ora, andarono d'intorno a un capo che si vedeva molto alto e precipite, e che molto si prolungava in mare. Qui cavati molti pozzi, trovarono tutta l'acqua cattiva, e per esser il lito con poco fondo, surti con le ancore stettero a largo in mare; pur fornitisi dell'acqua meglio che poterono, il seguente giorno andarono a Colpa, stadii ducento. Di là partiti nell'aurora navigarono stadii ducento fino a un luogo detto Calima, ove si fermarono presso al lito: erano d'intorno alcune poche palme, con dattili verdi suso; da questo luogo si vedeva l'isola detta Carane, lontana dal lito stadii cento. Gli abitatori, vedendone arrivati, ne vennero ad appresentare alcune pecore e pesci: dicono che la carne delle pecore aveva odore di pesce, come hanno gli uccelli marini, conciosiaché le pecore, essendo quel paese di erbe poverissimo, sono forzate a mangiar pesce.
Del borgo detto Cysa, e il lito Carbi; di due porti, uno chiamato Mosarna, l'altro Cofante; di Barna, Dendrosia e Cyiza. Con che arte Nearco forní l'armata di vettovaglie ad uno castello non molto lontano del lito, li cui popoli usano farina di pesce. Di un luoco consecrato al sole detto Bagia; di un altro porto chiamato Talmena.
Il seguente giorno, avendo navigato stadii ducento, si fermarono appresso un lito e un borgo distante dal mare stadii trenta: il borgo si chiamava Cysa e il lito Carbi. Quivi si scontrarono in alcune barche piccole, come sogliono esser quelle di pescatori poveri, le quali non poterono prendere, perciò che se ne fuggirono subito che viddero le navi surte. E non ritrovandosi vettovaglia alcuna, della quale l'esercito cominciava averne bisogno, presero alcune capre, e portatele nelle navi si partirono; e navigando da centocinquanta stadii per mare intorno a un capo alto e che si slungava in mare, entrarono in un porto molto sicuro dalle onde. Gli abitatori di quel luogo erano pescatori, ed eranvi buone acque, e il porto per nome dicevasi Mosarna: del quale ebbero (come scrive Nearco) per pedotta Hidrace gedrosio, che si offerse di condurli a salvamento fino in la Carmania, perché di qui avanti non v'era cosa alcuna difficile, ma il tutto praticato e conosciuto fino nel colfo Persico.
Partiti al far della notte da Mosarna, navigarono stadii 750, fino che giunsero al lito detto Balomo, di donde avendo navigato stadii CCC, giunsero a un luogo detto Barna. Ivi trovarono infinite palme, e anco molti orti piantati di mirti e di varii fiori, coi quali tutti quanti si misero a farsi ghirlande; e cominciarono a veder alberi domestici, e uomini con faccia piú umana che non erano i passati. Avendo da questo luogo navicato ducento stadii, andarono a Dendrobosa, ove gittate le ancore stettero in mare, e circa la mezzanotte partiti, navigarono stadii trecento fino al porto Cofante. Abitavano in quei luoghi pescatori, i quali avevan alcune piccole barchette grossamente fatte, né vogavano coi remi al schermo a modo de' Greci, ma pestavano con quelli nell'acqua dall'una e dall'altra parte, sí come fanno quelli che zappano la terra. Ivi era un porto abondante di molta acqua e pura. Nel far della notte si levarono, e avendo navigato stadii ottocento andarono a Cyiza, ove, per esser il lito con fondo basso e sassoso, sursero con le ancore in mare, e poi per tutte le navi si misero a mangiare.
Di là partiti, fatti stadii cinquecento, si fermarono all'incontro di un piccolo castello edificato sopra di un colle, non molto lontano dal lido. Allora Nearco, giudicando che i terreni d'intorno quello fussero fruttiferi e buoni da seminare, cominciò a discorrer con Archia ciò che si doveva fare, perciò che il detto era di grande auttorità appresso i Macedoni che navigavano con Nearco, essendo figliuolo di Anassidoto della città di Pelle; e dissegli: "Io penso, Archia, che saremo astretti di veder di farci patroni di quel castello, volendo fornir questa armata di vettovaglie, perché non le vorranno dare se non isforzati: e per forza non è possibile di pigliarlo, conciosiacosaché bisognaria tenerlo assediato un lungo tempo. Che questo paese sia abondante di biade, ve lo dimostrano quelle canne grosse che si vedono stando qui, non molto lontane fra terra". Dopo queste parole, fu ordinato che l'armata si preparasse come si avesse a navigare, e che Archia avesse questa impresa; e Nearco con la sua nave sola si tirò verso il detto castello, mostrando di andare a vederlo. Smontato che fu e approssimatosi alle mura, gli abitatori gli vennero incontro con presenti di pesci e tonni cotti in forno, focaccie piccole e dattili di palma. Costoro sono gli ultimi di quelli popoli che abbiamo detto chiamarsi Ictiofagi, cioè Mangiapesce, che abitano quella costa, e li primi che li Macedoni vedessero che mangiassero cibi cotti. Nearco gli accettò con un viso allegro, ringraziandoli, e disse voler un poco vedere il lor castello: i quali furono contenti, e cosí, lasciati due suoi arcieri alla guardia di una certa porta piccola, Nearco con altri dui e con un delli turcimanni montò sopra le mura, di donde fece segno ad Archia, come aveva prima ordinato. Il quale, veduto che l'ebbe, insieme con gli altri Macedoni spinsero avanti le navi, delle quali essendo smontati, subito corsero verso la città. Li barbari, pieni di maraviglia e di confusione per le cose che vedevano fare, corsero a pigliar l'armi. Nearco allora comandò che il turcimanno con voce alta dicesse che, se volevano che la città fusse salva, era bisogno che gli dessero delle vettovaglie; e rispondendo che non ne avevano, cominciarono ad assaltar quelli che erano sopra le mura, ma facilmente furono ribattuti dagli arcieri che erano con Nearco. Ma dapoi, veduta la città esser presa dalli Macedoni, temendo che non fussero fatti schiavi, umilmente pregarono Nearco che perdonasse loro e conservasse la città, essendo contenti ch'egli pigliasse quante vettovaglie volesse. Nearco comandò ad Archia che pigliasse le porte e li muri propinqui, e fra tanto ordinò che alcuni altri andassero guardando se portavano tutte le cose da mangiare che avevano, over se le nascondevano. Gli fu appresentata una gran quantità di farina di pesci secchi, ma di formento e orzo molto poca: usano quelle genti il mangiar di pesci per cibo vulgare, e il pan di formento per cosa delicata.
E cosí, fornitosi di vettovaglie meglio che poterono, si partirono e andarono ad un certo capo, il quale gli abitanti dicono esser consacrato al sole, il cuo nome era Bagia. Levatisi di là circa la mezzanotte, fecero cammino di stadii mille fino in Talmena, che è porto commodissimo, e di là poi navigarono stadii trecento fino in Canasida, città disabitata, ove trovarono un pozzo e molte palme selvatiche, il molle e tenero delle quali pestandolo mangiavano. E già all'esercito cominciavano a mancar le vettovaglie ed esser travagliato dalla fame, e avendo navigato tutto un giorno e tutta una notte, non molto lontani da un lito disabitato, e gittate a fondo le ancore, stettero surti: e questo fece Nearco perché sentiva che cominciava a mancar l'animo alle ciurme e alli soldati, e però non volse accostarsi al lido, temendo che non abbandonassero l'armata.
Di Canate, Trissi e Dogasira, luoghi cosí chiamati. In che modo gli Ictiofagi prendano il pesce, e come del pesce secco fanno farina, e poi pane e focaccie; e dell'ossa de' pesci usano a fabricar case, e del sale fanno olio.
Di là avendo navigato stadii settecentocinquanta, si accostarono a Canate sopra il lido, nel qual vi erano alcune fosse piccole, e fatti stadii ottocento arrivarono in Trissi, ove trovarono alcune contrade piccole e povere, che dagli abitatori erano state abbandonate. E per la poca vettovaglia che trovarono, furono costretti dalla fame a mangiare i frutti delle palme selvatiche, e ammazzati sette camelli che ivi erano, e quelli fatti in pezzi, li divisero fra loro. Partironsi poi di là nel far del giorno, e avendo navigato stadii trecento, vennero a Dagasira, luogo abitato da pastori; né quivi dimorarono punto, ma navigarono tutto un giorno e una notte, né volsero fermarsi se non passavano tutta questa riviera di questi popoli mangiapesce, avendo patito infiniti travagli per la carestia delle cose necessarie: la qual navigazione è di stadii mille e cento. Né poterono accostarsi e smontar sopra il lido, perché vi erano molte secche e sprei, ma surti con le ancore stettero in mare.
Si dice che la costa di questi popoli detti Mangiapesce è poco piú di diecimila stadii; e mangiano veramente pesce come il loro nome suona, né molti di loro si danno al pescare, né fanno barche per questo effetto, ma hanno trovato un'arte per prender quelli nel calar che fa l'acqua del mare, percioché fanno reti grandi di lunghezza di duecentocinquanta passa, di corteccie sottili di palme, le quali intorcono a modo di lino, e come la marea cala, che è per grande spazio, resta la terra che è alta scoperta e senza pesce, ma nelli luoghi bassi e profondi vi resta l'acqua grande e infinito pesce e grande e piccolo. In questi tai luoghi vanno con le dette reti e ne pigliano di ogni sorte: e mangiano li piú molli e teneri crudi, subito che sono cavati dell'acqua; i maggiori e piú duri seccano al sole, e quelli tritati a modo di farina, fanno pane e focaccie. I loro bestiami similmente mangiano questi pesci secchi al sole in luogo di erba, conciosiacosaché il paese non ha prati né produce erba. Pigliano anche de' carabi, che è una sorte di gambari grandi, ostriche e conche marine. Il sale nasce ivi senza arte alcuna, ma il sole lo congela, e di quello ne fanno olio. Alcuni di detti popoli abitano un grande e deserto paese, senza arbori e senza frutto alcuno domestico, e vivono solamente di pesci. Alcuni altri, ma pochi, seminano pur alquanto di formento, che lo reputano come una vivanda delicata appresso il pesce. Perché il lor pane è fatto di pesci, delli quali fanno anche le case, perché quelli che sono piú ricchi e potenti pigliano l'ossa di balene che il mar gitta sopra il lido, e quelle in luogo di travi usano, e le porte son dell'ossa piú larghe; il resto delle case de' poveri si fanno delle spine di pesci. In questo mar di fuori vi son balene e pesci molto maggiori che non sono nel Mediterraneo.
Il modo che usò Nearco di liberar la sua armata dalla paura delle balene. D'una isola detta Nosala, consecrata al sole, e della favola di detta isola, che durò fin che Nearco la scoperse. Di un luoco chiamato Dade.
E narra Nearco che, trapassando il luogo de Cyiza, vidde nello apparir dell'aurora una grandissima quantità di acqua che dal mare era gittata in alto, non altramente che se fusse tratta da gonfiatori per forza, e tutto stupefatto di ciò dimandò alli pedotti che miracolo era quello, i quali risposero che le balene che andavano vagando per il mare eruttavano fuori quell'acqua tanto alta: della qual cosa ebbero tanta paura le ciurme, che caddero loro i remi di mano. Allora Nearco le cominciò a confortare e far loro animo, ordinando che facessero una fronte con le galee messe in ordinanza come avessero a combattere, e poi tutti alzate le voci ad un tempo, e con una voga battuta con grande strepito e rumore, andassero contra questi tali animali. Per le qual parole tutti confortati e ristrettisi insieme, si drizzarono verso le bestie, dove s'approssimarono sonando le trombe, e gridando quanto piú potevano, e faccendo rumore grandissimo con il batter de' remi e altre cose. Le balene che avanti si vedevano per la prua, spaurite da cosí grande strepito, si cacciorno in fondo del mare, e di lí a poco uscirono fuora per poppa, gittando pur in alto l'acqua grandemente nell'aere. Allora li marinari fecero grandissima festa per avere scampato un tal pericolo contra quello che si pensavano, laudando sommamente la grandezza dell'animo e la sapienza di Nearco. In quelli luoghi alcune di dette bestie si ritrovarono giacere sopra i lidi, overo gittate dalle aspre fortune, overo lasciate in terra nel calar dell'acque: con le ossa delle quali (putrefatta che è la carne) fabricano le loro abitazioni, e con le coste grandi cuoprono le case maggiori, e con le piccole le minori; delle mascelle fanno le porte, delle quali alcune si sono ritrovate di cubiti 25.
Narra lo istesso Nearco che, navigando per la riviera di detti popoli mangiapesce, intese dagli abitatori esservi una certa isola consecrata al sole, deserta e senza abitazione alcuna, distante dalla terra ferma stadii cento, che è chiamata Nosala, alla quale niuno ardisce d'appressarsi conciosiaché, se alcun per caso imprudentemente vi è andato, mai piú è stato veduto, e che una fusta dell'armata, dove erano alcuni uomini di Egitto, si accostò a detta isola e subito disparve e non fu piú veduta: il che li pedotti dicevano esser loro accaduto perché si avevano voluto approssimare a quella. Onde Nearco fu forzato di mandar un bergantino armato a cercar intorno intorno a detta isola, ordinandogli che non smontassero, ma che andassero a terra via gridando e chiamando per nome quelli che conoscevano. Ed essendogli referito che niuno aveva risposto, esso Nearco vi volse andare in persona, e fecevi dismontar tutte le ciurme e compagni suoi, dove cognobbe che eran tutte favole e cose vane. Vi aggiungevano anco come in detta isola vi era l'abitazione di una ninfa marina delle Nereide, il nome della quale non si sa, che aveva questo costume, che tutti quelli che smontavano in terra erano astretti a giacer con lei, la qual cosa fornita, li trasformava poi in pesci e li gittava in mare; e che il sole, sdegnatosi forte di tanta sceleraggine, comandò alla ninfa che si fuggisse dell'isola, la quale addimandando perdono degli errori commessi, e dicendo di essere apparecchiata di partirsi, il sole le perdonò e volse che tutti gli uomini che ella aveva transformati in pesci di nuovo tornassero nella lor primiera forma: e quindi era venuta l'origine delli popoli detti disopra, che si chiamano Mangiapesci, e questa favola era durata sino al tempo di Alessandro.
Sopra li popoli mangiapesci abitano i Gedrosii, in un paese tutto pieno di arena e cattivo, nel quale Alessandro, andando con lo esercito, patí tanti mali e travagli quanti nell'altra istoria abbiamo dimostrato. Poi che l'armata partita dalli Mangiapesci arrivò in Carmania, dove prima si fermò, stette in mare a ferro, perché di lí usciva fuor in mare una punta piena di spreo. Da quel luogo poi non navigarono verso ponente, ma tra ponente e tramontana: cosí stavano lo piú delle volte le prue loro. Il paese della Carmania è piú spesso di arbori, piú fruttifero e piú coperto di erbe, e ha piú acque che non ha il paese delli Mangiapesci e degli Oriti. Dettero poi fondi in Bade, luogo di Carmania abitato, e che fuor dell'oliva ha arbori assai fruttiferi e buone vigne, e anco fa del formento.
Di uno capo detto Caceta, donde si conducevano li cinnamomi nella Assiria. Di Neptamo e Aname fiumi; della regione chiamata Amorzia: e quivi, inteso che Alessandro con l'esercito era poco distante, in che modo Nearco andò a ritrovarlo, il quale, visti Nearco e Archia e intendendo della salvezza dell'armata, pianse di allegrezza; e come Nearco ritornò all'armata. Dell'isola Organa e Aracta, e del governator di quella, detto Mazene.
Mossi d'indi, fatto che ebbero stadii ottocento, sursero appresso una piaggia deserta, e viddero un capo alto, il qual si stendeva molto in mare, e parve che fusse distante il navigare d'un giorno. E li pratichi di quei luoghi dell'Arabia dissero che quel capo che veniva in fuora si chiamava Caceta, e che di lí cinnamomi e altre simili cose odorate si conducevano nell'Assiria. E da questa spiaggia, dove l'armata stette in mare a ferro, e dal capo il qual dirimpetto viddero sporto fuora in mare, secondo pare a me, e similmente parve a Nearco, il colfo che in dentro si spande ragionevole è che sia il mare Eritreo. Scoperto che ebbero questo capo, Onosicrito comandò che senza piú fermarsi navigassero a quello, acciò che vagabondi per il colfo non andassero piú stentando. Alle qual parole rispose Nearco che Onosicrito era uomo grosso, se non sapeva la causa perché Alessandro avesse fatto fare questa navigazione, la qual non era perché dubitasse di non poter condur lo esercito tutto per terra sano, e per questo avesse messo parte sopra questa armata per condurlo per mare, ma solamente per voler discoprire tutti li lidi, porti e isole di quella navigazione, e se vi fusse alcun colfo di cercarlo, e veder le città poste alla marina, e il paese, qual fusse fruttifero e qual deserto e arido; e che non era conveniente al presente, ch'erano al fine delle lor fatiche, di metter le cose in dubbio, conciosiaché per fornir questo viaggio siano abbondantemente forniti di vettovaglie, ma dubitava bene che, drizzando l'armata verso quel capo, il quale scorre molto verso mezzodí, non capitassero in qualche regione deserta e senza acqua e abbruciata dal sole. Questa opinione di Nearco per mio giudicio fu la salute di quella armata e di tutto l'esercito, perché è fama costante che detto capo e tutta la regione vicina sia deserta e arida e senza acqua.
Partironsi adunque da quel lido, navigando per la costa della riviera stadii settecento, e giunsero ad un altro lido, che per nome si chiama Neptano. E di nuovo nel far del giorno partiti, e fatti stadii cento, scorsero appresso ad un fiume detto Aname, dove la regione si chiama Armozzia, luogo pacifico e abbondante di tutte le cose, eccetto che non vi nascono olive. Ivi smontati delle navi, si ricreò tutto l'esercito, che aveva patito cosí grandi fatiche, e ricordevoli delli travagli passati, avuti cosí in mare come in tutta la costa delli Mangiapesci, tra loro con grande allegrezza gli andavano raccontando, e insieme il gran paese deserto di detta regione e la salvatichezza degli uomini. E allora alcuni, partendosi dall'esercito, volsero slargarsi fra terra alquanto, per veder ciò che vi era, chi da una parte e chi dall'altra. Quivi s'incontrarono in un uomo vestito alla greca e che parlava in lingua greca, e d'allegrezza li primi che lo viddero cominciarono a lagrimare, tanto fuor d'ogni espettazione parve loro dopo tanti mali di vedere un uomo greco: e domandandogli d'onde veniva e chi egli era, gli respose che era dell'esercito di Alessandro, dal quale si era smarrito, e che quello non troppo lontano si trovava. Costui subito con grande allegrezza e festa fu condotto a Nearco, al quale espose il tutto, e come lo esercito e il re era distante da quel luogo il cammino di cinque giornate, e disse il nome del presidente di quella regione. Col qual presidente Nearco essendosi consigliato di voler andare a trovar Alessandro, se ne ritornò alle navi, le quali nel far dell'aurora fece tirare in terra, acciò che quelle di loro che avevan patito in questa navigazione fussero racconcie; e volendo in questo luogo anco lasciar tutto l'esercito, fece uno steccato doppio all'armata, con un argine di terra e una fossa profonda, cominciando dalla bocca del fiume fino al lito, dove l'armata era tirata in terra.
In questo mezzo che Nearco faceva queste cose, il presidente della regione, sapendo che Alessandro stava in gran pensiero di questa armata, pensò di poter guadagnar qualche gran premio da quello se fusse il primo che gli desse nuova della salvezza dello esercito e di Nearco, il qual poco dopo doveva venire alla presenza del re: e cosí per la via piú curta che poté se n'andò ad Alessandro, annonziandogli come Nearco, partito dalle navi, se ne veniva a lui. La qual cosa udita da Alessandro, ancora che non desse fede alle parole di costui, nondimeno ebbe grande allegrezza, sí com'è il dovere. Ma doppo che furono passati li giorni che gli aveva detto della sua venuta, pensò che non fussero vere le nove dettegli, e massimamente perché molti che erano stati mandati ad incontrarlo, alcuni essendo andati un poco avanti e avendo smarrita la strada, neanco essi erano ritornati. Per il che Alessandro fece ritener costui, come quello che gli fusse venuto a dire cose false, che con vana allegrezza gli erano state dapoi di maggior dolore, il qual mostrava e nel viso e nel core.
In questo mezzo, alcuni di quelli che erano stati mandati con cavalli e carrette a condur Nearco, lo incontrarono nella strada insieme con Archia, e cinque o sei altri con loro, i quali conduceva seco, e non lo conobbero, né Archia, tanto erano tramutati, con li capelli lunghi e la barba intricata e la faccia squalida, sordida e piena di pallidezza, presa dal travaglio del mare e dalle lunghe vigilie patite. E avendo Archia dimandato a costoro dove era Alessandro, dettegli luogo e passarono avanti. Le quai parole considerate da Archia, disse verso Nearco: "Io penso che questi uomini non vadino per questi deserti ove noi siamo se non perché sono stati mandati ad incontrarne; che veramente non ne conoscono, non è da maravigliarsi, perché abbiamo tanto patito che siamo trasformati: è molto meglio che diciamo loro chi siamo, e intender da loro ciò che vadano cercando". La qual cosa piacque a Nearco. Gli dimandarono, e loro gli risposero che andavano cercando Nearco e l'armata; e avendo lor detto Nearco esser quello, lo fecero montar sopra le carrette insieme con tutti i compagni.
Alcuni veramente di questi mandati si posero ad andar con tanta celerità, per esser i primi a dar questa buona nuova ad Alessandro, che giunti a quello gli dissero: "Nearco e Archia con sei altri compagni vengono a trovarti". E perché non gli seppero dir cosa alcuna né dell'esercito né delle navi, Alessandro subito si pensò che costoro per qualche caso si fussero salvati, e che l'armata e lo esercito fusse perso: e per questo non si poteva tanto rallegrare della venuta di Nearco e di Archia quanto si contristava della rovina della armata. Non aveva ancora fornito di parlare Alessandro, che Nearco e Archia giunsero, li quali appena e con fatica furono conosciuti da Alessandro, tanto erano malconci, col viso squalido e li capelli lunghi e orridi: e questo confermò piú nel core di Alessandro del perder di tutta l'armata. Quivi Alessandro, presolo per mano, lo condusse solo lontano dagli altri suoi compagni e dalla sua guardia, e per lungo spazio avendo lagrimato, alla fine, preso animo, disse: "Il tuo esser ritornato salvo insieme con Archia di tutta questa gran perdita mi è non picciola consolazione, ma dimmi a che modo le navi e lo esercito è perso". Al qual rispose Nearco che l'armata e l'esercito era salvo, e che loro erano voluti venire a dargli la nuova della salvezza loro. E quivi piú fortemente cominciò a pianger Alessandro per la inaspettata nuova dell'esser salvo lo esercito, e dimandò dove erano surte le navi; gli fu risposto che nella bocca del fiume Anamide erano state tirate in terra. Allora Alessandro cominciò a giurar per Giove de' Greci e per Ammone delli popoli di Libia che aveva avuto maggior allegrezza di questa nuova che se egli avesse acquistata tutta l'Asia, percioché il dolore della perdita di questa armata era di equal grandezza a poter deformar la felicità avuta per avanti. Il presidente, il quale Alessandro aveva fatto ritenere, veduto Nearco se gli gittò a' piedi, dicendo: "Guarda come sono stato trattato, per esser venuto a dar la prima nuova della vostra venuta a salvamento". Per il che Nearco, avendo pregato Alessandro, lo fece lassare. Alessandro poi fece sacrificio per la salute dello esercito a Giove conservatore, ad Ercole e Apolline scacciatore di tutti i mali, a Nettunno e altri dei marini, e dapoi li giuochi solenni di lottare, correre e saltare, e appresso di suoni e canti: nelli quai giuochi e festa Nearco era fra li primi, da tutto lo esercito onorato con corone e fiori che gli gittavano adosso.
Compiuti li sacrificii e giuochi, Alessandro disse: "O Nearco, non mi pare il dovere che piú avanti ti debbi affaticare over metterti a pericolo, ma che un altro vada a condur l'armata dal luogo dove è fino a Susa". Alle qual parole Nearco rispose: "Sacra Maestà, io penso che 'l debito mio sia di obedirti in tutte le cose, e son sforzato anco a farlo. Ma se tu mi vuoi compiacere, non fare a questo modo, ma lassami esser capitano dell'esercito fino ch'io conduca a salvamento tutte le navi in Susa, né vogli patir che la gloria che già mi ho acquistata di cosí grande impresa, da un altro mi sia tolta, perché alcun tuo comandamento mi può mai esser né difficile né impossibile". E volendo continuare il parlare, Alessandro lo interruppe ringraziandolo, e cosí lo fece ritornar dove era l'armata. E perché egli aveva da passare per luoghi pacifici, mandò in sua compagnia poca gente: nondimeno questo viaggio verso il mare non lo fece senza travaglio, conciosiacosaché li barbari circonvicini, essendosi messi insieme, occupavano i luoghi deserti della Carmania, perché il suo governatore per comandamento di Alessandro essendo stato fatto morire, e Tripolemo, che novamente era venuto in suo luogo, non aveva ancor le forze bastanti a tenerli in obedienza, e due o tre volte in un giorno con diverse sorti di barbari che l'assaltarono fu astretto a combattere, e pur camminando senza fermarsi a mala pena e con difficultà salvo si condusse al mare.
Quivi giunto, fece sacrificio a Giove conservatore, e celebrò similmente i giuochi solenni che di sopra abbiamo detto del lottare. E compiute di fare le cose divine, si partirono navigando lungo una isola deserta e aspera, e si fermarono appresso un'altra maggiore di questa e abitata, avendo fatto da trecento stadii dal luogo d'onde partirono: e l'isola deserta si chiamava Organa, e quella dove arrivarono Aracta. Quivi erano viti e palme e campi seminati di formento, e la lunghezza dell'isola era ottocento stadii; e il governator dell'isola, detto Mazene, volse navigar per pilotto con loro fino a Susa. In questa isola dicevano che vi si vedeva il sepolcro del primo che signoreggiò tutta questa regione, il qual si chiamava Eritreo, dal quale tutto questo mare prese il nome di Eritreo.
Di altri luoghi scoperti da Nearco, cioè Pilora, Dodona, Tarsia, Catea, Cascandria, Ocho monte, Gogana, Areon torrente, Hierata, Hieratimi, Podargo torrente, Granio fiume.
Levatisi del porto si misero a navigar lungo la isola, e fatti ducento stadii di novo si fermarono appresso di quella, di donde viddero un'altra isola, distante da quella grande forse quaranta stadii, la qual si diceva esser consecrata a Nettunno, e che alcun non vi montava sopra. Ed essendo surti, nel far dell'aurora la marea li sopragiunse, e il calar del mare fu cosí grande che tre navi restarono in secco, e le altre, con grande difficultà essendo scampate di quelle secche, si salvarono in alto mare. Ma dapoi sopragiunta la crescente del mare, quelle ch'erano restate vennero fuori, e furono l'ultime a giunger dove era il resto dell'armata. E scorsero in un'altra isola, distante da terra circa trecento stadii, avendo navigato da quattrocento stadii, e quivi nel far del giorno si misero a navigare, passando da man destra di una isola deserta detta Pilora, e arrivarono a Dodona, castelletto piccolo e povero d'ogni cosa, eccetto che di acqua e pesce, conciosiacosaché ancor questi siano ictiofagi, cioè mangiapesci, avendo il lor paese molto tristo e sterile. E quivi fornitisi d'acqua, se ne andarono verso un capo che scorreva molto in mare, detto Tarsia, avendo fatto trecento stadii, di donde passarono ad una isola deserta all'incontro di terra, detta Catea, che si diceva esser dedicata a Mercurio e Venere, che fu cammino di trecento stadii. In detta isola ogni anno vengono portate dalli vicini abitanti pecore e capre, che donano a Mercurio e Venere, e queste poi col tempo in questa solitudine diventano salvatiche. E fin qui vengono li confini della Carmania; piú oltra poi cominciano li Persiani. Tutta questa costa della Carmania è da tremila e settecento stadii. Il loro vivere è simile alli Persi, alli quali sono vicini, e medesimamente nelle cose della guerra al modo dei predetti si governano.
Dalla detta isola sacrata partendosi, cominciarono a scorrer la costa della Persia e vennero ad un luogo detto Ila, dove era un porto che una isoletta piccola e deserta faceva, detta Cascandria, avendo fatto da quattrocento stadii. E nel far del giorno, navigando ad un'altra isola abitata, in quella sursero: quivi dice Nearco che pigliano delle perle, come nel mar d'India. E avendo circondato un capo di questa isola per quaranta stadii, si fermaron sotto un monte alto detto Ocho, in un buon porto, dove abitavano molti pescatori. Di quivi fatti da quattrocentocinquanta stadii, sorsero negli Apostani, dove arrivano molti navilii, e vi è una contrada lontana dal mare sessanta stadii. Donde levatisi la notte, vennero in un colfo abitato di molte ville, fatti che ebbero da quattrocento stadii, e si fermarono sotto alcune colline, tutte piantate di palme e d'ogni altra sorte di arbori fruttiferi che si trovano nella Grecia. Quindi essendosi levati e fatti stadii seicento, vennero a Gogana, luogo abitato, fermatosi appresso le bocche di un torrente detto Areon, dove difficilmente sorsero, perché l'entrar in quello era molto stretto e, per il calar grande che aveva fatto il mare, vi erano gran secche d'intorno. E di qui partiti nella bocca di un altro fiume si fermarono, avendo fatto da ottocento stadii, il qual fiume si chiamava Sittaco: neanco in questa bocca fu facile l'entrarvi. E tutto questo viaggio drieto la costa della Persia è molto pieno di secche, di sprei e di paludi. Quivi trovato assai formento, che per comandamento di Alessandro era stato portato accioché si potessero fornir di vettovaglie, vi dimorarono ventiun giorno, e tirate le navi in terra, tutte quelle che avevano patito racconciarono, rivedendo ancora le altre.
Di qui poi levatisi arrivarono ad una terra detta Hierata, che è luogo molto abitato, avendo fatti da settecentocinquanta stadii, e sorsero in una fossa che dal fiume gittava in mare e si chiamava Hieratimi, e nel levar del sole entrarono in un fiume torrente detto Podargo. E tutto il paese scorre in mare, di modo che pare un'isola che sia congiunta col continente, e si chiama Mesambria, piena di giardini e d'ogni sorte di arbori fruttiferi. Da Mesambria partitisi, avendo fatto da ducento stadii, si fermarono in foce appresso il fiume Granio, dal quale andando fra terra, si trovano li palazzi regali de' Persiani, distanti dalle bocche del detto fiume circa ducento stadii.
In questa navigazione dice Nearco essere stata veduta una balena gittata sopra il lito, alla quale accostatisi alcuni marinari e misuratala, la trovarono di lunghezza di cubiti cinquanta, e che aveva la pelle tutta squamosa, e tanto penetrarono in quella che la trovarono di grossezza di un cubito, e vi si vedevano nate di sopra ostriche e altre sorti di conche e erbe marine, intorno alla quale vi erano anco molti delfini, li quali erano maggiori che non son quelli che si veggono nel mare fuor del colfo.
Di Rogone e Brizana torrenti; del fiume Oroate, dove i Persiani finiscono i lor confini. Lunghezza della navigazione del paese di Persia. De' popoli uxii, mardi, cossei; della palude Cataderse, Margastana isola; dei fiumi Euffrate, Pasistigri, Tigris, Euffrate; del paese di Mesopotamia. Della città detta Nino, e come si congiunsero gli eserciti di Alessandro e Nearco con grande allegrezza a Schedia.
Quindi partiti, si fermarono appresso un torrente detto Rogone, dove era un buon porto: e fu viaggio di ducento stadii. E poi fatti da quattrocento stadii, sorsero pur in un altro torrente detto Brizana, dove stettero molto male, per esser il tutto pieno di spreo, scagni e secche che non si vedevano. E quando giunsero era la crescente dell'acqua, la qual come fu calata, le navi restarono in secco; ma dapoi, ritornata che fu secondo l'ordine, partiti andarono a sorgere sopra un fiume detto Oroate, che è il piú grande (come dice Nearco) di quanti si ritrovino in questa navigazione, da quelli che vengono dal mar grande di fuori. E quivi i Persiani finiscono i lor confini, dopo i quali cominciano ad abitare i Susii, che è gente libera, e sono detti di questo nome, sí come nell'altra istoria s'è fatta menzione, perché son latroni. La lunghezza della navigazione del paese della Persia è da quattromila e quattrocento stadii, il paese della quale vien detto esser diviso in tre parti secondo le stagioni de' tempi, cioè quella che è verso il mar Eritreo è tutta arenosa e sterile per causa del gran caldo; l'altre che seguita drieto, camminando verso tramontana e il vento di borea, è molto ben temperata delle stagioni e ha il paese pieno di prati bagnati di acque e coperti di erbe, e il tutto è piantato di viti e di ogn'altra sorte di arbori fruttiferi, eccetto che delle olive, con infiniti giardini di ogni sorte e fiumi di acque chiarissime, e con laghi pieni d'uccelli soliti a stare in quelli e nelli fiumi; è anco molto buona a pascer cavalli e ogni altra sorte di animali, con selve grandi e infinite salvaticine; ma andando piú avanti sotto la tramontana è fredda e piena di neve. E che quivi alcuni ambasciadori del mare Eussino, venuti (come scrive Nearco) per una breve via, si riscontrarono con Alessandro che cavalcava per il paese della Persia, al quale, maravigliandosi egli di questo, essi referirono il breve cammino che avevano fatto. Alli Susiani sono contermini gli Uxii, sí come è stato detto nell'altra istoria, e come li popoli mardi abitano appresso li Persiani, e anco questi attendono a rubare, e che li Cossei sono vicini alli Medi: le quali tutte nazioni, di fere e salvatiche che erano, Alessandro fece civili e mansuete, essendole andato ad espugnare nel tempo del verno, quando pensavano che nel lor paese non si potesse penetrare; ed edificovi anco città, e di uomini vaghi e che abitavano alla campagna li ridusse ad essere aratori e a coltivar la terra, acciò che dubitando delle lor cose s'astenessero di far ingiuria ad altri.
E dopo il passar che fece l'armata nel paese de' Susiani, Nearco non scrisse cosí il tutto con diligenza, ma gli parve che bastasse lo scriver delli porti e la lunghezza del cammino che facevano. Tutta questa costa ha appresso di sé molte lagune e paludi, con grandi sprei e secche che sotto acqua scorrono fin a mezzo il mare, che fa difficile il poter sorgere alli naviganti e di poter praticar da un luogo all'altro. Partiti dalle bocche del fiume, dove si erano fermati nelli confini della Persia, e tolta acqua per cinque giorni, conciosiaché li pilotti dicevano che non ne potriano poi trovare, fatti che ebbero settecento stadii sorsero sopra la bocca di una palude, la qual trovarono piena di pesci, ed era chiamata Cataderbe. E sopra detta bocca vi era un'isola nominata Margastana, dalla quale nel far dell'aurora partitisi, andarono per certe seccagne, dove bisognò che ad una ad una le navi vi passassero: e vi erano pali fitti da una banda e dall'altra, che dimostravano il cammino per queste paludi, sí com'è nell'istmo che è fra mezzo l'isola di Leucade e dell'Acarnania, che vi son posti segni alli naviganti, acciò che non vadino a dar nelle secche. Nel qual luogo di Leucade il fondo è tutto di arena, che facilmente lassa che le navi intrate possino partirsi: ma quivi era una voragine di fango, tanto tenace che per nessuna arte se ne potevano districare le navi, perciò che se si appontavano con le lancie lunghe, tutte entravano nel fango, e se dismontavano di nave per spingerle fuori in alto mare, tutti si profondavano fino al petto; nondimeno con tutte queste difficultà navigarono da secento stadii, andando sempre una nave drieto all'altra, e fermati che furono si misero a mangiare. Poi tutta la notte profonda navigando, col giorno seguente, per essere stati cosí consigliati, dopo fatti trecento stadii sorsero alle bocche del fiume Eufrate, appresso una villa della regione di Babilonia detta Diridote, dove vien condotto lo incenso per li mercatanti del paese dell'Arabia, e tutti gli altri odori che la detta terra produce. Dalla bocca dell'Eufrate fino in Babilonia dice Nearco esservi da stadii tremila e trecento di navigazione.
Quivi essendo detto che Alessandro andava verso Susa, ancor essi ritornarono indrieto, navigando per il fiume Pasitigri, per congiungersi con quello, nel qual ritorno ebbero sempre il paese de' Susiani alla man dritta. E passarono appresso una palude nella quale entra il fiume Tigris, il qual venendo dell'Armenia scorre appresso la città detta Nino, che altre volte fu cosí grande e felice, e si congiunge col fiume Eufrate: e il paese intermedio circondato da questi due fiumi si chiama Mesopotamia. Dalla detta palude fino al fiume si naviga all'insú per stadii secento, dove è una villa di Susiani detta Agini, la qual è lontana da Susa da cinquecento stadii. La lunghezza della navigazione del paese de' Susiani fino alla bocca del Pasitigri, passando sempre a canto di terre abitate e fertili, può essere da stadii cento e cinquanta. Quivi si fermarono, aspettando alcuni uomini mandati da Nearco a vedere dove si trovava Alessandro. Il qual Nearco fece solenni sacrificii alli dei che l'avevano condotto a salvamento; fece anco delli giuochi, con grandissima allegrezza e contento di tutta l'armata. Ed essendo venuta nova che Alessandro s'approssimava, di nuovo si misero a navigare su per il fiume e si fermarono a Schedia, dove era per passare alla volta di Susa Alessandro con l'esercito: e quivi si congiunsero tutti insieme, e Alessandro fece grandissimi sacrificii per la salute dell'armata e degli uomini di quella; celebrò anco molti giuochi. E Nearco, ovunque per l'esercito compareva, da ogni canto gli erano gittate addosso corone e fiori, e fu coronato da Alessandro con una corona d'oro, e similmente Leonato, l'uno per aver condotto a salvamento l'armata, l'altro per aver vinto gli Oriti e altri barbari contermini a quelli. A questo modo venne salvo lo esercito ad Alessandro, partito dalle bocche del fiume Indo.
Viaggio scritto per un comito veneziano, che fu condotto prigione dalla città de Alessandria fino al Diu nella India, col suo ritorno poi al cairo del 1538.
Come dell'anno 1537, rotta la guerra dal signor turco alla illustrissima Signoria di Venezia,
furono ritenute in Alessandria le loro galee con li gentiluomini, mercanti e marinari,
e condotte le loro robbe, e condotti da Alessandria per terra al Sues, porto del mar Rosso,
per farli navigare in quel mare.
Scriverò un viaggio fatto non per volontà nostra, ma per necessità nelle Indie, seguendo la persona di Soleyman bassà eunuco, il quale era mandato da Soleyman sach, imperatore de' Turchi, alla espedizione contra Portoghesi, nel tempo che fu rotta la guerra del 1537 alla nostra illustrissima Signoria di Venezia, e che noi eramo in Alessandria con le galee sue di mercato, delle quali era capitano il magnifico messer Antonio Barbarigo. Fummo intertenuti nella detta città di Alessandria in quelli tempi, senza aver modo di trafficare né contrattar le nostre mercanzie, e stemmo lí fino alli 7 di settembre 1537, nel qual giorno il consolo della nazion veneziana, chiamato messer Almorò Barbaro, e il capitano predetto Barbarigo, li mercatanti e tutti li marinari e robbe di cadauno furono ritenute e condotte in la torre della Lance; e dipoi fatta elezion di tutti quelli che erano atti al servizio del mare, tra' quali era uno anco io, fummo inviati cinquanta per volta al Cairo e mandati de lí al bassà Soleymano. Il quale elesse bombardieri, remeri, marangoni, calafati, comiti e armiraglio e alcuni compagni, e li mandò al Sues, ove poco dapoi mandò molti altri a lavorar le navi in detto luogo fino alla sua venuta, la quale fu alli 15 di giugno, come si dirà pienamente al luogo suo.
Il Sues è un luogo deserto, che non vi nasce erba di sorte alcuna, ed è ove Dio sommerse Faraone: e quivi fu fatta l'armata per l'India, e tutto il legname, ferramenta, sartiame, munizione furon condotte di Satalia e Constantinopoli per mare sino in Alessandria, e poi, caricate nelle zerme, le condussero su per il fiume Nilo fino al Cairo; quivi prese delle vettovaglie e artegliarie, fu posto il tutto sopra camelli, che le condussero fino al detto Sues. Questo viaggio è di miglia 80, né vi si trova abitazione, né acqua, né cosa alcuna da vivere: e quando le carovane ordinarie vi vanno, si forniscono dell'acqua del Nilo portata sopra camelli. In questo luogo, al tempo de' pagani, soleva esser una grandissima città, ed era tutta piena di cisterne, e aveva un calizene, che vuol dir una cava molto larga, che veniva fino dal Nilo: e quando crescevano le acque si empivano tutte le loro cisterne, servandosi tutto l'anno, e si poteva anco navigare. Ma destrutta che fu la città da' macomettani, fu similmente atterrata la detta cava, e le acque che si beveno si vanno a torre sei miglia lontano per terra con li camelli in alcuni pozzi: ed è acqua molto salmastra, e di quella ne bevevamo, e davamo ad ogni cinquanta uomini un camello di detta acqua. Questo luogo del Sues è nel principio del mar Rosso, ed è un poco di ridutto di muro marcio, da passa trenta, fatto in quadro, ove stanno di continuo da venti Turchi per guardia di quello. E fecero detta armata di legni settantasei fra grandi e piccoli, cioè maone sei, bastarde dicessette, galee sottili XXVII, fuste nove, galeoni due, navi quattro, e altre sorti de navilii fino al numero de 76.
Come, venuti a romore, da duomila uomini smontarono dalle galee, e scontrandoli uno sangiacco li ruppe. Che giunto a Sues il bassà Suliman fece metter ad ordine l'armata e darli la paga. Del luogo detto Corondolo, ove Moisè percosse con la verga e aperse il mare; del luogo chiamato Tor, vicino al monte Sinai, dov'è la chiesa e il corpo di santa Catarina.
Adí 9 marzo 1538 si misero a romore da forse duomila uomini, e dismontorno delle galee con le lor armi per andar via alla montagna, e allargaronsi da miglia sei dalle galee e scontrarono uno sangiacco con cavalli ventisette, che veniva alla guardia de Sues, e detti cavalli dettero dentro in dette ciurme e le ruppero, ammazzandone da ducento; il restante presero e spogliorno, e li menorno alle galee, ove furno posti al remo con la catena al piede. Adí 15 giugno giunse il bassà Suliman al Sues, e piantati li suoi padiglioni si riposò otto giorni: e in questo mezzo fece ponere ad ordine l'armata e dar una paga per ciascuno, cioè ducati cinque d'oro e maidini dieci, che sono in tutto maidini ducento e quindici. E parte degli uomini delle nostre galee grosse furno posti sopra l'armata, cioè sopra una delle bastarde settanta, e sopra un'altra delle dette bastarde altrettanti, sopra il chacaia quindeci, sopra la galea de' chielierchi basi diciotto: e questo è quello che ritenne il console in Alessandria. Il restante veramente di detti uomini furno posti sopra li due galeoni, ove erano cariche di polvere, salnitrii, solferi, ballotte, farine, biscotti e il tutto per il bisogno dell'armata; e ancora il bassà fece caricar li suoi danari sopra le galee, i quali erano coperti di cuoi di bue e tela incerata, e furno cassette quarantadue. E adí venti il bassà fece comandamento che in termine de giorni due ognuno fusse sopra la sua galea.
Adí 22 detto, il bassà montò in galea e si tirò fuori del Sues alla punta di Faraone, in luogo di buon fondo, passi quattro, larghi dal Sues miglia quattro, e dalli sette pozzi di Moisè miglia dodici per scirocco: e in detti luoghi morirno uomini sette.
Adí 27 detto, ci levammo dalla bocca del Sues con tutta l'armata per andar in India, e fu navigato per ostro scirocco, e fu dato fondo avanti sera in un luogo chiamato Corondolo, ove Moisè dette con la verga e aperse il mare: e qui fu sommerso Faraone con tutto il suo popolo, e per questo vien chiamato il mar Rosso. In detto luogo sono di fondo passa dodici, larghi dal Sues miglia sessanta, ove si stette una notte.
Adí 28 ci levammo da Corondolo e navigammo per ostro scirocco, e fu dato fondo due ore avanti sera in un luogo che si chiama il Tor, e in questo luogo sono molti cristiani della cintura: e qui si forní tutta l'armata di acqua. E questo luogo è lontano una giornata e mezza dal monte Sinai, ove è la chiesa di santa Catarina e il suo corpo. Stemmo qui giorni cinque, e sono di fondo passa cinque, e da Corondolo a questo luogo miglia cento per mare.
Del luogo detto Charas, Soridan isola, Marzoan montagna; del luogo chiamato il Cor;
della terra di Zeidem, scala di tutte le speciarie; di una moschea qual tengono
i Mori esser la sepoltura di Eva; delle isole dette Athlas.
Adí 3 di luglio si levorno dal Tor, e andorno fino a mezzogiorno dietro una marea di seccagne lontan da terra un miglio, e dettero fondo in passa 12 in un luogo chiamato Charas, ove si stette giorni due per aspettar le due navi di munizione: e dal Tor a questo luogo sono miglia 40.
Adí 5 detto si levorno dal Charas, e a ore cinque di giorno furno sopra una isola chiamata Soridan, larghi da terra miglia quaranta, e tutto il giorno fu navigato, e per fino a sol a monte furno fatte miglia cento. La notte seguente navigorno per ostro scirocco, e a sol levato si trovorno dietro di una montagna detta Marzoan, dal lato destro: e furno fatte miglia cento.
Adí 6 detto, fu per cammin per ostro scirocco, e a sol a monte si vidde terra dal lato destro dalla banda degli Abissini, e sino a sol a monte miglia cento.
Adí 7 detto, fu fatto cammino alla quarta di scirocco verso levante: furno miglia novanta.
Adí 8 detto, fu fatto cammin da miglia otto a l'ora, e a sol a monte miglia cento. La notte li venti al garbin, e il cammino per scirocco miglia venti.
Adí 9 il giorno fu bonaccia e li venti non furno stabili, e per scirocco fu trovato una marea di secche sotto acqua, le quali secche sono lontane da terra miglia cinquanta. Il cammin per maestro scirocco sino a sol posto furno miglia dieci. La notte fu cammino alla quarta di ostro verso garbin miglia venti.
Adí 10 detto fu cammin per scirocco: si venne verso un porto, in un luogo chiamato il Cor, ed è molto deserto; ha fondo di passa otto; furno miglia settantauno.
Adí 11 si levorno dal Cor, venendo a terra via sino a mezzogiorno miglia trenta, ad una terra chiamata Zidem, la quale è scala di tutte le specierie che vengono d'India e di Colocut, lontana dalla Mecca una giornata e mezza: e sono assai secche sotto acqua e di sopra, tamen è buon porto. Qui si ebbero rinfrescamenti assai, ma non vi sono acque vive, se non alcune cisterne, le quali si empiono di acqua piovana; e qui corrono assai mercanzie, e in detto luogo si trovano dattoli, gengivi mechini e non d'altra sorte. E fuori della terra è una moschea, la qual dicono i Mori esser la sepoltura di Eva. Le persone vanno il forzo nudi; sono magri e brutti, cioè berrettini. Hanno pesci in quantità, li quali pigliano in questo modo, che vanno alcuni uomini, uno alla volta, sopra tre pezzi over quattro di travi legati insieme, lunghi piedi sei, e vanno otto e dieci miglia lontani in mare per pigliar pesci, e stanno sentati sopra detti legni e vogano con un palo, e vanno fuori con ogni tempo. In questo luogo ci fornimmo di acqua, e si stette giorni quattro.
Adí 15 si levorno, mancandoli navilii cinque per fortuna, come s'intese per un uomo che scapolò d'una fusta; e in quel giorno fu fatto cammino alla quarta de garbin verso ostro, e furono miglia ottanta.
Adí 16 fu cammin per ostro scirocco, vento piacevole, miglia trenta. La notte similmente, fino a sol levato, miglia cinquanta.
Adí 17 fu cammin per ostro scirocco e alla quarta verso ostro, miglia cento. E la notte alla quarta de scirocco, fino a sol levato, miglia sessanta.
Adí 18 fu cammin per scirocco, tempo fosco, miglia quaranta. E la notte alla quarta de scirocco verso levante, miglia cinquanta.
Adí 19 fu cammin alla quarta di levante verso scirocco, vento fresco fino a ore 9 di giorno, e si entrò fra certe isole chiamate Atfas, luogo deserto e non di continuo abitato, salvo da alcune persone che vengono da altre isole, le quali vanno a pescare e pigliano perle smergandosi in fondo del mare, in passa quattro di fondo. Si bevono acque piovane, le quali si conservano in alcune fosse e pozzi. E in detto luogo si stette la notte; furon miglia cento.
Della isola detta Camara, e della natura, viver e vestir di quegli uomini; dell'isola Tuice e di Babel scoglio; della città di Adem e sito di quella.
Adí 20 si venne ad una isola chiamata Camaran, luogo di acqua e rinfrescamenti buoni, largo da terra ferma miglia 20, abitato da forse cinquanta case e alcuni altri casali per la isola: e le case son fatte di frasche. Si piglia in questo luogo gran quantità di coralli bianchi; vi è un castello ruinato e disabitato. Gli uomini vanno pur nudi, sono piccoli, portano capelli senza niente in testa, e intorno le vergogne portano un facciolo da barbieri, il resto nudi e scalzi. Sono uomini tutti naviganti: vanno con alcune barche e navilii fatti senza ferramenti, cuciti con alcuni spaghi come cordicelle, li quali fanno di datteleri, e le loro vele sono di stuore sottili fatte di palme di datteleri, come si fanno li ventoli; e vanno con dette barche in terra ferma e portano dattali in grandissima quantità, e zibibbi, e certo sorgo bianco grosso, e vi nascono gengivi mechini assai, e viene di terra di Abissini gran quantità di mirra. Il sorgo veramente lo infrangono sopra una pietra di marmoro larga, a modo di quelle che si macinano i colori, e di sopra hanno un'altra pietra larga mezzo braccio in modo di uno ruotolo, e con detta pietra macinano e ad un tratto impastano, e fanno alcune focaccie: e quello è il suo pane ed è molto caro, e bisogna farlo di giorno in giorno, altramente non si può mangiare perché el si secca. Carne vi sono assai e pesci. Dalle isole de Achafas sino a qui sono miglia quaranta. E in questo luogo di Camaran dismontò il bassà, e fece voltar seco a tutte le galee, e da questo luogo spacciò due fuste, una alla volta del re del Zibit, l'altra al re di Adem, dandogli ordine che li fosse apparecchiata acqua e rinfrescamenti per l'armata, acciò che 'l potessi passar in India contra i Portoghesi, e dir al re del Zibit che 'l debbi venir alla marina e portare il tributo del signore e dare ubidienza al bassà: e questo fece per essere il Zibit fra terra una giornata. In questo luogo di Cameran fu fornita l'armata d'acqua per passar in India, e si stette in detto luogo giorni dieci.
Adí 30 si levorno da Cameran con vento piacevole, cammino alla quarta de ostro verso scirocco: furon fatte miglia cinquanta. E la mattina a ore una di giorno si arrivò ad una isola chiamata Tuicce, ove fu incontrata la fusta la qual era andata da Cameran al Zibit, e portò li presenti al bassà: e furno alcune spade lavorate alla zimina, tutte fornite d'argento indorato, che erano in foggia di scimitarre, e alcuni pugnali al simile lavorati, con alcune turchine e rubini e perle sopra li maneghi, e alcune rotelle tutte coperte di perle. E tutte queste cose furno mandate dal re del Zibit, il quale gli mandò a dire che 'l dovesse andare in India a conquistar li Portoghesi e che al ritorno gli daria il tributo, però che lui era schiavo del gran signore. E furon fatte miglia cinquanta. La notte cammino alla quarta de ostro verso scirocco, miglia cinquanta.
Adí primo d'agosto fu vento la notte da scirocco, e si venne per miglia X appresso la bocca dello stretto, ad uno scoglio detto Bebel, fondo di passa due, e in questo luogo si stette una notte: il quale scoglio è al lato destro alla banda di Abissini.
Adí 2 agosto si levorno dal sopradetto scoglio, e si venne fuori dello stretto alla quarta di levante verso scirocco, miglia dieci. La notte, sino a sol levato, miglia ottanta.
Adí 3 detto, fu cammino alla quarta di levante verso greco: si venne ad una terra chiamata Adem, molto forte, ed è alla marina, circondata da montagne altissime, sopra cadauna delle quali vi sono castelletti e revellini che circondano d'intorno, salvo un poco di scavezzatura per la qual si esce per andar in terra ferma e alla marina. E ha da passa trecento di spiaza, con le sue porte e torrioni e buone mure, e oltra di questo ha uno scoglio avanti con un castelletto sopra e uno torrione a basso per guardia del porto, il quale è alla banda de ostro ed è fondo passa due; e dalla banda di tramontana è un grandissimo porto e di buon fondo, coperto da ogni vento, e vi è acqua assai e buona. La terra si è arida e non vi nasce cosa alcuna; non hanno acque salvo che piovane, le quali quando piove vanno in alcune cisterne e pozzi, che hanno fondi di piú di braccia cento: e quando si trae fuori l'acqua è calda, di sorte che non si può bevere per sino non si rinfresca. In questa terra ogni cosa si convien condur di fuori, cioè vettovaglie, legne e cosí tutto 'l resto. Giudei vi sono assai. E dal luogo onde si levorno sino qui sono miglia ottanta, ove essendo gionti, vennero quattro gentiluomini avanti il bassà e li portaron rinfrescamenti: e lui li fece bon accetto e parlò alquanto di segreto con loro, e poi li donò due veste di velluto altobasso per ciascuno e li mandò in terra con una fede sua al signore, commettendoli che 'l dovesse venire in galea e non dubitasse di cosa alcuna. Ma il signore li mandò a dire che lui non voleva venire, e che volentieri li daria quanto li facesse bisogno: e cosí si stette quella giornata.
Come il bassà fece impiccar ad una antenna il signore di Adem con quattro altri. Di alcuni signali per li quali si conosce esser vicino alle rive.
Adí 5 il bassà comandò alli giannizzeri che andassero in terra armati, e ogni galea caricasse li suoi coppani, e commesse al suo chaccaia che andasse al detto signore della terra a dirli che 'l venisse dal bassà a dare ubidienza al gran signore. E il chacaia andò e fece l'imbasciata, e il signore della terra li rispose: "Io verrò sopra la tua testa, perch'io sono schiavo del gran signore". E cosí venne alla galea con molti della sua corte, e il chaccaia il menava, e aveva un facciolo al collo, e l'appresentò al bassà, il quale l'abbracciò e feceli buona ciera, e parlorno alquanto insieme; e in tanto il bassà fece portar due veste di velluto altobasso con alcune d'oro, e quelle donò al detto signore della terra e messegliele in dosso, e cosí furno vestiti alcuni delli suoi baroni. E dapoi ragionato insieme per un gran pezzo, il bassà il licenziò e li dette combiato di andare in terra: e in quel ponto lo fece appiccare ad una antenna per la gola, e insieme quattro altri di quelli suoi favoriti. Subito fatto questo, mandò uno sangiacco con giannizeri 500 alla guardia della terra, nella quale gli uomini sono come quelli d'Arabia, cioè brutti, magri e piccioli. La detta terra è mercatantesca, e contrattava con gl'Indiani, e facevano venir ogni anno tre e quattro navilii di specie de piú sorti e quelle mandava al Cairo. In questo luogo nascono gengivi mechini e non de altra sorte.
Adí 8 si levò l'armata dalla terra e andò alla banda di tramontana, ove si forní di acqua; e in tutto stettero giorni undici.
Adí 19 tutta l'armata si partí da Adem, e furno in tutto, tra galee e fuste e navi e altri navilii, settantaquattro: e per custodia di quel luogo il bassà lasciò tre fuste. Il cammino fu alla quarta di levante verso greco, miglia quaranta.
Adí 20 fu cammino per levante, e vento da ponente piacevole; furon fatte miglia cinquanta. La notte fu cammino alla quarta di levante verso scirocco, miglia venti.
Adí 21 cammino per levante con bonaccia, miglia trenta. La notte fu il cammino detto, a sol levato, miglia trenta.
Adí 22 fu bonaccia sino a mezzogiorno, poi un poco di vento, miglia venti. La notte cammino per levante, miglia cinquanta.
Adí 23 il cammino fu alla quarta di levante verso greco; furon fatte miglia sessanta. La notte cammino per greco levante, miglia quaranta.
Adí 24 cammino greco levante, mare in prua, miglia novanta. La notte fu navigato per greco levante, miglia ottanta.
Adí 25 fu cammino alla quarta di greco verso levante, miglia novanta. La notte cammino detto, sino a sol levato, miglia cento.
Adí 26 cammino greco levante, miglia novanta. La notte il cammino detto, miglia ottanta.
Adí 27 cammino greco levante, miglia novanta. La notte il cammino detto, miglia cento.
Adí 28 cammino greco levante, miglia novanta. La notte cammino detto, miglia novanta.
Adí 29 cammino greco levante, miglia novanta. La notte cammino detto, miglia novanta.
Adí 30 cammino alla quarta di levante verso greco, miglia ottanta. La notte alla quarta di greco verso levante, miglia novanta.
Adí 31 alla quarta di greco verso levante, miglia settanta. La notte il cammino detto, miglia ottanta.
Adí primo settembre, cammino alla quarta di greco verso levante, miglia settanta. La notte cammino detto, miglia cinquanta.
Adí dua cammino alla quarta di greco verso levante, e a mezzogiorno fu dato fondo in passi trentacinque; miglia trenta. La notte fu dato fondo a ore tre in passi 20, largo dal Diu miglia cento, ma dal primo terreno dalla banda di tramontana miglia quattrocento: e qui si vedono in mare alcune bisse, trovandosi larghi in mare da miglia cento in centocinquanta, e questi sono segnali delle rive, e ancor si vedono alcune acque verdi, e questi sono segni per tutta la costa.
Adí 3, a sol levato, si partí l'armata con tempo piacevole e andò per riviera, e a ore 9 di giorno venne una barca da terra, e disse al bassà come nel castello del Diu erano Portoghesi settecento e galee sei armate, e il bassà li fece presente de caffettani sei, e li tenne circa una ora, e mandò alla terra; ma dapoi venne una fusta dell'armata, la qual aveva preso un giudeo in terra, e lui confessò quanto è detto. Furono miglia trenta. La notte cammino per scirocco, sino a sol levato, miglia trenta.
Adí 4, a sol levato, fu camminato con vento piacevole sino appresso la terra del Diu miglia tre, ove fu dato fondo; ma avanti fu vista andar fuori del porto una vela, la qual era una fusta de' Portoghesi che andava verso Acque, e il bassà li mandò drieto il capitan moro con una bastarda, e tutto quel giorno la seguitò, e la notte la perse di vista, e la mattina seguente il capitan moro ritornò con la bastarda, e gionse poi l'altro giorno all'armata. Furono miglia trenta.
Come Cosa Zaffer, renegato e fatto turco, essendo capitano del re di Diu, intesa la venuta di Turchi, tolse la terra di man de' Portoghesi, e come fu saccheggiata da' Turchi. Del porto detto Muda Faraba.
Adí detto venne uno chiamato il Cosa Zaffer, il qual è da Otranto, ma rinegato e fatto turco, ed era patron di una galea quando il signor turco mandò l'altra armata, la qual si ruppe e si perse. E il sopradetto Cosa Zaffer andò a star con il re del Diu, il quale si chiama re di Cambaia, e questo per nominarsi cosí il paese, e al predetto Cosa Zaffer il re gli aveva donato alcune terre e fatto capitano di tutto il suo regno, e lui praticava con Portoghesi e avevasi fatto lor amico; ma quando lui intese che l'armata del signor turco veniva, fece venir con bel modo gente assai del paese, e tolse la terra di man di Portoghesi e gli assediò nel castello: ed era con lui un consigliere primo e viceré del re di Cambaia, e avevano con loro da persone 8000, con le quali assediavano il castello, e ogni giorno scaramucciavano con i Portoghesi. Siché, venuto che fu il detto Cosa Zaffer in galea, e con lui il detto viceré, il bassà li fece onore e domandogli delle cose da terra, e loro gli esposero come nel castello erano da cinquecento persone da fatti e trecento altri, ma che loro già giorni ventisei gli avevano posto assedio, e che con gl'Indiani bastava loro l'animo di torli il castello, se esso voleva dare lor arteglieria e munizione, che altro non volevan da lui: onde il bassà li donò due belle veste per ciascuno. E in questo tempo che il Cosa Zaffer e il viceré stavano a ragionar con il bassà, li Turchi smontorno in terra con le lor arme, e andorno e saccheggiorno la terra, facendo mille disonestadi agl'Indiani; e sopra tutto saccheggiorno le case del viceré, e li tolsero tre belli cavalli, e drappamenti e argenti e tutto quello trovorno, e scorsero sino al castello e scaramucciorno con Portoghesi. Dapoi venne il viceré nella terra e ritrovò la casa sua essere stata svaligiata, e adimandò alli suoi schiavi la causa di simil cosa, e loro li risposeno come li Turchi erano stati, e che avevano fatto diversi altri mali per la terra: il che inteso per il viceré, di subito mandò per alcuni suoi capitani e pose alcune sue cose ad ordine, e la notte seguente si partí con forsi persone seimille e andò alla terra del re, la qual era da due buone giornate fra terra. E in detta notte venne una fusta di quelli di terra e portò rinfrescamenti per nome del re, cioè pan fresco, noci d'India, carne, risi cotti e altre robbe, e il tutto fu dispensato sopra la galea del bassà.
Adí 5 il bassà mandò in terra il capitan moro e il suo chacaia, e giunti che furon questi, tutte le galee mandorno li suoi cappani carichi di giannizzeri per dar aiuto a quelli del paese, i quali erano accampati a torno del castello: ed erano uomini 2000, tutti indiani, e il resto erano andati con il viceré e Cosa Zaffer.
Adí 7 si levò l'armata, perché l'artegliaria la batteva, e venne largo dal Diu miglia XV, ad un porto chiamato Muda Faraba, porto bonissimo, e vi è acqua assai, per esser sopra la bocca di un fiume.
Adí 8 il bassà smontò in terra, ove furon cominciate a scaricare le artegliarie, le quali erano sopra quattro maone, e mandò alla terra pezzi tre, e quelli fece piantar sopra una torre, la qual è di qua dall'acqua, un tiro di artegliaria lontan dalla fortezza grande, sopra la qual torre stavano gl'Indiani a far le bollette e riscuotere li dazii: ed era grossa di muri, e aveva quattro pezzi di artegliaria di bronzo, con un capo e soldati cento; e detta torre non aveva fosse né acqua a torno. Ma del resto si farà meglio menzione avanti.
Adí 9 venne una nave e una galea al detto porto, e dette sopra una secca e si sfondorono, la qual nave era carica di biscotti e polvere e altre monizioni, le qual robbe furno il forzo ricuperate: ma la nave andò in pezzi, e la galea fu ricuperata e racconciata.
Adí 19 venne una galea bastarda mal condizionata, la qual era per tempo rimasta indietro e aveva mal spielegato, ed era andata ad un porto di certe genti chiamate Samari, idolatri, ove che quelli della galea mandorno un coppano con alcuni giannizeri in terra, li quali tutti furno presi e tagliati a pezzi; dapoi tolsero il coppano e armorno certe lor barche e vennero alla galea, e ammazzorno ancor da sessanta persone, di modo che appena la galea poté scampare: e gionta che fu all'armata, il bassà mandò per il peotta e lo fece appicar per aver mal spielegato.
Come giunse al bassà un vecchio qual diceva aver 300 anni. In che modo que' popoli cavalcano i buoi, e la descrizion d'essi. Come quelle donne si abbruciano, morti i loro mariti, e del modo che tengono.
Adí 25 fu preso uno uomo di quelli del castello, ma era del paese, ed era fatto cristiano, ed era venuto fuori alla scaramuccia: onde fu menato avanti il bassà, e fecelo esaminare, ma lui mai non volse risponder né dire parola alcuna, del che il bassà sdegnato lo fece tagliar in duoi pezzi. E in questo venne un uomo vecchio avanti il bassà, il qual diceva come gli aveva piú di anni trecento: e questo confermavano quelli del paese, e dicevano al bassà come assai di loro si trovavano che vivevano lungamente. In questo paese sono uomini asciutti e vivono dilicatamente, cioè di poco cibo, e non mangiano carne di buoi, ma cavalcano quelli a modo di cavalli: e sono buoi piccoli e belli, e vanno come di portante, e li fanno un buso nelle nari del naso e vi mettono una cordicella, e quella adoperano in luogo di briglia, e ancor li fanno portar la soma come si fa alli muli; e detti animali hanno li corni in modo di compasso, cioè dritte e lunghe, e sono molto mansueti. E quando nasce uno di questi animali fanno gran festa, e hanno devozione in quello, ma molto piú nella vacca, e per questo sono chiamati idolatri.
E quando qualche uno di questi Indiani che sia ricco e onorato muore, la mogliere fa fare un gran convito alli suoi parenti, e faccendo festa va ballando alla loro usanza insino ad un luogo ove è apparecchiato di far un gran fuoco, dove portano il corpo del suo marito per abbrucciarlo, e il forzo delli parenti portano con loro una pignatta di certo grasso il qual è ardentissimo; e la donna del morto va pur ballando atorno il fuoco e cantando le laudi del marito, donando a cui uno anello a cui uno drappo, insino che resta nuda, con un facciolo avanti le parti vergognose, e immediate poi piglia una pignatta di quel grasso, e buttatala nel fuoco lei salta in mezzo, e tutti li circonstanti le gittano addosso quelle pignatte di grasso, di sorte che fanno un grandissimo fuoco, che in un momento rimane morta. E questo fanno quelle che vogliono esser reputate buone, e se non fanno questo, sono reputate triste e di pessima vita e disoneste, né mai trovano piú da maritarsi.
Questo paese è molto ricco, e vi sono gran quantità di gengivi e di ogni qualità e bonissimi, e vi sono gran quantità di noci d'India, e di quelle fanno aceto, olio, grasso e corde e stuore: e detto albero delle noci è fatto a modo di un dattolero, e non ha altra differenzia salvo il frutto e la foglia della palma, che è piú larga.
Adí 28 si levò l'armata del porto Muda Faraba, e sorse in fondo di passa tre in quattro.
Adí 29 si fece cammino di ore sei, e si dette fondo largo dal Diu da miglia quindici, ove si stette una notte.
Adí 30 si levò l'armata con vento da tramontana a terra via, e andò in dromo del castello del Diu, e tutte le galee sparorno i pezzi grossi, e poi passarono alla banda e dettero fondo forse miglia tre lontani dal Diu.
Come venne fuori del castello uno ambasciadore al bassà dimandandoli accordo, e fattoli un salvocondotto, e parimente al capitano, qual fece venir fuori i suoi compagni sotto la fede del bassà, esso bassà li fece metter tutti in catena al remo. Come giunsero al porto tre galee de' Portoghesi e una nave di vettovaglie.
Adí primo di ottobre venne fuori del castello piccolo uno uomo per imbasciador all'armata, per rendersi d'accordo, perché non si potevano tenere, per rispetto che li avevano posto sotto tre pezzi di artegliaria che tirava libbre 150 di ferro, e quando tiravano passavano la torre da una banda all'altra, di sorte che li sassi gli ammazzavano, e di cento che erano in detta torre, venti ne erano morti. Ma avanti che domandassero accordo, avevano morti assai Turchi con li schioppi e con li suoi quattro pezzi di artegliaria, perché tra il piantare della artegliaria e la fazione durò da diciotto in venti giorni. Giunto che fu detto uomo dal bassà, immediate gli fu donato una bella vesta e gli fu fatto un amplo salvocondotto dello avere e delle persone, col quale andato in terra, fece che il capitano con duoi altri uomini venne dal bassà, il qual donò un'altra vesta al capitano e li confermò il salvocondotto, con patto che non potessero andar nella fortezza grande: e cosí rimasti d'accordo con detto capitano, il qual era portoghese, e andato in terra fece venir fuori li suoi compagni, li quali il bassà fece mettere in una casa, senza arme e sotto buona guardia; e detto castello si chiamava Golgole.
Adí 3 il bassà fece andar avanti di lui quattro bombardieri schiavoni delle galee grosse, e li commise dovessero andar in terra a batter la fortezza.
Adí detto il bassà mandò a tuor li Portoghesi che si aveano resi, e li fece poner sopra diverse galee in catena al remo, cosí il capitano come tutti gli altri: ed erano da ottanta.
Adí detto, vennero nel porto del Diu galee tre di Portoghesi, essendo l'armata turchesca larga dal porto miglia tre: né il bassà volse mandar galea alcuna per impedirle, sí che al suo piacere introrno in porto.
Adí 8 venne una nave di vettovaglia qual era persa nel parezzo, per fortuna stata avanti, e sopra di essa vi erano quindici uomini delle galee grosse, tra' quali era lo armiraglio e comito della conserva, sessanta penesi e il resto ciurme.
Adí 13 l'armata si levò dal Diu dalla banda di ponente e andò a quella di levante, larga miglia due, e il castello tirò alcune botte di artegliaria, e sfondrò una galea e ruppe ad un'altra l'antenna.
Adí XV il bassà smontò dalla maona e andò sopra la bastarda, e fece metter tutti li cristiani in ferri, e mandò a tuor una vela bianca di un'altra galea, perché la sua era divisata: e questo fece perché si aspettava l'armata di Portoghesi, e non voleva che si sapesse in qual lui fosse. E dubitando ancora dell'artegliaria, fece far a poppa una gran curcuma di gomene e di ogni sorte cavi, assai bastante per sicurtà di una artegliaria quando l'armata fusse venuta, perché era spauroso e senza animo.
Adí XVII, che fu la vigilia di san Luca, il bassà fece tagliar la testa ad uno delle galee veneziane, e questo per aver detto: "La mia Signoria non è morta".
In che modo furono disposte le artegliarie per batter il castello, e come quelli di dentro uscirono e abbruciorono li sacchi di gottone gettati nelle fosse per Turchi in gran quantità. Del soccorso venuto a' Portoghesi, e come, i Turchi essendo all'ordine per dar la battaglia ad un castelletto, quelli di dentro con trombe di fuoco e archibusi li ributtarono.
Adí 22 il bassà mandò a dire a tutti i bombardieri che erano in terra, che in tutto potevano esser da 400, però che ogni giorno ne veniva morto qualche uno dall'artegliarie, che quello al quale bastava l'animo di gittar giuso lo stendardo grande della fortezza, gli doneria maidini mille e una vesta: la qual cosa per uno sangiacco fu detta alli cristiani, e di piú gli offerse far libero quello il qual gittava giú detto stendardo, che era in mezzo di un torrione grande. Onde un de' detti cristiani in tre colpi lo scavezzò, e per Turchi fu fatta festa grande e fatto gridar per tutta l'armata, e al detto bombardiero fu donata una vesta di seta. Il numero veramente e l'artegliarie che avevano posto sotto il castello, tutte erano ad una facciata, ma in sei poste. In la prima era una colobrina de libbre centocinquanta di tiro di ferro, e una petriera di libbre ducento, e poco distante era uno passavolante di libbre sedici di ferro: tamen si tiravano ballotte di piombo, le quali di continuo si disfacevano; e in un altro luogo era una petriera di libbre trecento, e una colobrina di libbre centocinquanta di ferro. In la seconda posta era un altro passavolante pur compagno dell'altro, e tutti due erano delle galee grosse; e in un altro luogo era uno sacro di libbre dodici di ferro, e uno cannoncino di libbre sedici, e un falcon di libbre sei, e uno mortaro di libbre quattrocento di balla. E in un'altra posta era una colobrina da cento, di sorte che gli avevano rovinato un torrione dal cordon in suso, e si poteva correr in cima della batteria a suo buon piacere, perché il torrione non era molto alto e le fosse non erano compite da cavare: ma sí come li Turchi ruinavano, cosí quelli di dentro li ponevano terra e frasche, e riempievano il meglio che potevano. E sappiate che detta fortezza non aveva fianchi, e per esser in sasso non li avevano fatto casematte, ma solamente aveva le cannoniere d'alto, le quali tutte li furono rovinate e tolte: ma la salute loro era che ogni giorno venivano fuori a quindici e venti come lioni arrabbiati, e quanti scontravano tanti amazzavano, di modo che gli avevano posto tale spavento che, quando uscivano fuori, li Turchi eran in fuga e non sapevano che farsi.
Adí 25 li Turchi fecero mettere una gran quantità di sacchi di cottone, coperti di corame e legati con corde, e la notte li fecero gittar dentro le fosse, per modo che li sacchi di cottone erano alti sino alle mura. Vedendo questo, quelli di dentro la mattina a buon'ora, avanti che i Turchi si mettessero ad ordine per dar la batteria e montar suso, uscirono da 60 di loro fuora, quaranta de'quali introrno tra' Turchi combattendo bravamente, e gli altri rimasero dentro della fossa, e ciascuno di loro aveva un sacchetto di corame pieno di polvere e li stoppini accesi in mano, tagliavano li sacchi di cottone, e li ponevano dentro un pugno di polvere e poi li davano fuoco, in modo che in poco spazio assai di quelli sacchi furno accesi, e il fuoco li durò dentro duo giorni; gli altri veramente che combattevano sostennero la scaramuccia piú di tre ore, ammazzando da 150 Turchi e altritanti feriti, e dapoi tornorno nel castello con morte di due di loro.
Adí 27 vennero cinque fuste portoghese e presero una fusta turchesca, e andarono sotto la terra e li dettero soccorso, ma non poterno andar in porto per rispetto dell'artegliaria turchesca, però che erano alcuni di sopradetti pezzi che battevano la banda del porto, ma stavano di sopra alla banda delle mura.
Adí 29 il bassà mandò coppani quaranta carichi di Turchi, e un poco di artegliaria per ciascuno, e questo per dar la battaglia generale a uno castelletto il qual è all'acqua in porto, in dromo della terra: e detto castelletto era stato tutto rovinato dalle bombarde turchesche, e non vi erano dentro salvo cinque over sei uomini, e tutto il giorno con una barca del detto castelletto andavano al castel grande, che è lontano un tiro di falconetto e manco. Ordinata la battaglia gli andorno sotto, né mai quelli di dentro si lasciorno vedere, e quando li Turchi furno a' lati dettero delle prue in terra, ove era stato rovinato ogni cosa sino in orlo di acqua: e li Turchi virilmente saltorno suso, ma quelli di dentro li furno incontro con due trombe di fuoco e archibusi ributtandoli, e il castel grande cominciò a bombardar li coppani, per modo tale che li Turchi si misero in fuga, e cosí ribaltorno alquanti coppani e si annegorno molti di loro, e alquanti furno presi da quelli del castel grande, li quali, saltati in una lor barca, andavano ammazzandoli in acqua: e quelli che pigliorno il giorno seguente li appiccorno alli merli del castello.
Come i Turchi furno dalli Portoghesi valorosamente cacciati dalla batteria, e intendendo che giungevano venti vele de' Portoghesi, dubitandosi di questa armata si levorono dall'isola detta Cariamuria.
Adí 30 tutto il campo si mise in ordinanza e andò sotto la fortezza con assai scale dalla banda del porto, e deliberorno darli la battaglia generale, e dalla banda di terra montorno sopra la batteria con grandissimo animo, che a suo piacer potevano montare, però che gli erano state tolte tutte le difese, e stettero sopra detta batteria per spazio di tre ore: e quando li cristiani viddero bene che alli Turchi non bastava l'animo saltar dentro, loro saltorno sopra la batteria e cacciorno li Turchi nelle fosse, con morte di quattrocento in quel giorno.
Adí 31 il capitan moro andò con galee undici per dar la battaglia al castel piccolo, ma non si poté accostare, perché il castel grande li batteva le galee a fondo con l'artegliaria.
Adí 2 di novembre li sangiacchi e giannizzeri con tutto il resto di Turchi vennero alle galee, e lasciorno tutta l'artegliaria grossa in terra, che non ebbero tempo di condurla, però che li venne nuova come l'armata de' Portoghesi veniva, e molto bene ad ordine.
Adí 5 furon viste vele 20 di Portoghesi, le quali dettero fondo miglia 20 lontani dall'armata turchesca, e cosí stettero tutta la notte con grandissimi fuochi, né la mattina furon viste salvo che vele tre larghe in mare, e l'armata de' Turchi si slargò buonamente da terra ma a sol a monte furon viste vele assai e tirorno molti colpi d'artegliaria, ma non si poteva discernere salvo il lampo del fuoco, per esser molto lontano. E il bassà, dubitando di questa armata, mandò sopra tutte le galee e dette ordine che ciascuna d'esse dovesse tirar tre colpi d'artegliaria: e tirato che fu, fece dar nella trombetta e si levò a remi e con li trinchetti, e questo fu a ore una di notte, e a ore 4 fece dar la vela, tenendo il cammino per ostro garbin con vento piacevole, e a giorno furon fatte miglia 30.
Adí 7 fu il cammino per ponente garbin, venti bonaccevoli, miglia quaranta.
Adí 8 cammino per ponente, miglia trenta. La notte cammino detto, miglia venti.
Adí 9 fu il cammino per ponente, e in questo giorno furno cavati di ferri tutti li cristiani; miglia venti.
Adí 10 fu bonaccia giorno e notte, e non fu fatto cammino alcuno.
Adí 11 li venti saltorno al ponente garbin, fu tenuto la volta di maestro, e tra il giorno e la notte furon fatte miglia trenta.
Adí 12 li venti al maestro tramontana furon trovati in colfo di Ormus, e si tenne la volta per ponente garbin; tra il giorno e notte miglia trenta.
Adí 13 fu il cammino per ponente, furon fatte miglia settanta. La notte cammino detto, miglia novanta.
Adí 14 cammino per ponente, miglia cento. La notte cammino detto, miglia cento.
Adí 15 cammino per ponente, miglia ottanta. La notte cammino detto, miglia ottanta.
Adí 16 cammino per ponente, miglia ottanta. La notte cammino detto, miglia settanta.
Adí 17 cammino per ponente, miglia novanta. La notte cammino detto, miglia ottanta.
Adí 18 cammino per ponente, miglia cento. La notte cammino detto, miglia settanta.
Adí 19 cammino per ponente, miglia settanta. La notte cammino detto, miglia ottanta.
Adí 20 fu cammino alla quarta di ponente verso garbin, e fu vista terra sopra vento, e furon fatte miglia novanta. La notte cammino detto, miglia cento.
Adí 21 cammino alla quarta di ponente verso garbin, miglia ottanta. La notte cammino detto, miglia cinquanta.
Adí 22 alla quarta di ponente verso garbin, miglia quaranta. La notte cammino detto, miglia venti.
Adí 23 il tempo ebbe bonaccia, il cammino fu per la costa della Arabia, miglia trenta. La notte cammino detto, miglia venti.
Adí 24 il tempo ebbe bonaccia, e acque contrarie per la costa d'Arabia; si venne ad una isola detta Curiamuria, luogo mal abitato e deserto: fu fatta acqua e si stette un giorno.
Adí 26 si levò l'armata e a terra terra si fecero miglia trenta. La notte per ponente garbin, miglia trenta.
Come il re fece pigliar quaranta Portoghesi quali aveva nel suo regno, e gli appresentò al bassà. D'un luoco detto Micaia. E come il bassà, essendo con l'armata in Adem, fatto chiamar a sé un Turco ch'era cristiano, ma rinegato, uomo di gran conto, senza dir altro li fece tagliar la testa. D'un castello chiamato la Mecca.
Adí 26 a ore due di notte fu dato fondo in passa sei di acqua, ad una terra chiamata Aser, luogo deserto e sterile, e il forzo degli uomini e bestiami vivono di pesce. Qui furono levati uomini 40 portoghesi, li quali vi stavano perché avevano il suo consolo che contrattava mercanzia, e sempre con lui era qualche mercante, oltra quelli che di continuo venivano, e conducevano specie e altre cose, e sopra tutto compravano cavalli, li quali sono perfettissimi e vagliono ducati cento e piú, e in India si vendono ducati mille. Il re di questo paese, come seppe che Suliman bassà veniva con l'armata, per farli cosa grata fece pigliar dentro li suoi alloggiamenti li sopradetti Portoghesi e gli appresentò al bassà (ed erano piú giorni che gli avevano presi), e il bassà li fece poner tutti in catena. E in questo luogo fu trovata una nave la qual era restata per cammino, e non poté passare in India, e li fu tolto li biscotti di subito per il bisogno dell'armata; e quivi si stette tre giorni. E sappiate come, in ciascun luogo che si giungeva con l'armata, i Turchi davano fama di aver preso tutta la India, e tagliati a pezzi tutti li cristiani.
Adí 1 di decembre si levò l'armata tenendo il cammino per ponente garbin, e fu dato fondo in costa della Arabia ore tre avanti sera, e fu fatto acqua: e chiamasi Micaia; furon fatte miglia 40.
Adí 2 si levò da Micaia, cammino per ponente garbin, miglia trenta. La notte cammino detto, miglia dieci.
Adí 3 cammino per ponente garbin, che cosí corre la costa d'Arabia, miglia sessanta. La notte cammino detto, miglia cinquanta.
Adí 4 cammino per ponente garbin, miglia settanta. La notte cammino detto, miglia trenta.
Adí 5 per ponente garbin, e la notte a ore nove fu dato fondo in dromo della terra di Adem; si stette sino al levar del sole; miglia sessanta.
Adí 6, essendo il bassà in Adem con tutta l'armata, la mattina fece chiamare a sé un Turco ch'era stato cristiano, ma rinegato, uomo di conto, ed era patron d'una galea, e senza dir altro gli fece tagliar la testa. Si mormorava da tutti che 'l bassà, dubitando che costui non l'accusasse della dappocaggine e viltà sua, se lo volse levar d'avanti, perché questo rinegato fu altre volte al soldo del re d'Adem e dipoi, trovandosi al Diu nel tempo che 'l re di Cambaia fu morto da' Portoghesi, la regina moglie del re morto, che aveva grandissima quantità d'oro, e voleva partirsi e andar a star alla Mecha, persuasa da costui montò insieme con lui sopra un galeone, il quale al dispetto suo la condusse al Cairo, e di lí a Costantinopoli al signor turco; e il signor, conoscendolo pratico delle parti d'India, lo fece poi patron d'una galea e volse che ritornasse con l'armata a questa impresa, ma gli successe male, che perse la vita. Dopo la morte di costui il bassà, volendo lassar fornita la detta città di Adem, fece cavar di sopra l'armata pezzi cento d'artegliaria fra grossa e minuta, fra li quali vi erano dui passavolanti delle galee nostre grosse di Alessandria; vi lasciò ancora monizione di polvere, di ballotte, e un sangiacco con Turchi cinquecento, e fuste cinque. Vedendosi il bassà in luogo sicuro, dismontò della galea bastarda e montò sopra la maona: e fu alli quattordici detto.
Adí 19 si levò l'armata e andò verso la terra per far acqua, e in detto luogo si stette 3 giorni.
Adí 23 fecero vela da Adem con buon vento, tenendo il cammino alla quarta di ponente verso garbin, da vespero sino all'altra mattina: furno miglia cento.
Adí 24 a ore cinque di giorno l'armata si trovò dentro dello stretto del mar Rosso, e tutta la notte si stette a ferro.
Adí 25, il giorno di Natale, a ore tre avanti giorno si levorno dal detto luogo, cammin per maestro, ma il vento scarso, e però fu sorto ad un castello chiamato Mecca; furno miglia 50.
Come il castellan della Mecca, dopo molti rinfrescamenti mandati al bassà, montò su l'armata con il suo avere, con assai belli schiavi e schiave. Come il bassà mandò un ambasciadore al re del Zibit, facendoli intendere che 'l venisse a dar obedienzia al signor, e la risposta e presenti li fece il detto re. D'un luoco detto Carnaran, e di Cubit Sarif.
Adí detto venne un Turco vecchio, il qual era castellan del luogo, e il bassà gli donò una vesta e gli fece grande accetto: per la qual cosa il castellan, dapoi che fu in terra, di continuo mandava diversi rinfrescamenti al bassà, e passati che furon alcuni giorni, li venne voglia di caricar sopra l'armata tutto il suo aver, che era gran ricchezza e assai belli schiavi e schiave, e quel che poi ne seguisse ognuno il pensi. Giunta che fu l'armata nel sopradetto luogo della Mecca, il bassà mandò un suo ambasciadore alla terra del Zibit, faccendo intendere al re che venisse alla marina per dar obedienza al gran signore; il qual ambasciador convenne andar tre giornate fra terra, e giunto dal re gli fece l'imbasciata, e gli fu risposto che, quanto al tributo del gran signore, lo manderia volentieri, ma che non voleva venir alla marina e che nol conosceva, ma che se il bassà li manderà uno stendardo del signore, che lui lo accetterà volentieri. L'ambasciador tornato espose il tutto al bassà, il quale, sdegnato, il giorno seguente gli mandò per il suo chacaia una bandiera, accompagnata con alquanti giannizzeri ben ad ordine: e giunti che furno, e appresentata la bandiera, il re li fece di belli presenti, tra' quali li donò una bella scimitarra con gioie assai, e similmente un pugnale e alcune bellissime perle di caratti sei l'una (ed era un filo di piú di mezzo braccio di lunghezza), e oltra questo una perla bellissima di caratti diciotto, perché il forzo delle perle orientali si piglia in quelle bande su l'Arabia; oltra di questo donò a tutti li Turchi due veste di panno per ciascuno e uno schiavetto negro. E il chacaia li faceva carezze e l'affidava che dovesse venir a marina, ma il re non la volse mai intendere, dubitandosi che lo facesse morire; e vedendo il chacaia che non lo poteva far venire, gli disse: "Se tu non venirai dal bassà, lui venirà da te", e tolse combiato e venne alla marina. In questo luogo si stette giorni ventinove.
Adí 23 di gennaio, si levò dalla Mecca a sol levato con vento fresco, cammino alla quarta di ponente verso maestro sino a mezzogiorno; dapoi si cambiò il vento, e fu il cammino per maestro tramontana: in tutto furon fatte miglia cento.
Adí 24 fu fatto vela dalli terzaruoli con vento in poppa, cammino per maestro tramontana; furno miglia trenta. La notte fu dato fondo a Camaran a ore sei, miglia venti.
Adí 29 il bassà dismontò in terra e dette la paga a tutti li giannizzeri, li quali voleva menar a combattere, ma alle ciurme e marinari non dette cosa alcuna.
Adí 2 di febraro si levò da Camaran con bonaccia, a remi, e circa ore sette furno ad un luogo chiamato Cubit Sarif, lontan da Camaran su la terra ferma venti miglia.
Come il bassà si accampò alla terra del Zibit, ed essendosi a lui presentato il re di detto luoco con la cintura al collo, il bassà li fece tagliar la testa; e della gran crudeltà usata per il detto bassà.
Adí 3 a sol levato venne un Turco di quelli del re del Zibit, il quale se gli era ribellato, con cavalli cinquanta: e il bassà lo accettò volentieri e feceli presenti, e lui si accampò alla marina con li suoi padiglioni. E sappiate che in questo paese tutti usano li cavalli bardati, per rispetto delle freccie e dardi, che sono il forzo delle loro armi.
Adí 4 il bassà smontò in terra e fece meter alquanti pezzi di artegliaria piccola sopra le ruote, e poner le sue genti, vettovaglia e monizioni ad ordine, per andar al Zibit.
Adí 19 il bassà cavalcò ore tre avanti giorno verso la terra del Zibit, e incontrò uno altro Turco con cavalli cinquanta, il qual ancor lui si era ribellato al re: e il bassà lo fece franco, e seguitò il cammino verso la detta terra.
Adí XX il bassà giunse al Zibit e accampossi fuora della terra, e mandò a chiamare il signore, il qual, vedendosi essere stato tradito da molti delli suoi e dubitando degli altri, venne con la cintura al collo, come schiavo del gran signore, e si appresentò avanti al bassà, il qual gli fece di subito tagliar la testa. La qual cosa vista dalli suoi uomini, di subito se ne fuggirno alla montagna, e furno da persone trecento, ma tra gli altri tre delli suoi principali con gran ricchezza, né se intese ove andassero. Visto questo, il bassà mandò a dire a quelli che scampavano che dovessero tornare sopra la sua testa, perché lui li daria buon soldo e li faria suoi soldati, onde li vennero da CC negri abissini, li quali erano soldati del re: questi sono uomini valenti, terribili, che non stiman la vita, e corrono poco manco di uno cavallo, e vanno tutti nudi, ma cuoprono con uno facciolo le lor vergogne; e portano per arme alcuni un gran bastone di corniolo, ferrato, e alcuni zannettine da trarre a modo di dardi, e alcuni una spada corta un palmo manco di quelle che usano i cristiani, e universalmente tutti hanno alla cintura un pugnale storto alla moresca. Giunti che furno questi tali, il bassà li fece domandar a uno per uno come avevano nome, e li fece scriver e notar piú soldo di quello che avevano avanti; e come gli ebbe scritti, li mandò via, facendoli intender che la mattina seguente dovessero tornare, ma che altramente non portassero arme, e che li daria le sue paghe: e questo facessero perché il bassà voleva che gli baciassero la mano, e però non bisognava portassero arme. Giunti che furon la mattina, li fecero poner giú l'armi e venir ove il bassà era sentato appresso d'una tenda in campagna, e i Turchi tutti erano posti in arme all'ordinanza e in cerchio: e fatti intrar quelli negri in mezzo, come vi furno tutti, fatto segno secondo l'ordine dato, in un instante furno tagliati a pezzi. Dapoi fatto questo, il bassà lasciò alla custodia di quel luogo un sangiacco con mille Turchi.
E sappiate come la terra e il luogo del Zibit è bellissimo, ed è dotato di acque vive in gran quantità, e ha di bellissimi giardini e assaissime cose che non sono in alcuna parte dell'Arabia, e massime zibibbi damaschini senza nocciolo, e altri perfettissimi frutti come dattili, e assai carne, e onestamente formento.
Come il bassà fece tagliar la testa a centoquarantasei Portoghesi, e parimente a tre Indiani a lui menati con le loro ricchezze, i quali erano fuggiti dal Zibit. Delli luochi Zerzer, Adiudi, Mugora, Darboni, Iafuf, Chofodan, Turach, Salta e Ariadan.
Adí 8 di marzo 1539 il bassà giunse a marina, e fece apparecchiare le monizioni per mandar al Zibit, e oltra di quello lasciò fuste quattro per guardia della marina.
Adí 10 il bassà smontò in terra, e fece cavar tutti li Portoghesi di catena e menarli ligati in terra, e feceli acconciare in schiera e a tutti li fece tagliar la testa: e furno centoquarantasei, tra' quali erano alcuni Indiani fatti cristiani. E le teste de' principali piú belli furno scorticate e salate e impite di paglia; alli altri furno tagliati li nasi e le orecchie per mandare al gran signore.
Adí 13 si partí il chacaia in conserva di un'altra galea, e andò al Zidem, e di lí alla Mecca, e poi andò alla volta di Costantinopoli, con le nuove del viaggio dell'India e con presenti, e con le teste, nasi e orecchie per mostrarle al signore, acciò che si vedesse che avevano fatto facende assai.
Adí 14 si levorno e dettero fondo in campagna.
Adí 15 si partirno dal Cubit Sarif, e a sol posto fu dato fondo in un luogo chiamato Cor, largo da terra ferma miglia cinque, dal Cubit Sarif miglia cento.
Adí 16, un'ora avanti giorno si levorno con vento piacevole e andorno per costa, e a sol posto fu dato fondo al luogo del Zerzer, il qual per avanti era sottoposto alla Mecca, ed è di fondo passa otto, e da Cor a questo luogo sono miglia settanta. E qui furno menati quelli tre che fuggirno dal Zibit con le ricchezze, e il bassà li fece tagliar la testa ed ebbe il tutto, che erano bisaccie para tre, tutte piene, che con fatica uno uomo ne portava un paro.
Adí 17 con vento piacevole si levò, navigando per costa, e un'ora avanti sol a monte si dette fondo ad uno luogo detto Adiudi, e questo perché li venti contrariorno; fondo passa otto, e furon fatte miglia cinquanta.
Adí 18, ore due avanti giorno si levò, navigando per costa fino a mezzogiorno, poi si dette fondo in passa 4 ad un luogo detto Mugora: ed è buon porto, ha acque e legne; miglia 50.
Adí 19, un'ora avanti giorno partirno a remi, e nel levar del sole il vento investí: si andò per costa ad un luogo detto Darboni, sotto la Mecca, passa sette, miglia cinquanta.
Adí 20 il tempo alla bonaccia, cammino per costa; a mezzogiorno investí il vento, e a sol posto fu dato fondo in passa dieci, luogo detto Iafuf della Mecca, miglia cinquanta.
Adí 21 al levar del sole si venne per costa, a mezzogiorno si mise il vento, e a sol a monte fu dato fondo a Chofodan, luogo della Mecca, di fondo passa quaranta: furon fatte miglia sessanta.
Adí 22 il bassà ordinò che sei galee alla volta si levassero, per rispetto delle secche, che sono sí spesse che appena il giorno si può navigar; e si venne ad uno scoglio chiamato Turach.
Adí 23 si navigò per costa, infra scogli per donde non poteva passar salvo una galea per volta, e fu dato fondo ad un luogo detto Salta, in passa quattro; fu miglia cinquanta.
Adí 24 si venne per costa, e a mezzogiorno si dette fondo ad un luogo chiamato Ariadan, ma il porto Mazabraiti, luogo abitato da villani, sottoposto alla Mecca, fondo passa 6, miglia 30.
Adí 25 si navigò per costa, ma al levar del sole il vento andò davanti, e fu tolta la volta di mare sino a mezzogiorno, dapoi quella di terra, e fu dato fondo al luogo primo, ove si stette il giorno dietro, adí 26.
Di altri luoghi dove di dí in dí arrivorono, cioè Iusuma, Mucare, Balir, Muchi, Ziden, Contror Abehin, Almomuschi, Rabon, Farci, Sathan, Zorma, Iambut.
Adí 27 a ore due avanti giorno con tempo piacevole, e a ore otto di giorno, fu dato fondo in passa quattro, ad un luogo detto Iusuma, miglia trenta.
Adí 28 navigorno con vento piacevole costeggiando sino a mezzogiorno, poi si ligorno fra certe seccagne, lungi da terra ferma due miglia, né si poté dar fondo, perché li ferri si perderiano: chiamase il luogo Mucare, miglia trenta.
Adí 29 costeggiando si legorno fra certe altre secche chiamate Balir, miglia trentacinque.
Adí 30 pur costeggiando con vento piacevole sino a sera, e fu dato fondo in passa dodici, luogo detto Muchi, miglia quarantacinque.
Adí 31, a ore due avanti giorno si levorno con bonaccia, e al levar del sole si mise il vento, e a ora di vespero si giunse al Ziden.
Adí primo di aprile il bassà smontò in terra, e pose li suoi padiglioni fuori della terra, e riposossi da giorni quattro.
Adí 7 il bassà cavalcò alla volta della Mecca al perdono, e dette ordine all'armata che andasse alla volta del Sues.
Adí 8 l'armata si allargò da terra due miglia, per aver vento contrario, e dette fondo infra certe seccagne.
Adí 11 si levorno con vento piacevole, e a ore venti fu tolto la volta di terra e si venne in porto Contror Abehin, ove si ruppe una galea per non poter montar la ponta; e in questo luogo un marangon delle galee di Alessandria, chiamato Marco, rimase e rinegò. Si stette due giorni, miglia trentacinque.
Adí 14 si levorno costeggiando con vento piacevole, e si dette poi fondo in passa dodici, ad un luogo chiamato Almomuschi; furno miglia settanta.
Adí 15, ore due avanti giorno, levandosi la galea del capitano moro rimase sopra una secca, ma fu aiutata dalli coppani delle altre, alle quali si ligò, e si tirò fuori senza male alcuno; e costeggiando si venne ad un luogo detto Robon, e si dette fondo in passa tredici: camminossi miglia trenta.
Adí 16 fino adí 20 ogni giorno si levorno, e si tornò al detto luogo.
Adí 21 con vento da terra pur si levorno e andorno in mare, ma con vento contrario, e a ore sette di giorno fu tolto la volta di terra, e fu forza legarsi fra certe secche, ove si stette la notte.
Adí 22 con vento da terra costeggiando si camminò, ma essendo il vento andato davanti, si dette fondo ad un luogo detto Farci; camminossi miglia sedici.
Adí 23 si costeggiò sino a mezzogiorno, e il vento andò davanti e fu tolta la volta, e si venne ad un luogo detto Sathan, cammino miglia vinticinque.
Adí 24 si costeggiò sino a mezzogiorno, ma per esser andato il vento davanti, fu tolta la volta di terra, e si venne a Zorma; furno miglia trenta.
Adí 25, costeggiando a remi contra vento, a ora di vespero si venne ad una terra chiamata Iambut; furno miglia venti.
Del luogo detto Medina Talnabi, ov'è l'arca di Macometto, benché si dica esser alla Mecca; di Sichalo, Bubuctor, Chifafe e Corondolo.
Il detto luogo ha vittuaglie e assai pesci e dattili; le acque sono nelle cisterne, e vanno con li cammelli una giornata a torle. E fra terra per una giornata si trova una gran città chiamata Medina Talnabi ove è l'arca di Macometto, ben che si dica esser alla Mecca: tamen è in questo luogo, ove si stette giorni sei.
Adí primo di maggio si veliggiò ore quattro, dapoi il vento fu contrario e si dette fondo tra certe seccagne, e si stette due giorni, e furno miglia dieci.
Adí 3 sino a 4 si stette tra certe secche, costeggiando con vento contrario, e si stette sei giorni; furno miglia otto.
Adí 10 sino adí undici si stette costeggiando con vento contrario, e si dette fondo in uno altro luogo; fu miglia dieci.
Adí 13 si partirno costeggiando, e in cammino trovorno un galeone di detta armata, la qual avanti si partí dal Zibit, nocchier maestro Micali, e sopra di esso vi erano alcuni delle galee d'Alessandria.
Adí 14 fu il cammino per maestro tramontana costeggiando, si dette fondo in passa sette, in luogo nominato Sichabo, furno miglia sessanta.
Adí 15 cammino per maestro tramontana, fu dato fondo in campagna, e furno fatte miglia settanta.
Adí 16 cammino per costa, fu dato fondo a Bubuctor, furno miglia trenta.
Adí 17 cammino per costa, e fu dato fondo in campagna in passa vinti, ad una isola detta Genamani, e furno miglia trenta.
Adí 18 cammino per costa, fu dato fondo a Chifafe, furno miglia vinti.
Adí 19 cammino per costa, fu sorto al Molin, miglia cinquanta.
Adí 20 fu dato fondo in campagna, miglia vinticinque.
Adí 21 cammino per costa, fu dato fondo in campagna, miglia quaranta.
Adí 22 cammino per costa, fu dato fondo in campagna, miglia dieci.
Adí 23 cammino per costa, fu dato fondo a sol a monte, miglia dieci.
Adí 24, per esser cattivo sorzador, si levorno con vento assai, e la galea bastarda lasciò un ferro e tre gomene e gripie, e una galea investí in terra, ma non si ruppe; fondo passa otto, e qui per esser bon sorzador si stette un giorno; furono miglia dieci.
Adí 26 cammino per costa, fu dato fondo in spiaggie, miglia trentacinque.
Adí 27 cammino per ponente maestro, e a mezzogiorno si fu in dromo del Tor, e navigando di lungo a ore due di notte il vento andò davanti, e fu dato fondo sino a giorno; e nel levar del sole il capitan moro andava a vela, e le altre galee salporno e fecero trinchetto, e vennero ad una marea di secche e si salvorno, e si stette giorni cinque; fondo passa sette, il cammino fu di miglia cento.
Adí 3 giugno l'armata si levò dalle secche stando su le volte, e dando fondo ora su la parte d'Abissini, ora sopra l'altra banda.
Adí 15 si venne al Corondolo, ove Dio sommerse Faraone con il suo popolo: in questo luogo si fornirno di acqua, e vi sono li bagni di Moisè, e si stette due giorni.
Adí 16 si levò l'armata, e due giorni continui si stette su le volte; alla fine si venne al Sues, ove fu fatta l'armata, e adí 17 si cominciò tirar i legni in terra.
Adí 2 di luglio si cominciò a tirar la prima galea in terra, e fu la bastarda del bassà, e poi le altre, sí come giungevano, si diguarnivano e tiravano in terra; e li cristiani erano li bastaggi, e quelli che voltavano gli argani, spianavano e diguarnivano, e in conclusione tutte le fatiche erano sue; insino adí 16, che in quel giorno venne l'emin e dette le paghe a tutti li marinari, e non solo alli turchi ma etiam alli cristiani, e la paga era di maidini centoottanta per ciascuno.
Adí 16 di agosto il detto emin andò al Tor a pagar le galee le quali erano rimaste adietro, e andò con coppani sette, e menò con lui li migliori e li piú affaticanti cristiani che v'erano, e questo per far condur quelle galee al Sues, le quali eran quasi disarmate, sí perché ne erano morti assai di loro, come etiam per li fuggiti. E come si fu al Tor, furno date le paghe a tutti, e li cristiani furno spartiti per le galee per condur quelle al Sues.
Adí 20 d'ottobre il restante dell'armata giunse al Sues, e tutta fu tirata in terra per man delli cristiani, quali stentorno giorno e notte.
Adí 26 detto si dette fine al tirar le galee in terra, e le gomene e sartiami, ferri, palance, artegliaria minuta e altri rispetti furno portati in castello. E nota come dalla bocca del mar Rosso fino al Sues sono miglia millequattrocento, e la costa corre per ponente maestro fino al Sues, e il colfo è largo miglia ducento e in alcuni luoghi piú, e vi sono di molte secche, scagni, sprei e scogli a terra via, e chi non naviga di mezzo via non può navigar salvo di giorno: e questo per esser il luogo tanto sporco che niuno non si può far savio, né metter per ordine quelli tali ridutti, salvo con l'occhio, e star sempre a prua gridando: "Orza, poggia": e per tal causa non si è possuto ordinariamente discriver il ritorno come lo andare. E sappiate che vi son due sorti pilotti, alcuni che sanno e vanno per mezzo, e questo è nell'andare, e gli altri che navigano di ritorno e dentro delle secche: questi vengono chiamati rubani, i quali sono grandi notatori, e in assai luoghi ove non si può dar fondo rispetto alli sprei, loro vanno notando sotto l'acqua e armizano le galee in quarto fra quelle secche, e molte volte etiam ligano sotto l'acqua li provezzi, secondo li luoghi.
Adí 28 di novembre, li cristiani delle galee di Alessandria si partirno dal Sues e andorno al Cairo, e adí primo di decembre furno posti in quella casa ove erano stati per avanti, e li davano mezzo maidino il giorno per ciascuno, che sono duo soldi veneziani, di modo che si passavano con grandi affanni e fatiche, però che ogni volta che accadeva far nette cisterne, spianar monti, acconciar giardini e lavorar fabriche e altro, tutto il carico era de' cristiani.
Discorso sopra la navigazione del mar rosso fino all'india orientale scritta per Arriano.
Che il mar Rosso, detto già Eritreo, comprendeva il golfo Arabico, il Persico e quello d'India. Di Marino Tirio geografo. Come Arriano ebbe maggior notizia di Tolomeo delle cose dell'India.
Dovendosi parlare alcuna cosa sopra la navigazione del mar Rosso, nominato per Arriano Eritreo, dico che gli antichi chiamavano con questo nome non solamente il colfo Arabico, ma il Persico e tutto il mar dell'India. E sono alcuni che dubitano che questo Arriano non sia quello che scrisse la navigazione di Nearco che di sopra si è letta, conciosiacosaché lo stil di quel istorico sia molto diverso da questo del presente auttore. Pur come si sia, si crede che costui fusse nelli medesimi tempi o poco dapoi che fu Tolomeo, filosofo alessandrino, che descrisse in molti libri tutto il mondo, nei quali si vede che si sforza di contradire all'oppenioni d'un altro scrittore di geografia della sua età, detto Marino Tirio, volendole reprovare come non vere. Però chi leggerà questo viaggio d'Arriano conferendolo con le cose scritte da Tolomeo, vedrà ch'ei si conforma con li scritti del detto Marino, come ei fa dove parla del golfo Sacalite dell'Arabia, il quale mette essere piú occidentale del promontorio detto Siagro: e Tolomeo, contradicendo a Marino, il mette orientale al detto promontorio; e in molti altri luoghi si comprende che Arriano ebbe molto maggior notizia delle cose dell'India che non ebbe Tolomeo, e massime della costa di Calicut, la qual secondo le carte marine portoghesi corre da tramontana verso mezzodí: e Arriano scrive il medesimo, dicendo che da Barigaza la terra ferma che seguita si estende verso ostro, e non è dubio alcuno che Barigaza è sopra detta costa non troppo lontana dalle bocche del fiume Indo. Il collocar anco dell'isola Taprobana che fa il detto Arriano, piú orientale che non fa Tolomeo, è molto conforme alla verità ch'ora sappiamo per le navigazioni di Portoghesi. Ed essendo tanta varietà e discordanza fra questi auttori antichi, che sono di tanta auttorità, massimamente sopra le cose dell'Etiopia e dell'India, non per altra cagione se non perché quei che v'erano navigati referirno loro varia e diversamente, gli uomini de' tempi presenti che si dilettano di saper li siti della terra deono rendere infinite grazie al nostro Signore Iddio che gli ha fatti nascere in questa età, nella quale li serenissimi re di Portogallo hanno fatto che sopra le dette parti del mondo, nelle quali era tanta dubietà, li pilotti delle sue navi hanno pigliate l'altezze dell'uno e l'altro polo con una estrema diligenza, e le longitudini con l'osservazione delle leghe che hanno fatto, navigando giorno per giorno, di sorte che hanno scritto un libro di marinarezza delle dette parti, il quale essendone venuto alle mani, non si resterà un giorno piacendo a Dio di farlo venir in luce.
Ora tornando a proposito, dico che questa navigazione d'Arriano, per essere stata scritta in lingua greca, è molto scorretta e fragmentata, e questo solamente per la lunghezza del tempo e negligenza di quei che l'hanno trascritta; né, per diligenza che si abbi usata, ho potuto mai trovar alcun esemplare scritto a mano. Pur questa cosí fatta ne dà grandissima cognizione, oltre a quel che è scritto per Strabone e Plinio, cioè che insino in Malacca e tutta l'India si navigasse al tempo de'Romani, come si fa al presente per i Portoghesi. E per discorrere alcuna cosa sopra di questo, dico che detto auttore nomina tutti li luoghi, porti e promontorii che a suo tempo erano celebri nella parte della Trogloditica, ch'oggidí è abitata da signori arabi. E anco, uscendo poi fuor del detto mare, fa menzione di tutti gli altri sopra l'Etiopia sino alle Rapte di Azania, che eran l'ultime delle quali egli avesse cognizione, e mette la distanzia da un luogo all'altro per numero di stadii (che cosí allora si costumava appresso a' Greci, sí come nella navigazione di Nearco si ha letto), e vi si vede pur differenza dell'ordine nel quale li mette Tolomeo nei suoi libri, come fa anco in tutte le città, porti, golfi e promontorii orientali nominati d'Arriano, percioché Tolomeo, oltre le Rapte, mette il discoprire insino al promontorio Prasso, ultimo luogo della terra cognita.
Del promontorio Prasso, qual era dove ora è Monzambique; di Aromata, Azania e le Rapte, Penda, Zenzibar, Munfia, Menuthias. Onde proceda l'alterazione delle forme e colori degli uomini e animali. Opinione degli antichi savii del paese sotto l'equinoziale fosse arido e senza frutto. Della natura del clima equinoziale.
Ma una cosa è molto notabile in Arriano, che parlando di questi luoghi d'Azania dice ch'eran gli ultimi della terra ferma sopra l'Etiopia, perciò che piú avanti l'Oceano non era stato navigato, il qual si volgea verso ponente e, distendendosi verso mezzodí e rivolgendosi a torno le parti dell'Etiopia, della Libia e dell'Africa, si congiugneva col mare occidentale: il che dimostra che si aveva pur qualche cognizione che si potesse navigare a torno di quella parte del mondo, sí come a' tempi nostri da' Portoghesi è stato discoperto. Ma Tolomeo dopo il promontorio Prasso mette che sia terra incognita. Del qual promontorio io udi' altre volte parlarne molto lungamente un pilotto portoghese che aveva cognizione de' libri di Tolomeo, il qual diceva che aveva voluto considerare con diligenza le ragioni che mosse il detto auttore a scriver ch'ei fosse in gradi XV verso il polo antartico, e ch'ei non trovava nei suoi libri che fussero altro che semplici relazioni di mercatanti, che avevano navigato cominciando dal golfo Arabico insino al luogo detto Aromata, e quindi sino in Azania e alle Rapte, e da quelle insino al promontorio Prasso, i quali di lor stesso avisamento e per conietture narravano la lunghezza del detto viaggio, e quanti stadii avevano fatto giorno per giorno, e de' golfi che avevano trovati, il che è fondamento (secondo il suo parere) molto incerto e fallace e da non tenerne conto, per la instabilità di venti; e non adduceva ch'alcun di loro avesse tolto alcuna altezza di poli, come avevano fatto essi Portoghesi sopra detta parte, i quali a luogo per luogo l'hanno voluto vedere diligentemente, e diceva che il Prasso promontorio, essendo in gradi quindici, verrebbe ad essere dove ora è il luogo di Monzambique, cosa che li pareva molto difficile a credere, che gli antichi fossero penetrati tanto avanti sopra detta costa, e che di tante isole che vi sono appresso, com'è Penda, Zenzibar, Munfia e molte altre che sono fra detta costa e l'isola grande di San Lorenzo, non avessero fatta menzione se non di quella detta Menuthias.
Diceva anco non si dover fare fondamento sopra questo, che percioché gli abitanti e animali che si trovano appresso il Prasso promontorio sono della medesima sorte, forma e colore che sono quelli dell'isola del Nilo detta Meroe, essendo quella in gradi quindici sopra la linea, similmente detto promontorio debbe essere in gradi quindici di sotto detta linea, perché questo tal fondamento a' tempi nostri era stato conosciuto non esser vero, conciosiacosaché questa alterazione delle forme e colori degli uomini e animali si vedea proceder non tanto per loro lontananza o vicinità alla detta linea, quanto per causa dei siti dei paesi e regioni, secondo che quelle sono montuose, piane, asciutte e secche over umide e bagnate dall'acque, lontane overo vicine al mare, e che questa varietà di siti era quella che faceva questi cosí mirabil effetti. E però dall'età nostra era reietta e del tutto riprovata l'oppenione degli antichi savii, che volevano che sotto l'equinoziale tutto il paese fosse arido, squalido e senza frutto alcuno, e che allontanandosi da quello si trovasse l'aere piú temperato, il paese piú fruttifero e d'acque piú abbondante, conciosiacosaché oggidí si sappia di certo, per vera relazione di chi è stato in quei luoghi, che fra il tropico di Cancro e quel di Capricorno non si sente alterazione continua di caldo se non in questo modo, che quando il sole vien perpendiculare, allora in quella parte dove ei passa, per un mese avanti e uno dapoi, l'aere è nubiloso e caldo, e gli abitanti sono travagliati dal caldo, e vi piove ogni giorno tre e quattro ore: e questo tempo reputano essi com'un verno; e poi, quando ei s'allontana, l'aere si fa temperato e chiaro, e tale stagione chiamano l'estate, né si vede segnale alcuno di siccità né di abbruciamento né d'altra alterazione nel mezzo di detti tropici, dove la linea corre, anzi si vede il contrario perché, passando quella per mezzo il paese dell'Etiopia, in quella parte sopra la qual essa passa i paesi sono temperati d'aere, abbondanti d'ogni sorte di frutti, e di fiumare e fonti ripieni. Che veramente li paralleli di sopra l'equinoziale verso di noi corrispondino nella forma e colore degli uomini e degli animali con li paralleli di sotto l'equinoziale verso il polo antartico, diceva medesimamente che anco questo in gran parte si vedeva non esser vero, conciosiacosaché 'l parallelo sopra lo stretto di Gibralterra, il quale corre gradi trentacinque e mezzo, corrisponde al parallelo che corre all'opposito sopra il capo di Buona Speranza in gradi trentacinque e mezzo, e nondimeno nel detto stretto gli uomini sono bianchi e civili e di buono ingegno, e nel capo di Buona Speranza sono negri, di grossissimo intelletto e salvatichi quasi come fiere.
Qual sia il luogo già detto Tolemaida. Che Aduli, al presente chiamato Ercoco, fu edificato da schiavi che fuggiron dall'Egitto. Di Orene, ora Maczua; Coloe, ora il luogo di Barua; Axomite, ora Caxumo; l'isole di Diodoro, Bebel Mandel. Della pietra obsidiana.
Affermava ancora aver navigato lungo la costa della terra di Brasil verso il polo antartico, e aver passato quarantacinque gradi e piú, dove tutti gli abitanti sono di colore olivastro, e piú presto negri, e di costumi crudeli e barbari: e qui da noi in detti gradi oppositi, come è la Lombardia, gli uomini sono bianchi e civili. Ragionando poi qual fosse il luogo di Tolemaida, detto Theron, sopra la parte detta Trogloditica, che è in altezza gradi 17, diceva di creder che potesse esser non troppo lontano da quel luogo cosí celebre detto il Suaquem. Del luogo veramente d'Aduli, cosí detto perché molti schiavi fuggendo d'Egitto come liberi l'edificorno, pensava che fosse dove al presente è Ercoco, e l'isola Orene quella di Maczua, e la città mediterranea di Coloe, dove si faceva il mercato, il luogo di Barua; di lí poi s'andava ad Axomite, che è veramente Chaxumo, come s'ha letto nel viaggio dell'Etiopia di don Francesco Alvarez, e Tolomeo la chiama Auxumum; e l'isola di Diodoro potria esser quella nelle porte del mar Rosso, detta Bebelmandel; e cosí per congietture andava discorrendo sopra dette parti. E perché il prefato auttore scrive tante fiate della testuggine, per la intelligenzia di questo è da sapere che al tempo de' Romani si facevano lavori, come noi diciamo, di tarsia di grandissima valuta, e massimamente lettiere da dormire e da starvi sopra a mangiare, e pigliavano le scorze di queste testuggini, che noi chiamiamo biscie scodellare, e le segavano in tavolette sottilissime, e insieme con l'avorio coprivano quelle, e credenziere e infiniti lavori di legno: e per questa causa le dette scorze erano tenute in grandissimo prezzo in Roma e per tutta Italia, e i mercatanti con diligenza l'andavano a comprare nel mar Rosso e per tutta l'India. Dice poi che lontano da Aduli forsi cento miglia è un golfo dove si trovava la pietra obsidiana: questa era di color negrissimo e anco trasparente, e se ne facevano specchi, e fu in tanto prezzo, dice Plinio, che alcuni la legavano negli anelli come gioia, e d'una di queste fu fatta la imagine di Augusto, il quale, per dilettarsi grandemente di tal pietra, vi fece fare per cosa maravigliosa e stupenda quattro elefanti, ch'ei dedicò nel tempio della Concordia.
Descrizione delle sorti di mercanzie che si portavano d'Egitto per Roma. Delle pietre dette ligdo e calleana. Del gengevo e dove si trovi; della cassia, e come il cinnamomo, cioè cannella, non si trova se non per Zeilam e nell'isole delle Molucche.
Le sorti delle mercanzie che si portavano d'Egitto a questo viaggio erano molte, fra le quali li danari erano medaglie d'oro e d'argento, stole arsinoitice vestimenti da femine fatte nella città d'Arsinoe, che era sopra il mar Rosso, le abolle vesti da uomini. Li vasi di murrina erano d'una pietra notabile e quasi preziosa che si trovava solamente nell'Oriente, in alcuni luoghi della Partia e della Carmania, e si pensa ch'ella fosse d'uno umor conglobato e rappreso insieme sotto terra per il caldo, come è il cristallo congelato per il freddo: e le pietre rozze e grezze che di là si recavano non erano maggiori d'alcune piccole tavolette sottili, da poterle accommodare a far vasi da bevere, e piú presto liscie e polite che trasparenti. La varietà di colori ch'erano in quelle le faceva stimare e avere in gran pregio, perché in dette pietre si vedevano certe vene macchiate che ondeggiavano per quelle, di color pavonazzo e bianco, e in alcune quello pavonazzo era affocato e rosso, e quel bianco come latte, e quell'erano lodate nelle quali dette vene piú s'assomigliavano alla varietà di colori che mostra l'arco celeste doppo la pioggia. Di queste murrine ne facevano vasi da bere, e valevano gran somma di danari fuor d'ogni credenza; con che nome si chiamino a' nostri tempi lo dichino quelli che si dilettano di tal cognizione. L'oricalco, cioè rame di monte, era d'una sorte ch'era bianco naturalmente, di grandissimo pregio, il quale per insino al tempo della guerra troiana si chiamava cosí; e si legge che appresso di Romani tal oricalco si trovava di diverse finezze, al tempo de' quali par che si perdesse la vena di tal metallo, che in diverse provincie si cavava. E perché in quei tempi non era l'arte che è al presente di partire l'oro dall'argento e rame, e questo metallo teneva in sé dell'oro e dell'argento, però era molto stimato e tenuto caro. Quei nomi di gaunace, monoche, sagmatogene, molochine, erano sorti di tele indiane cosí chiamate. Il lacco di colore potria esser la lacca da tingere; le zone overo cintole adoperavano non solamente per cingersi, ma vi portavano dentro i denari.
Il ligdo è una sorte di pietra bianca per far vasi da tener odori; il carbaso è specie di lino sottilissimo; la pietra calleana s'assimigliava allo smeraldo, ma tirava alquanto al bianco. Della descrizion del malabatro, posto in fine del libro di Arriano, non sappiamo che dire, ma ci rimettemo ad altri che piú sottilmente vi pensino sopra, conferendola con quello che ne hanno detto Dioscoride e Plinio, cioè che sia la foglia del nardo indico, e che tenuta sotto la lingua facci il fiato odorato. Potranno anco veder quel che scrive Odoardo Barbosa e l'auttore del Sommario orientale, che voglion la foglia del betelle o bettre, che tengon di continuo in bocca li re e signori d'India, sia il foglio indo: e secondo che di questo non sappiamo risolverci, cosí pensamo che li detti duoi auttori se ingannino, che lo amfian che usano li detti Indiani per le cose veneree sia l'opio tebaico, di papaveri, frigido in quarto grado. Del licio, costo, sandaracca, stimmi, bdellio, purpura e cinabari indico n'è pieno Dioscoride, nondimeno ai tempi nostri non si sa della maggiore parte di loro quello che siano. Il rinocerotte era un corno d'un animale del medesimo nome, grande come l'elefante, che lo porta sopra il naso, il quale corno s'adoprava per fare lavori di tarsia, come abbiamo detto. Meliefta dicono alcuni scrittori greci che sono vasi di rame. Quello che sia duaca, mocroto, moto, magla e asifi, ch'erano tutte varie sorti di speciarie e odori che si trovavano nell'Arabia ed Etiopia, non si legge appresso alcun auttore ciò che si fossero, come anco non si sa quello che si sia il sericato, gabalio e tarro, nominati da Plinio per odori dell'Arabia.
Della cassia e zigir, che sono sorti di cannella che noi adoperiamo per specie, è ben cosa degna di aver considerazione, leggendosi in Arriano che nascevano in alcuni luoghi di questa parte della Trogloditica, come è in Aromata e Mosillo, e di là erano condotte a noi da mercatanti; e Plinio dice che il cinnamomo nasceva similmente nella Etiopia contermina alla Trogloditica, e quella parte dell'Etiopia appresso la quale corre la linea equinoziale fu per auttori antichissimi, come recita Strabone, chiamata cinnamomifera, cioè che produceva il cinnamomo, il che conferma ancora Tolomeo nei suoi libri. Ma ora che tutto questo paese della Trogloditica ed Etiopia è veramente cognosciuto, e fatto domestico e civile sotto l'imperio di diversi signori arabi, macomettani e del Prete Ianni, si sa di certo che non vi nasce cinnamomo né sorte alcuna di specierie, se non gengevo in un regno di gentili detto Damute, e anco sopra l'Arabia nella città di Adem e alla Mecca: e questi tali gengivi, quanto piú s'allontanano dall'India, tanto perdono della sua natural bontà. E il pepe che è condotto di Calicut in Etiopia è in tanto prezzo e istimazione che fra' negri non è mercanzia di maggiore importanza. E acciò che non si confonda in questo nome di cassia lo intelletto de' lettori, e che non pensino ch'ella sia quella che s'adopera al presente nelle medicine solutive, chiamata cassia fistula dalli medici arabi, imperoché appresso gli auttori antichi greci non si trova di tal cassia esser fatta alcuna menzione, reciterò a punto quel che dice Dioscoride di questa cassia, che appresso di noi è al presente la cannella, e del cinnamomo, il quale è tanto simile in ogni cosa alla detta cassia che Galeno afferma che spesse fiate non si conosceva l'una dall'altra.
Costui adunque nei libri delle erbe, quando ei tratta della cassia, dice ch'ella nasceva nell'Arabia, e quella era da eleggere per megliore che fosse rossa e di bel colore simile al corallo, stretta, lunga, cannellosa, al gusto mordente con alquanto di caldo: e quella di bontà avanzava tutte l'altre sorti che è detta zigir, e ha l'odore simile alle rose. Del cinnamomo parlando dice che se ne trovava di piú sorti, nominate dai luoghi dove nascevano, ma che quello per megliore si teneva che, per assomigliarsi alquanto a quella sorte di cassia detta mosillite, si chiamava cinnamomo mosillitico: e di questo quello che è fresco e di color nero, e che tende dal vinoso al cinerizio, liscio, sottile di rami, cinto di spessi nodi e odoratissimo, è di maggior perfezione. Queste son le parole del detto auttore, il qual fu al tempo che la regina Cleopatra regnava con Marc'Antonio nella città di Alessandria, e poteva molto bene averne particolar cognizione.
Di questa sorte di cannella che abbia li nodi, noi non n'abbiano al presente. Ed è oppinione di valenti uomini che a noi non sia ancora stato condotta la vera mirra, né il stacte, né il malabatro, né similmente il vero cinnamomo, perché quello che noi adoperiamo è la cassia detta di sopra da Dioscoride, la quale a' tempi nostri non si trova se non in Zeilam e nell'isole delle Moluche orientali, poste vicine alla linea di sotto e di sopra, né si sa che altrove ne nasca. E per tanto è cosa di maraviglia a pensar come le dette sorti di specie siano del tutto perse nell'Etiopia, né piú in quella naschino, la quale allora era d'esse il paese proprio e naturale, e che dal tempo de' Romani in qua abbino fatta cosí grande rivoluzione, che d'Etiopia siano passate sino all'estreme isole dell'Oriente.
Adem e il capo Sfacalhat, Curia Muria, l'isola Macira, come anticamente si chiamavano. Sintho fiume è una delle sette bocche dell'Indo: discorso sopra l'atterrazion che fanno di continuo i fiumi. Come non è Oceano, ma tutti i mari sono circondati dalla terra. Di Daulcinde oggi Nelcinde; Cocchin ora Colchi Emporium; Cumari e Comaria Promontorium.
La villa detta Felice Arabia si potria congietturare che fosse la città che al presente si chiama Adem, uscendo fuori del mar Rosso a banda sinistra, perché Tolomeo la mette in gradi XI, sí come ancora oggi è graduata Adem. Il promontorio Siagro è il capo di Sfacalhat dell'Arabia; l'isola di Dioscoride potria esser quella che è detta Curia Muria; l'isola che al presente si chiama Macira è o quella di Serapide overo di Zenobio. Il pinico vuol dire perle, perché pinna in greco vuol dire l'ostrica, e Tolomeo, nei libri della "Geografia", dice che detto pinico si pigliava andando sotto acqua dagli uomini nei luoghi dove al presente si pigliano le perle. Il fiume Sintho è una delle sette bocche che fa il fiume Indo, cosí detta al tempo di Tolomeo e di Arriano; Plinio chiama questa bocca Sando; e gli antichi scrittori dicono che al tempo di Alessandro Magno l'Indo aveva solamente due bocche, le quali poi diventarono sette, e la cagion di tanta varietà è la lunghezza del tempo, percioché di continuo i fiumi grandi come Indo, Nilo e Po, correndo torbidi e menando infinito fango, atterrano il mare e lo fanno diventar terra ferma. E che questo sia il vero si legge di Pharos, che è il luogo detto al presente il Farion presso ad Alessandria d'Egitto, che al tempo di Omero era isola, molte miglia lontana da terra, e al tempo di Giulio Cesare vi andava anco il mare a torno: al presente è terra ferma, congiunta in tutto con la detta città di Alessandria, e la cagione di ciò è stato il Nilo, il qual è oppenione di Strabone che con la sua torbidezza e fango abbia atterrato tutto quel paese, che è intermedio dal mar Rosso sin al Mediterraneo. Similmente il fiume del Po, nello spazio di 1400 anni, si vede leggendo le scritture antiche aver fatte grandissime atterrazioni, conciosiacosaché già vi fosse una gran laguna, che cominciava con li suoi liti (come dice Erodiano nell'ultimo libro della sua istoria) dalla città Aquilegia e distendevasi sino a Ravenna, ed era tanto grande e lunga ch'ella si chiamava "i sette mari" dagli abitatori vicini, e Antonino imperatore, nello itinerario che fece far del mondo, la chiama col medesimo nome: e sicuramente si poteva navigar per quella senza andar per mare. E la città di Ravenna era edificata in mezzo della detta laguna, e similmente era in acqua la città di Altino, dove sbocca in mare il fiume del Sile, sul Trevigiano: e queste due città, pel crescer e discrescer che faceva ogni giorno l'acqua che veniva dal mar, togliendo via da quelle ogni spurcizia, avevano bonissimo aere, e gli uomini vi viveano longamente, ed eranvi canali e ponti, e con le barchette si transferivano da luogo a luogo in ciascuna parte di quelle città. E nondimeno chi è stato ne' sopra detti luoghi può vedere come le dette città e la detta laguna sieno a' tempi nostri ridotte, della qual cosa solamente sono stati causa il fiume del Po e gli altri fiumi che mettevano capo in tal palude. Per tanto non è maraviglia se il fiume Indo, di due bocche con le quali anticamente entrava in mare, al tempo di Tolomeo e Arriano ne aveva fatte sette, le quali poi a' tempi nostri, come dicono i Portoghesi, sono ridotte in due solamente. Il medesimo segno del trovar in quei mari molte serpi, quando anticamente i naviganti s'appressavano all'India, si vede ancora a' giorni nostri, come in diverse navigazioni di moderni è stato scritto.
Che città veramente nella costa di Calicut si possa dire che fosse Barigaza cosí famosa, la quale era in dicessette gradi, con quel gran fiume e rivolgimenti di acqua, è cosa difficile: pur chi non dubitasse d'esser accusato di presonzione potria per conietture dire che detta città fosse sopra la detta costa appresso di Goa. Della città mediterranea detta Thina, che è situata sotto l'Orsa minore e nelle parti opposite al mar Maggiore e Caspio, pensiamo che l'auttore non fosse bene informato, mettendola tanto sotto la tramontana, perch'ella saria alla volta del Cataio, e la regione detta al presente la China, trovata per Portoghesi, è veramente quella che appresso gli antichi si chiama Sinarum Regio. Del qual mar Caspio e palude Meotide similmente il detto non ebbe notizia, dicendo ch'ella sboccava nell'Oceano per via del mar Caspio, il che è lontano dalla verità, ma esso si confidò sopra quello che dagli antichi era stato scritto, dell'oppenione dei quali non voglio restar di dirne alquante parole.
Strabone, che fu cosí grande e raro uomo nelle lettere, e che lesse tutti gli auttori antichi che avevano parlato della descrizione del mondo, dice che la terra nostra abitabile è circondata intorno del mar Oceano, il qual fa in essa quattro grandissimi colfi: il primo verso tramontana, dove gli entra nel mar Caspio, che alcuni chiamano Ircano; e duoi altri ne fa verso mezzodí, uno detto il colfo Persico e l'altro Arabico; il quarto, che passa di grandezza tutti i tre sopradetti, è quel dove entra l'Oceano nel mar nostro appresso lo stretto di Gibralterra, e distendendosi verso levante sino nella Soria fa etiam il mar Maggiore. E Strabone questi mari li chiama mediterranei, perciò che sono nel mezzo della terra. Ma nella età nostra, che si son fatte tante navigazioni d'ogni canto di questo globo della terra, s'è conosciuto chiaramente l'oppenione di detti antichi non esser vera, e che non vi è Oceano alcuno che la circondi tutta, ma che tutti i mari sono circondati dalla terra, e perciò possono ragionevolmente esser chiamati mediterranei. E vedesi manifestamente che il mar Caspio è serrato a torno a torno, ed è come un lago nel quale mettono infiniti grandissimi fiumi, senza che fuor di esso esca acqua alcuna, e che la palude Meotide non vi entra dentro.
Queste e molte altre cose si potriano dire sopra questo viaggio, come saria a dire se Nelcinde sia quel paese che chiamano oggi Daulcinde, regno non troppo lontano dal fiume Indo, e che Cochin sia Colchi Emporium, e capo Cumeri sia Comaria Promontorium di Tolomeo: ma per ora basta quanto abbiamo detto, percioché non è da dubitare che, poi che saranno venuti in luce questi libri, non s'abbia a mandare da qualche principe qualche nobile ingegno in quelle parti, che vada confrontando i nomi antichi con i nomi de' tempi presenti, cosí quei delle speciarie come de' luoghi e fiumi, e avendo i gradi dell'altezze scritte per Tolomeo e le particolarità scritte per Arriano, assai facilmente possa far chiaro al mondo quel di che noi ancora dubitiamo.
Navigazione del mar Rosso fino alle Indie orientali, scritta per Arriano in lingua greca, e di quella poi tradotta nella italiana.
De' porti intorno al mar Rosso: Myosarmo, Berenice, Tisebarico. De' popoli ictiofagi. Di Tolomaide di Theron, dove si trova la vera testuggine; del luogo detto Adeotico; di Aduli; dell'isola Orene; della città Axomite; del luogo Cyenio. Dove si nudriscano gli elefanti e rinoceroti.
Dei porti celebri del mar Rosso, e dei luoghi intorno di quello dove si facciano fiere, il principale è il porto d'Egitto nominato Myosormo. Doppo questo navigando avanti mille e ottocento stadi, a man destra è Berenice. I porti di amendue sono posti nell'estreme parti d'Egitto, e i lor colfi sono del mar Rosso. A man destra dopo Berenice seguita un paese vicino chiamato Tisebarico, parte del quale è presso alla marina, dove abitano gl'Ictiofagi sparsamente nelle spelonche fatte in alcuni luoghi stretti, e parte è fra terra, abitata dai Barbari, e dopo loro dagli Agriofagi e dai Moscofagi, che si governano a signorie. Appresso di loro verso mezzogiorno dalle parti di ponente è fra terra. Dopo i Moscofagi presso al mare è un piccol luogo mercatantesco, lontano dal principio del colfo quasi quattromila stadi, detto Tolemaide Theron, cioè delle caccie, sino alla quale pervennero i cacciatori di Tolomeo. In questo luogo si trova la vera testuggine terrestre, bianca e di piccola corteccia; vi si trova anche tal volta dell'avorio, ma poco e simile all'aedotico. Il luogo non ha porto, ma solamente un ricetto di barche. Dopo Tolemaide Theron quasi tremila stadi, è un luogo mercantantesco chiamato Aduli, posto presso a un profondissimo colfo verso mezzogiorno, all'incontro del quale giace un'isola chiamata Orene, che nella parte di mezzo è lontana dalla parte interiore del colfo verso l'alto mare quasi 200 stadi, e d'amendue li capi ha vicina la terra ferma. In questa isola ora vanno ad arrivar le navi, per rispetto delle correrie che si facevano per terra, percioché prima solevano arrivare nell'ultima parte del colfo, nell'isola detta di Diodoro, la quale appresso terra ferma ha un luogo che si può passare a piedi, per il quale i Barbari che quivi abitavano trascorrevano l'isola. E nella terra ferma all'incontro di Orene, lungi dal mare venti stadi è Aduli, villaggio assai grande, dal quale insino a Coloe, città mediterranea e dove si fa il principal mercato di avorio, sono tre giornate. Da questa ad un'altra città principale chiamata Axomite sono giornate cinque, dove si porta tutto l'avorio che si trova di là dal Nilo per un luogo chiamato Cyenio, e di lí poi è portato in Aduli. Tutta la moltitudine adunque degli elefanti che si ammazzano, e similmente delli rinoceroti, si nutrisce nei luoghi piú di sopra fra terra, e rare volte si veggono presso al mare intorno a Aduli.
Dell'isole di Alaleo, e del signor di quel paese, e le mercanzie che vi si portano. Di Tapara, Avalite, Cele e Muza, luoghi cosí chiamati. Della terra detta Malao, e le cose che vi si portano e quelle che si cavano.
Appresso questo luogo mercatantesco, nel mare a man destra sono molte altre isole piccole e arenose, nominate le isole di Alaleo, nelle qual vi sono delle testuggini, le quali gl'Ictiofagi portano a vendere al mercato di Aduli. E lontano quasi ottocento stadi è un altro colfo molto largo e profondo, nell'entrata del quale a man destra vi è sparsa molta quantità d'arena, nel fondo della quale si trova sotterrata la pietra chiamata opsidiana, dove solamente ne nasce per la qualità del luogo. Di questo paese, dai Moscofagi insino all'altra Barbaria, n'è signor uno chiamato Zoscale, di molto buona vita e sopra tutti gli altri eccellente, e in ogni cosa di animo generoso, e intendente delle lettere grece. Sono portate in questi luoghi veste barbaresche non cimate, ma cosí rozze come sono fatte in Egitto, e anche vestimenti arsinoitici da femine detti stole, e abolle, che son vestimenti da uomini, di panni bastardi di colori, e drappamenti di lino, e mantili con ambi li capi sfilati, e infinite sorti di vasi di pietra e di vasi di murrina, che si fanno in Diospoli, e similmente di oricalco, il quale usano per ornamento, e anche tagliandolo in pezzi lo adoperano per moneta, e alcune donne l'usano per far manigli e ornamenti da gambe, e meliefta. Portavisi anche del ferro, il quale adoperano a ferrar le aste, che usano contra gli elefanti e altre fiere e contra nemici. Similmente vi si portano delle scuri, delle ascie e delle spade, e tazze di rame tonde e grandi, e qualche poco di danari per i forestieri che vi praticano, e anche vino laodiceno e italiano, ma poco, e anche olio, ma però non molto. Al re portano vasi d'argento e d'oro lavorati secondo l'usanza del luogo, e vesti dette abolle, e gaunace semplici, e di queste cose non però molta quantità. Similmente dai luoghi piú adentro della Arabia vi si porta del ferro indiano, e acciale, e tela indiana della piú larga, chiamata monoche, e sagmatogene, e cintole, e gaunace e monochine, e qualche poco di vestimenti di lino, e lacca da tingere. Da questi luoghi si porta dell'avorio e del rinocerote. E la maggior parte delle cose è portata d'Egitto a questo mercato dal mese di gennaio insino a settembre, cioè da tybi, sí come essi gli chiamano, insino a thoth: ma il tempo piú opportuno di condurle d'Egitto è circa il mese di settembre.
Si estende poi il colfo Arabico verso levante, ma si ristringe appresso Abalite. Dipoi quasi quattromila stadi navigando presso terra ferma, verso levante sono altri luoghi barbareschi nei quali si fa mercanzia, chiamati Tapara, posti seguentemente per ordine, e hanno porti alle occasioni commodi e per sorgere e per ischifar la fortuna. Il primo è chiamato Avalite, appresso il quale è un brevissimo stretto per navigar dall'Arabia all'altra parte. In questo luogo è una piccola terra mercatantesca detta Avalite, e vi vengon con alcune piccole barche e con zattare, e portanvisi vasi di vetro e di pietra, agresta diospolitica, e vesti barbaresche cimate e diversamente lavorate, e formento e vino e qualche poco di stagno. E di lí si cavano dai Barbari, che le portano in alcune barchette a Cele e a Muza, luoghi posti all'incontro, e specierie e qualche poco di avorio e testuggini, e qualche poco di mirra, ma piú eccellente di ciascuna altra. I Barbari che abitano in questo luogo vivono senza ordine alcuno. Dopo Avalite è un'altra terra mercatantesca maggior della predetta chiamata Malao, lontana quasi ottocento stadi. Il porto patisce fortuna, ed è coperto da un promontorio che si estende verso levante. Gli abitatori sono uomini pacifici, e a questo luogo si portano tutte le predette cose, e molte altre vesti, e le dette sagi arsinoitici cimati e tinti, e tazze e alcuni pochi vasi di rame e ferro, e moneta, ma non molta, e argento e oro. E da questi luoghi si cava mirra e qualche poco d'incenso peratico, e cassia aspera, e duaca, e cancamo e macir, portandole di Arabia, e similmente schiavi, ma rare volte.
Di molti altri luoghi, cioè Mondo, Mosillo, Niloptolemeo, Tapateghi, Dafnon piccolo, Elefante, Dafnon grande, altrimenti Acanne, Tabe, Oponne, Ariace, Barigazi, Apocopi piccoli e grandi; dell'isola Piralae e Menuchesia e le Rapte; e le cose che a questi paesi si portano e che indi si traggono.
Lunge da Malao due giornate è un luogo mercatantesco detto Mondo, dove in una isola vicina alla terra sicuramente arrivano le navi in porto. In questo luogo si portano, e similmente di lí si traggono, le cose dette di sopra, e anche il timiama, che è una cosa odorifera, chiamato macroto. Gli abitatori sono mercatanti e di rozzi costumi. Navigando da Mondo verso levante similmente due giornate, è quivi posto vicino Mosillo, in una spiaggia dove si conducono le predette cose, e vasi di argento e di ferro, ma di ferro assai meno, e vasi di pietra. Da questi luoghi si cava grandissima copia di cassia, e per questa cagione il luogo ha di bisogno di navili grandi. Traggonsene anche altre cose odorifere e specierie, e qualche poca quantità di piccole testuggini, e del mocroto, non cosí buono come quello che si trova a Mondo, e incenso peratico, avorio, e mirra rare volte. Navigando lontano da Mosillo due giornate si trova Niloptolemeo, Tapatege e Dafnon piccolo, ed Elefante promontorio, che da Opone si estende verso ostro, dipoi verso garbino. Il paese ha due fiumi: l'uno è nominato Elefante, e l'altro Dafnon grande, e anche chiamato Acanne; nel qual paese nasce specialmente gran quantità di ottimo incenso peratico. Dipoi, estendendosi la terra ferma verso ostro, è un luogo mercatantesco detto Aromata; verso levante è Apocopo, ultimo promontorio della terra ferma di Barbaria. Il porto patisce fortuna e in alcuni tempi è pericoloso, per esser il luogo sottoposto a tramontana; e il segno che abbia da esser fortuna in quel luogo si vede quando il fondo si turba e muta colore, il che vedendosi fuggono tutti al gran promontorio, luogo coperto e sicuro, chiamato Tabe. E al predetto luogo mercatantesco si portano le cose di sopra narrate, e quivi nasce la cassia, il zigir, l'asifi e speciarie, e magla e moto e incenso. Da Tabe quattrocento stadi, costeggiando la chersoneso (cioè quella parte di terra ferma che è quasi isola), appresso quel luogo dove il corso dell'acqua tira, è un'altra terra mercatantesca chiamata Opone, nella quale si conducono le predette cose, e ivi nasce gran quantità di cassia e di speciarie e moto, e schiavi molto buoni (e per lo piú si portano in Egitto), e anche assaissime testuggini, molto migliori di tutte le altre che si trovano altrove. Navigasi a tutti questi luoghi detti di sopra dalle parti di Egitto circa il mese di luglio, chiamato epifi, e anche dai luoghi piú adentro di Ariace e dei Barigazi si sogliono portare a questi medesimi mercati diverse cose: formento, riso, buttiro, olio sisamino, tele chiamate monoche e sagmatogene, e cintole, e mele di canna chiamato zucchero. E alcuni a posta navigano a questi mercati, e alcuni passando di là caricano i navili di ciascuna cosa che s'imbattono a trovare. Il paese non è governato da alcuno re, ma in ciascun luogo governa il suo proprio signore.
Dopo Opone, estendendosi lungamente la costa per il piú verso mezzodí, i primi sono li luoghi di Azania detti Apocopi piccoli e grandi, commodi per sorgere, e fiumi a sei giornate verso gherbino; dipoi per sei altre giornate è un lito grande e un piccolo, dopo li quali, seguitando il viaggio di Azania, primamente è quello che è chiamato di Sarapione, dipoi quel di Nicone. Dopo il quale si trovano molti fiumi e altri porti spessi, compartiti in piú poste e corsi di una giornata, che in tutto sono sette, insino all'isole Piralae e ad un luogo nominato la Nuova Fossa. Dopo la quale, un poco verso garbino, e dopo due corsi, cioè di due notti e di duoi giorni, verso ponente s'incontra un'isola stretta chiamata Menuthesia, lontana da terra ferma forse CCC stadi, bassa e piena d'arbori, nella quale sono fiumi, e molte sorti di uccelli e testuggini montane; non vi è niuno animale se non cocodrilli, i quali non offendono persona alcuna. Quivi vanno barchette fatte di piú legni legati insieme con corde, che si possono dire quasi cuciti, e alcune d'un sol pezzo di legno, le quali usano a pescare e a pigliar delle testuggini: e in questa isola propriamente le pigliano con certi craticci, mettendoli in cambio di reti intorno alle bocche delle caverne, appresso il mare. Lontano da questa isola dopo due giornate per terra ferma è posto l'ultimo luogo mercatantesco di Azania, chiamato le Rapte: e ha preso cotal nome dalle predette barchette, che sono rapte, che vuol significar cucite. Trovasi quivi molto avorio e testuggini. Intorno a questo paese abitano uomini di corpo grandissimi, e in ciascun luogo particolar mettono il lor signore; e Mofarite tiranno possiede il paese, per una certa antica ragion sottoposto al reame della prima Arabia, e oltre al re anche rende tributo a quei di Muza, dove mandano navili nei quali per lo piú usano patroni e ministri di Arabia, i quali hanno quivi commercio e parentado, e che sono pratichi dei luoghi e intendono quella lingua. Portansi a questi mercati lance, che specialmente si fanno a Muza, e delle accette e coltelli e subbie, e molte sorti di vasi di vetro. In alcuni luoghi vi si porta del vino e assai formento, non per guadagno ma per usar cortesia ai barbari, per gratificarsi loro. Di questi luoghi si cava molto avorio, ma inferiore a quello di Aduli; similmente se ne trae del rinocerote e delle testuggini, delle piú eccellenti che si trovino dopo le indiane, e un poco di nauplio. E quasi questi luoghi mercatanteschi di Azania sono gli ultimi della terra ferma nella destra parte, venendo da Berenice, percioché dopo questi luoghi l'Oceano che non è stato navigato si volge verso ponente, ed estendendosi verso mezzodí, e rivolgendosi attorno le parti dell'Etiopia, della Libia e dell'Africa, congiugne col mare occidentale.
Del porto e fortezza chiamato Leuce, e della natura di quegli uomini; dell'isola detta Arsa; d'una terra chiamata Muza; di Saba e Afar città; del paese Mafarti. Le sorti di mercanzie che si conducono a Muza. Donde si cavi la mirra eletta, e stacte abirminea.
Dalla parte sinistra di Berenice, da Myosormo due o tre giornate verso levante, attraversando il colfo vicino, è un altro porto e una fortezza, che è chiamato Leuce villaggio, dal quale si va a Petra, a Malicha re de' Nabatei, e ha un certo luogo da contrattar mercanzie, ricetto da potervi star quei navili, non però molto grandi, che d'Arabia vengono quivi: onde, e per guardia e per ricever la quarta parte delle cose che vi si portano, vi si manda un capitano con i suoi cento soldati. Dopo questo luogo subitamente seguita il paese dell'Arabia, che per molto spazio si estende lungo il mar Rosso. Ella è abitata da diverse genti, delle quali alcune in parte e alcune del tutto sono differenti di linguaggio: quelle che sono presso al mare, a guisa degl'Ictiofagi, abitano sparsi qua e là nelle capanne; quelli che sono piú di sopra abitano e nelle ville e alla campagna; usano due linguaggi, e sono pessimi uomini. E se coloro che navigano per mezzo di quel luogo per aventura si avicinano a loro, sono robbati, e quei che si salvano dal naufragio sono fatti schiavi: onde continuamente e da' signori e da' re d'Arabia sono menati prigioni, e chiamansi Canraite. E universalmente questa navigazione della costa di Arabia è pericolosa, e il paese non ha né porto né spiaggia ed è tutto brutto, e per rispetto dei scogli acuti e sassosi non vi si puote andare, e per tutto mette spavento. E perciò noi navigando tenemmo il viaggio per mezzo il mare, e piú ci sforzammo di tener verso il paese di Arabia insino all'isola Arsa, dopo la quale segueno luoghi di uomini mansueti e di pastori di armenti e di camelli. Dopo questi, nell'ultimo colfo a man sinistra di questo mare è una terra detta Muza, presso alla marina, dov'è solito fermamente farsi il mercato: ed è lontana in tutto da Berenice, navigando per ostro, quasi XII mila stadi. La maggior parte sono Arabi, uomini che attendono alla marinereccia, e la piú parte sono mercatanti, che usano il traffico delle robbe de' Barigazi che in quel luogo si caricano. Sopra di essa tre giornate è una città chiamata Saba, appresso la quale è un paese chiamato Mafarti: e di essa è signore e abitatore Colebo. E dopo altre nove giornate si trova Afar, città principale, nella quale sta Charibael, legitimo re di due nazioni, e della Homerita e di quella che è vicina a questa, chiamata Sabaita: ed egli, per le continue ambascierie e doni, è molto amico degl'imperatori. Muza non ha porto, ma ha buona spiaggia e luogo da star le navi, perciò che sono intorno di essa luoghi arenosi da potervi gittar le ancore e sorgere. Quivi si portano diverse mercanzie: purpura eccellente e di quella commune, e vesti arabesche con le maniche, e semplici e communi, e delle scutulate e dorate; similmente zafferano, cipero, e tele, e vesti abolle, e coperte da letti, non molte e semplici e che usano in quel luogo, cintole sciotte, e qualche poco di cose odorifere, e danari a sufficienza; vino e formento non molto, percioché il paese ne produce mediocremente, e del vino alquanto piú abondantemente.
Al re e al signore donano cavalli e muli da portar soma, e vasi lavorati a torno d'oro e d'argento, e vasi di rame, e molto ricchi vestimenti. Di qui si cava delle cose che nascano nel paese, mirra eletta e stacte abirminea, ligdo, e tutte quelle merci che si portano di là da Aduli. Il tempo opportuno di navigare a questo luogo è circa il mese di settembre, che da loro è chiamato thoth, e nulla impedisce anche l'andarvi piú presto.
Della villa Ocele. Della Felice Arabia sotto il regno di Taribaelto. D'un luogo detto Cana, che produce l'incenso, nel regno di Eleazo. Dell'isole Ucelli e Tralla. Della città detta Habbatha, e le cose che vi si conducono.
Dopo questa città navigando quasi CCC stadi, ristringendosi insieme la terra ferma dell'Arabia e dell'altra parte appresso di Abalite, regione barbarica, è uno stretto non molto lungo, che raguna e quasi rinchiude strettamente il mare: e quel transito di sessanta stadi che è di mezzo è interrotto dall'isola di Diodoro, onde il passare appresso di essa è pericoloso, perciò che quivi fa fortuna, per i venti che soffiano dai monti vicini. Appresso di questo stretto è una villa degli Arabi vicina al mare, sottoposta al medesimo regno, chiamata Ocele, la quale non è tanto luogo da mercanzie quanto è buon porto, e buono da tor acqua, e primo albergo a quei che passano dentro. Dopo Ocele, di nuovo allargandosi il mare verso levante e diventando piú profondo e grande, lontano quasi mille e ducento stadi è la Felice Arabia, villa presso alla marina, sotto il medesimo regno di Tharibaelto. Ella ha porti molto piú commodi, e acque assai piú dolci e migliori di quelle di Ocele. È posta nel principio del colfo, lasciandosi adietro un poco il paese. Prima era chiamata Felice ed era città, quando ancora gli uomini non avevano ardir di andar con le lor mercanzie di India in Egitto, né di Egitto in India, ma conducevanle fino ad essa come in una stapola da tutte due queste parti, come ora Alessandria riceve di quelle che sono portate di fuori dall'Egitto; ma Cesare poco innanzi ai nostri tempi la distrusse.
Dopo la Felice Arabia segue una continua e lunga costa e un colfo, che si estende piú di duemila stadi, la quale è piena di ville abitate da pastori e dagl'Ictiofagi; e trapassato il suo promontorio vi è un altro luogo mercatantesco vicino alla marina, nominato Cana, del regno di Eleazo, paese che produce incenso, appresso del quale sono due isole deserte, una chiamata degli Ucelli e l'altra Trulla, lontane da Cana centoventi stadi, di sopra alla quale fra terra vi è una città principale detta Sabbatha, nella quale fa residenzia il re. E tutto l'incenso che nasce nel paese, nella predetta città come in un magazzino è portato con cameli e con zattere di cuoio che quivi usano, cioè fatte di otri, e anche con altri navili. E questa città ha commerzio nelle terre di là dai Barigazi, dove si faccia mercanzia, e in quelle della Scizia e degli Ommani e della Persia, che le è vicina. Quivi si conduce dall'Egitto qualche poco di formento e di vino, sí come anche a Muza; medesimamente vesti arabesche e semplici e communi, e anche delle bastarde piú abondantemente, e rame e stagno e corallo e storace, e tutte le altre cose che si portano anche a Muza; e la piú parte delle robbe che presentano al re sono argenti ben lavorati e danari, e cavalli, e figure di bronzo, e vestimenti semplici eccellenti. Di qua si cavano mercanzie che sono del paese, cioè incenso e aloe; delle altre cose hassene da poter cavare secondo che ella ne ha avuto dagli altri luoghi mercatanteschi. Navigasi a questa città quasi al medesimo tempo che a Muza, ma piú a buon'ora.
Del golfo e paese detto Sachalite, qual produce l'incenso, e la descrizione dell'arbor suo, e come nasce e si raccoglie. Del promontorio Siagro e suoi abitatori. Del porto detto Mosca; isole di Zenobio; isola Serapide; isole di Caleon, di Papio; Colonoros monte; de' monti Sabo; del luogo chiamato Apologo.
Dopo Cana, rivolgendosi per grande spazio il mare, segue un altro colfo profondissimo, il quale si estende molto lungamente, chiamato Sachalite: e il paese produce dell'incenso, ed è montuoso e senza alcun sentiero. Ha l'aere grosso e pieno di nebbia, che fa producer l'incenso negli arbori; e gli arbori che lo producono non sono né molto grossi né alti, e lo producono congelato nella corteccia, sí come appresso di noi alcuni arbori in Egitto lagrimando mandan fuori la gomma. La raccolgono e ne han cura i schiavi del re, e i rei che sono stati condannati. Sono luoghi molto malsani, e a quei che appresso vi navigano sono pestilenziali, e a quei che vi stanno a lavorare sono del tutto mortiferi; e oltra di ciò anche per carestia di vettovaglia facilmente vi moiono. E questo è il maggior promontorio che sia al mondo, volto verso levante, ed è chiamato Siagro, appresso il quale è la fortezza del paese, il porto e i maggazzini dell'incenso che si raccoglie.
Dipoi in alto mare vi è una isola fra il detto promontorio e quello di sopra degli Aromati, ma piú vicina a Siagro, nominata di Dioscoride: è grandissima, ma deserta e paludosa; ha fiumi e cocodrilli, e vipere infinite, e lucerte grandissime, di modo che, mangiandone la carne, struggono il grasso e l'usano in vece di olio. L'isola non produce né vino né formento; gli abitatori sono pochissimi, abitano un lato solo dell'isola verso tramontana, la qual parte guarda verso terra ferma: sono forestieri, mescolati di Arabi, d'Indiani e parte anche di Greci, che navigano per trafficare. L'isola produce le testuggini vere terrestri e bianche, in gran copia ed eccellenti, le quali hanno grande scorza, e quelle di montagna sono grandissime e di grossissima scorza, la parte della quale vicina al ventre è sí dura che non si può tagliare, ed è piú rossa, e la tagliano integra per far cassette e taglieri e tavolette e altre simil cose. Vi nasce anche del cinabari chiamato indico, che si raccoglie dagli arbori come gomma. L'isola è sottoposta, sí come è Azania, a Charibael e al signor Mafarite, e principalmente soggiace al re del paese che produce l'incenso. Praticano in essa alcuni di quei di Muza, e quei che navigano a Limirica e a Barigazi che a caso arrivano quivi, e barattano riso, formento, tele indiane e donne schiave, per la carestia che quivi ne è, e all'incontro caricano gran quantità di testuggini. Ora è stata tolta a fitto dai re, e la tengono guardata.
Dopo Siagro seguita un colfo molto profondo verso la terra di Ommana: la bocca del colfo è di seicento stadi di transito, dopo il quale si trovano monti altissimi e sassosi e tagliati, dove abitano uomini nelle spelonche a cinquecento altri stadi. E dopo questi è il celebre porto per andar a tor dell'incenso sachalite, chiamato Mosca, dove da Cana sono ordinariamente mandati a posta alcuni navili, e alcuni che vi fanno scala venendo da Limirica e dai Barigazi, ed essendo il tempo tardo quivi invernano, e barattano coi schiavi del re tele, formento e olio, e caricano incenso. Ed essendo incenso sachalite riposto in un luogo eminente e senza guardia alcuna, percioché per una certa potenzia degli Dei è per se stesso guardato, né di nascoso né palesemente senza licenza del re se ne può mettere in nave, e ancora che ne fosse tolto se non un grano, per virtú degli Dei la nave non può partirsi dal porto. Ed estendesi questo luogo quasi a mille e cinquecento stadi, fino a Asichone insino a terra. E appresso dove finisce questa sua parte, sono le sette isole chiamate di Zenobio, dopo le quali segue un paese barbaro, che non è piú sottoposto al predetto re, ma è già sotto il regno della Persia. E quei che venendo di sopra navigano presso di essa, lontano quasi mille stadi dall'isole di Zenobio s'incontrano nell'isola di Serapide, lontana da terra quasi CXX stadi, la larghezza della quale è circa ducento stadi. Vi sono tre ville abitate dai sacerdoti degl'Ictiofagi; usano il linguaggio arabico, e si cuoprono le parti vergognose con cintole fatte di fronde di cucini. L'isola ha delle testuggini a sufficienza ed eccellenti; quei di Cana vi caricano ordinariamente e navili e barche. E dove la terra ferma s'incolfa verso tramontana, presso allo stretto del mar di Persia, vi sono isole alle quali si naviga, chiamate le isole di Caleo, lontane da terra quasi duomila stadi. Gli abitatori di esse sono cattivi uomini, i quali di giorno non veggono molto. E presso all'ultimo capo delle isole di Papio è il monte chiamato Calonoros. Non molto dopo seguita la bocca del mar di Persia, dove si pescano molte ostriche del pinico, cioè delle perle. Dalla sinistra parte di questa bocca sono monti grandissimi chiamati Sabo, e dalla destra si vede all'incontro un altro monte ritondo e alto, chiamato il monte di Semiramis; e la navigazion di mezzo di questa bocca è quasi di seicento stadi, dalla quale nei luoghi piú adentro si slarga il grandissimo e larghissimo colfo della Persia, appresso il quale nelle ultime parti è un luogo mercatantesco chiamato Apologo, posto poco lontano dal paese di Pasino, appresso il fiume Eufrate.
Di Ommana e Orea, luoghi mercanteschi; di golfi Terabdi e Barace; de' fiumi Sintho e Trino; della città detta Minnagar; e le cose che quelli paesi producono, quelle che vi si portano e che indi si traggono.
Navigando per questa bocca di colfo, dopo sei giornate si trova un altro luogo mercatantesco della Persia, chiamato Ommana. E ordinariamente dai Barigazi in amendue questi luoghi della Persia sono mandati navili grandi, con rame e legno sagalino, e travi, e corni, e aste di sesamo e di ebeno. In Ommana da Cana si porta dell'incenso, e da Ommana in Arabia mandano barchette cucite che quivi si usano, chiamate madarate. E da amendue questi luoghi si porta in Barigaza e in Arabia molto pinico, cioè perle, ma men buono di quello d'India, e porpora e vestimenti che si usano quivi, e vino, e molte palme, e oro e schiavi. Dopo il paese degli Ommani similmente nel viaggio sotto altro regno è vicino il colfo chiamato dei Terabdi, dove nel mezzo il colfo si estende. E appresso vi è un fiume, il quale dà l'entrata ai navili, e nella bocca ha un picciol luogo mercatantesco chiamato Orea, appresso il quale è una città fra terra, lontana dal mare sette giornate, dove è la sedia reale del predetto regno. Produce questo paese molto formento e vino e riso e palme, e verso terra ferma non vi è altro che bdellio.
Dopo questo paese, per la profondità dei colfi incurvandosi da levante la terra ferma, seguitano alcune parti della Scizia vicine al mare, situate verso tramontana, molto basse, dalle quali esce il fiume Sintho, grandissimo di tutti i fiumi del mar Rosso, e mette molt'acqua in mare: onde per lungo spazio, e assai prima che tu arrivi al paese, trovi in mare la sua acqua bianca, e a quei che vengono di alto mare il segno di esser già arrivati appresso questo paese sono i serpenti, che vengono suso dal fondo, e nei luoghi piú di sopra e intorno la Persia il segno sono le grae, che cosí le chiamano. Questo fiume ha sette bocche, ma piccole e paludose, ma non si può navigare se non per quella di mezzo, nella quale vicino al mare è un luogo barbaresco dove si fa mercato, e innanzi di esso è posta una piccola isoletta, e drieto le spalle della qual vi è una città mediterranea, la principale della Scizia, che è chiamata Minnagar, la quale è sottoposta ai Parti, che di continuo si scacciano l'un l'altro. Le navi arrivano appresso il detto luogo barbaresco, e tutti carichi delle mercanzie si portano al re su per il fiume alla città principale. E a questo mercato sono portati a sufficienza de' vestimenti semplici, e di panni bastardi non molti, e anche di quei fatti a molti fili, e crisoliti e corallo, storace e incenso, e vasi di vetro e d'argento, e danari, vino non molto; e all'incontro caricano costo, bdellio, licio, nardo, e pietra calleana e safiro, e pelli fatte di seta e tele, e filo di seta, e indico negro. Vi son menati anco i passaggieri insieme con gl'Indiani circa il mese di luglio, il quale nella lor lingua è chiamato epifi, e la lor navigazione è incommoda all'entrarvi, ma con prospero vento è breve.
Dopo il fiume Sintho è un altro colfo verso il vento di buora, il quale non si può vedere, ed è nominato Irino. Dicesi in una parte esser piccolo e in altra grande, e amendue i mari esser paludosi, e aver velocissimi e continuati rivolgimenti d'acqua, e lontani da terra tanto che il piú delle volte la terra ferma non si scorge, i quai rivolgimenti, tirando a sé le navi e ricevendole dentro, le sommergono. Sopra di questo colfo sta un promontorio incurvato dal porto dopo levante e mezzogiorno quasi verso ponente, che abbraccia il detto colfo, ed è chiamato Barace, che contiene sette isole, ai confini del quale coloro che arrivano, se trascorrono alquanto adietro in alto mare, scampano; ma quei che si serrano nel ventre di Barace si affogano, percioché quivi l'onde sono grandi e gagliarde, e il mare tempestoso e profondo e torbido, e ha rivolgimenti di acqua e corsi ritorti, e il fondo in alcuni luoghi è interrotto e in alcuni sassoso e tagliente, di modo che consuma le ancore che si gittano per fermar le navi, le quali vanno in pezzi al fondo. E il segno di questi luoghi, a quei che vengono di alto mare, sono i serpenti, che quivi s'incontrano grandissimi e negri, percioché nei luoghi dopo questi e intorno a Barigaza si trovano serpenti piccoli e di color verde e dorato.
Di altri luoghi scoperti, cioè il paese detto Ariaca; il regno di Membaro; luoghi detti Sirastrene; Minnagara città; promontorio Papice; Asta e Trapera; Beone isola; Mais e Lamneo fiumi; villa detta Cammoni; Astacampro promontorio, chiamato Papice.
Dopo Barace seguita il colfo dei Barigazi, e appresso il paese d'Ariaca è il principio del regno di Mambaro e di tutta l'India; e i luoghi mediterranei di questo regno e della Scizia confinano con la Iberia, e i luoghi maritimi sono chiamati Syrastrene. Il paese è molto fertile di formento, di riso, di olio sesamino, di butiro, di carbaso, e abbondante di tele indiane, che si fanno del detto carbaso. Vi è di molto bestiame, e uomini di corpo grandissimi e negri. E la principal città del paese è Minnagara, dalla quale si conduce a Barigaza molta copia di tele. E sino al dí d'oggi si veggono esser rimasi dei segni dell'esercito d'Alessandro intorno a questi luoghi, e gli antichi altari, e i fondamenti degli alloggiamenti, e i pozzi grandissimi. La navigazione presso di questo paese, da Barbarico insino al promontorio d'un luogo detto Papice, appresso Asta e Trapera de' Barigazi, sono tremila stadi. Dopo il quale è un altro luogo dentro in mare che volge a tramontana, nella bocca del quale è una isola chiamata Beone, e nei luoghi piú adentro è un grandissimo fiume, nominato Mais. Quei che vanno a Barigaza navigando in alto mare quasi 300 stadi, trapassano questo colfo, lassando a man sinistra l'isola, che si scuopre da lontano, e si volgono verso levante nella bocca del fiume de' Barigazi, il quale è chiamato Lamneo. In questo colfo, essendo egli stretto, a quei che vengono di alto mare è difficile a entrarvi, percioché vengono a toccare o la parte destra o la sinistra, la qual entrata è migliore dell'altra, conciosiaché dalla destra nella bocca del colfo è una secca aspra e sassosa, chiamata Herone, appresso una villa detta Cammoni. Dalla sinistra, all'incontro di questa, innanzi al promontorio Astacampro vi è un luogo chiamato Papice, che non ha porto buono per rispetto della gran correntia dell'acqua che vi è, e perché il fondo aspro e sassoso taglia le ancore. E se ben alcuno si vuole accostare a questo colfo, è difficil cosa a trovar la bocca del fiume che è presso a Barigaza, perciò che il paese è basso, non vi è appresso alcun segno manifesto, e benché poi si ritrovi, è difficile a entrarvi per rispetto delle paludi del fiume che le sono d'intorno: e per questa cagione i pescatori dei re che pescano in quei luoghi, con l'aiuto di barche lunghe che si chiamano trappage e cotimbe, escono a incontrar insino a Syrastrene, dai quali sono guidate le navi insino a Barigaza, percioché si volgono subito dalla bocca del colfo per le paludi, e con le dette barche le remurchiano nelle poste già ordinate, partendosi mentre cresce l'acqua del fiume, e fermandosi quando ella manca in alcuni sorgidori detti cythrini (i cythrini sono luoghi del fiume piú profondi), insino a Barigaza, la qual è posta lontana di sopra dalla bocca del fiume quasi trecento stadi.
Tutto il paese d'India ha gran copia di fiumi e grandissimi flussi e reflussi di mare, i quali crescono nel far della luna nova e nel pieno di quella per tre giorni, e poi nelli spazii di mezzo della luna diminuiscono, e maggiormente in quella parte che è presso a Barigaza, di maniera che in un subito si vede il fondo, e alcune parti della terra tal volta secche che poco avanti erano navigate; e i fiumi per l'impeto della inondazione, essendo insieme spinto tutto il mare, corrono all'insú per molti stadi, piú velocemente che non fanno secondo il lor corso naturale, per il che è pericoloso l'introdurre e il menar fuori i navili a coloro che non sono esperti e che la prima volta vadano a cotal luogo. Percioché, faccendo il mare grande impeto nel crescere e non intralasciando punto, le ancore non possono ritenere le navi, onde all'improviso, quivi condotte le navi e aggirate dalla gran forza del corso, sono spinte nelle paludi e romponsi; similmente i piccoli navili sono rivoltati sottosopra, e alcuni condotti intorno alle fosse, partendosi subito la inondazione, dal primo capo di flusso di mare sono riempiti e affogati, sí grandi sono gl'impeti dell'acqua nell'entrar del mare nei sopradetti due affetti della luna, e massimamente nella inondazione della notte, talmente che quelli che navigano, cominciando da intrare quando il mare è quieto, sono scontrati dal flusso di quello, ed essendo nella bocca sentono da lontano uno rumor come d'un esercito, e poco dopo con grandissimo strepito trascorre il mare dentro nelle paludi.
De' popoli aratrii, rachusi, tantharagi, e della Proclida; di Alessandria, detta Bucefala; di Limirica; d'alcune monete che corrono in Barigaza; della città di Orzene; del paese detto Dachinabade; di Tagara città; di Acabaro, Uppara e Calliena, luoghi cosí detti; e le sorti di mercanzie che a que' paesi si conducono.
Sopra a Barigaza sono molti popoli fra terra: gli Aratrii, i Rachusi, i Tantharagi, e della Proclida, fra i quali è Alessandria, detta Bucefala; e sopra di loro vi sono i Battriani, gente bellicosissima, sottoposta a re proprio. E Alessandro, mossosi da queste parti, trapassò insino al Gange, lasciandosi adietro il paese della Limirica e le parti della India verso mezzogiorno, dal qual tempo insino al dí d'oggi in Barigaza corrono monete d'una dramma antiche, che hanno scolpite con lettere grece insieme l'imagini di Apollodoto e di Menandro, i quali regnarono dopo Alessandro. È verso levante una città chiamata Ozene, dove già era la sedia del regno, e dalla quale tutte quelle cose che sono per far abondanza nel paese, e per conto della nostra mercanzia, si portano a Barigaza: pietre onichine e murrine, e lenzuoli indiani, e molochine, e assai tele communi. E per mezzo di questa si conduce dai luoghi di sopra il nardo portato da Proclida, detto cattiburino e patropapige, e la cabalite, e della vicina Scizia il costo e il bdellio. Conducesi a questo luogo specialmente vino italiano e laodiceno e arabesco, e rame e stagno e piombo, e corallo e crisolito, vesti semplici e contrafatte di diverse sorti, e cintole di molti fili lunghe un braccio, storace, meliloto, vetro non lavorato, sandarace, stimmi, moneta d'oro e d'argento, la quale si cambia con uno certo che è di guadagno con la moneta di quel luogo. Vi si porta anche una cosa odorifera, né di molto pregio né in gran copia. In quel tempo presentano al re vasi d'argento di gran valore, instrumenti musichi, e donzelle bellissime per concubine, e vino di diverse sorti, e vestimenti semplici e di gran prezio, e cose odorifere di molta eccellenza. Cavasi da questi luoghi nardo, costo, bdellio, avorio, pietre onichine, mirra, licio, e diverse sorti di tele e di seta, e molochine e seta in matasse, e pepe lungo, e cose che si portano da altre fiere. Quei che di Egitto si partano a debito tempo, arrivano a questa fiera nel mese di luglio, chiamato epifi.
Dopo Barigaza, subito la terra ferma che seguita da tramontana si estende verso ostro, e perciò il paese è chiamato Dachinabade, imperoché dachano nella lor lingua significa ostro. E quella parte di essa che è fra terra verso levante contiene paesi e molti e deserti e grandissimi monti, e diverse sorti di animali, e pardi, e tigri, ed elefanti, e serpenti smisurati, e crocotte, e molte generazioni di cinocefali, e molte nazioni populose, talmente che insino ai confini sono frequentissime. In questa Dachinabade sono due notabilissimi luoghi mercatanteschi, che da Barigaza sono lontani venti giornate verso ostro; quasi dieci giornate da questa verso levante è un'altra città molto grande, chiamata Tagara. Dalle quali per viaggi da carri e strade molto difficili si portano a Barigaza dai Plithani le pietre onichine in gran copia, e da Tagara molta quantità di tele communi, e diverse sorti de veli, e molochine e altre mercanzie, che dalle parti maritime quivi sono condotte. E tutta questa navigazione insino alla Limirica sono settemila stadi, ma molti piú sono navigando presso la costa. I luoghi mercatanteschi di questa parte seguitano per ordine: Acabaro, Uppara, Calliena città, nella quale ai tempi di Saragano il vecchio si faceva libera mercanzia, ma dapoi che venne in poter di Sandane fu impedita e interrotta lungo tempo, percioché i navili greci che capitano a caso in questi luoghi sono con guardia condotti a Barigaza.
Di altri diversi luoghi, cioè Semylla, Mandagora, Palepatme, Melizigara, Bizanzio, Toparo e Tirannoboe, l'isole Sesecriene, Egidie e Cenite, l'isola Leuce, Maura e Tindi, il regno di Ceproboto, Muziri e Nelcinda, Barare, Paradia, Colchi città, Balita, Comar; e le mercanzie di que' luoghi.
Dopo Calliena sono altri luoghi mercatanteschi: Semylla, Mandagora, Palepatme, Melizigara, Bizanzio, Toparo e Tirannoboe; dipoi le isole chiamate Sesecriene, Egidie e Cenite, appresso la chersoneso, nei quai luoghi vi stanno corsali. Dipoi seguita l'isola Leuce, dipoi Naura e Tindi, primi luoghi mercatanteschi della Limirica, e dopo questi è Muziri e Nelcinda, nelle quali ora si fanno molte faccende; e Tindi è del regno di Ceproboto, ed è villaggio presso alla marina molto notabile; Muziri è sotto 'l medesimo regno, e fa molte faccende, per rispetto de' navili che vi vanno dei Greci e da Ariaca. Ella è posta appresso un fiume, ed è lontana da Tindi per fiume e per mare stadi cinquecento, e dal fiume a essa sono stadi venti. Nelcinda similmente è discosta da Muziri quasi cinquecento stadi, e per fiume e per terra e per mare, ed è suddita al regno di Pandione, e anche ella è posta appresso un fiume, quasi centoventi stadi lungi dal mare. Appresso la bocca del detto fiume è posto un altro villaggio chiamato Barare, al quale da Nelcinda vengon giuso le navi per andar via, e sorgeno in mare per caricar le mercanzie, perché il fiume ondeggia e non ha facile navigazione. I re di amendue questi luoghi abitano fra terra. Quei che vengono di alto mare, per segno di esser arrivati in questi luoghi hanno i serpenti nei quali s'incontrano, che sono di color negro, ma corti, con la testa a modo di dragon e gli occhi sanguigni. Navigano a questi mercati con navili grandi, per la gran quantità e molta copia di pepe e malabatro; portanvisi specialmente molti danari, crisoliti, veste semplici, non molte però, ma di quelle tessute a molti fili, cioè polimita, stimmi, corallo, finalmente rame non lavorato, stagno, piombo, vino, ma non molto, e tanto si spaccia quanto fa in Barigaza. Vi si porta anche sandaraca, arsenico, formento quanto basta ai patroni di nave, percioché i mercatanti non ne usano. Portavisi del pepe, che in uno luogo solo di questo villaggio ne nasce molto, chiamato Cottanarice. Portanvisi anche delle perle assai e di diverse sorti, e avorio, e tele di seta, e nardo gapanico, e malabatro dai luoghi che sono dentro fra terra, e diverse pietre trasparenti, e diamanti e iacinti, e testuggini crisonetiotice, e di quelle che si pigliano intorno all'isole che sono all'incontro della Limirica. Quei che al debito tempo si sono partiti di Egitto, arrivano a questo luogo circa il mese di luglio, detto epifi.
Tutta la predetta navigazione da Cana e dalla Felice Arabia la facevano con piccoli navili andando attorno ai colfi ma Ippalo governator di nave, avendo considerato il sito delle terre mercatantesche e la forma della marina, fu il primo che trovò la navigazione dell'alto mare. Da quel tempo che appresso di noi soffiano i venti chiamati etesie, nel mare d'India si scuopre il vento libonotto, cioè ostro garbin, ed è nominato dal nome di colui che primamente ritrovò la navigazione, dal qual tempo insin ora alcuni partendosi a dritto viaggio da Cana, alcuni dagli Aromati, parte saltando piú innanzi navigano alla Limirica, parte a Barigaza e parte in Scizia, e non si trattengono piú di tre giorni nell'alto mare; il resto mettono in far il lor proprio viaggio, e discostandosi dal paese vicino a terra di fuori navigando trapassano i predetti colfi. Da Elabacare il monte chiamato Pyrrho, cioè Rosso, viene appresso un altro paese nominato Paradia, verso ostro, nel quale sotto il re Pandione è un luogo dove si pesca il pinico, cioè perle, e similmente vi è una città chiamata Colchi; il primo luogo è nominato Balita, che ha un bel porto e un villaggio alla marina. Dopo questo è un altro luogo detto Comar, nel quale è una fortezza e un porto, dove quei che nel resto della vita vogliono viver santi si stanno vedovi, e quivi venendo si lavano, e il simile fanno le donne, percioché si narra la Dea quivi ogni mese a certo tempo lavarsi. Da Comar si estende un paese insino a Colchi nel quale si pesca il pinico, cioè perle, dove sono tenuti a lavorar quei che sono condennati: ed è verso ostro, sotto il re Pandione.
Di Argalo, Hepiodoro, Camara, Poduca, Sapatma, Colandiofonta, luoghi cosí chiamati; dell'isola Palesimondo, dagli antichi detta Taprobana; di Masalia e Dasarena; di popoli detti Cirradi, ch'hanno il naso schiacciato, e Bargisi, ch'hanno la testa di cavallo; del fiume e luogo detto Gange; della gran città di Thina. Le cose che si conducono in quelle parti. Come sono tre specie di malabatro.
Dopo Colchi seguita la prima costa del colfo, che ha un luogo fra terra chiamato Argalo; in un certo luogo appresso Hepiodoro si sbocca il pinico raccolto, cioè perle; di lí si portano le tele sottilissime chiamate ebargatitidi. E di tutte queste terre mercatantesche e porti, ai quali arrivano quei che navigano e dalla Limirica e dal settentrione, i piú notabili e che seguono per ordine sono Camara e Poduca e Sopatma, e in tutti questi sono navili che s'usano in quei luoghi, co' quali navigano presso terra insino alla Limirica. Ma in altri luoghi vanno con navili fatti di un legno solo che, congiunti insieme, sono grandissimi, chiamati sangara, parte de' quali va all'Aurea e al Gange, e co' maggiori vanno a Colandiofonta. A questi luoghi si portano di tutte le cose che si fanno nella Limirica, e quasi in quei luoghi si consumano. Le robbe che si portano di Egitto di ogni tempo, che sono di molte sorti, e tutte quelle che si portano dalla Limirica, si distribuiscono per questa costa. E navigando verso levante intorno ai luoghi della detta costa, si distende una isola verso ponente chiamata Palesimondo, e appresso i loro antichi si chiamava Taprobana: e la parte verso tramontana è abitata e coltivata, e vi passano quei che navigano a Plionacistini, e quasi si estende infino appresso la parte che è opposita ad Azania. Vi nasce del pinico, cioè perle, e delle pietre trasparenti, e delle testuggini, e vi si fanno delle tele sottilissime. Vicino a questi luoghi è un paese chiamato Masalia, che si estende molto fra terra, dove si fanno molte tele sottilissime. Dipoi verso levante, passando il vicino colfo, segue il paese chiamato Desarena, che produce avorio, detto bosare.
Dopo questo navigando verso tramontana sono molti popoli barbari, fra i quali sono i Cirradi, sorti di gente che ha il naso schiacciato ed è salvatica; vi sono anche i Bargisi, e altre genti che hanno testa di cavallo e faccia lunga: dicesi che mangiano uomini. Dopo questi popoli verso levante, avendo l'Oceano a man destra e navigando presso le altre parti di fuori a man sinistra, s'incontra il Gange, e appresso di lui l'ultima terra ferma di levante, chiamata Aurea. Intorno di essa è il fiume Gange, il quale è dei piú grandi che sia nella India, e cresce e scema sí come fa il Nilo. Appresso il detto fiume è un luogo mercatantesco, chiamato Gange del nome istesso del fiume, per il quale si porta il malabatro, il nardo gangetico, il pinico, e tele sottilissime in tutta eccellenza, chiamate gangetice dal Gange. Dicesi esser in questi luoghi le minere dell'oro, e moneta di oro, chiamato calti. All'incontro di questo fiume è una isola dell'Oceano, l'ultima delle parti del mondo verso levante rinchiusa sotto il levar del sole, dove sono testuggini che hanno color d'oro, e molto migliori di quelle che si trovano in tutti i luoghi del mar Rosso.
Dopo questo paese, quasi sotto tramontana, di fuori a un certo luogo dove finisce il mare, è posta una grandissima città mediterranea chiamata Thina, dalla quale per la via dei Battri per terra si conduce a Barigaza la seta in stoppa, matasse e in tela, e di lí si porta nella Limirica per il fiume Gange. L'andare a questa Thina non è molto facile né sicuro, perciò che rare volte avien che da essa ne ritorni alcuno. Il luogo è posto sotto l'Orsa minore; dicesi che è situata nelle parti opposite del mar Maggiore e del mar Caspio, per il quale la palude Meoti, che è vicina, sbocca nell'Oceano. Ogni anno va a' confini della Thina una certa gente di corpo piccolo, ma gagliardo, di faccia larga, e finalmente si chiamano Sesati. In simili giorni vi vanno con le moglieri e co' figliuoli, portando seco gran carichi di terponi, simili alle viti verdi; dipoi si fermano in certo luogo dei lor confini e della Thina, e faccendosi letti dei terponi, insino a certi giorni attendono a rubbare, e portansi poi la preda nei luoghi che sono piú adentro nel lor paese. Coloro che hanno notizia di queste cose se ne vanno a questi luoghi e raccolgono quei letti, e isnervando sottilmente i calami, chiamati petri, e adoppiando le foglie, e faccendole ritonde, le legano coi nervi dei detti calami. E ne sono di tre sorti: della foglia maggiore, il malabatro grande; della minore, il mediocre; della piccola, il piccolo: onde sono tre parti del malabatro. Dipoi coloro che cosí l'acconciano lo portano in India. Le parti che sono dopo questi luoghi, per le gran fortune di mare, e per i monti grandissimi e inaccessibili, e anche per una certa potenza degli Dei, non si possono investigare.
Discorso sopra il Libro di Odoardo Barbosa e sopra il Sommario delle Indie orientali.
Il presente Libro di Odoardo Barbosa e il Sommario dell'Indie orientali, poi che da principio furon letti e venuti a notizia di alcune poche persone, sono stati nascosi e non è stato permesso che fussero publicati per convenienti rispetti, conciosiacosaché il predetto Barbosa, avendo navigato con li capitani portoghesi per tutte le dette Indie e compostone un libro, mosso poi da alcune cagioni, che sarebbe superfluo il raccontarle, partito da Lisbona se n'andò in Castiglia, e quivi essendo montato l'anno 1519 sopra la nave Vettoria, che circondò il mondo, e venuto nell'isola di Zubut, vi fu morto, come si leggerà nel fine di questo volume. Il Sommario similmente, secondo ch'io ho potuto ritrarre, anche egli fu composto da uno gentiluomo portoghese che navigò per tutto l'Oriente, e avendo letto il libro del Barbosa, volse scriver le medesime cose a suo modo e secondo l'informazione ch'egli aveva avuto, e specialmente di quella parte dove sono l'isole Molucche, che hanno per tramontana una gran costa di terra ferma, la quale è oppenione d'alcuni pilotti portoghesi, per notizia avutane in Malacha, che corra verso greco; e secondo che m'è stato detto, s'ingegnò di descriverla piú particolarmente che li fu possibile, essendo quella una delle piú singulari e notabili parti che sopra la balla apparisca descritta, e tutta abitata e piena di città e genti bianche, dotate di buono intelletto e civili, e per esservi oltre a ciò moltissime isole, bene popolate e abbondanti d'ogni cosa necessaria al vitto umano. Nondimeno, tornato che egli fu a casa, se ei volse che il libro suo fusse veduto, fu sforzato di levarne via tutta quella parte che nel fine dell'opera trattava delle isole Molucche. E noi in questo tempo con grandissima fatica e difficultà avendo mandato a farla trascrivere insino a Lisbona, a pena ne abbiamo potuto avere una copia, e quella anche imperfetta, e il medesimo avemmo fatto del libro del Barbosa in Sibilia. Bene aremmo voluto che come da noi non è mancato di usar ogni diligenza di ritrovar questi libri, che piú felice fortuna gli avesse condotti alle nostre mani piú interi e piú corretti, che molto piú volentieri e presto gli arebbon publicati e messi in luce, non ad altro fine né per altro nostro proposito (come in piú luoghi del presente volume abbiamo detto) che per far cosa grata agli studiosi che si dilettano di tal lezione: della quale, nella descrizione moderna di queste Indie, si leggono molte cose conformi a quelle che già ne scrissero gli antichi, il che fa fede e piena testimonianza che questi nostri hanno diligentemente investigata la verità, e fedelmente raccomandata alla memoria delle lettere.
Degl'infrascritti nomi di mercanzie ne abbiamo avuto questo poco di cognizione:
Beatillas sono tele sottilissime, di che si fanno i fazuoli o ver tocche che portano a torno il capo i Mori.
Bayrames, tele sottilissime fatte liscie.
Cauris, panni sottilissimi di gotton.
Matamugos, paternostri di diverse sorti di colore e fatti in diverse forme.
Amfiam è succo di alcune erbe calide e ventose, come dicono alcuni, e non di papaveri.
Areca sono alcuni pometti con li quali gl'Indiani masticano la foglia detta betelle o bettre.
Del betelle si leggerà qui di sotto come è fatta.
Libro di Odoardo Barbosa portoghese
Avendo io Odoardo Barbosa, gentiluomo della molto nobile città di Lisbona, navigato gran parte della gioventú mia nell'India discoperta in nome della maestà del re nostro signore, e andato anche fra terra in molti e varii paesi vicini a quella, e in questo tempo veduto e inteso varie e diverse cose, conoscendole maravigliose e stupende, che mai per li nostri antichi non sono state vedute né intese, per beneficio universale ho voluto scriverle, sí come di giorno in giorno già le viddi e intesi, sforzandomi di dichiarare in questo mio libro i luoghi e li confini di tutti quei regni dov'io sono stato personalmente o da altri degni di fede ne intesi, e qual sia regno e paese di Mori e qual di Gentili e lor costumi, non lasciando i traffichi e le mercanzie che si trovano in quelli, e dove nascono le cose, dove si conducono. Imperoché, oltre a quelle cose che ho vedute, io mi sono sempre dilettato di dimandare a Mori, a Cristiani, a Gentili, dell'usanze e costumi di paesi de' quali essi erano pratichi, le quali informazioni nondimeno ho voluto poi bene esaminare insieme, per averne piú certa la verità, ch'è stato il mio principale intento, come debbe esser di ciascuna persona che scrive simil cose. Del qual fine e diligenza mia di ritrovare il vero, io non mi diffido che si conoscerà ch'io non ho mancato, per quanto portano le debil forze del mio ingegno; e nel presente anno 1516 io diedi fine a scrivere il presente libro.
Capo di San Sebastiano, passato il capo di Buona Speranza.
Passato il capo di Buona Speranza, andando verso greco, nel capo di San Sebastiano si trovano paesi molto belli di monti, di campagne e di valli, nelle quali sono molte vacche, castrati e altri animali salvatichi. È terra abitata da genti negre che vanno ignude, solamente portano pelli di cervi col pelo o di altri animali salvatichi, come una cappa alla francese; della qual gente i Portoghesi insin ora non hanno potuto aver cognizione, né esser informati di quel che sia dentro fra terra. Non hanno queste genti navigazione e non si servono del mare, né i Mori dell'Arabia, né della Persia, né della India mai hanno insino a quel luogo navigato né discoperte, per cagion delle gran correntie del mare, che fanno gran fortuna.
Isole delle Ucique grandi.
Passato il capo di San Sebastiano andando verso la India, vi sono alcune isole prossime alla terra ferma, e le chiamano Ucique grandi, nelle quali verso terra ferma vi sono alcune piccole abitazioni di Mori, i quali tengono commercio co' Gentili della terra e con loro fanno guadagno. In queste Ucique si trova assai quantità di ambracà e molto buono, e i Mori lo raccolgono e vendono per altre parti, e medesimamente molte perle, e grandi e minute, che si trovano in mare nelle ostriche, le quali essi non sanno né cogliere né pescare: e quando le cavano, le cuocono, e cosí cavano le dette perle e grandi e minute, rosse e abbruciate; e non è dubbio esservene di molte e buone, se le sapessero cavare come si fa in Zeilan o Coromandel e in Baharem, di che si parlerà piú avanti.
Ucique isole piccole nei fiumi.
Passate le Ucique grandi verso Cefala, la quale è una fortezza che quivi fece fare il re di Portogallo, dove si trova di molto oro, a 17 o 18 leghe lontano da essa vi sono alcuni fiumi che fanno dentro di sé isole, le quali chiamano Ucique piccole, dove sono alcuni luoghi di Mori che trafficano co' Gentili della terra ferma. Le lor vettovaglie sono riso, miglio e carni, le quali in piccole barche portano a Cefala.
Cefala.
Passate le piccole Ucique verso la India, 18 leghe lontano da esse è un fiume non molto grande, nel quale molto adentro vi è una abitazione di Mori chiamata Cefala, appresso la quale il re di Portogallo tiene una fortezza: e già gran tempo è che questi Mori abitarono qui, per cagione di alcuni traffichi di oro che tengono co' Gentili della terra ferma. Costoro parlano lingua arabica e hanno re sopra di loro, il quale ora è sotto l'ubbidienza del re di Portogallo. E il modo dei lor traffichi è che vengono per mare in piccioli navili, i quali chiamano zambuchi, dei regni di Quiloa, di Mombaza e di Melinde, e portano molti panni dipinti e bianchi e azurri di bambagio, e alcuni di seta, e paternostri berrettini, gialli e rossi, che nei detti regni vengono in altri navili maggiori dal gran regno di Cambaia: le quali mercanzie i detti Mori comprano e ricevono dagli altri Mori che quivi le portano, e le pagano in oro a peso e per pregio che essi si contentano, e poi le serbano e vendono a lor agio a' Gentili del regno di Benamataxa, che vanno lí carichi di oro, il quale lo danno in cambio di detti panni senza peso e in tanta quantità che sogliono guadagnar cento per uno. Questi Mori raccolgono anche molta quantità di avorio che si trova d'intorno a Cefala, che medesimamente lo vendono per il gran regno di Cambaia a cinque o sei ducati il cantaro, e similmente qualche poco di ambracà, che lo portano dalle Ucique.
Questi uomini di Cefala son negri e parte berrettini; parlano alcuni di essi in lingua arabica, e la maggior parte si serve del linguaggio de' Gentili dalla terra ferma. Si cuoprono dalla cintola in giú di panni di bambagio e di seta, e portano in testa avolti altri drappi di seta a guisa di tocche, e alcuni di loro berrette di grana, e d'altri panni di lana e di colore, e di ciambelotti e altre sette. Le lor vettovaglie sono riso, miglio, carne e pesce. In questo fiume alla marina sono di molti cavalli marini, che vanno in mare e tal volta smontano in terra a pascere. Hanno i denti come gli elefanti piccoli, ed è migliore avorio di quello degli elefanti, e piú bianco e piú forte, e di maniera che non perde il colore. Nella terra d'intorno a Cefala sono molti elefanti e molto grandi e salvatichi, e le genti della terra non sanno né usano di domarli; sonvi anche molti leoni, orsi, cervi e cinghiali e bestie. È terra di piano, di monte e di molti fiumi. Ora novamente i Mori fanno in questa terra molto bambagio fino e lo tessono in panni bianchi, percioché non sanno tingere, non avendo colori; pigliano poi dei panni azurri o vero di diversi colori che sono portati da Cambaia, e disfannoli, e tornano poi a tesser le fila colorite con le lor bianche: e di questa maniera fanno panni di varii colori, dei quali cavano molto oro.
Regno de Benamataxa.
Entrando in questa terra di Cefala adentro vi è il regno di Benamataxa, che è molto grande e di Gentili, che i Mori gli chiamano Caferes. Sono uomini negri, vanno ignudi, e dalla cintura in giú vanno coperti di panni di varii colori e di pelli di bestie salvatiche; e quei che sono piú onorati portano le dette pelli con una coda drieto, che per grandezza e riputazione la strascinano per terra, e ballano e fanno salti e gesti con la persona, talmente che fanno saltar quelle code di là e di qua. Questi portano una spada in fodro di legno legato in oro o vero in altri metalli, e portanla come noi altri dalla parte sinistra, con cinture di panno dipinto che fanno a questo effetto con quattro o cinque nodi, con le lor borse attaccate a quelle come gentiluomini, e in mano le lor zagaie, e alcuni portano archi e freccie, cioè un arco mediocre e i ferri delle freccie molto grandi e ben lavorati: sono uomini da guerra, e alcuni sono mercatanti. Le donne vanno ignude fin che sono donzelle, e solamente cuoprono le lor vergogne con drappi di bombagio, e quando sono maritate e hanno figliuoli portano altri panni sopra le mammelle.
Zimbaos.
Partendo da Cefala, dentro fra terra a 15 giornate è una molto grande abitazione di Gentili, che si chiama Zimbaos: hanno case di legno e di paglia, e quivi assai fiate dimora il re di Benamataxa. E di là alla città di Benamataxa son sei giornate, e il cammino va da Cefala dentro fra terra all'incontro del capo di Buona Speranza. E nella detta Benamataxa, dove è molto popolo, il re è solito per lo piú dimorare, e quivi i mercatanti che vanno a Cefala si forniscono del tanto oro il quale danno ai Mori senza peso per panni dipinti e per paternostri di Cambaia, che fra questi Gentili sono molto usati e apprezzati. E quei della città di Benamataxa dicono che ancora l'oro viene di luogo molto piú lontano, all'incontro del capo di Buona Speranza, d'un altro regno suggetto a questo re di Benamataxa, il quale è molto gran signore e tiene molti altri re per suoi sudditi, e molti altri paesi che sono molto adentro fra terra, cosí per mezzo il capo di Buona Speranza come verso Mozambique e piú oltra. E ogni giorno a detto re di Benamataxa sono portati grandissimi presenti che gli mandano i re e i gran signori suoi sudditi, e quando glieli vanno a presentare, li portano sopra la testa discoperti per tutta la città insin che arrivano al palazzo dove il re da una finestra gli vede venire e manda a pigliargli di lí (e non lo veggono, ma solamente odono le sue parole), e poi manda a chiamar le persone che hanno portato cotai presenti e le spaccia. Questo re continuamente tiene nel campo un capitano, che lo chiamano sono, con gran numero di gente d'arme, fra la quale menano seimila donne che anche esse portano arme e combattono, con la qual gente va sottomettendo alcuni re che vogliano ribellarsi contra di lui o cercano di far tumulti. Il detto re di Benamataxa manda ogni anno molti uomini onorati per i suoi regni in tutti i luoghi e signorie a dar novi fuochi, acciò che tutti gli rendino ubbidienza. E fassi di questa maniera, che ciascuno di quei che sono mandati va in ogni luogo e fa estinguere tutti i fuochi che vi si trovano, e dipoi estinti, tutti quei del popolo vanno al detto uomo mandato come commissario a pigliar nuovo fuoco da lui, per segno di suggezione e di ubbidienza. E quei che cosí non fanno sono tenuti per ribelli, e il re manda subitamente a distruggerli tanta gente quanta fa bisogno, la quale passa per tutti quei luoghi a spese degli abitanti. Le lor vettovaglie sono carne e riso e olio di susimani.
Zuama fiume.
Uscendo di Cefala per andar a Mozambique, a quaranta leghe è un fiume molto grande che si chiama Zuama, il quale dicono che vien di verso Benamataxa e dura piú di centosessanta leghe, nella bocca del qual fiume è un luogo di Mori dove è re, e chiamasi Mongalo. Per questo fiume a questo luogo di Mori vien molto oro da Benamataxa. Il fiume si divide in un altro ramo di fiume che va a dar in Angos, d'onde i Mori si servono di almadie, che sono barche incavate d'un legno solo, per condur panni e altre mercanzie da Angos, e portar molto oro e avorio.
Angos.
Passato questo fiume di Zuama, a centosessanta leghe per la costa del mare, è una abitazione di Mori chiamata Angos, e ha re: e i Mori che vivono ivi sono tutti mercatanti, e trafficano in oro, avorio e panni di seta e di bambagio e paternostri di Cambaia, sí come fanno quei di Cefala. E queste mercanzie le portano i Mori di Quiloa, di Mombaza e di Melinde in piccole barche, di nascoso dalle navi de' Portoghesi, e di lí levano gran quantità d'avorio e molto oro. In questo luogo di Angos vi è molta vettovaglia di miglio, di riso e di alcune carni. Sono gli uomini molto negri e piccoli, vanno ignudi dalla cintura in su, e da indi in giú si cuoprono con panni di bombagio e di seta, e tengono altri drappi rinvolti a guisa di cappe, e alcuni portano tocche e altri berrette listate di panno e di seta; parlano la lingua natia della terra, che è quella de' Gentili, e alcuni di loro parlano arabico. Questi alle volte stanno a ubbidienza del re di Portogallo e tal volta si ribbellano, percioché stanno separati dalla fortezza de' Portoghesi.
Mozambique isola.
Passato questo luogo di Angos, andando verso la India, stanno molto vicine a terra tre isole, tra le quali ne è una abitata da Mori, chiamata Mozambique, e ha un buono porto, dove arrivano tutti i Mori che navigano a Cefala, Zuama e Angos: tra i quai Mori è un serife che gli governa e amministra lor giustizia, e usano la lingua e i costumi dei Mori di Angos. Nella qual isola ora il re di Portogallo ha una fortezza e tiene i detti Mori sotto il suo comandamento e governo; e in questa isola le navi de' Portoghesi si proveggono di acqua, di legne, di pesce e di altre vettovaglie, e quivi si racconciano le navi che n'hanno bisogno. E medesimamente in questa isola si provede la fattoria dei Portoghesi che sta in Cefala, sí delle cose di Portogallo come di quelle della India, per esser molto in cammino. Nella terra ferma all'incontro di questa isola vi sono molti elefanti molto grandi e bestie salvatiche. La terra è abitata da Gentili: sono uomini brutti, i quali vanno ignudi e tutti imbrattati di terra colorita, e le lor parti vergognose involte in una braca di drappo di bambagio azurro senza altro coprimento; e hanno le labbra forate e in ciascun labro tre busi, e nei busi mettono ossi, gioie e altre cose pendenti.
Quiloa isola.
Passato questo luogo, andando verso la India, è un'altra isola vicina alla terra ferma che si chiama Quiloa, nella quale è un'abitazione di Mori, di case molto belle, fabricate con pietre e con calcina e molto alte, con le lor finestre alla maniera de' cristiani: e cosí anche hanno le strade, e le dette case hanno i lor terrazzi e i solari lavorati, con assai orti pieni di molti arbori fruttiferi e molte acque. Questa isola ha re sopra di sé, e di lí vanno gli uomini a trafficar a Cefala con navili, co' quali levano molto oro, il qual poi è portato per tutta l'Arabia Felice, la quale da indi innanzi cosí è chiamata, ancora che sia sopra l'Etiopia, perché in tutta quella terra per la riviera del mare vi sono molte abitazioni e città di Mori. E prima che il re di Portogallo discoprisse questa parte, i Mori di Cefala, di Zuama, di Angos e di Mozambique stavano tutti all'ubbidienza del re di Quiloa, che fra questi era un gran re. E in questa terra è gran copia d'oro, percioché tutti i navili che andavano a Cefala, nell'andare e nel tornare facevano scala a questa isola. Questi Mori sono di colore olivastro, e alcuni di loro negri e alcuni bianchi; sono molto bene ornati di ricchi panni, di oro e di seta e di bambagio; le donne similmente vanno molto bene ornate, con molto oro e argento in catena e manigli alle braccia e alle gambe e agli orecchi. Il linguaggio di questi è arabico, e tengono i libri dell'Alcorano, e grandemente onorano Macometto lor profeta. A questo re, per la sua gran superbia e per non voler ubbidire al re di Portogallo, fu tolto questo luogo per forza, onde uccisero e fecero prigione molta gente, e il re si fuggí della isola, nella quale il re di Portogallo mandò a fabricare una fortezza: e cosí tiene a sua ubbidienza e governo quei che rimasero ivi ad abitare.
Mombaza isola.
Passato Quiloa e andando per la costa della detta Arabia, chiamata ora Felice, verso la India, vicino alla terra ferma è un'altra isola, nella quale è una città di Mori che la chiamano Mombaza, molto grande e molto bella e di molto alte e belle case, fabricate con pietre e con calcina, con molto buone strade alla maniera di quelle di Quiloa; e hanno re sopra di loro. Gli uomini sono di colore olivastro, bianco e negro, e cosí le donne, le quali vanno molto bene ornate di panni di seta e d'oro. È luogo di gran traffico di mercanzie; ha buon porto, dove sempre stanno molti navili, cosí di quei che vanno a Cefala come di altri che vengono da Cambaia e da Melinde, e altri che navigano alle isole di Zenzibar e di Munfia e di Penda, delle quali per lo innanzi se ne parlerà. Questa Mombaza è terra molto abbondante di molte vettovaglie e di castrati bellissimi, che hanno la coda ritonda, e di molte vacche, galline e capre grossissime, di molto riso e miglio, e di molte naranci dolci e agre, e di limoni e cedri, e pomi granati e agri della India, e d'ogni sorti di erbe da mangiare, e d'acque molto buone. Sono uomini che talvolta fan guerra con le genti della terra ferma, e alle volte fanno pace e trafficano con loro, e raccolgono gran quantità di mele e cera e d'avorio. Questo re, per la sua superbia per non volere ubbidire al re di Portogallo, perdette la sua città, la quale i Portoghesi presero per forza: ed egli se ne fuggí, e gli fu uccisa e fatta prigione molta gente e distrutta la terra, e fecesi grandissima preda d'oro, d'argento, di rame, d'avorio, di panni di oro e di seta ricchi, con infinite altre ricchezze di mercanzie.
Melinde.
Passata la città di Mombaza, non molto lontano da essa, nella costa vi è nella terra ferma, in una spiaggia, un villaggio molto bello chiamato Melinde, ed è di Mori e ha re, il quale ha belle case di muro con assai solari, e con le finestre e terrazzi, e buone strade. La gente di essa è di colore olivastro e di color negro; vanno ignudi dalla cinta in suso, e da indi in giú vanno coperti di panni di bambagio e di seta e altri panni, portandoli a uso di cappa ad armacollo, con turbanti molto ricchi in testa. Sono gran mercatanti: trafficano in panni, oro, avorio, rame, argento vivo e altre assai mercatanzie con Mori e Gentili del regno di Cambaia, che alli lor porti vengono con navi cariche di panni, li quali comprano a cambio di oro, avorio e cera, in che trovano gran guadagno cosí l'una parte come l'altra. Evvi nella detta città assai vettovaglia di riso, di miglio, e qualche formento che lo portano di Cambaia, e molte frutte, percioché hanno molti orti e alberi fruttiferi. Vi sono anche assai castrati di quelli della coda grande, e di tutte le altre sorti di carne, come è detto di sopra; similmente vi sono narancie dolci e agre. Questo re e il popolo furno sempre molto amici e servidori del re di Portogallo, e sempre li Portoghesi trovarono in loro molta amicizia e buone accoglienze.
Isola di San Lorenzo.
All'incontro di queste terre in mare, sopra la punta del capo delle Correntie settanta leghe, è una isola molto grande che si chiama San Lorenzo, che è abitata da Gentili, e in essa vi sono alcune terre de Mori; ha molti re, cosí mori come gentili. Vi è molta abbondanza di carne, riso, miglio, e assai narancie e limoni, ed evvi molto gengevo, il quale non adoperano ad altro se non a mangiarlo cosí verde. Gli uomini vanno ignudi, e solamente cuoprono le lor vergogne con drappi di bambagio. Essi non navigano, né altri arrivano a quella isola; hanno almadie, cioè barche per pescar nella lor costa. Son di color olivastri, e hanno linguaggio a sua posta. Fanno molte volte guerra fra loro, e le lor arme sono zagaie molto sottili, con li ferri molto ben lavorati: tiranle molto destramente per ferire, e portanne in mano gran quantità. Sono uomini molto atti e leggieri, e addestransi molto in tirar di braccio. È fra loro argento basso. Il lor viver principale è di radici che piantano, che le domandano igname, che nelle Indie nuove di Spagna vien detto che si chiama iucca e battata. La terra e paese è molto bella e fertile. È questa isola discosta per la parte di Cefala e Melinde trecento leghe, e da terra sessanta leghe.
Penda, Munfia, Zenzibar.
Fra questa isola di San Lorenzo e la terra ferma, non molto lontano da essa, vi sono tre isole, l'una delle quali si dimanda Munfia, l'altra Zenzibar, l'altra Penda, le quali sono abitate da Mori. Sono isole molto fertili e di assai vettovaglie, di riso, di miglio e di carne, e molte narancie, limoni e citroni. Le montagne sono tutte piene di arbori; hanno molte canne di zucchero, e non lo sanno fare. Queste isole hanno re. Gli abitanti di esse trafficano in terra ferma con le lor vettovaglie e frutte. Hanno navili piccoli, molto deboli e mal fatti, senza coperta, d'un albero solo, e tutto il legname di essi è legato con corde fatte di ginestra, e le vele sono di stuore di palma. Sono essi persone molto deboli e minuti, di poca carne e disutili. Vivono in queste isole molto abbondantemente; vestonsi di molti buoni drappi di seta e di bambagio, che comprano in Mombaza dalli mercatanti di Cambaia abitanti lí. Le donne di costoro usano di portar molte gioie d'oro che vien di Cefala, e d'argento in catene, e orecchini, braccialetti e anelli alle gambe, e vanno vestite di drappi di seta. Hanno molte moschee, e in quelle si legge l'Alcorano di Macometto.
Pate.
Passato Melinde andando verso la India, avanti si attraversi il golfo, percioché la costa si ha da spontare per passar poi il mar Rosso, nella detta costa è una terra dimandata Pate, e piú avanti è un'altra terra di Mori nominata Lamon. Tutti costoro trafficano con li Gentili della terra, e sono terre forti circondate di muro, percioché alle volte hanno guerra con li Gentili che vengono di dentro fra terra.
Brava.
Passate queste terre, piú avanti, pur nella costa è una terra di Mori ben murata, che ha buone case di muro, e chiamasi Brava. Non ha re: è governata dai piú vecchi di essa, essendo persone onorevoli e da bene. È terra di traffico, e fu già destruta da' Portoghesi con grande uccisione degli abitanti, dei quali pur assai ne furono fatti schiavi, e fuvi tolto molta ricchezza di oro e d'argento e altre mercanzie. Quegli che scamparono se n'andarono fra terra, e dapoi che fu distrutta la tornarono ad abitare.
Magadaxo.
Partendo dalla detta terra di Brava, pur avanti per la costa verso il mar Rosso, è un'altra molto grande e bella terra di Mori, che si domanda Magadaxo. Ha re particolare. È terra di gran traffico di mercanzie: quivi vengono navi del regno di Cambaia e Adem, con panni di tutte le sorti e con altre mercanzie d'ogni qualità e con spezie, e cavano di lí molto oro, avorio e cera e altre cose, delle quali essi ne traggono utilità. In questa terra sono molte carni, formento, orzo e cavalli e assai frutte: è terra molto ricca. Parlano tutti arabico; sono di colore olivastri e negri, e alcuni bianchi. Sono persone di poche arme: usano tirar le freccie avelenate per difendersi da' nemici.
Asum.
Passato questa terra di Magadaxo, pur per la costa avanti è un'altra terra piccola di Mori, che si dimanda Asum, nella quale sono molte carni e vettovaglie. È terra di poco traffico e non ha porto.
Capo di Guardafuni.
Passata questa terra, si trova subito il capo di Guardafuni, dove la costa finisce e torna a voltar verso il mar Rosso, il qual capo è nella bocca dello stretto di Mecca: e tutte le navi che vengono dell'India, cioè del regno di Cambaia, e di Chaul e Dabul, di Batticala e Malabar, e di Zeilam, Charomandel, di Bengala, Sumatra, di Pegu, Tarnasseri, di Malacha e China, tutte vengono a comparire al detto capo, e di qui entrano nel mar Rosso le lor mercanzie per Adem e Barbora e Zeila e Zidem, porto di Mecca. Le qual navi i capitani del re di Portogallo alle volte vanno a vedere, e tolgongliele con tutte le lor richezze.
Met.
Voltando questo capo di Guardafuni, entrando nel mar Rosso, è lí presso il detto capo una terra di Mori che si dimanda Met, non molto grande, dove sono molti carnaggi, e di poco traffico.
Barbora.
Avanti per la medesima costa è una terra di Mori che si dimanda Barbora. Ha porto, dove arrivano molte navi di Adem e di Cambaia con lor mercanzie: e di qui cavano quei di Cambaia molto oro e avorio e altre cose, e quei di Adem cavano molta vettovaglia e carni e mele e cera, percioché, secondo si dice, è terra molto abbondante.
Zeila.
Passata Barbora e andando verso il mar Rosso, si trova una terra di Mori chiamata Zeilam, che è luogo similmente di gran traffico, dove navigano molte navi, vendono i lor panni e mercanzie. Ed è molto popolata, con buone case di pietre e di calcina, con buone strade; e le case sono coperte con terrazzi. Li abitatori son negri, hanno molti cavalli, e allevano molti animali di piú sorte, de' quali se ne servono in latte, butiro e carne. In questa terra vien molto formento, miglio e orzo, che portano di lí per Adem.
Delaqua.
Passata la detta terra di Zeila, per la costa avanti è un'isola abitata da Mori, che si domanda Delaqua, porto di mare del quale si servono assai i sudditi abissini della terra del Prete Ianni. E attorno di questa terra sono molte vettovaglie, e vienvi molto oro della terra del Prete Ianni.
Mazua, Zanaquin e altre terre.
Passato Delaqua, dentro nel mar Rosso vi sono Mazua, Zanaquin e altre terre di Mori: e chiamasi pur questa costa Arabia Felice, e li Mori la domandano Batrazan, in tutta la quale è molto oro che vien d'infra terra del paese del Prete Ianni, che loro chiamano di Abissini. E quei di tutte le terre di questa costa trafficano per questo paese con li lor panni e altre mercanzie, e cavano di esso oro, avolio, mele e cera e schiavi, e alle volte fanno guerra con loro, perché sono cristiani. Fanno schiavi molti di loro, e tali schiavi sono molto stimati e vagliono assai danari fra li Mori, e piú che altri schiavi, percioché gli trovano esser astuti e fedeli, e valenti uomini delle lor persone; quando si fanno mori, vogliono esser piú ubbiditi che li proprii Mori. Li Mori di questa Arabia sono tutti negri, e valenti uomini di guerra. Vanno ignudi dalla cintola in su, e da lí in giú si cuoprono con panni di bambagio, e quelli di maggior riputazione portano panni adosso come almayzares, cioè cappe alla moresca; e similmente si cuoprono le donne. E mi fu affermato che questi cuciono le nature alle lor figliuole quando son piccole, lasciandovi solo quanto possino urinare, e cosí le tengono cucite fin che sono in età da maritare, che le consegnano alli lor mariti: e allora tagliano loro la carne, che è saldata come se elle cosí fussero nate.
Regno del Prete Ianni.
Finendo di uscire di queste terre de' Mori ed entrando fra terra, vi è il gran regno del Prete Ianni, che i Mori di Arabia lo chiamano di Abissini, il quale è molto grande e molto abitato di molte città, terre e villaggi, con infinita gente, e ha molti regni che li lor re li sono suggetti, e nelle sue terre sono molti che abitano alla campagna e alle montagne come Arabi. Sono uomini negri e molto ben formati; hanno assai cavalli e gli adoprano e son buoni cavallieri, ma non sono cacciatori di fiere, né di alcuna sorte di animali. Le loro vettovaglie sono carni di tutte le sorti, latte, butiro e mele, pan di formento e di miglio: e di queste cose ve n'è grande abbondanza. Li lor vestimenti sono di cuoio e pelle di castrati, percioché nella terra vi è carestia di panni; e fra loro è usanza che solamente certe dignità di persone possano vestir panno, e l'altra gente non può vestir se non corami tagliati e ornati e pelle. Gli uomini e le donne non bevono mai vino, ma acqua acconcia con mele, e latte, del qual si mantengono assai: e quella di mele leva lor la sete e li fa piú forti e piú sani, e nella terra ve n'è grande abbondanzia. Sono cristiani della dottrina del beato san Tomaso e san Filippo, secondo che dicono; il lor battesimo è in tre modi, cioè di sangue, di fuoco e d'acqua, perché si circoncidono come giudei, e nella fronte ancora col fuoco, e nell'acqua si battezzano come li cristiani catolici. Hanno molti di loro mancamento della nostra fede vera, percioché la terra è molto grande, e benché nella città principale di Cassumo, dove dimora il Prete Ianni, siano fatti cristiani, nell'altre assai parti lontane vivono in errore e senza esser loro insegnato, di sorte che solamente hanno il nome di cristiani.
Della città di Cassumo.
Dentro questo regno vi è la gran città di Cassumo, appresso la quale il Prete Ianni il piú del tempo dimora stando sempre alla campagna, il quale li Mori e Gentili chiamano il gran re neguz. È cristiano, signore di molte gran provincie e di molta gente, con la quale sottomette molti re grandi. È molto ricco signore, e di piú oro che alcun altro principe al mondo; tiene gran corte, e paga di continuo molta gente da guerra che mena seco. Esce poche volte delli suoi padiglioni, né si lassa vedere; vengono a visitarlo molti re e gran signori. In questa città si fa, nel mese di settembrio, la festa della Croce molto grande, alla qual si ragunano tanti re e signori soggetti e tante genti che sono innumerabili. In detto giorno si cava fuor di una chiesa una figura dipinta della Madonna, tutta adornata d'oro e di molte pietre preziose, e messala sopra un gran carro tutto coperto di panni d'oro, la menano in processione con gran venerazione e cerimonie. Dinanzi al detto carro va il Prete Ianni, sopra un cavallo pur coperto molto riccamente, e vestito di drappi d'oro, e quel giorno si lassa veder a tutto il popolo, perché nell'altro tempo va con la faccia coperta. E cominciato ad uscir la mattina a buon'ora, e vanno in procession per tutta la città con molti strumenti insin verso la sera, che si riducono a casa. In questa processione vi va tanta gente per appressarsi al carro dove è questa figura, che moreno molti affogati dalla strettezza della calca, e quelli che moreno di questa maniera sono tenuti per santi e martiri: e questa cosa mi fu referita d'alcuni Mori, alli quali non so se si debbia prestar fede; pur come si sia, l'ho voluta scrivere.
Suez.
Lasciando questa terra del Prete Ianni e la costa del mar di questa ora detta Arabia, e voltando all'altra parte del mar Rosso, che anche si chiama Arabia, e li Mori la domandano similmente Barraaru, è una terra di porto di mare che ha nome Suez: e quivi li Mori di Zidem, porto di mare, portano tutte le spezie e drogherie, pietre preziose, perle, ambracan, muschio e altre mercanzie molto ricche delle parti dell'India. Di lí poi le caricano in camelli per terra per condurle al Cairo, e dal Cairo altri mercatanti le portano in Alessandria, di donde le sogliono portar via li Veneziani e altri cristiani. Questo traffico è cessato al presente in gran parte per cagione de' Portoghesi, i quali con la loro armata non lasciano navigar Mori nel mar Rosso. Il gran soldano signor del Cairo, che in questo riceve piú perdita che nessun altro, fece far un'armata nel porto di Suez, per la fabrica della qual fece condur per terra il legname e artegliaria e altre cose necessarie, in che spese molti danari: e quest'armata fu di navi e di galee, per poter passar con essa in India e impedir la navigazione a' Portoghesi. Fatta che fu quest'armata, passò con essa molta gente di diverse nazioni nella prima India, che è nel regno di Cambaia. Il capitan di essa era Amyrasem. Con quest'armata si riscontrò l'armata di Portogallo dirimpetto ad una città nominata Diu, e quivi combatterono molto fortemente, dove morí gran numero di gente. Alla fine i Turchi e i Mamalucchi furono vinti, e la lor armata fu presa tutta e parte abbruciata. E per questa e per molte altre vittorie che ebbero contra i detti Mori, si perdette la lor navigazione nel mar Rosso, e il detto porto di Suez resta senza traffico di spezierie.
Monte Sinai.
Appresso la detta città di Suez, nella predetta terra di Arabia sopra il mar Rosso è il monte Sinai, dove è il corpo della beata santa Caterina, in una chiesa nella quale stanno frati cristiani sotto il dominio del soldano: alla qual casa vanno in pellegrinaggio i cristiani di tutti li regni di cristianità, e la piú parte che capita ivi è del regno del Prete Ianni, di Armenia, di Babilonia, di Costantinopoli e di Ierusalem.
Eliobon e Medina.
Passato il detto monte Sinai, il quale i Mori dimandano Turla, pur avanti per la costa del mar Rosso, uscendone fuora, è una terra di Mori, porto di mare, che si chiama Eliobon: ed è porto dove si disbarcano per andare a Medina, che è un'altra città di Mori fra terra, tre giornate lontana da questo porto, nella quale è sepolto il corpo di Macometto.
Zidem, porto di Mecca.
Uscendo del detto porto d'Eliobon in fuora, per la costa del detto mar Rosso, è una terra di Mori nominata Zidem, ed è porto di mare dove ogni anno solevano venir le navi della India con le specie e drogherie; e di lí tornavano a Calicut con molto rame e argento vivo, cinaprio e zafferano, acqua rosa e scarlatti, sete e ciambellotti, taffetà e altre mercanzie di merceria che si spacciano nella India, e medesimamente con molto oro e argento: ed era il traffico molto utile e grande. In questo porto del Zidem si caricavano le dette spezie e droghe in navili piccoli per Suez, come è già detto.
Mecca.
Da questo porto del Zidem lontano una giornata fra terra è la gran città della Mecca, nella quale è una molto gran moschea, dove li Mori di tutte le parti vanno in pellegrinaggio: e tengono per certo di esser salvi lavandosi con acqua d'un pozzo che è nella detta moschea, e di lí la portano in ampolle alle lor terre come gran reliquia. Nella detta terra del Zidem, porto di mare, fece nuovamente fare una fortezza Amirassen, capitano moro delle navi del soldano, che li Portoghesi ruppero nella India. Il qual capitano, poi che si vide rotto, non ebbe ardir di tornare al suo paese senza far qualche servizio al suo re, e determinò di domandare al re di Cambaia, che si chiama soltan Maumet, quantità di danari, e cosí alli grandi e a' mercatanti del suo regno e ad altri re mori, per far la detta fortezza, dicendo che poi i Portoghesi (i quali si chiamano franchi) erano tanto potenti che non sarebbe maraviglia s'entrassero per questo porto e andassero a distrugger la casa di Macometto. Li quai re e gente moresca, udendo la sua dimanda e vedendo la potenzia del re di Portogallo, parve che questo poteva intravenir facilmente, e però tutti gli diedero gran doni, co' quali caricò tre navi di spezie e d'altre mercanzie: e con esse andò verso il mar Rosso e, arrivato al Zidem, le vendette e delli danari fece la detta fortezza. E nel tempo che esso faceva quella, i Portoghesi ne facevano un'altra dentro la città di Calicut, e il re di Calicut richiese al capitan generale del re di Portogallo di poter mandare allora una nave carica di spezie alla Mecca. Questa licenza gli fu concessa e la nave fu mandata, nella quale venne per capitano un Moro da bene, che aveva nome Califa. E giunto al Zidem, saltò in terra molto bene in ordine con la sua gente, e Amirassen, che faceva la fortezza, subito gli domandò nuove di Portoghesi: e il detto gli rispose che erano in Calicut molto pacifici, e facevano una fortezza molto bella. E il detto Amirassen gli disse: "Come hai tu ardimento di venire alla Mecca, essendo amico dei Portoghesi?" Il Califa gli rispose: "Io sono mercatante e non posso far altro, ma tu, che eri capitano del gran soldano e che andavi per cacciarli d'India, come lasciasti loro e fai qui una fortezza?" Della qual parola Amirassen ebbe molto gran dispiacere, e fece subito che 'l Califa, cosí ben vestito, insieme con la sua gente pigliasse delle pietre e della calcina e aiutassero a far la fortezza, e fecelo affaticar per ispazio di un'ora. E questa cosa il detto Califa la raccontò dapoi che fu ritornato a Calicut.
Iazan, Hali, Aloer.
Uscendo del Zidem, porto di mar, per il mar Rosso in fuora, sono tre terre di Mori che hanno re sopra di sé: l'una si dimanda Iazan e l'altra Hali, la terza Aloher, nelle quali sono molti cavalli e assai vettovaglie. Questo regno dà obedienza al soldano e non ad altro re. Ha molte terre sotto di sé, e in assai di esse vi è porto di mare, d'onde solevan uscire li Mori mercanti a condur cavalli in India nelle lor navi per mercanzia, perché ivi vagliono molto.
Hodeida, Maha, Bebel Mandel.
Passate queste terre e questo regno, sono pur avanti nella detta costa altre terre, che sono del regno di Adem: l'una si chiama Hodeida, l'altra Maha, e l'altra è una isola detta Bebel Mandel, che è nella bocca dello stretto del mar Rosso, per la quale le navi entrano in esso; e in questo luogo le navi pigliano peotti insino al Zidem, perché vivono di questo.
Camaran isola.
Nel mar da esse terre indietro è una isola piccola chiamata Camaran, abitata da Mori, dove le navi andavano a pigliar rinfrescamento quando passavano di lí al Zidem. Questa isola fu distrutta per il signor Alfonso di Alburquerque, capitano del re di Portogallo, il qual quivi stette alcuni giorni riparando di rinfrescamenti la sua compagnia di navi per uscir del mar Rosso, perché 'l tempo non gli concesse termine per andare insino al Zidem, dove egli averia voluto arrivare.
Adem.
Uscendo del mar Rosso per Bebelmandel, che, come si è detto, è nello stretto, nel mar largo, poi per la costa avanti sono alcune terre di Mori, che tutte sono del regno di Adem. E passate queste terre arrivasi alla città di Adem, che è di Mori e ha re da per sé, e molto bella città, con molte belle e gran case; ed è di molto traffico, con molto buone strade, e molto ben murata di buone muraglie all'usanza di qua. Questa città è sopra una punta, fra una montagna e il mare, e la montagna dalla banda di terra ferma è pietra viva, di sorte che da quella parte non ha piú di una entrata; e sopra questa montagna dove è la città vi sono molti castelli piccoli, che dal mare paiono molto belli. Dentro la qual città non è acqua alcuna, e fuora della porta verso la terra ferma ha una casa, dove per condotti fanno venir l'acqua da un'altra montagna alquanto lontana di lí: e fra montagna e montagna vi è una campagna grande. In questa città sono gran mercanti mori e molti indiani: sono di color bianco e alcuni negri. Vestonsi di panni di bambagio, seta e scarlatto e ciambellotti; li lor vestimenti sono molto lunghi, e portano turbanti in testa e certe scarpe basse. Le lor vettovaglie sono di molte carni, di pan di formento, e di riso che li viene d'India; vi sono assai frutte, come in molte parti. Sonvi di molti cavalli e camelli. Il re sta sempre fra terra, e in Adem tiene un suo governatore. Vi vengono molte navi grandi e piccole da diverse parti, cioè dal Zidem, d'onde portano lí molto rame, argento vivo, cinaprio, corallo, panni di lana e di seta; e di ritorno di qui portano spezie e droghe, panni di bambagio e altre cose di Cambaia. Ancora arrivano quivi molte navi di Zeila e Barbora con vettovaglie e altre mercanzie, e cavano di lí panni di Cambaia, le pietre corniole, e paternostri piccoli e grandi. Ora ogni mercatante che traffica in Arabia Felice e nella terra del Prete Ianni medesimamente capita quivi, e vi vengon le navi della città di Ormuz a trafficare, e similmente di Cambaia, d'onde portano molti panni di bambagio, spezie e droghe, gioie e perle, corniole, bambagio filato e da filare; e di quivi cavano robbia, amfian, uve passe, rame, argento vivo, cinaprio e acque rose che ivi si fanno, e panni di lana, sete e panni dipinti di Mecca, e oro in pezzi e fatto in moneta e filato, e ciambelotti: le qual navi di Cambaia sono tante e tanto grandi e con tanta mercanzia, che è cosa da non poter credere né pensare la gran copia di panni e bambagio che portano. E ancora a questo porto di Adem vengono molte navi di Chaul e Dabul e Baticala e del paese di Calicut, le quali solevano venir quivi con le dette mercanzie, e anco con gran quantità di riso e di zucchero e di cose che nascono sopra le palme, che sono come avellane nel sapore, e della scorza fanno vasi per bevere. Vengonvi anche le navi di Bengala e Sumatra e Malacha, le quali portano molte specie e droghe e sete, benzuin, lacca, sandoli, corniole, riobarbaro, muschio, e molti panni di bambagio di Bengala e di Mangalor, di sorte che è terra di maggior traffico che nel mondo possa essere, e di piú ricche mercanzie.
A questa città arrivaron già le navi del re di Portogallo, e nel porto presero e abbruciarono molte navi, e con mercanzie e vote, e provorno di entrar nella città, e a vista di tutti entrarono per la muraglia con le scale, le quali si ruppero per il peso della gran gente, di sorte che i Portoghesi tornarono adietro e lasciarono l'impresa: e nella detta entrata si difesero molto gagliardamente i Mori, dei quali ne morirono assai, e anche alcuni cristiani.
Regno di Fartas.
Passato il detto regno di Adem, fuora dello stretto è un altro regno di Mori appresso il mare, che ha tre o quattro terre alla costa, che si chiamano Xesequi, Diufar e Fartas. Questi Mori hanno il re da per sé, e sono molto valenti uomini da guerra. Hanno cavalli, i quali adoperano in guerra, e anche hanno buone arme. Da poco tempo in qua il detto re sta a ubbidienza del re di Adem e come per suo servitore.
Capo di Fartas e Zacotora isola.
In questo paese e regno è un capo detto il capo di Fartas, dove la costa torna a far la volta nel mar largo: e fra questa e quella di Guardafuni è la bocca dello stretto di Mecca, donde tutte le navi passano al mar Rosso. Fra queste due punte sono tre isole, due piccole e una grande, chiamata Zacotora: questa è isola con molte alte montagne, e abitata da gente olivastra, nominati cristiani; ma manca loro il battesimo e la dottrina cristiana, che non hanno se non il nome di cristiani, e mancò quivi la legge cristiana già molti anni, e avanti che vi navigassero Portoghesi. Dicono i Mori che questa fu già isola delle femine dette Amazoni, le quali poi per ispazio di tempo si mescolarono con gli uomini: il che in alcune cose si conosce, perciò che le donne ministrano le facultà e le governano, senza che i mariti se n'impaccino. Questi hanno linguaggio da per sé e vanno ignudi, solamente cuoprono le lor vergogne con panni di bambagio e con pelli. Hanno molte vacche e castrati e palme e dattili; le lor vettovaglie sono di carne, di latte e di dattili. In questa isola vi è molto sangue di drago e molto aloe zocoterino.
In essa i Mori di Fartas fecero una fortezza, per poterla tener soggetta e far che gli abitanti di essa fossero suoi schiavi con le lor persone e con le lor facultà. Ma arrivandovi un'armata del re di Portogallo, pigliò detta fortezza dei Mori di Fartas per forza d'arme, combattendo con essi, i quali si difesero molto piú gagliardamente che gli altri di quelle parti, di sorte che non si volsero mai arrendere e moriron tutti in battaglia, che nessuno di loro scampò, perché sono molto valenti e arditi nella guerra. Il capitano della detta armata lasciò nella fortezza gente e artegliaria, per guardarla in nome del re di Portogallo.
Appresso di questa isola di Zocotora sono due altre isole di uomini olivastri e negri come Canarii, senza legge e senza dottrina, e non hanno conversazione con alcuna altra gente. In queste due isole si trova molto buono ambracan e in quantità, e molte pietre dette niccoli, di quelle che vagliono e sono stimate in la Mecca, e molto sangue di drago e aloe zocotorino, ed evvi molto bestiame, vacche e castrati.
Diufar.
Passata la punta di Fartas, verso la costa del mar largo che dà volta a Ormuz, andando di lungo per la costa è una terra di Mori, ed è porto di mare, chiamata Diufar, terra del regno di Fartas, nel quale trafficano i Mori di Cambaia con panni di bambagio, riso e altre mercanzie.
Pecher.
Dopo questa terra nella medesima costa è un'altra terra e porto di mare detta Pecher, che è similmente del detto regno di Fartas, ed è molto grande; e quivi è un molto gran traffico di mercanzie, che li Mori di Cambaia e di Caul e Dabul, Batticala e di terra di Malabari portano con le lor navi: e sono panni di bambagio grossi e sottili dei quali si vestono, e granate in filze e molte altre pietre di poco valore, e anche molto riso e zucchero e specie di tutte le sorti, e noci d'India e altre mercanzie, le quali vendono quivi alli mercatanti della terra, che le portano di lí in Adem e per tutta quell'Arabia. I danari gl'investono poi costoro in cavalli per l'India, li quali son molto grandi e molto buoni, e ognuno d'essi vale in India cinquecento o seicento ducati; e cavano anche molto incenso, che nasce in quel luogo e fra terra. Quivi sono tutti Arabi. È in questo paese molto formento e molte carni, molti dattili, uve e tutte altre sorti di frutte che sono in le nostre parti. Tutte le navi che vanno dalle bande d'India per il mar Rosso, e per tardare non possono arrivare a buon tempo con le lor mercanzie dove avevano deliberato, restano a venderle nel porto di Pecher, e di lí se ne vanno all'India costa verso Cambaia: e di questa sorte questo porto è grande e di molto traffico continuamente. Questo re di Fartas sta con tutto il suo regno a ubbidienza del re di Adem, perché vi tiene un suo fratello. L'incenso che in questa terra di Pecher nasce, si cava di lí per tutto il mondo, e qui le navi s'impegolano del detto incenso, perché val cento e cinquanta quattrini il cantaro.
Fachalhat.
Passata la detta terra di Pecher, per la costa avanti sono altre terre piccole di Mori, e fra terra d'Arabi: la qual costa dura insino alla punta di Fachalhat, dove comincia il regno e dominio del re di Ormuz. In questa punta è una fortezza, che il detto re di Ormuz tiene, chiamata Hor; e di lí comincia la costa a voltare a dentro verso di Ormuz.
Regno di Ormuz.
Passata questa punta di Fachalhat, per la costa avanti sono molte terre e fortezze del regno di Ormuz, in Arabia, insino che si entra nel mar di Persia; e dura ancora il suo dominio per questo mare avanti, dove sono molte terre e castelli, e isole che sono in mezzo del detto mar di Persia, abitata da Mori, le quai terre sono le sequenti.
Principalmente Calhat, terra molto grande e di belle case e di molto buon sito. È gente ricca, gentiluomini e mercatanti. Piú avanti, cioè doppo la detta, è un'altra terra piccola chiamata Tibi, e ha buona acqua, della qual si proveggono le navi che navigano per tutta questa costa. Dipoi è una terra piccola detta Dagma, ed è medesimamente porto di mare. Piú avanti è un'altra terra grande che è molto buona, di molto traffico di mercanzia, chiamata Curiat, nella quale e nelle altre d'intorno vi sono molte carni, formento, dattili e altre frutte a sufficienza; e vi sono assai cavalli che nascono nel paese, e molto buoni, che li Mori di Ormuz vengono a comprare per mercanzia per la India.
Passato questa terra di Curiat, per la costa avanti è un'altra terra con una fortezza detta Ceti, che il re di Ormuz la tiene. E piú avanti è un'altra terra nella detta costa grande detta Masquat, e di gente molto da bene, e di molto traffico di mercanzia e di grande pescagione: quivi pescano pesci grandi, che li seccano e insalano per altre parti. Andando per la costa a dentro verso il mar Persico, è un'altra terra chiamata Cohar. Passato la detta terra di Cohar, piú a dentro della costa è un'altra fortezza del detto re di Ormuz, chiamata Rocas: e con queste fortezze il detto re sottomette piú facilmente tutta questa terra. Passato la fortezza di Rocas, è un'altra fortezza detta Nael. Avanti è un'altra detta Madeha: è terra piccola e di pochi abitatori.
Piú oltre di questa terra, per la costa avanti è una gran terra con molta gente, chiamata Corfacan, attorno della quale e delle altre circunvicine sono molte possessioni e molto belle, che hanno quivi i Mori principali di Ormuz, alle quali in certi mesi dell'anno vanno a stare a piacere e a ricoglier le loro vettovaglie e goder le lor frutte. Avanti nella detta costa è un'altra terra nominata Dadena; e piú avanti ne è un'altra chiamata Daba. E avanti nella predetta costa è un'altra molto gran terra detta Iulfar, nella quale vi è molta gente e molto da bene, e assai mercatanti e naviganti; e quivi pescano molte perle grandi e minute, e quivi vanno a comperarle i mercatanti della città di Ormuz, per portarle in India e a tutte le altre parti. Questa terra è di molto traffico, e dà molta entrata al re di Ormuz.
Avanti per la detta costa, appresso il mar di Persia, alla parte dell'Arabia vi sono altre tre terre del detto re di Ormuz: Rachollima, ch'è una molto buona terra; e un'altra piú di là, chiamata Mequehoan; e piú avanti è una fortezza detta Calba, che il predetto re tiene per difendere le sue terre dagli Arabi che stanno fra terra, e sono governati per quelli di siech Ismael, e alle volte vanno sopra le dette terre del regno di Ormuz e fannogli guerra, e alcune fiate gli fanno ribellar contra il lor re.
Mar di Persia.
Questo regno di Ormuz ha, oltra le terre già dette nella costa di Arabia, altre terre assai nella terra di Persia per la costa del mare, e nel mezzo del mar di Persia molte isole abitate da Mori, nelle quali vi sono molte terre grandi e molto buone e molto ricche, le quali tutte si nomineranno avanti ognuna particolarmente, e dipoi si dirà della isola e della città di Ormuz, e delli lor costumi.
Nella detta costa di Persia, all'incontro d'India, ha il re di Ormuz una terra nominata Baha, nella quale tiene li suoi governatori. Passata questa terra, per la detta costa avanti è un'altra terra chiamata Dexat. Avanti è un'altra terra nominata Pahan. Piú avanti ve n'è un'altra che si chiama Iguir. Seguita poi un'altra detta Elguadim. Poi seguita un'altra terra chiamata Nabam, dalla quale si conduce a Ormuz acqua da bevere, percioché là non vi è acqua da bere; e da questa terra e da tutte le altre portano a Ormuz tutte le vettovaglie. Evvi anche un'altra terra Guameda.
Di qui avanti vi sono ancora altre terre del detto re, che sono le seguenti: Lefete, Quesibi, Tabla, Berohu, Puza, Mohi, Macini, Limahorbaz, Alguefa, Carmon, Cohomo, Bar, Que, Guez, Hanguan, Bacido, Gostaque, Cones, Conga, Ebraemi, Penaze, Menahaon, Pamile, Leitam, Batam, Doam, Lorom. Fra le quali ve ne sono di molte grandi e di molto gran traffico, e di gente molto adornata e gran mercatanti, e molte gran fortezze che il re di Ormuz tiene per la difensione del suo regno: e tutto è nella detta costa del mar di Persia. Sono terre molto fornite di tutte le sorti di carni, di molto pan di formento, e di orzi e uva, e di tutte le altre cose che sono nelle nostre parti, e molti dattili. La gente di queste terre è bianca, e sono molto belle persone; vanno vestite di veste lunghe, di drappi di seta e di bambagio e di ciambellotti, ed è terra molto ricca.
Isole del detto regno di Ormuz.
Nella bocca del detto mar di Persia vi sono le isole seguenti, che sono del re di Ormuz: Quixi, Andrani, Baxeal, Quuro, Lar, Coiar, Dome, Firror, Gicolar, Melungan, Cori, Queximi, Baharem. Queste due isole di Queximi e Baharem sono grandi, e Queximi ha otto terre abitate, cioè casali, e hanno molte vettovaglie; e Baharem ha una grande abitazione di molti Mori da bene, e gran mercatanti abitanti in essa di diverse parti, ed è dentro nel detto mare. Naviganvi molte navi con molte mercanzie, e in esse e all'intorno di esse vi nascono molte perle grandi e minute, e appresso di questa isola le pescano, delle quali hanno molto gran utilità gli abitanti di essa: e il re ha di questa isola e di tutte le altre molta entrata. Li mercatanti di Ormuz vanno a questa isola di Baharem a comprar le perle grandi e minute per la India e altre parti dove trovano utile, e per il regno di Narsinga, e vanno anche lí a comprarle quei di Persia e di Arabia: e in tutto il detto mar di Persia si trovano perle, ma non tante come appresso l'isola di Baharem.
Terra di siech Ismael.
Passata la detta terra, per la costa di Persia seguitano molte terre e abitazioni e casali di Mori, molto buone e abbondanti e ricche. E di qui avanti non è piú terra del re di Ormuz, ma di altri signori de' quali non abbiamo tanta notizia, salvo che gli domina e comanda il siech Ismael, ch'è un Moro giovane di poca età. Da questa parte tiene sottomessa molta parte di Persia e di Arabia, e molti regni e dominii di Mori, non essendo re né figliuolo di re, salvo che era un siech, della casata e sangue di Hali, cognato di Macometto, ed essendo povero si accompagnò con altri Mori giovani, e cominciarono a andar nudi, che fra di loro è costumato, lasciando robba, onore e vestimenti, e solamente si coprivano con pelli di capre e di orsi e di cervi col lor pelo, che assai sogliono portare. Hanno per le braccia e per il petto molti segni di fuoco, e portano adosso o intorno molte catene di ferro, e nelle mani alcune arme differenti dalle altre genti, come le scuri piccole, e di molte sorti e diversità di ferri; e vanno in pellegrinaggio, e non si mantengono se non de limosine: e a questi tali dovunque vanno è fatto grande onore e festa dagli altri Mori, e vanno sempre mughiando e gridando forte per le terre per il nome Macometto.
Questo siech Ismael pigliò questo abito e deliberò di mugghiare e gridare per Hali, e non curò di Macometto; e doppo l'essersi accompagnato con lui molta gente, di sorte che cominciò a pigliar terre e distribuir li beni che si acquistavano alle persone che si accostavano a lui, e per sé non pigliava nulla, deliberò di far certe berrette di grana lunghe fatte di pezzi, e di quelle faceva portare alle persone che seguitavano: e a questo modo si tirò molta gente drieto, e con esso andava pigliando molte terre e faceva guerra in diverse parti. E non si volse dimandar re, ma agguagliatore di robba, togliendo a quelli che avevano assai e dando a quei che avevano poco; e non voleva fermarsi in terra alcuna, se non che tutto quello che acquistava dava e ripartiva con quei che lo seguitavano e ubbidivano, e se trovava alcune persone molto ricche, e le lor ricchezze non fussero utili a nessuno, le toglieva loro e compartivale a uomini da bene e poveri, e alli lor patroni lasciava tanta parte quanta a ognuno degli altri: e questo fece assai volte, e perciò lo chiamavano agguagliatore. Egli mandò ambasciadori a tutti li re mori, persuadendo loro che portassero quelle berrette rosse, e se non le volevano portare, mandava a disfidargli, e dir che anderia contra di loro e piglieria le terre e fariagli credere in Hali. Questa ambasciata mandò al gran soldano del Cairo e al gran Turco, i quali gli risposero aspramente e fecero lega contra di lui. E quando siech Ismael intese le lor risposte, deliberò di andar contra al gran Turco, e con molta gente a cavallo e a piè si aviò contra di lui: e il Turco gli venne incontro, ed ebbero insieme molto gran battaglia, della quale rimase vincitore il gran Turco, per la molta artegliaria che fece condur seco. E siech Ismael non combatteva con la sua gente se non per forza di braccia, e gli uccisero gran quantità di gente, ed egli fuggí; e il Turco, ammazzandogli molta gente, lo seguitò insino che lo rimesse in terra di Persia, e di lí se ne ritornò in Turchia.
Questa fu la prima volta che il detto siech Ismael fu rotto, per la qual cosa diceva che voleva tornare in Turchia con maggior potenzia e provisto d'artegliaria. Egli signoreggia parte di Babilonia, Armenia, Persia, e gran parte di Arabia e della India appresso il regno di Cambaia. Il suo proposito era di aver nelle mani la casa della Mecca. Questo siech mandò un ambasciadore con molti presenti al capitano del re di Portogallo che stava in India, dimandandogli patti, pace e amicizia: e il capitan maggior la ricevette insieme con i presenti, e tornò a mandargli un'altra ambasciata.
Balsera.
Al fine detto mar di Persia è una fortezza domandata Balsera, abitata da Mori sotto ubbidienza di siech Ismael, nella quale escie della terra ferma al mare un fiume molto grande e bello, di buona acqua dolce, il quale chiamano Frataha, che dicono esser uno delli quattro fiumi che escono del paradiso terrestre: ed è il fiume di Eufrate. E i detti Mori hanno una vana oppenione, conciosiacosaché dicono che egli ha sessantamila braccia, e ch'uno di essi principale escie del regno di Dahulcinde, che è nella prima India, il qual noi chiamiamo fiume Indo, e il fiume di Ganges è un altro braccio, che entra nella seconda India alla marina, e il Nilo che è un altro, che viene per la terra del Prete Ianni e irriga il Cairo. E ancora che si cognoscano che son favole, pur le ho voluto scrivere.
Descrizione della isola città di Ormuz, alla quale arrivano diverse e ricche mercanzie de varii paesi.
Uscendo del mare e stretto di Persia, nella bocca vi è una isola piccola dove è la città di Ormuz, che è piccola e molto bella, e di molto gentil case, alte e di muro ingessato, coperte di terrazi. E perché la terra è molto calida, hanno nelle case certi ingegni da far vento, fatti di maniera che dal piú alto delle case fanno venire il vento a basso nelle sale e stanze loro. È terra di molto bel sito, e ha molte buone strade e piazze. Fuori della detta città, nella medesima isola è una montagna piccola, ch'è tutta di sale in pietra e di solfo. Il sale è in pezzi grandi, e molto bianco e molto buono: chiamanlo sal indo, perché la natura lo produce quivi, e le navi che vengono lí da tutte le altre parti vengono a pigliar saorna del detto sale, percioché in tutti gli altri luoghi val pur assai danari. Gli abitatori di questa isola e città sono Persiani e Arabi, e parlano arabico e un'altra lingua che chiamano psa. È gente molto bella e bianca, e di buona statura cosí gli uomini come le donne, e sonvi anche fra loro negri di colore olivastro, perché sono di terra di Arabia; e li Persiani sono molto bianchi e uomini grassi, e mangiano molto bene. Onorano la setta di Macometto; sono molto lussuriosi e sodomiti, tanto che fra loro lo tengono per ispasso dei giovani; sono musici di molti stormenti. Sono fra loro assai mercatanti e molto ricchi, e molte navi, perché hanno buon porto e trafficano molte sorti di mercanzie che quivi si conducono, e di lí le portano in altre parti.
D'India portano quivi d'ogni sorte di specie, droghe, pietre e altre mercanzie, che sono pepe, gengevo, cannella, garofani, macis, noci moscate, pepe lungo, legno d'aloe, sandalo, verzino, mirobolani, tamarindi, zaferano, indo, cera, ferro, zucchero, riso, noci d'India, rubini, zaffiri, giagonzas, ametisti, topazi, crisoliti, iacinti, porcellane, benzuí (e in tutte queste mercanzie si guadagnano molti danari), e molti panni del regno di Cambaia, Chaul, Dabul e Bengala, che si chiamano sinabaffi, cautares, mamone, dugnasas, zaranotis, che sono sorti di panni di bambagio, fra loro molto stimati, per far turbanti e camicie, le quali molto usano gli Arabi e Persiani, e quei del Cairo, di Adem e di Alessandria. Portano ancora a questa città di Ormuz argento vivo, cinaprio, acqua rosa, e broccati e seta, grana, ciambellotti communi e di seta; e dalla China e Cataio portano a questa città per terra molta seta fina in matasse, muschio molto fino e riobarbaro; e dal paese di Babilonia portano turchine molto fine, e alcuni smeraldi e azurro molto fino; e da Acar e da Baharem e da Iulfar portano molte perle grandi e minute; e dal paese d'Arabia e di Persia molti cavalli, che di lí gli portano poi alla India, che ognuno vale piú di 500 o seicento ducati, e alle volte mille: e nelle navi che portano questi cavalli caricano molto sale, dattili, uve passe, solfo e altre mercanzie, delle quali gl'Indiani ne hanno assai piacere.
Questi Mori di Ormuz vestono molto bene di certe camicie molto bianche e sottili e lunghe di bambagio, e portano braghesse di bambagio sottile, e di sopra veste di seta di molto valore, e di ciambellotto di grana, e almaizares, cioè mantelli alla moresca, pur di assai valuta, e alla cintura portano certe daghe e cortelli forniti d'oro e d'argento, e alcune spade grandi tutte ornate d'oro e d'argento, secondo la qualità delle persone, e certi broccolieri grandi, tondi, forniti di seta, molto ricchi; e in mano portano archi turcheschi dipinti d'oro e di molti belli colori, con le corde di seta, i quali sono di legno innervato e di corno di bufalo, e fanno un gran passare: ed essi son grandi arcieri, e le lor saette son sottili e ben lavorate; altri portano in mano mazze di ferro ben fatte e di lavori azemini. Sono uomini fortissimi, politi e galanti, e li loro cibi sono di buone carni e delicate, pan di formento e buoni risi, e molte altre vivande bene acconcie, molte conserve e frutte inzuccarate e altre verdi, cioè pomi e granati, persichi, albercochi, fichi, mandorle, uve, melloni, ravani e altre erbe da insalata, e tutte le altre cose che sono in Spagna, dattili di molte sorti, e altre cose da mangiare e frutti che nelle nostre parti non si trovano. Non usano di bever vino di uva, se non ascosamente, perché gli è proibito dalla lor legge, e le acque che bevano sono lambiccate e poste a rifrescare: e cercano e fanno molte arti per farle e mantenerle fresche, e tutti li gentiluomini onorevoli menano sempre seco, dove si voglia che vadino, cosí per le piazze e strade come in viaggio, un paggio con un baril di acqua, il quale è di terra fornito d'argento, over una inghistara d'argento, le qual cose fanno per pompa e per satisfar alla lor vita delicata. Questi sono malvoluti dalle donne, perché il piú delle volte menano seco schiavi gioveni eunuchi con li quali dormono; e questi tutti hanno giardini e possessioni, alle quali vanno a solazzo alcuni mesi dell'anno.
La città di Ormuz.
Questa città è (come si è detto) molto ricca e abbondante di tutte le cose da vivere, nondimeno il tutto vi è carissimo, perciò bisogna condurlo per mare dalli luoghi dell'Arabia e Persia. Nell'isola non nasce cosa alcuna, eccetto il sale, della quale gli abitatori si possino servire; non hanno acqua da bevere, ma giorno per giorno vanno con barche a pigliarla in terra ferma e altri luoghi circonvicini. E pur con tutto questo si veggono sempre le piazze ripiene e abondanti di vettovaglie, le quali si vendono a peso e con bonissimo ordine e tassa; e se alcuno ingannasse nel peso o vero uscisse della tassa, vien castigato. Vendonsi le carni lesse e arroste similmente a peso, e cosí tutte le altre vivande, tanto bene ordinate, acconcie e nette, che molti per mangiar di quelle della piazza non fanno cucinare nelle lor case.
Nella città fa residenza il lor re, il quale ha molti belli palazzi e fortezze per sue abitazioni, e quivi tiene il suo tesoro e la sua corte, della quale elegge li governatori e officiali di tutti i suoi regni e signorie. È ben vero che quelli del suo consiglio son soli che fanno il tutto, che lui non s'impaccia di cosa alcuna se non di darsi piacere e buon tempo, né anco saria in sua libertà di poterlo fare, perché se volesse governare a suo modo e fare quel che gli piacesse, come usano gli altri re, gli sarebbono subito cavati gli occhi e messo in una casa con la moglie, dove li sogliono mantenere miserabilmente, e alzare per re uno del suo lignaggio, o suo figliuolo o altro piú propinquo, acciò che in suo nome il regno si governasse pacificamente. E non solo il re, ma tutti gli altri che possino successivamente del regno essere eredi, come crescendo sono atti di saper comandare e governare, e che pare al consiglio che cerchino di voler darsi al governo, li fan prendere e cavar gli occhi, rinchiudendoli dentro ad una casa, di maniera che sempre vi sono X o XV di questi tali ciechi, alli quali insieme con le lor moglie e figliuoli è dato da vivere, di sorte che quelli che regnano vivono sempre con questa paura. Questo re tiene per pompa al suo servizio gran gente d'arme e cavalleria, ancor che si dica per guardia, i quali tutti hanno onorata provisione e stanno sempre con le lor armi nella corte, e ne manda ancora, quando fa di bisogno, nelle fortezze di terra ferma.
In questa città si battono monete d'oro e d'argento, e quelle di oro chiamano sarafini, le quali vagliono trecento maravedis, delle quali la maggior parte sono mezzi, che vagliono centocinquanta maravedis: ed è moneta tonda come la nostra, con lettere moresche da ogni banda. La moneta di argento è simile ad un fanan di Calicut, con lettere moresche, e val cinquantacinque maravedis, i quali son detti in quella lingua tangas: ed è argento molto fino, e di lega di dodici danari. Delle quali monete, cosí d'oro come d'argento, vi è tanta quantità che ne son portate per tutta l'India, dove elle hanno un gran corso.
Al detto regno d'Ormuz arrivò già un'armata del re di Portogallo, di cui era capitano il signore Alfonso di Alburquerque, il quale avendo procurato di aver intelligenza con questo regno, li Mori che governavano non volsero, per la qual causa gli mosse guerra in tutti li porti di mare, faccendo lor molti danni. Alla fine volse entrar per forza nel porto d'Ormuz, dove gli venne all'incontro una grande armata di Mori, di grosse e gran navi piene di artegliaria e di buona gente e bene armata, la qual ruppe: e nel conflitto ammazzò gran quantità di detti Mori, affondò navi assai, abbruciandone molte altre che stavano surte nel porto con il cavo in terra, propinque al muro della città. Quando il re con li governatori viddono cosí gran destruzione di lor gente e navi, e non potersi piú aiutare, offersero pace al detto capitano, il quale l'accettò, con condizion però che gli lasciassino fare una fortezza da un capo della città: del che si contentarono, ma dapoi che fu cominciata a fabricare si pentirono, e non volsero che piú si seguitasse. Di nuovo li Portoghesi tornorno a muovergli guerra, faccendo tanti danni che furon sforzati a farsi tributari del re di Portogallo di quindicimila sarafini d'oro l'anno. E passati non molti anni dapoi il detto re e suoi governatori mandarono uno ambasciadore al re di Portogallo con lettere d'ubbidienza, alla tornata del quale il detto capitano venne con l'armata in Ormuz, dove fu ricevuto pacificamente e datogli licenza di compir la fortezza già principiata, la qual fu fatta molto bella e grande.
Stando le cose in questi termini, il re, che era giovane di poca età, e in potere di detti governatori tanto stretto che non ardiva fare da sé cosa alcuna, fece secretamente intendere al capitano la sua poca libertà, e che era tenuto come prigione, e che si avevano usurpato tirannicamente quel governo che s'apparteneva ad altri governatori stati per avanti, e che gli pareva avessino intelligenza col siech Ismael per dargli il regno. Il capitano tenne questa cosa secretissima, e ordinò di vedersi insieme col detto re in una casa grande appresso alla marina, nella quale il giorno deputato entrò il capitan maggiore avanti, con forse dieci o quindici altri capitani, lasciata però la sua gente molto bene ordinata, e il tutto guardato come si conveniva. Il re col suo principal governatore vi vennero dapoi con molta gente, ed entrati che furono con dieci o dodici onorati Mori, la porta fu subito serrata e guardata. Quivi il capitano fece a pugnalate ammazzare il governatore avanti del re, al qual disse: "Non abbiate paura, signore, perché questo che si fa è per farvi re assoluto". Quelli che eran di fuori, cioè li parenti, amici e servidori del governatore, essendo genti assai e bene armate, udito il romore cominciorno a sollevarsi, di sorte che fu necessario al capitan maggiore pigliare il re per mano, e montarono sopra di un terrazzo tutti due armati, dal qual luogo il re parlò alli Mori per acquetarli: ma non fu possibil mai di fargli tacere, percioché gridavano che fusse lor consegnato un fratello del re per signore, e subito occuparono il palazzo e fortezze regali, dicendo che fariano un altro re. Il capitano s'ingegnava pur con parole di metter loro le mani addosso, ma non fu mai ordine: e si consumò gran parte del giorno, cercando il re con destrezza di fargli uscir fuora. Alla fine il capitano determinò, non volendo loro lasciar la fortezza per amore, d'amazzargli e cavarneli per forza: il che inteso da detti Mori, deliberorno di darla pacificamente al re, e cosí fu fatto. Il re comandò subito che questi tali con tutta la lor generazione fussino sbanditi, la qual cosa fu adempiuta, e se ne andorno a stare in terra ferma. Dapoi il capitano fece andare il re da quella casa al palazzo con gran trionfo e con molto onore, accompagnato da gran moltitudine di gente, cosí de' nostri come de' suoi, e consegnatolo al governatore che per avanti soleva essere, e resogli liberamente il palazzo e la città, gli disse che dovesse portare ogni onore al re come si conveniva, lasciandogli governare il suo regno come gli piacesse, e che lo consigliasse nel modo e maniera che si sogliono consigliare gli altri re mori: e cosí fu posto il re in libertà. Lasciò dipoi nella fortezza fatta un capitano portoghese con molta gente, ordinandogli che dovesse dare ogni favore al re, il quale al presente non fa alcuna cosa se non col consiglio del capitano di detta fortezza, e cosí lui con tutti i suoi regni e signorie stanno all'ubbidienza del re di Portogallo.
Poi che 'l predetto capitano maggiore ebbe acquietato il tutto e ridotto al suo comandamento, fece subito mandare un bando che tutti li sodomiti fussino scacciati fuor dell'isola, con pena che se mai vi tornassero, fussino abruciati: della qual cosa il re mostrò di esserne molto contento. Ordinò poi che fussino messi in una nave tutti li re ciechi che erano nella città, che potevan esser da 13 in 14, e li mandò alle Indie nella città di Goa, dove fa lor dar da vivere con le sue entrate fino che durerà la lor vita: e questo acciò che non sieno causa di qualche disturbo in detto regno di Ormuz, il quale al presente sta in gran pace e quiete.
Del regno di Ulcinde, che sono i popoli ictiofagi.
Uscito del regno d'Ormuz si entra in quel di Ulcinde, ch'è posto fra la Persia e l'India: è regno da sua posta, e il suo re è moro, e la maggior parte della gente del paese son mori; vi sono ancora Gentili, sudditi a detti Mori. Il dominio di questo re è grande infra terra, ma ha pochi porti di mare; è abbondante di cavagli. Da levante confina col regno di Cambaia, da ponente con la Persia; ubidisce al siech Ismael. Quivi sono Mori bianchi e bruni, i quali, ancor che abbino il parlar loro particolare, nondimeno parlano persiano e arabesco. In questo paese si trova poco formento e orzo e carne, ed è tutto pianura, dove si vedono pochi boschi o arbori; e si servono poco del navigar per mare, ma vi sono grandissime spiagge deserte, sopra le quali attendono molto al pescare e pigliano di grandissimi pesci, li quali insalano cosí per uso del paese come per caricare in certi navili piccoli e portargli in altri regni. In questo paese mangiano li pesci secchi, e anco li danno a mangiare alli cavalli e ad altri bestiami. Vi vengono alcune navi dell'India con zuccheri, risi e altre specierie, legnami, tavole, canne grosse quanto la gamba di un uomo, delle qual mercanzie fanno gran guadagno; e di qui levano bambagi, cavagli e panni. Per mezzo del detto regno corre verso il mare un fiume grandissimo, il qual viene della Persia, e pensano che abbia origine dal Eufrates, benché nol sappino certo. Sopra questo fiume sono molti gran villaggi di Mori ricchissimi, per esser ivi il paese molto grasso, abbondante e copioso d'ogni cosa.
Del regno di Guzzarat in India.
Uscendosi di questo regno di Ulcinde, si entra nella India prima, nel gran regno di Guzzarat, che fu già del re Dario, del quale e del grande Alessandro hanno questi Indiani molte istorie. Ha questo regno sotto di sé molte città e castelli, cosí dentro fra terra come nella costa del mare; ha molti porti, e son molto dediti al navicare; vi son parimente infiniti mercatanti, cosí mori come gentili. Il re di questa regione era anticamente, con tutte le genti d'arme e nobili del paese, tutti gentili: e ora son mori, doppo che furon da' Mori conquistati, che gli tengon soggetti e usan contra di loro inumanità e discortesie grandi.
Son di questi Gentili tre sorti, de' quali i primi son chiamati Rebuti, che erano al tempo che erano i re loro gentili cavalieri, difensori del regno e governatori della provincia, e guerreggiavan molto: e ancora di questi tali sono in piedi alcuni luoghi fra le montagne che non han voluto prestar giamai ubbidienza a' Mori, anzi fan lor continova guerra, e il re di Cambaia non è potente tanto che gli possa destrugger né soggiogare; son bonissimi cavallieri e grandi arcieri, e han molte altre sorti d'armi con che si difendon da' Mori, senza aver sopra di loro re né signoria che gli governi.
Gli altri son chiamati Bancani, che son mercatanti e gran trafficatori: vivon costoro fra' Mori, e con essi trattano le lor mercanzie. Son uomini che non mangian carne né pesce, né pur cosa veruna che muoia, né uccidon cosa alcuna, né voglion veder che si uccida, perché è lor vietato dalla lor legge idolatra, e custodiscon questa osservazione in tanto estremo che è cosa di gran maraviglia. Onde spesso accade che i Mori portano lor innanzi qualche vermi o passeri vivi, dicendo che gli vogliono uccidere al cospetto loro, ed essi gli riscattano e comprano per porgli in libertà di volare, e gli salvan la vita per piú danari che non vagliono; e parimente, se il governatore della provincia ha in prigione alcun uomo dannato alla morte per giustizia, si uniscono insieme questi Bancani e gli comprano dalla giustizia perché non muoiano, e molte volte gli li vende. Similmente i Mori, quando vogliono ottener da lor limosina, prendono nelle mani pietre grossissime e con esse si percuoton la testa, il petto, il corpo, mostrando di voler uccidersi nel cospetto loro: ed essi, acciò che nol faccino, danno loro la limosina e mandangli via. Altri vi sono che prendon coltelli e si dan coltellate nelle gambe innanzi a loro, per cavar lor limosina dalle mani, e altri gli vanno a portar inanzi le porte a uccidere ratti, serpe e altri vermi, e perché non lo faccino essi gli dan danari, in modo che son da' Mori mal trattati. Questi tali, se per strada trovassero un formicaio, si scostano dal cammino e vanno a cercare altra via per non calpestarle; e similmente cenano di giorno, perché la notte non accendon lume, accioché le mosche, zenzale e altri simili animalucci, come son le farfalle, non vadano a morir nei lumi: e se avvien che per necessità lor bisogni di accender candele, le tengon serrate nelle lanterne di carta o di tela incerata, in modo che cosa viva non possa entrarvi a morire. Costoro se hanno pidocchi addosso non gli ammazzano, e se molto gli dan noia, fan chiamar certi uomini similmente gentili, i quali essi reputano persone di santa vita, come eremiti che vivono in molta astinenza, e questi tali gli spidocchino e, postisi tutti li pidocchi che gli cavano sopra il capo, gli nutriscon della lor propria carne per amor degl'idoli loro. E cosí hanno questa legge di non uccidere in grande osservanza, e all'incontro son grandissimi usurari e falsarii di pesi e misure e mercanzie e ancora di monete, bugiardi e barattieri.
Son questi idolatri disposti delle vite loro e ben proporzionati, e galanti nel vestire, delicati e temperati nel vivere: le lor vivande sono latte e butiro, zuccaro, riso e conserve di molte sorti; usano assai frutti, pane ed erbe, cosí domestiche come di campagna. Han tutti orti e giardini da frutti in qualunque luogo si vivano, con molti stagni d'acqua dove si bagnano ogni giorno due volte, cosí le donne come gli uomini: e lavati che si sono, hanno per fede che sia lor fatta remissione delle colpe e peccati loro commessi per l'adrieto. Usano di portare i capegli lunghissimi, a guisa delle donne di Spagna, e portangli raccolti sopra la testa e fatti in un cerchio, acconciamento molto bello; e sopra hanno poi un fazzuolo che li mantiene, e sempre fra dette treccie portano intromessi molti fiori e cose odorifere, ed essi si ungono con sandali bianchi mescolati con zaffarani e molti altri odori. Son uomini innamorativi molto, e van ignudi dalla cintura in su, e da basso van vestiti di panni di seta ricchissimi, e portano scarpe con la punta di bellissimo cordovano e ben lavorato, e alcune vestette similmente di bambagio corte, con le quali cuoprono i lor corpi. Non portan arme, ma solamente certi coltelli piccioli guarniti d'oro e d'argento, per due cagioni, l'una perché son persone che poco si prevagliono dell'arme, l'altra perché i Mori glielo vietano. Usano molti pendenti d'orecchie d'oro e d'argento e pietre preziose, e molte anella e cinture d'oro e di gioie sopra dei panni. E le donne di questi gentili son molto delicate e belle di viso e di persona, eccetto che sono alquanto brune. Vestono vestimenti di seta medesimamente come i mariti, lunghe fino a' piedi, e alcune vestette piccole di sopra con maniche strette e aperte alle spalle, con altri panni di seta che si cuoprono al modo d'un almayzar moresco; portan poi le teste discoperte, con li capegli sparsi sopra di quelle, nelle gambe manigli d'oro e d'argento molto grossi, e anelli nelle dita di piedi, e alle braccia paternostri grossi di corallo e d'oro e anche fatti d'oro filato, e al collo collanette strette d'oro e di gioie, e nell'orecchie molti pendenti in filetti, overo anella d'oro e d'argento, cosí grandi che per esse può entrar un ovo. Son donne che stan retirate, e quando escon delle lor case vanno molto coperte dei lor panni sopra le teste.
Gli altri son chiamati Bramini, che è l'altra sorte di Gentili, che son sacerdoti e persone che ministrano e governano l'idolatrie, e hanno gran chiese, delle quali alcune si mantengono con intrata e l'altre con limosine. Quivi hanno essi molti idoli di pietra, alcuni altri di legno e chi di mettallo: nelle quali case e monasteri fan sempre molte cerimonie a questi lor idoli, festeggiandoli molto con suoni e canti e molti luminari d'olio, e usano le campane alla foggia nostra. Hanno questi Bramini imagini che figurano la santa Trinità; onoran molto il numero trinario, fanno l'orazione loro a Iddio, il qual confessano vero Iddio creatore e fattore di tutte le cose, e che la sua deità è tre in una sola persona, e che oltre di questo vi sono molti altri Iddii che governano per lui, nei quali essi similmente credono. Questi tali, ovunche ritrovano delle nostre chiese, vi entrano volentieri e adorano le imagini nostre, e domandano sempre di santa Maria nostra Signora, come uomini che hanno di lei qualche notizia. Si convengono col modo nostro nell'onorar la chiesa, e dicono che fra loro e noi non è molta differenza. Vanno scoperti dalla cintura in su, e portano sopra una spalla un cordon di tre fili, al qual segno son conosciuti per Bramini. Sono uomini che similmente non mangiano cosa che riceva morte, né uccidono cosa alcuna; hanno per gran cerimonia il lavarsi i corpi loro, e dicono che con questo si salvano. Questi Bramini, e cosí parimente i Brancani, tolgono moglie all'usanza nostra, e ciascuno piglia una sola donna e una volta solamente. Fanno nelle nozze loro grandissime feste, che durano molti giorni, e in esse si congregano molte gente e molto ben vestite per onorarle; e per la maggior parte si maritano da piccioli, cosí donne come uomini. E il giorno delle nozze se ne stanno gli sposi sedendo sopra un letto, vestiti ricchissimamente e adornati di molte gioie e pietre preziose, e innanzi di loro è posta una mensa picciola, con un idolo coperto di fiori e molti lumi a olio accesi all'intorno. Quivi hanno da star amendui con gli occhi intenti verso quell'idolo dalla mattina fin alla sera al tardi, senza bere e mangiare, né pur parlare ad alcuno: sono in questo tempo festeggiati molto dai convitati con lor cantare, sonare e ballare, e tirano molte botte di artegliaria e molte altre sorti di fuochi artificiati in segno di festa. E se aviene che muoia il marito, non si marita mai piú la donna, e cosí fa il marito morendo la moglie. E i figliuoli son lor propi eredi, e i Bramini bisogna che siano nati di Bramini, fra' quali ci son di quei di piú bassa condizione che gli altri, che servono per messaggieri e viandanti; e vanno sicuri da tutte le bande senza che sia lor data noia alcuna, avvenga che sia guerra e vi sien ladri alla strada; chiamangli questi Pater.
Del re di Mori di Guzzarat, che è del regno di Cambaia.
Il re de Guzzarat è grandissimo signore, cosí di entrata come di genti e di paese ricco; è moro con tutti suoi, come si è detto, e ha con esso lui corte molto onorata e gran cavalleria. È signor di molti cavalli e buon numero di elefanti, che son condotti a vender quivi dal paese di Malabar e di Zeilam: e con questi cavalli ed elefanti fan guerra a' Gentili del regno di Guzzarat che non lo vogliono ubbidire, e ad alcuni altri regni co' quali sono alle volte in contesa d'arme. Fan sopra gli elefanti castella di legno, dove stanno quattro uomini che portano archi e schiopetti e altre armi, e quivi combattono co' nemici: e sono gli elefanti in questo esercito cosí ammaestrati, che sanno entrar nella guerra e co' denti ferire i cavalli e la gente, con ferocità tale che presto mettono in rotta qualunque battaglia; però son sí paurosi e dogliosi delle ferite che, tosto che ne ricevono, fuggono e si mettono in confusione fra loro, e similmente nelle proprie genti. Di questi animali ne ha il re in corte sua quattrocento o cinquecento, molto belli e di grande statura, che gli compra per prezzo di millecinquecento ducati l'uno ai porti di mare, dove i Malabari vengono a vendergli. E fan similmente gran guerra con i cavai, che nascon nel paese infiniti: e i Mori e Gentili di questo regno son destri cavalcanti, e cavalcano alla bastarda, e servonsi di sferze, portando fortissimi scudi in braccio, tutti rotondi, guarniti di seta, e porta ciascun due spade e una daga e il suo arco turchesco con bonissime freccie; e alcuni ve ne sono che portano mazze di acciaio, e molti di essi camicie di maglia e altri saii imbottiti di bambagio, e hanno i lor cavalli coperti con testiere di acciaio, e in questa guisa combattono bravamente e con molta leggierezza. E son sí adestrati nelle selle che a cavallo correndo giocano con certi bastoni, con i quali danno ad una palla, o simil altro giuoco; usano anco, come in Spagna, il giuoco delle canne.
Son questi Mori bianchi e di molte sorti, cosí turchi come mamalucchi, arabi, persiani, coracani, turcomanni, del regno di Deli, e altri nativi del medesimo paese. Quivi si uniscono insieme tutte queste genti, per esser paese molto ricco e abbondante, e sono benissimo pagati dal re e bene alloggiati. Vanno questi tali molto ben vestiti di ricchi panni d'oro e di seta e bambagio e ciambellotti, e tutti portano fazzuoli in capo e le lor vestimenta lunghe, cosí camicie moresche e braghesse, e borzacchini fino al ginocchio, di grossi e buoni cordovani lavorati con lacci d'oro nelle estremità, e le loro spade nelle cinture o nelle mani de' suoi paggi, ben guarnite d'oro e d'argento. Hanno le lor donne bianche e molto belle, similmente bene ornate di vestimenti, e possono pigliarne in matrimonio quante ne possono mantenere per onorar la setta macomettana: e cosí ve ne sono di quei che ne hanno chi tre, chi quattro e chi otto, e di tutte hanno figli e figlie. E questi Mori di Cambaia parlano molti linguaggi, come di Arabia, di Persia, di Turchia e Guzzuratte. Mangiano pane di formento e riso e carne d'ogni sorte, eccetto la porcina, per esser vetato dalla lor legge; sono uomini dati a' piaceri, e si dan buon tempo, consumano robba assai. Essi van sempre con le teste rase, e le donne con bei capegli; quando escon delle lor case vanno a cavallo e in carrette, e tanto coperte che niuno le può vedere. Son uomini gelosi molto, e possono quando vogliano repudiarle, pagando loro una certa quantità di danari che si promette quando si maritano con esso loro: ed elle repentendosi han la medesima libertà di repudio.
Questo re di Cambaia è di poco tempo nel reame, ed era chiamato il padre sultan Maumetto, del qual non voglio restar di scrivere quanto io intesi, cioè che costui fu creato nutrito da picciolo in veleno, temendo il padre che, per l'usanza che è in quel paese di uccidersi con questo inganno i re, a lui non avvenisse il caso. Questo re lo cominciò a mangiare in sí poca quantità che non gli potesse nuocere, e dopo pian piano lo andò accrescendo, in modo che dopo ne mangiava quantità grande; onde divenne cosí velenoso che, se una mosca se gli poneva sopra una mano, si gonfiava e cadeva incontanente morta, e molte donne con chi egli dormiva morivano tosto del suo veleno, il quale esso re non poteva lasciar di mangiare, perché non usandolo sarebbe incontanente morto, sí come vediamo per esperienza, se gl'Indiani lasciano di mangiare l'amfiam, muoiono presto. Cosí quei che mai cominciorono a mangiarne, quando lo mangiano muoiono di esso, e però cominciano a mangiarne da piccioli, in sí poca quantità che non può lor far male, per spazio di qualche tempo, e doppo vanno augumentando la quantità a poco a poco, fin che ha in esso fatto l'abito. Questo amfiam è freddo in quarto grado, e per esser cosí freddo uccide: e noi lo chiamamo oppio, il quale le donne indiane, quando si vogliono uccidere per alcun disonore avvenuto loro o disperazione, lo mangiano con oglio di susimani, e in questo modo muoiono dormendo senza sentir la morte.
Della città di Campanero.
Ha questo re nel regno suo molte città grandi, e principalmente la città di Campanero, dove egli fa di continuo la sua residenza con tutta la sua corte: la quale è in sito longo dal mare, è piana e fertile molto di tutte le sorti di vettovaglie, frumento, biada, miglio, riso, ceci e d'ogni sorte di legumi, di molte vacche, castrati, capre e molti frutti, e ha vicini luoghi da caccia, dove sono molti e diversi animali selvatici e caccie d'uccelli; e hanno cani e falconi e leonze domestice da cacciare in ogni sorte di salvaticine, e per suo spasso ha il re molti animali di molte sorti, che gli manda a pigliare e gli fa allevare. Questo re mandò una volta al re di Portogallo una garda, perché disse che aveva gran piacer di vederla.
Ardavat.
Nell'uscir di questa città ed entrando piú innanzi nel regno, si trova un'altra città chiamata Ardavat, maggior della città di Campanero, ed è ricca molto e fornita. In questa solean sempre far residenza gli altri re passati; e ha come l'altra di Campanero bellissime piazze, è circundata di buone mura, e son le case di pietra e calcina, coperte di tegole all'usanza nostra, e vi sono molti gran cortili e bagni, stagni di acqua dove abitano. Servonsi di cavalli e lor mule, camelli e carette. Hanno bellissime fiumane e grande abbondanza di pesci di acqua dolce; similmente hanno giardini copiosi di diversi frutti. E dentro nel regno sono molte città e castella, nelle quali tiene il re i suoi governatori e scotitori delle sue entrate, i quali se accade che errino, esso gli manda a chiamare, e doppo l'avergli uditi fa lor bere una tazza di veleno, del qual incontanente muoiono: e cosí gli gastiga, in modo che tutti lo temono oltre a modo.
Di Patenissi.
I luoghi che ha questo re nella costa del mare son questi. Primamente, nell'uscir del regno di Dulcinde per andar verso l'India, si trova un fiume, nella riva del quale è una gran città chiamata Patenissi, di buon porto di mare e molto ricco e di gran traffico. Quivi si lavorano molti panni di seta figurati di molti bei lavori, che si trasportano per tutta l'India, Malaca e Bengala; hanno queste genti ancora panni assai di bambagio. A questo porto arrivano molti gionchi, che son navili carichi di cochi e di zuccaro fatto di palma, ch'essi chiamano iagara; e di qui si portano in cambio adietro gran quantità di questi panni e bambagi, cavalli, grano e legumi, in che si guadagnano gran danaro. Il lor viaggio con le starie che fanno sono di quattro mesi.
Di Curati Mangalor.
Passato questa città e seguendo la costa del mare, si truova un altro luogo che ha similmente buon porto, e chiamasi Curati Mangalor, dove come nell'altra apportano molte navi di Malibar per cavalli, grano, panni e bambagi, e per legumi e altre mercanzie che sono in prezzo in India; ed essi vi portano cochi, iagara, che è il zucchero per far bevande, smeriglio, cera, cardamomo e ogni altra sorte di speziaria, nel qual traffico si fa grandissimo guadagno in poco tempo.
Del Diu.
Seguendo oltre il cammino di questa costa di mar, si fa una punta in fuori dell'acqua, e congiunti a essa è una picciola isola che ha un luogo molto grande e buono, che i Malabari lo chiamano Diuxa e i Mori del paese lo chiamano Diu. Ha questo luogo un bonissimo porto, ed è una grande scala e di molto traffico di mercanzia, lunga navigazione di Malabari e di Bengala, Goa, Dabul, Cheul; e quei di Diu navigan verso Adem, la Mecca, Zeilam, Barbora, Magadaxo, Brava, Mombaza, e per Ormuz e per tutto il suo regno. Portano i Malabari quivi cochi, iagara, che è zucchero, cera, smeriglio, ferro, zucchero di Bangala, e ogni sorte di speziaria che si possa aver in India e che venghi dalle Moluche. Vi è anco molta quantità di panni di bambagio di Dabul e Chaul, che essi chiamano bairames, e veli per donne, che di quivi li portano in Arabia e Persia, e dove caricano di ritorno panni paesani e di bambagio e di seta, cavalli, formenti, legumi, olio di susimani e susimani e amfiam, cosí di quel che viene in Adem come di quel che nasce nel regno di Cambaia, che non è sí fino come quel di Adem; e conducono molti ciambellotti communi e altri di seta, che si fanno in esso regno di Cambaia, e tapeti grossi, taffetà, panni di grana e d'altri colori. E le speziarie e l'altre cose dell'India portano quei del paese a vendere in Adem e in Ormuz, in tutte le parti d'Arabia e Persia, in modo che questo luogo è la maggior scala di traffico che sia in quelle parti. Rende di entrata sí gran somma di danari che è cosa di maraviglia, per il carico e scarico di cose tanto ricche, perché lí portano dalla Mecca gran quantità di coralli, rami, argento vivo, cinaprio, piombo, alume, rubia, acque rose e zafarani, e molto oro e argento, cosí battuto in monete come da battere.
In questo luogo tiene il re un governatore moro chiamato Melchias, uomo vecchio e buon gentiluomo, destro e prudente e di gran sapere, e che vive con grande ordine in tutte le sue cose. Fa far molta artegliaria e ha molti navili da remi ben ordinati, piccioli e agili molto, che li chiamano talaie o guardie. Ha fatto nel porto un belloardo fortissimo e bello, dove egli tiene gran copia d'artegliaria con molti bombardieri. Ha sempre con esso lui molti uomini d'arme, a' quali dà buona provisione: e stanno sempre bene armati, perché sta sempre sopra aviso, temendo grandemente il poter del re di Portogallo, e per questo fa molto onore e carezze a' Portogallesi che quivi arrivano. E la gente che ha in governo è ben corretta e governata, fa gran giustizia e tratta molto bene i naviganti forestieri, facendo lor molti piaceri.
In questo porto di Diu arrivò già una grande armata del gran soldano, di navi di gabbia e galee benissimo in ordine, con molta gente e ben armata, della quale era capitano Amirassem; e veniva per ripararsi in questo porto con l'aiuto di esso re di Cambaia e di questo governatore Melchias, con animo che ristorata che fosse dal lungo navigare, di andar alla volta di Calicut e quivi combatter co' Portoghesi, per gittargli fuor dell'India: nel qual porto stette gran tempo, faccendo molti apparecchi per quella guerra. Ma intesasi la cosa, l'armata di Portogallo la volse venir a ritrovare, della quale era capitan maggiore don Francesco d'Almedia viceré in India, e i Mori uscirno contra di essa in mare, e nella bocca del porto combatterono queste due armate con tanta ferocità, che d'ambe le parti moriron molte genti e molte ne rimasero ferite, e al fine furon vinti i Mori e presi con grande uccision loro, e furon le navi e le galee pigliate da' Portoghesi, con tutte l'arme e molti pezzi d'artegliaria grossa, e molti Mori furon presi, e salvossi Amirassem. La qual ruina e distruzione veduta da Melchias, dubitando per il favore dato di esser in mal conto appresso il viceré, incontanente gli mandò messaggieri per domandargli la pace, e mandogli molte vettovaglie da rifrescar i suoi, con altri presenti.
Di Cuogari.
Piú oltre nella detta costa, la qual dopo comincia a far una volta dentro di Cambaia, nella qual volta son molti porti di mare che ha il detto re, con molti luoghi di gran traffico, l'un dei quali è Cuogari, ch'è una città molto grande e di buon porto, dove sempre si caricano molte navi di mercatanti da Malabari e degli altri porti dell'India, e molte altre per la Mecca e Adem: e quivi si negozia d'ogni sorte di mercanzie, come in Diu.
Di Varvesi.
L'altro si chiama Varvesi, che è porto di mar similmente, nel qual parimente si traffica di qualunche sorte di mercanzia per tutte le parti: delle gabelle e dritti delle quali cava il re assai, che in ciascun di questi duo luoghi tiene egli le sue doane, e tutte sono fornite di buone vettovaglie.
Del fiume Guandari.
Piú innanzi è un altro luogo su la bocca di un picciol fiume, che si chiama Guandari, assai buona terra, e porto di mare del medesimo tratto, percioché dentro seguendo quel fiume sta la gran città di Cambaia. Quivi vengono molti zambuchi, che son navili piccioli del paese di Malabari, con areca, specierie, cera, zuccaro, cardamomo, smeriglio, avorio ed elefanti: e queste mercanzie si vendono quivi assai bene, e da questo luogo si trasporta bambagio filato, susimani, formento, ceci, cavalli e cavalle, e altre molte mercanzie. La navigazione di questi luoghi è pericolosa molto, e specialmente per le navi che pescano gran fondo, perciò che in questo colfo che fa la detta costa è tanto il discrescere, che in brevissimo spazio si discuopre il mare da 12 in 15 miglia, e in alcuni luoghi meno: e a coloro che quivi entrano convien pigliar nocchieri del paese, perché, quando il mare descresce, sappiano restare in pozzi che vi sono; e alle volte errano e rimangon sopra pietre, onde si perdono.
Della città di Cambaia.
Camminando lungo questo fiume di Guandari si trova la gran città di Cambaia, populatissima di Mori e di Gentili, la qual è molto grande, con bellissime case di pietra cotta e pietra viva, alte e ben fabricate, con le lor finestre, e coperte di tegole al modo di Spagna; le strade e piazze son larghe e spaziose. È posta detta città in un paese bello, fertile e abbondante d'ogni cosa che si possa desiderare al vivere umano, e di tutte le delizie; vi sono grandissimi mercatanti, cosí mori come gentili, e artigiani di tutte le arti e lavori sottili, secondo che si trovano in Fiandra, e del tutto ne fanno buon mercato. Qui si lavorano assai tele e panni di gotton bianchi, sottili e grossi, e di varie sorte tessuti e dipinti; similmente panni di seta di diversi colori e maniere, ciambellotti di seta, velluti alti e bassi d'ogni colore figurati, e rasi chermisini, taffettà e tapeti grossi. Gli abitanti naturali del paese son quasi bianchi, cosí uomini come donne. Quivi stanziano molti forestieri bianchi, che vanno ben vestiti e in ordine, dandosi a tutte le dilizie di sollazzi, piaceri e giuochi. Hanno per costume di lavarsi spesso. Tutti li lor cibi son buoni e delicati. Vanno sempre profumati e unti di cose odorifere, cosí le donne come gli uomini, e portano di continuo fiori, come di gelsomini e d'altre varie sorti odorati, che ivi nascono, posti fra li cappelli. Sonvi molti buoni musici, che suonano e cantano con varie sorte d'instrumenti. Adoperano in la città carrette tirate da buoi per diversi loro bisogni, e ancora con cavalli, ma queste sono coperte e serrate d'intorno, e hanno le lor fenestrelle a modo di camere, e dentro via sono fodrate di panni di seta, e alcune con corami dorati; hanno li stramazzi, coltre, cossini molto ricchi di seta, e similmente li carrettieri vestiti. In queste tal carrette di continuo si veggono andar uomini e donne sollazzandosi, e a veder giuochi e visitar loro amici dove vogliono senza esser veduti, e loro veggono ognuno come piace loro. Vanno anco cantando e sonando, con varii instrumenti che dilettano grandemente. Hanno molti giardini con arbori di varii e delicati frutti, e orti pieni di fiori che tutto l'anno si veggono, e d'infinite erbe da mangiare che seminano e allevano, massimamente per causa di Gentili che non mangiano carne né pesce: e in questi tal giardini si riducono a darsi buon tempo e transtullo.
In detta città si consuma molto avorio in opere sottili lavorate a disegno, come tarsie e altre opere di torno, in manichi di coltelli e spade, manigli, tavolieri da scacchi. Qui sono gran maestri di lavorare a torno, che fanno lettere ben lavorate, paternostri di molte sorti, negri, gialli, azurri, rossi, che son condotti poi per diverse parti. Sono anco gran gioiellieri, che conoscono le gioie buone e ne sanno far similmente di false d'ogni sorte, e delle perle che paiono naturali. Si trovano anche gran maestri orefici di far vasi d'argento e grandi e piccoli. Qui si fanno belissime coltre, tornaletti, cieli e padiglioni con disegni, e lavori sottilissimi e pitture, e vestimenti imbottiti in diverse e varie maniere; qui si acconciano coralli, corniole e ogni sorte di gioie, di pietre.
Del luogo detto Limadura.
Passata la città di Cambaia, andando piú fra terra, si truova un luogo detto Limadura, dove è la miniera delle corniole, delle quali si fanno li paternostri per Barbaria: questa è una pietra bianca come il latte, che ha anco del rosso, il qual col fuoco lo fanno piú colorito; ne cavano pezzi grandi, delli quali vi son gran maestri che li lavorano in diversi modi, cioè di lunghi, in otto faccie e di molte altre maniere e foggie; ne fanno anco anelli, bottoni e manichi di spade. Li mercatanti di Cambaia li vanno a comprare e l'infilzano per portarli a vendere nel mar Rosso, di donde sono poi condotti alle nostre parti per via del Cairo e Alessandria, e similmente le portano per tutta l'Arabia, Persia e per la Nubia; al presente le vanno a vendere in India, perché li Mori volentieri le comprano. Si trovano similmente in detto luogo molte pietre di calcedonia, la qual loro chiamano babayore, e di queste ne fanno paternostri e altre cose da portar sopra la persona, che li tocchi la carne, dicendo che è buona per conservarsi castità. Queste tal pietre sono ivi in poco prezio, per esserne grande abondanza.
Del luogo detto Ravel.
Tornando alla volta del mare, passato che si ha Guandari, sopra la costa andando avanti si trova un bel fiume, che da questa banda ha un luogo buono abitato da Mori, detto Ravel, con molti giardini, strade, piazze. È luogo molto dilettevole e ricco, perciò che questi tal Mori vanno con le lor navi trafficando in Malacha, Bengala, Ternasari, Pegu, Martabane e Samotra, dove levano tutte le sorti di specierie, droghe, sete, muschio, benzuí, porcellane e ciascuna altra mercanzia ricca. Hanno grandi e belle navi, di sorte che chi vuol avere d'ogni cosa, venendo qui le troverà piú copiosamente che in alcuna altra parte, e a buon mercato. Li Mori abitanti son bianchi, e vanno ben vestiti e riccamente, e le donne son molto belle. Nelle masserizie di lor case hanno molti vasi di porcellana fatti in diverse foggie, e li qual tengono sopra le scanzie posti tutti ad ordine. Le donne di costoro non stanno cosí rinchiuse come quelle delli luoghi di Mori detti di sopra, ma se ne vanno per la città faccendo ciò che lor piace, col volto scoperto, come si usa nelle nostre parti.
Della città di Cinati.
Passato il fiume detto Ravel, dall'altra banda è posta una città detta Cinati, sopra la riva del detto fiume, la quale è medesimamente di gran traffico d'ogni sorte di mercanzie. Quivi navigano di continuo molte navi di Malabari e di molte altre parti, dove discaricano e poi caricano le loro mercanzie, per esser questo un de' principali porti di mare, e sono in la città molti gran mercatanti, cosí mori come gentili e di ciascuna altra generazione di gente che di continuo vi abita. Costoro chiaman la dogana dinana, la qual soleva render molti danari al re di Guzzerati, ma al presente la signoreggia e governa Milagobin gentile, come padron di quella. Costui è fama esser un uomo privato il piú ricco di tutta l'India, e che per certe parole e ciancie che gli furon dette fece ammazzar il re di Guzzerati.
Debuy.
Passando il detto luogo di Cinati, avanti per la costa si trova un luogo chiamato Debuy, di Mori e Gentili, similmente di gran traffico di mercanzie, dove scaricano molte navi di Malabari e di altre diverse parti.
Vaxay.
Passando Debuy, lungo la costa avanti vi è un villaggio di Mori e Gentili chiamato Vaxay, con il suo porto di mare, che è pure del re di Guzzerati, nel qual si trovano molte mercanzie e vi sono gran numero di navi, che ivi vengono di tutte le parti, e molti zambuchi, navili del paese di Malabar, carichi di areca e cochi e di spezierie, delle qual gli abitanti si servono; e all'incontro levano quivi altre mercanzie che in Malabar si consumano.
Tana Mayambu.
Pur lungo la detta costa, andando avanti vi si trova una fortezza del detto re che si chiama Tana Mayambu, appresso della qual vi è un villaggio di Mori, molto dilettevole e ameno e con giardini bellissimi. Vi son molte moschee di Mori e case di orazione di Gentili, ed è posto questo villaggio quasi in capo del regno di Cambaia e quello di Guzzerati. Vi è similmente porto di mare, ma di poco traffico. Stanziano ivi alcuni corsali, che usano navili piccoli, come fregate, con le qual escono in mare, e se trovano qualche navilio piccolo che possa manco di loro, lo pigliano e rubbano e alle fiate gli ammazzano le genti.
Regno di Decam.
Uscendo del detto regno di Guzzerati e Cambaia verso l'India fra terra, vi è il regno di Decam, che gl'Indiani chiamano Decam. Il re è moro e gran parte del suo popolo son gentili, ed è gran re e tien molta gente, ed è un gran paese che si stende molto fra terra. Vi sono molto buoni porti di mare, di gran traffico di mercanzie che si consumano in terra ferma, e sono i luoghi seguenti.
Cheul.
Passato il regno di Cambaia, andando avanti lungo la costa vi è un bellissimo fiume, e appresso di quello un luogo detto Cheul, molto grande e con belle case, ma tutte però coperte di paglia. Quivi si fa un gran traffico di mercanzie, e nelli mesi di dicembre, gennaro, febraro e marzo vi si trovano molte navi del paese di Malabar e di molte altre parti cariche di mercanzie, cioè quelle di Malabar di cochi, che sono noci d'India, areca, spezierie, drogherie, zucchero di palma, smeriglio: le qual cose sono condotte dentro fra la terra ferma e per il paese di Cambaia, le navi del qual paese vengono qui a pigliarle, e portano tele sottili di bambagio e d'altre sorti panni e mercanzie che sanno esser in pregio grande in Malabar, e qui le barattano in le sopradette cose. E quelli di Malabar caricano le lor navi di ritorno di molto formento, legumi, miglio, riso, susimani e olio che è delli detti, che in quel paese ve n'è in abbondanza; comprano similmente detti Malabari molte pezze di beatillas per far fazzuoli da capo alle donne, e molti panni bairami, delli qual se ne trovano in quantità. In questo regno e in questo porto di Cheul si spaccia molto rame e a bonissimo prezio, e val il cantaro ducati XX e piú, perché dentro fra terra si batte di quello moneta per ispendere, e fansi caldiere per cucinare; si consuma similmente nel paese molto argento vivo e cinaprio, per mandar fra terra e per il regno di Guzerath, il qual rame e argento vivo e cinaprio vien portato lí dalli mercatanti di Malabari che l'hanno dalle fattorie di Portogallo, e altri che lo portano per la via della Mecha, che vien ivi dal Diu. Li panni bairami queste genti li portano cosí grezzi per alcuni giorni, dapoi li curano e fanno molto bianchi, dandoli la sua concia con gomma, per venderli: e per questo se ne trovano molti che son rotti.
In questo porto di Cheul vi sta per l'ordinario poca gente per abitar, salvo tre o quattro mesi dell'anno, al tempo del caricar, che vi si riducono li mercatanti delli paesi circunvicini per far le lor faccende, e dapoi se ne ritornano alle case loro, di maniera che questo luogo è come una fiera in questi mesi. Qui sta un Moro come signore che governa il tutto, ed è vasallo del re di Decam, e riscuote le sue entrate e gli rende conto di esse: chiamasi Pechieri, gran servitor del re di Portogallo e molto amico di noi altri Portoghesi, e fa gran carezze a tutti quelli che vi vengono, mantenendo il paese molto sicuro. In questo luogo di Cheul abita di continuo un fattore portoghese, posto per il capitano e fattor nostro di Goa, per mandar di qui vettovaglie e altre cose necessarie alla città di Goa e alle armate di Portogallo. E dentro fra terra, per il spazio di tre miglia da Cheul, vi è un altro luogo di Mori e Gentili, dove si riducono dalle città e luoghi lontani li mercatanti a far le lor botteghe di panni e mercanzie nelli mesi sopradetti, le qual cose conducono in gran carovane di buoi mansueti, che portano il basto come fanno gli asini: e gli caricano con certi sacchi lunghi buttati a traverso, e in questi son le mercanzie, e un conduttore ne averà da trenta in quaranta avanti di sé.
Danda, porto di mare.
Passato il detto luogo di Cheul, per la costa avanti verso Malabar, si trova un altro luogo e porto di mare, similmente del regno di Decam, che si chiama Danda, dove entrano ed escono molte navi de Mori e Gentili, cosí di Guzzerati come di Malabari, con panni e altre mercanzie, come ho detto di quello di Cheul.
Mardavad fiume.
Piú avanti vi è un fiume detto Mardavad, sopra le ripe del quale vi è un luogo di Mori e Gentili del regno di Decam, e dove sbocca vi è il porto di mare. Qui capitano molte navi da molte bande a comprar panni, e principalmente quelle del paese di Malabar, e portano noci d'India in gran quantità, areca, spezierie, e pigliano rame, argento vivo: e tutte queste tal sorti di mercanzie comprano li mercatanti che le portano fra terra.
Città di Dabul.
Passato il luogo di Mardavad, su per la costa avanti verso Malabar, vi è un altro fiume molto grande e bello, che alla bocca di esso si trova un luogo di Mori e Gentili, pur del detto regno di Decam, che si chiama Dabul; e sopra la bocca del fiume appresso il luogo vi è fabricato un bastion con artegliaria, per difender l'intrata del detto fiume. Quivi è un buon porto, dove vengono di continuo molte navi di Mori di molte parti, e specialmente dalla Mecca, Adem, Ormuz, con cavalli, e da Cambaia, Diu e del paese di Malabar: è luogo di gran traffico di ogni sorte mercanzia. Vi abitano molto onorati Mori, Gentili e Guzzeratti mercatanti; qui si vende molto rame, argento vivo e cinaprio, che vien poi portato dentro fra terra. In questa città capita gran quantità di panni del paese, che vengono condotti giú a seconda del fiume per dar carico alle navi, e anco molto formento e legumi d'ogni sorte. La dogana del detto porto rende gran somma di danari, li qual riscuoteno li doganieri delli dazii per il signor di questo luogo. Il qual è molto bello ed edificato in bel sito, ma le case son coperte di paglia; vi sono similmente di molto belle moschee. Andando all'insú per il fiume, si trovano molti villaggi posti sopra le ripe da una banda e dall'altra, che sono belli, abondanti e di gran fertilità, per esservi tutti i campi lavorati, con infinito bestiame di ogni sorte.
A questa città arrivò altre fiate un'armata del re di Portogallo della qual era capitano il viceré, il quale avendo posta la sua gente in terra per pigliarla, li Mori si misero alla diffesa, e combatterno molto gagliardamente da una parte e dall'altra: delli quali e de' Gentili ne furono uccisi molti. Alla fine li Portoghesi la presero per forza, dove fu fatto una gran destruzione in saccheggiarla e abbruciarla, e il fuoco consumò molta ricchezza di mercanzie e molte navi che si trovavano nel fiume. Quelli che scamparono tornarono dipoi ad abitarla, e ora si trova rifatta e popolata come da prima.
Cinguicar fiume.
Piú avanti di questo fiume su per la costa, se ne trova un altro detto Cinguicar, dove è un villaggio di gran traffico e faccende, per capitarvi molte navi di mercanzia da molte bande: il qual villaggio è de Mori e Gentili del regno di Decam.
Fiume di Betelle, dove si trova la foglia detta betella.
Drieto pur la detta costa vi è un altro fiume chiamato di Betelle, sopra le ripe del quale adentro son posti alcuni piccoli villaggi con bellissimi giardini e orti, nei quali si raccoglie tanta quantità di betella, che è una foglia molto estimata per masticare, che ne caricano navili piccoli e portanla a vendere ad altri luoghi e porti di mare. Questa foglia noi altri chiamamo folio indo: è cosí grande come la foglia del lauro e quasi della medesima fattezza, e nascendo fa come la edera, che monta sopra gli alberi, e anche vi metteno dei pali per far questo effetto; non fa frutto né semenza. Questa tal foglia ha virtú di confortare chi la tiene in bocca, e per questa causa tutti gl'Indiani, cosí uomini come donne, di giorno e di notte, in casa e di fuori, dove si voglia che sieno, la vanno sempre masticando in questo modo, che, fatta calcina di scorze di ostriche o cappe marine, e quella distemperata con acqua, bagnano la detta foglia, e vi aggiungono certi pomi piccoli detti areca, e tutta questa mescolanza tengono in bocca masticandola senza inghiottire se non il succo che vien fuori di queste tre cose, le qual fanno la bocca sempre rossa e li denti negri. Dicono che è buona ad essiccar le superfluità dello stomaco e nettar quello, conforta mirabilmente il cervello e il cuore, scaccia ogni ventosità e acquieta la sete, di maniera che fra gli Indiani non è cosa di maggior stimazione di questa, e gli effetti che si veggono ch'ella fa dimostrano che quanto è detto sia la verità. Da questo luogo in su per tutta l'India si trova gran quantità di detta betella, ed è una delle principali entrate che abbiano li re di questi paesi. Li Mori arabi e persiani la chiamano tambul.
E passato questo fiume di Betelle, su per la costa avanti si trovano altri luoghi piccoli e porti di mare, che son similmente del regno di Decam, ove entrano navili piccoli di Malabar, a caricar una sorte di riso basso e legumi che ivi si trovano. E uno di detti porti si chiama Arapatam, l'altro Munacem.
Banda.
Passati li detti luoghi, per la costa avanti vi è un fiume, sopra il qual vi è un villaggio che chiaman Banda, di Mori e Gentili e molti mercatanti, che trafficano dentro fra terra con le mercanzie che ivi conducono li Malabari. E capitano a questo porto molte navi di diverse bande, per esser buon porto, e si trovano diverse sorti di mercanzie e di vettovaglie che son condotte quivi del paese fra terra, e si caricano molte navi di riso e d'un miglio grosso e altri legumi, che appresso di loro si spacciano con gran guadagno; e all'incontro portano qui delle cochi, cioè noci d'India, pepe e altre spezierie e drogherie, che quivi si vendono bene, perché di qui vengono poi condotte per il Diu, Adem e Ormuz.
Passato che si ha questo villaggio, vi è un altro fiume che si chiama Bardes, dove si trovano alcuni altri luoghi, ma di poche faccende.
La città di Goa.
Passati li detti villaggi, per la costa avanti verso il paese di Malabar vi corre un bel fiume, che mette in mare con due bocche, tra le quali si fa un'isola dove è posta la città di Goa, la qual fu del regno di Decam, ed era separata da quello, e con alcuni villaggi vicini fu donata ad un vasallo gran maestro chiamato il Sabaio, che fu valoroso cavaliero, per aversi dimostrato sempre di gran core e sollecito nelle cose della guerra. Gli fu data questa signoria di Goa accioché con quella facesse guerra al re di Narsingha, come sempre la fece sin che morse, la qual dipoi restò a Zabin del Can suo figliuolo. Era abitata detta città da molti Mori onorevoli e da forestieri, uomini bianchi e ricchissimi mercatanti, de' quali ve n'erano di buoni cavalieri, e il simile di molti Gentili gran mercatanti e da altri artigiani. Quivi era un gran traffico di mercanzie, per il buon porto che aveva, e vi capitavano molte navi della Mecca, Adem, Ormuz, Cambaia e del paese di Malabari. Il prefato Idalcan teneva qui la sua corte con li suoi capitani e gente d'arme, e alcuno non poteva entrar né uscir di detta isola e città, cosí per mar come per terra, senza sua licenza, conciosiacosaché ciascun che vi giungeva era astretto a darsi in nota, con li segnali che egli aveva, e di che luogo egli era, e cosí col medesimo ordine e governo lo lasciavano partire.
È detta città molto grande, con buone case e grandi e belle strade e piazze, murata d'intorno con le sue torri e fattavi una buona fortezza. Fuori di detta città vi erano molti orti e giardini, copiosi e pieni d'infiniti arbori fruttiferi, con molti stagni di acque; eranvi molte moschee e case d'orazioni di Gentili. Il paese d'intorno è molto fertile e ben lavorato. Di questo Idalcan ne cavava grandissima entrata, cosí delle cose del paese come di quelle che venivano per mare. Il qual, poi che seppe che 'l vice re di Portogallo aveva sbarattato li Turchi e l'armata del soldano dinanzi al Diu, chiamati a sé subito alcuni cavalieri turchi e altra gente del soldano, che ivi erano fuggiti e avevan lassato il lor capitano nel regno di Guzzerati, li ricevette graziosamente e promise di farli avere tutta l'India in loro soccorso, e ritornarli a metter ad ordine per far la guerra di novo alli Portoghesi, con l'aiuto di tutti li Mori e re dell'India. E immediate fu trovata gran quantità di danari, e cominciarono a far in Goa grandissime navi, galee e bergantini alla foggia delle nostre, buttando di continuo molta arteglieria di rame e di ferro e mettendo insieme polvere, ballotte e altre munizion necessarie per una armata: e a questa impresa li Mori vi misero tanta sollecitudine e pressa, che avevano già gran parte dell'armata fatta e li magazzeni pieni del tutto, e cominciarono ad uscir fuori con bergantini e fuste a pigliar li zambuchi che di là passavano con salvocondotto dalli Portoghesi. Il signor Alfonso di Alburquerque, che era capitan maggior, come fu avisato di questi preparamenti, deliberò di andarli a ritrovare e romper li loro disegni, e messa insieme un'armata di quante caravelle, navi e galee ch'egli poté avere, entrò nel fiume e combattette la città e presela per forza: nella qual impresa seguirono molte cose grandi e notabili, le qual non scrivo per non esser prolisso. Prese molte genti e tutte le navi e galee di Turchi, e alcune n'abbruciò, e mise la città sotto l'imperio del re di Portogallo, come al presente ella si ritrova, fortificandola con molti bastioni. Questa città è ora abitata da molti Portoghesi, Mori e Gentili, e li frutti del paese, con le vettovaglie che in quello nascono, danno d'intrata al re di Portogallo ventimila ducati, senza quello che si cava della dogana di mare, per esser quivi un gran traffico di mercanzie che son condotte di Malabar, Cheul, Dabul, Cambaia e Diu. Si vendono qui molti cavalli a ducento, trecento e quattrocento ducati l'uno, secondo la lor bontà. Cavane il re di Portogallo di dretti quarantamila ducati: ancor che ora paghino manco di quello facevano in tempo di Mori, nondimeno gli rende molto il detto porto.
In questo regno di Decam vi si trovano molte città grandi, e molti luoghi e villaggi dentro fra terra abitati da Mori e Gentili. È paese molto fruttifero e abbondante di vettovaglie e di gran traffico, e ne cava grande entrata il re, che si chiama Maharmuduxa, il quale è moro e vive molto deliziosamente e a' suoi piaceri in una gran città fra terra detta Mavider. Ha tutto il suo regno diviso e partito in tre signori mori, e ciascun di loro posseggono delle città con li castelli e villaggi: e questi son quelli che governano e comandano, di sorte che 'l re non ordina né s'impaccia in alcuna cosa, se non di attendere a darsi buon tempo e piacere, e tutti gli danno obedienza, portandogli le sue intrate che sono obligati di pagarli. E se alcun si solleva overo non lo obedisce, gli altri li vanno contra e lo destruggono, overo fanno tornar di novo a sottomettersi alla obedienza del re. Accade alle fiate che fra loro nascono delle differenze e si tolgono gli stati l'un l'altro: allora il re s'intromette, faccendoli far pace e ministrando giustizia tra loro. Ciascuno di questi tali signori tien molta gente a cavallo, che usano archi turcheschi e sanno ben tirare. Ivi son gli uomini bianchi e di bella statura; portano tocche, cioè fazzuoli ravolti atorno il capo. Gli danno gran soldo; parlano la lingua araba, persiana e quella di Decan, ch'è la natural del paese. Questi signori hanno tende fatte di panno di gotton, nelle quali abitano andando per cammino in guerra. Cavalcano alla bastarda e combattono tutti in sella; portano in mano alcune lancie lunghe e leggieri, col ferro quadrato lungo tre palmi, molto forti. Vanno vestiti con certi sagi imbottiti di gotton, che chiamano landes; altri li portano di maglia, e li cavalli imbardati. Altri hanno un'azza e mazza di ferro, e due spade, una targa e un arco turchesco con molte freccie, di modo che ciascuno porta seco arme offensive per due persone. Molti di questi tali conducono seco le lor mogli alla guerra; e si servono de buoi per le some, sopra de' quali portano le lor bagaglie per cammino. Tengono spesso guerra col re di Narsinga, di sorte che poco stanno in pace. Li Gentili del regno di Decan sono negri, ben disposti e valenti. Combattono il forzo di loro a piedi e gli altri a cavallo; portano spada, targa e arco e freccie, son buoni arcieri: li lor archi son lunghi, al modo che son fatti quei degl'Inglesi. Vanno ignudi dalla cintura in su; sopra 'l capo portano fazzuoli piccoli ravolti. Mangiano di ciascuna vivanda, eccetto che di vacca. Sono idolatri. Quando muoiono abbruciano i corpi, e le lor moglie s'abbrucian vive sopra d'essi volontariamente, come nel progresso dello scriver nostro si dirà.
Cintacola.
Per la costa avanti verso Malabar si trova un altro fiume, dimandato Aliga, il quale parte il regno di Decan con quel di Narsinga; alla bocca del fiume sopra uno scoglio v'è fatta una fortezza che si dimanda Cintacola, la qual è del Sabayo, per difension del paese, nella qual tiene di continuo gente da guerra a piè e a cavallo. E qui finisce il regno di Decan dalla parte di mezzogiorno, e dalla parte di tramontana finisce in Cheul: e da un luogo all'altro lungo la costa sono da ducentoquaranta miglia.
Principio del regno di Narsinga.
Dal sopra detto luogo per avanti comincia il regno di Narsinga, nel qual sono cinque provincie molto grandi, che hanno lingue diverse: e una di queste provincie è per lunghezza della costa, la qual si dimanda Tulimar; l'altra Tien Lique che si divide col regno d'Oriza; l'altra è quella detta Canarin, nella quale è posta la gran città di Bisinagar; l'altra è Coromendel, del regno che essi dimandano Tamul, e questo è sotto il regno di Narsinga, che è molto ricco e abondante di vettovaglie, e pieno di città e di luoghi abitati, e tutto il paese è grasso e molto accommodato di ciò che fa bisogno. La provincia di Tulimar ha molti fiumi e porti di mare, nei quali si fanno gran traffichi e d'onde si naviga per diverse parti, e vi stanziano molti ricchi mercatanti. E tra gli altri v'è un fiume grande chiamato Mergeo, di onde si cava gran quantità di riso basso che compra la povera gente: e li Malabari lo vengono quivi a pigliar con li lor navili, detti zambuchi, a baratto di noci d'India e d'olio e iagra, ch'è zucchero fatto di dette noci, che in questo paese molto si consuma.
Honor.
Passato il detto fiume Mergeo, andando per la costa avanti si trova un altro fiume con un buon luogo appresso il mare, detto Honor (e li Malabari lo chiamano Ponaran), al qual molti concorrono a caricare di questo riso basso e negro che è il lor proprio cibo, e vi portano noci d'India, olio, zucchero e vino di palme, dico di quelle che producono li cochi, cioè noci d'India.
Battecala.
Avanti per la detta costa verso il mezzodí v'è un fiumicello con un luogo grande detto Battecala, dove si trafficano molte mercanzie, popolato da molti Mori e Gentili, gran mercatanti. A questo porto concorrono molte navi d'Ormuz a caricar riso bianco, molto buono, e zucchero fatto in polvere, che in questo paese non lo sanno fare in pani, e val CCXL maravedis la arrova, la qual viene a esser lib. 25 di peso grosso di Venezia, per prezio di duoi terzi di ducato d'oro in circa; caricano similmente molto ferro, e di queste tre sorti di mercanzie fanno 'l forzo del lor carico, e similmente alcune spezierie e drogherie che son portate ivi dalli Malabari. Qui si trovano molti mirabolani di tutte le sorti e molto buoni, delli quali ne fanno assai in conserva per portar in Arabia e Persia. Le dette navi d'Ormuz che qui contrattano solevano condurre a questo porto molti cavalli e perle, che si mandavano per tutto 'l regno di Narsinga; al presente li conducono tutti alla città di Goa, per causa de' Portoghesi. Caricavano similmente ivi alcune navi per Adem, arisicandosi, ancora che sia proibito dalli detti Portoghesi. E concorrevano a questo porto molte navi e zambuchi di Malabari a caricar pur il detto riso, zucchero e ferro, portando ivi noci d'India, zucchero di palma, e olio e vino di palma: e negl'invogli e sacchi di queste cose v'erano speziarie e drogherie nascose, robbe proibite dalli Portoghesi sotto gran pene. Dà grande entrata questo luogo al re, il governator del quale è gentile, detto Damaquete, molto ricco di danari e gioie.
Il re di Narsinga ha dato questo luogo insieme con un altro a un suo nepote, che lo signoreggia e governa, e sta con grande riputazione e fassi chiamar re: nondimeno sta ad ubbidienza del re suo zio. In questo regno costumano molto lo sfidarsi a combattere, e per ogni minima cosa che accade tra loro: e subito il re dà lor il campo, l'armi, e assegna 'l tempo, e anco gli dà i padrini, che favorisca ciascuno 'l suo campione. Vanno a combattere senza armatura: solamente dalla cintura in su sono coperti d'una vesta stretta, e di panni di gotton molto stretti e molto avolti intorno il petto e le spalle; le loro armi sono spada e targa d'una medesima misura, che gli dà il re. E con grande allegrezza entrano in campo, che è serrato, avendo prima fatte le loro orazioni, e cominciano a menar con gran destrezza i colpi, ma non di punta, perché è proibito. Dura questo lor combattere sin tanto ch'un di loro o tutti duoi rimanghino morti, in presenzia del re e di tutto il popolo, che mai alcun non ha ardimento di parlare, eccetto i padrini, che di continuo li vanno innanimando.
Questo luogo di Battecala paga ogni anno tributo al re di Portogallo. Vendesi qui similmente molto rame, che vien condotto nel paese fra terra, per batter moneta e far caldiere e altri vasi per lor bisogni. Si vende anco molto argento vivo, cinaprio, coralli, lume di rocca, avorio. È posto questo luogo in un paese piano molto popolato, e ha d'intorno infiniti orti e giardini con frutti eccellenti e buone acque. Corrono ivi alcune monete d'oro che chiamano pardai, che vagliono trecentovinti maravedis, e una altra d'argento che chiamano dama, che val vinti maravedis. Li pesi chiaman bahares, e un bahar è quattro cantara di Portogallo.
Mayandur.
Passata Battecala, verso il mezzogiorno v'è un altro fiume piccolo dove è un luogo detto Mayandur, della giurisdizion di Battecala, nel qual si raccoglie gran quantità di riso, che è molto buono, ed è quello che si carica in Batteccala. Lo seminano gli abitanti di questo luogo in certe valli paludose, e l'arano con buoi e buffali a duoi a duoi, col lor versoro al modo nostro. Pongono il seme del riso in un ferro ch'è fatto concavo, acconcio sopra l'orecchie de' buoi, che andando arando, il seme cade in terra avanti che 'l solco sia rotto, perché d'altra maniera né anco a mano lo potriano seminare, rispetto all'acqua che di subito risorge. Ciascuno raccoglie frutto di questa terra paludosa due volte l'anno, e di questo riso ne sono quattro sorti: il primo lo chiamano giracalli, ch'è il migliore; il secondo iambucal; il terzo canacar; il quarto pacharil; e ciascuno ha il suo prezio, e si trova gran differenza tra l'uno e l'altro.
Bacanor e Brazzalor.
Stanno sopra la costa piú avanti verso mezogiorno dui fiumi, e sopra quelli duoi luoghi, l'uno de' quali è detto Bacanor e l'altro Brazzalor, tutti dui soggetti al detto regno di Narsinga, nelli quali si trova gran quantità di riso molto buono: e di lí si carica per tutte le parti, e vi concorrono molte navi di Malabar e zambuchi grandi e piccoli, e lo caricano in sacchi che tengono l'uno una hanega, che sono dieci quartaruoli e mezzo veneziani, e vagliono da centocinquanta in ducento maravedis, che fanno sei marcelli d'argento, secondo la bontà. Qui capitano similmente navi d'Ormuz, Adem, Pecher e di molti altri luoghi a caricare per Cananor e Calicut, e ne pigliano a baratto di rame e di iagra e olio di noci d'India; e li Malabari non vivono quasi d'altra cosa che di riso. E ancor che 'l suo paese sia piccolo, è tanto però popolato e in tanto numero di gente che si potria dire esser una città sola, la qual duri dal monte di Dely fino a Coulan.
Mangalor.
Passati li detti duoi luoghi, si trova un fiume grande molto bello, che sbocca in mare appresso la costa verso mezzodí. Quivi è un luogo molto grande popolato di Mori e Gentili del detto regno di Narsinga, detto Mangalor, dove si caricano molte navi di riso negro, che è miglior e piú sano che non è il bianco, per vendere nel paese di Malabar alla gente bassa: e se n'ha buon mercato. Se ne carica similmente di detto riso in molte navi di Mori per Adem, e anco del pepe comincia a produrne il paese di qui avanti, ma poco e miglior di tutto l'altro, dico di quello che portano ivi li Malabari in barche piccole. Detto fiume è molto ameno e bello, e pieno di boschi di palmiere di cochi, e molto abitato da Gentili e Mori, con belli edifici e molte case d'orazion di Gentili, molto grandi, ricchi e ch'hanno grande entrata; vi sono anche molte moschee, dove onorano il lor Macometto.
Cumbala.
Dietro la costa verso il mezzogiorno v'è un altro luogo di Gentili del detto regno di Narsinga, detto Cumbala, nel qual si raccoglie gran quantità di riso negro, ma questo è tristo, il qual li Malabari nondimeno lo vanno a comprar per vender alle genti basse che sono tra loro, e anco per portar all'isole di Machaldiu, che sono al traverso della costa di Maldivar. E per esser a buon mercato, lo vendono ai poveri, a baratto d'un filato del qual fanno sartie per le navi, e si piglia d'una coperta overo teletta che si trova sopra le noci d'India di queste palmiere: e per farsene ivi in grandissima quantità, è una mercanzia che si conduce per tutte quelle parti. Questo luogo di Cumbala lo governa un signor a nome del re di Narsinga, il qual è sopra le frontiere di Cananor, che quivi si finisce il regno di Narsinga, andando dietro alla costa di questa provincia di Tulimar.
D'una montagna grande che divide il regno di Narsinga dalli Malabari.
Lassando la costa del mare, entrando dentro fra terra nel detto regno di Narsinga da quaranta in quarantacinque miglia, si trova una montagna molto alta e aspera da montare, che traversa dal principio del detto regno e va sin al capo di Cumeri, e separa la terra di Malabar dalla provincia di Tulimar, che è posta nella pianura che è fra detta montagna e il mare. E dicono gl'Indiani avere nelle lor memorie che già tempo assai soleva esser il mare ch'arrivava sin alla detta montagna, e che in processo di tempo il mare la scoperse e si tirò in altre parti. Alli piedi di detta montagna si veggono molti segni di cose marine, e tutta questa pianura è uguale come 'l mare, e la montagna è molto aspera e difficile, che pare che vada sin al cielo, e non vi si può montare se non per alcune parti e con difficultà, che è causa di gran fortezza alli Malabari, conciosiacosaché, se non vi fosse questa difficultà d'entrar nel lor paese, già il re di Narsinga gli averia soggiogati. Questa montagna in alcune parti è abitata da molte buone ville e luoghi ameni e dilettevoli, con fontane e giardini d'ogni sorte di frutti. Vi si trovano ancor in essa molti porci cinghiari e grandi, cervi, lonze, leoni, pardi, tigri, orsi, e alcuni animali di color cinerizio ch'hanno forma di cavalli, tanto destri che non si possono pigliare; serpe con ali molto velenose, che volano, delle quali è fama che col fiato e la guardatura ammazzano quei che vi si pongono troppo appresso, e vanno volando d'arbore in arbore. Vi sono molti elefanti selvatichi, e molte pietre di gegonzas, ametisti, safili bianchi, che raccolgono nei fiumi che descendono d'alcune rotture della montagna, e le portano a vendere nei luoghi di Malabari dove le sanno acconciare.
Passata questa montagna, il paese è quasi tutto piano e molto fertile e abbondante; e andando fra terra di detto regno vi si trovano molte città, luoghi e fortezze. E corrono per quella molti fiumi grandissimi, e il paese è tutto lavorato e seminato di risi e d'ogni sorte di legumi, de' quali si mantengono per la maggior parte. Vi sono molte vacche, buffali, porci, capre, pecore, molti asini, ronzini molti piccoli, de' quali se ne servono per portar le lor robbe, e il medesimo fanno de' buffali, buoi e asini, e con essi anco lavorano la terra. Son quasi tutte le ville di Gentili, e tra loro si trova pur qualche Moro. Alcuni di signori di queste ville le riconoscano dal re di Narsinga che gliene ha date, e altre sono di patroni particolari, i quali vi tengono i lor governatori ed exattori delle lor entrate.
La gran città di Besinagar.
A cento e sessanta miglia lontano da la detta montagna, andando fra terra, è posta la gran città di Besinagar, molto popolata e abitata; è circondata da una parte di buona muraglia, e dall'altra da un fiume, e dalla terza da un monte. È situata in pianura, e in quella sempre vi fa residenzia il re di Narsinga, che è gentile e chiamasi Rasena: ha molto grandi e belli palazzi con molti cortili e loggie, con stagni e fontane d'acqua, giardini d'arbori fruttiferi, fiori ed erbe odorate. Trovansi similmente in detta città molti altri palazzi di signori che vi stanziano, li quali sono coperti di tegole; ma le case del popolo minuto sono coperte di paglia. Ha le strade larghe e spaziose, con gran piazze dove si trovano di continuo infinite persone d'ogni nazione e legge, perché oltre molti mercatanti e trafficanti, mori, gentili, nativi del paese, vi concorrono d'ogni sorte di persone e di tutte le parti, perché vi possono venir ad abitar e mercantare molto liberamente e sicuramente, senza temer ch'alcuno dia loro noia, o domandi conto di dove siano o in che legge vivono allora: e ciascuno può vivere in che legge gli piace, o sia cristiano o moro o gentile. È in questa città un traffico infinito di mercanzie, e si fa a ciascuno una grandissima giustizia, e maneggiano il tutto con realtà e verità. Si trovano quivi infinite gioie, che si portano da Pego e da Zeilan, e ancora molti diamanti, per esservi in questo regno di Narsinga la minera, e similmente nel regno di Decan ve n'è un'altra; si trovano anco molte perle grosse e minute, portate sin da Ormuz e da Cael: e tutte queste gioie e perle son fra costoro molto stimate, perché con esse s'adornano la persona, e per questa causa ve ne concorre in tanta copia. Si consumano in questa città molti panni di seta e broccati bassi, che sono portati dalla China e da Alessandria, e molti panni di scarlatti, di grana e d'altri colori, e molti coralli lavorati in paternostri rotondi, rami, argenti vivi, cinaprio, amfian (che è opio), acque rosate, sandalo, legno d'aloe, canfora, muschio, perché costumano molto li naturali del paese d'ungersi con questi odori. Similmente si consuma ivi e per tutto il regno gran quantità di pepe, che portano sopra i buoi e gli asini del paese di Malabar. La moneta è d'oro, che chiamano pardaos, che vale trecento maravedis, la qual si lavora in certe città del detto regno di Narsinga: e in tutta l'India si servono di questa moneta, che corre in tutti quei regni. L'oro è un poco basso, è di forma rotonda fatta a stampa, e alcune delle dette hanno da una banda lettere indiane e dall'altra due figure, cioè di uomo e di donna; l'altre non hanno se non da una parte le lettere.
Costumi del regno di Narsinga e degli abitanti del paese.
Il detto re, come abbiamo detto, dimora di continuo nei palazzi e poche volte esce fuori; vive molto delicatamente e senza alcuno fastidio, perché tutto il peso si scarica sopra li governatori. Esso e tutti gli abitatori sono gentili. Sono uomini berrettini e quasi bianchi, con i capei distesi negrissimi; sono del corpo ben disposti e delle nostre medesime fattezze e fisionomie, e il medesimo son le donne. Il modo del vestire degli uomini è, dalla cintura in giú, di molti rivolgimenti di panni ben assettati e stretti, poi una camicia curta che agiugne sin a mezzo delle coscie, di panno bianco di gottoni o di seta o di broccatello, aperta dalla parte dinanzi, e alcuni fazzuoli piccoli avolti al capo, e li capelli raccolti in cima, e alcuni con berrette di seta o di broccato; le loro scarpe in piedi senza calze, e una cappa di gottone o di seta listata, e la persona tutta profumata con acqua rosa; li paggi portano le loro spade. Si lavano ogni giorno e dipoi s'ungono con cose odorifere, cioè sandali bianchi, legno aloe, canfora, muschio, zaffarano, tutto macinato con acqua rosata. Portano certi collari stretti al collo, tutti d'oro e pieni di gioie, e nelle braccia manigli, e anelli nelle dita di gioie ricchissimi, e similmente orecchini di gioie e perle. Hanno un altro paggio che porta lor un cappello sottile con un piede alto, che gli fa ombra e guarda dalla pioggia, i quali cappelli sono di panno di seta, molto ben lavorati, con li suoi fiocchi d'oro e alcuni di gioie e con perle, fatti di tal maniera che si serrano e s'aprono: vi sono di quelli che costano da trecento in quattrocento ducati, secondo le qualità delle persone.
Le donne portano un panno di gotton lavorato, molto bianco e sottile, o vero di seta di bellissimi colori, che è sei braccia di lunghezza, e cingonsi con una gran parte di tal panno dalla cinta in giú, e con l'altra se lo buttano sopra una spalla e il petto, e resta un braccio e una spalla scoperta. Le loro scarpe sono di cuoio molto sottilmente lavorate e indorate; la testa scoperta, solamente li capelli sono pettinati e fatti in una treccia in cima della testa, e posti in quella molti fiori e odori. Hanno un fil d'oro in uno dei buchi del naso, con un pendente d'una perla o d'un rubino sbucato o vero safil; l'orecchie similmente con molti pendenti d'oro, con gioie e perle, e al collo un collaretto tutto gioiellato, e nelle braccia lavori della medesima sorte d'oro, con paternostri di corallo rotondo e molto fino ravolto galantemente; anelli nelle dita di gioie preziose, e sopra li panni vanno con cinture fatte d'oro e di gioie, e paternostri d'oro anco atorno le gambe, di sorte che per la maggior parte queste tali genti vanno vestite molto riccamente e in ordine. Sanno benissimo danzare, cantare, sonare di vari strumenti; sono ammaestrate a volteggiare e far molte leggiadrie. Sono belle e di bella apparenza, e si maritano al modo nostro e hanno ordini di matrimonio; nondimeno gli uomini grandi si maritano con quante ne possono mantenere. Il re ne tiene seco nel suo palazzo molte che sono figliuole di gran signori del suo regno, e oltre a queste molte altre come donzelle, e altre che sono servitrici, elette per tutto il regno per le piú belle. A ciascuno servizio del re sono deputate donne, che stanno di continuo dentro le porte del palazzo e hanno tra loro compartiti gli offici della casa, nella quale sono a ciascuna deputate le loro stanzie, dove abitano e vivono. Sanno cantare e sonare eccellentemente, e non pensano mai ad altro che a dar piacere al re. Si lavano ogni giorno in alcuni stagni d'acqua chiarissima fatti a posta, dove ella entra ed esce: e il re le va a veder lavare, e quella che piú gli piace la fa andare alla sua camera, e il primo figliuolo che egli ha, di quale si sia, è erede del regno. È tra loro tanta l'invidia sopra la competenzia d'esser la prima che il re elegge, che alle volte per dolore si ammazzano loro medesime col tossico.
Ha questo re anco una casa grande, che si tocca con quella delli governatori e officiali, dove va a consigliar le cose del regno, e in quella lo vanno a veder tutti i grandi del regno, ai quali dà gran doni e concede grazie, e similmente dà gran castighi a chi li merita. Fa patir gran penitenza a quelli del suo lignaggio, quando fanno cosa mal fatta contra il suo servizio, mandandoli a chiamare, i quali subito hanno da venir, portati in una lectica molto ricca sopra le spalle d'uomini: e li cavalli sono menati a mano davanti loro, e molte genti a cavallo l'accompagnano. E dismontati alla porta del palazzo, si fermano sonando trombe e altri stromenti, sin che lo vanno a dire al re, il qual gli fa venire avanti di lui e, se non dà buona ragione in sua difesa del mal che viene accusato, ordina subito che sia spogliato e disteso in terra e datoli molte battiture. E se tal persona è stretto suo parente e gran signore, il re medesimo lo batte di sua mano, e dapoi che l'ha ben battuto, ordina che della sua guardarobba gli sian date molte ricche vesti, e lo fa tornar in lectica molto onoratamente con molti suoni e feste alla sua casa: e quasi sempre delle lettiche di questi tali se ne trovano avanti alla porta del palazzo.
Tien di continuo questo re da novecento elefanti e piú di ventimila cavalli, tutti comprati di suoi danari: e gli elefanti costano da 1500 in 2000 ducati l'uno, perché son molto grandi e belli, e li tiene per causa della guerra, e anco per riputazione, quasi sempre nella sua corte; li cavalli costano da trecento fin a seicento ducati l'uno, e alcuni eletti per la sua persona da novecento fin a mille ducati, e sono distribuiti parte a gran signori, de' quali sono obligati a renderne conto, e parte dati a gentiluomini e cavalieri pur d'ordine del re, ai quali fa consegnare un cavallo, un ragazzo e una schiava, e quattrocento o cinquecento pardai d'oro in dono, secondo le qualità loro, e di piú il viver ogni giorno pel cavallo e pel ragazzo, il qual manda a pigliar alla cucina del re, delle quali ve ne sono di molto grandi deputate a far il vivere per gli elefanti e cavalli, con caldiere grandissime di rame e con molti ministri, che di continuo cuocono risi, ceci e altri legumi, nel che vi metteno non piccolo artificio e industria. E se il cavalier a chi è stato consegnato il cavallo lo governa e tratta bene, glielo tolgono dandogliene un migliore, e se lo tratta male e che lo rovini, glielo levano e dannogliene un peggiore. E a questo modo tutti gli elefanti e cavalli sono molto ben governati e mantenuti a sue spese; li signori e uomini grandi, ai quali il re fa dar gran quantità di cavalli, fanno il medesimo con li lor cavalieri. Vivono poco tempo questi cavalli, e non nascano in questo paese, ma tutti vengono condotti dai regni d'Ormuz e di Cambaia. Per la gran necessità che hanno di quelli nella guerra, vagliono tanti danari, perché il detto re tien a suo soldo piú di centomila persone fra cavallo e a piedi, e paga anco da 5 in 6 mila donne: e in qualunque luogo che si faccia guerra e che vi vada la gente d'arme, vi vanno le dette donne, perché dicono che non si può metter insieme un esercito e far buona guerra se non vi sono l'innamorate, le qual son grandi ballarine, e suonano e cantano e volteggiano con gran galanteria e leggiadria. E ogni volta che li ministri o vero officiali del re vogliono pigliar al soldo di quello alcuna persona, questi tali lo spogliano e monstrano quanti segnali tiene nella sua persona, e lo misurano quanto è lungo di corpo, dimandandolo di che luogo è e come si chiama suo padre e madre: e tutte queste particolarità si notano sopra i libri del soldo. E poi con difficultà, volendosi partir, può impetrar licenza di tornarsene a casa, e se per ventura si parte e venghi preso, incorre in grandissimo pericolo ed è mal trattato. Tra questi uomini d'arme vi sono molti cavalieri che di diverse parti concorrono quivi a pigliar soldo, e nondimeno non restano di non vivere nella lor legge.
Di tre sorti di Gentili e di lor costumi.
In questo regno vi sono tre sorti di Gentili, diverse l'una dall'altra nelle leggi e nei costumi. E primamente il re e li gran signori e uomini principali possono maritarsi con piú d'una donna, e specialmente li grandi e ricchi che le possono mantenere: li figliuoli sono lor eredi, e le donne sono obligate d'abbruciarsi e morir con li mariti quando mancano di questa vita, perché a questi tali, quando muoiono, abbruciano i corpi, cosí degli uomini come delle donne, e le donne s'abbruciano vive con loro per onorarli, in questa maniera. Se la donna è povera e di poco valore, portando il corpo del marito ad abbruciarsi in un campo fuor della città, dov'è fatto un gran fuoco, in tanto che il corpo del marito si vede ardere, ella medesima si gitta nel fuoco e abbruciasi con quello. Ma s'ella è onorata e ricca e di gran parentado (giovane o vecchia che ella si sia), quando il marito è morto, vanno nel detto campo a fargli una fossa d'altezza d'un uomo e altretanto larga, e riempionla di legni di sandali e d'altre sorti, e posto il corpo dentro l'abbruciano; e la moglie, o vero se sono piú d'una, lo piangono, e volendolo onorare dimandono spazio d'alcuni giorni di venirsi ad abbruciare, e fannolo sapere a tutti li suoi parenti e a quelli del marito, che la venghino a festeggiare e onorare, e tutti si ragunano a far questo effetto, e quivi ella spende tutto quel ch'ella ha con questi suoi parenti e amici in conviti, cantare, ballare e sonare, e in molti buffoni che faccino ridere e piacevolezze. Compito questo spazio di tempo, si veste molto ben di panni ricchissimi, ponendosi adosso molto preziose gioie, e le cose ch'ella ha di maggior valuta le partisce fra suoi figliuoli, parenti e amici; poi monta a cavallo con gran trombe e suoni e molto bene accompagnata, e il suo cavallo deve esser uno ronzino bianco, trovandosene, per esser meglio vista: e la conducono per tutta la città con grandissima festa sin al luogo dove si abbrucia il corpo del marito, e nella propria fossa sono poste assai legne, che immediate accendono un gran fuoco, intorno al quale è fatto un solare con tre o quatro scalini, dove costei monta con tutte le sue gioie e vestimenti. E giunta in cima dà tre giravolte, e alzate le mani al cielo adora verso oriente tre fiate devotamente; poi, chiamati li parenti e amici, a ciascuno dà una gioia di quelle ch'ella ha adosso, e tutte queste cose fa con un gesto e viso cosí allegro e di buona voglia come s'ella non dovesse morire. E dapoi che ha dispensato tutto, resta solamente con un picciol panno che la copre dalla cintura in giú, e voltatasi verso gli uomini dice: "Guardate, signori, quanto voi sete obligati alle vostre mogli, che essendo loro in libertà s'abbruciano vive con i lor mariti"; e poi verso le donne dice: "Guardate, signore, quel che voi sete obligate di fare a' vostri mariti, che in questa maniera li dovete accompagnar sin alla morte". Le quali parole finite, le danno un vaso grande di olio il qual si mette sopra alla testa, e fatta di novo orazione e andata tre altre volte d'intorno e adorando verso oriente, subito lancia il vaso dell'olio nella fossa dove è il fuoco, e gli salta dietro con tanto cuore e buona volontà come s'ella saltasse in uno stagno d'acqua fresca. Li parenti veramente, ch'hanno apparecchiati molti vasi e pignatte piene d'olio e di butiro e legne secche, gliene buttano dietro, di maniera che subito si leva tanta fiamma di fuoco che immediate la fanno diventare in cenere, la qual raccolgono e la lanciano nei fiumi correnti. Questo è il modo che si fa per tutte generalmente, e s'alcune non lo vogliono fare, li parenti le pigliano e radonle la testa, le scaccian vergognosamente di casa e del lor parentado, e cosí vanno per il mondo ramenghe e come disperate. E se ad alcuna vogliono dar qualche favore, le conducono alle case dell'orazion a servir agl'idoli e guadagnar per quelle col suo corpo, essendo giovane: e vi sono alcune di queste tal case che ve ne hanno cinquanta e cento di queste tal donne, e d'altre che volontariamente si mettono ad esser publice meretrici, le quali sono obligate di sonare e cantare certe ore del giorno alli lor idoli, e il resto del tempo mettono a guadagnarsi il vivere.
Il medesimo s'osserva quando il re more, che s'abbruciano di quatrocento in cinquecento donne, al modo detto di sopra: ma loro subitamente, senza far troppe parole, si buttano nella fossa e fuoco dove abbruciano il corpo del re, la qual fossa e fuoco è fatto grandissimo e largo, col solare a torno, accioché si possino abbruciare in un tratto assai persone, con grandissima quantità di legne di sandalo, verzino, aguila, legno aloe, e molto olio di susimani e butiro, acciò che meglio ardino le legne. E quivi si vede una grandissima pressa di molti amici e servitori domestici del re, che vogliono abbruciarsi l'un prima dell'altro, il che è cosa maravigliosa e che dà spavento a chi si trova presente. Questi uomini mangiano carne, pesce e tutti gli altri cibi; solamente la vacca gli è proibita per la sua legge.
Delli Gentili detti Bramini.
Vi si trova un'altra sorte di Gentili, detti Bramini, che sono sacerdoti e governatori delle case d'orazione. Questi non mangiano carne né pesce, si maritano con una sola donna, e s'ella more non si maritano piú; li figliuoli sono suoi eredi di tutta la robba. Portano sopra delle spalle tre fili, per segnal che son Bramini. Questi non possono esser fatti morire per alcun delitto; hanno gran libertà, e li vien portata gran riverenza tra loro. Ne sono alcuni poveri, alli quali li re danno grandi elemosine, e il medesimo gli fanno i signori e uomini grandi, e con queste si mantengono; alcuni sono ricchi, e alcuni vivono nelle case d'orazioni, che sono pel paese a modo di monasteri, i quali hanno grand'entrate. Questi sono gran mangiatori, e non s'affaticano per altro conto tutto il dí se non per poter mangiare assai: vanno venti e ventiquattro miglia per saziarsi di carne, quanta ne possono mangiare; l'altro lor cibo è riso, butiro, zucchero, legumi, latte.
Di una altra sorte di Gentili, che sono come Bramini.
In questo paese si trova un'altra sorte di Gentili, che sono come Bramini: portano al collo alcuni cordoni di seta, con uno invoglio di panno dipinto, ove è una pietra grande come un ovo, qual dicono essere il loro Dio. Questi tali sono avuti in gran riverenza e gli fanno onore; non gli fanno alcun male per delitto che faccino, per riverenza di quella pietra, la quale chiamano tambarme. Non mangiano questi carne né pesce. Vanno sicuri per tutto il paese, e son quelli che conducono da un regno all'altro molte mercanzie e danari di mercatanti, per maggior sicurtà di ladroni: e quando le conducono, deono portar li loro tambarmi attaccati al collo. Questi si maritano con una sola moglie, e se muoiono prima di loro, per onorar il marito, elle si fanno sepelir vive in questo modo: fanno una fossa piú profonda che non è alta la donna e larga, e la mettono dentro in piedi, cosí viva com'ella è, e la circondano di terra calcandola coi piedi sin al collo; dipoi li pongono una pietra grande di sopra che non le tocchi il capo, e in cima d'essa dell'altra terra, e quivi la lassano morire. E in questo atto di sotterarla le fanno tante cerimonie che sariano troppo lunghe a scriverle. Cosa miserabile e pietosa, considerando quanta forza ha in sé l'ambizione e l'opinione in questo mondo, che conduce volontariamente queste tal donne a sí orribil fine non per altro che per l'onore e per esser tenute da bene, che mancando di questo debito non reputeriano di esser piú vive.
E delle donne di questo paese, ancora che sian cosí delicate e vadino con tante gioie e odori, non voglio restar di dir quel che ho veduto della grandezza e constanzia incredibil dell'animo loro, appresso le cose narrate di sopra. Si trovano alcune giovanette che, essendo inamorate d'un uomo e desiderando di averlo per marito, fan voto a un di lor idoli di fargli un gran servizio, e come l'uomo si contenta di pigliarla per mogliera, gli fa intendere che, avanti che ella gli sia consegnata, vuol far una festa al tal idolo offerendogli il suo sangue. E in un giorno determinato pigliano una carretta grande tirata da buoi, e in quella armano una cicogna molto alta, come son quelle con le quali si cava l'acqua dai pozzi, e nel capo di essa pongono una catena di ferro con duo grandi uncini. La giovine se ne esce di casa accompagnata onoratamente da tutti i suoi parenti e amici e da infiniti uomini e donne, e da ballarine e buffoni che fanno mille piacevolezze con suoni e canti, e se ne vien cinta con i suoi panni bianchi molto stretti nella cintura, e di sopra è coperta d'un panno di seta che le va insino a' piedi, e tutto il resto dalla cinta in su è scoperta. E appresso la porta della casa del padre, ove è la carretta, abbassano la cicogna e le mettono li duoi uncini ai lombi dentro la carne, dandole nella mano sinistra una targa piccola ritonda, con un sacchetto pieno di limoni e naranci: e subito alzano la cicogna con gran voci e suoni, tirando molti schioppi e faccendo grande allegrezza, e la carretta comincia andare al suo cammino verso la casa dell'idolo al quale aveva fatto il voto, ed ella attaccata a' duoi uncini sta sospesa in aere.
E ancora che il sangue le vada scorrendo giú per le gambe e per i panni sopra la carretta, nondimeno ella va cantando e dando voci di allegrezza, e schermendo con la targa e gittando naranci e limoni innanzi il suo sposo e parenti. E giunti alla porta della casa della orazione, la distaccano dagli uncini, governandola con somma diligenza, e dipoi la consegnano al marito. Quivi danno grandi limosine alli Bramini, e offeriscono gran doni agli idoli, e danno molto ben da mangiare a quanti l'hanno accompagnata.
Si trovano alcune altre persone che offeriscono la virginità delle lor figliuole a un idolo, e come elle sono di età di dieci anni, le conducono a un monastero e casa d'orazione dove sta detto idolo, accompagnate con tutti i lor parenti, con grandissime feste, come se le maritassero. E fuori del monastero appresso la porta è fatto un poggio di pietra negra quadrata, d'alteza della metà d'un uomo, circondato da scalini di legno, sopra i quali sono poste molte candele e candellieri a olio tutti accesi che abbruciano, perché si fa di notte questa cerimonia. Sopra il detto poggio vi è una pietra di un cubito che ha nel mezzo un buco, nel quale è posto un palo aguzzo, e circondano li scalini con panni di seta tanto alti che le genti che stanno di fuori non possino vedere il secreto di dentro. E la madre della garzona insieme con altre donne entrano in quel luogo, e doppo molte cerimonie e orazioni fanno che la giovanetta sopra il palo acuto rompe la sua verginità, spargendo il suo sangue sopra la pietra.
Questo re di Narsinga ha molte volte guerra col re di Decan, che gli ha preso e occupa molto paese, e similmente con un re gentil del regno d'Orixa, che è fra terra, dove manda i suoi capitani e genti, e allora è necessario che egli vi vada in persona. Il che come delibera di far, se n'esce un giorno alla campagna sopra uno elefante, overo fassi portar sopra una sbarra tutta ornata d'oro e seta riccamente, accompagnato da signori e cavalieri infiniti a cavallo e da gente a piede, e con molti elefanti che gli vanno inanzi, tutti coperti di panni di grana e di seta molto bene a ordine, come suol fare quando va a piacere. Giunto in questo luogo monta sopra un cavallo e, preso un arco, tira una freccia verso quella parte dove ha determinato di andare a far guerra, faccendo intendere il giorno della sua partita. Questa nova corre subito per tutto il regno, e ciascuno viene a porre i suoi padiglioni in quella campagna, ove stanno sin al giorno determinato di partire; passato il quale, ordina che immediate sia posto fuoco in tutta la città, eccettuando li palazzi, fortezze e case di orazione, e di alcuni signori, che non sono coperte di paglia: e questo fa acciò che tutti vadino alla guerra a morire con lui, con le mogli e figliuoli. E a tutti questi, tenendoli alla guerra, fa dar soldo grande, principalmente alle donne da partito, che son le inamorate del campo, le quali non combattono, ma gl'innamorati son quelli che per amor loro fanno cose maravigliose e di prodezza: e dicono che da molti altri regni vi concorre nel campo gran moltitudine di uomini per causa di queste tali donne, fra le quali ne sono di molto belle, e massime alcune favorite del re, che stanno con gran riputazione e sono ricchissime, e ciascuna tiene ai suoi servizii sei o sette giovani datele dalle madri per allevarsele, e stanno nella corte con le loro provisioni, il che vien riputato a grande onore. E non sono passati molti anni che morí una di queste tali che non aveva figliuoli né eredi, e lasciò il re suo erede, il qual ebbe di tal cosa sessantamila pardai, oltre dodicimila che costei aveva dati ad una sua serva allevata da piccola: e di questo non è da maravigliarsi, perché la ricchezza di questo regno è infinita. Hanno per gran tesoro le gioie, cosí il re come gli uomini ricchi, chi le comprano a gran prezzo; sono gran cacciatori, cosí di far volar come di cacciare; vi sono molte chinee piccole che vanno di portante.
Del regno di Orixa.
Passato il regno di Narsinga, si trova quello che è chiamato di Orixa, che confina con lui da una banda, e dall'altra col regno di Bengala, e dall'altra con quello di Dely. È abitato da Gentili, e il re è gentile, molto ricco e potente. Tiene molte genti da piedi, e spesse volte ha guerra col regno di Narsinga, avendoli prese per forza molte terre e luoghi, e quello all'incontro occupatene molte sue, di maniera che poco stanno in pace. Di queste tal genti ne ho avuto poca informazione, per esser poste molto fra terra; solamente intesi che vi sono pochi Mori, e il resto tutti Gentili, che sono molto buoni uomini da guerra.
Del regno di Dely.
Passato il detto regno di Orixa, piú avanti vi si trova un altro regno grande nominato Dely, pieno di molte terre e città, dove sono molto grandi e ricchi mercatanti che sono tutti mori, e il re è moro e gran signore. In altro tempo fu questo regno di Gentili, di quali tuttavia ne sono molti che vivono fra questi Mori molto tribulatamente; e assai di questi, per esser gentiluomini e persone onorate, non volendo star soggetti alli Mori, escono del regno e pigliano abito da poveri e vanno ramenghi pel mondo, non si fermando in alcun paese sin alla morte. Non vogliono avere né posseder robba, poscia che perderono il lor regno e possessioni; vanno ignudi e scalzi, con la testa scoperta: solamente cuoprono le loro parti vergognose con un brachiero di ottone in questa forma, che hanno una cintura di ottone fatta alla moresca di pezze che si movono, di larghezza di quattro dita, incavate con molte imagini di uomini e donne scolpite e lucenti, e la portano tanto stretta che gli fa star il ventre alto, e da detta cintura esce di dietro fra le natiche un brachiero del medesimo ottone che vien a far davanti una brachetta, il qual si serra nella medesima cintura con le sue serrature molto bene strette. Oltre di questo portano molte catene di ferro al collo, al traverso e alle gambe; hanno imbrattati il corpo e il viso di cenere, e hanno al collo un cornetto piccolo, negro, fatto a modo di quello di cavallari, col qual vanno sonando, dimandando da mangiare alle case dei re, gran signori e alle case di orazione. Camminano assai insieme, come fanno i Zingani; costumano di star in ciascuna terra pochi giorni. Questi communemente sono chiamati ioghi, e nella loro lingua coames, che vuol dire servitori di Dio. Sono berrettini, e ben disposti e proporzionati del corpo, e di gentil aspetto; portano i capelli senza pettinarli, e fanno molte treccie avolte atorno il capo. Piú volte loro dimandai perché andavano a questo modo; mi rispondevano che portavano quelle catene adosso per penitenza del peccato che avevano commesso, lasciandosi far cattivi da cosí mala gente come sono i Mori; e che andavano ignudi per disprezzo, avendo lassate perder le lor terre e case dove Iddio gli aveva fatti nascere; e che non volevano piú possessioni né robba, poi che perderono le loro, per le quali dovevano morire; e che s'imbrattavano di cenere accioché si ricordassero che di terra erano nati e in quella dovevano ritornare, e che tutto il resto era vanità. Ciascuno di costoro aveva il suo sacchetto attaccato alla cinta pieno di cenere, e tutti li Gentili del paese se ne facevano dare per divozione e se la spargevano sopra il capo, il petto e le spalle, faccendo certe stricche lunghe. Costoro praticano per tutta l'India tra' Gentili, molti de' quali si fanno di questi ioghi; nondimeno la maggior parte di loro sono di quelli del regno di Dely. Mangiano di tutti i cibi e non osservano alcuna idolatria; si mescolano con ogni sorte di persone, né si lavano come gli altri, se non quando gli vien fantasia.
In questo regno di Dely si trovano di buoni cavalli, che ivi nascono e vi vengono cavati per altre parti. Le genti del regno, cosí Mori come Gentili, sono valenti uomini da guerra e molto buoni cavalieri, e armate di molte sorti d'armi. Sono arcieri e uomini molto forti; portano lancie, spade, daghe, mazze fatte di acciaio, con le quali combattono, e alcune rote di acciaio, che chiamano cecharany, larghe due dita e acute dalla parte di fuori come rasori, e di dentro ritonde e aperte, le quali sono della grandezza d'un piatto piccolo: e ne hanno sempre sette overo otto poste nel braccio sinistro, e presa una di queste e messovi dentro il dito della mano dritta, la vanno aggirando molte volte e poi la tirano contra i lor nimici, e se s'imbattano a darli in un braccio o piede o nel petto lo tagliano tutto, di sorte che con queste tal armi fanno gran guerra, e sono molto destri in tirarle. Questo re di Dely confina con i Tartari; tien sotto di sé molte terre tolte al re di Cambaia e di Decan, e li suoi capitani l'acquistorno con le sue genti, nondimeno dapoi in spazio di tempo se gli rebellorno incontra, faccendosi chiamar re.
Baxana, arboro tossicato; nirabixi, frutto contra il veneno.
In questo regno di Dely si trova una sorte d'arbore detta baxana, che ha la radice velenosa, conciosiacosaché uno che la mangi more di subito; e il frutto di quello, detto nirabix, è di tanta virtú che ammazza tutti i veleni, e dà vita a tutti gli attossicati dalla detta radice e da ciascuno altro veleno. Questi ioghi che vengono dal detto regno portano di questa radice e frutti, de' quali ne danno alli re d'India, e similmente portano alle volte dell'alicorno, e alcune pietre dette paxar, che hanno gran virtú contra i veleni. Questa tal pietra è berrettina e tenera, di grandezza di una mandorla, la qual vien detto ritrovarsi nel capo d'un animale, ed è di grandissima riputazione tra gl'Indiani.
Del paese di Malabar.
Passata la provincia di Tulimar, dietro la costa del mare che è del regno di Narsinga, che comincia dapoi Cumbala, appresso il monte di Dely, e finisce a capo Cumeri, questa lunghezza di costa può essere da trecentonovanta miglia: e quivi comincia il paese di Malabar, il quale anticamente signoreggiava un re detto Sema Perimal, ed era gran signor. E possono esser da seicentodieci anni che li Mori della Mecca cominciorno a scoprir l'India e navigar per quella, e per causa del pepe vennero in questo paese di Malabar, ad un porto di mare detto Coulon, ove la maggior parte del tempo stava il detto re. E continovando questa navigazione per alcuni anni, fecero tanta amicizia e intrinseca conversazione con quello, che a persuasione loro si fece moro, deliberò di lassar il regno e andar a far la sua vita alla casa della Mecca; ma nel viaggio morí. E avanti ch'ei si partisse, volse divider tutto il suo regno di Malabar fra' suoi parenti, che è successo poi nei lor discendenti, come sin al dí d'oggi si ritrova. All'ultimo, avendo dispensato il tutto e non li restando se non il paese dove voleva imbarcarsi, ch'era una spiaggia disabitata di trenta o trentasei miglia, ritrovandosi accompagnato piú dai Mori che da' Gentili, ai quali avendo dato ciò che aveva s'erano dipartiti, li venne veduto un giovanetto suo nepote che lo serviva per paggio, e amandolo grandemente volse dargli detta spiaggia, comettendogli che la facesse abitare: e cosí quivi dove montò in nave fu edificata la città di Calicut. Li dette ancora molte preminenzie, cioè che gli consegnò la sua spada e un candellier che per riputazione si faceva portar innanzi, e ordinò agli altri signori suoi parenti, ai quali aveva diviso il regno, che tutti l'obbedissero, eccettuando il re di Coulon e Cananor: e cosí ordinò tre re nella terra di Malabar, e che alcuno non potesse far batter monete se non questo suo nepote e suoi discendenti, che sono li re di Calicut; e montato in nave si dipartí. Da quel tempo in qua gl'Indiani cominciorno il millesimo degli anni loro, sí come noi lo pigliamo dal nascimento di nostro Signor Iesú Cristo, perché li Mori presero quel tempo e luoco in gran devozion, e non volsero nell'advenir andar a cargar piú in altra parte il pepe, perché in quello il detto re per salvarsi l'anima si fece moro, e quivi montò in nave per la Mecca.
Questa città di Calicut è molto grande e nobile, di molti mercatanti ricchissimi e di gran traffico di mercanzie; e si fece detto re maggiore e piú potente di tutti gli altri, e si chiamò Comodri, che è titolo di onore sopra gli altri re. E cosí (come è detto) quel gran re di Malabar non volse ch'altri fossero re se non questi tre, cioè il Comodri, che si chiamava Cunelanadyri, il re di Coulon, detto Benatederi, e il re di Cananor, chiamato Coletri. Vi sono ben molti altri signori nella terra di Malabar che vogliono chiamarsi re, ma non sono, perché non possono far batter moneta né far coprir case con tegole, sotto pena che tutti gli altri si sollevino a distruzion loro ogni volta che volessero contravenire questo tal ordine. Nientedimeno li detti re di Coulon e Cananor, doppo alcun tempo, fecero batter monete nelle loro terre, senza aver alcuna facultà di farlo. Usano per tutto il paese una sola lingua, che si dimanda malcama, e tutti li re sono d'una sola legge e quasi de' medesimi costumi. Nelli detti regni di Malabar vi sono disdotto sorti di Gentili, e ciascuna d'esse è molto diversa dall'altre, di sorte che una non si vuol toccare con l'altra, sotto pena di morte e disonor e perdere tutti i beni; e tutti tengono costumi separati circa le lor idolatrie, come si dichiarirà.
Costumi delli re e paese di Malabar.
Questi re di Malabar, come è detto, sono gentili e onorano li loro idoli. Sono berrettini e quasi bianchi; ve ne son de negri, che vanno ignudi, e dalla cinta a basso coperti di panni bianchi di gotton; e alcuni vestonsi talora con alcune vesti piccole aperte dinanzi, corte a mezzo il ginocchio, di panno sottilissimo di gottone, o vero di grana molto fina o seta o broccato. Sopra la testa portano li capelli legati di sopra, e alcune fiate una berretta lunga fatta a modo di una celata di Galizia, e vanno discalzi; radonsi la barba e lassano li mostacchi molto lunghi, come i Turchi. Hanno le orecchie molto sbucate, con pendenti di gioie ricche e pietre anco poste in castoni d'oro; nelle braccia dalli gombiti in suso braccialetti d'oro con le medesime gioie, e filze di perle grosse. Alla cinta sopra i panni portano cinture larghe tre dita, dove sono poste gioie tutte preziose, molto ben gastonate e acconcie; ma sopra il petto, le spalle e la fronte si fanno tre righe di cenere attaccate, per esserli comandato cosí dalla lor legge, acciò si ricordino che debbono tornar in cenere. E quando morono bruciano i lor corpi, e cosí gli resta questa cerimonia, la quale cenere impastano con sandali e zaffarano, legno di aloe e acqua rosa, insieme macinate e fatte sottili. Quando stanno in casa seggono sempre sopra un poggio che sia alto, dove non vi è alcun solaro: e questi poggi son molto lisci e imbrattati con sterco di vacca molto sottilmente una volta il giorno, e quivi hanno una tavola bianca di quattro dita d'altezza e un panno di lana negra naturale e non tinta al modo d'un tapeto, di grandezza d'una felzetta che noi chiamamo, o vero un razzo piegato in tre pieghe, e vi seggono sopra appoggiandosi ad alcuni cussini ritondi e lunghi di bambagio, e anco sopra tapeti ricchi e panni d'oro e di seta, sopra i quali anco si assentano, ma non lassano giamai di non avere detto panno o sotto o vero appresso di loro, e questo fanno per conto di riputazione e grandezza. E spesso vanno a riposarsi in alcune carriole piccole, con stramazzi coperti di seta e di panni bianchi. E quando alcuno gli va a visitare, pigliano quel panno negro e se lo pongono appresso, e quando escono di casa, lo fanno portar piegato ad un paggio che li vadi avanti per conto di onore, e similmente si tengono appresso una spada, e se vogliono mutar luogo e metterla in un altro la portano nuda, secondo che per la maggior parte la portano.
Questi re non si maritano, né hanno alcuna legge di matrimonio; hanno solamente un ordine di tenere a sua posta una giovine, di legnaggio di gentiluomini che chiamano Nairi, la qual sia bella e graziosa. Questa fanno stare appresso il lor palazzo, e vien servita onoratamente; le assegnano una quantità di danari per la spesa ch'ella fa, e ogni volta ch'ella gli venga a noia la può lassare e pigliarne un'altra. Molti di loro per onestà non la cambiano, né fanno alcuna mutazione, e le dette non s'affaticano in altro se non in farli piacere ed esserli grate per quell'onore e favore che ricevono. Li figliuoli che nascono di tal giovane non sono reputati per loro figliuoli, né ereditano il regno né cosa alcuna del re: solamente ereditano quello della madre; e insino che sono piccolini, gli sono pur fatte carezze dal re, come a figliuoli d'altri che facesse allevare, ma come sono uomini fatti non hanno piú credito che di esser figliuoli di lor madre. A questi tali il re talora fa gran presenti di danari, acciò si possino mantenere piú onoratamente che non fanno gli altri gentiluomini. Gli eredi di detto re sono suoi nepoti, figliuoli di sue sorelle, perché questi tengono per loro successori, sapendo che nascono del ventre di lor sorelle, le quali non si maritano né hanno mariti certi, per esser molto libere ed esenti di poter far del corpo loro ciò che vogliono, di modo che il legnaggio delli re di questa terra e il vero ceppo è posto nelle femine: cioè, se una donna partorisse tre o quattro maschi e due o tre femine, il primo è re, e cosí tutti gli altri fratelli, li quali morendo eredita uno figliuolo della sorella piú vecchia, che è nepote del re, e poi gli altri fratelli doppo lui, e mancando ancor questi li figliuoli dell'altra sorella, e cosí va sempre il regno da fratelli a nepoti, figliuoli delle sorelle. E se per ventura o disgrazia a queste donne intravenisse di non far figliuoli maschi, non le reputano che siano atte ad ereditare il regno, e loro in tal caso si riducono insieme a consiglio e ordinano per re alcuno loro parente, se l'averanno, e non l'avendo chiamano qualche altro che sia atto a questo: e per questa causa succedono li re di Malabar molto vecchi quando regnano. E li nepoti o frattelli (de' quali ha da venir il legnaggio di re) sono molto onorati, e similmente sono onorate queste tali donne e molto servite, e hanno grandi entrate per potersi mantenere in riputazione. E quando sono in età di poter partorire, che è di 13 in 14 anni, mettono in ordine una gran festa, e fanno presenti grandi a qualche giovane gentiluomo onorato, de' quali ne son molti che sono deputati a far questo effetto, e lo mandano a chiamare che venga a pigliar la verginità alla tal giovine e ingravidarla: ed egli viene, e fanno gran feste e cerimonie, e lega al collo della detta alcuna gioia di valuta, la qual ella porta tutto il tempo della sua vita per segnal di esserle stata fatta tal cerimonia e di poter far della sua persona ciò che le piace, perché sin che non è fatta tal cerimonia non può disponer di sé in alcun modo. Il gentiluomo vien molto ben servito, e sta con lei alcuni giorni, e poi se ne ritorna a casa sua; e alcuna volta resta gravida, alcuna no, e da lí poi per suo piacer piglia qualche Bramino che piú le piaccia, e di lui ingravida e partorisce.
Questo re di Calicut, e cosí gli altri re di Malabar, quando muoiono gli abbruciano in un campo, con molte legne di sandalo e legno d'aloe. E quando l'abbruciano, si congregano tutti i suoi nepoti, fratelli e parenti piú prossimi, e tutti li signori grandi del regno e li servitori domestici del re, per onorarlo. E avanti che l'abbrucino lo tengon tre giorni morto, aspettando il giungere e mettersi insieme de' sopradetti, e che lo vegghino s'egli è mancato di sua morte naturale over se egli è stato ammazzato, per vendicarlo, come sono obligati in caso di morte violenta: e questa cerimonia viene osservata con gran diligenza. Abbruciato che l'hanno, subito si radono dai piedi sin al capo, eccetto le palpebre e le ciglie, cominciando dal principe che eredita sino al piú piccolo fanciullo del suo regno che sia gentile, e si nettano li denti, e lassano allora tutti generalmente di masticar la foglia di betella per tredici giorni: e se in questo tempo si trovasse alcuno che la masticasse, gli tagliano le labbra per giustizia. Il principe in questi tredici giorni non comanda e non è tenuto per re, e questo fanno per veder se alcuno si leva e gli contradice. E compito il detto tempo, tutti i grandi e governatori vecchi lo fanno giurar di mantener tutte le leggi del re passato e pagar tutti li suoi debiti, e di travagliarsi e affaticarsi di ricuperar tutto quello che li re passati perderono: e questo giuramento lo fa tenendo una spada ignuda nella mano sinistra, e la mano destra pone sopra un vaso pieno d'oglio ove sono molti stoppini accesi, e dentro v'è uno anello d'oro, el qual tocca con le dita, e qui giura di mantenere il tutto con quella spada. Fatto il giuramento, gli buttano sopra la testa del riso, con grandissime cerimonie di orazioni che fanno verso il sole, il quale adorano. E subito certi uomini grandi che sono come conti, che loro chiamano caimaes, e tutti gli altri del lignaggio reale e signori grandi, lo giurano nel medesimo modo di servirlo ed essergli leali e veritevoli. In questi tredici giorni comanda e governa tutto lo stato, come il medesimo re, un di questi tal caimaes, che è come gran cancelliere del re e di tutto il regno: il qual carico di dignità è suo di ragione e va di erede in erede. Costui è similmente tesorier maggiore del regno, senza il quale il re non può andar a vedere il tesoro, né di quello levar cosa alcuna, se non vi è qualche gran necessità, e col consiglio di costui e di molti altri: in poter del qual uomo stanno tutte le leggi e ordini del regno. E in questi tredici giorni non si può mangiar carne né pesce, né alcuno può pescare sotto pena della morte. Danno in questo tempo grandissime limosine della robba del re, e da mangiare a molti Bramini. Finiti che sono i detti giorni, tutti mangiano ciò che vogliono salvo il re nuovo, che guarda la medesima astinenza per un anno, né si fa la barba, né si taglia i capelli né alcun pelo del suo corpo, né manco le unghie. Dice certe orazioni ogni giorno; non può mangiare se non solo una fiata, e avanti che mangi bisogna che si lavi, e dapoi lavato non può veder alcuno sin che non ha finito di mangiare.
Questo re fa di continuo residenza nella città di Calicut, in certi palazzi grandissimi che ha fuori della città; e compito l'anno di questo duolo, vien colui che ha da succedere dopo, che si chiama principe, e cosí gli altri del medesimo sangue reale e tutti li grandi e signori del paese, a vedere il re nuovo e onorarlo, in una cerimonia che si fa nella fine del detto anno. E allora si danno grandissime limosine, e si spende gran quantità di danari in dar mangiare a molti Bramini poveri, e a tutti quelli che son venuti a vederlo, e alle sue genti di guerra: e vengono a questa festa da centomila persone in su. Quivi confermano il principe che deve esser erede doppo il re, e similmente gli altri per successori di grado in grado, e a tutti li signori confermano li loro stati. Li governatori veramente e officiali che furono dell'altro re li conferma o vero muta come gli pare e piace, e gli spedisce e manda a far li suoi offici, e manda il principe alle sue terre che gli sono state confermate, il qual non può piú entrar in Calicut fin che 'l re non more: ma tutti gli altri successori possono andare e venir alla corte e far residenza in quella. E quando il principe detto si parte, uscito che egli è di Calicut e passato un ponte che è sopra un fiume, piglia un arco in mano e tira una freccia verso la casa del re, e fa una orazione con le mani alzati a modo d'adorare, e poi se ne va al suo viaggio. Ma quando la prima volta lo viene a vedere per farsi confermare, conduce seco tutti i suoi gentiluomini, con varii instrumenti, che sono nacchere, tamburi, trombette, piffari, flauti, e certa sorte di strumenti a modo d'una guaina di ottone, con i quali fanno una soave armonia. Li gentiluomini vengono innanzi in ordinanza, come si costuma in una processione: cioè li arcieri sono i primi, seguitano poi le picche, e dietro quelli delle spade e targhe. Il re esce del palazzo e si mette a una porta grande in piedi, e sta ivi guardando queste gente che vengono a fargli riverenza, che è a modo d'adorarlo, le quali van mettendosi da un capo: e fino che compino di giugner e passare si consuma lo spazio di due ore. Poi all'ultimo il principe appare lontano un tiro di balestra con una spada nuda in mano, faccendola brandir molte volte, e con il viso alto, gli occhi fissi verso dove è il re; e come lo vede l'adora buttandosi in terra col viso e con le braccia distese, e giace cosí un poco, e tornatosi a levar viene avanti alquanto spazio, e brandendo pur la spada molte volte con gli occhi drizzati verso il re, e a mezzo cammino fa di nuovo il medesimo d'adorarlo, distendendosi in terra. Il re veramente di continuo lo guarda, senza moversi punto né far atto alcuno. Levato poi il principe in piede, se ne viene dove sta il re e quivi si butta in terra la terza volta: allora il re fa duo passi e gli porge la mano e lo fa levar suso, e cosí ambedue entrano nel palazzo, e il re si va a sedere sopra un letto ornato, e il principe con tutti gli altri che hanno ad essere eredi gli stanno in piedi avanti con le spade ignude nella mano dritta, e la sinistra si pongono sopra la bocca, che è segno di gran sommissione, lontani un poco dal letto del re, col qual parlano con gran riverenza, stando queti fra loro; e se gli è necessario di parlare, lo fanno cosí pianamente che alcuno non gli ode, di maniera che, se vi son duamila uomini nel palazzo, niuno gli ode parlare né tossir né sputare.
Il detto re di Calicut tien di continuo nel suo palazzo molti scrivani, che stanno tutti separati in una sala e lontani dal re, e sopra alcuni banchi scrivono tutte le cose pertinenti alli negozii del re, e delle limosine e del soldo che fa dar a ciascuno, e le querele che sono sporte, e similmente li conti delli riscotitori delle entrate. E il tutto scrivono sopra alcune foglie lunghe di palmiere, senza inchiostro, con alcuni stili di ferro, con li quali fanno le linee intagliate con le lor lettere, nel modo che noi scrivemo le nostre. E ciascuno di questi tali tiene fasci di queste foglie scritte e da scrivere: dovunque vanno, se le portano sotto il braccio, e lo stilo di ferro in mano, di modo che sono tutti cognosciuti per scrivani del palazzo. Fra questi ve ne sono otto molto familiari del re e molto onorati, che gli stanno di continuo alla presenza con i detti stili e le scritture sotto il braccio, perché se il re vuol comandar che si facci cosa alcuna, suole adoperar costoro: e però stanno sempre pronti con molte di queste foglie, delle quali n'hanno anco di nette e bianche, ma sottoscritte per mano del re, perché, comandandoli che faccino presto una spedizione, la scrivono sopra le dette foglie e mandanla via immediate. Sono li detti scrivani di gran credito, e la maggior parte vecchi onorati. E quando si levano la mattina e vogliono cominciar a scrivere, pigliano lo stile e la foglia in mano, e ne tagliano un poco con l'altro capo dello stilo, che è fatto tagliente a modo di temperarino, e sopra quel pezzo di foglia scrivono li nomi delli loro Dei, e alzando le mani verso il sole l'adorano: e compita l'orazione squarciano la detta scrittura, buttandola via, e poi cominciano a scrivere ciò che vogliono.
Questo re tiene mille donne a' suoi servizii, alle quali paga di continuo soldo, e sempre stanno nella corte, per spazzare il palazzo e casa del re: e ne tengono molte a questo officio per riputazione, e cosí a tutti gli altri servizii, conciosiacosaché per spazzar ne basteriano cinquanta, ma ne sono deputate molte piú. Queste sono gentildonne, ed entrano nel palazzo a spazzarlo due volte il giorno, e ciascuna porta una scopa davanti e un bacino grande pieno di sterco di vacca stemperato in acqua, e tutto quello che scopano vanno poi imbrattando con la mano dritta di quello sterco una volta, cosí sottilmente che immediate si secca. E queste non servono tutte a un tratto, ma si mutano a parte a parte. E quando il re passa da un palazzo all'altro, o vero vada a piedi a casa alcuna di orazione, queste vanno con detti bacini imbrattando la strada dove il re ha da passare.
E voglio narrare una festa grande, che altre volte io viddi, la quale sono obligate dette donne di far al nuovo re, passato l'anno del duolo e della astinenzia. Queste tutte si riducono insieme, cosí giovane come vecchie, in casa del re, e quivi si vestono con molte gioie, paternostri d'oro, braccialetti e manigli d'oro, anelli con gioie, e anco intorno le gambe. Le lor vesti dalla cinta in giú sono di ricchi panni di seta, di bambagio sottilissimi, fini; dalla cinta in su vanno tutte ignude, ma profumate con infinite sorti d'odori preciosi, oltra quel del sandalo, muschio e acqua rosa. Hanno le treccie piene di fiori, e nelle orecchie molti pendenti di gioie e perle, ma i piedi sono discalzi, come sempre sogliono andare. Qui vengono musici di varie sorti d'instrumenti, e infiniti che tirano schioppi e fuochi artificiati. Si riducono molti gentiluomini ad accompagnarle, benissimo vestiti di seta e galanti, e questi sono li loro innamorati. Fanno venir sette o vero otto elefanti coperti di panno di seta, che hanno d'intorno infinite campanelle attaccate, e con alcune catene di ferro che gli vanno di sopra, e pigliano un idolo di forma orribile e spaventoso e lo pongono sopra il maggior elefante, nelle braccia d'un sacerdote che ivi sta a sedere. E cominciando a sonare, cantare e tirare schioppi e fuochi, se ne vanno per una strada larga ad una casa d'orazione, dove pongono giú dall'elefante l'idolo, il qual dicono che si vuol vedere con quell'altro che è in detta casa, e fanno tal cerimonie che par che si salutino e si parlino insieme: vi concorre tutto il popolo a vederli e adorarli. Ciascuna di queste mille donne ha un bacino grande d'ottone pieno di risi, e in cima di quelli son posti alcuni candellieri d'olio con molti stoppini accesi, e fra li candellieri fiori in copia; e non si partono dalla casa di questo idolo per andare al palazzo del re, dove l'hanno a mettere giú, se non nel far della notte, e quivi cominciano una bellissima ordinanza a otto a otto, ciascuna col suo bacino e i lumi accesi, e l'idolo sopra l'elefante è l'ultimo. Sono alcuni uomini deputati che portano olio di susimani per aggiungerne ai candellieri di ciascuna, perché mettono gran tempo in questa processione, andando pian piano. Li loro innamorati veramente son quelli che fanno cose meravigliose, non si partendo mai ciascuno dalla sua e parlandole con gran cortesia, e loro asciugan il sudor dal viso con fazzuoli di seta, e per recrearle le mettono in bocca delle foglie di bettelle acciò che le mastichino; hanno ancora alcuni ventagli e le vanno faccendo fresco, conciosiaché sono molto affannate dal peso di bacini, li quali tengono alti con ambedue le mani, e bisogna che vadino dritte per conto di candellieri. E di continuo tutti gl'instrumenti vanno sonando, e buttando in aere molti fuochi artificiati. Vi portano similmente alcuni arbori, ch'accesi durano per grande spazio di tempo, cosa maravigliosa e stupenda a chi la vede di notte. Vengono ancora avanti a detto idolo, ma dalle bande, alcuni gentiluomini come infuriati, che con le proprie spade si danno a lor medesimi delle coltellate sopra la testa e sopra le spalle, mugghiando e buttando la schiuma dalla bocca, e dicono che gli dei sono loro entrati adosso e constringonli a far questo. Seguitando poi molte ballarine e buffoni, che vanno saltando, faccendo in aere molte volte e leggiadrie. Gli ultimi sono li governatori e principali uomini del regno, che vengono ordinando e disponendo quella processione, la qual si fa con grandissimo ordine sin al palazzo, ove ognuno va poi a casa sua.
Questo re sta sedendo per la maggior parte sopra i suoi letti, dove gli tengono compagnia alcuna volta i suoi servitori domestici, li quali gli fregano le braccia e le gambe e anco il corpo, e un paggio sta con una tovaglia al collo e gli porta delle betelle per dargliene a masticare, le quali tiene alcuna volta in una cassetta dorata e dipinta e guarnita d'argento, e alcune volte in un piatto d'oro: e gliene va porgendo a foglia a foglia, imbrattata con un poco di calcina fatta di scorza di ostrighe, e stemperata con acqua rosa a modo di salsa, posta in un vasetto d'oro; e similmente gli dà della areca, che è un pometto piccolo tagliato in pezzi, e mescola tutto insieme. La qual cosa gli fa la bocca rossa, e quel che ei sputa è come sangue: e vi è appresso un altro paggio che tiene una coppa grande d'oro in mano, nella quale vi sputa quel succo di detta foglia, perché non la inghiotte, e si lava di momento in momento la bocca, di modo che sempre va mastigando la detta foglia.
Il modo del suo mangiare è di questa maniera, che alcuno non lo può vedere, se non quattro o cinque che solamente lo servono. E prima che si metta a mangiare va in uno stagno d'acqua, la quale ha nel suo pallazzo chiara e netta, e quivi nudo fa la sua orazione con molte cerimonie, e adora tre volte verso oriente, e tre volte va intorno, e tre altre volte si butta sotto l'acque sommergendosi. Dipoi si veste panni netti, profumati e lavati ogni volta di nuovo, e mettesi a sedere in un luogo deputato per mangiare nel piano, imbrattato di sterco come è detto di sopra, o vero in una tavola molto bassa e rotonda, e sopra la qual è posto un gran piatto d'argento, e in quello molti salarini d'argento piccoli, tutti voti. E avendoli cosí avanti, viene il cuoco, che è Bramino, con una pignatta di rame piena di riso cotto, che sia molto bene asciutto, e con un cuchiaretto ne mette nel mezzo del piatto un monticello; dipoi gli porta molte altre pignatte con diversi mangiari, e ne mette di ciascuna sorte nelli detti salarini. Allora il re comincia a mangiare con la mano dritta, pigliando del riso a man piena senza cucchiaro, e con la medesima piglia di tutti gli altri mangiari, mescolandoli col riso, e con la mano sinistra non può toccar cosa alcuna di quel che ei mangia. Appresso di lui è posto un boccale d'argento con acqua, e quando vuol bere piglia con la mano sinistra, e tenendolo alto si fa cascar dell'acqua in bocca, senza toccarla col boccale. Beve a ciascuna vivanda che gli vien data, cosí di carne, pesce, come di legumi ed erbe, le quali vivande sono condite con tanto pepe che alcuno di noi non lo potrebbe soffrire in bocca; mai si netta la mano dritta, né ha tovaglia o panno per far questo effetto, e compito di mangiare si lava le mani. E se nell'ora che ei vuol mangiare vi si trovasse presente alcun Bramino o suo favorito, li fa mangiare, ma uno poco lontani da lui; alli quali pongono avanti una foglia di fico d'India, che sono grandissime, e ciascuno ha la sua innanzi, sopra la qual mangia come fa il re, e chi non vuol mangiare si diparte, acciò non stia dove mangia il re. E come egli ha finito, se ne ritorna sopra il suo letto, e quivi sta masticando della foglia del betelle per passatempo.
Ma quando il re vuol andare fuor del palazzo a piacere, o vero a fare orazione a qualche idolo, vengono chiamati tutti i gentiluomini che si trovano nella corte, e con ogni sorte di sonatori lo portano sopra una lettica che è coperta di panni di seta e di gioie. E gli vanno avanti molti uomini, che vanno faccendo diversi giuochi per dargli piacere: e spesse volte si ferma guardandoli e lodando chi li sa far meglio. Un Bramino gli porta avanti una spada nuda e una targa, un altro gli porta uno stocco d'oro, o vero la spada nella man dritta che gli fu lassata dal gran re di Malabar che si partí per andar a star alla Mecca, la qual serbano come una reliquia, e nella mano sinistra un'arma che s'assomiglia al fior del giglio. E da ciascuna banda vi sono duoi uomini con duoi ventagli grandi e ritondi, che gli difende il sole, e oltra questi duoi altri, pur con duoi altri ventagli grandi, fatti di code bianche d'animali che s'assomigliano a cavalli, che tra loro sono molto stimati; e hanno l'asta che le sostengono tutta d'oro, con i quali gli vanno faccendo vento. E insieme con costoro vien un paggio con un boccal d'oro pieno d'acqua, e dalla parte sinistra un altro con un d'argento e con una tovaglia sottilissima, e quando il re si vuol nettar il naso o toccarsi gli occhi o la bocca, gli danno dell'acqua, e si lava le dita, e la tovaglia per asciugarsi. Gli portano anco una coppa d'oro, nella qual va sputando la foglia del betelle. E insieme con lui vengono suoi nepoti e governatori e altri signori che l'accompagnano, e tutti portano le spade ignude in mano e la targa. E vi sono di molti buffoni, e molti uomini che saltano e volteggiano in aere, e molti schioppettieri che di continuo vanno tirando. E se è tempo di notte, gli portano innanzi quattro gran candellieri di ferro pieni di lampade d'olio accese, e molte facelle di legno che durano lungamente accese.
Della sorte di giustizia che si fa nel regno di Calicut.
In Calicut vi è un governatore, che loro chiamano talassen, che è gentiluomo posto pel re, e ha sotto di sé da cinquemila gentiluomini, che hanno tutti le lor provisioni deputate sopra alcune entrate. Costui fa giustizia nella città, e del tutto ne rende conto al re. E la giustizia si fa secondo la qualità delle persone, conciosiaché tra loro vi siano diverse sorti di Gentili, cioè alcuni che sono gentiluomini, Chetii, Guzzerati, Biabari, persone onorate; e sotto di questi alcuni altri che sono gente basse e vili, e schiavi del re e d'altri signori e governatori della terra. E s'alcuno di questi fa un furto, e che ne sia fatta querela al re o vero al governatore, mandano a pigliare il ladro, e trovandoglielo nelle mani o vero confessandolo, se è gentile lo conducono al luogo della giustizia, dove gli tagliano la testa. Ma se 'l delitto è atroce e che meriti maggior punizione, sopra un palo alto appuntato gl'inspiedano il corpo per mezzo le spalle, sí che la punta gli esce fuori un braccio dello stomaco, e a questo modo lo fanno morire. E se il malfattore è moro, lo conducono in una campagna dove lo fanno morire a coltellate, e se il furto si recupera s'aspetta al governatore, senza che il patron ne possi avere cosa alcuna, perché cosí dispone la legge, faccendo giustizia del ladro. E se si trova il furto e che il ladro se ne fugga, vien posto il furto per alcuni giorni in poter del governatore; ma se non lo possono pigliare, restituiscono il furto al padrone, restando la quarta parte al governatore. E se il ladro diniega il furto, lo tengono otto giorni in prigione dandogli mala vita, per veder se confessa, levandogli il mangiare; e passati gli otto giorni, non confessando, chiamano l'accusatore e dicongli come il reo non confessa, e se vuol che pigli il giuramento o vero che lo lassino andare. Allora, se l'acusator si contenta che giuri, bisogna che il reo facci queste cerimonie: che prima si raccomandi alli suoi idoli, e che non mastichi la foglia del betelle, e che si facci netti i denti dalla negrezza ch'ella gli suol fare. Nel giorno che egli ha da far questo giuramento, lo cavano di prigione e lo conducono ad uno stagno d'acqua, dove si lava, e poi ad una casa di orazione, dove in presenza degl'idoli fa il giuramento in questo modo. Essendo gentile, scaldano una pignatta di rame piena d'olio sino che ella levi il bollore, di tal sorte che, buttandovi alcuna foglia d'arbore, venga di sopra e quasi salti fuori, accioché si veda che l'olio è affocato e bollente. E quivi accostatosi lo scrivano piglia la man dritta del reo, e guarda se egli ha qualche piaga di rogna o altro male, e scrive come ei tien la mano in presenza della parte; poi gli comanda che guardi fisso l'idolo e dica tre volte: "Io non ho fatto il furto del quale sono accusato, né so chi l'abbia fatto", e immediate mette due dita nell'olio fino ai nodi. E dicono che se non ha fatto il furto, che non si scotta, e se l'ha fatto, immediate le dita se gli ardono. Danno anco il giuramento ad un altro modo, che il re manda a chiamare il reo, e se si absenta l'ha per condennato e lo fa morire, possendolo avere, senza far altra inquisizione; ma se si presenta chiamano l'accusatore, ed esamina ambidui. E l'accusator piglia un ramo piccolo d'arbore o vero erba verde, e dice: "Il tale ha fatto tal cosa", e il reo, pigliando anco egli un ramo d'arbore, dice che non è il vero. Allora il re fa portar due monete d'oro basso, che possono valere l'una da 23 maravedis, e la mette sopra una foglia, e allora li manda via, per ritornare fra otto giorni in casa del governatore a far il giuramento e provar quel che ciascuno ha detto. E cosí vanno e ritornano il dí determinato a casa del governator, dove il reo giura il modo già detto nel butiro bogliente; e compito il giuramento gli legano le dita, e tutti due sono riguardati in una casa che non possono fuggire. E il terzo giorno sligano le dita e veggono la verità, e se trovano le dita bruciate ammazzono il reo, non trovandole ammazzano l'accusatore: e se non è uomo di conto, non ammazzano l'accusatore, ma lo condannono in danari o lo bandiscono; e se egli è gentiluomo e che il furto sia grande della robba del re, lo tengono in una camera che è nel palazzo del re, ben guardato, e da quella lo conducono a far il giuramento.
[Qui mancano molte righe]
In questo regno di Calicut vi è un altro governatore, che fa giustizia per tutto il regno, eccettuando la città di Calicut, e si chiama giustizia maggiore; tiene in ogni terra il suo luogotenente, al quale affitta la giustizia delle pene pecuniarie, e non di morte. E a questa maggiore hanno ricorso tutti quelli che si vogliono appellare, ed egli suol referire al re, che ordina che sia fatto al modo che si fa in Calicut.
In detto regno non fanno morire donna alcuna per giustizia, per gran delitto ch'ella facci: solamente sono condennate di pene pecuniarie. E se la donna è di sangue di Naire, e ch'ella faccia qualche error nella sua legge, e che il re lo venga a saper prima di parenti o fratelli di lei, ordina immediate ch'ella sia condotta fuor del regno e venduta a Mori o a Cristiani; ma se li parenti o fratelli lo sanno, l'ammazzano secretamente a pugnalate, e dicono che non lo faccendo resteriano vergognati, e il tutto è approvato dal re.
Delli Bramini e delli lor costumi.
Li Bramini gentili sono sacerdoti d'un lignaggio, che non possono essere altri sacerdoti se non li figliuoli delli detti. E come sono d'età di sette anni, gli pongono al collo una coreggia larga due dita, di pelle d'un animale che loro chiamano cressuamengan, col suo pelo: questo tal animale s'assomiglia ad un asino salvatico. Per detti sette anni non gli lassano mangiare betelle, e portano di continuo questa cinta al collo, attraversata sotto il braccio. E come giungono alli XIIII anni gli fanno Bramini, levandogli la coreggia, ma gliene buttano un'altra fatta di tre fili o cordoni, la quale portano tutto il tempo della lor vita per segno d'esser Bramini: e nel metter questa seconda fanno gran cerimonie e feste, come facciamo noi a un prete la prima volta che ei dice messa; e dapoi può mangiar la foglia del betelle. Questi tali non mangiano carne né pesce; sono avuti in ogni luogo in gran riverenza e fattogli grande onore, né gli fanno morire per alcun delitto, ancor che grave sia. Il principal di questi è come saria un vescovo, che castiga costoro che fanno il male, ma modestamente. Si maritano una sol volta, e solamente quello che è il maggior de' fratelli, dal quale ha da procedere il capo e il lignaggio della successione: e va di primogenito in primogenito; gli altri restano liberi, che non si maritano, e quel maggior d'età è erede di tutta la robba. Questi tali Bramini fratelli maggiori tengono le mogli molto guardate, che alcun uomo non s'approssimi a loro. Se la moglie o marito di costoro more, quel che resta vedovo non si marita piú, e se la donna si trova commettere adulterio, il marito l'ammazza col veleno. Questi giovani che non sono primogeniti non si possono maritare, ma vanno a dormir con le mogli de' gentiluomini, e loro le reputano a grande onore, e perché sono Bramini nessuna donna se gli niega, e non possono dormir con donna che sia piú vecchia di loro.
Costoro si riparano e vivono la maggior parte con l'entrate delle possessioni delle case dell'orazione, che sono grandissime e infinite, e servono in dette case come abbati, andandovi a cantare a certe ore del giorno e far le lor idolatrie e cerimonie. Le dette case hanno la porta principal verso ponente, e due altre, una per banda; e innanzi la principal di fuori vi è una pietra d'altezza d'un uomo, con tre scalini che la circondano, e per mezzo la detta pietra dentro la chiesa vi è una cappella piccola molto scura, dove sta l'idolo, fatto d'argento o d'altro metallo, con molte lampade accese di continuo. E quivi non può entrare se non il ministro di quella chiesa, il qual vi entra a poner molti fiori ed erbe odorifere, e a perfumarlo con sandalo e acque rose, e lo porta fuori la mattina e un'altra volta la sera, sonando con trombe e naccare e con certe vagine d'ottone che fanno gran melodia. Questo ministro che l'ha da cavar fuori della cappella bisogna che sia ben lavato e fatto netto, e se lo mette sopra la testa, faccendo che il viso dell'idolo guardi adietro; e con esso va tre volte in processione intorno alla chiesa, e le donne di Bramini gli portano innanzi certi lumi accesi, e ogni fiata che arrivano alla porta principale, lo pongono sopra la detta pietra e ivi l'adorano, faccendogli molte altre cerimonie, le quali compite lo ritornano al suo luogo: e questo fanno due volte il giorno e due volte la notte. Intorno alla detta casa vi è fatto un circuito d'un parete, infra il qual e la chiesa si fa la detta processione, e vi portano di sopra un baldachino o cielo per riputazione, come si fa alli re. Sopra la detta pietra che è alla porta principale vengono poste tutte l'offerte, e due fiate il giorno è lavata, e vi portano da mangiare del riso cotto in grasso per gran cerimonia.
Onorano molto questi Bramini il numero trino, e tengono che vi sia Dio in tre persone, e che non vi sia piú d'uno. In tutte le loro orazioni è onorata molto la Trinità, e quasi che la figurano nelli lor riti, e il nome col qual la chiamano è questo: Verma Besum Maycerem, cioè tre persone in un solo Iddio, e cosí affermano essere stato nel principio del mondo. Non hanno notizia alcuna dell'advenimento di Giesú Cristo; credono poi nel resto molte vanità e pazzie, e ogni volta che si lavano si pongono sopra la testa, fronte e petto un poco di cenere, dicendo che hanno da tornar cenere, e quando muoiono ordinano che siano abbruciati li lor corpi.
Come la moglie del Bramino se ingravida, subito che il marito lo sa, si fa immediate netti i denti e non mangia piú delle bettelle, né s'acconcia la barba, e digiuna insino che ella partorisce. Di questi Bramini se ne servono li re in molte cose, eccetto che in quelle che s'appartengono all'armi; né se gli può far da mangiare se non è acconcio e preparato per i Bramini, o vero uomini di sangue reale. E cosí tutti li parenti del re osservano questo costume di farsi far da mangiare da detti Bramini, i quali servono ancora per corrieri, e portano da un regno a l'altro molti danari e mercanzie, perché in ciascuna parte passano sicuri senza che alcuno gli dia noia, ancor che i re tra loro siano in guerra. Sono litterati e dotti nelle leggi delle loro idolatrie e ne hanno molti libri, e sono molto savii e sanno far molte arti, e per questo sono tenuti in grande onore dalli re.
Delli Nairi di Malabar, che sono li gentiluomini, e di lor costumi.
Nel regno di Malabar vi è una sorte di Gentili detti Nairi, che sono gentiluomini, e non hanno altro officio se non di continuo servire alla guerra. Portano sempre seco le lor armi, che sono spade, targhe, archi, freccie, lancie. Questi vivono al soldo con li re, e ancor con altri parenti del re e signori del paese e governatori, e alcuno non può essere Nairo se non è di buon sangue. Sono uomini molto netti e galanti nel lor grado di gentiluomo; non si possono approssimare ad alcun villano, né mangiare in casa d'alcuno, se non di loro padroni o d'un altro Nairo. E accompagnano li lor signori e di dí e di notte, poco stimando il mangiare e dormire, per servirli e far quello che sono obligati: molte volte dormono sopra il terreno nudo senza alcuna cosa sotto per aspettar quelli che servono, e alcuna volta non mangiano piú d'una volta il giorno. Hanno poca robba, perché è dato lor poco soldo, e si contentano molti di loro con ducento maravedis ogni mese per sé e pel ragazzo che gli serve. Questi non sono maritati, né hanno donna né figliuoli; li nepoti figliuoli delle loro sorelle son eredi.
Le Naire sono del tutto libere, che possono fare del lor corpo ciò che vogliono con Bramini e con Nairi, ma non con gente basse, sotto pena della morte: e questo poi che hanno passati li dieci o 12 anni. Le lor madri allora gli fanno una grandissima festa, come se le volessino maritare, percioché fanno sapere a tutti li parenti e amici che le venghino ad onorare, pregandoli che alcun di loro si voglino maritare con esse. E quello che piglia questo carico fa far una foglietta d'oro, di valuta di mezzo ducato e manco, e lunga come un ferretto di stringa, con un buco in mezzo, nel quale infilzano un cordone di seta bianca: e la madre insieme con la figliuola si vestono e s'adornano quanto meglio si possono, faccendo far gran feste di sonare e di cantare con molte persone, e come quel loro parente o amico arriva da lei con quella foglietta, fanno le cerimonie dello sponsalizio, dicendo che la piglia per moglie in questo modo, che ad ambedui si mette una catena d'oro che abbraccia il collo dell'uno e l'altro ad un tratto, e fatto questo l'uomo poi mette al collo della giovene quel cordon con la foglietta d'oro, il qual è obligata di portar tutto il tempo della vita sua, in segno che ella può del corpo suo far ciò che gli piace, e la lascia e partesi senza dormir con lei, quando è sua parente, e non essendo può fare quel che gli pare. E dapoi la madre va pregando qualche giovane per questa sua figliuola, che la voglia sverginar, perché tra costoro vien reputato per cosa vile e brutta questo atto di sverginare giovane; e come ella ha dormito con qualcuno, allora pare alla madre d'averla fatta donna, e comincia a cercare chi voglia pigliarla per sua innamorata. E s'ella è bella, s'accordano tre o quattro Nairi di mantenerla e dormir con lei, e quanti piú sono tanto piú è tenuta onorata. E ciascuno ha il suo giorno determinato, che è da un mezzodí insino all'altro seguente: allora si danno cambio e l'altro viene; e a questo modo se ne passano la lor vita, senza che vi sia differenza overo che l'abbino a male. E se la vogliono lasciare, lo possono fare quando gli piace e pigliarne un'altra, e s'ella aborrisce alcuno lo licenza. Tutti li figliuoli restano alle spese della madre, e li fratelli della madre gli allevano, perché loro non conoscono il padre, e ancora che si assomigliassero ad alcuno, non sono tenuti da quel tale per figliuoli, né di loro hanno cura alcuna. Il qual ordine e legge chi la vorrà considerare piú adentro con l'intelletto, troverà essere stata instituita con maggior e piú profondo sentimento di quello che 'l vulgo si pensa, perché dicono che fu fatta dalli re acciò che li Nairi, per il carico e travaglio d'allevar figliuoli, non mancassero dal servizio loro.
Questi Nairi, oltra l'esser di sangue nobile, debbono ancora essere fatti cavalieri per mano del re o del signor col qual vivono: e insin tanto che questo non è fatto, non possono portar arme né chiamarsi Nairi, ma godono della libertà e della esenzione e limpidezza che hanno tutti gli altri Nairi. E come sono d'anni sette, son posti subito nelle scuole, dove imparano tutte le sorti di leggierezze e attitudini nell'armi, e primamente apprendono a danzare e ballare e poi volteggiare: e per questa esercitazione imparata da piccolo accommodano tutte le lor membra, che le piegano e voltano come lor piace e a che banda che vogliono. E come li maestri veggono che sono bene assuefatti e leggieri, gl'insegnano a giocare di che sorte d'arme piú a lor piace, cioè arco, bastone o lancia; ma per la maggior parte è il giuoco di spada e targa, che tra gl'Indiani piú si costuma. La quale scrimia contiene in sé grande scienza e leggiadria, e li maestri che insegnano questa arte sono molto agili e leggieri, e chiamansi panicari, e nelle guerre sono capitani.
Questi Nairi, quando s'accordano di star al soldo col re, si obligano di morire con lui, e cosí fanno con ciascuno altro signore dal quale gli vien dato il soldo: e questa legge è osservata da alcuni e da alcuni no, ma l'obligazione e la legge li costringe a morire ogni volta che è ammazzato o il re o il lor signore. Alcuni l'osservano in questo modo, che se in guerra è ammazzato il lor signore, si vanno a cacciare tra gl'inimici insin che sono ammazzati, ancor che quelli siano molti e lui solo: nondimeno, avanti che muoia, fa tutto quel che gli è possibile contra di loro. E poi che costui sarà restato morto, ve ne va un altro a farsi ammazzare e poi un altro, di maniera che alle volte ne moriranno dieci o 12 Nairi per il lor signore. E ancora che non si trovassero presenti quando fu ammazzato, nondimeno si partano da casa e vanno a trovar chi l'ammazzò o vero il re che lo fece ammazzare, e cosí ad uno ad uno vi muoiono. E per questa causa, se alcuno dubita della sua vita, piglia al suo soldo di questi Nairi quanti gli pare che l'accompagnino e guardino, e con quelli si va sicuro, tal che alcuno non ha ardire di fargli dispiacere, perché, faccendogli oltraggio, ne saria fatta vendetta sopra di lui e di tutto il suo parentado del delitto commesso: e queste guardie chiamano sanguada. E vi sono alcuni che pigliano a star con loro tanti di questi Nairi, che si assicurano in modo che non hanno poi paura di un re, il quale non averia ardire di far morire alcuno che fosse guardato da costoro, per non mettere in pericolo la vita di molti Nairi per lui. E ancor che questi tali non si trovino presenti quando viene ammazzato il lor signore, non restano per questo di non vendicar la sua morte.
Questi Nairi vivono fuor della città, separati dall'altre genti, nelle loro possessioni serrate, ove hanno tutto quello fa loro di bisogno. Non bevono vino. E quando vanno in parte alcuna, vanno gridando alli villani che si allontanino di dove hanno da passar, il che fanno li villani perché, non lo faccendo, i Nairi li possono ammazzare senza pena; e se un giovene che sia gentiluomo, benché sia povero, trova uno villano ricco e onorato e favorito dal re, similmente lo fa discostare dalla strada, come se fusse un re. E in questo li Nairi tengono una grande auttorità e grandezza, ma molto piú le Naire con li villani e li Nairi colle villane, e dicono che questo fanno per levar via ogni occasione di mescolare il sangue loro con quello de' villani, i quali se per disgrazia le toccassero, subito i parenti le ammazzerebbono; il medesimo fanno di colui che l'ha toccata e del suo parentado. E se li detti Nairi fanno far a' villani qualche opera, o voglion comprar qualche cosa da loro, e che nel pigliarla si tocchino, essendo da uomo a uomo, non hanno altra pena se non che, avanti che entrino in casa, bisogna che si lavino e pigliano vestimenti novi, dando quelli a un altro lavoratore. Similmente le Naire con le donne di villani non possono toccarsi. E tutte queste cose fanno acciò si guardino di mescolare il lor sangue con quel de' villani.
Nella città di Calicut non può entrare donna alcuna di Nairi sotto pena della vita, salvo una volta l'anno una sol notte, che possono andar con li lor Nairi dove gli piace. Nella qual notte entrano nella città piú di ventimila donne di Nairi a vederla, la quale è tutta piena di candele e lumi accesi, che gli abitatori mettono a tutte le strade e piccole e grandi per onorare detti Nairi. E le dette Naire vanno a vedere le case degli amici de' lor mariti, dai quali elle vengono presentate, accarezzate e convitate con betelle e conserve di zucchero: e questo hanno per grande onore di riceverle per mano di loro amici. Alcune vanno mascarate, altre discoperte. In questa medesima notte vengono ancora li parenti del re e li gran signori con le loro favorite a vedere la città, andando per quella ed entrando per le case di mercatanti grandi, dai quali ricevono grandi presenti, acciò che elle poi li favoriscono appresso il re.
Questi Nairi che il re ha preso al suo soldo giamai gli lascia né abbandona, ancora che s'invecchino, ma di continuo corre lor il soldo, e concede molte grazie a chi l'ha ben servito. E se per caso passa un anno che non siano pagati, si sollevano quattrocento in cinquecento alla volta e vanno insieme al palazzo, a far intendere al re che elli se ne vanno del tutto espediti a viver con un altro, conciosiaché lui non gli vuol far dar da mangiare: allora il re gli manda a dire che si acquietino, che subito gli farà pagare. E se immediate non dà loro la terza parte di quello gli deve e forma come debbono esser pagati del resto, se ne passano da un altro re, dove par loro di poter star meglio, e s'accordano con lui: il qual molto volentieri gli accoglie, e li dà mangiare per tredeci giorni prima che li fermi al suo soldo, e in tanto fa intendere all'altro re, dal quale si sono partiti, se vuol fargli pagare; e non li pagando, allora gli riceve al suo soldo, e dà lor quel medesimo soldo che per avanti solevano avere nel lor paese, delle natural ragioni del quale in tutto e per tutto restano privati. Molti tentano questa cosa, ma a pochi ella riesce, perché subito lor vien provisto dal re, il quale reputeria a gran vergogna che ei se ne andassero.
Questi Nairi, quando vanno alla guerra, gli vien pagato il lor soldo tutto il tempo che ella dura, che è quaranta cas al giorno, che son quaranta maravedis, con li quali si mantengono. E se in detto tempo si possono incontrar in qualche villano, e mangiare e bevere con lui in casa sua, lo possono far senza pena. Il re è obligato a mantener la madre e famiglia di quel Nairo che muore in guerra, e di subito son fatte esenti queste persone che debbono esser mantenute. E se detti Nairi son feriti, il re gli fa medicare a sue spese, e oltre il lor soldo gli provede del viver per tutta la vita loro, overo che si risanino delle lor ferite.
I detti Nairi portano gran riverenza alle lor madri e le mantengono col lor guadagno, perché oltre la provisione la maggior parte ha case, palmiere, possessioni e alcune case di villani che gli danno entrata, e di quelli che il re gli ha fatta grazia, overo alli loro zii, di quali vengono ad essere eredi. Portano similmente gran riverenza alle lor sorelle maggiori, le quali tengono in luogo di madri, e con le piú giovani non entrano in camera né le toccano né parlano, dicendo che dariano occasione con le parole di peccare con quelle, perché elle sono giovani e hanno poco cervello, il che con le maggior non potrian fare per la riverenza che gli portano.
Queste donne Naire quando hanno i loro mesi si stanno separate in casa per tre giorni senza accostarsi ad alcuno, e di lor mano si fanno il mangiare in pignatte o vasi separatamente. E finiti tre giorni si lavano con acqua calda che gli vien portata, e lavate si vestono d'altri panni netti, ed escon di casa e se ne vanno ad uno stagno d'acqua, ove si tornano a lavare, e lasciano un'altra volta quei panni netti e se ne riveston d'altri, pur lavati di novo: e cosí se ne ritornano a casa, e conversano con le lor madri, sorelle e altre genti. E la camera nella quale sono state quei tre giorni si spazza molto bene e si bagna, e dipoi s'imbratta sottilmente di sterco di vacca, che faccendo altrimenti nessuno vorria abitar in quella. Quando queste partoriscono, doppo tre giorni si lavano con acqua calda, e levate che elle sono dal parto si lavano spesso ogni giorno dal capo a' piedi. Non hanno da far cosa alcuna né officio da donna, se non di profumarsi e attendere a guadagnare col corpo loro, perché, oltre che ciascuna ha duoi o tre uomini che danno loro il vivere, non si diniegano ad alcun Bramino o Nairo che le voglia pagare. Sono donne molto nette e pulite, e tengono a grande onore il saper ben accarezzar gli uomini, e hanno tra loro questa opinione, che donna che muoia vergine non vadia in paradiso.
Delli Biabari, che sono mercatanti di Malabar, e delli lor costumi.
In questo regno di Calicut, e negli altri del paese di Malabar, vi è una sorte di Gentili detti Biabari, che erano mercatanti avanti che persone forestieri capitassero in quelle parti e navigassero per questi mari. Questi trafficano tuttavia nel paese dentro fra terra tutte le sorti di mercanzie, e raccolgono tutto il pepe e gengevi delli Nairi e d'altri lavoratori, e li comprano molte volte innanzi tratto a baratto di panni di bambagio, o altre mercanzie che dal mare vi sono condotte. Sono anco grandi cambiatori, e guadagnano molto in monete. Hanno tal libertà in quel paese che il re non gli può far morire per giustizia, ma trovandosi chi commetta delitto, si congregano insieme li principali di detti Biabari e, conoscendo che ei meriti la morte, lo fanno morire con saputa del re; e se il re volesse punir questo delitto, e che glielo facci intendere, loro l'ammazzano a pugnalate o a lanciate. Sono uomini per la maggior parte molto ricchi, e tengono nel paese molte possessioni anticamente acquistate. Si maritano con una donna sola, come facciamo noi, e li loro figliuoli sono eredi. Quando muoiono gli abbruciano il corpo, e la moglie piangendo lo va accompagnare e, levatasi dal collo una foglia piccola d'oro che gli donò nelle sue nozze, la gitta sopra di lui nel fuoco, e tornatasi a casa non si marita piú, per giovane che ella sia; e se lei muore prima del marito egli la fa abbruciare, e può di nuovo maritarsi. Son costoro di sí nobil sangue che li Nairi e Naire si possono toccar l'uno con l'altro.
Delli Cugianem, che son quelli che fanno lavori di terra.
Trovasi un'altra sorte d'uomini che tra gl'Indiani di Malabari si chiamano Cugianem, che non erano differenti dalli Nairi, ma per un error che fecero restorno con legge separata. L'officio di questi tali è di far lavori di terra cotta, quadrelli e tegole per coprire le case d'orazione e delli re, e non da alcuna altra persona, perché per legge non la possono coprir se non di rami di palmiere. L'adorare di costoro, li loro idoli son molto differenti da quelli degli altri; nelle loro orazioni fanno molte stregherie e negromanzie, le quali chiamono pagodes, differenti assai dall'altre. Quelli che nascono da costoro non possono pigliare altra legge né altro mestieri. Nel maritarsi tengono l'ordine e legge delli Nairi; con le mogli di costoro possono dormir li Nairi, ma con obligazione che poi non entrino in casa loro se non si lavano di quel peccato, mutandosi di altre vesti nette.
Manantamar, che sono li lavandieri.
Nel detto paese v'è un'altra sorte di Gentili che chiamano Manantamar, che non fanno altro mestiero se non di lavare le vesti e robbe di Bramini, re e Nairi: e con questo se ne vivono, né possono pigliare altro officio né essi né i loro discendenti. Questi lavandieri hanno nelle lor case grandi stagni e ridotti d'acque e pozzi a questo effetto, e di continuo si trovano avere tanti panni da lavare, cosí de' loro come d'altri, che ne danno a nolo molti di quelli alli Nairi, a giorno per giorno, che non si trovano avere delli loro, e li pagano tanto per ciascuno quanto importa la lavatura d'essi: e cosí ogni giorno li ritornano sporchi e se ne fanno dare delli netti che stiano bene alla persona. Lavano anco a molti per danari, di maniera che a tutti servono molto politamente, e guadagnano il lor vivere molto abondantemente. La lor generazione non si può impacciare né mescolarsi con alcuna altra, né alcuna con la loro, eccetti li Nairi, che possono tener per femine le donne di questa generazion con condizione che, ogni volta che s'impacciano con quelle, si lavino prima che ritornino a casa loro, mutandosi similmente di vesti. Questi lavandieri hanno l'idolatria separata nelle case loro d'orazione, e credono in cose molto strane. Si maritano come li Nairi, e i suoi fratelli o vero nepoti ereditano la lor robba e possessioni, e non cognoscano li lor figliuoli.
Calien, che sono li tessitori.
Si trova un'altra sorte di gente piú bassa e vile, che sono chiamati Calien, che non hanno altro mestiere se non di tesser panni di bambagio, e alcuni di seta, che sono di poco valore: e di quelli se ne serve la gente bassa. Questi similmente hanno l'idolatria loro separata dagli altri. Non si mescolano con altra generazione, solamente i Nairi possono tenere le mogli di costoro a lor piacere, ma conviengli ogni volta lavarsi e mutarsi di vestimenti. Molti di questi tali son figliuol di Nairi, e buoni e valenti uomini della persona, e portano armi come fanno li Nairi, e vanno alla guerra e combattano valorosamente. Del maritarsi tengono l'usanza di Nairi: non ereditano li figliuoli, le lor donne hanno libertà di fare della persona loro ciò che vogliono con li Nairi e con li detti tessitori, ma con altra generazione non si possono impacciar, sotto pena della morte.
Tiberi, che sono lavoratori e che fanno il vino.
Di genti basse e vili se ne trovano undeci sorti, con le quali alcuna persona onorata non si può impacciar, sotto pena della morte: e in questa cosa fanno grandissima differenza, e la guardano con gran superstizione. Li megliori d'essi sono li lavoratori detti Tiberi, il principal mestieri de' quali è governar gli arbori delle palme e di raccoglier il frutto di quelle; e conducono per pagamento tutte le cose da un luogo ad un altro, dove elle nascono, e le portano in some sopra gli animali, e quelli che non gli hanno le portano sopra le spalle, per guadagnarsi il viver con ogni sorte di fatica. Alcuni di questi imparano il mestier delle armi, e vanno alla guerra e combattono quando si trovano in qualche gran necessità. Il segno che siano di questo lignaggio è il portar in mano un bastone lungo un braccio. La maggior parte di costoro sono schiavi di Nairi, che il re gli ha donati acciò con le lor fatiche si mantenghino i lor padroni, i quali guardano e favoriscono questi tali schiavi quanto dir si possa. Hanno l'idolatria da per sé e separata dagli altri, e anco idoli particolari nei quali credono. Li nepoti di costoro sono lor eredi, e non li figliuoli, perché le mogli di costoro si guadagnano il vivere con il corpo loro, e s'impacciano con Mori naturali del paese e con ogni sorte di forestieri: questo publicamente e con licenza delli loro mariti, che a questo gli danno ogni commodità. Questi sono quelli che fanno il vino nel paese, ed essi soli lo possono vendere, e guardansi grandemente di toccarsi con gente piú basse di loro: vivono separati dagli altri. Fra costoro si trova che duoi fratelli terranno una donna sola, e ambidui dormono con ella, senza che mai tra loro sia una minima differenza.
Moger, condottieri delle robbe del re e marinari.
Trovasi un'altra gente piú bassa, chiamata Moger, che son quasi come li Tiberi, ma non però s'impacciano l'uno con l'altro. Questi son quelli che conducono le cose della casa del re da un luogo a un altro, e quando il re va in viaggio si trovano pochi di questi nella terra. Hanno ancora questi la loro idolatria separata, e non hanno ordine alcuno di matrimonio: le loro mogli sono publiche a tutti, e anco alli forestieri. Questi per la maggior parte guadagnano il viver loro sopra il mare, quando il re sta fermo: son marinari e pescatori. Hanno la lor idolatria separata; sono schiavi delli re o ver di Nairi e Bramini. Se ne trovano di loro che sono ricchissimi, e che hanno navi con le quali navicano e trafficano, guadagnando molti danari coi Mori. I nepoti son loro eredi, e non li figliuoli, perché non si maritano. Si guardano di non impacciarsi con gente piú bassa di loro; vivono in villaggi separati. Le loro donne sono molto belle e piú bianche dell'altre, perché la maggior parte sono figliuole di forestieri, che sono piú bianchi di naturali del paese; vanno ben vestite, con molti ornamenti d'oro.
Caniun, che sono astrologi e maestri di targhe.
Una altra sorte di Gentili si trova, piú bassa che la sopradetta, che si chiama Caniun: il lor mestiere è di far targhe e cappelli. Questi imparano lettere e astrologia, e si trovano tra loro grandi astrologi, che indovinano molte cose che hanno da venire e fanno giudizii veri sopra le natività degli uomini: e li re e gran signori li mandano a chiamare, e a volergli parlare e vedergli è necessario che eschino de' loro palazzi e vadino in orti e giardini, e qui gli domandano ciò che vogliono sapere, sopra di che pigliano tempo di qualche giorno, volendo far giudicio vero, e poi ritornano a dar risposta delle loro richieste. Questi non possono entrar nel palazzo né approssimarsi alla persona del re, per esser gente bassa, e il re si trova solo a vedersi con loro. Son grandi osservatori di augurii, e che conoscono li punti de' giorni, quai sian buoni e quai cattivi, e li fanno guardare alli re e agli uomini grandi; e li mercatanti similmente si guardano molto di non lassar di fare tutte le loro cose nei tempi che costoro gli consigliano, e nelli viaggi per mare e nelli matrimonii: e con tali persone guadagnano assai. Hanno i mesi divisi in segni e pianeti, come abbiamo noi altri, salvo che hanno l'anno lunare, e alcuni mesi di 20, 30, 31, 32 giorni. E il principio del loro anno è aprile, e da maggio sino a mezzo ottobre è il lor verno, nel qual tempo piove molto in quel paese e fannovisi gran fortune, senza esservi freddo; e da mezzo ottobre per tutto aprile è la estate, con gran caldi e pochi venti. Nella costa del mare vi tirano molti venti da terra, e fannosi molte mutazioni di venti nel mare; nella estate navigano con le lor navi, e nell'inverno le tirano in terra e le cuoprono, per la molta acqua che piove.
Aggeri, muratori e marangoni.
Un'altra sorte di Gentili piú bassa si trova, chiamata Aggeri: costoro son muratori, marangoni, fabri e cavatori di metalli e orefici, e son tutti d'un lignaggio e legge, d'idolatria separata dall'altre genti. Si maritano insieme, e' loro figliuoli ereditano la robba e il lor mestiere, il qual da piccoli gli cominciano a insegnare. Sono schiavi del re e delli Nairi, e molto industriosi e sottili nel lor mestiere.
Muchoa, pescatori e marinari.
Un'altra sorte di Gentili piú bassa, che chiamano Muchoa o Mechoe, e sono pescatori e marinari, senza far altro mestiere, e navigano nelle navi di Mori e Gentili. Sono molto pratichi delle cose del mare; abitano in villaggi separati. Sono gran ladri e senza alcuna vergogna; si maritano e li lor figliuoli ereditano; le lor mogli dormono con chi elle vogliono, senza che li mariti l'abbino a sdegno. Hanno legge e idolatria separata; sono similmente schiavi del re e delli Nairi del paese. Non pagano dazio alcuno del pesce fresco che vendono, ma se lo seccano o vero salano, pagano mezzo per cento della valuta d'esso. Il pesce fresco è a molto buon mercato, e questa è la maggior sorte di vettovaglia con la qual si mantengono gl'Indiani, perché sono genti che mangiano poca carne, per esser il paese con poche erbe e di pochi bestiami. Vi si trovano di questi pescatori che sono gran ricchi e di gran robba e case, le quali il re gliele piglia quando gli piace senza alcun rispetto, per essere schiavi.
Betua, che fanno il sale e seminano riso.
Un'altra sorte di Gentili che ancora ella è bassa, detta Betua, che son quelli che fanno il sale e seminano il riso. Hanno le loro abitazioni separate nelle campagne, lontane dalle strade dove passano le genti onorate. La legge e idolatria di costoro è separata dalle altre. Sono similmente schiavi del re e delli Nairi; vivono molto poveramente. Li Nairi, quando gli voglion parlare, se gli fanno star molto lontani. Non praticano con altra sorte di genti; si maritano e li loro figliuoli ereditano.
Paneru, incantatori.
Vi è un'altra sorte di Gentili molto piú bassa delli detti, che si chiamano Paneru, che sono grandissimi incantatori e parlano visibilmente con li diavoli, i quali gli entrano adosso e gli fanno far cose spaventose. Quando qualcuno s'ammala di febre o d'alcuna sorte di malattia, manda subito a chiamar questi tali uomini, e quelli che sono li piú eccellenti incantatori, con le lor donne e figliuoli: e ne vengono da dieci in dodici case, e pongono le loro stanzie appresso la porta del palazzo o vero appresso la casa di chi li manda a chiamare e che si trova ammalato. E quivi drizzano una tenda fatta di panni dipinti, nella quale entrati si dipingono tutto il corpo di colori, e faccendosi corone di carte dipinte o vero di panni, con mille altre invenzioni di varie sorti e con molti fiori ed erbe odorifere. Tengono certi fuochi e candellieri accesi, e sonando nacchere e trombe e vagine di ottone e altri instrumenti se n'escono della tenda a duoi a duoi, con le spade ignude in mano, dando voci spaventevoli e dimenandosi e correndo per il campo o vero per la piazza, saltando uno dietro all'altro, e tallora si danno delle coltellate, mettendosi sopra il fuoco con i piedi ignudi e scalzi; e fanno di queste cose un gran pezzo, insino a tanto che sono stracchi e che non possono piú. Dopo costoro n'escono degli altri a duoi a duoi, cioè uomini e garzoni, a far altratanta cerimonia, e le donne si mettono a cantar e anco ad urlare, con un rumor e strepito spaventoso. E in questa pazzia e furia stanno duoi o tre giorni, cosí di giorno come di notte, di continuo travagliandosi l'un con l'altro, e faccendo varii circoli in terra con alcune linee di terra rossa e di terra bianca; e buttano risi di vario colore, e mettono all'incontro candele, e non finiscono di fare queste tal cose che il diavolo (in servizio del quale le fanno) se n'entra adosso a un di loro e gli fa dire di che sorte è la malattia del re, e ciò che egli ha da fare per guarirne: le quali cose subito vengono referite al re, ed egli resta contento e gli fa far di gran presenti, e similmente agl'idoli. E a questa via pare che si risani per opera del diavolo, al qual tutti si sono dati. Costoro vivono molto separati dalla conversazione delli Nairi e gente onorata, e non si possono toccare con alcun'altra sorte di genti, perché ogni uomo gli aborrisce. Sono gran cacciatori e arcieri, e ammazzano molti porci selvatici e cervi, il che è il fondamento del viver loro. Si maritano e li figliuoli ereditano.
Revoler, che portano legne ed erbe.
Vi si trova un'altra sorte di Gentili che è pur bassa, detti Revoler, che vivono nei boschi molto poveramente e vilmente. Il lor mestiere non è altro che portar legne ed erbe a vendere alla città per poter vivere; né anco questi possono avere conversazione o pratica con altri, né altri con loro, sotto pena della vita. Vanno ignudi, solamente cuoprono le loro parti vergognose, chi con una foglia d'arbore chi con una pezzetta di panno, e sono molto sporchi. Si maritano, e li loro figliuoli ereditano. Le lor donne portano molti cerchietti di ottone nelle orecchie, e al collo, braccie, gambe, braccialetti, manigli fatti di paternostri.
Puler, villani traditori.
Un'altra sorte di Gentili pur bassa, detti Puler: questi sono riputati per scommunicati e maledetti. Vivono nei campi e luoghi paludosi deserti, dove non suole andar né penetrar gente onorata: quivi hanno alcune casette piccole e triste. Lavorano e seminano del riso in detti campi, con buffali e buoi. Non parlano con li Nairi se non stando molto lontani, e tanto che a pena possino esser uditi con voce alta. Quando costoro camminano, vanno di continuo gridando per esser uditi da quelli che gli cercano o gli vogliono parlare, e possino allontanarsi dalle strade e dai boschi ove sono. Ciascuna donna o uomo che si tocchi con costoro, i parenti gli ammazzano di subito come cosa profana, e n'ammazzano tanti di questi Puleri insino che si saziano, senza portar pena alcuna. Questi villani in certi giorni dell'anno si travagliano e s'affaticano per toccar alcune delle donne di Nairi, al meglio che possono di notte secretamente, e per far questo male vengono di notte fra le case di Nairi; e le donne, che ne dubitano, se ne guardano grandemente, e s'alcuna sente che costoro le tocchi, ella istessa a piú poter grida e si publica immediate, ed esce di casa e non vuol piú entrarvi, per non vituperare il suo parentado. Ma quel di piú che ella fa sopra di questo è che se ne fugge in casa di qualche gente bassa e si nasconde, acciò che i parenti non l'ammazzino, ma che in tanto si trovi qualche rimedio di farla vendere a genti forestiere. Il toccare è in questo modo, che ancor che non la tocchino con la persona, se le lanciano qualche cosa adosso, o pietra o legno, e che indovinino a toccarla, costei resta tocca e persa. Questa sorte di villani sono grandi incantatori e ladroni, e gente molto trista.
Pareas, villani similmente.
Un'altra sorte di Gentili pur bassi, che vivono in luoghi diserti, detti Pareas: questi non praticano similmente con alcuni, e sono riputati peggiori del diavolo e maladetti del tutto, che solamente guardandogli l'uomo s'infetti e diventi scommunicato, che essi Indiani chiamano impoleados. Vivono di ymane, ch'è come la radice di iucca o batata che si ritrova nell'isole dell'Indie occidentali, e di altre radici e frutti selvatici, e con foglie cuoprono le loro parti vergognose. Mangiano carne di animali selvatici.
In questi finiscono le differenze delle leggi e sorti di Gentili, che sono in tutto da diciotto, e ciascuna vive da sé, senza conversare né maritarsi con altra sorte di genti.
In questi regni di Malabar, oltre i legnaggi del re, Gentili e naturali del paese, vi si trovano altre genti forestiere, che sono mercatanti e trafficanti nel paese, e che hanno case e robba e vivono come li proprii abitanti, tengono leggi e costumi separati, che son li seguenti.
Cheliis, Gentili di Coromandel.
Questi Chelii sono Gentili naturali della provincia di Coromandel, della quale avanti ne parlaremo: sono uomini per la maggior parte berrettini, e alcuni quasi bianchi. Sono grandi e grossi mercatanti: trafficano in gioie di ogni sorte, in perle, coralli e in altre mercanzie, come oro e argento grezzo e battuto in monete, che fra costoro è gran mercanzia, perché le alzano e abbassano di prezzo alcune volte come lor pare. Sono ricchi e onorati, vivono molto puliti e gentilmente in buone case e in contrade separate da per loro; le case loro di orazione e gl'idoli sono differenti da quelli del paese. Vanno nudi dalla cinta in suso, ma portano un panno di gotton di molte braccia intorno la persona, sopra il capo un fazzuol legato piccolo e lungo, li capelli raccolti sotto il detto fazuolo over tocca, le barbe rase, e portano a modo di una stricca fatta di cenere, con sandali e zaffrano tutti mescolati, che li va dal capo al petto e braccia. Nell'orecchie hanno buchi cosí grandi che quasi per essi vi entreria un ovo, pieni tutti di pendenti d'oro con molte gioie, e molti anelli di gioie nelle dita; e si cingono con corone di paternostri d'oro lavorati a fogliami. Portano anco di continuo con loro una borsa grande, dove sono dentro bilancie, pesi, i lor denari e perle e gioie. Li lor figliuoli, come passano dieci anni, vanno faccendo il medesimo come li padri, di andar comprando monete piccole e imparare il mestiere. Sono valenti scrittori ed eccellenti contatori, e fanno tutti li conti con le dita. Sono grandi usurari, di sorte che un fratello non impresteria un reale all'altro senza guadagno. Sono però persone molto moderate nel viver e spender, e del tutto tengono particolar conto, e sono molto sottili nel negoziare, e nel parlar differenti dalli Malabari, sí come son li Spagnuoli dai Portoghesi. Si maritano al modo nostro, e li lor figliuoli sono eredi; e se le donne restano vedove non si maritano piú, ancor che sieno giovani, ma se la moglie muore il marito può maritarsi. Se ella vien trovata in adulterio, il marito la può ammazzare col veleno. Questi hanno giurisdizione separata da per loro, né il re se ne può impacciare né far punir li delitti che fanno, ma fra loro amministrano giustizia, della quale il re è contento. Quando muoiono sono abbruciati; mangiano di ogni cibo, eccetto carne di vacca.
Guzzerati.
Un'altra sorte di mercatanti sono nella città di Calicut, detti Guzzerati, che trafficano le cose di Cambaia, de' quali si sono i costumi raccontati; alcuni di costoro abitano e conversano in detta città come nel lor paese. Son uomini che maneggiano gran faccende, e conducono con le lor navi tutte le sorti di spezierie, droghe, panni, rame e altre mercanzie di quella città per il regno di Cambaia e di Decan, dove tengono degli altri fattori, e similmente essi sono fattori di altri. Abitano in buone case in alcune strade separate, e le lor case di orazione e li loro idoli sono differenti dagli altri; e usano di sonar campane grandi e piccole al modo nostro. Il re gli fa grande onore e favore e gli tien molto cari, perché con le lor faccende gli danno grandi entrate. Alcuni di loro vivono anco nella città di Cananor e in Cochin, e similmente in altri porti del paese di Malabar, ma la maggior parte stanno nella città di Calicut.
Mapuleres, che son Mori del paese.
In tutto il paese di Malabar vi è gran quantità di Mori, che sono della propria lingua e colore di Gentili del paese, e vanno nudi come li Nairi; solamente, per differenza di Gentili, portano alcuni cappucci tondi in testa e la barba lunga. E secondo il mio giudicio questi tali possono esser la quinta parte della gente che è in quel paese. Chiamansi questi Mori Mapuleres, li quali fanno quasi tutte le faccende e traffichi delle mercanzie che dalli porti del mare vengono condotte adentro in terra ferma. Sono molto fondati e di ricchezze e di possessioni, di sorte che, se il re di Portogallo non scopriva l'India, già tutto questo paese signoreggieria un re moro, conciosiacosaché li Gentili, per ogni dispiacere che ricevevano, si facevano mori, e li Mori gli onoravano molto, e se ella era donna la pigliavano per moglie. Questi tali hanno molte moschee per il paese, nelle quali si congregano similmente a far consiglio.
Pardesi, mercatanti arabi e di altre nazioni.
Vi era ancora un'altra sorte di Mori in Calicut, che loro chiamano Pardesi, li quali sono arabi, persiani, guzzerati, coracani e di Decan, che sono grandi e leali mercatanti, e hanno moglie e figliuoli e navi, con le quali van trafficando in ogni parte con tutte le sorti di mercanzie. Hanno infra loro un governator moro, che gli governa e castiga senza che il re se impacci di loro. Avanti che il re di Portogallo discoprisse questo paese, erano in tanto numero e cosí potenti nella città di Calicut, che li Gentili non ardivano de andarli contro né far lor dispiacere; ma poi che il re di Portogallo se ne insignorí, e viddero i Mori che non gli potevano resistere, cominciorono ad abbandonare il paese e a poco a poco se n'andarono, di sorte che al presente pochi di loro sono restati e senza alcuna forza. Nel tempo che prosperavano le lor faccende, avevano navi di portata di mille e milleducento bahari, e ciascuno bahar è quattro cantara: le quali navi sono della medesima maniera che le nostre, ma non sono fitte con chiodi, ma cuciono le tavole l'una con l'altra con corde fortissime di cairo, che è fil di cochi, poi le impegolano con bitume che dura al sole e all'acqua, e il legname è assettato l'un con l'altro giustamente. Li lavori che van di sopra sono fatti ad un altro modo che non sono li nostri, perché non li fan coperta alcuna, ma alcuni ripartimenti, nelli quali caricano molto pepe, gengevo, garofani, cannella, sandalo, verzino, lacca, cardamomo, mirabolani, tamarindi, cassia fistola, e tutte le sorti di gioie, perle, muschio, ambracan, riobarbaro, legno di aloe, molti panni di bambagio finissimi e molte porcellane. E cosí caricate si partivano ogni anno dieci o dodici navi del mese di febraro, e facevano il lor viaggio verso il mar Rosso, e alcune per la città di Adem e anco al porto del Zidem, dove vendevano le lor mercanzie ad altri, che le portavano poi in navili piú piccoli al Sues, e di lí per terra al Cairo e dal Cairo in Alessandria. Queste navi ritornavano cariche di rami, argenti vivi, cinaprii, coralli, velluti, amfian, damaschi, acque rose, cortelli, ciambellotti di colore, panni scarlatti e pavonazzi, velluti colorati, oro e argento e altre cose; e solevano giugnere in Calicut nel mese d'agosto insino a mezzo ottobre del detto anno che si erano partite. Questi Mori se ne andavano molto ben in ordine, sí del vestire come di ogn'altra cosa, per essere molto dilicati e nel mangiare e nel dormire, e per questa causa, ogni fiata che andavano in viaggio, il re gli dava un Nairo per lor guardia e per servirli, e uno scrivano chetis per tener li conti e governar le mercanzie, e un sensale per aiutargli a far i mercati. Alle quali tre persone il mercatante pagava un tanto per il lor vivere, e questi tutti servivano molto bene; e quando il mercatante comprava spezie, li venditori gli davano per ciascuna faragiola di gengevo, che è vinticinque libbre, quattro libbre di esso per li detti tre servitori, e cosí d'ogn'altra mercanzia, li quali denari mettevano insieme li mercatanti per pagar detti suoi servitori e ministri.
La città di Cananor.
Nella costa del mare, appresso il regno di Calicut, verso il mezodí è posta la città di Cananor, nella quale si ritrovano molti Mori e Gentili di molte sorti, che sono tutti mercatanti e hanno infinite navi e grandi e piccole, e negoziano tutte le sorti di mercanzie, e principalmente per il regno di Cambaia e per Ormuz, Coulon, Dabul, Bandam, Goa, Zeilam e per le isole di Maldivar. In detta città di Cananor ha il re di Portogallo una fortezza di fattoria e un traffico molto pacifico, perché appresso la fortezza vi è un castello dove abitano i cristiani del paese maritati con le lor mogli, che dapoi edificata la fortezza si battezzarono e ogni giorno si vanno battezzando.
Crecate.
Passata la detta città, per la costa avanti verso mezodí vi è un luogo di Mori naturali del paese, che navigano in molti parti, detto Crecati.
[Qui mancano alcune righe.]
Tarmapatan.
Passato il detto luogo, piú avanti si trova un fiume che sbocca in mare con duo rami, i quali circondano una città di Mori naturali del paese, molto ricchi e gran mercatanti, che usano similmente molto di navigar: la qual città si chiama Tarmapatan, e vi sono molte e gran moschee. Questo è l'ultimo luogo del regno di Cananor, di verso Calicut. E detti Mori, quando il re di Cananor gli mette alcune gravezze piú del solito, si ribellano dalla sua obedienza, ed è necessario che egli in persona li vada a sgravare e far lor carezze.
Capogatto.
Andando pel detto fiume all'insú da XII miglia, vi è una città di Mori molto grande, ricca e di molto traffico, che negozia con quelli di Narsinga, dentro fra terra, detta Capogatto. [Qui mancano molte righe.]
Delle sorti di spezie che nascono nel regno di Cananor, e delle serpi che si trovano.
Nel regno di Cananor vi nasce del pepe, ma non gran quantità, ed è molto buono; vi nasce del gengevo, ma non troppo buono, il qual chiamano dely, perché nasce appresso il monte Dely. Vi nasce ancora molto cardamomo, mirabolani, cassia fistola e zeruban, zedoaria. Trovansi in detto regno, e massime nei fiumi, molti cocodrilli che mangiano gli uomini: il lor fiato, essendo vivi, si sente di lontano di odor di gibetto. E nel paese fra le ciese ed erbe trovansi due sorti di serpi velenosi: una che gl'Indiani chiamano murchat e noi altri biscie del cappello, perché stringendosi la pelle sopra il capo par che vi abbino un cappello: queste ammazzano mordendo, e li morsicati muoiono in due ore, e alle volte duran dui o tre giorni. Molti cerretani ne portano nelle pignatte di vive incantandole, e non mordono, e ponendosele al collo o vero mostrandole guadagnano assai danari. L'altra sorte di biscie, che gl'Indiani chiamano mandali, sono di veleno cosí potenti che mordendo ammazzano di subito, senza che la persona possa parlare né far movimento alcuno.
Di molti luoghi e città del regno di Calicut che esercitano il navigare.
Passando il regno di Cananor verso mezodí, dall'altra parte del fiume Tarmapatan, vi è un villaggio di Mori paesani che si chiama Terivaganti, che esercitano il navigare. E oltre di quello vi è un altro fiume, dove si trova un altro gran luogo similmente di Mori gran mercatanti, detto Mazeire; e oltre di questo un altro nominato Chemobay, che navigano gli abitanti di continuo. E il paese fra terra di detti tre luoghi è molto popolato di Nairi, buoni e valenti uomini, che non obediscono alcuno re, ma hanno per loro signori dui Nairi che gli governano, e li detti Mori stanno a loro obbedienza.
Pudripatan, primo luogo del regno di Calicut.
Passati detti luoghi vi si trova un fiume detto Pudripatan, nel quale vi è un buon luogo di molti Mori mercatanti, che tengono molte navi: e qui comincia il regno di Calicut.
Tircori.
Dietro la costa andando vi è un luogo di Mori, detto Tircori.
Panderani.
Doppo questo v'è un altro luogo pur di Mori, detto Panderani, dove si trovano molte navi.
Capucar.
Ancora dietro a questo è un altro luogo con un fiume detto Capucar, dove si trovano molti Mori naturali del paese, con molte navi e con gran traffico di mercanzie del paese, che qui vengono condotte a caricarsi. In questo luogo si trovano molti zaffiri teneri nella spiaggia del mare.
Calicut.
Passato questo luogo per sei miglia è posta la città di Calicut, dove tiene il re di Portogallo una buona fortezza, fatta di volontà del re di Calicut doppo che i Portoghesi lo ruppero: e qui tiene la sua principal casa, che si chiama fattoria.
Calian.
Oltre la detta città verso mezodí vi si trova un altro luogo detto Calian, dove stanno molti Mori naturali del paese, che esercitano molto il navigare.
Purparangari.
Oltre di questa vi è un'altra città del re di Calicut, detta Purparangari, di Mori e Gentili che trafficano molte mercanzie.
Paravanor e Ytanor.
Piú oltre vi sono duoi luoghi di Mori per vinticinque miglia lontani l'un dall'altro, uno de' quali si chiama Paravanor, l'altro Ytanor. E adentro del paese, per mezzo di questi duoi luoghi, vi abita un signore che tien a suo soldo molti Nairi, e alcuna volta si solleva contra il re di Calicut. In questi duoi luoghi vi si esercita molto la navigazione, e vi è un gran traffico di Mori mercatanti.
Pananie.
Passati questi doi luoghi, per la costa avanti verso il mezodí vi si trova un fiume, dove è posta una città di Mori, infra i quali vivono alcuni Gentili, la qual si chiama Pananie. Li Mori sono mercatanti molto ricchi e navigano grandemente; della qual città il re di Calicut ne cava grande entrata.
Catua.
Andando pur avanti si trova un fiume detto Catua, e andando all'insú del fiume vi sono molti luoghi di Gentili, dalli quali pel fiume a seconda vien condotta gran quantità di pepe che nasce nel paese.
Crangalor.
Oltra di questo fiume, che parte il regno di Calicut con la terra di Cochin, da questa parte del fiume vi è un luogo detto Crangalor, del re di Calicut: in detto luogo tiene il re di Cochin alcuni giurisdizioni. Abitano in quello Gentili, Mori, Indiani, Giudei, Cristiani della dottrina di san Tomaso, dal nome del quale ne hanno una bella chiesa, e un'altra della Nostra Donna, e sono molto devoti cristiani: solamente gli manca la dottrina, della quale ne siamo per parlare, perché per la costa andando avanti verso Coromandel vivono molti cristiani.
Delle sorti di spezie che nascono nel regno di Calicut; e dell'arbore della palma, e del pepe e sua pianta, e quanta utilità ne cavano da essa, e della areca.
In questo regno di Calicut, come è detto, nasce molto pepe, sopra virgulti simili alla edera, e va montando come fa quella sopra le palmiere e altri arbori, dove fa li raspi col pepe; nasce anco del gengevo beledi molto buono, e cardamomo, mirabolani di tutte le sorti, cassia fistula, zerumba, zedoaria, cannella selvatica. E tutto il paese è coperto di palmiere, che sono piú alte che molti alti cipressi: questi arbori alli piedi sono netti e lisci senza alcuno ramo, solamente in cima spandono molte foglie, che vanno in tondo a modo di zazzera, fra le quali vi nasce frutto che costoro chiamano tenga e noi altri cochi, cioè noci d'India, dal quale ne cavano infinita utilità; ed è gran mercanzia, percioché di quella se ne carica ogni anno piú di 400 navi per molte parti. Produce il detto arbore di continuo tutto l'anno li detti frutti, e sempre ve ne sono di nuovi e vecchi, senza che manchino mai. Queste mantengano le genti di Malabar, che non possono dubitare di pericolo di fame, ancora che gli mancassino tutte le vettovaglie, perché questi frutti, cosí verdi come secchi, sono molto dolci e gustevoli. Si può cavare di quelli il latte, come si fa delle mandorle appresso di noi, e ogni coco verde tiene dentro nel mezo un bicchier di acqua fresca saporita, cordiale e di gran sostanza; e poi che è secco quell'acqua si congela dentro a modo d'un pomo bianco, il qual è molto dolce e saporito e si mangia molto volentieri. Fanno similmente di detti cochi olio con li torchi come noi altri, e della scorza vicino alla midolla ne fanno carbone per li orefici, che non possono lavorare con altro; e di quella stoppa che hanno di sopra ne fanno filo, del quale si lavorano sartie e corde. Ma quel che è piú maraviglioso e stupendo, che, faccendo nel detto arbore un buco, ne cavano vino come mosto, di tanta possanza e fumosità quanta un'acqua di vita: e ne colgono in tanta quantità che ne navigano in diverse parti, e di detto vino fanno aceto fortissimo, e similmente zucchero molto dolce, ed è come mele giallo, che è gran mercanzia per tutta l'India. Della foglia dell'arbore ne fanno stuore, della grandezza che a lor pare, con le quali cuoprono le loro case in luogo di tegole; si servono anco del legno per far edifici di case e altri servizii, e anche per abbruciare. E di tutte le cose sopradette se ne trova tanta abondanza, per esser tutto il paese pieno di boschi di tal arbori, che se ne caricano le navi.
Vi sono similmente palmiere d'altra sorte, piú basse, le foglie delle quali adoperano li Gentili per iscrivere, e ancora d'un'altra sorte, sottili e molto alte e con le foglie pulite, fra le quali vi nasce un raspo pieno di frutti della grandezza di noci, col quale gl'Indiani masticano il betelle, che abbiamo detto esser il folio indo: e questo frutto chiamano areca, tanto è stimata e reputata fra costoro per esser molto suave e delicata; e di questa similmente ne hanno tanta abondanza che ne caricano navi per Cambaia, regno di Decan e per molte altre parti, e di meza passa e di secca.
Del regno di Cochin.
Passato il luogo di Crangalor, al fin del regno di Calicut verso il mezzodí è posto il regno di Cochin, nel quale nasce similmente molto pepe. Vi è un fiume molto grande e bello, dove entrano molte navi grosse, cosí di Portoghesi come di Mori, e sopra quello è posta la città, piena di Mori e Gentili, di quelli che sono detti Cheliis e Guzzerati, e d'Indiani naturali del paese. Li Cheliis son gran mercatanti e hanno molte navi, e trafficano con quelle per Coromandel, Cambaia, Cheul, Dabul, con areca, cochi, pepe, iagara, che è il zucchero delle palmiere. In la bocca di questo fiume ha il re di Portogallo una buona fortezza, intorno della quale vi è fatto un borgo grande, dove abitano Portoghesi e cristiani naturali del paese, che si sono battezzati dapoi che i Portoghesi vennero in queste parti: e ogni giorno non mancano di quelli che si convertono alla nostra fede. Vi sono anco molti cristiani della dottrina di san Tomaso, li quali vengono di Coulan e d'altri luoghi di Gentili dove solevano vivere. In detta fortezza e borgo vi si trova gran provisione, e modo d'acconciar navi e di farle di nuovo, e similmente galee e caravelle, cosí perfettamente come nelle nostre parti. Qui si carica molto pepe, e altre spezierie e drogherie che vengono da Malacha, le quali si conducono ogni anno in Portogallo.
Questo re di Cochin ha piccolo paese, e non era re avanti che venissero Portoghesi, perché tutti li re di Calicut che di novo entravano in stato avevano per costume di andare in Cochin e levar via il re del suo stato e pigliarne essi la possessione, e dapoi glielo ritornavano a dare, e solamente per il tempo che durava la vita del re di Calicut, al qual detto re di Cochin dava tributo di certi elefanti; né potevano far batter moneta, né coprir le case di tegole, sotto pena di perder lo stato. Ma doppo la venuta nostra, il re di Portogallo lo ha fatto esente di tutte le cose sopradette, di modo che ei signoreggia il suo paese assolutamente, fa batter monete secondo i suoi costumi, e tutto ciò che gli pare e piace.
Porca.
Andando avanti del detto luogo di Cochin, verso mezzodí si entra nel regno di Coulan, fra li quali regni vi è un luogo che si chiama Porca, che ha un signore. Quivi abitano molti pescatori gentili, che non fanno e non hanno altro esercizio se non di pescare nel tempo del verno, e nella state andar per mare robbando quelli che manco possono. Hanno alcune barche piccole come brigantini; vogano gagliardamente, e mettonsi molti insieme con archi e freccie, e circondano ciascuna nave che trovino in calma, che per forza di freccie la fanno arrendere e gli levano la robba e la nave, buttando in terra gli uomini ignudi, e dividono tutto quel che robbano col signor di questa terra, il qual gli favorisce. Questa sorte di barche chiamano caturi.
Regno di Coulan.
Passato il detto luogo comincia il regno di Coulan, e il primo luogo si chiama Caincoulan, dove abitano molti Gentili, Mori, Cristiani, Indiani della dottrina di san Tomaso, molti delli quali fra terra vivono fra li Gentili. Nasce in questo luogo molto pepe, del quale se ne caricano molte navi.
Colan, e del miracolo che fece san Tomaso.
Pur andando avanti sopra la medesima costa verso mezzodí, vi è un porto principal di mare con una città che si chiama Coulan, nel qual vivono molti Mori, Gentili e Cristiani, che sono grandissimi mercatanti e hanno molte navi, con le quali contrattano per il paese di Coromandel, l'isola di Zeilam, Bengala, Malacha, Samotra, Pegu, e questi non trafficano in Cambaia. Vi nasce qui molto pepe. Il re è gentile, e gran signore di molto paese e di gran ricchezza, e di molti genti di guerra, i quali per la piú parte sono grandi arcieri.
Allontanandosi un poco dalla città, si distende una punta in mare, sopra la quale è posta una chiesa grande del glorioso san Tomaso, fatta per causa d'un miracolo che egli fece avanti che morisse: il quale li cristiani del paese mi affermarono averlo descritto nelli lor libri, che tengono con somma venerazione. E fu in questo modo, che ritrovandosi il prefato nella città di Coulan, dove tutti erano gentili, andando in abito povero convertendo le genti alla nostra fede, menava seco alcuni pochi compagni naturali del paese; e quivi una mattina apparve nel detto porto un legno grande che andava sopra l'acqua, il qual venne poi a dar in terra. La qual cosa intesa dal re, mandò subito molte genti ed elefanti per tirarlo in terra, ma non fu possibile che lo movessero; venuto poi il re in persona, manco lo poté far movere. Della qual cosa veggendo san Tomaso che il re si disperava, gli disse: "S'io lo cavo dell'acqua, sarete voi contento di darmi tanta terra, dove io possa far una chiesa in nome del nostro Signore Iddio, che qui mi ci ha mandato?" Il re, alzati gli occhi verso di lui con maraviglia, gli rispose: "Se tu vedi ch'io con tutto il mio potere non lo posso cavar, come hai tu speranza di farlo?" "Io lo cavarò, - disse san Tomaso, - con l'aiuto del mio vero Iddio, il qual ha maggior possanza di voi". Allora il re gli fece consegnare il terreno dimandato, e san Tomaso, accostatosi al legno, lo legò con un cordone e lo tirò in terra, dove aveva determinato di far la chiesa. Del qual miracolo rimaso stupefatto e attonito il re, con tutto il popolo che era concorso a veder tal cosa, ma non già per questo si volse far cristiano, ma molta gente si convertí. Il glorioso apostolo, fatti venir molti marangoni e segatori, cominciò a far lavorare in diverse parti il detto legno, il qual solo fu bastante a compir tutta l'opera della detta chiesa. E perché è costume fra gl'Indiani di dare alli maestri e altri lavoranti nell'ora del mezzogiorno una scodella di riso per mangiare, e come è sera una moneta d'oro basso, che chiamano fanan, il detto apostolo com'era il mezzogiorno pigliava una misura d'arena, la qual diventava subito riso, e lo dava alli maestri, la sera poi un pezzetto del detto legno, che si convertiva in un fanan, di sorte che si partivano tutti allegri e contenti. E a questo modo fu fatta la chiesa in Coulan, e il re la dotò di certa entrata, che le paga tutto il pepe che nasce nel paese, che ancora sino al dí d'oggi la riscuote.
Questi miracoli accrebbero molto la fama della santità sua, di sorte che molti popoli si convertirno alla fede cristiana, e ancora in questo regno di Coulan, il qual si estende fino alla fronte dell'isola di Zeilam, se ne trovano piú di dicessettemila case di detti cristiani, che hanno molte chiese sparse per il paese: ma la maggior parte di costoro mancano di dottrina, e alcuni anco del battesimo. Il re, veggendo questa novità di tanti che si facevano cristiani e dubitando che non gli facessero ribellare tutto il paese, cominciò a perseguitare il detto glorioso apostolo, il qual si ritirò in Coromandel nella città di Malepur, dove, dapoi ricevuto il martirio, fu sepolto, come si dirà qui di sotto. Questi Indiani cristiani, conoscendo che non erano ben instrutti della fede cristiana e che molti di loro, ancora che credessero, non erano battezzati, mandarono alcuni uomini pel mondo a imparar la dottrina cristiana e il modo del battezzare, i quali giunti in Armenia trovarono molti cristiani greci, con un patriarca che li governava. Costui, inteso la buona e santa intenzione di costoro, dette lor un vescovo con i suoi preti, i quali, andati in India, gli ammaestrorno nella fede e insegnorno lor il modo del battesimo e delli divini offizii, e stativi cinque o sei anni si dipartivano: e cosí di tempo in tempo hanno continuato di fare, e insino al giorno presente questi tali preti, stativi un tempo, se ne ritornano a casa in Armenia, e portano seco di gran ricchezza, perché vogliono da ciascuno che battezzano danari, che è cosa molto mal fatta, perché alcuni, per non ne avere, non si possono far battezzare. Questi Armeni sono uomini bianchi e parlano arabico, e hanno la Scrittura sacra in lingua caldea, e dicono l'uffizio al modo nostro. Portano la chierica sopra la testa al contrario delli nostri, cioè dove quelle de' nostri sono rase portano essi capelli; vanno vestiti con camicie bianche e fazzuoli atorno il capo, discalzi, con la barba lunga. Sono molto devoti: dicono la messa all'altare come li nostri, con una croce dinanzi, e sono tre, cioè uno in mezzo e un per banda. Communicansi con pane salato in luogo d'ostia, il qual consacrano per tutti quelli che stanno nella chiesa, e ciascuno ne va a pigliare uno pezzetto a piè dell'altare. Del sacramento del vino, perché in India non se ne trova, pigliano dell'uve secche che vengono dalla Mecca e da Ormuz, e postele a molle nell'acqua una notte, nel dí seguente che hanno a dire la messa le spriemono, e di quel succo si servono in vece di vino. E di questi tali se ne trovano molti che officiano in queste chiese d'India.
Trimangato.
Andando avanti pur per la costa verso mezzogiorno, vi è un villaggio di Mori e Gentili che si chiama Trimangato, dove similmente si esercita il navigare. Il paese e luogo è d'un signore parente del re di Coulan. Qui è grandissima abondanza di risi e carni di ogni sorte.
Capo di Cumeri.
Avanti pur per la detta costa è il capo di Cumeri, dove il paese di Malabar finisce, ma però nel detto regno di Coulan, che arriva ancora piú di 90 miglia avanti, fino a una città detta Cael.
Arcipelago d'isole.
Al traverso di questo paese di Malabar, da centoventi miglia in mare vi è un arcipelago d'isole, che gl'Indiani dicono essere da dicessettemila: e cominciano dal monte Dely, distendonsi verso il mezzodí. Le prime sono quattro isole piccole e piane, che si chiamano di Maldivar: sono abitate da Mori malabari, e dicono che sono del re Cananor. Non vi nasce in quelle altra cosa se non palmiere, dalli frutti delle quali, e del riso che conducono di Malabar, vivono gli abitanti in dette isole, e lavorano molte sartie del cairo, che è la coperta di cochi di dette palmiere.
Isole di Palandura, e di quante sorti di ambracan vi si trovano.
Al traverso di Pananie, Cochin e Coulan vi sono altre isole, delle quali dieci o dodici sono abitate da Mori berrettini, piccoli di corpo, che hanno lingua separata. Il re è moro, e fa la sua residenza in una isola detta Mahaldiu; e tutte le dette isole chiamano Palandura. Queste genti non hanno armi e sono uomini deboli, ma molto ingegniosi, e sopra tutto grandi incantatori. Il re di queste isole vien eletto per alcuni mercatanti mori naturali di Cananor, e lo mutano quando a lor piace, li quali sono tributati da lui ogni anno di sartiami e corde del cairo di palmiere, e di altre cose della terra: e vannovi detti Mori alle fiate a caricar senza dinari qualche nave, perché o per amor o per forza bisogna che gli diano quel che vogliono. Pigliasi appresso dette isole gran quantità di pesce, che seccato e insalato è gran mercanzia per diverse parti; per saorna delle navi che caricano, levano alcuni caracoli grandi e piccoli, o porcellette che vogliam dire di mare, che sono pregiate in molte parti e in alcune corrono per moneta bassa, e massimamente in Cambaia. Si lavorano in dette isole molti panni fini di bambagio, seta e oro, che sono stimati molto tra li Mori.
Si raccoglie dell'ambracan in gran quantità, in pezzi grandi, bianchi, berrettini e ancor neri. Spesse volte domandai ad alcuni di questi Mori, abitanti in dette isole, se sapevan come nasceva; mi dissero una loro opinione, la qual, ancor che io non l'abbia per vera, pur non voglio restar di scriverla. Dicono che l'ambracan è sterco di certi uccelli grandi che si trovano in alcune isole disabitate di questo arcipelago, che la notte stanno a dormire sopra alcune punte alte di scogli dove lo smaltiscano, e stando all'aere, al sole e alla luna di continuo si va affinando, e quivi sta tanto fin che si fa qualche gran tempesta o fortuna di vento che gonfi il mare fino alla cima delle punte di detti scogli, la quale sterpa e leva via detto sterco in pezzi grandi e piccoli, che vanno poi a nuoto sopra il mare sin che vengon ritrovati o vero gittati dall'onde su le spiaggie, overo son traghiottiti d'alcune balene. Quel che ritrovano bianco, dicono essere poco tempo che va per mare, e l'apprezzano piú dell'altro, e chiamanlo porabat. Il berrettino, detto puabar, dicono che è quello che molto tempo va per il mare, e che andando per l'acqua ha preso quel colore: lo stimano però per assai buono, ma non già come il bianco. Quello che trovano negro e macchiato, dicono essere stato mangiato dalle balene, e che nel ventre di quelle s'è fatto negro, e conciosiacosaché egli sia di tal virtú che né la balena né alcun altro animal terrestre che lo mangia lo possa digerire, però gli è forza di vomitarlo cosí intero come l'inghiottí: e questo chiamano minabar, il qual manco vale delli duoi sopradetti, ed è piú grave e di manco odore.
In queste isole di Mahaldiu fanno molti navilii grandi e piccoli di palmiere cuciti con corde di cairo, e sono fatti di tamuza, perché non vi è altro legname; e con questi navigano verso terra ferma, e sono piani e portano gran carico. E similmente vi fanno un'altra sorte di navili piccoli da remo, come bregantini, e fuste molto belle e buone da remo, con le quali si servono nell'andar da una isola all'altra, e anco passano verso la terra di Malabar. A queste isole capitano molte navi di Mori dalla China, Iava, Malacha, Sumatra, Bengala, Zeilam e Pegu, le quali attraversando per andar verso il mar Rosso, quivi pigliano acqua e rinfrescamenti per la lor navigazione, e alle volte arrivano tanto rovinate che le discaricano e lassano andar per perdute. E similmente fra queste isole se ne rompono di queste navi, conciosiacosaché, non avendo ardimento di passar appresso il paese di Malabar, per paura che i Portoghesi non le prendino, si mettono in alto mare, dove infra dette isole (che sono infinite) corrono grandissimo pericolo di rompersi.
Dell'isola di Zeilam e costumi degli abitanti.
Lasciando queste isole di Maldivar, andando avanti verso levante, dove dà volta capo Cumeri, vi si trova una bellissima e grande isola, che li Mori arabi, persiani e di Soria chiamano Zeilam, e gl'Indiani Tenarisim, che vuol dir terra delle delizie. È abitata da Gentili, e il re è gentile; nei porti di mare della detta isola vi stanno assai Mori, in luoghi molto populati, che sono gran mercatanti; e tutti gli abitanti, cosí mori come gentili, sono naturalmente grandi di persona e quasi bianchi, e per la maggior parte grassi e col ventre grande, e molto dati alle delizie. Non attendono all'armi, e manco ve n'hanno, ma a darsi buon tempo e alla mercanzia. Vanno ignudi dalla cinta in su, e da lí in giú si coprono con panni ricchi di seta e di bambagio finissimi, con fazuoli atorno il capo; l'orecchie tutte sbucate con molti pendenti d'oro, di pietre preziose, e in tanto numero e cosí grosse che le orecchie gli pendono fin sopra le spalle; nelle dita molti anelli di bellissime gioie; hanno cinture con le quali si cingono, tutte fatte d'oro con gioie incastrate. Il parlar di costoro è parte di Malabar e parte di Coromandel. Molti Mori malabari vengono a stanziare in questa isola, per esser in grandissima libertà; oltra tutte le commodità e delizie del mondo, è paese di temperatissimo aere, e gli uomini vivono piú longamente che in alcuna altra parte dell'India e sempre sani, e pochi sanno quel che si sia malattia.
Qui nascono molti frutti, e quelli anco eccellenti: li monti sono coperti di naranci dolci e garbi di tre o quattro sorti di sapore, e alcuni hanno la scorza piú dolce che non è il succo, e ancora maggiori del pomo d'Adamo; limoni d'una garbezza dolce, alcuni grandi e altri piccolini dolcissimi, e molte altre sorti di frutti che non si trovano nelle nostre parti; e gli arbori di continuo sono carichi tutto l'anno, e di continuo si veggono fiori, frutti, e maturi e immaturi. Vi si trova grandissima abondanza per il vivere d'ogni sorte di carni di diversi animali e uccelli, e tutte delicate, e similmente copia grande di peschi che si pigliano appresso l'isola. Riso ve ne è poco, perché lo conducono la maggior parte del paese di Coromandel, e questo è il principal fondamento del lor vivere. Hanno grandissima abondanza di bonissimo mele e di zucchero, che vien condotto di Bengala; il botiro nasce nell'isola in copia grande. La miglior cannella che sia in queste parti nasce in questa isola sopra li monti: l'arbore è simile al lauro, e il re dell'isola fa tagliar in certi mesi dell'anno li rami piú sottili e levargli la scorza, la qual si vende per suo conto ai mercatanti che ivi la vanno a comprare, conciosiacosaché altri che il re non la possa far raccogliere. Vi sono similmente molti elefanti selvatichi, i quali il re fa pigliare e dimesticare, e poi gli vende a' mercatanti di Coromandel, Narsinga e Malabar, e del regno di Decan e Cambaia, che vanno sin lí per comprarli.
Del modo che pigliano gli elefanti e poi gli fanno domestichi in Zeilam.
Il pigliar delli detti si fa in questo modo. Hanno alcuni altri elefanti mansueti, e massime femine, i quali con catene legano ad un arbore grossissimo nelle montagne e boschi dove sogliono praticare, e intorno a quello fanno da tre in quattro fosse grandi e profonde, le quali ricoprono con frasche di legni sottili, buttandovi sopra della terra, di modo che non si veggono. Gli elefanti selvatichi, vedendo la femina, se ne vanno a lei con impeto e cadono nelle fosse, dove gli tengono sette o otto giorni mezzi morti da fame, standovi di giorno e di notte a torno, parlandogli sempre per non gli lassar dormire, e gli travagliano tanto che lassano quella ferocità e si fanno mansueti; poi li cominciano a dar da mangiare con le lor mani, e pian piano a mettergli catene molto grosse d'intorno, e come veggono che si lasciano maneggiare, gli buttano della terra e frasche tante che, empita la fossa, lo elefante può montando uscirsene fuori, dove, legato ad un arbore, gli fanno fuochi intorno per alcuni giorni, e stannovi uomini di continuo accarezzandogli e parlandogli, ma a poco a poco gli van porgendo il mangiare. Con queste arti li fanno domestichi e obbedienti, e ne pigliano di grandi e di piccoli, e maschi e femine, e alle volte duoi al tratto in una di dette fosse. Questa è appresso di costoro una grandissima mercanzia, perché vagliono molto e sono molto stimati dalli re d'India per cagion della guerra, e anco per fargli affaticar in diversi servizii, perché diventano cosí domestici e intelligenti che ad ogni cenno ubbidiscono come se fossero uomini. Li migliori e li piú ammaestrati vagliono, in terra di Malabar e Coromandel, da mille insino a millecinquecento ducati l'uno, e alcuni seicento ducati, secondo la disciplina che hanno imparata; nondimeno sopra l'isola s'hanno per poco prezzo, ma si traggono fuor per conto del re, che gli paga a quelli che gli pigliano.
Delle gioie che si trovano in Zeilam.
Si trovano in detta isola molte gioie, come sono rubini, che lor chiamano marucha, iacinti, topazii, iagonzas, crisoliti, occhi di gatti, che son tanto stimati fra gl'Indiani come se fossero rubini. Tutte queste gioie fa raccoglier il re, e per suo conto si vendono. Ha di continuo uomini che le van cercando nelle montagne e rotture di quelle, dove nascono li fiumi, e son gran gioiellieri, e cosí pratichi e intelligenti che, se dalla montagna gli vien portato un pugno di terra, veggendola di subito conoscono se ella è di minera di rubini o vero d'altre gioie. Quivi il re le fa cavare, e avute fa separar l'una sorte dall'altra e sciegliere: e le migliori tutte son per suo conto, le quali fa acconciar e vendere alli forestieri; l'altre pietre grezze e piccole vende immediate alli mercatanti del paese, o vero lassa a quelli che le han fatto cavare, avendoli pagato il terreno. Li rubini che quivi nascono per la maggior parte non sono tanto accesi di colore come quelli che nascono in Ava e Capellan, di quali piú di sotto si parlerà, ma quelli che si ritrovano di perfetto colore in Zeilam sono fra gl'Indiani piú stimati che non sono quelli di Pegu, perché dicono che sono piú duri. E per farli piú carichi di colore li pongono nel fuoco in questo modo, che si trovano delli gioiellieri che stanno col re tanto intelligenti e pratichi che, se veggono una pietra, immediate sapranno dir: "Questo rubino sopporterà tante ore di fuoco e diventerà molto buono". E il re allora, col consiglio di costoro, li fa metter in fuoco di carbone, che sia forte, per quello spazio di tempo che arà detto il gioielliero, e se lo sopporta senza rompersi diventa molto perfetto di colore e di gran valuta. E cosí tutte le dette gioie si cavano e si lavorano a un medesimo modo. Trovasi alle fiate che alcuna di queste tal pietre sarà metà rubino e l'altra zaffiro, e dell'altre la metà topazio e l'altra zaffiro, e cosí occhio di gatta. Delle quali gioie il re ne ha un gran tesoro, perché, come si riscontra in qualcuna che sia ricca e di prezzo, subito la fa serbare nel suo tesoro.
Del pescar delle perle in Zeilam.
Appresso la detta isola in mare vi è una secca coperta di dieci in dodici braccia di acqua, dove si trova grandissima quantità di perle minute e grosse, molte fine, e alcune fatte in forma di pero. Quivi li Mori e Gentili d'una città chiamata Cael, del re di Coulam, vengono due fiate l'anno a pescarle per l'ordinario, e le trovano in ostriche che sono piú piccole e piú liscie che non sono quelle delle nostre parti. Sommergendosi gli uomini le trovano nel fondo, dove durano gran pezzo di ore. Le perle minute sono di coloro che le ricolgono, ma le grandi sono per conto del re, che ivi tiene un suo fattore, al qual di piú gli danno certi diritti per aver licenza di pescare.
Delle sorte di mercanzie che si cavano e si portano in Zeilam.
Il re di Zeilam fa residenza di continuo in una città che si chiama Colmucho, che è posta sopra un fiume, con un buon porto dove ogni anno capitano molte navi da diverse parti a caricar cannella, elefanti, e portano oro, argento, panni di Cambaia di bambagio finissimi, e di molte altre sorte di mercanzie, come è zaffarano, coralli, argento vivo e cinaprio; e nell'oro e argento vi è maggior guadagno, perché val piú quivi che altrove. Similmente vi vengono molte navi di Bengala, Coromandel, e alcune da Malaca, per comprare elefanti, cannella e gioie. In questa isola vi sono altri quattro o cinque porti, luoghi abitati dove si fanno gran traffichi: e son governati per altri signori, nepoti del re di Zeilam, a obbedienza del quale stanno, ancora che alle fiate se gli levino contra.
Del monte di Zeilam dove vanno in peregrinaggio.
Nel mezzo di questa isola vi è un'altissima montagna, in cima della quale si vede un sasso assai alto, e ivi vicino uno stagno d'acqua chiara che di continuo risorge. Nel detto sasso è fatta la forma delli piedi d'un uomo, che gl'Indiani dicono essere la pedata del nostro primo padre Adam, che essi chiamano Adam Baba: e di tutte quelle parti e regni vengono i Mori in peregrinaggio, dicendo che di lí ascese in cielo il padre Adam. E vanno vestiti in abito di peregrini, legati con catene di ferro, e coperti di pelli di leonze e di leoni e d'altri animali selvatici; sopra le braccia e gambe portano alcuni bottoni che hanno le punte acute, che camminando gli vanno battendo e faccendo di continuo piaghe che buttano sangue, il che dicono che fanno in servizio di Dio e di Macometto e di Adam Baba. Alcuni di costoro portano seco gran quantità di denari, per investirgli in gioie nell'isola da persone particolari, e le portano fuori poi con gran secretezza. Avanti che arrivino alla montagna dove è la detta pedata, convien che passino per terre paludose, valli e campagne piene d'acqua e fiumi: e questo cammino dura da 15 in 18 miglia, che vanno insino alla cinta per l'acqua; e tutti portano coltelli in mano per levarsi dalle gambe le sansughe, che sono infinite, il che se non facessero, sariano morti da quelle. E arrivati alla montagna cominciano a salirla, ma non possono salir sino al pinnacolo se non attaccati ad alcune scale fatte di catene di ferro molto grosse, che son poste all'intorno di esso; e giunti in cima si lavano in quello stagno d'acqua, e fatte le loro orazioni dicono di restar salvi e netti di tutti li lor peccati.
Questa isola di Zeilam è molto vicina a terra ferma, e infra essa e l'isola vi sono alcune bassure, dove è un canale che gl'Indiani chiamano Chillam, e per mezzo di questo passano tutti li zambuchi di Malabar per andar in Coromandel: e ogni anno molti se ne periscono in questi bassi, e perché il canal è molto stretto. Nell'anno che l'admirante fu la seconda volta nell'India, se ne persero in quei bassi tante navi e zambuchi di Malabar che in quelli vi si annegorno dodicimilia Indiani, quali venivano con vettovaglie, determinati di scacciar l'armata di Portogallo fuor dell'India, senza lasciarla pigliar alcun cargo.
Del paese del re di Coulam.
Lasciando questa isola di Zeilam e tornando sopra terra ferma, dove volta capo Cumeri si trova subito la terra del re di Coulam, e di altri signori che gli sono soggetti e vivono in quella, la qual si chiama Quilacare. Vi sono di molti gran luoghi abitati da Gentili, con molti porti di mare dove stanziano molti Mori naturali del paese, che navigano con navili piccoli che chiamano campane. A questi porti vengono li Mori di Malabar a contrattare e portar mercanzie di Cambaia, che quivi vagliono molto, e alcuni cavalli, e caricano gran quantità di riso e panni per Malabar.
In questa provincia di Quilacare è una casa d'orazion di Gentili, ove sta uno idolo che essi hanno in grandissima venerazione, e ogni dodici anni gli fanno una gran festa, dove concorrono tutti i Gentili come a un giubileo. Ha sotto di sé detta casa d'orazione molte terre, villaggi ed entrate per gran somma di danari, da non poter credere. In detta provincia vi è un re separato, il qual non può regnar piú di dodici anni, cioè da un giubileo all'altro. La sua renonzia si fa in questo modo, che, compiti li dodici anni, il giorno della festa si congregano infinite genti, dove si spendono gran quantità di denari in dar da mangiare ai Bramini, che quivi tutti concorrono. Il re fa far un palco alto di legnami, tutto coperto di panni di seta, e in quel giorno si va a lavar in uno stagno con molte cerimonie e con gran suoni e canti, il che fatto se ne viene all'idolo a far la sua orazione, la qual compita ascende sopra il palco e quivi, in presenza di tutto il popolo, con un coltello tagliente si comincia a tagliar il naso, e poi le orecchie e i labri e cosí gli altri membri, e tutta la carne che si leva da dosso la gitta con gran furia verso lo idolo, e uscendogli tanto sangue che gli cominci a mancar la virtú, allora egli medesimo si taglia la canna della gola e fa di sé sacrificio all'idolo. Quello che vuol regnar dopo costui altri dodici anni e soffrire quel martirio, è obligato di star ivi presente a veder questa festa, perché compita subito l'alzano per re.
Cael città.
Passata la provincia di Quilacare, per la costa avanti verso il vento di greco vi è un'altra città che si chiama Cael, quale è del re di Coulam, popolata da Gentili e Mori gran mercatanti: ed è porto di mare, dove ogni anno capitano molte navi di Malabar, di Coromandel, di Bengala. Quivi si contrattano tutte le sorti di mercanzie di tutte le parti. Le genti di questa città sono valenti gioiellieri, e che attendono alla mercanzia di perle minute, perché quivi se ne pigliano gran quantità: e questa pescagione è del re di Coulam, ed è affittata a un mercatante moro molto ricco già molti anni. Costui è quasi tanto stimato in questo paese quanto il re, e fa giustizia fra li Mori senza che 'l re se ne impacci. Quelli che pigliano le dette perle, come per avanti si è detto, pescano tutta la settimana per loro, il venere per il padron della barca, e del fin del tempo che ivi stanno pescano tutti insieme una settimana per conto di questo Moro, oltra il dazio che gli pagano delle minute. Le perle grosse sono per conto del re di Coulam, il qual fa di continuo residenza appresso questa città, è molto ricco e potente di molte genti di guerra, che sono grandissimi arcieri. Alla sua guardia stanno di continuo da quattrocento in cinquecento donne arciere, ammaestrate da piccole, che son molto leggiadre. Molte volte detto re suole aver guerra col re di Narsinga, che gli vuol torre lo stato, ma si defende molto bene.
Coromandel provincia.
Continovando per la costa avanti e volgendosi verso tramontana, questo paese si chiama Coromandel, il qual è da sessanta in ottanta leghe, che sono centoottanta in ducentoquaranta miglia, pur andando dietro la costa, nella qual vi son molte città, ville, luoghi di Gentili, e anco il regno di Narsinga, terra molto abbondante e grassa d'infinito riso, carne, formento e di ogni sorte di legumi, perché ha campi grassi e fertili. Qui vengono molte navi di Malabar a caricare del detto riso, e vi portano molte altre mercanzie di Cambaia, cioè rame, argento vivo, cinaprio, pevere e altre per tutto il paese di Coromandel, dove si trovano molte sorti di spezierie e drogherie e altre mercanzie di Malacha e Bengala, che le navi di Mori vi conducono dalle dette parti, non avendo ardimento di passarsene in Malabar per paura de' Portoghesi. E ancor che questo paese sia molto abbondante, se accade che alcun anno non vi piova, vi vien la fame cosí grande e terribile che in quella molti ne muoiono, che vengono in tanta estremità che per duoi o tre fanan, che vagliono trentasei maravedis l'uno, vendono li proprii figliuoli per avere un poco da vivere; in questo tal tempo li Malabari gli conducono del riso e se ne ritornano con le navi cariche di schiavi. E tutti li mercatanti detti Chetii, gentili, che vanno per l'India, sono naturali del paese di Coromandel, li quali sono molto sottili d'ingegno e grandi contatori e valenti mercatanti. Nei porti di mare praticano infiniti mercatanti mori naturali del paese, e sono uomini che van di continuo navigando.
Malepur.
Avanti per la costa, passata la costa di Coromandel, vi si trova una città quasi disabitata, molto antica, che si chiama Malepur, che nel tempo passato fu città grande del re di Narsinga: quivi è sepolto il corpo del glorioso apostolo san Tomaso, in una piccola chiesa vicina al mare. Li cristiani di Coulan che seguitano la sua dottrina dicono avere nelle lor memorie che, essendo il detto glorioso apostolo perseguitato dalli Gentili, se ne venne di Coulan ad abitar in questa città con li suoi compagni, la qual in quel tempo era lontana dal mare circa sei miglia: ma pare poi che il mare sia andato tanto rodendo il paese, che se è fatto vicino come egli è ora. In questa città avendo cominciato a predicare, convertiva molti alla fede cristiana, per il che alcuni Gentili lo cominciarono a perseguitare, cercandolo far morire: e per questa causa il detto, allontanandosi dalle genti, se ne andava per li boschi e monti faccendo vita solitaria. Par che un giorno un gentile, andando alla caccia con un arco, vidde sopra un monte che erano posti insieme molti pavoni, e nel mezzo vi era una cosa alta tutta splendente, posta sopra una pietra piana, ma per lo splendore non poteva discerner ciò che fosse. Qui, fatto animo, tirò con una freccia nel mezzo, e li pavoni si levorno a volo, ma egli sentí di aver dato come nel corpo di un uomo, per la qual cosa corse subito e lo vidde cadere in terra morto. E venuto nella città e contato per ordine alli governatori ciò che gli era avvenuto, quelli andarono a vedere e cognobbero essere il corpo del glorioso apostolo, e che sopra la pietra dove ei cadde era restata la forma delli piedi impressa nel sasso; e compunti nel cor dissero: "Costui era uomo santo, e noi non lo credevamo", e lo volsero sepellire nella chiesa dove ora sta, e posero la pietra con la forma de' piedi appresso la sepoltura. Dicono che nel sepellirlo mai poterono coprirgli il braccio destro, che sempre restava di fuori, e se gli coprivano tutto il corpo il giorno seguente ritrovavano il braccio fuori: e cosí lo lasciorno stare. Li cristiani suoi discepoli gli edificorno quella chiesa, e li Gentili l'ebbero in somma venerazione. E si dice che egli stette col braccio fuori per grande spazio di tempo, e che venivano genti da diverse parti in peregrinaggio a visitarlo per divozione, e che alla fine vi vennero dei popoli dalla China, li quali volsero levargli via quel braccio e portarselo per reliquia: e volendolo tagliar, dicono che se lo tirò dentro e che piú non si è stenduto. Questa sepoltura è posta in una piccola capella di una chiesa, dove risplende d'infiniti miracoli; li Mori e Gentili l'hanno in gran divozione, e ciascuno pretende che ella sia sua. La chiesa è ordinata al modo nostro, con croci sopra l'altare; è fatta in volto, e di sopra vi è una gran croce di legno. La fabrica della chiesa è molto vecchia e mezza ruinata, e ha all'intorno delle spine e siepi, e vi è un Moro che ha il carico di quella, e dimanda limosina per lui e per tenervi una lampada di continuo accesa. Li cristiani dell'India tutti vi vanno in peregrinaggio, e quando si partano, portano per gran reliquia un poco di quella terra che è appresso la sepoltura del detto glorioso apostolo.
Paleacate.
Andando pur avanti per la costa, si trova un'altra città del regno di Narsinga, abitata da Mori e Gentili gran mercanti e ricchi: ha porto di mare, dove capitano infinite navi di Mori di molte parti con assai sorti di mercanzie, che vanno molto fra terra del detto regno, e vi è un gran traffico; e si vendono molte gioie che son portate da Pegu, e massimamente rubini e spinelle molto buone, e ne fanno buon mercato a chi le sa comperare; e vi si conduce molto muschio. Il re di Narsinga vi tiene suoi governatori, e alcuni che riscuoteno le sue entrate. Quivi si fa gran quantità di panni di gottone finissimi dipinti, che vagliono molto in Malaca e Pegu e Sumatra e nel regno di Guzzerati e anco in Malabar, per far vestimenti di Mori e Gentili. Quivi vale molto il rame, l'argento vivo e cinaprio, e altre cose di mercanzia che vengono di Cambaia; sono similmente in gran prezzo in questo luogo panni scarlatti, coralli, zaffrano, velluti della Mecca e sopra tutto acque rosate.
La montagna detta Udirgimale.
Passata la città di Paleacate, per la costa avanti, che va voltando alla tramontana verso Bengala, vi si trovano molti altri luoghi del regno di Narsinga, e massimamente la montagna detta Udirgimale, dove finisce il regno di Narsinga e comincia quel di Orixa.
[Qui mancano molte righe.]
Regno di Orixa.
Passato il regno di Narsinga, avanti per la costa comincia il regno di Orixa, che è di Gentili, che sono uomini valenti e molto esercitati nell'armi, perché quasi di continuo questo re tien guerra con quello di Narsinga, ed è molto potente di genti a piedi. La maggior parte del suo paese è lontana dal mare, sopra il qual vi son pochi porti e anco di poco traffico; questo paese si prolonga dietro la costa del mare sin al fiume Gange, che nella loro lingua chiamano Guengua, e dall'altra parte del detto fiume comincia il regno di Bengala, col quale alcune volte questo re ha guerra. A questo fiume Gange vanno tutti gl'Indiani in peregrinaggio con gran divozione a lavarsi, perché hanno firmissima fede che, dapoi lavati, siano netti di tutti li lor peccati e per questo salvi, conciosiacosaché il detto fiume vien da un fonte il qual ha il suo principio nel paradiso terrestre. È larghissimo e profondo, con le ripe da una banda e l'altra e molto amene e belle, e tutte abitate di grandissime e ricchissime città di Gentili. Fra il fiume Eufrate e il Gange è la prima e seconda India, terra molto grossa, abbondante e sana, de aere temperato; passato questo fiume verso Malacha, è la terza India, e questo è secondo l'opinione de' Mori.
Bengala.
Passato il Gange, per la costa avanti verso levante sta il regno di Bengala, nel quale vi sono molti luoghi e città, cosí fra terra come dietro la costa del mare. Quelli fra terra son abitati da Gentili, che stanno sotto l'obbedienza del re di Bengala, il quale è moro; e li porti da mare sono pieni di Mori e Gentili, fra li quali vi sono gran traffichi di mercanzie e navigazioni per molte parti, perché questo mare è a modo d'un golfo che entra verso tramontana, in capo del quale è posta una gran città abitata da Mori, che si chiama Bengala, con un buon porto. Li abitatori di quella sono uomini bianchi, ben disposti, e vivono in detta città infiniti forestieri di molte parti, cosí di Arabia come di Persia e abissini. E per essere il paese molto grande e di aere temperato, vi concorrono infinite persone, e tutti gran mercatanti, e hanno delle navi grandi fatte al modo di quelle della Meca, e altre al modo di quelle della China, che chiamano giunchi, che sono molto grandi e portano gran carico: e con queste navigano verso Coromandel, Malabar, Cambaia, Tarnasseri, Sumatra, Zeilam e Malaca, e trafficano ogni sorte di mercanzie da una parte all'altra. Vi nasce di molto bambagio, e di quello che è fino, e molte canne di zucchero e gengievo buono e molto pepe lungo. Si lavorano quivi molti panni di bambagio eccellentemente dipinti per il lor vestire, e alcuni altri bianchi che sono per mercanzia per diverse parti, e li chiamano saranetis, che sono vergati come fazzuoli da donne, delli quali quivi se ne fa grandissima stima: e li Arabi e Persiani ne fanno le tocche o vero fazzuoli per la testa, in tanta quantità che ne caricano navi per diverse parti; ne fanno anco alcuni detti mamuna, altri daguza, altri cautares, altri topazii e sinabaffi, e sono molto stimati per far camicie, perché durano longamente. Sono tutti di lunghezza di braccia venticinque veneziane, un poco piú o manco, e se n'ha buon mercato; son filati da uomini a molinello, e poi tessuti. In detta città si fa zucchero bianco e buono, ma non lo sanno fare in pani ma in polvere, e lo mettono in sacchi di tela coperta di cuori crudi e ben cuciti, e ne caricano molte navi per diverse parti. Quando questi mercatanti potevano andare liberamente senza paura alle parti di Malabar e Cambaia con le lor navi, valeva in Malabar il cantaro di detto zuccaro duoi ducati e mezzo, una pezza di tela detta beatillas per far tocche da donne trecento maravedis, un panno detto cautare seicento; e quelli che conducevano dette mercanzie guadagnavano molti danari. Fanno in questa città di Bengala molte conserve di gengevo verde e buono, di naranzi, limoni e di altri frutti che nascono nel paese, che sono eccellenti acconci col zucchero. Trovansi quivi molti cavalli, vacche, castroni e di ciascuna sorte di carne d'animali in molta abbondanza, e sopra tutto galline, che sono grandissime e smisurate. Li Mori mercatanti di questa città vanno fra terra a comprar garzoni piccolini dalli lor padri e madri gentili e da altri che gli rubbano, e li castrano levandoli via il tutto, di sorte che restano rasi come la palma della mano: e alcuni di questi moiono, ma quelli che scampano gli allevano molto bene, e poi vendono per cento e ducento ducati l'uno alli Mori di Persia, che gli apprezzano molto, per tenerli in guardia delle lor donne e della lor robba e per altre disonestà.
Li Mori onorati di questa città vanno vestiti di certe camicie moresche larghe sino in terra e bianche e sottili, e di sotto un panno cinto dal traverso in giú, e sopra la camicia un almaizar di seta cinto con una daga tutta fornita di argento, e nelle dita molti anelli con gioie ben ricche, sopra il capo una tocca, cioè un fazzuolo di bambagio sottilissimo. Sono uomini disordinati nel mangiare e bevere, e in molti altri vizii appresso. Hanno li lor stagni di acqua in casa, dove molte volte si vanno a lavare. Tengono molti servitori, e tre o quattro mogli e quante ne possono mantenere, ma le fanno star rinchiuse, e vestono di continuo superbamente con panni di seta e con gioie ricchissime e manigli di oro. Queste donne sogliono di notte uscir di casa a vedersi l'una l'altra, e far feste e allegrezza e bever vino. In questa terra si fanno vini in diverse maniere, e principalmente del zucchero di palma e d'alcune altre cose che nascono nel paese: questi tali vini piacciano mirabilmente alle donne, e sono infra loro molto usati. Quivi si trovano gran musici di cantare e sonar diversi instrumenti con grande arte. Gli uomini bassi vanno vestiti con certe camicie piccole bianche sino a mezzo il ginocchio, e con braghesse, e sopra il capo tocche, cioè fazzuoli piccoli che gli danno tre o quattro volte attorno; alcuni con scarpe di cordovano, altri con scarpe alla apostolica molto ben fatte, dorate e lavorate con seta. Il re è un gran signore, molto ricco e potente, e signoreggia gran paese abitato da Gentili, delli quali molti ogni giorno si vanno faccendo mori, per esser favoriti dal re e dalli suoi governatori. Ha detto re molte altre terre piú avanti nel detto golfo, popolate da Mori e Gentili, cosí dentro fra terra come sopra la costa del mare, che dà volta verso mezzogiorno.
Regno di Verma.
Passato il detto regno di Bengala, per la costa avanti che si volga verso mezzodí è posto un altro regno di Gentili chiamato Verma, nel qual non vi sono Mori, né alcuno porto di mare dove si possino servire di farvi alcun traffico di mercanzie. I naturali di questo regno sono negri, e vanno ignudi: solamente si cuoprono le parti vergognose con panni di gottone. Hanno le loro idolatrie particulari, e case d'orazione. Molte volte hanno guerra col re di Pegu. Di questo paese non avemo altra notizia né informazione, perché non vi si può navigare; solamente sappiamo che confina da una parte col regno di Bengala e dall'altra con quello di Pegu.
Aracan regno.
Dentro fra terra del detto regno di Verma, verso tramontana, vi è un altro regno di Gentili molto grande, che non tiene porto di mare; confina similmente col regno di Bengala e col regno di Ava, e chiamasi Aracan. Il re e gli altri abitanti sono gentili. Dicono che ei possiede molte città, terre e ville, e ha molti cavalli ed elefanti, li quali elefanti vengono condotti dal regno di Pegu. Sono uomini berrettini, vanno ignudi dalla cintura in su, e da quella in giú si cuoprono con panni di gottone e di seta; usano molti concieri intorno la persona d'oro e di gioie ricche. Hanno in somma venerazione li loro idoli, e gli fanno di gran case d'orazione. Il detto re è molto ricco di danari e molto potente di gente da guerra, la qual fa spesso con li popoli vicini, alcuni delli quali gli danno obbedienza contra la loro volontà, e anco tributo. Vive molto delicatamente, e ha palazzi in tutte le terre del suo paese, con tutte le commodità e delizie che si possino imaginare, con molti stagni d'acque chiarissime, e giardini con verdure, fiori, e con ogni sorte d'arbori fruttiferi. Tien molte donne deputate alli suoi piaceri; non ha legge né ordine alcuno di matrimonio. Ha dodici palazzi fra li sopradetti posti in dodici città del suo regno, nelli quali fa allevar quelle donne che vuole avere a' suoi piaceri in questo modo, che in ciascuna città ha un governatore, il qual piglia ogni anno dodici fanciulle nate in detto anno, figliuole de' principali uomini e delle piú belle che ei trovi, e le fa allevare a spese del re in detti palazzi sino alla età di dodici anni: e sono molto ben vestite e ben ammaestrate nel ballare, cantare e sonare, di modo che di continuo ne ha in detti palazzi e delle grandi e delle piccole. E ogni governatore in capo dell'anno mena sempre al re, dove ei va o vero fa residenza, dodici di queste fanciulle di dodici anni l'una, delle quali il re ha per costume di farne una lor antica prova, continuata per li re passati già molti anni, e senza la quale il re non permetteria ch'ella entrasse in camera sua, né si accostasse alla persona sua. La prova è questa, che fanno che queste fanciulle siano lavate e poi vestite di drappi novi bianchissimi di bambagio, sopra li quali vi scrivono il nome di ciascuna e del padre e della città; poi la mattina a buon'ora, essendo digiune, le fan montare sopra una terrazza dove batte il sole. Quivi stanno sin a mezzogiorno, e affannate dal caldo sudano tanto che vanno tutte in acqua, che gli trapassa tutti li vestimenti. Dipoi, fattele mutare di vestimenti novi, li sudati sono portati al re, i quali ad uno ad uno va odorando, e quelli che ei trova che non abbian buon odore li dona, e fa grazia alli suoi gentiluomini e cortigiani che sono quivi presenti a pigliare queste tali vesti, perché con quelle s'intende che la fanciulla sia sua, e se la fa venir a casa; l'altre, che hanno buono odore, tiene per sé: e dicono che con questa esperienza si conoscono quelle che sono sane e di buona complessione. E cosí di continuo si osserva questa usanza e ordine, e ogni anno gli vengono condotte da queste dodeci città centoquarantaquattro, fanciulle, e le scieglie come è detto. E ha anco molti altri palazzi deputati per andar a caccia d'uccelli e d'animali, e dove fanno diversi giuochi, musiche e conviti suntuosi.
Il regno di Pegu.
Voltandosi alla costa del mare, passato il regno di Verma verso sirocco, si trova un altro regno di Gentili molto ricco e copioso, di gran traffico di mercanzie per navicarle per mare, il qual si chiama Pegu. Questo regno ha tre o quattro porti da mare, dove abitano infiniti Mori e Gentili, grandissimi mercatanti; e la propria città di Pegu è lontana dal mare da ventiquattro in trenta miglia, sopra un ramo d'un fiume grandissimo che corre per questo regno, e dicono che vien d'alcune montagne altissime, e che in certi mesi dell'anno fa cosí gran crescere ch'egli esce fuori del vaso e bagna un grandissimo paese, che poi seminato produce una gran copia di riso. Si caricano in detti porti molte vettovaglie sopra le navi, che hanno tre o quattro arbori, le quali essi chiamano giunchi, per Malacha, Sumatra e altre parti, e sopra tutto gran quantità di riso, zucchero di cannemele in rottami e in pani. A detti porti di Pegu, vi capitano anco molte navi di altre e diverse parti, con panni di Cambaia, di Paleacate, di bambagio dipinti e di seta, che gl'Indiani chiamano patolas, che sono quivi in grandissimo prezzo; portano similmente zafferano, rame, panni scarlatti di grana, coralli tondi e in branchi e acconci, argento vivo, cinaprio, acqua rosa e alcune drogherie di Cambaia. E quivi caricano lacca, che vi nasce molto fina, e similmente v'è un gran traffico di macis, garofani, e d'altre mercanzie che vengono dalla China, muschio e rubini, che sono portati quivi dal paese di dentro e da una città detta Ava, della qual di sotto se ne dirà.
Li abitanti di questo regno vanno ignudi, solamente cuoprono le parti vergognose; non sono uomini atti alla guerra, né tengono troppo armi, e anco quelle triste. Sono molto lussuriosi e dediti alle donne, alle quali per far piacere portano sopra il lor membro alcuni sonagli rotondi, che gli sono stati appiccati e saldati fra la pelle e la carne: e alcuni ne portano tre, altri cinque e sette, chi d'oro e chi d'argento o vero d'ottone, che vanno sonando per la strada quando camminano, e lo reputano per gran gentilezza, con li quali le donne se ne pigliano gran piacere, e non vogliono uomini che non gli abbiano; e quelli che sono persone di piú riputazione gli portano piú grandi. Il lor re si chiama il re dell'elefante bianco, e in detto regno vi sono grandissime montagne nelle quali nascono molti elefanti, e per l'ordinario non è mai giorno che non ne piglino qualche uno, il quale il re fa dimesticare e allevare: e per tal causa n'ha sempre tanta quantità che ne vende a' mercatanti, che quivi gli vanno a comprare per condurli a Paleacate, onde passano poi a Narsinga, Malabar e Cambaia. Similmente cavano molti ronzini che vanno di portante, delli quali molto se ne servono gli abitanti, ed etiam vi sono cavalli, i quali usano di cavalcare alla bastarda, con li quali, accompagnati con gli elefanti e genti da piedi, fanno la guerra. Sonvi ancora in detto regno molti castroni, e porci selvatici e domestici; gli abitatori sono gran cacciatori d'essi, e ne costumano pigliare molti.
Il porto di Martabane.
In questo regno di Pegu, verso Malacha, vi son tre o quattro porti di mare del detto re, delli quali non so il nome; ma fra gli altri ve ne è un buono che si chiama Martabane, al qual capitano molte navi, che ivi caricano molte vettovaglie e altre mercanzie, e spezialmente lacca molto fina che nasce in questo paese, la qual li Persiani e Indiani chiamano lacomartabani. Ne nasce similmente nel paese di Narsinga: non è però cosí buona come questa. Questa lacca dicono essere gomma d'arbori; altri dicono che si produce sopra li rami degli arbori sí come nelle nostre parti si fa la grana, e questa ragion mi pare che vada piú al naturale e verisimile. La portano in vasi piccoli, conciosiacosaché non ne debbono raccogliere troppo. Si lavorano in questo luogo di Martabane grandissimi vasi di porcellana bellissimi e invetriati di color negro, avuti in sommo pregio appresso li Mori, li quali gli levano di qui come la maggior mercanzia che possino avere; levano similmente molta quantità di benzuí fatto in gran pani.
Ava città.
Dentro fra terra, piú avanti del regno di Pegu, fra il regno di Aracam e quello di Siam, vi è un altro regno di Gentili, nel quale il re fa residenza di continuo in una grande e ricca città detta Ava, piena di molti mercatanti ricchi. Quivi è un traffico grande d'ogni sorte di gioie, e massimamente di rubini e spinelle, le quali si raccolgono in quel paese: vi concorrono molti mercatanti forestieri da diverse parti a comprarle, e similmente del muschio, il qual qui si trova, e il re lo vuol tutto nelle sue mani, e per suo conto lo fa vendere alli mercatanti del paese, che lo vendono poi alli forestieri, li quali portano dell'argento vivo, cinaprio, coralli, rami e zaffarano, acque rosate, anfiam, grana, velluti alti e bassi dalla Mecca, e altre cose che vengono dal regno di Cambaia. Vendonsi ivi le gioie e il muschio per buon mercato, e a baratto delle sopradette mercanzie. Questi rubini e spinelle si trovano nelle montagne, nelle rotture dove corrono li fiumi, faccendovi delle cave e mine e andando al profondo; ne trovano anco nella superficie della terra. Gli uomini di questo paese sono eccellenti gioiellieri e gran maestri, sí in cognoscere le pietre come in acconciarle.
Il muschio si trova in alcuni animali piccoli bianchi, simili alle gazele, le quale hanno i denti come gli elefanti, ma piú piccoli. A questi animali nascono come aposteme sotto il ventre e il petto, al modo d'una chila che vien agli uomini vecchi, nelle quali, come la materia è maturata, gli vien tanto pizicore che si accostano agli arbori fregandosi a quelli, e alcuni granelli che cascano fuor della detta apostema è l'eccellente e piú perfetto muschio. E li cacciatori che gli seguitano con cani e reti trovano l'orma di detti animali per l'odor grande che buttano detti grani, e seguitando gli pigliano vivi, e condutti a casa gli tagliano in tondo dette aposteme con la pelle e gli lasciano seccare: queste sono le vere vesciche del muschio, delle quali se ne trovano molto poche che non siano falsificate. La qual cosa fanno in questo modo, che, levatogli via dette aposteme, metton sopra quelle piaghe molte sansughe, e tante che esse gli sorbono tutto il sangue, e l'animal more; dapoi seccate al sole, le fanno in polvere, e di quelle ne fanno sopra la palma de la mano grani come son li veri, e un peso del vero muschio mescolano con cento di polvere di dette sansughe, e il tutto mescolato ne riempiono le vesciche, le quali, ancora cosí falsificate, sono reputate qui per buone e fine, perché dapoi vendute vengono falsificate di novo dalli mercatanti, per le mani de' quali ne passano. Il vero muschio è cosí acuto che, posto sotto il naso, fa immediate uscir fuori il sangue. In questo regno si trovano molti elefanti e cavalli, e il paese è abbondante di vettovaglie.
La città di Capelan.
Piú dentro fra terra del regno d'Ava, vi si trova un'altra città di Gentili detta Capellan, che ha signor da sé, il quale non vuole obbedire al re di Ava. All'intorno del paese del quale si trovano molti rubini, che sono finissimi, e vengono condotti a vendere in detta città quando vi fanno mercato: e sono riputati per molto migliori che non sono quelli di Ava.
Regno di Siam.
Passato il regno di Pegu, per la costa avanti verso Malaca e dentro il paese è il gran regno di Siam, di Gentili: e il re è gentile e molto gran signor fra terra, perché egli confina cominciando da questa costa sino sopra all'altra che va verso la China, e sopra ambedue ha porti di mare. È signor potente e di molta gente, cosí a cavallo come a piede, e di molti elefanti; non consente che alcun Moro porti armi nel suo paese. E subito che si esce del regno di Pegu, vi è una città che è porto di mare che si chiama Ternassari, dove sono molti mercanti mori e gentili, che contrattano d'ogni sorte di mercanzia: hanno navi, con le quali navigano verso Bengala e Malaca e altre parti. Dentro fra terra di questo regno nasce molto benzuí eccellente, il qual è ragia di arbori, e li Mori lo chiamano lubaniabi: e ve ne sono di due sorti, cioè uno che non dà odor se non è posto nel foco, e l'altro del qual si fa in Levante il storace, ed è molto odorifero e buono, avanti che si levi quello che gli aggiungono in Levante. A questo porto di Ternassari vi capitano molte navi di Mori da diverse parti, e vi portano rami, argenti vivi, cinaprii, panni di grana e di seta, velluti della Mecca dipinti, zaffarano, coralli lavorati e infilzati, acque rose in alcuni piccoli vasi di rame stagnati (e si vendono a peso col vaso), amfiam, panni di Cambaia: e il tutto è qui in gran pregio.
Quedaa, luogo del regno di Siam.
Passato il detto luogo di Ternassari, andando avanti per la costa verso Malaca, si ritrova un altro porto di mare del regno di Siam detto Quedaa, nel quale vengono navi infinite, e si traffica d'ogni sorte di mercanzie: quivi capitano molte navi di Mori da ciascuna parte; quivi nasce pepe molto buono e bello, che vien portato a Malaca, e di quivi lo conducono poi alla China.
Ha questo re di Siam fra Malaca e Ternassari altri porti di mare, delli quali non so il nome, e ha molte città, villaggi e luoghi abitati fra terra, che sono tutti di Gentili, dove non può entrare Moro alcuno, e se alcuno per aventura vi va a negoziare con loro, non permettono che possa portare armi. Si trova in detto regno molto oro che si coglie nel paese, e spezialmente nella signoria di Paam, che è d'intorno di Malaca verso la China, la qual Paam è stata sempre sotto questo regno di Siam sin al presente, che s'è sollevata contra e non lo vuole piú obedire, anzi s'è posta sotto la obbedienza del re di Malaca. Similmente detto regno ha sotto di sé un'altra signoria e terra di Gentili che sta alla sua obedienza, che si chiama Caranguor, nella quale si trova assai stagno, il qual portano alla città di Malaca per gran mercanzia, e di lí vien poi portato per tutte l'altre parti. Il re è gentile e cosí tutti li popoli, i quali onorano molto li loro idoli e hanno costumi molto diversi dall'altre genti; vanno ignudi dalla cinta in su, e alcuni portano una veste stretta piccola di seta. Il paese è molto abbondante e fertile di vettovaglie, carne d'animali domestici e selvatichi e risi; hanno cavalli e ronzini, e cani di diverse sorti. Sono gli abitanti gran cacciatori, che ammazzano assai porci selvatici.
Andando dentro fra terra verso la China, vi è un altro regno di Gentili che è pur alla obedienza del re di Siam, nel qual v'è un bestiale e orrendo costume, secondo che per un gentiluomo veridico mi fu referito, che, quando muore alcuno lor parente o amico, per onorarlo pigliano il corpo morto, sia da infirmità o d'altra morte, o lo portano in mezzo il campo, dove acconciano tre legni, duoi fitti in terra e l'altro di sopra, al quale appiccano una catena con duoi uncini, e sopra quelli acconciano il corpo da poterlo arrostire con un gran fuoco di sotto: e insino che si cuoce vi stanno a torno tutti i figliuoli e i loro parenti e amici piangendolo a piú potere, e poi che egli è arrostito, pigliano di vasi pieni di vino e ciascuno il lor coltello, e gli vanno tagliando la carne e mangiandola e bevendo del vino, non restando però di piangere continuamente. E li parenti piú propinqui sono li primi che cominciano a mangiarlo, e non si partono di lí sin tanto che non v'avanza altro che l'ossa, li quali abbruciano, e dicono che danno a questi lor parenti tal sepoltura per essere del loro proprio sangue, non potendo essere sepolto in parte alcuna che ei stia meglio che nelli lor corpi. In tutto questo regno di Siam abbruciano tutti li corpi, per essere questo il costume di tutte le terre di Gentili.
Regno della città di Malaca.
Il detto regno di Siam fa una gran punta di terra che entra nel mare, che fa un capo, dove il mar dà la volta verso la China e vassi verso tramontana: in questa punta vi è un piccol regno, nel quale v'è una città molto grande che si chiama Malaca, che in altro tempo fu del regno di Siam, e li Mori di quella con molti altri forestieri s'accommodarono e fondarono il traffico delle loro faccende in tal maniera che, cresciuti in grandissime ricchezze, si sollevarono contra il paese e costrinsero a farsi mori tutti li vicini e, fatto un re moro, levarono la obbedienza al re di Siam. Quivi stanziano molti gran mercanti, cosí mori come gentili, e massimamente delli Chetiis, che sono del paese di Coromandel: e tutti sono molto ricchi, hanno molto grosse navi le quali chiamano giunchi, trafficano con quelle diverse mercanzie per tutte le parti. Vi concorrono a quella città molti altri mercatanti mori e gentili forestieri e d'altre parti a contrattar con le navi della China, che hanno duoi alberi, li quali portano ivi gran quantità di seta in matasse e molti vasi di porcellana, damaschi, broccatelli, rasi di varii colori; portano anco muschio, riobarbaro, seta di colore, molto ferro, salnitro, argento finissimo, molte perle grosse e minute, avorio assai, cofani, ventagli dorati e altre iuguettes, pevere, incenso. E all'incontro pigliano per le sopra dette mercanzie pepe, incenso, panni di Cambaia, panni di grana, zaffarano, coralli lavorati e da lavorare, e molti panni di Paleacate di bambagio dipinti, e anco bianchi da Bengala, cinaprii, argenti vivi, amfiam, e altre mercanzie e drogherie di Cambaia, tra le quali vi è una droga che noi altri non la cognosciamo, che essi chiamano puchou, e un'altra detta cachou, e l'altra magican, che son agalas che si portano da levante in Cambaia per via della Mecca, e sono in gran prezzo nella China e nella Giava.
Capitano ivi molte navi della Giava che tengono quattro alberi, molto differenti dalle nostre e di molto grosso legname: e come elle sono vecchie, le cuoprono di altre tavole nove, e cosí hanno tre o quattro mani di tavole una sopra l'altra; le vele son fatte di vimini tessuti, e le sartie similmente di quelli. Conducono queste gran quantità di riso, carne di buoi e castroni, di porci e cervi, molte galline, agli, cipolle; portano similmente molte armi a vendere, cioè lancie, targhe, spade col manico lavorato di tarsia e di finissimo acciale; portano anco cubebas, e un color giallo che si chiama cazuba, e oro che nasce nell'isola della Giava. Nelle quali vi conducono le lor mogli e i figliuoli, e sonvi alcuni di questi marinari che le lor mogli e figliuoli mai dismontarono in terra, perché in quelle nascono e quivi muoiono. Da questa città se ne vanno molte navi all'isole di Malucho (delle quali poi se ne dirà) a caricare garofani, e portano per mercanzia panni di Cambaia, e di ciascuna sorte di bambagio e di seta, e altri di Paleacate e Bengala, argenti vivi, stagno, rame per lavorare e lavorato in campane, e una moneta della China che è come un bagattino sbucato nel mezzo, e del pepe, porcellane, agli, cipolle e altre cose, e droghe di Cambaia: e portanne in gran quantità. E navigano a molte altre isole che se ritrovano in questi mari, cioè per Timor, di donde cavano sandali bianchi, che molto gl'Indiani ne consumano; e gli danno all'incontro ferro, aghi, coltelli, spade, panni di Paleacate, di Cambaia, rami, argenti vivi, cinaprio, stagno, piombo, paternostri di ciascuna sorte di Cambaia, e traggono con le cose sopradette li sandali bianchi che abbiamo detti, mele, cera, schiavi. Alle isole di Bandan vanno a caricar noci muscate, macis: le quali isole si servono e proveggono con le mercanzie di Cambaia. Vanno ancora in Sumatra, di donde traggono pepe, seta in matasse, benzuí, oro fino; e similmente ad altre isole, di donde cavano canfora, legno aloe, quali navicano e conducono a Tarnasseri, Pegu, Bengala, Paleacata, Coromandel, Malabar e Cambaia con tutte l'altre sorti di mercanzie, di maniera che questa città di Malaca è la piú ricca scala di piú ricchi mercatanti, e di maggior navigazione e traffico che si possa trovare al mondo. E vi si trova tanta quantità d'oro che li mercatanti grandi non stimano le lor facultà né le contano salvo a misura di bahares d'oro, che sono quattro cantara l'uno; e vi è tal mercatante fra questi che lui solo abbraccia tre o quattro navi cariche di mercanzia, e dà loro tutto il carico di sua ragione.
Son uomini ben disposti e ben formati, e similmente le donne, le quali sono di color berrettino. Vanno ignudi dalla cinta in su, e da quella in giú con panni di seta e di bambagio: portano una veste stretta piccola che gli arriva sin alla metà del ginocchio, di panni di seta e di grana e di bambagio o vero broccatello, e portano una ricca cintura, alla quale è attaccata una daga che è lavorata nel manico di ricchissima tarsia d'oro, che costoro chiamano querix. Le donne portano a torno panni di seta, e hanno camicie corte, ma ricamate d'oro e di gioie; portano i capelli lunghi e bene acconci, con gioie di sopra e qualche sorte di fiori fra quelli. Hanno moschee grandi, e quando muoiono sepelliscono i corpi, e li figliuoli ereditano. Vivono in case grandi, e hanno fuor della città giardini bellissimi pieni di fiori e arbori fruttiferi, e molti stagni d'acqua viva per lavarsi e per altri lor piaceri. Tengono molti schiavi che hanno moglie e figliuoli, che vivono da per loro e gli servono quando n'hanno di bisogno. E questi Mori, che sono chiamati Malachi, sono genti molto polite e gentili e ben proporzionate della persona, e vanno sempre su l'amore, al quale si sono tutti dati, e sono gran musici.
Li mercatanti chetiis di Coromandel, che abitano tra costoro, sono per la maggior parte uomini grossi, e hanno gran ventre, e vanno similmente ignudi dalla cinta in su. Il medesimo fanno molti Mori dell'isola della Giava che tengono casa in detta città, li quali sono uomini grossi e piccoli, con la faccia e il petto largo, mal fatti, e vanno ignudi dalla cinta in su, e da quella in giú portano alcuni panni male assettati. Non portano cosa alcuna in capo, ma li capelli fatti ricci e increspati con arte, e alcuni vanno tosi. Son uomini di grande ingegno e molto sottili in tutte le lor opere, e molto maliziosi e traditori, e dicono di rado la verità, e son pronti a far ogni male e a morire. Hanno buone armi e combattono valorosamente. Si trovano tra costoro alcuni che, se s'ammalano di alcuna sorte di malattia che sia pericolosa, fan voto a Dio che, restituendogli la sanità, eleggeranno volontariamente un'altra maniera di morte piú onorata in suo servizio. E risanati che sono, escono di casa con una daga in mano e corrono alle piazze, dove ammazzano quante persone che ritrovono, cosí uomini come donne e fanciulli, che paiono cani arrabbiati: e questi sono chiamati amulos, e come sono veduti in questo furore, tutti cominciano a gridare "amulos, amulos", acciò la gente si guardi, e a coltellate e lanciate immediate gli ammazzano. Delli quali molti della Giava vivono in questa città, che hanno moglie, figliuoli e gran ricchezza. Quivi si trovano buone acque e frutti d'ogni sorte, e l'aere è perfettissimo, e l'altre vettovaglie sono portate di fuori. Il re di Malaca ha grandissimo tesoro, per le grande entrate che ei riscuote dai dazii. Costui si fece tributario il signor di Paam, che soleva essere suo signore nel regno di Siam, sollevandosi contra di lui: nella qual terra di Paam si trova molto oro basso.
Questo paese e terra di Malaca scoperse il signor don Diego Lopes di Sechiera, gentiluomo portoghese; e dapoi discoperta, li Mori della terra presero con tradimento certi Portoghesi con le lor mercanzie e alcuni ne ammazzarono. Per la qual cosa il signor Alfonso Dalburquerque, capitano generale del re nell'Indie, se ne venne con tutta l'armata a Malaca e la cominciò a combattere, e li Mori di dentro a difendersi gagliardamente con lancie, arme e artegliaria grossa e schioppi, e avevano molti elefanti armati con castelli di legno, dove stavano molti arcieri e schioppettieri; nondimeno doppo due gagliarde battaglie la prese per forza, e il re se ne fuggí. Alcuni mercatanti, che tenevano case in quella e vi facevano gran traffichi, dubitando in quella furia di essere saccheggiati e fatti prigioni, si vennero a dar al signor capitano, e cosí scamparono: ma della robba di quelli che fuggirono fu fatto un sacco d'incredibil ricchezze in oro e mercanzie. E il signor Alfonso fece far subito una bellissima fortezza, che tien la città soggiogata a sua obbedienza, e fu ritornato tutto il traffico delle mercanzie nel suo essere di prima, avanti che ella fosse presa. Il signor di Paam, che è signor, come abbiamo detto, d'una minera d'oro deserta, come ei intese che Malaca era venuta sotto del re di Portogallo, mandò subito uno ambasciadore al capitano a dargli obbedienza come vasallo suo.
Arcipelago d'isole intorno di Malaca.
All'incontro di questa città e regno di Malaca si trovano come un arcipelago d'isole, le quali sono molte e ricche, abitate da Mori e Gentili, e alcune disabitate: e cominciano poi che si è passato l'isola di Zeilam.
Isole di Navacar.
Passato l'isola di Zeilam, attraversando il golfo, avanti che si arrivi alla grande isola di Sumatra, si trovano cinque o sei isole piccole, che non tengono bona acqua e porti per entrarvi, ma sono abitate, li quali si chiamano di Navacar: e in quelle trovasi ambracan molto buono, il qual di lí si porta a Malaca e altre parti.
La grande isola di Sumatra.
Passate le sopradette isole vi è una grandissima e bellissima isola chiamata Sumatra, la qual tien di circuito da settecento leghe, che sono da dumila e cento miglia, contati per li Mori che l'han navigata tutta d'intorno. Corre maestro e sirocco, vi passa per il mezzo la linea dell'equinoziale, è abbondantissima d'ogni sorte de vittuarie, e da per tutto vi nasce il pepe, e in alcune parti il bengiuí, che è miglior di quel di Pegu, e molta canfora (e cosí un come l'altro è gomma d'arbori); vi son molte minere d'oro. Ha molti regni, de' quali il principal è Pedir, dalla banda di tramontana verso Malaca: vi nasce molto pepe longo e tondo e cosí forte come quello di Malabar, e molta seta, e chiamasi Pedir per una città che è in quello; un altro detto Pacem per causa d'una città, che ha un bonissimo porto e miglior dell'isola, e in quella vi nasce gran quantità di pepe che caricano le navi; e un altro regno chiamato Achem, similmente dalla parte di tramontana, posto in un capo di questa isola in cinque gradi; e un altro chiamato Campar, all'incontro di Malaca, e un altro Menancabo, dalla banda di mezzodí: e qui è il principal fonte dell'oro di questa isola, cosí di minere come di quello che si ricoglie appresso le rive dei fiumi, che è cosa maravigliosa. Un altro regno si chiama Zunda per una città che ha tal nome, che è in gradi quattro e tre terzi dalla banda di mezzodí, e in questo regno vi è similmente del pepe sine fine. Sonvi due altri regni, de' quali l'uno si chiama Andragide e l'altro Auru, ed è fra terra, dove abitano uomini gentili che mangiano carne umana, e principalmente di quelli che ammazzano nella guerra. In tutti questi regni vi sono molte e gran città fatte in piano, e le case di paglia: quelle che stanno fra terra sono abitate da Gentili, e quelle sopra la costa del mare da Mori, quali sono grandissimi mercatanti e navicano per tutte le parti, e da quelle similmente vengono altri con lor mercanzie a questi porti, nelli quali guadagnano molto, e principalmente in quelle portate da Cambaia, in coralli, cinaprio, argento vivo. Li Mori che abitano in quella sono molto perfidi, e molte volte ammazzano li suoi re e ne fanno degli altri, e cosí loro come i Gentili parlano in lingua di Malaca. Ha il re di Portogallo in detta isola una gran casa di fattoria, dove è un gran traffico.
Sunda isola.
Passata l'isola di Sumatra verso la Giava, si trova l'isola di Sunda, dove nasce molto buon pepe. Tien re da per sé, il qual vien detto che desidera d'esser alla obbedienza del re di Portogallo. Quivi si caricano per condurgli alla China molti schiavi.
L'isola della Giava maggiore.
Avanti l'isola Sunda, fra la parte del levante e mezzodí, si trovano molte isole grandi e piccole, fra le quali ve n'è una che si chiama la Giava maggiore, abitata da molti Gentili e Mori nei porti di mare, nelli quali vi sono molti villaggi e luoghi con infinite abitazioni di Mori e re mori, i quali però tutti stanno alla obbedienza del re dell'isola, che è gentile e fa residenza dentro fra terra, ed è grandissimo signore e chiamasi Pale Udora: alcune volte se gli ribellano, ma esso immediate gli torna a soggiogare. Alcuni di questi signori e popoli mori della Giava desiderano di servire al re di Portogallo, e altri l'odiano e gli vogliono male. Dicono li pratichi di questa isola che essa è la piú grassa e abbondante terra del mondo: si trovano in quella molte radici dette ymane, riso, carne di tutte le sorti dimestiche e salvatiche, e ne insalano e seccano per mandar in molte parti; vi nasce molto pepe, cannella, gengevo, casia fistola e oro. Gli abitatori son piccoli e grossi di corpo, e di viso largo; la maggior parte di loro vanno ignudi dalla cinta in su, e altri portano una vesticciola piccola e stretta di seta fino a mezzo il ginocchio, e le barbe rase e li capelli cimati alquanto sopra il capo e poi fatti crespi e ricci, sopra il quale non voglion portare fazzuoli né altro, perché dicon che sopra la loro testa non vi debbe star cosa alcuna: e se alcuno vi mettesse la mano, l'ammazzariano di subito. Non fanno case che abbino solare, acciò che uno non stia sopra l'altro. Sono genti molto superbe, bugiarde e traditori, e di grandissimo ingegno di fabricar navi, gran maestri di gittar artegliaria; fanno qui molte spingarde, schioppi e fuochi artificiati, e in ciascun luogo sono riputati eccellenti per questo mestiero di gittar artiglierie e di saperle poi tirare. Hanno molte navi, con le quali di continuo vanno navigando, e ancor molti navili da remo; son gran corsari, perché vanno travagliando per mare. Fanno molte sorti d'armi, che sono buone e forti e di buono acciale, e le lavorano di tarsia, cioè all'azemina con oro, e le lancie e archi con avorio. Son grandissimi incantatori e negromanti, e fanno armi in alcuni punti e ore che dicono che chi le porta adosso non può essere ammazzato dall'armi di altri, ma ogni poco che feriti con queste gettino sangue, subito li feriti muoiono. Ne fanno d'un'altra sorte, che chi le porta seco non può esser vinto, e vi son di tal sorte d'armi che a compirle tardano otto e dieci anni, aspettando l'ore, i punti e momenti disposti per far questi effetti. Li re molto le stimano e ne fanno grandissimo conto. Son questi popoli grandissimi cacciatori, e hanno molti cavalli e cani da caccia, e uccelli da rapina per andare a falcone. Quando vanno alla caccia, conducono seco le lor mogli in carrette molto ricche, coperte dentro e di fuori di seta, e li re e signori vanno similmente in dette carrette, ma quando sono sulla caccia montano a cavallo. Le donne sono bianche e di bel corpo, e di gentil viso, ma alquanto largo; sanno cantar molto bene e parlar con gran gentilezza, ma sopra tutto sanno far lavori eccellenti delle lor mani con l'ago.
L'isola della Giava minore.
Piú avanti della detta Giava maggiore vi è un'altra isola, similmente grande e abbondante di tutte le sorti vettovaglie, abitata da Gentili col loro re gentile, e hanno lingua propria. Nelli porti di mare vivono alcuni Mori soggetti al re gentile. Questa isola si chiama tra costoro Ambaba, e fra li signori arabi e persiani Giava minore.
[Qui mancano alcune righe.]
Passata un'isola piccola che si chiama Nucopora, che ha nel mezzo un fuoco ch'arde di continuo... Sonvi molti che usano cavalli, e son cacciatori, e le donne attendono ad allevar animali.
L'isola di Timor.
Passata la Giava minore, trovansi molte altre isole grandi e piccole abitate da Gentili, e vi sono alcuni Mori, i quali stanno in una isola detta Timor, ove è pur un re gentile, e hanno lingua propria. Qui nascono molti sandali bianchi, e quelli che li vanno a comprare vi portano ferro, acce grandi e piccole, coltelli, spade, panni di Cambaia, di Paleacate, vasi di porcellana, paternostri d'ogni sorte, stagno, argento vivo, piombo; levano ancora da detta isola mele, cera, schiavi, e qualche poco d'argento che si trova in essa.
L'isola di Bandam.
Piú verso la tramontana e ponente vi stanno cinque isole quasi congiunte, che fanno come un porto dove entrano le navi, ed entrano per due bande, e si chiamano l'isole di Bandam. Sono abitate da Mori e Gentili, e in tre delle dette vi nascono delle noci moscate, macis in alcuni arbori simili al lauro: il suo frutto è la noce, e sopra la noce vi è il macis a modo di fiore, e sopra quello vi è un'altra scorza grossa. Vale in dette isole tanto un cantaro di macis come sette di noci, perché delle noci ve ne è tanta copia che le adoperano in far fuoco, e si dà quasi di bando. E per comprar le dette noci e macis li mercatanti portano le cose seguenti: panni di Cambaia di bambagio e di seta d'ogni sorte, droghe che vengono dalli Guzzerati, rami, argento vivo, piombo, stagno, e certi cappelli colorati col pelo lungo che vengono di levante, campane di Giava, che val ciascuna che sia grande venti bahares di macis, e ogni bahar è quattro cantara. Da questa isola di Bandam per andar a Maluco, il qual sta verso tramontana, vi si trovano molte isole abitate e molte deserte, nelle quali tengono per tesoro campane di metallo che siano grandi, avorio, panni di seta di Cambaia che si chiamano patolas, e vasi di porcellane che siano fine. In queste isole non hanno re né danno obbedienza ad alcuno, se non qualche volta al re di Maluco.
Isole d'Ambon.
Andando avanti verso Maluco, vi sono molte altre isole abitate da Gentili, le qual si chiamano l'isole d'Ambon: ciascuna ha il re e parlar separato. Sonvi molti navilii da remi che vanno in corso, e si pigliano fra loro per schiavi e alle fiate s'ammazzano, e li prigioni si riscuotono con panni di Cambaia, che fra loro son molto stimati, onde è necessario che l'uomo si travagli per avere tanta quantità di quei panni che, postili in terra, aggiunghino d'altezza alla faccia dell'uomo: e quelli che ne possono dar tanti vengono liberati, perché coloro che li fanno prigioni non vogliono altro per riscatto che la detta quantità di quei panni nel modo di sopra.
Dell'isole di Maluco, che sono cinque, dove nascono garofani.
Avanti di queste isole verso tramontana si trovano cinque isole di Maluco, nelle quali nascono tutti i garofani: e sono di Gentili e Mori, e li re son mori. La prima si chiama Bachan, la seconda Machian, la quale ha un buon porto, la terza Motel, la quarta Tidoro, la quinta Terenati, nella quale vi stava un re moro detto soltan Heraram Corala, il qual soleva signoreggiar tutte le dette isole de' garofani, e gliene sono state levate quattro, e ciascuna ha un re da per sé. Li monti di queste cinque isole son tutti pieni di garofani, li quali nascono sopra alcuni arbori simili al lauro, che hanno la foglia simile alli comari, e nasce come fior di narancio. È nel principio verde, poi diventa bianco e come è maturo è rosso, e allora le genti li colgono a mano montando sopra gli arbori e li pongono a seccare al sole, che lo fa nero, e non vi essendo sole li seccano al fumo, e poi che egli è molto ben secco l'aspergono con aqua salsa, accioché non si rompi e mantenghi la sua virtú. E di questi garofani ve ne è tanta quantità che non possono mai compir di raccoglierli, di sorte che ne lasciano andare assai a male; gli arbori de' quali, non venendo il frutto raccolto per tre anni, restano in modo selvatichi che quei garofani non vagliono niente. A queste isole concorrono ogni anno quelli di Malaca e Giava a caricare garofani, e portano per comprarli argenti vivi, cinaprii, panni di Cambaia, Bengala e Paleacate, droghe di Cambaia e qualche pepe, vasi di porcellana, campane grande di metallo che fanno in Giava, bacini di rame e di stagno. Val ivi il garofano molto buon mercato, che l'hanno quasi per niente.
Questo re di Maluco è moro e quasi gentile, perché tien moglier mora e da 300 in 400 gioveni belle, che sono gentili, nella sua casa, delle quali ne ha figliuoli e figliuole: e solamente li figliuoli delle More restano mori. Alli suoi servizii vuol avere di continuo assai femine gobbe, le quali da picciole fa romper nelle spalle e schiena, e queste tiene per grandezza e riputazione, e possono essere da ottanta insino a cento, che di continuo gli stanno d'intorno e appresso e lo servono in luogo di paggi, perché una gli porge la foglia del bettelle, un'altra la spada, e cosí fanno tutti gli altri servizii. In questa isola si trovano molti pappagalli rossi e di molti altri bei colori, dimestici, che li re chiamano mire, che son molto stimati fra costoro.
Isola di Celebe.
Passate le dette isole di Maluco, vi si trovano altre isole dalla parte di ponente, dalle quali vengono alle volte alcune genti bianche, ignude dalla cinta in su, ma hanno panni tessuti di certa cosa che è simile alla paglia, con li quali si cuoprono le parti vergognose. Parlano una lingua lor propria; le lor barche sono mal fatte, e con queste vengono a caricare garofani nelle dette isole, rame, panni di Cambaia, stagno; ed essi portano a vendere spade molto lunghe e larghe, d'un taglio, e altri lavori di ferro e oro assai. Queste genti mangiano carne umana, e se il re di Maluco ha alcuna persona che voglia far morire per giustizia, glielo dimandano di grazia per mangiarselo, come si dimandaria un porco. Queste isole d'onde vengono queste simil genti si chiamano Celebe.
Tendaya isola.
Non molto lontana da queste isole se ne trova una altra di Gentili, che ha il re gentil da per sé. Gli abitatori di questa hanno (secondo che mi fu referito) un costume da non poterlo credere, che essendo giovani si fanno segar li denti sin alla radice, dove sono le gengive, e dicono che lo fanno acciò gli creschino piú forti e piú spessi. L'isola si chiama Tendaia. Si trova in quella molto ferro, il qual si porta per diverse parti.
Solor isola.
Andando avanti verso tramontana alla parte della China, vi è un'altra isola abbondantissima di vettovaglie detta Solor, abitata da Gentili, uomini quasi bianchi e ben disposti: hanno re e lingua propria. In questa isola si trova molto oro lavando la terra, e nelli fiumi in granelli. All'incontro dell'isola vanno a pescar perle minute, e ne trovano delle grandi e fine, cosí in colore come in ritondezza.
Bornei, dove nasce la canfora.
Avanti questa isola piú verso la China vi è similmente un'altra isola detta Bornei, molto abbondante di vettovaglia e abitata da Gentili, che ha un re gentile e lingua propria, nella qual si raccoglie gran quantità di canfora da mangiare, la qual gl'Indiani adoperano in molte loro composizioni e la stimano molto, e vale a peso d'argento, della quale quivi sono le minere, e se ne trova in polvere, la qual si porta in alcuni cannoni fatti di canna, e molto vale in Narsinga, Malabar e Decam. [Qui mancano assai righe.]
Campaa, dove nasce il legno d'aloe.
Passata la detta isola verso la terra piú adentro Ansian e la China, mi fu detto esservi una isola grande di Gentili chiamata Campaa, che ha il re e lingua da per sé, dove nascono molti elefanti, li quali poi sono condotti a diverse parti. Qui nasce molto legno aloe, che gl'Indiani chiamano aquilam e calambuco, e il piú fino è il calambuco: val la libra di questo in Calicut trecento maravedis. Altri dicono che questa Campaa è sopra la terra ferma. Fra queste isole vi sono molte d'esse abitate da Gentili e altre disabitate, fra le quali vi è una che non so il nome dove nascono molti diamanti, che gli abitanti trovano, e li vendono cosí grezzi, che son portati poi in diverse parti: ma non sono della sorte né cosí fini come quelli di Narsinga.
Il gran regno della China.
Lasciando queste isole, che sono molte e quasi senza numero, e non si sanno tutti i lor nomi, e son poste verso la tramontana e verso la China, voltandosi drieto la costa che va da Malaca alla China verso tramontana, delle quali non ho potuto avere quella particolar notizia ch'io desideravo; ma di quello che sono per scrivere al presente mi sono informato da quattro fra Mori e Gentili, uomini di gran credito e gran mercatanti che sono stati piú volte nel paese della China, li quali mi hanno detto che, passato il regno di Siam e gli altri detti di sopra, si trova quello della China, nel quale vi è un grandissimo signor di Gentili, cosí lungo la costa del mare come dentro fra terra, che ha molte isole in mare abitate da Gentili a sua obbedienza, nelli quali tien il re della China li suoi governatori e officiali a sua elezione. Fa residenza di continuo dentro fra terra in grandi e ricche città, alle qual nessuno forestiere vi può andare: solamente può negociare nei porti di mare e nell'isole; e s'alcuno ambasciadore di altro re vuol venire a parlargli, bisogna che venga per mare e che esso lo sappia, perché ordina il luogo dove ei debba andare a parlargli.
Gli abitatori son uomini bianchi, grandi e ben disposti, e gentiluomini di costumi cortesi, e similmente sono le donne belle e gentili; ma hanno uno difetto, che gli occhi di costoro son piccolini, e nella barba tre o quattro peli e non piú: e quanto piú piccoli hanno gli occhi, tanto piú vengono riputati belli, e il medesimo degli occhi delle donne, le qual vanno ben vestite e in ordine, con panni di seta e di bambagio e di lana. Il vestire degli uomini è come quello di Todeschi, con calze, bolzachini e scarpe, come hanno le genti di terra fredda. Hanno proprio il parlare, e del tono e proferire come è la lingua todesca. Mangiano a tavola alta, come facciamo noi altri, con mantili, e quando si assettano a mangiare pongono a ciascuno il suo piatto, un tovagliuolo, un coltello e una coppa d'argento. Non toccano le vivande che gli sono poste avanti con le mani, ma mangiano con una tanaglietta d'argento o di legno, e il piatto o vero porcellana in che è la vivanda la tengono nella mano sinistra molto appresso la bocca, e con quelle tanagliette molto in fretta mangiano. Fanno diverse vivande e di tutte ne assaggiano, e usano pan di formento, e bevono di diverse sorti di vino che ei fanno, e spesse volte mangiando bevono. Mangiano similmente carne di cane, la qual hanno per molto buona. Son uomini veraci, non troppo valenti cavalieri per combattere, ma valenti mercatanti di ciascuna sorte di mercanzia.
Fanno in questo paese gran quantità di porcellane di diverse sorti e molto belle e fine, che è appresso di loro gran mercanzia per tutte le parti, e le fanno in questo modo. Pigliano scorze di caracoli marini e scorze d'ovi e ne fanno polvere, e con altri materiali ne fanno una pasta, la qual pongono sotto terra per affinarsi per ispazio di ottanta e cento anni: e questa massa lasciano com'un tesoro alli figliuoli, e sempre ne hanno di quella lasciatagli dai loro antichi precessori, con le memorie o luogo per luogo. E come giugne il tempo della lor perfezione, allora la vanno cavando fuori e lavorando in diverse foggie di vasi grandi e piccoli, dipingendoli e invetriandoli; e nel medesimo luogo dove l'han cavata ne pongono della nova, di modo che sempre ne hanno della vecchia da lavorare e della nova da metter sotto terra. Nasce in questo paese di molta e buona seta, della quale lavorano grandissima quantità di panni, cioè damaschi d'ogni colore e rasi di molte foggie, broccatelli e altre sorti di panni. Vi si trova molto riobarbaro, molto muschio, argento finissimo, perle piccole e grandi, ma non molto tonde. Similmente fanno in questo paese molti altri lavori bellissimi e dorati, come sono casse dorate molto riccamente, bacini di legno e piatti tutti indorati, saliere, ventagli e altre cose di seta lavorate sottilmente a mano, perché sono uomini di grandissimo ingegno e pazienzia. Sono anco grandissimi naviganti, che vanno per mare con gran navi, che chiamano giunchi, di duoi arbori, fatti d'altra maniera che non sono le nostre; hanno le vele di stuore, e similmente le sartie. Sono gran corsari e ladri fra quelle isole e porti della China, nondimeno con tutte le sopradette cose e mercanzie vanno a Malaca, e vi portano anco molto ferro e salnitro e simil cose; e nel lor ritorno caricano di pepe di Sumatra, di Malabar, del qual ne consumano gran quantità nella China, e delle droghe di Cambaia, e maxime anfiam, che noi chiamiamo opio, incenso, galle di Levante, zafferano, corallo lavorato e per lavorare, panni di Cambaia, di Paleacate, di Bengala, cinaprio, argenti vivi, panni scarlatti e molte altre cose. Vale il pepe nella China da quindici ducati il cantaro e piú, secondo la quantità che ne levano, il qual comprano in Malaca per quattro ducati il cantaro. Molti di questi Chini menano seco le mogli e i figliuoli in le navi, nelle quali vi fanno tutta la lor vita, senza avere altro alloggiamento in terra. Questa China confina con la Tartaria alla volta di tramontana.
De' popoli detti Litii.
In fronte di questa terra della China vi sono molte isole in mare, all'intorno delle quali vi è una terra molto grande, che dicono essere terra ferma, dalla quale vengono a Malaca ogni anno tre o quattro navi con quelle delli Chini, di gente bianche, i quali sono gran mercatanti e ricchissimi, perché portano molto oro in verghe, argento e seta, e gran quantità di panni ricchissimi di seta, e di buon formento e bello, e bellissimi vasi di porcellana e altre mercanzie; caricano all'incontro di pepe e d'altre mercanzie che ivi trovano. Queste tai genti sono chiamate Liquii, e dicono quelli di Malacha che sono migliori uomini, maggiori mercatanti, e piú ricchi e meglio vestiti e di piú onorevol presenzia che non sono li Chini. Di questa tal gente sin al dí d'oggi non si ha potuto avere maggior informazione, perché non son venuti in India dapoi che 'l re di Portogallo la possiede e signoreggia.
Avendo fatto nella presente scrittura molte volte menzione di diverse sorti di gioie, è ben convenevole aggiugner nel fine di essa alcune relazioni avute da diversi mercatanti, cosí mori come gentili, pratichi e intelligenti di simil cose: e però comincierò dalli rubini.
Delli rubini.
Primamente li rubini nascono nel paese dell'India, e ritrovandosi la maggior parte in un fiume nominato Pegu: e questi sono li migliori e piú fini, i quali li Malabari chiamano nunpuclo, e quando son netti senza macchia alcuna si vendono molto bene. E gl'Indiani per cognoscer la finezza loro vi pongono su la lingua, e quello che è piú freddo e duro è tenuto per migliore, e per veder la sua nettezza lo pigliano con cera per la punta piú sottile e, risguardandolo contra la luce, vi scorgono ogni minima macchia che vi sia. Trovansi anco in alcune profonde fosse, che si fanno nelle montagne che sono oltra il detto fiume. E nel paese di Pegu li nettano, ma non li sanno acconciare, e però li portano in altre diverse parti, e principalmente in Paleacate, Narsinga, Calicut e in tutto 'l paese di Malabar, dove sono valenti maestri che li lavorano e acconciano.
E per notificar alcuna cosa della valuta d'essi, dico che fanan significa un peso che è piú di duoi caratti delle nostre parti, e undici fana e un quarto è un mitigal, e sei mitigali e mezzo fanno una oncia. Questo nome di fanan vuol ancora significare una moneta che vale quanto uno real d'argento, e però dico che
Otto rubini fini di peso d'un fanan, che sono circa duoi caratti tutti, valeranno fanoes X (che fanno uno scudo d'oro).
Quattro rubini che pesino un fanan vagliono fanoes XX.
Duoi che pesino un fanan fanoes XL.
Uno che pesi tre quarti d'un fanan fanoes XXX.
Uno che pesi un fanan fanoes L.
Uno che pesi un fanan e un quarto fanoes LXV.
Uno che pesi un fanan e mezzo fanoes C.
Quel che pesa uno e tre quarti fanoes CL.
Quel che pesa duoi fanan fanoes CC.
Quel che pesa duoi fanan e un quarto fanoes CCL.
Di duoi e mezzo fanoes CCC.
Di duoi e tre quarti fanoes CCCL.
Di duoi e tre quarti e mezzo fanoes CCCC.
Di tre fanan fanoes CCCCL.
Di tre e un quarto fanoes D.
Di tre e mezzo fanoes DL.
Di tre e tre quarti fanoes DC.
Di tre e tre quarti e mezzo fanoes DCXXX.
Quel di quattro fanan fanoes DCLX.
Di quattro fanan e un quarto fanoes DCC.
Di quattro fanan e mezzo fanoes DCCCC.
Di cinque fanan fanoes M.
Di cinque fanan e mezzo fanoes MCC.
Di sei fanan, che sono circa XII caratti, fanoes MD (che fanno scudi 150 d'oro).
Questi sono li prezzi che vagliono communemente li rubini di perfezione, e quelli veramente che non fossero perfetti e che avessero qualche macchia, o vero che non fossero di buon colore, vagliono assai meno, secondo l'arbitrio di chi li compra.
Delli rubini che nascono nell'isola di Zeilam.
Nell'isola di Zeilam, ch'è nella seconda India, si trovano molti rubini detti dagl'Indiani maneca, la maggior parte de' quali non arrivano alla perfezione delli sopradetti in colore, perché son rossi e come lavati e di colore incarnato, ma sono molto freddi e forti: e di questi i piú perfetti sono da quei popoli molto stimati, e il re di quella isola gli fa tener per sé e vender per suo conto. E quando i gioiellieri ne trovano qualche pezzo grande che sia buono, lo mettono nel fuoco per spazio di certe ore, dal qual se egli esce fuori sano, diviene di colore acceso e di gran valuta: e di questi tali potendone avere il re di Narsinga, gli fa forar sottilmente nella parte di sotto, ma che 'l buco non arrivi se non al mezzo, e di questi tali non vuole che ne siano mai cavati del regno, e massime quando sa che ne sia stata fatta la prova. E vagliono molto piú di quelli di Pegu, se sono nella loro perfezione e nettezza.
Un che pesa un caratto, ch'è mezzo fanan,
vale in Calicut fanoes XXX (che son tre scudi d'oro).
Di duoi caratti fanoes LXV.
Di tre caratti fanoes CL.
Di tre caratti e mezzo fanoes CC.
Di quattro caratti fanoes CCC.
Di quattro caratti e mezzo fanoes CCCL.
Di cinque caratti fanoes CCCC.
Di cinque e mezzo fanoes CCCCL.
Di sei caratti fanoes DXXX.
Di sei caratti e mezzo fanoes DLX.
Di sette caratti fanoes DCXXX.
Di sette caratti e mezzo fanoes DCLX.
Quel che sarà molto buono e provato nel fuoco,
di otto caratti, vale fanoes DCCC.
Di VIII caratti e mezzo fanoes DCCCC.
Di IX caratti fanoes MC.
Un tale di X caratti fanoes MCCC.
Un simile di XI caratti fanoes MDC.
Di XII caratti fanoes duomila.
Di XIIII caratti fanoes tremila.
Di XVI caratti fanoes seimila.
Delle spinelle.
Si trova un'altra sorte di rubini, i quali noi chiamiamo spinelle, gl'Indiani carapuch: nascono nel medesmo paese di Pegu dove li rubini fini, e si trovano nelle montagne in fior di terra buona. Questi non sono sí fini né di sí buon colore come i rubini, anzi tengono il color di granata, e quelli che sono perfetti in colore e netti vagliono la metà manco dei robini.
Delli balassi, dove nascono e quel che vagliono in Calicut.
Li balassi sono di spezie di rubini, ma non cosí duri: il colore è di rosato, e alcuni sono quasi bianchi. Nascono in Balassia, ch'è un regno dentro a terra ferma, di sopra Pegu e Bengala, e di lí vengono condotti dai mercatanti mori per tutte l'altre parti, cioè li buoni ed eletti per lavorargli in Calicut, dove li fanno netti e acconciano, e vendonsi per il prezio delle spinelle; e quelli che non sono buoni e sono forati li comprano li Mori della Mecca e di Adem per portar nella Arabia, dove s'usano molto.
Delli diamanti della mina vecchia.
Questi diamanti si trovano nella prima India, in un regno de' Mori chiamati Decan, e li Mori e gl'Indiani dimandano decani, dal qual regno gli portano per tutte l'altre parti. Si trovano altri diamanti, che non son cosí buoni ma alquanto bianchi, che si dicono della mina nuova, la qual è nel regno di Narsinga: questi vagliono manco il terzo in Calicut e terra di Malabar che quelli della mina vecchia, e si acconciano nel medesimo regno di Narsinga. Fannosi similmente nell'India altri diamanti falsi, di rubini, topazii e zafiri bianchi, e paiono esser fini, e si trovano solamente nell'isola di Zeilam: le pietre non sono in altro differenti se non che perdono il lor color naturale, e di queste se ne trovano che hanno la metà color di rubini, e altre di zafiro, e altre di colore di topazio; alcune veramente hanno tutti questi colori mescolati. Le forano con duoi o tre fili sottili per mezzo, e restano occhi di gatta, e di quelle che riescono bianche ne fanno molti diamanti piccoli, che non si conoscono dai veri salvo che per il tocco, da quelli che n'hanno la pratica. Vendonsi con un peso che si chiama mangiar, il qual pesa due tare e duoi terzi: e due tare fanno un caratto a buon peso, e quattro tare pesano un fanan.
Otto diamanti che pesino un mangiar,
che sono duoi terzi di caratto,
vagliono fanoes XXX (che sono scudi tre d'oro)
Sei che pesino un mangiar fanoes XL
Quattro che pesino un mangiar fanoes LX
Duoi che pesino un mangiar fanoes LXXX
Un che pesi un mangiar fanoes C
Quel che pesa un mangiar e un quarto fanoes CLXV
Quel che pesa uno e mezzo fanoes CLXXX
Di uno e tre quarti fanoes CCXX
Di uno tre quarti e mezzo fanoes CCLX
Di duoi mangiari fanoes CCCXX
Di duoi e un quarto fanoes CCCLX.
Di duoi e mezzo fanoes CCCLXXX
Quelli di duoi e tre quarti, in tutta perfezione fanoes CCCCXX
Della detta perfezione di tre mangiari fanoes CCCCL
Di tre mangiari e mezzo fanoes CCCCLXXX
Di quattro mangiari fanoes DL
Di cinque mangiari fanoes DCCL
Di sei mangiari fanoes DCCC
Di sette mangiari fanoes MCC
Di otto mangiari fanoes MCCCC
E cosí vanno crescendo di prezzo come crescono di peso.
De' zafiri.
Nell'isola di Zeilam nascono i piú veri e migliori zafiri, i quali sono molto duri e molto fini; e quelli che sono perfetti e netti, e di fuori di colore azurro, vagliono i prezzi seguenti:
Uno che pesi un caratto fanoes II (che sono duoi marcelli
d'argento in circa)
Di peso di duoi caratti fanoes VI
Di tre caratti fanoes X
Di quattro caratti fanoes XV
Di cinque caratti fanoes XVIII
Di sei caratti fanoes XXVIII
Di sette caratti fanoes XXXV
Di otto fanoes L
Quel che pesa nove caratti fanoes LXV
Di dieci caratti fanoes LXXV
Di undici caratti fanoes XC
Di dodici caratti fanoes CXX
Quel che fusse in tutta perfezione di colore, di XIII caratti fanoes CXXXV
Di quattordici caratti fanoes CLX
Di quindici caratti fanoes CLXXX
Di sedici caratti fanoes CC
Di diciotto caratti fanoes CCL
Quel che pesa un mitigal, che sono undici fanan e un quarto, che sono
circa caratti XXIII, fanoes CCCL.
Similmente in Zeilam si trova un'altra sorte di zafiri, che non sono cosí forti, che li chiamano quinigenilam, e sono oscuri di colore: questi vagliono assai manco, per buoni che siano, e tanto ne vale uno come XIII sopradetti. E similmente nel regno di Narsinga, in una montagna sopra Bacanor e Mangalor, si trova un'altra sorte di zafiri, piú teneri e manco fini di colore, che si chiamano cinganolam: questi sono alquanto bianchetti e vagliono molto poco, di modo che 'l piú perfetto di questi, che pesi XX caratti, non vale un ducato; il suo colore tira alquanto al giallo. Si trova similmente un'altra sorte di zafiri sopra la spiaggia del mare, nel regno di Calicut, in un luogo che si chiama Capucar, i quali gl'Indiani chiamono carahatonilam: son molto oscuri e azurri, e non sono lucenti se non quando si portano all'aere; sono teneri e fragili. La opinione del vulgo è che in questo mar vicino a Capucar già gran tempo vi fusse una casa, le finestre della quale erano fatte di vetro azurro, e che dapoi coperta che ella è stata dal mare, li pezzi di questi vetri venghino buttati tutto il giorno in terra dal mare. Sono molto grossi, e da una parte paiono esser vetri; questi vagliono molto poco tra gl'Indiani.
De' topazii.
De topazii naturali ne nascano nell'isola di Zeilam, e sono chiamati dagl'Indiani purceragua: è pietra molto dura e molto fredda, e di peso come 'l rubino e zafiro, perché tutte tre sono d'una medesima spezie. Il suo color perfetto è il giallo come oro battuto, ed essendo la pietra perfetta e netta valerà in Calicut, o siano grandi o piccoli, a peso d'oro fino: e questo communemente è il suo prezzo, e se non è cosí perfetto valerà a peso d'oro di fanan, ch'è la metà manco, e se è quasi bianca valerà molto meno; e di queste ne contrafanno diamanti minuti.
Delle turchesi.
Le turchesi vere si trovano in Exer Aquirimane, luogo di siech Ismael, e la mina è terra secca, cioè che si trovano sopra una pietra negra, dalla quale i Mori le levano in pezzetti piccoli e li portano in Ormus, donde vengono condotte in diverse parti per mare e per terra. Gl'Indiani le chiamano perose, ed è pietra molle e di poco peso, e non molto fredda. E per cognoscere ch'ella sia buona e vera, di giorno ella parerà di color di turchesi, e di notte al lume parerà verde; e quelle che non sono cosí perfette non mutano la lor vista. Se queste pietre son nette e di color fino, di sotto nel fondo averanno una pietra negra, sopra la qual nacquero, e se alcuna piccola vena uscirà sopra la detta pietra, quella sarà la migliore. E per cognoscerle per vere turchesi e averne maggior certezza, pongasi in cima un poco di calcina viva bianca bagnata, fatta a modo di unguento, e parerà la detta calcina colorata; e avendo questa perfezione valerà li prezzi seguenti:
Quella che pesa un caratto vale in Malabar fanoes XV
Di duoi caratti fanoes XL
Di quattro caratti fanoes XC
Di sei caratti fanoes CL
Di otto caratti fanoes CC
Di dieci caratti fanoes CCC
Di dodici caratti fanoes CCCCL
Di quattordici caratti fanoes DL.
Delle piú grandi non ne fanno conto, per esser pezzi leggieri e di grande invoglio; le grandi i Mori portano nel regno di Guzzerati.
Delli iacinti.
Li iacinti nascono in Zeilam: sono pietre tenere e gialle, e le piú cariche di colore sono migliori. La maggior parte di queste tengono dentro alcuni pulighi, che guasta la lor bellezza, e quelle che non l'hanno e son nette nella sua perfezione del detto colore vagliono nondimeno poco, perché in Calicut, dove le acconciano, non vagliono piú di mezzo fanoes quelle che sono di peso d'un fanan, e quelle di XVIII fanan non vagliono sedeci fanoes.
Trovansi similmente altre pietre, come occhi di gatte, crisolite e ametiste, delle quali non si fa altro discorso per essere di poco valore, e similmente delle giagonze.
Delli smeraldi.
Li smeraldi nascono nel paese di Babilonia, dove gl'Indiani chiamano il mar Deiguan; nascono anco in altre parti. Son pietre verde di buon colore e belle; sono leggiere e tenere. Vi se ne fanno molte false, ma risguardandole alla luce, le contrafatte mostrano certe pulighe come fa il vetro; ma essendo vere non se ne vede alcuna, anzi la lor vista dà agli occhi una certa sodisfazione, e le buone mostrano come un raggio di sole, e toccate su una pietra di tocco lasciano il color di rame: e lo smeraldo di questa sorte è il vero, e vale in Calicut quanto il diamante e qualche cosa piú, non già per il peso ma per la grandezza, imperoché il diamante pesa assai piú dello smeraldo. Si trova similmente un'altra sorte di smeraldi, che sono tre verdi, ma non cosí stimate: nondimeno gl'Indiani si servono di queste per accompagnarle con altre gioie; queste non lasciano sopra il tocco il color di rame.
DELLE SORTI DELLE SPEZIE, DOVE NASCONO,
E CIÒ CHE VAGLIONO IN CALICUT, E DOVE SONO PORTATE
Del pepe.
Primamente in tutto il regno di Malabar e in quello di Calicut nasce il pepe, e vendesi ogni bahar in Calicut CC fino in CCXXX fanoes, che val ogni fanoes, come s'è detto, un real di argento di Spagna (ch'è quanto un marcello d'argento in Venezia), il qual bahar pesa quattro cantari del peso vecchio di Portogallo, al qual peso si vende in Lisbona tutta la speziaria (il qual cantaro risponde in Venezia libre centododici alla grossa, e alla sottile libre centosettantaotto, tal che verriano a costar le dette lire 712 sottili di Venezia scudi vinti d'oro in circa, che verriano marchetti duoi la libra in circa). Pagasi di dritto al re di Calicut XII fanoes per bahar per tratta. Quelli che comprano sogliono condurlo a Cambaia, Persia, Adem e la Mecca, e di lí poi al Cairo e Alessandria. Ora lo danno al re di Portogallo a ragione di maravedis 6562 il bahar con li dritti, che sono 193 fanoes e un quarto, parte per causa che non vi capita piú tanta diversità di mercatanti a comprarlo, parte per l'accordo che fece il detto re di Portogallo con quelli re e Mori e mercatanti del paese di Malabar.
Nasce medesimamente molto pepe nell'isola di Sumatra, vicina a Malacha, il quale è piú bello e piú grosso di quello di Malabar, ma non tanto buono e forte come il sopradetto: e questo si conduce a Bengala, alla China e qualche parte alla Mecca di nascosto di Portoghesi per contrabando, i quali non vogliono che vi passi. Vale in Sumatra da CCCC sin a DC maravedis il cantaro di Portogallo di peso novo, e dal novo al vecchio in Portogallo è differenzia oncie due per libra, perché il vecchio s'intende quattordici oncie per libra, e il nuovo oncie sedeci per libra.
Del garofano.
Il garofano nasce nell'isole dette Molucche, e da quelle lo conducono a Malaca e poi in Calicut, paese di Malabar. Vale in Calicut ogni bahar (che sono lire 712 sottili veneziane) da 500 in 600 fanoes (che sono circa 50 scudi d'oro, che verria marchetti dodici in circa la libra), ed essendo netto di cappelletti e fusti vale da 700 fanoes, e pagasi di contati a trarlo XVIII fanoes per bahar. In Maluco dove nasce si vende da uno sino in due ducati il bahar (che verriano lire quattro in sei al marchetto), secondo la moltitudine de' compratori che vanno per esso. In Malaca vale il bahar di detti garofani dieci fino a XIIII ducati, secondo la domanda di mercatanti.
Della cannella.
La cannella buona nasce nell'isola di Zeilam, e nel paese di Malabar nasce la trista. La buona val poco in Zeilam, ma in Calicut vale CCC fanoes il bahar, fresca e molto bene scielta (che sariano marchetti cinque in circa la lira).
Del gengevo beledi.
Il gengevo beledi nasce d'intorno la città di Calicut da sei in nove miglia, e vale il bahar XL fanoes e qualche volta cinquanta (che seriano manco d'un marchetto la lira), portandolo dalle montagne e dalle possessioni alla città a venderlo a minuto: e lo comprano i mercatanti indiani, che lo adunano insieme, e nel tempo poi che v'arrivano le navi per levarlo, lo vendono ai Mori per prezzo di XC sin a CX fanoes (che saria manco de duoi marchetti la lira), il peso del quale è maggiore.
Del gengevo dely.
Il gengevo dely nasce cominciando dal monte Dely sin a Cananor, ed è minuto e non tanto bianco né tanto buono. Vale il bahar in Cananor da XL fanoes (che saria circa un marchetto la lira), e pagasi 6 fanoes per bahar di contanti, e vendesi senza garbellare.
Gengevo verde in conserva.
In Bengala si trova similmente molto gengevo beledi, del quale ne fanno molta conserva con zucchero molto ben fatta, e portandolo in ghiare da Martabani a vender nel paese di Malabar: e vale la farazuola, che è XXII libre e sei oncie, a ragion di XIIII, XV, XVI fanoes, e quello ch'è fresco e si mette in conserva in Calicut vale XXV fanoes la farazuola, pur essendovi il zucchero caro. Vale il gengevo verde per mettere in conserva in Calicut a tre quarti di fanan la farazuola (che saria due lire in circa per un marchetto).
Delle drogherie e delli prezzi che vagliono in Calicut e nel paese di Malabar.
Lacca di Martabani che sia buona, val la farazuola, che è libre XXII e sei oncie e mezzo di Portogallo, d'oncie 16 la libra (che sono circa lire XL alla sottile di Venezia), XVIII fanoes (che sono XVIII marcelli d'argento, perché un fanoes vale un marcello d'argento in circa).
Lacca del paese, val la farazuola fanoes XII
Borace che sia buono in pezzi grandi,
val la farazuola fanoes XXX in XL e L
Canfora grossa in pani, val la farazuola fanoes LXX in LXXX
Canfora per unger gl'idoli, a ragion
d'un fanoes e mezzo il mitical,
dei quali sei e mezzo son una oncia
Canfora da mangiar e per gl'occhi
vale il mitical fanoes III
Aguila, val la farazuola fanoes CCC in CCCC
Legno aloe vero negro, grave e molto fino, vale fanoes M
Muschio buono, val l'oncia fanoes XXXVI
Benzuí buono, val la farazuola fanoes LXV e LXX
Tamarindi nuovi, val la farazuola fanoes IIII
Calamo aromatico, val la farazuola fanoes XII
Endego vero e buono, val la farazuola fanoes XXX
Mirra val la farazuola fanoes XVIII in XX
Incenso buono, essendo in grani, val la farazuola fanoes XV
Incenso in pasta piú tristo fanoes III
Ambracan che sia buono, vale il mitical fanoes II in III
Mirabolani in conserva di zucchero, val la farazuola fanoes XVI in XXV
Cassia fresca e buona, val la farazuola fanoes I e mezzo
Sandali rossi, val la farazuola fanoes V in VI
Spico nardo, fresco e buono, val la farazuola fanoes XXX in XL
Sandali bianchi e citrini, che nascano in una isola detta Timor, vagliono la farazuola fanoes XL in LX
Noci moscate, che vengono dall'isola di Bandan, dove val il bahar da VIII in X fanoes
(che importano lire sei al marchetto), val
in Calicut la farazuola fanoes X in XII
Macis che vengono dall'isola di Bandan, dove vale il bahar cinquanta fanoes (che importa circa un marchetto la lira),
e vale in Calicut la farazuola fanoes XXV in XXX
Turbiti, val la farazuola fanoes XIII
Anil nadadour molto buono, la farazuola fanoes XXX
Anil pesado che tenga rena, la farazuola fanoes XVIII in XX
Erba da vermi buona che si chiama semenzina, la farazuola fanoes XV
Zerumba, la farazuola fanoes II
Zedoaria, la farazuola fanoes I
Gomma serapina, la farazuola fanoes XX
Aloe cocotrino, la farazuola fanoes VIII
Cardamomo in grano, la farazuola fanoes XX
Reubarbaro ne nasce molto nel paese di Malabar, e quel che viene dalla China per Malacha, val la farazuola fanoes XL in L
Mirabolani emblici, val la farazuola fanoes II
Mirabolani bellirici, la farazuola fanoes I e mezzo
Mirabolani citrini e chebuli che sono tutti una sorte, fanoes II
Mirabolani indi, che sono delli medesimi arbori citrini, fanoes III
Tuzia, la farazuola fanoes XXX
Cubebe, che nascon nella Giava e dannosi quivi per poco prezzo, e senza peso la misura
Opio che vien d'Adem, dove lo fanno, val la farazuola in Calicut fanoes CCLXXX in CCCXX
Un altro opio che si fa in Cambaia, val la farazuola fanoes CC in CCL.
DELLI PESI DI PORTOGALLO E DELLA INDIA, COME RISPONDONO IN PORTOGALLO
La libra del peso vecchio tiene quattordici oncie
La libra del peso nuovo tiene sedici oncie
Otto cantari vecchi fanno sette cantari novi, e ogni cantaro nuovo è di CXXVIII libre di oncie sedici
Ogni cantaro vecchio sono tre quarti e mezzo di cantaro nuovo, ed è di CXXVIII libre, di XIIII oncie ciascuna libra
Una farazuola è libre XXII di oncie XVI, e piú VI oncie e due quinti
Venti farazuole sono un bahar
Un bahar è quattro cantari vecchi di Portogallo
Tutte le spezie e droghe, e ciascuna altra cosa che venga dell'India, si vende in Portogallo a peso vecchio, e tutto il resto si vende a peso nuovo.
Viaggio di Nicolò di Conti
Discorso sopra il viaggio di Nicolò di Conti veneziano.
Avendo inteso che già cento e piú anni un Nicolò di Conti, cittadino veneziano, era andato per tutte l'Indie orientali, e che di tal suo viaggio era stata fatta memoria, stimai che fosse il dovere ch'anche quello si leggesse nel presente volume. E avendo fatta ogni diligenza di ritrovarlo non solamente nella città di Venezia, ma in molte altre d'Italia, dopo molte fatiche spese in vano, mi fu detto che nella città di Lisbona si trovava stampato in lingua portoghese: il quale pensai che, traducendolo nella nostra, poteva far cognoscere al mondo la virtú di questo nostro cittadino. Nondimeno, avendolo letto, l'ho ritrovato grandemente guasto e scorretto, sí nel procedere che si fa in questo viaggio, come nei nomi delle città e luoghi, mai piú non uditi né intesi: di modo ch'io era di opinione di lasciarlo da parte, pensando che forse un giorno potrebbe esser ritrovato piú intero e corretto, e allora con maggior sodisfazione de' lettori si metterebbe in luce. Dall'altro canto stimando ch'ancora ch'ei sia cosí guasto, porgeria nondimeno non poco piacere a quelli che si dilettano di questa parte di cosmografia, vedendo che già tanti anni si sapeano li nomi d'alcune città scoperte al presente dai Portoghesi, l'ho voluto lassar venir fuori qual egli si sia.
Del qual viaggio essendo necessario di parlare alquanto per darne a chi legge piú chiara intelligenza, dico ch'essendo questo Nicolò di Conti andato per tutta l'India, dopo vinticinque anni se ne ritornò a casa, e perciò che per scapolar la vita fu costretto a rinegar la fede cristiana, però, poi ch'ei fu tornato, bisognò ch'egli andasse al sommo pontefice per farsi assolvere, che allora era in Firenze e si chiamava papa Eugenio IIII: che fu dell'anno 1444. Il qual, dopo la benedizione, gli dette per penitenza che con ogni verità dovesse narrar tutta la sua peregrinazione ad un valent'uomo suo segretario, detto messer Poggio fiorentino, il quale la scrisse con diligenza in lingua latina. Questa scrittura dopo molti anni pervenne a notizia del serenissimo don Emanuel primo di questo nome, re di Portogallo, e fu del 1500, in questo modo: che sapendosi da ogniuno che sua Maestà non pensava mai ad altro se non come potesse far penetrare le sue caravelle per tutte l'Indie orientali, le fu fatto intendere che questo viaggio di Nicolò di Conti daria gran luce e cognizione ai suoi capitani e pilotti, e però di suo ordine fu tradotto di lingua latina nella portoghese, per un Valentino Fernandes, il quale nel suo proemio, dedicato a sua Maestà, tra l'altre parole dice queste: "Io mi son mosso a tradur questo viaggio di Nicolò veneziano acciò che si legga appresso di quello di Marco Polo, cognoscendo 'l grandissimo servizio che ne risulterà a Vostra Maestà, ammonendo e avisando li sudditi suoi delle cose dell'Indie, cioè quelle città e popoli che sieno de' mori, e quali degli idolatri, e delle grandi utilità e ricchezze di spezierie, gioie, oro e argento che se ne traggono; e sopra tutto per consolar la travagliata mente di Vostra Maestà, la quale manda le sue caravelle in cosí lungo e pericoloso viaggio, conciosiacosaché in questo viaggio di Nicolò si parla particolarmente d'altre città dell'India, oltra Calicut e Cochin, che già al presente abbiamo scoperte; e appresso per aggiugnere un testimonio al libro di Marco Polo, il qual andò al tempo di papa Gregorio X nelle parti orientali, fra 'l vento greco e levante, e questo Nicolò dipoi al tempo di papa Eugenio IIII per la parte di mezzodí penetrò a quella volta, e trovò le medesime terre descritte dal detto Marco Polo. E questa è stata la principal cagione d'avermi fatto pigliar la fatica di questa traduzione per ordine suo".
Da queste parole si comprende di quanto momento e credito fossero i viaggi di questi duoi Veneziani appresso quel serenissimo re, e veramente è cosa maravigliosa a considerar l'isole e i paesi scritti nel libro del prefato messer Marco Polo, che fu già 250 anni, e ch'al presente siano stati ritrovati dai pilotti portoghesi, come l'isola di Sumatra, Giava maggiore e minore, Zeilam, il paese di Malabar e Dely e molti altri, delli quali anticamente in libro alcuno, né greco né latino, non era fatta menzione. Ma quello che mi fa piú maravigliare è che 'l prefato messer Marco Polo scrive che 'l gran Can imperatore del Cataio e tutti quelli popoli della provincia di Mangi aveano commercio e mandavano a pigliar le spezierie nell'isole sopradette, e questo Nicolò di Conti va per terra insin nella detta provincia di Mangi, e nel ritorno, imbarcatosi nel porto di Zaitun, vien per mare a trovar l'isole della Giava maggiore e minore, e che li capitani portoghesi ch'a' tempi nostri sono stati nell'Indie non abbino voluto far penetrare le lor caravelle sino a questo gran regno, cosí ricco e abbondante d'oro e d'argento, e aprir questo viaggio per mare, conciosiaché per terra ognora ne venghino di quelli abitanti in Tauris e Constantinopoli con le loro mercanzie. Ma il restar di far questo effetto dubito che proceda da maggior cagione e piú profonda, dov'io non posso penetrare, né anche voglio. Bastami solamente di saper quello che da molti ho inteso e letto, che tutte le ditte Indie son circondate da infiniti popoli tartari, i quali, non sapendo di poterle per mare, di continuo per terra le infestano e saccheggiano (com'è la povera Italia da Tedeschi, Francesi e Spagnuoli); e ultimamente, nel 1532, vi vennero nel regno di Cambaia alcuni di quelli popoli detti Mogori, con gran numero di artegliaria e armi, e misero sottosopra la città di Campanel e altre circonvicine. E di questa materia non mi par piú oltra di doverne parlare.
Viaggio di Nicolò di Conti veneziano,
scritto per messer Poggio fiorentino.
Nicolò di Conti veneziano, essendo giovane e ritrovandosi nella città di Damasco di Soria, avendo imparato la lingua arabica, se n'andò colle sue mercanzie con una carovana di mercatanti, che erano da 600, con i quali passò per l'Arabia che si domanda Petrea, dove sono gran deserti, e poi per la provincia di Caldea, insino che giunse sopra il fiume Eufrate.
Delli demoni che vanno errando per li deserti dell'Arabia Petrea.
In questi deserti, che sono nel mezzo di queste provincie, dice essergli avvenuta una cosa maravigliosa, che circa la mezzanotte udirono un gran rumore e strepito, e pensando che fussero Arabi che stanno alla campagna che gli venissero a rubbare, si levarono tutti, dubitando di qualche pericolo: e stando cosí, viddero una gran moltitudine di genti tacitamente passare appresso le tende loro, senza fargli dispiacere. Alcuni mercatanti che gli viddero, e ch'altre volte erano stati per questo cammino, dissero essere demoni, che erano costumati di andare per quei diserti in quel modo, e cosí l'affermarono.
Della città di Babilonia, detta oggidí Baldacco, della Balsera e del porto di Calcum, isola di Ormuz, e di Calazia città di Persia.
Sopra 'l fiume Eufrate è posta una parte della molto nobile e antica città di Babilonia, che ha di circuito 14 miglia, gli abitatori della quale al presente la chiamano Baldacco. E per mezzo d'essa vi corre il detto fiume Eufrate, sopra 'l quale è fatto un ponte forte di 14 archi, che congiunge insieme l'una e l'altra parte della città; e veggonsi in essa ancora molte reliquie e fondamenti d'edificii antichi. Nell'alto della città è posta una fortezza, e il palazzo regale molto forte e bello. Il re di questa provincia è molto potente. All'incontro di detto palazzo, navigando giú pel fiume per spazio di venti giornate, si veggono le rive d'ambedue le parti molto belle, e molte isole abitate; poi, camminando otto giornate per terra, si giugne al luogo detto la Balsera, e di lí a quattro giornate nel colfo Persico, dove il mar cresce e cala nel modo del mare Oceano. Per il quale navigando per spazio di cinque giornate, giunse nel porto di Calcum, e poi in Ormuz, che è un'isola piccola del detto golfo, la quale è lontana da terra ferma dodici miglia. Partendosi da questa isola per andar fuori del golfo verso l'India, per spazio di cento miglia, s'arriva alla città di Calazia, porto nobilissimo della Persia, nella quale si fa gran traffico di mercanzie. Qui stette per alcun tempo ad imparar la lingua persiana, della quale poi se ne valse assai; e similmente si vestí degli abiti di quel paese, i quali usò tutto il tempo di questa sua peregrinazione. Poi con alcuni compagni persiani e mori noleggiarono una nave, avendo però prima fatto infra di loro solenne giuramento d'essere insieme fedeli e leali compagni.
Della città di Cambaia, e del modo delle donne di bruciarsi vive in morte de' mariti.
Navigando in questo modo insieme con la compagnia, arrivò in spazio d'un mese alla molto nobil città detta Cambaia, la qual è posta fra terra sopra il secondo ramo donde sbocca in mare il fiume Indo. In questo paese si trovano di quelle pietre preziose dimandate sardonie, e si costuma che le donne, quando muoiono i mariti, insieme con loro si bruciano vive, una o piú secondo la dignità del morto: e quella che gli era piú cara e favorita, ella istessa va a mettere il suo braccio attraverso il collo di quello, e insieme si brucia; l'altre mogli si gittano poi nel fuoco cosí acceso. E di queste cerimonie se ne parlerà di sotto piú diffusamente.
Della città di Pacamuria e Dely, dove nasce il gengevo, e la sua descrizione.
Passando piú avanti, navigò per spazio di venti giornate e arrivò a due città poste sulla spiaggia del mare, cioè a Pacamuria e Dely, nel paese delle quali nasce il gengevo, che si domanda nella lor lingua beledi, gebeli e dely. Il quale è radice d'erba alta un braccio, e le foglie simili a quelle dei gigli azurri detti irios: e nascono come le radici delle canne, e di quelle si cava 'l gengevo, sopra 'l quale si gitta della cenere, e mettesi al sole a seccare per tre giorni.
Del sito della nobile città di Bisinagar, e quanta gente vi sia atta a portar arme, e dei loro costumi.
Partendosi di qui e allontanandosi dal mar circa trecento miglia fra terra, pervenne alla gran città di Bisinagar, che ha di circuito da 60 miglia, in una vallata a piè d'alte montagne, della quale le mura, che sono verso le montagne, la circondano di sorte che il circuito suo apparisce maggiore e piú bello a chi lo mira. Qui si trovano uomini atti a portar armi al numero di centomila; gli abitatori d'essa pigliano quante mogli lor piacciono, ed elle s'ardono con i mariti morti. Il re di questa città è molto potente ed eccede tutti gli altri re dell'India, e prende sino a dodicimila donne, delle quali quattromila lo seguono a piè dovunque ei va, né s'occupano in altro che in servizio della sua cucina, e altretante gli cavalcano dietro onorevolmente montate sui cavalli benissimo forniti. L'altre sono portate da uomini in ricche lettiche, e duemila d'esse si dice ch'egli tiene per mogli, con condizione che nella morte sua elle si brucino volontariamente con lui, il che è avuto e reputato per un grande onore.
Delle città di Pelagonga, Pudifetania, Odeschiria e Cenderghisia, e quella di Malepur, dove è il corpo di san Tommaso, e della provincia di Malabar.
La città di Pelagonga, la quale è all'obbedienza del medesimo re, non è di minor nobiltà, e ha di circuito dieci miglia, ed è lontana da Bisinagar otto giornate. Dipoi andando per terra, in XX dí arrivò ad una città appresso la riva del mare, dimandata Pudifetania, nel qual cammino lasciò adietro due bellissime città, cioè Odeschiria e Cenderghisia, dove nasce il sandalo rosso. E di lí inanti se n'andò il detto Nicolò a una città di mille fuochi che si chiama Malepur, situata pur alla costa del mare nell'altro colfo verso 'l fiume Gange, dove il corpo di san Tommaso onorevolmente è sepolto in una chiesa assai grande e bella, gli abitatori della quale son cristiani detti nestorini, i quali sono sparsi per tutta l'India, come fra noi sono li giudei: e tutta questa provincia si dimanda Malabar.
Come appresso la città di Cael si pescano le perle,
e della sua smisurata grandezza delle foglie d'un arbore.
E avanti che s'arrivi a questa città, n'è un'altra che si chiama Cael, appresso la qual si pescano le perle. E qui nasce un arbor senza frutto, la foglia del quale è di lunghezza sei braccia e quasi altretanto di larghezza, e tanto sottile che, ristretta insieme, ella si può tenere in un pugno: e queste foglie s'usano in quelle parti in vece di carta per iscrivere, e nel tempo di pioggia si portano in capo per non si bagnare, dove che tre e quattro compagni, distendendola, possono nel cammino star sotto coperti senza bagnarsi.
Della nobile isola di Zeilam, e delle pietre preziose che vi sono,
e della descrizione della cannella e utilità che si cava d'essa.
In capo di questo paese verso mezzodí è la nobil isola di Zeilam, che circonda duemila miglia, nella quale si trovano cavando rubini, zaffiri, granate, e quelle pietre che si domandano occhi di gatta. Ivi nasce la buona cannella in gran copia, l'arbore della quale s'assomiglia al salice, ma è piú grosso, e i rami non tendono in alto, ma in largo; le foglie son simili a quelle del lauro, ma piú grandi alquanto. La scorza di rami è la migliore, e massimamente quella piú sottile; quella del tronco, che è piú grossa, è manco buona al gusto. I frutti sono simili alle coccole del lauro, dalle quali se ne cava olio molto odorifero, per unguenti che gl'Indiani usano per ungersi; e il resto del legno, levatane la scorza, si brucia.
Della vita de' Bramini.
In questa isola è un lago, in mezzo del quale è posta una città regale che circonda tre miglia, che non si governa da altri se non da certe genti che discendono dalla stirpe di Bramini, i quali sono riputati per i piú savii che altre persone, perciò che non attendono ad altro, tutto il tempo della lor vita, che agli studii della filosofia, e son molto dediti all'astrologia e alla vita piú civile.
Dell'isola Sumatra, anticamente detta Taprobana, e de' crudeli costumi degli abitanti; e come vi nasce l'oro, la canfora e il pepe, e la descrizione d'esso; e d'un frutto detto duriano,
e dell'isola di Andramania.
Dipoi navigò ad una isola molto grande detta Sumatra, la quale è quella che appresso gli antichi è detta Taprobana, che circonda duomila miglia: vi si fermò un anno. Navigò poi per spazio di XX giornate con vento favorevole, lasciando a man dritta una isola nominata Andramania, che vuol dire isola dell'oro, che ha di circuito ottocento miglia, gli abitatori della quale mangiano carne umana: e a questa isola nessuno vi capita se non buttato dalla fortuna, perché, giunto che è l'uomo nel poter loro, immediate vien preso da queste genti crudeli e inumane, e fattolo in pezzi se lo mangiano. E dicesi che nella sopradetta isola di Taprobana gli uomini anco essi sono molto crudeli e di pessimi costumi, e communemente hanno l'orecchie molto grandi, cosí gli uomini come le donne, nelle quali portano attaccate pietre preziose, infilzate con fila d'oro. Le lor vesti sono di tela di lino, di bambagio o di seta, lunghe sin al ginocchio; gli uomini pigliano quante donne lor piacciono. Le lor case sono molto basse, per difendersi dall'eccessivo ardor del sole. Sono tutti idolatri.
In questa isola nasce il pepe molto maggior dell'altro, e cosí lungo, e la canfora e l'oro in grande abbondanza. L'arbore che produce il pepe è simile a quel dell'edera; i granelli sono verdi a simiglianza di quelli del ginepro, sopra i quali spargendo della cenere li seccano al sole. Nasce ancora in questa isola un frutto ch'essi dimandano duriano, ch'è verde e di grandezza d'una anguria, in mezzo del quale, aprendolo, si trovano cinque frutti, come sarian melarancie, ma un poco piú lunghi, d'eccellente sapore, che nel mangiare pare un butiro rappreso.
I Taprobani mangiano carne umana, e le teste usano in luogo di monete e per contrattar mercanzie.
In una parte della sopradetta isola, che chiamano Batech, gli abitatori mangiano carne umana, e stanno in continua guerra con i loro vicini. E gli fu detto che serbano le teste umane per un tesoro perché, preso che hanno l'inimico, gli levano la testa, e mangiata che hanno la carne, adoperano la crepa over osso per moneta, e quando vogliono comprare alcuna mercanzia, danno due o tre teste all'incontro d'essa mercanzia secondo il suo valore: e colui che ha piú teste in casa, vien riputato per il piú ricco.
Della città di Ternassari, e la copia degli elefanti e verzino che vi sono; e della città di Cernovem, e grandezza del Gange, e canne che vi nascono.
Partitosi dall'isola Taprobana, per dicessette giornate con gran travaglio di fortuna arrivò alla città di Ternassari, la quale è posta sopra la bocca d'un fiume che ha il medesimo nome: e tutto 'l paese che v'è all'intorno è copioso di elefanti, e vi nasce molto verzino. E di qui poi fatto un lungo cammino per mare, giunse nella bocca del fiume Gange, per il qual postosi a navigare, in capo di venti giornate capitò ad una città posta sul detto fiume, chiamata Cernovem; il qual fiume è tanto grande che, essendo nel mezzo d'esso, non si può vedere terra da parte alcuna: dicesi che in qualche luogo è di larghezza XIII miglia. Nelle rive di questo fiume nascono canne tanto lunghe e grosse che un uomo solo non le può abbracciare d'intorno, e fanno d'esse battelli piccoli al modo di almadie per pescare, perché la scorza è di grossezza d'un palmo, e infra un nodo e l'altro è tanta distanza quanto è lungo un uomo: e a quella misura se ne fanno schifi da navigare pel detto fiume, nel quale vi sono cocodrilli e diversi pesci a noi incogniti. Sopra una riva e l'altra del fiume si ritrovano di continuo luoghi e città, e giardini molto belli, e orti ameni dove nascono infiniti frutti, e sopra tutti quelli detti musa, piú dolci del mele, simili a fichi; e vi nascono anche delle palmiere, che fanno il frutto che noi altri dimandiamo noci d'Indie, e altri frutti di varia sorte.
Come ritrovò sopra il fiume Gange la città di Maarazia,
dove è copia d'oro e pietre preziose; e del fiume Racha.
Partitosi di qui, andò su pel fiume Gange per spazio di tre mesi, lasciando però adietro quattro famosissime città, e se ne venne ad una molto potente chiamata Maarazia, dov'è gran copia d'oro, argento, perle grosse e minute, pietre preziose e legno d'aloe. E da quella pigliò 'l cammino verso alcune montagne poste alla volta di levante, dove si trovano quelle pietre preziose dette carbonchi. In capo d'un tempo se ne tornò di novo alla città di Cernovem, dalla quale pigliando il cammino fra terra, giunse sopra il fiume Racha, e navigando all'insú pel detto fiume, in termine di sei giorni pervenne ad una città molto grande, chiamata dal medesimo nome del fiume, perché ella è posta sulla riva d'esso.
Del fiume e città di Ava, e d'un piacevol costume che è in quella.
Partitosi poi da questa città, passò alcune altre montagne e diserti, e in capo di dicessette giorni giunse in una campagna, per la quale camminando quindici giornate capitò ad un fiume maggior del Gange, che dagli abitatori è detto Ava; pel quale avendo navigato molti dí, trovò una città piú nobile e piú ricca di tutte l'altre, chiamata Ava, che ha di circuito quindici miglia, gli abitatori della quale sono molto piacevoli e allegri, e ancor che abbino bellissime case e ben fabricate con tutte le commodità, nondimeno tutto il dí dimorano nelle taverne che sono sparse per tutta la città, a darsi buon tempo e piacere, dove similmente si riducono molte donne giovani a tener lor compagnia.
Quivi trovò una usanza piacevole, della quale sol per far ridere non volse restar di dire quanto vidde e intese. Vi sono alcune donne vecchie che non fanno altro mestier, per guadagnarsi il vivere, che di vender sonagli d'oro, d'argento, di rame, piccoli come piccole nocelle, fatti con grande arte: e come l'uomo è in età di poter usare con donne, overo che si voglia maritare, gli vanno ad acconciar il membro mettendo fra carne e pelle detti sonagli, perché altramente saria rifiutato; e secondo la qualità delle persone ne comprano d'oro o d'argento, e le medesime donne che li vendono vanno a levargli la pelle in diversi luoghi, e posti dentro e cucita si salda in pochi dí, e ad alcuni ve ne metteranno una dozzena, e piú e manco secondo la volontà loro, e poi la cuciono cosí bene che in pochi giorni ella si salda. Questi uomini cosí acconci sono in grandissima grazia e favor delle donne, e molti di loro, camminando per la strada, hanno per cosa molto onorata che se gli senta il suono di detti sonagli che hanno adosso. Egli fu molte volte richiesto da queste tal vecchie che fosse contento che glieli acconciassero, né mai volse consentire a simil novella, che con suo dispiacere altri pigliasse spasso e diletto.
Qui mancan righe
Della provincia di Mangi, e de' costumi degli abitanti d'essa
e del modo di pigliar gli elefanti e di domesticarli.
Questa provincia si chiama Mangi ed è piena d'infiniti elefanti, de' quali diecimila ne nutrisce il re e gli adopera nella guerra, perché sopra d'essi fanno castelli, ove possono stare otto e dieci uomini da combattere con lancie, archi e balestre. Il modo di pigliar questi elefanti è che, nel tempo che vanno in amore, tolgono una elefante dimestica e usa a questo, e la menano in luogo fatto a posta a pascere, e circondato da un muro il quale ha due gran porte, cioè una per entrare, l'altra per uscire: e quando l'elefante sente la femina esser ivi, entra per la prima porta per venire a trovarla, la quale immediate che lo vede se ne fugge per l'altra porta, e uscita che ella è, subito le porte sono serrate. Quivi stanno mille e piú uomini apparecchiati aspettando, e come sono chiamati vi concorrono con corde molto grosse, e chi monta su per le mura e chi per i buchi del muro, e vanno accommodando le corde con i lacci per pigliar l'elefante. E poi che ogni cosa è posta in ordine, appare un uomo in quella parte ove sono tesi i lacci, e l'elefante come lo vede corre furiosamente per ammazzarlo, e correndo vien a cascare nei lacci: e gli altri uomini dietro via subito tirano le corde e lo fanno restar preso, gli legano i piedi di dietro fortemente ad un legno grosso come un arbore di nave, benissimo confitto in terra, e lo lasciano star per tre o quattro giorni senza mangiare e bere, e passato il detto tempo gli danno un poco d'erba ogni dí, e cosí in XV giorni vien a domesticarsi. Dipoi lo legano in mezzo di duoi altri domestici e lo conducono per la città e da un luogo all'altro, tal che in dieci dí è fatto dimestico come gli altri.
Un altro modo di dimesticar gli elefanti e governarli, e del lor mirabile intelletto;
e de' costumi e religione di quel paese.
Dicesi ancora che in altre parti gli dimesticano in questo modo, che fanno entrare gli elefanti in una valle piccola serrata a torno e separano i maschi dalle femine, e i maschi vi restano e non gli danno da mangiare, e in capo di tre giorni gli cavano di lí e menangli in altri luoghi stretti e asperi, fatti a posta per dimesticarli: e li re comprano questi per servirsene. Li dimestici si mantengono con riso e butiro e anco con erba, e i selvatici di rami d'arbori e di erbe che trovano; e li dimestici sono governati da un uomo solo, il quale gli circonda il capo con un ferro solamente, e ha tanto intelletto questo animale che, ritrovandosi in qualche battaglia, di tutte le frecce o altre armi che gli vengono lanciate riceve i colpi con la pianta del piede, acciò non sieno offesi quelli che ei porta adosso. Il re di questa provincia cavalca un elefante bianco, che ha attaccato al collo una catena d'oro ornata di pietre preziose, che arriva insin ai piedi.
Gli uomini di questa terra si contentano d'una sola donna, e tutti, cosí uomini come donne, si pungono le carni con stili di ferro, e in quelle punture vi mettono colori che piú non si possono cancellare, e cosí restano sempre dipinti. Tutti adorano gl'idoli, nondimeno, quando si levano la mattina da dormire, si voltano verso l'oriente e con le mani giunte dicono: "Dio in Trinità nella sua legge ci voglia difendere".
D'un arbore su le foglie del quale s'usa di scrivere in luogo di carta, e del frutto che fa.
In questa terra è una sorte di pomo come una melarancia, pieno di succo, ma piú dolce. Evvi ancora un arbore che si dimanda tal, che ha le foglie grandi sulle quali scrivono, perché in tutta l'India non s'usa carta né se ne trova, eccetto che nella città di Cambaia. Questo arbore produce il frutto simile ai navoni grandi; quel che si contiene sotto la scorza è tenero come un liquore rappreso, ed è nel mangiar molto dolce e apprezzato: nondimeno è di minor bontà della scorza.
Della sorte di serpenti che produce questo paese, e come al mangiarli sono di bonissimo gusto, e cosí di alcune formiche rosse.
Questo paese produce serpenti spaventevoli, senza piedi e grossi com'un uomo, e lunghi sei cubiti. Gli abitatori del paese gli mangiano arrosto con mirabil gusto, e gli tengono in gran riputazione. Medesimamente mangiano alcune formiche rosse, che sono come gambari piccioli, acconcie col pepe, che appresso di loro è un mangiar delicato.
Di uno animale che forse è il rinocerote, che guerreggia con lo elefante, e della virtú del suo corno.
Evvi ancora un animale che ha la testa simile al porco, la coda al bue e nella fronte un corno, come l'unicorno, ma piú corto e piú d'un braccio lungo; ha il color e la statura dell'elefante, col quale guerreggia di continuo: e quel corno vien detto che risana ogni cosa avelenata, e per questo è stimato molto.
Della sorte di buoi che si trova in questo paese, e quanto siano pregiati i crini loro.
Nell'ultima parte di questo paese, verso il Cataio, si trovano buoi bianchi e neri, e quelli son piú pregiati che nascono con i crini e la coda di cavallo; ma quelli che hanno i crini piú spessi e piú sottili, leggieri come una penna e lunghi che arrivino insino ai piedi, sono stimati a peso d'argento, perché di questi tai crini ne fanno ventagli, che adoperano solamente in servizio degl'idoli e dei re. Ne fanno ancora d'essi fiocchi incastrati in oro e in argento, e gli mettono sulle groppe di cavalli, dove spargendosi vengono a coprir tutta la groppa, e appresso gli attaccano al collo, dal quale pendendo adornano il petto; e ancora i cavalieri gli portano in cima delle lancie, in segno di gran nobiltà.
Della nobil città di Cambalu e della sua mirabil fortezza, e de' costumi di quel popolo,
e della città di Quinsai.
Piú oltre di questa provincia di Mangi, se ne trova un'altra che è la miglior di tutte l'altre del mondo, nominata il Cataio, il signor della quale si fa chiamare il gran Cane, che nella sua lingua vuol dire imperatore; e la principal città e la piú nobil si chiama Cambalu, la quale è fatta in quadrangulo, e ha di circuito XXVIII miglia. E in mezzo di questa vi è una fortezza molto bella e forte, nella quale è posto il palazzo del re, e in ciascuno di quei 4 anguli è fabricato un castello in tondo per difensione: e ciascuno d'essi ha quattro miglia di circuito, e quivi sono riposte l'armi d'ogni sorte per guerreggiare e per combatter terre, e di continuo stanno in ordine e apparecchiate genti per ogni bisogno che accada. E dal suo palazzo regale si può andar sopra le muraglie, che son fatte in volta, a ciascuno di detti quattro castelli, e questo acciò che, se si sollevasse il popolo contra il re, possa ad ogni suo piacere ritrarsi in quelli. Oltra questa città per quindici giornate, ve n'è un'altra molto grande dimandata Quinsai, la quale da poco tempo in qua è stata fatta di novo da questo re: ha trenta miglia di circuito, e piú populata dell'altre. In queste due città, secondo che gli fu detto, vi sono le case, i palazzi e i loro fornimenti a similitudine di quei d'Italia; gli uomini mansueti e discreti, savi, e piú ricchi di tutti gli altri sopradetti.
Del porto di Zaiton e della città di Pauconia, e delle viti e frutti che ivi nascono.
Dipoi si partí d'Ava per il fiume verso il mare, e in capo di XVII giornate arrivò alla bocca del fiume, dove è il gran porto che si chiama Zaiton, e ivi entrò in mare; e in termine di dieci giorni giunse ad una città grande e popolata, che si dimanda Pauconia, che ha dodici miglia di circuito, e vi stette per spazio di quattro mesi. In questo luogo solamente nascono viti, e ancora poche, perché tutta l'India ha carestia di vino e viti: e di queste uve anco non fanno vino, le quali nascono sopra gli arbori, e gli fu detto che, se le colgono senza far prima sacrificio alli loro idoli, disparono né piú si possono vedere. Ivi nascono pini, castagne, albercocci, peponi piccoli e verdi, sandali bianchi e canfora, la quale sta dentro nell'arbore, e se non si fa prima sacrificio alli dii, ancora che se gli taglia la scorza, la dispare né si vede.
Qui mancan righe
Come arrivò all'isola della Giava minore e maggiore.
Nell'India interiore vi sono due isole verso l'estremo confine del mondo, e ambedue sono dette le Giave, una delle quali ha di circuito tremila miglia e l'altra due, poste verso 'l levante: e per il nome di maggiore e minore sono differenti l'una dall'altra, ad arrivar alle qual vi stette un mese continuo di navigazione nel suo ritorno. Da un'isola all'altra vi sono cento miglia di distanzia, dove è la parte piú vicina. Quivi si fermò per spazio di nove mesi, con la moglie e con i figliuoli e con la sua compagnia.
Della impietà e costumi inumani degli abitatori dell'isole dette Giave.
Gli abitatori di quest'isole sono piú inumani e crudeli che alcun altra nazione, e mangiano gatti, sorzi e altri animali immondi, e d'impietà avanzano tutte l'altre genti, perché l'ammazzare un uomo hanno per giuoco, né per questo portano supplicio alcuno. I debitori che non hanno il modo di sodisfare a chi debbono, si danno lor per ischiavi, ma alcuni per non servire s'eleggano piú volentieri la morte in questo modo, percioché, pigliando una spada ignuda, se ne vengono nelle strade e ammazzano quanti riscontrano che possino manco di lui, sin a tanto che trovino uno che sia piú valente, che l'ammazzi; vien poi il creditor del morto e fa citar colui che l'ammazzò, dimandandogli il suo credito, al che è constretto dai giudici di sodisfare.
Il modo crudele che hanno di far la prova della bontà delle lor armi.
Quando comprano una scimitarra o spada, per volerne far prova la cacciano nel petto al primo che se gli para inanzi, poi gli danno una coltellata, e a questo modo fanno la prova, e con la punta e col taglio, della tempra d'esse, né per questo patiscono pena alcuna; e ciascun che passa guarda queste ferite, e se l'arma entrò per filo dritto, e che l'ammazzasse al primo tratto, vien lodato da tutti d'aver date sí belle ferite. Ciascun può pigliar quante mogli vuole, per sodisfare al suo appetito.
Il giuoco che usano di far combattere i galli.
Il giuoco piú usato tra loro è di far combattere i galli, e cosí ve ne portano di piú sorti, ciascuno sperando che 'l suo resti vincitore: e molti di fuori via, che stanno a veder questo spettacolo, fanno infra di loro delle scommesse sopra questi combattenti, e il gallo che resta superiore fa vincer li danari.
Della sorte di uccelli che si trovano nella Giava maggiore, e dell'isole di Sandai e Bandan, e delle noci moscate e garofani che nascono in quelle.
Nella Giava maggiore trovansi uccelli molte volte che sono senza piedi, grandi come colombi, di penne molto sottili e con la coda lunga, i quali sempre si posano sopra gli arbori: le carni di quali non si mangiano, ma la pelle e la coda sono in grande stima, perché s'usano per ornamento del capo. Piú avanti per quindici giornate di navigazione verso levante, sono due isole, una detta Sandai, nella quale nascono noci moscate e macis, ch'è il suo fiore, l'altra isola Bandan, nella quale nasce solamente il garofano, e di lí si porta all'isola della Giava.
Di tre sorti di pappagalli che si ritrovano in Bandan, e del mar ch'è ivi appresso.
Bandan nutrisce pappagalli di tre sorti, cioè una di rossi col becco giallo, l'altra di varii colori, i quali chiamano noro, che vuole inferir lucido: e ambedue le sorti sono della grandezza di colombi; la terza sono bianchi e grandi come galline, chiamati cachos, che vuol dire piú pregiati, per esser migliori degli altri, perché imparano a parlar mirabilmente e rispondono a quel che vien lor dimandato. In ambedue queste isole sono uomini di color negro. Il mare oltre queste isole è innavigabile per li continui venti e fortune, che non permettono che vi si navighi.
Come dalle Giave navigò alla città di Campaa, e poi ritornò a Colum in Malabar.
Partitosi detto Nicolò dall'isole delle Giave, e conducendo seco quel che gli era necessario pel cammino, navigò verso ponente ad una città che è nella costa del mare, detta Campaa, nella quale vi è molto legno aloe, canfora e gran copia d'oro. Stette in questo viaggio per spazio d'un mese, e partendosi poi di lí, in altrotanto tempo pervenne ad una nobil città nominata Coloum, che ha di circuito dodici miglia. Questa è in quella provincia di Malabar, ove nasce il gengevo detto colobi, pepe, verzino, cannella che si chiama grossa.
Della sorte di serpenti che si trovano in questa provincia di Malabar, e della natura loro,
e come si pigliano.
Questa provincia produce serpenti senza piedi, di braccia sei di longhezza: sono animali molto spaventevoli, non fanno dispiacere ad alcuno se non è data lor noia, pigliano mirabil piacere in risguardar fanciulli, e per questo rispetto se ne vengono alla presenza degli uomini. Hanno la testa simile a quella dell'anguilla, quando giaciono in terra, e come si levano l'allargano molto piú, e la parte di dietro pare il volto di uomo dipinto di varii colori. Si pigliano con incanto, il che si costuma molto infra di loro, e senza fare dispiacere a persona gli pongono in vasi di vetro fatti a questo effetto, e gli portano in mostra per cosa maravigliosa.
Della seconda spezie di serpenti di questa provincia, e come si pigliano.
Medesimamente in questa provincia, appresso di Susinaria, si vede un'altra sorte di serpenti, che hanno quattro piedi e la coda assai lunga, e sono della grandezza d'un gran cane. Gli pigliano a caccia e poi se gli mangiano, e non sono nocivi a mangiarli, non altrimenti che appresso di noi li daini e i cervi e simili altre selvaticine: e ne fanno d'essi diverse e buone vivande. La lor pelle è di varii colori, la quale usano per coperte, perché riescono molto belle.
Della terza spezie di serpenti orribili di questa provincia, e d'un animale simile a un gatto selvatico.
Evvi in questo medesimo paese, secondo che gli fu detto, un'altra sorte di serpenti spaventevoli, lunghi un braccio, che ha l'ali a similitudine di quelle della nottola. Ha sette teste disposte per ordine una drieto all'altra lungo il corpo, e quelli che stanno su per gli arbori sono nel volar velocissimi, e sono piú velenosi di tutti gli altri, perché col fiato solo ammazzano gli uomini. Trovansi ancora, sí come gli fu detto, animali simili a gatti selvatici, che volano, e hanno una pellicina distesa dai piedi davanti a quei di dietro, la quale sta raccolta in sé quando si posano, e come vogliono volare dibattono i piedi davanti in vece d'ali, e cosí se ne vanno da un arbore all'altro. Li cacciatori, quando vogliono pigliar questi animali, gli seguitano sin a tanto che gli straccano, e stracchi cascano a terra e restano presi.
D'un arbore detto cachi, e dello smisurato frutto che produce, e d'un altro frutto dimandato amba.
Ha veduto in questa terra un arbore chiamato cachi overo ciccara, che a piè del tronco fa un frutto simile a quel del pino, ma è sí smisurato ch'un uomo solo ha che fare assai a portarne uno. La scorza è verde e un poco dura, pur premendola col dito si rompe, e ha dentro 250 o 300 pomi che sono come fichi e cosí dolci, i quali sono divisi l'un dall'altro con una teletta, che hanno poi dentro un altro frutto ventoso, di sapore e di durezza come la castagna, a modo della quale elle si cuocono, e cosí quando son poste nelle bragie, e che non si castrino prima, crepano e saltano fuor del fuoco. Le scorze d'esse si danno a mangiare ai buoi; questo frutto di dentro non ha scorza. La radice di questo arbore alcuna volta produce il frutto sotto terra, il quale è migliore e piú saporito dell'altro: e di questi se ne fanno presenti ai re e gran signori. L'arbore è simile a quel d'un gran fico, e ha la foglia divisa come quella della palma; il legno s'assomiglia al busso, e l'adoprano in molte cose, e per questo è in gran reputazione. Ancora si trova un altro frutto che si domanda amba, molto verde, simile alla noce, maggior però del persico: la sua scorza è amara, ma quel di dentro ha sapor di mele, e prima che si maturi lo mettono nell'acqua, e lo condiscono come noi altri le olive verdi.
Della città di Cochin, posta sulla bocca del fiume Solchan, sulla riva del quale si veggono di notte pesci di forma umana.
Lasciato da Nicolò la città di Coloum, in tre giorni arrivò alla città di Cochin, che circonda cinque miglia ed è posta sulla bocca del fiume Colchan, dal quale prende il nome. Navigando alcuni giorni per detto fiume, vidde di notte sulla riva accender molti fuochi, e pensando che fussero pescatori, domandò quel che facevano quivi tutta notte. I suoi compagni, cominciando a ridere, gli risposero: "I cippe, i cippe", che sono di forma umana, o pesci o mostri che siano, i quali di notte escono dell'acqua e, accozzando insieme delle legne, percotono una pietra con l'altra, e cavatone fuoco accendono quelle legna accanto alla riva del fiume, dove i pesci, che ve ne sono in quantità, se ne vengono allo splendor del fuoco, e questi li pigliano e mangiano, e di giorno stanno sempre sotto acqua. Di questi se ne sono presi alcuna volta; gli dissero che non sono differenti dalla forma umana, cosí i maschi come le femine. In questo paese nascono i medesimi frutti che in Coulom.
Delle città di Colonguria, Paliuria e Meliancota, e della nobil città di Calicut, e delle spezierie e altre drogherie che vi nascono, e de' costumi degli abitanti.
Partito poi di qui, se n'andò alla città di Colonguria, che è posta sulla bocca d'un altro fiume, e di lí alla città di Paliuria e di Meliancota, che tra lor vuol dir città grande, la qual ha nove miglia di circuito; e andossene di lí a Calicut, che è posta accanto il mare, che ha di circuito otto miglia, la piú nobil città di tutta l'India di traffichi e mercanzia. In questo paese nasce gran copia di pepe, lacca, gengevo, cannella grossa, chebuli, zedoaria. Le donne pigliano quanti mariti vogliono, di sorte che alcuna n'ha dieci e piú, per sodisfare alli loro appetiti. Gli uomini dividono tra loro il tempo di goder la donna, e quello che gli va in casa lascia alla porta un segnale, e venendo l'altro, e veduto il segno, se ne torna adietro; ed è in arbitrio di lei di consegnar li figliuoli a chi gli piace, i quali non ereditano mai i beni del padre, ma li nepoti.
Della città di Cambaia, e delle drogherie che vi sono, e della vita delli sacerdoti d'essa,
e de' bovi che ivi si trovano.
Dipoi detto Nicolò se ne partí, e in capo di dieci giorni arrivò alla città di Cambaia, posta fra terra verso tramontana, ed è di circuito 12 miglia. Quivi nasce spico nardo, lacca, mirabolani, endego, e seta in grande abbondanza. Evvi una sorte di sacerdoti chiamati Bancani: questi si contentano d'una sola donna, la qual per legge è obligata di bruciarsi col marito quando egli muore. Questi sacerdoti non mangiano cosa che abbia vita, ma solamente frutti, risi, latte, legumi. Sonvi molti buoi selvatichi, che hanno i crini di cavalle, ma piú lunghi, e hanno le corna sí lunghe che, piegando un poco la testa adietro, toccano con esse la coda: e per la lor grandezza usano gli abitanti queste corna in luogo di vasi per portar acqua, overo altre cose da bere per cammino.
Dell'isola Zocotera, ove nasce l'aloe.
Di qui essendo ritornato di nuovo verso Calicut, se ne venne per mare ad una isola chiamata Zocotera, la quale, andando alla volta di ponente, è posta lontana da terra ferma cento miglia; ha di circuito 600 miglia. Dimorò in far questo viaggio da duo mesi. Nasce in detta isola eccellente aloe, chiamato cocotrino. La maggior parte di questa isola è abitata da cristiani nestorini.
Di due isole, in una delle quali separatamente vivono gli uomini, nell'altra le donne; e dell'effetto che causa l'indisposizione di quell'aere.
In fronte di questa isola, non piú di cinque miglia lontano, vi sono due isole, distanti l'una dall'altra trenta miglia, in una delle quali abitano solamente uomini, nell'altra donne. Alcuna volta vanno gli uomini all'isola delle donne, e similmente le donne a quella degli uomini, e sono stretti e necessitati, avanti che compino tre mesi, di partirsi e ciascuno tornare alla sua isola, perché, contrafacendo e stando piú del tempo determinato, la disposizione del cielo e dell'aere gli fa morire immediate.
Della città di Adem, e del cammino che tenne Nicolò a ritornarsene a Venezia, e come, giunto a Carras città d'Egitto, gli morí la moglie con duoi figliuoli e duoi famigli.
Di qui partitosi per mare, in capo di cinque giorni venne alla nobile e ricca città di Adem, ornata di bellissimi edificii; dipoi andò alla volta della Etiopia, e in termine di sette dí giunse a un porto detto Barbora, e di lí, in un mese di cammino per il mar Rosso, al porto del Zidem. E per la difficultà del navigare che ebbe in duoi mesi, volse smontar in terra appresso il monte Sinai, dove, passato il diserto, giunse a Carras città dell'Egitto, con la moglie e quattro figliuoli e altritanti famigli. Quivi la povera donna se ne morí di peste con duoi figliuoli e duoi famigli, e detto Nicolò, avendo passati cosí gran travagli e pericoli per mare e per terra, alla fine se ne tornò salvo con duoi figliuoli alla città di Venezia, che era la patria sua.
NARRAZIONE DI NICOLÒ DI CONTI DELLA VITA E COSTUMI DEGLI UOMINI DELLA INDIA E DI TUTTO IL PAESE DI ORIENTE, FATTA A RICHIESTA DI MOLTE PERSONE CHE LO INTERROGAVANO.
Divisione dell'India in tre parti, e qual sia la piú ricca e piú civile,
e de' suoi costumi, e d'altre cose notabili di piú luoghi.
L'India tutta è divisa in tre parti: la prima si distende dalla Persia sino al fiume Indo; la seconda da questo fiume sino al Ganges; la terza è quella che è oltre al detto fiume, e questa è la migliore, la piú ricca e piú civile, perché nel vivere, governo e costumi sono simili a noi altri. E medesimamente hanno le case grandi, con camere belle come le nostre, i fornimenti d'esse politi e ben fatti; vivono molto civilmente, e alieni d'ogni crudeltà e della vita inumana di gente barbara, e sono persone mansuete, benigne e pietose. Sono mercatanti, e i piú di loro sono ricchi quanto si possa dire, perché se ne trovaranno molti, che un solo sarà atto a caricar del suo proprio 40 navi di mercanzia, di tal valuta che l'una di queste sarà stimata 50 mila ducati. Questi Indiani soli, che di sopra abbiamo detto, costumano di mangiare come noi altri a tavole alte, con le tovaglie, e adoprano tazze d'argento per diverse vivande e altre cose, perché tutti gli altri Indiani mangiano in terra, assentati su tapeti overo letti. Non hanno né vino né viti, ma, pestato il riso e distemperato con l'acqua, vi buttano dentro il succo d'un arbore, che la fa diventar rossa che par proprio vino. Nell'isola di Taprobana tagliano un ramo d'un arbor detto thal, sotto il quale appiccano un vaso, nel qual sempre stilla un liquore molto saporito e dolce, per il loro solito bere.
Tra il fiume Indo e Gange vi è un lago, l'acqua del quale è di maraviglioso sapore e bevesi con gran diletto: tutte le regioni vicine, e anco quelle che sono lontane, mandano a pigliar di quest'acqua, e vi sono deputati molti cavalli leggieri sopra le strade per li corrieri, di sorte che ogni giorno ne hanno della fresca. Non hanno grano né pane di quello, ma hanno una certa sorte di lor farina; si nutriscono di risi, latte, formaggio e carne. Hanno gran copia di galline, capponi, fagiani, pernici e di molte altre selvaticine; si dilettano molto della caccia. Non portano barba, ancora che abbino i capelli lunghi, distesi sopra le spalle; usano i barbieri come facciamo noi altri, e quando vanno in guerra, legano li capelli dietro al collo con una cordella di seta. Sono nella statura del corpo e nella brevità di vita eguale a noi altri. I lor letti sono tutti forniti con lavori d'oro, e le coltre sotto le quali dormono riccamente lavorate. L'uso del vestire è vario, secondo la diversità delle regioni e de' luoghi. Communemente non hanno lana, ma lino, gottone e seta in gran copia, de' quali ne fanno vestimenti, cosí gli uomini come le donne. Portano intorno alle parti vergognose alcune traverse di lino, longhe sino alle ginocchia; portano una veste sola, o di tela o di seta, sopra la traversa, gli uomini sin al ginocchio, le donne sin al calcagno: e non ne posson portar piú rispetto al gran caldo che fa in quel paese. Non portano in piede altro che una soletta, ligata con una cordella rossa di seta o d'oro, ciascuno secondo il grado suo, come si vede nei piedi delle statue antiche di marmo. Le donne in alcune parti portano scarpe di sottilissimo corame, lavorate d'oro e di seta, e nelle braccia, in luogo di gioie, braccialetti e manigli d'oro, e intorno al collo e le gambe collari d'oro di peso di tre libre, pieni di pietre preziose.
Le donne publiche, in ciascun luogo che l'uomo le vuole, le trova immediate, perché sono sparse per tutta la terra e hanno case proprie, nelle quali tengono olii, unguenti, profumi e altre cose odorifere; e con molte lusinghe e parole accarezzano mirabilmente gli uomini, ciascuno secondo l'età loro, e sono molto accorte e gran maestre a provocar gli uomini ai lor diletti: e di qui nasce che tra gl'Indiani non si sa ciò che sia quel vizio abominevole. L'acconciature di testa delle donne sono di diverse sorti, ma pur la maggior parte intrecciano i capegli con cordoni di seta, e con veli lavorati d'oro si cuoprono il capo. In altri luoghi accolgono insieme i capegli in mezzo della testa e gli annodano insieme, e vi acconciano un fiocco di seta di varii colori, in modo che roversciandoli insieme col fiocco si distendono attorno il capo; altre portano capegli posticci, neri, e quanto son piú neri tanto piú belli sono tenuti; altri si cuoprono la testa con alcune foglie d'arbori di diversi colori; e nessuna di queste donne costuma lisciarsi il viso, se non quelle del Cataio. Nell'India interiore non è permesso che gli uomini n'abbino piú d'una, ma nell'altre parti pigliano quante donne che vogliono, eccettuando quelli cristiani che ebbero principio dall'eretico Nestorio, da cui hanno preso il nome di cristiani nostorini: e questi sono sparsi per tutta l'India, e vivono con una sola donna.
La diversità tra gl'Indiani in sepelire i morti, e che nell'India di mezzo le mogli in morte de' lor mariti si bruciano vive.
Gl'Indiani tutti non sepeliscono i morti a un medesimo modo, perché l'India prima supera l'altre di magnificenza, cerimonie e pompe nel sepelire, perciò che ivi fanno fosse sotto terra e le murano attorno con molti ornamenti, e in esse vi mettono il corpo morto sopra un bello stramazzo d'oro, e delle sporte fatte di palme piene di ricchi vestimenti, e gli lasciano gli anelli d'oro come se l'avesse d'adoperare nell'inferno, e la bocca della fossa serrano di muro in modo che alcuno non la possa piú aprire, e di sopra vi fanno un bel volto coperto di tegole, acciò che l'acqua si possa scolare e non guasti la sepoltura, e in questo modo il corpo si conserva piú lungo tempo.
Nell'India di mezzo si bruciano i corpi morti, e con loro spesse volte le mogli vive nel medesimo fuoco, o una o due, secondo le condizioni del matrimonio. La prima e principale per legge è obligata a bruciarsi, se ben ella fosse sola moglie del morto. Gli uomini pigliano dell'altre oltre la prima moglie, con alcuna delle quali si fa patto che, nella sua morte, ella debba onorare l'esequie del marito: e questo infra di loro è reputato per un grande onore. Pongono l'uomo, come è morto, nel suo proprio letto, molto riccamente adornato e vestito dei suoi migliori vestimenti, e attorno e sopra di lui pongono legni odoriferi, e accendono il fuoco. Vien poi la moglie, ben ornata e vestita de' suoi piú cari panni, in mezzo di piffari, naccare, flauti e altre musiche, con gran compagnia, cantando anco lei con un aspetto allegro, e cammina intorno al fuoco che brucia il marito, dove sta un di quei sacerdoti detti Bancani, sopra una catedra pomposamente e di ricchi panni adornata, il qual la conforta con buone parole, persuadendole che non si spaventi della morte, anzi che ella voglia disprezzar la vita presente, la quale è breve e vana, e le promette che doppo morte ella acquisterà col marito molti piaceri, infinite ricchezze e vestimenti preziosi, con innumerabili altre cose. Compita che ella ha di andare piú volte attorno al fuoco, si mette appresso della catedra del detto sacerdote, il qual di continuo la va inanimando, e spogliatasi de' suoi vestimenti nuda, avendosi prima molto ben lavato il corpo secondo l'usanza loro, si cuopre con un lenzuolo molto sottile e bianco e, ammonendola e confortandola il sacerdote, ella istessa si lancia nel fuoco. E se alcuna si spaventa di far questo, come suol talora accadere, che vedendo l'altre che sono nel fuoco far atti strani e dolersi, e che par che vorriano uscirne fuori, e per questa paura orribile alle volte tramortiscono, gli astanti che son ivi vicini la aiutano a gittarsi nel fuoco, overo la buttano al suo dispetto e per forza. E bruciati che sono i corpi, pigliano la cenere e la mettono nei vasi, e fanno monumenti belli dove conservano detti vasi; dipoi con molti e varii modi piangono i lor mariti.
Delle cerimonie dell'India interiore circa i lor morti, e del modo di sepelirli.
Quelli dell'India interiore si cuoprono la testa con i sacchi, quando gli muore alcuno. Altri piantano in mezzo della strada alcuni legni lunghi, e in cima di essi mettono carte dipinte e tagliate che giongono sino in terra, e ivi stanno per tre giorni a piangere, e sonando certi instromenti fatti di metallo, danno per l'amor di Dio certe vivande da mangiare a' poveri. Altri tre giorni continui piangono con tutta la famiglia, e li vicini vengono alla casa del morto, nella quale in quel tempo non si fa da mangiare, ma vien loro portato di fuori cotto. E li parenti e amici del morto, in segno di dolore, in questi giorni portano nella bocca una foglia amara, e i figliuoli, quando muore il padre o la madre, per un anno intero non si mutano di vestimenti, né mangiano piú di una volta il giorno, né si tagliano le unghie, né i capelli, né la barba. E molte donne ignude insin all'umbilico stanno intorno al morto, graffiandosi il viso coll'unghie e percotendosi il petto con le pugna, gridando "ai, ai". Levatasi poi una di loro in piedi, a modo di canzone comincia a dir tutte le lodi del morto: a costei le altre che sono intorno rispondono, cantando ancora esse delle canzoni, e raccontando in quelle particolarmente tutti li luoghi e modi dove il morto fece qualche cosa degna di lode. Molti ripongono subito la cenere de' corpi bruciati in vasi di oro o di argento, e per consiglio di quei sacerdoti gli portano in un luogo che dicono esser consacrato agli idoli, al quale da essi in fuori non vi si può accostare alcuno.
Della vita e costumi dei sacerdoti detti Bancani.
I Bancani, che sono i sacerdoti, non mangiano cosa che abbia vita, e dicono principalmente che il bove tra gli altri animali è il piú utile all'uomo, perché l'adoprano per portar some: e per questo l'ammazzarlo e mangiarlo dicono esser peccato. Questi sacerdoti si sostentano di risi, erbe, legumi e frutti. Non pigliano piú d'una donna, la qual si brucia insieme col marito morto, attraversandogli un braccio sotto il collo: ed è cosí stretta e constante nel fuoco, che non mostra pur un minimo segno di dolore.
Della vita e delli studii d'una setta di filosofi detti Bramini, e della lor superstizione.
Per tutta l'India è una setta di filosofi chiamati Bramini, dediti all'arte dell'astrologia, la quale studiano molto per saper predire le cose future. Sono di onesta e santa vita e di buoni costumi, infra li quali dice aver veduto uno ch'era di 300 anni, ed era tenuto per un miracolo, e dovunque andava i fanciulli lo seguivano, come cosa maravigliosa e notabile. Molti di loro usano l'arte della geomanzia, della quale ne hanno tanta cognizione e pratica che sapranno, in spazio di poche ore, predire le cose future come se già le fossero avvenute; e dannosi molto all'arte diabolica delle scongiure e stregherie, talmente che fanno tempestare quando vogliono, e per l'opposito tornare il ciel tranquillo e sereno. E per questo molti di loro mangiano di nascosto, e non vogliono esser veduti da alcuni, dubitando di esser affaturati con malocchio, tanto sono superstiziosi.
D'una scongiurazione che fece un patron di nave per aver vento favorevole al suo viaggio.
Affermò con verità detto Nicolò che un patrone di nave, stando in mare in gran calma, temendo insieme con i marinari che non vi dimorassero troppo lungamente, fece apparecchiare una tavola a piè dell'arbore, dove fatte molte congiurazioni, invocando spesso il dio Muthiam, cosí detto, in quello instante intrò adosso a un uomo d'Arabia un demonio, che lo cominciò ad alta voce far gridare, saltare e correre per tutta la nave come pazzo. E giunto che fu alla tavola, prese certi carboni e se li mangiò, e dimandando sangue di gallo per bere, gliene presentarono uno, al quale (avendolo scannato) succiò il sangue, poi, gittatolo via, dimandò ciò che volevano. Gli fu risposto: "Vento". Gli promise fra tre giorni di dargliene favorevole, col quale potriano securamente pervenire al porto, accennando lor con la mano da qual parte dovea venire, e gli ammoní che con diligenza e aviso stessero preparati a ricever l'empito che verria. Il che finito di dire, detto Arabo cascò in terra come mezzo morto, e di ciò che avea detto e fatto, dipoi non se ne ricordava di cosa alcuna. E cosí al tempo da lui predetto venne il vento, e in pochi giorni arrivorno a buon porto.
Con che stelle i naviganti dell'India si governino, e della forma delle lor navi.
I naviganti dell'India si governano colle stelle del polo antartico, che è la parte di mezzodí, perché rare volte veggono la nostra Tramontana, e non navigano col bussulo, ma si reggono secondo che trovano le dette stelle o alte o basse: e questo fanno con certe lor misure che adoperano, e similmente misurano il cammino che fanno di giorno e di notte, e la distanza che è da un luogo all'altro, e cosí sempre sanno in che luogo si ritrovano essendo in mare. Delle navi alcune ne fanno di portata di duemila botti, piú grandi delle nostre, e hanno quattro vele e altritanti arbori; all'intorno sono tre mani di tavole conficcate l'una sopra l'altra, per poter meglio resistere alle percosse delle onde del mare, dalle quali aspramente sono combattute. Sono queste navi partite in camere piccole, e con tal arte fabricate che, s'avien che una parte di essa si rompa, l'altra resta sana, e possono continuare il lor viaggio.
Che per tutta l'India si adorano gl'idoli, e delle chiese a quelli dedicate, e della forma loro, e del modo che tengono in far lor sacrificii.
Per tutta l'India s'adorano gl'idoli, alli quali fanno le chiese non dissimili alle nostre, piene d'imagini dipinte; e nelli giorni delle loro solennità le adornano con fiori e rami. Gl'idoli sono fatti o di oro o d'argento o di pietra o di avorio, delli quali alcuni sono sessanta piedi d'altezza. Il modo come gli sacrificano è molto vario infra di loro, perché alcuni si lavano con acqua chiara avanti che entrino nel tempio, una volta la mattina e un'altra a vespro; alcuni si buttano a bocconi in terra distesi, e per un poco di spazio orano e baciano la terra; altri con legno aloe o simil altri odori fanno sacrificio ai lor idoli.
In India di qua dal Gange non vi sono campane, ma in luogo di quelle hanno certi bacini d'ottone, i quali percotendo l'un con l'altro fanno il suono. Le offerte che fanno agl'idoli sono vivande, secondo l'usanza de' gentili antichi, le quali poi distribuiscono ai poveri per lor mangiare.
Della strana morte che nella città di Cambaia fanno alcuni volontariamente
ne' sacrificii delli lor idoli.
Nella città di Cambaia i sacerdoti avanti gl'idoli predicano al popolo, persuadendolo a voler fare a quelli qualche servizio notabile, e che la piú grata cosa che potessero fare, della qual ne conseguiriano grandissimo premio nell'altra vita, saria quando un uomo volesse morire e farsi ammazzare per amor loro. Allora, per la gran forza ed efficacia delle parole di costoro, molti determinatamente vengono ad offerirsi a questo, i quali subito son condotti sopra un palco dove, fatte alcune cerimonie, gli appresentano un collare di ferro largo intorno al collo, il quale dalla parte di fuori è tondo, ma in quella di dentro è fatto a modo di un rasoio; e nella parte davanti del collare pende una catena sin al petto, nella quale, postisi a sedere e ritirando a loro le gambe, vi mettono dentro i piedi, e in tanto che il sacerdote dice certe parole, costoro avanti tutto il popolo gagliardamente distendono i piedi, e alzando la testa spiccano immediate il capo dal busto: e in quella maniera offerendo la vita in sacrificio degli idoli, sono riputati santi.
Della misera morte che in Bisinagar fanno alcuni volontariamente, mossi da zelo di fede, per gratificarsi i loro dei.
In Bisinagar hanno per costume, in un certo tempo dell'anno, di portar in mezzo di duoi carri un idolo per tutta la città, con gran solennità e moltitudine di popolo. Sui carri vi stanno bellissime giovanette, che cantano infinite canzoni in lode di quei idoli, e molti, mossi da divozione di quella fede, si gittano in terra avanti quei carri, li quali attraversandoli adosso stiacciano lor tutte l'ossa: e affermano questa maniera di morte essere accetta alli lor dei. Altri si forano tra le coste, per le quali passando delle corde, e legatele al carro, si fanno cosí strascinare, e miseramente finiscono la lor vita: e dicono che questo modo di morire è un gratissimo sacrificio alli loro dei.
Di tre sorti di feste solenni che hanno gl'Indiani l'anno, e di tre altre poi oltre di queste.
Tre feste solenni fanno l'anno, in ciascuna delle quali cosí gli uomini come le donne di ciascuna età si vestono di nuovo, lavandosi prima la persona d'acqua di mare o di fiume, e per tre dí continui non attendono ad altro che a cantare, ballare e conviti. Nella seconda, per tutto il dí della festa accendono molti candellieri con olio di susimani attorno le lor chiese, cioè di dentro e di fuori, che ardono la notte e il giorno. Nella terza drizzano per tutte le strade alcuni legni, grandi come arbori di navili piccoli, sopra li quali pendono dalla cima insino in terra alcuni panni lavorati d'oro, e sopra detti legni per nove giorni continui vi fanno star un uomo di buono aspetto, pietoso e divoto, che molto volentieri fa questo effetto, acciò che prieghi Iddio pel popolo, e impetri grazia e misericordia da quello. A questo tal uomo tutto il popolo tira melarancie e limoni e altri frutti di buon odore e gusto, il quale tutto soffre con gran pazienzia. Oltra di queste hanno tre dí di feste nell'anno, nei quali si bagnano l'un l'altro con un'acqua gialla preparata a questo fine, e similmente bagnano il re e la regina con la medesima acqua: e questo lo fanno per un piacere e ognuno lo piglia a giuoco.
Del modo delle lor nozze, di canti, suoni e gran conviti e balli che usano,
e della sorte di frutti che non hanno.
Le nozze fanno con canti, conviti, balli, trombe e altri instromenti di musica, che usano come noi altri, eccetto gli organi. I lor conviti sono di grande spesa, e durano giorni e notti, e in tanto non s'attende ad altro che a cantare, sonare e ballare. Ballano attorno attorno cantando, come si costuma in qualche luogo tra noi. Altri cantando ballano di lungo a duoi a duoi un doppo l'altro, e prima che si rivoltino, quei dinanzi hanno due bacchette in mano molto ben dipinte, le quali danno in mano a coloro che gli vengono all'incontro: e cosí le mutano ogni volta che s'incontra l'un con l'altro, e questo atto par a loro molto bello. Non usano bagni, eccetto che nell'India superiore, che è oltra il fiume Gange; nondimeno tutti gli altri si lavano spesso il giorno d'acqua fresca. Non hanno olio, né alcuni de' nostri frutti, come persiche, pere, cerese, susini, pomi; viti pochissime, e queste in un luogo solo, come è detto di sopra.
Dello strano effetto d'un arbore che nasce nella provincia di Pudifetania, e del modo di avere i diamanti che sono in un monte detto Abnigaro, e come si trovino altre pietre preziose.
Nella provincia di Pudifetania gli fu detto esservi un arbore senza frutto, alto sopra la terra tre braccia, chiamato l'arbore della vergogna, il qual disse essergli stato affermato che, quando l'uomo vi si accosta, ristrigne in sé i rami, e discostandosi gli allarga. Il quale effetto non è tanto fuor di credenza, che le spugne e urtiche marine, che nascono sotto acqua come erbe, non faccino il simile.
Oltra la città di Bisinagar per quindici giornate di cammino verso la parte di settentrione, gli fu detto esservi un monte detto Abnigaro, circondato tutto da lagune piene di bestie velenose, e il monte di serpi, nel quale si ritrovano i diamanti: e non si potendo per questo rispetto accostarvisi persona, l'astuzia degli uomini vi ha trovato rimedio, che è che, essendo un altro monte piú alto vicino a questo, in certo tempo dell'anno gli uomini del paese pigliano de' bovi, i quali fatti in pezzi, cosí caldi e pieni di sangue, con le balestre fatte a questo effetto buttano sopra quel monte di diamanti, dove cadendo in terra se gli attaccano di detti diamanti. E quando l'aquile e avoltori che ivi passano veggono la carne, si calano ad essa e la portano ad un altro monte, ove sicuri dai serpi se la possino mangiare: e dipoi gli uomini, che ivi stanno a far la guardia, riveggono i luoghi nei quali detti uccelli hanno mangiata la carne, se ne vanno a pigliare i diamanti che cadettero da quella.
L'altre pietre preziose si trovano con manco difficultà, perché appresso i monti arenosi, in certi luoghi dove sanno di trovarli, cavano tanto sotto fin che trovano l'acqua mescolata con l'arena, la quale gittano in un crivello fatto a posta, e lavano quella rena con l'acqua: e colandosi la rena restano le pietre, e questo è il modo di cavare e trovare le pietre preziose in quelle parti, secondo che gli fu narrato. E vi tengono gran guardie i signori, cosí per coloro che le cavano come per li soprastanti, che non le rubbino, e gli fanno cercar fino nelli vestimenti e per tutta la persona, e si sforzano con tutti i modi di non esser rubbati.
Di quanti mesi faccino l'anno, e da che tempo comincino il lor millesimo, e le monete che usano e altro per ispendere.
L'anno fanno di dodici mesi, i quali chiamano secondo il nome di dodici segni celesti. Il millesimo ed età di loro anni comincia in varii modi, imperoché la maggior parte di essi comincia al tempo di Ottaviano imperatore, nel tempo del quale fu pace universale nel mondo, e dicono il lor millesimo millequattrocentonovanta dove noi diciamo millequattrocento.
Alcune di quelle regioni non hanno moneta, ma in luogo di esse costumano pietre che noi diciamo occhi di gatta, e in altri luoghi ferro poco piú grossetto che gli aghi, e altrove carta sopra la qual è scritto il nome del re, e queste si spendono per monete.
E in alcuni luoghi dell'India prima si usano i ducati veneziani, e in altri alcuni pezzetti d'oro che pesano il doppio di un fiorino nostro e la metà, e altrove monete di argento e rame, e in altri luoghi usano certi pezzi d'oro fatti d'un certo peso.
Della sorte d'arme che usano gl'Indiani in guerra e per combatter le cittadi, e il modo dello scriver loro, e quel che usino in luogo di carta.
Questi dell'India prima adoperano zagaglie e spade in guerra, braccialetti e rotelle, archi e freccie e celate, camicie di maglia e corazze. Gl'Indiani che son piú fra terra, verso tramontana, hanno balestre e bombarde e molti altri instromenti per combatter le città, e chiamano noi altri franchi e tutte l'altre genti cieche, e dicono che solo essi veggono con duoi occhi, e noi altri con uno solo, e dicono che sono di maggior prudenza che ciascun altro.
Quelli solamente di Cambaia usano di scrivere sopra la carta, e gli altri sopra le foglie di arbori, de' quali ne compongono bei libri: e non scrivono come noi né come gli ebrei, ma per lungo del foglio, cioè dalla cima a basso. Hanno tra loro diverse lingue. Tengono molti schiavi: il debitore che non ha il modo di pagare, vien dato per ischiavo al suo creditore.
Le sorti di giuramenti che si danno ai rei che vengono incolpati di qualche errore, quando non trovino testimoni sufficienti contra di loro.
Gli uomini che meritano qualche pena di giustizia, e non trovando testimonii sufficienti contra di loro, per li quali li possono far patir pena, si rimettono al suo giuramento, il qual si fa in tre modi. Il primo è che lo conducono avanti l'idolo, per il quale giura di essere innocente di quella colpa, e ivi apparecchiata una mannara affocata, e finito il giuramento, lecca il taglio di detta mannara, e s'avviene che resti illeso è assolto. Il secondo è che, doppo il giuramento, quel reo è obbligato di portare in mano per uno spazio un ferro affocato, e bruciandosi in parte alcuna vien castigato come malfattore, e non si bruciando lo liberano. Il terzo modo è communemente piú costumato tra loro, che tengono davanti all'idolo una pignatta piena di butiro bollente, nella quale il reo che ha da giurar mette due dita, le quali gli legano immediate con una benda di tela, e la suggellano, acciò ch'ella non si possa levar via: e in capo di tre giorni la disciolgono, ed essendo in parte alcuna le dita offese, subito lo castigano secondo che merita; quando che non, lo lasciano andar libero.
Che nell'Indie non v'è peste né altre malattie, e dell'infinito popolo che vi si trova, e della virtú d'un arbore che si trova nella Giava maggiore.
Non v'è mai peste nell'Indie, né essi sanno gran parte di quelle malattie e infermità che nelle parti nostre tormentano gli uomini, di che n'è cagione il modesto e astinente vivere: e per tanto le genti e popoli in quelli paesi sono infiniti, e piú di quel che l'uomo si possa imaginare, e molte volte si ritrovano in una guerra piú d'un milione d'uomini. E narra aver veduto un fatto d'arme, dal quale i vincitori riportarono a casa per trionfo dodici carra carichi di cordoni d'oro e seta, ch'aveano levati dai capi de' morti, co' quali si sogliono legar i capegli sopra la coppa; e dice anco essersi trovato con loro in battaglia solamente per vedere, ed essendo stato ricognosciuto per forestiere, cosí una parte come l'altra lo lasciarono andare in pace.
E nell'isola maggior di Giava dice aver inteso che vi nasce un arbore, ma di rado, in mezzo del quale si trova una verga di ferro molto sottile, e di lungezza quanto è il tronco dell'arbore, un pezzo del qual ferro è di tanta virtú che chi lo porta adosso, che gli tocchi la carne, non può esser ferito d'altro ferro: e per questo molti di loro s'aprono la carne e se lo cuciano tra pelle e pelle, e ne fanno grande stima.
Della fenice, e come della sua morte rinasce; e quel che causa un pesce, che si piglia in un fiume detto Arotan, tenendo in mano.
Quel che si narra dell'uccello detto fenice, diceva che non si dovea tener per favola, perché gli era stato affermato che negli ultimi confini dell'India interiore si trovava un uccello solo chiamato semenda, il qual ha 'l becco fatto a modo di tre flauti piccolini con i suoi busi congiunti insieme, e quando viene il tempo della sua morte, porta nel suo nido molti legnetti piccoli, sopra li quali ponendosi, con la melodia di quei flauti del becco canta cosí soavemente che porge mirabil diletto a chi l'ode: dipoi battendo fortemente l'ali accende 'l fuoco, dal qual si lascia bruciare, e della sua cenere fra poco tempo si crea un verme, dal qual rinasce poi detto uccello. Gli abitatori di questo luogo, a imitazione della maniera ch'è fatto questo becco, hanno composto uno instromento da sonare che è molto dolce e soave, del suono del quale instromento restando detto Nicolò stupefatto, gli fu narrato per alcuni Indiani quanto è sopra detto del detto uccello, dal quale è cavata l'invenzione di questo instromento.
Nell'isola di Zeilam, ch'è nell'India seconda, vi è un fiume chiamato Arotan, il quale è pieno di pesce, che senza difficultà si può pigliar con le mani: il qual poi che s'è tenuto un poco in mano, la febre l'assalta, e lasciandolo andare ritorna sano. E questo essi attribuiscono agl'idoli, ma noi possiamo dire esser cosa naturale, sí come aviene tra noi del pesce detto torpedine, che toccandolo con la mano gli la addormenta e fa tremare.
Queste sono tutte le cose che furon raccontate dal detto Nicolò, per ordine del sommo pontefice, a me Poggio fiorentino suo secretario, le quali ho voluto scrivere con ogni verità e diligenzia, sí come da lui mi furono dette, non aggiugnendo né sminuendo, ma esprimendo il tutto meglio che ho saputo, servando gli ordini e precetti di quelli che scrivono l'istorie. E veramente l'ho sentito parlare con tanta gravità e prudenzia, che non so come piú particolarmente l'avesse d'alcun altro potuto intendere, e nel suo parlare non pareva che le volesse fingere, ma si conosceva che con ogni sincerità e realtà l'andava dicendo. Costui a' tempi nostri passò molto inanti, e andò su per il fiume Ganges penetrando il paese del Cataio fin al porto detto Zaiton, sopra il mare, per il quale se ne venne all'isole delle Giave maggiore e minore, e all'isola di Taprobana, che non v'è memoria che v'andassero altri, se non al tempo di Tiberio Cesare alcuni trasportati dalla fortuna: e queste cose cosí grandi e admirabili son degne d'esser poste in scrittura e fattene nota, acciò che li posteri le sappino e n'abbino cognizione.
Viaggio di Ieronimo di Santo Stefano
Viaggio di Ieronimo da Santo Stefano genovese, dirizzato a messer Giovan Iacobo Mainer, di lingua portoghese tradotto nella italiana.
[1499]
Nel nostro infortunato viaggio, ancor che mi si rinuovi il dolore, nondimeno, per satisfare a quanto mi richiedete, io narrerò come seguitte. Dovete dunque sapere come messer Ieronimo Adorno e io in compagnia andammo al Cairo, dove comprata certa quantità di coralli, bottoni e altre mercanzie, partimmo per andare in India, e in capo di quindici giorni arrivammo a Cariz, e trovammo un buon porto detto Cane. E nel cammino che facemmo, trovammo molte città antiche rovinate, con molti mirabili edificii fatti nel tempo de' gentili, nelle quali vi sono ancora molti tempii in piedi. Dapoi ne partimmo del detto luogo di Cane per terra, e cavalcammo per sette giornate, per quelle montagne e deserti dove andò Moises e il popolo d'Israel, quando furono cacciati da Faraone. In capo de' quai giorni arrivammo a Cosir porto del mar Rosso, e quivi montammo sopra una nave ch'era cucita tutta con corde e aveva le vele di stuora, e con quella navigammo per venticinque giorni, entrando ogni giorno al tardi in bellissimi porti, ma disabitati. E alla fine arrivammo ad un'isola detta Mazua, a banda dritta del detto mare, che è lontana circa un miglio da terra, dove è il porto del paese del Prete Ianni: e il signor dell'isola è moro. Qui stemmo duoi mesi e poi ci partimmo, e navigando per il detto mare al modo di sopra altritanti giorni, vedemmo molte barche che in detto mare pescavano perle; e avendole voluto vedere, trovammo che non erano di quella bontà che sono le orientali.
Nel fine di detti giorni arrivammo nella città di Adem, posta a man manca fuori del ditto mare sopra la terra ferma, abitata da Mori, dove si fanno grandissimi traffichi. Il signor della ditta terra è tanto giusto e buono, che con alcun altro signor infedele penso che non si possa comparare. In questa città dimorammo quattro mesi, della qual poi partimmo per India, montati sopra un'altra nave cucita pur con corde, ma le vele erano fatte di gottone; e navigammo per mar senza veder terra per venticinque giorni con buon vento, e vedemmo molte isole, ma non fummo a quelle, e navigando al nostro cammino ancor per dieci altre giornate con vento prospero, alla fine arrivammo ad una città grande che si chiama Calicut. Qui trovammo che vi nasce il pepe e il gengevo, e gli arbori del pepe sono simili all'edera, perciò che si vanno rivolgendo sopra gli altri arbori, dove si possono attaccare; hanno la foglia simile all'edera, i suoi raspi sono lunghi mezzo palmo o piú, e sottili come un dito, e li grani all'intorno molto spessi. E la cagione perché non nasce nelle nostre parti, è che non abbiamo di quelli arbori da piantare; e non è vero quel ch'appresso di noi vien detto, che 'l pepe vien brustolato acciò che non nasca; e quando è maturo e che lo colgono, è di color verde come l'edera, e lo lassano seccare al sole, e in cinque o sei giorni divien negro e rugoso come si vede. Il gengevo, piantano un pezzo di una radice piccola e fresca, come una nocella piccola, la quale in capo di un mese diventa poi grande; ha la foglia simile al giglio salvatico.
Il signor di detta città è idolatro, e cosí tutto 'l popolo: adorano o un bue o il sole, e anche molti idoli che essi fanno. E costoro, come muoiono, si fanno bruciare; e sono di diversi costumi e usanze, perciò che alcuni ammazzano di ogni sorte d'animali, salvo che buoi e vacche, i quali se alcun occidesse over ferisse saria subito morto, perché (come ho detto) gli adorano; altri vi sono che non mangiano mai carne o pesce, né animale alcuno che stia vivo. È lecito a ogni donna di pigliar sette over otto mariti, secondo che gli viene appetito, né gli uomini si maritano mai con donna che sia vergine, ma avanti le loro nozze, essendo quella pulcella, la fanno star per quindici o venti giorni con qualche persona che la svergini. In questa città vi sono ben mille case de cristiani, e chiamasi India alta.
Di qui ne partimmo poi con un'altra nave fatta al modo di quella di sopra, e navigammo per spazio di ventisei giorni, e arrivammo ad un'isola grande che si chiama Zeilan, nella qual nascono gli arbori della cannella, che sono simili al lauro, e anco nella foglia. Qui nascono molte pietre, cioè granate, iacinti, occhi di gatta e altre gioie, ma non molto buone, perché le fini nascono nelle montagne. Qui dimorammo un giorno solo. Il signor della detta isola è idolatro, com'è quel di sopra, e cosí anche il suo popolo. Si trovano qui molti arbori di quelli che fanno le noci d'India, i quali anco si trovano in Calicut, e sono propriamente come gli arbori della palma. Partiti di qui, in capo di dodici giorni giugnemmo in un altro luogo chiamato Coromandel, dove nascono gli arbori di sandali rossi, de' quali ve n'è tanta copia che ne fanno case con quelli. Il signor del detto luogo è idolatro, come è quel di sopra; ma ha un altro costume, che, come muore un uomo e che lo vogliono bruciare, una delle sue moglieri si brucia viva con lui, e questa è loro usanza.
In detto luogo dimorammo sette mesi, dapoi partimmo con un'altra nave fatta al modo di sopra, e arrivammo in capo di vinti giorni ad una gran città detta Pegu, e qui è la India chiamata la bassa. In questa vi è un gran signore, il qual tien piú di diecimila elefanti, e ogni anno ne alleva cinquecento. Questa terra è lontana da un'altra chiamata Ava quindici giornate per terra. In questo luogo di Ava nascono rubini e molte altre pietre preziose, al qual luogo era il nostro desiderio di andare: ma in quel tempo si mosse guerra fra un signor e l'altro, che non lassavano andare alcuno da un luogo all'altro, per la qual cosa fummo costretti di vender le mercanzie che avevamo in detta città di Pegu, le quali erano di sorte che non le poteva comprare se non il signor della città, il qual è idolatro come sono i sopradetti. E cosí noi gliele vendemmo, le quali montavano dumila ducati, e volendo esser satisfatti, per causa de' travagli e intrighi della guerra sopradetta, ne fu necessario di starvi un anno e mezzo. Nel qual tempo, sollecitando ogni giorno in casa il detto signore, e col freddo e col caldo, e con gran fatiche e stenti, e trovandosi messer Ieronimo Adorno di debole complessione, molto affannato in queste fatiche, con la giunta di una sua malattia vecchia la qual molto lo travagliava, in capo di cinquantacinque giorni, non vi essendo né medici né medicine, gli convenne render lo spirito al nostro Signor Iddio: che fu l'anno millequattrocentonovantasei, il giorno ventisette di dicembre, la notte di san Giovanni. E ancor che non se gli potessero dar i sacramenti della chiesa, non vi essendo religioso alcuno, nondimeno tanta fu la sua contrizione e pazienzia, e per la sua ottima vita che sempre tenne, che son certissimo che il Signore Iddio nostro averà ricevuto l'anima sua in paradiso: e cosí io l'ho pregato e di continuo nel ripriego. Il suo corpo fu sepolto in una certa chiesa rovinata, dove non vi abita alcuno, e vi affermo che per la morte sua io stetti molti mesi tanto afflitto e addolorato, che fu gran cosa che non gli andassi drieto. Ma, conoscendo dapoi che il dolor che mi prendeva non mi portava alcun rimedio, confortato da alcuni uomini da bene, cercai di ricuperar le cose nostre: il che feci, ma con gran travaglio e spesa, e mi parti' con una nave per andare a Malaca.
E navigando per mar venticinque giorni, una mattina, non essendo troppo buon tempo, arrivammo ad una isola molto grande che si chiama Sumatra, nella qual nasce pepe assai, seta, pepe lungo, benzuí, sandalo bianco e molte altre spezie; e consigliatosi il patron con gli altri marinari e coi mercanti, perché il tempo era cattivo e travagliato, fu deliberato di scaricare le robbe nostre in quel luogo, il signor del quale è moro, ma differente di lingua, sí come in tutte l'altre terre ove noi fummo sono differenti di lingua. Poste che furono in terra le nostre mercanzie, per il detto signor ne fu levato un garbuglio, dicendo che, essendo morto il mio compagno, tutte le dette mercanzie venivano a lui, e che le voleva, perché cosí era il costume di quel paese e di ogni altro luogo ove sia signor moro, che, quando more un che non abbia figliuoli o fratelli, il signor piglia i suoi danari, e che il simil gli pareva di fare a me. E subito mandò a pigliar tutta la mia robba, faccendomi cercar in tutta la persona, dove mi trovaron rubini per valuta di trecento ducati, che aveva comprato, li quali pigliarono: e questi ebbe il signor per suo conto, e le altre mercanzie posero in una stanza, la quale bollorono fino a che si conoscesse la verità. E se non fusse stato un despazzo che io portai dal Cairo, nel qual erano scritte tutte le mercanzie che io portava meco, col quale io mi difesi, il tutto mi era tolto; ma essendo in quel luogo un cadí molto mio amico, perciò che egli aveva qualche cognizione e intelligenza della lingua italiana, con l'aiuto di Dio e suo io mi dispacciai, ma con molta spesa e travaglio, e i rubini restaron persi, come ho detto, con molt'altre gentilezze che io aveva.
Onde, veduto che quel luogo non era buono, determinai di partirmi, e vendute tutte le mercanzie che avevo, converti' il prezzo di quelle in tanta seta e benzuí, e mi parti' con una nave per tornarmene a Cambaia. E navigando, in capo di venticinque giorni, non essendo il tempo buono, arrivammo a certe isole che si chiamano le isole di Maldivar, che sono da sette in ottomila, tutte disabitate, piccole e basse, alle quali il mare per la maggior parte vi entra per spazio d'un miglio e mezzo fra una e l'altra: e si vedevano genti infinite in quelle, tutte negre e nude, ma di bona condizione e civilità; e tengono la fede de' Mori, e hanno un signor che le domina tutte. Si trovano in quelle arbori che fanno le noci d'India molto grosse; vivono di pesci e di qualche poco di riso che vi vien portato. In questo luogo ne fu necessario star sei mesi continui, aspettando tempo atto per partirne. Il qual venuto, e allargati con la nave per andare al nostro viaggio, la disaventura mia, non contenta delle disgrazie sopra narrate, ma volendo al tutto mettermi sotto i piedi, permesse che in capo di otto giorni venne tanta fortuna di mare e pioggia, la qual durò cinque giorni continui, che la nave, ch'era senza coperta, fu tutta ripiena di acqua, di sorte che non vi era rimedio di gittarla fuori, per la qual cosa se ne andò al fondo, e chi seppe notare si salvò e gli altri si annegorono. Il Signore Iddio volse che mi attaccai sopra un pezzo di legno grosso, col quale andai errando per mare dalla mattina fino a ora di vespro, nella qual ora, cosí piacendo alla misericordia divina, tre navi ch'eran partite di nostra compagnia ed erano andate avanti per cinque miglia, conoscendo la nostra disgrazia mandaron subito le lor barche, le quali arrivate levaron gli uomini che trovaron restati vivi, fra i quali fui uno, e ne partiron fra esse come lor parve: e cosí io andai con una di dette navi a Cambaia, il signor della quale è macomettano, ed è gran signore. Di questo luogo si tragge la lacca e l'endego.
Quivi trovai alcuni mercatanti mori di Alessandria e Damasco, dai quali fui aiutato di danari per le mie spese. Dapoi mi acconciai con un mercante seriffo di Damasco, e stetti a' suoi servizii un mese, e andai fino in Ormuz con alcune sue robbe, al qual luogo stetti in viaggio per mare da sessanta giorni: dove, pagati tutti li dritti delle sue mercanzie che io portava, e lassatele ad un suo fattore, mi volsi partire. In questo luogo di Ormuz si trovano molte buone perle, e buon mercato. Partitomi di qui, mi accompagnai con alcuni mercanti armeni e azami per terra, e arrivammo dipoi molti giorni nel paese di detti Azami, dove dimorai per ispazio d'un mese, aspettando di accompagnarmi con la carovana con la qual poi venni a Siras, nella qual città, per causa delle guerre che erano, stetti tre mesi. E partitomi me ne andai a Spaan, e di lí a Casan, e poi alla città di Soltania, e finalmente a Tauris, dove dimorai molti giorni, perciò che le strade non erano sicure per le guerre. E da Tauris me ne venni in Alepo, e nel mezzo del cammino, essendo in la carovana, fummo assaltati e spogliati: pur fui aiutato d'alcuni mercatanti azami che erano nella detta carovana, tanto che mi condussi in Aleppo. Quivi molti mercanti mi furono intorno, pregandomi che io volessi di novo ritornar in Tauris a comprar gioie, sete e cremesi, e mi facevano grandissimi partiti, ma, perché il cammino non era sicuro, io non vi volsi andare.
Questo è il successo di tutto il mio infelice viaggio, accadutomi per i miei peccati, i quali se non fossero stati, io mi poteva molto ben contentare di quello che io aveva guadagnato, e di sorte che fra i pari miei io non averia auto bisogno di alcuno: ma chi è quello che possa contrastar con la fortuna? E nondimeno io rendo infinite grazie al nostro Signore Iddio, che mi ha scampato e fattomi tante grazie, il qual vi guardi e mantenga.
Discorso sopra il viaggio fatto dagli Spagnuoli intorno al mondo.
Il viaggio fatto per gli Spagnuoli intorno al mondo è una delle piú grandi e maravigliose cose che si siano intese a' tempi nostri: e ancor che in molte cose noi superiamo gli antichi, pur questa passa di gran lunga tutte l'altre insino a questo tempo ritrovate. Questo viaggio fu scritto molto particolarmente per don Pietro Martire, il qual era del consiglio dell'Indie della maestà dell'imperatore, avendo egli il carico di scriver questa istoria, e da lui furono esaminati tutti quelli che, restati vivi dal detto viaggio, giunsero in Siviglia l'anno MDXXII. Ma, avendola mandata a stampare a Roma, nel miserabil sacco di quella città si smarrí, e per ancora non si sa ove si sia, e chi la vidde e lesse ne fa testimonianza.
E tra l'altre cose degne di memoria che il prefato don Pietro notò del detto viaggio, fu che detti Spagnuoli, avendo navigato circa tre anni e un mese, e la maggior parte di loro (come è usanza di quelli che navigano il mar Oceano) notato giorno per giorno di ciascun mese, come giunsero in Spagna trovarono averne perduto uno, cioè che il giunger loro al porto di Siviglia, che fu alli sette di settembre, per il conto tenuto da loro era alli sei. E questa particolarità avendola il prefato don Pietro narrata ad uno eccellente e raro uomo, il quale allora si trovava per la sua republica ambasciadore appresso sua Maestà, e domandatogli come questo potesse essere, costui, che era grandissimo filosofo e dotto nelle lettere grece e latine, in tanto che per la singular sua dottrina e rara bontà fu poi alzato a molto maggior grado, gli dimostrò che a loro non poteva avvenire altrimenti, avendo essi navigato tre anni continui sempre accompagnando il sole che andava in ponente. E di piú gli disse come gli antichi ancora essi avevano osservato che quelli che navigavano dietro al sole verso ponente allongavano grandemente il giorno.
Ed essendo smarrito il libro del prefato don Pietro, la fortuna non ha permesso che del tutto si perda la memoria di cosí maravigliosa impresa, imperoché un valoroso gentiluomo vicentino, detto messer Antonio Pigafetta (il quale, andato a quel viaggio e dipoi ritornato con la nave Vittoria, fu fatto cavaliere di Rhodi), ne scrisse un libro molto particolare e copioso, del quale ne donò una copia alla maestà dell'imperatore, e un'altra ne mandò in Francia alla serenissima madre del re cristianissimo madama la regente, la quale commise ad un eccellente filosofo parigino, detto messer Iacomo Fabro, che aveva studiato in Italia, che lo traducesse in lingua francese. Questo valent'uomo (credo per fuggir la fatica) ne fece solamente un sommario, lasciando indietro quelle cose che gli parve: il quale, stampato in francese, molto scorretto, ne è venuto alle mani; e questo, insieme con una epistola che scrisse l'anno del MDXXII un detto Massimiliano Transilvano, secretario della maestà dell'imperatore, all'illustrissimo e reverendissimo cardinal Salzeburgense, abbiamo voluto aggiugnere in questo volume di viaggi, come uno de' maggiori e piú ammirabil che mai saputo si sia, del quale quelli gran filosofi antichi, udendone ragionare, resteriano stupefatti e fuor di loro.
E la città di Vicenza si può gloriare fra tutte l'altre d'Italia che, oltre l'antica nobiltà e gentilezza sua, oltra molti eccellenti e rari ingegni, sí nelle lettere come nell'armi, abbia anche avuto un gentiluomo di tanto animo come il detto messer Antonio Pigafetta, che, avendo circondata tutta la balla del mondo, l'abbia descritta tanto particolarmente. E non è dubbio che dagli antichi, per una cosí stupenda impresa, gli saria stata fatta una statua di marmo, e posta in luogo onorato, per memoria e per esempio singulare a' posteri della sua virtú. Ma se in questa epistola o sommario si vederà qualche differenza di nomi e cose, non si debbe alcuno maravigliare, percioché gl'ingegni degli uomini sono varii, e chi nota una cosa e chi un'altra, secondo paiono loro piú degne: basta che nelle principali si concordano, e molte parti che da uno sono state lasciate indietro, nell'altro si leggono copiosamente, e le fabulose notano per quelle che elle sono. Questo si può ben sicuramente affermar per ciascuno, che mai gli antichi non ebbero tanta cognizione del mondo che il sol circonda e ricerca in 24 ore, quanta noi al presente abbiamo per la industria degli uomini di questi nostri secoli.
Epistola di Massimiliano Transilvano, secretario della maestà dello imperatore,
scritta allo illustrissimo e reverendissimo signore il signore cardinal Salzuburgense,
della ammirabile e stupenda navigazione fatta per gli Spagnuoli
lo anno MDXIX attorno il mondo.
In questi giorni, illustrissimo e reverendissimo Signor mio, ritornò una di quelle cinque navi, le quali negli anni passati Cesare, essendo a Saragosa di Spagna, mandò al mondo nuovo fin ora a noi incognito, a cercar le isole nelle quali nascono le spezierie. Perché, ancora che li Portoghesi portino gran quantità a noi di quelle che pigliano dall'Aurea Chersoneso, la qual si stima esser quella che adesso si chiama Malacca, nientedimanco nelle Indie orientali di dette spezierie non nasce se non il pepe, perché le altre, cioè cinamomo, garofani, noci moscate e il macis, che è la scorza di dette noci, sono portate da paesi lontani e da isole a pena conosciute per nome a dette Indie, con navi fatte senza alcuno ferramento, ma legate di corde di palma, delle quali le vele son tonde, similmente tessute di vinchi fatti di sottil rami di palma: e chiamano queste navi giunchi, e con simili navi e vele fanno il lor viaggio, con un solo vento in poppa o al contrario. Né è da maravigliarsi che quelle isole dove nascono le spezierie siano state incognite a tutti i secoli passati fin a questa ora, perché tutte le cose che in fino a questi tempi sono state scritte dagli auttori antichi delli luoghi dove nascono le spezierie, sono state tutte fabulose e false, talmente che li paesi dove scrivean gli auttori che quelle nascono, si sono trovati adesso esser veramente piú lontani dai luoghi dove nascono che non siamo noi lontani da quelli.
E per lasciar indietro molte cose scritte, dirò questa sola, che Erodoto, ben che clarissimo auttore, afferma la cannella trovarsi in cima delli nidi, dove la portano gli uccelli da paesi lontani, massimamente la fenice, la quale però non so chi mai l'abbia veduta. Ma Plinio, al quale pareva piú certamente poter affermare le cose, perché avanti la sua età molte ne erano state conosciute e illustrate dalle navigazioni di Alessandro Magno e altri, dice la cannella nascere nelle parti di Etiopia de' Trogloditi: nientedimanco adesso s'è scoperto la cannella nascere lontanissima da tutta la Etiopia, cioè terra di negri, e molto piú da quella de' Trogloditi, li quali abitano spilonche sotterranee.
Ma alli nostri che ora son ritornati, e li quali hanno cognizione della Etiopia, è stato necessario, volendo trovar queste isole, passar la Etiopia e circondar tutto il mondo, e molte volte sotto la maggior circunferenzia del cielo, la qual navigazion fatta per loro, essendo maravigliosissima, né mai piú trovata o conosciuta, né ancor tentata per altri, ho deliberato scrivere fedelissimamente a Vostra reverendissima Signoria, narrando tutto il successo d'essa. Nel far della qual cosa, ho con ogni diligenza cerco farmi referir tutta la verità dal capitano della nave e da ciascun di quelli marinari che son ritornati con quello, i quali hanno il medesimo referito e a Cesare e a molti altri, e con tanta fede e sincerità che non solamente sono stati giudicati aver detto la pura verità, ma col suo detto han fatto conoscer tutte le altre cose, che fin ora sono state dette e scritte dagli antichi scrittori, essere state fabulose e false. Perché chi sarà quello che voglia credere trovarsi uomini con una gamba sola? o che con li piedi si facciano ombra? over alti un cubito, e simili ciancie, che son piú presto monstri che uomini? Delli quali mai s'è udito parlare né da Spagnuoli che alli tempi nostri, navigando il mar Oceano, hanno scoperte tutte le ripe della terra verso ponente, di sotto e di sopra dello equinoziale, né da Portoghesi che, circondando tutta l'Africa, hanno passato per tutto il levante e scorso fino al golfo detto il Magno, né in questa ultima navigazione, nella quale è stata circondata tutta la terra. Ma volendo io adesso parlar di tutto il mondo, non sarò piú lungo nello esordio della mia narrazione, e cosí verrò alla cosa.
Che l'isole Esperide oggi si chiamano Capo Verde. Della grandissima città detta Temistitan. L'Aurea Chersoneso a' tempi nostri vien detta Malacca. L'isola Taprobana, adesso chiamata Sumatra, non esser dove Tolomeo, Plinio e altri cosmografi la posero.
Avendo già trenta anni fa cominciato li Castigliani alla volta di ponente, e li Portoghesi da levante, a cercare e investigare terre nuove e incognite, acciò che l'un all'altro non desse impedimento, partirono il mondo li serenissimi re catolico e re di Portogallo, con l'auttorità (come io credo) del sommo pontefice Alessandro VI, in questo modo: che lontano per diritto verso ponente dalle isole Esperide, che adesso si chiamano del Capo Verde, 360 leghe, si tirasser due linee, una verso tramontana e l'altra verso ostro, le quali, passando per tutti duoi i poli del mondo, si venissero a congiugnere, e si partisse il mondo in due parti equali, e tutto quello che si discoprisse nella parte di levante partendosi da detta linea toccasse a' Portoghesi, e quello che si discoprisse nella parte verso ponente fosse de' Castigliani. Per il che li Spagnuoli, sempre avendo navigato alla volta di ostro, e di lí poi per ponente, hanno trovato terra ferma, e isole grandi e innumerabili, ricche d'oro e perle e altre ricchezze. E ultimamente hanno trovato una grandissima città mediterranea chiamata Temistitan, situata in un lago a modo di Venezia, della qual molte e gran cose, vere però, ha scritto Pietro Martire, auttor piú presto fedele che elegante.
Li Portoghesi veramente, navigando per mezzodí e alla volta dei liti delle isole di Capo Verde e delli negri di Etiopia, che vivono di pesci, passando lo equinoziale e il tropico di Capricorno sono pervenuti in levante, dove han trovato diverse e grandi isole fin a' tempi nostri incognite, e ancora i fonti dove nasce il Nilo, e i negri detti Trogloditi, che vivono nelle spilonche. E hanno passato oltra li golfi nominato Arabico e Persico, fino alli siti dell'India di qua dal fiume Gange, dove adesso è quel gran reame e quella gran città di mercanzia detta Calicut. E di lí hanno navigato all'isola detta dagli antichi Taprobana, la qual adesso si chiama Sumatra, perché dove Tolomeo e Plinio e altri cosmografi han messo la Taprobana, non è isola alcuna che si possa credere esser quella. E da quella sono pervenuti all'Aurea Chersoneso, dove è la famosissima città di Malacca, grandissimo ridotto di mercatanti di levante. Da questa sono pervenuti al golfo detto dagli antichi Magno, insino alli popoli delle Sine, le quali adesso chiamano Chine, dove han trovato gli uomini bianchi e assai civili, simili alli nostri Tedeschi: e pensasi che li popoli detti Seri, e li Sciti, cioè Tartari di Asia, si estendono insin lí.
E ancor che andasse intorno una incerta fama che Portoghesi avessero tanto navigato per levante che, passati li lor confini dalla metà del mondo, fussero pervenuti sopra li confini de' Castigliani, e che Malacca e il golfo detto Magno fosse nelli termini de' Castigliani, nientedimanco a questa cosa non fu data fede, infino a tanto che ella fu chiarita in questo modo. Che già quattro anni Ferdinando Magaglianes, di nazione portoghese, il qual già molti anni era stato capitano di navi portoghesi e aveva navigato per tutte le parti di levante, avendo grandissimo odio al suo re, dal qual si teneva mal satisfatto, se ne venne a trovar la maestà cesarea insieme con Cristoforo Hara, fratello di mio suocero, il quale, stando a Lisbona, per via di suoi fattori molti anni in levante e con li popoli della China aveva avuto diversi commerzii, e di quelli luoghi aveva grandissima pratica, il qual ancor per ingiurie ricevute dal re di Portogallo si ridusse similmente in Castiglia a Cesare. Dove, ancora che non fusse ben chiaro se Malacca si contenesse nelli confini de' Portoghesi o de' Castigliani, perché fin allora non si poteva trovare certa ragione delle longitudini, nientemanco chiaramente fecero conoscere li popoli delle Chine appartenersi alla navigazione de' Castigliani, e appresso aversi per cosa molto certa le isole le quali adesso si chiamano le Molucche, nelle quali nascono tutte le spezierie, contenersi nelle parti del mondo verso ponente tocche a' Castigliani, e potersi per loro a quelle navigare e di lí portarsi in Spagna con minor spesa di quella che fanno li Portoghesi, dal luogo proprio dove nascono: e il modo era che navigassero per ponente sempre al diritto, circondando la terra, fin che arrivassero in levante.
Questa cosa pareva molto difficile e quasi impossibile, non peroché giudicassero difficile per ponente a dirittura andando attorno alla terra potersi venir in levante, ma perché era cosa dubbia se la natura, la qual come ingeniosa fa tutte le cose con somma providenza, avesse cosí separato e diviso il ponente dal levante, parte con acqua e parte con terra, che navigandosi a questo modo per ponente si potesse pervenire in levante: e questo perché non si sapeva se quella gran regione trovata per li Spagnuoli, la quale si chiama terra ferma delle Indie, dividesse il mare di ponente da quel di levante. E ben si aveva per cosa chiara la detta terra ferma dalla parte d'ostro distendersi verso mezzodí, e poi rivoltarsi in ponente, e appresso si giudicava che se quelle due regioni trovate verso tramontana, l'una delle quali si chiama De los Baccalos per la nuova sorte di pesci, l'altra la Florida, si congiugnessino a detta terra ferma, che impossibile fusse navigar per ponente in levante, conciosiacosaché non si fusse mai trovato in questa terra alcuno stretto per il qual si potesse passare da mar a mare, ancora che diligentissimamente e con gran fatiche si fusse cerco. E voler passar per i termini e confini di Portoghesi per andar alle dette Malucche, dicevano esser cosa molto incerta e pericolosa. Per il che parve a Cesare e alli suoi consiglieri che, cosí come la cosa che costoro promettevano era di grande speranza, essa avesse ancor maggior difficultà. E andando questa pratica a lungo, offersero il Magaglianes e Cristoforo di nuovo a l'imperadore metter in ordine navilii a spese proprie e delli loro, pur che potesser navigare con l'auttorità e favor suo. Nella quale opinione perseverando costoro ostinatamente, Cesare apparecchiò un'armata di cinque navi, della qual fece capitano Magaglianes, con ordine che essi navigassero dietro alli liti di terra ferma dell'Indie occidentali alla parte di verso ostro, infino a tanto che trovassero la fine di detta regione, o qualche stretto, per il quale potessino arrivare a quelle odorifere isole Malucche.
Come il capitano Magaglianes pervenne all'isole Fortunate, oggi dette Canarie,
e di lí a Capo Verde, e scoperse il capo di Santa Maria. D'un luogo detto Catigara,
del golfo di San Giuliano, e della natura di quegli Indiani.
Partisse adunque il capitan Magaglianes adí dieci d'agosto dell'anno 1519 con cinque navi da Siviglia, donde in pochi giorni vennero all'isole Fortunate, le quali adesso si chiamano Canarie, e da quelle all'isole di Capo Verde, dalle quali pigliarono il lor cammino infra ponente e mezzodí verso la terra ferma di sopra nominata. E cosí in pochi giorni con prospera navigazione scopersero il capo detto di Santa Maria, dove Giovanni Solisio capitano, altre volte scorrendo con le navi per il lito di questo continente o terra ferma per comandamento del re catolico, fu mangiato con alquanti compagni da quelli che gl'Indiani chiamano canibali. Da questo capo li nostri, continuando il lor viaggio, navigarono longo li liti di questa terra ferma, li quali per longhissimo tratto si estendono verso mezzodí voltandosi alquanto verso ponente (e si può chiamare una costa di terra ferma sotto il polo antartico), e cosí passarono il tropico di Capricorno per molti gradi. Ma non con tanta facilità con quanta ho detto, perché non arrivarono al golfo chiamato da loro San Giuliano se non all'ultimo di marzo del seguente anno, e in quel luogo trovarono il polo antartico 49 gradi elevato sopra l'orizonte, il che conobbero sí per l'altitudine e declinazion del sole dall'equinoziale, col quale per la maggior parte piú che con ogni altra stella si governavano li nostri marinari, come ancora per l'altitudine di esso polo antartico. Dissero ancora che la longitudine dall'isole Canarie verso ponente era circa 56 gradi. E gli antichi cosmografi, massimamente Tolomeo, misurando la longitudine de' luoghi, cominciando dall'isole Canarie andando verso levante fino a Catigara, dicono essere centoottanta gradi. Cosí li nostri, navigando in ponente longhissimamente, cominciando anche loro dall'isole Canarie, andando verso ponente messero altri centoottanta gradi fin a Catigara, sí come era conveniente. Nientedimanco li nostri, perché in cosí lontana navigazione e distanzia da terra non potettero mettere e disegnar cosí certi segni e termini delle longitudini, piú presto hanno dato qualche introduzione di queste longitudini che certezza alcuna: però io stimo queste misure doversi accettare fin a tanto che si trovino piú certe.
Questo golfo sopradetto di San Giuliano pareva molto grande e largo, e somigliava uno stretto di mare, per la qual cosa Magaglianes comandò a due navi che dovessino cercar il sito di questo golfo; l'altre navi fece fermare in alto mare, gittate le ancore. Dapoi duoi giorni fu referito questo golfo esser pieno di secche, né potersi andar molto in dentro. Li nostri delle navi nel ritorno viddero alquanti Indiani, che alli liti ricoglievano cappe: Indiani dico, perché cosí chiamano tutti gli abitatori di quelle terre incognite. Erano uomini di grande altezza, cioè di dieci palmi, coperti di pelli di fiere, e piú negri di quello si conveniva al sito della regione. Alcuni delli nostri dismontarono in terra e andarono a loro, e mostraron loro alcuni sonagli e carte dipinte, i quali cominciarono a salutar li nostri, saltandoli intorno con un canto rozzo e mal composto, tale che non s'intendeva quel che dicessero. E per dar ammirazion di se stessi, si misero giú per la gola senza nausea una freccia di mezzo cubito per fino al fondo dello stomaco, la qual di subito cavando, come se per quello gli avessero dimostrato la lor fierezza, parve che se ne rallegrassin molto. Vennero finalmente tre come ambasciadori, e pregarono li nostri, con alcuni segni, che andassero un poco piú lontani con loro fra terra, come se gli volessero ricever benignamente in casa loro. Mandò Magaglianes con costoro sette uomini bene armati, acciò che s'informassero diligentemente quanto che potessero e del luogo e della gente.
Costoro camminarono con loro per terra circa sette miglia, e pervennero in un bosco oscuro e senza via, dove era una casetta bassa coperta di pelli di fiere, nella quale erano due stanze, in una delle quali abitavano le donne con lor figliuoli, nell'altra gli uomini: le donne con li figliuoli eran tredici, gli uomini cinque. In questo luogo costoro ricevettero i nostri, dando loro a mangiar carne di fiere, il che a loro pareva cosa regale. Fu ammazzato un animale, il qual non pareva molto dissimile dall'asino salvatico, le carni del quale cosí mezze arrostite posero avanti de' nostri, senza altro cibo o bevanda. A' nostri la notte fu bisogno, per la neve e vento che tirava, dormir sotto le pelli, ma, non si fidando degl'Indiani, avanti che si mettessero a dormire posero le guardie. Il simile e per la medesima cagione fecero gl'Indiani, i quali appresso il fuoco non lontano da' nostri si distesero in terra, roncheggiando terribilmente. Ed essendosi fatto giorno, li nostri gli ricercarono che con tutta la lor famiglia andassero alle navi. Alla qual cosa faccendo loro gran resistenza, e li nostri superbamente sforzandoli che volessino venire, gl'Indiani entrarono nella stanza delle donne. Gli Spagnuoli si pensarono che essi si volessino consigliare con le lor donne avanti partissino, ma costoro, con altre piú orribili pelli coperti dalla pianta di piedi per insino alla cima del capo, e col viso di strani colori imbrattato, con archi e freccie, con terribile e spaventoso aspetto (perché parevano di maggiore statura di quella che per avanti erano stati), apparecchiati a far guerra escono fuora. Li nostri, che si pensavano dover venir alle mani, fecero dar fuoco ad un archibuso: il qual colpo benché fosse tratto a voto, nientedimeno quei valenti giganti, li quali poco innanzi pareva che volessero combattere col cielo, per il suono di quello schioppo in tal modo si spaurirono che subito cominciarono con cenni a domandar pace, e cosí s'accordarono che tre di loro, lasciati gli altri, andassero con li nostri alle navi. S'inviarono adunque verso quelle, ma, non potendo li nostri non solamente il corso ma neanche il passo di quelli correndo pareggiare, duoi di costoro, avendo visto discosto un asino salvatico sopra un monte, che pasceva, come se lo volessero andar a pigliare se ne fuggirono. Il terzo fu condotto alle navi, ma, non volendo mangiare per il fastidio che pigliava vedendosi solo, in pochi giorni morí. Mandò il capitano delle navi a quella capanna per pigliar un altro di quelli giganti, per presentarlo all'imperadore come cosa nuova, ma nessuno vi trovò, perché tutti insieme con la capanna in altro luogo s'erano transferiti. Onde si vede manifestamente che quella gente non sta ferma in un luogo; né dapoi i nostri, benché per molti giorni, come di sotto diremo, stessero in quel luogo, viddero mai piú alcuno di quelli Indiani su per il litto, ma né anche si pensorno che fusse da farne tanto conto che dovessino lungamente far cercar fra terra.
E benché Magaglianes conoscesse che il lungo stare lí non gli era utile, nientedimeno, perché il mare per alquanti giorni era stato tempestoso e il cielo nuviloso, oltra a questo quella terra di continuo si voltava verso ostro, in modo che quanto piú di lungo andavano piú freddo luogo pensavan di trovare, per questo di giorno in giorno fu differito il partire. E approssimandosi il mese di maggio, nel qual tempo comincia la vernata in quelli paesi a esser asprissima, fu loro necessario che fermati invernassero per quel tempo che noi abbiamo l'estate. Vedendo Magaglianes che la navigazione era per esser molto lunga, comandò che piú parcamente fusse compartita la vettovaglia, accioché piú lungamente durasse. Gli Spagnuoli, avendo sopportato pazientemente alquanti giorni, temendo la lunghezza della vernata e la sterilità del luogo, pregarono finalmente il lor capitano Magaglianes che, poi che vedea che quella regione a dirittura si destendeva verso il polo antartico, e che non avevano speranza di trovarne piú la fine overo qualche stretto, sopragiungendo la vernata ancora crudele, essendone morti molti e di fame e per la incommodità delle cose, e non potendo piú tolerare quella distribuzione che insino a quel giorno s'era fatta, fosse contendo di allargar la divisione delle vettovaglie e deliberar di tornar indietro, dicendo che lo imperador non fu mai di questo animo, che ostinatamente di quelle cose cercar si dovesse, alle quali e la natura e tutte le difficultà repugnassero, e che le lor fatiche a bastanza sarebbero approvate e lodate, essendo loro andati per insin a quel luogo, al qual mai nessuna audacia over temerità degli uomini aveva avuto ardir di navigare; e che li potrebbe facilmente intervenire che, volendo dirizzarsi alla volta del polo antartico, in spazio di pochi giorni il vento che vien da quello gli conducesse in qualche strana e difficil cosa.
Ma per il contrario Magaglianes, il qual già aveva deliberato o di morire o di finir la incominciata impresa, rispose che dall'imperadore gli era assegnato il corso del suo viaggio, dal quale non poteva né voleva per modo alcuno discostarsi, e per questa causa voler navigare infin dove o trovasse il fine di questa terra overo qualche stretto. Il che, benché per la vernata che non lasciava andar avanti per allora nol potesse adimpire, nientedimeno nella state che veniva in quel paese la cosa saria facile a farsi, perciò che a quel tempo potriano navigar tanto avanti, scorrendo la costa di detta terra solo il polo antartico, che arriveriano a un luogo dove per tre mesi continui averebber sempre giorno. In quanto a quello che dicevano della incommodità del vivere e dell'asperità della vernata, potersene facilmente difendere, conciosiaché avessero gran copia di legne, e potessero pigliare in mare ostrighe e molte altre sorti di buoni pesci, né mancavano loro fonti di acque vive dolci, oltre all'uccellare e cacciare che grandemente gli soccorreria.
Il pane e il vino per fino a quel tempo non esser loro mancato, né per lo advenire esser per mancare, purché sopportino che queste cose siano dispensate secondo la necessità, per conservar la salute loro, e non a superfluità e straziamento. Dicendo che per fino a quell'ora non si era fatto cosa alcuna degna di ammirazione, over sotto pretesto della quale potessero iscusarsi essere stati costretti ritornarsi a casa, perché certamente i Portoghesi, navigando in levante, passavano non solamente ogni anno, ma quasi ogni giorno il tropico del Capricorno senza fatica alcuna, e dodici gradi piú avanti. Ma essi di quanta poca laude sarian degni d'essere stimati, i quali non piú di quattro gradi siano camminati oltra il tropico di Capricorno verso l'antartico; e però aver certamente deliberato prima patir ogni gran cosa che ritornare in Spagna con vergogna, e creder che tutti i suoi compagni, overamente quelli ne' quali quel generoso spirito de Spagnuoli non fusse ancora morto, fussero ancor essi del suo volere. E a una cosa sola gli confortava, che almanco il resto della vernata pazientemente sopportassero, che tanto maggiori sariano i premii, quanto con maggior fatiche e pericoli all'imperadore manifestassero un nuovo e non piú conosciuto mondo, di spezierie e d'oro ricchissimo.
Della discordia che nacque tra li Castigliani e il capitano Magaglianes, e in qual maniera il capitano correggesse i compagni. Del capo detto di Santa Croce.
Avendo Magaglianes, con questo modo di parlare, rappacificato gli animi de' suoi compagni, credeva che niente piú pensassero a tal cosa. Ma fu molto altrimenti di quello che lui pensava, perché pochi giorni dipoi fu da una crudel discordia travagliato, conciosiaché fra i compagni delle navi si cominciò a parlar del vecchio ed eterno odio il qual è fra Portoghesi e Castigliani, e che Magaglianes era portoghese, e nessuna cosa piú gloriosa potersi far da lui alla patria sua che perdere e distrugger questa armata con tanti uomini; né esser da credere, ancor che potesse ritrovare l'isole Moluche, che voglia arrivare a quelle, ma che a lui pareva di far assai se potesse menare in lunga l'imperadore qualche anno con false speranze: in questo mezzo qualche cosa di nuovo potrebbe nascere, per la quale li Castigliani dal cercar le spezierie al tutto si levassero; e che il cominciato cammino non era a quelle beate isole Moluche, ma a qualche luogo freddo del cielo, sotto il quale sono continove nevi e perpetui ghiacci. Magaglianes, per le parole di costoro fortemente adirato, corresse li compagni un poco piú aspramente che non si conveniva ad un uomo forestiero e discosto dal suo paese e capitano di genti straniere, le quali pertanto, essendosi accordate insieme, pigliarono una nave per ritornarsene in Spagna. Magaglianes, col resto de' compagni li quali per ancora ubbidivano, saltò su quella nave e ammazzò il capitano con tutti i suo compagni, e quelli ancora contra de' quali non poteva far cosa alcuna, perché vi erano alcuni servidori dell'imperadore, li quali non possono d'altri che da sua Maestà o consiglio esser castigati. Non fu però alcuno che dapoi avesse ardire di dir cosa alcuna contro di lui, benché non mancarono certi che, parlando l'un con l'altro, dicessero che Magaglianes era per far il simile ad uno ad uno delli Castigliani, fino a tanto che, ammazzati tutti, potesse tornar egli con pochi de' suoi Portoghesi con quella armata nella sua patria. Siché questo odio discese molto fortemente nel petto de' Castigliani.
Ma Magaglianes, subito che vidde la fortuna del mare e l'asprezza della vernata mitigarsi, si partí del golfo di San Giuliano a' 24 di agosto, e sí come per avanti molti giorni aveva fatto, cosí seguitò la costa della terra, la qual si voltava verso ostro, e finalmente vidde un capo chiamato di Santa Croce, dove sopragiungendoli una crudel fortuna dalla parte di levante, si spezzò una delle cinque navi sul lito, della qual si salvaron gli uomini colle mercanzie e l'altre cose appartenenti alla nave, da un Moro in fuora, il quale annegò. Di qui la terra parve che un poco voltasse fra levante e ostro, la quale secondo loro usanza cominciando a ricercare, a' 27 di novembre scopersero alcune foci, le quali avevano similitudine di uno stretto di mare: entrò in quelle di subito Magaglianes con tutta l'armata, dove, mentre che or questo or quel golfo riguarda, comandò che diligentemente dovessero colle navi molto ben guardare se d'alcuna banda si potesse piú oltra passare, e promesse d'aspettarli su le foci del detto stretto fino al quinto giorno, succedesse quel che si volesse. Una di queste, sopra delle quali era capitano Alvaro Meschita, figliuolo d'un fratello di Magaglianes, fu portata dal reflusso un'altra volta in mare, per quel medesimo golfo per il quale esso era entrata. E considerando gli Spagnuoli ch'eran sopra detta nave che erano molto discosto dall'altre, accordatisi insieme di ritornare in Spagna, pigliarono il lor capitano e quello misero in ferri, dirizzando il cammin loro verso il nostro polo; e finalmente furono trasportati ai liti della Etiopia, dove pigliate vettovaglie, otto mesi dapoi che s'erano partiti dalli compagni giunsero in Spagna, dove fecero confessare con tormenti ad Alvaro come suo zio Magaglianes per suo consiglio si fusse portato tanto crudelmente verso i Castigliani.
Magaglianes veramente aspettò in vano questa nave assai giorni oltre il tempo determinato. Quelli dell'altra, essendo ritornati, dissero che non avean trovato altro che alcuni golfi di mar basso, con scogli e rupi altissime. Gli uomini della terza nave avendo referito che pensavan che questo golfo fusse uno stretto di mare, perché avevan navigato tre giorni né avevan trovato alcuna riuscita, ma quanto piú di lungo andavano piú stretto spazio di mare trovavano, e di tanta profondità che in molti luoghi con lo scandaglio mai avevan potuto toccare il fondo, e che avean considerato il crescere del mare esser maggiore che il discrescere, e per questo pensavano che per questo stretto si potesse andare in qualche altro gran mare: per queste ragioni adunque deliberò Magaglianes navigar per questo stretto, il qual per allora non si sapeva che fusse stretto di mare, perché qualche volta era largo tre miglia italiane, e alcuna volta due, alcuna volta dieci, e spesse volte cinque; e voltavasi un poco verso ponente, ma l'altezza del polo antartico fu trovata passar 52 gradi, la lunghezza dal partir loro di casa sua era quella medesima che al golfo di San Giuliano.
Già s'approssimava il mese di novembre, e non aveano la notte di piú che di cinque ore, né mai viddero persona alcuna quivi intorno. Parve ben lor vedere una notte gran quantità di fuochi, massime dalla man sinistra: pensaronsi di essere stati scoperti da quelli che abitavano quel luogo.
Delle isole Ivuagana, Acaca, Helana, Messana e Zubut; e come il signor di Zubut,
visto il miracolo d'un Indiano suo nipote, il qual subito ricevuto il battesmo fu guarito,
si convertí alla fede con duomila e dugento Indiani.
Vedendo Magaglianes quella terra essere molto aspra e inculta e di continuo freddo, non li parse dover consumar troppo tempo in voler cercar quella, per la qual cosa con le tre navi, senza indugio alcuno, si mise a navigar per questo stretto, per il qual, dopo 22 dí che l'avean cominciato a navigare, pervennero in un altro mare grande e profondo. La lunghezza del detto stretto di mare s'accordano esser circa trecento miglia. La terra che da man destra avevano, non è dubio ch'ella è terra ferma delle Indie occidentali, delle quali abbiamo detto. Alla sinistra banda pensano che non sia terra ferma, ma isole, perché da quel canto avevano sentito ripercuotere lo strepito delle onde del mare. Nella sopradetta banda destra del lito, vedde Magaglianes che la terra ferma si dirizzava verso la nostra tramontana, e per questo comandò che, lasciata quella, voltassero il lor cammino colle prue verso il vento di maestro, per quel grande e profondo mare, per il quale non so se mai o navi nostre o di altri abbia navigato. Voltò adunque le prue verso il vento di maestro, il qual tira fra ponente e tramontana, per questa ragione, accioché, passando di nuovo sotto la linea dell'equinoziale e andando dietro al sole verso ponente, potesse pervenire in levante. Perché egli sapea bene che l'isole dette Molucche sono nell'estreme parti di levante, non molto lontane dalla linea equinoziale, e però verso questa parte fu sempre il lor viaggio, né mai da quella si partirono, se non quanto la forza de' venti e delle fortune altrove gli constringeva voltarsi.
E avendo 40 giorni navigato per mare a questo cammino, e il piú delle volte con buon vento in poppa, un'altra volta passarono sotto il tropico del Capricorno, doppo del quale scopersero due isole picciole, ma sterili, nelle quali faccendo scala le trovaron disabitate; nondimeno per governarsi e provedersi, perché si potea pescar facilmente, vi dimorarono duoi giorni, e volsero di commun consenso chiamarle Disfortunate: e di lí partendosi, se n'andarono al viaggio che avean cominciato. E avendo per tre mesi e venti giorni continui per questo mare prosperamente navigato, ogni dí maggiore e piú smisurato lo trovavano, e oltra quello che alcuno pensar si potesse. Ed essendo di continuo con gran forza di venti spinti, passarono di novo sotto la linea equinoziale, dove viddero certa isola chiamata, come poi dagli abitatori di quel luogo intesero, Ivuagana, alla quale appressandosi, trovarono l'altezza del polo antartico esser undici gradi; ma di commune parere pensarono che la lunghezza da Gades fin a quel luogo fussero gradi 158 verso ponente. Dapoi cominciarono a scoprire or una or un'altra, per modo che pareva loro esser arrivati nell'arcipelago. Discesero nell'isola Ivuagana, la qual trovarono disabitata; da quel luogo partendosi, se n'andarono ad un'altra minor isola, dove viddero due canoe d'Indiani (canoe dico, perché cosí si soglion chiamar dagl'Indiani questa sorte di navi picciole, le quali sono cavate e tagliate d'un sol tronco d'albero, e al piú tengono una over due persone). Con movimenti e con cenni, come fanno li muti con li muti, addimandarono a quelli Indiani il nome delle isole, e donde potrian fornirsi di vettovaglia, della quale avevano gran carestia. Intesero che quella dove erano stati si addomandava Ivuagana e dove erano allora Acaca, ma tutte due esser disabitate; e che non troppo discosto di lí era una isola detta Selana, la qual quasi col dito mostravano, e che quella era abitata, e vi si poteva trovar tutto quello che si ricerca al vivere umano.
I nostri, essendo in Acaca rinfrescati, se n'andorono di lungo a Selana, dove gli sopragiunse un cattivo tempo, per modo tal che, non potendosi le navi accostare a l'isola, furono ributtati ad un'altra isola detta Messana, nella qual dimora il re di tre isole; e da quella andarono a Zubut. Questa è una isola molto eccellente e grande, col signore della quale avendo contratta pace e amicizia, subito dismontarono in terra per celebrar l'officio divino secondo l'usanza de' cristiani, perché quel dí era la festa della Resurrezione del nostro Signore: e fecero sul lito a modo di una chiesetta colle vele delle navi e co' rami degli arbori, nella quale dirizzarono uno altare, e celebrarono come si suol fare in tal giorno. Si fece loro incontro il signore con gran moltitudine d'Indiani, li quali, avendo veduto costor celebrare, stettero cheti per fin alla fine (parve che si dilettassino di tal sacrificio), e dapoi menarono il capitano con alcuni de' primi nella capanna del signore, e mison lor davanti i cibi che aveano, ch'era pane, che loro chiamano sagu, il qual è fatto di una sorte di legno non molto dissimile dalle palme. Di questo, poi che è tagliato in pezzi e nella padella con l'olio fritto, fanno pane, del qual avendone avuto una particella, la mando a Vostra Signoria reverendissima. Il bever loro era un certo umore, il qual distilla dalli rami delle palme tagliate. Detter loro assai sorte d'uccelli arrostiti, e nel fine del disnare presentorono molti frutti di quel paese.
Vidde Magaglianes in casa del signore un certo ammalato vicino alla morte: addimandando chi fusse costui e che male egli avesse, intese che era nepote di quel signore, e già per dui anni aver avuto una gran febbre. Gli fece intendere ch'egli stesse di buona voglia, perché, se si volesse convertire alla fede di Cristo, di subito riceverebbe la sua prima sanità. L'Indiano fu contento, e avendo adorata la croce si battezzò, e il giorno seguente disse che era guarito e che non si sentiva piú male, e saltò fuori del letto, camminando e mangiando come gli altri, e raccontò a' suoi Indiani non so che cose che egli aveva vedute dormendo. Per il che in pochi giorni quel signore con duomila e dugento Indiani si battezzarono, adorando Cristo e lodando la sua religione.
Come il capitan Magaglianes mosse guerra al re di Mathan e fu morto nella battaglia con sette compagni; e come Giovanni Serrano fu eletto capitano.
Magaglianes, avendo considerato che questa isola, oltra che era ricca di oro e di gengevo e altre cose, il sito suo era in tal modo opportuno e commodo alle isole vicine che da quella si potevano cercar facilmente le lor ricchezze e quel che elle producevano, se ne andò a parlare al signor di Zubut, e gli persuase che avendo lasciato il vano e impio culto degli demonii ed essendosi convertito alla fede di Cristo, esser conveniente che i signori delle isole vicine ubbidissero al suo comandamento, e che aveva deliberato mandar loro ambasciadori per questa cosa, e che quelli che non lo volessino ubbidire gli constringerebbe con l'arme. Piacque al signore questo parlare, e subito mandò ambasciadori. Venne or uno or un altro di questi signori, e adorarono alla usanza loro il signore di Zubut.
Eravi un'isola vicina detta Mathan, il re della quale era tenuto molto eccellente nell'arte del guerreggiare, e aveva grandissime forze sopra tutti gli altri suoi vicini. Costui rispose agli ambasciadori che non voleva venir a far riverenza a quello al quale già lungo tempo era solito comandare. Magaglianes, che desiderava di finire quello ch'egli aveva cominciato, fece armare XL de' suoi, la virtú e fortezza de' quali molto ben aveva conosciuta in molte zuffe, e messigli in alcune barchette gli fece smontare in Mathan, che era vicina. Il signore di Zubut gli dette alcuni de' suoi, i quali mostrassin loro e il sito e la natura di que' luoghi, e ancora, se fusse di bisogno, combattessino. Il re di Mathan, vedendo che i nostri s'approssimavano, fece venir all'ordinanza circa tremila de' suoi. Magaglianes messe in terra i suoi con archibusi e armi da guerra, i quali benché vedesse esser pochi rispetto degli nimici, che intendeva esser genti bellicose e che adoperavan lance e altre armi lunghe, gli parve nondimeno esser molto meglio combatter con costoro che o ritornar indrieto, o adoperar le genti che gli avea dato il signor di Zubut. E però confortò i suoi soldati che stessino di bona voglia, che non si spaventassino per la moltitudine de' nimici, conciosiaché spesso avean veduto, e massime ne' giorni passati nell'isola Ivuagana, che dugento Spagnuoli avean messo in fuga dugentomila e trecentomila Indiani. Poi disse a quelli che gli avea dato il signor di Zubut che non gli aveva menati per combattere, né per dar animo a' suoi, ma solo acciò che vedessino la gagliardezza de' suoi soldati nel combattere. Finite queste parole, andò con grande impeto adosso gl'inimici, e combattessi valentemente dall'una banda e dall'altra. Ma essendo li nostri superati dalli nimici, sí per esser maggior numero, sí ancora perché usavano armi piú lunghe delle nostre, con le quali davano ai nostri molte ferite, e alla fine esso Magaglianes fu passato da una banda all'altra e morto; gli altri, benché per ancora non mostrassino d'esser superati, nientedimeno avendo perso il lor capitano si ritornarono indietro. Gli nimici, ancor che si ritirassero in ordinanza, non ebbero ardire di seguitargli.
Ritornarono adunque gli Spagnuoli in Zubut, avendo perduto il capitano dell'armata con altri sette compagni, dove n'elessono un altro detto Giovanni Serrano, uomo di gran riputazione. Costui, subito rinovata la pace col signor di Zubut con nuovi doni, gli promise di vincere il re di Mathan. Aveva uno schiavo Magaglianes nato nelle isole Molucche, il quale altre volte trovandosi il detto capitano in quelle isole avea comperato. Costui avea imparato molto ben la lingua castigliana, ed essendosi accompagnato con uno altro interprete di Zubut, che intendeva similmente il parlar delli popoli delle Molucche, menava tutte le pratiche che li nostri facevano; ed essendosi ritrovato nel fatto d'arme di Mathan, aveva avute alcune picciole ferite, e per questo stava disteso sul letto attendendo a guarire. Il capitan Serrano, che non poteva far alcuna cosa senza lui, cominciò a riprenderlo con parole aspre, cioè che, ancor che 'l suo signor Magaglianes fusse morto, non era però libero dalla servitú in modo che non fusse schiavo, e che patirebbe ancora maggior servitú, e sarebbe scoreggiato molto bene, se non facesse con piacevolezza quel che gli fusse comandato. Questo schiavo per le sopradette parole si adirò fortemente, ma non dimostrò però di averle avute per male.
Giovanni Serrano resta prigione di questi barbari. Dell'isole Bosol, Gibeth, Burnei e Gilolo, e de' mirabili ordeni e costumi de' popoli de Burnei. Come non è lecito parlar al re se non con alcune cerbottane. Come qui nasce in abbondanzia canfora, gengevo e cannella.
Dipoi alquanti giorni se n'andò a trovar il signor di Zubut, e gli fece intendere come l'avarizia degli Spagnuoli era insaziabile, e che essi avevano deliberato, superato che gli aranno il re di Mathan, venir contro di lui e menarlo prigione; che altro rimedio non si poteva trovar alle cose sue se non che, cosí come essi cercavano d'ingannar lui, cosí egli cercasse ingannar loro. Il signor barbaro credette ogni cosa, e fece pace ascosamente col re di Mathan e con gli altri, e accordoronsi insieme di ammazzar tutti li nostri. Fu chiamato a un sollenne convito il capitan Serrano con tutti gli altri primi, i quali per numero furono vintisette. Costoro, non si pensando male alcuno, perché coloro avevano fatto ogni cosa astutamente, e senza alcun sospetto, smontorno in terra, come quelli che avevano a mangiar col signor sicuramente. Mentre che disnavano furono assaltati da molti che erano stati ascosi, e levossi un gran rumore per tutto, e subito andò la nuova alle navi come i nostri erano stati morti e tutta l'isola esser in arme. E vedendo quelli delle navi che una croce, che gli avevan posto sopra un arbore, era stata buttata in terra da que' barbari con grande ira, e che la tagliavano in pezzi, dubitando che ancor a loro non facesser come avevan inteso che avevano fatto alli compagni, levate l'ancore dettero le vele a' venti. Fu menato poco dipoi al lito il capitan Serrano, miserabilmente legato, il qual piangendo pregava che lo volessero riscattare da sí crudeli persone, e che egli aveva ottenuto di esser riscattato, pur che li nostri lo volessero riscattare. Li nostri, avvenga che paresse lor cosa disonesta lasciar il lor capitano a questo modo, nientedimeno, temendo l'insidie e gl'inganni di queste genti barbare, navigaron via, lasciando il detto Serrano sul lito che miserabilmente lagrimava, e con gran pianto e dolore adimandava aiuto e soccorso da' suoi.
Li nostri, avendo perduto il lor capitano e tanti compagni, navigavano di mala voglia, e perché per la morte di quelli erano già ridotti in tanto poco numero che non eran sufficienti a governar tre navi, per questo fecero consiglio, e di volontà di tutti deliberarono esser necessario abbruciar una delle tre navi, e due solamente conservarne. S'accostarono adunque ad un'isola lí vicina, la qual si adimandava Bohol, e messi tutti gli armeggi d'una nave nelle due altre, l'abbruciarono. Dipoi pervennero ad un'isola detta Gibeth, la quale avenga che d'oro e di gengevo e di molte altre cose conoscessero esser fertile, nientedimeno si pensarono di non star troppo quivi, perché non si potevano per via alcuna far benivoli quelli Indiani, e a combattere pareva loro esser troppo pochi: e però di quella se n'andarono ad un'isola per nome Burnei.
In questo arcipelago sono due grandi isole: l'una s'addomanda Gilolo, il re della quale ha secento figliuoli, l'altra Burnei. Gilolo è maggiore, perché in sei mesi a pena si potria circundare, e Burnei in tre si circunderia: ma quanto quella è maggiore, tanto questa per la grassezza della terra è piú fertile e abondante, e per la grandezza della città che ha il medesimo nome è piú famosa. E perché Burnei è reputata una delle piú belle città che si sia trovata, e donde i buoni costumi e il modo del vivere civile si potria imparare, ho deliberato alquanto parlare de' costumi di quelli popoli e delli loro ordini.
Sono tutti quelli di questa isola cafre, cioè gentili, e per loro dii adorano il sole e la luna: il sole perché egli è signor del giorno, la luna della notte. Quello esser maschio, questa femina dicono, e chiaman questo padre e quella madre dell'altre stelle, le quali si pensano che tutte siano dii, ma dii piccoli. Quando vien fuora la mattina il sole, lo salutano con alcuni lor versi, piú presto che l'adorino, e cosí la luna che risplende la notte, da' quali addimandano figliuoli, e abbondanzia di bestiami e di frutti della terra, e altre cose simili. Sopra ogni altra cosa osservano la pietà e la giustizia, e spezialmente amano la pace e l'ozio, e grandemente biasmano la guerra e hanno in odio. Il loro re, mentre che sta in pace, è onorato come dio; ma quando desidera di far guerra, non si riposan mai fin a tanto che per le mani del nimico il re sia ammazzato, il quale, ogni volta che delibera di far guerra (il che raro accade), è messo nella prima squadra dell'ordinanza, dove esso è constretto sostener il primo empito de' nimici. Né par loro dover con furia voltarsi contra il nimico, se non quando intendono che sia stato morto il re; allora gagliardamente e con furia cominciano a combattere per la libertà e per il nuovo re. Né mai s'è visto appresso di loro re alcuno movitor di guerra che nel fatto d'arme non sia morto: e per questo rare volte guerreggiano. Par ancora a loro cosa ingiusta il voler slargare i lor confini. Tutti si guardano dal far ingiuria a' lor vicini o a' forestieri, ma se qualche volta sono ingiuriati, s'ingegnano parimente vendicarsi, e acciò che la cosa non pigli campo, subito cercano di far pace. Né cosa alcuna appresso di loro si stima piú gloriosa che di esser il primo a dimandarla, e similmente nissuna cosa è piú brutta che nello addimandar pace esser l'ultimo: ma vergognoso e detestabil atto esser si pensano negarla a quelli che la dimandano, ancor che abbino il torto, e contra di questi tali che non voglion far pace tutti li popoli vicini congiurano insieme, come contra crudeli e impii uomini. Per il che interviene che quasi sempre vivono in somma tranquillità e pace. Appresso di costoro non si usa rubar né far omicidii. A nissuno è licito parlare al re, dalle mogli e figliuoli in fuora, e non gli parlano se non dalla lunga con alcune cerbottane, le quali gli pongono nell'orecchio, e per quelle parlano quello che da lui vogliono. Dopo la morte dicono non esser sentimento alcuno all'uomo, conciosiaché avanti che nascesse non l'avea.
Le case loro sono picciole, fatte di legname e di terra e parte di pietre, coperte di foglie di palme: nella città di Burnei dicono esser ventimila case. Pigliano tante mogli a quante possono far le spese. Il mangiar loro sono uccelli e pesci, delli quali hanno gran copia; il pane fanno di risi; il bevere, del liquor che esce fuora de' rami tagliati delle palme, come di sopra abbiamo detto. Alcuni di loro fanno mercanzie nell'isole vicine, alle quali vanno con barche dette giunchi; altri si danno a cacciare e uccellare, altri a pescare overo a lavorar la terra. La veste hanno di cottone. Hanno medesimamente quasi tutte quelle bestie che di qua abbiamo, da pecore, buoi e asini in fuora; i loro cavalli sono molto piccioli e magri. Hanno grande abbondanza di canfora, gengevo e cannella.
Di qui, salutato che i nostri ebbero il re e con doni presentato, drizzorno il cammin loro verso l'isole Molucche, le quali da questo re furono lor mostrate.
Come qui si trovano ostriche le cui carni pesano l'una quaranta libre. Che 'l re di Burnei aveva nella sua corona due perle grosse l'una quanto un uovo d'oca. Dell'isola detta Gilon. Dell'isole Molucche, cioè Terenate, Mutir, Thidone, Mare, Machian. Della venerazione che tengono d'un uccelletto detto manucodiata.
Giunsero ai liti di un'isola, dove intesero esser perle grandi quanto l'uova della tortola, e qualche volta quanto quelle delle galline, le quali non si posson trovare se non in alto mare. I nostri non ne poteron portare alcuna di questa sorte, perché la stagion del tempo di quell'anno non lasciava pescare, ma dicon bene e affermano d'aver preso un'ostrica in quelle bande, la carne della qual passava 47 libre di peso: e di qui facilmente si può creder che si trovino perle sí grandi, perché si sa manifestamente le perle nascer nelle ostriche. E acciò che io non lasci cosa alcuna indietro, i nostri affermavano che quelli dell'isole avevan lor detto come il re di Burnei portava nella sua corona due perle grandi quanto l'uova di oche.
Di qui pervennero all'isola Gilon, dove gli fu detto che si trovavan uomini con l'orecchie lunghe, e che in tal modo pendevano che toccavan loro le spalle. Del che maravigliandosi fortemente li nostri, intesero da quelli popoli che non molto discosto era un'altra isola, dove gli uomini sono non solo con gli orecchi pendenti, ma di tanta larghezza e grandezza che, quando fa di bisogno, con una sola si cuoprono tutto quanto il capo. I nostri, che cercavano le speziarie e non simil favole da fanciulli, lasciate da parte queste cose da niente, se n'andarono per la piú dritta alla volta delle Molucche, le quali, otto mesi dopo che il lor capitano Magaglianes morí in Mathan, trovarono. Sono 5 per numero, chiamate Terenate, Mutir, Thidone, Mare, Macchian, e sono parte di qua e parte di là dalla linea dell'equinoziale, e alcune sono non molto lontane una dall'altra. In una nascono garofani, nell'altra noci moscate, nell'altra cannella, e sono picciole e molto strette. Li re delle dette pochi anni avanti cominciarono a creder l'anime esser immortali, non per altro argomento ammaestrati, se non che avevano visto un bellissimo uccelletto, che mai si fermava in terra, né sopra cosa alcuna che fusse di terra, ma qualunque volta l'avevano veduto venir dal cielo, era quando morto cadeva in terra. E li macomettani, i quali praticano in quell'isole per far mercanzie, gli affermarono che questo uccelletto era nato in paradiso, e il paradiso esser il luogo dove sono l'anime di quelli che sono morti: e per questa cagione questi signori si feccero della setta de' macomettani, perché ella promette molte cose maravigliose di questo luogo dell'anime. Questo uccelletto per nome chiamarono manucodiata, il qual costoro tengono in tanta venerazione che i loro re, andando a combattere, avendo questo si tengono sicuri e pensano non poter esser morti, ancor che, secondo l'usanza loro, siano posti i primi davanti a tutti gli altri al combattere. I plebei sono cafre, cioè gentili, e quasi di quelli medesimi costumi e di quelle medesime leggi che dicevamo esser quelli dell'isola di Burnei. Sono molto poveri e bisognosi d'ogni cosa, perché ne' loro paesi niente altro nasce se non speziarie, le quali cambiano con arsenico, argento vivo e solimato, e panni di lino, de' quali pur assai n'adoprano: ma quel che faccino over in che adoprino questi tali veleni, fino al presente non si sa. Vivono del pane chiamato sagu, e di pesci, e qualche volta mangian de' pappagalli. Abitano in case molto basse.
Che bisogna che io mi vada dilatando? Tutte le cose appresso costoro sono in poco prezio, eccetto la pace, l'ozio e le spezierie, delle quai cose la pace è la piú bella, e quella che da ciascuno oltre a ogni altra si debbe desiderare. Pare che sia stata scacciata dalla smisurata malignità degli uomini, e relegata appresso di costoro, in cambio della quale, per l'avarizia e per l'insaziabile appetito della gola, andiamo cercando le spezierie negli altrui paesi e terre da noi non conosciute. E tanto può fra gli uomini il vizio, che noi lasciamo le cose alla salute nostra utili e necessarie, e cerchiamo quelle che si servono alla nostra lussuria e voragine.
Della umanità e prudenzia del re di Thidore, del suo grande accetto fatto a' Castigliani, e come si sottopose alla obbedienzia dell'imperatore. Del garofano, cannella, noce moscata e sue descrizioni. Del gengevo. E come gli altri re delle Molucche spontaneamente si sottoposero all'imperatore.
Li nostri, avendo molto ben veduto e considerato il sito delle Molucche e quel che ciascuna isola produceva, e li costumi e il viver di quei signori, se n'andarono a Thidore, perché intesero che questa era abbondantissima sopra tutte l'altre di garofani, e che il re loro avanzava di prudenzia e di umanità tutti gli altri. Essendosi adunque tutti costoro messi in ordine con presenti, dismontorno di nave e andorno a salutare il re, e presentaronlo come se fussero stati mandati dall'imperatore. Avendo egli accettati li presenti benignamente, guardando in cielo disse: "Or fa due anni che io conobbi per il corso delle stelle che voi eri mandati da un gran re a cercar questi nostri paesi, per la qual cosa la venuta vostra mi è stata tanto piú cara e grata, quanto quella per li segni delle stelle piú lungo tempo m'è stata annunziata. E sapendo che non accade mai alcuna di queste cose che già per avanti non sia dalla volontà delli dii e delle stelle ordinata, io non sarò tale verso di voi che agli ordini de' cieli voglia contrastare, ma con buon animo e volentieri per il tempo a venire, deposto il nome regale, mi penserò essere come un governatore di questa isola per nome del vostro re. Per il che tirate le navi in porto, e comandate a tutti gli altri vostri compagni che sicuramente dismontino in terra, acciò che adesso, dopo sí lunga navigazione e perturbazion del mare e dopo tanti pericoli, sicuramente vi posiate e governiate, né vi pensate venire in altro luogo che in casa del vostro re". Dette queste parole, deposta la corona di capo, gli abbracciò ad uno ad uno, e fece por loro inanzi di quelle cose che si ritrovavano da mangiare. I nostri, per questa cosa rallegratisi, tornarono alli compagni e referirono tutto quello ch'era accaduto, alli quali poi che furono arrivati, fatta insieme allegrezza per la gentilezza e umanità di questo re, tutti dismontarono su l'isola. Dove essendo stati alquanti giorni, e un poco rifatti per la benignità del re, di lí mandarono agli altri re ambasciadori, e a vedere quello che producevano l'isole e a farsi benivoli gli animi loro.
Terenate era loro vicina: questa è piccioletta isola, la quale appena volta sei miglia italiane; a questa è vicina Machian, ancora minore. Queste tre producono gran copia di garofani, ma ogni quattro anni piú assai che li tre passati. Questi arbori nascono in alte ripe, e in tal modo spessi che fanno un bosco; questo arbore alle foglie, alla grossezza e altezza è simile allo alloro. Il garofano nasce della sommità di ciascun piccolo ramo, prima una boccia, della quale vien fuora il fiore, non altrimenti che quello della melarancia: la punta d'esso è appiccata alla cima del ramo, e cosí a poco a poco esce fuora, per fin che diventa appuntato; in prima apparisce rosso, dipoi, abbruciato dal sole, diventa nero. Hanno compartito le selve di questi alberi non altrimenti che noi le nostre vigne. Per conservar i garofani li mettono in fosse fatte sotto terra, fino a tanto che da' mercanti sian portati in altre bande.
La quarta isola, Mutir, non è maggior dell'altre. Questa produce il cinamomo over cannella, il quale arbore nasce in modo di bacchette lunghe, e non fa frutto alcuno; nasce in luoghi secchi, ed è simile all'arbore che fa le melagrane. La corteccia di questo per il gran calor del sole s'apre e si discosta dal legno, e un poco lasciato star al sole si leva: e questo è la cannella. A questa n'è vicina un'altra chiamata Bandan, piú ampla e maggior dell'isole Molucche. In quella nasce la noce moscata, l'arbor della quale è alto, e spande li rami quasi simili alla noce; né questa noce altramente nasce che la nostra, coperta da due scorzi, e da principio è come un calice peloso, sotto questo è una buccia sottile, la quale a modo di rete abbraccia la noce: questo fior si chiama macis, ed è cosa molto nobile e preziosa; l'altro coprimento è di legno, a similitudine di quello della nocciuola, nella qual, come abbiamo detto, è essa noce moscata. Il gengevo nasce per tutto nell'isole di questo arcipelago, e parte si pianta, parte nasce da per sé, ma molto migliore è quello che si pianta. L'erba è simile a quella della canna, e quasi in quel medesimo modo nasce la radice e il gengevo.
I nostri furono ben visti da tutti questi signori, i quali spontaneamente si sottomisero all'ubidienza dell'imperatore, cosí come avea fatto il re di Thidore. Ma gli Spagnuoli, che non avevano altro che due navi, deliberarono di portar di ciascuna cosa di queste spezierie un poco, e de garofani assai, perché quell'anno ve n'era stata grande abbondanza, e le navi di questa sorte di spezierie potevan portar gran quantità.
Come i Castigliani, cargate le navi di spezierie, s'aviorono verso Spagna, ma, faccendo acqua una delle due navi, furono costretti ritornar a Thidore, e vedendo quella non potersi acconciare, coll'altra se ne ritornò in Spagna. E quivi del Darien, del mar del Sur, dell'isola Spagnuola e di Cuba.
Avendo costoro empiuto le navi di garofani, e avendo avuto presenti da portar all'imperadore, si misero in viaggio: i presenti erano spade d'India e altre cose simili, ma il piú bel dono di tutti era lo uccelletto manucodiata, il qual tenendo sopra di sé nel combattere, si pensano esser sicuri e vincitori. Di questi tali uccelletti ne furono mandati cinque, delli quali ne ebbi uno dal capitan delle navi con gran prieghi, e lo mando a Vostra Signoria reverendissima, non accioché quella pensi dall'insidie e nell'armi esser sicura, come essi dicono, ma a fin che ella si cavi piacere della bellezza e della rarità di quello. Mando ancora un poco di cannella e di noci moscate e di garofani, accioché quella conosca le nostre spezierie esser molto migliori e piú fresche che quelle che ci portano i Veneziani e i Portoghesi.
Essendosi partiti li nostri da Thidore, la maggior delle due navi cominciò a far acqua, per modo che furono costretti di ritornare a Thidore. E veduto che non potevano acconciarla se non con grande spesa e lungo tempo, s'accordarono insieme che l'altra nave tornasse in Spagna per questa via, cioè che passasse vicino al capo detto dagli antichi di Catigara, dipoi per alto mare navigasse piú discosto che fusse possibile dai liti dell'Asia, accioché dai Portoghesi non fusse veduta, fino a tanto ch'ella s'appresentasse al promontorio dell'Africa, il qual si distende di là dal tropico del Capricorno molti gradi, chiamato da' Portoghesi capo di Buona Speranza, perché voltando il detto capo non sarebbe la navigazion difficile a ritornarsene in Spagna. L'altra nave, subito ch'ella fusse racconcia, un'altra volta ritornasse per l'arcipelago sopradetto e per quel gran mare verso li liti di quella terra ferma della qual di sopra abbiamo fatto menzione, fin a tanto ch'ella giugnesse a quella regione di terra ferma delle Indie occidentali la qual è all'incontro del Darien, e dove il mar del Sur, over di mezzodí, con piccolo spazio di terra è separato dal mare occidentale, nel qual sono l'isola Spagnuola, Cuba e altre di Castigliani.
Partissi adunque questa nave dall'isola di Thidore. Navigando sempre di qua dall'equinoziale, non trovarono il promontorio di Cattigara, il qual è sopra l'Asia, che secondo Tolomeo si distende in mare molti gradi di là dall'equinoziale; ma, avendo navigato pur assai giorni per alto mare, pervennero al capo di Buona Speranza, che è sopra l'Africa, e dipoi all'isole delle Esperidi over di Capo Verde. E conciosiaché questa nave per il lungo viaggio fusse fracassata e facesse acqua assai, non potevano i marinari sempre star a seccar la sentina, e massime perché molti, e per la incommodità del vivere e del navigare, erano morti. Per la qual cosa dismontarono ad una di dette isole, nominata San Iacopo, per comperare schiavi che gli aiutassero. E secondo l'usanza de' marinari, li nostri, non avendo danari, offersero di dar tanti garofani: il che essendo pervenuto all'orecchie d'un Portoghese, che in quell'isola era capitano, fece metter tredeci de' nostri in prigione. Gli altri, che erano diciotto, spaventati per questa cosa, senza riscuotere i compagni si partirono, navigando sempre dí e notte vicino alla costa di Africa. E finalmente pervennero in Spagna, dove giunsero sani e salvi a' sei di settembre 1522, al porto vicino a Siviglia, il sestodecimo mese dapoi che si partirono da Thidore. Marinari certamente piú degni di esser celebrati con eterna memoria che non furono quelli che dagli antichi furon chiamati Argonauti, li quali navigarono con Iason fino al fiume Phasis nel mar Maggiore, ed essa nave molto piú degna d'esser collocata fra le stelle che quella vecchia d'Argo, la quale, partendosi di Grecia, fece il viaggio suo fino nel mar Maggiore; ma la nostra, di fuora dello stretto di Gibilterra navigando per il mare Oceano verso mezzodí e polo antartico, e di lí poi voltandosi verso ponente, e tanto seguitando quello che, passando di sotto la circunferenza del mondo, se ne venne in levante, e di lí poi se ne ritornò in ponente a casa sua in Siviglia.
Viaggio atorno il mondo fatto e descritto per messer Antonio Pigafetta vicentino, cavalier di Rhodi, e da lui indrizzato al reverendissimo gran maestro di Rhodi messer Filippo di Villiers Lisleadam, tradotto di lingua francesa nella italiana
Come si partí l'armata del porto di Siviglia. E come si raccoglie l'acqua in una dell'isole Canarie.
De' pesci detti tiburoni.
Il primo capitolo contiene la epistola, e come cinque navi si partirono dal porto di Siviglia, e il principal capitano era Hernando Magaglianes, e delli segni che li marinari facevano la notte con fuochi a quelli davanti, e per li quali s'intendevano l'un con l'altro quel che avevano a fare, e degli ordini che avevano le navi, e delle vele le quali facevano in quelle.
Alli dieci di agosto 1519 questa armata di cinque navi, sopra le quali erano circa 237 uomini forniti di tutte le cose necessarie, si partí del porto di Siviglia, donde corre il fiume Guadalchibir, detto dagli antichi Betis, d'appresso un luogo nominato Giovan Dulfaraz, ove sono molti casali di Mori, e arrivarono ad un castello del duca di Medina Sidonia, ove è il porto dal quale si entra nel mar Oceano, e al capo di San Vicenzo, il qual è lontano dall'equinoziale gradi 37 e lontano dal detto porto leghe X, e di lí a Siviglia sono da dicessette in XX leghe. In questo stettono alcuni giorni, per fornir l'armata di alcune cose che gli mancavano, e ogni giorno udirono messa, e nel partir si confessarono tutti, né volsero che alcuna femina andasse con loro al detto viaggio.
Alli XX di settembre si partirono dal detto porto e dirizzarono il lor cammino verso gherbino, e alli XXVI del detto mese giunsero ad una dell'isole Canarie, detta Tenerife, la qual è XXV gradi sopra l'equinoziale, per pigliare acqua e legne. Tra queste isole Canarie ne è una dove non si trova acqua, se non che di continuo ad ora di mezzodí par che una nebbia venga dal cielo, la qual circonda un grandissimo arbore che è in quella, dalli rami e foglie del quale distilla gran copia d'acqua, la qual, messasi insieme alli piedi di quello, satisfà abondantemente a tutti gli abitanti in detta isola e a tutti gli animali.
Alli III di ottobre, ad ora di mezzanotte fecero vela drizzando il lor cammino verso ostro, e passarono fra il Capo Verde dell'Africa e delle isole che gli sono all'incontro, lontane dall'equinoziale gradi XIIII e mezzo. E cosí navigarono molti giorni a vista della costa di Giunea dell'Etiopia, ove è la montagna detta Serra Liona, la qual è otto gradi sopra l'equinoziale, e non ebbero vento alcuno contrario, ma gran calma e bonaccia per giorni 70, che giunsero sotto la linea dell'equinoziale. Si vedevano approssimare alle bande delle navi certi pesci grandi chiamati tiburoni, i quali avevan denti molto terribili: questi mangiano gli uomini, se gli trovano in mare. Di questi tali ne furono presi alcuni con ami; li grandi non sono buoni da mangiare come li piccoli. In questo pareggio avendo avuto una gran fortuna, apparvero alcune fiamme ardentissime, che dicono esser santa Elena e san Nicolò, le quali parevan che fossero sopra l'arbore d'una delle navi, con tanta chiarezza che tolse la vista a ciascuno per un quarto d'ora; e tanto erano smarriti che dubitavano di morire, ma, fatto tranquillo il mare, ogniuno ritornò al suo esser di prima.
Di alcuni uccelli che non hanno luogo dove smaltiscano il cibo, e la femina manda fuor l'uova per la schiena; d'un uccello chiamato cacauccello. Della terra di Bressil. Del capo di Santo Agostino. Della terra del Verzino e sua grandezza, e de' costumi di quei popoli, e donde trassero l'origine.
Viddero molte sorti di uccelli, tra li quali n'erano alcuni che non hanno il luogo dove smaltiscono, e la femina, quando vuol far l'uova, gli manda fuora per la schiena, dove si generano; non hanno alcun piede, ma vivono sempre nell'acqua. Un'altra sorte vi è d'uccelli i quai vivono del fimo degli altri uccelli, e li chiamarono cacauccello, perciò che si vedeva spesso correr drieto agli altri per astringerli che smaltissero, e incontinente prendeva il lor fimo e l'inghiottiva, lasciandogli andar via. Vedemmo ancora molti pesci che volavano, e di tante schiere insieme e in tanto numero che pareva che fusse un'isola.
Passata la linea dell'equinoziale si perdé la Tramontana, e navigammo per gherbin fino ad una terra che si chiama terra di Bressil, 22 gradi e mezzo verso il polo antartico, la qual terra è continuata col capo di S. Agostino, il qual è otto gradi lontano dall'equinoziale. In questa terra fummo rinfrescati con molti frutti, e tra gli altri battates, che nel mangiar s'assomigliano al sapor delle castagne: sono lunghi come navoni. N'avemmo ancora alcuni che chiaman pines, dolci, molto gentil frutti. Mangiammo della carne d'un animale detto anta, il qual è come una vacca. Trovammovi canne di zucchero e altre cose infinite, le quali si lasciano per brevità. Noi entrammo in questo porto il giorno di santa Lucia, dove il sol ci stava per zenit, cioè di sopra il capo, e avemmo maggior caldo in detto giorno che quando eravamo sotto la linea dell'equinoziale.
Questa terra del Verzino è grandissima, e maggiore di tutta la Spagna, Portogallo, Francia e Italia tutte insieme, ed è abbondantissima di ogni cosa. Le genti di questo paese non adorano alcuna cosa, ma vivono secondo l'uso di natura, e passano vivendo da 125 in 140 anni. Gli uomini e le donne vanno nudi, e abitano in alcune case fabricate lunghe, le qual chiamano boi. Il lor letto è una rete grandissima fatta di cotone, legata in mezzo la casa da un capo all'altro a grossi legni, la qual sta alta da terra, e alcune fiate per cagion di freddo fanno fuoco sotto detta rete sopra la terra. In ciascuno di questi tali letti soglion dormire circa dieci uomini con le lor donne e figliuoli, dove si sente che fanno grandissimo romore. Hanno le lor barche fatte di un sol legno, nominate canoe, cavate con alcune punte di pietre, le quali sono tanto dure che l'adoperano come facciamo noi il ferro, del qual essi mancano. Possono stare in una di dette barche da 30 in 40 uomini; li lor remi con li qual vogano sono simili ad una pala di forno. E sono le genti di questo paese alquanto nere, ma ben disposte e agili come noi. Hanno per costume di mangiar carne umana, e quella delli loro nimici, il qual costume dicono che cominciò per cagione d'una femina che aveva un sol figliuolo, la qual, essendole stato morto, e un giorno essendo stati presi alcuni di quelli che l'avevano ammazzato, e menati avanti la detta vecchia, quella come un cane arrabbiato li corse adosso e mangiogli una parte d'una spalla. Costui poi essendosi fuggito alli suoi, e mostratogli il segno della spalla, tutti cominciarono a mangiar le carni de' nimici, i quali non mangiano tutti in un instante, ma fattoli in pezzi li mettono al fumo, e un giorno ne mangiano un pezzo lesso e l'altro un arrosto, per memoria delli lor nimici. Si dipingono maravigliosamente il corpo, sí gli uomini come le donne, e similmente si levano col fuoco tutti li peli da dosso, di maniera che gli uomini non hanno barba, né le donne alcun pelo. Fanno le lor vesti di penne di pappagalli, con una gran coda nella parte di drieto, e in tal maniera che ci facevan ridere vedendole. Tutti gli uomini, donne e fanciulli hanno tre buchi nel labbro di sotto, dove portano alcune pietre tonde, lunghe un dito o piú, che pendono in fuori. Naturalmente non sono né neri né bianchi, ma di colore di ulivo. Hanno sempre le parti vergognose discoperte, senza alcun pelo, sí gli uomini come le donne. Il lor signor chiaman cacique, il qual ha infiniti pappagalli, e ce ne dette da otto in dieci per cambio di uno specchio. Hanno ancora gatti maimoni piccoli, molto belli, i quali mangiano. Il lor pane è bianco, rotondo, fatto di una midolla d'un arbore, ma non è troppo buono. Trovansi appresso costoro alcuni uccelli, che hanno il becco grande come un cuchiaro, senza lingua. Per una mannaretta danno in cambio una o due delle lor figliuole per ischiave, ma per cosa alcuna non dariano la lor mogliere, né quelle fariano vergogna a' lor mariti per prezio alcuno, come da loro s'intese; né vogliono che mai gli uomini giaciano seco di giorno, ma la notte solamente. Queste li portano drieto il lor mangiare in alcuni cesti alle montagne e altri luoghi, perché non gli abbandonano mai. Portano similmente un arco di verzino, overo di legno di palma negro, con un fascio di freccie fatte di canne. Portano li figliuoli in una rete fatta di cotone appiccata al collo, e fanno questo per cagion che non siano gelosi.
Stettero in questo paese due mesi, nel qual tempo mai non piovvé. E andando fra terra tagliarono molti legni di verzino, con li quali fabricarono una casa, e nel ritorno loro al porto per aventura piovvé, e gli abitanti dicevano che li nostri erano venuti dal cielo, perché essi avevano menata la pioggia. Questi popoli sono molto docili, e facilmente si convertiriano alla fede cristiana.
Del capo detto di Santa Maria, dove si trovano pietre preziose. Di lupi marini e sua descrizione. Degli uomini di quel paese, i quali hanno statura di giganti, e con che arte il capitano ne prese duoi. Del medicarsi quando hanno mal di stomaco, e quando li duole la testa, e quando muoiono.
Nella prima costa di terra che arrivammo, ad alcune femine schiave, che avevamo levate nelle navi d'altri paesi ed erano gravide, vennero le doglie del parto, per il che elle sole uscirono di nave e smontarono in terra, e partorito che ebbero, con gli figliuoli in braccio se ne ritornarono subito in nave.
Dopo tredici giorni che fummo ritornati al porto, ci partimmo da questa terra, e navigammo sino a gradi trentaquattro e un terzo verso il polo antartico, dove trovammo un gran fiume d'acqua dolce, e certi uomini detti canibali, che mangian carne umana: e dalla nave ne vedemmo uno grande come un gigante, che avea una voce come di un toro, e si vedeva come gli abitatori fuggivano li lor beni fra terra per paura di quelli. Li nostri, vedendo questo, con un battello saltarono da dieci in terra per parlar con alcuni di loro, overo per prenderne per forza, ma li detti correvano e saltavano di sorte che li nostri mai non li potettero aggiugnere. In su la bocca di questo fiume sono sette isole, e nella maggiore si trovano pietre preziose, e chiamasi il capo di Santa Maria. Li nostri pensavan di poter passare nel mar del Sur, cioè di mezzodí, ma non vi è passaggio alcuno se non il fiume, il qual è 17 leghe largo nella bocca. Altre fiate li detti canibali mangiarono un capitano spagnuolo, detto Giovanni Solisio, con sessanta compagni, i quali andavano a discoprir la terra come noi.
Scorrendo dietro la costa della terra verso il polo antartico, arrivammo ove erano due isole piene di oche e lupi marini, i quali vivono in mare: ed erano in tanto numero che in una ora si saria potuto empire le cinque navi di oche, le quali son tutte nere e non volano. Vivon di pesce, e sono cosí grasse che ci fu di bisogno scorticarle, e non hanno penna alcuna, e hanno il becco come il corvo. Li lupi marini sono di diversi colori, e grandi come un vitello; la testa pareva indorata, le orecchie piccole, ritonde, denti grandi. Hanno solamente duoi piedi appiccati al corpo, che somigliano due mani con unghie piccole; sono feroci e vivono di pesci. Avemmo gran fortuna, ma subito che apparvero sopra le gabbie delle navi li tre fuochi, che si chiamano santa Elena, san Nicolò e santa Chiara, subito la furia del vento cessò.
Partiti di lí, arrivammo a 49 gradi e mezzo sotto l'antartico, che essendo la vernata, ci fu necessario dimorar in quel luogo duoi mesi, che mai non vedemmo persona, se non per aventura un giorno un uomo di statura di gigante venne al porto ballando e cantando, e poi pareva che si buttasse polvere sopra la testa. Il capitano mandò uno de' nostri con la barca sopra il lito, il qual facesse il simile in segno di pace. Il che veduto dal gigante si assicurò, e venne con l'uomo del capitano alla presenza di quello, sopra una piccola isola, e quando fu in sua presenza si maravigliò forte, e faceva segno con un dito alzato, volendo dir che li nostri venissero dal cielo. Costui era cosí grande che li nostri non gli arrivavano alla cintura, ed era molto ben disposto, e aveva il volto grande, dipinto all'intorno di color giallo, e similmente all'intorno degli occhi, e sopra le gote avea dipinti duoi cuori, li capelli tinti di bianco, ed era vestito di una pelle di animale cucita sottilmente insieme. Questo animale, per quel che vedemmo, ha la testa e le orecchie grandi come ha una mula, il collo e il corpo come ha un camello, e la coda di cavallo. Li piedi del gigante erano rivolti nella detta pelle a modo di scarpe. Aveva in mano un arco grosso e corto, la corda del qual era fatta di nervi del detto animale, e un fascio di freccie molto lunghe di canna, impennate come le nostre, e nella punta in cambio di ferro avevano una pietra aguzza, della sorte di quelle che fanno fuoco. Il capitano gli fece dar da bevere e da mangiare e altre cose, e gli presentò uno specchio grande d'acciaio, nel quale subito che vidde la sua figura, fu grandemente spaventato e saltò indietro, e nel saltar gittò tre o quattro delli nostri per terra. Dapoi gli furon donati sonagli, uno specchio, un pettine e paternostri di vetro. Lo mandarono in terra insieme con quattro uomini delli nostri, tutti armati. Quando uno de' suoi compagni lo vidde venire insieme con li nostri, corse ove erano gli altri, i quali si spogliarono tutti nudi e, come arrivarono li nostri, cominciarono a ballare e cantare, levando un dito verso il cielo, e mostravangli polvere bianca d'una radice che mangiano, perciò che non hanno altra cosa. Li nostri fecero lor cenno che volesser venire alle navi, ed essi, prendendo solamente li lor archi, e fatte montar le loro femmine sopra certi animali che son fatti come asini, le misero in disparte. Questi uomini non sono cosí grandi come quel primo, ma sono ben molto grossi: hanno la testa quasi mezzo braccio lunga, e sono tutti dipinti, e non vestiti come gli altri, eccetto che una pelle che portano davanti le parti vergognose. E menano seco come in un laccio quattro piccoli animali, e quando vogliono prender degli altri, gli legano a qualche spino over legno, e gli animali grandi vengono a giucar con li piccoli, ed essi, stando in disparte, con le lor freccie gli ammazzano. Menarono tre maschi e tre femmine di detti animali, per cagione di prenderne degli altri.
Dapoi fu veduto un altro gigante, maggiore e meglio disposto che gli altri, con uno arco e freccie in mano, il qual s'accostò alli nostri e, toccandosi la testa, si voltò e levò le mani al cielo; e li nostri fecero il simile. Il capitano gli mandò il battello, col quale il menarono in una piccola isola che è nel porto. Costui era molto trattabile e grazioso, saltava e ballava, e ballando si ficcava con li piedi nella terra un palmo. Stette lungo tempo con li nostri, i quali gli posero nome Giovanni, e pronunziava chiaramente Iesus, Pater noster, Ave Maria, Giovanni, come noi, ma con una voce molto grossa. Il capitan generale gli donò una camicia di tela e una di panno di bianchetta, una berretta, uno specchio, un pettine e altre cose, e lo rimandò alli suoi, il qual se n'andò molto allegro e contento. Il giorno dietro se ne venne al capitano e gli portò uno di questi grandi animali; dapoi non fu piú veduto: si pensa che li suoi lo ammazzassero perché aveva conversato con li nostri.
Dopo 15 giorni vennero quattro di questi giganti senza alcuna arma, ma le aveano ascose fra alcune spine. Il capitano ne ritenne duoi, li quali erano i piú giovani e meglio disposti, con inganno in questo modo, che, donandogli coltelli, forbici, specchi, sonagli e paternostri di cristallo, avendo loro le mani pieni di tal cose, il capitano fece portar duoi ferri di quelli che si mettono alli piedi, e fece metterli loro alli piedi, faccendo cenno di volerglieli donare: e perciò che erano di ferro piacevano lor molto, e non sapevano come portarli, perciò che le mani e intorno erano impacciati delle cose che gli erano state donate. Gli altri duoi giganti volevano aiutarli a portare, ma il capitano non volse. E quando rinchiusero li ferri che traversano le gambe, cominciarono a dubitare, ma il capitano li assicurò, e perciò stettero fermi: e quando si viddero ingannati, gonfiarono come tori, e gridavano forte "Setebos", che gli aiutasse, e furono messi subito in due navi separati. Agli altri duoi non si potette mai legar le mani, ma con gran fatica un di loro fu posto in terra da nove uomini de' nostri. Al quale avendo legate le mani, subito costui se le dislegò e se ne fuggí, e cosí fecero gli altri che erano venuti in compagnia di questi tali; e li minori correvano piú velocemente che non facevano li grandi, e nel fuggire tirarono tutte le lor freccie, e passarono la coscia ad un de' nostri, il qual morí. Non si poteron mai giugner con li schioppi né balestre, perché correano ora da una banda ora dall'altra. Queste genti sono molto gelose delle lor femmine. Li nostri, dopo il partir di questi tali, sepelirono quel ch'era stato morto da loro.
Queste genti, come si sentono mal nello stomaco, si mettono giú per la gola duoi palmi e piú una freccia, e vomitano colera verde mescolata con sangue: e questo perché mangiano alcuni cardoni. Quando duol loro la testa, si fanno un taglio a traverso la fronte, e cosí ad un braccio over ad una gamba, e da tutte le parti del corpo si cavano assai sangue. Un giorno il gigante che avevamo preso, il qual era nella nave, diceva che 'l sangue che avea adosso non voleva star piú in quel luogo, e per questo gli faceva venir male. Costoro hanno li capelli tagliati a modo di frati, ma un poco piú lunghi, li quali ligano con una corda fatta di cottone, e nel nodo ficcano le loro freccie quando vanno alla caccia. Per cagione del freddo grande che fa alcune fiate in quelle parti, costumano di fasciarsi con alcuni legami, di modo che il membro genitale si nasconde tutto dentro al corpo. Quando alcun di costoro muore, dicono che gli appariscono dieci over dodici demonii che saltano e ballano attorno il corpo del morto, e par che siano dipinti tutto il corpo; e tra gli altri dicono vederne un maggiore degli altri, il qual fa gran festa e ride: e questo gran demonio chiamano Setebos, gli altri minori Chleule. Questo gigante che avevamo con noi preso in nave, ne dichiarava con cenni aver veduto li demonii, con duoi corni sopra il capo e li capelli lunghi fino alli piedi, e che buttavano fuoco per la gola, di dietro e davanti.
Il capitan generale chiamò questi popoli Patagoni. La maggior parte di costoro vestono della pelle dell'animal sopradetto, e non hanno casa ferma, ma fanno con le pelli dette a modo d'una capanna, con la quale vanno ora in un luogo ora in un altro; e vivono di carne cruda, e di una radice dolce, la qual chiamano capar. Questo nostro gigante che avevamo mangiava al posto una corba di biscotto, e beveva mezzo secchio di acqua al tratto.
Come li capitani di quattro navi volsero ammazzar il capitan generale Hernando Magaglianes,
e come furono castigati. Di una terra qual chiamarono la montagna di Cristo;
di un capo detto delle Undicimila Vergini; del fiume delle Sardelle; del capo Desiderato;
del stretto Patagonico. De' pesci colondrini, che volano.
Stemmo circa mesi cinque in questo porto di San Giuliano, e immediate che ci fummo entrati, li capitani dell'altre quattro navi, cioè Giovanni di Cartagenia, il tesorier Luigi di Mendozza, Antonio Cocco e Gasparo Casado, volsero a tradimento ammazzar il capitan generale Hernando Magaglianes. Ma, discoperto il tradimento, il capitano fece squartare il tesoriere, e il simil fu fatto a Gasparo Casado; ma Giovanni di Cartagenia lo fecero smontar in terra, e insieme con un prete lo lasciarono in quella terra di Patagoni.
In questo porto si viddero certe capre lunghe di corpo, nominate missiliones, e alcune ostreche piccole, non buone da mangiare. Videro anche quelli uccelli grandi detti struzzi, volpi e conigli minori che li nostri. Piantarono una gran croce di legno nella sommità di una montagna, in segno d'aver tolto il possesso di quella terra per il reame di Spagna, e chiamarono questo luogo la montagna di Cristo.
Partendo di lí, a 52 gradi manco un terzo verso il polo antartico trovarono un fiume di acqua dolce, nel quale quasi le navi si ebbero a perdere: ma Iddio per sua misericordia le aiutò. Stettero in questo porto quasi duoi mesi per fornirsi di acqua, legne e pesci, i quali trovarono molto grandi e lunghi un braccio, tutti coperti di scaglie, ed erano di ottimo sapore. E avanti che si partissero di qui, volse il capitano che tutti si confessassero e communicassero come buoni cristiani.
Approssimandosi alli 52 gradi, che fu il giorno delle XI mila virgini, trovarono uno stretto di CX leghe di lunghezza, che fanno 330 miglia, e perciò che riputarono questo come ad un gran miracolo, chiamarono il capo delle Undicimila Vergini, largo in alcune parti piú e manco di mezza lega. Il quale stretto, circondato da montagne altissime cariche di nevi, scorre in un altro mar, che fu chiamato il mar Pacifico, ed è molto profondo in alcune parti, che è da XXV in trenta braccia. E non si saria mai trovato detto stretto, se non fusse stato il capitan generale Hernando Magaglianes, perché tutti li capitani delle altre navi erano di contraria oppinione, e dicevan che questo stretto era chiuso intorno. Ma Hernando sapeva che vi era questo stretto molto oculto per il qual si poteva navigare, il che aveva veduto descritto sopra una carta nella tesoraria del re di Portogallo, la qual carta fu fatta per uno eccellente uomo detto Martin di Boemia: e cosí fu trovato con gran difficultà.
Quando furono entrati in questo stretto, trovarono due bocche, una verso scirocco, l'altra verso garbin. Il capitan generale comandò che la nave detta Santo Antonio e quella della Concezione andassino a veder se la bocca verso scirocco avesse uscita alcuna nel mar Pacifico, ma quelli della nave di Santo Antonio non volsero aspettar quelli della Concezione, perciò che volevan ritornare in Spagna: e cosí fecero, perché la notte seguente presero un figliuolo del fratello del capitan generale, nominato Alvaro Meschita, e lo misero in ferri, con li quali lo menarono in Spagna. In questa nave era un delli giganti presi, il qual, come pervenne al caldo, subito morí. E cosí la notte detta nave di Santo Antonio se ne fuggí per via del detto stretto. Le altre, che erano andate a discoprir l'altra bocca verso garbino, navigando sempre per detto stretto arrivarono ad un fiume bellissimo, il qual nominarono delle Sardelle, percioché ve ne trovarono dentro gran quantità, e tardarono circa quattro giorni aspettando le altre due navi; e in questo mezzo mandarono un battello molto ad ordine del tutto a discoprir il capo verso l'altro mare, il qual venne dopo alcuni giorni, e dissero come avevano veduto il capo dell'altro mare. Il che udito per il capitan generale, fu sí grande l'allegrezza che ebbe che le lagrime gli venivan dagli occhi, e gli parve di nominarlo capo Desiderato, avendone tanto tempo avuto grandissimo desiderio. E ritornarono adrieto a ricercar le altre navi, e non trovarono se non quella della Concezione, e dimandarono ove era l'altra; fu risposto che non sapevan se ella fusse persa, perché mai non l'avevano veduta dapoi che entrarono nella bocca, e avendola cerca per tutto lo stretto non l'avevan mai potuta trovare. Per la qual cosa misero nella sommità di una picciola montagna una bandiera con lettere, a fin che venendo trovassero la lettera e cognoscessero il viaggio che loro facevano, e il simil fecero in duoi altri luoghi. Fu posta ancora una croce in una picciola isola, dove appresso corre un bel fiume, il qual vien da una montagna altissima carica di neve, e scorre nel mar non molto lontan dal fiume detto delle Sardella; e trovandosi in detto stretto, che fu del mese di ottobre, la notte era se non di quattro ore.
Aveva in animo il capitano che non trovando passaggio per questo stretto all'altro mare, di andar tanto avanti sotto il polo antartico che fosse a gradi settantacinque, dove, essendo il tempo della sua state, le notte sarian chiarissime. Questo stretto chiamarono Patagonico, e navigando per quello ogni tre miglia trovavano un porto sicuro, e acqua eccellente da bevere, legne e pesci, e l'erba detta appio, la qual si vedeva molto spessa e alta appresso le fontane. Si pensa che in tutto il mondo non sia il piú bello stretto di questo. Fu veduta una piacevole caccia di pesci, delli quali ne eran tre sorti, lunghi un braccio, cioè orate, abacore e bonite, le quali seguitavano alcuni pesci che volavano, nominati colondrini, lunghi un palmo e piú: e sono eccellenti a mangiare. E quando le tre predette sorti di pesci trovano alcun delli detti pesci volanti, subito quelli uscivan dell'acqua a volo, e andavan piú d'un tratto di balestra senza toccar acqua; gli altri veramente gli seguitavano correndo sotto l'acqua dietro l'ombra di quelli, e non cosí tosto cadevan nell'acqua, che da quelli non fussero subitamente presi e mangiati.
L'altro gigante che tenevan preso nella nave, mostrandogli il pane, che fanno d'una radice, diceva che si chiamava capar, l'acqua oli, panno rosso cherecai, color rosso cheiche, color negro aniel, e diceva tutte le parole in gola; e quando queste parole furono scritte, insieme con molte altre, li nostri lo domandavano ed esso le intendeva e le portava. Una volta un fece una croce avanti di lui, e la baciò mostrandogliela; e costui subito cridò "Setebos", e li fece segno che se piú facesse la croce, che Setebos gl'intraria nel corpo e lo faria crepare. Ma nel fin, quando s'ammalò, cominciò a dimandar la croce, e l'abbracciò e baciò molto, e si volse far cristiano avanti che morisse, e fu chiamato Paolo.
Del mar Pacifico; dell'isole Infortunate, del polo antartico e delle stelle che vi sono intorno, e come in quel luogo varia l'agucchia del bussolo; dell'isole dette Cipangu e Sumbdit; del capo detto dagli antichi Cattigara.
Sboccarono di questo stretto nel mar Pacifico alli 28 di novembre 1520, e navigarono tre mesi e venti giorni senza trovar mai terra, e mangiarono quanto biscotto avevano, e quando non ne ebber piú mangiavano la polvere di quello, la qual era piena di vermini, che puzzava grandemente dell'orina di sorzi; bevvero l'acqua che era diventata gialla e guasta già molti giorni. Mangiarono appresso certe pelli con le quali erano ravvolte alcune corde grosse delle navi, e dette pelli erano durissime per cagion del sole, pioggia e venti, ma essi le mettevano in molle per quattro o cinque giorni nel mare, e poi le cocevano in una pignatta e mangiavanle. Ad alcuni crebbero le gengive tanto sopra li denti che, non potendo masticare, se ne morivan miserabilmente: e per tal cagione morirono dicennove uomini e il gigante, insieme con uno Indiano della terra del Bressil, e venticinque o trenta furono tanto ammalati che non si potevano aiutar delle mani né delle braccia; pochi però furono quelli che non avessero qualche malattia. E in questi tre mesi e venti giorni fecero quattromila leghe in un golfo per questo mar Pacifico, il qual ben si può chiamar Pacifico, perché in tutto questo tempo senza veder mai terra alcuna, non ebbero né fortuna di vento né di altra tempesta, e non iscopersero se non due piccole isole disabitate, ove non viddero altro che uccelli e arbori: e per questo le chiamarono isole Infortunate, le quali sono lontane l'una dall'altra circa ducento leghe, appresso li liti delle quali è grandissimo fondo di mare, e vi si veggono assai pesci tiburoni. La prima di dette isole è lontana dall'equinoziale verso il polo antartico gradi quindici, l'altra nove. Il navigar nostro era che ogni giorno si faceva da cinquanta, sessanta in settanta leghe, e se Iddio per sua misericordia non ne avesse dato buon tempo, era necessario che in questo cosí gran mare tutti morissemo di fame, e puossi creder per certo che mai piú simil viaggio sia per farsi.
Dopo lo stretto over capo delle Undecimila Vergini del mar Oceano, e l'opposito che è il capo Desiderato, andando verso l'altro mare, non si trova altro, e hanno questi duoi capi il polo antartico elevato circa cinquantaduoi gradi.
Il polo antartico non ha stella alcuna della sorte del polo artico, ma si veggon molte stelle congregate insieme, che sono come due nebule, un poco separate l'una dall'altra, e un poco oscure nel mezzo. Tra queste ne sono due, non molto grandi né molto lucenti, che poco si muovono: e quelle due sono il polo antartico. L'agucchia del nostro bossolo, variandosi un poco, si voltava sempre verso il polo artico; nondimeno non ha tanta forza come quando ch'ella è in queste parti del polo artico, ed era necessario di aiutar la detta agucchia con la calamita, volendo navigar con quella, perciò ch'ella non si moveva cosí come fa quando ch'ella è in queste nostre parti. Quando furono al mezzo del golfo, viddero una croce di cinque stelle chiarissime diritto per ponente, e sono egualmente lontane l'una dall'altra.
Questi giorni navigarono fra ponente tanto che si approssimarono alla linea dell'equinoziale, e per longitudine, dal luogo donde prima si eran partiti, cento e venti gradi. In questo cammino passarono appresso due isole molto alte, l'una delle quali è venti gradi lontana dal polo antartico, nominata Cipanghu, l'altra quindeci, nominata Sumbdit. Passata la linea dell'equinoziale, navigarono tra ponente e maestro, alla quarta di ponente verso maestro, piú di cento leghe, mutando le vele alla quarta verso garbin, sino a tredici gradi di sopra l'equinoziale verso il polo artico, con opinione di approssimarsi piú che fusse possibile al capo detto dagli antichi di Cattigara. Il qual, come descrivon gli scrittori del mondo, non si truova, ma è verso tramontana piú di dodici gradi, poco piú o manco, come dapoi intesero.
Come scopersero tre isole, e della natura e costumi di quei popoli. Di una terra detta Zamal.
Fatte circa settanta leghe del detto viaggio, in dodici gradi sopra l'equinoziale e gradi 146 di longitudine, come è detto, alli sei di marzo discoprirono una isola piccola verso maestro, e due altre verso garbino: ma una era piú alta e maggior dell'altre due, e il capitan generale volse surgere alla maggiore, per pigliar qualche riposo. Ma non poté farlo, percioché le genti di queste isole, come viddero le navi nostre, con lor battelli si approssimarono a quelle, ed entrando dentro rubavano ora una cosa ora un'altra, di modo che li nostri non si potevan guardare, e volevano che si calasser le vele per condur le navi a terra. Ma il capitano, adiratosi e smontato in terra con quaranta uomini armati, abbruciò da quaranta in cinquanta case con molti delli lor battelli, e ammazzò sette uomini, e recuperò una delle barche delle nostre navi che avevan rubata, e subito si partí seguendo il suo cammino.
Quando li nostri ferivano alcuno delli sopradetti con le freccie, che li passavano dall'una banda all'altra, si cavavano fuori le saette e con maraviglia le guardavano, e poco dipoi morivano: la qual cosa ancor che vedessero, non si sapevano partire, ma seguitando le nostre navi con piú di cento di loro barchette, sempre accostandosi ad esse e mostrando certi pesci, fingendo di volerceli dare, gli ritiravano a loro e se ne fuggivano. Ma li nostri con le vele piene passavano per mezzo li loro battelli, nelli quali viddero alcune femmine piangere e stracciarsi li capelli: pensiamo che facessero questo per la morte de' lor mariti.
Questi popoli vivono, sí come si poté intendere, secondo che la volontà li guida, non avendo alcuno superiore o principale che gli governi. Vanno nudi; alcuni di loro hanno barba, e li capelli neri lunghi, li quali legano alla cintura; portano alcuni cappelli fatti di palma, lunghi come son quelli di stradiotti. Sono di statura grandi come noi e ben disposti, di colore di ulivo, ancor che naschino bianchi; hanno li denti rossi e neri, il che reputano bella cosa. Le femmine vanno ancor loro nude, eccetto che portano davanti le parti vergognose una scorza che suol nascere dentro dell'arbore della palma, ed è come una carta sottile; le quali femmine sono belle e delicate, e piú bianche che non sono gli uomini, e hanno li capelli spessi e negrissimi, lunghi insino a terra. Non escono di casa ad alcun lavoro, ma dimorano quasi tutto il tempo in casa, tessendo stuore e reti, che fanno sottilmente di palma, e altre cose necessarie per la casa. Il lor vivere è di coche, che son frutti, come si dirà, e di batates, delle quali di sopra si è parlato. Oltra di questo hanno assai uccelli, fichi lunghi un palmo, canne di zucchero, pesci di quella sorte che abbiamo detto che volano, con molte altre cose. Ungonsi il corpo e li capelli con olio di coco. Le lor case sono fatte di legnami, coperte di tavole, insieme con foglie di fico poste di sopra, le quali sono lunghe un braccio. Dette case hanno la sala con le fenestre e camere, e li letti loro sono forniti di belle stuore di palma; il lor dormir è sopra foglie di palma, la qual è molto minuta e molle. Non hanno arme, se non come un fusto over baston lungo, il qual ha nel capo di sopra un osso per punta. Questi popoli sono molto poveri, ma ingegnosi, e son ladri, e però fu chiamata dalli nostri l'isola de' Ladri. Vanno con le lor femmine per mare, dove con ami fatti di osso prendono di detti pesci che volano. Le lor barche, alcune sono tutte nere, altre bianche e altre rosse. Hanno da una parte della lor vela un legno grosso appuntato nella sommità, insieme con un palo che attraversa, che sostien l'acqua per andar piú sicuramente a vela, la qual è fatta di foglie di palme cucite insieme. Per timone hanno una certa pala come da forno, con un legno nella sommità, e possono far quando vogliono della poppa prua e della prua poppa, e navigano tanto velocemente che paiono delfini che corrino sopra le onde.
Alli X di marzo 1521 smontarono nel far del giorno sopra una terra alta, lontan XXX leghe dall'isola detta di sopra de' Ladri, la qual si chiama Zamal. Il giorno seguente il capitan volse andar a smontar sopra un'altra isola, la qual è disabitata, per star piú commodamente e anco far acqua, dove fece distender duoi padiglioni per mettervi gli ammalati, e fece amazzar un porco. E alli XVIII di marzo, dapoi che ebber desinato, viddero venir verso di loro una barca dove erano nove uomini, per il che il capitano ordinò che alcuno non si movesse né parlasse senza sua licenza. Quando li detti furono giunti a terra, subito il principal di loro se ne venne verso il capitan generale, mostrandosi allegro per la sua venuta, e cinque di detti, che parevano li piú onorevoli, restarono con loro, e gli altri andarono a chiamar altri uomini per pescare. E cosí vennero molti di loro a veder il capitano, il qual cognobbe che erano uomini molto umani e pieni di ragione, e fece dar loro da bevere e da mangiare, donandogli berrette rosse, specchi, pettini, sonagli e altre cose simili; li quali, come viddero la cortesia del capitano, gli appresentarono pesci grandi, e un vaso pien di vino di palma, e fichi piú lunghi d'un palmo, e altri frutti minori ma saporiti, e duoi frutti di coche, che piú allora non ne avevano, faccendo segno con le mani che fra quattro giorni portariano risi, coche e molte altre cose.
Come facciano il vino delle palme, e della grande utilità delle coche, che sono frutti di detto arbore. Dell'isole Zuluam e Humunu, qual dipoi chiamarono arcipelago di San Lazzaro, e della conversazione di quelle genti.
Coche sono frutti di palme, e sí come noi abbiamo pane, vino, olio e aceto, cosí in questo paese cavano tutte queste cose di questo arbore. E fanno vino in questa maniera: tagliano un ramo grosso della palma, e appiccano a quello una canna grossa come una gamba, e in quella distilla del detto arbore un liquore dolce come mosto bianco, il quale è ancora un poco brusco; e mettono la canna la sera per la mattina, e la mattina per la sera. Questa palma fa un frutto che si chiama coco, il qual è grande come la testa d'uno uomo e piú, e la prima scorza è verde e grossa piú di due dita, tra la quale si trovano certi fili, delli quali ne fanno corde, e con esse legano le barche. Sotto di questa è una molto piú grossa, la quale abbruciano, e ne fanno polvere che è buona per alcune lor medicine. Sotto di questa è come una midolla bianca spessa, grossa un dito, la qual mangiano fresca con la carne e pesce come facciamo noi il pane, e ha sapor di mandorla, e ancora la seccano e ne fanno pane. Nel mezzo di questa midolla è una acqua dolce, chiara e molto cordiale: questa acqua si congela e si fa come una balla, e la chiamano coco, e se ne vogliono far olio la lasciano putrefare nell'acqua e la fanno bollire, e diventa olio simile al butiro. Quando voglion far aceto, lasciano putrefare l'acqua solamente, e poi la mettono al sole, e diventa aceto come di vin bianco. E quando mescolano la midolla con l'acqua che è in mezzo, e poi la colano con un panno, fatto latte come di capra. Queste palme sono simili a quelle che fanno i dattili, ma non sono cosí nodose. Con due di queste palme tutta una famiglia di dieci persone si può mantenere, usando otto giorni di una e otto giorni dell'altra per vino, perché faccendo altrimenti elle si seccariano. Questi tali arbori sogliono durar cento anni.
Queste genti presero gran familiarità con li nostri, e dicevano come si chiamavono molte cose, e il nome di alcune isole le quali si vedevano da quel luogo. La loro isola si chiama Zuluan, la qual non è molto grande. Li nostri presero gran piacere della conversazione di questi tali popoli, perché son molto domestici, e per far maggior onor al nostro capitano, l'invitarono ad andar nelle lor barche, in alcune delle quali erano loro mercanzie, cioè garofani, cannelle, pepe, gengevo, noci moscate, macis, oro fatto in diverse cose, le quali conducono di qua e di là con le lor navi. Il nostro capitano gli fece venir similmente nelle nostre navi, dove, mostratogli ogni cosa, fece scaricar una bombarda, della qual ebbero tanta paura che volevano buttarsi fuora di nave. Ma li nostri li acquetarono faccendo segno di volerli donar delle cose nostre, e cosí fecero, e poi quando volsero presero licenza graziosamente, dicendo che ritornariano come avevano loro promesso. Questa isola dove il capitano si trovava, come abbiamo detto di sopra, che è disabitata, si chiamava Humunu, la qual ha due fonti di acqua chiarissima, e oro, e all'incontro coralli bianchi in quantità, e molti arbori che avean certi frutti minori che mandorle: li nostri la chiamarono l'isola di Boni Segni; eranvi palme e altri arbori senza frutti. Intorno a questa si truovano molte isole, e per questa causa parve lor di chiamar questo luogo l'arcipelago di San Lazaro: ed è dieci gradi sopra l'equinoziale verso il nostro polo, e CLXI gradi lontani dal luogo donde partimmo.
Come nell'isole qui vicine dicono esser uomini ch'hanno l'orecchie sí grandi che con quelle si coprono le braccia. Dell'isole Cenalo, Huinangan, Hibusson e Abarien. Della umanità del re di quel paese. Dell'isole Buchuan e Calegan, ove nasce l'oro in gran quantità.
Alli XXII di marzo nel luogo sopradetto vennero due barche piene di queste genti, come avean promesso, con coche, naranci dolci, e con un vaso di vino di palma, e un gallo per mostrar che avevano galline: e li nostri presero in dono queste tali cose. Il lor signore era molto vecchio, e andava nudo, col corpo tutto dipinto, e aveva duoi anelli d'oro appiccati alle orecchie, e molte gioie ligate in oro alle braccia, e intorno alla testa aveva come un fazzuol di lino. Stettero con li nostri da otto giorni insieme, con li quali il nostro capitano smontava spesso in terra, e visitava li nostri malati, che erano sotto li padiglioni, e ogni giorno faceva dar a ciascuno di loro dell'acqua delle coche, con quella midolla che par mandorle, la qual dava loro gran conforto. In queste isole vicine intesero dire che si trovavano uomini con le orecchie tanto grandi che si coprivano le braccia con quelle. Questi popoli sono cafri, cioè gentili; vanno nudi, eccetto che portano una tela sottile, che fanno della scorza d'un arbore, avanti le parti vergognose. Li principali hanno una tela di seta lavorata ad ago sopra la testa. Sono di color di ulivo, grassi molto, e si dipingono tutto il corpo, ungendoselo appresso con olio, per cagione del sole e del vento. Portano li capelli lunghi fino alla cintura. Hanno pugnali, coltelli e lancie con fornimenti d'oro; fanno ancor reti da pescare, e barche come sono le nostre.
Il capitano alli XXV di marzo si partí, e drizzò il suo cammino tra ponente e garbino, fra quatro isole nominate Cenalo, Huinanghan, Hibusson e Abarien. Alli XXVIII di marzo viddero un fuoco in una isola, e una barca piccola con otto uomini dentro, la qual si approssimò alla nave del capitano. E avendo il detto menato seco una schiava avuta nelli tempi passati dall'isola di Sumatra, la qual gli antichi chiamarono Taprobana, costei andò a parlar con gli uomini della detta barca, li quali subito la intesero e immediate s'accostarono alla nave, ma non vi volsero entrar dentro. Il capitano, vedendo che non si fidavan di lui, fece metter sopra un legno lungo una berretta rossa e altre cose, e gliele mostrò, le quali costoro presono, e subito si partirono per andar a darne nuova al suo re. E di lí a due ore viddero venir due barche grandi piene d'uomini: il re era nella maggiore, sedendo sopra una sedia coperta d'una stuora. Quando vennero appresso la nave del capitano, la sopradetta schiava parlò e il re la intese (in questo paese è costume che li re sappiano assai linguaggi), il qual subito ordinò che alcuni de' suoi entrassero nella nave, ed esso restò nella barca, la qual fece scostar alquanto dalla nostra. A questi suoi, come vennero ove era il capitano, fu fatto grande onore, e furono presentati. Per la qual cosa il re volse donar al capitano un baston d'oro grosso e un vaso pieno di gengevo; il capitano non lo volse accettare, ma lo ringraziò grandemente. Fatta questa tal familiarità, le nostre navi si drizzarono verso dove era l'abitazion del re.
Il giorno seguente il capitan mandò in un battello la schiava, la qual era interprete, verso terra, a dire al re, se egli avea alcuna cosa da mangiare, che gli piacesse di mandarne alla nave, che saria del tutto integramente satisfatto, perché come amici e non nimici erano venuti a questa isola. Il re medesimo, con otto uomini in sua compagnia, venne col detto battello alla nave, e abbracciò il capitan generale, e dettegli tre vasi grandi di porcellana, coperti di foglie di palme, pieni di risi crudi, e duoi pesci, cioè orate grandi, e altre cose. Il capitano a rincontro donò al re una vesta di panno rosso, una di giallo, fatte alla turchesca, e una berretta rossa, e alli suoi uomini alcuni coltelli e specchi; e dapoi fece portar una collazione, faccendogli dir per la schiava che voleva esser come suo fratello. Il qual gli rispose che il simil ancor egli desiderava. Dapoi il capitano gli fece mostrar panni di diversi colori, tele, coltelli e molte altre mercanzie, e tutta l'artiglieria, facendone scaricar alcuni pezzi, li quali gli spaventarono grandemente. Poi fece armar un uomo da capo a piedi, e fece che tre uomini con le spade nude lo ferisseno, e non gli faccendo alcun male, il re rimase stupefatto, e disse alla schiava che uno di questi uomini era potente contra cento delli suoi; la qual confermò che era il vero, e che in ciascuna nave ve ne erano ducento, che si potevano armar di quella sorte, faccendogli veder corazze, spade, targhe. E poi lo condusse sopra il castello della nave, dove gli fece portar la carta da navigare e il bussolo con la calamita, e il capitano gli disse, per via dell'interprete, come avevano trovato lo stretto per via di questa calamita, e quanti giorni erano stati senza veder terra: e il re se ne maravigliava fuor di misura. Poi, togliendo licenza il re, piacque al capitano di mandar duoi uomini con lui, l'un delli quali fu Antonio Pigafetta.
Quando furono giunti in terra, il re levò le mani verso il cielo e poi le voltò verso li duoi prefati, i quali fecero il simile, e il medesimo fecero tutti gli altri. Il re prese il prefato Antonio per la mano, e un suo uomo principale prese il suo compagno, e li condussero sotto un luogo coperto di paglia, ove era una barca tirata in terra, presa da alcuni suoi nimici, lunga ottanta palmi; e sedettero sopra la poppa di quella, parlando insieme per cenni. Tutti quelli del re stavano in piedi intorno a lui, con spade, pugnali, lance e targhe. Quivi fu portato un piatto pieno di carne di porco, e un gran vaso di vino, e ne bevevan ciascuna volta una tazza, e il restante del vino stava sempre coperto appresso del re, ancor che fosse in picciola quantità. Non ne beveva alcuno salvo che il re, e avanti che il detto prendesse la tazza per bevere, levava le mani giunte verso il cielo, e le voltava poi verso questi duoi nostri quando voleva bevere, e distendeva la man sinistra verso il detto Antonio, come se lo volesse battere, dapoi bevea; il detto Antonio faceva il simile, e tal segno fanno ciascun l'un verso l'altro, e con gran cerimonie e domestighezza mangiarono carne il venere santo.
Donarono molte cose che aveano portato da parte del capitano al re, e Antonio scriveva molte cose come loro le chiamano, e quando il re e li suoi il viddero scrivere, e che sapeva dapoi nominare le lor cose, se maravigliavano grandemente. E quando fu venuta l'ora di cena, furono portati alcuni piatti grandissimi di porcellana pieni di risi, e altri piatti di carne di porco con il suo brodo, e cenarono con li medesimi cenni e cerimonie. Poi si aviarono dove era il palazzo del re, il qual era fatto come è un tetto dove si tien il fieno, coperto di foglie di fico e di palme, ed era edificato sopra legni alti levati da terra, ove è necessario montar con scalini. Quivi lo fecero seder con le gambe incrociate, sí come sedeno li sartori, e di lí a mezza ora fu portato un pesce arrosto, e gengevo fresco colto allora, e del vino; e il figliuol maggior del re, il qual si chiama il principe, venne ove erano costoro, e il re gli disse che sedesse appresso di loro, e cosí fece. Furono dapoi portati duoi piatti, l'uno di pesce col brodo e l'altro di risi, accioché mangiassero col principe: dove tanto fu mangiato e bevuto che erano imbriachi. Costoro usano per far lume di notte una gomma d'un arbore, la qual gomma si chiama anima, ravolta in foglie di palma. Il re fece cenno che voleva andar a dormire, e lasciò con li nostri il principe, col qual dormirono sopra una stuora di canne, con alcuni cussini di foglie. Il principe subito fatto giorno si partí, ma, come furono levati li nostri, li venne a trovare un fratel del detto, e gli accompagnò fino ad una isola ove era il capitano, il quale lo ritenne a desinar seco, e a lui e a tutti li suoi fece assai presenti.
In quella isola ove il re venne a veder la nave delli nostri, si trovavano gran pezzi d'oro, come sariano noci over uova, crivellando la terra. Tutti li vasi del re sono d'oro, e tutta la sua casa è molto ordinata. Fra tutte queste genti non viddero il piú bell'uomo del re: ha li capelli lunghi fino sopra le spalle, molto neri, con un velo di seta sopra la testa; alle orecchie vi tiene appiccati duoi grandi anelli d'oro e grossi. Porta un panno di cottone lavorato di seta, il qual cuopre cominciando dalla cintura fino alle ginocchia; da un lato ha un pugnale col manico d'oro lungo, e il fodro è di legno lavorato. In ciascun dito ha tre come anelli d'oro; ungesi con olio di storace e benzuin, ed è di color olivastro, ma dipinto tutto il corpo. Queste isole si chiamano Buthuan e Caleghan. Quando questi duoi fratelli figliuoli del re, che ancor loro si fanno chiamar re, si vogliono veder insieme, vengono in questa isola in casa sua: il maggior si chiama raia Colambu, il secondo raia Siagu.
Come li duoi re di quei paesi fratelli andarono col capitano ad udir messa, e nella sommità d'una montagna piantorono una croce. Dei porti Zeilon, Zubut e Caleghan.
Della qualità e vestir di quegli uomini. Del frutto detto areca; della foglia dell'arbore bettre.
Dell'isola detta Massana, e degli animali e frutti di quella.
All'ultimo di marzo, appresso Pasqua, il capitan generale fece metter a ordine un prete per far dir messa, e per un suo certo interprete fece dir al re che egli non smontava già in terra per voler andare a desinar seco, ma solamente per voler far dir messa. La qual cosa come udí il re, subito gli mandò duoi porci morti. E quando fu l'ora del dir la messa, smontarono in terra circa cinquanta uomini senza arme, meglio vestiti che poterono, e gli altri erano armati; e avanti che li battelli giugnessero in terra, fecero scaricar sei colpi di bombarda in segno di pace, poi saltarono in terra. E questi duoi fratelli re abbracciarono il capitan generale, e andarono in ordinanza fino dove era preparato da dir la messa, non troppo lontano dalla riva, e avanti che si cominciasse a dir la messa, il capitano volse sprucciar il corpo alli detti duoi re con acqua muschiata. Quando si fu a mezza messa, che si va ad offerir, li re volsero ancor loro andare a baciar la croce come facevano li nostri, ma non offerirono cosa alcuna, e quando si cominciò a levar il corpo di Cristo, li prefati stettero in ginocchioni adorandolo con le mani giunte. Nel qual tempo, fatto segno per li nostri con un schioppo, fu scaricata l'artigliaria delle navi. Alcuni de' nostri si communicarono.
Finita la messa, il capitano fece far combattere delli nostri armati con le spade nude, nel veder del quale li re ebbero grandissimo piacere. Dapoi il capitano fece portar una croce, con li chiodi e la corona di spine, e subito ordinò che tutti li facessero gran riverenza, faccendo lor intender, per via dell'interprete, che questa bandiera gli era stata data dall'imperador suo signore, e per ciò ovunque andavano mettevan questo segnale. Il qual ancora volevano metter in quel luogo per sua utilità e profitto, acciò che se venisse alcuna nave de cristiani, vedendo questa croce sappino che li nostri son stati lí, e per questo si astenghino di far alcun dispiacere né a loro né alle robbe loro; e se fussero fatti prigioni, come li fusse mostrata questa croce, subito li lasciariano andar liberamente; e che bisognava mettere questa croce nella sommità della piú alta montagna che vi fusse, acciò che la potessino veder ogni giorno e da ogni canto, e che l'adorassino, perciò che, faccendo questo, né tuoni né fulgori né tempesta potria lor nocer in cosa alcuna. Udito questo parlar dalli re, ringraziarono grandemente il capitano, e dissero che eseguiriano molto volentieri tutte queste cose. Il capitano fece lor dimandar se erano mori o gentili, e in che credevano. Risposero che non adoravano altramente se non che, levando le mani giunte e la faccia verso il cielo, nominavano il lor Iddio Abba: della qual risposta il capitano ebbe gran piacere, il che veduto dal primo re, subito quello levò le mani verso il cielo. Gli domandarono poi perché avevano cosí poco da mangiare; risposero che quivi non era la lor ferma abitazione, né vi veniva se non quando voleva vedersi con suo fratello, ma che la sua stanza era in un'altra isola, dove aveva tutta la sua famiglia. Gli disse appresso come aveva assai nimici, verso li quali, quando volessero, potriano ben andar con le navi per soggiogarli, il che faccendo gli restaria obligatissimo; e che detti suoi nimici erano in due isole, ma che allora non era tempo di dovervi andare. Il capitano li fece dire che se Iddio li facesse grazia di tornar un'altra volta in queste parti, che menaria seco tante genti che sottometteria tutti li suoi nimici; e che allora voleva andar a disnare, e che dapoi ritornaria a far metter la croce sopra la sommità della montagna. Risposero che erano contenti, per il che li nostri scaricarono tutti li loro schioppi, e il capitano, abbracciato che ebbe tutti duoi li re e altri principali, prese licenza.
Dopo che ebbe desinato, il capitano ritornò con li suoi, e insieme con li duoi re andarono nel mezzo della sommità della piú alta montagna che si trovasse nell'isola, e quivi misero la croce; e il capitano fece dir loro che al presente erano suoi cari amici, perché la croce era in quel luogo, e che per questo se ne potevan grandemente rallegrare. Dapoi gli dimandò che porto era in quelle bande, dove potessero trovar vettovaglie. Risposero che ve n'erano tre, cioè Zeilon, Zubut e Calaghan, ma che Zubut era migliore e dov'era miglior traffico, offerendosi di dargli pilotti che gl'insegnariano la via. Il capitano gli ringraziò e deliberò d'andarvi, il che fu con gran disaventura. Posta la croce e ciascun ingenocchiatosi, e detto un Paternostro e Ave Maria, l'adorarono, e il simile fecero li re; dipoi discesero nella pianura, dove viddero assai campi lavorati, prendendo la via ov'era la sua barca. Li re fecero portare alcune coche per rinfrescarsi, e il capitano gli domandò pilotti, perciò che si voleva partir la mattina seguente, e che per lor sicurtà lascieria uno de' nostri. Essi fecero risponder che a tutte l'ore ad ogni suo voler sariano preparati. Ma partiti di lí e andati ciascuno a dormire, il primo re si mutò d'oppenione, e la mattina, volendo partir il capitano, detto re gli mandò a dire che per amor suo volesse aspettare ancor duoi giorni, fino a tanto che avessero raccolto li risi e alcune altre picciole cose, e che lo pregava che gli mandasse qualcun de' suoi uomini per aiutargli, acciò che piú presto si potessero espedire, e che esso medesimo saria il pilotto. Il capitano mandò alcuni uomini al re, ma giunti a quello si misero a mangiare e bevere, tanto che dormirono tutto quel giorno, e dapoi essendo dimandati alcuni, si escusarono dicendo che erano ammalati, per il che nel detto giorno li nostri non fecero cosa alcuna, ma il giorno seguente si affaticarono molto nel coglier detti risi.
Uno di queste tali genti se ne venne alle navi, e portò una scodella piena di risi, con otto over dieci fichi legati insieme, per cambiar con un coltello, il qual non poteva valer tre denari. Il capitano, vedendo che costui non voleva altro che il coltello, lo fece venir a sé e gli fece mostrar alcune altre cose, invitandolo se voleva cambiare, e cavò della sua borsa un real, che è una moneta d'argento che val dodici soldi, i quali voleva dar per quelle sue robbe: ed esso non volse. Poi gli mostrò un ducato, e manco questo volse accettare, e all'ultimo gli mostrò un ducato doppione: costui non volse mai altra cosa che il coltello, il qual liberamente gli fece donare. Dipoi, uno de' nostri andando a prender acqua in terra, un di costoro gli volse donar una corona fatta a punte d'oro, massiccia come una collana, per sei filze di paternostri cristallini: ma il capitano non volse che si facessero piú simil baratti, affin che in questo principio pensassero che si faceva maggior istimazione delle nostre mercanzie che dell'oro di quelli.
Questi popoli sono molto agili e gagliardi; vanno nudi, si dipingono tutto il corpo, portano, come è detto, coperte le parti vergognose d'una tela, della quale disopra facemmo menzione. Le femmine sono vestite dalla cintura in giuso, e portano li capelli, li quali sono neri, lunghi fino in terra; hanno ancora le orecchie bucate, e postovi dentro oro fatto in diversi lavori. Queste genti masticano quasi sempre un frutto che chiamano areca, il qual è alla similitudine d'un pero, e lo tagliano in quattro pezzi, e poi ne inviluppano ciascuna parte nella foglia d'un arbore che è chiamato bettre, le quali foglie sono simili a quelle del lauro, e messoselo in bocca, dipoi che hanno ben masticato lo buttano fuori, il qual gli lascia la bocca molto rossa. Tutte queste genti usano questo frutto per rinfrescarsi il cuore, e se si astenessero moririano. In questa isola chiamata Messana si trovano cani, gatti, porci, galline, capre, risi, gengevo, coche, fichi, naranci, miglio, panico, orzo, cera e oro in quantità. È sopra l'equinoziale verso il nostro polo gradi 9 e duoi terzi, e 162 gradi dal luogo donde partimmo.
Di Zeilon, Bohol, Canghu, Barbai e Catigan isole. De' pipistrelli che sono in Catighan, grandi come aquile e buoni al gusto come galline. Di Polo, Ticobon e Pozon isole. Dell'ambasciata che 'l capitano mandò a fare al re di Zubut, e la risposta fattali per detto re.
In questa isola Messana dimorarono otto giorni, poi voltarono il viaggio verso il vento di maestro, e passarono fra cinque isole, cioè Zeilon, Bohol, Canghu, Barbai, Catighan. In questa isola di Catighan si trovano pipistrelli grandi come aquile, delli quali ne presero uno, e come intesero che eran buoni da mangiare lo mangiarono, ed era al gusto come una gallina. Trovanvisi ancora colombi, tortore, pappagalli, e certi uccelli grandi come galline, li quali hanno certi corni, e le vuova loro sono grandi come quelle dell'oca; e detti uccelli le mettono un braccio sotto l'arena per farle nascere, e la terra per virtú del sole gli fa nascere, e come sono nate escono fuori dell'arena. Queste uova sono molto buone da mangiare.
Dall'isola sopradetta di Messana a Catighan sono 20 leghe, andando alla volta verso ponente. Il re di Messana non poté seguir le tre navi, però fu necessario di aspettarlo appresso tre isole, cioè Polo, Ticobon e Pozon; il qual, avendo veduto il presto navigare de' nostri, se ne maravigliò grandemente, e il capitano grande lo fece entrar nella nostra nave con alcuni de' suoi principali, della qual cosa ebbe gran piacere. E cosí andarono verso Zubut, che è lontan dall'isola di Cathigan circa cinquanta leghe.
Adí 7 d'aprile ad ora di mezzogiorno entrarono nel porto di Zubut e, passando appresso molte ville e abitazioni fatte sopra arbori, si approssimarono alla città, dove il capitano comandò che le navi se gli approssimassero, calando le vele e mettendosi ad ordine come se volessero combattere, faccendo scaricare tutta l'artiglieria, della qual cosa tutto il popolo ebbe grandissima paura. Dipoi il capitano mandò un suo ambasciadore con l'interprete al re di Zubut. Quando giunsero alla città, trovarono insieme col re assai uomini, tutti spaventati dal rumore dell'artiglieria. L'interprete fece loro intendere ch'era cosí costume delli nostri, i quali, come entravano in simil luoghi, in segno d'amicizia e per onorare il re della città discaricavan le bombarde. Il re con tutti li suoi per queste parole si assicurarono; poi li nostri dissero come il lor signore era capitano delle navi del maggior re del mondo, e che andavano a scoprir l'isole Molucche, e avendo inteso dal re di Messana il buon nome e fama sua, gli era paruto di venirlo a visitare, e appresso per aver vettovaglie in cambio di sue mercanzie. Il re rispose che fussero i ben venuti, e che era in quel luogo un costume, che tutte le navi che entravano in quel porto pagavano tributo, e che non erano troppo giorni che una nave carica d'oro e di schiavi l'avea pagato: e in segno di questo gli fece venir avanti alcuni mercatanti, di quelli che erano restati lí a far loro faccende d'oro e di schiavi. Alle quali parole l'interprete disse come il suo signore, percioché era capitano di sí gran re, non pagava tributo ad alcun signor del mondo, e che se voleva pace che l'averia, e se guerra averia guerra. Allora un di quelli mercatanti, il qual era moro, disse al re: "Catacaia chita", cioè: "Guarda, signor, che questi sono quelli che hanno acquistato Calicut, Malacha e tutta l'India maggiore; chi fa lor bene ha bene, e chi mal male, e peggio ancora che non hanno fatto a Calicut e Malacha". L'interprete, udite queste parole, disse che 'l re suo signore era piú potente di gente e di navi che il re di Portogallo, ed era re di Spagna e imperador di tutta la cristianità, e se non vorrà esser suo amico, che gli manderà un'altra volta tante genti contra che lo distruggerà. Il Moro raccontò tutte queste parole al re, il quale allora disse che si consigliava con li suoi, e il giorno seguente gli risponderia. Poi fece portar una collazione di molte vivande, tutte poste in vasi di porcellana, con molti vasi di vino; e fornita la collazione li nostri se ne ritornarono, e referirono il tutto al re di Messana, ch'era un delli primi appresso questo re, e signor di molte isole, il qual volse smontar in terra e, andato al re di Zubut, gli narrò la gran cortesia ch'era in questo capitan generale.
Come il capitano andò a trovare il re di Zubut, come contrassero amicizia insieme, e de' presenti si fecero l'un l'altro; e con quanta attenzione quelli che dipoi furono mandati dal re al capitano stavano ad udir parlar esso capitano delle cose della fede.
Un lunedí mattina il messo del capitano con l'interprete se n'andarono a Zubut a trovar il re, il qual viddero venir in piazza accompagnato da molti suoi principali: e veduti li nostri se gli fece seder appresso, e poi gli dimandò s'era piú d'un capitano in questa compagnia, e se volevano che esso pagasse tributo all'imperadore. Li nostri referirono che non volevano altro, salvo che far mercanzia con essi, cioè barattar delle lor robbe con le loro, né altra cosa. A questo rispose il re ch'era contento, e che se 'l nostro capitano gli voleva esser amico, che gli manderia un poco di sangue del suo braccio dritto, e il simil faria ancor esso in segno d'amicizia: gli dissero che cosí faria. Dipoi il re disse che tutti li capitani che vengono in quel luogo si deono far presenti l'un con l'altro, e che il nostro capitano over esso doveva cominciare. Il nostro interprete gli rispose che dapoi che gli pareva voler conservar questa usanza, che esso dovesse cominciare: il qual cosí fece.
Il martedí seguente il re di Messana, col Moro detto di sopra, se ne venne alle navi e salutò il capitano da parte del re, dicendogli che 'l detto faceva metter insieme piú vettovaglie che gli era possibile per fargli un presente; e dopo desinare mandò un suo nepote, con tre uomini de' principali, per far questa amicizia. Il capitano fece armar uno de' suoi con tutte l'armi, e gli fece dir che tutti quelli che combattevano erano di quella sorte: il Moro fu molto spaventato a veder questo. Il capitano gli fece dir che non si spaventasse, perché le nostre armi sono piacevoli verso gli amici e aspre contra gli nimici, e destruggono tutti gli adversarii e nimici della nostra fede: e questo fece acciò che 'l Moro, il qual mostrava esser piú astuto degli altri, lo dicesse al re.
Dopo desinar il nepote del re, il qual è il principe, venne col re di Messana, il Moro e un loro proposto maggiore, con altri otto uomini principali, per far l'amicizia col capitano, e sedette in una sedia coperta di velluto rosso; gli altri principali sopra alcune altre sedie, e altri sopra alcune stuore. E il capitano gli fece dimandar s'era di loro costume di parlare in publico o in secreto, e se questo principe col re di Messana aveano auttorità di far la pace e amicizia. Dipoi il capitano disse molte cose circa questa pace, e pregava Iddio che la confermasse in cielo; costoro dissero che mai piú aveano udito simil parole, e che avean gran piacere in udirle. Il capitano, vedendo che volontieri l'ascoltavano, cominciò a dir loro molte cose pertinenti alla fede nostra; poi dimandò loro chi succedeva nella signoria dopo la morte del re. Risposero che 'l re non aveva figliuoli maschi, ma tutte femmine, e che questo suo nepote avea tolta per moglie la figliuola sua maggiore, e per questo si chiamava principe; e quando il padre e la madre sono vecchi non gli onorano piú, ma li giovani sono quelli che comandano. Il capitano gli disse che Iddio avea fatto il cielo e la terra e il mare e qualunque altra cosa, e che avea comandato che si dovesse onorar il padre e la madre, e chi altramente facesse saria condannato al fuoco eterno. Gli disse poi come tutti noi eravamo discesi da Adam ed Eva, nostri primi parenti, e come l'anima nostra era immortale, e molte altre cose pertinenti alla fede. Le quali avendo li prefati udite con grandissima attenzione, furono molto allegri, e lo pregarono che dovesse lasciar duoi uomini, over almanco uno, il quale insegnasse la fede, e che gli fariano grandissimo onore. Rispose il capitano che per allora non poteva lasciar loro alcun uomo, ma che, se volevan farsi cristiani, un de' lor preti gli battezzaria, e che un'altra volta menariano preti e altri, che insegnariano loro la nostra fede. Dissero che prima volevano andar a parlar al re, e poi diventariano cristiani: ed era tanto il piacere che aveano, che se gli vedevan cader le lagrime dagli occhi. Il capitano gli ammoní che non si dovessero far cristiani per paura né per compiacergli, ma di loro propria volontà, e che non fusse fatto alcun dispiacere agli altri che volessero viver secondo la lor legge, ma che, se essi saranno cristiani, si sforzeranno di esser veduti migliori e piú pieni di carità. Tutti allora ad una voce gridarono che non si facevano cristiani per paura alcuna né per compiacergli, ma per la loro propria volontà. Gli fu poi detto che, diventati che fussero cristiani, volea loro lasciare una delle nostre armadure, perché cosí gli era stato ordinato dall'imperadore, e che non potriano impacciarsi per l'avenire piú con femmine che fussero de' gentili, senza far grandissimo peccato; e oltra di questo gli assicurava che non gli appaririano piú demonii, come facevano al presente. Risposero che piacevano tanto loro queste parole che udivano, che non sapevano che rispondergli, e per questo si rimettevano nelle sue mani, e che 'l capitano disponesse di loro come de suoi fratelli e servitori. Allora il capitano gli abbracciò, e presa una delle mani del principe e una del re di Messana, e messala in mezzo delle sue, disse loro che, per la fede che doveva a Dio e all'imperador suo signore, prometteva e dava loro la pace perpetua col detto suo signore re di Spagna. Gli risposero che ancor essi similmente gliela promettevano e davano. Fatta che fu detta pace, subito il capitano fece portar una bella collazione, e gli fece bever tutti.
Dopo il principe e il re di Messana presentarono al capitano, da parte del lor re, certe misure di risi, porci, capre, galline, e dissero che li perdonasse perché questi presenti erano piccoli a donar ad un tal uomo come esso era. Il capitano donò al principe un drappo bianco di tela sottilissima, una berretta rossa, e alcune filze di cristallini, e un vaso di vetro dorato: il vetro è in grandissima istimazione in questi luoghi. Al re di Messana non donò alcun presente, perché già per avanti gli avea dato una vesta, di quella sorte che si portano di Cambaia in Portogallo, con altre cose. A tutti gli altri donò a chi una cosa a chi un'altra, e poi mandò per Antonio Pigafetta e un altro suo a donar al re di Zubut una vesta di seta gialla e pavonazza fatta alla turchesca, una berretta rossa e alcune filze di cristallini: e posero tutte queste cose in un piatto d'argento, e appresso con le lor mani portarono ancora duoi vasi di vetro dorati. Quando furono giunti nella città, trovarono il re nel suo palazzo con molti uomini, il qual sedeva in terra sopra una stuora tessuta di palma molto sottilmente, e avea solamente un drappo di tela di cottone intorno le parti vergognose, e in capo un velo lavorato ad ago, una catena al collo di grandissimo prezio, e duoi anelli d'oro alle orecchie con molte pietre preziose sopra. Detto re era di statura piccolo, ma forte grasso, e avea il resto del corpo dipinto in diverse maniere col fuoco. Mangiava allora in terra, come è detto, sopra una stuora di palma, e avanti gli erano posti in duoi vaselli di porcellana vuova cotte, e appresso avea quattro vasi di porcellana pieni di vino fatto di palme, i quali erano coperti con molte erbe odorifere, con quattro canne, cioè in ciascuno vaso una, con le quali il prefatto re bevea. Fattagli la riverenza debita, l'interprete gli disse ch'el suo signore il capitano lo ringraziava grandemente del suo presente, e che gli mandava questo non all'incontro del suo, ma per il grande amor che gli portava: e subito fattolo levar su, lo vestirono, misongli in capo la berretta, e baciato un de' detti vasi di vetro glielo presentarono; egli faccendo il simile lo accettò, e cosí le altre cose. Poi il re volse che Antonio Pigafetta sedesse al dirimpetto, e mangiasse di detti vuovi e bevesse con le canne. Il principe e gli altri ch'erano stati a concluder la pace col capitano, esortarono il re a volersi far cristiano, il qual voleva tener li nostri a cena seco, ma essi gli dissero che non potevano, e presero licenzia: e il principe li menò a casa sua, dove avea quattro figliuole molto belle e bianche come sono le nostre, le quali fece che ballarono in presenzia delli nostri, essendo tutte nude, e sonavano con certi cembali fatti di metallo; poi volse che li nostri, fatta collazione, ritornassero alle navi.
D'alcuni uccelli che sono inghiottiti vivi dalla balena, i quali le mangiano il cuor, onde ella ne muore, ed essi sono trovati vivi nel corpo della balena. Come il re di Zubut e li re di Messana e le regine furono batizzati con circa 800 anime, e dipoi tutta l'isola di Zubut.
Il mercoledí da mattina uno delli nostri in nave mancò di questa vita, e per questa cagione Antonio Pigafetta con l'interprete andarono a dimandare al re dove potessero sepelirlo. E trovato il re con molti de' suoi uomini, e dettagli la cagione, avendogli prima fatta riverenzia, il re gli rispose che essi e tutti li suoi erano vassalli del loro signore, quanto maggiormente debbe esser la terra. Poi gli fu detto da' nostri che per far questo volevan consecrar un luogo e mettervi una croce; dissero che erano molto contenti, e che appresso la volevano adorare come facevamo noi. Veduta questa loro prontezza, consecrarono un luogo appresso la lor piazza, dove posero la croce: e verso il tardi portarono il morto, dove lo sepelirono. Dapoi portarono in terra dalle navi molte cose per barattare, e misonle in una casa, la qual è fatta per questo effetto e affittasi per il re, e restarono in quella quattro delli nostri per far questi baratti.
Queste genti vivono con giustizia, hanno pesi, misure, e amano sopra ogni altra cosa la pace e la quiete. Hanno bilancie di legno, che hanno un cordone nel mezzo col qual si tengono, e da una banda è il piombo, e sono assai simili alle nostre. Hanno appresso alcune misure grandi senza fondo, le quali mettono secondo che è quello che vogliono misurare. Le case loro sono di legno, e serrate di tavole e di canne, sopra grossi pali alzati da terra: sopra le quali volendo andare, è necessario di montar con alcuni scalini, dove si trovano camere come sono le nostre; di sotto le loro case tengono porci, capre e galline. Intesero li nostri da quelle genti che si truovano in questi paesi alcuni uccelli grandi e simili alle nostre cornacchie, molto belli a vederli. Questi tali uccelli vanno sopra l'acqua del mare, e dalle balene, le quali in quel luogo sono grandissime, aprendo la bocca sono inghiottiti vivi: i quali subito vanno alla volta del cuore della balena e lo rodono, e per questa cagione le balene muoiono, e dapoi buttate in terra dalle onde del mare, queste tal genti, aprendo le interiori, trovano questi uccelli vivi, che vivon del cuor di quelle. Questi tali uccelli hanno nel becco come sariano alcuni denti, e le penne sono alquanto lunghe, e la pelle della carne è nera, ma la carne è molto buona a mangiare: e chiamongli laghan.
Il venerdí li nostri monstrarono una camera piena di diverse mercanzie, delle quali restarono quelle genti molto maravigliate, e cominciarono a barattare: e per metalli, ferri e altre cose grosse queste genti davano alli nostri oro, e per cose minute davano risi, porci, capre e altre vettovaglie. Dettero dieci pesi d'oro per quattordici libbre di ferro: un peso val un ducato e mezzo. Il capitano ordinò che non si pigliasse troppo oro. E perché il re avea promesso di volersi far cristiano la domenica prossima, il capitano fece apparecchiare nella piazza come un tabernacolo, ornato di tapezzarie e di rami di palma, per voler in quello battezzarlo, e gli mandò a dire che non avesse paura se scaricassero l'artegliaria, perché quella era la nostra usanza di fare in una cosí gran festa.
La domenica da mattina, alli quattro di aprile, smontarono in terra cinquanta uomini, con li quali erano duoi tutti armati con la bandiera reale, e furono scaricate tutte le artigliarie, per il romor delle quali tutto il popolo fuggiva di qua e di là. Il capitano col re si abbracciarono insieme, al qual disse che la bandiera regal non si portava altramente che con li cinquanta uomini con li schioppi, e duoi armati d'arme bianche, e che cosí avea ordinato per il grande amor che gli portava. Dapoi ambidui se ne andarono con grande allegrezza ov'era preparato il tabernacolo, dove furono poste due sedie, una coperta di velluto rosso e l'altra di pavonazzo; gli altri principali sedettero sopra cussini, e il resto sopra stuore. Il capitano per via d'interprete disse al re che ringraziava Iddio che l'avea inspirato a farsi cristiano, e che per l'avenire egli era per vincer piú facilmente li suoi inimici di quello che per il passato avea fatto. Il re gli rispose che molto volentieri si faceva cristiano, ancor che alcuni delli suoi uomini principali gli avessero fatto intender che non lo volevano obbedire, dicendo che erano ancor essi cosí buoni uomini come era egli. Per le quai parole subito il capitano fece convocar tutti li principali del re, e disse loro che se non obedissero al re come a suo vero re, che li faria morire e confiscaria tutti li lor beni: tutti risposero che obediriano. Poi, voltatosi il capitano verso il re, disse che, se ritornasse in Spagna, condurria seco un'altra volta tante genti e con tal potere che lo faria il maggior re di queste parti, perciò che egli era stato il primo a volersi far cristiano. Per le quai parole il re alzando le mani verso il cielo lo ringraziò, pregandolo che fosse contento che alcun de' nostri restasse in quel luogo, accioché egli insieme con gli altri fussero meglio instrutti nella fede cristiana. Il capitano gli disse che per contentarlo ne lasciaria duoi, ma che voleva menar seco duoi figliuoli delli principali uomini, acciò che imparassero la lingua nostra: e quando ritornariano, saperian dir agli altri le cose di Spagna. E oltra di questo che, volendosi far cristiano, gli era necessario abbruciar tutti gl'idoli e in luogo di quelli mettervi la croce, e quella ogni giorno adorare con le mani giunte, e ogni mattina farsi il segno della croce in fronte, mostrando lor come dovean fare, e che di continuo, o almeno la mattina e la sera, era necessario che venissero ov'era la croce e inginocchioni l'adorassero. Il re con tutti li suoi risposero che fariano il tutto volontieri. Dapoi il capitano condusse il re sopra il tabernacolo, dove fu battezzato, e volse che fusse chiamato Carlo, come l'imperador suo signore; il principe Ferdinando, come il fratello di sua Maestà; il re di Messana Giovanni; il Moro Cristoforo. A tutti gli altri posero li lor nomi, e avanti che fusse cominciata la messa, furono battezzati 500 uomini. Dapoi detta la messa, il capitano invitò il re a desinare seco con tutti li suoi principali, ma essi non volsero, ma gli accompagnarono fino alle navi, le quali scaricarono tutta l'artigliaria; e abbracciatisi insieme presero commiato.
Dopo desinare il prete e alcuni altri andarono in terra per battezzar la regina con quaranta sue donzelle, dalle quali fu condotta al tabernacolo, e le venne tanta contrizione nel cuore, che di allegrezza piangendo dimandava il battesimo: la qual fu nominata Giovanna, come ha nome la madre dell'imperadore; e sua figliuola, moglie del principe, Caterina; la regina di Messana Isabella; e l'altre ciascuna il suo nome: e battezzarono circa 800 anime, fra uomini e donne e fanciulli. La regina era molto giovane e bella, coperta d'un drappo bianco: avea la bocca rossa, con un cappello in testa, in cima del quale era una corona fatta come è quella del papa; il cappello e la corona erano di foglie di palma. Non va mai fuori in alcun luogo, se non ha in capo questa corona. La qual dimandò che li nostri le dessero una croce, la qual voleva metter nel luogo ov'erano li suoi idoli in memoria di Iesú Cristo, in nome del quale era stata battezzata, e avuta la croce si tornò a casa. Verso il tardi il re e la regina vennero verso la riva, e il capitano fece scaricar tutta l'artigliaria, e dapoi tirarono molti fuochi artificiati con rocchette, della qual cosa ebber grandissimo piacere. E il detto re e il capitano si chiamorono insieme fratelli, il quale, avanti si facesse cristiano, avea nome raia Humabuon; e non passò otto giorni che tutta l'isola fu battezzata. E perché una certa villa di un'altra isola non volea obedire al re, li nostri l'andarono a bruciare, e misero una croce grande in detto luogo, perché queste genti erano gentili, cioè idolatre; ma se fussero stati mori, cioè macomettani, vi averian posto per segno una colonna di pietra, acciò che ella durasse piú lungamente, perché li Mori sono piú duri e difficili a convertirsi che non sono li gentili.
Con che pompa la regina n'andasse alla messa. Il capitano fa giurar il re e i principi della città e il fratello del re obbedienzia all'imperatore. Il fratello del principe, essendo gravemente ammalato, doppo recevuto il batesmo miraculosamente guarisce. Di Zubut, Zula, Cilapulapu e Bulaia isole.
Un giorno che 'l capitano smontò in terra ad udir messa, disse molte cose al re pertinenti alla fede nostra; e in tal giorno la regina venne ad udir la messa, accompagnata con una gran pompa. Andavano avanti a quella tre damigelle con tre uomini, con li loro cappelli in mano; poi veniva ella, vestita di nero e bianco, con un velo grande di seta profilato d'intorno d'oro in capo, che le copriva il cappello per fino alle spalle, e molte altre donne la seguitavano, le quali erano nude e discalze, eccetto che intorno al capo e alle parti vergognose portavano un velo sottile; li capelli erano sparsi. La regina, fatto che ebbe reverenzia all'altare, si mise a sedere sopra un cussino lavorato tutto di seta. Avanti che la messa si cominciasse, il capitano la volse bagnar con acqua muschiata, con molte altre delle sue damigelle, le quali ebber gran piacere dell'odor di quella. Poi detto capitano disse alla regina ch'ella dovesse portar reverenzia alla croce in luogo de' suoi idoli, perché quella era stata fatta per memoria della passion del nostro Signor Iesú Cristo, figliuol di Dio: la qual lo ringraziò molto, e disse che cosí faria.
Un giorno il capitan generale, avanti si dicesse la messa, fece venir il re e li principali della città, e il fratel del re padre del principe, e gli fece giurare obedienzia all'imperador suo signore. E quando l'ebbero giurata, il capitano ficcò la sua spada avanti l'altare, dicendo al re che, quando si fa un tal giuramento, si doverria piú presto morire che volerlo rompere. Dipoi il capitano donò al re una catedra di velluto rosso, e gli dimostrò come sempre se la dovea far portar avanti quando andava in alcuno luogo, e che questo voleva che facesse per amor suo; il re rispose che cosí era per fare. Poi detto re donò al capitan generale duoi gioielli legati con oro per appiccarsi agli orecchi, e duoi per metter alle braccia, e duoi attorno le gambe: ed erano carichi di pietre preziose. Questi sono li piú belli ornamenti che sappino usar li re di questi paesi, li quali vanno sempre discalzi, con una tela che li cuopre dalla cintura fino alle ginocchia.
Alcuni giorni dopo il capitano domandò al re e agli altri perché non avevano abbruciati li lor idoli, come aveano promesso quando si fecero cristiani, e perché sacrificavano loro tante carni. Risposero che non facevan questo perché volessero cosa alcuna per loro, ma per cagione d'un ammalato, accioché gl'idoli lo facessero diventar sano: il qual ammalato era già 4 giorni che aveva perso la favella, ed era fratello del principe, uomo molto valente e intelligente quanto alcun altro che fosse nell'isola. Il capitano disse loro che abbruciassero detti idoli e credessero in Iesú Cristo, che, se questo ammalato si volesse battezzar, subito guariria: il che se non fusse vero, era contento che gli fusse tagliata la testa. Il re disse che cosí faria, perché veramente egli credeva in Iesú Cristo; e subito con la croce si misero a far una processione intorno la piazza meglio che seppero, e se ne vennero alla casa ov'era questo ammalato, il qual era disteso, né poteva parlare né muoversi, e lo battezzarono insieme con la moglie e dieci damigelle. Poi il capitano gli fece domandar come si sentiva; subito costui cominciò a parlare, e disse che per la grazia del nostro Signore Iddio si sentiva meglio: e questo è stato un miracolo manifesto nelli tempi nostri. Quando il capitano l'udí parlare, ringraziò molto Iddio, e allora gli fece portar da mangiare una vivanda fatta di mandorle, la qual era stata fatta per lui; poi gli mandò un materasso, un paio di lenzuoli, una coltra di panno giallo, un cussino, e ogni giorno, fin che si fece gagliardo, gli mandò della detta vivanda, acqua rosata, olio rosato e alcune confezioni fatte di zucchero. E non passò cinque giorni che cominciò a camminare, e subito in presenzia del re e di tutto il popolo fece abbruciare uno idolo, il qual una femmina vecchia avea nascosto nella sua camera, e fece disfar molti altari che avea fatti alli detti idoli sopra la riva del mare, sopra li quali si mangiavan le carni consecrate, e disse che se Iddio gli desse lunga vita, che abbruceria quanti idoli potesse trovare, ancor che fussero nella casa del re. Questi idoli sono di legno voto, e non hanno la parte di dietro, ma solamente le braccia nude, e li piedi che si rivoltano in su con la gamba nuda, il viso grande, con quattro denti in bocca come sono quelli di un porco cignale, e sono tutti dipinti.
Questa isola è chiamata Zubut, nella qual sono molte ville, le quali danno vettovaglie al re per tributo; e appresso di quest'isola n'è un'altra detta Mathan: il porto e la città si chiamano similmente Mathan. Gli uomini principali di detta isola sono chiamati Zula e Cilapulapu; la villa che li nostri abbruciarono era in questa isola, chiamata Bulaia.
Il modo che hanno queste genti con molte cerimonie a benedir il porco, e della natura di essi popoli, e delle cerimonie che usano quando muore qualcuno.
Queste genti usano gran cerimonie quando voglion benedire il porco. Primamente suonano certi lor cembali grandi, dipoi portano tre gran piatti, in duoi delli quali sono certe vivande e torte fatte di risi e di mel cotto, e le inviluppano in alcune foglie, e pesce arrostito; nell'altro è un panno di lino, di quella sorte che vengono di Cambaia, e due bende di palma: e il drappo di Cambaia si distende sopra la terra. Poi vengono due femine molto vecchie, e ciascuna ha una tromba di canna in mano, e poi che sono montate sopra il drappo, fanno riverenzia al sole e si vestono del detto drappo, e una di queste vecchie si mette una benda al fronte con due corna, e tien l'altra benda in mano, e con quella ballando e sonando chiamano il sole; l'altra poi prende una di dette bende e comincia a danzare e sonare con la tromba, e saltando invoca il sole che voglia prender la benda da lei: e tutte due, sonando la tromba per lungo spazio, danzano e ballano intorno a un porco, il qual è in quel luogo legato. Quella che abbiamo detto che ha le corna parla sempre tacitamente al sole, e l'altra le risponde. Dipoi a quella che ha le corna è appresentata una tazza di vino, e ballando dice certe parole, e l'altra le risponde; e faccendo sembianza quattro o cinque volte di voler bevere, spandono il vino sopra il corpo del porco, poi immediate tornano a ballare. A questa che ha le corna è ancora appresentata una lancia, e quattro o cinque volte fa segno di volerla lanciare nel corpo del porco, ma subito ritorna a danzare, e poi immediate lo ferisce passandolo d'una parte all'altra; e poi che ha morto il porco, si mette una facella accesa in bocca e l'ammorza, la qual facella sta sempre accesa in tutte queste cerimonie. L'altra bagna il capo delle trombe nel sangue del porco, e con un dito insanguinato va in prima a segnar il fronte a suo marito, e poi agli altri: ma non vennero a segnar alcun de' nostri. Poi le dette due vecchie si spogliano, e vanno a mangiar le cose sopradette, che sono state portate nelli piatti, e non invitano seco se non femmine, e pelano il porco col fuoco. E la carne del porco non si consagra se non per le vecchie, né mai la mangiariano se non fusse stato morto in questo modo.
Questi popoli vanno nudi, portano solamente un poco di tela sopra le parti vergognose. Grandi e piccoli hanno la pelle del membro bucata da una parte all'altra appresso il capo, e in quel buco hanno messo come un anelletto d'oro grosso come una penna d'oca. Prendono tante mogli quante vogliono, ma ne hanno sempre una principale. Se alcun delli nostri dismonta in terra, o di notte o di giorno, l'invitano a mangiare e a bevere. Le lor vivande sono sempre quasi mezze cotte e molto salate, e bevono spesso con le cannelle delli vasi, e dura il suo mangiare cinque o sei ore.
Quando alcun uomo principale muore, usano di far questa cerimonia. Primamente tutte le donne principali della terra vanno alla casa del morto, il qual è posto in una cassa in mezzo di quella. Queste donne attaccano corde all'intorno, a modo che si fa attorno d'un letto over padiglione, sopra le quali appiccano molti rami d'arbori; nel mezzo di ciascun ramo è posto un drappo fatto di cottone, e torna fatto a guisa di padiglione. Sotto questo seggono le donne principali, tutte coperte di drappi bianchi fatti di cottone, e ciascuna ha una fanciulla che con un ventolo fatto di palma gli fa vento; l'altre seggono con molta tristizia intorno la camera. Poi ve n'è un'altra che a poco a poco va tagliando con un coltello li capelli del morto, e un'altra, la qual è la moglie principal del morto, giace sopra di lui, appressando la sua bocca a quella del morto, e similmente le mani con le mani e li piedi con li suoi piedi: e quando quella gli taglia li capelli, questa piagne, e quando ella cessa di tagliargli, questa canta. Intorno la camera sono molti vasi di porcellana con fuoco, e sopra quello metton mirra, storace e belzuí, che fanno grandissimo odore in tutta la camera: e tengono il morto cinque o sei giorni in casa con questa cerimonia. Poi l'ungono di canfora, e lo serrano nella cassa con chiodi di legno, e pongono in un luogo coperto e serrato di legno.
Ogni fiata che muore alcun delli sopradetti e che fanno queste cerimonie, dissero alli nostri che alla mezzanotte suol venire un uccello molto grande e nero come un corvo, il qual si getta sopra la cassa ove giace il morto e comincia a gridare, e subito li cani urlano, e non cessa di far questo, cioè di gridare, e li cani di urlare, per quattro o cinque ore. Essendo stati dimandati la cagione di tal cosa, mai la seppeno dire.
Come li nostri combatterono con quelli dell'isola di Mathan, e furon superati, e morto il capitano Magaglianes.
Un venerdí, alli XXVI dí d'aprile, Zula, principal dell'isola di Mathan, mandò uno suo figliuolo a presentar due capre al capitano, e a fargli intendere che, per cagion dell'altro principal detto Cilapulapu, non poteva obedir al re di Spagna, e che la notte seguente li volesse mandare una barca piena delli nostri uomini, con l'aiuto delli quali combatteria con il detto. Il capitan generale deliberò d'andar lui in persona con tre barche, e il resto degli uomini lo pregarono che non vi volesse andar lui in persona, ma mandar l'aiuto dimandato: ma egli, come buon capitano, non volse abbandonar li suoi compagni, e alla mezzanotte si partirono sessanta uomini armati con corazzine e celate in compagnia del re fatto cristiano, e principe, e molti altri delli suoi principali, da venti o trenta barche, e a tre ore avanti giorno arivarono a Mathan, ma non ismontarono. Il capitano non volse combattere allora, ma mandò il Moro a parlare a quello Cilapulapu, e dirgli che, volendo obbedir al re di Spagna e riconoscere il re cristiano per suo signore e dargli tributo, esso gli saria amico; se veramente non volesse farlo, che l'aspettasse, che gli saria ben di bisogno aver le lancie lunghe. Costui gli rispose che esso non avea lancie, se non alcune canne abbruciate e legni acuti abbruciati, ma che non venissero a quell'ora ad assaltargli, ma aspettassero che 'l giorno si facesse chiaro, perché potria mettere insieme maggior numero delli suoi: e questo diceva con fizione, accioché li nostri a punto andassero ad assaltarlo in quell'ora, perché egli avea fatto far molte fosse profonde nella sua casa, e venendo li nostri con la oscurità della notte, sariano caduti in quelle. Li nostri volsero aspettar il giorno, il qual fatto chiaro, subito saltarono in acqua infino alla coscia piú di quarantanove, e cosí andarono per acqua per duoi tratti di balestra avanti che potessero dismontar sull'asciutto, perché le barche non poterono arrivare piú avanti, per molte pietre ch'erano sotto l'acqua. Gli altri restarono per guardia delle barche.
Quando arrivarono in terra, queste genti avean fatto tre squadroni di piú di mille e cinquanta uomini per uno, i quali subito che intesero che li nostri venivano, due di queste squadre si misero una da una banda e l'altra dall'altra delli nostri, e la terza venne per fronte. Il nostro capitano, vedendo questo, partí li suoi in due parti, e in questo modo cominciarono a combattere. Li schioppetieri e balestrieri tirarono per spazio quasi di mezza ora molto da lontano in vano, perché non passavan se non le loro targhe e scudi fatti di legno, attaccati alle braccia. Il capitano gridava che non tirassero piú, ma costoro non volsero cessar di tirare. E in questo mezzo gl'inimici fra loro con voce orrende facevan grandissimo rumore, dicendo che se tenessero forti, e quando viddero che li nostri aveano scaricati li schioppi, tanto piú forte gridavano, e non stavan fermi, ma saltavan di qua e di là, coperti con le loro targhe. E tirorno verso li nostri tante freccie e lancie di canne e legni acuti abbruciati, pietre e terra secca verso il capitano, che appena si poteva difendere e guardarsi da loro: e per questa causa, volendo spaventarli maggiormente, mandò alcuni delli nostri a metter fuoco nelle lor case. Le quali come viddero abbruciare, tanto piú s'incrudelirono, e subito ammazzarono duoi delli nostri, e da vinti in trenta fecero saltare nel fuoco, e vennero con tanta furia e con tanto impeto e numero di genti adosso alli nostri, che li fecero voltare: e in questa zuffa fu passata la gamba destra al capitan generale con una saetta venenata, per la qual cosa lui comandò che li nostri si ritirassero pianamente, e gl'inimici li seguitavano. Restarono col capitano da sei in otto delli nostri, della qual cosa accortisi gl'inimici, vedendolo quasi abbandonato, non facevan altro che tirargli alle gambe, le quali gli vedevano esser disarmate: e gli furon tirate tante lanciate, dardi e pietre, che non poteva resistere e l'arteglieria che era nelle barche non poteva aiutar li nostri, perché era troppo lontana. Finalmente li nostri vennero fino alla riva, sempre ritirandosi e combattendo, e poi entrarono nell'acqua fino alle ginocchia; e gli inimici, sempre seguitandoli, ripigliavano le lancie de' nostri e le tornavano a lanciare di nuovo. Poi si voltarono tutti verso dove era il capitano, al qual due volte per forza di lanciate batterono di testa la celata: ma lui, come valente cavalier, si restringeva sempre co' suoi che gli erano restati in compagnia. E sopra di questo combatterono piú d'un'ora, che mai per vergogna si volse ritirare; ma alla fine un Indiano gli tirò d'una lancia di canna nel volto, la qual lo passò da un canto all'altro, che lo fece cader morto. La qual cosa veduta per li suoi, meglio che poterono se n'andarono alla volta dove erano le barche, ma sempre seguitati dagl'inimici, che non facevano altro che tirar dardi e lancie, di sorte che ammazzarono un Indiano ch'era lor guida, e ne feriron molti. Il re cristiano stette sempre fermo e non si mosse mai, perché il capitan generale, avanti che smontasse in terra, gli commise che non si partisse mai dalla barca, ma che stesse a vedere come li nostri combatteriano. Il qual, come intese che il capitan generale era stato morto, lo cominciò a piangere molto duramente, perché lo amava forte; e il simil fecero tutti li nostri, perché certamente costui era cosí eccellente e valoroso capitan come alcun altro che si sia trovato alla sua età. Furono morti da sette in otto de' nostri e molti feriti, e tre Indiani fatti cristiani, venendo in aiuto de' nostri, furono morti d'artiglieria che tirava dalle barche. Delli nimici ne morirono quindici, e infiniti feriti.
Dopo desinare il re cristiano, con consentimento de' nostri, mandò a dimandar a quelli di Mathan se volevano vendere il corpo del capitano insieme con gli altri morti, che li saria donato quanto volessero. Risposero di no, perché non sapevano ricchezza alcuna, che si potesse trovar al mondo, per la qual loro li restituissero, e che li volevano tener per lor memoria, e di tutti quelli che verranno dopo loro.
Come Enrico, schiavo del capitano Magaglianes, ordina col re di Zubut un tradimento, per il qual furono ammazzati a tavola 24 uomini dell'armata: per il che le navi di subito si partirono, lasciato adrieto Giovan Serrano, governator dell'armata. Degli animali e frutti di detta isola.
Cosí tosto come si seppe la morte del capitano, li quattro de' nostri che erano nella città del re cristiano per far baratti delle mercanzie, come abbiamo detto di sopra, fecero portar tutte le lor robbe alle navi, dove congregati li nostri, di commun consenso furono eletti duo governatori, cioè Odoardo Barbosa portoghese, parente del capitan generale, e Giovan Serrano. L'interprete nostro, detto Enrico, era stato un poco ferito, e per questo non smontava cosí ordinatamente in terra per far le cose necessarie come era solito. Per la qual cosa Odoardo Barbosa lo fece chiamare e gli disse che, ancor che 'l capitano suo padron fosse morto, per questo egli, che era schiavo, non era restato libero, ma che, come fosse arrivato in Spagna, lo voleva consegnar per schiavo a donna Beatrice, moglie del capitan generale; e con parole aspre lo minacciò che, se non andava in terra, lo faria frustare. Questo schiavo si levò del letto, e mostrò di non far conto delle parole detteli dal detto Odoardo, e se ne andò in terra; e trovatosi secretamente col re di Zubut cristiano, gli disse che gli Spagnuoli si volevano partire fra pochi giorni da quel luogo, e che se voleva far secondo che esso lo consigliaria, che guadagnaria le navi con tutta la mercanzia che era in quelle: e cosí ordinarono un tradimento.
Il primo giorno di maggio, il re cristiano mandò a dir alli governatori che li gioielli che egli avea promesso di mandare all'imperadore erano in ordine, e che gli pregava volessero venir quella mattina a desinar seco. La qual cosa udita dalli governatori, non pensando ad altro, vi andarono insieme con XXIIII uomini e con uno astrologo nominato Martin di Siviglia. Antonio Pigafetta non vi poté andare, perché aveva la fronte enfiata per una botta ricevuta d'una freccia venenata. Giovan Carnai con un proposto, come furono smontati in terra, volsero ritornar in nave, perché viddero il prete che andava insieme con quell'Indiano che guarí per miracolo, il qual era molto sospeso, e dubitarono di qualche cosa. Ed ecco, stando in questo sospetto, subito udirono grandissimi gridi e pianti, per il che levarono le ancore, e cominciarono a scaricar le artigliarie con gran furia verso la casa dove sentivano detti gridi, e si alontanarono da terra. Dapoi viddero venire Giovan Serrano in camicia ferito, il qual gridava verso li nostri che non dovessero tirar piú, perché lo ammazzariano. Li nostri gli dimandarono se tutti erano stati morti con l'interprete; costui rispose che erano stati morti, ma che all'interprete non avevano fatto male alcuno, e cominciò a pregarli che lo volessino riscattare con alcuna mercanzia. Ma Giovan Carnai, il qual era suo compare, insieme con gli altri non volsero restar per questo suo patron, ma subito levarono via li battelli; e Giovan Serrano piangendo e lamentandosi diceva che, subito che li nostri averanno fatto vela, gl'Indiani lo ammazzeriano, che pregava Iddio che, nel giorno del giudicio, domandasse l'anima sua a Giovan Carnai suo compare: ma queste parole non valsero, perché immediate fecero vela, e non si è mai saputo novella se sia vivo o morto.
In questa isola di Zubut si trovano cani, gatti, sorzi, miglio, panico, orzo, gengevo, fichi, naranzi, limoni, canne dolci di zucchero, ages, mele, coche, carni di diversi animali, vino che si fa di palma, e oro. Ed è una grande isola con un buon porto, il quale ha due entrate, una verso greco levante, l'altra verso ponente garbin; ed è lontana dall'equinoziale verso il nostro polo dieci gradi e undici minuti, e di lunghezza donde partimmo circa gradi 164. E alcuni giorni avanti che 'l capitano fusse morto, si ebbe nuova dov'erano le isole Molucche. Queste genti suonano la viola con corde di rame.
Di alcune isole, cioè Bohol, Paviloghon, Chippit e Lozon; e del re e regina, popoli,
animali e frutti di Chippit. Il modo di cocer i risi.
Lontano da questa isola di Zubut, al capo di un'altra isola nominata Bohol, in mezzo di questo arcipelago, li nostri, fatto consiglio insieme, vedendosi esser rimasti molto pochi, abbruciarono la nave detta Concezione, e degli armeggi di quella fornirono l'altre due navi; e poi si misero a navigar verso garbino, e nell'ora del mezzodí costeggiarono un'isola detta Paviloghon, nella qual viddero uomini neri come sono li Saracini. Dapoi arrivarono ad un'altra isola grande, dove smontati, e andati a trovare il re, il quale, per mostrar di voler pace con li nostri, si trasse sangue dalla man sinistra, e con quello si bagnò il corpo, il volto e la cima della lingua, il che è segno appresso costoro di grande amicizia: il simil atto fecero li nostri.
Poi Antonio Pigafetta solo se n'andò col re per veder l'isola in alcune lor barche, e come entrarono in un fiume, molti pescatori presentarono al re assai pesci, il qual, levatosi d'intorno un drappo, con gli altri suoi principali cantando cominciarono a vogare, e passavan davanti molte abitazioni ch'erano sopra la riva del fiume. E alle due ore di notte arrivarono alla casa sua, la qual è lontana dalla bocca del fiume circa due leghe, e quando furono per entrar in casa, gli vennero all'incontro molte torcie, fatte di canne e di palme, le quali stettero accese fin a l'ora del cenare. Ma avanti il re, con duoi de' suoi principali e due sue femmine molto belle, bevettero un gran vaso il qual era pieno di vino di palma, senza mangiare alcuna cosa; e volendo che Antonio Pigafetta facesse il simile, lui si escusò dicendo aver cenato, e non volse bevere se non una volta, nella qual fece tutte quelle cerimonie che avea imparato dal re di Messana. Dapoi venuta la cena, furono portati assai vasi di porcellana pieni di risi e pesci, e cenando mai costoro bevettero vino, ma con una scodella di porcellana bevevan brodo di pesce molto salato, e il riso mangiavano in luogo di pane. Il modo come lo cossero è questo: hanno una gran padella fatta di terra, nella qual mettono una foglia grande che copre tutto il fondo, e poi mettono dentro l'acqua col riso, e lo lasciano tanto bollire che diventa duro come pane; poi lo cavano fuori e ne fanno alcuni pezzi, e questo è il modo come tutti questi popoli cuocono il riso. Dopo cena il re fece portar una stuora fatta di canne, e un'altra di palme, e un cussin fatto di foglie, accioché Antonio Pigafetta dormisse sopra di quelli, e il re e le due sue femmine andarono a dormir in un altro luogo separato.
Fatto giorno, fin che preparavano il desinare, Antonio Pigafetta dette una volta per l'isola, dove in molte case vidde assai cose fatte d'oro, ma poche vettovaglie. Poi desinarono, e mangiarono solamente risi e pesce. Il qual desinare finito, Antonio disse al re con cenni che vederia volentieri la regina, il qual rispose ch'era contento. E cosí andarono insieme alla sommità d'un'alta montagna, ov'era la stanzia della regina, nell'entrar della quale Antonio le fece riverenzia; ed ella fece il simile verso di lui, e lo fece sedere appresso di sé, la quale lavorava una stuora di palma sottilissimamente, sopra la qual dormono. All'intorno della casa erano poste sopra scanzie molti vasi di porcellana e quattro cimbali di metallo, un grande e gli altri piccoli, con li quali suonano. Vide ancora molte schiave, uomini e femmine che la servivano. Stato un pezzo, prese commiato e se ne ritornò alla casa del re, dove subito gli fu portata una collazione di canne dolzi di zuccaro. Quello ch'è in maggior abondanza in quell'isola, per quanto poté intendere, è l'oro, del quale il re con cenni mostrava ad Antonio Pigafetta che ve n'era gran quantità in alcune valli: ma non avendo ferro per cavarlo, quello restava sotto la terra. Questa parte dell'isola è una cosa medesima con Buthuan, Calaghan, ed è posta sopra Bohol, e confina con Messana.
Come venne l'ora di mezzodí, Antonio volse ritornar alla nave, per il che montarono in barca, venendo a seconda del fiume, vestito di verdissime ripe, e viddero alla man dritta sopra una mota tre uomini appiccati ad un arbore. Antonio domandò al re chi erano, il qual gli rispose che erano malfattori e ladri. Tutti questi popoli vanno nudi, come abbiamo detto degli altri, e questo re si chiama raia Calavar. Il porto è molto buono. Qui si trovan risi, gengevo, porci, capre, galline e altre cose. È di sopra dell'equinoziale verso il nostro polo gradi otto, e di lunghezza dal nostro partire è 170 gradi, ed è lontano da Zubut circa 50 leghe, e si chiama Chippit. Due giornate di là verso maestro si truova un'isola grande detta Lozon.
Dell'isole Caghaian e Pulaoan, e de' costumi de' suo popoli. Dell'isola detta Burnei,
e d'un presente fatto per quel re.
Partendosi di lí, e drizzandosi fra ponente e garbin, è un'isola non molto grande e quasi inabitata. Le genti di quest'isola sono mori, e sono stati banditi da un'isola detta Burnei. Vanno nudi come gli altri; hanno cerbottane. con carcassi attaccati allato, pieni di freccie venenate con una certa erba, le quali tirano con dette cerbottane. Hanno pugnali con il manico d'oro e con pietre preziose, lancie, targhe, corazze fatte di cuoio di buffolo. In quest'isola si truovano poche vettovaglie; ha gli arbori grandissimi. È di sopra l'equinoziale sette gradi e mezzo, e da Chippit quaranta leghe, e si chiama Caghaian.
Lontan da questa isola circa 25 leghe tra ponente e maestro, trovarono una isola grande nella quale era riso, gengevo, porci, capre, galline, fichi lunghi mezzo braccio e grossi come un braccio, molto buoni, altri lunghi un palmo e minori, ma migliori che li sopradetti, coches, batates, canne dolci di zucchero, alcune radici da mangiare che somigliano le rape, li risi cotti sotto il fuoco in alcune canne over legno, i quali diventan piú duri che quelli che si cuocono nella padella di terra sopradetta. Questa terra potevan chiamar terra di promissione, perché, se non l'avessero trovata, averiano patito grandissima fame. Andati a trovar il re, quello fece pace e amicizia con li nostri, ferendosi un poco con un suo coltello nel petto, e col sangue si toccò la lingua e il fronte per segno di piú vera pace, e cosí fecero li nostri. Questa isola è verso il nostro polo gradi 9 e un terzo sopra la linea dell'equinoziale, e 179 gradi e un terzo di lunghezza dal nostro partire, e si chiama Pulaoan.
Li popoli di Pulaoan vanno nudi come fanno gli altri, e quasi tutti lavorano la terra. Questi tirano con cerbottane e alcune freccie di legno, lunghe piú d'un palmo, con alcuni rampini e spine per punta, venenate con certa loro erba. Hanno ancora canne apuntate e con uncini venenate, e nel capo, in luogo di penne, pongono un certo legno molle. Fanno grande stima di anelli, catenelle d'ottone, sonagli, paternostri, fili di rame, per legar li lor ami da pescare. Hanno alcuni galli molto grandi e domestici, li quali non mangiano per cagion di certa lor superstizione; alcune volte li fanno combattere un con l'altro, e ciascun mette il suo, e quello del qual è il gallo vittorioso guadagna il prezio. Fanno vino di riso distillato, maggiore al gusto e miglior di quel che si fa di palma.
Lontan da questa isola dieci leghe verso garbino, viddero una isola, e costeggiandola pareva alcuna volta che montasse. Entrati dentro al porto, sopravenne un tempo molto tempestoso e oscuro, ma vedute le fiamme di quelli 3 santi sopra le gabbie, subito cessò. Dal principio di questa isola fino al porto sono 5 leghe. Il giorno seguente, che fu alli 9 di luglio, il re di questa isola, detta Burnei, mandò loro un legno chiamato da questi della isola prao, il qual è fatto come una fusta molto bella, lavorata nella prua e poppe con oro, e avea sopra la prua una bandiera bianca e azurra, e in cima di quella un pennacchio di penne di pavone; alcuni che erano sopra sonavano flauti e tamburi. Con questo prao vennero duoi altri legni chiamati almadie, che son fatte come due barche da pescare, e otto uomini principali entrarono nelle navi delli nostri, i quali fecero sedere sopra un tapeto nella poppe, dove presentarono alli nostri un vaso fatto di legno, tutto dipinto, pien di bettre e areca, che è un frutto che tengono in bocca a masticar, con fiori di gielsomini e d'aranci: e il vaso era coperto d'un drappo di seta gialla. Gli donarono anche due gabbie piene di galline, un paio di capre, 3 vasi pieni di vin fatto di riso a lambicco, e altri fasci di canne dolzi di zucchero, e altretanto donarono all'altra nave; e avendo abbracciati li nostri, presero licenza. Il vin di riso è chiaro come acqua, ma tanto grande nel gusto che molti, bevendone, si imbriacarono: e lo chiamano in la loro lingua arach.
D'un altro presente fatto alli nostri per il detto re, e quello che i nostri presentorono al re,
alla regina e suoi principali, e con qual cerimonie.
Della magnifica e pomposa residenzia del re, e del suo vivere. Descrizione della città di Burnei.
Sei giorni dopo il re mandò un'altra volta tre prai con gran pompa, sonando flauti, tamburi e cembali d'ottone; e circundando la nave nostra facevan riverenza, con alcune berrette di tela che cuoprono solamente la metà della testa. Li nostri gli salutarono scaricando bombarde senza pietre. Dapoi appresentarono alli nostri diverse vivande fatte di risi solamente, alcune poste in foglie fatte in pezzi alquanto lunghe, altre grandi come è fatto un pan di zucchero, altre come sono tortelli; e appresso dettero uova e mele, e dissero come il re era contento che prendessero acqua e legne, e che contrattassero con li suoi a loro buon piacere. Udendo questo, otto de' nostri montarono sopra un prao e portarono un presente al re, che fu una vesta di velluto verde alla turchesca, una catedra coperta di velluto pavonazzo, cinque braccia di panno rosso, una berretta rossa, un vaso di vetro col suo coperchio, cinque quinterni di carta, un calamaro dorato; alla regina tre braccia di panno giallo, un paio di scarpe inargentate, un vasetto pieno di aghi; al governatore tre braccia di panno rosso, una berretta e una tazza d'argento; al principal che era venuto col prao donarono una vesta di panno rosso e verde alla turchesca, e un quinterno di carta; agli altri sette un pezzo di tela, e una berretta, e un quinterno di carta: e cosí partirono per andar a trovar il re.
Come furono approssimati alla città, stettero circa due ore nel prao. In questo mezzo vennero duoi elefanti coperti di seta e 12 uomini, ciascun con un vaso di porcellana in mano, il qual era coperto di seta, per portar li presenti. Dapoi montarono li nostri sopra gli elefanti, e li 12 gli andavano avanti, con li presenti posti nelli vasi: e cosí andarono fin alla casa del governatore, nella qual fu dato lor una cena di molte vivande. La notte dormirono sopra mattarassi fatti di cotone.
Il giorno seguente stettero in casa fino ad ora di mezzodí, poi, venuti gli elefanti, montarono sopra quelli e andarono al palazzo del re, andandoli sempre avanti li 12 uomini con li presenti, come avean fatto il giorno precedente fino alla casa del governatore. Tutta la strada ove passavano era ripiena di uomini armati con spade, lancie e targhe, perché cosí avea comandato il re. Giunti al palazzo, entrarono nella corte di quello sopra gli elefanti, dove smontati andarono per alcuni gradi, accompagnati dal governatore e altri principali, in una sala grande, piena d'uomini che parevan di conto, ove sedettero sopra un tapeto, con li presenti posti nelli vasi appresso di loro. In capo di questa sala ne è un'altra, ma piú alta e un poco minore, ornata di panni di seta, ove si apersero due finestre le quali erano serrate con alcune cortine di panno di seta, dalle quali viene il lume nella detta sala, nella qual si vedevan trecento uomini, che stavan in piedi con uno stocco in mano appoggiato sopra la coscia: e questi stanno in quel luogo per guardia del re. In capo della detta sala minore è una gran fenestra, dalla quale si levò una cortina fatta di broccato d'oro, e per quella si vidde il re, che sedeva a tavola con un suo figliuolo e masticava bettre, e dietro di lui non erano altro che donne. Allora il principal disse alli nostri che non potevano parlar al re, ma che, se volevan alcuna cosa, la dicessero a lui, perché esso la diria poi ad un de' piú principali, e quello poi ad un fratello del governatore, il qual è in quella sala minore, e poi il detto la diria per una cerbottana, la qual metteria per la sfenditura del muro, ad un che è dentro dove è il re. Poi il detto principale insegnò alli nostri che dovessero far tre riverenze al re, con le mani alzate e congiunte insieme sopra la testa, alzando similmente li piedi, ora uno ora l'altro, e poi baciarsi le mani. Fatte che ebbero quelle riverenze regali, li nostri dissero che erano uomini del re di Spagna, che volevan pace con lui, e che non domandavano altra cosa se non di poter contrattar con loro. Il re fece lor rispondere che poi che 'l re di Spagna voleva esser suo amico, che egli era contentissimo di esser similmente suo, e che si fornissero di acqua e legne e che facesser le loro mercanzie. Poi li nostri gli dettero li presenti, faccendo a ciascuna cosa un poco di riverenza con la testa, e il re fece dar a ciascuno delli nostri un pezzo di broccatello fatto d'oro e di seta, e misongli questi panni sopra la spalla sinistra e poi gli levaron via.
Fu portata poi una collazion di garofani e cannella con zucchero, la qual finita di mangiare, le cortine subito furono tirate e le finestre serrate. Tutti gli uomini che erano in quelle sale aveano un drappo di seta, chi d'un colore e chi d'un altro, intorno alle parti vergognose, e alcuni aveano pugnali col manico d'oro ornato di perle e pietre preziose, con molti anelli nelle mani. Li nostri, discesi dal palazzo e montati di nuovo sopra gli elefanti, ritornarono alla casa del governatore: e otto uomini gli andavano avanti, con li presenti ch'el re aveva loro fatto. E giunti a casa, dettero a ciascun de' nostri il lor presente, mettendoglielo sopra la spalla sinistra, e li nostri donarono alli prefati per lor fatica un paio di coltelli per uno. Dapoi vennero nove uomini alla casa del governatore, carichi con un piatto ciascun di loro da parte del re, e in ciascun piatto erano 10 o 12 scodelle di porcellana piene di carne di vitello, capponi, galline, pavoni e altri uccelli, e di pesce; e venuta l'ora della cena, sedendo sopra una bellissima stuora di palma, mangiarono da 30 in 32 sorti di vivande fatte di diverse carni, e pesce acconcio con aceto, e altre cose. Bevettero ad ogni una di dette vivande, con un vasetto fatto di porcellana che non era maggiore della grandezza d'un ovo, vin distillato a lambicco. Vi furono portate ancora vivande concie con tanto zucchero, che le mangiavano con cucchiari d'oro fatti come sono li nostri. Nel luogo ove dormirono due notti, erano due torcie grandi di cera sempre accese, sopra duo candellieri d'argento un poco rilevati, e due lampade grandi piene di olio similmente accese, e uomini che le governavano. Li nostri vennero sopra gli elefanti fino alla riva del mare, ove erano duo prai, li quali li condussero fino alle navi.
Questa città è tutta fondata in acqua salsa, salvo la casa del re e di alcuni principali, e sonvi da 20 in 25 mila case: le case sono tutte di legno, edificate sopra pali grossi rilevati da terra. Quando il mar cresce, le femmine vanno con alcune barche piccole vendendo per la città le cose necessarie al vivere, fino alla casa del re, la qual è fatta di muri di alcuni quadroni grossi, con li suoi barbacani a modo di una fortezza. Questo re è moro e si chiama raia Siripada: è molto grasso, e di età di anni quaranta, e non tiene alcuno al suo governo in casa se non donne e figliuole de' suoi principali, e non si parte mai del palazzo se non quando va a caccia over alla guerra, né alcun mai gli può parlare se non con una cerbottana, per maggior riputazione. Tiene a' suoi servizii dieci scrivani, i quali scrivono tutte le sue cose sopra alcune scorze d'arbori, le quali sono molto sottili: e li detti si chiamano chiritoles.
Della città di Lao. Descrizione delle barche dette giunchi, e della porcellana. Della moneta di quei Mori, detta picis, e certi pesi. Come quel re ha due perle grosse come ovi di galline.
Lunedí da mattina, alli 29 di luglio, viddero venir li nostri contra di loro piú di cento prai, divisi in tre squadre, con altretante barche piccole, che chiamano tunguli. Quando viddero questo, pensarono di qualche gran tradimento e alzarono le vele piú presto che fu possibile: e tanta fu la fretta che lasciarono un'ancora. E molto piú dubitarono di esser messi in mezzo d'alcune barche che chiaman giunchi, le quali il giorno avanti erano venute lí, per la qual cosa subito si drizzarono contra li detti giunchi, e ne presero quattro, dove furon morte assai persone, e quattro se ne fuggirono in terra. In un di questi giunchi che presero era il figliuolo del re di Lozon, il qual era capitan generale di questo re di Burnei, ed eran venuti con questi giunchi da una certa città grande detta Lao, la qual è al capo di questa isola di Burnei, verso la Giava maggiore, e l'avevano ruinata e messa a sacco. Giovan Carnai, nostro pilotto, lasciò andar il detto capitano col suo giunco, contra il voler de' nostri, per certa quantità d'oro, come dopo si seppe. Se non avesse lasciato il detto capitano, il re averia dato alli nostri ogni cosa che avessero dimandato, per esser capitano molto stimato in tutte quelle parti, e massimamente dalli Gentili, che sono nimicissimi a questo re moro. Delli quali Gentili vi si truova una città grande, e molto maggiore di quella de' Mori, parimente fondata in acqua salsa. E per queste nimicizie questi duo popoli combattono alcune volte insieme, e li re sono obligati di ritrovarsi in ogni zuffa. Il re de' Gentili è cosí potente com'è il re moro, ma non tanto superbo, ed è di natura piú umano, e facilmente si convertiria alla fede di Cristo.
Quando il re moro intese come erano stati trattati li suoi giunchi, ci mandò a dire per un de' nostri che era in terra che li prao non venivano per farne dispiacere, ma andavano contra li Gentili: e per farne chiari di questo, ne fece mostrar le teste d'alcuni morti, e dissero che erano de' Gentili. Li nostri mandarono a dire al re che gli piacesse di lasciar venir via duoi uomini loro, che erano restati nella città per cagione di mercanzie, e tra gli altri il figliuol di Giovan Carnai; ma egli non volse, e per questa cagione Giovan Carnai lasciò andar il capitan preso, che abbiamo detto di sopra, per riaver suo figliuolo.
Queste barche dette giunchi sono fatte in questo modo: duo palmi sopra acqua sono fatte d'asse d'un legno simile al larice, poi d'intorno serrate similmente di legno; di sopra vi mettono assai canne all'intorno, e uno di questi giunchi porta tante cose quante una grossa barca; da una parte e dall'altra hanno canne grossissime per contrapeso. L'arboro della barca è di una canna grossa, e la vela fatta di scorzi d'alberi messi insieme, di forma tonda.
La porcellana è una sorte di terra bianchissima, la quale sta cinquanta anni sotto terra avanti ch'ella si possa metter in opera, altramente non saria sí fine. Il padre la sotterra per il figliuolo. Se si mette veneno in alcun vaso di porcellana che sia fino, subito si rompe. La moneta che fanno li Mori in queste parti è di metallo bucato nel mezzo per infilzarlo, e ha solamente da una parte quattro segni, che son quattro lettere del gran re della China, il qual è in terra ferma. E la moneta si chiama picis, e per un catil, che vuol dir due libbre, d'argento vivo, danno sei scodelle di porcellana, e per un catil di metallo danno un vaso di porcellana, e per tre coltelli un vaso di porcellana, e per un quinterno di carta cento picis, e per cento e sessanta catil di metallo danno un bahar di cera (un bahar è dugento e tre catil), e per ottanta catil di metallo un bahar di sale, e per quaranta catil di metallo un bahar di anime, che è una specie di gomma per acconciar li navili, perché in queste parti non si truova pece. In queste parti si apprezza metallo, argento vivo, vetro, cinaprio, drappi di lana e di tela, e qualunche altra mercanzia, ma sopra tutto il ferro.
Questi Mori vanno nudi come vanno gli altri, e da quelli intesero li nostri come in alcune sue medicine, le quali poi beono, adoperano l'argento vivo: e gli ammalati lo prendono per purgarsi, e li sani per mantenersi in sanità. Questo re di Burnei ha due perle grosse come duo ovi di gallina, e cosí ritonde che, poste sopra una tavola piana, non possono star ferme.
Di alcuni costumi di questi Mori. Della canfora, e molti frutti e animali che nascono in detta isola, e come nasce detta canfora. Dell'isola detta Bibalon, e un'altra detta Cimbubon. Di un arbore le cui foglie, quando cascano, camminano come se fussero vive.
Questi Mori adorano Macometto e osservano la sua legge. Non mangiano carne di porco. Quando voglion farsi netti e lavarsi le parti di dietro, adoperano la man sinistra, benché alcuna volta adoperino ancora la destra: ma dipoi con quella non si toccheriano né li denti né la bocca per cosa alcuna; e volendo orinare si mettono in forma di sedere. Non ammazzeriano una gallina né una capra, se prima non parlano al sole: tagliano alla gallina la punta dell'ala e gliela mettono sotto i piedi, poi la dividono per mezzo. Non mangiano mai alcuna carne d'animale se non è morto allora. Sono circuncisi come giudei.
In questa isola nasce canfora, ch'è una specie di gomma, che distilla da un arbore il qual si chiama capar. Vi nasce ancora cannella, gengevo, mirabolani, naranci, limoni, zucchero, melloni, cocomeri, zucche, ravani, cipolle, porci, capre, galline, cervi, elefanti, cavalli e altre cose. Questa isola di Burnei è tanto grande che, a volerla circondar con un prao, si staria tre mesi. È sopra la linea dell'equinoziale verso il nostro polo gradi cinque e un quarto, e di lunghezza dal nostro partire gradi 176 e duoi terzi.
Partendosi da questa isola, ritornarono indietro per voler acconciare una nave che faceva acqua; e l'altra nave, per cagione del pilotto, stette in pericolo di rompersi sopra alcune secche d'una isola detta Bibalon: ma con lo aiuto d'Iddio fu riscattata. Seguendo poi il loro cammino, viddero un prao, il qual presero: ed era carico di coche, che portavano a Burnei. Gli uomini se ne fuggirono notando in una isola vicina.
Ad un capo della isola di Burnei, oltra della sopradetta, si truova una isola detta Ciumbubon, il qual è sopra l'equinoziale gradi otto e minuti sette, dove si trovò un porto atto per acconciar la nave: e per questa cagione entrarono dentro, e non avendo le cose necessarie per acconciarla, fu necessario dimorar in quel luogo quaranta giorni. Ed ebbero grandissime fatiche ciascun di loro, ma la maggiore fu riputata l'andar nelli boschi a far legne, non avendo alcuno in piede scarpe, che per la lunghezza del tempo l'avevan tutte consumate. In questi boschi trovarono porci cinghiali, delli quali ne ammazzarono uno e lo portarono alla nave.
In questo tempo che stettero qui, passarono con un battello in un'altra isola, dove erano animali come cocodrilli grandi, e avevan la testa lunga due palmi e li denti grandi, e vivono cosí in terra come in mare. Presero anche ostriche di diverse sorti, ma tra le altre ne trovarono due: la carne che era in una pesò 25 libbre, e l'altra 44. Fu preso un pesce che aveva la testa come un porco e due corna; tutto il resto del corpo era di un osso solo, con un dorso di sopra fatto come una sella, la qual era picciola. Ancora in quel luogo trovarono un arbore che aveva le foglie le quali, come cadevano in terra, camminavano come se fussero state vive: queste foglie sono molti simili a quelle del moro; hanno da una parte e dall'altra come duoi piedi, corti e appuntati, e schizzandoli non vi si vede sangue.
Come si tocca una di dette foglie, subito si muove e fugge. Antonio Pigafetta ne tenne una in una scodella per otto giorni, e quando la toccava andava atorno atorno la scodella: e pensava ch'ella non vivesse d'altro che di aere.
Di alcune isole, cioè Caghaian, Zolo, Taghima, Monoripa. Di duoi villaggi, Cavit e Subanin. Dell'arbore della cannella, e della città detta Lentava.
Quando furono partiti da questo porto, verso il capo dell'isola di Pulaoan incontrarono un giunco, il qual veniva dall'isola di Burnei, ed eravi dentro il governatore di Pulaoan: gli fecero segno che calasse la vela, e non lo volendo fare, lo presero per forza. Il governatore promise loro che, se volevano liberarlo, donarebbe in termine di sette giorni quattrocento misure di risi, venti porci e venti capre e 150 galline: la qual cosa fece, e li presentò coche, fichi, canne di zucchero, vasi pieni di vin di palma e altre cose. E quando li nostri viddero questa liberalità, gli restituirono alcuni pugnali e archi di legno; appresso gli donarono un fazzuol da mettersi in capo, una vesta di panno giallo e cinque braccia di tela. Ad un suo figliuolo donarono una cappa di panno azurro, e al fratello del governatore una vesta di panno verde e altre cose: e si partirono amici.
E tornarono al diritto dell'isola di Caghaian, che è il porto di Chippit, e lí presero il cammino alla quarta di levante verso sirocco, per trovar l'isole Molucche. E passarono non troppo lontano d'alcune montagne, appresso le quali trovarono il mar pieno d'erbe grandissime, le quali nascevano nel fondo e venivan fino alla superficie dell'acqua. Dapoi scoprirono due isole verso levante, dette Zolo e Taghima, appresso le quali intesero che si trovavano perle. Queste due isole sono al presente del re di Burnei, li quali acquistò in questo modo, come gli fu racconto. Detto re prese per moglie la figliuola del re Zolo, la quale un giorno gli disse come suo padre aveva due perle grossissime. Il che udito dal re di Burnei, deliberò di volerle avere, e una notte messe insieme cento di quelli loro navili che chiamano prao, venne a Zolo e prese il re, con duoi suoi figliuoli, e gli condusse prigioni in Burnei: dove, volendosi liberare con li figliuoli, fu forza che gli donasse le perle, e appresso ancora la signoria dell'isole sopradette.
Poi passarono verso levante, alla quarta di greco, fra alcuni villaggi detti Cavit e Subanin, e una isola abitata detta Monoripa, lontana dalle montagne leghe dieci. Le genti di quelle hanno le lor case in barche, e non abitano altramente. In queste ville di Cavit e Subanin nasce la miglior cannella che si possa trovare, e sono nell'isola di Bathuan e Calaghan. Volsero dimorar in quel luogo duoi giorni per caricar le navi, ma, avendo buon vento per passar una punta e certe isole, lasciarono di caricare e fecero vela. Ebbero ventisette libbre di cannella per cambio di duoi coltelli. L'arbore della cannella è alto, e ha da tre in quattro rami, lunghi un cubito e grossi come un dito, e ha la foglia come quella del lauro: e la scorza di detto arbore è la cannella, e si coglie due volte l'anno. E chiamasi la cannella in lingua loro caumana, perché cau vuol dir legno, e mana dolce.
Pigliando il lor cammino verso greco, andarono ad una gran città detta Mangdando, la qual è posta sopra l'isola di Buthuan e Calaghan, per aver qualche nuova delle Molucche. E presero per forza un prao, e ammazzarono sette uomini, e undici restarono prigioni delli principali di Mangdando, tra li quali era un fratello del re, dal quale intesero verso dove erano le Molucche: e per questo lasciarono la via verso greco e si voltarono verso quella di sirocco. E appresso un capo di questa isola di Buthuan e Calaghan, gli fu referito per cosa vera che alla ripa d'un fiume abitavano uomini pelosi, e alti di statura, e valenti nel combattere con archi e spade di legno larghe un palmo: e come ammazzavano gli uomini, gli mangiavano subito il cuor crudo, con succo di naranci e limoni. Questi uomini pelosi si chiamano Benaian. Quando presero la via verso sirocco, erano sei gradi e sette minuti sopra l'equinoziale verso l'artico, e trenta leghe lontan da Cavit.
Di molte altre isole, cioè Ciboco, Birambota, Sarangani, Candigar, Ceana, Canido, Cabiao, Camuca, Cabalu, Chiai, Lipan, Nuza e Sanghir, qual isola di Sanghir ha quattro re, e dell'isola detta Lentava.
Andando verso sirocco, trovarono quattro isole: Ciboco, Birambota, Sarangani, Candingar. Alli 28 di ottobre, costeggiando l'isola di Birambota, gli assaltò una fortuna oscurissima, con vento e mare grandissimo: e fatte orazioni, gli apparvero le fiamme sopra le gabbie delle navi, e subito cessò la oscurità, per il che fecero voto di far libera una schiava per onor di santa Elena, san Nicolò e santa Chiara. Passata la fortuna, proseguirono il lor cammino ed entrarono in un porto posto nel mezzo dell'isola Sarangani, ove intesero trovarsi oro e perle. Gli abitatori sono gentili, e vanno nudi come fanno gli altri. Questo porto è sopra l'equinoziale cinque gradi e nove minuti, e lontano da Cavit cinquanta leghe.
In questo porto stettero un giorno, e presero per forza duo pilotti, che insegnassero loro il cammino verso le Molucche, li quali poi furono contenti di menarli alle dette isole. E partiti di lí a l'ora di mezzodí, passarono fra otto isole, parte delle quali erano abitate e parte deserte, le quali chiamano Ceana, Canido, Cabiaio, Camuca, Cabalu, Chiai, Lipan, Nuza. E proseguirno tanto il cammino, che arrivarono ad una isola detta Sanghir, la qual è posta nella fin di queste isole, molto bella a vedere. E perciò che avevano vento contrario, non poteron passare oltra una punta della detta isola, e però andarono volteggiando di qua e di là d'intorno a quella. E un di quelli pilotti che avevano preso nel porto di Sarangani, e col fratello del re di Mangdando con un suo figliuolo, si fuggirono la notte notando a questa isola; ed essendo il figliuol piccolo, e non si potendo tener fermo sopra le spalle del padre, affogò. Li nostri, perché non poteron passare la detta punta, passarono di sotto dell'isola, dove trovarono molt'altre isole. Questa isola di Sanghir per esser grande ha quattro re, e li popoli son gentili; ed è posta tre gradi e mezzo sopra l'equinoziale verso il polo artico, e venticinque leghe lontana da Sarangani.
Faccendo questo cammino, passarono appresso cinque isole, delle quali una si chiama Lentava, lontana dieci leghe da Sanghir, e ha un monte molto alto, ma non largo; ha un re. Tutte queste sono abitate da Gentili. E alli sei di novembre discoprirono quattro isole alte verso levante, lontane dalle sopradette isole quattordici leghe. Il pilotto che era restato disse che queste quattro isole erano le Molucche: la qual cosa intesa dalli nostri, ringraziarono Iddio, e per l'allegrezza che avevano scaricarono tutta l'arteglieria. E non è da maravigliarsi se erano tanto allegri, perché erano passati ventisette mesi manco duoi giorni che l'andavano cercando. In tutte queste isole, fino alle Molucche, il minor fondo che trovassero era di cento e due braccia, che è tutto il contrario di quello che dicevano li Portoghesi, che non vi si poteva navigare per la gran bassezza e secche, e per la oscurità che le nebbie faceano nel cielo: le quai cose erano tutte finte da loro acciò che gli altri non vi andassero.
Come giunsero a Tidore, una dell'isole Molucche, e della grata accoglienza che fece il re di Tidore alla armata. Del presente che fecero i nostri al re, al suo figliuolo e suoi principali.
Alli otto di novembre 1521, tre ore avanti che 'l sol levasse, entrarono nel porto di una isola chiamata Tidore, e al levar del sole, appressandosi a terra venti braccia, discaricarono tutte le bombarde. Fatto il giorno, il re venne in un prao alla nave e dette una volta all'intorno; subito li nostri in battelli l'andarono a rincontrare per onorarlo. Il re fece montar li nostri nel suo prao e sedere appresso di sé, ed egli sedea sotto una cortina di seta, che gli stava di sopra e d'intorno. Davanti di lui stava in piedi un de' suoi figliuoli con una bacchetta regale in mano, e duoi altri uomini di conto tenevano duoi vasi dorati per dargli l'acqua alle mani, e duoi altri erano con due cassette dorate piene di bettre. Il re, voltato alli nostri, disse che fussero li ben venuti, e che già molto tempo aveva veduto in sogno come alcune navi di lontan paese venivano alle Molucche, e che per meglio certificarsi di questo aveva riguardata la luna, nella quale aveva veduto come le dette navi venivano, e che noi eravamo quelli. Dette queste parole, li nostri invitarono il re a venir a vedere le nostre navi, il qual molto volentieri vi venne, dove da tutti gli furono baciate le mani. Poi fu condotto sopra la poppa, dove sopra una sedia coperta di velluto rosso fu fatto sedere, e messongli in dosso una vesta di velluto giallo; e per fargli maggior onore, li nostri sedettero da basso appresso di lui.
Poi il re cominciò a dire che egli e tutto il suo popolo volevano esser veri amici e fedelissimi al re di Spagna, e che egli accettava li nostri come se fussero suoi figliuoli, e che dovessero smontar in terra come fariano in loro case proprie, e che per lo avenire quella isola non si chiameria piú Tidore ma Castiglia, per il grande amore che portava al re loro, il qual reputava suo signore. Li nostri, udite queste parole, ebbero grandissima allegrezza, e gli donarono un presente, che fu la detta vesta e la sedia di sopra, e una pezza di tela sottilissima, quattro braccia di panno di scarlatto, un saion di broccatello, un pezzo di damasco giallo, alcuni drappi venuti d'India, lavorati di seta e d'oro, una pezza di tela bianchissima di quelle che vengon di Cambaia, sei filze di paternostri cristallini, dodici cortelli, tre specchi grandi, sei paia di forbici, sei pettini, alcuni bicchieri dorati e altre cose; al figliuol del re un panno d'India lavorato d'oro e di seta, uno specchio grande, una berretta, duoi coltelli; a nove altri uomini principali un panno di seta, una berretta e duoi coltelli per ciascuno; e a molti altri una berretta e un coltello. E li nostri andavano tanto donando, che 'l re comandò lor che dovessero cessar di donar piú. E voltandosi alli nostri disse, per ricompensa di tanta umanità e gentilezza, non sapeva che maggior cosa potesse mandar a donar al re di Spagna, se non gli mandava la sua propria persona. Poi pregò li nostri che con le navi venissero piú vicini alla città, e ordinò che se alcun di notte se approssimasse alle lor navi, che lo dovessero ammazzare con gli schioppi.
Questo re è moro e ha piú di cinquantacinque anni, è di una bella statura e di presenza regale, e dicono ch'egli è grandissimo astrologo. Quando venne a trovar li nostri, aveva per suo vestimento una camicia di tela sottilissima, e all'intorno di quella e delle maniche erano lavori molto ricchi, tutti fatti di oro e agucchia, e dalla cintura fino in terra era coperto con un drappo bianco; era scalzo, aveva sopra il capo un velo di seta, a modo d'una mitria, tutto lavorato di fiori. Ha nome raia sultan Mauzor.
L'isole ove nascono i garofani: Tarenate, Tidore, Mutir, Macchian e Bacchian;
e la causa che mosse Hernando Magaglianes a cercar l'isole delle Molucche;
e del presente fatto per li nostri al figliuolo del re di Tarenate.
Alli 10 di novembre questo re domandò alli nostri quanto tempo era che si erano partiti di Spagna, e che volea aver cognizion delli nostri costumi; pregò che gli mostrassero la moneta che usavano, e le misure e pesi, e se avevano alcun ritratto del re di Spagna, e gli dessero ancora la bandiera regale, perché per lo advenire quella isola e un'altra detta Tarenate, delle quali voleva far signore un suo nepote detto Colavoghapia, amendue sariano sotto il reame di Castiglia, e che sempre gli sarà fedele e per onor di sua Maestà combatteria fino alla morte, e quando non potesse resistere, se ne anderia in Spagna con tutti li suoi in una di quelle sue barche. Queste parole udite dalli nostri furono di grandissimo piacere, per la qual cosa fecero di nuovo una bandiera regale con l'arme di Castiglia. Poi il re pregò li nostri che gli lasciassero qualcuno de' loro, acciò che avesse piú spesso in memoria il re di Spagna, promettendogli che sariano ben trattati, né gli mancaria cosa alcuna, né gli saria bisogno di far mercanzia. Questo re di Tidore volse che li nostri andassero ad una isola prossima, detta Bacchian, per fornir di caricar le navi piú presto di garofani, perciò che quelli che avea detto re non erano tanti che fussero bastanti per due navi; ma quelli della detta isola non volsero contrattare in quel giorno, perché era il giorno della loro festa, la quale sempre viene in venerdí.
L'isole ove nascono li garofani sono cinque: Tarenate, Tidore, Mutir, Macchian, Bacchian. Tarenate è la principale, e quando un re vecchio vivea, era quasi signor di tutte. Tidore, dove allora erano li nostri, ha il suo re. Mutir e Macchian non hanno re, ma si governano a popolo. Quando il re di Tidore e quelli di Tarenate hanno guerra insieme, queste due sopradette gli servono di gente di guerra. L'ultima, che è Bacchian, ha re. Tutta questa provincia over regione, ove nascono garofani, si chiama le Molucche.
In questo luogo intesero come un Francesco Serrano portoghese, essendo passato a queste isole per la via di levante, per la qual navigano li Portoghesi, per esser valente e di buon intelletto, s'era fatto capitano del re di Tarenate, e con le forze di quello avea constretto il re di Tidore a dar una sua figliuola per moglie al detto re di Tarenate, e appresso tutti li figliuoli de' principali di Tidore per ostaggi. Dipoi fatta la pace tra questi duoi re per mezzo del detto matrimonio, par che un giorno Francesco Serrano andasse in Tidore per comperar garofani, e il re lo fece avvelenare con foglie di bettre, le quali usano a masticare; e volendolo far sepelire a modo della lor legge, li servitori, ch'erano cristiani, non lo permisero, ma volsero essi far questo ufficio. E non era se non sette mesi che questa cosa era accaduta, quando li nostri giunsero in queste parti. Di questo Francesco, il qual avea preso moglie nell'isola della Giava maggiore, erano restati un figliuolo e una figliuola, e 200 bahar di garofani. E perché era grande amico e parente del capitano general Hernando Magaglianes, fu causa che 'l detto capitano si movesse a pigliar questa impresa di venire a cercar queste isole, perché, essendo detto Francesco capitano di questo re delle Molucche, avea spesse fiate scritto al detto che si trovava in quelle parti, invitandolo a dovervi andare. Ed essendo il prefato Hernando Magaglianes molto mal satisfatto dal re di Portogallo don Emanuel, percioché pretendeva, per le fatiche fatte nelle navigazioni nelle parti d'India in levante, dover aver maggior premii da sua Maestà di quelli che gli erano dati, vedendo non esser remunerato, come uomo che avea animo generoso, si partí di Portogallo e venne in Castiglia all'imperadore, dove, conosciuto d'ottimo ed elevato intelletto, e che sapeva render buon conto d'ogni luogo dove era stato, ottenne da sua Maestà ciò che egli seppe domandare, che fu che gli armasse navilii per venir per la via di ponente a trovar queste isole Molucche. Non passarono molti giorni dipoi la morte di Francesco Serrano che 'l re di Tarenate, chiamato raia Abuleis, il qual avea maritato una sua figliuola al re di Bacchian, avendo avuto guerra con quello, e saccheggiatolo del tutto, fu avvelenato da sua figliuola, moglie del detto re di Bacchian: costei era andata a trovar il padre sotto pretesto di voler far pace. Di questo re restarono nove figliuole principali.
Alli 11 di novembre un delli figliuoli del re di Tarenate, nominato Checcile Derois, accompagnato da due di quelle loro barche dette prao, venne a trovar le nostre navi, sonando cembali, ed era vestito di velluto rosso: ma non volse allora entrar nella nave. Costui avea in suo poter la moglie e figliuoli di Francesco Serrano. Quando li nostri il viddero e intesero chi era, mandarono a dir al re di Tidore se essi lo doveano ricevere o no, percioché erano nel suo porto; il re rispose che facessero come meglio pareva loro. In questo mezzo il figliuol del re di Tarenate, avendo qualche sospetto, si discostò alquanto dalla nave, per la qual cosa li nostri l'andarono a trovare con li battelli, e gli presentarono un drappo lavorato d'oro e di seta, fatto in India, con alcuni coltelli, specchi, forbici: esso prese queste cose con un poco di disdegno. Costui avea in sua compagnia un giudeo fatto cristiano, nominato Emanuel, il qual era servidor d'un Pietro Alfonso di Olorosa portoghese, il qual Pietro, dopo la morte di Francesco Serrano, era venuto d'una isola detta Bandan a Tarenate. Il servidor, perché sapeva parlar portoghese, entrò nella nave e disse che, ancor che 'l re di Tarenate fusse nimico del re di Tidore, nondimeno era sempre pronto a far ogni servizio che potesse al re di Spagna. Li nostri, fattogli carezze assai, scrissero una lettera al suo padrone Pietro Alfonso, e gli dissero che dovesse venir a vedergli senza alcuna dubitazione.
De' costumi del re di Tidore. D'un'isola detta Gilolo, e del re e popoli suoi.
Come li nostri barattavano le mercanzie a garofani. Dell'isola detta Mutir.
Questo re di Tidore tien tante femmine quante gli piace, ma sempre n'ha una per principale, alla qual tutte l'altre obbediscono; e ha una casa grande fuor della città, con li suoi giardini, dove abitano 200 delle sue femmine e damigelle con la principale, e altretante femmine vi stanno per servirle. Quando il re mangia, mangia o solo o con la principale in un luogo eminente, come saria un tribunale, donde può veder tutte le dette femmine, che gli stanno all'intorno in piedi, e comanda a quella che piú gli piace che vada quella notte a dormir seco. Compita la cena, se esso comanda loro che mangino insieme, esse lo fanno, se non, ciascuna va a cenar nella sua camera. Nissun senza licenzia del re le può vedere, e se alcuno è trovato di giorno o di notte appresso la casa del re, è subito morto. Ciascuna famiglia è tenuta dare al re una o due delle sue figliuole. Questo re ha 26 figliuoli, otto maschi e l'altre femmine.
All'incontro di questa isola di Tidore è un'altra grande isola nominata Gilolo, abitata da Mori e Gentili. Fra li Mori sono duoi re, come ne fu referito da questo re, delli quali uno avea 600 figliuoli tra maschi e femmine, e l'altro 650. Li Gentili non tengono tante femmine, né vivono con tante superstizioni, come fanno li Mori, ma adorano la prima cosa che scontrano la mattina come escono di casa per tutto quel giorno. Il re delli Gentili si chiama raia Papua: è molto ricco d'oro, e abita nella detta isola di Gilolo, nella qual nascono canne grosse come la gamba, piene d'acqua molto buona da bevere, e vi se ne truovano molte.
Alli 12 di novembre il re di Tidore fece metter ad ordine una casa nella città, dove li nostri potessero portar le loro mercanzie: i quali la impierono tutta, e subito cominciarono a contrattare in questo modo. Per dieci braccia di panno rosso assai buono aveano in cambio un bahar di garofani, e sono quattro cantari e sei libbre (un cantaro è cento libbre); per quindici braccia di panno non tanto buono un bahar; per quindici manarette di ferro un bahar, per trentacinque bicchieri di vetro un bahar; per 17 cathil d'argento vivo un bahar. Tutto 'l giorno venivano alla nave molte barche piene di capre, galline, fichi, coche e altre cose da mangiare, e tanta quantità ch'era cosa maravigliosa. Fornirono le navi li nostri d'una buona acqua, la qual nasce calda, ma stando fuori della fontana un'ora diventa freddissima: e nasce il fonte dalla montagna ove sono gli arbori de' garofani.
Alli 13 del detto mese il re mandò un suo figliuolo, detto Mosahat, all'isola di Mutir per aver garofani, accioché piú presto potessero caricar la nave. Questi fecero dir al re come gli avean dati a certi mercatanti indiani, e inteso questo, il re volse che li nostri gli dessero duoi uomini, i quali voleva mandar a trovare questi Indiani insieme con sei delli suoi, per far loro intendere come erano uomini del re di Spagna venuti lí. E cosí li nostri fecero, e gl'Indiani, inteso questo, si maravigliarono grandemente che li nostri avessero fatto sí gran viaggio per quella parte donde erano venuti. Dopo questo, alcuni del re di Tidore, essendo venuti in nave e veduti alcuni porci vivi, che li nostri tenevano per munizione, gli pregarono che gli dovessino ammazzare, che gli dariano in cambio di quelli quante capre e galline volessero; e per aventura, venendo li detti sotto la coperta della nave, ne viddero uno che non era stato morto, e subito si coprirono il viso per non vederlo né sentir il suo odore.
Verso il tardi del detto giorno venne un prao di Pietro Alfonso portoghese, e avanti che egli entrasse nella nave de' nostri, il re di Tidore lo mandò a chiamare, e con allegro volto gli narrò tutte le nuove de' fatti nostri, e volse con lui venir alla nave, dove fu dalli nostri abbracciato e carezzato. Detto Pietro disse alli nostri molte cose de' Portoghesi, e tra l'altre come venivano sino a queste isole a caricar garofani. Dipoi dimorato alquanto si partí, promettendo di voler tornar in Spagna sopra la nave de' nostri.
Dell'isola detta Bacchian, del presente fatto al re di Gilolo, e della grandezza di detta isola. De' garofani e come nascono. Delle noci moscate e sua descrizione. Della qualità degli uomini e donne di quel paese, e delle lor case.
Alli 15 di novembre il re gli disse come voleva andar a Bacchian a prender garofani lasciati in quel luogo per Portoghesi, e dimandò alli nostri duoi presenti per donar a duoi governatori dell'isola di Mutir per nome del re di Spagna. Ed essendo il detto re sopra la nave e passando dove erano li schioppi, balestre e archi di verzino, che sono il doppio maggiori degli altri, volse tirar duoi colpi di balestra, e gli piacque piú che di tirar con gli schioppi. Il sabbato seguente il re di Gilolo moro venne alla nave con molti prao, e dalli nostri gli fu donato un saion di damasco verde, due braccia di panno rosso, specchi, forbici, coltelli, pettini e duoi bicchieri di vetro dorati: il quale, accettati li presenti, con allegro volto disse alli nostri che poi ch'erano amici del re di Tidore, ch'erano similmente suoi, e che gli amava come suoi proprii figliuoli, e che, se mai alcun de' nostri andasse nelle sue terre, gli faria grandissimo onore. Questo re è molto vecchio e istimato da tutti molto potente, e si chiama raia Lussu. Questa isola di Gilolo è tanto grande che, a volerla circondare con un prao, si staria ben quattro mesi. La domenica mattina questo medesimo venne alla nave, e volse veder tutte l'armi de' nostri, e come combattevano, e come scaricavano le bombarde, e di quelle prese grandissimo piacere. Il che veduto, si partí, e ci fu detto che 'l prefato re nella sua gioventú era stato valente combattitore.
Il medesimo giorno Antonio Pigafetta andò in terra per veder come nascevan li garofani, gli arbori de' quali sono alti e grossi come è un uomo al traverso, e poi si vanno assottigliando; li lor rami si spandono alquanto larghi nel mezzo, ma nella fine sono appuntati. Le foglie sono come quelle del lauro, la scorza è del color dell'oliva. Li garofani nascono nella sommità de' rami, dieci e venti insieme. Quando li garofani nascono sono di color bianchi, maturi rossi, e secchi negri. Colgonsi due volte l'anno, cioè di dicembre e di giugno, perciò che in questi duoi tempi l'aere è piú temperato; ma è piú temperato nel dicembre, al tempo di Natale. Quando l'aere è piú caldo e manco piove, si coglie 300 e 400 bahares in ciascuna di queste isole; e nascono solamente sopra montagne, e se alcun di questi tali arbori è trasportato in altro luogo, non vive punto. La foglia, lo scorzo e il legno, quando è verde, è cosí forte come è il garofano; se non sono colti quando sono maturi, diventano tanto grandi e tanto duri che altra cosa di loro non è buona se non la scorza. Non nascono garofani in altro luogo al mondo, per quel che si sappia, se non in 5 montagne delle 5 isole di sopra nominate. Se ne truovan ben alcuni nell'isola di Gilolo, e in un'isola piccola oltra Tidore, e ancora in Mutir, ma non sono buoni come questi delle sopra nominate. Li nostri vedevan quasi ogni giorno come si levava una nebbia, la qual circondava queste montagne di garofani, che è cagion di farli diventar piú perfetti. Ciascuno degli uomini di queste isole ha li suoi arbori di garofani, e ciascun cognosce li suoi, e non gli fanno diligenzia alcuna di cultura.
In dette isole si truovano ancora alcuni arbori delle noci moscate, li quali sono come l'arbor della noce nostra, e della medesima foglia. Quando la noce moscata si coglie, è grande come un cotogno, con una pelle disopra del medesimo colore. La sua prima scorza è grossa come è la scorza verde della nostra noce, sotto la quale è una tela sottile, la qual cuopre il macis, molto rosso, inviluppato intorno allo scorzo della noce: e dentro di quella è la noce moscata.
Le case di queste genti sono fatte come l'altre, ma non tanto elevate da terra, e sono serrate d'intorno di canne. Le femmine sono brutte, e vanno nude come fanno l'altre, e portano d'intorno alle parti vergognose un drappo fatto di scorzi d'arbore, il qual fanno in questo modo: prendono la scorza e la lasciano star in acqua tanto che ella diventa molle, poi la battono con un legno e la fanno venir tanto lunga e larga come vogliono, e diventa sottile come un velo di seta, con alcuni filetti dentro, che par che sia stato tessuto. Il loro pane fanno di legno di un arbore, in questo modo: pigliano una quantità di questo legno molle e cavanne fuori certe come spine lunge, poi lo pestano e a questo modo ne fanno pane, il qual per la maggior parte usano quando navigano, e si chiama sagu. Gli uomini sono grandemente gelosi delle lor femmine, e non volevan che li nostri andassero con le brache scoperte, fatte nel modo che si usano nelle nostre parti d'Italia.
Come il re di Tarenate venne alle navi per far contrattar i garofani, e ne fece venir gran quantità;
e come il re di Tidore esortò li nostri a ritornar a questo viaggio
per vendicar la morte di suo padre, qual fu morto nell'isola detta Buru,
e dopo fattoli molte offerte giurò di sempre esser amico del re di Spagna.
Un giorno vennero dall'isola di Tarenate molte barche cariche di garofani, ma non volsero contrattar con li nostri per modo alcuno, percioché dubitavano, e volevano aspettare il loro re. Un lunedí venne il loro re con un prao, sonando cembali, e volse passar per il mezzo delle nostre navi, le quali per onorarlo scaricarono molti colpi d'arteglieria. E fece contrattar li detti garofani, e disse alli nostri che fra quattro giorni ne faria venir una gran quantità: e alli XXVI di novembre ne mandò cento e novantaun cathil di detti garofani, i quali chiamano con diversi nomi, cioè gomode, bugalavan, chiauche.
Un giorno il re di Tidore disse alli nostri che il costume delli re di quella isola non era di partirsi cosí facilmente di casa sua e andar di qua e di là, come avea fatto esso, che per amor del re di Spagna era andato in molti luoghi per satisfar alli nostri, accioché potessero caricare le lor navi e ritornar in Spagna; e che gli pregava che volessero, piú presto fusse possibile, ritornar di nuovo a questo viaggio e venirsene a vendicar la morte di suo padre, il qual fu morto in un'isola detta Buru. Poi disse che egli era usanza, quando le navi si partivano del suo porto, che si faceva loro un convito, della qual cosa esso non voleva mancare. Gli nostri, udite queste parole, ringraziarono grandemente il re, dicendogli che di questo suo buon volere e officio fatto per loro ne raccontarieno il tutto alla maestà dell'imperadore, il qual ne terria grata memoria, e che, con l'aiuto di Dio, tornariano piú presto che potessero e fariano le sue vendette. E circa il convito che voleva far loro, lo ringraziavano similmente, dicendo che non potevano star piú in quel luogo, e che non volevano che li facesse convito alcuno: e questo gli dissero avendo memoria dello sventurato convito che fu fatto loro nell'isola di Zubut, dove persero il capitano loro con molti compagni. Il re, dopo molte persuasioni ditte a quegli al contrario, e tra l'altre che 'l tempo non era buono per partirsi allora, e che per le molte bassezze di terra non era l'ordine dell'acque per navigare, e finalmente vedendo gli animi delli nostri alquanto alterati, e che dubitavano, si fece portar il libro del suo Alcorano, e primamente basciandolo e mettendolo tre o quattro volte sopra la sua testa, dicendo alcune parole, giurò per l'Alcorano, il qual aveva nelle mani, di voler esser sempre amico del re di Spagna: e diceva queste parole piangendo. Per la qual cosa li nostri, indotti da queste sue persuasioni, restarono ancora in quel luogo 15 giorni, dove intesero come molti degli uomini principali del detto re l'aveano confortato che ammazzasse tutti li nostri perché faria cosa gratissima alli Portoghesi, e che 'l re gli avea risposto che non lo faria mai per cosa alcuna.
Come tre figliuoli del re di Tarenate con tre loro mogli vennero alle navi, e il seguente giorno vi vennero molti col re e sua moglie, e parimente il re di Bacchian con suo fratello, qual pigliava per moglie una figliuola del re di Tidore. Del presente fattoli per esso re di Bacchian; del desinare a lui mandato per il re di Tidore, e il tutto con che pompa.
Alli 27 di novembre venne un governator di Macchian, al qual li nostri fecero alcuni presenti, il qual disse che mandaria loro gran quantità di garofani: e questo governator si chiamava Humar, ed era uomo d'anni venticinque.
Alli 5 e 6 di decembre comperarono li nostri assai garofani: per quattro braccia di panno detto fregetto un bahar di garofani, per dodici catenelle di ottone, che valevano dodici soldi, cento libbre di garofani; e non avendo altro da contracambiare, cominciarono li nostri a dar le cappe di panno e le camicie. Alli 7 del detto mese vennero tre figliuoli del re di Tarenate con Pietro Alfonso portoghese e con tre loro mogliere, alli quali li nostri fecero alcuni doni; e quando si partirono, per far loro onore scaricarono alcune bombarde. Tutte queste genti, sí uomini come femmine, vanno sempre scalzi.
Alli 9 di decembre vennero molti alle nostre navi insieme col re e sua moglie, e similmente Pietro Alfonso e sua moglie; e ancor che detto Pietro invitasse li nostri a voler andare nel suo prao, mai vi volsero andare, né similmente permisero che alcuno entrasse nelle lor navi: e questo facevano perché aveano pur inteso che questo Pietro era grande amico del capitano che tiene il re di Portogallo nella città di Malacha, e dubitavan che non fosse venuto con qualche inganno per pigliargli e fargli prigioni.
Alli 15 di decembre venne il re di Bacchian, e menò seco un suo fratello, il qual pigliava per moglie una figliuola del re di Tidore. Quelli che erano in sua compagnia potevano esser circa 120, e portavan molte bandiere, fatte di penne di pappagalli bianche, gialle e rosse; sonavano molti corni. Eranvi ancora duoi prao con molte donzelle, per far presenti alla nuova sposa, e quando passarono appresso delle nostre navi, furono salutati con le arteglierie. Il re di Tidore venne a incontrarlo, e perché è usanza fra questi re che mai uno smonta in terra dell'altro, però il re di Bacchian, come lo vidde venire e ch'egli entrò nel suo prao, si levò del suo tapeto sopra il qual sedeva e si mise da una banda di quello. Il re di Tidore non volse anche esso seder sopra il tapeto, ma si mise dall'altra banda, e cosí nissun sedeva sopra il tapeto. Il re di Bacchian donò al re cinque patole, per il matrimonio che si faceva di suo fratello nella figliuola di quello: patole sono drappi d'oro e di seta, che si fanno nel paese di China e sono molto apprezzati fra questi popoli, e tutti li Mori, quando si vogliono onorare, si vestono di questi drappi.
Il seguente giorno il re di Tidore mandò il desinare al re di Bacchian per cinquanta bellissime giovani vestite di drappo di seta, cioè dalla cintura fino alle ginocchia, e andavano a due a due con un uomo in mezzo di quelle: ciascuna portava un gran piatto pieno d'alcuni piatti piccoli di diverse vivande, e gli uomini portavano il vino in gran vasi, ma dieci di quelli che aveano maggior età portavano alcune mazze. E cosí vennero al prao e presentarono tutte queste cose al re di Bacchian, il qual sedeva sopra un tapeto e avea disopra una cortina rossa e gialla. Poi il re di Tidore mandò a noi alcune capre, coche, vino e altre cose da mangiare; e noi mettemmo amendue le navi a ordine, e le bandiere al vento, sopra le quali era la croce di San Iacopo di Galizia, con un motto che diceva: "Questa è la figura della nostra buona ventura".
D'un presente fatto al re di Tidore. Di certi uccelli chiamati manucodiata.
Di uno unguento col qual toccato la mano a uno lo fa morire in tre o quattro giorni.
Costume di quelli Indiani nel fabricar le case. E del gengevo.
Il giorno seguente li nostri donarono al re di Tidore alcuni presenti, cioè alcuni pezzi di artiglieria piccoli, come sono archibusi, e quattro barili di polvere, e alcuni bicchieri di vetro, e presero otto botte d'acqua per ciascuna nave. Il re di Bacchian, in segno di far cosa grata alli nostri, volse in compagnia loro smontar in terra, con molti delli suoi Indiani: e sempre avanti del detto re andavan 4 uomini con gli stocchi nudi, che tenevan in mano levati. E venuti ov'era il re di Tidore e tutto il resto del popolo, disse che ogniun poteva intendere che esso voleva esser sempre amico e servitore del re di Spagna, e guardaria a suo nome tutti li garofani lasciati da' Portoghesi, fino a tanto che ritornassero li nostri un'altra volta, né piú n'era per dar ad alcun altro, se non con licenzia de' nostri. E fece un presente di dieci bahar di garofani, che fussero portati al re di Spagna; ma, essendo le navi cariche, non li poteron levar tutti. Gli mandò ancora duoi uccelli morti bellissimi: questi sono della grandezza d'una tortola, la testa piccola col becco lungo, e lunghe le gambe un palmo e sottili; non hanno alie, ma in luogo di quelle penne lunghe di diversi colori; la coda com'è quella della tortola. Tutte l'altre penne sono d'un colore, come tane over rovano, eccetto quelle che sono delle alie; ma non vola se non quando è vento. Hanno oppenione questi Mori che questo uccello venga dal paradiso terrestre, e chiamanlo manucodiata, cioè uccello di Dio. Il re di Bacchian è d'età di circa settant'anni.
Un giorno il re di Tidore mandò a dir alli nostri che stavan nella casa della mercanzia che di notte non si partissero di casa, perché sono alcuni de' suoi i quali vanno di notte, e non par che faccino male alcuno, ma, come truovano alcun forestiero, gli toccano le mani con un unguento, e subito questi che sono stati tocchi con tal unguento si ammalano, e in tre o quattro giorni muoiono. Intesero anche d'una nuova superstizione che usano questi popoli, che, come fanno una casa di nuovo, avanti che vi vadino ad abitar dentro, vi fanno gran fuochi all'intorno, e conviti di tutti i lor amici; poi appiccano sotto il tetto della casa un poco di qualunque cosa che si truova nell'isola, accioché mai tale cose non possino mancare agli abitanti in quella. In questa isola si truova gengevo, e mangiasi verde come se fusse pane, per non esser cosí forte verde come secco. Il gengevo non è arbore, ma è una pianta piccola, e cresce fuor della terra con certi rami lunghi un palmo, come sariano quelli della canna, con foglie simili, ma piú strette e piú corte, le quali non sono buone a cosa alcuna, ma sola la radice è buona, che è il gengevo. Questi popoli ne sogliono seccare mettendolo in calcina, accioché duri piú lungamente.
Perché la mattina seguente li nostri volevan partir dalle Molucche, il re di Tidore, di Gilolo e di Bacchian volevan venir ad accompagnare le nostre navi fino alla punta d'una isola detta Mare; ma si scoperse ch'una delle due nostre navi faceva acqua grandemente, per il che restarono ancora tre giorni. Ma, vedendo che non se le poteva trovar rimedio alcuno, se non con gran tempo e spesa, li nostri, fatto consiglio insieme, deliberarono lasciarla, con ordine che, dapoi che fusse racconcia, se ne venisse in Spagna meglio che potesse.
Alli 21 di decembre il re di Tidore venne alla nave, la qual si partiva, e dettele duoi pilotti pagati per condurla fuor dell'isola, dicendo alli nostri che allora era buon tempo per partire. Dette ancora alcune lettere che mandava alla maestà dell'imperadore, e presero licenzia dal re scaricando tutte l'artiglierie. Il re si doleva forte per il partire de' nostri, e non poté contenersi che, montato sopra un batello, non volesse venir ancor un poco drieto alli nostri, e di nuovo lagrimando abbracciarli; e cosí si partirono. Il governatore del re venne con li nostri fino all'isola detta Mare, dove subito li nostri smontati e andati a far legne, ne caricorno la nave, e presero la via verso garbino: e nella nave erano da quarantasei in tutto, con 13 Indiani appresso. In questa isola di Tidore abita una persona che è nella sua fede di quella reputazione che è un vescovo nella nostra, e quello che allora vi si trovava avea quaranta femmine e infiniti figliuoli e figliuole.
Le cose che si trovano nell'isole delle Molucche. Di alcune moschette minori delle formiche
che fanno il mele. Dell'isola Zamal, da' nostri nominata de' Ladri.
Dell'isole Chacovan, Lagoma, Seco, Gioghi, Caphi, Lumatola, Tenetum, Sulacho,
Buru, Ambon, Budia, Calarvi, Benaia e Ambala, e della qualità di quei popoli.
In tutte l'isole delle Molucche si truovano garofani, gengevo, sagu, che è il pane che abbiamo detto che si fa di legno, risi, capre, pecore, galline, fichi, mandorle, pomi granati dolci e garbi, naranci, limoni, batates, mele (il qual fanno alcune moschette minori che le formiche, e lo vanno a fare negli arbori), canne di zucchero, olio di coche, melloni, zucche, un frutto che rinfresca grandemente, detto camulicai, e un altro simile alle persiche, e altre cose da mangiare; pappagalli bianchi, li quali chiamono cachi, e altri rossi, detti nori: e un de' rossi val un bahar di garofani, e parlano piú perfettamente che non fanno gli altri. Ancora non erano passati cinquanta anni che in queste isole vennero ad abitar Mori: per avanti erano abitate da Gentili, delli quali ancora molti ne abitano nelle montagne, e li detti Gentili facevan poco conto de' garofani.
L'isola di Tidore è sopra l'equinoziale verso il nostro polo circa minuti 27, e di longitudine di donde partimmo 171 grado; dall'arcipelago dove è l'isola Zamal, nominata da' nostri de' Ladri, nove gradi e mezzo; e corre alla quarta di ostro garbin e greco tramontana. Terenate è sotto la linea dell'equinoziale verso l'antartico 40 minuti; Mutir è sotto la linea appunto; Macchian è verso l'antartico 15 minuti, e Bacchian un grado. E sono queste isole come quattro montagne acute, eccetto Macchian, che non è acuta; e la maggiore di tutte è Bacchian.
Navigando a lor cammino, li nostri passarono queste isole: Chacovan, Lagoma, Sico, Gioghi, Caphi. Nell'isola di Caphi gli fu affermato dal pilotto che vi abitavano uomini civili, di statura molto piccoli, quasi come nani, ed erano stati soggiogati dal re di Tidore, al quale ubidivano. Passarono poi per l'altre isole, andando tra ponente a garbino, e scoprirono verso ostro alcune isole molto pericolose per molte secche e basse; e smontarono in una detta Sulacho, la qual è sotto la linea dell'equinoziale verso antartico due gradi, e 50 leghe lontana dalle Molucche. Gli uomini di questa isola sono gentili, e mangiano carne umana; vanno nudi, cosí gli uomini come le femmine, eccetto che portano una scorza larga due dita intorno le parti vergognose. In molte altre isole alle dette vicine mangiano carne umana. Poi, costeggiando due isole chiamate Lamatola, Tenetum, 10 leghe da Sulacho, nella medesima via trovarono un'isola detta Buru, la qual è molto grande, ove si trovano risi, porci, capre, galline, coche, canne di zucchero, sagu, fichi, mandorle, mele, che poi che l'hanno colto lo inviluppano in alcune foglie secche al fumo, e ne fanno un involto lungo, il qual chiamano canali. Si truova ancora un frutto detto chiarch, il qual è molto buono e ha alcune cose a modo di groppi di dentro e di fuora. Vanno nudi come gli altri; sono gentili e non hanno re. E questa isola di Buru è tre gradi e mezzo sotto la linea dell'equinoziale verso l'antartico, e lontana dalle Molucche 75 leghe. Verso levante di detta isola n'è un'altra lontana circa dieci leghe, la qual è molto grande e confina con l'isola di Gilolo, abitata da Mori e Gentili, e si chiama Ambon. Li Mori abitano vicini al mare, li Gentili fra terra; mangiano carne umana. Nascono in quella tutte le cose che abbiamo detto di sopra. Tra Buru e Ambon si trovano tre isole circundate tutte da secche, chiamate Budia, Celaruri e Benaia, e di là da queste quattro leghe è un'altra isola detta Ambalao.
Di Bandan, Zorobua, Zolot, Nocevamor, Galian e Mallua isole, e de' costumi di quelli abitatori. Dell'isola Aruchetto, dove dicono gli uomini e le femmine non esser maggior d'un cubito e aver l'orecchie grandissime. E quivi del pepe longo e pepe tondo, e come nascono.
Lontan dall'isola di Buru circa 35 leghe alla quarta d'ostro verso garbin, si truova Bandan, che ha 12 isole intorno di sé, ove nasce la noce moscata: e la maggiore si chiama Zorobua. In questa non si truova se non il pan che fanno di sagu e d'un certo grano detto maiz, risi, coche, fichi; e sono tutte una appresso l'altra. Gli abitatori di queste sono mori e non hanno re. Bandan è verso l'antartico sotto l'equinoziale gradi sei, e per longitudine 160 e mezzo: e perché ell'era fuori del cammino il qual facevan li nostri, per questo non vi volsero andare.
Partendosi da Buru alla quarta di garbin verso ponente, arrivarono a tre isole vicine una all'altra: Zolot, Nocevamor e Galian, e passando fra due discesero in un'isola che aveva montagne altissime, detta Mallua. Gli abitatori sono uomini salvatichi e bestiali, e mangiano carne umana; vanno nudi, eccetto che portano quella scorza che abbiamo detto, e quando vanno a combattere si metteno alcune pelli grosse di bufolo davanti e di dietro. Adornano loro figliuoli con alcune corniuole legate insieme con denti di porco, e con code di capre appiccate davanti e di dietro. Portano li capelli trapassati per alcune canne da una banda all'altra, la barba inviluppata in foglie e messa poi in una canna similmente, che fa rider chi gli vede. Li loro archi e freccie sono fatte di canne, e hanno certi sacchi fatti di foglie d'arbore, nelli quali portano il bevere e mangiar loro. Quando le lor femmine viddero li nostri smontare, gli vennero all'incontro con gli archi e freccie: come li nostri mostrarono di voler dar loro alcuni presenti, subito fecero amicizia. Li nostri stettero quindici giorni in questa isola, per acconciar le bande della nave che faceva acqua: vi trovarono capre, galline, coche, pepe lungo e tondo. Il pepe lungo nasce d'una pianta over arbore simile alla edera, cioè che è flessibile e si appoggia agli alberi; e il frutto è appiccato al legno, la foglia è come quella del moro, e si chiama luli. Il pepe tondo è quasi di simil pianta come del sopradetto, ma nasce in una spiga come è quella che si vede del formento d'India, e si sgrana, e chiamanlo lada. Tutti li campi sono pieni di simil pepe. Presero un uomo il qual gli sapesse condurre ad alcune isole, per aver alcune vettovaglie. Questa isola di Mallua è verso l'antartico sotto l'equinoziale otto gradi e mezzo, e ha 169 gradi e quaranta minuti di longitudine.
Il pilotto vecchio delle Molucche disse alli nostri che non troppo lontano era un'isola detta Aruchetto, dove gli uomini e le femmine non son maggiori d'un cubito, e hanno l'orecchie tanto grandi che sopra una si distendono e con l'altra si cuoprono; sono la maggior parte tosi e nudi, e corrono forte. Le loro abitazioni sono caverne sotto terra; mangiano pesci, e un certo frutto bianco che cresce nella scorza d'un arbore, il qual frutto è simile ad un coriandolo confetto, il qual chiamono ambulon. Li nostri non andarono a vedergli, perché il vento e correntia del mare gli era contraria, e reputarono quello che fu loro detto di detti popoli esser favole.
Dell'Isole Timor e Lozon, della città di Maghepaher, degli abitatori suoi, e le cose che in quelle si truovano. Di alcuni animali tanto grandi che levano ogni grande animale in aere.
Alli 25 di gennaio 1522 si partirono da Mallua, e alli 26 arrivarono ad una grande isola, lontana da quella 5 leghe tra ostro e garbin, nominata Timor. E Antonio Pigafetta andò a parlar al principal della terra detto Ambao per aver vettovaglie, il quale gli rispose ch'era contento di dargli bufali, porci e capre: ma non poteron restar d'accordo, perché domandava troppo per un bufalo, e li nostri avean poche cose da cambiare e dubitavan della fame. Però, essendo venuti molti di quelli popoli nella nave, ne ritennero un principale e un suo figliuolo, il quale era d'un luogo detto Balibo: e per paura che li nostri non gli ammazzassero, gli donarono un bufalo, cinque capre e duoi porci, e gli nostri li lasciarono andare, dando loro certe tele e drappi di seta d'India e di cotone, mannarette, coltelli, specchi e forbici, sí che si contentarono e restarono quieti. Queste genti vanno nude, e portano appiccate agli orecchi, alle braccia e al collo certe catenelle fatte d'oro. Le femmine con gran diligenzia attendono a servir gli uomini.
In questa isola si truova il legno del sandalo bianco, gengevo, bufali, porci, capre, galline, risi, fichi, canne di zucchero, aranci, limoni, mandorle, fagiuoli e altre cose da mangiare, pappagalli di diversi colori. Quattro fratelli sono re di questa isola, e le abitazioni sono in diverse parti, una delle quali è detta Cabanazza. Si truova in una montagna assai oro, a peso del quale fanno li lor baratti. Quelli che abitano nella Giava e nelle Molucche e in Lozon e in tutte queste altre parti, vengono qui a comperar il sandalo.
Questi popoli sono gentili, e dicono che quando vanno a tagliar il legno del sandalo appar loro il demonio in diverse forme, e dice loro, se hanno bisogno d'alcuna cosa, che la dimandino: e per tali apparizioni molti di loro stanno ammalati lungamente. Il sandalo si taglia ad un certo tempo della luna, altramente non saria buono. Fanno baratto di sandalo con panno rosso, tela, aceto, ferro, chiodi. Questa isola è tutta abitata, e molto lunga da levante in ponente, e larga la metà da tramontana verso ostro, ed è verso l'antartico sotto la linea dell'equinoziale 10 gradi, e 174 di longitudine. In tutte queste isole che abbiamo disopra narrato, le quali si posson chiamar come un arcipelago, regna la malattia di san Iob piú che in alcun altro luogo del mondo: li popoli la chiamano il mal di Portogallo, e a noi altri in Italia il mal francese.
Lontan di lí tra ponente e maestro si truova un'isola detta Eude, dove nasce molta cannella; il popolo è gentile, e non hanno re. E nel cammino si truovano molte isole una drieto all'altra fino alla Giava maggiore e il capo di Malaccha. La maggior città di Giava si chiama Maghepaher, e il re di quella è il maggiore di tutta l'isola. Giava minore è grande come l'isola di Madera, ed è appresso Giava maggiore mezza lega. Intesero da alcuni Mori che vennero sopra la nave che nella Giava maggiore, quando muore un uomo principale, l'abbruciano, e quella delle sue femmine che è stata moglie principale si adorna tutta e si corona con fiori, e sedendo sopra una sedia si fa portare da tre o quattro uomini, e ridendo e confortando li suoi parenti dice loro che non pianghino, perché ella se ne va a cena col suo marito e a dormir con esso quella notte: e poi, portata dove è il fuoco che abbrucia il marito, si volta di nuovo verso li suoi parenti e li conforta un'altra volta, ed ella medesima si butta nel fuoco, dove si abbrucia. La qual cosa quando lei non facesse, non saria tenuta donna da bene, né vera moglie di suo marito.
Intesero ancora che di sopra la Giava maggiore verso tramontana è un golfo grande detto della China, nel qual si trovano arbori grandissimi, dove abitano uccelli di tanta grandezza che levano in aere ogni grande animale: e questi arbori si chiamano busathaer, e li frutti loro sono maggiori che cocomeri o vogliamo dire angurie. Li popoli truovano detti frutti nel mare, e le navi e altri navilii non si possono approssimare agli arbori senza gran pericolo: e anche queste cose si stimarono che fussero favole.
Di alcune terre e città nominate Cingoporta, Pahan, Calantan, Patani, Braalin, Beneu, Longon, Odia. Del regno di Iamgoma e Campaa, dove nasce il riobarbaro. D'un porto detto Canthan; delle città di Nauchin e Connulaha. Del gran re di China e della sua natura, e costumi de' popoli conchii e lichii. Del re di Mien e della città del Cataio.
Il capo di Malaccha è un grado e mezzo sopra la linea dell'equinoziale verso l'artico. Alla banda di levante di questo capo corre la costa molto lunga, e si truovano molte terre e città: il nome d'alcune sono Cingaporla, che è il capo, Pahan, Calantan, Patani, Braalin, Beneu, Longon, Odia, dove è la città ove abita il re di Sian, il qual si chiama Siri Zacabedera. Le città sono edificate come le nostre, suggette al re di Sian. Dopo il reame di Sian si truova quello di Iamgoma e di Campaa, dove nasce il riobarbaro, del quale sono diverse oppenioni: chi dice che è radice e chi arbore putrefatto, e se non fusse putrefatto non averia cosí grande odore, e chiamanlo calama.
Appresso di questo si truova la gran China, il re della quale è il maggior di tutti li re del mondo, e si chiama Santoa raia. E tutte queste cose che di sotto si diranno, intesero da un Moro ch'era nell'isola di Timor, le quali non abbiamo voluto lasciar di scrivere tai quali elle sono, cioè che il detto re ha sotto il suo imperio 70 re coronati, e ha un porto di mare detto Canthan e due città principali, cioè Nauchin e Connulaha, dove esso suol abitare, e sempre tien quattro de' suoi principali appresso il suo palazzo, cioè un verso levante, l'altro verso ponente, e l'altro a mezzodí e l'altro a tramontana, e ciascun dà audienzia a quelli che vengono da quelle parti. Tutti li signori dell'India maggiore e di quella di sopra danno obedienzia a questo re, e per segno che siano veri vasalli, ciascun tien nella piazza che è in mezzo le loro città un animal detto lince, che è piú bello che un leone: e il sigillo del re di China è la lince, e tutti quelli che vogliono andar a China portano questo sigillo di cera over sopra un dente di elefante, altramente non lo lascieriano entrar nel porto. Quando alcun re è inobediente al re lo fanno scorticare, e insalata la pelle e secca al sole, la empiono di paglia o d'altra cosa, e la fanno star col collo basso, posta nella piazza sopra qualche luogo eminente, acciò che ciascuno la vegga. Il re non si lascia mai vedere da persona alcuna, e quando li suoi cortigiani lo voglion vedere, esso discende dal palazzo in un padiglion che è ricchissimo, accompagnato da sei damigelle sue principali, le quali sono vestite come esso, e di quello entra in un serpente detto nagha, che è la piú maravigliosa e ricca fabrica del mondo ed è posto nella corte maggiore del palazzo, e il re entra dentro con le prefate donne per non esser conosciuto tra quelle: li suoi guardano per un vetro che è posto nel petto del detto serpente e veggono il re e le donne, ma non possono discernere qual sia il re. Detto re si marita con le sorelle, acciò che 'l sangue reale non si mescoli col sangue d'altrui. Il suo palazzo è circundato da sette muri larghi grandemente un dall'altro, e in ciascun di questi tali circuiti stanno diecimila uomini, che fanno la guardia al palazzo fin a tanto che suona un certo segno; poi vengono altri diecimila in ciascun circuito, e cosí si mutano di dí e di notte. In questo palazzo sono settantanove sale ove stanno infinite donne che servono al re, e hanno sempre torcie accese per mostrar maggior grandezza. Chi volesse veder tutto questo palazzo consumeria tutto un giorno. Tra l'altre vi sono quattro sale principali, dove alcune volte il re dà audienzia alli suoi principali, una delle quali è tutta disotto e disopra coperta di metallo, un'altra tutta d'argento e un'altra tutta d'oro, e l'ultima coperta tutti li muri di perle e gioie preziosissime. Quando li suoi vasalli gli portano oro o altra cosa preziosa, la mettano in questa sala, e dicono: "Questo sia ad onor e gloria del nostro Santoa raia".
Queste genti di China, come disse il detto Moro, sono bianche e vanno vestite come noi, e mangiano sopra tavole come noi, e hanno la croce, ma non sanno perché la tengono. In China nasce il muschio d'una bestia che è simil ad un gatto, il qual mangia d'un legno dolce grosso un dito, ed è chiamato comaru. Dietro alla costa di China sono molti popoli, come di Chenchii, dove si truovano perle e qualche legno di cannella, e li popoli detti Lichii, dove è il re di Mien, il quale ha sotto di sé vintiduoi re, ed egli è suggetto al re di China. Vi si truova anche la gran città detta Cataio orientale, e molti altri popoli in detta terra ferma, e tra gli altri alcuni di costumi sí bestiali che, come veggono il lor padre e madre vecchi e mal gagliardi, gli ammazzano accioché non travaglino piú in questa vita; e tutti questi popoli sono gentili.
Del mare chiamato Lantchidol, e del ritorno delle navi in Siviglia.
Alli 11 di febraio 1522 partirono dall'isola di Timor, ingolfandosi forte nel mar grande, il qual si chiama Lantchidol; e presero il suo cammino tra ponente e garbin, lasciando a man dritta la tramontana, per paura che, andando verso la terra ferma, non fossero veduti da Portoghesi. E passarono di fuori dell'isola di Sumatra, chiamata come abbiamo detto dagli antichi Taprobana, lasciando pur a man dritta sopra la terra ferma Pegu, Bengala, Calicut, Cananor e Goa, Cambaia, colfo d'Ormus e tutta la costa dell'India maggiore. E per passar piú sicuramente il capo di Buona Speranza, che è sopra l'Africa, andarono verso il polo antartico, circa 42 gradi, e dimorarono sopra detto capo da sette settimane, volteggiando sempre con le vele suso, perché li tiravano in prua venti da ponente e da maestro che non gli lasciavano passare, ed ebbero ancora non poca fortuna. Il capo di Buona Speranza è verso il polo antartico, di sotto dall'equinoziale gradi 34 e mezo, e 1600 leghe dal capo di Malacha, ed è il maggiore e piú pericoloso capo che si vegga sul mare di tutto il mondo.
Alcuni de' nostri, sí per mancamento di vettovaglie come per esser ammalati, volevano andare ad un porto de' Portoghesi sopra l'Africa detto Monzambique; gli altri dicevano che piú presto volevano morire che non andar al dritto in Spagna: pur finalmente, con l'aiuto del Signore Iddio, passarono detto capo non troppo lontano. Poi cominciarono a navigare alla volta di maestro duoi mesi continui senza mai toccar porto alcuno, e in questo tempo ne morirono circa 21 per diverse cagioni, li quali buttavano in mare: e pareva che li cristiani andassero al fondo col viso volto in suso e gl'Indiani col viso in giuso; e se Iddio non gli avesse dato buon tempo, tutti morivano di fame. Finalmente astretti da necessità, trovandosi mezzi morti, andarono ad un'isola di Capo Verde detta San lacopo, del re di Portogallo, dove subito sopra un battello mandarono in terra a dimandar vettovaglie, faccendo con ogni amorevolezza sapere a' Portoghesi li loro infortunii e travagli, e delle nuove delli loro che si trovavano nell'Indie: e con tante buone parole e carezze che seppero fare, ebbero alcune misure di risi, e volendo tornare pur per risi, furono ritenuti tredici uomini, li quali si erano assicurati d'ismontare in terra. Gli altri restati in mare, dubitando di non esser ancora loro presi con qualche arte, si partirono faccendo vela. E alli 7 di setembre, con l'aiuto d'Iddio, entrarono nel porto di San Lucar, vicino a Siviglia, solamente 18 uomini, la maggior parte ammalati; il resto di 59 che partirono dalle Molucche, parte morirono di diverse malattie, e alcuni ancora furono decapitati nell'isola di Timor per lor delitti. E giunti in questo porto di S. Lucar, per il conto tenuto di giorno in giorno, aveano navigato da 14460 leghe, circundando il mondo dal levante in ponente. Alli 8 di settembre vennero in Siviglia e scaricarono tutta l'artigliaria per allegrezza, e tutti in camicia e scalzi, con un torchio in mano, andarono a ringraziare alla chiesa maggiore il Signor Iddio, che gli avesse condotti salvi fino a quel punto.
Dopo alcuni giorni Antonio Pigafetta si partí e andò alla città di Vagliadolit, dove si trovava la maestà dell'imperadore, al quale non poté appresentare oro o argento o pietre preziose che fossero degne della grandezza di tanto principe, ma gli dette un libro scritto di sua mano, ove erano notate tutte le cose accadute di giorno in giorno in questo viaggio. Di lí poi partitosi andò a Lisbona al serenissimo re di Portogallo, al qual disse tutte le nuove delli suoi uomini, che avevan trovati sí nell'isole delle Molucche come in altre parti. Dapoi di Spagna se ne venne in Francia, dove appresentò alcuni doni delle cose portate di questo viaggio alla serenissima madama la regente, madre del potentissimo e cristianissimo re di Francia. Finalmente venuto in Italia, presentò similmente questo suo libro al reverendissimo gran maestro di Rhodi messer Filippo Villiers Lisleadam.
Alcune parole che usano le genti della terra di Bressil
Il lor formento che par cecima: hiz
farina: hus
un amo: piuda
coltello: iacle
pettine: chignor
forbici: pirene
sonagli: itani maraca
piú che bon: ium maraghatum
Parole del gigante il qual presero appresso il fiume di San Giuliano
Capo: her
occhio: other
naso: or
supercili: sechechiel
bocca: piam
dente: sor
lingua: schial
mento: saechen
pelo: aschie
gola: ohumoi
mano: chone
palma: caneghim
dito: cori
orecchia: save
mamella: othen
petto: ochii
corpo: gechel
gamba: coss
piedi: tehe
tallon: there
la suola: perchi
cuore: cho
uomo: calischon
acqua: oli
foco: glialeme
fummo: iacche
no: chen
sí: cei
oro: pelpeli
azurro: sechegli
sole: calipecheni
stella: setreu
mare: aro
vento: ovi
tempesta: ohone
pesce: hoi
mangiar: mecchiere
scodella: elo
E prononziava il tutto nella gola
Parole che usano gli abitatori dell'isola di Tidore
Dio: Ala
cristian: naceran
turco: rumo
moro: moseliman
gentil: cafre
loro preti: maulana
uomo: horan
uomo savio: horan pandita
padre: baba
madre: mama abui
loro chiesa: meschit
figliuol: anach
fratello: sandala
suo avo: mini
suo suocero: mintuha
suo genero: minante
moglie: porampuan
capelli: lambut
capo: capala
fronte: dai
occhio: mata
supercilii: chilai
palpebre: chenia
naso: idon
bocca: malut
labra: vebre
denti: ciggi
gingiva: issi
lingua: lada
palato: langhi
mascella: pipi
orecchia: talinga
gola: iaher
collo: vidun
spalle: balacan
petto: dada
cuor: atti
mamelle: sussu
stomaco: parut
corpo: tundubatu
gambe: mina
talon: tuml
piede: batis
suola: empacachi
unghia: cucu
Narrazione di un Portoghese compagno di Odoardo Barbosa,
qual fu sopra la nave Vittoria dell'anno 1519.
Nel nome di Iddio e di bon salvamento. Partimmo di Siviglia l'anno 1519 alli 10 d'agosto con cinque navi per andare a discoprire l'isole Molucche, donde cominciammo a navigare da San Lucar per l'isole di Canaria, e navigammo per lebeccio 960 miglia, onde ci trovammo a l'isola di Tenerife, nella quale sta il porto di Santa Croce in 28 gradi del polo artico.
E da l'isola de Tenerife noi navigammo per mezzogiorno 1680 miglia, donde ci trovammo in quattro gradi del polo artico.
Da questi quattro gradi del polo artico noi navigammo per lebeccio sino che ci trovammo al capo di Santo Agostino, il quale sta in otto gradi del polo antartico, donde abbiamo fatto mille e ducento miglia.
E dal capo di Santo Agostino noi navigammo alla quarta di mezzodí verso lebeccio 864 miglia, onde ci trovammo in vinti gradi del polo antartico.
E dai vinti gradi del polo antartico essendo in mare noi navigammo 1500 miglia per lebeccio, donde ci trovammo appresso la fiumara che ha 108 miglia di bocca, la quale è in 35 gradi nel ditto polo antartico: e noi le mettemmo nome rio di Santo Cristofano. Da questo rio noi navigammo 1638 miglia alla quarta di lebeccio fra ponente, onde ci trovammo alla punta dei Lupi Marini, la qual sta in 48 gradi del polo antartico. E dalla punta dei Lupi Marini noi navigammo per lebeccio 350 miglia, onde ci trovammo nel porto di San Giuliano, dove stemmo mesi aspettando che 'l sole tornasse verso di noi, perché non vi era di giugno e luglio se non di 4 ore il giorno.
Da questo porto di San Giuliano, il quale è in 50 gradi, noi ci partimmo alli 24 d'agosto 1520 e navigammo per ponente 100 miglia, onde trovammo una fiumara, alla quale mettemmo nome rio di Santa Croce: e ivi stemmo sino alli 18 d'ottobre. Questa fiumara si è in 50 gradi. Noi ci partimmo alli 18 d'ottobre da questa fiumara e navigammo a lungo la costa 378 miglia alla quarta di lebeccio fra ponente, onde ci trovammo in uno stretto al quale mettemmo nome stretto della Vittoria, perché la nave Vittoria fu la prima che lo vidde; alcuni gli dissero il stretto di Magaglianes, perché 'l nostro capitano si chiamava Fernando di Magaglianes: la bocca di questo stretto è in 53 gradi e mezzo, e noi navigammo per questo stretto 400 miglia sin a l'altra bocca, la qual è nei detti 53 gradi e mezzo. Noi sboccammo di questo stretto alli 27 di novembre 1520.
Navigammo fra ponente e maestro 9858 miglia, sin che ci trovammo sulla linea equinoziale. In questo cammino noi trovammo due isole dispopulate, e l'una era lungi da l'altra 800 miglia: alla prima mettemmo nome San Pietro, all'altra l'isola delli Tiburoni. San Pietro si è in 18 gradi, l'isola delli Tiburoni in 14 gradi dell'antartico. E dalla linea equinoziale noi navigammo fra ponente e maestro 2046 miglia, donde vi trovammo parecchie isole in dieci e dodici gradi del polo artico, In queste isole v'erano molte genti ignude, cosí gli uomini come le donne, e a queste isole noi mettemmo nome l'isole dei Ladroni, perché ci avevano rubbato il nostro schifo: ma ben gli costò caro.
Non vi dirò piú il cammino che noi facemmo, perché noi lo allungammo assai e non poco; ma vi dirò che di queste isole dei Ladroni per andare alle Molucche a cammin dritto bisogna navigare per lebeccio mille miglia, e ivi si trovano molte isole alle quali mettemmo nome l'arcipelago di San Lazaro, e un poco piú avanti vi sono l'isole delle Molucche, le quali sono 5, cioè Terenate, Tidori, Motir, Machiam, Bachian. In Terenate, avanti ch'io mi partissi, li Portoghesi vi aveano fatto un castello molto forte. Da l'isole Molucche all'isole di Bandan vi sono trecento miglia, e vi si va per diversi venti, perché vi sono molte isole nel mezzo e bisogna navigare a vista d'occhio in queste isole sin che sete all'isole di Bandan, le quali sono in quattro gradi e mezzo dell'antartico. Vi si ricolgono da trenta sin in quarantamilia cantara di noci moscate, e ancora vi si ricoglie assai mastice. E se volete andare a Calicut, bisogna navigare sempre infra isole sin a Malacca, la quale è lontana dalle Molucche 2000 miglia; e da Malacca a Calicut vi sono altre 2000 miglia, da Calicut in Portogallo vi sono 14000 miglia. Se dall'isole di Bandan voi volete traversare il capo di Buona Speranza, bisogna navigare tra ponente e lebeccio sin che vi trovarete in trentaquattro gradi e mezzo nel polo antartico, e di lí voi navigarete per ponente, faccendo sempre fare buona guardia per la prua, per non investire in detto capo di Buona Speranza o alle sue confini.
Da questo capo di Buona Speranza si naviga alla quarta di maestro fra ponente 2400 miglia, e vi si truova l'isola di Santa Elena, dove le navi di Portoghesi vanno a prendere acqua e legne e altre cose. Questa isola è in sedici gradi larga del polo antartico, e non vi è abitazione alcuna, se non d'un uomo portoghese, il quale non ha se non una mano e un piede, senza naso e senza orecchie, e si chiama Fornamlopem.
Da questa isola Santa Elena navigando millesecento miglia per maestro, tu ti troverai sulla linea equinoziale, dalla qual linea tu navigherai 3534 miglia alla quarta di maestro tra la tramontana, sin che tu ti troverai in trentanove gradi nel polo artico. E da questi trentanove gradi, volendo andare a Lisbona, tu navigherai novecentocinquanta miglia per levante, onde troverai l'isole de los Azores, le quali sono sette, cioè la Terzera, San Georgio, lo Pico, lo Fayale, la Graziosa; da levante l'isola di San Michele, l'isola di Santa Maria: tutte sono da trentasette gradi sin in quaranta gradi nel polo artico. Da l'isola Terzera tu navigherai poi per levante millecento miglia, onde tu ti troverai sopra la terra di Lisbona.
Discorso di m. Gio. Battista Ramusio sopra varii viaggi per li quali sono state condotte fino a' tempi nostri le spezierie e altri nuovi che se potriano usare per condurle.
Maravigliosa cosa veramente è a pensare la gran mutazione e alterazione che fece in tutto l'imperio romano la venuta de' Goti e altri barbari in Italia, conciosiacosaché tali populazioni estinguessero tutte l'arti, tutte le scienzie e tutti i traffichi e mercanzie che in diverse parti del mondo si facevano: e durarono per 400 anni e piú quasi come le tenebre d'una oscura notte, sí che alcun non ardiva di partirsi del suo paese natio e andar altrove, dove che avanti la venuta di detti barbari, quando fioriva l'imperio romano, in tutte l'Indie orientali per mare sicuramente si poteva navigare; ed era cosí frequentato e celebre questo viaggio e conosciuto come egli è al presente per la navigazion dei Portoghesi. E che questo fusse il vero, chiaramente lo dimostra quel che scrive Strabone, che fu nel tempo d'Augusto e di Tiberio, il qual, parlando della grandezza e ricchezza della città d'Alessandria, governata allora come provincia da' Romani, dice queste parole:
"Questo luogo solo dell'Egitto è atto a ricever tutte le cose che vengono per mare, per la commodità del porto, e quelle che si portano per terra, avendo il fiume del Nilo che le conduce cosí facilmente, e per questo è la piú ricca città di mercanzie che sia al mondo. L'entrate veramente dell'Egitto sono sí grandi, che M. Tullio disse in una sua orazione che 'l re Tolomeo cognominato Auleta, padre della regina Cleopatra, aveva di entrata dodicimila e cinquecento talenti, che sono sette milioni e mezzo d'oro. Per la qual cosa, avendo questo re tanta entrata, che fu cosí da poco e cosí negligentemente la governò, quanta dee esser quella che si cava al presente dell'Egitto, che è governato con tanta diligenza dai Romani, che hanno accresciuto tutti li commerzii e traffichi della Trogloditica e dell'India? Conciosiacosaché nel tempo passato a mala pena si trovava che venti navi insieme avessero ardimento di penetrare nel golfo Arabico, e fuori della bocca di quello mostrar le prue, dove che al presente grandissime armate vanno insino nell'India e nelle estreme parti dell'Etiopia, d'onde son condotte preziosissime mercanzie e di gran valuta in Egitto, e quindi poi si portano in altri paesi. E a questo modo raddoppiano i dazii, cioè di quelle che sono quivi condotte e di quelle che di là sono cavate, e delle cose di gran valuta è necessario pagar grandissimi dazii".
Che di questo viaggio del mar Rosso e dell'India si portassero infinite e preziosissime mercanzie, e di molte altre sorti che a' tempi nostri non si sanno, il quarto volume delle leggi civili lo dimostra, perché in quello si leggono, descritte di commissione di Marco e Commodo imperatori, tutte le robbe che dovevano pagar dazio nel mar Rosso, il qual si affittava, come tutti gli altri dazii dell'imperio romano; e sono le infrascritte:
"Cinamomo, pepe lungo, pepe bianco, garofani, costo, cancamo, spico nardo, cassia, timiama, xilocassia, mirra, amomo, gengevo, malabatro, ammoniaco, calbana, lasser, agaloco, gomma arabica, cardamomo, xilocinamomo, carpesio, lavori fatti di bissino, cioè di lino sottilissimo, pelli partice, pelli babilonice, avorio, ebeno indiano, ogni sorte di pietre preziose, perle, la gioia detta sardonica, la ceraunia, iacinto, smeraldo, il diamante, zaffiro, callimo, berillo, cilindro, lavori indiani, tele sarmatice, metaxa cioè seta, veste di seta e anche meze di seta, tele tinte, carbasei, filato di seta, eunuchi, lioni indiani, leonze, leopardi, pantere, porpora da tignere; item quel sugo che si cava dalla lana e capelli indiani".
Da queste parole si vede ch'anticamente la detta navigazione per via del mar Rosso era molto conosciuta e frequentata, e forse piú ch'ella non è al presente, e le spezie e gioie eran condotte in Alessandria, dove che gli antichi re di Egitto, per la grande utilità che cavavano de' dazii di questo viaggio del mar Rosso, volendolo far piú facile e commodo, s'imaginarono di far una fossa che cominciasse nell'ultima parte del detto mare, dove era una città detta Arsinoe, che forse è ora il Sues, e venisse insin ad un ramo del Nilo detto Pelusio, che sbocca nel mar nostro verso levante, dove è la città di Damiata. Ordinarono anche di fare tre strade per terra, che andassero dal detto ramo insino alla detta città d'Arsinoe ma le trovarono troppo difficili. Finalmente il re Tolomeo detto Filadelfo ordinò un altro cammino, cioè di navigare su per il Nilo all'incontro del fiume insino alla città di Copto, e da quel luogo attraversare un paese diserto insino sopra il mar Rosso, ad una città detta Berenice over Miosormo: e quivi s'imbarcavano tutte le robbe per l'India, Etiopia e Arabia, come si vedrà per le cose scritte prima da Strabone, il qual dice essere stato in Egitto, e poi da Plinio, che fu nel tempo di Domiziano. Strabone adunque, parlando della detta fossa che andava verso il mar Rosso, dice:
"Ivi è una fossa che va nel mare Rosso e seno Arabico e alla città d'Arsinoe, da alcuni detta Cleopatrida, e passa per i laghi detti Amari, i quali veramente erano prima amari, ma, fatta questa fossa e messovi dentro il fiume, diventarono dolci, e al presente per la loro amenità son pieni d'uccelli d'acqua. Questa fossa fu cominciata a far cavar dal re Sesostre avanti la guerra troiana. Alcuni dicono ch'ella fu cominciata dal re Psammitico, essendo garzone, e che per la sua morte restò cosí imperfetta, e che dipoi successe in questa impresa il re Dario, il qual l'averia del tutto finita, ma non la condusse a fine perché gli fu detto che 'l mar Rosso era piú alto dell'Egitto e che, se questo paese intermedio dall'un mar all'altro fusse cavato e aperto, tutto l'Egitto saria sommerso dal detto mare. Li re Tolomei veramente la volsero finire, ma la lasciarono serrata nella testa, e questo per potere, quando e' volevano, navigare all'altro mare e senza pericolo poi tornarsene. Qui è la città di Arsinoe, e vicina a quella la città detta Heroum, poste nell'ultima parte del detto golfo Arabico che è verso l'Egitto, con molti porti e abitazioni".
Plinio ancora egli parlando di questa fossa dice:
"Nell'ultima parte del golfo Arabico è un porto detto Daneo, dal qual già disegnarono di condurre una fossa navigabile insino al Nilo, dove è il primo delta, e fra detto mare e il Nilo è uno stretto di terra di lunghezza di 62 miglia. E il primo che pensò di far questa cosa fu Sesostre re d'Egitto, e poi Dario re delli Persiani. Seguitò poi Tolomeo, che fece una fossa larga cento piedi e profonda trenta e lunga da trentasette miglia, insino ai fonti detti Amari: e dall'andar piú oltre la paura della inondazione il fece restare, perché ei cognobbe che 'l mar Rosso era piú alto tre cubiti di tutto il paese dell'Egitto. Altri dicono che questa non fu la cagione, ma ch'ei dubitò che, lasciando venir questo mare innanzi, tutta l'acqua del Nilo si corromperia, la quale è quella sola che dà bevere a tutto l'Egitto. Ma non ostante tutte le cose sopradette, tutto questo viaggio è frequentato per terra, dal mar Egizio insino al mar Rosso, e vi sono tre strade.
La prima, cominciando dalla bocca del Nilo detto Pelusio, dove si va per l'arena, e se non vi fussero canne alte fitte in terra, che mostrassero la dirittura del cammino, non vi si ritroverebbe la strada, conciosiacosaché 'l vento di continuo la ricuopra. La seconda strada è due miglia lontana dal monte Cassio, e questa anch'ella in capo di 60 miglia vien sopra la strada di Pelusio, e l'abitano alcuni Arabi detti Antei. La terza comincia a Gerro, che si chiama Adipson, e passa per li medesimi Arabi, 60 miglia piú brieve, ma è aspra di monti e molto povera d'acqua. Tutte queste strade conducono alla città d'Arsinoe, edificata nel golfo Carandra del mar Rosso da Tolomeo Filadelfo, e dal nome d'una sua sorella cosí nominata; e questo Tolomeo fu il primo che trascorse tutta quella parte del detto mare che si chiama Trogloditica".
Di questa fossa veramente descritta da Strabone e da Plinio a' tempi presenti si veggono alcuni pochi vestigii, sí come dicono quei che son stati di là dal Cairo al Sues. E conciosiacosaché noi abbiamo detto di sopra che Tolomeo Filadelfo trovò un altro cammino piú commodo, ch'era l'andar su per il Nilo insino alla città di Copto, scriveremo qui quel che ne dice Strabone:
"Appresso a Copto, città commune degli Egizii e Arabi, comincia il paese intermedio fra il fiume Nilo e il mar Rosso, e distendesi insino alla città detta Berenice, la qual, ancor che non abbia porto, ha nondimeno assai commodi alloggiamenti. Dicono che 'l re Tolomeo Filadelfo fu il primo che con un esercito aperse questa strada, nella qual non essendo acqua ordinò alcuni alloggiamenti commodi e per quelli che andavano a piedi e per li cammelli, e questo fece percioché il mar Rosso con gran difficultà si può navigare, massimamente partendosi dall'ultima parte del golfo: e veramente è stata conosciuta una grandissima utilità di questo viaggio, e al presente tutti i traffichi e mercanzie che d'India, Arabia ed Etiopia si conducono per questo golfo del mar Rosso son portate per terra insino a Copto, che è la principale stappola di simil robbe. Non troppo lontano da Berenice è un sorgitor detto Miosormo, che è città con un arsenale, e da Copto anco non molto lontano è la città di Apolline, per il che queste due città sono li termini, l'una da un capo, l'altra dall'altro da questo paese intermedio: ma Copto e Miosormo avanzano l'altre di faccende, conciosiacosaché al presente ognuno le frequenti. Al principio quei che faceano questo viaggio sopra i cammelli cavalcavano la notte, e si governavano con le stelle, come fanno i marinari, e portavano seco l'acqua da bevere. Ora hanno fatto pozzi profondi che somministrano l'acqua, e appresso delle cisterne che s'empiono d'acque celesti, ancor che rare volte vi piova. E questo viaggio da Copto a Miosormo è di sei in sette giornate. In questo paese intermedio si trovano degli smeraldi, e anche minere d'alcune altre pietre preziose, dove gli Arabi fanno alcune cave profondissime".
Dalla scrittura di Strabone si comprende che la navigazion su per il fiume del Nilo insino a Copto, e quindi per terra insino a Miosormo, era il cammino piú frequentato che alcun altro; e che questa fusse la via maestra e ordinaria che facevano tutti i mercatanti che andavano nell'India per comperare spezie e gioie, si vederà apertamente per il viaggio che scrive Plinio, il qual era facile e commodo, e in un anno s'andava e tornava. I luoghi veramente nell'Arabia e India nominati da Plinio sono quei medesimi dove oggidí praticano i Portoghesi, de' quai paesi e luoghi, accioché i lettori siano alquanto informati, non sarà inconveniente, discorrendo secondo la picciolezza del nostro debile ingegno, raccontar quello che si è potuto ritrarre e dai libri degli auttori e dalle persone pratiche e informate del mar Rosso e dell'India: dove se per aventura si mancherà in qualche parte, per non saper cosí puntualmente come i nomi antichi dei luoghi corrispondano a' moderni, la benignità de' lettori ne darà perdono.
Scrive dunque Plinio che dal promontorio Siagro dell'Arabia era opinion che si potesse andare a diritto cammino col vento di ponente, che chiamano ippalo, insino a Patale. Questi marinari portoghesi che hanno navigato in queste Indie orientali, e descritte le carte giuste con le altezze dell'uno e l'altro polo a luogo per luogo, dicono che, uscendo fuori dello stretto del mar Rosso e navigando lungo la costa dell'Arabia Felice, si perviene ad un capo che esce molto in mare, in gradi 17 di altezza, detto Sfacalath, il qual tengono per certo che sia il promontorio Siagro, conciosiacosaché dal detto capo andando per levante alla quarta di greco col vento di ponente verso l'India, si vien a dar diritto nel regno di Cambaia, che è posta dove era Patale, percioché entrando in mare, come dicono gl'istorici antichi, il fiume Indo con due bocche, questo paese intermedio fra l'una bocca e l'altra era come un'isola triangolare, che anticamente si chiamava Patale in lingua indiana, e sopra la quale al presente è posta parte del regno di Cambaia, e l'isola del Diu è vicina: e questo parizzo dal capo Sfacalath insino a Diu è da circa 900 miglia, ed è cosa mirabile a considerare come queste parole di Plinio si vadino conformando con le carte e con le navigazioni de' tempi presenti che fanno i Portoghesi. Seguita poi Plinio che fu pensato che chi partisse dal detto promontorio Siagro e navigasse col detto vento di ponente dritto per il fiume Zizero, che è porto della India, farebbe il cammino e piú corto e piú sicuro: la qual cosa è la verità, percioché, come dicono i pilotti portoghesi, partendosi dal detto capo di Sfacalath e andando per levante al diritto si viene a dar nel mezzo della costa di Calicut, dove è la città di Anor e la isola di Amiadiva in gradi quattordeci, e si fa il cammino e piú corto, non andando a torno de' golfi, e piú sicuro, allontanandosi da terra. Quella parola veramente che dice "il fiume Zizero", pensano alcuni che vogli dir Muzziro, nominato poi di sotto dal detto auttore, e da Arriano e da Tolomeo cosí chiamato, il quale lo mette similmente in gradi quattordeci d'altezza.
E se alcun dubitando dicesse: "Come è possibile che ne' tempi antichi, avanti e doppo Plinio, che non si sapeva l'arte del navigar col bossolo e con la carta, bastasse l'animo agli uomini, col guardar solo delle stelle e con lo scandaglio, mettersi a fare un parizzo per schiena di mare di miglia novecento in circa, che è dal capo di Sfacalath dell'Arabia insino ad Amiadiva della costa della India?", non se gli può risponder altro se non che, come se ha veduto in Arriano, l'audacia d'un governator di nave detto Ippalo, avendo considerate tutte le marine e i golfi che vi sono particolarmente, vedendo il vento libonoto, cioè ostro garbino, continovar molti mesi a soffiar, si mise con la colla del detto vento a far questo parizzo e lo condusse ad effetto, onde questo vento ostro garbin dal nome di quel governatore fu poi chiamato ippalo. E ancor che Plinio dica di sopra che il vento chiamato ippalo è il favonio, cioè ponente, questo può molto bene stare, perciò che questi venti ordinarii che tirano da ponente girano al bossolo, e da ponente passano al garbin e poi ostro garbin. Ma questo parizzo che abbiamo detto è picciolo a comparazion de' parizzi che fanno i pilotti presenti portoghesi, i quali, volendo andare nelle dette Indie, aspettano i tempi che soffino questi venti ordinarii di ponente, e si partono da Monzambique o da Melinde, luoghi sopra la Etiopia verso mezzodí, e fanno passaggio per mezzo il golfo insino in Cochin o Calicut di leghe settecentosettantacinque, che sono tremila e novanta miglia.
Seguita poi Plinio, narrando il viaggio che fu ordinato per il re Tolomeo Filadelfo, come abbiamo veduto di sopra, e dice: "Di Alessandria si andava ad un castello detto Heliopolis, luogo distante mille miglia". Ma come quivi si vede che questo numero di miglia è fallato (perché da Alessandria insino al Cairo non si fanno oggi piú di dugento miglia, appresso del Cairo dicono che era la Città del Sole, dai Greci chiamata Heliopolis), cosí il medesimo errore de' numeri delle miglia si cognosce chiaramente essere stato fatto in molti luoghi di questo viaggio di Plinio. Navigavasi poi all'incontro del fiume del Nilo da trecentotre miglia, e questa cosa può molto ben essere, perciò che Giovan Lioni, come si vede nell'ultima parte de' suoi libri, dice aver navigato all'incontro del fiume del Nilo di sopra la città del Cairo da quattrocento miglia ad una città detta Cana, la qual è la scala delle mercanzie che si portano dal Cairo alla Mecca, per esser vicina al mar Rosso centoventi miglia, dove è un porto detto Cosir. Qui facilmente si potrebbe imaginar l'uomo che la città al presente di Cana posta sopra il Nilo fosse l'antica Copto, e Cosir sopra il mar Rosso fusse Miosormo, essendo l'uno e l'altro in gradi ventisette sopra l'equinoziale, conciosiacosaché il paese intermedio fra il Nilo e il detto porto sia largo da centoventi miglia, che saria, secondo l'opinion di Strabone, una distanza di sei in sette giornate. Dice poi che in trenta giorni navigarono per il mar Rosso alla città di Acila dell'Arabia Felice. Questa città Arriano e Tolomeo la chiamano Ocele, la qual potria esser al presente un luogo dentro allo stretto del mar Rosso detto Capo di Celi sopra l'Arabia. Seguita poi che altri facevan il primo parizzo alla città di Cana, che è fuori dello stretto sopra la costa dell'Arabia, la quale al presente par che si chiami Canacain. Il porto di Musa, che è dentro al mar Rosso, dove andavan solamente quei che volevano comperare incenso e odori, essendo posto in gradi tredeci, si può pensar che sia non troppo lontano da un porto sopra detta costa di Arabia, detto al presente Hali. Seguita poi detto auttore che, usciti che essi erano fuor del stretto del mar Rosso, navigavano al diritto per levante al primo luogo mercatantesco della India, detto Muzziro, il qual Tolomeo mette esser in gradi quattordeci di altezza. Questo, come abbiamo detto di sopra, potria esser il luogo di Anor, sopra la costa di Calicut, al rincontro della isola di Amiadiva. Il porto veramente delle genti dette Necanidon, detto Becare: questo porto Arriano il chiama Barare e Tolomeo Bacare, e questo nome Necanidon vuol dir Nelcinde, sí come leggendo il viaggio di Arriano si può conoscere; Tolomeo similmente lo chiama Nelcinde. E tutti questi luogi e infiniti altri che sono sopra la costa di Calicut son descritti molto minutamente in Arriano, come di sopra si ha letto, e non sapendo con che nome al presente si chiamino, ci riportiamo a chi vi anderà piú minutamente perscrutandoli. Ma quel che insino a qui abbiamo detto è stato solamente per far intendere il meglio che abbiamo saputo il viaggio scritto da Plinio verso questa costa di Calicut, il qual nel libro sesto, parlando dell'Arabia e Carmania, dice in questo modo.
Viaggio verso la India orientale descritto da Plinio.
"Dal promontorio dell'Arabia detto Siagro era opinion che si potesse passare, con un parizzo di 416 miglia, insino a Patale, col vento favonio, che su quei mari chiamano ippalo. Ma la età che venne poi si pensò che si faria questo viaggio e piú corto e piú sicuro se dal detto promontorio si navigasse al fiume Zizero, che è un porto d'India: e lungamente avendo continovato il sopradetto viaggio senza mutarlo, finalmente un mercatante s'imaginò di abbreviarlo, e per desiderio del guadagno trovò modo di farsi piú vicina l'India, e cosí al presente ogni anno vi si naviga, menando seco una buona guardia di arcieri, per tema de' corsari che rubano in quei mari. Il qual viaggio della India, cominciando dall'Egitto, non voglio che mi rincresca ordinatamente di raccontare, essendo a' tempi nostri primieramente con vera notizia stato scoperto. Cosa stupenda è a dire che ei non sia anno che dell'imperio romano non si tragga per portare all'India la valuta d'un milione e dugento migliaia di ducati, e che delle mercanzie che al rincontro di quella si recano non si guadagni cento per uno vendendole.
Or il viaggio è questo. Da Alessandria insino ad un castello detto Heliopolis si fa mille miglia di cammino, poi si naviga per il Nilo contr'acqua insino a Copto 303 miglia, che si fanno con li venti ordinarii in quindeci giorni. Da Copto si va poi per terra con li cammelli ad alcuni alloggiamenti ordinati, dove sono i pozzi dell'acqua: il primo alloggiamento, che si chiama Hydreuma, cioè pozzo, si truova in capo di trentadoi miglia; il secondo è sopra un monte, di cammino di una giornata; il terzo si fa pur dove è il pozzo, distante da Copto 95 miglia. Dipoi vi è un altro alloggiamento sopra un monte; dopo quello il pozzo detto di Apolline, il quale è lontano da Copto 194 miglia; poi s'alloggia sopra un monte. Dipoi s'arriva ad un nuovo pozzo, distante da Copto 234 miglia; vi è appresso un altro luogo con acqua detto Trogloditico, dove sta una guardia di fanti due miglia fuor di strada, ed è lontan dal pozzo nuovo quattro miglia. Poi si trova il castello detto di Berenice, dove è il porto sopra il mar Rosso, distante da Copto 258 miglia. Ma perché la maggior parte di questo viaggio si fa di notte, per causa dei gran caldi, e negli alloggiamenti si sta fermo tutto il giorno, però questo cammin da Copto insino a Berenice si fa in dodici giornate. Quivi poi cominciano a navigare il mare nel mezzo della state, avanti il 15 di luglio over dipoi subito, e giungono in trenta giorni alla città di Acila dell'Arabia, over Cana, la quale è della propria regione dove nasce l'incenso. Evvi anche un terzo porto detto Musa, al qual non arrivano quei che navigano in India, ma vi vanno solamente i mercatanti che vogliono comprar l'incenso e gli odori dell'Arabia. Fra terra son molti castelli, ma il principal si chiama Saphar, e un altro Saba. A quei veramente che vogliono andar nell'India è molto util cosa uscir fuori dello stretto di Acila, e quindi poi col vento ippalo navigano quaranta giorni al primo luogo mercatantesco d'India, detto Muzziro, ancora che non vi si doveria andare per cagione de' corsari, che tengono un luogo detto Hidras, dove anche non son mercanzie. Oltra di questo il sorger delle navi è molto lontano da terra, e con barchette piccole bisogna portar a terra le robbe che si son condotte. Nel tempo che io scrivea queste cose, era signore di quei paesi uno detto Celebotras. Ma vi è un altro porto piú commodo delle genti Necanidon, che si chiama Becare, dove regna il re Pandione, in un luogo detto Modusa, lontano da un luogo mercatantesco fra terra. La region veramente dalla quale si conduce il pepe con barche fatte di un legno solo insino a Becare si chiama Cotona, e tutti questi nomi di genti, porti e castelli non si trovano appresso di alcun auttore antico, e di qui si comprende che si muta lo stato de' luoghi. Ritornano d'India nel principio del mese che gli Egizii chiamano tibi , che appresso di noi è dicembre, o vero di quel detto mechiris d'Egitto, che è avanti li tredici di gennaio, e cosí accade che in un anno medesimo vadino e ritornino. Ritornano d'India col vento di sirocco, e come sono entrati nel mar Rosso, col vento di garbino over d'ostro".
Per le cose dette si vede apertamente che navigavano tutta l'India, dove è la città di Calicut, ma che passassino piú avanti e arrivassino insin a Malacca, la qual è sopra l'Aurea Chersoneso, e nel golfo di Bengala, dove è il seno Gangetico, che confina con li popoli Seres, il detto auttore lo dimostra quando, parlando dell'infinito tesoro che in tutto lo imperio romano si gittava via in comprare perle, sete, spezie, odori, dice cosí: "L'India e li popoli che mandano la seta, e la peninsula, cioè l'Aurea Chersoneso, fanno fare spesa ogni anno in tutto l'imperio romano per la valuta di cento milioni d'oro, faccendo il conto di grosso e non sottilmente".
Ora, per concluder quel che noi cominciammo a provar nel principio del nostro parlare, è certissima cosa che la venuta de' barbari in Italia, avendo rovinato l'imperio romano, levò via tutti i traffichi dell'Indie orientali. Aggiugnesi poi a questo che si fecero mutazioni grandissime e delle religioni e delle signorie, di sorte che le spezie e le gioie, non possendo esser condotte per la via già detta del mar Rosso, ne pigliarono un'altra, la qual fu che i mercatanti cominciarono a navigarle pel fiume Indo a contrario dell'acqua, e tanto andarono che giunsero appresso la provincia Battriana, che al presente ancor è detta Batter, e quindi con camelli per alcune giornate le condussero nel fiume Geichon grossissimo, che gli antichi chiamano Oxo, che sbocca nel mar Caspio, e da quello le navigarono a traverso del detto mare insino a un luogo detto Citracham, il qual è dove il grandissimo fiume Rha, ora detto Herdil o Volga, sbocca in detto mare; poi le condussero a contrario dell'acqua del detto fiume per la Tartaria, e di nuovo con camelli le portarono nel fiume Tanais, che è in capo del mar Maggiore, ora detto la Tana, nel qual luogo non sono ancora centocinquanta anni che andavano le galere e navi veneziane e genovesi a comprar dette spezie e gioie. E questo viaggio durò gran tempo, sin a tanto che uno imperadore dell'Armenia dette commodità che per la via degli Iberi e Albani, che son i Zorziani, dette spezie si conducessero dal mar Caspio nel fiume Fasso, che appresso gli antichi era detto Phasis, nel mar Maggiore, e di là nella città di Trapesonda, dove le navi, andando a pigliarle, avevano a far minor cammino. E anco questo viaggio si perse, per la rovina che fecero i Turchi di quello imperio, e fu trovato poi che, conducendole nel seno Persico sino alla bocca del fiume Eufrates, dove è il luogo detto Balsera, si potevano navigare molte giornate per detto fiume, e poi con i camelli nella carovana condurle alla volta delle città d'Aleppo e Damasco e insino a Barutti, sopra il nostro mar Mediterraneo. Poi pare che di nuovo, per ordine de' soldani del Cairo, si tornassero al primo viaggio del mar Rosso, e con le carovane che andavano al perdon della Mecca eran condotte parte al Cairo e Alessandria e parte a Damasco.
Ma da cinquanta anni in qua hanno presa la via del ponente, circondando tutta l'Africa, per la virtú e industria de' gran capitani delli serenissimi re di Portogallo, i quali con le armate sue si sono insignoriti di tutti i mari orientali e hanno fatti castelli alle marine di molti luoghi della India, i quali chiamano fattorie, cioè sopra la Etiopia a Monzambique e Melinde, e nell'entrar del seno Persico, sopra l'isola d'Ormuz, sopra la costa di Calicut, al Diu, in Goa, in Cochin, e poi sopra l'Aurea Chersoneso in Malacca, e anco sopra l'isola Sumatra e altre isole dove nascono i garofani. Ed essendo padroni di tutti i mari, sí che alcuno non può navigar senza loro licenza, sono stati sforzati tutti li re e signori vicini al mare, per aver vettovaglie e spacciare le lor mercanzie, di farsi tributari, e han fatte convenzioni e patti con detti signori portoghesi di dar a loro tutti i pepi e gengevi che ivi nascono per tanti ducati il cantaro, conducendoli nei magazini che sono nelle fattorie che ha il detto re di Portogallo, il qual all'incontro di questo mercato fa dar ogni anno a quei signori tanti rami, argenti vivi, coralli, cinaprii e panni scarlatti, e anche ducati d'oro, sí che egli ha le spezie per buono mercato; poi si caricano cinque o sei navi, che vengono per l'ordinario a Lisbona per conto di sua Maestà. Del resto che avanza loro, che è grandissima quantità, se ne vende ai Mori e altri mercatanti del paese, che le conducono in Ormuz, e di quel luogo poi alla Balsera, e vengono in Aleppo e per tutta la Soria e per il paese del Sofí e di tutti i Tartari che confinano sopra le Indie. E oltre l'accrescimento della valuta delle spezie, che ei fanno a lor modo, fanno anco pagare, quando elle giungono in Ormuz, a' compratori un gran dazio per ogni cantaro; il simile fanno delle altre sorti di spezie che nascono nelle isole Molucche, delle quali, oltre quelle che si caricano per Lisbona, se ne vendono molte anco ai Mori per la Balsera e per la Mecca, ma con gran dazii, e ad altri che le conducono a Bengala e Pegu, ma con minor dazio. E qualche fiata danno detti capitani licenza a qualche gran mercante che da dette isole Molucche le possa far condurre insino alla Balsera o in Cambaia, ma bisogna che questa grazia sia per grande amicizia o per forza di denari. I popoli della China e di Cochinchina e che abitano verso greco e tramontana non vengano a comprar pepi sopra la costa di Calicut, ma con lor navili vanno a levargli a Malacca e alla isola di Sumatra e Molucche, per esser loro piú vicine, ove ne trovano grandissima copia. Alcune fiate li capitani di sua Maestà n'hanno voluto mandar insino a' paesi della detta China, e n'hanno guadagnato come se l'avessero condotte in Portogallo.
Queste sono le grandissime revoluzioni e varietà de' viaggi che hanno fatto nello spazio di 1500 anni dette spezie, delle quali avendone scritto quanto ne ho potuto ritrarre dalli libri antichi e moderni e da persone statevi ai tempi nostri, mi par convenevole di non lassare per modo alcuno che io non racconti un grande e ammirabile ragionamento che io udi' questi mesi passati, insieme coll'eccellente architetto messer Michele da San Michele, nell'ameno e dilettevol luogo dell'eccellente messer Ieronimo Fracastoro detto Cafi, posto nel Veronese, sopra la sommità di un colle che discopre tutto il lago di Garda. Il qual ragionamento non mi basta l'animo di poter scriver cosí particolarmente com'io lo udi', perché mi saria di bisogno d'altro ingegno e altra memoria che non è la mia; pur mi sforzerò sommariamente e come per capi di recitar quel che mi potrò ricordare.
In questo luogo di Cafi adunque essendo andati a visitar detto eccellente messer Ieronimo, lo trovammo accompagnato con un gentiluomo, grandissimo filosofo e matematico, che allora gli mostrava uno instrumento fatto sopra un moto de' cieli trovato di nuovo, il nome del quale per suoi rispetti non si dice. E avendo tra loro disputato lungamente sopra questo nuovo moto, per ricrearsi alquanto l'animo fecero portare una balla grande molto particolare di tutto il mondo, sopra la quale questo gentiluomo cominciò a parlare, dicendo che tutti gli uomini studiosi erano grandemente obligati e tenuti alli serenissimi re di Portogallo stati da cento anni in qua, conciosiaché avevano spesi infiniti tesori non già in guerra alcuna contra cristiani, ma in discoprir nuovi paesi che già tanti secoli erano stati nascosti, e far in quelli esaltare la fede di nostro Signor Giesú Cristo; e ch'erano stati fortunatissimi nelli capitani e gentiluomini mandati a questa impresa, perché tutti si avevano diportato con grandissimo valore, e che non sapeva trovar una nazione generalmente di tanta virtú come la portoghese, e tanto desiderosa dell'onore ed esaltazione del suo re, pel quale non stimariano morir mille volte il giorno, né mai si è inteso che alcuno di loro sia mancato a sua Maestà della debita obedienza e fede, ancora che si siano trovati in lontani paesi e con infinito tesoro nelle mani. E lassando da parte molte notabili imprese nel conquistar molti luoghi nell'Indie, e infinite battaglie e terrestri e navali, le due oppugnazioni fatte alla città del Diu, la prima del millecinquecentotrentaotto per una armata del gran Turco, scritta per il signor Damian Goes, e questa ultima del 1546 che scrive il signor Iacobo Tevio pel re di Cambaia, e difesa cosí valorosamente per Portoghesi, passavono di gran lunga tutte quelle accadute in Italia ai tempi nostri, sí per la moltitudine dell'artegliaria come per la ostinazione degli animi degl'Indiani, i quali aveano già imparate le ordinanze di guerra da' Turchi andati a stare in quelle parti, e sapevano manegiar l'artegliarie e archibusi cosí bene come sanno gl'Italiani, e ne hanno maggior quantità che non hanno forse li principi cristiani. E per concluder in due parole, chi non cognosce che l'andata di cinque o sei capitani portoghesi in Persia aveva fatto stare tutto il mondo sospeso e in aere?
Si mise poi a discorrere quali erano quelle parti di detta balla che mancassero a scoprirsi, e si disse che della terra verso il polo antartico a torno a torno non si sapeva cosa alcuna, se non quel poco della costa di Bressil insin allo stretto di Magaglianes, item la parte del Perú, e un poco sopra l'Africa verso capo di Buona Speranza; e che si maravigliava fuor di misura come non sia ricordato alli principi grandi, alli quali Iddio ha deputato questa cura, e tengono sempre alli consigli loro uomini grandi sí di lettere come d'intelletto, ch'una delle piú ammirabili e stupende operazioni che potessero far in vita loro saria il far conoscere insieme gli uomini di questo nostro emispero con quelli dell'altro opposito, dove sariano reputati per dei, sí come ebbero gli antichi Ercole e Alessandro, che passorono solamente nell'India, e che 'l titolo di questa impresa avanzeria di gran lunga e senza alcun parangone tutti quelli di Giulio Cesare e di ciascun altro imperador romano. La qual cosa potriano fare facilmente mandando in diversi luoghi del detto emispero colonie ad abitarvi, nel modo che faceano i Romani nelle provincie di nuovo acquistate, le quali a poco a poco andassero scoprendo quelle parti, coltivandole e introducendovi la civiltà, e da valenti uomini poi farvi predicar la fede di nostro Signor Giesú Cristo; e per domesticarli piú facilmente vi facessero andar ogni anno delle navi cariche di farine, vini, spezie, zuccari e altre sorti di mercanzie di queste nostre parti, all'incontro delle quali non è dubio alcuno che riportariano da quei popoli infinito oro e argento. Disse poi della isola di San Lorenzo, che è maggior che non è il reame di Castiglia e Portogallo, e corre da gradi dodici verso l'antartico sin a gradi ventisei e mezzo, voltato che si ha il capo di Buona Speranza greco e garbino, che essendo populatissima, sí per l'aere temperato come per l'abbondanza di ciò che fa bisogno al viver umano, e una delle piú nobili ed eccellenti isole che ai nostri tempi sia stata trovata, che di questa tal isola non si abbi voluto riconoscere se non alcuni pochi porti delle marine, e lasciato tutto il resto incognito; e il medesimo è ancora intravenuto in gran parte dell'isola Taprobana, alle Giave maggiore e minore, e ancora ad infinite altre.
Volendo poi parlar sopra le parti del nostro polo, si fece portare il libro di Plinio, e quivi con diligenza ponderò il capitolo 67 del secondo libro, dove ei recita della istoria di Cornelio Nipote queste parole, che a suo tempo un certo Eudoxo, fuggendo dalle mani del re Lathyro, se n'uscí del golfo Arabico e venne per mare sin nell'isola di Calese, dicendo che questa narrazione, riputata già tanti anni per favola, era stata per la virtú di Portoghesi a' tempi nostri fatta conoscere per verissima, e che 'l medesimo Cornelio Nipote recita similmente che al tempo che Q. Metello Celere, collega d'Afranio nel consolato, si trovava proconsole in Francia, da un re di Svevia gli erano stati mandati a donare alcuni Indiani, i quali navigando d'India per cagione di mercanzie erano stati trasportati dalla fortuna ai liti della Germania. Che anco questa tal cosa potria verificarsi ai tempi nostri, quando li principi che confinano sopra quelli mari vi volessero metter qualche poco d'industria e diligenza, e che non sapeva imaginarsi navigazione alcuna di tanta utilità e profitto a tutta la cristianità quanto saria questa, cioè che per questa via si potesse penetrar nell'India, e che si trovasse il paese del Cataio che fu discoperto già ducento anni per messer Marco Polo. E tolta la balla in mano dimostrava che 'l viaggio saria molto piú breve di quello che fanno ora li Portoghesi, e anco di quello che si dice che potriano far li Castigliani, all'isole Molucche. E cominciò a dire che la città di Lubecco, ch'è cosí nobile e potente republica posta sopra il mar Germanico, la qual di continuo naviga li mari della Norvega e Gottia, e anco il serenissimo re di Polonia, che vien con li suoi regni di Lituania sin sopra detto mare, sariano atti a far fare questo scoprimento, ma sopra tutti il duca di Moscovia averia la maggior commodità e facilità di ciascun altro principe.
E quivi fermatosi per alquanto spazio, tutto pensoso disse: "Già che siamo a questo passo, mi pareria discortesia grande se non vi dicessi tutto quello che altre volte io intesi di questo viaggio, sopra il qual, per cagione di queste parole di Plinio, vi ho pensato già molti anni. Ritrovandomi adunque nella mia gioventú in Germania, nella città d'Augusta, vi venne un ambasciadore del duca di Moscovia, il quale intendendo che era uomo grande di lettere greche e latine, e pratico nelle cose del mondo per essere stato mandato in diversi luoghi dal detto principe, del quale era consigliere, tenni modo di farmegli amico. Col quale parlando un giorno di questi Indiani gittati per fortuna ai liti di Germania, e del viaggio che si potria scoprire per li mari settentrionali alle spezierie, viddi che si maravigliò grandemente al primo tratto, come di cosa che non si averia mai potuto imaginare; ma pensatovi sopra gli entrò nella fantasia e piacque grandemente, e disse: "Già che si vede quel che hanno fatto i Portoghesi circondando tutta la parte di mezzogiorno, reputata dagli antichi inaccessibile pel gran caldo, perché non dovemo tener per certo che si possa far il medesimo atorno questa parte settentrionale, senza tema del freddo, massime dagli uomini nati e nutriti in questi clima?" E seguitando disse che, se il suo principe avesse appresso di sé persone che l'inanimassero a far discoprir questo viaggio, non vi è alcun principe di cristiani che abbia la maggior facilità di lui; e fattasi portare una carta dove era la descrizione di Moscovia e altre provincie suggette a quella, dimostrava che dalla città di Moscovia andando verso greco levante, fatti che si aveano sessanta miglia, si giungeva al fiume Volochda, e per quello a seconda poi alla città di Ustiug, cosí chiamata per cader il fiume Iug nel fiume Succana, li quali, persi li nomi, fanno il fiume grossissimo della Dvina, e per quello, lassata a man destra la città di Colmogor, si naviga sino all'oceano settentrionale. E ancor che sia lungissimo tratto e piú de ottocento miglia, nondimeno diceva che nella state si poteva commodamente navigarlo, e che dove sbocca in mare vi sono infinite selve di legnami atti a far navili, li maestri de' quali, e di tutto il resto che vi facesse bisogno, non mancheria di far venir di Germania; e che gli uomini che navigano il mar Germanico atorno la Gottia sariano li migliori e piú atti a mettere a questa impresa che altri che si potessero trovar al mondo, perché sono pazientissimi e di freddo e di fame e indurati a quelle fatiche.
Disse anco che nella corte del suo principe s'avea notizia grande del paese del gran Cane del Cataio, per cagione delle guerre continue che s'hanno con li Tartari, la maggior parte de' quali danno obedienza al detto gran Cane come a suo supremo imperadore. E mostrava sopra detta carta per greco levante che, passata la provincia di Permia e il fiume Pescora, che gitta nel mar settentrionale, e alcuni monti grandissimi detti Catena Mundi, s'entrava nella provincia Obdora, dove è la Vecchiadoro, e dove è 'l fiume Obo, che sbocca pur nel detto mare, è l'ultimo termine dell'imperio del principe di Moscovia, il qual fiume nasce in un lago grandissimo detto Chethai, che è il primo luogo delli Tartari che danno tributo al detto gran Cane: e da questo lago il cammino di due mesi lontano si sapeva per certo, da Tartari presi in guerra, esservi la nobilissima città di Cambalu del detto gran Cane. E per tanto, fabricati che fussero li navili sopra il detto mare, chi li facesse andar dietro la costa, la qual per molte relazioni fatte altre volte alla presenzia del suo principe sapeva certo correr greco levante infinitamente, e andando drieto quella, facilmente si veniria a scoprir detto paese. E quivi si stese a dire ch'ancora che vi siano grandissime difficultà nella Moscovia, percioché il cammino che va verso detto mare è tutto foltissimo di selve piene d'acque, che nella state fanno grandissime paludi e impossibili a penetrarli, e anco delle vettovaglie, che non si trovano per spazio non di giornate ma di mesi, non v'essendo abitatori, nondimeno diceva che, quando appresso il suo principe fusse un par d'uomini spagnuoli o portoghesi, li quali avessero il carico di questa impresa e fussero obediti, non dubitava punto, anzi teneva per certo, che lo discopririano, perché con l'ingegno grande e pazienzia inestimabile propria di quella nazione supereriano tutte le difficultà sopradette, le quali sono minime a paragone di quelle che egli ha inteso che hanno passate e passano ogni giorno nell'Indie.
Continuò poi che non erano passati molti anni che venne alla corte del suo principe un ambasciador di papa Leone, nominato messer Paulo Centurione genovese, sotto diversi pretesti, ma la principal cagione, per quel che esso poté comprendere, era perché il detto messer Paulo, avendo conceputo sdegno e odio grande contro Portoghesi, voleva vedere se poteva far aprir un viaggio per terra, che le spezierie venissero d'India per via di Tartari e del mar Caspio nella Moscovia, di donde, caricate in navili sopra il fiume Riga, che scorrendo nel paese della Livonia sbocca nel mar Germanico, le voleva far navigare per tutto il ponente con gran facilità; e che 'l suo principe gli dette orecchie e non mancò allora di far ogni cosa, e fece tentare alcuni signori di l'ordo di Tartari vicini, ma le guerre che eran tra loro, e i grandissimi diserti che dicevano esser necessario di passare, li fece torre dall'impresa: che se fusse stata proposta la navigazione dai lidi di questo nostro mar settentrionale andando dietro la costa sin al Cataio, facilmente questo suo disegno poteva riuscire. E continovando ancora il detto ambasciatore disse che delli prefati mari alcuno non dovea dubitare che non si possino navigare per sei mesi dell'anno, essendove il giorno lunghissimo e caldo per la continua reverberazione dei raggi solari; e che al presente s'aveano fatte cognite e dimesticate molte parti del mondo che gli antichi non aveano mai sapute".
E quivi faccendo fine il detto gentiluomo disse: "Lasciamo star questa parte della Moscovia col suo freddo, e parliamo un poco di quella parte del mondo nuovo dov'è la terra detto di Bertoni e Bachalai, e dove l'anno millecinquecentotrentaquattro e millecinquecentotrentacinque Jacques Cartier in duoi viaggi fatti con tre galeoni francesi trovò quel paese cosí grande detto Canada, Ochelaga e Sanguenai, che corre da quarantacinque gradi sino a cinquantauno, tanto popolato e bello che gli pose nome la Nova Francia. Perché non dovean gli principi che hanno questo maneggio avervi mandate due o tre colonie ad abitarlo e far domestico, di salvatico e inculto che egli si trova, essendo massimamente cosí grasso, fruttifero e copioso d'ogni sorte di biade, legumi e animali, con fiumi cosí grandi che per uno vi navigò piú di centoottanta miglia all'insú, trovandolo infinitamente abitato da una banda e l'altra; e far che li governatori di dette colonie facessero discoprir verso tramontana dove è la terra detta del Lavoratore, e veder se ella si congiunge con la Norvega, over se vi è mare, come è verisimile che vi debba essere, conciosiacosaché è da credere che gli Indiani detti di sopra, buttati dalla fortuna, circondando la parte della Norvega venissero per quella alli liti della Germania; e appresso, mandando verso il vento di ponente maestro, scoprissero il mare pel qual si potesse navigar verso il paese del Cataio, e di lí poi verso l'isole Molucche? Queste sariano imprese che fariano gli uomini immortali, le quali il signor Antonio di Mendoza, per la singular sua virtú e grandezza d'animo, avendole conosciute, ha ben voluto metterle ad esecuzione, perciò che, trovandosi vice re nel paese del Mexico, ora detto la Nova Spagna, ch'è in gradi venti sopra l'equinoziale nella sopradetta parte del mondo novo, mandò per terra suoi capitani e anco per mare una buona armata. E mi ricordo, essendo in Fiandra alla corte cesarea, aver vedute sue lettere scritte del MDXLI dal Mexico, che dicevano come egli avea fatto scoprire alla volta del vento di maestro il regno delle Sette Città, dov'è quella detta Civola per il reverendo padre F. Marco da Niza, e come oltra 'l detto regno, alla volta pur di maestro, il capitano Francesco Vasques di Coronado, avendo trapassati grandissimi deserti, era pervenuto sopra 'l mare, dove avea ritrovati navilii che navigavano per quello con mercanzie, i quali portavano per insegna sopra la prua alcuni uccelli fatti di oro e d'argento ch'al Mexico chiamano alcatrazzi e che li marinari con cenni dimostravano ch'erano stati trenta giorni a venire in quelli porti: dal che si comprendeva che questi tal navilii non potevano essere se non del paese del Cataio, per esser posto all'incontro di quella parte di terra scoperta. Continuava 'l detto signor Antonio che per opinione d'uomini pratichi era stato discoperto tanto spazio di paese fino al detto mare che passava novecentocinquanta leghe, che fanno 2850 miglia. E veramente, se i Francesi in questa lor Nova Francia avessero voluto far penetrar fra terra verso detto vento di ponente maestro, averiano ancora essi trovato 'l mare e potuto navigare al Cataio. Ma quel che mi parve sopra modo degno di grandissima laude era che 'l prefato signor Antonio scrivea in dette lettere come egli avea fatto far un libro di tutte le cose naturali e maravigliose che si trovano in quelli paesi discoperti con le sue altezze e misure, opera veramente che dimostra un animo regio e grande: e si comprende che se 'l nostro Signore Iddio gli avesse dato 'l carico dell'altro emispero, che l'avria sin ora fatto cognito a tutti noi altri. La qual cosa non è al presente uomo (come io credo) che far se la pensi, e nondimeno è la maggiore e la piú gloriosa impresa che alcuno si possa imaginare".
E fatto alquanto di pausa, voltatosi verso di noi disse: "Non sapete, a questo proposito d'andare a trovar l'Indie pel vento di maestro, quel che fece già un vostro cittadino veneziano, ch'è cosí valente e pratico delle cose pertinenti alla navigazione e alla cosmografia ch'in Spagna al presente non v'è un suo pari, e la sua virtú l'ha fatto preporre a tutti li pilotti che navigano all'Indie occidentali, che senza sua licenza non possono far quell'esercizio, e per questo lo chiamano pilotto maggiore?" E rispondendo noi che non lo sapevamo, continuò dicendo che, ritrovandosi già alcuni anni nella città di Siviglia e desiderando di saper di quelle navigazioni de' Castigliani, gli fu detto che v'era un gran valent'uomo veneziano che avea 'l carico di quelle, nominato 'l signor Sebastiano Caboto, il qual sapeva far carte marine di sua mano, e intendeva l'arte del navigare piú ch'alcun altro. "Subito volsi essere col detto, e lo trovai una gentilissima persona e cortese, che mi fece gran carezze e mostrommi molte cose, e fra l'altre un mapamondo grande colle navigazioni particolari sí di Portoghesi come di Castigliani. E mi disse che, sendosi partito suo padre da Venezia già molti anni e andato a stare in Inghilterra a far mercanzie, lo menò seco nella città di Londra che egli era assai giovane: non già però che non avesse imparato e lettere d'umanità e la sfera. Morí il padre in quel tempo che venne nova che 'l signor don Cristoforo Colombo genovese avea scoperta la costa dell'Indie, e se ne parlava grandemente per tutta la corte del re Enrico VII, che allora regnava, dicendosi che era stata cosa piú tosto divina che umana l'aver trovata quella via mai piú saputa d'andare in Oriente, dove nascono le spezie. "Per il che mi nacque un desiderio grande, anzi un ardor nel core di voler far ancora io qualche cosa segnalata, e sapendo per ragion della sfera che, s'io navigassi per via del vento di maestro, averia minor cammino a trovar l'Indie, subito feci intender questo mio pensiero alla maestà del re, il qual fu molto contento e mi armò due caravelle di tutto ciò che era di bisogno: e fu del millequattrocentonovantasei, nel principio della state. E cominciai a navigar verso maestro, pensando di non trovar terra se non quella dove è il Cataio, e di lí poi voltar verso le Indie; ma in capo d'alquanti giorni la discopersi che correva verso tramontana, che mi fu d'infinito dispiacere. E pur andando dietro la costa per vedere s'io poteva trovar qualche golfo che voltasse, non vi fu mai ordine, che andato sin a gradi cinquantasei sotto il nostro polo, vedendo che quivi la costa voltava verso levante, disperato di trovarlo, me ne tornai adietro a riconoscere ancora la detta costa dalla parte verso l'equinoziale, sempre con intenzione di trovar passaggio alle Indie, e venni sino a quella parte che chiamano al presente la Florida, e mancandomi già la vettovaglia, presi partito di ritornarmene in Inghilterra: dove giunto, trovai grandissimi tumulti di popoli sollevati e della guerra in Scozia, né piú era in considerazione alcuna il navigare a queste parti. Per il che me ne venni in Spagna al re catolico e alla regina Isabella, i quali, avendo inteso ciò che io aveva fatto, mi raccolsero e mi diedero buona provisione, faccendomi navigar dietro la costa del Bresil, per volerla scoprire: sopra la qual trovato un grossissimo e larghissimo fiume, detto al presente della Plata, lo volsi navigare e andai all'insú per quello piú di secento leghe, trovandolo sempre bellissimo e abitato da infiniti popoli, che per maraviglia correvano a vedermi; e in quello sboccavano tanti fiumi che non si potria credere. Feci poi molte altre navigazioni le quali pretermetto, e trovandomi alla fine vecchio volsi riposare, essendosi allevati tanti pratichi e valenti marinari giovani; e ora me ne sto con questo carico che voi sapete, godendo il frutto delle mie fatiche'. Questo è quanto io intesi dal signor Sebastiano Caboto".
Poi detto gentiluomo disse: "Io voglio al tutto parlar sopra il viaggio che fanno ora li Portoghesi attorno a capo di Buona Speranza, e dico per il mio piccol giudicio che non potrà durar longamente, e che alla fine sarà forza di lasciarlo, non tanto per la spesa grande che si fa di continuo di tener armate nell'Indie per cagione di quello, quanto per esser lungo e pericoloso; e che ogni fiata che si possano aver spezie per cammino piú breve e facile, nissuno vorrà mettersi alli pericoli grandi che si corrono andando in quello". E per venire alle particolarità, mostrava sopra la balla che era necessario al primo tratto di navigar verso ostro da ottanta gradi di latitudine, cioè partendosi da Lisbona, che è in gradi quaranta verso di noi, passare altri quaranta verso l'antartico, per allontanarsi gradi cinque dal capo di Buona Speranza, ove di continuo regnava furia grande di nembi e venti sforzevoli. Nel passar poi di quello, non si poteva far di meno di non correre altri gradi quarantacinque di longitudine per levante, e voltandosi verso greco farne trentaquattro, fra l'isola di San Lorenzo e l'Etiopia fino in Monzambique, dove tutte le navi sogliono fare scala per fornirsi di vettovaglia. Volendo di qui poi pigliar la costa di Calicut, passavano un golfo di gradi quarantacinque di longitudine per greco e greco levante, sopra la qual costa non trovavano se non due sorti, cioè pepe e gengevo, e bisognava che facessero venir le cannelle e garofani dalle Molucche, che sono distanti da Calicut per levante altri quarantacinque gradi; e per il voltare di tanti capi e andare per diversi venti si allongava grandemente il cammino e faceva pericoloso, che sono in tutto gradi 249, li quali ridutti in leghe fanno 4980.
Si cominciò poi a legger la relazione d'uno Iuan Gaetan, pilotto della maestà cesarea, del discoprimento delle Molucche del 1542; la qual letta, parve questo viaggio di nuovo scoperto a tutti stupendo e ammirabile. E detto gentiluomo cominciò a dimostrare che egli era facile e breve a paragon del sopradetto, percioché non si va se non per un vento di ponente e quarta di garbin verso ponente, e al ritorno per levante e quarta di greco, né vi può esser bisogno di tenere armate, e si potrà levar dalle dette Molucche (che sono infinite, com'un arcipelago) non solamente garofani, noci e cannelle, ma pepe e gengevo, e appresso vietare che altri non le levino: sí che a giudicio suo diceva che non vi era comparazione da questo a quello detto di sopra. E come l'avranno condotte alle marine della Nuova Spagna, le faranno venire alla città del Panama delle Indie occidentali, e averan fatto dalle Molucche sino ivi gradi 92. Poi dimostrava quello stretto ch'è da mare a mare di miglia sessanta, e diceva che quivi le faranno passar con grandissima facilità in questo modo, che sopra carrette per miglia dodici saranno condotte per una pianura sopra un fiume grosso detto Lagre, che sbocca nel mare del Nort, per mezzo l'isola del Bastimento, dove è un bonissimo porto, lontano dalla città del Nome di Dio miglia quindeci, e per detto fiume verranno a seconda in barche in detto mare, dove con navi che ognora si trovano le condurranno in Spagna e Siviglia, e averanno fatti gradi sessantanove dalla città del Nome di Dio fino a San Lucar di Barameda, che sommano in tutto gradi centosessanta, che sono leghe 3220, che sarà minor cammino di quello che si fa atorno capo di Buona Speranza da 1760 leghe.
Volse poi andare piú oltra il prefato gentiluomo discorrendo, e disse che anco questo tal viaggio con tempo si lasseria, e n'adduceva le ragioni e cagioni grandi, le quali per convenevoli rispetti non accade che ora si dichino. Ove veramente dette spezie avessero a fermarsi senza far piú alcuno rivolgimento, lo pronosticava e dimostrava chiaramente, venendo alle particolarità de' siti e regioni e del modo; e che sapeva di certo che 'l gengevo saria stato già il primo a mostrare il cammino il qual doveano far l'altre, se non fosse stato questo maneggio proibito da chi ha piú potuto. Però, lasciate da parte dette spezie, entrò a parlare delle sete, delle quali ora ve n'è tanta copia ch'ognuno (sia chi esser si voglia) se ne veste e calza, e che già millecinquecento anni non erano portate in dosso se non da principi e uomini grandi. E queste diceva che si poteano affermare essere a' tempi di nostri avoli state cominciate a farsi in Italia col mezzo degli arbori mori e vermi, e poi sono passate in tutte le provincie di ponente e sino all'Indie occidentali; e chi vorrà leggere le scritture antiche con diligenzia, troverà che non venivano portate a noi se non da l'India orientale, e ch'in quella anco erano condotte dai popoli Seres, che l'andavano raccogliendo sopra gli arbori. Il zuccaro poi, cosa tanto preziosa e divina, non si aveva in uso al detto tempo se non in poca quantità, e per conto di medicina: e nondimeno tutto 'l mondo n'è ora tanto ripieno e se ne fa in tanti luoghi, ch'in levante e in ponente se ne caricano navi infinite. Entrò poi a dire di cedri, limoni e naranci, delli quali al presente l'Italia n'è coperta di boschi grandissimi, che al tempo che l'imperio romano fioriva non si sapeva che d'altronde se ne portassero se non dalla Media e Persia. E in conclusione diceva che non saria fuor di proposito affermare che 'l medesimo potria intravenire alle dette spezie che è intravenuto a tante altre cose, che qualche gran principe per novi accidenti le facesse mutar paesi e regioni, non alterando in la maggior parte di quelle li gradi loro naturali delle latitudini, cosa non impossibile a chi vorrà considerar molto bene quello che elle hanno fatto nei tempi passati; ma che del gengevo si potria far ciò che si volesse, che nasceria in tutte l'isole grandi del nostro mar Mediterraneo, e che facilmente se ne potria veder la prova mandando per la via del Cairo a pigliarne le radici fresche al Suez, dove ne piantano ogni anno. A proposito del qual mar Mediterraneo, mi par ricordare che toccasse anco di non so che nuovo viaggio che si potria far in quello di grandissimo profitto, ma a che parte èmmi al tutto fuggito dalla memoria. Alla fine diceva che di tante varietà e mutazioni n'erano cagione gli uomini della età nostra, molto piú che gli antichi industriosi e arrisicati nel cercare il mondo, i quali, non aveggendosi della naturale lor fragilità e debolezza, come se fossero immortali, non restavano per alcuna difficultà, né della zona torrida né delle due aggiacciate e fredde, d'andare continuamente travagliando, rivolgendosi d'intorno a tutta la rotondità della terra per saziar la loro immensa cupidità e avarizia.
Relazione di Iuan Gaetan, pilotto castigliano, del discoprimento
dell'isole Molucche per la via dell'indie occidentali.
Partimmo da Porto Santo, dove arrivammo dipoi che partimmo dal porto della Natività, che è in XX gradi di altezza nella Nuova Spagna, nella costa del mare del Sur, il giorno di Ognisanti dell'anno MDXLII, e navigammo in quello da XXX giorni, poco piú o manco, il piú di quelli al ponente e quarta di garbin verso ponente. E in capo di questo tempo, essendo andati a mia istimazione quasi 900 leghe di golfo, discoprimmo molte isole, dopo le altre che avanti avevamo vedute, alle quali ponemmo nome le isole delli Re, perché sono abitate da genti povere e nude, che non tengono altro vestimento se non uno mastello, che è una sorte di braghe o panni con che coprono le parti disoneste. In queste isole trovammo nella costa coralli, e nella terra galline come sono quelle di Castiglia, e li frutti di cochi e di muse; non vedemmo però oro, né argento, né altra cosa di momento. Avanti di queste avevamo discoperto nel colfo alcune isole disabitate e senza gente, come è la isola di San Tomaso, che sta lontana dalla Nuova Spagna 180 leghe, e l'isola della Rocha Partida, che è piú avanti dell'altra piú di CC leghe. E andammo piú avanti di questa isola piú di CC leghe, e pigliammo fondo in sette braccia, e stando in 13 o 14 gradi non vedemmo terra; però avevamo sospetto che fusse l'isola di San Bartolomeo, della quale si aveva pur qualche notizia. E di quivi ce ne venimmo alle isole che tengo detto delli Re, le quali stanno in 9 e in 10 e in 11 gradi dalla parte di tramontana. E d'indi navigammo 18 in 20 leghe, e trovammo l'isole alle quali ponemmo nome delli Coralli, che stanno in 9 o in 10 gradi, poco piú o manco, tutte similmente dalla banda di tramontana: e ivi pigliammo acqua e legne, e trovammo gente della maniera di quell'altra che abita nell'isole delli Re. E d'indi partendo, navigammo al ponente e quarta di garbin verso ponente piú di cinquanta leghe, poco piú o manco, e trovammo altre isole, alle quali, perché ne parvero verdi e belle, ponemmo lor nome li Giardini: e stanno nell'altezza poco piú o manco che le dette delli Coralli, e vedemmo palme e altri arbori; non buttammo però scala. E di quivi navigando per il detto parizzo, che è al ponente, quasi 280 leghe, trovammo una isola piccola, che le ponemmo nome il Matelotes, e sta nella medesima altezza come le dette di nove in dieci gradi; e arrivando noi alla costa di quella al riparo senza sorgere, la vedemmo piantata di palme e popolata di gente, che ne diedero qualche poco di pesce e cochi. E di lí navigando al medesimo parizzo trenta leghe, trovammo un'altra isola, alla quale ponemmo nome la isola de los Arezifes. Circonda questa isola poco piú o manco di 25 leghe, e vedemmo molte abitazioni di genti e molti boschi di palme.
E di lí partimmo senza mettere scala al ponente e quarta di garbin, ed essendo andati 140 leghe, poco piú o manco, discoprimmo l'isola che chiamano Migindanao, e noi altri communamente la chiamiamo Vendenao. Questa isola è molto grande, che dapoi circondandola trovammo che tiene 380 leghe, e si stende per lunghezza dal levante al ponente. La maggior altezza di quella sarà in 11 gradi e mezzo, il piú basso in cinque o sei gradi. È popolata di molte e diverse genti, e vi sono Mori, gentili e diversi re e signori, e vanno vestiti di certe vesti senza maniche, corte, come marlottas , che chiamano patolas : e li ricchi le portano di seta, che è come li taffettani, e le altre genti di gottone e di diverse sorti. Hanno molte arme di ferro e d'acciaio offensive, come sono scimitarre, pugnali e lancie; e l'arme difensive fanno di cuoio d'animali, che è piú duro e forte che quello di anta. In certa parte di questa isola, che signoreggiano li Mori, v'è artegliaria minuta. Vi sono in questa isola porci, cervi e bufoli e altri animali di caccia, e galline di Castiglia, e risi e palme e cochi; non v'è maiz in quella, ma tengono per pane il riso, e di una scorza che chiamano sagu , della quale si cava anco dell'olio come si fa di palma, e ne fanno pane in quella terra. In questa isola vi è il gengevo in abondanza e il pepe; vi è oro molto singulare, che si cava delle mine della medesima terra: l'apprezzano e ne fanno conto, portano catene e gioielli legati in quello. Nel capo di questa isola alla parte di ponente vi è molta cannella, e quivi toccano li Portoghesi, quando vanno alle Molucche. In questa isola toccò la nostra armata per la parte de levante in un luogo dispopolato, e ivi stemmo tre o quattro mesi, riconoscendo e lasciando la costa di questa isola verso la parte di mezzodí.
E di lí andati per la medesima costa in altezza di cinque o sei gradi, alla fine di quella trovammo le isole che si chiamano Sarangar e Candicar, che stanno in cinque gradi e mezzo e sono lontane una dall'altra mezza lega per levante e ponente: e quivi facemmo la scala, e trovammo mala gente, ladroni e corsari. E navigano questi e quelli della isola grande già detta in navilii che chiamano giunchi, caracoas e paraos , di ogni sorte, grandi e mezzani, di buona taglia e buoni per navigare, i quali, ancora che non abbiano pece per impegolarli, il piú di quelli però stanno di tal maniere legati con stoppa e con chiodi di legno, che non fanno acqua alcuna. Questi sono li piú mezzani, ma li grandi portano la sua inchiodatura e vanno impegolati con pece di diverse sorti di bitumi, che hanno in queste due isole, delle quali c'impatronimmo per forza: e perché ne mancorno le vettovaglie, mangiammo di quelle della terra, che sono risi, galline, porci e capre. E di quivi il capitano generale determinò di mandar Bernardo della Torre, in un navilio picciolo che egli aveva, con 18 o venti uomini alla volta della Nuova Spagna, e dare aviso al vice re della nostra navigazione fino a queste isole: e quello che questo dice fu uno di quelli. E volendo fare questa navigazione col detto navilio, venimmo alla parte di tramontana, navigando per la parte di levante della detta isola grande di Vendenao, e alla tramontana di quella in dodici gradi trovammo un'isola che chiamano Tendaia, e noi altri la chiamammo Filippina, dove trovammo gente mansueta, che ne raccolse e diede vettovaglie per il nostro riscatto. Le genti di questa isola sono idolatre, ma pur è gente mansueta e amichevole; e ci fornimmo alla giornata, per esser la isola abondante di porci, risi, galline e mele e altri frutti. E tengono oro e mine, e abondanza di gengevo e pepe; vanno vestiti come quelli della isola grande, hanno ferro e arme come quelli. Circonda questa isola 160 leghe; la sua maggior altezza sarà di poco piú di XV gradi, e il piú basso in XII: corre tutta dal levante al ponente. Alla tramontana di quella sta un'altra isola grande, di maniera che tra una e l'altra vi è uno stretto di mare di XII leghe di viaggio, nel quale vi sono diverse isolette piccole, tutte popolate, e sono molto fertili delle vettovaglie già dette, e in tutte porti e sorgidori molto buoni.
E di lí navigando al levante, ritornando alla Nuova Spagna in questo navilio e montando fino a XVI gradi, ed essendo andati CC leghe, poco piú o manco, trovammo un'isola che chiamammo Apriocchio, perché la lavava il mare; e di lí navigando al levante e quarta di greco, discoprimmo due altre isole grandi, che stavano una dall'altra in XVI e XVII gradi, nelle quali non sorgemmo né vedemmo ciò che vi fusse. E di lí navigando pur al levante e greco, ci mettemmo nella maggiore altezza, fino che arrivammo a XXV gradi, e ivi vedemmo altre tre isole, avendo navigato quasi CCC leghe tra le dette isole, di maniera che eravamo andati dall'isola chiamata Filippina, di onde partimmo, fino a queste 500 leghe, che stanno in XXIIII e XXV gradi: e una di quelle butta un vulcano grande di fuoco, e vedemmo il fumo e le fiamme molto da lungi. E di lí corremmo alla volta del levante quarta di greco, e vedemmo, passate trenta leghe, un'altra isola dispopolata; e di lí seguendo il cammino per il medesimo parizo, ci mettemmo in 24 gradi e duoi terzi. Ed essendo andati dipoi che partimmo 650 leghe, trovammo grandissimo mare da maestro e molto vento di tramontana, che ne sforzò di andare abassando da XXV gradi a XXIII, camminando tuttavia quello che potevamo. Ed essendo andati nella forma sopradetta 750 leghe del nostro cammino alla via della Nuova Spagna, e avendo già gli arbori rotti, gli racconciammo il meglio che potemmo, e per paura che non ne mancasse l'acqua, perché non ne avevamo se non otto botte, col parere di alcuni determinò il capitano di ritornare a trovar la nostra armata dove l'avevamo lasciata nella Filippina, ancora che costui che dice questo fusse di parere che si proseguisse il viaggio, perché gli pareva che si poteva navigare e pigliar la Nuova Spagna.
Però, avendosi determinato come di sopra, facemmo la nostra navigazione al ponente e quarta di garbino, e avendo navigato trecento leghe dipoi che demmo volta, trovammo alcune isolette che stanno da XV fino a XVI gradi una con l'altra, tramontana e mezzodí. Dicono che queste sono l'isole delli Ladroni, però noi non sorgemmo in quelle, né avemmo notizia della gente. E di lí navigammo al medesimo parizo, la maggior parte al ponente e quarta di garbino, e venimmo a ricognoscere la detta isola Filippina alla parte di tramontana di quella, in un porto buono che tiene due isole alla bocca di quello. E perché avevamo lasciata l'armata alla parte di mezzodí nell'isola di Sarangan, come è detto, e non potendo circondar l'isola per la parte di levante a cercare la nostra armata per li tempi contrarii, la fummo circondando per la parte del ponente, e trovammo molte isole molto belle e abitate da genti mansuete, che venivano a contrattar con noi altri: e hanno oro e gengevo e vettovaglie, come è sta' detto. E avendo cosí circondato questa isola, al ponente di quella avemmo vista di un'altra isola molto grande e popolata di gente e di vettovaglie, tali e cosí buone e piú che non sono nella Filippina; e di lí navigando all'isola e porto detto di Sarangan, dove avevamo lasciata la nostra armata, e non la trovando ivi, andammo circondando la isola di Vendenao già detta per la parte del ponente, e discoprimmo molti porti in quella. E ivi per porcellana e ferro si riscatta tutto quello che nasce in quella isola, e per qualche pezzo di taftani, che essi chiamano patolas .
E di lí partendo per la parte del levante, arrivammo a una isola dove ne fu detto che vi era stato Magaglianes quando discoperse lo stretto, e di quivi avemmo nuova che alcune delle nostre genti stavano nella Filippina; e non avendo aviso certo dove stava il nostro generale, determinammo di tornare alla Filippina a cercarlo, perché ivi dicevano che egli stava. E ritornati vi trovammo trenta uomini di quelli, perché gli altri erano ritornati in uno de' duoi bregantini che ivi avevano acconci, dalli quali intendemmo come la nostra armata era partita di donde la lasciammo per mancamento di vettovaglie, e aveva voluto venire a questa isola Filippina a fornirsi, ma per venti contrarii non aveva potuto navigare ed era andata alla isola di Vendenao. E dopo molte cose che quivi passammo, determinammo di andare con questo aviso e con li detti trenta uomini alla volta della isola di Vendenao, cercando il nostro generale: e arrivati dove era stato lasciato, non lo trovammo, né alcun segno della sua armata, se non in uno arboro certe lettere che dicevano che cavassimo al piede di quello, dove trovammo una lettera nella quale diceva che il navilio che ivi venisse l'andasse a ritrovare alla volta del colfo di San Maffo, che è a capo d'una isola prossima alle isole di Maluccho. E volendo con questo aviso andare a ritrovarlo, l'acque correnti ne ritornorno fino a quattro gradi alla banda di tramontana; tuttavia trovammo 7 o otto isole, che chiamano di Tarrao, nelle quali trovammo genti della maniera dell'altre, con vettovaglie e arme, oro e gengevo.
E di lí navigando al ponente nella medesima altezza per spazio di disdotto leghe, trovammo un'altra isola grande che si chiama Sanguin, popolata come l'altre e di miglior gente; e di lí voltando la nostra navigazione, dimandando del detto colfo di San Maffo, li tempi ne sforzorono e ne buttorno quaranta leghe al ponente, dove vedemmo e trovammo una isola grandissima, molta parte della quale si stende da levante a ponente, e parte di quella per altri e diversi parizzi. Trovammo in quella porti da duoi gradi e mezzo fino a tre, e vi si veggono molte isole al lungo della costa; e a mio giudicio può circondare questa isola da trecento e piú leghe, e nelle parti che di quelle toccammo contrattammo con gli abitatori, e vedemmo oro e sandali, gengevo e risi, porci, galline e cervi, in molto maggiore abbondanza che non sono nelle dette, ancora che non tengono maiz né altri frutti. Si fanno in quella molte armi, che si mandano in altre parti, e si vestono di quella maniera di taftani già detta e di veste di gottone. Hanno navilii della medesima sorte che quelli della isola di Vendenao; vi sono molti maestri marangoni, con li lor ferramenti, e legni molto buoni. Li luoghi abitati sono molto buoni, e in alcuni di quelli case principali molto ben fatte; tengono re e signori, e fanno guerra uno con l'altro, e quando vanno li Portoghesi alle Molucche toccano nella testa di questa isola alla banda di ponente.
E di lí seguendo il nostro viaggio, per l'errore che è nelle carte da navigare, non pigliammo il detto golfo, ma andammo alli porti delle isole di Maluccho, dove trovammo il nostro generale in una di quelle, detta Tidore, dove il re gli faceva buon raccoglimento, e il simile il re dell'isola del Gilolo, nella quale il nostro capitano teneva parte della sua gente, con una nave e una galea che gli erano restate. E dapoi molte cose, le quale io non viddi, che gl'intervennero, essendo venuto ivi dal colfo di San Maffo, dove lo trovammo, si tornò ad accordare che si dovesse racconciare il navilio picciolo di don Bernardo della Torre, nel quale noi eravamo stati, e che si tornasse a fare la navigazione della Nuova Spagna: il quale si mandò d'indi a Maluccho, essendo già l'anno 1545, al principio di quello, e mutò il parizzo che noi altri per avanti avevamo fatto, e volse che si andasse per la parte di mezzodí. Il navilio il qual seguitte la sua navigazione, e secondo che dapoi da loro sapemmo, navigarono cento leghe per quella altezza al levante, e trovarono la costa e terra da mezzo grado alla banda di mezzodí, e andarono costeggiando e navigando 650 leghe senza perder vista di quella, quasi al levante e ponente, salvo che montarono sei in sette gradi della banda di mezzodí: la qual terra trovarono tutta abitata da negri, che vennero alla costa con freccie e bastoni senza veleno a fargli la guerra, e sono negri molto agili, e con li capelli corti e ritorti. Finalmente, dopo molti travagli e fortune che ebbero, giunsero nella Nuova Spagna, e diedero nuova al vice re di quanto per noi era stato fatto; ma noi non lo sapemmo se non dapoi.
In questa isola di Tidore dove eravamo restati, e nelle altre isole di Maluccho, vi sono garofani, gengevo, noci moscate, cannella e pepe. Quivi ne mandarono li Portoghesi a protestare, dicendo che uscissimo della terra, che era della sua conquista, offerendone di darne passaggio: nella qual terra essi non hanno ragione alcuna, perché tutte queste isole e cinquecento leghe piú avanti, fino passata Malaccha, entrarono nella parte e conquista di sua Maestà, conforme alli cammini che fino lí io viddi, perché tutte queste isole e terre io descrissi e posi nelle sue altezze e parizzi. E potevano essere settanta uomini quelli che quivi stavano, e il re di Tidore ne dava tutte le cose necessarie, e diceva che egli voleva esser vassallo dell'imperadore, e ne prometteva di dare una nave per navigare alla volta della Nuova Spagna nell'anno seguente, perché la nostra era rotta; ma il nostro capitano deliberò di accordarsi con li Portoghesi, contra la volontà d'alcuni di noi altri, e segnalatamente di me, che mi offersi di far la navigazione verso la Nuova Spagna con detta nave. Ma il capitano volse proseguire l'accordo fatto co' Portoghesi, che era che ne dessero passaggio e vettovaglie fino in Spagna per la banda della lor navigazione, il quale accordo fu adempito con alcuni di noi altri, che ne condussero, e con altri no, perché volsero restare ivi. Li Portoghesi tengono una fortezza in una isola che si chiama Terenate, che è quattro leghe da Tidore, la qual noi vedemmo con ducento e cinquanta uomini, e di quivi fanno li lor riscatti e commerzii in tutte le dette isole, con navi e fuste alla vela. A questa fortezza e isola fussimo tutti, e di lí ad Ambon, che è una isola alla parte di mezzodí, e corre tramontana e mezzodí con la detta isola di Terenate; e dipoi con navilii di detti Portoghesi andammo a Malaccha, dove hanno maggior forza e potere, perché tengono ivi da cinquecento in seicento uomini. Qui è la maggior contrattazione, e ivi viene il pepe e l'altre cose e oro che contrattano, e muschio e sete e altre cose minute, di maniera che, se nell'isola di Tidore già detta o in Gilolo o in alcun'altra di quelle tenesse la maestà dell'imperadore trecento o quattrocento uomini, sariano bastanti al dispetto de' Portoghesi a tener la contrattazione di tutte quelle isole, e si sodisfaria a ogni spesa con questo tratto delle spezie e con molte altre cose minute che ivi contrattano.
Da Malaccha navigammo a Caniai con li lor navilii nelli quali ne condussero, ed essendo io pilotto stato in tutte le navigazioni che si fecero dipoi che uscimmo da Maluccho, conobbi tutte le lor carte, che cautelosamente le portano false e fuori delle altezze e parizzi veri, e navigano per certi derotteri, cioè pariggi, e libri che portano senza tener posta alcuna longitudine in quelli, di maniera che si ristringe e ritira la terra di Maluccho al capo di Buona Speranza, al mio giudicio, piú di cinquecento 50 leghe, secondo quello che io navigai e considerai in questa navigazione, perché ordinariamente ogni giorno io pigliava la mia altezza e metteva le mie derotte e pariggi, e assettava le terre nella sua altezza e derotta: e ne tengo fatta una carta la quale, come dico, è differente e discorde da quello che essi pongono la quantità sopradetta. E quivi lascio molte altre particolarità che mi passorno in questa andata, perché questo mi pare che solo faccia al capo principale. Ed è cosa certa che li Portoghesi, vedendo ch'io intendeva le cose della lor navigazione, procurorno che io restassi con loro e mi offersero molti partiti, li quali io non volsi accettare per venir a servire la maestà cesarea.
Cinque lettere sull'Isola del Giapan
Informazione dell'isola novamente scoperta nella parte di settentrione, chiamata Giapan
Essendosi scoperte alcune isole per li mercatanti portoghesi che di Malacca sono navigati drieto la costa della China e di sopra la città di Canton, e fra le altre una detta Giapan, della qual avendose avuto alquanto di notizia, ne ha parso conveniente nel fine di questo volume metter l'informazioni che di quella hanno scritto alcuni reverendi padri portoghesi della Compagnia del Iesú, che sono andati a stanziar in diversi luoghi dell'Indie orientali, dove il serenissimo e cristianissimo re di Portogallo tien le sue fortezze: la qual isola si pensa che sia per mezzo la provincia del Mangi che confina col Cataio, e di essa ne ha scritto il signor Ioan de Barros, primario gentiluomo di Lisbona, come nell'ultimo della sua prima Deca, e dice di voler dar fuori le tavole e descrizion del paese della China e dell'isola del Giapan. Siano adonque contenti i benigni lettori di questo poco di cibo che ora gli presentiamo, tenendo per certo che, se piú gli avessimo potuto donare, piú volentieri lo aressemo fatto.
Nella parte di settentrione, sopra la China e verso l'oriente, discoprirno li mercatanti portoghesi una isola chiamata Giapan, nella medesma altezza che è Italia, longa da levante a ponente, secondo la informazione che danno, DC leghe e larga CCC. Di quella venne l'april passato una persona molto ingeniosa e prudente, detto Angero, con duoi servitori, e s'informò da noi delle cose della nostra fede intieramente, e informato in breve tempo si fece cristiano, e gli fu posto nome Paulo. Costui è stato con noi in questo collegio nostro di Goa, chiamato Paulo di Santa Fede, dove ha imparato la lingua portoghesa, a legger e scriver a nostro modo, e ha tradotto in la sua lingua in breve compendio le cose essenziali della nostra fede e legge. Si dà quest'uomo all'orazione e contemplazione, chiamando e sospirando per Iesú Cristo, ed è tanta la sua bontà che non si potria scrivere. Essendo da noi interrogato nel tempo del suo catechismo, ne diede conto delli costumi e legge della sua terra, e perché egli non è instrutto nelle lettere che sanno quelli de l'isola che son reputati dotti, ma sa solamente la sua lingua volgar, però pare contasse cose cavate dell'oppinioni volgari piú che delle scritture sue. E in questa informazione essendovene di molte notabili, la manderò cosí come ne l'ha dettata, riportandomi a scriver la verità del tutto piú certa, come sia gionto in quelle bande il nostro padre maistro Francesco Xavier, e che gli abbi vedute le sue scritture e praticato con quelli popoli.
Primamente dice che tutta l'isola di Giapan è sottoposta ad un re, sotto il quale sono altri signori a maniera de duchi e conti, delli quali in tutto Giapan saranno quattordeci. E quando moreno alcuno di detti signori, il suo primogenito è erede nel stato, e agli altri figliuoli si dà alcuni castelli per sua sustentazione, con patto che stiano ad obedienzia del primogenito, di modo che non lassano dividere il stato. Il minimo di questi signori dice che può mettere in campo diecimila uomini da guerra, altri quindicimila, altri vintimila, altri trentamila.
Il re principale nella sua lingua si chiama voo: questo è della piú nobile progenie che sia fra loro, della qual nessuno si marita con altro lignaggio. Questo voo pare che sia fra loro come fra noi il papa, e ha iurisdizione nelle cose temporali e spirituali, cioè fra seculari e religiosi, delli quali ci è grande numero in questa terra. E per benché abbia piena autorità sopra il tutto, mai però fa guerra né comanda che sia ucciso alcuno, ma lassa tutta la cura di questo ad un altro che è fra loro come fra noi l'imperadore, chiamato nella loro lingua goxo, il quale ha il governo e imperio sopra tutta l'isola, e sta pure alla obedienzia del detto voo: e quando goxo va a visitarlo, dicono che sta col ginocchio in terra e gli pone il capo per riverenzia a mezza gamba. E benché tenga gran corte di baroni e capitani e soldati, avendo cura della giustizia e della guerra, nondimeno, se detto goxo facesse qualche cosa mal fatta, voo lo potria privar del regno e tagliargli la testa. Prestano grande obedienzia li minori alli maggiori, per la grande giustizia che usano, e hanno oppinione che tutti li peccati siano equali, e tanta punizione danno a chi robba diece bazzaruchi come ad uno che robbasse cento scudi.
Dice che voo, principal re di Giapan, vive della maniera seguente: piglia per moglie una donna della sua prosapia, e quando la luna comincia a sminuire, lui comincia a digiunare discostandosi dalla donna, e per quindici giorni che dura il digiuno mangia molto poco ad uno pasto, e attende alle lezioni e contemplazioni e orazioni, vestendosi di bianco con una grande corona in testa, insino a tanto che la luna dà la volta; ma quando quella comincia a crescere, immediate ritorna a far vita allegra con sua moglie per altri quindici giorni, e in questo tempo va a caccia e ad altri piaceri e ricreazioni. E se la moglie more avanti che gli abbi trenta anni, si può rimaritare, ma se passa trenta anni nel resto della sua vita è obligato guardare perpetua castità e viver religiosamente; e inanzi né dopo né al tempo medesimo che è con la sua donna, non ha conversazione con altra.
Sono fra queste genti, oltra delli signori detti, baroni, cavallieri, mercatanti e offiziali di tutte le cose come fra noi, e gradi di persone diverse. E generalmente tutti si maritano con una sola donna, e quando la donna fa quello che non deve, è l'usanza che se il marito la trova insieme con l'adultero nel delitto, che l'ammazzi insieme; ma quando amazzasse l'uno senza l'altro, la giustizia publica procede contra lui e l'ammazza, e non ne ammazzando alcuno delli duoi resta il marito disonorato. Oltra di questo, quando è mala fama d'una donna, che non la possino trovar nel delitto, la mandano a casa del padre, e cosí il marito non perde l'onore e si marita con un'altra, e detta donna resta disonorata perpetuamente e non si trova chi si voglia piú maritar con quella. È tenuto anco infame colui che, vivendo la moglie, conversa con altra di qualsivoglia sorte. Gli uomini onorati di questa isola, quando li loro figliuoli arrivano a sette overo otto anni, li mettono nelli monasteri insino alli disdotto o vinti anni, dove gli è insegnato leggere e scrivere e cose d'Iddio; e dipoi escono e si maritano, e tendono alle cose politiche.
Sono in questa isola tre sorti di religiosi, quali hanno monasterii a modo de frati, alcuni dentro della città, altri di fuora. Quelli che stanno nella città mai si maritano, vivono di limosine, portano la testa e barba rasa, usano vesti longhe con maniche grandi quasi come gli altri, e nella invernata portano coperta la testa e nel resto del tempo discoperta; mangiano insieme come frati e digiunano molte volte nell'anno. Questi religiosi non mangiano animali, e questo per smagrare il corpo e levargli il desiderio del peccare: e questa abstinenza è commune a tutti li religiosi di quella terra, quali dice si levano a mezzanotte a far orazione, il che fanno cantando per spazio di mezza ora, e ritornano a dormire insino all'aurora; allora si levano di nuovo a dire altre orazioni; il simile fanno quando si leva il sole e a mezzogiorno e all'ora della sera, nella qual ora fanno un segno che tutto il popolo si inginocchia e leva le mani al cielo, come facciamo noi. Le orazioni che dicono dice questo uomo che non l'intende, perché sono in altro linguaggio.
Questi religiosi predicano al popolo e hanno grande audienza, e piangono e fanno piangere il popolo. Predicano essere un solo Iddio creatore di tutte le cose, e che vi è il purgatorio, paradiso, inferno; item che tutte le anime, quando passano di questo mondo, vanno al purgatorio, cosí buoni come cattivi, e di là si dividono, li buoni per andare al luogo dove è Iddio, li cattivi per quello dove è il demonio, il qual dicono esser stato mandato da Dio a questo mondo per punizion delli cattivi. Questi religiosi fanno molto virtuosa vita, eccetto che sono notati di quello abominabile peccato per occasione di molti fanciulli che tengono per insegnare nelle lor case, ancor che lor predicano al popolo che questo sia gravissimo peccato, lodando la castità. Sono tutti vestiti di vesti negre insino alli piedi, e sono gran litterati, e hanno nella loro casa un superiore al quale tutti ubbidiscono, e non ricevano per clerici se non persone savie e approvate nelle virtú.
Ci è un'altra sorte di sacerdoti, i quali portano vesti grise, quali anco non si maritano; hanno una religione di donne a modo di monache, che vanno vestite della medesima sorte, e la lor casa è presso a quella delli detti sacerdoti: è opinion del vulgo che questi tali abbino conversazione con dette religiose, ancor che mai abbino figliuoli, perché usano certi remedii per non concipere, e ogni casa di questi tal religiosi ha similmente un'altra di donne vicina. Sono persone idiote, fanno orazioni quasi al modo medesimo che li sopradetti, e digiunano alcune volte. Vi è ancor un'altra sorte di religiosi, che van vestiti di vesti nere e fanno grande penitenza; vanno tre volte al giorno all'orazioni, la mattina, al tardo, alla mezzanotte. Le case di orazioni di tutti questi religiosi sono di una medesima forma; hanno idoli di legno indorati, altre imagini dipinte nel muro. Tutti adorano un solo Iddio, il quale chiamano Deniche in suo linguaggio, e qualche volta lo chiamano Cogi. L'ordine secondo de religiosi che disopra dicevamo che andava vestiti di grigio, quando fanno orazione nel suo coro, la fanno insieme con le monache, sedendo gli uomini da una parte e le monache da l'altra, e cantando or l'uno or l'altro cosí a mezzanotte come alle altre ore.
Ci ha detto ancora questo santo uomo una istoria di uno fra loro tenuto santo, come qui narrerò. Dice che vi è una terra sopra la China alle parte di ponente che si chiama Cegnico, dove era un re chiamato Iambom, che avea per moglie una regina chiamata Magabonin. Questo re dormendo un giorno ebbe in visione che li dovea nascere un figliuolo che saria grandissimo uomo, e riputato come Iddio da tutti quei paesi: il che narrò alla moglie, la qual dopo nove mesi partorí un figliuolo al qual posero nome Xaqua; e che al suo nascimento apparvono duoi serpenti grandissimi con le ali sopra il tetto della casa, li quali, discesi giú dove era il fanciullo, non li fecero male alcuno e poi si partirono. Questo Xaqua crebbe insino a 19 anni, e il padre volendolo maritare contra sua voglia, considerando lui le umane miserie, non volse congiugnersi con la moglie, ma se ne fuggí di notte e andossene ad una montagna alta e deserta: e quivi stette sei anni, faccendo grande penitenza. Dapoi discese e cominciò a predicare con grande fervore ed eloquenzia a quelli popoli che erano gentili, dove acquistò grande fama di santità e bontà, di sorte che rinovò tutte le leggi e insegnò al popolo il modo di adorare Iddio; e dicesi che fece 8000 discepoli, quali seguitorno il suo stile di vivere. Passarono alcuni di detti discepoli per la China, predicando le sue leggi e modo di adorare, e convertirno tutta la China e il regno di Cegnico alla sua dottrina, e fecero destrurre tutti gli idoli e pagodi che erano nella China e Cegnico, e di là vennero al Giapan, dove fecero il simile: e fin al presente per tutta la China, Cegnico e Giapan si ritrovano pezzi di statue antique, sí come in Roma. E questo Xaqua insegnò essere uno solo Iddio creatore di tutte le cose, e ordinò cinque precetti: il primo che non ammazzassino, il secondo che non robbassino, e il terzo che non fornicassero, il quarto che non pigliassino passione delle cose che non hanno rimedio, il quinto che perdonassino le ingiurie. Scrisse ancora molti libri pieni di molte virtú e molto utili, dove insegna i costumi che abbino a servar gli uomini secondo lo stato suo e qualità; comanda digiunar molte volte, e che le penitenzie piacciono molto a Dio, e che sono molto necessarie acciò si salvino li peccatori.
Dice che quando uno sta infermo che usano quelli religiosi andarlo a visitare, consolarlo ed exortarlo a far testamento; e quando vedono che stanno in pericolo di morte, gli predicano li beni dell'altra vita, e che non piglino fastidio per le cose presenti, poi che vedono essere tutte vanità. E quando muorono vengono li detti religiosi in processione, cantando e portando il defunto al claustro del monasterio, sempre pregando Iddio che gli perdoni li suoi peccati, e soterrano tutti, poveri e ricchi, senza nessuna differenza, né pigliano per questo cosa alcuna o premio, anzi saria tenuto mal uomo ch'il pigliasse: è ben vero che, se li parenti del defunto li vogliono donar qualcosa per limosina, la pigliano.
Afferma ancora che si usa in questa terra una sorte di penitenzia al modo seguente, digiunando e servando castità cento giorni continui, e dopo intrano in un bosco molto grande vicino ad un monte, nel quale sono molti pagodi che son a modo di eremitorii, dove abitano alcuni eremiti di molta aspra vita. Si odono in questo monte e bosco molti gridi e voci orribili e spaventose, e si vedono molti fuochi; e stanno in detto bosco settantacinque giorni, non mangiando al giorno altro che tanto riso quanto possano tenere nella palma della mano, e non bevendo piú che tre volte l'acqua. Al fin di settantacinque giorni si ragunano poi tutti insieme e vanno per il deserto che è all'intorno del detto bosco, e che alle volte sono in gran numero e passano piú di mille; e avanti a un pagodi inginocchioni si confessano ognuno di tutti li lor peccati della sua vita ad alta voce, tacendo e ascoltando tutti gli altri, ed essendosi confessati cosí publicamente, ognuno di loro giura sopra il pagodi di mai dir niente di quanto averà sentito nella tal confessione poi che sarà fuora del deserto. E in quanto che dura questa penitenzia non dormono né si spogliano. Vanno vestiti di certi panni di lino grosso cinti molto strettamente, senza scarpe e berretta, e mai stanno fermi, anzi camminano ogni giorno cinque o sei leghe per detto bosco all'intorno della montagna, tutti insieme a modo di processione; e venuti a certi luoghi determinati si riposano per un gran spazio, e faccendo un gran fuoco si scaldano. E dice che hanno un maestro che li guida nell'orazioni e penitenze, e se alcuno dorme quando si riposano, quel maestro gli dà delle bastonate, e se qualcuno se inferma nella via di modo che non possa camminare, lo lassano stare e muore abbandonato, e gli altri camminano; ma se alcuno morisse avanti la gente, tutti lo coprono di sassi e lassano scritto in un bastone: "Qui iace il tale del tal luogo". Porta ogniuno una tavoletta sopra il petto, dove è scritto il nome suo e del paese. Dice che andando in quello deserto vedono molti monstri e fantasme e illusioni diaboliche, talché, essendo cento persone insieme, molte volte gli accade che paiono dugento: e allora il maestro, riguardandoli e vedendo che alcun non porti la tavoletta al petto, comanda si fermino tutti e faccino orazione al Deniche, che è Dio, che gli liberi di tal compagnia, perché si persuadono che sian di demonii quali si metteno alle fiate appresso degli uomini, e pigliano talmente la forma sua che un Giovanni parerà duoi Giovanni, e un Pietro duoi Pietri, senza differenza di uno all'altro; ma faccendo orazione come gli è insegnato, subito disparono li demonii. Quando questi penitenti hanno compiuta la penitenza, restano tanto magri e negri e afflitti che paiono la morte, non essendosi mai spogliati né lavati; ma ritornati a casa tutti gli accompagnano e baciano le vesti.
Dice che sono in questa terra molti che sanno far fatture e incanti, pure fra gli uomini savii e prudenti sono dispregiati e tenuti in mal conto. Sonvi ancora grandissimi astrologi, quali predicano molte cose che hanno a venire. Questa gente scrive croniche delle sue istorie e fatti al medesimo modo che noi facciamo, e che nelli costumi e vivacità d'ingegno sono molto conformi a noi. E costui che dà la presente informazione è tanto ingegnioso che ognun di noi gli potria aver invidia, e dimostra con parole e con fatti aver in odio ogni sorte di vizii che ha veduti fra li nostri. E li pare che tutto Giapan averà piacere di farsi cristiano, perché tengono loro nelli suoi libri scritto che tutta la legge deve esser una, e che aspettano un'altra piú perfetta della sua: e non si pol imaginare altra migliore della nostra, e però dice esser molto contento, perché gli pare che Iddio gli facci grande beneficio in usar lui come instrumento di condurre al Giapan gente che predichi questa santa legge. E ancor che sia maritato, si è offerto andare e stare in compagnia delli padri che di là vanno due, tre e quattro anni, insino a tanto che si dia qualche buon principio di cristianità in quella terra e insino a tanto che li padri sapranno ben la lingua.
Dice che questa terra è molto sana e di grandi venti, e che alcuna volta quella triema tanto forte che le persone cascano in terra. Vi nasce ogni sorte di frutti e metalli che sono in Europa, e vi son pochi serpenti venenosi; è terra abbondante di molti animali salvatichi, sí di uccelli come di cervi, porci, cignali e altri. Non vi nasce vino, ma fanno la cervosa di riso, come in Fiandra de orgio; son molte viti salvatiche nelli boschi, dell'uve delle qual mangia questa gente. Mangiano il riso con la carne e pesce a modo dell'India; vi è assai grano, col quale fanno vermicelli e coperte di pasticci, e non mangiano pane, ma in luogo di quello il riso. Vi sono anco galline, ma non le nutricano in casa, sí come né alcun altro animale.
Dice che in questa terra vi è un duca, quale porta nella sua bandiera a modo di una croce, e questa tal arma non pol avere altra casata se non la sua. Tutto il popolo di Giapan usa pregar Dio come a noi con paternostri over rosarii, e quelli che sanno leggere usano libretti, e questi che pregano con li paternostri over rosarii usano dire ad ogni segno over paternostro una orazione due volte maggiore che 'l Paternostro, e che hanno centotto segni. Dimandato della ragione di questi segni, dice che li litterati dicono che nell'uomo sono cento e otto sorte di peccati, e che è necessario di dir una orazione contra cadaun di quelli, la qual dicono in linguaggio che non l'intendono, come facciamo noi il latino; e che ogni mattina come si levano dicono nove parole, levando le due dita della mano destra, il che fanno per loro difesa contra il demonio. Li religiosi loro fanno professione e voto di castità, povertà e obbedienzia, e si esercitano avanti che siano ricevuti nella umiltà.
Detti popoli, come sono nel medesimo clima che noi, sono ancora bianchi e della medesima statura, gente discreta e nobile e che ama la virtú e lettere, e tengono in gran venerazione li letterati. E li costumi e modo di reggere la republica in pace e guerra e le lor leggi sono come le nostre, salvo che la giustizia è in parole, e per questo è molto spedita, e anco severa, tanto che, se uno servitore dicesse o facesse ingiuria o disonore al suo patrone, lo può ammazzare senza cascare in pena alcuna. Nella dignità suprema del voo succede il primogenito, e se non ha figliuoli succede il piú propinquo parente per linea paterna: cosí usano li altri signori di questa terra. Non sono tiranni li principi, e se nascono fra loro dissensioni, overo faccino guerra uno con l'altro, il goxo si mette di mezzo a pacificargli, se da sé non si concordano. E se qualche uno è contumace e non obbedisce, il medesimo goxo gli fa guerra e toglie lo stato e anco il capo, ma non la signoria, anzi la dà a quello che appartiene di averla, come se il detto signore fosse morto di morte naturale.
Usano orazioni e limosine, peregrinazioni e digiuni per remissione dei lor peccati, tanto de' vivi come de' morti, e questo molte volte nell'anno, mangiando nelli suoi digiuni allora che noi, ma il loro digiuno è piú stretto che 'l nostro. In un monte di questa isola stanno cinquemila religiosi molto ricchi, quali abbondano di servitori e buone case e vestimenti, e guardano castità di tal sorte che non si può avicinare ad essi per una lega donna o cosa che sia femmina. Quando le donne partoriscono, stanno quindici giorni che non toccano le altre persone, e quaranta giorni che non intrano nelle loro chiesie; quando le schiave partoriscono stanno in case discoste dell'altre. Il medesimo fanno quando hanno la accostumata purgazione, e chi le tocca si fa immondo e bisogna che si lavi. Usano le donne povere, quando hanno molti figliuoli, ammazzar quelli che dipoi nascono per non li vedere stentare, e questo peccato non è castigato.
Diceva che da mille e seicento e piú anni in qua gli idoli sono stati disfatti, sí nel regno di Cegnico, dal qual si va a Giapan passando per la China e Tarthao, come etiam in questa isola, per la dottrina di quel Xaqua. Predicano dell'inferno, dicendo l'anime sono tormentate in quello per li demonii in diversi modi, stando li dannati a perpetuo fuoco e altre pene; e il medesimo dicono essere nel purgatorio, dove quelle anime che non hanno fatto in questa vita condegna penitenzia stanno ritenute infino a tanto che si purghino, e che nel paradiso vi sono gli angeli, li quali stanno contemplando la divina maestade. Tengono che li angeli ancora siano defensori degli uomini, però usano portar adosso imagini de angioli, quali dicono esser spiriti e creatura d'una altra materia e non elementale. Item che usano grande orazioni in laude di Iddio, e contemplar, massime li religiosi, quali vanno camminando intorno al loro altare in tanto che cantano. E usano sonar campane per congregar la gente alla predica e al sacrificio e orazioni commune, e quando muore qualche uno; e congregandosi per portar li morti per sotterar overo abbruciar, portano candele accese. Tutte le leggi e scriture e orazioni loro sono scritte in una lingua diversa dalla lingua volgare, come è fra noi la latina. Dimandato se usano sacrificii, dice che certi giorni li sacerdoti, e specialmente il prelato loro, vestito di certe vesti, viene alla chiesa, e in presenzia del popolo bruciano certi odori e incenso e aguila e certe foglie odorifere, sopra una pietra a modo di altare, cantando certe orazioni. Le chiese di questa gente tengono la medesima libertà come le nostre, perciò che la giustizia non può pigliare né tirare fuora di quelle alcun per alcuno caso, se non per furto. Tengono nelli templi molte imagini de santi e sante dipinte di rilievo, con diademe e risplendore come le nostre, e hanno in simil venerazione li santi come noi; e se bene adorano uno solo Iddio creatore di tutte le cose, pure fanno orazione alli santi acciò preghino Iddio per loro. Questa gente mangia di tutte le cose, e non si circuncide.
Pare verisimile che l'Evangelio sia penetrato in questa regione, e che per li peccati poi si sia il lume della fede oscurato, o per qualche seduttore come Macometto levata via. E stando a scrivere questa lettera, è venuto a me un vescovo armeno ch'è stato piú di quaranta anni in quelle bande, e hammi detto aver letto che gli Armeni furono a predicare nella China nel principio della primittiva chiesa; però saria gran bene che di novo si facesse illuminar quei popoli della fede e dottrina evangelica, e se ben da Roma sino al Giapan siano ottomilia leghe di viaggio, a chi ama la salute delle anime tutti li travagli e pericoli del mondo sono delizie. Piacendo a Iddio, il padre maestro Francesco Xavier, con Paulo autore di questa informazione e duoi altri Giapanesi fatti cristiani, con tre fratelli della Compagnia nostra navigheranno questo aprile venturo al Giapan. Di qui a duoi anni vostra Reverenzia avrà informazione del bene che si potrà sperare di fare in quella terra, con la grazia di Iesú Cristo Signor nostro, qui est benedictus in secula seculorum, amen.
Da Cochin, primo di gennaio 1549.
Da Cochin, 14 gennaio 1549. Del padre fra Francesco
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Nelli luoghi dove sono questi padri io sono poco necessario, e vedendo la indisposizione degli Indiani di queste bande, quali per suoi grandi peccati non sono niente inchinati alle cose della nostra santa fede, anzi l'hanno in odio e gli rincresce sommamente che li parliamo del farsi cristiani, e per la grande informazione che io ho del Giapan, che è una isola presso alla China, dove tutti sono gentili, e gente molto curiosa e desiderosa di saper cose nuove d'Iddio e altre naturali, mi risolsi d'andare in quella terra con molta sodisfazione interiore, parendomi che fra quella gente si potrà perpetuare per loro medesimi quel frutto che invita quelli della Compagnia. Sono tre giovani nel collegio di Santa Fede di Goa di quell'isola di Giapan, quali vennero l'anno del quarantotto di Malaccha quando io venni: questi danno grandi informazioni di quelle parti del Giapan, e sono persone di buoni costumi e grandi ingegni, principalmente Paulo, il quale scrive a vostra Carità. Questo Paulo in otto mesi imparò a leggere e scrivere e parlar portoghese, e adesso fa gli esercizii, e si ha molto aiutato e molto introdotto nelle cose della fede. Ho grande speranza, e questa tutta in Dio Signor nostro, che si abbiano a fare molti cristiani nel Giapan, e son risoluto primamente di andare al re loro, e dipoi alla università dove tengono suoi studii, con grande speranza in Giesú Cristo che mi abbia ad aiutare. La legge che loro hanno dice Paulo che fu condotta ed ebbe origine da un'altra terra, che si chiama Cegnico, che è oltra la China e Thartao: e nella via di Giapan a Cegnico per andare e tornare si mettono tre anni. Di Giapan scriverò a vostra Carità diffusa informazione, sí delli costumi e scritture sue, sí etiam di quello che si insegna nella grande università di Cegnico, perché in tutta la China e Thartao non si tiene altra dottrina, secondo che dice Paulo, se non quella che s'insegna in Cegnico. Come vederò le scritture e tratterò con quella università, vi potrò avisare d'ogni cosa diffusamente. Di Europa menerò meco un padre valenziano chiamato Cosmo de Torres, il quale entrò di qua nella Compagnia, e tre giovani di Giapan. Partiremo, con l'aiuto d'Iddio, questo mese d'aprile 1549. Abbiamo a passare per Malaccha e per la China, e saranno da Goa a Giapan piú di trecento leghe. Mai potria finir di scrivere quanta consolazione interiore sento in far questo viaggio, essendo pien di grandi pericoli di morte, per li venti e tempeste e per molti ladroni, che quando di quattro le due navi si salvano pare gran ventura. Ma non lasseria d'andare a Giapan per quello che io ho sentito dentro nell'anima mia, ancor che io tenessi per certo vedermi nei maggiori pericoli che mai mi ho visto, avendo grande speranza in Dio che sia per aumentarsi molto la nostra santa fede. Per l'informazione che ci ha dato Paulo di Giapan, vederete la disposizione che vi è in quelle bande, la quale informazione vi mando con queste lettere.
A cinque leghe di questa città di Cochin vi è un collegio molto grazioso, che fece un padre dell'ordine di san Francesco chiamato fra Vincenzio, compagno del vescovo che è solo in queste bande, e tutti due amici della nostra Compagnia. Sono cento scolari della terra propria in questo collegio, che è in una fortezza del re. Questo fra Vincenzio mi ha detto che la sua intenzione saria lassar questo collegio alla nostra Compagnia, per il che mi pregò che scrivessi a vostra Carità il suo desiderio e domandassi un sacerdote della Compagnia, a ciò leggesse nel collegio grammatica a quelli di casa, e le domeniche e le feste predicasse a quelli del popolo di quella fortezza insieme con quelli del collegio, all'incontro del quale sono molti cristiani di san Tomaso in piú di sessanta luoghi, e gli scolari di quel collegio sono figliuoli di piú nobili cristiani della terra. Sono in quella fortezza che si dice Cranganor due chiese, una di San Tomaso, l'altra di San Iacomo, per le quali grandemente desiderano che la Carità vostra gli procurasse indulgenzia plenaria da sua Santità due volte l'anno, una in una chiesa, l'altra in l'altra.
Mandovi l'alfabeto di Giapan. Scrivono molto differentemente da noi, cominciando dall'alto al basso del foglio; domandando io a Paulo perché non scrivevano al modo nostro, mi rispose perché noi non scrivevamo al modo suo, dandomi questa ragione, che come l'uomo tiene la testa in alto e li piedi a basso, che cosí ancora l'uomo quando scrive ha da scrivere d'alto a basso. Questa informazione che io vi mando dell'isola di Giapan e di costumi di quella gente ci ha dato Paulo, uomo di molta verità. Le scritture non l'intende detto Paulo, perché sono a loro come il latino tra noi, ma di quello che contengono come sarò giunto vi aviserò. Cosí faccio fine, pregando la vostra santa Carità, padre della mia anima osservandissimo, con li ginocchi posti in terra, che mi raccomandiate a Iddio Signor nostro nelli vostri santi, devoti sacrificii e orazioni, che mi inspiri la sua santissima volontà e grazia per adempierla perfettamente, e finita questa inquieta vita ci conduca nella gloria del paradiso.
Di Cochin, a' quattordeci di gennaio mille e cinquecentoquarantanove.
Item grande servizio faresti, carissimo e amantissimo padre, a Iddio Signor nostro, se con molti della Compagnia, e tra loro sette o otto predicatori, veniste nell'India, e con altri, ancor che non avessero grazia nel predicarne molte lettere, pur che avessero molte virtú e forze corporali, perché sarebbe di molta importanza che in ogniuna delle fortezze che il re di Portogallo tiene in queste bande fusse un predicator della Compagnia e un altro sacerdote che l'aiutasse nel confessare ed esercizii spirituali, e sarebbono facilmente collegii dove ricevessino prima figliuoli di Portoghesi e dipoi naturali della terra. E quando voi non poteste venire, doverreste mandare in luogo vostro alcuni altri, e in questo mezzo spero in Dio Signor nostro che del Giapan averò scritto qui all'India della disposizione che troverò in quelle parti per l'aumento della nostra fede, e potria essere che, lassando ordine nell'India nelle cose del divino servizio, ci raguniamo nel Giapan, se troveremo che sia piú conveniente quella regione (come penso sarà) per l'augmento della religion nostra. E potranno col tempo, piacendo a Dio, molti della Compagnia passare alla China, e da quella alli suoi grandi studii oltra il Tarthao in Cegnico, dove vi è gran dottrina (come dice il nostro Paulo) e molti libri di stampa, di linguaggio differente dal volgare, com'è il nostro latino. Penso ancora di là scrivere all'università d'Europa, per ricordargli che non vivano tanto senza cura dell'ignoranza delle genti.
Faccendo tanto fondamento nelle lettere per informazione dell'isola del Giapan (come è detto di sopra) il padre M. Francesco Xavier, inspirato da Dio che molto saria il suo servizio se in quelle parti si mandassero operarii fideli, sentendosi nell'anima un gran desiderio di andare o mandar alcuno della Compagnia di Giesú (della quale egli è preposito nell'India) in quell'isola, finalmente si risolse d'andarvi lui stesso, e partí di Goa nel mese di aprile del millecinquecentoquarantanove, menando seco duoi altri della Compagnia e Paulo di Santa Fede con li duoi servitori fatti cristiani, come per la sua lettera intenderete.
Lettera del padre maestro Francesco Xavier da Cangoxina, città del Giapan, indrizzata ad un collegio di scolari di detta Compagnia del Iesú in Coimbra di Portogallo, adí 5 di ottobre 1549.
La grazia e amor di Cristo nostro Signor sia sempre in aiuto e favor nostro, amen.
Dio nostro Signor ci condusse per sua infinita misericordia nell'isola di Giapan. Il dí di san Giovanni al tardi, l'anno 1549, ci imbarcammo in Malaccha (ch'è da secento leghe in circa lontana da Goa) per venir in queste bande in certa nave d'un mercatante gentile di nazione della China, il quale si offerse al capitan di Malaccha di condurci al Giapan, e partiti faccendoci grazia Iddio, fra molte altre, di darci commodissimo tempo. Ma perché nelli popoli gentili regna troppo la inconstanzia, cominciò il capitan della nave a mutar parere e non voler venir al Giapan, fermandosi senza bisogno nell'isole che occorevano. E quello che piú grave sentivamo erano due cose: la prima che non ci aiutavamo della commodità che Iddio nostro Signor ci dava del tempo buono per navigare al Giapan, la qual presto era per finirsi, e sariamo stati sforzati di temporeggiar l'invernata nella China aspettando il vento; l'altra era le continove e molte idolatrie e sacrificii che facevano ad un idolo che portavano seco nella nave, senza poterli impedire. Gettavano le sorte spesse volte, faccendo interrogazioni se potriano andar al Giapan o no, e se durariano over mancariano i venti necessarii per la nostra navigazione, e alle volte uscivano le sorti buone e alle volte male, come credevano e dicevano. Pigliammo terra a cento leghe da Malaccha in un'isola, provedendoci di legname e cose necessarie contra le grandi tempeste del mar della China, e uscendo la sorte ch'averiamo buon tempo, senza piú aspettare levorno le ancore e facemmo vela tutti con grande allegrezza, li gentili confidandosi nell'idolo che portavano nella poppa con grande venerazione, con molte candele accese, profumandolo con odori del legno di aguila, e noi confidandoci in Dio creatore del cielo e della terra e in Giesú Cristo suo figliuolo, per cui amore e servizio, desiderando l'aumento di sua santissima fede, venivamo in queste bande. Seguitando pur il nostro viaggio, tornorono di novo a gettar le sorti e dimandar all'idolo se la nave era per tornare dal Giapan a Malaccha; uscí la sorte che arrivariamo al Giapan, ma non tornariamo a Malaccha, e qui cominciò a intrar negli animi loro grande diffidenza, e non volevano andare piú al Giapan, ma passare l'invernata nella China e aspettar un altro anno. Ora vedete voi il travaglio nel qual ci trovammo in questa navigazione, dependendo dal parer del demonio tutti questi suoi servi circa l'andare o non andare al Giapan, non si movendo quelli che governavano la nave se non per quello che lui per la sua sorte gli diceva.
Andando dunque assai adagio, avanti l'arrivare alla China, essendo vicini alla terra detta Cocchinchina, ci accadettero due disgrazie. L'una fu che nella vigilia della Maddalena, essendo sopra l'ancore per la grande tempesta, Manuel China che veniva con noi, trovandosi per caso aperta la sentina, cascò dentro: tutti pensavamo, per la grande caduta e per esser stato il capo e mezzo corpo sotto l'acqua un gran pezzo, che fusse morto, e cosí lo cavammo con gran fatica; pur volse Dio nostro Signore che non morse, ben si fece una grande ferita nel capo nel cascare, e subito fu curato. La seconda fu che una figliuola del capitano cascò nel mare, e movendosi fortemente la nave per la tempesta, e per esser molto turbato il mare, non ci fu ordine camparli la vita, e in presenzia del padre e di tutti si affogò presso alla nave: e furono tanti li pianti e gridi quel dí e la notte seguente, che era d'aver compassione dell'anime loro, e del pericolo della vita in tutti quelli che stavano nella nave. E domandando all'idolo al qual avevano sacrificato tutto il dí e la notte molti uccelli, dandogli a mangiar e bere, perché era morta la figliuola, uscí la sorte che se il Manuel nostro fusse morto, che la figliuola non cascava né si affogava. Vedete mo' a che stavano le vite nostre, e che saria stato di noi se Iddio avesse permesso al demonio far tutto il mal che si desiderava. Questo dí nel quale ci accadettero queste disgrazie, volse Iddio nostro Signore farne grazia di sentir e conoscere per isperienza molte cose circa li terribili e spaventosi timori che 'l demonio suol mettere quando Iddio li permette e trova gli uomini disposti, e anco li rimedii che l'uom debbe usare quando in simil travagli si trova: e benché siano notabili, pur, perché sariano lunghi da scrivere, li lascio. La somma di tutti i remedii è in tal tempo di mostrar molto grande animo al nimico, totalmente diffidandosi l'uomo di se stesso, ma solamente confidandosi in Dio e collocando tutte le sue forze e speranze in lui, e disprezzando ogni punto di paura per aver cosí gran difensore, e non dubitando della vittoria; e piú deve temersi in simili tempi la diffidenza in Dio ch'el mal che può far il nimico.
Or tornando al nostro viaggio, cessando la fortuna levorno l'ancore e facemmo vela con assai tristezza, e in pochi giorni arrivammo alla China, al porto di Canton: tutti furono di parere di passar ivi l'invernata, cioè li marinari e il capitano, e noi solamente gli contradicevamo, con pregarli e metterli alcuna paura, dicendo che scriveressimo al capitano di Malaccha e alli Portoghesi che ne aveano ingannato, non mantenendo la promessa fatta. Volse Iddio N. S. mettergli in volontà di non fermarsi nell'isola di Canton, e levando l'ancore, camminando con buon vento che Dio ci dava verso Chincheo, porto della China, dove arrivammo in pochi giorni; ed essendo già per entrar in quello con resoluzione di far ivi l'invernata, perché già si finiva il tempo di poter navigar al Giapan, ecco che viene una vela, la qual ci dette nova che erano molti ladroni in quel porto, e che fossamo presi intrando in quello. Con queste nove e con veder li navili chinchei a una lega da noi, vedendosi il capitano in molto pericolo di perdersi, deliberò di non entrar in Chincheo, ed essendo il vento contrario in prua per tornar indrieto a Canton, e servendoci in poppa per andar al Giapan, contra la volontà sua e delli marinari e del demonio cui ministri erano, proseguimmo il viaggio, sí che il giorno della nostra Donna d'agosto 1549, senza poter pigliar altro porto, arrivammo a Cangoxina, che è il paese del nostro Paulo di Santa Fede, dove ci ricevettero con molto onore tanto li suoi parenti quanto gli altri.
Or, giunto qui in Giapan, comincierò a scriver quello che per la esperienza insino adesso abbiamo conosciuto. Primamente la gente con la qual abbiamo conversato è la miglior che insino adesso si sia scoperta, e fra infideli pare che non si troverà un'altra migliore. Generalmente sono di buona conversazione; son buoni e non maliziosi, e stimano mirabilmente l'onore piú che niuna altra cosa. Communemente sono poveri, e la povertà tanto fra li nobili quanto fra gli altri non si reputa a vergogna. Usano una cosa che mi pare non si usi in luogo niuno de cristiani, la qual è che alli nobili, quantunque poveri, quelli che non son nobili li fanno tanta cortesia quanto se fussero molto ricchi, e per nissun prezzo un gentiluomo si maritarebbe con altra casata che non fusse nobile, perché li pare che in questo si perda l'onore, il qual è piú stimato che le ricchezze. È gente molto cortese fra loro, e stimano e si confidan molto nell'armi: portano sempre le spade e pugnali, tanto li nobili quanto le genti basse, cominciando dalli quattordici anni. Non patisce questa gente ingiuria alcuna, né parole di dispregio; come la gente ignobile porta grande riverenza alli nobili, cosí tutti li gentiluomini reputano gran laude il servir al signor della terra ed esserli molto soggetti, il che mi pare che facciano piú presto per non perder l'onore faccendo il contrario, che per paura di esser puniti da lui. Son temperati nel mangiare, benché nel bere siano alquanto larghi; fanno il vino di riso, perché non vi è altro in quelle bande. Non usano giuochi mai, parendoli esser grande disonore, desiderando quelli che giuocano quello che non è suo, e perché di qui si può venire ad esser ladroni. Giurano poco, e il giuramento loro è per il sole. Gran parte della gente sa leggere e scrivere, il che è gran mezzo per brevemente imparare l'orazioni e cose d'Iddio; e hanno una sola moglie. Vi sono pochi ladri, e questo per la giustizia grande che fanno di quelli che trovano rubbare, al qual vizio portano grande odio. È gente di molto buona volontà, amorevole e desiderosa di sapere; si dilettano molto delle cose di Dio, massime quando le capiscono.
Fra tutte le terre che mai ho visto de cristiani e de infideli, non ho visto gente cosí fidata circa il non pigliar quello d'altrui. Non adorano idoli né figure d'animali, ma molti di loro il sole e altri la luna, e credono in certi uomini antichi la piú parte di loro, li quali (come ho inteso) vivono come filosofi. Si dilettano di sentir cose conformi alla ragione, e benché vi siano vizii e peccati fra loro, quando li danno ragione, mostrando esser mal fatto quello che fanno, l'accettano assai bene. Manco peccati trovo fra li seculari, e piú obedienti li vedo alla ragione che gli altri che tengono per padri spirituali, quali chiamano bonzi, li quali sono molto inclinati al peccato che la natura aborrisce, e loro lo confessano: ed è tanto publico il lor vizio a tutti, grandi e piccoli, uomini e donne, che per esser tanto in uso non è tenuto in odio, né di quello si spaventano né si vergognano. Quelli che non sono bonzi hanno molto caro di sentir riprender quell'abominevol peccato, parendogli che abbiamo gran ragione in dir quanto sono mali e quanto offendano Dio quelli che lo commettano. Li bonzi ripresi da noi, tutto quanto che li diciamo lo pigliano in burla e se ne ridono, non si vergognando d'esser ripresi di cosí brutto peccato. Tengono questi bonzi molti fanciulli nelli loro monasterii, figliuoli di nobili, alli quali insegnano a leggere e scrivere, quali gli danno occasione di tanta disonestà. Alcuni di loro si vestono in modo di frati di abiti bigi, tutti rasi capo e barba, la qual pare che ogni tre o quattro dí si radino. Questi tengono una vita molto larga: hanno congregazione di donne dell'ordine medesimo e vivono insieme con quelle, e il popolo ne ha mala opinione di loro, parendoli male tanta conversazione con loro. Dicono li secolari che, quando alcune di quelle donne si sentono pregne, pigliano medicine per sconciarsi, con le quali subito gittano fuori il parto: questo è molto publico, e a me pare, secondo quello che ho visto in un monasterio loro in questa terra, che il popolo ha molta ragione di quello che pensa. Questi vestiti a modo di frati e altri bonzi a modo di preti si vogliono male fra loro.
Di due cose ho admirazione in questa terra: una di vedere quanto gravi peccati vengano poco stimati, e la causa è perché li passati si usorono a vivere in quelli e li presenti presero esempio da loro; e da questo si comprende, fratelli carissimi, che come la continuazione de' vizii che sono fuora della natura guasta il giudizio e affetto naturale, cosí la continua negligenzia nelle cose di perfezione disturba e guasta la perfezione. La seconda, vedere che li secolari vivono meglio nel suo stato che li bonzi nel suo: ed essendo questo manifesto, è cosa grande quanto siano stimati; fanno molti errori questi bonzi, e maggiori quelli che sono tenuti piú savii tra loro. Ho parlato molte volte con alcuni di questi, e massime con uno il quale in queste bande tutti riveriscono, tanto per le sue lettere, vita e dignità, quanto per la età, ch'è di 80 anni; e chiamasi Ninxit, che vuol dire nella lingua giapanese Cuore di verità: è fra loro come vescovo, e se correspondesse il nome alla vita sarebbe beato. In molti ragionamenti che abbiamo avuto insieme lo trovai molto dubbioso, e non si sapeva risolvere se l'anima nostra fusse immortale o se muore parimente col corpo: piú volte mi disse che sí e piú volte che no; dubito che siano cosí gli altri litterati. Questo Ninxit è fatto amico mio, di modo che è maraviglia. Tutti, cosí secolari come bonzi, si rallegrano molto con noi altri, e si maravigliano grandemente in vedere come noi veniamo di tanto lontano paese come è di Portogallo al Giapan, che sono piú di 6000 leghe, solamente per manifestare le cose d'Iddio, e come la gente ha da salvar l'anime loro, credendo in Iesú Cristo. Dicono che il venire noi altri in questo luogo è cosa mandata da Dio.
Questo posso dire, acciò possiate render grazie al N. S. Dio, che questa isola del Giapan è molto disposta per aumentar in quella la nostra santa fede, e se noi altri sapessimo parlar la loro lingua, non dubito che si farebbono molti cristiani; piaccia a Dio nostro Signore che la impariamo presto, perché abbiamo già gustato di quella che dichiariamo li dieci comandamenti, in 40 dí che abbiamo speso a impararla. Questo vi racconto cosí per il minuto acciò rendiate grazie a Iddio N. S., perché si discoprino provincie nelle quali si possino saziar i nostri desiderii, e acciò che vi apparecchiate con molte virtú e desiderii di patir molte fatiche per servir a Cristo N. S. E ricordatevi sempre che stima piú Dio una buona volontà piena di umiltà, con la quale gli uomini si offeriscono a lui, faccendo offerta della vita loro per amore e gloria sua, che il servizio che senza questa fanno molti altri. E siate apparecchiati tutti quanti, perché non sarà molto inanzi di duoi anni che vi scriverò che molti di voi altri venghino al Giapan: perciò disponetevi di pigliar la umiltà, perseguitando voi medesimi in tutte le cose dove sentite o possete sentire alcuna ripugnanza, e procurando con tutte le forze che Dio vi dia a conoscere interiormente per quanto sete, e di qua cresciate in maggior fede, speranza e confidenza e amor in Dio e carità col prossimo, perché dalla diffidenza di sé medesimo nasce la confidenza in Dio, ch'è la vera. E per questa via trovarete la umiltà interiore, della quale in ogni parte arete di bisogno, ma in questa piú grande che non pensate: perciò vi prego che tutti vi fondiate in Dio in tutte le vostre cose, senza confidare nel vostro potere e sapere over opinion umana, e di questa maniera faccio conto che sete apparecchiati per le gran adversità che vi possono venire, cosí spirituali come corporali.
Nella terra di Paulo di Santa Fede, nostro buono e vero amico, fummo ricevuti dal capitano di detto luogo e dal governatore della terra con molta benignità e amore, e cosí da tutto il popolo, maravigliandosi molto tutti di veder sacerdoti del paese di Portogallo. Non hanno avuto per male né si maravigliorno di Paulo che se abbi fatto cristiano, anzi lo tengono in molta riputazione e si rallegrano tutti con lui, cosí li suoi parenti come quelli che non gli appartengono, per esser egli stato nell'India e aver veduto cose che questi qua non hanno veduto. E il duca di questa terra si rallegrò molto con esso e ci fece molto onore, dimandandoli molte cose circa delli costumi e valore delli Portoghesi e imperio che tengono nell'India: e Paulo gli diede ragione del tutto, per il che il duca mostrò grande contentezza; e quando fu a parlar con lui, il duca era lontano cinque leghe da Cangoxina. Portò Paulo seco una imagine molto devota che portavamo con noi, e il duca ne pigliò molta allegrezza: quando la vidde, s'inginocchiò con gran riverenza avanti la imagine di Cristo nostro Signore e di nostra Donna, e adorolla con divozione, e comandò a tutti quelli che stavano presenti che facessino il medesimo. E dipoi la mostrarono alla madre del duca, la qual, mostrando molto piacerli, si spaventò in vederla. E dapoi che tornò Paulo a Cangoxina dove eramo, de lí a pochi giorni mandò la madre del duca un gentiluomo per dar ordine come li potesse far un'altra imagine come quella: e per non aver commodità di farla nella terra, si lasciò di fare; comandò ancora questa signora che 'l domandasse a noi che gli mandassimo in scritto quello in che credono li cristiani, e cosí Paulo si occupò alcun giorni per farlo, e scrisse molte cose della nostra fede in la sua lingua, e gliele mandammo.
Credete una cosa, e d'essa date molte grazie a Dio, che se si apre il cammino dove li nostri desiderii si possino metter in esecuzione, e se noi sapessimo la lingua, già averessimo fatto molto frutto. Usò Paulo tanta diligenza con alcuni de' suoi parenti e amici, predicandoli di giorno e di notte, che fu causa che sua moglie e figlia con molti suoi parenti e amici, cosí uomini come donne, si facessero cristiani. Qua non tengono male infino adesso il farsi cristiano, e come gran parte di essi sanno leggere e scrivere, in poco tempo impareranno le orazioni. Se piacerà a Dio nostro Signore di darci lingua per poter parlar la sua dottrina, noi faremo molto frutto col suo aiuto, grazia e favore. Adesso siamo fra loro come statue, perché parlano e praticano con noi di molte cose, e noi, per non intender la loro lingua, taciamo. E adesso ci bisogna esser come fanciulli per imparar la lingua, e piaccia a nostro Signore che in vera purità e simplicità di cuore gli invitiamo. Noi siamo sforzati in pigliar rimedii e disponerci ad esser come fanciulli, cosí nell'imparar la lingua, come in mostrar simplicità di fanciulli che non hanno malizia: e per questo ci fece Iddio Signor nostro singular grazia a condurci a queste parti degl'infedeli, dove ci scordiamo di noi medesimi, essendo tutta questa terra d'idolatri nimici di Cristo, e non abbiamo in cui possiamo confidarci se non in Cristo. Perché in altre parti dove il nostro Redentore, Creatore e Signore è conosciuto, le creature sogliono metter impedimento e causa di smenticarsi d'Iddio, con lo amore di padre e madre, famigliari e amici e della propria patria, e aver il necessario cosí in salute come in le infirmitadi, tenendo beni temporali o amici spirituali che ci aiutino nelle infirmità; ma qui in terra strana tutto quello che ci fortifica è sperar in Dio nostro Signore, mancando le persone che in spirito ci aiutino. In considerar queste tante grandi grazie che 'l Signor nostro ci fa con altre molte, stiamo confusi in vedere la misericordia tanto manifesta che usa con noi, che pensavamo farli alcuno servizio in venir in queste parti a crescer sua santa fede, e adesso per sua bontà ci dà chiaramente a conoscere le grazie che ci ha fatto tanto grandi in condurci al Giapan, liberandoci dall'amore di molte creature che c'impedivano a tener a maggior fede, confidanza e speranza in esse. Per amore del nostro Signore aiutateci a dar grazia di tanti grandi beneficii, perché non caschiamo in peccato della ingratitudine, perché quelli che desiderano di servire a Dio, questo peccato è causa che Iddio lascia di farli maggiori beneficii. Ancora è necessario di farvi partecipi delle grazie che Iddio ci fa, per le quali ci dà conoscimento per sua misericordia, accioché ci aiutate a ringraziarlo sempre per essi, conciosiacosaché in altre regioni l'abbondanza del sostentamento corporale suole esser causa e occasione che li disordinati appetiti eschino fuori, dando molto disfavore alla virtú dell'astinenza, per il che gli uomini, cosí nell'anime come nelli corpi, patiscono notabile detrimento: ma Iddio nostro Signore ci fece tanta grazia in condurci in queste parti che mancano di quelle abbondanze, che, ancora che volessimo dar queste superfluità al corpo, non lo patisce la terra, perché non si mangia cosa che possa dar nutrimento. Alcune volte mangiamo pesci, riso e grano, ma non molto; vi sono molte erbe e alcuni frutti, con li quali ci mantenghiamo. La gente ci è molto sana che è maraviglia, e sonci molti vecchi: e bene si vede nelli Giapanesi come la nostra natura si sostiene con poco, benché non sia cosa che la contenti. Vivono in questa terra molto sani delli corpi: cosí piacesse a Dio che cosí fossero dell'anime.
Ancora vi fo a sapere che gran parte delli Giapanesi sono bonzi, e questi sono molto obediti nella terra dove stanno, ancora che i suoi peccati siano manifesti a tutti: e la causa è perché sono tenuti di molta stima per causa dell'astinenza grande che fanno, perché non mangiano carne né pesci, se non erbe, frutti, riso, e questo una volta il giorno e molto per regola, né bevono mai vino. Sono molti li bonzi, e le lor case molto povere d'entrata. Per questa continua astinenza che fanno, e perché non tengono conversazione con donne, specialmente quelli che vanno vestiti di nero da prete, sotto pena di perdere la vita, e per saper contare alcune istorie, o per dir meglio favole, delle cose che credono, mi pare che siano tenuti in grande venerazione. E non sarà molto, per tener noi altri tanto contrarie opinioni in sentire di Dio e come si hanno da salvare le genti, che non siamo da essi molto perseguitati piú che di parole. Noi in queste parti quanto pretendiamo è in condurre la gente in cognizione di Dio nostro Signore: viviamo con molta confidenza che esso ci darà forza, aiuto e favore per condurre questo nostro proposito innanzi. La gente secolare non temiamo che ci abbia da contradire e perseguitare quanto è dalla sua parte, se non fusse per molte importunazioni delli bonzi. Noi non pigliamo differenza con essi, né per loro timore abbiamo da lasciar di parlare della gloria di Dio e della salvazione dell'anime, né essi ci possono far piú male di quello che Iddio li permetterà. E il male che per loro parte ci verrà sarà bene che nostro Signor ci darà, se per suo amore e servizio e zelo delle anime ci breviarà li giorni della nostra vita, essendo essi instrumento accioché questa continua morte in che viviamo si finisca, e il nostro desiderio in breve si adimpisca. La nostra intenzione è di dichiarar e manifestar la verità, per molto che essi ci contradicano, poi che Dio ci obliga ad amar piú la salute delli nostri prossimi che la propria vita corporale. Pretendemo, con l'aiuto e favor e grazia del nostro Signore, adimpir questo precetto, dandoci le forze interiori per manifestare, fra tante idolatrie come sono in Giapan, la verità sua. Vivemo con molta speranza che ci darà questa grazia, perché in tutto ci diffidiamo delle nostre forze, ponendo tutta la nostra speranza in Iesú Cristo Signor nostro e nella sacratissima Vergine Maria madre sua santissima, e nelle nove gierarchie degli angeli, pigliando per particolar capitano fra tutti essi santo Michele arcangelo, principe e defensor di tutta la chiesa militante, confidandoci molto in quello, al qual è commessa in particolar la guardia di questo regno del Giapan, raccomandandoci ogni giorno spezialmente ad esso e insieme con esso a tutti gli angeli custodi, acciò abbiano spezial cura di pregar Iddio per la conversione delli Giapanesi, delli quali sono guardiani; non lassando di invocar tutti li santi beati, vedendo tanta perdizion di anime, sempre sospirando per la salvazione di tante imagini e similitudini d'Iddio; confidando grandemente che a tutte le nostre negligenzie e mancamenti nel raccomandarci come dovemo a tutta la corte celestiale, che suppliscano li beati della nostra Compagnia che ivi stanno, rappresentando sempre i nostri poveri desiderii alla santissima Trinità. Molto ci bisogna per nostra consolazione darvi parte d'una sollecitudine grande che abbiamo, acciò che con li vostri sacrificii e orazioni ci aiutiate, perché essendo a Iddio nostro Signore manifesto tutte le nostre colpe e grandi peccati, vivemo con gran timore che non lasci di farci grazia per continuar in servirlo con perseveranzia in fin al fine, se non sarà alcuna grande emendazione in noi. E per questo ci è necessario pigliar per intercessori nella terra tutti quelli della benedetta Compagnia di Iesú con tutti li devoti e amici di essa, accioché per loro intercessione siamo rappresentati e raccomandati a tutti li beati del cielo, e principalmente al Signore di essi Iesú Cristo nostro Redentore e alla santissima Vergine Maria sua madre, accioché continuamente ci raccomandi al Padre eterno, dal quale tutto il bene nasce e procede, pregandolo che sempre ci guardi di non offenderlo, non cessando di farci continue grazie, non guardando alle nostre scelerità ma alla sua bontà infinita, poi che per suo santo servizio e amore venimmo in queste parti, come esso bene sa, essendogli tutti li nostri cuori, intenzioni e poveri desiderii manifesti, che sono di liberar le anime che tanto tempo è che stanno nelle mani di Lucifero, faccendosi da essi adorar come Dio nella terra, poi che nel cielo non fu potente per questo, e dapoi discacciato da quello, si ingegna di far la vendetta quanto può ancora nelli tristi Giapanesi.
Sarà bene che diamo conto di parte del nostro stare in Cangoxina. Arrivammo ad essa nel tempo che li venti erano contrarii per andar a Meaco, che è la principal città di Giapan, dove sta il re e li maggiori signori del regno; e non ci è vento che ci serva per ire là se non di qui a cinque mesi, e a quel tempo con l'aiuto d'Iddio vi andaremo: e ci sono di qui a Meaco trecento leghe. Gran cose si dicono di quella città: affermano che passa da 90000 case, e che ci è una università di scolari in essa, e che tiene dentro cinque collegii principali e piú di dugento case di bonzi e degli altri, come frati che chiamano leguixu, e monache che chiamano hamacata. Fuora di questa università di Meaco sono altre cinque università principali, li nomi delle quali sono questi: Coia, Negru, Frazon, Homi. Queste quattro stanno intorno di Meaco; in ogniuna di quelle dicono che vi sono piú di tremiliacinquecento scolari. L'altra università è molto lontana, la quale si chiama Bandu, ch'è la maggiore e piú principale del Giapan, dove vanno piú scolari che a nissuna. Bandu è una signoria molto grande, dove sono sei duchi, e tra essi è uno principale al qual obbediscono tutti: e questo principale è il re di Giapan, che è il grande re di Meaco. Ci dicono tante cose delle grandezze di questa terra e università che, per poterli scriver e affirmare, vorressimo prima vederle: e se sono cosí come dicono, dopo che averemo visto l'esperienza, le scriveremo molto particolarmente. Oltra di questa università principale, ci dicono che vi sono molte altre piccole per il regno.
Dopo vista la disposizione del frutto che nell'anime si può fare in queste parti, non starò molto a scrivere a tutte le principali università della cristianità, per discarico delle nostre coscienze incarcando le loro, conciosiacosaché con molte virtú e lettere possono curare tanto male, convertendo tanta infidelità in conoscimento del loro Creatore, Redentore e Salvatore. Ad essi scriveremo come maggiori e padri, desiderando che ci tenghino per servi e figliuoli, il frutto che con loro favore e aiuto si può fare qua, perché quelli che non potranno qua venire favorischino quelli che si offerirano prontamente, a gloria e servizio d'Iddio e salvazione dell'anime, a participare di maggior consolazione e contento spirituale di quello che là per ventura tengono. E se la disposizione di queste parti sarà tanto grande come ci è parso, non lasciaremo di dare parte alla Santità del nostro signore, poi che è vicario di Cristo nella terra e pastore di quelli che credono in esso, e ancora che stanno disposti per venir a conoscimento del suo Redentore e Salvatore e ad essere di sua iurisdizione spirituale, non lasciando etiam di scrivere a tutti li devoti e benedetti fratelli che vivono con desiderio di glorificare Iesú Cristo nelle anime che non lo conoscono, e ad altri molti, che venghino a questa terra in questo gran regno per compir il suo desiderio, e in un altro maggiore, che è quello della China, al qual si può ire securamente, senza esser mal trattati dalli Chinesi, avendo salvocondotto dal re di Giapan, il qual speriamo in Dio che sarà amico nostro e che facilmente ci concederà questo salvocondotto. È questo re di Giapan amico del re di China, e tiene in segno d'amicizia il suo sigillo, per poter dar securtà a quelli che là vanno. Navigano molti navilii delli Giapanesi alla China, alla quale in dieci o dodici dí si può navigare. Tenemo molta speranza che se Dio nostro Signore ci dessi dieci anni di vita, che vederessimo in queste bande gran cose per quelli che di là veniranno, e per quelli che Dio in queste parti moverà, accioché venghino in suo vero conoscimento. E per tutto l'anno del 1551 speriamo di scriver molto particularmente tutta la disposizione che qua, cioè in Meaco e nell'università, si troverà per esser Iesú Cristo conosciuto in esse. Questo anno vanno duoi bonzi alla India, li quali sono stati nella università di Bandu e Meaco, e con essi molti Giapanesi, per apprender le cose della nostra santa fede.
Il dí di san Michele parlammo col duca di questa terra, e ci fece molto onore, dicendo che guardassimo molto bene li libri dove era scritto la legge de' cristiani, e che se era la legge di Iesú Cristo vera e buona, era molto per contristarsi il demonio di quella, perdendo parte di sua iurisdizione. Pochi giorni fa dette licenzia alli suoi vasalli, acciò che tutti quelli che volessino esser cristiani si facessino. Queste buone nove scrivo al fine della lettera per vostra consolazione, e accioché diate grazie a Dio nostro Signore. Parmi che questo inverno ci occuparemo in far una dichiarazione sopra gli articoli della fede in lingua giapanese alquanto copiosa per farla stampare, poi che tutta la gente principale sa leggere e scrivere, perché si stenda la nostra santa fede a molte parti, non potendo a tutti soccorrere. Paulo, nostro carissimo fratello, tradurrà in sua lingua fidelmente tutto quello ch'è necessario per la salvazione dell'anime loro. Adesso vi bisogna (poi che tanta disposizione si scopre) che tutti i vostri desiderii siano per manifestarvi per grandi servi di Dio nel cielo, il che farete essendo in questo mondo umili interiormente in le vostre anime e vite, lasciando la cura a Dio che esso vi darà il credito che conviene con li prossimi nella terra, e se non lo farà, sarà per veder il pericolo che incorrete, attribuendo a voi quello che è d'Iddio. Vivo molto consolato, parendomi che vederete di continuo tante cose interiori da riprendere in voi altri, che venerete in grande odio di tutto l'amor proprio e disordinato, e insieme in tanta perfezione che il mondo non averà con ragione di che riprendervi: e di questa maniera le sue laudi vi saranno una croce grande in udirle, vedendo chiaramente in quelle i vostri defetti. Cosí finisco, senza poter finire di scrivervi il grande amore che vi porto a tutti in generale e in particulare. E se li cuori di quelli che si amano in Cristo si potessino vedere in questa vita presente, crederei, fratelli miei carissimi, che nel mio vi vedereste chiaramente: e se non vi conosceste vedendovi in esso, saria perché vi tengo in tanta stima, e voi altri per le vostre virtú tanto vi dispregiate, che per umiltà non vi conosceresti, benché le vostre imagini siano impresse nella mia anima e cuore. Pregovi molto che fra voi sia un vero amore, non lasciando nascere amaritudine di animo. Convertite parte di vostri fervori in amarvi l'un con l'altro, e parte in desiderar di patir per Cristo per suo amore, vincendo in voi altri le contrarietà che non lascian crescere questo amore. Poi sapete quello che dice Cristo, che in questo conosce li servi suoi, se si ameranno l'un con l'altro. Dio nostro Signore ci dia a sentir dentro all'anime nostre la sua santissima volontà e grazia per adempirla perfettamente.
Di Cangoxina, a' cinque di ottobre millecinquecentoquarantanove.
Vostro tutto in Cristo Iesú Signor nostro Francesco Xavier.
Copia d'una lettera del padre Francesco Perez, che sta in Malacca, adí 16 novembre 1550,
per li fratelli del Capo di Comorin.
Le cose di Giapan sapete largamente per le lettere del padre nostro Francesco Xavier, il qual s'è partito di qua con suoi compagni l'anno 1549, come ho già scritto l'anno passato. Stavamo aspettando con molta sollecitudine la nova molto desiderata di esso, e stando già quasi senza speranza che venissero navilii di Giapan, per finirsi già il tempo per poter venir da esso a questo porto di Malacca, un mercoledí per la mattina, a' 2 d'aprile di questo anno del 50, giunse un navilio a questo porto, col qual ci allegrammo molto, non solamente li fratelli, ma etiam tutta la città. E il capitano, subito che sentí le nove, mandò a chieder la buona man, stando io dicendo messa nella Misericordia. Finita la messa, me n'andai alla chiesa maggiore, dove era il capitano don Pietro de Silva, che stava come fuori di sé del piacere, e mi disse che saria buono far una processione, e lo disse al vicario, che non era manco allegro: e subito concorse tutto il popolo in processione a Nostra Donna del Monte, che è dell'invocazione delle piaghe, e il padre vicario, che allora era don Vicenzo Viegas, disse una messa cantata della nostra Donna.
Nel navilio venivano quattro Giapanesi, li quali furono molto ben alloggiati in casa d'un uomo cristiano chino, e molti uomini portoghesi di questa città gl'invitorono molte volte: venivano a nostra casa, e gl'insegnavamo le cose della nostra santa fede, insino a tanto che molto contenti ricevetteno l'acqua del battesmo, il dí della Ascensione. E due di essi fece vestir il capitano, e gli altri due Pietro Gomez di Almeida, e il medesmo capitano fu suo patrino, e il vicario li battezzò con molto onore e solennità, quanta si poté fare in Malaccha. E li tre di essi si ritornorno alla China e di lí al Giapan, e l'altro si fermò qui in casa nostra fin adesso, il qual, per averne molto desiderio, va a Goa. Qui per grazia d'Iddio si fa molto frutto in insegnar alli figliuoli ed esortar li grandi, in sentir confessioni e ministrar il santissimo Sacramento e aver alcune pratiche con li gentili, giudei, mori, molti delli quali vengono in conoscimento di nostra santa fede. Fra li quali venne uno ch'era sacerdote fra loro degl'idoli, che chiamano Iogue, uomo vecchio di cento e sette anni, secondo che diceva, e cosí pareva essere: questo si fece cristiano di buona volontà con due figliuoli e una moglie, il qual visse dopo il battesmo sei mesi, e morí credendo nella fede di Iesú Cristo; benché la cosa costò assai fatica, perché uno anno andammo in ragionamento con esso.
D'una lettera del padre Giovanni d'Albera che sta in Maluccho, di 5 di febraro del 1549,
per il rettore di Santo Paulo di Goa.
Sono queste isole dove ci mandò il padre nostro maestro Francesco molto populate di molte genti di diverse lingue, e terra la maggior parte molto sana e fertile per la temperanzia dell'aria, tanto che per la fertilità di essa gli uomini sono poveri, per non darsi a lavorar e seminar cosí vino come pane e altre cose. È gente che tiene diverse cerimonie e sette, gentili e mori, e cosí infino adesso la setta di Macometto ha cresciuto infra loro. E con tutto che li convertiti alla nostra santa fede siano molti, ne si lasciano di moltiplicar insin adesso molti piú per timor de' mori, perché quelli che si convertono adesso cominciano a patir persecuzioni da essi per Cristo, e dove non giunge il favor di Portoghesi, lasciano molti di venir alla nostra fede per timor delli mori, e ancora per non aver chi semini fra loro la parola di Dio. Li gentili sono piú facili a domar, e di questi s'hanno convertite tre provincie, le quali stanno cinquanta e sessanta leghe da questa fortezza, ch'è insino dove può arrivare il favor delli Portoghesi. In queste provincie di gentili si fa molto frutto, battezzando li figliuoli e insegnandoli sempre le cose della nostra fede, e levando li loro mali costumi della loro idolatria.
Il re di Maluccho è il piú potente fra gli altri di queste isole: publicò che voleva far un figliuolo cristiano, e cosí lo disse al padre nostro maestro Francesco al tempo che stava qui, e poi a me lo disse a' 25 di febraro nel 1549, che venne alla fortezza e parlò col capitano e meco, e confermò di voler adempir quello ch'avea promesso, ch'era far uno suo figliuolo cristiano. E sopra questo scrisse a sua Altezza a Portogallo, e pregò il capitano e me che gli scrivessimo: e cosí lo scrivo al padre messer Simone, acciò dia conto di questo a sua Altezza. Spero ancora che si faccia cristiano il figliuolo primo, ch'è principe e signore della maggior parte dell'isole o quasi tutte, quante che sono in queste parti fino al Mazachar, donde ci sono già molti cristiani. Promesse questo re al capitano e a me di mandar a Goa questo suo figliuolo al collegio di San Paulo, e adesso questo anno che viene lo manderà con questo capitano ch'è molto suo amico, e menarà seco alcuni figliuoli di uomini principali. Il governatore dell'India li mandò questo anno una provisione che sia re e signore di tutti li cristiani che si faranno, e di questi ch'acquisterà con l'aiuto di suo padre e delli Portoghesi, e ancora di quelli che sono già convertiti: e questo faccendosi esso cristiano, e in caso che il principe si convertisse, voleva questo re che sua Altezza tenesse per bene che esso fusse signore di tutti li cristiani che da qui innanzi si convertissino, e che l'altro che adesso si convertirà fusse signore di tutti quelli che sono cristiani.
Stiamo adesso il fratello Nicolò e io qui in questa fortezza, dove venimmo ammalati; dipoi ch'io sono guarito, ho aiutato al prelato questa quaresima; dipoi tornai a visitar li cristiani. Predico uno dí di settimana alle donne cose della nostra santa fede, per comandamento cosí del padre maestro Francesco, e insegno la dottrina cristiana tutti li giorni alli figliuoli e alli schiavi de' Portoghesi, alli novi cristiani, e cosí alli medemi Portoghesi si fa molto frutto. Le donne, ancor che siano nuove cristiane, sono capaci per ricevere li sacramenti, e alcune di esse si confessano e ricevono la santa Eucaristia in alcune feste dell'anno, e molti Portoghesi ogni otto giorni; le donne, con li loro parenti e li naturali, ci aiutano molto a condursi alla nostra santa fede.
Il fratello Nicolò insegna a leggere e scrivere e buoni costumi alli figliuoli. Qua io parlai con un uomo per comandamento del padre maestro Francesco, accioché certa sua robba applicasse a far una casa dove s'insegnasse la dottrina cristiana. Come ci disse, ebbe apiacer molto di farlo, e cosí lasciò la sua robba per far un collegio dove s'insegnasse a leggere e scrivere a tutti li figliuoli delli cristiani, cosí portoghesi come quelli che nuovamente si sono convertiti alla nostra santa fede, e voleva che la Compagnia pigliasse la cura di questo, per piú servizio d'Iddio nostro Signore, e quando che l'ospitale della Misericordia lo riceverà, per spender in questa opera pia d'insegnar alli semplici dandoli da mangiar e vestire a quanti basterà la detta robba, sí a questi della terra come a quelli dell'altre isole che nuovamente veniranno alla nostra fede, e che qui insegnamo in certe case nuove, quali per tal effetto si son fatte, e ne faremo dell'altre come meglio ci parerà. Qui stanno alcuni figliuoli delli cristiani della isola del Moro a imparare, che sono li principali di quelle terre, con li loro schiavi che ancor imparano.
Dall'"Asia" di Giovan de Barros
Alli lettori
La intenzione qual abbiamo che delli paesi scoperti a' tempi nostri gli studiosi della geografia ne abbino intera cognizione, opera che di continuo con ogni diligenzia procuriamo ridur in luce e nel nostro idioma quelle carte quali (non senza fatica) ne pervengono alle mani, e apertamente ne fanno chiari del stato delle cose notabili orientali e occidentali. E da questo bono proposito è nato che dal libro del signor Giovan de Barros, gentiluomo portoghese, intitolato "La prima Deca dell'Asia", abbiamo scelto e fatto elezione delle cose pertinenti alla intelligenzia delli piú notabili paesi, fiumi, monti, città e colfi delli mari orientali e occidentali, avendo lasciato adietro quanto per lui è referito delle guerre fatte con quelli popoli dell'Indie, come cose alli desiderosi di maggior intelligenza di poco profitto. Alli quali, in ricompensa di questo, facciamo sapere il sudetto signor Giovanni prometter di mandar in luce un libro di tavole di geografia del paese della China, stampato (come egli dice) in quella provincia e per un Chino suo schiavo tradotto; e di piú un libro separato e da lui scritto delle cose naturali de' detti paesi, cioè arbori, erbe, fiori, frutti, animali terrestri, uccelli e pesci: quali libri, venendo in luce (come si desidera e spera) di quella lingua, nella nostra natia italiana dal lor esemplare saranno particolarmente esposti. È veramente questo magnifico gentiluomo scrittore diligentissimo, e tale che nella sua istoria si vede usata ogni diligenzia per far noti e publicar al mondo non solamente li soldati e capitani, quanto li particolari marinari portoghesi che al tempo dell'illustrissimo infante don Enrico navigaron le marine di Etiopia. E del magnifico messer Alvise da Ca' da Mosto, gentiluomo veneziano, non ha voluto far alcuna menzione, il quale (sí come per la lettura del suo libro si cognosce ed è noto a tutto il mondo) già cento anni, per ordine del sudetto illustrissimo infante navigando, ne scoperse parte, e massime l'isole di Capo Verde.
Della Istoria del signor Giovan de Barros
Della prima Deca dell'Asia capitolo ottavo del terzo libro, dove, parlando di una fortezza che si doveva far sopra la riva del fiume Senega nella Etiopia, della provincia di Gialofi, cosí descrive:
La terra che dalli nativi abitatori nel commun parlar è chiamata Ialofo giace fra duoi notabili fiumi, cioè Canagà e Gambea, li quali per il lungo corso che fanno ricevono diversi nomi secondo li popoli dove passano, percioché dove quello che noi chiamiamo Canagà sbocca nel mar occidentale li popoli ialofi il chiamano Dengueh, e li Tucoruoli piú di sopra Mayo, e li Caragoli Colle; e quando scorre per la provincia chiamata Bagano, ch'è piú orientale, lo chiamano Zimbala, dove alcune volte per causa di esso danno alla regione questo medemo nome, e nel regno di Tungubutu lo chiamano Iza. E ancora che scorra per molta distanzia di paese, venendo dalli fonti orientali dalli laghi chiamati da Ptolomeo Chelonides, Nuba e fiume Gir, quasi per diritto corso fin che sbocca nell'occeano in gradi 15 e mezzo di latitudine, non sappiamo il nome che gli altri popoli li danno. Appresso di noi generalmente è chiamato Canagà, dal nome d'un signor d'una terra col qual li nostri al principio del suo discoprimento ebbero commerzio, percioché non sapevano chiamarlo se non il fiume Canagà. Ed essendo fiume che vien di cosí lontano paese, non porta tanta moltitudine di acqua, né il mar ascende tanto per lui, come fa per il fiume di Gambea e di Cantor. Fa alcune isole, la piú parte abitate da bestie e serpi e simil immondizie per la sua asperità, e in alcuni luoghi non si puol navicare per li scogli che lo traversano, e massimamente per 150 leghe dalla bocca dove si chiama Colle, percioché ivi fa alcune cadute over cataratte come sono quelle del Nilo, a' quali luoghi gli abitatori han posto nome Huaba: e per quelli scorre con tanto empito, e cosí stanno tagliati li sassi fin abasso sopra la terra dove 'l cade con quella furia, che si puole passar col piede asciutto di sotto al lungo di detta asperità di sassi, e questo però (secondo che dicono quelli della terra) si può far quando il vento vien di sopra e non di sotto, percioché allora il vento ribatte le acque contra li sassi, di maniera che impediscono questo transito. E questo luogo chiamano li negri Burto, che vuol dir arco, per la volta che fa il corso delle acque nell'aere in quel tempo che non cascano in terra. Intrano in questo molti altri notabili fiumi, li quali, perché vengono da luoghi non abitati da genti ma da animali salvatichi, e li popoli con li quali abbiamo commerzio non li han posto nome, né manco è stato posto dalli nostri, ancora che nelle tavole della nostra geografia abbiamo situato il lor corso in graduazione. Fra gli altri fiumi che v'intrano è uno che vien dalla parte di ostro, dalle terre che li negri chiamano propriamente Guine o Genii, il quale, percioché vien per luoghi pieni di terra rossa, porta le sue acque un poco rosse; e il Canagà ha le sue de lí in su bianche e chiare, e il luogo dove tutti duoi si congiungono chiamano li popoli caragoli Gusitembo, che vuol dir bianco e rosso. Dicono che sono insieme tutti duoi emuli e contrarii, percioché, bevendo le acque di uno e dapoi quelle dell'altro, subito fanno vomitare, il che cadaun da per sé non fa, né manco dapoi che si congiungono e scorrono.
L'altro fiume Gambea del riscatto di Cantor non ha tanta variazione in nomi, imperoché quasi tutto, fin al riscatto dell'oro dove vanno li nostri navilii, che sarà dalla bocca per causa delle sue volte centottanta leghe e per linea dritta ottanta, li negri della terra lo chiamano Gambu, e noi Gambea. La maggior parte del quale scorre tortuoso in volte minute, principalmente dal rescatto abasso, fin che entra nell'oceano, in gradi tredici e mezzo di latitudine verso sirocco del capo che noi chiamiamo Capo Verde. Conduce maggior quantità di acque che non fa Canagà, e profonde, percioché in esso intrano alcuni fiumi barbari molto grossi, che hanno il suo nascimento dentro della terra chiamata Mandinga; e li suoi fonti principali sono quelli del fiume che Ptolomeo chiama Niger, e la laguna Libya. Nel venir tortuoso si rompono l'acque, di maniera che non vien con tanto impeto contra li nostri navilii quando ascendono per esso, e quasi a mezza strada davanti che giungano al luoco del riscatto fa una isoletta, che li nostri chiamano degli Elefanti per causa della moltitudine degli elefanti che ivi si trovano. Sopra il riscatto dell'oro vi è un sasso, quale, perché totalmente impediva il transito, il re don Giovanni vi mandò alcuni tagliapietre per romperlo, il che non si fece, per esser cosa di molta spesa e di grande travaglio. Ambiduoi questi fiumi Gambea e Canagà generalmente producono gran varietà di pesci e animali aquatici, come cavalli marini e grandissimi lucertoni, che nella figura e natura sono li cocodrilli del Nilo, celebrati per tanti scrittori, ed etiam serpenti che hanno alie picciole, e non cosí monstruosi come dipingono e fabulano le gente. Quivi negli animali terrestri che beveno le sue acque si mostrò la natura molto feconda e come a dir prodiga, per la moltitudine innumerabile e infinita varietà loro che produsse, perché cosí vanno gli elefanti in frotta come appresso di noi vedemo andar le pecore, item gazelle, porci, onze e molte altre sorti da caccia che appresso di noi non sono conosciute.
La terra che giace fra questi duoi fiumi fa un notabile promontorio, che li nostri chiamano Capo Verde e Ptolomeo Arsinario, e ancor che egli lo mette in latitudine di gradi 10 e mezzo, pur per noi è stato verificato esser in quattordici e un terzo secondo la sua figura; e le isole che all'occidente gli stanno opposite, le quali per nome generale noi chiamiamo del Capo Verde, e da lui Esperide, e non possono esser altre. E similmente, per restar fra duoi notabili fiumi che lui chiama Darando, che è Canagà, e Stachiris, Gambea, li quali nella intrata del mare quasi imitano la verità, come noi al presente abbiamo, però nel descriver il corso di ciascheduno di essi prese errore, percioché li dà il nascimento molto vicino, e loro vengono dalli fonti che sopra abbiamo detto, alli quali Ptolomeo non dà uscita, come mostra la tavola. Generalmente la terra che giace fra loro stendendosi verso l'oriente fino a 150 leghe si chiama Ialofo, e li suoi popoli Ialofi, ancora che in sé comprendino assai piú generazioni di quelle che Ptolomeo terminò dentro delle correntie di Darando e Stachio. La terra in sé è grassa e molto fertile nel produr di tutte le cose, e cosí soda, massimamente quella che lassano bagnata questi duoi fiumi nel tempo delle loro inondazioni il verno, che quando vien la estate con la forza del sole fa tal apertura che si potria in quella sepelirvi un cavallo.
E per crear li migli di mazzocca che noi chiamiamo zaburro , che è il commun cibo di quelli popoli, acciò che 'l possa nascere, dapoi asciutto il fango o pantano che lassò il corso dell'acque, buttano la semenza senza piú arare e con un poco di sabbion di sopra la coprono, percioché, se la fosse coperta con la terra, faria una codega di sopra tanto dura per la calidità del sole, che la strengeria con la molta umidità di sotto, che non la lassaria germogliare: il qual impedimento non li può far il sabbione, ma per farla nascer basta la belletta della terra, che ha di sotto molto umida per l'acque passate, e le grandi rugiade della notte che trapassano il sabbione. Il formento o grano o altre semenze che abbiamo in queste bande non usano in quelle, né il clima lo consentirebbe che potessino maturarsi, per esser le terre umidissime, massime le vicine a Gambea. Solamente nelle terre abitate da' popoli caragoli, in alcune campagne contermini alli deserti, raccogliono qualche poco di grano, ch'è molto piú grosso e bello che non è quello di Spagna, secondo che essi dicono.
Questo fiume Canagà per la nostra divisione è quello che divide la terra delli Mori da quella delli Negri, ancora che al lungo delle sue rive tutti siano mescolati nel colore, vita e costumi per ragione della copula, che secondo il costume delli Mori accettano ogni moglie. Però, quanto alla qualità della terra, pare che la natura abbia posto quel fiume fra ambedue quelle nazioni come termine e divisione, perché quella terra che giace dalla parte di tramontana, che propriamente li Mori abitano, cominciando nel mare oceano occidentale, in larghezza di cento leghe e alcune volte piú e manco, è tutta deserta a modo di una fascia, della quale il fiume Canagà è il confine, e si va estendendo verso levante fino che trova l'acque del Nilo, dal quale pigliando umidità per il corso di quelle acquista pur qualche verdura; e poi, passata che ha dall'altra parte del fiume, continua pur con la medesima seccura e sterilità, fino a dar nell'acque salse del mar Rosso. Il qual diserto non è però cosí sterile per tutto che in alcuna parte non sia populato a modo di una macchia, che sono li luoghi che Strabone chiama Abbasi: e la maggior parte è goduta da moltitudine d'Arabi, che vi vanno ciascuna sotto il suo signore o capitano. E per causa delle sue diverse qualità che essa tiene li danno differenti nomi, perché la terra ch'è tutta arena minuta senza cosa verde chiamano loro chael , e quella ch'è coperta di qualche erba o arboscelli a uso di bosco povero, ch'è la parte che loro pascano, chiamano azagar , e quella ch'è di pietre minute, in maniera di arena grossa, charà . E per questa causa li piú degli abitatori di questa cattiva terra si accostano quanto possono a questo fiume Canagà, e altri vanno cercando le macchie over isolette che abbiamo detto, che li restano a similitudine di giardini. Per ragione del qual fiume la terra piú abitata è quella che giace al lungo di esso, dove sono alcune città, la principal delle quali è Tungubutu, che sta tre leghe discosto da quelle della parte di tramontana, dove, per causa dell'oro che ivi vien dalla grande provincia di Mandinga, concorrono molti mercatanti del Cairo, di Tunis, di Oran, di Termesen, Fessa, Marocco, e d'altri regni e dominii de' Mori. E cosí concorrevano ad un'altra città che era sopra le rive del fiume, chiamato Genna, la quale in altro tempo era piú celebre che Tungubutu, la qual over che lei desse il nome al regno o che il regno lo desse a lei, di qui si chiama appresso di noi tutta quella regione di Canagà per davanti Guine, ancora che fra li negri alcuni la chiamano Genna, altri Iannii e altri Gennii. E quantunque sia piú occidentale che Tungubutu, generalmente concorrevano ad essa li popoli che gli sono piú vicini, come sono li Caragoli, Fulli, Ialofi, Azaneghi, Brabexii, Tugurarii, Luddayai, della mano delli quali, per via del castello di Arguin e di tutta quella costa, veniva l'oro alle nostre mani; e gli altri popoli d'infra terra di Mandinga al luogo del riscatto di Cantor, dove vanno li nostri navilii per il fiume Gambea. E non portando le arene di questi duoi notabili fiumi, cioè Canagà e Gambea, tanto oro come si troveria in quelle delli nostri fiumi Tago e Mondego, nondimeno è tanto cambiata e mutata la opinion degli uomini, che manco stimano quello che possono aver appresso loro che quello che con tanti pericoli e travagli della vita, come passano nell'andarlo cercando in questi duoi fiumi barbari.
E perché di queste e di molte altre cose, delle quali copiosamente trattiamo nella nostra geografia, il re don Giovanni era già informato avanti la venuta de Bemoii, signor della provincia di Guinea, ed egli lo confirmò piú in quelle, però li parve cosa molto utile al suo stato e al bene delli suoi sudditi far fare una fortezza sopra le ripe di questo fiume Canagà, che saria come una porta, percioché con l'aiuto di questi popoli ialofi aveva speranza in Dio che, per mezzo di questo suo principe don Giovanne Bemoii, si convertirebbero alla fede (come fu convertito il regno di Manicongo), e allora poteria intrar nella interior parte di quella gran terra fin a congiungersi col Prete Ianni, del qual egli tanto fondamento faceva per le cose della India. E sí come per il castello di Arguin e il luogo del riscatto del Cantor, Serra Liona e fortezza della Mina, gran parte della terra di Guinea era privata dell'oro che aveva in sé, con questa fortezza sopra il fiume Canagà restaria privata dell'altro oro che correva alle due fiere che dicemmo, per esser ambedue situate lungo le rive di quello, per il che non verrebbe alle mani de' Mori, li quali andavan a cercarlo per tanti diserti con carovane di camelli, che spesse fiate restavano sepeliti con quelle nelle arene della Libya per le quali camminavano.
Capitolo settimo del libro quarto, nel qual si descrive il sito della terra che propriamente chiamiamo India dentro del Gange, nella quale si contiene la provincia di Malabar, nella quale è posto il regno di Calicut, dove Vasco da Gamma arrivò.
La regione che li geografi propriamente chiamano India è la terra che giace fra li duoi illustri e celebrati fiumi Indo e Gange, del qual Indo ella pigliò il nome; e li popoli dell'antiquissimo regno Delii, capo per situazione e possanza di tutta questa regione, e cosí la gente persiana a quella vicina, ora per nome proprio la chiamano Indastan. E secondo la deliniazione della tavola che Ptolomeo fa di quella, e piú veracemente per la notizia che al presente col nostro discoprimento abbiamo, per eccellenzia la potemo ben chiamar la grande Mesopotamia, percioché, se li Greci dettero questo nome, che vuol dir fra li fiumi, a quella picciola parte della regione babilonica abbracciata dalli duoi fiumi Eufrate e Tigre, cosí per la situazione di questa fra le correntie di questi duoi notabili Indo e Gange, che scaricano e votano le sue acque nel grande oceano orientale, accioché facciamo di lei differenzie piú notabili di quello che si fa dicendo India dentro del Gange e India oltra del Gange, la potremo chiamar la gran Mesopotamia, over Indastan, ch'è il proprio nome datoli dalli popoli che l'abitano e vicinano, accioché ci conformiamo con loro. La qual regione le correnti di questi duoi fiumi per una parte e il grande oceano Indico per l'altra la circondano di maniera che quasi resta una chersoneso fra terre, di figura che li geometri chiamano rombo, che è di lateri equali e non di angoli retti, li angoli oppositi della quale in maggior distanzia giaceno tramontana e mezzodí. L'angolo della parte verso ostro fa il capo Comorii, e quello della parte della tramontana li fonti delli medesimi fiumi, li quali, ancora che sopra la terra si mostrino distinti nelli monti che Ptolomeo chiama Imao, e li loro abitatori Dalanguer e Nangracot, sono tanto congiunti l'uno con l'altro che quasi vogliono nascondere li fonti di questi duoi fiumi: e secondo la fama delle genti circonvicine, si crede che ambiduoi naschino da un medesimo fonte. La distanzia di questi fonti al capo Comorii ad essi opposito sono poco piú o manco per linea retta di quattrocento leghe, e gli altri duoi angoli, che per linea contraria giaceno da levante a ponente per distanzia di trecento leghe, fanno le bocche delli medesimi fiumi Indo e Gange, ambiduoi molto superbi per la moltitudine dell'acque che del gran numero degli altri vi entrano. E quasi tanta è la parte della terra che quelli abbracciano quanta quella che per gli altri duoi lati circonda il mare oceano, che ambiduoi si congiungono nel capo Comorii, e fanno quello acuto cantone che quello ha, con che resta la figura di rombo che abbiamo detto.
E ancora che tutta questa provincia Indostan sia popolata da due generazioni di popolo in credulità, una idolatra, l'altra macomettana, è però molto varia nelli riti e costumi, e tutti fra loro l'hanno partita in molti regni e stati, cioè del Moltan, Delii, Cospetir, Bengala in parte, Oryxa, Mandao, Chitor, Guzarate, che communemente chiamiamo Cambaia, e nel regno Decan, diviso in molti dominii che hanno lo stato a modo di re, con quello di Pale che giace fra l'uno e l'altro, e nel regno di Bisnagar, che ha sotto di sé alcuni signori, con tutta la provincia del Malabar, divisa anco lei fra molti re e principi di molto piccioli stati, al parangone degli altri maggiori che facemmo, parte delli quali sono esenti e altri sudditi alli sopra nominati. Ed essendo questi popoli fra loro molto bellicosi e di poca fede, già tutta questa grande regione sarebbe suddita al piú potente, se la natura non avesse impedita la cupidigia degli uomini con grandi e notabili fiumi, monti, lagune, boschi e luoghi diserti, abitazione di molte e diverse bestie e fiere, che impediscono il passar da un regno all'altro: massimamente alcuni notabili fiumi, parte delli quali, non intrando negli alvei dell'Indo e Gange, ma bagnando il paese che questi duoi abbracciano con molti giri, sboccano nel grande oceano; e similmente molti paludi di acqua salsa che intrano fra terra tagliano la costa del mare, di maniera che si può navigar dentro via. E la piú notabile divisione che la natura abbi posto in questa terra è una corda de monti, li quali dalli naturali del paese per nome commune (percioché non lo hanno proprio) sono chiamati Gate, che vuol dire monte: li quali, avendo il suo cominciamento nella parte della tramontana, vanno correndo verso l'ostro secondo che la costa del mare va a vista di quelli, lassando fra le sue spiaggie e la parte fra terra una fascia di paese piano, tutto annegato di paludi e ritagliato dall'acqua a maniera di giarre in alcune bande, fino che vanno a finire nel capo Comorii, il qual corso di monti si estende quasi ducento leghe. Percioché, cominciando nel fiume chiamato Carnate, vicino al capo e monte Delii, molto notabile alli naviganti di quella costa, in latitudine di gradi dodici e mezzo dalla parte di tramontana, è posta detta fascia di terra fra questo Gate e il mare, di latitudine di dieci fin a sei leghe, secondo che li grembi di mare si ritirano ed estendono, la qual fascia di terra si chiama Malabar, che potrà esser di lunghezza quasi ottanta leghe, dove è situata la gran città di Calicut.
Capitolo quarto del libro ottavo, nel quale si descrive la parte della costa dell'Africa dove è situata la città di Quiloa, la qual terra gli Arabi propriamente chiamano Zanguebar,
e Ptolomeo Etiopia sopra Egitto.
Nella parte della terra di Africa sopra l'Etiopia, che Ptolomeo chiama interiore, dove è posta la regione Agisymba, che è la piú australe terra di che lui ebbe notizia e dove fa la sua meridionale computazione, giace un'altra terra che ne' suoi tempi non era da lui conosciuta, e al presente è notissima la parte sopra il mare, dapoi che abbiamo discoperto la India per questo nostro mare oceano. Al principio della quale, cominciando nella oriental parte di lei, è il Prasso promontorio, che Ptolomeo situò in quindeci gradi verso ostro, e in tanti sta per noi verificato, il quale li naturali della terra chiamano Mozambique, dove al presente abbiamo una fortezza che serve di scala o porto delle nostre navi in questa navigazione dell'India; e la parte occidentale di questa terra a Ptolomeo incognita finisce in la latitudine di gradi cinque dalla parte di ostro, che confina con gli Etiopi, che quello chiama Esperii per nome commune, che sono li popoli pangelungi sudditi al nostro re di Manicongo; fra li quali duoi termini orientale e occidentale resta il grande e illustre capo di Buona Speranza, già tanti anni incognito al mondo. E conciosiaché questa terra della qual trattiamo sia grande, e li popoli barbari che l'abitano siano molti differenti nella lingua, non vi è di quella fra loro nome proprio: solamente gli Arabi e Persiani che si dilettano di lettere e confinano con quella, nelle loro scritture la chiamano Zanguebar, e li suoi abitatori Zangui, e per altro nome commune ancora li chiamano Cafres, che vuol dir gente senza legge, nome che loro danno a tutta la gente idolatra, il qual nome di Cafres è già appresso di noi molto usato, per li molti schiavi che abbiamo di quella gente.
E perché nella nostra geografia particolarmente facciamo relazione di questa terra Zanguebar, qui come per transito daremo alcuna notizia di lei. E cominciando nel promontorio Aromata, che ora chiamiamo capo di Guardafuni, che è la piú oriental parte di tutta l'Africa, situata per Ptolomeo in gradi cinque e per noi in dodici, fino a Mozambique, che saranno per lungo della costa da cinquecentocinquanta leghe, fa questa terra un seno, non cosí curvo e incolfato come Ptolomeo lo affigura nelle sue tavole, ma quasi alla forma di una costa di animale quadrupede. E nel continuare del corso del mare che quello non conobbe, il quale comincia nel capo di Mozambique e finisce nel capo delle Correnti, che può esser per costa da centosettanta leghe, resta lei un poco piú inarcata dove la fa il capo delle Correnti, subito nella volta di quello, come vedon coloro che da ponente navigano verso levante. Dal qual capo navigando verso quello di Buona Speranza, che potrà esser per costa da trecentoquaranta leghe, va la terra faccendo un lombo, di maniera che resta il capo delle Correnti in gradi ventiquattro della parte dell'ostro, e quel di Buona Speranza in trentaquattro e mezzo. E da questo illustre capo fin alla terra delli Pangelungi del regno di Manicongo vassi la costa ritirando e voltando, percioché la grandezza di quella fa parer che si estende al dritto della tramontana. La figura della punta di questo grande capo di Buona Speranza esce fuori del corpo della terra, come se la fusse stata tagliata dal capo delle Hagulhas, che è distante da detta punta verso levante per spazio di venticinque leghe, come si dimostra separando il dito grosso della man zanca dall'altre dita, voltando la palma all'ingiú: e in tal forma resta detto capo separato verso il ponente del grande corpo dell'altra terra, ed è ottuso nella sua punta a similitudine del dito; e quasi nella giuntura ch'è nel mezzo di quello giace un paese bellissimo sopra gli altri, che nella sommità fa una gran campagna di terra piana, dilettevole e graziosa in vista e verde, con molte erbe odorifere, come è menta e altre simili alle nostre di Spagna, la quale li nostri chiamano la tavola del capo. E riguardando da quella verso ponente, resta un porto che si chiama della Concezion, nel spazio che resta fra quello e l'altro paese che giace per levante. Dove si fa il capo de las Hagulhas è posto un porto over seno tanto stretto che piú propriamente potrebbesi chiamar forno, per l'entrar che egli fa fra terra tagliandola diritto al lungo del capo, che dalla bocca di quello fin a dove finisce vi è spazio di dieci leghe. Nel fine della quale principia ad elevarsi un ordine di montagne tutte di pietra viva, con grandi e aspere punte, che vanno fino alle nuvole con la sua altezza: per causa delle qual punte li nostri chiamano quel luogo Os Picos Fragosos, cioè le punte aspere; al piede delle quali esce con gran furia un fiume grossissimo, che nasce molto adentro fra terra, di che al presente non abbiamo notizia.
E ritornando alla particolar descrizione della terra Zanguebar, che fu il nostro proposito per causa delli fatti che li nostri fecero in detta costa, questa principia in uno delli piú notabili fiumi che della terra di Africa sbocchino nel grande oceano verso il mezzogiorno, il quale Ptolomeo chiama Rapto, ancora che la sua graduazione sia molto differente da quella che ora sappiamo, percioché lui lo pone in latitudine di gradi sei dalla parte dell'ostro e noi in nove dalla parte della tramontana, il qual nasce nella terra del re degli Abissini che chiamano Prete Ianni, nelle montagne che loro chiamano Graro, e il fiume Obii, e dove sbocca in mare Quilmanci dalli Mori che con quello confinano, per causa di una populazione cosí chiamata, che è posta in una delle principali bocche di quello, appresso il regno di Melinde. Da questo fiume andando verso il capo di Guardafuni, e di là voltando fin alle porte del stretto del mar Rosso, e da quelle tirando una linea alli fonti di detto fiume, resta un paese che gli Arabi propriamente chiamano Aian, il quale quasi tutto è abitato da loro, avenga che in gran parte verso mezzodí dentro fra terra abitino negri idolatri. E dal sboccare di questo fiume Quilmanci verso il ponente, fin al capo chiamato delle Correnti, che li Mori di quella costa navigano, tutta quella terra che corre ponente verso il capo di Buona Speranza (come di sopra s'è detto) gli Arabi e Persiani la chiamano Zanguebar, e gli abitatori Zanguii. E tutta questa costa, cominciando dal detto fiume Quilmanci fino al capo delle Correnti, generalmente è bassa e paludosa, e molto coperta di boschetti e arbori piccoli, che non lasciano strada da potervi passare. E cosí per la fortezza di quelli, come per li fiumi e paludi che tagliano la detta costa in isole e secche che la occupano quasi tutta, vi si causa un aere pessimo, di maniera che possiamo dir quello esser un altro paese di Guinea, con aere corrotto, con tutte l'altre cose che vi si generano e producono. Perché la gente è negra, di capello crespo, idolatra, e tanto credula in augurii e stregherie, che nella maggior caldezza di loro negocii desistono quando hanno qualche cattivo incontro. Gli animali, uccelli, frutti e semenze, tutti corrispondono alle barbarie di quella gente in esser fieri e salvatichi, ancora che da Magadasso verso il capo di Guardafuni (benché sia piú copioso e abbondante di bestiame), per esser paese sterile e di poche vittuarie, si vengono a proveder da questi per il loro vivere.
Li Mori che abitano la costa maritima e quelli dell'isole vicine, tutte le lor vittuarie che mangiano e quelle che lavorano sono con la zappa, e per la maggior parte frutti salvatichi e carne di animali salvatichi e molte immondizie, eccetto qualche latte degli animali che allevano, principalmente li Mori che loro chiamano baduini , che abitano piú adentro del paese e hanno qualche commercio con quelli che si chiamano Cafri, che appresso degli abitanti le città e luoghi civili sono tenuti per barbari. E pare che la natura, provida in tutte le cose, non abbia voluto lassar alcuna parte di terra di tal sorte che in lei non sia qualche frutto stimato nella opinione degli uomini, percioché in quella aspera e sterile terra per commodità della gente civile produsse il piú prezioso di tutti li metalli, e li diede popolo paziente di quella asperità e inclinato a ricercarlo, e a noi desiderio e cupidità, accioché, per tanti pericoli di mare e di terra, gli andiamo ad invitar con le nostre opere mecaniche, per proveder alli loro bisogni in cambio di questo oro tanto stimato. All'odore del quale (per esser a loro molto vicino il paese dell'Arabia) li primi popoli forestieri che in questa terra Zanguebar vi andassino ad abitare furono alcuni banditi di Arabia, che dapoi diventorno maumettani, li quali (secondo che abbiamo saputo per una cronica dalli re di Quiloa) loro li chiamano emozaydii : e la causa di questo bando fu perché seguivano la dottrina di un Moro chiamato Zayde, che fu nepote di Hocem, figliuolo di Aly, nepote di Macometto, congiunto in matrimonio con sua figliuola Axa, il qual Zayde ebbe alcune opinioni contra il suo Alcorano, e tutti quelli che seguirono la sua dottrina li Mori chiamorono emozaydii, che vuol dir sudditi di Zayde, e gli hanno per eretici. Ma perché questi furono li primi che di fuora vennero ad abitar quella terra, non edificorono notabili abitazioni; solamente si ridussero in parte dove potessino viver sicuri dalli Cafri. Or questa lor venuta fu come una pestilenzia che andò pian piano estendendosi lungo della costa, acquistando nuove abitazioni, fin che vi arrivorono tre navi con gran numero di Arabi in compagnia di sette fratelli, li quali erano di una congregazione vicina alla città Lacah, distante circa quaranta leghe dall'isola Baharem, ch'è posta dentro il mar Persico, vicina al paese di Arabia infra terra. La cagione della loro venuta fu perché erano molto perseguitati dalli re di Lacah, e la prima abitazione che fecero in questa terra di Aian fu la città di Magadaxo, e dipoi Brava, che ancora oggi si governa per dodeci capi in maniera di republica, li quali procedono da questi fratelli. E venne questa città Magadaxo in tanta grandezza, poter e stato, che dipoi si fece patrona e capo di tutti li Mori di questa costa. Ma come li primi che vi vennero, chiamati emozaydii, avevano differenti opinioni degli Arabi circa la loro setta, non volsero sottomettersi a loro, e si sono raccolti dentro infra terra, congiungendosi con li Cafri per matrimonii e costumi, di maniera che restorono mescolati in tutte le cose. Questi sono quelli che li Mori che abitano al lungo del mare chiamano baduini, nome commune, come fra noi chiamiamo Arabi quella gente che sta alla campagna.
La prima nazione di gente forestiera che per via di navigazione ebbe il commerzio della mina di Cefala venne dalla città di Magadaxo: non che loro fossero a discoprire questa costa, ma per occasione di una nave di quella città, che per fortuna e forza delle correntie vi andò ad arrivare. E ancora che avanti avessero notizia di tutta la terra vicina di quello riscatto, non ardivano però mai di passare il capo detto le Correnti, percioché, come la isola di San Lorenzo, che giace all'ostro di questa costa Zanguebar, corre con sua longitudine quasi al lungo di essa per spazio di ducento leghe, e nel mezzo della parte di dentro butta di sé un cubito che risponde all'altro che fa il capo di Mozambique, li quali pare che vogliano serrar quel passaggio, che è di larghezza circa sessanta leghe, occupate con isole, secche e bassi diserte, di sorte che resta questo transito over passaggio (in comparazione all'altro mare che giace fra queste due terre) cosí ristretto con suoi canali che si potrebbe chiamar un altro Scylla e Caribde, percioché sono qui le correntie cosí grandi che in poco tempo aggirano una nave, e senza vento e senza vela la portano in luogo dove incorre nelli pericoli, delli quali li nostri marinari ne danno buona testimonianza: per la qual causa fu chiamato capo delle Correnti quella punta che fa la terra ferma opposita al fine occidentale della isola di San Lorenzo, perché in questo termine cessano le acque della lor gran furia, e corrono molto piú libere per largo campo di mare, come quelle che sono uscite dalla carcere di queste due terre, di sorte che non solamente trovano li marinari in questo transito over passaggio differenzia nel corso dell'acque, ma ancora nuovi tempi di movimento del mare per levante e ponente, perché tutti li venti si raccogliono nello stretto di queste due terre. E come che li Mori di questa costa Zanguebar navighino con navi e zambuchi cuciti con cairo, senza esser inchiodati al modo delle nostre, per poter sopportar l'impeto delli mari freddi della terra oltra il capo di Buona Speranza verso l'antartico, e questo ancor con movimenti e tempi fatti, e piú che hanno già esperienzia in alcune navi smarrite, che vennero verso questa parte del grande oceano occidentale, non ardirono però mai di tentar questo discoprimento della terra che giace al ponente dal capo delle Correnti, ancora che molto lo desiderassino, come loro confessano, principalmente quelli della città Quiloa, che fu il maggior discoprimento di tutte le città di quella costa, percioché da questa fu abitata e popolata gran parte della terra ferma e dell'isole vicine, e alcuni porti dell'isola di San Lorenzo, per esser situata quasi nel mezzo di questa costa, avanti la città di Magadaxo e il capo delle Correnti. Di maniera che sotto e sopra non li restò cosa che non corresse e occupasse fin a farsi patrona di Mombaza, Melinde e dell'isola di Pemba, Zanzibar, Monfia, Comoro, e di altre molte popolazioni che uscirono di quella, per la possanza e ricchezza che ebbe dapoi che si fece patrona della mina di Cefala, la qual avevano perso nel tempo che noi discoprimmo la India per causa delle divisioni che avevano fra loro per la morte di alcuni re di quella.
Il sito della città di Quiloa è in una terra la quale, ancora che sia della costa della terra ferma Zamguebar, il mare l'andò girando con uno stretto che la fece restar isola. Ella in sé è assai fertile di palme con aranzi, cedri, limoni ed erbe di orto che abbiamo in Spagna, e quantità di mandrie di pecore e buoi, con molte galline, colombi, tortore, e altra sorte di uccelli a noi non conosciuti. Il comun cibo è miglio zaburro, riso e altre semenze di radici piantate, con molti frutti salvatichi, di che la gente povera si mantiene. Le acque di quella sono di pozzi, non molto salutifere per esser la terra paludosa, e la città situata al lungo del fiume, che fa una staria, a dirimpetto della quale si slarga a modo d'un porto. La maggior parte delle case sono di pietra e calcina, con le sue terrazze di sopra, e di fuori orti e giardini di arbori di aranzi e palmerie, le quali, sí per la verdura e delettazione della vista, come per uso del frutto che producono, aggrandiscono la città. E quanto sono larghi e grandi questi orti tanto sono piú strette le strade, perché cosí costumano li Mori per defendersi meglio, perché usano di far le strade cosí strette che di sopra per li terrazzi si può passar da una banda all'altra. In una parte della qual città aveva il re fatto il suo palazzo a maniera di fortezza, con torri e bastioni e ogni altra sorte di difensione, con porte che servivano per andar al mare, e ad una gran fondamenta al lato della fortezza che voltava il volto contra la città, per servizio della quale vi era un spazio grande di piazza dove si avaravano le navi, e nella faccia di quella era il porto che le nostre navi avevano pigliato. Per il che, cosí per la civilità delle case, terrazze e torri, come per la grandezza delli luoghi che hanno palme e arbori delli giardini, pareva la città molto bella.
Capitolo primo del libro nono, nel quale si descrive tutta la costa maritima di levante, con le distanzie che sono fra le piú notabili città e abitazioni per maniera di pareggio, secondo li naviganti.
Per dichiarazione della terra di Malabar, ch'è stata la prima dell'India che don Vasco da Gama trovò nella entrata che fece in Calicut, città metropoli di essa, abbiamo fatto in summa relazione della provincia che li antichi propriamente chiamorono India dentro del Gange, e li nativi abitatori Indostan. E dipoi, per causa di quello che don Francesco Almeida fece in Quiloa e Mombaza, trattassemo un poco della terra di Zuanguebar, dove elle sono situate, qual è parte dell'Africa che li geografi chiamorono Etiopia sopra Egitto. E perché con la entrata di esso don Francesco li mari orientali di Asia cominciorono a esser navigati dalle nostre armate e sentire il grave peso della sua potenzia, e gli abitatori della terra ferma e del gran numero dell'isole figliuoli di quell'oceano, essendo ignoranti del nome cristiano, sottomessero il suo intelletto in servizio di Cristo per la nostra dottrina, e quanti che sentirono e udirono le nostre armi inchinorono il collo al giogo di esse per amore e per timore, però è necessario, accioché si intenda il discorso di queste opere, che facciamo piú particolare relazione, dichiarando le città e principali abitazioni e porti del lito maritimo di queste parti di levante. Questo per modo di itinerario maritimo, overo (per parlar come li naviganti) sarà secondo che loro usano nella maniera di pareggio. Perché per modo di graduazione, come noi usiamo nelle tavole della nostra geografia, si vedrà allora piú distintamente all'occhio verificata questa nostra descrizione, della qual (come abbiamo detto) non ci serviamo qui se non per dar ragione della nostra istoria, e non per dar la situazione de' luoghi. Vero è che delli luoghi piú notabili vi è posta da questi in quelli la sua distanzia per la latitudine, che li nostri pedotti tolsero; ma delli luoghi fra terra è per la stimativa, senza graduare, secondo l'ordine della loro navigazione, poi che la materia è di essa.
E cominciando in universali, la terra di Asia è la parte piú grande delle terre nelle quali li geografi hanno diviso tutto l'universo, e dividesi dalla Europa per il fiume Tanais, il qual al presente li paesani chiamano Don, e per il mare Negro, che viene a metter capo nel mare di Grecia per il stretto di Constantinopoli; e dell'Africa è divisa per un altro fiume opposito a lui, il quale per la gran quantità delle sue acque sempre ha ritenuto l'antico nome di Nilo, per una linea che si dee imaginar con l'intelletto dal Nilo per la città del Cairo, metropoli di tutto l'Egitto, fino al porto di Suez, ch'è nell'ultimo seno del mar Rosso, ove anticamente era la città delli Eroi: nella qual linea averà distanzia di tre giornate di camello, che possono esser al piú 24 leghe.
Or questa parte di Asia, ch'è la piú grande che le altre due, contiene similmente molte e piú varie nazioni di genti, percioché alcuni seguono la legge di Cristo, altri la setta di Maumetto, e la maggior di tutte adorano il diavolo in figura de' suoi idoli, e appresso il popolo ebreo (perché non è parte della terra dove questa cieca gente non si trovi vaga senza proprio luogo o abitazione, faccendo penitenzia né pentendosi mai della sua contumacia). Di queste quattro nazioni nella credulità sono tanto varie ognuna per sé che, parlando propriamente, pochi sono pari nelle osservazioni del nome del quale ciascuno fa professione; con le quali nazioni li nostri, dapoi che entrorono nell'India, cominciorono aver commerzio e contendere per dottrina, contrastazione e armi. E cominciando a divider tutta la costa maritima dell'Asia, la divideremo, per relazione delle nostre navigazioni e conquiste, in nove parti, nelle quali essa dalla natura è stata divisa con segni notabili, senza metterli linee imaginative: li quali segni sono mari, promontorii e fiumi. E dove finisce la prima parte principia la seconda, e cosí successivamente.
La prima adunque comincia nella bocca del stretto del mare Rosso e finisce nella bocca del Persico. La seconda finisce dove sbocca al fiume Indo nell'oceano. La terza nella città di Cambaia, posta nella piú interior parte del seno del mare chiamato dal suo nome. La quarta comincia nel gran capo Comorii. La quinta nello illustre fiume Gange. La sesta nel capo di Cingapura, oltra della nostra città di Malaccha. La settima nel gran fiume nominato Menan, interpretato "madre delle acque", il qual corre per mezzo del regno di Siam. La ottava finisce in un notabile capo, ch'è piú orientale di tutta la terra ferma che adesso sappiamo, il quale è quasi in mezzo di tutta la costa maritima della gran regione di China, che li nostri chiamano capo di Liampò per ragione di una illustre città che è nella volta di lui, chiamata dalli nativi Nimpò, della quale li nostri hanno corrotto Liampò. E tutto il restante della costa di questo grande regno, il quale corre quasi al maestro, restarà in questo luogo di scrittura con nome della nona parte, ancora da noi non navigata, benché passiamo piú avanti per levante fino alle isole delli Lequii e delli Iaponi e alla grande provincia Meacon, che ancora per la sua grandezza non sappiamo se sia isola o terra ferma continuata con l'altra costa della China, le qual parti già passano per antipodi del meridiano di Lisbona. Della qual costa non saputa dalli naviganti ne diamo chiara dimostrazione, e insieme di tutta la parte fra terra della grande provincia della China, nelle tavole della nostra geografia, tolta da un libro di cosmografia delli Chini, stampato per essi, con tutta la situazione della terra in modo di itinerario, qual n'è stato portato e interpretato da un Chino condotto a noi per tal effetto.
Or, per ritornar alla prima parte verso ponente di questa partizione, lassaremo le parti fra terra fra li duoi stretti del mar Rosso e Persico. Dalla bocca adunque del mare Rosso, ch'è in latitudine di 12 gradi e duoi terzi, fino alla città d'Adem, capo di quel regno, vi sono 40 leghe, e da essa fin al capo di Fartache, che è in 14 gradi e mezzo, cento leghe; fra li quali estremi son queste abitazioni: Abiam, Ar, Canacam, Brum, Argel, Xael, città capo del regno, Herit, la città Cayem, che è sette leghe innanzi che si arrivi al capo Fartache, e nella volta di esso per altrotanto spazio la città Fartache, principal del regno cosí nominato, dalla qual il capo ebbe il nome, e le genti fartachini. E di qui fin a Curia Muria, che son due abitazioni, dove si perse Vicenzo Sodre, vi sono settanta leghe, e resta in questo mezzo la città Dualfar, dove si trova il miglior incenso e in maggior abondanzia che in tutta detta Arabia; e piú oltra 22 leghe è Norbante. Da Curia Muria fin al capo Razsalgate, che è in gradi 22 e mezzo, vi sarà di costa 120 leghe, ch'è tutta terra sterile e deserta. In questo capo comincia il regno di Ormuz, e di là fin all'altro capo Mocandan potrà esservi 87 leghe di costa, nella quale sono questi luoghi del medesmo regno: Calayate, Curiate, Moscate, Soar, Calaya, Orfacam, Doba e Limma, ch'è otto leghe innanzi che si aggionga al capo Mocandam, quale Ptolomeo chiama Asaboto, situato da lui in gradi ventitre e mezzo e da noi in 26. E qui finisce la prima nostra divisione. E tutta la terra che è compresa fra questi duoi termini, che gli Arabi chiamano Hyaman e noi Arabia Felice, è la piú fertile e abitata parte di tutta l'Arabia.
Traversando di questo capo Mocandam al capo di sopra a lui opposito chiamato Iacquete, col quale la bocca del stretto Persico vien fatta, entrammo nella seconda divisione, che è assai picciola e poco abitata, perché da questo capo Iacquete fino allo illustre fiume Indo sono 200 leghe, nelle quali sono queste abitazioni: Guadel, Calara, Calamete e Diul, situato nella prima foce dell'Indo dalla parte di ponente. La qual costa è poco abitata, per esser il piú di essa con seccagne e bassure e di pericolosa navigazione, e la terra per dentro quasi deserta, chiamata dalli geografi Carmania. E li Persiani mettono questa parte nella regione che loro chiamano Herac Aian, nella quale sono li regni di Macran e Guadel, che cade sopra il capo cosí nominato.
Nella terza parte veramente della nostra partizione vi sono da 150 leghe (non entrando per dentro del sino di Iaquete, per esser molto penetrante fra terra), numerandole in questa maniera: dalla bocca di Diul fino alla punta di Iaquete 38 leghe, e da questo Iaquete, qual è delli principali tempii di Gentili, con una nobile populazione, fino alla nostra città del Diu del regno Guzarate 50 leghe, nella qual distanzia sono questi luoghi: Cutiana, Mangalor, Cheruar, Patan, Corinar; e dal Diu, posto in gradi venti e mezzo, fino alla città di Cambaia, ch'è in gradi 22, vi sono 53 leghe, dove si contengono questi luoghi: Mudrefabà, Moha, Talaia, Gundim, Goga, città che sta piú avanti di Cambaia 12 leghe. Dentro delli quali estremi della città Cambaia e Iaquete si comprende parte del regno Guzarate, con la terra montuosa delli popoli rezbuti.
La quarta parte di questa nostra divisione principia nella città di Cambaia e finisce nello illustre capo Camori, nella qual distanzia per costa vi sono ducentonovanta leghe, poco piú o manco, dove si comprende quasi tutto il fior dell'India, ch'è la piú frequentata parte da noi, la qual potemo divider in tre parti, con duoi notabili fiumi che la traversano da ponente in levante. Il primo divide il regno di Decan (che corrottamente li nostri chiamano Daquem) dal regno Guzarate, che li resta alla tramontana; il secondo divide questo regno Decan dal regno Canaran, che resta all'ostro di quello. E secondo che pare che la natura facesse la sopradetta divisione per l'interior della terra ferma, cosí anco appresso di quelli che abitano la parte maritima di tutta questa costa fece il simile, con altri fiumi assai piccioli che nascono nelle coste di queste duoi notabili divisioni, distinguendo il regno di Guzarate, Decan e Canarà. E cosí questi piccioli fiumi come li grandi, tutti vengono dalla grande montagna chiamata Gate, che, come già abbiamo detto, corre al lungo della costa sempre a vista del mare; però hanno questa differenzia, che li grandi nascono nel Gate dalla banda di levante, e conciosiacosaché dalle sue fonti fino al mare dove sboccano, che è nel colfo di Bengala, vi è grande distanzia, portando seco gran numero di altri fiumi, e passano non solamente per li regni sopra nominati, ma ancora per altri non nominati da noi, che per esser nelle interior parti della terra non servono in questo luogo. Il primo di questi fiumi nasce da duoi fonti al levante da Chaul, quasi per distanzia di quindici leghe in latitudine, fra disdotto e disnove gradi: e il fiume che nasce da una di dette fonti che giace piú alla tramontana chiamano Crusuar, e quel che nasce da quella che sta all'ostro Benhora. E dapoi che sono congiunti in un corpo sono chiamati Ganga, e va a sboccar nella foce dello illustre fiume Gange, fra duoi luoghi detti Angelii e Picholda, quasi in ventiduoi gradi. E perché con l'abbondanzia delle molte acque che con lui porta, nel che appare che 'l vogli compararsi col Gange, overo per qualche altra opinione della gente, sí come il Gange, cosí chiamano anco questo Ganga, e pensano che le sue acque siano sante come sono quelle del Gange, onde advien che li principali Mori signori delle terre dove passa questo Ganga riscuotono grande entrata delle sue acque, percioché non consentono che la gente che in esse si vuol lavar lo faccia senza pagar certa quantità di danari. E quasi nel medesimo contorno delli fonti di questa montagna Gate, vi è un altro verso ponente che fa un picciolo fiume chiamato Bate, che esce nel sino di Bombaim, per il quale si divide il regno di Guzarate dal regno Decan. E per il medesimo modo un altro picciol fiume che scende dal Gate verso ponente, chiamato Aliga, dove è la fortezza Sintacora, e sbocca per mezzo dell'isola di Anchediva in gradi 14 e mezzo, vien incontrato dalla parte di levante con quell'altro gran fiume che abbiamo detto che divide il regno Decan dal Canarà, perché con questo picciolo Aliga si fa la divisione loro. Però nel nascimento di questo gran fiume chiamato Nagundii al nascimento dell'altro Ganga ci è questa differenzia, che non ha quella religione dell'acque, e di piú che nasce quasi nel contorno del Gate che sta sopra Cananor e Calicut e va correndo al lungo di quello verso la tramontana, e quando è per mezzo del fiume Aliga fa una volta e piglia un altro corso verso levante, e passa per la metropoli di Bisnagar e per le terre di Orixa e va ad uscir nel seno di Bengala con due bocche fra 16 e 17 gradi, dove stanno due città, Guadevarii e Masulipatam, dove si fanno molti drappi di cotton, che al presente vengono condotti di là e hanno il medesimo nome.
E ritornando alla prima di queste tre divisioni de' regni, ch'è quella del Guzarate, e cominciando dalla sua città di Cambaia, dove abbiamo finito la terza divisione, al fiume Bate, overo, per parlar piú notabilmente, a quello di Nogotava a lui vicino, vi saran da settanta leghe, con queste abitazioni: Machigam, Gandar, la città di Baroche, dove vien a uscir un fiume notabile chiamato Narbada, e oltra otto leghe esce un altro fiume notabile chiamato Iapetii, nella foce del quale una per mezzo l'altra son poste le città Surat e Reiner. Seguitando piú oltra la costa sono Noscarii, Gandivi, Daman, Danu, Tarapor, Quelmaim, Agacim e Bacaim, dove al presente abbiamo una fortezza con le terre di sua iurisdizione, che nella pace ne pagano d'entrata centomillia pardaos, che vagliono di nostra moneta novantamillia crociati. E oltra tredici leghe, in gradi disdotto e un terzo, sta la città di Chaul, dove abbiamo un'altra fortezza, che già è della seconda divisione del regno Decan, perché adietro restano queste abitazioni: Maim, Nagotaua, che saranno lontane da Chaul quattro leghe, e una appresso il fiume Bate, che è in la estrema parte del regno (come abbiamo detto). Ritornando a far altra computazione, da questa città di Chaul fin al fiume Aliga di Sintacora, dove finisce la terra di Decan, vi sarà settantacinque leghe, in questo modo: al fiume Zanguizar venticinque, nel qual spazio stanno Bande, Sifardam, Calancii e la città Dabul; item dal fiume Zanguizar per altre venticinque leghe, dove è il pagode, si contengono Ceitapor, Carapatam, Iamaga; e da questo pagode fin a Sintacora, dove finisce il Decan, che sono le altre venticinque, son poste Banda, Capora e la nostra città di Goa, metropoli episcopale dell'India. E ancora che nel fiume Aliga di Sintacora, che è piú oltra 12 leghe, si divide il regno Decan, cominciando dal fiume Bate (come abbiamo detto), fanno nondimeno gli abitatori della terra questa differenzia, che tutta la parte maritima, che contamo fino alla montagna Gate, che va al lungo della costa, con che lei fa una lunga e stretta fascia di terra, chiamano loro Concan, e li popoli propriamente chiamano Conquenini, ancora che dalli nostri sian chiamati Canarini; e all'altra terra che giace dal monte Gate verso il nascimento del sole, che è il regno Decan, gli abitatori sono chiamati Decanini.
La terza divisione che divide la provincia Canarà del Decan finisce nel capo Comorii, principiando dal fiume Aliga, dove vi saran cento leghe, per questa maniera: da Aliga fin ad un altro fiume nominato Cangerecora, che è cinque leghe alla tramontana del monte Delii, capo notabile in questa costa, vi saran quarantasei, nella qual costa vi sono queste abitazioni: Ancola, Egorapam, Mergeu, la città di Onor, capo del regno, Baticala, Bendor, Bracelor, Bacanor, Carcara, Carnate, Mangalor, Mangeiron, Cumbata e Cangerecora, per la qual corre un fiume di questo nome, che è la estrema divisione, come si vederà a basso. Le quali abitazioni tutte sono della provincia Canarà, suddite al re di Bisnagar, qual è tanto potente di paese che participa di duoi mari, cioè di questo ponente, e dell'altro di levante che giace del capo Comorii per dentro, entra solamente qui con questa picciol parte maritima. E secondo che dal Gate verso il mare al ponente del Decan tutta quella fascia è chiamata Concam, cosí dal Gate verso il mare al ponente del Canarà (eccetto queste quarantasei leghe che ora contamo, che sono del medesmo Canarà) quella fascia che resta fino al capo Comorii, che sarà di lunghezza novantatre leghe, si chiama Malabar, nel qual sono questi re grandi, né riconoscono alcun superior principe. La maritima parte delle quali novantatre leghe andaremo contando, con la divisione delli regni che vengono a confrontarsi in essa. Dal fiume Cangerecora, dove principia la regione Malabar, fin a Puripatan, che saranno per costa venti leghe, è del regno Cananor, dove sono questi luoghi: Cota, Coulam, Nilichilam, Marabia, Bolepatan, Cananor città, dove abbiamo una fortezza, la qual è in dodici gradi; Tramapatan, Chomba, Maim e Puripatan. E di qui fin a Chatua corre il regno di Calicut, che potrà esser per costa ventisette leghe, e ha queste abitazioni: Pandarane, Coulete, Capocate, la città di Calicut, che è in gradi undici e un quarto, e a basso Chalé, dove adesso abbiamo una fortezza; Parangale, Tanor, città e capo del regno suddito al Camori; Panane, Baleancor e Chatua, dove lui finisce ed entra il regno di Cranganor, che, per aver poca terra, si avicina con lui il re di Cochin, il cui regno finisce in Porca, ed è di poche abitazioni, perché non ha porti in spazio di quattordeci leghe che ha di longitudine. La qual città di Cochin, capo del regno di suo nome, al tempo che entrammo nell'India era cosí poca cosa che non avea forze per resister alla potenzia del Camorii di Calicut, e ora col favor nostro non solamente è fatta una magnifica città in tempii, edificii e case molto suntuose delli nostri Portoghesi che ivi hanno fatta la sua abitazione, governando la terra secondo le leggi e statuti del regno di Portogallo, come fa ciascuna delle città di quello, ma ancora il re naturale della terra e i suoi sudditi sono fatti col nostro commercio ricchi e abbondanti di facultà, e potenti per resister a tutto il Malabar, per esserli molto soggetti quelli signori e principi del regno che loro chiamano caimaes .
Seguendo piú oltra nella nostra descrizione, da Porca fin a Travancor è il regno di Coulam, che averà per costa venti leghe. Le sue abitazioni sono Cale Coulam, dove abbiamo una fortezza, Rotora Beriniam, e altre abitazioni e porti di poco nome. E nel luogo di Travancor, dove questo regno di Coulam finisce, comincia un altro intitolato del medesmo Travancor, e questo li nostri chiamano il re grande, per esser di maggior paese e maestà di obedienzia de' suoi sudditi che non son gli altri passati de Malabar, il qual è suddito al re di Narsinga. Appresso del qual Travancor sta il notabile e illustre capo Comori, che è la piú austral terra di questa provincia Indostan o India dentro del Gange, il qual è dalla parte de tramontana in latitudine di gradi sette e duo terzi: e questo Ptolemeo chiama Cori, e lo mette in gradi tredici e mezzo, e in esso finiscono li regni del Malabar; e questo è l'altro termine che fece la natura, il quale noi pigliamo per fine della quarta divisione di questa terra maritima di Asia.
E navigando da questo capo Comori per fuora della isola Ceilam verso levante per distanzia di quattrocento leghe, secondo li naviganti e non per situazione di geografia, si trova un altro capo cosí illustre con un'altra molto notabile isola, il quale insieme con essa Ptolomeo chiama Aurea Chersoneso, sopra della quale corre la linea equinoziale. Perché questa è la piú austral terra di tutta l'Asia, secondo la verità che noi abbiamo mostrato al mondo con le nostre navigazioni, piú certa che la terra dove Ptolomeo situa nelle sue tavole la città di Catigara, e fa la computazione della longitudine di tutta la rotondità della terra discoperta verso levante: cosa piú tosto imaginata come punto celeste per computazione matematica che vera per situazione dell'orbe terrestre, poi che vediamo che le nostre navi navigano di sopra questa sua Catigara, e della costa della terra di Asia che lui qui finge, over gli han fatto creder che fossi, come molte altre cose. Fra questi duoi tanto illustri capi Comori occidentali e Cingapura orientale, delli quali possiamo credere che il mare abbia tagliato le isole Ceilam e Sumatra, come dalla Italia la Sicilia (secondo scrivono), giace quel celebrato sino Gangetico per la scrittura di tutti li geografi, e per noi molto navigato, il quale noi chiamiamo il colfo di Bengala per causa del gran regno Bengala, per dove correndo il fiume Gange molto superbo con la furia delle sue acque entra nel mare occeano. Le sue bocche sono da Ptolomeo situate fra disdotto e dicennove gradi dalla parte di tramontana, e da noi fra ventiduoi e ventiduoi e mezzo: il qual fiume li naturali del paese chiamano Ganga, appresso di loro e di tutte le genti orientali non tanto celebrato in nome per l'abbondanzia e copia delle sue acque, quanto venerato per la religione e santità che tutti hanno posto in esse, di maniera che, cosí come noi, per salvazione delle anime nostre, essendo ammalati domandiamo la confessione e gli altri sacramenti che ne danno remissione delli peccati, cosí loro si fanno portar alle rive di questo fiume, dove, fattali certa capanetta, finiscano la vita con li piedi nell'acqua, credendo che nel lavarsi con queste acque correnti, per la santità del fiume, lavino anco i suoi peccati e vadino salvi in cielo; e se quando sono in vita non lo possono far, per morte comandano che sian buttate in esso le ceneri de' suoi corpi bruciati.
E accioché meglio s'intenda questo colfo e costa, con li duoi capi e isole opposite a loro che abbiamo detto, chi non ha visto la figura di questa costa orientale volti la mano sinistra con la palma abasso, e giunga il dito picciolo con li duoi seguenti doppiandoli fino alle prime giunture, e separi da loro il dito secondo (cioè l'indice), con che farà uno seno che è il sino de Syam; e da questo indice separi il pollice quanto potrà, e farà un altro seno molto maggiore: e questo è il seno di Bengala, che giace fra questi duoi diti. Finga di piú che all'incontro del primo dito pollice, che qui facciamo il capo Comori, e che per dentro del seno giace l'isola Ceilam; e tutta la costa dell'India che fin qui abbiamo descritto, cominciando dalla città Cambaia, la quale giace al lungo di questo dito pollice dalla parte di fuora, la qual corre tramontana e ostro, e dalla parte di dentro in questo medesimo dito, cominciando dalla punta di esso, che è la faccia del capo Comori, fin alla piú estrema parte di questo seno, dove lui resta piú curvo, vi potran esser da quattrocentodieci leghe. Nella qual estremità del seno sbocchi l'illustre fiume Gange, il qual ancora che mandi le sue acque per molte bocche, due sono le piú celebri: la qual cosa affigura la lettera delta delli Greci, sí come si vede in tutti gli altri illustri fiumi. La prima bocca che è occidentale si chiama Satigam, per causa di una città di questo nome situata nelle rive di esso, dove li nostri fanno li suoi commerzii e contrattazioni; e l'altra orientale esce molto vicina ad un altro porto piú celebre, chiamato Chatigam, percioché ivi generalmente concorrono tutte le mercanzie che vengono ed escono di questo regno: nella qual distanzia da una gamba all'altra vi potrà esser quasi per linea da levante a ponente cento leghe, poco piú o manco. E qui facciamo un altro termino e misura della nostra divisione sopradetta, nella qual si comprende la quinta parte in che abbiamo diviso tutta questa costa della terra di Asia.
E ancora che nell'arco di questo colfo vi siano quattrocentodieci leghe di costa (che abbiamo detto), per linea diritta del parizzo che li marinari chiamano greco garbin, dal capo Comori, dove comincia questa quinta nostra divisione, fin a questo porto di Chatigam, nel qual ella finisce, vi saran quattrocentosettanta leghe. Il qual seno o colfo partimmo in tre stadi de' principi che signoreggiano: le ducento leghe sono del regno Bisnagar, le centodieci del regno Orixa, che sono ambi gentili, e le centosessanta del regno di Bengala, che dalli nostri tempi in qua è già subietto alli Mori. Le abitazioni della qual costa sono queste: nel principio della volta del capo Comori a sette leghe Iacancurii, e oltra Manapar, Vaipar, Trichandur, Callegrande, Chereacalla, Iucucurii, Bembar, Calecure, Beadala, Manancort e Canhameira, dove è un notabile capo cosí nominato, in dieci gradi dalla parte della tramontana; e piú oltra sono questi luoghi: Negapatam, Nahor, Triminapatam, Tragambar, Triminavaz, Coloran, Puducheria, Calapate, Conhomeira, Sadrapatam, Maliapor, il quale li nostri ora chiamano San Tomé, ch'è una antica città che loro hanno rinovata con magnifiche case per le sue abitazioni: e qui molti di loro, già stracchi per li travagli della guerra, hanno fatto il suo fermo domicilio, cosí per esser la terra abondante e di gran traffico, come principalmente per rinovar la memoria del glorioso apostolo san Tomé, che secondo li naturali della terra dicono e hanno per memoria, come quivi fu la sua abitazione, o per dir meglio la città dove lui operò tanti miracoli, come loro contano, per mano del quale fu fatta una casa, nella qual dicono esser sepolto. E ancora che le genti di questa terra siano idolatri, sempre però questa reliquia di casa che il santo fece è stata fra loro molto venerata, e principalmente da alcuni che confessavano il nome cristiano, e avevano in essa un patriarca armeno. E quello che al presente augumenta piú la devozione di detta casa fu una pietra che li nostri trovorono in certe ruine, che pareva in altro tempo essere stata casa di orazione, nelli fondamenti della qual volendo loro per sua devozione edificar un'altra, trovorono una pietra quadrata, netta e ben lavorata; nella faccia che giaceva verso la terra aveva una croce lavorata, della similitudine che portano li comandatori dell'ordine di Avis, e sopra una punta vi era scolpito un uccello con l'ale aperte nel modo che lo Spirito Santo in figura di colomba discese sopra gli apostoli, come è uso dipingersi. Sopra il corpo della qual croce e campo della pietra erano molte macchie e goccie di sangue, cosí fresco che pareva aver poco tempo che fosse stato sparso, e nel circuito avea alcune lettere di caratteri strani, che quelli della terra non sapevono leggere. La qual pietra li nostri portorono di là con processione e solennità, e la misero nella propria chiesa che san Tomé fece con le sue mani; e secondo che è la fama fra li naturali del paese, dicono che sopra questa pietra fu morto il beato san Tomé, essendo qui in orazione; altri dicono che fu uno suo discipulo. La pittura della qual pietra l'anno passato del millecinquecentoquarantotto mi fu mandata in tre carte, una delle quali, con certa inquisizione che il governator Nunno da Cunna in suo tempo fece far per li nativi circa di quello che si aveva di memoria fra quelli cristiani di san Tomé e della sua vita, e cosí uno libro della scrittura delli Chini e l'altro della Persia, con alcune informazioni delli costumi delle genti di quelle bande, io ho dato al reverendissimo messer Giovan Riccio di Monte Pulciano, arcivescovo di Syponto, che in quel tempo, essendo in minoribus, era in questo regno nunzio di papa Paulo terzo, per avermi lui richiesto che li donasse qualche cosa delle bande di India per mandar al reverendissimo cardinal Farnese, nepote del medesimo papa, che gliela domandava a instanzia del reverendo messer Paulo Iovio, vescovo nocerino, uomo diligente e curioso di queste cose degne di scrittura, per metter nella sua istoria generale del suo tempo, secondo promette nelle opere di questa facultà già date in luce. Delle quali cose io non volsi esser avaro, ricordandomi che nella scrittura e stilo di questo dottissimo messer Paulo le mie addizioni restariano poste in edificio di perpetua memoria, della qual sorte di vita io faccio maggior capitale nell'animo mio che di facultà e ricchezze.
E ritornando a continuar la descrizione della nostra costa dalla città di San Tomé, dove siamo dimorati per laude di questo apostolo nostro protettore dell'India, dalla sua città fin a Paliacate vi sono nove leghe, e piú oltre sono Chiricole, Aremogam, Caleture, Carceiro, Pentepoli, Mazulepatan, Guadavari, appresso il capo di questo nome, che sta in dicessette gradi. Nel qual finiscono le terre del regno di Bisnagar, come abbiamo detto, e principia quello di Orixa, la costa del quale, per esser aspra di pochi porti, ha solamente questi luoghi: Penacote, Calicam, Bazapatan, Vixaopatan, Vituilipatan, Calinhapatan, Naciquepatan, Puluro, Panagate e il capo Segogora, che li nostri chiamano Das Palmas per causa di alcune palme che ivi sono, le quali sono dalli naviganti notate, perché gli danno notizia della terra. E da questo capo dove fanno fine del regno Orixa, il qual sta in 21 gradi, all'altro termino del fine del regno di Bengala, ch'è la città di Chatigam, che è in ventiduoi gradi, vi sono le cento leghe che abbiamo detto. Restando però ancora in questa distanzia di cento leghe nella volta del capo Segogora un colfo che è del regno Orixa, dove vien a sboccar l'altro fiume nominato Ganga, del quale adietro abbiamo parlato, il qual attraversa per la maggior parte di questo regno, e passa al lungo della città Ramana, metropoli di quello, e vien a congiungersi con lo illustre fiume Gange, dove lui entra in mare. E percioché tutta questa distanzia che è del capo Segogora fin a Chatigam si può meglio intendere per pittura che per scrittura, per esser tutta terra tagliata in isole, secche e giarre che fanno le bocche del Gange con la copia delle sue acque, non nominiamo le città e abitazioni che sono in dette isole. Li curiosi della situazione loro potranno veder nelle tavole della nostra geografia.
Adunque, continuando al lungo del nostro dito indice nella sesta parte della general divisione che avemo fatta, la qual principia in Chatigam e finisce nel capo di Singapula, che sta uno grado lontano dalla linea equinoziale verso la parte della tramontana e leghe quaranta verso levante dalla nostra città di Malaccha, vi saran in tutta questa costa trecentottanta leghe, le quali partimmo in questa maniera. Fin al capo di Nigraes, che è sedeci gradi, dove principia il regno di Pegu, son cento leghe, nel qual spazio sono queste abitazioni: Chocoria, Bacala, Arracan, città principale del regno cosí chiamato, Chubode, Sedoa e Xara, che è nella punta di Nigraes. E di qui passando alla città di Tavay, ch'è in tredeci gradi e la ultima del regno di Pegu, resta un grande colfo di molte isole, seccagne e ghiare, le qual al modo del Gange fa un altro molto potente fiume che parte tutta la terra di Pegu, il qual vien dal lago di Chiamay, che sta verso tramontana per distanzia di ducento leghe nella interior parte della terra, dal quale procedono sei notabili fiumi, tre che si congiungono con altri e fanno il gran fiume che passa per mezzo del regno di Sian, e gli altri tre vengono a sboccar in questo colfo di Bengala: uno che vien traversando il regno di Caor, donde il fiume prese il nome, e per quello di Comotay e per quello di Cirote, dove si fanno tutti li eunuchi che sono condotti di Levante, e vien ad uscir di sopra di Chatigam, in quel notabil braccio del Gange per mezzo della isola Sornagam; l'altro di Pegu passa per il regno Ava, che è dentro fra terra, e l'altro esce in Martabam fra Tavay e Pegu, in latitudine di quindeci gradi. E le abitazioni che stanno fuora di questo colfo dell'isole di Pegu (che abbiamo detto) e vanno al lungo della costa di quello sono Vagaru, Martabam, città notabile per causa del grande traffico che vi è, e piú oltra Re Tagala e Tavay. Nella qual città di Tavay, poco tempo avanti che entrassimo nella India, principiava il regno di Siam, e finiva nell'altro mare di levante nel regno di Camboia, nel quale entrava il regno di Malaccha, che abbiamo conquistato da un Moro tiranno che aveva ribellato contra questo re di Siam. In questa costa di terra, camminando sempre al lungo del dito indice che figurammo, fino alla punta di quello che è il capo di Singapula, e di là tornando per esso in su fino alla giuntura dell'altro di mezzo, dove potrà esser il regno di Camboia, vi saran poco piú o manco di cinquecento leghe di costa, tutte di questo principe gentile, il qual perse la maggior parte loro con la variazione delli tempi, e principalmente dapoi che abbiamo preso Malaccha, percioché, scacciati da quella città li Mori, cercorono nove abitazioni al lungo di quella costa. E conciosiacosach'ella sia di gente la piú salvatica di quelle bande, pigliati li miglior porti per via di traffico e navigazione, che li nativi della terra non usano, si fecero signori, e alcuni di loro s'intitulorono con nome di re. Adunque, con queste mutazioni che fece il tempo e altre cose, quando Alfonso di Arbuquerque pigliò Malaccha, restò questa costa senza partizione di stati. E le abitazioni che sono di Tavay fin a Malaccha sono queste: Ternassari, città notabile, Longur, Teram, Quedam, dove è il fior del pevere di tutta quella costa, Pedam, Pera, Solungor, e la nostra città Malaccha, capo del regno cosí chiamato, la qual sta in gradi due e mezzo della linea verso la tramontana.
E seguendo piú innanzi quaranta leghe è il capo di Singapura, dove principia al lungo del dito indice la settima divisione, che è de lí fin al fiume di Siam, che (come abbiamo detto) la maggior parte di quello procede dal lago di Chiamay. Al qual fiume, per causa della molta abondanzia delle acque che porta seco, li Siamini chiamano Menam, che vuol dir madre dell'acque; ed entra nel mare in latitudine di tredeci gradi, nella qual costa sono queste notabili populazioni: Pam, che è capo del regno cosí chiamato, Ponticam, Calantam, Patane, Lugor, Cuy, Perperii e Bamplacot, che sta nella bocca del fiume Menam.
Dal quale cominciando a entrar nella ottava repartizione, nominaremo solamente li stati delli principi che avicinano alla costa, ma non li luoghi, percioché non servono allo intento della nostra istoria, perché in quella banda non è stata la conquista nostra, ancor che abbiamo navigato la costa maritima per via di contrattazione. E il primo stato ch'è vicino a Syam è il regno di Camboia, per mezzo del quale corre quel superbo fiume Mecon, il nascimento del quale è nella regione della China, al quale si congiungono tanti e cosí grandi fiumi; e corre per tanta distanzia di terra che quando vuol uscir nel mare fa uno lago di piú di sessanta leghe di lunghezza, e cosí tagliata la terra alla uscita sua, e con tante bocche, che non si può comparar a lui alcuno degli altri notabili fiumi che appresso di noi son celebrati. Passato questo regno di Camboia s'entra nell'altro regno chiamato Champa, nelle montagne del quale nasce il vero legno aloe, che li Mori di quelle bande chiamano calabuc , col quale confina il regno che li nostri chiamano Cauchii China, e li naturali Cachu. Il quale appresso di noi è il meno conosciuto regno di quelle bande, per esser la sua costa molto pericolosa di fortune e grandi secche, ghiarre, e la gente senza alcuna navigazione; e li forestieri che la navigano, che sono Syamini e Malachini, di quattro navi ne soglion perder le due e alcune volte tre, peroché con una che si scapoli si fa piú guadagno che se tutte quattro andassero alla China. Piú innanzi di quello s'entra in la regione della China, partita in quindici regioni, ciascuna delle quali potria essere un gran regno. Le parti maritime che fanno al nostro proposito sono Cantam, Fuquiam, Chequeam, dove sta la città Nimpò, e dove la terra fa un notabil capo, del qual nel principio abbiamo fatto menzione, il qual sta in latitudine di gradi trenta e un terzo: e fin qui corre la costa greco garbin.
Sono in questo parizzo, cominciando dalla isola di Ainam, dove si pescano le perle, ch'è il principio della governazion di Cantam, ducentosettantacinque leghe, e di qui torna la costa a voltar verso il vento di maestro, dove finisce l'ottava parte e principia la nona, che abbiamo detto non esser ancora navigata dalli nostri. Però, secondo la cosmografia della China (che adietro abbiamo detto), le provincie maritime di questo regno corrono quasi verso il vento del maestro; sono queste tre: Nanquii, Xanton, Quinsii, dove la maggior parte del tempo fa residenzia il re, che sta in quarantasei gradi. E corre ancora la costa di questa provincia fin a cinquanta gradi, nella qual si contengono quattrocento leghe, dove finisce la piú orientale e boreal terra ferma che sappiamo. E ancora oltra questa parte maritima della terra ferma d'Asia abbiamo navigato molta parte delle isole di questo grande oceano, come sono le isole di Maldiva e Zeilam, che sta dirimpetto alla provincia di Indostam, Sumatra, Iava, Timor, Burneo, Bandam, Maluccho, Lequio, e ultimamente l'isola delli Giapanesi e la grande provincia di Meaco, che tutte giaceno di là da Malaccha. Restane al presente un'altra cosa molto necessaria all'istoria, che sí come in universali abbiamo fatta descrizione di tutta la terra maritima dell'Asia, cosí facciamo etiam un'altra general relazione delli principi che la signoreggiano.
Capitolo secondo del libro nono, di alcuni re e principi delle parti orientali, mori e gentili, con li quali avemo avuta communicazione, cosí per via di conquista come di contrattazione.
Ancora che nel capitolo precedente abbiamo detto che tutta la terra di Asia era abitata da queste quattro nazioni di gente: Cristiani, Ebrei, Mori e Gentili, le prime due potemo dir che in quelle bande sono piú tosto schiavi che liberi, perché per ragione della sua abitazione sono sudditi delli Mori o Gentili, che occupano tutta quella terra, come veggiamo esser la gente scismatica di Armenia, Soria e Iudea, che tutta è tributaria al re di Persia e al gran Turco alla maniera delli Greci. E veramente è cosa non da preterire, ma di fermarsi nella considerazione di quella, e da noi stessi dolersi, vedendo quasi tutta la rotondità della terra esser soggetta all'imperio de' Mori e Gentili, e la Europa, che è la minor porzione in quantità, dove la Chiesa romana pareva aver congregato il suo gregge, ancora questa il flagello del Turco è venuto a consumarla in buona parte.
Or tornando al nostro proposito, tutta la terra che sta dal fiume di Sintacora, che è per mezzo dell'isola Amiadiva, verso la tramontana e ponente, al tempo che entrassimo nella India era delli Mori, e di là piú inanzi verso levante era delli Gentili, eccetto il regno di Malaccha e la parte della maritima di Somatra; alcuni porti della Iava e l'isole di Maluco eziandio erano delli Mori. Nella terra che era delli Mori, cominciando dalla parte occidentale, cosí come avemmo fatta la descrizione di lei, erano questi principi: il re di Adem, di Xael e di Fartaque, li quali signoreggiano tutta quella costa, e ancora che non fussero molto potenti in navigazione, erano li suoi porti molto frequentati per causa della gran contrattazione. Li vassalli delli quali, essendo in quelli confini di Arabia, tutti erano valenti uomini della sua persona, sopportatori delli travagli e molto atti per la guerra, come è la gente di Arabia. Il regno di Ormuz già da per sé era piú grande in stato e facultà e gente che li tre sopradetti tutti insieme, e quello che lo faceva ancora piú potente era la vicinità di Persia, donde poteva esser socorso. E s'el re di Persia che allora regnava, chiamato siech Ismael, pigliava possessione di quello, come aveva tentato, quando Alfonso di Albuquerque lo pigliò, la nostra contenzione sarebbe stata con altro principe piú grande in stato e potenzia che il grande Dario. Piú oltra avevamo il re di Cambaia, col quale abbiamo avuto per molto tempo guerra e ancor l'abbiamo, al quale né Xerse né Dario né Poro giunsero in potenzia, stato e facultà e animo militare. Passando Cambaia, da Chaul fin a Sintacora abbiamo avuto guerra con lo Yzamaluco e Hidalcam, capitani del regno Decan, che rappresentavano in potenzia, stato e facultà duoi potentissimi re, uomini dati all'uso della guerra; e li suoi eserciti erano ripieni di Mori, Arabi, Persiani, Turchi e Rumi di tutte le nazioni di levante. Li Mori del regno di Malaccha, Sumatra e Maluco, ancora che il poter loro era nelle parti maritime, percioché quelle ch'erano dentro della terra ferma eran delli Gentili, che si ritiravano alle montagne, e il concorso delli navilii che andavano alli suoi porti li dava tanta provisione di artiglieria e armi che, quando giungemmo a quelli, ne avevan piú di noi.
Quanto al stato delli Gentili, che è l'altra gente che signoreggia quelle regioni (lassando li principi del Malabar), li piú principali con che avessimo communicazione, percioché li suoi stati venivano a bere al mare, erano questi: il re di Bisnagar, di Orixa, di Bengala, di Pegu, di Siam e della China. La potenzia e facultà delli quali è cosa tanto grande che la penna non ardisce entrar nella relazione loro; solamente, per mostra della sua grandezza, diremo quello che diceva il re di Cambaia, chiamato Badur, che fu morto per le nostre mani, vicino di questi primi, cioè che quanto alla facultà lui era uno, il re di Narsinga duoi e il re di Bengala tre, e al tempo che lui questo diceva, aveva insieme raccolti ventiduoi millioni d'oro, i quali tutti spese in una guerra fin alla sua morte. E perché lui non parlò né del re Syam né della China, per non aver con loro congiunzione alcuna come noi abbiamo avuto, daremo qui qualche notizia della sua grandezza. Il re di Syam è principe che, avanti che li Mori li rebellassino con il regno di Malaccha, cominciava il suo stato in quella città, che sta gradi due e mezzo dalla banda della tramontana, e finiva nelli monti del regno delli Guei, che comincia in ventinove gradi; e con tutto ancora oggi il suo stato passa di lunghezza trecento leghe, nel quale sono questi: Cheneran, Chiamay, Camburii, Chiapumo, ed è principe che ha trentamillia elefanti, delli quali tremila solamente sono per la guerra, e nel tempo di guerra la città Udia, capo del regno, fa cinquantamillia uomini. Quanto al re della China, potemo ben affermar che solamente lui in terra di popolo, potenza, ricchezza e civilità è piú che tutti questi altri, percioché il suo stato contiene in sé quindeci provincie, che loro chiamano governanzie, ciascuna delle quali è un regno molto grande; e nella sua geografia che abbiamo avuto, trattando l'autor di ciascuna provincia, fa uno sommario della entrata che ha: e se è vera l'interpretazione delli numeri de' suoi conti, mi pare che ha maggior entrata che tutti li regni e potenzie di Europa. E io li ho qualche fede, perché uno schiavo chino che comperai per interpretarmi queste cose sapeva etiam legger e scriver nella lingua portoghesa, ed era grande abbachista. E le cose che possono ancora affermar quel che abbiamo detto sono che la costa per mare del suo stato passa da settecento leghe, percioché chi parte da Cantan per andar dove sta il re per il manco attraversa cinquanta leghe, e il tutto è cosí pieno di abitazioni che niuno dorme fuora nel campo. La terra in sé ha tutte le sorti di metallo in gran quantità. Lavori mecanici sono molto piú che in Fiandra e Alamagna, perché è tanto grande il popolo che per sostentarsi fanno opere d'ogni sorte, tanto eccellenti e sottili che non paiono fatte con le mani, ma lavorate dalla natura. Finalmente è tanto grassa e abbondante di tutto che, stando alcuni delli nostri in un porto appresso la città di Nimpò, in tre mesi hanno visto caricar quattrocento bahari di seta sciolta e tessuta, che sono milletrecento cantari delli nostri di Lisbona, che fanno centosessantasei migliara in circa al peso grosso di Venezia. Abbiamo dato una general notizia di questi principi per le cause che adietro abbiamo detto.
Capitolo primo del libro decimo, nel quale si descrive la regione del regno di Cefala, e delle mine d'oro e l'altre cose che vi sono, ed etiam delli costumi della gente e del suo principe Benomotapa.
Tutta la terra che contammo del regno di Cefala è una grande regione signoreggiata da un principe gentile chiamato Benomotapa, la quale è abbracciata in modo d'isola da due braccia d'un fiume che procede dal piú notabile lago che ha tutta l'Africa, molto desiderato di saper dalli antichi scrittori per esser il principio nascoso dello illustre Nilo, del qual etiam procede il nostro Zaire, che corre per il regno di Manicongo. Per la qual parte potemo dire essere questo grande lago piú vicino al nostro mare oceano occidentale che all'orientale, secondo la situazione di Ptolomeo, percioché del medesimo regno di Manicongo si mettono in lui questi sei fiumi: Bancare, Vamba, Cuyla, Bibi, Mariamaria, Zanculo, che sono molto potenti in acque, oltra di altri senza nome, che lo fanno quasi un mare navigabile di molte vele, nel quale vi è l'isola che fa da sé piú di trentamilia uomini, che vengono a far guerra con quelli della terra ferma. E di questi tre notabili fiumi che al presente sapemo proceder di questo lago, li quali vengono ad uscire nel mare tanto distanti l'uno dall'altro, quel che corre per piú terre è il Nilo, il quale li Abissini della terra del Prete Ianni chiamano Tacuii, nel quale si mettono altri duoi notabili, che Ptolomeo chiama Astabora e Astapus, e li naturali Taccazii e Abanhi. E ancora che questo Abanhi (che appresso loro vuol dire padre dell'acque, per l'abondanzia che ha) procede da un altro grande lago chiamato Barcena, e da Ptolomeo Coloa, ed etiam abbia isole dentro dove sono alcuni monasterii di religiosi, come si vedrà nella nostra geografia, non possono compararsi a questo nostro grande lago, percioché, secondo la informazione che abbiamo per via di Manicongo e di Cefala, averà di lunghezza piú di cento leghe. Il fiume che vien contra Cefala, dapoi che esce di questo lago e corre per molta distanzia, si divide in due braccia: l'uno va a uscir di qua del capo delle Correnti, ed è quello che li nostri anticamente chiamano Fiume del Lago, e al presente dello Spirito Santo, novamente posto per Lorenzo Marquez, che andò a discoprirlo l'anno del millecinquecentoquarantacinque; e l'altro braccio esce a basso di Cefala venticinque leghe, chiamato Cuama, ancora che dentro per la terra ferma li popoli lo chiamano Zambere. Il qual braccio è molto piú potente in acque che l'altro dello Spirito Santo, per esser navigabile piú di ducentocinquanta leghe, e perché in lui si mettono questi sei notabili fiumi, cioè Panhames, Luangoa, Arruya, Maniovo, Inadire, Ruenia, che tutti bagnano la terra di Benomotapa: in la maggior parte di loro si trova assai oro. Adunque, con queste due braccia e il mare dall'altra banda, rimane questo regno di Cefala in una isola, che potrà aver di circuito piú di settecentocinquanta leghe, la qual isola nel sito, vettovaglie, animali e abitazioni è quasi come è la terra Zanguebar, della qual abbiamo scritto, per essere una parte di lei; nondimeno, come si va allontanando dalla linea equinoziale, eccetto la parte maritima di esso, di questo fiume Cuama fin al capo delle Correnti per dentro della terra ferma tutto è paese eccellente, temperato, salutifero, verde e fertile di tutte le cose che ivi si possono desiderare. Solamente quella parte dal capo delle Correnti fino alla bocca del fiume Spirito Santo, discostandosi un poco dal lito maritimo, tutta è campagna di grandi pascoli di ogni sorte d'armenti, ma è cosí povera di arbori che con lo sterco degli animali si scaldan le genti, e si veston delle pelli di quelli, per esser freddissima, per cagion delli venti che vengono da quel mar gelato di sotto il polo antartico. L'altra terra, che va al lungo del fiume di Zuama della parte interiore di tutta l'isola, per il piú è montuosa, coperta di arbori, bagnata da fiumi, graziosa nella sua situazione: e però è piú abitata, e la maggior parte del tempo vi fa residenzia il re Benomotapa. E per esser cosí frequentata fuggono di là gli elefanti e vanno a stanziar per l'altra campagna, mettendosi insieme a modo di mandrie di vacche: e non può esser di manco, percioché generalmente si dice fra quelli Cafri che ogni anno muoiono quattro over cinquemila teste di elefanti, e questo si può credere vedendo la grande quantità di avorio che di là si porta all'India.
Le mine di questa terra dove si cava l'oro, le piú propinque a Cefala sono quelle che loro chiamano Manica, le quali sono in un campo circondato di montagne, che hanno in circuito trenta leghe; e generalmente conoscono il luogo dove nasce l'oro perché veggono la terra secca e povera di erbe. E chiamasi tutta questa comarca Matuca, e li popoli che cavano le mine Botongas, li quali ancora che siano fra la linea dell'equinoziale e il tropico di Capricorno, è tanta la neve in quelle montagne che nel tempo del verno, se alcuno resta nelle sommità di quelle, muore aggiacciato. Ma nel tempo della estate in cima di quelle l'aere è cosí puro e sereno, che alcuni delli nostri, che in quella stagion vi si trovorono, hanno veduto la luna nuova nel dí medesimo della congiunzione. In queste mine di Manica, che sono di Cefala verso il ponente da cinquanta leghe, per esser terra secca, tengono li Cafri alcun travaglio, percioché tutto l'oro che vi si trova è in polvere, e li bisogna portar la terra che cavano in qualche luogo dove trovino acqua: per il che fanno alcune fosse dove nell'inverno si raccoglie l'acqua, e generalmente niuno cava piú che sei o sette palmi d'alto, e se giungono a vinti, trovano per tutta quella terra il fondo pieno di pietre. Le altre mine, che sono piú lontane da Cefala, sono distanti da cento fino a ducento leghe. E sono in questi contorni Boro, Quiticuy, nelli quali, e nelli fiumi che sopra nominammo che bagnano questo paese, si trova l'oro piú grosso, e alcun nelle vene delle pietre, e altro già netto e purificato dalle molte acque dell'inverno: e perciò in alcuni luoghi di detti fiumi, come vien il tempo della estate, costumano notare e sommergersi in quelli, e nel fango che portano di sopra ritrovano molto oro. In altre bande dove sono alcune lagune si mettono insieme ducento uomini a evacuar la metà dell'acqua, e nel fango che cavano trovano l'oro, secondo che la terra è abbondante di esso. E se la gente fosse desiderosa e cupida se ne averebbe grande quantità, ma la gente in questa parte di cavarlo è tanto pigra e ignava, o per dirla meglio cosí poco desiderosa, che una gran fame bisogna che sia quella che facci che uno di quelli negri lo vada a cavare. E per aver l'oro da detti negri, gli altri Mori che sono fra queste genti in questo traffico usano un artificio per farli desiderosi e cupidi, percioché vestono quelli con le moglieri di panni, e li danno paternostri di vetro di diversi colori e altre bagattelle delle quali loro si dilettano, e dapoi che gli hanno contentati li dicono darli tutto in credenza, e che vadano a cavar l'oro, e che dapoi fra un certo termine li pagheranno quelle robbe che hanno avuto, di maniera che con questa arte di darli in credenza li fanno cavar l'oro, e sono cosí fideli che mantengono sempre la sua parola.
Hanno altre mine in un paese che chiamano Toroa, che per altro nome si chiama il regno di Butua, del quale è signor un principe chiamato Buro, vassallo di Benomotapa, il qual paese è vicino a quello che abbiamo detto esser di campagne grandi, e queste mine sono le piú antiche che si sappiano in quel paese, tutte in campagna, nel mezzo del quale è una fortezza quadra tutta di pietra dura per dentro e di fuora molto ben lavorata, di pietre di maravigliosa grandezza, senza che si possa veder fra l'una e l'altra calcina. E il muro di essa è piú di venticinque palmi in larghezza, e l'altezza non è cosí grande al rispetto della larghezza. Sopra la porta di quello edificio vi è una scrittura a modo di epitafio, che alcuni di quelli detti Mori né altri hanno saputo mai leggere, né dir che lettera fussi quella. E quasi intorno di questo edificio, in alcuni luoghi eminenti, sono altri alla similitudine di quello nel lavoro delle pietre e senza calcina, dove è una torre alta piú di dodici braccia. Tutti questi edificii da quelli della terra sono chiamati symbaoe , che appresso loro vuol dir corte, percioché ogni luogo dove è Benomotapa chiamano cosí. E secondo che loro dicono, da questo edificio, per esser cosa reale, hanno avute tutte l'altre abitazioni del re questo nome. Vi sta uno uomo nobile alla custodia di quello a modo di castellano, e questo tal officio chiamano symbacayo , quasi se volessimo dire custode di symbaoe, e sempre in esso stanziano alcune moglie di Benomotapa, delle quali questo symbacayo ne ha la cura. Quando o da chi questi tali edificii siano stati fatti, non avendo la gente della terra lettere, non vi è tra loro memoria alcuna; solamente dicono essere opera del diavolo, perché, comparando il poter e saper loro, non li pare che potriano uomini averla fatta. E alcuni Mori che gli hanno veduti, mostrandoli Vicente Pegado capitano che fu di Cefala l'opera di quella nostra fortezza, cosí il lavoro delle finestre e degli archi, per paragonare con le pietre lavorate di detta opera, dicevano non esser da comparare, tanto quella era netta e perfetta. La qual è distante da Cefala verso ponente per linea diritta poco piú o manco di centosettanta leghe, in latitudine fra gradi venti e ventiuno dalla parte dell'ostro, senza che per quelle bande si trovi alcun edificio antico né moderno, percioché la gente, essendo molto barbara, fanno per tutto le sue case di legnami. E per giudicio delli Mori che gli hanno veduti par esser cosa antichissima, e che sia stata fatta ivi per aver possessione di quelle mine, che sono molto antiche, delle quali non si cava oro molti anni fa per causa delle guerre. E riguardando il sito e il modo dell'edificio posto tanto nel cuore della terra, e che li Mori confessano non esser opera loro per la sua antichità, e piú perché non conoscono li caratteri dell'epitafio che è sopra la porta, potressimo ben congietturar quella esser la regione chiamata da Ptolomeo Agysymba, dove fa sua computazione meridionale, perché il nome di essa e cosí del capitano della guardia in alcun modo s'assimigliano, e l'uno di loro è stato corrotto dall'altro. E ponendo in questo il nostro giudicio, penso che questa tal opera facesse far alcun principe che in quel tempo era patrone di queste mine, come possessioni di esse, la qual perse poi col tempo e ancora per essere molto lontane dal suo stato, percioché per la similitudine degli edificii si assomigliano molto ad altri che sono nella terra del Prete Ianni, in un luogo chiamato Caxumo, che dicono esser stata una città camera della regina Saba, che Ptolomeo chiama Axuma, e che 'l principe di questo stato fossi signor di queste mine, e per causa di quelle ordinasse di far questi edificii, nel modo che noi al presente abbiamo fatto in la fortezza della Mina e questa medesima di Cefala. E conciosiacosaché nel tempo di Ptolomeo, per via degli abitatori della terra di Abissini, quale lui chiama Etiopia sopra Egitto, questo paese di che parliamo in alcun modo non era noto per ragione di questo oro, perché il luogo averia nome, però fece esso Ptolomeo qui termine, e il suo computo della distanzia australe.
Tutta la gente di questa regione generalmente è negra, delli capelli ritorti; nondimeno ha piú intelletto che l'altra che corre verso Mozambique, Quiloa, Melinde, fra la quale è assai che mangiano carne umana, e che salassano li buoi e vacche per beverli il sangue. La gente del stato di Benomotapa è molto piú disposta per convertirsi alla nostra fede, percioché credono in un solo Dio, che loro chiamano Mozimo, e non hanno idolo né cosa che adorino. Ed essendo generalmente tutti li negri dell'altre bande molto dati alla idolatria, a stregherie e fatture, niuna cosa è piú punita fra costoro che un di questi tali, non per causa di religione, ma perché gli hanno per cosa molto pregiudiciale alla vita e ben degli uomini, e niuno può scapolar dalla morte. Hanno duoi altri peccati uguali a questo, cioè adulterio e latrocinio, e basta assai per condannar un uomo per adulterio averlo veduto seder nella stuora dove siede la moglie d'un altro: e ambidui muoiono per giustizia. E ciascuno può aver tante mogli quante li basta l'animo di sostentare, però la prima è la principale e a lei servono tutte l'altre, e li figliuoli di quella sono gli eredi, secondo che sono li primigeniti di Spagna. Non può alcuno tor moglie se non dapoi che li vengono i suoi mesi, perché allora è atta di poter ingravidarsi: e quando vien questo dí, costumano di far gran festa. In due cose hanno modo di religione, in osservar alcuni giorni in li suoi morti, percioché delli giorni osservano il primo della luna, il 6°, 7°, 11°, 16°, 17°, 21°, 26°, 27° e il 28°, conciosiaché in questo nacque il suo re; e di qui ritornano a far un'altra computazione, e la religione consiste nel primo, sesto e settimo, e tutti gli altri è repetizione loro sopra le decine. Quanto alli defunti, dapoi che alcun corpo è consumato prendono le sue ossa dell'ascendente over descendente, o della moglie da che ebbero molti figliuoli, e salvano queste ossa con segni per conoscere di che persona sian stati; e di sette in sette giorni nel luogo dove gli hanno, che è a maniera di corte discoperta, stendono panni sopra tavole con pane e carne cotta, quasi offerendo quel cibo alli suoi defunti, alli quali fanno preghiere. E la principal cosa che li domandano è favor per le cose del suo re. E passate queste orazioni, che si fanno stando tutti vestiti di bianco, il patrone della casa con la sua famiglia si mette a mangiar quella offerta. Le generali vesti di tutti sono di panni bambagini che si fanno nel paese, e di altri che vengono dall'India; e ne sono molte vesti tessute con fili d'oro, che vagliono fino a venti ducati d'oro l'una, ma di queste non si vestono se non gli uomini e donne nobili. E Benomotapa re della terra, ancora che sia patrone di tutte e le sue mogli vadano vestite di quelle vesti piú ricche, la sua persona non ha da vestir panno forestiero, ma fatto nel paese, perché ha paura che, venendo da mano de forestieri, non fosse avenenato con qualche mala cosa che li faccia danno.
Questo principe che chiamiamo Benomotapa o Monomotapa è come fra noi imperator, percioché questo significa il suo nome appresso di loro; lo stato del quale non consiste in molti apparati, tapezzaria o supellettile per servizio della sua persona, perché il maggior ornamento che abbi nella sua casa sono alcuni panni bombagini che si fanno nel paese con molti lavorieri, ciascuno delli quali sono da quattro braccia per quadro, e vagliono da venti fino a cinquanta ducati. Servesi inginocchioni e con farli la credenza, la qual si piglia non avanti di quello che gli danno a mangiare, ma dipoi di quello che resta. E al tempo che lui beve o tosse, tutti quanti che sono presenti danno un grido con qualche parola buona in laude del re, donde adviene che 'l grido corre da un luogo all'altro, di maniera che tutta la città sa quando il re beve o tosse. E per reverenzia, essendo avanti di lui, nessuno si chiarisce la voce, e tutti sono obligati di star a sedere: e se alcuno li parla stando in piedi, sono Portoghesi e Mori, e alcuni suoi alli quali lui concede questo per onorificenzia. E il primo over il secondo di dignità che sia in casa sua può sedere sopra un panno, e il terzo che possi aver porte nell'uscio di casa: e questa è dignità di gran signori, percioché tutti gli altri non hanno porte. E dice lui che le porte sono fatte per la paura di malfattori, e poscia che lui è giustizia, che li piccioli non deono aver paura d'alcuna cosa, e se lui concede porte alli grandi è per riverenzia delle loro persone. Le case generalmente sono di legname, fatte a guisa di campanili, cioè molti legni posti appresso ad un pilone come un padiglione, e di sopra son coperte di seve o terra o qualche altra cosa che sostegna l'acqua disopra. E vi è qualche casa di queste fatta di legni tanto grossi e longhi come un grande arbore di nave, e quanto piú grandi sono, tanto è maggior onore.
Ha questo Benomotapa per grandezza una musica a suo modo, cioè che in ogni luogo dove lui sta, fin nella campagna sotto di un arbore, vi son buffoni piú di cinquecento col capitano loro, e questi vegghiano tutta la notte fuora della casa dove lui dorme, parlando e cantando cose da ridere, e nel tempo della guerra anco questi combattono e fanno qualche altro servizio. Le insegne del suo stato reale è una zappa molto picciola con un manico d'avorio, che porta sempre alla cintura: per questa dinota pace, cioè che tutti zappino e acconcino la terra; e l'altra è uno o duoi dardi (cioè arme d'asta sottile), per li quali dinota giustizia e defensione del suo popolo. Sotto del suo dominio vi son grandi principi, alcuni delli quali che avicinano con regni alieni alle fiate ribellano contra lui, e perciò lui costuma menar seco gli eredi di costoro. La terra è libera, e non li pagano altro tributo che portarli qualche presente quando vanno a parlarli, percioché niuno va mai avanti di alcun altro che sia piú grande di lui che non porti qualche cosa in mano per offerirli, in segno di ubidienza e cortesia. Ha una maniera di servizio in vece di tributo, che tutti li gentiluomini continovi di sua corte e li capitani della gente di guerra, ciascuno con tutti li suoi, sono obligati ogni trenta giorni di donarli sette dí di servizio nel seminar e raccoglier over in qualche altra cosa; e li signori a chi lui dona qualche terra con vasalli per suo vivere sono obligati di farli il medesimo servizio. Alcuna volta, quando egli vuol qualche servizio, manda alle mine dove si cava l'oro a partir una o due vacche, secondo il numero delle genti che vi sono, in segno d'amore: e per retribuzione di quella visitazione ciascuno di loro gli dà un poco d'oro, di valuta fin a dieci lire di piccioli. Ancora nelle fiere che si fanno i mercanti gli fanno certo presente, però se non lo pagano non si fa contra loro esecuzione; ma il mercante che non lo dà non può andar davanti di esso Benomotapa, il che fra loro è riputato gran male.
Tutti li casi della giustizia, ancora che vi siano altri giudici e officiali di quello, lui per la sua propria bocca ha da confirmar la sentenzia, condannando over assolvendo la parte secondo che li pare. E non hanno prigioni, percioché li casi subito sono determinati in quel medesimo giorno che si fa la lite, per quello che le parti allegano e con li testimonii che ciascuno presenta. Quando non sono testimonii, se 'l reo vuol che si stia al suo sacramento, si fa in questo modo: tritano minutamente la scorza d'un certo legno, la qual cosí sminuzzata gettano in un vaso d'acqua, e il reo la bee, e se non vomita è assolto, e vomitando è condannato. E se l'attor, quando il reo non vomita, vuol pigliar il medesimo beveraggio e anco egli non vomita, restano spese per spese e non si procede piú nella lite. Se alcuna persona li domanda qualche grazia o mercede, l'espedisce per terza persona, la qual è come estimator del prezzo che gli ha da donar per la tal cosa; e alcuna volta si domanda tanto per essa che non accettano la grazia o mercede, e non basta quello che si dona al principe, ma ancora il terzo vuol la sua porzione.
Fra loro non sono cavalli, e perciò la guerra che fa Benomotapa è a piede, con queste armi, cioè archi, freccie, dardi, daghette, securi di ferro che tagliano benissimo; e la gente ch'egli tiene piú appresso di sé sono da ducento cani, percioché dice che questi sono fidelissimi servitori, cosí nella caccia come nella guerra. Tutto il bottino che si piglia nella guerra si divide fra la gente, li capitani e il re, e ciascuno porta seco di casa sua quello che ha da mangiar, ancora che il principe sempre li manda delle pecore o buoi che mena nello esercito. Quando cammina, dove dee alloggiar li fanno una casa nuova di legnami, e in quella vi debbe esser di continuo fuoco acceso, senza che sia estinto, perché dicono che nella cenere si possono fare alcuni maleficii in danno della sua persona. Nel tempo che vanno in guerra non si lavano mai le mani né il volto, per mostrar dolor, fin che non abbino vittoria contra li suoi nimici, né manco conducono le sue mogli alla guerra, ancor che siano cosí ben volute e onorate da loro che, se una moglie di uno va per una strada, e per la medesima passa il figliuolo del re, egli è obligato di darli luogo dove la passa, e lui di fermarsi. Benomotapa dentro delle porte della sua casa tiene piú di mille donne, figliuole di signori, ma vuole che la prima sia signora di tutte l'altre, ancora ch'ella sia piú bassa di generazione, e il primo figliuolo di questa è erede del regno. E quando vien il tempo del seminare overo del raccoglier le biade, la regina va al campo con l'altre donne a proveder a tutte le faccende, e hanno questo per grande onore. Molti altri costumi ha questa gente diversi da' nostri, li quali in alcun modo non pare che si convenghino con la ragione della civilità, secondo la loro barbarie. E vogliamo lassarli, perché in questi ci siamo tanto dilatati che abbiamo passato i termini della istoria.